MYSTERIUM SALUTIS (12 volumi): L'opera, caratterizzata innanzitutto dalla internazionalità degli autori, è concepit
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Italian Pages 464 Year 2018
Nuovo corso di dogmatica come teologia del1a storia della salvezza
Il tempo intermedio e il compimento della storia della salvezza
MYSTERIUM SALUTIS Nuovo corso di dogmatica come teologia della storia della salvezza
a cura di
J.
FEINER
e M.
LoHRER
edi:z;ione italiana a cura di DINO PEZZETTA
QUERINIANA
BRESCIA
IL TEMPO INTERMEDIO E IL COMPIMENTO DELLA STORIA DELLA SALVEZZA La storia della salvezza nel suo compimento con la collaborazione di WILHELM BREUNING - HEINRICH GROSS KARL HERMANN SCHELKLE - CHRISTIAN SCHUTZ
QUERINIANA - BRESCIA
COLLABORATORI
WILHELM BREUNING
Nato nel 1920, dr. teol., professore di dogmatica alla facoltà teologica · ddl'Università di Bonn. HEINllICH GROSS
Nato nd 1916, dr. teol., lic. in s. Scritt., docente di esegesi dd V.T. presso la Facoltà teologica dell'Università di Regensburg. KARL HER.MANN ScHELK.LE
Nato nel 1908, dr. teol., dr. fil., professore di teologia neotestamentaria (sezione: Teologia Cattolica) nell'Università di Tiibingen. CHRISTIAN
ScHiiTz
Nato nd 1938, dr. teol., professore di dogmatica nella scuola superiore di Filosofia e teologia di Passau.
LA STORIA DELLA SALVEZZA NEL SUO COMPIMENTO
CAPITOLO SESTO
FONDAZIONE GENERALE DELL'ESCATOLOGIA
1. Introduzione L'escatologia si rivolge, come dice lo stesso nome, alle cose ultime. In ciò che è ultimo, però, non compare soltanto l'estremo, ma anche l'intero. Ed è proprio nell'escatologia che questo intero si annuncia in modo del tutto esplicito. L'escatologia diventa cosi la coscienza critica della teologia, di una teologia che, nell'occuparsi dell'uomo e del mondo, della storia e della realtà, di Gesù Cristo, di Dio e della chiesa, non deve mai perdere di vista l'intero. La fede e la teologia si rivolgono all'intero. Tale rapporto con l'intero non significa altro se non che esse sono orientate a ciò che è ultimo e definitivo, a ciò che è semplicemente decisivo e incondizionato. Ma una simile istanza esige d'essere legittimata. Ci si dovrà dunque chiedere se e in che senso sia possibile anche solo parlare di ciò che è definitivo. Ogni discorso di tipo escatologico è legittimo solo a patto che si possa dimostrare la possibilità dell'uomo di discorrere su Dio. 1 Un'escatologia che avverta questa contraddizione non potrà presumere di essere in grado di profferire una parola decisiva sulle cose ultime. E quanto più approfondirà questo stato di cose, tanto più si renderà anche conto che ciò che è definitivo essa non ha alle spalle ma dinanzi a sé. Ciò che essa avrà da dire su queste cose non può esaurire ciò che su di esse è possibile affermare, poiché ciò che è definitivo è anche inesauribile. L'escatologia dev'essere quindi riconosciuta anche nei suoi chiari limiti. Il suo discorso su ciò che è definitivo rimarrà pur sempre un discorso provvisorio. In questa incapacità dell'escatologia si riflette la capacità della stessa teologia in genere. Al carattere di provvisorietà del nostro discorrere sul definìI a. J. SPLETT, Reden aus Glauben. Zum christlichen Sprechen von Goti, Frankfurt 1973; IDEM, Gotteserfahrung im Denken. Zur philosophischen Rechtfertigung des Redens von Gott, Freiburg 1973.
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tivo risponde il carattere umano di ogni discorso su Dio, la storicità di ogni nostro discorso sull'eterno. Il fatto che l'escatologia abbia a che fare con ciò che è definitivo nel segno del provvisorio sta ad attestare la sua peculiarità e il suo nocciolo di verità. Un discorso evoluto in termini di provvisorietà, anche se potrebbe sembrare sconveniente, non contraddice affatto una testimonianza resa a ciò che è definitivo, anzi questa tensione fra provvisorietà e definitività deriva dalla natura stessa dell'escatologia e della teologia. Del resto non sarebbe proprio contraddittorio un discorso definitivo su ciò che è definitivo? Il definitivo, quando si mostra, quando è presente, non ha più bisogno di alcuna parola. Il tempo del discorso, della fede e della grazia è ormai trascorso; anzi il tempo stesso volge definitivamente alla sua fine. Un'escatologia, intesa come discorso su ciò che è definitivo, è possibile solo a patto che il definitivo non si sia reso ancora presente, solo a patto che essa rifletta entro la cornice del tempo e nel segno della provvisorietà. Annunciando la fine del tempo essa attesta anche la permanenza del tempo. Da queste riflessioni appare ormai chiaro lo stretto nesso che lega l'escatologia con i fattori 'parola' e 'tempo' Si potrebbe proseguire in questo approfondimento e si vedrebbe che il tempo viene sperimentato e donato come tempo proprio mediante la parola. A chi lo accetta, il tempo viene accordato, viene messo a disposizione. È quanto s'intravede nella p2rola che si modula in 'parola temporale': basta ricordare l'importanza di una parola profferita al momento giusto. Dovrebbe essere dunque chiara l'impossibilità di comprendere l'essenza del tempo astratta dalla parola e l'essenza della parola astratta dal tempo. Qui il ruolo determinante spetta alla parola, dalla quale promana il tempo e nella quale il tempo trova anche la sua fine. Questo enunciato s'inserisce anche nel modo biblico d'intendere il Logos, colui che essendo il Protos e l'Eschatos, è anche il Signore e dispensatore di tutti i tempi (cf. Io. 1,1; Apoc. 1,8; 21,6). L'escatologia, in quanto di!lcorso provvisorio sul definitivo, perde così ogni parvenza di discorso assurdo. Ma nell'eliminare questi malintesi non intendevamo affatto sopprimere anche la realtà della contraddizione o del contraddittorio, la quale costituirà sempre l'oggetto della riflessione escatologica. Il problema che qui c'interessa porre
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in evidenza è quello di stabilire il modo corretto di accostarsi al discorso dell'escatologia. Non sarebbe pertinente concepire il compito teologico, che l'escatologia è chiamata a svolgere, entro il seguente schema: da una parte la continua esperienza umana della provviso· rietà e dall'altra il discorso teologico sul definitivo. La critica di fondo che dev'essere innanzitutto mossa a simili impostazioni s'imper· nia sull'interrogativo: da dove noi attingiamo, propriamente, la cono· scenza della provvisorietà e definitività? Se gli sforzi che l'escatologia teologica intraprende e gli asserti che essa produce devono essere com· prensibili, è necessario che la provvisorietà e definitività che essa presume possano venir colte anche nell'orizzonte di un'esperienza universale. Può sorprendere l'uso che si fa, in questo contesto, del concetto di 'esperienza'. Se l'escatologia si riferisce ad un futuro che ci è radicalmente precluso, come si potrà ancora parlare di una base esperienziale degli asserti escatologici? Un interrogativo che potrebbe venir espresso anche in altre parole: in che modo il concetto di definitivo tocca l'esperienza umana? Od anche: la questione è quella di sapere quale sia il modo corretto di accostarsi alle forme mentali e linguistiche specifiche dell'escatologia teologica e della sua vasta problematica. 2 Fino dai primordi l'uomo ha fatto esperienza della definitività nel fenomeno della morte. Tutti sappiamo che l'esperienza de11a morte rappresenta uno dei motivi fondamentali, se non il principale, del problema escatologico. Ci si chiede però se, per quanto riguarda ]a morte, sia lecito parlare di esperienza. La morte è muta e fa ammutolire. Colui che la sperimenta tace per sempre. Nessuno è in grado di parlare della morte per esperienza personale, e ciò nonostante tutti sanno di doverne fare un giorno esperienza, pur non sapendo che cosa significhi sperimentare la morte. Da questo punto di vista abbia· mo dunque a che fare con un fatto d'esperienza. Il silenzio definitivo che avvolge la morte altrui viene sperimentato come un indizio di quel silenzio definitivo che scenderà anche su noi. La definitività che qui si annuncia ci sembra così indiscutibile che con tutta sicurezza preferiamo chiamarla con il nome di 'morte' Chi s'immagina che spetterebbe proprio alla predicazione escatolo' Cf. D. WmDERKEllR, Perspt•kliven der Eschatologie, Ziirich 1974, pp. 19-24 [trad. it. Prospettive dell't'scato/ogia, Queriniana, Br~'SCia].
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gica elevare una protesta contro il carattere definitivo della morte dubiterà che l'esperienza della morte sia in grado d'introdurci in una definitività intesa in senso escatologico. Vorremmo però esortare questo individuo a chiedersi se sia lecito ritenere che l'escatologia, di per se stessa tolga alla morte la sua gravità. Non è forse vero che gli asserti escatologici devono trovare la propria conferma nell'eisperienza che a ciascuno si pone sotto il segno della morte? Un'escatologia che si evolve senza curarsi dell'esperienza di morte, o addirittura contestandola, si condanna da sé. È vero invece che la teologia escatologica non può prescindere dall'incertezza e dissidio che accompagnano quella definitività che ci si presenta nella morte; essa è chiamata piuttosto a confrontare con essi, dovrà essere in grado di legitt'imarli. In tutta la sua crudezza, il problema non si pone ancora quando ci si chiede se la morte debba essere o meno considerata come la fine di ogni cosa. Il carattere di ambiguità che connota ciò che è definitivo emerge in tutta trasparenza quando in nome di Dio si nega alla morte il suo carattere di definitività. Inserita nel discorso più generale che ha Dio per oggetto, la morte dev'essere concepita come un atto che Dio ha voluto ed allo stesso tempo come un 'no' radicale affermato contro di Lui. Il problema dell'escatologia si presenta così, nel suo nocciolo, come un problema specificamente teologico. Finché ci si limita a stabilire che cosa la morte comporti , per l'uomo, ora e quando egli ha ormai cessato di vivere, si rimane / sul terreno dell'antropologia. Ma la problematica escatologica raggiunge la sua acme teologica quando si riflette su ciò che definitivamente avviene in quel che contraddice Dio. Si potrebbe tuttavia procedere oltre e riflettere su ciò che Dio stesso diventa dopo la morte. Il concetto di Dio mutuato dalla metafisica tradizionale qui non incontra difficoltà alcuna: la morte, infatti, non può sfiorarlo. Ma a quali conclusioni si giunge quando il discorso verte sul Dio crocifisso (J. Moltmann), e la realtà della croce e morte non viene soppressa con degli schemi docestistici? Che cosa intendiamo dire qualificando il Crocefisso come il Risorto? Non si esige qui, forse, una radicale ricomprensione dell'escatologia, di Dio e della morte? Tutti interrogativi che sorgono quando si analizza l'esperienza del carattere definitivo della morte e che ci aiutano a precisare meglio la funzione e compito che un'escatologia cristiana è chiamata a svolgere.
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In modo non meno doloroso l'uomo prende coscienza di questa definitività nella figura delle sue azioni. Si tratta di un'esperienza tanto più soprendente quanto più deciso è il suo rifiuto del carattere definitivo delle opere che egli ha prodotto. Ogni azione operata dall'uomo è fru~to di una libertà finita ed attesta in quanto tale una per:lita definitiva di questa libertà. Sbaglierebbe colui che ritenesse di poter usare della propria libertà senza doverla perdere. La realizzazione della libertà avviene necessariamente a scapito della libertà stessa. La vita umana si fonda su una realizzazione di possibilità durante il processo della scelta e della perdita. In genere si tende ad illustrare l'impotenza dell'uomo alla luce del fenomeno del futuro. Si osservi tuttavia che il passato si rende ancor più in-disponibile del futuro alle possibilità dell'uomo. È ben noto infatti che ciò che è stato non ammette più alcuna modificazione. Questo significa che l'uomo sperimenta la morte non solo nella prospettiva di ciò che deve ancora accadere, ma sempre anche come una perdita di libertà e di possibilità già verificatesi nel passato. In tal caso l'immutabilità si presenta come qualcosa di assolutamente certo. Il passato, inteso come una po· tenza capace di sugellare la definitiva perdita di possibilità, afferma qualcosa di decisivo in merito all'orientazione del futuro. Un'idea questa che, portata alle estreme conseguenze, potrebbe far sorgere l'impressione che, nella misura in cui il passato si dilata, aumenterebbe anche il raggio delle possibilità, libertà e futuro che è precluso allo uomo. Si sperimenta quindi una contraddizione. Certo, quella definitività che traspare dalle opere prodotte dall'uomo potrebbe condurci ad un modo d'intendere l'escatologia stando al quale Dio, in veste di giudice, non farebbe altro che un bilancio, metterebbe cioè un punto fermo - a tutta vergogna e delusione della sua creatura - al processo che Lui stesso ha avviato ed alla storia della perdita di libertà. Ma una simile prospettiva non è ancora in grado di esprimere in modo sufficientemente ampio l'effettivo stato di cose, e cioè la perdita di libertà da parte dell'uomo, di un uomo che ha smarrito e distrutto con i suoi atti la propria libertà e la perdita di libertà da parte di Dio nei confronti dell'uomo e delle opere da questi prodotte. È quanto emerge invece dalla potenza di un Dio capace di rimettere i peccati e di far risorgere i morti, gesti nei quali si manifesta quel Dio che accorda la libertà ad un uomo che con
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le sue opere la smarrisce ed annulla. Il problema escatologico assume tutto il suo rigore teologico solo quando si stabilisce un confronto fra questo veto di Dio e l'onnipotenza del passato. Nel corso degli avvenimenti mondani l'uomo s'imbatte in un'altra figura di definitività. Il ventaglio delle questioni che qui sorgono è ancora più ampio di quello che abbiamo appena ricordato negli esempi della morte e delle azioni dell'uomo. In questo ambito della nostra esperienza, la definitività s'impone sotto forma di vere e proprie leggi che regolano il discorso degli avvenimenti, fenomeni e cose della natura. La regolarità che ivi si osserva è stata tradotta in termini sovratemporali, ha preso il nome di leggi di natura. Ad un risultato analogo l'uomo giunge quando considera il corso della storia, la sua irreversibilità e teleologia. Ma nell'insistere sull'esperienza della definitività non si dovrebbe dimenticare la duplice accezione sotto la quale questo termine viene preso. Quella definitività di cui si fa esperienza nei processi naturali si presenta come una costanza o ripetizione identica di processi che, in misura più o meno ampia, rimangono preclusi ad una possibilità d'intervento da parte dell'uomo. Quella definitività che si riscontra invece nel campo dell'agire storico è percepita come l'unicità definitiva di eventi e nessi che non si ripetono, non si ripropongono più. È dunque chiaro che l'esperienza della definitività viene ad assumere una duplice faccia, come Giano. Ovviamente è possibile eliminare le difficoltà che in questo modo sorgono facendo ricorso a Dio, qt•i considerato causa prima o causa finalis; ma su questa via non riusciremo mai a risolvere il problema, poiché la causalità divina è essenzialment·~ di natura trascendentale e non può essere messa sullo stesso piano dd mondo e del corso degli avvenimenti che in esso accadono. Non si può negare che il modo in cui l'uomo fa esperienza della definitività nell'ambito dei processi naturali possa influire anche sul modo di far esperienza della definitività che egli incontra nell'ambito della storia. Quella definitività in cui c'imbattiamo nel corso degli eventi nat"urali porta con sé il marchio del diverso dall'uomo, di qualcosa a lui ostile. L'uomo che con essa si confronta si trova clav:mti all'csscnzialmentc Altro da lui, ad un Altro che gli si pone nella propria diversità. L'esperienza di questa definitività non può esssere dissociata dall'interrogativo che sorge in colui che la fa, dal problema se cioè essa vada riconosciuta
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integrandola o subendola. In definitiva, essa ammette soltanto quel rapporto di tensione in cui l'uomo avverte ed accetta la definitività, che governa la natura, come il rapporto Altro da sé, o come l'Altro con sé. La validità o meno di una simile prospettiva dipende dai presupposti su cui ci si fonozial.:1hik, Miind1cn 1972; \Y/. ·D. MARSCll. Ethik dcr Sdhstbei:renwng. in /:,./\r1111m 6 1197}). pp. 18-20: K. Lu. RENZ, Di1 ~ur 1nha11111•1sch1"11 Christufo11.ic 1111logia e mitologia. B _L lkMM, xmv6ç, in: T/JW' Ili I 1938J, 410-156; lutM, vfoç, ibid. 11• \ 19"2),
8')9-90~; F. lli~CHSl't. 1taÌ..~'YYEVEUla. ihid. I ( 193-'), 685-688; e;_ SF.l essere considerata come imminente od anche già reale. Dato però che •IÌ ÉVE.lF.NTARIA
L'aspettativa prossima è considerata addirittura un 'eresia. La fine dovrà essere preceduta dalla comparsa del grande malfattore, che siede nel tempio di Dio e presume di essere Dio (Mc. 13,14). Il malfattore è ancora all'opera, ma legato. 34 Alla fine si presenterà con molti miracoli hasati sulla menzogna, dci quali si servirà per circuire parecchi. Gli ultimi tempi sono caratterizzati dalla comparsa di molti inpividui che smarriranno la fede ed accetteranno gli insegnamenti da falsi maestri e di provenienza diabolica. «Sono già bollati a fuoco nella loro coscienza» (1 Tim. 4,1 s.). Spesso si rimprovera a questi falsi maestri l'immoralità. Le difficoltà che questi ultimi tempi ci riservano saranno grandi. Uomini pieni di malvagità provocheranno grande scompiglio (2 Tim. 3,1-9).w
b.
Parusia
Paolo parla spesso della venuta di Cristo che si aspetta e lo descrive con grande ricchezza di contenuti. In sostanza sarà il 'giorno del Signore'. L'avvento di Cristo vienc: _g_~:iUJ_i_c_:itc>_ d:i Paol_o con il termine 'parusia' (1 Thess. 2,19; 3,13; 4,15; 5,23; 1 Cor. 15,23 ~z'al t;o pqst-p~olino è. iL.H~~JQ_dL2 TjJes.r. 2,1.8). La comunità è «la corona di cui ci possiamo vantare d~va;;-tTalSignore nostro Gesù, nel momento della sua parusia» (1 Thess. 2,19). I suoi membri devono rimanere «saldi e irreprensibili [ ... ] nella santità davanti a Dio Padre nostro, al momento della venuta dcl Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi» (1 Thc·ss. 3,13). Secondo la testimonianza veterotestamentaria (Zach. 14,5), i §_anti coi qu_~li Gesù__C_O.f"!IP~~~on __ ~OIJO ~ris~.hmi che hanno raggiunto lo stato di perfezione, bensì la corte celeste di _])io. Paolo ripete il desiderio (l Thess. 5,23) che i fedeli si conservin~~~rreprensibili per la venuta di Cristo». " Il malfa11ore viene descritto rirnrrern.lu a tlc~li at1ributi mitici, nun storirn-individuali. li 'chi (cosa) lo trattiene' di 2 Tb~H. 2,6, non pub essere dunque St·nz'altru riferito a delle potenze o persone (ncll'cscj!Csi si nominano l'impero romano, l'imperatore. la missione cristiana, Paolo). 2 The.u. 2,6 s. utilii.;,a delle antiche e multo diffuse raffigurazioni apocaliuiche, cui si ricorreva per descrivere certe circostanze d1