Nazitalia - Viaggio in un Paese che si è riscoperto fascista 9788893885515

1,782 220 2MB

Italian Pages [287] Year 2018

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

Nazitalia - Viaggio in un Paese che si è riscoperto fascista
 9788893885515

Table of contents :
PROLOGO
IL SENSO DEL VIAGGIO
1. PRIMA GLI ITALIANI
2. IL NAZISKIN ALLA LEOPOLDA
3. 29 APRILE E ALTRE PARATE NERE
4. LA SPIAGGIA DEL REGIME
5. IL PENTITO DI FORZA NUOVA
6. IL SOLSTIZIO DEI DODICI RAGGI DI VARESE
7. LABORATORIO LOMBARDO
8. CPI. CALCI E PUGNI ITALIA
9. FARSI STATO
10. LA RETE NAZIROCK
11. BLACK WEB
12. CURVA A DESTRA
FASCISMO ETERNO
LA GALASSIA DEI GRUPPI NERI
CONTRIBUTI ANTIFASCISTI AL LIBRO
RINGRAZIAMENTI

Citation preview

I SAGGI

© 2018 Baldini&Castoldi s.r.l. - Milano ISBN 978-88-9388-551-5 Prima edizione Baldini&Castoldi - La nave di Teseo aprile 2018 www.baldinicastoldi.it

BaldiniCastoldi baldinicastoldi baldinicastoldi baldinicastoldi



Paolo Berizzi

NazItalia Viaggio in un Paese che si è riscoperto fascista

PROLOGO La legna scoppiettava mentre gli uomini intorno tacevano. Erano in cerchio, immobili. A un metro l’uno dall’altro. Sembravano paramilitari. Oppure attori che li interpretavano. Ma negli sguardi, rischiarati dal bagliore delle fiamme, c’erano solo lampi di fiera follia appesi a un bisogno maniacale di ordine; sembravano aspirare a una dimensione nuova, di purezza, ma i loro volti erano maschere d’odio. Nella notte il falò illuminava la spianata di erba umida: era come un buco scavato al centro del bosco. In quel punto si ergeva, simile a un totem, un grosso palo con in cima una svastica attorniato dalla catasta di ceppi che avevano incominciato ad ardere. Un millimetro dopo l’altro, il fuoco iniziò ad avvolgere il simbolo del regime di Adolf Hitler, mentre gli occhi dei militanti si infiammavano al rito pagano del solstizio d’inverno. Due uncini incrociati: sei linee ricurve che bruciando producevano luce come nelle «aspre notti» del solstizio delle origini, quello di tradizione nordica celebrato dalla Thule Gesellschaft, la società segreta che ispirerà le dottrine del Partito nazista e di cui faceva parte Rudolf Hess. Nella Germania del Reich il solstizio era un rito propiziatorio. Serviva a rievocare le virtù del sacrificio e del prestigio. I falò erano elevati in onore al Führer, un omaggio lugubre, tribale. Un segno di devozione all’ennesima potenza. La svastica era legata al palo di legno. Un’operazione manuale che aveva richiesto diversi giri di filo di ferro. Formava, la giuntura, una specie di guarnizione arrugginita: come un polsino da tennis intriso di sudore e di terra rossa. Più che le atmosfere da notte dei lunghi coltelli, o le brume della tragica Repubblica di Weimar, quel sostegno infilato nel tondo circoscritto dalle sagome dei militanti neonazisti mi richiamava alla mente un’immagine adolescenziale, scolastica: un compasso. La punta piantata in un’area ben definita e l’altra asta

dello strumento a ruotare, disegnando la circonferenza. Ecco, su quella linea c’erano uomini e ragazzi – una quindicina, tra i 18 e i 45 anni – che si atteggiavano a soldati, rigidi nella loro fierezza identitaria. C’erano anche due ragazze, anch’esse intente a riprodurre la postura marziale, il rigore dell’estetica. Quando il poliziotto dell’Antiterrorismo mi raccontò la scena del solstizio, per un attimo rimasi senza parole: ero stupito dal mio pensiero. La descrizione che mi aveva offerto avrebbe potuto richiamare immagini di eventi collocati nella storia del secolo scorso: chissà perché, invece, nella mia mente aveva preso forma proprio l’immagine ridicola e banale del compasso. Forse ogni fanatismo ha una sua simmetria. La curva del cerchio sale e poi scende, dove c’è una fiamma che brucia, c’è un’ombra che nasconde le cose. Dovevo far luce su quell’ombra, capire se la fiamma annunciava un trionfo o il crepuscolo degli dèi.

IL SENSO DEL VIAGGIO È dagli inizi degli anni Duemila che con le mie inchieste racconto la galassia della destra radicale italiana e le sue derive estremiste. La destra peggiore, regressiva, xenofoba, razzista e nazifascista, che non ha nulla a che vedere con quella democratica, moderna e liberale. Ed è da anni che, documentando il progressivo ritorno del nuovo fascismo, cerco da cronista di mettere in guardia l’opinione pubblica, la politica, le istituzioni sui rischi che questo fenomeno può rappresentare per la nostra democrazia. Il silenzio assordante che per anni ho sentito intorno a me era frustrante: avevo la sensazione di essere una specie di marziano, un visionario, uno che vedeva fantasmi, cose inesistenti. Sì, proprio come ti dipingono loro. Avevo finito per sentirmi così: un paranoico ossessionato da un fenomeno che molti tacevano, anche a sinistra, sostenendo non esistesse. E intanto quei gruppi nazifascisti – che da sempre adottano il metodo di screditare e delegittimare chi non si volta dall’altra parte ma si ferma a denunciare – continuavano a descrivermi come un «infame», una specie di disadattato, un bugiardo, un venditore di bufale, uno che non ha niente di meglio da fare, uno che deve «trovarsi un lavoro vero». Quasi fosse una perdita di tempo occuparsi di partiti e associazioni politiche che oltre settant’anni dopo la fine del fascismo e del nazismo vorrebbero far tornare quei fantasmi. Forse hanno ragione loro. Forse è tempo perso. È una sensazione che ho provato spesso in questi anni, ogni volta che dopo avere portato a galla un fatto inquietante, che in altri Paesi avrebbe generato come minimo un dibattito pubblico, lo vedevo passare sotto silenzio. Qualche interrogazione parlamentare, dichiarazioni di pochi deputati, sempre gli stessi, la risposta d’ufficio del governo nel question time alla Camera: nulla di più. A volte ho pensato e penso che la nostra Repubblica nata dalla Costituzione non abbia più la coscienza

vigile per riuscire a occuparsi seriamente di neofascismo, e trovi più semplice derubricare il tema a qualcosa di residuale, di «non attuale». Anche quando la realtà intorno a noi ci dice che non è così. Credo che di fronte a certe provocazioni, intollerabili per qualsiasi repubblica democratica, non basti indignarsi (quando accade). Occorre agire, battersi, prendere l’iniziativa per arginare i pericoli. Disinnescarli prima che lievitino diventando difficili da gestire. «Il fascismo in Italia è morto per sempre», ha detto a febbraio 2018 il ministro dell’Interno Marco Minniti, scuola comunista e Dna antifascista. Lo stesso ha sostenuto Matteo Renzi: «Non c’è il fascismo e non esiste un rischio fascismo». Erano i giorni successivi alla tentata strage xenofoba di Macerata, in cui il nazileghista Luca Traini ha ferito sei immigrati africani a colpi di pistola. Non sono d’accordo. Non è così. Quello che è successo e che sta succedendo nel nostro Paese dimostra l’esatto opposto. C’è un nuovo fascismo che ha rialzato la testa. È un fascismo liquido, certo, disaggregato e sfuggente, e proprio per questo molto insidioso. È anche e soprattutto grazie alla sottovalutazione e alla sbadataggine, o alla complicità di qualcuno, che il fascismo di ritorno punta a permeare – in parte ci è già riuscito – gli strati più deboli della società. Rendendo fertile quel terreno, organizza una semina che non necessariamente deve avere tempi brevi. L’aspirazione di questo fascismo 2.0 di poter giocare una partita da protagonista in politica è secondaria, viene dopo. È vero: nelle istituzioni è già entrato. CasaPound Italia è presente in 13 consigli comunali e, nonostante il risultato non esaltante alle ultime elezioni politiche – dove i voti sovranisti e di destra radicale sono stati per buona parte cannibalizzati dalla Lega – è un partito destinato a crescere. Ma ai nuovi camerati, prima ancora di ottenere un peso alle urne, interessa avere legittimazione da parte dell’opinione pubblica. Essere riconosciuti, accettati, fare presenza nelle periferie, nei quartieri, nelle scuole, nelle università, negli stadi, nei dibattiti e nei talk televisivi: adesso anche sui treni e a bordo degli autobus con le ronde. Questo agli sdoganatori volontari della galassia nera è chiarissimo: e dovrebbe esserlo anche agli sdoganatori involontari e inconsapevoli, che però finiscono per avere la stessa responsabilità degli altri. «Essere distratti o, peggio, sottovalutare, può essere molto pericoloso. Ci vuole una cultura antifascista collettiva, è questo che ci manca.» Carlo Smuraglia, l’ex presidente dell’Anpi, è uno dei più attenti e lucidi osservatori del fenomeno del fascismo di ritorno. L’ultima volta che ho ascoltato le sue parole era agosto 2017: sotto un tendone di FestaReggio, a Reggio Emilia. Parlavamo

di «nuove destre». Erano i giorni in cui Forza Nuova aveva lanciato la provocazione della nuova «marcia su Roma». «La cultura antifascista è venuta meno col tempo. Bisogna ricostruirla, ci vuole lavoro e impegno», è il ragionamento che fa oggi Smuraglia. «Bisogna partire dalle scuole. E poi, certo, occorre che le leggi vengano applicate. Perché si continua a permettere che movimenti neofascisti facciano attività politica e si presentino alle elezioni? Perché lasciamo correre che si inneggi al regime di Mussolini e Hitler? Che cosa diciamo ai nostri giovani di fronte a queste manifestazioni e a questa follia? Quale risposta gli diamo? Perché queste formazioni non vengono messe fuori legge, come è accaduto in passato? Tutto quello a cui stiamo assistendo in questi anni è sconcertante. E ci dice una cosa chiarissima: che c’è un rischio fascismo per la democrazia. È un fascismo diverso, che si manifesta con nuove forme: lo vediamo in diversi Stati europei e anche in Italia. Il tema è culturale e sociale. Non è più tempo di indugi. È tempo di agire, prendendo atto di quello che sta accadendo.» A volte le istituzioni stanno a guardare. E invece dovrebbero fare. Anche con dei segnali, dei provvedimenti che non sono solo simbolici. Per esempio: un altro tema di dibattito in Italia, sul quale negli ultimi mesi ho cercato di accendere l’attenzione, è la revoca della cittadinanza onoraria a Benito Mussolini. Al duce fu conferita in decine di Comuni italiani tra il 1923 e il 1924 come conseguenza di un atto politico che di fatto era un’imposizione da parte del Partito nazionale fascista. Molte amministrazioni in questi anni l’hanno revocata. Un segno importante per affermare con forza l’identità antifascista della nostra democrazia in un periodo storico nel quale i neo populisti, che strizzano l’occhio ai «neri», puntano a smantellare la carta costituzionale. E i nuovi fascisti, con la forza e l’infingimento, puntano a essere socialmente accettati sfidando le leggi e la XII disposizione transitoria e finale della Costituzione che vieta la ricostituzione del Partito fascista. Uno degli ultimi Comuni che ha tolto la cittadinanza onoraria al duce è stata Mantova, a febbraio 2018. Il consiglio comunale, a maggioranza Pd, ha votato la mozione che prevede la cancellazione dell’onorificenza concessa a Mussolini nel 1924: contrari tutto il centrodestra – Forza Italia, FdI, Lega – ma anche il M5S. «Dittatore» e «liberticida»: per questo il duce non è più cittadino onorario mantovano. Per tenere la maggioranza unita sul voto è intervenuto anche il sindaco dem, Mattia Palazzi. «Siamo qui per decidere se la cittadinanza a Mussolini oggi rientri o meno nei valori che questo consiglio e questa città intendono celebrare», ha detto. In Italia ci sono città dove, invece, il dittatore liberticida Mussolini continua a essere cittadino

onorario. Sono anche città governate dal centrosinistra, e cioè un’area politica che sul tema dell’antifascismo dovrebbe avere una sensibilità più spiccata. Uno di questi Comuni è Bergamo, la città dove sono nato e dove vivo. Il sindaco Giorgio Gori, nonostante richieste che gli sono arrivate da più parti, ha sempre ribadito: «La cittadinanza lasciamola come monito». A ottobre 2017 sul tema si era espresso anche Lele Fiano, collega di partito di Gori e soprattutto promotore della legge contro la propaganda nostalgica del Ventennio: «Trovo singolare che si mantenga ancora una cittadinanza onoraria per un assassino», ha detto senza mezze parole. Sensibilità diverse all’interno dello stesso partito? Evidentemente sì. Secondo qualcuno la prudenza del sindaco bergamasco potrebbe essere stata dettata, in questi anni, da tatticismi politici: in particolare dalla volontà di non perdere quei consensi che a Bergamo gli sono arrivati da ambienti che prima di lui votavano centrodestra (e il cui passaggio al Pd, per paradosso, ha portato all’erosione dei voti di sinistra). Ambienti dove la revoca della cittadinanza al duce sarebbe considerata un atto troppo radicale. Ma è anche dalla determinazione di certe scelte che passa il contrasto alle derive neofasciste, ai populismi nazionalisti e xenofobi, al fascioleghismo che ha preso corpo negli ultimi anni. È anche così, e con delibere ad hoc, adottate da decine di amministrazioni, che si toglie spazio alle ambizioni dell’ultradestra contraria all’integrazione e all’Europa. Due fattori spacciati come minaccia all’identità, all’economia e al futuro del nostro Paese. Non occorre particolare coraggio: basta che un amministratore ricordi cosa ha significato il fascismo per l’Italia e per la sua città, la sopraffazione, la violenza, la privazione della libertà. E magari che trovi anche il tempo per capire come si presenta e agisce l’estrema destra di oggi: come quei gruppi fomentano le paure sociali, come si camuffano agli occhi delle amministrazioni, che di fronte alla loro tracotanza e subdola penetrazione appaiono «vulnerabili» e permeabili. Il mio viaggio nell’Italia che si è riscoperta fascista racconta anche questa permeabilità. È il fattore che ha determinato la caduta della pregiudiziale sulla manifestazione di quell’ideologia, la sua «normalizzazione» e persino l’accettazione di un tasso di violenza squadrista allarmante – sebbene in molti casi sia passato in sordina sui media nazionali. Una permeabilità che ha messo a nudo la superficiale distrazione di molti leader anche della sinistra, colpevoli di aver lasciato per troppo tempo le piazze e la complessità delle periferie alle ronde e di avere affrontato con «pacatezza» e tardivi appelli alla calma la follia anti-immigrazione: e questo ha portato la sinistra a perdere tonnellate di voti.

Una permeabilità, infine, che ha favorito l’ascesa e il successo elettorale, lo scorso 4 marzo 2018, del politico che più di tutti usa sovranismo e xenofobia come strumenti di propaganda: Matteo Salvini. Con lui la Lega si è trasformata in un ricettacolo di idee un tempo inconciliabili: dalle istanze autonomiste e anche secessioniste, al nazionalismo identitario e antieuropeista, fino a un fascioleghismo tinto di scudocrociato al Sud. Grazie a questo cambio di pelle il nuovo Carroccio è riuscito a fare l’en plein alle ultime elezioni. Un’affermazione arrivata dopo anni di «vicinanza» a CasaPound e altre formazioni neofasciste. Il 4 marzo la Lega ha aspirato come un’idrovora i voti della galassia nera spezzandone, per ora, ogni illusione di entrare in Parlamento. Salvini quei voti li ha cercati a lungo, e se li è presi. Punto. Questa è la realtà che molti osservatori, commentando l’esito elettorale, hanno colto solo parzialmente. Sia a destra sia a sinistra si è preferito dare una lettura sbrigativa, semplificando e liquidando come un fallimento il mancato sfondamento dei partiti di estrema destra, e in particolare lo 0,9% di CasaPound Italia. Ma il dato, se è certo al di sotto delle attese, equivale a sei volte quello del 2013. Si è messo in relazione questo flop con «l’allarme neofascista», secondo molti ingiustificato, sollevato nei mesi che hanno preceduto il voto dai «giornali di sinistra» e dalla sinistra litigiosa, ostaggio di una profonda crisi di identità. Io credo sia vero il contrario: anzitutto la sensibilità della sinistra sul fenomeno del populismo nazionalista e sovranista è stata insufficiente, altro che eccessiva. E soprattutto è arrivata in clamoroso ritardo. Quel ritardo è stato abilmente cavalcato dal partito che è diventato il maggiore interprete delle paure della gente, del sentimento nazionalista e antieuropeo, delle pulsioni identitarie, xenofobe, razziste, delle parole d’ordine e dei principi della destra radicale: questo partito è la nuova Lega nazionale. Paradossalmente, in questo processo, il vero argine al dilagare dei neofascisti che volevano far «volare schiaffoni in Parlamento» è stato proprio Salvini col suo equilibrismo. Ma Salvini è stato anche il Grande Traghettatore, il taxi sul quale è salita l’Italia nera che ha visto nella Lega l’unico soggetto politico in grado di incidere in Parlamento o addirittura al governo. Per questo il problema delle derive fasciste, dopo la recrudescenza della campagna elettorale, si riproporrà presto in tutta la sua forza; una forza di idee che cresce e attecchisce sempre di più, e di cui è giunto il momento di prendere coscienza andando a scavare sotto la superficie che – mimetizzandolo – sembra tenere sotto traccia questo fenomeno.

1. PRIMA GLI ITALIANI

Milano, 24 febbraio 2018 Fiamme, Vangelo e Pasolini «Prima gli italiani». La grande scritta campeggia sul palco blu di piazza Duomo il 24 febbraio 2018. È la piazza di Matteo Salvini. L’adunata convocata dal Capitano – così da un po’ ama farsi chiamare – serve a tirargli la volata nella corsa alla leadership del centrodestra. Ma è anche la risposta della Lega nazionale e sovranista alla manifestazione antifascista e antirazzista del Pd e dell’Anpi (una reazione ai feriti di Macerata) che va in scena lo stesso giorno a Roma. Piazza Duomo vestita di blu Trump – addio verde padano – è l’apoteosi dell’astuzia politica di Salvini: il leader delle ruspe contro i campi rom, da un lato giura con il rosario in mano sul Vangelo e sulla Costituzione e manda baci alla Madonnina, e dall’altro cita Pertini e addirittura Pasolini, che usa come arma contro i suoi avversari della sinistra. Riprende quel passaggio della sua lettera a Moravia del 1973 per dire: «A chi fa il processo ai fantasmi del passato dico: “Mi chiedo se non sia in fondo un’arma di distrazione che la classe dominante usa su studenti e lavoratori per veicolare il dissenso”». È questa la sua lettura dell’attuale «antifascismo rabbioso sfogato nelle piazze a fascismo finito.» Abile mossa citare il poeta più antifascista contro gli antifascisti che manifestano per l’esplosione di odio xenofobo portato dalla marea montante del fascismo di ritorno. A poche centinaia di metri da piazza Duomo, in largo Beltrami, davanti al Castello Sforzesco, i militanti di CasaPound Italia sono radunati per il comizio del loro segretario Simone Di Stefano e della candidata alla presidenza della Regione Lombardia, Angela De Rosa. «Difendi Milano», è scritto sul palco. Il

leader leghista, invece, punta tutto sul «Prima gli italiani», non a caso uno degli slogan utilizzati anche dai fascisti di CPI. Strana piazza quella che applaude e inneggia a Salvini. Eterogenea ed eclettica, come il suo leader. Solo tre giorni prima, il 21 febbraio, commentando l’aggressione del segretario provinciale di Forza Nuova a Palermo, Massimiliano Ursino, Salvini aveva detto: «Le idee si contrastano con le idee, non con le botte, i coltelli o i pugni in faccia. Chiunque picchi un altro essere umano è un delinquente». Eppure, in piazza Duomo ci sono anche i nuovi compagni di viaggio della Lega: i neofascisti di Lealtà Azione, la formazione degli hammerskin guidata da Stefano Del Miglio e Giacomo Pedrazzoli. Chissà se al Capitano hanno detto che i due capi di LA, protagonisti di un agguato con accoltellamento sui Navigli, sono stati condannati in primo grado per un doppio tentato omicidio, accusa poi derubricata in lesioni gravi nella condanna definitiva. È solo una delle tante contraddizioni «interne» del nuovo contenitore nazionale messo in pista dal «Matteo» un tempo a capo dei comunisti padani. Anche a guardare le bandiere che sventolano davanti al palco si capisce che non è più la Lega di una volta. In mezzo ai drappi bianchi e blu di «Noi con Salvini» e al tricolore con la scritta «Salvini premier», spunta qua e là la fiamma del Movimento nazionale per la Sovranità, fondato da tre vecchi protagonisti del Msi, Gianni Alemanno (presente in piazza), Domenico Menia e Francesco Storace. Poi sventola un vessillo, questo sì, ancora verde, verde e nero: è tagliato dalla croce nazista con al centro un cerchio con quattro K rovesciate. È la bandiera del Kekistan, uno stato immaginario veicolato provocatoriamente sui social negli Stati Uniti per rispondere alle critiche dei media democratici contro le derive neonaziste e suprematiste di alcune formazioni che hanno sostenuto l’elezione di Donald Trump. A portare in piazza la bandiera un gruppo di ragazzi con in testa il cappellino rosso della campagna elettorale del presidente americano: qualcuno ha la spilletta del totenkopf, il teschio simbolo delle SS naziste. All’inizio, quando alle 15.45 Salvini prende la parola, il servizio d’ordine della Lega va a verificare: vedo uomini in pettorina chiedere spiegazioni ai ragazzi. Ma poi lasciano che la bandiera faccia bella mostra. «Solo goliardìa», diranno i comunicatori leghisti. I siti della destra radicale vanno in scia: con la solita tecnica della banalizzazione attaccano i giornali che hanno pubblicato la foto. Solo goliardia, una forma di libertà, come la satira, per loro. La goliardia ormai è la nuova pellicola comunicativa dell’ultradestra che, indignandosi che ci sia (ancora) qualcuno che si indigna, vuol far cadere ogni pregiudiziale sul fascismo. Oppure sono solo «ragazzate», un altro classico,

questo molto caro a Salvini. Del resto, perché stupirsi? In piazza Duomo sono presenti, appunto, anche i «bravi ragazzi» di Lealtà Azione che in questa campagna elettorale hanno sostenuto i candidati della Lega, in primis Max Bastoni, eletto nel consiglio regionale della Lombardia, e che già alle precedenti elezioni amministrative a Milano hanno eletto (con la Lega) un loro esponente, Stefano Pavesi. È questo il risultato della svolta di Salvini. Ma a guardare indietro negli anni era già tutto scritto. In fondo, in questa stessa piazza, nel 2014 la Lega salviniana aveva già organizzato la manifestazione anti immigrati «No invasione» con CasaPound. Come è stata possibile questa metamorfosi? Da movimento autonomista e federalista per eccellenza a partito nazionalista e sovranista, contenitore della destra e anche dell’estrema destra? Dov’è finita la vecchia Lega, e l’Italia che rappresentava? Se il partito di Salvini è quello che più ha sdoganato il fascismo e non ha vergogna a farsi sostenere da nostalgici del nazismo, allora è da qui – penso – che devo iniziare il mio viaggio. Guardo il Capitano che giura di essere fedele «al mio popolo»,1 di servire la Costituzione e il Vangelo. Ma qual è il popolo di Salvini, quello che lo ha fatto vincere alle elezioni? Ero a Pontida il 17 settembre 2017 e non riconoscevo più la Lega. Alle mie spalle, i gomiti appoggiati alla transenna, si sbraccia un militante con in testa l’elmo e le corna tipo Attila: una delle ultime tracce visibili della vecchia Lega a trazione padana. Quella di una volta, della «Roma ladrona» e di quando il segretario federale Salvini – all’epoca deputato a Roma e consigliere comunale a Milano – lanciava cori contro i napoletani che «puzzano e fanno scappare anche i cani.» Il tipo vestito da barbaro non mi sembra nemmeno più un cameo folkloristico: è solo un pesce fuor d’acqua. È spaesato anche lui mentre guarda in faccia la nuova Lega «nera». Come a tanti, dev’essergli parsa irriconoscibile, quasi fosse un esperimento di ingegneria genetica che ha combinato Dna diversi e da sempre antitetici. Altri invece appaiono a loro agio, soddisfatti del proclama che stanno ascoltando. «Se andiamo al governo cancelliamo la legge Mancino e la legge Fiano sulla ricostituzione del partito fascista: le idee non si processano…» grida il leader «Matteo». Applausi. Che cosa stava succedendo sul pratone di Pontida? Tutti con gli occhi verso il palco a fare da spettatori alla metamorfosi kafkiana voluta dal leader, tutti lì a sentirlo ringhiare nel microfono e a strizzare l’occhio all’ultradestra promettendo l’eliminazione delle norme che puniscono le esibizioni e i simboli del Ventennio. Camicia bianca fuori dai

pantaloni, piglio lepenista («parlo solo io», dice alla vigilia lasciando per la prima volta giù dal palco il fondatore Umberto Bossi), Matteo Salvini, il birbante della ruspa e delle felpe, è lassù, al centro della scena. Non c’è più niente di verde, solo il blu che domina lo sfondo e i cartelli con scritto: «Salvini premier – cuore idee coraggio». Più tardi, mentre ripercorrevo la vecchia «Briantea», la strada statale 342 verso Bergamo, mi rendevo conto di aver assistito al compimento definitivo di uno dei più repentini, profondi e incredibili mutamenti che la politica abbia mai conosciuto in Italia. Il vecchio movimento federalista con base padana trasformato in pochi anni in un nuovo partito populista e nazionalista, con filiali meridionali affidate a proconsoli neofascisti, alcuni imparentati con imprenditori legati alla ’Ndrangheta. Con una rete di consensi e collaborazioni attive allargata a formazioni estremiste che si ispirano al pensiero di criminali di guerra nazisti. Anche questo materiale umano ha imbarcato, negli ultimi anni, la Lega di Salvini. Tutto era cambiato sul «sacro prato» dei mega raduni della Lega Nord. Ci ero stato altri anni, quando seguivo la Lega di Bossi e di Maroni. Salvini ha estirpato proprio la parola cardine del pacchetto cromosomico del partito – «Nord» – e adesso, nel luogo dove secondo la tradizione nel 1167 nacque la Lega Lombarda che combatté contro Federico Barbarossa, in quella stessa spianata dove Umberto Bossi a metà anni Novanta ripeteva «mai coi fascisti», la musica era un’altra. Per 27 anni il popolo leghista aveva affollato con spirito quasi tribale quel prato alle porte di Bergamo. Aveva sempre benedetto in un tripudio identitario le promesse di autonomia e finanche di secessione delle regioni settentrionali dal resto d’Italia. E poi il federalismo, con il progetto di macroregione. A quella stessa gente occorreva ora far digerire non solo gli stand allestiti sul pratone con tanto di specialità locali di Sicilia, Calabria, Puglia e Campania, ma anche convincerla a farsi la bocca al nuovo flirt con i «neri». Quelli che all’odio xenofobo verso gli immigrati uniscono il nostalgismo mussoliniano. I «fascisti del terzo millennio» – come si sono autodefiniti i militanti di CPI per bocca del segretario Simone Di Stefano – alla vigilia della manifestazione di piazza Duomo avevano fatto arrivare il loro appoggio a un governo di centrodestra a guida leghista. Salvini aveva preso tempo, lasciando le porte aperte. Poi per obblighi di coalizione aveva chiuso – almeno ufficialmente – le porte: «Non mi interessano gli altri voti…» Già. Il punto è che gli «altri voti», quelli sovranisti e identitari, li aveva già in cascina. Eccolo, il capolavoro politico di Salvini. Ha attirato sulla Lega i voti dell’estrema destra lasciandone, dopo il 4 marzo, i leader fuori da ogni palazzo e poltrona. Se penso a quanto è

lontana questa Lega dal celodurismo bossiano, grezzo ma genuinamente antifascista, mi rendo conto di quanto è cambiato nel profondo il Paese. «Mai con i fascisti!» Siamo un Paese che ha poca memoria. Viviamo in un presente esteso a qualche mese addietro. Quello che è successo anni prima la maggior parte di noi lo rimuove. Ed è per questo che in campagna elettorale ci beviamo qualunque fregnaccia. Ma è anche vero che la storia è fatta di nemesi e di contrappassi. Oppure semplicemente di idee che cambiano, menti che evolvono, uomini che maturano, pensieri che si adattano ai tempi e a volte degradano. Risultato: succede che inizi sotto una stella, e finisci nel segno di una congiuntura opposta. Ma, siccome le persone vivono nella bolla del presente, la maggior parte non si accorge di questi ribaltamenti di fronte e di idee. La Lega è un esempio perfetto di questa parabola. 6 febbraio 1994: in un padiglione della Fiera di Bologna Umberto Bossi chiude con il suo intervento il secondo congresso federale della Lega Nord. «La Lega con l’Msi? Mai! Mai! Mai! Noi della Lega siamo quelli che continuano la lotta di liberazione fatta dai partigiani e tradita dalla partitocrazia. Mai coi fascisti! Mai con i nipoti dei fascisti! Mai!» tuona la voce cavernosa e impastata di sigari Garibaldi del Senatùr. Bossi è rieletto per acclamazione dalla platea di delegati. Il suo manifesto antifascista è accolto da un tripudio. Sul palco si riconoscono l’ideologo Gianfranco Miglio, un giovane Mario Borghezio e l’allora ministro Francesco Speroni. È l’anno del primo governo Berlusconi, esecutivo nel quale entrerà anche il Carroccio non prima di aver posto delle condizioni: «O noi o i fascisti», ripete Bossi. Alla fine Berlusconi gioca d’astuzia: al Nord Forza Italia si allea con Lega e centristi, e al Sud, dove il supremo capo leghista non ha potere di veto, costruisce un’alleanza con l’Msi. La tattica dei due forni. Ed ecco servito il governo. È probabile che Salvini abbia studiato e imparato da questa mossa. Bossi infila i suoi ministri e manda a Roma 180 parlamentari. Ma le contraddizioni e l’insofferenza esplodono e alla fine il Senatùr, facendo pesare a Berlusconi la «scorrettezza» di aver giocato la carta «fascista», fa saltare il banco: contraria a provvedimenti che colpiscano le pensioni, e delusa dal poco impegno della coalizione sul federalismo, la Lega esce dal governo. Che implode. È passato quasi un quarto di secolo da allora. Sotto i cieli padani è successo di tutto: anzi, i cieli padani, per come li avevo conosciuti, sono proprio spariti.

Archiviata l’era antifascista di Bossi, Salvini ha dilatato la costellazione abbracciando l’ultradestra populista. «Il fascismo ha fatto anche cose buone», ricorda più volte il Capitano che in questi anni – pompando antieuropeismo e lotta all’immigrazione – stringe «alleanze» nazionali e transnazionali con partiti fascisti e ultranazionalisti: primi fra tutti il Front National di Marine Le Pen, in Francia, e i «fascisti del terzo millennio» di CasaPound, in Italia. Il progetto sovranista di «Matteo» è il contrappasso quasi perfetto del leghismo di Bossi, quello che gridava alla «porcilaia fascista», quello che insorgeva quando vedeva che qualcuno dei suoi «portava i fascisti dentro la Lega» (accusa rivolta all’ex sindaco di Verona, Flavio Tosi, da sempre vicino agli ambienti dell’ultradestra veneta). Trent’anni fa era un altro mondo. Nel 1988 Salvini ha 15 anni. È uno studente del liceo classico Manzoni di Milano. Il suo matrimonio con la Lega Nord deve ancora arrivare (si iscrive al movimento nel 1990): in quegli anni frequenta il centro sociale Leoncavallo di Milano che ne influenzerà le idee politiche fino a portarlo a fondare e guidare i Comunisti padani, una corrente di sinistra interna al movimento. Due anni prima che il futuro Capitano inizi la militanza nel Carroccio, i muri delle città lombarde sono tappezzati da manifesti della Lega. Il «Front National di Le Pen è fascista e razzista. Come i partiti di Roma.» Firmato: Lega Lombarda.2 In quei poster c’è il succo dell’antifascismo leghista dell’epoca. Che considerava il Front National della famiglia Le Pen (allora c’era Jean Marie, il padre di Marine) espressione del peggior razzismo e del peggior fascismo. E anche «un bavaglio all’autonomia dei popoli». Ecco il titolo, a caratteri cubitali. «Le Pen è fascista come i partiti di Roma.» Sotto, un lungo testo. «Il fascismo prevede che la forma dello Stato sia, come indica il suo nome, un fascio: cioè che lo Stato sia centralista. I movimenti autonomisti, tra cui la Lega Lombarda, sono invece l’antitesi del fascismo perché lottano per ottenere uno Stato autonomista.» Conclusione della Lega «partigiana»: «Dove viene imbavagliata l’autonomia, cresce fatalmente il fascismo». Il manifesto chiude con questo slogan: «Un fermo no ai fascisti che gridano al fascismo e ai razzisti che gridano al razzismo. Lega Lombarda: coscienza partigiana!» Trent’anni dopo la storia inverte i suoi fattori. E anche i suoi numeri. Nel 1989 la Lega Lombarda e la Liga Veneta si erano presentate alle europee ottenendo solo l’1,8%.3 Alle politiche del 4 marzo 2018 la Lega stupisce tutti arrivando a quasi il 18%, il miglior risultato da quando esiste. E il Front National (poi diventato Rassemblement National) è il migliore alleato in Europa. «Salvini e Di Maio

sono miei figli politici, a loro insaputa.» A parlare dalla Francia, il 7 marzo 2018, è Jean Marie Le Pen, fondatore e fino a pochissimo tempo fa presidente onorario del fu Front National. Commentando il successo di Lega e M5S – la prima al Nord, la seconda al Sud – Le Pen si attribuisce la paternità del nazionalismo sovranista di Salvini a tal punto da definirlo un prodotto della sua politica. Sono gli stessi giorni in cui Steve Bannon – leader dell’estrema destra americana, caduto in disgrazia Oltreoceano ma molto popolare tra i sovranisti europei – si augura un governo Lega-M5S. Nel segno del padre. Gennaio 2016, Centro Milano Congressi. Tra imponenti misure di sicurezza, si tiene la prima uscita pubblica dell’Enf (Europe of Nations and Freedom), l’eurogruppo parlamentare (otto partiti) che ha dichiarato guerra a Bruxelles. Per la Lega c’è il segretario Salvini. Per il Front National la leader Marine Le Pen. Le parole d’ordine del convegno sono un’Europa degli Stati nazionali, più cristiana e islamofoba, la fine di Schengen, la chiusura delle frontiere. Mentre sta parlando, Tom Van Grieken, il giovane leader del Vlaams Belang, il partito di destra e indipendentista fiammingo, si rivolge al pubblico con un nostalgico «camerati!» Gelo in sala? Per nulla. Il popolo che sfoggia ancora sciarpe verdi e bandiere padane, il popolo che un tempo seguiva convintamente il verbo bossiano per cui i fascisti erano «canaglie», batte le mani. Salvini si imbarazza un po’, e corregge poco dopo con «amici patrioti». Ma la trasformazione fascioleghista è già completa, in Italia e in Europa. Tra Matteo Salvini e Marine Le Pen si salda un’alleanza di ferro. L’11 marzo 2018, al congresso che la conferma presidente del Front National – al quale cambierà nome e dal quale per statuto taglierà fuori l’anziano padre non più presidente onorario del partito – Marine, sul palco assieme a Steve Bannon, rivolge un saluto al segretario della Lega: «Matteo approfitto per salutarti e per farti i complimenti da parte di tutto il Front National», dice sollevando l’applauso della sala del Palazzo dei Congressi di Lille. Il mosaico antieuropeista e identitario è completo. La Lega ormai sta all’Italia come Rassemblement National sta alla Francia; l’Fpö all’Austria; Ano 2011 alla Repubblica Ceca; Alternative für Deutschland (AfD) alla Germania; il Partito per la Libertà (Pvv) all’Olanda; il Partito Nazionale Slovacco (Sns) alla Slovacchia; Diritto e Giustizia (Pis) alla Polonia; il partito dei Veri Finlandesi alla Finlandia; il Partito del Popolo danese (Df) alla Danimarca; Alba Dorata alla Grecia; i nazionalisti fiamminghi dell’NVA al Belgio e Jobbik all’Ungheria. Sono i movimenti populisti, xenofobi ed euroscettici che avanzano in tutta Europa rafforzando le proprie posizioni al

governo o in Parlamento. Stravolgendo il proprio Dna la nuova Lega nazionale si è messa in scia a questo vento nero che soffia sul vecchio Continente. Con un obiettivo: prendersi l’Italia. La svolta sovranista Ho cercato di capire e ricostruire quando e come si è compiuta questa trasformazione del Carroccio in una specie di «fronte italiano». Come ha fatto il Capitano a imbarcare nostalgici del duce, sostenitori del suprematismo, o gli hammerskin di Lealtà Azione? Oltre al citato Stefano Pavesi, consigliere del Municipio di Zona 8 a Milano, anche Stefano Del Miglio che di LA è il capo. Suo, alle ultime elezioni regionali, è il sostegno all’attuale governatore lombardo Attilio Fontana, subentrato nella corsa al Pirellone all’antisalviniano Roberto Maroni, e che poi ha stravinto contro il candidato del Pd Giorgio Gori. Il «come» è sintetizzato in una parola chiave: «Sovranità». Che cos’è? È il progetto politico-culturale avviato nel 2015 da CasaPound per offrire il suo appoggio elettorale alla Lega nazionale di Salvini. Ed è anche, di fatto, l’humus nel quale affonda le sue radici la svolta a destra del Capitano. Perché i temi in cui si declina sono gli stessi del salvinismo, variamente modulati a secondo delle circostanze: sovranità monetaria (per battere una propria moneta), sovranità energetica, militare e politica (per una piena autonomia da Bruxelles). Del resto, a rileggere oggi le dichiarazioni di allora del segretario di CPI Di Stefano, si capisce la traiettoria che ha portato al trionfo la Lega di Salvini il 4 marzo scorso. «Abbiamo deciso di aggregare tutto un mondo politico che guarda a Salvini e al suo progetto per il recupero della sovranità nazionale e il rifiuto degli eurocrati», diceva Di Stefano agli inizi di gennaio 2015 per spiegare la nascita di Sovranità. «Oltre a noi ci sono soggetti che sono scontenti di gestioni fallimentari come Forza Italia o attendiste come Fratelli d’Italia.»4 Aspetto chiave, quest’ultimo, per capire il travaso di voti dalla destra anche radicale verso la Lega: una specie di voto utile, più rispondente alle aspettative rispetto ai «vecchi» contenitori che pure stavano nell’alleanza di centrodestra. Per capire invece il «quando» e il «chi» della «svolta» bisogna andare indietro di altri sette mesi. Giugno 2014: ad Anzio si tiene un summit neofascista. L’organizzatore è Stefano Delle Chiaie, il signore nero di Avanguardia Nazionale («er caccola», negli ambienti dell’eversione).5 È una due giorni convocata per

festeggiare l’anniversario di fondazione di Avanguardia, nata il 25 aprile 1960 e sciolta nel ’76 per tentata ricostituzione del partito fascista (grazie alla vecchia Legge Scelba). Per volontà dell’oggi 82enne Delle Chiaie – il cui nome compare nelle inchieste sulle principali stragi neofasciste della storia della Repubblica, per anni latitante all’estero e più volte arrestato – di fatto AN rinasce per tre volte. Oggi vecchi e nuovi avanguardisti hanno dato vita alla sigla Reazione Nazionale. All’incontro di Anzio c’è un ospite importante e la sua presenza aiuta a capire meglio questa storia: Mario Borghezio. L’europarlamentare fascista e monarchico del Carroccio. Borghezio è un leghista ortodosso e viene dall’estrema destra. È stato condannato con sentenza definitiva per avere dato fuoco a dei fantocci raffiguranti dei migranti a Torino ed è diventato famoso per varie uscite e iniziative razziste. Una delle sue ultime dichiarazioni è questa: «Hitler ha fatto molte ottime cose, purtroppo sono poco conosciute». Assieme a Borghezio e a Delle Chiaie ci sono altri tre vecchi fasci: Gabriele Adinolfi (cofondatore di CasaPound), Bruno Di Luia (ex Avanguardia Nazionale) e Adriano Tilgher (presidente del Fronte Italiano). Sotto il drappo bianco rosso e nero della gioventù hitleriana – con il simbolo della runa – Borghezio si rivolge a Delle Chiaie, a conclusione del suo intervento, con questa esortazione: «E allora ti dico comandante, è ora di dissotterrare l’ascia di guerra. Perché quando un popolo sente il bisogno – e oggi il nostro popolo sente questo bisogno – di una rivoluzione nazionale, noi abbiamo semplicemente il dovere di metterci alla guida di questa rivoluzione. Questo è un compito anche tuo».6 Poi il leghista che un tempo esclamava «Affanculo Roma», va al punto. «Oggi da parlamentare europeo giro di più Roma e mi accorgo che i romani amano nel profondo questa città. E quindi, tenendo conto di questo dato di fatto… perché non far breccia nel cuore dei romani e organizzare noi delle iniziative per difendere la grande bellezza di questa città, violentata schifosamente da quelli che l’hanno riempita di immigrati e di immondizia e illegalità diffusa? Se voi partite con iniziative di questo genere, io sarò con voi e alla prima ronda ci voglio essere.» C’è poi un’altra frase illuminante. Rivela la strategia territoriale dell’estrema destra che nelle periferie inascoltate vuole occupare gli spazi lasciati vuoti dalla vecchia politica ormai distante. Dice Borghezio: «Andiamo nei quartieri dove la gente si sente abbandonata. Andiamo la prima volta in venti, la seconda magari in trenta… In questo modo riacquistiamo una credibilità che oggi la sparizione dei politici dal territorio ci consente di conquistare molto facilmente!»7 Le ronde, dunque. Caso vuole che di lì a poco CasaPound inizi a organizzarle:

all’inizio nei quartieri di Roma, poi nelle periferie di molte città italiane. Sono le stesse ronde di Forza Nuova. Ronde neofasciste sul modello di quelle padane che andarono in scena, con scarsi successi, tra 2009 e 2010 (si spensero progressivamente fino a diventare materiale per uno sketch del trio comico Aldo Giovanni e Giacomo). Una sintesi tra vecchio e nuovo rondismo, che spiega la voglia di «ordine» della nuova Lega nazionale, la si può trovare in una frase agghiacciante di Matteo Salvini: «Per l’immigrazione ci vuole una pulizia di massa. Una pulizia via per via, quartiere per quartiere».8 Parole che in altri e vecchi contesti avrebbero potuto assomigliare molto da vicino a quelle di chi sdoganò le persecuzioni di un popolo. Ma torniamo alla riunione di Anzio. Trascurata dai media, ha un rilievo non secondario per comprendere come la Lega da verde diventi nera. Per vedere il quadro in modo più nitido è sufficiente tirare un filo. In quegli stessi mesi del 2014 la Procura di Roma e il Ros dei carabinieri conducono un’indagine denominata «Bangla-tour». Il nome deriva dalla miccia che accende i riflettori degli inquirenti: una serie di brutali aggressioni contro cittadini del Bangladesh ad opera di squadracce di estrema destra nella capitale. L’indagine, come vedremo meglio in seguito, porta a scoprire l’indottrinamento e l’addestramento alla violenza dei giovani militanti romani di Forza Nuova, a cui veniva insegnato dai capi a picchiare i bengalesi per strada. Allegata agli atti c’è un’intercettazione interessante. È un tassello che si incastra con Anzio e con gli sviluppi successivi all’incontro tra gli avanguardisti e il leghista Borghezio: l’alleanza sovranista Lega-CasaPound, la manifestazione «No Invasione» di Milano del 2014, e quella di Piazza del popolo nel 2015. Il 26 settembre 2014 Roberto Fiore parla al telefono con Alessio Costantini, capo romano di Forza Nuova. Il leader forzanovista è preoccupato per la crescita di consensi di due formazioni in competizione col suo partito: CasaPound e Militia. La prima studiava per diventare partito nazionale; la seconda è il movimento xenofobo e antisemita di Maurizio Boccacci, il leader storico dell’estrema destra dei castelli romani, amico del «cecato» Massimo Carminati. Ma la conversazione Fiore-Costantini ruota intorno all’asse Lega-CasaPound. «Adesso Simone Di Stefano (segretario di CPI, n.d.r.) si è messo a fare il portavoce di Borghezio. Non è un gran posto per il capo del movimento. Si sono messi in una situazione di vassallaggio», spiega Fiore che aggiunge: «Già in certe sezioni di CasaPound, ad esempio in Abruzzo, c’è la roba della Lega. Questo è positivo» (il capo forzanovista ipotizza una

contrazione di CPI a favore del suo partito).9 C’è un’inesattezza nella sua ricostruzione. Portavoce di Borghezio in realtà nel 2014 non è Di Stefano: è Mauro Antonini, all’epoca militante di CasaPound e poi candidato alla presidenza della Regione Lazio alle ultime elezioni regionali (dove CPI non è entrata in Regione ma ha triplicato i suoi voti rispetto al 2013). Tutto si tiene. A chiudere il cerchio dei sospetti è Alessio Costantini, che riferisce a Fiore della riunione tra il vecchio fondatore di Avanguardia Nazionale e Borghezio: «Delle Chiaie sta sempre nell’ombra, ovviamente non potrà mai essere uomo di facciata. Però è quello che ha i contatti a Roma e può far succedere qualche situazione particolare a Roma fra i vari gruppi». Nel ventre della Roma nera c’è dunque chi, nel 2014, quattro anni prima degli spari del nazileghista Luca Traini a Macerata, stava lavorando alla saldatura tra estrema destra e Lega. La testa di ponte dell’operazione, stando alla ricostruzione di Fiore intercettata dalle cimici dei carabinieri, sarebbe stato proprio lui, «er caccola» Delle Chiaie, l’uomo al centro di trame oscure e di molti misteri della notte della Repubblica. E poi, Borghezio. Che ruolo ha avuto nella partita «super Mario», come lo chiamano i leghisti piemontesi? Considerato troppo estremista ai tempi del «partigiano» Bossi, l’europarlamentare torinese trova nel nuovo corso del Carroccio una dimensione a lui più congeniale. Ispiratore magari no. Ma sono in molti in Lega a ritenere Borghezio uno dei «facilitatori» della svolta sovranista di Salvini. Oggi l’eurodeputato si divide tra Bruxelles e iniziative fascioleghiste sul territorio. Milano, Torino, Roma. A febbraio 2018 è a un banchetto elettorale al mercato di via Falck a Milano per sostenere il candidato della Lega alla Regione Massimiliano Bastoni, appoggiato anche dagli hammerskin di Lealtà Azione, ovvero i promotori assieme a CasaPound della parata dei mille saluti romani del 29 aprile 2017 al Cimitero Maggiore. Degli hammerskin lealisti Borghezio dice: «Di questi ragazzi mi piace tutto: fanno una militanza politica sul territorio e combattono il fenomeno dell’immigrazione, centinaia di migliaia di immigrati che sono potenziali stupratori, potenziali spacciatori e delinquenti. Come gli animali difendono il loro territorio, noi difendiamo i nostri valori e i nostri principi millenari».10 Al banchetto pro-Bastoni ci sono il salviniano doc Igor Iezzi, già segretario milanese della Lega, anche lui sostenuto dagli hammerskin ed eletto alla Camera, e Stefano del Miglio, il capo di Lealtà Azione. Cerco Borghezio. Voglio farmi spiegare da lui la gestazione della saldatura tra leghismo ed estrema destra di questi anni. Me la racconta.

«È Salvini che mi ha mandato in missione a Roma per creare questo esperimento politico. E credo di avere portato dei frutti. Il primo manifesto “Prima gli italiani” (che diventerà lo slogan forte della nuova Lega, N.d.A.) è mio, l’ho coniato tre anni fa. All’inizio mi chiedevo: “Ma perché Salvini mi candida a Roma? Io che sono sempre stato un nordista secessionista… Che discorso politico posso fare io a Roma e nel centro Italia?” Invece Matteo ha avuto fiuto. Voleva intercettare un nuovo elettorato. E ci siamo riusciti. Anche al Sud. Sì, chiamiamolo pure fascioleghismo. Di questa operazione io mi attribuisco il 33% del merito. Il restante 66% è stata fortuna.» Borghezio riconosce di avere fatto da «facilitatore» nella saldatura con CasaPound Italia. Che poi l’ha votato mandandolo di nuovo al Parlamento di Bruxelles: alle elezioni europee 2014, circoscrizione Italia centrale, Borghezio viene eletto con 5.837 preferenze, l’unico della Lega in quest’area del Paese, anche grazie ai voti delle tartarughe frecciate di CPI. «Ci siamo trovati su un terreno comune. E su quel terreno abbiamo lavorato», dice. «L’Italia sta perdendo la sua identità, sta andando in mano agli immigrati e a chi li fa entrare nel nostro Paese in nome del buonismo di facciata, dietro il quale si annida il business. Le nostre città sono popolate da potenziali delinquenti che arrivano da fuori. Basta. È ora di agire.» E la riunione romana con Delle Chiaie e i reduci di Avanguardia Nazionale? «Mi hanno invitato e ci sono andato volentieri. È stato un incontro tra nostalgici. Delle Chiaie è stato un rivoluzionario, un soldato politico. Mi è straordinariamente simpatico.» A quel tavolo, dove si parlò anche e proprio di ronde nelle periferie, c’era pure Gabriele Adinolfi, fondatore di Terza Posizione e cofondatore e ideologo di CasaPound. «Lui è un intellettuale raffinato. Sta con CasaPound ed è una delle menti più lucide, intuitive, geniali», mi spiega ancora Borghezio. «Ha grande visione politica. È una figura di uno spessore imparagonabile con tanti di questi giovani neofascisti che si vedono in giro oggi.» Non so chi sia più «raffinato» fra Delle Chiaie e Adinolfi. Di certo Salvini ha visto lungo, più di tutti. Mettendo assieme i tasselli, le immagini e le dichiarazioni di importanti manifestazioni degli ultimi tre anni, tutto è più chiaro, adesso. Il primo evento congiunto Lega-CPI dopo la fondazione di Sovranità è quello del 28 febbraio 2015 in piazza del Popolo: mille militanti della tartaruga entrano in corteo disposto in file ordinate, tengono alte le bandiere sovraniste, tre spighe di grano su sfondo celeste. Ci sono anche i tricolori e le bandiere dell’Europa, queste ultime sbarrate con una croce rossa che ne decreta lo stop. Sul palco

parlano Salvini, Meloni e il segretario di CPI Simone Di Stefano. I vessilli dei neofascisti sono mischiati a quelli della Lega e di Fratelli d’Italia. Ad applaudire c’è anche una delegazione dei neonazisti greci di Alba Dorata. Salvini, dunque. è il condottiero scelto dai militanti di CPI come ariete per entrare nel Palazzo. Maggio 2015, evento bis, sempre a Roma. Lo accolgono al teatro Brancaccio al coro «Un capitano, c’è solo un capitano!»11 In platea si vedono solo le bandiere blu e gialle di Sovranità. Tablet sempre in mano, Salvini arriva da Foggia: è accompagnato dal suo braccio destro, il senatore Raffaele Volpi. «Oggi non c’è spazio per i moderati», annuncia Simone Di Stefano. Salvini certo non lo è. In sala sprizza entusiasmo Francesco Bonazza, consigliere casapoundino a Bolzano, quello che si presenta in aula comunale con la felpa della divisione Charlemagne delle SS. «Con i ragazzi della Lega abbiamo un ottimo rapporto», dice. Ancora Di Stefano: «Non dobbiamo avere preconcetti. Ne avevo quando ho visto Pietro Taricone entrare la prima volta a via Napoleone III», ricorda commosso, «ne ho avuti quando ho incontrato per la prima volta Volpi e Salvini… Mi sbagliavo, sono due persone rette… Salvini non è il mostro che vuole dividere l’Italia in due, tre, quattro o cinque parti. Salvini è partito dalle periferie di Milano per andare al Sud a difendere i pescatori.» Qui si apre un nuovo capitolo. È vero: altra mossa vincente del Capitano è stato aprirsi al Meridione. Ha puntato sugli esclusi dal benessere, gli arrabbiati dai salari bassi e lavori precari che vivono come un dramma l’immigrazione nei loro quartieri. Un bacino di voti in crescita e trasversale all’estrema destra. Lo aveva confermato anche Gianluca Iannone, presidente di CasaPound e leader del gruppo Zeta Zero Alfa: «Salvini ci piace per la sua capacità di farsi portavoce dei veri esclusi di questa società, che sono le fasce popolari italiane dimenticate da una sinistra che ha smarrito ogni vocazione sociale e che in fondo odia l’Italia e gli italiani». Ma non c’è un «patto di sangue» tra CPI e Lega. Infatti quell’alleanza poi salta. Personalismi. Divisioni. Forse beghe sulla composizione delle liste per le elezioni amministrative di Milano del 2016. A inizio 2017 Salvini per Iannone diventa un «paraculo». Lui e la Meloni «sono funzionali al sistema. Uno fa il matto, l’antieuro, l’altra la destra sociale e li chiamano in tv a fare i loro show.»12 Non si capisce se è il Capitano che scarica le tartarughe, o viceversa. Ma i contrasti non sembrano insanabili: quando a settembre 2017 i giudici di Genova bloccano i conti della Lega13 ordinando il sequestro cautelativo di quasi 50 milioni, Simone Di Stefano posta un messaggio di solidarietà a Salvini. È evidente: la collaborazione che ha portato alla nascita del

progetto nazionalista sovranista – con un indotto finora totalmente a vantaggio della Lega – ha lasciato comunque il segno. La Lega nazionale vira a destra assieme all’estrema destra. Incassa gli utili di un’operazione politicamente border line. Dice ancora Borghezio. «La Lega si è resa conto che ormai è diventata un soggetto politico capace di andare oltre i limiti dell’estrema destra. Siamo diventati un grande e solido partito nazionale. Un partito in grado di governare questo Paese. Io nei quartieri delle periferie con quelli di CasaPound ci sono andato. Ma non basta distribuire i pacchi di pasta per dire che fai politica. Cose utili, per carità. Però quello è assistenzialismo di quartiere. A noi interessa l’assistenza vera, progetti strutturati, fatti dalle istituzioni. La Lega è per uno Stato sociale che aiuti i cittadini e le imprese, soprattutto quelle piccole e medie che sono la vera risorsa del nostro Paese. Loro, CasaPound, si definiscono “fascisti del terzo millennio”, sì. Ma il fascismo ha creato la tredicesima, le pensioni, mica dava i pacchi di pasta per strada.» Sono i giorni in cui in Italia, sull’onda di Macerata, il clima politico si surriscalda e si riaccende lo scontro di strada tra fascisti e antifascisti, tra le preoccupazioni del Viminale. Borghezio ragiona: «Questa recrudescenza può avere dei rischi, certo. Noi che abbiamo i capelli bianchi ci ricordiamo che cosa sono stati gli anni Settanta, e Dio non voglia che si ripeta quella stagione di violenza. Ma può essere rischioso anche candidare al Sud, tra i riciclati della vecchia politica, il nipote di un boss calabrese. Sono errori. E noi li abbiamo commessi». L’ex secessionista Borghezio parla a titolo personale. È come se la sua anima «nordista» riemergesse in questa fase politica nuova, dove la Lega è sì diventata nazionale e nazionalista, ma ha cercato di radicarsi anche a Sud. Un’operazione riuscita solo a metà: perché sotto Roma il pieno di voti l’ha fatto l’M5S. Ma a chi si riferisce Borghezio quando parla di «errori»? Quali sono le aperture scivolose della Lega al Sud? Tra i candidati del Carroccio nazionale eletti alle ultime elezioni politiche si annidano storie che è utile raccontate. Servono a capire meglio l’attitudine e il talento di Salvini a cacciare i voti. Ma anche a tratteggiare il nuovo volto di un partito che ha occupato spazi vuoti a destra e che a forza di allargare i suoi confini rischia di dover fare i conti con fastidiosi imbarazzi. Imbarazzi che potrebbero anche adombrare l’immagine vincente del suo leader. Fasci e mammasantissima Ventisei società, 67 fabbricati, 176 terreni, 13 autocarri, 5 autovetture, 10

macchine operatrici per cantiere e un motociclo. È il tesoro di Salvatore Mazzei, 62 anni, potente imprenditore di Lamezia Terme. Il 5 febbraio 2018 la Dda di Catanzaro, guidata dal procuratore capo Nicola Gratteri, glielo sequestra: secondo i magistrati il patrimonio – valore complessivo: 200 milioni di euro – sarebbe inquinato dai rapporti di Mazzei con i clan della ’Ndrangheta. I giudici del tribunale di Catanzaro richiamano un decreto del 17 novembre 2010 che ritenendo il costruttore socialmente pericoloso ne dispone una misura di sorveglianza speciale. Nel provvedimento si sottolinea «il ruolo di Mazzei quale imprenditore di riferimento delle cosche mafiose dominanti nei territori calabresi interessati dall’esecuzione di costose opere pubbliche.»14 Tra queste, figura uno degli appalti più tristemente noti nella storia delle infrastrutture italiane: i lavori di ammodernamento dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria. Buona parte della sua fortuna Mazzei la deve proprio al ruolo delle sue imprese in quell’opera. Ma le modalità con cui lavora – stando alle accuse – sono opache. Per gli inquirenti Mazzei è parte integrante di «un sistema criminale finalizzato al controllo delle estorsioni, dei subappalti e delle forniture.» Nella galassia delle attività dell’imprenditore c’è anche un albergo di Lamezia Terme: l’Aer hotel Phelipe, tre stelle. Nel 2015 ha ospitato un cliente illustre: Matteo Salvini. Il quale, ovviamente, si presume che nulla sapesse dei giri di Mazzei. È probabile che non sapesse nemmeno chi fosse. Ma ne conosce molto bene il genero (ha sposato la figlia, Stefania Mazzei): si chiama Domenico Furgiuele, è il segretario della sezione calabrese della Lega-Noi con Salvini e il 4 marzo è stato eletto alla Camera (unico seggio guadagnato dalla Lega in Calabria). È stato in passato nella Destra di Storace. Ma la folgorazione vera per la politica arriva con la Lega nazionale. Geometra, appassionato di storia e di calcio, già ultrà daspato della Sambiese, Furgiuele a Lamezia è uno conosciuto. Note sono anche le sue simpatie fasciste. «Per noi non esiste sconfitta o capitolazione giacché la forza di cui vogliamo essere gli strumenti è invincibile per l’eternità.» Sono le parole che campeggiano in bella vista nella sede della Lega a Lamezia Terme. Non una citazione a caso. È una massima di Corneliu Zelea Codreanu, fondatore della Guardia di Ferro, branca armata del movimento politico fascista, antibolscevico e antisemita fondato in Romania nel 1927. Codreanu, soprannominato anche lui il «Capitano», è un punto di riferimento per Forza Nuova (nata proprio sul modello della Guardia di Ferro) e più in generale per tutti i movimenti fascisti europei. Del resto Furgiuele il suo cameratismo non lo ha mai nascosto: e nemmeno la personale visione della storia. Di Stefano Delle Chiaie, e del suo discutibile passato da leader della fuorilegge Avanguardia Nazionale, ha detto

che è «più una vittima che un carnefice.»15 Tutto si tiene, anche geograficamente. Perché Delle Chiaie e la Calabria sono legati dalla storia, da quando «er caccola» fu protagonista dei moti di Reggio Calabria del 1970. Ma torniamo a Furgiuele e al suocero Mazzei. Il leghista-meridionalista non è l’unico politico di famiglia: c’è anche Massimo Cristiano. Lui ha sposato l’altra figlia di Mazzei, Maria Concetta. E anche lui era in lista alle ultime politiche: con CasaPound, collegio di Catanzaro.16 Già consigliere nel disciolto (per mafia) consiglio comunale di Lamezia, nella relazione di scioglimento il suo nome è associato a una denuncia del commissariato locale, risalente al 1997, per reati contro la persona e porto abusivo di armi. Furgiuele e Cristiano, dunque. L’imbarazzo per i due generi «neri» di Mazzei – lanciatissimi in politica – cresce proprio il 5 febbraio scorso, in piena campagna elettorale. Perché tra i destinatari del provvedimento di sequestro da parte dei carabinieri di Catanzaro – nell’operazione che porta in carcere il padre – ci sono anche le loro mogli, Stefania e Maria Concetta. Sono proprietarie di beni e azioniste di società dell’orbita del padre. Un piccolo impero nel quale figura anche il nome del camerata salviniano Furgiuele. Il politico – stando alla relazione della commissione prefettizia che portò allo scioglimento del Comune di Lamezia – risulta essere amministratore unico di una società di Salvatore Mazzei di cui titolare all’80% delle azioni è la figlia Maria Concetta. Anche in questo caso, se penso alla capacità camaleontica di Salvini di cavalcare i temi del momento, e alla memoria volatile degli elettori, tutto è possibile nel nostro Paese. Il 10 ottobre 2012, Matteo Salvini sul cancro italiano delle mafie aveva usato parole nette: «La Lega è nata per combattere mostri come la ’Ndrangheta». La giunta regionale lombarda guidata da Roberto Formigoni è scossa dall’ennesimo caso giudiziario. L’assessore alla Casa, l’ex democristiano (poi Pdl) Domenico Zambetti è arrestato per voto di scambio e concorso esterno in associazione mafiosa: verrà condannato in primo grado nel febbraio 2017 per avere comprato, in cambio di 200mila euro consegnati a due colletti bianchi della ’Ndrangheta, un pacchetto di preferenze alle elezioni regionali del 2010. La sinistra chiede alla Lega di far cadere la giunta Formigoni: un attacco politico al quale Salvini reagisce sottolineando l’anima profondamente anti mafiosa della Lega nata per «combattere la ’Ndrangheta.» Dichiarazioni che rilette oggi, sei anni dopo, fanno riflettere. Non c’è solo la vicenda del nucleo Mazzei-Furgiuele. Oltre che fare incetta di eredi del vecchio potere democristiano, figli di potenti che per anni hanno gestito cariche e

clientele in Sicilia, ex famiglie andreottiane, esponenti del Movimento per l’autonomia di Raffaele Lombardo e della Lega di Sicilia, la campagna di reclutamento affidata al senatore Raffaele Volpi, braccio destro del Capitano, ha puntato su vecchi e nuovi camerati. Soprattutto in Calabria. Un contributo alla composizione delle liste di Lega-Noi con Salvini l’ha dato Giuseppe Scopelliti, l’ex potente governatore e sindaco di Reggio Calabria, già inquisito nell’inchiesta sul dissesto milionario del capoluogo calabrese e coinvolto nell’indagine «Mammasantissima» sulla ’Ndrangheta reggina. Oggi Scopelliti si è riciclato fondando assieme all’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno il Movimento nazionale per la sovranità, i cui simboli erano presenti il 24 febbraio 2018 nella piazza Duomo leghista. Ritorna, questa parolina magica. Sovranità. E, per la nuova Lega, sovranità in Calabria vuol dire rilanciare politicamente gli eredi del Movimento sociale italiano. Tra loro ci sono alcuni fedelissimi di Scopelliti: come Tilde Minasi, la «sovranista» candidata da Salvini al Senato, eletta seconda nel listino di Reggio subito dietro il «Capitano». Giovani. In carriera. E con alle spalle famiglie influenti. Sono i candidati calabresi scelti da Salvini. Un’altra promessa politica in sella a una candidatura leghista è Francesca Anastasia Porpiglia, 26enne consigliera comunale di Villa San Giovanni, commercialista con laurea alla Bocconi. Anche lei è figlia di un padre assurto agli onori delle cronache.17 Enzo Porpiglia era funzionario della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria. È stato allontanato per un endorsement scivoloso. Durante il processo Gotha – scaturito da diverse indagini contro la ’Ndrangheta reggina e un’associazione segreta capace di infiltrare la politica – si avvicina al giudice Ornella Pastore e spende parole in difesa di uno dei principali accusati, Paolo Romeo. Chi è? Già condannato in via definitiva per concorso esterno nel 2004, Romeo, avvocato reggino, da trent’anni viene coinvolto nelle principali inchieste sui rapporti fra criminalità mafiosa e colletti bianchi: per la Dda nella sua città è uno dei capi della ’Ndrangheta in versione massonica. Porpiglia cerca di influenzare il giudice – che lo denuncerà – spiegando che Romeo è persona per bene. In Calabria Romeo è conosciuto anche per la sua militanza nell’estrema destra: è stato – il cerchio si chiude – anche lui vicino al leader avanguardista Stefano Delle Chiaie. Ed è stato coinvolto nella gestione della latitanza del terrorista nero Franco Freda, il fondatore del Fronte Nazionale che ritroveremo più avanti in questo viaggio. Dunque Francesca Porpiglia, Tilde Minasi, Domenico Furgiuele sono le punte di diamante della Lega di fronte allo Stretto. È a loro che guarda con fiducia il

Capitano per estendere il suo Carroccio nella punta dello stivale. «La Calabria è amica della Lega», ripetono i leghisti reggini. In effetti sono numerosi gli appoggi di cui può godere nella regione il sovranismo di Salvini. A Catanzaro un’altra sponda è offerta dai neofascisti di AlPoCat18 (Alternativa popolare) di Stefano Mellea, che hanno organizzato iniziative insieme a «Noi con Salvini» e alla Fiamma Tricolore. La consacrazione del «Matteo» calabrese arriva però nel giorno di San Valentino: 14 febbraio 2018. Teatro Odeon gremitissimo, centro di Reggio Calabria. È la tappa intermedia del lungo tour che ha visto il segretario federale leghista in giro per l’Italia. Salvini è osannato dalla platea leghistasovranista. Furgiuele, oggi deputato del Carroccio, è raggiante: «Quello di oggi», dice nel suo intervento, «è il coronamento di un percorso iniziato quattro anni fa, quando decidemmo di seguire un giovane leader, Matteo Salvini… Ora siamo qua… O si vince e si cambia, oppure sarà una corsa verso il baratro.» Dalla platea scandiscono «Matteo Matteo». Salvini sale sul palco, ringrazia, promette un futuro per la Calabria («sono qui perché quelli che stanno a Roma hanno governato male»). Dopo una serie di tirate arriva al tema ’Ndrangheta. «Qualcuno mi ha fatto una domanda banale: cosa penso della ’Ndrangheta. Ho dato una risposta banale: mi fa schifo, sono nato per combattere la ’Ndrangheta, la mafia, la camorra, la Sacra Corona Unita e altre schifezze come queste.» Applausi. E forse qualche imbarazzo. A partire dal cognato di Salvatore Mazzei: lui, il camerata Furgiuele, numero uno della Lega calabrese. Ma si sa, la politica è anche l’arte del compromesso. Quando vinci, poi, tutto ti si perdona. E hai sempre ragione. Il 18 marzo Salvini va a Lamezia Terme e poi a Rosarno a ringraziare i suoi elettori, e ad accoglierlo sono in migliaia. Tra cui anche politici ex Forza Italia, oggi leghisti ferventi, come l’ex sindaco di Rosarno, che gli urla «Sei la nostra speranza!» Ma Salvini guarda avanti: «Il nostro obiettivo è quello di conquistare il governo della regione». Del resto, lo ricorda Furgiuele al suo fianco, la Lega è «il secondo partito del centrodestra», arrivato al 6% con punte del 13,8% a Rosarno. Proprio nella cittadina simbolo della protesta dei migranti sfruttati nei campi, Salvini ha gioco facile a scaricare la responsabilità sulla sinistra, che con «la sua accoglienza ha creato schiavi da 2 euro l’ora». Nessuno ricorda quando Salvini cinguettava su Twitter che il Nord non è razzista. «I razzisti sono coloro che da decenni campano come parassiti sulle spalle altrui», con sprezzante riferimento ai meridionali. Ci prova una solitaria contestatrice con un cartello, ignorata da tutti, preoccupati di protendere le mani verso «U bravu fighiolu».19 Così, scomodando il loro scrittore più famoso, Corrado

Alvaro, i calabresi hanno battezzato l’ex nemico del Sud oggi diventato il nuovo salvatore. Ma anche Salvini deve stare attento alle mani che stringe. Il Capitano e Manomozza Nella sua scalata alla Lega e al centrodestra, attuando una rottamazione graduale e gentile, a suo modo epocale, Salvini ha sfoderato doti di intuito politico, coraggio, disinvoltura e sfrontatezza. Come tutte le corse verso il potere, pure quella del Capitano ha richiesto il turbo. Cambiare pelle a un movimento autonomista chiuso nella roccaforte del Nord fino a cucirle addosso l’abito da sera del partito nazionale, e portarlo dal 4% a quasi il 18%, significa correre su e giù per l’Italia, batterla palmo a palmo, asfaltare confini. Insomma: imbarcare il classico «largo consenso». In politica queste operazioni possono anche tradire una certa frenesia: perché il desiderio di piacere e convincere ha sempre un prezzo. La storia che racconterò adesso dimostra quanto il rischio sia costantemente in agguato. Anche per un leader politico a cui la mafia e i mafiosi «fanno schifo», che ha sempre condannato senza se e senza ma i criminali, che ha fatto della sicurezza e della legalità uno dei concetti chiave della campagna elettorale e che ha più volte associato questi temi a una propaganda basata sul sillogismo: immigrazione uguale criminalità uguale insicurezza. I protagonisti della storia sono Matteo Salvini e Salvatore Annacondia, detto «Manomozza». Il leader in pectore della nuova destra italiana e l’ex boss sanguinario della criminalità pugliese, reo confesso di 72 omicidi – alcuni eseguiti personalmente, altri come mandante – tutti tra gli anni Ottanta e Novanta. La biografia di Annacondia è quella di un padrino spietato, dotato di uno spessore criminale che l’ha portato ad avere contatti con i boss di Cosa Nostra – alla quale era affiliato – e di altre organizzazioni mafiose italiane, compresa la Sacra Corona Unita. Per questi rapporti «in alto» nel 2015 Annacondia è stato sentito al processo palermitano sulla trattativa Stato-mafia. E la sua testimonianza su quella oscura vicenda continua. Sessantun anni, originario di Trani da dove ha esteso il suo regno criminale basato nel nord barese, «Manomozza» (perse la mano destra durante una battuta di pesca di frodo nel mare di Trani a causa di un’esplosione) si è pentito dopo il crollo della prima Repubblica. Da allora è diventato un super collaboratore di giustizia. Da anni vive con un nuovo nome e con la famiglia in una località segreta dove ha un’attività che gestisce assieme ai figli. Essendo un pentito sotto protezione dello

Stato, pur conoscendo nei dettagli tutte le coordinate della sua nuova vita, la seconda identità sua e dei figli, il luogo dove risiedono e il nome della loro azienda, è doveroso ometterle per tutelarne l’incolumità. Ma che c’entra Annacondia con Salvini? Perché parlare di un ex boss mafioso con 72 omicidi sulle spalle a proposito di un leader politico che in piazza giura sul Vangelo e sulla Costituzione e, dopo avere detto «la mafia mi fa schifo», ribadisce con forza che «uno che spara è un criminale e basta»? È il 2015, anno di elezioni. Il segretario della Lega giunge nella località dove vive Manomozza. Il quale, al netto del suo status di collaboratore di giustizia, non sembra condurre una vita ritirata. Conosciuto e apprezzato per la sua attività, che lo porta a contatto con la gente, da sempre rispettato nella regione dove ha deciso di vivere lontano dalla sua Puglia, l’ex boss mafioso sul territorio non fa mistero del suo passato ingombrante. Lo raccontano diverse persone che lo hanno conosciuto. Salvini partecipa a una cena e a quella cena spunta Annacondia. I due si fanno fotografare insieme: uno accanto all’altro, sorridenti. Se non fosse che, per motivi diversi, sono due volti noti, sarebbe un’immagine banalissima, come tante. Salvini ha una polo nera e la solita barba lunga, Annacondia una camicia azzurra. Alle loro spalle c’è un giardino curato. È probabile, oltre che auspicabile, che il Capitano della Lega non conoscesse la vera identità di Manomozza. Si sarà trattato quasi certamente di un incontro occasionale, uno dei tanti che capitano al segretario di un partito quando gira l’Italia. Non è dato sapere chi e perché abbia presentato Annacondia a Salvini, forse, anzi, quasi certamente, quella sera stessa. Né è possibile ricostruire se ed eventualmente quale rapporto si fosse instaurato tra i due prima della fotografia scattata insieme: potrebbero raccontarlo, volendo, i due interessati. È evidente: come molti leader politici e personaggi pubblici, anche Salvini – che è molto seguito, e per di più è uno che si presta volentieri ai selfie – si fa fotografare con decine di persone in occasione di uscite pubbliche, manifestazioni, cene elettorali e non. Dopo il comizio del 24 febbraio 2018 in piazza Duomo a Milano ho visto il leader leghista fare selfie con moltissimi militanti e simpatizzanti e firmare altrettanti autografi. Un bagno di folla gioioso e contagioso che ha fatto da anticamera al successo elettorale del 4 marzo. È ovvio che Salvini non può chiedere la carta d’identità e la fedina penale a tutti quelli che gli chiedono di fare una foto. Nessuno vuole gettare croci sul Capitano o attribuirgli responsabilità che quasi certamente non avrà. Ci mancherebbe. Probabilmente inconsapevole, tutt’al più può aver peccato di leggerezza o di eccessiva disponibilità. Sta di fatto che quella foto, finita su alcuni telefoni leghisti, dietro

le quinte del partito imbarazza più d’uno. Resta una domanda: possibile che nessuna tra le persone che erano con il segretario della Lega quella sera del 2015 sapeva chi fosse l’uomo con cui Salvini si farà immortalare dalla fotocamera di un cellulare? Può succedere, certo. Ma motivi di opportunità consiglierebbero a un leader politico che si candida a guidare l’Italia, e che è un personaggio pubblico, una scrupolosa attenzione: anche solo per una semplice foto. Innanzitutto per tutelare la propria immagine e credibilità. E poi anche per evitare che avversari politici possano strumentalizzare l’eccessiva disinvoltura. Nel 2015 Salvini era alleato con i neofascisti di CasaPound e aveva già iniziato il suo progetto di scalata del centrodestra. Nello stesso anno in cui si fa fotografare con Annacondia va a Palermo e dice che «la mafia è il nemico pubblico numero uno» e che «i mafiosi e i loro parenti fino al terzo grado sono nostri nemici.» Dichiarazioni che ovviamente il leader da allora rispolvera ogni volta che va al Sud per allargare la sua Lega nazionale. Nel 2017, in piena campagna elettorale, il Capitano torna a Palermo e ai cronisti sottolinea ancora: «La mafia è il pericolo numero uno», «siamo qui per combattere la mafia quartiere per quartiere», «no ai voti della mafia e ai raccomandati.»20 La mafia spara e uccide. Lo ha sempre fatto. Anche Manomozza, prima di decidere di collaborare con lo Stato, ha sparato e ucciso. Le armi, dunque. Un tema sul quale Salvini ci ha abituati a una sfilza di dichiarazioni per nulla sfumate e ad altrettante clamorose iniziative. Sempre collegate al problema sicurezza e criminalità. «Chi entra in casa mia deve sapere che ne può uscire disteso», è una delle frasi-cult del segretario della Lega. Un messaggio più volte riproposto in passato: «Se mi sveglio e c’è qualcuno in casa di certo non gli faccio il caffè». E ancora: «Se trovassi un ladro di notte in casa userei la pistola». Alla vigilia delle scorse elezioni politiche Salvini torna sul tema e racconta: «Tengo un mattarello da cucina sotto il letto. Penso che sia lecito tenerlo in casa…» Che sia abituato a sostenere le ragioni di chi si difende, anche da solo, contro furti e aggressioni, è noto da anni. Il capo leghista lo ha sempre fatto, platealmente. Dal tabaccaio milanese Giovanni Petrali al benzinaio vicentino Graziano Stacchio, dall’imprenditore di Bergamo Antonio Monella al ristoratore lodigiano Mario Cattaneo: sono cittadini che hanno sparato per legittima difesa o per tutelare una proprietà dall’assalto dei ladri. Salvini si è sempre schierato in prima linea. E ogni volta si è precipitato a portare la propria solidarietà a chi ha premuto il grilletto prendendo una posizione netta contro i magistrati e i giudici che hanno indagato o condannato i protagonisti loro malgrado. Poi ci sono stati

casi mediatici diversi, nei quali anche recentemente il Capitano è sembrato assumere posizioni meno «interventiste». A febbraio scorso ha detto di non essere d’accordo con la proposta di Donald Trump di armare gli insegnanti per evitare che si ripetano stragi come quella del giorno di San Valentino 2018 in una scuola di Parkland in Florida (17 morti): «No, non bisogna dare le armi agli insegnanti, bisogna disarmare i criminali». Lo ha detto sul palco in piazza Duomo dopo che Giulia Buongiorno, neosenatrice leghista, aveva picchiato duro sulla legittima difesa e sulla possibilità di dare mano libera ai cittadini di difendersi dal crimine. Torniamo ora ad Annacondia. È vero: quando Manomozza ha scelto di collaborare con lo Stato ha detto di avere chiuso con il suo passato.21 La stessa cosa hanno fatto altri pentiti eccellenti: supercriminali che hanno trattato con la magistratura in cambio di rivelazioni utili alle indagini e alla giustizia. Da Tommaso Buscetta, il primo ad aprire uno squarcio sui segreti della Cupola di Cosa Nostra, fino a Felice Maniero, detto «faccia d’angelo», il boss della mala del Brenta, passando da Giovanni Brusca, condannato per oltre un centinaio di omicidi tra cui quello del piccolo Giuseppe Di Matteo (figlio del pentito Santino Di Matteo) strangolato e sciolto nell’acido. E condannato anche per aver premuto il radiocomando del tritolo che uccise a Capaci il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i tre agenti di scorta, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. L’Italia è piena di collaboratori di giustizia. Noti e meno noti. Alcuni controversi. Alcuni si sono pentiti per sottrarsi al carcere duro e per altre convenienze. Altri lo hanno fatto a completamento di un percorso interiore. Se ha un senso fare una classifica dei pentiti in base al loro passato criminale e al numero di omicidi commessi e confessati, Salvatore Annacondia – con i suoi 72 cadaveri – è certamente ascrivibile alla categoria di quelli che si sono lasciati alle spalle una scia particolarmente sanguinaria. Il che, beninteso, non toglie nulla al valore del suo pentimento e all’utilità che i suoi ricordi possono avere per le indagini della magistratura. Il caso, o un banale scherzo del destino, hanno portato Manomozza sulla strada di una sera di Matteo Salvini. Un’immagine curiosa. Il politico della tolleranza zero contro la criminalità e la mafia, e l’ex boss mafioso. Il Capitano che giura sul Vangelo e sulla Costituzione e il supercriminale che dopo avere collezionato decine di vittime ha offerto il suo contributo alla giustizia accettando anche di riavvolgere la memoria su una vicenda delicata e inquietante qual è stata la trattativa tra Stato e Cosa Nostra. Una pagina dell’Italia più «nera», in questo caso intesa non come colore politico, ma perché fitta di misteri

inviolati, e ancora tutta da riscrivere. Lega verde… Lega nera Se Borghezio è l’anello di congiunzione tra la Lega nazionale e la destra ex eversiva e oggi estrema, mi chiedo cosa pensa del fascioleghismo il fondatore del Carroccio, Umberto Bossi. Di quella che era la sua Lega, la Lega delle origini, e di quanto sia cambiata in questi anni, il vecchio capo padano parla spesso coi fedelissimi che gli sono rimasti vicino nonostante le vicende giudiziarie che hanno compromesso la sua immagine e che avevano fatto crollare i consensi intorno al partito. Bossi sa di aver commesso degli errori, li ha ammessi: avere portato la famiglia dentro il movimento è stato l’inizio delle sue disavventure e del suo tramonto politico. Messo all’angolo dalla gestione Salvini ma nonostante tutto ricandidato, il presidente onorario della Lega in questi anni non ha mai risparmiato critiche anche dure contro le scelte del segretario federale e la direzione «nazionale» che il movimento stava imboccando. Una curvatura che è proseguita fino a oggi, e che ha portato il Carroccio lontano anni luce dal progetto del suo fondatore: un partito autonomista e federalista, espressione delle istanze del Nord. «La Lega è l’esatto opposto del fascismo», ragiona il Senatùr. «Perché il fascismo è la massima espressione dello Stato centrale, è il centralismo romano che noi abbiamo sempre combattuto.» Bossi sostiene che il fascismo sia finito con la seconda guerra mondiale. «Oggi c’è un’altra cosa: il nazionalismo», dice. «I fascisti sono nazionalisti, cioè i veri nemici della mia Lega.»22 Essendo diventata con Salvini un partito, appunto nazionalista, è facile tirare logiche deduzioni su quanta distanza politica ci sia tra il vecchio capo e il giovane Capitano cresciuto nel suo mito salvo poi metterlo da parte. «Quando sento parlare di Stato Nazione, mi viene in mente quello che disse Altiero Spinelli a Torino nel 1957 nel suo discorso per il Congresso del popolo europeo: disse che lo Stato Nazione era il male assoluto. Io penso la stessa cosa», sostiene Bossi. C’è stato un tempo in cui il fondatore diede dello «stronzo» all’ex sindaco leghista di Verona, Flavio Tosi, reo di «aver tirato dentro nella Lega un sacco di fascisti.» Era il 2011: dovevano ancora arrivare le manifestazioni con CasaPound e l’alleanza con il Front National e gli altri partiti ultranazionalisti europei. Eravamo ancora lontani dalla scia di violenza «nera» tra 2017 e inizio del 2018: dall’incursione squadrista del Veneto Fronte Skinheads nella sede dell’associazione pro-migranti Como senza frontiere, agli

spari di Macerata del nazileghista Traini. All’indomani di Como, mentre Salvini strizza l’occhio ai naziskin, Bossi è tranciante: «La Lega stia lontana da quei voti». Che «Umberto» abbia continuato a non digerire, della disinvoltura politica di «Matteo», le aperture ai «fascisti», è testimoniato anche da altre uscite. L’ultima battuta è del 24 marzo 2018. Fuori da Palazzo Madama il neosenatore Bossi scherza ma non troppo sulla decisione di Salvini di far votare a sorpresa ai deputati leghisti Anna Maria Bernini alle elezioni per la presidenza della Camera, contravvenendo così all’indicazione di Silvio Berlusconi di convergere sul nome di Paolo Romani. «Ha parlato prima di pensare», dice Bossi a proposito della mossa del segretario federale. «Se faceva saltare la coalizione in Lombardia e Veneto lo avrebbero messo a testa in giù come il suo amico Mussolini a piazzale Loreto.» L’avversione del Senatùr per il fascismo ha origini familiari. Tra i Bossi e i Marrone (la moglie è Manuela Marrone) ci sono storie di combattenti della Resistenza. La più raccapricciante è quella della nonna di «Umberto», Celesta, soprannome di Celeste, socialista e sindacalista (tutelava anche i lavoratori della Bassetti). Aveva in casa un quadro con l’effige della Madonna. Un giorno i fascisti entrano nell’appartamento e lo perquisiscono. Si accorgono che dietro al quadro c’è il ritratto di Matteotti. Nonna Celesta viene arrestata e portata alle Poste di Gallarate, all’epoca luogo di torture. La mettono su una bicicletta elettrica, i piedi legati ai pedali. La azionano a una tale velocità che all’anziana donna si rompono le rotule. Alla nonna vittima degli squadristi il Senatùr ha anche dedicato una delle sue poesie in dialetto lombardo.23 Nell’elenco dei familiari che pagarono con la vita l’opposizione al regime di Mussolini c’è anche un cugino di Bossi: un altro partigiano che morì combattendo sul Monte Rosa. E poi Calogero Marrone, il nonno della moglie del vecchio capo leghista: era un partigiano ed è morto nel campo di concentramento nazista di Dachau. Gli hanno fatto pagare la sua militanza antifascista. Salvò molti ebrei destinati ai lager. Sulla sua vita stanno facendo un film e forse gli intitoleranno una strada a Varese. Ecco le ragioni profonde che in questi anni, al netto delle vicende giudiziarie, hanno alimentato il disagio politico e ideologico del Fondatore; un disagio cresciuto proporzionalmente alla svolta sovranista e nazionalista impressa da Salvini. Una metamorfosi che ha spiazzato molti esponenti anche di primo piano del Carroccio. A partire da Roberto Maroni. L’ex governatore lombardo, già ministro, rivendica da sempre il suo spirito antifascista e più volte è intervenuto

in contrapposizione al Capitano. Dopo il blitz del Veneto Fronte Skinheads a Como, mentre Salvini minimizza sostenendo che il «problema non sono gli skinhead», il 29 novembre 2017, Maroni condanna duramente l’irruzione squadrista spiegando che «la Lega non è né di destra né di sinistra e non bisognerebbe lasciare spazio a coperture politiche di questo tipo.» Replica stizzita di Salvini: «Maroni faccia il suo mestiere». Al botta e risposta sono seguite altre divaricazioni. Il giorno degli spari a Macerata del nazileghista Luca Traini, il 3 febbraio 2018, Maroni twitta: «Che orrore. Questo è un criminale fascistoide, non c’entra nulla con la gloriosa storia della nostra grande Lega Nord». Non vuole unirsi al coro di chi – nel suo partito come in altri del centrodestra – collega i fatti di Macerata al problema dell’immigrazione, come fa lo stesso Salvini. Nella sua rubrica settimanale sul «Foglio», Maroni rincara la dose: «La gerarchia delle schifezze mi obbliga ad anteporre al vuoto spompato dei grillini l’orrore del criminale fascistoide di Macerata, che spara agli immigrati per risolvere il problema dei clandestini. Un pistolero che milita nella destra nostalgica e che lo scorso anno era stato candidato alle elezioni amministrative. Questa è la gente che si propone di guidare le istituzioni del nostro Paese? Ma vaffa». Ci sono due Leghe, ormai. O una Lega dentro la Lega. È una Lega che non ci sta. Il segno più eclatante della rottura insanabile fra l’ex governatore e Salvini si è visto nella manifestazione in piazza Duomo del 24 febbraio. Maroni non ci va e dice di non considerare più «suo» quel movimento a cui ha dato tutta la vita politica. Salvini avrebbe voluto salvare la faccia e avere sul palco i due governatori di Lombardia e Veneto artefici del referendum sull’autonomia. Ma il no di Maroni (Zaia è sul palco) è senza appello, e ha una spiegazione rotonda. Lui pensa ancora ai lombardi, Salvini pensa agli «italiani». Salvini dice «è ora», l’altro sembra voler dire «non è più ora.» Non così, non con questa Lega, che usa gli stessi slogan e la stessa narrazione della destra radicale. Altra voce critica interna è quella dell’ex assessore regionale lombardo Gianni Fava. «Il fascismo dentro la Lega è il segno politico di quello che questo partito è diventato. Un partito dove il dissenso non è tollerato: o sei d’accordo con il manovratore o sei fuori. I nostri militanti, quelli che conosco io e che hanno reso grande la storia della Lega, a casa hanno i libri di Miglio, non il Mein Kampf .» Forse la parabola era segnata. C’erano state diverse avvisaglie. Segnali di fascioleghismo che andavano colti sotto traccia e portati in superficie. Nomi impresentabili, ma riciclati nel Carroccio e nella sua galassia sempre più larga e ospitale. Uomini neri a cui la Lega in questi anni – durante la segreteria Salvini – ha dato il benvenuto.24

Prendiamo Domenico Magnetta, 60 anni, originario di Foggia e trapiantato a Milano. Ai microfoni di Radio Padania Libera ha una trasmissione fissa, due volte la settimana. «Mimmo», come lo chiamano in via Bellerio, dà voce alle lamentele e agli strali dei tartassati di Equitalia, ai lavoratori autonomi, ai titolari delle piccole imprese. E alla xenofobia anti-migranti degli ascoltatori dell’emittente leghista. Ma Magnetta non è solo il gran capo di «P.I.U.», associazione di professionisti e imprenditori voluta vent’anni fa da Bossi e Maroni. È stato terrorista e galeotto. Vicino all’ex sindaco di Verona Flavio Tosi e ai camerati veneti, ex Msi e naziskin, che lo sostenevano. E amico anche di ex Nar: il «cecato» Massimo Carminati e Pasquale «Lino» Guaglianone, che dei nuclei armati era il tesoriere (già condannato a 5 anni con sentenza definitiva). Al primo, Magnetta fa un favorone. Una notte del 1981, su richiesta dei camerati milanesi, lo aiuta a scappare: lo accompagna oltreconfine passando da Gaggiolo, provincia di Varese. Li ferma la polizia che spara. Sette anni dopo Magnetta viene condannato in secondo grado a otto mesi di reclusione per favoreggiamento. Un altro mattoncino che si aggiunge al suo curriculum criminale (furto, ricettazione, rapina, detenzione illegale di armi, sequestro di persona). Con il secondo fa affari. Negli uffici di Guaglianone in via Durini 14, a Milano, aveva sede la società immobiliare Iniziative Belvedere srl, della quale il «Mimmo» di Radio Padania era amministratore e socio di minoranza. Magnetta è un tipo alla mano, molto cordiale. Uno abituato a stare in mezzo alla gente. Mi racconta: «Ho avuto un passato un po’ biricchino, ma sono trascorsi tanti anni e penso di avere diritto anch’io all’oblio. In Lega ho trovato persone che mi hanno ascoltato, pronte a impegnarsi per tutelare i diritti dei piccoli commercianti, soprattutto dei 196mila ambulanti che operano in Italia. Io sono nato nei mercati, ambulante figlio di ambulanti. Sì, in passato ho militato nell’élite dell’estrema destra, ma poi, dopo avere sentito tutti, dal Pd a Forza Italia, ho capito che solo Salvini e la Lega hanno a cuore davvero l’Italia e gli italiani. Con Matteo c’è un rapporto di stima e simpatia. L’ho accompagnato tante volte nei mercati. Magari la sera prima era a registrare Porta a Porta a Roma, e la mattina dopo eravamo tra i banchi del mercato a Milano. Ben venga la svolta nazionale e nazionalista», aggiunge Magnetta. «Prima in radio chiamavano solo dal Nord, adesso chiama anche tantissima gente dal Sud, Sicilia, Calabria e Sardegna.» I microfoni di Radio Padania sono gli stessi da cui il 16 gennaio 2018 l’attuale governatore leghista della Lombardia Attilio Fontana fa la sparata sulla «razza bianca in pericolo.» Sono in tanti a non dolersene. Le parole di Fontana trovano terreno fertile in pezzi di estrema destra che a Milano e in Lombardia hanno

deciso di sostenere la Lega di Salvini e i suoi candidati. Ho già detto di Igor Iezzi e Max Bastoni, rispettivamente deputato e deputato regionale, entrambi sostenuti da Lealtà Azione. Non casualmente Bastoni, apprezzato dagli hammerskin e da Borghezio, è animatore dell’associazione identitaria Terra Insubre che è frequentata anche dal presidente Fontana. Ecco il comunicato con cui i «lealisti» neonazi rivendicano l’elezione di Bastoni e Iezzi: «È con immenso orgoglio che celebriamo l’elezione alla Regione di Max Bastoni, grazie anche al nostro sudore. Ci siamo impegnati per sostenere la sua candidatura… È un amico che in tempi non sospetti si è sempre esposto e battuto per temi a noi cari, portando avanti battaglie condivise… Max è un politico di quelli che ci piacciono, un militante innanzitutto, che non rinnega e non si vergogna delle proprie idee». E poi. «Con la stessa gioia celebriamo l’elezione alla Camera di Igor Iezzi, un amico con il quale abbiamo condiviso battaglie sia in Comune che in consiglio di Municipio 8. Siamo certi che sia solo l’inizio di un bellissimo percorso fatto di battaglie a difesa dei valori e della Tradizione. Quando Lealtà Azione scende in campo lascia il segno! Avanti tutta!»25 Con queste contiguità e travasi ambigui, non c’è poi tanto da stupirsi se alcune schegge impazzite dell’estrema destra sono entrate nella Lega, hanno corso alle elezioni ma non ce l’hanno fatta. E poi si sono messi a sparare per uccidere. Obiettivo: gli «invasori» africani. Il dente di lupo Giugno 2017, Corridonia. Nel Comune in provincia di Macerata mancano pochi giorni alle elezioni amministrative dell’11 giugno. Il candidato sindaco della Lega Nord – si chiamava ancora così – è Luigi Baldassarri, che arriverà quinto su sette raccogliendo un non esaltante 4%. Nella squadra dell’aspirante primo cittadino c’è un ragazzo di Tolentino, 27 anni. Lo chiamano il «Lupo», oppure «Luchino nazi». Passa le giornate in palestra a gonfiare i muscoli e la sera, a chiamata, fa il buttafuori nei locali. Alla Pm Stefania Ciccioli racconterà: «A 16 anni pesavo 115 chili, mi sentivo bullizzato dai miei compagni di classe che mi deridevano perché ero sovrappeso». A intermittenza il ragazzo ha fatto anche il manovale, l’attrezzista e il magazziniere. Il «Lupo» è Luca Traini. Lo chiamano «nazi» per le sue idee e per il tatuaggio che gli percorre la tempia destra. È il «dente di lupo» di Terza Posizione, il movimento neofascista eversivo fondato nel 1977 dal leader di Forza Nuova Roberto Fiore e da Gabriele Adinolfi. Quel

«graffio», ai tempi del Reich, era l’emblema della panzer division «Das Reich» delle SS naziste. È il pantheon di Traini. Il ragazzo legge il Mein Kampf, ha i capelli rasati, è alto e grosso e, prima di approdare alla Lega di Salvini, è stato vicino a Forza Nuova e CasaPound. Un legame, quello con l’ultradestra di Fiore, che non si è mai spezzato: il 4 novembre 2017 Traini è in corteo a Roma alla marcia dei patrioti organizzata da FN all’Eur, dietro lo striscione «Tutto per la patria», tra saluti romani e cori xenofobi. Ma restiamo in casa Lega a giugno 2017. Giubbotto nero e pizzetto sotto il cranio rasato e lucido: la foto del candidato Luca Traini è sul manifesto elettorale della Lega Nord per Baldassarri sindaco. «Luchino» è presente in carne e ossa a giugno all’incontro elettorale clou della campagna: a Corridonia arriva Matteo Salvini. Il Capitano non può ricordarsene, ma quel ragazzotto in piedi alla sua sinistra, nella sala gremita e con il vecchio simbolo del Sole delle Alpi dipinto sulla parete, due anni prima lo aveva salutato quasi sbracciandosi. Si erano incontrati nel 2015 a un convegno elettorale all’Abbadia di Fiastra, una suggestiva riserva naturale nelle campagne maceratesi dove sorge un’antica abbazia ancora abitata dai monaci. Salvini ha appena finito di parlare. Maglietta e cappellino nero con il tricolore, il «Lupo» si avvicina al palco sorridente e allunga il braccio per salutare il Capitano. Il segretario federale fa la stessa cosa. Un video postato su YouTube26 mostra la scena: soddisfatto per avere stretto la mano al suo leader, il venticinquenne si avvia verso l’uscita della sala fermandosi prima a conversare con un cittadino di colore. Ma perché il neonazista di Tolentino si avvicina alla Lega sovranista? Traini è deluso da Forza Nuova. Vede il movimento di Fiore come una realtà troppo marginale, destinata a restare fuori dal Parlamento e dunque a non incidere sulla politica. Nella nuova Lega che ha virato bruscamente a destra il militante neroverde trova affinità e un alveo di riferimento per le sue idee sull’immigrazione. Non è un caso che nel manifesto della squadra del candidato sindaco di Corridonia ci sia la voce «controllo degli immigrati». Ma le ambizioni politiche del Lupo, alle Comunali 2017, vanno a sbattere contro lo scoglio delle urne: zero voti. Dice Maria Letizia Marino, segretaria provinciale della Lega a Macerata: «Ha frequentato la nostra sede per un po’ di tempo e non aveva mai manifestato opinioni razziste». Eppure Traini era stato allontanato dalla palestra Robbys perché quando entrava faceva sempre il saluto romano. Lo racconta Francesco Clerico, il proprietario. «È sempre stato uno buono, generoso. Ma aveva alle spalle una situazione familiare difficile.» Abbandonato quando era piccolo dal padre, una madre con problemi, Traini vive con la nonna. Poi un fidanzamento

andato male e l’avvicinamento agli ambienti dell’estrema destra. La paranza di Macerata si compie il 3 febbraio 2018. Luca Traini esce di casa. Sulla sua Alfa Romeo 147 nera oltre a una giacca mimetica e un tricolore ci sono: una pistola Glock carica, un altro caricatore di riserva e una scatola di cartucce da 50 pezzi. «Ma non le ho usate tutte. Non so nemmeno quanti colpi ho sparato», dirà in interrogatorio. Il «Lupo» inizia il suo tiro all’immigrato per il centro di Macerata. L’auto si trasforma in un capanno da caccia: l’uomo al volante si ferma, allunga il braccio fuori dal finestrino e preme il grilletto. Prima tappa, i giardinetti Diaz; poi altri locali «dove avviene lo spaccio di droga, a mio parere con il beneplacito dei proprietari e gli spacciatori sono tutti neri», racconterà. Traini vuole ripulire Macerata dagli «invasori» che spacciano, vuole dare una lezione esemplare e dice di farlo spinto anche dalla rabbia per l’omicidio di Pamela Mastropietro, la diciottenne romana uccisa e fatta a pezzi da alcuni spacciatori nigeriani pochi giorni prima. I proiettili razzisti del «Lupo» colpiscono sei immigrati africani, tra cui anche una donna. È l’unico motivo di pentimento: «Volevo colpire solo uomini di colore». Il tentativo di strage ha un finale teatrale: Traini arresta la sua folle corsa nella piazza dove sorge il monumento ai caduti; scende dall’auto, si lega al collo il tricolore come fosse un grande foulard, sale sul monumento e fa il saluto romano gridando «viva l’Italia». Un gesto che farà guadagnare all’attentatore la vicinanza e la solidarietà di Forza Nuova (che gli offre assistenza legale) e in generale una pioggia di messaggi di approvazione sui social da parte di militanti e simpatizzanti neofascisti. Nei giorni dopo la sparatoria, a Ponte Milvio, a Roma, compare lo striscione «Onore a Luca Traini». E la politica? Piero Grasso e Laura Boldrini danno a Salvini la responsabilità morale di questa spirale di violenza. E il segretario della Lega, dopo aver dato del delinquente allo sparatore, aggiunge: «è chiaro ed evidente che un’immigrazione fuori controllo, un’invasione come quella organizzata, voluta e finanziata in questi anni, porta allo scontro sociale». Il più prudente ed ecumenico è Renzi, che lancia un appello a tutti «alla calma e alla responsabilità». Non è la prima volta che l’ex presidente del Consiglio sceglie la via della pacatezza. I suoi bersagli prediletti sono i 5 stelle e Di Maio. Sbaglia, perché in questi tempi in cui son tornati i lupi, in tutti i sensi, è rischioso offrire un abbraccio. La politica di Salvini ha pagato, e lo dimostra un dato minuto, emerso dalle elezioni del 4 marzo, ma enormemente significativo. Proprio a Macerata, città tranquilla e a guida Pd, e che si presumeva dopo gli spari razzisti di Traini avesse rigettato il germe della xenofobia, proprio lì la Lega è balzata al

21,52%. Ma per avere un’idea del trionfo bisogna considerare che alle elezioni del 2013 i voti leghisti erano stati solo 153, ossia lo 0,61% dei consensi.27 Stessa parabola a Gorino, la frazione del Ferrarese dove a ottobre 2016 scoppiò una rivolta contro l’ospitalità offerta dalla prefettura a 12 donne migranti in un ostello del paese: tra i 480 abitanti la Lega prese il 3,6% nel 2003. Il 4 marzo scorso i consensi sono schizzati al 43,6%. E pensare che a Gorino c’è un sindaco Pd e una tradizione di giunte di sinistra che va avanti dal 1963. La doppia lezione di Macerata e di Gorino è amara: la paura, l’odio, le urla vincono. Gli abbracci buonisti no.

1 Il video del giuramento si può vedere al seguente link di RepTv https://video.repubblica.it/edizione/milano/milano-salvini-giura-da-premier-colrosario-in-mano-saro-fedele-al-mio-popolo/298092/298713 2 Quando la Lega Nord attaccava il Front National: «Fascisti come i partiti di Roma», di Paolo Berizzi, «la Repubblica», 9 maggio 2017, cfr. http://milano.repubblica.it/cronaca/2017/05/09/news/milano_lega_front_national_le_pen165021729/ 3 Ibidem. 4 Sovranità: l’associazione politico culturale di CasaPound che appoggia Matteo Salvini, di Marzio Brusini, «l’Huffingtonpost», 13 gennaio 2015, cfr. http://www.huffingtonpost.it/2015/01/13/sovranita-casa-pound-matteosalvini_n_6462966.html 5 Neofascismo, Borghezio a Delle Chiaie: «Comandante, serve rivoluzione nazionale», di Patrizia De Rubertis, «il Fatto Quotidiano», 26 giugno 2014, cfr. https://www.ilfattoquotidiano.it/2014/06/26/neofascismo-borghezio-a-dellechiaie-comandante-serve-rivoluzione-nazionale/286145/ 6 Il discorso si può osservare in un video su YouTube al link https://www.youtube.com/watch?v=2HPoOkfniM8 7 Visualizzabile in un altro link su YouTube https://www.youtube.com/watch? v=jY4iphq7xBs 8 Migranti, Salvini: «Serve pulizia di massa via per via, quartiere per quartiere», in «Il Fatto Quotidiano», 18 febbraio 2017, cfr. https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/02/18/migranti-salvini-serve-pulizia-dimassa-via-per-via-quartiere-per-quartiere/3399250/

9 Roma, Fiore: «Servizi dietro Militia. Delle Chiaie regista dell’asse CasaPound-Lega», di Giuseppe Scarpa, «la Repubblica», 13 dicembre 2017, cfr. http://roma.repubblica.it/cronaca/2017/12/13/news/fiore_servizi_dietro_militia_casapound_e_ ). 10 Elezioni Lombardia, la Lega cerca (e trova) il sostegno dell’ultradestra. Borghezio: «Lealtà Azione? Di loro mi piace tutto», di Elena Peracchi, «il Fatto Quotidiano», 13 febbraio 2018, cfr. https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/02/13/elezioni-lombardia-la-lega-cerca-etrova-il-sostegno-dellultradestra-borghezio-lealta-azione-di-loro-mi-piacetutto/4157565/ 11 Ora Matteo Salvini è il leader di CasaPound, di Luca Sappino, «l’Espresso», 12 maggio 2015, cfr. http://espresso.repubblica.it/palazzo/2015/05/12/news/oramatteo-salvini-e-il-leader-di-casapound-1.211901 12 Intervista di Gianluca Iannone a Pietro Senaldi, su Liberoquotidiano.it, 9 gennaio 2017, cfr. http://www.liberoquotidiano.it/news/personaggi/12268256/gianluca-iannonecasapound-intervista-pietro-senaldi-attentati-boschi-berlusconi-melonisalvini.html 13 Si è trattato di un sequestro preventivo dovuto alla sentenza di primo grado del Tribunale di Genova che condannava la Lega a risarcire a Camera e Senato quasi 49 milioni di euro di rimborsi pubblici indebitamente percepiti dietro presentazione di bilanci falsi risalenti alla gestione del tesoriere Belsito nell’era Bossi. 14 Il tesoro confiscato a Mazzei e i due generi in politica, di Alessia Truzzolillo, «Corriere della Calabria», 5 febbraio 2018, cfr. http://www.corrieredellacalabria.it/cronaca/item/66294-il-tesoro-confiscato-amazzei-e-i-due-generi-in-politica 15 Trasformisti, fascisti, impresentabili e ras delle clientele: ecco le liste al Sud di Matteo Salvini, di Giovanni Tizian e Stefano Vergine, «l’Espresso», 13 febbraio 2018, cfr. http://espresso.repubblica.it/inchieste/2018/02/13/news/matteo-salvini-liste-sud1.318230 16 Calabria, candidati cognati: uno con Salvini, l’altro con CasaPound. In comune il sequestro di beni alle mogli, di Lucio Musolino, «il Fatto Quotidiano», 5 febbraio 2018, cfr. https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/02/05/calabria-candidati-cognati-uno-consalvini-laltro-con-casapound-accomunati-dal-sequestro-di-beni-alle-

mogli/4138617/ 17 Gli incroci pericolosi tra leghe, mafie e galassia nera, di Alessia Candito, «Corriere della Calabria», 15 febbraio 2018, cfr. http://ftp.corrieredellacalabria.it/cronaca/item/66618-gli-incroci-pericolosi-traleghe,-mafie-e-galassia-nera. 18 Curiosa coincidenza, il simbolo di AlPoCat è un vascello e la «ruota» dei Dodici Raggi del Sole nero, la stessa dei neonazisti Do.Ra. di Varese che racconterò nel capitolo 6. 19 Per Salvini la Calabria si scopre la nuova Serenissima, di Alessia Candito, «la Repubblica», 18 marzo 2018. Si veda anche Il leader leghista: la sinistra crea i migranti schiavi, «Corriere della Sera», 18 marzo 2018. 20 Si veda il video sul «Giornale di Sicilia», http://palermo.gds.it/2015/02/08/salvini-a-palermo-la-mafia-e-il-pericolonumero-uno-video_309417/; articolo sul «Grandangolo» di Agrigento, http://www.grandangoloagrigento.it/salvini-in-sicilia-per-combattere-la-mafiaquartiere-per-quartiere/; e l’Ansa http://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2017/11/01/salvini-no-a-voti-mafia-eraccomandati_6fe082db-94eb-4c2c-bd64-40d4f7bc9278.html. 21 Matera, in aula ex boss Salvatore Annacondia: «Ora vivo un’altra vita», di Emilio Oliva, «La Gazzetta del Mezzogiorno», 17 marzo 2018, cfr. http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/home/171827/matera-in-aula-exboss-salvatore-annacondia-ora-vivo-un-altra-vita.html. 22 Macerata&C. Salvini soffia sul fuoco: finirà per bruciarsi, di Davide Vecchi, «Il Fatto Quotidiano», 14 febbraio 2018, cfr. https://www.ilfattoquotidiano.it/premium/articoli/macerata-c-salvini-soffia-sulfuoco-finira-per-bruciarsi/ 23 Sciopero in dul Baset Sciopero alla Bassetti 24 Chi è l’uomo nero della Lega Nord amico di Massimo Carminati e Flavio Tosi, di Marzio Brusini e Michele Sasso, «l’Espresso», 24 febbraio 2015, cfr. http://espresso.repubblica.it/attualita/2015/02/20/news/chi-e-l-uomo-nero-dellalega-nord-amico-di-massimo-carminati-e-flavio-tosi-1.200393 25 http://www.lealta-azione.it/web/max-bastoni-eletto-consiglio-regionale-dellalombardia/ 26 Cfr. https://www.youtube.com/watch?v=fA9ajs_G1Kw caricato da Cronache Maceratesi Tv. 27 Elezioni 2018: a Macerata, dopo il delitto di Pamela e il raid razzista, Lega al 21% (era allo 0,6), di Claudio Del Frate, «Corriere della Sera», 5 marzo 2018,

cfr. http://www.corriere.it/elezioni-2018/notizie/a-macerata-il-delitto-pamelaraid-razzista-lega-21percento-era-06-6e57ac4a-2070-11e8-a659e0c6f75db7be.shtml

2. IL NAZISKIN ALLA LEOPOLDA

Firenze, novembre 2017 Uno strano In-Contro La prima edizione della Leopolda, l’appuntamento politico del mondo renziano, è andata in scena dal 5 al 7 novembre 2010. Ospitata nei locali della stazione ferroviaria costruita a Firenze nel 1848, oggi adibita a sede per meeting, congressi e manifestazioni, e simbolo dell’ascesa di Matteo Renzi, il titolo della convention era Prossima fermata Italia. Nei piani dei «rottamatori» che idearono il convegno – l’allora sindaco di Firenze, Renzi, e l’allora consigliere regionale lombardo, Pippo Civati – quella tre giorni, a cui si iscrissero 2500 persone e alla quale parteciparono in 6800, sancì l’attacco ai vertici del Partito Democratico e anche l’inizio della scalata di Renzi. Quei vertici che, già durante l’estate di quell’anno, il futuro segretario Pd, e premier, aveva invitato a dimettersi per lasciare il posto a una nuova generazione di politici. In quegli stessi giorni, mentre a Firenze una folta platea di amministratori, politici e professionisti assiste all’apertura dei lavori, a Milano, in una cella del carcere di Opera, c’è un ragazzo di 25 anni che aspetta l’ora d’aria. A lui della rottamazione e delle lotte di potere interno ai Dem non importa proprio nulla. Ha altre cose per la testa. Sono faccende più ingombranti, rispetto alle quali le correnti di partito, le alleanze, le strategie, i think tank sembrano cose minime. Il ragazzo si chiama Luigi Celeste. È un violento skinhead legato a un gruppo di estremisti di destra con ideologie naziste e il coltello facile: gli «hammerskin». Luigi ha i capelli rasati a zero, il corpo ricoperto di tatuaggi: sul collo, all’altezza

della gola, la scritta «vendetta», incisa sulla pelle con inchiostro rosso e nero; sulle braccia gonfiate dalla palestra il tatuatore ha disegnato un fascio littorio, dei simboli runici, una mano destra tesa nel saluto romano, e poi crani, date, nomi, la testa di un diavolo che sprigiona delle fiamme. Con i compagni di cella il ragazzo parla poco: sta sulle sue. Le sue precedenti esperienze devono avergli insegnato come ci si deve comportare in carcere per essere rispettati e non avere guai. Passa il tempo alternando sedute di sollevamento pesi – utilizza bottiglie di plastica riempite con acqua come usano i carcerati per tenersi in forma – alla lettura di manuali di informatica. Oltre alle lettere che gli scrivono la madre e il fratello. Le missive partono dalla casa di via dei Gigli, al Lorenteggio, quartiere popolare a sud-ovest di Milano. In quell’appartamento due anni prima la vita di Luigi Celeste infila la curva più brusca: è la sera del 20 febbraio 2008. Il ragazzo, allora ventitreenne, ha appena finito di scontare un anno e quattro mesi di carcere per un’aggressione di gruppo a colpi di mazze e coltelli risalente al 7 agosto 2004. Uno dei tanti fatti di violenza di cui è protagonista in quegli anni. Vittime alcuni militanti del centro sociale milanese Conchetta, o Cox 18, sul Naviglio Pavese. In quel periodo anche il padre di Luigi è uscito di galera da poco: condannato a 12 anni per rapina e tentato omicidio (una sparatoria con dei carabinieri durante l’assalto a un supermercato), quando Francesco Celeste, a 51 anni, torna nel trilocale di via dei Gigli, trova il figlio Luigi che ha la stessa età del cumulo di pene complessivamente raggiunto dal padre: 23 anni. Classe ’85, Luigi è un ragazzo che ha fatto una scelta chiara, politica ed esistenziale: passa le serate con i suoi amici camerati tra fiumi di birra e caccia ai «rossi», tirapugni e lame sempre a portata di mano. La convivenza padre e figlio è difficile, quasi impossibile. Il clima in casa è intossicato dalla violenza: quella che Francesco Celeste riserva abitualmente alla moglie, Lucia, la madre di Luigi. Una violenza «quotidiana, morbosa, persecutoria», racconterà lo skinhead.28 Una violenza cieca e senza soluzione di continuità, fatta eccezione per i periodi durante i quali il capo famiglia era detenuto in carcere. Alle botte che Francesco Celeste, infermo di mente al 75 per cento, dava alla moglie, erano costretti ad assistere, fin da piccoli, Luigi e il fratello. Anche su di loro si accaniva il padre. Una spirale di follia e di paura che Luigi decide di spezzare quella sera del 20 febbraio. Mamma Lucia – come racconta Celeste – aveva creduto alle bugie del marito. Uscito dal carcere, le aveva detto che si era curato, che era un uomo diverso. La donna, vuoi per paura, vuoi per debolezza, senza consultarsi con i figli gli aveva permesso di rientrare a casa, e da quel momento era ricominciato l’inferno. «Mio padre riprese ad essere violento con mia mamma, aveva una

gelosia morbosa, sosteneva che lei avesse un rapporto incestuoso con mio fratello. La situazione era invivibile. Quella sera ci minacciò con un coltello, nascosto con un fazzoletto bianco per non farcelo vedere. Io avevo comprato una pistola per sentirmi tranquillo, per proteggere me, mio fratello e mia madre. La tenevo in una giacca dentro l’armadio. Mio padre era furente e ci minacciò tutti di morte: quella fu la goccia che fece traboccare il vaso.»29 Celeste fredda il padre vuotandogli addosso il caricatore di una Beretta calibro 7,65. È la madre, dopo l’esplosione della tragedia e quei sette colpi che si conficcano nella schiena e nel torace del marito, a chiamare i carabinieri. Luigi tenta la fuga, ma dopo un’ora finisce in manette. Un militare lo chiama al cellulare. «Dimmi dove sei. Fermati. Ti stiamo venendo a prendere.» «Ok, venite a prendermi. Quella pistola l’avevo comprata per difendere mia madre», sussurra lui a un brigadiere.30 Sarà il filo conduttore della linea difensiva seguita dai suoi avvocati: ma non c’è niente da fare. Per l’omicidio del padre, nel 2009, Celeste viene condannato a 9 anni di carcere (il Pm ne aveva chiesti 12). Li sconta in tre carceri milanesi: San Vittore, Opera e Bollate. La storia di quella notte del 20 febbraio, del prima, del dopo, di quello che sarebbe diventato in carcere e una volta finito di espiare la pena, Luigi l’ha raccontata in un libro autobiografico uscito nel 2017 (Non sarà sempre così, edito da Piemme, scritto a quattro mani con Sara Loffredi). Dopo anni di studi dietro le sbarre, e al termine di un difficile e notevole percorso di riabilitazione e di riscatto, oggi Celeste è un amministratore di reti informatiche: un professionista affermato, esperto di cyber sicurezza. Il suo è un caso umano che merita rispetto e suscita ammirazione: sia per la sofferenza che ci sta dietro, sia per la forza con cui il giovane è riuscito a invertire la rotta del proprio destino. Un esempio di riscatto: la storia – riuscita – di chi ha combattuto per riprendere in mano la propria vita, una vita incrinata fin dall’infanzia e che lo ha messo di fronte a situazioni difficili. Queste situazioni sono state solo parzialmente raccontate. è un’escalation che ha trovato il suo punto di massima tensione in quella pistola rivolta contro il padre. Ma tale violenza è fermentata nel brodo di coltura dell’estrema destra milanese: quell’acquario nero nel quale Celeste cresce con una formazione quasi militare, e nel quale si muove come un pesce, si organizza e, quando necessario, si rifugia. Celeste è stato ospite di programmi tv, protagonista di interviste su giornali e riviste. La vetrina più prestigiosa, però, che gli ha dato una visibilità probabilmente inattesa, l’ex naziskin – uomo libero dal 26 febbraio 2016 – l’ha avuta il 25 novembre 2017. È la giornata mondiale contro la violenza sulle

donne. Celeste è invitato sul palco della 8° edizione della Leopolda. Lì racconta al pubblico fiorentino la sua testimonianza di figlio che si è macchiato del reato più orrendo per impedire un probabile ulteriore femminicidio. Sul palco ci sono due scrivanie, con lampade accese e computer portatili. Un divano, un tavolino da salotto, altri computer e apparati elettronici. Su un cartello bianco e verde è scritto «L8» – acronimo che sta per Leopolda 8. InContro, questo il titolo voluto da Matteo Renzi per l’ottava edizione del suo pensatoio politico. In effetti quello che va in scena il 25 novembre tra Luigi Celeste e il popolo della Leopolda è un incontro straordinario: in senso letterale. Da una parte la platea dem, di centrosinistra, che dopo la narrazione «rottamatrice» di sette anni prima, sceglie ora, in linea con la parabola politica del suo leader, toni più morbidi. Dall’altra un uomo che a 32 anni vuole lasciarsi alle spalle un passato scomodo e incendiario. Segnato certo dall’evento più grave e drammatico della sua vita – l’omicidio del padre per «difendere la mia famiglia» – ma anche da una lunga scia di violenze, brutali aggressioni, odio politico e razziale. È l’intensa militanza naziskin di Celeste. Una «carriera» fatta di pestaggi, arresti, processi, condanne. L’esperto informatico in camicia azzurra e pullover blu che sale sul palco dell’ex stazione di viale Fratelli Rosselli, sulla Circonvallazione di Firenze, è stato – lo racconta lui stesso ai media – «uno di quelli in prima fila.» Celeste era un «hammerskin». Sono una specie di élite degli skinhead che a Milano ha il suo luogo di ritrovo alla Skinhouse di via Cannero prima e di Bollate dopo il 2008. Gli hammerskin nascono a metà degli anni Ottanta negli Stati Uniti da una costola del Ku Klux Klan. Sono sostenitori della supremazia della razza bianca e predicano un odio assoluto verso le comunità nere e ogni etnia non ariana, intriso del peggiore antisemitismo. Il modello della razza e del nazionalsocialismo è visto da loro come la base per la costruzione del Nuovo Ordine. Nel giro di una ventina d’anni Hammerskin Nation, o Fratellanza Hammerskin, si è diffusa in quasi tutti gli Stati europei, Italia compresa. Per sintetizzarne il progetto, si può citare la frase attribuita a uno dei fondatori, l’americano David Lane (condannato negli Usa a 190 anni di carcere per assassinio e cospirazione): «Dobbiamo assicurare l’esistenza del nostro popolo e un futuro per i bambini bianchi». Dunque, la «famiglia» che accoglie Luigi Celeste è l’emanazione milanese degli hammer. Luigi vi approda fin dall’adolescenza. Il gruppo di teste rasate non è solo un porto sicuro che lo fa sentire meno solo a combattere coi suoi demoni: è anche un branco che lo arruola. Una gang protettiva, dal forte carattere identitario, dalla quale è difficile

affrancarsi. Soprattutto se ne condividi la folle ideologia. «Sì, ci sono entrato tramite un amico con cui giocavo a calcio», racconta Celeste in un’intervista a «Vanity Fair». «La mia passione era fare il portiere e in quel contesto ho conosciuto persone di estrema destra. Gli skin mi affascinavano perché erano molto uniti, si chiamavano fratelli, erano quella famiglia che mi mancava. Mi piaceva quel senso di appartenenza, la protezione, il ripudio delle droghe. Poi per dovere morale ho sposato l’ideale di estrema destra in toto. Devi farlo, una volta che sei dentro.»31 Feste e rock nazi A Milano i riflettori mediatici sugli hammerskin si accendono il 15 giugno del 2013: a Rogoredo, a due passi dalla fermata della metropolitana di Porto di Mare, in un capannone di proprietà di una società di spedizioni, senza che nessuna autorità intervenga riescono a organizzare un raduno neonazista al quale partecipano centinaia di teste rasate, molte delle quali provenienti dall’estero.32 Lo scopo dell’happening è dichiarato: per gli organizzatori serve a raccogliere fondi per sostenere i camerati di Azione Skinhead nelle loro spese processuali. Il gruppo – nato nel 1990 dalla fusione tra gli skin milanesi e il nucleo più radicale degli ultrà dell’Inter, i Boys SAN, cioè Squadre d’Azione Nerazzurre – era stato smantellato assieme a molti altri dalla maxi operazione di polizia denominata Runa, nel 1993, all’indomani della legge Mancino. Ma torniamo all’evento di Rogoredo. Visto anche il numero e la provenienza dei partecipanti, ha tutta l’aria della sfida: una prova di forza in un periodo in cui l’ondata xenofoba era in forte crescita. Gli ultimi e ripetuti casi avevano riguardato gli insulti all’allora ministro dell’Integrazione Cécile Kyenge, di origini congolesi, prima ministra afro-italiana nella storia della nostra Repubblica (nel governo di centrosinistra presieduto da Enrico Letta). In quei mesi, decisivi nel percorso che avrebbe poi portato l’estrema destra a rialzare la testa in tutta Europa e in tutta Italia, seguivo da vicino, quasi quotidianamente, i movimenti delle formazioni neofasciste e neonaziste che avevano eletto la Lombardia a laboratorio privilegiato. Un filo nero si stava dipanando da tempo tra Milano, Varese, Como, e l’area della Brianza, e univa gruppi formalmente distinti tra loro. Ognuno con una sua storia e leader propri. Persino in competizione nel panorama della destra radicale. Quei gruppi avevano trovato un terreno di condivisione: uno spazio dentro il quale

unire le forze per dar vita e una sorta di officina quasi permanente, per nulla disorganizzata, di propaganda, iniziative, provocazioni. Per capire gli intrecci di quella ragnatela mi spostavo tra Milano, l’hinterland metropolitano, la Brianza e la zona del Varesotto. Da lì risalivo verso Como e Lecco, e nella bassa bergamasca, dove sono attivi i neonazi del MAB (Manipolo d’Avanguardia Bergamo). Quando pubblicai la notizia che Hammerskin stava per dar vita al raduno di Rogoredo, la politica e le istituzioni milanesi e lombarde furono colte di sorpresa: l’indignazione generale per questo evento – un affronto per Milano, città medaglia d’oro per la Resistenza – si tramutò in una ferma condanna da parte dell’allora sindaco, Giuliano Pisapia. Il quale, nel tentativo di portare al divieto dell’evento, si dissociò, dicendo che dal Comune non era arrivata nessuna autorizzazione, e che la responsabilità di autorizzarlo o meno competeva a questura e prefettura. Si generò il classico scaricabarile: un meccanismo che già in altre occasioni e in altre città si era verificato per eventi simili. Una conseguenza diretta del misto di imbarazzo e minimizzazione che in questi anni ha caratterizzato, in molti casi, l’atteggiamento delle istituzioni di fronte al moltiplicarsi di iniziative e provocazioni messe in circolo dalla propaganda neofascista. Una impasse che si ripete spesso quando la disapprovazione dell’opinione pubblica, o di parte di essa, interpella chi amministra un Comune o chi ha il compito di garantire la sicurezza e l’ordine pubblico prevenendo reati: in questo caso l’apologia di fascismo o l’istigazione all’odio razziale, etnico o religioso. Tanto tuonò che, nonostante le richieste arrivate da più parti per fermare l’appuntamento, alla fine il raduno a Rogoredo si fece. Fino a notte fonda sul palco allestito nel capannone di via Toffetti si alternano le più importanti band neonaziste europee. Le stesse che l’anno dopo, nel 2014, tornano a Milano per la seconda edizione di Hammerfest. Tra loro, i tedeschi Kommando Skin e i Lunikoff (in origine si chiamavano Endlösung, un chiaro riferimento alla «Soluzione finale» degli ebrei); i Vérszerzodé ungheresi (la Svizzera li ha messi al bando) nemici giurati di neri, turchi, ebrei e omosessuali. E poi gli italiani Gesta Bellica, veronesi nati con il Veneto Fronte Skinheads, che nei loro brani esaltano Priebke o le giovani Waffen SS che nel 1945 a Berlino si immolarono a difesa del bunker di Hitler. Le teste rasate che accorrono a Rogoredo le vedo arrivare fin dal primo pomeriggio: il meeting point era stato fissato a un paio di chilometri dal luogo dell’evento. Molte auto, van, camper, pullman: i neonazisti entrano alla spicciolata, a scaglioni, nel grande spazio affittato dalla società di spedizioni. Ufficialmente dalla questura arrivò la

garanzia che agenti in borghese avrebbero vigilato, oltre che per la tutela dell’ordine pubblico, affinché non si commettessero reati: in primis l’istigazione all’odio razziale. Ma esattamente come accadde tre anni dopo a Europe Awake, altro raduno neonazi organizzato da Hammerskin e Blood and Honour, sempre in via Toffetti, nel locale «Space 25», era davvero difficile dimostrare che le band che si esibivano sul palco non facessero discriminazione attraverso i testi delle loro canzoni: testi antisemiti e razzisti, apologia della razza bianca, difesa del territorio, odio verso gli immigrati. Tra gli organizzatori di Hammerfest e di Europe Awake ci sono i camerati e sodali di Luigi Celeste. Quelli con i quali il naziskin, accolto come una star alla Leopolda, condivideva le scorribande metropolitane a caccia di «rossi» da sprangare e accoltellare. Lui, Luigi, in quel periodo, tra 2013 e 2016, è dietro le sbarre del terzo e ultimo carcere della sua vita da recluso: la casa circondariale di Bollate. Una delle prigioni italiane più all’avanguardia, dove da anni si fa sperimentazione e dove si punta sulla responsabilizzazione del detenuto. Tra i padiglioni di via Cristina Belgioioso, Celeste è un detenuto modello: ha iniziato a frequentare corsi specifici dove può finalmente coltivare la passione per l’informatica, che finora non ha mai potuto esprimere. Diventa il primo detenuto in Italia a ottenere la certificazione Cisco CCNA, fra le più riconosciute a livello internazionale nell’ambito delle reti. Proseguendo con gli studi ottiene la certificazione CCNA Security.33 Su cinquanta scuole Cisco no-profit realizzate negli istituti di pena di tutto il mondo, Luigi è il primo carcerato a raggiungere questo obiettivo. Ed è partendo da quel diploma che il naziskin del Lorenteggio diventa un libero professionista dell’informatica. Merito anche dei suoi sponsor: Francesco Benvenuto, responsabile delle relazioni internazionali di Cisco Systems, e Luca Lepore, manager del Cisco Networking Academy Program, il programma di formazione professionale della multinazionale. È grazie a loro che Celeste trova il primo cliente importante, la società K-Flex, che si occupa di isolamento termico e acustico, dove gestisce la sicurezza della rete della sede centrale e di tutte le consociate sparse per il mondo. Vincoli e riconoscenza Matteo Renzi avanza sul palco della Leopolda mentre il pubblico applaude. Gli applausi sono tutti per lui, Luigi Celeste, che ha appena concluso il suo intervento a sostegno delle donne e contro la violenza. Il segretario Pd va

incontro all’ospite, si abbracciano calorosamente: Renzi sembra quasi emozionato. Forse lo è davvero. «Ciao Matteo!» gli fa Celeste. Chi è seduto nelle prime file non può non notare alcuni dettagli di quell’abbraccio tra il leader politico e un ragazzo, ormai uomo, di dieci anni più giovane: balza all’occhio l’avambraccio di Celeste, istoriato di tatuaggi. Il più visibile è quello della mano destra tesa nel saluto romano: uno dei disegni più diffusi tra i naziskin. Appena assisto a quella scena, in video, alcune domande attraversano la mia mente. Quanto sa Matteo Renzi del passato di Celeste? Non quello segnato dal parricidio, ma quello politico. Davvero lo hanno informato della lunga e violenta militanza di naziskin e picchiatore di strada? Della sua ideologia basata sull’odio razziale e sull’antisemitismo? Può darsi benissimo che il curriculum dell’ospite fosse noto agli organizzatori della Leopolda: o forse non completamente. È probabile che chi lo ha invitato a salire sul palco della kermesse renziana come testimone della violenza domestica e contro le donne conoscesse solo l’ultimo atto della parabola di Celeste: le revolverate contro il padre per difendere la madre, se stesso e il fratello dalla furia del genitore. Ma il cursus honorum dell’esperto informatico è fatto di un passato più lungo: che non solo non si può cancellare, ma che il protagonista non rinnega. E del quale non si è per nulla pentito. Quando la giornalista di «Vanity Fair» che lo intervista gli chiede se avrebbe rifatto tutto quello che ha fatto nella sua carriera di naziskin, Celeste non esita a dire: «Rifarei tutto. Perché se sono così oggi è grazie al mio trascorso. Ringrazio solo che in quel periodo di grande violenza non sia capitata una tragedia. Ho sempre usato il coltello, ringrazio che non ho mai colpito persone in punti vitali, altrimenti oggi non saremmo qui a parlare. Sono stato fortunato da questo punto di vista. Oggi non sono più quella persona, fa parte del mio passato». È vero quello che dice Celeste. Nel passato di ogni persona ce n’è uno più remoto, e uno più recente. Mentre il primo è più facile da archiviare, il secondo puoi anche provare a ricacciarlo nelle retrovie della tua vita, ma è troppo vicino, troppo fresco per non allagare il presente. La storia di Celeste è anche questa. E dunque ha senso raccontarla, cercando di capirla attraverso le carte giudiziarie. Partiamo dall’ultimo capitolo del passato recente. Quello con il quale il naziskin sostiene, legittimamente, di avere chiuso. E che però nel 2013, quando in teoria Celeste doveva essere ormai lontano dall’estremismo politico e dai fratelli di «sangue e onore», torna a bussare. Siamo a fine novembre del 2013. Ad aprile si era tenuto il primo raduno della Comunità dei Dodici raggi – gruppo neonazista di Varese – per festeggiare il compleanno di Hitler. Lo avevo seguito e

denunciato sul mio giornale, come racconterò nel capitolo 6. Sono passati sette mesi da quell’evento e sul sito e sulla pagina Fb dei Dodici raggi compare una carrellata di fotografie: ritraggono un modello che indossa delle T-shirt. Sono le magliette prodotte e messe in vendita dal gruppo neonazista per finanziarsi. Ne vengono proposte diverse: quasi tutte nere. Sono stampate le scritte «Do.Ra.», «Garrota» (il gruppo musicale varesino formato da membri dell’associazione), «VSH XX Twenty years of fight» che celebra i vent’anni di un festival musicale dove si sono esibite band nazirock come Civico 88, Legittima offesa, Linea Ostile, Drizza torti, i Garrota, appunto, e i Nativi. Dell’uomo che le indossa, e che si è prestato come modello, non si vede il volto: nelle immagini è stato opportunamente tagliato. Lo ha chiesto lui. Perché l’identità del modello non doveva essere riconoscibile. Ma i tatuaggi delle braccia, e soprattutto quello sul collo – la scritta «vendetta» – sono più di un indizio. Quando vedo quelle foto sui social dei Do.Ra. riconosco subito l’uomo che si è prestato per la campagna pubblicitaria: è Celeste. Il naziskin del Lorenteggio non aveva ancora finito di scontare la condanna per l’omicidio del padre. Era in regime di semilibertà. Ma ugualmente accetta di sostenere, mettendosi a disposizione, la vendita di magliette prodotte da quel gruppo neonazista devoto a Hitler, e sul quale cinque anni dopo si sarebbe mosso l’Antiterrorismo. Pubblico la notizia del modello parricida, con le foto del naziskin in posa muscolare: la stessa sfoggiata sul suo profilo Fb. A commentare la «performance» col volto «tagliato» di Celeste, sui social interviene, tra gli altri, Fabio Carlini, skinhead ferrarese coinvolto assieme ad Alessandro Limido, il capo dei Do.Ra., in un processo per violente aggressioni a Bologna, e per associazione per delinquere finalizzata alla discriminazione razziale, etnica e religiosa (poi assolti in appello). Perché, scontati cinque anni di carcere, e ancora in regime di semilibertà, Celeste accetta la proposta dei Do.Ra.? Per un debito di riconoscenza? Forse. Per legami impossibili da spezzare? Può darsi. Basti ricordare che quando nel 2008 lo arrestano per il parricidio, la galassia della destra neonazista gli tributa messaggi di solidarietà e di vicinanza; da alcuni gruppi arriva anche un sostengo per il processo. «Non avevo visto simboli strani sulle magliette, ma chiesi di non fotografarmi in volto», si giustifica Celeste.34 Il tribunale di Milano gli sospende la semilibertà. L’uomo dirà che in seguito a quella vicenda decide di «recidere per sempre ogni legame con quel mondo che continuava a portargli solo guai.» E che per oltre dieci anni lo aveva fatto diventare uno degli estremisti neri più temuti sulle strade di Milano. Su questi «guai» forse gli organizzatori della Leopolda hanno ritenuto di sorvolare. E allora forse è il caso di ricostruirli.

Nel gorgo della violenza Uno spaccato dell’abisso di odio e violenza nel quale agivano Luigi Celeste e la sua banda emerge dall’ordinanza firmata dal Pm di Milano Luisa Zanetti il 14 aprile 2005. Nella richiesta di misura cautelare nei confronti di 11 indagati viene tirato il filo della scia di spedizioni punitive, risse, aggressioni, compreso un duplice tentato omicidio, avvenuto tra 2004 e 2005 a Milano e Bergamo a opera del gruppo skinhead. Sono numerosi gli episodi presi in esame dalla Procura che coordina le indagini della Digos: Celeste, confermano i riscontri investigativi, c’è sempre. Ma iniziamo dal ritratto della banda di mazzieri neofascisti, così come è tratteggiato dai magistrati. L’allora diciannovenne Luigi Celeste e i suoi fratelli camerati si associano «tra loro allo scopo di commettere una serie indeterminata di delitti di aggressione fisica, di intimidazione, di furto e di danneggiamento a immobili o beni comunque riconducibili ad aderenti o simpatizzanti di movimenti antagonisti, aggregandosi, tra loro, nel gruppo cosiddetto degli skinheads, cementata alla comune ideologia di estrema destra che, ispirata ad ideali di prevaricazioni dell’avversario e in genere a ideali razzisti e di ripudio dei principi democratici, di ripudio dei deboli e degli appartenenti a razza non ariana, ideologia che impone, tra l’altro, una campagna di contrasto violenta e di aggressione metodica contro aggregazioni di opposto orientamento ideologico e, quindi, nel caso specifico, di sinistra od autonome.»35 «Il gruppo», scrive sempre il Pm Zanetti, «si organizza e coordina nel centro “Spazio”, detto anche “skinhouse” di Milano, via Cannero, base per ritrovarsi, per organizzarsi, per riunirsi, per pianificare e decidere gli atti aggressivi e intimidatori (quali risse, lesioni, danneggiamenti, furti, devastazioni, incendi), come luogo di partenza per le spedizioni punitive e luogo ove rifugiarsi al termine delle stesse o comunque per discutere in seguito la strategia difensiva.» Oltre al «covo» di via Cannero, gli skin utilizzano anche altri luoghi di incontro: i giardini di via Paolo Uccello, l’autogrill di via Montebianco, un bar di via Silva, sempre a Milano. Ecco come viene descritta dalla Procura l’attività delinquenziale delle teste rasate. «Ciascuno partecipa all’attività del gruppo in posizione paritaria con gli altri, girando per la città ed altrove per affermare l’esistenza del gruppo, armati, aggredendo in gruppo obiettivi prescelti o presentatisi casualmente sempre nell’ambito di un disegno preordinato, per ritorsione o per punizione o per futili motivi o anche solo per affermarsi e

mostrarsi con l’aggravante del numero di associati superiore a dieci.» L’abbigliamento del manipolo neonazista? È fatto di felpe e magliette inneggianti al «white power», al gruppo skin o hammerskin, al numero 88, a Mussolini e a Hitler. Le armi usate abitualmente sono coltelli, catene, bastoni, spranghe, lucchetti, sassi. In particolare – come si legge in un passaggio delle carte giudiziarie, e come ha confermato lui stesso sia in interrogatorio sia in un’intervista – Celeste è uno che «il coltello lo porta sempre.» Condivide la stessa abitudine Giacomo Pedrazzoli, leader, assieme a Stefano del Miglio, degli Hammerskin e poi di Lealtà Azione, la formazione già vicina a CasaPound e che alle elezioni politiche 2018 ha sostenuto i candidati lombardi della Lega. È l’11 aprile 2004. Gli skin, guidati da Celeste, che tutti chiamano Gigi, e da Pedrazzoli, partono dalla base di via Cannero e si dirigono verso i Navigli: a pochi metri dal locale Myflower, in via Darwin, all’angolo con Alzaia Naviglio Pavese, prendono di mira un giovane militante del centro sociale O.R.so. Sono le 22.50. Coltellate, calci, pugni. Gli aggressori scappano ma vengono identificati grazie a testimonianze e ai filmati delle telecamere della zona. È il primo episodio che vede Celeste, allora incensurato, finire nella rete degli investigatori. Quattro mesi dopo: è la notte tra il 6 e il 7 agosto 2004. Altra spedizione, questa volta in grande stile. All’1.30 alcuni appartenenti alla banda entrano nel locale «Malabestia», tra via Conchetta e via Ascanio Sforza: è un posto frequentato da giovani dell’area antagonista. A poche decine di metri c’è il centro sociale Cox18. Per innescare la miccia, gli skin si rifiutano di pagare il conto. È un’esca. Serve per provocare la reazione dei proprietari e di alcuni clienti abituali del locale. E costringerli a uscire in strada. Fuori ci sono altre teste rasate pronte a entrare in azione con coltelli, taglierini, spranghe di ferro, bastoni, cinture borchiate, cerchioni di auto in sosta. Una trentina di ragazzi in tutto, inquadrati in piccoli gruppi. La rissa coinvolge un centinaio di persone tra skinhead e militanti del centro sociale Conchetta. Due di questi restano a terra: sono stati accoltellati all’addome e al torace. L’accusa per gli aggressori è di duplice tentato omicidio (poi sarà derubricato in lesioni volontarie) aggravato da lesioni personali ai danni di altre quattro persone, oltre a rissa e a porto illegale di armi. Gli arrestati sono: Luigi Celeste, 20 anni, Andrea Mura, 21 anni, Marco Lustro, 26 anni, Luca Gigliotti, 23 anni, Stefano Colombo, 19 anni, Enrico Labanca, 22 anni (che anni dopo diventerà leader del MAB di Bergamo, gemellato con i Do.Ra.), Vito Schirone, 22 anni, Stefano del Miglio, 20 anni, Giuseppe Locatelli, 22 anni, Francesca Del Carro, 18 anni – all’epoca fidanzata di Celeste – e Giacomo Pedrazzoli, arrestato già 48 ore dopo i fatti, avendo smarrito sul luogo

il portafogli con tanto di carta d’identità e patente. Secondo il giudice l’azione risulterà certamente «preordinata e finalizzata all’aggressione di giovani appartenenti alla contrapposta area ideologica […] finalizzata anche al raggiungimento di conseguenze estreme come desumibile dal tipo e dalla localizzazione delle ferite […] interessanti zone vitali.»36Il raid a coltellate sui Navigli si fissa nel curriculum dei naziskin come una delle azioni più violente e della quale andare più fieri. I responsabili ne parlano: ricordano cosa successe, chi «tagliò» di più, chi diede più botte e chi ne prese a dismisura. In una conversazione intercettata il 16 ottobre del 2004 Celeste, Schirone e Locatelli ripercorrono le fasi della spedizione. «Schirone afferma di aver preso “una cifra di botte… successivamente Stefano ne ha preso uno, quello pelato con la camicia a fiori arancione e lo ha massacrato”, Locatelli afferma di averle date all’ultima carica e di essere stato in prima fila. Schirone aggiunge di aver preso dieci bastonate e che ne hanno preso uno e mentre Stefano lo teneva lo massacravano di botte e lui gridava basta basta; Celeste racconta alcune fasi della rissa e a un certo punto di aver aperto la lama.»37 I Navigli sono, forse, una risposta a un altro scontro: avvenuto sei giorni prima a Bergamo, in piazza Cittadella, in città alta. Alle 2.50 del 1° agosto 2004 Celeste e gli altri attaccano un gruppo di frequentatori del centro sociale Pacì Paciana: ne accoltellano tre. Sono gli stessi naziskin, intercettati dalla Digos, a fornire i dettagli dell’aggressione. Il 7 ottobre parlano delle due «azioni», sia quella di Milano sia quella di Bergamo. Da un lato, da uno scambio fra Andrea Mura e Stefano Del Miglio, emerge un odio e una determinazione a colpire gli avversari senza fine. Il primo dice: «…finisce il processo e tutti escono… Cominciamo con le coltellate di nuovo…» E il secondo di rimando: «li ammazziamo tutti i bastardi». Dall’altro, nella stessa intercettazione Celeste e Schirone manifestano una uguale spietatezza verso le vittime della rissa che hanno parlato: «tira giù i nomi di quei bastardi». E vengono fatti diversi nomi, anche se sbagliati. «Uno aggiunge “oh, Vito (Schirone), ci sono due ebrei, ma proprio ebrei”, ma l’altro si premura di comunicargli che proprio costoro hanno deposto a favore degli skin, insieme con un albanese… Nella conversazione si fanno anche i conti delle persone presenti: “se viene fuori che ad accoltellare sono stati solo due piuttosto che…” e l’altro “no in quattro eravamo”, “io ero con Enrico (Labanca)”, “Stefano”… “avevo contato che eravate in quattro”, “no, cinque più dieci quindici”.» Dalle conversazioni intercettate gli inquirenti si fanno un’idea chiara delle personalità di questi ragazzi, che si coprono fra di

loro, si vantano delle proprie doti di combattenti. E si confrontano con estrema naturalezza anche sui mezzi migliori per scontrarsi. Sempre nella intercettazione del 16 ottobre Schirone dice: «Se devi pestare qualcuno pestalo con questa», e sottolinea la pericolosità, come arma, del lucchetto. Che «tirato in testa a uno lo lasci in coma.» Poi si vanta: «Quella è la mia mazza da baseball». Botte. Botte pianificate. Botte sempre. Come il 9 aprile 2005 tra le colonne di San Lorenzo e corso di Porta Ticinese: una ventina di skin assaltano un gruppo di antagonisti. Volano coltellate e sprangate. Due giorni dopo, si replica. Passano 72 ore e il Pm Luisa Zanetti decide che il vaso è colmo: chiede al Gip l’applicazione della misura cautelare per gli 11 indagati. Dagli atti allegati al fascicolo giudiziario emerge il coinvolgimento nei raid di Celeste. È lui, assieme a Pedrazzoli, che «girano con il coltello.» In quella conversazione del 16 ottobre «Gigi» sostiene che «un conto è un testa a testa con la lama in mano e un conto è la rissa.» A Bergamo, per esempio, ricorda di «essere andato sotto»: si trovava in mezzo ai compagni, ne ha preso uno e «trac trac» (a mimare i colpi di coltello). E poi lo ha picchiato. È sempre Celeste, intercettato dalla polizia, che rivendica di avere sferrato altri fendenti all’indirizzo di uno dei «compagni» che lo provocava dicendogli «fascista di merda metti via la lama.» Poi si è beccato un sacco di bastonate ed è svenuto. Ma alla fine è riuscito a rialzarsi, così dice. «Continuando, afferma che Enrico di Bergamo (Labanca) ha staccato un cartello stradale; Locatelli commenta che ce l’ha per vizio. Gigi dice che Enrico (Labanca) e Stefano (Colombo) sono due pazzi e che di Enrico si fida molto poco, anche se in quella circostanza “sono stati molto validi”.»38 Nell’ordinanza il magistrato ripercorre, mettendo in fila le fonti di prova, due anni di violenze. Spiega quale fosse il motore che azionava i naziskin senza fare distinzioni tra pregiudicati e incensurati. Anche questi ultimi, ed è il caso di Luigi Celeste, «dimostrano – scrive il Pm Zanetti – di essere profondamente inseriti nel gruppo, a pretesa tutela del quale (per ritorsione), i reati infine vengono posti in essere; a volte, invece, le aggressioni vengono realizzate solo o anche per affermare la identità stessa del gruppo, la sua ragion d’essere, la sua forza, la avversione contro chi la pensa o vive diversamente. E le provocazioni vengono poste in essere proprio per dare esca all’aggressione. Proprio in vista della realizzazione dei reati, gli indagati sono soliti girare armati di arnesi atti a offendere e non esitano ad usarli non appena se ne presenti la “necessità”, dopo

avere provocato, e ciò in modo sistematico, ben organizzato e certamente non occasionale, al contrario pervicace. Il che denota una particolare pericolosità che impone l’adozione della misura cautelare della custodia in carcere, nonostante la giovane età di alcuni indagati; l’essere giovani, infatti, in taluni casi, e questo ne è un esempio, è sintomo di particolare pericolosità, per la mancanza – che caratterizza l’età giovanile – di capacità di riflessione, di capacità critica, per la facile e totale adesione a slogan non meditati, che richiamano a condotte anche violente che poi vengono acriticamente poste in essere e le cui conseguenze, anche drammatiche, vengono senza adeguata riflessione accettate e condivise.»39 Cortocircuiti della politica Dodici anni dopo. Sull’Europa e sull’Italia spira il vento nero del populismo sovranista e neofascista. Il 24 novembre 2017 Matteo Renzi apre l’ottava edizione della Leopolda. «Tutti gli anni ci dicono: non ci sarà nessuno, Renzi solo come un cane… e ogni anno vengono migliaia di persone diverse con idee da condividere e progetti da confrontare. Siamo qui per parlare di politica tra persone diverse ma in libertà…» Prima di presentare gli ospiti della kermesse, tra cui Celeste, il segretario dem fa osservare un minuto di silenzio per le vittime dell’attentato in una moschea egiziana. «Oggi ci sono centinaia di morti che piange l’Egitto sul Sinai. Tutti insieme rivolgiamo un abbraccio all’Egitto, ai fratelli di fede islamica, di fede cristiana, di qualsiasi religione contro il folle estremismo islamico», dice Renzi.40Il giorno dopo sul palco dell’ex stazione salirà Luigi Celeste. Uno che dell’estremismo aveva fatto la sua cifra. Uno che quattro anni prima posava on line per vendere magliette con la scritta «Cut one and we all bleed»: tagliane uno e sanguinano tutti. Luigi si è riscattato, è vero. Ma non si è mai pentito. Torniamo quindi a chiederci: perché, presentandolo alla kermesse organizzata dal leader del Partito democratico, un partito progressista e antifascista, nessuno ha sentito il dovere di chiedergli, anche solo per motivi di opportunità, di rinnegare quanto ha fatto? Se è vero come è vero che le ragioni che lo hanno spinto a uccidere il padre sono chiare, e in parte comprensibili, come mai nessuno sul palco della Leopolda ha fatto un accenno, anche minimo, al passato estremista di Celeste, all’antisemitismo, all’odio razziale, alla violenza di strada? Possibile che non abbia nessun peso quello che hanno accertato i giudici che hanno condannato Celeste e i suoi fratelli camerati, e cioè quella «comune ideologia di estrema destra ispirata a ideali di prevaricazioni

dell’avversario e in genere a ideali razzisti e di ripudio dei principi democratici, di ripudio dei deboli e degli appartenenti a razza non ariana»? Non confligge, tutto questo, coi valori e gli ideali condivisi dalla platea renziana? Che guarda al futuro ma che sostiene di avere solide radici nel passato da cui è nata la nostra Repubblica democratica? Una platea che si rivendica ancorata ai principi della Costituzione antifascista, che non accetta chi discrimina i «deboli» con atti di razzismo e addirittura fa dell’antisemitismo un’ideologia che dà la stura ad azioni violente. Già da tempo si dice che nella società di oggi l’antifascismo non sia più un valore riconosciuto come tale: spesso anche a sinistra. Ma alla Leopolda 2017 è accaduto qualcosa che non poteva passare inosservato. Un piccolo cortocircuito. Forse fortuito, dovuto allo scarso approfondimento da parte dello staff dell’ex premier. Oppure, visto che questa ipotesi appare improbabile, dovuto a un calcolo di marketing politico che in nome di un ecumenismo emotivo chiude un occhio su un passato imbarazzante e discutibile? In ogni compromesso si annida sempre un pericolo, però. Perché se in quell’abbraccio sul palco, con tanto di tatuaggi in vista, l’ex nazi si accredita come uomo redento dalla violenza (ma non dai suoi ideali), Renzi che messaggio manda? Quello di una nuova sinistra che sa superare le vecchie contrapposizioni estreme e sa includere anche gli ex «avversari» nel suo modello di società? È una bella «narrazione», tema e termine caro a Renzi, ma la realtà è più complessa e contraddittoria. Basti notare che, mentre l’ex camerata che quattro anni prima pubblicizzava le T-shirt vendute on line dai Do.Ra. è accolto con tutti gli onori alla convention del segretario del Pd, il ministro dell’Interno Marco Minniti, dello stesso partito di maggioranza, dà input alla Digos di Varese e l’Antiterrorismo di imprimere un’accelerata alle indagini coordinate dalla Procura di Busto Arsizio per chiudere il cerchio sui Dodici raggi varesini. Il blitz arriva a dicembre, a chiusura di un anno agitato, pieno di manifestazioni paramilitari, cortei massicci che suonano come una sfida al comune senso democratico. Cortei che hanno attraversato diverse piazze d’Italia.

28 Leopolda, Luigi Celeste: «Uccisi mio padre per salvare mia madre. Ne porto il peso, ma non mi pento», video di Andrea Lattanzi su Repubblica TV, cfr. https://video.repubblica.it/edizione/firenze/leopolda-luigi-celeste-uccisi-miopadre-per-salvare-mia-madre-ne-porto-il-peso-ma-non-mi-pento/290658/291269 29 Luigi Celeste: «Per salvare la mia famiglia, ho ucciso mio padre», di Alessia

Arcolaci, «Vanity Fair», 26 maggio 2017, cfr. https://www.vanityfair.it/news/storie-news/2017/05/26/luigi-celeste-omicidiopadre-libro 30 Uccise il padre, ora fa il modello per le magliette dei fan di Hitler, di Paolo Berizzi, «la Repubblica», 29 novembre 2013, cfr. http://milano.repubblica.it/cronaca/2013/11/29/news/uccise_il_padre_ora_fa_il_modello_per_ 72221372/ 31 Luigi Celeste: «Per salvare la mia famiglia, ho ucciso mio padre», di Alessia Arcolaci, art. cit. 32 A Milano un maxiraduno per Hitler: skinhead in arrivo da tutta Europa, di Paolo Berizzi, «la Repubblica», 15 giugno 2013, cfr. http://milano.repubblica.it/cronaca/2013/06/15/news/maxiraduno_neonazista_a_milano_skinh 61113860/ 33 Luigi Celeste: «Per salvare la mia famiglia, ho ucciso mio padre», di Alessia Arcolaci, art. cit. 34 Da detenuto senza speranza a informatico. Storia di rinascita e riscatto dietro le sbarre, di Giovanni Tizian, «l’Espresso», 6 luglio 2016, cfr. http://espresso.repubblica.it/attualita/2016/06/30/news/rinascita-e-riscatto-dietrole-sbarre-1.275572. 35 Richiesta per l’applicazione delle misure cautelari, presentata dal Pm Luisa Zanetti al Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Milano in data 14 aprile 2005, consultabile al link: http://www.ecn.org/antifa/materiali/accusa_mibg_agosto2004.txt 36 Ibidem. 37 Ibidem. 38 Ibidem. 39 Ibidem. 40 La Leopolda al via. Renzi: «L’Italia era in crisi, ma grazie a noi ora ne sta uscendo», di Massimo Vanni, «la Repubblica», 24 novembre 2017, cfr. http://firenze.repubblica.it/cronaca/2017/11/24/news/la_leopolda_al_via_prodi_non_sapevo_c ref=search.

3. 29 APRILE E ALTRE PARATE NERE

Milano, aprile 2017 – Roma gennaio 2018 Il campo della discordia Le avevo contate una ad una. Avevo preso nota di nomi e date. Dall’esterno verso l’interno, a tenaglia. Poi arrivavo alle file con la scritta «ignoto» ed era come se la somma si perdesse. Ignoto, ignoto, ignoto. Percorrevo il vialetto centrale e quelli lungo i bordi. Il taccuino che avevo con me sembrava una freccia direzionata su quelle linee perfette, e anche quando per calcolare più in fretta il numero finale avevo provato a saltare una lapide e a moltiplicare le croci poste in asse orizzontale per quelle poste in senso verticale, c’era qualcosa che mi teneva lì. Niente scorciatoie aritmetiche: iniziavo ancora da capo, e un’altra volta ancora. Fino a quando i conti non cominciavano a tornare. Era come se volessi adeguarmi all’ordine e alla solennità che regnano in quel luogo di morte e di memoria. Camminavo a filo dei cipressi e dei pini marittimi. Su un tronco è appeso il cartello di benvenuto, un foglio bianco formato A4 con i simboli dell’aquila della Rsi e una spada con la scritta «Italia». «Riflessione e silenzio per i martiri che sacrificarono la loro vita per la patria», è la raccomandazione riportata. Passavo in rassegna ogni lapide, lasciando cadere lo sguardo sui profili, appuntando ciò che vedevo accanto e sopra: nastrini tricolore, fiori, biglietti, catenine e ninnoli agitati dal vento, piccoli oggetti personali, amuleti che la pioggia e gli anni avevano ossidato. Tra i sepolti ci sono 137 soldati della

Guardia nazionale repubblicana, più di 100 della Legione Ettore Muti, 40 della Decima Mas, 52 dell’Esercito, 24 del Servizio Ausiliario femminile, 9 delle SS Italiane, 7 dei paracadutisti, 5 della Marina, 16 della Polizia. Tra questi ci sono anche gerarchi fascisti, torturatori, soldati che combatterono nelle fila delle squadre militari speciali di Hitler. E poi i tre sergenti che presero parte all’esecuzione che trucidò i quindici partigiani in piazzale Loreto all’alba del 10 agosto del 1944: Renato Griffanti, Lamberto Dalla Valle e Santo Ragno. I loro nomi e le loro responsabilità sono riportati in atti e sentenze della corte d’Assise speciale di Milano, mentre quelli delle loro vittime compaiono oggi in un monumento di marmo nel celebre piazzale. Senza nome, invece, sono trecento dei corpi sepolti sotto questa terra e mai identificati. Sono gli «ignoti». Le loro lapidi sono ovviamente le più spoglie, nude nella loro anonima serialità. Il Campo X del Cimitero Maggiore di Milano è un recinto. Se lo vedi quando è deserto, sembra un cimitero islamico. Ognuna delle novecentoventuno croci sepolcrali che ricordano i soldati della Rsi e i volontari italiani delle SS è disposta come il cippo verticale tipico della sepoltura musulmana. Strana similitudine, con la croce in cima anziché la mezzaluna; una bizzarra ironia del caso se si pensa che i gruppi di estrema destra che vengono a commemorare in parata militare questi morti sono nemici dichiarati degli immigrati, dei popoli africani, degli «invasori» islamici. Campo militare dell’onore. Lo chiamano così i camerati, qui, nel più grande cimitero di Milano. Nulla è abbandonato o degradato: non la pietra delle tombe, non i cordoli dei sentieri ricoperti di ghiaia, non le croci né le fotografie di quei defunti con un nome e un volto. E una storia famigerata. Come quella di Francesco Colombo, il capo della Legione Ettore Mutti, che imperversava come «polizia fascista» nella prigione di via Rovello e fornì gli uomini del plotone di esecuzione dei martiri di piazzale Loreto; o come Armando Tela, uno degli sgherri della banda Koch che fra Milano e Roma arrestò 633 antifascisti e ne trucidò 40. «Nello stesso campo è stato anche sepolto molti anni dopo, nel 1974, l’ultimo federale di Milano, Vincenzo Costa, non dunque un caduto, ma qui accolto per la sua militanza neofascista nel dopoguerra.»41 I volontari neofascisti di «Memento», l’associazione per la tutela dei monumenti legata agli hammerskin di Lealtà Azione, tengono ben lucidata la targa in ottone collocata in cima alla grande croce di marmo nera dedicata ai «caduti della Rsi 1943-1945» che spicca in fondo al camminamento centrale. Recita la scritta: «Onore al Campo X. Cittadino che passi e che non sai accendi un cero per tutti questi eroi e per questa gioventù che non ha tradito, per questa gioventù che non si arrese mai, per tutti questi ignoti trucidati per le

strade di Milano abbandonati. Per tutti quei dispersi (e son migliaia) gettati nei fondali dei nostri laghi». Mancavo dal Musocco da due anni. Da quando – il 25 aprile 2016 – trecento camerati di Lealtà Azione avevano sfilato coi labari delle storiche associazioni d’arma nel giorno della Liberazione per commemorare i loro morti. Quel giorno avevo aspettato pazientemente l’arrivo dei nostalgici sul viale centrale del cimitero. Confuso tra i tanti cittadini in visita al camposanto, avevo trovato un buon punto di osservazione: uno spazio a ridosso del campo 9, dove sono sepolte suore di diverse congregazioni. Da lì, nell’area che sorge a fianco, avevo visto radunarsi la folla di nostalgici: le insegne e i drappi militari attaccati a lance e a lunghe picche dorate per mezzo di piccole aste trasversali. Quei vessilli rappresentano un passato che vuole tramandare se stesso ma senza più infingimenti, che ha smesso di nascondersi e punta al completo sdoganamento fino a essere accettato dall’opinione pubblica. Era questo il senso della sfilata solenne allestita dai camerati. Il labaro più visibile era quello dell’Unione nazionale combattenti della Rsi, organizzatrice della cerimonia e titolare del campo, presieduta dal comandante Armando Santoro. Subito dietro quello dell’Associazione nazionale arditi d’Italia, dell’associazione Decima Mas, e dei paracadutisti d’Italia. C’era anche la politica, con le delegazioni ufficiali di Destra Sociale, Fiamma Tricolore e Forza Nuova. Da quando, dal 2012, Lealtà Azione e poi CasaPound hanno iniziato quest’operazione mediatica di sovrapposizione con il 25 aprile, non è mai venuto meno il coro di proteste e di indignazione. Nel 2016 dall’Anpi era partita la richiesta a questura, prefettura e comune di Milano di vietare lo «sfregio» della parata neofascista organizzata nello stesso giorno in cui si commemorano i partigiani caduti per liberare l’Italia dal nazifascismo. Troppo tardi, forse, visto il clima di tolleranza diffusa che si è creato in Lombardia rispetto alla rinata propaganda nera. Il pomeriggio in cui torno tra i viali del Campo X, a gennaio 2018, tra i suoi cipressi alti e simmetrici, tira un vento freddo e umido. Nel pezzo di terreno racchiuso da trenta alberi e annunciato dal cartello firmato dai «volontari del Campo X» non c’è nessuno: nessun parente in visita sulle tombe allineate, zero nostalgici. Si sente solo il rumore dei furgoncini degli addetti alla manutenzione del cimitero. Questa quiete quasi assoluta è un inganno, perché quello che è successo nel 2017 e che ogni anno si compie di nuovo in questo luogo dove il tempo è cristallizzato, ha segnato uno spartiacque nel recente ritorno dell’estremismo nero. C’è una data simbolo. Si è impressa come un solco nel

percorso imboccato dalle formazioni neofasciste, da CasaPound, a Forza Nuova a Lealtà Azione, per riprendersi spazi politici sino a ieri inimmaginabili: è il 29 aprile 2017. Il giorno della beffa. Il giorno che ha fatto saltare gli argini, che ha dato la stura all’onda nera e al suo reflusso. È pomeriggio. Mille militanti di estrema destra provenienti da tutta Italia – in testa i capi di CasaPound e Lealtà Azione – si presentano in massa, per commemorare i morti sepolti al Campo X. Lo fanno, strategicamente, in un giorno particolare: il 29 aprile è una data simbolo per l’estrema destra milanese. Si ricorda la morte di Sergio Ramelli, il diciottenne del Fronte della gioventù massacrato a colpi di chiave inglese sotto casa in via Paladini da esponenti di Avanguardia operaia e morto dopo 47 giorni di agonia il 29 aprile 1975. E si ricorda anche l’anniversario della morte di Carlo Borsani, sepolto al Campo X, e «dell’ignobile massacro di piazzale Loreto e degli efferati assassinii avvenuti negli anni Settanta per mano dell’antifascismo militante», sostengono i camerati milanesi. La sfilata dell’ultradestra al cimitero è una beffa a questura, prefettura e comune di Milano. Quattro giorni prima – il 25 aprile, giorno della Liberazione – era stato vietato di inscenare la solita cerimonia fatta di saluti romani al Campo X. Una decisione presa dal prefetto di Milano, Luciana Lamorgese, su input del sindaco Beppe Sala, per mettere fine alle polemiche sollevate dalle associazioni antifasciste e dai partiti della sinistra. A parte una decina di irriducibili, che si sono comunque presentati al campo dell’onore, i camerati si erano attenuti al divieto. Nessun corteo, nessuna parata. Mi aveva insospettito quella rinuncia alla «controparata» del 25 aprile che ormai – dal 2012 – era diventata un’abitudine per l’estrema destra. C’era qualcosa di inspiegabile dietro quel passo indietro dopo cinque anni di plateali esibizioni di sfida alle autorità e alla memoria dei partigiani. La risposta arrivò novantasei ore dopo. Mille fantasmi 29 aprile 2017. A Milano è una giornata di sole, la temperatura è mite, il cielo stranamente pulito. Tra Lampugnano e viale Certosa, nel traffico del sabato pomeriggio diretto verso il centro, la scena che si presenta agli automobilisti è da pre-partita calcistico: lungo la strada, nello spazio tra il marciapiede e la pista ciclabile, si snoda un corteo. Uomini in jeans, sneaker, felpe e giubbotti. Che non sia un corteo ultrà lo capisci da come sono disposte le persone che lo formano: è molto ordinato, a mo’ di parata. Ogni fila orizzontale è composta da sette

persone. Così ha voluto Gianluca Iannone, presidente e fondatore di CasaPound, il leader che regge i fili delle «tartarughe frecciate» e tiene i rapporti coi militanti sul territorio. E così ha voluto Stefano Del Miglio, il capo di Lealtà Azione – due movimenti politici di fatto alleati, tanto che in occasione delle elezioni politiche e regionali del 4 marzo 2018 hanno raccolto firme insieme. Il serpentone si allunga nella misura in cui può snodarsi un assembramento mobile formato da un migliaio di corpi. Non è vero, come sosterrà qualcuno, che non c’è stato un corteo sulla pubblica via: a dimostrarlo ci sono delle fotografie. Mostrano chiaramente i mille camerati che procedono inquadrati in strada con ordine militare per raggiungere il Cimitero Maggiore. C’è un’estetica dell’ordine che ha un suo senso profondo per tutte le destre, da non sottovalutare, come notava Massimo Cacciari in un suo corsivo sull’«Espresso»: «Sulla promessa di un nuovo Ordine si fondavano tutti i movimenti storici di destra, pretendendo quasi di incarnarla nella loro stessa presenza. L’Ordine che si vuole creare è reso credibile dal marciare ordinati, sotto un’unica Guida… L’Ordine è il fine e ordinati i mezzi per raggiungerlo. Perfino la somma violenza, la Shoah, è stata concepita così».42Pochi minuti prima delle 15 il corteo entra nel cimitero. «Quando li ho visti entrare pensavo a una manifestazione autorizzata», ricorda uno dei dipendenti del cimitero. Ha 55 anni, abita a un chilometro da qui. Mi racconta che ha sempre votato a destra, «ma non per questi. Il fascismo è sepolto dalla storia ed e incompatibile con la democrazia.» I camerati si incamminano sul viale che porta al Campo X. «Non c’erano poliziotti, non c’erano vigili urbani: nessuno. Ecco perché pensavo avessero almeno avuto un permesso.» Gli chiedo perché non abbia informato la polizia o il servizio di vigilanza cimiteriale. «Non ne ho avuto quasi il tempo», si giustifica. «Sì, avrei potuto, ma ero talmente impressionato dalla vista di quelle file ordinate di militanti che marciavano in silenzio che non ho pensato a chiamare la polizia.» L’azione dei militanti di CasaPound e Lealtà Azione dura una ventina di minuti. È chiaro che la commemorazione è stata preparata nei dettagli: tutto, l’arrivo in parata, la sfilata dietro una corona di fiori sorretta da due militanti in felpa nera, la disposizione in file orizzontali tra le lapidi del campo dell’onore, il rito del presente e i saluti romani: tutto seguiva un copione studiato. Che non ammetteva sbavature né ritardi. Pochi minuti in più avrebbero potuto creare problemi: o addirittura ammosciare l’iniziativa e trasformarla in un flop. I militanti attraversano i viali e si schierano militarmente: tutti in piedi, rivolti verso l’altare con il crocifisso di marmo nero che ricorda i caduti della Rsi. Un simbolo importante per tutti i camerati, tanto che nella parata del 2015 vi

issarono una bandiera della Repubblica Sociale Italiana, in aperta violazione della legge. È lo stesso altare dove il 1° novembre 2016, giornata di Ognissanti, il Comune di Milano ha deposto una corona di fiori, con delle bacche dorate e il nastro bianco e rosso, i colori della città. Un atto formale – per la prima volta così evidente e plasticamente visibile – in memoria dei morti repubblichini. Un omaggio criticato da molti e al quale il sindaco Giuseppe Sala, dopo le polemiche, decise di porre fine. I mille camerati distendono il braccio alla fine della preghiera del Legionario. Poi rispondono alla chiamata del «presente». Quel saluto romano collettivo per ricordare i soldati repubblichini e i loro alleati viene fotografato. Da dietro. Chi immortala la scena sta al confine con il campo 14, in fondo alle schiere di militanti. Lì ci sono delle aiuole che delimitano le due aree. Alle 18, tre ore dopo il blitz, le immagini vengono postate sui siti e le pagine Fb di CasaPound Italia e Lealtà Azione. Si vedono i mille camerati di spalle: non c’è un volto riconoscibile nel momento in cui le braccia si alzano. Ma altre foto pubblicate in rete per propagandare la parata rendono riconoscibili molti dei partecipanti. Quelle delle prime file del corteo. È l’unico materiale da cui la Digos – che non è presente al cimitero al momento dell’azione – inizia a indagare per identificare i partecipanti. Per dare una risposta investigativa e assegnare un nome e un volto a chi verrà denunciato per apologia di fascismo e manifestazione non autorizzata. Il quadro nel quale operano i poliziotti è quasi surreale: pare incredibile ma in una città come Milano, di sabato pomeriggio e in un giorno, il 29 aprile, dove tradizionalmente dal 1975 – da quando morì Sergio Ramelli – le antenne delle forze dell’ordine sono puntate sull’estrema destra, le autorità non si sono accorte di una parata fascista a cui partecipano 1000 persone. Come fossero mille fantasmi che attraversano un pezzo di Milano. E per andare dove? Nel più grande cimitero della città. Quel luogo della memoria e della discordia al quale solo quattro giorni prima le autorità avevano vietato l’accesso. Quando iniziano a girare le foto dei saluti romani, sui social gli utenti della destra radicale si scatenano: «grandi!», «avanti!», «a noi!», «fratelli camerati», «boia chi molla», «finalmente», «Dux». Piovono commenti entusiastici da tutta Italia: è come se un argine fosse saltato, o un recinto avesse iniziato a schiudersi. L’effetto è quello, una specie di azione liberatoria. I camerati la sottolineano con un orgoglio che esprime tutto il senso della sfida alle istituzioni e allo Stato antifascista. Il 29 aprile resta inciso nel calendario della destra radicale. Uno scorno per le forze dell’ordine, un punto a favore dei neri. Per capire come quel giorno ha

rappresentato una svolta per le formazioni identitarie e sovraniste che si ispirano al fascismo, bisogna entrare nei dettagli. Non solo giudiziari: quelli li vedremo dopo. Occorre capire chi e perché ha dato vita a quella parata. Chi sono i militanti sfilati in corteo, quali movimenti rappresentano, quali sono le loro storie. «È stata una vergogna che la polizia avrebbe dovuto impedire», ragiona l’addetto al cimitero che aveva assistito all’ingresso dei mille camerati. «Dovevano fermarli prima, prima che arrivassero qui. Milano avrebbe evitato una colossale figura di m…» Il primo indicatore da seguire se vuoi comprendere un fenomeno è quello di smontare gli ingranaggi del meccanismo che lo alimenta, capire come entrano in relazione uno con l’altro, analizzarli quando si integrano e fanno sistema. Ho sempre pensato che di fronte a questi fenomeni non basta registrare le prese di posizione dei rappresentanti delle istituzioni, né tantomeno attendere gli sviluppi di un’indagine di polizia e carabinieri o l’esito di un’inchiesta giudiziaria. Le prime sono inutili, le seconde arrivano tardi. Per indagare e capire che cosa davvero hai di fronte, occorre distinguere tra ciò che è laterale e minore e ciò che invece può rappresentare il cuore e l’ossatura stessa di un fenomeno con una rilevanza sociale che non può lasciare indifferenti. Tabù infranti e nuove strategie Di quel 29 aprile una cosa mi era sembrata subito chiara: la riproposizione della sarabanda fascista – un anno dopo e in scala decisamente maggiore – aveva un significato ben preciso. E bisognava coglierlo. Da una parte segnava il battesimo politico di un nuovo «blocco» nero che in Lombardia aveva gettato solide basi per un’alleanza che sarebbe andata avanti fino alle elezioni del 4 marzo 2018. Dall’altra infrangeva un tabù: quello della pregiudiziale antifascista. La strategia mediatica di Lealtà Azione e CasaPound a questo era finalizzata: mettere l’opinione pubblica, gli analisti e anche le istituzioni – politica e magistratura – nella condizione di dover accettare – magari anche obtorto collo – che il fascismo 2.0, o del terzo millennio, si era preso ormai una sua legittimazione sociale. Al di là di ogni divisione e contrapposizione. Funzionale a questo obiettivo erano le modalità con cui era stata organizzata la parata, le sue dimensioni. Sebbene privo di vessilli inneggianti al fascismo – gli organizzatori erano stati chiari: niente bandiere, solo il saluto romano e il «presente» – l’ingresso in massa al Musocco, un luogo sacro dove i morti sono ricordati con il silenzio e

mai con atti plateali e rituali ereditati da regimi, appariva ai miei occhi come un vaso. Un vaso nel quale trovare informazioni e risposte alla nuova strategia del blocco nero. Quelle informazioni volevo renderle pubbliche. Mi misi ad analizzare le fotografie che i lealisti e le tartarughe frecciate avevano diffuso sui loro canali e che nel giro di poche ore avevano ottenuto decine di migliaia di visualizzazioni. Da lì partii per ricostruire, a bocce ferme, ciò che era accaduto quel giorno a Milano. Una cosa era evidente a tutti: l’effetto beffa aveva funzionato. Quattro giorni dopo i festeggiamenti per il 72esimo anniversario della Liberazione dal regime nazifascista, mille camerati avevano marcato il territorio che gli era stato vietato con un gesto plateale di forza e di orgoglio politico. Orgoglio che, a rileggere il comunicato che a cose fatte CasaPound e Lealtà Azione postano sulle loro pagine Facebook a corredo delle tre istantaneebeffa, oggi appare come una precisa strategia politica: «A seguito delle inutili e ignobili polemiche sollevate da Anpi e sindaco nei giorni precedenti al 25 aprile sulla commemorazione per i caduti della Rsi abbiamo deciso di ricordarli in un’altra data simbolo per le nostre comunità. Nell’anniversario della morte di Carlo Borsani, sepolto al Campo X, dell’ignobile massacro di piazzale Loreto e degli efferati assassinii avvenuti negli anni Settanta per mano dell’antifascismo militante. La decisione è frutto del rispetto per i nostri caduti, che meritano di essere ricordati nel modo migliore e non secondo prescrizioni dettate da istituzioni ostaggio dei soliti fomentatori d’odio». Come rispondono le istituzioni? Seguiamo la sequenza dei fatti. Nel tardo pomeriggio ai Tg della sera arriva la risposta del sindaco di Milano Giuseppe Sala. Dall’inizio del suo mandato Mr Expo, come era soprannominato quando si candidò per il centrosinistra alle elezioni comunali, ha riportato il tema dell’antifascismo nell’agenda della politica milanese. In più occasioni non solo ha condannato manifestazioni e provocazioni dell’estrema destra, ma si è anche attivato per vietarle, per prevenirle e disinnescarle. Anche quel giorno, in risposta alle dichiarazioni sui social di CasaPound e Lealtà Azione che rivendicano la marcia al Cimitero Maggiore, Sala usa parole dure: «Noi condanniamo fermamente questi gesti e queste provocazioni e continueremo a far tutto quanto è in nostro potere per evitarli. Mi auguro che le autorità competenti agiscano perché la nostra Costituzione e le nostre leggi siano rispettate. E, soprattutto, mi auguro che la Milano democratica e antifascista, che ha fatto grande questa città, non smetta mai di far la sua parte, nel solco dei valori della Costituzione. Io la mia la farò sempre». Sala ha buoni motivi per la sua ferma indignazione, perché quella sera stessa l’estrema destra lombarda

bissa le sue provocazioni di massa: come accade da molti anni, e con una partecipazione ogni anno sempre maggiore, a Citta Studi va in scena il tradizionale ricordo di Sergio Ramelli, Carlo Pedenovi e Carlo Borsani. L’hanno ribattezzato il «25 aprile nero». La risposta fascista alla festa di Liberazione. «L’altro 25 aprile» è organizzato dalle «comunità militanti identitarie e nazionaliste milanesi» ed è un «omaggio alle vittime della violenza comunista.» La cabina di regia, dal 1998, anno della prima edizione, è affidata a Forza Nuova che richiama a Milano tutte le sigle italiane e straniere per commemorare un «martire europeo». Il programma prevede prima la messa nella chiesa dei Santi Nereo e Achilleo, poi il presidio con le fiaccole in fondo a viale Argonne, in via Paladini, dove ci sono le due lapidi che ricordano l’omicidio del giovane militante del Fronte della Gioventù. E alle 21.30 la solita cerimonia: tre volte «Presente», chiamato dal palco per ognuno dei tre morti commemorati. Duemila persone rispondono in coro col braccio teso. Ai mille partecipanti della parata al cimitero se ne erano aggiunti altrettanti, provenienti da gruppi romani e torinesi, tutti con le loro felpe e i bomber d’area: Italian Hammerskin, Club 38, Zeta Zero Alfa. Per la prima volta la commemorazione viene trasmessa in diretta streaming sui social network. Duemila persone, per chi in questi anni ha seguito il 29 aprile di Milano, sono un numero importante: ce n’erano 1500 nel 2014. In quell’occasione, nonostante il divieto della questura, i camerati bloccarono un intero quartiere sfilando con i tamburi, una fiaccolata tra braccia tese, croci celtiche e tricolori. Le modalità estetiche tipiche dei cortei e delle parate dell’estrema destra: lugubri ritrovi in stile Norimberga. Tutti presenti al Musocco Riavvolgiamo il nastro. Usciamo dal buio rotto dalle fiaccole e dai tamburi di Città Studi, e torniamo al cimitero Musocco. Alle 15 del 29 aprile 2017. Mentre i cronisti si adoperano per capire quali provvedimenti intenda adottare la questura di Milano nei confronti dei camerati, provo a imboccare sentieri laterali: mi interessava scoprire chi c’era in quelle file orizzontali da sette e chi, facendosi fotografare di spalle, aveva inscenato la parata nazifascista al Campo X. Una prova muscolare. Un messaggio politico chiarissimo. Questo, era stato il saluto romano collettivo. Se quell’adunata doveva essere la rappresentazione plastica del ricompattamento della galassia dell’ultradestra italiana, dopo anni di divisioni e personalismi, il cemento che ne componeva l’architettura era il

carattere nostalgico modernista e la deriva neonazista. A raccontarlo sono i profili dei manifestanti. Tra i camerati che aprono il corteo in stile paramilitare ci sono capi e capetti di gruppi e associazioni di dichiarata ispirazione nazionalsocialista. Che si rifanno direttamente all’esperienza del Terzo Reich. Che celebrano Adolf Hitler. Che sostengono la supremazia della «razza bianca» ed esaltano l’Olocausto. In prima fila riconosco Alessandro Limido dei Do.Ra. di Varese e Luigi Cosentino del Manipolo d’Avanguardia Bergamo. Cosentino è accanto a Gianluca Iannone nel corteo che muove diviso in file verticali tra i viali del Musocco. Iannone, lunga barba grigia da dignitario celtico, è al centro della prima fila, come un capopopolo: indossa una felpa azzurra con la scritta Italia. Vicino a loro scorgo un altro nome noto dell’ultradestra milanese: Stefano Del Miglio, l’hammerskin a capo di Lealtà Azione che si è saldata con CasaPound, ed ex sodale di Luigi Celeste, lo skin redento e salito sul palco della Leopolda. Dice Saverio Ferrari, dell’Osservatorio sulle nuove destre: «Attraverso la sua sotto-associazione Memento, Lealtà Azione sta acquisendo il testimone della memoria un tempo nelle mani dei reduci della Rsi. Il progetto ha respiro nazionale e nell’ultimo periodo sono state numerose le iniziative di celebrazioni, commemorazioni e ripristino di tombe, lapidi e monumenti in diverse città. La ricetta è semplice: utilizzano la conservazione della memoria storica come veicolo per fare proselitismo e indottrinare i giovani inculcando loro il mito dello Stato sociale e dell’uomo forte al potere». A occuparsi dell’analisi delle tante immagini del corteo, con un gran lavoro di identificazione, è la Digos – coordinata dal Pm Alberto Nobili che procede per apologia di fascismo e manifestazione non autorizzata e che incrimina una settantina di camerati, quelli riconosciuti nelle immagini. Emerge un quadro che «parla». Parla la cornice e parlano i soggetti ritratti. Solo Forza Nuova è esclusa dalla parata-corteo al Cimitero Maggiore (sono però presenti alla commemorazione per Sergio Ramelli). Per il resto ci sono tutti i principali gruppi più importanti di ogni regione. C’è CasaPound con Iannone e il referente milanese Matteo Ardolino: è un ultrà interista, nel 2007 è stato arrestato per il corteo organizzato a Milano in seguito alla morte del laziale Gabriele Sandri e poi sfociato in violenti scontri. C’è Lealtà Azione, rappresentata da Del Miglio, Giacomo Pedrazzoli (condannato in primo grado per tentato omicidio, poi derubricato in lesioni volontarie) e Norberto Scordo (condannato a sei mesi per lesioni gravissime); e anche da Fausto Marchetti, ras brianzolo del gruppo, capo degli ultrà del Monza, imprenditore (società di assicurazioni di grossi capitali e ristorazione), convolato a nozze a giugno 2017 con un matrimonio sfarzoso

celebrato prima nel Duomo di Monza e persino allo stadio Brianteo, aperto per l’occasione.43 In parata al cimitero non mancano decine di Hammerskin. Sono loro il gruppo portante. Del circuito – tra i più violenti nell’ambiente naziskin – fa parte anche Emanuele Bisogni, pure lui in testa al corteo: nel 2006 Bisogni è arrestato a Bari per un raid squadrista alla «Taverna del Maltese», un locale frequentato da giovani di sinistra. Anche per questo la firma degli hammerskin è un dettaglio interessante. Ed è questa la vera novità, che emerge in chiaroscuro dalle foto del «29 aprile». Quelle piccole realtà del mondo skinhead che gli anni scorsi erano rimaste in posizioni defilate rispetto, per esempio, al movimentismo di CasaPound, ritornano al centro della scena. Il messaggio non casuale che vogliono dare con la loro presenza è: noi ci siamo, compatti, e non temiamo nessuno. Si rivedono, per esempio, le teste rasate della Legio Subalpina di Torino: il capo è Gregorio Odifreddi, è in prima fila al corteo, cappellino in testa e felpa del gruppo. Poi ci sono i genovesi de «La Superba», alleati con Lealtà Azione, molto attivi sotto la Lanterna dove tra 2016 e 2017 hanno aperto uno spazio nel quale organizzano distribuzione di pacchi alimentari per famiglie genovesi indigenti. Il loro leader è Giacomo Traverso, anche lui ultrà dell’Inter. Della parata al Musocco dice: «Il saluto romano fatto al Cimitero Maggiore ha il significato di far capire che ci siamo e che non ci arrendiamo a un sistema che non ci rappresenta perché viviamo in una dittatura tecnocratica, viviamo in un sistema dove la libertà di espressione per alcuni si sta chiudendo… Sì, c’eravamo tutti – conferma – qualcuno ha fatto il saluto romano, personalmente ho messo il pugno sul cuore, ma noi siamo aperti e ognuno può fare quel che vuole. Sì, anche tatuarsi le svastiche. Non credo che sia meglio chi si tatua Stalin».44La geografia dei gruppi si completa con i camerati di Pavia, Lucca, Bologna, Varese, Busto Arsizio. Gruppi legati alle curve ultrà degli stadi e dei palazzetti del basket. Ancora una volta il comune denominatore è una forte connotazione neonazista. «L’aspetto più preoccupante è che si stanno configurando organizzazioni basate sul reclutamento giovanile, con una militanza e una disciplina interna assai marcate e propensione all’esibizione di tipo paramilitare», ragiona ancora Saverio Ferrari. È esattamente quello che si è visto nel «29 aprile nero», e quello spettacolo non può non sollevare una domanda: a che pro tanta fatica nell’organizzare un corteo così numeroso con tante persone provenienti da tanti posti diversi? Solo per dar sfoggio di forza? Per lanciare un messaggio? O è il prodromo di qualcosa di più ampio che sta covando sotto la cenere? La risposta possono darla i magistrati che indagano,

non le inchieste giornalistiche. La legge che dice? Già, i magistrati. Io sono tra quelli che pensano che le decisioni della magistratura vadano sempre rispettate. La magistratura è un pezzo dello Stato, o meglio, esercita il potere giudiziario e cioè uno dei tre pilastri dello Stato moderno nella ormai classica teoria di Montesquieu. La funzione fondamentale del magistrato è quella di giudice indipendente, sia dal potere esecutivo che da qualsiasi altra forza economica o con finalità politiche che agisce nella società. Questo almeno in teoria. E dunque: se il magistrato giudicante decide, dal momento che quella decisione viene presa da un rappresentante dello Stato di diritto, va rispettata. Sempre. Altrimenti si mette a rischio l’equilibrio fra i poteri e la tenuta stessa dello Stato. Puoi non condividere una decisione dei giudici, puoi ritenerla sbagliata o persino assurda, puoi provare imbarazzo o rabbia, ma se ti riconosci nello Stato di diritto, devi prenderne atto. Detto ciò, gli sviluppi giudiziari della parata del Musocco hanno sorpreso molte persone. Dopo i fatti di aprile la Procura di Milano ha aperto un fascicolo e ha indagato per apologia di fascismo. Il titolare del fascicolo è il Pm Piero Basilone che lavora con il collega Alberto Nobili, a capo del pool Antiterrorismo e di contrasto alle attività eversive. Due i reati ipotizzati a carico delle persone identificate: «manifestazione fascista» e «manifestazione non autorizzata». L’impianto a cui si fa riferimento è quello della Legge Scelba, la 645 del 1952, norma attuativa della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione. È la legge che punisce la riorganizzazione del disciolto Partito fascista (art. 1) con un massimo di 12 anni di reclusione, l’apologia del fascismo tramite propaganda con una pena massima di due anni (art. 4), e che in particolare, all’articolo 5, punisce più pesantemente, con la pena «della reclusione sino a tre anni», «chiunque, partecipando a pubbliche riunioni, compie manifestazioni usuali del disciolto Partito fascista ovvero di organizzazioni naziste.»45 Passano tre mesi, e il 4 agosto 2017 il clima diffuso di condanna e indignazione che la parata di Milano aveva generato in Italia, riesplode in seguito a una notizia che arriva dal palazzo di Giustizia. La storia viene inaspettatamente riscritta da un dispositivo emesso da un magistrato. Nessuna apologia, nessuna manifestazione fascista. Il Pm Basilone chiede l’archiviazione delle indagini a carico dei militanti di Lealtà Azione e CasaPound. Le

motivazioni del provvedimento sono sorprendenti. Dal blitz accanto alle tombe dei caduti della Repubblica di Salò non è affiorato l’intento «di raccogliere adesioni ad un progetto di ricostruzione del disciolto partito fascista», bensì una «finalità meramente commemorativa.» E questo perché – spiega Basilone – a differenza di quanto è accaduto in passato, la manifestazione non è stata preceduta da una sfilata pubblica per le vie di Milano con l’esibizione di simboli e vessilli tali da rendere concreto il pericolo «attrazione» del consenso verso l’ideologia del Ventennio.46Insomma: i mille saluti romani del Musocco? Il rito fascista del «presente»? La sfilata in stile militare? Solo una «commemorazione funebre.» Cade anche il secondo reato ipotizzato: la «manifestazione non autorizzata.» Il magistrato ritiene che non si configuri. Perché? La spiegazione è che dalle indagini «non è emersa alcuna prova che qualcuno dei presenti al Campo X abbia pianificato, diretto o coordinato il blitz durante il suo svolgimento.»47 Mentre il sindaco Sala parla di «segno terribile per Milano» e l’Anpi invoca l’intervento del governo, sui siti d’area e sui social l’estrema destra canta vittoria. Accanto al florilegio di offese e insulti alle «sentinelle antifasciste», a quei cronisti e a quelle associazioni che avevano raccontato la parata al Campo X, compaiono messaggi celebrativi e apologetici. È evidente: per le formazioni che hanno dato vita all’iniziativa, la richiesta di archiviazione suona come una legittimazione piena. Una base da cui partire per continuare a proporre manifestazioni e lanciare messaggi nostalgici. C’è chi fa notare almeno un paio di aspetti. Primo. «Una commemorazione funebre con mille saluti romani nel 2017 mi pare a dir poco singolare», dice il deputato Pd Emanuele Fiano. «Quella è stata una vergognosa parata nazifascista e non averla punita ha dato linfa all’estrema destra che si richiama al fascismo e al nazismo.» Secondo: è vero, non si sono visti simboli e vessilli. Ma che cos’è il saluto romano se non un simbolo? Non è il gesto con cui Mussolini e Hitler salutavano, ricambiati, i loro popoli, i gerarchi, gli eserciti, i maggiorenti dei loro partiti? E non è, il saluto romano, vietato in Italia dalla Legge Scelba, successivamente modificata dalla Legge n. 205 del 25 giugno 1993 («Legge Mancino»). È vietato, specifica l’articolo 1 della Scelba, solo qualora compiuto con intento di «compiere manifestazioni esteriori di carattere fascista.» Cosa è stata allora la parata del Musocco? Folklore commemorativo? Un rito religioso? Che c’è di più esteriore di mille saluti romani? Su questo aspetto del saluto romano, di enorme importanza identitaria per i neofascisti, si sta creando negli ultimi anni un divario crescente fra partiti o

associazioni antifasciste e magistratura. I primi ne riconoscono la pericolosità nel cementare nel profondo gli attivisti, la seconda spesso lo interpreta come pura esteriorità che non confligge con la legge. Il 20 febbraio 2018 arriva un’altra sentenza che lascia perplessi. La Cassazione respinge il ricorso della Procura generale di Milano contro l’assoluzione di due militanti di Fratelli d’Italia che in una manifestazione nel 2014 avevano risposto al rito del «presente» con il classico braccio teso. L’imputazione era di «concorso in manifestazione fascista» (articolo 5 Legge Scelba), ma sia il Gup sia la Corte d’Appello avevano assolto i due. E la Cassazione ha confermato. Con quale motivazione? Perché la legge non punisce «tutte le manifestazioni usuali del disciolto partito fascista, ma solo quelle che possono determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste», e solo quei gesti ed espressioni «idonei a provocare adesioni e consensi.»48 Evidentemente, due, cento, o mille saluti romani non generano consenso, ma sono solo libere manifestazioni del pensiero... Le piazze nere Intanto, però, una conseguenza indiretta della richiesta di archiviazione di Milano c’è stata. Basta guardare le manifestazioni di piazza dei mesi successivi e metterle a confronto con quelle degli anni precedenti. Partiamo dal 10 febbraio 2015, Varese. Piazzale Kennedy. Alla parata partecipano i naziskin della Comunità militante dei dodici raggi, di Forza Nuova, Fiamma Tricolore, Orizzonte Ideale e CasaPound. «Niente simboli o bandiere di partito, solo tricolore», è il dress code comunicato ai camerati. Arrivano alla chetichella, in bomber scuro e anfibi. Si preparano a marciare «in linea». Il raduno è autorizzato dalla questura. Si celebra il Giorno del ricordo dei «martiri delle Foibe e degli esuli istriani, giuliani e dalmati»: una grande vittoria per la destra italiana. Secondo la legge che l’ha istituito, al Giorno del ricordo è associato il rilascio di una targa commemorativa, destinata ai parenti degli «infoibati» e delle altre vittime delle persecuzioni, dei massacri e delle deportazioni occorse in Istria, in Dalmazia o nelle province dell’attuale confine orientale durante l’ultima fase della seconda guerra mondiale e negli anni immediatamente successivi. È in quelle voragini con ingresso a strapiombo tipiche dell’Istria che fra il 1943 e il 1947 sono stati gettati, vivi e morti, quasi diecimila italiani. Vittime delle foibe furono fascisti, cattolici, liberaldemocratici, socialisti, uomini di chiesa, donne,

anziani e bambini. Dal 2004, il 10 febbraio è una data simbolo sulla quale l’estrema destra ha posato il cappello. I gruppi neofascisti italiani celebrano questa ricorrenza con iniziative e manifestazioni pubbliche. A Varese, il corteo di militanti sfila con fiaccole e tricolori. Ci sono le torce, ci sono i tamburi: le bacchette che li percuotono riproducono la litania ossessiva dei cinque battiti. È il classico sottofondo che accompagna le marce dei camerati. Il leader di Do.Ra. Alessandro Limido prende in mano il megafono: «Siamo qui per ricordare il 10 febbraio 1947 quando le forze della plutocrazia mondialista ci consegnarono alla sciagura». È la data del Trattato di pace sottoscritto a Parigi tra l’Italia e le nazioni vincitrici della seconda guerra mondiale. La disciplina militare della parata prevede l’«attenti» ai camerati, e il rompete le righe. Sono i due lembi di un canovaccio che normalmente comprende, come momento centrale, il «presente». Roma, 7 gennaio 2018, quartiere Tuscolano. L’ultradestra inaugura sulla strada la campagna elettorale per le politiche del 4 marzo 2018. Lo fa con un colpo di teatro a effetto: un corteo che nella capitale non si era mai visto. Non così. Un corteo in stile paramilitare, inquietante per le modalità e mai così massiccio per numero di adesioni. Seimila persone. Camerati da tutta Italia, anche qualche delegazione straniera, Spagna, Grecia, Francia. È il quarantesimo anniversario della strage di Acca Larentia: il 7 gennaio del 1978, di fronte a un’ex sezione del Msi, vengono uccisi Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta e Stefano Recchioni. Per ricordare i tre giovani militanti neri CasaPound organizza una manifestazione massiccia, di pura propaganda: il corteo sfila nel quartiere San Giovanni, da piazza Asti fino a via Acca Larentia, che ospitava la sezione missina. In testa, uno striscione nero con la scritta bianca e rossa «onore ai camerati caduti.» Dietro, il corteo disposto in file ordinate secondo uno schema marziale, protetto sui lati dal servizio d’ordine di CasaPound, militanti in pettorina rossa. Sono le stesse pettorine indossate dai «rondisti» che nell’estate 2017 pattugliano le spiagge del litorale laziale per cacciare i venditori ambulanti. Indossa la pettorina, il 7 gennaio, in piazza, anche Andrea Bonazza, consigliere comunale di CPI a Bolzano: uno che, tanto per non sfigurare, a dicembre 2016, ultima seduta del consiglio comunale prima delle ferie natalizie, si presenta in aula con la felpa «Charlemagne», la divisione francese creata nel 1944 che collaborò con le SS durante la seconda guerra mondiale e fu responsabile di torture, rastrellamenti, oltre che della deportazione degli ebrei francesi. Con lui sfila il collega Sandro Trigolo, altro consigliere comunale delle tartarughe

frecciate a Bolzano. E poi ovviamente, in testa al corteo, i vertici del partito: il presidente Gianluca Iannone, il segretario nazionale e candidato premier nel 2018 Simone Di Stefano, Mauro Antonini che ha corso per la presidenza della Regione Lazio. Molti camerati sono scesi dal Nord Italia: tra loro anche Franco Nerozzi, giornalista veronese fondatore di Popoli Onlus, organizzazione umanitaria vicina a CasaPound che si occupa di aiutare la minoranza dei Karen minacciata dal governo birmano. E poi i capi di Lealtà Azione. Il corteo sfila al Tuscolano in un silenzio surreale. Poi si raduna sul posto della strage. A terra, nel punto in cui caddero Bigonzetti e Ciavatta, c’è un drappo rosso e nero con scritti i loro nomi, la data della morte e due frecce nere futuriste. Intorno, quattro ceri rossi. E mazzi di fiori. Sui muri dell’edificio che un tempo ospitava la sezione del Msi sono disegnati due murales: raffigurano scene di guerra, ci sono una fiamma e una croce celtica. E la data della strage: «7 gennaio 1978». La scenografia del «presente» è allestita: ma prima del rito il servizio d’ordine allontana i giornalisti, «non è una manifestazione politica, è una commemorazione. Quindi per rispetto aspettate più in là», spiega uno. Il rito fascista può iniziare: «Per tutti i camerati caduti: presente!» Si ripete per tre volte il rimbombo assordante. La scalinata a sinistra del muro dove è posto l’altarino in onore di Bigonzetti e Ciavatta è interamente occupata dai militanti. È uno dei tanti particolari da cui si può dedurre quanto l’affluenza sia cresciuta, in modo esponenziale, rispetto alle edizioni precedenti. Ripenso alla stessa cerimonia sette anni prima, nel 2011. Anche in quel caso lo scalone di Acca Larentia funge da sfondo naturale al solito rito del «saluto»: ma sui gradini, al posto dei militanti, ci sono delle torce. Decine di torce a formare una croce. Sotto, sulla spianata d’asfalto, centinaia di camerati: ognuno con in mano una fiaccola. Non sono affatto seimila, ma alcune centinaia, e mi chiedo come mai nel 2018 si è raggiunto quel numero. Migliore organizzazione o forse anche galvanizzazione successiva alla sottovalutazione giudiziale dei fatti del 29 aprile a Milano? È lecito chiederselo. Viene letto un elenco di nomi di decine di camerati che non ci sono più, e il popolo risponde «presente». Quella folla di militanti è giunta ad Acca Larentia percorrendo lo stesso tragitto di sempre: ma le modalità del corteo sono state ancor più inquietanti. In testa tre uomini in giubbotto mimetico, incappucciati con passamontagna neri: sono i suonatori di tamburi. Aprono la sfilata che attraversa San Giovanni in mezzo al traffico romano. Subito dietro ai tamburi, decine di donne, e poi, sempre diviso in file, il resto del corteo. Il battito è l’unico rumore che si sente durante la cerimonia. Capisco che questo bisogno di rigore militare, lugubre, vagamente funereo anche

quando non ci sono morti da ricordare, sia la cifra stilistica dell’estrema destra che scende in piazza. Non c’è mai nulla di gioioso nell’esibizione degli estremismi. È la stessa tetra rappresentazione scenica a cui ci hanno abituato negli ultimi anni i black bloc che infiltrano le manifestazioni degli antagonisti. Neri anche loro. Neri e silenziosi. A parte il botto delle bombe carta lanciate contro la polizia, le vetrine infrante, i cassonetti rovesciati. Il nero è un colore assoluto che nasconde anche un’eleganza sobria. A volte pure ferite. Il nero è stato mutuato dai professionisti dell’odio e dagli imprenditori della paura. È storia antica, scritta nei libri di scuola e incisa nei tagli di chi ha vissuto l’orrore. Ma è una storia che si riverbera sull’attualità. Sarebbe bello, se un giorno il nero fosse restituito a chi non sa odiare. La Marcia su Roma bis Che ci sia una precisa strategia, che l’estrema destra italiana stia alzando il tiro sempre di più, ne avevo avuto ulteriore conferma il 3 settembre 2017. Mentre scorro la pagina Facebook di Forza Nuova mi imbatto nelle due immagini simbolo della Roma fascista: il Foro italico e il Palazzo della civiltà. Le sessantaquattro statue dello Stadio dei Marmi furono costruite nel 1932 per celebrare il decennale della «marcia su Roma». Ogni volta che me le trovo di fronte, lì, sui viali del Foro Italico, tra il verde e i pini marittimi, con monte Mario sullo sfondo, mi fermo a osservarle: come rapito da quella luce abbagliante, dal marmo bianco che resiste ai gas di scarico delle auto che assediano ogni giorno Roma Nord in corrispondenza di Ponte Milvio. La stessa luce è sprigionata, dall’altra parte della capitale, dalle quattro facciate del «Colosseo quadrato», come a Roma è soprannominato il Palazzo della Civiltà Italiana, all’Eur. Adesso quelle statue sono usate come corredo per un annuncio choc. Leggo: «28 ottobre 2017, Roma, marcia dei patrioti». Sulle prime penso di essermi confuso, o di avere sotto gli occhi un fotomontaggio da fake news: una di quelle bufale che iniziano a rotolare sul web gonfiandosi come palle di neve. Apro il post, leggo meglio: no, è tutto vero. Forza Nuova aveva lanciato una nuova «marcia su Roma». Non era uno scherzo di cattivo gusto: la data che avevo letto era quella giusta: 28 ottobre. Il giorno fatidico in cui, nel 1922, 25mila camicie nere del Partito nazionale fascista (Pnf) entrarono nella capitale con un atto di forza che permise a Benito Mussolini di prendere il potere e dare avvio al ventennio fascista in Italia. La notizia che mi capita sotto il naso mi

appare quasi surreale, ma è realtà. Come se i cocci della storia fossero delle tessere ricomponibili, novantacinque anni dopo, un partito neofascista, anzi, «nazifascista», come sancito per ben due volte dalla Cassazione nel 2010 e nel 2011, Forza Nuova, ripropone la fatidica e tristemente nota «marcia su Roma». Cambia solo il nome. Si chiama «marcia dei patrioti».49 «Compatriota, scendi in piazza per dire definitivamente no allo Ius Soli e per fermare violenze e stupri da parte degli immigrati che hanno preso d’assalto la nostra Patria.» I toni enfatici con cui viene annunciata la manifestazione, i giorni successivi lasciano posto a informazioni più tecniche: luogo, ora, ritrovo. Il piazzale del Palasport all’Eur. C’è anche una richiesta di sostegno con una donazione all’indirizzo PayPal «[email protected]». Alla notizia della marcia su Roma bis l’indignazione del mondo politico e istituzionale è immediata: intervengono subito la sindaca di Roma, Virginia Raggi, e il presidente della Regione, Nicola Zingaretti. L’allora presidente dell’Anpi, Carlo Smuraglia, parla di «vergogna intollerabile» e annuncia per il 28 ottobre una manifestazione per far conoscere a tutti che cosa ha significato la marcia su Roma del Partito fascista. I partiti di centrosinistra insorgono: tra i primi a farsi sentire, la presidente dalla Camera, Laura Boldrini. A stoppare l’iniziativa di Forza Nuova intervengono il ministro dell’Interno, Marco Minniti, e il capo della polizia, Franco Gabrielli. Il 20 settembre 2017 il Viminale ufficializza lo stop: «La manifestazione annunciata da Forza Nuova», spiega Minniti al question time alla Camera, «richiama in modo palese l’atto di nascita del regime fascista e la Marcia su Roma. È evidente che una manifestazione così si porrebbe in chiaro contrasto con l’ordinamento giuridico, con la Legge Scelba e quella Mancino.» Dopo un tira e molla di giorni, e dopo aver sfidato Minniti, Roberto Fiore, segretario di Forza Nuova, si arrende. O meglio rilancia: «La marcia dei patrioti si farà, ma il 4 novembre. Nella giornata delle Forze armate». Il sabato nero di Forza Nuova va in scena tra i viali e gli edifici fascisti dell’Eur. Il quartiere progettato negli anni Trenta per volere del governatore di Roma, Giuseppe Bottai – che nel 1935 propone a Benito Mussolini di candidare la capitale per la futura esposizione universale del 1942, esposizione pensata per celebrare il ventesimo anniversario della marcia su Roma ma poi saltata a causa della guerra mondiale – fu ispirato, secondo l’ideologia del fascismo, all’urbanistica classica romana: lunghi viali, edifici architettonici maestosi, imponenti, squadrati, costruiti con marmo bianco e travertino come i templi e gli edifici della Roma imperiale. L’elemento simbolo di questo modello architettonico è proprio il «Colosseo quadrato», la cui immagine campeggiava

sulla locandina della marcia dei patrioti lanciata da Forza Nuova. I pullman arrivano da Lecce, Catania, Napoli, dalle città del Lazio e del Nord, Verona e Vicenza soprattutto. Tanti giovani, alcuni molto giovani. I cinquemila partecipanti annunciati dai comunicatori di Forza Nuova sono una stima per eccesso: ma tremila persone ci sono. L’ordine è di tenere lontani i giornalisti dal corteo. Come documentato da FanPage, a ogni cronista che si è accreditato viene affiancato dal servizio d’ordine un guardaspalle per evitare che il cronista rivolga domande a chi non è autorizzato a parlare. Volendo analizzarle, non c’è nessun criterio logico nelle disposizioni che si danno i neofascisti quando scendono in piazza: che senso ha annunciare una manifestazione, cercare i riflettori dei media per poi tenerli lontani da chi sfila in piazza? È un controsenso che non si spiega nemmeno con il desiderio di alimentare e conservare intatta l’immagine dei duri e puri, degli antisistema, di quelli che «fanno brutto». È diventato ormai solo un atteggiamento di maniera, anche un po’ stucchevole. Uno stanco retaggio degli anni Settanta, di quando ai cortei della destra extraparlamentare giravano le pistole. L’ultima moda dei militanti forzanovisti è indossare camicie rigorosamente bianche, con il logo del partito sul petto: ai cortei organizzati nei mesi estivi è questa la divisa ufficiale. Il 4 novembre, però, il colore dominante è ancora il nero. Il vecchio nero delle bandiere di FN. Il nero delle camicie e dei bomber dei militanti. Il nero delle croci celtiche e delle svastiche tatuate sui bicipiti di chi sfila sollevando le maniche delle felpe e tenendo in mano i bastoni. Unica eccezione al nero del corteo sono i fumogeni tricolori che vengono accesi lungo le strade che portano al capolinea del serpentone: il Colosseo quadrato. «Tutto per la patria» è scritto sullo striscione che apre la sfilata. Un altro recita «No allo Ius Soli». È la madre delle battaglie di Forza Nuova e di tutta l’estrema destra nel 2017. Fino a quando, sciolte le Camere, la legge sullo Ius Soli affonda. «Ma quale polizia, ma quale manganelli liberate i nostri fratelli», «Boia chi molla», «Digos Boia» e «Forza Nuova orgoglio nazionale». Sono i cori che si alzano dal corteo, insieme all’inno di Mameli e ai saluti romani. «Parliamo a tutti gli italiani fuori dal sistema, che non votano. Ci sono italiani nelle strade che non riconoscono più i politicanti, ma noi che siamo in mezzo a loro», spiega Luca Castellini, responsabile di Forza Nuova per il Nord Italia, già condannato per avere falsificato firme elettorali. Fiore pare un vecchio caporione: imbolsito, cammina in giacca e camicia sbottonata tra due ali di militanti che lo scortano formando due cordoni coi bastoni. Mi viene in mente quanto ha detto con malcelato imbarazzo in un programma tv, durante la campagna elettorale per le ultime elezioni politiche. Si commentava la strage di Macerata, e il fatto che il

suo autore, Luca Traini, avesse tatuato sulla tempia destra il dente di lupo, simbolo di Terza Posizione, ovvero la creatura politica di Fiore, Dimitri e Adinolfi. «Quando l’ho fondata avevo 21 anni, e molti dei ragazzi che vi facevano parte ne avevano appena 18», commenta il vecchio camerata, latitante all’estero per 19 anni e condannato per banda armata e associazione sovversiva. Sembrava quasi che il fondatore del più vecchio partito ancora in vita dell’estrema destra (Forza Nuova) volesse attribuire la scelta di creare Terza Posizione a una leggerezza giovanile. Intanto, quel 4 novembre all’Eur i militanti intorno a lui gridano «liberi, liberi» e «libertà per i nostri fratelli.» Il riferimento è a Giuliano Castellino e a Consuelo Benedetti, i due forzanovisti arrestati durante la consegna di una casa popolare a una famiglia di eritrei nella periferia di Roma. Oggi la polveriera delle borgate, terreno di coltura del neofascismo romano, è lontana: a generare l’eco dei «boia chi molla» sono le sagome imponenti dei palazzi bianchi costruiti per Mussolini all’Eur. Fiore conclude con una promessa: «Il corteo del 4 novembre lo rifaremo ogni anno». Ripenso per un attimo alle fiaccole e ai tamburi nelle notti nostalgiche del «presente». Ripenso al profilo delle lapidi del Campo X del Cimitero Maggiore di Milano, ai nastrini coi colori dell’Italia appesi sopra, al suono del vento che si infilava tra i cipressi. Ripenso agli effetti collaterali di quel «29 aprile» e alle conseguenze che secondo molti avrebbe avuto il «condono» della parata, anzi no, della «commemorazione funebre» dei mille saluti romani. Può darsi che mi sbagli, e che la netta recrudescenza delle aggressioni fasciste, delle ronde e delle manifestazioni sempre più sfrontate non abbia alcun nesso con una certa sottovalutazione da parte delle istituzioni. Ma adesso ho la chiara sensazione che da quel 29 aprile nelle piazze nere niente sarà più come prima.

41 Cultori della morte, di Saverio Ferrari, «il manifesto», 2 agosto 2016, cfr. https://ilmanifesto.it/cultori-della-morte/ 42 Sguazzano nel caos, di Massimo Cacciari, «l’Espresso» 17 dicembre 2017. 43 Monza, nozze da favola al Brianteo per il capo ultrà, «Il Giorno» 6 giugno 2017, cfr. http://www.ilgiorno.it/monza-brianza/cronaca/nozze-ultra-1.3176665 44 Si veda www.Genova24.it dossier La Superba pag. 8, e l’inchiesta di Paolo Berizzi e Marco Preve, Viaggio nell’ultradestra dei naziskin che fa paura alla Genova rossa, «la Repubblica», 5 dicembre 2017. 45 La Legge Scelba resta a oggi il quadro normativo di riferimento per i reati

relativi alla propaganda fascista. È in discussione alla Camera un progetto di legge per l’introduzione dell’art. 293-bis del codice penale, concernente il reato di propaganda del regime fascista e nazifascista, che ha l’obiettivo di «delineare una nuova fattispecie che consenta di colpire solo alcune condotte che individualmente considerate sfuggono alle normative vigenti». In pratica se passasse questa legge si punirebbero d’ufficio i gesti pubblici come il saluto romano e la propaganda sul web. Cfr. http://documenti.camera.it/leg17/dossier/pdf/cost288.pdf 46 Saluti fascisti al Campo X, chiesta l’archiviazione per dieci militanti, «Corriere della Sera», 4 agosto 2017, cfr. http://milano.corriere.it/notizie/cronaca/17_agosto_04/saluto-fascista-campo-xpm-chiede-l-archiviazione-10-militanti-8feb34fc-790f-11e7-9267909ddec0f3dc.shtml. 47 Ibidem. 48 Fascismo, la Cassazione: «Saluto romano non è reato se ha intento non violento e commemorativo». Due assoluzioni, «Il Fatto Quotidiano», 20 febbraio 2018, cfr. https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/02/20/fascismo-la-cassazionesaluto-romano-non-e-reato-se-ha-intento-non-violento-e-commemorativo-dueassoluzioni/4175858/ 49 La marcia su Roma di Forza Nuova: «patrioti» convocati il 28 ottobre, di Paolo Berizzi, «la Repubblica», 6 settembre 2017, cfr. http://www.repubblica.it/politica/2017/09/06/news/la_marcia_su_roma_di_forza_nuova_patrio 174727505/

4. LA SPIAGGIA DEL REGIME

Chioggia, luglio 2017 Gli indifferenti «Voi sapete meglio di me che il 50% della popolazione mondiale è merda. Di conseguenza io quella roba lì qui non la voglio. Qui si vive in regime totale.» Sei passi. Dall’ombrellone verso l’ultimo gazebo a destra. Lì c’è l’altoparlante più vicino alla mia postazione. Una cassa ancorata a uno dei quattro pali di legno verniciati di bianco e con sopra una tenda stile berbero chioggiotto. La raggiungo saltando sulle punte in modo scomposto, in fretta, per evitare che le piante dei piedi affondino nella sabbia rovente. Ho il cellulare in mano. Da quel che vedo guardandomi intorno sono l’unico a cui interessa catturare le parole che rimbalzano tra i lettini e gli ombrelloni. L’unico a cui quelle parole fanno impressione. Proclami da fascismo anni Venti: altro che battute, nessuna goliardia. Avvicino il telefono alla cassa tenendo il braccio lungo il corpo per non dare nell’occhio: premo sullo schermo il comando «registrazione audio.» Tre minuti e venti secondi: tanto dura, la prova. La dimostrazione che ciò che stavo ascoltando assieme ad altre 650 persone su una spiaggia di proprietà del demanio, quindi dello Stato, quindi dei cittadini, non era la conseguenza di un colpo di sole di chi le pronunciava. Né dell’alcol, né di altro. Quell’audio, ventiquattro ore dopo, diventa un «caso» che fa il giro d’Italia e d’Europa: «la spiaggia fascista di Chioggia». Una delle tante vicende che dimostrano quanto nel nostro Paese negli ultimi anni i rigurgiti fascisti siano stati normalizzati, sdoganati, tollerati fino al punto da derubricare a semplice folklore gli inni al «regime» e allo «sterminio». E il risultato è anche questo. Quando penso a

Gianni Scarpa e ai suoi comizi deliranti, in uno stile tra il presidente filippino Duterte e Pinochet, alla spiaggia Punta Canna con le foto del duce, i cartelli delle «camere a gas», le immagini dei saluti romani spiattellate sulla grande bacheca di fronte alla veranda nel cuore del lido che Scarpa ha gestito per 22 anni, qui, tra le dune di Sottomarina, verso la foce del Brenta a Chioggia, provincia di Venezia, penso all’indifferenza. La gioiosa e consapevole indifferenza con cui centinaia di bagnanti strisciavano le loro infradito sulle traversine in legno che dal parcheggio e dalle cabine degli spogliatoi portavano giù verso l’arenile passando dal bar. E io li guardavo e non capivo. E mi chiedevo perché nemmeno uno, ed erano 650, si fermasse con aria perplessa – quanto meno stupita – davanti agli arredi fascisti dello stabilimento più nero d’Italia: il faccione di Mussolini, le scritte «me ne frego», «manganello sui denti», «ordine, pulizia, disciplina». Conoscevano il proprietario e si erano abituati alle sue «stranezze»? Di fatto non c’era nessuno che sembrava disturbato dalla vista di un poster con la faccia di un neonato e la scritta «Nonno Benito, per un’Italia onesta e pulita torna in vita». Nessuno che si scomponeva vedendo le immagini in bianco e nero del duce con accanto il fascio littorio, il tricolore e la scritta: «Che strana democrazia, toglie il pane ai poveri per darlo ai ricchi. Che strana democrazia, aiuta gli stranieri ma non il proprio popolo. Che strana democrazia, senza guerre ha provocato due miliardi di debito pubblico». Non uno che badava a un’altra fotografia appesa a un pannello: ancora «dux», e lo slogan «Prima di lui l’Italia era il terzo mondo. A scuola si insegna che fosse il male assoluto». Niente: erano come anestetizzati. Protetti dall’abitudine, dalla quotidianità, avvolti dentro la tela della banalità dell’odio che fa apparire «normali» anche i peggiori fantasmi. Penso semplicemente all’indifferenza e a quanto possa essere diffusa, e nemmeno lo sappiamo. Quella delle persone che stavano sedute sulle sdraio e allungate sui lettini intorno a me; dei ragazzi e degli adulti cosparsi di creme che sotto il sole di luglio sembravano perfettamente a loro agio mentre gustavano una granita davanti allo slogan «la legge della giustizia nasce dalla canna del fucile». Tutti zitti ad ascoltare, quasi ossequiosi, le frasi deliranti di Scarpa che al megafono esalta il regime e schifa la democrazia. Mi chiedo come si è potuti arrivare a questo punto, assuefatti a una libertà di cui non cogliamo più i pregi. Quanto l’ignoranza può trasformarsi in indifferenza e viceversa. Mi torna in mente il passaggio sulla libertà del celebre discorso di Calamandrei davanti agli studenti della Cattolica di Milano nel gennaio del 1955, all’inaugurazione di un ciclo di lezioni sulla Costituzione: «È così bello, è così comodo: la libertà c’è. Si vive in regime di libertà, c’è altro da fare che

interessarsi alla politica. E lo so anch’io! Il mondo è così bello, ci sono tante cose belle da vedere, da godere, oltre che occuparsi di politica. La politica non è una piacevole cosa. Però la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare…» Ponti e non muri? Mentre scrivo sono passati sei mesi dal mio sabato nella spiaggia Punta Canna. La «spiaggia fascista», come l’hanno chiamata i media che si sono occupati del caso. Ognuno con angolature diverse, ovviamente. Mi viene in mente la faccia di una ragazza: avrà avuto vent’anni, forse meno. Occhiali da sole, il fidanzato seduto a fianco. Sono al tavolo accanto al mio sotto la veranda dove si pranza. La vedo annuire mentre inizia a addentare una piadina che un minuto prima aveva ritirato al bancone del bar dove avevano chiamato «Michelaaa»: il suo nome. Michela fa sì con la testa. La musica si è appena interrotta: modalità pausa, e così Despacito, il tormentone di Luis Fonsi, lascia spazio a un’altra musica. Meno orecchiabile, un grado di spensieratezza inferiore. Gianni Scarpa, 65 anni, fisico intatto e colorato dall’abbronzatura, bermuda jeans bianchi con cintura, bandana nera calata sulla fronte tipo pirata veneto. Entra nel suo ufficio: una casetta di legno piena di gadget mussoliniani e oggetti del Ventennio. È lui il gestore di Punta Canna. Prende in mano il microfono. Parte il primo mini comizio. «Adesso c’è questo Papa, Papa Francesco. Dice che lui i muri non li vuole… Capito? Lui non vuole i muri. E quindi cosa facciamo? Che cosa gli rispondiamo a un Papa così? Dobbiamo tenerci tutti gli immigrati che arrivano, forse. O cosa?» Nessuno ride. Tutti sembrano ascoltare con attenzione le parole di Scarpa. Anche Michela. Il tema dei muri anti-profughi, in quei giorni di inizio luglio 2017, è tornato di attualità: è appena riesploso il caso Brennero, un vicenda che già ad aprile aveva provocato uno scontro diplomatico tra Italia e Austria dopo che Vienna aveva annunciato e presentato il progetto per la costruzione di una «barriera» al confine per impedire l’ingresso di immigrati provenienti dal nostro Paese. L’allora ministro della Difesa austriaco, Hans Peter Doskozil, in un’intervista all’edizione online del «Kronen Zeitung», era tornato sul punto dichiarando che Vienna avrebbe presto rafforzato i controlli al Brennero – schierando soldati e mezzi blindati – se non si fosse allentato il flusso di migranti

nel Mediterraneo dopo la chiusura dei porti di Francia e Spagna alle navi delle Ong. Tanto bastò per riscaldare di nuovo gli animi e attivare le diplomazie dei due Paesi: era chiaro che quella di Doskozil fosse una mossa pre-elettorale (l’Austria sarebbe tornata alle urne il 15 ottobre 2017), e l’allora ministro dell’Interno italiano, Marco Minniti, la bocciò come un’«iniziativa ingiustificata». Anche Papa Francesco aveva ribadito i concetti che aveva già espresso un anno prima alla XXXI giornata mondiale della gioventù di Cracovia: «Dobbiamo imparare a convivere nella diversità, nel dialogo, nel condividere la multiculturalità non come una minaccia ma come un’opportunità: abbiate il coraggio di insegnarci che è più facile costruire ponti che innalzare muri! E tutti insieme chiediamo che esigiate da noi di percorrere le strade della fraternità. Costruire ponti: sapete qual è il primo ponte da costruire? Un ponte che possiamo realizzare qui e ora: stringerci la mano, darci la mano». Il gestore di Punta Canna ha buona memoria: non ha dimenticato il monito di Bergoglio. Se lo dev’essere segnato al dito, salvato in un file dell’archivio da cui attinge gli argomenti dei suoi affondi contro i «diversi»: Papa compreso. «Il Papa vuole costruire ponti e non muri? Bene. Allora gliene costruiremo uno noi da Roma a Buenos Aires. Così lo rispediamo da dove è venuto.» La voce del bagnino in bandana risuona nello stabilimento chioggiotto. Michela, la ragazza della piadina – il nome è scritto anche sul ciondolo della catenina che porta al collo – annuisce ancora. Il fidanzato palestrato ha una croce celtica tatuata sull’avambraccio e la scritta Dux, il cranio lucido, un costume verde militare e molti braccialetti di cuoio sul polso destro. Occhiali da sole, petto depilato. Il perfetto cliente di un lido al cui ingresso campeggia un cartello di benvenuto con scritto: «Zona antidemocratica e a regime. Non rompete i coglioni». Forse il ragazzo di Michela si divertiva di più ad ascoltare Despacito. Che adesso può riprendere. Gianni Scarpa riattacca la musica. È il tempo di mezzo tra un comizio e l’altro di questo personaggio di cui ancora non sapevo niente ma del quale iniziava a prendere forma il ritratto. Un abile intrattenitore, certamente. Che accoglie con ospitalità i suoi clienti. Che li diverte condividendo con loro opinioni estremiste, un repertorio legato all’attualità politica che trova nei bagnanti di Punta Canna un uditorio attento e per nulla infastidito. Il lido è suo e su un enorme pannello campeggia il suo pensiero. Titolo in alto in neretto: «Quello che pensa e vorrebbe Gianni Scarpa». La data è 11-03-2008. Significa che ciò che vi è scritto è lì, visibile da 9 anni. Senza che nessuno si sia mai indignato. Senza che nessuno abbia mai provveduto a chiederne conto al gestore della spiaggia e a ordinarne la rimozione. Il pensiero

di Scarpa è un papiro esposto in pubblico, articolato in 5 punti. «I 5 punti per salvare l’Italia da tutta la merda che abbiamo da 70 anni.» Si legge. Primo punto: «Cambiare la Costituzione e il codice penale… Eliminare il presidente della Repubblica e tutto il quirinale perché sono inutili. Fare due soli partiti: i nuovi comunisti e i nuovi fascisti…» Secondo punto: «Aprire le case per la prostituzione legalizzata». Mi chiedo, è un caso che sia anche una delle proposte della Lega? Terzo punto: «Eliminare l’esercito. Lasciare che nei paesi musulmani si arrangino tra loro…» Quarto punto: «A chi sperpera denaro pubblico, carcere immediato». Quinto punto: «Lo Stato deve difendere l’imprenditore. È lui che dà da mangiare agli operai». Chiosa finale: «L’Italia ha bisogno di ordine, pulizia e disciplina. Senza queste regole non ci sarà mai una via d’uscita. Mi risulta», annota Scarpa, «che negli ultimi 100 anni l’unico che non ha mai rubato soldi pubblici è stato Benito Mussolini.» Mussolini e politica a parte, la giornata a Punta Canna scivola via come in qualsiasi altro stabilimento balneare. Dopo pochi minuti dal mio arrivo capisco che l’anomalia di un bagnino che pubblicamente manifesta le sue opinioni politiche all’altoparlante qui non stupisce nessuno. Sorrido al tipo con la celtica, mi sforzo di fare un sorriso che possa apparire d’intesa, quasi identitario: «Ma fa sempre così?» gli chiedo a proposito di quell’uomo che si atteggiava a duce. «Sì, Gianni è così. È un grande.» La maggior parte dei clienti sono habitué: si conoscono tutti e tutti conoscono Gianni. La spiaggia è una spianata di lettini: lunghe file, una settantina quelli coperti da tende bianche tipo gazebo. Un po’ stile Twiga di Forte dei Marmi, ma decisamente meno fighetto; la parte centrale organizzata a mo’ di solarium, uno spazio riservato alle «belle f… e ai bei fustoni», chiosa elegantemente Scarpa che sostiene di avere costruito la fortuna del lido mettendo al bando «buzzurri e bambini». Sui buzzurri, il giudizio è opinabile e soggettivo. Quanto ai bambini, in effetti, a parte un paio di famigliole, non se ne vedono. L’idea di una spiaggia dove i bambini sono sgraditi non mette allegria: la spiaggia non è una discoteca, un club, un circolo bridge. È per definizione – soprattutto nel caso delle spiagge attrezzate e con un comodo accesso al mare, come quelle delle riviere veneta e romagnola – uno dei luoghi dove si vedono più bambini. «Non è che non li voglio. È che ci sono posti dove si sta meglio tra adulti», spiega Scarpa ai cronisti. La sua impostazione è questa: molto commerciale, settaria, con un target mirato. «Usque ad finem»

Sabato 8 luglio 2017: alle tre e un quarto di pomeriggio è evidente perché Punta Canna è più adatta a una clientela adulta e consapevole. Pensavo fosse solo per via dei cartelli «di area» con cui è arredato il lido: le citazioni e le foto del duce e dei saluti romani; «Regole: ordine, pulizia, disciplina, severità»; «difendere la proprietà sparando a vista ad altezza d’uomo, se non ti piace me ne frego!»; «servizio solo per i clienti… altrimenti manganello sui denti»; la citazione di Ezra Pound «Se un uomo non è disposto a correre qualche rischio per le sue idee, o le sue idee non valgono nulla o non vale niente lui»; la scritta che indica i servizi igienici «Questi sono i gabinetti per lui, per lei, per lesbiche e gay». Come se gay e lesbiche non fossero semplicemente uomini e donne. No, non è solo per via di questo singolare arredo, certo stravagante per una spiaggia, che Scarpa punta su una clientela adulta. Il punto è che solo a un pubblico di persone grandi, o comunque non di bambini, ci si può rivolgere quando si vuole ideologizzare chi ti ascolta. Secondo intermezzo di Gianni Scarpa di fronte a centinaia di persone che prendono il sole nella sua spiaggia. Ne riporto il contenuto integrale, perché merita per capire il personaggio. «Io volevo ringraziare tutti voi e dirvi che domani ci sarà un intrattenimento molto simpatico, molto piacevole per l’aperitivo. Allora voi sapete che Punta Canna le feste non le fa più. Non le fa più perché non mi interessano più, perché suonano in tutti gli stabilimenti… fanno le feste… sono contento per loro, gli auguro belle cose ma a me non interessano più. Io sono molto contento di avere una clientela esemplare. Guardatevi in giro… oggi siete in 650, non c’è una cicca non c’è una salvietta non c’è niente che non vada bene a terra. A me la gente maleducata mi fa schifo. A me la gente sporca mi fa schifo. A me la democrazia mi fa schifo. Io sono totalmente antidemocratico e sono per il regime. Ma non potendolo esercitare fuori da casa mia, lo esercito a casa mia. A casa mia si vive in totale regime. Qui è casa mia e di conseguenza si vive a regime. E sono molto contento e sono molto soddisfatto che la gente si comporta benissimo. Voi sapete che io sono per lo sterminio dei tossici… sterminio totale (si sentono le risatine di un paio di bagnanti). Di conseguenza penso che è meglio che qui girino molto molto al largo. Di conseguenza chi viene qui

sa come la penso io, se vuole viene se vuole non viene e io me ne frego. Perché qui dentro voglio gente estremamente educata e gente che si comporta bene. Sono contento di avere gente che ha capito il mio messaggio. La maggior parte l’ha capito. Quelli che non l’hanno capito si autoeliminano da soli. Quindi è un piacere lavorare con gente positiva, con gente come voi. Anche voi dovete essere contenti e orgogliosi, guardandovi in giro. Seicentocinquanta persone. Immaginate dalle altre parti, con un afflusso di gente così, quanta merda ci sarebbe in giro! Eh! Voi sapete meglio di me che il 50% della popolazione mondiale è merda. Di conseguenza io quella roba lì qui non la voglio. Vi ringrazio tutti di essere qui a Punta Canna, è un piacere e un onore lavorare con gente come voi. Punta Canna l’avete fatto voi bello come lo vedete, io che l’ho messo in piedi non sono nessuno. La risposta positiva la date voi. Grazie grazie e grazie. E buona serata a tutti.» Appena finisce il delirio pro regime di Scarpa, a pochi metri dal gazebo dove mi ero fermato ad ascoltare e a registrare c’è un bambino di pochi mesi: è sdraiato sul lettino, tra i suoi genitori. Il suo lamento – a volte il caso riesce a essere tristemente ironico – finisce dritto nell’audio che registro. Ventiquattro ore dopo quell’audio è acquisito dalla Digos di Venezia. Diventa fonte di prova per l’indagine che viene aperta nei confronti di Scarpa, accusato di apologia di fascismo. Il giorno dopo, con la pubblicazione della storia di Punta Canna, mi rendo conto di avere sollevato una storia italiana di provincia: forse laterale, forse minore, ma che ha tutte le caratteristiche per aprire una breccia nel dibattito pubblico sull’«onda nera», il ritorno di quel neofascismo liquido e disaggregato che però, in quei mesi, aveva trovato spazi proprio grazie alla grave sottovalutazione e alla colpevole minimizzazione da parte dell’opinione pubblica, delle istituzioni, di larga parte della politica e della magistratura. Il questore di Venezia, Vito Danilo Gagliardi, mi dirà in quei giorni: «Quello che si è visto in quella spiaggia è raccapricciante. Ed è raccapricciante che sia potuto accadere nell’indifferenza generale». La società che aveva in concessione dal demanio il pezzo di litorale su cui sorgeva il lido, la Summertime srl di Chioggia, dopo lo scoppio del caso licenzia Scarpa. Ma io non potevo rinunciare a chiedermi dove avevano guardato negli ultimi dieci anni le forze dell’ordine, il Comune, la questura, la prefettura, la stampa locale, le coscienze civili di chi sapeva quali offese alla nostra storia venivano pronunciate alla luce del sole in

quel lido fascista. E mi rendevo conto che la vicenda sembrava improvvisamente risvegliarci dal clima di tolleranza e di banalizzazione dei populismi neri: quel «nuovo fascismo» effetto della crisi economica e politica sul quale da anni, insieme a pochi altri, continuavo a scrivere con inchieste e servizi di denuncia. A che cosa era servito tutto ciò? È la domanda, frustrante, che ronzava nella mia testa mentre guardavo la gente rinfrescarsi sotto il nebulizzatore con la scritta «camere a gas», accanto all’immagine di una mano destra tesa nel saluto romano e il motto latino, tanto caro ai militari del Ventennio, «usque ad finem». Le baruffe chiozzotte Il caso Punta Canna divampa nei giorni in cui alla Camera approda, tra mille polemiche, la cosiddetta legge Fiano. È il disegno di legge con primo firmatario il deputato dem di origine ebrea Emanuele Fiano che propone di punire la propaganda fascista assimilandola a reato penale: un irrobustimento, in pratica, delle altre leggi esistenti (la Scelba e la Mancino). La legge Fiano è fortemente contrastata dalle destre: il politico Pd diventa un obbiettivo dei neofascisti e anche della nuova Lega sovranista che lo additano a censore liberticida. «Le idee non si processano», dice Matteo Salvini. Quarantotto ore dopo la pubblicazione del servizio sulla spiaggia fascista il leader leghista si presenta a Punta Canna in camicia bianca con fotografi e troupe televisive al seguito: è una passerella politica. Gli serve per prendere la scena, per strumentalizzare la vicenda a scopi elettorali. Salvini solidarizza con Scarpa, lo difende. Dice: «lasciate lavorare i commercianti». Per l’ex comunista padano Salvini, ed è in folta compagnia, incitare al fascismo, al regime, allo sterminio dei tossici è puro folklore. Nulla di grave, niente di sconveniente. È un fulgido esempio di come in nome del populismo che strizza l’occhio all’ultradestra un leader politico riesca a derubricare a bazzecole dei comizi che inneggiano all’odio e alla dittatura. Barzellette? Folklore? Boutade da osteria? Uno specchio della società del luogo? Viene in mente Carlo Goldoni, che a Chioggia ha ambientato Le baruffe chiozzotte, una delle sue più celebri opere e l’ultimo lavoro prima dell’interruzione della sua attività di commediografo a Venezia. Il materiale con cui è composta l’opera sono i chiassi e le bassezze del popolo. Che fossero marinai o donnine «di vita», quella quotidianità, che mostrava e metteva a nudo la popolazione del luogo, veniva elevata da Goldoni a specchio nel quale chi assisteva all’opera poteva ridere dei propri istinti più bassi. Per questo, quando

Goethe vedrà l’opera nel 1786 a Venezia, la definirà un «capolavoro», con queste parole: «Anch’io posso dire finalmente di aver visto una commedia! Hanno rappresentato oggi, al Teatro San Luca, Le baruffe chiozzotte… I personaggi, tutta gente di mare; abitanti del luogo, con le rispettive mogli, sorelle e figliuole. I soliti chiassi di questa gente, nei momenti di gioia come nell’ira, i loro pettegolezzi, la vivacità, la bonomia, la volgarità, l’arguzia, il buonumore, la libertà dei modi, tutto è egregiamente rappresentato. Anche questo lavoro è di Goldoni; da parte mia vi ho assistito con immenso piacere, tanto più che proprio ieri ero stato a Chioggia e gli orecchi mi ronzavano del vocio di quei marinai e di quegli scaricanti e i loro gesti mi stavano innanzi agli occhi. Qualche allusione particolare mi è certo sfuggita, ma nel complesso ho potuto tener dietro il lavoro benissimo… Non ho mai assistito in vita mia ad un’esplosione di giubilo come quella cui si è abbandonato il pubblico a vedersi riprodotto con naturalezza. È stato un continuo ridere di pazza gioia dal principio alla fine. Bisogna anche dire che gli attori hanno recitato a meraviglia. Si erano distribuite le parti a seconda dell’indole dei rispettivi temperamenti e come si vede abitualmente nella vera vita del popolo». Può essere considerata una «baruffa» la vicenda Punta Canna? Fa «ridere di pazza gioia» – per citare Goethe – un signore che, serissimo, in spiaggia, intrattiene ogni giorno centinaia di persone sputando sulla democrazia e educandole al nostalgismo mussoliniano nel 2017? Quando con voce stentorea Scarpa sostiene che i tossici vanno eliminati dalla faccia della Terra, non assisto a «esplosioni di giubilo» tra i chioggiotti e i turisti sulla spiaggia. Ma tant’è, lo «Scarpa pensiero» è apprezzato, o comunque più che accettato. Ed è questo, forse, l’aspetto più inquietante della storia. Forse succede anche questa volta che il pubblico si vede «riprodotto con naturalezza»? Dice Noemi Di Segni, presidente delle comunità ebraiche italiane: «Sono sconcertata. Le immagini di quel lido e le parole che abbiamo ascoltato sono un oltraggio alla memoria delle vittime della Shoa e un’offesa alle istituzioni democratiche del nostro Paese». È anche un j’accuse, quello di Di Segni. «È grave che debba essere il giornalismo e non le autorità ad accorgersi e a denunciare questi casi vergognosi. Mi chiedo dove siano la politica e le istituzioni che dovrebbero vigilare.» Sono tanti gli interventi indignati nei giorni in cui scoppia il caso Chioggia. Da più parti arriva la richiesta di provvedimenti. Dice il sindaco di Chioggia, il grillino Marco Veronese. «Condanniamo ogni atto che va contro la democrazia, qui c’è un reato ed è giusto venga perseguito.» Il caso divide la politica: indignazione nel centrosinistra, spallucce nel centrodestra. Ma a Chioggia lo Stato interviene. Il

prefetto di Venezia, Carlo Boffi, ordina a Scarpa di rimuovere tutti i simboli, le frasi, i cartelloni e quant’altro faccia riferimento al fascismo. Nel provvedimento che viene consegnato al bagnino viene fatto divieto di diffondere con gli altoparlanti discorsi che esaltano la dottrina fascista. Questo – ovviamente – nel rispetto delle leggi Scelba e Mancino. Dopo il sopralluogo in spiaggia la Digos di Venezia denuncia Scarpa per apologia di fascismo: pochi giorni dopo l’uomo è formalmente indagato dalla Procura. Lui, intervistato dalle televisioni, continua a parlare di «semplici goliardate». È il leit motiv di chi si indigna che qualcuno si indigni. Una specie di balsamo con cui in questi anni gli sdoganatori delle derive fascistoidi hanno ammosciato polemiche e proteste cercando di sciogliere ogni nodo possibile nell’opinione pubblica di fronte alle recrudescenze estremiste nere. Ragiona Laura Boldrini, già presidente della Camera, impegnata sui temi dell’antifascismo dall’inizio del suo mandato: «A forza di lasciar correre e di girarsi dall’altra parte si è permesso ai gruppi neofascisti di conquistare spazi e consensi. Un Paese che non ha memoria del passato è un Paese perduto. Lo Stato ha il dovere di vigilare e di intervenire quando si verificano episodi dove si fa esplicito riferimento al fascismo. E di punire chi lo fa laddove si ravvisino dei reati come l’apologia o l’incitamento alla violenza e all’odio razziale». E però, non è così semplice se si pensa a cosa succede poco dopo, ad agosto a Radio Padova. Costantino Da Tos è il direttore artistico dell’emittente. Uno dei programmi più seguiti della radio, nata nel 1975, è Morning show, in onda la mattina e condotto da Alberto Gottardo. Ad agosto 2017, appunto – dopo la bufera che ha coinvolto la spiaggia Punta Canna – a Radio Padova decidono di ingaggiare come opinionista proprio lui, Gianni Scarpa. Un po’ una provocazione e un po’ mossa pubblicitaria. «In realtà», dice Da Tos, «il nostro obiettivo era quello di defascistizzare Scarpa… Impresa non facile. Ma con Gottardo, che è dichiaratamente di sinistra, è venuta fuori una bella accoppiata.» Chiedo a Da Tos come è nata l’idea di dare spazio ogni mattina per un mese a Scarpa, che all’epoca era indagato per apologia di fascismo e di cui l’Italia aveva conosciuto le idee e il modo in cui le diffondeva ai clienti del suo lido. «Volevamo sdrammatizzare la vicenda, dando un taglio ironico. All’inizio abbiamo ricevuto molte telefonate e lettere di indignazione: ascoltatori che dicevano “ma perché date spazio a un fascista che ha detto quelle cose?”, “siete pazzi”, “siete dei mona”… Poi la gente ha capito il nostro spirito, che è anche quello del programma. Parlare di attualità in modo leggero. Scarpa non ha mai ecceduto nei toni. Sì, sarà fascista… Ma secondo me è anche un po’ furbo e un po’ mona… Forse più la prima.» Forse in radio no, ma ha ecceduto al megafono

in spiaggia, parlando – seriamente – di regime e di sterminio. E tappezzando lo stabilimento di immagini del fascismo e del duce. «Da quanto so lui lo faceva sempre di pomeriggio, all’ora della merenda. Si metteva lì, mangiava un panino col salame e poi prendeva in mano il microfono e partiva con i suoi ragionamenti…» E perché nessuno si indignava, gli chiedo? «Questo non lo so. So però che Chioggia è la spiaggia dei padovani. D’estate vanno quasi tutti lì. Evidentemente le cose che Scarpa diceva al microfono erano condivise da chi era in quella spiaggia. Del resto, se vai nella provincia padovana e parli con la gente – diciamo – di strada, sulla sicurezza, la criminalità, il bisogno di ordine, tutta sta roba qua, ti rispondono né più né meno come Scarpa.» Ha un bel dire la Boldrini, o la Di Segni, quando un bel numero di «gente di strada» la pensa come Scarpa. Processo al pensiero Era inevitabile che sulla vicenda venisse aperto un fascicolo. Se ne occupa la procura di Venezia che indaga Scarpa per violazione della Legge Scelba. L’inchiesta è nelle mani del procuratore capo, Bruno Cherchi, e il sostituto procuratore Francesca Crupi. È lei, formalmente, la titolare dell’indagine sulla spiaggia fascista. Viene analizzato il materiale acquisito: le immagini del lido, le foto del duce e dei saluti romani, le scritte, gli slogan apologetici. Anche l’audio del comizio di Scarpa. Gianni Scarpa ha gestito Playa Punta Canna per 22 anni. I terreni davanti alla spiaggia, di proprietà demaniale, li ha ereditati dai nonni materni: lì adesso ci sono il parcheggio e le altre strutture del lido. La fascisteria dello stabilimento andava avanti da diversi anni: ma nessuno se n’era accorto. In molti pensavano che l’intervento della magistratura, finalmente, dopo anni, avrebbe messo fine a quello scempio della memoria. Tre mesi dopo lo scoppio del caso, a ottobre, arriva il colpo di scena. I Pm di Venezia chiedono l’archiviazione dell’indagine. Le immagini del duce e dei saluti romani tra gli ombrelloni? I richiami al Ventennio e i comizi in spiaggia a favore del «regime» e «contro la democrazia»? Non sono apologia di fascismo. Sono semplicemente – scrivono Bruno Cherchi e il sostituto Francesca Crupi – un’«articolazione del pensiero». Così come non costituisce reato gridare agli altoparlanti, nel proprio lido balneare gremito da centinaia di persone, che «i tossici vanno sterminati». In sostanza, per la Procura, quelle di Scarpa sono state solo «stravaganze»: nulla di riconducibile all’esaltazione del fascismo, il

bagnino non ha fatto attività di proselitismo e quindi non costituisce pericolo per lo Stato. Niente apologia. Niente discriminazione né istigazione alla violenza. Pochi giorni dopo il gestore di Punta Canna viene licenziato dalla società Summertime srl di Chioggia, che ha preso in concessione lo stabilimento nel 2011. Con una raccomandata, l’amministratore Davide Delle Donne mette nero su bianco quello che Scarpa già sapeva, cioè che il contratto stagionale di gestione dello stabilimento, scaduto il 30 settembre 2017, non gli sarà rinnovato nel 2018. Una decisione – spiega Delle Donne – presa per salvaguardare la «serenità della società». L’11 ottobre 2017 sul licenziamento di Scarpa c’è da registrare anche l’intervento del vescovo di Chioggia, Adriano Tessarollo. Per rispondere indirettamente all’Anpi, che aveva esultato per la scelta dei titolari della concessione del lido di non rinnovare il contratto, l’alto prelato scrive nei commenti a un post della vicesegretaria comunale di Forza Italia, Serena De Perini: «A che serve l’Anpi? E chi la finanzia?» La risposta indignata dell’associazione partigiani arriva in un comunicato stampa: «L’Anpi si finanzia con il tesseramento annuale dei soci». Intanto si attende il parere del Gip sulla richiesta di archiviazione dei Pm. Arriva il 3 novembre 2017. Eccolo: il decreto porta la firma del giudice per le indagini preliminari di Venezia, Roberta Marchiori. Richiesta della Procura accolta: indagine archiviata. Per la procura veneziana le scelte di Scarpa vanno ricondotte nell’ambito della libertà di pensiero garantita dalla Costituzione. Insomma: inneggiando al regime e «schifando» la democrazia, ed esponendo immagini di Mussolini, saluti romani e slogan che richiamano il Ventennio e le camere a gas, l’ex gestore di Punta Canna ha solo «articolato il proprio pensiero». Mi chiedo: ma lo scopo della Legge Scelba non era proprio, in nuce, di impedire la libera espressione del pensiero fascista? Che cosa sono propaganda e apologia, altrimenti? Torno a Chioggia a febbraio. Nei mesi precedenti molte cose sono successe. Dopo l’archiviazione dell’indagine, i giornali di destra e i siti di estrema destra hanno esultato: c’è ovviamente chi ha gioito, chi ha ridicolizzato l’inchiesta giornalistica che aveva sollevato il caso, commenti da stadio, livore contro Boldrini, Fiano, l’Anpi, la sinistra, il mio giornale, il sottoscritto. Nel frattempo la legge Fiano – che era stata approvata alla Camera a larghissima maggioranza – si è arenata: non c’è stato tempo perché arrivasse al vaglio del Senato, dove pure le destre avevano promesso che avrebbero fatto di tutto per affossarla. Le camere del Parlamento sono state sciolte prima. Nel frattempo, decine di episodi

di cronaca hanno riacceso l’attenzione sull’«onda nera» e il clima politico, se possibile, è ancor più deteriorato rispetto all’estate del 2017. È una domenica grigia di febbraio. I negozi di viale Mediterraneo, l’arteria commerciale che taglia Sottomarina di Chioggia e porta giù verso il mare, sono quasi tutti chiusi. Alla rotonda in fondo riprendo via Barbarigo: è la strada che porta verso la Foce del Brenta. Una strada stretta e dal manto sconnesso: il paesaggio che vedo sfilare sulla sinistra è desolante come lo sono d’inverno le località balneari. Campeggi chiusi, qualche roulotte parcheggiata nei piazzali, attrezzature coperte da teli. Lo stesso flusso di cartelli di pensioncine e affittacamere che mi aveva accompagnato a luglio verso il lido – ora tutti spenti – mi conduce laggiù in fondo: sulla sinistra, dopo un paio di curve e dopo un restringimento e un’area occupata da cassonetti, si accede al parcheggio di Playa Punta Canna: è il più grande, tra quelli dei lidi della zona. Tutto chiuso. Il mare si è mangiato metri di spiaggia verso le dune e le canne di bambù. Qualche rara presenza umana lungo il sentiero che si snoda verso l’arenile: più che altro proprietari di cani che portano i loro animali a correre. «Vent’anni fa qui era pieno di drogati che venivano a bucarsi. Poi ho bonificato la zona con le mie mani», aveva raccontato Scarpa nei giorni caldi dell’indagine. Se e in che modo lo avesse fatto, non è dato sapere. Nella spiaggia del «regime» ci sono rami d’albero e detriti portati dalla corrente del mare. E gabbiani che beccano nella sabbia umida. Il mare è grigio e basso come lo è anche d’estate qui a Sottomarina. Guardo il capanno del bar di Punta Canna, le strutture, gli spogliatoi, le cabine. Tra un po’ inizieranno ad attrezzare il lido per la nuova stagione. Senza Gianni Scarpa. «Basta, a 65 anni mi ritiro», mi racconta. «Lascio spazio ai giovani. A Punta Canna ci andrò solo a fare il bagno. Mattina e sera, come faccio da 40 anni.» Con la società che gestisce lo stabilimento non ha più rapporti formali e contrattuali. «Ma nel lido ci saranno le foto con la mia faccia: al posto delle foto di Mussolini, ci saranno le mie. Perché la storia non si cancella e quel lido è la mia storia.» Il gabbiotto dove c’era il suo ufficio è chiuso ma tra qualche mese le assi di legno verranno riverniciate. Scarpa non è arretrato di un centimetro rispetto alle posizioni della sua estate nera. «Vale quello che ho sempre detto: “me ne frego!” Non mi sono pentito di quello che ho detto e di quello che ho fatto. Mussolini è un uomo che mi è sempre piaciuto. Fino al ’38, quando ha fatto le leggi razziali: lì ha rovinato tutto quello di buono che aveva fatto. Vede che cosa sta succedendo oggi? Gli italiani hanno voglia di ordine, di sicurezza, di leggi. Questo ritorno del cosiddetto fascismo era inevitabile. Se le leggi non funzionano e destra e sinistra sono uguali – nel senso che fottono la gente – alla fine è normale che vengono

fuori queste spinte.» Gli ricordo che lui ha dato il suo contributo alla causa: i cartelli del duce, gli inni al regime, lo sterminio dei tossici. «Comunicavo le mie idee alla gente e alla gente piaceva. Ecco, forse sui tossici ho esagerato. Lì ho fatto un errore. Da sterminare sono gli spacciatori, i narcotrafficanti. I tossici sono dei malati che vanno curati. Ma cosa vuole, non sono un esperto.» Scarpa ha una figlia di 11 anni che fa danza classica. «Perché se va al parco con le amiche devo avere paura che venga aggredita da qualche “merda”? I parchi sono piene di gente di merda che andrebbe falciata.» Gli chiedo che cosa pensa di Luca Traini, il neonazi che a Macerata ha sparato contro sei africani. E anche dell’omicidio di Pamela Mastropietro. «Traini ha fatto una stronzata. Se proprio voleva fare le cose bene doveva andare in un parco dove ci sono gli spacciatori, che siano italiani o africani non cambia, e sparare contro di loro. I tre che hanno ucciso la povera ragazza andrebbero impiccati.» Che ami i toni forti, Scarpa, si sa. Né la vicenda che lo ha reso celebre lo ha calmato. «Io sono così. Credo che se non ci pensa lo Stato, alla fine ci pensano i cittadini. Traini è pazzo, ma è l’effetto di uno Stato che non funziona.» Le ronde, la giustizia fai da te, lo Stato Forte: tutti temi di propaganda dell’estrema destra, di CasaPound e Forza Nuova. «Questi movimenti crescono perché la politica ha fallito. Ma io me ne frego anche di loro. Non ho mai votato e continuo a non votare.» Da luglio 2017 Scarpa è stato corteggiato dai media e dalla politica. «Mi hanno proposto di candidarmi ma ho rifiutato: faccio la mia vita, mi basta quello che ho. In televisione non vado», ci tiene a precisare, «perché dovrei confrontarmi con gente che dice delle stronzate e non ho voglia.» Ad agosto però ha fatto l’opinionista per Radio Padova, nel programma Morning Show di Alberto Gottardo. «Lui è di sinistra, io di destra: siamo diventati amici», ricorda Scarpa. Mi chiedo in quale imbarazzo mortale si sia trovato uno col passato politico di Gottardo, che nel 2015 ha curato la campagna elettorale della renziana Alessandra Moretti per la presidenza della Regione, a lavorare con un soggetto come Scarpa. La risposta la leggo sul «Mattino di Padova»: «Si fa presto a dire fascista, lui è una persona che ragiona per schemi semplici, molti dei quali si scontrano con i dettami mussoliniani».50 E più avanti precisa: «Scarpa ha le idee un po’ confuse, ma molte sue affermazioni sono condivisibili. Nel suo profilo WhatsApp ha scritto “Destra e sinistra sono finite nel Novecento” e in questo risulta molto più moderno di altri». Forse in pensieri del genere si annida il pericolo più grande: quelli che dovrebbero essere gli anticorpi naturali contro il fascismo, gli italiani di sinistra, finiscono per scusare il pensiero più reazionario e razzista come idee confuse ma condivisibili. Forse è proprio per questo che il

virus del fascismo sta vincendo in questi ultimi anni. Crimini d’odio Penso a quante decine di segnalazioni ho ricevuto da tutta Italia: cittadini e lettori che mi informavano sul nostalgismo di ritorno di proprietari e gestori di ristoranti, bar, esercizi commerciali, luoghi privati ma aperti al pubblico. Altre piccole Chioggia, forse. Penso a quanti mi hanno mandato fotografie e nomi di indirizzi di posti i cui titolari «articolano il pensiero» esponendo immagini del Ventennio, foto del duce, simboli e slogan del fascismo. Informazioni che per ora ho archiviato. Per raccontare uno spaccato «commerciale» dell’Italia che non si vergogna più di dirsi fascista, che lo grida e ne va fiero nonostante il fascismo in Italia sia fuori legge dal 1948, è bastato il caso di Chioggia. A prescindere dal giudizio e dalle conclusioni a cui è arrivata poi la magistratura. Le domande che restano inevase sono altre. Quando abbiamo smesso di indignarci? Dove è finito quel minimo bagaglio di anticorpi che ci faceva reagire di fronte al degrado e all’imbarbarimento dei toni e dei temi che ha finito per inquinare il dibattito pubblico? Perché abbiamo lasciato che l’intolleranza, la xenofobia, la deriva fascista si infilassero nelle nostre insicurezze espandendosi come dei tasselli ficcati nel muro? La vicenda «raccapricciante» di Punta Canna – per usare le parole del questore di Venezia – ha portato i magistrati a non ravvisare nemmeno un reato. Solo «baruffe chiozzotte». Eppure l’Italia è avvelenata dai crimini d’odio. Ogni due giorni nel nostro Paese viene commesso un reato ispirato all’odio razziale, alla xenofobia, all’apologia e al richiamo del nazifascismo. Lo rivela un monitoraggio di tutti i tribunali italiani commissionato dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Sono 853 i procedimenti avviati nel triennio 20152017 nelle 26 corti d’appello italiane.51Più di 284 all’anno. Quasi uno ogni due giorni. Al primo posto c’è il Lazio con 202 casi. Al secondo posto c’è la Lombardia (159). Seguono Emilia Romagna (157 ), Toscana (58) e Veneto (34). Questo dimostra che l’olio nero si spande in maniera geograficamente trasversale, con un impatto diverso a seconda delle varie aree del Paese. La fotografia scattata dal ministero della Giustizia racconta, dopo il razzismo terrorista di Macerata, quanto sia alto in Italia il rischio, almeno potenziale, che possano replicarsi altre situazioni simili. Sono episodi che fermentano nel brodo di coltura di chi – come dice Gianni Scarpa – «di fronte a uno Stato debole,

decide di farsi giustizia da sé». I dati raccolti da Orlando negli uffici giudiziari sono stati trasmessi al procuratore generale presso la Corte di Cassazione, Riccardo Fuzio. Con una nota scritta dallo stesso Guardasigilli. Che mette in guardia. «I gravi fatti degli ultimi mesi confermano l’opportunità di mantenere alto il livello di attenzione rispetto all’emersione di condotte di intolleranza e discriminazione.» Sul tema del contrasto ai rigurgiti neofascisti a fine 2017 da via Arenula era partito un doppio input: una proposta al Consiglio dei ministri per rendere più fluida la normativa per lo scioglimento dei gruppi neri, e una alla Scuola superiore della magistratura per l’istituzione di un corso ad hoc sui reati d’odio. La prima è caduta nel vuoto. La seconda no. È un’iniziativa necessaria, perché la sensibilità e la percezione del rischio vanno incentivati nei magistrati, non si tratta solo di applicare norme, ma saper leggere dietro i fatti. Il corso per formare i magistrati sui reati d’odio e sulle recrudescenze neofasciste si terrà a ottobre 2018. A Punta Canna la stagione sarà appena finita.

50 Spiaggia fascista il gestore indagato diventa opinionista, di Carlo Bellotto, «Il mattino di Padova», 8 agosto 2017, cfr. http://mattinopadova.gelocal.it/padova/cronaca/2017/08/08/news/spiaggiafascista-il-gestore-indagato-diventa-opinionista-1.15711459 51 I mille crimini d’odio che avvelenano l’Italia, di Paolo Berizzi, «la Repubblica», 11 febbraio 2018.

5. IL PENTITO DI FORZA NUOVA

Padova, febbraio 2018 Uno che ci mette la faccia L’appuntamento è al caffè Pedrocchi. Ci sediamo a un tavolo. Forse non il migliore confessionale possibile, e forse troppo in vista per lui. Ma il «Greco» è uno che tutte le cose che ha fatto, anche quelle raccontabili, le ha fatte in piazza, alla luce del sole nero. «Sempre stato in mezzo alla gente. Anche tra quelli che mi volevano morto. Qui dietro c’è piazza dei Signori: quando ci andavo, negli anni caldi, ogni volta rischiavo di prendere una martellata in testa. Ma ci andavo. Pazzo? Quello sicuro. Io volevo fare la rivoluzione, non il «cinema». I ragazzini di oggi invece, oltre che vuoti e manovrabili, anziché andare in strada e fare politica si prestano ai magheggi per fare felice il proprietario del partito. Il fascismo è diventata una holding. Una moda che illude tanti, e che fa arricchire pochi.» Il «Greco» è Paolo Caratossidis, 42 anni, stessa corporatura morbida di quando era in prima fila con Forza Nuova nelle piazze fasciste. Tredici anni di militanza: poi, nel 2010, l’addio. «Me ne sono andato non senza sofferenza. Ma oggi sono felicissimo di averlo fatto.» In questi anni ha studiato molto e si è reinventato cuoco: vive tra la sua Padova e Venezia ed è sempre in giro per fiere e ristoranti. Quando non lavora sta con il figlio oppure legge e rilegge. Un po’ di tutto, da Marx al «maestro» Gualtiero Marchesi. Ho impiegato mesi per convincere Caratossidis a parlare del suo passato, del fascismo di ritorno e dei segreti di Forza Nuova. Era il coordinatore nazionale, il numero due dopo Roberto Fiore. Un posto in cabina di regia. Un’idea del perché ci sia voluto così tanto tempo me la sono fatta. Anni fa un investigatore mi disse che i movimenti

di estrema destra sono come sette. «È vero», conferma il Greco. «Forza Nuova era, ed è, come una setta. Solo che oggi, rispetto ad allora, sono quattro gatti.» La conseguenza di essere una setta è che quelli che escono, per chi resta è come se sparissero. Non è che li ammazzano. Sono i fuoriusciti che chiudono. Tirano su un muro col passato e non vogliono più sfiorarlo. Nemmeno con le parole. Sarà per questo che di fascisti pentiti – non nel senso di collaboratori di giustizia, pentiti dentro, perché non rifarebbero nemmeno l’1 per cento di quello che hanno fatto, e non si sentono vigliacchi ad ammetterlo – ce ne sono pochissimi. Caratossidis parla a tutto campo. Fantasmi compresi. «Credo che la mia storia mi permetta di dire ciò che voglio. Ho fatto vent’anni di politica. Io mi facevo la strada e, soprattutto, ci mettevo la faccia. Mi sono beccato chili di condanne. Ho dato e preso botte e portato la gente in strada quando sui fascisti c’era ancora una pregiudiziale fortissima: un accanimento istituzionale, giudiziario, mediatico. Non come oggi. Ho creduto in un’idea che non c’è più. Puff, sparita. Me ne sono andato nel 2010 perché ho capito che quella politica in cui avevo creduto, le battaglie anti-sistema contro il potere, contro le ingiustizie, contro i privilegi, era tutta una farsa, una fregatura bella e buona. Andandomene misi spalle al muro i mercanti nel tempio. Ma vedo che rispetto ad allora non è cambiato niente. Sono ancora lì. L’unica cosa diversa è che oggi si è indebolito l’antifascismo. Non solo quello dei centri sociali. Quello del popolo italiano, in generale. E i “fascisti del terzo millennio”, come si fanno chiamare, ne approfittano. Il soggetto dell’estrema destra oggi è CasaPound. Per loro non ho nessuna simpatia. Ma sono gli unici che hanno numeri, programmi, progetti. Magari si sgonfieranno. Ma intanto hanno fatto sparire Forza Nuova. Che è ormai un partitino minuscolo e sempre più personale.» Ho conosciuto Caratossidis in un caseificio sul lago di Bolsena. Era il 2006. Dal 29 settembre al primo ottobre, a Marta, provincia di Viterbo, Forza Nuova aveva organizzato un raduno internazionale. Centinaia di estremisti di destra provenienti da tutta Italia, Francia, Spagna, Inghilterra, Grecia, Polonia, Ungheria, Austria, Olanda, Belgio. Il caseificio era davvero un caseificio, un’azienda in attività: capannoni e spazi esterni dove i naziskin si erano accampati con tende e minivan. Il proprietario aveva messo a disposizione dei forzanovisti e dei loro gemellati d’oltreconfine due capannoni in disuso. Uno era stato adibito a dormitorio e refettorio. L’altro a sala dibattiti e a sala concerti: un palco, sedie, grandi casse che per tre giorni ogni sera avevano sparato note spaccatimpani prodotte da una serie di gruppi nazirock. Ero andato a seguire

quel raduno per «Repubblica». L’avevo raccontato in un reportage del quale mi rimasero impresse due cose: l’odore di caglio che permeava quegli spazi affollati da teste rasate e che si mischiava ai fumi dell’alcol consumato durante i concerti, soprattutto birra. E poi lui, Caratossidis. Nemmeno sapevo lo chiamassero il «Greco». Mi avevano detto di rivolgermi, per chiedere informazioni, e per accreditarmi, a un altro camerata: Massimo Perrone. Un tipo alto e pelato, anche lui tra i fondatori di Forza Nuova. Un altro fuoriuscito in polemica con Fiore. «Siamo nati scommettendo sulla crisi della politica, per raccogliere i militanti che credevano in un progetto di destra. Oggi tutto questo non c’è più, Forza Nuova sopravvive per consentire a Roberto Fiore di sopravvivere», dirà in un’intervista.52Alla fine fui rimbalzato e mi trovai a parlare con Caratossidis. Mi colpirono alcuni dettagli: il numero due del partito più fascista, estremista, intollerante e xenofobo d’Italia si presentava con un aspetto molto diverso dalle altre centinaia di camerati che stavano partecipando a quel raduno. Forse era un buon modo di dissimulare. O forse, come mi dice adesso avvicinando alla bocca la tazzina bollente al tavolo del Pedrocchi, «non me ne è mai fregato niente di fare quello che fa brutto con l’aspetto fisico, i muscoli, i tatuaggi. Lo stereotipo del fascista che fa paura è ridicolo, patetico.» L’altra impressione che avevo avuto del «Greco», ma poteva essere totalmente sbagliata, era questa: di avere di fronte uno che faceva politica non per interesse o per convenienza personale. Tantomeno per mettersi in mostra di fronte alla sua gente, quei crani rasati che si dimenavano «pogando» gli uni contro gli altri mentre i gruppi dal palco esaltavano la razza e il potere bianco. Delle sue idee non ne condividevo una. Ma i modi di Caratossidis erano lontani da quelli con cui normalmente i militanti neofascisti si rapportano ai cronisti; specie quelli che lavorano per giornali e televisioni che appartengono a un’area culturale diversa da quella della destra e dell’estrema destra. «La logica per cui se uno la pensa diversamente da te diventa automaticamente tuo nemico, uno da guardare di traverso o da azzannare, è una logica belluina che ho sempre rifiutato. Ho avuto e ho amici di sinistra. Ho conosciuto ex terroristi rossi e spesso ho trovato più possibilità di confronto culturale con loro che con alcuni dei miei. Lo dico nel rispetto delle mie idee politiche, che non rinnego. E anche di quelle degli altri. Puoi non condividerle, ma le devi rispettare.» Un greco trapiantato a Padova

Visto dall’alto il liceo scientifico «Curiel» di Padova è una falce e un martello. Il tetto dell’edificio ha la forma del simbolo del Partito comunista. «Liceo rosso, ultrapoliticizzato. Gli insegnanti comunisti li spedivano tutti qui in periferia. Quelli democristiani nelle scuole del centro.» Quartiere Arcella, 100mila abitanti: un terzo della popolazione di Padova. «Casa e scuola, tutto in quartiere. Fabbriche, operai meridionali, famiglie povere. Oggi ci sono gli immigrati stranieri.» Anche Caratossidis è figlio di immigrati. «Mio padre Vassilios in Grecia era contadino. Come tanti viene a Padova per studiare ingegneria. Scappa dalle divisioni laceranti causate dalla guerra civile: famiglie che si spaccavano. Le mie zie stavano con il KKE (il Partito comunista greco, n.d.r.), mio padre dall’altra parte. A Padova Vassilios alloggiava al collegio Fusinato, che poi diventa la base di Autonomia Operaia.» Siamo nel pieno degli anni di piombo. «Un giorno è in mensa coi suoi compagni di università: arrivano un centinaio di militanti di AO: “via di qui, siete spie dei colonnelli greci”. O stavi con loro o ti perseguitavano. In quegli anni a Padova era così. Come potevo avere simpatie per l’estrema sinistra?» mi dice sorridendo. Paolo cresce assorbendo questi racconti dal padre: passano gli anni del terrorismo ma resta, in una città come Padova, la forte divisione fra movimenti studenteschi di destra e di sinistra. A cavallo fra gli anni Ottanta e i primi Novanta va al liceo dei rossi più che altro per seguire le orme del fratello Christos. «Mi piaceva l’idea di poter esprimere il mio pensiero e le mie idee anche in un posto dove tutti o quasi tutti la pensavano diversamente.» L’esordio con la politica si chiama Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile del Msi. «Facevamo le autogestioni con quelli di sinistra. Ognuno portava il suo materiale e i suoi volantini. C’era ancora un clima accettabile: qualche scazzo ogni tanto, ma tutto nei limiti. Primo sciopero fu per l’invasione e la guerra del Golfo. Ma di spranghe non se ne vedevano ancora.» Il futuro capo forzanovista, «delinquente politico nato» – come lo definì Ugo Maria Tassinari dieci anni fa – è stato un recordman di denunce e condanne: più dei leader antagonisti coi quali in quegli anni si inseguivano come il gatto e il topo, i Luca Casarini, i Francesco Caruso. «Le prime grane arrivano quando ero ancora minorenne. Ma i veri casini iniziano all’università. Lì il clima cominciava a essere pesante.» Nel 1995 Caratossidis si iscrive a Scienze Politiche. «Era come andare nella tana del nemico. Quella facoltà era il covo di Autonomia operaia. Da lì iniziò tutto. Toni Negri era ancora latitante. C’erano gli altri, Luciano Ferrari Bravo, Alisa Del Re, Guido Bianchini, Sandro Serafini. Erano tutti lì. Io studio e inizio a fare le liste. Mi candido, divento consigliere di facoltà. Ma la vita lì dentro per

me diventa impossibile: mi trovo circondato. Era come andare in un centro sociale. Vado in esilio a Giurisprudenza. Ci trovavamo al bar “da Mario”.» L’Msi con la svolta di Fiuggi diventa Alleanza Nazionale. Come tanti, anche il «Greco» esce dal Fronte della Gioventù e aderisce a Gioventù Nazionale. «Dal ’95 al ’97 tutte le realtà di estrema destra che non avevano sopportato Fiuggi confluiscono nella Fiamma Tricolore di Pino Rauti. Fine intellettuale ma, nella pratica, uguale a Fini: faceva politica per interesse personale e basta. Il mio riferimento di quegli anni, per visione politica e anche per dignità umana, era Franco Freda53.» Nel terreno del neofascismo italiano stanno per essere innestati i semi che daranno vita a Forza Nuova. È il ’97. Caratossidis è uno dei fondatori del partito, il più antico ancora attivo nella galassia dell’estrema destra italiana. All’epoca i due leader Fiore e Massimo Morsello sono latitanti a Londra per sfuggire all’accusa di banda armata e associazione sovversiva. «Arrivo a Londra e mi sembra tutto bellissimo: una struttura, un’organizzazione. Là c’erano “Flower”» – così chiama Fiore, in alcuni passaggi, quasi con benevolenza nonostante i giudizi sull’uomo e sul politico siano severi – «e Massimo, la buon’anima.» Massimo Morsello, anche lui, come Fiore, fondatore di Terza Posizione, dopo la strage di Bologna fugge in Germania e si ritrova in Inghilterra (il terzo fondatore, Gabriele Adinolfi, ripara invece in Francia). Fiore e Morsello mettono su una società, la Easy London: iniziano come affittacamere e poi il business si allarga. Ostelli, interi palazzi, studenti fatti arrivare da mezza Europa negli anni in cui Londra è la città dei giovani. Tanti dall’Italia vanno a lavorare lì, e con le loro braccia mandano avanti una struttura economica che dà respiro a Forza Nuova. «Dopidiché il campo politico del nostro movimento era e doveva essere l’Italia. C’erano i furbi che andavano su a fare soldi. E c’erano quelli che stavano qui a prendere le bastonate e a difendersi.» Che faceva, Fiore, a Londra? Chiedo al «Greco» se è vero quanto sancito in un rapporto del 1991 firmato dalla prima commissione d’inchiesta del Parlamento europeo su razzismo e xenofobia, e cioè che il segretario di Forza Nuova collaborava con i servizi segreti inglesi, l’MI6, come del resto sostenevano molti giornali locali – anche se Fiore ha sempre respinto il sospetto.54 «Non lo so. So che se i servizi inglesi si sono ridotti a usare Fiore e altri soggetti come agenti segreti sono messi male. Fosse vero, sarebbe la fine di God Save the Queen!» Perché? Secondo lui «loro erano là per fare soldi. Badavano a quello. Milletrecento appartamenti affittati ai ragazzi. Se penso oggi a certe contraddizioni, sorrido.» Caratossidis racconta come funzionava il business di Fiore & Co. «Alla faccia di quanto

predicavano con la loro politica – antiebraica e antislamica – compravano palazzi in disuso dai “land lord”.» Sempre secondo la sua ricostruzione «i “land lord” a Londra in quegli anni erano tutti ebrei o arabi. Gli edifici li rimettevano a posto usando manovali e manutentori polacchi. Idem i cleaner, gente che faceva le pulizie nelle camere. I guardiani erano tutti giovani italiani.» Chi era la mente di quell’attività poi diventata un piccolo impero? «Massimo Morsello. Lui era un vero imprenditore. E per di più con una visione politica vera. Fiore no. È sempre stato disordinato, un pasticcione. Anche in politica. Mi accorsi che, mentre tirava su denaro per finanziarla, aveva dato vita a qualcosa che assomigliava a una piccola setta di tradizionalisti cattolici. Un partito personale teocratico. Facevano i moralisti, parlavano di patti lateranensi. Però avevano avuto due-tre-quattro mogli, amanti, figli fuori dal matrimonio. Chi parlava e faceva la morale agli altri non erano i templari! Era gente che predicava bene e razzolava malissimo. Ma l’immagine che si voleva dare era questa: una setta politico-religiosa.» Il «Greco», l’ex delfino di «Flower». Al netto di indulti e prescrizioni, nei vent’anni di militanza neofascista ha accumulato condanne per un totale di quattro anni di carcere: dove però non è mai finito. «La maggior parte per manifestazioni non autorizzate…» Ma non solo. Caratossidis fu indagato (e poi prosciolto) per associazione sovversiva con l’aggravante di terrorismo. Diversi i procedimenti aperti per violazione della legge Mancino. Nei confronti del «Greco» la Digos ha depositato qualcosa come 150 notizie di reato. E di queste una cinquantina si sono trasformate in procedimenti a suo carico. C’è anche una rogatoria internazionale: la chiese il giudice veronese Papalia. «Ero a Londra, che in quegli anni era, di fatto, la base di Forza Nuova e soprattutto la base operativa di Fiore (che vi rimase da latitante per 19 anni, n.d.r.). Mi interrogò Scotland Yard. Ma in Inghilterra se li rispetti non ti toccano. Là la libertà di pensiero è rispettata davvero.» Poi c’è il fatto di cronaca che ha reso Caratossidis tristemente celebre, «andai anche sui telegiornali giapponesi.» Il 10 gennaio 2003 guida il raid squadrista negli studi dell’emittente veronese Telenuovo dove è ospite Adel Smith, presidente dell’unione musulmani italiani. Quaranta militanti di Forza Nuova fanno irruzione nello studio dove il predicatore islamico sta partecipando a un dibattito e lo aggrediscono. Uova, spintoni, pugni, schiaffi. «Mi condannarono a due anni, stranamente per il banalissimo reato di “violazione di domicilio”… Smith non lo sfiorai nemmeno: gli dissi che era un talebano e che non poteva venire in Italia e pretendere di togliere il crocifisso dai luoghi pubblici. Se lo rifarei oggi? No. Non ne è valsa la pena. Anche se allora eravamo gli unici in prima linea contro l’islamizzazione che poi avrebbe portato

a derive folli come il terrorismo liquido dell’Isis.» «Pura e patetica teatralità» La prima e anche la seconda fila erano formate da camerati coi caschi in testa e mazze arancioni in mano. Tenute in orizzontale, a formare un cordone come usava nei servizi d’ordine delle manifestazioni negli anni di piombo. Ma era il 2009: sabato 28 ottobre. Forza Nuova aveva organizzato un corteo a Bergamo, la mia città, in occasione dell’apertura di una sede. Un centinaio di manifestanti sfilano dal piazzale della Malpensata lungo via Taramelli in direzione della stazione ferroviaria. In testa al corteo ci sono Fiore e Caratossidis. Fiore in abito grigio e camicia. Il «Greco» indossa un eschimo verde e tiene in mano il megafono: è lui che guida il corteo neofascista. Lui lancia i cori. «Contro il comunismo la gioventù si scaglia, boia chi molla è l’inno di battaglia!» «Forza Nuova orgoglio nazionale». I militanti cantano l’inno di Mameli e fanno il saluto romano. Rivedo dunque il «Greco» tre anni dopo il raduno di Viterbo. Ma il clima in strada è teso. Bergamo è blindata, i centri sociali hanno organizzato un presidio che finirà con pesanti incidenti, cariche della polizia, 60 persone fermate, feriti, scene da guerriglia urbana. Un ragazzo a terra manganellato brutalmente dai celerini. «Uniti! Intruppati!» incita Caratossidis i suoi mentre dal corteo qualcuno grida «Sieg Heil!» «Piano, un passo alla volta». Quella è stata una delle ultime manifestazioni a cui ha partecipato il «Greco» prima di ritirarsi e cambiare vita. «In quegli anni con la sinistra ci si contendeva ancora le piazze… La presenza coi cortei era il nostro modo di testimoniare l’opposizione al sistema», mi racconta oggi ricordando quella giornata. «Ma penso che tante cose sono cambiate. A partire dalle realtà antagoniste. Si sono dimezzate. E così Forza Nuova. Vuol dire che non sei stato più capace di farti seguire, di creare un movimento, un’adesione giovanile.» In testa al corteo di Bergamo c’era anche un prete. Sì, un prete. All’inizio non l’avevo notato. Poi mi sono studiato le fotografie della manifestazione ed eccolo, era spuntato lui: l’uomo con la tunica. Don Giulio Tam. Il prete dei camerati. Un padre lefebvriano (allora, poi è stato cacciato anche dai lefebvriani) che si definiva «gesuita itinerante». Un prete in testa a una parata in stile paramilitare. Un prete che a un certo punto fa il saluto romano e «benedice» i neofascisti che sfilano per le strade. Giulio Tam è nipote di Angela Maria Tam, fucilata dai partigiani nel 1945. Cappellano dei gruppi di destra, già candidato con Alternativa sociale

alle elezioni europee, non ha mai fatto mistero del suo tradizionalismo e si è battuto contro le ipotesi di «riconciliazione storica» espresse da Gianfranco Fini. Sospeso a divinis dal Papa per le sue posizioni estremiste, da anni Tam celebra omelie nei giardini della villa museo di Benito Mussolini a Predappio. Centinaia di camerati in pellegrinaggio scattano selfie sulla tomba del duce pagando dieci euro per l’ingresso. Poi c’è la messa dell’uomo in abito talare. Il 7 novembre 2017 scopro una «chicca» di padre Tam: in un discorso che risale probabilmente alla festa di Cristo Re del 2016, inneggia alla marcia su Roma. «Mille grazie a Mussolini e ai suoi uomini, che hanno avuto la volontà, il coraggio, la decisione di farla…» dice in piedi sull’altare. Poi prosegue l’omelia. Propone un manuale del buon fascista. «Non basta la camicia nera e fare un saluto romano.» Lo dice alzando il braccio destro. «Essere fascisti vuol dire credere, combattere e morire per quelli che sono i fondamenti della civiltà: Dio, patria e famiglia». Quindi ritorna su Mussolini: «È un uomo che ci è stato inviato dalla provvidenza divina».55Caso vuole che sono passati solo pochi giorni dalla «marcia dei patrioti» che il 4 novembre Forza Nuova ha allestito a Roma dopo che Minniti aveva vietato quella del 28 ottobre. Seduto al caffè Pedrocchi, ricordo a Caratossidis quella giornata bergamasca. Il saluto romano di Tam e la folle omelia. «Pura e patetica teatralità», mi dice lui, a vederla oggi. «Penso che i preti che aderirono a Forza Nuova, tra cui Tam, erano appunto lefebvriani che neanche i lefebvriani volevano più. Ma erano funzionali a una rappresentazione. Quella di cui parlavo prima, a carattere settario. Per dare l’idea che Forza Nuova fosse una comunità religiosa integralista, intransigente. Fondata sui valori della famiglia tradizionale. Con tutte le contraddizioni in termini di cui ho detto e che erano talmente note, tra noi, da diventare quasi un barzelletta.» È questa, secondo il «Greco», la colpa principale del suo «ex» segretario. «Non parlo guidato da rancore o frustrazione. Io ho ammesso il mio fallimento politico. Fiore non l’ha mai fatto. Eppure Forza Nuova, per com’è ridotta oggi, meriterebbe un’ammissione di fallimento o come minimo una forte autocritica. Invece no. A quasi 60 anni Fiore è ancora lì che cerca di manipolare politicamente ragazzini di 18-20 anni.» Più o meno la stessa età, non casualmente, nella quale lui, il giovane Caratossidis, entrò in Forza Nuova. «Non rinnego nulla. Ci sono stato per 13 anni. Mettendoci sempre la faccia, non facendo mai la fronda al mio segretario. Che comunque ho sempre rispettato e non ho mai tradito. E questo per disciplina da militante. All’epoca credevo in quello che facevo. Ma riguardando indietro ho consapevolezza che le cose che

avevo infine messo a fuoco, stavano esattamente così.» E dunque, gli chiedo, cosa ha innescato la disillusione e il ritiro da Forza Nuova. Quali sono i meccanismi che non è riuscito a accettare. Il «Greco» torna al periodo inglese. Mi dice che la fortuna iniziale di Fiore e Morsello, poi morto nel 2001, secondo lui ha un nome: Margareth Thatcher. «Fu lei a graziarli. I terroristi neri erano scappati quasi tutti in Inghilterra. Servizi segreti o no, diciamo che l’Inghilterra della Thatcher ha permesso loro di stare nel Regno unito per quasi vent’anni. Come rifugiati politici. La stessa cosa che fece Mitterrand in Francia con i rossi. Questo non per connivenze e complicità, ovviamente. Ma perché sia Fiore che Morsello – entrambi condannati per eversione – a Londra non davano problemi.» Anzi, muovevano l’economia. Quella inglese più o meno, la loro di più. Come documentato in un’inchiesta de «l’Espresso» la rete economico-finanziaria di Roberto Fiore, tra Inghilterra e Russia è un impero economico costruito quando lui era ancora latitante a Londra, un impero fatto di società di capitali, cooperative sociali, e trust stranieri con giri di denaro nei paradisi fiscali. Un business di milioni di euro nel quale figurano, in qualità di prestanome, diversi militanti forzanovisti e collaboratori del capo, oltre a suoi familiari. Da tempo si conoscono due storici marchi turistico-alberghieri, London Orange e Easy London, specializzati nell’organizzare viaggi-studio per giovani in Inghilterra. Più recente è la scoperta di tre società fiduciarie di diritto britannico (che permettono ai titolari di restare anonimi) riconducibili a Fiore, una delle quali si chiama «Saint Michael the Archangel».56Particolare simbolico: è proprio nel giorno di San Michele Arcangelo, il 29 settembre, che Forza Nuova viene fondata nel ’97. E il santo è anche il simbolo della Guardia di Ferro romena, alla quale il partito di Fiore si ispira. È emerso anche che Fiore sarebbe collegato all’associazione italo-russa Alexandrite, attraverso la quale il capo neofascista in questi ultimi anni avrebbe organizzato «missioni imprenditoriali» in Crimea di alcune aziende italiane che poi hanno delocalizzato laggiù chiudendo in Italia. Di tutti questi movimenti – che in vent’anni hanno forse permesso a Forza Nuova di restare a galla e a Fiore di arricchirsi (nonostante in Italia risulti intestatario solo di una piccola società, la Immobiliare Brighton) – Caratossidis dice di sapere poco e niente. Lui è fermo agli appartamenti affittati agli studenti a Londra. Dice anche che «dopo la morte di Morsello la forza di quelle attività è diminuita.» Quel che si è sviluppato da un punto di vista finanziario negli ultimi dieci anni è materia oscura, per il «Greco». O almeno così sostiene. Non mi convince, perché nei diciassette anni che ci separano dalla morte di Morsello, nel 2001, la mole degli affari deve essere sicuramente cresciuta, ed è difficile credere che uno

come lui, così vicino al numero uno di Forza Nuova, non sappia nulla delle sue attività finanziarie. A meno che Fiore non le gestisse come affari privati. E infatti Caratossidis mi dice: «Fiore si è creato un sistema familistico che non ha nulla a che fare con la politica». E si spinge ad affermare, forse per risentimento, «non separava la sua cassa da quella del movimento. Un movimento-famiglia. Ma quello che è emerso non mi sorprende: è una conferma a quello che pensavo e che mi ha portato ad andarmene lasciando una comunità politica e, per certi aspetti, anche umana che avevo concorso a guidare per tanto tempo. Chiedo: la trasparenza dove sta? Come fai a dire che vuoi combattere il sistema e i partiti tradizionali se mischi vita privata e politica, affari e famiglia?» Nel 2010 Caratossidis è candidato alle elezioni regionali del Veneto. Anche nel 2006 ci aveva provato. «Non è andata. Sono rimasto sulla strada. Guidavo le manifestazioni, tenevo le piazze. Organizzavo la rete territoriale del movimento, le sedi. Con Fiore lavoravamo in sinergia, anche se non ho mai condiviso il suo modo di fare politica. Io lo chiamo ottenere “prebende”. Apri una sede, ti fai dare dei soldi dai militanti e poi la chiudi.» Solo un antico ricordo Mi colpisce questa amarezza del «Greco». Fare bilanci aiuta sempre, certo. Ma ascoltando il racconto di Caratossidis non so bene a cosa pensare. Se a un ex fascio «duro e puro» schifato dalla deriva presa dal suo movimento. O se sotto sotto il suo è il risentimento di un politico dalle ambizioni frustrate e che non ha saputo conquistarsi il suo posto al sole. Il discorso vira sulle elezioni europee del 2004: «Abbiamo eletto la Mussolini con Alternativa Sociale: 200mila voti. Nel 2008 Fiore entra al Parlamento europeo. I pochi soldi che arrivavano servivano a sostenere l’attività politica: ma ne arrivavano pochini. Io giravo l’Italia e non avevo nemmeno i soldi per pagarmi un ufficio». E i 600mila euro arrivati dall’Unione europea ad Apf, il cartello di partiti nazionalisti ed euroscettici di cui fa parte Forza Nuova e di cui Fiore è presidente? «Classico esempio di come prendere dei soldi. Fiore ha capito che ci sono delle regole: la politica costa e cerchi di prendere soldi là dove sai che ci sono. Per quanto mi riguarda, e ho le prove, so che quando mi arrivavano dei rimborsi, li rimettevo nel movimento.» Gli altri, vuole alludere, non facevano così? Sono gli anni in cui quello che Tassinari definiva il «delinquente politico» recluta ultrà dalla curva nera del Padova – che frequenta fin da giovane – e li sversa nel serbatoio di Forza Nuova.

«Le curve erano un luogo di grande aggregazione dove c’era solidarietà e rete sociale. Ma anche gli ultrà sono finiti. Una volta c’era senso dell’avventura. E spazio per il dissenso. Oggi il dissenso è andato. Le nuove generazioni hanno altri valori e della politica non gliene frega niente. Sono attenti all’apparire: credono che fare politica di destra sia farsi i capelli a zero e andare in giro vestiti in un certo modo. Il quid politico non è dato dall’estetica. Devi credere in certe battaglie.» Guarda al fenomeno CasaPound, il «Greco». «La dimostrazione che comandano loro è stata Acca Larentia: 7 gennaio 2018. Non si era mai vista una piazza così. Lì si è capito che Forza Nuova è sparita.» Prima di salutare Caratossidis e lasciarlo alla sua cucina con cottura a zeolite – una pietra che se irrorata con l’acqua raggiunge 100 gradi di temperatura e cuoce ogni cibo evitando l’uso di gas e corrente – ho un’ultima domanda che mi preme fargli. Perché Forza Nuova nell’ultimo anno ha infilato una serie di inquietanti iniziative e provocazioni? Il blitz con la dichiarazione di guerra sotto «Repubblica»; la «mancata» Marcia su Roma del 28 ottobre poi rinviata al 4 novembre; i manifesti razzisti; fino alla vicinanza espressa a Luca Traini il pistolero fascioleghista di Macerata. «Per disperazione», mi dice lui secco. «Per cercare di guadagnare clamore mediatico. Nel tentativo di riprendere gli spazi persi. Ma non li riprendi più. La mia Forza Nuova era in cima all’estrema destra italiana ed europea. Quella di oggi è solo un antico ricordo. E forse è meglio così.» Mi auguro che sia come dice lui, anche se la sensazione è di una grave escalation che si consuma in una indifferenza o acquiescenza generale. Ma se ha ragione lui, e questa violenza è solo «pura e patetica teatralità», presto un lontano ricordo, allora anch’io penso che è meglio così. Ma per motivi opposti a quelli di Caratossidis. Il «caffè senza porte», come è soprannominato il Pedrocchi perché è aperto giorno e notte dal 1916, si popola di ragazzi per l’aperitivo. La Padova del «Greco» non è più terreno di battaglia tra rossi e neri ma. Ma tra neri e immigrati. Va così nell’era del sovranismo fascioleghista. Caratossidis mi ripete che la cosa a cui tiene di più è che la gente sappia che con la sua prima vita non ha più niente a che vedere. Glielo prometto. Ma in fondo non è così importante: so che chi leggerà la sua testimonianza, la prima da quando è uscito dal buco nero dell’estremismo, si sintonizzerà con le frequenze della vita che «a volte ti cambia. Sì a volte si cambia, a me è andata così.» Mi mostra le sferette di zeolite, il minerale di origine vulcanica che ha lanciato sul mercato per cucinare a impatto zero. Buona vita. Io devo tornare in Lombardia, nel Varesotto, dove agisce la più pericolosa e

misconosciuta associazione neonazista italiana.

52 Forza Nuova, i soldi pubblici e le relazioni pericolose con i colletti bianchi della ’Ndrangheta, di Guido Ruotolo, 13 settembre 2017, http://notizie.tiscali.it/cronaca/articoli/Forza-Nuova-soldi-pubblici-relazionipericolose-Ndrangheta/ 53 Ex terrorista di Ordine nuovo e tra i protagonisti della strategia della tensione, Freda è stato accusato di vari attentati dinamitardi e soprattutto di avere organizzato la strage di piazza Fontana. Dall’accusa, dopo una lunga serie di processi, verrà poi definitivamente assolto per mancanza di prove. È stato fondatore anche del Fronte Nazionale nel 1990, movimento sciolto nel 2000 e per il quale sarà condannato a 6 anni per incitazione «alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali». 54 I segreti di Roberto Fiore, il fascista a capo di Forza Nuova, di G. Tizian, P. Biondani, S. Vergine, «l’Espresso», 20 dicembre 2017, cfr. http://espresso.repubblica.it/inchieste/2017/12/15/news/soldi-oscuri-servizi-edelinquenza-tutti-i-segreti-di-roberto-fiore-il-fascista-a-capo-di-foza-nuova1.316175 55 https://video.repubblica.it/cronaca/giulio-maria-tam-il-prete-scomunicatoche-inneggia-a-mussolini/289091/289700 56 Tutti i soldi e le società di CasaPound e Forza Nuova: così si finanziano i partiti neofascisti, di Andrea Palladino, Giovanni Tizian e Stefano Vergine, «l’Espresso», 08 novembre 2017, cfr. http://espresso.repubblica.it/inchieste/2017/11/03/news/tutti-i-soldi-e-le-societadi-casapound-e-forza-nuova-cosi-si-finanziano-i-partiti-neofascisti-1.313304. Si veda anche I segreti di Roberto Fiore, il fascista a capo di Forza Nuova, di Paolo Biondani, Giovanni Tizian e Stefano Vergine, «l’Espresso», 20 dicembre 2017, cfr. http://espresso.repubblica.it/inchieste/2017/12/15/news/soldi-oscuriservizi-e-delinquenza-tutti-i-segreti-di-roberto-fiore-il-fascista-a-capo-di-fozanuova-1.316175

6. IL SOLSTIZIO DEI DODICI RAGGI DI VARESE

Caidate, Varese, dicembre 2017 Antichi riti pagani Il gelo notturno stringeva la distesa di alberi. Esaltava la desolazione tipica di quei luoghi periferici che hanno il pregio di essere vicini al cuore pulsante dell’economia e dei trasporti. Ma anche il limite di costituirne l’anticamera più spoglio e anonimo. A poche centinaia di metri dal falò hitleriano, rito pagano dell’antico solstizio, corrono i quarantatré chilometri dell’autostrada A8 MilanoVarese e le diramazioni che portano verso l’aeroporto di Malpensa. Migliaia di auto e camion ogni giorno, a tutte le ore, lungo l’asse del Gottardo. È da qui che si snodano i collegamenti dal Nord-Ovest verso la Svizzera. Da qui si passa se si vogliono scollinare i confini a Nord della regione più sviluppata del settentrione d’Italia e raggiungere il Canton Ticino: e da lì su verso i Grigioni e il cuore dell’Europa che pompa l’economia e produce ricchezza. Nei giorni che precedettero il Natale 2017, il freddo mordeva ai fianchi la zona compresa tra Varese e Busto Arsizio. Temperature talmente rigide che da queste parti solo dei cacciatori in appostamento nei capanni o dei matti avrebbero sfidato la notte. Il gelo dell’aria aveva come primo effetto quello di evidenziare le traiettorie verticali del vapore emanato dai respiri dei quindici militanti neonazisti in piedi intorno alla svastica. Ogni corpo uno sbuffo di vapore. Visto da lontano il gruppo poteva benissimo sembrare una milizia. La ricordava anche nei dettagli. Ma anche se avevano corporature e altezze dissimili, e nonostante fossero tutti vestiti

allo stesso modo, con pantaloni larghi, tasconi di lato, anfibi e giubbotti bomber neri o mimetici, e i capelli rasati, a rendere imperfetto il cerchio umano che attendeva paziente che il fuoco smettesse di bruciare era la postura di ognuno. Soprattutto quella delle gambe. Qualcuno le teneva allargate, piantate a terra. Altre erano allineate. Le ginocchia giunte, come nell’alzabandiera. Toccò al capo dei Do.Ra. il compito di appiccare il fuoco sotto la svastica. Sempre lui ufficiò la celebrazione del rito. Alla fine, quando le fiamme si azzerarono, i militanti si strinsero l’avambraccio destro uno con l’altro. Darsi il braccio è il saluto più diffuso tra i camerati dell’estrema destra. Soprattutto quelli della galassia skinhead. Nel bosco il tributo al dio germanico Odino si era compiuto. L’omaggio a Hitler pure. I quindici adepti del solstizio tornarono alle loro auto, nella notte varesotta. Caidate, frazione di Sumirago. Venti minuti di auto dal centro di Varese, altri venti dall’aeroporto di Malpensa. Il secondo d’Italia per numero di passeggeri, con i suoi 22 milioni nel 2017 e il primo per le merci movimentate, con le sue 590mila tonnellate. Via Papa Giovanni XXIII è un filo nel gomitolo di strade tipico dei paesi delle periferie lombarde. Capannoni, fabbriche, case basse, villette mono e bifamiliari, giardini curati, cani a spasso, silenzio. Microcriminalità sotto i livelli di guardia, a parte qualche furto nelle abitazioni. A metà della strada c’è il civico 8. È un ex magazzino. I muri bianchi, circondato da una «elle» di verde e protetto sul retro da una massicciata di cemento. È nata e cresciuta qui la più radicale, numerosa e strutturata comunità nazionalsocialista italiana. Si chiama Do.Ra., acronimo che sta per Comunità militante dei Dodici raggi. È il loro simbolo. Sono i raggi del Sole nero di Thule, lo stemma impresso nel pavimento di marmo della sala riunioni e nella torre nord del seicentesco castello tedesco di Wewelsburg. Risalire all’origine di questo simbolo aiuta a capire l’immaginario di cui si nutrono i Do.Ra. Il castello si trova nella cittadina di Paderborn, in Vestfalia. Oggi è un austero ostello per la gioventù e ospita un museo storico sui crimini del Terzo Reich. Ma negli anni Trenta era la sede esoterica in cui si riuniva l’élite delle SS, che ruotava attorno al più folle e fanatico fra i gerarchi nazisti: Heinrich Himmler. Il castello, nell’idea di Himmler, doveva celebrare il mito della superiorità germanica. Un mito alimentato da riti segreti e simboli pagani. Uno di questi è la ruota solare, il Sole nero di Thule, che il capo delle SS fece incastonare nel marmo posato a terra alla base della torre nord – il cuore simbolico del Wewelsburg, dove le sale rappresentavano la Endsieg (vittoria finale) del Terzo Reich su tutti i nemici. È a

questo disegno e a questa tradizione che si rifanno i Do.Ra. di Varese. Sono nostalgici di un passato che richiama sangue e macerie,57di una storia fatta di fantasmi che, come sceneggiatori di un copione distorto, vorrebbero resuscitare e vedere di nuovo al potere. Per i Do.Ra., ogni armamentario simbolico utile a rievocare il cupo regime nazista è carburante da immettere nel serbatoio del livore che riversano sulla società di oggi. Per questo recuperano pezzi di detriti dalle pagine più buie della storia: perché sanno che, nella confusione del mondo odierno, c’è chi, e sono sempre di più, è disposto ad ascoltare le sirene del nostalgismo più delirante. Sanno che al resto del lavoro, e cioè a modernizzare la loro proposta – un insieme di proclami intossicati dal fanatismo – ci pensa l’attualità. Le città multietniche, la fragilità del nostro tessuto sociale, la crisi delle economie occidentali, la solitudine delle fasce deboli della popolazione. Quei vuoti da riempire nei quali l’estrema destra – anche quella nazionalsocialista – trasferisce rapidamente la propria offerta pronto cassa. Per cavalcare le paure, i neonazisti applicano la paura come metodo. Solleticano la pancia della gente agitando il fantasma dell’immigrato. Usano il tema della sicurezza a fini propagandistici. Rimandano a un bisogno di ordine e di «pulizia» nelle città. Rievocano la violenza dei regimi totalitari ai quali si ispirano. E fanno proseliti. Nel Sud, al Centro e nel Nord Italia. Quale migliore fascinazione può esserci – per sedurre gli adepti e per allargare la rete della militanza – se non la riproposizione di un rito antichissimo come il solstizio d’inverno? Fa niente se questa cerimonia, unita a quella degli equinozi e del solstizio estivo, ha le sue radici nella più profonda tradizione nordica che precede il nazismo di migliaia di anni. Non importa se, secondo molti studiosi, non prevedeva l’uso di pire e fiaccole. La verità si può sempre addomesticare. Girare a proprio favore. Diventa uno strumento di propaganda funzionale alla realizzazione del proprio disegno. E così, attraverso la fase del Sole nero di Himmler, quella festa consacrata agli dèi Odino, Ing e Erda – liturgicamente colorata di verde che iniziava il 25 dicembre e continuava poi fino all’Epifania – viene mutuata dall’ultradestra come un rituale «suo». Il cappello è stato posato sopra. Basti pensare che già venticinque anni fa in Germania, quando la pratica iniziò a essere adottata dagli skinhead, le autorità vietarono la celebrazione dei solstizi. E a nulla valsero – come ricorda il politologo Giorgio Galli, che ha studiato a fondo il filone esoterico nella cultura nazista – le proteste di chi sostenne che anche «molte associazioni culturali e di impegno democratico coltivavano questa tradizione.» D’altronde, sostiene Galli, «ognuno può trasformare i propri riti, le proprie cerimonie come gli aggrada.

Vestirle coi significati che vuole. Il nazismo, per esempio, celebrava il primo maggio, dedicandolo a tutta la nazione tedesca.» Un cartello rosso. Rosso come i vessilli del Reich. Con le scritte in nero e i disegni bianchi. Per cinque anni la prima cosa che notavi appena arrivavi di fronte al cancello grigio di ferro della sede dei Do.Ra. era questa targa. Vi era riportata la frase di benvenuto: «Non abbiate paura del cane. Preoccupatevi del padrone». Accanto, i due disegni: un bulldog, e una mano che stringe la pistola. Ma l’alba del 12 dicembre 2017 per il Sole nero è un’alba cupa. Su quel cartello dal contenuto sinistro si posano gli abbaglianti delle auto della polizia. Mentre i fasci di luce blu delle sirene colorano la neve caduta su Varese nelle quarantotto ore che precedono il blitz, gli agenti della Digos affiggono con lo scotch sulla targa rossa l’avviso di sequestro disposto dalla Procura di Busto Arsizio. Sequestro preventivo. Sequestro che qualcuno, tra amministratori, politici, associazioni partigiane e di ex deportati nei campi di concentramento, comunità ebraiche, cronisti, invocava da anni. Sequestro tardivo, forse. Ma tant’è. Dopo un anno di indagini che hanno visto impegnati anche 15 uomini dell’Antiterrorismo saliti da Roma, la magistratura mette i sigilli al covo neonazista dei Do.Ra. e denuncia il capo dell’associazione, Alessandro Limido, e altri quattro militanti. Secondo l’accusa sostenuta del Pm Maria Cristina Ria i vertici del sodalizio hanno tentato con la loro attività di propaganda e con una serie di iniziative sul territorio, di ricostituire il disciolto Partito fascista. L’inchiesta porta anche al sequestro di materiale «di area»: coltelli, asce, svastiche, rune, volantini, copie del Mein Kampf. 58Parte degli oggetti erano lì, dentro quel vecchio casotto ristrutturato e organizzato dai Do.Ra. in diversi spazi: un bar, una piccola biblioteca, la sala riunioni e conferenze, un angolo tatami per la pratica delle arti marziali. E poi le scorte di alcolici e il deposito per maglie e vessilli e felpe con stampata la ruota solare che la comunità neonazi – ufficialmente, come scritto nello statuto, «associazione culturale apartitica e senza fini di lucro» – ha mutuato dalle SS. Materiale che veniva messo in vendita per finanziare il gruppo. L’operazione della Digos di Varese era nell’aria da giorni: 72 ore prima del blitz mi avevano avvisato che, finalmente, dopo cinque anni, qualcosa si stava muovendo. Roma, attraverso il ministro dell’Interno, Marco Minniti, aveva dato l’input: quel covo neonazista avrebbe presto ricevuto una visita della polizia dell’Antiterrorismo. Mi ero preparato. In fondo era un momento che, da cronista, aspettavo dal 2013. Era come se le notizie che avevo pubblicato in passato e che ancora continuavo a diffondere sui Do.Ra., la mole di

informazioni, storie, documenti, immagini, uscissero finalmente dal perimetro della denuncia giornalistica. E si trasformassero in atti concreti da parte dello Stato. Pensai, quella mattina all’alba, appena una telefonata mi raggiunse da Varese con la notizia dell’operazione, a una delle ultime fotografie che avevo scattato. L’avevo archiviata nella memoria di cellulare e tablet. Era il dicembre del 2016. All’esterno della sede dei Do.Ra., sotto una tettoia a filo del muro che corre accanto alla porta di ingresso, per giorni avevo notato un oggetto di grosse dimensioni: all’inizio faticavo a comprendere di cosa si trattasse. Era fatto di legno scuro. Abilmente cesellato, ben definito nelle sue forme. Lo vidi e lo fotografai. Per chi non è pratico di mitologia germanica poteva sembrare semplicemente il tronco di un albero lavorato in un laboratorio artigiano. Un po’ lo era, in effetti. Quella grande freccia di legno era una riproduzione della runa Tiwaz, il nome proto-germanico del dio Tyr, figlio di Odino. Ai tempi del Reich le rune rappresentavano le virtù dei popoli germanici e avevano un valore apotropaico: funzionavano come un talismano. Dovevano infondere nel portatore forza e coraggio. I Do.Ra. ne ripropongono il significato spalmandolo nel secondo millennio. Un’epoca nella quale i neonazi di Varese si sentono in guerra contro il sistema. Sistema al quale si contrappongono – dicono – con una «resistenza ideale». Questa guerra silente ha una sua liturgia, dei codici, delle tappe. Ogni dicembre i Do.Ra. trasportano la runa Tiwaz sulla cima del San Martino, il monte sopra Varese dove 150 soldati e partigiani si opposero strenuamente a 2000 fra tedeschi delle SS e italiani della Rsi nella prima battaglia della guerra di Liberazione. L’omaggio commemorativo è in onore degli «eroi» nazisti. Un rito, quello dei Do.Ra, che si ripete dal 2012 – anno di fondazione del movimento. Nel calendario dei neonazisti di Caidate ha la stessa importanza di un’altra data: il 20 aprile. La data di nascita di Hitler. A Varese i Do.Ra. la festeggiano con un raduno al quale partecipano centinaia di naziskin. Provengono da molte regioni italiane e da altri Paesi europei. Il compleanno del Führer Ho iniziato a scrivere dei Do.Ra. ad aprile del 2013. Un mese prima il suo leader Alessandro Limido aveva fatto parlare di sé per aver malmenato un ladro. Ma il vero battesimo di fuoco del gruppo di Varese è targato 20 aprile di quell’anno. Una fonte dell’Osservatorio sulle nuove destre – un pool di analisti che da anni studia e documenta i rigurgiti neofascisti con particolare attenzione alla Lombardia – mi aveva informato che a Malnate, pochi chilometri da Varese,

c’era questo gruppo skinhead che aveva organizzato una festa per celebrare la nascita di Hitler. Volevo capire da dove nasceva l’idea. A chi era venuta. Chi erano gli organizzatori. Mi interessava portare sotto i riflettori dei media la realtà di questi nazisti di provincia che nel giro di una manciata di mesi erano diventati addirittura una comunità. Con una struttura gerarchica, verticistica. Un’associazione quasi militare. Una comunità rispettata e anche temuta, cresciuta nella sonnacchiosa e benestante periferia varesotta un tempo feudo della Lega nell’era Bossi. Una comunità che celebrava il genetliaco di Hitler radunando centinaia di militanti e simpatizzanti di estrema destra. Volevo capire come ciò fosse possibile. Nel silenzio e nell’indifferenza generale, nel 2013, sessantotto anni dopo la fine del nazifascismo. La festa dei Do.Ra. mica si svolgeva in una caverna, in un luogo segreto. Era ospitata in uno spazio all’aperto. A sessanta chilometri da Milano. Uno spazio ricavato in una ex stazione ferroviaria dismessa, gestito da un’associazione legata all’allora Lega Nord, prima che Salvini togliesse la parola «nord» dal simbolo. Tutto questo, benché inserito in un contesto sociale e politico dove le formazioni di estrema destra hanno ritrovato da tempo spazi e legittimazione, mi pareva assurdo. Era uno sfregio alla democrazia. Uno sfregio al sacrificio di quei partigiani che combatterono per liberare l’Italia dall’oppressione del regime fascista. E, soprattutto, mi sembrava un atto di grande tracotanza. Però non nasceva dalla rabbia sociale, dall’esclusione e dall’isolamento delle periferie delle grandi città. Non fermentava nella povertà economica che si tramuta in odio per lo straniero, e cioè nel tipico terreno fertile dove attecchiscono i movimenti di ultradestra. No, prendeva forma nelle terre della provincia di Varese. Un’area concimata sin dall’Ottocento con il fertilizzante dell’industrializzazione. E che nel 2016 ha registrato uno sviluppo economico tra i più alti in Europa: 62.231 imprese attive capaci di produrre un valore superiore ai 23 miliardi di euro. Un pezzo di Nord che, per capacità produttiva, stacca il resto del Paese. La densità media è di 51,6 imprese – soprattutto piccole e medie – ogni chilometro quadrato, contro le 34,1 in Lombardia e le 17,1 in Italia. Va contro ogni cliché sociologico questa provincia varesotta divenuta brodo di coltura dei nostalgici del Terzo Reich. Ho sempre pensato che nella vita prima di abituarsi al peggio c’è sempre tempo per capirne il portato. E magari per provare a fermarlo. Questo monito vale anche per i rigurgiti neonazifascisti. Una recrudescenza che si è alimentata gradualmente negli ultimi anni. Fino a divampare nel periodo più recente. Un’onda anomala, subdola, che non può lasciare indifferente chi crede nei valori fondamentali della democrazia. Dopo lo stupore iniziale mi resi conto che la

storia sulla quale stavo lavorando, quella di Caidate, era un perfetto segno dei tempi che sarebbero arrivati. Del clima di intolleranza che si stava generando e diffondendo in Europa. Italia compresa. Un clima nato dalla paura e dall’insicurezza, dall’incapacità di affrontare seriamente e senza strumentalizzazioni il fenomeno delle migrazioni. E derivato soprattutto dagli effetti della crisi economica e sociale che stavamo e ancora stiamo attraversando. Un clima nel quale i populismi, di destra e di estrema destra, si sono infilati. E lì hanno trovato un fertilissimo terreno di semina negli spazi urbani. Soprattutto nelle periferie. Spazi lasciati liberi e appaltati da gruppi di estrema destra in cerca di riconoscimento sociale. Osservando quanto stava accadendo in Italia e in Europa era chiarissimo che la pregiudiziale nei confronti dei fascismi stava diventando mano a mano sempre più sottile. Fino a cadere, come sarebbe poi successo in seguito. E come è di fatto oggi. Ecco: di tutto questo iceberg, già nel 2013 i Do.Ra di Caidate erano la punta. Una punta che però molti facevano finta di non vedere. Troppo scomodo, forse. O forse è una di quelle cose che è più conveniente continuare a trascurare. Per non sporcarsi le mani. Vale per la società civile, per la politica, le forze dell’ordine, la magistratura. Per i mezzi di informazione. Perché a volte specchiarsi dentro la realtà che ci sta intorno, anche la più inquietante, rischia di diventare uno sprofondo. E allora ti tieni a distanza. Una distanza di sicurezza. A me interessava l’esatto opposto. Avvicinarmi. Entrare nelle pieghe di questo orrore a forma di svastica. Senza schivare nulla. Provare a comprendere l’aberrante follia che stava dietro quel buio. E narrarla. Così ho fatto in questi anni coi Do.Ra. È lo stesso motore che mi ha spinto a indagare sulle altre formazioni neofasciste. Quel 20 aprile 2013, la festa per celebrare il genetliaco del Führer, avevo capito che si distingueva dal rigurgito generale di destra e da tante altre manifestazioni neofasciste. Aveva uno spirito comunitario cameratesco, nel segno dell’ammirazione per il nazismo. Era il tratto distintivo dei Do.Ra. Per questo mi pareva un fatto meritevole di essere approfondito. Iniziai a cercare tracce di quanto mi avevano raccontato sulla serata a Malnate. La notizia era di quelle che non potevano essere taciute. Bisognava pubblicarla a stretto giro. Chiamai in redazione e avvisai, chiedendo di prevedere uno spazio in pagina. Nel frattempo partii subito per Varese. Avevo appuntamento con Gennaro Gatto, dell’Osservatorio sulle nuove destre. In questi anni è stata una delle persone che mi hanno accompagnato in alcuni dei miei viaggi alla scoperta della galassia nera, supportandomi e offrendomi spunti e materiale. Le prime informazioni che

avevo raccolto aiutavano a capire il tipo di ambiente nel quale potevano e ancora possono muoversi i Dodici raggi. E anche le sponde grazie alle quali questa agibilità si concretizza. Gli indizi finiti sul mio taccuino portavano in un luogo preciso. La stazione dismessa delle Ferrovie Nord, a Malnate, 16 mila abitanti, otto chilometri da Varese. Quel vecchio edificio che un tempo ospitava la sala d’attesa del piccolo scalo ferroviario da cui passavano i treni che portavano su in Svizzera era stato trasformato in un’area per feste e concerti. A gestirla era, ed è ancora, un’associazione culturale filoleghista, «I nostar radìis» («Le nostre radici»). Il presidente dell’associazione è Dino Macchi, già assessore alle Identità culturali e alle Tradizioni locali a Vedano Olona. Un uomo schietto e d’altri tempi. Capelli e baffi grigi, dialetto lombardo stretto, modi spicci. Andai a trovarlo dopo avere pubblicato il servizio sulla festa dei Do.Ra. Un servizio accompagnato da un video esclusivo che avevamo diffuso sul sito di Repubblica. Le immagini mostravano il concerto nazi-rock nel sabato nero di Malnate. Centinaia di teste rasate scatenate sulle note metalliche di brani che inneggiano alla «rivolta» e alla «rivoluzione». Braccia tese nel saluto fascista. Gente che dal palco si lancia a corpo morto sulla folla. Uno scimmiottamento delle celebri planate nelle quali Jim Morrison era solito prodursi sulle teste del pubblico che assisteva ai suoi concerti. Ufficialmente, il raduno choc doveva celebrare i vent’anni di fondazione del gruppo Varese Skinhead (nato nel 1993), da cui a sua volta è nata la comunità dei Dodici raggi. Il «pretesto» ufficiale è un esempio tipico dell’infingimento delle formazioni di estrema destra. Una strategia dove la sovrapposizione non casuale delle date, in questo caso quella della nascita del più folle e spietato dei dittatori, diventa il perno intorno al quale far ruotare un evento. Il risultato finale è doppio. In prima battuta si genera volutamente confusione nella mente di chi è chiamato a concedere lo spazio. E poi la calendarizzazione resta incisa nella storia del gruppo. La buona riuscita di un’iniziativa simile è come una medaglia da appuntarsi sul petto delle provocazioni. Dei sistematici tentativi di spallata ideologica alla democrazia. La festa per Hitler diventa un caso politico. Al coro di indignazione generale seguono interrogazioni parlamentari e una presa di posizione da parte dell’allora presidente della Camera, Laura Boldrini. A preoccupare era stato anche il consistente numero di persone che vi avevano partecipato. Molte erano arrivate dall’estero. Un clamore amplificato dal fatto che, nonostante il carattere e l’impatto dell’iniziativa, non fosse emerso nulla prima della pubblicazione del nostro servizio. Nessuno, amministratori, forze di polizia, questore, prefetto, aveva ritenuto di dover comunicare o magari censurare il raduno neonazista.

Il 23 aprile 2013 vado sul posto che ha ospitato l’evento. Il cuore della vecchia stazione ferroviaria di Malnate è una trattoria. Una decina di tavoli, tovaglie a quadretti, piatti della tradizione lombarda. Foto d’epoca alle pareti. Risotto, cassouela e polenta. «Cucina povera e umile fatta d’ingenuità…» avrebbe cantato Paolo Conte. Ma di ingenuità, da queste parti, non c’era nemmeno l’ombra. È vero, quella di Macchi è una trattoria a conduzione familiare. Lui in sala e alla cassa, la moglie in cucina. Quando chiedo all’ex assessore spiegazioni sulla serata nazi, e sul perché aveva deciso di ospitarla, incasso una versione acrobatica. Tra il difensivo, l’evasivo e il garantista. Sono le parole comprensibilissime di chi, finito suo malgrado sotto i riflettori di giornali e televisioni, tenta di spegnere l’incendio delle polemiche prima che le fiamme possano raggiungerlo. «Non c’è niente da chiedere scusa perché quella sera non è successo niente. I naziskin? Sono persone di destra che hanno fatto un concerto con musica di destra. Tutto qui. Nessun braccio teso, nessuna maleducazione, nessun ricordo di Hitler. C’erano anche le telecamere e nessuno mi ha chiesto la registrazione. L’unico errore che hanno commesso era essere vestiti tutti di nero e in tanti con le teste rasate.» Così mi disse Macchi, confermando quello che aveva dichiarato a caldo ai colleghi della stampa locale.59Il video del raduno, però, mostrava che era vero il contrario. Saluti nazi, brani con testi inequivocabili, inni alla rivolta e alla rivoluzione c’erano stati eccome. Sul palco nero di Malnate quel 20 aprile si erano alternati i gruppi più noti nel panorama della musica d’area: innanzitutto i Garrota, formazione nata da Varese Skinhead e dai Do.Ra. Quelli dell’inno «Skinheads, skinheads! / Skinheads per le strade / la gente ha paura /Skinheads incazzati / sono rabbia pura!» E poi i Nativi, formatisi nella Skinhouse di Milano. La guerra contro gli «immigrati invasori» è un tema fondamentale dei testi delle loro canzoni. E poi i Gesta Bellica, una band storica formatasi a Verona nell’ambiente del Fronte Veneto Skinheads. Un loro membro, Andrea Miglioranzi, nel 1996 fece tre mesi di carcere per l’aggressione a uno skinhead di sinistra e istigazione all’odio razziale: primo caso di applicazione della Legge Mancino. Dieci anni dopo Miglioranzi è entrato in Comune a Verona nella lista che sosteneva l’allora sindaco Flavio Tosi. I temi e i testi delle canzoni dei Gesta Bellica sono particolarmente significativi. Un brano è dedicato a Il Capitano, ossia il comandante delle SS Erich Priebke, condannato all’ergastolo per l’eccidio delle Fosse Ardeatine. In un’altra canzone, Giovane patriota, si celebrano le Waffen SS che nel 1945 a Berlino, alla Porte di Brandeburgo, difesero disperatamente il bunker di Hitler dall’avanzata dall’Armata Rossa. Ecco la musica suonata nell’ex stazione ferroviaria per

celebrare l’anniversario della nascita del Führer. Ma per Macchi tutta quella paccottiglia metallica che trasudava odio e sete di violenza non era stata nulla di rilevante. Niente di sconveniente. Nessuna vergogna per una provincia di una regione di uno Stato democratico e antifascista. «Abbiamo concesso l’area come sempre, come accade per tutte le associazioni che ne fanno richiesta», spiegò, «ma tutto questo casino è stato creato da voi giornalisti: io sabato sera ero presente, ero dietro al bancone che dava i panini e vedevo benissimo il palco. C’erano famiglie con bambini, tutti chiedevano per favore e per piacere per avere le cose, tenevano puliti i bagni come non fa nessun’altra associazione.» Interessante, nella lasca testimonianza di Macchi, è anche il prima. Il racconto di come è nata l’organizzazione della festa. Come hanno fatto i Do.Ra. ad accreditarsi e a ottenere lo spazio di Malnate? Racconta Macchi: «Si sono presentati da me due ragazzi, vestiti bene e senza tatuaggi. Mi hanno chiesto l’area per festeggiare un concerto. Ho chiesto informazioni sul motivo dell’iniziativa e mi hanno detto che era per festeggiare l’anniversario della nascita della loro associazione. Ho detto loro che però il 20 aprile faceva ancora freddo, ma a loro non importava. Che male c’è? Ci siamo incontrati una seconda volta. Si è presentato anche un ragazzo di Morazzone che conosco di vita. Una brava persona. Abbiamo firmato un contrattino per essere tutelati in caso di danni, come accaduto in passato con altri. Tutto è stato sistemato». Ma chi ha firmato il contratto? Ancora Macchi: «L’associazione “I nostar radìis” e l’associazione culturale Do.Ra. Nessuno ha mai parlato di Skinheads. La prima volta che ho sentito parlare della ricorrenza per la nascita di Hitler come motivazione della festa è stato il giorno dopo, dai giornali». Sembra incredibile, surreale. Sembra un insulto all’intelligenza, una commedia grottesca di ipocrisia e finta ingenuità. Ma è la realtà del contesto sociale e psicologico che accoglie movimenti come i Do.Ra. E che ci sia una malcelata approvazione lo si capisce dal riferimento al fatto che «non sporcano», che sono educati, che non hanno tatuaggi e sembrano persone per bene. Insomma, con lo stesso artificio retorico che usano sempre partiti come CasaPound e Forza Nuova, il «caso», la reazione esagerata e faziosa, è sempre dei giornalisti. O degli avversari politici. Una benestante famiglia varesotta I Do.Ra. fanno storia a sé. Sono un caso unico nel panorama dell’estrema destra italiana. Come una creatura difforme e deforme, hanno tratti che li distinguono

da ogni altro gruppo. Il loro nazionalsocialismo dichiarato è la cifra della loro ascesa e allo stesso tempo della loro marginalità «politica». Anche la fisionomia sociale è particolare. Il capo è Alessandro Limido, 37 anni, figlio dell’ex calciatore della Juventus, Bruno Limido. Tatuaggi ovunque. Anche sul cranio. La nuca è istoriata con il Sole nero simbolo del gruppo. Lo stesso sole incastonato nell’anello che portano al dito tutti i membri dei Do.Ra. Altri disegni incisi sulla pelle gli percorrono il collo, sia all’altezza della giugulare che sotto le orecchie. Il tatuaggio runico per gli skinhead è come un marchio di fabbrica. Il biglietto da visita. Condannato in primo grado per associazione per delinquere finalizzata alla discriminazione razziale, etnica e religiosa, e poi assolto, Limido è uno che i conflitti li regola alla sua maniera: «Se hai un conto in sospeso con me ti trovo e ti affronto faccia a faccia». Parole che il naziskin mi ha dedicato il 15 dicembre 2017, in un’intervista nella quale rivendica con fierezza di essere «un nazista» e si rammarica di non poter ricostituire il Partito fascista solo perché lui e i suoi sodali sono troppo pochi.60 A provare sulla propria pelle la traduzione in sostanza delle parole di Limido è stato, nel marzo del 2013, un ladro di auto. Il malvivente, in questo caso malcapitato, sta armeggiando in un parcheggio di Induno Olona. Limido, che è a casa della fidanzata di allora, lo vede. «Aveva già aperto quattro macchine», sono le parole messe a verbale da Limido davanti ai giudici. «La quinta era quella del padre della mia fidanzata.» Il giustiziere fai da te prende una scopa, scende e affronta il ladro. Pugni e bastonate, lo gonfia come una zampogna. «Mi sono difeso», si giustificherà. «Lo rifarei. Se uno ti ruba una cosa di tua proprietà ti difendi.»61Per quel pestaggio Limido è stato condannato a quattro mesi (pena sospesa). «Ale», o «Ale skin». Lo chiamano così i camerati varesotti. Raccontano che in famiglia è considerato da sempre l’incorreggibile. Quello che ha spinto il buio un po’ più in là. Quello che ha fatto del fascismo e del nazionalsocialismo la sua ragione di vita. Di mestiere Limido fa il posatore di piscine con la Almipool group di Azzate. «Sgobbo dalla mattina alla sera, come tutti i figli del popolo», si descrive. «Intanto lo Stato italiano mantiene gli immigrati, li paga per non fare niente.» In verità Alessandro Limido, più che un figlio del popolo, per anni è stato considerato un «figlio di papà». Una delle famiglie più in vista della provincia, i Limido. Non per la ricchezza. Per la fama del padre, Bruno. Dal 1978 fino ai primi anni Novanta Bruno Limido ha militato in squadre di serie A e di serie B. Dagli esordi nel Varese è passato alle stagioni nell’Avellino, nella Juventus e nell’Atalanta. Il momento di massimo fulgore della carriera è la stagione 1984-

1985, quando la Juve vince la Coppa dei Campioni a Bruxelles nella finale passata alla storia per la terribile strage dello stadio Heysel. Trent’anni dopo, a ottobre 2014, un brutto inciampo giudiziario: Limido senior viene arrestato perché coinvolto in una presunta frode da 250 milioni. Con lui, in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip Franco Cantù Rajnoldi, finiscono in manette l’ex vicepresidente del Genoa, Antonio Rosati, e l’ex amministratore delegato del Varese calcio Enzo Montemurro (in tutto sono 34 gli indagati). L’inchiesta della Guardia di Finanza, in collaborazione con l’Agenzia delle Entrate, e coordinata dal Pm della Procura di Milano Carlo Nocerino, svela una frode fiscale attraverso una rete di cooperative nei settori della logistica, dei trasporti e del facchinaggio. Limido, Rosati e Montemurro sono accusati a vario titolo di associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale, emissione di fatture per operazioni inesistenti per circa 250 milioni di euro, mancato versamento dell’Iva e altri reati fiscali. La Procura dispone il sequestro di beni e conti correnti per oltre 63 milioni. A capo dell’associazione per delinquere, secondo l’accusa, c’è Antonio Rosati: avrebbe svolto il ruolo di «amministratore di fatto» del consorzio Expo Job SpA, con sede a Milano, a capo di una decina di cooperative che impiegavano circa tremila lavoratori e fornivano servizi, fra l’altro, anche all’area Cargo dell’aeroporto di Malpensa. Le cooperative, come riporta un’inchiesta di «Repubblica», erano «intestate a prestanome. Secondo quanto è emerso dalle indagini, dal 2009 non pagavano le imposte e i contributi ai lavoratori e, dopo pochi mesi, chiudevano per poi riaprire con un’altra ragione sociale. In questo modo erano in grado di offrire maggiori ribassi nelle trattative fra privati, battendo la concorrenza.»62Nell’aprile del 2016 la storia si sgonfia. I tre vengono rinviati a giudizio per i reati fiscali, ma saltano quelli relativi al presunto sfruttamento dei lavoratori delle cooperative, che non possono nemmeno costituirsi come parte civile. Lo stesso Limido ne esce ridimensionato, come prestanome inconsapevole di un sistema di cui non era a conoscenza.63Letta in controluce l’inchiesta milanese racconta qualcosa di più della classica e scaltra consorteria all’italiana in salsa lumbard. È anche un esempio di come funzionano le cose nell’opulenta e produttiva provincia varesotta. L’ex culla del leghismo dove da anni affiorano pulsioni xenofobe e spinte neonaziste. La storia è utile persino per leggere e interpretare un altro aspetto. Magari laterale, ma interessante. È uno spaccato dell’ambiente nel quale è cresciuto Alessandro Limido, la cui ideologia nazionalsocialista convive con le

caratteristiche di un tessuto connettivo dove l’economia e il profitto hanno una loro centralità. C’è una contraddizione individuale e forse anche generazionale tra fanatismo politico e business, che si declina in idee e modi di vivere opposti, in particolare sul tema dell’immigrazione. Quegli stessi lavoratori stranieri contro i quali il nazista Alessandro Limido si batte da anni con i camerati della Comunità dei Dodici Raggi, per i soci in affari del padre Bruno erano «materiale umano» buono da immettere come manodopera a basso costo nel sistema delle cooperative che fruttava milioni di euro. Se i lavoratori dell’Est per i sodali di Bruno Limido sono un’occasione di arricchimento, la stessa cosa, per paradosso, pensa il figlio Alessandro, patriota neohitleriano, che giudica l’immigrazione «solo ed esclusivamente un business». Il punto è che lui, oltre a scagliarsi contro i buonisti che accolgono chi scappa da fame e guerre, stigmatizza anche chi li sfrutta. Può bastare, tutto questo, a delineare il ritratto di una benestante famiglia varesotta? Forse no. E allora continuiamo a esplorare il mondo dei Dodici raggi di Varese. Partiamo dalle parole del suo capo. Poi entriamo nelle pieghe dell’indagine giudiziaria della Procura di Busto Arsizio, dicembre 2017, tentata riorganizzazione del Partito fascista. Affinché siano ancor più comprensibili le modalità con cui agiscono i Do.Ra. – e solo per questo – racconto anche le vicende che mi hanno riguardato: una scia di insulti e minacce che i neonazisti di Varese mi hanno rivolto in questi anni. E che sono confluite nelle accuse che la Procura ha contestato ai militanti dell’associazione. «Sono nazista. Sono fascista. Sono nazionalsocialista. Rifare il partito del Duce? Magari!» Lo dice Alessandro Limido in un’intervista a «la Provincia di Varese». È il 14 dicembre 2017. Sono passate quarantotto ore dall’operazione della Digos varesina. Indagato assieme ad altre 4 persone, Limido non appare né turbato né pentito. Non solo non rinnega nulla. Ma, in modo sprezzante, va all’attacco. Della magistratura, delle forze dell’ordine, del Pd, dei giornalisti che operano in sinergia con le procure. Del sistema in generale. Un sistema che, come spiegava in una intervista al TgCom 24 il 7 giugno 2017, andrebbe combattuto «impugnando le armi.» Ovvero «l’unico modo per dare riscatto alla patria.»64Le deliranti dichiarazioni di Limido in questi anni sono state riportate da quegli stessi giornalisti con i quali il leader di Do.Ra. dice di non voler avere nessun tipo di contatto. Ma coi quali poi accetta invece di parlare. Strana cosa anche questa. L’atteggiamento cambia a seconda di quale sia l’interlocutore. Il leader dei naziskin di Caidate è disponibilissimo, persino ospitale, con alcune troupe televisive. Con altri lo è molto meno. E quando serve, lui come altri

leader dell’estrema destra, fa ricorso al solito refrain: il sistema che li discrimina e che cerca di comprimere la loro libertà di espressione. Vittime del sistema Nella storia dei Do.Ra. c’è un inizio ma non è stata ancora scritta la parola fine. Dopo l’operazione della Digos del 12 dicembre 2017, coordinata dal Pm Maria Cristina Ria – in attesa che i giudici di Varese si pronuncino sulla richiesta di rinvio a giudizio per gli indagati – nonostante le indagini abbiano accertato la tentata riorganizzazione del partito fascista, l’associazione è ancora in vita. Solo apparentemente depotenziati dall’indagine della Procura di Busto Arsizio, i neonazisti sono tutto, fuorché spariti. Passano, anzi, al contrattacco. «Chiudere un covo di idee è impossibile», è la scritta che accompagna una foto di gruppo postata a gennaio 2018 sull’homepage del loro sito. Nell’immagine c’è lo zoccolo duro della formazione seduto al tavolo al termine di una cena. Sotto, altre fotografie che testimoniano la solidarietà ricevuta dagli esponenti dei pianeti neri collegati o gemellati con i Do.Ra.: gli ultrà varesini di calcio (Blood and Honour) e Basket (Arditi 2012); i MAB di Bergamo, vari gruppi skinhead italiani, gli Hammerskin milanesi che oggi sono rappresentati, politicamente, da Lealtà Azione. «Ai nemici in fronte il sasso, agli Amici tutto il Cuore!» è scritto in un post del solito Enrico Labanca del MAB. Vicinanza ideale ai neonazisti di Varese è arrivata anche da personaggi della destra più istituzionale. Come Roberto Jonghi Lavarini, detto il «Barone nero», che alle politiche del 4 marzo 2018 è stato candidato alla Camera dei deputati con la coalizione di centrodestra, nella lista di Fratelli d’Italia. «Onore agli ottimi camerati di Do.Ra.», scrive in un post a gennaio 2018. Presidente del movimento Fare Fronte, membro della Fondazione Identità e Tradizioni Europee (ITE), del Movimento Internazionale EuroAsiatico e del World National-Conservative Movement (WNCM), in Lombardia Lavarini è da anni l’anello di congiunzione tra la destra istituzionale e i camerati di strada della galassia skinhead. Fu lui, nel 2008, lo sponsor politico di Cuore Nero. È il circolo neofascista nato a Milano e chiuso dopo che i locali della sede di viale Certosa furono dati alle fiamme. Lo stabile di via Pareto che ospitò l’associazione dopo l’incendio, oggi è una delle due sedi milanesi di Lealtà Azione. Un camerata per tutte le stagioni, Lavarini. Passato da Alleanza Nazionale al Pdl e all’ammirazione per Silvio Berlusconi – soprattutto quando nel 2013 il Cavaliere ha sdoganato Benito Mussolini

esaltando le «tante cose buone che ha fatto.» Poi l’appoggio alla Destra di Francesco Storace. Quindi il flirt politico col neosovranista Salvini, putiniano come lui. È da sempre vicino alla famiglia La Russa e a Daniela Santanchè. Uno che ha raccontato con orgoglio di avere insegnato il saluto fascista alle sue tre figlie. «È un saluto solare, igienico, bello. È un gesto splendido d’amore. Certo, non bisogna abusarne perché ha la sua sacralità e la sua simbolicità. Non è un saluto che si fa a casaccio»65, disse nel 2015. Qualche anno fa nel suo curriculum Lavarini si definiva sostenitore delle destre germaniche e del partito sudafricano pro-apartheid (il simbolo è una svastica a tre braccia sormontata da un’aquila).66Poteva, uno così, non essere moralmente vicino alla causa dei neonazisti di Varese? Per anni hanno veicolato l’immagine trucida dei duri e puri devoti a Hitler. Poi, una volta finiti sotto indagine, e vedendosi chiudere preventivamente la sede, i Do.Ra. hanno iniziato ad atteggiarsi a vittime del sistema. Un po’ singolare per chi con orgoglio porta avanti campagne d’odio contro immigrati e omosessuali; per chi ha lanciato una petizione choc per chiedere lo scioglimento dell’Anpi e il processo per crimini di guerra di tutti i partigiani ancora in vita.67 Per chi, nel 71° anniversario della prima battaglia di Liberazione contro i soldati nazisti e repubblichini sul monte San Martino, in quel luogo, a pochi metri dal sacrario dove sono sepolti i 43 soldati dell’esercito partigiano caduti in battaglia, ha deposto 200 rune funerarie di legno: le stesse che venivano utilizzate sulle tombe dei militari tedeschi non cristiani durante la seconda guerra mondiale. «Onoriamo i nostri morti», ha continuato a ripetere Limido. Già. E anche a offendere la memoria degli «altri». Quelli che si batterono per liberare l’Italia dal regime nazifascista. Un oltraggio che evidentemente non è riuscito a scuotere e a indignare le istituzioni del nostro Paese, visto che, al netto di tutta la propaganda nostalgica prodotta in questi anni, i Do.Ra. sono rimasti lì, al loro posto. Quasi impuniti. Eppure dal 2013 a oggi sul caso sono state presentate diverse interrogazioni parlamentari. Due, in particolare, a firma dei già deputati Pd Emanuele Fiano e Daniele Marantelli, chiedevano al ministro dell’Interno, Marco Minniti, di prendere provvedimenti al fine di arrivare allo scioglimento dell’associazione. Nei riscontri arrivati dal Viminale – l’ultima risposta risale al 25 gennaio 2017 – si riassumeva l’attività di prevenzione e monitoraggio relativa ad «associazioni che si ispirano chiaramente a un’ideologia di estrema destra vicina ai principi del nazionalsocialismo.» Dopo aver fatto riferimento alle denunce che hanno riguardato esponenti di Do.Ra. per «episodi di intolleranza

razziale», Minniti ha però sottolineato: «in merito ad eventuali ulteriori misure che possono essere intraprese, va ricordato che l’ordinamento vigente consente l’adozione di un provvedimento di scioglimento di movimenti che si ispirano al fascismo solo a seguito di una sentenza penale irrevocabile che abbia accertato il verificarsi in concreto della fattispecie della riorganizzazione del disciolto Partito fascista». «Allo stato attuale», ha aggiunto il 12 febbraio l’ex viceministro dell’Interno, Filippo Bubbico, «non risulta che l’associazione in questione sia stata destinataria di pronunce giurisdizionali che legittimino l’adozione di siffatto provvedimento di rigore.»68E dunque: per sciogliere gruppi dichiaratamente neonazisti come Do.Ra., in Italia non basta un’indagine (come quella della Procura di Busto Arsizio). Ci vuole una sentenza definitiva che accerti il reato sostenuto dall’accusa in quell’indagine: tentata riorganizzazione del Partito fascista. Questo dice l’«ordinamento vigente», questo ha ribadito a più riprese il Viminale. Occorre prenderne atto. Ma se la circostanza enunciata dal ministero ha tutte le caratteristiche insindacabili dell’evidenza, sono altrettanto evidenti almeno due punti. Il primo: nel caso di Do.Ra., la «tentata riorganizzazione del Partito fascista» è provata direttamente, e in primo luogo, dalle dichiarazioni pubbliche del suo capo. Quell’Alessandro Limido che, dopo la chiusura della sede di Caidate, e dopo essere stato denunciato per il reato di cui sopra, rivendicava in un’intervista la volontà di ricostituire il partito fascista ma anche la sua difficoltà. «Oggi è impossibile. Non abbiamo la forza per farlo… Chiariamoci: non è la volontà che ci manca. E non ci siamo mai nascosti.»69Insomma: la rinascita del partito fascista per Limido è solo una questione di mezzi e di tempi. Oggi no, non ancora. Domani chissà. Non sono sufficienti queste parole per sgombrare il campo dai se e dai ma? Che cos’altro occorre per dimostrare che a Varese c’è un gruppo di 60 fanatici e quasi 300 tra simpatizzanti e «gemellati» che è impegnato da anni a propagandare un’ideologia aberrante, nel solco della strada tracciata dai «nostri eroi, Mussolini e Hitler», come ha più volte ribadito Limido? Poi c’è il secondo punto. Riguarda le leggi. La Legge Scelba del 1952 e la legge Mancino del 1993. Sono le due norme con cui si contrasta in Italia l’apologia di fascismo e la tentata ricostituzione del Partito fascista. In particolare, nel caso Do.Ra. è in base all’articolo 1 della Scelba che ha proceduto la Procura. Tale articolo indica che «si ha riorganizzazione del disciolto Partito fascista quando un’associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del Partito fascista, esaltando, minacciando o

usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista.» In passato, sulla base di questa legge sono state sciolte Ordine Nuovo (nel ’73) e Avanguardia Nazionale (’76): e lo si è fatto subito dopo il primo grado di giudizio. Poi c’è la legge Mancino del 1993. Qui c’è un punto fondamentale per la «lettura» della vicenda Do.Ra. L’articolo 7 di questa norma – con la quale nel ’93 furono messe fuori corso alcune formazioni naziskin come il Movimento politico occidentale a Roma e Azione Skinhead a Milano, e poi nel ’97 gli Hammerskin – offre al magistrato inquirente la possibilità di procedere «cautelativamente», ancor prima del giudizio definitivo, alla «sospensione di ogni attività associativa» nei confronti delle organizzazioni razziste sottoposte a indagine. Chiudere le sedi, mettere in sonno il sito, i social network. Insomma impedire ai militanti di continuare a fare azione di propaganda. È proprio questo articolo 7 che rende indigesta all’estrema destra la legge Mancino. Temuta. Odiata. Vilipesa. Come un fastidioso guinzaglio del quale i gruppi della destra radicale vorrebbero liberarsi per sentirsi liberi di abbaiare e di inneggiare a Mussolini, Hitler. A una razza che è superiore alle altre. Liberi di vomitare rabbia contro minoranze etniche, religiose, sessuali. Liberi di odiare. Il mostro che non esiste Penso che le istituzioni di uno Stato democratico e antifascista abbiano il dovere di mettere dei paletti invalicabili di fronte ai tentativi di gruppi e partiti neofascisti e neonazisti di accreditarsi e fare proseliti. A maggior ragione quando queste formazioni passano dalla propaganda all’azione, come è accaduto nell’ultimo anno in Italia. Nessuno spazio può essere concesso a chi calpesta i valori fondanti della democrazia. I Do.Ra. sono uno degli arti superiori di questo corpo deformato dalle croste del fanatismo hitleriano. Una creatura generata dall’assenza di memoria, dalla rabbia cieca, dall’odio, dal razzismo. Con questi pensieri, e con la solita dose di stupore, il 17 dicembre 2017 mi imbatto in un video pubblicato su YouTube. L’hanno postato i neonazisti del Manipolo d’Avanguardia Bergamo. Sono gemellati coi Do.Ra. Titolo: La verità non si arresta. Diciotto minuti di filmato nel quale Alessandro Limido ed Enrico

Labanca di MAB parlano dell’operazione della magistratura contro i Dodici raggi di Varese.70Si fanno riprendere di fronte alla sede sotto sequestro di via Giovanni XXIII a Caidate. Parlano. Attaccano. Lanciano messaggi frontali contro polizia, magistrati, giornalisti. Ce l’hanno, in particolare, con i giornali che, «amplificando notizie inesistenti su pericolo fascista e neonazista», sono «funzionali al potere e spingono le procure ad agire e poi danno conto dell’azione delle procure. Il che», dice Labanca, è un «gioco pericoloso», perché «è fatto sulla pelle della gente, anzi dei “lavoratori”.» Che in questo caso sarebbero loro, i militanti neonazisti finiti sotto la lente delle forze dell’ordine. Labanca dice che il suo problema sono «il giornalista di Repubblica, il questore e il prefetto.» I quali – è la tesi sostenuta – siccome «non producono e non sono utili alla società, allora devono attaccare.» Le vittime, ovviamente, sono sempre i poveri e incompresi militanti dei gruppi neonazisti. Loro sono i «difensori della patria» che combattono contro «i traditori». Loro sono i «fratelli» che lottano contro il sistema. Guerrieri di una «resistenza ideale» da portare avanti in attesa che si compia la rivoluzione dove si imbracciano le armi. Loro sono quelli che lavorano. Gli altri, noi, siamo parassiti sfaccendati. Una minoranza socialmente inutile. «Non riuscirete a fermare le nostre idee», scrive Limido sul sito dei Do.Ra. Il 14 dicembre 2017 definisce la sua associazione come il «mostro che non esiste.» Fa l’elenco, ovviamente secondo la sua versione, del materiale che la Digos ha sequestrato nella sua abitazione e nella sede del gruppo. Ecco la lista: «Il mio PC da lavoro. Il mio telefono cellulare. Un hard disk anch’esso del mio lavoro. Un’ascia ornamentale soprammobile, priva di lama e non affilabile. Un libro del Rexista Leon Degrelle, di libera vendita, riedito dal nostro gruppo. Coppia di tomahawk da lancio sportivo assolutamente legali, ritrovati nella mia proprietà. Un PC non funzionante, già sequestrato dalla procura di Bologna e già analizzato a fini processuali 10 anni fa. Da allora mai più utilizzato. Due “coltelli con svastica” senza lama, riproduzioni in peltro e plastica delle daghe in uso alle SA e SS. Un coltello da cucina trovato in cucina, sporco, preso in omaggio con la raccolta punti del supermercato. Una riproduzione di una daga da parata Nazionalsocialista, già inoffensiva anche nella versione originale, comprata in centro città. Una fascia da braccio in stoffa Nazionalsocialista, questa purtroppo (perché non la rivedrò) autentica, da collezione e di libera vendita. Una copia del Mein Kampf acquistabile ovunque, di una normale casa editrice italiana, anch’esso di libera vendita. Un mazzetto di tessere associative ancora da compilare. Un coltellino di libera vendita trovato all’interno della mia proprietà.

Due “sculture” in metallo fatte a mano, rappresentanti antichi simboli religiosi noti come Rune. Il palmare dell’associazione. Una patch rosa da ragazza con scritto Do.Ra., restituitaci da una ex sodale, che abbassa lo straordinario numero delle nostre militanti da 3 a 2. Ecco», chiosa Limido, «questo è l’enorme bottino che 15 agenti dell’Antiterrorismo hanno rinvenuto tra le mura della nostra associazione e di casa mia, che viene messo in bella mostra da compiaciuti alti ufficiali della questura.» Non avevo mai avuto dubbi sul fatto che i Do.Ra. sarebbero sopravvissuti a cinque denunce e al sequestro temporaneo della loro sede. Ne ho avuto conferma quando ho visto che, complice l’ondata di solidarietà che hanno ricevuto, e anche un trattamento tutto sommato quasi indulgente ricevuto da una parte dei media, nessuna particolare indignazione è seguita alla scoperta – per molti lo era – che nel profondo Nord era attiva una comunità a struttura paramilitare e con il culto del nazismo. Troppo morbida è la bambagia di cui possono godere oggi le formazioni neofasciste e neonaziste. Questo vale anche per i Do.Ra. Di questa deriva loro sono gli interpreti più ortodossi e rigorosi. Pochi giorni dopo il blitz dell’Antiterrorismo è subito iniziata una corsa a sostenere i Do.Ra. da parte dei gruppi dell’ultradestra italiana. Soprattutto quelli di carattere nazionalsocialista. Un sostegno non soltanto morale. Anche economico. A gennaio 2018 la rete Skins4Skins Italia ha attivato un «fondo spese specifico per permettere ai Camerati della Comunità Militante dei Dodici raggi di Varese di attraversare questa fase di transizione.» Nel comunicato diffuso in rete e sui siti d’area, che si chiude con lo slogan «Nessuna catena può fermare una mente libera», si legge: «Il duro colpo inferto il 12 dicembre 2017 dalla Procura della Repubblica ha di fatto tagliato le gambe alla loro capacità di autofinanziamento. Perché la sede, che attraverso il bar e i vari eventi organizzati sovvenzionava la Comunità, è stata chiusa. Tutto il materiale è stato ingiustamente sequestrato. Nonostante la situazione di grossa difficoltà economica, tra elevate spese legali, spese per l’affitto della sede e relative utenze, i camerati, fedeli ai loro principi, continuano a rispettare gli impegni presi. Skin4Skin», continua il volantino, «chiama a raccolta tutti i gruppi, le associazioni, le comunità e i camerati per i Do.Ra. Il vostro contributo economico è essenziale per consentire la prosecuzione della lotta politica di Do.Ra., una comunità che paga per la sua fede all’idea e la sua intransigenza politica. Da sempre Do.Ra. e in generale i camerati di Varese hanno sostenuto chi era in difficoltà, ora è il momento di sostenere Do.Ra.» La colletta è attiva su un conto PayPal e su una ricarica Postepay intestata a Luigi Cosentino, segretario del Manipolo d’Avanguardia Bergamo. Quando leggo l’annuncio sulle

pagine di Skin4Skin ripenso alla mia prima visita a Caidate: a quel viaggio in autostrada da Milano. Quel giro nella periferia varesotta per capire se era tutto vero. Se realmente i nipotini di Hitler abitavano lì, a poche decine di minuti di auto da Milano e da Malpensa. Ripenso anche ai vicini di casa dei Do.Ra.. A quello che mi avevano detto, spiazzandomi, proprietari e inquilini delle villette di via Giovanni XXIII. «Sono bravi ragazzi, appena arrivati qui hanno distribuito dei volantini dove avvisavano che se c’erano problemi di sicurezza o furti loro erano disponibili ad aiutarci. Con un numero di telefono.» E poi «sono ordinati, quando fanno i loro concerti parcheggiano sempre le macchine senza creare problemi. Solo una volta uno l’ha lasciata davanti a un cancello. Ma c’era un biglietto sul cofano, con un nome e un numero da contattare.» Erano gli stessi giudizi di Dino Macchi, il presidente dell’associazione «I nostar radìis» che aveva affittato i locali ai Do.Ra. per il genetliaco del Führer. Evidentemente, per alcuni di noi, il bisogno di un ordine apparente, superficiale, visibile, conta più dei difficili valori della democrazia, che nascono dalla mediazione e il confronto. Ed è così che gli orrori possono tornare, come i solstizi d’inverno.

57 Le SS e il Wewelsburg. Il castello di Himmler e dell’Ordine Nero. Dove Himmler fabbricava il mito, cfr. http://storia-controstoria.org/europasegreta/wewelsburg-il-castello-di-himmler-e-dellordine-nero/ 58 Armi e svastiche nel covo dei neonazi, di Paolo Berizzi, «la Repubblica», 13 dicembre 2017, cfr. http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2017/12/13/armi-esvastiche-nel-covo-dei-neonazi23.html 59 «Nessun riferimento a Hitler, né braccia tese. Si sono comportati bene», 23 aprile 2013, cfr. http://www.varesenews.it/2013/04/nessun-riferimento-a-hitlerne-braccia-tese-si-sono-comportati-bene/62094/ 60 «Sono nazista. Io come il Duce? Magari. Ricostituire il partito fascista, un sogno…», 13 dicembre 2017, «La Provincia di Varese», cfr. http://www.laprovinciadivarese.it/stories/varese-citta/sono-nazista-io-come-ilduce-magari-ricostituire-il-partito-fascista-un-sog_1264412_11/ 61 Limido condannato, il ladro latitante: «L’ho picchiato? Sì, per difendermi», 4 novembre 2017, «La Provincia di Varese», cfr. http://www.laprovinciadivarese.it/stories/varese-provincia/limido-condannato-illadro-latitante-lho-picchiato-si-per-difendermi_1260155_11/

62 Frode da 250 milioni, arrestati un ex calciatore della Juve e l’ex vicepresidente del Genoa, 29 ottobre 2014 su «la Repubblica», cfr. http://milano.repubblica.it/cronaca/2014/10/29/news/frode_fiscale_da_63_milioni_arrestati_u 99270707/ 63 Rosati e soci: sì al giudizio ma saltano otto accuse, di Simona Carnaghi, La Provincia di Varese.it, 28 aprile 2016, cfr. http://www.laprovinciadivarese.it/stories/varese-citta/rosati-e-soci-si-al-giudizioma-saltano-otto-accuse_1179851_11/ 64 Nazionalsocialisti a Varese: viaggio nella Comunità Militante dei Dodici Raggi, inchiesta di Laura Gioia, Federica Liparoti e Daniele Zinni per TgCom24, 7 giugno 2017, cfr. http://www.tgcom24.mediaset.it/cronaca/lombardia/nazionalsocialisti-a-vareseviaggio-nella-comunita-militante-dei-dodici-raggi_3075377-201702a.shtml 65 Jonghi Lavarini, “il barone nero”: «Saluto fascista? Bello e solare. Un gesto d’amore», di Gisella Ruggia, 15 maggio 2015, «il Fatto Quotidiano», cfr. https://www.ilfattoquotidiano.it/2015/05/15/jonghi-lavarini-barone-nero-salutofascista-bello-igienico-solare-gesto-damore/371943/ 66 Berlusconi e il fascismo, Roberto Jonghi Lavarini (La Destra): «Bravo Silvio, hai detto quello che pensa la maggioranza degli italiani», 28 gennaio 2013 «Huffington Post», cfr. http://www.huffingtonpost.it/2013/01/28/berlusconi-e-ilfascismo-roberto-jonghi-lavarini-la-destra-_n_2565789.html 67 Varese, i naziskin all’attacco dell’Anpi con la petizione online: «Fuorilegge, processare tutti i partigiani», di Paolo Berizzi, «la Repubblica», 12 gennaio 2017, cfr. http://milano.repubblica.it/cronaca/2017/01/12/news/anpi_naziskin155901142/ 68 Ministero dell’Interno, Ufficio affari legislativi e relazioni parlamentari, D2478 del 14.02.2017. 69 «Sono nazista. Io come il Duce? Magari. Ricostituire il partito fascista, un sogno…», art. cit. 70 Si veda il link https://youtu.be/bMMs7AQLC3I

7. LABORATORIO LOMBARDO La storia si ripete La storia a volte non insegna mai. Si ripete e raggela le coscienze. E intanto ne risveglia delle altre. Le generazioni si trasmettono l’una all’altra pratiche antiche. Quel passaggio di testimone è la migliore o peggiore prova che l’antidoto alla violenza e all’odio, quel rimedio che sta alla base di ogni democrazia e di ogni Stato civile, attende ancora un medico capace di cristallizzarne l’azione. Di tutto questo i Do.Ra sono un esempio compiuto. Essenziale nella sua brutalità. Tranne un paio di casi, i neonazisti che nel bosco varesotto hanno celebrato lo Julfest – com’è chiamato il solstizio d’inverno – erano bambini o nemmeno maggiorenni nel 1993. Avessero avuto qualche anno in più, avrebbero memoria di ciò che accadde in quell’anno sul lago di Garda. È la notte del 19 dicembre, a Bardolino. Sulla spiaggia di uno dei tanti alberghi della località balneare presa d’assalto dai turisti soprattutto e tradizionalmente tedeschi – l’Hotel Lido Holiday – un centinaio di militanti del Fronte Nazionale di Franco Freda celebrarono il solstizio caro alla Thule Gesellschaft. Fu il primo caso «intercettato» dalle forze dell’ordine. Stando al rapporto della Digos veneta, ogni camerata teneva in mano una fiaccola, in cerchio, mentre uno stereo diffondeva le note dei Carmina Burana di Carl Orff. Sembrano antenati dei Do.Ra. Erano i loro nonni. O i loro zii. O i loro padri. Anche in quella notte fu dato fuoco a una catasta di legno. Era sormontata dal simbolo del gruppo: una svastica priva della gambetta superiore sinistra. Una mezza svastica. Mutilata apposta per cercare di non incappare nelle maglie della legge Mancino. I militanti avevano atteso che la pira a cui avevano dato fuoco si spegnesse. Quando accadde, finì anche la musica. In quella notte sul lago di Garda gli

inquirenti erano riusciti a registrare tutto il discorso tenuto da Cesare Ferri, cofondatore del Fronte Nazionale assieme a Freda. Un discorso – sosterranno i giudici del Tribunale di Verona – che avvalorava l’idea di fondo che stava alla base dell’attività dell’organizzazione: la «salvaguardia dell’integrità etnicoculturale della stirpe nazionale dalle varie commistioni.» Una salvaguardia da esercitare attraverso «una spiccata propaganda per l’odio razziale verso gli extracomunitari.» È la stessa imbarazzante uscita sulla «razza bianca» che il 15 gennaio 2018, primi giorni di campagna elettorale, in un’intervista a Radio Padania, si lascia scappare il leghista «moderato» Attilio Fontana, avvocato di Varese, ora presidente della Regione Lombardia. «È stato un lapsus», si giustificò Fontana tentando di spegnere le polemiche. Quante similitudini, riproduce la storia. Fondato nel dicembre del 1990, il movimento politico capeggiato da Freda – il simbolo era un monogramma che stilizza l’acronimo F.N., in colore rosso, inserito nel cerchio bianco, quest’ultimo incluso in un quadrato blu – fu attivo fino al 1993 e infine sciolto dal ministero dell’Interno con decreto del 9 novembre 2000. È utile, quasi trent’anni dopo, andare a rileggersi quello che è scritto nello statuto. «Riconoscendosi la funzione di “Ordine sociale”, il Fronte Nazionale è il sodalizio politico che intende custodire i lineamenti essenziali che formano lo Stato-Nazione. […] Perseguendo il bene della comunità nazionale nella sua totalità e trascendenza rispetto al bene individuale e all’interesse privato, il sodalizio si propone di orientare il bene transitorio della comunità nazionale attuale – sintesi storica delle generazioni passate, presenti, future – al bene perpetuo della Nazione. In questa prospettiva, il rispetto dell’omogeneità etnica del corpo sociale dello stato nazionale assume per il sodalizio significato fondamentale.» La razza, dunque. Quella stirpe italiana ed europea la cui salvaguardia è in cima al programma nazionalsocialista dei Dodici raggi. E anche di altre formazioni che si rifanno al fascismo. Per esempio CasaPound Italia e Forza Nuova. La «razza» è il baluardo da difendere contro il pericolo rappresentato dall’invasione dei popoli stranieri per lo più provenienti dal continente africano. Quei popoli con i quali fantomatiche élite mondiali, agevolando l’immigrazione, vorrebbero rimpiazzare la popolazione europea. È questa la narrazione delirante del Piano Kalergi. Un presunto complotto internazionale che nasconde in realtà una bufala gigantesca, ma contagiosa e difficile da estirpare. Una balla mediatica propalata nel 2005 dal militante di estrema destra austriaco Gerd Honsik, condannato in Austria per avere negato l’Olocausto nel suo libro Addio Europa. Honsik si appropria e piega al suo interesse il pensiero del conte Richard Nikolaus di Coudenhove-

Kalergi, politico e filosofo austriaco morto nel 1972, che proponeva un «ideale paneuropeo» quale antidoto alle guerre tra popoli. Come fa notare Errico Buonanno nel suo libro Sarà vero (Einaudi, 2005), sui falsi e le bufale che spesso stanno dietro la storia ufficiale, «Honsik cita testualmente frasi di Kalergi ma decontestualizzate.» Un esempio. Mentre Kalergi prevedeva ragionevolmente che «l’uomo del futuro sarà di sangue misto», per Honsik la sua teoria diventa quella di «trasformare i popoli in una razza mescolata di bianchi, negri e asiatici, affinché l’Europa sia dominabile dalle élite.»71 La tesi – adottata e diffusa in seguito da molti esponenti di partiti nazionalisti, identitari e xenofobi europei – arriva in Italia nel 2015 attraverso decine di pagine Facebook. È stata ripresa con diverse allusioni da Matteo Salvini. E fatta propria da Forza Nuova. Nel blitz sotto la redazione di «la Repubblica», il 6 dicembre 2017, tra gli slogan mostrati ne avevano alcuni contro chi «diffonde la sostituzione etnica». Tutto si tiene nella storia dei nuovi fascismi. Quelli di ieri e quelli di oggi. C’è un filo che li lega. È intorno a quello spago che si annodano le storie che ho continuato a cercare in questi anni. Politici, svastiche e Daspo Un laboratorio politico è fatto di idee, di teste e di braccia. I macchinari sono i militanti. Il prodotto finito è il movimento o il partito che esce dalla lavorazione in officina. Nel Nord Italia, la Lombardia dove nascono e operano i Do.Ra. è da decenni un laboratorio di sperimentazione per le formazioni neonazi e neofasciste. Una caratterizzazione geografica che assimila la regione economicamente più sviluppata del Paese alla sua «gemella» di Pil: il Veneto. Per capire i meccanismi di questo incubatore politico nascosto dietro il paravento della crescita economica e dei servizi più evoluti, basta scorrere le cronache degli ultimi anni. Prendiamo ancora il periodo aprile 2013. Nei giorni della prima festa per Hitler organizzata dai Do.Ra., nel tribunale di Varese si celebra un processo particolare. È un processo iniziato il 15 gennaio di quell’anno. Alla sbarra finiscono alcuni esponenti dell’ultradestra locale, tra cui l’ex consigliere comunale Pdl di Busto Arsizio, Francesco «Checco» Lattuada. Che cos’era successo? Il 23 aprile del 2007 decine di persone si riuniscono nella birreria che il politico gestiva a Buguggiate, sempre in provincia di Varese, per festeggiare il compleanno di Hitler. Anche loro come i Do.Ra. Ma in scala minore. Le cimici della Digos riprendono gli inni fascisti e nazisti cantati dai

partecipanti, con riferimenti agli ebrei e ad Anna Frank. Ma nessuno dei 22 indagati – tra i quali lo stesso Lattuada – verrà condannato durante il processo: tutti assolti dall’accusa di istigazione all’odio con l’aggravante del motivo razziale per prescrizione del reato. Lattuada è anche un ultrà della Pro Patria: nel 2009 è coinvolto negli scontri seguiti al match tra Pro Patria e Ravenna che gli costano un Daspo per 5 anni. Quando il Pd ne chiese le dimissioni dal consiglio comunale non ci fu nulla da fare: la maggioranza fece quadrato e Lattuada non si mosse di un passo.72Ma siccome spesso la storia si ripete, il consigliere ultrà neonazista pensò bene di far parlare di nuovo di sé. In altre due occasioni. Il 3 gennaio 2013 si gioca l’amichevole Pro Patria-Milan. Il giocatore ghanese Kevin Boateng viene preso di mira dagli ultrà della squadra locale. Cori razzisti, buuuu, imitazioni della scimmia. Il calciatore a un certo punto sbotta. Si ferma, scaraventa il pallone sugli spalti, si sfila la maglia e abbandona il campo insieme alla squadra. Intervistato, Lattuada difende gli ultrà razzisti. E gira la colpa sul giocatore di colore Boateng. «Il gesto di Boateng è stato forte. Testimonia anche una sua fragilità. Quasi tutte le curve, quasi tutti i gruppi organizzati hanno uno stile, una simbologia di estrema destra. Ma non è catalogabile nel consenso politico.»73Passano tre anni: tre stagioni calcistiche. È il gennaio 2016. Sulla sua pagina Facebook Lattuada posta una foto: si vede un gruppo dei soliti ultrà fascisti della Pro Patria, i volti coperti da passamontagna, il braccio destro teso nel saluto romano.74Sono sugli spalti dello stadio di Busto Arsizio: partita Pro Patria – Renate. «La foto? L’ho scattata per ridere», minimizza Lattuada. Ma la «goliardata», che non sfugge alle telecamere di sorveglianza dell’impianto sportivo, gli costa cara. Il questore di Varese gli appioppa un nuovo Daspo. Altri cinque anni lontano dagli impianti sportivi, con obbligo di firma alla polizia giudiziaria. Le simpatie neonaziste di Lattuada, consigliere comunale, e dunque un pubblico ufficiale, non devono sorprendere. Non a queste latitudini. Sempre nel profondo Nord negli anni scorsi ci fu l’exploit del Movimento nazionalsocialista dei lavoratori (acronimo NSAB). È il clone italiano del Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori con cui Hitler salì al potere nel 1933. A Nosate, in provincia di Milano, e a Belgirate, in provincia di Verbania, la formazione riuscì a piazzare tra 2004 e 2006, rispettivamente, due e quattro consiglieri comunali. Sembra fantascienza. Ma è la realtà. I sei consiglieri del NSAB sono i primi nazionalsocialisti eletti in un’istituzione europea dal dopoguerra. Il 20 aprile 2015 – nel giorno in cui i Do.Ra. allestivano la solita festa – il NSAB dedica sul proprio sito questa frase a Hitler: «Buon compleanno,

Führer». Era il 126esimo anniversario della nascita. Una ricorrenza rimarcata dai neonazisti con una foto del festeggiato e con queste parole: «Abbiamo voluto in questo modo onorare il più grande uomo politico del XX secolo, l’uomo che ha reso possibile la realizzazione dell’Idea nazionalsocialista». Varese nera C’erano una volta i lumbard. Varès, come si dice in dialetto lombardo, è stato un luogo simbolo del leghismo. Quello delle origini, la verde Lega dell’autonomismo federalista che un tempo gridava alla secessione dal resto del Paese. Varese, culla e roccaforte. Come le valli bergamasche. Quanto sembrano lontani quei tempi. Ma proprio mentre a cavallo tra gli anni Novanta e l’inizio del Duemila la Lega di Bossi e Maroni cresceva, nel silenzio generale iniziavano a rimettersi in moto nel varesotto le leve del laboratorio neofascista: un’officina che tra Milano, Brescia e Varese aveva, negli anni Settanta, il suo cuore lombardo. La «città giardino» divenne provincia in epoca fascista con un telegramma inviato da Mussolini al sindaco e futuro podestà Domenico Castelletti il 6 dicembre 1926. Ma del fascismo Varese non porta solo la firma incisa nelle architetture, con i tipici pilastri e le denominazioni con stampi futuristi come quelli di piazza Monte Grappa, con la sede della camera di commercio, delle poste, e della questura. C’è un ampia pagina nera di cui è fatta la storia della città. Non occorre andare indietro al centro di reclutamento delle SS inaugurato nel marzo 1944, un anno dopo l’occupazione da parte della compagnia al comando dello Scharführer Manfred Gauglitz. Nemmeno alle vicende di Eliodoro Pomar, l’ingegnere siciliano, ma varesino d’adozione, dirigente del Fronte Nazionale di Junio Valerio Borghese coinvolto nelle indagini sul tentativo di colpo di Stato del 7-8 dicembre 1970 e poi arrestato in Spagna dove era entrato in contatto con militanti di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale. Quelli erano i prodromi, forse. L’anticamera di quello che sarebbe arrivato dopo. Basterebbe ricordare altre cose. Per esempio che, mentre c’è una targa che ricorda Giovanni Gentile, nessun segno in ricordo è mai stato dedicato a Varese al povero Vittorio Brusa, il fiorista che il 28 marzo 1974, due mesi prima della strage di piazza della Loggia a Brescia, fu dilaniato dallo scoppio di una bomba. L’ordigno era stato inserito nella batteria di un’auto che Brusa aveva spostato perché lasciata vicino alla sua bancarella di fiori. Il suo sacrificio inconsapevole ha evitato un’altra strage in un mercato. Saltiamo al

1993. Poco prima della svolta di Fiuggi che trasforma l’Msi in Alleanza Nazionale, con la nascita di Varese Skinhead arriva ufficialmente a compimento quel percorso verso approdi neonazisti che l’estrema destra da queste parti aveva iniziato già da tempo.75Un terreno che sarebbe stato arato anche dopo. E che ha preparato la maturazione del frutto finale: lo sbarco della Comunità militante dei Dodici Raggi. Sette anni prima che spuntasse il Sole nero, Varese è teatro di fatti di cronaca. Una scia di episodi che arricchiscono gli archivi della violenza estremista. Anno 2005: a Besano scoppia una rissa di fronte al bar Lory dove lavora Claudio Meggiorin che, intervenuto per sedare il diverbio, viene accoltellato dal giovane albanese Vladimir Mnela. L’uccisione del barista scatena una caccia all’uomo contro gli immigrati, per la quale finiscono in manette due esponenti del gruppo ultrà razzista Blood and Honour, Giuseppe Fittipaldi, 39 anni, e Francesco De Napoli, di 32, che per vendetta tentarono di linciare un immigrato albanese scelto a caso per strada. Ma perché tutta questa furia? E perché il 16 giugno 2005, al funerale di Meggiorin, ad abbracciare i poveri genitori della vittima, straziati dal dolore più atroce, arrivano centinaia di ultrà e skinhead da tutta Italia? Semplice. «Claudino» faceva parte dei Blood and Honour del Varese calcio, ispirato all’omonima organizzazione internazionale neonazista. Una rete che ha succursali ed emanazioni in tutto il mondo. Fondata in Inghilterra alla fine degli anni Ottanta dal fanatico neonazista Ian Donaldson – alias Ian Stuart, leader della band musicale «Skrewdriver» – Blood and Honour, dopo la morte del suo leader si affilia a un altro movimento neonazista britannico: Combat 18, che vedremo meglio più avanti. Nelle ventiquattro ore che precedono l’ultimo saluto a Claudio Meggiorin, celebrato nella chiesa di Besano, nello spazio commenti del sito www.bloodhonourvarese.it arrivano centinaia di messaggi. Moltissimi sono scritti da ultrà. Alcuni finiscono con «Sieg Heil», il saluto nazista alla vittoria. Altri rivolgono al «camerata Claudio» un «saluto romano». Uno dice: «Onore a Claudio, liberate Milosevic, così ci pensa lui a fare pulizia etnica. Albanesi tutti appesi». Un altro recita così: «Claudio presente! Un saluto cameratesco da Induno. Domani tutti in camicia nera per salutare un camerata… a noi!!!»76Pulizia etnica in nome del razzismo, uomini pronti all’azione, che picchiano per affermare la supremazia su una minoranza. Viene in mente ciò che Ian Stuart lasciò scritto prima di morire in seguito a un incidente stradale. Il suo progetto, che doveva sopravvivergli, era mettere in campo, attraverso Blood and Honour, «un’armata di skins per proteggere la razza bianca, avendo come idolo

Hitler e fondando la sua azione nella teoria nazista.» Quella stessa estate del 2005 un’altra storia accende i riflettori dei media nazionali su Varese. Sembra ricoprire la provincia di una nuova nube nera. È una storia che qualcuno aveva provato a tenere sotto traccia. Ma è di quelle impossibili da custodire. Figurarsi in una frazione di un piccolo paese di provincia. A Cardana di Besozzo, distante appena 24 chilometri lungo la strada statale 394 dal paese di Meggiorin, c’è una villa in collina. Sorge al numero 7 di via San Carlo. Fuori è bianca e squadrata. Dentro è gialla come i girasoli di Van Gogh. Ha un grazioso giardino da cui si gode una vista incantevole sul lago Maggiore. La casa un tempo era appartenuta a Hermann Bickler, colonnello delle SS e capo di una sezione speciale della Gestapo a Parigi tra 1943 e 1945. Poi è venuto a viverci suo figlio, Dietrich Bickler, artista affermato, pittore e scultore che oggi ha 78 anni. In quell’estate del 2005 a villa Bickler soggiorna un ospite eccezionale. È un 92enne in buona forma, che passa le giornate a giocare a carte, ad ascoltare musica e a leggere all’ombra di una grande tenda da sole a righe bianche e arancioni. Si chiama Erich Priebke. L’ex capitano delle SS, e prima agente della Gestapo, condannato all’ergastolo nel 1998 per la strage delle fosse Ardeatine del 24 marzo del 1944 dopo un processo trascinatosi per 3 anni tra mille polemiche. Che cosa ci fa Priebke sul lago Maggiore? È in vacanza. Sebbene sottoposto agli arresti domiciliari a Roma per motivi di età e di salute, l’uomo che ha contribuito all’uccisione di 335 italiani, che si è nascosto per quasi mezzo secolo in Argentina, aveva ottenuto da un magistrato militare ormai prossimo alla pensione il permesso di trascorrere l’estate lì, nella villa dell’ex collega della Gestapo, Hermann Bickler. Il criminale di guerra Priebke per il tribunale era «un detenuto che ha dimostrato un comportamento conforme alle regole carcerarie.» E per questo «ammissibile al trasferimento temporaneo dal domicilio cui è attualmente ristretto.» La sua residenza veniva controllata dai carabinieri e dalla Digos. «Vacanze scandalose», s’indignarono l’Anpi, i partiti di sinistra e anche la Lega, con l’allora presidente della Provincia, il bossiano Marco Reguzzoni. L’indignazione nasceva anche dal ricordo vivo degli eccidi consumati dalle SS sulle sponde del lago, dove nel settembre del ’43 a Meina fucilarono 54 ebrei, e nel giugno del ’44 a Fondotoce, sopra Stresa, massacrarono 43 partigiani.77Ma per indolenza della legge o della burocrazia, le proteste non servirono a nulla. Priebke finì indisturbato le sue ferie e se ne tornò a Roma, dove morirà otto anni dopo.

«Tocchi uno partono tutti quanti» Informare. Raccogliere notizie. Verificarle, scriverle. Penso che il dovere e la funzione sociale di un cronista non sia solo questo. Dietro il lavoro di scavo, il portare a galla ciò che è sommerso o taciuto, e scomodo, ci deve essere anche la consapevolezza che stai facendo qualcosa che può essere utile. E per questo lo devi fare a ogni costo. Non importa quale sia la reazione delle persone o dei gruppi dei quali scrivi. Quello di capire, raccontare, e denunciare, è il tuo mestiere. Un mestiere artigianale che richiede pazienza e costanza. Ma anche impegno civile. O sei disposto a farlo in questo modo oppure è meglio che cambi lavoro. Ogni volta che confezionavo un servizio o un’inchiesta che riguardasse i Do.Ra. mettevo in conto che prima o poi avrebbero tradito la loro proverbiale ritrosia rispetto a reazioni plateali e muscolari – tipica per esempio di altri gruppi, come Forza Nuova. Sapevo che rendere pubblica, e denunciare, l’anomalia tutta italiana di un gruppo dichiaratamente neonazista, avrebbe avuto un prezzo. È andata proprio così. Nel paese della mafia, anzi delle mafie, ci sono anche altri sodalizi – meno noti, non ascrivibili a un livello di criminalità così esplicita, e dunque più subdoli – che non tollerano il servizio pubblico del giornalismo. Se fai il tuo lavoro e ti occupi di gruppi di estrema destra vieni etichettato come un «vigliacco», un «infame», un «delatore», uno «senza onore», un «confidente da 30 denari» (delle forze dell’ordine), uno che «protegge i nomi di stupratori e pedofili.» Oppure diventi automaticamente la «vergogna di Bergamo» (la mia città). Uno che «vuole la guerra» o che «cerca rogne». Uno «scribacchino», un «manutengolo», una «fogna», un «troll», un «represso», una «mammola», uno «schifo», uno che «si porterà le ferite nella bara.» Se dedichi articoli al racconto di chi inneggia a Mussolini e a Hitler, alla superiorità della razza bianca, all’odio contro gli immigrati, al negazionismo, al razzismo più becero e odioso perché innescato dalla discriminazione ereditata dalle macerie della storia, diventi un nemico. Pubblico. Uno che deve «vergognarsi», che scrive «assurde falsità», che fa il gioco di chissà quali e presunti «poteri forti». Uno la cui parola «vale quanto il tuo giornale: 1,50 euro», uno che deve «trovarsi un lavoro vero.» Sono solo alcuni dei messaggi che in questi anni mi sono stati indirizzati da gruppi neofascisti e neonazi, da loro esponenti e da personaggi dell’estrema destra tra cui anche ex bombaroli neri come Maurizio Murelli, condannato in via definitiva a 17 anni e sei mesi di carcere per l’omicidio dell’agente di polizia Antonio Marino dilaniato da un ordigno il 12 aprile 1973 a Milano durante una manifestazione poi sfociata in disordini con le

forze dell’ordine. Se decidi di dedicarti a questo lavoro di denuncia, sai che dovrai accettarne le conseguenze. La cosa più odiosa non sono gli insulti e le minacce che ti arrivano sui social, nei post, sui siti d’area, nelle interviste farneticanti, sugli striscioni minatori appesi per strada. Non sono nemmeno gli atti intimidatori – per esempio la tua automobile danneggiata (era marzo 2017) con una svastica, un crocifisso e il simbolo SS incisi sulla carrozzeria. La cosa più odiosa sono gli attacchi trasversali. I riferimenti mafiosi che i «duri e puri» del cameratismo identitario riservano alle persone a cui vuoi bene, a cui sei legato. Quelle che poco o nulla sanno del tuo mestiere perché hai sempre cercato di tenerli fuori da queste assurde dinamiche. Sono questi gli attacchi più vigliacchi e che più mi hanno colpito tra quelli riservatimi dalla miseria umana di chi, cresciuto nell’odio, non ha altri argomenti che quello dell’offesa, dell’insulto, della prova muscolare, dell’elogio del buio. «Cut one and we all bleed.» «Tagliane uno e sanguinano tutti.» La scritta campeggia su una delle pareti della sede dei Do.Ra. È lì, bene in vista. Assieme a simboli runici e svastiche. E ai marchi dei principali gruppi skinhead italiani ed europei: sia politici che di ultrà del calcio. L’incitamento ad accoltellare è la frase che quasi tutti gli iscritti e i simpatizzanti dei Do.Ra. hanno tatuata sul corpo: soprattutto sulle braccia e sulle mani. Anche le donne, che hanno dato vita al SAF, il Servizio Ausiliario Femminile mutuato dal Partito nazionale fascista di Mussolini. La frase è una dichiarazione di guerra. Un motto da gang di strada che ho ritrovato in alcuni dei post che i nazi di Varese e i loro sodali bergamaschi del MAB hanno pubblicato sui loro profili Facebook in risposta ad alcune mie inchieste. «Tocchi uno partono tutti quanti», «a ogni azione corrisponde un effetto», mi hanno scritto per avvisarmi. E «se cerchi grane meglio che lasci stare.» All’inizio i Do.Ra. erano semplicemente skinhead e ultrà. Seguivano il Varese calcio. Curva nera e xenofoba, saluti romani, antisemitismo. Alcuni frequentavano anche la curva Nord di San Siro, il feudo degli ultrà fascisti dell’Inter. C’è una foto che ritrae un tifoso, jeans e T-shirt bianca, che assomiglia ad Alessandro Limido: è vicino al gruppo di ultrà che stanno scaraventando dal secondo anello verde dello stadio Giuseppe Meazza uno scooter «rubato» ai rivali dell’Atalanta. È il 6 maggio 2001. Una data che a San Siro in pochi hanno dimenticato. Perché quel motorino lanciato dagli spalti negli ultimi minuti della partita Inter-Atalanta fece scalpore. Cose da stadio. Logiche tribali. Follia pura. Un gesto pericolosissimo. Che avrebbe potuto avere conseguenze drammatiche. Se quello scooter anziché rotolare per qualche

gradone fosse finito sotto, nel primo anello, avrebbe ucciso degli spettatori. Anche questo succedeva nelle domeniche passate in curva a bere birra e ululare buuu razzisti contro giocatori di colore e contro i «terroni da lavare col fuoco», come recitava uno striscione esposto della curva Nord. Nel 2012 i Do.Ra. fanno il salto di qualità. «Lo stadio non ci bastava più», racconta Limido. «Volevano vivere la comunità 24 ore su 24.» È la comunità nera di Caidate. Ha una struttura verticistica, militare. Il modello, come dice il presidente, lui, «Ale skin», «è quello iraniano, per simpatie diciamo politiche… perché anche noi abbiamo una guida suprema.» Questa guida risponde al nome di Maurizio Moro, che riveste anche la carica di vicepresidente. Quarantaquattro anni, storico fondatore di Varese Skinhead, già condannato a quattro mesi in appello con l’accusa di minaccia con l’aggravante dell’odio razziale (pena sospesa e non menzione). Moro è quello che impartisce gli ordini e guida la comunità anche da un punto di vista religioso. I Do.Ra. sono pagani e odinisti, si rifanno a simboli e rituali runici e ancestrali. Un bagaglio che, dice Moro, «l’Europa ha abbandonato da quando è diventata cristiana.»78Ci sono queste convinzioni dietro la celebrazione dei solstizi e degli equinozi. Dietro le rune piantate sul monte San Martino e le svastiche bruciate nei boschi. L’altro vicepresidente del sodalizio è Matteo Bertoncello, 36 anni, capo dei Blood and Honour. Gli ultrà razzisti e antisemiti del Varese gemellati con i camerati della curva dell’Inter. È lui l’ufficiale di collegamento tra i Do.Ra. e lo stadio. Due vasi comunicanti, fino a poco tempo fa. Poi i Dodici raggi, a parte qualche sporadica apparizione, più che altro per segnare il territorio con magliette e striscioni, hanno preferito abbandonare lo stadio e dedicarsi esclusivamente alla militanza politica. Nei quadri gerarchici della formazione nazionalsocialista Bertoncello è una figura fondamentale: uno che ha raccolto un’eredità pesante. Quella di un suo amico fraterno che non c’è più. Saverio Tibaldi. È stato anche lui tra i fondatori di Blood and Honour. Tibaldi muore in una rissa mentre era latitante in Spagna. In fondo a un’umida notte di febbraio del 2003 la polizia trova un corpo esanime all’esterno di una grossa discoteca di Torremolinos. C’è stato uno scontro tra un gruppo di persone. Un uomo è rimasto a terra. Ferito da coltellate al torace e al fianco. Nel primo rapporto che la polizia manda all’Interpol si ricostruisce quanto accaduto. E si tracciano le prime generalità della vittima: il cartoncino con le impronte digitali dà un nome e un volto. Tibaldi, 33 anni, nato a Grazzanise, provincia di Caserta, residente a Varese. Lui, il leader dei B&H. Cranio rasato, svastica tatuata, numerosi precedenti penali, anche per spaccio, Tibaldi era atteso in Italia da una condanna definitiva a 11

mesi per lesioni. Uno dei tanti episodi di violenza, fuori e dentro gli stadi, di cui era stato protagonista. Il capo ultrà si era rifugiato in Spagna proprio per evitare il carcere.79Ma non ha potuto evitare le coltellate dei suoi aggressori. Una trama nera lega dunque la costa spagnola con la Varese più xenofoba. Questa città dove gli skinhead ultranazionalisti si contendono gerarchie ed esercitano potere con la forza dell’intimidazione. Saltiamo a un episodio avvenuto nell’aprile del 2015. Gli ultrà del Varese devastano il terreno di gioco dello stadio Franco Ossola: porte e zolle di campo divelte, reti e bandierine strappate. Il raid compiuto ha come obbiettivo costringere la proprietà della società a lasciare. Quando la questura passa al setaccio i due gruppi più violenti della curva – B&H e Ultras 7 laghi, entrambi collegati con i Do.Ra. di Caidate – per identificare i responsabili dell’atto vandalico, si apre un mondo fatto di odio sistematico e nazismo esportato nel calcio. La leadership della curva varesina si rifà sempre alle due figure di riferimento degli ultrà: lo scomparso Tibaldi (il vessillo «Saverio presente» non manca mai allo stadio), e l’altro capo, Filadelfio Vasi. Divenuto poi un vero e proprio bandito comune, detenuto per rapina, l’ascendente di Vasi su alcuni elementi del tifo estremo è testimoniato da un verbale di un’inchiesta per rapine e spaccio. G.T., una ragazza di origine albanese, amica e confidente di alcuni del gruppo, raccontò al Pm Agostino Abate come Vasi riusciva a imporre il suo carisma brutale. In uno dei rari momenti di libertà, come un boss mafioso, Vasi chiama a rapporto alcuni capi della curva, costringendoli a inginocchiarsi davanti a lui e malmenandoli per affermare il suo ruolo di guida.80Sempre Vasi, nel 2010, secondo quanto riferito dalla ragazza albanese, scioglie d’imperio il «Gruppo Comodo» che fino a quell’anno esponeva un proprio striscione in curva. Anche in quell’occasione il capo ultrà non va per il sottile. Una serie di intimidazioni, tra cui l’esplosione di un locale in via Crispi, a Varese. Alla fine i leader di «Comodo» si convincono che è meglio sloggiare dalle gradinate dello stadio. Dopo il decesso di Tibaldi a Torremolinos, nelle gerarchie nella curva di Varese c’è un rimescolamento. Il comando passa a cinque persone. Cinque capi ritenuti a tutti gli effetti gli eredi di Tibaldi. Sono anche gli unici titolati a mantenerne viva la memoria. Uno di questi cinque è il «dorato» Matteo Bertoncello. Un vero e proprio collante tra i Do.Ra. e i gruppi ultrà del calcio e del basket. Questi ultimi si chiamano «Arditi». Hanno la stessa ideologia neonazista dei colleghi del calcio. Si danno sponda, molti frequentano entrambe le curve. Nei Do.Ra. c’è un militante storico al quale è affidato il ruolo di cerniera con il mondo dell’associazionismo di estrema destra. È soprannominato

«il sergente». Si chiama Andrea De Min ed è considerato un altro dei plenipotenziari del gruppo. È lui che tiene i rapporti con le sigle collegate ufficiosamente al gruppo di Caidate: su tutte «Varese ai varesini», emanazione locale di Forza Nuova, e CasaPound Varese. Sono rapporti non formalizzati, perché ufficialmente, per voce del suo leader Limido, i Do.Ra. rivendicano la propria autonomia anti-sistema e la propria diversità dai partiti neofascisti: Forza Nuova e CasaPound, appunto. Quote rosa in salsa nazi Che i gruppi e i partiti di estrema destra siano caratterizzati da sempre da un’impronta e un’impostazione fortemente maschilista, è cosa nota. Il ruolo della donna è subalterno, laterale, una presenza minoritaria che ha come funzione quella di «assistere» gli uomini. È vero: sia in Forza Nuova che in CasaPound in questi anni si è sviluppata una militanza femminile. Anche con sigle dedicate, tipo l’«associazione Evita Peron» legata al partito di Roberto Fiore. Ma sono realtà ed esperienze minime. Più che altro di facciata. Servono a dare l’impressione che l’evoluzione del neofascismo 2.0 abbia portato a un affrancamento dallo stereotipo maschilista e machista. Negli ultimi cortei di CasaPound le militanti stavano in testa, nelle prime file. Così si veicolava un’immagine nuova del cameratismo, apparentemente paritaria. Non è così. Anche i Do.Ra. hanno provato a mutuare questa tendenza, dando vita a un proprio servizio interno ausiliario femminile (SAF). Come quello della Repubblica Sociale Italiana. Il SAF era un corpo speciale voluto da Mussolini e creato nell’aprile del ’44. Sentite cosa scrivono le donne «dorate» nella sezione a loro dedicata sul sito, attivissimo, dei Do.Ra.: «Il senso del dovere, del sacrificio, della disciplina, ma soprattutto dell’amor di patria che ci contraddistinguono, infondono in noi la ferrea volontà di prendere come esempio la rettitudine morale delle Ausiliarie Fasciste. Con questo non vogliamo nemmeno lontanamente paragonarci a loro, ma, quanto meno, rendere onore a quelle donne che hanno fatto degli ideali la loro battaglia». La responsabile del SAF è Silvia Malnati, ex compagna di Alessandro Limido. In questi anni le donne di Do.Ra. hanno organizzato poche iniziative. Quasi tutte rivolte a raccontare la figura di Eva Braun. «Non siamo subordinate alla figura e al ruolo dell’uomo», dice Malnati, «ma siamo per la società tradizionale: madre padre figlio patria famiglia.» Sono poco più di una decina le donne del SAF di Caidate. A loro è

sempre stato affidato il compito di badare alla gestione degli spazi della sede sequestrata dalla Digos e organizzare il calendario delle attività: il cineforum (tra i film cult del gruppo ci sono American history X e Russian 88); la biblioteca dove abbondano i testi revisionisti; i dibattiti sul negazionismo nella sala addobbata con croci runiche e svastiche. Svastiche impresse su adesivi appiccicati alle pareti. Svastiche su bandiere affisse in occasione di convegni. Convegno come quello del 20 maggio 2016. La sala dove si danno appuntamento i Do.Ra. può benissimo sembrare uno spazio gestito dal Partito nazionalsocialista dei lavoratori nella Berlino del Reich. Va in scena un dibattito intitolato Dalla seconda guerra mondiale ai giorni nostri: i tentacoli del potere mondialista. Sulla locandina di invito alla serata figurano i nomi dei relatori: Leonardo Fonte e Enzo Ristagno della comunità politica di Avanguardia. Il primo è direttore dell’omonimo mensile che porta avanti tra le altre cose una campagna mediatica per il boicottaggio di Israele. E poi gli altri intervenuti. Alcuni sono stati inquisiti. C’è il gran capo Alessandro Limido, già condannato in primo grado (e poi assolto) per incitamento all’odio razziale; il lucchese Francesco Preziuso, condannato a 4 anni nel 2011 nel processo a carico del gruppo ultrà di estrema destra della Lucchese «Bulldog» (condanna confermata in appello ma poi annullata per prescrizione dalla Cassazione) e responsabile italiano della rete europea Skin4Skin che sostiene economicamente i camerati alle prese con guai giudiziari. Il terzo del gruppo è Enrico Labanca, skinhead bergamasco, già arrestato per tentato omicidio, a capo del MAB alleato coi Do.Ra. È lui, Labanca, il collante tra Do.Ra., MAB e una delle figure di riferimento del sodalizio neonazista orobico-varesino: Vincenzo Vinciguerra, il terrorista di Avanguardia Nazionale in carcere dal 1979 dove sta scontando l’ergastolo per la strage di Peteano (1972: tre carabinieri uccisi). Nonostante la condanna alla massima pena, nel 2015 Vinciguerra ottenne l’autorizzazione a farsi intervistare in carcere da Alessandro Limido. Un’intervista che, a rileggerla adesso, rivela ancora una volta quella strategia dell’infingimento con la quale formazioni neofasciste, per esempio CasaPound, riescono a far breccia tra le fasce deboli della popolazione. Come? Proponendosi come una forza fascista sì. Ma «di sinistra». Estremamente attenta ai ceti disagiati. Nemica della borghesia. Le parole del bombarolo nero Vinciguerra suonano come un manifesto di questo pensiero: «Non avremmo mai dovuto essere chiamati a definirci di destra e di sinistra, perché il fascismo era andato oltre. Ma se dobbiamo adottare il linguaggio corrente, siamo a sinistra, mai a destra. A destra si colloca la borghesia (“la borghesia – disse Mussolini negli ultimi giorni – è stata la rovina

dell’Italia”), il capitale, le banche, la difesa dei privilegi acquisiti non per nobiltà ma per denaro. La conservazione ad ogni costo dello status quo, la diseguaglianza sociale prodotta dall’ingiusta e iniqua distribuzione della ricchezza». A Caidate ad ascoltare gli interventi degli «allievi» di Vinciguerra c’è un discreto pubblico di teste rasate. La scenografia è in linea con il tema trattato. Appesa al tavolo dei relatori, accanto allo striscione dei Do.Ra., campeggia una bandiera nazista con una svastica e una croce uncinata. La parete sullo sfondo ospita invece i due martelli incrociati simbolo degli Hammerskin e il logo della «Tana delle Tigri». Che cos’è? «Tana delle Tigri» – dal nome dell’organizzazione criminale immaginaria inventata da Ikki Kajiwara e inserita come il principale antagonista nel manga L’Uomo Tigre e nel successivo adattamento in animazione – è il titolo del raduno di musica fascio-rock organizzato da anni da CasaPound a Roma (l’ultima edizione è andata in scena a maggio del 2016 a Colle Oppio). Ma è anche il nome di un locale notturno – aperto e gestito dagli skinhead in via Toffetti a Milano. Dunque questo è il «milieu culturale» dei Do.Ra. Pochi simboli per raccontarsi. E per far capire qual è la rete alla quale sono collegati, dentro e fuori dai confini nazionali. Questo, dopo la retata di dicembre 2017, è anche il passato. Ma il passato dell’estrema destra è sempre un tempo che ritorna. Sul web, nelle piazze, nei cortei delle braccia tese e degli inni sovranisti. Dove c’è sempre una terra da difendere e non manca mai un nemico da combattere.

71 Piano Kalergi così s’inventa un complotto, di Vladimiro Polchi, «la Repubblica» 16 gennaio 2018, cfr. http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2018/01/16/pianokalergi-cosi-sinventa-un-complotto02.html 72 Checco Lattuada, una carriera «politica» sopra le righe, «Varese News», 20 febbraio 2015, cfr. http://www.varesenews.it/2015/02/checco-lattuada-unacarriera-politica-sopra-le-righe/350950/ 73 Pro Patria-Milan: cori razzisti contro Boateng. Gli ultras si difendono, 25 ottobre 2017, cfr. http://www.michelesantoro.it/2017/10/pro-patria-milanboateng-video-francesco-lattuada-2/ 74Busto Arsizio, saluto fascista e passamontagna allo stadio: 5 anni di Daspo per il consigliere-ultrà del Pdl, di Paolo Berizzi, «la Repubblica» 20 gennaio

2016, cfr. http://milano.repubblica.it/cronaca/2016/01/20/news/daspo_pdl_passamontagna131676200/?ref=search 75 Varese nera, circolo culturale Il Farina, cfr. http://www.ilfarina.it/anpivalcuvia/osservatorio-democratico/varese-nera/ 76 Barista ucciso, ultrà da tutta Italia ai funerali, di Mario Porqueddu, «Corriere della Sera», 16 giugno 2005, cfr. http://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2005/06_Giugno/16/varese.html 77 Priebke in vacanza, è rivolta Lega in trincea: via dal Lago Maggiore, di Carlo Brambilla, «la Repubblica», 11 agosto 2005, cfr. http://www.repubblica.it/2005/h/sezioni/cronaca/priebke/priebke/priebke.html 78 Cfr. la video inchiesta di TgCom24, 6 giugno 2017, consultabile al link http://www.tgcom24.mediaset.it/2017/video/i-nazionalsocialisti-della-portaaccanto_3023908.shtml 79 Ucciso in Spagna il capo degli ultrà varesini, articolo del 28 febbraio 2003 su «Varese News», cfr. http://www.varesenews.it/2003/02/ucciso-in-spagna-il-capodegli-ultra-varesini/292731/ 80 Stadio, le indagini e il mondo ultrà, di Roberto Rotondo, 21 aprile 2015 su «Varese News», cfr. http://www.varesenews.it/2015/04/stadio-le-indagini-e-ilmondo-ultra/363788/ )

8. CPI. CALCI E PUGNI ITALIA A history of violence Giovedì 22 febbraio 2018, Torino. I giornali danno notizia di scontri fra centri sociali e polizia. Sei agenti rimangono feriti anche in seguito all’esplosione di bombe carta con dentro schegge e bulloni. La manifestazione era organizzata contro il comizio elettorale di Simone Di Stefano, leader di CasaPound Italia. Il giorno prima, a Palermo, il dirigente provinciale di Forza Nuova, Massimo Ursino, viene legato e pestato a sangue da sei persone in pieno centro. L’aggressione è filmata con un video da cellulare. La rivendicazione dell’agguato è firmata dalla «sinistra antagonista». Per tutta risposta, la sera dello stesso giorno due attivisti di Potere al popolo vengono aggrediti da alcuni uomini incappucciati mentre affiggono manifesti elettorali a Perugia. Uno è accoltellato. CasaPound Italia a sua volta denuncia che sono stati i suoi ad essere aggrediti, ma in ospedale sono finiti solo i due giovani di sinistra. Poche ore dopo, intorno a mezzanotte, a Roma, negli studi di via Tiburtina dove va in onda il programma di LA7 diMartedì, condotto da Giovanni Floris, un gruppo di esponenti di Forza Nuova riesce a superare i controlli all’ingresso e ad arrivare in studio mentre è in onda un contributo registrato. Vogliono intervenire in trasmissione, far conoscere al pubblico le loro ragioni. Su YouTube si vede il video del confronto. Floris mantiene la calma e disinnesca i militanti neofascisti: «Non mandiamo in onda chi non è da noi invitato, tantomeno se si presenta in quel modo». Ma è la risposta di uno di FN a inquietare: «Voi non capite. Stasera potevamo essere altrove, a cercare qualcuno». Chiarisce senza imbarazzo che sono lì non per rivendicare spazi politici ma per l’aggressione al camerata Ursino di Palermo. C’è una spudorata arroganza nel ragionamento: meglio essere qua a

cercare di interrompere una trasmissione piuttosto che essere in strada a picchiare qualche avversario politico. Nei giorni successivi i leader della sinistra fanno a gara a rilasciare dichiarazioni di antifascismo. I rappresentanti del governo e il ministro dell’Interno dichiarano che bisogna abbassare il livello dello scontro, che non saranno tollerate forme di dissenso violento da ambo le parti. Sembra di essere tornati al clima degli anni Settanta dove ogni giorno c’era uno scontro. Un’escalation di violenze verbali e non solo che avvelenano la campagna elettorale per le politiche del 4 marzo 2018. Dopo il raid xenofobo del 3 febbraio a Macerata, con gli spari dello squilibrato Traini, la tensione è altissima. Quella che sembra in apparenza una progressione con la classica contrapposizione tra due fronti rivali – fascisti e antifascisti – in realtà è qualcosa di più complesso. Sgombrata la scena dalle suggestioni e dalle semplificazioni, si capisce che in campo non c’è un ritorno di fiamma dell’antagonismo tra opposte fazioni estremiste. C’è, come ho cercato di documentare in questo viaggio, uno sdoganamento delle parole d’ordine del fascismo e del nazismo. Un nuovo linguaggio che sta alla base di slogan e iniziative mirate a cavalcare la paura, a soffiare sui conflitti sociali, a trasformare l’Italia in un Paese dove diventa «normale» armarsi e aprire il fuoco contro i fantasmi che popolano la nostra mente. Tutto questo accade in un clima dove la diffusione di queste nuove derive gode di un livello di disattenzione, o, peggio, di accettazione, che preoccupa. Senza che i media e l’opinione pubblica si sforzino di capirne l’origine e il portato, al di là della semplice cronaca. È in questo contesto che va cercata la molla che ha armato la mano di Luca Traini. Certo, le parole di odio razziale dei leader leghisti e di destra contano. Così come a innescare la miccia della follia può avere contribuito lo scempio sulla povera Pamela Mastropietro uccisa, si presume, da alcuni pusher nigeriani. Ma il sostrato psicologico che anima menti come quella di Traini è ben altro. Si tratta di una storia di violenza sottaciuta, una violenza armata dall’ideologia e che tutti noi abbiamo distrattamente derubricato a cronaca locale. Proprio nella cronaca si trovano i segnali inequivocabili di quello che voglio raccontare. Bisogna ricordarle le pagine della violenza «nera». Sono le tappe di un percorso che non a caso ha seguito una traiettoria ascendente. Fino a oggi. Il nigeriano Emmanuel Chidi Nnamdi è stato pestato fino alla morte il 5 luglio 2016 dall’ultrà della Fermana Amedeo Mancini. A Fermo, pochi chilometri da Macerata. Per un anno e mezzo la difesa ha tentato di far passare il pestaggio

come una legittima difesa. Solo perché il nigeriano ha cercato di opporsi all’oltraggio di Mancini alla moglie definita «scimmia». Alla fine, nel novembre 2017, la Cassazione ha confermato la condanna a quattro anni per omicidio preterintenzionale, aggravato dalla motivazione razziale. Mancini non era solo un ultrà. Era anche un simpatizzante di CasaPound. Se si vuole registrare il clima di cui probabilmente si cibava l’omicida, si deve leggere la dichiarazione, all’indomani della condanna della Cassazione, rilasciata dal Comitato 5 luglio di Fermo e il Coordinamento per l’accoglienza. Parole allarmate su «un clima di xenofobia e razzismo sempre più preoccupante; sulla pericolosità della presenza sempre più palese e arrogante di ambienti violenti e neofascisti, che si nutrono di menzogne e paure costruite ad arte.»81 Si può fare una radiografia della violenza politica? È possibile, al di là della copertura mediatica dei fatti di cronaca, censire i pestaggi che avvengono sul terreno della discriminazione razziale e delle intimidazioni del fascismo di ritorno? Come in medicina anche nella cronaca ad ogni analisi segue una diagnosi. La propensione allo scontro fisico dei due principali partiti neri italiani, CasaPound Italia e Forza Nuova, emerge da due diverse ricognizioni. Sono entrambe basate su denunce presentate all’autorità giudiziaria. E dunque documenti ufficiali. La prima indagine, unica in Italia nel suo genere, è quella del collettivo Infoantifa Ecn. Dal 2005 cura un monitoraggio delle aggressioni e degli episodi violenti di matrice nazifascista. C’è un archivio dove sono raccolti oltre 5.600 documenti. Li hanno divisi per regione, gruppo politico e responsabili. Questo monitoraggio è diventato una mappa interattiva. Una specie di flusso aggiornato quotidianamente, quasi in tempo reale. È il primo report digitale del fascismo violento in Italia. Il periodo «tracciato» va dal 2014 al 2018. Sono più di 150 gli episodi denunciati: 59 aggressioni e 13 attentati senza riferimento partitico, ma riconducibili all’estrema destra; 60 azioni collegate a CPI e 17 a FN. Le aree più calde? Lazio e Lombardia. Calcolando quattro anni pieni – dal 2014 a fine 2017 – sono 37 «azioni» ogni anno. Più di tre al mese. E bisogna tener conto del sommerso, ovvero gli episodi che non vengono denunciati. Il dato che emerge è che a «firmare» il maggior numero di aggressioni sono militanti di CasaPound: il triplo rispetto a quelle riconducibili a Forza Nuova.82Uno «score» direttamente proporzionale alla presenza sul territorio della tartaruga frecciata che, con oltre 110 sedi, è oggi il più capillare tra i partiti neofascisti italiani. In ogni caso, a spulciare gli episodi si respira un clima di un’Italia «nera» che

non emerge dai media. Aggressioni a studenti che si rifiutano di prendere volantini di CPI, anche a studentesse di liceo che fanno volontariato in associazioni di sinistra. Azioni squadriste in ospedale a Bolzano per protestare contro l’accoglienza data ai senzatetto di notte nel Pronto soccorso. Blitz in varie associazioni per i diritti dei migranti e dei rom, con azioni violente anche nei confronti di donne. Addirittura un’incursione nella biblioteca di Terni. E poi una scia di pestaggi e accoltellamenti di gruppo contro militanti o studenti di sinistra. L’altra statistica è quella del Viminale. Riguarda i denunciati e gli arrestati. Tra 2011 e 2016 – considerando entrambe le organizzazioni – sono state 599 le persone denunciate (tra militanti e simpatizzanti) e 29 quelle arrestate. Trecentocinquantanove (e 19 arrestati) per CasaPound, 240 (e 10 arrestati) per Forza Nuova. Il numero cresce se si tiene conto che nel 2017 sono piovute altre 376 denunce e altri 18 arresti. Un’impennata preoccupante rispetto al 2016, quando le denunce erano state «solo» 176 e gli arresti 7. In totale dunque sono 975 i militanti neofascisti denunciati in sette anni, e 47 gli arrestati. Centotrentanove denunciati e quasi sette arrestati ogni anno. I reati riguardano soprattutto la violazione delle leggi Scelba e Mancino (apologia di fascismo e incitamento alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali), violenza, rissa, lesioni e lesioni gravi, e poi tentato omicidio e tentata strage aggravata dal razzismo. E altri reati comuni. È di questa lunga scia di agguati, in puro stile squadrismo anni Venti, che è fatta la storia recente delle formazioni di estrema destra. «Atti di forza» della peggior specie. Ma sciolti dentro una miscela dove trovano spazio anche l’etica dell’associazionismo e del volontariato sociale, ovviamente su base etnica e in chiave anti immigrati. Un mix tra militare e sociale. Propaganda «positiva» e istinti peggiori. Su tutto ciò, la società civile, le istituzioni e la politica hanno chiuso gli occhi. E non contano le affermazioni roboanti rilasciate di fronte a fatti alla ribalta della cronaca nazionale. Conta il quotidiano. Altrimenti, rischiamo di perdere l’innocenza. Come nel film di raggelante bellezza di David Cronenberg, A history of violence, dove la famiglia americana perfetta, dopo avere scoperto che il padre è un ex killer della mafia, lo riaccoglie a occhi bassi e in silenzio. Per il quieto vivere. Schiaffoni in Parlamento

È la strategia del «doppio livello». Come negli anni Settanta. Dalla violenza di strada alla Camera dei deputati, allora con l’Msi. Dietro l’aspetto modernista e in alcuni casi volutamente post-ideologico con cui si camuffano, le formazioni della nuova estrema destra sembrano ricalcare l’impostazione che caratterizzava i loro antenati. Separare i due livelli. Da una parte la militanza di piazza, con tutti i suoi strati e sottostrati. Dall’altra la veste più istituzionale, apparentemente rassicurante. L’esempio più chiaro per capire questa organizzazione a doppio volto è CasaPoundItalia. Che ci siano da preparare bombe carta e calcinacci da lanciare in manifestazione, oppure presentare ufficialmente un programma elettorale che sembra il copia e incolla aggiornato di quella che fu la proposta del Partito nazionale fascista, per i militanti della tartaruga frecciata fa lo stesso. Il loro modello, in fondo, sono i greci di Alba Dorata, con cui i «fascisti del terzo millennio» sono gemellati. È l’unico partito a cui accettano di essere paragonati. Nelle ambizioni di CPI sembra di rivederlo quel progetto. L’ex gruppuscolo d’ispirazione neonazista formato da picchiatori da stadio ateniesi che poi si è fatto formazione politica e ha spedito in Parlamento una ventina di deputati diventando il terzo partito greco. «Siamo in movimento… entreremo nel Palazzo e faremo volare sedie e schiaffoni.» Conviene partire da qui, dallo spot elettorale del segretario nazionale di CPI Simone Di Stefano. Il proclama ripetuto come un mantra nei mesi trascorsi tra le elezioni amministrative di giugno 2017 e quelle politiche di marzo 2018. Per adesso le sedie del Parlamento sono a riposo (CPI alle ultime elezioni ha raccolto solo lo 0,9%, un risultato molto al di sotto del 3% di sbarramento). Ma di certo si può dire che non solo schiaffoni hanno fatto volare in questi anni i casapoundini. Prima di scendere al livello della militanza di strada, riaccendiamo una luce. Roma 9 febbraio 2018. Alle 11.45 nella sala stampa della Camera entra un compìto Simone Di Stefano. Abito scuro, cravatta, capello corto, barba curata. Sull’occhiello della giacca ha una spilla con la bandiera dell’Europa sbarrata da una croce rossa, segnale di stop. È uno dei simboli della scenografia dei comizi e delle iniziative pubbliche di CPI. «Speriamo che questo luogo sia di buon auspicio», dice Di Stefano guardandosi intorno. Per la prima volta CasaPound – il partito che «raccoglie l’eredità del fascismo», come dirà qualche giorno dopo il suo leader a Napoli – entra alla Camera. Le porte di Montecitorio si aprono grazie l’intercessione di Massimo Corsaro, deputato di lungo corso prima in An e poi Fratelli d’Italia (con cui poi ha rotto). CasaPound non avrebbe nessun diritto di entrare nella sala stampa. Ma il regolamento prevede che se un deputato presenta richiesta non gliela si può rifiutare. È Corsaro, quindi, che

prenota la sala per la «prima» delle «tartarughe frecciate». C’era una volta Benito Mussolini e il Pnf. Adesso, a evocarne la suggestione di fronte a fotografi, cameramen e cronisti parlamentari, c’è Simone Di Stefano. Quarantun anni, nato e cresciuto alla Garbatella, quartiere popolare di Roma. Due figlie, militante politico dall’età di 16 anni nel Msi, diploma da chef all’istituto alberghiero, esperto di siti web, una condanna a tre mesi per essere salito, nel dicembre 2013, sul balcone della rappresentanza Ue a Roma sfilando la bandiera europea per sostituirla col tricolore. Mentre Lele Fiano parla di «offesa alla Costituzione» e la presidente della Camera Boldrini fa sapere che non ha alcun potere per «autorizzare o vietare l’uso della sala stampa qualora questa venga prenotata da un deputato», accanto a Di Stefano, dietro il pulpito della Camera, prendono posto Mauro Antonini e Angela De Rosa. All’epoca sono rispettivamente candidati di CPI alla presidenza di Lazio e Lombardia (il primo è già stato assistente di Mario Borghezio all’europarlamento). In sala, altri nomi in corsa e militanti: riconosco Luca Marsella e Carlotta Chiaraluce, i due casapoundini di Ostia, compagni nella vita con un figlio. Marsella, consigliere comunale vicino a Roberto Spada, dell’omonimo clan, quello della testata al giornalista di Nemo Daniele Piervincenzi, a luglio 2017 è stato condannato a due mesi (pena sospesa) perché nel 2011 aveva minacciato tre studenti del liceo Anco Marzio che volevano organizzare un presidio contro l’inaugurazione della sede di CPI. «Se voi fate la contromanifestazione all’idrovolante io vi accoltello tutti come cani, vi ammazzo tutti. Io mi ricordo la faccia di ognuno di voi. Non vi picchio subito perché ci sono delle persone e poi mi denunciate.» Uno a cui non dispiace mostrare i muscoli, Marsella. A dicembre 2017, per festeggiare il 14° compleanno di CasaPound (fondata il 26 dicembre 2003) posta sulla sua pagina Fb una fotografia di una squadraccia di «fascisti del terzo millennio» in assetto da scontri sotto la sede del partito in via Napoleone III, nel quartiere Esquilino: cappucci in testa, in mano spranghe, bastoni e altri oggetti contundenti. Un’immagine tra «Hooligans» e «Arancia Meccanica». Non proprio una furbata comunicativa per un partito che ambisce a essere definitivamente sdoganato, perché in parte ci è già riuscito. Soprattutto, una scelta un po’ border line per un consigliere comunale che è anche pubblico ufficiale. Ma Marsella può permetterselo. È l’uomo dei miracoli di CPI. Il politico di strada che a Ostia, nel feudo del clan Spada – un Comune che è stato due anni sotto commissariamento dopo lo scioglimento per mafia – è riuscito a portare CasaPound al 9%. Tra i primi like incassati dal post di Marsella con la foto dei «combattenti» armati di mazze c’è quello della sua compagna, Chiaraluce. Lei è

figlia di imprenditori nel settore del rimessaggio navale ed è in ottimi rapporti con i proprietari dei lidi balneari, che alle amministrative del 2017 non hanno fatto mancare il loro appoggio alla tartaruga.83Cantante con un repertorio di cover che spazia da Giorgia a Amy Winehouse, da Linkin Park a Joni Mitchell, Carlotta è «miss preferenze» di CasaPound: i 1788 voti incassati alle amministrative 2017 ne fanno la più votata del Municipio X. Ma torniamo all’esordio dei neofascisti alla Camera dei deputati. È vero: CPI è già presente in 13 Comuni italiani. Ha raccolto risultati brillanti in città come Bolzano (7%) e Lucca (8%) – guarda caso, studiando la mappa interattiva del collettivo Ecn, due delle città con una percentuale più alta di aggressioni fasciste. Ha persino un sindaco (Andrea Bianchi, primo cittadino di Trenzano, provincia di Brescia). Ma la porta di Montecitorio CPI non l’aveva mai varcata. Il 9 febbraio, nella pancia del palazzo dove sogna di «far volare sedie e schiaffoni», Di Stefano snocciola un programma che sembra la versione attualizzata del programma del Partito nazionale fascista. «In 14 giorni usciamo dall’Europa e dall’euro»; una «guerra se necessario in Libia», per fermare il flusso di clandestini; una grande nazionalizzazione, dalle banche alle partecipate statali, dalla Cassa depositi e prestiti alle autostrade.84Se CPI andasse al governo – spiega il suo candidato premier – vorrebbe l’acquisto da parte delle banche o di un «Istituto pubblico per il mutuo sociale» di immobili da destinare alle famiglie (il vecchio cavallo di battaglia del mutuo sociale) e un «reddito nazionale di natalità» intorno ai 500 euro al mese per ogni figlio fino ai 16 anni. «Prima gli italiani» è stato lo slogan della campagna elettorale di CasaPound. Può mancare, in questo contesto, la narrazione neofascista sul «sostituzionismo»? L’immancabile bufala del Piano Kalergi (finanziato tra gli altri anche da George Soros, secondo la vulgata), quello che vuole la scomparsa etnica del popolo italiano per colpa e attraverso l’immigrazione? Certo che no. Al di là di queste teorie «esotiche», il Di Stefano in giacca e cravatta è da tempo che cerca di accreditarsi come uomo di ragione e non solo di azione. Nel novembre del 2017 in un’intervista ad Alessandro Trocino sul «Corriere» lascia il segno con due dichiarazioni. Da un lato condanna le leggi razziali come un errore, soprattutto perché avevano allontanato gli ebrei dal fascismo, e addirittura auspica oggi «un legame più forte fra la comunità ebraica e l’Italia» (forse l’Italia fascista?). Dall’altro arriva a dire sulla Costituzione: «Siamo un partito maturo e siamo per una strenua difesa della Costituzione. Cambierei solo il passaggio in cui si dice che dobbiamo dare asilo a tutti. Vorrebbe dire ospitare

miliardi di persone».85Il 18 febbraio 2018 all’hotel Ramada di Napoli una sala gremita di camerati è in piedi ad applaudire. Qualcuno fa il saluto romano: «Noi siamo gli eredi del fascismo italiano», proclama Di Stefano. E dunque: CasaPound, da erede del fascismo, difende «strenuamente» la Costituzione, che è antifascista. Sembra la contraddizione di chi non ha le idee chiare. O forse no, è un’altra cosa. Più sottile e raffinata. E subdola. Dici di essere per il dialogo, tanto da aver ospitato per dibattiti anche l’ex br Valerio Morucci. Riconosci che il fascismo «è stato certamente uno Stato totalitario. Ma ci ha anche lasciato la tredicesima, il tfr, la cassa integrazione.»86La narrazione casapoundina è percorsa dal continuo tentativo di accreditare un fascismo dal volto umano, il peggiore che esista, quello che di giorno distribuisce i pacchi alimentari ai poveri italiani, o amministra nei comuni, e la sera spranga gli immigrati o gli avversari politici. Come fa Alba Dorata. Questo fascismo è già tornato. La «forza tranquilla» Chi sono davvero i «fascisti del terzo millennio» che vogliono entrare in Parlamento? Che volto e che storie hanno? Restiamo a Napoli. Si chiamano Emmanuela Florino e Giuseppe Savuto.87Sono i due candidati di CPI alla Camera dei deputati nel collegio partenopeo, sia proporzionale sia uninominale, alle elezioni politiche di marzo 2018. Giuseppe Savuto, 32enne di Pianura, robusto, cranio rasato, barba lunga, è in CasaPound da 11 anni. Dice di essere stato folgorato dal partito (allora non lo era ancora) quando nel 2005-2006 sentì parlare di occupazioni abitative e mutuo sociale. «All’epoca le facevano solo i centri sociali. Questa cosa di CPI mi sembrò bellissima.» Da lì decide di unirsi alle tartarughe, una «forza tranquilla» con la quale – dice Savuto – «faccio politica sul territorio.» E della quale diventa portavoce napoletano.88Emmanuela Florino ha 31 anni, è figlia dell’ex senatore del Msi Michele Florino. Una tipa energica, battagliera, con la «cazzimma», come dicono a Napoli. Allergica al sindaco De Magistris e ai centri sociali. Famosa l’immagine della sua T-shirt con la scritta «faciteme sta’ quieta». «Dobbiamo avere il coraggio delle nostre idee, dire sì, sono fascista», dice in un’intervista.89 Ma cosa si cela dietro questa «forza tranquilla»? La vecchia anima squadrista, mai sopita dagli anni Settanta a oggi. Lo rivela un’inchiesta della procura napoletana del 2013. I magistrati accertano che sotto il Vesuvio CPI ha una

«frangia militare». L’inchiesta corona quattro anni di indagini, a partire dal 2009. Anni di scontri assidui con i centri sociali, nell’ambiente universitario, anni di palestra alla guerriglia e di violenza metodica. L’accusa è «associazione sovversiva» e in manette finiscono dieci persone. Trenta sono gli indagati. Il tribunale del riesame aveva ridimensionato l’accusa, la Direzione distrettuale antimafia ha fatto ricorso e la Cassazione le ha dato ragione, confermando le ipotesi sul grave capo di imputazione. Ora si vedrà in fase di appello, ma intanto lo scenario ricostruito dal Ros dei carabinieri è inquietante. Allegate agli atti giudiziari ci sono intercettazioni che lasciano poco spazio all’immaginazione. Le racconta un servizio dell’«Espresso» del primo febbraio 2018. Uno dei capi della «frangia militare» – come la definisce il Gip – è proprio Giuseppe Savuto. I Ros lo intercettano mentre parla con un camerata della preparazione di molotov con la miccia e dei potenti petardi Cobra. Siamo nel novembre 2011, alla vigilia di una manifestazione nazionale di CPI a Napoli. Gli investigatori «ascoltano» la preparazione. Savuto parla con un altro camerata, Giovanni Senatore. E con Angelo Todaro. Leggere il dialogo è istruttivo: Savuto: dobbiamo lanciare un cofano di COBRA (petardi di grosse dimensioni) …perché se tu lanci e iniziano a lanciare loro la roba, comunque sei tu che parti… inc… e tu devi rispondere con un COBRA solamente non te ne fottere, che poi la DIGOS è difficile che ti portano perché dentro mille persone, uno da dietro a tutto prende e lancia COBRA in grosse quantità Senatore: io li metterei dentro le bottiglie i COBRA… Savuto: dentro le bottiglie? e poi come fai ad appicciare? (…) Senatore: …però se la riempi d’alcol possiamo legare pure la torcia Savuto: ma che cazzo vuoi combinare? Vuoi fare il mostro proprio? Senatore: è una molotov con la torcia… bello e buono perché poi con la torcia non si scansano più di tanto Angelo Todaro: invece poi vedono la bottiglia che si avvicina e non hanno più tempo Senatore: se vedono la fiamma loro sono convinti che è una torcia dentro lo scuro (…) quando si schiatta a terra poi [fa il verso dell’esplosione] 90 A mettere nero su bianco il metodo dei «combattenti» è il Gip. Riferendosi alla manifestazione scrive: «L’iniziativa a contenuto ideologico viene corredata

dall’organizzazione della violenza. Alla apparente natura pacifica, si contrappone la reale disposizione alla violenza. (…) Non si tratta di un’unica faccia, a quella apparentemente pacifica si affianca quella sotterranea e violenta».91 L’organizzazione del corteo nero, così come lo vuole la cabina di regia di via Napoleone III all’Esquilino, prevede una cinghia di trasmissione tra la Capitale e Napoli. La militante che assolve a questa funzione è Emmanuela Florino, all’epoca 24enne. Così spiega ai camerati come devono prepararsi. Emmanuela Florino: Sappiate che cioè proprio da Roma Manolo ha detto che proprio da Napoli, a Toni Mollo lo ha detto, che a Napoli ci deve essere la camionetta piena di caschi, perché se qua qualcuno gli viene sottratto il casco da una perquisizione ecc. Napoli deve avere caschi, mazze, Napoli deve avere bombe a mano (…) E.. i manici dei picconi, cioè… cioè… queste mazze qua non si possono guardare Peppe, e poi sono poche. Giuseppe Savuto: No ma non sono queste qua, lascia stare. Emmanuela Florino: I manici di piccone noi li dobbiamo comprare, hanno detto andate… non so dove… in questi posti dove vendono proprio i manici di picconi, e comperateli (…) A me hanno detto che dobbiamo comprarne tanti, perché ha detto poi non è detto che vi servono tutte quante a voi a Napoli, ha detto, le rivendiamo alle varie sezioni politiche, per l’Italia capito? Scrive il Gip che «Florino si fa portavoce delle richieste romane, provenienti dal presidente di CPI Gianluca Iannone: sanpietrini (poi verranno sostituiti dai calcinacci – che si infrangono a terra e non possono essere rilanciati dagli avversari – come chiedeva Coppola), caschi (anche da rubare in caso di numero insufficiente) e mazze, manici di piccone da acquistare, che servono per tutti i partecipanti, compresi quanti sarebbero giunti alla manifestazione da Roma, da dove non potevano muoversi con questo armamentario.»92 Non è il caso di entrare nel merito del processo in appello. Ma ripercorrendo questa storia napoletana, sorge qualche domanda. Da dove nasce il calcolo politico di mettere in pista alle elezioni nazionali due candidati con delle pendenze così delicate? È una svista? Oppure servono profili e curricula di questo tipo per fare volare i famosi schiaffoni in Parlamento?

Da patrioti a killer Botte. Botte ai «rossi» e muso duro con gli immigrati. Nei quartieri, nei luoghi del degrado, nelle spiagge dove i rondisti di CPI in pettorina cacciano i venditori ambulanti. Sui treni, dove i «vigilantes» di Forza Nuova negli ultimi mesi, soprattutto sui convogli regionali, hanno dato vita a un servizio di pattugliamento «spontaneo» per garantire la sicurezza dei passeggeri. E poi un’escalation di manifestazioni cariche di simboli e slogan ispirati al nazifascismo. Quella dell’estate 2017 contro lo Ius Soli sotto il Senato dove in una fotografia compare il vecchio camerata Maurizio Boccacci e dove i «neri» – FN e CPI – si sono scontrati con le forze dell’ordine. La Marcia dei patrioti del 4 novembre 2017, abile provocazione con cui FN ha aggirato il divieto della manifestazione per il 28 ottobre – commemorazione della storica Marcia su Roma – e che ha fatto dire a Roberto Fiore: «Abbiamo dimostrato che il regime è debole, che l’antifascismo non esiste più nel tessuto sociale». E poi i presidi anti Rom al Tiburtino III, alla Magliana e sul litorale di Ostia. Anche l’odio verso i rom e la loro presenza nelle periferie è un tema «caldo», e non solo romano. L’11 gennaio 2018, a Napoli, presso l’associazione culturale Sipes (acronimo di «Stare insieme per emozionarsi sempre») stanno parlando Sabrina Severovic, una ragazza rom di 20 anni nata in Italia, e il padre Nurja, residenti nel campo nomadi di Giugliano.93A interrompere Sabrina interviene Salvatore Pacella, responsabile di Forza Nuova in Campania. Le dice: «Dici di sentirti italiana e quindi, dimmi, conosci l’inno nazionale?» «Sì.» «Ah sì? E allora cantalo.» È chiaramente un modo per umiliarla. E infatti mentre sale la tensione Sabrina e il padre lasciano la sala. A farne le spese è Antonella Fabbricatore, l’organizzatrice dell’incontro, che viene spinta a terra e si fa male. In un lungo post racconta quello che è successo: «Mi fa rabbia la violazione della libertà di pensiero ed espressione, dei diritti umani, il fatto che non si tollerino visioni differenti. In tanti non vogliono i campi nomadi nella nostra zona, ma c’è modo e modo di manifestare il proprio dissenso. Inoltre questo fatto evidenzia che manco li vogliono stare a sentire i rom, nemmeno quello che hanno da dire interessa. Abbiamo assistito ad una manifestazione di intolleranza contro la quale, va detto, ha spiccato la civiltà di Sabrina e di suo padre, che non hanno reagito alle provocazioni e sono andati via in silenzio». Anche questo è uno dei tanti episodi segnalati nella già citata e preziosa

mappa interattiva di Infoantifa Ecn (consultabile anche sul software di libero dominio OpenStreetMap) che aiuta a toccare con mano la progressione della violenza fascista.94 La mappa inizia a censire fatti di cronaca dal 2014. Aggressioni, pestaggi e omicidi avvenuti prima restano fuori. Ma sono rimasti impressi nella memoria del Paese. A Firenze, in piazza Dalmazia, quartiere Rifredi, c’è una lapide di marmo bianco. È un parallelepipedo con il piano superiore inclinato. Alla base c’è un mazzetto di fiori appassiti. L’erba intorno è curata. In quell’angolo della piazza, alle 12.30 del 13 dicembre 2011 Diop Mor e Samb Modou, ambulanti senegalesi, espongono la loro mercanzia. Sui lenzuoli dove sono adagiati occhiali, cappellini, cover per cellulari, borse, ci finiscono loro: falciati dai proiettili di una pistola 357 Magnum. A far fuoco è Gianluca Casseri, simpatizzante di estrema destra vicino a CasaPound. Cinquant’anni, di Pistoia, dopo la prima «stesa» il killer si trasferisce a bordo della sua auto nella zona del Mercato Centrale di San Lorenzo. Alle 15 spara ancora ad altri tre cittadini senegalesi, Sougou Mor e Mbenghe Cheike e Moustapha Dieng (quest’ultimo è rimasto tetraplegico in seguito alle ferite riportate). Braccato dalla polizia nel parcheggio sotterraneo del Mercato, rivolge l’arma verso se stesso e spara l’ultimo colpo in canna. È la strage di Firenze. Sulla lapide eretta dal Comune a gennaio 2012, su quel parallelepipedo, è scritto: «A ricordo di Diop Mor e Samb Modou, vittime di follia razzista. A perenne memoria in Firenze città operatrice di pace per affermare i valori di integrazione e solidarietà». Se Forza Nuova e la Lega hanno avuto Luca Traini, CasaPound ha avuto Casseri. Firenze e Macerata sono le due «burning» della destra nazifascista.95Si spara e si uccide per il colore della pelle. Per colpire un simbolo – l’immigrato – che va combattuto e additato al disprezzo della gente in quanto «colpevole» del disagio della società. Si spara per la «guerra della razza», come ripeteva Casseri mentre pianificava la paranza. Gianluca Casseri frequentava la sede di CasaPound a Pistoia e, in qualità di scrittore-fantasy (amava Tolkien) collaborava con l’Ideodromo, un sito che raccoglieva le linee teoriche di CPI. Prima che l’Ideodromo chiudesse, vi compariva una recensione (poi cancellata) della sua biografia su Adriano Romualdi, bandiera del neonazismo italiano, morto negli anni Settanta.96I vertici locali di CPI hanno definito Casseri un cane sciolto, un pazzo. Ma alcuni simpatizzanti sul web gridano alla vergogna per questa presa di distanze. Altri lo giudicano un eroe. Qualcosa non quadra. Se un cinquantenne dall’aria paciosa ha potuto trasformarsi in un killer spietato non c’è

dubbio che il clima di cui si è imbevuto – al di là delle passioni letterarie – deve aver avuto un ruolo. Come fa notare Saverio Ferrari, lo studioso del milieu neonazi italiano che abbiamo già incontrato, «è in corso un’accelerazione in tutta Europa. In Italia siamo ad una fase di cambiamento. Da tempo la simbologia nostrana legata al fascismo viene lentamente sostituita con quella più radicale e pericolosa del neonazismo che non appartiene al simbolismo, alla cultura e alla propaganda della destra italiana. E in questo c’è una responsabilità oggettiva da parte di chi presta il fianco a questa evoluzione.»97 «Figli di una patria che non amate più…» C’è un episodio che testimonia questa accelerazione pericolosa. È un caso che ha conquistato la scena di tutti i tg nazionali. Alle 8 del mattino del 29 novembre 2017 mi arriva una telefonata di Emanuele Fiano. «Guarda che cosa è successo a Como!» Apro il video postato da Ecoinformazione Arci sulla rete Baobab Experience. La notizia non era ancora stata diffusa. Non sui grandi media. Era ancora confinata nel circuito ristretto delle vittime che avevano subito e filmato la scena. Nel video si vede un gruppo di naziskin, bomber scuro, capelli rasati, disposti in piedi in una sala dietro a un tavolo intorno al quale siedono altre persone. Il capo del gruppo ha in mano un foglio. È un volantino. È stato distribuito a ognuno dei volontari della rete pro-migranti Como Senza Frontiere, un cartello di associazioni che vanno dalla sinistra all’area cattolica e che stavano facendo una riunione lì, nella loro sede, al primo piano del Chiostrino di Santa Eufemia, al civico 4 di piazzolo Giuseppe Terragni, a Como. Il video dura 1 minuto e 32 secondi. Lo gira Gianpaolo Rosso dell’Arci comasca. Mostra ciò che è accaduto la sera prima, il 28 novembre. Un gruppo di militanti del Veneto Fronte Skinheads fa irruzione nella sala e costringe i padroni di casa ad ascoltare in silenzio la lettura del comunicato dal titolo Como senza frontiere: ipocriti di mestiere. «Per tutti voi figli di una patria che non amate più…» scandisce il portavoce. Il proclama è all’insegna dello slogan «il popolo si ama e non si distrugge. Fermiamo l’invasione.» Parla di «sostituzione» del popolo europeo con dei «non popoli». Addita come distruttori della propria gente chi offre aiuti e assistenza ai migranti. I «soloni dell’immigrazionismo a ogni costo», cioè cooperative, sindacati e partiti. Ce n’è anche per il mondo del volontariato cattolico, definito «megafono propagandistico di pseudoclericali irretiti dalla retorica mondialista.» Nessuno reagisce. La forza pacifica dei volontari di Como

Senza Frontiere è una reazione inaspettata. Forse la migliore. Spiazza anche gli autori del blitz. I neonazi sembrano quasi sorpresi dalla calma che si trovano di fronte. «Ora potete riprendere a discutere di come rovinare la nostra patria e la nostra città», si congeda il capo della squadraccia. «Nessun rispetto per voi», fa un altro uscendo. Appena il video si chiude chiamo in redazione per dare la notizia: dal momento in cui pubblichiamo il filmato fino alla manifestazione antifascista organizzata il 9 dicembre dal Pd sul lungolago di Como, l’Italia si interroga su ciò che è successo in quella saletta piena di stoffe colorate dove è stato allestito anche un laboratorio artistico. Como diventa un caso politico. Vittime e protagonisti vengono raccontati e intervistati dai giornali e dalle tv. Il leader del VFS, Giordano Caracino, attacca «la Repubblica» e quindi me, che firmo l’articolo, scrivendo su Facebook: «Siete in grado di trasformare in violenza la lettura di un comunicato».98Salvini, al solito, minimizza. Dice che il problema vero è l’immigrazione incontrollata e Renzi, «non i quattro ragazzi che hanno fatto irruzione». Non li definisce mai skinhead, al massimo «presunti fascisti». A casa dei tredici militanti autori del blitz – tutti identificati e denunciati per violenza privata – il 7 dicembre 2017 la Digos di Como e l’Antiterrorismo sequestrano materiale informatico. Dalle indagini emerge che l’azione era stata pianificata. Rientra in una più ampia strategia del VFS per radicarsi sul territorio nazionale e accreditarsi come soggetto attivo nella lotta contro l’immigrazione. È la nostra Intelligence ad accendere i riflettori sul fenomeno. In un rapporto del 2017 il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS) parla di una «radicalizzazione delle iniziative di protesta da parte dell’intera galassia della destra radicale» proprio sul tema dell’immigrazione. Gli 007 lanciano anche un allarme su come sia «destinata ad aumentare la contrapposizione tra formazioni di antitetico segno ideologico a motivo dell’impegno concorrenziale sui temi sociali, tradizionale ambito di intervento della sinistra, e delle divergenti posizioni in materia di flussi migratori.» I tredici del VFS vengono da Como, Brescia, Genova, Lodi, Mantova e Piacenza. Uno di loro, Manuel Foletti, è un ultrà del Piacenza. Ha scontato 6 anni di carcere per tentato omicidio perché nel 2009 ha accoltellato due persone davanti a una cooperativa. A lui e agli altri dodici va la solidarietà di Forza Nuova che applaude all’azione di Como. Il 9 dicembre, in concomitanza con la manifestazione antifascista della sinistra, Fiore e i suoi militanti si radunano nell’Hotel Palace, a poche centinaia di metri. «È stata una decisa presa di posizione contro buonismo, razzismo contro gli italiani e business dell’accoglienza», dice il leader forzanovista.

Quel 9 dicembre sul lungolago di Como è una giornata di sole e di colori. L’hanno chiamata «E questo è il fiore». Perché un fiore bianco su sfondo arancione è il logo della manifestazione. Dopo mesi di divisioni la sinistra si ricompatta sull’antifascismo. Anche se solo per ventiquattr’ore. In piazza ci sono migliaia di persone. Il blitz del VFS ha smosso le coscienze e anche i leader politici che fino a pochi giorni prima non avevano ritenuto di dover entrare convintamente nel tema del ritorno delle formazioni dell’ultradestra, sono lì, in piazza, a poche decine di metri dal monumento alla Resistenza Europea eretto vicino a quello di Giuseppe Terragni dedicato ai Caduti. In mezzo a una folla di giovani e alle bandiere, rosse, gialle, bianche, quelle dei partiti e i vessilli coi colori della Pace, c’è mezzo governo Gentiloni: i ministri Del Rio, Orlando, Martina, Pinotti, Fedeli. Tanti deputati e il segretario del Pd, Matteo Renzi. La scaletta non prevede interventi dei politici sul palco. Solo la testimonianza dei rappresentanti delle associazioni: a partire dalla giovane Annamaria Francescato, la portavoce di Como Senza Frontiere, una delle dieci volontarie presenti al Chiosco di Sant’Eufemia quando i naziskin hanno fatto irruzione. Quasi tutti i politici stanno a lato del palco. Fanno presenza. L’unico che sceglie di stare in mezzo alla gente, confuso tra la folla, è Andrea Orlando. C’è voluta l’azione squadrista di un manipolo di teste rasate per far sì che l’antifascismo uscisse dalle celebrazioni istituzionali, appuntamenti sempre meno partecipati, soprattutto dalle nuove generazioni. Occorreva evidentemente un fatto così eclatante per vedere una piazza antifascista unita a difesa della democrazia. In un momento nel quale i gruppi neofascisti vorrebbero occupare quegli spazi con il loro carico di odio, violenza e intolleranza. Sei giorni prima su «Repubblica» avevamo lanciato un appello per lo scioglimento dei gruppi nazifascisti: il Guardasigilli Orlando si era detto favorevole ad accelerare il percorso per arrivare a farlo; e positivo era stato anche il riscontro dei rappresentanti degli altri partiti di sinistra. A Como vedo arrivare Renzi. L’ex premier saluta i vertici locali e regionali del Pd, stringe mani, abbraccia la Francescato. Mentre la giovane volontaria di Como Senza Frontiere sta parlando sul palco, chiedo all’allora segretario del Pd: «Ci sono la volontà e le condizioni per arrivare allo scioglimento di queste formazioni? Sono movimenti che si pongono in aperta contrapposizione con la Costituzione…» Lui risponde stringendo le spalle in maniera eloquente: «È difficile. Siamo a fine legislatura, queste cose scappano via…» Dalle parole del segretario di quello che allora era il primo partito italiano capisco che la strada sarebbe stata lunga e in salita. E che dopo quella giornata di festa e di pace la questione non si sarebbe affatto esaurita, anzi.

A che cosa è dovuto il ritorno sulla scena nazionale del VFS, una formazione nata a metà anni Ottanta e rimasta a lungo nei confini della regione dove ha sviluppato la sua attività politica? Perché un’azione così mediatica con una violenza non praticata ma platealmente esibita? E perché Como segna un salto di qualità nelle iniziative della destra neofascista? Anche qui il rapporto della nostra Intelligence aiuta a comprendere. Si fa riferimento a eventuali possibili «sinergie tra sodalizi minori… che potrebbero dar luogo a iniziative di una certa risonanza mediatica.» Il terreno è fertile e il clima pure. «La destra radicale», spiegano i Servizi interni, «registra un crescente attivismo alimentato dalla percezione delle favorevoli opportunità dell’attuale congiuntura… I gruppi d’area continuano a cercare di intercettare il rafforzarsi delle istanze nazionaliste, in crescita in ambito europeo, e della sempre più diffusa insofferenza verso le presenze extracomunitarie.» Il blitz di Como fa il paio con quello di Forza Nuova a Roma sotto la sede di «Repubblica», il 6 dicembre. Un attacco che sembra una risposta violenta alle inchieste del giornale e all’appello lanciato per lo scioglimento dei movimenti di estrema destra: sono pezzi di uno stesso canovaccio. E non è solo lotta all’immigrazione. Questi fatti hanno una caratteristica «nuova» rispetto a quanto visto negli ultimi anni. Il passaggio dalla propaganda all’azione. Non più e non soltanto gli striscioni, le scritte sui muri, i post razzisti, i manichini raffiguranti gli immigrati o le sagome a terra per rappresentare il popolo italiano ridotto «sul lastrico» dagli «immigrazionisti». Adesso i gruppi «neri» fanno irruzione nelle sedi di associazioni, interrompono riunioni, lanciano fumogeni contro sedi di giornali, leggono proclami di guerra, impongono la loro presenza con le modalità paramilitari viste il 28 novembre nel chiostro di Sant’Eufemia. Ecco perché Como e Roma hanno lasciato il segno. Quali sono i tizzoni che alimentano questo falò di violenza e intimidazione? La citata relazione dei Servizi del 2017 fotografa lo scenario. «All’insegna della tutela “degli italiani” vengono cavalcate situazioni di tensione sociale legate soprattutto alle problematiche abitativo-occupazionali e alle condizioni di degrado e insicurezza di alcuni quartieri urbani dove si concentrano le presenze straniere.» La stessa Intelligence segnala il rischio di «iniziative propagandistiche e di contestazione che in alcune occasioni assumono un rilievo anche sotto il profilo dell’ordine pubblico.» Nel secondo semestre 2017 – quello dei blitz di Como e di Roma – sono state 34 le informative riguardanti il radicalismo di destra inviate dal DIS agli enti istituzionali e alle forze di polizia. Duecentoventiquattro quelle condivise (ricevute/inviate) con i servizi collegati di

altri Paesi.99 I gruppi neri che in Italia passano dalla propaganda all’azione hanno collegamenti internazionali. Sono rapporti – spiegano i nostri Servizi di sicurezza – «improntati a stabilire relazioni con potenziali referenti e alleati in chiave anti-Usa e anti-Ue.» Con chi si alleano i due principali partiti dell’estrema destra? Secondo l’Intelligence e l’Antiterrorismo l’elemento che li accomuna è «l’orientamento filo-russo (più marcato in Forza Nuova) e quello a favore del regime siriano.» Forza Nuova è «protesa a rafforzare il ruolo del movimento nazionalista europeo Alliance for Peace and Freedom (AFP) – di cui detiene la presidenza – riservando particolare attenzione ai Paesi dell’Est europeo (Romania, Ungheria e Polonia: vedi l’imponente manifestazione ultranazionalista dell’11 novembre 2017 a Varsavia in occasione delle celebrazioni dell’indipendenza nazionale, con slogan xenofobi, antisemiti e inneggianti alla supremazia bianca).» CasaPound «si distingue invece per le relazioni con affini realtà spagnole, Paesi francesi ma anche greche, in particolare Alba Dorata, antesignana dell’impegno della destra radicale sui temi del sociale e in chiave anti immigrazione.» Ma cosa alimenta queste «affinità elettive»? Gli 007 rilevano che alla base di queste relazioni ci sono «similitudini nelle condizioni e nei fenomeni economico-sociali che hanno caratterizzato le connessioni: l’incremento incontrollato di flussi migratori, l’anti islamismo, la sovranità territoriale e la politica europeista di impronta mercantile.» In questo scenario, oltre ad Alba Dorata, il DIS annota che «sono sempre più radicate le similitudini e i contatti con i francesi del G.U.D., con gli spagnoli dell’Hogar Social, i russi di Zentropa Orient, gli ultranazionalisti ungheresi di Jobbik Magyarorszàgért Mozgalom, gli inglesi del Partito nazionale britannico e i tedeschi del Republikaner, del Npd e del Dvu.» O fai la politica o fai il terrorista Il 2017 è stato un anno «nero», lo abbiamo visto. Non solo per il numero impressionante di aggressioni e intimidazioni. Ma anche per l’escalation della propaganda fascista attraverso manifestazioni e cortei che chiaramente mirano a sdoganare una politica della violenza. L’impressione che si ricava da questo clima di rabbia che sembra soffiare sull’Italia è che «oggi questi gruppi, movimenti e partitini, si sentano in grado di poter dire e fare tutto.»100Ma

soprattutto colpisce che nessun ambito del vivere civile è immune dagli assalti dei neofascisti. Non si tratta più degli scontri con i compagni o gli antagonisti in cortei contrapposti. Adesso il conflitto si è spostato su altri soggetti. È caccia all’immigrato, al gay, all’attivista per i diritti civili. Addirittura a chi si permette una battuta sul web. È quello che è successo a Paolo E., giovane ventiquattrenne di Vignanello, provincia di Viterbo, l’11 febbraio 2017. La sua colpa? Avere commentato un post ironico apparso sulla pagina satirica Facebook «CasaPound dice cose a cazzo». Il post parodiava lo stile anche grafico degli striscioni con la tartaruga in basso con cui CPI tappezzava le città: «Chi mette il parmigiano sulla pasta col tonno non merita rispetto». Paolo viene intercettato all’uscita da un pizzeria da 15 militanti locali del partito neofascista. Tenta di scappare ma in due gli sono addosso: Michele Santini, militante appena diciottenne, lo colpisce in pieno volto con un pugno; il trentenne Jacopo Polidori, presidente locale di CPI, si sfila la cinta e inizia a colpire Paolo alla schiena. Si congeda con un avvertimento. «Mi spiace, ma la prossima volta fatti i cazzi tuoi.» Arrestati, i due sono stati condannati entrambi in primo grado a 2 anni e 8 mesi. I segni sul corpo se li è portati anche Diego Giannella, candidato della lista Laboratorio civico X e attivista dell’associazione Alternativa onlus. Dieci giorni prima, è il 31 gennaio, cinque militanti di Ostia lo inseguono e lo pestano vicino alla sede del municipio, mentre provava a partecipare a un incontro con la sindaca di Roma Virginia Raggi. Quelle di Vignanello e di Ostia sono le prime storie che riempiono le pagine del «2017 nero». Il 24 gennaio un gruppo di militanti neofascisti – FN, CPI e il manipolo «Roma ai romani» di Giuliano Castellino – impedisce a una famiglia di egiziani di entrare nell’appartamento al Tuscolano che gli è stato legittimamente assegnato. Vorrebbero lasciarci la famiglia italiana che lo occupava abusivamente. Il 2 febbraio a Ostia un attivista di una onlus che si occupa di migranti viene spinto a terra e preso a calci a poche centinaia di metri da un presidio di CPI, FdI e Noi con Salvini: è tra loro che la polizia cerca i responsabili del pestaggio. Da Roma a Milano. Stessa violenza, stesso segno. Il 1° aprile militanti di Forza Nuova assaltano con mazze e caschi il centro sociale Gta. In serata un ragazzo viene inseguito, malmenato e gettato nel Naviglio da un gruppo di militanti di CasaPound: fa parte della Rete degli studenti. A maggio continuano i blitz: il 4 Forza Nuova piomba nella sede dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) a Roma, lancio di fumogeni e striscioni appesi all’esterno con la scritta «Ong scafisti». «La prossima volta potremmo non essere altrettanto teneri», minaccia il portavoce romano Alessio Costantini. E sull’immigrazione

prosegue: «Oggi siamo entrati qui, ma siamo pronti ad assediare il Parlamento se l’invasione non viene immediatamente fermata». Il 6 maggio ancora urla: «scafisti, scafisti!» A Prato tocca ai camerati di Generazione Identitaria e Movimento Nazionale che interrompono una conferenza sull’immigrazione al Festival Mediterraneo Downtown organizzato dalla Ong Cospe. A giugno l’assedio ai palazzi del potere si concretizza nella manifestazione No Ius soli di Forza Nuova sotto palazzo Madama: «Un manipolo di guerrieri sono schierati qui in piazza. La legge non passerà, o sarà battaglia in tutta Italia», recita il post sulla pagina Fb del partito. Il 9 luglio ancora Ostia: le ronde di CPI si presentano in spiaggia e cacciano gli ambulanti abusivi. Sono le stesse modalità usate nei quartieri delle periferie delle città. «È un atto di forza intollerabile», dice Domenico Vulpiani, all’epoca e per due anni commissario straordinario del Comune dopo aver diretto a lungo la polizia postale. Il 28 settembre la violenza nera esplode a Corviale, periferia romana. Solito sgombero di una famiglia abusiva italiana ed ecco che entrano in azione gli ultrà di FN e di Roma ai romani: sassaiola contro la polizia. Finisce in carcere il leader Giuliano Castellino, in prima fila in molte manifestazioni violente, come il blitz alla OIM. Castellino è conosciutissimo nella curva Sud dell’Olimpico. Il 22 ottobre, nel feudo del tifo romanista, gli ultrà laziali attaccano degli adesivi che ritraggono Anna Frank con la maglia giallorossa e altri sticker con le scritte «romanista ebreo». Al gruppo forzanovista di Giuliano Castellino è legato anche il diciottenne Alessio Manzo: il 29 ottobre a Roma, in piazza Cairoli, assieme a un branco di giovanissimi naziskin pesta selvaggiamente il bengalese Kortik Chondro gridandogli «sporco negro». Nonostante la vittima sia ormai inerme a terra, Manzo torna indietro e gli sferra un calcio in faccia: dovrà rispondere di tentato omicidio. Il 25 novembre, le teste rasate del VFS, che evidentemente si stavano allenando per il blitz di Como, fanno irruzione in una sala civica di Medole, a Mantova, durante la presentazione del libro Non ci avrete mai della scrittrice di Castiglione delle Stiviere, Chaimaa Fatihi, presente il sindaco Ruzzenenti. L’avevano già fatto ad aprile a un incontro con i vertici della cooperativa Olinda. Lasciano un volantino in sala per rivendicare l’azione: «Non è mirata a colpire la ragazza in sé, ma questo ennesimo e solito teatrino dei burattini e si oppone allo sdoganamento di una politica sempre più immigrazionista che non perde occasione per ricamare le solite propagande proIus Soli». A queste azioni partecipano giovani militanti, spesso minorenni. L’educazione all’odio è l’aspetto più preoccupante di questa rimonta nera. A Roma, l’ospedale

Vannini è a un paio di chilometri dalla sede di Forza Nuova di via Amulio 41. Nel reparto di pronto soccorso, tra il 2011 e il 2014, finiscono 59 bengalesi. Tutti medicati per aggressioni fisiche: tagli, ferite, lividi, fratture.101Le vittime riferiscono che avevano il terrore di camminare nei dintorni della sede di Forza Nuova. Gli agguati ormai erano diventati la regola. I venditori ambulanti giravano l’angolo e spuntavano i mazzieri neofascisti. Parte un’indagine della magistratura che assieme al Ros dei carabinieri solleva il velo sulla formazione dei giovani militanti forzanovisti di Roma. Scoprono un mondo sommerso. La sede di FN è un po’ scuola di razzismo e un po’ palestra di addestramento. Lo sport principale? La caccia selvaggia all’immigrato. Una scuola «di strada». Calci e pugni ai bengalesi nei quartieri della Capitale. Perché proprio loro? Perché «sono tranquilli, prendono le botte e non rompono», dice un ex soldato della sezione di Forza Nuova al Tuscolano. I cittadini del Bangladesh sono i migliori da picchiare, raccontano alcuni dei ragazzi inchiodati dalle indagini dei militari. «A fine serata ci facevamo un bengalino.»102 «Ne sceglievamo uno e lo pestavamo.» Si trattava di un vero e proprio «indottrinamento nei confronti dei minori», scrive il Pm Sergio Colaiocco, titolare dell’indagine. Nelle 352 pagine dell’informativa dei carabinieri del Ros che hanno portato la procura di Roma a chiedere il rinvio a giudizio per diversi esponenti di FN si spiegano i due diversi livelli dell’addestramento: psicologico e fisico. Una scuola finalizzata a inculcare nelle giovani leve della destra radicale romana «l’incitamento alla discriminazione e alla violenza per motivi razziali e religiosi, nonché il ricorso alla violenza come mezzo di risoluzione delle controversie.»103C’era un direttivo verticistico nella sede forzanovista del Tuscolano. Era chiamato il «Senato». Dal «Senato» dipendevano sia il coordinamento sia il reclutamento. Uno scouting che avveniva per lo più davanti a istituti scolastici o attraverso i social network. E poi, certo, la formazione dei militanti. I camerati più promettenti venivano inseriti nel percorso formativo dei «combattenti». Attacchinaggio, uso di mazze e coltelli, tecniche per infiltrarsi nelle rivolte di quartiere contro gli immigrati e nei cortei politici. E l’allenamento: i pestaggi contro i «bengalini». La preparazione «politica» prevedeva riunioni «per l’indottrinamento e per la formazione fisica», dicono le carte del Ros. Intercettato al telefono il capo della sezione del Tuscolano spiega che ha ricavato una palestra all’interno della sede. «Il giovedì faccio corsi di spada, coltelli, bastoni, balestra e armi medievali.» Un altro dei leader della sede di FN confessa, senza sapere di essere intercettato: «A me la cosa che interessa di più so’ i

ragazzini, i ragazzini». Da plagiare e sottrarre quindi al controllo delle famiglie. Tanto è vero che in un’altra intercettazione dei carabinieri del 2014, il padre di un diciassettenne si sfoga con i responsabili del gruppo. «Noi non esistiamo più… Esistono solo il partito e i capoccioni del partito, noi genitori non contiamo un c…» E protesta anche con l’attivista del centro: «Sarà il caso di non utilizzare più i minori per queste cose?»104 C’è un confine labile che separa politica e violenza. Quel filo sottile, se lo tiri, si spezza. A quel punto non distingui più fra fedeltà alle proprie idee e fanatismo, fra altre forze politiche e nemici. Questo passaggio generazionale perverso all’insegna dell’odio emerge anche nell’inchiesta napoletana sull’ala militare di CasaPound, quella del 2013 che coinvolge i due candidati Savuto e Florino. C’è un’intercettazione allegata agli atti analizzati dai giudici che hanno definito la tartaruga un’«associazione sovversiva». A parlare, intercettati nel 2011 sempre dal Ros dei carabinieri, sono un militante del partito di Iannone e Di Stefano, e tal Massimo M., esponente storico dell’estrema destra campana (ritenuto estraneo all’organizzazione dal Gip). È una lezione di vita su come si regolano i conti. Come bisogna agire. Che cos’è la «politica». Con la lucida consapevolezza del giovane che il ritorno al passato, il non saper fare la politica, porta solo alla via senza uscita del terrorismo. Esponente di CasaPound: e come dobbiamo fare? M.: blitz blitz… esecuzione esemplare… Esponente di CasaPound: eh? M.: esecuzioni esemplari… cioè te li devi andare a prendere a due o tre alla volta… Hai capito? Esponente di CasaPound: noi lo abbiamo fatto M.: lo sai dove stanno… pigli… senza parlare proprio a dire siamo CasaPound… PUUU PUUM PUMMMPT… da sopra un motorino e te ne vai… chi è stato?… e che ne so… noi l’abbiamo fatto… hai capito?… come facemmo noi… Esponente di CasaPound: noi abbiamo fatto le nottate sotto le case di questa gente… a uno gli abbiamo incendiato la macchina… una notte arrivammo sotto la casa e lo abbiamo abbuffato di mazzate M.: no ma io non voglio incitarvi alla violenza… per carità… però è la rabbia (…) Esponente di CasaPound: noi vogliamo fare politica

M.: noi non facevamo politica… noi facevamo solo violenza… non facevamo politica… perché se vogliamo non la sapevamo manco fare… Esponente di CasaPound: è la verità… o fai la politica con tutti gli errori che possono venire o decidi di impugnare un’arma e allora fai il terrorista…105

81 Migrante ucciso, Mancini si costituisce, Ansa Marche, 12 dicembre 2017, cfr. http://www.ansa.it/marche/notizie/2017/12/07/migrante-ucciso-mancini-sicostituisce_7e6407d6-6235-4115-a355-14d6a7004d50.html 82 La mappa è estremamente interessante, fa vedere la distribuzione degli agguati, riporta una breve cronaca e la data. L’indirizzo dell’associazione è http://www.ecn.org/antifa/ e la mappa si trova al link: https://www.google.com/maps/d/viewer?mid=1zGE0OJF-Cq0sN616hn_zto9q3H3BmpM&ll=41.80477417395221%2C10.560195856249948&z=7 83 Elezioni Ostia 2017: CasaPound tra connessioni fascio-mafiose e imprenditoriali ma vincerà l’astensionismo, 3 novembre 2017, cfr. https://www.infoaut.org/metropoli/elezioni-ostia-2017-casapound-traconnessioni-fascio-mafiose-e-imprenditoriali-ma-vincera-l-astensionismo 84 L’esordio di CasaPound alla Camera: tra guerra in Libia e nazio- nalizzazioni selvagge, si sente l’eco del programma del Ventennio, di Pietro Salvatori, 9 febbraio 2018, «Huffingtonpost», cfr. http://www.huffingtonpost.it/2018/02/09/lesordio-di-casapound-alla- camera-traguerra-in-libia-e-nazionalizzazioni-selvagge-si-sente- leco-del-programma-delventennio_a_23357522/ ). 85 CasaPound e il picco di ascolti in tv «Ormai noi fascisti siamo sdoganati», di Alessandro Trocino, «Corriere della Sera», 15 novembre 2017, cfr. http://www.corriere.it/politica/17_novembre_15/casapound-di-stefano-fascistipicco-ascolti-tv-ad11f0d8-ca3c-11e7-bae0-69536c65a470.shtml 86 Ibidem. 87 CasaPound candida i violenti a processo: «Portate mazze e bombe, lo dice Iannone», di Andrea Palladino, «l’Espresso», 1 febbraio 2018, cfr. http://espresso.repubblica.it/attualita/2018/02/01/news/mazze-e-bombe-lo-hadetto-iannone-a-processo-i-violenti-di-casapound-oggi-candidati-1.317816 88 Cfr. http://www.ilsecolonuovo.com/2018/02/05/napoli-giuseppe-savuto-

32enne-napoletano-di-pianura-uno-dei-candidati-al-parlamento-di-casapounditalia-savuto-%E2%80%9C-in-parlamento-per-dire-stopall%E2%80%99immigrazione-clandestina-all/ 89 Che cosa sai veramente delle donne di CasaPound?, di Davide Burchiellaro, «Marie Claire», 3 novembre 2017, cfr. http://www.marieclaire.it/Attualita/newsappuntamenti/chi-sono-le-donne-di-casaPound 90 CasaPound candida i violenti a processo: «Portate mazze e bombe, lo dice Iannone», di Andrea Palladino, «l’Espresso», art. cit. 91 Ibidem. 92 Ibidem. 93 «Se ti senti italiana, canta l’inno nazionale». L’irruzione di Forza Nuova a un incontro sui Rom (che finisce a spintoni), di Luciana Matarese, «Huffingtonpost», 14 gennaio 2018, cfr. http://www.huffingtonpost.it/2018/01/14/se-ti-senti-italiana-canta-linnonazionale-lirruzione-di-forza-nuova-a-un-incontro-sui-rom-che-finisce-aspintoni_a_23333054/ 94 Aggressioni neofasciste, arriva la mappa interattiva per monitorarle sul territorio, di Chiara Baldi, «la Repubblica» 17 gennaio 2018, cfr. http://www.repubblica.it/politica/2018/01/17/news/aggressioni_neofasciste_arriva_la_mappa_ 186667931/ ). 95 «Macerata burning» è espressione usata da Massimo Giannini nel suo editoriale a commento della strage di Traini, cfr. «la Repubblica», 4 febbraio 2018. 96 Chi è Gianluca Casseri, killer di estrema destra con la passione per il fantasy, di Thomas Mackinson, «il Fatto Quotidiano», 13 dicembre 2011, cfr. https://www.ilfattoquotidiano.it/2011/12/13/ritratto-gianluca-casseri-killerestrema-destra-pensione-fantasy/177280/ 97 Ibidem. 98 Migranti, così ritorna il fascismo: blitz dei naziskin contro i volontari di Como. E attaccano Repubblica, di Paolo Berizzi, «la Repubblica», 29 novembre 2017, cfr. http://milano.repubblica.it/cronaca/2017/11/29/news/naziskin_como_migranti_irruzione_fasci 182499802/ 99 Dati forniti nella relazione del Dipartimento informazioni per la sicurezza (DIS) del 2017. 100 Un anno di violenza fascista, di Federico Marconi, «l’Espresso», 29 dicembre 2017, cfr. http://espresso.repubblica.it/attualita/2017/12/01/news/un-

anno-di-violenza-fascista-1.315334 101 La scuola di razzismo nella sede di Forza Nuova a Roma: «Picchiate i bengalesi», di Federica Angeli e Giuseppe Scarpa, «la Repubblica», 2 novembre 2017, cfr. http://roma.repubblica.it/cronaca/2017/11/02/news/la_scuola_di_razzismo_nella_sede_di_forz ). 102 Roma, gli arruolati da Forza Nuova: «Prima l’attacchinaggio poi i raid anti immigrati così ci formiamo», di Federica Angeli e Giuseppe Scarpa, «la Repubblica», 3 novembre 2017, cfr. http://roma.repubblica.it/cronaca/2017/11/03/news/roma_gli_arruolati_da_forza_nuova_prima ). 103 La scuola di razzismo nella sede di Forza Nuova a Roma: «Picchiate i bengalesi», di Federica Angeli e Giuseppe Scarpa, art. cit. 104 Ibidem. 105 CasaPound candida i violenti a processo: «Portate mazze e bombe, lo dice Iannone», di Andrea Palladino, «l’Espresso», art. cit.

9. FARSI STATO «Bambini italiani meno fortunati» Luglio 2017. La notizia arriva da San Giuliano Milanese. Un abitante del paese dell’hinterland di Milano avvisa che nella cassetta della posta ha trovato un volantino. «Aiuta i bambini italiani meno fortunati ad andare in vacanza», c’è scritto. Il disegno mostra due bambini in cammino e, in basso, il volto di Evita Perón. È una raccolta fondi promossa dall’omonima associazione forzanovista. Da anni Forza Nuova ha eletto Evita Perón a uno dei suoi personaggi di riferimento. Tanto da intitolarle la sua componente femminile. Il modello è quello dei neonazisti greci di Alba Dorata. Anche loro organizzano colonie estive infantili. Una forma di socialità per attirare consensi tra i ceti popolari. Sul volantino è indicato un numero di conto corrente Postepay dove il donatore può offrire un contributo. Servirà per fare andare in colonia bambini rigorosamente italiani: dal 31 luglio al 6 agosto. Sul litorale di Catania. Non so in quanti lo ricordino, ma i primi campi per adolescenti organizzati da FN risalgono al 1997 e all’epoca finiscono agli onori delle cronache perché Fabio Cannavaro, già capitano della Nazionale, li pubblicizza in radio. Il suo procuratore dell’epoca, Gaetano Fedele, lo giustifica dicendo che «un giocatore può essere strumentalizzato inconsapevolmente.» Dieci anni dopo – è il 2007 e Cannavaro milita nelle file del Real Madrid – per festeggiare il titolo di Spagna conquistato dai madrileni il calciatore napoletano sventola in campo a Madrid un tricolore con un fascio littorio al centro. Polemiche anche in quel caso. «Non sono un nostalgico, ma non sono di sinistra», dichiara Cannavaro. Passano dieci anni e mi ritrovo questa storia della colonia estiva che rimbalza dall’hinterland di Milano. Decido di approfondire. È agosto. Sulla pagina Fb di Forza Nuova c’è

un rimando, con delle foto dei «bambini italiani meno fortunati». Come funziona una colonia di Forza Nuova? Quali attività vengono proposte ai bambini? Che taglio «didattico» hanno? È solo divertimento o anche «educazione»? Sulla pagina Facebook dell’associazione la vacanza solidale è descritta così: «Un’occasione di svago e formazione civica e religiosa che lascerà nella loro memoria ricordi indimenticabili». Lo «svago» delle colonie estive Evita Perón è documentato da video postati sui social. Si vedono bambini dagli 8 ai 13 anni impegnati in attività quasi militari. Inni del tricolore, file ordinate, disciplina. C’è un rituale fisso che le educatrici chiamano Inno alla bandiera. Si tratta di un motivo risorgimentale del 1848 (attribuito a Francesco Dall’Ongaro), Bandiera tricolore, o La bandiera dei tre colori, poi adottato dai militari fascisti e dalle forze armate. Curiosità: nel suo diario il bersagliere e futuro duce, Benito Mussolini, annovera l’inno nell’elenco dei canti intonati dai soldati durante la Prima guerra mondiale.106 Fa una certa impressione vedere bambini del 2017 cantare come piccoli Balilla del Ventennio. Ma evidentemente per Forza Nuova i valori da impartire alle nuove generazioni passano anche da qui. Non si tratta però di folklore nostalgico. L’operazione ha un chiaro intento pedagogico. Nel rispetto della tradizione cattolica, mostra un’attenzione ai disagiati mirando ai ceti poveri delle periferie, ai proletari dimenticati dello Stato. In sintesi è lo spirito del Peronismo in chiave «socialista» voluto da Evita Perón, che rese la dittatura del marito Juan Domingo Perón la meno feroce fra quelle del Sud America del secondo dopoguerra. Non folklore, dunque. Ma marketing politico. Quanto conta questo aspetto nella propaganda sociale e solidaristica delle associazioni dell’estrema destra? Che tipo di welfare è quello proposto dai «fascisti del terzo millennio»? Lo chiedo al sociologo Aldo Bonomi che mi dà una spiegazione illuminante: «Vedete? Lo Stato non c’è e invece noi ci siamo: questo è il messaggio intorno al quale ruotano le loro iniziative. Quello che sta accadendo da noi ricorda quello che è accaduto in Grecia. Il nodo sono le periferie. È da lì che sono partiti questi movimenti, è lì che attecchiscono. Nelle periferie c’è la guerra tra gli ultimi – gli immigrati stranieri – e i penultimi – la popolazione locale, e cioè gli italiani più disagiati. C’è chi si mette in mezzo per cercare di unire, e chi per dividere. Alba Dorata ha diviso e poi ha iniziato a occuparsi del disagio dei penultimi. In Italia i gruppi neofascisti stanno facendo lo stesso. Ormai da tempo. È un meccanismo avviato e che ha portato consensi. Finché la sinistra non metterà in campo politiche serie su povertà ed esclusione, i gruppi neofascisti continueranno a crescere». È quello che fanno CPI e FN, e anche Lealtà Azione. Pubblicizzare

iniziative a scopo sociale o benefico. Farlo attraverso i canali social da dove si abbeverano i giovani. Il tentativo è, appunto, quello di accreditarsi come un sostituto temporaneo dello Stato. Uno Stato che, soprattutto in periodi di forte crisi economica, fa fatica a garantire un elevato e generalizzato livello di welfare. «Lo schema è: io ti offro dei servizi sociali, ma tu riconosci la logica identitaria del gruppo», dice Saverio Ferrari, dell’Osservatorio sulle nuove destre. Qui è il punto. A differenza del cosiddetto welfare universale, che è includente e non si basa su divisioni etniche, religiose, politiche – come prevede l’articolo 3 della Costituzione Italiana – il welfare dell’ultradestra è escludente. È un welfare dedicato. Solo italiani poveri. Che nella narrazione neofascista sono rappresentati come le prime vittime dell’immigrazione. È a loro che si rivolgono le formazioni nere. «Attraverso onlus e associazioni di volontariato i neofascisti riescono a intrufolarsi nel discorso pubblico italiano e ad accreditarsi come uno dei tanti attori della società civile e politica», mi spiega Federico Chiericati, dell’Anpi. «Se da un lato, infatti, riescono a legittimare le proprie posizioni e idee, che altrimenti incontrerebbero molta più fatica ad essere accettate, dall’altro, agendo in questo modo, riescono a “normalizzare” la loro presenza.» Un’azione «dal basso». Se sono accettato come attore sociale, sono legittimato anche a prendere parte alla vita politica del Paese. Questo è stato il vero successo delle formazioni neofasciste degli ultimi anni. E non ce ne siamo ancora resi conto. La tecnica dolce per piacere a tutti La caramella buona funziona sempre. Almeno all’inizio. Ha un sapore gustoso, invitante. Ma la carta a volte può riservare sorprese. Ti accorgi dopo che quella dolcezza ha un retrogusto diverso. È la tecnica dell’infingimento. I gruppi estremisti si spogliano dei loro simboli e dei messaggi violenti per avvicinarsi ai bisogni e conquistare la fiducia di fasce sociali disagiate. Offrono aiuti a chi è strozzato dalla crisi e dagli effetti della globalizzazione, a chi non ha una casa, un lavoro, a chi cerca risposte immediate alle paure. Lo fanno indossando un abito nuovo, rassicurante. Giocano la partita della solidarietà e del welfare al minuto con una maglia che non è la loro. E i cittadini e le istituzioni abboccano. A volte i bisogni offuscano la memoria storica e politica. Chi si inserisce in quello spazio dove la visuale è ridotta, ottiene consenso. È una tecnica più difficile da arrestare rispetto alle manifestazioni di piazza e alla violenza esibita.

L’estrema destra la utilizza perché è un investimento sicuro a rischio ridotto. Gli esempi sono ovunque. Ti imbatti nel gruppo escursionistico che ti invita ad arrampicare sulla montagna che hai sempre sognato di scalare. Si chiamano Lupi delle Vette, un nome suggestivo. Nel sito offrono richiami alla libertà e alla saggezza tibetana. Solo dopo scopri che quel gruppo è formato da patrioti sovranisti che alla prossima gita ti parleranno delle campagne d’Africa di Mussolini, della «razza bianca», del nazionalsocialismo. L’associazione che aiuta le famiglie povere – solo italiane – e distribuisce pacchi alimentari davanti al supermercato sotto casa ti ha convinto. Ma la solidarietà è un paravento. Dietro ci sono i nostalgici della X Mas, ammiratori di gerarchi nazisti e criminali di guerra. In una parola, sono quelli di Lealtà Azione. Il loro camuffamento nelle tante iniziative del nostro quotidiano ha mille facce. Hai partecipato a un torneo di calcetto contro la pedofilia. Sei convinto di avere fatto una buona azione, ti sei divertito, hai firmato una petizione e lasciato pure un’offerta. Poi scopri che l’evento – intitolato «Un calcio alla pedofilia» – è promosso da due onlus: Bran.co, e La caramella buona. Fanno sì beneficienza, ma la seconda vi collabora, e la prima è diretta emanazione di Lealtà Azione, ovvero gli Hammerskin. Quel circuito i cui affiliati inneggiano all’odio antisemita e all’intolleranza xenofoba, che si addestrano con pestaggi, coltellate, raid punitivi contro gli immigrati. Sono 10 anni che va avanti il torneo, in zona San Siro a Milano, e nell’edizione del 2013 ha pure goduto del patrocinio della Provincia, mentre nel 2014 e nel 2016 di quello della Regione Lombardia. Al Gallaratese, zona nord-ovest di Milano è successo altro. Si è passati dalla onlus che raccoglieva la spesa solidale al supermercato per le famiglie bisognose, al movimento politico che scende in strada contro il degrado per farti sentire più sicuro nel quartiere dove vivi. Che organizza ronde contro i ladri e gli spacciatori. Che prova a sostituirsi alle forze dell’ordine e allo Stato. E così ha egemonizzato un corteo spontaneo di liberi cittadini non organizzati posando il proprio cappello per pura propaganda. Alla fine di quella manifestazione, sui pali della luce, sulle pensiline degli autobus, si sono scoperte le firme degli «angeli custodi» del quartiere: gli adesivi con lo stemma del Movimento nazionalsocialista dei lavoratori, sigla neonazista che si rifà direttamente al partito di Adolf Hitler. Ancora una volta protagonisti i camerati di Lealtà Azione, nell’ottobre 2017. Spostiamoci a Roma, alla Magliana. Una periferia difficile, zona di conflitti dove lo Stato e la politica non sempre arrivano. Hai dei figli piccoli. Per loro la vita non è proprio un ventaglio di occasioni e di privilegi. È il giorno della

Befana, non sai dove portare i bambini. Un’altra mamma ti dice che giù in piazza c’è un banchetto con delle bandiere. Un gruppo di animatori che fanno giocare i piccoli, che gli regalano le classiche calze con dentro i doni e altri pacchetti. Sopra è stampato il disegno di una simpatica tartaruga nera. Li porti, i bambini si divertono. Li porti anche a Carnevale. Altra festa, anche questa gratuita. Lo stesso banchetto, gli stessi ragazzi: questa volta travestiti da fatine e corsari. Distribuiscono coriandoli, stelle filanti, dolci. Ci sono due ragazze sorridenti con una tavolozza piena di trucchi che decorano il viso di tua figlia e lei è contenta. I bambini giocano in cerchio, si divertono. Ma siamo in campagna elettorale. Chi vuole approfondire scopre che i benefattori sono militanti di un partito che ogni anno vede decine di suoi appartenenti denunciati per apologia di fascismo, istigazione all’odio razziale, risse, violenze e altri reati. È la tartaruga di CasaPound Italia. È successo il 6 gennaio e il 10 febbraio 2018. Questa rapida carrellata attraverso le periferie italiane svela il gioco dell’imbellettamento sociale dell’estrema destra. Il nuovo associazionismo nero punta a realizzare un welfare alternativo, funzionale agli «impresentabili» nostalgici di Mussolini. È una vetrina con affaccio sui settori chiave della società. Dal tempo libero al lavoro, dalla politica culturale all’informazione, e poi la casa, l’assistenza familiare, gli anziani, i disabili. La previdenza, la sicurezza, la scuola, lo sport. Il modello è quello di uno «Stato sociale» forte. La cui presenza sul territorio – soprattutto nelle periferie – è rappresentato da loro, i partiti di ispirazione neofascista e neonazista. Immaginate un grappolo d’uva. Le reti sociali e politiche dei principali movimenti di estrema destra italiani – CasaPound, Forza Nuova, Lealtà Azione – sono come grappoli. Ogni chicco è un’associazione. Il graspo è il partito. Il fattore che ne ha determinato lo sviluppo, lento ma costante, e subdolo, è il modo in cui sono strutturate. I partiti neri nel corso di questi anni hanno costruito una fitta trama di organizzazioni collaterali, per usare un termine novecentesco. È un processo che è iniziato al debutto del Duemila e si è compiuto – in modo articolato – quindici anni dopo. Nei simboli e nelle espressioni queste associazioni non sono sempre direttamente riconducibili al mondo del neofascismo. Si mascherano come normali onlus che svolgono attività benefiche e apolitiche. La dimostrazione di questo passaggio sta nel riconoscimento sociale che ottengono. E nell’accreditamento di cui riescono a beneficiare, facendosi concedere strutture, spazi comunali, patrocini dei Comuni, delle Province, delle Regioni in occasione di varie iniziative. Le amministrazioni locali che offrono sponde a volte sono compiacenti. Altre volte finiscono per esserlo perché non

capiscono chi si cela dietro certi simboli o discorsi. Altre volte ancora fingono palesemente. A giugno 2017 in Lombardia Lealtà Azione ha cercato in tutti i modi di trovare uno spazio per la Festa del Sole. È l’evento clou del loro calendario estivo. Al raduno vengono esposti cartelli con svastiche e scritte inneggianti alle SS e al «White power». Per fare breccia tra i responsabili delle amministrazioni i lealisti hanno spacciato il raduno per una festa di addio al celibato, ottenendo in un primo tempo l’autorizzazione. Dopo la segnalazione delle organizzazioni e dei partiti antifascisti, l’amministrazione di Cassano Magnago ha revocato la concessione di uno spazio precedentemente accordato.107 Alla fine la Festa del Sole è andata in scena nel centro sportivo comunale di Bubbiano. Due serate, 30 giugno e 1 luglio. Nel programma della festa un dibattito su «Migrazioni e terrorismo tra Europa e Medio Oriente» (ospiti il senatore Alfredo Mantica, ex Msi e già sottosegretario agli Esteri, e il giornalista de «la Verità», Francesco Borgonovo; moderatore il consigliere di Zona a Milano Stefano Pavesi, sottoposto a Daspo). E poi il concerto dei soliti gruppi nazirock (Testudo, Malnatt, Bullets e Linea del Fronte). Tutto sotto l’egida di Stefano Del Miglio, leader pregiudicato di LA. Perché spacciare una festa politica per un addio al celibato? È solo uno dei tanti esempi di camuffamento. In fondo lo sono anche le escursioni sulle vette, i tornei di calcetto contro la pedofilia, le distribuzioni di pacchi alimentari. È la tecnica «dolce» adottata dai neofascisti per rientrare in società. Per occupare spazi lasciati colpevolmente vuoti dalla politica ufficiale e dalle istituzioni. Spazi vuol dire credibilità, legittimazione, approvazione. I nuovi estremisti neri puntano a essere normalizzati. Con un disegno preciso. Una strategia politica Proviamo a capire come e perché è avvenuta la diffusione sociale di queste associazioni di impegno civile, in alcuni casi faccia pulita di bande di picchiatori nazifascisti. Poi esploreremo il sottobosco di questi mondi paralleli di cui si sa ancora troppo poco. Tutto parte da un ragionamento «politico». Forza Nuova e CasaPound, ma anche Lealtà Azione, hanno capito che la politica partitica, autosufficiente e autoreferenziale non basta per riuscire a entrare nei cuori e nella testa della gente. Se c’è bisogno di «imporre» un messaggio e un programma, devi farlo attraverso la politica culturale messa in campo da associazioni e organizzazioni vicine o organiche ai partiti. È la storia che lo dice.

Se il periodo tra gli anni Ottanta e Novanta è servito per ridefinire gli obiettivi e gli orizzonti politici e culturali – il crollo del blocco sovietico e la fine della Prima Repubblica, ad esempio, hanno trasformato completamente il panorama politico, anche nel campo neofascista – il nuovo millennio ha visto la costruzione di nuove strutture organizzative. Prima marginali, poi sempre più complesse e ramificate. E queste emanazioni collaterali, hanno una profonda interrelazione con realtà estere. Mi fa notare Saverio Ferrari, dell’Osservatorio sulle nuove destre. «È una forma di metapolitica che si è affermata anche in Italia e sulla quale i movimenti di destra radicale – sempre più a impronta neonazista – hanno costruito il loro successo, soprattutto tra i ceti più bassi, nelle aree urbane ed extraurbane più difficili.» Il segreto di questo «successo» sta tutto in un superficiale cambio di pelle. Una mutazione derivata da una precisa strategia. Del resto, chiediamoci: attraverso quali canali o dinamiche potrebbero altrimenti penetrare, gruppi come CPI, FN e LA, nel tessuto sociale di un Paese nato dal sacrificio dei partigiani che lo hanno liberato dal nazifascismo e fondato sui valori dell’antifascismo stabiliti dalla Costituzione? Che impatto avrebbero se si proponessero come bande che, in stile paramilitare, e con vessilli del fascismo e del nazismo, si presentano ai cittadini per «governare» il caos sociale e «ripristinare» l’ordine? Quanto durerebbero? I referenti che bussano all’amministrazione di un piccolo Comune per chiedere una sala dove allestire una conferenza sul mondialismo o sulla gestione dei flussi migratori sono persone a cui molti probabilmente darebbero credito. Non l’energumeno tatuato e rasato, rappresentazione del vecchio skinhead. A compilare i documenti per ottenere l’affitto dei locali di un teatro o di un cinema per un evento va una garbata signora, portavoce di una onlus. Quando i gestori vengono a sapere che dietro quella onlus opera una formazione che ha come riferimenti storici e culturali colonnelli di divisioni naziste, cadono dalle nuvole. Anche al ministero delle Pari Opportunità non sapevano con chi collaborasse «la Caramella buona» quando le hanno conferito un riconoscimento e un accreditamento ufficiale. Non potevano verificare? E i funzionari della Regione Lombardia: perché prima di concedere il patrocinio al torneo di calcetto contro la pedofilia non si sono informati sull’origine dell’associazione con cui è strettamente collegata la Caramella? Avrebbero concesso ugualmente il loro appoggio se avessero saputo che gli Hammerskin che animano Lealtà Azione sono nati da una costola del Ku Klux Klan? Forse no. Anche solo per motivi di opportunità. E per evitare polemiche e strumentalizzazioni. Possiamo anche buttarla sul luogo comune dei dipendenti pubblici che non fanno bene il loro

lavoro. Ma il vero problema è la quantità delle piccole associazioni e la loro capacità mimetica. È un tema che ricorda, pur con profonde differenze, le società paravento dei clan mafiosi che concorrono per gli appalti pubblici. E anche la preparazione e il know how necessari a scoprirle. Andiamo a esplorare il sottobosco formato da queste associazioni. CasaPound. Forza Nuova. Lealtà Azione. Generazione Identitaria. Azione Identitaria. Casaggì. Do.Ra (Dodici Raggi). Movimento Patria Nostra (al cui interno nel 2010 ha preso vita il SINLAI – Sindacato Nazionale Lavoratori Italiani). Unione per il Socialismo Nazionale. La piattaforma Sovranità (nata, con alterne vicende, per una convergenza tra CPI e la Lega Nord). Sono i pianeti della galassia nera che in questi anni hanno puntato di più sul modello «associazionistico». Dieci, quindici organizzazioni. Che a loro volta hanno almeno quattro o cinque suddivisioni «tematiche» ramificate su tutto il territorio nazionale. Oltre a una rete di declinazioni locali (stesse finalità, ma con altri nomi). Se consideriamo le tre sigle più importanti dell’ultradestra – CPI, FN e LA – le associazioni a esse collegate sono una cinquantina. Trentatré quelle di CPI, tutte con declinazione nazionale (ufficialmente sul sito del partito ne vengono riportare solo nove). Undici quelle di Forza Nuova. E cinque quelle di LA, di cui una, Bran.co, con quattro dipartimenti e quattro diversi progetti. Calcolando il numero di pagine Facebook di CasaPound Italia e Forza Nuova diviso il numero di province italiane si ha una presenza media di 7-8 realtà di CPI per ogni provincia (per realtà si intendono semplici sezioni dirette di CPI e associazionismo vario). Mentre per FN circa 6 realtà per provincia. Si può stimare dunque che l’estremismo di destra riesca a produrre 15 «presìdi» (fra sezioni locali e associazioni collegate) per ogni provincia italiana. Moltiplicato per le 92 province108 del nostro Paese fanno qualcosa come 1380 sedi, enti o onlus neofasciste: una ogni 43mila abitanti. Anche questa è l’Italia di oggi. Radio e giornale, la voce «sovranista» di CasaPound CasaPound Italia è il modello «sociale» e «associativo» per eccellenza. Parliamo di un partito (era un centro sociale) che si rifà alla legislazione sociale del fascismo e al Manifesto di Verona costitutivo della Repubblica di Salò. Centodieci sedi in tutta Italia, 20mila iscritti e un’organizzazione a doppia velocità. E forse la tartaruga frecciata, simbolo del partito, è la migliore metafora

del suo essere. Robusta nella sua ossatura quasi militare, come il carapace. Ma orizzontale e «allargata» nell’insediamento sul territorio, come le zampe del rettile che fuoriescono dal guscio e lo fanno muovere. CPI è il perno di una campagna politica e culturale con la quale i «fascisti del terzo millennio» in questi quindici anni si sono trasformati: da antagonisti da destra dei centri sociali di sinistra, a modello partitico tradizionale. Sfruttando abilmente la comunicazione e i propri legami politici ed economici CPI ha dato vita a una vasta rete di organizzazioni impegnate su diversi temi. Elencarli tutti sarebbe molto complicato. Alcuni progetti hanno vita breve. Altri sono stati assorbiti dentro articolazioni più compiute. Altri ancora hanno avuto e continuano ad avere successo. In alcuni casi anche grazie all’adesione di personaggi famosi. Il primo è stato Pietro Taricone, lanciato dalla prima edizione del Grande Fratello. Taricone era persona per bene, di un’umanità riconosciuta e apprezzata da molti. Dieci anni fa il suo grado di popolarità è ai massimi livelli. È proprio nel 2008, durante un’edizione del reality, che conosce CPI. I camerati assaltano la casa del GF «al grido di “la casa non è un gioco”. Un’azione organizzata per rivendicare il diritto alla casa, quella vera.»109Taricone rimane affascinato da alcune politiche sociali di CasaPound e da lì inizia il suo avvicinamento alle tartarughe nere. Fino alla fondazione del gruppo di paracadutismo sportivo chiamato «Istinto Rapace». L’attore morirà durante un lancio con paracadute proprio in compagnia dei membri dell’organizzazione. Lo sport è uno dei temi sui quali CPI, e in generale tutta l’estrema destra, punta di più. Tra i gruppi casapoundini più attivi ci sono realtà che si dedicano a diverse discipline sportive e all’escursionismo: Il Circuito-Circolo Combattenti CasaPound, Scuderie 7 punto 1, La Muvra, il già citato Istinto Rapace e decine di palestre sparse un po’ ovunque in Italia. Si praticano soprattutto arti marziali e pugilato, quasi un must per il militante neofascista. Dallo sport al sociale, inteso in senso assistenziale, il passo è breve. Salda sulle sue zampe la tartaruga copre gli ambiti cruciali in cui si articola la vita nelle città. Ogni «settore» è «presidiato» da una associazione legata a CPI. Si va dal mondo giovanile e studentesco (con il Blocco Studentesco), al lavoro (con il sindacato BLU). E poi l’ecologia (La foresta che avanza), la solidarietà (La Salamandra, Sol.Id), la salute e sicurezza (Impavidi destini, Braccia Tese, Grimes) e la moda (con il marchio Pivert). A questi si aggiunge una vasta rete commerciale costituita da pub, ristoranti e librerie, che servono per l’autofinanziamento, il tempo libero e la diffusione di prodotti editoriali e propagandistici. Il risultato di questa articolazione metapolitica è una realtà dalle

mille sfaccettature. Una galassia di associazioni nella quale la militanza totale nella vita del partito si traduce in volontariato sociale. Le tartarughe sono rettili che crescono con lentezza e raggiungono la maturità solo dopo i 10 anni. Calcolando che CasaPound nasce nel 2003, i tempi tornano. L’ascesa dell’ex centro sociale nel mondo del neofascismo italiano è stata favorita da un’attenta strategia comunicativa. È uno degli aspetti che Iannone e soci hanno curato con maggiore attenzione. A partire proprio dal rapporto con la carta stampata e gli altri media mainstream (come la televisione, ad esempio) che le tartarughe frecciate ritengono asserviti al potere di turno. Per questo i «fascisti del terzo millennio» hanno messo in piedi una rete alternativa a quella ufficiale per diffondere «correttamente» il loro pensiero. Rete che oggi ruota attorno a due realtà: «Il Primato Nazionale» e Radio Bandiera Nera. Nell’epoca in cui la stampa tradizionale sceglie la strada del digitale, CPI fa approdare in alcune edicole la versione cartacea del suo organo di informazione ufficiale, «Il Primato Nazionale», che richiama nel nome il più famoso «Primato», la rivista fondata (e diretta) da Giuseppe Bottai dal 1940 al 1943. La rivista si definisce Mensile sovranista. Tratta la politica interna, gli esteri, la cultura e lo sport. Può anche contare su firme conosciute del giornalismo italiano, come quella di Paolo Bargiggia, volto noto di Mediaset, che ha una rubrica sportiva chiamata «Il Martedì di Bargiggia». Direttore responsabile è Adriano Scianca, collaborazioni con alcuni quotidiani nazionali tra i quali «Libero» e «il Foglio». La società editrice del giornale è la Sca 2080, capitale sociale di 100mila euro. Gestisce anche il sito web MMA Europa, rivolto agli amanti delle arti marziali miste. La prima tiratura del «Primato Nazionale» è stata di 20mila copie e la copertina sparava a tutta pagina la foto del deputato Pd Emanuele Fiano con il titolo Il talebano. L’altro strumento di comunicazione di CPI è Radio Bandiera Nera, nata nel 2007. È una web radio e si occupa della diffusione in podcast delle iniziative di CPI. È possibile, ad esempio, ascoltare i dibattiti che nel 2017 hanno visto protagonisti Simone di Stefano di CPI accanto ad alcuni autorevoli giornalisti televisivi come Enrico Mentana e Corrado Formigli. Ma la radio ha anche una strategia comunicativa sinergica fra l’etere e la strada. Nel febbraio 2017, mentre RBN organizzava un’intera giornata di approfondimenti sulla tragedia delle foibe, titolo Io non scordo, CasaPound Italia sfilava a Roma per le strade del quartiere Giuliano Dalmata, al Laurentino, per ricordare i 20mila italiani massacrati dai partigiani titini tra il 1943 e il 1947 e i 300mila esuli istriani e giuliano-dalmati costretti dai comunisti a lasciare la loro terra. L’iniziativa si è spostata anche sui

social. Per tre giorni, dal 10 al 12 febbraio, su invito della radio nera a tutte le comunità di CasaPound, migliaia di utenti dei social media hanno reso omaggio ai martiri delle foibe listando a lutto i propri profili e osservando un’ora di silenzio. Ovviamente c’è anche la musica. Accanto alla propaganda politica e agli approfondimenti su temi di attualità, la radio delle tartarughe frecciate trasmette anche playlist di gruppi musicali di estrema destra legati al circuito di CPI. Studenti ed ecologisti: un attivismo machista Si chiama Blocco Studentesco. È l’organizzazione giovanile casapoundina cresciuta nelle scuole e nelle università. In questi anni è stata protagonista di numerose manifestazioni e iniziative «culturali». Un’attività capillare sul territorio, iniziata a Roma e nel centro Italia e poi diffusasi anche nel Nord e al Sud. Le battaglie portate avanti sono praticamente le stesse per cui per anni si sono battuti i Collettivi di sinistra che però, nell’ultimo periodo, hanno visto ridursi la propria presenza nelle scuole e nelle università. Lotta al caro libri. Affitti calmierati per gli studenti fuori sede. Spazi e strutture gratuite. La possibilità di incidere nelle scelte e nell’organizzazione interna di licei e facoltà. Il tutto condito con una marcata propaganda politica neofascista, tra retorica militante, toni solenni e arditismo giovanile. Il responsabile del movimento è Davide Di Stefano, fratello minore di Simone che è il segretario nazionale di CasaPound. Di Stefano jr usa toni trionfalistici per magnificare l’avanzata del Blocco. Parla di «battaglie intraprese nel corso dell’anno sempre al fianco degli studenti contro ogni sopruso che provenisse da ministri o da docenti e direttori degli istituti… Ci rivedranno protagonisti in futuro, fino alla vittoria.»110Il commento si riferisce al boom di preferenze arrivato nel 2017: più di 56mila nei licei e negli istituti superiori di tutta Italia. Oltre 200 tra rappresentanti d’istituto e alle consulte provinciali. La corsa del Blocco è iniziata nel 2006: oggi è presente in una cinquantina di città e si presenta da anni alle elezioni per le rappresentanze degli studenti. È stato legittimato, di fatto, come soggetto politico. I giovani di CPI hanno esteso la loro rete in modo massiccio anche nelle università. E sono proprio gli atenei che, per quanto riguarda il milieu di CasaPound, hanno rappresentato una fucina di voti per le elezioni regionali e nazionali del 4 marzo 2018. Un lento ma inesorabile sviluppo, insomma. Contrassegnato anche dalla violenza, comune denominatore della politica di CPI.

Sono numerosi gli episodi di cronaca che hanno visti protagonisti in questi anni gli studenti del movimento. Scontri con studenti di sinistra, pestaggi, raid organizzati. Indelebili le immagini di quello che fu l’esordio mediatico del Blocco sulla scena nazionale. Gli incidenti del 2008 a Piazza Navona. Gruppi di studenti di sinistra e di destra si affrontarono con violenza durante le manifestazioni contro il decreto Gelmini: scontri a colpi di mazze e bottiglie, caschi in testa, pietre. Fu l’entrata in scena che portò alla ribalta nazionale l’organizzazione giovanile di CPI. Ma la violenza non è fine a se stessa. Punta alla ricerca del ritorno mediatico. Nella strategia comunicativa di CPI a ogni azione segue una rivendicazione ossessiva sui social. Spesso la violenza è nascosta dietro parate ordinate o «spettacolari» come quella inscenata nel 2013 a Roma. I militanti indossano maschere tricolori e un nodo da forca attorno al collo. Simboleggia il cappio europeo che strozza gli italiani e le morti per suicidio di chi è stato colpito dalla crisi. Si presentano davanti alla sede della rappresentanza della UE in Italia e tentano di sostituire la bandiera europea con quella italiana.111 «Anche quando non sfociano nella violenza, praticata o solo esibita, le azioni dei gruppi legati a CPI sono caratterizzate dal tentativo mediatico promozionale di costruire attorno a queste associazioni un’aura allo stesso tempo pacifica ma anche di attivismo e arditismo machista», ragiona Federico Chiaricati, dell’Anpi di Bologna. Un esempio recente è la decisione de «La Salamandra» – il nucleo di protezione civile di CPI – e dei camerati ecologisti di «La foresta che avanza» di ricreare la gigantesca scritta Dux sulla vetta del Monte Giano (a Rieti), realizzata con gli alberi nel 1939 e semidistrutta da un incendio nell’estate del 2017.112Un’operazione che ha coinvolto 200 volontari per più di mille pini piantumati. Anche questa è forza esibita sul territorio. Propaganda sociale da rivendere. Un esempio di marketing politico. La pastiglia salutare dell’ecologia e dell’ambiente. Ma dietro c’è il ripristino di una delle opere più celebri del Ventennio. La conservazione del patrimonio storico e simbolico del fascismo. Passato e presente si fondono nel trasformismo della testuggine. Cambia la pelle, ma il guscio resta lo stesso. Il picchio sulla polo Quando il picchio si è posato sulla tartaruga CasaPound era alleata con la Lega.

Tutto in quel periodo sembrava frutto di uno scherzo. L’effetto impazzito di qualcosa che apparentemente poteva benissimo sembrare casuale. Invece no. Era tutto studiato, pianificato, voluto. Anche in una delle dimensioni del vivere sociale più frivola, meno muscolare e lontana dal vecchio immaginario fascista – la moda – CasaPound ha espresso una delle organizzazioni collaterali più interessanti e meno conosciute della sua galassia. Si chiama Pivert. È una vera costola commerciale e un formidabile veicolo promozionale per i fascisti di via Napoleone III. Due inchieste, de «Il Fatto Quotidiano» e di Indymedia Germania (pubblicata poi su Osservatorio Repressione) nel 2016, hanno rivelato i legami tra Pivert e CasaPound. A differenza di altri marchi come Ansgar Arian, Thor Steinar, Runa, Hard Wolf, espressione del mondo nazi-germanico-pagano, Pivert non ha nessun riferimento diretto o esplicito all’iconografia fascista. L’aspetto innovativo sta proprio qui. Rispetto a un altro centro di produzione di abbigliamento per l’estrema destra – Ferlandia, che guarda caso si trova a Predappio – Pivert non vende gadget nostalgici. Niente camicie nere con aquile, niente cuffie con motti del regime o di Mussolini, zero tricolori o stemmi rievocativi. Roba passata. Chi ha pensato il brand ha voluto scollegarlo da qualsiasi possibile rimando esibito al Ventennio o da simbologie neonazi. Pivert è diventato il marchio di riferimento del casual dell’ultradestra. Il logo è una piccola P con un picchio stilizzato. Sembra vagamente strizzare l’occhio al più noto e modaiolo marchio di Ralph Lauren, il cavallino con sopra il giocatore di polo. In effetti nella recente storia di Pivert c’è uno studio. Che fa capire la capacità penetrativa di CasaPound nell’universo giovanile. Tutto comincia ai primi di novembre 2014. Nel quartiere romano dell’EUR vengono affissi manifesti contenenti dei motivi con un piccione e la domanda di un Semidio. Subito dopo i sostenitori inaugurano una pagina Facebook, postano diverse foto dell’affissione e piccoli filmati su YouTube. Mescolando strategie pubblicitarie standard e metodi del marketing-guerriglia danno visibilità al prodotto. «Il piccione, ovvero i piccioni, a quanto pare dovrebbero rappresentare gli uomini comuni, da cui dovrebbe distinguersi il Semidio. Alla fine di Gennaio 2015 venne presentato il picchio verde come il Semidio, il Pivert.»113 Da quel momento inizia la prima collezione. È la Semidio, a cui segue Fighter sempre nel 2015, Martialis e Victores nel 2016, e Radices all’inizio del 2017. Protagonisti di campagne pubblicitarie per sconti e collezioni sono spesso ragazzi ritratti davanti al Vittoriale o all’Altare della Patria, ma non solo. La visione dell’Uomo Pivert è spiegata attorno a una descrizione/manifesto sul sito,

dove campeggia il primo piano di un giovane in felpa con sullo sfondo le statue del Foro Italico: Non è un uomo elitario. Non si ritira nei piani alti di un grattacielo per osservare dall’alto verso il basso. L’uomo Pivert si sporca le mani ma non sopporta la massa, gli standard, le cose di tutti e per tutti. Apprezza la buona compagnia dei pochi, l’arte, il design, il cibo, la bellezza, le discipline sportive. Combatte, sul ring o sulla vita, non ha differenza. Lui combatte: per le proprie idee, per realizzare i suoi sogni, per opporsi a ciò che non gli sta bene.114 I rimandi non sono ai gerarchi fascisti o ai balilla. Nemmeno al trucidismo dei naziskin. La figura di riferimento, che si vuole rievocare, è quella dell’eroe epico. Un «eroe» che non si confonde nella massa ma che «accetta» di viverci dentro in modo diverso. In modo «non conforme», secondo il vecchio mantra di CPI. È una delle sostanziali diversità di azione di CPI rispetto al neofascismo di FN o di altre formazioni nere. Quasi una visione, da destra, del motto «dentro e contro la metropoli» un tempo tipico della sinistra. Il messaggio indirizzato al giovane che acquista una felpa, un giubbino o un cappello con questo marchio è: sei un piccolo eroe metropolitano, fai parte di una comunità che si identifica coi suoi simboli e nei suoi valori. La fedeltà alla patria, all’Italia e al suo popolo, alla famiglia (CPI ha un carattere laico, a differenza dell’ultracattolica Forza Nuova). Una comunità nera di fratelli solidali tra di loro. La risposta dall’estrema destra a una società sfilacciata, disordinata, dove domina il meticciato che rischia di far perdere ai popoli la loro identità. C’è un particolare che non può passare inosservato. Il numero di telefono di Pivert è lo stesso de «Il Primato Nazionale» (sulla cui pagina web sono presenti tre banner pubblicitari di Pivert). Marchio di abbigliamento e periodico condividono anche la stessa sede, via Pantaleoni 33, a Roma. Pianeti paralleli. Stessa galassia. Un travaso di impegno politico e commerciale. Vediamo allora chi è il titolare di Pivert. Si chiama Francesco Polacchi. Nel 2008, all’epoca degli scontri in Piazza Navona, era responsabile nazionale del Blocco Studentesco. Per quegli incidenti il giovane imprenditore nel 2017 è stato condannato a un anno e quattro mesi.115Ora risulta indagato (dalla Procura di Milano) anche per un’altra vicenda: il blitz dei militanti di CasaPound Italia del 29 giugno 2017 nell’aula del consiglio comunale di Milano per protestare contro

il sindaco Giuseppe Sala. Polacchi – secondo i magistrati che hanno chiuso le indagini – avrebbe aggredito «con calci e pugni» due persone intervenute a difesa di una terza insultata con «frasi razziste». Ma torniamo alla rete di vendita di Pivert. Può contare su numerosi negozi ufficiali in Italia (Milano, Cernusco sul Naviglio, Brescia, Torino, Pescara) e rivenditori sia in Italia che all’estero (Sant’Egidio alla Vibrata, Campagnano di Roma, Albano Laziale, Velletri, Viterbo, Padova, Busto Arsizio, Lione, Madrid e Copenaghen). Ci sono anche volti noti che si sono prestati a fare pubblicità. Magari involontariamente. O magari no, visto che nell’era dei social nulla è casuale. E i personaggi pubblici sono attentissimi al social marketing. È il caso dei calciatori Andrea Petagna e Bryan Cristante, giocatori dell’Atalanta. T-shirt, cappellino nero calcato in testa, in un post di Pivert del 26 ottobre 2017 – stagione d’oro per la squadra bergamasca tra campionato di serie A ed Europa League – posano sorridenti all’inaugurazione di un negozio del marchio mostrando due buste con il logo preferito dai giovani militanti neofascisti. Il picchio e il nome del brand. Chissà se Petagna e Cristante erano a conoscenza della caratterizzazione politica di Pivert. O se si sono trovati per caso all’evento, ignorando la storia dell’azienda e la sua connotazione e il profilo del titolare Francesco Polacchi. In entrambi i casi, una cosa è certa. Questa innocua fotografia è la dimostrazione che la capacità mimetica e affaristica di CasaPound si serve di ogni sponda. E il calcio, come si sa, è una delle migliori. Forza Nuova, ovvero l’infingimento più rozzo Gemelli diversi. Anzi, cugini di secondo grado. Come un parente lontano che si porta i suoi anni, appesantito e costretto ormai a inseguire, anche Forza Nuova ha delle articolazioni «parallele» al partito. Ma con una rete di associazioni decisamente meno ramificata rispetto a CasaPound. Con numeri sensibilmente inferiori. Ha un’organizzazione studentesca (Lotta Studentesca), altre che si occupano di salute e disabilità (Dipartimento disabilità), ecologia (Avamposto Verde), abbigliamento (forzanovista.org), temi femminili (Associazione Evita Perón) e religiosi (Christus Rex). In concorrenza con CasaPound, Forza Nuova si inserisce nelle periferie e organizza comitati di quartiere e di «cittadini» indignati che spesso figurano in trasmissioni televisive (emblematiche sono le apparizioni in vari programmi d’attualità di Rete 4, tutte indirizzate all’odio nei confronti degli extracomunitari o migranti in generale). Oppure formano ronde

per controllare il territorio. Quelle di FN si chiamano «passeggiate per la sicurezza». Sono organizzate in molte città e a promuoverle sono spesso associazioni declinate con nomi locali. «Bologna ai bolognesi», «Brescia ai bresciani», «Verona ai veronesi». Di fatto fungono da serbatoi di raccolta voti per la «casa madre». La stessa cosa, sempre in tema sicurezza nelle strade, fa CasaPound usando l’imperativo «Riprendiamoci», affiancato al nome della città in questione. Anche Forza Nuova ha una struttura dedicata all’informazione, con l’emittente Radio FN e la rivista «Ordine Futuro». E poi un sottobosco di sigle minori che affiancano e portano acqua a quelle di respiro più nazionale. Ogni realtà territoriale sviluppa progetti specifici, con caratteristiche proprie. E collabora poi con le altre. Prendiamo «Ordine Futuro». È un’associazione e anche la rivista ufficiale dei forzanovisti. Ha ramificazioni sparse su tutto il territorio nazionale e opera anche con realtà locali in cui non è presente. Come in Emilia, dove ha organizzato eventi con la bolognese «Virtute e Canoscenza». «Ordine Futuro» si presenta ufficialmente come un «Laboratorio di Cultura e Politica»,116promuove convegni, presentazioni di libri su svariati temi, come le violenze partigiane (per le quali è stato organizzato un vero e proprio ciclo di presentazioni del volume I Grandi Killer della Liberazione, da Monza a Grosseto a Rimini) e il fantomatico «piano Kalergi». E poi incontri contro l’aborto, sulla massoneria e sul cattolicesimo ultra-tradizionalista. Per capire di che pasta sono fatte le pubblicazioni di «Ordine Futuro» si può ricordare un pezzo a firma Irma Trombetta Marzuoli del gennaio 2017. L’autrice arriva addirittura a incitare alla violenza fisica contro il circolo gay Mario Mieli, rivelando una retorica omofoba ben più «schietta» rispetto agli organi di stampa di CasaPound. Ecco il testo dell’articolo: Il circolo Mario Mieli vuole diventare ente di formazione. Mario Mieli è il teorizzatore italiano della pedofilia, un coprofago morto suicida che non dimenticava di incoraggiare l’incesto, possibilmente omosessuale. I gay italiani, senza batter ciglio, con l’arroganza degli intoccabili, gli dedicano i loro circoli. Io ritengo che sempre, se non altro perché siamo i figli di Roma e di Atene, si debba far posto, in primis, al pensiero. È dal pensiero che nascono le argomentazioni. Con le giuste argomentazioni, si può e si deve parlare con tutti. Anche con i circoli Mario Mieli è necessario discutere…

Sembra concedere la Marzuoli, per svelare poi le sue vere carte con un tono e parole che ricordano drammaticamente gli articoli del Ventennio. «Anche a loro è giusto indicare la via che hanno perso. Se non lo facessimo, mancheremmo gravemente come cristiani, come uomini di Tradizione, come alfieri di un’idea imperitura. Capita però che, malgrado ogni sforzo, non si riesca ad esser convincenti, ed allora credo, ma è un’idea tutta personale, che anche un manganello possa indicare la strada!» «Certificato di antifascismo» Il 17 dicembre 2017 Ordine Futuro organizza la presentazione di un libro a Brescia. Con la solita tecnica dell’infingimento, i forzanovisti riescono a ottenere dall’amministrazione cittadina (di centrosinistra) una sala comunale nel quartiere di Mompiano. Il dibattito è sul libro Manifesto occidentale di Manuel Sisti. Il volume è descritto come un «percorso di rinascita europea» per spiegare «il tentativo, dotto e articolato, di mostrare la reale essenza di sintesi del pensiero umano dominato dal primato dell’essere sul divenire, sintesi compiuta dal sacrificio protratto nel tempo.» A frittata ormai fatta, dopo le proteste di associazioni antifasciste, Anpi, Cgil e Fiamme verdi (ex partigiani di area cattolica), la giunta comunale corre ai ripari e approva una delibera con la quale – sul modello di quanto già fatto in altre decine di Comuni – si obbliga chi chiede spazi comunali e patrocini a sottoscrivere un «certificato di antifascismo». Come funziona? È una dichiarazione nella quale il partito, l’associazione politica o la onlus deve sottoscrivere di «riconoscersi nei principi antifascisti della Costituzione» e di essere estranea a «fascismo, razzismo, xenofobia, antisemitismo e omofobia.» CasaPound a Brescia fa ricorso al Tar sostenendo che la delibera dell’amministrazione lede la «libertà di opinione» e l’«espressione del pensiero.» Un affondo dettato anche da esigenze elettorali (a Brescia i «fascisti del terzo millennio» hanno presentato una lista per le elezioni 2018). Ma i giudici danno ragione al Comune: la decisione è «legittima» e «in linea con i principi democratici costituzionali.» Nella città della strage nera di piazza della Loggia – 28 maggio 1974, 8 morti, 102 feriti – si crea un precedente: per la prima volta negli ultimi anni un tribunale stabilisce che è giusto vietare le piazze ai nuovi fascisti. È questa la via percorsa oggi da molte città per cercare di fermare l’avanzata dell’«onda nera». Negare spazi e agibilità politica ai partiti dell’ultradestra

xenofoba e nostalgica. Il cosiddetto «modello Pontedera», che è stato uno dei primi Comuni ad approvare la delibera che stoppa la strada alle recrudescenze neo-nazifasciste.117Una strada già seguita da Pavia, Cesena, Siena, Torino, Milano, Genova, Bologna, Prato, Pisa, Siena, Pistoia, Massa Carrara, Marzabotto e altre decine di Comuni. A Genova, centrosinistra e centrodestra hanno raggiunto l’accordo grazie a un’integrazione: ai movimenti neofascisti sono state aggiunte anche le associazioni «con finalità di terrorismo, sovversive, violente e integraliste.» La delibera che prevede il certificato antifascista come conditio sine qua non per la concessione di spazi e patrocini pubblici è un passo importante. Il primo che le istituzioni, in questo caso locali, hanno messo in atto recentemente per contrastare il ritorno del fascismo. È un parziale rimedio, forse tardivo, alla colpevole sottovalutazione e minimizzazione del fenomeno dimostrata in questi ultimi anni. A forza di considerarlo marginale, innocuo, arginabile, il neofascismo è cresciuto progressivamente. Prima sul web e poi nelle piazze, e ormai ne ritroviamo le sue manifestazioni pubbliche e politiche dai mercati ai circoli culturali, nei rioni delle periferie come nei centri e nei quartieri residenziali. Il messaggio che passa è che dirsi «fascisti» non è più un tabù. Lo sanno bene i cittadini di Sermide e Felonica, settemila abitanti in provincia di Mantova. La vicenda è quella del Movimento dei Fasci italiani del lavoro, la lista con un fascio littorio nel simbolo che alle elezioni amministrative di giugno 2017 ha preso oltre il 10% dei voti e ha eletto la giovane consigliera comunale Fiamma Negrini, 20 anni, studentessa. Il fondatore nonché anima dei «Fasci» è suo padre, Claudio Negrini, acceso tifoso milanista e orgogliosamente nostalgico del Ventennio mussoliniano. Padre e figlia Negrini sono indagati (è stato chiesto il rinvio a giudizio) assieme ad altri sette tra dirigenti e iscritti del movimento per tentata ricostituzione del Partito fascista. Quando la scorsa estate portai alla luce la storia di Mantova – mi sembrava incredibile che una lista con un fascio littorio nel simbolo potesse essere ammessa alle elezioni – il caso arrivò in Parlamento grazie ad alcune interrogazioni e grazie alla lettera che Laura Boldrini, allora presidente della Camera, scrisse al ministro dell’Interno Marco Minniti. Nella missiva si chiedeva al Viminale di intervenire: dopo l’esito elettorale, il prefetto di Mantova, con provvedimento d’urgenza e su input di Minniti, revocò le designazioni dei funzionari della sottocommissione elettorale responsabile del comune di Sermide e Felonica. In sostanza si inputava loro il mancato controllo sulle liste ammesse alle elezioni: ma intanto scoprii che i Fasci italiani del lavoro si presentavano al voto addirittura dal 2002 (senza essere

mai riusciti a entrare in consiglio comunale). E nessuno aveva mai battuto ciglio. E dunque: nell’indifferenza e nella distrazione generale, un movimento dichiaratamente fascista, nella denominazione e nel simbolo, correva alle elezioni da quindici anni. è un’altra storia esemplare che racconta la permeabilità italiana ai ritorni fascistoidi. La punta di questo iceberg è la tracimazione orgogliosa dei nostalgici, quella che abbiamo visto nei cortei, nelle parate, nelle ronde e nelle azioni squadriste. È il passaggio dalla propaganda all’azione. Una deriva pericolosa effetto anche del lungo silenzio nel quale la politica, anche di centrosinistra, troppe volte in questi anni si è rifugiata come in un caldo cantuccio. Per negligenza o per comodità. A volte anche per opportunità. È lungo l’elenco di politici, amministratori, vertici delle istituzioni democratiche che si sono girati dall’altra parte mentre le formazioni neofasciste rialzavano la testa con manifestazioni e provocazioni. Salvo poi svegliarsi con timidi sussulti e dichiarazioni ritardatarie e obbligate, visti i fatti accaduti. Questo impoverimento progressivo della politica italiana e occidentale, da un lato ha favorito la recente crescita in tutta Europa dei partiti dell’ultradestra che oggi raccolgono sempre più consensi, dal «blocco dell’Est» (Ungheria, Polonia, Slovacchia, Repubblica Ceca,) al cuore dell’Europa, Francia, Germania, Austria. Dall’altro ha creato un «buco» che ora tocca riparare. Nell’agenda della politica italiana il tema del ritorno del fascismo è entrato solo recentemente. Eppure è da anni che FN, CPI e le altre formazioni nere sono al lavoro sul territorio. Soffiano sulla paura dell’immigrazione e sui mutamenti sociali. Semplificando la dicotomia economica Europa vs. Italia sono riuscite a raccogliere consensi assieme agli altri imprenditori della paura. «Chi non è antifascista non è degno di far parte della comunità democratica», ha detto il segretario del Pd, Matteo Renzi, il 5 febbraio 2018 a Sant’Anna di Stazzema commemorando le 560 vittime civili trucidate dai nazifascisti nell’agosto 1944. Parole certamente condivisibili. Ma pronunciate con clamoroso ritardo sui tempi. E lo stesso ex premier rottamatore solo pochi mesi prima, a dicembre 2017 sul palco della Leopolda aveva invitato come testimone della violenza sulle donne l’ex naziskin Luigi Celeste. Qual è il messaggio che passa? Soprattutto dopo il lungo 2017 durante il quale i movimenti di destra radicale hanno continuato ad alzare l’asticella della loro propaganda e delle loro iniziative razziste, nostalgiche e xenofobe? Non è pericolosa l’altalena delle dichiarazioni dettata dall’emotività della cronaca? Se da Sant’Anna di Stazzema si era levata una dura condanna del fascismo, nei giorni successivi all’attacco xenofobo di Macerata il monito di Renzi è stato di «abbassare i toni». Non è un po’ poco per il segretario

del Partito democratico di fronte alla follia sì di un singolo, ma infettato dall’ideologia nazifascista? È più importante stemperare le polemiche sugli immigrati e la politica o registrare che quell’atto criminale è la punta di un iceberg mosso dalla corrente rimontante dell’ideologia fascista? La sua dichiarazione post Macerata aveva fatto il paio con quella di Luigi Di Maio: anche lui, anziché condannare fermamente senza se e senza ma il vile attacco neofascista dell’attentatore, aveva invitato alla «calma» e a «non esagerare». Da cosa dipende questa ritrosia della politica e della stessa stampa a parlare apertamente di fascismo e a condannarlo? Forse ha ragione Roberto Saviano, quando sul «Guardian», l’11 febbraio 2018, ha scritto che i partiti sia di destra che di sinistra minimizzano perché «Hanno paura di alienarsi un elettorato sempre più xenofobo.» E ha ancor più ragione nel titolare – in quei giorni dopo Macerata – che «il fascismo è tornato in Italia è sta paralizzando il sistema politico.»118 I lupi son tornati Dopo i terremoti nel centro Italia sono stati tra i primi volontari ad arrivare sul posto. Prima ancora della Protezione civile. Squadre organizzate con attrezzi e pronte a ruotare con una turnazione mutuata dai gruppi di primo soccorso. Giovani militanti, con braccia forgiate da ore di palestra e la testa rasata sotto i caschi. Lì a spalare, e la stessa cosa hanno fatto quando ci sono state le alluvioni a Genova e a Modena. E poi i concerti, certo. Anche quelli servono per finanziare progetti di solidarietà. Ma anche per il sostegno ai familiari degli skinhead finiti in carcere. Come toccò ai loro capi, condannati per pestaggi e accoltellamenti di cui abbiamo già parlato. Sono alcune delle attività «sociali» di Lealtà Azione. La più giovane e organizzata tra le formazioni neofasciste della galassia nera. Non sono un partito (non ancora). Non ne hanno la struttura e forse non vogliono averla. Come i lupi sono tornati a ripopolare le nostre montagne e le nostre campagne, così loro, i «lupi» di Lealtà Azione – il lupo è il loro simbolo – stanno in strada. Ronde nei quartieri a rischio, pattugliamenti nei parchi dello spaccio e del degrado, iniziative culturali, dibattiti, spettacoli di beneficienza. Un attivismo movimentista che ricorda quello di CasaPound – che ora indossa però anche l’abito più istituzionale e politico – di cui non a caso LA è alternativamente alleata e anche competitor. Chi sono davvero i lealisti? Da dove vengono e dove puntano? Perché, sotto

l’aspetto dell’associazionismo, ambiscono a diventare una realtà politica uguale e diversa da CPI? Tutto comincia alla Skinhouse di Bollate. È il covo nero frequentato anche da Luigi Celeste, il naziskin della Leopolda. Poi arriva il circolo Cuore Nero,119vicino al Cimitero Maggiore, sempre a Milano. Il circolo nasce nel 2007, è sostenuto politicamente anche da esponenti di An e ha avuto tra i suoi finanziatori l´ex terrorista dei Nar Lino Guaglianone. La prima sede di Cuore nero in via Certosa viene distrutta da un incendio: nel 2008 nuova apertura in via Pareto, nello stesso stabile che ha ospitato Il Sogno di Rohan, negozio di oggettistica nazi dell’hammerskin Alessandro Todisco. L’embrione di Lealtà Azione, che nasce ufficialmente nel 2011, è lì. In quei locali di proprietà della società Milasl costituita da Guaglianone (che ne resta amministratore fino al 2010) e di proprietà del costruttore calabrese Michelangelo Tibaldi, vicino al clan De Stefano. Nel 2014 Lealtà Azione apre la sua sede negli spazi di via Pareto. In pochi anni diventa il movimento più numeroso della galassia nera della Lombardia. L’elemento distintivo di LA – e forse anche il più inquietante – è la sua matrice «ideologica». Abbiamo già visto che discendono dalla realtà americana Hammerskin Nation. Un pianeta costruito sui pilastri della violenza e dell’odio razziale, come racconta con grande efficacia Guido Caldiron. Apparso inizialmente negli Stati del profondo Sud a metà degli anni Ottanta (prima nei dintorni di Dallas in Texas e poi via via in Georgia, Tennessee e Florida), con il nome di Confederate Hammerskins – in riferimento all’esercito confederato, che durante la Guerra di secessione americana aveva difeso lo schiavismo e la supremazia dei bianchi sui neri – un nuovo circuito di teste rasate razziste si stava organizzando. Dapprima riunendo gruppi diversi sparsi per l’intero territorio degli Stati Uniti, e poi dandosi dal 1989 il nome di Hammerskin Nation, un movimento totalmente americano si candidava a rivoluzionare la scena degli skin di estrema destra. Organizzati come una street gang – tatuaggi sul volto compresi – presenti nelle città come nelle prigioni, spesso anche negli istituti correzionali giovanili e strutturati in piccole cellule autonome, in grado di agire da sole, secondo il modello della Leaderless Resistance, gli Hammerskin non sembrano puntare tanto all’allargamento del loro movimento, quanto piuttosto a mantenerne la radicalità e la violenza. Dichiaratamente neonazisti, hanno preso il loro simbolo dai

«martelli che camminano» del film The Wall, tratto nel 1992 dal regista Alan Parker, dall’omonimo album dei Pink Floyd. Solo che in quella storia, «il doppio martello» in marcia rappresenta il totalitarismo, e forse lo stesso fascismo, che monta nella società, mentre invece per gli Hammer – rovesciando completamente il punto di vista del celebre gruppo rock e di Parker – si trasforma in uno straordinario strumento di battaglia: in grado di abbattere i muri che proteggono gli immigrati, gli ebrei e le minoranze.120 Per entrare a far parte del «gruppo» la selezione e le prove sono durissime. Ecco quali sono i requisiti richiesti all’aspirante Hammerskin. Il candidato deve già essere skinhead, deve essere presentato da un membro del gruppo (lo «sponsor»), deve sottoporsi a un esame-intervista da parte di tutta la «fazione”» (composta da almeno sei membri), che al termine lo allontana e vota; se all’unanimità il gruppo dice si, allora il candidato diventa «prospect». Inizia un periodo di prova di almeno dodici settimane in cui deve dimostrare la sua fedeltà, il suo valore, il suo coraggio. Le prove consistono in pestaggi di immigrati e lotte con i coltelli contro cani da combattimento. Al termine, un’altra votazione stabilisce se il «prospect» è accettato nel gruppo; se sì, allora riceve «i colori», ossia le toppe con i martelli in marcia: da quel momento è un Hammerskin.121 In breve tempo gli Hammerskin aprono «chapters» anche in Europa e Oceania. All’inizio degli anni Duemila contano già 10 sezioni fuori dagli Stati Uniti (Regno Unito, Francia, Olanda, Canada, Spagna, Svizzera, Nuova Zelanda, Australia e ben due in Germania). Ma per ripercorrerne la storia bisogna andare alla fine degli anni Ottanta. Gli Hammerskin iniziano a macchiarsi di decine di crimini (si calcola che tra il 1987 e il 1996 ben 41 omicidi sono attribuibili al mondo naziskin americano).122 L’ultimo episodio, che ha fatto il giro del mondo, si è consumato il 5 agosto 2012, quando Wade Michael Page, un veterano quarantenne dell’esercito americano, originario del Colorado, dopo essere entrato in un tempio Sikh, nel sobborgo di Oak Creek, vicino a Milwaukee, in

Winsconsin, sparò all’impazzata con una pistola semiautomatica calibro 9 provocando sei morti. Nella fuga, un agente di polizia, dopo un conflitto a fuoco, riuscì a colpirlo mortalmente. Page non solo era il leader di una banda nazi rock fondata nel 2005 (End apathy) e aveva fatto parte della scena musicale White power, era anche esplicitamente collegato al circuito Hammerskin, tramite un’altra formazione musicale per cui si esibiva, i Definite hate. Sulla copertina di un loro album, Victory Violent era graficamente visibile un pugno scarnificato con il tatuaggio HFFH (Hammerskin forever, forever Hammerskin – Hammerskin sempre, per sempre Hammerskin), immortalato mentre colpiva al volto un nero.123 In Italia la pasta che a fine anni Novanta fa lievitare gli Hammerskin ha due ingredienti: l’area attorno agli Ambrosiana skinhead (Ambrosiana è il nome che l’Inter adottò durante il fascismo), e i Brianza skin. Col tempo, tra stadio e militanza politica di strada, gli Hammerskin crescono insieme alla struttura organizzativa che oggi porta il nome coniato dai suoi capi: Lealtà Azione. Battesimo ufficiale nel 2011, quattro anni dopo i lealisti stringono un «accordo» con Blood & Honour. Nel 2017 con CasaPound. Ma alle elezioni politiche del 4 marzo decidono di appoggiare i candidati della Lega di Salvini. Non è la «politica» in senso stretto il tratto caratteristico dei lealisti. È l’associazionismo, la declinazione «sociale». Il movimento è articolato in una serie di «branche», a loro volta suddivise in vari «progetti». La prima, e anche la più impegnata, è la onlus Bran.Co (Branca Comunitaria). Comprende quattro «dipartimenti» ufficiali: «CooXazione», «Tutela dell’infanzia», «Tutela della Famiglia» e «Una voce nel silenzio» (che si occupa dei cristiani perseguitati nel mondo). Quattro sono anche i «progetti» portati avanti: «Un calcio alla pedofilia» (collaborando con la Caramella buona di cui abbiamo parlato), «Donne Controcorrente», «Palestina» e «Generazione Kosovo». Il cuore pulsante delle attività di Lealtà Azione è la Lombardia. Ma i progetti portati avanti dalla sua Onlus sono sparsi un po’ in tutta Italia (oltre alle sedi di Milano e Monza può contare anche su filiali a Genova e Firenze e su Comunità militanti sparse, come la romagnola Fortezza Identità Tradizione e la vicentina Rvdis). Anche Lealtà Azione cavalca il «fenomeno» degli aiuti alimentari alle famiglie bisognose. È un’attività che garantisce un doppio ritorno: sia in termini di visibilità mediatica, sia come consensi da parte delle fasce deboli della popolazione. Lo insegnano le più famose iniziative di Alba Dorata in Grecia. Per

capire il vero scopo della distribuzione di pacchi di cibo è utile leggere l’analisi del giornalista greco Dimitri Deliolanes. Alba Dorata si rivolge a quell’elettorato, deluso dai governi di Nuova Democrazia, per indicare la via del ritorno al passato, quella del confronto violento con la sinistra, con esito, ora come allora, vittorioso. La promessa è un altro mezzo secolo di monopolio del potere. Per arrivare però alla vittoria contro i «nemici della Nazione», cioè i democratici, Alba Dorata deve sostituire lo Stato nelle sue funzioni. Ed è esattamente il piano perseguito dai nazisti greci fin dall’indomani del loro successo elettorale. Prendere le funzioni dello Stato, imporre il proprio potere. […] In un primo tempo il gruppo neonazista ha promosso questo «farsi stato» cercando di coltivare un suo «profilo sociale». A questo fine sono state organizzate le distribuzioni di viveri «solo per greci», che tanta pubblicità hanno avuto nei media stranieri. La verità è che sono state iniziative limitate e sostanzialmente senza grande successo. Sono state organizzate in tutto quattro distribuzioni di viveri, sempre ad Atene e sempre di fronte alle telecamere.124 La sostituzione dello Stato, dunque. Fa niente se nella sostanza l’iniziativa assistenziale è poco più di uno spot. Il messaggio che passa è puro marketing politico. Ai camerati greci quella propaganda è valsa 18 seggi in Parlamento e Alba Dorata è da tempo una realtà politica nazionale. È quello il modello a cui guarda anche Lealtà Azione. Se sei un’associazione che deve conquistare la fiducia della gente, che deve trovare sedi, interlocutori, e deve accreditarsi, il cibo per gli indigenti è sempre un buon modo per crearsi un «profilo sociale». Una delle ruote sulla quale gira la «bontà» dei lealisti è il progetto CooXazione. Il nome nasce dall’unione del prefisso «coo», che sta per cooperazione, e il termine «azione», elemento semantico tipico della destra dai tempi del fascismo. La campagna prevede appunto la distribuzione gratuita di pacchi alimentari a famiglie italiane in difficoltà. Iniziata nell’hinterland milanese nel 2013, oggi può contare su punti di raccolta oltre che in Lombardia anche in Liguria, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Toscana, Abruzzo, Lazio e Calabria. Per capire come si insediano sul territorio queste costole di LA, vado a Genova, quartiere San Vincenzo. Via Serra è la strada che collega piazza Corvetto e la stazione Brignole. Fu aperta a proprie spese nel 1838 dalla famiglia Serra per collegare i palazzi di loro proprietà. Un tempo era denominata «via degli Orfani»

perché nella zona sorgeva fin dal 1500 l’Orfanotrofio S. Giovanni Battista. Al civico 1H rosso c’è la sede de «La Superba». Che cos’è? È il braccio genovese di Lealtà Azione. Quelli che sotto la lanterna distribuiscono i pacchi di pasta. Ma anche quelli che il 29 aprile 2017 sono al cimitero Maggiore di Milano alla parata nazifascista dei mille saluti romani. I locali che ospitano le teste rasate genovesi sono di proprietà di una delle onlus benefiche cattoliche più note di Genova: la Fondazione Assarotti, nota anche come il primo Istituto Nazionale per Sordomuti. La «casa» dei lealisti della Superba sorge a pochi metri dalla chiesa di Nostra Signora della Misericordia e dalla scuola elementare e dall’asilo, entrambi frequentati – è un vanto della onlus – anche da moltissimi bimbi stranieri. Pare una storia surreale. Com’è possibile che un gruppo di ispirazione nazifascista e dichiaratamente xenofobo abbia sede in quel luogo? È una vicenda che si sviluppa tra equivoci, ingenuità e malcelati imbarazzi. È andata così. Come spesso accade. La Superba si è presentata in fondazione Assarotti come un’associazione che aiuta gli italiani indigenti (con il progetto CooXazione). I proprietari del complesso le hanno affittato gli spazi, ignorandone la matrice politica. «Un contratto siglato in buona fede», dice padre Andrea Melis, direttore della Fondazione Assarotti. E cosa hanno detto gli skinhead al sacerdote per spiegare la loro attività? Semplice. Che nella sede terranno «le derrate alimentari» per i poveri. Il caso Genova dimostra che spesso alla base di questi equivoci c’è una scarsa conoscenza delle realtà dei nuovi soggetti neofascisti. È proprio la loro capacità di dissimulare che trae in inganno. Quando la carta della caramella finisce nel cestino, è già tardi. L’associazione è riuscita a ottenere ciò che voleva: una legittimazione, un contratto, un patrocinio. L’importante non è dire chi sei, quel che conta è esserci. Anche nella cura dei monumenti Lealtà Azione ha espresso una sua realtà. Una delle altre associazioni partorite dalla sua cabina di regia è Memento. Nella pratica i camerati si occupano della cura e della manutenzione dei sacrari, dei cimiteri e dei monumenti che ricordano la Repubblica Sociale. Ma la loro attività si estende anche all’organizzazione di momenti commemorativi. Figurano tra coloro che convocano e coordinano i raduni al Campo X del Cimitero Maggiore di Milano, Il campo del 25 aprile «nero» e del «presente» in onore dei caduti repubblichini. Negli anni Memento si è allargata dando vita a diverse iniziative. Si è inserita sorprendentemente in spazi quasi impensabili, andando ben oltre il perimetro dei gesti nostalgici. Nel 2013 ha fatto centro, segnando un gol clamoroso. A imperitura memoria ha scolpito il suo nome, e quello di Lealtà Azione, nella storia del Duomo di Milano. Partecipa all’iniziativa «Adotta una

Guglia», la campagna con cui la Veneranda Fabbrica del Duomo invita i benefattori a «unire il proprio nome a una delle 135 guglie» della chiesa madre della diocesi ambrosiana. In pratica si contribuisce con una donazione al restauro delle guglie del Duomo e si ottiene una targa di riconoscenza. Per LA-Memento l’occasione è ghiotta. Con una donazione simbolica di 50 euro, i lealisti adottano la guglia di San Vittore, numero «g39», posizione «guglia abside». Nessuno batte ciglio. Forse anche in questo caso è sfuggito qualcosa. Sta di fatto che il 22 marzo 2013 la Veneranda Fabbrica del Duomo – l’ente ecclesiastico (ma i membri del cda sono nominati dal ministero dell’Interno) che dal 1387 gestisce la salvaguardia e la manutenzione della cattedrale – certifica con un attestato la collaborazione e «ringrazia l’associazione culturale Lealtà Azione.» Il riconoscimento porta la firma del presidente della Veneranda, Angelo Caloia. Sul sito di «Adotta una Guglia» campeggia il simbolo di Memento-LA, una spada con la scritta «Italia». Lo stesso logo che si trova al Campo X del cimitero Maggiore sul comunicato dove si invitano i visitatori a rispettare il luogo di culto con un religioso silenzio. Era il 25 aprile 2013 quando portai alla luce la storia della guglia adottata dagli hammerskin. Nell’occhio del ciclone finisce la Veneranda: possibile accettare una donazione da parte di una formazione capitanata dagli hammerskin neonazi autori di pestaggi e agguati a colpi di coltello e fieri sostenitori della «razza bianca»? L’ente ecclesiastico si difende parlando di «tentativo di strumentalizzazione.» Ma conferma quanto avevamo raccontato. Lealtà Azione, attraverso Memento, effettua una «donazione spontanea di 50 euro via web attraverso carta di credito.» E come ringraziamento per il contributo ottiene dalla Veneranda un «attestato standard, ricevuto – spiegano dall’ente – da tutti coloro che sostengono il progetto attraverso la rete.» Il caso solleva polemiche. E l’Anpi va all’attacco, con il suo presidente milanese, Roberto Cenati: «A prescindere da quale sia l’importo della donazione – che non cambia nulla perché conta il principio – la scelta di accettare questi soldi si pone al di fuori dei capisaldi antifascisti della Costituzione. Il nazismo aveva un’ideologia pagana, che nulla aveva a che fare con i principi dello stesso cristianesimo e del cattolicesimo». Si sarà anche trattato di un infortunio, ma l’imbarazzo è evidente. Oltretutto il caso scoppia il 25 aprile, il giorno in cui si festeggia la Liberazione dal nazifascismo. Non solo i partiti di sinistra e la Cgil. Anche la Lega Nord (allora c’era ancora la parola «nord») interviene. «Mi auguro sia stata solo una svista», dice Giacomo Stucchi, deputato leghista di lungo corso, poi presidente del Copasir, «sarebbe grave se la Veneranda Fabbrica facesse prevalere gli interessi economici sui valori etici e religiosi.» In difesa

dell’ente ecclesiastico si schiera don Gian Antonio Borgonuovo (membro del cda): «Non possiamo giudicare o filtrare il percorso di ogni donatore che segue l’iter della donazione on line, uguale per tutti. Ciascuno può fare una donazione in rete, a prescindere da chi sia». Anche questa storia suona come esempio e come monito. Laddove le maglie dei controlli sono più lasche, e dove è possibile infilarsi e marcare il territorio, i gruppi neofascisti provano a fare la loro parte. Se il risultato arriva, diventa arma di propaganda. Il presidente di Lealtà Azione Stefano Del Miglio non perde un secondo. Poche ore dopo la pubblicazione della storia della guglia, dopo avere commentato l’articolo e avermi dato dell’«infame», conferma con orgoglio la donazione alla Veneranda Fabbrica. E annuncia: «Andremo avanti a adottare le guglie del Duomo».125 Il sottobosco dell’associazionismo nero Le piante più basse crescono all’ombra degli alberi con la corteccia più dura. Sotto ogni ramo c’è un cespuglio. In mezzo a quella macchia verde, sfrondando, è possibile riconoscere altre specie vegetale. L’associazionismo nero bisogna immaginarlo così. È come un ecosistema regolato da equilibri delicati, dove ogni elemento si tiene: esiste perché esistono anche gli altri. Di CasaPound Italia, Forza Nuova, Lealtà Azione, abbiamo detto. Ma oltre le sigle egemoni del neofascismo esiste un sottobosco formato da una miriade di associazioni e comunità militanti autonome. Sono realtà che ufficialmente non hanno una diretta affiliazione politica con qualche partito. Ma hanno una funzione: da una parte fanno da bacino elettorale, e dall’altra servono come strumento di battaglia culturale per il mondo del neofascismo. In alcuni casi queste organizzazioni hanno anche legami con realtà straniere. O addirittura sono loro dirette emanazioni. La più attiva è Generazione Identitaria. Fa parte del network europeo con base in Francia (Génération Identitaire, fondata nel 2012) e che in Italia ha sedi a Milano, Roma, Torino, Bergamo, Modena, Brescia e poi in Sardegna, Veneto e Friuli. Il manifesto di GI si presenta come una «Dichiarazione di guerra». «Noi siamo la generazione della frattura etnica, del fallimento totale del vivere insieme, del meticciato imposto. Abbiamo chiuso i vostri libri di storia per ritrovare la nostra memoria.»126All’estero GI è presente in numerosi Paesi europei tra cui la Gran Bretagna. L’«Independent», nel novembre 2017, ha denunciato come il gruppo britannico stia mandando dei militanti per addestrarsi

in alcuni campi in Europa.127Ossessionato dal fantomatico piano Kalergi già evocato da Matteo Salvini e da altri leader di partiti nazionalisti e sovranisti, il movimento agisce attorno a cinque temi centrali: l’identità, la grande sostituzione, la crisi dei rifugiati, l’inganno dell’integrazione e la remigrazione. Il «botto» mediatico di GI arriva nell’estate del 2017 con una missione marina. Il network europeo «Defend Europe» imbarca, letteralmente, gruppi di estrema destra di Germania, Italia, Francia e Austria. Noleggiano una nave con un obbiettivo preciso: ostacolare il lavoro delle Ong nel Mediterraneo. Vogliono fare in modo che i migranti partiti soprattutto dalla Libia non vengano soccorsi. L’operazione è finanziata tramite crowdfunding prima su PayPal – che poi blocca i conti, nonostante ad oggi GI continui a richiedere donazioni tramite lo stesso canale – e poi sulla piattaforma wesearch.org.128 Nel 2017 sono state pubblicate numerose inchieste che hanno rivelato i profondi legami tra GI e le organizzazioni sorelle in Europa. È stata ricostruita anche la vicenda ambigua della C Star, la nave noleggiata per l’operazione anti migranti in mare.129 Da una costola di Generazione Identitaria, nel 2016, nasce Azione Identitaria. Ultimamente ha aperto una palestra per prepararsi allo «scontro, anche fisico», come ha specificato Francesco Piane, responsabile della sezione romana di GI. Sul tema immigrazione la costola italiana dell’organizzazione francese è assai più spietata di CPI e FN. Prevede «l’abolizione di qualsiasi tipo di ricongiungimento familiare» e la creazione di un «alto commissariato per la remigrazione.» Cioè l’espulsione di tutti i migranti dal suolo italico.130 Dalle rotte neofasciste del mar Mediterraneo alla rossa Toscana. Nella regione baluardo storico della sinistra ha attecchito da tempo una realtà minore. Si chiama Casaggì. Ha sede a Firenze, un po’ centro sociale e un po’ organizzazione studentesca sul modello «Blocco» (di CasaPound). Nel 2017 Casaggì ha tirato su 18mila voti nella consulta provinciale: 32 rappresentanti su 58. Si tratta di «uno spazio libero e autogestito, un centro sociale di destra che dal 2005 organizza manifestazioni, cortei, dibattiti, volontariato, corsi di sport e gruppi di studio con autonomia e trasversalità rispetto alla struttura di partito.»131 L’articolazione a cui guardano i giovani neofascisti fiorentini è quella del franchising tipico di CasaPound. In breve tempo sono state aperte altre Casaggì. Un vero e proprio network con «sezioni» a Empoli, Pisa, Siena, e Milazzo. I

legami più stretti, a Firenze, sono quelli con Azione Studentesca e Fratelli d’Italia. Ma il posizionamento politico è variabile: alle elezioni regionali siciliane del 2017 Casaggì Milazzo ha ufficialmente preso le distanze dalla formazione di Giorgia Meloni, appoggiando direttamente la lista di Nello Musumeci.132C’era una volta la Toscana rossa. Negli ultimi anni anche la storica roccaforte della sinistra assiste all’offensiva dei gruppi neofascisti. Come nel Lazio, anche qui CasaPound e Forza Nuova puntano tutto non soltanto sui temi classici. Lotta agli immigrati e allo Ius Soli. Ma anche sul welfare. Collette alimentari, battaglia per gli alloggi popolari agli italiani con la lotta agli sfratti, ronde per la sicurezza e la legalità. Ultimi terreni di conquista sono le aree della regione più colpite dalla crisi: Prato, Siena, Pistoia, Massa. Prendi Prato. La crisi morde le fabbriche del tessile e l’«invasione» cinese è considerata una minaccia dai neonazionalisti: su 192mila abitanti, 36mila sono stranieri, 18mila cinesi. «Ci hanno portato solo svantaggi mentre lo Stato ha dimenticato gli italiani», ringhia Francesco Corrieri, capo pratese di CPI. «Gli immigrati rubano il lavoro.» È la retorica protezionistica e sciovinista già sentita in Svizzera in questi anni contro i frontalieri italiani. Una visione miope, che non tiene conto di alcuni dati. A Prato, la capitale cinese d’Italia, le aziende straniere assumono lavoratori italiani. Lo dice una ricerca dell’istituto IRIS – Strumenti e Risorse per lo Sviluppo Locale. Tra ottobre 2010 e giugno 2015 le aziende cinesi della provincia di Prato hanno assunto 355 lavoratori italiani su un totale di 1888 avviamenti. Ma questi dati nella propaganda dell’ultradestra vengono oscurati. Non sono utili alla narrazione nazionalista e identitaria che vede nello straniero un pericolo da contrastare. A settembre 2017 il Comune di Prato installa nel centro storico della città le barriere anti terrorismo. A pochi metri dai blocchi di cemento spunta lo striscione «Invece delle strade chiudiamo le frontiere.» È l’offensiva di Forza Nuova, che anche qui, in questi pezzi di «black Tuscany», contende a CasaPound l’egemonia del nuovo cameratismo. è sempre a Prato che è nata l’associazione «culturale» anti Ius Soli «Etruria 14». La scorsa estate ha organizzato una giornata di studio. Il titolo del convegno da queste parti se lo ricordano bene: Waffen SS, la grande sconosciuta. Dal razzismo anticinese alla saggistica sulle squadracce di Hitler, benvenuti nella nuova Toscana.

106 Catania, alzabandiera e vecchi inni: la colonia nostalgica dei bimbi di

estrema destra, di Paolo Berizzi, «la Repubblica», 9 agosto 2017, cfr. http://www.repubblica.it/cronaca/2017/08/09/news/catania_alzabandiera_e_vecchi_inni_la_co 172705020/. 107 La festa del sole spacciata per un addio al celibato, permesso negato due volte, di Paolo Berizzi, «la Repubblica», 2 luglio 2017. 108 In realtà il calcolo è fatto in difetto, perché le province sarebbero 107, conteggiando anche le 14 Città metropolitane, le province autonome e consorzi vari. 109 L’addio a Taricone. Lite sugli striscioni, di Fabrizio Caccia, «Corriere della Sera», 1° luglio 2010, cfr. http://www.corriere.it/spettacoli/10_luglio_01/cacciataricone-lite-striscioni_2cd3ae00-84d2-11df-a3c2-00144f02aabe.shtml. 110 http://www.ilprimatonazionale.it/cronaca/avanzata-studenti-casapound-56mila-voti-blocco-studentesco-76509/ 111 Forconi, arrestato uno dei leader di CasaPound, «Il Tempo», 14 dicembre 2013, cfr. http://www.iltempo.it/cronache/2013/12/14/news/forconi. 112 CasaPound sta «riparando» la scritta Dux sul fianco del monte Giano: era bruciata ad agosto, in, «la Repubblica», 4 febbraio 2018. 113 http://www.osservatoriorepressione.info/pivert-un-marchio-dabbigliamentofascista-firmato-casapound-italia/ 114 https://www.pivert-store.com/l-uomo-pivert-perche-scegliamo-un-uomoche-combatte 115 Scontri contro la riforma Gelmini: 18 condanne a 22 anni di carcere, di Giulio De Santis, «Corriere della Sera», 9 giugno 2017, cfr. http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/17_giugno_09/scontri-navona-riformagelmini-18-condanne-22-anni-carcere-4919d968-4d34-11e7-b73b200ed593c1f2.shtml. 116 www.ordinefuturo.net 117 La mossa dei Comuni «Niente spazi pubblici a chi inneggia al Duce», di Paolo Berizzi, «la Repubblica», 12 novembre 2017, cfr. http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2017/11/12/la-mossadei-comuni-niente-spazi-pubblici-a-chi-inneggia-al-duce06.html 118 https://www.theguardian.com/commentisfree/2018/feb/11/fascism-is-backin-italy-and-its-paralysing-politics 119 Per una dettagliata descrizione delle violenze e della storia di queste realtà cfr. Saverio Ferrari, Fascisti a Milano. Da Ordine Nuovo a Cuore Nero, BFS, Pisa 2011. 120 Guido Caldiron, Estrema destra. Chi sono oggi i nuovi fascisti?

Un’inchiesta esclusiva e scioccante sulle organizzazioni nere in Italia e nel mondo, Newton Compton, Roma 2013. 121Paolo Berizzi, Bande Nere, Bompiani, Milano 2009. 122 Per i primi anni di attività guardare J. Ridgeway, Blood in the face. The Ku Klux Klan, Aryan Nation; Nazi Skinheads and the Rise of a New White Culture, Thunder’s Mouth Press, 1990. 123 Saverio Ferrari, I denti del drago. Storia dell’Internazionale nera tra mito e realtà, Pisa, BFS, 2013, pag. 141. 124 Dimitri Deliolanes, Alba Dorata. La Grecia nazista minaccia l’Europa, Fandango Libri, Roma 2013, pp. 61-62. 125 La guglia adottata da neonazisti: bufera sulla Fabbrica del Duomo, di Paolo Berizzi, «la Repubblica», 26 aprile 2013, cfr. http://milano.repubblica.it/cronaca/2013/04/26/news/la_guglia_adottata_dai_neonazisti_bufer 57462307/ 126 https://generazione-identitaria.com/ 127 Generation Identity: Far-right group sending UK recruits to military-style training camps in Europe, di Lizzie Dearden, «Independent», 9 November 2017, cfr. http://www.independent.co.uk/news/uk/home-news/generation-identity-farright-group-training-camps-europe-uk-recruits-military-white-nationalista8046641.html. 128 Defend Europe, così i gruppi di estrema destra vogliono bloccare Ong nel Mediterraneo, di Valentina Avon, «la Repubblica», 26 giugno 2017, cfr. http://www.repubblica.it/esteri/2017/06/26/news/defend_europe_cosi_gruppi_di_estrema_des 169200211/. 129 Andrea Gagliardi, Migranti, la nave anti-Ong di «Generazione identitaria» è già un caso politico, in «Il Sole 24 ore», 18 luglio 2017; Andrea Palladino, Quella rete di mercenari dietro la nave anti migranti della destra europea, in «Famiglia Cristiana», 17 luglio 2017; Natalia Marino, «Defend Europe» e il vascello fantasma, in «Patria Indipendente», 8 settembre 2017. 130 «Pugni e calci contro i profughi»: i fascisti di Generazione Identitaria preparano lo scontro, di Andrea Palladino, «L’Espresso», 7 febbraio 2018, cfr. http://espresso.repubblica.it/attualita/2018/02/07/news/pugni-calci-controprofughi-generazione-identitaria-1.318002. 131 Dalla pagina ufficiale di Fb. 132 Così è indicato nella pagina Fb della sezione siciliana.

10. LA RETE NAZIROCK Un concerto ogni tre giorni Si prendono a cinghiate e cantano la fratellanza fra camerati. Gridano: «ho il cuore nero, me ne frego e sputo». Si rivolgono ai nemici, quelli di sempre. «Feccia rossa», immigrati, ebrei, neri, omosessuali. Ma anche polizia e magistratura. E l’avversata legge Mancino. Nelle loro note si impastano rabbia, citazioni storiche e odio verso tutti quelli che si mettono di traverso sulla loro strada. Inneggiano alle SS e ai gerarchi nazisti, a Terza Posizione, a Ordine Nuovo, ai vecchi terroristi «neri» che oggi sono diventati i loro guru e stanno lì, acquattati nelle retrovie a dettare la linea. Poi magari da quella musica nasce un partito, come ha fatto CasaPound. Sono i gruppi della scena musicale di ispirazione nazifascista. La loro crescita è un fenomeno poco esplorato. Ma è un prezioso rivelatore di quella parabola pericolosa della «normalizzazione». Un segno di quanto sia progredita nel nostro Paese l’assuefazione indifferente verso l’estremismo nostalgico e intollerante. È un circuito parallelo, «non conforme», come lo chiamano loro. Da Catanzaro a Milano, da Roma a Verona. Ieri questi eventi erano avvolti nell’ombra. Roba semiclandestina, comunicati rigorosamente all’ultimo. Con un tam tam ristretto e indicazioni da decodificare. Per riuscire a stare in linea con il flusso della programmazione dovevi necessariamente far parte di gruppi e movimenti di estrema destra. Era anche l’unica modalità con cui potevi accedere agli eventi. Anche oggi chi organizza i concerti usa accorgimenti e canali particolari. Più che altro per evitare divieti e censure. Che però sono sempre più rare. Così come è avvenuto per la propaganda politica, anche per la scena musicale «nera» in Italia la pregiudiziale è venuta meno. Lo dimostra il calendario dei concerti, sempre

più fitto. La frequenza con cui vengono allestiti, da Nord a Sud, è inversamente proporzionale al grado di indignazione che li accompagna. A testimoniarlo sono gli spazi affittati o concessi da privati, ma anche le aree comunali assegnate a sigle della galassia estremista. Persino la collocazione di questi momenti è cambiata. A differenza di com’era all’inizio degli anni Duemila, per assistere a una serata musicale e a un festival «di area» non occorre più aspettare le ricorrenze «classiche». La nascita di Hitler, di Mussolini, il ricordo di Acca Larentia, delle Foibe, la morte di Ian Stuart o di Massimo Morsello, soprannominato il «De André nero». Le formazioni dell’ultradestra 2.0 sono ormai fucine di eventi «artistici». Questi appuntamenti si sono affrancati dalle date simboliche, che pure nella tradizione neofascista hanno ancora un peso. Ma quanto è cresciuta la realtà di questi gruppi di ispirazione nazifascista? Statistiche e censimenti ufficiali non esistono: troppo liquido il fenomeno, e ovviamente borderline. Ma da una ricognizione approssimativa che abbraccia gli ultimi dieci anni, e i retaggi di quelli precedenti, è possibile fotografare un trend in ascesa. Tra il 2009 e il 2017 ci sono stati in media quasi 100 concerti l’anno, tra piccoli e grandi festival. Con un aumento deciso negli ultimi due anni. Dai 125 circa del 2016, arriviamo a più di 160 eventi del 2017. Quasi mille eventi in nove anni. Insomma, ogni tre giorni in Italia c’è un concerto nazirock. Fino a dieci anni fa ce n’era uno a settimana. Vent’anni fa uno al mese. I numeri dicono tutto. Dietro questa produzione c’è un crescente bisogno di affermazione territoriale attraverso iniziative dove le suggestioni «artistiche» servono per avvicinare i giovani alla metapolitica. È un vecchio metodo. Un modello che affonda le sue radici negli anni Settanta. Oggi, quarant’anni dopo, i più rappresentativi movimenti di destra radicale italiani associano stabilmente la loro attività a un’offerta che vede impegnati sulla scena – nazionale e anche europea – gruppi musicali che di quei movimenti sono diretta emanazione. O che comunque sono a essi sono collegati. La progressione non è sfuggita alle lenti della nostra Intelligence. Nell’ultima relazione sul radicalismo di destra – fine 2017 – il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS) ha posto l’accento sui «consueti raduni musicali organizzati dalle formazioni skinhead e hammerskin.» La scena s’intensifica soprattutto nei mesi estivi. Ha trovato nuovo impulso negli ultimi due anni ed è in linea con quella portata avanti da «analoghi gruppi europei in Germania, Finlandia e Svezia.»

ZZA Tre lettere e un leader soprannominato Capitano. Un centro sociale di destra che cresce sulle basi gettate da una band. E che 15 anni dopo diventa partito nazionale. In estrema sintesi è la storia degli Zeta Zero Alfa, il gruppo attorno al quale si forma in breve tempo il nucleo di militanti che nel 2003 fonda CasaPound. L’etichetta, che rappresenterà uno dei nodi fondamentali del panorama musicale neofascista italiano, è ancora attiva e ha segnato anche la seconda generazione di questo circuito. Un primato non da poco. Costruite reti e legami nella penisola e in Europa, l’aspetto di alcuni di questi gruppi diventa meno truce, con un look diverso da quello classico del naziskin. Ma i temi non cambiano. E i momenti aggregativi rimangono gli stessi. Festival, raduni, grandi e piccoli concerti, in cui si cementa la «fratellanza», si divulgano agende politiche, metodi di lotta. E, soprattutto, si finanzia il movimento. Iniziano «mode» come quella della «cinghiamattanza», dall’omonima canzone degli Zeta Zero Alfa. Primo me sfilo la cinta Due inizia la danza Tre prendo bene la mira Quattro CINGHIAMATTANZA! Questo cuoio nell’aria Sta ufficializzando la danza Solo la Casta Guerriera Pratica CINGHIAMATTANZA! Ecco le fruste sonore Stanno incendiando la stanza Brucia la vita dell’Ardito Urlerai CINGHIAMATTANZA! Il ballo a suon di cinghiate delle «tartarughe frecciate» è una tendenza molto romana. In fondo a una fortunata stagione di concerti si riversa nelle strade e nelle scuole della capitale fino a impazzare su YouTube. Già nel 2008 giravano video con una toponomastica dei quartieri romani dove decine di teste rasate si sfidavano a colpi di cinghia. Ce n’è uno da Casal Bertone, uno dal quartiere Prati. Un altro si intitola «Cinghia Mattanza a scuola» ed è girato nei corridoi del liceo Archimede da due studenti in duello. «Cinghia Mattanza a Colle Oppio»

mostra giovani che si affrontano nelle piazze e nei quartieri della capitale. Questa moda insensata e cruenta conquista tanti ragazzi. Nel 2008 nasce un blog «dove non solo la cinghia mattanza viene inequivocabilmente definita come “una danza macabra che si fa tra camerati”, ma addirittura si incitano gli utenti a “prendere tutti a cintate, dal vicino di casa al postino alla suora.”»133 Con gli ZZA si consuma un passaggio fondamentale. A metà tra ammodernamento e sdoganamento. La musica «identitaria» dei gruppi neofascisti non è più solo quella della scena dei naziskin o quella acustica folk legata al modello dei Campi Hobbit – i raduni con concerti organizzati a fine anni Settanta dal Fronte della Gioventù – o di Massimo Morsello – che proprio in un campo Hobbit esordisce. Con gli ZZA entrano in gioco anche altre sottoculture. Si esplorano forme di musica antagonista e rock tradizionalista, che finiscono per costituire un modello più evoluto e alternativo di ribellismo. «Allo stesso modo», come notano Pietro Castelli Gattinara e altri studiosi di estremismi europei, «il rock identitario di CasaPound rappresenta una diretta espressione di malessere verso la società contemporanea; […] uno strumento per promuovere modelli culturali alternativi, sulla base di valori fascisti, quali il volontarismo, l’irrazionalismo e la violenza.»134E fra questi valori c’è il vecchio vizio di manganellare il dissenso, come si può leggere nelle strofe della canzone Asso di bastoni: Chi parla sempre troppo prima o poi sarà purgato Chi gioca con i tasti prima o poi sarà pestato Chi accusa e poi diffama prima o poi sai pagherà Tu resta sui tuoi passi, non subire la pietà! Questo è il calmiere dell’arroganza! Asso di bastoni ridona umiltà, ridona umiltà, ridona umiltà! Il gruppo musicale dei «fascisti del terzo millennio» fa un salto in avanti. Se prima la musica di estrema destra era autoriferita, rivolta solo al proprio mondo, ora l’interesse è spostato verso l’esterno. Verso il reclutamento di nuovi militanti. C’è un marchio, c’è un brand, c’è una moda e anche una struttura fisica di riferimento. Il tempio degli ZZA è la Stazione Farneto, dietro lo Stadio Olimpico. È un luogo abbandonato dai tempi dei Mondiali di calcio di Italia 90. Prima che la stazione venisse sgomberata, nel 2015, per anni ha ospitato concerti

e serate identitarie e «non conformi». CasaPound l’aveva occupata con uno dei suoi blitz per trasformarla in un antro fascio-rock. Così viene descritta la Stazione Farneto da «l’Unità» nel giugno del 2011: «Concerti identitari, feste di tesseramento per CasaPound, raduni di energumeni neofascisti da tutta Italia. Ora, almeno per cogliere il treno dell’Estate romana, la musica è cambiata. Fuori la cinghiamattanza, dentro il mojito. Ma, accanto, nell’area dell’ex parcheggio, tra luci soffuse e jam session, è cominciata, con gran dispendio di soldi, tutta un’altra storia, in cui le teste rasate si nascondono tra quelle giovanissime e ingelatinate della movida romana, attratte dalla “novità” dell’estate».135È un nuovo concetto di associazionismo. Ma anche di business. Un tema per il quale CasaPound ha sempre dimostrato di avere fiuto. Una stazione abbandonata si trasforma nella prima, vera «creatura commerciale della galassia CasaPound: discoteca, piscina, musica all’aperto. “Il nuovo locale della Roma bene”, lo ribattezzano le prime recensioni amiche pubblicate in rete. Niente simboli, dj strappati ai club fighetti della Costa Smeralda, ospiti di grido (l’ultimo era Fabrizio Corona), cocktail serviti con la fragolina.»136 È alla Stazione Farneto che vanno in scena diverse edizioni del festival «Tana delle Tigri». È l’evento clou nella liturgia di CPI insieme alla festa nazionale chiamata Direzione Rivoluzione. A Tana delle Tigri, oltre agli ZZA, si esibiscono anche i nuovi gruppi legati agli ambienti più giovanili. L’antropologa Maddalena Gretel Cammelli ha visitato una recente edizione di Tana delle Tigri. Ad Area 19 […] c’erano più di 500 persone. Mi sono ritrovata in mezzo a tante teste rasate, ma non solo. Molti uomini, ma anche delle ragazze. C’erano dei punk, degli skin. Le ragazze erano una netta minoranza, per la maggior parte avevano i capelli lunghi e lisci, ma c’era anche una ragazza rasata. […] Molte le magliette indossate con scritte non conformi sopra, di CasaPound o del Blocco Studentesco o degli Zeta Zero Alfa, con rispettivi simboli e frasi. Decisamente impressionante, invece, la presenza del servizio d’ordine. Erano riconoscibili dal gilet arancione con scritto CasaPound Italia sopra, erano tanti, circa una trentina. Sempre in gruppi, in ogni punto della sala. Si facevano notare, non solo per il gilet, ma anche perché erano persone attente a osservare. Controllavano addirittura l’accesso ai bagni.137 Anche alla festa Direzione Rivoluzione ci sono concerti, accompagnati da

dibattiti, manifestazioni sportive e interventi di politici e personaggi molto conosciuti. Fra le «nuove proposte» lanciate dal laboratorio musicale delle «tartarughe» figurano i Drittarcore, nuovo gruppo rap legato a CasaPound che ha prodotto nel 2017 (per la storica etichetta Rupe Tarpea) il disco «Liberi Alti Fuochi». Il rap è una delle musiche meno «white» che ci siano, secondo solo al reggae. È buffo vedere la testata giornalistica di CPI, «Il Primato Nazionale», cercare di giustificare il tentativo di appropriarsi della «musica dei negri» indicando fantomatiche sperimentazioni proto-rap nazionaliste degli Intolleranza – band in voga degli anni Ottanta – e lo stile di Sottofasciasemplice come «riscoperta di una modalità discorsiva e verbale tipicamente italiana che sposa la musica elettronica.»138 Tra acrobazie verbali e inattese aperture, la domanda è: quale importanza strategica hanno i concerti nell’educazione del «fascista del terzo millennio»? Come mai sono tornati a essere momenti «centrali»? Me lo spiega Federico Chiaricati, osservatore dei fenomeni aggregativi dell’estrema destra giovanile: «Sono il contesto in cui si cementa la comunità, in cui ideologia e goliardia si fondono insieme. Le nuove formazioni neofasciste, in particolare CPI, hanno ripreso il vecchio bagaglio culturale della destra sociale attualizzandolo e proponendolo in una chiave alternativa. Se possibile superandolo». Una descrizione «finale» del rito della Cinghiamattanza, del clima e dell’esaltazione che si vive al ritmo delle canzoni degli Zeta Zero Alfa la si trova nel romanzo Nessun dolore di Domenico Di Tullio, avvocato che da anni difende i militanti di CasaPound. Immagina qualche migliaio di persone che si muovono all’unisono, seguendo i testi e la musica del gruppo. Immagina questa massa forte e mobile, che canta insieme al Capitano, parola per parola […]. Una massa unica, non singoli spettatori, non gruppi di amici, ma moltitudine composta di braccia, teste, tronchi e gambe di carne. Carne uguale e diversa di chi magari ha differenti occhi e capelli, ma stessa madre.139 Settanta-Ottanta «neri» Se si vuole capire lo scenario in fermento dei «fascisti del terzo millennio», e

parte di quello che è accaduto in Italia tra 2017 e 2018, bisogna scavare nel retroterra dove sono stati innestati i suoi semi. Quello che oggi è l’armamentario ideologico di CasaPound, e che si ritrova nelle canzoni degli ZZA, ha una sua evoluzione nelle forme di aggregazione giovanile. Sono realtà legate alle sottoculture che tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta «esplodono» in mille forme. A destra dell’estrema destra queste mode sono sempre esistite, tenute insieme dal collante dell’ideologia. Ma dalla seconda metà degli anni Settanta cominciano ad avere un peso maggiore. Look, musica, politica. Sono i tre lati di un triangolo che fa da cornice allo sviluppo dei «neri» di ieri. Riemersi come fiumi carsici, li ritroviamo nella fascisteria dell’attuale stagione sociale e politica. In quell’incubatore che sono stati gli anni Ottanta, ad esempio, muove i primi passi il leader e presidente di CPI, e cantante, Gianluca Iannone, ex Movimento Politico Occidentale – la formazione nata nel 1984 dall’esperienza di Avanguardia Nazionale. Alcuni dei protagonisti della produzione discografica di allora sono gli stessi che hanno contribuito a creare la rete che resiste ancora oggi. Una rete che lega concerti, metapolitica e progettualità partitiche. Da alcuni di questi telai ideologici sono scaturite anche organizzazioni paramilitari e terroristiche – come vedremo con i Combat 18 – che hanno interessato non solo l’Italia ma l’Europa occidentale, orientale e gli Stati Uniti, in particolare tra anni Novanta e Duemila. Un po’ agenda comune, un po’ programma di massima. È l’interazione tra queste realtà di diversi Paesi, unite sotto una denominazione «sottoculturale» fatta di tifo, musica, razzismo e violenza. Non ci sono più divisioni e steccati dettati dai nazionalismi. C’è un cemento comune che copre i confini. È come se, dopo decenni, stesse prendendo forma quella Internazionale nera che dal dopoguerra rappresenta il sogno mai realizzato dei gruppi politici di estrema destra europei. La musica è il miglior superconduttore dell’ideologia fascista e nazionalsocialista. Le canzoni e la musica sono sempre state un elemento importante per l’estrema destra (come per tutte le altre formazioni politiche). Ma è a partire dal cosiddetto «’68 nero», e poi con la seconda metà degli anni Settanta e la fascinazione per il mondo tolkieniano e fantasy, che inizia quel percorso che porta fino ad oggi. Nel 1975, Marco Tarchi, voce anticonformista molto seguita negli ambienti missini di allora, dedica una recensione e un invito alla lettura di Tolkien nel periodico underground «La Voce della Fogna». Il pezzo avrebbe innescato una reazione a catena imponente, come spiegano

Luciano Lamma e Filippo Rossi. Quella recensione ebbe l’effetto di un detonatore: attorno a quella scoperta tutto un universo creativo e giovanile a destra trovava una nuova metafora di comunicazione. Nascevano circoli culturali dai nomi tolkieniani, veniva fondata l’associazione culturale La Terra di Mezzo, si inaugurava la rivista femminile «Eowyn» dal nome dell’eroina elfica di Tolkien… e poi sorgevano a macchia d’olio locali, pub, ritrovi, si realizzavano manifesti, adesivi e gadget di tutti i tipi. E proprio sul traino di questo fermento, intuendo la portata innovativa del filone, Generoso Simeone – giovane professore di lettere di Benevento e dirigente del Msi – ebbe l’idea di allestire una grande festa: un raduno in grado di dare una nuova rappresentazione dinamica di una diffusa area giovanile. Era il bisogno, per dirla con Tolkien, di «una festa tanto attesa». Prendeva corpo il progetto di Campo Hobbit: due giorni a Montesarchio, in provincia di Benevento, l’11 e il 12 giugno 1977. Un migliaio di ragazzi da tutta Italia con tutti i loro nuovi modi di essere: la stampa giovanile, la grafica, i fumetti, le radio libere, la poesia, i gruppi musicali e i cantautori, l’alimentazione, l’ecologia e, ovviamente, la fantasy.140 Il Campo Hobbit, risposta da destra al festival milanese del Parco Lambro, conosce quattro edizioni, dal 1977 al 1981, e sarà la base per i futuri festival organizzati a partire dalla seconda metà degli anni Novanta fino ad oggi. Sono molti i gruppi che si formano in quel contesto. Tutti influenzati dal mondo tolkieniano, tra i quali La Compagnia dell’Anello. Inghilterra: nazirock e cattivi maestri Ma lasciamo per il momento l’Italia, e spostiamoci in Inghilterra. Capiremo più avanti quanto aiuti a comprendere la complessità della «nostra» realtà di oggi. E anche a decifrare i collegamenti internazionali tra i gruppi neofascisti italiani e quelli d’oltreconfine. Alla fine degli anni Settanta nel Regno Unito spopola tra i giovani una nuova musica: il punk. È un fiorire di gruppi, concerti, case discografiche. Movimento tra i più iconoclasti, il punk degli anni Settanta rifiuta qualsiasi appartenenza politica o partitica. Provoca sia la destra sia la sinistra, i conservatori come i

progressisti. Contemporaneamente a questo fenomeno riemerge anche un’altra sottocultura, nata a fine anni Sessanta sempre in Inghilterra: gli skinhead. Per definizione e per semplificazione internazionale, le «teste rasate». Gli skin mettono assieme «due fonti apparentemente incompatibili: la cultura degli immigrati indoccidentali e quella della working class bianca.»141Skinhead e punk cominciano a fine anni Settanta ad ascoltare musica simile e a frequentare gli stessi concerti. È un proliferare di gruppi. Sono tenuti insieme da una sintesi ideologica e comunicativa e interpretano il malessere della classe operaia inglese delle periferie. Uno dei primi esperimenti sono gli Sham 69. A Blackpool, nel 1976 nascono gli Skrewdriver, che l’anno dopo fanno uscire il loro primo LP, «All Skrewed Up», per la Chiswick Records. Un punk rock in puro stile inglese, nel quale emerge la voce del giovane cantante, Ian Stuart Donaldson. Gli Skrewdriver non si fanno conoscere solo per la musica: i loro concerti sono il pretesto per una sequenza di episodi di violenza. Le vendite non eguagliano quelle di gruppi che diventano famosi in tutto il mondo come i Sex Pistols e i Clash. Nel periodo dello scioglimento del gruppo, nel 1979, Ian Stuart comincia ad avvicinarsi sempre di più al mondo dell’estrema destra. In particolare a quel National Front nato nel 1967: una sigla che dieci anni dopo allarga la base degli attivisti, sfondando tra giovani e giovanissimi della classe operaia bianca. Nel 1979 Stuart è già dirigente dell’organizzazione giovanile del NF, lo Young National Front. Pochi anni dopo rifonda gli Skrewdriver con una chiara impronta neonazista, senza coinvolgere i vecchi membri del gruppo. Dopo qualche singolo esce il nuovo LP nel 1984, «Hail The New Dawn», prodotto dalla tedesca RockO-Rama Records. Negli anni Ottanta la casa discografica diventa uno dei punti di riferimento per il circuito musicale dell’estrema destra europea, producendo anche molti altri gruppi. C’è fermento nel Regno Unito in quegli anni: e c’è un ambiente per nulla ostile per chi proviene da esperienze politiche di estrema destra. Anche da altri Paesi. Il ventunenne Roberto Fiore che nel 1980 scappa a Londra prima che la magistratura italiana decapiti Terza Posizione – da lui fondata – è solo uno dei tanti camerati latitanti. L’avvicinamento di molti skinhead al mondo dell’estrema destra coincide anche con la difficile situazione economica e sociale nell’Inghilterra guidata da Margaret Thatcher. È una fase che è stata raccontata da film e documentari che ne ricostruiscono l’evoluzione.142Questa deriva costringe di fatto chi vuole mantenere le basi antirazziste del movimento a prendere posizione. Ed è per questo motivo che già verso la fine degli anni Settanta si costituisce il

movimento e la campagna civile Rock Against Racism. In risposta Ian Stuart comincia a organizzare attorno ai primi concerti dei «nuovi» Skrewdriver la rete associativa Rock against communism (RAC) nata nell’ambito del National front. Un contributo importante arriva anche dalla casa discografica White Noise Records, che produce il suo singolo White Power del 1983. Quella canzone diventerà l’inno del movimento. Ed entrerà a pieno titolo nel pantheon culturale delle formazioni nazifasciste di mezza Europa. I stand watch my country, going down the drain We are all at fault now, we are all to blame We’re letting them takeover, we just let ’em come Once we had an Empire, and now we’ve got a slum White Power! For England! White Power! Today White Power! For Britain Before it gets too late.143 Il biennio 1985-86 segna l’apice e la spaccatura del movimento dell’estrema destra inglese. Se nell’85 «la RAC riesce addirittura a tenere un festival vero e proprio, a Suffolk, con dieci band e circa seicento spettatori»,144 già nel 1986 il movimento si spaccò in due. Ian Stuart viene arrestato per aggressione a sfondo razziale, e la White Noise Records è accusata di aver truffato sulle royalties delle band ed è indebitata con la Rock-O-Rama. Si produce «una scissione. Da una parte Ian Stuart con la RAC, divenuta indipendente, dall’altra la White Noise Records e il National front.»145 Da qui inizia una crescita del circuito RAC attraverso una nuova etichetta, la White Pride Records, e una newsletter che impareremo a conoscere in Italia. «Blood and Honour». Ufficialmente è una fanzine musicale. Ben presto diviene il bollettino politico del movimento. È grazie a questo nome e alla White Pride Records che si annodano legami politici transnazionali sotto il segno della musica e degli eventi musicali. Dall’Inghilterra – dove a inizio anni Novanta riesce a riunire più di un migliaio di militanti attivi e 8-10.000 simpatizzanti146 – l’azione della RAC si allarga a Olanda, Belgio, Italia, Svezia, Spagna, Germania, USA, Australia e Giappone. Come nota lo studioso Saverio Ferrari, «Blood and honour», non più semplicemente una fanzine, si costituirà

dunque progressivamente come un insieme di bande nazi-rock, case editrici e discografiche, negozi di abbigliamento, luoghi di ritrovo e organizzazioni politiche. A suo modo, in forme indubbiamente nuove, una nuova Internazionale nera.147 Ottanta-Novanta «neri» La base di Blood and Honour in Italia è il Veneto Fronte Skinheads (VFS). Sono i camerati neonazisti del blitz comasco nella sede di Como Senza Frontiere. Fondato nel 1985 da Massimo Bellini (batterista dei Peggior Amico), Ilo Da Deppo e i fratelli Paolo e Pietro Puschiavo, dopo 33 anni il VFS occupa ancora saldamente la prima posizione nella classifica dei gruppi più estremisti d’Italia. Pietro Puschiavo diventerà poi fondatore di Progetto Nazionale, il movimento sovranista scaligero da sempre in sintonia con l’ex sindaco di Verona Flavio Tosi. Ma vediamo come prende forma il VFS. Il primo nucleo si aggrega attorno ad alcuni gruppi veneti come i Plastic Surgery, a seguito della scissione del movimento skinhead in Italia. Siamo nel 1983 e anche da noi si consuma, in maniera plateale durante il raduno di Certaldo, quella spaccatura fra skinhead non razzisti e di estrema destra che si era vista nell’Inghilterra del 1976-77. «In quell’occasione, tra violenti scontri e il rifiuto di alcuni gruppi musicali di suonare di fronte a selve di braccia tese nel saluto romano, avviene la spaccatura. Il Veneto, in questo contesto, si candida a diventare la capitale dei nazi-rocker. Anticipa sul piano nazionale la nascita di un circuito musicale dai connotati esplicitamente razzisti.»148 Anche in Italia, come in Inghilterra, la musica diventa il veicolo attraverso il quale l’estrema destra costruisce il suo grumo politico. L’etichetta discografica che produce i Peggior Amico è la francese Rebelles Européens, fondata da Bodilis Gaël, ex manager dei Brutal Combat, band nazirock francese. Quando Puschiavo e Da Deppo ufficializzano la nascita del VFS si accentua l’attivismo e la formazione di altre organizzazioni analoghe. Vengono alla luce prima l’associazione di coordinamento Skinhead d’Italia, e poi Azione Skinhead – che ritroveremo anni dopo in altri contesti. Sono due strutture indipendenti. Hanno organi di informazione come «Blitz Krieg» e sezioni femminili come «Skingirls d’Italia». E un piede all’estero. Oltre ai legami con Blood and Honour ci sono quelli con il Ku Klux Klan e con gli Ustascia croati. È il trampolino che porta al

boom organizzativo del Veneto più nero. Se a fine anni Settanta i giovani neofascisti organizzano i Campi Hobbit, tra anni Ottanta e Novanta nasce e attecchisce la manifestazione «Ritorno a Camelot», una tre giorni di dibattiti e concerti. Il più atteso? Quello degli Skrewdriver, sempre più nazi, di Ian Stuart. è così tra Italia e Regno Unito tutto si tiene. «Camelot» è il modello che dà ispirazione a tutti i festival che conosciamo oggi. Dal «Boreal» di Forza Nuova a «Direzione Rivoluzione» di CasaPound alla «Festa del Sole» di Lealtà Azione. La centralità di questi eventi è data dal fatto che insieme alla musica è possibile far circolare idee, libri, progetti politici altrimenti difficili da propagandare. Ma sono anche l’occasione per entrare in rapporto diretto con altri ambienti dove c’è aggregazione sociale e dove si costruisce il consenso intorno al nostalgismo e all’intolleranza. A partire dalle curve degli stadi. È in questo contesto che a Verona tra il 1991 e 1992 prendono vita i Gesta Bellica: il bassista, dal 1994, è Andrea Miglioranzi, altro fondatore del VFS insieme a Pietro Puschiavo. I Gesta Bellica sono la band di riferimento di quel mondo neofascista e neonazista che in quegli anni la domenica ha la sua roccaforte nella curva Sud dello Stadio Bentegodi di Verona. Grazie a questo ampio seguito nell’ambiente identitario, il gruppo si impone in breve tempo. Subito dopo l’entrata di Miglioranzi esce lo split «Tempi Moderni» con i Corona Ferrea, nel quale è contenuta una delle hit dei Gesta Bellica, ovvero Feccia Rossa,. Il ritornello è eloquente: Feccia rossa, nemica della civiltà! Feccia rossa, la gioventù vi schiaccerà! Feccia rossa, bestia senza umanità! Feccia rossa, la celtica croce vincerà! Feccia rossa, feccia rossa, feccia rossa! Inghilterra-Italia, e ritorno. Mentre gli affiliati italiani imperversano sulla scena nazirock, che succede all’originale Blood and Honour? Il movimento nel 1993 subisce una brusca frenata: Ian Stuart muore in un incidente stradale. Se in Inghilterra il movimento finisce per essere inglobato all’interno di Combat 18 – ne parleremo tra poco – nel resto d’Europa i governi prendono provvedimenti per fermarne la crescita. Ma la «repressione», se così si può definire, è piuttosto lenta. Nel settembre del 2000 la sezione tedesca di Blood and Honour è dichiarata fuori legge: la polizia interviene e «sgombera» numerosi concerti, vedi Lueneburg (2000) e Amburgo (2001). Pochi anni dopo, nel 2005, tocca alla sezione spagnola: gli affiliati vengono arrestati con l’accusa di traffico di armi.

Addirittura in Belgio, nel 2006, 11 militari (di cui due sottufficiali) finiscono in manette con l’accusa di voler compiere atti terroristici, in una più vasta operazione che porta in carcere 17 persone.149 Nei quindici anni di agonia di Blood and Honour cresce una nuova sigla nata a inizi anni Novanta: i Combat 18. I due numeri stanno a simboleggiare le iniziali di Adolf Hitler, A e H, rispettivamente prima e ottava lettera dell’alfabeto. Il significato è quindi «I combattenti di Adolf Hitler». I capi del movimento ferocemente neonazista, che nasce da una costola del British National Party, pescano gli affiliati tra le frange più violente di skinhead o tra «le famigerate bande di tifosi di calcio con propensioni razziste, West Ham, Charlton, Leeds, Milwall e gli Headhunters del Chelsea.»150 Combat 18 è una vera e propria organizzazione armata. Non si limita alle parate neonazi e ai concerti, compie atti terroristici. La formazione inglese stringe legami con gruppi affini in Austria, Olanda, Germania e Scandinavia (Norvegia e Svezia in particolare), fino a passare ai fatti. Nel 1999 insieme al gruppo contiguo e nazionalista dei Lupi bianchi C 18 rivendica tre attacchi terroristici a Londra che provocano tre morti e più di un centinaio di feriti. I luoghi colpiti? Due quartieri abitati soprattutto da immigrati – il loro bersaglio principale – e un bar frequentato da gay. In Inghilterra, Scotland Yard e i servizi segreti conducono imponenti operazioni che porteranno in manette decine e decine di esponenti del gruppo, come i fratelli Sargent e due soldati britannici, Darren Theron e Carl Wilson. Contemporaneamente le indagini sui Lupi bianchi portano dritte alla figura di Del O’Connor, ritenuto il secondo in comando dei C18 e già membro della security degli Skrewdriver.151 Nel 2003 la polizia tedesca smantella nello Schleswig-Holstein una cellula di C-18. Oltre ad attacchi razzisti si pensa che il gruppo, forte di un nucleo di almeno dieci persone, volesse piazzare una bomba al centro ebraico di Monaco durante la visita del presidente tedesco: tutto questo per commemorare «degnamente» la Notte dei Cristalli del 1938.152 Per gli apparati di sicurezza europei C-18 è un vero incubo. La sigla ricompare nel 2009. Questa volta in Russia. Nelle indagini per l’attentato terroristico sul treno Nevsky Express (27 morti). La rivendicazione iniziale recita: «Noi militanti del gruppo autonomo Combat 18 rivendichiamo la responsabilità per l’esplosione del treno Nevskij Express. Ci saranno altre azioni in futuro. È giunta l’ora. Noi dichiariamo che la guerra toccherà ogni uomo della strada, in questa guerra non ci possono essere né persone estranee né vittime innocenti. Ci sono solo i nostri sostenitori e i nostri nemici». Questa versione

sarebbe stata smentita da un altro comunicato della stessa C-18. Negli ultimi anni C-18 è ricomparsa, in forma minore, in Germania.153 Spari, esplosioni, pestaggi, che si accompagnano a note musicali piene di odio. Band, ultrà e politica La scomparsa di Blood and Honour mette la scena nazirock di fronte al bisogno di riorganizzarsi. Nell’Italia dei primi anni Novanta, quando si tiene la seconda edizione di «Ritorno a Camelot» è un proliferare di etichette discografiche, gruppi musicali dalla vita più o meno breve. Alcuni invece hanno ripreso a suonare oggi, dopo anni di inattività. L’etichetta Tuono Records nel 1993 produce un nuovo gruppo, i milanesi A.D.L. 122, il cui acronimo sta per Anti Decreto Legge 122 (meglio conosciuta come Legge Mancino). La Tuono si concentra su gruppi italiani ma non mancano quelli stranieri tra cui i portoghesi LusitanOi! A Bologna, la città rossa per eccellenza, a fine anni Novanta Fabio Farri e Andrea Cassoli fondano gli Antica Tradizione, che, neanche a dirlo, intitoleranno la loro uscita del 1992 «Al Castello di Camelot». Tutto si concentra attorno a questa fascinazione, a metà tra il fantasy e l’immaginario medievaleggiante. Nel 1993 escono i primi dischi della casa Rupe Tarpea, nata dalle ceneri di Dart (Divisione Arte, organizzazione parallela del Fronte della Gioventù), che inizia una veloce scalata producendo gli A.D.L. 122 nel 1995 e poi Massimo Morsello, prima nel 1996, poi nel 1998. Continuano i richiami al mondo tolkieniano. Nel 1994 si formano gli Hobbit, una delle band ancora oggi più popolari nel circuito nero. I loro testi sono un miscuglio fra orgogliosi inni al fascismo («Ho il cuore nero, me ne frego e sputo») ed esaltazione della violenza negli stadi («Frana / la curva frana / sulla polizia italiana»). Il front man del gruppo si chiama Emanuele Tesauro, è un avvocato, un uomo che dovrebbe difendere la legge e la Costituzione ma non si vergogna di esporre la sigla della Repubblica sociale italiana tatuata all’interno dell’avambraccio sinistro. A novembre del 2017 il suo nome balza alla ribalta delle cronache. Non per un concerto, ma per un convegno formativo patrocinato dall’Ordine degli avvocati di Verona.154Lo scopro leggendo la locandina dell’evento: il tema è la legittima difesa, tra gli invitati ci sono anche politici della Lega Nord. Il presentatore dell’incontro – che dà diritto a 1 credito formativo – è Tesauro in quanto

presidente di Fortezza Europa. «Fortezza», nata da una scissione della sezione veronese di Forza Nuova, è un’associazione di ispirazione neonazista. Prende il nome dal termine usato dalla propaganda del Terzo Reich durante la seconda guerra mondiale per indicare l’Europa continentale. Alle elezioni amministrative del 2017 il gruppo di Tesauro appoggia il candidato del centrodestra, Federico Sboarina, che poi diventa sindaco di Verona sconfiggendo la senatrice Patrizia Bisinella fidanzata del sindaco uscente Flavio Tosi (a sua volta da sempre appoggiato dall’estrema destra). Ai vertici di Fortezza Europa c’è anche un altro vecchio camerata della Verona Nera: Yari Chiavenato, già segretario provinciale di FN, naziskin e ultrà dell’Hellas Verona arrestato nel ’96 per la tristemente celebre trovata del manichino di colore impiccato contro il giocatore Ferrier che la società scaligera voleva acquistare. Anni cruciali, quelli della seconda metà dei Novanta. Non solo per la scena nazirock, ma anche per il tifo neofascista, come vedremo alla fine di questo viaggio. Fra il 1997 e il 1999 in Brianza iniziano le uscite di Barracuda Records, che comprende gruppi come i Porco 69, i Dente di Lupo e i bolognesi Legittima Offesa. Contemporaneamente a Roma Gianluca Iannone, lui, il grande capo di CasaPound, fonda gli Zeta Zero Alfa. L’altro centro di produzione è la Milano della Skinhouse, che ospita numerosi concerti e raduni e produce uno dei gruppi di punta del panorama milanese, i Malnatt. Basta leggere alcune strofe delle loro canzoni per respirare il clima di odio politico e sociale che ispira il gruppo. Se la prendono con la società dalla quale si riconoscono esclusi perché fieri difensori di valori ormai traditi. Eppure i soli in grado di portare ordine nel caos. I Porco 69, ad esempio, nel brano Nativi d’Europa se la prendono con la globalizzazione e l’immigrazione che hanno contaminato il vecchio sogno di una Europa ariana fatta di antichi eroi. Col sangue difendiamo la nostra identità, nel sangue fermeremo chi contro noi verrà Col sangue hanno lottato i nostri antichi eroi, nel sangue arresteremo tutte le invasioni Il germe mondialista che ha contaminato l’Europa ed i suoi figli verrà debellato Col sangue è il riscatto di una generazione, nel sangue è l’inizio di una rivoluzione! I Legittima Offesa invitano alla guerra, per vendicare la propria terra e i valori delle generazioni dei padri. Solo con la violenza – secondo loro – può risorgere

la stirpe e non morire la speranza. Certe strofe sembrano una chiamata alle armi. Guerra, guerra, è grande la tua terra L’aratro e la spada ne tracciano la strada I secoli di storia ne cantano la gloria Guerriero, in piedi, è l’Italia ciò che vedi! Guerra, guerra, guerra, guerra! Guerra, guerra, guerra, guerra! Ma forse il testo che meglio sintetizza la rabbia autoescludente, i nemici da combattere, l’odio generalizzato, è il brano dei Dente di Lupo Odio!. È la summa di un’orgia distruttiva degli Skin che rivela tutto il loro mondo di frustrazione. Contro il sionismo e comunismo Con la nostra sica esprimiamo l’Estremismo Un’intolleranza verso il consumismo l’Ultraviolenza, birra, oi! Nazionalismo! ODIO! ODIO! Da porci assetati, mafiosi e mercanti Immigrati, borghesi eleganti Noi Skinheads niente colloquio Nazionalismo e pur ODIO! ODIO! ODIO! Da Nord a Sud, mappa dei festival «neri» Concerti «politici». Festival. Esibizioni collegate a festeggiamenti per eventi sportivi, tipo la promozione di una squadra di calcio. O feste ultrà. Se passiamo in rassegna l’elenco dei vari eventi musicali della destra nazifascista, in Veneto come in Lombardia, nel Lazio e in Sicilia, da Treviso a Catania, fino a Catanzaro, scopriamo non solo che i nomi delle band che spuntano sono quelli di cui abbiamo raccontato le origini, lo sviluppo, le connessioni con gli omologhi di altri Paesi. Ma dal numero e dalla geografia di questi appuntamenti emerge anche una specie di mappa delle regioni più «nere». I raduni organizzati a Varese dai Do.Ra. in collaborazione con il VFS per festeggiare l’anniversario della nascita di Hitler. I concerti promossi dagli Hammerskin di Lealtà Azione in

Lombardia. Le parate musicali per celebrare Acca Larentia, il ricordo delle Foibe, la stessa morte di Ian Stuart e di Massimo Morsello, due miti per la galassia nera. Proprio in memoria del De André nero ci sono state numerose iniziative negli ultimi anni. Nella Calabria nera, che dai moti di Reggio del ’70 ai legami con la ’Ndrangheta si è sempre distinta per un mix micidiale unico al Sud, è ormai una tradizione il concertone di Catanzaro – la cui prima edizione fu nel 2003. A Bari nel 2015 c’è stato un grande festival che ha visto la partecipazione degli Onda Nera, dei Vecchia Sezione e dei Testudo. L’anno dopo, quindicesimo anniversario dalla morte di Morsello, tocca a Milano celebrare la memoria del co-fondatore di Terza Posizione, compagno di latitanza e socio di Roberto Fiore. Al Teatro Principe si esibiscono Hobbit, Topi Neri, Skoll e anche Jack Marchal dalla Francia. Il 2017 vede ancora Catanzaro fare le cose in grande: Gesta Bellica, Sumbu Brothers e D.D.T. (Dodicesima Disposizione Transitoria). Lo stesso giorno Antica Tradizione, Blitz, Vecchia Sezione, Testudo, Legittima Offesa, Linea del Fronte e Figli Venuti Male partecipano a un festival organizzato al Presidio di Milano, in piazza Aspromonte, sede meneghina di Forza Nuova. Al Presidio si fa un po’ di tutto, dibattiti, cene e feste per il compleanno di Mussolini e di Hitler. Nel giugno 2017 ha spento le candeline anche il segretario provinciale di Lodi di FN, Ettore Sanzanni. Su una torta con la svastica e la scritta «sieg heil!» Ma a Milano è soprattutto il mondo naziskin legato alla Skinhouse che muove le acque, in tutti i sensi. Eredi e prosecutori dell’esperienza dei suprematisti americani di Hammerskin Nation, sono loro i concerti che attirano l’attenzione dei media. Sono eventi di carattere internazionale, che rendono di fatto Milano la capitale italiana Hammerskin. A metà degli anni Duemila la Skinhouse è stata base di alcuni dei più pericolosi skin del panorama meneghino, da quel Luigi Celeste che sarà accolto come una star sul palco della Leopolda renziana, agli altri camerati picchiatori Giacomo Pedrazzoli, Stefano Del Miglio e Norberto Scordo. Dopo una lunga scia di aggressioni e accoltellamenti ai danni di esponenti dei centri sociali, per i processi in corso nell’ottobre 2006 la Skinhouse viene chiusa dalle autorità. Prima della chiusura organizzano un grande concerto, l’«Evento Finale». A suonare i soliti gruppi: Timebombs, Nativi, Kommando Skin, Civico 88, Malnatt, Faustrecht, Legittima Offesa e A.D.L. 122. All’evento partecipano 700 spettatori, alcuni anche dall’estero. Due anni dopo si riapre: nuova sede (periferia di Bollate), stessi legami (Hammerskin), altri concerti, stessi gruppi. Sono quei gruppi che danno vita al festival Gods of Rac il 17 maggio del 2008 (richiamando il più famoso Gods of

Metal), che si tiene al Presidio di Milano di Piazza Aspromonte, dopo che la questura aveva negato l’autorizzazione in altri luoghi. Così riscostruivo il clima di quel giorno in un mio libro precedente: «Sarà un giorno movimentato», con «il rischio di agguati a ogni angolo», e «molti nemici in giro per la città», si leggeva nei giorni che hanno preceduto il concerto sui siti degli estremisti di destra ma non solo. Un gruppo di disobbedienti dei centri sociali rossi partì per Verona per partecipare alle manifestazioni contro l’omicidio di Nicola Tommasoli, massacrato a calci e pugni da simpatizzanti neonazisti il 1° maggio 2008. Molti altri «antagonisti» – la maggior parte dei quali aderenti al centro sociale Vittoria – hanno dato vita a un presidio in via Muratori per «garantire la vigilanza per tutta la giornata al centro.» Gli esponenti di estrema sinistra giudicarono negativamente il divieto della questura agli skin. «Nega l’agibilità», spiegarono in un comunicato, «ma non si pone il problema che chi manifesta aderisca a idee neofasciste.»155 I grandi festival italiani sono quelli direttamente legati al circuito Hammerskin. Che il 29 maggio 2010 a Cinisello Balsamo festeggia i vent’anni di attività in Europa con un happening musicale. «Un raduno tenuto nascosto fino all’ultimo da questura e prefettura, per timore di incidenti, anche al sindaco della città.»156 L’anno dopo nei locali della Skinhouse va in scena l’Hammerfest 2011. Nel 2013 il copione si ripete in un capannone a Rogoredo, zona sud di Milano: altro concerto organizzato per raccogliere fondi e sostenere le spese processuali dei camerati di Azione Skinhead, gruppo smantellato dall’operazione Runa nel 1993. Un evento al quale partecipano centinaia di naziskin, molti provenienti dall’estero. Tra gli ospiti ci sono gruppi seguitissimi, come gli statunitensi Bully Boys e i britannici Brutal Attack.157A questi bisogna aggiungere, sempre a Milano, almeno altri sette eventi, tra cui quello del decennale del Presidio (15 novembre 2013, in cui suonano i D.D.T.), e la seconda edizione del Festival Boreal dell’ultradestra europea (una tre giorni, 12-13-14 settembre, organizzata da Forza Nuova). Vi prendono parte, insieme a Legittima Offesa, Hobbit e Testudo anche gruppi polacchi, ungheresi e svedesi. A questi concerti-raduni è seguito nel 2015, di nuovo a Rogoredo, l’Hammerfest-2015, per festeggiare il ventennale di Hammerskin Italia. Gli ospiti erano gruppi come i milanesi

Malnatt e Bullets – che cantano strofe come «Piazze regalate a sporchi drogati, case occupate da folle di immigrati. Grippa e Madama restano a guardare. È compito nostro farli ora scappare!»; i tedeschi di Division Germania – che ambiscono il ritorno ai confini pre seconda guerra mondiale – e di Frontalkraft; e poi gli A.D.L. 122, Linea Ostile, i Nativi (nati dopo lo scioglimento dei Porco 69) e gli inglesi White Law. Tutti cantano a squarciagola contro «musi neri» e zingari, contro il multiculturalismo e il multirazzismo, inneggiano alla patria e alla bandiera, alla battaglia di Lepanto e al mito dei legionari.158L’edizione del 2016 del raduno Hammerskin, che ha visto anche la collaborazione di Blood and Honour, si intitolava «Europe Awake», dal nome della canzone degli Skrewdriver del 1984. La parola d’ordine è l’odio contro un’Europa che ha rinnegato le proprie origini ariane, snaturata dall’immigrazione.159Il questore nega la possibilità agli organizzatori di svolgere iniziative pubbliche. E loro affittano un locale privato, lo Space 25 di via Toffetti. E qui possono cantare indisturbati i versi di Europe Awake di questo tenore: «Europa svegliati, per il bene dell’uomo bianco… Europa svegliati prima che sia troppo tardi… Europa svegliati ora…» Le altre formazioni salite sul palco a Rogoredo, che cantano tutte un genere definito Aryan rock, hanno nomi che sembrano di unità militari. Sono i londinesi Squadron, i tedeschi Blitzkrieg che avversano l’Islam e l’alleanza Usa-Israele, i brandeburghesi Frontfeuer anti-immigrati, gli antisemiti norvegesi Tors Vrede. E poi le band italiane: i Malnatt (che cantano Resistenza bianca: «Soldati di una guerra che feriti non farà… giovani rasati, sguardi affilati, scolpiti nella fede senza pietà, i mondo ci appartiene noi non avremo pietà…»), i Nativi, i veneti Katastrof e i Nessun Pentimento. Che cantano roba così: «Risorgi Europa sotto il vessillo del sole nero…» Metal nero nelle regioni rosse Oltre alla scena Hammerskin con i suoi contatti internazionali, c’è un altro filone musicale che è cresciuto negli ultimi anni. È quello legato al cosiddetto NSBM, National Socialist Black Metal. In Italia la scena è dominata da una band sarda nata a inizio Duemila: Waffen SS (in onore alle famigerate truppe d’élite di Hitler). Emblematico il titolo di uno dei loro primi lavori: W.A.R. Against JudeoChristianity. Il centro dell’NSBM è però l’Est Europa, la Germania, la Scandinavia e gli Stati Uniti. Paesi dove il black metal è in generale più

sviluppato rispetto all’Italia. La dinamica della rete sottoculturale, però, è la stessa. Nella giornata della memoria del gennaio 2018 spunta il volantino di un concerto organizzato ad Azzano Decimo, provincia di Pordenone. Si intitola Black Metal Night N3. Il concerto va in scena in un circolo privato, e così i vincoli delle autorizzazioni comunali sono aggirati. Il programma annuncia la presenza del gruppo finlandese dei Goatmoon, la cui canzone Way of the Holocaust Winds esorta un rinascente impero ariano e purificare il mondo con i venti infuocati dell’Olocausto. Il Veneto Fronte Skinheads si dissocia in una nota dichiarando «la propria più totale estraneità al concerto: “Il mondo skinhead nulla ha a che vedere con quello black metal, cosa nota e risaputa. Diffidiamo per tanto chiunque dal tirare in ballo il nome della nostra associazione per fatti ed eventi dei quali non è responsabile”.»160Sarà, ma riferimenti e testi musicali attingono allo stesso identico immaginario. Basti pensare al gruppo francese Leib Standarte (dal nome della più importante divisione corazzata delle WaffenSS), che nel 2006 producono un Cd dal titolo «Adolf Hitler» «nel quale è contenuto il pezzo Zyklon B, il gas utilizzato in alcuni campi di sterminio.»161 Un altro festival clou nel panorama nazirock ha come teatro Bologna. È il «White Kriminals Party». A maggio 2018 è prevista la settima edizione. Tante band dall’estero e una ricorrenza particolare: il ventennale degli organizzatori, i Legittima Offesa, nati nel 1998 e «legati alla frangia di destra degli ultrà della Fortitudo (la squadra di basket di Bologna), gli Unici. Il nome stesso della serata richiama il titolo di un disco e canzone dei Legittima Offesa, White kriminals, definito come un modello di vita che si rifà alle tradizioni hooligan, skin e ribelli.»162 Anche questo concerto, come quello Hammerskin milanese, è di respiro internazionale. Alla sesta edizione del 2017 hanno partecipato gruppi dalla Germania e dall’Olanda, alla terza (2014) i finlandesi Mistreat e alla quarta (2015) i britannici Brutal Attack. Ospiti abituali sono anche vecchie conoscenze del panorama musicale neofascista italiano, come i Gesta Bellica e gli Hobbit. Il luogo del concerto, come sempre, è tenuto nascosto fino all’ultimo e raggiungibile grazie alle informazioni che si possono ricevere tramite mail o telefonando. C’è un dato che stupisce sul grado di penetrazione sociale e territoriale del pensiero neofascista, nella sua declinazione musicale. È la sempre maggiore diffusione della ricetta dei «concerti neri» anche nelle regioni tradizionalmente

amministrate dalla sinistra. Territori dove gli anticorpi della politica rispetto alle derive di estrema destra sono, o dovrebbero essere, più robusti. A fine novembre 2017, nel bolognese, a Budrio, infuriano le polemiche contro la concessione del palazzetto dello sport all’Associazione Evita Peron che vi vuole tenere un concerto di beneficenza per i reparti pediatrici dell’ospedale Gozzadini a suon di musica nazirock. Alla fine la società che gestisce l’impianto sportivo del Comune annulla l’evento, che si terrà in un altro luogo. Il Pd esulta per questa vittoria della mobilitazione democratica e antifascista, eppure negli stessi giorni, a Crevalcore, si accendono i riflettori sul palco di Arkadia, l’incontro di Gioventù Nazionale, l’organizzazione giovanile di Fratelli d’Italia, organizzato nell’auditorium cittadino assieme alle associazioni universitarie di destra. Fra incontri e dibattiti c’è spazio per un po’ di musica. Quali gruppi possono suonare (al palazzetto «Primo Maggio», costruito anche con le donazioni dei lavoratori iscritti alla Cgil)? Decima Balder e Avrora. I primi hanno all’attivo il Cd «Intervento», prodotto dalla (ormai) onnipresente Rupe Tarpea Produzioni. Il simbolo del gruppo è un chiaro rimando a quello tristemente noto della X Mas. Gli Avrora invece provengono da quel composito mondo musicale nato a fine anni Novanta, anch’essi parte integrante di Rupe Tarpea. Sono i promotori di una serie di concerti chiamati Borg Resistance e, nell’ambito di Azione Giovani (la formazione giovanile dell’allora Alleanza Nazionale) fondano Musicazione, «un’associazione che nasce per promuovere la diffusione della musica con particolare attenzione alla Musica Non Conforme in tutte le sue forme.»163È grazie a Musicazione che la produzione Rupe Tarpea inizia a circolare anche all’interno del mondo di AN – storicamente più moderato e proprio per la sua adesione al sistema inviso ai gruppi dell’estrema destra italiana. Gli Avrora si fanno conoscere anche all’estero, entrando nel circuito europeo in particolare grazie agli svedesi Ultima Thule (attivi già dagli anni Ottanta). La storia sembra ritornare. Resuscita tradizioni che si credevano superate. Con l’ascesa della destra radicale hanno ripreso vigore anche i Campi Hobbit. L’ultimo è andato in scena a Montesarchio, nel beneventano, dal 23 al 25 giugno 2017, in occasione del quarantennale del primo campo del 1977.164Ma il primato di «campo» nero va a Erebor Camp, il festival di Catanzaro. Tra dibattiti, tornei di calcetto e concerti è arrivato nel settembre 2017 alla quinta edizione. Organizzato da AlPoCat (Alternativa Popolare Catanzaro, recentemente schierata a sostegno di «Noi con Salvini») a Sellia Marina,

raccoglie l’adesione di numerose sigle dell’estrema destra italiana a parte CasaPound: Forza Nuova, Fiamma Tricolore, VFS, Spazio Libero Cervantes, Identità Tradizionale, Azione Identitaria, Cantiere Laboratorio, Roma ai Romani e Azione Talos. Il mondo musicale dell’estremismo di destra è uno dei passepartout che negli ultimi anni ha agevolato il rimontare sulla scena del fascismo. Ha creato reti, reti che travalicano i confini italiani e che sono profondamente legate a quelle europee. Ha dato forma a una vera Internazionale nera grazie ai messaggi delle sue canzoni. Ha permesso a cantanti di diventare leader politici e ai palcoscenici di trasformarsi in officine dell’odio. La crescita progressiva della musica nazirock e dei mondi che vi ruotano attorno sembra un film in due tempi: e forse ne arriverà anche un terzo. È un’onda anomala che ha scollinato gli anni di piombo, ha allagato gli Ottanta e i Novanta e poi, dopo anni di apparente risacca, ha ripreso a gonfiarsi. Troppo deboli gli argini. In molti casi inesistenti. La musica non va mai spenta, ma se riporta in vita i fantasmi del passato ed educa all’intolleranza e all’odio del diverso, andrebbe silenziata. In questi anni in Italia nessuno ci ha fatto caso: tutti concentrati sugli stadi, sulle piazze. Tutti a pensare che questi festival fossero eventi tutto sommato trascurabili. Roba per pochi intimi. E intanto, grazie a migliaia di adepti, il fronte del palco avanzava.

133 «Cinghiamattanza», le botte a destra, di Laura Mari, «la Repubblica», 18 febbraio 2008, cfr. http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2008/02/18/cinghiamattanzale-botte-destra.html 134 Matteo Albanese, Giorgia Bulli, Pietro Castelli Gattinara, Caterina Froio, Fascisti di un altro millennio? Crisi e partecipazione in CasaPound Italia, Bonanno editore, Acireale-Roma 2014, p. 83. 135 Meno teste rasate, più mojito. CasaPound cavalca la movida, di Mariagrazia Gerina, «l’Unità», 14 giugno 2011, cfr. http://archive.li/KqaCN 136 Ibidem. 137 Maddalena Gretel Cammelli, Fascisti del terzo millennio, Ombre corte, Verona 2015, pp. 67-68. 138 Sì, anche i fasci fanno rap. Da più di 20 anni (e senza chiedere il permesso), di Adriano Scianca, 2 febbraio 2017, ilprimatonazionale.it

139 Domenico Di Tullio, Nessun dolore. Una storia di CasaPound, Rizzoli, Milano 2010. 140 Luciano Lamma, Filippo Rossi, Fascisti immaginari. Tutto quello che c’è da sapere sulla destra, Vallecchi, Firenze 2003, p. 221. 141 Dick Hebdige, Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale, Costa & Nolan, Milano 2000, p. 59. 142 In particolare il film This is England di Shane Meadows del 2006 e i documentari Skinhead Attitude (2003) di Daniel Schweizer e The Story of Skinhead with Don Letts, del regista e dj Don Letts, prodotto dalla BBC e trasmesso nel 2016. 143 Traduzione: «Sto in piedi a guardare il mio Paese, andar giù per lo scarico / Siamo tutti colpevoli, siamo tutti da biasimare / Li stiamo lasciando vincere / Li lasciamo venire e basta / Un tempo avevamo un impero / Ora siamo una baraccopoli / Potere Bianco per l’Inghilterra / Potere Bianco oggi / Potere Bianco per la Bretagna / prima che sia troppo tardi. 144 Saverio Ferrari, I denti del drago. Storia dell’Internazionale nera tra mito e realtà, Edizioni BFS, Pisa 2013, p. 133. 145 Ibidem. 146 «Searchlight – The International Anti-Fascist Monthly», No. 199, January, 1992. 147 Saverio Ferrari, I denti del drago, cit. p. 134. 148 Ibidem. 149 Nazi-rock fuori tempo e tanta xenofobia. Un’adunata milanese, di Saverio Ferrari, Marinella Mandelli, «il manifesto», 19 novembre 2016, cfr. https://ilmanifesto.it/nazi-rock-fuori-tempo-e-tanta-xenofobia-unadunatamilanese/. 150 N. Goodrick-Clarke, Sole nero. Culti ariani, nazismo esoterico e politiche identitarie, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2007, pp. 75-76. 151 Anti-terror police seek White Wolf racist over bombs, di Stuart Millar, «The Guardian», 28 aprile 1999. Cfr. https://www.theguardian.com/uk/1999/apr/28/uksecurity.stuartmillar 152 Germain raids target neo-Nazis, BBC News, 28 october 2003. 153 Neonazis reanimieren Terrorgruppe «Combat 18», di Lukas Strozyk, Von Reiko Pinkert, «Süddeutsche Zeitung», 3 november 2017, cfr. http://www.sueddeutsche.de/politik/rechtsradikalismus-neonazis-reanimierenterrorgruppe-combat--1.3351140.

154 Verona, il convegno formativo per avvocati presentato dal cantante neofascista, di Paolo Berizzi, «la Repubblica», 27 novembre 2017, cfr. http://www.repubblica.it/cronaca/2017/11/28/news/convegno_avvocati_verona_neonazi182414500/?refresh_ce 155 Paolo Berizzi, Bande Nere, Bompiani, Milano 2009, p. 86. 156Saverio Ferrari, I denti del drago. cit, p. 142. 157 Teste rasate, simboli SS e croci celtiche: Milano insorge per il raduno neonazista, di Paolo Berizzi, «la Repubblica», 15 giugno 2013, cfr. http://milano.repubblica.it/cronaca/2013/06/15/news/pisapia_e_il_raduno_neonazista_a_milan 61145318/); e A Milano un maxiraduno per Hitler: skinhead in arrivo da tutta Europa, di Paolo Berizzi, «la Repubblica», 15 giugno 2013 cfr. http://milano.repubblica.it/cronaca/2013/06/15/news/maxiraduno_neonazista_a_milano_skinh 61113860/. 158 Nazirock a Milano, torna l’onda nera sulla città simbolo della Resistenza, di Michele Sasso, «L’Espresso», 26 novembre 2015, cfr. http://espresso.repubblica.it/attualita/2015/11/26/news/com-e-strano-trovarsi-inazisti-a-milano-1.240918. 159 Musica, odio e razzismo per il raduno nazirock lombardo, di Michele Sasso, «L’Espresso», 4 novembre 2016, cfr. http://espresso.repubblica.it/inchieste/2016/10/25/news/musica-amp-odio-per-ilraduno-nazirock-1.286555. 160 Giorno della Memoria: concerti con gruppi nazirock in Friuli, di Paolo Virtuani, «Corriere della Sera», 24 gennaio 2018. Cfr. http://www.corriere.it/cronache/18_gennaio_24/giorno-memoria-concertogruppi-nazirock-friuli-98fc54f6-00df-11e8-b515-cd75c32c6722.shtml? refresh_ce-cp 161 Ibidem. 162 Chitarre e teste rasate: a Bologna torna il raduno nazi-rock, di Luca Bortolotti, «la Repubblica», 29 marzo 2017, cfr. http://bologna.repubblica.it/cronaca/2017/03/29/news/a_bologna_torna_il_raduno_nazirock-161743975/. 163 Dal sito www.musicazione.com 164 Ritorno a Campo Hobbit, di Alessandro Alberti, «Il Giornale d’Italia», 5 giugno 2017, cfr. http://www.ilgiornaleditalia.org/news/cultura/888524/Ritornoa-Campo-Hobbit.html.

11. BLACK WEB La fionda e il megafono Millecinquecento post al giorno, 10mila ogni settimana, 45mila al mese. Centottantamila post nei quattro mesi che hanno preceduto le elezioni del 4 marzo 2018. Se l’affollamento di testi scritti nella piazza virtuale di Fb è un buon metro per misurare l’altezza e la lunghezza dell’«onda nera», allora si può dire che il momento politico che stiamo vivendo non è caratterizzato dalla bassa marea. L’ultradestra ama la rete. E la rete non disprezza affatto l’ultradestra. È a partire da questo dato che mi sono immerso nel black web per capire il doppio binario su cui si muovono i camerati 2.0, quello digitale dove ribolle il magma di odio che si riversa nella piazza reale. A ciò bisogna aggiungere che la rete italiana è particolarmente permeabile a contenuti nostalgici e apologetici. Il che spiega i numeri. Sul web, i siti e i forum di discussione ormai sono paleolitico. I social media li hanno schiacciati. Facebook e Twitter in modo particolare sono uno dei mezzi più potenti per veicolare informazioni e per condizionare l’opinione pubblica. In Italia ci sono 28 milioni di utenti Facebook, su un totale di circa trenta milioni di utilizzatori di internet. Cifre impressionanti, che rendono il nostro Paese quinto al mondo per tasso di crescita.165 Una piattaforma gratuita, apparentemente libera, nella quale ognuno può scrivere e condividere ciò che vuole. È per questo che Facebook diventa uno strumento a metà tra un megafono e una fionda: veicolo di propaganda formidabile per sparare in piazza il pensiero della «gente». Ma è anche un’arma impropria, una fionda con la quale oggi chiunque si sente in diritto di mirare qualunque obiettivo e lanciare il suo dardo digitale. È

questa caratteristica che rende Fb il luogo nel quale si può prendere coscienza del disagio e del profondo degrado culturale che ammorba il nostro Paese. Non sono solamente «normali» cittadini ad esprimersi in maniera particolarmente violenta, ma anche esponenti della politica e delle istituzioni. Il virtuale è reale. Un post, un clic, un commento su Fb possono avere ripercussioni sulla vita concreta delle persone e delle comunità. Quando gli autori di questi attacchi sono rappresentanti delle istituzioni, assessori, sindaci, parlamentari ed europarlamentari, leader politici, insomma gente che riveste ruoli delicati e con responsabilità che impongono un contegno e una condotta il più possibile esemplare rispetto ai cittadini, si possono generare effetti a catena. In questi anni con la crescita delle manifestazioni di intolleranza, xenofobia e nostalgismo fascista, in Italia è cresciuta parallelamente anche la schiera degli hooligans della tastiera. Nomi pubblici che hanno agito nell’ombra dei loro uffici caricando a pallettoni i loro post su Fb. Postano commenti beceri, pianificano attacchi mirati, o semplicemente danno sfogo all’impeto degli istinti più bassi. Gli esempi purtroppo si sprecano. Il 2 giugno 2017, il giorno della Festa della Repubblica, compare come foto sul profilo Fb di Pietro Di Mino (FdI), l’immagine di un cartello con scritto «2 Giugno. L’unica repubblica è quella sociale.» È un rimando esplicito alla Repubblica Sociale Italiana. Chi è Di Mino? Era allora l’assessore alle Politiche sociali del comune di Corsico, nell’hinterland milanese. L’affondo provoca polemiche e la richiesta da parte di Roberto Cenati, presidente dell’Anpi di Milano, di rimuovere l’assessore.166 Di Mino non ha mai fatto mistero delle sue simpatie per il Ventennio. Ha resistito a una mozione di sfiducia dell’opposizione. Mostra il suo pensiero in un altro post, questa volta in occasione del compleanno di Mussolini: «Sono 134 candeline!!! Buon compleanno!!!» Il Di Mino uomo è questo, ed evidentemente ritiene che la sua figura pubblica debba riflettere il suo credo neofascista: sempre su Fb dedica un post con tanto di croce celtica a Miki Mantakas, militante greco del Fronte universitario d’azione nazionale, firmato «I camerati». Non ha mai nascosto la sua «nostalgia di una vecchia Italia.» Lo ha fatto con post che riportano lo stemma del Movimento Sociale Italiano, oppure commentando un’immagine pubblicata a gennaio che parodiava una nota pubblicità: «Nostalgico Ventennio. Dove c’è balilla c’è casa».167 Dopo questa sfilza di gaffes e provocazioni il sindaco di Corsico, Filippo Errante, è costretto a chiedere a Di Mino di dimettersi: l’amministrazione comunale è ancora alle prese con un’immagine da ripulire, dopo essere finita

sulle pagine dei giornali per scandali legati alla criminalità organizzata.168In questo scenario già complicato, l’onta di un assessore nostalgico è ingestibile. Un altro campione di offese e violenze su internet è Massimo Corsaro, già missino, poi in AN, traghettato nel PdL, in FdI e dal 2015 insieme a Raffaele Fitto in Conservatori e Riformisti. Lo abbiamo già incontrato. È il deputato che ha fatto richiesta della Sala stampa della Camera per permettere a CasaPound Italia di tenere la conferenza di presentazione del programma elettorale nel febbraio 2018. Tra il 2013 e il 2017 colleziona una corposa serie di dichiarazioni, una più violenta dell’altra. Nel 2013, dopo la morte di Franca Rame commenta: «Franca Rame chi? Quella che difendeva l’assassino dei fratelli Mattei? Io di rame conosco solo il metallo».169 L’anno dopo se la prende con Laura Boldrini: «Ci voleva una presidente della Camera comunista per regalare la Banca d’Italia all’alta finanza. Una volta i traditori venivano fucilati alla schiena. Che vergogna». Ma è su Twitter e Facebook che l’impavido Corsaro nero dà il meglio di sé: «ISTRUZIONI PER L’USO: Se riuscite a seccare uno stronzo che vi entra in casa, prima di chiamare la Polizia mettetelo in freezer fino a sera» (così si esprime su Twitter il 4 maggio 2017, in occasione della prima approvazione della legge sulla legittima difesa). A luglio del 2017 inizia il dibattito in aula sulla proposta di legge di Emanuele Fiano sul reato di propaganda fascista. Corsaro dà fuoco alle polveri sulla sua pagina Facebook: «Che poi, le sopracciglia le porta così per coprire i segni della circoncisione…»170 La risposta sdegnata di Fiano è prevedibile e lecita, ma la replica di Corsaro mostra un livore di sfida. Da un lato rigetta l’antisemitismo della battuta dicendo di essere stato frainteso, il suo era solo un insulto di natura personale «circoscritto alla figura del deputato piddino che – lui sì – maggiore rispetto dovrebbe portare alla storia da cui proviene, evitando di immiserirla in quotidiane speculazioni ad uso personale.»171 Insomma, è Fiano che strumentalizza l’offesa ricevuta da Corsaro… Ma dall’altro lato in una nota dice che ha «piuttosto inteso, con un linguaggio forte come si usa sui social, ed usando una sua fotografia, dargli del “testa di c…”. Alzi la mano chi non l’ha mai pensato di nessuno. Ed io lo penso di Fiano.»172 E perché questo insulto da stadio? Per l’impegno di Fiano a cercare di impedire ogni anno la commemorazione di Ramelli da parte delle formazioni di destra. Ecco, la fionda è il megafono. Colpisci un avversario e amplificane il risultato. Non bisogna pensare a questi esempi come a folkloristiche manifestazioni di bassezze politiche e cadute di stile. Questi insulti modificano gli umori della

gente, degli utenti che li leggono. Presi nell’insieme formano una rete dal voltaggio emotivo pericoloso, il campo elettromagnetico dell’odio. È più grave un post fascista o un saluto romano? Negli ultimi dieci anni siamo passati dal Vaffa di Beppe Grillo agli insulti razzisti di Calderoli e di altri leghisti che hanno paragonato a un orango l’ex ministra per l’Integrazione del governo Letta, Cécile Kyenge. Le campagne d’odio sul web sono cresciute enormemente. Il cyberbullismo ne è uno dei risvolti sociali più drammatici, ed è successo più volte che adolescenti troppo sensibili alle umiliazioni si siano tolti la vita. Il campo politico non è immune da queste fiammate di razzismo, antisemitismo e apologia del fascismo. In alcuni casi hanno anche conseguenze legali, come per le ingiurie alla ex ministra. Ma spesso restano un sostrato permanente e impunito di istigazione all’odio. Ecco perché aggiornare all’era del web le leggi Scelba e Mancino che vietano e puniscono l’apologia del fascismo diventa cruciale. Anche perché il problema della rimozione dei contenuti offensivi da parte dei gestori dei social media è di non facile soluzione. Su Facebook, ad esempio, ci sono centinaia di pagine palesemente apologetiche del fascismo. Il guaio è che se per la legge italiana tali contenuti andrebbero rimossi, non violano però la policy internazionale di Facebook. E quindi? «È consigliabile segnalare quei contenuti alla Polizia Postale o all’Ufficio Nazionale Antidiscriminazione Razziale. Dopo una loro verifica, Facebook avvierà la rimozione di tali contenuti e pagine.» Lo dice la Head of Policy di Facebook Italia.173Meccanismo non facile né semplice. E infatti è già successo che Facebook – al netto di diversi solleciti – non abbia rimosso contenuti razzisti, xenofobi e antisemiti. In Germania, che ha una legge simile a quella italiana, già nel 2016 la procura di Monaco, dopo la denuncia dell’avvocato di Würzburg Chan-jo Jun, ha messo sotto inchiesta il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg e alti dirigenti dell’azienda (tra cui Sheryl Sandberg, responsabile operazioni, e Richard Allan a capo della policy europea), con l’accusa di non aver contrastato efficacemente contenuti razzisti. L’avvocato spiega i motivi per i quali l’azione della procura di Monaco si è concentrata su Facebook. Da un lato perché nei confronti di Twitter e Google (dove comunque circolano tantissimi contenuti neonazisti e neofascisti) si hanno meno risorse. Dall’altro perché il social di Zuckerberg ha un impatto decisamente maggiore. A tal punto che su Facebook sono nati persino alcuni partiti e movimenti, come

Pegida (che significa Patriotische Europäer gegen die Islamisierung des Abendlandes – Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’Occidente).174 In Italia la prima a sollevare il problema è stata l’ex presidente della Camera, Laura Boldrini. A febbraio 2017 scrive una lettera a Mark Zuckerberg segnalando un fenomeno che si sta allargando a macchia d’olio: «troppo odio sui social», dice la terza carica dello Stato. Facebook a maggio 2016 ha sottoscritto con la commissione Ue il codice di condotta contro «la diffusione dell’illecito incitamento all’odio in Europa.» «La prima verifica semestrale dice che risulta cancellato appena il 28% dei contenuti segnalati come discriminatori o razzisti. Una media che si ricava dal 50% di Germania e Francia e dal misero 4% italiano. Mi domando se questo dato allarmante lo dobbiamo anche all’assenza di un ufficio operativo di Facebook in Italia. Un’Italia», scrive sempre la Boldrini, «che sconta scarsa collaborazione da parte della sua azienda anche sul fronte della disinformazione, al contrario di quanto avviene in Germania o in Francia.»175Il 25 aprile 2017 l’ex presidente della Camera torna all’attacco chiedendo a Fb di «cancellare le pagine della vergogna che inneggiano al fascismo.»176 Un altro che va dritto al punto è il sindaco di Milano, Giuseppe Sala. A luglio 2017, dopo il blitz in consiglio comunale da parte di un gruppo di militanti di CasaPound,177 risolleva il problema. «Mi chiedo se nel rispetto totale della nostra Costituzione, non sia il momento di aggiornare le leggi e le regole contro l’apologia di fascismo, per la quale non è mai condannato nessuno. […] È più grave un post fatto passare da un fascista sul web che diventa virale o un saluto romano? Per me lo sono entrambi. […] vengano aggiornate le norme che puniscono e prevengono il tentativo di ricostituzione del partito fascista alla luce anche di nuovi strumenti di comunicazione come il web.»178 La galassia nera su Facebook Quando la Boldrini scriveva a Zuckerberg, era allarmata dai dati inquietanti di una ricerca unica nel suo genere. L’ha promossa e curata l’Anpi. I primi risultati sono usciti a fine 2016 su «Patria Indipendente», il giornale dell’associazione dei partigiani. Ma sono continuamente aggiornati. Si intitola La galassia nera su Facebook. È la prima e più dettagliata ricognizione di questo fenomeno in

evoluzione, e che prima di allora non era mai stato tracciato in modo organico. Questa ricognizione del black web è molto importante, perché, come dice Giovanni Baldini, coordinatore dell’indagine, «il discorso pubblico e politico sul web ha tempi e modi molto più veloci e incontrollabili di quello che si svolge sui giornali e in tv… Nel caso della propaganda che fa riferimento a fascismo e nazismo negli ultimi anni c’è stata un’impennata, con un trend in continua crescita.» Ho provato a seguire le correnti di questo mare grande della propaganda neofascista e neonazista in Italia. Balzano subito all’occhio dei dati. Innanzitutto, le formazioni di cui si è mappata la presenza su Fb sono tutte quelle che non hanno aderito alla «svolta di Fiuggi» del 1995, quando il Movimento Sociale si scioglie per confluire, in gran parte, in Alleanza Nazionale. Al gregge di queste sigle si aggiungono anche le declinazioni italiane di movimenti stranieri: «pagine che, come prassi continuativa, diffondono e condividono la propaganda di questi gruppi».179E poi quelle delle band musicali, e le pagine nostalgiche o apologetiche. Sono state escluse quelle non in lingua italiana. E anche gli account personali e i gruppi, con i quali altrimenti la mappa sarebbe sterminata. Questa fotografia, scattata dagli analisti dell’Anpi a fine 2016, tiene conto di un magma che inizia a scorrere dal 2009: è la data a cui si fanno risalire i «primi» post (sono i primi presi in esame) sparati, per esempio, da CasaPound e da Forza Nuova. Il flusso dei «mi piace» appiccicati a quei post e a quelli successivi determina la «media» finale che viene tirata. E dunque: la quantità di interazioni coinvolge 9000 pagine, di cui 2700 strettamente appartenenti all’estremismo neofascista. Non bisogna pensare a un quadro fisso, immobile. La mappa che censisce la scura rete virtuale dell’ultradestra è interattiva: cambia a seconda delle «metriche» che vengono selezionate. Si possono scegliere il numero di fan, il numero di interazioni, di interazioni per fan (che mostra quanto sia efficace nella comunicazione quella data pagina). O il «page rank», che sarebbe il grado di importanza della pagina in questione all’interno della rete presa in esame. Dal 2016 è iniziata una progressione che spiega la crescita del fenomeno fino a oggi. Con un po’ di pazienza, destreggiandosi nella giungla dei Like e dei post, si può riuscire a monitorare questa esplosione. Fissiamo una data: maggio 2017. I dati delle pagine aggiornate riportano un netto incremento rispetto alla prima stesura del 2016. Dalle 9000 pagine iniziali considerate si arriva a 15.789, di cui ritenute «interessanti» – cioè vicine ai temi del neonazifascismo – circa 3601 (rispetto alle 2700 iniziali). I due gruppi più grossi sono quelli di CPI e FN, con

rispettivamente 686 e 634 pagine. Ognuno dei due movimenti ha un bacino di circa 230mila utenti, mentre le pagine dei gruppi musicali sono più di 120. Arriviamo a ridosso delle elezioni di marzo 2018. Il boom è evidente: le 3601 pagine «calde» sono diventate circa 4500. Un aumento medio di 70 pagine al mese, con una produzione giornaliera di 1500 post al giorno. CPI, per dire, ha raggiunto e superato le 800 pagine. E in queste 800 pagine confluiscono tutte le associazioni a sfondo sociale che abbiamo già incontrato nei capitoli precedenti. Spiega Giovanni Baldini: «È l’analisi della tipologia delle pagine Facebook a caratterizzare maggiormente i gruppi di successo. Se le 150 pagine Facebook di un’organizzazione tradizionale come il Movimento Sociale Fiamma Tricolore sono per l’80% declinazioni territoriali (ad esempio MSFT Firenze o MSFT Milano), per CasaPound, che ha all’attivo oltre 800 pagine, queste costituiscono solo il 20%. Tutto il resto è composto nella gran parte da associazionismo tematico […] in un moltiplicarsi di sigle e di simboli in cui è facile perdersi».180 Stesso discorso vale anche per FN, che pure in termini di militanti e di percentuali di voti, sulla piazza «reale» oggi è nettamente inferiore a CPI. Da cui è stata progressivamente cannibalizzata. Il monitoraggio certosino dell’Anpi continua per tutto il 2017. Voglio capire cosa è successo negli anni precedenti. E come si sono evoluti i numeri delle due principali formazioni dell’estrema destra tra loro antagoniste. Incrociando il numero di Like con i post spiattellati su Fb viene fuori un sostanziale «pareggio» di CPI e di FN. Ma solo fino al 2013 (248mila Like per FN e 247mila per CPI). Il 2014 rappresenta uno spartiacque: FN accelera e arriva a più di 600mila Like, mentre le tartarughe frecciate si fermano a 356 mila. Nel 2015 inizia la rimonta dei «fascisti del terzo millennio». Entrambi i partiti aumentano i loro fan e conseguenti Like, ma CPI si avvicina: 697mila per la formazione del duo Iannone-Di Stefano, 745mila per quella di Fiore. Il 2016 è l’anno del sorpasso: a fronte di un calo delle pagine di Forza Nuova (che scende a 659mila Like), CPI lievita ulteriormente e arriva a 787mila «mi piace» sui propri post. Per capire quanto pesano queste migliaia di Like, bisogna distinguere fra gli utenti che visitano ogni giorno le pagine, e quelli che lo fanno solo in modo occasionale, smanettandoci dentro con una specie di zapping più o meno distratto. «Patria Indipendente» ha affinato la ricerca cercando di separare i frequentatori saltuari da quelli invece più abituali. I «fidelizzati». Questi ultimi a loro volta possono essere suddivisi in due tipologie: i «polarizzati» – e cioè quelli apertamente schierati per l’uno o per l’altro dei due principali partiti di

riferimento dell’estrema destra italiana – e i «non schierati», cioè coloro che tengono una certa equidistanza mettendo reazioni positive ai post di entrambi i partiti. Ecco come il gruppo di lavoro di «Patria indipendente» spiega il sorpasso. Nel 2016 e ancor più nel 2017 CasaPound vede crescere in modo consistente il gruppo dei polarizzati, al contempo ne soffrono sia i polarizzati di Forza Nuova che i non schierati. Questo fatto ha probabilmente una spiegazione nella diversa esposizione mediatica che CasaPound ha conquistato: nel 2016 e poi nel 2017 ottiene molta attenzione dai grandi media nazionali non solo per fatti di cronaca, non solo per stigmatizzarne le azioni e le idee, ma soprattutto a seguito dei risultati nelle elezioni amministrative, in particolare per i successi a Bolzano nel 2016 e a Lucca nel 2017. […] Al contempo in CasaPound non sono stati tralasciati gli aspetti comunicativi più legati al fascismo storico, come la sfilata del 29 aprile 2017 insieme ad altri gruppi (ma non con Forza Nuova) al Campo X del Cimitero Maggiore di Milano con saluto romano dedicato ai caduti della Repubblica Sociale Italiana lì sepolti.181 La crescita di CasaPound, quindi, erode il partito rivale. Se analizziamo il flusso di profili – e dunque di utenti – passati dalle pagine di FN a quelle di CPI nel 2016 e nel 2017 ne ricaviamo uno specchio fedele delle dinamiche di piazza che riflette lo stato dell’arte attuale. Il 13% è migrato nel contenitore virtuale delle tartarughe nere; all’inverso, solo il 3,1% ha deciso di spostarsi nelle pagine controllate dai social manager di Roberto Fiore. Se infine confrontiamo queste percentuali con i risultati delle ultime elezioni, ci rendiamo conto che gli elettori di CasaPound hanno risposto con più fiducia alle promesse del loro partito e in proporzione tripla rispetto alle differenze nei Like che abbiamo visto prima (787mila CPI vs 659mila FN). I due movimenti infatti totalizzano l’1,5%, di cui lo 0,9% va alle tartarughe frecciate (corrispondente a 280mila voti) e solo lo 0,3% a FN (cioè 190mila preferenze). Fake news e gadget «neri» Fin qui i numeri dei due partiti principali dell’estrema destra. Ma ci sono molte

altre pagine personali, che non hanno organiche interazioni con altre pagine. Sono solo segnalazioni di pagine amiche. E comunque raccolgono migliaia di seguaci. Tutte le pagine apologetiche sono un fenomeno specifico. Per l’impatto che hanno e per il seguito che riescono a trainare, dovrebbero richiamare la stessa attenzione che c’è stata in Germania dal 2016, con l’inchiesta della procura di Monaco e le azioni del ministero della Giustizia per costringere Facebook a migliorare i metodi per filtrare i contenuti razzisti e fascisti. In Italia queste pagine sono più di 600, di cui effettivamente attive circa la metà. A ottobre 2017 le 15 pagine apologetiche più importanti (quattro delle quali non più attive, vale a dire che non pubblicano post da più di un anno), collezionano insieme oltre 600mila fan. Se si considerano tutte e 15, fanno 40mila fan per ognuna. Se la stima tiene conto solo delle 11 attive, i sostenitori aumentano: 54mila per ogni pagina. Va detto che una persona può essere fan anche di tutte le pagine. Ma il numero è comunque considerevole. Tra le pagine più popolari troviamo «Aforismi di Benito Mussolini» (non più attiva), «Fascisti uniti per l’Italia» e «Essere fascista NON è reato» che allora avevano raggiunto tutte più di 50mila fan a testa. Dico «allora» perché, malgrado la «lentezza» della risposta di Facebook, per le denunce e le segnalazioni degli utenti prima o poi queste pagine vengono chiuse da Fb. Va detto che a ridosso delle elezioni di marzo 2018, come segnala «Patria indipendente», il periodico dell’Anpi, oltre 200 pagine apologetiche sono state chiuse da Facebook: una decisione adottata dopo le informazioni contenute nella ricerca La galassia nera. Alcune di queste pagine sono come fiumi carsici: spariscono per poi riemergere con nomi diversi. Cambiano nel tempo, possono diventare megafoni per quelle che comunemente chiamiamo fake news. Un esempio. La pagina Benito Mussolini, creata nel 2010 e arrivata a raccogliere circa 150mila fan (oggi non più attiva). Fino alla fine del 2016 è una comunissima pagina nostalgica – una delle più importanti e seguite. Ma da marzo del 2017 inizia da un lato a pubblicare post quasi esclusivamente dal sito fattidalweb.com; dall’altro pubblicizza pagine con le quali sembra far parte di un unico grande network. Come sostiene Francesco Pira, professore di sociologia della comunicazione all’Università di Messina, in un’intervista sul quotidiano britannico «Guardian»,182le fake news giocano un ruolo importantissimo per la propaganda dell’estrema destra sui social network. La pagina «Avanguardia Nera», 20mila iscritti prima di febbraio 2017, quando è stata chiusa, è stata un megafono di bufale. Una su tutte: gli immigrati

musulmani che volevano distruggere un albero di Natale. Vi sono poi fotomontaggi che hanno ricevuto così tante condivisioni da essere definiti «virali». Per esempio quello che ritraeva Krysten Ritter (attrice americana divenuta famosa per le serie Breaking Bad e Jessica Jones) spacciata per la sorella di Laura Boldrini, «colpevole – secondo chi ha orchestrato la bufala – di aver messo in piedi una serie di cooperative che lucrano sulla pelle dei profughi.»183Oltre alle notizie false e gonfiate vi sono poi notizie riferite al passato. Che mirano a dimostrare come si stava bene «quando c’era lui.» Alcune tra le grandi bufale che sono pubblicate da queste pagine sono ormai dei classici: per esempio le pensioni create dal Duce, la tredicesima e il pareggio di bilancio.184 Ma non di sole fandonie è colmo il banco vendita delle pagine apologetiche: ci sono anche gadget. Molte di queste pagine su Fb pubblicizzano un portale (duxstore.it) che vende prodotti, in particolare di abbigliamento, ispirati al nostalgismo del Ventennio. La sede è in provincia di Caserta, nel piccolo comune di Castel Campagnano. Duxstore, come si può leggere dal sito, «nasce nel 2017 da un progetto autofinanziato, […] volto ad informare i lettori sulle verità storiche, sui temi di attualità facendo rivivere il periodo storico attraverso la vendita di gadget, riproduzioni e materiale d’epoca riguardante il fascismo ed il socialismo nazionale.»185 Sempre secondo il sito i prodotti più venduti sono il portachiavi «Fascio littorio», il manganello (sì, proprio così, in legno e lungo 45 cm!) con la scritta «Boia chi molla», oltre a polo e felpe a tema. In questo marketing in salsa fascia non poteva mancare lo sfruttamento commerciale della storia del neofascismo degli anni Sessanta e Settanta. La pagina «Le RUNE di Avanguardia» promuove la vendita di altri portachiavi, magliette e prodotti vari che si richiamano direttamente ad Avanguardia Nazionale, l’organizzazione estremista chiusa nel 1976 e oggi rinata sotto forma di associazione culturale. Che conseguenze può avere questo martellamento di bufale, propaganda, ideologia e gadget? In fondo i nostalgici che frequentano questi siti o pagine Facebook appartengono a gruppi chiusi, hanno logiche tribali. Eppure una massa critica di più di un milione di follower dei siti di CPI e FN (si ricordi la somma dei Like), a cui aggiungere i 600mila fan delle pagine apologetiche create su Fb, lascia comunque una traccia, un «rumore di fondo» come dice bene un articolo di «Patria Indipendente». Non va dimenticato che, per il funzionamento stesso di Facebook, ogni

commento, ogni «mi piace», ogni condivisione che un utente tributa ad un qualsiasi contenuto ha una possibilità di venire mostrata anche agli amici di quell’utente. Ciò determina una via d’uscita dalla bolla nostalgica fascista che di fatto espone una parte rilevante dell’utenza italiana di Facebook a quei contenuti. Sebbene questo, nella grande maggioranza dei casi, non li renderà a loro volta dei nostalgici, l’effetto potrebbe essere quello di una normalizzazione di alcuni temi, che invece, nella nostra democrazia, normali non dovrebbero essere. L’effetto a lungo termine è cioè un cambio del senso comune: con una estrema semplificazione e una effettiva de-storicizzazione del regime fascista e delle sue figure di spicco, implicitamente si recide il legame diretto fra fascismo e pericolo per la democrazia.186 La penna e la spada Un «cambio del senso comune.» È questa la chiave per capire l’onda nera del web. I bastonatori della rete passano con disinvoltura da un post minaccioso a esternazioni nei luoghi pubblici. Alzano il livello dei bersagli e degli insulti. Ma ormai la maggior parte di noi – considerando certe espressioni razziste come folklore vintage di una minoranza incorreggibile – non si allarma più di tanto quando legge certe «bestialità» xenofobe e fascistoidi. Chi sono i nemici da colpire? Gli avversari politici, a volte gli ebrei, molto spesso gli immigrati. E anche i giornalisti. «Alcune persone dicono che la penna sia più forte della spada. Noi utilizzeremo la spada contro chi cercherà di perpetrare crimini come l’ibridazione e la distruzione della razza fondante.»187A dicembre scorso, dopo il blitz intimidatorio sotto la sede di «la Repubblica», sono stati questi i commenti di alcuni utenti alla rivendicazione di Forza Nuova e ai video pubblicati su Facebook. E ancora: «Oggi boicottaggio, domani processo ed esecuzione», in un crescendo parossistico che in quei giorni colpisce anche una giornalista dell’«Espresso», Arianna Giunti, che si è occupata delle inchieste sui gruppi e sulle reti neofasciste su Facebook. Dagli insulti si passa alle minacce. «Questa giornalista va trovata», «Dobbiamo darle una lezione», per finire con l’augurarle di essere stuprata.188Questa deriva delle minacce ai giornalisti che cercano di fare luce sulla fisionomia del fenomeno neofascista è sicuramente

allarmante e da non sottovalutare. Ma è la naturale conseguenza della recrudescenza dello scontro ideologico, in cui la propaganda diretta contro gli avversari politici ha avuto un’impennata sui social media. Sono post selvaggi, nei quali si augura la morte a leader di partito, alte cariche istituzionali, deputati. Chi scrive spesso rivolge agli utenti un invito a punire questi «traditori della Patria», a «prenderli a bastonate», a profanare le tombe dei familiari. Due sono i politici particolarmente presi di mira: Emanuele Fiano e Laura Boldrini. Nel gruppo Fb «Io non ho tradito!» pubblicata una foto di Fiano, gli utenti si scatenano: «muori», «faccia da ebreo», «cominciamo dalla tomba di sua madre.» Per Laura Boldrini invece il repertorio prevede auguri di violenze a sfondo sessuale: «Fascisti del Terzo Millennio» la ritrae spesso a fianco di un bambino con la divisa da Balilla che le urina addosso. Entrambi questi gruppi sono stati chiusi da Facebook poco dopo le inchieste di «Repubblica» e «L’Espresso». Adesso li si ritrova con nomi leggermente diversi e molti meno seguaci. Anche dopo i fatti di Macerata la rete si scatena. Prima, sull’onda dell’orrore provocato dall’efferato delitto nei confronti della giovane Pamela Mastropietro, fioriscono commenti sprezzanti nei confronti degli africani. Poi, dopo la tentata strage del nazileghista Traini, sui gruppi fascisti di Facebook è un proliferare di inni nei suoi confronti: «Riprendiamoci la nostra patria: sparate a vista a quelle bestie», «Onore al camerata catturato a Macerata.» Molti di questi gruppi esortano gli utenti ad armarsi, a seguire l’esempio di Traini e a cominciare la caccia nei confronti degli immigrati. C’è chi scrive: «Non ci dobbiamo fermare, dobbiamo sparare a vista a morte agli sporchi immigrati».189Ma oltre a questo spirito di vendetta, ritorna l’odio contro la ex presidente della Camera, da sempre parafulmine dell’avversione di destra per la sua difesa dei diritti dei migranti. Su Facebook compaiono dei post e dei fotomontaggi con la testa di Laura Boldrini stretta tra cesoie, o addirittura sgozzata e fatta a pezzi. Le didascalie recitano: «Sgozzata da un nigeriano inferocito, questa è la fine che deve fare così per apprezzare le usanze dei suoi amici». Oppure: «Giustizia per Pamela Mastropietro barbaramente uccisa e fatta a pezzi da una risorsa nigeriana amica della Boldrini».190Sono pochissimi gli utenti che agiscono a volto «scoperto»: la maggior parte degli ultrà da tastiera usa profili finti, si nascondono dietro «maschere» virtuali per cui è difficile per la polizia postale risalire a una persona fisica. Anche perché, va detto, la collaborazione dei vertici di Facebook con le autorità è lenta o addirittura assente. Nel caso però del post delle cesoie l’autore si firmava: era Gianfranco Corsi, identificato in un 58enne ex barbiere cosentino.

Intervistato dal «Corriere della Sera», sostiene di essersi pentito davvero. La sua storia è interessante per capire la facilità e la leggerezza con cui sul social network americano si possano creare messaggi di odio. «Venerdì scorso ero a casa e stavo navigando su Facebook con il telefonino», racconta Corsi. «Non ho un computer. Ho scoperto su Google la foto della presidente della Camera con la testa insanguinata. Ho fatto un copia e incolla e ci ho messo una didascalia. Ero incazzato nero per come vanno le cose in Italia. Tutti questi immigrati…» L’altro aspetto sconcertante è il fatto che personaggi come Corsi sembrano non rendersi conto delle conseguenze che gesti come il loro possono avere nella realtà. E una volta scoperti tirano fuori giustificazioni infantili: «Maledetta quella frase!» dice Corsi al giornalista del «Corriere» che lo intervista. «Se non avessi scritto a margine della foto: “Sgozzata da un nigeriano”, non sarebbe accaduto nulla.» Ricorda: «Qualche mese fa ho postato una foto della signora Boldrini e allora non accadde nulla».191Come se tutto dipendesse da una didascalia inopportuna e non dal significato racchiuso dietro la foto di una testa mozzata. Questo doppio binario su cui si muovono xenofobi, fascisti e odiatori del web vari ha un aspetto paradossale. Da un lato rimproverano agli avversari politici e ai giornalisti contrari alle loro opinioni di usare la parola per distorcere la realtà e calunniarli, e minacciano contro di loro la spada in senso fisico. Dall’altro loro stessi fanno un uso massiccio delle parole: diventano spade da brandire per incitare alla guerra politica e alla violenza fisica. Ho cercato di capire chi sono i frequentatori e i gestori di questi gruppi o pagine web di stampo fascista. È un campionario eterogeneo di personaggi borderline, pregiudicati. Ma anche gente comune, impiegati, commercianti. E ideologi d’accatto. Uno di questi è Vittorio Boschelli, di Cosenza, un altro dei tanti hater fascistoidi che augura alla Boldrini di essere impiccata in piazza. Proprio per queste sue «abitudini» Boschelli non è sconosciuto alla polizia postale. Ma in questo caso le parole rischiano di seminare stragi. Il suo nome salta fuori fra le carte dell’operazione Aquila Nera che nel 2014 ha portato allo smantellamento del gruppo di neofascisti clandestino Avanguardia Ordinovista. Secondo il Gip dell’Aquila Giuseppe Romano Gargarella, l’aspirante politico Boschelli era fra gli ideologi del partito Identità Nazionale, considerato il braccio politico a cui faceva riferimento il gruppo eversivo decapitato. Quattordici arrestati e decine di indagati formavano una rete clandestina di estrema destra diffusa in tutta Italia che pianificava attentati dinamitardi contro obiettivi istituzionali, sedi di Equitalia o stazioni ferroviarie, e progettava l’omicidio di magistrati e politici come Pierferdinando Casini e Gianni Chiodi (ex presidente

della Regione Abruzzo). Anche in questa storia, i neofascisti che volevano resuscitare Ordine Nuovo riponevano grande fiducia in Facebook: un canale per fare proselitismo e trovare «soldati» per la loro causa. Inquietanti alcuni passaggi dell’ordinanza del Gip in cui si accenna alle conversazioni intercettate fra il leader del gruppo, Stefano Manni, e un suo sodale, l’ex avvocato napoletano Nicola Trisciuoglio – fondatore del Movimento Uomo Nuovo e del partito Identità Nazionale. Trisciuoglio lo informa di avere «centinaia di contatti che gli scrivono e condividono il suo pensiero» sulla sua pagina Facebook, persone che «si mettono a disposizione», che gli scrivono dalle carceri di Catanzaro, Palermo, Messina. Conclude dicendo che «è un peccato buttare una forza umana di questo tipo.»192 Manni è un ex carabiniere. Tra i frequentatori di questi gruppi fascistoidi su Facebook sono presenti anche appartenenti alle forze dell’ordine: succede per esempio nella pagina «Sostenitori delle Elite Forze Armate» – frequentato assiduamente da militari – dove ogni 25 aprile si rinnega la festa della Liberazione.193 Un altro militare, un maresciallo dell’Esercito, figurava tra i gestori della pagina Fb Avanguardia Nera, che abbiamo già incontrato. Chiusa nel febbraio 2017 in seguito alle segnalazioni del comitato «Contro la diffusione della xenofobia e dell’ignoranza», la pagina è rinata poco dopo con il nome di «Avanguardia Italia Nera, a Noi!» Questi gruppi, che tornano in vita continuamente come l’araba fenice, hanno uno scopo molto semplice: il proselitismo. Gli utenti più attivi sono militanti o sostenitori di CPI o FN. E anche servitori dello Stato. Il citato maresciallo dell’Esercito non è il solo: «Regio Esercito Fascista» (più di un migliaio di iscritti) è gestito da un poliziotto della Questura di Padova. Quanto non sia così rara la tendenza fra gli uomini in divisa a propagandare messaggi nostalgici e a sfondo razziale, lo dimostra il caso dei due poliziotti Cristian Movio e Luca Scatà, diventati famosi per aver fermato e ucciso a Sesto San Giovanni il terrorista Anis Amri, l’autore dell’attentato nel mercatino natalizio di Berlino il 19 dicembre 2016. Per le loro idee fasciste gli viene negata la medaglia d’onore che in un primo momento i ministri tedeschi avevano deciso di conferire ai due poliziotti. Il dietro front, secondo quanto riferito dalla «Bild», è dovuto al fatto che Movio e Scatà hanno pubblicato sui loro profili Facebook immagini e post di chiaro stampo neofascista, «qualcosa su cui nessun governo tedesco può passare sopra.»194 Un esempio di come la propaganda più becera sul web possa diventare un

catalizzatore dell’isteria xenofoba collettiva l’ho vissuto in prima persona. Nell’estate del 2017 Forza Nuova pubblica sulla sua pagina un manifesto contro l’immigrazione riprendendolo direttamente dalla più tristemente nota immagine creata da Gino Boccasile per una locandina della Repubblica sociale italiana nel 1944 contro gli «invasori» anglo-americani. «Difendila dai nuovi invasori. Potrebbe essere tua madre, tua moglie, tua sorella, tua figlia.» Sono le parole del poster che ritrae un soldato alleato (di colore) che assalta e strappa la camicetta di una ragazza (bianca e bionda). In poco tempo riceve 8708 Like e più di 500 commenti. Appena vedo quell’immagine sulla pagina forzanovista capisco che è qualcosa di più del solito spot anti immigrati. C’è un salto di qualità. E c’è un collegamento esplicito con il Ventennio. Gli stessi comunicatori di Forza Nuova spiegano il significato del manifesto e il motivo per cui hanno deciso di riprenderlo dopo più di 70 anni. «Gli stupri, si sa, sono il barbaro infame corollario di ogni guerra di conquista. Le violenze contro le donne dell’epoca del manifesto a cui ci siamo ispirati furono contestualizzate all’interno della sconfitta che chiamarono “liberazione”; quelle di questi giorni le occultano spudoratamente, tacendo il fatto che sono attuate da nuovi invasori a cui paghiamo vitto, alloggio, bollette, schede telefoniche, cellulari e sigarette. I nuovi barbari sono peggiori di quelli del ’43-’45, oggi come allora fiancheggiati dai traditori della Patria.»195È sempre la solita storia del grande complotto Kalergi: gli immigrati sono degli invasori che vogliono distruggere la civiltà europea iniziando con lo stupro delle donne, il tutto con la connivenza degli antifascisti e dei poteri forti ed europeisti. Porto alla luce quella storia. Voglio far conoscere all’opinione pubblica quanto sia rischioso che, a partire dal web, le derive neofasciste abbiano libero sfogo per depositarsi nella società. Le reazioni sono indignate: tra i primi a chiedere un intervento del Viminale, Anpi e comunità ebraiche. Insorgono anche deputati di centrosinistra. Silenzi dal centrodestra. Solite schermaglie verbali, in un copione inutile e scontato. Sette mesi dopo tutti hanno dimenticato, come se nulla fosse Forza Nuova partecipa alle elezioni politiche. Eppure, che cosa sia il partito di Fiore e di quale natura sia fatta la propaganda web dei suoi militanti emerge anche da altri esempi. «Spero che tutte le figlie di chi elogia l’integrazione vengano brutalmente stuprate dentro una fredda stazione da qualche allogeno.» Con questo post del 1° giugno 2017 sulla sua pagina Facebook il responsabile romano di Forza Nuova, Alessio Costantini, esprime tutto il suo pensiero contro i fautori della legge sullo Ius Soli, di cui in quei giorni caldi si preparavano gli emendamenti in vista della discussione in Senato. Pochi mesi prima, a marzo, si era chiusa l’indagine

«Bangla Tour» della procura di Roma e del Ros dei carabinieri, in cui Costantini risultava inquisito con altri per le ronde punitive contro i lavoratori bengalesi pestati in strada all’Appio Latino fra il 2012 e il 2013. Nel suo rigurgito di orgoglio identitario scrive ancora contro i suoi nemici politici: «Mentre il fumo delle vostre lacrime si dissolverà in questo inferno, noi staremo in trincea a difendere questo brandello di identità che ci unisce per l’eternità». Gli stessi magistrati, del resto, riconoscono che il web veniva usato per la diffusione «anche on line, attraverso profili Facebook come quello aperto sotto lo pseudonimo “Barzum”, di idee fondate sulla superiorità della razza bianca e sull’odio razziale ed etnico.»196 Che Facebook sia diventato il mezzo preferito dai gruppi e dai militanti di estrema destra con cui veicolare odio e notizie false, e condizionare l’opinione pubblica, è chiaro a tutti. È poco noto, invece, anche se non è cosa nuova, l’uso del web come strumento di reclutamento e «formazione» di nuovi attivisti. Già nel 2010, Ronald Noble, segretario generale dell’Interpol, spiega l’ampia diffusione di internet usata dagli estremisti di destra come mezzo di reclutamento dei più giovani. Per molto tempo l’attenzione sul web da parte degli investigatori di mezzo mondo si è concentrata sul fondamentalismo islamico, sottovalutando la rete neonazista che si è progressivamente sviluppata nell’ultimo decennio e che ha raggiunto – secondo le stime del Simon Wiesenthal Center di New York – il numero di quarantamila siti in tutto il mondo (escludendo la realtà dei social network di cui abbiamo già parlato). Secondo Tom Stevens e Peter Neumann (ricercatori dell’International Centre for the Study of Radicalisation al King’s College di Londra) i siti hanno almeno tre funzioni. La prima è quella di raggruppare e rafforzare le ideologie da proporre ai nuovi militanti; la seconda è dare la possibilità ai militanti di entrare in contatto con reti e gruppi estremisti senza doversi spostare obbligatoriamente da casa; la terza è riuscire a rendere normali o accettabili comportamenti che nella vita reale non sarebbero tali.197Risultato: la rete nera diventa una piattaforma mondiale, accessibilissima per chiunque possieda una connessione internet (che ricordiamo in Italia è disponibile a circa 30 milioni di persone). Mike Sutton, direttore del Nottingham Centre for the Study and Reduction of Hate Crimes Bias and Prejudice, e la sociologa Cecile Wright, sostengono che quello a cui assistiamo oggi è «l’uso più prolifico e produttivo degli strumenti di comunicazione di massa da parte dei razzisti bianchi da quando la Germania nazista sfruttò le tecnologie della stampa,

della radiofonia e del cinema per promuovere le tesi della superiorità degli Ariani sulle altre razze e culture.»198 In Italia una ricerca promossa dalla FIAP (Federazione italiana associazioni partigiane) a inizio Duemila tracciava la presenza di circa 150 siti nostrani di chiaro stampo nazista, razzista e antisemita. Nel giro di quasi vent’anni si sono moltiplicati con una crescita esponenziale, e oggi superano il migliaio. È in questo girone infernale e alienante che si formano estremisti che poi possono trasformarsi in feroci terroristi. Come Anders Behring Breivik, che nel luglio del 2011 compie una serie di attentati in Norvegia provocando 77 morti. Il suo folle testamento ideologico circola su Internet: European Declaration of Independence-2083, più di 1500 pagine di deliranti affermazioni e progetti volti a distruggere chi è per il multiculturalismo, Papa compreso. In Italia, fino al 2012, è stata attiva una branca di quella che è considerata una delle centrali dell’estremismo nero nel mondo: il sito Stormfront, creato a metà anni Novanta da Don Black (ex leader del KKK). Poi un’operazione della magistratura e della polizia postale la chiude. In manette finiscono Daniele Scarpino, ritenuto l’ideologo del gruppo e condannato in via definitiva a due anni e mezzo di reclusione, Diego Masi, Luca Ciampaglia (moderatori del forum), e Mirko Viola, un utente particolarmente attivo nella creazione di post a tema. Tutti condannati alla pena di due anni e due mesi, confermata in Cassazione. Il sito si proponeva, attraverso il forum, di dimostrare come la cosiddetta «lobby ebraica» ha conquistato posizioni preminenti in campo economico nei vari Paesi del mondo. In particolare dedicava grande attenzione all’Italia, arrivando a pubblicare una lista di professori universitari ebrei, o ebrei influenti, come Gad Lerner, definito «Faccia da cancellare».199Ma non solo ebrei: ci sono minacce contro Giuseppina Maria Nicolini (allora sindaco di Lampedusa) e Roberto Saviano. Il tenore dei commenti non è diverso da quelli che si vedono su Facebook, tanto che nel corso dell’inchiesta sono state rinviate a giudizio altre 39 persone nel 2015, per minacce, diffamazione e diffusione di idee fondate sull’odio razziale ed etnico. Tra i partecipanti al forum c’è l’utente «Partenopeo», alias Giuseppe Zuccarino. Scrive queste parole: «Schifosi zingari subumani, io li pongo allo stesso livello degli ebrei, in quanto a nocività della razza bianca. Resto sempre dell’idea che il grande Führer aveva trovato la soluzione giusta per quei maledetti ratti». Per altri utenti bisogna «spazzare via tutti gli ebrei, nessuno escluso. È un dovere. Certe cancrene richiedono l’amputazione, la cancrena giudaica è una di queste.» La rabbia che si scatenava su questo forum, secondo il Pm, sarebbe potuta sfociare in

conseguenze concrete e omicide. Uno degli utenti, Tommaso Cavaliere, dopo aver definito gli uomini di colore «subumani» e aver auspicato di «farsi giustizia da soli», un giorno scrive privatamente al leader Scarpino: «O scrivo sul forum o scendo e sparo a qualcuno».200Qualcun altro, al posto suo, lo avrebbe fatto tre anni dopo. Preti e militari nostalgici Sotto la tonaca batte un cuore nero. Ma i paramenti sono un optional. Se li sostituisci con una divisa militare, una tuta mimetica, quel battito cardiaco anomalo non cambia. Preti. Preti spretati al servizio dei gruppi neofascisti. Militari in servizio. Servitori della patria malati di nostalgismo. Nella narrativa con cui l’ultradestra in questi anni ha propagandato il suo messaggio facendolo entrare nel discorso pubblico, funzionale è stato anche essere riusciti a reclutare dei soggetti che, per la spiccata ideologia fascista, e per la «divisa» indossata, potessero fare da veicolo mediatico per affermare i valori delle formazioni nere: soprattutto tramite il web. È un segno ulteriore di come la lenta ma progressiva avanzata dell’estrema destra nella nostra società sia caratterizzata da aspetti che richiedono approfondimenti. Perché uomini dello Stato o uomini di chiesa, o comunque che hanno alle spalle un sacerdozio, si prestano a operazioni di questo tipo? Hanno un ritorno? Che cosa pensano i responsabili di questi «fascisti in divisa»? Partiamo dai preti «neri». Di Giulio Maria Tam ho già raccontato, sia della sua partecipazione ai cortei in strada in mezzo alle spranghe di Forza Nuova, sia delle sue deliranti esternazioni in cui magnifica il duce come un uomo mandato da Dio. Un altro caso curioso nel quale mi sono imbattuto è quello di don Orlando Amendola, il «cappellano dei camerati». Chi è costui? E, soprattutto, è un prete? La Diocesi di Milano dice di no: «Non è un sacerdote della chiesa cattolica». Secondo qualcuno don Amendola farebbe parte dei Vetero Cattolici, cattolici non riconosciuti né dalla Diocesi ambrosiana né da Roma. Lui – sul suo profilo Fb – dice di aderire alla Chiesa cattolica nazionale in Polonia, a sua volta staccatasi dai Vetero Cattolici.201 Ma andiamo con ordine. È il 20 maggio 2017. Al Cimitero Maggiore, dove il 29 aprile è andata in scena la parata dei mille saluti romani di CasaPound e

Lealtà Azione, si celebra il quarantennale della morte di Salvatore Umberto Vivirito. Un «eroe della solidarietà», lo definisce il prete.202Vivirito è un ex militante neofascista di Avanguardia Nazionale, morto il 21 maggio 1977, a soli 22 anni, in seguito alle ferite riportate nel corso di una rapina, in una gioielleria di Milano, in cui aveva massacrato con sei colpi di pistola il titolare del negozio, Ernesto Bernini, e ferito gravemente la moglie. L’assalto doveva servire – stando agli avanguardisti – per finanziare un non precisato gruppo eversivo di estrema destra di cui lo squadrista, assieme ad altri «sanbabilini», faceva parte dopo lo scioglimento di Avanguardia. La cerimonia per commemorarlo è ristretta: una quindicina di persone tra parenti, amici, camerati. A officiare il rito è lui, don Orlando Amendola, vicino ai camerati di Lealtà Azione con i quali per anni ha commemorato i caduti della Rsi al Campo X del Cimitero Maggiore. Nella sua orazione il sacerdote ricorda il rapinatore sottolineandone il «coraggio di combattente», l’ostinazione nel «battersi quando vedeva l’ideale umano oltraggiato.» Perché di «giovani come Umberto – dice in un video – ne nasceva uno ogni 800.» Passaggi paradossali ai quali seguono le testimonianze di altri due camerati: uno tiene in mano la bandiera con il simbolo di Avanguardia Nazionale. La commemorazione di Vivirito si chiude con il rito fascista del «presente». Eseguito da tutti, prete compreso. «Per il camerata Umberto Vivirito… presente! Per il camerata Umberto Vivirito… presente!» Scandito due volte. Con don Amendola che allunga il braccio destro accanto alle tombe e alla bandiera di Avanguardia. Il filmato della commemorazione è postato su YouTube, dove ottiene un buon numero di visualizzazioni. Me lo segnalano quelli dell’Osservatorio sulle nuove destre. La Diocesi prende subito le distanze dal sedicente cappellano. Il quale il 27 maggio 2017 si cosparge il capo di cenere con un post su Fb: «Porgo a tutti le mie più sentite scuse per il gesto fatto durante la commemorazione fatta al cimitero sabato scorso. Mi rendo conto che quanto ho fatto esula dalla mia missione di pastore delle anime e perciò non capiterà più». Un «pastore delle anime» che fa il saluto nazista fa un certo effetto. In rete può diventare una calamita: a fronte di migliaia di utenti che vedendolo protestano, ce ne sono almeno altrettanti per i quali il rituale fascista del «presente» eseguito da un prete assume una sorta di legittimazione e consacrazione che va ben al di là dell’indifferenza della «gente» verso una pratica teoricamente vietata dalla legge. Dai paramenti alle divise militari, da una cerimonia religiosa a una militare.

Raccontiamo una storia ancora sconosciuta. È il 28 luglio 2017: tra i boschi di Manzano, in provincia di Udine, lungo il sentiero dello Sdricca, si celebra il centesimo anniversario degli Arditi, il primo corpo speciale dell’esercito italiano. È nato proprio lì, il gruppo d’assalto, a Manzano, nel 1917. In un casolare ai piedi dell’Abbazia di Rosazzo. Una targa ne ricorda la fondazione e le imprese in battaglia, in particolare nella Grande Guerra. Alla cerimonia, organizzata dall’Esercito italiano e preceduta dal lancio di quattro paracadutisti del 9° reggimento «Col Moschin», intervengono il colonnello Cristiano De Chigi, capo ufficio storico dello Stato Maggiore, e il generale Bruno Stano, comandante delle Forze Operative Nord. Il colonnello, a proposito degli Arditi, ricorda che «svilupparono il metodo, la preparazione, un addestramento individuale, un carattere aggressivo unico che li resero elementi in grado di risolvere qualsiasi tipo di combattimento. Caratteristiche che saranno la base delle forze speciali future.»203L’evento riceve solo pochi articoli nelle stampa locale, ignorato da quella nazionale. Ma una fonte mi segnala un intervento a margine dei discorsi ufficiali. A un certo punto nel prato antistante il casolare – dove si svolge la manifestazione – prende la parola un paracadutista graduato sulla via della pensione: divisa mimetica, basco amaranto d’ordinanza. Dal tipo di abbigliamento sembrerebbe far parte del «Col Moschin». «Nella mia carriera ormai alla fine ho fatto circa 13 missioni all’estero», racconta al microfono. «E con i miei colleghi abbiamo difeso la patria, la libertà, l’onore di altri Paesi, di tanti Paesi. Allora io mi chiedo, e chiedo scusa agli Arditi che hanno combattuto per la nostra libertà, per la nostra patria, per il nostro onore, per i nostri ideali. Però a mio avviso siamo arrivati a un paradosso. Andiamo a difendere la libertà, la patria, la terra, l’onore degli altri Paesi e stiamo perdendo il nostro…» Applausi, «bravo, bravo.» Un lungo applauso interrompe il discorso. Si capisce che nel suo commiato nazionalista – e politicamente orientato – il militare ha colto nel segno. Le missioni all’estero per difendere i popoli in guerra oppressi magari da regimi dittatoriali? Gli invii per scongiurare sanguinose guerre civili? «Stiamo perdendo il nostro onore!» È il ragionamento filmato in un video di cui vengo in possesso. Appena finiscono gli applausi, e siamo a una cerimonia ufficiale voluta dallo Stato Maggiore dell’Esercito, un altro militare, uno dei tanti che assistono alla cerimonia, lancia il «Folgore!» ripetuto tre volte. Poi scandisce a gran voce il motto fascista «A chi l’Italia?!» E gli altri militari in coro: «A noi!» La cosa scandalosa è che, poiché l’evento è stato ignorato dalla stampa nazionale, non ci sono state reazioni a questo discorso. Ma di certo bisognerebbe chiedersi

dov’erano i vertici dell’Esercito quando si pronunciavano simili parole? Erano già andati via? È stata aperta un’inchiesta per appurare le responsabilità di questa pubblica apologia del fascismo? La rievocazione di inni e pratiche fasciste tra militari in servizio è un fenomeno che in Italia affiora periodicamente. Sono sempre dei paracadutisti che tre anni prima diventano protagonisti di un caso. Una trentina di militari si radunano nel piazzale della caserma Bandini di Siena, dove ha sede il 186° Reggimento paracadutisti Folgore. È il 26 luglio 2014: i parà, disposti in cerchio, cantano l’inno fascista Se non ci conoscete, molto in voga anche tra gli ultrà «neri» della Lazio. Se non ci conoscete guardateci sul viso. Coro: «se non ci conoscete guardateci sul viso». Veniamo dall’inferno e andremo in paradiso. Coro: «veniamo dall’inferno e andremo in paradiso». Tutti: «bombe a mano e carezze col pugnal. Bo-bombe a mano e carezze col pugnal». Che sia un momento di relax, fuori dall’orario di servizio, si capisce chiaramente dal filmato – ripreso con un telefonino. Quasi nessuno dei paracadutisti indossa il basco amaranto. Ce l’ha solo un anziano, Santo Pelliccia, classe 1923, reduce della battaglia di El Alamein, dove morirono nell’ottobre del ’42 quattromila soldati della Folgore. I parà che cantano l’inno fanno il saluto romano dopo ogni strofa. La bravata, come a Manzano, si conclude con il solito motto mussoliniano «A chi l’Italia? A Noi!» Il video diventa virale sul web,204e forse proprio per questo in quell’occasione lo Stato Maggiore, che condannò fermamene l’episodio, aprì un’inchiesta e i risultati furono trasmessi alla Procura militare. Resta lo stupore, l’amarezza per episodi simili che inquinano l’onore delle nostre forze armate. E forse l’unica spiegazione è che quei giovani militari poco sanno dei disastri commessi dal fascismo, anche sul piano militare. Sembrano non rendersi conto del crescendo ininterrotto fra la goliardia di un momento cameratesco, innocente per loro, lo spirito del branco, fino all’anticamera dell’apologia, alla violenza contro chiunque non la pensi allo stesso modo. O forse dietro la bravata diffusa sui social c’è una volontà precisa: sdoganare certe pratiche, esibirle senza vergogna, abbattere i tabù. Anche in quei presìdi dello

Stato dove il rispetto delle leggi del nostro ordinamento dovrebbe essere esemplare agli occhi dei cittadini. La provocazione funziona a maggior ragione se va in scena in un teatro insospettabile. Oppure, come sempre, in un luogo dove la diffusione mediatica è garantita. In questo gli stadi continuano a essere un palcoscenico di riferimento. Qui la parte dei primi attori la recitano gli ultrà.

165 Facebook: «Italia quinta al mondo per crescita», di Stefano Carli, «Repubblica», 16 maggio 2016, cfr. http://www.repubblica.it/economia/affari-efinanza/2016/05/16/news/facebook_italia_quinta_al_mondo_per_crescita139959990/ 166 Corsico, il 2 giugno dell’assessore di FdI: «L’unica Repubblica è quella Sociale», di Paolo Berizzi, «la Repubblica», 2 giugno 2017, cfr. http://milano.repubblica.it/cronaca/2017/06/02/news/2_giugno_repubblica_corsico167044531/ 167 Corsico, assessore FdI fa gli auguri di compleanno a Mussolini su Facebook. Le opposizioni: «Apologia di fascismo», di Paolo Berizzi, «la Repubblica», 30 luglio 2017, cfr. http://milano.repubblica.it/cronaca/2017/07/30/news/corsico_assessore_mussolini_auguri_di_ 171986024/ 168 Corsico, dopo gli «auguri a Mussolini» l’assessore di FdI costretto a lasciare, di Paolo Berizzi, «la Repubblica», 31 luglio 2017, cfr. http://milano.repubblica.it/cronaca/2017/07/31/news/corsico_assessori_mussolini_dimissioni172030225/; e anche ’Ndrangheta, in comune a Corsico arriva la relazione sul caso «Sagra dello stocco», di Sandro De Riccardis, «la Repubblica», 7 febbraio 2017, cfr. http://milano.repubblica.it/cronaca/2017/02/07/news/corsico_ndrangheta_commissione_antim 157728531/. 169 Corsaro contro Fiano? Il post antisemita è solo l’ultimo di una lunga serie, di Wil Nonleggerlo, «l’Espresso», 12 luglio 2017, cfr. http://espresso.repubblica.it/attualita/2017/07/12/news/corsaro-contro-fiano-ilpost-antisemita-e-solo-l-ultimo-di-una-lunga-serie-1.305999. Corsaro allude al rogo di Primavalle, appiccato il 16 aprile del 1973, in cui morirono i figli di un esponente dell’MSI. Il rogo fu opera di alcuni militanti di Potere Operaio, fra cui Achille Lollo, che ricevette sostegno morale ed economico dai coniugi Fo-Rame. 170 Tutte le dichiarazioni sono ricavate dall’articolo de «l’Espresso» citato in

precedenza. 171 Caso Fiano, Corsaro si difende e attacca: “Nessun antisemitismo, solita speculazione, di Piera Matteucci, «la Repubblica», 12 luglio 2017, cfr. http://www.repubblica.it/politica/2017/07/12/news/caso_fiano_corsaro_si_difende_e_attacca_ 172Corsaro insulta Fiano, che accusa: «Frase antisemita». Renzi: «Si dimetta». Fitto: «Linguaggio errato», di Massimo Rebotti, «Corriere della Sera», 12 luglio 2017, cfr. http://www.corriere.it/politica/17_luglio_12/scontro-fiano-corsarofacebook-da-lui-frase-antisemita-stampo-fascista-io-orgogliosamente-ebreo76ff8d44-66ef-11e7-9cb7-9d56a32dcee8.shtml 173 L’apologia del fascismo è vietata in Italia ma non su Facebook, di Luca Scarcella, «La Stampa», 3 febbraio 2017, cfr. http://www.lastampa.it/2017/02/03/tecnologia/idee/lapologia-del-fascismovietata-in-italia-ma-non-su-facebookh747hFgWGfdy2wQSQsRCxJ/pagina.html. 174 «Facebook incita all’odio razziale»: Mark Zuckerberg indagato in Germania, di Bruno Ruffilli, «La Stampa», 5 novembre 2016, cfr. http://www.lastampa.it/2016/11/04/tecnologia/news/facebook-incita-allodiorazziale-mark-zuckerberg-indagato-in-germaniadC6w4GGtnBU5hxp7tUdVwN/pagina.html; si veda anche L’avvocato tedesco che ha denunciato Facebook: «Non rimuove i post razzisti per suo interesse», di Andrea Nepori, «La Stampa», 15 novembre 2016, cfr. https://www.lastampa.it/2016/11/14/tecnologia/news/lavvocato-tedesco-che-hadenunciato-facebook-per-interesse-non-rimuove-i-contenuti-illegali2YpdEYbwYOHGhFFLS6LC0H/pagina.html. 175 La lettera: Caro Zuckerberg, troppo odio sui social, di Laura Boldrini, «la Repubblica», 13 febbraio 2017, cfr. http://www.repubblica.it/tecnologia/socialnetwork/2017/02/13/news/caro_zuckerberg_troppo_odio_sui_social-158175479/ 176 Facebook, la sfida di Boldrini a Zuckerberg: «Cancelli le pagine della vergogna che inneggiano al fascismo», di Lucio Luca, «la Repubblica», 25 aprile 2017, cfr. http://www.repubblica.it/cronaca/2017/04/25/news/facebook_la_sfida_di_boldrini_a_zuckerbe 177 Blitz di CasaPound in Comune a Milano, condanna globale. Lunedì presidio antifascista. Sala dal prefetto, in «la Repubblica», 30 giugno 2017, cfr. http://milano.repubblica.it/cronaca/2017/06/30/news/milano_blitz_casapound_in_comune_rea 169608352/#gallery-slider=169524841. 178 Milano, Sala: «I post fascisti sul web pericolosi come i saluti romani, servono leggi adeguate contro l’apologia», in «la Repubblica», 8 luglio 2017,

http://milano.repubblica.it/cronaca/2017/07/08/news/milano_sala_fascisti_saluti_romani_legg 170284610/ 179 Gruppo di lavoro Patria su neofascismo e web, La galassia nera su Facebook, in «Patria Indipendente», 19 dicembre 2016. 180 Giovanni Baldini, Nuove Destre, in «Resistenza e nuove resistenze», 1 febbraio 2018, pag. 7. 181 Gruppo di lavoro Patria su neofascismo e web, CasaPound adversus Forza Nuova, in «Patria Indipendente», 26 ottobre 2017. 182 Attacks on immigrants highlight rise of fascists groups in Italy, di Lorenzo Tondo, «The Guardian», 6 February 2018, cfr. https://www.theguardian.com/world/2018/feb/06/attacks-on-immigrantshighlight-rise-of-fascist-groups-in-italy. 183 Fascisti su Facebook, a gestire i gruppi neri ci sono anche i poliziotti, di Arianna Giunti, «l’Espresso», 27 dicembre 2017, cfr. http://espresso.repubblica.it/inchieste/2017/12/27/news/fascisti-su-facebook-agestire-i-gruppi-neri-ci-sono-anche-i-poliziotti-1.316581. 184 «Quando c’era Lui»: le bufale sul fascismo a cui la gente continua a credere, di Leonardo Bianchi, «Vice», 24 luglio 2017, cfr. https://www.vice.com/it/article/d3894m/bufale-storiche-sul-fascismo-mussolinipensioni-tredicesima-terremoto. 185 www.duxstore.it 186 Gruppo di lavoro Patria su neofascismo e web, Nostalgia canaglia, su «Patria Indipendente», 13 dicembre 2017, cfr. http://www.patriaindipendente.it/persone-e-luoghi/inchieste/nostalgia-canaglia/. 187 «Oggi boicottaggio, domani esecuzione». Dopo il blitz di Forza Nuova continuano le minacce, di Federico Marconi, «L’Espresso», 7 dicembre 2017, cfr. http://espresso.repubblica.it/attualita/2017/12/07/news/oggi-boicottaggiodomani-esecuzione-dopo-il-blitz-di-forza-nuova-continuano-le-minacce1.315695. 188 Redazione, Giornalista dell’Espresso minacciata dai fascisti: «Dobbiamo darle una lezione», «L’Espresso», 8 dicembre 2017, cfr. http://espresso.repubblica.it/attualita/2017/12/08/news/la-giornalista-dellespresso-minacciata-dai-fascisti-dobbiamo-darle-una-lezione-1.315746. 189 Raid Macerata, fascisti sul web inneggiano a Luca Traini: «È l’inizio della nostra vendetta», di Arianna Giunti, «L’Espresso», 5 febbraio 2018, cfr. http://espresso.repubblica.it/attualita/2018/02/05/news/raid-macerata-fascisti-sulweb-inneggiano-a-luca-traini-e-l-inizio-della-nostra-vendetta-1.317901.

190 Nuovo fotomontaggio in rete contro Laura Boldrini, la testa stretta fra le cesoie, in «Huffington Post», 6 febbraio 2018, cfr. http://www.huffingtonpost.it/2018/02/06/nuovo-fotomontaggio-in-rete-controlaura-boldrini-la-testa-stretta-fra-le-cesoie_a_23353899/, E poi Laura Boldrini fatta a pezzi: nuovo fotomontaggio horror sulla pagina Fb dei Sentinelli di Milano, nell’edizione milanese del «Corriere della Sera», 6 febbraio 2018, cfr. http://milano.corriere.it/notizie/cronaca/18_febbraio_06/laura-boldrinifotomontaggio-cesoia-pagina-fb-sentinelli-milano-pamela-fatta-pezzi-risorsanigeriana-f8e3413e-0b18-11e8-9333-a02b6d017075.shtml?refresh_ce-cp. 191 Pubblicò foto di Laura Boldrini decapitata: «Non avevo capito la gravità, mi scuso pubblicamente», di Carlo Macrì, «Corriere della Sera», 6 febbraio 2018, cfr. http://www.corriere.it/cronache/18_febbraio_05/pubblico-foto-lauraboldrini-decapitata-non-avevo-capito-gravita-mi-scuso-pubblicamentef0ac4514-0a92-11e8-aeb9-f008c9e7034a.shtml. 192 Italia: operazione contro gruppo fascista clandestino, 14 arresti, di Marco Santopadre, su Contropiano.org, cfr. http://contropiano.org/news/politicanews/2014/12/22/italia-operazione-contro-gruppo-fascista-clandestino-14arresti-028228 193 Fascisti su Facebook, ecco i gruppi segreti con cui la galassia nera fa proseliti sul web, di Arianna Giunti, art. cit. 194 Terrorismo, la Germania non premierà i due agenti di polizia che fermarono Amri: «Foto di Mussolini sui profili social», in «il Fatto Quotidiano», 12 febbraio 2017, cfr. https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/02/12/terrorismo-lagermania-non-premiera-i-due-agenti-di-polizia-che-fermarono-amri-foto-dimussolini-sui-profili-social/3386107/. 195 Il manifesto anti-immigrati come ai tempi del fascismo: «Intervenga la magistratura», di Paolo Berizzi, «la Repubblica», 2 settembre 2017, cfr. http://www.repubblica.it/cronaca/2017/09/02/news/il_manifesto_antiimmigrati_come_ai_tempi_del_fascismo_intervenga_la_magistratura_-174415695/ 196 I raid neofascisti all’Appio contro i lavoratori bengalesi, di Ilaria Sacchettoni, «Corriere della Sera» edizione romana, 23 marzo 2017, cfr. https://www.pressreader.com/italy/corriere-della-seraroma/20170323/281646779963961 197 http://icsr.info/2010/03/the-challenge-of-online-radicalisation-a-strategy-foraction/ 198 Ibidem citato in Guido Caldiron, Estrema Destra, Newton & Compton, Roma 2013.

199 Neonazisti, la lista della vergogna. «Ecco i nomi degli ebrei italiani», di Marco Pasqua, «la Repubblica», 12 gennaio 2011, cfr. http://www.repubblica.it/cronaca/2011/01/12/news/ebrei-11117326/. 200 Neonazisti di Stormfront, «A processo altri 39 per gli insulti antisemiti», di Federica Angeli, «la Repubblica», 26 febbraio 2015, cfr. http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/02/26/neonazistidi-stormfront-a-processo-altri-39-per-gli-insulti-antisemitiRoma08.html. 201 Denunciato il prete del saluto romano. La diocesi: «Non è un sacerdote», di Paolo Berizzi, «la Repubblica», 29 maggio 2017, cfr. http://milano.repubblica.it/cronaca/2017/05/29/news/milano_sacerdote_saluto_romano_denun 166730824/ 202 Ibidem. 203 Una targa tra i boschi di Manzano per non dimenticare le gesta degli Arditi, di Davide Vicedomini, «Messaggero Veneto» edizione Udine, 29 luglio 2017, cfr. http://messaggeroveneto.gelocal.it/udine/cronaca/2017/07/29/news/unatarga-tra-i-boschi-per-non-dimenticare-le-gesta-degli-arditi-1.15672061 204 http://www.liberoquotidiano.it/video/11680026/I-Para-cantano-l-innofascista.html

12. CURVA A DESTRA

Verona, marzo 1986 Trent’anni di curve nere «Cani nazisti». Striscione blu e lettere bianche, cucito a mano dai Wild Kaos dell’Atalanta. Stadio Bentegodi, curva nord, dalla parte opposta rispetto agli ultrà scaligeri. La prima trasferta a Verona me la ricordo come fosse un’ora fa. I guanti neri di pelle di tre «Brigate gialloblu» veronesi che tendono il braccio destro e fanno il saluto romano a una ventina di metri dall’ingresso 1 del piazzale dove passano i pullman dei tifosi ospiti. Un altro dei loro tira fuori dal giubbotto una bandiera con la svastica: afferra i due lembi, la solleva sopra la testa e la mostra, incurante dello sguardo dei poliziotti del reparto Celere disposti in fila sui lati del parcheggio per evitare contatti tra le opposte tifoserie. Gridano «Duce! Duce!» i veronesi. Cosa c’entra Mussolini con una partita di calcio? E la svastica? E lo striscione in risposta degli atalantini? In quegli anni il vessillo nazista era di casa nella curva sud dello stadio di Verona, assieme a croci celtiche, aquile del Reich, simboli della Rsi, striscioni razzisti; persino il tristemente famoso manichino impiccato raffigurante un giocatore di colore. È il 23 marzo 1986: Verona-Atalanta 0-3, tripletta di Aldo Cantarutti. Da qualche parte nelle mie sinapsi ancora si riattiva la stessa identica gioia. E però, a 14 anni, non riuscivo a capire il nesso tra estremismo politico e calcio, sport che praticavo nel campetto del quartiere Santa Lucia, a Bergamo. Ho conosciuto il tifo, le sciarpe, le bandiere, i tamburi e i fumogeni che avvolgono la curva dentro una nube di colori. Ho visto tifoserie scontrarsi, spinte dalle logiche assurde tipiche delle tribù metropolitane. Scontri tra gruppi rivali, scontri con le

forze dell’ordine. Ma l’estremizzazione politica del tifo calcistico no: all’epoca, nella mia mente di adolescente, non era ancora entrata. Durante la partita di Verona assisto per la prima volta alle rappresentazioni del neofascismo da stadio: centinaia di tifosi skinhead accompagnano la lettura della formazione del Verona con un «olè!» e facendo il saluto romano; sulla «balconata» della Sud sono appese bandiere con la croce celtica a corredo del lungo striscione del gruppo egemone della tifoseria, le «Brigate gialloblu». Il resto dello stadio applaude e acconsente. A metà anni Ottanta e per tutti i Novanta le Brigate – fondate nel 1971 e che si richiamano nel nome alle Brigate nere, i famigerati paramilitari della Repubblica di Salò – sono anche un laboratorio politico: la nascita del Veneto Fronte Skinheads – che importa in Italia il circuito Blood and Honour – fa sì che le due realtà della Verona nera diventino vasi comunicanti. I militanti che durante la settimana fanno attività di propaganda e organizzano iniziative xenofobe e antisemite, la domenica si ritrovano allo stadio. Il nemico numero uno, prima ancora di polizia e carabinieri, sono le tifoserie storicamente di sinistra: in quegli anni, Atalanta, Livorno, Sampdoria, Torino. Gli ultrà del Verona erano e sono gemellati con quelli di Lazio e Inter: una specie di piccolo cartello nero delle curve italiane. Tutte e tre dichiaratamente di estrema destra, razziste, antisemite, collegate con formazioni neofasciste. La politica da curva mi sbatte addosso a Verona. Quando in quella trasferta vedo il tipo che mostra la bandiera con la svastica si riaccende una lampadina. La luce risale all’anno prima. È il 12 maggio 1985, l’anno dello scudetto dell’Hellas Verona. A Bergamo sono allo stadio con mio padre. Siamo in curva sud. È invasa di tifosi ospiti, migliaia di ultrà veronesi arrivati a Bergamo per seguire la squadra in un’annata irripetibile. Quel giorno il Verona incasserà la matematica certezza di avere vinto il tricolore (la partita finisce 1-1). Il primo gol lo segna Eugenio Perico, difensore dell’Atalanta. In sud siamo un centinaio di tifosi dell’Atalanta, anche bambini e ragazzini coi genitori. Tutti in parterre nella parte bassa della curva a sinistra, al confine con la tribuna: per il resto sono solo veronesi. Esultiamo sul gol. Non avremmo mai potuto non farlo. L’Atalanta giocava nel suo stadio, in casa. Parte una squadraccia di ultrà del Verona, le teste rasate, i bomber scuri d’ordinanza. Si sfilano le cinture e iniziano a brandirle avanzando verso di noi: alcuni tirano delle biglie di ferro, altri fanno il saluto romano e intonano boia chi molla. Il giallo delle sciarpe che colorava la curva mi sembra di colpo un non colore. I poliziotti ci dicono di allontanarci. «Forza!, forza!» Aprono il cancello e ci fanno spostare di là. In tribuna. Mi sembra un sopruso inaccettabile quello degli ultrà ospiti. Una violenza gratuita in un giorno

di festa che si è stampato in modo indelebile nella storia di Verona e nel cuore dei tifosi veronesi. Seimila tifosi all’assalto dello scudetto. Ma era bastato un gol dell’Atalanta a scatenare la furia e l’avanzata punitiva di una parte di questi ultrà. L’odio cieco, le braccia tese a fendere la folla prima di passare all’attacco a colpi di cinghia. D’un tratto, guardando lo sguardo pieno di veleno di alcuni di questi assalitori, i pensieri si resettano. C’è una quiete improvvisa che cala sulla paura. Capisco di avere di fronte dei fanatici, sì. Ma talmente disperati e svuotati da non riuscire a fermarsi nemmeno di fronte a dei bambini accompagnati dai genitori. E dunque dei guerrieri scarichi, senza valori, senza onore. Dieci anni dopo gli ultrà del Verona fanno pendere a mo’ di impiccagione nella loro curva allo stadio Bentegodi un manichino nero: protestano contro la società che voleva acquistare un giocatore africano, Maickel Ferrier. «Negro go away», è scritto su uno striscione che accompagna l’esposizione del fantoccio. Tra gli arrestati (poi saranno entrambi assolti) ci sono Alberto Lomastro e Yari Chiavenato, due ex naziskin. Oggi allo stadio siedono in tribuna. Uno è presidente dell’Associazione Culturale Verona Hellas, l’altro, passato da Forza Nuova (di cui era segretario provinciale) alle liste della Lega Nord, è il capo dell’associazione di ispirazione neonazista Fortezza Europa che abbiamo già incontrato. Che cosa c’entrano Mussolini e Hitler con una partita di calcio? E la svastica? Sono passati più di trent’anni e le domande che mi percorrevano la mente nel parcheggio dello stadio Bentegodi, mentre tornavo a casa con mio padre, sono ancora inevase. Non so se quell’episodio ha determinato i miei interessi professionali. Di certo non mi ha mai abbandonato lo sconcerto e la curiosità di denunciare, sì, ma anche di capire cosa passa per la testa di chi popola una curva o un movimento neofascista. Più di trent’anni dopo osservo ancora le curve degli stadi italiani e il colore dominante è sempre quello: il nero. Anche la tifoseria del Verona è ancora quella: il 1° luglio 2017 la curva sud fa festa allo stadio. È un evento regolarmente autorizzato, con il benestare del club calcistico e del Comune. Lo stadio è stato messo a disposizione degli ultrà per il tradizionale raduno celebrativo della tifoseria organizzata. Sul palco prende la parola Luca Castellini, uno dei Fiore-boys: è il capo di Forza Nuova per il Nord Italia, leader dell’associazione «Verona ai veronesi» e portavoce della curva sud dell’Hellas. «Chi ha permesso questa festa, chi ha pagato tutto, chi ha fatto da garante ha un nome: Adolf Hitler!» Grida Castellini per la gioia dei tifosi che esultano e di rimando intonano il coro «Adolf Hitler is my friend!» Dietro il palco campeggia

un enorme bandierone con la «scala», simbolo dell’Hellas Verona e, sopra, un’aquila tedesca stilizzata. Un altro coro si alza dalla folla. «Siamo una squadra fantastica, fatta a forma di svastica: che bello è, allena Rudolf Hess!» Le immagini choc del raduno fanno il giro della rete, postate sulla pagina No Boreal. Noemi Di Segni, presidente delle comunità ebraiche italiane, parla di «vera celebrazione del nazismo.» Ma come sempre i camerati minimizzano e derubricano la vicenda a una «goliardata». Goliardica doveva essere, secondo i capi del tifo gialloblu, anche un’altra trovata: la svastica «formata» da sedici auto parcheggiate in un prato a giugno del 2014 nel parco Vallo dei bastioni in via città di Nimes. Altra festa della curva sud, e ancora quel simbolo, la lettera runica simboleggiante il moto del sole, la croce con le punte piegate utilizzata dalle culture originarie dell’India, Giainismo, Buddhismo e Induismo, e poi adottata dal partito nazista. Sul palco in quell’occasione si esibivano gruppi musicali di estrema destra: i Sumbu Brothers e i 1903. Il ministero dell’Interno ha un Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive che ha censito 382 gruppi ultrà (quasi 40mila supporter). Di questi, 151 sono orientati politicamente, e 85 si dichiarano di destra e di estrema destra. Si parla di circa 10mila tifosi. Decine di settori di decine di stadi occupati quasi militarmente da gruppi ultrà con ideologie neofasciste e neonaziste. Spalti come serbatoi, dove i movimenti di estrema destra reclutano manovalanza. Palestre nelle quali si formano i militanti che poi partecipano alle ronde nelle periferie, ai blitz contro gli immigrati, ai pestaggi, alle manifestazioni di piazza. Soldati da curva e allo stesso tempo soldati di formazioni nere: Forza Nuova, CasaPound, Lealtà Azione, Veneto Fronte Skinheads, Skin4Skin, Comunità militante dei dodici raggi, Militia. Ognuno ha un proprio gruppo-emanazione dentro gli stadi (collegato con altre tifoserie di estrema destra e antisemite d’oltreconfine). «Le curve sono uno specchio della società», mi spiega Maurizio Marinelli, esperto di tifo violento e direttore del centro studi della polizia di Brescia. «Se la società si sposta a destra, di quello spostamento le curve sono la cartina di tornasole. Xenofobia, intolleranza, antisemitismo, recrudescenze nostalgiche: in questo mix si formano le nuove leve dei gruppi ultrà. In diversi casi è facile osservare come i capi delle formazioni politiche di chiara matrice o ispirazione fascista abbiano tutto l’interesse a favorire la frequentazione dell’ambiente stadio da parte dei ragazzi. Hanno un ritorno, raccolgono i frutti dell’indottrinamento ideologico, e li riutilizzano per la propaganda politica. La militanza è diventata double face.»

Allevare tifosi alla politica La coincidenza fra ideologia di destra e certe forme di tifo organizzato non è solo una questione di «estetica» del calcio. Ha ragione Marinelli quando dice che le curve rispecchiano quello che succede nella società, perché i comportamenti inneggianti al fascismo di certi giocatori, di certe tifoserie, e la miopia di certe squadre, riflettono quello che succede nel Paese in generale. Basti notare, per cominciare, che i principali partiti di estrema destra hanno le loro associazioni di tifosi che sono fondate dagli stessi leader politici. CasaPound, ad esempio, nella curva sud dello stadio Olimpico, si chiama «Padroni di casa». Il gruppo è stato fondato nel 2007 da Giuliano Castellino (oggi in Forza Nuova) e da altri camerati-ultrà appartenenti alla tartaruga nera di CPI. Benedetta dal presidente Gianluca Iannone, l’operazione è servita per nutrire il corpo del partito dei «fascisti del terzo millennio»: aggregare tifosi militanti, e allevarli anche alla politica. E, viceversa, avere una rappresentanza dentro l’Olimpico, un «megafono». Non è uno stadio come gli altri, quello di Roma. Gli ultrà delle due squadre capitoline sono tra i più permeabili alle spinte dell’estrema destra: la curva nord laziale è tradizionalmente feudo di gruppi neofascisti che hanno riempito le fila degli Irriducibili da quando sono nati, nel 1987, e per tutto il loro exploit che li ha portati a essere il gruppo egemone della tifoseria biancoceleste. E la sud romanista, che negli anni Ottanta e Novanta era a trazione sinistrorsa, negli ultimi vent’anni è diventata essa stessa una piazza nera. Se si ripercorrono come in un ipotetico Blob i momenti salienti della storia del tifo fascista degli ultimi trent’anni, ci si rende conto che gli spalti sono stati la vetrina pubblicitaria dei movimenti politici di estrema destra e del loro credo. Il 10 aprile 2005, durante la partita della Lazio con il Livorno, compare nella curva laziale un grande striscione con questa scritta: «Roma è fascista». Nel settore degli ultrà biancocelesti – dominato dagli Irriducibili, vicini a Forza Nuova, che da sempre esibiscono coreografie ideologizzate – è uno sventolare di bandiere tricolori, croci celtiche e svastiche. Altri due striscioni recitano «boia chi molla» e «me ne frego». Destinatari sono i tifosi ospiti, i livornesi, da sempre «rossi». Nella partita di andata a Livorno, l’11 dicembre, il giocatore e capitano laziale Paolo Di Canio, scritta Dux tatuata sul braccio, era andato sotto la curva dei suoi sostenitori facendo il saluto romano. Un gesto ripetuto altre volte, soprattutto per festeggiare dopo un gol o una vittoria. Un gesto di cui Di Canio dirà anni dopo di essersi pentito. Ma che i suoi ultrà apprezzavano molto. E come potrebbe

essere altrimenti. Gemellati con i nazionalsocialisti madrileni Ultras Sur, con i polacchi del Wisla Cracovia e con gli ungheresi del Levski Sofia, i laziali nel 2000 si fanno conoscere dall’Europa per lo striscione «Onore alla tigre Arkan». È dedicato al leader paramilitare ulltranazionalista serbo Zeljko Raznatovic, capo degli ultrà della Stella Rossa di Belgrado, ma anche responsabile di una feroce pulizia etnica nella ex Jugoslavia, scomparso pochi giorni prima e difeso dall’allenatore ed ex giocatore della Lazio Sinisa Mihajlovic. In Italia la politicizzazione degli ultrà biancocelesti, come quella dei loro gemellati veronesi, è storia antica. Nel 1998 a un derby Roma-Lazio nella curva nord srotolano un lungo striscione: «Auschwitz la vostra patria, i forni le vostre case». Nel 2001 fanno il bis con «Squadra di negri, curva di ebrei», sempre rivolto ai romanisti. La fama lievita diciassette anni dopo: a ottobre 2017 gli ultrà laziali appiccicano nella curva sud dei «nemici» della Roma – dove erano stati spostati causa la chiusura per razzismo della loro curva – gli adesivi antisemiti con Anna Frank che indossa la maglia giallorossa e le scritte «romanista ebreo». Una vicenda che suscita indignazione generale. Ma che alla fine porterà a una semplice multa comminata alla società Lazio. Tra i primi comunicati di solidarietà agli ultrà antisemiti c’è quello di Forza Nuova: «Siamo tutti Curva Nord». «Chiudere tutto. Sorvegliare tutti. Arrestare ogni voce ribelle, manganellare, diffidare, denunciare ogni grido non conforme», è la polemica ironica dei forzanovisti. «Questo è il volto della tirannia immigrazionista, salva banche e antifascista che sta affamando il popolo italiano.»205 Nel solito tentativo di ribaltamento della realtà, il partito di Fiore punta l’indice contro il «clamore mediatico» e nega che quegli adesivi fossero razzisti o antisemiti. Anche in questo caso, il copione della comunicazione dell’ultradestra è il solito: si minimizza la provocazione dicendo che era solo «scherno che non costituisce reato», semplicemente un «grido non conforme.» Insomma: un modo di tifare campanilistico e nulla più. Di quella vicenda più che la reazione degli ultrà fascisti e dei loro sostenitori politici mi colpisce la presa di posizione dei vertici del calcio. La Figc decide di far leggere il Diario di Anna Frank, con un minuto di riflessione, sui campi di calcio prima del fischio d’inizio: un’iniziativa lodevole e di grande civiltà, senza dubbio. E fa niente se gli ultrà dell’Ascoli, anche loro di estrema destra, il 24 ottobre 2017 scelgono di disertare il minuto di silenzio per «non essere complici di un vergognoso teatrino che si indigna per una decina di adesivi.» Tuttavia, dietro l’inevitabile velo di retorica istituzionale, tipico di questi casi, è impossibile non cogliere alcune contraddizioni. A riprova del fatto che in Italia

la soglia della tolleranza delle esibizioni neofasciste è relativamente alta, basta ricordare che i giocatori che nei campionati italiani hanno fatto il saluto fascista o hanno esibito simboli del Ventennio hanno rimediato al massimo una squalifica. Non c’è solo il caso del recidivo Paolo Di Canio. Il 12 novembre 2017 l’ex giocatore del 65 Futa Eugenio Maria Luppi festeggia un gol segnato sul campo del Marzabotto (luogo dell’eccidio nazista del 1944) esibendo una maglia nera con l’aquila della Rsi e facendo il saluto romano verso il pubblico. Deferito dalla procura sportiva, il 12 marzo 2018 il tribunale territoriale della Federcalcio lo condanna a 8 mesi di squalifica, escludendo l’aggravante della premeditazione. Ma intanto è stato «promosso»: dalla seconda categoria è passato alla promozione, dopo essere stato acquistato dal Borgo Panigale. In altri Paesi c’è meno indulgenza. Giorgos Katidis, ex centrocampista dell’Aek Atene, già capitano dell’Under 19 e poi dell’Under 21 greca, nel 2013 festeggia un gol allungando il braccio destro nel saluto tipico dei regimi di Hitler e Mussolini: la federazione calcio greca lo radia a vita dalle nazionali e dalle competizioni internazionali. Tre mesi dopo la vicenda, Katidis diventa un giocatore del campionato italiano: lo compra il Novara. Nessun’altra squadra lo aveva richiesto, evidentemente il suo gesto era considerato una macchia intollerabile. Tranne che da noi, patria del fascismo. Siamo un Paese a intermittenza. Dove le istituzioni sono capaci di clamorose gaffe. Il 14 maggio 2017 sul sito della Figc scorgo una fotografia: c’è una maglia azzurra con in bella vista il fascio littorio, emblema dei Fasci italiani di combattimento di Benito Mussolini e stemma del Partito nazionale fascista. Non è una casacca qualunque. È la maglia indossata dal glorioso centravanti Silvio Piola il 14 marzo 1935 nella partita Austria-Italia a Vienna.206Sono gli anni in cui il fascismo entra negli stadi. Durante il Ventennio la popolarità del calcio tra gli italiani non solo aumenta: diventa un veicolo di propaganda, motivo di orgoglio, motore per l’identità nazionale. Merito dei successi della Nazionale: le due vittorie ai mondiali nel ’34 e nel ’38 e la medaglia d’oro alle Olimpiadi del ’36. Un volano formidabile. Torniamo alla maglia di Piola. Sulle prime penso a un’immagine di repertorio, un cimelio allegato a una gallery celebrativa di vecchie divise azzurre. Invece no. La Federazione ha scelto appositamente quella foto per celebrare la festa della mamma. Lo slogan postato (e successivamente rimosso) sul sito del governo dello sport italiano più popolare, recita così: «Una maglia azzurra per raccontare la festa della mamma». Perché? Qual è il nesso? Che c’entrano le mamme? Quella maglia con il fascio littorio sul petto (assieme al simbolo di casa Savoia) l’ha cucita a mano la madre di Silvio Piola, la signora

Emilia Cavanna, sorella del portiere della Pro Vercelli Giuseppe Cavanna che ebbe un ruolo rilevante nella crescita agonistica del nipote. Donna Emilia aveva voluto celebrare così il brillante esordio del figlio in nazionale (2 gol). Che 82 anni dopo la Figc avrebbe ripescato il suo lavoro di cucito per festeggiare le mamme, probabilmente non l’avrebbe mai immaginato. Dopo la nostra denuncia, il presidente del Coni, Giovanni Malagò, ordina l’immediata rimozione dell’immagine dal sito della federazione. Ma ormai la frittata è fatta. Slogan nostalgici. Inni e parole d’ordine del Ventennio. Vecchi simboli recuperati e riproposti su striscioni e bandiere. Uno dei motti prediletti dalla destra radicale è sempre stato «Marciare per non marcire». L’ultima volta l’ho visto in occasione della «marcia dei patrioti» di Forza Nuova il 4 novembre 2017 a Roma. Quel giorno il flusso di militanti che sfila per le strade dell’Eur scandisce più volte il nome di Giuliano Castellino. Lo abbiamo già incontrato: è il capetto forzanovista finito in carcere per essersi opposto a uno sfratto eseguito dalle forze dell’ordine con cui si è scontrato. Castellino è un supporter storico della curva sud romanista, ma militando in Forza Nuova la fede politica gli fa superare le divisioni di tifo, e infatti anche lui ha manifestato solidarietà agli Irriducibili della Lazio di fronte all’indignazione dell’opinione pubblica per le figurine con Anna Frank. Oggi quarantenne, già dai primi anni Duemila Castellino si distingue tra le fila dei tifo estremista, e non solo. È lui, assieme ad altri del gruppo «Tradizione e distinzione» della curva sud, che il 27 ottobre 2002 fa spuntare uno striscione: «28.X.2002 Marciare per non marcire». Il giorno dopo a Roma va in scena una manifestazione organizzata per celebrare l’ottantesimo anniversario della marcia su Roma. Chi la mette in piedi? La rinata Base Autonoma, organizzazione neofascista extraparlamentare sciolta nel 1993 per gli effetti della Legge Mancino.207I nuovi capi di Base Autonoma sono Castellino e Maurizio Boccacci, che poi diventerà leader di Militia. Quelli di Base Autonoma mettono radici in entrambe le curve dello stadio Olimpico: la loro emanazione nella Nord laziale è «Banda Noantri», gruppo nato per scalfire il monopolio degli Irriducibili forzanovisti. Tra i capi ultrà c’è un altro fedelissimo di Roberto Fiore, tal Maurizio Catena, uomo talmente vicino a «Flower» da essere stato scelto per la gestione di «Easy London», il tour operator che ha dato linfa economica a Forza Nuova sin dalle origini. «Colonnello» nero in curva sud invece è Boccacci. È tra i reggenti del gruppo romanista «Opposta Fazione», e partecipa ai violenti scontri del 20 novembre 1994 allo stadio di Brescia, dove ultrà romanisti e laziali si allearono contro le forze dell’ordine e negli incidenti finì accoltellato il vicequestore Giovanni

Selmin. Si scoprirà che dietro Opposta Fazione operava il Movimento politico occidentale, altra organizzazione neofascista sciolta nel ’93 con la legge Mancino: è la culla politica da cui proviene il fondatore e presidente di CasaPound Italia Gianluca Iannone. Di «Opposta Fazione» si parla anche nell’inchiesta di Mafia Capitale. Si legge nelle carte della Procura di Roma: «Il legame tra alcuni personaggi ruotanti attorno all’organizzazione mafiosa era rinsaldato dalla medesima militanza nelle fila del gruppo ultrà romanista». Il collante è Riccardo Brugia, braccio destro di Massimo Carminati, condannato a 11 anni per associazione a delinquere nel maxi processo Mafia capitale e scarcerato il primo marzo 2018. Anche Brugia, come «er Cecato» Carminati, ha militato nei Nuclei armati rivoluzionari. E al suo vecchio amico Brugia è sempre rimasto legato. Fino all’arresto nel 2016: secondo il Pm Luca Testaroli e gli aggiunti Paolo Ielo e Giuseppe Cascini, del pool Antimafia della procura di Roma, è il palestrato Brugia che si occupa delle estorsioni del sodalizio criminale intorno al quale ruota l’inchiesta «Mondo di mezzo». Recupera i crediti e custodisce le armi della banda. È l’ennesima finestra che si apre sui legami tra curve nere e criminalità. Certi nomi ricorrono per anni nella cronaca legata agli ultrà romani. Fra le persone coinvolte negli scontri del 1994 a Brescia, oltre a Boccacci compare un altro nome, Daniele De Santis, che poi sarà assolto. Poi nel 1996 risulta coinvolto, con Giuliano Castellino, nei presunti ricatti degli ultrà a danno dell’allora presidente Sensi. Anche in quel caso tutti assolti. Dopo il 3 maggio 2014 il nome di De Santis conquista le prime pagine dei giornali. È il giorno della finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina, che si gioca allo Stadio Olimpico. Negli scontri fra tifoseria romanista e partenopea rimane ferito da un colpo di pistola il napoletano Ciro Esposito: morirà dopo cinquantatré giorni di agonia. È una delle vicende più buie del calcio italiano. Colpevole dell’assassinio è Daniele De Santis. Ex compagni di curva e camerati dicono che non frequentava più la sud dell’Olimpico. Ma la scimmia del tifo violento non l’ha abbandonato. Quando i tifosi napoletani diretti allo stadio Olimpico passano di fronte al centro sportivo di Tor di Quinto dove De Santis fa il custode e dove abita, va in scena un agguato. De Santis, reduce da un festino a base di cocaina con due prostitute rumene,208esce da casa e lancia un fumogeno al passaggio degli ultrà napoletani. Nasce una rissa. L’uomo ha in mano una pistola, la teneva in un cassetto. Spara. Ciro Esposito rimane a terra. De Santis sarà condannato a 26 anni in primo grado poi ridotti a 16 in appello. Una foto che lo ritrae nel suo ufficio mostra bandiere e adesivi con la croce celtica, simboli runici, slogan anti

islam e contro la globalizzazione. Tifo criminale I legami fra ultrà romanisti e Mafia Capitale non sono un caso eccezionale. Dei rapporti fra estrema destra e organizzazioni mafiose si è occupata anche la Commissione parlamentare antimafia. Nella relazione su mafia e calcio, approvata nella seduta del 14 dicembre 2017 (Doc. XXIII, n. 31, pag. 11) si legge: «Il primo ambito individuato dalla Commissione è riconducibile al tema dell’ordine pubblico e della sicurezza negli stadi e ha avuto ad oggetto l’infiltrazione, o per meglio dire la contaminazione, da parte delle organizzazioni criminali di tipo mafioso delle tifoserie organizzate e, per il tramite di queste, le forme di condizionamento dell’attività delle società sportive professionistiche. Le risultanze dell’inchiesta parlamentare hanno consentito di rilevare varie forme, sempre più profonde, di osmosi tra la criminalità organizzata, la criminalità comune e le frange violente del tifo organizzato, nelle quali si annida anche il germe dell’estremismo politico. Il fenomeno della politicizzazione del tifo organizzato è un fenomeno antico ed è un dato di comune conoscenza la distinzione delle tifoserie sulla base dell’orientamento ideologico di estrema destra o di estrema sinistra. Tuttavia, crea inquietudine la presenza di tifosi ultrà in tutti i recentissimi casi di manifestazioni politiche estremistiche di destra, a dimostrazione che le curve possono essere “palestre” di delinquenza comune, politica o mafiosa e luoghi di incontro e di scambio criminale». Non c’è solo la ’Ndrangheta nelle inchieste con cui la magistratura in questi anni ha acceso i riflettori su strati e sottostrati delle curve di Juventus e Milan. C’è un sistema fatto di interessi economici, di affari in comune, di spartizioni. E anche di propaganda politica. Un’unica cabina di regia per due curve tradizionalmente rivali, quella juventina e quella milanista. Ma che sono andate oltre le divisioni calcistiche in nome di un’alleanza finalizzata alla conquista del potere e del controllo sui rispettivi spazi. Due personaggi sono emblematici di questo mondo fra tifo e crimine. Si chiamano Giancarlo Lombardi e Loris Grancini, quest’ultimo è anche campione di poker. Sono rispettivamente leader dei due gruppi egemoni delle curve di Milan e Juventus: «Curva sud Milano» il primo, «Viking» il secondo (il gruppo ha sede a Milano). Entrambi pluri inquisiti e considerati vicini ad ambienti legati a cosche mafiose, dichiarate simpatie per l’estrema destra, i due «rivali-sodali» da tempo si sono dedicati ad affari extra

calcistici. Attraverso dei prestanome, stando ad attività investigative, avrebbero messo le mani su un noto locale della movida milanese dove organizzano feste e serate a tema. È solo l’ultima avventura imprenditoriale.209A dicembre del 2017 Grancini – che per gli inquirenti oltre che capo ultrà è anche uomo di Cosa Nostra e della cosca calabrese dei Rappocciolo (nel 1998 scampò a una sparatoria, un regolamento di conti in viale Faenza) – è finito in carcere: deve scontare un cumulo di pena di 13 anni e 11 mesi (tra i reati c’è anche un tentato omicidio). Grancini e Lombardi, una vecchia amicizia. E una collaborazione con mille declinazioni. Anche quando il terreno di gioco è la politica. In passato sposano la causa elettorale del berlusconiano Angelo Giammario, divenuto poi consigliere regionale. Giammario è stato anche membro dell’associazione culturale Arché assieme a Marco Clemente, attuale vicepresidente di CasaPound Italia. Nel 2011, una vita politica fa, Clemente si candida alle amministrative a Milano con il Pdl: e chi lo sostiene? I Viking juventini di Grancini. Inondano di email gli ultrà chiedendo di votare lui, Clemente, ex marito di Roberta Capotosti, fedelissima di Gianni Alemanno prima e poi di Ignazio La Russa.210 Le «truppe» di Grancini e Lombardi rispondono ai capi e ai loro luogotenenti. E, quando possibile, sfruttano la cassa di risonanza del calcio per fare ancora propaganda politica. In strada. Sempre a dicembre 2017 un gruppo di ultrà juventini in trasferta a Bologna marcia in assetto di parata militare verso lo stadio scandendo cori fascisti e facendo il saluto romano. È uno sfregio verso il settore a loro riservato, intitolato ad Arpad Weisz, allenatore ungherese di origini ebraiche, vincitore di due scudetti coi rossoblu e uno con l’Inter, ucciso ad Auschwitz nel ’44. Tifo e antisemitismo: un legame che nelle curve nere e razziste ritorna. E che ha una base antica. La rete che tiene insieme numerosi gruppi ultrà, soprattutto nel nord Italia, ha un nome: Skin88. È una costola del movimento skinhead. I due otto stanno a indicare la doppia «h» (ottava lettera dell’alfabeto latino), che sta per Heil Hitler. Di questi ultrà-militanti è piena da sempre la curva nord dell’Inter. Quella dei «buuu» razzisti, del coro «Vesuvio lavali col fuoco» contro i napoletani, delle croci celtiche. Una vecchia storia nata all’inizio degli anni Ottanta e che da allora si è riprodotta rafforzando la saldatura tra movimenti politici e tifo neroazzurro. La Nord ha fatto da alveo calcistico all’attività in Lombardia di Azione skinhead, la formazione che riuniva le teste rasate milanesi di Base autonoma. Due gruppi detenevano il potere nella roccaforte degli ultrà interisti: gli Skin e i Boys San (il gruppo più antico e numeroso, il cui acronimo San si riferisce alle Squadre d’Azione

Neroazzurre, mutuate da quelle di Benito Mussolini). Poi, sul finire degli anni Ottanta, sono arrivati gli Irriducibili: stesso nome e stessa ideologia dei colleghi laziali. Oggi nella curva nord trovano spazio militanti e simpatizzanti di Lealtà Azione e di CasaPound. Sono le sigle politiche di riferimento a cui guardano da tempo alcuni leader storici della tifoseria: pluridaspati, dagli stadi sono passati ai palazzetti del basket o dell’hockey. Ivan Luraschi, ad esempio, 48 anni, capo ultrà interista, è diventato la guida suprema della curva dell’Hockey Milano Rossoblu. È una presenza fissa anche al Forum di Assago, dove guida gli «Ultras Milano» dell’Olimpia di basket. Già indagato per due vicende – una presunta estorsione ai danni del proprietario del bar dello Stadio del ghiaccio dove gioca l’Hockey Milano, e perché sospettato di aver realizzato con altri ultrà scritte ingiuriose nei confronti di agenti della Digos comparse nella zona dello stadio Meazza – l’anno scorso Luraschi è stato arrestato per violazione del Daspo. Una foto che gira sul web lo ritrae con il braccio sinistro ingessato e nella mano destra la lastra di una radiografia. Sono i «segni» del ferimento che si è procurato nell’edizione 2014 dell’encierro, la tradizionale corsa con i tori della festa di San Firmino a Pamplona. Luraschi – ritenuto dagli investigatori vicino a Lealtà Azione e a CPI – è noto anche per avere dato alle stampe un libro intitolato La violenza negli stadi dove racconta 40 anni di tifo. Curiosa è la spiegazione che offrì degli ululati che le curve xenofobe rivolgono da anni in Italia ai giocatori di colore (in base a regolamento può essere punita dal giudice di gara anche con la sospensione della partita). «Forse è poco elegante, ma non è razzismo. È solo uno strumento per innervosire gli avversari. C’è ancora qualche giocatore di colore che abbocca a questa provocazione.» Come sempre si stravolge la realtà negando anche l’evidenza. Si ributta la palla nell’altra metà del campo. O è sfottò o è goliardia. È il vecchio giochino usato dall’estrema destra per farsi strada nell’opinione pubblica. Un gioco che negli ultimi tempi è tornato di gran moda. Infiltrato nella patria di Hitler Ricordo che li chiamavano «le gabbie». Anche nelle altre città li soprannominavano così. Era per via dei finestrini: protetti da griglie di ferro, delle museruole applicate alle fiancate per evitare che i sassi lanciati lungo il percorso dagli ultrà avversari mandassero in frantumi i vetri. Cosa che nei dintorni dello stadio accadeva comunque e puntualmente. Perché spesso negli

agguati a colpi di pietre e bombe carta veniva preso di mira il parabrezza. Le «gabbie» erano gli autobus che trasportavano allo stadio gli ultrà in trasferta: scesi dal treno i tifosi più esagitati e sempre pronti allo scontro venivano fatti salire su questi torpedoni – solitamente dell’azienda trasporti comunale – e con quelli raggiungevano il luogo della partita. Negli anni Novanta lo stadio di Bergamo e le partite dell’Atalanta diventavano frequentemente teatro e occasione per incidenti tra tifoserie o tra ultrà e forze dell’ordine. Era una triste consuetudine. A tal punto che in quegli anni una fama sinistra accompagnava ovunque gli ultrà dell’Atalanta. È attraverso l’esplorazione della galassia delle tifoserie che ho iniziato ad accostarmi allo studio del fenomeno dell’ultradestra. È stato un passaggio quasi immediato. Perché è nell’ultimo decennio del secolo scorso che si innestano i semi della radicalizzazione politica nelle curve. E quel decennio l’ho vissuto anche frequentando stadi, curve, città, raduni ultrà. Mi interessava capire e raccontare che cosa si muoveva in quella terra di confine, un mondo di mezzo caratterizzato dallo stravolgimento delle logiche del vivere civile, dalla devianza, fatto di esasperazioni e di contraddizioni ma anche di aggregazione e di solidarietà. La contrapposizione permanente con il sistema, la necessità quasi fisiologica e perversa che hanno questi gruppi di individuare sempre un nemico da combattere. L’appartenenza identitaria, i collegamenti con la politica. Sapevo che le molteplici sfaccettature di quegli ambienti tribali li avrei prima o poi condivisi con qualche lettore. Quel racconto è poi diventato parte dei miei studi e del mio lavoro. Il tifo calcistico può essere tutto e il suo contrario: una dimensione gioiosa, in certi momenti esaltante, quasi sublime per somma di emozioni. Ma anche un abisso, uno sprofondo immotivato che non poggia su nessuna giustificazione e che degrada verso derive pericolose. Ho dedicato intere giornate a seguire i flussi delle tifoserie ultrà, a studiarne la loro composizione, i sotto-fenomeni che in quella galassia si consumavano, in Italia e all’estero. Anche nell’Inghilterra degli hooligans, dove la piaga della violenza negli stadi è stata sconfitta dal governo inglese dopo una lunghissima scia di sangue. Assistere a uno scontro organizzato tra bande rivali di Millwall e West Ham nelle strade dell’East London, e capire le regole di ingaggio di quell’assurdità, ti consegna più materiale di un saggio sociologico. Puoi immergerti nella narrazione guerresca de I furiosi di Nanni Balestrini, puoi provare a entrare nelle pieghe delle tesi suggestive e non conformi di Alessandro Dal Lago e della sua Descrizione di una battaglia, lettura antropologica dei rituali violenti del calcio. Divori tutta la letteratura possibile prodotta sulle tribù del tifo. Ma non ti basta.

Sai che tutto quello che ha scritto Cass Pennant, l’ex hooligan inglese capo della ICF del West Ham tra gli anni Settanta e Ottanta, poi diventato scrittore anche per il cinema, lui lo ha vissuto. Ogni Paese, ogni regione, ogni curva ha degli aspetti peculiari che la rendono a se stante. Un coro, una coreografia, un’attitudine. I gemellaggi tra tifoserie disegnano una mappa fatta di odi e di alleanze, anche sul piano europeo. Per anni ho cercato di vedere che cosa nasceva e che cosa moriva in mezzo a quei soldati che gonfiavano le fila di eserciti in trasferta la domenica, per le coppe, per i Mondiali. Eserciti che combattono battaglie senza senso, senza un fine che non sia la supremazia territoriale fine a se stessa, o un ideale politico aberrante e condannato dalla storia. Con questa molla dentro di me, quando ne ho avuto l’opportunità mi sono infiltrato tra i naziskin alla vigilia dei mondiali del 2006 in Germania. Era marzo. A Braunau am Inn, in Austria, il paese natale di Hitler, va in scena un raduno. Rappresentanti di decine di tifoserie razziste e nazionaliste europee si danno appuntamento in un casolare dove sorge un laboratorio di falegnameria. Scopo del summit: definire una linea comune da tenere in occasione dei campionati mondiali di calcio che si giocheranno dopo tre mesi in Germania. Il piano studiato dai leader dei gruppi xenofobi più duri di Germania, Austria, Polonia, Francia, Inghilterra, Spagna, Grecia, prevede cortei propagandistici intorno agli stadi, pestaggi, provocazioni, manifestazioni all’insegna del razzismo. Nemico numero uno: gli immigrati. Soprattutto quelli di origine turca, che con 1 milione e 500 mila presenze – 200mila solo a Berlino, dove sono attive più di 100 moschee – rappresentano la prima comunità straniera in Germania. «Feinde zu vernichten», nemici da distruggere. Il tutto esibito nella straordinaria vetrina mediatica offerta dall’evento calcistico più importate e seguito nel mondo. La soffiata mi arriva all’improvviso, in una mattina di pioggia, in Veneto, dove mi trovavo per un altro servizio. Un contatto mi offre la possibilità di organizzarmi per tempo. Riesco a mischiarmi ad alcuni ultrà neri italiani e, fingendomi un hooligan, loro lo erano, riesco ad avere accesso all’incontro di Braunau. Fuori del capannone ci si muove con circospezione, senza dare nell’occhio, a piccoli gruppi discreti: queste sono le istruzioni per non allarmare la quiete della sonnolenta cittadina. Dentro è un’orgia di lingue, birre, sudori e rabbia elettrizzante. Saremo una settantina, c’è un inglese, vecchia guardia del Chelsea coperto di tatuaggi, che si sbraccia per mimare il caos che gli hooligan

prevedono di creare all’esordio della Nazionale inglese contro il Paraguay. «Bad, bad, bad!» urla a pieni polmoni. Gli italiani sono ammirati: a uno dall’accento romano sento dire «An vedi l’inglese, quello è tosto», un altro veneto commenta: «Questo i negri e gli ebrei di merda li ammazza davvero». Saranno una decina, di Forza Nuova, Fronte Veneto Skinheads, di Roma, del Veneto, di Ascoli. I tedeschi sono gli strateghi militari, consigliano di attaccare la polizia lontano dagli stadi, nei luoghi meno prevedibili e dunque dove le divise sono in minoranza. C’è un clima di esaltata fratellanza, sento dire agli italiani che «il nazismo ripartirà dalla Germania.»211 Racconto tutto in un servizio su «Repubblica». Dopo la pubblicazione la polizia austriaca cade dalle nuvole: le stesse forze dell’ordine che dieci anni dopo avrebbero fatto la voce grossa sui migranti al Brennero – con la propaganda politica e la linea dura sulla quale ha danzato per quasi un anno, tra 2016 e 2017, l’allora ministro dell’Interno di Vienna Wolfgang Sobotka minacciando di erigere un muro per fermare il flusso di profughi provenienti dall’Italia – quelle stesse istituzioni non si erano accorte che nel paese che diede i natali a Hitler, una cittadina di appena 16mila abitanti, meta più che altro di pellegrinaggi nostalgici, tipo Predappio in Italia, si era svolto un raduno di teste rasate di mezza Europa in vista dei Mondiali di calcio. A quei mondiali in occasione delle partite dell’Italia debuttano sulle gradinate gli «ultras Italia». Sono gruppi di tifosi organizzati, tutti di estrema destra, che da quell’anno presero a seguire la nostra Nazionale. Ma restiamo alla sorpresa generale nel paese austriaco. Dura poche ore. Dura fino a quando sul quotidiano berlinese «Tagesspiegel» del 30 marzo, i servizi segreti tedeschi confermano, anche con una certa preoccupazione, che il raduno a Braunau am Inn c’era stato. Sulla base dei riscontri investigativi seguiti alla pubblicazione della notizia, i vertici della polizia di Berlino – fanno sapere ancora i servizi – avevano diffuso ai reparti delle città dove si disputavano le partite del torneo l’ordine di attivarsi per disinnescare i programmi degli hooligans ultranazionalisti. A due mesi e mezzo dall’inaugurazione ufficiale di Germania 2006 fu dunque intensificata l’attività di monitoraggio e prevenzione nelle sedi e sui militanti di quelle formazioni neonaziste che trovavano nell’estrema destra dell’Npd tedesco un interlocutore naturale. Ma che portavano avanti ideologie e attività che andavano molto oltre la linea politica del partito nazionalista fondato nel 1964. L’evento di Braunau era collegato al calcio. Nel più popolare degli sport europei la propaganda neonazista aveva trovato il suo mantice, la sua cassa di risonanza, il pretesto per portare il suo germe di distruzione.

205 L’alleanza nera degli ultras romani: il caso Anna Frank è solo l’ultimo episodio, di Federico Marconi, «L’Espresso», 25 ottobre 2017, cfr. http://espresso.repubblica.it/attualita/2017/10/25/news/ultras-di-roma-e-laziodivisi-dal-tifo-ma-uniti-dall-ideologia-siamo-tutti-curva-nord-1.312815 206 La Figc celebra la festa della mamma con una maglia con il fascio littorio. Polemiche sui social, di Paolo Berizzi, «la Repubblica», 14 maggio 2017, cfr. http://www.repubblica.it/sport/calcio/2017/05/14/news/la_figc_celebra_la_festa_della_mamm 165460639/ 207 L’alleanza nera degli ultras romani: il caso Anna Frank è solo l’ultimo episodio, di Federico Marconi, art. cit. 208 Roma, la notte brava prima della sparatoria, De Santis alla festa con coca ed escort, di Adelaide Pierucci, «Il Messaggero», 4 aprile 2015, cfr. https://www.ilmessaggero.it/roma/cronaca/de_santis_coca_escort-960156.html 209 Curve e criminalità organizzata, un filo difficile da spezzare, «Corriere dello Sport», 15 febbraio 2017, cfr. http://www.corrieredellosport.it/news/calcio/2017/02/1521615348/curve_e_criminalit_organizzata_un_filo_difficile_da_spezzare/? cookieAccept 210 A Milano il candidato di B. sostenuto dalle frange malavitose degli ultras, di Davide Milosa, «il Fatto Quotidiano», 20 aprile 2011, cfr. https://www.ilfattoquotidiano.it/2011/04/20/a-milano-il-candidatoberlusconiano-sostenuto-dalla-malavita-da-stadio/105852/ 211 «Così incendieremo i Mondiali», il tifo nazi si raduna a Braunau, di Paolo Berizzi, «la Repubblica», 20 marzo 2006.

FASCISMO ETERNO Sono passati più di dieci anni e l’onda nera, dalla sorgente di quel capannone nella Predappio austriaca, è entrata nelle istituzioni: i populisti di destra sono al governo in diversi Paesi del vecchio continente, sono forze che si nutrono dei voti di movimenti xenofobi, nazionalisti, antieuropeisti e antisemiti. Ciò che vedevo intorno a me nel 2006 in quella landa ricoperta dalla neve al confine con la Baviera era uno spaccato minore, apparentemente residuale rispetto allo scenario di oggi. Quel che allora non mi sembrava avere né una forma compiuta né una collocazione precisa, adesso ha trovato un suo spazio. Un posto nella politica. Sfruttando ogni volano e ogni amplificatore possibile, l’ultradestra che alimenta e cavalca il disagio e le paure è avanzata nella società, e il suo reflusso è sempre più visibile. Dove sono gli argini democratici? Tengono ancora? Com’è lo stato di salute dei nostri anticorpi rispetto al rischio del ritorno di un fascismo che non è fatto da un esercito di camicie nere che sfilano ancora in parata sulle piazze italiane ma si presenta come una cosa diversa? È quel «fascismo eterno» di cui Umberto Eco scriveva nel 1997 mettendoci in guardia dal «fantasma» che è ancora intorno a noi, «talvolta in abiti civili». Lui lo chiamava così, «UrFascismo». Per spiegarlo avvertiva che «può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti.» Perché «dietro un regime e la sua ideologia c’è sempre un modo di pensare e di sentire, una serie di abitudini culturali, una nebulosa di istinti oscuri e di insondabili pulsioni.» Nel pensiero che il grande scrittore sviluppa, vent’anni fa, nei suoi Cinque scritti morali, c’è un monito straordinariamente attuale. Eco sottolinea che rispetto al «fascismo eterno», «il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l’indice su ognuna delle sue forme, ogni giorno, in ogni parte del mondo.»

In questi quindici anni con il mio lavoro di cronista ho provato a seguire questo esempio: raccontare, puntare l’indice per trarne una descrizione. Togliere la maschera alle cose e sollevare ombre, ecco. Mentre lo facevo non mi accorgevo che stavo percorrendo un viaggio. Il fumo nero che attraversavo esalava nei luoghi più «normali»: nelle scuole, nelle università, negli stadi, nei locali, nei festival musicali. Dentro ogni cosa cercavo tracce di quel fumo, inseguivo ogni sua forma, ne pesavo la consistenza prima che le sue nubi si ripresentassero da un’altra parte. Il fumo nero mano a mano si depositava come una patina sulla mia pelle, e questo non l’avevo previsto. Diventava sempre più denso perché più densa era, progressivamente, la sua presenza nella società. Ho iniziato a immergermi in questa fascisteria di ritorno senza averne il minimo grado di consapevolezza. In modo quasi casuale. La curva di uno stadio, una bandiera con la croce celtica, le sirene dei cellulari della polizia, la massa che diventa branco. E intanto scendeva il buio intorno a quei fari. Non ho mai avuto la sensazione che quella mia curiosità fosse un passaggio, qualcosa di simile a una tappa della crescita. Inutile mi sembrava persino condividere le sensazioni che provavo mentre osservavo le rappresentazioni plastiche del fascismo eterno. Sentivo che era altro da me, nel senso più profondo. Lasciavo che arrivasse a lambirmi per levargli il cappuccio e guardarlo in faccia. La voglia di capire era lavoro, e quando fai un lavoro che ti invade la vita ogni cosa diventa carne viva, un tessuto che non puoi sottrarre, puoi solo provare a proteggerlo. Me l’hanno chiesto tante volte: che ti importa di raccontare un raduno neonazista? Perché vai a impicciarti di una spiaggia con le effigi del duce e i cartelli inneggianti alle camere a gas? Fregatene se ci sono in giro dei pazzi che sognano il ritorno di Hitler. Sono detriti del passato, gente ai margini. Non è importante se uno dice che bisogna sparare agli immigrati: lascia stare. Non dare peso a chi deride gli ebrei, è folklore. è folklore, è goliardia. Nulla di più. Curarsi di tredici matti vestiti come militari e con il cranio rasato che entrano in una sala e costringono i padroni di casa ad ascoltare in silenzio un proclama delirante? E perché, scusa? Tu non considerarli. Chi te lo fa fare, alla fine sono solo problemi. Ti diranno «infame», l’offesa preferita dei vigliacchi. Qualunque cosa scriverai ci sarà qualcuno che ti attaccherà sostenendo che sei al servizio di qualcuno, di un «potere forte», di una lobby, di un comitato d’affari, di una multinazionale, di uno Stato crudele, di un politico. O che lo fai per soldi, per opportunismo o perché non hai altro a cui pensare. C’è chi dice che il senso della vita stia nell’impegno morale. Solo quando mi sono reso conto che inconsapevolmente avevo compiuto un viaggio, mi sono concesso la libertà di

assaporare un po’ di quel gusto. Ma il sapore è amaro. Vivo in un Paese che, dopo avere sconfitto il fascismo pagando un tributo di sangue enorme, si è accomodato dando per scontate la libertà e la democrazia. Che invece vanno sempre coltivate e custodite. Penso che, senza accorgersi, l’Italia si stia abituando a perdere di vista la lezione di Eco sui rischi del fascismo di ritorno. Io sono tra quelli che non vogliono abituarsi. Non sopporto la tendenza a non chiamare le cose con il loro nome. A sfumare, a girare intorno. È vero che i media italiani non hanno il coraggio di usare la parola fascismo (a meno che si tratti di ironizzare su chi denuncia il riemergere di fenomeni dal fondo oscuro della società). È vero che i partiti, sia a destra che a sinistra, sono sempre timidi quando si tratta di definire in modo esplicito certe derive. Siamo un Paese che si è riscoperto fascista. O forse sotto sotto non ha mai smesso di esserlo. Questo sdoganamento è in corso da anni. E continuerà. Sotto le nuove forme del populismo nazionalista e sovranista. Non ho mai creduto e non credo che il fascismo stia per ricomparire in Italia nella sua dimensione originaria, camicie nere e fez, coinvolgendo un’intera nazione. Ma quello a cui stiamo assistendo, e non da oggi, è più di un indicatore. Girarsi dall’altra parte, fare finta di non vedere, è impossibile. Minimizzare e banalizzare ancora peggio. Dopo i mille saluti romani di Milano, dopo Chioggia, dopo Como, dopo gli spari di Macerata e quell’uomo in mezzo alla piazza che allunga il braccio destro avvolto nel tricolore, ho avuto conferma che i falò del solstizio nazipagano non sono una cartolina del passato. Sono ancora qui, bruciano intorno a noi che preferiamo guardare altrove, perché è più comodo. Non so se quelle fiamme annuncino un trionfo silenzioso o il crepuscolo degli dèi. Mi tormento, cerco di capire se l’uomo con i suoi sentimenti è in grado di tenere botta all’egoismo, alla violenza, all’odio, al ritorno dei discorsi sulla razza, a chi soffia sul fuoco usando il mantice dell’intolleranza per accendere la guerra tra «noi» e «loro», la guerra dei poveri, gli ultimi e i penultimi che si fronteggiano, e intanto sprofondano. E a vincere, anche senza medaglie, in silenzio, forse è lui, il fascismo eterno. Stringevo la vite del compasso tra pollice e indice. Le due aste metalliche avevano iniziato a compiere il loro lavoro. Una era puntata con il suo ago al centro del foglio, l’altra ruotava lentamente. La grafite della mina disegnava una circonferenza leggera. Mi sembrava la mia curva dentro il mondo, mentre lo spazio in mezzo, quello che separava la parabola dal punto di ancoraggio dell’ago, era vita da colorare. Mi piaceva l’idea di poter ficcare l’asta verticale in un’altra area del foglio. E di veder nascere altre curve. Una sull’altra. Ogni curva

tratteggiava l’itinerario di un viaggio, e intanto il foglio bianco si riempiva di segni perfetti ma sovrapposti, un caos ordinato. Ognuno di noi ha avuto un compasso nell’astuccio. Quello che fai da piccolo ti si pianta nella mente, corrisponde sempre a qualcosa che non vorresti mai si allontanasse da te. È come se da ogni segno discendesse una catena di storie, di protagonisti, di emozioni, di sentimenti. Riprendere il filo ti aiuta a capire quello che rimane ancora senza risposta. La svastica aveva iniziato a bruciare, lì, al centro della circonferenza. Il palo che la sorreggeva era infilato nell’erba umida in mezzo al bosco indurito dal gelo. Mi venne in mente la prima volta che avevo usato il compasso, lo stupore, la paura di sbagliare, la lentezza con cui lo facevo ruotare e mi sembrava di avere imparato a manovrare una nave. Erano trascorsi molti anni dai miei disegni, ma finalmente l’avevo capito. No, non ci sono curve nella simmetria del fanatismo. C’è solo una linea retta, calcata con la mina che affonda. Come i numeri impressi nella pelle degli ebrei deportati sui vagoni e uccisi nei campi nazisti. Sono linee che non puoi cancellare. Puoi solo decidere se andare oltre o fermarti a esplorarle. Alla fine del viaggio, dopo avere riempito il foglio, volevo ricominciare da capo. E avvisare i «fascisti del terzo millennio»: «Non provateci, la storia non si ripeterà».

LA GALASSIA DEI GRUPPI NERI Avanguardia Nazionale. Fondata nel 1960, e nuovamente nel 1970 da Stefano delle Chiaie, era una organizzazione con finalità eversive e golpiste. Fu sciolta definitivamente nel 1976 per tentata ricostituzione del Partito fascista. Ma occasionalmente, anche negli anni Duemila, alcuni suoi ex membri organizzano convegni pubblici. Opera principalmente a Roma. CasaPound. Nasce dall’occupazione di uno stabile a Roma, dove si installa il primo centro sociale di destra, CasaPound appunto, dal nome del poeta Ezra Pound. In seguito diventa associazione e poi partito nel 2009. Il presidente è Gianluca Iannone e il segretario Simone Di Stefano. È oggi il movimento nazionale di destra più egemone e con il maggior numero di militanti. È molto radicato nelle scuole superiori e nelle università, con il Blocco Studentesco, e ha sviluppato una costellazione di associazioni no profit che operano in diversi ambiti sociali. Do.Ra. (Comunità militante dei Dodici Raggi). Di chiara ispirazione neonazista, nutrita di un misticismo religioso germanico, i Do.Ra. operano nella provincia di Varese. Nati nel 2012 sono un gruppo dalla struttura verticistica e militare, e si considerano anti-sistema. Nel dicembre 2017 la loro sede a Caidate è stata messa sotto sequestro in seguito a un’indagine della Procura di Varese. Fascismo e Libertà – Partito socialista nazionale. Ispirandosi apertamente alla democrazia corporativa di Mussolini, il movimento viene fondato nel 1991 dal senatore Giorgio Pisanò, fuoriuscito dal MSI. Laico, anti-americano e antisionista, il partito si vuole distinguere dagli altri movimenti di estrema destra

perché ritenuti estranei al vero spirito del Ventennio. Fortezza Europa. Istituito nel giugno 2017 da alcuni ex militanti di Forza Nuova e Fiamma Tricolore a Verona, si distingue come movimento politico che vuole tutelare l’autarchia culturale, etnica ed economica dell’Europa. Il nome deriva dal termine usato dalla propaganda del Terzo Reich durante la seconda guerra mondiale per indicare l’Europa continentale. Il presidente è Emanuele Tesauro, front man del gruppo musicale Hobbit. Forza Nuova. Fondato nel 1997 da Roberto Fiore e Massimo Morsello, in seguito a scissione dalla Fiamma Tricolore di Pino Rauti, esordisce alle elezioni europee del 1999 e alle politiche nazionali del 2001. Dal 2008 ha sedi in tutte le regioni, e affianca all’attività politica quella collaterale di associazioni impegnate nel sociale. Aderisce ad Alliance for Peace and Freedom (Alleanza per la Pace e la Libertà, presidente lo stesso Fiore), partito paneuropeo che «promuove il patriottismo sulla base dei valori della comune tradizione cristiana» e accoglie nazionalisti tedeschi, inglesi, greci, francesi, spagnoli, slovacchi, svedesi, danesi e italiani. Generazione Identitaria. Nata su ispirazione dell’omonima formazione francese, la cui visione politica coincide ma non sempre con quella del Front National, il movimento italiano ha carattere fortemente identitario e il suo principale bersaglio sono gli immigrati. Nell’estate 2017 ha preso parte a Defend Europe, iniziativa europea di gruppi di estrema destra: con la nave C-Star hanno cercato di ostacolare le operazioni di soccorso delle Ong nel Mar Mediterraneo. Hammerskin. È il gruppo di skinheads più organizzato e violento, e di idee dichiaratamente naziste. Costola italiana della Hammerskin Nation, nata a fine anni Ottanta nel Sud degli Stati Uniti e derivazione del Ku Klux Klan. Il credo degli Hammerskin è la supremazia della razza bianca contro tutte le minoranze. Il loro simbolo sono i due martelli incrociati preso a prestito dal video di The Wall dei Pink Floyd. Lealtà Azione. Nasce nel 2011 a Milano ed è l’associazione dietro la quale opera il circuito lombardo degli Hammerskin. Hanno sedi a Milano, Monza, Genova, Firenze, Lodi e Abbiategrasso. Tra i modelli a cui si ispirano ci sono Leon Degrelle – ufficiale nazista del contingente vallone delle Waffen SS – e Cornelius Zelea Codreanu – collaboratore dei nazisti e fondatore della Guardia

di Ferro Rumena. Alle elezioni politiche e regionali del 4 marzo 2018 hanno sostenuto i candidati della Lega. Manipolo d’Avanguardia Bergamo. Nazionalisti, negazionisti, omofobi e antivaccinisti. I MAB si richiamano alla «Gioventù italiana» e sono «gemellati» con i neonazisti Do.Ra. di Varese. Convinti sostenitori che la storia della Resistenza raccontata dai libri sia solo una falsità, hanno pubblicato discorsi di Benito Mussolini e scritti di Adolf Hitler. Militia. Fondata da Maurizio Boccacci (ex Movimento politico occidentale), storico esponente dell’estrema destra romana, è una formazione dichiaratamente fascista, razzista e antisemita. Opera per lo più nella capitale e raccoglie giovani naziskin. Nell’estate 2017 membri di Militia hanno preso parte alle manifestazioni dell’ultradestra contro lo Ius Soli. Movimento Fasci Italiani del Lavoro. Hanno come simbolo il fascio littorio, che fu emblema dei Fasci italiani di combattimento di Benito Mussolini. Nello statuto e nel decalogo dichiarano di ispirarsi al Partito nazionale fascista. Due sedi, una Mantova e una a Palermo, il coordinatore nazionale è Claudio Negrini. Sua figlia Fiamma Negrini alle elezioni amministrative 2017 è stata eletta nel consiglio comunale di Sermide e Felonica. Rivolta Nazionale. Nata da una costola di Militia, è il gruppo più estremista nel panorama naziskin di Roma. Il leader Simone Crescenzi a ottobre 2017 ha esibito la bandiera con la svastica in un video pubblicato su YouTube. Criticano Forza Nuova ritenendola troppo moderata e accusandola di fare «il gioco della democrazia». Skin4Skin. Ispirata al nome del gruppo inglese The 4-Skins – band musicale street punk nata alla fine degli anni Settanta – Skin4Skin è una rete europea nata per sostenere gli estremisti di destra alle prese con guai giudiziari. Vi aderiscono quasi tutti i più importanti gruppi neonazisti del vecchio continente, soprattutto quelli della variegata galassia skinhead. Veneto Fronte Skinheads. Fondato nel 1985 da Piero Puschiavo e Ilo Da Deppo, nasce come espressione italiana del movimento razzista e antisemita Blood and Honour. Nel 1989 il VFS è oggetto della prima inchiesta da parte della magistratura di Vicenza. Nel 1990 assume la denominazione giuridica di

«Associazione Culturale Veneto Fronte Skinheads». Il movimento tiene un raduno quinquennale chiamato «ritorno a Camelot», che coinvolge anche altri movimenti neonazisti italiani ed europei. Da sempre vicino alla curva ultrà dell’Hellas Verona, negli ultimi anni il VFS è uscito dai confini del Veneto e ha raccolto militanti anche in altre regioni.

CONTRIBUTI ANTIFASCISTI AL LIBRO Liliana Segre (senatrice a vita, sopravvissuta all’Olocausto) C’è un filo nero che parte dalle leggi razziali – che sono state una legge dello Stato italiano – e arriva con una rotaia ad Auschwitz. Quel filo nero è rimasto sotto traccia per anni, come sopìto. Ma adesso è riemerso. è tornata la violenza fascista e sono tornate le parole d’ordine dell’odio. I figli di questa ideologia sono figli di padri che nell’immediato dopoguerra, con tutto quello che era successo, non potevano mostrarsi per quello che erano e per ciò che pensavano: perché sarebbe stato osceno. E così il volto di chi non ha mai smesso di essere attratto dal fascismo torna alla luce con le nuove generazioni: i «nuovi fascisti» hanno quella sfacciataggine che non hanno potuto avere i loro predecessori sconfitti dalla storia. Rilanciano il passato sfruttando una serie di concomitanze favorevoli alla loro narrazione. C’è una combinazione di fattori che ha favorito la riemersione delle idee e dei simboli fascisti: penso per esempio alla crisi economica e ai grandi sbarchi degli immigrati. Cavalcando le paure sociali, l’insicurezza, la precarietà, c’è chi vuole diffondere negli strati più deboli della popolazione sentimenti di odio e di intolleranza. Per fare attecchire una nuova forma di discriminazione. Non dimentichiamoci che chi aiutava i nazisti a metterci sui treni diretti nei campi di concentramento erano i nostri vicini di casa. In questi anni la memoria purtroppo sta venendo meno, perché i testimoni – coloro che sono sopravvissuti all’Olocausto – sono quasi tutti morti. Poi c’è un altro aspetto, a mio avviso grave e preoccupante. Negli ultimi anni molti hanno minimizzato, e continuano a farlo, il ritorno della propaganda e della violenza fascista. Basti pensare che l’«armadio della vergogna» non è mai stato aperto. Sono ancora molti i negazionisti, quelli che non credono. E sono molti, anche tra

i politici, quelli che ripetono che il fascismo ha fatto anche cose buone. Che è pure vero. Ma nel presente c’è come una rimozione di quello che è successo nel passato, delle atrocità, degli orrori della storia. A volte mi sento una goccia in mezzo al mare. D’altronde se non c’è futuro, perché si dovrebbe accettare un passato di ottant’anni fa? Laura Boldrini (deputata Leu) I segnali c’erano tutti, evidentissimi, da anni, ma in troppi – anche nel centrosinistra – hanno fatto finta di non accorgersene: per timore di sembrare «vetero», perché «non è più tempo di ideologie», perché «mica penserai che ancora oggi quattro ragazzi nostalgici siano un pericolo?!» Non li hanno voluti vedere quando a centinaia si radunavano in pose paramilitari al Cimitero Monumentale di Milano, oltraggiando la Liberazione con la scusa dell’omaggio ai propri caduti. Non li hanno voluti vedere quando si presentavano «regolarmente» alle elezioni, come è successo alla lista dei «Fasci italiani del lavoro» incredibilmente ammessa al voto nel Comune di Sermide e Felonica, nel Mantovano, per la quale ho dovuto scrivere al ministro Minniti. Non li hanno voluti vedere in rete, dove sono ormai centinaia le pagine di «squadristi digitali» che fanno esplicita apologia del fascismo e del nazismo, e che l’Anpi si ostina meritoriamente a censire. Ora stiamo raccogliendo i frutti marci di tanta disattenzione. Con le manifestazioni pubbliche di gruppi dichiaratamente neofascisti troppo spesso autorizzate senza alcun problema, in spregio alla Costituzione che sul punto è chiarissima. E una parte della destra parlamentare che a quei voti guarda ormai apertamente. È ora di dire basta. I gruppi che si ispirano al fascismo vanno sciolti. Non c’è posto per loro nel nostro Paese, nella nostra Repubblica che è antifascista. E l’antifascismo non è solo un debito di riconoscenza ai partigiani e alle partigiane ancora in vita. È un pilastro della nostra democrazia oggi, attuale quanto lo sono le spinte razziste e xenofobe che percorrono tanta parte dell’Europa. E una sinistra che, dopo le elezioni, voglia tornare a ragionare sui fondamenti di un progetto comune non può non farne un cardine. Scacciando la strisciante, insidiosa propensione a una malintesa par condicio che si affaccia talvolta anche nel centrosinistra: quella che equipara come «opposti estremisti» i fascisti in piazza e coloro che si radunano per contrastarli. La violenza va rigettata sempre, e chi la pratica deve essere sanzionato dalla legge. Ma tra fascismo e antifascismo non può esserci nessuna

equidistanza. Emanuele Fiano (deputato Pd) Le idee totalitarie, purtroppo, che lo si voglia o meno, abitano da sempre la storia. Sono le idee e le azioni che vogliono sopprimere la diversità, l’altro da sé, l’avversario, il nemico, individuando in quello, in quel suo essere diverso, come individuo, come popolo, come religione, come nazione, l’origine, o meglio la spiegazione da utilizzare come fonte delle difficoltà sociali di una comunità. Individuando in ciò che sta oltre un qualsivoglia confine, mentale o fisico, il nostro limite, il nostro impedimento. A volte, come è noto, queste idee, vincono pure. Non per questa loro antica radice, non perché potrebbero apparire come leggi di natura, mai, la risposta potrà essere la nostra indifferenza. L’uomo e la sua civiltà si sono ribellati agli istinti animali e continueremo a farlo. Contro ogni idea di sopruso, la risposta della Democrazia è l’unica. E dunque c’è un ritorno indietro che si aggira per l’Europa; dall’Europa al nazionalismo, dalla cessione di sovranità al sovranismo, dai partiti popolari al populismo, dalle regole di convivenza, alla voglia di cancellare la convivenza, dalla centralità dello Stato alla giustizia fai da te, dalle norme di comportamento delle forze dell’ordine alle «mani libere» per le forze dell’ordine. Tutto questo non è un percorso verso qualcosa di nuovo, ma un percorso all’indietro verso qualcosa di molto ben conosciuto. La rassicurazione del passato contro la paura del presente, mettendo da parte il coraggio del futuro. Oggi, dopo un decennio di acuta crisi economica e sociale, dopo che più fragile in molti casi si è fatta, nella comunità occidentale, la condizione sociale, dopo che la paura, per la propria condizione materiale, per l’angoscia del futuro è diventata protagonista di molte espressioni politiche, dopo che il fenomeno epocale dell’immigrazione è diventato nelle nostre comunità argomento centrale, oggi dunque di nuovo, in tutto il mondo occidentale nuove e vecchie forme di ideologie di estrema destra, razziste, neofasciste, si diffondono e si rafforzano. In questo orizzonte si gioca una parte del nostro futuro possibile, tra capacità di innovare la democrazia e rischio di involuzioni pericolose. Nicola Fratoianni (deputato Leu)

Forte è la tentazione di ricorrere a facili parallelismi storici. Leggere l’Europa, provata dai pesantissimi effetti sociali di dieci anni di crisi economicofinanziaria, come se il nostro continente fosse ripiombato nel clima degli anni Venti e Trenta del secolo scorso, con le ferite ancora aperte dopo la carneficina, consumatasi in nome della Nazione, nel primo conflitto mondiale, il crollo di Wall Street nel Black Friday del 1929, la stagione dell’iperinflazione accompagnata da miseria e disoccupazione di massa. Ma pur se suggestivo e finanche utile a far suonare il campanello d’allarme, ogni possibile parallelo sarebbe oggi un anacronismo. Non siamo a Weimar. E i piccoli gruppi neo-fascisti e neo-nazisti, che pure si sono riorganizzati e rafforzati, godono di cospicui e oscuri finanziamenti, sono stati colpevolmente tollerati e spesso risultano protagonisti di gravissimi atti criminali, non sono il nucleo di un risorgente Partito fascista o nazista in grado di scalare il potere nel volgere di pochi anni. Il problema che dobbiamo affrontare sta più a monte, là dove i gruppuscoli della destra estrema sono il pericoloso ma marginale epifenomeno di un più generale, e globale, ciclo politico reazionario, i cui nomi sono quelli dei Trump e dei Putin, dei Macrì e degli Orban. E questa ondata è a sua volta una variante prodotta dalle drammatiche ingiustizie sociali che le politiche conservatrici, di arroccamento a difesa dell’establishment e dei suoi privilegi, hanno in quest’ultimo decennio nutrito. Tutti figli legittimi dell’austerità, delle «grandi coalizioni» o «larghe intese» che l’hanno gestita, in ultima analisi di un modello economico e sociale neoliberista, che pretende di sopravvivere al suo stesso storico fallimento. È qui, alla sorgente di tutti i mali contemporanei che dobbiamo intervenire, se vogliamo provare a invertire drasticamente la tendenza. Seguendo l’invito di un filosofo autenticamente liberale come Karl Popper, quando ci incitava a «proclamare, in nome della tolleranza, il diritto di non tollerare gli intolleranti.» Ciò vale certo per le violente bande neo-fasciste. Ma vale anche come incoraggiamento a espungere dalla sfera pubblica quelle parole che, nel discorso delle diverse destre istituzionali italiane ed europee, hanno sdoganato le retoriche dell’odio, dell’esclusione e del razzismo, contribuendo a concimare il terreno su cui le malepiante della destra estrema sono cresciute. Vale infine come stimolo a combattere, senza tregua alcuna, le ineguaglianze sociali che questo stesso terreno hanno creato. E a mettere in discussione quelle politiche governative che, di fronte al fenomeno epocale delle migrazioni, generano vero e proprio «razzismo istituzionale.» Se proprio vogliamo seguire una preziosa indicazione che ci arriva dritta dal cuore di tenebra degli anni Trenta,

raccogliamo allora quella di Walter Benjamin che scriveva come «ogni ascesa del fascismo rechi con sé testimonianza di una rivoluzione fallita.» Bene, far riuscire una vera e propria contemporanea «rivoluzione» capace di restituire senso e forza a un punto di vista di «sinistra» che parli ai molti e agisca con loro, è il compito urgente che abbiamo. Andrea Orlando (deputato Pd) In Italia le parole d’ordine fasciste e sovraniste sono tornate centrali per una combinazione di fattori. Da una parte ci sono i residui di idee storiche riportati a galla da alcune forze politiche; dall’altra c’è un clima favorevole, generato dalla crisi economica che ha messo in discussione alcuni meccanismi di inclusione sociale e democratica e dalla difficoltà della politica a sostenere l’idea di Europa. Da che eravamo il Paese più europeista dell’Unione, siamo diventati – dopo le elezioni del 4 marzo – il più antieuropeista. In questo scenario trovano spazio i nazionalismi. Sono ritornate le idee complottiste, le deliranti teorie sull’oppressione dei popoli e sul sostituzionismo, i nostalgismi e i richiami al passato fascista e nazista. Tutta roba che in una stagione di paure antropologiche, funziona. Venuto meno l’argine rappresentato dalle grandi utopie progressiste e dalle ideologie novecentesche, il campo è stato occupato da questo tipo di narrazione, di cui la Lega è diventata il maggiore interprete. Matteo Salvini ha costruito una forza reazionaria e antiglobalista. È vero che il leader leghista non è esplicitamente fascista, ma ha sdoganato slogan e contenuti tipici di un’elaborazione fascista, la stessa della Le Pen in Francia. Per lanciare il tema della nazione che cosa ha fatto Salvini? È ricorso alla religione: ha scelto il Vangelo, non la celebrazione della prima guerra mondiale. Questo gli ha dato forza, ma fa anche capire quale sia il suo limite: virare dalla rappresentazione dell’identità locale di un territorio – il nord – a quella nazionale, non è affatto semplice. Ne è prova il fatto che al sud alle ultime elezioni ha vinto il M5S, non la Lega. Per questo io credo che l’operazione di Salvini sia tristemente brillante, ma incompiuta. Poi c’è un altro tema. Per comprendere come sia stato possibile il ritorno di un’elaborazione neofascista – che non è più Salò, è una cosa diversa anche se a volte ritornano anche quelle manifestazioni – bisogna analizzare ciò che è successo a sinistra. C’è stata una demolizione del patrimonio simbolico a cui hanno contribuito anche alcuni fattori che si sono determinati nel campo dell’antifascismo. Il 25 aprile non è mai diventata una grande festa nazionale, di

tutti: è rimasta una celebrazione in qualche modo divisiva. Con qualcuno che – attribuendosi una patente di superiorità – ha addirittura provato a restringere il perimetro di quella festa, anziché allargarlo come bisognerebbe fare. Il che rivela un’inadeguatezza della cultura antifascista, che in alcuni casi non cerca l’unità ma vuole divisione. Faccio un esempio: quando nel centrodestra o anche nell’M5S qualcuno ha dimostrato sensibilità sul tema dell’antifascismo e del 25 aprile, a sinistra, anziché valorizzare e accogliere quegli spunti, si è preferito lasciarli cadere, fare come se nulla fosse. A sinistra abbiamo commesso errori anche su questo tema: penso al referendum del 4 dicembre 2017, alla frattura che si è creata tra Pd e Anpi. Sarebbe bastata una maggiore capacità di ascolto da parte dei vertici del partito, e forse quella spaccatura, che poi ha avuto altri riverberi, si sarebbe potuta evitare. Il prossimo 25 aprile sarà un’occasione importante per fare passi avanti e ricostruire un’unità della sinistra. Che può e deve passare anche dalla cultura della democrazia e dell’antifascismo, valore che sta alla base della nostra Repubblica nata dalla Resistenza e dalla Liberazione. Carla Nespolo (presidente Anpi) Scrivo queste considerazioni a pochi giorni dalla conclusione di una sgradevole campagna elettorale in cui i reali problemi dell’Italia sono completamente scomparsi e le piazze sono state sfigurate, quasi ogni giorno, da irruzioni fasciste che, quando andava bene, si limitavano al saluto romano, ma più spesso erano segnate da atti di violenza, accoltellamenti e sangue. Ciò è da attribuire al grave errore delle competenti autorità di non aver accolto la richiesta delle 23 associazioni firmatarie dell’appello «Mai più fascismi» di non ammettere CasaPound e Forza Nuova alla competizione elettorale. Ci hanno pensato gli elettori a cancellare, non votandole, le liste nazifasciste, ma il vulnus democratico è rimasto. Soprattutto perché i temi cari ai fascisti, dal disprezzo per il diverso alla sostanziale convinzione che prioritario è difendere i propri interessi, sono confluiti in misura consistente nella Lega di Salvini. L’Italia, è noto, appare spaccata in due parti. C’è una cosa, però, che le accomuna, una sola, ma preziosa come un diamante: la Costituzione nata dalla Resistenza. E l’Anpi, erede del patrimonio di valori e principi che hanno animato i combattenti per la libertà, è da sempre in prima fila per rafforzare il tessuto civile e democratico della società. A segnare il confine tra democrazia e razzismo, tra demagogia e democrazia, c’è ancora, come sempre, l’antifascismo. Quello che

dovrebbe essere insegnato ogni giorno nelle scuole. Quello praticato quando si rifiuta la violenza e si tende la mano a chi più ha bisogno. Quello che pretende, con forza e determinazione, il rispetto della persona umana e dei suoi valori. Questa forte vocazione antifascista dell’Italia, deve essere di sprone anche per l’Europa. Prima di tutto perché i vari governi comprendano che la dissoluzione dell’unità politica del Continente è vicina, se non si cambia direzione rispetto ad un’Europa sorda alla voce dei popoli e aperta solo agli interessi dei mercati. E poi perché va fermata, e l’Europa è già in forte ritardo, la deriva razzista e filonazista di tanti Paesi dell’Est. Aver visto un’esponente di quel centrodestra italiano che ha vinto le elezioni, Giorgia Meloni, abbracciata al razzista Orban, è stata una delle scene più squallide di questa già deludente campagna elettorale. E allora diventa sempre più chiara la necessità di una forte prospettiva di cambiamento. Urge uno sforzo grande, generoso, unitario per inaugurare una rinnovata stagione di convivenza civile, di ritorno alla cura dell’interesse generale, di costruzione, insomma, di validi anticorpi contro chi è sempre lì pronto ad aggredire il deserto di attiva presenza politica con parole d’ordine autoritarie, violente e antisociali. Carlo Smuraglia (ex presidente Anpi) A dispetto di quello che è sancito nella Costituzione dalla quale è nata la nostra Repubblica, lo Stato italiano non è mai diventato davvero antifascista, anzi. Prendiamo le stragi del dopoguerra, che hanno avuto tutte una matrice fascista. Dalle indagini e dai processi è emerso che in quelle stragi ci sono stati uomini dello Stato che hanno deviato, insabbiato, taciuto, che addirittura hanno collaborato. Questo Paese e le sue istituzioni non hanno mai fatto davvero i conti col fascismo: la Costituzione ha indicato una strada, e nel Paese se ne è seguita un’altra. Ai cittadini e nelle scuole non viene spiegato che cosa è stato il fascismo. Questo fa sì che molti, in assenza di conoscenza, non abbiano consapevolezza, e quindi mancanza di anticorpi di fronte ai revisionismi storici e ai rigurgiti neonazifascisti. Poi c’è il problema dello Stato che ha sottovalutato e ancora sottovaluta. Si sente ripetere: il fascismo è morto, superato, parlarne ancora è anacronistico. Qualcuno, nelle istituzioni democratiche, per esempio nella magistratura, applica la XII disposizione transitoria e finale della Costituzione in senso troppo ristretto: i padri costituenti hanno scritto quella disposizione – il divieto di ricostituzione sotto qualsiasi forma del disciolto

partito fascista – in un periodo storico nel quale il fascismo era stato sconfitto, e nessuno immaginava la possibilità che il partito di Mussolini potesse mai rinascere. Nemmeno qualcosa di simile. È vero: la storia difficilmente si ripete nello stesso modo, ma ci sono dei connotati che quando si presentano dobbiamo cogliere prima che si trasformino in qualcosa di pericoloso. Il fascismo può risorgere in tanti modi diversi. È fascismo anche quello dei governi nazionalisti di tanti Paesi europei, che sono egoisti, razzisti e autoritari, e censurano il dissenso e l’informazione. Queste derive sovraniste e identitarie sono il nuovo fascismo di cui dobbiamo preoccuparci. Va contrastato il principio, sostenuto da molti, della libertà di pensiero illimitata, a tutti i costi. I diritti sanciti dalla Costituzione e dalle nostre leggi non sono illimitati. Se ledono i diritti di altri e se vanno contro le leggi e i capisaldi dello Stato, non va bene. Non si può abusare dei diritti. Chi lo fa si mette automaticamente fuori dai princìpi costituzionali.

RINGRAZIAMENTI Ringrazio tutte le fonti, sia ufficiali che confidenziali, che mi hanno offerto spunti e materiale per questo viaggio. Ringrazio tutti quelli che in questi anni mi hanno fatto sentire la loro vicinanza e amicizia, soprattutto nei momenti meno facili, e che hanno seguito il mio lavoro di inchiesta e di denuncia. Ringrazio chi si è adoperato e si adopera per permettermi di continuare a lavorare con tranquillità, polizia e carabinieri, in particolare la questura e il comando provinciale dei carabinieri di Bergamo. Ringrazio l’Anpi perché con impegno e passione contribuisce ogni giorno a tenere accesa la luce. Ringrazio Federico Chiaricati per la collaborazione e per le sue preziose ricerche. Ringrazio Federica «Eddie» per il sostegno. Ringrazio Emanuela Minnai per la saggezza e i consigli. Ringrazio Luca Ussia per la sintonia e l’intelligenza (sono certo che prima o poi cambierà anche squadra di calcio). Ringrazio Elisabetta Sgarbi ed Eugenio Lio per la fiducia e l’entusiasmo con cui hanno sostenuto questo progetto. Ringrazio Salvatore Vitellino, infaticabile editor che si è immerso a capofitto in questa massa di storie, nomi, fatti, senza mai perdere la bussola. Ringrazio Fabrizio Losito che c’è sempre. Ringrazio «Repubblica» per il coraggio e l’impegno civile che sono alla base di ogni campagna e battaglia giornalistica. Ringrazio la mia famiglia per l’amorevole pazienza e perché, nonostante tutto, non mi ha mai chiesto di fermarmi. Un grazie speciale a Giuliamaria, ai suoi sorrisi e alla cura con cui ha preparato la «postazione».

INDICE PROLOGO IL SENSO DEL VIAGGIO 1. PRIMA GLI ITALIANI 2. IL NAZISKIN ALLA LEOPOLDA 3. 29 APRILE E ALTRE PARATE NERE 4. LA SPIAGGIA DEL REGIME 5. IL PENTITO DI FORZA NUOVA 6. IL SOLSTIZIO DEI DODICI RAGGI DI VARESE 7. LABORATORIO LOMBARDO 8. CPI. CALCI E PUGNI ITALIA 9. FARSI STATO 10. LA RETE NAZIROCK 11. BLACK WEB 12. CURVA A DESTRA FASCISMO ETERNO LA GALASSIA DEI GRUPPI NERI CONTRIBUTI ANTIFASCISTI AL LIBRO RINGRAZIAMENTI

I SAGGI Margherita Hack (con Nicla Panciera), In piena libertà e consapevolezza. Vivere e morire da laici Marcello Massimini, Giulio Tononi, Nulla di più grande. Dalla veglia al sonno, dal coma al sogno. Il segreto della coscienza e la sua misura Don Andrea Gallo (con Maurizio Fantoni Minnella), Io non mi arrendo Alberto Vacca, Duce! Tu sei un Dio! Mussolini e il suo mito nelle lettere degli italiani Mario Avagliano, Marco Palmieri, Di pura razza italiana. L’Italia «ariana» di fronte alle leggi razziali Stefano Lucchini, Raffaello Matarazzo, La lezione di Obama. Come vincere le elezioni nell’era della politica 2.0 Richard Jacob, Owen Thomas, Come vivere con un pene enorme Andrea Branzi, Una generazione esagerata Dario Morelli, E Dio creò i media. Televisione, videogame, internet e religione Mytunes. Come salvare il mondo, una canzone alla volta Flavio Tranquillo, Altro tiro, altro giro, altro regalo. O anche di quando, come (e soprattutto perché) ho imparato ad amare il Gioco (6ª ediz.) Giacomo Magrograssi, I giochi che giochiamo. Le insidie psicologiche che intossicano la nostra vita Robert Greene, Le 48 leggi del potere (2ª ediz.) Alessandro Gilioli, Guido Scorza, Meglio se taci. Censure, ipocrisie e bugie sulla libertà di parola in Italia

Edoardo Boncinelli, Galeazzo Sciarretta, Homo faber. Storia dell’uomo artefice, dalla preistoria alle biotecnologie Marco Pastonesi, Ovalia. Dizionario erotico del rugby Andrea Sceresini, Lorenzo Giroffi, Ucraina – La guerra che non c’è Antonio Carlucci, 1992. L’anno che cambiò tutto Andrea Branzi, Introduzione al design italiano. Una modernità incompleta Larry Bird, Earvin Magic Johnson, Il basket eravamo noi (3ª ediz.) Bruno Ballardini, ISIS. Il marketing dell’Apocalisse (3ª ediz.) Franco «Bifo» Berardi, Heroes. Suicidio e omicidi di massa Marco Bellinazzo, Goal Economy. Come la finanza globale ha trasformato il calcio (2ª ediz.) Joseph LeDoux, Il cervello emotivo. Alle origini delle emozioni (2ª ediz.) Carlo Spinelli, Bistecche di formica e altre storie gastronomiche. Viaggio tra i cibi più assurdi del mondo Marco Palmieri, L’ora solenne. Gli italiani e la guerra d’Etiopia Angelo Mastrandrea, Lavoro senza padroni. Storie di operai che fanno rinascere imprese Mario Arceri, La leggenda del basket (2ª ediz.) Dan Savage, American Savage. L’amore rende liberi Vittorio Demicheli, Giulio Massobrio, Luigi Narbone, Contro la paura Greg Steinmetz, Il creatore di Re Matteo Cruccu, Ex. Storie di uomini dopo il calcio (2ª ediz.) Flavio Tranquillo, Basketball R-Evolution (2ª ediz.) Valerio Mattioli, Superonda (2ª ediz.) Bruno Ballardini, Contro lo sport Roberto Condio, I cinque cerchi. Storia degli ori olimpici italiani Michael Greger, Sei quel che mangi. Il cibo che salva la vita (2ª ediz.) Peter Doherty, Una vita nella scienza. Guida per vincere il Premio Nobel Dio e Cesare. Storia ed evoluzione del rapporto tra religioni e politica, a cura di Gabriele Palasciano Alberto Forchielli, Michele Mengoli, Il potere è noioso (3ª ediz.) Giancarlo Dimaggio, L’illusione del narcisista (2ª ediz.) Gli intrighi dei Cardinali e la potenza dello Spirito Santo, a cura di Monaldi & Sorti

Mimmo Cándito, I reporter di guerra Luigi Mastrodonato, Fumo negli occhi Marco David Benadì, Su e giù per la vita Pier Mannuccio Mannucci, Margherita Fronte, Cambiamo aria! Leonardo Tondo, Qualcuno ce l’ha con me Paola Zukar, RAP – Una storia italiana (4ª ediz.) Margherita Hack, Il mio infinito Margherita Hack, In piena libertà e consapevolezza Gianni Volpi, I mille film. Guida alla formazione di una cineteca Christiane Taubira, La schiavitù raccontata a mia figlia Guy Debord, La società dello spettacolo Monica Zornetta, La resa Giacomo Magrograssi, Le carezze come nutrimento Federico Mello, La viralità del male Craig Lambert, Il lavoro ombra Sabrina Carreras, Mariangela Pira, Fozza Cina. Dalla Pirelli alla moda al calcio, l’Italia sta diventando una colonia cinese? Vittorio Sgarbi, Giulio Tremonti, Rinascimento (2ª ediz.) Fulvio Paglialunga, Un giorno questo calcio sarà tuo. Storie di padri e figli, e di pallone Giulia Innocenzi, Vacci_nazione. Oltre ignoranza e pregiudizi, tutto quello che davvero non sappiamo sui vaccini in Italia Veronique Chalmet, L’infanzia dei dittatori Paolo Berizzi, NazItalia. Viaggio in un Paese che si è riscoperto fascista