Ne valeva la pena. Storie di terrorismi e mafie, di segreti di Stato e di giustizia offesa

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Ne valeva la pena. Storie di terrorismi e mafie, di segreti di Stato e di giustizia offesa

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i Robinson / Letture

Armando Spataro

Ne valeva la pena Storie di terrorismi e mafie, di segreti di Stato e di giustizia offesa

Editori Laterza

© 2010, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2010 Sesta edizione 2011 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council L’immagine a p. XIV (Norman Rockwell, The Problem We All Live With, 1964) è riprodotta su concessione della Norman Rockwell Family Agency Inc. Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel maggio 2011 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9300-8

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

a mio figlio Andrea

Indice

Un libro a sessant’anni?

XIII

I.

Segreti e bugie

3

II.

A Taranto

9

III.

Imputato Curcio. La Procura di Alessandrini

14

Il processo Curcio, p. 17 - Una «tutela» discreta, p. 19 - Emilio Alessandrini, p. 21 - Quel 29 gennaio 1979..., p. 24

IV. V.

Il sequestro di Abu Omar/1: dal 17 febbraio 2003 all’incriminazione della Cia

29

Guido Galli e il codice in mano

37

Il processo Alunni, p. 37 - Guido Galli, p. 40 - L’omicidio di Guido Galli, p. 46

VI.

Il sequestro di Abu Omar/2: dall’incriminazione della Cia a quella del Sismi Il maresciallo Luciano Pironi, p. 52 - Marco Mancini, Gustavo Pignero e le intercettazioni telefoniche, p. 55 - Pio Pompa e i giornalisti, p. 57 - «Fonte Betulla» in missione alla Procura di Milano, p. 61 - La perquisizione in via Nazionale e gli interrogatori, p. 69 - Le dichiarazioni dei funzionari del Sismi, p. 72 - Le dichiarazioni del generale Nicolò Pollari, p. 75

VII

51

VII.

Il caso Tobagi

77

Una ferita ancora aperta, p. 78 - Le indagini, p. 82 - La confessione di Marco Barbone, p. 85 - Le confessioni degli altri, p. 89 - L’esplodere delle polemiche, p. 90 - Rocco Ricciardi e la verità sulle sue confidenze, p. 92 - Il processo contro i diffamatori, p. 95 - Le dimissioni dei componenti togati del Csm, p. 101

VIII. IX.

Il sequestro di Abu Omar/3: il governo Prodi e le prime reazioni all’indagine sul Sismi

103

I falsi misteri di via Monte Nevoso

108

Le indagini, p. 108 - I misteri fasulli, p. 110 - La Commissione Terrorismo e stragi, p. 113 - L’audizione dinanzi alla Commissione Terrorismo e stragi, p. 116 - Non si può escludere che..., p. 119

X.

Il sequestro di Abu Omar/4: governi diversi, identiche scelte

125

L’assistenza giudiziaria, p. 125 - Le richieste di estradizione ferme in via Arenula, p. 127 - Il sottosegretario Alberto Maritati, p. 132 - Silenzi assordanti: Minniti, Violante e i parlamentari del centrosinistra, p. 136

XI.

Gli arresti di Moretti e Segio, i pentiti e la fine degli anni di piombo

140

Virginio Rognoni, p. 140 - Polizia giudiziaria e magistratura negli anni di piombo, p. 141 - La legislazione dell’emergenza, p. 142 - Calogero Diana e gli arresti di piazzale Libia, p. 147 - L’omicidio Torregiani e Cesare Battisti, p. 148 - Carlo Fioroni, p. 157 - Gli arresti di Bruno La Ronga e Silveria Russo, p. 164 - Roberto Serafini e Walter Pezzoli, p. 164 L’arresto di Mario Moretti ed Enrico Fenzi, p. 165 - I magistrati democratici e i processi di terrorismo, p. 169 - Giorgio Soldati, p. 170 - La fine della Walter Alasia, p. 171 - I Cocori e l’importazione di armi fornite dall’Olp, p. 174 - L’arresto di Susanna Ronconi, p. 176 - L’arresto di Sergio Segio, p. 178 - La «Loggia dei trentasei», p. 186 - Il dibattito sul perdonismo, p. 189 - Via Dogali, p. 192 - I pentiti, dunque..., p. 195 - I maxiprocessi, p. 197 - Leo Valiani, p. 202 - L’ultima relazione di servizio, p. 204

XII.

Il sequestro di Abu Omar/5: il mondo vuole sapere Claudio Fava e il Parlamento europeo, p. 205 - Dick Marty e

VIII

205

il Consiglio d’Europa, p. 212 - Organizzazioni umanitarie e mondo accademico, p. 214 - La stampa internazionale, p. 216

XIII.

La mafia in Lombardia

228

La Direzione distrettuale antimafia di Milano, p. 229 - I pentiti di mafia, p. 229 - Giovanni Falcone, p. 234 - Le mafie in Lombardia, p. 239 - Manlio Minale, p. 246 - Frammenti dai dibattimenti, p. 248 - La tendenza a dimenticare, p. 251

XIV.

Da Società civile al Movimento per la Giustizia

258

Il circolo Società civile di Nando dalla Chiesa, p. 258 - Nasce il Movimento per la Giustizia, p. 260 - Il Csm può attendere... fino al 1998, p. 263

XV.

Il sequestro di Abu Omar/6: le inchieste della Procura di Brescia

265

La denuncia del presidente Cossiga, p. 265 - Gli «appunti» e le denunce del generale Pollari e i visti del governo Prodi, p. 272 - L’archiviazione dei procedimenti, p. 275

XVI.

Il Consiglio superiore della magistratura

278

Giovanni Verde, p. 279 - Eligio Resta, p. 280 - Magistrati imbarazzanti, p. 281 - L’inaugurazione dell’anno giudiziario nel 1940, p. 282 - La Bicamerale di D’Alema e la giustizia, p. 286 - Il Csm, i pareri in materia di giustizia e gli interventi a tutela dei magistrati, p. 287 - Magistrati e uomini liberi: tre storie esemplari, p. 291 - 1999: la Procura di Milano cambia volto ma non perde l’anima, p. 294 - I quattro ministri della Giustizia, p. 295 - La possibile riforma del Csm, p. 311 - Il sorteggio o il pre-sorteggio dei magistrati componenti del Csm, p. 314 - Il valore del voto, p. 316

XVII.

Il ritorno alla Procura di Milano e l’impegno civile Il saluto a Gerardo D’Ambrosio, p. 317 - L’Associazione nazionale magistrati: una storia da non dimenticare, p. 321 - Le manifestazioni contro le cosiddette «leggi vergogna», p. 326 - Don Giuliano, p. 327 - La riforma della Costituzione e l’impegno per il «No» nel referendum, p. 329 - Oscar Luigi Scalfaro, p. 335 - Massimo D’Alema e Romano Prodi a Libertà e Giustizia, p. 337 - Romano Prodi, tra maratone e «leggi vergogna», p. 339 - L’appello «Un impegno per la giustizia», p. 340

IX

317

XVIII. Il sequestro di Abu Omar/7: segreti e conflitti

343

Il rinvio a giudizio e l’annuncio in Parlamento del primo conflitto, p. 343 - L’incontro con il ministro Giuliano Amato, p. 345 - L’oggetto dei conflitti sollevati da Prodi, p. 347 - Il comunicato stampa del governo Prodi, p. 351 - Alessandro Pace, p. 352 - La riforma dei Servizi d’informazione, p. 355 - La trattativa con la Procura di Milano avviata da Prodi, p. 356 L’intervento del ministro Scotti, p. 359 - Il conflitto sollevato dal governo Berlusconi contro il giudice Magi, p. 359 - Corte Costituzionale: cambia il relatore e Flick esce di scena, p. 360

XIX.

La lotta al terrorismo internazionale

363

Il ruolo della magistratura italiana, p. 363 - Il sistema Guantánamo, p. 364 - I «rapinatori di banche» delle «extraordinary renditions», p. 372 - «Waterboarding»: tortura o tecnica d’interrogatorio?, p. 373 - Lo «tsunami digitale» tra intercettazioni segrete e raccolte di dati personali, p. 378 - Le «black lists» e la lotta al finanziamento del terrorismo internazionale, p. 381 - Le «ricadute» europee del sistema americano di lotta al terrorismo internazionale, p. 384 - La battaglia per la conquista dei cuori e delle menti, p. 389

XX.

Secret Service

395

Umberto Eco e i Servizi, p. 398 - Il ritorno di Roberto Sandalo e il «No Islam!», p. 399

XXI.

Il sequestro di Abu Omar/8: il dibattimento

402

Il giudice Oscar Magi, p. 403 - Inizio, sospensione, ripresa, p. 403 - Nabila Ghali, la moglie di Abu Omar, p. 405 - Bruno Megale, p. 406 - La direttiva di Berlusconi, p. 409 - La testimonianza del colonnello Stefano D’Ambrosio, p. 410 - I quesiti del giudice Magi al presidente Berlusconi, p. 411 L’interpellanza parlamentare di Cossiga, p. 411 - 5 novembre: Barack Obama, Dick Marty e Claudio Fava, p. 413 - Il quinto conflitto tra poteri dello Stato: un record, p. 416

XXII.

Il disastro ambientale/1 Le elezioni politiche della primavera del 2008, p. 422 - Sicurezza-2008, p. 423 - L’esercito nelle strade, p. 427 - Il lodo Alfano, p. 428 – Il «decreto rifiuti», p. 433 - Xenofobia, razzismo e libertà di culto: la voce del cardinale Dionigi Tettamanzi, p. 435 - Sicurezza-2009: l’immigrazione clandestina diventa reato, p. 444 - Ronde e respingimenti..., p. 451 Lampedusa, la frontiera dei diritti, p. 459 - Meritocrazia e fannulloni: il settore pubblico umiliato, p. 466 - Eluana Englaro: tragedia e violenza, p. 471

X

421

XXIII. Presidenti degli Stati Uniti d’America

477

La rivolta delle scarpe, p. 479 - Il giuramento di Barack Obama, p. 481 - Due ragioni per essere giudici, p. 482

XXIV. Il disastro ambientale/2: la giustizia non trova pace

484

La riforma della giustizia: i fantasmi ritornano grazie al «derby del Sud», p. 484 - Le inchieste sulla corruzione: un buon viatico per la riforma delle intercettazioni, p. 489 - La riforma delle intercettazioni telefoniche, p. 491 - Una novità? La riforma della giustizia, p. 498 - Il disegno di legge Alfano, una riforma che allunga i tempi del processo penale, p. 501 - I pubblici ministeri e l’indagine penale, p. 504 Dalla bocciatura del lodo Alfano al «processo breve», p. 510 - Il legittimo impedimento, p. 523 - Tra offese e «riforme condivise», p. 526 - I pinguini imperatore e l’habitat da ricostruire, p. 533

XXV.

Il sequestro di Abu Omar/9: la sentenza della Corte Costituzionale e la conclusione del dibattimento

536

La Corte Costituzionale decide che..., p. 536 - Le ricadute sul dibattimento in corso a Milano, p. 542 - Qualche curiosità, p. 551 - La requisitoria del pubblico ministero e le arringhe dei difensori, p. 560

XXVI. La fine della storia

565

Barrafranca, provincia di Enna, p. 565 - Il giudice Magi legge la sentenza, p. 568 - Il giudice Magi scrive la sentenza, p. 572 - Emozioni, p. 573 - Il sorriso tra il Mekong e Gela, p. 573

Appendice

577

Indice dei nomi

597

Un libro a sessant’anni?

«Armando, ma ne valeva davvero la pena?». È il 29 gennaio di uno degli anni Novanta, non ricordo più quale. In una fredda mattinata milanese, siamo in tanti a lasciare il Parco Emilio Alessandrini dopo la commemorazione di un altro anniversario dell’omicidio di Emilio: Prima Linea lo uccise il 29 gennaio 1979. Cammino silenzioso cercando nella memoria altri ricordi di quel giorno. Mi è vicino il mio amico Ago, il maresciallo dei carabinieri protagonista di tante indagini di terrorismo e di mafia. Cerca di interpretare il mio silenzio, o forse vuole soltanto rompere il suo, quando mi chiede: «Armando, ma ne valeva davvero la pena?», riferendosi all’ennesima stagione di violenti attacchi alla magistratura che stavamo anche allora vivendo. 12 marzo 2008: ricevo un sms – che ancora conservo – dal collega e «fratello» Ferdinando Enrico Pomarici che dice: «Proprio sicuri di aver fatto bene a rischiare la pelle contro le Br?». Da oltre un mese viviamo increduli di fronte al comportamento tenuto dal governo Prodi a proposito del caso Abu Omar. Prodi – d’intesa con i ministri del suo governo – ha prima tentato di bloccare il processo sollevando dinanzi alla Corte Costituzionale un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Procura di Milano, accusandoci di avere violato il segreto di Stato; poi, a pochi giorni dalla decisione del conflitto, prevista proprio per il 29 gennaio, ci ha prospettato la possibilità di rinunciare al conflitto stesso, chiedendoci di aderire alla richiesta di rinvio delXIII

la prevista udienza dinanzi alla Corte. Ottenuto il rinvio, però, l’Avvocatura dello Stato ci ha comunicato che il governo aveva cambiato idea: non rinunciano ad un bel niente ed il conflitto va avanti, solo che la decisione della Corte Costituzionale slitta alle calende greche. Tornerò su Emilio Alessandrini e sul caso Abu Omar, ma la risposta agli interrogativi retorici di Ago e di Pomarici va subito offerta al lettore, che, comunque, già l’immagina: «Sì, ne valeva la pena», come per primi ben sapevano proprio i miei due amici. Cercherò, nelle pagine che seguono, di spiegare le ragioni di questo radicato convincimento, ma intanto invito a guardare questa immagine:

È il poster di The Problem We All Live With (1964) di Norman Rockwell che è appeso a una parete del mio ufficio e che ho comprato negli Stati Uniti, a Washington, nel settembre del ’94, dopo averne visto l’originale nella sede del Marshals Service, la più antica agenzia federale degli Stati Uniti, più antica ancora dell’Fbi e della Cia. Il Marshals Service si occupa, tra l’altro, di scortare e proteggere i pentiti, nonché di dare esecuzione alle sentenze della Corte Suprema. Proprio a quest’ultima competenza si riferisce l’omaggio di Rockwell, pittore ed illustratore, che dedicò la parte più importante della sua vita d’artista a fermare in immaXIV

gini molti momenti cruciali della storia americana. In questo caso si tratta dell’esecuzione della sentenza della Corte Suprema che pose fine all’apartheid in Louisiana, obbligando la scuola elementare di New Orleans (William Frantz Elementary) che ne aveva rifiutato l’iscrizione ad accogliere tra i suoi allievi una bambina di colore di sei anni, Ruby Bridges. E furono proprio gli agenti federali del Marshals Service a scortare la bambina a scuola, per l’intero anno scolastico, aspettandola ogni giorno fuori dalla classe per riportarla a casa alla fine delle lezioni. Perché questa immagine mi è cara e perché può servire, a mio avviso, a rispondere a chiunque si chieda, oggi, se valga la pena, nelle condizioni in cui viviamo, fare il proprio dovere? Perché in questo quadro c’è tutto: la legge, prima di ogni altra cosa, rappresentata da quattro uomini senza volto la cui identità sta scritta solo nella fascia che ne cinge il braccio sinistro. C’è poi l’arroganza di chi mal sopporta la forza della legge e per questo insulta la piccola, lanciandole pomodori e vergando sul muro l’insulto «Nigger». Ma ci sono anche l’orgoglio ed il coraggio di chi si affida solo alla legge, procedendo a petto in fuori e a testa alta: i pomodori e gli insulti non sfiorano la bambina disegnata da Rockwell ed il suo abito resta immacolato. Charles Burks, uno dei Marshals addetti alla sua protezione, disse di Ruby Bridges: «Mostrava un gran coraggio. Non ha mai pianto. Marciava come un piccolo soldato e noi eravamo orgogliosi di lei». Non mi pare sia difficile comprendere perché mai questa immagine contenga ogni risposta ai possibili dubbi delle persone in buona fede ed, in particolare, dei giovani magistrati ai quali, oltre che a mio figlio Andrea, dedico questo libro: cambiano i governi, nessuno dei quali – sia ben chiaro – sarà mai disposto ad accettare fino in fondo il ruolo che la Costituzione affida alla magistratura; si dimenticano le volgarità e le manipolazioni delle informazioni e mutano anche i volti ed i nomi delle persone fisiche che danno corpo all’idea della legge. Ma rimangono, appunto, la legge e la sua forza. Alla vigilia della mia ultima estate prima di compiere sessant’anni, ho deciso di scrivere questo libro. Più di una volta, in passato, quest’idea mi aveva sfiorato, ma vi avevo sempre rinunciato, vuoi per mancanza di tempo, vuoi perché sono tanti i maXV

gistrati che hanno già scritto delle loro esperienze, vuoi, infine, per una comprensibile difficoltà a parlare dei propri percorsi e dei propri stati d’animo. E mio padre, poi, da magistrato qual era, avrebbe certamente approvato l’affermazione, tanto spesso in questi anni declamata (anche se quasi mai in buona fede), secondo cui «il magistrato parla solo con le sentenze!». Che cosa mi ha fatto cambiare idea, allora? Può bastare, per dare una risposta, il fatto che io sia dal 1976, cioè da quando sono stato «immesso» nelle funzioni giudiziarie, un pubblico ministero, vale a dire un magistrato che – diversamente dal giudice – non scrive sentenze? Evidentemente no! Rifugiarsi in un cavillo lessicale per aggirare la regola del distaccato silenzio del magistrato sarebbe – come dire? – un furbesco stratagemma da leguleio. Per la verità avrei potuto scrivere queste pagine solo per me, senza pensare ad offrire agli altri le mie sensazioni e la mia esperienza: a chi mi suggeriva questa possibilità, rispondevo che si sarebbe trattato di una fatica inutile, visto che ogni circostanza significativa delle mie vicende professionali è comunque ben scolpita nella mia memoria. C’è altro, dunque: la verità è che l’esperienza vissuta a fianco di Pomarici nel caso Abu Omar ha cambiato sotto molti punti di vista il mio modo di considerare i rapporti istituzionali e il ruolo della politica. Non a caso, persone a me vicine e care mi hanno spesso rimproverato una dose eccessiva di ingenuità e non escludo più, oggi, che avessero ragione. Ma sono stati importanti, per spingermi a scrivere, anche gli incoraggiamenti di giovani colleghi ai quali, di tanto in tanto, mi capitava di parlare di Emilio Alessandrini e di Guido Galli, di spiegare quanto fossero strumentali e prive di fondamento le cosiddette «teorie del complotto» che, a partire dal caso Moro, ancora oggi affollano la scena. Molte cose sono sconosciute ai più giovani e dimenticate dagli altri: a me, invece, è capitato di viverle per caso. Proprio così, non le ho scelte. Mi sono trovato in certi posti ed in certi momenti senza sapere che cosa stava per accadere, lì, in quel giorno ed a quell’ora, e senza immaginare che a me sarebbe toccato occuparmene. Tante di quelle cose hanno arricchito la mia vita personale e professionale, altre l’hanno dolorosamente e per sempre segnata, ma sono quelle che ricordo meglio. Come dice Gherardo Colombo, dobbiamo allora coltivare il vizio della memoria. Meglio: il dovere della memoria. XVI

La decisione è maturata, dicevo, all’inizio di un’estate: ho cominciato a digitare di fronte a un mare battuto dal vento. Quel giorno c’era anche un sole accecante. Molte pagine sono state poi pensate e scritte viaggiando in treno: la sensazione di immobilità nel movimento e l’ancoraggio al posto assegnato mentre tutto ti scorre velocemente sotto gli occhi sono una metafora forse facilmente intellegibile. Ho utilizzato anche alcuni miei vecchi articoli, riflessioni, messaggi di posta elettronica, ma solo quando vi ho ritrovato le emozioni ed i ricordi che mi avevano spinto a scriverli e che ora ho deciso di consegnare al lettore, oscillando continuamente tra passato e presente. Perché passato e presente sono inscindibili nella mia anima e tutto per me si lega. Aprile 2010

Ne valeva la pena Storie di terrorismi e mafie, di segreti di Stato e di giustizia offesa

I

Segreti e bugie

Dal 9 gennaio del 2007 è in corso dinanzi al giudice Caterina Interlandi l’udienza preliminare conseguente alla richiesta di rinvio a giudizio per concorso nel sequestro di persona dell’egiziano Abu Omar che io e Pomarici abbiamo formulato all’inizio di dicembre del 2006 nei confronti di trentadue imputati. Ventisei sono americani e tra loro cinque sono membri della Cia ufficialmente accreditati in Italia come diplomatici. Sei sono invece italiani: un maresciallo reo confesso appartenente al Ros dei carabinieri e cinque funzionari del Sismi, uno dei due nostri servizi segreti1, incluso il suo direttore all’epoca dei fatti. Altri tre italiani sono imputati di favoreggiamento: due sono anch’essi funzionari del Sismi mentre il terzo è un giornalista, già vicedirettore del quotidiano «Libero», che nella primavera del 2008 sarà eletto deputato per il Popolo della libertà. Durante l’udienza preliminare il principale imputato italiano, l’ex direttore del Sismi, che nel corso delle indagini aveva formalmente espresso ai pubblici ministeri di Milano «ogni apprezzamento per la considerazione manifestata per i profili di sicurezza e riservatezza concernenti l’attività ed il personale del Sismi», si era dichiarato del tutto estraneo al sequestro, affermando di non potersi difendere perché, per farlo, avrebbe dovuto violare i segreti di Stato che coprivano le prove 1 Su denominazione, compiti e recente legge di riforma dei servizi di informazione italiani, vedi Appendice, par. 1.

3

della sua innocenza. I suoi difensori – due «principi» del foro romano – avevano allora sollevato dinanzi al giudice eccezione di incostituzionalità dell’art. 202 del codice di procedura penale perché prevede solo per il testimone e non anche per l’imputato l’obbligo di non riferire circostanze coperte da segreto di Stato. Una pretesa anomala, perché raramente, forse mai, si vede un imputato che si lamenta perché il suo diritto di difesa è illimitato: in genere ci si lamenta del contrario. V’è da dire, peraltro, anche se le questioni giuridiche sono sempre noiose per il lettore, persino se «addetto ai lavori», che la Corte di Cassazione si era già occupata della questione affermando, nell’89, che «la rivelazione del segreto da parte dei pubblici funzionari dello Stato non è punibile se conseguente all’esercizio di un diritto ex art. 51 codice penale», essendo evidente, cioè, che l’esercizio del diritto di difesa – inviolabile secondo la previsione dell’art. 24 della Costituzione – non può soffrire alcuna limitazione2. Il 6 febbraio 2007 il giudice Interlandi dichiarava manifestamente infondata la eccezione di incostituzionalità proposta dai difensori del direttore del Sismi e il 16 febbraio disponeva il rinvio a 2 I giudici della Corte avevano in quella occasione respinto il ricorso del generale Pietro Musumeci, all’epoca funzionario del Sismi, avverso la condanna inflittagli dalla Prima Corte d’Assise d’Appello di Roma il 14 marzo 1986 per il reato di peculato. Musumeci era accusato di essersi appropriato della somma di settecento milioni di lire: si era difeso sostenendo di avere impiegato quella somma per finalità istituzionali e di non poter riferire sull’uso che era stato fatto del denaro, trattandosi di materia coperta dal segreto di Stato. Ma la Corte non ritenne fondati i motivi del ricorso di Musumeci, formulati dal professor Franco Coppi, lo stesso difensore del direttore del Sismi imputato del sequestro di Abu Omar, affermando che «la difesa in ogni stato e grado del procedimento è sancita dalla Costituzione (art. 24) come diritto inviolabile che, in quanto tale, non può essere in alcun modo ed in alcuna circostanza limitato, non solo sotto il profilo processuale formale ma neppure sotto quello sostanziale. Di conseguenza, l’imputato ha il diritto di rendere tutte le dichiarazioni idonee a provare la propria innocenza dovendosi in tale direzione ritenere compresi eventuali doveri, quali quello eventualmente derivante dall’esistenza del segreto di Stato». Come a dire: «Non vuoi rivelare cosa hai fatto dei settecento milioni? Sei libero di farlo, ma è una tua scelta: l’imputato può rifiutarsi di rispondere, ma non può giustificarsi dicendo che è la legge ad impedirgli di difendersi e di fornire le possibili spiegazioni». La condanna di Musumeci per peculato, dunque, venne confermata e il suo ricorso respinto: all’epoca, peraltro – è bene ricordarlo – non si giudicava una gravissima violazione dei diritti umani, come nella vicenda Abu Omar, ma un caso di peculato.

4

giudizio di tutti gli imputati. Ma tra l’una e l’altra data partiva l’offensiva degli avvocati e del governo Prodi, con una tempistica coincidente: l’avvocato Titta Madia, uno dei difensori del direttore del Servizio di intelligence militare, il giorno stesso del rigetto della eccezione, dichiarava a giornalisti e tv che quella decisione del giudice imponeva al suo assistito ed ai suoi difensori di riflettere se «prendere una decisione che sarà anche drammatica». Quale? Non lo diceva, preferendo lasciare che la fantasia di ciascuno si sbizzarrisse a suo piacimento. Il 14 febbraio 2007, in Parlamento, il vicepremier Francesco Rutelli comunicava ai deputati che il governo Prodi aveva deciso di sollevare conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte Costituzionale nei confronti della Procura di Milano, rea di avere violato il segreto di Stato. L’affermazione veniva formulata in modo apodittico, puntando il dito contro la Procura di Milano (cioè contro Pomarici e me) ed accusandola in sostanza di gravi reati. Altrettanto, del resto, aveva fatto all’inizio di febbraio del 2007 il presidente Romano Prodi, poco prima di recarsi in India in visita ufficiale, allorché aveva dichiarato in un’intervista al quotidiano «The Hindu»: «Il mio governo è contro le renditions ma il caso Abu Omar è coperto dal segreto di Stato. Secondo le leggi queste carte non possono essere rese pubbliche». E alle domande del giornalista indiano («Ma questo non pone problemi di diritti umani? [...] state usando la legge per coprire il tutto?»), Prodi replicava: «Non c’è contraddizione, anche il primo ministro deve rispettare la legge [...]. Io non sto coprendo niente. È un caso di continuità. [...] Non ci sono cambiamenti rispetto alla linea del mio predecessore [cioè, l’ex premier Silvio Berlusconi]»3. Nessuno spazio, come si può vedere, per dichiarazioni di tipo «istituzionale», come «ci rivolgeremo alla Corte Costituzionale perché valuti se...», ma solo un’affermazione netta («il caso Abu Omar è coperto da segreto di Stato») che significava condanna della Procura di Milano che quel segreto aveva violato. Ma poco più di un anno dopo, contraddicendosi, lo stesso Prodi affiderà al suo portavoce ufficiale Silvio Sircana un comunicato in cui si affermava che sul caso Abu Omar non vi era alcun segreto di Stato. Analogamente Massimo D’Alema, acclamato ministro de3 Intervista a Romano Prodi di Vaiju Naravane, «In India as in Italy, democracy is a difficult exercise», in «The Hindu», 10 febbraio 2007.

5

gli Esteri del governo Prodi, dichiarerà a una giornalista straniera nel marzo del 2008 che «la Procura di Milano ha violato il segreto di Stato». Una specie di contraddizione logica visto che il suo governo, circa due mesi prima, aveva manifestato l’intenzione di recedere dal conflitto. D’Alema affermava anche che il governo aveva comunque sostenuto le nostre indagini, così involontariamente incorrendo in una battuta umoristica. Rifiutavo ovviamente qualsiasi commento ai giornalisti che me lo chiedevano. Il conflitto contro la Procura di Milano, dunque, veniva sollevato dal presidente del Consiglio Prodi il 14 febbraio 2007. Nella successiva udienza del 16 febbraio, dinanzi al giudice Interlandi, i difensori del direttore del Sismi tornavano alla carica e, alla luce della avvenuta formalizzazione del conflitto, chiedevano il rinvio delle decisioni del giudice stesso, in attesa di quella della Corte che avrebbe risolto la questione. Ma il giudice respingeva la richiesta e disponeva il rinvio a giudizio di tutti gli imputati: il dibattimento, il trial come dicono gli americani, avrebbe avuto inizio dinanzi al Tribunale di Milano l’8 giugno del 2007. Per tutta risposta, il 7 marzo successivo, il presidente del Consiglio dei ministri deliberava di sollevare conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato dinanzi alla Corte Costituzionale, anche contro il giudice Caterina Interlandi, «rea» di avere disposto il rinvio a giudizio degli imputati. E non era ancora finita: il 3 agosto 2007, con procedura rapidissima e praticamente all’unanimità, il Parlamento varava la legge di riforma dei Servizi di informazione che abrogava quella approvata nel lontano 1977. Vedremo in seguito4 come essa contenga alcune norme che sembrano pensate esattamente in funzione dei problemi sollevati dall’inchiesta Abu Omar e per evitare che in futuro essi possano ripresentarsi. Di certo, una legge che comprende alcune previsioni che erano subito sembrate in sintonia assoluta con le aspettative degli imputati appartenenti al Sismi. La Corte Costituzionale lo avrebbe obliquamente confermato nel 2009. Come è potuto accadere che a due pubblici ministeri, entrambi con esperienza ultratrentennale ed entrambi procuratori

4

Vedi cap. XVIII.

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della Repubblica aggiunti (il termine «aggiunto», pur evocando l’immagine di un’inutile appendice, sta per «vice» del procuratore della Repubblica), sino a quel momento oggetto di denunce sporte solo da mafiosi e terroristi da loro inquisiti, siano state attribuite condotte costituenti gravi reati da un presidente e dai due vicepresidenti di un governo di centrosinistra il cui programma elettorale prevedeva la strenua difesa della legalità contro la devastazione degli anni precedenti? E, soprattutto, come è potuto accadere che due governi di diverso orientamento politico abbiano l’uno dopo l’altro apposto il segreto di Stato su notizie già universalmente note perché da tempo circolanti sul web? Un evidente paradosso! I fatti possono essere raccontati, in modo rispettoso tanto dei perduranti limiti di questo anomalo segreto di Stato, quanto dei diritti degli imputati: sono ormai intervenute, infatti, sia due sentenze definitive di patteggiamento della pena (una contro un maresciallo dei carabinieri, che ha confessato di avere partecipato al sequestro, e l’altra contro l’ex giornalista Farina, accusato di favoreggiamento personale), sia una sentenza di primo grado nei confronti di altri trentatré imputati, nessuno dei quali è stato assolto nel merito ma che legittimamente nutrono aspettative di un più favorevole verdetto in grado di appello5. Ne parlerò nell’ultimo capitolo6, ma sin d’ora è giusto precisare che quanto è pubblico può essere raccontato e che qui non interessa il merito delle posizioni degli imputati del sequestro di Abu Omar, che solo occasionalmente potranno essere oggetto di osservazioni basate sulle oggettive risultanze processuali. Interessa invece raccontare i fatti e il contesto storico-politico di quanto avvenuto. 5 Con la sentenza pronunciata il 4 novembre 2009 dal Tribunale di Milano, ventitré americani sono stati condannati perché riconosciuti colpevoli del sequestro, mentre altri tre hanno evitato la condanna solo perché la loro illegale condotta, secondo il giudice, sarebbe coperta dall’immunità diplomatica di cui godevano. Due ex funzionari del Sismi sono stati condannati a tre anni per favoreggiamento personale, mentre per altri cinque funzionari appartenenti allo stesso Servizio all’epoca dei fatti, «pur essendo stata legittimamente promossa l’azione penale a loro carico», il segreto di Stato ha imposto una sentenza di «non doversi procedere» per il concorso nel sequestro di Abu Omar di cui erano accusati. La sentenza non è definitiva ed è stata impugnata da imputati, pubblico ministero e parti lese. 6 Vedi cap. XXVI.

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Enrico Pomarici7 è tuttora più incredulo e stupefatto di me per quello che ci è toccato di vivere e vedere, ma è forse anche più capace di elaborarlo. Io, invece, per un tipo di reazione forse difficile da spiegarsi, sento il bisogno di ripercorrere la strada che ho fatto. Molta parte, però, l’ho percorsa insieme a lui: parlando di me, checché lui ne pensi, parlerò anche di Pomarici. 7 A proposito, il suo primo nome è Ferdinando, il secondo – in ricordo di un suo caro zio – è Enrico: accade così che gli amici lo chiamino «Enrico», gli estranei «Ferdinando» mentre quelli che cercano di apparire suoi amici lo chiamano «Nando», un diminutivo che lui non ha mai usato.

II

A Taranto

Raccontare la storia professionale di un magistrato sarebbe, in un paese normale, un’operazione inutile, noiosa, troppo tecnica, in definitiva di nessun interesse. Non ne parliamo, poi, se è il magistrato a raccontare se stesso. Sono dunque consapevole di questi rischi, ma non ho altra strada per tirar fuori tutto quello che ho dentro: spero, probabilmente con una certa dose di presunzione, che possa servire a raccontare anche un pezzo della storia di questo paese, quella che riguarda il terrorismo rosso, la mafia nel Nord d’Italia, poi l’impegno di tanti, nelle istituzioni e nella società, a difesa della Costituzione, e poi ancora la stagione del cosiddetto terrorismo islamico, che mi ha addirittura catapultato dentro un gioco internazionale di spie. Ma, per arrivarci, bisogna partire dall’inizio e tutto inizia con un vizio di famiglia: la legge. Mio padre Vincenzo era magistrato in Puglia: senza il suo esempio non avrei scelto questo lavoro né avrei mai scritto questo libro. Mio nonno Francesco era stato avvocato in Sicilia. Mio fratello è avvocato. Mio figlio è sulla nostra strada. Io sono nato il 16 dicembre del 1948 a Taranto e in quella città ho vissuto infanzia e giovinezza. Solo la prima elementare l’ho frequentata a Matera, dove per un breve periodo mio padre era stato destinato a fare il giudice istruttore. Poi gli studi fino al diploma li ho completati a Taranto e la laurea – in Legge, naturalmente – l’ho conseguita all’Università di Bari. 9

Studio, sport, musica: erano i miei unici impegni, le mie passioni. Nessun coinvolgimento politico, tanto che dico spesso che il ’68 l’avrei praticamente conosciuto solo nel ’78, a Milano. Ma dallo sport ero presissimo: nuoto e pallanuoto. Mi ci dedicavo in maniera quasi professionale. Anzi, quasi maniacale. La pallanuoto mi occupava tutto il tempo libero. D’estate passavo in piscina anche sei o sette ore al giorno, tutti i giorni. Giocavo nella Rari Nantes, che militava nella serie C nazionale, e contemporaneamente ne ero l’allenatore, occupandomi anche delle squadre giovanili. Insomma, facevo sul serio. L’unico compagno di quelle giornate in piscina era il mio caro amico Cesare, eccellente nuotatore, con il quale vivevo praticamente in simbiosi. Da anni, ormai, ci sentiamo raramente, ma la nostra amicizia non si è affatto indebolita. Forse solo col tempo ho compreso perché ho amato tanto la pallanuoto: oltre il divertimento puro che produce, sembra una parabola sulla vita. È, intanto, «il» gioco di squadra per eccellenza, più del calcio, del basket, del rugby e della pallavolo: praticamente non esistono solisti e la squadra deve muoversi all’unisono nella speranza di smarcare un giocatore davanti al portiere avversario. Prima in avanti tutti insieme, subito dopo indietro tutti insieme, senza neppure stare a vedere se il tiro del proprio compagno è finito in rete o è stato parato. L’unico solista ammesso è il mancino, ma solo perché favorisce soluzioni diverse per gli schemi della squadra. Il gioco è poi duro, molto duro. Ed i colpi più violenti sono quelli sferrati sott’acqua. Ma devi imparare a prenderli senza reagire ed urlare: ti prenderebbero per simulatore perché nessuno capisce chi e dove ti ha colpito. Per vincere, poi, occorre sì la potenza, ma soprattutto servono intelligenza ed agilità. Infine, è obbligatorio il doppio costume: se te ne strappano uno sai che puoi andare avanti lo stesso, con l’altro. Tutto è come nella vita, insomma: c’è sempre un’altra possibilità. Oltre alla pallanuoto, trovavo il tempo anche per giocare a calcio. Ero appassionato di moto e di musica pop e rock, ma amavo Crosby, Stills, Nash & Young. E poi Bob Dylan, passione della giovinezza e della maturità. Per un po’, tra gli ultimi mesi del 1975 ed i primi del 1976, avevo anche curato una rubrica sulla musica westcoastiana a Radio Taranto: stranamente, proprio nella periferica Taranto nacque una delle prime radio private italiane. L’anima ed il pioniere di Radio Taranto era Loris, un altro caro amico: fu più tardi pre10

miato come migliore dj italiano. Suonava il basso e il sax in un gruppo allora molto conosciuto in città, I Pettirossi, specializzato nel repertorio dei Chicago e dei Blood, Sweat & Tears. Lo seguivo spesso nelle trasferte musicali del gruppo. Fu proprio Loris a propormi di collaborare a quell’emittente con una rubrica sulla West Coast che aveva qualche aspirazione culturale: ne scelsi la sigla, Harvest di Neil Young. Ma qualche anno dopo il mio trasferimento a Milano, Loris decise di lasciarci per sempre: non ho mai saputo perché, né ho cercato di saperlo. Preferisco ricordarlo con i suoi capelli lunghi e ricci, i suoi occhialini pop, la sua Ducati 250 gialla a manubrio alto e con il suo rassicurante sorriso. Non ho mai conosciuto mio nonno: era avvocato in Sicilia e credo possa aver difeso anche mafiosi. Ne ho trovato tracce commoventi a Barrafranca (Enna), dove era nato, solo nella primavera del 2008. Di lui, infatti, avevo sentito esclusivamente parlare da mio padre, che, nato a Catania, era partito volontario per la guerra. Da ufficiale di Marina, si era trasferito a Taranto, dove si era poi sposato e dove aveva studiato per il concorso che vinse, entrando in magistratura nello stesso anno in cui io sono nato, il 1948. È stato pubblico ministero per quasi tutta la sua carriera. Era una persona totalmente dedita al lavoro, praticamente senza alcun altro interesse se non coltivare la memoria del giovane che si era imbarcato su una nave da guerra: il ricordo della resa delle nostre navi a Malta e degli onori resi dalla Marina inglese agli italiani, tra cui lui stesso, schierati orgogliosamente a bordo, lo commuoveva anche a distanza di decenni. Nella mente mi tornano spesso due sue immagini: lui che a tarda sera scendeva in strada ad accarezzare tutti i cani randagi che passavano e, mentre dava loro da mangiare, sussurrava con voce lenta ed affettuosa, forse pensando alla sua Catania ed alla sua infanzia solitaria: «Cani sperduti, senza collare!». E mi pareva che si rivolgesse a tutta l’umanità sofferente. E ancora lui, seduto alla scrivania, di legno chiaro e poco pregiato, mentre leggeva, ogni sera, le sue carte di lavoro. Io dormivo nel suo studio e non era insolito, per me, veder piombare in casa, di notte, i carabinieri o la polizia per chiedere un decreto di perquisizione o altro. Anche per questo, penso, quando arrivò il momento di scegliere la facoltà universitaria a cui iscrivermi, fu per me naturale 11

scegliere Giurisprudenza. Veramente un qualche dubbio l’ebbi: in quel periodo, infatti, entravo e uscivo dall’ospedale a causa di incidenti calcistici e motociclistici che mi procuravano fratture un po’ dappertutto, braccia, spalle, gambe... Ebbene, ero diventato così amico del primario di ortopedia dell’ospedale di Taranto che quasi mi aveva convinto a fare il suo lavoro. Alla fine, però, scelsi Legge, come da radicata tradizione meridionale. Finii l’università abbastanza in fretta, nell’estate del 1970, ma fui subito colto dalla classica indecisione del neolaureato, quasi un attimo di smarrimento che mi fece pure pensare alla possibilità di diventare allenatore di pallanuoto professionista. Quando lo seppe, a mio padre stava per venire un colpo, ma a quei tempi i figli ubbidivano ai padri e quindi abbandonai quel vago progetto. Iniziai così a praticare un importante studio legale di Taranto: l’avvocato Adolfo Cuzari, che ne era il titolare, era uno dei pochi amici di mio padre ed il loro legame risaliva al tempo della guerra. Anche lui era siciliano e, da ufficiale di Marina, era stato imbarcato insieme a mio padre. Cuzari, che non aveva figli laureati in Legge e che sperava di lasciare a me il suo studio, mi buttò nella mischia in modo un po’ incosciente: difendeva un giovane accusato di oltraggio a pubblico ufficiale per aver emesso un rutto praticamente in faccia ai carabinieri che lo stavano identificando in un camping. Il processo si doveva tenere nella Pretura di un paese a trenta chilometri da Taranto. L’avvocato mi pregò di precederlo e di chiedere al pretore di chiamare per ultima quella causa, essendo lui impegnato in altro processo a Taranto. Ma, alle 12 in punto, esaurite le altre cause, il pretore mi comunicò che l’avvocato Cuzari gli aveva telefonato: non sarebbe arrivato in tempo ed io, quindi, avrei dovuto difendere il giovane del rutto. Preso dal panico e preoccupato per la possibile condanna, parlai per circa un’ora della imprevedibilità fisiologica dell’eruttazione e della relativa casistica, poi della sua difficile collocazione nella categoria giuridica dell’oltraggio e della giovane età del campeggiatore che, la sera prima dell’evento, aveva bevuto molta birra. Il pretore dava comprensibilmente segni di impazienza ma io non mi fermai finché, con mimica eloquente, non mi fece capire che avrebbe assolto l’imputato. Così fece. Poi mi chiamò in camera di consiglio e mi disse che già da un paio di giorni gli erano stati anticipati da Cuzari il mio esordio ed il finto impedimento che lo avrebbe giustificato. Aggiunse che, se 12

avessi parlato altri cinque minuti, avrei corso il rischio di veder condannato il giovane ruttante. Devo dire che mi piaceva fare l’avvocato, ma sentivo che la mia strada naturale era fare il magistrato. Interruppi, comunque, la pratica forense a causa del servizio militare: lo feci in Marina, frequentando prima l’Accademia di Livorno e venendo poi destinato come guardiamarina alla Capitaneria di Porto di Taranto. Quei quasi diciotto mesi furono comunque un’esperienza per me interessante e quasi goliardica: mi consentirono anche di studiare e di prepararmi per il concorso in magistratura. Lo vinsi al secondo tentativo: al primo, ero stato insufficiente solo nel tema di diritto penale! Il tirocinio, che allora durava dieci mesi, lo feci per metà a Roma nel 1975, girando, come ancora oggi avviene, tra uffici civili e penali, affidato a giudici e pubblici ministeri. Inutile dire cosa preferivo già all’epoca. L’altra metà del tirocinio la feci a Lecce, dove mio padre era allora sostituto procuratore generale. Avevo ormai scelto la funzione che avrei esercitato, quella di pubblico ministero, ma ancora non conoscevo la sede cui sarei stato destinato. Nel 1976 la svolta: il matrimonio e la decisione di troncare di netto con l’attività sportiva, che ancora mi impegnava intensamente. Così, scelsi la sede di Milano, il più lontano possibile dalla Rari Nantes e dalla pallanuoto. La moto me l’avevano già rubata a Roma, durante il tirocinio, ma alla musica West Coast non rinunciai, a quella no: centinaia di vecchi, splendidi Lp mi seguirono a Milano, insieme all’immagine indelebile degli ulivi e del canale tra la città vecchia e la città nuova, tenute insieme da uno strano ponte girevole. A Taranto lasciai i miei genitori, due sorelle, un fratello e tanti amici. La mia vita cambiò per sempre. Il 15 settembre 1976, prendevo servizio presso la Procura della Repubblica dove ancora oggi lavoro. Tra le cose che subito collocai su quella prima scrivania, undici pagine scritte a mano da mio padre, intitolate Promemoria ed a me destinate: vi erano i rudimenti del lavoro del pubblico ministero. Il primo paragrafo riguardava gli ordini di cattura e la prima frase diceva testualmente: «In genere. Usarli con molta parsimonia e trascurarli nei fatti di lieve entità». Poi, tra le molte raccomandazioni di buon senso, la seguente: «Attenzione nel toccare le armi: se si tratta di un coltello a molla chiuso, tienilo lontano dal viso quando premi il bottone (una volta non mi sfregiai per puro miracolo), se si tratta di una pistola tienila sempre puntata verso l’alto». 13

III

Imputato Curcio. La Procura di Alessandrini

Arrivai con mia moglie a Milano senza ancora aver trovato casa. Fummo ospitati da Stefano Nespor: ora è uno dei migliori avvocati amministrativisti italiani ed esperto di diritto dell’ambiente, ma allora era appena diventato magistrato, come me. C’eravamo conosciuti durante il tirocinio a Roma ed eravamo diventati amici. Mi affascinava il fatto che suo padre fosse stato un asso nell’hockey su ghiaccio. In quindici giorni trovammo casa a Città Studi, forse il più bel quartiere tra quelli periferici del capoluogo lombardo. Milano praticamente non la conoscevo. C’ero stato, prima, solo come appassionato di moto, per la storica Fiera del Ciclo e del Motociclo. Nel settembre 1976, arrivò con me a Milano una pattuglia di altri sei o sette uditori giudiziari, miei compagni di concorso, tutti assai determinati. Un gruppo bello tosto. Tra noi c’era anche un giovane fiorentino, Gabriele Chelazzi, con il quale avevo legato molto durante il tirocinio a Roma, tanto che gli avevo chiesto di fare da testimone alle mie nozze. Avevamo scelto insieme di venire a Milano. Molti anni dopo, Chelazzi, tornato a Firenze, indagherà su terrorismo, mafia e sulla strage di via dei Georgofili. Lavorammo a stretto contatto per tutto il periodo degli anni di piombo e poi ancora in seguito, quando entrambi ci impegnammo anche nel settore antimafia. Gabriele è morto d’infarto a Roma, il 16 aprile del 2003, nella stessa stanzetta della foresteria della guardia di Finan14

za di piazza Bologna dove anche io, all’epoca in cui ero stato componente del Consiglio superiore della magistratura, avevo alloggiato. Gabriele ha rappresentato un patrimonio unico per la magistratura italiana. È morto di fatica, di troppo lavoro, dedicando ogni energia dei suoi ultimi anni alle indagini sulle stragi mafiose del 1992-93. Aveva già ottenuto grandi risultati, ma continuava – senza sosta – a porsi domande su quello che ancora c’era da scoprire attorno a quelle stragi: non era appagato dalle risposte che provava a darsi. Ma questo non lo scoraggiava affatto, anzi lo motivava ancora di più. Chissà che cosa penserebbe dei recenti sviluppi investigativi sulla possibile esistenza di «mandanti esterni» dello stragismo di quegli anni. Certamente sarebbe in prima fila a coordinare ogni possibile indagine. Era infatti il «cervello» della Direzione nazionale antimafia, come anche Piero Vigna, il «suo» procuratore, lo definiva. Avvicinandosi nel 2002 la scadenza delle elezioni per il rinnovo del Csm, rifiutò la proposta di candidarsi che io gli formulai. Era ancora troppo preso dalle indagini sulle stragi che avevano cambiato il suo modo di considerare le istituzioni e lo avevano caricato di responsabilità nei confronti della storia. Come ha ricordato sua moglie Caterina in occasione di una recente commemorazione, Gabriele sperava che le verità giudiziarie potessero rivelarsi utili anche alla storia e alla politica. Ma non ha avuto il tempo di portare a compimento il suo lavoro, né di tornare a parlarmi, come faceva in passato, della sua amata Firenze e della sua passione per la pesca. Ne sento spesso la mancanza. La Procura di Milano si rivelò per me un mondo nuovo. Un ottimo ambiente dove muovere i primi passi nel mondo della giustizia. «È un ufficio di cui senti l’anima». Lo dico tuttora, quando parlo della Procura e dei risultati che raccogliamo in ogni campo: sono successi possibili, lo ripeto, perché questo posto ha un’anima. Si avvicendano i procuratori, cambiano gli aggiunti, i sostituti vanno e vengono, però resta una tradizione di coesione, di impegno, di determinazione che, lo dico senza supponenza, non ha molti eguali. Essere assegnati alla Procura di Milano, anche per un giovane appena arrivato, non è un semplice fatto burocratico, ma qualcosa che dà il senso di un’appartenenza molto particolare. Il procuratore della Repubblica era allora Mauro Gresti. I procuratori della Repubblica restano a lungo alla Procura di Milano 15

e, dopo Gresti, e nell’arco di un trentennio, si sono succeduti solo Francesco Saverio Borrelli, Gerardo D’Ambrosio e, da ultimo, Manlio Minale. Gresti era un personaggio che poteva essere definito un conservatore illuminato. Un gentiluomo di vecchio stampo, piemontese, ex ufficiale dell’esercito, con una sua dignità ed un suo stile. A dispetto della storia personale, fu un procuratore molto moderno: fu il primo a organizzare assemblee dei sostituti procuratori, che si tenevano abbastanza frequentemente. Vi si svolgeva un dibattito vero e gli orientamenti finali che ne scaturivano erano tenuti in grande considerazione da Gresti, quasi avessero valore vincolante. Gresti fu anche un procuratore che, sin dalla seconda metà degli anni Settanta, introdusse in ufficio un’organizzazione fondata su gruppi di lavoro specializzati per materia. Una pratica oggi comune, ma assolutamente innovativa per quei tempi. Formò per esempio, anche su mio suggerimento, il gruppo specializzato nel settore del terrorismo. Una scelta che si rivelò lungimirante. Come qualsiasi giovane magistrato ai primi passi nel suo lavoro, specie se da sostituto in una grande Procura, mi trovai immediatamente catapultato in un lavoro molto impegnativo, per mole e qualità. Impossibile pensare che un giovane sostituto possa svolgere solo attività di routine: a Milano, poi, capita sempre qualche caso che ti offre possibilità di crescita professionale. A me, in un primo periodo, capitò di venire assegnato al settore dei sequestri di persona, un fenomeno in quegli anni ancora molto diffuso. Ebbi subito un modello: Pomarici. Enrico, allora, si occupava a tempo pieno di sequestri di persona ed era stato il magistrato che, sin dal 1976, con una scelta molto sofferta e criticata, aveva ideato il cosiddetto «blocco dei beni»: grazie ai suoi provvedimenti giudiziari, i beni di famiglia dei rapiti venivano congelati per impedire il pagamento del riscatto e così rendere il sequestro non remunerativo. Anche io, nel solco della linea tracciata da Pomarici, lo disposi nei due sequestri di cui mi occupai, quelli di Giovanna Mazzocchi e di Maria Sacco, entrambi del 1978. Rammento polemiche e «scomuniche»: ci fu chi sostenne che in quel modo, con scelta cinica, si impediva ai familiari di attivarsi per la liberazione dei loro cari. Ma fu una linea che alla fine risultò vincente, tanto che il blocco dei beni fu poi recepito anche nella normativa sui rapimenti. E quel fenomeno criminale si esaurì: certo, è vero che le 16

organizzazioni criminali si stavano convertendo al più remunerativo traffico di stupefacenti, ma io penso che i sequestri calarono di numero – fino a diventare reati da balordi – anche per la difficoltà di ottenere un riscatto. Il processo Curcio La mia prima esperienza si consumò, dunque, all’ombra di Pomarici. Poco dopo, però, mi arrivò il primo incarico importante: pubblico ministero nel processo al cosiddetto nucleo storico delle Brigate Rosse. Imputati: Renato Curcio, Nadia Mantovani, Angelo Basone, Giuliano Isa, Vincenzo Guagliardo. Ma per capire il clima di quel processo bisogna ricordarne il tragico antefatto. Il 28 aprile del 1977 le Brigate Rosse avevano ucciso a Torino l’avvocato Fulvio Croce. Perché era stato ucciso? Gli uomini delle Br rifiutavano di essere difesi in aula, sostenendo che lo Stato non potesse processarli. Dunque ogni loro processo si apriva con una sorta di rituale: all’inizio del dibattimento i brigatisti revocavano i loro avvocati di fiducia (che, peraltro, rinominavano a fine processo) e il dibattimento si interrompeva perché i presidenti di Corte d’Assise dovevano nominare i difensori d’ufficio. Ma era difficile trovare rapidamente avvocati disponibili perché molti legali avevano paura di accettare l’incarico. Risultato: i processi si bloccavano spesso per un tempo non trascurabile e si verificava, così, esattamente quello che i brigatisti si prefiggevano. Fu naturale che, dopo le difficoltà iniziali, la magistratura si attrezzasse per quella evenienza: i presidenti delle Corti d’Assise, in vista dell’avvio di quei processi, contattavano i Consigli dell’Ordine degli avvocati per predisporre tempestivamente una lista di avvocati pronti a intervenire non appena i brigatisti avessero revocato i loro difensori di fiducia. Il primo processo al nucleo storico delle Br doveva essere celebrato a Torino, ma alcuni degli imputati principali dovevano essere poi giudicati anche a Milano. L’avvocato Fulvio Croce era il presidente del Consiglio dell’Ordine forense di Torino e fu proprio lui a dare la sua disponibilità, e quella dell’Ordine, ad assumere la difesa d’ufficio: i giornali diedero ovvio risalto alla sua posizione, destinata a non avere seguito perché il 28 aprile 1977 le Brigate Rosse lo uccisero. La rivendicazione era chiara: giustiziato per la sua 17

scelta di garantire lo svolgimento del processo alle Br. L’omicidio impedì l’avvio del processo di Torino: i giurati popolari sorteggiati tra i cittadini per far parte della Corte non si presentarono o produssero certificati medici attestanti malattie varie, quali «sindromi depressive con riflessi sul sistema neurovegetativo». Si seppe poi che alcuni dei giurati avevano persino pianto in camera di consiglio. Comunque, il 3 maggio del 1977 il presidente della Corte d’Assise di Torino, Guido Barbaro, entrò in aula con il solo giudice a latere Giovanni Mitola e alle 11.43 lesse il provvedimento di rinvio a nuovo ruolo del processo «per impossibilità di costituire una giuria popolare». Una sconfitta per lo Stato e una vittoria per le Br, come scrissero i quotidiani, anche se il processo fu celebrato vari mesi dopo, sia pure in un clima di paura e di tensione. Poco dopo, però, doveva iniziare anche a Milano il processo a parte del nucleo storico delle Br. Data fissata: 15 giugno 1977, davanti alla Prima Corte d’Assise. Fatti contestati, tra gli altri, il tentato omicidio commesso da Renato Curcio all’atto del suo arresto avvenuto a Milano il 18 gennaio 1976. Quel giorno, mentre i carabinieri stavano per irrompere nell’appartamento di via Maderno in cui si nascondeva con Nadia Mantovani, Curcio fece fuoco con un mitra attraverso la porta d’ingresso, ferendo il brigadiere Lucio Prati e venendo a sua volta ferito. Il processo di Milano riguardava proprio quella sparatoria e la contestuale scoperta di varie basi delle Br, ma dopo ciò che era successo a Torino sembrava difficile poterlo celebrare regolarmente. Fulvio Croce, come ho detto, era stato ucciso nell’aprile del 1977 e a maggio di quello stesso anno il procuratore della Repubblica Gresti mi convocò nel suo ufficio. Mi spiegò le difficoltà e i rischi del processo. E mi disse che aveva deciso di non delegare l’accusa in aula ai pubblici ministeri che si occupavano di terrorismo in quegli anni, come Emilio Alessandrini, Enrico Pomarici, Luigi De Liguori, Guido Viola, Libero Riccardelli. Pensava che per la loro notorietà fossero esposti a rischi personali e preferiva, in sostanza, non metterli ulteriormente in pericolo. Aggiunse – bontà sua – che in quei pochi mesi mi aveva apprezzato e mi chiese se me la sentissi di sostenere l’accusa in quel dibattimento. La cosa un po’ mi sorprese. Però non pensai neppure per un momento – così come credo non lo penserebbe oggi alcun giovane collega – che si potesse rifiutare un incarico del genere: era quello il nostro 18

dovere, anche se la vicenda riguardava le Br. Diedi la mia disponibilità e chiesi soltanto di essere dispensato per qualche settimana da altri servizi per studiare le carte processuali che non conoscevo affatto e che apparivano voluminose. Così, a quasi ventinove anni, dopo soli dieci mesi di esercizio delle funzioni di sostituto, mi trovai ad essere pm d’udienza in un processo alle Brigate Rosse. Una «tutela» discreta Gresti, tuttavia, si preoccupò di affiancare a me, giovane sostituto, una sorta di tutor: era un magistrato molto esperto, Emilio Alessandrini. Non me lo disse esplicitamente, ma lo capii da me. Alessandrini veniva a trovarmi spesso in ufficio e mi chiedeva come stavo, come andava la preparazione del processo, se lo studio procedeva bene, se avessi bisogno d’aiuto. Questo non mi dispiaceva affatto, anzi. Mi sentivo incoraggiato, ero stato investito di un compito molto delicato e mi faceva molto piacere che un collega esperto come Alessandrini mi assistesse. Gli facevo tante domande, gli chiedevo consigli. Quando fu reso pubblico il nome di chi sarebbe stato il pm nel processo di Milano alle Br, «La Gazzetta del Mezzogiorno» di Bari, quotidiano attento al destino dei pugliesi «espatriati», scrisse: «Si è appreso che la pubblica accusa sarà sostenuta dal dottor Armando Spataro di Taranto, giunto da poche settimane alla Procura di Milano, dopo aver recentemente superato il concorso per l’ingresso in magistratura. Qualcuno potrebbe chiedersi se sia il caso di affidare a un magistrato così giovane e per di più alla sua prima esperienza un compito così difficile, ma chi lo conosce bene [...]». A parte la gratificazione insita nell’inciso finale, non penso che il giornale pugliese avesse tutti i torti ad esprimere sorpresa e qualche preoccupazione. Il 15 giugno 1977 Milano è terrea. Il clima è plumbeo, a dispetto dell’estate incipiente. La città è quasi sotto assedio. Il palazzo di Giustizia è circondato da polizia e carabinieri. I giornali presentano con enfasi il processo alle Brigate Rosse che inizia quel giorno, scrivendo che «mille milanesi sono pronti a fare i giudici 19

nel processo alle Br», dopo che a Torino il dibattimento era stato rinviato per mancanza di giudici popolari. Entro presto nell’aula. Non c’è ancora il pubblico, non c’è ancora la Corte. Ci sono solo i carabinieri. Prendo posto, sistemo sul banco il codice e le carte del processo. Il promemoria di undici pagine di mio padre purtroppo non mi poteva aiutare. E proprio allora con la punta dell’occhio vedo che entra in aula anche Emilio Alessandrini. Mi si avvicina, mi saluta, mi dà una pacca sulle spalle e si va a sedere dietro di me: pronto, in caso di necessità. Mi dice: «Se hai bisogno di aiuto...». In quel momento arriva un maresciallo dei carabinieri. Mi porta il solito documento, firmato da Curcio e dagli altri imputati, contenente la revoca dei difensori di fiducia. Il solito rito, ma, mentre ci si appresta a convocare i già preavvisati difensori di ufficio, si avvicinano, compatti, gli avvocati revocati: Sergio Spazzali, Giannino Guiso ed altri. In quegli anni c’era chi sosteneva che per alcuni di quegli avvocati la difesa dei brigatisti non fosse un fatto solo tecnico, ma anzi sconfinasse spesso nel sostegno ideologico alle Brigate Rosse. Ed in verità, negli anni successivi, taluni avvocati furono pure condannati per appartenenza a banda armata: tra loro Sergio Spazzali, che morì da latitante in Francia nel 1994. La pattuglia degli avvocati in toga praticamente mi circonda: non avevano mai visto e conosciuto prima quel giovanissimo pubblico ministero. I difensori hanno una protesta da fare: i carabinieri, dopo la revoca, avevano vietato loro il colloquio con i brigatisti. «Vogliamo poter parlare con i nostri assistiti», dicono. Rispondo che i carabinieri avevano agito correttamente: «Voi siete stati revocati, dunque non siete più i loro difensori». Gli avvocati protestano con forza. Uno di loro incalza: «Ma lei sa bene che è un rituale. Siamo stati revocati per questo processo e non certo definitivamente. Subito dopo la sentenza saremo di nuovo nominati difensori». Li guardo, cerco le parole e rispondo: «Va bene. Tornate con la nuova nomina alla fine del processo e vi concederò immediatamente il permesso di colloquio». Uno dei legali, a quel punto, ribatte scandendo bene le parole: «Dunque noi siamo autorizzati a dire a Renato Curcio e ai nostri clienti che il pm ci ha rifiutato il permesso di colloquio, che ci ha impedito di parlare con loro?». Mi viene naturale rispondere: «Sì. Anzi, potete anche dire che il pubblico ministero che vi ha rifiutato il permesso si chiama Armando Spataro». Poi prendo un biglietto, vi 20

scrivo sopra nome e cognome e lo metto nelle mani dell’avvocato. A quel punto i legali si allontanano in silenzio. Emilio Alessandrini, che ha seguito la scena da poco distante, si avvicina, mi dà un’altra pacca sulla spalla e mi dice: «Ma tu, da piccolo, giocavi a fare il pubblico ministero?». Gli rispondo: «Beh, un po’ sì: l’ho imparato da mio padre». Alessandrini mi sorride e lascia l’aula, dove finalmente inizia il processo. Il fatto che se ne fosse andato in quel modo è ancor oggi il più bell’attestato di stima che abbia mai ricevuto. Il verbale di quella prima udienza è ora sotto i miei occhi, me lo ha fatto avere molti anni dopo Piero Dina, che in quel processo difese Curcio. Fu uno degli avvocati che accettarono coraggiosamente la difesa d’ufficio dei brigatisti. Leggo le prime pagine, in cui si dà atto della nomina dei legali d’ufficio e del rifiuto di Curcio e compagni condito da minacce. Poi leggo: «A questo punto, il pm, dato l’atteggiamento assunto dall’imputato Curcio, chiede che lo stesso sia allontanato dall’aula. Si dà atto che l’imputato Curcio applaude». Il presidente attese ancora un po’, ma dopo altre minacce non poté che accogliere la mia richiesta. Il dibattimento proseguì fino al 23 giugno e si concluse con una sentenza di condanna, anche se con pene inferiori a quelle da me richieste. Curcio venne a sorpresa assolto dall’accusa di tentato omicidio ma proposi appello, che fu accolto a febbraio del 1979. La condanna divenne poi definitiva. Emilio Alessandrini Nel luglio del 1977, comunque, il processo di primo grado è finito e posso finalmente partire per le vacanze. In Croazia, con il collega Gabriele Chelazzi. Abbiamo commentato quella mia esperienza per tutto il viaggio e parlato a lungo di Emilio e della sua umanità straripante. Non c’era giovane collega bisognoso di consigli cui non dedicasse ore preziose del suo lavoro; e tanti erano i condannati, in processi da lui istruiti, che spesso andavano a salutarlo per ringraziarlo della umanità che aveva con loro dimostrato e che non avrebbero mai dimenticato. Tra le più assidue, un’anziana sedicente contessa, condannata per sfruttamento della prostituzione. Emilio non chiudeva la porta neppure a questo personaggio pittoresco, la lasciava accomodare e a lungo parlare mentre lui lavorava chino sulle carte. In una di queste occasioni, entrò nel suo ufficio 21

Carmen Manfredda, una delle giovani sostitute della Procura di Milano, ed Emilio, rivolgendosi alla sua ospite, le disse: «Contessa, permetta che le presenti la collega Manfredda, mia collega, non sua». La contessa ne prese responsabilmente atto. Erano comunque anni terribili. Per me lo divennero ancor di più il 29 gennaio 1979. Alessandrini non si occupava in quel periodo di terrorismo. Aveva seguito qualche indagine in quel settore nel 1977, prima che si costituisse il gruppo specializzato in cui lui non entrò. Si occupava invece di reati finanziari e seguiva tutte le indagini in materia, prevalentemente portate avanti dalla guardia di Finanza. Aveva lavorato in passato alla strage di Piazza Fontana, ma poi l’inchiesta gli era stata sottratta ed era finita dall’altra parte della penisola, a Catanzaro. È storia nota. Eppure tre sue fotografie erano state rinvenute nel covo di Corrado Alunni, in via Negroli. Tre piccole foto in bianco e nero, formato tessera. Quando le trovammo, nel settembre del 1978, gliele mostrai. Lui ne rimase molto colpito. Alessandrini non riusciva a darsi pace, né a capire da dove potessero provenire. Escludeva la possibilità di essersele fatte in una di quelle cabine automatiche per foto tessera che un tempo erano disseminate per le città. Non erano dunque fotografie scattate con il suo assenso o della cui esistenza era consapevole. Ma da dove venivano? Non se ne capacitava. Finché, guardando bene le immagini, notò che la cravatta indossata non era sua. Dopo lunga riflessione, gli venne in mente che quella cravatta gli era stata prestata prima di una intervista televisiva. Dunque quelle foto gli erano state fatte mentre si trovava negli studi televisivi oppure erano state ricavate dalla registrazione di quella trasmissione. Non seppe mai la verità. Il mistero delle foto fu svelato solo due anni dopo, quando fu arrestato Marco Barbone. Ammise di averle scattate lui dallo schermo di un televisore mentre era in onda la trasmissione: andarono ad arricchire lo schedario dei «nemici» tenuto dal gruppo Alunni. Alessandrini aveva le sue idee sul terrorismo di sinistra: in realtà, non abbiamo avuto il tempo di discuterne a fondo, ma forse lo riteneva inquinato ed eterodiretto. Un’opinione comprensibile per chi, durante l’inchiesta sulla strage di Piazza Fontana, aveva constatato che l’eversione di destra si incrociava spesso con l’attività depistante dei servizi segreti. Così in lui era maturata la convinzione che anche la nuova eversione, quella rossa, delle Br e 22

di Prima Linea, potesse avere a che fare con oscure trame di apparati dello Stato. Non ero d’accordo neppure allora: ritenevo e ritengo, invece, che il terrorismo rosso fosse esattamente quello che appariva, quello che abbiamo svelato e conosciuto nelle indagini, senza alcun mistero inconfessabile. Ma Alessandrini, sulla base delle sue ipotesi, e sia pure in mancanza di dati di fatto, si era dato una possibile spiegazione del rinvenimento delle sue foto in via Negroli. Non me lo disse mai con chiarezza, ma mi fece capire che giudicava quelle foto non tanto la prova di «attenzioni» di Corrado Alunni nei suoi confronti, ma l’indizio di un tentativo oscuro di farlo passare come un simpatizzante dei terroristi, lui che era considerato uomo di sinistra. Un giorno, volle farmi una confidenza per lui importante e delicata: «Senti, Armando, ti devo parlare. Però andiamo via di qui». Ci spostammo al primo piano del palazzo di Giustizia, nell’atrio principale subito oltre l’ingresso di Porta Vittoria. Rimanemmo a passeggiare per circa mezz’ora, forse anche di più. Mi disse: «Senti, voglio metterti a parte di un episodio, poi tienilo per te, non si sa mai». Non ricordo il giorno esatto, ma fu certamente nei pochi mesi che intercorsero tra il rinvenimento delle foto e la sua morte. Qual era la confidenza di Alessandrini? Mi disse di avere ancora nel cassetto una vecchia inchiesta sull’Autonomia operaia di Milano, che aveva aperto tempo prima su denuncia della polizia. Ma soprattutto mi confidò che aveva avuto un incontro, a cena, con Toni Negri, ritenuto il capo dell’Autonomia. La cosa era nata così: il collega Antonio Bevere, magistrato, aveva chiesto ad Alessandrini se voleva incontrare Toni Negri, che era un suo amico. E Alessandrini aveva accettato: «Sì, ho fatto l’errore di accettare l’invito», mi confidò. «A questa cena c’erano Toni Negri e sua moglie, io e mia moglie. A un certo punto, però, Negri iniziò a fare discorsi che mi misero in imbarazzo. Vista la piega che le sue parole stavano prendendo, troncai la cena e me ne andai. Caro Armando, voglio che tu conosca questo episodio, in relazione a quelle fotografie». «Emilio, perché mi dici questo?», gli chiesi. «Non lo so, ma te lo voglio dire». Il 29 gennaio 1979 Alessandrini venne ucciso. Subito dopo la sua morte, raccontai della sua cena con Negri ai colleghi D’Ambrosio e Fiasconaro. Il 7 aprile 1979 venne arrestato Toni Negri con l’accusa di essere al vertice di un’organizzazione terroristica e 23

subito si scatenò una campagna di stampa a suo favore. Un articolo del «manifesto» rese pubblico il particolare della cena, raccontando che perfino un giudice, un giudice democratico come Alessandrini, aveva voluto conoscere Toni Negri. L’articolo di Tiziana Maiolo, allora giornalista del «manifesto», descriveva la cena in termini diversi da quelli a me narrati da Emilio e poi anche da sua moglie Paola. Quel 29 gennaio 1979... Io ed Emilio abitavamo nello stesso palazzo in via Monte Nero 8. Anzi era stato proprio lui a far trovare casa in quell’edificio a me e Luigi De Ruggiero, giunti insieme a Milano, nel settembre del 1976. Anche Emilio, come Guido Galli, non aveva alcuna forma di protezione, mentre io godevo della cosiddetta «tutela»: consisteva nell’essere accompagnato a piedi, da casa al vicino palazzo di Giustizia, da un «carabinierino». Lo chiamo così perché era un ragazzo molto giovane, originario del Varesotto. Ogni mattina arrivava a prendermi sotto casa, protetto non dalla blindatura di un’auto ma da un giubbotto antiproiettile che indossava sotto l’impermeabile. Purtroppo oggi ricordo solo il suo cognome, Baratti. Aveva una pistola in tasca: io scendevo, senza giubbotto e senza pistola, e insieme ce ne andavamo in Procura, parlando del più e del meno, ma a passo veloce. La velocità del muoverci, a pensarci, era la nostra vera difesa insieme, forse, agli orari d’uscita sempre diversi: una mattina alle 9, un’altra alle 6.30 oppure alle 8 e così via. Mi viene in mente che, dopo l’assassinio di Emilio, che non era certo il primo magistrato ucciso dai terroristi, il ministero di Grazia e Giustizia fornì a tutti i giudici e pm, indipendentemente dal loro incarico, un impermeabile beige dotato di imbottitura antiproiettile e una borsa da lavoro, che recava anch’essa, su di un lato, un pannello antiproiettile. Forse qualcuno pensava che la borsa potesse essere impugnata a due mani e usata per respingere le pallottole. In realtà, l’impermeabile era dignitoso e molti di noi lo usarono come normale soprabito dopo aver sfilato l’imbottitura: in fondo, i giovani magistrati non godevano di un ricco stipendio e, dunque, l’impermeabile fu gradito come omaggio in sé più che 24

in funzione di protezione. La borsa, quella no, non la usò praticamente nessuno: pesava moltissimo anche vuota, era troppo rigida per inserirvi i fascicoli e, comunque, per schivare i colpi d’arma da fuoco sarebbe stato più utile darsela a gambe. Il 29 gennaio, per un incredibile caso della vita, ero sostituto addetto al turno esterno, cioè pronto ad intervenire in caso di necessità o a dare direttive alla polizia giudiziaria se avessero eseguito arresti o fermi. Emilio, come ogni mattina, aveva accompagnato in auto Marco, il suo dolcissimo bambino, alla vicina scuola elementare di via Colletta. Si stava poi dirigendo verso il Tribunale quando, all’incrocio tra viale Umbria e via Muratori, la sua Renault 5 si era fermata al semaforo rosso. Fu allora che Sergio Segio e Marco Donat Cattin si avvicinarono al finestrino lato guida, estrassero le pistole e, mentre Emilio con la mano faceva cenno come a chiedere «cosa volete?», aprirono il fuoco e lo uccisero. Il nucleo omicida era composto anche da Michele Viscardi, Umberto Mazzola e, alla guida della vettura usata per la fuga, Bruno Russo Palombi. Furono tutti arrestati, tra la metà del ’79 e la fine dell’80. Solo Segio cadde nella rete più tardi, all’inizio dell’83, dopo avere commesso vari altri omicidi. Ero, come ho detto, di turno esterno, mi chiamarono e corsi subito a pochi isolati di distanza da casa: Emilio era ancora accasciato sul volante, io non sapevo che cosa fare, ero disperato ed incredulo. In un filmato di repertorio mi rivedo ogni tanto con indosso un loden beige, immobile e piangente. Condussi le prime indagini fino alla decisione della Cassazione che trasferì il processo alla Procura di Torino: allora, infatti, la competenza per i casi in cui i magistrati fossero parti lese o imputati di reati non era automatica e predeterminata per legge. Il 1° febbraio, due giorni dopo la morte di Emilio, si era tenuta un’infuocata assemblea, nel palazzo di Giustizia di Milano, per commemorarlo: la disperazione si poteva leggere su ogni volto. Non la rassegnazione. Pochi giorni dopo, i magistrati della Procura di Milano diffondevano un documento di quattro pagine: nell’affermare la volontà di impegnarsi ancor più nei loro compiti «al servizio della comunità e della democrazia», denunciavano anche la devastazione dell’immagine stessa della legalità derivante dal sommarsi di deficit di direzione politica del Paese, di interessi corporativi, 25

dell’impunità concessa ai gruppi clientelari che hanno strumentalizzato al loro servizio i pubblici poteri e le risorse collettive. Questa degenerazione del sistema ha indotto un perverso meccanismo di avversione verso tutto ciò che è pubblico ed un conseguente isolamento delle istituzioni. Anche di qui la genesi di una illegalità diffusa ed un terreno fertile per il terrorismo [...]. Nella generale crisi istituzionale, i magistrati, caricati di sempre maggiori compiti di intervento nella società, ma privi di adeguate possibilità di azione, vengono offerti dalle inadempienze del potere politico come controparte a masse di emarginati nelle situazioni di conflitto più esasperate.

Mentre scrivo – ora, non nel 1979 – controllo per sicurezza la data del documento: è il 17 febbraio 1979, non un qualsiasi giorno degli anni Novanta o di questo scorcio di terzo millennio. Il documento finiva invocando più organizzazione e specializzazione delle forze di polizia ed un più stretto raccordo tra queste e la magistratura. Quello stesso raccordo che oggi si vuole indebolire. Il 30 gennaio, intanto, il quotidiano «la Repubblica» aveva intitolato la sua prima pagina Il giudice di Piazza Fontana ucciso a Milano da Prima Linea e Marco Nozza, il 2 febbraio sul «Giorno», protestava: «Perché la bara non è passata da Piazza Fontana?». Incontravo spesso in quei giorni, anche a casa mia, i più cari amici di Emilio che volevano offrire il loro contributo di idee alle indagini: rammento Gerardo D’Ambrosio e Gigi Fiasconaro, ben più esperti e anziani di me, che sospettavano il coinvolgimento dei servizi segreti in quella tragedia, considerato il passato di Emilio e quanto era emerso dalla sua inchiesta sulla strage di Piazza Fontana. Ovviamente io li ascoltavo con molto rispetto, senza escludere a priori alcuna ipotesi e senza trascurare alcuna pista. Anche Oscar Mammì, allora presidente della Commissione Interni della Camera, aveva affermato che, dietro i killer di Milano, c’erano i servizi segreti. Ma, come ho già detto, non ero d’accordo con quelle teorie ed ero convinto che coloro che avevano ucciso Emilio erano componenti di un gruppo armato di sinistra, anche se lui era conosciuto come un magistrato progressista. Pochi giorni prima del Natale del 1979, ricordo, ricevetti nel mio ufficio una telefonata da parte di un centralinista cieco del palazzo di Giustizia: per noi tutti, in un’epoca in cui non esiste26

vano centraline elettroniche e sistemi automatici di smistamento delle chiamate, quell’uomo era solo una voce dal volto sconosciuto. Mi chiese di poter salire nel mio ufficio, mi voleva parlare. Quando arrivò lo feci accomodare davanti a me, all’altro lato della scrivania, pronto ad ascoltare chissà quale richiesta di aiuto. «Mi scusi, dottore, se la disturbo – esordì –, ma è il primo Natale senza Emilio Alessandrini in questo palazzo. E per noi centralinisti non vedenti è il primo Natale senza il suo calore e le sue battute. Deve sapere che ogni anno, pochi giorni prima del 25 dicembre, scendeva da noi portando panettoni e champagne per farci gli auguri e ridere insieme qualche minuto. So che lei era suo amico, voglio abbracciarla e farle gli auguri». Rimasi senza parole, lo dissi a tutti i colleghi della Procura. Nessuno di noi, purtroppo, dopo la morte di Emilio, ha saputo mantenere quella bella tradizione e la promessa che avevamo fatto a noi stessi di continuare a farla vivere. Viscardi, Mazzola e Donat Cattin, tre dei cinque assassini di Alessandrini, divennero più tardi importanti collaboratori processuali. Il primo iniziò a collaborare nel novembre del 1980, circa un mese dopo essere stato arrestato a Sorrento: con le sue dichiarazioni determinò la scoperta di molti covi di Prima Linea, il sequestro di bazooka, mitra, pistole e bombe a mano, nonché una vera e propria retata di appartenenti all’organizzazione. Tra questi, uno dei capi, Roberto Rosso, arrestato ad Ostia, e Umberto Mazzola, arrestato a Sesto San Giovanni, che scelse quasi subito la strada della collaborazione. Donat Cattin, che era stato catturato in Francia alla fine dell’80 e poi estradato in Italia, sarebbe morto nel giugno del 1988, sulla A4 Serenissima, nei pressi di Verona, travolto da una macchina: era sceso dalla propria per segnalare un incidente appena avvenuto alle auto che sopraggiungevano e scongiurare così altre morti. Marco, il figlio di Emilio, fa oggi l’avvocato, è sposato e, come Paola, la mamma, vive a Pescara: il ricordo di loro due in chiesa, al funerale di Emilio, è per me ancor più vivo di quello della folla di Milano che ne segue il feretro, incredula per la morte di un figlio adottivo che, attraverso le indagini su Piazza Fontana, era ormai parte della storia della città. Ho scritto in passato che Marco, in chiesa, aveva il portamento di un cadetto di West Point, men27

tre Sandro Pertini gli accarezzava il capo: oggi è anche testimone del dovere di memoria. Nel giugno del 2009, a trentotto anni, Marco è stato candidato sindaco a Pescara per il Pd. Il padre ne aveva trentasette quando fu ucciso. Marco non ce l’ha fatta, ma è diventato un punto di riferimento per il capoluogo abruzzese. In un’intervista ha confessato di non essere mai riuscito ad elaborare il lutto che lo ha segnato quando aveva otto anni. Ciò che non gli dà pace – spiegò quel giorno – è che suo padre «è stato ucciso da una banda di cretini. Solo dei cretini...»1. Nel 2009, ho partecipato proprio con Marco a manifestazioni che ricordavano, dopo trent’anni, il sacrificio di Emilio. È bello avere Marco accanto e sentirlo ragionare e ricordare. Lo abbiamo fatto a Pescara, dove Emilio è nato, e a Trento. E qui c’erano anche Bianca e Giuseppe Galli, vedova e figlio di Guido. Anche loro hanno parlato con lucidità a tanti giovani studenti in un’aula che veniva intitolata proprio ad Emilio e Guido. La prima volta in cui partecipai a una cerimonia di commemorazione fu però a Taranto, nel dicembre del 1981: l’aula magna del palazzo di Giustizia venne intitolata ad Emilio. Fui invitato a ricordarlo. Il «Corriere del Giorno», il quotidiano di Taranto, pubblicò un ampio articolo, riportando il mio discorso commosso. La foto del tavolo della presidenza, pubblicata sul quotidiano, ritrae mio padre e mi pare emozionato quanto lo ero io. 1 Gian Antonio Stella, Alessandrini, corsa in nome del padre: «La sua perdita un lutto senza fine», in «Corriere della Sera», 3 giugno 2009.

IV

Il sequestro di Abu Omar/1: dal 17 febbraio 2003 all’incriminazione della Cia

Hassan Mustafa Osama Nasr, detto Abu Omar al Masri («Abu Omar» significa «Padre di Omar») è nato nel 1963 ad Alessandria d’Egitto ed ha militato in patria nella organizzazione estremistica Jama’a al Islamiya. Nel 1998 era giunto in Italia ottenendo ufficialmente, nel febbraio del 2001, lo status di rifugiato politico. Dal luglio del 2000 si era trasferito a Milano, stabilendosi in via Conte Rosso 18, nello stesso appartamento prima abitato da un altro leader del radicalismo egiziano in Italia, poi morto in Afghanistan in circostanze sconosciute. Abu Omar era diventato in breve imam nella moschea milanese di via Quaranta, nonché un predicatore richiesto in tutte le principali moschee della Lombardia. Già dalla prima metà del 2002, la Digos della Questura di Milano e la Procura di Milano avevano iniziato ad indagare su di lui come sospetto leader di un’associazione terroristica internazionale: le intercettazioni delle sue conversazioni telefoniche e dei suoi colloqui nella moschea di via Quaranta avevano anche portato all’individuazione di altri possibili membri della stessa associazione. Tutto questo importante e paziente lavoro investigativo veniva tuttavia vanificato dal suo sequestro: Abu Omar scompariva il 17 febbraio 2003, intorno alle ore 12, in via Guerzoni a Milano, durante il tragitto che quotidianamente percorreva dalla sua abitazione fino alla moschea di viale Jenner. Tre giorni dopo, il 20 febbraio, Nabila Ghali, moglie di Abu Omar, presentava la denuncia di scomparsa del marito, ma già la Digos, ascoltandone le 29

conversazioni al telefono della sua abitazione, aveva colto i segnali di preoccupazione della donna. Lo stesso 20 febbraio o il mattino dopo, nell’ufficio di Pomarici in Procura, ci ritrovammo con lui io stesso, Stefano Dambruoso (il sostituto che in quel periodo conduceva le principali indagini in tema di terrorismo cosiddetto islamico) e il dirigente della Digos di Milano dell’epoca, Massimo Mazza, in passato stimatissimo investigatore anche nel settore mafioso. Le prime analisi e valutazioni dei fatti ci videro concordi: se Abu Omar era stato realmente sequestrato – e tutti eravamo nettamente propensi a crederlo – le responsabilità non potevano che essere di servizi segreti stranieri. Quali? Cia e/o Servizi egiziani. Ma eravamo ancora alle prime ipotesi e a un pubblico ministero le ipotesi, per quanto ragionevoli, non possono bastare. Bruno Megale, allora dirigente della Sezione antiterrorismo della Digos di Milano, si mise subito alla ricerca di fatti e prove concrete. Avrò modo di parlare a lungo di questo magnifico «piedipiatti», il vero motore delle incredibili indagini sul sequestro. Il 26 febbraio, finalmente, la testimonianza di una cittadina egiziana, Merfat Rezk, smuoveva le acque. Riferiva di aver assistito, il 17 febbraio, attorno alle ore 12, in via Guerzoni, a una strana scena: una persona che, per abbigliamento e sembianze, le era parso un islamico, stava mostrando i documenti a un uomo dall’aspetto occidentale. In particolare, la donna aveva precisato che quest’uomo stava parlando al telefono cellulare e sembrava, dunque, effettuare un controllo della persona fermata per strada. Un furgone bianco era parcheggiato vicino ai due uomini. Lei si era distratta per qualche secondo ma, poco dopo, aveva visto il furgone allontanarsi con a bordo l’islamico e chi lo aveva fermato. Circa due anni dopo, il marito della donna ammetterà che la moglie – ormai trasferitasi in Egitto per paura di conseguenze personali – non aveva detto tutta la verità: aveva taciuto di aver anche visto che l’islamico, divincolandosi e chiedendo aiuto, era stato costretto a salire a bordo del veicolo da alcuni uomini. Il 3 marzo, le autorità Usa in Italia realizzavano un tentativo di depistaggio delle indagini. Ralph Russomando, che risulterà agente della Cia ufficialmente accreditato, con compiti di secondo segretario, presso l’Ambasciata Usa a Roma, consegnava alla polizia italiana un documento in cui si affermava che Abu Omar 30

si trovava in un paese nell’area dei Balcani, dove si era recato spontaneamente. Intanto, sulla base delle dichiarazioni della teste che aveva visto uno dei rapitori parlare al telefonino, la Digos otteneva dal pm l’autorizzazione ad acquisire i cosiddetti tabulati del traffico dei telefoni cellulari che avevano operato nella zona del sequestro, nel giorno e nella fascia oraria in cui esso si era verificato: la speranza era quella di individuare, attraverso l’analisi delle chiamate effettuate e ricevute dai cellulari, l’utenza del sequestratore che aveva effettuato, o simulato, il controllo dell’identità di Abu Omar. Un banale errore materiale determinava però un rallentamento di quasi un anno: il sostituto Dambruoso, all’epoca titolare delle indagini, ordinava di acquisire i tabulati del traffico telefonico, ma emetteva il provvedimento in relazione a quelli del 17 marzo del 2003, anziché del 17 febbraio. La svista non veniva notata neppure dalla polizia, sicché le prime analisi furono compiute su dati di nessuna rilevanza. La Digos si accorgeva dello sbaglio solo a marzo del 2004: ad aprile, Dambruoso lasciava la Procura di Milano, per un incarico internazionale presso le Nazioni Unite a Vienna cui era stato destinato dal governo in carica. Toccò a me, in quanto neo-coordinatore del Dipartimento antiterrorismo della Procura, affiancare Pomarici, che già ne era contitolare, nella direzione della delicata inchiesta. La Digos, intanto, sulla base di un secondo provvedimento corretto da Dambruoso stesso, aveva acquisito il traffico telefonico giusto: quello dei cellulari che, tra le ore 11 e le 13 del 17 febbraio 2003, avevano operato nei dintorni di via Guerzoni. Disporre dei dati, però, non basta: l’esperienza investigativa dimostra che, spesso, troppi dati equivalgono a nessun dato. Occorre essere forniti di adeguato software e servono anche fantasia ed intelligenza nell’utilizzarlo. Altrimenti le macchine sarebbero autosufficienti. L’antiterrorismo della polizia di Milano, fortunatamente, ha a disposizione software e analisti intelligenti e capaci. Il programma, ironia della sorte, era stato in precedenza fornito alla Digos proprio dalla Cia, nel quadro della consueta collaborazione contro il terrorismo internazionale. Ma i poliziotti italiani, evidentemente, sapevano usarlo meglio della Cia e ne conoscevano appieno le potenzialità. Gli analisti, poi, non costano nulla né sono 31

stati chiesti «in prestito» a qualche società privata: sono poliziotti, con facce giovani e sveglissime. Uno per tutti: M.S. È un giovane assistente di polizia. Tutti hanno visto film o telefilm polizieschi in cui gli esperti di informatica sono in genere rappresentati come giovani estrosi, che vestono in maniera disinvolta, secondo un genuino stile casual. Sembrano tutti fuori dal mondo, assorti nel loro sapere informatico, presi solo dalle macchine cui, digitando, continuano ad impartire ordini. Così è M.S.: capelli lisci ed un po’ lunghi, jeans e maglietta, poche parole e tanta intelligenza. Ma, come i colleghi che con lui lavorano alle tastiere, non è affatto fuori dal mondo. Scava, indaga, mira all’obiettivo e lo raggiunge. E da quel risultato parte alla volta di un traguardo più ambizioso. E poi si interroga sui risultati, sulla loro plausibilità e sul loro grado di compatibilità con i dati fattuali che i suoi colleghi vanno raccogliendo sulla strada, pedinando, osservando, interrogando. Lo chiami per una spiegazione tecnica e lui te la fornisce in termini elementari e comprensibili. Gli fai un’obiezione e te la smonta. Gli chiedi se è possibile ottenere anche un altro tipo di informazione, ma lui ha già interrogato la macchina e te la fornisce all’istante. Questi sono gli uomini di Bruno Megale e della Digos di Milano che hanno individuato i sequestratori della Cia. Il traffico telefonico acquisito riguardava nella prima fase delle indagini ben 10.718 utenze telefoniche. Una lunga e delicata scrematura consentiva alla Digos di restringere la cerchia di quelle sospette a trenta numeri. Nell’estate del 2004, Megale piombava nel mio ufficio: «Sta venendo fuori l’ira di Dio», fu il suo primo commento. E poi, alludendo alle prove che cercavamo e che finalmente cominciavano ad arrivare, aggiunse: «...ci siamo». Mi spiegò che erano stati individuati diciassette numeri di telefono certamente coinvolti nell’azione. Infatti si trattava di utenze che, sebbene occupanti la stessa «cella» di telefonia mobile e quindi situate a poca distanza l’una dall’altra, si erano scambiate numerose chiamate, quasi tutte di breve durata, intensificatesi tra le 12 e le 12.40 del 17 febbraio del 2003, lasso di tempo in cui era avvenuto il rapimento di Abu Omar. Inoltre, tutte quelle carte Sim erano state attivate tra novembre 2002 e gennaio 2003 ed avevano cessato di funzionare due o tre giorni dopo il sequestro. Risultavano, infine, prive di intestatario o intestate a nominativi fasulli o di persone ignare, in modo da non fare individuare il loro effettivo utilizzatore. Una carta Sim, 32

però, risultava intestata a Monica Adler, cittadina americana: la prima, tra le persone responsabili del sequestro, a essere identificata. Le indagini si intensificarono nelle settimane successive: si scoprì, così, che, subito dopo il sequestro, gli utilizzatori di quattro di quelle diciassette utenze, insieme a quelli di altri cinque telefoni nel frattempo individuati, avevano compiuto il 17 febbraio un percorso iniziato dalla zona di via Guerzoni, luogo del sequestro, proseguito lungo l’autostrada per Venezia fino all’uscita di Pordenone e terminato nella zona dell’aeroporto di Aviano, dove ha tuttora sede la base dell’Usaf (United States Air Force) e dove erano giunti verso le 16.30. Inoltre, alcuni di questi telefoni avevano chiamato più volte il colonnello americano Joseph Romano, responsabile della sicurezza all’aeroporto di Aviano, nonché il capo della Cia a Milano, Robert Seldon Lady, e varie utenze della Virginia, dove, a Langley, ha notoriamente sede la Cia. A questo punto, partiva la caccia alla identificazione degli utilizzatori delle carte Sim individuate, incrociando dati di diversa provenienza, tutti tratti dallo studio dei tabulati relativi al traffico telefonico delle schede Sim dal giorno della loro attivazione fino a quello della loro cessazione. Dai tabulati risultavano, con buona precisione, le aree in cui le telefonate erano state effettuate o ricevute. Furono così individuate le presenze degli utenti dei telefoni presso alcuni lussuosi alberghi milanesi, nonché di altre città come Firenze, Venezia, La Spezia, o di paesi come Chiesa di Valmalenco, tutti luoghi dove presumibilmente i sequestratori si erano recati per trascorrervi gradevoli fine settimana. Venivano accertati anche i dati relativi alle loro carte di credito, tessere Frequent Flyers, Viapass e Viacard. Furono acquisiti pure i contratti di noleggio dei veicoli da loro utilizzati, le infrazioni stradali in cui erano incorsi, individuate pure prenotazioni di hotel e biglietti aerei, spesso fatte comunicando i numeri dei telefoni di chi effettuava le prenotazioni stesse: alcuni di quei cellulari erano presenti sul luogo del sequestro il 17 febbraio 2003 e nelle settimane precedenti. Infine, venivano trovate anche le fotocopie di alcuni documenti di identità (passaporti, patenti) esibiti dagli americani negli hotel o utilizzati per i contratti di attivazione delle carte telefoniche: conoscevamo, dunque, alcune delle facce dei sequestratori! Quasi tutti i nomi degli esecutori e degli organizzatori del sequestro di Abu Omar, insomma, erano saltati fuori uno dopo l’al33

tro: su tutti, quello del capo della Cia a Milano, Robert Seldon Lady, ben conosciuto per la sua veste praticamente ufficiale dalle forze di polizia di Milano, che ne avevano sempre apprezzato qualità professionali e umane. Lady risultava all’epoca del sequestro accreditato come console presso il Consolato Usa di Milano. Ma aveva da tempo lasciato l’incarico e l’Italia. Intanto, si accertava che Abu Omar, dopo il sequestro, era stato trasferito illegalmente in Egitto. Infatti, sul telefono di casa di Abu Omar, ancora sotto intercettazione, veniva inaspettatamente registrata, il 20 aprile 2004, una conversazione tra la moglie, Nabila Ghali, e il sequestrato, che si trovava ad Alessandria d’Egitto, in casa di parenti. Abu Omar, dopo i saluti, rassicurava la donna dicendole di trovarsi in buona salute, di essere stato vittima di un sequestro e che non poteva al momento allontanarsi dalla città. Chiedeva nello stesso tempo alla consorte di avvisare i «fratelli» milanesi della sua liberazione, raccomandandole però di non far trapelare nulla alla stampa. Ancora più significative si rivelavano altre telefonate registrate sulla utenza cellulare di Mohammed Reda Elbadry, un altro egiziano legato ad Abu Omar, anch’egli sottoposto ad indagini per sospetta appartenenza a gruppi terroristici. L’8 maggio 2004, Abu Omar diceva a Elbadry di trovarsi ad Alessandria d’Egitto, di essere stato sequestrato, portato direttamente in una base americana e caricato su un aereo militare per il successivo trasferimento. Aggiungeva di essere stato detenuto in Egitto e sottoposto ad interrogatori e violenze. La moglie e l’egiziano amico di Abu Omar venivano così sentiti come testimoni dal pubblico ministero, ma la donna precisava anche che suo marito era stato nuovamente arrestato dalla polizia egiziana: la stampa italiana, infatti, aveva pubblicato la notizia della liberazione di Abu Omar e ciò era stato verosimilmente considerato dagli egiziani una violazione degli obblighi di riserbo assoluto che all’uomo erano stati imposti come condizione del suo rilascio. Abu Omar, dunque, era rimasto libero dal 20 aprile al 12 maggio del 2004, data in cui era ricominciato il suo inferno. Le autorità egiziane non hanno finora mai risposto alle ripetute richieste della Procura di Milano di poterlo interrogare ed acquisire notizie sui tempi e modalità del suo ingresso in Egitto, nonché sulle ragioni della sua detenzione. Ad Abu Omar, dopo la sua definitiva e 34

più recente liberazione, è stato anzi negato il permesso di ritornare in Italia, come egli aveva richiesto. Avuta conferma che Abu Omar era stato immediatamente trasportato in Egitto dopo il sequestro, si sviluppava con successo anche l’indagine per individuare gli aerei con cui Abu Omar vi era stato illegalmente trasferito. Venivano così acquisiti, grazie anche alla collaborazione di vari ufficiali dell’Aeronautica militare italiana, i dati relativi ai voli di quel giorno. Essi risultavano assolutamente coincidenti pur essendo conservati in sedi diverse, cioè presso gli uffici di Milano e Padova dell’Ente di controllo del volo civile in Italia (Enav), presso l’aeroporto di Aviano e quello di Poggio Renatico (Ferrara) della Nato, entrambi comandati da ufficiali italiani e, infine, presso Eurocontrol di Bruxelles, una sorta di vigile che controlla tutti gli incroci e le rotte degli aerei nei cieli d’Europa. A causa del tempo trascorso, purtroppo, non erano più disponibili le registrazioni informatizzate dei tracciati radar, ma i documenti sequestrati non consentivano alcun dubbio: Abu Omar, giunto ad Aviano, era stato da lì trasportato in volo fino alla base di Ramstein in Germania con un Lear Jet 35, sigla di volo SPAR92, decollato alle ore 18.20 dello stesso giorno del sequestro. Successivamente, da Ramstein, era stato trasferito in volo fino al Cairo con un jet Executive Gulfstream (codice identificativo N85VM) decollato dalla base tedesca alle ore 20.30 dello stesso 17 febbraio. Philip Morse, uno dei soci della Richmore Aviation, proprietaria statunitense dell’aereo, rilasciava nel frattempo un’intervista al «Boston Globe»1, ripresa dal «Chicago Tribune», affermando che proprio quel Gulfstream veniva normalmente noleggiato alla Cia: un’ulteriore conferma dei risultati ottenuti dalla Digos di Milano. L’aereo era stato utilizzato per molti altri voli «segreti», anche da Guantánamo all’Europa. A conclusione di questa prima fase di attività d’indagine, venivano emessi dai giudici di Milano (rispettivamente il 22 giugno, il 20 luglio ed il 27 settembre del 2005) tre distinti ordini di custodia cautelare in carcere – ed altrettanti mandati di arresto europei – nei confronti di ventidue cittadini statunitensi2 coinvolti, come orgaCfr. «The Boston Globe», 21 marzo 2005. Questi i loro nomi: Monica Adler, Gregory Asherleigh, Lorenzo Gabriel Carrera, Eliana Castaldo, Victor Castellano, Drew Carlyle Channing, John Ke1 2

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nizzatori o esecutori, nel sequestro di Abu Omar. Tra loro Robert Seldon Lady e Betnie Medero, ufficialmente accreditati in Italia come membri del personale diplomatico statunitense. Il 23 giugno del 2005, veniva anche eseguita una perquisizione nella casa di Penango (Asti) di Bob Lady: vi abitava ancora la moglie, mentre l’americano l’aveva lasciata in fretta e furia verso la fine del 2004, avendo in qualche modo appreso delle indagini in corso e, dunque, del pericolo di essere arrestato. La perquisizione consentiva di trovare altre importanti prove nel computer o in alcuni cd sequestrati, tra cui tracce della ricerca effettuata tramite il sito internet Expedia per individuare il miglior percorso stradale da via Guerzoni a Milano e la base aerea di Aviano, dove Abu Omar era stato portato. Ma soprattutto erano state trovate tre fotografie di Abu Omar scattate dall’interno di un’autovettura il 14 gennaio del 2003, alle 12.25, sul luogo ove poi era avvenuto il sequestro. Erano fotografie risalenti alla fase preparatoria, allorquando le abitudini e gli spostamenti della vittima designata erano stati oggetto di osservazione. Venivano pure trovate prove di un viaggio in Egitto effettuato da Bob Lady poco tempo dopo il rapimento di Abu Omar: il capo della Cia a Milano era andato al Cairo il 24 febbraio 2003, rimanendovi fino al 7 marzo successivo. Le reazioni all’incriminazione dei ventidue cittadini americani per concorso nel sequestro dell’egiziano furono di vario genere e contenuto: alla cronaca pura e semplice dei fatti, seguì presto il dibattito sull’equilibrio necessario, nella lotta contro il terrorismo internazionale, tra esigenze di sicurezza e rispetto dei diritti umani. Erano gli ultimi mesi del 2005 e se Tony Blair aveva già sentenziato «The rules of the game are changing» [Le regole del gioco stanno cambiando], il presidente italiano del Consiglio dei ministri, Silvio Berlusconi, nel corso dei tradizionali auguri natalizi alla stampa estera, aveva affermato: «Non ci si può aspettare che i governi combattano il terrorismo con il codice in mano».

vin Duffin, Vincent Faldo, John Thomas Gurley, Raymond Michael Harbaough, James Thomas Harbison, Ben Amar Harty, Brenda Liliana Ibanez, Anne Linda Jenkins, James Robert Kirkland, Robert Seldon Lady (capo delIa Stazione Cia di Milano), Cynthia Dame Logan, Betnie Medero (agente Cia a Roma), L. George Purvis, Pilar Rueda, Joseph Sofin, Michalis Vasiliou.

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V

Guido Galli e il codice in mano

Il processo Alunni Dopo l’esperienza come pm nel dibattimento contro Curcio e compagni, tornai al lavoro ordinario in Procura, occupandomi ancora per un po’ di sequestri di persona. Fu nell’anno successivo che arrivò la svolta, l’inchiesta che cambiò, a un tempo, la mia esperienza professionale e la mia vita privata. Il 13 settembre 1978 venne arrestato a Milano uno dei principali latitanti del partito armato, Corrado Alunni. Era ricercato come membro delle Brigate Rosse. In realtà, era uscito dalle Br e aveva compiuto un suo percorso autonomo nell’area del terrorismo, dando vita ad altri gruppi armati e ad altre sigle. La polizia, allertata dalla custode del condominio che aveva notato le strane abitudini di quel giovane inquilino, lo bloccò in un appartamento di via Negroli, alla periferia di Milano, in direzione dell’aeroporto di Linate. I poliziotti, dopo la sua cattura, si erano nascosti nell’abitazione in attesa di eventuali suoi complici. E qualche ora dopo, infatti, era arrivata la compagna di Alunni, Marina Zoni, anche lei subito arrestata. La donna era già nota come estremista militante nell’area del Varesotto, sospettata di contiguità con gruppi terroristici insieme a sua sorella Maria Teresa, Fabio Brusa e Pietro Guido Felice. Marina Zoni aveva anche affittato un appartamento in via Melzo, che venne scoperto cinque giorni dopo e che risultò la base usata da un altro terrorista di spicco, Antonio Marocco: quest’ultimo rimase però latitante ancora per qualche mese. 37

L’inchiesta venne assegnata al sostituto procuratore Luigi De Liguori, un anziano della Procura, che mi volle subito al suo fianco: si intuì subito che l’indagine sarebbe stata lunga e complessa. Il covo di via Negroli si rivelò, infatti, una miniera di informazioni utili per successivi sviluppi. Nell’appartamento vi erano una decina di mitra e fucili, quattordici tra pistole e revolver, una bomba a mano, munizioni e tantissimi documenti. Tra questi, una quindicina di quaderni scritti a mano: alla luce del contenuto, erano chiaramente gli appunti di altrettante persone che dovevano aver partecipato a esercitazioni per l’uso di esplosivi, prendendo diligentemente nota di quanto andavano imparando. Le indagini riuscirono a dare un nome a quasi tutti gli autori degli appunti: erano stati scritti durante la partecipazione di militanti delle Fcc (Formazioni combattenti comuniste) di Alunni e di Prima Linea a un campo di addestramento gestito dall’Eta militare basca in una zona a sud della Francia, nei pressi del confine spagnolo. Un altro documento manoscritto trovato in via Negroli ci permise in seguito di identificare e arrestare Marco Barbone, che poi confessò di aver organizzato ed eseguito l’omicidio Tobagi. Tornerò su quest’omicidio e sulle polemiche strumentali che ne scaturirono, ma intanto è bene ricordare che proprio le dichiarazioni di Barbone, primo «pentito» dell’area milanese, ci permisero di ricostruire il percorso di Corrado Alunni. Dopo l’uscita dalle Br – raccontò Barbone quando scelse di collaborare – Alunni era diventato il leader militare dell’organizzazione Autonomia Operaia di Toni Negri, negli atti processuali definita «Rosso-Brigate Comuniste». La rivista «Rosso» era, in realtà, la facciata legale dell’Autonomia Operaia, mentre «Brigate Comuniste» era la sigla spesso usata dall’organizzazione per rivendicare le azioni compiute. Ma Alunni aveva lasciato anche quell’organizzazione, per creare le Fcc. Al momento della cattura, egli ne era il capo indiscusso. Quel gruppo, anzi, aveva stretto un patto di alleanza con Prima Linea: vari attentati – contro persone e cose – commessi nel ’78, erano stati infatti rivendicati con firma congiunta «Fcc-Prima Linea». Era stato anche costituito un comando unificato. Con l’indagine su Alunni la mia vita cambiò. Il processo a Curcio e compagni era stato, in fondo, un’esperienza occasionale, per quanto di straordinaria importanza per un giovane pm alle prime armi, ma con questa indagine iniziò a plasmarsi la mia prima spe38

cializzazione professionale e cominciò pure la mia vita blindata. Con conseguenze pesanti sulla mia vita privata, a partire dalla decisione mia e di mia moglie di rimandare la nascita di un figlio a tempi migliori: una scelta razionale, presa a tavolino. Luigi De Liguori, il pm che nel settembre del 1978 mi aveva chiesto di affiancarlo nelle indagini, aveva intanto ottenuto il trasferimento a Lecce: rimasi così l’unico titolare del procedimento. Dopo pochi mesi, pur da giovane pm, chiesi al procuratore Gresti di poter lavorare a tempo pieno su quel caso e, possibilmente, di creare un gruppo di lavoro specializzato con altri due o tre sostituti procuratori. Gresti fu d’accordo e nacque così il pool antiterrorismo della Procura di Milano. Prima di allora, in Procura, esistevano solo pochi gruppi specializzati di magistrati, tra cui quello sui sequestri di persona. Il pool antiterrorismo della Procura registrò una rapida crescita. Entrarono a farne parte Pomarici, il più anziano, che già si occupava delle Brigate Rosse, io stesso, ormai specializzato in Prima Linea, Fcc e altre organizzazioni che provenivano dall’area dell’Autonomia e, via via, Corrado Carnevali e Maria Luisa Dameno; alla fine del 1979 arrivarono Filippo Grisolia e infine Elio Michelini. All’Ufficio istruzione, invece, l’idea di creare un gruppo di giudici istruttori specializzati nel contrasto al terrorismo era oggetto di discussioni e dubbi, contrariamente a quanto avvenuto a Torino, ove era già da tempo all’opera il pool composto da giudici come Gian Carlo Caselli, Maurizio Laudi, Marcello Maddalena, Franco Giordana, Mario Griffey ed altri. A Torino, era piuttosto la Procura ad essere un po’ indietro, almeno finché Alberto Bernardi non determinò una chiara inversione di tendenza. Il codice di procedura penale all’epoca in vigore, del resto, prevedeva che sia i pm che i giudici istruttori conducessero le indagini penali. Il giudice istruttore conduceva la cosiddetta istruttoria formale, quando l’indagine era complessa, e il pm quella sommaria, nei casi più semplici o, comunque, fino al quarantesimo giorno di detenzione degli imputati: da quel momento, era obbligato a chiedere l’intervento del giudice istruttore e a formalizzare l’istruttoria. Insomma, il giudice istruttore era una figura piuttosto ibrida, molto vicina a quella del pm, di cui approfondiva le indagini complesse e a fianco del quale lavorava fino al termine dell’«istruttoria formale». Quaranta giorni dopo l’arresto di 39

Corrado Alunni e Marina Zoni, dunque, io e Luigi De Liguori formalizzammo l’inchiesta come il codice imponeva. E il processo fu affidato al giudice istruttore Guido Galli. Lo dico senza alcuna retorica: Guido è stato l’uomo migliore che abbia mai conosciuto. Ne parlo ogni volta con commozione, perché sono tantissimi i ricordi che mi legano a lui. Guido Galli Galli era un giudice stimatissimo. Era docente alla Statale di Milano, era stato presidente di sezione di Tribunale, ma prima ancora pm, e aveva acquisito notorietà quando gli era capitato il processo per la bancarotta di Felice Riva. Come presidente dell’Associazione magistrati di Milano aveva redatto e firmato un duro documento contro la decisione della Corte di Cassazione di trasferire a Catanzaro, per legittimo sospetto, il processo per la strage di Piazza Fontana: oggi, niente e nessuno gli avrebbe potuto evitare l’accusa di essere una «toga rossa».Una persona, insomma, di grande statura. Ricordo che nei nostri primi contatti, dopo la formalizzazione del processo, io, giovane pm diventato quasi per caso titolare di un’inchiesta così importante, ero intimidito da questa, quasi mitica, figura di giudice istruttore, criminologo di grande prestigio, peraltro di sedici anni più anziano di me. Galli si lanciò nell’impresa con l’entusiasmo di un ragazzo e, grazie a lui, quell’inchiesta si rivelò, per Milano, la «madre» delle indagini in materia di terrorismo: per me, l’irripetibile occasione di diventare suo amico. L’ufficio di Guido era una stanza piccolissima al secondo piano del palazzo di Giustizia, proprio davanti alla porta dell’ascensore. La scrivania scompariva tra le carte ed era assistito da una segretaria forse non sempre efficiente ma molto devota. Lui però non si lamentava mai di nulla: tradiva appena un po’ di stanchezza solo quando, più frequentemente del solito, allontanava dalla fronte una ciocca di capelli lisci. Si stabilì tra noi un rapporto stupendo. Lavoravamo sempre insieme e a mano a mano che procedevamo la nostra familiarità si arricchiva, anche sul piano umano. Passavamo lunghe serate a casa sua, piena di figli (cinque: Alessandra, Carla, Giuseppe, Riccardo e Paolo), confrontando le grafie dei quaderni di appunti 40

sull’uso degli esplosivi trovati a casa di Alunni con un centinaio di scritture di persone sospette: ne identificammo rudimentalmente una decina. Tra loro, Sergio Segio, Roberto Serafini, Maria Rosa Belloli, Giannantonio Zanetti ed altri: le perizie prima e i pentiti poi avrebbero confermato le nostre empiriche conclusioni. Passammo così quindici mesi, letteralmente in simbiosi: a leggere documenti e proclami di Prima Linea, Fcc ed altri gruppi, a girare per l’Italia, per interrogare gente nel Varesotto, scambiare idee e valutazioni con i colleghi di Bologna e di Roma. In Val Brembana, la sua terra, ci sono andato solo due volte: la prima con Guido, la seconda per Guido. Nel giugno del 1979 ci andammo per lavoro: attraversammo la valle e ci inerpicammo per le strade di montagna per arrivare a Cusio, dove era stato scoperto un covo dei terroristi. Interrogammo testimoni precisi nei ricordi, snocciolati senza timori di sorta, ma anche senza acredine o eccesso di zelo, «con semplicità e serenità, alla maniera dei bergamaschi», mi diceva Guido. Era quella la zona della sua infanzia: Galli era nato a Bergamo e, mentre guardavamo il Brembo scorrere nervoso a fondo valle, mi raccontava tutto della gente della sua terra, dei banditi della Val Brembana, di Gimondi, delle gare di canoa nel Brembo, di una vecchia ferrovia. Scoprii anche che i bergamin sono quelli che mungono le vacche tra le colline e i monti del Bergamasco. Guido non poteva sapere che meno di un anno dopo, dal 21 marzo dell’80, avrebbe riposato a Piazzolo, tra quei monti e quel verde che tanto amava. Quel giorno tornai in Val Brembana per lui, per salutarlo ancora nel cimiterino di Piazzolo dove i morti appartengono a tutti ed a venti metri dal quale i bambini giocano a pallone. Lo facevano anche i figli di Guido ai quali, da ogni posto in cui ci recavamo per l’indagine, Guido mandava una cartolina indirizzata «ai bambini Galli». Assolutamente sempre. Era un uomo di grande e radicata fede religiosa. Nelle nostre trasferte di lavoro, tuttavia, scoprimmo increduli anche magistrati che si sbarazzavano felici dei procedimenti di terrorismo (che avevano tenuto inerti negli armadi) non appena noi, timorosi di ferirli nell’orgoglio professionale, accennavamo timidamente a possibili connessioni con il nostro; conoscemmo marescialli e poliziotti che avevano scritto e scoperto tutto senza essere stati mai valorizzati da magistrati pavidi o incapaci; ci rendemmo pure conto (non c’erano ancora i pentiti) che disponeva41

mo della migliore polizia giudiziaria del mondo. Una convinzione che le indagini sul sequestro di Abu Omar, un quarto di secolo più tardi, mi avrebbero confermato. Nel Varesotto, per esempio – dove avevamo spostato la nostra attenzione grazie all’arresto in via Negroli di Marina Zoni, che proveniva da quella zona – c’era stato un maresciallo dei carabinieri (ricordo ancora il suo cognome: Ferrante) che aveva scritto un lungo rapporto sulle sorelle Zoni e sul gruppo di persone a loro vicine. Aveva esaminato il materiale – armi e documenti – rinvenuto casualmente nel giugno del ’77 da due bambini, lungo l’argine del fiume Olona, ed era riuscito con grande intelligenza, comparando anche lui decine e decine di grafie, a ricostruire l’organigramma della cellula varesina delle allora nascenti Fcc. Eppure il suo rapporto non aveva portato ad alcun risultato: il processo per il ritrovamento delle armi era rimasto contro ignoti e il caso era stato archiviato. Recuperammo noi quell’ottimo lavoro: molti di coloro che quel maresciallo di provincia aveva denunciato furono arrestati e condannati per appartenenza con vari ruoli alla banda armata guidata da Corrado Alunni. Idem a Bologna, dove esisteva un’indagine sul ritrovamento, nel dicembre del ’78, in via delle Tovaglie, di un baule pieno di armi e documenti riconducibili sempre al gruppo di Alunni, in particolare a Maurice Bignami e Paolo Klun: Guido e io avevamo qualche imbarazzo nel proporre ai magistrati di Bologna di trasferire quell’inchiesta a Milano per l’evidente utilità di trattare insieme vicende chiaramente collegate. Ci aspettavamo qualche resistenza. Che non ci fu: l’intero dossier passò rapidamente a Milano. Ricordo che Guido Galli commentava sorridendo simili episodi. Talvolta, però, il suo era un sorriso amaro. Al termine della prima parte del nostro lavoro, gli presentai una lunga e complessa richiesta di mandati di cattura (allora era questa la denominazione delle attuali «ordinanze di custodia cautelare in carcere»), in cui sostenevo la responsabilità dei capi e dei «quadri» di rilievo dell’organizzazione per i delitti commessi e rivendicati dalla stessa, pur in assenza di prove dirette della loro responsabilità materiale ed ideativa. In sostanza, non conoscevamo l’identità degli autori degli attentati rivendicati dalle Fcc di Corrado Alunni, ma sapevamo – e ne avevamo le prove – quali erano i capi e gli «organizzatori» della banda armata nel periodo stori42

co e nel contesto territoriale in cui gli attentati erano stati consumati: logico, a mio avviso, e giuridicamente corretto, che capi e organizzatori fossero chiamati a risponderne, perché quegli attentati non potevano che essere stati commessi all’interno di una strategia da loro certamente deliberata, come le rivendicazioni confermavano. Guido accolse la tesi con assoluta convinzione, anzi la precisò e la arricchì da par suo nei mandati di cattura che emise. La tesi fu accolta dalle Corti d’Assise di primo e secondo grado che condannarono gli imputati e passò anche in Cassazione: diventò la base giuridica e il solido precedente giurisprudenziale per affermare la responsabilità dei componenti delle varie commissioni e «cupole» per i più efferati delitti di mafia. Ricordo ancora i colleghi siciliani che ne vennero a discutere a Milano, prima di adottare quella strada nei loro provvedimenti. C’era bisogno, lo constatavamo ogni giorno, che presso gli Uffici istruzione e le Procure della Repubblica agissero gruppi di giudici istruttori e di sostituti specializzati nelle indagini sul terrorismo; c’era bisogno di coordinamento e di circolazione delle informazioni. Noi stessi avevamo cominciato a lavorare su quei presupposti: approfondivamo un filone d’indagine, lo chiudevamo e andavamo avanti con gli altri tronconi che nel frattempo si erano aperti. «Lasciare sempre un ramo verde e tagliare tutti i rami secchi», era la corretta teoria investigativa dell’allora capitano Umberto Bonaventura, un altro dei miei maestri, morto da generale nel novembre del 2002: un infarto lo colpì nella casa romana vicino Porta Portese dove abitava, ormai amareggiato da quanto accadeva nel Sismi di cui era altissimo ma isolato dirigente. Anche Guido, come lui stesso mi confidò, era sempre più rattristato a causa del clima che si respirava nell’Ufficio istruzione. Era successo che, in una riunione dei giudici istruttori di Milano, alcuni colleghi avevano criticato la teorizzazione del giudice istruttore specializzato nelle inchieste sul terrorismo, esprimendo la preoccupazione che, in tal modo, il giudice istruttore potesse diventare un giudice speciale, con conseguente rischio per le garanzie che spettano all’imputato. Di fronte a queste affermazioni, Guido era rimasto così stupito da non tentare neppure una replica. Su altro fronte, ma negli stessi giorni, si era verificato un episodio che forse non ho mai raccontato a Galli. Il suo capo, il dirigente dell’Ufficio istruzione Adalberto Margadonna, era andato a pro43

testare dal procuratore Gresti, lamentando che la Procura indirizzasse a Galli, con qualche artificio amministrativo, molti processi di terrorismo. La ragione della protesta? Margadonna voleva mettere in guardia Gresti e la Procura: Galli, a suo dire, era un giudice di sinistra, dunque inaffidabile per quel tipo di processi. Gresti, conservatore ma illuminato e intelligente come ho detto, sorrise delle preoccupazioni di Margadonna e lo rassicurò: Galli era il massimo che si potesse desiderare come giudice, anche per la precisione delle sue conclusioni in punto di diritto. Quanto agli artifici amministrativi per far arrivare a lui tutte le nostre indagini, semplicemente non esistevano: si trattava di un’unica indagine articolata in diversi spezzoni. Comunque, anche a causa del clima che sentiva attorno a sé, Guido Galli decise di chiedere il trasferimento dall’Ufficio istruzione e di venire a lavorare in Procura. Mi chiese di accompagnarlo da Gresti per fargli presente questa sua intenzione. Il procuratore fu entusiasta della decisione di Galli e si disse disponibile a fare del suo meglio per rendere rapido il passaggio. «Vorrei però dirti», precisò Gresti, «che, nonostante il tuo prestigio e la tua anzianità, noi non siamo organizzati in modo da poterti esentare dalla trattazione dei processi ordinari o dai turni di reperibilità». Guido spiegò di essere andato da lui soltanto per avere la certezza di venire assegnato al gruppo del terrorismo, cioè di poter lavorare con Pomarici, me, Carnevali, Dameno... Non chiedeva alcun trattamento privilegiato. Gresti gli strinse la mano con calore. Così Galli fece domanda di trasferimento alla Procura di Milano, ma intanto continuava a lavorare come giudice istruttore, nella sua stanzetta al secondo piano dove non c’era spazio per nulla. Era di fatto l’unico del suo ufficio a occuparsi di terrorismo, insieme ad Antonio Lombardi, altro giudice istruttore forte e determinato, nonostante l’atteggiamento apparentemente timido. Lombardi si occupava da tempo dei filoni d’indagine relativi alle Brigate Rosse e anni dopo avrebbe egregiamente istruito il processo per l’omicidio Calabresi. Ciononostante, Guido Galli non fu mai protetto, mai nessuno dei dirigenti dell’Ufficio istruzione chiese una scorta per lui. Spesso ero io ad accompagnarlo a casa e talvolta lo andavo anche a prendere per recarci insieme in ufficio. Io, più giovane, su iniziativa di Gresti, avevo la scorta; lui no. Ne parlavamo spesso, ma Guido era fatalista e non si è mai la44

mentato per la mancanza di protezione. Solo una volta lo vidi seriamente preoccupato: il giorno prima della sua morte, le Br uccisero il giudice Girolamo Minervini. Guido lo conosceva e fui io a comunicargli la notizia dell’omicidio: rimase molto scosso. Oggi dico che forse fu per lui un presentimento. Intanto, avevamo chiuso le nostre principali indagini: Guido aveva coniugato mirabilmente rispetto delle garanzie e dovere di repressione, stupendo tutti per la rapidità con cui aveva concluso la prima maxi-inchiesta milanese di terrorismo. Io avevo depositato la mia requisitoria scritta il 1° agosto e lui la sua ordinanza di rinvio a giudizio, l’11 settembre 1979: un anno solo era trascorso dall’arresto di Alunni e anche le inchieste-stralcio che ne erano scaturite erano ormai chiuse, tutte nell’assoluto rispetto dei diritti degli imputati. Con buona pace di quanti, persino colleghi, sostenevano che i giudici che si occupavano di terrorismo di sinistra si prestavano – per ciò stesso – ad assecondare un sistema che quei diritti comprimeva e violava: sì, lo dicevano anche magistrati e persino a Milano. A proposito della ordinanza di rinvio a giudizio di Galli, tutti i quotidiani sottolinearono la rapidità della chiusura della inchiesta Alunni e la sua efficacia: Fatti e prove, non ideologie, titolava ad esempio «il Giornale». Il dibattimento contro Alunni e compagni era iniziato in Corte d’Assise, ma Guido già spingeva per nuovi progetti di lavoro. Avevamo scoperto insieme la ricchezza e l’importanza del lavoro di gruppo ed era questa la direzione in cui intendevamo approfondire la nostra esperienza. Un giorno, Guido mi chiese di andare in università a parlare ai suoi studenti di criminologia: adesso i magistrati lo fanno spesso, ma allora era rarissimo e per me era comunque la prima volta. Mi colpì, mi onorò e mi preoccupò l’idea che un professore universitario pensasse che un pubblico ministero poco più che trentunenne potesse andare a dire qualcosa d’interessante agli studenti. Concordammo una data attorno al 20 marzo. Intanto, la sua richiesta di passare alla Procura fu accolta: Gresti glielo comunicò ed aspettavamo che diventasse esecutiva, ma Guido non ebbe il tempo di tornare pubblico ministero perché fu ucciso il 19 marzo 1980, davanti all’aula dell’Università Statale di Milano dove attendeva di entrare per tenere la sua lezione. Aveva quarantotto anni. 45

L’omicidio di Guido Galli Ricordo quelle ore come le stessi vivendo adesso: al mattino di quel 19 marzo, Guido mi dice che a mezzogiorno deve andare a casa perché è San Giuseppe e si festeggia l’onomastico di suo figlio. Anche quel giorno, lo accompagno a casa con la mia scorta. Mi dice che sarebbe andato nel pomeriggio in università e che dopo ci saremmo rivisti in ufficio, come facevamo quasi ogni giorno. Lo aspetto, dunque, nella mia stanza: è ormai pomeriggio. Mi telefona il capo della Digos, Mario Lo Schiavo: «Armando, corri in università, la Statale...». Capisco subito. Non lo lascio finire, esco dall’ufficio urlando e corro a piedi alla Statale, a poca distanza dal Tribunale. Non c’è ancora molta gente, ricordo due capitani dei carabinieri (uno è Sandro Ruffino) e un funzionario della Digos che cercano di tenermi lontano da Guido Galli perché sanno che cosa lui è per me. Il vero mio maestro, il fratello maggiore che non ho mai avuto. È steso per terra, di fronte all’aula 305 dove avrebbe dovuto svolgere la sua lezione, con il codice aperto a meno di mezzo metro da lui, vicino alla mano. Sulla sua agendina telefonica c’è scritto: «Se mi succede qualcosa telefonate ad Armando Spataro tel. n...». Ho ancora la fotocopia di quella pagina. La figlia Alessandra frequenta la facoltà di Giurisprudenza e quel giorno è alla Statale. Viene a sapere dell’attentato e si avvicina al papà. Gli amici le stanno attorno. Il «Corriere della Sera» pubblica il giorno successivo, in prima pagina, la foto del corridoio della Statale dove è avvenuto l’omicidio: il codice aperto, ancora per terra, è in primo piano. Sotto la foto, un articolo di Giovanni Testori che dice: «Il codice che gli era caduto di mano resta aperto davanti agli occhi atterriti dei giovani e di noi tutti. Aperto a dirci cosa? Che la legge dell’umana convivenza è più forte di ogni Caino...». Nell’ottobre del 1980, quando Marco Barbone iniziò a collaborare, sapemmo che Guido sarebbe potuto morire anche il giorno prima, il 18 marzo: Barbone stesso, Paolo Morandini, Daniele Laus e Manfredi De Stefano (poi membri della Brigata 28 Marzo) erano sotto casa sua, armati e con auto rubata, pronti ad ucciderlo. Un ritardo di Guido nell’uscire di casa gli regalò altre ventiquattr’ore di vita. Galli era dunque il primo e più importante bersaglio dei terroristi milanesi. 46

Non ho avuto il tempo di parlare ai suoi studenti, ma ho avuto la fortuna di fare da magistrato affidatario per il tirocinio di due dei «bambini Galli», Alessandra e Carla, nostre colleghe, due tra i migliori uditori che abbia mai avuto la fortuna di seguire, così diverse tra loro ma entrambe eguali a Guido. Spero di avere trasmesso loro anche solo una minima parte di quel che Guido aveva insegnato a me. L’omicidio ricompattò i magistrati di Milano. Anche i giudici istruttori, come noi della Procura avevamo fatto dopo la morte di Emilio, indirizzarono un documento al Csm chiedendo che l’ufficio fosse dotato degli strumenti adeguati e moderni di lavoro che mancavano e che i magistrati «a rischio» venissero sottoposti a misure di sicurezza. «Repubblica» scrisse anche che un primo momento di unità è stato raggiunto quando un drappello di giudici istruttori ha imboccato le scale che portano al piano superiore, quella della Procura della Repubblica. Destinazione: l’ufficio del sostituto Armando Spataro. Domenica «il manifesto» in un articolo aveva indicato Spataro come «capo ufficio ombra» della Procura milanese, accusandolo di accentrare le inchieste di terrorismo. E ad Armando Spataro i giudici istruttori hanno voluto esprimere la propria solidarietà.

Non lo avrei mai dimenticato. Di Guido, dopo, ho scoperto tante altre cose: Bianca, la moglie, mi ha mostrato, ad esempio, i bei disegni che Guido faceva. Aveva una passione: disegnava campi di battaglia ed eserciti schierati l’uno contro l’altro. Armi e divise disegnati in modo incredibilmente preciso. Il disegno, una vera passione per lui. Quindici giorni prima della sua morte mi mandò una cartolina dal Passo del Tonale: sopra la firma, il disegno di uno sciatore (lui) sotto il sole e quello di un magistrato in toga (io) che parla alla Corte. Ho visto poi tante fotografie di Guido e tutti noi suoi amici ne abbiamo una che lo ritrae seduto e sorridente – come sempre – in montagna. In un’intervista ad Ibio Paolucci, dell’«Unità», anche Bianca ha ricordato quel giorno: si festeggiava l’onomastico del figlio Giuseppe e della mamma di Guido ed erano stati invitati a casa anche i nonni. C’erano due torte a casa quel 19 marzo, una per il pranzo e l’altra per la cena, ma Guido poté gustare solo la prima e con quella festeggiare solo una volta. E suo padre, una settimana dopo, mandò una lettera e un regalo a mia moglie: «Gentile signora, 47

ho conosciuto suo marito in questi giorni così tristi ed ho capito perché e come tra lui e il Guido ci fosse un rapporto di fraterna amicizia. Per questo mi permetto di pregare lei e suo marito di accettare questo pacchetto che le unisco. Sono due tovagliette – non sono nuove – le abbiamo usate mia moglie ed io a mezzogiorno di mercoledì 19, poche ore prima che ammazzassero il Guido. Gliele avevo regalate alla mamma del Guido per il suo onomastico che dovevamo festeggiare la sera in casa di Bianca con Guido ed i suoi bei bambini. La prego di usare questi straccetti, assieme a suo marito […] e gli dica che Guido mi ha aiutato a perdonare i malvagi». A suo padre, Guido Galli aveva scritto nel 1957 una lettera per spiegare perché aveva deciso di fare il magistrato e non l’imprenditore: «Perché vedi, papà, io non ho mai pensato ai grandi clienti o alle belle sentenze o ai libri: io ho pensato, soprattutto, e ti prego di credere che dico la verità come forse non l’ho mai detta in vita mia, a un mestiere che potesse darmi la grande soddisfazione di fare qualcosa per gli altri». Dopo pochi mesi arrestammo gli assassini: a due capi di Prima Linea di Milano (Bruno La Ronga e Silveria Russo) chiesi perché avessero ucciso uno come Guido. Dopo avermi insultato, la donna mi disse che mi avrebbero parlato solo se non ci fossero state altre persone nella stanza e se mi fossi impegnato a non riferire a nessuno di quel colloquio. Accettai: mi dissero che ben sapevano chi era Guido, che avevano le loro fonti nel palazzo di Giustizia. Sapevano, dunque, che lui era la vera mente dell’antiterrorismo a Milano e che io ero solo uno strumento nelle sue mani raffinate, sapevano che sarebbe passato in Procura. Alludendo ad Alessandrini e Galli, dicevano che erano gli uomini come loro a legittimare le istituzioni, non i biechi repressori (e credo proprio che tra questi collocassero anche me). Ho rivisto tanti anni dopo Silveria Russo, è persona diversa. Sarei disposto a parlare con lei dei suoi figli e della sua vita; mentre non potrei farlo con un testimone che ancora oggi ricordo: era un giovane abbastanza colto (peraltro, studente di Guido), il cui padre vendeva biciclette. Una «pentita» – Fiammetta Bertani – ci disse, cinquanta giorni dopo l’omicidio, che in quel negozio lei ed altri avevano acquistato le biciclette usate per la fuga nel dedalo di viuzze attorno all’università di Milano. Lo sentii come testimone e lui negò tutto; gli dissi che c’era chi già aveva confessato e che avevo solo bisogno di riscontri, che lui, ad esempio, provasse a riconoscere 48

delle foto. Rispose – e così fece poi suo padre – che lui non voleva essere tirato in ballo in queste cose anche perché «se avevano ucciso Galli qualche ragione doveva pure esserci stata». Rimase in carcere, come il padre. Non ricordo il nome di quel giovane, ma non riesco a dimenticare la rabbia di quel giorno. Rammento tante altre cose del dopo 19 marzo: una riunione di lavoro a Parma, qualche giorno dopo l’omicidio, io che ancora continuavo ad essere mentalmente assente e Piero Vigna che mi scuote (una volta per tutte) stringendomi un braccio e dicendo secco e forte: «Oh Armando!»; io e Giuliano Turone (i nostri rapporti di amicizia e stima si erano un po’ raffreddati per qualche dissenso sulle modalità di conduzione delle indagini sull’omicidio Torregiani) che ci ritroviamo nell’ufficio di Guido, dove avevo accompagnato Bianca a ritirare le cose del marito, e ci abbracciamo piangendo dopo che Gerardo D’Ambrosio ci aveva pregato di guardarci negli occhi. E ricordo la pena e la rabbia che mi assalirono mentre, nel giugno dell’80, firmavo otto ordini di cattura contro i responsabili dell’omicidio di Guido, prima che il processo fosse trasferito a Torino. 19 marzo 1980: da pochissimo aveva iniziato a collaborare Patrizio Peci delle Br, ad aprile ’80 iniziò a farlo Roberto Sandalo di Prima Linea, e poi, in autunno, come ho già detto, Marco Barbone e Michele Viscardi, pure di Pl, uno degli autori materiali degli omicidi di Alessandrini e Galli; e poi tanti altri. Il 21 giugno dell’80 la Corte d’Assise di Milano condannava Corrado Alunni a ventinove anni di reclusione e i suoi complici a pene oscillanti tra i venti ed i ventotto anni. Le condanne vennero confermate in appello. Il terrorismo stava per essere spazzato via, ma quel 1980 fu l’anno orribile per l’Italia, non solo per la strage di Bologna del 2 agosto. Se Sandalo avesse parlato un mese prima... Guido sarebbe vivo. Se Guido non fosse andato all’università quel pomeriggio... se io fossi andato a parlare quel pomeriggio all’università, con la mia scorta... se il processo Alunni, formalizzato, fosse finito ad altro giudice istruttore... se... se... La tua luce annienterà le tenebre nelle quali vi dibattete

(Così è scritto sulla lapide che i familiari di Guido hanno voluto nel palazzo di Giustizia di Milano, al secondo piano, accanto alla porticina del suo piccolo ufficio.) 49

Oggi 19 marzo 1980, alle ore 16 e 50 un gruppo di fuoco della organizzazione comunista Prima Linea ha giustiziato con tre colpi calibro 38 Spl il giudice Guido Galli dell’ufficio istruzione del tribunale di Milano [...]. Galli appartiene alla frazione riformista e garantista della magistratura, impegnato in prima persona nella battaglia per ricostruire l’ufficio istruzione di Milano come un centro di lavoro giudiziario efficiente, adeguato alle necessità di ristrutturazione, di nuova divisione del lavoro dell’apparato giudiziario, alla necessità di far fronte alle contraddizioni crescenti del lavoro dei magistrati di fronte all’allargamento dei terreni d’intervento, di fronte alla contemporanea crescente paralisi del lavoro di produzione legislativa delle camere [...].

(Così è scritto nel comunicato di Prima Linea che rivendicò l’uccisione di Guido Galli e che paradossalmente contiene di lui un alto ed involontario elogio.) Guido a terra, nel corridoio dell’università, di fronte all’aula dove stava per tenere lezione. Aveva il codice accanto, sul pavimento. Questa è l’immagine che continua a venirmi in mente. E io non posso fare a meno di evocarla, anche a costo di apparire retorico, quando lo ricordo in pubblico o nei convegni in cui si parla delle modalità della lotta al terrorismo. Un groppo, allora, mi stringe la gola e la platea che mi ascolta – piccola o grande che sia – è costretta, imbarazzata e silente, ad aspettare che mi passi. Ma io la sento vicina, partecipe, rispettosa, e questo mi aiuta molto. E spesso, allora, per superare l’empasse, penso a quel presidente del Consiglio dei ministri che, nel 2005, ha dichiarato alla stampa estera: «Non ci si può aspettare che i governi combattano il terrorismo con il codice in mano». Ecco: la rabbia torna a rianimarmi e, pensando sempre a Guido ed a quel codice che era la stella polare della sua vita, mi dico che forse quel presidente del Consiglio non si rendeva conto della gravità di ciò che diceva, forse non sapeva nulla di Galli o – più probabilmente – ignora che si può consapevolmente accettare il rischio della propria fine solo per difendere il senso della legge. La rabbia scioglie così quel nodo. Riprendo a parlare di Guido, la platea supera il suo imbarazzo, mi incoraggia e riesco ad arrivare fino alla fine.

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VI

Il sequestro di Abu Omar/2: dall’incriminazione della Cia a quella del Sismi

Con gli uomini della Digos, Pomarici ed io eravamo riusciti ad arrivare sino in fondo nelle indagini sulle responsabilità degli americani per concorso a vario titolo nel sequestro di Abu Omar. Ma le difficoltà maggiori, come dirò, sono venute dopo. Fino alla primavera del 2006 gli incriminati per il sequestro di Abu Omar erano «solo» ventidue americani, quasi tutti appartenenti alla Cia e tutti latitanti. I commenti del governo italiano (il presidente del Consiglio dei ministri era all’epoca Silvio Berlusconi) erano stati fino a quel momento, a dir poco, imbarazzati: ancora pochi gli ostacoli all’inchiesta, sembrava prevalere il desiderio di dimostrare agli Usa che, nonostante la fastidiosa presenza di qualche magistrato convinto di dovere applicare il codice persino nella lotta al terrorismo, l’Italia rimaneva un alleato affidabile anche in quel campo. Del resto vi poteva essere un interesse nel tenere tale atteggiamento: quello di non urtare l’amministrazione Usa. Alla fine del 2005, infatti, durante un suo viaggio ufficiale in Europa, Condoleezza Rice era stata sottoposta dai giornalisti, ovunque si fosse recata, a un fuoco di fila di domande tutte concentrate sulle criticate modalità di lotta al terrorismo adottate dagli Usa e, in particolare, sulle cosiddette renditions. La risposta del segretario di Stato americano era sempre stata la stessa: mai gli Stati Uniti avevano compiuto sequestri di terroristi in Europa senza che i governi alleati fossero stati preavvisati e avessero concesso la loro autorizzazione. Poiché, in quel momento, l’unica inchiesta europea in cui 51

erano indagati cittadini americani era quella sul sequestro di Abu Omar, i giornalisti domandavano alla Rice se, in particolare, le sue affermazioni riguardassero anche tale vicenda. La risposta era sempre costituita da un gelido no comment. L’opposizione politica italiana, prima che le elezioni del 2006 le assicurassero una risicata maggioranza, si limitava a sostenere a parole l’azione della Procura di Milano: poche, comunque, le dichiarazioni ufficiali, scarso l’entusiasmo. Ma in fondo era comprensibile che fosse così: il ruolo di controllo della legalità affidato dalla Costituzione alla magistratura dovrebbe costituire la normalità in qualsiasi democrazia, senza bisogno di apprezzamenti ed applausi. Eventualmente e se necessario, andrebbe solo difeso dalle reazioni di chi mal lo sopporta. La primavera del 2006 scivolava ormai verso la seconda e decisiva parte delle indagini sul sequestro di Abu Omar, cioè verso l’incriminazione per complicità di alcuni funzionari del Sismi, incluso il suo direttore dell’epoca. Il maresciallo Luciano Pironi La Digos di Milano aveva identificato un altro cellulare presente nella zona del sequestro, sia nel giorno e nell’ora della sua esecuzione, che in altre tre precedenti occasioni. Il telefono apparteneva a Luciano Pironi, maresciallo del Ros dei carabinieri, componente da anni della Sezione antiterrorismo ed addetto, grazie alla sua eccellente conoscenza di varie lingue straniere, ai rapporti con la Cia, con l’Fbi e altri organismi stranieri rappresentati in Italia. Proprio per la sua antica e lunga esperienza, lo conoscevo da molto tempo e i nostri rapporti si erano ulteriormente rafforzati tra la fine degli anni Novanta e il 2002: abitava nella stessa piazza milanese in cui abito io e i nostri cani, la sera tardi, si inseguivano spesso per gioco. Le fattezze fisiche di Pironi corrispondevano a quelle dell’uomo che aveva fermato in via Guerzoni Abu Omar, facendo finta di volerne controllare i documenti. Io e Pomarici avevamo anche effettuato un «accesso» nella sede del Ros, acquisendo documenti e relazioni concernenti la sua attività investigativa: non vi figurava alcuna ragione ufficiale per cui dovesse trovarsi per quattro volte, quasi sempre in orari di servizio, in via Guerzoni, tra gen52

naio e febbraio del 2003. Ma optammo per una strada prudente: non avevamo ancora in mano quella che gli americani chiamano smoking gun, la pistola fumante, la prova decisiva che stende il colpevole. Decidemmo dunque di non richiederne la cattura al giudice e gli inviammo, invece, a Belgrado – dove si era trasferito per lavorare all’Ambasciata italiana in Serbia – un invito a comparire: l’accusa era, comunque, quella di avere partecipato materialmente al sequestro. Alle 10.30 del 6 aprile del 2006, nel suo ufficio al quinto piano della Procura, Pomarici fu il solo ad interrogare Pironi alla presenza dei suoi difensori. Io ero impegnato in altre attività ma, proprio per i rapporti personali che avevo con l’indagato (e con il suo cane), avevo pensato che sarebbe stato meglio lasciare il campo al mio collega. Raggiunsi l’ufficio verso la fine dell’interrogatorio, mentre Pomarici, che gli aveva contestato tutti gli elementi a carico acquisiti, stava verbalizzando le ultime parole di Pironi: «...respingo l’addebito e mi avvalgo allo stato della facoltà di non rispondere stante l’esigenza di riordinare le idee in ordine ai fatti che mi vengono contestati». Come «riordinare le idee»? Se sei innocente, lo gridi! Punto e basta. Invece, l’uomo mi parve sconvolto, «sull’orlo di una crisi di nervi». Quando lasciò l’ufficio con i suoi avvocati, io e Pomarici non avemmo bisogno di parole per comunicarci le nostre impressioni: Pironi era senz’altro responsabile, ma gli avremmo concesso qualche giorno per riflettere, come aveva chiesto. Dopo una settimana richiamai il suo avvocato difensore e il 14 aprile 2006 procedemmo al secondo interrogatorio. Questa volta io fui presente sin dall’inizio. Pironi confessò di avere partecipato materialmente al sequestro di Abu Omar, fermandolo in via Guerzoni e simulando un controllo dei suoi documenti prima che l’egiziano fosse spinto a forza dai complici nel furgone parcheggiato sul marciapiede. Il veicolo si era allontanato a tutta velocità verso una destinazione sconosciuta allo stesso Pironi. Il carabiniere spiegava che era stato Robert Lady, capo della Cia a Milano e suo caro amico, a chiedergli a titolo personale di partecipare all’azione. Pironi dichiarava pure di non conoscere gli altri esecutori del sequestro, due dei quali parlavano però perfettamente l’italiano: li aveva incontrati solo il 17 febbraio su indicazione di Robert Lady. 53

In un successivo interrogatorio, Pironi ci rivelò pure che, nel settembre del 2003, aveva compiuto un viaggio premio negli Stati Uniti incontrando Lady presso la sede della Cia. Pironi, a dire il vero, ci rivelò anche altre circostanze che ci consentirono di aprire una nuova pista investigativa e arrivare così alla incriminazione di vari appartenenti al Sismi, tra cui, come già detto, il suo direttore. Ma queste circostanze, diversamente da quelle sin qui riferite, sarebbero coperte da segreto di Stato: così ha ritenuto il giudice Oscar Magi, nella sua sentenza sul caso Abu Omar del 4 novembre 2009. Magi, infatti, pur nel travaglio personale e giuridico che traspare dalla motivazione della sua decisione, ha scritto che a tale conclusione egli è obbligato dalla sentenza della Corte Costituzionale dell’11 marzo 2009, che ha deciso ben cinque conflitti di attribuzione tra i presidenti del Consiglio Prodi e Berlusconi, da un lato, e la Procura e lo stesso Tribunale dall’altro. Il giudice «ne avrebbe fatto volentieri a meno – ha scritto Magi – se solo avesse potuto seguire i dettami della propria coscienza professionale e della propria volontà conoscitiva». Di tutto questo parlerò più avanti, ma è certo che, in ossequio alla sentenza, non posso a mia volta qui riferire circostanze decisive per la ricostruzione completa delle indagini e di tutte le possibili responsabilità connesse al sequestro di Abu Omar. La cosa un po’ grottesca, che ha indotto un giurista del calibro di Vittorio Fanchiotti a parlare di «segreti di pulcinella»1 anziché di segreti di Stato, è che tutte queste notizie sono state pubblicate su internet in una infinità di siti, nonché su libri-inchiesta, quotidiani e periodici di ogni parte del mondo «con una evidente diffusione planetaria» delle stesse, come ancora ha scritto lo stesso giudice Magi. Il lettore interessato ha a sua disposizione gli strumenti per approfondire i fatti di cui qui devo tacere. Tornando alle indagini, invece, può solo dirsi che, a partire dalle dichiarazioni di Pironi e grazie alla finestra da lui spalancata sulle possibili responsabilità del Sismi, identificammo e sentimmo come testimone il colonnello Stefano D’Ambrosio, capo centro del Sismi a Milano fino a pochi mesi prima del sequestro, allorché fu rimosso e trasferito altrove; a sua volta, egli rese im1 Vittorio Fanchiotti, Stato di diritto e ragion di Stato: il caso Abu Omar e la Consulta, in «Questione Giustizia», 3, 2009.

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portanti dichiarazioni (che per via del segreto di Stato non possono qui essere riassunte) a carico del suo amico e «collega» Robert Lady, nonché di Jeff Castelli, entrambi della Cia, l’uno capo della struttura di Milano e l’altro vertice dell’intera rete in Italia. Ma D’Ambrosio rivelò circostanze da noi ritenute importanti anche a carico del suo superiore d’allora, Marco Mancini, il cui telefono cellulare venne per questo sottoposto ad intercettazione telefonica, come lo furono, via via, quelli di altri uomini del Sismi in contatto con lui. Da molte telefonate tra questi alti funzionari del Sismi emergeva la loro palese preoccupazione per le indagini della Procura di Milano. Uno di questi, un generale, parlando con un suo collega, si riferiva a me chiamandomi «lo scemo»... Marco Mancini, Gustavo Pignero e le intercettazioni telefoniche Non avrei mai sperato che da quelle intercettazioni potesse arrivare una prova di eccezionale rilevanza a carico degli uomini del Sismi coinvolti nel progetto di sequestro di Abu Omar. Il 1° giugno del 2006, mentre mi recavo a Fiumicino dopo avere sentito come testimone il generale Gustavo Pignero del Sismi in una caserma dei carabinieri sita nella bella ed assolata piazza di San Lorenzo in Lucina, ricevevo la telefonata di Bruno Megale, il dirigente dell’Antiterrorismo della Digos di Milano. Megale, informatosi sull’ora del mio arrivo a Linate, mi invitava a passare dalla Questura «per un caffè». In quei giorni, per comunicare telefonicamente tra noi, usavamo maggiori accortezze del solito. Immaginai che vi fossero novità importanti. Appena arrivato a Milano, dunque, mi precipitai in Questura, dove Megale ed i suoi fidati ispettori mi aspettavano con un sorriso di soddisfazione sul volto: qualcuno di loro mi mise in mano la trascrizione della conversazione intercorsa tra Mancini e Pignero quel pomeriggio, subito dopo la fine dell’esame cui io avevo sottoposto il generale a Roma. Mancini aveva tranquillizzato Pignero, dicendogli che lo stava chiamando da un telefono pubblico. Ma i due non sapevano che «lo scemo» aveva fatto mettere sotto controllo il telefono da cui parlava Pignero in quel momento: apparteneva a un loro uomo di fiducia, un altro funzionario del Sismi che sarebbe stato poi incriminato per favoreggiamento. Lessi la trascrizione di quella telefonata: il collo55

quio tra Mancini e Pignero appariva di decisiva importanza. Che cosa si dissero i due quel giorno? Segreto di Stato. Dopo la conversazione, Mancini voleva incontrarsi al più presto con il suo superiore per concordare la futura comune linea di comportamento, ma quest’ultimo aveva preferito rinviare l’appuntamento. In successive telefonate, però, Mancini aveva richiamato l’uomo del telefono «sicuro», chiedendogli di organizzare subito l’incontro con Pignero. Per convincere quest’ultimo ad anticiparlo, Mancini gli chiedeva di raccontare a Pignero una frottola, cioè che io lo avevo convocato per interrogarlo. Chiamai subito Pomarici. Stabilimmo di vederci, anche con il procuratore Minale, il mattino del giorno seguente. Al termine dell’incontro, iniziai immediatamente a scrivere la richiesta di nuova misura cautelare, anche a carico di Mancini e Pignero. I due, intanto, si erano dati appuntamento per il 2 giugno 2006 a Roma, in via Tomacelli, di fronte alla concessionaria Ferrari: Mancini e Pignero vennero fotografati e filmati dagli uomini della Digos di Roma, coordinati dal dirigente Lamberto Giannini. Ancora non sapevamo quanto quell’incontro sarebbe risultato importante per le indagini, così come l’averlo documentato. Un nuovo giudice, Enrico Manzi, aveva intanto preso il posto di Chiara Nobili, il gip che aveva emesso i precedenti mandati di cattura. Fu Manzi ad esaminare ed accogliere le nostre richieste: il 3 luglio 2006, emise quindi ventotto ordinanze di custodia cautelare a carico dei due alti funzionari del Sismi: Marco Mancini e Gustavo Pignero (per quest’ultimo la misura cautelare richiesta e disposta era quella degli arresti domiciliari a causa della grave malattia da cui era afflitto), nonché degli stessi ventidue cittadini americani già colpiti dai tre precedenti provvedimenti restrittivi del 2005 e altri quattro americani. In totale, dunque, due italiani e ventisei americani. I nuovi quattro indagati americani erano il colonnello Joseph Romano, responsabile della sicurezza dell’aeroporto militare di Aviano al tempo del sequestro e punto di riferimento dei sequestratori in quella base; Jeffrey Castelli, accreditato come diplomatico all’Ambasciata Usa di Roma al tempo del sequestro, ma – come ho detto – conosciuto ufficialmente come il responsabile della Cia in Italia; Ralph Henry Russomando, l’agente Cia che aveva comunicato al ministero dell’Interno ed al Sisde le false informazioni sulla sorte di Abu Omar, e Sabrina De Sousa, anche lei cono56

sciuta come componente della rete Cia in Italia, accreditata come seconda segretaria all’Ambasciata Usa di Roma. A questo punto, i membri dello staff diplomatico Usa operanti in Italia responsabili, secondo le accuse, del sequestro di Abu Omar erano diventati cinque: ciononostante, allorché divenne pubblica la notizia della loro incriminazione, nessun commento si sarebbe registrato da parte del nuovo presidente del Consiglio dei ministri Prodi – su questo perfettamente in linea con il suo predecessore Silvio Berlusconi – o del suo ministro degli Esteri, Massimo D’Alema. Neppure dopo il rinvio a giudizio degli americani, cioè dopo il vaglio del giudice sulla serietà delle prove acquisite al termine dell’inchiesta, una qualsiasi, prudente nota di protesta risulta mai partita dalla Farnesina per via Veneto, ove ha sede l’ambasciata Usa in Italia. Evidentemente, che personale diplomatico commetta o organizzi sequestri di persona nel paese dove esercita le proprie funzioni costituisce per il nostro governo una condotta tollerabile. Peraltro, l’esercizio di funzioni consolari non consente di godere delle garanzie previste dalla relativa Convenzione di Vienna poiché sia la Convenzione che la legge italiana di ratifica lo escludono per i «crimini gravi» come il sequestro di persona. Pio Pompa e i giornalisti Quella tranche d’indagine condotta nei confronti di appartenenti al Sismi aveva portato anche all’individuazione di una sede del Servizio in via Nazionale 230 a Roma. La decisione di perquisirla scaturiva da quanto era emerso a carico del singolare personaggio che la gestiva, il funzionario Pio Pompa. Costui, nel corso delle indagini, si era rivelato molto legato al direttore del Servizio generale Pollari (con il quale si sentiva spesso telefonicamente) e preposto a contatti strumentali con numerosi giornalisti italiani: una brutta pagina per il giornalismo italiano, che ha visto quotidiani, periodici e giornalisti di varia estrazione spesso pronti a divulgare, quali meri recettori passivi, ciò che veniva loro somministrato a dosi variabili da Pio Pompa. Nessuno che in questi casi mostrasse desiderio di analisi critica delle notizie ricevute, nessuno che si sforzasse di trovarvi conferme esterne. Proprio attraverso questi contatti, ad esempio, Pio Pompa aveva tentato di mettere in circolazione il sospetto che le responsabilità del sequestro fossero da ricondurre al pm Dambruoso, che ave57

va condotto la prima fase delle indagini, e alla Digos di Milano. Da vari altri colloqui, si intuiva anche la ragione dell’interesse del Sismi alla divulgazione di questi sospetti su Dambruoso: a un giornalista dell’«Unità», infatti, Pompa aveva spiegato che, nel caso di apertura di un’indagine a carico del magistrato, il processo per il sequestro di Abu Omar sarebbe stato spostato per competenza alla Procura di Brescia. L’8 giugno del 2006, inoltre, Pio Pompa aveva chiamato il giornalista Renato Farina, all’epoca vicedirettore di «Libero», e gli aveva comunicato che, in realtà, era stata la Commissione Europea, all’epoca della presidenza Prodi, ad assumere nel gennaio del 2003 la decisione di agevolare i voli della Cia, oggetto ormai delle inchieste del Parlamento europeo e del Consiglio d’Europa. Farina, conseguentemente, aveva chiamato un suo collega e concordato la necessità di scrivere un articolo per l’indomani in cui, anche in contrapposizione a quanto scritto da «Repubblica», sarebbe stato specificato che «questo tipo di missioni, che Berlusconi non ha voluto, sono state autorizzate dalla Commissione Prodi». Farina aveva inviato successivamente l’articolo a Pompa per una sorta di «visto» e Pompa aveva telefonato al direttore del Sismi Pollari, il quale, avuta lettura dell’articolo (in cui compariva l’inciso «La Commissione Europea di Romano Prodi»), aveva chiesto chi lo avrebbe firmato. «René insieme ad un altro», era stata la risposta di Pompa. Pollari aveva approvato l’articolo («Ok») e domandato, però, «se fosse possibile fare sparire il nome di Prodi e mettere Unione Europea». «Certo, perfetto», aveva risposto Pompa che, immediatamente, alle ore 22.03, si rivolgeva a Farina invitandolo ad apportare all’articolo la modifica, sostituendo al nome di Romano Prodi la dicitura «Commissione Europea [sic]», come gli aveva chiesto «quello che mi sta sopra...». Farina si adeguava senza indugi, dando conseguenti disposizioni al fido Claudio Antonelli, co-firmatario dell’articolo. La bozza dell’articolo sarebbe stata da noi trovata e sequestrata in via Nazionale. Renato Farina (chiamato dal Sismi «Fonte Betulla»), intanto, riferiva praticamente ogni giorno a Pompa una massa di informazioni che si sforzava di ottenere da più fonti sulle più disparate materie di potenziale interesse per il suo interlocutore, ma non certo rientranti nelle competenze funzionali del Sismi: gli riferiva notizie, ad esempio, sulla delicata inchiesta della Procura di Mila58

no sulla Telecom. Proprio in relazione a questa inchiesta Pio Pompa comunicava al direttore Pollari, il 4 giugno 2006, una buona notizia: «Oggi c’abbiamo un ottimo articolo che ieri con Betulla abbiamo concordato a firma Oscar Giannino... che nella sostanza dice ‘vogliono scaricare i loro sporchi affari, perché gli fa comodo, sui Servizi’... il titolo è Se Repubblica attacca Telecom». A proposito dei rapporti tra il Sismi e certa stampa, Pio Pompa ricordava al suo direttore un altro episodio: Pompa: «...perché il fatto dell’Ansa dell’altra volta non è stato un fatto simpatico, eh?». Pollari: «Quale?». Pompa: «Quando abbiamo bloccato quella fuoriuscita... no?». Pollari: «Sì, sì. Sì, sì, sì, sì». Pompa: «Per l’amore di Dio, ci avremmo avuto i titoloni, eh?». Pollari: «Sì, certo, certo». Pompa: «Eh, cioè... poi le persone devono star pur zitte, eh?». Pollari: «Sì, appunto».

Particolarmente significativa si rivelava pure una serie di conversazioni che Pompa intratteneva con molti giornalisti «amici» allo scopo di far pubblicare la notizia che l’uccisione in Iraq del noto al-Zarqawi a opera dei militari statunitensi (fatto avvenuto il 7 giugno 2006 e reso noto il giorno dopo) era stata possibile grazie alla collaborazione del Sismi (anzi Pompa rivendicava a sé personalmente il merito). Il Sismi, secondo questa storia, avrebbe scoperto un video del terrorista, poi consegnato agli americani: quel video avrebbe consentito l’individuazione del nascondiglio di al-Zarqawi. Ma, nonostante la smentita degli americani, Pompa continuava a perorare la pubblicazione della notizia contando sul «senso del dovere» di certi giornalisti. Una telefonata del 21 maggio 2006 serve a spiegare quale tipo di rapporto leghi certi giornalisti al Sismi: Pio Pompa spiegava al generale Pollari che era riuscito a convincere alcuni giornalisti a non pubblicare una certa notizia – quella sulla natura diplomatica della malattia in seguito alla quale Mancini si era momentaneamente allontanato dal servizio nel periodo clou delle indagini – aggiungendo, però, che «se lo scrive... [riferendosi in particolare ad un giornalista de «La Stampa»] io con quello non ci parlo». Aggiungeva poi: «[con] questi qua so’ riuscito a stabilire un rapporto tale per cui riesci più o meno a controllarli no?... perché poi 59

c’hanno sempre il bisogno ecc. no? visto che poi faccio decine di cortesie extra iuris ordinem». A proposito di cortesie «extra iuris ordinem», Renato Farina sarà anche capace di scrivere un articolo, pubblicato su «Libero» il 14 giugno, in cui, parlando del clima agonistico-patriottico attorno alla partita Italia-Ghana dei campionati mondiali di calcio in corso in Germania, troverà il modo di ringraziare Pio Pompa che, procurandogli il biglietto a pagamento, gli aveva consentito di assistere alla partita («Grazie a Pio e a Dio mi arrivano due cartoncini verdi, cento euro l’uno...»). Farina dirà telefonicamente a Pompa che solo loro due avrebbero potuto comprendere il senso di quel riferimento contenuto nell’articolo. Era sempre Pompa che veniva continuamente aggiornato sui miei spostamenti fisici e sui miei contatti. Sempre tramite il fidato Farina, cercava anche di scoprire se e in qual modo le indagini della Procura di Milano si stessero orientando verso il Sismi. Il 19 maggio 2006, ad esempio, Farina comunicava a Pio Pompa che «Spataro oggi è partito per il weekend e torna domenica sera... ed è partito con il computer... noi cerchiamo di avere un po’ di interrogatori, un po’ di carte, capito?». Il 21 maggio, ancora Farina comunicava a Pompa che «il pm è via in vacanza e gli uffici sono chiusi... e da quell’altro non ha saputo nulla, capito?». Ma alle 21 circa dello stesso giorno, ancora Farina rettificava la sua precedente informazione: stasera alle ore 19 Spataro era in Questura, è andato lui in Questura da Megale, il capo dell’antiterrorismo della Digos, per un vertice... è andato là apposta oggi perché oggi non è di lavoro, ha chiesto di parlargli... secondo la mia fonte molto attendibile... comunque stanno lavorando, credo che stiano cercando di capire se politicamente cosa fare non fare... Comunque è andato stasera alle 19, era dentro l’ufficio, l’ha visto, infatti l’ha salutato, va bene?

Era domenica ed avevo effettivamente incontrato Bruno Megale presso la Questura di Milano: il nostro incontro si era protratto oltre le 19. Il giornalista Claudio Antonelli, interrogato da indagato, avrebbe dichiarato qualche settimana dopo che si era trovato a passare casualmente in moto davanti alla Questura da cui mi aveva visto uscire, pervenendo alle conclusioni che aveva riferito a Renato Farina. Sempre il vicedirettore di «Libero», il 26 maggio 2006, ag60

giornava Pio Pompa: «...ecco nel contempo Spataro è sparito da ieri», ma questa volta era Pompa a precisare la ragione della mia sparizione: «Sta a Firenze, sta al più grande convegno di terrorismo... Guarda che è una ribalta importantissima, ci sta gente dell’Fbi capito?». Pompa era stato telefonicamente informato di questo da una giornalista di «Repubblica», pure presente al convegno, che all’epoca scriveva articoli in tema di terrorismo ed attività dei Servizi. La direzione del quotidiano, quando la vicenda venne fuori, trasferì ad altro incarico questa giornalista (poi passata all’«Unità») mentre un suo collega, di cui sempre attraverso le intercettazioni erano emersi gli stretti contatti con Mancini, lavorò poi per «il Giornale». «Fonte Betulla» in missione alla Procura di Milano Quanto avviene il 22 maggio del 2006 nel mio ufficio, documentabile anche attraverso le intercettazioni riportate nella sentenza di primo grado, sarebbe degno di una pièce teatrale se non riguardasse il Servizio segreto militare italiano e una gravissima violazione dei diritti umani come il sequestro di Abu Omar. Nella tarda mattinata di quel giorno, infatti, ricevo una telefonata del giovane cronista di giudiziaria di «Libero», Claudio Antonelli, che lavora al palazzo di Giustizia. È stato nei carabinieri durante il servizio di leva. Mi dice che il vicedirettore del suo quotidiano, Renato Farina, vorrebbe incontrarmi e mi chiede se sono disponibile. Accetto. Alle 12.32, Farina comunica a Pompa che mi vedrà nel pomeriggio: i due stabiliscono di sentirsi successivamente per concordare le domande da pormi. Pompa avverte il generale Pollari («Direttore, Betulla, alle 17, s’incontra con il titolare di Milano») dell’incontro previsto. Aggiunge: «...quindi dopo ci risentiamo in modo che gli ponga pure qualche domanda che ci può essere utile». Pollari chiede: «Ma lui sa cosa dire?». E Pompa: «Sa cosa dire, ma è il caso, capito, che si ripassi la lezione insieme a noi... perché è un’occasione preziosissima». Pollari conviene: «Sì, certo», sicché Pompa conclude: «...quindi io, se lei è d’accordo, mi vedo un attimo prima con lei perché è una cosa che ci può risultare estremamente utile perché va proprio lì da Spat...». Intanto, sposto l’appuntamento di mezz’ora e Farina subito lo comunica a Pompa, il quale gli raccomanda «...devi capire se... devi fare la parte di chi riceve l’informazione o se si può stabilire un 61

dialogo, capito». Farina, diligentemente, gli pone qualche domanda, giusto per evitare di sbagliare: «...quel documento americano che le autorizza [le renditions] già nell’89, glielo posso citare?». Pompa lo autorizza («Che problema c’è?», ed aggiunge: «ma che glielo dici a fare, quello ti dice: a me che me ne frega, hai capito?». Farina conviene: «eh certo, è chiaro») e poi suggerisce: Quello che gli devi dire è che fonti tue, americane no?,... ti hanno chiaramente fatto capire che noi non c’entriamo niente, anzi, che ci sono stati dei problemi rispetto alla presa di posizione fatta dal nostro due mesi dopo che si era insediato... che poi ha ribadito in sede di Copaco, che poi ha ribadito a Bruxelles rifiutando persino di andare alla cattura di ricercati in Italia come Casimirri... capito, ed è verbalizzato... soprattutto al Copaco è verbalizzato il fatto che lui, rispetto alle richieste di collaborazione genericamente espresse nei confronti di tutti i paesi da parte degli Usa, il nostro ha detto «io queste cose non le faccio perché vanno contro il diritto internazionale, i diritti umani e le leggi del paese».

Farina è diligente: «...certo, certo, è chiaro, ma questo me lo ricordo bene, la sovranità del paese, certo». Ma Pompa vuole esserne certo: «Qua la storia è questa: è che tu gli devi dire che anche tue fonti americane ti hanno confermato non solo l’estraneità, ma anche il fatto che è stato un fenomeno locale». Farina sottolinea: «Fenomeno locale vuol dire di collaborazione di personaggi locali». Pompa conferma: «Personaggi locali che non hanno specificato se italiani o no... ti hanno detto che le cose sono state fatte localmente... anche con la presenza di qualche italiano... perché, hai capito, tu l’hai saputo dopo che è emersa questa storia di Ludwig, tu hai chiesto e ti è stato risposto così». Farina rassicura: «Molto bene, va bene» e riceve le ultime istruzioni: «Quindi alle cinque e mezza vai, ma poi ci risentiamo». «Eh beh, ovvio» è l’ultima frase di Fonte Betulla in missione. Alle 17.37, Pompa avvisa Pollari che «Betulla è a colloquio». Ovviamente informati dalla Digos in tempo reale di queste telefonate, io e Pomarici dotiamo di un microfono la mia scrivania: sarà interessante documentare e registrare domande e valutazioni di Farina. Il vicedirettore di «Libero» arriva puntuale con il fido Antonelli e trova anche Pomarici ad aspettarlo nel mio ufficio: 62

«Piacere...», «Piacere mio». Parte la conversazione e Farina manifesta subito un interesse meramente giornalistico, noi fingiamo di credergli. «Questo è il dottor Pomarici – faccio io – che non so se Lei conosce. Comunque è il collega che tratta con me questa vicenda. Prego. Ovviamente so che attorno a questa roba c’è l’interesse di voi giornalisti, ovviamente, però mi dica tutto e vediamo un po’ se...». Farina dimentica le raccomandazioni di Pompa («devi fare la parte di chi riceve l’informazione o se si può stabilire un dialogo, capito?») e inizia senza troppi giri di parole: «La domanda che sarà più interessante è se c’è di mezzo il Sismi o no?». A questo punto, nella trascrizione ufficiale della conversazione si legge: «Risate in sottofondo». Il fatto è che né io, né Pomarici ci aspettavamo un simile incipit e scoppiamo a ridere all’unisono, senza alcun accordo. Lo giuro. Io osservo, ridendo: «Ah così, una cosa così...!», e Pomarici aggiunge: «Volete anche la sentenza della Cassazione?». Farina si scusa per l’approccio forse troppo diretto e spiega che in realtà egli è mosso, da cattolico, da sincera stima per il generale Pollari, al punto da non poter sopportare gli ingiusti attacchi cui egli e il Servizio che dirige sono sottoposti da parte della stampa. Ripete poi l’indicazione che gli è stata suggerita da Pompa sulla sua presunta fonte americana ed io lo invito a comunicarcene l’identità così da poterla interrogare o a farle sapere che ci farebbe piacere se si presentasse spontaneamente a rendere le sue dichiarazioni. Parte anche la litania dei sospetti su Dambruoso e sulla Digos. Gli spieghiamo la eccezionale qualità del lavoro della Digos, ma Farina replica cercando di avvalorare i sospetti su Dambruoso: «Pironi era uno che mangiava e dormiva in Procura: è possibile che abbia fatto una cosa così tremenda senza l’assenso della Procura? Questa è la mia domanda». Osservo che, più che altro, mi sembra una barzelletta. Mentre Farina replica che si tratta di «una cosa plausibile», Pomarici inizia a perdere la pazienza, spiegando che, all’epoca, era lui che dirigeva il Dipartimento antiterrorismo della Procura di Milano e che – con Dambruoso – aveva seguito i primi passi dell’indagine. Farina si lancia allora in un j’accuse contro «Repubblica» ed i giornali che hanno insinuato responsabilità da parte del Sismi. «Il discorso sulla stampa – dice Pomarici – ci porterebbe lontano. Noi stessi siamo spesso oggetto di critiche infondate e certi articoli ci hanno 63

anche danneggiato» (racconta dei danni arrecati in passato a un’inchiesta per sequestro di persona da lui condotta). Farina concorda ed io, a quel punto, gli propongo di organizzare insieme, quando la vicenda Abu Omar sarà finita, un pubblico convegno sull’etica giornalistica. Farina è naturalmente d’accordo sul progetto. Mentre l’incontro con Farina ed Antonelli volge al termine, mi arriva in ufficio una telefonata di Megale della Digos. Era concordata: parlo ad alta voce e simuliamo una necessità di incontrarci immediatamente, ma fuori del palazzo di Giustizia. Stabiliamo un appuntamento verso le 19 in Piazza Fontana. Lo scopo è di verificare i sospetti che avevamo maturato sulla possibilità che io fossi pedinato da qualcuno: la Digos ha organizzato un contropedinamento. Alcuni poliziotti mi seguiranno discretamente quando percorrerò il breve tragitto tra il palazzo di Giustizia e Piazza Fontana per scoprire eventuali pedinatori. Farina, per il resto, ripete quanto raccomandatogli da Pio Pompa e l’incontro finalmente si conclude. «La ringrazio...». «No, sono io che devo ringraziarla». Alle 18:52, mentre mi appresto a recarmi in Piazza Fontana, Farina chiama Pompa e gli riferisce il contenuto del colloquio: Farina: «Allora... loro mi hanno fatto... mi hanno fatto trovare lì anche Pomarici». Pompa: «Ammazza...». Farina: «È stata un’ora di confronto durissimo...». Pompa: «Minchia...». Farina: «Per cui sono anche un po’...». Pompa: «Stanco...». Farina: «No, no, no sono... Claudio Antonelli che era lì anche lui... era spaventato... ma io ho retto il colpo ed ho replicato... perché, in buona sostanza, loro appena io ho chiesto ‘chi sono i complici italiani degli americani?... la domanda la faccio visto che rimbalza continuamente sulla stampa senza vostre repliche e la [sic] lasciate trapelare che ci sia di mezzo il Sismi’ e loro si sono messi a ridere, dicendo ‘E vuole che noi glielo diciamo questo, no?’... allorché io gli ho detto ‘sa, perché io invece penso che ci sia di mezzo la Procura...’. Loro si sono incazzati come delle bestie no?... io agli inizi gli ho detto... a me risulta da fonti mie che sia un fatto locale no... quello che... loro volevano farmi verbalizzare capito? Cioè è stata una specie di imboscata...». Pompa: «Di noi che hanno detto?». 64

Farina: «Niente... salvo questo... Pomarici è stato durissimo, mentre Spataro era molto gentile, poi quando Pomarici se ne è andato, è stato molto più discorsivo... cioè hanno detto che l’indagine, grazie alla capacità investigativa e inventiva della Digos, è giunta a livelli altissimi e insperati... a risultati altissimi e insperati... e non si capisce se ‘altissimi’ si riferisce al rango di persone... loro dicono che effettivamente questo maresciallo tal dei tali era molto legato a loro nel senso che portava... gli accompagnava anche il cane fuori a fare la pipì...». Pompa: «Agli americani...?». Farina: «No, no, a loro... a loro della Procura...». Pompa: «Ah». Farina: «E gli ho detto ‘come Moggi’... gli ho chiesto i tempi, loro hanno detto che ci sono diversi tronconi, probabilmente prima ne chiuderanno uno, poi un altro... però c’era una grandissima tensione... il mio socio qui, che è uno abituato, ha detto che c’era una tensione che si tagliava con il coltello... perché io sono entrato... cioè io... a parte che io ho retto benissimo il confronto... no... cioè anche perché loro cercavano di umiliarmi dicendo che era assurdo che io pensassi alla Procura e alla Digos... Pomarici mi fa ‘E lei, secondo lei, la polizia giudiziaria e la Digos sarebbero così fessi da fare un’indagine per fregarsi da soli?’... in buona sostanza... però erano impenetrabili... no? capisci? io gli ho detto... gli ho raccontato la storia del Copaco, delle dichiarazioni del Copaco, loro hanno detto che hanno chiesto invano al Copaco di avere questo, questa deposizione di Pollari, ma non l’hanno ricevuta...». Pompa: «Perfetto...». Farina: «...poi mi hanno fatto la morale sull’informazione, che a volte noi facciamo allarmismo dicendo che c’è il rischio di bombe ecc. ecc., ma... mi ha fatto la predica Pomarici lo stesso ecco...! comunque con Pomarici sono d’accordo che ci sentiamo sul cellulare, che lui ha molta stima personale di me». Pompa: «Ah infatti... hai recuperato un po’?». Farina: «Ma no, ma io ho completamente recuperato! la cosa impressionante è che ha voluto che ci fosse lì Pomarici, che non era previsto...». Pompa: «Senti, ma per noi? a naso tuo?». Farina: «Ma a naso mio non c’è un cazzo sul Sismi...! Pomarici era una sfinge,... cioè è veramente una sfinge... comunque stanno lavorando molto sodo, a un certo punto quando io ho detto che questo maresciallo... era ritenuto sempre di casa in Procura, obbedientissimo alla Procura, ai magistrati da cui dipendeva, no?... gli ho detto ‘come è possibile che questo abbia agito senza informare la Procura...’ a questo 65

punto Pomarici quasi mi voleva arrestare: ‘... lei sta dicendo una cosa gravissima’...». Pompa: «Senti, a me quello che... chiaramente mò, no? tu sai con chi devo parlà... mi chiederà... perché si sono messi a ridere quando hai detto quello?». Farina: «Perché sono stato troppo sfacciato nella domanda secondo me!!! capito? cioè la risata non è ‘non c’entrano...’, la risata è ‘con il cazzo che te lo diciamo!’, mi spiego?».

Farina, comunque, anticipa a Pompa che gli avrebbe fatto pervenire una relazione sull’incontro e che ne avrebbe chiesta una anche a Claudio Antonelli. Chiude la conversazione dicendo: «...comunque, cazzo, mi sono presa una scottata... questi son magistrati, non dimenticano mai un attimo di essere gli inquisitori...». Su questo, almeno, Farina aveva pienamente ragione. Subito dopo, alle 19.07, Pio Pompa chiama il direttore del Sismi Pollari e gli riferisce pari pari, con le stesse parole, quanto appreso dal Farina. Pompa precisa: «Nessun pronunciamento su di noi, ma a naso si capisce che non hanno niente...». E Pollari, di rimando, aggiunge: «... beh, ci mancherebbe altro... come potrebbero avere se non c’è... nulla, scusa...». È il 22 maggio del 2006. Renato Farina comunica più tardi a Pompa di avergli inviato il rapporto redatto da lui e da Antonelli e gli dice che durante il colloquio io ero stato chiamato da Megale e che avevamo fissato un incontro verso le 19. Ribadisce di essere molto provato dopo che noi avevamo cercato di intimidirlo. Ma alla fine – precisa Farina – «ho vinto io!». A tarda ora, verso le 23.34, Farina chiama ancora Pompa per sapere se ha ricevuto il rapporto redatto da lui e da Antonelli, evidentemente spedito per posta elettronica e, dopo qualche altro commento, chiede: «Cosa dice il direttore di me? parla bene?». E Pompa lo rassicura: «Eh, a voglia, a voglia... micidiale... ». «Dovevo far l’avvocato!», conclude Farina compiaciuto. Alle 18.45 di quel 22 maggio uscivo dalla porta di via Freguglia del palazzo di Giustizia e mi avviavo lentamente verso la vicina Piazza Fontana. Svoltavo a sinistra in corso di Porta Vittoria e mi attardavo di fronte a qualche vetrina cercando di riconoscere sia gli eventuali pedinatori che i contropedinatori della Digos. Di volta in volta, mi sembrava di avere individuato il volto o il passo del possibile pe66

dinatore: quella persona anziana apparentemente assorta nei suoi pensieri? O quella donna che fingeva di passare per caso? Non ho visto invece un solo poliziotto, pur conoscendo quasi tutti i volti dei ragazzi della Digos. Non li vedevo, ma sapevo che c’erano. Probabilmente non c’erano neppure pedinatori ostili, ma se pure vi fossero stati i sequestratori di Abu Omar o i killer delle Brigate Rosse, mi sarei sentito sicuro, protetto, sereno grazie a quei ragazzi della polizia che stavano lì per me. Ero fiero di loro. Capii, quel giorno, più di altre volte, quali dovevano essere stati i sentimenti di Ruby Bridges, la bambina di colore del quadro di Norman Rockwell2. Arrivai così in Piazza Fontana, alle 19 in punto. Il volto di Bruno Megale, che mi veniva incontro con la sua aria disincantata e sorniona, chiudeva quella strana giornata: non potrò mai dimenticare l’incontro con Farina. Il 5 luglio del 2006, perquisendo la sede del Sismi dove «lavorava» Pio Pompa, avremmo trovato gli appunti presi da lui stesso mentre ascoltava il resoconto di Farina, le relazioni di quest’ultimo e del fido Antonelli sull’incontro nel mio ufficio e le ricevute di alcune somme di denaro date alla «Fonte Betulla». «Betulla» avrebbe poi dichiarato al pm che si trattava solo di rimborsi spese. La Legge n. 801 del 1977 sui Servizi segreti, allora in vigore, prevedeva all’art. 7 che «In nessun caso i Servizi possono avere alle loro dipendenze, in modo organico o saltuario, membri del Parlamento, consiglieri regionali, provinciali, comunali, magistrati, ministri di culto e giornalisti professionisti». Alla fine della indagine, Renato Farina richiedeva il cosiddetto patteggiamento, cioè l’applicazione di una pena concordata con i pubblici ministeri. Il 14 febbraio 2007, il giudice Caterina Interlandi gli applicava la pena di sei mesi di reclusione per il reato di favoreggiamento personale nei confronti degli appartenenti al Sismi coinvolti nel sequestro di Abu Omar. Il giudice gli concedeva le attenuanti generiche e la sospensione condizionale della pena per cinque anni, convertendo la pena detentiva in quella pecuniaria della multa di 6840 euro. Renato Farina veniva anche radiato nel marzo del 2007 dall’Ordine dei giornalisti, con sessantotto voti a favore, cinque astenuti, due contrari e quattro schede bianche. Il suo avvocato annunciava di voler impugnare la decisione del Consiglio nazionale dell’Ordine. Ma prima il Tribunale di Milano, nel gennaio 2

Vedi p. XIV.

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del 2008, e poi la Corte d’Appello, nel febbraio del 2009, hanno confermato la radiazione inflitta all’ormai ex giornalista3. Si è ora in attesa della decisione della Corte di Cassazione, a seguito del ricorso proposto dall’interessato. Renato Farina, però, ha continuato a scrivere su «Libero» (e poi sul «Giornale»), «in base alla Costituzione che consente fino a ora la libera espressione del pensiero...», come dichiarava l’allora direttore del quotidiano, Vittorio Feltri, subito dopo la radiazione. Nel 2008, Farina è stato eletto deputato nella lista del Popolo della libertà. Nella penultima pagina del suo recente libro, Farina scrive: «Mi è andata bene alla fine. Il fatto è che mi hanno tirato cavoli amari e conigli morti, ma mi trovo a scrivere più di prima e a essere deputato. E addirittura membro permanente del Comitato diritti umani del Consiglio d’Europa» di Strasburgo4. Capisco allora perché Dick Marty un giorno mi telefonò per chiedermi chi fosse «tal Renato Farina» che a Strasburgo andava dicendo che il sequestro di Abu Omar in realtà non si era mai verificato e che si trattava di una messinscena della Cia per coprire un proprio informatore. Per chiudere questa surreale vicenda, c’è da dire che nel suo libro appena citato, lo stesso Farina, presentandone in una specie di premessa «le figure più importanti», mi gratifica con questa categorica affermazione: «È ritenuto il magistrato più potente d’Italia». Un’altra notizia di fonte «farlocca», ancora più di quella diffusa a Strasburgo. La posizione di Claudio Antonelli è stata invece archiviata: ha dichiarato di aver fatto tutto nell’interesse del suo giornale ed avendo come unico punto di riferimento il suo vicedirettore Farina, di cui non conosceva l’attività segreta come «Fonte Betulla». Questi l’ha confermato e non è stata acquisita prova sicura del contrario. Pio Pompa, come dirò più avanti, è stato condannato a tre anni di reclusione per favoreggiamento personale. Altri giornalisti coinvolti nelle «relazioni pericolose» con lui sono stati disciplinarmente sospesi per qualche tempo dall’esercizio della professione, altri hanno lasciato il loro giornale o sono stati trasferiti ad incarichi diversi. Quan-

3 Secondo l’ordinamento della professione di giornalista (Legge 3 febbraio 1969, n. 69), la radiazione dall’albo è la più grave delle sanzioni disciplinari per un giornalista. L’art. 55 la prevede «nei casi in cui l’iscritto con la sua condotta abbia compromesso la dignità professionale». 4 Renato Farina, Alias Agente Betulla. Storia di uno 007 italiano, Piemme, Casale Monferrato 2009.

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do parlo di questa vicenda con i giornalisti stranieri, specie se americani, li vedo inorridire increduli. Mi chiedo se i giornalisti italiani implicati in questa desolante storia abbiano mai riflettuto sul tragico destino di Pippo Fava, di Giancarlo Siani, delle giornaliste coraggiose della «Novaja Gazeta», Anna Politkovskaja e Anastasija Baburova, o di Natal’ja Estemirova dell’ong Memorial5. O se abbiano mai visitato, a Parigi, la Maison des Journalistes, che nelle sue sedici stanze sempre piene ospita a rotazione, per non più di sei mesi, i cronisti in fuga da paesi ove rischiano la vita per le loro scomode inchieste6. O, ancora, se abbiano mai letto la dedica con cui Tiziano Terzani apre il suo bellissimo In Asia: «Alla memoria di Marc Filloux, di Koki Ishihara e di tutti gli altri colleghi che nell’onesto esercizio del mestiere giornalistico, a volte solo per andare a controllare l’esattezza di un dettaglio, han perso la vita sui fronti d’Asia»7. La perquisizione in via Nazionale e gli interrogatori Quando il provvedimento restrittivo emesso da Manzi sarà eseguito – penso – bisognerà interrogare come indagati ed esaminare come persone informate sui fatti vari altri funzionari del Sismi o persone vicine al Servizio, inclusi vari giornalisti in contatto con Pompa. È essenziale interrogare o esaminare tutte queste persone pressoché in contemporanea per evitare che abbiano la possibilità di comprendere quali siano gli elementi nelle mani degli inquirenti e via via concordare le versioni da fornire ai pubblici ministeri. Con Pomarici, dunque, scegliamo di mettere in campo anche sette sostituti: tutti quelli del Dipartimento antiterrorismo (Ilda Boccassini, Massimo Meroni, Maurizio Romanelli, Nicola Piacente, Luigi

5 Giuseppe Fava è stato ucciso dalla mafia a Catania il 5 gennaio del 1984, aveva cinquantotto anni; Giancarlo Siani dalla camorra a Napoli, il 23 settembre del 1985, quando ne aveva ventisei. Anna Politkovskaja e Anastasija Baburova sono state uccise a Mosca, rispettivamente il 7 ottobre 2006 e il 19 gennaio 2009. La «Novaja Gazeta» non si è arresa e, dopo la morte della Baburova, ha annunciato la prosecuzione delle sue inchieste. La Estemirova, attivista per i diritti umani, è stata rapita il 15 luglio 2009 nella sua casa di Grozny in Cecenia. Il suo cadavere veniva ritrovato poche ore dopo nella confinante Inguscezia. 6 Anais Ginori, La casa dei reporter braccati, in «la Repubblica», 13 settembre 2009. 7 Tiziano Terzani, In Asia, Tea, Milano 2008.

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Orsi, Elio Ramondini) oltre a Stefano Civardi, che, con Piacente, conduce l’inchiesta Telecom. Anche questa indagine sta ormai virando verso Mancini e l’uso illegale dell’intelligence aziendale guidata da Giuliano Tavaroli, un ex brigadiere della Sezione antiterrorismo dei carabinieri di Milano, protagonista di una brillante carriera da manager nel settore privato, al punto da diventare responsabile della sicurezza prima della Pirelli e poi della Telecom. Il 3 luglio, dunque, siamo in nove nel mio ufficio: i sette sostituti, Pomarici ed io. Ognuno ha il dossier delle attività delegategli che dovranno svolgersi nell’arco di 30 ore circa tra il 5 ed il 6 luglio. Presi gli ultimi accordi, io e Piacente partiamo per Roma, dove, con le Digos di Milano e Roma, effettueremo la perquisizione in via Nazionale e sentiremo vari funzionari del Sismi e diversi giornalisti come persone informate sui fatti. Piacente è un pugliese come me. Lavorava alla Procura di Genova e, conoscendone le qualità, ho fatto di tutto per convincerlo a venire alla Procura di Milano, sperando che potesse essere inserito – come è avvenuto – nel Dipartimento antiterrorismo. La sera del 4 luglio, con i nostri amici poliziotti di Roma e Milano, ceniamo in un bar-ristorante di via Nazionale (a poche centinaia di metri dagli uffici di Pio Pompa) ed assistiamo alla semifinale dei mondiali di calcio tra Italia e Germania. Io e Piacente fingiamo tra noi di essere senza pensieri e concentrati solo sulla partita. Ma la tensione è palpabile, anche se attorno a noi ci sono poliziotti esperti e ben abituati alle notti che precedono le operazioni importanti. Mentre ceniamo e seguiamo la partita in tv, passo in rassegna i loro volti: c’è l’ispettore L.M., che negli anni Novanta faceva parte della Criminalpol ed ha lavorato alle mie inchieste sulla ’ndrangheta. Lo sfondo del suo telefonino reca la foto del figlioletto e la suoneria ne riproduce la risata. Magro, alto, attivissimo, si è subito impadronito di ogni conoscenza riguardante il terrorismo cosiddetto islamico. C’è un’ispettrice che ho conosciuto bene solo con questa inchiesta: N.T., capelli cortissimi e sguardo fulminante. Ci sono poi altri giovani volti: l’elenco dei loro nomi sarebbe lungo. Altri, giovani e meno giovani poliziotti e poliziotte, sono rimasti a Milano: domani eseguiranno le perquisizioni previste. Tra loro, un’altra tosta funzionaria, Giuseppina Suma, che in quei mesi sta portando brillantemente avanti le indagini sulle cosiddette «nuo70

ve» Brigate Rosse tra Milano, Padova e Torino. Arresterà i «nuovi brigatisti», sotto la guida di Ilda Boccassini, all’inizio del 2007, ma domani, intanto, arresterà Marco Mancini nella sua abitazione di Ravenna. E ci sono anche i «ragazzi» della Digos di Roma di Lamberto Giannini: anche loro, qualche settimana prima, hanno fatto un contropedinamento a Roma a mia tutela. Quella volta, ne sono pressoché certo, c’era qualcuno dietro di me, ne ricordo bene il volto e la struttura fisica. Penso che prima o poi lo incontrerò di nuovo e potremo così presentarci: gli raccomanderò di muoversi in futuro con maggiore discrezione ed in modo meno riconoscibile. Domani, insieme ai carabinieri del colonnello Massi, «i ragazzi» arresteranno il generale Pignero e perquisiranno con me la vicina base del Sismi. Mentre la partita di calcio scorre davanti ai nostri occhi, penso che da ormai trent’anni frequento persone come queste e che da ognuna di loro ho ricevuto qualcosa di molto importante, sul piano professionale e su quello umano, specie nei momenti difficili. Chissà se sono riuscito a far capire loro quanto li senta a me vicini e quanto mi abbiano arricchito. Spacco un cellulare al secondo goal dell’Italia, ma ce ne andiamo a letto contenti per la vittoria. La mattina dopo, attorno alle 6.30, Megale e Giannini bussano alla sede del Sismi di via Nazionale: Pio Pompa apre la porta di un maxi appartamento di nove locali con molti computer, qualche letto ed armadi di fortuna in plastica e, soprattutto, tante carte sparse per ogni dove. Io e Piacente arriviamo pochi minuti dopo. Tornerò in seguito su queste carte, quando parlerò dei conflitti sollevati da Prodi contro la Procura ed il gip di Milano, ma sin d’ora posso dire che il contenuto della maggior parte del materiale sequestrato in via Nazionale (in cui, tra l’altro, venivano schedati in maniera spesso grossolana politici, magistrati ed associazioni), le modalità della sua raccolta e persino le valutazioni scritte dell’«analista» Pio Pompa (che si affannava, durante la perquisizione, a proclamarsi uomo «di sinistra») non depongono per la serietà delle attività che in quell’ufficio si svolgevano, né appaiono pertinenti alle competenze del Sismi previste dalla Legge n. 801 del 1977, secondo cui il Servizio «assolve a tutti i compiti informativi e di sicurezza per la difesa sul piano militare dell’indipendenza e della integrità dello Stato da ogni pericolo, minaccia o aggressione. Il Sismi svolge, inoltre, ai fini suddetti compiti di controspionaggio». 71

La stessa legge prevedeva, inoltre, che «il Sismi è tenuto a comunicare al ministro della Difesa e al Comitato di cui all’articolo 3 tutte le informazioni ricevute o comunque in suo possesso, le analisi e le situazioni elaborate, le operazioni compiute e tutto ciò che attiene alla sua attività». Il ministro della Difesa Parisi o il suo predecessore Martino sapevano che cosa c’era o si raccoglieva e faceva in via Nazionale? Se no, come mai nessuna autorità politica ha stigmatizzato l’accaduto ormai venuto alla luce? E come mai il Copaco, cioè il Comitato parlamentare di controllo sui Servizi segreti, pur avendone ricevuto copia dalla Procura di Milano, non si è mai pronunciato sulla liceità o meno di quelle schedature, o sulla loro conformità alle competenze del Sismi? A questo proposito, anzi, va detto pure che il 20 settembre 2006, cioè quando la vicenda del coinvolgimento del Sismi nel sequestro Abu Omar era ormai pubblica, fui anche convocato per un’audizione proprio di fronte al Copaco, che oggi ha cambiato nome grazie alla riforma approvata nell’agosto del 20078. Riferii ovviamente della perquisizione eseguita in via Nazionale a Roma e risposi alle domande dei parlamentari sul materiale che vi era stato sequestrato. E successivamente lo fece anche il pm di Roma. Ma verbali, carte, audizioni non sono stati sin qui sufficienti a determinare una pronuncia del Copaco. Le dichiarazioni dei funzionari del Sismi Intanto, il piano d’azione studiato con Pomarici – nove magistrati che interrogano quasi contemporaneamente una trentina di persone tra Roma e Milano – dà frutti importanti. Interrogato prima dal gip Manzi e poi da noi pm, Mancini rende dichiarazioni molto importanti per le indagini, che producono sviluppi nei confronti di altri suoi colleghi del Sismi. Non solo: Mancini consegna al giudice Manzi la registrazione che egli stesso aveva realizzato del suo colloquio con Pignero, in occasione dell’incontro avvenuto a Roma, in via Tomacelli, il 2 giugno del 8 Il controllo parlamentare sull’attività dei Servizi è oggi esercitato dal Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (art. 30), indicato con l’acronimo Copasir. Vedi anche Appendice, par. 1.

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2006 (quello filmato e fotografato dalla Digos di Roma). Che cosa ha dichiarato Mancini? Quali affermazioni sono state registrate in quell’incontro? Segreto di Stato. Il generale Pignero, interrogato dal gip l’11 luglio del 2006, nega ogni responsabilità sua e del Sismi nella preparazione o esecuzione del sequestro di Abu Omar. Decido di interrogarlo due giorni dopo, a Roma, ancora una volta nell’ufficio di piazza di San Lorenzo in Lucina del comandante del Reparto operativo dei carabinieri, Roberto Massi: qui Pignero cambia finalmente atteggiamento. Ricordo ogni momento di quell’interrogatorio. Conferma inizialmente la precedente versione, sia pure con qualche aggiustamento, ma rimane turbato quando gli riassumo il contenuto delle dichiarazioni di Mancini e gli mostro la trascrizione della loro conversazione del 2 giugno. Mi dichiaro disposto a fargliela ascoltare integralmente. Con voce flebile, l’alto ufficiale manifesta la sua incredulità e così spiega il suo precedente atteggiamento processuale: «Sono letteralmente allibito [...]. Io ho reso a Lei dichiarazioni sin qui in parte non veritiere solo perché l’ho voluto seguire [Mancini] nel suo desiderio di essere scagionato da qualsiasi sospetto o responsabilità». Interviene a quel punto Giulia Bongiorno, difensore di fiducia di Pignero, correttissima ed attentissima come in ogni altro momento della indagine preliminare. Invita il suo assistito a fare le precisazioni del caso prima di ascoltare la trascrizione del colloquio del 2 giugno, in modo che si possa apprezzare l’affidabilità della sua versione: «Questo è il mio consiglio da avvocato... Pensi a se stesso». E Pignero: «La scelta è notevolmente pesante ma mi rendo conto che devo compierla». Lo invito a riflettere sul senso del nostro rispettivo passato professionale che, per qualche anno, è stato comune: «Scusi se mi permetto di accostare la mia esperienza personale alla sua, abbiamo visto colleghi morire per il terrorismo... Quindi io e Lei sappiamo che la lotta contro ogni tipo di criminalità, in particolare contro il terrorismo, va fatta con la determinazione più forte, ma io, Generale, ho in mente l’immagine di Guido Galli steso nel corridoio dell’università con il codice in mano. Ha capito, Generale?». Il generale risponde: «Capito. Dottore... questa è una pietra miliare». Pignero rendeva allora dichiarazioni decisive per la successiva 73

incriminazione del generale Pollari, capo del Sismi. Quali? Segreto di Stato. In una pausa dell’interrogatorio, mentre Pignero sorseggiava affaticato un bicchiere d’acqua, ci siamo avvicinati ad una fotografia incorniciata che il colonnello Roberto Massi aveva su una mensola. Vi erano raffigurati i migliori ufficiali dell’Antiterrorismo dei carabinieri degli anni passati. Insieme al giovane Massi, tanti volti puliti e fieri: Alessandro Ruffino, Mimmo Di Petrillo, Enrico Cataldi, Eugenio Morini ed Umberto Bonaventura, un uomo che aveva speso la sua vita nella difesa delle istituzioni. Pur da direttore di divisione, però, era stato emarginato all’interno del Servizio, contemporaneamente all’ascesa di Mancini e di altri funzionari a lui vicini. Difficile capire come ciò sia potuto accadere. Non so se di fronte a quella foto, mentre ci guardavamo negli occhi senza necessità di molte parole, Pignero pensasse più a quell’esaltante e lontano passato o al peso di un’attualità che lo vedeva – carabiniere orgoglioso e fedele – accusato di un così grave delitto. Pignero morì di malattia due mesi dopo, l’11 settembre 2006. Avrei voluto parlargli ancora, ad inchiesta finita, senza più gli obblighi formali che ci erano imposti dalle rispettive posizioni. Non per sapere di più, ma per parlare ancora di Umberto Bonaventura. Le dichiarazioni e la voce di Pignero sono agli atti del dibattimento: impossibile non solo cancellarle ma – sembra – anche utilizzarle. Altri cinque funzionari del Sismi venivano successivamente interrogati come indagati e, in presenza dei loro difensori di fiducia, rendevano a loro volta dichiarazioni di enorme rilevanza per l’inchiesta. Quali? Segreto di Stato. Va doverosamente detto, tuttavia, che le nostre indagini non hanno consentito di provare che uomini del Sismi abbiano partecipato materialmente alla esecuzione del sequestro. Intanto, veniva sentito come persona informata sui fatti anche l’ammiraglio Gianfranco Battelli, direttore del Sismi fino al 15 ottobre del 2001, cioè fino alla nomina di Pollari. Pure lui forniva a Pomarici e a me importanti informazioni, peraltro senza opporre – come neppure gli indagati avevano sin qui fatto – alcun segreto di Stato. E certo, come ex vertice del Sismi, si può ragionevolmente supporre che, se un tale vincolo fosse esistito, ne sarebbe stato a conoscenza. Le sue dichiarazioni furono anche comunica74

te al Parlamento europeo che, come dirò, aveva chiesto alla Procura di Milano informazioni utili alla propria inchiesta sulle prassi delle extraordinary renditions. Ma che cosa aveva rivelato l’ammiraglio Battelli a noi pm? Segreto di Stato. Le dichiarazioni del generale Nicolò Pollari E Pollari? Quali le sue dichiarazioni? All’inizio di marzo del 2006, il generale Pollari aveva dichiarato a Bruxelles, dinanzi alla speciale commissione del Parlamento europeo, che il Sismi nulla aveva mai avuto a che fare col sequestro di Abu Omar e che nulla aveva appreso in proposito. Prima e dopo quella data – e da ultimo il 13 luglio del 2006 – aveva più volte manifestato a me e a Pomarici il suo compiacimento e ringraziamento per le modalità del nostro procedere investigativo: pur non esistendo alcun segreto di Stato sul sequestro di Abu Omar – aveva precisato – avevamo rispettato e salvaguardato le esigenze di riservatezza proprie della attività del Sismi. Ma dopo le dichiarazioni di Pignero che lo riguardavano, io e Pomarici gli facciamo notificare un invito a comparire come indagato: è accusato, anche per il suo ruolo di vertice assoluto del Sismi e di omologo di Jeff Castelli, di essere stato uno degli organizzatori del sequestro. Interroghiamo Pollari il 15 luglio nell’ufficio di Pomarici, alla presenza dei suoi avvocati di fiducia Franco Coppi e Titta Madia. Il direttore del Sismi non risponde alle domande: gli sarebbe impossibile farlo – egli afferma – senza violare segreti di Stato imposti dal precedente governo Berlusconi e confermati da quello attuale, presieduto da Prodi. Per la prima volta, attraverso le parole del principale indagato italiano, il segreto di Stato irrompe così sulla scena del caso Abu Omar. Non una parola sulla contraddizione tra tale atteggiamento e le precedenti dichiarazioni e lettere ufficiali alla Procura. Non una parola sui documenti sequestrati a Roma, il 5 luglio, in via Nazionale: schedari e rapporti su magistrati e politici italiani e stranieri, su giornalisti e libere associazioni di cittadini9. Non una parola da

9 La Procura di Roma ha indagato su questo materiale ed ha poi chiesto il rinvio a giudizio di Pollari e Pompa per peculato. Ma il processo è stato trasfe-

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parte di Pollari, quel giorno, neppure sul documento del Sismi datato 15 maggio 2003 (risalente cioè a circa tre mesi dopo la sparizione di Abu Omar), pure da noi sequestrato in via Nazionale, in cui si affermava – sulla base di informazioni provenienti dalla Cia – che Abu Omar era detenuto in Egitto e lì sottoposto ad interrogatori. Pollari avrebbe in seguito dichiarato che, senza il vincolo derivante dal segreto di Stato, avrebbe potuto spiegare il senso reale di quell’appunto e la effettiva provenienza delle informazioni che ne costituivano l’oggetto. Pomarici ed io ancora non sapevamo e neppure potevamo immaginare che, dopo qualche mese, il presidente del Consiglio Romano Prodi avrebbe sollevato dinanzi alla Corte Costituzionale conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato contro la Procura di Milano, avrebbe chiesto alla Corte di bloccare il processo e ci avrebbe implicitamente accusato di gravi irregolarità e reati.

rito per competenza a Perugia, poiché dai documenti sequestrati emergevano possibili reati in danno di magistrati romani. Anche dinanzi al pm di Perugia, come si dirà, Pollari e Pompa hanno opposto il segreto di Stato, ma il pm, all’inizio del 2010, ne ha chiesto il rinvio a giudizio.

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Il caso Tobagi

L’unico presidente del Consiglio da cui ero stato in precedenza altrettanto duramente attaccato era stato Bettino Craxi, nei primi anni Ottanta. Walter Tobagi fu ucciso il 28 maggio 1980, alle 11.10, in via Salaino, a poca distanza dalla sua abitazione, da cui era appena uscito per recarsi nel vicino garage e mettersi alla guida della sua macchina. Due terroristi gli avevano sparato. Walter Tobagi aveva trentatré anni ed era presidente della Associazione lombarda dei giornalisti. Durante la fuga, l’auto degli assassini si era scontrata con un altro veicolo, ma i killer erano riusciti egualmente a defilarsi ed a scomparire. L’omicidio fu rivendicato dalla Brigata 28 Marzo, sigla che aveva già fatto la sua comparsa nel panorama delle organizzazioni terroristiche: con quella stessa sigla, infatti, era stata rivendicata la «gambizzazione» del giornalista Guido Passalacqua, avvenuta a Milano il 7 maggio di quel tremendo 1980. Intorno alle 7 del mattino, i terroristi, fingendosi poliziotti, si erano introdotti nella sua abitazione e gli avevano sparato alle gambe. La denominazione del gruppo faceva riferimento alla data dell’irruzione dei carabinieri dell’Antiterrorismo nel covo di via Fracchia a Genova: nel conflitto a fuoco che ne era scaturito, erano stati uccisi i quattro brigatisti che vi abitavano1. 1 Si trattava di Lorenzo Betassa, Riccardo Dura, Piero Panciarelli ed Annamaria Ludman. La colonna veneta delle Br prenderà il nome di colonna Anna-

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L’omicidio avvenne lo stesso giorno in cui, dinanzi alla Seconda Corte d’Assise di Milano, iniziai la mia requisitoria finale nel processo Alunni: i terroristi esultavano nelle gabbie mentre, con il permesso del presidente, commemoravo Tobagi. Alle spalle della Corte, il mosaico di Mario Sironi del 1936 raffigurante La Giustizia armata con la Legge. L’indagine fu portata avanti dalla Sezione antiterrorismo dei carabinieri di Milano, guidata dagli allora capitani Umberto Bonaventura e Alessandro Ruffino, entrambi uomini di fiducia del generale dalla Chiesa. Ho già detto che si tratta di due tra i migliori investigatori che io abbia mai conosciuto: da entrambi ho imparato moltissimo. Fino a luglio del 2006 Ruffino ha anche diretto la sezione di polizia giudiziaria dei carabinieri della Procura di Milano. È lui che ha coordinato la prima fase delle indagini sull’inchiesta Telecom: partendo praticamente da zero, i suoi uomini hanno presto imboccato la pista giusta, che ha poi portato a risultati molto rilevanti. Ruffino è anche l’uomo che è stato vicino a me ed a Pomarici nella parte più delicata delle indagini sul caso Abu Omar, quella che ha condotto alla incriminazione di vari appartenenti al Sismi. I suoi consigli ci sono stati di grande aiuto. Una ferita ancora aperta Purtroppo, ancora oggi, a distanza di molti anni da quella tragedia, la doverosa commemorazione di Walter Tobagi, un giornalista di grande personalità e spessore umano, rinfocola periodicamente polemiche ed analisi del tutto prive di fondamento. È un caso passato alla storia – o almeno alla storia in cui molti credono ed altri fanno finta di credere – come un caso di ingiustizia, per una serie di supposte ragioni. La prima: la Procura di Milano avrebbe volontariamente trascurato alcuni elementi decisivi per individuare i supposti mandanti dell’omicidio, lasciati nell’ombra, accontentandosi di punire solo gli esecutori. La seconda: il principale protagonista di quell’omicidio, Marco Barbone, avrebbe goduto di un ingiusto trattamento di favore, nonostante fosse maria Ludman in onore della «compagna» deceduta a Genova. Era stato Patrizio Peci, il primo collaboratore delle Br, a rivelare ai carabinieri l’ubicazione del covo genovese di via Fracchia.

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chiara la sua reticenza. Anzi, l’autorità giudiziaria – ossia la Procura di Milano, ovvero io stesso – avrebbe stipulato una sorta di accordo con lui: una parziale confessione che tenesse al riparo i mandanti dell’omicidio in cambio dell’impunità della sua fidanzata di allora, Caterina Rosenzweig. Infine la terza, la più incredibile: i carabinieri del generale dalla Chiesa, pur venuti a conoscenza da fonte confidenziale della preparazione dell’attentato, nulla avrebbero fatto per impedirlo. Perché poi tutto questo sarebbe avvenuto, nessuno tuttora sa spiegarlo, come se si trattasse di un irrilevante ed inutile interrogativo. Tengo a dire, invece, che queste sono vere e proprie menzogne, calunnie per me dolorose sul piano personale, poiché a suo tempo credute, in tutto o in parte, anche dal padre del giornalista ucciso e forse, in seguito, da altri familiari del giornalista. Lo dico con assoluto rispetto per i loro sentimenti e le loro convinzioni. Mi addolora non avere più la possibilità di parlarne con il papà di Walter Tobagi, Ulderico, scomparso nel 2005. Mi confortano, però, il sorriso e la stretta di mano che ho avuto la fortuna di ricevere da Benedetta Tobagi, impegnata nella realizzazione a Milano della Casa della Memoria, il luogo dove custodire il ricordo delle vittime di quelle tragedie. Purtroppo, però, le polemiche successive alla chiusura delle indagini e, poi, alla mite condanna degli assassini «pentiti», hanno fatto breccia nel paese, alimentando, in questo quarto di secolo, inattendibili ricostruzioni, sotto forma di libri, articoli e trasmissioni televisive, sull’omicidio di Walter Tobagi. Molti italiani, quindi, non solo tra coloro che conoscevano e avevano a cuore la vittima, tuttora si chiedono in perfetta buona fede se davvero le indagini prima, e il processo dopo, abbiano fatto chiarezza su ogni risvolto dell’omicidio. Ho spesso definito quest’insieme di interrogativi «non verità», ma le chiamo più propriamente «menzogne» quando penso a coloro che hanno sfruttato il tema dei presunti misteri dell’omicidio, mossi unicamente da interessi personali o politici. Anche se di costoro e della natura dei loro interessi non intendo curarmi, mentirei a me stesso se non dicessi, da pubblico ministero che diresse le indagini e rappresentò l’accusa nel pubblico dibattimento, quanto quelle polemiche e quelle insinuazioni mi abbiano segnato: non mi riferisco al piano professionale, che non può in alcuno modo essere scalfito quando si ha la certezza di avere 79

adempiuto fino in fondo il proprio dovere, ma al piano umano. Vorrei rispondere ad ogni domanda di tutti coloro che, in buona fede, credono all’esistenza di misteri inconfessabili o anche solo nutrono dubbi. Ripeterei, ancora una volta, che misteri, complotti e omissioni non vi furono. Solo questo vorrei raccontare basandomi sui fatti accertati. Ognuno degli interrogativi sollevati in questi anni, infatti, ha trovato risposta nelle decisioni dei giudici: basterebbe rileggere le sentenze, compresa quella di secondo grado, così ignorata dai commentatori, per pervenire finalmente a quelle certezze che giustamente si invocano. Ecco perché voglio tornare ancora una volta, con le parole che uso da anni, sulle ragioni di dubbio e sui presunti misteri: 1) non è vero che un confidente avesse preannunciato ai carabinieri il progetto di omicidio di Tobagi, rivelando persino i nomi di chi lo avrebbe eseguito. Né è vero che ufficiali dei carabinieri abbiano voluto occultare tali confidenze, addirittura punendo il sottufficiale che le aveva raccolte. Ma ne parlerò meglio più avanti; 2) non è vero che la spontanea confessione di Barbone sia stata oggetto di contrattazione alcuna: la sua compagna non aveva bisogno di alcun trattamento di favore poiché non aveva avuto alcun ruolo nell’omicidio e si era già da tempo allontanata da ogni attività illegale, come anche i complici di Barbone confermarono. E Barbone, dal canto suo, si limitò a chiedere al generale dalla Chiesa, come già aveva fatto Peci prima di lui, solo un impegno diretto per il varo di una più efficace legge in favore dei terroristi «pentiti», auspicata anche da tutti i magistrati ed investigatori che si occupavano di terrorismo; 3) non è vero che vi siano stati mandanti occulti dell’omicidio o che qualcuno abbia suggerito ai terroristi il testo del volantino di rivendicazione. Chi lo crede ignora o dimentica che due dei componenti della 28 Marzo (compreso Barbone) erano figli di giornalisti o di professionisti del mondo dell’editoria, che il gruppo da tempo aveva come obiettivo il mondo dell’informazione e che furono ampiamente individuate le fonti delle loro conoscenze: a casa del collaboratore furono sequestrate le riviste di settore da cui erano state tratte, spesso copiandone il testo, notizie e frasi contenute nel documento di rivendicazione. È vero, invece, e questo è probabilmente l’argomento da cui altri interrogativi sono nati, che l’entità della pena inflitta a Barbone e ad altri pentiti, così come la libertà provvisoria concessa loro, sconcertò la pubblica opinione. Ma si trattava delle conseguenze di una 80

legge «a tempo», votata dal Parlamento senza praticamente obiezioni, che servì a salvare decine (o centinaia?) di vite umane e che azzerò il terrorismo. Ne ho chiesto l’applicazione anche per gli assassini dei miei colleghi e maestri Alessandrini e Galli: lo rifarei anche oggi per qualsiasi collaboratore del calibro di Barbone che, dopo Peci e Sandalo e prima di Viscardi e Savasta, contribuì a disarticolare il terrorismo. In particolare, tra i cosiddetti «grandi pentiti», Barbone fu l’unico, come dirò più avanti, a svelare quell’universo eversivo, certo non meno pericoloso delle Br e di Prima Linea, che affondava le sue radici nell’«Autonomia organizzata» e da cui erano nati molti gruppi armati. A tutti coloro che, in buona fede, dubitano dei risultati della inchiesta vorrei anche dire che vi sono fortunatamente molte pagine fulgide nella storia delle indagini sul terrorismo e che una di queste è proprio quella dell’inchiesta Tobagi, condotta dai più leali e preparati uomini del generale dalla Chiesa, un altro martire di questa Repubblica. Ma a dalla Chiesa e ad alcuni dei suoi uomini – penso al generale Bonaventura – non è più dato di potersi difendere da ombre e sospetti: ecco perché la verità che affido fiducioso a chi voglia conoscerla onora la memoria di Walter Tobagi, ma anche di tutti coloro che furono uccisi per la loro fede nella democrazia e per il modo in cui interpretavano il proprio ruolo professionale. Le ragioni per cui Walter Tobagi, Emilio Alessandrini e Guido Galli sono uniti nel mio ricordo, a trent’anni dal loro sacrificio, stanno tutte nelle identiche motivazioni dei loro omicidi. Essi furono uccisi unicamente per la qualità del loro impegno professionale e civile. Cercherò di spiegarmi meglio. Ho già ricordato come, a poche ore di distanza dall’omicidio di Emilio, da pm appena trentenne cui le indagini erano state affidate, ricevetti nella mia abitazione la visita di amici e maestri come Gerardo D’Ambrosio e Gigi Fiasconaro, che con Alessandrini avevano lavorato all’inchiesta su Piazza Fontana. Era forte il loro timore che, per inesperienza, potessi trascurare la pista dei «Servizi deviati». Sembrava impossibile, a loro, a tutti, che un’organizzazione sia pure eversiva come Prima Linea, che si autodefiniva «di sinistra», potesse colpire un uomo come Emilio, che dell’ansia di progresso e della democrazia era simbolo riconosciuto, non solo all’interno della magistratura. Li ascoltavo attento, ma pensavo anche che erano forse loro a trascurare l’ipotesi che la fol81

lia di quegli anni stesse producendo una strage degli uomini migliori, di quelli cioè – e cito quasi a memoria i lugubri proclami che imparammo a conoscere – che con la loro personale efficienza e con il loro riformismo conferivano credibilità alle istituzioni. Era, quella di D’Ambrosio e di altri, dunque, l’incredulità di tutti i congiunti e degli amici di tante vittime del terrorismo di sinistra, l’inconsapevole ed inespresso bisogno di attribuire le morti di Alessandrini, Galli, Tobagi e di altri ancora – da ultimi D’Antona e Biagi – a «menti raffinate», a complotti istituzionali invece che, come in effetti era, alla folle ideologia di una folle stagione, che credo irripetibile ad onta della persistenza, nel tessuto sociale, di palesi disuguaglianze tra i cittadini. Le indagini L’omicidio di Walter Tobagi si colloca nel periodo storico in cui il terrorismo di sinistra era ancora in piena attività, pur se si andavano manifestando i primi atteggiamenti di collaborazione. Patrizio Peci e Roberto Sandalo avevano iniziato a collaborare: due «pentiti» fondamentali, l’uno per colpire le Br, l’altro per colpire Prima Linea. Ma l’area della cosiddetta Autonomia e degli altri gruppi armati che ne erano scaturiti era ancora fuori dal panorama delle nostre conoscenze. Ci fu subito chiaro, però, non appena l’omicidio Tobagi venne rivendicato, che esso non era riconducibile né alle Brigate Rosse, né a Prima Linea. Fu il giovane capitano Sandro Ruffino ad indirizzare i primi passi dell’indagine verso aree diverse da quella delle due principali organizzazioni terroristiche conosciute, muovendo dall’analisi comparata dei documenti di rivendicazione della Brigata 28 Marzo e di altri documenti dello stesso tipo, seppur a firma diversa. In particolare, notammo che gli argomenti utilizzati dalla Brigata 28 Marzo per rivendicare l’omicidio Tobagi ed il ferimento di Guido Passalacqua erano simili a quelli che comparivano nelle rivendicazioni, questa volta a firma Guerriglia Rossa, di alcuni attentati incendiari o dinamitardi commessi un anno prima contro automezzi adibiti alla distribuzione di quotidiani e contro un’agenzia pubblicitaria milanese: in tutti quei documenti, infatti, si faceva riferimento al ruolo dell’informazione nel sistema di potere ed alla necessità di colpire giornalisti e giornali che ne sarebbero stati parte. Inoltre, identiche erano le modalità di diffu82

sione dei volantini di rivendicazione degli attentati a firma Guerriglia Rossa e Brigata 28 Marzo, tutti spediti per posta ordinaria, con gli indirizzi dei destinatari (redazioni di giornali e singoli giornalisti) vergati a mano sulle buste. Logico ipotizzare, insomma, che Guerriglia Rossa e Brigata 28 Marzo fossero sigle riconducibili a un identico programma «politico» e, probabilmente, allo stesso gruppo di persone. La grafia che compariva sulle buste spedite per rivendicare gli attentati a firma Guerriglia Rossa fu poi comparata con quelle di lettere e documenti trovati nei vari covi scoperti ed ovviamente custoditi negli archivi dei carabinieri. Si trattava, cioè, dello stesso tipo di comparazione che io e Galli avevamo personalmente condotto per identificare le grafie dei quaderni sull’uso di esplosivi sequestrati nella base di Alunni in via Negroli. E proprio il materiale sequestrato in quel covo doveva rivelarsi decisivo per l’ulteriore sviluppo delle indagini sull’omicidio Tobagi. Ruffino scoprì, infatti, che la particolare grafia con cui erano stati scritti gli indirizzi sulle buste spedite per la rivendicazione degli attentati a firma Guerriglia Rossa era identica (non vi fu neppure bisogno di una perizia) a quella di un documento che era stato trovato anch’esso, nel settembre del 1978, nel covo di Alunni di via Negroli: si trattava di una bozza di un documento di rivendicazione – a firma Squadre armate proletarie – di una rapina di armi commessa in danno di due vigili urbani in via Colletta a Milano. Fu possibile anche attribuire quella grafia a Marco Barbone: un campione era stato acquisito dai carabinieri nel corso delle indagini in precedenza svolte sulla sua fidanzata Caterina Rosenzweig, con la quale lui viveva. La giovane, a suo tempo, era stata arrestata e poi condannata per partecipazione a un attentato commesso nel marzo del 1978, nel Varesotto, ai danni della Bassani Ticino. Tra l’altro, anche il documento di rivendicazione di quel gesto era stato trovato nel covo di Alunni. La grafia di Barbone ci parve, dunque, inequivocabilmente identica a quella del documento di rivendicazione della rapina e a quella con cui erano stati vergati gli indirizzi sulle buste diffuse per rivendicare gli attentati a firma Guerriglia Rossa. Viste le contiguità o identità di programma già individuate tra questa sigla e la Brigata 28 Marzo, Barbone poteva anche avere avuto a che fare con entrambe. Scattarono così le indagini su Barbone: intercettazioni telefoniche e pedinamenti. Le possibilità di 83

proseguire le investigazioni, però, si attenuarono subito, fin quasi a sfumare, a causa della partenza di Barbone per Albenga, dove iniziò a prestare il servizio militare di leva. Solo nei fine settimana, quando lui tornava a Milano, potevamo sperare di ricavare qualcosa di utile. Proprio mentre l’indagine delicata, mirata e copertissima era in corso, il generale dalla Chiesa – quale direttore del Nucleo speciale interforze costituito ad agosto e ovviamente al corrente dei particolari dell’indagine – venne convocato per un’audizione di fronte alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo. Gli vennero ovviamente poste alcune domande sull’omicidio Tobagi, fatto di cui si discuteva molto sulla stampa. Dalla Chiesa, confidando sulla segretezza dei lavori, rispose che, secondo le valutazioni sue e dei suoi uomini, gli autori non erano appartenenti alle Brigate Rosse, ma costituivano probabilmente un gruppo di persone provenienti dall’area dell’Autonomia, vicine alle Fcc di Alunni. Non parlò delle indagini sulle grafie, né fece il nome di Marco Barbone come principale sospettato, ma le sue valutazioni finirono sui giornali. «L’Espresso», in particolare, pubblicò nel settembre dell’80 un articolo in cui, con grande rilievo, si affermava che, per individuare i responsabili dell’omicidio Tobagi, i carabinieri stavano lavorando sull’area delle Fcc di Alunni. La pubblicazione della notizia ci gettò assolutamente nel panico: Barbone avrebbe potuto facilmente intuire che le indagini si stavano concentrando su di lui o sull’area di cui faceva parte. Decidemmo allora di accelerare i tempi e di compiere una mossa azzardata. Avevamo già fatto fare una perizia che aveva confermato le nostre conclusioni sulla grafia di Barbone. Ritenevamo di avere la prova della sua responsabilità per la rapina oggetto della bozza di rivendicazione trovata nel covo di Alunni. Piuttosto che farcelo scappare, decidemmo di procedere alla sua cattura per quel reato. Barbone venne così arrestato con l’accusa di essere responsabile della rapina e partecipe della banda armata che l’aveva rivendicata. L’ordine di cattura da me emesso – all’epoca il pm poteva farlo – era datato 29 settembre del 1980 e fu eseguito il giorno dopo. La perquisizione effettuata nell’abitazione di via Solferino diede esito negativo. Le prove, dunque, erano ancora relativamente deboli. 84

La confessione di Marco Barbone Andai ad interrogarlo nella caserma di Porta Magenta dei carabinieri, in via Tolentino, nei pressi della Fiera campionaria di San Siro: come avremmo appreso successivamente, la caserma era stata oggetto di un attentato dinamitardo compiuto proprio da Barbone ed altri membri delle Fcc nel gennaio 1978. Avevo disposto che Barbone vi venisse detenuto prima del trasferimento in carcere. Allora queste accortezze erano possibili e si rivelarono spesso utili. Non perché permettessero pressioni indebite di qualsiasi natura sui terroristi, ma perché – in quel modo – si evitava che entrassero subito in contatto con l’ambiente carcerario e, in un modo o nell’altro, con altri terroristi detenuti. Si poteva così disporre di qualche giorno, di un certo margine di tempo, nella speranza che si innescassero fenomeni di autocritica e, grazie anche agli interrogatori formali condotti dai magistrati, spinte alla collaborazione processuale. Il suo difensore era Marcello Gentili, uomo ed avvocato di grande serietà professionale e rigore civile. Barbone negò tutto, compreso il fatto di avere scritto il volantino di rivendicazione della rapina. A quel punto, prima della fine dell’interrogatorio, senza alzare gli occhi dalla macchina da scrivere, gli comunicai che doveva considerarsi «indiziato» anche per l’omicidio di Walter Tobagi, per il ferimento di Guido Passalacqua e per gli attentati a firma Guerriglia Rossa. Furono le ultime mie parole prima di chiudere il verbale. Barbone rimase visibilmente scosso e mi chiese le ragioni di quella comunicazione giudiziaria. Con un’uscita volutamente sibillina, gli risposi dicendo soltanto: «Lei lo sa bene». Chiudemmo il verbale e me ne andai. Un paio di giorni dopo al massimo, Barbone chiese di parlare personalmente con dalla Chiesa. Finito il colloquio, il generale ci disse che Barbone aveva deciso di collaborare, di confessare l’omicidio di Walter Tobagi ed altri gravi reati. Aveva chiesto in cambio solo l’impegno del generale dalla Chiesa per la propria sicurezza (se e quando fosse stato scarcerato) e per l’approvazione di una legge in favore dei pentiti, una legge più incisiva di quella in vigore, che pure aveva spinto Peci a collaborare. Già se ne discuteva nel paese: la nuova legge fu poi approvata nel maggio del 1982. 85

Il 4 ottobre, dunque, insieme all’avvocato Gentili, mi precipitai a interrogare Barbone: davanti a noi si spalancò un orizzonte del tutto sconosciuto. Se Peci aveva parlato delle Br e Sandalo di Prima Linea, Barbone, pur giovanissimo, si rivelò una miniera di informazioni: molto intelligente, dotato di una memoria di ferro ed estremamente preciso nei suoi racconti e nella collocazione temporale dei fatti. Un’altra fonte dello stesso livello di precisione l’ho trovata, forse, soltanto in Antonio Zagari, collaboratore di mafia e ’ndrangheta nella prima metà degli anni Novanta. Ma Barbone era anche consapevole della necessità di riferire fatti, nomi e persone lasciando poi ai giudici il compito di formulare valutazioni e trarne conclusioni giuridiche. Nessuna forzatura da parte sua, dunque. Rammento, ad esempio, che un giorno Elena Paciotti, un giudice di eccezionale livello che aveva chiesto di essere trasferita al settore penale dopo l’omicidio di Guido Galli – e che per questo era stata criticata da qualche magistrato «garantista» –, lo stava interrogando in mia presenza. Lei era il giudice istruttore del processo a Prima Linea e stava giustamente «rivisitando» tutte le dichiarazioni rese dal collaboratore al pubblico ministero. Ad un certo punto, dopo che Barbone aveva riferito quanto a lui noto circa le attività di un altro imputato, il giudice Paciotti gli pose una domanda più o meno di questo tenore: «Ma faceva parte della banda armata o no?». E Barbone le rispose: «Giudice, io posso dirle tutto quello che lui ha fatto. Poi spetta a voi decidere se la sua condotta costituisce o meno il reato di banda armata». Tra il 4 e il 10 ottobre, tutti gli altri cinque componenti della Brigata 28 Marzo, responsabili dell’omicidio Tobagi e del ferimento Passalacqua, vennero arrestati: erano Paolo Morandini, Daniele Laus, Francesco Giordano, Mario Marano e Manfredi De Stefano. Barbone rivelò che lui e Marano avevano sparato a Tobagi, Giordano aveva fatto da copertura, Laus aveva guidato l’auto con cui tutti erano fuggiti. Morandini e De Stefano erano stati gli «avvistatori» di Tobagi, con il compito di avvertire i complici nel momento in cui il giornalista fosse uscito di casa. L’autocritica politica di Barbone, a giustificazione della sua scelta di dissociazione attiva, fu anch’essa molto puntuale e la utilizzai successivamente per convincere altri terroristi a collaborare: 86

devo dire che in generale la lotta armata in Italia non ha prodotto nulla dal punto di vista degli obbiettivi politici che si proponeva [...]. Ha invece prodotto numerosi guasti nella vita sociale; un imbarbarimento della vita civile e politica, uno smarrimento della capacità della classe operaia di essere soggetto politico. In questa revisione critica ha ripreso forza in me la preoccupazione verso l’aspetto umano e quindi doloroso del fenomeno nel suo complesso. Il cinico «si spara sulla funzione e non sull’uomo» si è rivelato nella sua piena e tragica miseria. Con questo non intendo spendere parole di ipocrisia, frutto del momento in cui mi trovo, ma solo riportare alla dimensione umana una pratica che questa dimensione aveva smarrito. In virtù di questa premessa, per me rigorosa e necessaria, dichiaro che ho deciso di dire assolutamente la verità sul mio passato e sui fatti criminosi di cui sono stato protagonista e testimone; ciò faccio superando l’aspetto doloroso di parlare di persone e di fatti che hanno costituito il centro del rapporto umano con tanti compagni.

Barbone aveva meno di ventidue anni quando sparò il colpo di grazia a Tobagi, ma aveva militato, ancora giovanissimo, nell’Autonomia e nelle Brigate Comuniste: fu proprio lui a rivelare a me e a Corrado Carnevali, dopo Carlo Fioroni, il livello clandestino dell’associazione diretta da Toni Negri. Ne illustrò la ferrea gerarchia, indicandone i vertici in Lombardia in Negri stesso, Alunni (leader militare), Antonio Marocco, Franco Tommei, Gianfranco Pancino, Raffaele Ventura e Roberto Serafini. Il racconto di Barbone, in pratica, iniziava dove era finito quello di Fioroni e smentiva anch’esso la tesi dello spontaneismo armato. Quando Alunni uscì dalle Brigate Comuniste, Barbone lo aveva seguito nelle nuove Formazioni comuniste combattenti, nate nell’estate del ’77 e la cui storia pure ci descrisse. E ci parlò pure del gruppo distaccatosi dalle Fcc, i cosiddetti Reparti comunisti d’attacco di Antonio Marocco. Costui, a sua volta già figura di primo piano delle Brigate Comuniste, era stato arrestato il 1° febbraio 1979 a Bagnolo Cremasco insieme a Daniele Bonato, dopo una sparatoria in cui aveva ferito due carabinieri. Evaso, Marocco entrerà poi nelle Brigate Rosse, o meglio nella fazione Br-Partito Guerriglia, diventando un importante collaboratore dopo il suo ulteriore arresto. Barbone descrisse anche il periodo degli stretti «rapporti di collaborazione» tra Fcc e Prima Linea, indicando i responsabili dei numerosi episodi di sangue rivendicati a firma congiunta dal87

le due organizzazioni, nonché i componenti del «comando unificato» che era stato costituito in vista di una possibile fusione: Alunni, Barbone stesso, Sergio Segio, Nicola Solimano, Barbara Azzaroni, Sergio D’Elia, Susanna Ronconi e Stefano Ceriani Sebregondi. Si trattava di coloro che stavano dietro ai «travet della tibia», come erano stati definiti i responsabili di tre «azzoppamenti» commessi in quattro giorni a Milano, nel 1978, e rivendicati a firma congiunta Pl-Fcc. Barbone parlò anche del cosiddetto «Progetto Metropoli», facente capo a Piero Del Giudice, e tracciò, insomma, una panoramica di tutta l’area milanese del terrorismo, in cui aveva operato tra il 1974 e l’arresto. Solo delle Brigate Rosse Barbone sapeva ben poco, nonostante stesse tentando di stringere contatti con loro sin dallo sfaldamento delle Fcc conseguente all’arresto di Alunni ed alle indagini di Guido Galli: egli personalmente aveva fondato Guerriglia Rossa prima e la Brigata 28 Marzo dopo, nella quale, ci disse, erano confluiti spezzoni di altre organizzazioni: oltre a Morandini e Laus, pure provenienti da Guerriglia Rossa, erano entrati a farne parte Franco Giordano e Mario Marano, ex membri delle Unità combattenti comuniste di Guglielmo Guglielmi, e Manfredi De Stefano, che prima militava nei Reparti comunisti d’attacco. Il ferimento di Passalacqua, ma soprattutto l’omicidio Tobagi, ci spiegò Barbone, dovevano essere veri e propri biglietti da visita da esibire per entrare nelle Br: questo era l’obiettivo della Brigata 28 Marzo. Barbone, in sostanza, ci consentì con le sue dichiarazioni di penetrare in ogni organizzazione terroristica diversa dalle Br e di operare centinaia di arresti. Si spiega come Fabrizio Calvi, uno scrittore e giornalista francese che ha da sempre seguito il terrorismo italiano, abbia così sintetizzato gli effetti della collaborazione di Marco Barbone: «Fuori dalla caserma dei carabinieri di Porta Magenta, regnava la tranquillità, era una notte scura ed i primi veli di nebbia cominciavano ad avvolgere la città, subdoli. Milano stava per essere travolta da una nuova, grande retata antiterroristica, l’ultima. Dieci anni di lotta armata nella capitale lombarda stavano per concludersi»2. 2 Fabrizio Calvi, Ragazzi di buona famiglia. La Brigata 28 Marzo e l’omicidio Tobagi, Piemme, Casale Monferrato 2008.

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Le confessioni degli altri Degli altri cinque responsabili dell’omicidio Tobagi, solo Morandini iniziò subito a collaborare. Mi diede l’impressione, che conservo tuttora, di una persona incapace di comprendere le tragedie che, insieme ai complici, aveva provocato. Ricordo anche l’incredulità dei suoi genitori, prima dell’interrogatorio, forse convinti – come tanti intellettuali di sinistra all’epoca – di avere a che fare con un altro episodio di ingiusta persecuzione politica. Paolo Morandini prima negò, affermando di non avere nulla a che fare con l’omicidio e con gli altri arrestati, ma non appena gli feci presente che Barbone stava collaborando cambiò atteggiamento in pochi secondi, confessando a sua volta e confermando in toto le dichiarazioni del complice. Dal tranquillo diniego di responsabilità a una altrettanto tranquilla confessione, così, come se stessimo parlando di una partita di calcio. Finito l’interrogatorio, i suoi genitori erano disperati, così come i familiari di Barbone. Il padre di Barbone, una figura di rilievo nel campo dell’editoria, mi sembrò preda di un ingiustificato senso di colpa, quasi avesse contribuito, con la sua cultura di intellettuale, al formarsi della personalità criminale del figlio, diventato terrorista. Conservo ancora una sua lettera, scritta alla fine del dibattimento, dopo che la giuria era entrata in camera di consiglio, e fattami recapitare prima che se ne conoscesse la decisione: contiene parole ispirate da consapevole dignità e fiducia nelle istituzioni. Le parole che più mi colpirono furono quelle che Donato Barbone riservava al ruolo della magistratura: «non la prestazione a ore di un inanimato corpo burocratico-poliziesco, ma dedizione totale, concreta, efficiente ed idealistica, al servizio di una collettività non astratta, ma fatta di mille volti, ciascuno con la sua storia, le sue mire, i suoi errori e i suoi sogni». Dopo le confessioni decisive di Barbone e di Morandini, confessarono anche De Stefano3 e Laus. Quest’ultimo, però, sempre durante la fase istruttoria, ritrattò inutilmente la sua confessione e, per accreditarsi quale ritrovato «combattente», aggredì il giudice istruttore, durante un interrogatorio, con un punteruolo. Il 3 Manfredi De Stefano morirà il 6 aprile del 1984, nel carcere di Udine, per cause naturali.

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quadro probatorio, dunque, era altamente rassicurante e con quattro confessioni su sei imputati lo sarebbe stato per ogni tipo di processo. Invece, già al termine dell’istruttoria, cominciarono ad agitarsi le prime polemiche da parte di esponenti politici del Psi e dell’organo di stampa ufficiale del partito, «Avanti!». L’esplodere delle polemiche L’accusa rivoltami era, in sintesi, di avere omesso di indagare in direzione dei mandanti dell’omicidio, da individuarsi nell’area cattolica di sinistra ed in quella comunista che si riconoscevano nella corrente maggioritaria del sindacato dei giornalisti, Rinnovamento. Tobagi se ne era staccato nella seconda metà del ’78 dando poi vita alla corrente Stampa democratica, caratterizzata da una più ampia pluralità di posizioni dei suoi componenti. A quanto pare, l’ala comunista e quella cattolica di sinistra del sindacato, presenti nella corrente Rinnovamento, avevano per questo osteggiato Tobagi (nel frattempo eletto presidente dell’Associazione giornalisti della Lombardia) e ciò bastava – secondo alcuni socialisti – per ipotizzare che vi si annidassero i mandanti del suo omicidio. Ma nella richiesta di rinvio a giudizio di Barbone e compagni, non avevo certo glissato sulla questione ed avevo scritto: con l’omicidio Tobagi [...] si scatenano le analisi, i giudizi categorici, le polemiche [...]: ognuno ha la sua verità e [...] quando la verità arriva da Marco Barbone, c’è anche chi non si accontenta (e sin qui non ci sarebbe da stupirsi, anzi!), chi non è soddisfatto e grida alla menzogna ed alle coperture accordate da qualcuno [...] a qualcun altro. Tutto questo perché la storia di Barbone sembra quella, è stato detto da qualcuno, dei «ragazzi di una via Pal» tutta milanese! È invece, una storia significativa nella sua ininterrotta continuità, a suo modo agghiacciante, perché potrebbe essere la storia di qualsiasi studente, in qualsiasi città, in qualsiasi momento venuto a contatto con la cultura della violenza e della sopraffazione [...]. È soprattutto una storia che potrebbe dire tanto, o forse tutto, a chiunque avesse il coraggio di interrogare ed interrogarsi sul succedersi degli eventi di matrice terroristico-eversiva degli ultimi anni nel paese, sull’ambiguità di certi atteggiamenti di parte della cultura (o pseudo tale), di parte della stampa, ispirati al giustificazionismo ad oltranza. 90

Insomma, un conto era discutere di eventuali responsabilità morali e culturali e del modo in cui certi intellettuali avevano vissuto la stagione del terrorismo in Italia, un altro era parlare di mandanti in senso tecnico. Tanto più che i carabinieri avevano svolto indagini anche in quella direzione, in particolare all’interno del mondo del sindacalismo giornalistico. Dopo le confessioni di Barbone e compagni, quella pista – che già non aveva dato alcun risultato – era stata ovviamente abbandonata. Ma quelle mie parole resero addirittura più violenta la polemica, che raggiunse toni di vero e proprio insulto nei miei confronti, con reiterazione di perfidi sospetti sulla mia onestà professionale. Nel corso del dibattimento di primo grado, anche Marano e Giordano, gli altri due componenti della Brigata 28 Marzo, ammisero le proprie responsabilità, alimentando in modo ambiguo, però, l’ipotesi di collusione di Barbone con supposti mandanti a loro sconosciuti. Era evidente il loro scopo di fare da sponda alle polemiche in corso fuori dell’aula del processo e così porre in dubbio la complessiva e dimostrata credibilità di Marco Barbone. Le polemiche sui mandanti, che i due in qualche modo avevano avallato, trovarono dunque nuova linfa e la querelle divenne praticamente incontrollabile. Anzi, si inasprì ulteriormente quando, alla fine del dibattimento di primo grado, dopo che si era dimostrata in aula l’assoluta inconsistenza di ogni ipotesi di misteriose collusioni, chiesi per Barbone e gli altri collaboratori l’applicazione della legge speciale in favore dei pentiti, inclusa la libertà provvisoria che essa consentiva. Il 28 novembre del 1983, la Seconda Corte d’Assise di Milano, condannò Barbone a otto anni e sei mesi di reclusione, riconoscendogli le attenuanti previste dalla legge e concedendogli la libertà provvisoria. Stessa sorte per Paolo Morandini. Dunque, era stato riconosciuto che Marco Barbone aveva detto tutta la verità, in modo inequivoco. Apriti cielo: nuovi insulti, questa volta insopportabili, partirono in mia direzione dall’«Avanti!» e da alcuni personaggi di spicco dell’allora Partito socialista. La campagna diffamatoria nei miei confronti non si arrestò neppure quando, durante il dibattimento in grado d’appello, Marano e Giordano fecero marcia indietro rispetto all’iniziale ambiguità, affermando a chiare lettere che la verità dei fatti era quella descritta da Barbone. Anche Laus ritornò a collaborare, confermando ogni particolare delle sue dichiarazioni. Marano, addirit91

tura, era diventato dal giugno del 1984 un collaboratore in senso tecnico, rivelando la storia delle Unità comuniste combattenti fino al proprio ingresso nella Brigata 28 Marzo e facendo arrestare molte altre persone a Milano, Roma e Firenze. Rocco Ricciardi e la verità sulle sue confidenze Il dibattimento d’appello, peraltro, servì a smentire altre falsità ed a svelare la strumentalizzazione di un’altra storia parallela, quella del postino di Varese Rocco Ricciardi, arrestato nel 1981 a seguito delle dichiarazioni di Barbone e di Fortunato Balice. Ricciardi, prima di essere arrestato e di diventare collaboratore processuale, era stato confidente dei carabinieri. Occorrono pazienza e un passo indietro, però, per spiegare questa ingarbugliata vicenda. Ben prima che Barbone venisse arrestato e parlasse di Ricciardi, quest’ultimo era stato individuato dai carabinieri come possibile appartenente al gruppo del Varesotto legato a Corrado Alunni. In presenza, però, di meri sospetti, Ricciardi era stato solo perquisito, su mio ordine, nella primavera del 1979. La perquisizione lo aveva preoccupato. Apprendemmo in seguito da lui, quando divenne un collaboratore, che poco prima aveva partecipato a una rapina e che era stato ferito con un colpo d’arma da fuoco: si era così «autocongelato» e stava attraversando un periodo carico di tensioni e ripensamenti. I carabinieri che lo avevano perquisito, in particolare il brigadiere Dario Covolo, soprannominato «Ciondolo», intuirono il suo stato d’animo, riuscendo a stabilire un rapporto umano con lui. Ricciardi divenne così un confidente del brigadiere, mai un «infiltrato». Barbone, che lo conosceva solo come «Rocco di Varese» e che aveva perso da tempo ogni contatto con lui, lo accusò di essere stato un membro delle Fcc, ma non sapeva del suo ruolo di confidente. Neppure io e Galli lo sapevamo: la legge consente alle forze di polizia di tacere alla magistratura l’identità delle fonti confidenziali. Di fronte all’ordine di cattura emesso contro di lui, i carabinieri mi fecero presente che Ricciardi era un loro confidente e che, a seguito dell’arresto del novembre dell’81, aveva deciso di venire allo scoperto e di diventare un collaboratore processuale. E così avvenne. In un primo momento, tuttavia, pur rivelando quanto a sua conoscenza, aveva voluto tacere il suo trascorso ruo92

lo di confidente. Ciò per ovvie ragioni. Un conto è dire: «sono stato arrestato, divento collaboratore, guardo in faccia il mio destino e quelli che accuso», altro è ammettere il ruolo di traditore occulto di compagni ed amici. Tanto più che Ricciardi, da confidente, aveva determinato un’operazione importantissima: i carabinieri dell’Antiterrorismo avevano arrestato in un locale di Como, il 27 maggio del 1979, ben sette esponenti delle Fcc rimasti liberi dopo la «caduta» di Alunni4. Alcuni erano in quell’occasione armati e con documenti falsi. Ad un certo punto della sua collaborazione, Ricciardi decise tuttavia di rivelare anche di essere stato un confidente dei carabinieri. Fu una scelta determinata anche dal fatto che improvvisamente, riattizzando la polemica relativa all’omicidio Tobagi, l’onorevole Bettino Craxi aveva pubblicamente dichiarato, nel giugno del 1983, mentre erano in corso sia il dibattimento di primo grado che la campagna elettorale, di essere in possesso di un documento comprovante che i carabinieri, grazie a un innominato confidente, erano stati a conoscenza della preparazione da parte di Barbone dell’omicidio di Tobagi. Ciononostante, se ne deduceva, non avevano fatto alcunché per impedirlo. Il documento non fu consegnato al pm o alla Corte d’Assise: in tal caso la bufala si sarebbe sgonfiata in brevissimo tempo. Solo dopo la conclusione del dibattimento, si seppe che il confidente era Rocco Ricciardi, il postino di Varese. Non credo che se il generale dalla Chiesa fosse stato ancora vivo qualcuno – Craxi compreso – avrebbe avuto il coraggio di accusare i suoi uomini, e indirettamente anche lui, di essere coinvolti in complotti e misteri o anche solo di essere incorsi in una così grave omissione. Ma, «assente» il generale, la vicenda Ricciardi venne sfruttata da alcuni socialisti per alimentare le loro non verità: non solo essa gettava inquietanti interrogativi sul comportamento dei carabinieri, ma dimostrava che Barbone non era stato affatto un importante collaboratore e che, dunque, aveva goduto immeritatamente dei benefici previsti dalla legge! 4 Si trattava di Fabio Brusa, Francesca Bellerè, Luca Colombo, Massimo Battisaldo, Tonino Orrù, Sandra Piroli e Roberto Carcano. Quasi tutti, nel 1984, si dissoceranno dalla lotta armata e con un gesto collettivo, dando le indicazioni per ritrovarle, «consegneranno» molte armi che avevano nascosto nel Varesotto, segno tangibile del loro distacco autocritico dal passato.

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Le cose – naturalmente – non stavano affatto così e Ricciardi stesso aveva ben spiegato come i fatti si erano realmente svolti. Attorno al novembre-dicembre 1979, cioè, egli aveva rivelato ai carabinieri di essersi incontrato con un certo Pierangelo Franzetti, all’epoca esponente dei Reparti comunisti d’attacco. Costui gli aveva raccontato che i Rca stavano progettando un’azione da compiersi a Milano. Non gli aveva detto altro. Ricciardi riferì ai carabinieri, da confidente, quanto appreso da Franzetti, ipotizzando che il piano potesse essere quello di un attentato ed aggiungendo che, in passato, le Fcc avevano pensato a Walter Tobagi. Parlò, in particolare, di un progetto di sequestro del giornalista, risalente al febbraio o all’inizio del 1978, elaborato e poi abbandonato dalle Fcc di Corrado Alunni. Nel 1978, il gruppo di Barbone non esisteva ancora. E non esisteva neppure nel 1979, quando Ricciardi rivelò questa storia, che, dunque, egli non pose in alcun modo in relazione con Barbone o con la non ancora costituita Brigata 28 Marzo. Ricciardi aveva solo formulato una sua ipotesi, che cioè Franzetti e i Reparti comunisti d’attacco, provenienti dalle scompaginate Fcc di Alunni, volessero riesumare il progetto di un’azione contro Tobagi. Pur in presenza di una mera ipotesi, i carabinieri avevano subito attivato dei servizi di osservazione nei pressi dell’abitazione di Tobagi per individuare eventuali terroristi che ne stessero studiando le abitudini. Visto l’esito negativo di quei servizi, l’ipotesi di Ricciardi era stata giustamente ritenuta infondata. A Walter Tobagi, peraltro, come confermato dall’ex ministro dell’Interno Virginio Rognoni e dalla vedova del giornalista, era stata anche proposta la protezione personale, che egli aveva rifiutato. Sei mesi dopo, nel maggio 1980, un altro gruppo, cioè la Brigata 28 Marzo – non collegata alle ormai disciolte Fcc o ai Reparti comunisti d’attacco, né coinvolta nel progetto di sequestro dell’inizio del 1978 – uccise il giornalista. Né Ricciardi, né Franzetti vi ebbero alcun ruolo o sapevano alcunché dell’azione in preparazione. Tutto questo Ricciardi aveva dettagliatamente spiegato anche nel giugno del 1985, durante il processo d’appello, e lo stesso Franzetti, rimasto un «irriducibile», aveva reagito contro le insinuazioni che lo riguardavano, rifiutando ogni accostamento con l’omicidio e confermando di non aver mai parlato con Ricciardi di un progetto contro il giornalista. 94

La sentenza di secondo grado del 7 ottobre del 1985, della Corte d’Assise d’Appello di Milano, di tutto questo si occupò, facendo giustizia di ogni ipotesi fantasiosa, negando ogni possibile mistero sulla tragica fine di Tobagi, così come l’esistenza di mandanti dell’omicidio e di notizie confidenziali che lo avessero preannunciato. Fu confermata la sentenza di primo grado e, anzi, furono concessi sconti di pena anche ai nuovi «pentiti» Laus e Marano. Anche la Cassazione confermò le stesse conclusioni e il procuratore generale elogiò sia le indagini che la correttezza delle valutazioni dei giudici di Milano. In una situazione normale, tutto questo avrebbe potuto determinare legittime critiche a sentenze con cui indubbiamente erano state irrogate pene esigue ai responsabili di un omicidio, anche se ciò era avvenuto in ossequio ad una legge eccezionale ed «a tempo». Lo aveva rilevato anche Leo Valiani, che pure mi aveva pubblicamente manifestato la sua stima. Ma avvenne ben altro: sia dopo la sentenza di primo grado che nel periodo successivo, fui destinatario di contumelie e offese gravissime, mai ritrattate neppure dopo la sentenza di secondo grado. L’«Avanti!», quotidiano ufficiale del Psi, nell’ambito di una vera e propria campagna d’attacco personale, scrisse di tutto: fui accusato di parzialità, di avere contrattato l’impunità di un’imputata assassina (la fidanzata di Barbone) e il trattamento di favore dei pentiti in cambio del loro silenzio sui mandanti dell’omicidio (senza spiegare, ovviamente, per quale ragione avrei dovuto farlo), di avere offeso i sentimenti dei parenti della vittima, di avere assunto decisioni aberranti e violato i miei obblighi di pubblico ministero, di avere chiuso gli occhi su tutto ignorando deliberatamente le risultanze processuali, di avere ucciso una seconda volta Tobagi. Se mi avessero accusato di corruzione, non sarei stato ferito altrettanto profondamente. Ovviamente, si moltiplicarono interrogazioni parlamentari ed esposti al Csm. Il processo contro i diffamatori Fui così costretto, alla fine del dibattimento di primo grado, a querelare per diffamazione gli autori di una trentina di articoli: i deputati Ugo Intini, Salvo Andò e Paolo Pillitteri, nonché un giornalista e il direttore responsabile dell’«Avanti!», il quotidiano su cui gli articoli erano stati pubblicati. Respinsi anche un garbato 95

tentativo di mediazione di Adolfo Beria d’Argentine, che mi propose di accettare che fosse un «giurì d’onore» a giudicare della diffamazione o meno: non vedevo alcuna ragione per derogare alla giustizia ordinaria. I due avvocati che nominai miei difensori di fiducia mi furono molto vicini sul piano umano prima ancora che su quello tecnico: uno era Lodovico Isolabella di Milano, monarchico convinto e cattolico; l’altro il calabrese Fausto Tarsitano, all’epoca uno dei massimi esperti del Pci nel settore giustizia, storico difensore a Roma di tante parti civili nei processi di terrorismo (dalla famiglia del brigadiere Lombardini, ucciso ad Argelato dall’organizzazione capeggiata da Toni Negri, ai familiari dei poliziotti della scorta dell’onorevole Moro, uccisi in via Fani), nonché avvocato della Cgil e dell’«Unità». Entrambi uomini di solida fede democratica e di profonde convinzioni etiche. Il processo per diffamazione in mio danno fu l’occasione per il rafforzamento della mia amicizia con ciascuno dei due e per far nascere quella tra loro. Una reciproca e solida stima che i due avvocati hanno coltivato negli anni, nonostante la loro diversa estrazione, finché Fausto ci ha lasciato, nel febbraio del 2009. Avevo nominato Tarsitano su suggerimento di un collega romano che lo stimava profondamente e perché, attraverso le cronache, ne apprezzavo le posizioni politiche sui temi della giustizia. La nomina di Isolabella aveva, invece, una ragione anomala e particolare: certamente lo avevo ammirato come avvocato per il suo scrupolo professionale, ma mi piaceva perché trattava rudemente giudici e pubblici ministeri. Proprio per questo e dal suo modo di fare avevo ricavato la certezza che fosse quel che effettivamente è: un uomo libero. Qualche tempo prima avevo anche appreso un illuminante episodio che lo riguardava, risalente agli anni Settanta e al periodo in cui egli assisteva spesso le famiglie dei sequestrati. In occasione di un sequestro di persona, doveva recapitare ai banditi la somma di un miliardo, concordata come riscatto per la liberazione del rapito. I sequestratori gli avevano dato precise istruzioni: viaggiare lungo l’autostrada da Milano a Genova, alla guida di una Fiat 500 ed a bassa velocità, con il miliardo a bordo. Loro lo avrebbero affiancato ed obbligato a fermarsi solo quando fossero stati sicuri dell’assenza della polizia. Ma famiglia, avvocato e sequestratori non sapevano che la telefonata concernente quell’accordo era stata intercettata. Così, anche le vetture 96

della polizia si alternavano quella notte nel seguire la 500 di Isolabella, e a bordo di una di esse c’era Pomarici. Probabilmente, i banditi scoprirono la presenza degli investigatori perché non si fecero vedere; Pomarici, quindi, diede ad un certo punto disposizioni per fermare Isolabella: la macchina della polizia, ovviamente non riconoscibile come tale, affiancò la 500 ed obbligò l’avvocato ad entrare in un’area di servizio a pochi chilometri da Genova. Isolabella, tesissimo e convinto di trovarsi finalmente di fronte ai sequestratori, si fermò nel parcheggio, scese dalla 500 e solo allora, nella notte buia, vide Pomarici che, uscito dall’altra vettura, avanzava verso di lui. Lo colse prima un moto di stupore, poi – caduta la tensione – uno di rabbia: a denti stretti e furioso, guardò il magistrato e dopo un attimo di silenzio lo mandò a quel paese. Enrico mi ha sempre detto che, a sua volta inviperito per l’esito dell’operazione e sorpreso per la reazione dell’avvocato, pensò prima di arrestarlo per oltraggio, poi di rispondergli per le rime, ma alla fine scoppiò a ridere e, scusandosi, lo abbracciò. Diventarono amici. Anche quella storia mi aveva convinto che, semmai ne avessi avuto bisogno, Lodovico sarebbe stato il mio avvocato. I nostri rapporti si sono rafforzati negli anni: mi ha anche mostrato la sua stupenda e commovente collezione di storici documenti della Grande Guerra. Ma tramite Lodovico ho avuto anche la fortuna di conoscere Enzo Biagi, il grande giornalista alla cui memoria, ancora nel 2008, il Comune di Milano ha deciso di non assegnare l’Ambrogino d’oro, cioè la massima onorificenza cittadina: una scelta del centrodestra compatto, sia pure con il rammarico del sindaco. Immagino con quale distaccata ironia Biagi avrebbe commentato questa farsa milanese. Per inciso, lo stesso premio è stato attribuito il 7 dicembre del 2009 al suo collega Maurizio Belpietro, che non credo possa vantare meriti maggiori di Biagi. Quanto al processo per diffamazione, l’avvocato Dino Felisetti, responsabile del settore giustizia del Psi e difensore degli imputati, aveva affermato durante il suo svolgimento che i suoi clienti-deputati avrebbero chiesto al Parlamento di concedere l’autorizzazione a procedere a loro carico per potersi finalmente difendere in aula. Insieme ai miei avvocati ero molto scettico circa questa loro dichiarata volontà. Che, in effetti, non si manifestò fuori dall’aula del Tribunale. Vi fu invece battaglia in Parlamento, i socialisti si opposero, ma alla fine la richiesta di processare i parla97

mentari venne accolta. Felisetti dichiarò che ciò era stato possibile «incredibilmente [...] grazie ad un colpo di mano del quale sono stati protagonisti il gruppo Pci ed i franchi tiratori della maggioranza»5. Si sprecarono, già allora, le accuse di contiguità politica tra sinistra parlamentare e magistratura. Isolabella e Tarsitano furono entusiasmanti nelle loro arringhe e mi restituirono l’onore: alla fine del novembre del 1985, il Tribunale di Roma condannò i querelati a pene varie (Intini a tre mesi di reclusione, gli altri a pene pecuniarie) ed al risarcimento danni nei miei confronti. Solidarietà ai «diffamanti» condannati ed all’«Avanti!» fu manifestata da Giuliano Vassalli, Claudio Martelli, Giuliano Amato, Massimo Cacciari, Lucio Colletti, Federico Fellini, Stefano Folli, Pio Marconi, Valentino Parlato, Bruno Vespa, Gianni Baget Bozzo ed altri ancora6. Molte manifestazioni di solidarietà, però, furono destinate anche al diffamato: ricordo quelle di monsignor Antonio Riboldi (vescovo di Acerra), del professor Angelo Ventura, di Padova, uno dei primi «gambizzati» italiani, di Enzo Biagi, di Rognoni e Spadolini, di numerosi cittadini sconosciuti di cui conservo le lettere. Centodieci avvocati milanesi, prevalentemente penalisti, sottoscrissero un documento di sostegno che mi consegnarono l’11 dicembre. Intini e gli altri condannati proposero appello per essere assolti ma la Corte d’Appello di Roma, nel 1987, su richiesta degli stessi avvocati degli imputati, applicò ai reati l’amnistia nel frattempo intervenuta, dichiarandoli quindi estinti, ma confermò il risarcimento danni. La Cassazione a dicembre dello stesso anno confermò questa sentenza, respingendo i ricorsi degli imputati, dichiarati inammissibili. Ma i fatti vengono ancora ignorati e le polemiche sono tuttora aperte: libri ed interventi di personaggi di varia estrazione e di dubbia serietà continuano ancora ad alimentare ipotesi di inconfessabili misteri. Ed il rituale si ripete ad ogni commemorazione del giornalista, fin quasi ad oscurare il ricordo della statura professionale ed umana di Walter Tobagi. Renzo Magosso, un giornalista autoproclamatosi esperto del terrorismo di quegli anni, ri5 6

«Avanti!», 28 novembre 1985. «Avanti!», 2 dicembre 1985.

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prese nel 2003, in un libro7, la vicenda delle supposte rivelazioni di Ricciardi. Altrettanto fece nel giugno del 2004 in un articolo pubblicato sul settimanale «Gente»: questo bastò ai deputati Ugo Intini (uno dei condannati per diffamazione, poi amnistiati), Valter Bielli (componente della Commissione Pellegrino, di cui parlerò in seguito), Marco Boato (membro della Bicamerale di infausta memoria), Giuliano Pisapia e Alfredo Biondi per formulare l’ennesima interrogazione parlamentare sulla vicenda, in un vano tentativo di riattivazione del circuito dei misteri irrisolti. Ed io mi ritrovai a dover rispondere, ancora una volta, a ventiquattro anni di distanza dai fatti, con comunicati stampa e dichiarazioni in difesa della verità. Nel settembre del 2007, Magosso venne condannato dal Tribunale di Monza per diffamazione nei confronti degli ufficiali dei carabinieri Ruffino e Bonaventura, avendo avallato la falsa ricostruzione dei fatti in base alla quale si attribuivano ai due investigatori omissioni e responsabilità di altro genere. Ma la sua condanna venne bollata dall’Ordine dei giornalisti della Lombardia e dal suo presidente pro tempore Franco Abruzzo come ingiusta e lesiva della libertà di stampa. L’equivoco, dunque, continuava. Un anno dopo, nel settembre del 2008, il Tribunale di Monza condannò per la stessa diffamazione anche l’ex brigadiere dei carabinieri Dario Covolo, dalle cui ambigue dichiarazioni sul contenuto delle confidenze del Ricciardi Magosso aveva preso le mosse per i suoi interventi. Ed anche in questo caso altri parlamentari, questa volta sei radicali eletti nel Pd (prima firmataria Elisabetta Zamparutti), presentarono l’ennesima fulminea interpellanza al presidente del Consiglio ed ai ministri della Giustizia, dell’Interno e della Difesa, sollevando sempre gli stessi interrogativi sull’omicidio Tobagi sulla base di supposti nuovi elementi. Nel febbraio del 2009, con l’ultima interrogazione in ordine di tempo, lo ha fatto anche Renato Farina-Fonte Betulla, ormai assiso sullo scranno parlamentare: anche questa volta la richiesta riguardava la necessità di portare alla luce le ormai ultranote informative redatte dall’ex brigadiere Covolo. La condanna per diffamazione di Magosso e Covolo è stata confermata all’inizio di novembre del 2009 dalla Corte d’Appello di Milano: subito dopo, si 7 Roberto Arlati e Renzo Magosso, Le carte di Moro, perché Tobagi, Franco Angeli, Milano 2003.

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rinnovava l’ormai prevedibile rituale delle dichiarazioni scandalizzate di gente che non ha mai studiato le carte del processo. Si è ora in attesa della decisione della Cassazione. Pure Claudio Martelli decise di ritornare sulla scena: nel 2004, da giornalista ormai lontano dalla politica, mi telefonò spiegandomi che stava preparando una trasmissione televisiva dedicata a Tobagi e che desiderava raccogliere una mia intervista. Ero scettico poiché Martelli, pur da me non querelato, era stato uno dei protagonisti delle polemiche sollevate a suo tempo dall’«Avanti!». Accettai, comunque, di incontrarlo. Martelli esordì dicendomi di aver compreso che le polemiche degli anni addietro erano probabilmente ingiuste e che era sua intenzione realizzare un servizio-verità sul caso Tobagi. Gli rilasciai così una lunga intervista. Poi, con una certa delusione da parte mia, la trasmissione non fu coerente con le assicurazioni di Martelli, che continuò ad avallare l’idea del complotto e dell’inspiegabile salvataggio di Caterina Rosenzweig, la fidanzata di Barbone. Dopo la trasmissione mandai una email a Martelli, dicendogli che mi avrebbe fatto piacere parlargli, non per protestare, ma soltanto per capire come mai avesse cambiato idea rispetto a ciò che mi aveva detto. Non ho ricevuto risposta. E qualcosa di analogo avvenne con una trasmissione curata da Gianni Minoli, in cui si continuava ad avallare il sospetto di una contrattazione tra Barbone ed i pubblici ministeri. Avevo accettato di rilasciare un’intervista a Raffaella Cortese e Marco Melega, sempre nella speranza di far conoscere la verità. Niente da fare neppure quella volta. La ricostruzione di Minoli fu per me deludente. Ormai ho rinunciato a spiegare i fatti e continuo solo a coltivare ogni possibile contatto privato con le persone che hanno il diritto – o sentano la necessità – di conoscere la verità (così come quello di non credere alle mie parole). Sono contatti che servono anche a me per tornare a ragionare su quegli anni. Benedetta Tobagi, ad esempio, mi ha fatto riflettere sul rapporto tra magistrati e collaboratori in quegli anni. Certo non siamo mai venuti meno al dovere di ricerca della verità storica dei fatti e dei famosi «riscontri» alle confessioni che via via si accumulavano sulle nostre scrivanie. Ma forse abbiamo troppo enfatizzato nei nostri pubblici interventi le ragioni morali – comunque non trascurabili e spesso reali – del loro «pentimento». Forse le loro scelte furono prevalentemente dettate dalla prospettiva di una forte riduzione delle 100

pene. Ma è certo che la nostra difesa servì a fronteggiare immorali campagne di denigrazione nei confronti di quelle persone e a favorire l’estendersi del fenomeno della collaborazione attiva che, a sua volta, consentì di salvare molte vite umane. Benedetta Tobagi ha scritto un bellissimo libro sul suo papà8. Mi ha invitato a presentarlo a Milano, seduto al suo fianco, guardando in prima fila, davanti a me, la mamma Stella e il fratello Luca. Il loro dolore non potrà certo placarsi, come quello di ogni vittima di simili tragedie. Spero solo che di alcune verità siano certi: nessuna impunità è stata concessa ad alcuno, nessun colpevole è rimasto sconosciuto e la vita di Walter non si è spenta per leggerezza istituzionale o – peggio – per inconfessabili segreti, ma per la follia cui può arrivare la mente umana. Le ultime due pagine del libro di Benedetta, una lettera a suo padre, sono tra le più commoventi che abbia mai letto. Le ultime due righe sono semplici e dicono tutto: «Papà, questo libro è la mia rosa per te. Per te, come tutte le cose importanti. Con tutto il cuore». Le ultime due parole della dedica con cui Benedetta mi ha donato il libro hanno permesso invece alle mie ferite di rimarginarsi. Le dimissioni dei componenti togati del Csm Infine, un ricordo che non riguarda solo me, ma l’intera magistratura e che non mi pare marginale nella ricostruzione della vicenda del processo Tobagi: pochi giorni dopo che, come ho ricordato, il Tribunale di Roma aveva riconosciuto il carattere diffamatorio nei miei confronti di molte accuse contenute negli articoli dell’«Avanti!», Bettino Craxi, nella sua qualità di presidente del Consiglio dei ministri, dichiarò ai tg che egli faceva proprie, parola per parola, tutte le affermazioni ed i giudizi che avevano determinato la condanna dei «compagni» socialisti9. Le dichiarazioni di Craxi aprirono una pagina delicatissima sul piano istituzionale: alcuni componenti del Csm, il 4 dicembre 1985, chiesero, a termini di regolamento, che l’argomento fosse posto all’ordine del giorno dell’assemblea plenaria. Ancora una 8 Benedetta Tobagi, Come mi batte forte il tuo cuore. Storia di mio padre, Einaudi, Torino 2009. 9 Cfr. anche «Avanti!», 28 novembre 1985.

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volta, «si trattava di trovare il punto di equilibrio tra la tutela dell’indipendenza della funzione giudiziaria ed esercizio del diritto di critica da parte di parlamentari o, come ora, da parte di chi riveste anche la carica di presidente del Consiglio». Ma presidente della Repubblica era da pochi mesi Francesco Cossiga, il quale, con una nota diretta al Csm, pose il veto alla discussione, rivendicando il suo potere di formulazione dell’ordine del giorno e preannunciando un messaggio su ruolo e poteri del Csm10. Ne seguirono le dimissioni di tutti i membri togati, alcuni dei quali (ricordo Raffaele Bertoni e Giovanni Tamburino) me le anticiparono telefonicamente, commossi e consapevoli di essere tra i protagonisti di un episodio mai verificatosi nella storia del Csm. Nella lettera individualmente indirizzata al capo dello Stato, ciascuno dei consiglieri aveva scritto: «ritenendo di non poter continuare ad adempiere le mie funzioni ed in primo luogo quella di garanzia della autonomia e della indipendenza dell’Ordine giudiziario, Le comunico le mie immediate dimissioni dal Consiglio superiore della magistratura»11. Il presidente della Repubblica, intanto, aveva ribadito il suo veto alla trattazione dell’argomento sotto qualsiasi aspetto. Ma da più parti, a livello istituzionale, vennero rivolti inviti ai membri togati perché ritirassero le dimissioni. Il che effettivamente avvenne pochi giorni dopo. Sulla vicenda era anche intervenuto l’ex presidente della Repubblica, Sandro Pertini: «Io non ho mai fatto e detto nulla che riguardasse il Consiglio superiore della magistratura, senza avere prima ascoltato il Consiglio medesimo»12. Un commento sobrio, misurato e significativo.

10 Così ricordano l’episodio Edmondo Bruti Liberati, che di quel Consiglio era componente, e Livio Pepino in Autogoverno o controllo della magistratura? Il modello italiano di Consiglio superiore, Feltrinelli, Milano 1998. 11 Cfr. «Notiziario CSM», 19, 15 dicembre 1985. 12 Giorgio Rossi, Presto il Parlamento discuterà la vicenda, in «la Repubblica», 6 dicembre 1985.

VIII

Il sequestro di Abu Omar/3: il governo Prodi e le prime reazioni all’indagine sul Sismi

Quali erano stati, invece, i commenti ed i comportamenti del governo Prodi alla notizia dell’avvenuta incriminazione del direttore e di altri funzionari del Sismi per concorso nel sequestro di Abu Omar? Si tratta di reazioni che sono state già analizzate da Gianni Barbacetto, ma che, con il consenso dell’autore, riproducendo quasi integralmente un suo articolo1, vale la pena di ricordare anche qui. C’è un processo, a Milano, attorno a cui si sta combattendo una «guerra di civiltà». È il processo per il sequestro dell’ex imam Abu Omar, rapito il 17 febbraio 2003, portato nella base Usa di Aviano e poi rinchiuso in un carcere egiziano, dove è stato per molti mesi torturato [...]. Ma la «guerra di civiltà» che si combatte attorno a questo processo non è quella tra Occidente e islam [...]. Bensì tra chi intende conservare la civiltà giuridica della legge uguale per tutti e chi vuole invece la sospensione del diritto in nome dell’emergenza e della lotta al terrore [...]. Poche ore dopo [gli arresti e la perquisizione in via Nazionale del 5 luglio 2006], il governo Prodi diffonde un comunicato stampa di cinque righe: «Il governo ha assunto le dovute informazioni sul cosiddetto caso Abu Omar da parte delle strutture di intelligence nazionali che 1 Gianni Barbacetto, Prodi e Berlusconi contro l’Occidente, in «MicroMega», 4, 2008, pp. 56 e sgg. Gli incoraggiamenti di Gianni Barbacetto, tra l’altro, sono stati decisivi per la scelta di scrivere questo libro. Di questo voglio qui ringraziarlo.

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hanno ribadito la propria totale estraneità alla vicenda. Nel garantire, nel rispetto delle reciproche prerogative, la massima collaborazione alla magistratura per lo svolgersi dell’inchiesta in corso, il governo ribadisce la propria fiducia nella lealtà istituzionale delle strutture preposte alla garanzia della sicurezza nazionale».

Osserva Barbacetto: Il comunicato del governo italiano è costruito in modo curioso. Dice: abbiamo chiesto al Sismi se il Sismi fosse per caso coinvolto nel sequestro. Il Sismi ci ha risposto di no. Dunque gli ribadiamo la fiducia, pur garantendo massima collaborazione alla magistratura che avendo indagato sul Sismi dice esattamente il contrario [...]. Il 14 luglio 2006, nove giorni dopo l’arresto di Mancini, si apprende che per il sequestro è indagato anche il numero uno del Sismi, Nicolò Pollari. Ma in difesa del Servizio e del suo direttore si schierano decisamente molti politici, del centrodestra e anche del centrosinistra. Con il passare del tempo ed il deposito degli atti, diventano di dominio pubblico molti particolari sul coinvolgimento degli uomini del Sismi nella rendition all’italiana. Emerge il ruolo di Pio Pompa, «ombra» di Pollari, in operazioni di disinformazione e di dossieraggio a danno di politici, magistrati, giornalisti. Eppure il centrosinistra al governo sembra vittima della sindrome di Stoccolma: continua a tenere Pollari al suo posto. «Non esiste un caso Pollari», dichiara il ministro dell’Interno Giuliano Amato. Al massimo c’è la necessità di fare un’ennesima riforma dei servizi, ribadisce il viceministro all’Interno Marco Minniti. «Piena fiducia nei servizi fino a prova contraria», dice il presidente del Senato Franco Marini. «C’è un problema che la magistratura sta seguendo, aspettiamo come si sviluppa». Quando poi il ministro della Difesa Arturo Parisi cerca di spiegare il comunicato stampa del governo emesso tre giorni prima, riesce a duplicarne il gesuitico equilibrismo: «Il rilievo dei fatti che sono oggetto dell’indagine della magistratura chiede al governo la massima vigilanza, la massima collaborazione, il massimo rispetto per l’azione della magistratura. Allo stesso tempo, questa vigilanza, questa collaborazione e questo rispetto non sono incompatibili con la fiducia che il governo ha rinnovato e che rinnova verso le strutture preposte alla sicurezza dello Stato». Massimo D’Alema, vicepremier e ministro degli Esteri, l’11 luglio 2006 sostiene che bisogna fare piena luce, ma con «molta prudenza», 104

perché «non è nell’interesse del paese lo sfascio delle strutture di sicurezza, che sono sempre utili, ma in questo momento preziose». Occorre quindi «acclarare la verità senza distruggere una struttura utile alla protezione del nostro paese di fronte al terrorismo». Del resto, continua D’Alema, «al di là di responsabilità dei singoli, che devono essere accertate, io stesso sono testimone che il Sismi è una struttura altamente qualificata, che gode di prestigio internazionale. Non possiamo dimenticare, quando parliamo di eventuali coinvolgimenti nel caso di Abu Omar, dell’omaggio che tutti abbiamo reso a Nicola Calipari o all’azione del Sismi nella liberazione degli ostaggi, e che in questi anni ha svolto un’azione efficace di protezione del paese». In realtà, negli anni scorsi il Sismi ha servito in tavola anche qualche bufala, come una inesistente «scuola di kamikaze» a Milano2. Ma comunque i meriti acquisiti (il sacrificio di Calipari, la liberazione dei contractors italiani, di Simona Pari, di Simona Torretta, di Giuliana Sgrena) valgono come sconto o sanatoria per le illegalità eventualmente commesse? [...] L’11 luglio 2006, il sottosegretario alla Difesa Lorenzo Forcieri (Ds) dichiara solennemente al Parlamento: «In questa sede, assunte le necessarie informazioni, il governo allo stato non può che riaffermare l’estraneità del Sismi rispetto alla vicenda del rapimento di Abu Omar. Sul piano delle verifiche ufficiali e istituzionali fin qui svolte, nessun coinvolgimento e/o complicità nella vicenda in esame emerge da parte dell’Italia e delle sue istituzioni. Il governo non ha mai ceduto alla tentazione di procedere con metodi non convenzionali. Ciò vale anche per il Sismi che non solo si è dichiarato assolutamente estraneo al sequestro di Abu Omar, ma ha sempre categoricamente respinto l’accesso a prospettive non ortodosse». Il sottosegretario, a nome del governo, racconta al Parlamento che «il servizio segreto militare ha da subito escluso di aver saputo, prima che la notizia circolasse sui media americani, della pratica delle «extraordinary renditions». Forcieri recita la sua parte senza timore di cadere nel ridicolo [...] e rassicura il Parlamento e il paese: tutto regolare anche nell’ufficio di Pompa in via Nazionale. «Allo stato delle conoscenze, non si ha alcuna conferma né vi sono indicatori che autorizzino l’ipotesi di intercettazioni illegali e pedinamenti verso giornalisti da parte dei servizi segreti militari. Il Sismi, infatti, ha fatto conoscere di non avere eseguito alcuna attività di intercettazione né pedinamenti ai danni di giornalisti né di aver mai consentito ad alcuna at2 Della vicenda relativa alla fantomatica scuola per kamikaze alla quale allude Barbacetto mi occupo a p. 396.

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tività di questa natura e tipo». Dunque, «allo stato delle conoscenze, il governo non ravvede motivi per revocare in dubbio la fiducia accordata e confermata all’istituzione Sismi e a tutti coloro che in essa abbiano correttamente operato». La sindrome di Stoccolma in cui è caduto il centrosinistra sembra aggravarsi con il passare del tempo. «Conosco e stimo il generale Pollari da molti anni e credo che lui abbia considerazione per la mia persona in ragione della cooperazione istituzionale che abbiamo avuto in passato», dichiara D’Alema il 12 luglio 2006, dopo che Pollari aveva detto ai giornali di avere come punto di riferimento politico una strana coppia: Francesco Cossiga e Massimo D’Alema. «Escluderei che possa averlo detto, mi sembrerebbe un’indicazione alquanto sommaria», continua D’Alema, che conclude: «La vicenda del sequestro di Abu Omar deve essere gestita dal governo con la massima prudenza. Sono convinto che si possa conciliare la sicurezza del paese con l’accertamento della verità». Il 10 agosto 2006, il ministro della Difesa Arturo Parisi ribadisce, ecumenico, al «Corriere della Sera»: «Non solo Pollari, ma tutti i capi dei diversi settori, dal Sisde al capo della polizia, godono della fiducia del governo. Come potrebbe il governo lasciare alla guida di organismi così delicati persone che non godono della fiducia dell’autorità politica? Soprattutto di fronte a persone alle quali a livello internazionale viene riconosciuta una sicura competenza e una comprovata professionalità». Enrico Micheli, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio incaricato dei rapporti con i servizi di sicurezza, aggiunge che è «errato e pericoloso» parlare di «delegittimazione» dei servizi segreti o di «sicurezza a rischio». E che «i servizi segreti italiani sono attivamente impegnati, come sempre, nel contrastare le azioni terroristiche sia sul piano interno che su quello internazionale. La collaborazione sul piano interno e internazionale è resa evidente dai risultati, anche recentissimi, raggiunti grazie ai servizi italiani e nel pieno raccordo operativo con gli uffici della presidenza del Consiglio». Arturo Parisi riconferma la fiducia a Pollari il 1° settembre 2006, in un’intervista all’«Espresso»: «Quello che il governo conferma è anzitutto il riconoscimento del ruolo determinante dell’intelligence per la sicurezza del paese, imprescindibile soprattutto nelle operazioni di peacekeeping, e l’apprezzamento del prezioso lavoro svolto dal Sismi. Certo, un apprezzamento non scindibile da quello per le persone che lo svolgono e per chi ne è alla guida». Nelle telefonate intercettate, del resto, i protagonisti dello scandalo Sismi sembrano apprezzare i comportamenti del centrosinistra nei loro confronti. «Ieri è uscita quell’agenzia in cui D’Alema ringraziava pubblicamente Pollari, mandando un segnale durissimo», dice Pom106

pa il 9 giugno 2006. «Guarda che proprio l’ha ringraziato ufficialmente, guarda che è un segnale tosto!».

È ancora Barbacetto a rilevare che il governo di centrosinistra temporeggia, riconfermando per mesi la fiducia ai responsabili dei servizi che hanno prodotto questa situazione» e che pure hanno spiato e dossierato gli uomini del governo Prodi. Bisogna arrivare al 25 ottobre 2006 perché finalmente Micheli, davanti al comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti, cominci ad accennare al cambiamento dei vertici dei servizi. Ma «si tratterà di un cambiamento fisiologico, visto che si tratta di capi scelti dal precedente governo che sono in carica da cinque anni», garantisce il sottosegretario. Solo a fine novembre 2006 viene nominato un nuovo direttore del Sismi, però il cambiamento, fisiologico, viene annacquato nel ricambio generale con l’arrivo di nuovi direttori anche per Sisde e Cesis. E con sorpresa finale: Pollari è premiato con una bella nomina a consigliere di Stato, Pio Pompa viene destinato ad un incarico al ministero [della Difesa].

Fin qui Gianni Barbacetto ed il suo illuminante «diario». Per quanto mi riguarda, mille volte, dal 5 luglio 2006, mi sono chiesto che cosa avrebbe pensato di tutta questa kafkiana situazione Emilio Alessandrini. Mi veniva in mente proprio lui perché Emilio era dotato non solo di una mente raffinata, sempre piena di curiosità da soddisfare, ma anche di una inesauribile capacità di ironia ed autoironia. Non ho difficoltà ad immaginare quali sarebbero stati i suoi commenti sulle frasi di Pio Pompa, i comunicati stampa del governo Prodi e le dichiarazioni dei suoi esponenti. Ma neppure Emilio sarebbe mai arrivato ad immaginare ciò che la realtà ci avrebbe riservato: se in occasione dell’inchiesta sull’omicidio di Walter Tobagi ero stato accusato di oscuri patti con i mandanti e gli esecutori dell’attentato e di essermi rifiutato di ricercare la verità, con l’inchiesta Abu Omar l’accusa rivolta a Pomarici ed a me sarebbe stata sostanzialmente di segno opposto. Quella, cioè, di avere voluto cercare la verità a qualsiasi prezzo, anche a costo di violare supposti segreti di Stato. Anche contro – aggiungo io – una ragion di Stato ambigua e contraddittoria.

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IX

I falsi misteri di via Monte Nevoso

In un’altra occasione Pomarici ed io eravamo stati oggetto di una singolare accusa. Non di omissioni, questa volta, né di «invasioni di campo», ma di esserci lasciati infinocchiare dai carabinieri di dalla Chiesa a proposito della scoperta del covo di via Monte Nevoso, la principale base milanese della colonna Walter Alasia delle Brigate Rosse. Il titolare della inchiesta era Pomarici, a dire il vero, ma io, pur impegnato negli stessi giorni nella indagine scaturita dall’arresto di Corrado Alunni, lo affiancavo quando si rivelava utile o necessario. Insomma, ero il suo buon gregario ed allievo, comunque consapevole di essere stato catapultato nelle indagini più delicate di quel periodo. Ma come nacque e si sviluppò quell’inchiesta sulla Walter Alasia? Questi i fatti. Le indagini 1° ottobre 1978: i carabinieri del generale dalla Chiesa irrompono in vari covi milanesi della colonna Walter Alasia delle Br e arrestano nove persone. La base più ricca si rivela quella di via Monte Nevoso 8, dove vengono, tra l’altro, sequestrati documenti relativi all’«interrogatorio» dell’onorevole Moro durante la sua prigionia. Tra gli arrestati, l’intero vertice della Walter Alasia e, in particolare, Lauro Azzolini e Franco Bonisoli, capi delle Br a livello nazionale, che successivamente risulteranno essere stati componenti del commando che aveva agito in via Fani. La storica operazione dei 108

carabinieri era nata dal casuale rinvenimento su un autobus, a Firenze, il 28 luglio del 1978, di un borsello contenente una pistola, documenti delle Br, un mazzo di chiavi, il libretto di circolazione di un ciclomotore e una prescrizione medica. Attraverso il certificato, si accertò che il ciclomotore era stato venduto a Milano, da un concessionario della zona Lambrate, e attraverso la prescrizione si arrivò allo studio medico milanese che l’aveva rilasciata. Il concessionario e il medico riconobbero nella foto del latitante Azzolini il giovane che aveva acquistato il ciclomotore e frequentato lo studio. Il meccanico che lavorava nella concessionaria motociclistica indicò anche nella zona della vicina via Monte Nevoso quella da cui lo aveva visto più volte provenire in sella al ciclomotore. A quel punto i carabinieri, nottetempo, mettendo in campo marescialli e rispettive mogli, così da far credere a eventuali osservatori che si trattasse di coppie che rientravano a casa, iniziarono a provare le chiavi trovate nel borsello nelle serrature di tutti i portoni della zona. Una sera, finalmente, riuscirono ad aprire il portone dello stabile di via Monte Nevoso 8, dove poi fu trovato il covo. Organizzarono allora un servizio di appostamento e nelle ore successive, da quel portone, fu visto uscire il latitante Azzolini. I carabinieri acquisirono dal proprietario la disponibilità di un appartamento situato nel palazzo di fronte e da lì iniziarono a controllare i movimenti dei brigatisti al numero 8. Li seguirono, li videro incontrare altri complici, arrivarono a individuare altri covi, altre persone. Proprio mentre l’indagine si sviluppava, venne conferito a dalla Chiesa l’incarico di dirigere il neocostituito Nucleo speciale antiterrorismo. Negli stessi giorni, intanto, i quotidiani trattarono ampiamente dell’allontanamento dal soggiorno obbligato di Nadia Mantovani, la nota brigatista legata a Curcio, che si era resa clandestina. La giovane donna comparve in via Monte Nevoso: i carabinieri la videro, scoprendo così che si nascondeva proprio in quel covo milanese. Dalla Chiesa giunse a Milano quando l’indagine era praticamente completata, offertagli dai suoi uomini su un piatto d’argento. E la polizia giudiziaria – che, al contrario di quanto avviene oggi, non aveva l’obbligo di informare immediatamente il pubblico ministero – la sera del 30 settembre ne mise al corrente il procuratore della Repubblica Mauro Gresti, spiegando quello che sarebbe avvenuto l’indomani: apprendemmo, dunque, tutta la dinamica investigativa successivamente al suo sviluppo iniziale. La 109

mattina del 1° ottobre i carabinieri entrarono in azione per arrestare i brigatisti: vi furono sparatorie in varie parti della città. Vennero arrestati praticamente tutti i componenti della colonna Walter Alasia, tra cui Azzolini, Bonisoli e Mantovani. L’operazione portò alla scoperta di altri covi in via Olivari, via Pallanza, via Buschi e via Riccione. Mentre stava per entrare nel palazzo di via Pallanza, il capitano Alessandro Ruffino fu insospettito da un uomo, mai notato in precedenza, che usciva dal portone: corse dal portiere per chiedergli informazioni. Seppe così che abitava proprio nell’appartamento che interessava i carabinieri. Ruffino si precipitò fuori per fermare l’uomo, ma quest’ultimo fece fuoco con la pistola. Nella sparatoria che ne nacque il brigadiere Crisafulli venne gravemente ferito, ma lo sconosciuto fu catturato: era Antonio Savino, un altro brigatista latitante del livello di Azzolini e Bonisoli. I carabinieri non lo avevano mai visto nei mesi precedenti. I misteri fasulli La stampa si scatenò e subito entrò in circolazione la prima serie di misteri fasulli. Giorgio Bocca scrisse il 6 ottobre del 1978 su «Repubblica» che «a noi risulta che persone molto vicine al generale dalla Chiesa abbiano confermato l’arresto di Moretti...», così ipotizzando che i carabinieri e il generale avessero «evitato in pratica il controllo dei magistrati sull’indagine e sui documenti sequestrati». Dalla Chiesa smentì indignato e quando si diffuse la notizia che l’avvenuto arresto di Mario Moretti era stato tenuto celato per «segreto politico militare», Pomarici dichiarò: «Fantapolitica giudiziaria», spiegando come il segreto politico-militare possa essere applicato solo su documenti e non a fatti come gli arresti o i reati. Ventinove anni dopo avrebbe dovuto ripetere la stessa cosa a proposito del caso Abu Omar! Personalmente, mi recai nel covo di via Monte Nevoso uno o due giorni dopo la sua scoperta. Pomarici, che io e De Liguori aiutammo negli interrogatori dei nove arrestati, ci era andato dopo circa un’ora dall’irruzione. Ricordo di avere visto i carabinieri ancora al lavoro con molti reperti: non solo armi, ma anche una gran mole di documenti. Ricordo benissimo quella parete sotto la finestra che dava sulla strada, che ulteriori misteri avrebbe alimentato negli anni successivi, quando fu scoperto che celava un’intercapedi110

ne. Ma quella parete non venne allora sfondata: era ben difficile ipotizzare che potesse nascondere qualcosa. Anni dopo, nel 1990, la persona che aveva acquistato all’asta l’appartamento confiscato – le Br l’avevano infatti comprato – e che vi stava effettuando lavori di ristrutturazione, scoprì, proprio dietro quella parete, un’intercapedine che celava denaro, documenti e giornali dell’epoca. Si comprese solo allora perché, durante il processo celebrato a Roma per il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, i brigatisti detenuti, tra cui Azzolini e Bonisoli, avessero denunciato in aula che i carabinieri si erano appropriati di un’ingente somma in via Monte Nevoso. Il presidente della Corte d’Assise di Roma aveva mandato alla Procura di Milano gli atti relativi a quelle dichiarazioni e ricordo l’indignazione di Pomarici, che trattò pure questa vicenda, per il semplice fatto che si potesse pensare che i carabinieri si fossero appropriati di denaro. Ma proprio quell’accusa formulata in epoca non sospetta forniva la prova che i brigatisti, durante il processo, erano convinti che i carabinieri avessero sottratto denaro effettivamente custodito nel covo e non risultante dai verbali di sequestro. Successivamente, dopo il ritrovamento di soldi e documenti, Pomarici interrogò ancora sia Azzolini che Bonisoli, i quali tranquillamente confermarono di avere personalmente realizzato quell’intercapedine e di avervi nascosto esattamente quello che poi vi era stato ritrovato. E spiegarono che la «denuncia» fatta in aula, a Roma, riguardava proprio i soldi che essi avevano nascosto dietro quel muro: erano certi, infatti, che l’intercapedine fosse stata scoperta dai carabinieri. Pomarici dispose anche una consulenza, da cui risultò che il tramezzo era stato ricavato con materiali dell’epoca e che nessuno lo aveva rimosso. Quindi tutti gli elementi acquisiti, comprese le dichiarazioni dei brigatisti, deponevano per un’unica e inequivoca conclusione: i carabinieri erano incorsi, forse, in una leggera e scusabile colpa, quella di non avere scoperto quel doppiofondo, ma non vi erano misteri da svelare. Ma, nonostante le evidenze, il ritrovamento delle «carte di via Monte Nevoso» alimentò la caccia alla «manina» o «manona» – come si disse all’epoca – che, secondo le fantasie di politici e commentatori di ogni risma, le avrebbe rimesse nel suo originario nascondiglio, facendole ritrovare – non si comprende per quale ragione, anche se si parla ancora oggi di generiche finalità di destabilizzazione – a circa dodici anni di distanza dalla scoperta del co111

vo. Tra l’altro, nessun contenuto nuovo emergeva da quelle carte, rispetto ai documenti trovati nel ’78, neppure in relazione al caso Moro. Saltò fuori anche un sedicente carabiniere che, dichiarando in forma anonima di essere stato un infiltrato nelle Br, avvalorò l’esistenza di inconfessabili segreti: «L’Europeo» ne fece uno scoop rivelatosi alla fine una bufala grottesca. Nonostante proprio i brigatisti Azzolini e Bonisoli avessero pubblicamente smentito l’esistenza di qualsiasi mistero, Pomarici fu destinatario di accuse di ogni tipo, da quella di incapacità a quella di connivenza: una campagna segnata da ingiustificato livore. Cesare Salvi, all’epoca membro della segreteria del Pci, chiese che l’inchiesta fosse tolta a Pomarici e affidata ad altri magistrati in grado – evidentemente – di meglio garantirne l’efficacia. Il procuratore della Repubblica Francesco Saverio Borrelli gli rispose con un secco comunicato e io stesso ne diffusi uno di solidarietà al collega e ai carabinieri, denunciando «gli atteggiamenti di una classe politica che, salvo poche encomiabili eccezioni, strumentalizza a fini di parte ferite ancora aperte nella coscienza della gente». Ma anche Luciano Violante si inserì nella querelle. Poco dopo il ritrovamento delle carte, mi aveva telefonato chiedendomi di illustrargli la vicenda, sempre che non me l’impedissero segreti istruttori. Non ve n’erano e gli raccontai quindi le modalità casuali del rinvenimento dell’intercapedine e delle carte che vi si celavano dentro, ribadendo la mia incondizionata fiducia nei carabinieri. Avevano condotto una brillante indagine, non certo intaccata dal «neo» – spiegabilissimo – della mancata individuazione, nel 1978, dell’ormai famoso nascondiglio. Violante mi manifestò apprezzamento per le mie spiegazioni (le avrei ovviamente fornite a chiunque), che definì molto importanti per le sue valutazioni. Ma il 19 ottobre del 1990, appena uno o due giorni dopo il nostro colloquio, sulla prima pagina dell’«Unità», fu pubblicato un suo articolo dal titolo Il filo nero dei ricatti, che significativamente iniziava così: «Chi ha fatto rinvenire quei documenti non è un qualsiasi mercenario. È una persona o un insieme di persone che hanno agito per ottenere effetti politici. Potevano farli trovare in altro modo [...]. Hanno invece scelto una via difficile, ma pagante sul piano della confusione politica, che è evidentemente l’obiettivo primario che quel circolo di persone persegue». Immaginabile il seguito, in cui compare anche il riferimento al 112

«ruolo misterioso del generale dalla Chiesa nella vicenda». Il 25 ottobre successivo, scrissi una lettera a Violante, pregandolo di evitare per il futuro di telefonarmi e di esprimere fiducia nelle mie valutazioni. Violante mi rispose pochi giorni dopo affermando che circostanze emerse dopo il nostro colloquio avevano concorso «a rendere poco credibile che gli atti fossero lì da 12 anni». L’onorevole Violante era all’epoca vicepresidente del gruppo parlamentare del Pci. Pochi giorni prima, in un lucidissimo articolo, Virginio Rognoni, a proposito dei cultori della dietrologia, aveva parlato di un «quadro nevrotico che una parte non irrilevante della classe politica costruisce ed avvelena con le proprie mani, dimentica che la vera mazzata sulla vita del paese è stato il terrorismo a tentarla [...]. È stata ferita la Repubblica, ma si è anche ripresa; il terrorismo, quel terrorismo è finito. Solo un gioco mediocre può consentirgli ancora di colpire, inquinare e imbastardire la vita»1. La Commissione Terrorismo e stragi 27 gennaio 2000: a distanza di circa vent’anni, un consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo e sulle stragi presieduta dal senatore Giovanni Pellegrino deposita una relazione che alimenta vecchi e nuovi misteri. Il consulente è un giovane magistrato che in passato lavorava alla Procura di Brescia, Silvio Bonfigli. La sua relazione si fonda soprattutto sui seguenti rilievi: i carabinieri avevano omesso di riferire alla Procura di Milano che l’indagine era nata dal rinvenimento del borsello di Azzolini e, pur avendo scoperto la base sin dall’inizio di agosto del 1978, avevano arrestato i brigatisti solo il 1° ottobre. Anzi, proprio la rapidità con cui i carabinieri avevano individuato il covo dei terroristi lasciava sospettare l’esistenza di un confidente o di un infiltrato di dalla Chiesa nelle Br. E persino il comportamento di Azzolini, apparentemente imprudente, suscitava molti interrogativi. Queste conclusioni, peraltro, apparivano in linea con altre presunte «verità» (ma si dovrebbe dire «velenose insinuazioni») che vari esegeti avevano già consegnato alla storia di quegli anni. Tra quelle «verità» ve n’erano alcune ridicole (come quella, ad 1 Virginio Rognoni, Quei lugubri spettri di via Monte Nevoso, in «la Repubblica», 23 ottobre 1990.

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esempio, secondo cui Moretti stesso sarebbe stato un infiltrato ed avrebbe, in cambio della libertà, fatto scoprire la base di via Monte Nevoso) ed altre suggestive, ma prive di qualsiasi riscontro che ne dimostrasse la verità: la più clamorosa era quella della probabile consegna a importanti uomini politici, da parte del generale dalla Chiesa, di documenti sul caso Moro rinvenuti in via Monte Nevoso e sottratti alla conoscenza della magistratura. A proposito della relazione Bonfigli, quello che immediatamente mi irritò era il fatto che il giovane collega era stato da me tempestivamente informato della verità e pregato anche di riferirla al presidente Pellegrino, unitamente alla comunicazione della disponibilità mia e di Pomarici a rendere dichiarazioni sulla vicenda, anche di fronte alla Commissione. Era successo infatti che, nel periodo in cui ero componente eletto del Csm, esattamente il 9 dicembre 1999, venni convocato a palazzo San Macuto dinanzi alla Commissione Antimafia. L’audizione riguardava il lavoro da me svolto tra il 1992 e il 1998 quale sostituto facente parte della Direzione distrettuale antimafia di Milano, quando mi ero occupato delle principali inchieste sui delitti commessi dalla ’ndrangheta e dalla mafia catanese in Lombardia. Al termine dell’audizione, incontrai al bar di palazzo San Macuto il giovane collega Bonfigli. Mi pare che ci fosse con lui anche Sergio Flamigni, autore della Tela del ragno. Il delitto Moro2, un altro libro che si sbizzarrisce nelle più improbabili ipotesi che si possano immaginare a proposito del sequestro Moro. Mentre prendevamo un caffè insieme, Bonfigli, con l’aria di chi la sa lunga, mi disse, in sintesi: «Ah, guarda, voi magistrati di Milano ancora non lo sapete. Ma noi abbiamo scoperto che dietro l’operazione di via Monte Nevoso c’è tutta un’attività che vi è stata nascosta dai carabinieri e che nasce dal ritrovamento di un borsello a Firenze». Alludeva anche al già citato ritardo con cui, a suo avviso, i carabinieri, dopo quel ritrovamento, avevano operato gli arresti in via Monte Nevoso e ad altri scenari investigativi oggetto della indagine della Commissione presieduta da Pellegrino. In quella occasione il collega mi preannunciava anche che la relazione della Commissione Terrorismo e stragi sulla scoperta della base di via Monte Nevoso, che ne avrebbe clamorosamente svelato i misteri, sarebbe sta2

Kaos Edizioni, Milano 1988.

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ta depositata di lì a qualche giorno. Al che gli dissi pacatamente: «Le cose non stanno come dici tu». E gli raccontai che noi eravamo ben al corrente dell’origine delle indagini, ma che – per ragioni di tutela dei testimoni che avevano aiutato gli investigatori – i carabinieri avevano adottato alcune cautele nella redazione dei loro rapporti. In sintesi, gli spiegai che la Procura di Milano, come era evidente e facilmente accertabile, aveva concordato con i carabinieri di omettere negli atti formali l’ininfluente riferimento al borsello e ai riconoscimenti fotografici di Azzolini al solo fine di tutelare la vita di chi li aveva effettuati (il concessionario rivenditore di ciclomotori e il medico) e di chi mise a disposizione l’appartamento di fronte al covo di via Monte Nevoso, utilizzato dai carabinieri per i loro servizi di appostamento. Per spiegare il clima di quegli anni, voglio qui ricordare che pochi mesi dopo la scoperta della base milanese, da Br e Pl furono rispettivamente uccisi Guido Rossa e il barista torinese Carmine Civitate, rei unicamente di avere, il primo, condannato pubblicamente le Br e, il secondo, chiamato la polizia per la presenza nel suo bar di due giovani sospetti; risultati terroristi, i due erano morti nello scontro a fuoco con la polizia che li stava per arrestare. A Bonfigli spiegai che, subito dopo l’irruzione nel covo, eravamo stati informati dai carabinieri dell’iter investigativo in ogni sua piega; l’intervento, inoltre, era stato attuato solo a circa due mesi dal ritrovamento del borsello, nell’ovvio intento di ottenere risultati più significativi, il che era effettivamente avvenuto: l’Abc di ogni investigatore. Che cosa si sarebbe detto, infatti, se, nell’agosto del ’78, i carabinieri di Milano avessero arrestato il solo Azzolini senza tentare di allargare il raggio investigativo e arrestare altri brigatisti? Dunque, senza alcuna supponenza, raccontai tutto questo al giovane collega consulente della Commissione, che sembrava un po’ deluso, aggiungendo: «Quindi, per favore, riferisci quanto ti ho detto al presidente Pellegrino, insieme alla nostra disponibilità a chiarire ogni possibile dubbio. Non è il caso di creare altri misteri sul sequestro Moro, quando, almeno in questo caso, non ce ne sono affatto». Risposta: «Ah, certo, lo farò». Non so se, come credo, abbia effettivamente riferito tutto a Pellegrino. Poche settimane dopo, però, i giornali pubblicavano la clamorosa notizia che la Commissione Terrorismo e stragi aveva scoperto i misteri di via Monte Nevoso, che si confermava l’ipotesi secondo cui Moretti sa115

rebbe stato un confidente di dalla Chiesa, che la Procura di Milano era stata tenuta all’oscuro e così via. Tornai a Milano e in pochi minuti di colloquio con Pomarici decidemmo di chiedere subito alla Commissione parlamentare di essere ascoltati, mossi unicamente dal desiderio di tutelare l’onore e la professionalità di ufficiali di polizia giudiziaria cui il paese avrebbe dovuto essere riconoscente e, in particolare, l’onore di chi non era più in grado di difendersi con la sua voce solo perché la sua vita l’aveva offerta alle istituzioni. L’audizione dinanzi alla Commissione Terrorismo e stragi Il 1° marzo del 2000, io e Pomarici, convocati a seguito della nostra richiesta, sediamo insieme dinanzi alla Commissione Terrorismo e stragi in un’aula di palazzo San Macuto. Il presidente Pellegrino conduce l’audizione, ci pone domande e dà di volta in volta la parola agli altri componenti suoi colleghi. Ricostruiamo nei dettagli tutta la storia dell’indagine, dal borsello trovato a Firenze all’operazione del 1° ottobre 1978 che mise in ginocchio la Walter Alasia. Aggiungiamo che Azzolini e Moretti, a nostro avviso, erano brigatisti «veri» e «seri» e che nessun documento era scomparso da via Monte Nevoso: Pomarici vi arrivò un’ora dopo l’intervento, mentre ancora nella città risuonavano gli spari di via Pallanza ove, in un altro covo, erano stati arrestati altri brigatisti. Parliamo anche del ritrovamento casuale del 1990, a seguito dei lavori di ristrutturazione dell’appartamento di via Monte Nevoso, di documenti, armi e soldi che erano celati nell’intercapedine ricavata sotto una finestra. Suggeriamo, infine, alla Commissione di ascoltare, prima di pervenire alle sue conclusioni, ufficiali e sottufficiali che direttamente avevano condotto le indagini, eventualmente il meccanico, il dentista, chi aveva affittato l’appartamento ai carabinieri e magari i magistrati di Firenze, i quali, a loro volta, avrebbero potuto colmare ulteriori lacune conoscitive. Meglio loro, insomma, che, come spesso avveniva dinanzi a quella Commissione, improbabili esperti ministeriali o privati consulenti che nessun inquirente conobbe negli «anni bui» della Repubblica o, peggio, ex brigatisti in cerca di platea e di sponsor. Quello fu il nostro contributo di verità in quattro ore e mezzo di 116

audizione. Ci auguravamo che ciò aiutasse la Commissione nel suo difficile ed alto compito e che servisse a far capire al paese che, tra tanti misteri, veri e reali, che affollano la sua storia, l’indagine di via Monte Nevoso (di cui solo, per scienza diretta, avevamo inteso riferire) documentava solo la dedizione assoluta alle istituzioni e la professionalità dei carabinieri che la condussero. Purtroppo, però, quella audizione non servì affatto a fugare misteri fasulli o a smontare le «prove», ancor più fasulle, di eterodirezione delle Br. Fu anzi un’audizione sgradevolissima, perché, nonostante le verità storiche che andavamo a raccontare e illustrare (più Pomarici che io, in verità), sembrava di trovarsi di fronte a un muro di persone che, appartenenti a schieramenti politici diversi, coltivavano ciascuna una personale teoria su via Monte Nevoso. Ma tutte le teorie gravitavano attorno a ipotesi indimostrate, anziché ai fatti. Per esempio, ricordo che esponenti di destra della commissione, come Alfredo Mantica, erano interessati a trovare conferme alle tesi secondo cui proprio i brigatisti potevano essere gli autori dell’omicidio di Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci («Fausto e Iaio»), avvenuto in via Mancinelli, a Milano, il 18 marzo del 1978, cioè due giorni dopo la strage di via Fani, e attribuito invece, secondo più serie ipotesi investigative, a gruppi terroristici di matrice fascista. Secondo qualcuno, l’omicidio dei due ragazzi sarebbe stato commesso dalle Br o, addirittura, dai Servizi per mandare un segnale alle Br del tipo «noi sappiamo dov’è la vostra principale base a Milano». Spiegazioni così fantasiose sono difficili da immaginare, eppure furono addirittura scritte! Molto seguito ebbe anche la tesi già accennata secondo cui dalla Chiesa avrebbe sottratto i documenti sul caso Moro rinvenuti in via Monte Nevoso, consegnandoli a qualche politico che gliene avrebbe fatto richiesta. Su questa ipotesi, qualcuno scontava anche una scarsa conoscenza della legge: il ministro dell’Interno, infatti, grazie a un decreto legge varato il 21 marzo 1978, avrebbe potuto chiedere documenti e informazioni all’autorità giudiziaria e questa non avrebbe potuto rifiutarli. Il che avvenne effettivamente. Dunque, non vi era necessità di sottrarre alcunché. Le stesse Br, poi, mai avevano denunciato la sparizione di documenti o lettere provenienti da Moro o di altro materiale da loro custodito in quella base. Un’altra tra le tante bufale in circolazione sul terrorismo delle Br riguardava un personaggio venuto fuori con la vicenda Mitrokhin, cioè il musicista di origine russa Igor Markevitch. Secon117

do una strana teoria che circolò in quegli anni, alimentata anche da un’informativa di un ufficiale dei carabinieri apprezzata dal presidente Pellegrino, costui era una sorta di Grande Vecchio che, però, avrebbe lavorato contemporaneamente per la Cia, il Kgb ed il Mossad! Era stato sposato con la contessa Topazia Caetani e, secondo qualcuno, il fatto che i brigatisti avessero fatto trovare in via Caetani (intitolata al casato della moglie del musicista) la Renault con il corpo di Moro aveva un preciso significato: i brigatisti, in quel modo, avrebbero voluto mandare un messaggio a qualcuno! A chi? Di quale significato e per quale ragione? Gli esperti di misteri non rispondono mai a questi banali interrogativi (Chi? Perché?...) che si fondano anche sulla ragione e che chiunque si porrebbe prima di avventurarsi in impervie teorie: secondo loro si tratta di particolari marginali, dunque non importanti. Altrimenti che mistero sarebbe? Ironizzavo durante l’audizione su questa metodologia di analisi dei fatti e ricordo di aver avuto, per questo, uno scambio di battute durissimo con Pellegrino: «Non le permetto...», mi disse, interrompendomi. La sostanza della mia replica fu la seguente: «Noi siamo venuti qui per testimoniare la verità. Poi voi fatene quello che volete. E la verità è che non c’è nessun mistero e che quello che si sta dicendo su via Monte Nevoso a proposito di supposti ruoli di confidente di Moretti non solo non è la verità, ma offende anche la memoria del generale dalla Chiesa. E anche l’onore di chi ha lavorato con lui». Dopo l’audizione, io e Pomarici scrivemmo una lettera aperta al «Corriere della Sera» che, pubblicata il 16 marzo 2000, riassumeva il contenuto della nostra audizione dinanzi alla Commissione. Partecipai anche, il 16 marzo, a una conferenza stampa organizzata dall’onorevole Nando dalla Chiesa, figlio del defunto generale, presso la sala stampa della Camera dei deputati. Lo scopo era quello di «testimoniare», anche in quella sede, la verità storica sulle indagini che avevano condotto alla scoperta della base delle Br di via Monte Nevoso a Milano. Naturalmente accettai l’invito di Nando per le stesse ragioni che avevano indotto me e Pomarici a richiedere l’audizione dinanzi alla Commissione. Il presidente Pellegrino, intanto, aveva inviato alla presidenza del Consiglio superiore della magistratura il verbale della seduta del 14 marzo 2000 della sua Commissione in cui la mia attività a sostegno della verità nel caso Moro veniva da lui definita «intensa» (forse per il senatore in quell’«intensità» si annidava 118

un altro mistero), probabilmente incompatibile con il mio ruolo di componente del Csm (affermazioni di Giovanni Pellegrino e Alessandro Pardini), al punto che il Csm avrebbe dovuto valutare il mio «atteggiamento» (affermazioni dell’onorevole Valter Bielli). Inoltre, vi si affermava che io e Pomarici avremmo mostrato «arroganza» (dichiarazioni di Bielli), che io sarei stato da collocare tra coloro che «in qualche modo non vogliono che si indaghi sul caso Moro» (ancora Bielli). Insomma, eccomi collocato nella zona grigia delle istituzioni, dopo ventidue anni (allora) di attività professionale improntata al rispetto dei miei doveri. Manifestai formalmente e con lettera il mio sconcerto a Pellegrino: ma tra un’intervista e l’altra non ebbe evidentemente il tempo di rispondermi. Il senatore, anzi, il 17 marzo inviava alla vicepresidenza del Csm un’altra nota che mi riguardava e in cui muoveva rilievi in ordine alla mia partecipazione alla conferenza stampa organizzata il 16 marzo da Nando dalla Chiesa. Non si può escludere che... Non pago, Pellegrino inviava al Csm anche il resoconto della seduta del 21 marzo della Commissione da lui presieduta, che conteneva di tutto. Ognuno sparava la sua. Alla seduta aveva partecipato anche la giornalista Maria Antonietta Calabrò del «Corriere della Sera», che aveva intervistato Lauro Azzolini. L’ex brigatista aveva confermato quanto da noi riferito alla Commissione Terrorismo e stragi, dicendole che effettivamente aveva perso il famoso borsello a Firenze con all’interno una pistola. Ma la giornalista disse alla Commissione, non si capisce sulla base di quali elementi, che il borsello rinvenuto a Firenze «potrebbe appartenere a qualcuno che era con lui, magari una persona non identificata che Azzolini non intende rivelare. In sostanza, Azzolini si attribuisce la paternità del borsello: questa è la mia impressione». Qualcuno, nel corso del dibattito, sembrò darle credito. Da quel momento, la Commissione ebbe a dibattere sul punto come se la presenza di un misterioso secondo personaggio accanto ad Azzolini costituisse una certezza; si arrivò ad affermare che la pistola trovata nel borsello smarrito era stata probabilmente consegnata al brigatista dal Sismi. Anzi, l’intervista di Azzolini diventò, per Bielli e per Pellegrino, un «messaggio» diretto alla Commissione: «l’infiltra119

to non sono io, ma un infiltrato esiste» e diventò pure, nell’espressa valutazione dei due parlamentari, un segnale d’incoraggiamento alla Commissione a proseguire nella direzione intrapresa, tesa al disvelamento di inconfessabili coperture. Poco dopo la nostra audizione, il senatore Alfredo Mantica firmò un’interrogazione parlamentare in cui parlava di «ventennali depistaggi e di opera costante di occultamento della verità a proposito della base delle Br di via Monte Nevoso, che appare sempre più come la chiave per capire i segreti del caso Moro». Affermava, inoltre, che la pistola di Azzolini, trovata nel borsello da lui perso a Firenze, faceva parte di uno stock di pistole che «dovrebbero essere state imbarcate – il 16 maggio ’78 – dal porto di Livorno per quello di Akaba, sulla motonave Thoasa di nazionalità cipriota». In sostanza, secondo Mantica, quell’arma, sequestrata a Firenze il 27 luglio ’78, sarebbe partita dal porto di Livorno il 16 maggio precedente, poi sarebbe entrata «nella pertinenza» di servizi italiani e poi consegnata ad Azzolini: nessuno sa in base a quali elementi tale teoria venne enunciata. La teoria dei «messaggi trasversali», come quello che sarebbe stato contenuto nell’intervista di Azzolini, intanto si arricchiva di nuove gemme: finì con l’annoverare, infatti, pure una frase di Valerio Morucci. Quest’ultimo, rispondendo a un componente della Commissione che gli chiedeva dell’«anfitrione» (sembrava la denominazione di un ruolo del «fronte logistico» delle Br letteralmente inventato dalla Commissione stessa e più volte ricorrente nei suoi lavori) di Firenze, affermava «se c’è, dovete chiederlo a Moretti». Tale frase, nella trasposizione operata dalla Commissione, diventò allusivamente: «chiedete a Moretti chi è l’anfitrione di Firenze». E si arrivò così alla Toscana, dove, secondo la Commissione, avrebbe operato il musicista Igor Markevitch: per lui si prospettava il ruolo di «un intellettuale di cui apparati di intelligence dell’uno o dell’altro schieramento [Est, Ovest, nonché Israele!] si sarebbero potuti avvalere per entrare in contatto con le Br ai fini delle acquisizioni delle carte di Moro o per influire sull’esito del sequestro». Il 16 dicembre del 2000, ebbi modo di avere un altro incontroconfronto, l’ultimo, con il senatore Pellegrino: ci incontrammo nella sede milanese di Radio Popolare, che aveva organizzato il dibattito. Lo scontro, se possibile, fu dialetticamente ancora più duro. Ad un certo punto, forse per avvalorare le sue tesi, il presidente della 120

Commissione Terrorismo e stragi annunciò ad effetto: «Io mi assumo la responsabilità di dirle che tra poco si saprà che un illustre uomo politico italiano ha affidato ad un verbale di polizia giudiziaria che uno dei carcerieri di Aldo Moro era stato lasciato evadere perché portasse a Moretti. E mi assumo la responsabilità di dire che può darsi che, anziché portare a Moretti, sia sfuggito al controllo». Replicai dicendo di sentire quel giorno, per la prima volta, quella storia e di sperare che non si trattasse di un’altra bufala. Ma Pellegrino, qualche ora più tardi, aggiunse di avere saputo questo «da tempo» e – stando alle agenzie di stampa – così spiegò la propria sortita: «Non ho mai voluto dirlo, ma il dottor Spataro mi ha messo con le spalle al muro ed ho dovuto dirlo!»3. La storia dell’evasione teleguidata si rivelò ovviamente una bufala: l’evaso e il politico cui Pellegrino alludeva erano rispettivamente Prospero Gallinari e Paolo Emilio Taviani. Il primo negò assolutamente che qualcuno lo avesse aiutato nella evasione dal carcere di Treviso del 2 gennaio 1977 ed altrettanto fece il detenuto comune Pier Luigi Montecchio, che ne era stato l’organizzatore. Taviani, dal canto suo, corresse una sua precedente affermazione resa all’ufficiale Massimo Giraudo del Ros dei carabinieri (autore delle principali informative sul presunto e misterioso ruolo di Igor Markevitch) specificando che, nel corso di un colloquio con il generale dalla Chiesa, «aveva inteso o creduto di intendere» che l’evasione di Gallinari fosse stata un’operazione attuata d’intesa con la magistratura. Dunque, ammise di aver detto «cose generiche ed imprecise». Insomma sue mere ipotesi. 3 L’episodio è in questi termini ricostruito anche da Vladimiro Satta (Odissea nel caso Moro. Viaggio controcorrente attraverso la documentazione della Commissione Stragi, Edup, Roma 2003), uno dei pochi storici (autore anche di Il caso Moro e i suoi falsi misteri, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006) che si sia occupato del caso Moro con rigore scientifico, facendo spietata giustizia di ogni fantasiosa ipotesi. Tra coloro che hanno smontato le contraddittorie tesi di ispirazione dietrologica, vanno doverosamente citati gli storici Agostino Giovagnoli (Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, il Mulino, Bologna 2005) e Giovanni Sabbatucci (autore, oltre che della prefazione ad Odissea nel caso Moro di Satta, di Miti e storia dell’Italia Unita, il Mulino, Bologna 1999, insieme a Giovanni Belardelli, Luciano Cafagna ed Ernesto Galli della Loggia). Interessanti e motivate smentite si trovano pure, in gran quantità, in Le vene aperte del delitto Moro (Mauro Pagliai Editore, Firenze 2009), a cura di Salvatore Sechi, con interventi di Roberto Bartali, Luigi Carli, Marco Clementi, Richard Drake, Franco Mazzola, Fernando Orlandi, Gabriele Paradisi, Vladimiro Satta e dello stesso Sechi.

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Inutile chiedere autocritica a Pellegrino, il quale, anzi, continua ad articolare le sue teorie: spuntano, così, quelle sulla «guerra civile di bassa intensità» cui i brigatisti avrebbero dato luogo e sulla necessità di una riconciliazione nazionale quale viatico per conoscere le verità nascoste. E si arriva perfino a mettere in dubbio la correttezza istituzionale di un galantuomo come Virginio Rognoni, il ministro dell’Interno del post-Moro, al cui nome è legata la sconfitta del terrorismo interno italiano4. Potrei continuare all’infinito con l’elencazione delle bufale e dei falsi misteri creati ad arte sul caso Moro: non si è mai capito, ultimo esempio, da dove sia saltata fuori l’ipotesi che la prigione di Moro fosse collocata nel ghetto ebraico! Ma questi misteri, del resto, hanno alimentato – e continuano ad alimentare – studi e libri di sedicenti esperti e dibattiti fondati sul nulla5. Persino il filone cinematografico sul caso Moro si distingue per una generale inattendibilità sul piano storico, anche quando le opere vengono presentate come frutto di approfondite inchieste anziché, più semplicemente, come il prodotto di una libera elaborazione artistica6. Per assurdo, penso che il film che più realisticamente abbia ricostruito i giorni della prigionia di Moro sia stato Buongiorno, notte di Marco Bellocchio (2003). Il finale, con Moro che lascia la prigione e torna libero, è certamente onirico, ma la descrizione della follia brigatista è del tutto aderente alla realtà: i brigatisti, mentre detengono Moro, seguono alla televisione la manifestazione di piazza San Giovanni organizzata dopo il sequestro e non si rendono conto del perché centinaia di migliaia di persone vi partecipino protestando contro di loro, né comprendono perché il leader della 4 A dicembre del 2000, infatti, Giovanni Pellegrino, parlando degli anni di piombo, arriva ad attribuire «l’Oscar della reticenza a Rognoni, in compagnia dell’onorevole Gui». Rognoni, indignato, ribatte: «Io reticente? Sfido Pellegrino a un confronto pubblico, dove egli vorrà. Respingo questo giudizio – dice Rognoni –: tutto quello che so l’ho detto ovunque sia stata richiesta la mia testimonianza. Nessuno mi può accusare di reticenza, neppure Pellegrino, che ha l’‘Oscar’ delle parole, di quelle utili e di quelle inutili» («Corriere della Sera», 18 dicembre 2000). 5 Nel novembre del 2009, è stato anche pubblicato un numero dell’«Europeo» (n. 11), abbinato al «Corriere della Sera», intitolato Misteri degli Anni di Piombo. Vi si possono trovare, tra l’altro, tracce di tutti i falsi «misteri» sull’omicidio di Walter Tobagi di cui si è parlato nel cap. VII. 6 Per un’approfondita e completa analisi della produzione filmica sul caso Moro, è fondamentale lo studio, ricco di annotazioni storiche e psicoanalitiche,

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Cgil Luciano Lama possa definirli infami assassini. E quando uno dei brigatisti chiede ai suoi compagni, che con lui stanno guardando la televisione, come possano quelle persone, quegli operai, non capire e non sapere che le Br agiscono nel loro interesse, Mario Moretti, interpretato da Luigi Lo Cascio, tranquillizza i complici: «Stanno fingendo, non possono far vedere che ci sostengono». Ecco che cos’erano le Br! Erano esattamente quelle che apparivano. Vi è stato probabilmente chi, sul piano politico, si è giovato (o ha pensato di potersi giovare) della presenza del terrorismo nella realtà italiana per invocare strette repressive, rallentare i processi di evoluzione sociale in atto nel paese7, sostenere la pericolosità dell’ingresso della sinistra nell’area di governo e così via, ma tutto ciò è cosa diversa dall’eterodirezione del terrorismo stesso o dal «lasciar fare». Le Br non erano un gruppo eterodiretto dall’estero o dai servizi segreti italiani oppure manipolato politicamente da un Grande Vecchio, ma persone ormai avvitate in una lucida follia: uomini e donne sganciati da ogni contatto con la realtà, eppure capaci di produrre tragedie e dolore che hanno messo a rischio la democrazia in Italia. È la storia del terrorismo di sinistra in Italia che ha smentito l’esistenza dei burattinai ipotizzati: «Per il Grande Vecchio era giunta l’ora di andare in pensione», affermava Giampaolo Pansa al termine di una delle sue analisi di quel drammatico periodo. «Ed era anche l’ora di gridare la verità: nel terrorismo italiano non esistevano Grandi Vecchi, ma soltanto piccoli giovani, tanti giovani, anonimi, disperati, carnefici degli altri e di se stessi». Il Grande Vecchio «lo gridò, poi chiuse la baracca e andò a mettersi in coda all’Inps»8.

del giovane professore irlandese Alan O’Leary, che insegna al dipartimento di Italianistica dell’Università di Leeds: Tragedia all’italiana. Cinema e terrorismo tra Moro e Memoria, Angelica Editore, Tissi 2007. 7 Scrive giustamente Gian Carlo Caselli che quello era un tempo «in cui faticosamente si andavano affermando nuovi spazi, nuovi diritti per le classi sociali tradizionalmente escluse dal potere. Perché gli anni Settanta non erano soltanto ‘di piombo’, ma anche gli anni della legge sul divorzio, del compromesso storico, dell’alternanza nell’amministrazione di grandi città italiane. Tutte novità che le Brigate Rosse soffocavano» (Gian Carlo Caselli, Le due guerre. Perché l’Italia ha sconfitto il terrorismo e non la mafia, Melampo, Milano 2009). 8 Giampaolo Pansa, Il Grande Vecchio e i piccoli giovani, in «Panorama», 1° maggio 1988.

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Ma si tratta di una conclusione valida anche per gli anni più recenti. Basti pensare che uno dei gruppi attivi tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dell’ultimo decennio, i Carc (Comitati di appoggio alla Resistenza per il comunismo), in un documento del 15 settembre del 2001, elencano le prime e più importanti misure – dieci per l’esattezza – da realizzare subito dopo la prossima presa del potere: tra queste, l’«abolizione del Vaticano»! Queste conclusioni, però, non possono soddisfare gli italici cultori della dietrologia, capaci di individuare nessi persino tra il sequestro di documenti delle Br nel covo di via Monte Nevoso a Milano, l’omicidio Pecorelli e l’omicidio dalla Chiesa! Dovrebbero diversamente accettare verità troppo lineari, anzi banali. Le loro ipotesi si rivelerebbero in tal caso per quelle che sono: bizzarre ed illogiche costruzioni, prive di qualsiasi riscontro. Tana de Zulueta, ex parlamentare, già giornalista del «Sunday Times» e dell’«Economist», mi ha raccontato che i giornalisti inglesi usano un detto per stigmatizzare quei loro colleghi che rifiutano di accertare/accettare il reale andamento dei fatti pur di non indebolire le loro fantasiose ipotesi: «Non permettere ai fatti di rovinare una bella storia!». Potrebbe essere il motto della Commissione Pellegrino e di chi ne ha sposato le teorie. Tanto più che neppure i fatti inoppugnabili servono a smontarle. In questi casi, infatti, la metodologia di analisi delle varie commissioni di turno si arricchisce, alla fine, del suo più comodo strumento: l’argomentare sulla base del «non si può escludere che...». Non a caso Giovanni Pellegrino, intervistato nel 2009 sulla teoria della «doppia bomba», una di matrice anarchica e una di matrice fascista, che secondo il giornalista Paolo Cucchiarelli9 avrebbe causato la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, ebbe a dichiarare che la tesi «è assolutamente plausibile: vista anche la massa di documenti e riscontri da cui è accompagnata la ricerca, siamo ben al di là della semplice verosimiglianza»10. Ed aggiunse che lui stesso andò vicino a quella conclusione, «ma non trovai le prove». Eppure, tutto, ancora una volta, diventa possibile.

9 La teoria è esposta nel libro di Cucchiarelli Il segreto di Piazza Fontana, Ponte alle Grazie, Milano 2009. 10 Cfr. «Corriere della Sera», 29 maggio 2009.

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Il sequestro di Abu Omar/4: governi diversi, identiche scelte

Non sembrava possibile, invece, che il governo Berlusconi degli anni 2001-2006, quello Prodi degli anni 2006-2008 e, ancora, quello Berlusconi che guida il paese dal maggio del 2008 potessero tenere, rispetto ai risvolti giudiziari del caso Abu Omar, esattamente gli stessi comportamenti. Con una differenza, però: coerenti, rispetto a programmi politici e a dichiarazioni ufficiali, quelli dei governi Berlusconi; incoerenti e contraddittori quelli del governo Prodi e della maggioranza che lo ha sorretto. Se per valutare i comportamenti dei governi italiani nel caso Abu Omar adottassimo il metro di valutazione del «non si può escludere che...», potremmo pervenire a conclusioni allarmanti per la democrazia. Atteniamoci ai fatti, allora: bastano ed avanzano per stupirci ed allarmarci anch’essi, senza necessità di elaborare teorie indimostrabili. Se poi tra qualche decennio – come la legge prevede – si apriranno gli archivi dei servizi segreti, qualcun altro potrà approfondire il tema. L’assistenza giudiziaria Iniziamo con le richieste di cooperazione giudiziaria che in più occasioni abbiamo inviato ai ministri della Giustizia italiani in carica perché venissero ulteriormente trasmesse alle competenti autorità statunitensi. Le prime due richieste di assistenza giudiziaria agli Stati Uniti venivano trasmesse al ministro della Giustizia rispetti125

vamente nel dicembre 2005 e nel marzo 2006: chiedevamo di potere interrogare gli imputati americani, sentire alcuni testimoni, acquisire informazioni e documenti. Insomma, richieste assolutamente normali nella prassi quotidiana, per di più formulate sulla base del trattato di mutua assistenza in materia penale tra Italia e Stati Uniti d’America, firmato a Roma nel 1982 e dall’Italia ratificato due anni dopo. Il ministro dell’epoca, Roberto Castelli, comunicava alla Procura di avere inviato le due richieste alle autorità americane e, successivamente, di avere anche sollecitato la loro evasione1. Successivamente, nel febbraio del 2007 e sempre su nostra istanza, lo faceva anche il nuovo ministro Mastella, cui rammentavamo che la risposta alle richieste di assistenza giudiziaria è obbligatoria da parte dello Stato cui viene sollecitata e non può essere omessa. Alla fine di luglio del 2008, infine, Pomarici ed io inoltravamo anche al neoministro Angelino Alfano una ulteriore richiesta di assistenza giudiziaria diretta agli Stati Uniti: in essa chiedevamo che venissero citati a comparire dinanzi al Tribunale di Milano, per essere sentiti come testimoni, tredici cittadini americani. Tra questi, Michael Scheuer, un ex alto dirigente della Cia, teorizzatore delle renditions. Ma le autorità statunitensi non hanno risposto neppure a questa richiesta di assistenza giudiziaria e, dunque, nulla hanno fatto mai sapere a oltre tre anni dalla ricezione della prima. L’inoltro delle richieste di assistenza giudiziaria è obbligatorio per il governo, che non ha margini di discrezionalità per rifiutarlo, ma resta singolare che tutti i governi italiani nel frattempo succedutisi non abbiano ritenuto di dover elevare alcuna protesta per l’inosservanza dei precisi obblighi (quanto meno di risposta) previsti dalla convenzione bilaterale in vigore tra Italia e Usa in tema di cooperazione giudiziaria. Pur se, in casi diversi, è stato il governo statunitense a lamentare seccamente i ritardi dell’Italia nella esecuzione di alcune rogatorie inoltrate dai giudici Usa. 1 A marzo del 2006, infatti, la Procura della Repubblica di Milano, considerato che l’art. 4 del trattato di mutua assistenza giudiziaria prevede che «L’autorità centrale dello Stato richiesto dovrà eseguire sollecitamente la richiesta» e rilevato che erano trascorsi circa quarantacinque giorni dalla trasmissione della prima richiesta, senza che fosse pervenuta alcuna risposta, chiedeva al ministro di inoltrare un sollecito alla competente autorità statunitense, anche in considerazione della estrema gravità del reato di sequestro di persona per cui si procedeva.

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Le richieste di estradizione ferme in via Arenula Più complessa ed ancor più significativa è invece la vicenda delle richieste di arresto ed estradizione dei latitanti americani che in più occasioni abbiamo inviato al ministro della Giustizia italiano in carica perché, in base ad altra convenzione bilaterale in vigore, venissero trasmesse alle competenti autorità statunitensi per l’esecuzione. Va però fatta una premessa tecnica: in un caso come questo, esistono tre canali di possibile diffusione delle ricerche dei latitanti perché vengano arrestati ed estradati in Italia. Il primo è il mandato d’arresto europeo, un istituto che è frutto di recenti accordi tra gli Stati europei: in questo caso, non è previsto alcun intervento discrezionale da parte delle autorità politiche. Se un giudice europeo emette un mandato di cattura esso, unitamente alla conseguente estradizione, è eseguibile negli altri Stati europei a prescindere dalla volontà politica dei governi interessati. È un affare tra giudici, insomma. Il secondo è costituito dalla richiesta di estensione delle ricerche in campo internazionale nei paesi non appartenenti alla cosiddetta area Schengen: in pratica, oltre l’Europa, tutto il resto del mondo aderente ai trattati Interpol. Il terzo è la richiesta di arresto ed estradizione dei latitanti da inoltrarsi alle autorità statunitensi, in base al trattato bilaterale di estradizione firmato a Roma nel 1983 e ratificato in Italia nel maggio 1984. Questo trattato prevede una particolarità quasi mai presente in accordi simili: Italia e Stati Uniti sono reciprocamente obbligati ad arrestare ed estradare anche i propri cittadini in caso di richiesta dell’altro Stato. L’attivazione di questi ultimi due canali, però, diversamente da quanto previsto per il mandato d’arresto europeo, è di competenza del ministro su richiesta della Procura della Repubblica competente. Il nostro sistema, infatti, riconosce al ministro della Giustizia, in questi casi, una notevole discrezionalità politica: egli può «decidere di non presentare la domanda di estradizione o di differirne la presentazione, dandone comunicazione all’autorità giudiziaria richiedente»2. Vediamo, allora, che cosa avvenne tra la fine del 2005 e i primi mesi del 2006, mentre era in carica il premier Berlusconi. La 2

Cfr. art. 720 del codice di procedura penale.

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Procura della Repubblica di Milano, tramite la Procura generale, aveva inoltrato nel novembre del 2005 al ministro Castelli la prima richiesta di arresto ai fini dell’estradizione dei latitanti secondo il citato duplice canale previsto dalla legge. Nel dicembre successivo, il ministro Castelli, con prassi anomala, aveva chiesto alla Procura – ed ottenuto – copia dell’intero procedimento. A seguito della mancata comunicazione delle decisioni di sua competenza, veniva trasmessa al ministro, nel febbraio del 2006, una prima nota di sollecito del procuratore di Milano, alla quale il ministro stesso rispondeva all’inizio di marzo del 2006 affermando che «nel caso di specie non ritengo di dover dare comunicazione all’autorità giudiziaria richiedente, poiché allo stato non ho ancora assunto alcuna determinazione in ordine alla domanda di estradizione alla competente autorità degli Stati Uniti, determinazione in relazione alla quale la norma non prevede alcun termine». Il procuratore di Milano Manlio Minale inoltrava quindi al ministro, il successivo 30 marzo, alcune «ferme» osservazioni con le quali si faceva comunque rilevare che la legge, mentre legittima il ministro a decidere di «non presentare la domanda di estradizione» ovvero di «differirne la presentazione», non lo legittima a non adottare alcuna decisione ovvero, come indicato nella nota sopra richiamata, a «non assumere alcuna determinazione», contestando altresì, con precisi argomenti giuridici, il fondamento della tesi del ministro secondo cui non sarebbe previsto dalla legge alcun termine per la sua decisione. Il ministro Castelli, messo alle strette, comunicava il 12 aprile successivo la sua decisione di non presentare la domanda di estradizione agli Stati Uniti e di non diffondere le ricerche dei latitanti, nei paesi non appartenenti all’area Schengen, ai fini del loro arresto ed estradizione. Prima di assumere la decisione sopra ricordata, e prima dello scambio di note con la Procura di Milano, Roberto Castelli aveva dichiarato pubblicamente il 22 novembre 2005 che stava esaminando la richiesta di estradizione sopra descritta ai fini delle sue determinazioni, aggiungendo che «siccome in questo caso siamo di fronte a un magistrato militante, la faccenda è da valutare con grande attenzione»3. Il riferimento del ministro al «magistrato militante» veniva ripreso dai media: la definizione 3 La frase era così ripresa nelle note diffuse nella medesima data dalle principali agenzie stampa nazionali.

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che mi era stata attribuita suscitava diffuse reazioni di protesta e stupore e determinava, nel novembre del 2005, un’interpellanza parlamentare rivolta da ventiquattro senatori dell’opposizione al presidente del Consiglio dei ministri4. Ma l’affermazione non veniva smentita, bensì rafforzata dal ministro stesso con riferimenti al mio presunto antiamericanismo. Sarebbe bastato informarsi presso qualsiasi mio conoscente sulla mia antica passione per tutto ciò che è storia e cultura americana, o semplicemente dare un’occhiata ai poster appesi nel mio ufficio, per sapere e capire quanto infondata potesse essere quest’accusa. I titoli dei giornali del 23 novembre del 2005 sulla vicenda erano ovviamente molto eloquenti: Castelli accusa Spataro: ce l’ha con l’America («Corriere della Sera»); Caso Abu Omar, stop di Castelli, Spataro magistrato militante («la Repubblica»); Castelli assalta l’inchiesta sui rapitori Cia («il manifesto»); Castelli: Spataro militante. Il Csm insorge («Avvenire»); Sul caso Abu Omar, Castelli contro Spataro: è un Pm militante («Il Sole 24 Ore»); Castelli: decido io sul blitz Cia. Il ministro contro il pm Spataro («La Stampa»); Il ministro a gamba tesa («l’Unità»). Ricevevo la solidarietà dal vicepresidente del Csm, Virginio Rognoni (Abu Omar: Rognoni, apprezzamento e stima per Spataro5) e quella di tanti colleghi che mi mandavano email da ogni parte d’Italia: ovviamente le conservo. Vittorio Grevi, intanto, spiegava sul «Corriere della Sera» perché tecnicamente le valutazioni del ministro erano errate6. Poco dopo, a seguito delle elezioni politiche, una diversa maggioranza prendeva a governare il paese: Romano Prodi era il nuovo presidente del Consiglio e Clemente Mastella il nuovo ministro della Giustizia. Essendo i mandati d’arresto europei già operativi ed eseguibili, gli altri due canali di diffusione delle ricerche a fini estradizionali dei latitanti, già percorsi inutilmente all’epoca del ministro Castelli, venivano riattivati nel luglio del 2006 con un’ulteriore richiesta di estradizione, perché, come si è già detto, il giudice 4 Vedi in Appendice, par. 2, i passaggi più qualificanti dell’interpellanza in questione nonché i nomi dei ventiquattro senatori che la sottoscrissero. Nessuno di loro prese analoghe iniziative quando anche il governo Prodi decise di non inoltrare la richiesta di estradizione agli Usa. 5 Agenzia Agi, 24 novembre 2005. 6 Vittorio Grevi, Le premesse errate del ministro Castelli, in «Corriere della Sera», 27 novembre 2005.

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Manzi aveva emesso il 3 luglio una nuova ordinanza di custodia cautelare e i latitanti americani erano passati da ventidue a ventisei. Nel gennaio del 2007 inoltravamo anche un sollecito al ministro della Giustizia. L’onorevole Mastella rimaneva in carica fino al 16 gennaio 2008, data delle sue dimissioni. Ma, battendo il record di silenzio del ministro Castelli, suo predecessore, non riteneva di dover fornire alcuna risposta alla Procura di Milano come previsto dalla legge: silenzio assoluto, tranne una laconica dichiarazione alla stampa secondo cui una decisione sulla richiesta di estradizione degli americani sarebbe stata assunta dal governo solo dopo la risoluzione del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dinanzi alla Corte Costituzionale, dal presidente Prodi, nel febbraio del 2007. Ricordo pure di avere incontrato all’inizio di marzo del 2007, a Roma, durante un seminario di studi organizzato dal Csm, l’allora capo di gabinetto del ministro Mastella, Stefano Mogini, un collega stimato che aveva svolto a lungo la funzione di magistrato di collegamento a Parigi. Discutendo con lui, feci rilevare l’assenza di qualsiasi nesso logico e giuridico tra la decisione da prendersi sulla richiesta di estradizione e la questione del conflitto ormai pendente dinanzi alla Corte Costituzionale, anche perché il conflitto riguardava – semmai – atti relativi ai soli appartenenti al Sismi. Il collega la pensava diversamente e, comunque, sottolineava l’esistenza e l’importanza di ragioni anche politiche alla base della decisione di Mastella. Mogini, evidentemente, aveva cambiato opinione a seguito della nuova funzione che ora ricopriva: quando era magistrato di collegamento a Parigi, infatti, aveva mostrato di condividere ogni passo delle nostre indagini e di non apprezzare gli ostruzionismi del precedente ministro Castelli. Ma, in fondo, il suo atteggiamento non era isolato: ci sono decine di esempi di colleghi che, appena vengono chiamati a rivestire qualche funzione presso il ministero della Giustizia, interpretano alla lettera la natura «fiduciaria» (così si chiama tecnicamente) dell’incarico extragiudiziario loro affidato che dovrebbe trarre origine proprio dalle loro competenze tecniche. Appena insediato il governo Berlusconi, nel 2001, ricordo un collega che era stato chiamato dal neoministro della Giustizia Roberto Castelli a far parte dell’Ufficio legislativo. Mi chiese un consiglio sull’opportunità di accettare o meno l’incarico. Nonostante autorevoli indicazioni di segno opposto, lo incoraggiai, anche perché quella legislatura era ancora all’inizio 130

e non sapevamo ancora quali devastazioni avrebbe determinato nel sistema giustizia. Gli raccomandai, però, di valutare bene in futuro ciò che sarebbe accaduto e ciò che sarebbe stato richiesto al suo ufficio: un magistrato, gli dissi, deve essere innanzitutto e comunque fedele al suo ruolo. In sostanza, gli dissi di ritenere necessarie le dimissioni nel caso quella doverosa fedeltà risulti a rischio in certi ruoli, pur fiduciari, per qualsiasi ragione. Il collega mi ringraziò e si dichiarò assolutamente ed orgogliosamente d’accordo. Ma è rimasto al ministero per tutta la legislatura. Quanto al collega Mogini, nell’ultimo periodo di vita del governo Prodi, è diventato consigliere giuridico della rappresentanza italiana presso le Nazioni Unite a New York. Personalmente, come tanti magistrati italiani, non ho mai avuto ragioni di dimettermi, perché nessuno mi ha mai offerto alcunché. Nessun rimpianto, ovviamente. Rammento, invece, che, quando ero componente eletto del Csm e presidente della III Commissione, fui autore, con Gianfranco Gilardi, di una risoluzione sui magistrati collocati fuori ruolo presso ministeri ed altre istituzioni, poi approvata dal plenum del Csm nel novembre del 2001. In essa si affermava che il magistrato, anche quando ricopre quel tipo di incarichi, non perde – e deve anzi preservare – le sue competenze tecniche e la sua autonomia7. Era magistrato – ed anzi stimato ex presidente del Tribunale di Roma – anche Luigi Scotti che, da sottosegretario, venne nominato ministro della Giustizia dopo le dimissioni di Mastella. Anche da lui, che pure ben conosceva l’art. 720 del codice di pro7 Così recita la deliberazione assunta dal Csm in assemblea plenaria il 15 novembre 2001: «La destinazione di magistrati presso ministeri o altri enti deve tener conto del fatto che il loro apporto ad attività di tipo amministrativo non ha carattere ‘servente’, ma rappresenta il contributo che qualificate professionalità, maturate nella sfera della giurisdizione, possono fornire in altri ambiti pubblici [...] la collocazione istituzionale dei magistrati – anche quando adibiti a funzioni diverse da quelle giurisdizionali – deve restare pur sempre agganciata alla garanzia costituzionale dell’autonomia, riferita dal costituente (art. 104 della Costituzione) all’ordine, e cioè all’intera magistratura [...]. Pertanto il magistrato destinato ad incarichi amministrativi, pur godendo di una indipendenza diversa da quella che l’ordinamento riconosce a tutela dell’esercizio delle funzioni giurisdizionali, non può vedere sminuita o compromessa la sua autonomia professionale in quanto ciò comporterebbe la lesione del suo status di magistrato e della credibilità dell’ordine giudiziario».

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cedura penale, nessuna risposta pervenne alla nostra richiesta di estradizione. Altrettanto da parte del nuovo ministro della Giustizia del governo Berlusconi, Angelino Alfano. Da Mastella in poi, insomma, nessun ministro di Giustizia ha mai fornito alcuna risposta alla Procura di Milano in ordine alle richieste di estradizione degli imputati americani: c’è da rimpiangere Roberto Castelli, che una risposta, per quanto negativa, almeno l’ha data! Il sottosegretario Alberto Maritati Era magistrato anche Alberto Maritati, prima di passare alla politica. È pugliese come me e da magistrato si era guadagnato una meritata ed unanime stima per le sue capacità professionali, soprattutto nel settore della tutela dell’ambiente. Parlamentare nell’Ulivo, era stato nominato sottosegretario alla Giustizia e, in questa veste, accompagnò il neoministro Mastella all’incontro con la Giunta esecutiva centrale dell’Associazione nazionale magistrati che si tenne presso la Corte di Cassazione nel giugno del 2006, poco dopo la formazione del governo Prodi. Lo conoscevo, lo stimavo e l’avevo apprezzato anche quale sottoscrittore della già ricordata interrogazione parlamentare presentata «contro» il precedente ministro Castelli per il suo rifiuto di dar corso alla nostra richiesta di estradizione e per le sue dichiarazioni sul mio supposto antiamericanismo. Facevo parte all’epoca della Giunta direttiva dell’Associazione magistrati e fui dunque presente al cordialissimo incontro con Mastella e Maritati. In tutto una dozzina di persone. Alla fine dell’incontro, mentre sorseggiavamo un caffè prima che i giornalisti entrassero nella sala dominata dalla foto di Falcone e Borsellino sorridenti e dall’elenco dei magistrati vittime del loro dovere, Maritati mi prese in disparte e mi chiese se era vero che intendevo rinnovare la richiesta di estradizione dei ventidue americani già respinta da Castelli. Non gli dissi degli sviluppi in corso della indagine che avrebbero verosimilmente condotto a un’ulteriore misura cautelare anche contro nuovi indagati americani, ma gli confermai l’intenzione mia e di Pomarici di reiterare la richiesta di estradizione al nuovo ministro della Giustizia. Io e Pomarici l’avevamo anche anticipato in un comunicato stampa emesso dopo il precedente provvedimento di rigetto da parte di 132

Roberto Castelli. Il giudice-sottosegretario, allora, mi fece presente che quella nuova eventuale richiesta avrebbe potuto creare qualche difficoltà al ministro degli Esteri (si trattava, com’è noto, di Massimo D’Alema) che aveva in programma una visita negli Stati Uniti. Alla mia ovvia risposta («Non è fatto che ci possa interessare»), Maritati mi chiedeva se, almeno, non fosse possibile rinviare l’inoltro della richiesta all’autunno successivo. Decisamente sorpreso, gli dissi che avrei cercato di anticiparlo a luglio. Così feci. Nelle settimane successive ebbi modo di descrivere in varie sedi, anche istituzionali, quell’episodio. Maritati, lamentandosene, mi disse, in un successivo e casuale incontro avvenuto presso la Camera dei deputati, che evidentemente c’era stato tra noi un equivoco: lui era solo preoccupato di trovare un modo per favorire il buon esito della richiesta di estradizione ed, anzi, insieme al collega sottosegretario alla Giustizia Scotti, non aveva condiviso la decisione del governo Prodi di sollevare il conflitto di attribuzione con la Procura di Milano davanti alla Corte Costituzionale. «Nessuno potrebbe essere così sciocco – gli risposi – da pensare che gli Stati Uniti possano davvero arrestare ed estradare in Italia gli agenti della Cia sotto processo a Milano». Ma la richiesta della Procura di Milano era un atto obbligatorio sul piano giuridico, prima che doveroso su quello etico. Per il governo italiano, aggiunsi, si trattava invece di una questione di dignità e decoro. Almeno quello era ed è il mio giudizio. Non ho più avuto modo di incontrare Maritati, ma ho letto che, da senatore del Partito democratico, tornato tra i banchi dell’opposizione, il 18 giugno 2008 ha sottoscritto, insieme ad altri quaranta senatori dell’attuale opposizione, dopo la denuncia diffusa dall’organizzazione umanitaria Reprieve, una interrogazione al governo, tornando a tuonare contro le renditions, le detenzioni a Guantánamo e gli atteggiamenti ambigui dei governi europei. Reprieve, infatti, aveva sollecitato il governo italiano ad accogliere per ragioni umanitarie alcuni tunisini detenuti a Guantánamo, già residenti in Italia. Non aveva ricevuto risposta dal governo Berlusconi, ma altrettanto era avvenuto – mi ha raccontato Cori Crider, giovane avvocato animatrice dell’associazione – con il governo Prodi. La Crider, anzi, aveva tentato inutilmente di farsi ricevere dal ministro dell’Interno Giuliano Amato per illustrargli la situazione. Tra i firmatari dell’interrogazione c’era anche Silvio Sircana, portavo133

ce di Prodi, che ho già citato e di cui parlerò in seguito: anche la sua posizione politica in tema di renditions e diritti umani, dunque, sembrava mutata passando dal governo all’opposizione. Ma, tornando al 2006, vi erano anche altre ragioni per sollecitare ulteriormente il ministro Mastella (ed il governo Prodi) ad inoltrare alle autorità statunitensi competenti le richieste di estradizione e di ricerca dei latitanti. L’Italia aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (la cosiddetta «Cedu»), firmata a Roma nel novembre del 1950, poi ratificata e resa esecutiva in Italia nel 1955. Orbene, tra le norme contenute nella Cedu e nei protocolli addizionali vi sono quelle che lo Stato deve rispettare nell’esercizio della potestà punitiva, che stabiliscono principalmente obblighi di carattere negativo e configurano dei limiti alla libertà di azione statale, al fine di proteggere le persone da possibili arbìtri ed abusi: intendo riferirmi al divieto di tortura e di pene o trattamenti disumani e degradanti, alle garanzie da assicurare nelle ipotesi di privazione della libertà personale, al diritto a un processo equo, alla presunzione di innocenza e ai diritti della difesa, ai diritti procedurali in caso di espulsione dello straniero e così via. Ma la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo si è progressivamente sviluppata negli ultimi anni – stabilizzandosi con orientamenti interpretativi univoci e mai disattesi – sino ad imporre obblighi positivi, di tipo procedurale, agli Stati aderenti, al fine di garantire l’effettiva realizzazione e l’integrità dei diritti umani contemplati dalla Cedu, con particolare riferimento all’art. 2 (diritto alla vita) e all’art. 3 (divieto di tortura). Gli Stati aderenti, quindi, sono tenuti ad aprire un’investigazione efficace, tempestiva, pubblica e con carattere di completezza, ogni qual volta vi sia una denuncia di tortura da parte di una presunta vittima. E ciò non solo in caso di tortura direttamente messa in atto da organi statali, ma anche se praticata da individui privati: la Corte, ad esempio, ha «condannato» gli Stati convenuti in giudizio affermando che, pur in difetto di prova circa le torture subite dal ricorrente, lo Stato comunque aveva violato la Convenzione perché non aveva aperto un’inchiesta in proposito. In altri casi, alcuni Stati hanno subito condanne per avere violato tali obblighi procedurali, essendosi rilevate inerzia e inef134

ficacia nell’attività di investigazione su episodi di tortura e conseguente frapposizione di ostacoli proprio da parte delle autorità responsabili dell’amministrazione della giustizia8. Abu Omar, dunque, aveva fatto pervenire al pubblico ministero, tramite la moglie, un «memoriale» di suo pugno in cui descriveva i trattamenti disumani e le torture cui era stato sottoposto a seguito del sequestro avvenuto a Milano nel febbraio del 2003. Tale documento confermava la gravità della vicenda e, ai fini che qui interessano, la necessità che il governo italiano adottasse tutte le misure idonee a favorire il buon esito dell’inchiesta svolta dalla Procura della Repubblica di Milano: tra tali misure, la diffusione internazionale delle richieste di arresto ed estradizione, che avrebbe potuto portare alla cattura degli imputati fuori dagli Stati Uniti, alla individuazione di altri corresponsabili nell’organizzazione o esecuzione del sequestro e, dunque, ad una più efficace tutela della vittima. Si tratta di esigenze ancor più cogenti ove si consideri che, come più volte pubblicamente dichiarato dai vertici dell’amministrazione Bush, le autorità degli Stati Uniti consideravano legale il sequestro avvenuto e, dunque, non vi è spazio alcuno perché esse procedano ad avviare un’inchiesta ed a punire i colpevoli. Se è vero, come ho già detto, che il nostro codice di procedura penale prevede la possibilità che il ministro decida di non presentare la domanda di estradizione ovvero di differirne la presentazione, e ciò secondo criteri di opportunità politica, è pur vero che tale valutazione non può ignorare gli obblighi internazionali derivanti per l’Italia dalla Cedu o dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti (New York, 10 dicembre 1984), sottoscritta anche dagli Stati Uniti. Il perdurante silenzio del governo italiano, dunque, appare poco compatibile con tali fonti sovranazionali del diritto e con il dovere di tutela dei diritti umani. Non a caso, tramite i suoi

8 Sentenze Aksoy contro Turchia; Aydın contro Turchia del 25 settembre 1997; Asenov contro Bulgaria del 28 ottobre 1998; sentenza Selmouni contro Francia del 28 luglio 1999 (relative a una ipotesi di eccessiva durata dei procedimenti penali instaurati benché i responsabili fossero stati identificati da tempo) e, particolarmente interessante, quella sul caso Veznedarog˘lu contro Turchia, dell’11 aprile 2000.

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difensori di fiducia, Abu Omar si è rivolto nell’agosto del 2009 alla Corte di Strasburgo, chiedendo la condanna dell’Italia per la violazione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Il silenzio del ministro Mastella e poi quello del ministro Scotti intervenivano peraltro nello stesso periodo in cui il governo Prodi si era compiaciuto di avere proposto all’Onu la moratoria sulla pena di morte (poi approvata), aveva condannato l’esecuzione capitale di Saddam ed i bombardamenti in Somalia, aveva presentato una proposta di legge per istituire la Commissione nazionale per la promozione e la tutela dei diritti umani, nonché il Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale... e aveva sostenuto, infine, la proposta di legge sulla tortura, votata dalla Camera dei deputati nel dicembre del 2006 ma poi non approvata nel corso di quella legislatura, interrottasi per la caduta del governo Prodi. Non mi pare strano, dunque, che qualcuno abbia rilevato evidenti contraddizioni nel comportamento del governo Prodi. Il 14 febbraio del 2007, peraltro, il Parlamento europeo approvava a larghissima maggioranza una risoluzione (se ne parlerà in seguito) in cui si deplorava la passività del governo italiano: nessun suo esponente, malgrado l’invito, si era presentato a Bruxelles a rispondere alle domande della Commissione che indagava sui sequestri e su voli e prigioni illegali della Cia. Il Parlamento, inoltre, invitava il nostro governo a richiedere l’estradizione dei ventisei latitanti statunitensi. Il governo italiano, insomma, sembra avere, in questa vicenda, smarrito la più volte declamata vocazione europeista, proprio mentre in altri Stati europei (da ultimi Spagna, Germania, Svizzera e persino Gran Bretagna) i rispettivi governi facevano cadere ogni segreto sui voli Cia e collaboravano attivamente con l’autorità giudiziaria o, come nel caso della Svezia, risarcivano i danni subiti dalle vittime delle renditions. Silenzi assordanti: Minniti, Violante e i parlamentari del centrosinistra E i senatori del centrosinistra firmatari della interrogazione del novembre del 2005 contro i ritardi del ministro Castelli, intanto, che cosa hanno fatto e detto? Diventati membri della maggio136

ranza che ha governato il paese fino alla primavera del 2008, alcuni di loro sono stati membri del governo Prodi, in qualità di sottosegretari (Alberto Maritati, come si è visto, era diventato addirittura sottosegretario alla Giustizia) mentre altri hanno rivestito incarichi politici di rilievo (ad esempio, Guido Calvi, responsabile del settore Giustizia dei Ds). Ma tutti sono rimasti silenti, avendo evidentemente dimenticato la loro precedente interrogazione. Altrettanto silenziosi sono stati anche altri importanti esponenti del centrosinistra dopo il passaggio dall’opposizione contro il governo Berlusconi alla maggioranza che ha sostenuto il governo Prodi: mi riferisco a personaggi politici del calibro di Marco Minniti, divenuto con Prodi viceministro dell’Interno, e di Luciano Violante, nominato presidente della Commissione affari costituzionali della Camera. Anch’essi avevano presentato veementi interrogazioni parlamentari quando erano all’opposizione. Con l’interrogazione a risposta scritta n. 4-16145 del 26 luglio 2005, ad esempio, Minniti aveva chiesto al presidente del Consiglio Berlusconi se fosse vero quanto pubblicato da «La Stampa» secondo cui il governo sarebbe stato orientato ad opporre il segreto di Stato sulla vicenda del sequestro Abu Omar. Tale ipotesi veniva definita dall’onorevole Minniti «impropria e contraddittoria», quando, invece, il governo avrebbe dovuto «assumere ogni iniziativa utile affinché si realizzi una cooperazione piena delle autorità degli Stati Uniti con l’autorità giudiziaria italiana e si possa giungere quindi ad una chiara ricostruzione dei fatti avvenuti e al conseguente accertamento delle responsabilità». Con l’interrogazione del 5 luglio 2005, firmata anche dai deputati Montecchi, Innocenti, Ruzzante, Minniti, Spini e Lucidi, invece, Violante aveva domandato al ministro degli Esteri di riferire quanto a sua conoscenza sul presunto sequestro di un altro egiziano, Mohamed Morgan, precisando quanto segue: Sette mesi dopo l’operazione compiuta da agenti dell’intelligence statunitense ai danni dell’imam della moschea di viale Jenner a Milano, Abu Omar, ancora una volta l’Italia sembra essere stata teatro dell’azione di forze che operano, indisturbate, al di fuori del contesto giuridico del nostro Paese; le ripetute dichiarazioni di figure non marginali degli ambienti dell’intelligence americana, da ultimo Michael Scheuer, 137

circa la consolidata prassi di avvisare le autorità dei Paesi alleati riguardo a siffatte operazioni, accentuano i dubbi e le preoccupazioni per le responsabilità politiche delle nostre autorità di Governo.

Infine, nell’interrogazione si definiscono i sequestri in questione «fatti che destano ulteriore allarme riguardo alla tutela della sovranità nazionale ed in ordine alla necessità di rispettare le leggi ed i diritti umani nella lotta al terrorismo». In una successiva intervista a «La Stampa», del 7 luglio 2006, all’indomani, cioè, della incriminazione di funzionari del Sismi, ma non ancora del direttore Pollari, l’onorevole Violante condannava la prassi delle renditions e delle torture dei terroristi: «la democrazia non può usare, per difendersi, gli stessi metodi che i terroristi usano per attaccarla [...] non possiamo accettare la logica che impone come metodo di contrasto al terrorismo il sequestro di persona ideato per portare un sospetto in un ambiente dove può essere sottoposto alla tortura per estorcergli informazioni». Quanto alla direzione in cui cercare, a proposito del caso Abu Omar, le responsabilità di tali deviazioni, Violante affermava: «Il quesito è semplice: gli apparati hanno agito su iniziativa personale oppure c’è stata copertura politica? A ciò deve rispondere il Parlamento e quindi è bene che il Comitato per il controllo dei servizi affronti al più presto la questione». Implicita – immagino e spero – la convinzione che anche la magistratura dovesse «affrontare la questione». Una interpellanza urgente al presidente del Consiglio dei ministri veniva presentata il 6 luglio del 2006 anche dall’onorevole Roberto Zaccaria che, insieme ai colleghi Boato, Forgione, Tranfaglia, Turco e altri cinquantuno deputati, esprimeva preoccupazioni per le attenzioni riservate dal Sismi ad alcuni giornalisti italiani come Giuseppe D’Avanzo: lo scenario emerso dalle indagini veniva definito «inquietante», tale da «ripugnare i principi cardine della Costituzione, a partire proprio dai suoi principi fondamentali [...] un comportamento contrario alla stessa natura dell’ordinamento democratico dello Stato». I deputati, quindi, chiedevano a Prodi «se e quali strutture del servizio segreto militare siano state distratte dalle loro attività per perseguire fini palesemente contrari a quelli cui sono state preposte [...] quali le strutture interne al Servizio che avrebbero dovuto vigilare ed impedi138

re una tale eventualità... quali provvedimenti si intendano adottare nei loro confronti». Credo che Roberto Zaccaria e i suoi colleghi non abbiano avuto risposta, ma forse, con l’eccezione di Tana de Zulueta e pochi altri, hanno pure rinunciato ad averla: Zaccaria è stato anzi uno dei più strenui sostenitori della nuova legge sui Servizi approvata circa un anno dopo la sua interpellanza, una legge che ha esteso a dismisura la tutela del segreto di Stato. Quanto a Minniti e a Violante non se ne conoscono le valutazioni a proposito della scelta del governo Prodi di sollevare conflitto di attribuzione con la Procura di Milano, chiedendo che la Corte Costituzionale dichiarasse nullo il rinvio a giudizio degli imputati, sulla base di una supposta violazione del segreto di Stato. A me pare che avrebbero dovuto coerentemente e pubblicamente dissociarsene. Non l’hanno fatto. Forse perché attribuiscono un diverso significato al principio di «coerenza politica». Forse lo intendono come equivalente di «fedeltà politica». A me pare che la prima riguardi il piano personale dell’impegno politico, la seconda quello esterno di adesione alle strategie del partito o dell’area di appartenenza. Ma ciò – sia ben chiaro – non vale solo per le persone che ho citato, ma anche per tutti i politici che, in questa vicenda (alla quale mi limito), hanno prima protestato e poi taciuto. E per quelli che – più coerentemente – hanno sempre taciuto. Nel dire questo, vorrei aggiungere che non appartengo alla schiera di quanti, con atteggiamento che non esito a definire qualunquista, fanno di tutt’erba un fascio: la politica è una funzione alta e molti politici l’hanno fortunatamente onorata senza soluzione di continuità. Mi viene in mente, tra tanti, Virginio Rognoni.

XI

Gli arresti di Moretti e Segio, i pentiti e la fine degli anni di piombo

Nonostante le operazioni antiterrorismo e gli arresti eseguiti in varie parti d’Italia tra il 1978 ed il 1979, le Brigate Rosse, così come Prima Linea ed altri gruppi «minori», erano ancora tragicamente in attività all’inizio degli anni Ottanta. Virginio Rognoni Dopo il rinvenimento del corpo di Moro in via Caetani a Roma e le dimissioni di Francesco Cossiga, fu Virginio Rognoni il nuovo ministro dell’Interno. Ricoprì la carica per circa cinque anni, tra i peggiori della storia nazionale, dal giugno del 1978 al luglio del 1983. Rognoni era docente di Istituzioni di diritto processuale all’Università di Pavia, città dove viveva: un uomo di grande esperienza politica, stimatissimo prima e dopo quegli anni. La sua nomina diede vigore alla lotta al terrorismo: egli fu sempre al fianco delle forze dell’ordine, sempre vicino ai magistrati, senza alcun interesse che non fosse quello del bene comune. Ascoltava e vagliava le nostre richieste e le nostre modeste proposte e, nell’ovvio rispetto delle diverse competenze, sosteneva con forza in sede politica quelle in cui credeva. Con lui ministro dell’Interno, le forze di polizia destinate all’antiterrorismo vennero rafforzate e dotate di nuovi mezzi, ma vennero anche avviate verso quel proficuo rapporto con pubblici ministeri e giudici istruttori che, unitamente all’esplodere del fenomeno dei pentiti, risultò decisivo per piegare il terrorismo. 140

Polizia giudiziaria e magistratura negli anni di piombo La situazione della polizia giudiziaria, prima del sequestro Moro (16 marzo 1978), era sostanzialmente la seguente: nel 1974, dopo il sequestro del giudice Sossi e la strage di piazza della Loggia, erano stati, sì, costituiti l’Ispettorato per l’azione contro il terrorismo (affidato al vicecapo della polizia, Emilio Santillo) ed il Nucleo speciale di polizia giudiziaria dei carabinieri (diretto dal generale Carlo Alberto dalla Chiesa) per dare supporto all’autorità giudiziaria di Torino nelle prime indagini sulle Br, ma entrambi tali reparti, nonostante gli ottimi risultati conseguiti, erano stati sciolti o trasformati. Questa scelta, secondo alcuni commentatori dovuta all’erroneo convincimento che le Br fossero state definitivamente sconfitte con l’arresto di Curcio e di altri storici esponenti di quell’organizzazione, non aveva però prodotto un effettivo indebolimento degli apparati di investigazione: ne aveva piuttosto determinato una diversa strutturazione, con perdita della guida centralizzata e della capacità di muoversi agilmente su tutto il territorio dello Stato senza vischiosità burocratiche. Tutti gli uomini di quel primo nucleo di dalla Chiesa, ad esempio, erano stati trasferiti nelle sezioni specializzate antiterrorismo di Milano, Torino, Genova, Padova, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Taranto e Catania, costituite a seguito dell’espandersi del terrorismo in varie zone d’Italia. Erano reparti esentati da qualsiasi altro tipo di indagine ed impiego. Mancava, certo, una guida unica, ma la loro dipendenza dai tre comandi di divisione di Milano, Roma e Napoli ne assicurava comunque un buon coordinamento. Ai «veterani» furono affiancati giovani e promettenti ufficiali e sottufficiali e le loro dotazioni, in termini di materiali e mezzi, furono certamente di qualità. Anche la polizia di Stato si strutturò più o meno allo stesso modo: l’Ispettorato generale di Santillo era articolato anche in alcuni nuclei regionali istituiti presso le sedi più importanti, le cui competenze talvolta si sovrapponevano a quelle degli Uffici politici allora esistenti presso le questure. Dopo la riforma dei Servizi di informazione del 1977, cioè all’inizio del 1978, i nuclei regionali e gli uffici politici furono sostituiti dalle Digos (Direzioni investigazioni generali e operazioni speciali) – costituite nelle questure dei capoluoghi di regione nonché a Padova e Catania – cui fu attribuita la competenza per le indagini in materia di terrorismo. 141

Mentre le forze di polizia giudiziaria avevano già intrapreso il cammino verso una più diffusa specializzazione in questa materia, la magistratura, salvo che a Torino, era invece decisamente indietro: mancavano anche la cultura dello scambio reciproco delle informazioni tra uffici giudiziari e la capacità di coordinare gli uffici di polizia giudiziaria. Si spiega, allora, perché il sequestro di Aldo Moro colse le istituzioni impreparate: indagini frammentate, talvolta approssimative e comunque prive di efficace coordinamento, costituivano la normalità quasi dappertutto. Ma proprio nel ’78, in particolare nel periodo successivo al rapimento di Moro, la situazione registrò un’evoluzione positiva: furono determinanti non solo la spinta impressa da Rognoni, ma anche una produzione legislativa frutto di un clima politico che, almeno nello sforzo di contrastare il terrorismo, favoriva iniziative condivise da maggioranza ed opposizione. La legislazione dell’emergenza Secondo alcuni commentatori, quegli anni sarebbero stati caratterizzati dalla produzione di una legislazione emergenziale che avrebbe condotto al sacrificio di diritti e garanzie degli imputati. Si fa spesso riferimento, ad esempio, alla «legge Reale» del 19751, ma si omette di ricordare che questa legge risaliva a un periodo in cui il terrorismo non si era ancora manifestato nelle sue forme più cruente: si trattava di una normativa che cercava di fronteggiare soprattutto gli effetti delle manifestazioni violente di piazza dei primi anni Settanta. Era, dunque, una legge sull’ordine pubblico, non sul terrorismo: proprio per questo fu poco utilizzata per contrastare questo fenomeno. La «legge Reale» aveva solo introdotto alcuni divieti alla concessione della libertà provvisoria, la possibilità di fermo ad opera della polizia per alcuni gravi reati e per quelli in materia di armi, la punizione di reati in tema di riorganizzazione del partito fascista, nonché la possibilità di un più ampio ricorso a perquisizioni personali «sul posto» senza autorizzazione dell’autorità giudiziaria. Collegate all’estendersi del terrorismo, invece, furono due leggi rispettivamente approvate nell’agosto del 1977 e nel maggio del 1978 (pochi giorni dopo l’omicidio di Al1

Legge 22 maggio 1975, n. 152 (Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico).

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do Moro): ma esse introdussero soprattutto alcune novità processuali e alcuni nuovi reati, come il sequestro di persona a scopo di terrorismo. Del tutto inutilizzati furono poi altri nuovi strumenti introdotti in quegli anni, come ad esempio la possibilità, in presenza di determinati requisiti, della perquisizione per blocchi di edifici2: nessun serio investigatore, infatti, potrebbe preferire uno strumento di questo genere al paziente lavoro di osservazione e pedinamento indispensabile nelle indagini contro ogni tipo di criminalità organizzata. Meglio pedinare il ricercato, insomma, e arrivare ai suoi complici piuttosto che effettuare perquisizioni indiscriminate. Fu utile, invece, l’obbligo imposto ai proprietari di immobili di denunciare i contratti di locazione da loro stipulati, una norma che disorientò almeno Prima Linea, i cui capi – come poi si seppe – decisero di abbandonare per prudenza molti appartamenti usati come basi dell’organizzazione. Gli strumenti «emergenziali» effettivamente utili contro il terrorismo, invece, furono sostanzialmente due, entrambi introdotti nell’ordinamento alla fine del 1979: la previsione di una nuova aggravante, cioè quella dell’avere commesso il fatto per finalità di terrorismo, e la normativa premiale in favore dei cosiddetti pentiti3. Si tratta di norme tuttora in vigore e non, dunque, di strumenti eccezionali, ma ordinari e ancora necessari contro il terrorismo dei giorni nostri. Alla luce dei risultati conseguiti per quella strada, il Parlamento approvò un’altra legge nel maggio del 19824, che introdusse benefici ancora maggiori (possibilità di più incisive riduzioni di pena e di libertà provvisoria, nonché casi di non punibilità per i responsabili di alcuni delitti) per i terroristi che avessero scelto la strada della piena collaborazione processuale entro il breve termine previsto dalla legge. Peraltro, i magistrati esperti di terrorismo, consci dell’eccezionalità di questo ulteriore stru-

2 Tale possibilità fu introdotta con il dl n. 625 del 15 dicembre 1979, convertito nella Legge 6 febbraio 1980, n. 15. 3 Anche l’aggravante e l’attenuante in questione furono entrambe introdotte con il dl n. 625 del 15 dicembre 1979, poi convertito nella Legge 6 febbraio 1980, n. 15. 4 Si tratta della Legge 29 maggio 1982, n. 304.

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mento, si pronunciarono compatti contro la proroga della sua validità. Furono questi, dunque, gli «strumenti eccezionali» utilizzati contro il terrorismo: è facile constatare come essi non si collocassero in alcun modo al di fuori di un sistema di leggi che, salvaguardando le libertà dei singoli, si proponeva solo di rendere più efficace la lotta contro quel tragico fenomeno criminale. Tanto più ove si consideri che l’accesso ai benefici premiali previsti dalle leggi citate, diversamente da quanto avviene in altri Stati, prevedeva comunque il rispetto delle garanzie degli «accusati»: come avviene ancora oggi, infatti, essi potevano essere concessi solo dal giudice, a seguito del pubblico dibattimento in cui i difensori dei chiamati in correità avevano la possibilità di contro-interrogare i collaboratori. Le riduzioni di pena, in sostanza, si applicavano solo in seguito a un esame molto approfondito della credibilità delle dichiarazioni dei cosiddetti pentiti, che dovevano essere avvalorate dalla individuazione di precisi riscontri oggettivi al loro contenuto. La scelta di accordare consistenti riduzioni di pena a chi avesse scelto di collaborare con la magistratura, anzi, si rivelò talmente utile da venire poi estesa a molti altri fenomeni criminali, come la mafia, il traffico di stupefacenti, la tratta delle persone e altro. Il mio giudizio sulla legislazione di quegli anni è, dunque, complessivamente positivo: le norme che avrebbero potuto portare al sacrificio di diritti e garanzie dei cittadini furono di fatto disapplicate e dimenticate, mentre quelle effettivamente utilizzate furono rispettose del corretto equilibrio tra esigenze di sicurezza e salvaguardia dei diritti delle persone che è proprio di ogni democrazia. Per sconfiggere il terrorismo fu importante anche l’iniziativa autonoma di pubblici ministeri e giudici istruttori: essi, senza alcuna direttiva politica o altra forma di condizionamento, diedero vita a un coordinamento spontaneo tra gli uffici giudiziari interessati dal fenomeno, fino alla creazione, al loro interno, di gruppi specializzati nel settore del terrorismo. Eppure, il sistema di legge non prevedeva allora né direzioni nazionali né alcuna norma in tema di coordinamento, anzi conosceva qualche regola che ostacolava lo scambio di notizie. Quel gruppo di magistrati investigatori non superava il numero di venti-venticinque unità: nei nostri incontri, ci scambiavamo in tempo reale notizie sulle indagini ed elaboravamo indirizzi giurisprudenziali appli144

cati uniformemente. Quando poi, tra la fine del ’79 e l’inizio dell’80, si manifestarono le collaborazioni dei primi terroristi «pentiti», facevamo immediatamente circolare i verbali delle loro dichiarazioni, accordandoci sulla ripartizione di competenze «a fare» e su tempi e modalità di eventuali e conseguenti sbocchi operativi (perquisizioni ed arresti). Anche l’evoluzione delle strategie dei gruppi armati, le loro «risoluzioni strategiche» e i volantini di rivendicazione venivano analizzati dai magistrati che indagavano sul fenomeno, alcuni dei quali avevano il compito di confrontare e sintetizzare i documenti d’interesse: in assenza di computer e banche dati, essi divennero la memoria storica della produzione ideologica dei gruppi terroristi. Facevo parte di quel gruppetto. In breve, a quelle riunioni, presero a partecipare anche i responsabili degli organismi investigativi della polizia giudiziaria che andavano ulteriormente incrementando la loro specializzazione (il nuovo nucleo speciale interforze comandato dal generale dalla Chiesa venne costituito nell’agosto del 1978): proprio per effetto di questo stretto rapporto tra magistrati e forze di polizia fu possibile non solo dare attuazione piena al principio costituzionale (art. 109) della subordinazione funzionale della polizia giudiziaria alle direttive del pubblico ministero5 – e, all’epoca, dei giudici istruttori6 – ma anche, attraverso il confronto tra le rispettive esperienze ed impostazioni di lavoro, favorire reciprocamente una consistente crescita di professionalità e la capacità di coordinamento di tutte le istituzioni impegnate nelle indagini giudiziarie sul terrorismo. E ciò avvenne senza alcuna necessità di ricorrere a tribunali speciali, a processi sommari (nessuno in quegli anni è stato perseguito in Italia per le sue opinioni politiche) o all’intervento dei Servizi d’informazione, la cui competenza – secondo il sistema italiano – concerne l’attività di prevenzione dei rischi per la sicurezSe ne parlerà più approfonditamente nel cap. XXIV. La figura del giudice istruttore è scomparsa nell’ordinamento italiano ormai da circa vent’anni. Fino al 1989, però, il giudice istruttore svolgeva funzioni inquirenti quando le indagini risultavano particolarmente complesse o riguardavano persone detenute da almeno quaranta giorni. In tali casi, il pubblico ministero doveva trasmettere gli atti al giudice istruttore per la prosecuzione delle indagini, alle quali continuava però a partecipare. 5 6

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za nazionale, senza possibilità di interferenza o di relazioni funzionali con la magistratura7. Dunque, né confusione, né scorciatoie nella lotta al terrorismo. È giusto ricordare, infine, che maturò proprio in quella temperie la convinzione dei magistrati italiani di dovere uscire dai loro palazzi per discutere di legalità in scuole e università, in circoli di quartiere e nelle fabbriche, in sedi di associazioni culturali e ovunque fosse possibile: allora per diffondere la conoscenza della perversa ideologia terroristica e così contrastare con fermezza il verbo di chi teorizzava la neutralità («né con lo Stato, né con le Brigate Rosse»), negli anni seguenti – ed ancora oggi – contro la logica mafiosa, la corruzione e a difesa dei principi costituzionali. In questo clima, le operazioni contro il terrorismo a Milano si succedevano con ritmo frenetico e la vita di quanti tra noi componevano il pool specializzato ne era ovviamente condizionata. Smisi di praticare qualsiasi sport, non per ragioni di sicurezza come qualcuno pensava, ma perché non ne avevo il tempo. Il 26 maggio del 1981 nacque mio figlio Andrea: era il giorno più bello della mia vita, ma fu poi il «mio» fedele Gerardo Frisani, il caposcorta, a riportare a casa mia moglie con il bambino. Io stavo interrogando qualcuno. Analoghi impegni mi avevano impedito, giorni prima, di andare a Maglie, in Puglia, a ricevere la medaglia d’oro che un’associazione locale avrebbe voluto consegnare a me, quale «giovanissimo magistrato salentino», dedicandola «a tutti i Magistrati e a tutti i componenti delle Forze dell’Ordine che difendono la Repubblica a viso aperto». Quella volta fu mio padre a rappresentare i magistrati italiani, dunque anche suo figlio: ho davanti a me, mentre scrivo, la busta che mi mandò. All’esterno si legge il destinatario: «Gent.mo dott. Armando Spataro...». All’interno c’è la foto di mio padre che riceve commosso la medaglia da un componente del Csm, con un resoconto ciclostilato della cerimonia. Sulla prima pagina mio padre scrisse solo: «Vedi pag. 16», dove si parlava di lui e di me. 7 Proprio per tale ragione, anzi, la Legge 24 ottobre 1977, n. 801 sui Servizi d’informazione prevedeva per i loro direttori un generale obbligo di riferire le notizie di reato eventualmente acquisite alla polizia giudiziaria, che aveva a sua volta l’obbligo di comunicarle al pubblico ministero. Tale disposizione è stata confermata dalla nuova Legge sui Servizi 3 agosto 2007, n. 124.

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I ricordi di indagini, interrogatori, trasferte di lavoro, amarezze e dibattimenti si accumulano disordinatamente. Tuttavia, sembra che il passare del tempo, più che annebbiarli, ne renda i contorni più netti. Nel raccontare storie e nomi, però, devo prestare attenzione a distinguere i fatti dalle emozioni e da tutto ciò che negli anni mi si è accumulato dentro. Calogero Diana e gli arresti di piazzale Libia 29 gennaio 1979: a poche ore dall’omicidio Alessandrini, decidiamo con la Digos di operare una serie di perquisizioni, quasi di routine, a carico di persone sospettate di appartenere all’area del terrorismo. E nella notte tra il 1° e il 2 febbraio, in casa di un giovane che lavorava come portiere di notte in un hotel del centro, la Digos trova ed arresta Calogero Diana, uno dei più pericolosi brigatisti latitanti. Era ricercato per avere ucciso un funzionario di polizia. Diana viene trovato in possesso di armi e documenti falsi. La mattina seguente il suo arresto mi reco alla Digos per esaminare il materiale sequestrato. Il capo dell’Antiterrorismo era Eleuterio «Stefano» Rea, funzionario coraggioso e uomo d’azione. Rea mi dice che a Diana era stata sequestrata anche un’agendina. Chiedo di vederla, ma era stata già impacchettata e sigillata come corpo di reato. Insisto per vederla e scopro un’annotazione che era sfuggita alla polizia: nell’agenda figurava un appuntamento per il 3 febbraio, ma l’annotazione diceva «alocide azzaip aibil». Cioè «edicola piazza[le] Libia», con le parole scritte al contrario. Sembra un aneddoto, ma è un fatto realmente accaduto. La mostro a Rea che, un po’ mortificato e sorpreso, mi dice: «Hai ragione, scusa, non ce ne eravamo accorti...». E aggiunge: «L’appuntamento però è per domani. Ma ormai i giornali sanno dell’arresto di Calogero Diana e non potranno non pubblicare la notizia. Quindi l’incontro, se c’è, salterà». Dispongo che venga egualmente predisposto il servizio: «non si sa mai, dico», anche perché sapevamo della prassi delle Br di predisporre i cosiddetti «appuntamenti strategici» per membri dell’organizzazione che, non conoscendo l’ubicazione delle rispettive abitazioni, avevano necessità di fissare appuntamenti per mantenere i reciproci contatti, altrimenti impossibili. Saltati gli appuntamenti strategici, fissavano pure quelli «di recupero». Ipotizzo, cioè, che quell’incontro potesse essere «strategico» e che magari ci 147

sarebbero andati altri brigatisti che, pur sapendo dell’arresto di Diana, non avevano altro modo di incontrarsi. Con qualche scetticismo, la Digos prepara l’appostamento in piazzale Libia. Sono al lavoro in Questura quando sento nel corridoio dell’Antiterrorismo urla e passi veloci di decine di persone: erano stati arrestati, con armi e documenti falsi, Carla Brioschi, Rino Cristofoli e Valerio De Ponti. Sfilano davanti a me ammanettati e circondati dai poliziotti eccitati. Erano i nuovi capi della Walter Alasia dopo gli arresti di via Monte Nevoso di pochi mesi prima. L’omicidio Torregiani e Cesare Battisti Il 22 gennaio del 1979, un gruppo di rapinatori comuni, senza alcun collegamento con la galassia del terrorismo, irrompe nel ristorante Transatlantico di Milano. Tra i clienti presenti, c’è un gioielliere, Pierluigi Torregiani, che, minacciato, reagisce; ne nasce una colluttazione con i rapinatori e una sparatoria: Torregiani e un altro cliente erano armati. Muoiono uno dei rapinatori (Orazio Daidone) e un cliente. Torregiani e un altro cliente vengono feriti. Il 16 febbraio del 1979, alcuni terroristi irrompono nella gioielleria di Torregiani e lo ammazzano. Anche il figlio del gioielliere rimane coinvolto nell’azione e, ferito da un colpo di revolver esploso dal padre per difesa, rimarrà paralizzato. Con un unico volantino vengono rivendicati sia l’omicidio Torregiani che l’omicidio del macellaio di Mestre Lino Sabbadin, avvenuto a Santa Maria di Sala, vicino Venezia, quasi in contemporanea: anche lui aveva fatto fuoco, in precedenza, su un rapinatore. La motivazione dei due omicidi, come spiegato nel volantino a firma Proletari armati per il comunismo (Pac), è identica: i rapinatori uccisi a Milano e Venezia erano proletari e nessuno poteva arrogarsi il diritto di farsi giustizia e di colpirli solo perché volevano riappropriarsi di quanto era stato tolto loro dalla società capitalista. I Proletari armati per il comunismo commetteranno altri omicidi (il primo era stato quello del maresciallo Antonio Santoro, ucciso a Udine il 6 giugno 1978 e l’ultimo sarà quello dell’agente della Digos Andrea Campagna, ucciso a Milano il 19 aprile 1979), ferimenti e rapine. Ma già dopo l’omicidio Torregiani subiscono un duro colpo grazie a un episodio più unico che raro: un coraggioso cittadino vede gli assassini di Torregiani fuggire in auto e deci148

de di seguire discretamente il veicolo. Assiste, così, al «cambio auto», cioè al momento in cui i terroristi abbandonano l’auto rubata usata nel primo tratto di fuga, e vede due di essi mentre trasbordano (è proprio il caso di dire con «armi e bagagli») su un’auto «pulita». Il testimone ne rileva la targa e la comunica telefonicamente alla polizia. La vettura è intestata a Sante Fatone, conosciuto come militante nell’area della Barona. In poche ore la Digos individua alcuni degli assassini, grazie anche alle dichiarazioni rese da parenti di Fatone, il quale però riesce a fuggire. Viene anche individuata l’area «politica» di appartenenza degli assassini. Io e il collega Luigi De Liguori ci precipitiamo in Questura ed iniziamo subito gli interrogatori. Si rivelerà un’attività decisiva per la immediatezza che l’aveva caratterizzata: la sorella e la nipote di Fatone rendono testimonianze che lo incastrano. Alcuni degli arrestati «minori» si contraddicono sui loro spostamenti nell’arco temporale comprendente l’ora dell’omicidio, forniscono alibi che risultano immediatamente fasulli e danno comunque indicazioni che costituiranno elementi di prova a carico degli autori dell’omicidio. Ma già due giorni dopo si scatena sulla stampa una campagna abilmente orchestrata: secondo familiari, amici ed avvocati degli arrestati, le dichiarazioni di testimoni e detenuti sarebbero state estorte con la tortura. Non sono giorni piacevoli. «Repubblica» evoca il clima «da lontano paese sudamericano» o da «Algeri occupata dai paracadutisti del generale Massu». Il «manifesto» intitola così il suo articolo su Sisinio Bitti, uno degli arrestati: Per farlo confessare, la Digos lo ha castrato. Persino qualche magistrato aveva forse dato credito alle accuse rivolteci di avere tollerato ed autorizzato le torture: un giorno, due giudici istruttori, cui il processo era stato affidato dopo i canonici quaranta giorni dagli arresti, mi pregano di andare nel loro ufficio. Lo faccio immediatamente e vi trovo la sorella di Fatone che avevo sentito come teste e che aveva smentito l’alibi del fratello. La saluto e mi siedo di fronte a lei. All’altro capo della scrivania siedono i due colleghi. Aspetto che mi dicano la ragione della «convocazione» ma loro, dopo circa un minuto di silenzio, si rivolgono alla donna: «Allora?», le chiedono. «Non è lui», risponde la donna. Capisco, ma attendo la fine del verbale che sottoscrivo anch’io. Attendo che la teste lasci l’ufficio e chiedo ai giudici istruttori di spiegarmi quanto era successo. Mi dicono, con 149

l’aria più naturale di questo mondo, che la donna aveva ritrattato le precedenti dichiarazioni, negando di avere ricevuto l’avviso formale – dovuto a ogni testimone che sia parente stretto di imputati – del suo diritto di non rispondere alle domande. Aveva anche aggiunto che i poliziotti l’avevano minacciata pesantemente perché raccontasse determinate circostanze al pubblico ministero che, subito dopo, l’aveva interrogata in Questura. Siccome dal verbale risultava che quel pubblico ministero ero io – mi spiegano i colleghi – avevano ritenuto utile convocarmi nell’ufficio e «mostrarmi» alla donna. Erano ovviamente convinti, aggiungono, che la mia condotta in Questura fosse stata del tutto corretta. «Avrei meritato almeno una preventiva comunicazione giudiziaria – rispondo – e che la ricognizione fosse stata effettuata con altre due persone somiglianti al mio fianco, come prescrive la legge». Meravigliato e ferito, scrivo una lettera al procuratore Gresti e mi «dimetto» (tecnicamente era un’astensione) dal ruolo di pubblico ministero che seguiva quell’inchiesta. Lasciai Corrado Carnevali a occuparsene da solo. Nei mesi successivi i Pac vennero progressivamente smantellati; caddero molti covi dell’organizzazione tra cui ricordo quello di via Castelfidardo nel giugno del 1979: vi vennero arrestati, con molte armi, Silvana Marelli, Cesare Battisti e altri. Pochi giorni dopo vennero arrestati altri sette militanti dei Pac, mentre Arrigo Cavallina ed Enrica Migliorati erano già stati presi, sempre nello stesso mese, a Verona. Il 9 luglio venne scoperto il covo via Picozzi 18 al Casoretto, ove furono arrestati Maria Pia Ferrari e Giuseppe Memeo. Non sapevamo ancora quel che ci avrebbe rivelato Marco Barbone più di un anno dopo: Memeo, soprannominato «il Terrone», era il giovane raffigurato, a gambe divaricate, braccia distese in avanti e mani che impugnano una pistola, nella celebre foto – scattata in via De Amicis a Milano, il 14 maggio del 1977 – in occasione del corteo armato che costò la vita al vicebrigadiere Antonio Custra. Quella foto è quasi diventata l’immagine-sintesi degli anni di piombo. A Corrado Carnevali e al giudice istruttore Pietro Forno toccò, più avanti, di raccogliere le confessioni di vari collaboratori che confermarono tutti i risultati ottenuti nella prima fase delle indagini per l’omicidio Torregiani. Il 27 maggio 1981, intervennero le prime condanne per l’omicidio Torregiani e i reati connessi: ventotto anni e sei mesi per Giu150

seppe Memeo e Gabriele Grimaldi, venticinque anni e quattro mesi a Sante Fatone e Sebastiano Masala. Cesare Battisti, che non era ancora imputato per l’omicidio, venne in quel primo processo condannato a tredici anni e cinque mesi di reclusione per banda armata e altri reati, tra cui il possesso delle armi sequestrate in via Castelfidardo. La sentenza venne confermata in appello nel giugno del 1983, con lievi riduzioni di pena per Memeo e Battisti. Tra i pentiti che parlarono dopo la sentenza di primo grado, ci fu anche Pietro Mutti, arrestato nel gennaio del 1982: raccontò il suo percorso criminale dall’Autonomia ai Pac, da Prima Linea ai Colp, e confermò la responsabilità per gli omicidi Torregiani di vari terroristi già condannati, come Giuseppe Memeo e Gabriele Grimaldi. Quest’ultimo, deceduto nel 2006, era figlio di Laura Grimaldi, nota giallista e autorevole figura dell’editoria milanese, che, comprensibilmente, scrisse un libro a sostegno dell’innocenza del figlio, Processo all’istruttoria8. Il volume, pubblicato nel gennaio del 1981, era chiaramente «prematuro», visto che allora era stato chiuso solo uno spezzone di inchiesta, mentre le indagini sui Pac e sulle loro azioni erano ancora in corso. Se a una madre non si può chiedere lucidità, meno comprensibili furono le accuse rivolte a magistrati e poliziotti che si stavano occupando del caso da Giorgio Galli, che scrisse una prefazione al libro del tutto aderente alla tesi principale dell’autrice, l’innocenza del figlio: lo Stato di diritto di ispirazione liberale deve applicare la sua concezione garantista anche nei confronti di chi non la condivide e in base a questa concezione, alle verifiche e alle procedure che essa comporta, in base a quanto viene documentato in Processo all’istruttoria (ho anche letto la requisitoria sulla quale si basa la sentenza di rinvio a giudizio), non risultano prove che Gabriele Grimaldi abbia organizzato formazioni armate: tanto meno che abbia partecipato all’omicidio Torregiani.

Ma Galli, già in quella prefazione, parlando di «un limitato e controllabile terrorismo» che sarebbe stato utilizzato «come elemento per stimolare e rivitalizzare le istituzioni statali» anticipava la singolare tesi che avrebbe più ampiamente esposto nel suo 8 Laura Grimaldi, Processo all’istruttoria. Storia di una inquisizione politica, Milano Libri, Milano 1981.

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Piombo Rosso9: vi si disegna un inattendibile scenario, popolato di misteri, complotti ed infiltrati, in cui i «Servizi», nell’arco di trentacinque anni, attuando una strategia buona per ogni stagione, con governi di destra, centro, centrodestra e centrosinistra, con Andreotti, Craxi, l’Ulivo, Berlusconi e così via, avrebbero sempre saputo tutto del terrorismo, talvolta lasciando che ogni cosa accadesse, talvolta intervenendo e comunque impedendo ai magistrati di conoscere la verità. E i magistrati, un po’ ottusi dico io, non si sarebbero mai accorti di niente. Ancora ritorna – ed assume un ruolo centrale – la tesi pellegriniana del «non si può escludere che...». Davanti all’autore, in occasione della presentazione del libro al Circolo della Stampa di Milano, nel giugno del 2004, criticai duramente quelle tesi, che definii prive di rigore scientifico. Riconosco di essere stato probabilmente troppo duro in quell’occasione, mentre Giorgio Galli fu signorile. La sua dedica apposta sulla prima pagina del libro recita: «Al dottor Spataro, magistrato coraggioso e critico, forse troppo severo, dopo un bel dibattito». Certo, tornando a Processo all’istruttoria del 1981, nessun’autocritica venne dallo stesso Galli o da Laura Grimaldi neppure quando il giovane Grimaldi riconobbe, tempo dopo, le proprie responsabilità per l’omicidio Torregiani e altre azioni di terrorismo. Già durante il processo di appello, Grimaldi, che era stato arrestato nel febbraio dell’80 e trovato in possesso di numerosi passaporti ed altri documenti falsi, aveva infatti dichiarato: «Questi dieci anni di lotta armata me li rivendico tutti, compresi gli errori che sono stati commessi, perché appunto non sono un burattino. Ho operato delle scelte coscientemente e quindi me li rivendico tutti, compreso anche il Torregiani, indipendentemente dal fatto che io l’abbia ammazzato o meno»10. Ma l’aveva ammazzato. Nella sentenza di condanna di Grimaldi, si possono leggere anche storie interessanti: un noto linguista era stato citato dalla difesa dell’imputato perché suffragasse il suo alibi. A detta di Grimaldi, era stato in sua compagnia a Milano, nella giornata e nelle ore in cui era stato commesso l’omicidio Torregiani. Il pro9 Giorgio Galli, Piombo Rosso. La storia completa della lotta armata in Italia dal 1970 a oggi, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2004. 10 Sentenza n. 22/83 della Prima Corte d’Assise di Milano, dell’8 giugno 1983, p. 351.

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fessore aveva confermato, indicando dettagliatamente tutto ciò che avevano fatto insieme quel giorno. Ma il giudice istruttore Forno aveva accertato che il giorno dell’omicidio, cioè il 16 febbraio del 1979, alle 12, il professore aveva tenuto una lezione all’Università di Siena. «Forse mi sono sbagliato», aveva dovuto convenire l’accademico, lasciando Grimaldi senz’alibi. Non ha mai ammesso le sue responsabilità, invece, uno degli ultimi falsi «martiri» dei giorni nostri, una delle tante vittime dello scempio dei diritti che – secondo gli pseudogarantisti nostrani, nonché secondo disinformati intellettuali francesi e politici brasiliani – sarebbe stato compiuto durante gli anni di piombo in Italia: Cesare Battisti. Si tratta, come ho più volte scritto e detto, di un «assassino puro». Catturato a metà del 1979 nella base dei Pac di via Castelfidardo, Cesare Battisti evase nell’ottobre del 1981 dal carcere di Frosinone. Venne catturato di nuovo solo nel febbraio del 2004, nell’ospitale Parigi. Nel frattempo era stato condannato definitivamente a quattro ergastoli, tra cui quello per l’omicidio Torregiani, ed era diventato uno scrittore di libri gialli, non so se e quanto apprezzato. Ma Battisti era intanto entrato nelle grazie di molti intellettuali e politici francesi, che scatenarono una campagna stampa a suo favore, fondata sulla inaffidabilità delle sentenze italiane. I giudici francesi concessero egualmente l’estradizione alla fine di giugno del 2004, ma intanto lo avevano posto in libertà provvisoria nel marzo precedente, sicché Battisti, poco dopo, si era dato ancora alla latitanza. È stato arrestato di nuovo in Brasile, a Copacabana, nel marzo del 2007 e l’Italia ne ha chiesto per l’ennesima volta l’estradizione. Incredibili le falsità sulla giustizia italiana negli anni di piombo diffuse in Francia, ove si sosteneva pure che Battisti vi avesse ricevuto asilo politico in base alla cosiddetta «dottrina Mitterand». A nulla servì la testimonianza diretta della giornalista francese Marcelle Padovani che, avendo intervistato sul punto il presidente Mitterand, ricordava la necessità della contemporanea presenza dei tre presupposti alla base della sua «dottrina», peraltro non sempre applicata uniformemente: l’ospitalità poteva essere concessa dal governo francese ai terroristi italiani latitanti purché non avessero commesso delitti di sangue, la loro condanna non fosse definitiva e si fossero impegnati a non commettere reati in Francia. Era evidente che le prime due condizioni non ricorrevano nel caso di Cesare Battisti. Fred Vargas, archeologa e scrittrice di successo, amica personale di Cesare Batti153

sti e, al pari di Daniel Pennac, Bernard-Henry Lévi, Bernard Kouchner e di altri scrittori e intellettuali francesi, sostenitrice delle sue ragioni, aveva scritto un lungo articolo pubblicato su «Le Monde» il 14 novembre 2004: la tesi della lobby francese è tuttora che la condanna di Battisti fu frutto dell’allineamento della magistratura italiana alle logiche emergenziali dell’epoca, nonché figlia di una giustizia fondata sulle dichiarazioni di pentiti inattendibili, applicata senza rispetto per le garanzie dei cittadini. Ma quegli intellettuali francesi sostenevano pure che la cattura dell’estradando – dipinto più o meno come un cavaliere senza macchia e senza paura – era un favore che il governo francese avrebbe inteso rendere al governo Berlusconi. Fui costretto a chiedere ospitalità a «Le Monde» per un articolo di replica a quello della Vargas. Il mio intervento fu pubblicato il 12 dicembre del 2004: ricordai, innanzitutto, che era stato il presidente della Repubblica Sandro Pertini ad affermare, alla fine dei nostri anni di piombo, che l’Italia era stato l’unico paese europeo a potersi vantare di avere fermato il terrorismo nelle aule di Giustizia, rispettando la Costituzione e le regole del processo. Spiegavo che il terrorismo in Italia non fu frutto di una guerra civile e che lo Stato italiano con ben tre successive leggi – l’ultima delle quali premiava la mera dissociazione dei terroristi senza necessità di chiamate in correità – aveva offerto ampie possibilità a chiunque di chiudere i conti con il proprio passato da terrorista. E, soprattutto, sottolineavo che Battisti era stato effettivamente condannato in contumacia, ma solo a causa della sua evasione da un carcere, e che comunque, nei processi subiti, la sua difesa era stata sempre pienamente assicurata dai suoi avvocati di fiducia. Infine, ricostruivo in dettaglio le vicende storiche e processuali di Battisti: rispetto ai quattro omicidi per cui era stato condannato, Battisti ha due volte sparato alle vittime, una volta ha svolto ruoli di copertura armata e in un’altra – proprio l’omicidio Torregiani – ha partecipato alla deliberazione dell’attentato, andando personalmente a compiere, in contemporanea, l’omicidio Sabbadin. Barbara Spinelli fu più dura e naturalmente ben più efficace di me quando, in un articolo del marzo 2004, contestò ai sostenitori francesi di Battisti la loro «ignoranza molto speciale... perentoria... militante», aggiungendo: Ottenuto riparo in Francia, Battisti ha scritto dodici romanzi polizieschi. È diventato «uno dei nostri», «uno di Gallimard», sembrano 154

dire i firmatari degli appelli dove persino si chiede, on line, di versare denaro per sostenerlo. Nella difesa delle corporazioni siete impareggiabili, ma spesso per l’appunto assai corporativi. Battisti è diventato, come usate dire, un intello. Dunque per forza di cose un innocente, dunque un intoccabile. [...] La verità è che l’Italia degli anni di piombo, voi la conoscete attraverso gli occhi di chi, riparato in Francia, vi ha venduto una sua storia falsa con la stessa tecnica con cui i magliari vendevano merce difettosa negli Anni Cinquanta11.

Non c’è nulla che possa smuovere un certo tipo di pseudointellettuali francesi: nell’ottobre del 2008, ho partecipato con Gian Carlo Caselli, a Parigi, nella facoltà di Scienze politiche, a un interessante convegno sugli anni di piombo italiani, organizzato da Marc Lazar. Ebbene, ancora una volta ci è capitato di sentir parlare di Tribunali militari, violazione dei diritti umani e altro. «Inutile parlare ai sordi», mi son detto, pure se molti – a partire proprio da Lazar – furono quella volta gli accademici e gli studiosi francesi che contestarono con forza certe ridicole tesi. La Corte europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo, con una successiva sentenza del dicembre del 2006, aveva peraltro rigettato il ricorso contro la concessione dell’estradizione proposto da Battisti nel 2005, giudicandolo «manifestamente infondato». Secondo i giudici di Strasburgo, infatti, Battisti aveva «rinunciato in maniera non equivoca al suo diritto di comparire personalmente e di essere giudicato in sua presenza» preferendo la fuga. La Corte aveva rilevato anche che «il richiedente, che aveva deliberatamente scelto di restare in una situazione di fuga dopo la sua evasione del 1981, era effettivamente assistito da diversi avvocati, da lui specialmente designati durante la procedura». A conferma di ciò, i giudici citavano diverse lettere scritte a mano o firmate da Battisti indirizzate ai suoi legali. Presso la Corte dei diritti umani, dunque, «il dossier Battisti è chiuso», ma quanto accaduto in Brasile, dal gennaio del 2009, costituisce un’offesa per la nostra democrazia e, soprattutto, per le persone (e i loro familiari) che Battisti ha ucciso e fatto uccidere. Infatti, mentre era in corso la procedura per la sua estradizione dal Brasile, Battisti rilasciava un’intervista 11 Barbara Spinelli, Non lui, ma altre sono le vittime degli anni di piombo. Cari amici francesi su Battisti sbagliate, in «La Stampa», 7 marzo 2004.

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dal carcere in cui dichiarava che, ove fosse stato consegnato all’Italia, avrebbe rischiato di venirvi ucciso. Incredibilmente, le autorità brasiliane sembravano dargli credito, visto che il 14 gennaio il ministro della Giustizia Tarso Genro annunciava la decisione presa: a Battisti era stato concesso asilo politico perché avrebbe potuto essere sottoposto a persecuzione in Italia per le sue convinzioni politiche. Le stesse che avrebbero motivato le sue precedenti condanne all’ergastolo. Il prestigioso quotidiano brasiliano «Folha de S. Paulo» accettava di pubblicare il 19 febbraio un mio articolo in cui spiegavo quanto quella decisione politica offendesse il nostro paese e le tante vittime del terrorismo. Ma una settimana dopo il senatore brasiliano Edoardo Suplicy dava lettura in Senato di una lettera di diciannove pagine inviata da Battisti alla Corte Suprema brasiliana che doveva decidere sulla sua estradizione: l’assassino diventato intellettuale in Francia si dichiarava innocente per gli omicidi che gli erano costati gli ergastoli, affermando tra l’altro che in Italia «durante i processi degli anni di piombo, il sistema delle torture e dei pentiti era utilizzato correntemente, con un’intensità specifica da parte del procuratore Armando Spataro [...]. Era terribile averlo come procuratore – proseguiva Battisti – Spataro era alla guida dello schema di torture dell’area di Milano». Il governo italiano, intanto, protestava con fermezza contro la concessione dell’asilo politico all’ex terrorista, così correggendo l’atteggiamento passivo che aveva inspiegabilmente tenuto mesi prima, quando il governo francese aveva negato l’estradizione di Marina Petrella, una brigatista condannata in Italia all’ergastolo per concorso in omicidio: allora – con la Francia di Sarkozy – neppure un colpo di tosse per manifestare garbatamente un minimo di disappunto politico, oggi, con il Brasile di Lula, fermezza massima fino a spingere alcuni esponenti del governo a chiedere l’annullamento della prevista partita amichevole di calcio tra Italia e Brasile. Forse temevano che l’avremmo persa, come è stato: 0 a 212. Dopo una serie di rinvii e un estenuante tira e molla, la Corte Suprema brasiliana, a novembre del 2009, con cinque giudici favorevoli contro quattro, votava a favore della estradizione di 12 La partita si è giocata a Londra il 10 febbraio 2009. Le reti del Brasile sono state segnate nel primo tempo da Elano e Robinho.

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Battisti in Italia, sconfessando il ministro Tarso Genro e le sue strambe teorie13. Affermava, però, che l’ultima parola spettava al presidente Lula, che avrebbe comunque potuto negare l’estradizione per motivazioni politiche. Lula non ha ancora deciso e ha dichiarato che non gli interessa che cosa abbia detto la Corte Suprema. «Adesso la palla è nel mio campo e sarò io a decidere come calciarla»14. Ho partecipato a Padova, il 16 febbraio del 2009, alla celebrazione del trentennale dell’omicidio di Lino Sabbadin, un cittadino qualunque che lavorava come macellaio e che Cesare Battisti e i suoi complici uccisero vigliaccamente, come sempre hanno fatto i terroristi. Mi sono ritrovato a Padova insieme al figlio di Sabbadin, insieme ai figli di Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola (le prime vittime delle Br, assassinati a Padova, nel giugno del 1974), insieme a Giovanni Bachelet, che qui voglio ricordare solo come figlio di Vittorio Bachelet, il vicepresidente del Csm, ucciso a Roma nel febbraio del 1980, e insieme ad altri figli e parenti di vittime di tutti i terrorismi. Ne ho tratto una sola conferma: non sarà mai possibile dimenticare nulla. Encomiabile, quindi, l’iniziativa di creare a Milano la Casa della Memoria per ricordare le cinquantanove vittime del terrorismo che la città, a volte, rischia di confinare nell’oblio. Carlo Fioroni Primavera del 1979. Era stato Pietro Calogero, un altro dei miei maestri, a incriminare per primo i capi e altri quadri intermedi della cosiddetta «Autonomia Operaia». All’epoca era sostituto procuratore della Repubblica a Padova e, grazie anche ad importanti testimonianze (tra cui quella del professor Angelo Ventura, per questo vittima di un «azzoppamento» nel successivo settembre del 1979), aveva scoperto l’esistenza di una vera e propria organizzazione terroristica, capeggiata da Toni Negri ed altri, strut13 Alla vigilia della decisione del Supremo Tribunal Federal sulla estradizione di Battisti, il ministro dichiarava che «le interferenze del governo italiano [...] sono una vergogna per chi le mette in atto e un tentativo di umiliare il Brasile» («la Repubblica», 11 novembre 2009). 14 Omero Ciai, Brasile, Lula spiazza tutti: «Su Battisti decido solo io», in «la Repubblica», 22 dicembre 2009.

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turata in una duplice veste: da un lato, la facciata pubblica ed apparentemente legale – impegnata nei collettivi, comitati di fabbrica e di quartiere, e dotata pure di un giornale («Rosso») – e, dall’altro, l’articolazione clandestina e molto compartimentata, addetta alle rapine di finanziamento e agli attentati. Si riproduceva, insomma, lo stesso schema di Lotta Continua, al tempo in cui alcuni suoi vertici decisero – e i quadri «militari» eseguirono – l’omicidio del commissario Calabresi (Milano, 17 maggio 1972), nonché di altre organizzazioni nate negli anni seguenti. L’inchiesta di Calogero, quella cosiddetta del «7 Aprile» (dalla data di esecuzione dei numerosi ordini di cattura emessi), aveva portato a numerosi arresti: oltre a Toni Negri, quelli di Oreste Scalzone, Franco Piperno, Emilio Vesce, Gianfranco Pancino, Lauso Zagato, Luciano Ferrari Bravo e altri. L’indagine aveva scatenato polemiche feroci da parte dei tanti garantisti nostrani, ma aveva pure svelato uno scenario sconosciuto. Quello che sarebbe stato poi del tutto illuminato da numerosi pentiti successivi, a partire da Marco Barbone. Il suo punto debole, peraltro, non era nelle conclusioni di Calogero, ma nella iniziativa dei colleghi romani che accusarono Toni Negri di essere coinvolto nel sequestro Moro: sarebbe stato lui il telefonista allora sconosciuto che, a nome delle Br, aveva tenuto i contatti con persone vicine ai familiari di Aldo Moro. Un’accusa anche allora poco verosimile. Non fu però Barbone a parlare per primo, dall’interno, dell’Autonomia come associazione terroristica, né è vero che Patrizio Peci sia stato il primo pentito in assoluto nella storia del terrorismo. Lo fu, invece, Carlo Fioroni, un insegnante all’epoca detenuto perché condannato in primo grado a ventisette anni per il sequestro di persona a scopo di estorsione e per l’omicidio preterintenzionale del suo amico Carlo Saronio, risalente all’aprile del 1975. Fioroni era stato arrestato a Bellinzona con parte del riscatto. Come esecutore materiale del sequestro era stato anche condannato a venticinque anni di reclusione un delinquente comune, Carlo Casirati. Verso la fine del 1979, Fioroni ci fece sapere che intendeva essere interrogato. Io e Pietro Calogero ci trasferimmo a Matera, nel cui carcere Fioroni era detenuto, e per vari giorni, a partire dal 7 dicembre, raccogliemmo le sue confessioni sulla struttura e sulle attività illegali della Autonomia Operaia, nell’ambito delle quali si collocava il sequestro Saronio. Si era tratta158

to di un’operazione di finanziamento dell’organizzazione, la cui esecuzione era stata appaltata a criminali comuni capeggiati da Carlo Casirati. La morte di Saronio era stata causata da un incidente di percorso addebitabile proprio ai «comuni»: uso di una dose eccessiva di cloroformio. Vista l’importanza storica delle dichiarazioni di Fioroni, contattammo anche Gian Carlo Caselli e altri colleghi che si occupavano di terrorismo: Matera sembrava diventata la località preferita dai giudici e pubblici ministeri che si avvicendavano negli interrogatori. Carlo Fioroni era un personaggio conosciuto nel mondo dell’eversione di quegli anni ed era stato anche implicato nelle indagini conseguenti alla morte di Giangiacomo Feltrinelli, risalente al 14 marzo del 1972: era intestatario di un furgone rinvenuto nei pressi del famoso traliccio di Segrate alla cui base giaceva il corpo dell’editore. Era stato però rilasciato e si era dato alla latitanza. Collaborando, si definì un quadro intermedio dell’organizzazione, nata dallo scioglimento tattico di Potere Operaio del 1973. Ne illustrò lo sviluppo a partire dalla decisione di operare una svolta insurrezionale e di costruire il partito armato, autodenominandosi prima Lavoro Illegale e poi Fronte armato rivoluzionario operaio (Faro). Ne indicò ovviamente i capi, Toni Negri primo tra tutti, di cui citò gli incontri con Renato Curcio. Spiegò come l’organizzazione, che si era dotata di una facciata apparentemente legale costituita dalla rivista «Rosso», fosse responsabile non solo del sequestro Saronio, ma anche di altre azioni di finanziamento – come una rapina commessa ad Argelato (Bologna) che era costata la vita al brigadiere dei carabinieri Andrea Lombardini – e di vari attentati, come quello commesso nel Milanese ai danni della Face Standard. Alla collaborazione di Carlo Fioroni fece seguito un’importante operazione denominata «21 Dicembre», data dei numerosi arresti, alcuni dei quali «eccellenti» e riguardanti anche personaggi del mondo accademico, che furono eseguiti in varie parti d’Italia. Alcuni degli arrestati parlarono a loro volta. L’operazione rafforzò ovviamente quella del «7 Aprile». Il ruolo di Toni Negri, vertice di una delle più ramificate organizzazioni terroristiche italiane, era ormai svelato: si spiegava anche, a quel punto, come mai Maurice Bignami, uno dei killer di Guido Galli nel 1980, fosse stato arrestato nel marzo del ’77 proprio a casa di Negri e trovato in possesso di moduli per carta di identità rubati al Comune di Por159

tici ed usati già in passato per formare documenti falsi di vari terroristi. Egli era all’epoca uno dei componenti dell’organizzazione armata capeggiata da Toni Negri. Ma i supporter di Negri e compagni non risparmiarono neppure quella volta i loro strali ai magistrati che si occupavano di terrorismo. Anche Leonardo Sciascia intervenne con una dichiarazione del 28 dicembre a garantire l’innocenza di una regista televisiva che era stata arrestata. Quali le basi della testimonianza rilasciata dallo scrittore siciliano? Semplicemente il fatto che lui ne era amico e la conosceva bene. Ovviamente, nessun’autocritica neppure da Sciascia quando quella donna ammise i fatti a lei addebitati e rese dichiarazioni importanti anche per ricostruire le responsabilità connesse alla rapina di Argelato con l’omicidio del brigadiere Lombardini. Fioroni nominò difensore di fiducia, oltre Marcello Gentili di Milano, anche l’avvocato Fausto Tarsitano, di cui ho già ricordato la grande statura morale e professionale. Tarsitano era notoriamente l’avvocato della Cgil e dell’«Unità». Ciò bastò all’avvocato Francesco Piscopo, difensore di uno degli arrestati, per formulare allusioni al Pci come ispiratore della iniziativa giudiziaria, se non delle stesse confessioni di Fioroni. Accuse di contiguità tra politica e magistratura già mosse a Calogero in occasione degli arresti del «7 Aprile» e che sarebbero state mosse alla fine del 1981 anche a me e a Caselli, che fummo definiti da un giornalista di cui ora sono amico «funzionari del Pci in toga che stanno riscrivendo, codice penale alla mano, quindici anni di storia, di lotte, di rapporti umani e di amicizia»15. E durante un dibattito svoltosi al Club Turati di Milano, nell’aprile del ’79, del resto, l’avvocato Sergio Spazzali, parlando di me e del collega De Liguori, aveva detto: «sono due farabutti e dietro di loro ci sono farabutti»16. Erano presenti magistrati (Antonio Bevere) e giornalisti (Giorgio Bocca, Carla Stampa, Tiziana Maiolo), ma nessuno aveva battuto ciglio. Non è che questo tipo di accuse ci sfiorasse o ci infastidisse più di tanto: erano però episodi che segnavano un certo isolamento dei magistrati che si occupavano di terrorismo. Ma siccome di isolamento e so15 16

Frank Cimini, in «Controinformazione», dicembre 1981. Cfr. «Corriere della Sera», 25 aprile 1979.

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litudine dei magistrati si è parlato tanto – e io ritengo che facciano quasi parte del loro status ordinario – preferisco parlar d’altro. L’operazione del 21 dicembre fu probabilmente la prima di quegli anni condotta da vari uffici giudiziari in modo perfettamente coordinato. Un acuto osservatore come Indro Montanelli scrisse: Alcune cose, cui purtroppo eravamo poco abituati, risultano chiare dallo stesso ruolino di marcia di tutta l’inchiesta: la segretezza con cui i magistrati – e sono almeno una dozzina – l’hanno condotta e la collaborazione di cui essa è il segno. Si sa di un vertice tenuto tra quelli di Milano, Torino, Padova, Reggio Emilia, Firenze, Genova, Roma: ma non se ne conosce né il cosa, né il dove, né il quando (pare a metà dicembre, ma è solo una voce). Questa coralità di azione ci consola. Finora si era vista soltanto una magistratura che intralciava se stessa [...] era tutto un susseguirsi di iniziative slegate e molto spesso in contraddizione l’una con l’altre [...]. Rovesciare questi metodi e sistemi non deve essere stato facile [...]. Noi vi crediamo [...]. Andate avanti [...]17.

Tutti i quotidiani italiani, comunque, pubblicarono per molti giorni in prima pagina le notizie connesse alle clamorose dichiarazioni di Carlo Fioroni, il primo collaboratore nella storia del terrorismo italiano. E Walter Tobagi lo paragonò a Joe Valachi18. In quei giorni, Tobagi fu anche autore di un’approfondita analisi del significato storico di quelle dichiarazioni, soffermandosi anche su quelle, pur rilevanti, di Mauro Borromeo, direttore amministrativo della Università Cattolica, che – chiamato in ballo da Fioroni – ne aveva confermato la parte a lui nota. Intanto, poiché Fioroni aveva parlato dei retroscena del sequestro Saronio, decisi di andare a interrogare colui che ne era stato l’esecutore, Carlo Casirati, anch’egli condannato in primo grado. Mi recai a fine dicembre nel carcere di Novara e Casirati disse subito di essere disposto a collaborare, ma desiderava prima essere trasferito altrove per ragioni di sicurezza. Per «coprire» la sua scelta, quando uscii dal carcere dissi ai numerosi giornalisti presenti sul posto che il detenuto aveva rifiutato di rispondere: articolai pure una studiata pro17 18

Indro Montanelli, E il resto è silenzio, in «il Giornale», 27 dicembre 1979. Cfr. «Corriere della Sera», 27 dicembre 1979.

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testa contro la pubblicazione sui giornali dei verbali di Fioroni, affermando che ad essa si doveva quel bel risultato, cioè il silenzio di Casirati. Ma quest’ultimo era d’accordo sulla messinscena. Trasferito in altro carcere, in una sezione ad hoc, iniziò a collaborare subito dopo. Fummo ancora io e Calogero a interrogarlo. Casirati confermò tutto, aggiungendo particolari addirittura comici riguardo ai suoi rapporti con Negri. Raccontò, ad esempio, che questi voleva indottrinare lui e gli altri delinquenti comuni che dovevano compiere le azioni di finanziamento dell’organizzazione. Al che Casirati disse a Negri che quelle sue parole gli ricordavano i discorsi di «tal Mimì Botta, noto truffatore napoletano», mentre lui era interessato unicamente al profitto economico che avrebbe ricavato dal sequestro o da altre operazioni. Ricordo ancora il risolino nervoso di Negri quando lo interrogai nel carcere di Trani contestandogli le accuse e parlandogli di Casirati e «Mimì Botta». Grazie alle dichiarazioni di Casirati, comunque, io, Corrado Carnevali ed Elio Michelini firmammo altri ordini di cattura: gli arresti furono eseguiti a gennaio dell’80. Poco dopo la collaborazione di Fioroni, il Parlamento, come ho già detto, convertiva in legge il decreto del governo varato a dicembre contenente per la prima volta la previsione di notevoli sconti di pena per i pentiti. Occorreva uno strumento forte e nuovo contro il terrorismo, ma non erano state le confessioni di Fioroni a determinarlo (né Fioroni era a conoscenza della sua gestazione quando parlò), bensì il tragico episodio di via Ventimiglia a Torino, dove un nucleo di terroristi di Prima Linea, nel dicembre del 1979, aveva fatto irruzione in una scuola di formazione aziendale, aveva scelto a caso dieci persone che la frequentavano, le aveva fatte allineare contro un muro, «gambizzandole» tutte. Nel febbraio del 1980, il procuratore Gresti, contro il parere di Carnevali, Michelini e mio, decise di inviare tutta l’inchiesta, per competenza, alla Procura della Repubblica di Roma, che procedeva contro molti degli stessi imputati per il più grave reato di insurrezione armata. Volle evitare i possibili conflitti e le polemiche che già si stavano profilando. Non fu trattenuta a Milano alcuna parte della inchiesta. Nel maggio del 1981, al termine del giudizio di appello del processo per il sequestro Saronio, la pena inflitta a Fioroni e Casirati fu ridotta a dieci anni per ciascuno. Fioroni ottenne la libertà nel 1982 ed espatriò legalmente. Negri 162

fu condannato in primo grado a trent’anni di reclusione, ma la pena definitiva fu quella di undici anni, sei mesi e quindici giorni di reclusione, con interdizione perpetua dai pubblici uffici, per banda armata, per l’omicidio Lombardini ad Argelato e per altri gravi reati. In appello gli furono infatti concesse le attenuanti generiche con una discutibile motivazione in cui si faceva anche riferimento, oltre che alla sua dissociazione, alla «mutata situazione sociale del paese» e alle «conseguenti molteplici istanze, formulate anche in autorevoli sedi istituzionali, per il superamento dell’emergenza pur nella ferma condanna dei fatti e dei singoli autori»19. Negri, arrestato il 7 aprile 1979, era intanto stato eletto deputato nelle liste del Partito radicale e fu scarcerato il 7 luglio 1983. Nel settembre successivo, il Parlamento concesse l’autorizzazione al suo arresto, ma Negri si era già reso latitante riparando in Francia. Rientrò spontaneamente in Italia quattordici anni dopo, godendo pressoché immediatamente dei benefici penitenziari e così finendo di scontare la pena. Nell’ottobre del 2009, un suo articolo è stato pubblicato su «Italianieuropei», rivista dell’omonima fondazione di Massimo D’Alema e Giuliano Amato. Pare che il pezzo, intitolato Sul futuro delle socialdemocrazie europee, sia stato ritenuto interessante dal direttore della rivista20. Ricordo Pietro Calogero: grazie a lui affinai la mia tecnica di interrogatorio e di verbalizzazione. Ma non sono stato mai capace di eguagliarne la resistenza alla fatica: una sigaretta, un caffè e via. Ore ed ore di interrogatorio, notti comprese: io, quasi trentunenne, distrutto e persino incapace di scrivere a macchina quello che lui dettava. Ma ricordo anche Carlo Fioroni: pentito vero per avere cagionato la morte del suo fraterno amico Carlo Saronio. Quando, scontata la pena, Fioroni ottenne la libertà, preferì eclissarsi sperando solo che gli altri si dimenticassero di lui. Io non ne ho più quasi sentito parlare. Niente a che vedere con Franceschini, Segio e i tanti terroristi oggi conferenzieri... 19 Sentenza della Prima Corte d’Assise d’Appello di Roma, 8 giugno 1987, pp. 491-493. 20 Alessandro Trocino, E Toni Negri scrive per «Italianieuropei», in «Corriere della Sera», 14 ottobre 2009.

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Gli arresti di Bruno La Ronga e Silveria Russo Roberto Sandalo, militante di Prima Linea a Torino, arrestato il 29 aprile 1980, sta collaborando con Caselli, Laudi, Maddalena e gli altri colleghi piemontesi. Di lui aveva parlato il 1° e il 2 aprile dello stesso anno Patrizio Peci, il primo pentito della storia delle Br, indicandolo come un militante di Pl con cui la sua organizzazione era venuta in contatto. Grazie alla collaborazione di Sandalo, cadono nella rete i primi suoi ex compagni di organizzazione. E a Milano, il 9 maggio del 1980, viene scoperta la principale base di Prima Linea, in via Lorenteggio 236. Vi vengono arrestati, oltre al titolare dell’appartamento, i capi dell’organizzazione in Lombardia: Bruno La Ronga e Silveria Russo, uniti anche da un legame sentimentale. Sarà la donna, come ho detto, a spiegarmi quel giorno, in Questura e a quattr’occhi, le ragioni dell’omicidio di Guido Galli, avvenuto appena un mese e mezzo prima. Nella base di via Lorenteggio si trovano armi lunghe e corte, un archivio della produzione documentale di Prima Linea e di altre organizzazioni, carte di identità, piani di azione. C’è anche un rapporto su un pedinamento fatto nei miei confronti. Vengono descritti perfino i miei occhi. Ma, soprattutto, come le perizie confermeranno, ci sono le pistole con cui sono stati uccisi Guido Galli e il povero William Waccher, di cui parlerò più avanti, ritenuto erroneamente un «traditore». Roberto Serafini e Walter Pezzoli L’11 dicembre del 1980, alcuni carabinieri dell’Antiterrorismo sorvegliano discretamente una bocciofila di via Varesina a Milano: una fonte confidenziale occasionale ha detto loro di avervi visto una volta Vittorio Alfieri. Già operaio dell’Alfa e noto per la sua militanza politica estremistica, era scomparso dalla circolazione senza essere ricercato. Era sospettato di essersi dato alla clandestinità, come dicevamo allora. Ancora non sapevamo che era diventato o era in procinto di diventare il leader assoluto della nuova Walter Alasia, la colonna milanese delle Br. I carabinieri non lo vedono nella bocciofila, ma vi riconoscono Roberto Serafini. Costui era già latitante e il suo percorso nel terrorismo italiano era stato ormai svelato agli inquirenti dai pentiti Carlo Fioroni e Marco Barbone. Era stato uno dei leader dell’ala militare dell’organizzazione capeggiata da Toni 164

Negri (Rosso-Brigate Comuniste), ne era uscito fondando con Corrado Alunni le Formazioni combattenti comuniste ed era infine entrato nelle Br. Era stato sempre descritto come un fanatico delle armi, dotato di mira e capacità di fuoco eccezionali. I carabinieri lo notano in compagnia di un giovane sconosciuto ed avvertono gli ufficiali: dal comando di via Moscova parte un altro gruppo di militari per arrestarlo. Vi sono anche ufficiali preparati ed esperti. Quando il gruppo arriva in via Varesina, Serafini e il suo compagno sono già usciti dalla bocciofila. Un’auto dei carabinieri, mentre i due camminano, li supera per accostare subito dopo. Serafini se ne avvede ed estrae la pistola, infilando l’altra mano nel borsello. Anche l’altro giovane tira fuori l’arma. Ma i carabinieri sono più rapidi e li uccidono. La mano di Serafini infilata nel borsello stringeva una bomba a mano a frattura prestabilita che non aveva fatto in tempo a lanciare. Mi precipito subito dopo in via Moscova per le attività di mia competenza. Il clima è palpabilmente teso: i carabinieri sono concentrati, silenziosi, scossi dal dramma di pochi minuti prima. Perché è comunque un dramma la morte di due giovani, sia pure uccisi mentre si accingevano a uccidere a loro volta. Improvvisamente, mentre sono in un ufficio con gli ufficiali, sento una voce forte che grida «At-tenti!». Sbattono i tacchi di tutti i presenti nel reparto: è l’omaggio al generale dalla Chiesa che, pur non essendo più al comando del Nucleo interforze antiterrorismo (egli è ormai il comandante della Divisione Pastrengo), è venuto a trovare i suoi uomini per essere loro vicino in quel momento delicato. Non dice una parola, cammina e stringe le mani a tutti (me compreso), regalando a tutti uno sguardo di stima e di incoraggiamento. La tensione si stempera improvvisamente. I carabinieri sono di nuovo consapevoli di essere stati costretti a fare, anche in quella tragica occasione, il loro dovere. L’altro giovane ucciso in via Varesina era Walter Pezzoli: mesi prima era stato assolto a Genova dall’accusa di appartenere alle Br. Tuttavia era armato anche lui e pronto a far fuoco. L’arresto di Mario Moretti ed Enrico Fenzi Il 4 aprile del 1981, ricordo, vengo raggiunto telefonicamente da Vincenzo Putomatti, all’epoca vicedirigente della Digos di Milano, che mi mette al corrente di una strana vicenda. Un funzionario del165

la Questura di Pavia si era precipitato a Milano, negli uffici della Digos, sostenendo che un suo confidente, un balordo che si chiamava Renato Longo, fermato a Pavia per reati minori, si era detto in grado di far arrestare Mario Moretti, il ricercato numero uno delle Brigate Rosse e di tutto il terrorismo italiano: «Se mi lasciate libero – questa era più o meno la sua proposta – io vi faccio catturare Mario Moretti con cui ho un appuntamento a Milano». Quando questo mi viene riferito, manca poco che mi metta a ridere. Avevo chiesto, infatti, chi fosse questo Longo e mi era stato detto che si trattava di una persona con precedenti penali da delinquente comune. Longo raccontava che i brigatisti in quel momento erano alla ricerca di nuovi adepti e quindi avevano cominciato a contattare lui e un gruppetto di due o tre persone, tutte di basso livello, in vista di una loro possibile affiliazione e del successivo ingresso nell’organizzazione. Mi pare di ricordare che il contatto fosse stato stabilito attraverso una persona conosciuta da Renato Longo in carcere. Gli investigatori di Pavia sono comunque dell’idea che si possa stare al gioco di Longo; gli uomini della Digos, nonostante la scarsa plausibilità della storia, si recano ugualmente nel luogo dell’appuntamento. Io e Putomatti, un po’ scettici, restiamo in Questura ad attendere l’esito dell’appostamento. A un certo punto arriva la telefonata attesa. Putomatti ascolta stupefatto e poi mi dice: «Abbiamo preso Moretti e Senzani». Non ci volevo e potevo credere. Naturalmente attendo in Questura l’arrivo dei poliziotti e degli arrestati che erano stati trovati in possesso di armi e documenti falsi. Vedo le due persone portate nelle stanze attigue a quella in cui io mi trovo. Mentre i poliziotti ci raccontano la dinamica dell’intervento, il secondo arrestato viene identificato correttamente: non è Senzani, ma un altro latitante, il pure famoso Enrico Fenzi, di Genova, un intellettuale trasformatosi in terrorista, già processato a Genova ed assolto per insufficienza di prove: la sentenza, la stessa che aveva mandato assolto Walter Pezzoli, era stata duramente criticata dal generale dalla Chiesa. Uno sgradevole strascico giudiziario caratterizzò le fasi successive della vicenda. Il confidente che aveva consentito la cattura di Moretti e Fenzi fu gestito in modo troppo disinvolto dallo stesso funzionario di polizia che lo aveva indotto alla collaborazione. Renato Longo fu arrestato nell’aprile del 1982, a Loano, e nella casa dove abitava furono trovati documenti falsi, armi ed altro. Dichiarò 166

che dopo l’arresto di Moretti e Fenzi aveva lavorato ancora per la Questura di Pavia e che, per favorire la propria ulteriore infiltrazione nelle Br, aveva commesso con alcuni complici (che furono arrestati) ben otto attentati dimostrativi: quattro nel maggio 1981 e altrettanti nel gennaio 1982. Due erano stati commessi a Pavia e sei a Milano. Per le rivendicazioni aveva usato la sigla Brigata 4 Aprile, che faceva riferimento alla data dell’arresto di Moretti e Fenzi, o quella di Nuclei di avanguardia comunista. Uno degli attentati dinamitardi del 1982 era stato commesso addirittura ai danni dell’abitazione dell’avvocato Marcello Gentili, difensore di fiducia dei pentiti Carlo Fioroni e Marco Barbone. Longo aggiunse che era stato praticamente autorizzato a commettere gli attentati dal funzionario di Pavia. Questi lo negò, anche se ammise di averlo incontrato più volte, di avergli dato decine di milioni, così come di avere saputo di alcune rapine da lui commesse. Il funzionario venne prima sospeso dal servizio, poi fu arrestato nel febbraio dell’83. Alla fine di aprile del 1984 la Corte d’Assise di Pavia lo assolse da alcuni reati e lo condannò a un anno ed otto mesi di reclusione, oltre la multa, per favoreggiamento e truffa in danno di un orefice di Pavia che Longo aveva rapinato e che era stato convinto dal poliziotto a versargli sedici milioni per recuperare la merce rapinata. In secondo grado, nel 1987, la Corte d’Assise d’Appello di Milano respinse l’appello del pm contro le assoluzioni ed assolse il funzionario anche dalla truffa, dichiarandolo non punibile per il reato di favoreggiamento: sarebbe stato costretto a commettere i fatti dalla necessità di salvare se medesimo da un grave e inevitabile nocumento al proprio onore21. La Cassazione confermò la decisione. Longo raccontò anche che un giorno il funzionario con cui egli aveva rapporti gli si era presentato in compagnia di un magistrato che lo aveva incoraggiato a proseguire nella sua attività finalizzata a ristabilire contatti con le Br. Il magistrato gli era stato presentato come il sostituto Spataro della Procura di Milano. Fui io, questa volta, a chiedere ai colleghi di poter entrare nella stanza dove lo stavano interrogando e di rimanervi per qualche minuto, senza presentarmi in alcun modo. Quando ne uscii, i colleghi chiesero a Longo se mi avesse mai visto prima. La risposta fu negativa. Un’altra ricognizione a vuoto, dunque, ma, questa volta, volontaria. 21

Cfr. l’art. 384 del codice penale.

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Tornando a Moretti e Fenzi, collego la loro cattura anche al ricordo della estrema correttezza istituzionale di Virginio Rognoni. L’arresto era ovviamente clamoroso, anzi storico e, come sempre in questi casi, gli organi di polizia avevano il comprensibile desiderio di convocare conferenze stampa o diramare comunicati. D’altro canto, non potevo permetterlo finché non fossi stato certo che la divulgazione della notizia non avrebbe danneggiato possibili sviluppi investigativi. Le modalità degli arresti di piazzale Libia di due anni prima costituivano ancora un campanello d’allarme. Ma arrivò la risolutiva telefonata del ministro Rognoni. Ero in Questura, come ho detto, e il ministro chiamò personalmente e direttamente un giovane magistrato di trentadue anni dicendogli: «Dottor Spataro, sono il ministro dell’Interno». Stavo per scattare in piedi e mettermi sull’attenti: Lei sa quanto per noi sia importante l’arresto di Moretti e quanto sia importante darne la notizia. Però ritengo che prima di ogni altra esigenza vengano quelle dell’autorità giudiziaria. Lei faccia tutto quello che ritiene di dover fare: interrogatori, esame di documenti. Tutto quello che le serve. Se necessario, si prenda anche una settimana. Io le do la mia parola d’onore che la notizia non uscirà. Però le rivolgo una preghiera: quando ha finito, vorrei che mi telefonasse e dicesse a me personalmente che posso dare la notizia alla stampa. Vorrei ricevere questo nulla osta direttamente dalla sua voce, non da altri.

Lo ringraziai. Lavorammo intensamente per ore: interrogammo Moretti e Fenzi che, ad ogni domanda, ripetevano solo e sempre nome, cognome e la frase di rito: «Mi dichiaro prigioniero politico»; studiammo poi le poche carte che avevano addosso e che non potevano portare a nulla. Dopodiché telefonai a Rognoni. Il ministro mi ringraziò e diffuse la notizia. Questo era anche Rognoni, il ministro che un giorno, nel pieno della polemica relativa al caso Barbone-Tobagi, mentre ero attaccato e offeso da molti socialisti, mi svegliò di buon’ora a casa e mi manifestò stima e solidarietà con poche e sobrie parole. Che mi bastarono e mi confortarono. Parlo spesso di quell’episodio, dell’arresto di Moretti e della richiesta di Rognoni: è inevitabile il confronto con i comportamenti di altri ministri dell’Interno che, specie in epoche più recenti, hanno dato alla stampa notizie di operazioni che erano 168

ancora in corso, addirittura prima che la polizia avesse eseguito i provvedimenti restrittivi emessi dal giudice. Scarsa considerazione per le esigenze della magistratura, massima attenzione per l’impatto mediatico delle «brillanti operazioni». È avvenuto anche alla fine del 2003, mentre era in corso un’operazione contro il terrorismo cosiddetto islamico: dovevano ancora essere eseguite perquisizioni e catture, vi era un mio ordine scritto alla polizia giudiziaria di concordare con la Procura tempi e contenuti delle notizie da comunicare alla stampa, ma da una sede internazionale il ministro dell’Interno dell’epoca già annunciava gli arresti dei terroristi, alcuni dei quali erano ancora da eseguire. I magistrati democratici e i processi di terrorismo Il 30 ottobre del 1981, venne pubblicata sul «manifesto» un’intervista rilasciata da due pretori del lavoro. In quella sede, i due avevano duramente criticato quei magistrati che avevano accettato di condurre inchieste di terrorismo fondate sulle dichiarazioni dei pentiti, «in cui avvengono illegalità e trattative sottobanco tra inquirenti e imputati». Come ho già ricordato, poco più di un anno prima, dopo l’omicidio Galli, magistrati come Elena Paciotti, di eccezionale spessore professionale e sensibilità civile, avevano chiesto di passare dal settore civile a quello penale e di occuparsi di inchieste di terrorismo, in ideale continuità con il lavoro dei colleghi uccisi. Quell’intervista stupì molti di noi, ci lasciò anzi con l’amaro in bocca. Fui io personalmente a segnalare quell’intervista al procuratore di Milano che, per via gerarchica, la inoltrò ai titolari dell’azione disciplinare. Nel maggio del 1984, la sezione disciplinare del Csm avrebbe condannato i due magistrati alla sanzione dell’ammonimento. Quelle parole, secondo il Csm, contenevano «accuse lesive dell’onorabilità professionale di specifici magistrati lanciate senza prove [dando fiato all’] irresponsabilità di una campagna di stampa che ha personalizzato in capo a taluni magistrati l’accusa di illegalità, invenzione di ipotesi accusatorie, montature di processi politici». Ammetto di essere stato ancora io il responsabile, nell’ottobre del 2000, quale componente del Csm, della «bocciatura» della possibile nomina di uno dei due magistrati all’incarico di referente per la formazione decentrata dei magistrati a livello distrettuale. La 169

commissione competente l’aveva proposto all’unanimità per quell’incarico, ma io ricordai in plenum la sua condanna disciplinare «incompatibile con il profilo professionale ideale proprio della figura del referente per la formazione decentrata» ed incompatibile, soprattutto, con il «dovere della memoria» che intendo coltivare finché ne avrò forza. In seno al Csm, in quell’occasione, si sviluppò un intenso dibattito al termine del quale la maggioranza si schierò sulla mia posizione: secondo il professor Eligio Resta, membro laico del Csm, i contenuti di quell’intervista rischiavano di essere interpretabili come una sorta di invito rivolto ai magistrati a non occuparsi di processi di terrorismo. Certamente non un bel messaggio, soprattutto riportandolo ai tempi della intervista. I consiglieri di Magistratura democratica e la sezione milanese della stessa corrente criticarono duramente la decisione del Consiglio e, in particolare, la mia iniziativa, bollata come il frutto di pregiudizio ideologico. A loro avviso, quella vecchia intervista concessa al «manifesto» sarebbe stata relativa a «critiche improprie [...] sulla conduzione dei processi contro i terroristi di sinistra e la gestione dei pentiti, nel contesto di una polemica interna alla sinistra di quegli anni, così datata che riesce persino difficile ricostruirla»22. Io, però, me la ricordo ancora tutta, ma proprio tutta. Giorgio Soldati È il 13 novembre del 1981. Alla Stazione centrale di Milano, un poliziotto ferma due giovani dall’atteggiamento sospetto e chiede loro i documenti. Il poliziotto si chiama Eleno Viscardi e i due giovani lo uccidono a freddo a colpi di pistola. Fuggono, ma altri po-

22 In realtà, a proposito di quell’intervista pubblicata il 30 ottobre 1981, la sentenza disciplinare dice ben altro, negando che ci si trovasse di fronte all’esercizio del diritto di critica, nel quale non può rientrare «l’alterare i fatti in modo da presentare al pubblico una situazione di fatto inesistente e su questa imbastire la critica all’ordine giudiziario, ovvero l’offendere con espressioni di per sé ingiuriose altri magistrati...», così come «esula dal diritto di manifestazione del pensiero l’uso di espressioni offensive, intimidatrici, palesemente contrarie a verità, ovvero rivelatrici di parzialità o slealtà istituzionali. In tali ipotesi, infatti, il magistrato vede diminuita la propria attendibilità in rapporto allo specifico, delicato ruolo che svolge nella società e, qualora le dichiarazioni concernino altri magistrati, offende il loro prestigio».

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liziotti li inseguono e li arrestano. Gli assassini sono Giorgio Soldati e Ferdinando Della Corte: il primo è un latitante, componente di Prima Linea. Il secondo è un giovane napoletano, sconosciuto e non ricercato. Della Corte diventa in breve un collaboratore di una certa importanza, determinando arresti di membri di Pl a Napoli e altrove. Giorgio Soldati, invece, rifiuta di rispondere alle domande. Viene trasferito nel carcere di Cuneo, dove il 10 dicembre del 1981 chiede ai brigatisti detenuti di essere giudicato. «Confessa» loro di aver fatto delle marginali confidenze alla polizia appena arrestato, anche se aveva poi rifiutato di rispondere all’interrogatorio dinanzi al magistrato. Chiede, insomma, di essere riabilitato e di riacquistare dignità di fronte a se stesso e ai compagni. Nessuno sapeva, peraltro, delle confidenze alla polizia, ammesso che vi fossero effettivamente state, neppure io. Brigatisti e detenuti di altri gruppi eversivi lo ascoltano, lo processano e lo condannano. La sentenza viene subito eseguita: Giorgio Soldati viene strangolato in carcere. Enrico Fenzi, presente a Cuneo, dirà successivamente che quell’episodio fu decisivo per la sua scelta di collaborazione con la magistratura. Una vicenda analoga si verificò nel carcere di Trani dove, nel luglio 1982, venne strangolato Ennio Di Rocco, componente delle Br-Partito Guerriglia. Mi chiedo ancora se Soldati fosse ingenuo o fanatico o entrambe le cose. Dei suoi assassini cerco ancora di dimenticare i nomi. La fine della Walter Alasia L’arresto di Moretti e Fenzi doveva rivelarsi l’anticamera della decimazione della colonna Walter Alasia delle Br, che avvenne tra la fine del 1981 e i primi mesi del 1982. Patrizio Peci aveva già raccontato, nel febbraio del 1980, che, dopo gli arresti di via Monte Nevoso e piazzale Libia, la direzione strategica delle Br aveva inviato a Milano due personaggi del calibro di Mario Moretti e Barbara Balzerani per ricostituire la Walter Alasia. Antonio Savasta, arrestato a Padova all’inizio del 1982, in occasione della liberazione del generale James Lee Dozier (rapito a Verona, nella sua abitazione, nel dicembre del 1981), e diventato anch’egli collaboratore, aveva poi rivelato che la colonna milanese Walter Alasia delle Br si era di fatto allontanata dall’organizzazione dopo una 171

serrata critica rivolta proprio a Moretti e Balzerani. I due leader storici erano accusati di avere determinato il distacco dell’organizzazione dalla classe operaia e dalle fabbriche. Poco si sapeva, quindi, della nuova struttura della Walter Alasia. Le cose erano destinate ad evolversi: nell’ottobre del 1981 veniva catturato, alla periferia di Torino, Vittorio Alfieri, trovato in possesso di pistola e documentazione Br; a dicembre dello stesso anno anche Pasqua Aurora Betti faceva la stessa fine: erano così caduti due capi della colonna milanese. Ma era il febbraio del 1982 a segnare di fatto la fine della Walter Alasia. Veniva fermato a Firenze Michele Galli e così scoperta la base da lui gestita in via Cesare da Sesto a Milano: vi venivano sequestrati due fucili a pompa, due mitra e dieci pistole, scritti ideologici e un piano di evasione da San Vittore predisposto da Pasqua Aurora Betti. In un appunto pure sequestrato in quel covo, la Betti, capo colonna della Walter Alasia, metteva in guardia i suoi compagni delle Br circa i rischi che correvano per il «grosso lavoro dei carabinieri...» di cui aveva intuito le dimensioni parlando con i funzionari della Digos che l’avevano casualmente arrestata. «Capito?», concludeva. Ma, nonostante gli avvertimenti della Betti, nei giorni immediatamente seguenti venivano catturati altri esponenti di spicco della colonna: Franco Grillo, Nicolò De Maria, Nicola Giancola, Ada Negroni ed altri ancora. Michele Galli iniziava a collaborare rivelando i nomi dei responsabili degli omicidi rivendicati dalla Walter Alasia negli ultimi anni nonché del sequestro di Renzo Sandrucci, dirigente dell’Alfa Romeo, liberato il 23 luglio dell’81. Lo stesso Galli, nel corso della cattura dell’ostaggio, si era lasciato sfuggire un colpo di mitra che lo aveva gravemente ferito al dito medio della mano destra. Gli era poi stato amputato da un medico costretto a farlo dalle Br senza denunciare il fatto alle autorità. Iniziarono a collaborare anche Franco Grillo e altri arrestati. L’organigramma della Walter Alasia del dopo-Moretti era finalmente noto: Pasqua Aurora Betti, Nicolò De Maria, Vittorio Alfieri, Roberto Adamoli (che sarebbe stato catturato all’inizio di giugno 1983) e Maria Rosa Belloli (proveniente dalle disgregate Fcc di Alunni e catturata anche lei a giugno) ne avevano costituito la direzione tra il 1980 e l’inizio del 1982. Lo stesso Galli era entrato a farne parte dopo la cattura della Betti. 172

Le dichiarazioni di questi nuovi collaboratori determinavano ulteriori ondate di arresti e scoperte di basi dell’organizzazione. Verso la fine di luglio del 1982, nel bar Rachelli di Milano, la polizia arrestava due membri della Walter Alasia e ne uccideva un terzo, Stefano Ferrari, che aveva tentato di far fuoco. Intanto, veniva arrestato pure Antonio Marocco, già compagno di Corrado Alunni in tutti i suoi percorsi eversivi e fondatore dei Reparti comunisti d’attacco. Si sapeva che, dopo essere evaso, era entrato nel Partito Guerriglia, un’altra frazione delle Brigate Rosse che ormai andavano frantumandosi, apparentemente per dissidi politici, ma anche per giochi di potere. Marocco iniziava a collaborare a sua volta e faceva scoprire ai carabinieri l’ultima e principale base della colonna Walter Alasia: nel novembre del 1982 cadeva il covo di via Terenghi a Cinisello Balsamo. Vi venivano arrestati Daniele Bonato ed Ettorina Zaccheo, trovati in possesso di cinque mitra, fucili, quattordici armi corte, esplosivo e documenti in gran quantità. Pochi giorni dopo, il 3 dicembre, cadeva anche Bernardino Pasinelli. Tutti e tre facevano parte della nuova direzione della colonna Walter Alasia dopo l’arresto dei componenti della precedente. Non ce la facevamo a star dietro a tutti i nuovi pentiti: anche Bonato e Pasinelli iniziavano a loro volta a collaborare e il primo rivelava anche che, nell’estate del 1982, insieme a Dario Faccio, aveva condotto una «inchiesta» nei miei confronti. I nuovi pentiti rivelavano anche che erano ormai intensi i rapporti di «collaborazione» con i Nuclei comunisti di Sergio Segio e che era in corso un «confronto politico» con il Partito Guerriglia. Ognuna di queste operazioni, come da «regola» ormai pluricollaudata, innescava il circolo – per noi virtuoso – che, dagli arresti e dalla caduta di basi delle Br, portava normalmente all’emergere di nuove collaborazioni processuali e, quindi, ancora a nuovi arresti e scoperte di covi. Ormai avveniva così in tutta Italia. Le requisitorie scritte del collega Filippo Grisolia del marzo e del giugno del 1983 e le conseguenti ordinanze di rinvio a giudizio del giudice istruttore Antonio Lombardi segnarono di fatto la fine della storia della colonna milanese Walter Alasia delle Brigate Rosse. Erano stati scoperti praticamente tutti gli autori di omicidi, ferimenti, sequestri di persona e di ogni altro tipo di reati consumati dall’organizzazione tra la metà degli anni Settanta e l’inizio del 1982. 173

I Cocori e l’importazione di armi fornite dall’Olp Una delle organizzazioni terroristiche meno conosciute è ancora oggi quella fondata da Oreste Scalzone ed altri nel 1977: i Comitati comunisti rivoluzionari (Cocori). Non vale la pena di parlare tanto di Scalzone, ormai conferenziere a Parigi, quanto della storia del suo gruppo, responsabile di ferimenti, rapine e di una clamorosa importazione via mare, dal Libano, di armi che, tra luglio e settembre del ’78, furono fornite dall’Olp a un quasi misterioso personaggio, Maurizio Folini (nome di battaglia «Armando»), legato a Scalzone stesso e mai tratto in arresto. È una storia che si fonda sulle ampie e concordanti dichiarazioni delle numerose persone che ne sono state protagoniste, nonché sullo studio della enorme mole di documenti sequestrati che, per buona parte, riguardavano anche Prima Linea. È così possibile affermare, con assoluta certezza, che tra la fine del ’74 e l’inizio del ’75 si era progressivamente aggregata un’organizzazione in cui erano confluiti ex militanti di Potere Operaio, fuorusciti da Lotta Continua ed altri gruppi di varia estrazione (come quelli del Circolo «Lenin» di Sesto San Giovanni o dei Comitati autonomi di fabbriche). Tale organizzazione raggiunse, tra il ’75 e il ’76, una struttura efficiente e compartimentata e, pur senza utilizzare una particolare sigla, realizzò numerose rapine, l’omicidio Pedenovi del 1976 a Milano, oltre a vari ferimenti ed attentati. La sua facciata pubblica ed apparentemente legale era costituita dalla rivista «Senza Tregua» e dalla denominazione «Comitati comunisti per il Potere operaio». Ma nell’autunno del 1976, per una serie di dissidi politici e per il formarsi di fazioni interne, si realizzarono una trasformazione politica dell’organizzazione, da un lato, ed una scissione, dall’altro. La parte più cospicua dell’organizzazione, infatti, accentuando la propria tendenza militarista, diede vita nell’autunno del 1976 a Prima Linea ed al conseguente progetto politico basato sulla creazione di una fitta rete di «squadre armate» (poi «ronde», termine tornato pericolosamente di moda), irradiate nel tessuto sociale. Prima Linea avrebbe poi proseguito il suo percorso criminale, sfociato negli omicidi commessi negli ultimi mesi del ’78, per poi praticamente estinguersi verso la fine del 1980, dopo le rivelazioni di Sandalo, Viscardi e di altri collaboratori. La frazione di organizzazione che non si era riconosciuta nel 174

progetto di Pl, invece, diede vita tra il ’76 e il ’77 ai Comitati comunisti rivoluzionari (Cocori) in cui, ancora una volta, si riprodusse il duplice livello proprio di tutte le organizzazioni nate dal ceppo dell’Autonomia: legale (con rivista, comitati di fabbrica e di quartiere ecc.) e illegale (affidato a nuclei militari che compiono rapine e ferimenti). Oreste Scalzone e Piero Del Giudice ne erano i leader politici. Tra il ’78 e il ’79, però, i Cocori si sciolsero nel cosiddetto Progetto Metropoli, finalizzato alla egemonizzazione o, almeno, alla direzione politica della lotta armata in Italia. Solo una frazione minoritaria dei Cocori, nell’estate-autunno ’79, sarebbe rientrata in Prima Linea, estinguendosi con questa. Tornando all’importazione di armi, ne hanno parlato numerosi ex membri dei Cocori che vi furono direttamente coinvolti ed altrettanti che ne erano stati a conoscenza, anche fuori da quell’organizzazione. Grazie all’ondata di pentiti dei primissimi anni Ottanta, furono arrestati nella tarda primavera-inizio estate del 1982, nell’area di Milano, molti ex appartenenti ai Cocori: quasi tutti, nel periodo immediatamente precedente il loro arresto, abbandonata ogni velleità politica, si erano dati alle rapine a proprio beneficio, guadagnandosi nell’ambiente la denominazione di «rapinatori comunisti». Anche questo sembra incredibile, ma è la verità. Quasi tutti gli arrestati divennero collaboratori processuali di notevole rilievo. Qualcuno si era anche dissociato ben prima di essere arrestato e conduceva una vita normale. Tutti avevano descritto il ruolo direttivo nell’organizzazione di Oreste Scalzone, Andrea Morelli e di altri, indicando Maurizio Folini come uno dei suoi membri più importanti: una specie di avventuriero, esperto velista e con radicate conoscenze nel Movimento popolare per la Liberazione della Palestina (Mplp) di George Habbash e nella stessa Olp di Yasser Arafat. Fu Sergio Gaudino a raccontarmi il viaggio via mare compiuto con la barca di Folini, tra luglio e settembre ’78, grazie al quale erano state importate in Italia varie armi pesanti destinate ai Cocori. Folini, in virtù delle sue conoscenze, aveva organizzato il viaggio, Gaudino l’aveva accompagnato ed entrambi erano arrivati a Beirut, dove l’Olp aveva loro consegnato tre missili terra/terra, un bazooka, tre Fal (micidiali fucili da guerra) di fabbricazione belga, quindici mitragliatori Kalashnikov, trenta bombe a mano, oltre a tritolo e detonatori. Varie altre persone erano state poi coinvolte nel viaggio di ritorno dopo una sosta a Cipro. La barca era arrivata a San Foca 175

(Lecce) e, con le armi che conteneva, era stata caricata su un camion e trasferita a Fiumicino. Quasi tutti i membri dell’organizzazione, poi, con tre successivi viaggi in treno, avevano trasportato le armi a Milano, più precisamente nella casa di Limbiate di Carlo Costantini, un altro ex militante divenuto collaboratore. Uno di quei Fal era stato poi sequestrato, nel maggio del 1980, nella base di Pl di via Lorenteggio a Milano e, attraverso il numero di matricola, avevamo accertato che era stato venduto dalla casa produttrice belga direttamente al governo libico: evidente conferma che quelle armi non provenivano certo da semplici trafficanti. Visto il successo del viaggio d’approvvigionamento «logistico», portato a termine via mare da Folini e dai Cocori nel ’78, se n’era tentato un altro tra la seconda metà del 1979 e i primi mesi del 1980: come in una vera e propria joint venture, varie organizzazioni vi avevano partecipato ciascuna con una propria quota. Guerriglia Rossa di Marco Barbone, i Proletari armati per il comunismo e quelli del cosiddetto Progetto Metropoli avevano versato varie somme di denaro per le rispettive ordinazioni. Questa volta, però, dopo avere ricevuto le armi, sempre a Beirut e sempre dall’Olp, Folini se ne era dovuto sbarazzare a Cipro: la loro esorbitante quantità era risultata eccessiva ed aveva prodotto danni alla barca, mettendone in forse la sicurezza. Almeno questo era ciò che Folini aveva raccontato ai suoi compagni. Sottolineavo nella requisitoria scritta che l’accertata provenienza delle armi dall’Olp avrebbe potuto dare origine a iniziative politiche da parte del governo italiano, mentre non avrebbe potuto determinare iniziative giudiziarie contro i vertici dell’organizzazione palestinese, in assenza della identificazione certa di chi, materialmente o a livello decisionale, avesse contribuito a fornire le armi a Folini. Non mi risulta che iniziative politiche siano mai state effettivamente assunte. L’arresto di Susanna Ronconi Inizio del 1982. Dopo una rapina commessa nella zona di Viterbo, una pattuglia di carabinieri, nei pressi di Monteroni d’Arbia (Siena) ferma un pullman per controlli. Potrebbero esserci i rapinatori. C’erano e si trattava di un nucleo di reduci di Prima Linea. I due carabinieri ausiliari di vent’anni, Euro Tarsilli e Giuseppe Savastano, vengono disarmati, fatti inginocchiare e, nonostante invochino pietà, giustiziati a colpi di pistola. Si scatena la caccia ai terroristi. 176

Tre giorni dopo due di loro vengono arrestati a Roma. Sono Giulia Borelli e Pietro Mutti, il quale, come s’è detto, sarebbe diventato un collaboratore, descrivendo i suoi percorsi all’interno prima dei Proletari armati per il comunismo e poi di Prima Linea. Si riesce così a identificare chi ha materialmente sparato ai due carabinieri: è Daniele Sacco Lanzoni, già latitante quale membro della struttura torinese di Prima Linea. Alla fine di ottobre dell’82, cade anche lui nella rete: nell’ambito di un’indagine che stanno conducendo su alcune persone sospette, i carabinieri dell’Antiterrorismo si imbattono a Milano, quasi casualmente, nel giovane. Lo bloccano e lo portano in via Moscova. Nella colluttazione perde sangue e si sporca la camicia, che il mio amico Ago, il maresciallo dei carabinieri, prova a ripulire, mentre un altro sottufficiale continua a parlargli dei due carabinieri che ha ucciso al posto di blocco. Sacco Lanzoni tace, ma sembra colpito da quel ricordo. Inizia a chiedere «che ora è?», a intervalli quasi regolari. Attorno alle 13.30 non ce la fa più e dice ai carabinieri che di lì ad un’ora, alle 14.30, ha un appuntamento in un bar di via Biondi con Susanna Ronconi ed altri «compagni». Susanna Ronconi è, con Barbara Balzerani delle Br, la terrorista più ricercata in Italia. Era stata arrestata a Firenze, alla fine dell’80, grazie alle dichiarazioni di Michele Viscardi. Ma il 3 gennaio del 1982 era evasa dal carcere di Rovigo insieme a Federica Meroni, Marina Premoli e Loredana Biancamano, tutte di Prima Linea. Erano stati Sergio Segio ed altri dei Nuclei comunisti a far esplodere un ordigno ad alto potenziale ed a creare così il varco nelle mura da cui le donne erano fuggite. Forti delle indicazioni di Sacco Lanzoni, i carabinieri si precipitano nel bar di via Biondi e si sparpagliano tra i tavoli come clienti qualsiasi. Puntuali, arrivano Susanna Ronconi, Maria Grazia Grena ed altri due terroristi. Non hanno il tempo di toccare le armi. Gli arrestati vengono portati in via Moscova dove un carabiniere, non appartenente all’Antiterrorismo, sputa alla Grena. Il capitano Bonaventura lo viene a sapere. Allontana il carabiniere e manda un mazzo di fiori alla donna, scusandosi a nome dell’Arma. Tempo dopo, Sacco Lanzoni, ormai diventato un pentito di grande rilievo, deve rendere dichiarazioni davanti ai giudici di Firenze ed Ago lo accompagna nel viaggio. Il pentito, però, ricorda che in Toscana ha ucciso due carabinieri e teme, forse, qualche ritorsione. Ha paura e chiede ad Ago di stargli vicino. Il maresciallo dormirà con lui, nella camera di sicu177

rezza della caserma, per farlo riposare sereno. Se Sacco Lanzoni ci sia riuscito, non lo so. L’arresto di Sergio Segio L’assassino di Alessandrini, Galli e di altri ancora, il capo indiscusso e co-fondatore di Prima Linea, poi transitato nel ristrettissimo gruppo dei Nuclei comunisti, era, dopo l’arresto di Mario Moretti, il più ricercato tra i terroristi latitanti. Molti tra i pentiti che si andavano moltiplicando e che interrogavo mi avevano spesso raccomandato di essere molto attento nei miei movimenti perché – dicevano – per Segio quella di colpirmi era diventata una specie di ossessione. Non posso sapere se ciò fosse proprio vero. Diciamo che era possibile, ma che certamente reale era la mia corrispondente «spinta» agli organi di polizia giudiziaria – che certo non ne avevano bisogno – perché operassero ogni sforzo per catturarlo. Ero convinto che il suo arresto avrebbe definitivamente messo in ginocchio il terrorismo in Italia. Proprio per questa ragione ero rimasto incredulo e adirato nell’aprile del 1981 quando un alto funzionario centrale della polizia di Stato si era lasciato sfuggire l’occasione buona per prenderlo. Non a caso, in quell’occasione, la Procura di Milano era stata tenuta all’oscuro di quanto stava per accadere. Segio aveva ormai lasciato Prima Linea sin dalla fine dell’80 e molti del gruppo lo avevano anche accusato di aver prematuramente abbandonato la nave che affondava. Aveva però costituito un gruppo ristretto e inafferrabile con pochi «professionisti», di cui si fidava, reduci da altrettanto importanti militanze in Pl o in altri gruppi terroristici. Tra questi Maurizio Pedrazzini, già componente della struttura occulta e «militare» di Lotta Continua. Se ne erano perse le tracce da molti anni, ma era latitante solo per renitenza alla leva. Pedrazzini, come ormai sapevamo attraverso le dichiarazioni dei pentiti, era diventato un rapinatore di professione e proprio con Segio era tornato all’attività «politica». Ma sapevamo anche che il loro gruppo era ormai specializzato in rapine in danno di oreficerie. La Digos di Milano, dunque, indagando nel sottobosco dei ricettatori di gioielli, aveva individuato colui che acquistava quelli rapinati dal gruppo di Segio. Era tal Sergio Albertario. Costui accettò di fare da confidente della polizia e rivelò, così, che il 16 aprile aveva un appuntamento con Segio in un bar dal178

le parti di piazzale Loreto. Noi pm non ne fummo informati. Un noto funzionario venne appositamente da Roma per dirigere l’operazione, ma sarebbe stato meglio se a farlo fosse stato il dirigente dell’Antiterrorismo di Milano. Avrebbe sicuramente preso decisioni diverse e le avrebbe verosimilmente concordate con me. I poliziotti, dunque, si appostarono nel bar, ma non fu Segio a presentarsi all’appuntamento con il confidente-ricettatore, bensì un altro componente del gruppo, appunto Maurizio Pedrazzini. Certamente sarebbe stato meglio non intervenire per arrestarlo subito: la presenza di quell’uomo era intanto una conferma dell’affidabilità della fonte che avrebbe ben potuto rivelare prossimi analoghi appuntamenti. Ma si sarebbe anche potuto tentare di pedinare Pedrazzini per arrivare a un covo, ai complici, a Segio. Invece no. C’era bisogno a tutti i costi della solita, maledetta, «brillante operazione»: Pedrazzini fu arrestato e Segio rimase latitante per un altro paio d’anni ed uccise ancora. Insieme ai suoi, inoltre, l’ex capo di Prima Linea comprese facilmente la causa dell’arresto di Pedrazzini, sicché alla fine di giugno i Nuclei comunisti, da lui guidati, gambizzarono il ricettatore di Milano, rivendicando l’azione e giustificandola come sanzione per il suo ruolo di confidente-traditore. Poco meno di tre mesi dopo, il 19 settembre, Segio ed i suoi, nell’ambito della campagna contro il «carcerario», uccisero il brigadiere Francesco Rucci del corpo della polizia penitenziaria di San Vittore. Ed all’inizio di gennaio del 1982, come ho già ricordato, fecero evadere dal carcere di Rovigo la Ronconi e tre altre componenti di Pl: l’esplosione dell’ordigno ad alto potenziale usato per creare il varco nelle mura del carcere uccise un passante, Angelo Furlan, che portava a spasso il suo cane. Ma ciò era un fatto praticamente irrilevante per Segio & C.: un prezzo inatteso da pagare per «sottrarre quattro compagne dalle grinfie dello Stato», e per dare così «una nuova speranza a tutti gli altri, sepolti vivi nelle carceri speciali»23. Insomma, un fastidioso incidente di percorso. Ma il 15 gennaio del 1983 il massacro finisce. È sabato. Un sottufficiale della Sezione antiterrorismo dei carabinieri, mentre scende da un mezzo pubblico in viale Monza, nota una donna su cui lui e i suoi colleghi stanno indagando. La sospettano di appartenere al23 Così Sergio Segio nel suo libro Una vita in Prima Linea, Rizzoli, Milano 2006, p. 188.

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la colonna Walter Alasia delle Br. La donna sembra palesemente in attesa di qualcuno. Il sottufficiale decide di chiamare i suoi colleghi, che accorrono da via Moscova e si appostano nella zona, tenendo d’occhio la donna. Arriva un uomo che le si avvicina e riceve da lei un documento. I carabinieri lo riconoscono: è Segio. Gli saltano addosso senza neppure dargli il tempo di capire che cosa stia succedendo. Anche la donna viene naturalmente arrestata. A casa sua verranno sequestrati un’arma e documenti della Walter Alasia. Ammetterà più avanti di essere una brigatista, fortunatamente non coinvolta in alcun atto di sangue e addetta a tenere i rapporti con Segio e il suo gruppo. Si è dissociata e, oggi, riabilitata, fa l’avvocato: mi capita ogni tanto di parlarle in relazione al suo lavoro. Appena arrestato Segio, Ago mi telefona per darmi la notizia: sono nel carcere di Voghera per un interrogatorio. Lo interrompo e torno a Milano. Lungo la strada è inevitabile pensare a Galli e Alessandrini uccisi da quel criminale. Arrivato a Milano, i carabinieri mi dicono che, portato nella caserma di via Moscova, Segio, al momento di dare le sue generalità, ha indicato come suo indirizzo di residenza quello della mia abitazione. Non ero mai stato certo dell’aneddoto, ma nella introduzione al suo libro Una vita in Prima Linea, Segio lo conferma più o meno negli stessi termini: aveva voluto sfottere i carabinieri dicendo che si trattava dell’indirizzo della sua base e che vi era un gatto abbandonato da salvare. I carabinieri un giorno lo avrebbero prelevato dalla cella di sicurezza dicendogli: «È arrivato il gatto, ti vuole interrogare». Dichiarai comunque alla stampa che «era stato arrestato il più pericoloso killer in circolazione, un bieco portatore di morte...». Con la cattura di Segio si chiude davvero il periodo più drammatico del terrorismo a Milano. E, tra la fine di gennaio e i primi di giugno del 1983, vengono catturati ad uno ad uno, tra Milano, Catania, Roma e Rapallo tutti gli altri componenti dei Nuclei comunisti, il gruppo supercompartimentato fondato da Segio dopo la sua fuoriuscita da Prima Linea. I Nuclei erano in quel periodo in contatto con i resti della colonna Walter Alasia delle Br. Nel febbraio del 1984, con la caduta delle due basi milanesi in via Vallazze e via Astesani e con la cattura degli ultimi capi latitanti, tra cui Gloria Argano e Bruno Ghirardi, finisce anche la storia dei Comunisti organizzati per la liberazione proletaria (Colp), nati all’inizio del 1981 sulle ceneri di Prima Linea. Ritroverò Bruno Ghirardi tra i componenti delle 180

«nuove» Brigate Rosse, arrestati all’inizio del 2007 nell’inchiesta condotta da Ilda Boccassini. Gloria Argano, invece, secondo il collaboratore Bruno Bertelli, era allora in contatto con Barbara Balzerani delle Br. Alla fine di maggio del 1983 aveva anche materialmente partecipato, insieme ad appartenenti al gruppo francese di Action Directe, all’omicidio di due poliziotti francesi ed al ferimento di un terzo, in avenue Trudaine a Parigi. Vi aveva preso parte anche Franco Fiorina, un altro leader dei Colp, arrestato qualche mese prima dell’Argano. Era quello il periodo della «collaborazione» in Francia tra i latitanti del gruppo italiano e di quello francese: Ciro Rizzato era stato ucciso nell’ottobre del 1983 a Parigi, nel corso di una rapina, mentre Vincenzo Spanò vi era stato arrestato nel febbraio del 1984. Le nostre indagini e le dichiarazioni di un collaboratore italiano, dunque, furono decisive anche per aiutare la polizia francese a smantellare Action Directe. Chissà se a questi fatti si ricollega un insolito episodio del settembre del 1984: mi arriva per posta un pacchetto leggero e di modeste dimensioni, che risulta spedito dallo Skorpion Club di Lione, in Francia. L’ispettore Venezia, l’amico poliziotto che mi «assiste» da quando sono arrivato a Milano, si insospettisce e chiama gli artificieri della Questura. Ci fanno uscire dalla stanza ma poco dopo, mentre aspettiamo in corridoio, le loro grida ci richiamano: chiedono aiuto nel tentativo di rincorrere e calpestare gli scorpioni usciti dalla scatola appena aperta. Ne facciamo strage con le suole delle scarpe e i carabinieri portano i «cadaveri» al Museo civico di Storia naturale. Un accademico accerterà che solo uno degli scorpioni era velenoso: apparteneva alla specie Buthus occitanus, che vive in Francia meridionale, Spagna e Nord Africa. Pare che quegli scorpioni possano a lungo sopravvivere in letargo e solo per questo molti avevano resistito al viaggio da Lione a Milano. Un episodio, dunque, al limite del comico se penso a noi che saltavamo da un angolo all’altro del mio ufficio pestando gli scorpioni. Da allora, comunque, la Procura non consegna pacchi sospetti ai magistrati. A Milano, come ho detto, furono dunque arrestati i «numeri uno» tra i ricercati delle Br e di Pl: Moretti e Segio. Entrambi sono oggi dissociati dalla lotta armata e hanno goduto dei benefici 181

previsti dalla legge. Moretti ha scelto di non parlare o di parlare poco, anzi ormai pochissimo. Non ho alcuna positiva considerazione, invece, delle scelte opposte e del presenzialismo di Segio, che non perde occasione per pontificare. A lui alcuni giornali – specialmente «la Repubblica» – hanno offerto e continuano ad offrire pulpiti insperati. Ognuno, sia ben chiaro, ha diritto al reinserimento sociale, che è una delle finalità del nostro trattamento penitenziario. Ma chi è stato autore materiale ed ideatore-organizzatore di un così alto numero di omicidi dovrebbe conoscere il senso della misura. E dovrebbe avere il buon gusto di tacere. Invece Segio non solo continua a parlare ma non ho mai letto nelle sue parole una condanna inequivocabile del passato terroristico proprio e dei suoi compagni. Piuttosto preferisce ancora condannare i pentiti, quelli di ieri e finanche quelli di oggi. Non ricorda, forse, quanto certe parole possano cambiare il destino delle persone: lui, la Ronconi ed altri, ad esempio, hanno ucciso nel febbraio del 1980, a Milano, William Waccher sul presupposto – totalmente infondato – che fosse un confidente o un collaboratore. Ancora nel 2004 comparve su «Repubblica» una intervista a Segio, che condannava la scelta di collaborazione di Cinzia Banelli, l’ultima pentita delle Br che aveva rivelato quanto a sua conoscenza sugli omicidi D’Antona e Biagi. La bollava come traditrice e dichiarava spudoratamente che il terrorismo era stato sconfitto non grazie ai pentiti ma grazie ai dissociati come lui che, senza coinvolgere complici, ne avrebbero decretato la fine politica. I collaboratori vi venivano citati come persone che avevano venduto i compagni. Dice Segio: «Il termine pentimento è diventato impronunciabile, sinonimo di mercimonio, di scambio giudiziario, di condanna degli ex compagni. Una parola svilita [...]. Noi ci siamo assunti le nostre responsabilità senza scaricarle su altri. Il pentitismo e l’irriducibilismo sono due fratelli siamesi, rispondono alla stessa logica di violenza che prevarica la vita altrui»24. Leggo l’intervista e mi ribolle il sangue. Chiamo il direttore della sede milanese di «Repubblica» e chiedo di pubblicare una mia replica a Segio. Fino a tarda sera del 24 agosto non ho conferma del24 Intervista a Sergio Segio di Enrico Bonerandi dal titolo eloquente, Ma il pentitismo è l’altra faccia della violenza, in «la Repubblica», 23 agosto 2004.

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la pubblicazione. Chiamo ancora il giornale e chiedo una risposta precisa altrimenti – dico – mi sarei rivolto al «Corriere della Sera». La pubblicazione mi viene assicurata ma il 26 agosto il mio già breve intervento risulta tagliato nelle parti in cui qualificavo come omertosa la logica di Segio, ricordavo che era stato arrestato mentre continuava a sparare e ad uccidere (altro che la declamata crisi di coscienza, dunque) e che era stato l’autore degli omicidi di Alessandrini, Galli e di tanti altri. Virginio Rognoni, comunque, mi chiama ancora una volta e mi ringrazia per avere voluto replicare alle falsità di Segio. Nel pomeriggio un giornalista amico di «Repubblica» mi telefona per dirmi che è arrivata in redazione a Milano una controreplica di Segio e che verosimilmente sarà pubblicata l’indomani. Chiamo ancora una volta il direttore della sede milanese chiedendogli di inviarmi l’intervento di Segio in modo che possa commentarlo a mia volta ed il giornale possa decidere se pubblicare le due «lettere» insieme. Forse creo qualche imbarazzo. Solo a tarda sera ricevo notizia che «Repubblica» ha deciso di non pubblicare la replica di Segio e che, dunque, non c’è bisogno di inviarmela. Nella mia contro-controreplica avrei aggiunto che percorsi soggettivi di revisione critica del proprio passato criminale, come quello dei tanti dissociati dell’ultima ora, pur apprezzabili, sono molto vantaggiosi, specie se rapportati ai costi umani e sociali pagati da chi, invece, aveva scelto la via della collaborazione piena e così salvato molte vite umane. Costi non rappresentati solo da episodi ripugnanti come l’omicidio di Roberto Peci, rapito a San Benedetto del Tronto nel giugno 1981 e ucciso con undici colpi di pistola dopo cinquantaquattro giorni di prigionia25, solo perché fratello del pentito Patrizio, ma anche dall’isolamento culturale e morale in cui i collaboratori sono stati sempre collocati in Italia. Sembra quasi che ad essi siano preferibili gli irriducibili e la loro omertà o i «nobili» dissociati che si limitarono a dire: «condanno la lotta armata». Ma Segio non demorde. Sempre nel 2004, a novembre, ricevo notizia che nel palazzo di Giustizia di Torino, dove erano stati celebrati i 25 Roberto Peci, fratello di Patrizio, primo collaboratore delle Br, era stato sequestrato il 10 giugno 1981. Accanto al suo corpo, fatto rinvenire a Roma, nei pressi dell’ippodromo delle Capannelle, fu trovata una «risoluzione strategica» in cui le Br-Partito della guerriglia affermavano che «l’annientamento è l’unico rapporto possibile che intercorre tra proletariato marginale e traditori».

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processi per gli omicidi di Alessandrini e Galli e di numerose altre vittime del terrorismo, si svolgerà un convegno sul tema La pena ideata applicata vissuta. È organizzato dalla Camera penale di Torino e tra i relatori, unitamente a docenti universitari, avvocati e magistrati, c’è Sergio Segio: di nuovo mi sale il sangue alla testa. Mando un messaggio di incredulità e protesta alle mailing list dei magistrati e ricevo il sostegno di tanti: l’Associazione nazionale magistrati di Piemonte e Val d’Aosta ritira il suo appoggio al convegno. Maurizio Laudi e Marcello Maddalena giudicano inopportuna la presenza di Segio. Laudi rinuncia alla sua prevista partecipazione al convegno, Maddalena vi presenzia solo per rendere omaggio alla memoria del defunto avvocato Vittorio Chiusano, Gian Carlo Caselli fa sapere che un impegno gli impedisce di partecipare: non era stato avvertito della prevista presenza dell’assassino di Galli ed Alessandrini. Non partecipa neppure il presidente del Tribunale di sorveglianza di Torino, Giuseppe Burzio. Segio rinuncia a parlare, almeno per quella volta, ma presenzia al convegno e il suo intervento viene letto dall’avvocato Giampaolo Zancan, vicepresidente della Commissione Giustizia del Senato. L’Unione camere penali emette un comunicato di protesta contro i magistrati. Con una certa amarezza, comunque, lessi a dicembre del 2008 che il ministero dei Beni culturali, dopo un’iniziale decisione negativa, aveva deliberato l’erogazione di un milione e mezzo di euro per la realizzazione del film La Prima Linea, tratto dal libro Miccia corta di Segio26. Il progetto del film (diretto da Renato De Maria, interpretato da Riccardo Scamarcio e, nella parte di Susanna Ronconi, da Giovanna Mezzogiorno) era stato infatti riconosciuto «di interesse culturale». Tra i paletti posti dal ministero per la erogazione del finanziamento l’impegno dei responsabili del progetto a non utilizzare nella fase di promozione del film nessuno dei protagonisti reali della storia e «a non dare tribune ad ex terroristi». Il presidente della società produttrice aveva però negato che la sceneggiatura del film, come sostenuto dal ministero in un comunicato, fosse stata modificata rispetto all’originario progetto bocciato27. A febbraio del 2009, i giornali diffusero la notizia che anche il Comune di Milano aveva patrocinato il film prevedendo una qual26 27

DeriveApprodi, Roma 2005, 2ª edizione riveduta e corretta 2009. Cfr. «Corriere della Sera», 20 dicembre 2008.

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che forma di sostegno economico. Ho così nuovamente protestato sostenendo le ragioni dell’Associazione italiana vittime del terrorismo che a quella sponsorizzazione si era opposta con parole di fuoco. Giuseppe Galli, figlio di Guido, scriveva al «Corriere della Sera» una lettera sobria e dignitosa in cui, oltre a chiedere pubblicamente le ragioni della decisione del Comune di Milano, si augurava «che la città non tradisse la memoria delle vittime di un periodo ormai passato, ma che ha lasciato un segno indelebile non solo in chi è stato direttamente colpito, ma anche nella società tutta». E concludeva auspicando che il Comune di Milano «possa fare di meglio che patrocinare un film ispirato al libro di una persona che un giorno ha deciso di distruggere cinicamente una vita e che oggi pretende di spiegarci le ragioni della sua impresa»28. Ne nasceva una veemente polemica, non solo cittadina, al termine della quale l’assessore al Tempo libero del Comune di Milano, Giovanni Terzi, riusciva a far ritirare quel patrocinio, offensivo per la memoria di tutte le persone che Segio aveva ucciso. Il libro di Segio da cui è tratto il film contiene un’eloquente dedica: «a tutti i figli e le figlie dei nostri compagni. Perché crescendo e cominciando a sapere e a capire, non gli venga mai meno la certezza che i loro genitori sono state persone buone e leali. Che hanno lottato, con errori spesso gravi, ma anche con generosità e coraggio, per un mondo migliore e più giusto». Dove evidentemente – aggiungo io – essere buoni, leali, generosi e coraggiosi è sinonimo di saper vilmente uccidere persone inermi. Il film è stato poi presentato al Festival del cinema di Toronto e diffuso nelle sale cinematografiche italiane a novembre del 2009. Il produttore ha dichiarato di avere rinunciato a contributi dello Stato. Nel film non viene citato in alcun modo l’omicidio Galli, così come quelli di altre vittime di Segio. Costui si è lamentato perché il film avrebbe tradito le sue idee e gli autori avrebbero lavorato «a comando, con la libertà artistica legata al guinzaglio»29. Lo hanno visto Marco Alessandrini, Giuseppe Galli, Benedetta Tobagi e Mario Calabresi, che ne hanno scritto con distacco ammirevole. Non vedrò il film. Ma queCfr. «Corriere della Sera», 4 marzo 2009. Valerio Cappelli, Arriva «La Prima Linea». Scontro tra Segio e il regista, in «Corriere della Sera», 13 novembre 2009. 28 29

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sto non è ovviamente rilevante. Preferisco leggere e rileggere le parole di Corrado Stajano (ricordate anche da Claudio Magris30), nel suo bellissimo libro La città degli untori31, quando mette a confronto la supponenza degli ex terroristi con la eroica normalità delle loro vittime. Da un lato le frasi con cui Segio dedica il libro ai figli dei suoi compagni terroristi, dall’altro l’ultimo biglietto lasciato da Guido Galli alla figlia, uscendo da casa e dirigendosi verso la sua fine: «Alex, se fai la spesa, comprami un po’ di caffè. Ciao, papà». La «Loggia dei trentasei» Tra i vizi italiani c’è la naturale predisposizione alla perdita della memoria collettiva. Attorno alla fine dell’83, era già acceso il dibattito sulle misure possibili per «uscire definitivamente dagli anni di piombo». Crescevano già le aspettative di molti terroristi detenuti che chiedevano di lasciare il carcere sulla base di una mera dichiarazione di dissociazione e senza neppure ammettere i reati commessi. Sembrava che il paese e buona parte della sua classe politica fossero certi della ormai intervenuta fine del terrorismo. Un parlamentare socialista, Luigi Covatta, aveva elaborato un progetto di legge, facendolo circolare in sedi politiche in vista di decisioni che parevano ormai imminenti. Ma i magistrati che continuavano ad indagare ben sapevano che il terrorismo, pur in crisi, era ancora pericoloso. Sarebbe bastato fare il conto dei numerosi latitanti ancora in circolazione. Ne discutevamo nei nostri periodici incontri che ancora organizzavamo per scambiarci dati, notizie, verbali. Fu così che, in due successive riunioni, tenutesi all’inizio del 1984 a Milano e Torino, decidemmo di far conoscere alle autorità competenti le nostre preoccupazioni per la situazione generale, indicando ovviamente fatti e notizie su cui esse si fondavano. Fui tra coloro che scrissero il documento di otto pagine che venne inviato al presidente del Consiglio Bettino Craxi, al vicepresidente del Csm avvocato Giancarlo De Carolis, al ministro di 30 Anni di piombo, quei terroristi pentiti con la pappa nel cuore, in «Corriere della Sera», 31 luglio 2009. 31 Garzanti, Milano 2009; l’opera è valsa a Stajano il premio Bagutta 2010.

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Grazia e Giustizia Mino Martinazzoli, al ministro degli Interni Oscar Luigi Scalfaro, al capo della polizia Giovanni Rinaldo Coronas, al comandante dell’Arma dei carabinieri generale Riccardo Bisognero e al direttore del Sisde prefetto Emanuele De Francesco. Fummo in trentasei a firmare il documento: tra i nomi, vi erano quelli di Chelazzi e Vigna di Firenze, di Imposimato e Priore di Roma, di Papalia di Verona, di Borraccetti di Padova e del gruppo torinese al completo, Caselli, Laudi, Bernardi, Gianfrotta, Miletto, Giordana. Mancavano solo i nomi dei colleghi casualmente assenti alla riunione in cui le firme vennero «apposte in calce» al documento. In sintesi denunciavamo l’esistenza di «un diffuso senso di smobilitazione rispetto all’impegno profuso [...] nella lotta al terrorismo» dalle istituzioni e dall’intera società civile. Ne elencavamo le più evidenti manifestazioni: «riduzione degli organici» dei reparti di polizia giudiziaria specializzati nella lotta al terrorismo; «progetti di legge per la riduzione dei termini di carcerazione preventiva [...] e per premiare, sul piano processuale e della entità o esecuzione della pena, anche dissociazioni meramente verbali e/o di principio», senza alcuna ammissione neppure delle personali responsabilità; «abbattimento eccessivo di taluni livelli di sicurezza all’interno delle cosiddette carceri speciali»; «calo di attenzione rispetto ai problemi di sicurezza personale e di reinserimento dei cosiddetti grandi pentiti», alcuni dei quali, rimessi in libertà, si trovavano sprovvisti di qualsiasi forma di tutela. Elencavamo poi, nel documento, una serie di precise notizie derivanti da indagini in corso che alimentavano i nostri timori circa la preparazione di evasioni e di altri attentati terroristici. Per tale ragione, raccomandavamo che il documento fosse «considerato estremamente riservato e non destinato ad alcuna forma di pubblicità». Premesso il nostro «più rigoroso rispetto delle competenze del legislatore e dei destinatari» del documento, chiudevamo quella motivata analisi esprimendo perplessità e timori per la possibile approvazione di normative premiali per dissociazioni ambigue e per la ventilata riduzione dei termini di carcerazione preventiva. Infine, oltre al mantenimento dei livelli di sicurezza del sistema carcerario, auspicavamo «d’intesa con i magistrati che si occupano di criminalità mafiosa e camorristica», l’adozione urgente di «attenuanti di carattere generale in favore di chi collabori in inchieste relative a reati associativi e delitti connessi». Il 26 maggio 187

del 1984, «il manifesto» fece il suo scoop e pubblicò in prima pagina l’intero documento. Il titolo dell’articolo era, significativamente, La Loggia dei trentasei. Estremamente riservato. Il documento dei magistrati antiterrorismo tifosi di leggi speciali, pentiti e supercarceri. L’articolo si apriva con queste affermazioni: Il documento che qui pubblichiamo è straordinario. È forse il sintomo più clamoroso del cancro che fiorisce sul corpo della Prima Repubblica. È la prova che la P2 laureata esiste perché in tutte le istituzioni c’è una metastasi di P2 senza nome. Il caso è clamoroso. Trentasei magistrati che si arrogano il diritto di riunirsi periodicamente e di inviare alle massime autorità dello Stato i loro suggerimenti sull’uso della giustizia. Tutto questo è già eversivo di per sé: stamani i carabinieri dovrebbero bussare alla porta di questi supercittadini e il magistrato escluso dalla lobby dovrebbe chiedere conto e ragione di questa associazione.

Il corsivo di Rossana Rossanda (Un gruppetto politico) era dello stesso tenore e si chiudeva con la frase «Questo è un gruppetto politico, costituitosi come tale sotto la veste delle competenze, persuaso di salvare la patria da tutti coloro che dicono ‘Ma finiamola con leggi e carceri inique’». Scattarono le interrogazioni parlamentari, tra cui quella del senatore Luigi Covatta, che chiedeva al ministro di Grazia e Giustizia di sapere se la riunione nel corso della quale era stato approvato il documento fosse mai stata in qualche modo richiesta dal ministro e se incontri del genere «evidentemente non finalizzati ad una collaborazione nella lotta al terrorismo tra autorità giudiziarie diverse, ma dirette a valutare l’operato di altri poteri dello Stato» fossero mai stati incoraggiati da Martinazzoli e perché, comunque, il ministro non avesse mai informato il Parlamento. Non rispondemmo a quelle accuse, non ne avevamo ancora il tempo e, francamente, non ci interessavano neppure. Le Brigate Rosse, infatti, uccidevano ancora: il 15 febbraio 1984, in Roma, Leamon Hunt, diplomatico statunitense, responsabile logistico della forza multinazionale di pace dell’Onu in Siria; il 27 marzo 1985, sempre a Roma, il professor Ezio Tarantelli, consigliere economico della Cisl; il 10 febbraio 1986, a Firenze, Lando Conti, ex sindaco repubblicano della città; il 20 marzo 1987, a Roma, il generale Licio Giorgieri, cui erano affidate re188

sponsabilità d’alto livello nei piani di costruzione ed acquisto di armamento aereonautico. Uno stillicidio di un omicidio all’anno. Il 18 febbraio del 1987, dopo adeguato dibattito, il Parlamento approvava le «Misure a favore di chi si dissocia dal terrorismo», che prevedevano, anche in presenza di condanne definitive, casi di non punibilità per chi fosse stato accusato solo di reati associativi, diminuzioni di pena negli altri casi, libertà provvisoria e favorevoli meccanismi di cumulo di pene definitive per gli imputati ed i condannati per reati di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale che si fossero dissociati dal terrorismo, ammettendo le attività effettivamente svolte, tenendo comportamenti oggettivamente ed univocamente incompatibili con il permanere del vincolo associativo e ripudiando la violenza come metodo di lotta politica. Una scelta che privilegiava soluzioni individualizzate, che si applicava ai reati commessi fino al 31 gennaio del 1982 e che prevedeva comunque, al fine di godere dei benefici previsti, che la dissociazione formale intervenisse entro quattro mesi dall’entrata in vigore della legge. Il dibattito sul perdonismo La legge sulla dissociazione non sembrava bastare ai cultori del perdonismo a tutti i costi. Nel gennaio del 1988, così, quale ex componente della ormai disciolta «Loggia dei trentasei» (delle cui riunioni segrete conservo ancora verbali ed appunti), tornai a parlare delle ambiguità e dei rischi connessi alla riaffiorante tendenza a dimenticare tutto, tutto svendendo a prezzi di saldo. Rilasciai una lunga intervista al «Corriere della Sera», che venne pubblicata in prima pagina32. Mi dichiaravo in disaccordo sulle ipotesi nuovamente circolanti di emanare una nuova legge in favore dei terroristi detenuti, finalizzata a chiudere gli anni di piombo, ricordavo che già nel febbraio dell’anno precedente era stata emanata la legge in favore dei semplici «dissociati» e che, ormai «scaduta», aveva prodotto effetti positivi. Nell’intervista, ricordavo pure i benefici già previsti dall’ordinamento penitenziario per tutti i detenuti ritenuti non pericolosi. Dunque, soluzioni individualizzate per riconoscere giuridicamente l’evoluzione positiva delle 32

Un piano br per il perdonismo, in «Corriere della Sera», 27 gennaio 1988.

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persone in carcere erano già state praticate e non vi era alcun bisogno – affermavo – di amnistie generalizzate o di indulti nei confronti dei protagonisti degli anni di piombo. Ma, soprattutto, motivavo quelle affermazioni facendo riferimento non solo alla perdurante esistenza e pericolosità delle Br, ma anche a documenti circolanti nell’ambito carcerario, che avevamo sequestrato nel corso di varie indagini: risultava chiaro dal loro contenuto che i brigatisti detenuti, appartenenti tanto alla frazione Br-Pcc che a quella delle cosiddette Br-Ucc, stavano attentamente seguendo il dibattito politico in corso e si stavano organizzando per strumentalizzare l’attenzione dei politici che si recavano in carcere a discutere con loro. Ricordavo, a tal proposito, «il flusso dei politici nel carcere di Rebibbia» negli ultimi anni, la gara a mostrarsi più garantisti degli altri, i progetti di commissioni parlamentari per l’analisi delle modalità di conduzione di quei processi, le ripetute richieste di revisione dei processi e così via. I brigatisti, tra l’altro, avevano anche dato un nome alla fase in corso ed agli obiettivi che si proponevano di raggiungere. Parlavano di una vera e propria «campagna di libertà» da condurre in modo intelligente per arrivare alla scarcerazione. In alcuni passaggi dei documenti in questione si poteva facilmente individuare la volontà di taluni di riprendere, per quella via, le attività criminali del passato. Ma l’intervista scatenò l’inferno. Flaminio Piccoli (Dc), uno dei politici più attivi sul fronte del perdonismo, definì le mie parole «un’infamia», frutto di una mentalità da inquisizione. Salvo Andò (Psi) parlò di sterili dietrologie, Roberto Formigoni (Dc) di un problema mal posto, Mauro Mellini (deputato radicale) attaccò la legislazione dell’emergenza e i pentiti, Giancarlo Pajetta (Pci) definì non credibili le mie affermazioni, Giacomo Mancini denunciò la mia mancanza di obiettività e Mario Capanna parlò di ipotesi cervellotiche. Violante precisava che «il problema del ridimensionamento delle pene inflitte per reati non di sangue [...] avrebbe comunque toccato il tema [...] dell’equità e non del perdonismo»33. In definitiva, tutti negavano di essere potenziali strumenti delle Br e mi invitavano a citare le fonti e i documenti cui mi ero riferito, certi che le mie parole fossero dettate solo dalla

33

Cfr. «la Repubblica», 28 gennaio 1988.

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mia irriducibilità di pubblico ministero. L’«Avanti!», distintosi a suo tempo per i già ricordati articoli sul caso Tobagi, così intitolò una pagina dell’edizione del 28 gennaio del 1988: Spataro porti le prove!. Identica la posizione di Cesare Salvi, all’epoca responsabile del settore Giustizia del Pci. Detto, fatto. Senza alcuna difficoltà, il giorno dopo i risentiti appelli alla verità, inondai i giornali con i documenti cui avevo fatto riferimento, non più oggetto di segreto istruttorio, o con le loro sintesi, da cui era facilmente desumibile il piano dei brigatisti o, almeno, di molti tra loro. «Repubblica», anzi, pubblicò anche un mio lungo articolo di illustrazione e commento delle «prove», che concludeva con quest’invito: «A questo punto ognuno può interpretare come crede queste parole [quelle dei brigatisti] e dire se esiste o meno il rischio di strumentalizzazione delle iniziative in corso cui ho fatto cenno»34. Sin dal giorno successivo, lo scenario mutò improvvisamente, seppure influenzato dalla notizia – anch’essa pubblicata il giorno dopo il mio articolo – secondo cui un pericoloso latitante delle Br, Antonino Fosso, arrestato a Roma e trovato in possesso di una pistola, stava studiando un progetto di attentato contro Ciriaco De Mita. Dal mondo della politica giunsero ripetuti consensi alle mie dichiarazioni ed al mio invito alla prudenza: Mino Martinazzoli, Virginio Rognoni, Pier Ferdinando Casini, i repubblicani, il presidente del Senato Giovanni Spadolini, i liberali ed altri ancora presero anche le distanze dal perdonismo di Flaminio Piccoli. Nello stesso senso prese posizione l’Associazione dei familiari delle vittime del terrorismo, mentre «L’Osservatore Romano» pubblicava il 6 febbraio un duro intervento contro ogni ipotesi di perdonismo, invitando la classe politica a «un recupero di dignità e serietà» poiché «non si può confondere Abele con Caino»: invitava a praticare la strada della soluzione individuale, «persona per persona», del possibile recupero degli ex terroristi. La stessa cosa avevano detto i gesuiti di «La Civiltà Cattolica» pochi giorni prima. Ed anche Cesare Salvi diventò più prudente: «Oggi vi è il rischio [...] che si assista ad un ritorno del terrorismo che ha ormai caratteri diversi da

34 Armando Spataro, Questo è il documento Gallinari, ognuno lo interpreti come crede, in «la Repubblica», 29 gennaio 1988.

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quello della seconda metà degli anni Settanta, isolato e sconfitto»35, mentre Guido Neppi Modona, su «Repubblica», metteva in guardia la classe politica dall’avvio di un qualsiasi dibattito parlamentare sull’amnistia. Un dibattito legislativo è proprio quanto vogliono gli irriducibili per azzerare, insieme alle condanne penali, le loro responsabilità storiche e per rilanciare la lotta armata. La via dei benefici individualizzati [...] è quella che il nostro ordinamento prevede per tutti i detenuti, politici e comuni, ritenuti meritevoli di essere liberati prima della fine della pena. La sua attuazione spetta alla magistratura ed all’amministrazione penitenziaria e non richiede alcun dibattito o intervento politico36.

Il dibattito sul perdonismo cessò di colpo. L’omicidio di pochi mesi dopo (16 aprile 1988), a Forlì, del senatore Dc Roberto Ruffilli, collaboratore per i problemi istituzionali della presidenza del Consiglio, lo stroncò definitivamente. Proprio da quel momento – io penso – molti dei brigatisti detenuti, che pure non si erano avvalsi della legge del 1987 in favore dei dissociati, iniziarono un percorso di effettivo distacco e convinta condanna della lotta armata. Bisognerà aspettare fino al luglio del 1991, però, perché il Parlamento vari una normativa premiale per i mafiosi collaboratori, simile a quella approvata per i terroristi nel dicembre del 1979. Che approvi, cioè, quella legge che, insieme a Falcone e ai colleghi siciliani, la «Loggia dei trentasei» aveva auspicato sin dal 1984. Via Dogali Su una parete del mio ufficio, vi sono alcune vecchie foto incorniciate. Sono del giugno 1988. In una sono raffigurato insieme a Pomarici: eravamo a una conferenza stampa tenuta dai carabinieri, in via Moscova, ma ce ne stavamo in disparte, quasi garanti dinanzi ai giornalisti della attendibilità della loro ricostruzione di un’operazione decisamente «storica», la scoperta dell’ultimo covo delle Br. Un giornale della cosiddetta sinistra antagonista – «Autonomen» – pubblicò la stessa foto sotto forma di fumetto, accompaCfr. «l’Unità», 2 febbraio 1988. Guido Neppi Modona, I cattivi maestri in cerca di perdono, in «la Repubblica», 30 gennaio 1988. 35 36

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gnata, cioè, da un colloquio immaginario tra me e Pomarici: ci rallegravamo reciprocamente perché l’operazione di via Dogali, a Milano, ci aveva ridato un certo lustro proprio mentre eravamo ormai avviati alla «pensione». Pomarici chiudeva il fumetto dicendomi: «Non ti preoccupare. Sono tornati i bei tempi; bevono tutto, ma proprio tutto...». In un’altra delle foto appese nel mio ufficio sono con i capitani, maggiori e colonnelli dell’Antiterrorismo che quella indagine avevano con noi guidato e in un’altra con i sottufficiali che, insieme ai loro superiori, l’avevano portata a termine: nove arresti e sequestri di armi e documenti. La foto con gli ufficiali (Umberto Bonaventura, Sandro Ruffino, Mimmo Di Petrillo, Roberto Massi, Enrico Cataldi ed Eugenio Morini) è identica a quella dinanzi alla quale, nell’ufficio romano del colonnello Massi, nel luglio del 2006, io e il generale Pignero ci eravamo fermati a parlare del passato, durante l’interrogatorio in cui aveva reso importanti dichiarazioni sul caso Abu Omar37. Tra i sottufficiali fotografati con me nell’altra istantanea, ci sono Ago e poi i suoi colleghi marescialli Caimano, Dannato, Cavallo, Titti, Tavola ed altri. Tra questi, anche qualcuno poi finito in guai giudiziari. Perché tutte quelle foto incorniciate? La risposta è che tutti avevamo la consapevolezza, al momento in cui furono scattate, che quell’indagine aveva chiuso un tragico ciclo, quello del terrorismo delle Br e degli altri gruppi armati della sinistra eversiva. L’operazione di via Dogali era nata dallo strangolamento nel carcere di Cuneo di Giorgio Soldati, di cui ho parlato prima. A detta di Enrico Fenzi, che vi aveva assistito, quell’omicidio assurdo fu la ragione delle sue prime riflessioni in chiave autocritica e fu decisivo per la sua successiva scelta di piena collaborazione processuale. Nel febbraio del 1986, infatti, Enrico Fenzi ci parlò di una coppia di giovani che lui aveva incontrato anni prima in vista di un loro reclutamento nelle Br. Erano marito e moglie, attivi nell’ambito dei comitati per le carceri e le occupazioni di case. I due abitavano nelle case occupate di via Dardanoni ed avevano incontrato anche Barbara Balzerani. Fenzi non ne conosceva il nome, ma sapeva che, almeno all’epoca dei loro incontri, lavoravano in una tipografia. Poche notizie e molto vaghe, come si può capire. Ma furono sufficienti ai carabinieri: riuscirono ad identificarli. Mostrategli le fotografie dei due, Fenzi 37

Vedi pp. 73-74.

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disse: «Sono loro». Erano Ernesto Benna e Cinzia Antinori. Averli identificati non bastava. Non ci interessava solo arrestarli, ma soprattutto verificare se in quel momento erano in contatto con i latitanti ancora in circolazione, soprattutto quelli delle colonne romana e toscana delle Br, responsabili degli omicidi degli ultimi anni. Decidemmo di intercettare e pedinare i due giovani. E di continuare a fare l’una e l’altra cosa anche quando, dopo circa due anni, sembrava che ci fossimo imbattuti in un «ramo secco». Difficile da spiegare a chi oggi teorizza che le intercettazioni devono durare al massimo due mesi o che – come ha dichiarato persino il magistrato Carlo Nordio in una intervista dell’agosto 200838 – deprofessionalizzano gli investigatori. Nordio dice che nelle indagini sulla colonna veneta delle Br egli non ha mai utilizzato le intercettazioni. Mi permetto di dire che si tratta della scoperta dell’acqua calda: agivamo tutti allo stesso modo, visto che all’epoca non esistevano i cellulari e che i brigatisti non avevano certo telefoni nei loro covi. Oggi, con cellulari e tabulati, avremmo risparmiato anni di indagini e salvato molte vite umane. Tornando a Benna ed Antinori, proprio pedinando loro e le persone che incontravano, i carabinieri erano arrivati ad individuare un appartamento di via Dogali 1. Appostamenti ed ancora pedinamenti erano serviti poi a dare la conferma che si trattava di un covo e che vi erano ospitati latitanti di rango. Il 15 giugno del 1988, i carabinieri vi fecero irruzione, arrestando Tiziana Cherubini, Franco Galloni, Rossella Lupo, tutti regolari della colonna romana che si dichiararono militanti delle Br-Pcc. Nel covo di via Dogali fu rinvenuto il solito armamentario di documenti, pistole, mitra. Tra le armi sequestrate, la famosa mitraglietta Skorpion usata in molti attentati (Lando Conti, Gino Giugni ed Ezio Tarantelli) e da ultimo per uccidere, nell’aprile precedente, Roberto Ruffilli: insomma, un’arma che era ormai una storica firma per le Br e che da anni disseminava in giro il suo lugubre marchio di fabbrica. Nell’operazione vennero arrestati in tutto nove brigatisti. Le Brigate Rosse dell’epoca storica erano ormai agli sgoccioli. Nel covo di via Dogali, i carabinieri trovarono tracce per ulteriori indagini. Dal loro sapiente sviluppo, la scoperta, circa tre mesi dopo, a settembre, di altri cinque covi nel 38 Maria Antonietta Calabrò, «Toghe incapaci senza spie». I pm divisi, in «Corriere della Sera», 31 agosto 2008.

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Lazio e l’arresto, praticamente, di tutti i brigatisti della colonna romana e toscana ancora in libertà. Tra loro, Fabio Ravalli e la moglie Maria Cappello, Daniele Bencini ed altri. Veniva pure sequestrato il solito ingente quantitativo di armi: decine tra mitra, fucili, pistole e revolver. Iniziarono a circolare, a quel punto, nell’ottobre del 1988, numerosi documenti di autocritica provenienti dall’ambito carcerario, ben diversi da quelli – già ricordati – risalenti ad appena un anno prima. Erano ormai i capi storici ed alcune nuove leve delle Brigate Rosse che, pur in presenza di una ormai ridotta area di «irriducibilità», ammettevano la sconfitta definitiva della lotta armata ed arrivavano anche a sconfessare coloro che in futuro avessero osato appropriarsi del simbolo e del nome delle Br39. Non vi è dubbio che tali documenti, per quanto non abbiano potuto impedire gli omicidi che furono poi consumati tra il 1999 ed il 2003, rivestissero enorme significato politico. I pentiti, dunque... ...sono stati un’arma fondamentale e decisiva nella lotta al terrorismo interno, determinando, a folate, centinaia e centinaia di arresti, nonché la scoperta di basi ed il sequestro di armi micidiali e di esplosivi. Di pari importanza, come già detto, fu solo la specializzazione conseguita dalle forze di polizia giudiziaria e dalla magistratura. Peci, Sandalo, Barbone, Viscardi, Savasta e via via tanti altri innescarono anche un inarrestabile processo di autocritica all’interno di ciascuna delle organizzazioni terroristiche ancora esistenti. Talvolta, grazie alle dichiarazioni dei pentiti, fu anche possibile per noi magistrati impegnati in quel settore d’indagine correggere qualche errore, sia pur marginale, in cui eravamo incorsi, forse pure per il rifiuto di rispondere da parte degli imputati. Proprio nel processo Alunni, dopo che avevo chiesto la condanna di un imputato bolognese, fu Roberto Sandalo a dichiararmi, nell’ambito di un’indagine parallela che stavamo conducendo, che 39 Tra i firmatari di documenti di questo tenore, diffusi dal carcere romano di Rebibbia, il 23 e il 24 ottobre 1988, i brigatisti Prospero Gallinari, Francesco Lo Bianco, Remo Pancelli, Francesco Piccioni, Bruno Seghetti ed altri.

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quel giovane era stato strumentalizzato da Pl, che ne aveva usato un monolocale quale deposito di armi, tenendolo all’oscuro di tutto. Ripresi la parola in replica e, rivelando le dichiarazioni di Sandalo, chiesi l’assoluzione del bolognese. Il suo avvocato, Achille Melchionda, mi ringraziò anche pubblicamente, ricordando l’episodio in un libro ed in successivi articoli del 1986, allorché avviai la procedura di revisione di alcune condanne per due episodi minori di ex membri delle Fcc, sempre sulla base delle dichiarazioni di altri collaboratori. Ed anche qualche ex terrorista non pentito, persino nel corso dei dibattimenti, ricordò per questo la nostra correttezza. È poco noto, poi, che alcuni collaboratori non si limitarono a rendere ampie confessioni, illustrando i crimini commessi e conosciuti, facendo i nomi dei complici ed indicando l’ubicazione di basi e depositi di armi, ma aiutarono polizia e carabinieri anche nelle attività di ricerca dei latitanti. Di molti dei ricercati, infatti, gli investigatori possedevano vecchie fotografie, quasi sempre solo dei loro volti. Sfido chiunque a riconoscere una persona che non gli sia personalmente nota sulla base di una semplice foto vecchia di cinque-dieci anni. Ma i pentiti li conoscevano, li avevano incontrati fino a poco tempo prima di essere arrestati e sapevano pure in quali aree metropolitane, in quale tipo di luoghi e di locali pubblici essi di regola preferivano incontrarsi. Fu geniale, dunque, l’«invenzione» dei reparti antiterrorismo di polizia e carabinieri: ci dissero che alcuni collaboratori erano disposti a girare con loro nelle auto-civetta, opportunamente resi irriconoscibili, per guidarli nei quartieri e presso i luoghi normalmente usati per i loro incontri con i «compagni», nella speranza di incontrarne qualcuno ancora latitante. Ci sembrava un’idea un po’ balzana, ma non vi era ragione per opporsi al piano. Bene, sembra incredibile, ma un buon numero di pericolosi latitanti cadde in quel modo. «Eccolo, è lui...», diceva il «pentito di pattuglia». Dalla vettura scattava la chiamata per i rinforzi e i latitanti venivano arrestati senza capire come fosse stato possibile giungere a loro. Ciò addirittura aumentava il loro senso di insicurezza e la consapevolezza che la fine fosse vicina. Mi è stato raccontato che in un caso, un pentito, lasciato per forza di cose solo sulle vetture-civetta, abbia chiamato la centrale attraverso gli apparati radio e chiesto aiuto per i poliziotti che stavano per arrestare i latitanti di turno. Qualcuno si scan196

dalizza? Io assolutamente no, specie se penso alle vite umane salvate e agli assassini catturati in quel modo. I maxiprocessi Ovviamente, indagini ed arresti non esaurivano il da farsi. Ho sempre spiegato ai giovani pubblici ministeri cui mi è capitato di parlare in qualche corso di aggiornamento del Consiglio superiore della magistratura che il pubblico ministero, sin dal primo passo di ogni investigazione, deve lavorare con la mente già proiettata verso il dibattimento. Solo la sentenza e le valutazioni dei giudici costituiscono l’eventuale riconoscimento della serietà del suo lavoro, non le prime pagine e le conferenze stampa sulle «brillanti operazioni». Ecco perché non ho mai apprezzato chi, avendo intrapreso e portato avanti una qualsiasi indagine, specie se clamorosa, ne abbia poi trascurato la finalizzazione dibattimentale. A Milano, dal processo Alunni in poi (la mia requisitoria orale iniziò il 28 maggio 1980, a poco più di due mesi dall’omicidio di Galli e nello stesso giorno dell’omicidio Tobagi), fu tutto un susseguirsi di dibattimenti con un gran numero di imputati. Ricordo qualche cifra: 201, tra cui 39 pentiti, in uno dei processi a Prima Linea, protrattosi per 102 udienze e conclusosi con condanne degli imputati a 15 ergastoli e 12 secoli di carcere; 164 nel processo cosiddetto «Rosso Tobagi» e circa un centinaio in uno di quelli alla colonna Walter Alasia delle Brigate Rosse. Anni ed anni di udienze consecutive, spesso con due o tre processi in contemporanea in aule diverse: così il pool antiterrorismo della Procura di Milano (con Enrico Pomarici, Corrado Carnevali, Maria Luisa Dameno, Filippo Grisolia, Elio Michelini e me stesso) ha speso il suo tempo. Ed altrettanto avveniva a Torino, Firenze, Roma, Padova e Napoli. Insulti ed aggressioni ai pentiti erano all’ordine del giorno, così come le espulsioni dei terroristi che inveivano contro le Corti e volevano leggere i loro proclami. Ma rammento anche episodi che suscitarono emozioni profonde. Durante il processo Rosso-Tobagi, nel 1983, stavo interrogando Mario Ferrandi, detto «Coniglio», diventato collaboratore dopo essere stato estradato dalla Gran Bretagna. Coniglio stava ricostruendo i reati commessi ed indicando i suoi complici. Stava parlando alla Corte d’Assise delle irruzioni armate, degli attentati e dei colpi d’arma da fuoco che ave197

vano caratterizzato le manifestazioni ed i cortei della primavera e dell’autunno del 1977 e spiegava che non si trattava affatto di «spontaneismo armato» ma di episodi attentamente studiati a tavolino dalle bande armate operanti a Milano e dai loro vertici. Cadeva il falso mito dei movimenti di piazza, cadevano gli slogan sulla rivoluzione possibile del proletariato e degli studenti: in realtà, ogni gesto, ogni colpo di pistola in quei cortei, anche nel febbraio del 1978, erano stati attentamente programmati e la loro esecuzione affidata agli apparati militari di «Rosso», di Prima Linea e delle rispettive «squadre». Ad un tratto, da una delle gabbie dell’aula, Giuseppe Memeo, detto «il Terrone», l’uomo della già citata foto scattata nel maggio del ’77 in via De Amicis, prese ad insultare il suo ex amico e compagno, chiamandolo «infame». Chiesi immediatamente la sua espulsione, ma il presidente Nino Cusumano colse qualcosa di speciale nell’aria e mi fece saggiamente cenno di attendere: Ferrandi aveva incassato l’insulto, ma il suo busto ruotò lentamente in direzione della gabbia. Guardando Memeo, gli disse, con voce rotta dall’emozione: «Giuseppe, l’omertà non ha mai fatto parte del patrimonio dei comunisti». L’aula bunker, affollata di imputati e parenti di imputati, avvocati e carabinieri, parve fermarsi di colpo. E così ogni parola e respiro. Ferrandi continuò nel silenzio più assoluto e spiegò le ragioni per cui la lotta armata era fortunatamente finita ed ognuno dei protagonisti di quelle tragedie doveva trovare la forza di dissociarsi dal proprio passato. Fummo tutti colpiti da quelle parole e dal loro tono profondo e sofferto. Alla fine di quel dibattimento, il 28 novembre del 1983, la Corte d’Assise presieduta da Nino Cusumano emise una delle sentenze più equilibrate e difficili che io ricordi. Da quel momento, molti altri terroristi scelsero di dissociarsi dalla lotta armata. Durissimi e tesi erano anche gli scontri con gli avvocati, alcuni dei quali vennero arrestati e definitivamente condannati per il loro rapporto organico con le bande armate che difendevano: tenere i collegamenti tra i membri detenuti e quelli ancora liberi era il loro compito principale. A Genova, nel 1980, l’avvocato Edoardo Arnaldi si suicidò all’atto dell’arresto, mentre Sergio Spazzali, come ho già ricordato, morì da latitante e la sua militanza fu rivendicata dal gruppo terroristico di cui faceva parte. Qualcuno ha scontato le pene in carcere mentre uno di quegli avvocati è ancora latitante e pare che si sia ricostruito una vita soddisfacente al198

l’estero. Altri avvocati, pur stabilmente dediti alla difesa dei terroristi, furono in quei processi semplicemente duri avversari ed oggi mi capita di discutere con loro abbastanza serenamente. Quasi nessuno di loro, invece, difende oggi i cosiddetti terroristi islamici. Ma talvolta mi pare impossibile che, dopo venticinqueventisette anni, ci ritroviamo – io e loro – ancora alle prese con i soliti conosciuti rituali di questo tipo di processi. I vecchi terroristi che ogni tanto reincontro in aula, poi, mi sembrano ormai schiavi dei loro vecchi modelli di comportamento. Credo che ormai si trovino in carcere, oltre i terroristi delle nuove leve brigatiste arrestati tra il 2003 e il 2007, solo alcuni vecchi irriducibili. Sarebbero fuori anche loro se non continuassero ad aggredire in carcere qualche agente della polizia penitenziaria ed a collezionare dieci-dodici mesi di carcere per ogni aggressione di quel tipo o per ogni volantino apologetico che tentano di leggere nei processi. Quasi surreale, a tal proposito, la scena di un processo di pochi anni fa: siamo a marzo del 2004, vado in aula, dinanzi ad una sezione del Tribunale di Milano, per rappresentare la pubblica accusa in un processo per apologia del terrorismo. L’aula è piccola e il mio banco è collocato a un paio di metri dalla gabbia dove si trovano i quattro terroristi detenuti. Con un paio di loro ci conosciamo e ci salutiamo con un cenno del capo. In altri tempi mi avrebbero ricoperto di improperi e minacce. Meglio così. Il processo inizia, il presidente legge i capi di imputazione, uno dei detenuti chiede di leggere un documento ed il permesso gli viene accordato senza opposizione da parte mia. Ma dopo venti secondi è chiaro che la lettura non può essere consentita: chiedo al presidente di interromperla. Il presidente è d’accordo e lo ordina agli imputati. Quello però continua a leggere il solito proclama e gli altri fanno quadrato attorno a lui. Ma senza gridare molto. Chiedo l’espulsione di tutti e il sequestro del documento. Anch’io lo faccio con voce pacata e tono normale. Il presidente accoglie la richiesta e i carabinieri entrano nella gabbia, prendono il documento, iniziano a mettere le manette ai detenuti che se ne stanno tranquilli e si fanno docilmente portare via. Mentre escono, prima dicono, come al solito, «Non siete voi che ci cacciate, siamo noi che ce ne andiamo», poi ci salutiamo ancora. «Buongiorno, dottor Spataro». «Buongiorno», rispondo. Tutto in due o tre minuti. Cinque al massimo. Fortunatamente senza resistenza e incidenti: anni fa sarebbe stato diverso. Che senso ha ancora tutto questo? 199

Così, dunque, fu sconfitto nell’88 il terrorismo interno degli anni di piombo, sia di destra che di sinistra. È falso che in Italia sia stata combattuta una guerra civile e che il terrorismo sia stato un fenomeno di massa. Semmai fu una guerra dichiarata da una sola parte, elitaria e, salvo poche eccezioni, di matrice piccoloborghese. La sua azione, senza effettivo radicamento nel paese reale, ha comunque messo a rischio la nostra democrazia e ne ha ostacolato la maturazione, determinando atteggiamenti diffusi di difesa sociale, omogeneità forzata tra gli schieramenti politici ed il conseguente rallentamento della dialettica politica. Ambiguità ed incertezze diffuse hanno fatto il resto. Solo negli anni seguenti gli strumenti di lavoro da noi inventati, primi fra tutti il coordinamento tra Procure e lo scambio degli atti giudiziari, vennero «codificati». Tra l’ultimo omicidio consumato in quegli anni, quello del senatore della Dc Roberto Ruffilli, nel 1988, e quello del professor Massimo D’Antona a Roma, il 20 maggio 1999, che ruppe il lungo silenzio delle Br, trascorsero undici anni. Certo, le Br hanno ucciso ancora: il 19 marzo 2002, a Bologna, il giuslavorista Marco Biagi e il 2 marzo 2003, a Castiglion Fiorentino, il sovrintendente Emanuele Petri, ma sette anni sono trascorsi da quest’ultima tragedia e di nuovo le Br, anche quelle definite le «nuove» Br, paiono scompaginate grazie all’efficacia dell’azione delle forze di polizia e della magistratura italiana. Non è possibile abbassare la guardia neppure ora, ma non vi è dubbio che i vecchi metodi di indagine, il proficuo rapporto tra polizia giudiziaria e pubblici ministeri e la loro rispettiva specializzazione sono risultati indispensabili anche contro il nuovo terrorismo interno, rafforzati, anzi, dalla capacità di utilizzo delle moderne tecnologie. È la lezione che viene proprio dai processi per gli omicidi appena ricordati e da quello milanese sui militanti delle «nuove» Br arrestati all’inizio del 2007 tra Milano, Padova e Torino. Un processo, questo, conclusosi nella metà del 2009 con le condanne di quasi tutti gli imputati. Ci sono volti nuovi tra i magistrati che conducono ora le inchieste milanesi (ad esempio, a Milano, Ilda Boccassini, che aveva maturato le sue precedenti esperienze in altri campi, così come Maurizio Romanelli, Massimo Meroni, Nicola Piacente, Elio Ramondini, Luisa Zanetti e Luigi Orsi, valenti specialisti anche nel campo dei reati di mafia o di quelli fallimentari o contro la pubblica amministrazione), volti 200

nuovi tra le poliziotte, i poliziotti, i carabinieri ed i finanzieri che indagano «sul campo» e volti nuovi pure tra i terroristi arrestati. Ma ci sono dappertutto, sparsi qua e là, anche volti conosciuti, molti tra i terroristi riciclati. Sembra incredibile, ripeto, ritrovarseli ancora davanti, dopo venti o trent’anni. Qualcuno continua ad affermare che, per chiudere definitivamente gli anni di piombo, sarebbe oggi necessario un atto politico di pacificazione (cioè un’«amnistia»), quasi la situazione italiana fosse simile a quella sudafricana all’avvento di Nelson Mandela. In realtà, come ho ricordato, sin dal 1987 il Parlamento italiano approvò una legge che offriva ampie possibilità, a chiunque lo avesse voluto, di chiudere i conti con il proprio passato. E se ne avvalsero alcune centinaia di detenuti, tra cui anche molti vertici delle Br e di Prima Linea. Non avrebbe senso un ulteriore intervento legislativo, anche perché i terroristi ancora detenuti sono soltanto quelli arrestati in anni recenti o quelli che hanno continuato a commettere reati anche in carcere: a loro la pacificazione non sembra interessare in alcun modo. La mia esperienza professionale, dunque, ha attraversato tutta la galassia del terrorismo di sinistra, con la sola eccezione dei Nuclei armati proletari (Nap), praticamente assenti nel Nord Italia. Né mi sono occupato, tranne che per isolati seppur gravi episodi, del terrorismo di destra, anch’esso poco presente a Milano in quegli anni. Ancora mi pesa, però, non essere riuscito a trovare gli autori del duplice omicidio di Lorenzo Iannucci (detto «Iaio») e di Fausto Tinelli. Tre sconosciuti uccisero i due ragazzi in via Mancinelli, il 18 marzo 1978, due giorni dopo la strage di via Fani. Mi occupai del duplice omicidio per circa due mesi, prima di essere obbligato per legge a trasmettere l’inchiesta al giudice istruttore, e furono giorni tra i più intensi della mia carriera di pubblico ministero: indagammo nel mondo dell’eversione terroristica di destra – a mio avviso l’ambiente da cui più probabilmente provenivano gli assassini – e in quello dello spaccio di stupefacenti. Niente da fare, purtroppo. Stesso negativo risultato per i colleghi che si assunsero l’onere di proseguire l’inchiesta fino alla sua archiviazione essendo rimasti ignoti gli autori dell’omicidio. Vorrei chiedere scusa a genitori, parenti ed amici dei due ragazzi, anche se non riesco ad individuare colpe o superficialità nelle nostre indagini. La loro ferita, però, è una ferita ancora aperta per tutta Milano. 201

Ho poi un altro rimpianto: quello di non essere stato accanto, come sarebbe stato giusto, ad Enrico Pomarici nella inchiesta per l’omicidio Calabresi: ero purtroppo impegnato in un’altra complessa indagine. Non che lui avesse bisogno di aiuto da parte mia o di altri, ma soltanto per poter essergli vicino – anche in quell’occasione – nel momento delle invettive e delle polemiche che accompagnarono tutta l’indagine, le confessioni di Leonardo Marino e poi le fasi dei molti dibattimenti celebrati, fino alla sentenza definitiva di condanna di Adriano Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani. Dopo la sentenza di primo grado, emessa nel 1990 da una Corte d’Assise presieduta da Manlio Minale, ricordo che giudici e pubblico ministero si ritrovarono a loro volta «sotto processo». Il vicepresidente del Consiglio dei ministri, Claudio Martelli, si dichiarò allibito per la sentenza. Marco Boato, ex leader di Lotta Continua e senatore della Repubblica, presenziando alla Casa della Cultura di Milano a un controprocesso organizzato dagli amici dei condannati, disse, invece: I magistrati? «Mi fanno tutti un po’ schifo qui a Milano». «Ed il pm Pomarici», aggiunse, «è un killer del diritto, questa è la mia sensazione a pelle»40. Presi posizione a favore di Enrico in mille pubbliche dichiarazioni, anche se sapevo che non ne aveva bisogno. Di certo era stata fatta giustizia: erano stati individuati e condannati gli assassini di Calabresi, cioè i responsabili del primo omicidio della storia del terrorismo italiano, checché ne dica Sofri, il quale, in un incredibile articolo pubblicato sul «Foglio» nel settembre del 200841, ha tentato di spiegare perché quell’omicidio non sarebbe in realtà un atto di terrorismo. Qualcuno gli ha anche dato ragione42. Leo Valiani Ma quegli anni mi hanno anche permesso di conoscere persone eccezionali che hanno sostenuto con fermezza l’azione della magistratura e delle forze di polizia contro il terrorismo ed ogni forma di potere criminale. Penso, ad esempio, a Leo Valiani. Cfr. «Corriere della Sera», 6 maggio 1990. Adriano Sofri, Piccola posta, in «Il Foglio», 11 settembre 2008. 42 Erri De Luca parlando a Marco Imarisio, Onu e omicidio Calabresi. Sofri riaccende la polemica, in «Corriere della Sera», 12 settembre 2008. 40 41

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Nel pieno degli anni di piombo, Leo Valiani, ormai senatore a vita dal 1980, opinionista del «Corriere della Sera» ed attento osservatore della realtà nazionale, un giorno mi telefonò invitandomi a pranzo in un ristorante di via Solferino: voleva avere qualche delucidazione e pormi qualche domanda sul terrorismo di cui così frequentemente scriveva sulla prima pagina del «Corriere». Ci andai con Gabriele Chelazzi, che conduceva analoghe indagini a Firenze. Valiani non desiderava conoscere ipotetici segreti sulle indagini in corso ma capire. Capire i terroristi e che cosa potevamo fare tutti insieme per fermarli. Rispondemmo onorati ad ogni sua domanda ma gliene facemmo altrettante sulla sua storia di antifascista e di padre della patria. Fu avvincente sentire quell’uomo, nato nel 1909, parlarci della Resistenza, della condanna a cinque anni di carcere che aveva subito, della sua fuga e del suo esilio, del suo ritorno in Italia, del Partito d’Azione e del suo rapporto con Sandro Pertini, della sua partecipazione alla decisione di giustiziare Mussolini e di tante altre cose ancora. La storia la leggi in genere sui libri, ma quando ce l’hai davanti, quando ti parla attraverso una voce, un volto e uno sguardo puntato su di te, vorresti che quel racconto non finisse mai. Ma il padrone del ristorante, a un certo punto, ci fece garbatamente intendere che era tardi e doveva chiudere il locale. In quegli anni, come ho ricordato, ho perso amici e fratelli come Emilio Alessandrini e Guido Galli. Ma altri colleghi e fratelli con cui ho diviso il dolore di quelle tragedie ci hanno in seguito lasciato: Gabriele Chelazzi, Franco Giordana e Maurizio Laudi. Franco e Maurizio costituivano, con Caselli, Maddalena e Griffey, il mitico pool torinese dei giudici istruttori antiterrorismo. Di Giordana ricordo lo stile e la serenità, il sorriso discreto. Gabriele e Maurizio sono morti alla stessa maniera: di notte, il loro cuore ha ceduto di schianto, per il loro impegno senza sosta. Pensavano di essere indistruttibili ed hanno dato al paese tutto quel che possedevano per una sola passione, la legge. Sono stato particolarmente legato a Maurizio: ci univa, tra l’altro, la passione per la Juventus e lo sport, oltre che l’amore per l’Associazione magistrati e la sua storia. Ho un cruccio profondo: il 26 settembre del 2009 non ero presente a Torino, al suo funerale, quando la città l’ha salutato. Ero a Pescara a celebrare i trent’anni del sacrificio di Emilio Alessandrini. Che strano imbarazzo prima di decidere dove an203

dare quel giorno: a Torino o a Pescara? Qualunque strada avessi scelto – pensavo sorridendo – Emilio e Maurizio mi avrebbero capito e perdonato. Ho scelto Pescara perché avrei dovuto incontrare tanti giovani studenti e a loro tentare di raccontare pezzi di questa nostra storia terribile. Una storia che il sacrificio di molti magistrati ha reso anche luminosa43. L’ultima relazione di servizio Il 4 dicembre del 1989, l’agente scelto Gerardo Frisani della Digos di Milano, il giovane poliziotto mio corregionale ormai di fatto membro della mia famiglia, redigeva la sua ultima relazione di servizio quale capo dell’equipaggio di scorta a me assegnato da circa nove anni: Al Sig. Dirigente della Digos [...] Il sottoscritto [...] comunica alla S.V. quanto segue. In data odierna, alle ore 20.00, concludeva il servizio di scorta di sicurezza alla persona del Sost. Procuratore della Repubblica dott. Armando Spataro, senza che dal servizio scaturissero novità degne di essere menzionate. Si vuol altresì evidenziare che da domani lo scrivente interromperà la mansione anzidetta per sopravvenuti nuovi incarico e destinazione. Il tutto per dovere d’ufficio viene ad essere comunicato.

Gerardo era stato destinato ad altro incarico ed erano così finiti i miei anni di piombo. Anch’io passavo a un nuovo incarico. Rileggo questo lungo capitolo e mi assale il dubbio che quanto ho scritto possa non interessare il lettore. In tal caso, spero nella sua indulgenza: mi è parso giusto saldare così un altro debito di verità. Basta, ora, parlare del terrorismo degli anni di piombo. Torniamo ai giorni nostri, che, fortunatamente, sono anch’essi ricchi di tante belle persone: Claudio Fava e Dick Marty, per esempio.

43 A p. 576 il lettore ne avrà davanti agli occhi la lista: ventiquattro persone uccise da terrorismo e mafia. Non credo che in alcun paese al mondo la magistratura abbia pagato un così alto prezzo per il solo esercizio del proprio dovere in difesa della legalità repubblicana.

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XII

Il sequestro di Abu Omar/5: il mondo vuole sapere

Claudio Fava e il Parlamento europeo Ogni fine anno il settimanale inglese «The Economist», con l’intervento di una giuria prestigiosa e super partes, promuove una sorta di referendum sovranazionale per designare il miglior parlamentare europeo dell’anno. La giuria per il 2007 è formata da Carl Bildt, ex ministro degli Esteri svedese, Wilfried Martens, presidente del Partito popolare europeo (Ppe, centrodestra europeo), John Micklethwait, direttore dell’«Economist», Maria João Rodrigues, docente universitaria a capo del programma europeo noto come Strategia di Lisbona, George Vassiliou, ex presidente di Cipro ed ex capo delegazione ai negoziati per l’adesione del suo paese all’Unione Europea, Paul Demaret, rettore del College of Europe, Helen Wallace, esperta di politiche comunitarie, fino al 2006 direttrice del Centro studi avanzati Robert Schuman e dello European University Institute di Firenze, Mario Monti, presidente dell’Università Bocconi ed ex commissario europeo, Dana Spinant, direttore di «European Voice». Ma non sono loro che designano i vincitori, né si vota nei «palazzi»: votano online tutti i cittadini d’Europa che decidono di farlo. L’elezione del miglior parlamentare dell’anno premia ovviamente il lavoro specifico da lui o da lei svolto e la sua fedeltà ai valori che l’Europa e le sue istituzioni politiche sostengono e perseguono. Gli esiti del referendum europeo sono segreti fino alla proclamazione ufficiale dell’eletto. Il 27 no205

vembre 2007, Claudio Fava, esponente del gruppo socialista al Parlamento europeo, riceve una telefonata con la quale gli organizzatori lo pregano di partecipare alla serata della proclamazione dei risultati. Gli dicono solo che è previsto un abito adatto all’evento. Claudio è sorpreso per la telefonata, anche se il suo nome figura già nella rosa dei papabili insieme ad altri prestigiosi colleghi di ogni schieramento politico. Quella sera, Claudio viene proclamato «Deputato europeo del 2007»: lo hanno eletto i cittadini europei. Viene così premiato il silenzioso lavoro da lui svolto come relatore della commissione di inchiesta sulle renditions e sulle prigioni segrete della Cia in Europa. «È un riconoscimento per l’intero Parlamento europeo – ha commentato Fava – per la nostra determinazione nel pretendere la verità, tutta la verità, su ciò che è accaduto nei nostri paesi dopo l’11 settembre». Nella sua relazione, approvata a stragrande maggioranza dal Parlamento europeo nel febbraio del 2007, Fava ha duramente criticato, tra l’altro, sia il governo italiano in carica, quello di Prodi, che il precedente, quello di Berlusconi, per la loro scarsa sensibilità al tema dei diritti umani e per gli ostacoli frapposti all’azione della Procura della Repubblica di Milano. Fra gli altri europarlamentari selezionati dalla giuria figurava anche la baronessa Sarah Ludford, dell’Alleanza dei democratici e dei liberali per l’Europa (Adle), scelta sempre per la sua opera in difesa dei diritti umani. Assieme a Claudio Fava, ma in altre categorie, vengono premiati anche Angela Merkel e il dissidente russo Garri Kasparov. Gli italiani non possono andare fieri del meritato riconoscimento tributato a Claudio Fava perché non ne sanno praticamente nulla: la notizia circola solo in siti web di nicchia e tra i suoi amici. I quotidiani italiani semplicemente non ne danno notizia, salvo che in qualche marginale trafiletto. Conoscevo Claudio Fava da tempo ed avevo partecipato con lui a molti dibattiti su mafia e dintorni: l’ultimo era stato quello pieno di passione del marzo 2005 a Milano, quando avevamo presentato Un anno, la raccolta di scritti per la rivista «I Siciliani» di suo padre Giuseppe – Pippo –, fermato il 5 gennaio del 1984 da cinque pallottole mafiose alla nuca. Ma non avevo mai conosciuto Claudio Fava come politico. Fu possibile proprio grazie all’inchiesta Abu Omar. Claudio era stato designato relatore della Commissione speciale sui voli segreti della Cia e sulle cosiddette renditions (più esatta206

mente Temporary Committee on the alleged use of European countries by the Cia for the transport and illegal detention of prisoners) anche su proposta di Martin Schulz, presidente del gruppo socialista, diventato famoso in Italia per essere stato chiamato «kapò» da Silvio Berlusconi, nell’aula del Parlamento europeo. La Commissione, presieduta dal «conservatore» portoghese Carlos Coelho, tramite Fava, mi contattò alla fine del 2005, quando erano ormai pubbliche le notizie sulle ordinanze di custodia in carcere emesse contro ventidue americani per il sequestro dell’egiziano. D’accordo con il procuratore della Repubblica, fornii le sole notizie che, non più segrete, potevo comunicare al Parlamento europeo. Il 23 febbraio del 2006, su invito di Carlos Coelho, partecipai a un’audizione dinanzi alla Commissione. Fu proprio lì, a Bruxelles, che ho conosciuto il Claudio Fava politico e ho visto, con i miei occhi, di quanta stima e ammirazione fosse circondato da parte di tutti i suoi colleghi parlamentari europei, inclusi quelli appartenenti allo schieramento «conservatore», anche se è noto quale diverso contenuto assuma questo termine se si raffrontano la realtà italiana e quella europea: caso Buttiglione docet1. In realtà, non dovrei essere tenero con Fava visto che nel suo libro Quei bravi ragazzi2, in cui descrive la sua esperienza di relatore nella Commissione Coelho, mi definisce «garbato signore di mezza età, la giacca di tweed, i larghi baffi brizzolati...» ed adombra il sospetto – del tutto infondato – che durante una partita di pallanuoto a Taranto, allorché Claudio giocava nella squadra di Catania, io possa avergli spezzato due incisivi con una gomitata. Ma posso sorvolare su questo incidente di percorso («signore di mezza età» a me? Gravissimo nella società dell’immagine e dei capelli tinti!) e anzi perdonarlo: non per gli apprezzamenti che pure nel libro dedica al lavoro della Digos e della Procura di Milano, ma perché Claudio è un politico di eccezionale livello. Coerente nell’impegno per l’etica e i diritti, serio e silenzio-

1 Le polemiche seguite alle dichiarazioni di Rocco Buttiglione sulla natura dell’omosessualità («un peccato, anche se ciò non può portare ad alcun tipo di discriminazione»), nell’ottobre del 2004, ne determinarono la bocciatura alla carica di Commissario per giustizia, libertà e sicurezza del Parlamento europeo. 2 Claudio Fava, Quei bravi ragazzi. La guerra santa della Cia. Storie di spie, generali, ministri, carceri segrete e finti terroristi, Sperling & Kupfer, Milano 2007.

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so nel suo lavoro quotidiano tra Bruxelles e Strasburgo, lontano da qualsiasi comportamento o affermazione che pure potrebbero fargli guadagnare facilmente le luci dei riflettori delle tv. Ecco perché lo stimano i suoi colleghi parlamentari europei. Perché è questa – o questa dovrebbe essere – la politica: non quella dei partiti «frou-frou» (la pertinente immagine è stata usata nel settembre del 2008 da Franco Marini a proposito dei rischi di involuzione del Pd) o dei tanti portavoce, capigruppo, presidenti, vicepresidenti, ministri, viceministri e sottosegretari che affollano la politica italiana. La loro aspirazione sembra essere quella dei venti-trenta secondi spesi a ripetere in tv frasi di rito e senz’anima, con lo sguardo immobile piantato sull’obiettivo della telecamera. Perché così impone lo stile della moderna comunicazione. Durante la mia audizione del febbraio 2006, a Bruxelles, dinanzi alla Commissione sulle renditions, Fava mi pose solo un paio di domande introduttive e poi, dopo che avevo proiettato e illustrato le mie slides sull’indagine (a proposito, il 5 luglio del 2006 ne troverò una copia completa nella sede del Sismi di via Nazionale a Roma!), lasciò il campo ai suoi colleghi di ogni parte d’Europa, come l’inglese Sarah Ludford, la portoghese Ana Maria Gomes, gli olandesi Sophia in ’t Veld, Jan Marinus Wiersma e Kathalijne Maria Buitenweg, gli spagnoli Ignasi Guardans i Cambó ed Elena Valenciano Martínez-Orozco, il tedesco Wolfgang Kreiss-Dörfler, il greco Stavros Lambrinidis, Giusto Catania e Giulietto Chiesa. Che erano tutti ben informati e, apprezzando le indagini italiane, posero interrogativi improntati a una severa critica del governo italiano: non eravamo ancora giunti a indagare appartenenti al Sismi, ma il ministro della Giustizia Castelli non aveva preso fino a quel momento alcuna decisione sulla richiesta di inoltro alle autorità Usa della domanda di estradizione dei ventidue latitanti americani. Fecero eccezione al coro degli apprezzamenti un parlamentare tory, Charles Tannock, il polacco Bogusław Rogalski e l’onorevole Jas Gawronski, eletto al Parlamento europeo per Forza Italia. Pranzai insieme a Gawronski prima dell’audizione: lo conoscevo e lo apprezzavo come giornalista intelligente e distaccato. Mi stupì, dunque, non tanto quando, con le sue domande, criticò e banalizzò l’indagine – in fondo, era un atteggiamento diffuso in Italia, non solo negli ambienti del suo partito –, ma quando mi chiese se fossi a conoscenza del fatto che 208

Abu Omar, il giorno del suo rapimento, era uscito da casa con passaporto e documenti originali anziché, come sempre faceva, con fotocopie di questi. Ciò avrebbe dovuto dimostrare che Abu Omar si preparava a un espatrio volontario e che, dunque, il suo rapimento era stato simulato, ovviamente con il suo accordo. Non avevo mai sentito quella storia, per cui pregai Jas Gawronski di volermi eventualmente fornire l’indicazione della fonte da cui l’aveva appresa, così da consentirmi di indagare su quanto mi aveva detto. Non ricevetti risposta, ma, tornato a Milano, indagai ugualmente sulle «rivelazioni» di Gawronski. Risultò che si trattava di una notizia fasulla diffusa dal Sismi, proveniente da una non identificata fonte confidenziale. La moglie di Abu Omar avrebbe poi testimoniato davanti al giudice che il marito non aveva mai usato fotocopie dei suoi documenti di identità. Nel corso della mia seconda audizione dinanzi alla Commissione Coelho del Parlamento europeo, il 9 ottobre del 2006, tenutasi quando vari appartenenti al Sismi, Pollari incluso, erano ormai ufficialmente indagati, l’onorevole Jas Gawronski ripeté la stessa domanda – forse dimenticando che me l’aveva già posta – e mi chiese se fossi riuscito ad accertare qualcosa in merito alla storia dei documenti di Abu Omar. Colsi allora l’occasione per ringraziarlo perché proprio la domanda che mi aveva posto a febbraio ci aveva fornito la possibilità di ulteriori indagini e di conoscere la provenienza di quella falsa notizia. Tutti gli atti della inchiesta erano stati ormai depositati perdendo il loro carattere di segretezza, sicché gli dissi che era stato il Sismi a diffonderla e ciò era stato da noi ritenuto un ennesimo elemento di prova, per quanto secondario, a carico degli indagati del Servizio. Rammento una certa ilarità tra i molti europarlamentari presenti. Ma, a proposito delle due audizioni dinanzi alla Commissione Coelho sulle renditions, ricordo altro, qualcosa che non dimenticherò. Le audizioni si tennero, per la loro delicatezza e per l’interesse che suscitava l’argomento, nell’aula destinata alle sedute plenarie del Parlamento: erano molti gli europarlamentari presenti, anche estranei alla Commissione. C’erano molti giornalisti di tutto il mondo e i rappresentanti delle principali organizzazioni umanitarie. A tutti i presenti, specie dopo gli apprezzamenti positivi per il nostro lavoro formulati da quasi tutti i parlamentari intervenuti, spiegai, nel ringraziarli, che i risultati ottenuti erano stati possibili non solo grazie alle ecce209

zionali qualità della polizia italiana, ma anche per le caratteristiche del nostro sistema costituzionale e del nostro ordinamento giudiziario, che prevedono, da un lato, il pubblico ministero assolutamente indipendente dal potere politico e obbligato a procedere per ogni notizia di reato che comunque gli pervenga, e, dall’altro, la polizia giudiziaria diretta dal pubblico ministero stesso. L’indipendenza di questo, dunque, si trasferisce su quella. Mi sembrò di essere stato lucido nell’informare l’alto consesso dinanzi al quale mi ero trovato, ma pensavo anche che quell’indagine aveva per me rappresentato un autentico momento di maturazione (ammesso che ciò sia ancora possibile nei pressi dei sessant’anni), non solo per quanto riguardava direttamente il mio lavoro ma anche perché mi aveva dato la possibilità di una riflessione più generale sul senso delle cose che accadono in questo nostro mondo. Un fastidioso tic mi assalì durante la seconda audizione dell’ottobre 2006: l’omero destro si muoveva a scatti, incontrollabile, ogni 30/40 secondi. Ma ricordo con emozione, alla fine della prima seduta, quella del febbraio del 2006, le parole solenni del presidente Coelho che, sottolineando l’utilità del nostro lavoro per l’indagine del Parlamento europeo, ringraziava la polizia e la magistratura italiana. Molti parlamentari erano in piedi e applaudivano: mi parve che anche alcuni di loro fossero un po’ commossi. Non quanto me, comunque. Una bella pagina per la magistratura italiana che, a Bruxelles, in quei giorni, ho avuto la fortuna e l’onore di rappresentare davanti all’Europa. Grazie a Claudio Fava, comunque, ha avuto voce e importante presenza in Europa «un’Italia che non si arrende a tacere»: la sua relazione, con alcuni emendamenti, veniva approvata poi il 14 febbraio del 2007. Vi si esprimevano apprezzamenti per l’efficace opera svolta dalla Procura di Milano e si esortava il governo italiano a collaborare pienamente con l’autorità giudiziaria3. Alla vigilia del dibattito e del voto finale, Fava non ha ricevuto molti incoraggiamenti dall’Italia, neppure dai leader del partito che all’epoca rappresentava: solo qualche imbarazzata condivisione e in3 Vedi in Appendice, par. 3, i passaggi della Risoluzione approvata dal Parlamento europeo il 14 febbraio 2007 relativa al «Presunto uso dei Paesi europei da parte della Cia per il trasporto e la detenzione illegali di prigionieri» (2006/2200 INI) nella parte che riguarda l’Italia.

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viti a chiudere rapidamente quella storia. Negli stessi giorni, in Italia, accadevano altri due eventi importanti e connessi: la decisione del governo Prodi di sollevare di fronte alla Corte Costituzionale il conflitto di attribuzioni contro la Procura e il giudice Interlandi di Milano (proposto proprio il 14 febbraio, cioè nello stesso giorno in cui il Parlamento europeo approvava la sua Risoluzione) e il rinvio a giudizio di tutti gli imputati (16 febbraio). Un folto gruppo di parlamentari europei italiani (ancora Claudio Fava, Roberto Musacchio, Monica Frassoni, Umberto Guidoni, Vittorio Agnoletto, Vincenzo Aita, Giovanni Berlinguer, Giusto Catania, Giulietto Chiesa, Sepp Kusstatscher, Luisa Morgantini, Pasqualina Napoletano, Achille Occhetto e Marco Rizzo) e pochi altri ministri e parlamentari in Italia (Antonio Di Pietro, Fabio Mussi, Paolo Ferrero, Cesare Salvi, Gerardo D’Ambrosio, Felice Casson e Giovanni Russo Spena) hanno chiesto al presidente del Consiglio, nel corso del 2007, di revocare la decisione di sollevare il conflitto di attribuzioni. La stessa richiesta è contenuta in un appello promosso da vari premi Nobel e sottoscritto da centinaia di intellettuali di ogni parte del mondo. Ma nessuno al governo ha preso sul serio questi appelli, quasi si trattasse di messaggi da blog o di fastidiosi strepiti di piazza cui è meglio non replicare, altrimenti se ne amplifica la portata. Altrettanto è avvenuto dopo che a gennaio e a febbraio del 2009 il Parlamento europeo ha approvato altre due solenni risoluzioni chiedendo «con urgenza [...] agli Stati membri di attuare le raccomandazioni contenute nella sua precedente risoluzione del 14 febbraio 2007 sul presunto uso dei paesi europei da parte della Cia per il trasporto e la detenzione illegali di prigionieri»4, nonché di «contribuire all’accertamento della verità avviando indagini o collaborando con gli organi competenti, divulgando e fornendo tutte le informazioni pertinenti [...] sugli abusi e le violazioni commessi nel contesto della ‘guerra al terrorismo’ e concernenti il diritto umanitario internazionale e nazionale, le libertà fondamentali, la proibizione della tortura e dei maltrattamenti, le sparizioni e [...] il programma di consegne straordinarie»5. 4 Vedi in Appendice, par. 4, quanto in proposito afferma la Risoluzione su «Situazione dei diritti fondamentali nell’Unione Europea (2004/2008)», approvata a stragrande maggioranza il 14 gennaio 2009. 5 Risoluzione del Parlamento europeo del 19 febbraio 2009.

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Ma Claudio Fava ha continuato imperterrito a denunciare l’ambiguità della politica del governo italiano anche sul tema del rispetto dei diritti umani: presentando a Milano, nel maggio del 2009, l’ultimo suo libro su mafia e dintorni6, ho ricordato che Fava è diventato nel 2008 segretario nazionale di Sinistra democratica. Ma mentre molti politici cambiano partito – e talvolta più partiti – per non perdere poltrone e cucce calde che hanno avuto la fortuna di trovare, Fava l’ha fatto sapendo che avrebbe perso la poltrona di membro del Parlamento europeo che aveva così onorevolmente occupato: ma nulla gli avrebbe potuto far tradire la sua personale coerenza. Una virtù ereditata da suo padre che può avere altri nomi, «coraggio» ad esempio, ma che secondo me vale più del coraggio. Dick Marty e il Consiglio d’Europa Nessuno, nonostante la vocazione europeista dell’Italia ripetutamente declamata, ha preso in considerazione un’altra pesante messa in mora del nostro paese e gli inviti a collaborare con l’autorità giudiziaria provenienti anche dal Consiglio d’Europa, che, come scrive il segretario generale Terry Davis nel saluto che apre la homepage del Consiglio stesso, «simboleggia l’impegno degli Stati democratici europei a condividere i loro valori comuni, che sono il rispetto dei diritti dell’uomo, la democrazia e la preminenza del diritto». Anche una commissione del Consiglio d’Europa, infatti, si era occupata, come quella Coelho del Parlamento europeo, delle «renditions, delle prigioni e dei voli segreti della Cia». Presidente della Commissione Affari legali e Diritti umani del Consiglio d’Europa era il senatore elvetico Dick Marty. Conosco Marty da molti anni e i nostri rapporti risalgono all’epoca in cui era anch’egli pubblico ministero in Svizzera. Non erano rapporti frequenti, ma egli era sicuramente, insieme a Carla Del Ponte, il nostro punto di riferimento tra i colleghi elvetici per ogni necessità di collaborazione ed assistenza giudiziaria di un certo rilievo. Lui ricorda anche la conoscenza con il generale dalla Chiesa all’epoca del terrorismo degli anni di piombo. Dunque, Dick 6 Claudio Fava, I disarmati. Storia dell’Antimafia: i reduci e i complici, Sperling & Kupfer, Milano 2009.

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Marty viene designato relatore su quello scomodo affaire e si mette all’opera nel 2005. Il suo è un lavoro quasi solitario: la Commissione che presiede gli delega ogni attività e gli concede solo pochi mezzi e pochi collaboratori. Tra questi, un investigatore e consigliere indipendente: Gavin Simpson, bravo e determinato pure lui. Dick Marty, tuttavia, ha ricevuto mandato per svolgere le sue indagini anche ascoltando fonti confidenziali di cui garantirà l’esistenza e non svelerà l’identità. Marty mi viene a trovare per la prima volta, in Procura, dopo che il maresciallo Pironi ha già confessato e quando ormai l’indagine sul Sismi è avviata. Anche a lui, come a Fava, fornisco le informazioni non più segrete. Anche lui, come Fava, apprezza il nostro lavoro: già conosce il modo di lavorare della polizia e della magistratura italiana. Marty ha l’aspetto del gentiluomo, dritto e fiero nel suo portamento, che niente e nessuno può intaccare. Un po’ come le montagne e i ghiacciai che ama. Nei suoi due rapporti su renditions e prigioni segrete, la condanna di quei metodi di lotta al terrorismo è spietata. Senza appello anche i duri rilievi sull’atteggiamento del governo Prodi che ostacola le nostre indagini. La Commissione che presiede approva senza alcuna voce contraria i suoi due rapporti del giugno 2006 e del giugno 2007 e il Consiglio d’Europa, sulla base di questi, emette Risoluzioni e Raccomandazioni inequivoche anche sulla necessità che i governi – tra i quali viene citato e aspramente criticato quello italiano – non oppongano segreti di Stato su quelle imbarazzanti prassi e non ostacolino, anzi favoriscano, le indagini della magistratura7. L’Italia fa parte del Consiglio d’Europa? Sì. Ha firmato e ratificato la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo? Sì. Ma da noi, a livello politico, nessuno batte ciglio dopo le delibere del Consiglio d’Europa. Dick Marty gira il mondo, testimone della necessità di salvaguardare ad ogni costo i diritti umani:

7 Vedi in Appendice, par. 5, passaggi qualificanti, concernenti l’Italia e il caso Abu Omar, del rapporto del 7 giugno 2007 della Commissione Affari legali e Diritti umani del Consiglio d’Europa sul coinvolgimento degli Stati membri del Consiglio d’Europa nei trasferimenti illegali di detenuti e detenzioni segrete (Secret detentions and illegal transfers of detainees involving Council of Europe member States: second report) e della Risoluzione conseguentemente approvata dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa.

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I terroristi sono certamente persone pericolose, perché il loro obiettivo consiste nel distruggere con ogni mezzo il nostro sistema democratico e i valori dell’Occidente. Ciononostante è scioccante che noi stessi combattiamo questi terroristi rinunciando alle istituzioni fondamentali del nostro sistema democratico, ai nostri sistemi giudiziari, al principio fondamentale del rispetto dei diritti umani ed alla garanzia del giusto processo. Comportandoci in questo modo, noi indirettamente legittimiamo l’azione di queste persone che oggi, di fronte a tali violazioni, sono convinte che il nostro sistema è brutale, illegale e si fonda sulla tortura. Oltretutto, questi comportamenti illegali possono alimentare un movimento di solidarietà nei confronti dei responsabili di azioni terroristiche8.

Ho avuto la fortuna di incontrare Marty in Italia e all’estero in qualche convegno e l’onore di sentirlo elogiare l’indipendenza dei pubblici ministeri italiani e spiegare le ragioni per cui condivide il principio di obbligatorietà dell’azione penale. Nei principali progetti di possibili riforme dell’ordinamento giudiziario elaborati dall’attuale governo Berlusconi, invece, questi principi sembrano essere diventati la ragione di gran parte dei mali che affliggono il nostro sistema giustizia. Intanto, Dick Marty continua instancabile a macinare: dopo il tema delle renditions, ha trattato quello delle black lists, un’altra modalità di lotta al terrorismo che rivela poca efficacia e scarsa compatibilità con i principi su cui si fondano le democrazie occidentali. Ne parleremo più avanti. Se fosse promosso un referendum per designare anche il miglior componente del Consiglio d’Europa, voterei entusiasticamente – ed inviterei a votare – per il senatore Dick Marty. Organizzazioni umanitarie e mondo accademico Oltre quella del Parlamento europeo e del Consiglio d’Europa, è altissima l’attenzione sui comportamenti dei governi occidentali, in tema di renditions e prigioni segrete, da parte di tutte le organizzazioni umanitarie del mondo (Amnesty International, Human Rights Watch, Statewatch, Reprieve, Human Rights First e altre) 8 Dick Marty, Does one have to fight tyranny with the instruments of the tyrants?, in Global Research.ca, sito web del Centre for Research on Globalization, 18 maggio 2007.

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che hanno organizzato convegni ed elaborato informatissimi Reports sulle renditions, trasmettendoli ai vari governi, tra cui quello italiano accusato di avere frapposto «resistenza» alle indagini giudiziarie. Non hanno ricevuto alcuna risposta. Statewatch9 ha anche organizzato un «osservatorio» internazionale che raccoglie tutte le informazioni ufficiali concernenti questa materia che pervengono a istituzioni internazionali: proprio la pubblicazione di questo materiale sull’«Observatory on ‘rendition’» di Statewatch non è stata gradita al Sismi e ha indotto il suo direttore Pollari a denunciare penalmente il fatto. Con scarso esito, a dire il vero. Ovviamente, anche il mondo accademico è interessato al tema della violazione dei diritti umani e, dunque, a quello delle renditions: tra il 2006 e il 2007, ho partecipato a dibattiti con rappresentanti delle organizzazioni umanitarie e con eminenti giuristi a New York, Toledo, Berlino, Bruxelles, Stoccolma, Copenaghen, Madrid, Lugano, Davos e, in Italia, presso le Università di Milano, Bari, Firenze, Siena, Genova, Napoli, Torino, Catania, Pavia, Bologna, Padova, Pisa, Forlì e Modena. Da questo tipo di interlocutori, oltre che da numerose altre università americane, ricevo continuamente richieste di informazioni sul caso Abu Omar, sempre formulate nel rispetto del segreto investigativo. Per rispondere a queste ormai innumerevoli richieste, ho alla fine dovuto creare una sorta di mailing list, su cui ho fatto circolare fino alla fine del 2009 periodici aggiornamenti sulla vicenda, tutti preceduti da un’avvertenza, scritta nel mio inglese da strapazzo: «Segnalo che le valutazioni che seguono non sono ufficiali, provengono dai pubblici ministeri del processo e potrebbero essere diverse da quelle degli avvocati degli imputati. Servono solo alla conoscenza del caso». Cresce il numero dei professori universitari e degli studiosi che chiedono di essere inseriti nell’indirizzario e che studiano gli atti disponibili sui siti e i risultati delle indagini del Parla-

9 Statewatch è un’organizzazione europea non-profit fondata nel 1991, di cui fanno parte, su base volontaristica, avvocati, accademici, giornalisti, ricercatori che studiano la situazione della giustizia, degli affari interni, delle libertà civili ecc. in Europa. Collabora ufficialmente con il Parlamento europeo e il suo «Observatory on ‘rendition’» (www.statewatch.org/rendition/rendition.html) è uno dei più ricchi disponibili nella Rete.

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mento europeo e del Consiglio d’Europa. Aumenta, di conseguenza, l’incredulità della comunità dei giuristi di fronte al comportamento del governo italiano, che essi giudicano incompatibile con i principi affermati nelle convenzioni internazionali a tutela dei diritti umani liberamente sottoscritte dall’Italia. E in ogni sede – è utile ribadirlo – vengono manifestati apprezzamenti per il lavoro della polizia italiana e per l’indipendenza che caratterizza la figura del pubblico ministero in Italia. A Stoccolma, alla fine del 2007, doveva essere presente anche un pubblico ministero tedesco che seguiva le indagini su un altro sequestro di persona, quello di Khaled el-Masri. Costui, residente da anni ad Amburgo, fu sequestrato il 31 dicembre del 2003 in Macedonia, illegalmente trasferito in Afghanistan, dove, come Abu Omar in Egitto, fu torturato e sodomizzato. Dopo cinque mesi, la Cia si accorse di avere sbagliato persona e Khaled el-Masri fu riportato in Europa e abbandonato su una strada dell’Albania, come poi sarebbe successo ad altre vittime di simili errori di persona. Tornato in Germania, denunciò tutto. Il 31 gennaio del 2007 la Procura di Monaco, chiudendo le sue indagini, ha emesso tredici mandati di cattura contro altrettanti cittadini americani. Orbene, anche il collega che aveva condotto le indagini doveva parlare a Stoccolma dei problemi giuridici sottesi alla prassi illegale dei sequestri dei presunti terroristi. Al suo posto arrivò però un telegramma in cui egli si scusava per l’assenza: il governo tedesco non gli aveva permesso di partecipare al convegno. L’Associazione degli avvocati tedeschi mi ha chiesto di partecipare a un convegno di prossimo svolgimento in Germania per illustrare il sistema italiano, l’indipendenza del pm e l’unicità delle carriere di giudici e pm. Un sistema che auspicherebbero per il loro paese. Forse l’Unione delle camere penali italiane avrebbe materia di riflessione, se volesse. La stampa internazionale La stampa internazionale ha seguito il caso Abu Omar in modo molto più approfondito e costante di quanto non abbia fatto, salvo poche eccezioni, quella italiana. La differenza sta in questo: la stampa italiana si è generalmente preoccupata, dal 2005 in poi, soprattutto di trovare le notizie da utilizzare per scoop presunti o reali più che di collocare il rapimento dell’egiziano nel contesto di 216

modalità inaccettabili e disumane di lotta al terrorismo. Insomma interessava più il nome dell’ultimo correo individuato che lo scenario globale in cui il fatto si collocava e le sue implicazioni politiche. E persino le risoluzioni sulle renditions di Consiglio d’Europa e Parlamento europeo hanno trovato spazio solo su pochi giornali e sempre marginalmente. Quando poi, in successione, i governi Prodi e Berlusconi sono scesi formalmente in campo per bloccare il processo, è scattata una tacita conventio: il caso Abu Omar, il dibattimento in corso, i termini reali del conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte Costituzionale sono semplicemente scomparsi dalle cronache di quotidiani e settimanali, per non parlare delle televisioni. Si badi bene che non sto parlando dei giornalisti manovrati e imbeccati da Pio Pompa di cui ho già detto10: non vale neppure la pena di occuparsene ancora. Mi riferisco, invece, ai principali giornali italiani. Un importante quotidiano, che pure aveva seguito con attenzione l’evolversi delle indagini, ha improvvisamente cambiato linea: cambiati i giornalisti che se ne occupavano, altri sono stati investiti del ruolo di cassa di risonanza delle parole del governo o di ben individuati imputati. Non più un rigo di cronaca, ma intere pagine di interviste ad un imputato. Il dibattimento, poi, ha visto la partecipazione di giornalisti stranieri in numero superiore a quello dei loro colleghi italiani. E spesso questi ultimi hanno sentito il dovere di farci sapere che la mancata pubblicazione di notizie sul processo da parte dei loro quotidiani era attribuibile a precise scelte redazionali. La mia convinzione è che sull’atteggiamento della stampa italiana abbia giocato un ruolo non secondario la «ragion di Stato». Poche le eccezioni. Tra queste, non posso non ricordare la determinazione e l’efficacia, anche tecnica, con cui Donatella Stasio del «Sole 24 Ore» è riuscita a tenere informati i lettori del suo quotidiano sull’andamento del processo, proprio nel periodo in cui stava ultimando, insieme a Lucia Castellano, una coraggiosa denuncia delle «anomalie» del sistema carcerario italiano11. Tutt’altro atteggiamento, dicevo, ha invece tenuto la stampa internazionale, quella americana in testa. Sin dal 2005, l’affaire è staVedi cap. VI. Lucia Castellano e Donatella Stasio, Diritti e castighi. Storie di umanità cancellata in carcere, il Saggiatore, Milano 2009. 10 11

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to seguito dalle principali testate, giornalistiche e televisive, americane, inglesi, spagnole, francesi, tedesche, canadesi ecc. Articoli e cronache sono stati firmati dai loro nomi più autorevoli, alcuni dei quali premi Pulitzer: John Crewdson, Tom Hundley, Liz Sly, Christine Spolar e Alessandra Maggiorani del «Chicago Tribune», Craig Whitlock e Dana Priest del «Washington Post», Chris Dickey di «Newsweek», John Goetz e Britta Sandberg di «Der Spiegel», Stephen Grey del «Sunday Times», Elaine Sciolino, Elisabetta Povoledo e Rachel Donadio del «New York Times», Eva Kallinger di «Focus» tedesco, Tracy Wilkinson, Josh Meyer e Sebastian Rotella del «Los Angeles Times», Jane Mayer del «New Yorker», Phoebe Natanson di Abc News, Victor Simpson e Colleen Barry dell’Associated Press, Phil Stewart della Reuters, Hada Messia della Cnn, Yosri Fouda, vicedirettore di Al Jazeera a Londra, e, ancora, giornalisti del «Boston Globe», del «Philadelphia Inquirer», di «Time», della Bbc, di Nbc News, di Cbc Radio Canada, del «Financial Times», del «Wall Street Journal» e altri. Molti e prestigiosi anche gli investigative reporters e scrittori venuti a Milano: Jeff Stein di «CQ» (ora titolare del blog «SpyTalk» del «Washington Post»), Peter Bergen, che è uno dei pochi giornalisti scrittori che siano riusciti ad intervistare Osama bin Laden prima dell’11 settembre e che ha scritto del caso Abu Omar su «Mother Jones», il giovane Matthew Cole, l’unico che abbia potuto intervistare Bob Lady, l’ex capo centro Cia di Milano, organizzatore del sequestro, Steve Hendricks (autore di The Unquiet Grave, la storia di un’indagine sulla misteriosa morte di un’indiana nel South Dakota12), Craig Pyes ed altri ancora. Si sono pure scomodati giornalisti australiani, giapponesi e sudamericani venuti da lontano per capire e, attraverso i loro servizi, far capire ai loro lettori e spettatori. Numerosi giornali e siti web americani, inoltre, hanno approfondito le caratteristiche del sistema giudiziario italiano, sottolineando la professionalità e l’indipendenza dei pubblici ministeri italiani. C’è stato chi ha passato al microscopio un mio articolo ed alcune mie pubbliche dichiarazioni sulle modalità di con12 The Unquiet Grave: The FBI and the Struggle for the Soul of Indian Country, Thunder’s Mouth Press, New York 2006. Proprio sul rapimento di Abu Omar Steve Hendricks ha scritto A Kidnapping in Milan: The C.I.A. on Trial, di prossima pubblicazione per W.W. Norton & Co., New York.

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trasto al terrorismo internazionale, contrapponendoli alle teorizzazioni americane sulla war on terror, per concludere che le mie parole spiegavano come i pubblici ministeri italiani prestino ossequio solo alla legge e perché il nostro sistema sia ben più efficace di quello americano13. E un altro studioso, su uno dei più importanti siti web americani, ha concluso la sua analisi del caso Abu Omar affermando che se gli Stati Uniti avessero pubblici ministeri con l’autonomia e la perseveranza di quelli italiani potrebbero esservi svelati gli abusi e le illegalità delle agenzie di intelligence14. Riconoscimenti per tutta la magistratura italiana, così vilipesa in patria, e non per una persona: basta leggere gli articoli per averne conferma. Fu ragione di gratificazione personale, invece, quella di vedermi definito da un giornale americano «hardnosed prosecutor», cioè «pubblico ministero duro, caparbio». Ciò che accomuna tutti questi giornalisti e scrittori è il desiderio di informarsi di prima mano, di studiare attentamente gli atti: non si fidano di veline e di soffiate da parte di fonti interessate, specie se isolate. Niente di tutto questo. Anzi, si tratta di persone che sono abituate a indagare in proprio, a considerare certa una notizia quando sono plurime le fonti che la confermano. Giornalisti che quando parlano di notizie provenienti da più fonti anonime – si può essere certi – ne hanno rivelato l’identità al direttore del giornale. Professionisti che ti richiamano per avere la conferma che possono virgolettare la frase «la Procura di Milano ufficialmente conferma che...» altrimenti non pubblicano la notizia. Alcuni di loro hanno anche scoperto il domicilio di alcuni degli agenti Cia incriminati e sono andati a suonare al loro citofono, domandando agli imputati se volessero rilasciare una dichiarazione sul caso. C’è chi, tra questi giornalisti, si è recato in Albania e in Egitto a cercare le tracce di Abu Omar quando il caso non era ancora esploso sui media e le ricerche potevano essere pure pericolose. Altri hanno poi cercato e trovato le loro fonti nella stessa Cia, rivelando il malessere che vi serpeggia per essere stati indotti ad usare metodi disonorevoli: Matthew Cole, ad esempio, in un articolo dal titolo 13 Michael S. Rozeff, Twenty-six U.S. Intelligence Agents Indicted in Italy on Kidnapping Charges, www.lewrockwell.com, 20 febbraio 2007. 14 Patrick R. Keefe, Italy’s Watergate. Espionage, secrecy and corruption: Lessons for the Bush administration, www.slate.com, 27 luglio 2006.

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Blowback, pubblicato nel marzo del 2007 sulla prestigiosa rivista «GQ», ha spiegato come la nostra indagine abbia costituito uno smacco colossale per la Cia, giungendo in un momento in cui l’agenzia stava tentando di dimostrare tutto il suo valore in seguito agli attacchi dell’11 settembre. L’operazione Omar era stata concepita per rappresentare il fiore all’occhiello delle operazioni clandestine della Cia post-11 settembre, a dimostrazione che la Cia era il miglior servizio segreto del mondo e l’agenzia preposta a fare all’estero il «lavoro sporco» del presidente. [...] le accuse [derivanti dalla inchiesta] hanno eliminato ogni dubbio circa la complicità degli Stati Uniti nella violazione dei diritti e [...] nella tortura [...]. Nella comunità dei servizi segreti vi è un termine per indicare le conseguenze indesiderate che sono il risultato di un’operazione andata male: blowback [effetto boomerang]. Dopo aver sequestrato Omar, alcuni alti dirigenti giravano per il settimo piano dell’edificio di Langley, vantandosi dell’operazione, mi confidò un ex alto funzionario della Cia coinvolto. Ora non si vantano più.

Stesso giudizio sul sequestro di Abu Omar ha dato Tim Weiner, corrispondente del «New York Times», due volte premio Pulitzer e studioso della storia della Cia: «[…] una delle operazioni di antiterrorismo statunitensi più scandalose del XXI secolo […]. Il caso Abu Omar è stato qualcosa di peggio di un crimine. È stato un pasticcio madornale. Ma è solo l’ultimo capitolo della tragica storia della Cia»15. Ancora, alcuni giornalisti americani hanno ripercorso le orme degli agenti Cia in Italia: hanno visitato i lussuosi alberghi dove hanno alloggiato, denunciando sui loro giornali quanto era costato ai contribuenti finanziare una così disastrosa operazione. Stephen Grey del «Sunday Times» è stato il primo tra questi giornalisti che ho conosciuto. Quando le indagini sulla Cia erano appena entrate nella fase più delicata, ma ancora nessuno ne era a conoscenza, venni a sapere di un suo articolo sulle renditions realizzate in Europa. Me lo procurai e subito, attraverso la posta elettronica, mi misi in contatto con lui. Accettò di venire a Milano a testimoniare, riferendomi i risultati delle indagini che aveva autonomamente svolto. Era il 29 novembre del 2004 e mi parlò di 15 Tim Weiner, Cia. Ascesa e caduta dei servizi segreti più potenti del mondo, Prefazione all’edizione italiana, Bur Rizzoli, Milano 2010.

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altri casi europei di sequestri simili a quello di Abu Omar e degli aerei utilizzati per i trasferimenti dei sequestrati nei luoghi dove venivano poi torturati. Stephen, di origini olandesi ma ormai trapiantato in Gran Bretagna, ha poi scritto un’opera importante sulle renditions: Ghost Plane16. Il libro è diventato un bestseller e lui uno dei massimi esperti mondiali in materia. Un giornalista di cui non conosco il nome ha poi utilizzato software sofisticati, ha incrociato tutti i dati disponibili sulle rotte degli aerei che hanno sorvolato l’Europa tra il 17 ed il 18 febbraio del 2003, arrivando così ad individuare quelli usati per trasportare Abu Omar in Egitto. Proprio mentre mi trovavo a Poggio Renatico (Ferrara), presso l’aeroporto della Nato, e stavo sentendo come testimoni vari ufficiali dell’Aeronautica italiana che ci avevano dato un importante aiuto per scoprire quegli stessi aerei, ricevetti una telefonata da questo sconosciuto giornalista americano che mi comunicò le sue scoperte sul punto. I suoi dati sugli aerei usati per il trasporto di Abu Omar coincidevano esattamente con quelli cui noi eravamo arrivati dopo settimane di indagini. A causa del mio modesto inglese, ebbi appena il tempo di ringraziarlo, senza capirne il nome. Ricordo con particolare stima e simpatia il lavoro e lo scrupolo di John Crewdson, che all’epoca scriveva per il «Chicago Tribune», uno dei giornalisti più seri e competenti che abbia mai conosciuto. Premio Pulitzer nel 1981, quando lavorava per il «New York Times». È un uomo di poche ed essenziali parole, ha un aspetto serio che ispira fiducia ai suoi interlocutori. È originario di San Francisco, anche se abita a Washington. Non lo conoscevo ancora quando, attorno alla metà del 2005, pubblicata la notizia dell’ordinanza di custodia in carcere emessa contro tredici americani della Cia, si mise in contatto con me, via email, chiedendomi se potevo riceverlo per un colloquio-intervista. Accettai di incontrarlo, precisando che, però, avrei potuto parlare solo in generale delle modalità di lotta al terrorismo e di come certi metodi – i sequestri dei sospetti terroristi – siano dannosi e inaccettabili sotto ogni profilo.

16 Stephen Grey, Ghost Plane: The true story of the CIA torture program, St. Martin’s Press, New York 2006.

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Prima di venire a Milano, però, Crewdson voleva evidentemente scrivere un primo importante articolo sull’affare Abu Omar e doveva anche avere fatto qualche ricerca su di me perché mi scrisse chiedendomi se fossi io quell’«Armando Spataro» che figurava nel database del «Chicago Tribune» come runner che aveva corso la maratona di Chicago, nel 2000, in 3 ore e 18 minuti, un signor tempo per un ultracinquantenne dilettante. In effetti, la maratona è stata per me una sorta di passione senile coltivata con intensità quasi maniacale tra il 1997 e il 2002, allorché un serio problema a un tendine mi ha obbligato a fermarmi. Mi faceva piacere che un così importante giornalista lo avesse scoperto, ma inizialmente mi schermii, scrivendogli, via email, che certo non era il caso di toccare un argomento così futile. Crewdson mi rispose che si trattava di una notizia che sarebbe stata di interesse per i lettori del «Chicago Tribune», sicché mi chiese conferma del tempo e dell’anno in cui l’avevo realizzato. Gli feci allora presente che c’era un errore nel loro database: non avevo corso nel 2000 in 3 ore e 18 minuti, ma nel 1999, in 3 ore e 13, dunque un tempo ancora migliore che mi aveva consentito anche un buon piazzamento tra i miei coetanei. Pensavo che gli sarebbe bastato. Mi sbagliavo: mi scrisse ancora chiedendomi spiegazioni. Mi ricordai allora che nel 1999, per un banale errore, la mia iscrizione e il tempo da me realizzato non avevano trovato riscontro nel database degli organizzatori della maratona, tanto che – nonostante i miei reclami ufficiali – non mi avevano voluto spedire il certificato con tempo e piazzamento. Uno sgradito imprevisto per me, poiché quel tempo mi avrebbe consentito un vantaggio in partenza nella maratona di Boston che volevo correre nel 2000. Fortunatamente, da una fotografia che mi ritraeva mentre tagliavo il traguardo della maratona era documentato il tempo segnato sul cronometro. Feci ingrandire la foto e, insieme a una copia autentica del mio passaporto con la faccia in evidenza, la spedii agli organizzatori per attestare il vero. Ricevetti subito certificato di piazzamento e tempo, unitamente alle loro scuse. Nel 2000, dunque, riuscii a correre a Boston, ma, essendomi iscritto di nuovo alla maratona di Chicago, regalai iscrizione e pettorale a un amico che, come appresi dopo, aveva corso con il mio nome. Spiegai tutta questa storia complicata a John Crewdson, il quale mi par222

ve finalmente soddisfatto. Mi sbagliavo ancora. Infatti, dopo una email con cui mi ringraziava delle notizie, mi scrisse ancora dicendomi: «Dottor Spataro, io le credo, ma se dicessi al mio direttore che voglio scrivere in un articolo le cose che mi ha detto, lui mi risponderebbe: ‘Crewdson, il nostro database dice cose diverse e, dunque, non possiamo scrivere che il prosecutor di Milano ha corso nel 1999 in 3 ore e 13 minuti. Dunque, dottor Spataro – concludeva Mr. Crewdson – mi mandi le prove di quello che mi ha scritto!». Giuro che non mi arrabbiai. Mandai foto e certificato che lo stesso John Crewdson mi riportò quando venne a Milano: da quel momento fui sicuro che quel giornalista avrebbe scritto solo di fatti accertati e riportato la verità. Dopo il nostro scambio di email e di «prove», il «Tribune» pubblicò il 6 luglio del 2005 un suo articolo dal titolo Italian prosecutor runs with the evidence. Marathon racer with Chicago ties accuses Cia of kidnapping [Il procuratore corre con le prove. Maratoneta con legami con Chicago accusa la Cia di sequestro]. Crewdson parlava delle mie prestazioni da maratoneta e del mio amore – vero e radicato – per Chicago, «my favorite city», risalenti a epoca ben anteriore alla vicenda Abu Omar. Ho incontrato altre volte questo eccellente professionista e abbiamo scoperto anche il comune amore per David Crosby, la cui barca e chitarra avevo invano cercato nella baia della sua San Francisco, nell’estate del 1979, quando «fuggii» dall’Italia dopo la morte di Alessandrini. Racconto spesso delle «prove» richiestemi da Crewdson a qualche amico giornalista italiano per spiegare come, per qualsiasi seppur futile notizia da pubblicare, i giornalisti americani reputino necessaria acquisirne la conferma provata. Come facevano anche i giornalisti italiani qualche decennio fa: penso a Ibio Paolucci, ad esempio, che, da cronista dell’«Unità», fu tra i massimi conoscitori del terrorismo italiano da Piazza Fontana in poi e che mai ha ceduto alla tentazione di forzare la verità dei fatti o di presentare come tale la sua personale ipotesi. In fondo le inchieste dei giornalisti non dovrebbero essere molto diverse da quelle dei pubblici ministeri e viceversa. Forse meno mezzi per i primi e giustamente più vincoli formali per i secondi, ma un solo obbligo: la verità e la possibilità di provarla. È questa la ragione, tra l’altro, per cui negli Stati Uniti esiste 223

un particolare «mestiere» nel mondo giornalistico, quello del factchecker, cioè del controllore dei fatti. Non lo sapevo e l’ho scoperto grazie all’inchiesta Abu Omar. Il fact-checker può essere un giornalista free lance o può lavorare per un giornale che voglia scrupolosamente controllare la rispondenza al vero del contenuto di articoli che si accinge a pubblicare o che ha già pubblicato. Può anche essere incaricato di indagini in caso di controversie giudiziarie o altro. Insomma, deve attestare che i suoi colleghi giornalisti non abbiano scritto bufale, falsità, inesattezze clamorose. Bene. Alla fine del 2007, accettai di rilasciare un’intervista sul caso Abu Omar a Peter Bergen che, come ho detto, è un prestigioso giornalista che ha scritto per i principali quotidiani americani e che ha pubblicato importanti libri su Osama bin Laden17. Dopo qualche settimana, Peter Bergen si fece vivo dall’Iraq dicendomi che aveva scritto il suo articolo con l’intervista (che mi mandò per l’approvazione), ma che la rivista «Mother Jones» su cui sarebbe stato pubblicato aveva incaricato una fact-checker delle verifiche di autenticità. Mi anticipava che avrei ricevuto una serie di domande alle quali mi pregava di rispondere. In effetti, poco dopo ricevetti una email da Neha Inamdar, che si presentava come factchecker del «Mother Jones». Con grande cortesia e scusandosi per il disturbo, mi chiedeva di rispondere alle sue domande nei limiti di ciò che la segretezza dell’indagine mi avrebbe consentito (tra l’altro, dopo il rinvio a giudizio degli imputati, era caduto ogni segreto processuale). Il bello è che la giornalista non mi poneva domande solo sull’esattezza di quanto Peter Bergen aveva scritto in relazione all’inchiesta (imputati, date dei provvedimenti, uso di intercettazioni telefoniche, accuse di terrorismo gravanti su Abu Omar e altro), ma anche domande come queste che riporto integralmente: 1) Lei ha effettivamente incontrato Mr. Bergen alla fine del novembre del 2007? 2) Dove vi siete incontrati? 3) È vero che il dossier dell’inchiesta è composto da varie migliaia di pagine?

17 Peter Bergen, The Osama bin Laden I Know. An Oral History of Al Qaeda’s Leader, Free Press, Glencoe 2006, e Id., Holy War, Inc.: Inside the Secret World of Osama bin Laden, Free Press, Glencoe 2001.

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4) È vero che sulle pareti del Suo ufficio vi sono le foto delle maratone che ha corso negli Stati Uniti, attestati della Dea, riproduzioni di quadri di Warhol, Rockwell e di Hopper? 5) Qual è la data esatta della Sua nascita, così da poterci consentire di calcolare esattamente la Sua età nel momento in cui, a marzo, l’articolo verrà pubblicato? 6) È vero che Lei ha pronunciato la frase: «Il sequestro è un grave crimine. È importante per le democrazie occidentali che tutti rispettino la legge. È possibile combattere il terrorismo senza misure straordinarie»?

Risposi a queste e ad altre domande, ancora una volta apprezzando la serietà e lo scrupolo del giornalismo americano, non a caso reso celebre da film come Tutti gli uomini del Presidente, di Alan J. Pakula (1976). L’articolo di Peter Bergen fu effettivamente pubblicato su «Mother Jones» a marzo del 2008: aveva superato il controllo di genuinità. Mentre rispondevo ai fact-checkers che anche dopo Neha Inamdar mi hanno scritto, o mentre fornivo le prove del mio best time a John Crewdson, pensavo a come si sarebbe comportato Pio Pompa con giornalisti di questo spessore. Certamente non sarebbe stato possibile indicare loro le notizie da pubblicare e le domande da porre a me e Pomarici o gratificarli con biglietti per qualche importante partita di calcio. Impossibile, ripeto. E non solo perché ai giornalisti americani del calcio non gliene importa niente. Ripensandoci, forse, almeno un giornale americano avrebbe potuto essere destinatario degli apprezzamenti positivi di Pio Pompa e di qualche altro funzionario del Sismi: l’autorevole «Wall Street Journal». Ma solo per avermi chiamato «canaglia», non – invece – per avere contemporaneamente sostenuto la corresponsabilità dei Servizi italiani nel sequestro di Abu Omar. Quello che segue è un brano dell’articolo pubblicato il 26 febbraio 2007 dal «Wall Street Journal» dal titolo The Italian Job [L’affare italiano]: Nell’operazione coperta del febbraio 2003, italiani e americani operarono assieme per catturare Nasr, prima di rispedirlo in Egitto contro la sua volontà e senza l’autorizzazione della magistratura italiana. Il procuratore di Milano, Armando Spataro, sostiene che Nasr fu «rapito». Questa extraordinary rendition, ci dice al telefono, è illegale per la leg225

ge italiana, e il suo compito è di assicurare che «le regole siano realmente rispettate, senza alcuna considerazione politica [...]». Il governo di Silvio Berlusconi, primo ministro del tempo, negava di essere stato informato preventivamente della rendition. In ogni caso, nessuno sostiene seriamente che gli agenti della Cia fossero in Italia senza la esplicita conoscenza e partecipazione dei servizi di sicurezza italiani [...]. Se gli agenti della Cia hanno sbagliato, tocca alle autorità americane di stabilirlo. Il procuratore indipendente Spataro può incriminare tutti gli italiani che vuole. A ogni modo, il fatto che persegua il personale governativo americano fa di lui una canaglia [rogue]. Ad aggravare il danno, Spataro ha incriminato i venticinque agenti per nome, forse mettendo in pericolo le loro vite. A giugno il processo, probabilmente in contumacia, farà ulteriore danno divulgando le tecniche operative dei servizi [...]. La risposta appropriata da parte del primo ministro Romano Prodi sarebbe stata il tempestivo annuncio che egli avrebbe respinto ogni richiesta di estradizione della magistratura. E invece Prodi aveva solo alluso a una sua possibile intenzione in tal senso, prima che il suo governo cadesse mercoledì sera [...]. I politici europei hanno la colpa di questa situazione più di qualsiasi procuratore. Dopo l’11 settembre molti leader europei hanno fatto il doppio gioco, di nascosto lavorando con gli Usa per sradicare complotti terroristici – e salvare innumerevoli vite – mentre pubblicamente condannavano i «metodi americani» con una retorica che nutriva l’insorgente antiamericanismo.

Il 28 febbraio del 2007, cioè due giorni dopo essere stato chiamato «rogue prosecutor» dal «Wall Street Journal», toccava nientemeno che al «Washington Post» dare ampio risalto all’articolo di due esperti di uno dei maggiori studi legali d’America, David Rivkin e Lee Casey, i quali sostenevano la necessità che il Congresso americano varasse una legge per incriminare i procuratori che in Europa prendono di mira funzionari americani. Rivkin e Casey non sono avvocati qualunque e, come diceva anche l’Ansa, hanno entrambi lavorato per Casa Bianca e dipartimento della Giustizia nelle amministrazioni Reagan e Bush padre. «Gli Usa spesso vengono accusati di violare leggi internazionali, ma l’inchiesta italiana è una violazione gravissima di quelle leggi, un orribile esempio di ipocrisia e un insulto agli Stati Uniti», diceva all’Ansa David Rivkin, il quale si riprometteva di usare la sua «buona reputazione [...] per portare avanti questa idea, sia con i repubblicani, sia con i democratici. Del resto c’è un serio interesse in Congresso perché a nessuno, neppu226

re a chi è contro l’amministrazione Bush, piace vedere sotto inchiesta venticinque uomini e donne che fanno il loro dovere». Si riferiva – è chiaro – agli agenti della Cia accusati del rapimento di Abu Omar. La proposta di Rivkin e Casey veniva diffusa nello stesso giorno in cui il consigliere legale del dipartimento di Stato, John Bellinger, confermava che gli Usa non avrebbero concesso l’estradizione degli agenti, del resto mai richiesta dal governo italiano. Vorrei chiudere questo capitolo citando anche le tre domande che più frequentemente i giornalisti americani mi hanno posto in questi anni. E citando pure le mie risposte. La prima domanda era: «Lei ha mai ricevuto pressioni politiche perché l’indagine venisse bloccata o ammorbidita?». La risposta era «Assolutamente no. In Italia il potere politico non può ordinare alcunché al pubblico ministero, che è indipendente e sottoposto solo alla legge. Cioè, egli è indifferente alle esigenze e alle strategie politiche di chiunque governi. In ogni caso, avrei denunciato qualsiasi pressione eventualmente ricevuta, prima penalmente e poi pubblicamente». La seconda domanda era: «Dottor Spataro, sui muri del suo ufficio vediamo immagini e attestati di organi di polizia americani che sembrano provare i Suoi legami con gli Stati Uniti e negare l’ipotesi che Lei sia antiamericano, come ha detto il ministro Castelli. Come spiega queste accuse?». La mia risposta era in questi casi accompagnata da un sorriso un po’ amaro: «Il mio amore per gli Stati Uniti è noto a chiunque mi conosca. Questo non significa rinunciare a perseguire gli autori di così gravi reati, americani o italiani che siano». Infine: «Dottor Spataro, abbiamo saputo che, durante il periodo delle Brigate Rosse, Lei era accusato di essere un uomo di destra. Ma sappiamo pure che Lei non risulta legato ad alcun partito politico. Perché il ministro Castelli e altri La definiscono toga rossa?». Ai giornalisti stranieri rispondevo brevemente: «Beh, chiedetelo a loro! Sappiate, però, che in Italia è stato così definito ogni giudice e pubblico ministero che si sia battuto in questi anni difficili per l’indipendenza della magistratura e l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. E persino chi si è battuto contro i poteri mafiosi». Ma su questo argomento, vorrei spiegare un po’ meglio come stanno le cose, parlando del mio impegno in Società civile e nell’Associazione magistrati, degli anni del Consiglio superiore della magistratura e di quelli spesi nella difesa della Costituzione. Punto di partenza obbligato, però, è il periodo trascorso nella Direzione distrettuale antimafia di Milano. 227

XIII

La mafia in Lombardia

«Toga rossa» è la definizione utilizzata da menti esperte nelle tecniche di marketing per radicare tra i cittadini il convincimento che esistano in Italia giudici e pubblici ministeri che nel loro lavoro quotidiano, specie quando indagano su esponenti della classe politica, sono mossi esclusivamente dalle proprie simpatie per i partiti di sinistra che intendono, per quella via, favorire. Un’accusa, quella di partigianeria politica nell’esercizio della professione, che è infamante per un magistrato, e che sarebbe tale, ovviamente, indipendentemente dal colore dello schieramento beneficiario dei supposti favori. Ma lo slogan insultante, prima isolato e risibile, spesso tracima da televisioni e giornali, fino a diventare per molti realtà. Anche a me è stata affibbiata questa definizione e spesso mi sono chiesto attraverso quali passaggi ciò sia stato possibile. Credo di essermi guadagnato questo titolo in modo graduale, epperò secondo una progressione in qualche modo coerente e irresistibile. Il primo passo è stato probabilmente l’impegno professionale, dopo gli anni di piombo, nel contrasto della criminalità mafiosa: ciò mi ha consentito di entrare in contatto con quella parte del paese che è oppressa da un potere criminale radicato e forte, ben più di quanto non lo fosse il terrorismo. È stato così naturale trovarsi al fianco di quanti si battono per sradicarlo, un compito che non può essere lasciato solo a carabinieri e magistrati. Facendo poi parte del Consiglio superiore della magistratura tra il 1998 e il 2002 e diventando subito dopo dirigente dell’Associa228

zione nazionale magistrati, ho tentato di onorare la fiducia di quanti mi avevano chiamato a rappresentarli: non so se vi sono riuscito, ma certo non mi sono risparmiato, soprattutto pensando ai tanti giovani colleghi chiamati a operare in un contesto eticamente degradato. Ed è stato altrettanto naturale, lungo questo percorso, arrivare ad impegnarmi per la difesa della Costituzione e dei suoi principi: una «battaglia» questa, che riassume tutte le altre e che ancora prosegue. Ne parlerò più avanti. La Direzione distrettuale antimafia di Milano I processi di terrorismo, inclusi i cosiddetti maxiprocessi, iniziarono a diminuire di numero già nell’86 e ’87, fino a finire del tutto – almeno in primo grado – attorno al 1990. Il metodo di lavoro inventato dai magistrati che si erano occupati di terrorismo si basava ormai, come ho detto, su prassi e tecniche condivise e stabilizzate. Fu comprensibile, dunque, visti gli ottimi risultati che quel metodo aveva determinato, che venisse codificato ed applicato alla lotta contro la mafia. Non si può certo dire, visto il suo secolare radicamento nel Sud d’Italia, che la mafia fosse diventata la nuova emergenza solo a metà degli anni Ottanta. Ma era accaduto che proprio in quel periodo magistratura e forze dell’ordine iniziassero a cogliere importanti successi anche contro quel potere criminale. Si era ormai manifestata la collaborazione processuale di vari appartenenti a Cosa Nostra (Buscetta e Contorno avevano iniziato a «parlare» nel 1984), erano stati creati pool specializzati di pubblici ministeri e giudici istruttori nei principali tribunali siciliani, calabresi e campani e molti esperti investigatori della polizia di Stato, dei carabinieri e della guardia di Finanza, che erano stati protagonisti della lotta al terrorismo, si erano ormai «riciclati» nel settore dell’antimafia. E dopo poco tempo, nell’arco di un paio di anni, il Parlamento aveva approvato a larghissima maggioranza varie leggi che andarono a costituire una sorta di «pacchetto antimafia». I pentiti di mafia I collaboratori processuali si stavano rivelando determinanti anche nel mettere in ginocchio le cosche mafiose, nonostante le po229

lemiche immediatamente sollevate da quanti affermavano, per ragioni non sempre commendevoli, che se con qualche sforzo potevano essere creduti i «terroristi pentiti», certamente inaffidabili sarebbero risultati i «mafiosi pentiti». Al contrario le affinità tra i due generi apparivano vistose, persino nel frequente e visibile rigenerarsi del collaboratore sul piano morale. Del resto, se è vero che il «mafioso pentito» può essere effettivamente mosso anche dal proposito di vendicare parenti e amici uccisi, è pure vero che egli corre normalmente rischi ben maggiori di quanti non ne avessero corso i terroristi pentiti: il suo «salto» dall’ordinamento illegale in cui viveva (anch’esso dotato di regole, gerarchie, sanzioni, ripartizioni di competenze funzionali e per territorio) a quello legale dello Stato che lo accoglie è certamente terrificante, ove si pensi al livello del pericolo che la scelta di collaborazione comporta. Ma, soprattutto, gli scettici trascuravano che da sempre anche questi «pentiti» hanno costituito il più efficace strumento per contrastare la criminalità organizzata in genere e quella mafiosa in particolare. I mafiosi pentiti, infatti, non furono una invenzione degli anni Ottanta dei pubblici ministeri: lo dimostrano le ricerche di uno dei migliori studiosi della mafia italiana, Enzo Ciconte, che in un suo fondamentale testo1 ha pubblicato alcuni brani di importanti sentenze dell’inizio del secolo scorso: fummo costretti a rispolverarli per stimolare la riflessione collettiva. In una sentenza della Corte di Appello delle Calabrie del 23 aprile 1915 (processo contro Mafrica Paolo + 50), si spiegava, ad esempio, che solo gli appartenenti alle organizzazioni mafiose, cioè i criminali affiliati, possono svelarne i segreti, non certo le persone perbene: i difensori hanno dimenticato che si versa in tema di associazione per delinquere, di reati commessi nel tempo e per occasione dell’associazione medesima e di persone abbastanza pessime che agiscono in segreto, per cui la prova non può essere fornita da gentiluomini [...] ma da individui della stessa risma se non peggiori; da quelli, insomma, che solamente possono avvicinare ed avere pratica con simili delinquenti; anzi, sovente, se non sempre, la prova la danno gli stessi loro compa1

Enzo Ciconte, ’Ndrangheta dall’Unità a oggi, Laterza, Roma-Bari 1992.

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gni che poi, per tarda resipiscenza, li tradiscono e li accusano, come è avvenuto nella specie.

E in un’altra, sempre della Corte di Appello delle Calabrie, dell’8 giugno 1905 (processo contro Martini Vincenzo + 46), si affrontava il tema dei cosiddetti riscontri oggettivi che devono essere acquisiti attraverso le indagini per dar credito alle dichiarazioni dei collaboratori e poterle usare come fonti di prova: «l’avere appartenuto alla setta non autorizza a ritenere mendaci le loro asserzioni quando queste si riscontrano avvalorate dai fatti e dalle indagini dei Reali Carabinieri». La sentenza della Corte di Appello delle Calabrie del 2 agosto 1901 (nel processo contro Aricò Antonio + 56), invece, spiegava come senza i pentiti ex mafiosi ben difficilmente sarebbe possibile sconfiggere la mafia: «in materia di associazioni a delinquere le quali debbono necessariamente iniziarsi e svolgersi nel mistero, non è possibile altra dimostrazione se non quella che provenga da persone che già parteciparono alla mala vita e che sono quindi in grado di conoscere tutti i segreti». Tutto già visto, dunque, e tutto già spiegato, attraverso l’affascinante lessico dell’inizio del Novecento, dalle Corti calabresi. Ma le polemiche e le resistenze contro i pentiti mafiosi apparivano più forti e diffuse di quelle che si erano manifestate nei confronti dei terroristi pentiti. Le ragioni erano facilmente intuibili per gli addetti ai lavori: i mafiosi pentiti avrebbero finito col rivelare gli oscuri intrecci tra cosche e ceto politico che, soprattutto in Italia meridionale, erano a tutti ben chiari, ma certo difficili da provare in ambito giudiziario. Spiegavamo, allora, che il criminale collaboratore è ritenuto indispensabile dovunque, anche all’interno di quegli ordinamenti avanzati (statunitense, britannico, tedesco ecc.) nei quali agiscono organismi di polizia che, a torto (come penso) o a ragione, sono ritenuti più efficienti di quelli italiani. Basti pensare che, negli Usa, gli undercovered agents delle agenzie federali di investigazione vengono infiltrati nelle organizzazioni mafiose non tanto in funzione delle notizie che essi riusciranno direttamente ad acquisire, quanto per studiare i profili psicologici dei criminali con cui verranno a contatto, individuare i potenziali collaboratori e coltivarne le amicizie al fine di indurli, 231

in un momento successivo, ad assumere la qualità di collaboranti con la giustizia. Alla fine sembrò che quella battaglia fosse stata vinta (non potevamo ancora immaginare l’inversione di tendenza che si sarebbe manifestata dopo alcuni anni): nel 1991, infatti, furono introdotti anche benefici per i mafiosi collaboratori analoghi, quanto alle riduzioni di pena possibili, a quelli previsti per i terroristi pentiti. Ma vennero anche creati organismi ad hoc competenti per l’applicazione di nuove e specifiche regole per l’ammissione dei detenuti a un regime carcerario «dedicato» o per il trasferimento in località protette e segrete dei pentiti e dei loro familiari. I risultati furono subito eccezionali: tra il 1992 e il 1995, i collaboratori processuali «gestiti» dalla sola Procura di Milano furono oltre cento, senza considerare quelli di basso livello criminale. La specializzazione delle forze di polizia nel campo dell’antimafia fu invece incrementata con la creazione, all’interno di ciascuno dei tre tradizionali corpi di polizia giudiziaria, di organismi ad hoc e con la creazione, altresì, di un ulteriore organismo interforze, la Direzione investigativa antimafia2. Si riprodusse anche qui, dunque, lo schema già adottato nel campo del terrorismo, incluso il costante rapporto di questi organismi con l’ufficio del pubblico ministero che dirige le indagini. Ma uno dei pilastri del «pacchetto antimafia» fu proprio la scelta di istituzionalizzare anche la specializzazione antimafia della magistratura inquirente. La figura del giudice istruttore, del re2 I gruppi specializzati in questione hanno denominazioni ormai note anche ai non addetti ai lavori. Essi sono il Servizio centrale operativo (Sco) e i Centri regionali Criminalpol per la polizia di Stato; il Raggruppamento operativo speciale (Ros) per l’Arma dei carabinieri e il Gruppo di investigazione sulla criminalità organizzata (Gico) per la guardia di Finanza. I Centri regionali Criminalpol sono stati però aboliti a seguito di un decreto del 1998 del ministro dell’Interno e le loro funzioni sono ora svolte dalle Sezioni criminalità organizzata delle squadre mobili delle Questure aventi sede nei capoluoghi di distretto delle Corti d’Appello. Ai citati reparti, comunque, si affiancano, sempre per ciascun corpo, gruppi specializzati nel settore del narcotraffico. La Direzione investigativa antimafia (Dia), invece, fu istituita nell’ottobre del 1991: ne fanno tuttora parte rappresentanti dei tre corpi tradizionali di polizia, ha il compito di assicurare lo svolgimento in forma coordinata delle attività di investigazione preventiva attinenti la criminalità organizzata, di effettuare indagini relative ai delitti di associazione mafiosa e comunque ricollegabili a tali associazioni. È formata da una struttura centrale e da sedi periferiche, una in ogni distretto di Corte d’Appello.

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sto, era stata ormai cancellata dal nuovo codice di procedura penale, sicché l’unico organo giudiziario di direzione delle indagini (ora definite «indagini preliminari») restava il pubblico ministero. Nel novembre del 1991, allora, il legislatore istituì le Direzioni distrettuali antimafia (Dda) – pool specializzati costituiti all’interno di ogni Procura sede di distretto – e la Direzione nazionale antimafia (Dna), con il compito di coordinarne, non di dirigerne, le attività di investigazione. Le Direzioni distrettuali antimafia costituirono il vero fulcro della risposta istituzionale alla mafia: esse rappresentavano il punto d’arrivo dell’esperienza, già descritta, risalente ai tempi del terrorismo «storico». Con le Dda veniva attribuita solo agli uffici del pm presso il Tribunale del capoluogo di distretto di Corte d’Appello la competenza ad avviare e dirigere indagini per i reati di associazione di stampo mafioso, associazioni finalizzate al narcotraffico, sequestri di persona e per tutti quei reati commessi avvalendosi di modalità mafiose o al fine di agevolare l’attività delle associazioni di stampo mafioso. Conseguentemente, dalla fine del 1991, gli uffici del pm che si occupano di questi reati in Italia sono ventisei (quante sono le sedi di distretto di Corte d’Appello), anziché centosessantasei (numero corrispondente alle sedi di Tribunale). Era evidente il pregio di tale innovazione, che consentiva maggior efficacia all’azione dei pubblici ministeri componenti del Dda, tendenzialmente esentati dal trattare reati diversi da quelli di natura mafiosa: si evitava, insomma, la frammentazione delle inchieste, si favoriva l’interpretazione unitaria di episodi criminali, dei quali, diversamente, sarebbe stato più difficoltoso intuire i nessi e, infine, si esaltava la necessità di un «sapere investigativo specifico». Stranamente la stessa scelta non venne adottata nel campo del terrorismo: lo fu solo dopo l’11 settembre 2001. La nascita della Direzione nazionale antimafia, invece, venne preceduta – forse qualcuno lo ricorderà – da forti polemiche, anche in relazione a un iniziale progetto del ministro della Giustizia dell’epoca, il socialista Claudio Martelli: l’ufficio ha sede a Roma ed è composto da un procuratore nazionale antimafia e da venti sostituti. Alla luce delle competenze che gli si volevano attribuire era forte il rischio di una centralizzazione delle indagini in tema di mafia e di una sua sostanziale dipendenza dall’esecutivo. Proprio grazie alla reazione ed alle critiche di molti magistrati italia233

ni, che vennero quella volta discusse e tenute in considerazione dal governo, il progetto di legge istitutivo della Dna venne modificato: nacque quindi un organismo privo di poteri investigativi propri (tranne nei casi di inerzia delle Procure distrettuali), ma con utili compiti di coordinamento, al fine di favorire lo scambio di informazioni e il riparto di competenze tra le Dda. Giovanni Falcone Alla vigilia del varo della Direzione nazionale antimafia – e subito dopo – altre discussioni divisero noi magistrati: riguardavano Giovanni Falcone. Non posso dire di avere lavorato con lui nel settore dell’antimafia, ma siamo stati molto vicini tra il 1988 e il 23 maggio del 1992: abbiamo insieme partecipato alla fondazione del Movimento per la Giustizia, una delle tanto vituperate correnti della Associazione nazionale magistrati3, e insieme vi abbiamo intensamente lavorato fin quasi alla sua morte. Il gruppo era nato nell’88 e l’evento che ne aveva determinato la fondazione era stata proprio la mancata nomina di Giovanni a capo dell’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo. Solo pochi componenti del Csm avevano tentato invano, in quella occasione, di evitare che logiche ottusamente formalistiche, quando non di mero potere, prevalessero sulla necessità di potenziare l’efficacia dell’azione giurisdizionale in terra di mafia. Quell’episodio, che richiamava i temi della professionalità e della questione morale insieme, risvegliò l’impegno associativo di decine di magistrati, fino a quel momento apprezzati soprattutto per le loro qualità professionali (tra loro Vladimiro Zagrebelsky, Mario Almerighi, Pietro Calogero, Giovanni Tamburino, Gioacchino Natoli, Giuseppe Ayala, Vito D’Ambrosio, Enrico Di Nicola, Giorgio Lattanzi, Ubaldo Nannucci, Nino Condorelli ed altri ancora). Nacque così il Movimento per la Giustizia. Giovanni Falcone vi si dedicò con tutta l’energia che gli impegni di lavoro gli consentivano di liberare, ma nel 1990 ebbe la prima delusione: si presentò candidato alle elezioni per il rinnovo del Csm ma non fu eletto, nonostante si fosse impegnato nella campagna elettorale. Credo che, al di là delle eccellenti qualità degli altri eletti, 3

Vedi cap. XIV.

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anche la parte di magistratura che rappresentavamo dimostrò in tal modo la falsità dell’assunto secondo cui chi si impegna strenuamente nel settore dell’antimafia, acquistando notorietà e però rischiando la pelle, diventa per ciò solo popolare e amato da tutti e fa più facilmente carriera. Lo aveva teorizzato, come si sa, Leonardo Sciascia: «I lettori, comunque, prendano atto» – scriveva Sciascia chiudendo il suo celebre attacco ai «professionisti dell’antimafia», pubblicato sul «Corriere della Sera» del 10 gennaio 1987 – «che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso». Si riferiva alla nomina di Paolo Borsellino a procuratore della Repubblica di Marsala che il Csm aveva deliberato pochi mesi prima, preferendolo a magistrati con maggiore anzianità ma minor esperienza nel campo delle indagini sulla criminalità mafiosa. In quel giorno di gennaio, appena letto l’articolo di Sciascia, scrissi una lettera di affetto e solidarietà a Paolo Borsellino, che non avevo mai conosciuto personalmente, e lui mi rispose dopo pochi giorni. È stata quella, purtroppo, l’unica volta in cui ci siamo sfiorati. Tornando a Giovanni Falcone, egli reagì alla piccola grande delusione con il sorriso ironico e con il distacco proprio dei siciliani colti, fatalisti, abituati a vivere alla giornata e a non meravigliarsi di nulla. Fu probabilmente più forte un’altra successiva sua delusione e anch’io, in questo caso, contribuii alla sua amarezza: non approvavamo il fatto che egli avesse assunto nel marzo del 1991 il ruolo di direttore generale degli Affari penali offertogli dal ministro della Giustizia ad interim Claudio Martelli. Capivamo il suo disagio nel continuare a lavorare nella Procura di Palermo – alla quale nel frattempo era stato trasferito con funzioni di procuratore aggiunto – ormai diretta secondo criteri che non condivideva e che a molti sembravano burocratici: una situazione simile, cioè, a quella che Paolo Borsellino aveva denunciato pubblicamente nel luglio del 1988. E credevamo pure alla sua volontà di dimostrare con i fatti quando infondato fosse il nostro timore di vederlo ingabbiato e trasformato in testimonial inconsapevole del governo. Ciononostante, avremmo preferito che non avesse accettato quell’incarico: gli scrissi una lunga lettera per spiegare le mie forti perplessità e lui mi rispose mostrandomi amicizia e comprensione. Era come se mi avesse detto: «...capisco i vostri timori, ma io sarò più forte di loro... e sarò più utile 235

al paese ed alla magistratura lavorando al ministero piuttosto che ingabbiato a Palermo». Ovviamente ci vedemmo altre volte, ma mai, sul suo volto o nelle sue parole, ho potuto cogliere un solo cenno di risentimento. Elaborò, mentre era al ministero, il progetto di costituzione della Direzione nazionale antimafia e patì anche qualche critica per la sua originaria impostazione: il 28 ottobre del 1991 una sessantina di magistrati (tra cui io stesso) sottoscrisse un documento contenente le critiche e le preoccupazioni di cui ho già detto. Qualcuno ancora oggi, spero senza ricordare o voler capire, considera quell’appello un subdolo attacco a Giovanni. Per smentire questa tesi, basta citare tra le tante firme sotto quel testo quelle di Paolo Borsellino, Antonino Caponnetto e Gian Carlo Caselli. Ma altre critiche, più personali, gli piovvero addosso quando, approvata la legge istitutiva, si candidò alla carica di procuratore nazionale antimafia: in molti, anche all’interno della nostra corrente, pensavamo che per Giovanni fosse inopportuno proporre domanda per quella carica dopo essere stato l’artefice della legge con cui essa era stata istituita. Io stesso gli scrissi l’8 febbraio del 1992 un’altra lettera di cui conservo copia: gli esprimevo con franchezza le mie riserve pur confermandogli amicizia e stima. Giustamente, Vladimiro Zagrebelsky ancora oggi ricorda l’assurdità di quei dubbi diffusi: chi, se non Giovanni Falcone, poteva essere in quel momento il procuratore nazionale antimafia? Ma prima che il Csm nominasse il procuratore nazionale, Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, con Vito Schifani, Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro, furono trucidati dalla mafia. Ricordo precisamente dov’ero, quel 23 maggio 1992, quando appresi della tragedia. Così come lo ricordo per gli annunci dell’assassinio di John Kennedy, dello sbarco del primo uomo sulla Luna e dell’impatto degli aerei sulle Twin Towers. Ho il rimpianto di non avere ulteriormente chiarito con Giovanni che le mie personali perplessità sul suo trasferimento al ministero di Martelli e sulla sua candidatura alla Dna non avevano intaccato neppure in minima parte la mia immensa stima e l’amicizia per lui. Un rimpianto acuito dalla lettura di alcune pagine di un libro di Francesco La Licata, ove l’autore rammenta l’amarezza con cui Falcone gli parlò della lettera che gli avevo scritto e della incomprensione delle sue ragioni da parte di molti tra i suoi 236

amici4. All’epoca, invece, ero certo che Giovanni avesse ben colto la natura dei nostri dubbi e che la diversità di vedute sulla sua possibile nomina a procuratore nazionale antimafia non avesse in alcun modo intaccato la ricchezza del nostro rapporto personale. Tra l’altro, avevamo anche messo in cantiere il progetto di scrivere un libro insieme: vi avremmo analizzato, in parallelo, le risposte dello Stato al terrorismo e alla mafia. Avevamo anche tracciato una scaletta possibile: il filo conduttore della nostra analisi sarebbe stato quello che in fondo caratterizza il recente libro di Gian Carlo Caselli5: dal terrorismo, la classe politica italiana si era efficacemente difesa, della mafia, invece, aveva paura. Non certo per le vittime che essa produceva ed avrebbe ancora prodotto, ma perché consapevole che il cuore del potere mafioso è il suo intrecciarsi con pezzi del potere legale, dalla politica all’economia, alle istituzioni6. Le conseguenze del disvelamento di tali legami, pertanto, sono preoccupanti per coloro che, su quell’intreccio, fondano il proprio potere. Di qui derivavano, a nostro avviso, la coesione nella lotta al terrorismo, le spaccature e i distinguo nella lotta alla mafia. Ma avremmo anche affrontato senza ipocrisia l’eterno «dilemma» della direzione effettiva dei gruppi terroristici e della mafia, con conclusioni – in questo caso – significativamente omogenee: così come non esisteva il Grande Vecchio delle Brigate Rosse, non esisteva una Cupola politica che indicasse a Riina e compagni che cosa fare e come. Piuttosto era vero il contrario: era Cosa Nostra a tenere in pugno i tanti politici interessati a guadagnarsene l’appoggio. Si tratta di discussioni che da decenni dividono il paese, ma – per quanto riguarda il pensiero di Giovanni – devo fermarmi qui, a quello che ricordo con nettezza. Non voglio in alcun modo accreditarmi come interprete autentico delle sue

Francesco La Licata, Storia di Giovanni Falcone, Feltrinelli, Milano 2002. Gian Carlo Caselli, Le due guerre. Perché l’Italia ha sconfitto il terrorismo e non la mafia, Melampo, Milano 2009. Vi si legge, tra l’altro, che «Il re – qualunque re – non ama apparire nudo. Fra destra e sinistra vi sono differenze abissali, dietro cui c’è però un filo comune: la politica, senza distinzioni, vive di consenso. Se il consenso rischia di affievolirsi per le inchieste che disvelano ‘troppa’ corruzione o ‘troppa’ collusione con la mafia, ecco che la politica – tutta la politica – finisce più o meno consapevolmente per non accettare quelle inchieste. E se prima le sostiene, a un certo punto le rifiuta o le svaluta» (p. 54). 6 Ivi, p. 47. 4 5

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parole: lo hanno già fatto strumentalmente in tanti, specie quelli che continuano ad affermare che Falcone fosse favorevole alla separazione delle carriere tra giudicanti e pubblici ministeri. Semplicemente una menzogna o un colossale errore: come tanti tra noi, Giovanni credeva solo che, con l’avvento del nuovo codice di procedura penale e l’abolizione della figura del giudice istruttore, vi fosse accentuato bisogno di un sapere specialistico e che le conoscenze necessarie a un pm per svolgere efficacemente il suo lavoro non coincidessero certo con quelle del giudice. «In una società complessa come l’attuale, solo la specializzazione del sapere può consentire di comprenderla e dominarla»: furono queste le parole di Giovanni in occasione del primo Congresso nazionale del Movimento per la Giustizia che si svolse a Milano, nel novembre 19887. Il che è sacrosanto e comporta la necessità di prevedere non la separazione delle due carriere ma fasi di approfondito aggiornamento nel caso di riconversione professionale da giudice a pubblico ministero e viceversa. A proposito di Giovanni Falcone, un giorno Indro Montanelli mi invitò a pranzo: credo di poter collocare l’incontro nel periodo finale degli anni di piombo. Il direttore del «Giornale» era stato «gambizzato» dalle Br nel giugno del 1977 e dunque, pur essendo passati molti anni da quell’attentato, pensavo mi volesse parlare di terrorismo. Pranzammo in una via secondaria nei pressi di piazza Missori a Milano, ma il terrorismo fu un argomento che affrontammo solo all’inizio dell’incontro e per poco tempo. In realtà, Montanelli voleva conoscere la mia opinione su Giovanni Falcone: Giovanni era ormai diventato il simbolo della lotta alla mafia e, per questo, era già oggetto di attacchi e insinuazioni riguardanti sia l’efficacia reale del suo lavoro che le sue presunte ambizioni extraprofessionali. Anche sul quotidiano che Montanelli dirigeva e aveva fondato nel 1974, «il Giornale», Falcone era stato oggetto di non benevoli considerazioni da parte di alcuni commentatori. Montanelli mi disse, bontà sua, che mi apprezzava e che era interessato a conoscere riservatamente ciò che pensavo di Falcone. Gli dissi che 7 La cronaca del Congresso si può leggere, unitamente alle parole di Giovanni Falcone, in un approfondito articolo di Luciano Gulli, Solo la specializzazione riscatterà il giudice, in «il Giornale», 6 novembre 1988.

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Giovanni era una delle persone di cui il paese poteva andare incondizionatamente fiero e, più che delle sue qualità professionali, gli parlai della sua umanità, del suo rapporto con la vita e gli amici, dei suoi sorrisi e della sua lealtà. Stavo per parlargli del suo lavoro, ma Montanelli mi interruppe e mi ringraziò: non aveva bisogno di altre notizie. Credeva a ogni mia parola: ciò che gli avevo detto gli bastava e sarebbe stato importante per le sue future valutazioni. Probabilmente, almeno la metà dei magistrati italiani ha oggi nel proprio ufficio la famosa, bella fotografia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sorridenti l’uno accanto all’altro: ma quanti, in epoca di rotazioni obbligatorie e di divieti di ultrapermanenza dei magistrati nelle stesse funzioni, per evitarne «incrostazioni di potere» ed «eccesso di specializzazione», ne condividono effettivamente la forza e le convinzioni? Ineguagliabile l’una, impopolari le altre. Le mafie in Lombardia Torniamo alle Direzioni distrettuali antimafia e, in particolare, a quella di Milano: come avevo detto, in tutt’Italia, non solo poliziotti e carabinieri, ma anche molti pubblici ministeri che si erano occupati di terrorismo trasferirono progressivamente le loro esperienze nel settore dell’Antimafia. In capo a pochi anni ci ritrovammo in tanti nelle Dda o nella Direzione nazionale: Vigna (sarà il secondo procuratore nazionale antimafia), Chelazzi (indagherà sulle stragi del ’93), Caselli (futuro procuratore a Palermo), Borraccetti (sarà aggiunto alla Procura nazionale antimafia), Pomarici e Laudi (come aggiunti saranno delegati a coordinare per lunghi anni le Dda di Milano e Torino) e altri, tra cui io stesso. Arrivai a far parte della Dda di Milano sin dalla sua costituzione, nel 1992, come in una dissolvenza cinematografica: stava finendo il terrorismo degli anni di piombo, conducevo due grosse indagini su pericolose organizzazioni criminali, non mafiose, ma dedite a traffici di stupefacenti e rapine (anche qui pentiti, centinaia di arresti e maxidibattimenti) e, attraverso queste, iniziai ad occuparmi di ’ndrangheta e, via via, di camorra, mafia catanese e pugliese. Ma mi accorsi subito che, tra i magistrati, il clima era diverso rispetto al passato. Non si tratta di assumere oggi l’atteggiamento del reduce o di voler rie239

vocare nostalgicamente i tempi andati. Ma certo all’epoca del terrorismo eravamo un gruppo compatto in ogni senso, nonostante la diversità di estrazione geografica, culturale e di età di quanti lo componevano. Nelle Dda, invece, la situazione non era la stessa: vi erano spesso compartimentazioni dettate da esigenze di segretezza e non tutti i colleghi facevano circolare le notizie come avrebbero dovuto, il che, a mio avviso, è un tarlo che può minare l’efficacia dell’azione repressiva. Alla base di questi comportamenti c’erano, per lo più, timori di «fughe», ma talvolta – temo – anche incomprensibili gelosie professionali. O forse si trattava del prezzo del necessario rodaggio di un metodo che, per alcuni colleghi, era del tutto nuovo. Comunque, al tempo del terrorismo, il lavoro di gruppo era stato indubbiamente facilitato dal numero relativamente modesto dei magistrati che se ne erano occupati e dalla circostanza che le bande eversive non erano certo così radicate nel paese come la mafia. Non sono possibili risposte sicure e valide per ogni caso, ma io penso che le differenze rispetto al passato siano state determinate anche da una minor propensione soggettiva al lavoro di gruppo, persino da parte di molti colleghi capaci. È certo che la situazione rischiava di diventare surreale: spesso le strategie non venivano discusse né attuate collettivamente. Non solo una Procura spesso non sapeva ciò che un’altra stava facendo nell’ambito della stessa area criminale, ma finanche all’interno delle singole Procure la circolazione di notizie e verbali procedeva con qualche difficoltà. C’era, poi, chi selezionava con il contagocce le notizie da fornire alla Procura nazionale antimafia, salvo criticare le altre Procure quando si comportavano allo stesso modo. Ma, fortunatamente, le professionalità non mancavano: nella Dda di Milano, c’era, ad esempio, Franco Di Maggio, dotato di una naturale propensione alla conduzione di quel tipo di indagine. Era un avvocato che aveva lasciato la libera professione per una vera e propria vocazione al ruolo di pubblico ministero. Amato dalla polizia giudiziaria, dotato di un eloquio formidabile, Franco ci lasciò per sempre nell’ottobre del 1996 mentre si trovava ricoverato in un ospedale di Genova. Ilda Boccassini, intanto, dopo avere lavorato due anni a Caltanissetta, dall’autunno del 1992, alle indagini sulla strage di Capaci e via D’Amelio, e poi ancora per sei mesi a Palermo, era definitivamente ritornata alla Procura di Milano nel 1995 e assegnata al pool di Mani Pulite. La Dda di Milano, in240

vece, sin dall’inizio degli anni Novanta stava portando alla luce il profondo radicamento delle mafie nel Nord Italia. Una realtà nota agli addetti ai lavori, negata da molti politici, comunque sino a quel momento indimostrata almeno nelle dimensioni che andavano emergendo. Dopo i primi collaboratori, ne vennero fuori a decine: tra il 1992 e il 1994, sia prima che iniziassero i maxidibattimenti di mafia, e poi ancora fino al 1996-97, mentre alcuni di essi erano ancora in corso, Alberto Nobili, Maurizio Romanelli, Giuseppe D’Amico, Roberto Aniello, il giovanissimo Marco Alma, Francesca Marcelli (la mia futura compagna di maratone) e io stesso passammo mesi e mesi a interrogare collaboratori calabresi, siciliani, campani, pugliesi e persino settentrionali. Nelle carceri milanesi i mafiosi iniziarono – si può dire – a mettersi in coda per essere da noi interrogati e passare tra le fila dei collaboratori: un ruolo importante nel convincerli a fare questo passo lo ebbe un ispettore della polizia penitenziaria che, con cervello e cuore, parlava spesso con i detenuti del reparto 41 bis. Molti di loro, dopo le sue parole e dopo qualche giorno speso a riflettere, mi scrivevano chiedendomi di interrogarli al più presto. Uno dei pentiti, sorridendo, mi raccontò anche che l’ispettore aveva una volta sottoposto un paio di mafiosi irriducibili a una forma blanda di «tortura»: né violenza, né waterboarding, sia ben chiaro, ma solo l’esibizione apparentemente distratta, ma continua, di un articolo di giornale con la mia fotografia in evidenza. Il lavoro – fatto ovviamente anche di indagini, di elaborazione di complesse richieste di cattura contro centinaia di persone e di numerosi maxidibattimenti – era così incessante che il procuratore aggiunto Minale, all’epoca coordinatore della Direzione distrettuale antimafia, si oppose con decisione, nel 1994, alla ipotesi, adombrata da Borrelli, che io passassi nel pool di Mani Pulite dopo che Di Pietro si dimise dalla magistratura. Fui d’accordo con Minale: non ho mai lasciato un lavoro a metà. I collaboratori, comunque, costituivano un fiume inarrestabile che solo una sciagurata legislazione intervenuta negli anni seguenti (una sequenza di decreti legislativi, decreti ministeriali e regolamenti, fino alla legge di riforma del 13 febbraio 2001), decisamente penalizzante per i pentiti, avrebbe prima rallentato e poi prosciugato. Ne parlerò ancora più avanti. Fino a quel momento, l’esistenza o meno della mafia a Milano 241

ed in Lombardia aveva alimentato un dibattito almeno decennale, caratterizzato spesso dagli interessi di chi vi aveva voce: interessi spesso di natura politica che spingevano i commentatori a negare o ad affermare la presenza della mafia a seconda che appartenessero o meno allo schieramento di governo della città il cui buon nome doveva assolutamente essere salvaguardato dalle accuse di presenze mafiose. E i pochi studiosi impegnati in una meritoria opera di informazione – come Nando dalla Chiesa che aveva lanciato l’allarme «Milano come Palermo!» – venivano fatti oggetto di vere e proprie campagne denigratorie. Diventò chiaro, finalmente, che il fenomeno mafioso non era «patrimonio» solo di alcune regioni meridionali occupate, ma si estendeva e si manifestava in tutto il paese con caratteristiche omogenee e con capacità di sfruttare le peculiarità socio-economiche e perfino geografiche di ogni regione. Insomma, controllo del territorio, corruzione del tessuto economico ed omertà non più come fenomeni esclusivi di un Mezzogiorno arcaico e arretrato, ma fenomeni presenti anche in aree altamente sviluppate come la Lombardia. Fino al 1991, non era processualmente documentata la presenza mafiosa a Milano, sicché si potevano forse giustificare, almeno sul piano formale, i procuratori generali della Repubblica che, in sede di inaugurazione degli anni giudiziari, la negavano, nonostante gli esiti di qualche importante indagine del passato. Mi riferisco a quella nata dalla collaborazione del catanese Angelo Epaminonda (che aveva consentito di far luce su numerosi sequestri di persona) e a quelle denominate giornalisticamente «Duomo Connection» (a carico di trafficanti siciliani, certamente collegati o appartenenti a Cosa Nostra palermitana) e «Fior di Loto» (a carico di trafficanti calabresi, legati alla ’ndrangheta). Inchieste tutte di indubbia rilevanza, nell’ambito delle quali, però, raramente erano stati individuati i responsabili dei numerosi omicidi che avevano insanguinato la città nei vent’anni precedenti. Tra la fine del 1991 e il 1995, tuttavia, la situazione in Lombardia cambiò improvvisamente: più di duemila persone vennero tratte in arresto in decine di procedimenti per reati di mafia (il dato è significativo, ove si pensi che non trovava riscontro, nello stesso periodo, in sedi come Palermo, Reggio Calabria, Napoli, Catania); furono pochissimi – meno di dieci – i latitanti di spicco sfuggiti alle 242

catture e quasi tutti furono arrestati in seguito. Vennero individuati i responsabili di oltre cento omicidi e delle guerre di mafia che avevano sconvolto la regione. Furono sequestrati beni e depositi bancari di provenienza illecita per un valore di decine di miliardi di lire. Si celebrarono, fino al 1999-2000, molti maxiprocedimenti con cento-centocinquanta imputati detenuti per ciascuno, al punto che furono appositamente costruite nuove aule bunker e costituite nuove sezioni di Corte d’Assise: cinque in quegli anni contro le due attuali. Al termine di uno solo di quei dibattimenti vennero irrogati più di ottanta ergastoli. Sono dati spesso sconosciuti alla pubblica opinione, che già allora smentivano l’immagine della placida «Milano da bere». In ciascuno di quei dibattimenti i collaboratori di alto livello erano almeno una decina, in alcuni casi anche di più: la cosa irritò qualche avvocato abituato ad altri andazzi. Ad esempio, nel corso di un’udienza, nel febbraio del 1996, l’avvocato Giuliano Spazzali chiese la parola e comunicò in aula la decisione di abbandonare ogni difesa nei processi di «mafia e dintorni», ormai divenuti troppo difficili a causa del proliferare dei pentiti, che definì «psicopatici». A mia volta, definii la sua scelta «una stupefacente ideologizzazione dell’abbandono tecnico della difesa». Grazie a quei collaboratori, invece, si poté affermare che, mentre nelle regioni storicamente controllate dalla mafia – Sicilia, Calabria e Campania – Cosa Nostra, ’ndrangheta e camorra agivano rispettivamente in situazione di monopolio pressoché assoluto, a Milano e in Lombardia tutte le mafie storiche – e molte tra quelle «nuove» che a esse si ispiravano – agivano spesso d’intesa, come fossero consorziate. Ma fu possibile accertare, anche, l’esistenza di un netto predominio, in Lombardia e forse nel resto del Nord d’Italia, della ’ndrangheta, cioè di una delle tre mafie storiche, quella di origine calabrese. L’afflusso al Nord dei primi qualificati affiliati alla ’ndrangheta era collocabile, almeno stando a quanto rivelato dai collaboratori, attorno alla metà degli anni Cinquanta: uno dei più importanti pentiti, Antonio Zagari, rivelò che il padre si era trasferito nel Varesotto, perché inviatovi in soggiorno obbligato, nell’anno del primo festival di Sanremo, cioè nel 1951! Il flusso ’ndranghetista fu caratterizzato dal trasferimento al Nord prima di alcuni importanti personaggi mafiosi, poi delle loro famiglie (in senso anagrafico), poi dei parenti meno stretti ed infine degli amici, fino al riprodursi di situazioni ed aggregazioni proprie delle zone d’ori243

gine. E un processo pressoché analogo caratterizzò l’afflusso in Lombardia di gruppi legati alla mafia siciliana. Si trattava di organizzazioni che, pur agendo al Nord in piena autonomia, mantenevano con le «case-madri» delle regioni d’origine legami storici e soggettivi. Al Nord, conseguentemente, si riproducevano divisioni, contrasti e lotte di potere proprie delle zone di origine e delle aree criminali di appartenenza: molti omicidi commessi al Nord, anzi, erano la conseguenza delle guerre di mafia in atto in Italia meridionale. Antonio Zagari, Saverio Morabito ed altri importanti collaboratori svelarono in dettaglio anche regole e gerarchie proprie della ’ndrangheta, consentendoci così di penetrare in un mondo che pareva fino a quel momento inaccessibile. Le indagini della Dda di Milano, dunque, consentirono di ricostruire l’evoluzione storica delle attività delittuose realizzate dai gruppi ’ndranghetisti al Nord: dall’iniziale contrabbando di sigarette e di bergamotto alle rapine, dalle estorsioni ai sequestri di persona, dall’usura alla gestione di bische clandestine, dai traffici di armi a quelli di stupefacenti (che già attorno all’inizio degli anni Ottanta erano diventati la principale attività illecita di qualsiasi gruppo criminale organizzato), il tutto caratterizzato dalla pratica degli omicidi, strumento primario per dirimere conflitti ed eliminare i rivali. La gran parte di questi omicidi, peraltro, erano stati possibili grazie al tradimento: la vittima designata veniva spesso attirata in trappola dall’amico sorridente di cui più si fidava, senza sapere che questi lo aveva già venduto al nemico o era diventato tale egli stesso. Ecco perché penso che il vero film sulla mafia, il più fedele alla realtà, non sia stato Il padrino di Francis Ford Coppola (1972) ma Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese (1990). I grandi flussi di denaro provenienti dalle attività criminali venivano spesso reinvestiti dalle mafie lombarde anche in attività lecite: denaro fresco che, non gravato dagli interessi bancari che pesano sull’imprenditore onesto e speso in contanti e in enormi quantità, alterava pericolosamente le regole dell’economia legale. Di qui l’appropriazione senza resistenze di ogni genere di attività, dalle società finanziarie ed immobiliari (spesso strappate ai debitori insolventi o agli estorti) ai ristoranti, dai bar alle pizzerie, dalle palestre alle boutiques, dai magazzini all’ingrosso di abbigliamento agli immobili, dalle imprese di costruzione edile a quelle di «movimento terra» ecc., fino a determinare situazioni di assoluto monopolio dei 244

vari gruppi mafiosi nelle zone della Lombardia rispettivamente occupate. A tal fine, i vertici delle varie organizzazioni non disdegnavano alleanze strategiche, tanto che si poteva parlare di una vera e propria confederazione mafiosa del Nord Italia, in nome della quale chi violava la pax mafiosa veniva giustiziato, spesso ad opera di commando a composizione mista (ne facevano parte, cioè, killer appartenenti ad organizzazioni diverse che nell’azione suggellavano la propria alleanza). E dal patto federativo derivavano anche gli approvvigionamenti di stupefacenti in grande stile ad opera di vere e proprie joint venture e la gestione ragionata degli investimenti. Non si era più di fronte, cioè, alla mafia rurale o di montagna, ma a quella capace di mettere in piedi sofisticate operazioni finanziarie e di condizionare le amministrazioni di alcuni comuni della Lombardia e, in particolare, dell’hinterland milanese. E vennero scritte anche pagine dolorose, come quella dell’arresto di un capitano dei carabinieri accusato di fornire ai criminali armi inertizzate, cioè non in grado di sparare, ma facilmente modificabili in armi funzionanti. Un mitra M12 fornito al circuito della ’ndrangheta era stato usato per un omicidio mafioso. L’ufficiale fu arrestato e risultò anche votato al commercio: 840 chili di biscotti, 240 chili di cioccolato e 217 chili di marmellata spariti dalla caserma ove dirigeva il servizio economato furono sequestrati in casa di un suo conoscente legato alla malavita. A luglio del 1991, fu condannato a cinque anni di reclusione. Ne avevo chiesti otto, ma, durante la requisitoria, fui costretto a interrompermi per la commozione ricordando gli uomini giusti che avevano vestito la stessa divisa da lui disonorata. Mi coprii il volto con le mani e porsi le mie scuse al Tribunale. Il presidente ordinò una breve pausa per consentire al pm di riprendersi. Cinque anni dopo, invece, iniziai la mia requisitoria orale nel primo grosso processo di mafia a Milano, il processo «Wall Street» (dal nome di un ristorante acquistato da un capo ’ndrangheta del Lecchese), dedicandola a uno sconosciuto maresciallo catanese che lavorava a Como, Sebastiano D’Immè, nome in codice «Ombra»8, che aveva speso gli ultimi an8 Nome in codice, Ombra è anche il titolo di un libro (Laurus Robuffo, Roma 2009) che il capitano Cataldo Pantaleo e Mirco Maggi hanno voluto dedicare al ricordo di Sebastiano D’Immè, medaglia d’argento al valor militare alla memoria.

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ni della sua vita nelle indagini sulla mafia calabrese al Nord, prima di essere ucciso dai criminali cui dava la caccia, il 6 luglio del 1996, a Locate Varesino. Aveva trentun anni ed era sposato da otto mesi. Una foto che conservo ci «immortala» nella caserma di Como, insieme al calciatore Claudio Gentile. La sua tomba e il suo volto mi sono comparsi improvvisamente davanti agli occhi a gennaio del 2009 quando, nel cimitero di Gela, stavo cercando il luogo dov’era sepolta Norina, la mia nonna paterna che non ho mai conosciuto, morta di cuore quattro anni prima che io nascessi, mentre suo figlio era volontario in guerra9. Manlio Minale Tutto questo viene alla luce in Lombardia mentre la Direzione distrettuale antimafia è guidata dal procuratore aggiunto Manlio Minale, che sarà poi, nel 2003, il successore di Gerardo D’Ambrosio alla guida della Procura di Milano. Minale è un napoletano con alle spalle una lunga carriera di giudice prima di diventare aggiunto. Era stato anche il presidente della Terza Corte d’Assise che nel 1990 aveva condannato a ventidue anni di reclusione Adriano Sofri e i suoi complici per l’omicidio Calabresi: una sentenza difficile e impopolare, ma giusta. Minale è l’esempio vivente – e fortunatamente non isolato – di come la cultura giurisdizionale del giudice debba essere la stella polare anche per il pm: indagini e operazioni di polizia sono «brillanti» non quando arrivano alla prima pagina dei quotidiani ma quando il giudice, con le sue decisioni, ne conferma la solidità. Se il pm è stato giudice – come Minale – meglio comprende su quali basi probatorie ciò può avvenire. Se non lo è stato mai – come me – deve sforzarsi di ragionare come se lo fosse. A questo serve la unicità delle carriere: a meglio garantire cittadini imputati e vittime dei reati. Checché ne dicano tanti politici d’ogni schieramento. Minale smussa qualche attrito tra noi sostituti e ci asseconda con cognizione di causa nelle nostre scelte, anche quando, alla fine del 1996, incerto sulla reale identità di un uomo su cui la polizia sta indagando, decido di far prosegui-

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Vedi cap. XXVI.

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re i pedinamenti anziché bloccarlo immediatamente. Scelta rischiosa ma giusta: pochi mesi dopo, la Criminalpol, seguendo quell’uomo, arresterà, tra Madrid, Amsterdam, Milano, Reggio Calabria e Roma i più pericolosi capi latitanti della ’ndrangheta e sequestrerà 360 chili di cocaina pura in un deposito vicino Milano, con grande soddisfazione anche delle autorità spagnole ed olandesi. Ma Minale gestisce la Dda anche con sobrietà e riesce ad evitare che i «suoi» sostituti siano trascinati nella retorica dell’antimafia, il cui copione inevitabilmente prevede che «l’inchiesta prende spunto da un blitz, l’aula di udienza dibattimentale è un bunker, i magistrati che conducono le indagini sono in trincea»10 e che ogni indagine riceve l’imprimatur di una denominazione di fantasia, anziché essere citata con numeri di registro e nomi degli imputati. Sono presente nel suo ufficio quando riceve la telefonata dell’allora procuratore nazionale antimafia, il quale, all’indomani dell’ennesima retata di ’ndranghetisti di quegli anni, gli chiede a che ora potrà essere a Milano, l’indomani, per partecipare alla rituale conferenza stampa che in altri uffici si organizza in questi casi. «Noi non facciamo conferenze stampa» è la gelida risposta di Minale. Quando Manlio Minale, nel 2003, sarà nominato dal Csm procuratore della Repubblica a Milano, sarà l’intero ufficio a esultare, senza distinzione di anzianità e ruoli. Non sempre, dunque, come molti affermano, sono le «appartenenze correntizie» a decidere il destino degli uffici e a ispirare le nomine dei dirigenti. Continuo a credere che, quando avviene, ciò costituisca una patologia del sistema e che, invece, possano avere significato decisivo le qualità delle persone. Minale, negli anni recenti dell’inchiesta Abu Omar, ha condiviso con Pomarici e me ogni difficile scelta, rivendicandone la collegialità anche di fronte alle polemiche più aspre e offensive. Altrettanto ha fatto con i suoi sostituti impegnati in molte altre delicate inchieste. Alla fine del 2009, Minale è stato nominato procuratore generale presso la Corte d’Appello di Milano. Minale, dunque, cambia ufficio, ma non ci perderemo di vista. 10 L’efficace sintesi di questa spettacolarizzazione della lotta alla criminalità organizzata si deve a Piergiorgio Morosini, Il Gotha di Cosa nostra, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009, p. 184.

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Frammenti dai dibattimenti Tra indagini di mafia ed interrogatori di pentiti scivolavano via quasi tutti i miei anni Novanta. Impossibile citare tutti i ricordi che si sono accumulati nella mia mente. Come al tempo di Galli e del terrorismo, avevo trovato in giro processi frettolosamente archiviati: a Varese, ad esempio, un giudice aveva archiviato un fascicolo per un omicidio non ritenendo acquisiti i riscontri alle dichiarazioni del pentito che lo aveva confessato, accusando nel contempo un complice. Eppure vicino al cadavere della vittima era stata trovata una catenina d’oro la cui medaglietta recava incisi il nome del paese di poche anime dove l’assassino indicato dal pentito abitava e la data del suo battesimo. Sempre a Varese, lo stesso pentito calabrese aveva confessato di avere partecipato nel 1974 alla preparazione di un sequestro di persona, quello di Emanuele Riboli, mai tornato a casa. Il sequestro era stato organizzato da suo padre, un boss della ’ndrangheta, ma il pentito non aveva potuto partecipare alla sua esecuzione perché arrestato pochi giorni prima per una rapina. Ne aveva conosciuto evoluzione ed esito drammatico – la morte dell’ostaggio – durante e dopo quella detenzione e numerosi particolari della confessione avevano trovato riscontro nelle indagini dei carabinieri. Ma tutto ciò non aveva determinato alcun arresto perché, a detta del procuratore, i riscontri erano insufficienti: ad esempio, non era stato trovato il luogo ove il corpo dell’ostaggio era stato sepolto. Senonché, il pentito non poteva conoscerlo perché era detenuto al momento della esecuzione del sequestro e della morte del sequestrato. Recuperati i processi, trasferita la competenza alla Dda di Milano, fioccarono le condanne. Un altro pentito siciliano continuava a raccomandarmi di non andare dal mio barbiere: un avvocato, a suo dire, aveva riferito a qualcuno di loro di avermi incontrato lì e l’organizzazione mafiosa di cui il pentito faceva parte aveva progettato come eventualmente colpirmi mentre mi facevo tagliare i capelli. Un giorno, mi disse il pentito, solo la presenza di mio figlio mi aveva salvato. Il collaboratore continuava a preoccuparsi per me suggerendomi anche quali punti del mio percorso fino all’aula bunker dovevo assolutamente evitare. Erano analoghe le preoccupazioni di altri pentiti, tra cui un boss pugliese: giurava che mi avrebbe vendicato nel caso 248

che... ma io lo pregavo di evitare simili propositi e di limitarsi a elencare i gravi crimini commessi. Lo faceva con la precisione di un computer e mi indicava i complici del passato che, a suo avviso, avrebbero sicuramente scelto di collaborare appena avessero saputo che lo stava facendo anche il loro capo, cioè lui stesso. Non sbagliava un colpo e i nuovi collaboratori crescevano con progressione geometrica. Uno di questi mi raccontò che il boss pugliese, avendo perso una mano da ragazzo durante un attentato dinamitardo, gli aveva chiesto di procurargli al Nord un appuntamento presso qualche luminare esperto di trapianti di arti. Ma, al momento della visita, il primario aveva escluso la possibilità di un intervento: la mano era stata amputata da troppi anni ormai e, comunque, «non ogni mano sarebbe stata adatta al trapianto». «Se è per questo – rispose il pentito – gliene porto quante ne vuole». Il primario sbiancò e congedò immediatamente il potenziale paziente. Il pentito pugliese confermò l’episodio, giurando che si trattava solo di una battuta, spontanea anche se infelice. Rammento poi un importante pentito napoletano che aveva fatto uccidere in Campania il rivale di uno dei boss calabresi in Lombardia, ottenendo in cambio, alla fine del 1990, che i calabresi uccidessero il figlio di Raffaele Cutolo, Roberto, che viveva in soggiorno obbligato vicino Varese. Durante il processo dinanzi a una Corte d’Assise di Milano, il boss napoletano rese un interrogatorio molto preciso, ma un’avvocatessa continuava a contestargli presunte contraddizioni su particolari del suo racconto lontanissimi nel tempo e comunque marginali, come il colore dell’auto utilizzata per un certo delitto o il nome del bar dove era avvenuto un certo incontro. Il pentito rispose educatamente fino al momento in cui, perso l’aplomb britannico che aveva caratterizzato le sue dichiarazioni fino a quel momento, replicò in stretto dialetto napoletano: «Avvuca’, si avess’ saputo che aver’a fa’ ’o pentit’, m’aviss’ accattat’ ’u computèr e mo nun ce stavan problemi!». E una volta accadde l’incredibile: in occasione di un altro importante procedimento di mafia, capitò che venisse sorteggiata a far parte della giuria popolare una donna giovane e certamente attraente, la quale, durante il dibattimento, volgeva lo sguardo con insistenza eccessiva verso la prima gabbia di detenuti alla sua destra, vicino al mio banco da pm. A qualche mese di distanza dall’inizio del dibattimento, uno dei detenuti di quella gabbia saltò il fos249

so e divenne così uno dei più importanti collaboratori della Dda di Milano. Ma, oltre a omicidi e traffici di stupefacenti, ci rivelò che aveva allacciato un’intensa e calorosa relazione epistolare con quella giurata (che gli scriveva in carcere sotto falso nome), mentre un secondo detenuto stava per fare altrettanto con un’altra componente della giuria. Ci consegnò le lettere che lo dimostravano. Le due donne si dimisero dalla giuria: salvammo il processo, ma purtroppo minigonne e abiti attillati scomparvero da quella grigia aula bunker. Ma non tutto ovviamente poteva suscitare momenti di quasi cinica ironia. Un altro collaboratore, ad esempio, già scagionato dall’omicidio di un amico, mi fece accorrere in carcere, dove lo trovai disperato e piangente. A detta del direttore del carcere, versava in quello stato da molti giorni, finché si era deciso a chiedere di essere nuovamente interrogato da me. Aveva già confessato alcuni omicidi, ma non quello di un amico. Mi disse che vi aveva avuto un ruolo marginale – il che ovviamente non gli evitò poi la condanna – e che non lo aveva rivelato in precedenza solo perché gli ripugnava che la moglie venisse a sapere del tradimento di un’amicizia. In un’altra occasione, apprezzai la correttezza di Emilio Fede. A una sua telefonata seguì un incontro. Mi rivelò che, dietro autorevole sollecitazione, aveva accettato di vedere un investigatore privato che gli aveva chiesto di accreditare un suo uomo presso il palazzo di Giustizia di Milano come corrispondente del Tg4. In tal modo, gli aveva detto l’investigatore che lavorava per l’avvocato difensore di un mafioso, quel falso giornalista avrebbe potuto pedinarmi e controllarmi senza dare nell’occhio e acquisire informazioni su presunte corruzioni di cui sarei stato destinatario. Ciò – aveva aggiunto l’investigatore – sarebbe stato forse apprezzato anche dal proprietario di Mediaset. Emilio Fede, che ringraziai per la sua correttezza, aveva cacciato dal suo studio quel personaggio, mi aveva chiamato e riferito ogni cosa. In seguito avrebbe confermato tutto, nel corso di una formale testimonianza, dinanzi al pm di Brescia che procedeva per i reati commessi in mio danno. Vi fu anche un falso pentito, che poi diventò quasi un pentito vero e che più tardi fece ancora marcia indietro per ritornare successivamente a collaborare e così via. Ma la gran parte dei collaboratori risultò del tutto attendibile: alcuni di loro sono ormai liberi e, come gli ex terroristi pentiti, ogni tanto mi chiamano e mi 250

parlano dei loro figli e dei loro problemi. Altri, invece, sono ancora in carcere e stanno finendo di scontare le pene loro inflitte. Ma spesso sento i loro familiari. Mi è impossibile essere o mostrarmi sordo alle loro necessità, ai loro problemi: mi sembra ingiusto, infatti, che chi ha rappresentato per loro le istituzioni ed ha costituito il ponte tra passato e futuro, convincendoli a un presente di collaborazione, possa rifugiarsi nel burocratico ed italico costume del «non mi compete...». La tendenza a dimenticare Non sono un sociologo e non sono neppure capace di analisi profonde come quelle che leggo nei libri di Gherardo Colombo e che gli ho sentito ripetere: tra tutte, ad esempio, quella sulla ragione della corruzione e dell’ansia di potere che sono entrambe partorite – dice Colombo – dalla paura della morte. Ma mi colpì, ad un certo punto, l’inversione di tendenza che si andava manifestando non solo in Parlamento, ma anche nel paese, rispetto alla necessità di scelte e comportamenti inequivocabili nel contrastare il fenomeno mafioso. Non ho mai pensato che il terrorismo e la mafia abbiano radici e spiegazioni al di fuori delle scelte di chi ne è direttamente responsabile e attore. Ma penso pure che esistano doveri anche da parte di chi ha la responsabilità della cosa pubblica, di chi deve creare le opportunità di lavoro, di casa, di vita dignitosa, di chi deve rendere vivibile il territorio e non lasciarlo al dominio dei criminali. Quasi mai ciò è nel potere dei cittadini «amministrati», i quali sono spesso costretti a vivere nella condizione e nel contesto che altri – gli amministratori – hanno creato per loro. Certo i cittadini onesti non possono rimanere passivi e devono contribuire a rendere civili le situazioni in cui vivono ed operano. È possibile che questo avvenga, indipendentemente dalle strade che ciascuno percorre, se ci si lascia guidare, appunto, dal senso del dovere, se ci si sente parte – e non centro – della collettività. L’Antimafia – diceva Libero Grassi – ha bisogno di una qualità del consenso e di rigore nella vita privata. Ma la mafia alligna e prospera dove lo Stato è assente. Così, ad esempio, si spiegano le tante, troppe elezioni di sindaci mafiosi da parte di cittadini elettori che non sono certo tutti mafiosi e che, più probabilmente, votano quei 251

candidati perché vedono le istituzioni latitare e le organizzazioni mafiose sostituirsi ad esse nel soddisfacimento dei loro bisogni primari. Quante volte il presidente della Repubblica Sandro Pertini tentò di farlo comprendere annullando le elezioni per scegliere il sindaco di Quindici, in Campania? Ma se così è, perché mai il clima generale del paese, in gran parte alimentato da chi lo governa, non è sempre favorevole e compatto rispetto alla necessità di una cultura che emargini e sconfigga la mafia? Quando è favorevole, peraltro, si tratta normalmente dell’effetto di reazioni a eventi che la collettività vive come tragici: urge darle risposte e la tranquillità possibile. Poi le tragedie, in tempi più o meno lunghi, finiscono nel dimenticatoio e riemergono indifferenza e insofferenza al controllo di legalità. Ecco come si spiega che le leggi più importanti per la lotta alla mafia siano state varate in Italia solo dopo gli omicidi eccellenti. Penso alla legge Rognoni-La Torre, approvata dopo l’omicidio del generale dalla Chiesa, alla legge sui poteri dell’Alto commissario contro la mafia (proprio quei poteri che dalla Chiesa aveva richiesto invano) varata dopo l’omicidio del giudice Saetta e del figlio, alla legge sui collaboratori e sulla trasparenza nella pubblica amministrazione successiva all’omicidio Livatino, alla legge antiracket che seguì l’omicidio di Libero Grassi, al decreto antimafia del giugno 1992, approvato dopo l’omicidio Falcone e poi convertito in legge – a un giorno dalla scadenza – solo dopo l’omicidio Borsellino. Ma in seguito, progressivamente e con il ritorno all’indifferenza, riprendono voce quanti invocano ciclicamente la fine dell’emergenza, la normalizzazione del paese e la revoca della «delega» alla magistratura in nome del primato della politica. Si spiega così come, dopo guerre di religione e polemiche faziose protrattesi per anni, peraltro riaccese dalle sentenze dei processi di Perugia e Palermo riguardanti il senatore Giulio Andreotti11, la «vita da pentito» sia tornata a essere in Italia un in11 A carico di Giulio Andreotti, in realtà, come è stato più volte ricordato a fronte di ricorrenti imprecisioni, la Corte d’Appello di Palermo, con sentenza del 2 maggio 2003, ormai definitiva, ha dichiarato non luogo a procedersi per essere il reato di associazione per delinquere semplice con Cosa Nostra, commesso fino al marzo del 1980, estinto per prescrizione. La Corte, infatti, ha qualificato la condotta dell’imputato come violazione dell’art. 416 del codice penale, perché consumata fino al marzo del 1980, allorché non era ancora stato introdotto nel codi-

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ferno: mentre il procuratore nazionale antimafia definì nel 1998, nel corso di un’audizione dinanzi al Csm, «vessatorio» il sistema di protezione e assistenza nei confronti dei collaboratori, autorevoli parlamentari e rappresentanti del governo di centrosinistra dichiaravano: «i collaboratori e i loro familiari ammessi al programma di protezione sono troppi e ne va drasticamente ridotto il numero». Ed ecco che il Parlamento, praticamente all’unanimità e nel quadro del garantismo selettivo che ha caratterizzato la legislazione di quegli anni, approvò nel febbraio del 2001 una nuova legge per i collaboratori processuali che incontestabilmente ha determinato l’inaridirsi di un fenomeno che pure tanta parte aveva avuto nei successi conseguiti contro la criminalità mafiosa. Mancò, nel dibattito preliminare all’approvazione della legge, la capacità di analizzare freddamente il rapporto tra costi e benefici nell’utilizzo dello strumento e di individuare i reali punti di sofferenza del sistema previgente. Non servirono, quella volta, gli appelli alla ragione che vennero dagli «addetti ai lavori». Sembrava quasi che la parola d’ordine non scritta fosse quella di rendere più difficili il manifestarsi delle collaborazioni e l’utilizzo processuale dei loro contenuti. Tra le altre, spiccava una norma illogica, oltre che contraria al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale: diventavano inutilizzabili processualmente le dichiarazioni rese dai pentiti oltre il termine di 180 giorni dalla manifestazione della volontà di collaborazione. La norma vive tuttora: il collaboratore ha avuto un vuoto di memoria? Niente da fare se lo colma dopo sei mesi. Il pubblico ministero accerta qualche particolare che può servire a rinverdire i ricordi del collaboratore in un successivo interrogatorio? Niente da fare anche in questo caso. E se il pubblico ministero non può dedicare sei mesi consecutivi all’interrogatorio di un importante ce penale l’art. 416 bis, che punisce l’associazione per delinquere di stampo mafioso. Per l’epoca successiva al marzo del 1980, invece, Andreotti è stato assolto con formula piena dall’accusa di appartenenza a Cosa Nostra. A Perugia, invece, il senatore era accusato di essere il mandante dell’omicidio di Mino Pecorelli (Roma, 20 marzo 1979): Andreotti fu assolto con formula piena in primo grado, condannato in appello il 17 novembre 2002, ma questa sentenza – infine – fu annullata senza rinvio dalla Corte di Cassazione il 30 ottobre 2003. L’assoluzione ottenuta in primo grado nel 1999 diventò dunque definitiva.

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pentito perché, ad esempio, impegnato in un maxiprocesso? Si arrangi, peggio per lui, e la prossima volta eviti di imbastire una maxi-indagine. Ma non si potrebbe prevedere la possibilità di una deroga al termine dei sei mesi con provvedimento motivato del pubblico ministero o, vista la sua ben nota inaffidabilità, del giudice? O non si potrebbe spostare in avanti il dies a quo individuandolo nel momento di inizio effettivo della collaborazione processuale anziché in quello di manifestazione della relativa volontà? Non se ne parla proprio. Fine del discorso. Strana storia, insomma, quella del rapporto tra pentiti di mafia e società: tutti sanno che senza di loro non sarebbero mai stati scoperti i responsabili delle stragi del 1992 e del 1993 e di centinaia di omicidi ed altri gravi reati, tutti sanno quanto la mafia li tema, al punto da sciogliere nell’acido o uccidere in altro modo i loro familiari, ma non appena essi accennano a responsabilità, collusioni o contiguità tra mafia e politica, sono oggetto di attacchi di «violenza inaudita»12. E ovviamente bersaglio di tali attacchi sono anche i magistrati che ne raccolgono le dichiarazioni, che chiedono o emettono provvedimenti restrittivi, che li interrogano nei pubblici dibattimenti come la legge obbligatoriamente prevede: essi agirebbero, d’intesa con la mafia, per sovvertire il governo. Accuse che si materializzano ancora nel dicembre del 2009: Gaspare Spatuzza, killer e uomo di peso in Cosa Nostra, ha deciso da mesi di collaborare con la giustizia. Il 4 dicembre viene in tale veste esaminato dinanzi alla Corte d’Assise di Appello di Palermo che giudica Marcello Dell’Utri, condannato in primo grado a nove anni di reclusione per concorso in associazione mafiosa. L’udienza si svolge in un’aula di Torino per ragioni di sicurezza e Spatuzza, a domanda del pubblico ministero, conferma di essere stato membro dell’«associazione terroristico-mafiosa Cosa Nostra» e di avere ricevuto dai fratelli Graviano, boss indiscussi della stessa organizzazione, confidenze in ordine a rapporti risalenti agli inizi degli anni Novanta tra questa e Dell’Utri e, attraverso Dell’Utri, con Berlusconi13. Qui non interessa il giudizio sulla credibilità di quanto dichiarato da Spatuzza: sono valutazio12 13

Caselli, Le due guerre cit., p. 49. Cfr. «la Repubblica», «Corriere della Sera» e altri quotidiani, 5 dicembre

2009.

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ni di competenza dei giudici che procedono. È pure comprensibile che Dell’Utri e Berlusconi abbiano reagito indignati e si deve anzi aggiungere che i fratelli Graviano, esaminati successivamente dalla Corte d’Appello di Palermo, hanno smentito quanto dichiarato da Spatuzza. Allo stesso modo, non si può né si vuole qui discutere dell’attendibilità o meno delle dichiarazioni rese nel 2009 da Massimo Ciancimino, figlio di Vito, circa una trattativa che sarebbe stata avviata nel periodo precedente la strage di via D’Amelio tra pezzi delle istituzioni e vertici di Cosa Nostra. Ma è certo che i magistrati hanno il dovere di procedere con le loro indagini, vi sono addirittura obbligati. Non sono perciò comprensibili, né accettabili le affermazioni di quanti, anche in questi casi, hanno accusato la magistratura di fare un uso politico dei pentiti. Addirittura la stessa accusa è stata mossa in contemporanea a Cosa Nostra, che avrebbe usato Spatuzza come strumento di ritorsione contro il governo che «più ha fatto contro la mafia in vent’anni». Affermazione opinabile a giudizio degli addetti ai lavori, pur se il governo cita, a conferma dei propri meriti, il numero dei mafiosi arrestati negli ultimi due anni. Senonché, costoro vengono catturati innanzitutto grazie alle indagini condotte dalle forze di polizia e dai pubblici ministeri, mentre, nonostante le conferenze stampa dei ministri di turno, le scelte politiche del governo non ne costituiscono certo il presupposto o la ragione. Il sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano, ex magistrato, è il presidente della Commissione centrale costituita presso il suo ministero che, su richiesta delle Procure competenti, ammette i collaboratori allo speciale programma di protezione quando la loro collaborazione, effettuati i primi riscontri, sia ritenuta affidabile. Dunque un compito delicato. Il programma di protezione è stato richiesto, per Spatuzza, dalla Procura della Repubblica di Firenze che indaga sulle stragi degli inizi anni Novanta. Ebbene, nonostante il suo ruolo istituzionale, anche Mantovano pone pubblicamente in dubbio la credibilità di Spatuzza prima ancora di decidere, insieme agli altri componenti la Commissione citata, la sorte del pentito che accusa politici del suo schieramento. Non certo un bel segnale per potenziali mafiosi collaboratori. Il ministro Bossi, a dicembre, ci mette del suo: la legge sui pentiti va cambiata. Non certo per renderla più incoraggiante. 255

E all’inizio di febbraio del 2010 si viene a sapere che il senatore calabrese Giuseppe Valentino (Pdl) ha presentato un disegno di legge14 che rende più difficile utilizzare come fonte di prova le dichiarazioni dei pentiti, anche se provengono da più persone e sono state rese in modo autonomo l’una dall’altra: occorreranno – se il ddl sarà approvato – specifici riscontri esterni e non saranno sufficienti quelli meramente parziali. Molti giornalisti e magistrati impegnati sul fronte antimafia denunciano il rischio di azzeramento della lotta alle cosche mafiose e il ministro della Giustizia e quello dell’Interno prendono le distanze dal ddl: «è un’iniziativa isolata di un singolo parlamentare». Il presidente del Consiglio, però, dichiara di essere favorevole alla revisione della normativa riguardante i pentiti, pur se nell’ambito di una complessiva riforma della giustizia15. Negli stessi giorni, il prefetto di Milano, Gian Valerio Lombardi, minimizza la presenza della mafia in Lombardia e dichiara dinanzi alla Commissione antimafia che «anche se sono presenti singole famiglie, ciò non vuol dire che a Milano e in Lombardia esista la mafia»16. Per la verità lo smentiscono il fatto che sia triplicato in un anno il numero delle indagini in corso e i risultati inoppugnabili di quelle condotte a Milano degli ultimi vent’anni almeno: hanno dimostrato, tra l’altro, che in certi periodi ci sono stati «più morti ammazzati a Milano che a Palermo»17. Lo stesso presidente della Commissione antimafia, Beppe Pisanu, sente il bisogno di precisare che quella del prefetto è stata un’espressione «non felicissima, forse fraintesa»18. Il nostro resta un paese pieno di ambiguità e contraddizioni, dove «la lotta alla mafia unisce solo i morti. I vivi li divide: tra chi la fa e chi la lascia fare agli altri»19. Un paese in cui non manca il 14 Si tratta del ddl n. 1912, presentato il 27 novembre 2009 al Senato (poco prima delle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza dinanzi alla Corte d’Appello di Palermo, come rileva Liana Milella, Arriva la legge anti-pentiti, in «la Repubblica», 2 febbraio 2010) che prevede la modifica delle norme di procedura penale sulla valutazione della prova costituita dalle dichiarazioni rese dai collaboratori. 15 Cfr. «la Repubblica», 11 febbraio 2010. 16 Cfr. «la Repubblica», 22 gennaio 2010. 17 Claudio Fava, La mafia a Milano? Mai vista, in «l’Unità», 23 gennaio 2010. 18 Cfr. «la Repubblica», 23 gennaio 2010. 19 Claudio Fava, I disarmati. Storia dell’Antimafia: i reduci e i complici, Sper-

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coraggio civile tra le persone normali: se a Torino, come ho ricordato, saltò nel 1977 il processo al nucleo storico delle Br perché i cittadini sorteggiati per fare i giurati riempirono la cancelleria di certificati medici, «a Palermo, in culo al mondo, nessuno si tirò indietro quando gli dissero che c’era da processare la cupola della mafia»20. Un paese in cui si può disarticolare il più importante strumento di lotta alla mafia (la legge sui pentiti) e contemporaneamente sentire un ministro di Grazia e Giustizia affermare in Parlamento, come fece Filippo Mancuso nel 1995, che «prima o poi un’ispezione alla Procura di Palermo bisognerà pur farla!». Come se le ispezioni fossero un optional punitivo. Un paese in cui si può arrivare ad invocare una giustizia da Stato autoritario per terroristi e «mafia militare», ma in cui «la vena garantista di molti è esplosa in concomitanza di accuse di interazione con la mafia elevate a professionisti, imprenditori, uomini delle istituzioni»21. Un paese in cui il leader di un ampio schieramento politico, che aspirava ad essere leader di governo – e che poi lo diventò – affermava di non gradire il processo Andreotti in quanto dannoso per il buon nome del prodotto italiano all’estero! In fondo, lo stesso concetto recentemente ribadito dal medesimo leader, attuale presidente del Consiglio dei ministri: «la mafia italiana risulta la sesta al mondo ma in realtà è la più conosciuta grazie al supporto promozionale delle otto serie tv della Piovra viste in 160 Paesi. E anche della letteratura, come ad esempio Gomorra»22. Tuttavia, proprio queste insanabili contraddizioni di natura etica riuscirono ad innescare, negli anni Ottanta, movimenti spontanei di cittadini che decisero di far sentire la propria voce, al di fuori degli schieramenti politici e delle sedi istituzionali. Nasceva la società civile.

ling & Kupfer, Milano 2009, p. VII. Il libro di Fava denuncia le ambiguità e le viltà di giornalisti, politici e magistrati. 20 Ivi, p. 59. 21 Morosini, Il Gotha cit., p. 185. 22 Cfr. Berlusconi attacca Saviano: «Fa cattiva pubblicità all’Italia», in «la Repubblica», 17 aprile 2010.

XIV

Da Società civile al Movimento per la Giustizia

Il circolo Società civile di Nando dalla Chiesa Fino alla metà degli anni Ottanta non avevo avuto il tempo e la possibilità di riflettere approfonditamente sui rapporti tra società e mafia: iniziai a farlo in Società civile, insieme a tante persone di qualità. Si trattava di un circolo nato grazie alla spinta senza eguali di Nando dalla Chiesa: Nando non era allora un politico e, anzi, era una spina nel fianco di molti politici. La sua idea era quella di dare voce e presenza nella società, attraverso un’aggregazione trasversale aperta, a chiunque fosse disposto a battersi, in nome dell’etica, contro ogni tipo di degradazione morale e culturale, innanzitutto contro mafia e corruzione. Accettai con entusiasmo di partecipare a quell’avventura. Mi piaceva la trasversalità della iniziativa, un po’ simile a quella che, sia pur nel più ristretto ambito dei magistrati, fu poi alla base della nascita – nel 1988 – del Movimento per la Giustizia. Ho sempre pensato, infatti, che sui principi, sull’etica, sui valori della Costituzione ci si possa trovare agevolmente insieme: progressisti e conservatori, così come laici e credenti. Fui allora socio fondatore di Società civile: nel dicembre del 1985, al fianco di Nando si schierarono tante persone, con alcune delle quali ho passato gli anni più ricchi di speranze – e perfino di certezze – del mio impegno extraprofessionale: Gianfranco Introzzi, un sindacalista ed ex partigiano di incrollabile fede democratica («nel circolo rappresenterò la classe operaia», diceva), padre Davide Maria Turol258

do, Corrado Stajano, Alberto Cavallari, Paolo Murialdi, Saveria Antiochia, Silvio Novembre, Guido Martinotti, Giampaolo Pansa, Raffaella Lanzillo, Gianni Barbacetto, gli architetti Donata Almici e Giancarlo Rossi, Franco Parenti, Jole Garuti e tanti altri ancora. In Società civile ritrovai anche colleghi come Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo e Giuliano Turone. Così Gianni Barbacetto, sedici anni dopo, ha efficacemente descritto cos’era quel circolo: Nel suo statuto si stabiliva che al circolo Società civile potessero aderire tutti i cittadini, tranne quelli che avevano incarichi politici e di partito. Un’esclusione che suonò scandalosa, nel pieno degli anni Ottanta, momento di massima invadenza dei partiti in tutte le espressioni della vita istituzionale, sociale, economica. I partiti avevano letteralmente occupato le istituzioni democratiche, se ne servivano invece che servirle. Avevano stretto con il mondo delle imprese quei patti illegali di scambio sotterraneo tra politica e affari che poi passerà alla storia come Tangentopoli. Il nuovo circolo ruppe il silenzio: costituiamo uno spazio autonomo – disse – in cui la società civile possa esprimersi, senza l’invadenza dei partiti, che hanno tanti altri spazi dove far pesare il loro potere; affermiamo che esiste un ambito – quello delle istituzioni – che non deve essere occupato dagli interessi di partito; ribadiamo che esiste un livello – quello dei valori, quello della legalità – che non può essere sottoposto alla legge dilagante dello scambio politico. Le reazioni furono durissime, in quel 1985, in quel 1986[...]. Tutti, a destra e a sinistra, partirono all’attacco di quell’oggetto misterioso, quello strano circolo milanese che escludeva i politici. Tutti a difendere i partiti dai nuovi «qualunquisti», «moralisti», «sfascisti», «giacobini», «salottieri» [...]. Bollati come «comunisti» dalla destra, «anticomunisti» dalla sinistra. Per entrambi, «manichei»: sostenitori dell’opposizione netta tra «politica cattiva» e «società civile buona». Non era vero. Sapevamo (e scrivevamo) che la politica non è sempre «cattiva», che la società civile non è tutta «buona» (è società civile anche la folla degli evasori fiscali, è società civile anche la mafia). Semplicemente, volevamo offrire ai cittadini uno spazio autonomo fuori dai partiti, che di spazi ne avevano occupati tanti, molti legittimi, alcuni illegittimi. Per poter dire con libertà cose che non si riescono a dire, se si è costretti a seguire le regole dello scambio politico e della ragion di partito1.

1

Cfr. www.societacivile.it/identikit/identikit.html.

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Società civile fu anche la denominazione con cui, da quel momento in poi, venne definita quella parte della società italiana che voleva far sentire la sua voce al di fuori dei partiti, ma non necessariamente contro di essi. Era il 1985, entrai anche, con Gherardo Colombo, a far parte del primo direttivo del circolo di Nando: era il mio secondo – e forse più visibile – passo verso la futura collocazione nel novero delle pericolose «toghe rosse», ovvero i Khmer rossi del terzo millennio. Il circolo Società civile diede vita in quegli anni a innumerevoli iniziative: non solo dibattiti su ogni tema d’interesse pubblico, tra cui etica, politica, corruzione e presenza della mafia in Lombardia (un’eresia per quei tempi), ma anche la fondazione di un periodico in cui si formarono alcuni giovani giornalisti d’inchiesta. Tutto quello che riuscimmo a fare fu autofinanziato e del tutto immune da ogni influenza o contiguità politica. Nasce il Movimento per la Giustizia Nell’aprile del 1988, come ho detto, nacque nell’ambito dell’Associazione magistrati anche il Movimento per la Giustizia. Quella del gruppo fu una storia di successive e spontanee aggregazioni di magistrati di varia estrazione culturale e professionale, che intendevano manifestare la propria insoddisfazione per la logica imperante che riduceva l’Anm a mero contenitore di decisioni prese dalle correnti, così minando l’effettiva unità associativa e rendendola formale e vuota di contenuti. L’Anm, secondo molti di noi, non era all’epoca una sede aperta di riflessione e confronto sulla «politica» giudiziaria, bensì luogo dove le correnti depositavano i propri deliberati interni. E il fatto che «ci si contava» veniva scambiato per esercizio di democrazia. Vorrei essere chiaro: non sono tra coloro che demonizzano le «correnti», ove con questo termine ci si riferisca ad aggregazioni di magistrati legati da una comune concezione del proprio ruolo, della propria indipendenza, dei rapporti possibili con l’avvocatura, il mondo accademico e la società in genere. Non vedo perché dovrebbe essere vietato o criticabile che anche i magistrati riconoscano le proprie affinità con taluni colleghi e ai colleghi affini preferiscano far riferimento per elaborazioni culturali o per designarli – attraverso il voto – a compiti di rappresentanza nell’Associazione (e a quelli conseguenti di direzione della medesima) o 260

a funzioni istituzionali in seno al Csm. È normale, infatti, che le correnti, in vista delle elezioni dei dirigenti dell’Associazione magistrati o dei componenti togati del Csm designino i propri candidati, elaborino programmi sottoponendoli al giudizio dei magistrati elettori. Sono questi i meccanismi della democrazia rappresentativa e non si vede perché dovrebbero valere solo per i partiti e per le elezioni politiche2. Ma è vero che il meccanismo delle correnti – così come quello dei partiti in politica – ha prodotto mostri e degenerazioni: appartenere a una corrente ha troppo spesso indotto l’iscritto a ritenere di avere diritto a protezione e trattamenti di riguardo da parte dei «suoi» rappresentanti e ha spinto questi ultimi – persino in seno al Csm – a scegliere in base a criteri di appartenenza, anziché di merito. È avvenuto spesso – ed è la deviazione più eclatante – con le nomine dei dirigenti degli uffici, ma anche con i trasferimenti in Cassazione o in altri uffici ambiti, con le designazioni dei relatori nei corsi di aggiornamento professionale e così via. Meccanismi perversi, dunque, ai 2 La storia dell’Associazione nazionale magistrati, dalla fondazione nel 1909 fino all’attualità, è felicemente descritta e analizzata in Cento anni di Associazione magistrati, a cura di Edmondo Bruti Liberati e Luca Palamara (Ipsoa, Milano 2009), distribuito dall’Anm in occasione del centenario della sua fondazione, celebrato a Roma, alla presenza del capo dello Stato e di altre alte autorità, il 25 giugno del 2009. Vi è anche descritta la storia delle correnti dell’Associazione (in buona parte analizzata da Giovanni Mammone, in 1945-1969. Magistrati, Associazione e correnti nelle pagine de «La Magistratura», in Cento anni cit.). Schematicamente può qui ricordarsi che le «correnti» iniziarono a formarsi dalla fine degli anni ’50, allorché – dopo il Congresso di Napoli del 1957 e in vista delle elezioni per il rinnovo del Comitato direttivo centrale del 1958 – si formarono due schieramenti contrapposti, uno dei quali si auto denominò Terzo Potere, che – su posizioni conservatrici – si opponeva alla maggioranza dell’Associazione. Nel 1961, addirittura, un gruppo di magistrati ultraconservatori abbandonò l’Anm formando l’Unione magistrati italiani (Umi), che si estinse, però, nel 1979, rifluendo nell’Anm stessa. Altre correnti furono successivamente fondate: tra il 1962 e il 1963 Magistratura indipendente; nel 1964, Magistratura democratica, a opera di magistrati che fuoriuscirono da Terzo Potere; nel 1969, una estesa frangia di magistrati di Md diede vita a Impegno costituzionale, che si fuse nel 1980 con Terzo Potere, dando vita all’attuale Unità per la Costituzione; nel 1988, fu fondato il Movimento per la Giustizia (della cui storia si parla in questo paragrafo e nel quale confluì il gruppo di Proposta ’88, nato da una scissione all’interno di Magistratura indipendente) e nel 2003 Articolo 3 (a sua volta nato da un’aggregazione trasversale e non correntizia, esistente soprattutto in Campania, nota come l’area dei Ghibellini). Nel 2007 questi due ultimi gruppi si sono fusi dando vita a Movimento per la Giustizia-Articolo 3.

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quali – è bene ricordarlo – non si sottraggono affatto i componenti «laici» del Csm (avvocati e professori universitari eletti dal Parlamento in seduta comune, nella misura di un terzo dell’intero Csm), i quali non celano – a loro volta – vicinanze e attenzioni alle aspettative delle forze politiche che li hanno proposti come candidati a quella carica. Alcuni tra i magistrati fondatori del Movimento, con uno «storico» documento, manifestarono il proprio disagio per questa situazione. Casualmente quel manifesto fu stampato su carta verde, da cui il nome di «Verdi» che, all’inizio, venne usato per designare, anche con qualche punta spregiativa, il piccolo gruppo di persone che avevano rotto la regola imperante della lottizzazione correntizia per riaffermare il metodo del dibattito aperto. Vennero comunque posti all’attenzione della magistratura temi che sarebbero divenuti cruciali di lì a poco: questione morale, efficienza e trasparenza degli uffici, controllo di professionalità, giustizia come servizio; temi urgenti e difficili che ci fecero guadagnare l’appellativo irridente di «moralisti ed aziendalisti» e che le correnti tradizionali, tutte, seppure in misura diversa e per ragioni diverse, avevano trascurato, condizionate da meccanismi che ne impedivano la discussione senza reticenze. Era fuori di dubbio la nostra vicinanza, sul piano della condivisione dei principi su cui deve reggersi la giurisdizione, alla corrente di Magistratura democratica. Personalmente, ne apprezzavo – e ne apprezzo ancora più oggi – la capacità di produzione culturale e l’organizzazione interna. Ma eravamo abbastanza critici rispetto a una compattezza ideologica così forte da somigliare a una sorta di forma-partito. D’altro canto, penso che loro, pur apprezzando molte nostre posizioni, ci considerassero affetti da qualche sintomo di qualunquismo. Solo con il tempo, abbiamo superato, credo in modo sincero, quelle reciproche diffidenze, al punto che non saprei spiegare perché non siamo oggi un gruppo unico, come personalmente vorrei. Comunque, nel 1990, il Movimento si trovò di fronte al problema che storicamente si presenta per gruppi o movimenti che, nati per fungere da stimolo per le istituzioni di riferimento, devono a un certo punto decidere se andare avanti limitandosi a criticarle dall’esterno o se concorrere a renderle più trasparenti ed efficienti. Partecipare o no alle elezioni politiche, del resto, fu il quesito che si pose anche per La Rete di Diego Novel262

li, Nando dalla Chiesa, Claudio Fava, Leoluca Orlando e Alfredo Galasso: decisero di partecipare e il loro successo fu confortante. Ma, poco dopo, quella bella realtà si dissolse e le strade di molti fondatori della Rete si divisero, in qualche caso fino all’aperta ostilità. Partecipare o no alle elezioni del 1990 per il rinnovo del Csm, dunque, fu l’interrogativo che il Movimento affrontò in un importante congresso nazionale a Milano. Vladimiro Zagrebelsky, io ed altri eravamo contrari. L’assemblea decise diversamente ed ebbe ragione, nonostante il varo in extremis dell’ennesima legge elettorale che, introducendo un quorum altissimo (9%), intendeva dichiaratamente colpire il nostro neonato gruppo «eretico», impedendone l’accesso al Csm. Ma il Movimento riportò un successo inaspettato, specie tra i giovani magistrati, raggiungendo il 14% circa e portando nel Csm ben tre suoi candidati, anche se tra questi, come ho ricordato, non vi era Giovanni Falcone. Il Csm può attendere... fino al 1998 Qualcuno del gruppo mi aveva chiesto nel ’90 se fossi disponibile a candidarmi, ma rifiutai: ero ancora troppo occupato negli ultimi processi di terrorismo e, comunque, non ero ancora sufficientemente motivato per quel tipo di impegno. Stessa richiesta di disponibilità, questa volta in modo formale e forte, mi fu formulata in occasione delle successive elezioni per il rinnovo del Csm del 1994, ma anche questa volta rifiutai. Ero in quel periodo travolto dal lavoro in seno alla Direzione distrettuale antimafia, che certo non potevo abbandonare a metà strada, prima dei grandi dibattimenti in cui avrei rappresentato l’accusa. «Il Csm può attendere – fu la mia risposta agli amici del gruppo – e, soprattutto, il Movimento può tranquillamente fare a meno di me». Avevo pienamente ragione: le elezioni fecero registrare un nostro successo ancora maggiore di quello del 1990 e i nostri rappresentanti in seno al Csm passarono da tre a quattro. Mi impegnai in campagna elettorale accompagnando presso i Tribunali della Lombardia il nostro candidato di spicco, Vladimiro Zagrebelsky, magistrato e studioso di eccezionale livello, eletto senza fatica, da cui spero di avere imparato qualcosa. E fu proprio Zagrebelsky, unitamente a Stefano Racheli, a chiedermi in modo quasi perentorio di candidarmi nel 1998. Que263

sta volta accettai. Negli anni precedenti, sempre a causa dell’impegno nel settore Antimafia, mi ero anche dimesso dal ruolo di segretario nazionale del Movimento, appena tre mesi dopo esservi stato designato dall’assemblea del gruppo. Avevo sbagliato a pensare di poter esercitare quella funzione rappresentativa in presenza di un impegno professionale così assorbente: mai avuto alcun dubbio sulla priorità di questo su quella. Ma nel 1998, avevo ormai esaurito tutti i principali dibattimenti di mafia, potevo sentirmi in pace con la mia coscienza professionale, ero ancor più motivato per un impegno nell’organo di autogoverno e, soprattutto, mi spingeva l’affetto dei tanti colleghi che mi chiedevano di fare quella scelta. In tanti mi accompagnarono in campagna elettorale, presso le sedi giudiziarie della Lombardia, del Trentino, della Toscana, della Sardegna e della Calabria che costituivano il mio collegio elettorale. Vladimiro mi restituì la cortesia. La sua stima mi onorò. La «campagna elettorale» fu coinvolgente e ricca di entusiasmo: tanti volti di giovani colleghi che non conoscevo – e le loro attese – mi incoraggiarono. Il successo fu confortante. Avevo ormai fatto il terzo passo: il titolo onorifico di «toga rossa» si avvicinava, anche se ancora nessuno lo sapeva, neppure io. Con me, furono eletti altri due colleghi del Movimento per la Giustizia: Ippolisto Parziale, giudice a Roma, e Gioacchino Natoli, sostituto procuratore della Repubblica a Palermo, reduce da un impegno nell’Antimafia ben più coinvolgente e significativo del mio. Gioacchino aveva speso molti dei suoi anni accanto a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: erano stati per lui i fratelli e maestri che per me erano stati Guido Galli ed Emilio Alessandrini. Il 31 luglio del 1998, al Quirinale, prestavo giuramento quale componente eletto del Consiglio superiore della magistratura: conservo la foto di quella cerimonia che mi ritrae mentre stringo la mano di Oscar Luigi Scalfaro, in abito blu e camicia bianca, come da cerimoniale. Oscar Scalfaro è stato uno dei presidenti della Repubblica più amati dagli italiani. Era stato magistrato prima di entrare in Parlamento, ma ancora non sapevo che sarebbe diventato il punto di riferimento della mia attività da «toga rossa» e che un giorno lui avrebbe a lungo insistito perché gli dessi del «tu», da ex collega. Non ci sono mai riuscito ed ho continuato a chiamarlo «Presidente», ma avrei voluto dirgli «fratello», «padre», «maestro». 264

XV

Il sequestro di Abu Omar/6: le inchieste della Procura di Brescia

Un altro ex presidente della Repubblica è stato meno affettuoso con me e Pomarici e ci ha denunciati alla Procura della Repubblica di Brescia quali responsabili di numerosi reati, alcuni dei quali punibili anche con vent’anni di reclusione. La denuncia del presidente Cossiga L’11 luglio del 2006, sei giorni dopo l’incriminazione di alti esponenti del Sismi, l’ex presidente della Repubblica, senatore a vita, professor Francesco Cossiga denunciava ai carabinieri di Lecco Pomarici e me, il procuratore Manlio Minale, il giudice Enrico Manzi, il capo della polizia, prefetto Gianni De Gennaro, e i funzionari della Digos di Milano Ignazio Coccia e Bruno Megale per vari reati, quali «atti ostili verso uno Stato estero che espongono lo Stato italiano al pericolo di guerra», «spionaggio politico o militare», «spionaggio di notizie di cui è stata vietata la divulgazione», «introduzione clandestina in luoghi militari e possesso ingiustificato di mezzi di spionaggio», «infedeltà in affari di Stato», «cognizione, interruzione o impedimento illeciti di comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche», «falsificazione, alterazione o soppressione del contenuto di comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche» e «rivelazione del contenuto di corrispondenza». Con la stessa denuncia ci attribuiva le aggravanti «di avere agito nell’esercizio e con l’abuso delle loro funzioni ed al fi265

ne di agevolare il terrorismo». Alcuni di questi reati, come ho detto, sono punibili con la pena della reclusione «fino ad anni 24». Cossiga diede ampia diffusione alla notizia della presentazione della denuncia, così come a quella che seguì, pochi giorni dopo, del «ritiro» provocatorio della stessa, con contemporanea richiesta indirizzata al procuratore generale della Repubblica di Brescia di volerne informare il procuratore della Repubblica di Milano. I reati per cui il presidente emerito aveva sporto la denuncia, a dire il vero, non richiedono la querela dei privati perché si possa indagare e procedere. Basta cioè che l’autorità giudiziaria ne venga comunque a conoscenza, anche attraverso una denuncia qualsiasi. Ma se la querela può essere ritirata da chi l’ha proposta e così determinare l’archiviazione del procedimento, il ritiro della denuncia non ha alcun valore formale. L’autorità giudiziaria deve procedere lo stesso. In ogni caso, sarebbe stato ragionevole attendersi una rapida archiviazione della denuncia di Cossiga: essa, tra l’altro, non attribuiva alcun comportamento specifico ai denunciati, cioè a me e Pomarici innanzitutto, ma – letteralmente – era costituita da una mera elencazione delle norme del codice penale che avremmo violato, tanto che, all’atto della iscrizione del procedimento originato da tale denuncia, i pubblici ministeri di Brescia non indicarono neppure, come normalmente avviene, la data e il luogo di consumazione dei reati ipotizzati. Il procuratore della Repubblica di Brescia, Giancarlo Tarquini, e i suoi due sostituti co-titolari dell’indagine, Antonio Chiappani e Francesco Piantoni, furono però di diverso avviso e fecero recapitare al presidente Cossiga una convocazione per essere sentito come persona informata sui fatti oggetto della denuncia. Scoprimmo tutta questa storia quando, finalmente archiviato dal giudice il procedimento, ebbi accesso agli atti: previa autorizzazione, li ho studiati e fotocopiati per una giornata intera in un archivio periferico di Brescia. Ricevuta, quindi, la citazione per comparire dinanzi ai magistrati bresciani, il presidente Cossiga inviava al procuratore della Repubblica di Brescia Tarquini una missiva in data 28 luglio 2006 nella quale, tra l’altro, testualmente affermava di non avere alcuna intenzione di deporre alcunché di fronte a codesto Ufficio di Procura in ordine alla denuncia da me presentata contro Spataro e 266

compagni. Pur ben sapendo che la denunzia, a differenza della querela, non è ritrattabile, ho compiuto a titolo simbolico il gesto di ritirarla con una lettera al Procuratore Generale della Repubblica di Brescia, perché, non interessandosi il Governo della violazione del segreto di Stato e della pubblicazione dei verbali fatta da Spataro e compagni, fatti che hanno screditato definitivamente i nostri servizi di informazione e sicurezza nei confronti dell’estero, non vedo perché me ne debba preoccupare io! Di Spataro e compagni mi divertirò a parlare largamente, anche oltre il codice penale, in Aula al Senato, coperto, come Lei ben sa, da insindacabilità assoluta, così come da insindacabilità assoluta saranno coperte le cronache dei giornali in proposito, in forza dell’Editto sulla Stampa del 1848 del mio amato Sovrano Carlo Alberto di SavoiaCarignano, Re di Sardegna, Editto tuttora in vigore. Non ho altre armi per impedire gli indecenti straripamenti da parte della magistratura che la parola e lo scritto! Quando invece altri strumenti avevo per piegare i membri togati del Consiglio Superiore della Magistratura, da Capo dello Stato, nella mia qualità di presidente del Consiglio stesso (figura che allora contava e che oggi, con la Presidenza Ciampi, nulla più conta), mandai un battaglione di carabinieri in tenuta antisommossa agli ordini di un valoroso Generale di Brigata dell’Arma, per poterlo impiegare per cacciare via dall’Aula e dal palazzo quei componenti togati, se avessero voluto continuare nella loro illegittima prepotenza. Inutile dirLe che, con il coraggio che contraddistingue molti dei magistrati italiani di oggi (io provengo da una famiglia di vecchi, altissimi, magistrati che oggi si offenderebbero a sentirsi chiamati magistrati!), i predetti componenti togati si piegarono subito e molti di loro intasarono i bagni di palazzo dei Marescialli. Come vede, i poteri sono cambiati, essendomi rimasto solo quello di parlare in Aula o, come la Corte Costituzionale ha sentenziato, anche fuori dall’Aula, ma in connessione con l’esercizio del mandato parlamentare, ma lo spirito è rimasto lo stesso. Quindi, illustre Procuratore, non perda tempo Lei, non lo faccia perdere a me, né a distinti Ufficiali dell’Arma dei carabinieri e della Guardia di Finanza inviandomi richieste perché io mi presenti a codesta Procura. Gli amici di Brescia mi hanno detto che Lei, nonostante le Sue ben note tendenze politiche (e non sono diventato professore di diritto e storia costituzionale per credere alla favola dell’indipendenza di tutti i magistrati!) è una brava e degna persona e per questo Le scrivo la presente. D’altronde, come Le ho già detto al telefono, Lei può chiedere al Se267

nato l’autorizzazione a farmi accompagnare al Suo cospetto dalla Forza Pubblica. Sarebbe uno degli spettacoli televisivi col più alto share! Mi creda, signor Procuratore, con viva cordialità Francesco Cossiga

Dopo avere ricevuto questa lettera, il procuratore della Repubblica di Brescia, con una missiva del giorno successivo, 29 luglio 2006, invitava il presidente Cossiga a «rivedere la Sua decisione di non essere ascoltato da questa Procura». Lo ringraziava «per l’attenzione dimostrata», dando «atto, nel contesto istituzionale della presente nota, di rispettoso riguardo alla Sua persona, in cui la Repubblica Italiana si è compiaciuta di riconoscere degnissimo destinatario e portatore delle più importanti cariche dello Stato, della valenza chiarificatrice del Suo scritto». Spiegava la ragione della richiesta: Chi è chiamato ad esercitare il ruolo di pubblico ministero, che nel presente sistema processuale e nella presente fase del procedimento si sostanzia nella scelta tra la richiesta di archiviazione e la richiesta di rinvio a giudizio, abbisogna di organizzare l’orizzonte delle sue valutazioni alla ricerca delle loro fonti di prova, su cui incardinare detta scelta.

Tarquini invitava così il presidente emerito a fornire «il Suo illuminato contributo di lettura, di impostazione e di conoscenza dei fatti», che «non mancherebbe certamente di risultare preziosissimo». Un «contributo» che avrebbe dovuto riguardare la necessità di «conoscere se e quando tale segreto [il segreto di Stato] fu opposto e quali furono le determinazioni conseguenti [...] se vi è stato da parte della Autorità Giudiziaria l’interpello del presidente del Consiglio dei ministri»: non era chiaro, a quest’ultimo proposito, come il ruolo di «consulente» d’eccezione attribuito dal procuratore di Brescia al presidente Cossiga avrebbe potuto investire atti e fatti la cui conoscenza sembrava essere a lui preclusa. Concludeva il procuratore Tarquini con una rivendicazione: «Da ultimo, detto con umiltà, perdoni Presidente, il sottoscritto Procuratore non ha ‘ben note tendenze politiche’, ma è soltanto un magistrato». Il 4 agosto del 2006, in Brescia, il presidente Cossiga rendeva dunque le sue dichiarazioni e in quella occasione, nel confermare la sua denuncia, dichiarava di avere 268

voluto affermare che a fronte dell’obbligo sancito dalla Legge 801 del 1977 di chiedere la conferma del segreto di Stato che copre atti, documenti e quant’altro nonché di non poter prescindere dalla eventuale opposizione del segreto di stato, non sia consentito al magistrato (pm o giudice) di aggirare il segreto, opposto o non opposto, acquisendo aliunde e specificatamente con attività di polizia giudiziaria, quali intercettazioni, perquisizioni e pedinamenti, le notizie coperte dal segreto di Stato. Voglio tuttavia aggiungere che questa mia affermazione non attinge ad una certezza assoluta circa la responsabilità penale di chi opera, acquisendo aliunde le notizie coperte dal segreto di Stato, pur rimanendo un profilo di illegittimità. [...] Quando a pagina 4 della mia denuncia scrivo «E con l’aggravante per tutti i denunciati di avere agito nell’esercizio e con l’abuso delle loro funzioni ed al fine di agevolare il terrorismo e recare nocumento alle relazioni internazionali dello Stato italiano» ho voluto, pur usando espressione impropria, semplicemente dire che oggettivamente l’attività svolta in violazione del segreto di Stato aveva di fatto agevolato il terrorismo e nuociuto alle relazioni internazionali dello Stato italiano.

Nella stessa occasione, il presidente Cossiga produceva anche una dichiarazione sottoscritta in cui, tra l’altro, affermava: Ho presentato la denuncia in oggetto perché convinto che i denunziati magistrati del PM [...] hanno compiuto i reati indicati nella denuncia e compiendo questi reati hanno leso alti interessi dello Stato [...]. Il fine che mi sono proposto nel presentare la denuncia è triplice: a) avviare una severa inchiesta giudiziaria sui denunziati; b) promuovere accertamenti giudiziari sulla rilevanza penale o meno di certi comportamenti da essi posti in essere, e quindi di fare certezza sui limiti del segreto di Stato [...]; c) di supportare il personale dei servizi, profondamente turbato dalla iniziativa della Procura della Repubblica di Milano e di limitare i danni gravissimi che anche sul loro operato ha già prodotto l’inchiesta della stessa Procura.

In data 11 ottobre 2006, il presidente Cossiga inviava al procuratore della Repubblica di Brescia, commentandoli, vari atti del processo pendente a Milano per il sequestro di Abu Omar, il cui contenuto, secondo il mittente, era «interessante sotto il profilo delle responsabilità della Digos ed in particolare del suo capo e 269

dei Ros carabinieri nel rapimento/esfiltrazione del cittadino egiziano Abu Omar». Risultava evidente, insomma, che il presidente Cossiga aveva proposto la sua denuncia per il solo motivo che la Procura della Repubblica di Milano aveva continuato ad indagare sul sequestro di Abu Omar una volta imbattutasi in indizi di reato a carico di appartenenti a servizi segreti, uno straniero prima (la Cia) e un altro italiano poi (il Sismi). Semplicemente sconcertante, poi, appariva la corrispondenza intercorsa tra il procuratore e il procuratore generale della Repubblica di Brescia Aniello La Monica: il procuratore Tarquini protestava con il procuratore generale, reo – a suo avviso – di «avere rivelato ai magistrati anzidetti [cioè a me, a Pomarici, al procuratore della Repubblica di Milano Minale ed al gip di Milano, Manzi, tutti denunciati dal presidente Cossiga] l’esistenza del procedimento penale in esame a loro carico», trasmettendo al procuratore della Repubblica di Milano, come da richiesta del presidente emerito, la «ritrattazione della denuncia», la quale, come si è già detto, era stata addirittura annunciata alla stampa dal denunciante. Quasi provocatoria la risposta che il procuratore generale della Repubblica di Brescia inviava il 28 luglio 2006 al procuratore Tarquini: Dalla costruzione del discorso e dai termini usati deduco che Ella mi addebita il delitto di rivelazione di segreto di ufficio (art. 326 cp). A questo punto ogni spiegazione sulla doverosità del mio comportamento e tutti i motivi della mia azione «sfuggiti alla Sua analisi», come Ella dice, dovranno essere forniti non a Lei ma al Procuratore della Repubblica competente, ai sensi dell’art. 11 cpp, in ordine al delitto di rivelazione di segreto di ufficio che Lei ha ipotizzato. Il Procuratore della Repubblica competente, a cui Lei, per coerenza, dovrebbe – se non lo avesse già fatto – trasmettere gli atti senza ritardo, stabilirà se con violazione di doveri inerenti alle mie funzioni o, comunque, con abuso della mia qualità, ho rivelato un segreto d’ufficio.

Quest’inusuale «conflitto» tra procuratore della Repubblica e procuratore generale di Brescia nonché la presumibile convinzione del primo di poter mantenere segreta l’indagine su di noi, nonostante lo stesso presidente Cossiga avesse comunicato alla stampa la notizia della denuncia, mi parvero davvero surreali. 270

Ma i pubblici ministeri di Brescia, Tarquini, Chiappani e Piantoni, nonostante fossero state loro trasmesse dal procuratore Minale le illuminanti copie del processo e le mille precisazioni richieste, nonostante tutto il voluminoso dossier fosse stato posto a loro disposizione, continuavano a sentire testimoni, a disporre accertamenti, ordinare perquisizioni e sequestri a carico di giornalisti, anche nell’ambito di un altro parallelo procedimento, ancora a carico mio, di Pomarici e di Megale della Digos di Milano, nonché del collega Piacente e del funzionario della Digos di Torino, Gianmaria Sertorio. Sulla base delle denunce di due dei funzionari del Sismi indagati, venivamo in questo caso sospettati di avere «passato» ad alcuni giornalisti notizie, copie di verbali di interrogatori, copie di intercettazioni telefoniche e di altre carte segrete. Non ci era mai successo, in oltre trent’anni di carriera, pur avendo trattato molti altri procedimenti delicati, di dover rispondere di un’accusa di questo tipo. Con numerose memorie scritte, avevamo naturalmente chiesto una rapida indagine e una altrettanto rapida archiviazione dei procedimenti, non già per rivendicare una sorta di improponibile privilegio, essendo anche il magistrato soggetto alla legge, ma per lamentare – stante l’evidente infondatezza delle accuse che ci erano mosse – le lunghe ed inutilmente afflittive indagini preliminari cui eravamo sottoposti. Una richiesta – la nostra – formulata in coerenza con le ragioni di una circolare del Consiglio superiore della magistratura che, per consentire l’esercizio della funzione giurisdizionale in condizioni di non menomato prestigio, raccomanda la sollecita definizione dei procedimenti penali a carico di magistrati indagati. Vi erano, del resto, pericoli concreti per la nostra inchiesta: io e Pomarici eravamo già stati formalmente invitati, dalla difesa di uno degli indagati denuncianti, ad astenerci dal proseguire le indagini proprio a causa dei procedimenti pendenti a Brescia contro di noi. Altri avvocati si erano rivolti alla Procura generale presso la Corte di Cassazione per sollecitare la decisione di trasferire l’inchiesta sul rapimento per l’appunto alla Procura di Brescia. E l’Avvocatura dello Stato, assistendo il presidente del Consiglio Prodi nel conflitto promosso dinanzi alla Corte Costituzionale di cui parlerò più avanti, aveva più volte fatto riferimento alla pendenza del processo bresciano a nostro carico quale ulteriore dimostrazione della violazione di segreti di Sta271

to che ci attribuiva. Noi, comunque, non ci eravamo astenuti e il procuratore generale della Cassazione aveva rigettato l’istanza di trasferimento a Brescia dell’inchiesta Abu Omar. La insussistenza di qualsiasi ragione, in fatto ed in diritto, per tenere ancora in piedi le due indagini a nostro carico, del resto, era stata confermata formalmente dai giudici per le indagini preliminari di Brescia. Per entrambi i procedimenti a nostro carico, infatti, i pubblici ministeri di Brescia avevano richiesto l’autorizzazione alla proroga delle indagini preliminari, essendo scaduto il termine massimo di sei mesi previsto dalla legge, ed in entrambi i casi la richiesta era stata rigettata senza appello da due distinti gip. Pomarici ed io avevamo anche presenziato alle udienze in cui tali istanze erano state discusse, prendendo la parola e rilasciando ai due gip dichiarazioni spontanee contro le «ragioni» dei colleghi di Brescia. Mai visto e sentito Pomarici così fermo e chiaro, non disponibile a concessioni di sorta – neppure sul piano dialettico – agli argomenti dei nostri «avversari». Gli «appunti» e le denunce del generale Pollari e i visti del governo Prodi La Procura di Brescia, comunque, aveva già chiesto e ricevuto vari documenti del Sismi di Pollari, nonché le denunce provenienti da Pollari stesso. Ignoravamo che, oltre Cossiga, anche il nostro principale imputato avesse inviato una denuncia penale al procuratore della Repubblica di Brescia: formalmente la denuncia era a carico di ignoti, ma era evidente che si trattava di «ignoti» aventi un volto e un nome ben precisi, quello di Pomarici e il mio. Leggere dopo l’archiviazione dei procedimenti le carte trasmesse dal Sismi al procuratore di Brescia e la denuncia di Pollari è stato però molto utile per noi: infatti, le abbiamo acquisite in copia e prodotte sia dinanzi alla Corte Costituzionale in vista della soluzione del conflitto sollevato da Prodi nel febbraio del 2007, che dinanzi al Tribunale di Milano nel processo per il sequestro di Abu Omar. Se ne ricava, infatti, uno spaccato illuminante circa il modus operandi del governo Prodi nei rapporti con il Sismi e riguardo all’origine dei motivi posti a base del conflitto stesso. Ben rammento il giorno in cui, seduto a un tavolo dell’archivio bresciano, potei disporre, assistito da una gentile funziona272

ria, del procedimento a nostro carico, finalmente definito, che avevo chiesto di consultare.Trovai innanzitutto la corrispondenza intercorsa tra il procuratore della Repubblica di Brescia ed il presidente del Consiglio, Romano Prodi. Essa, come spiegava il gip di Brescia che aveva poi archiviato il procedimento, dimostrava come il procuratore avesse tentato di chiarire quali atti dell’inchiesta fossero eventualmente coperti dal segreto di Stato: «l’esistenza di un segreto di Stato lungi dall’essere emersa pacificamente era talmente controversa che durante le indagini la stessa Procura di Brescia ha reiteratamente richiesto alla presidenza del Consiglio di chiarire la circostanza se il segreto di Stato fosse o meno opposto ad alcuno degli atti di indagine relativi al sequestro di Abu Omar». Numerose, infatti, erano le richieste di precisazioni che a partire dall’8 agosto del 2006 il procuratore di Brescia aveva inoltrato al presidente Prodi ricevendo, fino al 2 ottobre del 2007, risposte che dovevano essergli apparse insoddisfacenti. Infatti, chiedendo qualche giorno dopo l’archiviazione del procedimento, egli affermava che «restava dunque irrisolto il nodo riguardante l’epoca e il contenuto dell’opposizione del segreto di Stato». Una valutazione condivisa dal gip di Brescia, il quale, a sua volta, riteneva che la citata ultima risposta del presidente Prodi fosse «ben lungi dall’apparire chiarificatrice: nella stessa si ribadisce invero la mancanza di notizie dirette sul fatto storico del sequestro Abu Omar [...] e si precisa che ‘in un contesto più ampio – ma afferente a detto fatto storico – e in generale riguardante la politica degli alleati contro il terrorismo internazionale e la questione delle cd. renditions, sussiste il dovere di salvaguardare la riservatezza di documenti e cose coperti da segreto di Stato, particolarmente di atti e rapporti con organi informativi di altri Stati’. E invero, ancora una volta, non vengono specificati quali siano i documenti e le cose coperte da segreto di Stato». Ma nel fascicolo processuale visionato ebbi modo di leggere anche una serie di «appunti», redatti dal generale Pollari e indirizzati, nella sua qualità di direttore del Sismi, al presidente del Consiglio Prodi, al ministro della Difesa Arturo Parisi e al sottosegretario di Stato con delega per il coordinamento dei Servizi di informazione e sicurezza, Enrico Micheli. Vi si anticipavano, ricevendo visti o approvazioni dei destinatari, i contenuti di alcu273

ne denunce (anch’esse allegate agli atti) che Pollari si accingeva ad inoltrare alla polizia giudiziaria. Si trattava di denunce proposte da chi aveva già formalmente assunto la qualità di indagato nel procedimento relativo al sequestro di Abu Omar, continuando tuttavia ad esercitare le funzioni e le competenze di direttore del Sismi: logico e comprensibile che si fondassero su tesi, come quella dell’esistenza del segreto di Stato su alcuni importanti elementi di prova, conformi al suo interesse, appunto, di indagato. Da ogni documento di cui prendevo visione, però, risultava chiaro che il presidente Prodi e i citati membri del suo governo avevano condiviso il contenuto di quelle annunciate denunce, così sposando le tesi di Pollari, senza alcuna interlocuzione con la Procura o con la Procura generale di Milano, che pure avrebbe consentito di accertare l’esatto svolgimento dei fatti. Persino la Corte Costituzionale, infatti, farà piazza pulita di quelle accuse nei confronti della Procura di Milano, riconoscendone la correttezza nella conduzione delle indagini sul sequestro di Abu Omar. E tutti i giudici incaricati di valutare le denunce avrebbero archiviato i procedimenti iscritti a nostro carico. Il gip di Roma, in particolare, su conforme richiesta del pm, avrebbe archiviato la denuncia sporta contro i responsabili della divulgazione di un documento sul caso Abu Omar, inoltrato al Parlamento europeo in quanto utile per l’inchiesta sulle renditions: era il documento, sequestrato in via Nazionale e risalente a poco più di due mesi dopo la sparizione dell’egiziano, da cui risultava che, secondo la Cia, Abu Omar era detenuto in Egitto e ivi sottoposto ad «interrogatorio». Io stesso, d’intesa con il procuratore Minale, avevo consegnato al Parlamento europeo quel documento certo non segreto. In ogni caso, quegli «appunti» e le tesi proposte da Pollari a sostegno delle sue denunce si fondavano su argomenti in tutto coincidenti con quelli posti a base, come dirò più avanti, del conflitto di attribuzione di poteri con il procuratore della Repubblica di Milano sollevato dal presidente Prodi nel febbraio del 2007: si spiegava a quel punto come esso contenesse inesattezze, accuse alla Procura ed una rappresentazione dei fatti conforme alle pur legittime prospettazioni difensive del direttore del Sismi.

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L’archiviazione dei procedimenti I due procedimenti bresciani a nostro carico furono alla fine archiviati: non avrei mai creduto, però, che la pendenza di quelle indagini, sia pure per reati così palesemente insussistenti, mi avrebbe arrecato tanta rabbia e tensione. Stati d’animo alleviati solo dalla quotidiana vicinanza delle mie «storiche» collaboratrici Enrica e Raffaella e da quella dell’amico Max, l’eccellente ispettore di polizia che ha seguito al mio fianco molte indagini per terrorismo e ogni passo della vicenda Abu Omar, la cui riservatezza tutelava in modo quasi maniacale. Le motivazioni delle richieste di archiviazione firmate dai pm di Brescia, però, hanno persino rischiato di acuire quel disagio, uno stato d’animo comune a Pomarici. Infatti, nel richiedere l’archiviazione del procedimento per l’ipotizzata fuga di verbali di interrogatorio e di intercettazioni che avremmo dato a giornalisti amici, i colleghi di Brescia non hanno ritenuto di dover citare alcuni elementi di prova a nostro favore, come le dichiarazioni di una giornalista che aveva ammesso di avere ricevuto i verbali da un avvocato, ma hanno anche affermato che, «stante la denegata proroga delle indagini», permanevano «alcuni concreti elementi di sospetto e di perplessità» a nostro carico. Queste parole non furono certo prive di conseguenze: in un articolo, richiamato in prima pagina, del quotidiano «il Giornale» del 16 settembre del 2007, a firma di Stefano Zurlo, si affermava, in sostanza, che solo il diniego di autorizzazione da parte del gip di Brescia alla proroga delle indagini preliminari aveva impedito alla Procura di Brescia di pervenire all’acquisizione di prove a carico dei sospettati, cioè Pomarici e io. Tra l’altro, nonostante il rigetto della istanza di proroga dei termini per le indagini preliminari, il pubblico ministero di Brescia aveva disposto l’iscrizione di un nuovo procedimento a carico di ignoti magistrati milanesi (contenente copia integrale del primo), al fine «della prosecuzione delle indagini volte a ricostruire i percorsi della fuoriuscita dagli ambienti dell’autorità giudiziaria di Milano dei copiosi atti processuali, anche riservati, detenuti in copia cartacea e su supporto informatico» da una giornalista. Pomarici e io inviammo quindi al Csm un esposto, lamentando che l’iscrizione di quel nuovo procedimento a carico di ignoti magistrati milanesi appariva anomala sul piano logico e giuridico, determinando egualmente la prosecuzione delle indagini sulla Procura della Repubblica di Milano e, in particolare, su 275

di noi titolari del procedimento per il sequestro di Abu Omar e unici detentori delle carte processuali. Il 30 settembre 2009, «la Repubblica» pubblicava la notizia della condanna all’ammonimento dei tre pm bresciani ad opera della sezione disciplinare del Csm a seguito del nostro esposto. Successivamente, però, nel marzo del 2010, la Corte di Cassazione, annullava senza rinvio tale condanna, impugnata dagli interessati, escludendo la loro responsabilità disciplinare e ritenendo la loro scelta frutto di una insindacabile attività di interpretazione delle norme di diritto. Il Parlamento italiano sta ancora discutendo il disegno di legge Alfano di riforma del sistema delle intercettazioni telefoniche: se fosse approvato, basterebbe una denuncia infondata come quella di avere fornito verbali ai giornalisti, gestita come hanno fatto i pm di Brescia, per obbligare il procuratore di Milano a estromettere Enrico Pomarici e me dalla conduzione di un’inchiesta come quella sul sequestro di Abu Omar. Il disegno di legge, infatti, prevede che i pm denunciati per violazione di segreti riguardanti l’indagine non possano più continuare ad occuparsene. E ciò anche prima di accertamenti su loro eventuali responsabilità e, dunque, a prescindere dal fondamento dell’accusa. Fortunatamente, erano stati i giudici per le indagini preliminari di Brescia ad affermare senza tentennamenti l’infondatezza assoluta delle accuse che ci erano state mosse. In particolare, il giudice Alessandra Ramon, cui era affidato il procedimento scaturito dalle denunce di Nicolò Pollari e del presidente Cossiga, affermava il 4 dicembre 2007 che: Gli elementi agli atti consentono con solare evidenza di escludere la sussistenza di tutti i reati ipotizzati a carico degli odierni indagati [...]. È evidente l’insussistenza della denunciata violazione del segreto di Stato di cui all’art. 256 cp. [...] non vi è alcun dubbio che la privazione della libertà personale e il trasferimento al di fuori delle procedure legali, di persona sospettata di atti di terrorismo, per la legge italiana costituisce reato. In secondo luogo deve osservarsi che non è prevista, nel nostro ordinamento, la possibilità di paralizzare l’attività di indagine nei confronti di un fatto reato mediante l’opposizione del segreto di Stato. 276

Inoltre, il gip di Brescia escludeva, alla luce di una lettera inviataci nel novembre del 2005 dall’allora presidente del Consiglio dei ministri Berlusconi, che quel governo avesse mai opposto il segreto di Stato alle nostre richieste. Ed a proposito della nostra indagine e dell’azione penale promossa nei confronti di trentadue imputati, ritenuti responsabili del sequestro di Abu Omar, il giudice Ramon affermava che la notizia criminis relativa a tale fatto comporta dunque obbligatoriamente l’avvio di indagini e ciò non costituisce manifestazione di ostilità verso altri Stati, bensì una naturale conseguenza del principio di cui all’art. 112 della Costituzione1 [...]. Può essere opportuno sottolineare che di quest’avviso è anche il Consiglio d’Europa, che, in data 27 giugno 2006, ha approvato la Risoluzione 1507/06, nella quale si stigmatizzano le operazioni quali quella che ha riguardato l’imam Abu Omar [le cosiddette renditions]; si sottolinea che l’espletamento di indagini su ogni aspetto delle renditions e di violazioni analoghe costituisce un impegno per gli Stati membri (punto 19) e, infine, che «né la sicurezza nazionale, né il segreto di Stato possono essere invocati in un così vasto, sistematico modo per proteggere queste operazioni illegali da un energico controllo parlamentare e giudiziario».

Da parte nostra, concludendo l’esposto nei confronti del procuratore Tarquini e dei suoi sostituti Chiappani e Piantoni che avevamo inviato il 5 giugno del 2008 al Consiglio superiore della magistratura e al procuratore generale presso la Cassazione, avevamo affermato: «I sottoscritti magistrati, che – si ripete – da ben più di trent’anni svolgono la funzione inquirente a Milano, nella conduzione delle indagini sul sequestro dell’egiziano Abu Omar, hanno solo adempiuto il proprio dovere istituzionale, prestando ossequio al principio di obbligatorietà dell’azione penale ed a quello di soggezione soltanto alla legge».

1 L’art. 112 della Costituzione prevede il principio di obbligatorietà dell’azione penale, secondo cui il pubblico ministero italiano, senza possibilità alcuna di discrezionalità, è obbligato ad indagare su qualsiasi notizia di reato di cui abbia in qualsiasi modo conoscenza ed, al termine delle indagini, a promuovere l’azione penale – mediante la richiesta di rinvio a giudizio – di coloro che siano raggiunti da sufficienti elementi di responsabilità.

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XVI

Il Consiglio superiore della magistratura

Il principio di obbligatorietà dell’azione penale è stato voluto dal Costituente per dare concreta attuazione a quello di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Alla difesa di quei principi avrei dedicato buona parte del quadriennio trascorso al Csm dal luglio 1998 al luglio del 2002, soprattutto quando, dopo le elezioni politiche della primavera del 2001, furono più duramente messi alla prova. Mai una volta mi sono sentito solo durante quegli anni: non al Csm, dove molto ho imparato da colleghi dotati di straordinaria cultura istituzionale; non quando pensavo a tutti i magistrati italiani che, forse sbagliando, immaginavo uniti attorno a chi essi avevano designato a rappresentarli; non rispetto alla cosiddetta «società civile» che sentivo impegnata e sensibile ogni qualvolta mi capitava di partecipare alle manifestazioni sui temi della legalità che si moltiplicavano in ogni parte del paese. I primi due anni di attività nel Consiglio superiore della magistratura, ancora lontani dalla primavera del 2001, mi avevano consentito di maturare una esperienza molto importante. Fino a quel momento, impegnato in indagini e maxiprocessi di terrorismo e mafia, non avevo avuto il tempo di occuparmi seriamente di organizzazione e funzionamento del sistema giustizia. Anche l’attività associativa, come ho detto, era stata a lungo fuori dal mio campo d’interesse. Certo, anche io sapevo di degenerazioni correntizie e di frequenti lottizzazioni nell’assegnazione degli incarichi direttivi 278

e semidirettivi degli uffici giudiziari, tanto che proprio per contrastarle era nato il Movimento per la Giustizia. E ora – nel 1998 – mi trovavo d’improvviso catapultato nel cuore del sistema tanto criticato. Erano vere le accuse, non sempre mosse in buona fede? Se sì, sarebbe stato possibile fare qualcosa per invertire la tendenza? Giovanni Verde Il primo atto del nuovo Consiglio superiore fu, come sempre accade, l’elezione del suo vicepresidente. Questi, sulla base della delega che riceve dal presidente della Repubblica (il quale interviene nelle assemblee plenarie solo in casi particolarmente rilevanti), è di fatto colui che guida l’attività e l’organizzazione del Consiglio. Eleggemmo praticamente all’unanimità il professor Giovanni Verde, napoletano, stimatissimo professore di Diritto processuale civile, arrivato al Csm come laico «in quota» centrosinistra. Avendo sempre svolto funzione di pubblico ministero, era abbastanza comprensibile che conoscessi poco un civilista, sia pur di rango, come lui. Mentre il Parlamento stava per eleggere i futuri membri laici del Csm (noi togati, invece, eravamo già stati eletti), avevo sperato che fosse eletto Virginio Rognoni, il cui nome era pure circolato: sarebbe stato, a mio avviso, un eccellente vicepresidente e lo fu – in effetti – nel successivo quadriennio 2002-2006. Ma fu proprio Rognoni, al quale mi legava l’esperienza vissuta negli anni di piombo, a parlarmi in modo entusiasta di Verde. Intuii da qualche sua franca affermazione che il nuovo vicepresidente doveva essere al corrente del mio precedente tifo per Rognoni, tanto che ritenni doveroso scrivergli poche righe: gli spiegai che non ragioni o simpatie politiche, ma le tragedie degli anni precedenti mi legavano a Rognoni, che era stato il «nostro» efficace ministro dell’Interno. Dissi a Verde che, nel quadriennio che ci accingevamo a passare insieme al Csm, gli avrei assicurato una collaborazione leale, manifestandogli, in modo altrettanto leale, eventuali dissensi rispetto alla sua conduzione. In realtà, quel chiarimento fu il viatico per un eccellente rapporto personale con un uomo che stimo e di cui diventai amico: apprezzavo in lui, appunto, la lealtà talvolta spinta fino alla rudezza (che a qualcuno appariva scontrosità), l’indipendenza di pensiero e l’assenza di legami politici, ma anche la diligenza e la 279

precisione con cui si dedicava allo studio di ogni pratica da esaminare, foss’anche quella della nomina di un giudice di pace in qualche ufficio periferico. Esaurito il mandato al Csm, Giovanni Verde è tornato a fare il professore e l’avvocato, senza ulteriori incarichi istituzionali o politici. Eligio Resta Ma nel Csm – incredibile ma vero – ritrovai persino uno dei miei migliori amici dell’infanzia: Eligio Resta. Anche lui è nato a Taranto, suo padre era magistrato come il mio, abbiamo giocato insieme nella stessa squadra di pallanuoto, abbiamo frequentato insieme la scuola media, il ginnasio e il liceo a Taranto, laureandoci persino nello stesso giorno, il 6 luglio del 1970, a Bari. Ma lui era un mago nel biliardo a stecche, io no. Lui, inoltre, era un intellettuale, io no. Fu naturale che lui diventasse professore universitario e io pubblico ministero. Era stato eletto al Csm come membro dello schieramento laico espresso dal centrosinistra. La comune attività nel Csm, però, mi offrì l’insperata opportunità di una piccola vendetta: da liceale e universitario, Eligio aveva sempre avuto una passione per il pensiero di Max Weber, di cui, confesso, sapevo e so ben poco. Attorno al nome di Max Weber si erano articolati mille reciproci sfottò giovanili (io sostenevo che fosse un terzino di una squadra tedesca), ma nessuno di noi avrebbe potuto immaginare che, durante un serrato dibattito nel plenum del Csm, il vicepresidente Giovanni Verde si sarebbe a me rivolto definendo la posizione che avevo appena illustrato di «tipo weberiano»! Guardai Eligio Resta che mi sedeva di fronte, con malcelato senso di rivalsa: lui spalancò le braccia, quasi a scusarsi di non avermi creduto capace, fino a quel momento, di così raffinate elaborazioni. Riuscimmo fortunatamente a soffocare una risata che tutti avrebbero giudicato scortese. Eligio Resta ha scritto mille magnifiche cose, con la profondità e raffinatezza che gli sono proprie, ma mi ha colpito il modo in cui ha disegnato, nel suo ultimo lavoro, un figura tipica dei nostri tempi, il free rider, «colui che cerca di realizzare il massimo dei vantaggi con il minimo dei costi, solo che i vantaggi sono suoi e i costi li trasferisce sempre su altri», un modello che una tendenza diffusa in questi anni – ricorda Resta – tende a legittimare attraverso «una inquietante continuità tra ver280

tice e base, tra piccolo e grande, tra suddito e sovrano, tra governante e governato [...]. Così è nella vita politica quando l’illegalismo tipico di chi detiene il potere diventa exemplum per i cittadini»1. Magistrati imbarazzanti Ovviamente, durante i quattro anni di attività consiliare, i momenti di ironia che abbiamo vissuto sono stati molti: ho avuto modo di vedere con la lente di ingrandimento una parte della magistratura – per fortuna, la stragrande maggioranza – animata da grande dignità e senso del dovere, anche nell’espletamento di un lavoro quotidiano che, fuori dal cono di luce dei riflettori, nessuno coglie. Ma ne ho pure conosciuto una parte imbarazzante, fortunatamente marginalissima, che dà il peggio di sé nel momento in cui si devono decidere gli incarichi direttivi. Magistrati sconosciuti che venivano a trovarti con la moglie per perorare la propria causa, altri convinti che tutto fosse loro dovuto o che, nelle audizioni, si esibivano in improbabili performance: «Il foro locale mi autorizza a dirvi che se non sarò nominato presidente, il Tribunale rischierà di andare a rotoli». E c’era chi, nelle autorelazioni di rito che gli interessati predispongono per illustrare il proprio curriculum e le attività professionali svolte, spiegava di essere stato destinato, giovanissimo, a una periferica pretura ove mancava il magistrato dirigente: tale circostanza, però, gli aveva consentito «di dimostrare, sin da quella giovanissima età, innate qualità organizzative e dirigenziali». E leggevo, poi, di una magistratura tutta assorbita nella concezione burocratica e formale del suo ruolo. Un presidente di sezione di una Corte d’Appello, facente temporaneamente funzioni di presidente della Corte, aveva ad esempio inoltrato al Consiglio questi testuali e formali quesiti: a) se dovrà recarsi in visita ufficiale nelle sedi delle autorità locali (Presidente della Regione, Arcivescovo, Prefetto, Questura, Comando dei CC, della GF, Sindaco ecc.) e, in ipotesi affermativa, se dovrà farsi annunciare sic et simpliciter come Presidente della Corte oppure come Presidente di Sezione con temporanee funzioni del Presidente medesimo; 1

Eligio Resta, Le regole della fiducia, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 29 e 31.

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b) se dovrà sottoscrivere gli inviti per la cerimonia di inaugurazione dell’Anno Giudiziario qualificandosi come Presidente della Corte oppure Presidente della Corte ff; c) se dovrà, in occasione della predetta cerimonia, indossare la toga con ermellino oppure la toga di Presidente di sezione.

Ed il bello fu che, anziché cestinare quei quesiti, come il vicepresidente Verde aveva suggerito, o inserirli – come il mio gruppo aveva chiesto – nel fascicolo personale del magistrato per ogni eventuale futura valutazione, il Csm perse del tempo per approvare una risposta che faceva persino riferimento a un regio decreto del 1865 disciplinante l’uso della «toga con batolo soppannato di ermellino». Non è questa la magistratura italiana. Anzi, di questi magistrati si occupano al massimo – e molto marginalmente – solo le riviste specializzate in gossip. È bene parlarne, sia chiaro, così come non si deve nascondere che vi sono magistrati che hanno violato, insieme alle regole deontologiche, quelle del codice penale, ed altri che hanno sfruttato ruoli, funzioni ed inchieste su personaggi eccellenti (spesso concluse con risultati discutibili) per approdare a ribalte mediatiche di varia natura. Ma la gran parte dei magistrati che in questi anni sono stati gli obiettivi degli attacchi più violenti di certa classe politica è costituita da quelli che compiono il loro dovere quotidiano in modo del tutto indipendente, insensibili a lusinghe di qualsiasi genere. E che solo per questo, per quanto possa apparire illogico, sono stati accusati di avere agito per finalità politiche, per interessi di parte o per ansia di protagonismo. Ma – come ha ricordato Virginio Rognoni – il loro è stato spesso un protagonismo incolpevole, conseguenza solo dell’obiettivo rilievo delle indagini che hanno condotto o delle sentenze che hanno emesso. L’inaugurazione dell’anno giudiziario nel 1940 È doveroso tentare di spiegare, allora, quello che è successo alla magistratura in questi anni e da quali ragioni muove oggi il rinnovato attacco alla sua indipendenza ed autonomia. Durante l’estate del 2008, il segretario dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Cascini, è stato oggetto di un fuoco di fila, proveniente da destra e da sinistra, soltanto per avere affermato in un’intervista che le rifor282

me all’orizzonte, annunciate dal ministro Alfano attraverso pubblici proclami prima ancora che con disegni di legge, evocavano i sistemi vigenti in regimi totalitari. È una sacrosanta verità che, però, va ben spiegata. L’indipendenza della magistratura italiana si è faticosamente affermata dopo la caduta del fascismo e dopo un periodo di incubazione nell’immediato dopoguerra. È facile, in poche parole, illustrare le caratteristiche del sistema allorquando la magistratura non era indipendente, né autonoma. Era quello un tempo in cui le cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario non si svolgevano più nei palazzi di Giustizia ma a palazzo Venezia, nelle sale attigue allo studio del Duce, ma l’abbandono dei luoghi istituzionali, la confusione tra sedi pubbliche, private e sedi di partito, la distruzione dei poteri indipendenti e di controllo, turbava ormai solo poche coscienze; ecco, allora, un brano tratto dalla cronaca della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario nel 1940: Nel vasto salone, presso la cui parete di fondo prestavano servizio d’onore i Moschettieri del Duce, si erano schierati in quadrato aperto su di un lato duecentocinquanta alti magistrati, tutti in uniforme del PNF. La Corte Suprema era al completo col suo Primo Presidente, Senatore d’Amelio, il Procuratore generale Sen. Albertini, i presidenti di sezione, gli avvocati generali e i sostituti. Erano anche presenti tutti i primi presidenti ed i procuratori generali delle corti d’appello del Regno, alti funzionari del Ministero di Grazia e Giustizia ed altri alti magistrati. Appena apertasi la porta che immette nella sala del mappamondo, la figura del Duce – che era seguito dal ministro Grandi – vi si è inquadrata e la devozione e l’entusiasmo hanno avuto il sopravvento sul fermo costume d’imperturbabilità dei magistrati, i quali hanno prorotto in una invocazione altissima. Il Duce rispose sorridendo e levando romanamente il braccio. Alta risuonò poi la voce del Ministro di Grazia e Giustizia il quale ordinò il saluto al Duce. Rimbombò l’«A noi!» e scoppiò tonante un’altra manifestazione di devozione, di fede e di entusiasmo. Il ministro lesse allora il seguente indirizzo: «La Magistratura fascista vuole dichiararVi, Duce, che essa si sente consapevole della missione che Voi le avete affidata di custode severa delle leggi della Rivoluzione, e di questa missione essa sente tutti i doveri e la responsabilità [...]. Il magistrato attua il comando del legislatore e la sua sensibilità politica deve portarlo talvolta oltre i limiti formali della norma giuridica [...]». 283

Dopo la relazione del ministro interviene il Duce, che così espone la sua concezione sulla posizione istituzionale della magistratura: «Nella mia concezione non esiste una divisione di poteri nell’ambito dello Stato [...] il potere è unitario: non c’è più divisione, c’è divisione di funzioni». Terminato il discorso di Mussolini, riprendono le manifestazioni di entusiasmo degli alti magistrati. Risuonò ancora, nel clamore altissimo, il «Saluto al Duce» ordinato dal ministro della Giustizia. La manifestazione continuò con intensità viva, appassionatamente vibrante di fierezza e riconoscenza [...]. Infine il Duce rientrò nella sala del Mappamondo. Ma i magistrati continuarono ad acclamarlo e ad invocarlo e non furono paghi, sicché, toccato da tanto calore, egli non tornò di nuovo tra loro [...]. Sostò, sorrise ancora, salutò romanamente, ancora lo avvolse la piena dell’entusiasmo dei magistrati. E, quando il Duce si ritirò e la porta si chiuse dietro le sue spalle poderose, Egli sentì l’inno della Rivoluzione trionfante propendere dai petti dei convenuti, i quali con questo canto lasciarono la Sala delle Battaglie2.

Me li immagino quei magistrati adoranti che chiedono il bis al Duce ed immagino la soddisfazione tronfia di questi nel concederlo! Ma la scena che la citazione evoca consente di fissare immediatamente i caratteri del modello napoleonico-burocratico della magistratura in auge prima e durante il fascismo e al quale si riferivano i discorsi del Duce e del ministro Grandi: una magistratura che fa parte di un unico e più esteso potere. Proprio Grandi, infatti, nella relazione illustrativa al Rd 30 gennaio 1941 n. 12 (che disciplinava l’ordinamento giudiziario) affermava: «nel regolare lo stato giuridico dei magistrati, ho naturalmente respinto il principio del così detto autogoverno della magistratura, incompatibile con il concetto di Stato Fascista». Egli riteneva infatti «inammissibile che nello Stato esistano organi indipendenti dallo Stato medesimo, o autarchie, o caste sottratte al potere sovrano unitario, supremo regolatore di ogni pubblica funzione». Né la tutela della indipendenza dei giudici richiedeva, secondo Grandi, che «la Giurisdizione costituisca un potere autonomo nello Stato, dovendo anch’essa informare la sua attività alle direttive ge2 La citazione è tratta da Guido Neppi Modona, La magistratura e il fascismo, in Fascismo e società italiana, a cura di Guido Quazza, Einaudi, Torino 1973, pp. 125 e sgg.

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nerali segnate dal Governo per l’esercizio di ogni altra pubblica funzione». Di qui l’alta sorveglianza del ministro, esercitata direttamente o tramite i dirigenti, su tutti i giudici ed uffici giudicanti, su tutti i pm ed uffici requirenti, che erano organizzati gerarchicamente, l’elevata incidenza delle sue valutazioni sulle promozioni dei magistrati e sul conferimento di incarichi direttivi, l’istituzione di una Corte disciplinare presso il ministero, composta, oltre che dal primo presidente della Cassazione, da cinque magistrati nominati dal Consiglio dei ministri su proposta del guardasigilli. Di qui l’inamovibilità prevista solo per i giudici (peraltro con dei limiti) e il ruolo dominante della Corte di Cassazione nella struttura della magistratura. Ma la nostra Costituzione ha sposato un altro modello, quello, cioè, di una magistratura diversa e separata dagli altri poteri, i cui caratteri sono visibili in pochi e chiari principi: quello di soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101, comma 2), in cui quel «soltanto» è l’affermazione più forte, indicando la estraneità della magistratura rispetto a logiche e programmi di governo, così da rendere superflua ogni tecnica di compatibilità tra l’esercizio delle competenze della magistratura stessa e l’azione di governo; quello della assunzione soltanto attraverso il concorso (art. 106, comma 1), che rafforza l’estraneità della magistratura rispetto all’omogeneità del sistema politico e contraddice la teoria del sistema unitario di potere; quello di inamovibilità dei magistrati e della distinzione dei medesimi soltanto per diversità delle funzioni (art. 107, commi 1 e 3), che rispettivamente esprimono la garanzia irrinunciabile per il corretto svolgimento dell’attività giurisdizionale ed il carattere distintivo dell’organizzazione della magistratura; quelli della obbligatorietà dell’azione penale (affermato come principio inderogabile dall’art. 112) e di indipendenza del pubblico ministero (art. 107, comma 4), che rispettivamente rafforzano il principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e sottraggono il pm all’esecutivo, attraendolo all’interno dell’ordine giudiziario e così realizzando una netta caratterizzazione del sistema italiano rispetto ad altri sistemi esistenti nell’ambito europeo. Infine, l’istituzione del Consiglio superiore della magistratura (art. 104), con competenze (art. 105) finalizzate alla amministrazione in larga misura autonoma della giurisdizione (in tema di assunzioni, assegnazioni, trasferimenti, promozioni, provvedimenti disciplinari nei riguardi 285

dei magistrati), realizza il cosiddetto «autogoverno» della magistratura e la sua effettiva indipendenza da ogni altro potere. In questo modello, naturalmente, l’indipendenza della magistratura non è indebolita dalla circostanza che la sua azione trae legittimazione non dal consenso popolare (cioè elettorale) ma dalla Costituzione e dalle leggi. Con buona pace di quella parte del ceto politico che ritiene, ignorando la Costituzione stessa, che ciò ponga la magistratura in posizione ad esso subordinata. Questa è la magistratura italiana, questa deve continuare ad essere, questo è il modello che il Csm deve continuare a difendere, almeno finché il Consiglio continuerà ad esistere con le competenze che la Costituzione oggi gli attribuisce. Si spiega, allora, perché riemerga in certe temperie politiche e indipendentemente dal colore della maggioranza di governo, la voglia di frantumare questo modello e di trasformare lo stesso Csm in un’istituzione con competenze meramente burocratiche. La Bicamerale di D’Alema e la giustizia Ci aveva già provato la non mai abbastanza criticata Commissione bicamerale per le riforme costituzionali presieduta da D’Alema, nata nel gennaio del 1997 e fortunatamente morta nello stesso anno. Marco Boato ne era relatore sulle riforme riguardanti il «Sistema delle garanzie» e, dunque, la magistratura. In significativa sintonia con i progetti annunciati da autorevoli esponenti dell’attuale maggioranza politica, si prevedevano sezioni separate del Csm per giudici, da un lato, e pubblici ministeri dall’altro; una diminuzione dei componenti eletti dai magistrati che passavano dagli attuali due terzi ai tre quinti; la creazione di una Corte di Giustizia della magistratura separata dal Csm e, soprattutto, la burocratizzazione delle sue competenze con esclusione della possibilità di «adottare atti di indirizzo politico» (chiaro riferimento alle posizioni assunte dal Csm a difesa dei magistrati aggrediti e spesso insultati da esponenti politici di ogni colore) e di esprimere pareri sui disegni di legge di iniziativa del governo al di fuori di espressa richiesta del ministro della Giustizia e dopo la loro presentazione alle Camere. Infatti – affermava nella sua relazione l’onorevole Boato – era necessario «evitare interferenze con l’attività legislativa del Parlamento, in quanto pareri difformi, espressi nell’ambito di una facoltà pre286

vista dalla Costituzione, potrebbero – nel migliore dei casi – determinare situazioni di imbarazzo, se non, peggio, di conflitto e confusione interistituzionale». Involontariamente, Boato sembrava conferire attualità ai principi cari al ministro Grandi. Insomma, secondo la Commissione D’Alema, il Csm era andato spesso al di là delle sue competenze: occorreva ricondurlo all’ovile. Tentativo fallito, almeno fino al momento in cui scrivo. Nel 1998, il dibattito e le polemiche suscitati dalla Bicamerale erano vivi e pungenti. Ci sembrava assurdo che il Csm non potesse esprimere, anche d’ufficio come la legge consentiva, i suoi pareri sui disegni di legge concernenti l’amministrazione e l’organizzazione della giustizia, pur essendo l’istituzione con il maggior livello di conoscenza delle relative problematiche. Il Csm, i pareri in materia di giustizia e gli interventi a tutela dei magistrati Ma fu Carlo Azeglio Ciampi, da poco eletto presidente della Repubblica, ad incoraggiarci a proseguire su quella strada, ribadendo in uno storico plenum, il 26 maggio del 1999, su esplicita richiesta del vicepresidente Verde, che il Csm aveva non solo il diritto, ma anche il dovere, di esprimersi d’ufficio su disegni e progetti di legge riguardanti la giustizia. Il Csm, fortunatamente, lo fa ancora oggi, nonostante i governi succedutisi negli ultimi anni continuino spesso a non interpellarlo sulle materie di sua competenza. Lo ribadiva nell’agosto del 2009 anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, dopo che un suo messaggio rivolto al Csm – oggetto di immediata strumentalizzazione – era sembrato accreditare una diversa opinione3. Ma nel marzo del 2010, il ministro Alfano, all’indomani dell’ennesima polemica con il Csm4, dichiarava che da quel momento avrebbe restituito al Csm tutti i pareri sulle iniziative legislative del governo da lui non Comunicato ufficiale della presidenza della Repubblica (13 agosto 2009). La polemica era stata questa volta originata dalla decisione del Comitato di presidenza del Csm di aprire una pratica sui rapporti tra segreto di indagine e poteri ispettivi del ministro: questi, infatti, aveva disposto un’ispezione negli uffici giudiziari di Trani dopo la pubblicazione di conversazioni del presidente Berlusconi con componenti dell’Agcom, intercettate nell’ambito di un’inchiesta condotta dalla locale Procura. 3 4

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specificatamente richieste: il postino sarebbe stato rimandato indietro a restituirli al Csm. Non proprio un esempio di fair play istituzionale, specie alla luce dei precedenti citati. Allo stesso modo, il Csm continua ad approvare solenni «risoluzioni a tutela» della magistratura periodicamente aggredita quando le sue inchieste toccano il potere politico. Non è in questione, ovviamente, la tutela dell’onore dei singoli magistrati (che hanno, come tutti, gli strumenti per farlo in via autonoma) ma la difesa dell’esercizio indipendente delle loro funzioni: si tratta di una prassi che, dopo aver dato luogo a reazioni sdegnate del mondo politico, si vorrebbe oggi abolire. In realtà, negare che il Csm possa esprimersi in via generale su questioni come queste significa disconoscerne il ruolo di rilievo costituzionale. Del resto, se il Csm ha sempre invitato giudici e pubblici ministeri ad evitare di rispondere individualmente a questo tipo di aggressioni, chi, se non lo stesso Consiglio, potrebbe tutelare il loro diritto al ristabilimento della verità dei fatti, insieme alla autorevolezza della funzione esercitata? Proprio per questo, dunque, il Csm è intervenuto con risoluzioni approvate dall’assemblea plenaria, il cui tenore ha sempre distinto tra il diritto di criticare iniziative e decisioni dei magistrati e la gratuita e generica denigrazione che, se colpisce direttamente le persone, diminuisce al tempo stesso la credibilità della intera magistratura. È dal luglio del 1981 che il Csm, con una delibera adottata alla presenza del capo dello Stato, ha affermato «la propria determinazione a tutelare l’indipendente e corretto esercizio della funzione giurisdizionale, invitando tutti i magistrati a trarre dal consenso del paese sul valore della indipendenza della magistratura la serenità necessaria a svolgere il proprio difficile compito». La necessità di una tutela non affidata alla reazione del singolo, del resto, deriva dalla particolarità del caso italiano: le offese provengono da sedi politiche ed istituzionali elevate (compresa la stessa presidenza del Consiglio dei ministri) e la loro risonanza è assicurata sia dall’ampia diffusione mediatica che dalle sedi ove esse vengono pronunciate (finanche alti consessi internazionali). Prevale la logica dello scontro frontale e non servono gli appelli anche se alti ed autorevoli, che anzi vengono sovente strumentalizzati: non ha molto senso, infatti, richiamare «gli uni e gli altri», cioè magistrati e politici, al riserbo ed alla sobrietà quando gli «eccessi verbali» – come ha ricordato anche il vicepresidente del Csm Nico288

la Mancino – vengono «solo da una parte, sempre la stessa»5. Ciò serve, semmai, a dare ulteriore fiato a chi è il reale responsabile dei ricorrenti scontri istituzionali. Ma il diritto-dovere di intervenire per ristabilire verità dei fatti e tutelare l’esercizio della funzione giurisdizionale compete anche ai dirigenti degli uffici giudiziari in cui prestino servizio i magistrati vilipesi e – per la parte di competenza addirittura statutaria – all’Associazione magistrati. Si tratta di motivate prese di posizioni istituzionali, che nulla hanno di corporativo. La prova è nel fatto che lo stesso Csm non ha mai difeso gli atteggiamenti di quei magistrati che, soprattutto in epoca recente ed ovunque sia stato loro possibile, hanno «denunciato» di essere vittime di imprecisati «poteri forti», nel contempo autopromuovendosi quali rari depositari di virtù professionali e morali. Se infatti il magistrato non teme i «poteri forti», neppure gli si addice la denuncia generica ed immotivata: egli ha solo l’obbligo di perseguire chiunque sia responsabile di illegalità, ricercando con professionalità e determinazione la prova dei reati commessi. Solo così gli sarà forse possibile dare nome, cognome e volto ai «poteri forti». Diversamente, come spiegherò meglio, si finisce con il compromettere immagine e funzione della magistratura, il «potere debole» dello Stato. Nell’arco dei quattro anni tra il 1998 e il 2002, il «mio» Csm (come del resto quelli in carica negli anni precedenti e successivi) si trovò, dunque, ripetutamente nella necessità di intervenire in occasione di vere e proprie aggressioni in danno di magistrati che avevano continuato a lavorare in silenzio, senza cedere a tentazioni di protagonismo mediatico e con risultati d’eccellenza: dal gip di Milano, Alessandro Rossato, accusato da Cesare Previti di gravi scorrettezze e di ripetute violazioni del diritto di difesa, ai componenti la I Sezione penale del Tribunale di Milano, accusati di «bieco cinismo» per avere concesso all’imputato latitante Craxi «solo» gli arresti domiciliari in ospedale, per curarsi; dal gip di Milano, Luca La Bianca, reo di avere rinviato a giudizio Berlusconi e per questo additato come uno dei protagonisti della cosiddetta «giustizia ad orologeria», al magistrato di Cassazione Pier Luigi Onorato, colpevole di avere deliberato, insieme ad altri quattro componenti di una 5 Così Nicola Mancino, all’Università Statale di Milano, nel corso della commemorazione del trentennale dell’omicidio del giudice Guido Galli (notizia Apcom, 18 marzo 2010).

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sezione della Corte, un provvedimento in tema di esecuzione pena sgradito a Dell’Utri, e per questo accusato di avere agito in base alle sue convinzioni politiche e non per fini di giustizia; da Rossato, di nuovo insultato e questa volta definito «cancro della giustizia» per avere deciso il rinvio a giudizio di Berlusconi e Previti nel processo Sme, ad Agostino Abate, pm a Varese, reo di avere adottato iniziative doverose ma sgradite alla Lega; dalla Procura di Cagliari al Tribunale dei minori di Bologna. Intervenimmo anche «a tutela» di una intera sezione della Cassazione che aveva messo la parola «fine» sulla questione della responsabilità di Sofri per l’omicidio Calabresi e per questo tacciata da Marco Boato di avere emesso una «pronuncia infame» (ma con parole molto dure era stata anche attaccata dall’onorevole Giuseppe Di Lello). Per non parlare di tutti i componenti del pool Mani Pulite della Procura di Milano e della Direzione distrettuale antimafia di Palermo che indagava sui legami tra mafia e politica. Ma le invettive, nonostante gli interventi del Csm, non diminuivano; anzi, con il progredire delle indagini ed il succedersi dei gradi di giudizio, ormai non si concentravano più sui soli pm e gip, ma investivano anche i collegi giudicanti di primo e secondo grado e, poi, i giudici della Cassazione. E finanche la Corte Costituzionale. Impossibile, mi auguro, dimenticare le esternazioni del presidente del Consiglio sui magistrati italiani accusati pubblicamente, tra il 2002 ed il 2003, di muoversi per finalità politiche e, di volta in volta, di essere «golpisti», «un cancro da estirpare», «mentalmente disturbati», «antropologicamente diversi dalla razza umana». È così accaduto che, qualche anno dopo, all’inizio di marzo del 2009, dalle gabbie dell’aula bunker di Milano ove si celebrava il processo alle cosiddette «nuove» Brigate Rosse, a Ilda Boccassini – che aveva appena finito di pronunciare le sue richieste di pene per gli imputati – un brigatista abbia urlato: «Sei pazza, ha ragione Berlusconi, ci vuole la perizia psichiatrica!». Ma tornando agli anni del Csm, mentre sfilavano sotto i miei occhi le facce e i nomi dei tanti colleghi così violentemente offesi e così spesso lasciati soli a difendersi, mi chiedevo ancora una volta che paese fosse mai il nostro, un paese in cui chi governa non solo insulta i giudici ma pretende anche di sostituirsi a loro e di non essere giudicabile o assoggettabile ad alcun controllo perché eletto dal popolo. Un modo per disconoscere la stessa autorità della legge, il bilanciamento tra i poteri dello Stato ed il principio di eguaglianza 290

dei cittadini, gettando sul tavolo il peso di milioni di voti e utilizzando il sostegno di potenti strumenti di informazione. Qualcuno ciononostante insiste: «occorre richiamare i magistrati all’osservanza dei propri doveri di riserbo!». In realtà, l’atteggiamento che, di fronte a questa offensiva, ha tenuto la magistratura appare quello – sono parole del professor Alessandro Pizzorusso – «di persone intimidite [...] quasi sempre in ritardo nel rispondere alle menzogne e alle formulazioni tendenziose» o, aggiungo io, spesso impossibilitate a farlo. Insomma, che cosa si può rimproverare a questi giudici e che cosa si può raccomandare che non abbiano già fatto? Si dice che i giudici parlino solo con le sentenze. Vero in tempi normali. Ma quelli che viviamo in Italia non lo sono più da molto tempo. Magistrati e uomini liberi: tre storie esemplari Anni fa ero stato preso da una specie di mania: ritagliare, incollare, archiviare e spesso rileggere le notizie riguardanti i più pesanti e volgari attacchi ai magistrati italiani. Non sapevo bene a cosa potesse mai servirmi quella montagna di carte che ormai affollava il mio studio o quella sequenza di file che ingombrava la memoria del mio pc. Pensavo forse che un giorno, non troppo lontano, mi sarebbe piaciuto riprendere in mano quel materiale per ricordare e raccontare a mio figlio, magari sorridendo, a che punto eravamo arrivati in Italia. Ma l’archivio cartaceo e informatico continuava a dilatarsi e purtroppo non è ancora arrivato il momento di rileggerlo e di sorriderne. Provo a sfogliarlo, adesso mentre scrivo, alla ricerca di storie meno conosciute e, tuttavia, significative. Potrei scrivere degli attacchi a Colombo, a Davigo, a Boccassini, ai palermitani tutti? Lo hanno già fatto in tanti e le loro odissee sono quindi conosciute. Del resto è difficile scegliere. Sono tanti i magistrati che meriterebbero di essere ricordati per la loro dimostrata capacità di non piegarsi alle aspettative dei potenti di turno: tutti, pur numerosi, conosciuti e non, giovani o anziani, potrebbero e dovrebbero qui altrettanto degnamente essere citati e le loro storie tramandate. Una scelta, tuttavia, si impone: ecco, allora, tre storie tra le meno note. Risalgono alla fine del 2004 e ne avevo parlato in un messaggio inviato alla mailing list del Movimento per la Giustizia, per augurare ai magistrati italiani ed a me stesso, per il 2005 e gli anni a 291

venire, di sapere essere come Paolo Carfì, Guido Papalia ed Adriano Sansa, persone libere che nessun accidente, nessuna minaccia, nessuna prospettiva di vantaggio personale potranno mai piegare. Paolo Carfì aveva portato a termine un dibattimento lungo e difficile (quello relativo ai processi Imi-Sir e lodo Mondadori, che si era concluso con la condanna di Previti, Squillante e soci), in condizioni di salute precarie. Aveva sopportato con i suoi colleghi di collegio, in silenzio, insulti, volgarità e provocazioni e ad essi aveva risposto solo in sentenza e riferendosi esclusivamente al merito degli argomenti, senza cedere ad alcuna provocazione. Ma, secondo alcuni commentatori interessati, neppure con la sentenza avrebbe dovuto rispondere a quegli argomenti. Dopo la pronuncia della sentenza era stato colpito da una sequenza di insidiosi infarti e un noto avvocato si era addirittura rammaricato che non gli fossero stati fatali. Oggi Carfì è ancora al suo posto di lavoro, sereno e sorridente, tornato nel cono d’ombra del suo lavoro quotidiano, illuminato solo dalla sua umanità e professionalità. Perché – sia ben chiaro – la stima generale da cui Paolo è circondato ha radici ben più antiche e profonde di quella che si è guadagnato semplicemente per avere applicato la legge ed avere saputo resistere al clima di pressione e scontro che andava sviluppandosi attorno a lui ed al suo collegio. E l’ironia non l’abbandona mai; intervistato il 21 dicembre 2004 da «Repubblica», al giornalista che gli chiedeva il significato di una ormai ben nota dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione nei confronti di un ancor più noto imputato, premetteva: «Parliamo in generale?». «Parliamo in generale», gli rispondeva il giornalista. E lui: «Se io dichiaro che l’imputato merita le attenuanti, vuol dire che prima ho ritenuto raggiunta la prova della colpevolezza. Altrimenti lo assolverei. O no?». Ho immaginato lo sguardo di Paolo Carfì fissarsi penetrante sul giornalista e immobilizzarlo con la sua forza. Carfì, dopo essere stato il giudice italiano più votato nelle «primarie» organizzate a marzo del 2010 da due componenti dell’Associazione nazionale magistrati (Magistratura democratica e Movimento per la Giustizia-Articolo 3), sarà candidato nelle prossime elezioni per il rinnovo del Csm e, se le speranze di tanti si realizzeranno, vi rappresenterà – certo non da solo – la magistratura che non indietreggia. 292

Guido Papalia è un pm di indiscusse qualità, si è occupato di tutto quello che di più grave e pericoloso possa capitare tra le mani di un pm. Sempre dritto per la sua strada, senza guardare in faccia a nessuno. Bisogna sapere che Guido è amatissimo dai suoi sostituti e non solo per la professionalità e il coraggio, ma per le sue doti umane; anche lui è persona dotata di humour e con la battuta pronta. Eppure c’è chi ha pensato di intimidire un personaggio così, uno che anche nei momenti più duri sa trovare un’occasione per sorridere. Guido, letteralmente, non può essere intimidito. Qualcuno ha approfittato della sua funzione parlamentare per insultarlo in tv con cartelli volgari ed odiosi (che l’allora ministro Castelli aveva giudicato espressione della funzione medesima) o per incitare la piazza a prenderlo a calci... una barbarie! Ma il procuratore Papalia non ha tempo per indignarsi, continua a macinare lavoro su lavoro, a dimostrare rispetto per l’identità degli altri recandosi anche in visita ufficiale alla moschea di Verona, a pensare solo ad applicare la legge, a ricercare prove affidabili della responsabilità degli imputati e, se qualcuno lo indica irresponsabilmente alla piazza, ai criminali e ai folli... che importa! Il procuratore di Verona (come tutti lo conoscono, nonostante oggi sia procuratore generale a Brescia) non ha tempo per curarsene. Adriano Sansa: il Csm lo vuole nel 2004 presidente del Tribunale per i minorenni di Genova; il ministro e il governo, invece, no. Quali sono le ragioni del no? Ha forse raccomandato a due coniugi in dissidio di giocarsi a «testa o croce» l’affidamento del figlio durante le feste natalizie (pare sia avvenuto in un Tribunale del Nord, a leggere le cronache del 2004)? No. Ha tenuto in carcere un detenuto oltre i termini di custodia cautelare? Neppure. Sansa ha solo scritto un articolo in cui, in modo netto e chiaro, spiegava il suo pensiero sulla deriva antidemocratica del paese. Ma che c’entra questo con la nomina di un presidente di Tribunale?, si chiederebbero all’estero (in Italia, no; nessuno se lo chiede, perché siamo abituati a tutto). Assolutamente nulla, sarebbe la risposta logica. Tanto più che la sezione disciplinare del Csm lo ha assolto dall’addebito di «avere parlato troppo», per l’ennesima volta riconoscendo al magistrato i diritti che spettano ad ogni cittadino. Per l’allora ministro Castelli non basta, evidentemente. La protesta contro il gran rifiuto di Castelli sale e si organizzano comitati a sostegno del magistra293

to, ma Sansa non demorde un attimo dal suo impegno civile. Altri, al suo posto avrebbero taciuto, almeno per qualche mese ed almeno fino alla definizione della «pratica». Altri, ma non lui, che continua a girare per convegni, a parlare, a scrivere, dicendo e pensando le cose che dicono e pensano gli uomini liberi. Non gli importa se ciò lo danneggerà o meno: la Costituzione gli garantisce il diritto di esprimere le sue idee e non ci sarà ministro al mondo, di destra o di sinistra, che gli impedirà di esercitarlo. Anzi, in un’assemblea dell’Anm tenutasi a Genova nell’autunno del 2008, ha criticato duramente la politica giudiziaria dell’attuale maggioranza: alcuni vigili membri laici del Csm hanno subito invocato un’indagine in vista di un suo trasferimento d’ufficio. Questa pratica è stata archiviata, ma ha dato luogo a un altro procedimento disciplinare. È pensabile, chiedo allora, che il Csm si astenga dal tutelare i magistrati italiani in queste situazioni ed in un sistema in cui i politici sono protetti dalla insindacabilità delle loro opinioni? Si può ritenere che non debba esprimere i suoi pareri sui disegni di legge e sulle riforme in tema di giustizia? O non si tratta, piuttosto, di tipologie di interventi del tutto pertinenti al ruolo che la Costituzione gli riserva? Credo, in realtà, che il Csm non debba arretrare di un solo millimetro rispetto a quelli che considero suoi doveri primari. Non si tratta di una questione corporativa: non vi possono essere equivoci in proposito. 1999: la Procura di Milano cambia volto ma non perde l’anima Il 17 marzo del 1999 avevo vissuto uno dei giorni più emozionanti della «mia» consiliatura per le decisioni da assumere in plenum, tutte in quella mattinata: quel giorno, infatti, nominammo Francesco Saverio Borrelli, il procuratore degli anni di Mani Pulite, procuratore generale della Corte d’Appello, e Manlio Minale, il procuratore aggiunto dei miei anni alla Dda, presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano. Ma io e i due consiglieri del Movimento ci battemmo, anche se vanamente, per la nomina di D’Ambrosio a procuratore generale della Repubblica di Roma. Gerardo venne poi nominato procuratore a Milano qualche mese dopo. Insomma, la mia Procura, la mia seconda famiglia, era stata «rivoltata come un calzino», direbbe Davigo: ed io ero lì a parlare di ognuno di loro ed 294

a contribuire agli avvicendamenti di tre magistrati che, sia pure con caratteristiche diverse, erano stati per tutti i componenti del mio ufficio punti di riferimento in anni difficili. Tutti ricordano di Borrelli il triplice appello «a resistere» lanciato durante il discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario che pronunciò, appunto, da procuratore generale. Ma neppure Borrelli è mai stato una «toga rossa»: ci ha solo dato la scossa, ci ha dato forza e fiducia negli anni in cui il solo essere magistrato cominciava a essere una colpa. Oggi, nonostante Borrelli, è per qualcuno addirittura un peccato mortale. I quattro ministri della Giustizia Da componente del Csm ho conosciuto ben quattro ministri della Giustizia: la media sarebbe, dunque, di uno all’anno. In realtà, la loro successione non fu così regolare. Il professor Giovanni Maria Flick è stato ministro della Giustizia tra il maggio del 1996 e l’ottobre del 1998, ma lo incontrammo al Csm una sola volta, nel 1998. Del resto, i ministri della Giustizia vi si recano di rado: normalmente quando lo fa il presidente della Repubblica (in occasione delle nomine dei vertici della Corte di Cassazione o di qualche seduta particolarmente rilevante, come quella in cui si discute la Relazione annuale al Parlamento sui problemi della giustizia) o, all’inizio del loro mandato, per illustrare il proprio programma. Flick, coadiuvato da un eccellente staff di magistrati collaboratori, è stato l’autore dell’unico progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario che, negli ultimi vent’anni, abbia guadagnato diffusi consensi. Non ebbe la soddisfazione, però, di vederne entrare in vigore neppure una parte. Eppure, il progetto Flick aveva il pregio di essere una riforma organica, coerente e di essere stato a lungo discusso dagli esperti. Non era, dunque, un progetto settoriale, né frutto dell’emergenza del momento o studiato nell’interesse di pochi. Si dice ancora che la «caduta» di Flick sia stata conseguenza della sua debolezza politica: non era un uomo di partito, ma un tecnico prestato alla politica. Certo è che nessuno riprese in seguito il suo disegno riformista. Non lo fece neppure Oliviero Diliberto che, da neoministro, venne al Csm il 9 dicembre del 1998. Speravamo che potesse ri295

prendere il cammino di Flick e, nel mio intervento, in quella seduta, tentai di richiamare la sua attenzione sulla necessità che la imminente riforma del giudice unico di primo grado non partisse con il piede zoppo: non era vero che i magistrati opponessero resistenze, ma occorrevano anche leggi «complementari», era necessario affrontare i non risolti problemi di carenza di personale amministrativo e di edilizia, si doveva imprimere ulteriore impulso all’informatizzazione, individuare la giusta dimensione del rapporto tra numero di magistrati e numero delle pratiche a ciascuno di loro affidate e, nella prospettiva di rispondere alle aspettative di giustizia rapida da parte dei cittadini, porre mano alla riscrittura dei due codici di procedura, penale e civile. Così come era urgente riflettere – d’intesa con il Csm – sul tema della valutazione della professionalità dei magistrati, ormai ineludibile. Tutti problemi – come si sa – ancora oggi irrisolti. Ma neppure a quel tempo ci si sforzò di affrontarli seriamente: con Diliberto ministro, anzi, iniziò quel processo di riforme pensate e poi approvate in nome della mediazione con l’opposizione. Tutta la responsabilità di questa scelta, sul piano politico e tecnico, la porterà con sé il governo di centrosinistra dell’epoca. Non penso che la mediazione sia di per sé un male, ma non è neppure sempre e necessariamente un valore. Anzi, quando si trasforma in compromesso sui principi, che non consente neppure di risolvere con ragionevolezza i problemi, è un disvalore assoluto. Idem se denota incoerenza rispetto ai programmi declamati o intermittenza nella difesa dei principi. Meglio allora farne a meno. Certo Diliberto, pur adoperatosi efficacemente a tutela dell’autonomia dei magistrati, aveva operato in un clima politico particolarmente difficile, caratterizzato da un livello inusitato dello scontro tra le forze politiche e della polemica tra avvocatura e magistratura. Ma in quel clima egli aveva scelto di essere il ministro delle riforme a tutti i costi, più di quelle «a costo zero», come all’epoca si usava dire o «il ministro delle riforme possibili», come lui amava presentare se stesso: aveva rinunciato all’opera di propulsione e allo sforzo tecnico che competono a chi riveste quel ruolo. Se la politica trascura l’apporto della scienza giuridica, infatti, non può che produrre leggi e riforme tecnicamente insoddisfacenti. Di qui, sul piano delle procedure, ulteriori incompatibilità per i giudici, difficoltà all’espletamento delle indagini, prolungamento dei tempi dei processi con l’introduzione di veri e propri momenti di stasi pro296

cessuali, più facili – seppure non certo volute – impunità di mafiosi e potenti di turno e più difficile tutela per le vittime dei reati6. In sintesi, il risultato di quelle riforme fu l’introduzione nel sistema di garanzie solo formali che hanno moltiplicato i tempi dei processi, soprattutto di quello penale. Definivamo garantismo selettivo l’insieme delle norme che, utilizzabili soprattutto nei procedimenti per i reati dei colletti bianchi, avevano trasformato il processo penale in una corsa ad ostacoli dall’esito incerto. Ad eccezione, ovviamente, dei processi per i «reati da strada». Nella primavera del 2000, alcuni giudici della Corte europea per la tutela dei diritti umani di Strasburgo, che così frequentemente condanna l’Italia per i tempi lunghi dei processi, dinanzi a una delegazione del Csm di cui anch’io facevo parte, avevano qualificato il nuovo testo dell’ormai famoso art. 111 della Costituzione – quello sul «giusto processo» – eccessivamente rigido rispetto sia al contenuto dell’art. 6 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo, sia alla stessa giurisprudenza della Corte7. Ed avevano puntato il dito contro un sistema, il nostro, che prevede la esecutività delle sentenze dopo tre gradi di giudizio, oltre che una illimitata possibilità di impugnazioni incidentali (ad esempio, quella al Tribunale del riesame contro i provvedimenti limitativi della libertà personale). Non era del tutto vero, dunque, come al paese era stato fatto credere, che la modifica dell’art. 111 rispondesse alla necessità di adeguamento della Costituzione e del processo penale agli standard europei. Diliberto aveva ad un certo punto deciso di lasciare il ministero per «tornare alla politica». Almeno così aveva detto. A Piero Fassino, il terzo ministro della Giustizia che ebbi modo di conoscere in quegli anni, apprezzato per la sua straordinaria capacità di lavoro e per il suo rigore, chiedemmo, dunque, in 6 Ci si vuol riferire, in questo caso, alla cosiddetta «legge Carotti», cioè alla Legge 16 dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice penale e all’ordinamento giudiziario). 7 L’art. 111 della Costituzione è stato modificato con Legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei principi del giusto processo nell’articolo 111 della Costituzione), che ha introdotto nuove regole processuali valide anche per i processi in corso, con conseguente invalidità di prove già raccolte ed immaginabili ricadute sull’esito dei dibattimenti.

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occasione della sua prima visita al Csm nel giugno 2000, di invertire il trend, intervenendo innanzitutto sul codice di procedura penale, sul codice penale e sul sistema di esecuzione delle pene per rendere effettive le sanzioni penali irrogate dai giudici. Due anni di «mediazione» politica nel campo della giustizia, infatti, stavano già producendo o prefigurando seri danni al sistema. Si sa come è finita: a prescindere dalla personale dedizione del ministro Fassino e – penso – finanche dalle sue intenzioni, la legislatura si snodò, sino alla sua fine, nella primavera del 2001, attraverso una nuova serie di leggi che aggravarono il quadro complessivo. Pochi esempi possono essere utili a ricordarlo. Dopo un pericoloso e lungo intervallo di oltre un anno, furono approvate, a seguito della modifica dell’art. 111 della Costituzione, le norme attuative del principio del «giusto processo»8. La legge aveva avuto una gestazione difficile e, al fine di disciplinare i limiti all’utilizzabilità degli atti compiuti prima del dibattimento, in particolare delle dichiarazioni rese nella fase delle indagini, era stata introdotta una quarta e bizzarra figura che si aggiungeva alla persona informata sui fatti (cioè il testimone), all’imputato ed all’imputato di reato connesso: quello della «persona imputata o giudicata per reato connesso o collegato che assume l’ufficio di testimone». Qualcuno l’aveva spiritosamente chiamata «impumone». Provate a immaginare le difficoltà del pm per cercare di incasellare processualmente ogni dichiarante, nonché la serie complessa di avvertimenti a lui dovuti, la cui omissione o irregolarità può determinare l’inutilizzabilità delle sue affermazioni. Insomma, un meccanismo di straordinaria complessità, unico al mondo, che partorì, alla fine, ben miseri risultati se è vero che le dichiarazioni di questa nuova ibrida figura hanno lo stesso valore e regime di quelle previste per l’imputato, anziché per il testimone9. Anche la legge sulle investigazioni difensive10, pure partorita Legge 1° marzo 2001, n. 63. Le dichiarazioni del testimone, infatti, pur soggette alla valutazione del giudice, costituiscono «mezzo di prova» in sé autonomamente utilizzabile, mentre quelle rese dal coimputato del medesimo reato e dalla persona imputata in un procedimento connesso o collegato a quello per cui si procede devono essere valutate «unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità» (art. 192, commi 2 e 3 del codice di procedura penale). 10 Legge 7 dicembre 2000, n. 397. 8 9

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sotto Fassino, si è rivelata un unicum nel panorama mondiale, attribuendo al difensore diritti e facoltà senza relativi doveri, nonché una libertà d’azione non concessa neppure ai pm (basti pensare alla possibilità di investigare anche prima dell’iscrizione di una notizia di reato e alla mancanza di regole per la documentazione degli atti compiuti dal difensore): insomma una legge che reca benefici soprattutto a coloro che hanno i mezzi economici per difendersi. Della nuova disciplina per i collaboratori di giustizia11 si è già detto: risolveva alcuni problemi ma introduceva soluzioni di dubbio fondamento giuridico, come la sanzione di inutilizzabilità delle dichiarazioni «a rate» rese oltre 180 giorni dall’inizio della collaborazione, ed altre palesemente ingiuste, come la possibilità di accordare la protezione speciale ai soli parenti conviventi dei collaboratori. La legge, nel suo complesso – come denunciammo tempestivamente e come era facile prevedere – si rivelò disincentivante per la collaborazione dei criminali12. Insomma, una legislazione a cascata, quella sintetizzata, che moltiplicava formalismi e garanzie apparenti e comprometteva l’efficienza del processo: ecco perché dicevamo che quelle riforme risultavano utili soprattutto a chi ha le possibilità (economiche o politiche) per ostacolare la definizione dei processi. Favorivano, insomma, come giustamente si diceva, la difesa dal processo, più che nel processo. Credo che, nelle intenzioni della maggioranza di governo di allora, quelle leggi dovessero servire a dimostrare l’assenza di qualsiasi sudditanza nei confronti della magistratura cosiddetta giustizialista: evidentemente quella sciocca accusa (un vero e proprio slogan della opposizione) bruciava e la si riteneva pericolosa per l’esito elettorale. Peraltro, tra le riforme mancate o incompiute (elenco che pure annoverava la revisione del sistema delle impugnazioni, ormai incompatibile con le nuove regole del proLegge 13 febbraio 2001, n. 45. Il coordinatore della Dda di Milano, il collega Enrico Pomarici, nella sua relazione del 9 dicembre 2009 al presidente della Commissione parlamentare antimafia, senatore Beppe Pisanu, ha ricordato che, a fronte di 223 proposte di ammissione di collaboratori ai programmi di protezione avanzate dalla Procura di Milano negli anni precedenti, solo 12 risultano presentate nel periodo 20012007, con analogo trend nel biennio successivo. 11 12

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cesso, e le misure idonee a realizzare il principio di effettività delle pene) spiccava la mancata ratifica dell’accordo italo-elvetico sulle rogatorie, cioè di una legge che avrebbe permesso un recupero di efficienza, velocizzando molti processi e rendendo più efficace la lotta al crimine economico transnazionale, in particolare al riciclaggio di denaro sporco e alla corruzione. La mancata approvazione della legge, invece, non solo aveva contraddetto l’esigenza conclamata di voler accelerare i tempi dei processi, ma fornì la possibilità (e l’alibi) al successivo governo, sorretto da diversa maggioranza, di varare una delle leggi – appunto, quella sulle rogatorie – che più avrebbe diviso il paese e messo in discussione la credibilità dell’Italia nei rapporti internazionali di cooperazione giudiziaria. Ma nonostante la cascata delle leggi approvate con il marchio «doc» della devastante logica della mediazione a tutti i costi, nata con la Bicamerale, il centrosinistra perse le elezioni: vedremo più avanti come gli errori commessi tra la fine degli anni Novanta e la primavera del 2001 non hanno insegnato alcunché, né prodotto alcun tipo di autocritica. Arrivò, dunque, con il nuovo governo di centrodestra, anche un nuovo ministro della Giustizia: non Roberto Maroni, come molti avevano previsto, ma un altro parlamentare della Lega, Roberto Castelli di Lecco. Tutta la magistratura – non solo il Csm – era disposta a dargli credito o, comunque, chiedeva di conoscerne programmi e comportamenti prima di giudicarlo: ricordo anche che il ministro Castelli, venuto una prima volta al Csm in visita di cortesia, mi ringraziò per l’azione che avevo condotto nella zona di Lecco contro il clan ’ndranghetista del boss calabrese Franco Trovato. Nella tarda primavera del 2001, poi, nel corso di un incontro di studi tenutosi a Roma, il ministro Castelli aveva preannunciato come imminente la sua visita al Csm per illustrare, come faceva ogni nuovo ministro, il suo programma in tema di giustizia. Aveva affermato che essa sarebbe avvenuta subito dopo la doverosa e preliminare comunicazione al Parlamento. Apprezzammo l’approccio, ma aspettammo invano, per circa un anno, quell’annunciato confronto sui programmi di governo nel settore giustizia. Eravamo per la verità impazienti, visto quello che intanto accade300

va nel paese. Ma all’impazienza subentrò ben presto la rassegnazione: mentre attendevamo il confronto, infatti, il programma del governo in tema di politica giudiziaria andava avanti a tappe forzate. Si erano rivelati lettera morta e inutili anche alcuni nostri contributi tecnici, come per esempio la Relazione al Parlamento sullo stato della giustizia, del 2 ottobre del 2001, per cui pure il capo dello Stato aveva ringraziato il Csm. Ci aspettavamo una qualche forma di interlocuzione istituzionale, anche se mettevamo pure in conto che un ministro non giurista avesse necessità di prendere confidenza con le sue nuove competenze prima di venire da noi. Castelli continuava a dichiarare dappertutto di voler prestare massima attenzione ai temi dell’efficienza ma ormai andavamo perdendo quelle speranze che avevamo nutrito all’inizio del suo mandato. Quello che potevamo direttamente constatare, come cittadini ancor prima che come giuristi, era che, con la nuova legislatura, la situazione stava precipitando: il salto di qualità in peggio appariva preoccupante sia per la già compromessa efficienza del sistema, sia per l’indipendenza della magistratura. Un salto di qualità che passava attraverso leggi, atti amministrativi del governo, disegni di legge e programmi di riforma ordinamentale. In rapida successione vennero approvate, infatti, varie leggi che spaccarono il paese. La prima fu la legge sul rientro occulto dei capitali illeciti costituiti all’estero13: con una mera dichiarazione e il pagamento di una modesta somma, chi aveva accumulato capitali comunque detenuti all’estero (dunque, anche costituiti illecitamente) otteneva garanzia di anonimato e sicurezza di non incorrere in altri accertamenti al rientro dei capitali in Italia. Seguirono la legge delega sui reati societari e la riforma del falso in bilancio14, che avrebbero dovuto rendere credibile agli occhi degli imprenditori stranieri l’impegno italiano a reprimere le disinformazioni societarie. Pregiudicavano invece, al di là del più favorevole trattamento sanzionatorio, la trasparenza dell’economia, con effetto criminogeno e, in controtendenza rispetto alla

13 Legge 23 novembre 2001, n. 409, che convertiva il dl 25 settembre 2001, n. 350. 14 Rispettivamente, Legge 3 ottobre 2001, n. 366, e dl 11 aprile 2002, n. 61.

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realtà internazionale15, rendevano più difficoltose le indagini dei pm. Anzi, il reato di falso in bilancio poteva dirsi praticamente abrogato, essendone diventata quasi certa la prescrizione in ogni inchiesta minimamente complessa. Rimaneva lettera morta, così, la raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa del 5 settembre del 1996, secondo cui «in materia di criminalità economica le disposizioni relative ai termini di prescrizione dovranno essere riviste in modo da lasciare alle autorità competenti il tempo necessario alla raccolta di prove». Arrivò ad ottobre del 2001 la legge sulle rogatorie internazionali16, in relazione alla quale, al di là del dibattito lacerante che aveva determinato nel paese, è sufficiente ricordare che era in contrasto con i principi della collaborazione diretta e senza formalismi, contro ogni forma di criminalità, che la comunità internazionale aveva ormai da tempo adottato. Era una legge che non rispondeva all’interesse pubblico bensì a quello di alcuni imputati, i cui difensori-parlamentari avevano proposto eccezioni, respinte dai tribunali della Repubblica. Ma il loro contenuto era poi stato trasfuso nella legge che, naturalmente con efficacia retroattiva, inficiava la utilizzabilità delle prove già acquisite. I giudici di Milano, però, avevano respinto le eccezioni proposte dai medesimi difensori sulla base della nuova legge sulle rogatorie, interpretandola alla luce della diversa normativa internazionale. A quella pronuncia dei giudici milanesi aveva fatto seguito una palese invasione di campo che rischiava di mettere in crisi addirittura il principio della divisione dei poteri. Il 5 dicembre 2001, infatti, il Senato aveva approvato, a maggioranza, una mozione in cui si denunciavano riunioni clandestine tra giudici e pm per trovare il modo di violare la legge sulle rogatorie e si bocciavano senza appello l’interpretazione che ne era stata data dai collegi giudicanti milanesi (indicando loro quella che sarebbe stata corretta) e le de15 «È ora di riaffermare le regole fondamentali di funzionamento dell’economia di mercato: il capitalismo non è sostenibile senza coscienza etica. Ai responsabili di falso in bilancio raddoppio le pene da 5 a 10 anni di carcere. Istituisco una task force per la repressione dei reati societari e finanziari»: così il presidente degli Stati Uniti George W. Bush, parlando all’inizio di luglio 2002 nel cuore del mercato finanziario di Wall Street, nel presentare un «pacchetto» di dieci riforme che puntavano a rafforzare la trasparenza dei mercati. 16 Legge 5 ottobre 2001, n. 367.

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cisioni da questi assunte in tema di impedimenti a comparire in giudizio di imputati parlamentari17. I rappresentanti della maggioranza politica espressa dal popolo avevano così mostrato di voler esercitare anche il controllo di legalità che la Carta Costituzionale e le leggi attribuiscono al potere giudiziario. Il vecchio sogno napoleonico del potere politico assoluto riprendeva dunque vigore, mettendo in gioco la qualità della democrazia. Vennero poi la riforma del Csm e la modifica della relativa legge elettorale18, fondata sulla separazione dell’elettorato passivo: i membri togati venivano fino a quel momento eletti senza tener alcun conto delle loro funzioni. Da quel momento in avanti, invece, i membri togati da eleggere sarebbero stati dodici giudici e quattro pubblici ministeri, inevitabile passaggio verso la introduzione della tanto agognata separazione delle carriere. La riforma portò anche alla riduzione del numero dei componenti eletti del Csm, da trenta a ventiquattro, di cui otto membri laici eletti dal Parlamento. Una scelta con la quale si era voluto chiaramente mortificare l’istituzione che rappresenta e tutela i magistrati, tentando di ridurla al rango di organismo burocratico, competente solo sull’amministrazione del personale. Addirittura, nel corso del dibattito svoltosi nella Commissione Giustizia del Senato, alla richiesta di sentire il parere tecnico del vicepresidente del Csm sulla riforma del Csm, un senatore della maggioranza aveva con eleganza risposto: «sarebbe come sentire un ladro sulla riforma del codice di procedura penale»! Un po’ più tardi, nel novembre del 2002, sarebbe stata approvata la legge Cirami sul legittimo sospetto19, studiata per sottrarre più facilmente uno specifico processo al giudice naturale, mettendone in dubbio l’imparzialità: secondo le parole del presidente del Consiglio, questa legge aveva costituito una priorità assoluta per l’azione di governo. Eppure, persino il ministro fascista Di17 A seguito di quella mozione, la giunta dell’Anm si era dimessa in blocco denunciandola come contrastante «con il modello di giurisdizione e di assetto di poteri disegnato dalla Costituzione». La giunta dell’Anm si era sciolta in precedenza una sola volta: nel 1924, dopo il delitto Matteotti e la svolta autoritaria di Mussolini. 18 Legge 28 marzo 2002, n. 44. 19 Legge 7 novembre 2002, n. 248 (Modifica degli artt. 45, 47, 48 e 49 del codice di procedura penale).

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no Grandi, attraverso una direttiva piuttosto chiara, inviata a tutti i tribunali italiani nel 1939, aveva consigliato di usare la legittima suspicione con estrema cautela: «Per quanto concerne la remissione per motivi di legittimo sospetto occorre che i capi delle procure generali si attengano a una concezione rigorosamente ristretta dell’istituto». La legge Cirami fu comunque affossata dall’interpretazione restrittiva della Corte di Cassazione. Questi interventi del governo Berlusconi avevano suscitato reazioni e commenti da parte del mondo accademico e dei magistrati ed era ovvio che il dibattito si facesse sempre più infuocato. Quanto a noi componenti del Csm, era altrettanto ovvio che, esercitando le nostre competenze istituzionali, facessimo confluire perplessità di ordine tecnico ed ordinamentale nei numerosi pareri negativi sui progetti di legge via via presentati dal governo. Non un solo parere positivo, che io ricordi, fu approvato in quel periodo dal Csm. Partecipavamo naturalmente anche ai dibattiti sulle mailing list dei magistrati, riferendo quanto accadeva in seno al Csm e commentando quanto era ormai sotto gli occhi di tutti: un progetto di ridimensionamento del ruolo della magistratura neppure occultato – ma anzi pubblicamente rivendicato – dai partiti di governo. Proprio a causa dei miei interventi sulla mailing list del Movimento per la Giustizia subii violenti attacchi diffamatori da parte di media come «il Giornale» e «Panorama». In alcuni articoli pubblicati tra il gennaio del 2002 ed il gennaio del 2003, mi si dava elegantemente del «rincoglionito» e mi si accusava di essere stato l’ispiratore di provvedimenti del Csm e del presidente della Corte d’Appello di Milano che avevano consentito al Tribunale di Milano di portare a termine il processo Sme senza i ritardi che un provvedimento del ministro Castelli avrebbe potuto determinare20. Venni anche accusato di avere organizzato la resistenza politica dei magistrati contro il governo Berlusconi e di avere condizionato l’attività 20 Guido Brambilla, uno dei due giudici a latere nel processo Sme-Ariosto (che vedeva imputati Berlusconi e Previti), era stato trasferito a sua domanda al Tribunale di sorveglianza di Milano. Il presidente della Corte d’Appello Giuseppe Grechi aveva allora scritto al ministero della Giustizia al fine di ottenere chiarimenti in merito alla data precisa in cui il giudice avrebbe dovuto prendere possesso della nuova funzione. «Immediatamente» era stata la risposta del ministro pervenuta a Milano nei primi giorni del 2002. In tal caso, il processo Sme-Ariosto si sarebbe bloccato per la necessità di sostituire il giudice. Il presidente della Cor-

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giudiziaria dei colleghi di Milano, soprattutto nei processi contro Silvio Berlusconi e Cesare Previti. In un articolo di «Panorama» dell’agosto del 2002, infatti, si sottolineava che Luisa Ponti, presidente del collegio del caso Sme, era magistrato iscritto alla mia stessa corrente e dunque non serena nei confronti degli imputati. Questo argomento fu utilizzato anche a sostegno della richiesta di trasferimento a Brescia dei processi contro Berlusconi e compagni (istanza, come forse qualcuno ricorderà, poi respinta dalla Corte di Cassazione). In un trafiletto comparso sul numero di «Panorama» del 13 agosto 2002, si lanciava addirittura la notizia scoop: grazie ai miei presunti ottimi rapporti con Nando dalla Chiesa e Francesco Rutelli (quest’ultimo mai conosciuto in vita mia), la Margherita mi avrebbe candidato alle elezioni suppletive nel collegio senatoriale di Pisa in sostituzione del Ds Luigi Berlinguer, eletto nel nuovo Csm. Una menzogna assoluta: né la Margherita (o altro partito) mi aveva offerto la candidatura, né io l’avrei accettata. Comunque, per tutte queste diffamazioni, il Tribunale civile di Brescia ha condannato nel settembre del 2008 gli autori degli articoli, direttori ed editori al risarcimento dei danni morali arrecatimi. Postilla al caso: nel 2002, il ministro Castelli avviò un’indagine sul contenuto di alcune mie email oggetto di un’interpellanza parlamentare proposta pochi mesi prima da parte di alcuni senatori del centrodestra. Costoro avevano affermato di averle ricevute da fonte anonima e di avervi individuato, per le mie critiche ai magistrati distaccati in quegli anni presso il ministero della Giustizia, «un avvertimento, dal sapore inconfondibilmente mafioso e figlio della peggiore cultura stalinista». Il ministro Castelli voleva sapere, tramite l’inchiesta avviata, se effettivamente io avessi scritto quelle email e, in caso negativo, se le avessi smentite. Mi rifiutai di rispondere ricordando che la riservatezza della corrispondenza su mailing list è tutelata al pari di quella ordinaria e manifestando la mia meraviglia per il fatto che illustri senatori utilizzassero per la loro attività parlamentate d’Appello di Milano, a quel punto, ribaltando la decisione del ministro (criticata anche dal vicepresidente del Csm, Giovanni Verde), applicava Brambilla «a tempo pieno» e fino al 31 ottobre 2002 alla sezione del Tribunale da cui proveniva, con procedura prevista dalla legge e convalidata dal Csm. Ciò scatenava le rituali proteste del parlamentare di Forza Italia e difensore di Silvio Berlusconi Niccolò Ghedini: «Non ho più fiducia nella magistratura, anzi non l’ho mai avuta» era il suo commento ripreso dalla stampa (cfr. «la Repubblica», 10 gennaio 2002).

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re documenti loro pervenuti in forma anonima. Non ricevetti risposta e la procedura venne archiviata. Il ministro della Giustizia Castelli, intanto, procedeva con circolari e direttive nella sua campagna per l’efficienza: il 5 marzo del 2002 invitava i capi delle Corti d’Appello a effettuare un più rigoroso controllo sulle spese sostenute dagli uffici dipendenti, invitandoli a limitarsi a quelle strettamente necessarie per il funzionamento minimale degli stessi; il 28 novembre del 2002 scriveva al capo del Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, invitandolo, «in conformità del disposto di cui all’art. 101 della Costituzione, ad impartire le opportune disposizioni affinché nelle aule di udienza, compresa l’Aula Magna (ove esistente), di tutti gli uffici giudiziari, sia inserita la seguente dicitura ‘La Giustizia è amministrata in nome del Popolo’. Tale dicitura sarà apposta in modo visibile alle spalle del giudice ed in stile uniforme agli arredi». Penso che, con un piccolo aggravio di spesa si sarebbe almeno potuto completare il richiamo all’art. 101 con la citazione del comma 2: «I giudici sono soggetti soltanto alla legge». Il ministro continuava a non farsi vedere al Csm per illustrare il programma del suo governo in materia giudiziaria, ma il 1° marzo del 2002 fece una rapida apparizione a Salerno, dove era in corso il XXVI Congresso nazionale dell’Anm su Tempi e qualità della giustizia: Castelli arrivò nell’affollato salone e prese posto in prima fila, giusto pochi minuti prima che prendesse la parola Nello Rossi, il collega consigliere di Magistratura democratica che, con la sua consueta capacità oratoria e con puntualità di argomenti, ebbe modo di elencare al ministro le ragioni di delusione e preoccupazione della magistratura italiana. Castelli parlò subito dopo di lui, sottolineando ancora una volta la sua attenzione ai temi dell’efficienza e promettendo per questo nuove forniture di computer ai magistrati. Dai numerosi colleghi che affollavano il salone del congresso si levarono accentuati mormorii e proteste: forse il ministro non se ne spiegò la ragione, non immaginando che – per i magistrati italiani – esercitare la propria funzione in assoluta indipendenza è più importante della pur necessaria dotazione informatica. Immediatamente dopo, mentre mi accingevo a salire sul palco per il mio intervento, lasciò la sua poltrona in prima fila e abbandonò i lavori congressuali, evidentemente per impegni precedenti. Il fatto non mi sconvolse più di tanto ed anzi acuì la mia 306

vis oratoria. Parlai, così, rivolto a quella poltrona vuota in prima fila, quasi si trattasse di un preordinato colpo di teatro: «Prendo atto, preliminarmente, che il ministro della Giustizia, appena terminato il suo intervento, sta abbandonando il convegno: è il suo modo di mostrarsi disposto al dialogo, interventi ‘mordi e fuggi’, senza attribuire alcun rilievo alle opinioni altrui. Parlerò, dunque, alla sua poltrona vuota, pregando i presenti di non occuparla». Dopo avere elencato i guasti prodotti dalle leggi varate in quei mesi, ricordai le critiche che piovevano addosso all’Italia da ogni parte d’Europa e, sempre fissando la sua sedia vuota, chiesi al ministro se pensasse davvero che l’Europa fosse popolata di toghe rosse e di nemici dell’Italia. «State portando il paese verso l’oscurantismo giudiziario», conclusi... Ero assolutamente convinto che l’intera magistratura la pensasse alla stessa maniera. Mi sbagliavo: una parte consistente della Associazione magistrati, facente capo a Magistratura indipendente, aveva affermato pubblicamente in quel periodo di non sapere individuare ragioni di conflitto tra magistratura e governo, né per quanto riguarda le leggi, né per quanto riguarda atti amministrativi o progetti di legge21. La sezione di Magistratura indipendente della Cassazione aveva chiesto perentoriamente alla Associazione magistrati di cambiare la propria linea «politica», facendola finita con l’opposizione ai progetti di riforma e occupandosi, piuttosto, dei problemi economici dei giudici della Corte di Cassazione. Nel corso dello stesso congresso di Salerno, inoltre, uno storico esponente di Unità per la Costituzione, Giacomo Caliendo, all’epoca sostituto procuratore generale a Milano, aveva affermato nel corso del suo intervento che «è comunque vero che la magistratura, con Mani Pulite, ha delegittimato la classe politica», affrettandosi ad aggiungere subito dopo: «non importa se a torto o a ragione». Come si poteva affermare – mi chiedevo – che «non importa se la magistratura avesse torto o ragione»? Giacomo Caliendo è oggi senatore per

21 Era stato Mario Cicala, storico esponente di Magistratura indipendente e già presidente dell’Anm, a dichiarare al giornalista che l’intervistava: «se oggi le dovessi dire qual è la materia dello scontro non saprei risponderle. È curioso, ma in questo momento storico il dissenso non riguarda atti concreti di governo, iniziative legislative, disegni di legge» (Guido Ruotolo, L’ex presidente Anm: «Così non si può andare avanti», in «La Stampa», 13 gennaio del 2002).

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il Pdl ed è sottosegretario alla Giustizia con il ministro Alfano, di cui spiega e sostiene i progetti di riforma che ricorderò più avanti. Diventava evidente, dunque, che anche al nostro interno vi erano – e vi sono – atteggiamenti di insofferenza nei confronti del modello di magistrato attento alle condizioni generali in cui opera, cui molti preferiscono il modello di magistrato burocrate, che pone al primo posto il tema del trattamento economico. A Salerno, comunque, erano presenti appartenenti al mondo accademico ed avvocati di ogni estrazione culturale e geografica. Iniziava a prendere corpo una grande occasione, una storica possibilità di ritrovare l’omogeneità del ceto giuridico indipendente: magistratura, mondo accademico e avvocatura. A partire dalle cerimonie del 12 gennaio 2002 di inaugurazione dell’anno giudiziario, infatti, i magistrati, forse per la prima volta, si erano sentiti parte di un movimento più ampio: e ai giuristi iniziavano ad affiancarsi associazioni della società civile e singoli cittadini. Stava nascendo un movimento nuovo: qualcuno l’avrebbe chiamato, con toni sprezzanti, «il popolo dei girotondi». Io penso che, in certi momenti, darsi la mano tra persone che credono negli stessi principi e che si vogliono far forza reciprocamente serve a non andare alla deriva, ad «avere fiducia nel bene pubblico, come se Dio esistesse» e a sperare di essere più forti dei «furbi che continuano ad esistere, anche se Dio non ci fosse»22. Il 10 aprile del 2002, finalmente, il ministro Castelli veniva al Csm per illustrare, in seduta plenaria, il programma del suo governo in materia giudiziaria. Centrale nel suo discorso appariva una stupefacente dichiarazione, il cui senso era il seguente: avendo la sua coalizione elettorale promesso ai cittadini di abbassare le tasse, sarebbero state di conseguenza ridotte le spese per la giustizia. Intervenni in quella seduta a nome del Movimento per la Giustizia, innanzitutto lamentando il ritardo con cui il ministro si era presentato al Csm, mentre il programma del governo in tema di politica giudiziaria fluiva sempre più rapido e dannosamente impetuoso. Lamentavo l’assenza di un qualsiasi monitoraggio della situazione della giustizia, necessario per individuare le disfunzioni che stavano bloccando la giurisdizione in tutte le sedi giudi-

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Eligio Resta, Le regole della fiducia, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 109.

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ziarie, osservando che la diminuzione delle tasse non avrebbe evitato ai cittadini di pagare ben altri e più pesanti costi. Ma anche altre dichiarazioni rilasciate dal ministro, ancora prima di venire al Csm, avevano destato analogo stupore. Lui o suoi colleghi di partito avevano più volte annunciato le riforme in cantiere assicurando che sarebbero state portate a termine in pochi mesi: a parte «l’elezione dei pubblici ministeri prima e dei giudici poi» da realizzare in tempi non definiti, tutto il resto sembrava un gioco da ragazzi di poco impegno. Come a dire, secondo il noto slogan elettorale di quegli anni: «Giustizia? Fatto!». La riforma del Consiglio superiore della magistratura? Realizzata in poche settimane. La valutazione di professionalità ed i nuovi criteri di misurazione dell’efficienza? Bastano tre mesi. E più o meno lo stesso tempo sarebbe bastato per la riforma dell’ordinamento giudiziario o per quelle concernenti la formazione professionale, i rapporti tra pm e polizia giudiziaria, lo statuto della magistratura del lavoro. E poi la riforma della giustizia minorile e della famiglia. Anche la riforma del codice penale, secondo il magistrato Carlo Nordio, chiamato da Castelli a presiedere la commissione competente, poteva essere attuata in pochi mesi. In sostanza, si voleva cambiare tutto in pochissimo tempo, ignorando decenni di storia, di cultura, di idealità, l’affinamento delle specializzazioni professionali, i contributi scientifici, le riflessioni di altre istituzioni ed associazioni, le reazioni della comunità internazionale. Quel 10 aprile, dunque, ritenni doveroso chiudere il mio intervento affrontando direttamente il cuore delle questioni sul tappeto, cioè il tema dei rischi cui andava incontro in quel periodo il principio della indipendenza della magistratura: Lei sa bene che l’azione del Suo governo suscita forti tensioni nei settori del lavoro, dell’informazione, dell’immigrazione, della scuola: oggi, i non garantiti, visto che si va affermando il diritto dei forti, possono solo rivolgersi alla magistratura a tutela dei propri. Ma per effetto di scelte già compiute e di quelle che sono all’orizzonte, i magistrati si trasformano – o rischiano di trasformarsi – essi stessi in «non garantiti». Si va configurando l’impossibilità di tutelare i cittadini deboli dai forti: lo eviti, signor Ministro, ed il paese gliene sarà grato.

Un appello inutile che non ha avuto fino a questo momento alcun successo, così come ogni tentativo di suggerire riforme a par309

tire dall’analisi dei problemi reali della giustizia in Italia e degli errori degli ultimi anni23. Nel 2003, infatti, proprio nel corso del semestre di presidenza italiana dell’Unione Europea, veniva approvato il cosiddetto lodo Schifani24¸ successivamente bocciato dalla Corte Costituzionale, che congelava i processi alle cinque più alte cariche dello Stato, tra le quali il solo presidente del Consiglio dei ministri Berlusconi risultava imputato. A luglio del 2005, veniva approvata la riforma dell’ordinamento giudiziario25, fiore all’occhiello del ministro Castelli, ma fonte di una vera devastazione dell’assetto della magistratura, cui solo in parte avrebbe posto rimedio il ministro Mastella nella successiva legislatura. Alla fine del 2005, veniva approvata la legge cosiddetta «ex Cirielli» dal nome del senatore di An che ne aveva presentato il progetto, successivamente da lui ripudiato: una legge che abbatteva i termini di prescrizione dei reati, in tal modo più facilmente destinati all’estinzione26. A febbraio del 2006, infine, era la volta della legge Pecorella (così chiamata perché ne fu padre storico l’onorevole Gaetano Pecorella, uno dei primi difensori del presidente del Consiglio), che cancellava per i pubblici ministeri la possibilità di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento salvo l’ipotesi di prove nuove e decisive27. La legge si applicava anche ai processi in corso con la conseguenza della inammissibilità anche degli appelli già proposti. Ma anche questa previsione veniva successivamente dichiarata incostituzionale perché chiaramente in contrasto con il principio di parità delle parti processuali28. 23 Sia consentita, a tal proposito, la citazione di Giovanni Melillo ed Armando Spataro, La giustizia in Italia: gli errori degli ultimi anni, i problemi reali, le riforme possibili, in «Giornale di Storia Contemporanea», dicembre 2003. 24 Legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato). L’art. 1 di tale legge è stato dichiarato incostituzionale con la sentenza n. 24 del 2004 della Corte Costituzionale. 25 Legge 25 luglio 2005, n. 150 (Delega al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario). 26 Legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla Legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione). 27 Legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento). 28 Sentenza n. 26 del 2007.

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A luglio del 2002, intanto, alla fine del quadriennio naturale, si era insediato il nuovo Consiglio superiore della magistratura: le componenti progressiste della magistratura associata, nonostante la riforma elettorale pensata per indebolirle, si erano rafforzate e costituivano insieme il 50% dei componenti togati eletti dai magistrati. Una percentuale risultata poi decisiva per eleggere vicepresidente del nuovo Csm, con nostra grande soddisfazione, Virginio Rognoni, il «mio» ministro dell’Interno degli anni di piombo. La possibile riforma del Csm Ma neppure le capacità e l’esperienza di Virginio Rognoni, così come quelle del suo successore Nicola Mancino, vicepresidente a partire dal luglio del 2006, hanno impedito che negli ultimi anni altri progetti di riforma e manovre di varia natura fiorissero attorno al ruolo del Consiglio superiore della magistratura, nel dichiarato scopo di contenerne l’attività a sostegno della indipendenza dei magistrati. Ed a tal fine sono stati rispolverati argomenti già noti, di quelli che si riciclano quando occorre. Il primo è quello dei guasti che sarebbero prodotti dal sistema elettorale attuale – pur riformato più volte negli ultimi anni – e dall’esistenza delle «correnti» che esprimono i candidati. È un argomento che voglio affrontare usando le lucide parole della collega Rita Sanlorenzo, segretaria di Magistratura democratica: Quanto alle accuse di politicizzazione e di «occupazione abusiva» dell’organo di governo autonomo da parte delle correnti, bisogna partire da una premessa molto chiara, che è stata ampiamente condivisa: il modello realizzato dai padri costituenti ha consapevolmente fondato il sistema di autogoverno su una forte rappresentatività del corpo della magistratura. Questo modello ha fino ad oggi tenuto, nonostante i numerosi interventi sul sistema elettorale (5 riforme in 50 anni). Modificarlo, magari per abbracciare ipotesi di evidente stampo reazionario come quella del sorteggio dei componenti del Csm, porterebbe ad annullare questa rappresentatività e dunque ad abolire il sistema di governo autonomo [...]. Il fatto che proprio su questo carattere si voglia intervenire, agendo periodicamente sui sistemi elettorali, è il segno di quanto l’obbiettivo reale sia la capacità del Consiglio di essere davvero rappresentativo (e per questo autorevole nella difesa della magistratura verso l’esterno). Non si vogliono eludere problemi e critiche. È un fatto acclarato che sulle scel311

te consiliari pesano, spesso in modo significativo, fattori impropri: le appartenenze correntizie, così come le amicizie, i localismi geografici ecc. Ma a questi condizionamenti non si sottraggono i componenti laici, che anzi non celano le vicinanze e la permeabilità a pressioni politiche29.

La strada corretta è, dunque, quella di contrastare queste deviazioni e di esaltare la necessaria trasparenza delle motivazioni di ogni scelta consiliare, non quella di cancellare il sistema democratico di rappresentanza, costituito dalle elezioni dei componenti del Csm. A dire il vero, anche il vicepresidente del Csm, Nicola Mancino, all’inizio di gennaio, si dichiarava favorevole ad una modifica della composizione dell’organo di autogoverno quale strumento per vincere le degenerazioni correntizie, sposando le tesi di Violante sull’opportunità di introdurvi una terza componente nominata dal capo dello Stato. L’Associazione magistrati e i componenti togati del Csm (con l’eccezione di quelli di Magistratura indipendente) hanno reagito esprimendo amarezza e sconcerto. Stroncatura anche da parte di Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale. Una tale ipotesi, infatti, ridurrebbe il numero dei magistrati attualmente componenti del Csm, che costituiscono i due terzi dei ventiquattro membri eletti e risulterebbe incompatibile con il modello di autogoverno della magistratura voluto dai Costituenti: non vi è dubbio, infatti, che una maggioranza di componenti togati in seno al Csm meglio garantisce l’indipendente esercizio della giurisdizione e, attraverso l’amministrazione delle carriere dei magistrati, la loro estraneità alle logiche politiche. Oggetto di un’antica polemica è anche la collocazione all’interno del Csm della sezione disciplinare, che non risponderebbe alle necessarie esigenze di terzietà e imparzialità di qualsiasi giudice, anche disciplinare, e imporrebbe pertanto – ipotesi molto cara a Luciano Violante – la creazione di una sorta di Alta corte esterna al Csm stesso. Il giornalista Giovanni Bianconi si è occupato della questione e ha pubblicato i risultati della sua approfondita ricerca sull’attività della sezione disciplinare30, dimostrando la falsità del29 Sintesi di Rita Sanlorenzo del Convegno Il Csm ha 50 anni (realtà, problemi, prospettive), svoltosi a Roma l’11 novembre 2008, disponibile in internet http://magistraturademocratica.it/node/2157. 30 Giovanni Bianconi, Csm, 1282 giudici sotto processo, in «Corriere della Sera», 22 dicembre 2008.

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l’assunto secondo cui il Csm sarebbe responsabile di una giurisprudenza compiacente: nel decennio 1998-2007, sono stati ben 1282 i magistrati portati a giudizio, 290 sono stati i condannati, mentre altri 156 «imputati» hanno abbandonato l’ordine giudiziario prima della sentenza, interrompendo così il procedimento. Addirittura il 2009 è stato l’anno record per le sanzioni disciplinari inflitte ai magistrati: 62, quasi il doppio del 2008 ed il triplo rispetto a quelle del 200731. E un componente della sezione disciplinare del Csm, come l’avvocato Michele Saponara, ex parlamentare di Forza Italia, non sospettabile di accondiscendenza verso le tesi dei magistrati, ha onestamente dichiarato: Direi che il funzionamento è fisiologico, e sinceramente non vedo grosse storture nel sistema. Certo, si può pensare, come sostiene qualcuno, di aumentare la componente laica rispetto a quella togata, ma non cambierebbe molto. Spesso mi ritrovo ad essere il più buono al momento del giudizio perché conosco il sistema giudiziario e mi rendo conto che ci sono molte componenti dietro il comportamento di un magistrato incolpato32.

Ha ancora auspicato Rita Sanlorenzo: Sarebbe utile confrontare questi numeri con quelli di altre pubbliche amministrazioni che però, purtroppo, non sono disponibili. Così come non sono conoscibili i dati della giustizia disciplinare presso l’avvocatura (che dopo anni dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna a sei anni di reclusione per corruzione in atti giudiziari di un suo assai noto esponente, non ha ancora adottato alcun provvedimento nei suoi confronti...). Una riflessione è inoltre necessaria: che cosa è veramente il giudice della deontologia? È solo un organo chiamato ad infliggere sanzioni? Se così fosse, non avrebbe nemmeno senso che fosse collocato all’interno del Csm. Ma se [...] è anche l’organo che concorre a configurare gli standard del lavoro del giudice ed un modello di organizzazione efficiente, allora si tratta di un ruolo che può essere esercitato solo da chi, vivendo nel Consiglio superiore, conosce il mondo della giustizia e la situazione in cui operano i magistrati33. 31 Si tratta di dati diffusi in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2010 e riportati dal «Sole 24 Ore» del 2 febbraio 2010. 32Bianconi, Csm, 1282 giudici sotto processo cit. 33 Sanlorenzo, Il Csm ha 50 anni cit.

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Esattamente quello che ha detto l’avvocato Saponara a Giovanni Bianconi: come potrebbe esercitare il potere disciplinare chi, non vivendo nel Csm, ignorasse le condizioni di lavoro dei magistrati? Aggiungo, sempre per smentire facili luoghi comuni, che dai dati ufficiali contenuti dal rapporto presentato nel 2008 dal Cepej (Commissione europea per l’efficienza della giustizia), organo sovranazionale ed indipendente di riconosciuta autorevolezza, risulta che il sistema disciplinare dei giudici italiani, come attualmente amministrato dal Csm, è tra i più severi in assoluto. Credo, dunque, che strumentalizzare ciclicamente argomenti ormai così stantii, come quelli della esistenza di più componenti culturali nella magistratura italiana e della conseguente necessità di eliminarne la rappresentanza in seno al Csm – con tutto ciò che ne dovrebbe derivare anche in termini di giustizia disciplinare – abbia un solo fine: quello di indebolire il ruolo dell’organo di autogoverno che, contemplato nella Carta Costituzionale, ha come principale compito la difesa a tutto campo dell’indipendenza della magistratura italiana. Ed è questa la ragione per cui le magistrature europee guardano al nostro Csm con ammirazione e la speranza che anche nei loro paesi possa affermarsi il modello italiano. Il sorteggio o il pre-sorteggio dei magistrati componenti del Csm A proposito delle possibili riforme del Csm, all’inizio dell’estate del 2009, i quotidiani hanno pubblicato una notizia che ha dato corpo ai peggiori fantasmi che possano aleggiare sulla magistratura italiana: il ministro della Giustizia Alfano stava infatti studiando l’ennesima possibile modifica del sistema di designazione dei componenti togati del Csm. Si vorrebbe introdurne la nomina per sorteggio, allo scopo di distruggere il peso delle correnti: una cinquantina di nomi di candidati sarebbero estratti «dall’urna» (immagino grazie alla manina di una dea bendata) e solo tra questi i magistrati potrebbero esercitare il loro diritto di eleggere i membri togati del Csm. Un diritto previsto dalla Costituzione (art. 104, comma 3) che, secondo gli strateghi di questo disegno, sarebbe preservato grazie al voto finale da esprimersi rispetto alle poche decine di nomi estratti dall’urna. Ma la Costituzione pre314

vede elezioni vere e libere, senza alcuna possibilità di eluderne o limitarne la portata. I magistrati, infatti, hanno il diritto di interloquire sul funzionamento della giustizia, sulla sua organizzazione, sulla difesa della propria indipendenza: è meglio nominare un dirigente più anziano o uno più dinamico e capace (vecchio tema di discussione)? È meglio privilegiare la specializzazione o la pluralità delle esperienze professionali? È giusto organizzare corsi di aggiornamento professionale aperti alle esperienze esterne alla magistratura? O è meglio evitarlo? In che senso interpretare la possibilità di trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale ecc.? E – passando alle valutazioni dei disegni di legge – è accettabile che in nome della sicurezza si sacrifichino i diritti fondamentali delle persone? È logico, dunque, che al momento di eleggere i componenti del Csm il magistrato elettore che intenda esprimere un voto consapevole voglia conoscere le opinioni e i programmi dei candidati. Ed è altrettanto logico che costoro, per presentarsi agli elettori, si aggreghino per omogeneità di vedute e che vogliano rendersi riconoscibili con un programma, una sigla. Sono le regole fondamentali della democrazia. E la democrazia non riguarda solo il Parlamento, riguarda anche l’elezione dei comitati di quartiere. Ecco perché all’interno dell’Associazione magistrati si sono formate le tanto vituperate correnti: luoghi di aggregazioni ideali, delle quali va contrastata non la ragion d’essere, ma solo la deriva corporativa. Insomma, non riesco a immaginare una ipotesi di riforma più offensiva e più umiliante per i magistrati. E mi meraviglia che essa possa essere stata partorita con il contributo di un professore universitario, Salvatore Mazzamuto, che ho conosciuto quale «compagno di viaggio» nel quadriennio passato al Csm, di cui era membro laico. Il Csm ridotto al rango di una bocciofila di quartiere e i magistrati al livello di persone che non sanno giudicare, orientarsi, scegliere, partecipare alla vita democratica e che sono costretti ad accettare che le alte funzioni consiliari siano esercitate da colleghi selezionati in base al caso. Naturalmente, il sorteggio riguarderebbe solo i componenti togati del Csm e non quelli di nomina politico-parlamentare! Ancora una volta si conferma: i magistrati sono persone da punire, anche privandoli del diritto di voto. 315

Il valore del voto Philip Roth ha scritto molti capolavori, uno è Il complotto contro l’America, un romanzo in cui l’autore descrive uno scenario immaginario e terribile che colloca nel 1942. Un candidato presidente di simpatie naziste, nientemeno che il trasvolatore dell’Atlantico Charles Lindbergh, sta conquistando gli Stati Uniti e la politica antisemita prende progressivamente corpo nel paese delle libertà. Un immigrato italiano vuole aiutare una famiglia ebrea a difendersi, si reca nella loro casa di Newark e regala una pistola al capofamiglia. Ma questi la rifiuta e spiega perché. Ha fiducia, nonostante tutto, nella democrazia: «Sai qual è la mia passione, Cucuzza? Il giorno delle elezioni [...]. Io amo votare. Da quando ero abbastanza grande non ho perso un’elezione». L’ebreo racconta poi all’italiano che cosa le elezioni, negli ultimi vent’anni, hanno determinato negli Stati Uniti, nel bene e nel male, e conclude: «E così stasera tu vieni da me, Cucuzza, a casa mia, e mi offri una pistola [...] perché io possa proteggere la mia famiglia dalla teppa antisemita del signor Lindbergh. Be’, non credere che io non ti sia grato, Cucuzza. Non dimenticherò mai che ti sei preoccupato per noi. Ma io sono un cittadino degli Stati Uniti e così mia moglie e così i miei figli [...]. Niente Mussolini qui, Cucuzza [...]. Basta con i Mussolini qui!»34. Neppure ai magistrati, dunque, per quanto minoranza anch’essi, può essere negato il diritto di voto. Ricordo con orgoglio, dunque, il quadriennio passato al Csm: non per vanità o eccesso di autoconsiderazione. Ma perché, insieme agli altri componenti, ho avuto la fortuna di esercitarvi un ruolo nobile ed alto, cui altri magistrati mi avevano designato. Ma, esaurita quella straordinaria stagione, aspettavo solo, e con una certa impazienza, di riprendere servizio nell’unico ufficio in cui, sin dall’inizio della carriera, avevo esercitato le mie funzioni: la Procura di Milano, un luogo che, come ho detto, ha un’anima e un cuore, a prescindere dal nome di chi lo dirige e di chi ne fa parte.

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Philip Roth, Il complotto contro l’America, Einaudi, Torino 2005, pp. 297-

299.

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XVII

Il ritorno alla Procura di Milano e l’impegno civile

Il saluto a Gerardo D’Ambrosio Poco prima che il Csm mi riassegnasse alla Procura e, dunque, mentre aspettavo quel momento in una sorta di limbo, l’Associazione nazionale magistrati di Milano organizzò il 29 novembre del 2002 il saluto a Gerardo D’Ambrosio, il procuratore di Milano che lasciava il servizio «per raggiunti limiti di età». Fui invitato a tenere il discorso di saluto a Gerardo, cui si unirono quelli del presidente dell’Anm di Milano, del presidente della Corte d’Appello, di Edmondo Bruti Liberati e di uno scatenato Moni Ovadia. Qualche giorno prima, alcuni dei sostituti di Milano (cerimoniere Elio Ramondini) avevano organizzato una più intima e toccante cerimonia di saluto della Procura al suo procuratore: tutta la sua famiglia – compresi i fratelli – era stata invitata a Milano e così qualche suo vecchio amico giornalista. Gerardo fu tenuto all’oscuro dei preparativi. Quando entrò nel locale della festa, si accesero le luci, la band iniziò a intonare un trascinante pezzo tratto dalla colonna sonora di The Blues Brothers1, centinaia di palloncini colorati furono lanciati dall’alto dai magistrati nascosti in una sorta di balconata stile locale di New Orleans. Gli regalammo una bella gigantografia che immortalava lui e tutti i magistrati della Procura in 1 Si tratta dell’indimenticabile film del 1980 diretto da John Landis e interpretato da John Belushi e Dan Aykroyd.

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ordine alfabetico, i quali, di nascosto, nei giorni precedenti, si erano fatti fotografare in toga in uno studio fotografico di fortuna. Per tutti noi presenti, magistrati della Procura, una emozione superiore a quella del nostro procuratore. Era commosso anche qualche giudice, anche se non dovrei dirlo di questi tempi: la rivelazione potrebbe essere utilizzata in Parlamento a sostegno della necessità di separare le carriere. Si sarà già compreso che mi commuovo spesso e, dunque, posso confessarlo: lo ero anche quel 29 novembre. Parlai naturalmente ai colleghi presenti della carriera di Gerardo D’Ambrosio, del suo rapporto con Emilio Alessandrini, delle sue tante storiche indagini. Ma anche di altro: Gerardo, dopo il trapianto di cuore del luglio del 1991, era diventato testimone di speranza per chi soffre senza rinunciare ad essere se stesso. Altri avrebbero compiuto scelte più comode, né avrebbero, come lui, rifiutato occasioni di successo fuori dalla magistratura. Era incredibile la sua voglia di fare e di dare. Ricordai Gerardo con la mascherina, con le medicine, con mille precauzioni, Gerardo che scherzava e rideva («ogni giorno in più è un giorno di vita che mi è regalato»), ignaro che il futuro gli avrebbe riservato gli onori e gli oneri già toccati a Borrelli. Gerardo e gli stuoli di nuovi ammiratori e ammiratrici che gli mandavano fiori. Gerardo mai a disagio con il cuore nuovo, mai più debole di altri, mai meno coraggioso che in passato. Nel settembre del 1997, mi era toccato in sorte e per sua volontà di difenderlo dinanzi al Csm: non è difficile immaginarne il peso. Ad un tratto, dopo 45 minuti di arringa in sua difesa, proprio come fanno gli avvocati più consumati, chiesi una breve interruzione, con il pretesto di riprendere fiato, ma, in realtà, per meglio carpire l’attenzione della sezione disciplinare nel mio previsto sprint finale. L’accusa a suo carico era quella di avere parlato troppo con i giornalisti (sia pure a difesa dell’onore dell’ufficio e dei suoi sostituti), ai quali aveva affidato pesanti considerazioni su qualche ministro. Mi ero sforzato di dimostrare la sua sobrietà nei rapporti con la stampa, ma, proprio durante quella pausa, con i giudici della Disciplinare ancora in aula e nell’atto di uscirne, decine di giornalisti gli si fecero incontro e lui, improvvisamente, iniziò a rilasciare un intervista, lì nel plenum del Csm, tra microfoni e telecamere. Persi la pazienza e letteralmente lo interruppi con un discreto calcio ed allontanando a spintoni i giornalisti. E lui, 318

candido, mi chiese: «Ah, ma pensi che non avrei dovuto?». Fu comunque assolto: non certo per il mio calcio, ma perché le accuse erano davvero prive di fondamento. Gerardo rappresenta un pezzo di storia di questo paese, da Piazza Fontana e dalla morte di Pinelli all’inchiesta sui falsi danni di guerra, dal terrorismo ai sequestri di persona, da Calvi ai primi passi della Dda di Milano, fino a Mani Pulite. Un bagaglio unico di esperienze giudiziarie: la storia giudiziaria d’Italia coincide in buona parte con quella professionale di D’Ambrosio. Vicende tragiche e sconvolgenti che ha affrontato sempre, da uomo libero, con quel sorriso che spesso gli illumina il volto, tra malinconia e disincanto. Ma sempre ha vissuto da vero duro perché, come diceva Chandler della sua creatura, l’investigatore Philip Marlowe, i veri duri non sono mastini dalla mascella quadrata ma romantici senza speranze. Che sanno sorridere, provare emozioni e, dunque, sanno anche piangere. È diventato per i cittadini simbolo di indipendenza di giudizio, di umanità e generosità... doti mai dismesse, neppure quando nell’aprile del ’95 venne sventato un attentato alla sua vita o quando qualcuno si permise di insinuare che avesse frapposto ostacoli all’inchiesta sulle tangenti versate ad esponenti del vecchio Pci. Gerardo D’Ambrosio, come magistrato e come uomo, avrebbe meritato quel pomeriggio ben altre parole che non le mie, modeste nei contenuti e incerte per l’emozione, sicché decisi di provare a suscitare il sorriso dei presenti raccontando che nel processo disciplinare in cui lo avevo difeso Gerardo era anche accusato di avere rilasciato un salace commento ad alcune dichiarazioni sulla magistratura rese al Senato dall’allora ministro della Giustizia Filippo Mancuso, ex procuratore generale di Roma. La stampa aveva pubblicato nel maggio del 1995 le parole di Gerardo: come difensore, riuscii a provare che non si trattava di un’intervista, ma di una frase pronunciata al bar del palazzo di Giustizia, scherzando con colleghi, carpita da un giornalista che l’aveva poi ripresa in un suo articolo. Fu così assolto, come per ogni altra imputazione. La frase era questa: «È per l’esistenza di procuratori generali come questi che per anni è potuto accadere quello che è accaduto in una situazione di sostanziale impunità. Di fronte a magistrati come questi uno cerca di consolarsi pensando che pri319

ma o poi andranno in pensione. E invece quando vanno in pensione li fanno ministri!». Conclusi il mio saluto a Gerardo parafrasando le parole incriminate: È per l’esistenza di magistrati come te che la gente può ancora avere fiducia nella giustizia. Di fronte a magistrati come te, uno si dispera sapendo che un giorno andranno in pensione. Ma si consola, sognando che, prima o poi, potranno farli ministri. Magari è difficile che questo sogno si realizzi, specie nell’immediato... ma insomma: ci possono scaricare addosso leggi come quella sulla rogatorie e sul legittimo sospetto, ma non impedirci di sognare.

Gerardo D’Ambrosio, dopo molte resistenze, è stato candidato dell’Ulivo e del Partito democratico alle elezioni politiche del 2006 e del 2008: è senatore, dunque, dal 2006. Ogni volta che un magistrato si presenta candidato in elezioni per il rinnovo del Parlamento italiano o di quello europeo, così come per elezioni amministrative, si rinnovano accuse e polemiche. Tutte si fondano su un assunto: se il magistrato sceglie la casacca di un partito, questo getta ombre sulla sua precedente attività professionale, specie se questa ha avuto per oggetto indagini e processi di grande rilievo politico o mediatico. L’offerta di una candidatura, cioè, potrebbe apparire il «premio» per precedenti comportamenti o alimentare il sospetto che essi fossero orientati dalle opzioni politiche del magistrato. La scelta dell’impegno politico, inoltre, potrebbe offuscare anche il futuro del magistrato se e quando, al termine del periodo di «prestito», egli volesse tornare al suo mestiere. Giudico le prime obiezioni infondate e incompatibili con il diritto all’elettorato passivo che spetta costituzionalmente anche al magistrato, pur se condivido l’invito rivolto alle Camere dall’Associazione magistrati2 perché sia vietato ai magistrati di presentarsi alle elezioni amministrative o di assumere incarichi di governo nella stessa regione dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare commistioni improprie tra queste e l’impegno politico. Penso che le seconde, invece, abbiano fondamento, tanto che sono personalmen2 Documento approvato il 6 marzo 2010 dal Comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati, consultabile sul sito www.associazionema gistrati.it

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te favorevole al definitivo abbandono della professione da parte del magistrato eletto ad una carica politica, specie se questa si protragga per un tempo apprezzabile. Troverei anche ragionevole, però, prevederne per legge il reimpiego in altro qualificato ramo della pubblica amministrazione, alla fine dell’esperienza politica. Ma per D’Ambrosio questo problema non si poneva: aveva scelto la strada della politica dopo il pensionamento per raggiunti limiti di età, ormai libero da ogni impegno professionale per il presente e il futuro. Se anche in questa condizione si ipotizzassero ragioni di inopportunità, si dovrebbe concludere che l’avere svolto la professione di magistrato costituisca un handicap e una penalizzazione rispetto all’esercizio dei diritti civili. Nessuno, in ogni caso, ha proposto D’Ambrosio per la carica di ministro o di sottosegretario nella precedente legislatura, né, in quella in corso, ha pensato a lui come «ministro ombra», cioè responsabile dell’opposizione nel settore della giustizia. Sono certo che lui non se ne duole. L’Associazione nazionale magistrati: una storia da non dimenticare Molti magistrati, specie negli ultimi anni, sostengono che l’approdo al Csm costituisca il punto d’arrivo al termine di una sorta di carriera associativa. E si dolgono se chi ha svolto attività associativa a livello dirigenziale o è stato componente del Csm transiti poi tra i magistrati fuori ruolo presso il ministero della Giustizia o altri ministeri. Insomma, viene denunciata l’esistenza di una sorta di carriera parallela o alternativa rispetto a quella di chi passa i giorni seduto alle scrivanie di uffici, spesso in condizioni di estrema difficoltà. Vi è un fondo di verità in queste impietose valutazioni, ma si scivola nel qualunquismo, a mio avviso, se accuse di questo tipo vengono formulate in modo immotivato e indistinto. Penso, infatti, che le esperienze di molti magistrati possano risultare proficue anche in incarichi ministeriali se si conservano, come ho detto, le caratteristiche di indipendenza e autonomia proprie della nostra professione. Ma penso anche che la vita associativa possa assumere un significato alto ove non comporti disattenzione verso i propri doveri professionali e sia ispirata non da logiche particolaristiche, bensì dai valori e dagli scopi che furono condivisi dai magistrati che il 13 giugno del 1909 fondarono, a Mi321

lano, l’Associazione generale tra i magistrati italiani (Agmi, come allora si chiamava). Personalmente, non ho mai svolto alcun incarico ministeriale, né mai me n’è stato offerto alcuno. Ne capisco la ragione. Sono invece diventato segretario nazionale del Movimento per la Giustizia alla fine del 2002 e componente del Comitato direttivo centrale dell’Associazione magistrati nel 2004, cioè, rispettivamente, uno e due anni dopo la cessazione della mia esperienza nel Csm. Rivendico con un certo orgoglio di avere scelto di candidarmi a quei ruoli – elettivi anch’essi come quello del Csm – e di averli rivestiti, pensando a un’Associazione capace di difendere la dignità e l’indipendenza assoluta dei magistrati più dei loro stipendi, attenta ai diritti dei cittadini più che a talune pur comprensibili esigenze della nostra «corporazione». Ha detto giustamente Giuseppe Berruti, componente del Csm nel quadriennio 2006-2010, che usare per l’Anm la definizione di «sindacato delle toghe» è un modo per intaccarne l’autorevolezza. A tanti giovani colleghi che progressivamente perdono fiducia in chi li rappresenta raccomando di esercitare il diritto di voto in modo consapevole, premiando gli sforzi di chi si adopera – nel Csm e nell’Associazione – nell’interesse dei cittadini e della magistratura italiana, anziché del gruppo di appartenenza, ma chiedo anche di conoscere e ricordare la storia della nostra Associazione, che è una storia bella e ricca. Già negli anni precedenti la fondazione dell’Associazione generale tra i magistrati italiani3, precisamente nell’agosto del 1907, il guardasigilli Vittorio Emanuele Orlando aveva diramato una circolare ai capi delle Corti nella quale rilevava con rammarico la diffusione tra i magistrati del «costume di pubblicamente interloquire intorno a questioni attinenti l’esercizio dell’ufficio loro, sia 3 Nell’aprile 1904, un gruppo di 116 magistrati in servizio nella Corte d’Appello di Trani sottoscrisse un proclama per rivendicare la dignità della funzione e sollecitare la riforma dell’ordinamento giudiziario. Quel documento, conosciuto come il «Proclama di Trani», è considerato il primo passo sulla strada della successiva formale fondazione dell’Associazione magistrati nel 1909. Il testo di questo documento può essere letto in Cento anni di Associazione magistrati, a cura di Edmondo Bruti Liberati e Luca Palamara, Ipsoa, Milano 2009. La storia dell’Anm è anche dettagliatamente narrata nel sito dell’Associazione (www. associazionemagistrati.it).

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sotto forma di interviste, sia con lettere o con articoli», e concludeva minacciando sanzioni in caso di abusi. Lo stesso ministro, in una intervista al «Corriere d’Italia» del 23 agosto 1909, a proposito della ormai intervenuta fondazione dell’Agmi, esprimeva «dubbi gravissimi sulla possibilità che l’iniziativa produca frutti utili e degni». E ancora dichiarava il ministro Orlando all’intervistatore: Una delle funzioni essenziali del fenomeno associativo sta nella combattività delle associazioni stesse [...]. Sotto questo aspetto, ella già intende come sia indifferente la considerazione che una eventuale associazione fra magistrati si dichiari (e come potrebbe essere diversamente?!) apolitica. Lasciamo anche stare che tutte le associazioni fra funzionari cominciano col porre detta affermazione, ma poi nella loro effettiva attività difficilmente vi si mantengono fedeli. Ma, ripeto, anche a prescindere da ciò, la discussione combattiva di idee, di tendenze, quando si svolge nel seno di funzionari, costituisce per sé stesso un atto che ha valore ed efficienza politica nel largo senso di questa espressione.

La rottura della separatezza della casta, l’apertura alla politica, la messa in crisi del principio gerarchico e della stessa dipendenza della magistratura rispetto all’esecutivo erano appunto la stessa ragione d’essere della Associazione. Del resto, proprio nella seduta di fondazione dell’Agmi, Giovanni Sola, appena assunta la presidenza, esordì osservando: «La magistratura italiana, già da tempo, sente il bisogno di uscire dal suo isolamento di fronte allo sviluppo economico e sociale del paese e ai complessi problemi che tuttora gravano insoluti sugli ordinamenti della giustizia». Sono parole e concetti che riecheggeranno negli anni successivi e che consideriamo attuali ancora oggi. Ai giovani colleghi, però, raccomando anche un significativo documento del 1926. L’Agmi come tutte le libere associazioni, non poté sopravvivere al regime fascista. Ma spesso si trascura che non fu il fascismo a scioglierla, come si crede, ma fu l’assemblea generale della Associazione stessa a deliberare significativamente il proprio scioglimento, il 21 dicembre 1925, a seguito del rifiuto dei suoi dirigenti di trasformare l’associazione stessa in sindacato fascista. L’ultimo numero de «La Magistratura», datato 15 gen323

naio 1926, pubblicò un editoriale non firmato dal titolo L’idea che non muore. Vi si diceva: Forse con un po’ più di comprensione – come eufemisticamente suol dirsi – non ci sarebbe stato impossibile organizzarsi una piccola vita senza gravi dilemmi e senza rischi, una piccola vita soffusa di tepide aurette, al sicuro dalle intemperie e protetta dalla nobiltà di qualche satrapia [...]. La mezzafede non è il nostro forte: la «vita a comodo» è troppo semplice per spiriti semplici come i nostri. Ecco perché abbiamo preferito morire4.

La conseguenza di questo gesto di sfida fu la scelta del regime di destituire dalla magistratura – con il Regio decreto del 16 dicembre 1926 – i più noti dirigenti dell’associazione, a cominciare dal segretario generale Vincenzo Chieppa, l’autore dell’articolo citato. Altri magistrati, invece, andarono a prestare disonorevole servizio nel Tribunale della Razza, istituito con una legge del luglio del 19395. Solo con la caduta del fascismo si ricostituì immediatamente la Associazione nazionale magistrati italiani6 e la rivista «La Magistratura» riprese subito le sue pubblicazioni. Vincenzo Chieppa venne riassunto in magistratura e fu uno dei dirigenti della ricostituita Associazione dei magistrati. Sono orgoglioso di appartenere a un’associazione che ha questa storia e che non a caso raccoglie il 94% dei magistrati italiani. Dunque, pur dando per scontato che anche al nostro interno si manifestano talvolta condotte incompatibili con il codice deontologico che ci siamo dati (tra cui contiguità politiche, insufficiente operosità e scarsa sensibilità al pubblico interesse), non comprendo come oggi sia possibile per molti magistrati dimenticare le nostre radici, reclamare per l’Anm una prevalente attenzione agli aspetti economico-sindacali e snobbare indifferenti i valori alti che ci legano. In un suo intervento del febbraio 1988, a proposito di una mia pubblica presa di posizione contro la tendenza al perdonismo verIn Cento anni di Associazione magistrati cit. Il Tribunale della Razza fu istituito con la Legge 13 luglio 1939, n. 1024. 6 Ciò avvenne il 21 ottobre del 1945. 4 5

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so i terroristi detenuti che in quel periodo si stava facendo strada nel paese, Indro Montanelli si dichiarava d’accordo con me ed affermava che mi si doveva dare pieno credito, posto che molte persone gli avevano parlato di me «come uno dei pochi magistrati seri ed onesti ancora rimasti sulla breccia»7. La ragione che mi spinge a citare questo giudizio è direttamente collegata alla considerazione che ho della magistratura italiana. Appreso dell’articolo, infatti, mandai una lettera a Montanelli, spiegando che scrivevo per fargli «garbatamente osservare come risulti per me inaccettabile (e credo che lo sarebbe per qualsiasi altro mio collega) ogni positivo apprezzamento che passi attraverso la denigrazione indiretta dell’intera categoria cui appartengo che, secondo le sue parole, sarebbe composta in maggioranza da persone poco serie e disoneste». Aggiungevo che ero certo che fosse incorso «in una involontaria generalizzazione, spiacevole ed ingiusta almeno quanto lo sono quelle secondo cui solo pochi politici sarebbero onesti, solo pochi giornalisti preparati e davvero indipendenti, e così via». Gli chiesi di pubblicare la mia lettera che così concludevo: «Se non di involontaria generalizzazione si fosse trattato, sarei costretto a rispedire al mittente ogni pur favorevole considerazione nei miei confronti»8. Montanelli stesso apprezzò la mia lettera e la pubblicò in prima pagina9. Ecco, credo proprio che se i magistrati italiani si mostrassero compatti nella consapevolezza dei caratteri della propria alta funzione e della propria dignità, il che non significa affatto indulgere in atteggiamenti corporativi, la loro credibilità ne risulterebbe rafforzata. E a tutte le persone in buona fede sarebbe ancor più chiara la verità di quanto Virgino Rognoni ha detto il 25 giugno del 2009, nella Sala degli Orazi e Curiazi, in Campidoglio, celebrando il centenario dell’Associa-

Indro Montanelli, Il perdonismo, in «il Giornale», 3 febbraio 1988. La lettera a Indro Montanelli è datata 7 marzo 1988. 9 Indro Montanelli, Il giudizio ribadito, in «il Giornale», 3 aprile 1988. L’articolo, dopo un benevolo inciso in cui Montanelli affermava che le mie parole «confermavano in pieno ciò che aveva scritto su di me», così si chiudeva: «Non so in che proporzione siano i magistrati seri ed onesti rispetto a quelli poco seri e disonesti. Ma se lo sono nella stessa proporzione in cui i giornalisti indipendenti sono rispetto a quelli ‘di servizio’, il dottor Spataro rinvii pure al mittente il giudizio. Non posso che ribadirlo». 7 8

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zione nazionale magistrati, cioè che in questi anni difficili «la magistratura italiana ha dato prova di patriottismo costituzionale». Le manifestazioni contro le cosiddette «leggi vergogna» Tra la fine del 2002 e la primavera del 2006 sono state numerose le iniziative cui ho preso parte come dirigente del Movimento per la Giustizia e dell’Associazione nazionale magistrati. Alcune, ovviamente, sono rimaste impresse con maggior nitidezza nella mia memoria. Il 14 settembre del 2002, ancora nel limbo postconsiliare e in attesa di tornare alla Procura di Milano, partecipai alla indimenticabile manifestazione di Roma, dinanzi alla basilica di San Giovanni in Laterano. Centinaia di migliaia di persone erano arrivate da ogni parte d’Italia sia per manifestare contro quelle che ormai venivano definite le «leggi vergogna»10, sia – soprattutto – per esternare le loro preoccupazioni per le sorti della democrazia in Italia. C’erano anche numerosi magistrati e questo scatenò le reazioni di molti politici della maggioranza: nonostante io e Juanito Patrone, all’epoca segretario di Magistratura democratica, al cui fianco partecipai alla manifestazione, avessimo tentato di spiegare a qualche importante quotidiano le ragioni della nostra presenza e la sua piena compatibilità con l’esercizio imparziale della nostra funzione, si sprecarono le affermazioni di chi riteneva quella partecipazione la prova della degenerazione della magistratura italiana. Non è possibile per molti comprendere e credere che un magistrato possa ben testimoniare con la sua presenza e le sue parole l’adesione al modello astratto di magistrato indipendente previsto dalla nostra Costituzione allorché esso venga posto in pericolo da una legislazione ispirata da interessi particolaristici o personali ed essere nel contempo del tutto imparziale nell’applicazione di quelle stesse leggi e nei confronti di chi abbia concorso ad ispirarle o votarle. Ma se quelle polemiche mi lasciarono indifferente tanto da averle dimenticate, ricordo invece la ricchezza degli sguardi e dei sorrisi che capitava di scambiarsi tra persone 10 Una loro esaustiva elencazione può essere letta in Appendice, par. 6, nel testo dell’appello Un impegno per la giustizia, di cui si parlerà alla fine di questo capitolo.

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che si incontravano per caso tra la folla in piazza San Giovanni e che si riconoscevano. Mentre a tarda sera stavo andando via e Fiorella Mannoia stava cantando dal palco, un gruppo di napoletani del circolo Millepiedi mi riconobbe: le mie mani furono prese e fui quasi costretto a fare un girotondo con loro. Dopo un minuto riuscii a sganciarmi, ringraziai i napoletani e me andai via più contento di prima. Fortunatamente nessun giornalista assistette alla scena: oggi posso ammettere l’addebito anche grazie alla successiva legge «ex Cirielli», generosa in materia di prescrizione! Don Giuliano Ma in quella sera di settembre del 2002 a San Giovanni c’era anche don Giuliano Zattarin, persona di grande spessore e prete vero e discreto. Aveva organizzato un pullman e dal Polesine – così ricco di passione civile – aveva portato i suoi parrocchiani nella piazza romana piena di speranze: un suo bell’articolo fu pure pubblicato su «MicroMega» a ricordo di quella partecipazione11. Don Giuliano, all’inizio del 2005, era parroco a Pezzoli, frazione di un piccolo paese nel Polesine: la sua parrocchia era sempre illuminata, e di sera le luci si vedevano anche nella nebbia fitta della zona. Don Giuliano è il classico prete scomodo, che ha ricevuto critiche ed ostilità per le sue iniziative. Ma non se ne è mai curato anche se le parrocchie che la gerarchia ecclesiastica via via gli affidava erano sempre più piccole. Forse i problemi derivavano dal fatto che la parrocchia – secondo don Giuliano – non è altro che «il luogo dove non solo deve vivere la fede, ma anche il promuovere e diffondere un impegno civile e culturale, che è proprio di tutti i cristiani». Se poi non tutti lo capiscono e se molti gli manifestano, anzi, critiche e incomprensione, lui risponde: «Quello che ho fatto è stato all’insegna di una grande libertà interiore. Vedo che la gente mi vuole bene e questo conta, incoraggia più delle critiche». Tutti lo chiamano Giuliano. «Che strana cosa per un prete!», ho pensato la prima volta che mi ha invitato dalle sue parti e ho sentito tanti chiamarlo così, per nome, senza il consueto «don». Giuliano è un prete che riesce a muovere coscienze di donne e di uomini di ogni età, di tutti i suoi parrocchiani e di quelli che conver11

Don Giuliano Zattarin, Quel pullman da Pezzoli, in «MicroMega», 3, 2002.

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gono nella sua chiesa o nel vicino teatro tenda da ogni parte del Veneto quando lui li chiama per parlare di anima, di politica, di arte e cultura, di cinema e giustizia, di informazione e censura, di guerra, di mafia e di corruzione... Giuliano è un prete dolcissimo e silenzioso, pochi lo conoscono fuori dal Veneto, perché non è in prima fila nelle manifestazioni no-global, non collabora con la polizia nelle retate contro la pedofilia informatica, non va in televisione, non si irrita, non urla, non è invadente e, soprattutto, la politica non lo cerca. Giuliano fa il prete, veramente. E nelle sue manifestazioni affollate siede in platea, tra la sua gente che lo ama e gli è vicina: non si vuole appropriare di niente, vuole solo dare. All’inizio del 2005, Giuliano è partito per lunghi anni di missione nel cuore del Brasile, per andare in una provincia poverissima. Don Giuseppe, un altro prete che vi aveva lavorato, così descrisse quella zona: Un giorno sono entrato in una casa che non aveva la porta, e ho visto una donna tutta rugosa e senza denti con tre bambini piccoli, vicino al fuoco acceso sotto una pentola. Le ho chiesto se erano i suoi nipoti (pensavo avesse 60 anni almeno) e mi ha risposto che erano i suoi figli, lei aveva 32 anni! Poi ho curiosato nella pentola (come facciamo noi preti) e ho visto che c’era un mattone a bollire. La spiegazione della donna è stata che i bambini vedendo la pentola sul fuoco smettevano di piangere. Lei poi avrebbe dato loro da «mangiare» l’acqua in cui era stato bollito il mattone e questo in qualche modo e per qualche tempo avrebbe calmato la loro fame12.

Non riuscii ad essere presente il giorno in cui tanti suoi amici lo festeggiarono e salutarono, nella sua parrocchia, prima della partenza. Claudio Sabelli Fioretti, quella sera, fece per tutti una promessa: «Caro Giuliano, al tuo ritorno ci impegniamo a farti trovare un’Italia migliore». Ma, ogni volta che per pochi giorni all’anno torna in Italia, il miraggio di quel regalo si allontana sempre più. Come regalo a Giuliano, il giorno della sua partenza, partì una raccolta di fondi per permettergli di aiutare un po’ i poveri... sperando che i bambini che avrebbe incontrato non sarebbero 12 Questa e le altre citazioni che seguono sono tratte da un resoconto della serata di saluto a don Giuliano redatto nel febbraio 2005 da Jole Garuti, dirigente nazionale di Libera, e diffuso – su sua richiesta – per posta elettronica a indirizzi di associazioni e privati cittadini.

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stati costretti, magari solo per poco tempo, a «nutrirsi» di brodo di mattone. Marco Travaglio, come tanti, gli ha dedicato un bel ricordo che voglio in parte riportare: Quando penso a don Giuliano che parte per il Brasile, mi viene in mente don Camillo che va via da Brescello e non trova nessuno in piazza a salutarlo. Poi però, nella stazione successiva, il treno rallenta perché c’è l’intero paese in trasferta, con la banda, i salami, le caciotte e il lambrusco. Ecco: all’aeroporto, quando partirà per il Brasile, non ci sarà soltanto tutta Pezzoli, tutta Sariano, mezzo Polesine, ma anche – idealmente – i tanti che l’hanno conosciuto, gli hanno voluto e gli vogliono bene, e che negli anni sono passati dal suo teatrino e dalla sua chiesa seminando verità scomode, cioè verità. Tutti lì a suonare nella banda mentre l’aereo si alza in volo. Quando penso a un uomo libero, penso a don Giuliano. E, ovunque sia, è bello sapere che c’è.

La riforma della Costituzione e l’impegno per il «No» nel referendum Torniamo, però, alle iniziative cui presi parte, tra il 2004 e la primavera del 2006, tese a contrastare la pessima riforma costituzionale messa in cantiere e poi approvata dalla maggioranza di centrodestra che governava il paese in quegli anni. Partecipai attivamente, così, insieme a moltissimi colleghi, ad ogni iniziativa promossa dalle associazioni Astrid, Libertà e Giustizia, Comitati Dossetti, dalle confederazioni sindacali, dall’Anpi e da chiunque altro. Il Movimento per la Giustizia e Magistratura democratica aderirono anche formalmente al Comitato per la difesa della Costituzione di cui fu nominato presidente Oscar Luigi Scalfaro. A qualche collega e a consistenti spezzoni della Associazione magistrati pareva improprio, se non addirittura inaccettabile, che i magistrati potessero impegnarsi – e impegnandosi, esporsi – nella campagna per spingere i cittadini a votare «No» nel referendum confermativo della riforma approvata che si sarebbe tenuto nel giugno del 2006. A tanti di noi, invece, quell’impegno appariva doveroso: come è noto, le leggi di revisione della Costituzione devono essere adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi. Ma, se non vi era dubbio che i numeri di cui la maggioranza disponeva in Parlamento, così come il ri329

fiuto di qualsiasi seria riflessione sulle conseguenze disastrose per il paese, avrebbero portato all’approvazione della riforma, era altrettanto certo che non sarebbero stati sufficienti a evitare il previsto referendum popolare per la conferma della legge. Dunque, bisognava attivarsi perché il «No» prevalesse nella consultazione referendaria, raggiungendo i cittadini più giovani e gli studenti, nelle scuole, nelle università, nei centri sociali e nei quartieri, anche attraverso gli strumenti informatici e le moderne tecnologie, né poteva essere trascurato il coinvolgimento della rete delle istituzioni locali nella campagna per rendere consapevoli i cittadini dei rischi che correva il nostro assetto costituzionale. Era anche entrata nel vivo, sin dal 2003, l’azione di governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario, ma personalmente ero più preoccupato per la riforma della Parte II della Costituzione. Secondo chi ci governava, quella riforma sarebbe servita a rinnovare il paese, a renderlo moderno e a tutelare più efficacemente i diritti dei cittadini. Ma bastava qualche sommaria considerazione per smascherarne il vero assunto di partenza: la concezione dell’esercizio del potere di governo quale funzione che non tollera bilanciamenti. Un marchio di fabbrica riconoscibile anche in altre leggi e riforme intervenute nei settori pubblici dell’istruzione e della ricerca, della informazione, della sanità e del lavoro. Avevo a tal proposito organizzato a Milano, nel gennaio del 2004, insieme ad Articolo 21, Libertà e Giustizia e pochi colleghi del Movimento per la Giustizia, un convegno pluritematico su Controriforme e diritti dei cittadini, così presentandolo nei documenti diffusi: La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica; tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo e la libertà di insegnamento in condizioni di parità tra scuole private e statali; la Costituzione afferma la libertà di stampa e di informazione, l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e l’autonomia della magistratura. Ma le riforme ed i progetti di riforme che oggi si affollano nel settore pubblico stanno mettendo a dura prova la «resistenza» di questi principi.

Nella sala affollatissima della Provincia, in via Corridoni a Milano, con centinaia di persone impossibilitate ad entrarvi, furono molte le voci autorevoli che, con la conduzione di Curzio Maltese 330

e Marco Travaglio, intervennero sulle sofferenze del settore pubblico: Carlo Bernardini sulla crisi della ricerca, Rosy Bindi sulla sanità, Giuseppe Casadio sul mondo del lavoro, Tullio De Mauro su quello dell’istruzione pubblica, Paolo Ferrua sulla giustizia, Alessandro Pizzorusso sui progetti di riforma della Costituzione, Sergio Zavoli sull’attacco a stampa ed informazione televisiva. Paolo Flores d’Arcais intervenne su «Passione civile, storia e verità di Stato». La manifestazione registrò, soprattutto, un grande intervento di Oscar Luigi Scalfaro, capace anche quella sera di sintetizzare le ragioni della perdurante modernità della nostra Carta Costituzionale. Rammento anche che, prima dell’inizio del convegno, una persona dello staff del candidato del centrosinistra alle imminenti elezioni per la presidenza della Provincia di Milano mi fece presente che al candidato stesso avrebbe fatto piacere poter salutare i presenti in apertura di serata. Gli opposi un cortese rifiuto, spiegando che quella era una manifestazione in difesa dei principi della Costituzione che non hanno colore. E proprio per questa ragione, in quel convegno, noi magistrati abbiamo voluto discutere non solo dei problemi della giustizia ma dei problemi dell’intero settore pubblico. Lo scopo era denunciare in via prioritaria i rischi connessi al progetto di riforma della Costituzione e smascherarne il mistificante spot pubblicitario con cui veniva presentato: altro che paese modernizzato ed efficiente! Del resto, fu per la stessa ragione che a gennaio del 2005, in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario, tutti i magistrati italiani vi parteciparono stringendo in mano, ben visibile, una copia della Costituzione quale forma di protesta contro le riforme messe in cantiere dal governo. Ancora non sapevamo che allo stesso modo e per le stesse ragioni ci saremmo comportati a gennaio del 2010 in occasione della stessa cerimonia e che, anzi, indossando la toga, avremmo abbandonato l’aula magna al momento del discorso del rappresentante del ministero della Giustizia. In quegli anni, la maggioranza politica lamentava – come avviene ancora oggi – l’esistenza di un groviglio di laccioli imposti alla propria azione così da compromettere la governabilità del paese e la realizzazione del programma premiato dagli elettori. Ecco, dunque, che la riforma costituzionale si proponeva, tra gli obiettivi declamati, quello dell’incremento dei poteri dell’esecutivo. Nel futuro nuovo ordine costituzionale, infatti, il premier sarebbe diventato padrone 331

assoluto della politica, del Parlamento, con potere di chiedere ed ottenere lo scioglimento della Camera dei deputati e, in caso di crisi del governo e caduta del premier, era previsto il ritorno al voto perché sarebbero caduti tutti (simul stabunt aut simul cadent, era stato efficacemente detto). Ma il previsto incremento dei poteri dell’esecutivo passava anche attraverso il contestuale svuotamento di competenze e poteri delle istituzioni di controllo e garanzia: presidente della Repubblica, Corte Costituzionale e Parlamento, da un lato, Consiglio superiore della magistratura dall’altro. Aveva efficacemente sottolineato Oscar Luigi Scalfaro13 che il capo dello Stato, in quel progetto, veniva «lasciato in canottiera» e così consegnato al premier: ridotto a un ruolo puramente decorativo, eletto a maggioranza assoluta dopo il quinto scrutinio (e, dunque, come aveva scritto Giovanni Sartori, vincolato a «sicura obbedienza»), egli avrebbe potuto esercitare solo alcuni marginalissimi poteri e, significativamente, non gli sarebbero più spettati il potere di scioglimento delle Camere (se non su richiesta, per morte o dimissioni del premier), né la risoluzione delle crisi di governo, né il conferimento dell’incarico di presidente del Consiglio. La sua firma su tutti gli atti di governo, inoltre, diventava «dovuta» senza possibilità di rifiuti o rinvii. La stessa Corte Costituzionale, sottoposta a violenti attacchi dopo la bocciatura del cosiddetto lodo Schifani ed altre sgradite decisioni, diventava terreno di conquista attraverso un sistema di designazione dei suoi componenti che ne avrebbe accresciuto il tasso di politicità in senso stretto: ridotti a quattro sia i giudici costituzionali nominati dalle supreme magistrature ordinarie e amministrative, sia quelli nominati dal presidente della Repubblica; aumentati a sette quelli di nomina politica, di cui tre dalla Camera e quattro dal nuovo Senato federale. Si trattava di soluzioni che avrebbero ancor più allargato il solco, già esistente, tra l’Italia e il resto del mondo occidentale, ove nessuno ha mai pensato di attenuare il peso dei controlli bilanciati e reciproci che sono l’essenza di ogni sistema democratico. Per non dire delle scelte disgregative dell’unità nazionale, vale a dire della struttura portante della Repubblica nel sistema costituzionale, che emergevano dal progetto di riforma: vi si preve-

13 Nel suo intervento al convegno intitolato Salviamo la Costituzione (Milano, 19 giugno 2004), organizzato da Libertà e Giustizia, Astrid e da Cgil, Cisl e Uil.

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deva, infatti, l’attribuzione alle Regioni della competenza esclusiva, oltre che «in ogni altra materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato», in settori cruciali della vita dei cittadini come quelli dell’assistenza e organizzazione sanitaria, dell’organizzazione scolastica (compresa la parte riguardante i programmi scolastici di interesse regionale) e della gestione degli istituti scolastici e di formazione, e della polizia locale, così «mettendo a rischio l’universalità dei diritti all’istruzione, alla salute ed alla sicurezza»14; una deteriore devolution che, rischiando di ostacolare la condivisione delle risorse e di allargare il divario tra zone più povere e più ricche del paese, costituiva certo la condizione posta dalla Lega per assicurare il suo appoggio a quella maggioranza di governo. Non stupiva, dunque, che un ministro della Giustizia di quello stesso partito annunciasse che, subito dopo la separazione delle carriere – che già avrebbe frantumato l’omogeneità della cultura giurisdizionale della magistratura – sarebbe stato opportuno introdurre nel nostro sistema l’elezione su base territoriale dei pubblici ministeri e dei giudici15. Passando dai contenuti al metodo, la riforma si era caratterizzata, nella fase di avvio, per l’intervento di quattro «saggi» che, durante un paio di giorni estivi trascorsi a Lorenzago di Cadore, avevano deciso i principi fondanti della nuova Costituzione. Allo stesso modo altri «saggi», in via Arenula ed in pari numero, avevano riformulato l’ordinamento giudiziario, sia pure periodicamente aggiungendovi commi ed elidendo articoli in un vorticoso succedersi

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Franco Bassanini, Non ci resta che il referendum, in «l’Unità», 26 marzo

2004. 15 Sulle possibili nefaste conseguenze dell’introduzione dell’elezione di giudici e pm da parte del popolo, Stefano Nespor ha scritto un interessante articolo (Denaro e giustizia: come si fa ad avere un giudice indipendente, www. federali smi.it, 26 giugno 2009) che ha preso spunto da una sentenza della Corte Suprema federale degli Stati Uniti. Il caso in esame (Caperton v. Massey) riguardava la composizione della Corte Suprema del West Virginia che aveva deciso una causa per un risarcimento di 50 milioni di dollari. La Corte Suprema federale ha annullato la decisione della Corte del West Virginia per mancata astensione di un giudice che, durante la campagna elettorale, aveva beneficiato della erogazione di un contributo economico da parte di una società poi coinvolta nella causa. Ma a partire dal caso abbastanza semplice, Nespor sviluppa una serie di riflessioni sulle difficoltà di garantire l'indipendenza dei giudici che, per ottenere la carica, si impegnino con legittimi sostegni nelle preliminari campagne elettorali.

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di testi e maxiemendamenti partoriti dal ministero della Giustizia. Eppure il termine «saggi», nel suo significato lessicale e nel gergo politico, evoca il possesso e l’uso del buon senso, più che il dominio del tecnicismo: ma questi saggi (ciascuno dei quali rispettivamente espresso dai partiti di maggioranza), evidentemente dotati dell’uno e dell’altro in massima misura, avevano riscritto la Parte II della Costituzione e leggi organiche come la riforma ordinamentale, senza alcun supporto della dottrina costituzionale o della scienza giuridica, bastando l’accordo e la benedizione di pochi. Il tutto in un quadro solo apparente di disponibilità al dialogo e di attenzione alle ragioni altrui: a grandi dichiarazioni di principio avevano fatto seguito, infatti, testi blindati, contingentamento dei tempi di discussione in un Parlamento umiliato e – come nel caso della riforma dell’ordinamento giudiziario – mozioni di fiducia su nuovi emendamenti sconosciuti, fino al giorno precedente, ai parlamentari ossequienti chiamati al voto di fiducia. Ma, come osserva Eligio Resta, «Una continua richiesta di fiducia nasconde un’intrinseca debolezza. Quando blinda il contenuto della singola decisione, la fiducia sposta l’obbligo del confronto dialogante sulle argomentazioni, che legittimano le deliberazioni, sul confronto muscolare dei numeri [...] evita la discussione stessa»16. Ed Andrea Manzella, a sua volta, osservava, dopo il voto del Senato favorevole alla greve revisione della Carta Costituzionale, che «il dato forse più grave di questa decisione di maggioranza è stata la banalizzazione della Costituzione. La sua riduzione a oggetto di un baratto esclusivo al gruppo di governo. Un mercanteggiamento con poste che non erano idee e tesi sul costituzionalismo, ma assestamenti interni alla coalizione prevalente»17. Era a partire da questi semplici rilievi che, secondo una buona parte della magistratura, occorreva immediatamente mobilitarsi per difendere e salvare Costituzione e giustizia dalle visibili tendenze disgregative dello Stato di diritto e per contrastare l’involuzione dei rapporti tra potere, istituzioni e cittadini che esse stavano ormai determinando. Ricordo che per queste ragioni abbiamo in tanti girato l’Italia in lungo e in largo per parlare di CoEligio Resta, Le regole della fiducia, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 29 e 31. Andrea Manzella, Il baratto delle istituzioni, in «la Repubblica», 26 marzo 2004. 16 17

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stituzione, legalità, eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, di diritti fondamentali e dovunque fosse possibile – accanto ad accademici, associazioni, circoli e cittadini impegnati in quella battaglia – chiedevamo di votare «No» in occasione del referendum confermativo che si prevedeva sarebbe stato necessario dopo l’approvazione della riforma, che sempre più spesso definivamo «controriforma». Oscar Luigi Scalfaro Furono particolarmente forti le emozioni che provai la sera del 15 dicembre del 2004, intervenendo in una delle manifestazioni – Costituzione: un patrimonio da salvaguardare – nello stracolmo auditorium di Novate Milanese, un paese alle porte di Milano, al fianco di Oscar Luigi Scalfaro. Le emozioni non scaturivano certo dai temi tecnici trattati ma dalle parole di quell’uomo infaticabile, uno dei padri della Repubblica, che, con l’entusiasmo di un trentenne, si batteva e si batte ancora contro la dissoluzione dello Stato di diritto. Passava dal Senato alle piazze, dai teatri delle metropoli alle parrocchie dei paesi; sapeva parlare ad anziani ex partigiani e a giovani studenti, ai genitori e ai figli, a tutti; e sempre lo faceva a braccio, senza testi scritti davanti, con lucidità di ricordi e profondità di analisi. Eravamo abituati a considerarlo un politico illuminato, ma certamente anche moderato. E il fatto che fosse stato in gioventù un magistrato era un dato quasi perso nella nostra memoria: ne ricordavamo soprattutto la lunga e prestigiosa carriera politica fino alla più alta carica dello Stato. Ma Scalfaro era ormai anche l’acclamata guida del Coordinamento dei comitati contro la riforma costituzionale che proliferavano come funghi in tutto il paese. Egli si era trasformato in testimone itinerante di verità, per questo venendo immediatamente qualificato come estremista, sovversivo, nemico del governo e della maggioranza dell’epoca. E così ancora oggi. Strana sorte per chi, dopo Rognoni, era stato ministro dell’Interno durante gli anni bui del terrorismo; bizzarro destino per chi aveva rappresentato l’unità dello Stato e impedito che Previti diventasse ministro della Giustizia. L’avevo sentito parlare con la consueta passione varie altre vol335

te, ma mai ero stato seduto al suo fianco per oltre due ore, a parlare con lui, prima di lui, a commuovermi ascoltandolo raccontare di quando, a ventisette anni, sedeva come costituente accanto a giuristi eccelsi, che però egli ricordava soprattutto come «persone che non avevano mai piegato la schiena dinanzi alla dittatura pagando di persona con il carcere, il che vale più di ogni scienza giuridica». Perché – diceva Scalfaro – «la schiena dritta devono averla tutti, pure i padri di famiglia, anche se, per tenerla dritta, la schiena bisogna prima averla». Perché ricordava che «questa riforma costituzionale è aberrante ed intollerabile», aggiungendo, a proposito dell’atteggiamento del Parlamento e di quanti – ex democristiani e suoi ex compagni di partito in testa (le «tigri di carta» le aveva definite Eugenio Scalfari) – si piegavano al volere di uno solo, «di avere conosciuto un solo carattere dell’animo umano veramente immutabile nel tempo, la vocazione ad essere servi!». Perché ammoniva tutti a non perdere la memoria dei pilastri su cui è fondata la nostra Repubblica: «il grande NO alla dittatura fascista, le sofferenze di chi vi si è opposto, la lotta partigiana». Perché tuonava contro la vergogna dei processi in tv, ad uso e consumo dei potenti e degli avvocati di turno. Perché incitava i cittadini a non accontentarsi delle «verità parziali che sono come le menzogne totali» e li invitava a ricordare che «garante della Costituzione è ciascuno di voi e che si voterà per difendere libertà e democrazia nel paese». Perché ricordava che la nostra Costituzione non fu approvata da quattro-cinque persone durante un weekend in un’amena località di montagna, ma dopo diciotto mesi di lavoro da 556 parlamentari e giuristi di ogni estrazione. Perché concluse il suo intervento rivendicando orgogliosamente il suo passato di magistrato e perché mi chiamò – quella sera e altre ancora – «collega». Alla fine la gente lo soffocò di abbracci e di strette di mano e a tutti – dico a tutti – Scalfaro riservava un sorriso, una parola, una domanda affettuosa, una dedica su un libro o su un qualsiasi pezzo di carta stropicciata, sotto gli occhi devoti dei suoi uomini di scorta, che lo accompagnavano come figli di un padre da preservare in eterno. Salutandolo, gli confidai che l’indomani sarebbe stato il mio compleanno e lo ringraziai per quel dono ricco ed esaltante – le sue parole – che quella sera avevo ricevuto. Abbracciandomi, mi disse: «Auguri infiniti, caro collega, posso darle del tu?». 336

Massimo D’Alema e Romano Prodi a Libertà e Giustizia Non tutte le manifestazioni di quel periodo erano occasione di simili emozioni: poco meno di due settimane prima di quello di Novate, nel dicembre del 2004, avevo partecipato a un incontro con Massimo D’Alema: era stata l’associazione Libertà e Giustizia ad invitarmi, chiedendomi di porgli dal pubblico una domanda sui temi della giustizia (così come ad altri partecipanti era stato chiesto di fare su altri argomenti). Eravamo nello Spazio Krizia di Milano, c’erano almeno trecento persone. Gli chiesi, dopo un garbato preambolo e senza alcun riferimento alla pessima stagione della Bicamerale, se la sua coalizione intendesse proporre – nel futuro programma elettorale – la cancellazione delle cosiddette «leggi vergogna». Un intellettuale presente gli chiese pure se ritenesse che la situazione politica del paese legittimasse l’uso del termine «regime». D’Alema affermò di non ritenere che in Italia esistesse un «regime». Altrimenti, argomentava, non sarebbe stato neppure possibile porre quella domanda. Non prese neppure in considerazione la possibilità che, secondo molti, il regime potesse esistere anche in assenza di carri armati in piazza e militari in Parlamento. Eppure la riforma in discussione – se approvata e poi confermata dal referendum – avrebbe drasticamente ridimensionato il coinvolgimento dei cittadini nelle decisioni che li riguardavano: sarebbe stato ridotto alla partecipazione al voto ogni cinque anni, per eleggere una maggioranza e un premier che avrebbero poi esercitato un potere senza più vincoli, controlli e contrappesi. Sulla giustizia, invece, l’onorevole D’Alema rispose di non ritenere importante la cancellazione delle leggi di Berlusconi, il che semmai sarebbe potuto avvenire alla fine di un percorso di ricostruzione condiviso. Già tutto visto e sentito, dunque: del resto sono le cose che D’Alema, coerentemente, ripete ancora oggi. L’impegno ad abolire tutte le «leggi ad personam», nonostante la diversa opinione di D’Alema, non solo figurava nel programma elettorale dell’Unione, ma era stato anche affermato più volte da Romano Prodi. Lo aveva ribadito pure in un altro incontro, sempre organizzato da Libertà e Giustizia, al teatro Carcano di Milano, nel settembre del 2005. Anche in quell’occasione avevo rivolto a Prodi la stessa domanda posta a D’Alema, ottenendo una risposta diversa, 337

chiara ed inequivocabile: «Aboliremo tutte le leggi ad personam!». Gli applausi scroscianti lo sommersero, ma si sa come è andata a finire. Allora, però, non c’era ragione di non credere a quell’impegno pubblicamente assunto davanti a persone piene di speranze. A tal punto ci credevo che non ebbi alcun dubbio, nell’ottobre del 2005, a votare nelle primarie dell’Ulivo, esprimendo la mia preferenza per Prodi e così scatenando le prevedibili accuse di politicizzazione da parte di esponenti politici e commentatori di centrodestra. «Ecco – scrissero –, abbiamo ora la prova che l’aggiunto di Milano è di sinistra e contro l’attuale governo!». Accuse del resto identiche a quelle che mi erano state mosse anche nel dicembre del 2003, solo perché ero seduto in prima fila al Palalido di Milano a gustarmi Sabina Guzzanti ed a sentire Furio Colombo ed altri. Credo che l’indisponibilità di certi politici a riconoscere che anche il magistrato è titolare dei diritti costituzionali – senza che il loro esercizio comporti menomazione della sua indipendenza – dipenda dalla assuefazione a pensare la propria militanza politica in termini di rinuncia alla propria libertà morale e di cieca obbedienza al leader del proprio schieramento. Quelle polemiche avevano però suscitato anche qualche commento ironico. Marco Travaglio, ad esempio, aveva scritto: Così Spataro è di sinistra quando polemizza con Castelli, di destra quando acciuffa i complici di Al Qaeda, di nuovo di sinistra quando indaga sugli agenti della Cia che rapiscono e fanno torturare un imam. È cosi difficile accettare che sia semplicemente un magistrato imparziale che quando vede un delinquente lo processa e poi in cabina elettorale vota per chi gli pare?18

Devo anche confessare che, nonostante tutto, per la seconda volta in vita mia, dopo la bella serata del settembre 2002 in piazza San Giovanni a Roma, avevo già partecipato a un’altra manifestazione di piazza: il 25 aprile del 2005, infatti, ero nel corteo che partì alle 16 da piazza Oberdan a Milano e si concluse in piazza Duomo. Il corteo celebrava il 60° anniversario della liberazione dal fascismo ma tutti i partecipanti lo interpretarono dichiaratamente come un’altra manifestazione a difesa della Costituzione. E fino al giugno del 2006 fu per me tutto un susseguirsi frenetico di 18

Marco Travaglio, Delitto di voto, in «l’Unità», 9 ottobre 2005.

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manifestazioni, convegni, dibattiti e interventi sempre in difesa della Costituzione. Il 25 e 26 di quel mese, però, non riuscii a votare: ero a New York per un incontro di studio sul terrorismo internazionale. Spesi una considerevole somma per i continui aggiornamenti telefonici sull’esito del referendum: il «No» vinse con il 61,3%. Ripensai finalmente rilassato al tanto affannarci degli ultimi due anni: ne era valsa la pena! All’Italia era stato risparmiato, almeno per qualche tempo, bicameralisti permettendo, uno sfregio di enormi dimensioni. L’ultimo giorno a New York, con la vittoria ormai alle spalle, fu così splendido, ancora più bello di quelli in cui, per tre volte negli anni passati, vi avevo finito la mitica maratona di ogni prima domenica di novembre. Romano Prodi, tra maratone e «leggi vergogna» Di maratone e sport aerobici avevo anche avuto occasione di parlare direttamente con Romano Prodi: lo conobbi casualmente all’aeroporto della Malpensa da cui stavamo entrambi per partire per destinazioni all’estero. Credo fosse il 2005. Comunque ci stavamo avvicinando alle elezioni della primavera del 2006. Gli fui presentato, gli strinsi la mano e scambiammo poche battute sia sulle annunciate riforme nel settore della giustizia, sia, anche, su maratone e sport. Fu quello un incontro breve e cordiale, ma sapere che il possibile futuro presidente del Consiglio era appassionato e dilettante di ciclismo e corse di lunga distanza servì a infondermi fiducia nelle possibilità che l’Italia tornasse ad essere un paese normale. La passione che accomuna i runners e le fatiche che essi sopportano, infatti, li unisce anche spiritualmente, al di là della condivisione sportiva. È difficile spiegarne le ragioni, ma penso che la corsa sia sempre stata per l’uomo un modo di esprimersi profondissimo perché naturalissimo. Non intendo avventurarmi sul terreno della filosofia, non ne sono capace, ma penso che più la vita esterna si complica e più la corsa diventa per l’uomo, a causa della sua genuinità (doping permettendo!), il modo per semplificarla. Il sudore della corsa è testimone della fatica dei muscoli, ma i muscoli dolgono e danno il segnale dell’esistere: mentre lavorano danno alla mente – per quel tempo – la possibilità di occuparsi quasi solo del passo ritmato. Il passo ritmato e sempre 339

uguale è fondamentale per finire la maratona (il vero obiettivo dell’amatore, più del conseguimento del suo best time) ma nella vita – e finché viviamo – esso si chiama coerenza e significa dignità. Ecco perché sono d’accordo con chi ha scritto che «il maratoneta non è l’uomo più bello, non è l’uomo più forte, non è l’uomo più veloce, il maratoneta è l’uomo più resistente»19. E il risveglio, il giorno dopo una maratona finita, è sempre gradevole: corri all’alba, per poco tempo, nelle metropoli che si svegliano, per scaricare i muscoli dall’acido lattico accumulato il giorno prima. Ma in realtà rivedi ogni chilometro della tua gara e, mentre ancora stringi la medaglia di finisher, ti godi la soddisfazione di avere centrato l’obiettivo. È la stessa soddisfazione che – immagino – deve provare nella vita politica chi promette qualcosa agli elettori e poi la ottiene, o fa davvero di tutto per ottenerla, a costo di lottare con le unghie e coi denti Se, invece, non mantiene la promessa e non lotta per dar corpo ai sogni di chi gli ha dato fiducia, il politico è come il maratoneta che a New York, giunto alla First Avenue dopo il Queensboro Bridge, anziché svoltare a destra per il Bronx, taglia irregolarmente verso Central Park: in quella calca se ne accorgeranno forse in pochi, giusto il gruppo di spettatori sul marciapiede che lui fenderà, ma quel maratoneta saprà che non merita la medaglia di finisher che egualmente sarà riuscito a farsi appendere al collo. L’appello «Un impegno per la giustizia» Alla fine di gennaio del 2006, non sono più segretario del Movimento per la Giustizia, ma sono ancora dirigente dell’Associazione nazionale magistrati. Le elezioni politiche sono ormai imminenti, si terranno il 9 e 10 aprile del 2006. Insieme a due amici avvocati di Milano, Enrico Biagi e Stefano Nespor, l’ex collega che aveva ospitato me e mia moglie al nostro arrivo a Milano trent’anni prima, pensiamo sia giusto – come cittadini elettori – sollecitare chi si candida a guidare il paese a manifestare le proprie posizioni sui temi della giustizia. Pensiamo di redigere un appello rivolto indistintamente ad entrambi gli schieramenti, aperto alla sottoscrizione di quanti ne condivi19 Mauro Covacich, La maratona è un’arte che sfida il fallimento, in «Corriere della Sera», 31 ottobre 2009.

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dano il contenuto. La richiesta è quella di impegnarsi per l’abrogazione delle leggi che, negli anni precedenti, hanno devastato il sistema giustizia e per l’approvazione di una seria e complessiva riforma del settore, che certo comprenda un imponente sforzo organizzativo. Riusciamo a redigere un testo sintetico, grazie anche all’aiuto di qualche professore universitario, e lo lanciamo attraverso le mailing list di magistrati, avvocati, ed associazioni. Il documento viene chiamato Un impegno per la giustizia e il suo incipit è: «Giustizia: abrogare le leggi-vergogna, bloccare la riforma dell’ordinamento giudiziario»20. La risposta all’appello è straordinaria e sono in molti ad adoperarsi per la sua diffusione. Raggiungiamo più di ottocento autorevoli adesioni in un paio di giorni. Impossibile selezionare le più importanti: tutte lo erano. Sottoscrivono l’appello centinaia di insigni accademici, avvocati, magistrati e, quando l’appello viene aperto a cittadini ed associazioni, è impossibile tenere il conto delle firme. Il 20 febbraio 2006 vi aderisce anche Oscar Luigi Scalfaro. Inviamo il documento a vari esponenti politici, compresa la segreteria di Prodi. Inizialmente perviene una tiepida disponibilità di qualcuno a un pubblico dibattito in cui discutere il documento, ma sembra che l’impegno – così fortemente declamato in epoca di «girotondi» e manifestazioni di piazza – sia diventato ora meno importante. Pochissimi sono i quotidiani che danno spazio alla diffusione e al contenuto del documento, nonostante le firme raccolte siano di rara qualità. Partecipo in quei giorni a qualche convegno sui temi della giustizia e noto chiaramente il raffreddarsi dei toni su quegli argomenti. Forse è colpa del succedersi degli impegni preelettorali a mano a mano che i giorni del voto si avvicinano, forse è il suggerimento dei soliti politici molto intelligenti che, forti dei loro sondaggi, consigliano di non apparire troppo contigui al cosiddetto partito dei giudici, fatto è che il tema della giustizia scompare dall’agenda della campagna elettorale. Non mi pare che se ne sia neppure parlato nei due confronti televisivi tra Prodi e Berlusconi. Il voto di aprile assegna una risicata maggioranza all’Unione di centrosinistra: già dai numeri risulta subito chiaro che i sogni di chi si è battuto per cinque anni per la legalità e l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge potranno andare a farsi benedire. Clemente Mastella viene nominato ministro della Giustizia, ma non sa20

Vedi in Appendice, par. 6, il testo completo dell’appello.

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rebbe corretto dire che è a lui che deve addebitarsi il frantumarsi di quei sogni. La sua azione, anzi, è stata utile nell’ottica del minor danno. L’ordinamento giudiziario, così come riformato dal suo predecessore Castelli, era persino illeggibile, tanto che lui stesso, nel settembre del 2004, parlando alla stampa alla vigilia dell’approvazione da parte del Senato del relativo disegno di legge delega, aveva parlato di un testo «scritto in ostrogoto». La riforma registra con Mastella qualche positivo aggiustamento che serve solo a limitare i danni. È in realtà l’intera nuova maggioranza – a partire dal suo leader e con l’eccezione del sempre vituperato ministro Di Pietro – a dimenticarsi in fretta delle promesse e degli impegni assunti. Del resto l’Unione si era anche impegnata a modificare la legge per l’elezione dei membri al Parlamento – quella definita dal ministro Calderoli una «porcata» – reintroducendo le preferenze che l’elettore ha il diritto di esprimere, ma vi ha poi rinunciato, preferendo anch’essa continuare a «nominare» i suoi rappresentanti in Parlamento, anziché farli scegliere dagli elettori. Le speranze si schianteranno presto, dunque. E la corsa finirà in malo modo. Il maratoneta ha tagliato ed accorciato il percorso: dritto a Central Park, senza passare dal Bronx. Era in difficoltà ed ha pensato che così sarebbe almeno arrivato al traguardo, ma non ha considerato il rischio di scivolare su una delle bucce di banana disseminate su quel percorso irregolare, pieno di curve impreviste e di ostacoli non segnalati. Meglio sarebbe stato cadere sfiancato dalla fatica, ma lungo il percorso ufficiale, chiaramente stabilito prima della partenza. Meglio cadere lì, perché le forze ti abbandonano, magari lontano dalla linea dei 42 chilometri e 125 metri, senza la soddisfazione di vedersi infilata al collo la medaglia di finisher, ma con la consapevolezza di aver dato tutto, affrontando di petto uno sforzo rivelatosi superiore alle proprie possibilità: in quel caso, almeno, la gente avrebbe applaudito con forza e convinzione il maratoneta in ginocchio e gli avrebbe urlato, come fanno a New York alla soglia del trentesimo chilometro, «il muro» per ogni runner non allenato a sufficienza: «Go, run, all walls have doors!» [Va’, corri, tutti i muri hanno porte!]. Magari l’incoraggiamento non sarebbe servito, ma lo sfinito long distance runner avrebbe conservato la simpatia e la riconoscenza degli spettatori-tifosi. E questi lo avrebbero certamente sostenuto nel successivo tentativo di arrivare al traguardo. 342

XVIII

Il sequestro di Abu Omar/7: segreti e conflitti

La scelta del governo Prodi di sollevare conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato contro i pubblici ministeri e il giudice per le indagini preliminari fu per me sorprendente. Credo che sia stata una mossa a lungo studiata e preparata. Molte persone, soprattutto tra gli studiosi stranieri, mi hanno più volte chiesto quale sia stata la ragione prima di una scelta praticamente senza precedenti. Qualcuno ha parlato di sudditanza nei confronti degli Stati Uniti. Sono sincero: le ragioni non mi interessano, né voglio avventurarmi sul terreno delle ipotesi. Mi bastano i fatti e quelli parlano con chiarezza: indipendentemente dalle motivazioni, esse resterebbero «non commendevoli» almeno di fronte alla condanna del Parlamento europeo e del Consiglio d’Europa. Il rinvio a giudizio e l’annuncio in Parlamento del primo conflitto I fatti, dunque. Il 5 dicembre del 2006, Pomarici e io chiudiamo le indagini preliminari e chiediamo il rinvio a giudizio per concorso in sequestro di persona pluriaggravato, non solo di ventisei cittadini statunitensi, quasi tutti, secondo l’accusa, appartenenti alla Cia, ma anche del maresciallo reo confesso del Ros dei carabinieri, Pironi, nonché di cinque appartenenti al Sismi, tra 343

cui il direttore del Servizio, generale Pollari e l’alto funzionario Mancini. Chiediamo anche il rinvio a giudizio, per favoreggiamento personale, dell’ormai famoso Pio Pompa del Sismi, di un altro funzionario del Sismi da poco in pensione e del giornalista, non ancora parlamentare, Renato Farina. Un altro dirigente del Sismi, il generale Gustavo Pignero, pure indagato per il sequestro di Abu Omar, era deceduto nel settembre del 2006: all’epoca dei fatti era direttore della Prima divisione del Sismi e, nel corso delle indagini, come ho già detto1, aveva reso importanti dichiarazioni a carico di altri coindagati. Luciano Pironi, il maresciallo che aveva confessato la propria partecipazione materiale al sequestro, e Renato Farina hanno poi concordato con noi pubblici ministeri – ed ottenuto dal giudice – il cosiddetto patteggiamento della pena: un anno, nove mesi e dieci giorni di reclusione il primo, sei mesi di reclusione il secondo, pene così diminuite a seguito della concessione a entrambi di attenuanti e della scelta del rito speciale. Ai due era stata anche concessa la sospensione condizionale della pena. Nel corso della prima udienza preliminare del 9 gennaio del 2007, l’avvocato Daria Pesce, difensore del capo della Cia a Milano, Bob Lady, nel rinunciare al mandato, comunicava al giudice Caterina Interlandi che il suo cliente non riconosceva la giustizia italiana. «Già visto e sentito al tempo delle Brigate Rosse» era stato il mio commento, intendendo anche ricordare che quei processi erano comunque andati avanti nel rispetto delle garanzie degli imputati. Importante e da tenere a mente la successiva sequenza dei fatti: all’udienza del 6 febbraio 2007, come ho già ricordato2, il giudice Interlandi dichiarava manifestamente infondata una eccezione di incostituzionalità proposta dagli avvocati Madia e Coppi, difensori dell’imputato Pollari, comprensibilmente interessati a sostenere che il loro assistito non era posto in grado di difendersi a causa del segreto di Stato. Il lungo ed articolato provvedimento del giudice sarebbe stato pubblicato dalle principali riviste giuridiche con commenti unanimi di grande ap1 2

Vedi pp. 73-74. Vedi cap. I.

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prezzamento. A quella decisione del giudice faceva seguito il primo conflitto contro la Procura di Milano, sollevato dal presidente del Consiglio Prodi con un ricorso del 14 febbraio 2007. Nella successiva udienza del 16 febbraio, il giudice Interlandi disponeva il rinvio a giudizio di tutti gli imputati, inclusi gli italiani appartenenti al Sismi accusati di avere cooperato con gli americani nella preparazione del sequestro di Abu Omar. Al generale Pollari, all’epoca direttore del servizio, era contestata anche l’aggravante di avere promosso ed organizzato la cooperazione nel reato degli imputati. Il processo sarebbe iniziato l’8 giugno 2007 dinanzi al Tribunale di Milano-IV Sezione, ma il 7 marzo del 2007 il Consiglio dei ministri deliberava di sollevare conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, dinanzi alla Corte Costituzionale, anche contro il giudice Interlandi. I due conflitti contro pm e giudice – si ricordi – erano stati deliberati dal Consiglio dei ministri con il solo voto contrario del ministro Di Pietro. Anche questo, oltre che la tempistica ed il merito in sé dell’iniziativa, mi aveva sorpreso. In particolare, mi chiedevo con quale coerenza il ministro Giuliano Amato aveva potuto votare a favore del conflitto. L’incontro con il ministro Giuliano Amato Avevo, infatti, conosciuto Amato il 28 agosto del 2006 e ricevuto da lui personali apprezzamenti, incoraggiamenti e anche una sorta di richiesta di aiuto. Era stato il capo della polizia di Stato, Gianni De Gennaro, a telefonarmi dicendomi che il ministro dell’Interno avrebbe avuto piacere di incontrarmi e chiedendomi se fossi disposto a recarmi al Viminale. D’intesa con Minale e Pomarici, accolsi l’invito e così, qualche giorno dopo, lo incontrai nel suo studio al Viminale. Era presente anche De Gennaro. Amato si complimentò per le indagini sul sequestro di Abu Omar, che avevano già portato – in quel momento – alla incriminazione di Pollari, e ne sottolineò l’importanza in un quadro di irrinunciabile difesa dei diritti fondamentali dell’uomo e dei valori costituzionali. Ma formulò anche una richiesta: egli avrebbe incontrato di lì a poche settimane, in occasione di un convegno internazionale del Centro studi americani, di cui era presidente, alti esponenti dell’amministrazione americana – tra cui l’ambasciatore Spogli –, con i quali, verosimilmente, avrebbe parlato del caso Abu Omar e dell’incriminazione degli uomini della Cia. 345

In tale prospettiva, Amato mi chiedeva che cosa, a mio avviso, egli avrebbe potuto loro riferire circa le prospettive processuali che attendevano gli indagati americani. Non ebbi difficoltà a rispondere ad Amato, precisando che ben comprendevo le ragioni di quella richiesta e che quanto mi accingevo a illustrargli lo avevo già spiegato all’avvocato di Bob Lady, così come lo avrei ripetuto anche al legal adviser dell’Ambasciata americana se mai mi avesse fatto la stessa domanda: nulla di riservato, dunque. Gli dissi che gli indagati americani che si fossero costituiti rendendo confessione sui fatti e riferendo quanto a loro conoscenza anche sulle complicità italiane avrebbero potuto ragionevolmente contare sul nostro parere favorevole alla revoca delle misure cautelari in atto, che solo il giudice – ovviamente – avrebbe potuto decidere. Ed aggiunsi che, in vista del giudizio, avrebbero potuto fare affidamento, oltre che sugli effetti dell’indulto da poco approvato in Parlamento, anche sulle riduzioni di pena previste dal nostro codice di procedura penale in caso di scelta di riti speciali come l’abbreviato o il patteggiamento. Né più, né meno di quanto ci apprestavamo a concordare con la difesa del reo confesso maresciallo Pironi. Amato apprezzò la disponibilità e concordammo che gli avrei inviato entro pochi giorni un appunto relativo a tutte le prospettive tecniche di cui avevamo parlato. De Gennaro, anzi, si sarebbe preoccupato di farle tradurre in inglese. Tornai a Milano e, sempre d’intesa con il procuratore Minale e Pomarici, preparai l’appunto e lo spedii il 7 settembre del 2006 al capo della polizia. Dopo qualche settimana, ebbi modo di parlare ancora con lui e gli chiesi che reazioni avesse eventualmente suscitato: De Gennaro mi disse che l’appunto era stato consegnato agli americani, i quali si erano mostrati interessati al contenuto. Ma non ricevetti più alcuna notizia: a mio avviso, come avevo sempre pensato sin dall’inizio di quella storia, il problema degli americani non era tanto quello dello specifico processo Abu Omar (che, anzi, avrebbero avuto interesse a chiudere con il minor danno possibile) quanto quello di non voler e poter accettare la giurisdizione di altri Stati su comportamenti che, almeno sino alla fine della presidenza Bush, essi giudicavano legali e non contrastanti con i diritti fondamentali della persona. Proprio quei diritti che nella loro storia hanno strenuamente difeso. Accettando patteggiamenti e sconti di pena, avrebbero smentito l’assunto secondo cui «nessuno li può giudicare». La stessa dottrina Bush avrebbe corso seri pericoli. Del resto, dal settembre del 2002 è in vigore negli Usa 346

una legge (The American Service-Members’ Protection Act) che autorizza l’uso della forza militare per liberare agenti dei Servizi che siano cittadini statunitensi o di un paese alleato arrestati dalla Corte penale internazionale. La Corte ha sede nella capitale olandese, perciò questa legge è passata alle cronache come «The Hague Invasion Act». Tornando al ministro degli Interni, Amato è un costituzionalista di rango e strenuo difensore dei principi scritti nella nostra Costituzione. È stato presidente del Consiglio dei ministri e varie volte ministro. È stato vicepresidente della Convenzione europea ed uno dei padri – alla guida del «gruppo Amato» che da lui aveva preso nome – della Costituzione europea. Ma votò a favore dei conflitti sollevati da Prodi contro la magistratura milanese. Più tardi, però, un altro dietrofront: il 4 giugno del 2009, il dipartimento di Diritto per l’economia dell’Università di Milano-Bicocca organizzò un importante convegno su sicurezza e diritti. Vi parteciparono numerosi qualificati accademici e Giuliano Amato, non più ministro, ne era il relatore di sintesi. Vi intervenni parlando delle politiche europee antiterrorismo e ovviamente denunciai le scelte dei governi europei che si erano conformati a quelle americane. Al termine del convegno e su iniziativa del professor Giovanni Ferrara, professore emerito di Diritto costituzionale all’Università La Sapienza di Roma, gli accademici presenti approvarono un documento da inviare a varie autorità politiche – alla cui redazione ero stato invitato a partecipare – con il quale si condannavano la cosiddetta «filosofia della guerra al terrore» e prassi illegali come torture e rapimenti dei sospetti terroristi, invitando i governi europei a rimuovere segreti di Stato in modo da agevolare – anziché ostacolare – la ricerca della verità attraverso procedure giudiziarie pubbliche, immediate ed efficaci. Avevo segnalato a Ferrara che forse questo passaggio avrebbe potuto mettere in imbarazzo il relatore di sintesi, visti i conflitti sollevati dal governo di cui aveva fatto parte. Ma Amato votò anch’egli – e senza problemi – per l’approvazione del documento finale. L’oggetto dei conflitti sollevati da Prodi Ma quali erano, in definitiva, le questioni oggetto dei conflitti sollevati da Prodi? Le questioni sono complesse, ma una loro sintesi è comunque possibile. Dunque, secondo il contenuto dei ricorsi depositati dal347

l’Avvocatura dello Stato per conto di Prodi, le attribuzioni costituzionali del presidente del Consiglio dei ministri in tema di titolarità del diritto di apporre e far valere il segreto di Stato sarebbero state menomate dalla Procura della Repubblica di Milano, nell’ambito del caso Abu Omar, per tre specifiche ragioni: a) l’attività di indagine della Procura tramite intercettazioni telefoniche di numerose utenze in uso a funzionari ed agenti del Sismi avrebbe comportato il «disvelamento» dei nominativi di ottantacinque di loro, nonché delle strutture organizzative del Servizio. Tali intercettazioni sarebbero state illegali perché autorizzate in violazione della normativa sul segreto di Stato; b) i pubblici ministeri titolari del procedimento (cioè io e Pomarici) avrebbero poi esercitato indebite pressioni morali su persone sottoposte ad indagini – così prevaricandole – al fine di indurle a rendere dichiarazioni pregiudizievoli per sé ed il Sismi, affermando, contrariamente al vero, che sui fatti non era stato opposto alcun segreto di Stato o invitandole a violarlo; c) la Procura di Milano, infine, avrebbe utilizzato a fini di indagine documenti sui quali sarebbe stato opposto il segreto di Stato o che, comunque, la Procura avrebbe dovuto ritenere coperti da segreto di Stato a prescindere da ogni formale opposizione del medesimo. Il giudice Interlandi, a sua volta, avrebbe menomato le medesime attribuzioni del presidente del Consiglio disponendo il rinvio a giudizio degli imputati anche sulla base delle tre predette fonti di prova (intercettazioni, dichiarazioni di indagati e documenti sequestrati) che, secondo il governo, sarebbero state inutilizzabili. L’infondatezza «in fatto ed in diritto» dei tre rilievi era palese, anche a giudizio dei principali costituzionalisti e processual-penalisti italiani. Infatti, tutte le intercettazioni telefoniche erano state regolarmente autorizzate dai giudici, né esisteva, all’epoca, così come non esiste adesso neppure secondo la nuova legge sui Servizi di informazione, alcun divieto di intercettare le comunicazioni intercorse su utenze telefoniche in uso ad appartenenti ai Servizi stessi. L’accusa di avere operato pressioni sugli indagati inducendoli a rendere dichiarazioni sostanzialmente confessorie ma – secondo Prodi – rese in violazione del segreto di Stato poteva apparire addirittura calunniosa: tutti gli interrogatori erano avvenuti in pre348

senza di avvocati difensori di fiducia degli indagati e quelli dei detenuti erano stati anche registrati. È noto inoltre che gli indagati hanno anche il diritto di non rispondere alle domande ed è certo che i difensori avrebbero impedito qualsiasi eventuale – ma, sia consentito aggiungere, improbabile – forma di pressione da parte mia e di Pomarici, cioè da due magistrati che da oltre trent’anni svolgono funzioni di pubblico ministero, senza aver mai subito rilievi di questo tipo neppure da mafiosi e terroristi. Proprio uno dei difensori, poi, l’autorevole avvocato onorevole Giulia Bongiorno, aveva suggerito al suo assistito Gustavo Pignero di dire la verità e di «pensare a se stesso». Infine, l’ipotesi che potessimo avere illecitamente sequestrato ed utilizzato documenti coperti da segreto di Stato era palesemente infondata. Il pm, infatti, non ha alcun potere, facoltà o dovere di ipotizzare la sussistenza di segreto di Stato su eventuali documenti in quanto il segreto deve essergli opposto da chi lo detiene. Orbene, nessuno ci aveva mai opposto il segreto di Stato sui documenti sequestrati in via Nazionale il 5 luglio 2006, almeno fino alla chiusura dell’indagine, quando tutti gli atti furono depositati per i difensori. Durante la perquisizione in via Nazionale, peraltro, lo stesso generale Pollari fu contattato telefonicamente sia da Pio Pompa, sia dal dirigente della Digos di Roma, prima che la perquisizione avesse inizio, ed avvertito dell’attività in corso: ma neppure il direttore del Sismi aveva prospettato l’esistenza di segreti sul materiale poi sequestrato in via Nazionale. Il sequestro era stato dunque legittimamente disposto e altrettanto legittimamente eseguito, né alcun documento sequestrato recava la dicitura «SEGRETO». Peraltro, prima che assumesse la qualità di indagato, Pollari ci aveva inviato varie missive, anche successive alla perquisizione in via Nazionale, ringraziandoci per le cautele adottate nel corso della indagine e della perquisizione «a tutela delle prerogative e della riservatezza dell’attività del Sismi». E tutti i testimoni del Sismi esaminati ci avevano pure dichiarato di avere ricevuto preciso invito dai vertici del Servizio a rispondere senza remore alle domande degli inquirenti, non esistendo alcun segreto sul caso Abu Omar. Solo tardivamente, dopo la chiusura delle indagini preliminari, quando il pm non può più rimuovere alcun documento dalle carte processuali, il Sismi, ancora diretto dal generale Pollari, aveva comunicato che erano segrete alcune irrilevanti parti di tre do349

cumenti sequestrati in via Nazionale, che ci erano stati contestualmente trasmessi con omissis parziali. Ma gli omissis riguardavano solo qualche indirizzo burocratico di alcuni destinatari dei documenti e parti irrilevanti per l’inchiesta Abu Omar: dunque, nulla che avesse a che fare con segreti di Stato neppure secondo la larga accezione che la presidenza del Consiglio attribuiva a tale espressione. A quel punto, comunque, non ci restava che chiedere al giudice di sostituire i tre documenti già agli atti del processo con le copie contenenti gli omissis in questione. Il giudice Magi, il 19 marzo del 2008, aveva accolto la nostra istanza e disposto la sostituzione dei documenti. Dunque, ammesso che questo argomento – l’avere originariamente usato documenti in parte coperti da segreto di Stato – avesse avuto un qualche rilievo giuridico, esso era comunque venuto meno, determinando, su questo punto almeno, la cessazione della materia del contendere. Ho già ricordato in precedenza3, a proposito del processo da me e Pomarici subìto a Brescia a seguito delle denunce di Pollari e Cossiga, che i tre argomenti sui quali il presidente Prodi fondava i conflitti sollevati dinanzi alla Corte Costituzionale erano esattamente identici a quelli oggetto dei documenti predisposti dal generale Pollari che avevo avuto modo di trovare tra gli atti del processo bresciano. Era questa la ragione che aveva indotto Pomarici e me a scrivere, nella memoria da noi depositata all’udienza del 12 marzo 2008 del processo per il sequestro, che il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, sollevato dal presidente del Consiglio dei ministri, si fonda in realtà su un «conflitto di interessi», cioè su informazioni parziali, inesatte e contenenti gravi omissioni o [...] fornite al medesimo dal Generale Nicolò Pollari, contemporaneamente direttore pro tempore del Sismi ed indagato (poi imputato) del sequestro di Abu Omar: il presidente del Consiglio dei ministri, ciononostante, non ha ritenuto di chiedere alcuna informazione, prima di assumere le determinazioni di competenza, al procuratore o al procuratore generale della Repubblica di Milano.

Tra l’altro, l’Avvocatura dello Stato, in una memoria depositata presso la Corte Costituzionale, aveva dovuto precisare, di fron3

Vedi cap. XV.

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te alle nostre argomentazioni, che il segreto di Stato verteva unicamente sui rapporti ed accordi tra Italia e paesi alleati in relazione alla lotta contro il terrorismo, pur se tutta la nostra attività di indagine aveva avuto come obiettivo l’accertamento delle responsabilità connesse al solo sequestro di persona di Abu Omar e non certo i contenuti di accordi internazionali di qualsiasi tipo, ai quali non eravamo ovviamente interessati. Il comunicato stampa del governo Prodi Il 18 aprile del 2007, comunque, la Corte Costituzionale dichiarava ammissibili entrambi i conflitti sollevati dal presidente del Consiglio Prodi. Curiosamente, però, nel tardo pomeriggio del 5 giugno successivo, dinanzi alle ulteriori polemiche originate dalla decisione del governo, l’ufficio stampa del portavoce della presidenza del Consiglio dei ministri diffondeva una Nota per la stampa, al fine dichiarato di rispondere a talune pretese inesattezze contenute in un articolo apparso lo stesso giorno sul quotidiano «la Repubblica» a firma di Giuseppe D’Avanzo4. In essa, vero capolavoro di incomprensibile lessico politico, si leggeva, tra l’altro, che «Sul fatto ‘rapimento Abu Omar’ del 17/2/03 non esiste agli atti del Sismi nessun documento quindi nessun segreto di Stato...»5. Nel comunicato stampa si negava anche di avere attribuito ai magistrati milanesi comportamenti criminosi, ma, in realtà, in quel ricorso del presidente Prodi venivamo di fatto accusati di gravi reati: io e Pomarici fummo a lungo incerti se denunciare per calunnia l’avvocato dello Stato che aveva firmato l’atto e chi – eventualmente anche Prodi – gli avesse dato mandato per formulare accuse così manifestamente infondate. Ce ne astenemmo per rispetto della Corte Costituzionale e su consiglio del professore Alessandro Pace, all’epoca presidente dell’Associazione dei costituzionalisti italiani (a lui è subentrato nel 2009 Valerio Onida) cui avevamo affidato la difesa delle nostre ragioni. 4 Giuseppe D’Avanzo, Quel patto oscuro negato dal ministro, in «la Repubblica», 5 giugno 2007. 5 Vedi il testo del comunicato stampa del 5 giugno del 2007 della presidenza del Consiglio in Appendice, par. 7.

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Alessandro Pace La conoscenza di Alessandro Pace è stata per me ragione di grande arricchimento morale prima che giuridico. In precedenza non lo avevo mai incontrato ma, su indicazione di eminenti costituzionalisti, il procuratore Minale, d’intesa con Pomarici e me, decise di nominarlo difensore di fiducia della Procura dinanzi alla Corte Costituzionale. Altrettanto il procuratore avrebbe fatto all’inizio del 2009 per sostenere le ragioni dell’ufficio, dinanzi alla stessa Corte, in vista della discussione sull’illegittimità costituzionale del lodo Alfano6. Il giudice Interlandi nominò, invece, un altro costituzionalista di eccezionale livello, il professor Federico Sorrentino. Fui incaricato di tenere i contatti con Pace e di fornirgli documenti e ogni tipo di chiarimento necessario per assisterci. Ebbi modo, così, di incontrarlo varie volte a Roma, nel suo studio luminoso, o in qualche convegno: alto, chioma bianca, portamento eretto e fiero, scrittura ed eloquio chiarissimi. Quella che si definisce una «bella persona», delle cui qualità accademiche non spetta certo a me parlare: ne fanno fede le sue opere. Quello che ho molto apprezzato nel suo lavoro è stata l’assoluta equidistanza dagli schieramenti politici chiamati in ballo dalla vicenda: nessuna disponibilità a concedere una qualsiasi «attenuante» al governo Prodi, principale responsabile degli ostacoli eretti per bloccare il processo, né, ovviamente, al governo Berlusconi che si era successivamente mosso sulla pista già tracciata. Ricordo con precisione i suoi ironici commenti alla lettura dei ricorsi e delle memorie dell’Avvocatura dello Stato a sostegno delle ragioni dei governi «belligeranti» (chissà se si può dire così di governi che sollevano conflitti), così come alla lettura dei comunicati stampa di Prodi. Ci sembrava incredibile, soprattutto, che ciascuno dei due governi attribuisse all’altro la responsabilità della scelta di coprire la vicenda con un indecifrabile segreto di Stato. Credo che Alessandro Pace rappresenti un esemplare di una specie quasi in estinzione, quella degli accademici coerenti con il proprio sapere scientifico, indisponibili a compromessi di natura politica. Per questo, quasi fosse amore a prima vista, ho apprezzato Pace sin dal nostro primo incontro: abbiamo preso a scambiarci sms a commento dell’attualità, si trattas6

Sul lodo Alfano ritornerà il cap. XXIV.

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se di gratuite affermazioni di Enrico Micheli a proposito del caso Abu Omar7 o delle «giustificazioni» addotte dal ministro della Giustizia Alfano a sostegno del suo incostituzionale «lodo». Proprio sulla definizione di «lodo» attribuita a quella legge si era appuntato il primo rilievo di Pace: il «lodo», secondo la comune accezione recepita anche dal legislatore, identifica la decisione di un arbitro (o di un collegio arbitrale) il quale [...] deve comunque essere imparziale nei confronti delle parti e degli interessi in gioco (tant’è vero che può essere ricusato [...]). Per contro il ministro proponente di un ddl non è – per definizione – imparziale, così come non era imparziale il sen. Schifani per ciò che riguarda l’art. 1 della legge n. 140 del 2003, poi dichiarata incostituzionale con sentenza n. 24 del 2004, e neppure lo era il sen. Maccanico, a cui viene comunemente attribuita l’ideazione originaria di uno scudo legislativo finalizzato alla temporanea improcedibilità dei processi penali per reati comuni per fatti asseritamente commessi dall’allora (ed attuale) presidente del Consiglio anche prima dell’assunzione della carica8.

Ma con Alessandro Pace abbiamo anche parlato di musica, dei film di Woody Allen e di altre cose ancora: avere occasione di conoscerlo è stato l’unico – e però non secondario – frutto positivo di quei conflitti sollevati da Prodi che così profondamente mi hanno segnato. Ho uno scrupolo nei confronti di Pace: averlo fatto lavorare anche nei pochi giorni di vacanza che si concede. Non certo perché a tanto lo costringessi, ma perché aveva preso il caso talmente a cuore da dedicarvi ore e giorni di studio anche mentre si trovava all’estero o nell’amata Cortina d’Ampezzo. Anche la Procura della Repubblica di Milano, comunque, ave7 Il sottosegretario di Prodi delegato ai Servizi aveva dichiarato in un’intervista rilasciata a Virginia Piccolillo (Micheli: il caso Abu Omar? Impossibile con queste regole, in «Corriere della Sera», 2 agosto 2007) che con la riforma dei Servizi varata nell’estate del 2007 «il caso Abu Omar non si sarebbe verificato». Stupefacente. Fui costretto a ribattergli il giorno dopo (in un’intervista della stessa Virginia Piccolillo, «Abu Omar? Con la riforma tutto come prima», in «Corriere della Sera», 3 agosto 2007), richiamando l’immutato obbligo per tutti, Servizi inclusi, di rispettare la legge. 8 Alessandro Pace, Cinque pezzi facili: l’incostituzionalità della legge Alfano, in «Questione Giustizia», 4, 2008, pp. 7 e sgg; il saggio è stato ripubblicato, con aggiunte e modifiche, in Id., I limiti del potere, Jovene, Napoli 2008, pp. 175 e sgg.

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va sollevato a giugno del 2007 conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del presidente del Consiglio dei ministri Prodi: l’apposizione di segreto di Stato sul sequestro Abu Omar era contraria ai principi supremi dell’ordinamento e, tra questi, alle norme che garantiscono i diritti inviolabili dell’uomo. In particolare, scriveva Pace nel nostro ricorso, era un segreto incompatibile con i principi che preservano da «ogni violenza fisica o morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà personale», secondo quanto previsto dall’art. 13, comma 4, della Costituzione. A sostegno della tesi esposta da Pace, ricordo, tra i tanti commenti, e al di là delle pronunce del Parlamento europeo e del Consiglio d’Europa, gli articoli di Valerio Onida, un uomo di incredibile spessore scientifico e umano che, cessato dal suo mandato di giudice costituzionale, si è impegnato in un’attività di volontariato in carcere, prestando assistenza giuridica ai detenuti. Non casualmente, è una delle personalità più amate a Milano e più autorevoli nel paese. Avevo intanto trasmesso alla Procura della Repubblica di Roma, per competenza territoriale, la parte dell’inchiesta relativa alle attività di dossieraggio emersa dai documenti sequestrati nel corso della perquisizione del 5 luglio 2006 nella sede del Sismi di via Nazionale a Roma, gestito da Pio Pompa. Di fronte alla pubblicazione di notizie relative alla inchiesta romana su quell’archivio illegale, il portavoce del presidente del Consiglio dei ministri si esibiva l’11 luglio 2007 in un altro comunicato secondo il quale «il presidente del Consiglio ha inoltre confermato che sulla documentazione acquisita nell’ambito dell’indagine della Procura di Roma sull’attività di Pio Pompa non ha a tutt’oggi opposto il segreto di Stato». L’affermazione era in palese contrasto con i contenuti del conflitto proposto da Prodi contro la Procura di Milano e qualche giornalista straniero, poco aduso ai bizantinismi della nostra politica, mi chiedeva qualche spiegazione in merito. Sorridendo, non potevo che rimandarli al portavoce, cioè a quel Silvio Sircana che, nel luglio del 2008, eletto senatore e passato all’opposizione, avrebbe apposto la sua autorevole firma su un documento riguardante le possibili riforme della giustizia del tutto in linea con le tesi del Popolo della libertà di Berlusconi9. 9 Si tratta della mozione presentata in Senato il 29 luglio, sottoscritta da uno schieramento trasversale, a maggioranza Pd, composto da tredici senatori, tra cui

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La riforma dei Servizi d’informazione Il 3 agosto 2007, intanto, con procedura rapidissima e praticamente all’unanimità, il Parlamento approvava la legge di riforma dei Servizi di informazione e sicurezza in sostituzione di quella vigente, risalente al lontano 1977. Nell’originario disegno di legge governativo, illustrato e pubblicamente sostenuto dai parlamentari Violante, Brutti e altri, compariva la modifica dell’art. 202 del codice di procedura penale, che prevedeva – esattamente come auspicato dai difensori di Pollari nella questione di illegittimità costituzionale respinta dal giudice Interlandi il 6 febbraio 2007 – l’obbligo non solo del testimone, ma anche dell’imputato, di non rispondere alle domande dell’autorità giudiziaria vertenti su circostanze coperte da segreto di Stato. La presenza nella legge di questa norma, da alcuni definita «salva-Pollari», veniva denunciata sul «Sole 24 Ore» dalla sempre attenta Donatella Stasio10. Ne scaturivano polemiche ed attacchi di vari giornalisti al governo Prodi a seguito dei quali la modifica dell’art. 202 del codice di procedura scompariva dal disegno di legge poi approvato. In compenso, veniva approvata una nuova norma (l’art. 41 della legge) che, con formulazione ambigua, tende a far rientrare dalla finestra ciò che era stato espulso dalla porta: l’impossibilità per l’imputato di esercitare appieno il suo diritto di difesa in presenza del segreto di Stato. Un principio che anche il governo Berlusconi tentava di affermare più esplicitamente varando, nell’agosto successivo, una norma regolamentare ad hoc. Insomma, la tesi difensiva di Pollari, bocciata senza appello da autorevoli costituzionalisti e penalisti, per i quali, invece, il diritto di difesa non soffre alcun limite, trovava improvvisamente qualche confuso, ma evidente appiglio normativo grazie agli interventi del Parlamento nel 2007 e del governo nel 2008.

spiccavano il prodiano «doc» Silvio Sircana ed Emma Bonino. Vi si auspicava una riforma della giustizia – naturalmente «condivisa» – comprendente l’abolizione dell’obbligatorietà penale, la separazione delle carriere, un nuovo sistema elettorale per il Csm e la creazione di un Csm per soli pm. Era proprio Sircana, nell’intervista rilasciata ad Alessandra Arachi (Sircana: o si fa così o decide solo la maggioranza, in «Corriere della Sera», 3 agosto 2008), ad illustrare l’iniziativa. 10 Cfr. «Il Sole 24 Ore», 30 gennaio 2007 e Segreto, scontro sulla norma Pollari, 31 gennaio 2007.

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La riforma dei Servizi, come ogni buona riforma italiana, ha introdotto anche una nuova denominazione dei Servizi d’informazione: il Sismi è diventato Aise (Agenzia informazioni e sicurezza esterna), il Sisde è diventato Aisi (Agenzia informazioni e sicurezza interna) e il Copaco è diventato Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica)11. Presidente del Copasir – carica tradizionalmente attribuita all’opposizione – veniva nominato Francesco Rutelli, già annunciatore in Parlamento della decisione del governo Prodi di sollevare conflitto di attribuzione contro i procuratori di Milano, rei di gravi reati12. Rutelli, quando venne nominato al vertice del Copasir, era reduce da una sonora e bruciante sconfitta politica, avendo perso le elezioni a sindaco di Roma. Un parlamentare del Pd, membro del Copasir, mi fece sapere che intendeva proporre a Rutelli e al Comitato stesso una nuova mia audizione per aggiornare lo stato delle conoscenze parlamentari sul caso Abu Omar: non ho ovviamente ricevuto alcuna notizia o convocazione in proposito. Il 26 settembre 2007, intanto, la Corte Costituzionale aveva dichiarato ammissibile il conflitto proposto dal procuratore della Repubblica di Milano contro il governo e il giudice costituzionale Giovanni Maria Flick veniva designato relatore per i tre conflitti pendenti dinanzi alla Corte Costituzionale (i due del presidente Prodi nei confronti, rispettivamente, di Procura e Ufficio gip di Milano e quello del procuratore della Repubblica di Milano nei confronti del presidente Prodi). L’udienza per la loro discussione e decisione veniva inizialmente fissata al 29 gennaio 2008, ma, per inimmaginabili circostanze, veniva successivamente rinviata prima all’8 luglio 2008 e poi, ancora, al 10 marzo 2009. Che cos’era accaduto? Che cosa aveva determinato questi rinvii di oltre un anno? La trattativa con la Procura di Milano avviata da Prodi In vista dell’udienza del 29 gennaio del 2008, l’Avvocatura dello Stato aveva inaspettatamente preso contatto con il nostro difensore, Alessandro Pace, per verificare la possibilità di una «solu-

11 12

Vedi Appendice, par. 1. Vedi p. 5.

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zione concordata del conflitto», vale a dire la possibilità di una rinuncia da parte del presidente del Consiglio Prodi ai conflitti sollevati il 14 febbraio 2007, con corrispettiva rinuncia del procuratore della Repubblica a quello da noi sollevato il 12 giugno dello stesso anno. I contatti intercorsi tra i due avvocati lasciavano ben sperare per questa conclusione – per noi positiva – della vicenda dei conflitti. L’avvocato dello Stato, Ignazio Caramazza, prospettava al professor Pace di depositare una richiesta congiunta di rinvio della udienza del 29 gennaio 2008 rivolta al presidente della Corte Costituzionale, onde dare tempo al governo – questo era quanto riferito a Pace – di formalizzare e motivare adeguatamente la rinuncia al conflitto. Il 24 gennaio del 2008, dunque, l’avvocato dello Stato, avuto il nostro assenso, depositava la richiesta di rinvio motivandola con la possibile «soluzione concordata del conflitto» alla luce del «dialogo in corso». A dire il vero non riuscivo a ben comprendere perché fosse necessario un rinvio per depositare un atto di rinuncia, sia pur motivato, visto che la rinuncia stessa, secondo le assicurazioni ricevute, era già stata effettivamente deliberata. In ogni caso, mentre mi trovavo nel suo studio romano, il professor Pace raggiungeva al telefono il presidente della Corte Costituzionale Franco Bile e, ribadita la serietà del dialogo in corso, si faceva portavoce del nostro auspicio che l’udienza di rinvio fosse fissata a data anteriore al 12 marzo 2008. Questo era infatti il giorno già stabilito dal Tribunale di Milano per la ripresa del dibattimento, sospeso da vari mesi in attesa della decisione della Corte. Bile confermava telefonicamente, e quindi ufficiosamente, a Pace tale prospettiva. Il nostro difensore, dunque, depositava l’assenso al rinvio del procuratore della Repubblica di Milano, unitamente alla richiesta di sollecita fissazione dell’udienza in cui si sarebbe dovuto prendere atto delle reciproche rinunce ai conflitti, con conseguente cessazione della materia del contendere. Con nostra grande sorpresa, però, la presidenza della Corte Costituzionale rinviava l’udienza a nuovo ruolo, cioè a data da destinarsi. Nella stessa giornata – dopo l’adozione di tale provvedimento – l’avvocato dello Stato comunicava oralmente al professor Pace che il presidente del Consiglio Prodi riteneva, a seguito del voto contrario del Senato sulla fiducia al governo, di non poter più formalizzare la rinuncia al conflitto qualificandola «atto di straordi357

naria amministrazione». Poco tempo dopo il descritto dietrofront governativo, il ministro degli Esteri D’Alema, rispondendo a una domanda di una giornalista straniera, rilasciava dichiarazioni simili a quelle del suo collega Rutelli e del presidente Prodi, risalenti a circa un anno prima, affermando lapidariamente che la Procura di Milano aveva violato il segreto di Stato. Eppure, l’onorevole Anna Finocchiaro, da me incontrata casualmente all’aeroporto di Fiumicino prima del dietrofront, e comunque quando la decisione sulla rinuncia al conflitto ci era già stata comunicata, mi aveva voluto cortesemente far sapere che D’Alema aveva condiviso quella decisione. Ma, come si sa, le opinioni politiche possono mutare nello spazio temporale di un battito di ciglia. Mi riferisco a quelle di D’Alema e del governo, non a quelle di Anna Finocchiaro, che più volte – anche pubblicamente – ha manifestato il suo disagio rispetto alla linea governativa. L’iter di questa incredibile vicenda è stato comunque ricostruito dal professor Pace in una lettera del 6 marzo 2008 inviata al procuratore della Repubblica di Milano, nella cui parte finale sono citati gli ultimi accordi presi con l’avvocato dello Stato, Caramazza, e si afferma che il comportamento del presidente del Consiglio Prodi «non costituisce certo una manifestazione di leale collaborazione con l’Autorità Giudiziaria»13. All’inizio di marzo, la Corte Costituzionale fissava finalmente la data della nuova udienza di discussione: l’8 luglio del 2008. Ma le sorprese non erano ancora finite. La lettera inviata a Pace da Caramazza veniva prodotta da me e Pomarici all’udienza del 12 marzo del 2008 nel dibattimento in corso dinanzi al Tribunale di Milano, anche a sostegno della nostra richiesta di revoca dell’ordinanza di sospensione del processo, adottata in precedenza dal giudice Magi. Il giudice si riservava di decidere sulla delicata questione e rinviava l’udienza al 19 marzo 2008.

13 Vedi in Appendice, par. 8, il testo della lettera inviata il 6 marzo del 2008 da Alessandro Pace a Manlio Minale.

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L’intervento del ministro Scotti Ma nello stesso giorno in cui l’istanza era stata da noi proposta in udienza e, dunque, prima che il giudice decidesse, il nuovo ministro della Giustizia del governo Prodi (essendosi nel frattempo dimesso Clemente Mastella), Luigi Scotti, ex magistrato, incorreva in uno strappo al dovuto rispetto delle competenze dell’autorità giudiziaria, dichiarando alla stampa che, prima di riprendere il processo, «non si poteva che aspettare la decisione della Corte Costituzionale», con ciò implicitamente auspicando il rigetto della istanza del pm. Io e Pomarici fummo costretti a rispondergli con un fermo comunicato stampa, denunciando quella «invasione di campo» ed invitando Scotti, piuttosto, a comunicare le decisioni adottate circa l’inoltro agli Stati Uniti della nostra richiesta di estradizione dei latitanti americani, come i suoi doveri di ministro della Giustizia imponevano. Nessuna risposta, né alcun commento da parte del ministro. Il 19 marzo del 2008, deludendolo, il giudice monocratico Oscar Magi accoglieva l’istanza ed il procedimento poteva effettivamente ripartire. Il conflitto sollevato dal governo Berlusconi contro il giudice Magi La storia di questa specialissima trattativa avviata dal governo Prodi trovava seguito – e forse spiegazione – nell’ulteriore conflitto promosso, questa volta, dal governo Berlusconi. Come si è detto, il giudice Oscar Magi aveva disposto la revoca della sua precedente decisione di sospensione del dibattimento in attesa della pronuncia della Corte Costituzionale ed aveva dato il «via» all’effettivo inizio della fase dibattimentale del processo per il sequestro di Abu Omar. Esaurite le questioni preliminari, iniziavano subito gli esami dei testimoni indicati dal pubblico ministero. Fulminea arrivava la risposta del nuovo governo alla decisione del 19 marzo 2008 del giudice Magi: il neopresidente del Consiglio dei ministri Berlusconi, nel solco tracciato dal suo predecessore (è bene ripeterlo: con decisione unanime del governo, con l’unica eccezione di Antonio Di Pietro e con flebili e tardivi dubbi manifestati da Paolo Ferrero e Fabio Mussi), depositava il 30 maggio 2008, dinanzi alla Corte Costituzionale, il ricorso con cui 359

sollevava conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato anche nei confronti del Tribunale di Milano, cioè del giudice Magi, reo di avere revocato l’ordinanza di sospensione del dibattimento e di avere ammesso prove richieste dal pm in violazione del segreto di Stato. Ma il conflitto conteneva anche istanza diretta alla Corte Costituzionale di rinvio della decisione sui precedenti conflitti prevista per l’8 luglio, in modo da poter consentire una trattazione unitaria di tutti i conflitti. Relatore per il nuovo conflitto veniva designato il giudice costituzionale Alfonso Quaranta, non un penalista, ma un ex presidente di sezione del Consiglio di Stato. Corte Costituzionale: cambia il relatore e Flick esce di scena Il 25 giugno 2008, la Corte Costituzionale giudicava ammissibile il nuovo conflitto sollevato dal presidente Berlusconi contro il giudice Magi ed ancora una volta rinviava a nuovo ruolo la discussione sui precedenti conflitti, senza fissarne la data. A seguito del rinvio della decisione, il giudice Flick cessava di essere il relatore dei tre conflitti pendenti, in quanto avrebbe dovuto assumere nel successivo mese di novembre la carica di presidente della Corte Costituzionale per cessazione del mandato di Franco Bile: infatti, per tradizione consolidata, il presidente della Corte non è mai relatore in alcuna pratica. Relatore unico di tutti i conflitti, dunque, diventava il giudice costituzionale consigliere Quaranta. Alla vigilia della cessazione del suo mandato (8 novembre), Bile fissava al 10 marzo 2009 la data della discussione e decisione dei quattro conflitti a quel punto pendenti14. Curiosamente, la data del 10 marzo 2009 veniva a collocarsi dopo la scadenza del mandato di giudice costituzionale di Flick, divenuto effettivamente presidente della Corte il 14 novembre 2008 e destinato a rimanere in tale carica fino al 18 febbraio del 2009. Dunque, il professor Flick non

14 I conflitti pendenti in quel momento erano diventati quattro: i due promossi, rispettivamente il 14 febbraio ed il 14 marzo 2007, da Prodi, contro la Procura di Milano e contro il giudice per le indagini preliminari Caterina Interlandi; quello promosso, il 12 giugno 2007, dalla Procura di Milano contro Prodi e quello promosso, il 30 maggio 2008, da Berlusconi contro il giudice Oscar Magi. Se ne sarebbe aggiunto in seguito un quinto, quello promosso il 3 dicembre del 2008 dal giudice Magi contro il presidente del Consiglio (vedi cap. XXI).

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avrebbe partecipato neppure alla decisione. La Corte Costituzionale «ha un solo padrone: la Costituzione della Repubblica che nel 2008 abbiamo particolarmente celebrato per i suoi 60 anni». Con queste parole Flick aveva salutato i giornalisti subito dopo essere stato nominato presidente della Corte. Parole nobili, come quelle da lui pronunciate all’Università di Pavia, il 2 ottobre precedente, esponendo la sua lectio magistralis su Diritti fondamentali della persona alla luce dell’emergenza. L’incontro a Pavia era stato organizzato da Vittorio Grevi, giurista di eccezionale livello e indipendenza, forse l’unico di cui da decenni condivido ogni parola che scrive nei suoi testi scientifici o da editorialista del «Corriere della Sera» sui temi della giustizia. È raro trovare un giurista che scriva e parli con chiarezza tale da rendere comprensibile il proprio pensiero a chiunque, ma è ancor più raro trovarne uno che, come Grevi, in un contesto politico degradato che investe spesso anche il mondo accademico, sappia preservare capacità di critica, obiettiva e – se occorre – impietosa verso chiunque la meriti, magistrati inclusi. Ma questa prova di terzietà non basta, tanto che anche Grevi è spesso collocato tra gli «amici dei magistrati». Nel nostro paese, infatti, è questa un’accusa che viene affibbiata a chiunque si azzardi a sottolineare gli aspetti paradossali delle leggi in tema di giustizia e le devastanti conseguenze che esse determinano. Dunque, toccò a Vittorio Grevi presentare a Pavia il professor Flick, ricordando il suo passato di magistrato, accademico, ministro della Giustizia del primo governo Prodi e commissario per i diritti umani in Europa, per poi introdurre il tema della serata, citando renditions, prigioni segrete, torture e trattamenti disumani. Flick, quella sera, era stato esemplare, ricordando la necessità di tutelare anche i diritti dei terroristi, menzionando storiche sentenze della Corte Suprema Usa su Guantánamo, della House of Lords inglese, della Corte Suprema israeliana, della Corte dei Diritti umani di Strasburgo. Ero in prima fila, quella sera, nell’Auditorium di Pavia e mi colpì sentirlo affermare solennemente che «la Corte Costituzionale italiana non si è mai occupata del tema perché non ne ha avuto occasione!». Esattamente la stessa cosa aveva già detto a Roma un anno prima, nel dicembre del 2007, nel corso del convegno tenutosi nell’aula magna dell’Università La Sapienza, in onore dell’ex presidente della Corte Suprema d’Israele, Aharon Ba361

rak15. Fortunatamente, a Pavia, riuscii quella sera a controllare la mia reazione. Avrei voluto soltanto dirgli: «Certo che non ne avete avuto l’occasione! Come mai, Professor Flick, a distanza di quasi due anni dalla loro proposizione, la Corte non ha ancora deciso i conflitti sollevati da Prodi?». Alla fine della serata, tra tante mani protese, il professor Flick strinse anche la mia: «Buona sera, Procuratore, quando scadrò dal mio mandato mi piacerebbe poter parlare con Lei!». Implicito – supposi – il riferimento alla vicenda Abu Omar. «Non si preoccupi, Professore!» fu la mia risposta. Mi ripromisi pure, quella sera, che mai in futuro, avendone eventualmente la possibilità, avrei parlato con Flick dei famosi conflitti al di fuori di pubblici dibattiti. Qualsiasi confronto su quel tema, infatti, non può appartenere alla sfera privata.

15 Queste le parole di Flick in tale occasione: «La Corte Costituzionale italiana, per contro, non ha avuto modo di occuparsi nello specifico del problema: e ciò, essenzialmente, più che per la mancanza di occasioni storiche idonee a prospettarlo, perché [...] il giudice delle leggi italiano adotta decisioni di taglio più tecnico-giuridico che politico-istituzionale».

XIX

La lotta al terrorismo internazionale

Nella stessa serata del 2 ottobre, all’Università di Pavia, Giovanni Maria Flick fece comunque un’osservazione molto puntuale: «L’attenzione al tema dei diritti umani fondamentali», disse Flick, «è frutto più dell’attività dei giudici e della giurisprudenza nei casi singoli che dell’attività e delle scelte dei legislatori e della politica, dove questo tipo d’attenzione si disperde». O, aggiungo io, viene solo declamata. Il ruolo della magistratura italiana C’è chi ha sostenuto che, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, i magistrati italiani avrebbero in qualche modo assecondato la logica delle cosiddette leggi dell’emergenza, prestando poca attenzione alla lesione dei diritti e delle garanzie degli imputati che di quelle leggi sarebbe stata la naturale conseguenza. A volte, curiosamente, le stesse persone hanno affermato che oggi pubblici ministeri e giudici non sarebbero in grado di affrontare con la necessaria professionalità e fermezza il tragico fenomeno del terrorismo internazionale, eccedendo in formalismi e garantismo. Per il passato, quindi, un’accusa di insensibilità ai principi su cui si regge ogni democrazia; per l’attualità, quella opposta, di ignorare, cioè, che le regole sono ormai cambiate e che, più del processo e della risposta giudiziaria, conterebbe l’intelligence. Non è affatto così. Vediamo come stanno davvero le cose. 363

La magistratura italiana, al contrario di quanto alcuni ancora pensano, ha avuto un ruolo equilibratore nei confronti di quelle spinte emergenziali che negli anni di piombo si erano prodotte sul fronte politico e legislativo e che avrebbero potuto portare al sacrificio dei diritti. Ne ho già parlato in precedenza1. Né mai, in quegli anni, alcuna voce si era levata a teorizzare l’utilizzo di pratiche illegali o di «modiche quantità» di tortura per contrastare quel fenomeno criminale che così duramente aveva colpito le istituzioni e i cittadini italiani. Ed anche nel resto d’Europa (in Germania e Francia contro altri terrorismi «interni» di matrice politico-ideologica; in Spagna, Gran Bretagna e Irlanda contro i terrorismi separatisti), il contrasto del terrorismo di quegli anni fu condotto in un modo rispettoso delle regole del processo, sia pure con qualche strappo ed eccezione sconosciuti al sistema italiano. Il sistema Guantánamo Oggi la situazione a livello internazionale è purtroppo diversa, segnata dal sistema Guantánamo introdotto dall’amministrazione Bush e sostenuto da tante «autorevoli» teorizzazioni di esperti e leader politici, cariche di significative allusioni. Penso a quelle già citate di Tony Blair («The rules of the game are changing») e del presidente del Consiglio dei ministri italiano, Silvio Berlusconi, pronunciate nel dicembre del 2005 («non ci si può aspettare che i governi combattano il terrorismo con il codice in mano»). Persino in ambienti accademici d’oltreoceano si è diffusa la convinzione che i principi possano essere flessibili e che siano ammissibili «zone grigie» in cui i diritti vivono in forma attenuata e in cui diventano lecite, in nome della sicurezza, attività normalmente considerate contra legem2. Teorizzazioni che, senza concessione alcuna, devono semplicemente essere respinte perché contrarie ai principi su cui si fonda ogni democrazia. Vedi cap. XI. Ci si intende qui riferire, ad esempio, a tesi come quella del professore di Diritto ad Harvard, Alan M. Dershowitz, più volte esposte in popolari trasmissioni televisive americane, in articoli giornalistici e in Why Terrorism Works: Understanding the Threat, Responding to the Challenge, Yale University Press, New Ha1 2

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La teoria della war on terror (alla guerra si risponde con la guerra e la guerra produce democrazia) è talmente popolare da essere ormai citata con una sigla: Wot. Dinanzi a noi magistrati europei attoniti, John Ballard, capo dello staff antiterrorismo del Pentagono, ebbe a dire, nel maggio del 2006, di avere constatato con soddisfazione che dopo i bombardamenti su Falluja gli abitanti della città distrutta erano più contenti e avevano votato in gran numero. Dunque, la guerra aveva prodotto democrazia. Inutilmente Baltasar Garzón, il giudice istruttore spagnolo esperto di terrorismo che ha anche perseguito i crimini del regime franchista, gli domandava che cosa pensasse delle migliaia di morti che la guerra in Iraq aveva provocato. In realtà, certe posizioni dimostrano come sul cosiddetto «terrorismo islamico»3 sia necessario un radicale mutamento di prospettiva: esso, quando si manifesta al di fuori degli scenari di guerra, è – e va considerato – una forma di criminalità organizzata, sia

ven 2002 [trad. it., Terrorismo. Capire la minaccia, rispondere alla sfida, Carocci, Roma 2003]. In sostanza, egli dice, sarebbe accettabile torturare un terrorista catturato che si rifiutasse di rivelare dove sta per esplodere una bomba innescata che provocherà morte e distruzione. A partire da questa ipotesi, Dershowitz conclude che allora sarebbe meglio che, in questi casi, la tortura fosse legale per «ridurre l’incidenza degli abusi». Senonché si tratta di uno scenario stravagante e fuori dalla realtà: l’ipotesi di un terrorista catturato in possesso dell’informazione chiave sulla bomba nucleare a Times Square – afferma in modo condivisibile Alfred W. McCoy, dell’Università del Wisconsin in A Question of Torture: CIA Interrogation, from the Cold War to the War on Terror, Metropolitan Books, New York 2006 [trad. it., Una questione di tortura, Socrates, Roma 2008, p. 277] – non può dunque costituire il fondamento per leggi e scelte diplomatiche. 3 Adotto da tempo, ormai, la definizione di «terrorismo cosiddetto islamico» (anziché quella di «terrorismo islamico») anche a seguito della richiesta di autorevoli esponenti delle magistrature, delle forze di polizia e di accademici di vari paesi islamici che ho avuto modo di incontrare nel corso di vari incontri motivati da ragioni scientifiche o da esigenze di cooperazione internazionale. Con riferimento all’inglese, essi hanno osservato che solo l’espressione so-called islamic terrorism può ritenersi idonea a evitare ogni impropria, se non offensiva, generalizzazione che potrebbe derivare anche dall’uso di definizioni molto diffuse come «terrorismo jihadista» o «fondamentalista». «Jihad», infatti, è un termine spesso erroneamente considerato equivalente, nelle lingue occidentali, a «guerra santa». Ma esso significa letteralmente «lotta», «sforzo» compiuto «sulla via di Dio». A sua volta, il termine «fondamentalismo» non può essere confuso con la posizione di chi predica la violenza per l’affermazione della religione islamica.

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pure con caratteristiche e motivazioni ben diverse da quelle di altri terrorismi conosciuti, di matrice nazionalista (come quella dell’Eta e dell’Ira) o ideologico-politica (come quella delle Br o della Raf, la Rote Armee Fraktion degli anni di piombo in Germania). Ovviamente, atti di terrorismo vengono realizzati anche in tempo e in zone di guerra. In questo caso il giurista deve richiamarsi al diritto bellico, al rispetto assoluto della Convenzione di Ginevra, dei suoi protocolli addizionali e, più in generale, del diritto umanitario. Ma nell’ambito della Wot anche queste regole vengono spesso violate, a partire, ad esempio, dalla stessa creazione della categoria degli enemy combatants, cioè dei combattenti nemici illegali4, che consentirebbe, secondo l’opinione di chi l’ha ideata, di sottrarre i sospetti terroristi «catturati» in ogni parte del mondo alle regole del diritto umanitario e persino alla giurisdizione dei Tribunali militari ordinari. Si spiega allora perché Antonio Cassese abbia definito questo sistema un «limbo giuridico», aggiungendo, a proposito di Guantánamo, che I dirigenti di Washington hanno deciso che, siccome quel campo si trova all’estero, era lecito non applicare a quei detenuti diritti fondamentali che spettano a qualunque persona arrestata da uno stato democratico [quali...] né il diritto di habeas corpus (e cioè il diritto fondamentale che spetta ad ognuno di noi [...] di contestare davanti ad un giudice la legalità dell’arresto) né il diritto di conoscere le accuse per le quali si è detenuti e tanto meno il diritto ad un equo processo5.

Seguendo questa logica, però, si corre il rischio di vanificare, attraverso atti amministrativi e politici unilaterali, decenni di elaborazione giuridica sul tema del rispetto dei diritti umani. Nel corso di un importante meeting sul terrorismo internazionale organizza4 La creazione di questa mostruosa categoria giuridica, oltre il militare e il civile, si deve a John Yoo dell’Ufficio di consulenza legale del dipartimento di Giustizia, autore di un memorandum di quarantadue pagine, ove al-Qaeda e tutto il regime dei talebani venivano inseriti tra i combattenti nemici illegali, ai quali non si applicavano le Convenzioni di Ginevra. Lo riferisce McCoy in Una questione di tortura cit., p. 169. John Yoo si è lamentato nel 2008, in articoli di stampa, che l’avvenuto disvelamento del suo ruolo di consigliere-stratega lo avesse esposto a rischi di ritorsione. 5 Antonio Cassese, Tre motivi per fare in fretta, in «la Repubblica», 10 dicembre 2008.

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to nel maggio del 2006 a Firenze dalla New York University vidi scorrere davanti ai miei occhi una sequenza «istruttiva». Matthew Waxman, docente alla Columbia Law School ed alto funzionario dello staff del dipartimento di Stato americano tra il 2005 ed il 2007, lamentò la diffusione nel mondo delle fotografie che documentavano i disumani trattamenti inflitti ai prigionieri di Abu Ghraib e Guantánamo («Che immagine diamo della lotta al terrorismo?», fu il suo commento6). Baltasar Garzón ed io stesso gli facemmo allora notare che non si trattava di un problema d’immagine quanto della assoluta incompatibilità del sistema Guantánamo con i principi della Convenzione di Ginevra e le regole di ogni democrazia. Ma, a quel punto, un altro membro dell’amministrazione Bush intervenne con poche lapidarie parole: «È vero, ma è proprio per questo che vogliamo cambiare la Convenzione di Ginevra». E Steve Rodriguez, che per circa due anni, tra il 2003 e il 2005, era stato il supervisore degli interrogatori dei detenuti a Guantánamo, ci chiese «Come facciamo ad ottenere informazioni strategiche se si deve applicare la Convenzione di Ginevra? [...] Non basta offrire hamburger al pesce!». Logica la conseguenza: «le regole internazionali devono cambiare». Alle nostre ulteriori osservazioni, infine, Rick Pildes, un importante studioso americano, fece notare, in modo più sofisticato, che forse i nostri timori erano generati dalla fragilità delle democrazie spagnola ed italiana, confermata dalla storia dei nostri rispettivi paesi, mentre Stati Uniti e Gran Bretagna, che vantano più radicate tradizioni democratiche, sono oggi Stati più pragmatici. Dovetti interpellare la traduttrice simultanea per essere certo che il mio inglese non mi avesse tratto in inganno su questa serie di incredibili affermazioni. Fortunatamente, altri giuristi statunitensi, accademici e avvocati, civili e militari, hanno più volte denunciato che la segretezza sulle fonti di prova a carico degli accusati e i metodi utilizzati per l’acquisizione delle prove stesse, hanno reso i processi ai detenuti di Guantánamo assolutamente incompatibili persino con le regole dei processi che si celebrano dinanzi alle Corti marziali. Quelli che seguono sono alcuni dati su quanto avvenuto a Guantánamo for6 Sempre Matthew Waxman, in un altro importante meeting della New York University del maggio del 2007, ebbe a dire che «le leggi comunque non sono chiare e non risolvono tutti i problemi».

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niti da un avvocato di Boston, Peter Sabin Willet, specialista in difese dinanzi alle Commissioni militari, in un meeting internazionale tenutosi a Stoccolma nel novembre del 2007: – periodo di detenzione media per i prigionieri di Guantánamo: 6 anni – catturati in guerra: 5% – detenuti non accusati di atti di violenza: 55% – numero di persone formalmente accusate: 10 – condannati tra il 2002 e il 2007: 1 Sono dati che hanno un preciso significato: non è vero che tutti i detenuti di Guantánamo sono stati catturati in azioni di guerra o terroristiche, che sono stati accusati di attentati e azioni violente e che sono stati comunque giudicati in modo da rispettare i loro diritti. Piuttosto, è vero il contrario: salvo che in dieci casi, quei detenuti non sono stati formalmente accusati e uno solo tra loro è stato condannato, sia pure con procedure che non garantiscono il diritto di difesa. Intollerabilmente lungo, infine, è il periodo di detenzione che essi soffrono in un regime in cui tutti i loro diritti sono sospesi. Alla fine di marzo del 2010, Peter Sabin Willet e il suo collega avvocato David H. Remes, anch’egli esperto nel campo dei diritti umani, hanno reso note le statistiche aggiornate sull’esito dei processi relativi a casi di detenuti a Guantánamo trasferiti alla competenza della Corte federale del distretto di Columbia: su 46 casi giudicati, 34 si sono risolti a favore degli accusati e solo in 12 casi il governo statunitense ha avuto ragione. I detenuti di Guantánamo, dunque, hanno avuto ragione nel 75% dei casi giudicati. Il fallimento del sistema statunitense di lotta al terrorismo – che, come è noto, ormai imbarazza le autorità Usa – è già dimostrato da questi dati, ma anche dalle dimissioni dell’ex Chief Prosecutor di Guantánamo, il colonnello Morris Davis della Us Air Force e, ancor più, da alcune storiche sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti che, pur composta in quel periodo da sette giudici di nomina repubblicana su nove, lo ha demolito pezzo dopo pezzo, in particolare giudicando le procedure in vigore a Guantánamo contrarie ai principi costituzionali americani. Da368

vis ha prima formalmente denunciato le pressioni del Pentagono in relazione ai casi che dovevano essere giudicati a Guantánamo dinanzi alle Commissioni militari e, dopo essersi rifiutato di utilizzare prove acquisite attraverso sistemi illegali, quali waterboarding, di cui si dirà in seguito, e altre forme di tortura, si è dimesso dall’incarico. Successivamente, nell’aprile del 2008, in uno dei primi processi celebrati a Guantánamo dopo l’entrata in vigore del Military Commissions Act del 20067, egli ha testimoniato a favore di Salim Ahmed Hamdan, accusato di essere stato l’autista di Osama bin Laden, riferendo delle pressioni subite e delle ragioni che lo avevano indotto a dimettersi. La Corte Suprema degli Stati Uniti, a sua volta, con una sentenza del giugno 20088, ha inferto un durissimo colpo al Military Commissions Act, affermando il diritto dei prigionieri di Guantánamo a ricorrere alla giustizia ordinaria «perché le leggi e la Costituzione sono state definite proprio per sopravvivere e non piegarsi in tempi straordinari. Perché libertà e sicurezza possono essere riconciliate nella cornice dello Stato di diritto». Dopo la sentenza, però, al di là di qualche infastidito commento, nessuna concreta iniziativa è stata assunta dalla amministrazione Bush per porre rimedio alla situazione denunciata dalla Corte Suprema. Stesso atteggiamento anche dopo la sentenza del giudice distrettuale di Washington, Ricardo Urbina, che nell’ottobre del 2008 aveva ordinato il rilascio di diciassette uiguri (minoranza turcofona e musulmana all’interno della Cina), detenuti senza prova a Guantánamo, disponendo che fossero condotti dinanzi a sé per un processo re7 Si tratta di una legge antiterrorismo firmata nell’ottobre del 2006 dal presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, dopo che il 29 giugno 2006 la Corte Suprema statunitense aveva pronunciato la sentenza Hamdan v. Rumsfeld, stabilendo che le Military Commissions, istituite per celebrare i processi a carico dei cittadini stranieri sospettati di aver commesso reati di terrorismo, erano illegittime sia perché violavano le disposizioni del diritto interno sia perché contrastavano con quelle del diritto internazionale (in particolare con disposizioni delle Convenzioni di Ginevra del 1949). Con il Military Commissions Act venivano autorizzate, tra l’altro, severe procedure per interrogare i sospettati di atti terroristici e tutelare i segreti relativi alle prigioni della Cia. 8 Sentenza del 12 giugno 2008 nei casi Boumediene v. Bush e Al Odah v. United States. Si tratta di decisioni che, peraltro, si inseriscono perfettamente nel solco di quelle del 28 giugno 2004 nel caso Rasul v. Bush e del 29 giugno 2006 nel già ricordato caso Hamdan v. Rumsfeld.

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golare, perché «la Costituzione proibisce il carcere per un tempo indefinito senza imputazioni»9. Si è dovuto attendere che la campagna per l’elezione del nuovo presidente degli Stati Uniti entrasse nel vivo per iniziare a sperare in una inversione di tendenza delle politiche antiterrorismo americane: le parole del candidato Barack Obama, infatti, avevano ridato fiato alle organizzazioni per i diritti civili in ogni parte del mondo. Le loro aspettative avevano poi preso corpo attorno al Natale del 2008, allorché il segretario alla Difesa, Robert Gates, confermato in quel ruolo da Obama dopo la sua vittoria, aveva dato ordine al Pentagono di preparare i piani per chiudere il campo di concentramento di Guantánamo e trasferire i sospetti terroristi negli Stati Uniti. Qui saranno sottoposti a quel giusto processo che la Costituzione americana garantisce a tutti, indipendentemente dalla loro nazionalità e dal tipo di accuse10. Ed a gennaio, pochi giorni dopo il suo insediamento, presentando i nuovi capi dei Servizi, Barack, Obama dichiarava: «Sotto la mia Amministrazione, gli Stati Uniti non praticheranno la tortura [...]. Rispetteremo la Convenzione di Ginevra e saremo all’altezza dei nostri più alti ideali [...] ciò ci renderà più sicuri ed aiuterà a cambiare l’atteggiamento degli altri sulla nostra lotta al terrorismo»11. Il neopresidente assicurava poi la rapida chiusura di Guantánamo, mentre Hillary Clinton, neosegretario di Stato, condannava senza ambiguità ogni forma di tortura. 9 La sentenza era stata ribaltata poco tempo dopo da una Corte federale che aveva imposto il trattenimento dei diciassette detenuti – assistiti dal già citato avvocato P. Sabin Willet – a Guantánamo. Successivamente, gli uiguri, in base a un accordo tra l’amministrazione Obama e la Repubblica di Palau (un arcipelago di oltre duecento isole nel Pacifico), sono stati rilasciati e trasferiti in quella specie di paradiso naturale in mezzo all’Oceano. Se fossero ritornati nel Xinjiang, regione di origine, sarebbero stati esposti a seri rischi in quanto la Cina li reclamava come terroristi. 10 Ma, aveva osservato Antonio Cassese, «Guantánamo passerà alla storia come tante località prima sconosciute diventate tristemente famose per le gravissime violazioni che vi sono state compiute: Marzabotto, Oradour-sur-Glane, Soweto, My Lai, Sabra e Chatila, Srebrenica, e tante altre» (Cassese, Tre motivi per fare in fretta cit.). 11 Paolo Valentino, La promessa di Obama: «Alti ideali, mai più torture», in «Corriere della Sera», 10 gennaio 2009.

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Per realizzare il suo progetto, l’amministrazione Obama chiedeva agli alleati europei la disponibilità ad accogliere, in vista della chiusura del campo, alcune persone che vi erano detenute, raccogliendo qualche consenso – tra cui quello annunciato a giugno dal governo italiano – ma anche molti dubbi. Le difficoltà per Obama si manifestavano abbastanza presto anche in patria: a maggio del 2009, il Senato gli negava i fondi necessari per la chiusura di Guantánamo, anche con i voti di molti democratici, mentre contestualmente Dick Cheney, l’ex vicepresidente degli Stati Uniti, dichiarava che chiudere «Gitmo» sarebbe stato un grave errore e che, nel caso di trasferimento di quei detenuti negli Usa, «rischieremo tutti di morire». Ma Obama, «leader solitario non omogeneo alla struttura politica al vertice della quale si trova»12, confermava il suo progetto di chiudere Guantánamo: «ha creato più terroristi di quanti ne abbia mai ospitati perché è diventata una bandiera dei nostri nemici»13. Finalmente, a giugno, il primo detenuto proveniente da Guantánamo compariva dinanzi alla giustizia ordinaria, una Corte federale di New York: era Ahmed Khalfan Ghailani, incriminato per gli attentati qaedisti del 1998 contro le ambasciate Usa in Kenya e Tanzania. A luglio, però, il rapporto della Casa Bianca sulla chiusura del campo cubano veniva rinviato e nessuno più giurava che sarebbe stato possibile realizzarla entro il gennaio del 2010, come originariamente previsto. Ai segnali negativi, comunque, facevano seguito quelli positivi: il 20 ottobre del 2009, il Senato americano, con 79 voti a favore e 19 contrari, confermando la decisione della Camera, dava il via libero perché i presunti terroristi di Guantánamo fossero trasferiti negli Stati Uniti e lì processati dalla magistratura ordinaria. Intanto, due di loro, entrambi tunisini, venivano espulsi verso l’Italia: essendo latitanti a seguito di provvedimenti di cattura emessi dal giudice per le indagini preliminari di Milano, arrivavano alla Malpensa alla fine di novembre del 2009 e trasferiti in carcere a San Vittore. Li attendeva a Milano un «giusto processo», dopo essere stati detenuti a Domenico Gallo, Il rischio di Obama, in «il manifesto», 23 maggio 2009. Il discorso di Barack Obama ai National Archives di Washington il 21 maggio 2009, ripreso da «la Repubblica» e «Corriere della Sera», 22 maggio 2009, si può leggere integralmente nel sito della Casa Bianca (www.whitehouse.gov). 12 13

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Guantánamo rispettivamente nove ed otto anni, cioè un tempo maggiore della pena massima prevista per i reati loro contestati. Ma – trattandosi di detenzione senza titolo e non formalmente certificata – quel periodo non potrà essere conteggiato nella pena da scontare se i due verranno definitivamente condannati. Potrà essere solo valutata da pubblici ministeri e giudici all’atto della determinazione discrezionale – tra il minimo e il massimo che la legge prevede – della pena rispettivamente da chiedere o irrogare al termine del processo. Nei loro primi interrogatori, comunque, uno dei due tunisini lamentava di non aver letto giornali da nove anni, l’altro di sentire freddo a San Vittore dopo che per otto anni aveva dimenticato il succedersi delle stagioni e aveva sempre indossato una maglietta con le maniche corte. La chiusura definitiva del campo di concentramento di Guantánamo, dunque, non sarà probabilmente così rapida ed agevole come il presidente Obama sperava, ma è certo che alla fine si realizzerà. E sarà un evento da celebrare in tutto il mondo. I «rapinatori di banche» delle «extraordinary renditions» Di fronte allo scempio dei diritti determinato dall’ormai tristemente nota pratica delle extraordinary renditions di sospetti terroristi si registrano spesso scoraggianti commenti del tipo: «in fondo era un terrorista!». Ma i sequestri di persone da trasportare in paesi dove è possibile torturarli non sono in alcun modo giustificabili: costituiscono in realtà una vera barbarie, sono attività criminali comuni. Non è un caso che Tyler Drumheller, già responsabile delle operazioni clandestine della Cia in Europa dal 2001 al 2005, cioè nel periodo più intenso delle renditions, abbia non solo recitato un chiarissimo mea culpa per quelle inutili e dannose pratiche ma abbia anche spiegato che queste operazioni erano realizzate da «agenti paramilitari, coraggiosi e coloriti, entrati in Iraq prima dei bombardamenti e in Afghanistan prima dell’esercito», aggiungendo poi: «Se non avessero compiuto azioni militari per vivere, probabilmente sarebbero stati rapinatori di banche»14. 14 Tyler Drumheller con Elaine Monaghan, On the Brink. An Insider’s Account of How the White House Compromised American Intelligence, Carroll & Graf Publishers, New York 2006, p. 36.

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Inutile dire che, ai tempi dell’amministrazione Bush, qualche zelante alto funzionario, con l’aiuto dell’accademico di turno, ha trovato il modo di spiegare come anche quest’aberrante pratica avrebbe una base giuridica tale da garantirne la legalità. Un documento di questo tipo, redatto da Michael John Garcia15 – che pure ho avuto modo di conoscere in un meeting internazionale – è stato da me sequestrato nella base romana del Sismi perquisita nel luglio del 200616. Ma a settembre, anche sul fronte delle extraordinary renditions, l’amministrazione Obama invertiva la rotta: il nuovo Attorney General17, Eric Holder, dichiarava che da quel momento in poi avrebbero potuto essere perseguite dai Tribunali, così come le intercettazioni telefoniche effettuate senza autorizzazione del giudice. «Waterboarding»: tortura o tecnica d’interrogatorio? Il 16 agosto del 2008, a Phnom Penh, entro nel Museo del Genocidio dei Khmer rossi. Si trova nel quartiere Tuol Sleng: un complesso di edifici che originariamente ospitavano scuole di vario livello e che, dall’aprile del 1975 al 7 gennaio del 1979, cioè fino a quando i Khmer rossi in rotta furono costretti dai vietnamiti ad abbandonare la capitale della Cambogia, furono «attrezzati» e utilizzati come luogo di tortura e sofferenza. Il famigerato complesso aveva assunto la sigla di denominazione S-21. Il direttore dell’S-21 era Kaing Guek Eav, conosciuto come «Duch», uno degli uomini più vicini a Pol Pot, ed ha oggi sessantotto anni: a febbraio del 2009, a trent’anni di distanza dai massacri, è iniziato il processo a suo carico. È accusato di avere ordinato la morte di circa quindicimila cambogiani. Oggi chiede perdono al suo popolo. Come avveniva nei numerosi killing fields del paese, i presunti avversari del regime – migliaia di bambini, adolescenti, uomini, donne, cambogiani e stranieri – venivano condotti in quegli edifici per essere schedati, torturati ed uccisi. Venivano fotografati sia al lo15 Michael John Garcia è Legislative Attorney presso l’American Law Division del Servizio ricerca del Congresso americano. 16 Vedi cap. VI. 17 L’Attorney General è una figura che, ove si volesse far riferimento al nostro sistema, sarebbe equivalente a quella di ministro della Giustizia e procuratore generale presso la Cassazione insieme.

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ro ingresso nell’S-21 che all’uscita, da morti. Le fotografie dei loro volti e dei loro occhi sbarrati mi scorrono davanti in una sequenza senza fine. Foto e storie di vite violentemente interrotte si susseguono in ogni stanza dell’S-21 finché non arrivo in un locale dove c’è una vasca capace di contenere un uomo, un piano trasversale di appoggio per la sua testa e una specie di gigantesco innaffiatoio. Sono gli strumenti necessari per attuare un sistema molto semplice di tortura: nudi, legati ed incappucciati, uomini e donne venivano immobilizzati in quella vasca, mentre i torturatori versavano imponenti getti d’acqua sul loro volto, determinando una sensazione di imminente annegamento. Chi visita l’S-21 non ha bisogno di immaginare la scena perché essa è riprodotta su una parete, accanto alla vasca: è un dipinto rudimentale, opera di una delle sei persone trovate in vita dai vietnamiti che avevano conquistato Phnom Penh e fatto irruzione nel complesso dedicato alle torture. Quel superstite era un pittore e volle raffigurare tutte le tremende scene che aveva vissuto o a cui aveva assistito: il suo nome è Vann Nath, oggi ha sessantaquattro anni ed ebbe salva la vita in cambio di una ventina di ritratti di Pol Pot richiestigli dal direttore dell’S-21. Quella forma di tortura è oggi chiamata waterboarding ed è stata considerata dall’amministrazione Usa una «tecnica di interrogatorio»18. Dopo le dimissioni dell’Attorney General Alberto Gonzales, il presidente Bush designò alla carica il giudice federale in pensione Michael Mukasey. Presentatosi il 18 ottobre 2007 dinanzi alla Commissione Giustizia del Senato Usa, egli rifiutò sostanzialmente di rispondere alla domanda di un senatore democratico che gli chiedeva se considerasse il waterboarding una forma di tortura. Evasivamente affermò che «se il waterboarding equivale a una tortura, allora esso non è costituzionale». Il presidente Bush, continuando a sostenere la candidatura di Mukasey, poi nominato Attorney General, disse a sua volta che «i cittadini americani devono sapere che qualsiasi tecnica noi usiamo essa è dentro la legge». E poi, richiesto anch’egli di precisare se considerasse il water18 Si tratta di teorizzazioni cui l’amministrazione Usa ha tentato di dare dignità giuridica anche grazie al memorandum dell’agosto del 2002 dell’Assistant Attorney General, Jay Bybee, analizzato da McCoy in Una questione di tortura cit.

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boarding legale, aggiunse: «Io non parlo delle tecniche. C’è il nemico qua fuori». Nell’aprile del 2009, peraltro, è stata diffusa negli Stati Uniti la notizia che la prima autorità politica ad autorizzare la pratica del waterboarding sarebbe stata, nel luglio del 2002, il segretario di Stato Condoleezza Rice19. Mi chiedo, allora, perché la stessa cosa è chiamata tortura se praticata dai Khmer rossi in Cambogia o dai francesi negli anni Cinquanta nei confronti dei membri del Front de Libération Nationale algerino ed è, invece, definita tecnica di interrogatorio se adottata dalla Cia o dai militari americani. E perché mai dovrebbero essere considerati «tecniche di interrogatorio» altri inequivocabili metodi di tortura studiati dalla Cia per fiaccare la resistenza dei detenuti, quali la privazione del sonno o l’ascolto forzato di musica a tutto volume, 24 ore su 24? Nell’ambito della campagna «zerodB» sponsorizzata dall’associazione britannica per i diritti umani Reprieve, cantanti e gruppi rock famosi come Bruce Springsteen e Massive Attack sono scesi in campo lanciando una protesta internazionale per impedire al governo americano di usare la loro musica per far parlare i prigionieri: hanno rivendicato, cioè, come efficacemente ha scritto Enrico Franceschini, una sorta di «diritto morale d’autore»20. Gli stessi artisti, nell’ottobre del 2009, tornavano alla carica insieme ai Metallica, R.E.M. e Pearl Jam (la cui musica mi accompagna da anni nelle ore di lavoro casalinghe), chiedendo la chiusura di Guantánamo e che il governo americano, revocando ogni segreto, pubblicasse i nomi dei cantanti e la lista dei pezzi sparati a 130 decibel nei centri di detenzione dei supposti terroristi islamici: una sorta di compilation del terrore21. E ancora Alfred W. McCoy ha spiegato che la Convenzione Onu contro la tortura fu ratificata negli Stati Uniti solo dopo che vi furono incluse dettagliate riserve diplomatiche che [...] esclusero dalla definizione di tortura [...] proprio quelle tecniche che i servizi avevano messo a punto e la cui combinazione fa sentire le vittime responsabili delle proprie 19 Alberto Flores d’Arcais, Nuovi documenti incastrano la Rice, in «la Repubblica», 24 aprile 2009. 20 Enrico Franceschini, Tortura, dal Boss ai Massive Attack: «Non usate la nostra musica», in «la Repubblica», 12 dicembre 2008. 21 Stop alla musica di Guantánamo, in «La Stampa», 23 ottobre 2009.

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sofferenze e rende più facile arrendersi ai torturatori: dolore autoinflitto, disorientamento sensoriale, con somministrazione violenta di stimoli e privazione di sonno, attacchi all’identità culturale e alla psiche individuale, metodi come il waterboarding22.

McCoy ha anche affermato che «in generale nessun popolo si preoccupa del problema degli abusi, se sono fatti in nome della sicurezza. Ecco perché abbiamo bisogno del diritto internazionale»23. Vorrei a questo proposito raccontare le tecniche d’interrogatorio che usiamo alla Procura di Milano. Siamo alla fine di luglio del 2004 e alle 15.15, come risulta dal verbale dell’atto, inizio nel mio ufficio l’interrogatorio di un egiziano detenuto, accusato di essere uno dei capi di un’associazione terroristica operante a Milano. Si chiama Radi Abd El Samie Abou El Yazid El Ayashi, ma nelle intercettazioni telefoniche tutti lo chiamano Mera’i e lui stesso ammette che quello è il suo soprannome. Prima di essere arrestato, aveva mantenuto rapporti anche con Abu Omar. L’interrogatorio è l’ultimo atto dell’indagine e dura varie ore perché Mera’i, pur dichiarandosi innocente, spiega molte circostanze contestategli e finisce anche con il fare qualche significativa ammissione. A un certo punto, Mera’i mi dice che è arrivata l’ora di una delle sue preghiere quotidiane e chiede di interrompere l’interrogatorio. Accolgo la sua richiesta e gli fornisco anche qualcosa da mettere sotto le ginocchia. Mi ringrazia e mi chiede in che direzione si trova La Mecca. Non so aiutarlo e me ne scuso. Attendo che finisca di pregare, riprendo poi l’interrogatorio e lo concludo in un paio di ore. Mera’i mi ringrazia e io lo riaffido alla polizia penitenziaria che lo riporterà in carcere. L’anno dopo è stato condannato a dieci anni di reclusione. Per finire su renditions e torture variamente qualificate, è bene ricordare la «filosofia» di fondo in cui si inquadrano: interessano le «informazioni», non i processi e si pensa che, sacrificando i diritti, sia più facile ottenerle e così prevenire i rischi per la sicurezza della collettività. McCoy, Una questione di tortura cit. Dall’intervista ad Alfred W. McCoy di Elisabetta Ambrosi, La Cia e le torture, in «la Repubblica», 20 agosto 2008. 22 23

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È una convinzione priva di ogni fondamento. Tornerò più avanti sulle regole processuali, ma è falso che, sottratta una persona a una procedura legale e trasportata in una prigione «dura» o segreta, sia più facile ottenere da lei informazioni su complici e progetti illegali: sono gli stessi esperti, non più sottovoce e non solo di scuola europea, a dire che mai una sola informazione veramente utile è stata ottenuta per questa via. Non credo affatto, dunque, a quanti – appartenenti alla vecchia amministrazione o alla vecchia Cia – continuando ostinatamente a difendere la loro «filosofia» di fronte alla sterzata imposta da Obama, ripetono che con quei metodi hanno ottenuto importanti informazioni e operato molti arresti. Risposte così generiche e prive di riscontri servono forse sul piano mediatico, ma non ingannano gli addetti ai lavori e le persone di buon senso. A tale proposito, Malcolm W. Nance, consigliere dell’Antiterrorismo statunitense (Us Government’s Special Operations Homeland Security), ha efficacemente ricordato che durante un viaggio sul fiume Mekong, aveva «conosciuto un uomo che sotto tortura aveva confessato di essere un omosessuale, una spia della Cia, un monaco buddista, un vescovo cattolico e il figlio del re della Cambogia. In realtà egli era un maestro di scuola, il cui crimine era solo quello di avere una volta parlato in francese»24. Chi è sotto tortura, insomma, è portato a dire ciò che il torturatore si aspetta e non la verità, anche se, naturalmente, la possibilità di ottenerla non potrebbe certo giustificare alcuna forma di illegalità. È una questione che in Italia dovremmo ben conoscere: Alessandro Manzoni ce l’ha raccontata nella sua Storia della colonna infame, descrivendo il processo agli untori di Milano e la condanna a morte, il 1° agosto del 1630, di Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora. I due avevano confessato sotto tortura. La loro atroce fine era stata già descritta da Pietro Verri in Osservazioni sulla tortura: «col nome di tortura non intendo una pena data a un reo per sentenza, ma bensì la pretesa ricerca della verità co’ tormenti». Oggi, però, si finge pure di ignorare che tali intollerabili forme di illegalità «istituzionali» costituiscono fattore di moltiplicazione di potenziali terroristi: ai gruppi estremisti, infatti, vengono in tal modo elargite nuove ragioni di proselitismo. 24 Cfr. http://smallwarsjournal.com/blog/2007/10/print/waterboarding-istorture-perio

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Lo «tsunami digitale» tra intercettazioni segrete e raccolte di dati personali Ma non sono solo le tecniche di interrogatorio, le renditions o le prigioni segrete che rendono inaccettabile questo sistema di lotta al terrorismo. Basti pensare al programma di intercettazioni segrete (Terrorist Surveillance Program, Tsp) rivelato dal «New York Times», alla fine del 2005: si tratta delle intercettazioni telefoniche e di email effettuate dall’amministrazione Bush su cittadini americani, senza autorizzazione del giudice. Un sistema che, per alcune sue caratteristiche, si poneva come eccezione persino rispetto a quanto previsto dal già eccezionale Patriot Act25. Una lapidaria sentenza del 17 agosto 2006 del giudice federale di Detroit, Anna Diggs Taylor, bollava come «anticostituzionali» le intercettazioni in questione, imponendone la immediata interruzione26. Il giudice di Detroit le definiva «un gravissimo abuso di potere da parte del presidente George W. Bush», il quale «nel non rispettare le procedure legislative ha sicuramente violato il Primo e il Quarto emendamento della Costituzione» [sulla tutela della privacy], nonché «la dottrina della separazione dei poteri e le leggi sulle procedure amministrative». Durante il processo, la Casa Bianca si era trincerata dietro «motivi di sicurezza nazionale» per rifiutarsi di fornire i dettagli del suo programma segreto e in una nota ufficiale il dipartimento della Giustizia, annunciando il ricorso contro la decisione del giudice, ha definito il programma della National Security Agency (Nsa) «uno strumento cruciale che dà la possibilità di avere un sistema di preallarme per sventare o impedire attacchi terroristici». 25 Sul significato dell’acronimo Usa Patriot Act e per notizie sul giurista che ne è considerato l’architetto, vedi Appendice, par. 9. 26 La sentenza è stata emessa nel caso n. 06-CV-10204 dal predetto giudice dell’Eastern District of Michigan-Southern Division. La causa (Aclu v. Nsa) era stata promossa contro la Nsa, l’agenzia nazionale di sicurezza americana, dalla American Civil Liberties Union e da altre associazioni attive nel campo dei diritti umani, nell’interesse di molti cittadini americani che lamentavano di essere stati illegalmente sottoposti ad intercettazioni telefoniche in occasione di conversazioni intercorse per svariate ragioni con persone residenti in Medio Oriente.

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Nel suo rapporto dell’11 settembre del 2008, l’organizzazione Statewatch27 ha denunciato «lo tsunami digitale» che stava per scatenarsi sull’Europa: tecnologie di sorveglianza su spostamenti e transazioni delle persone e sugli oggetti da loro utilizzati che dovrebbero dar luogo alla creazione di gigantesche banche dati utili per la «guerra al terrore». Il presupposto della loro moltiplicazione è che chi non ha nulla da nascondere non ha nemmeno alcunché da temere. Autorità statunitensi ed europee (tra cui persino il cosiddetto Future Group del Parlamento europeo) stanno collaborando al progetto di realizzazione di questi sistemi di raccolta dati che dovrebbero favorire sicurezza e prevenzione. È la stessa filosofia posta alla base del controllo dei dati bancari tramite Swift (dall’inglese Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication) e della raccolta dei Pnr (Passenger Name Record), cioè di un lungo elenco di notizie personali che, senza alcuna base di reciprocità, i passeggeri in partenza dai ventisette paesi dell’Unione Europea, nonché da Australia, Nuova Zelanda, Giappone, Brunei e Singapore, non in possesso di visto rilasciato dagli uffici diplomatici americani, che si recano negli Stati Uniti per affari o per turismo, dovranno comunicare al governo Usa via Internet o alle compagnie aeree almeno 72 ore prima della partenza. Secondo l’Homeland Security statunitense, questo sistema renderebbe più difficile l’ingresso negli Usa di terroristi che provengono da paesi amici. Un’utilità che reputo alquanto dubbia al pari del quesito che figura al punto 38 della «Domanda di visto non immigrante» da compilare e consegnare ai consolati Usa in Italia, prima di recarsi negli Stati Uniti per un viaggio turistico di meno di 90 giorni: «È sua intenzione recarsi negli Usa per impegnarsi in azioni [...] sovversive, terroristiche o comunque illegali? È membro o rappresentante di una organizzazione attualmente riconosciuta come terroristica dal segretario di Stato degli Stati Uniti? [...] Ha mai preso parte ad un genocidio?». Tra l’altro, forse per incoraggiare una dichiarazione sincera, il modulo reca una curiosa avvertenza: «Una risposta affermativa non implica automaticamente il rifiuto del visto. Ma se ha risposto SÌ a una qualsiasi delle domande qui sopra potrebbe essere invitato a presentarsi presso i nostri uffici»28. Non è però specificato che cosa, in 27 28

Su Statewatch e il suo «Observatory on ‘rendition’» vedi p. 215. Il modulo è disponibile sul sito https://evisaforms.state.gov/ds156.asp

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tal caso, potrebbe accadere a chi avesse dichiarato l’intenzione di recarsi negli Usa per compiervi un’azione terroristica... Insomma, al di là di queste note di colore, è chiaro che la violazione della privacy delle persone e l’incompatibilità di queste tecniche rispetto agli standard dei diritti fondamentali accettati in Occidente non sembrano interessare più di tanto il governo americano e quelli europei. Come scrive Patrick R. Keefe, «viviamo in un mondo sommerso dai segnali. Partono dai nostri telefoni cellulari e di antenna in antenna arrivano al nostro amico che si trova, magari, in un altro paese; il tutto nell’ordine di un secondo. L’aria intorno a noi e il cielo sopra di noi sono un’orgia di segnali. Intercettarli è facile come raccogliere la pioggia in una tazza»29. Evidentemente, qualcuno pensa che sia legale ed utile nella lotta al terrorismo raccogliere milioni di dati, così controllando e classificando mezza umanità. L’erroneità di questa tesi è stata dimostrata anche di recente, il giorno di Natale del 2009, allorché il giovane nigeriano Umar Farouk Abdul Mutallab ha tentato di farsi esplodere sul volo Delta Airlines Amsterdam-Detroit: nonostante gli apparati di sicurezza americani possedessero molti dati su di lui e il padre stesso ne avesse denunciato a un’ambasciata Usa la progressiva radicalizzazione e un lungo soggiorno nello Yemen, egli era in possesso di regolare visto che autorizzava il suo ingresso negli Usa. E poiché il nigeriano aveva l’esplosivo nelle mutande, la reazione degli «esperti» di sicurezza si è concentrata sulla necessità di installare negli aeroporti i body scanner in grado di mettere a nudo (è il caso di dirlo) i passeggeri. L’Unione Europea, per fortuna, dopo gli iniziali entusiasmi, ha frenato e deciso di attendere i necessari rapporti sui rischi per la salute delle persone, mentre il nostro ministro Maroni ha dichiarato che l’Italia è pronta a partire con la sperimentazione30. In effetti, il 5 marzo del 2010 i primi body scanner sono entrati in funzione nel Terminal 5 dell’aeroporto di Fiumicino: per ora sono volontari (l’alternativa è una doppia perquisizione personale) e limitati ai passeggeri diretti ai voli per Stati Uniti e Israele. Il primo a sottoporsi all’esame 29 Patrick R. Keefe, Chatter: Dispatches from the Secret World of Global Eavesdropping, Random House, New York 2005 [trad. it., Intercettare il mondo. Echelon e il controllo globale, Einaudi, Torino 2006]. 30 Cfr. «la Repubblica», 22 gennaio 2010.

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del nuovo dispositivo è stato il ministro della Sanità Ferruccio Fazio. Le macchine costano centoventimila euro l’una e, secondo il ministro, sono del tutto innocue31. I teorici di questi sistemi di controlli e di raccolta dati in continua espansione affermano che il conseguente «danno collaterale» che ne può derivare per le persone in tutto il mondo costituirebbe un sacrificio accettabile in nome della sicurezza. Ma l’egiziano Yosri Fouda, un eccezionale reporter «investigativo», direttore dell’ufficio di Londra di Al Jazeera32, mi spiegava nel 2007 di sentirsi da tempo un «danno collaterale vivente»: le sue origini e le sue fattezze arabe, nonché la circostanza che nel suo nome completo figura anche «Mohammed», lo costringevano a subire in ogni aeroporto del mondo lunghe, meticolose e umilianti perquisizioni. Eppure egli è cittadino inglese. Le «black lists» e la lotta al finanziamento del terrorismo internazionale Dal mio punto di vista, trovo illegale anche la principale modalità di lotta al finanziamento del terrorismo, cioè il sistema delle black lists: dopo l’11 settembre, le Nazioni Unite e l’Unione Europea hanno infatti creato un sistema coordinato in base al quale vengono formate e periodicamente aggiornate liste di persone e di organizzazioni sospettate di terrorismo o di contiguità con il terrorismo. I nominativi di persone ed entità da inserire in tali elenchi vengono comunicati e proposti alle citate organizzazioni internazionali dai governi degli Stati membri che sfruttano informazioni giudiziarie, di polizia e di intelligence. In conseguenza dell’inclusione nelle liste, i fondi e le risorse economiche delle persone e 31 Cfr. «la Repubblica», 5 marzo 2010. Altri body scanner sono in fase di sperimentazione negli aeroporti di Milano/Malpensa e Venezia/Tessera, destinati, sempre su base volontaria, ai passeggeri dei voli con gli Stati Uniti e Israele. 32 Yosri Fouda è autore, con Nick Fielding, di Masterminds of Terror: The Truth Behind the Most Devastating Terrorist Attack the World Has Ever Seen, Arcade Publishing, New York 2004 [trad. it., Le menti criminali del terrorismo. La verità nascosta dietro l’attentato terroristico più devastante che il mondo abbia mai vissuto, Newton Compton, Roma 2004]. Fouda ha anche intervistato, in passato, leader di al-Qaeda del calibro di Khalid Sheikh Mohammed e Ramzi Binalshibh.

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delle entità in questione vengono congelati, cioè sottratti alla loro disponibilità. Le decisioni delle Nazioni Unite vincolano l’Unione Europea, ma ovviamente, quanto più forte è il peso politico dello Stato proponente tanto più alta è la probabilità che la proposta venga accolta. L’inserimento nelle black lists (con le conseguenze descritte) avviene, dunque, sulla base di opzioni e proposte politiche, senza che sia prevista alcuna procedura di ricorso da parte degli interessati dinanzi a un organo giudiziario indipendente. Molto frequenti sono peraltro gli errori di persona per la mancanza di dati anagrafici precisi o per le numerose omonimie dei soggetti inseriti nelle liste. Risulta evidente che questo sistema è pensato per contrastare un finanziamento del terrorismo che si realizzerebbe attraverso ipotetici e sofisticati canali finanziari, mentre le indagini europee sembrano provare che i finanziamenti provengono prevalentemente dal basso, cioè da attività criminali comuni di non elevato livello o dalle offerte di fedeli inconsapevoli33. In generale, non è azzardato affermare che le black lists stanno alla lotta contro il finanziamento del terrorismo come il sistema Guantánamo sta alla «punizione» dei terroristi: inefficaci quanto ai risultati, danno luogo a evidenti violazioni dei diritti delle persone e forniscono ulteriori occasioni di proselitismo ai gruppi terroristici. Anche in questo campo, però, sono stati i giudici a percepire questi gravi rischi e ad applicare comunque le regole legali che i governi, nonostante la declamata attenzione per i principi su cui si reggono le nostre democrazie, continuano a infrangere. Dopo alcuni importanti ma più timidi precedenti del Tribunale di prima istanza, la Corte di Giustizia delle Comunità europee ha preso nel settembre del 2008 una fondamentale decisione34, affermando che anche nel contrastare il finanziamento del terrorismo devono essere rispettati i diritti fondamentali tutelati dalla Unione Europea, in particolare il diritto di difesa, il diritto a un giusto processo e quello di proprietà. Sono esattamente i principi che la Procura della Re33 Tale conclusione è risultata valida persino per la preparazione degli attentati più drammatici consumati in Europa (Madrid, marzo 2004, e Londra, luglio 2005). 34 Sentenza Kadi-Al Barakaat, 3 settembre 2008, disponibile, al pari di quella alla nota seguente, sul sito Eur-Lex (http://eur-lex.europa.eu).

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pubblica di Milano aveva sostenuto già nel luglio del 2007, allorché aveva chiesto ed ottenuto l’archiviazione di un procedimento a carico di un egiziano, un siriano, un pachistano e un eritreo indagati quali appartenenti ad un’associazione terroristica internazionale soltanto perché i loro nomi erano stati inseriti nelle black lists a seguito di una decisione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. La sentenza della Corte europea ha fatto scuola e ormai si succedono pronunce dello stesso tenore anche a opera del Tribunale di prima istanza35. In Europa, non sarà più possibile, dunque, il congelamento di beni e risorse a carico di persone o entità sospettate di terrorismo senza che queste siano messe in condizione di conoscere gli elementi a carico e di potersi difendere dinanzi a un giudice. E cesseranno di operare, in assenza di tali garanzie, meccanismi automatici di importazione in Europa delle decisioni assunte dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Anche il Consiglio d’Europa a Strasburgo, così inascoltato in Italia sul tema delle renditions, è pervenuto alla stesse conclusioni, esaminando la compatibilità tra il sistema delle black lists ed i principi della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali: ancora una volta è stato quel campione dei diritti umani che è il senatore Dick Marty36 a redigere un rapporto che ha spianato la strada all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa37. 35 L’11 giugno del 2009, la Corte di prima istanza ha annullato il provvedimento di congelamento dei beni adottato nei confronti del giordano Omar Mohammed Othman, imprigionato in Gran Bretagna (caso T-318/01), il cui nome era stato inserito nella black list dell’Unione Europea. 36 Si rimanda al cap. XII per le notizie sul ruolo e le attività svolte dal senatore elvetico Dick Marty, ex magistrato, in seno al Consiglio d’Europa. 37 Il rapporto di Dick Marty è del 16 novembre 2007. Le conseguenti Risoluzione 1597 e Raccomandazione 1824 dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa sono invece del 23 gennaio 2008: gli Stati membri dell’Unione Europea sono stati invitati, tra l’altro, ad adottare i provvedimenti necessari a rendere la procedura di freezing garantita nei confronti di coloro che vi sono di volta in volta sottoposti e in grado di rendere effettivo il principio dell’habeas corpus, mentre la Commissione dei ministri è stata invitata a rivolgersi allo stesso scopo alle Nazioni Unite e a esaminare se gli Stati membri del Consiglio di Europa adotteranno le misure auspicate «nell’interesse della credibilità della lotta internazionale contro il terrorismo». I testi si possono leggere e scaricare, in inglese, nel sito dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (http:// assembly.coe.int).

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Queste decisioni sono state ovviamente criticate negli Usa, dove spesso si definisce «ipocrita» l’atteggiamento degli alleati europei, che fingerebbero di ignorare la guerra in cui l’Occidente è impegnato contro chi vuole distruggerlo. Un’altra dimostrazione, questa, della frattura esistente tra chi intende comunque operare entro i confini della legge e chi crede, invece, che le regole dei codici e le procedure legali impediscano di ottenere risultati soddisfacenti ed ostacolino l’attività dei Servizi di informazione. Le «ricadute» europee del sistema americano di lotta al terrorismo internazionale Il delicato equilibrio tra esigenze di sicurezza e rispetto dei diritti e delle garanzie dei cittadini, o tra moralità e opportunismo38, appare comunque a rischio anche in Europa. Si estendono deroghe, strappi, lesioni più o meno profonde del principio di legalità. In particolare, il periodo immediatamente successivo all’11 settembre è stato caratterizzato dall’adozione di misure che, soprattutto a livello delle legislazioni interne degli Stati membri dell’Unione Europea, si collocavano, quasi come reazioni «istintive», nel solco delle scelte statunitensi proprie del Patriot Act. Di qui il rafforzamento delle competenze tipicamente proprie degli apparati di polizia e di intelligence, che, a titolo di esempio, ha portato all’introduzione, in Gran Bretagna, del fermo dei sospetti terroristi per ben ventotto giorni39 e in Francia della garde à vue, che consente alla polizia di detenere e interrogare i fermati per terrorismo per quatMcCoy, Una questione di tortura cit. Il premier Gordon Brown intendeva portare il termine da ventotto a quarantadue giorni: la proposta di legge, approvata nel giugno 2008 dalla House of Commons, è stata poi sonoramente bocciata nell’ottobre successivo dalla House of Lords. Ma la scarsa efficacia del sistema anglosassone di lotta al terrorismo internazionale – si tratta del complesso di norme che vanno sotto il nome di Terrorism Act – è dimostrata anche dai dati statistici elaborati dall’Home Office e diffusi dalla Reuters il 13 maggio 2009: tra l’11 settembre del 2001 e il 31 marzo del 2008, 1471 persone sono state arrestate in Gran Bretagna per effetto del Terrorism Act. Di queste, 521 (cioè il 35%) sono state formalmente accusate e solo 102 (il 7%) sono state condannate per violazioni della legge antiterrorismo. Statistiche decisamente deludenti, specie se comparate ai dati relativi alle inchieste penali condotte in paesi come Italia e Spagna, ove il terrorismo internazionale è affrontato con procedure rispettose della tradizione e della cultura giuridica europea. In 38 39

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tro giorni, in assenza di intervento di magistrati e di avvocati, ciononostante ottenendo prove valide nei processi. Nello stesso periodo, in significativa simmetria con i sistemi teorizzati oltre oceano, molti governi europei, come denunciato dal Parlamento europeo e dal Consiglio d’Europa nel 2007, hanno favorito o non ostacolato la pratica delle extraordinary renditions e delle «prigioni segrete»40. Certo non sono mancate, in Europa, scelte apprezzabili che hanno rafforzato il contrasto del terrorismo (come l’adozione del mandato d’arresto europeo, la decisione quadro sulla costituzione delle Squadre investigative comuni e quella del Consiglio dell’Unione Europea con cui sono stati affrontati ed in buona parte risolti i non secondari problemi di definizione dell’atto di terrorismo41), ma preoccupa che alcuni governi europei, sotto la spinta della Gran Bretagna, si mostrino favorevoli al possibile utilizzo nei processi per terrorismo di prove non verificabili né conoscibili dagli imputati perché provenienti da fonti segrete note solo ai servizi di informazione ed, eventualmente, anche a pubblici ministeri e giudici. Una scelta incompatibile con i principi adottati dalla Carta di Nizza, perché impedirebbe alle persone imputate di terrorismo – o a quanti sono sottoposti a misure di sicurezza perché sospettati di attività terroristiche – di difendersi all’interno di un «giusto processo». Proprio per questa ragione, anzi, i giuristi europei hanno accolto con soddisfazione la decisione unanime di nove giudici della House of Lords inglese che, a

Italia, in particolare, la percentuale dei condannati per reati di terrorismo dopo l’11 settembre (circa 120) rispetto agli arrestati sfiora il 75%. 40 A tal proposito, non si deve dimenticare che lo stesso Parlamento europeo, nella sua già citata «Risoluzione sul presunto uso dei paesi europei da parte della Cia per il trasporto e la detenzione illegali di prigionieri», approvata il 14 febbraio 2007, ha messo «in dubbio la concretezza effettiva del posto di Coordinatore Ue per la lotta al terrorismo occupato da Gijs de Vries, visto che egli non è stato in grado di dare risposte soddisfacenti alle domande della commissione temporanea; ritiene che una revisione e un rafforzamento delle sue competenze e del suo mandato, nonché una maggiore trasparenza e controllo delle sue attività da parte del Parlamento debba avere luogo prossimamente, in modo da accentuare la dimensione europea nella lotta al terrorismo» (vedi Appendice, par. 3). L’olandese Gijs de Vries, che si dimise dall’incarico poco dopo queste critiche, era stato nominato a quella carica il 25 marzo del 2004. Il nuovo Coordinatore, nominato il 19 settembre 2007, è ora il belga Gilles de Kerchove. 41 Entrambe queste decisioni quadro risalgono al giugno del 2002.

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giugno del 2009, hanno praticamente decretato la fine di un altro incivile istituto adottato in nome della war on terror: i control orders, vale a dire provvedimenti amministrativi contenenti pesanti restrizioni della libertà (sorveglianza elettronica, limite orario di rientro nell’abitazione privata, divieto di incontro con determinate persone e di frequentazione di determinati luoghi, divieto di usare il telefono e di guidare preghiere in moschee ecc.) adottati nei confronti di persone sospettate di attività terroristiche, che non possono essere legalmente processate a causa della segretezza imposta sulle fonti di prova o di sospetto a loro carico42. Per la stessa ragione, però, non potevano difendersi neanche nella procedura di applicazione dei control orders. L’affievolirsi dei controlli giurisdizionali sta diventando persino eclatante nelle norme in materia di espulsioni degli stranieri per motivi di prevenzione del terrorismo che si diffondono in ogni parte d’Europa. Non si può negare che esistano problemi rilevanti per i paesi occidentali relativi a quanti vi si trasferiscono con il deliberato proposito di delinquere ed è chiaro che in tali casi il discorso chiama in discussione altre logiche di risposta, preventive e repressive. Ma non possono accettarsi soluzioni generalizzate, uguali e applicabili per ogni tipologia di migranti, o l’estendersi delle espulsioni per ragioni di sicurezza. Né è accettabile l’equazione, falsa in fatto, secondo cui gli immigrati clandestini o irregolari sono tutti, o in buona parte, delinquenti comuni o terroristi, quando invece sono spesso vittime di un sistema criminale che prospera sul loro sfruttamento. Negli anni scorsi abbiamo assistito a episodi che avrebbero dovuto far riflettere l’Europa, ma che, invece, non hanno avuto alcuna con42 I giudici della House of Lords hanno adottato questa decisione a seguito di un ricorso presentato da tre persone sottoposte ai control orders: un iracheno, un britannico ed un uomo con doppia nazionalità libica e britannica. L’iracheno, un imam, era stato detenuto in precedenza ad Abu Ghraib sotto il regime di Saddam Hussein e aveva poi ottenuto il diritto a vivere in Gran Bretagna. Ha raccontato la sua esperienza a Bbc News il 10 giugno 2009, subito dopo aver saputo dell’accoglimento del suo ricorso: «Pensavo che le cose in Gran Bretagna fossero diverse che sotto Saddam Hussein. Io vivo in un paese democratico e non in un carcere in Iraq», ha dichiarato, «[...] ma dove sono le prove contro di me? È materiale segreto, non posso difendermi, sono all’oscuro, vivo in un incubo». Gli specialisti dell’Antiterrorismo inglese hanno criticato la sentenza.

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seguenza: un cittadino dell’Angola, Manuel Bravo, prossimo all’espulsione dopo tre anni vissuti nei dintorni di Leeds, si è impiccato il 15 settembre del 2005, nello Yarl’s Wood Removal Center, in Gran Bretagna, dinanzi al figlio Antonio, chiedendo che almeno a lui fosse assicurato un futuro in quel paese. Il giornalista italiano Fabrizio Gatti, che, fingendo di essere un curdo, era riuscito a penetrare e a soggiornare nel settembre del 2006 nel Centro di permanenza temporanea di Lampedusa, ha documentato le degradanti condizioni di vita degli immigrati clandestini che vi erano «ospitati». E al centro presso l’aeroporto di Amsterdam-Schiphol, il 27 ottobre del 2005, un incendio ha ucciso undici persone che vi erano detenute in attesa di essere espulse. Ed altri esempi sarebbero possibili. Possiamo seriamente affermare che queste espulsioni servono a fronteggiare il terrorismo? O non è piuttosto vero il contrario? Cioè che il terrorismo serve a giustificare indiscriminate politiche di espulsione con cui si pensa di risolvere un problema di dimensioni planetarie che richiederebbe ben altre politiche, ancorate innanzitutto a principi di solidarietà umana e ai risultati di approfondite analisi socio-economiche. Ne parlerò più avanti, ma intanto va ribadito che anche quando le espulsioni colpiscono stranieri che possono giuridicamente essere definiti «terroristi» (perché, ad esempio, condannati come tali dai giudici), non può essere accettata la prassi di trasferirli in paesi dove esiste il rischio concreto che vengano sottoposti a torture e trattamenti disumani: è questa, anzi, la ragione per cui la Corte per i Diritti dell’uomo di Strasburgo ha già più volte condannato il governo italiano. A giustificazione di certe scelte, invece, si afferma che esse sarebbero la conseguenza accettabile della difficoltà di ottenere condanne in sede giudiziaria. Il che dovrebbe spingere ad adottare soluzioni diverse per garantire la sicurezza degli europei. Quanto alle difficoltà di ottenere una condanna in sede giudiziaria, si tratta, da un lato, di un’affermazione anch’essa falsa (basterebbe studiare i confortanti dati disponibili), dall’altro di un rilievo ovvio in democrazia, ove ci si riferisca al fatto che le condanne possono fare seguito solo all’acquisizione di prove certe e rassicuranti, «al di là di ogni ragionevole dubbio». Ha scritto Tiziano Terzani che «per punire con giustizia occorre il rispetto di certe regole che sono il frutto dell’incivilimento, occorre il con387

vincimento della ragione, occorrono delle prove», ricordando che anche «i gerarchi nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga e quelli giapponesi, responsabili di tutte le atrocità commesse in Asia, furono portati dinanzi al Tribunale di Tokyo»43 prima di essere, gli uni e gli altri, condannati. Perché queste regole non dovrebbero essere ancor valide oggi? In Italia, in particolare, le convinzioni circa l’inadeguatezza del sistema legale a pervenire alla condanna di questi terroristi si sono sviluppate nel 2005 a seguito della sentenza di un giudice di Milano44. Ma, a prescindere dall’inaccettabile aggressione mediatica di cui quel giudice fu destinataria, nessuno ha poi sottolineato che, in accoglimento delle impugnazioni del pubblico ministero, la sentenza fu ribaltata e gli imputati originariamente assolti furono poi definitivamente condannati come terroristi. Dunque, il sistema legale funziona anche in questi casi, consentendo di rimediare ai possibili errori dei giudici. Del resto, non si comprende perché mai per una certa categoria di reati e – peggio – per alcune categorie di imputati, per lo più stranieri, le democrazie occidentali dovrebbero adottare regole diverse, fondate su una sorta di «depersonalizzazione del terrorista», cioè sulla collocazione nella categoria dei terroristi di qualsiasi persona sospetta rispondente a un determinato tipo di autore. È evidente che non possiamo accettare che questa tipologia di imputati venga sottratta alle ordinarie procedure legali e a un giusto processo in un’aula di giustizia. Proseguendo su quella strada, si rischia di minare la logica stessa della convivenza. Insomma, se questo terrorismo va ovviamente combattuto al livello più alto di capacità e determinazione, nessuna esigenza di Tiziano Terzani, Lettere contro la guerra, Longanesi, Milano 2002, p. 51. Si tratta della sentenza pronunciata il 24 gennaio 2005 dal giudice per le indagini preliminari di Milano, Clementina Forleo, all’esito di giudizio celebrato con rito abbreviato, nei confronti di Maher Ben Abdelaziz Bouyahia, Ali Ben Sassi Toumi e Mohamed Daki, i primi due tunisini e il terzo marocchino. Costoro erano stati assolti dall’accusa di essere componenti di un’associazione agente con finalità di terrorismo internazionale. I loro reciproci rapporti, infatti, venivano spiegati nella sentenza solo in chiave di condivisione dei medesimi convincimenti religiosi, nonché di opposizione – attraverso lecite «attività di guerriglia» in «contesti bellici» – contro le forze militari statunitensi all’indomani dell’invasione militare dell’Afghanistan o nell’imminenza di quella dell’Iraq. 43 44

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prevenzione, pur comprensibile, può spingere le democrazie occidentali verso la adozione di scorciatoie per evitare i procedimenti giudiziari e il loro carico di «scomode» regole, per trasformarli da luogo di accertamento delle responsabilità personali in strumento di ratifica di scelte, non rispettose dei diritti individuali, operate altrove. La comunità internazionale non ha bisogno di simili strappi, ma solo di strategie comuni fondate sull’adozione di una legislazione specialistica intelligente, sul rafforzamento della collaborazione e sull’affinamento delle tecniche investigative. Tutto ciò – come si può facilmente intuire – rimanda non solo alla necessità di scelte politiche rispettose dei diritti delle persone, ma anche – e soprattutto – al controllo di legalità che, in ogni democrazia, spetta al potere giudiziario. La battaglia per la conquista dei cuori e delle menti Non penso affatto, però, che l’azione della magistratura e delle forze di polizia sia di per sé sufficiente a sconfiggere questo terrorismo. Non è così, poiché nessuno può seriamente pensare che il successo possa essere raggiunto solo con le indagini, con i processi, così come con la cosiddetta attività di intelligence, e neppure con la guerra. Occorre certo anche la piena e convinta collaborazione delle comunità da cui i terroristi provengono. Sarebbe facile, a tal proposito, invocare la necessità di favorire l’integrazione degli immigrati nel nostro tessuto sociale, ma occorre anche altro, qualcosa di diverso e più specifico. Se è vero, infatti, che non si può fingere una integrazione che non c’è e che spesso è anzi rifiutata in nome di una incrollabile fedeltà ai canoni più rigidi della propria identità religiosa e culturale, è pur vero che nelle nostre democrazie è ben praticabile la strada del confronto con i musulmani, attraverso la rottura della incomunicabilità e al fine di stabilire le basi di un rispetto reciproco. Il vero universalismo dei diritti, come è stato scritto, sta proprio in questo, nel rispetto – ovunque – delle persone come sono, evitando ogni tendenza a trasferire su tutti i componenti di una comunità le responsabilità di pochi o di una parte della medesima. Diversamente, non riusciremo a impedire che nelle comunità islamiche si diffonda l’odio contro le democrazie occidentali che tradiscono se stesse. 389

L’ex presidente della Corte Suprema d’Israele, Aharon Barak, ha scritto in una storica e pluricitata sentenza del 2004 (di cui io ho appreso, prima di leggerla, dalle parole di accademici del rango di Valerio Onida e Antonio Cassese) che le democrazie sono costrette a combattere il terrorismo con una mano legata dietro la schiena, ma che proprio questo apparente fattore di debolezza si rivela alla fine la ragione della tenuta e del successo dei sistemi democratici45. Non c’è immagine più efficace per spiegare i nostri doveri ed è un’immagine illuminante ed a me particolarmente cara anche perché proviene dalla penna di un giudice. È giusto esigere che le regole della nostra società siano osservate fino in fondo anche da parte di chi, proveniente da paesi lontani, solo da poco le ha conosciute, ma perché ciò avvenga occorre che vi siano innanzitutto sottoposti coloro che hanno istituzionalmente il dovere di farle rispettare. Si tratta di un principio di palmare evidenza cui la nuova amministrazione americana intende conformarsi. Non si spiegano diversamente scelte impopolari come quelle adottate da Obama, dopo l’annunciata chiusura di Guantánamo, dalla fine di marzo del 2009 in avanti: la pubblicazione di quattro memorandum segreti dell’amministrazione Bush che illustrano e autorizzano su specifici prigionieri – in quanto non contrarie a leggi americane e a convenzioni internazionali – le ormai note «tecniche di interrogatorio» (waterboarding, schiaffi, testa sbattuta contro il muro, privazione del sonno)46, nonché il disvelamento dei progetti per la abolizione o sospensione di alcune libertà fondamentali, per la militarizzazione degli Stati Uniti e la subor-

45 Aharon Barak cita questa parte della sentenza nel suo The Judge in a Democracy, Princeton University Press, Princeton 2006, p. 283. 46 La pubblicazione dei memo determinò le reazioni di organizzazioni umanitarie e di semplici cittadini e la richiesta di una commissione d’inchiesta del Senato, ma molte furono anche le critiche alla decisione di svelarli. All’inizio di febbraio del 2009, tuttavia, il neodirettore della Cia aveva comunicato che non vi sarebbero state indagini penali a carico di membri della Cia per le modalità degli interrogatori di terroristi condotti all’epoca della precedente amministrazione. Nei mesi successivi i principali quotidiani americani continuavano però a scavare nel pozzo degli ex segreti nazionali, rivelando, ad esempio, che uno dei prigionieri più noti, Abu Zubaydah, era stato torturato a lungo e in vari modi anche dopo aver confessato ciò che sapeva (sarebbe stato sottoposto al water-

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dinazione dei diritti di espressione e di informazione alla necessità della war on terror che Bush, prima di scartare, arrivò a prendere in esame su proposta di alcuni suoi consiglieri47. A maggio stavano per essere pubblicate le foto agghiaccianti che avrebbero documentato le torture subite dai sospetti terroristi nelle prigioni afghane e irachene (così svelando il «protocollo Abu Ghraib»), ma proprio Obama, dopo avere affermato che non bisognava farsi «scoraggiare dal fatto che l’America ha potuto conoscere gli errori che sono stati fatti nel passato»48, faceva retromarcia per non esporre a ritorsioni i soldati Usa operanti in Iraq ed Afghanistan. Veniva rivista anche la decisione di abolire le Commissioni speciali: sarebbero rimaste in vigore, anche se nuove regole e forti garanzie legali avrebbero caratterizzato le procedure per i giudizi a carico dei sospetti terroristi49. A luglio, il «New York Times» pubblicava la notizia che proprio il vicepresidente Cheney avrebbe ordinato alla Cia di non rivelare al Congresso il programma antiterrorismo dell’amministrazione Bush post-11 settembre50. E che tale programma avrebbe anche riguardato piani di soppressione di terroristi e talebani51. Questa volta il ministro della Giustizia Eric Holder si dichiarava pronto ad aprire una inchiesta ed Obama assentiva. In ogni caso,

boarding per oltre ottanta volte in un mese). Il «Washington Post», in particolare, rivelava a luglio che, utilizzando tecniche diverse e legali, l’Fbi aveva ottenuto buoni risultati dagli interrogatori del terrorista. Ma la polizia federale era stata poi estromessa dalla Cia, che aveva utilizzato due psicologi a contratto, James Mitchell e John Jessen, teorici e applicatori dei metodi duri. E l’«Economist» puntualmente ricordava che le più importanti informazioni provenienti da Abu Zubaydah erano nelle sue agende, non nelle sue parole (The dark pursuit of the truth, 30 luglio 2009). 47 Si tratta di John Yoo, sottosegretario alla Giustizia; Robert Delahunty, assistente speciale del ministro; William Haynes, consigliere del ministro Rumsfeld, e Alberto Gonzales, avvocato personale di Bush e futuro Attorney General. 48 Discorso di Obama al quartier generale della Cia, a Langley, il 20 aprile 2009, citato da Alberto Flores d’Arcais, Torture, Obama fa pace con la Cia, in «la Repubblica», 21 aprile 2009. 49 Cfr. cronaca in «Corriere della Sera», «Il Sole 24 Ore» e «la Repubblica» del 16 maggio del 2009. 50 Scott Shane, Cheney is linked to concealment of C.I.A. project, in «The New York Times», 12 luglio 2009. 51 La notizia è ripresa e variamente commentata da «Corriere della Sera», «La Stampa» e «la Repubblica», 13 e 14 luglio del 2009.

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dopo ulteriori rivelazioni sulle gravi illegalità commesse durante gli interrogatori dei terroristi, Obama decideva, ad agosto del 2009, che la Cia non sarebbe stata più autorizzata a condurli. Gli interrogatori dei sospetti terroristi, da quel momento, venivano affidati a una speciale unità, insediata presso l’Fbi, con vincolo ad agire secondo leggi e convenzioni internazionali e sotto il diretto controllo del Consiglio di Sicurezza della Casa Bianca52. Un grosso smacco per la Cia e Cheney, comunque ostinato nel sostenere che, grazie a quelle tecniche e alle informazioni conseguentemente ottenute, sarebbero state salvate migliaia di vite umane. Con quali informazioni, dove, quando, ovviamente nessuno lo sa. Come si può vedere, i passi dell’amministrazione americana, pur orientati con decisione verso il ripristino della legalità, oscillano ancora tra pragmatismo e idealismo. Gli stessi accademici americani, del resto, pur tendenzialmente propensi a sorreggere il nuovo indirizzo, continuano a mostrare al loro interno non poche contraddizioni. Mi è capitato di constatarlo direttamente nel 2009, nel corso dell’annuale meeting di maggio organizzato dalla New York University a Firenze: se Karen J. Greenberg auspicava che Obama fosse capace di «rompere» senza equivoci rispetto agli indirizzi propri dell’amministrazione Bush (evitando, ad esempio, che il rilascio dei prigionieri di Guantánamo fosse un mero affare diplomatico anziché l’esito di una procedura legale)53, se sulla stessa linea di dura condanna dei metodi di conduzione della war on terror si schieravano, con argomenti diversi, Scott Horton, Joshua Dratel, John Nagl, Stephen Holmes (che definiva nostalgici e forieri di ulteriori violenze gli ultimi discorsi di Cheney in contrapposizione esplicita a quelli di Obama), Neal Katyal, Sidney Blumenthal54 ed altri, Matthew Waxman, che ho citato in precedenza, continuava ad affermare che gli europei dovrebbero evitare di arroccarsi sulle Cfr. «la Repubblica» e «Corriere della Sera», 25 agosto 2009. Karen J. Greenberg, Executive Director, Center on Law and Security, New York University School of Law, è autrice di numerosi saggi in tema di politiche antiterrorismo statunitensi. Quello cui qui ci si riferisce è Detention Nation, www.nationalinterest.org, 27 aprile 2009. 54 Scott Horton insegna alla Columbia University Law School; Joshua Dratel è avvocato a New York e difende sia dinanzi a Corti federali che statali; John Nagl è presidente del Center for a New American Security in Washington (DC) e professore al King’s College di Londra; Stephen Holmes è docente, co-diret52 53

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loro posizioni, accettando l’idea che certe decisioni (comprese quelle sulla permanenza dello stato di detenzione senza titolo dei sospetti terroristi) possano essere prese anche in assenza di regole precise. E David Cole, docente alla Georgetown University, pur decisamente schierato per la chiusura di Guantánamo, continuava a ritenere accettabile la detenzione preventiva a tempo indeterminato di persone pericolose per gli Stati Uniti, ignorando una facile obiezione: chi, in questi casi, deciderà che la guerra ad al-Qaeda è finita e la pericolosità cessata? Emergevano pure alcune prese di distanza dalle posizioni del passato, ma ancora troppo prudenti ed opache: John Bellinger55, ad esempio, spiegava di non essere mai stato d’accordo sulle scelte dell’amministrazione Bush, ma aggiungeva pure – garbatamente criticando gli europei, a suo avviso esperti solo di terrorismo interno – che la Convenzione di Ginevra non copre tutti i casi possibili e che i giuristi consultati all’epoca di Bush sui problemi legati alla detenzione a Guantánamo avevano espresso «ventisette opinioni diverse». Anche tra i militari e i «cacciatori» di Osama bin Laden continuavano a manifestarsi «opinioni diverse»: se il generale di divisione Antonio Taguba, che dal febbraio del 2004 aveva condotto con imparzialità l’inchiesta sugli abusi nella prigione di Abu Ghraib, denunciava coraggiosamente i gravi errori dei militari nella gestione di luoghi di detenzione e nelle modalità di conduzione degli interrogatori dei sospetti dei terroristi («errori che dovevano essere evitati e che sono incompatibili con l’onore dei militari»), c’era pure chi continuava a giustificare l’uso dei droni-predators per colpire nei loro supposti santuari i capi di al-Qaeda, nonostante l’alto numero di vittime civili e innocenti che esso determina. Il presidente Obama si è solennemente impegnato a rispettare

tore di facoltà al Center on Law and Security della New York University; Neal Katyal è professore alla Georgetown University Law School, ha difeso persone detenute a Guantánamo e vinto dinanzi alla Corte Suprema americana la già citata causa Hamdan v. Rumsfeld; Sidney Blumenthal è stato consigliere di Bill ed Hillary Clinton ed è ora docente al Center on Law and Security della New York University. Tutti sono autori di libri, saggi e commenti in materia di lotta al terrorismo e rispetto dei diritti umani. 55 John Bellinger, già citato in precedenza, è stato consigliere giuridico presso il National Security Council dal 2001 al 2005 e presso il segretariato di Stato dal 2005 al 2009.

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le regole: «così saremo più forti», ha dichiarato56. Secondo il «New York Times», le scelte del presidente e la rapidità fulminea con cui sono state adottate avrebbero offeso George Bush e i suoi uomini, che si aspettavano una transizione più moderata57. Non stento a crederlo e penso anche che Obama non potrà in tempi brevissimi cancellare le aberrazioni che, in nome della sicurezza, sono state messe in atto in questi anni dalla precedente amministrazione. Anche lui avrà bisogno di tempo. Ma Obama merita la fiducia dei suoi elettori (il 66% di quelli sotto i trent’anni ha votato per lui) e quella del mondo intero: ha imboccato la strada per rovesciare le sorti della battaglia in corso tra l’Occidente e il terrorismo, che, come scrive Jason Burke, «non è una battaglia per la supremazia globale. È una battaglia per la conquista dei cuori e delle menti. Ed è una battaglia che noi e i nostri alleati del mondo musulmano stiamo perdendo»58. Resta un’amara considerazione: negli Stati Uniti, magari con una certa fatica e resistenza, i segreti vengono via via svelati per la vergogna di ciò che essi nascondono. In Italia, invece, si moltiplicano e si difendono, persino ricorrendo a sorprendenti giustificazioni giuridiche. Flores d’Arcais, Torture cit. Ripreso da Mario Calabresi, Obama: L’America non tortura, in «la Repubblica», 23 gennaio 2009. 58 Jason Burke, Al-Qaeda: The True Story of Radical Islam, I.B. Tauris, London 2003 [trad. it., Al Qaeda, la vera storia, Feltrinelli, Milano 2004, p. 288]. 56 57

XX

Secret Service

Nel 2005, a New York, un esperto americano mi spiegava convinto come gli europei dovrebbero accettare la scelta di utilizzare – anche nei processi – le notizie raccolte dai servizi segreti, di cui ovviamente devono rimanere segrete le fonti. E pazienza se imputati, avvocati e persone inserite nelle black lists non possono in tal modo sottoporle a verifica secondo la loro prospettiva difensiva. Alla mia domanda sulle ragioni per cui negli Stati Uniti le indagini sul terrorismo sono condotte innanzitutto dalla Cia, il prosecutor americano rispondeva che solo gli appartenenti all’agenzia sono in grado di comprendere ed analizzare ideologia, proclami e programmi dei terroristi cosiddetti islamici. Osservavo con una certa meraviglia che in Italia ne sono capaci tutti gli appartenenti ai reparti antiterrorismo della polizia giudiziaria ordinaria, indipendentemente dalla loro collocazione gerarchica. Tutto inutile! Nella sala in cui discutevamo insieme ad altri esperti, continuava a risuonare una sola parola: intelligence... intelligence ed ancora intelligence. Parola per me divenuta quasi insopportabile e che, nel significato ormai invalso ed accettato, alimenta formidabili confusioni nella comunità internazionale tra ruolo dei Servizi e ruolo della polizia giudiziaria nel contrasto del terrorismo: questa lavora per l’individuazione e l’acquisizione di prove destinate a essere utilizzate nei processi e valutate dai giudici, mentre ai Servizi di informazione compete la prevenzione dei rischi. Si spiega dunque come le notizie che questi ultimi raccolgono potranno avere accesso nei processi solo ove assu395

mano la forma degli atti tipici previsti dal codice di procedura penale: cioè, non informative senza firma, fondate su fonti confidenziali e segrete, ma atti riconducibili a persone individuate, che assumono la responsabilità di quanto riferito e che possono essere sottoposte, nelle aule giudiziarie, a domande dei pubblici ministeri e dei difensori degli imputati. Sia ben chiaro che questa opinione non è in alcun modo frutto di preconcetta sfiducia nell’attività dei Servizi di informazione: sono profondamente convinto, infatti, che ogni democrazia ne abbia assoluta necessità. E del resto sono molte le persone che ne hanno fatto o ne fanno parte con onore e capacità (anche se non sempre hanno avuto il riconoscimento che meritavano). Ed alcune tra loro hanno perso la vita nell’adempimento del proprio dovere. Ma la ripartizione di competenze che ho ricordato costituisce, a mio avviso, una scelta tecnica obbligata, l’unico modo corretto per utilizzare forze e istituzioni che devono tutte essere messe in campo in questa lotta senza quartiere. Si eviteranno, in tal modo, sovrapposizioni nelle attività da svolgere ed equivoci sulle regole di comportamento, come quelli che si manifestano quando la polizia giudiziaria tende ad agire come fosse un Servizio d’informazione e viceversa. E si eviterà anche la diffusione di inutili e spesso infondati allarmi su ipotetici complotti o su attentati sventati. Perché anche questi allarmi fanno parte di un rituale che serve a rassicurare tutti. Come a dire: «la vostra vita subisce restrizioni e controlli, ma i Servizi vigilano e sventano ogni pericolo!». Ad esempio, una notizia aveva allarmato il paese nel 2005: una «scuola per kamikaze» era stata scoperta a Milano dal Sismi, che ne aveva informato la polizia giudiziaria come la legge impone. Ed i carabinieri ne avevano ovviamente riferito alla Procura di Milano. Della vicenda si interessò anche il Copaco, all’epoca presieduto da Enzo Bianco. Il 28 settembre 2005, fui io stesso convocato, per riferire sul caso, presso la sede del Comitato di palazzo San Macuto a Roma: la mia audizione avveniva come esperto su «Questioni inerenti il ruolo e l’azione degli organismi di intelligence in relazione alla minaccia del terrorismo interno ed internazionale, con particolare riferimento a quello di matrice islamica». Ma le indagini sulla «scuola per kamikaze» si erano già concluse e la Procura di Milano aveva chiesto l’archiviazione del relativo procedimento: la notizia si era rivelata priva di qualsiasi fondamento. Infatti, i carabinieri del Ros di Milano avevano compiuto tutte le verifiche possibili accer396

tando che il responsabile della presunta «scuola» era in realtà un africano che dormiva alla Stazione centrale, un personaggio senza arte né parte, che non era mai stato sospettato di attività terroristiche. I carabinieri avevano pure chiesto un incontro al Sismi per chiarire la vicenda, ma il Sismi non aveva risposto all’invito. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta, però, alla fine del luglio del 2005, aveva confermato dinanzi al Copaco il fondamento dell’allarme lanciato dal Sismi1. Primavera del 2006, vigilia delle elezioni politiche. Il Sismi segnalava alla polizia giudiziaria la notizia della avanzata preparazione di attentati da parte di un terrorista siriano alla Stazione centrale di Milano. A supporto della notizia, la polizia giudiziaria acquisiva anche un foglio in arabo contenente istruzioni per la fabbricazione di ordigni esplosivi: secondo la fonte che l’aveva procurato, il foglio faceva parte di un manuale che il presunto organizzatore degli attentati utilizzava per l’indottrinamento di numerosi giovani islamici radicali e per l’insegnamento di tecniche terroristiche. Maurizio Romanelli, il collega del Dipartimento antiterrorismo, e la Digos di Milano effettuarono gli accertamenti necessari, mentre io avevo raccomandato invano che non trapelasse alcuna notizia sulla stampa. Anche questa notizia si rivelò priva di fondamento. La fonte, cui il Sismi aveva dato credito, è stata nel dicembre del 2008 condannata per calunnia e procurato allarme. La condanna è poi diventata definitiva ma, intanto, lo sventurato calunniato, il siriano supposto regista del piano di attentati, è stato espulso dall’Italia per ragioni di sicurezza, in realtà insussistenti visto che il procedimento a suo carico venne ovviamente archiviato per assoluta infondatezza della notizia di reato. Morale: i Servizi devono certo raccogliere ogni notizia che serva a prevenire rischi e passarla alla polizia se riguarda reati, ma nulla dovrebbe trapelare prima di una verifica del suo effettivo fondamento. Sono episodi che immediatamente rimandano alle riflessioni di Zygmunt Bauman: viviamo in una società in cui ripetuti allarmi vengono diffusi con una periodicità sconcertante2. Ma tanto più gli 1 Audizione di Gianni Letta al Copaco, il 28 luglio 2005, citata in Letta conferma: la scuola dei terroristi è a Milano, in «La Stampa», 29 luglio 2005. 2 Zygmunt Bauman, Wasted Lives: Modernity and Its Outcasts, Polity, Cambridge 2004 [trad. it., Vite di scarto, Laterza, Roma-Bari 2005].

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allarmi appaiono gravi, tanto più essi sono indeterminati, assolutamente privi di specificità e si rivelano infondati. Quotidianamente, leggiamo di minacce di attentati che vengono sventati, non solo in Italia, ma anche all’estero, senza che nessuno possa mai conoscerne seriamente i dettagli: cioè dove questi attentati si dovevano realizzare, chi li doveva eseguire, come sono stati organizzati. E, soprattutto, quale sia stata la sorte finale delle inchieste avviate sulla base di notizie spesso rivelatesi del tutto infondate alla luce delle indagini condotte dalle forze di polizia, ma che tali non potevano non apparire, sin dall’inizio, agli organismi che le avevano diffuse e che le avevano acquisite tramite fonti fiduciarie. La continua propalazione di questi allarmi, però, induce i cittadini ad adeguarsi a certe logiche. La logica, ad esempio, per cui si deve temere per la propria incolumità o il proprio sistema di vita e conseguentemente accettare, in nome di una accresciuta sicurezza, una limitazione dei diritti, meglio se si tratta di quelli degli altri, meglio ancora se gli altri sono stranieri immigrati. E la sicurezza diventa il tema dominante della nostra vita, condizionando le scelte politiche, sacrificando la solidarietà e determinando anche qualche guerra qua e là: persino Bush, il 1° dicembre del 2008, si è dichiarato pentito per avere creduto alle false informazioni della sua intelligence sull’esistenza di armi nucleari nell’Iraq di Saddam Hussein. Umberto Eco e i Servizi Queste storie di intelligence taroccata che affollano il mondo sono state anche oggetto di ricostruzioni storiche, ma Umberto Eco, a metà degli anni Settanta, ha usato un diverso ed esilarante approccio. Ha scritto Stelle & stellette3, parodia di un immaginario «Rapporto riservato» inviato «al Presidente della Federazione» da un fantomatico Ammiraglio («nome omesso - top secret»), «Caposervizio del Coordinamento Servizi Segreti - Roma». L’Ammiraglio spiega nel rapporto che condizione stessa di esistenza di un Servizio che coordini l’attività di Servizi Segreti in reciproco conflitto è l’assoluta segretezza delle sue 3 Umberto Eco, Stelle & stellette. La via lattea mormorò, illustrazioni di Philippe Druillet, Quadragono, Conegliano 1976; i brani citati sono alle pp. 26-36.

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informazioni. Principio da noi seguito con tale scrupolo che di solito questo servizio, per evitare fughe di notizie, cerca di non essere al corrente di quanto attuato dai servizi che coordina. Se talora ci permettiamo di venire al corrente di qualche avvenimento è solo per tenere in allenamento i nostri ventisettemila dipendenti, in omaggio alla teoria del Giro a Vuoto Finalizzato che regola l’esistenza stessa delle Forze Armate Intergalattiche.

Seguono teorizzazioni metodologiche: perché dei Corpi Separati dello Stato possano spiarsi a vicenda sono necessari due requisiti: che essi svolgano una intensa attività segreta che gli altri corpi siano interessati a conoscere; che le spie abbiano facile accesso a queste informazioni. Il secondo requisito è soddisfatto dal principio della Spia Unica: un unico agente che, esperto del doppio gioco, spii contemporaneamente per più corpi, è sempre in possesso di notizie fresche e di fonte sicura. Ma cosa fare quando i corpi separati, in virtù del principio del Giro a Vuoto Istituzionalizzato, non fanno nulla né di pubblico né di segreto? Si richiede allora che la spia utilizzata possegga un terzo requisito, e sia cioè in grado di raccogliere e ridistribuire notizie inventate. In tal senso la spia non diventa soltanto un tramite, ma la fonte stessa delle notizie. In un certo senso si può dire che non tanto il Corpo Separato crea la Spia, quanto la Spia crea il Corpo Separato.

Infine, dopo la chiusura del rapporto, l’illuminante post scriptum: «P.S. Pregola prendere nota del fatto che, a termini di regolamento di questo Servizio Coordinamento, tutte le notizie contenute nella presente lettera sono assolutamente false per motivi di sicurezza militare». Il ritorno di Roberto Sandalo e il «No Islam!» «C’è il nemico qua fuori» aveva detto il presidente Bush per giustificare il suo rifiuto di spiegare certe tecniche di interrogatorio. Ma che il nemico sia attorno a noi, in ogni angolo delle metropoli, e che sia prevalentemente islamico, con tuniche lunghe fino ai piedi e il centro della fronte illividito dalle preghiere, lo pensano ormai in tanti. Evidentemente, lo pensa anche un mio vecchio conoscente, l’ex militante di Prima Linea, già «pentito» di rango, 399

Roberto Sandalo. Grazie alla legge sui collaboratori processuali, gode di una nuova identità, vive nei pressi di Milano e ha sposato un’avvocato. Ma deve aver aggiornato anche il suo modo di pensare: simpatizza per la Lega (dai cui ambiti di militanza risulta comunque allontanato), partecipa a manifestazioni contro gli islamici (il suo motto, riprodotto anche su un timbro, è «No, Islam!») e i suoi punti di riferimento giornalistico sono Magdi Cristiano Allam e Renato Farina-Fonte Betulla, entrambi approdati alla politica. Con un’altra delle straordinarie indagini di cui sono capaci, le donne e gli uomini della Digos di Milano lo individuano come il responsabile di vari attentati commessi con ordigni esplosivi, tra l’agosto del 2006 e l’aprile del 2008, in Milano e dintorni, a danno di moschee, centri religiosi e di cultura islamici, una macelleria islamica e autovetture parcheggiate nei pressi di questi luoghi. Quando il livello di affidabilità delle prove raccolte ci pare sufficiente, Maurizio Romanelli ne ordina il fermo, poche ore dopo l’ultima azione. Guardo ed ascolto attentamente Sandalo durante l’interrogatorio in cui ammette tutti gli attentati organizzati e commessi, anche qualcuno su cui non avevamo raccolto prove sufficienti. Li aveva talvolta rivendicati, con telefonate a «Libero» e al «Giornale», usando la sigla Fronte cristiano combattente. Mi aspetto di rivedere gesti e sentire parole di autocritica simili a quelli che ricordavo quando lo avevo interrogato trent’anni fa. Niente di tutto questo: solo minimizzazione dei fatti (che diventano poco più che azioni dimostrative realizzate con bombe carta) ed autoassoluzione; il vistoso crocifisso che porta al collo, anzi, sembra la certificazione del suo ruolo di difensore della religione cristiana contro l’invasione barbarica che in breve annienterà la nostra civiltà. Nel novembre del 2008, Sandalo veniva condannato in primo grado a nove anni e nove mesi di reclusione: il giudice Marco Alma aveva ritenuto la sussistenza dell’aggravante che gli era stata contestata, quella di avere agito per odio religioso. Sandalo, che si era presentato in udienza con foulard tricolore al collo, una croce disegnata sul giubbotto e una stella di Davide sul braccio, affermava: «Qui manca un imputato: Magdi Allam». All’inizio di dicembre del 2009, la Corte di Cassazione confermava definitivamente la condanna a otto anni e sei mesi di reclusione di Sandalo che, per questi attentati, potrebbe finire con lo scontare effettivamente una pena maggiore di quella cui era sta400

to condannato per gli omicidi commessi quando faceva parte di Prima Linea. Il responsabile della principale moschea di Milano ci ha ringraziato in modo convinto: come nel caso del sequestro di Abu Omar, la Procura e la Digos di Milano avevano dimostrato di sapersi muovere con eguale determinazione contro terroristi e contro chi strumentalizza il terrorismo ed attizza odio. Nessuno sconto per nessuno. È come se a pubblici ministeri e giudici tocchi fare da ponte tra due civiltà: riconosco la tua identità e ti dimostro che le regole valgono per tutti, tu devi rispettare le regole ed io tutelare i tuoi diritti. Le regole della giurisdizione, infatti, non sono un inutile impaccio del quale liberarsi, ma sono fondamento di ogni moderna democrazia. Ecco, in poche parole, il ruolo della magistratura: assicurare la soggezione alla legge di tutti, in posizione di eguaglianza, anche in presenza di emergenze tragiche. Ciò conferisce autorità morale a chi intende dissuadere gli altri dal terrorismo, convincendoli che esistono – e sono praticabili – alternative efficaci per il miglioramento delle condizioni di vita proprie e della comunità di appartenenza. Al contrario, ogni volta che si usa la forza si finisce con il fornire all’avversario nuove prove dello scontro di civiltà su cui egli fonda il suo sforzo di radicalizzazione. Per questo credo che proprio l’azione della magistratura e delle forze di polizia giudiziaria italiane costituisca un modello per le democrazie occidentali. Nonostante gli ostacoli incontrati in patria.

XXI

Il sequestro di Abu Omar/8: il dibattimento

Cuori e menti hanno molto sofferto durante il dibattimento per il sequestro di Abu Omar durato, a causa dei conflitti sollevati dal governo, quasi due anni e mezzo, per un totale di una quarantina di udienze. Il Tribunale che ha giudicato gli imputati del sequestro dell’egiziano è stato, come prevede il nostro codice di procedura penale, monocratico, cioè composto da un solo giudice. Il giorno del rinvio a giudizio degli imputati – il 16 febbraio 2007 – apprendiamo solo che si tratterà di un giudice della IV Sezione del Tribunale, ma non sappiamo neppure se sarà un uomo o una donna. Non invidiamo quel giudice di cui ancora non conosciamo né nome, né volto. Pomarici e io, che lavoriamo fianco a fianco da più di due anni e che ci consultiamo anche sulla fascicolazione delle carte processuali, pensiamo che non sarà facile, per quel giudice, prendere decisioni in un clima prevedibilmente infuocato e, dall’esterno, avvelenato. Pensiamo alle sue difficoltà non tanto con riferimento alla sentenza finale (un momento delicato per ogni giudice), ma alle questioni preliminari, eccezioni, istanze di sospensione, riflessi dei conflitti in atto e di quelli prevedibili con cui tutte le parti avrebbero dovuto prevedibilmente misurarsi. Non ho mai fatto il giudice, ma da pm, come ho già detto, ho contribuito ad elaborare prassi e linee guida in tema di lavoro di gruppo. Credo, dunque, alla collegialità delle decisioni. E così Pomarici. Proprio per questo ci era facile immaginare il fardello che 402

quel processo avrebbe addossato sulle spalle di un giudice solo. Aspettavamo con curiosità, dunque, di conoscere il nome di chi avrebbe dato corpo, nel futuro dibattimento, al Tribunale monocratico-IV Sezione. Con curiosità, ma con fiducia: l’intera magistratura giudicante di Milano, del resto, aveva già dato molte prove, in passato, della propria capacità e indipendenza. Così come continua a darle anche oggi. Il giudice Oscar Magi Il giudice, ci viene alla fine comunicato, sarà Oscar Magi, un napoletano di cinquantasei anni, alto, bel portamento, apprezzato nel palazzo di Giustizia, abituato a processi scottanti anche nel campo della corruzione e di altri reati contro la pubblica amministrazione (in passato si è occupato, tra l’altro, di alcune tranches di Mani Pulite). Anzi, sembra una tradizione di famiglia, visto che suo fratello Raffaello, a Santa Maria Capua Vetere, è stato il giudice a latere della Corte d’Assise che ha giudicato i camorristi casalesi: è il processo e la storia che hanno ispirato Gomorra di Roberto Saviano. Oscar Magi ha mosso i suoi primi passi da magistrato, durante il tirocinio, sotto la guida del giudice Galli. È stato segretario della sezione milanese di Magistratura democratica fino a poco tempo prima dell’inizio del processo. Dal giorno della sua designazione a condurre il processo Abu Omar, il mio saluto diventa scioccamente rapido e quasi imbarazzato quando lo incontro per caso al bar del palazzo di Giustizia. Guai a dar corpo all’immagine del giudice che prende il caffè con il pm! Sarebbe questa, come si sa, la prova regina delle collusioni tra giudici e pm e, dunque, della necessità di separarne le carriere! Inizio, sospensione, ripresa Caffè o non caffè, Oscar Magi, il giudice più puntuale che abbia mai conosciuto nella mia carriera, dà subito plastica dimostrazione della sua serenità ed attenzione: alla seconda udienza del processo, il 18 giugno 2007, accoglie la richiesta di sospensione del dibattimento formulata dai difensori degli imputati. Vista la pendenza dei conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato sollevati 403

da Prodi contro il procuratore della Repubblica ed il gip di Milano – sostengono gli avvocati – è doveroso attenderne l’esito. La sospensione non è obbligatoria – risponde Magi – ma appare opportuna: potranno essere meglio e subito conosciuti eventuali limiti all’utilizzabilità di certi elementi di prova. A fine ottobre, all’udienza di rinvio, però, la Corte Costituzionale non si è ancora pronunciata. Anzi, ha rinviato la sua decisione al 29 gennaio 2008. Io e Pomarici chiediamo, allora, che la decisione di sospendere il processo venga revocata, ma Magi respinge la richiesta e rinvia tutto al 12 marzo, poiché si pensa che, a più di un anno dalla proposizione dei «conflitti prodiani», la Corte li avrà sicuramente risolti. Non nascondo che, a differenza di Pomarici, le decisioni di sospensione e rinvio del processo non mi convincono, pur se ne comprendo natura e ragione: sono comunque prova – in assenza di un obbligo di legge – di particolare attenzione del giudice al principio di leale collaborazione tra le istituzioni dello Stato. Un principio che non sembra reciprocamente applicato. A gennaio, infatti, si colloca la vicenda della trattativa avviata dalla presidenza del Consiglio dei ministri1: ci si comunica la già assunta decisione di rinunciare al conflitto, ci si chiede di associarci alla richiesta di rinvio a breve termine della udienza fissata dalla Corte onde poter formalizzare la rinuncia e, a rinvio deliberato, ci si fa sapere che il governo ha cambiato idea. La spiegazione di tutto è che la crisi politica sopravvenuta impedirebbe un atto di straordinaria amministrazione come la rinuncia ai conflitti. Ma alla successiva udienza del 19 marzo, il giudice, anche alla luce della trattativa naufragata, nonché del tempo trascorso dalla proposizione del primo conflitto (oltre un anno) e della perdurante incertezza sulla data di soluzione di tutti i conflitti nel frattempo sollevati, accoglie la richiesta del pubblico ministero e fa partire il dibattimento. Dopo un paio di udienze dedicate alla risoluzione di alcune questioni preliminari e alla discussione e ammissione delle prove richieste dai pubblici ministeri e dagli avvocati, inizia l’esame dei testi della pubblica accusa.

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Vedi cap. XVIII.

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Nabila Ghali, la moglie di Abu Omar Il 14 maggio 2008, finalmente, viene sentita la prima testimone, vale a dire la moglie di Abu Omar, Nabila Ghali, che, oltre a ricostruire le fasi della sparizione del marito, riferisce tutte le circostanze che aveva poi da lui appreso sul suo trasferimento in aereo al Cairo, dalle umilianti torture subite in carcere all’offerta che gli aveva fatto – a nome di imprecisati americani e italiani – un funzionario egiziano: accettare qualche milione di dollari per dichiarare di essersi recato spontaneamente in Egitto e di non avervi subito alcuna violenza. Abu Omar è stato scarcerato all’inizio del 2007, cioè a quasi quattro anni di distanza dal sequestro, vive sotto controllo ad Alessandria d’Egitto e ha fatto pervenire al pm, attraverso i suoi avvocati, un lungo memoriale manoscritto in cui ricostruisce l’intera vicenda, ivi compresa la sodomizzazione subita. Anche in precedenza, Abu Omar, attraverso gli avvocati italiani ed egiziani che lo assistono, aveva formalmente manifestato la volontà di venire in Italia a rendere dichiarazioni, pur conscio della esistenza di un provvedimento di cattura a suo carico, ma il governo egiziano non gli ha mai rilasciato la relativa autorizzazione. Né ha mai risposto alle nostre richieste ufficiali di assistenza giudiziaria, esattamente come il governo degli Stati Uniti. La moglie di Abu Omar entra in aula con il volto coperto ed i suoi difensori chiedono che sia autorizzata a tenerlo per rispetto del suo credo religioso. Rammento quando la sentii per la prima volta nel mio ufficio, durante le indagini. La feci identificare da una poliziotta e per due ore circa le posi molte domande. Alla fine, la donna scoppiò a piangere parlando del marito ancora in carcere e torturato. Mentre usciva, la sfiorai appena su una spalla, senza pensarci, con un gesto che voleva essere consolatorio, ma la donna si ritrasse di colpo, quasi spaventata. In realtà, l’avevo ferita. Mi scusai con lei. Anche ricordando quel momento, non ho dubbi, in aula, a dare il mio parere favorevole allo svolgimento del suo esame a volto coperto, come lei ha chiesto. È un modo per rispettare la sua identità e non farle alcuna «violenza». Il giudice Magi la fa identificare da una cancelliera dietro un paravento e poi l’autorizza a tenere il volto coperto. Ma questo suscita la reazione di alcuni avvocati degli imputati: «tutte le parti devono poter vedere il teste... e apprezzare visivamente le sue risposte», « si svilisce il principio di oralità», «ec405

cepiamo la nullità della decisione...». Inutilmente Pomarici ricorda che nei verbali non vengono certo rappresentate le espressioni facciali dei testimoni. Insomma, il rispetto manifestato dal giudice per il credo religioso e per la diversità di quella donna non sembra evidentemente condiviso da tutti i legali. Ma Nabila è forte, pacata, e risponde con puntualità a ogni domanda o contestazione degli avvocati degli imputati, comprese quelle tendenti ad insinuare che il sequestro di suo marito non fosse in realtà mai avvenuto e che tutta la vicenda fosse una montatura: esattamente come lasciava intendere una notizia diffusa dal Sismi pervenuta, come ho detto, anche al Parlamento europeo2. Ho ammirato quella donna fiera e pensato a quanto diversa dalla nostra fosse la sua vita, quanto lontano dal nostro il suo modo di pensare e agire. Bruno Megale In due udienze tenutesi tra fine maggio e inizio di giugno del 2008, pubblici ministeri e avvocati esaminano come testimone Bruno Megale, dirigente della Digos di Milano: il funzionario ricostruisce dettagliatamente l’intera indagine, nei suoi vari spezzoni, dalla identificazione dei responsabili statunitensi del sequestro a quella degli imputati appartenenti al Sismi, confermando che nessun funzionario del Sismi – né, in particolare, il direttore Pollari – ha mai opposto il segreto di Stato durante le indagini, neppure durante la perquisizione in via Nazionale a Roma. Lo ribadirà in una successiva udienza anche Lamberto Giannini, dirigente della Digos di Roma, che prima di iniziare la perquisizione telefonò a Pollari e durante la sua esecuzione andò a trovarlo: il tema del segreto di Stato non fu in alcun modo sfiorato neppure dal direttore del Servizio. Megale ricostruisce anche le attività di depistaggio di Pio Pompa, i suoi rapporti con Bob Lady e le indagini compiute all’estero. Osservo Megale mentre risponde anche ai difensori degli imputati. Alcuni tra questi tendono a riproporre in aula il sospetto, già in precedenza alimentato allo scopo di spostare il processo a Brescia,

2 A proposito delle domande poste a Bruxelles dall’onorevole Jas Gawronski vedi pp. 208-209.

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secondo cui non persone del Sismi, bensì la Digos di Milano – e Bruno Megale in particolare – avrebbe aiutato la Cia nella preparazione del sequestro di Abu Omar! E tutto sarebbe avvenuto con il concorso o, almeno, con il tacito assenso del magistrato Stefano Dambruoso della Procura di Milano. Osservo Megale, dicevo. L’avevo conosciuto nel febbraio del 2003, proprio nei giorni successivi al sequestro. Era silenzioso, questo giovane investigatore calabrese, mentre l’allora capo della Digos, Massimo Mazza (un altro grande investigatore) mi parlava del terrorismo cosiddetto islamico e delle strategie da mettere in campo per contrastarlo. Era silenzioso, anche quando, al primo approccio con quella realtà a me sconosciuta, dissi probabilmente sciocchezze o banalità. Il suo silenzio, però, non era frutto di timidezza, né di supponenza. Era il silenzio di chi rispetta l’interlocutore e di chi sa di poter dimostrare con i fatti il fondamento delle sue ipotesi. L’ho conosciuto meglio nei mesi successivi. L’ipotesi che potesse avere avuto a che fare con l’organizzazione del sequestro era talmente ridicola che, ascoltando le domande degli avvocati, fui sul punto di perdere la pazienza: avrei voluto subito ricordare in aula gli innumerevoli e intelligenti spunti investigativi che Megale aveva proposto e stimolato per ricostruire la verità dei fatti. E invitare gli avvocati a rileggersi l’unica intervista rilasciata fino a quel momento da Bob Lady, il capo della Cia a Milano, che aveva raccontato a un giornalista americano di come aveva tradito la fiducia dell’amico italiano, nascondendogli il progetto che era in preparazione3. «Grazie alla Digos e agli uomini e alle donne del gruppo di Megale, l’indagine era decollata e aveva raggiunto risultati assolutamente insperati»: era questa la frase che avevo detto a Renato Farina nel corso dell’incontro con me e Pomarici che lui aveva concordato con il Sismi4. Esattamente la stessa frase Farina aveva riportato a Pio Pompa e questi a Pollari. Esattamente la stessa frase trovammo scritta in un report sequestrato nella base del Sismi di via Nazionale. Continuo a osservare Megale mentre sopporta la via crucis di altre domande insinuanti, mentre consulta documenti e grafici, mentre consegna atti al giudice: mai una reazione sopra le righe, solo, a tratti, un lieve arrossire in volto. 3 Robert Seldon Lady intervistato da Matthew Cole, Blowback, in «GQ», marzo 2007; vedi anche p. 220. 4 Vedi cap. VI.

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Una volta, nel mio ufficio, ci siamo trovati insieme io, lui e Sandro Ruffino, ormai generale, detto il «principino» di dalla Chiesa ai tempi delle Br. All’uno – Megale – ho detto che l’altro era stato per me, negli anni di piombo, il mio punto di riferimento come lui lo era allora. All’altro – Ruffino – che Megale mi pareva il frutto della sua clonazione. Eppure, si tratta di persone diversissime: per cominciare, Ruffino è piemontese e Megale calabrese. I capelli brizzolati al primo sono venuti solo con gli anni, mentre l’altro se li porta appresso sin da giovane. Ma sono uguali nel rispetto assoluto della legge, nel rapporto leale con i pubblici ministeri, nella consapevolezza non supponente – ma orgogliosa – della propria capacità professionale. Investigatori come questi non sono solo la fortuna dei pubblici ministeri con cui lavorano, ma una certezza per il paese. Nessuno in aula a giugno, tranne me, sa che di lì a pochi giorni Bruno si sarebbe sposato. È stato bello partecipare al suo matrimonio in Calabria e dire al padre e alla madre ciò che penso di lui. Dire loro che in tutto il mondo, quando mi invitano per incontri di lavoro o per meeting di contenuto storico-scientifico, mi chiedono sempre se ci sarà anche «Mr. Megale». Il 25 giugno, intanto, la Corte Costituzionale dichiarava ammissibile il quarto conflitto di attribuzione della serie: era stato il presidente Berlusconi, questa volta, a proporre il conflitto contro il giudice Magi, reo di avere disposto la ripresa effettiva del processo. Ma il dibattimento andava comunque avanti a passi veloci: veniva respinta a settembre una richiesta dei difensori di interrompere di nuovo le udienze a causa del nuovo conflitto sollevato da Berlusconi. Fino all’inizio di ottobre del 2008, così, hanno continuato a sfilare davanti al Tribunale i responsabili di moschee e centri culturali islamici di Milano, i conoscenti di Abu Omar, il marito della teste oculare del sequestro (la donna è rientrata in Egitto e non vuole tornare in Italia per paura), tutti i testimoni della polizia di Stato e dei carabinieri, nonché alti ufficiali dell’Aeronautica militare, che hanno avuto un ruolo importante nelle indagini per individuare gli aerei usati per trasportare il rapito in Egitto. Venivano sentiti come testimoni anche numerosi appartenenti o ex appartenenti al Sismi i quali, tra l’altro, confermavano che, durante la fase delle indagini preliminari, allorché erano stati citati dal pubblico ministero per essere sentiti, era stato loro espressamente comunicato dai vertici del Servizio che non esisteva se408

greto di Stato sul caso Abu Omar e che potevano, dunque, tranquillamente rispondere alle domande. Prima dell’estate, intanto, avevamo fatto partire per gli Stati Uniti e l’Egitto l’ennesima richiesta di assistenza giudiziaria, questa volta per poter sentire come testimoni numerose persone residenti nei due Stati. Tra loro, anche lo stesso Abu Omar in Egitto. Li volevamo sentire in aula, ma avevamo anche ipotizzato la possibilità che le testimonianze fossero raccolte all’estero, direttamente nei due paesi di residenza. Mai nessuna risposta è pervenuta, né alcuna nota di protesta – o anche di semplice rammarico – è stata inviata dal governo italiano a quello degli Stati Uniti: eppure, come ho già detto, la convenzione bilaterale esistente obbliga ciascuno dei due Stati quanto meno a rispondere sollecitamente alle richieste dell’altro. Ma protestare con le autorità statunitensi, in questi casi, compete solo al ministro della Giustizia, non certo ai pm. La direttiva di Berlusconi Una novità giungeva inattesa il 6 ottobre 2008, allorché, alla vigilia delle testimonianze importanti di altri appartenenti o ex appartenenti al Sismi, il presidente del Consiglio Berlusconi faceva notificare loro, nonché a tutti gli imputati Sismi, una nota a sua firma in cui estendeva ulteriormente i confini del segreto di Stato fino a quel momento segnati dalle parole di Prodi: infatti, interpretando la precedente posizione del governo Prodi – secondo cui «sul fatto del sequestro di Abu Omar non esisteva alcun segreto di Stato», presente invece su «qualsiasi rapporto tra servizi italiani e servizi stranieri nel quadro della tutela delle relazioni internazionali» in tema di lotta al terrorismo – Berlusconi aggiungeva che «tale ultima precisazione va confermata e ribadita con conseguente dovere per i pubblici dipendenti in oggetto di opporre il segreto di Stato in relazione a qualsiasi rapporto tra i servizi italiani e stranieri ancorché in qualche modo collegato o collegabile con il fatto storico meglio noto come ‘sequestro Abu Omar’». Un periodare involuto e non facilmente comprensibile ma una precisa direttiva rivolta a testimoni e imputati: di tutto ciò che avete saputo in relazione al progetto di sequestro non potete in alcun modo parlare dinanzi al Tribunale. 409

La testimonianza del colonnello Stefano D’Ambrosio Arrivò il momento di sentire come testimone il colonnello dei carabinieri Stefano D’Ambrosio, l’ufficiale che, come già ricordato5, era stato il capocentro del Sismi a Milano fino all’inizio di dicembre del 2002, allorché era stato allontanato dal capoluogo lombardo. L’8 ottobre, D’Ambrosio ricordava in aula che il giorno prima gli era stata data lettura – ma non consegnata copia – della missiva di Berlusconi: poiché vi si precisava che il sequestro di Abu Omar non era coperto da segreto di Stato, l’ufficiale confermava dinanzi al giudice Magi le dichiarazioni che aveva reso durante le indagini preliminari6, incluse quelle sui rapporti intercorsi tra Cia e Sismi nella fase di preparazione del rapimento. D’Ambrosio è un altro dei personaggi positivi di questa storia: in proposito, sarebbe probabilmente sbagliato parlare di «buoni» e «cattivi», ma è doveroso ricordare le persone che hanno dimostrato di conoscere il significato della legge e di saperlo anteporre ai propri interessi. Il colonnello D’Ambrosio potrebbe forse temere di pagare in termini di carriera la sua lealtà istituzionale, ma la fermezza della sua voce e la capacità di guardare dritto negli occhi i suoi interlocutori – anche gli avvocati dei suoi ex colleg