Mito e teatro. Il principio drammaturgico del montaggio
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Filosofie del teatro N. 12

Collana diretta da Maddalena Mazzocut-Mis

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COMITATO SCIENTIFICO

Maddalena Mazzocut-Mis, Università degli Studi di Milano Alberto Bentoglio, Università degli Studi di Milano Dariusz Lesnikowski, Università di Łódź Mireille Losco-Lena, Université Lumière, Lyon 2 Maria Filomena Molder, Universidade Nova de Lisboa

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DANIELA SACCO

MITO E TEATRO

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Il principio drammaturgico del montaggio

MIMESIS Filosofie del teatro

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Il volume è pubblicato grazie al contributo del Centro studi classicA dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia - IUAV e dell’Associazione Engramma.

© 2013 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) Isbn 9788857520353 Collana Filosofie del teatro, n. 12 www.mimesisedizioni.it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected] In copertina: Robert Wilson, Einstein on the Beach (dettaglio dello storyboard), 1976.

Courtesy RW Work Ltd.

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INDICE

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INTRODUZIONE I. MYTHOS, DIRE GLI UNIVERSALI 1. Mythos: principio, anima, fine della tragedia 2. Orestea: la plurivocità semantica della tragedia 3 Persiani: il rovesciamento prospettico 4. Ambivalenza e polarità semantica del mito 5. Genealogia, identità nel molteplice differente 6. Anacronismo, il tempo del teatro 7. Dioniso, dio della rappresentazione 8. Baccanti: la fenomenologia del dio 9. Nietzsche o della profezia II. IL NOVECENTO, ‘PENSARE PER IMMAGINI’ 1. Psicoanalisi e crisi della modernità 2. Il Libro rosso di Jung 3. James Hillman, oltre la psicoanalisi 4. L’Atlante della Memoria di Aby Warburg 5. La morfologia goethiana 6. Benjamin: l’Urphänomen della storia 7. L’Ulisse di Joyce 8. Ejzenštejn: l’Urphänomen cinematografico III. IL TEATRO CONTEMPORANEO: POIESIS DEL MONTAGGIO 1. Teatro e Avanguardie Storiche 2. La questione della mimesis 3. Il montaggio, codice drammaturgico del Novecento 4. Artaud con Brecht, mythos ed epos 4.1 Artaud: il doppio del teatro 4.2 Brecht: la dialettica del teatro 5. L’Antigone del Living Theatre

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6. La scrittura scenica e le origini americane del ‘teatro immagine’ 7. Il teatro postdrammatico 8. Robert Wilson 8.1 Einstein on the Beach 9. Mythos: mimesis praxeos e opsis 10. Peter Sellars 10.1 Tra storia e mito 10.2 Kafka Fragments

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INDICE DEI NOMI

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BIBLIOGRAFIA

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ad Andrea alla passione anarchica che è teatro

ταῦτα δὲ ἐγένετο μὲν οὐδέποτε, ἔστι δὲ ἀεί· καὶ ὁ μὲν νοῦς ἅμα πάντα ὁρᾷ, ὁ δὲ λόγος τὰ μὲν πρῶτα τὰδὲ δεύτερα λέγει. E queste cose non avvennero mai, ma sono sempre: l’intelligenza le vede tutte assieme in un istante, la parola le percorre e le espone in successione.

Salustio, Sugli dei e il mondo IV, 8, 26-29

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Ringraziamenti Voglio ringraziare chi a diverso titolo ha contribuito alla realizzazione di questo saggio: Anna Banfi, Giovanna Boeri, Julia Carnahan, Monica Centanni, Gioachino Chiarini, Jenny Condie, Franco Laera / Change Performing Arts, Stefania Lo Giudice e la Fondazione Romaeuropa, Claudio Longhi, Maddalena Mazzocut-Mis, Elena Nonvellier, Gian Luigi Paltrinieri, Alessandra Pedersoli, Andrea Pinotti, Daniele Pisani, Andrea Porcheddu, Arturo Sacco, Linda Selmin.

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INTRODUZIONE

Teatro e mito condividono la questione sempre aperta dell’identità, centro nevralgico in cui l’individuale e il collettivo, il particolare e l’universale si intersecano. La condividono in un modo tanto consonante quanto differente rispetto all’appropriazione che ne ha fatto il logos dagli albori della cultura occidentale. Il presupposto da cui prende le mosse l’indagine è che il teatro sia il prisma attraverso cui indagare il meccanismo compositivo con cui si struttura il mito. Un’analisi della drammaturgia della tragedia greca, prima espressione del teatro e contesto d’elezione in cui il mito prende forma, e del metodo compositivo del teatro contemporaneo ha permesso di individuare nel montaggio – termine novecentesco preso a prestito dal cinema e traslato a significare un dispositivo più generale – il meccanismo mitopoietico all’opera sia nel teatro ‘predrammatico’ che in quello ‘postdrammatico’. A inframmezzare queste due indagini è una ricognizione che, tratteggiando una costellazione di casi esemplari della storia del pensiero del Novecento, individua nel ‘pensare per immagini’ la peculiarità noetica del secolo scorso. Il presente studio è volto a considerare quindi in che termini il teatro contemporaneo, che ha il suo atto di nascita nelle Avanguardie Storiche, nell’intenzione di trascendere il dramma, ossia la forma decaduta di tragedia, torna alla forma e al senso del tragico, e cosa della sensibilità e della visione del mondo del Novecento lo permette. La questione così posta impedisce di pensare ai miti e alle tragedie in cui i miti si incarnano semplicemente come un repertorio di classici a cui il teatro del Novecento ha potuto attingere, ma dischiude una questione filosofica in grado di indagare la forma del teatro come riflesso di una visione del mondo e il metodo attraverso cui si struttura e lo rende possibile; e questo oltre e al di là del valore tipologico e semantico della trama ereditata dall’antico. Il mito è sottratto a un altrove leggendario in cui è stato spesso relegato, a un passato primitivo e remoto da cui la storia si è definitivamente emancipata, o a uno schermo su cui il pensiero moderno ha proiettato un senso ancestrale del divino.

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Mito e teatro

Si propone quindi una lettura che strappa mito alla sua storica letteralizzazione in allegoria o alla sua ipostatizzazione metafisica per ricondurlo alla matrice immaginale e compositiva che ha nel meccanismo del montaggio il codice normativo. A partire dall’analisi fatta da Aristotele sulla poetica tragica e dall’analisi sulla drammaturgia della tragedia greca entro i confini temporali del suo manifestarsi, ossia dalle prime tragedie di Eschilo all’ultima di Euripide, si è cercato di individuare le caratteristiche essenziali del mito antico. Ne è emerso anzitutto il carattere compositivo e frammentario, costruito secondo una combinazione di parti giustapposte attraverso polarità semantiche, secondo un intreccio di elementi eterogenei e antitetici; e ne è emerso anche il carattere eminentemente visivo, che implica la referenza dello spettatore e una conoscenza profondamente veicolata dalla visione. Ambivalenza semantica e rovesciamento prospettico sono le peculiarità rese dal comporsi mitico che, evadendo l’univocità del senso e della determinazione, mettono costantemente in questione l’identità. Il profilo mitologico di Dioniso, desunto dalla tradizione mitografica e filosofica oltre che dalla sua fenomenologia nella tragedia, è esplicativo di queste caratteristiche. Alla plurivocità della dimensione mitica è ricondotta l’universalità, la capacità di ‘dire gli universali’ condivisi collettivamente che il mito rispetto al logos mantiene nell’ambiguità della definizione d’identità. L’universalità del mito è così distinta e sottratta dall’univocità di pertinenza del pensiero logico che ha le sue radici agli albori del pensiero filosofico. Il mito implica un rapporto tra particolare e universale, unità e molteplicità differente dal pensiero logico filosofico che ha dominato nella cultura occidentale forzando a ricondurre il molteplice nell’unità dell’identità. Nel mito l’identità si riverbera sempre e solo nel molteplice differente, di modo che il rapporto tra l’uno e i molti è rovesciato: non è l’unità che contiene il molteplice ma il molteplice che contiene al suo interno l’unità. La genealogia, definendo la struttura del mito nel suo oscillare tra i poli elastici di caos e ordine, è la forma esplicativa di questo rapporto. Ed è anche la forma esplicativa della temporalità propria del mito: ossia la compresenza di passato e presente, che risulta anacronistica per un tempo concepito solo in termini di progressione cronologica, come quello della storia. Il tempo aoristico del mito, che riconduce simultaneamente il passato al presente e lo vincola all’adesso, al tempo opportuno del kairos, è lo stesso tempo che prende forma nel teatro e che, per il fatto di essere agito sempre nel presente, sempre rispetto all’hic et nunc, porta a condensare nell’‘ora’ il passato e il futuro. La visione del mondo che caratterizza il XX secolo è riconducibile al pensiero tragico antico nella misura in cui è stata a sua volta tragica. La

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Introduzione

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tragicità del secolo scorso è da ricondurre ai due conflitti mondiali che hanno accompagnato la crisi della modernità e hanno inciso nel pensiero dei teorici che l’hanno denunciata. La Prima e la Seconda guerra mondiale segnano una cesura nel passaggio dalla visione del mondo della modernità a quella che è stata definita ‘postmodernità’. Si assiste alla crisi della forma metafisica di pensiero che attraverso la ratio e la supremazia del logos sul mythos ha predominato come paradigma concettuale nella cultura europea dall’antichità fino al XIX secolo, e di seguito all’emersione di un pensiero diversamente improntato all’immagine. Il ‘pensare per immagini’ sembra essere infatti il tratto saliente della visione del mondo che permea la trasformazione della coscienza nel XX secolo, a seguito della fine della modernità illuministicamente intesa. Alla crisi del concetto di identità e unità trascendentale che ha governato la metafisica nelle sue declinazioni filosofiche e religiose e nell’episteme della scienza moderna segue quindi, nel passaggio tragico dalla distruzione di un ordine – il chaos – alla creazione di un nuovo ordine – il kosmos – una rivoluzione del modo di intendere il rapporto tra la le parti e l’intero e il modo di percepire lo spazio e il tempo veicolata dal paradigma gnoseologico dell’immagine. Nel pensiero improntato all’immagine il rapporto tra particolare e universale, tra l’uno e i molti si ridefinisce rispetto all’approccio consolidato del pensiero logico filosofico. Avviene una ricollocazione dell’uomo nel mondo che si smarca dall’impostazione dualista moderna secondo cui il rapporto uomo-mondo è basato fondamentalmente sulla frattura cartesiana fra io e non io, res cogitans e res extensa. Allora nella misura in cui il pensiero del Novecento risolve il dualismo moderno si scopre affine a quel pensiero che viene prima del dualismo: il pensiero antico, per cui la conoscenza è profondamente veicolata dal paradigma visivo ed è nella sua natura tragica e mitica. Agli inizi del secolo scorso il pensare per immagini trova una importante affermazione nella psicoanalisi che, attraverso la ‘scoperta dell’inconscio’, reintroduce nella teoria scientifica il pensiero immaginale. Sottratto alla dimensione del fittizio, del primitivo o della follia, il codice dell’immaginale riacquista così una dignità gnoseologica ed è accolto come una sorta di ritorno contemporaneo del pensiero mitico. Il recupero dell’immaginale mitico, ai fini della cura di quella che è interpretata come la malattia dell’Occidente, è il principale intento della vicenda psicanalitica che, inaugurata con Sigmund Freud e la scoperta delle inquiete immagini mentali, trova con James Hillman l’annuncio della sua possibile fine nel momento in cui queste immagini sono restituite, come atto di guarigione, all’aisthesis nella visibilità fenomenica del mondo.

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Mito e teatro

Se il mito torna nel Novecento attraverso la crisi della soggetto separato dal mondo – le immagini mentali (Vorstellungen) scoperte dalla psicoanalisi – dall’altra un consistente numero di pensatori è rivelativo di un pensare per immagini rivolto all’oggetto: alle immagini del mondo, della storia o materializzate nell’arte (Darstellungen). La morfologia goethiana funge da chiave ermeneutica e cerniera tra questi due versanti, anche in virtù dell’influenza diretta del pensiero di Johann Wolfgang von Goethe su buona parte dei pensatori scelti a esempio nell’indagine. E questo avviene perché il pensiero morfologico offre un codice di lettura delle immagini, una conoscenza intuitiva, veicolata dalla visione, dove il rapporto tra particolare e universale, singolare e molteplice ha la medesima articolazione riscontrabile nel pensiero mitico cosmologico: il particolare e molteplice non sono ricondotti all’unità trascendentale affermata dalla metafisica dualistica del pensiero moderno. Il rapporto rispetto a questa è rovesciato: l’identità e l’invarianza sono comprese all’interno del molteplice sensibile, nella continua metamorfosi e nel divenire della forma, come è espresso nell’idea mitica di genealogia. La forma del pensare attraverso cui si articola questo rapporto in cui il molteplice contiene al suo interno l’unità e non viceversa risulta strutturarsi secondo il meccanismo compositivo del montaggio. Il montaggio appare allora come il principio costruttivo e il dispositivo compositivo del pensare per immagini e, in quanto tale, un meccanismo mitopoietico. Questo meccanismo spiega il rapporto tra particolare e universale, parte e tutto che viene a crearsi nel momento in cui l’approccio alla conoscenza del sensibile è veicolato eminentemente dall’immagine e presuppone un rapporto di non opposizione o distanziamento tra il soggetto e l’oggetto, l’io e il non-io, in sintesi, l’uomo e il mondo. Ponendo una proporzione esplicativa, si potrebbe affermare che il montaggio sta al pensiero fantastico/immaginale1 come la logica sta al pensiero razionale. Nel primo caso le particelle elementari che vengono composte dal montaggio sono immagini che, intese come frammenti, sono sempre rinvianti ad altro e sono accostate tra di loro per giustapposizione secondo legami associativi guidati da un principio di polarità semantica di modo da creare una rete di rapporti non univoci. Nel secondo caso le particelle elementari sono concetti, ossia astrazioni che sussumono una molteplicità 1

Fantasia e immaginazione sono considerate in questo contesto assimilabili, nell’intento di andare oltre la dicotomia che significativamente tra Otto e Novecento ha relegato la prima all’ambito del meramente fittizio destituendola di valore gnoseologico. Per un’analisi del rapporto tra le due si veda: Ferraris [1996] 2001, pp. 7-13; Paltrinieri 2009, pp. 269-284; Lepschy 1987, pp. 21-34; Hillman [1967] 2010, pp. 119-120.

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Introduzione

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sensibile in una unità di segno, legati tra loro secondo rapporti univoci di consequenzialità logica, tali da garantire la non equivocità del senso. Il montaggio allora, come paradigma diegetico conseguente la crisi del pensiero metafisico, risulta essere quel meccanismo compositivo che definisce la semantica e la grammatica delle immagini, le particelle elementari del pensiero prelogico e prediscorsivo. Il montaggio articola la connessione, l’associazione delle immagini tra loro dando vita a una forma espressiva alternativa a quella fornita dall’articolazione logica e discorsiva. La giustapposizione simultanea di eterogenei propria della composizione per montaggio è tale da scardinare la processualità temporale cronologica, e si mostra capace di riproporre una temporalità anacronistica come quella osservata nel mito. La narrazione storica, come principale narrazione che accanto a quella letteraria e quella religiosa ha sostituito l’immaginario mitico, viene destrutturata dal nuovo pensiero improntato all’uso gnoseologico dell’immagine, con la conseguenza di liberare il passato dall’oggettività e datità dello storicismo per metterlo in polarità dialettica con il presente; per questo si registra diffusamente nel Novecento il ritorno all’uso dell’antica idea di genealogia. Il pensare per immagini come applicazione del meccanismo del montaggio ha la sua più matura espressione artistica nella forma cinematografica che non a caso, al seguito della fotografia, inaugura il nuovo secolo. Secondo Jean-Luc Godard l’immagine è stata l’unica risposta efficace alla questione dell’identità, diventata verso la fine del XIX secolo di capitale importanza per la società occidentale2. L’immagine cinematografica permettendo una sintesi tra immagini mentali e immagini reali, tra sensibile e intellegibile risponde infatti alla crisi della modernità, offrendo una soluzione al dualismo metafisico. Ma le premesse dell’immagine cinematografica si trovano nel contesto delle Avanguardie Storiche e nello specifico nelle avanguardie teatrali. Nel cinema il meccanismo del montaggio prende coscienza di sé, del suo principio creativo, ma ha la sua prima attuazione nel contesto del teatro. È in questo ambito che Sergej M. Ejzenštejn lo comprende come principio drammaturgico per eccellenza, riconoscendo lo scarto tra epico e drammatico, tra la composizione per successione e quella per giustapposizione propria del montaggio. Nel teatro si compie il primo tentativo di scardinare la rappresentazione intesa come riproduzione, come mimesis del reale, come copia di un modello di per sé inaccessibile su cui grava, consapevole o meno, il peso 2

Cfr. Godard [1988] 2007, p. 215.

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Mito e teatro

dell’antica condanna platonica dell’arte, a sua volta riflesso della condanna platonica del sensibile. Le avanguardie teatrali del Novecento si propongono di recuperare la poiesis, l’inventio, al posto della mimesis, la riproduzione, e questo avviene di pari passo alla rivalutazione novecentesca del sensibile e del valore gnoseologico dell’immagine. Il montaggio è lo strumento di questa poiesis sia come codice compositivo drammaturgico che come codice compositivo della creazione teatrale nella sua totalità, individuabile nell’idea di ‘scrittura scenica’. Principali artefici della rivoluzione teatrale del Novecento sono Antonin Artaud e Bertolt Brecht in apparente antitesi ma complementari nel tentativo di spezzare l’ordine mimetico della rappresentazione, l’uno sul versante del recupero della funzione mitica del teatro, l’altro sul versante della dialettica storica. Queste due posizioni trovano una sintesi e un compimento nel teatro delle generazioni successive e in particolare nel teatro di origini statunitensi, nella seconda metà del Novecento, con il caso esemplare del Living Theatre, nella peculiare messa in scena dell’Antigone, fino all’esito del ‘teatro immagine’ e ‘teatro postdrammatico’ dagli anni 70 a oggi. La cultura americana, nella sua declinazione artistica teatrale, appare infatti particolarmente consonante al pensare per immagini distintivo della nuova visione del mondo novecentesca. Per usare una metafora: come Kant, nella pièce di Thomas Bernhard3, è il filosofo cieco che si imbarca per gli Stati Uniti nell’intento di operarsi alla vista per riacquistarla, così la cultura americana e il suo teatro rappresentano rispetto alla cecità del Vecchio Continente un modello esemplare di approccio visibile al sensibile. Il ‘teatro postdrammatico’ come esito artistico di una visione del mondo improntata al pensare per immagini, sia nella costruzione di storie aderenti al principio della mimesis praxeos, sia nella creazione in scena di una ‘pura visibilità’ – mythos e opsis, l’intreccio e la vista: i due elementi riconosciuti da Aristotele come più importanti della tragedia greca – è coerente con il principio compositivo del montaggio, che risulta essere quindi il meccanismo irriducibile a cui rispondono entrambi. Questo lo si è indagato in particolare nei casi esemplari di Robert Wilson e Peter Sellars collocati rispettivamente ai due poli che danno ugualmente forma al mythos: mimesis praxeos e opsis. Il montaggio osservato all’opera negli esempi di teatro contemporaneo esaminati risulta lo stesso meccanismo che l’indagine ha scandagliato all’opera nella forma compositiva della drammaturgia antica. Ne consegue 3

Cfr. Bernhard [1978] 2010.

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Introduzione

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che il teatro ‘predrammatico’ e ‘postdrammatico’ condividono lo stesso principio regolativo, la stessa struttura elementare di base. Il meccanismo morfologico e semantico del montaggio appare in ultima analisi essere il principio drammaturgico e mitopoietico contemporaneo per eccellenza.

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I. MYTHOS, DIRE GLI UNIVERSALI

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I. Mythos: principio, anima, fine della tragedia Il mito ha la sua prima espressione teatrale come rappresentazione della tragedia greca. Risulta quindi imprescindibile interrogare questa origine per analizzare il rapporto che si instaura da principio tra mito e teatro. Come è noto al mito, nella sua collocazione nel primo contesto teatrale della storia dell’uomo, fa riferimento Aristotele nel trattato sull’arte poetica, specificatamente nella parte dedicata alla tragedia. Qui, nella lucida analisi aristotelica, è possibile trovare una definizione di mito nella sua forma essenziale, e specificatamente nella sua funzione costitutiva e basilare di applicazione al teatro. Il termine μῦθος – solitamente tradotto come ‘racconto’– che il filosofo utilizza in relazione alla creazione poetica tragica è spiegato da subito come “composizione di fatti”1 (λέγω γὰρ μῦθον τοῦτον τὴν σύvθεσιν τῶν πραγμάτων); il verbo utilizzato da Aristotele a significare tale composizione esprime il ‘mettere insieme’, ‘mettere in relazione’ ‘associare’ ‘collegare’. E il mythos, che nel suo specifico (τοῦτον) è la composizione di fatti, è considerato dal filosofo l’elemento più importante dell’arte tragica, più delle altre cinque parti che costituiscono la tragedia: più dei caratteri, del linguaggio, del pensiero, della musica e della vista, per quanto questa comprenda tutti gli altri (ὄψις ἔχει πᾶν). Il mythos è il fine (τέλος) della tragedia, e ne è il principio (ἀρχὴ) e l’anima (ψυχὴ)2. Detto questo Aristotele specifica a quali fatti si fa riferimento nell’operazione di composizione poetica tragica: non si tratta di “cose avvenute una volta” (τὰ γεγονότα) ma di cose che possono avvenire sempre, cose possibili “secondo verisimiglianza o necessità” (κατὰ τὸ εἰκὸς ἢ τὸ ἀναγκαῖον)3, e che quindi è probabile o inevitabile che accadano. Questa specificazione 1 2 3

Aristotele, Poetica 50 a 4. Aristotele, Poetica 50 a 38. Aristotele, Poetica 51 a 37.

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Mito e teatro

mette in chiaro il giudizio sull’arte poetica in relazione alla storia, la composizione storica dei fatti, e che il filosofo si appresta a chiarificare, subito dopo questa affermazione: la storia dice le cose avvenute, la poesia le cose che possono avvenire. La distinzione si gioca su di un piano sostanziale, non formale: non è in gioco l’uso o meno del verso. In questa distinzione dei rispettivi oggetti, poesia e storia sono marcate da una differenza fondamentale: “la poesia dice gli universali”, la storia i “particolari” (ἡ μὲν γὰρ ποίησις μᾶλλον τὰ καθόλου ἡ δ᾽ἱστορία τὰ καθ᾽ ἕκαστον λέγει). E in questa peculiarità di dire gli universali la poesia risulta più importante e di maggiore fondamento teorico della storia e si apparenta, in questo modo, alla filosofia (διὸ καὶ φιλοσοφώτερον καὶ σπουδαιότερον ποίησις ἱστορίας ἐστίν)4. Quindi i primi elementi che qualificano il mythos nella sua declinazione teatrale sono l’azione poetica del comporre, mettere assieme, e l’oggetto di tale azione, ossia i fatti, che non importa siano accaduti o meno, ma importa che nella imbastitura creata abbiano carattere di universalità. È testimonianza di Ateneo l’attribuzione a Eschilo dell’affermazione secondo cui il suo lavoro si limitava a “raccogliere le briciole del banchetto omerico”5. In questa affermazione è dichiarato il carattere frammentario del materiale che viene utilizzato per creare, in questo caso, il componimento tragico. Briciola è il frammento strappato alla trama offerta dalla tradizione epica, dal patrimonio culturale comune dei Greci, di cui poteva disporre il tragediografo. Composta da repertori di genealogie di dei, a cui poteva attingere, ad esempio, Esiodo nella Teogonia, o di genealogie di stirpi regali, o di eroi, a cui ha attinto ad esempio la narrazione di Omero, la tradizione epica ha rappresentato la fonte principale anche per il repertorio di imprese di guerra, si pensi all’Iliade, o per i repertori di nostoi, che narrano dei travagliati ritorni dei guerrieri in patria, di cui caso esemplare è l’Odissea6. L’operazione del primo tragediografo della storia consiste quindi nel raccogliere un frammento dalla tradizione epica e utilizzarlo in una nuova combinazione, quel frammento costituisce il fatto (τό πρᾶγμα) – che sia avvenuto o meno è secondario, e se non è avvenuto ciò che importa è la sua credibile potenzialità nell’accadere – che la nuova composizione (σύνθεσις) collega in una trama, in una nuova combinazione, tale da avere la capacità di dire gli universali. 4 5 6

Aristotele, Poetica 51 b 6. Ateneo, I deipnosofisti VIII 39. Cfr. Centanni 2005, pp. 9-10.

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Mythos, dire gli universali

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Esemplificativi di questa operazione possono essere casi di tragedia costruiti su nuclei tratti dalla leggendaria tradizione epica o casi con esplicito riferimento a fatti storici realmente accaduti. Facendo di Eschilo il riferimento privilegiato dell’indagine, un primo esempio indicativo è la drammaturgia dell’Orestea sia perché, trattandosi di una trilogia, il meccanismo compositivo che la struttura e che possiamo individuare nel montaggio – prendendo a prestito il termine contemporaneo dal lessico cinematografico – risulta particolarmente articolato, sia perché è stata considerata generalmente come la tragedia che segna il passaggio dal mito alla storia. Il secondo esempio è i Persiani, che precede cronologicamente l’Orestea, ed è rilevante non solo per la struttura drammaturgica ma anche perché, avendo come sfondo una vicenda realmente accaduta, pone in modo centrale la questione del rapporto tra mito e storia. Di queste due tragedie si prende quindi in esame la composizione drammaturgica. II. Orestea: la plurivocità semantica della tragedia È di Robert Graves l’affermazione secondo cui il mito di Agamennone, Egisto, Clitemnestra, Oreste è giunto fino a noi in forma drammatica così stilizzata che pare quasi impossibile rintracciarne le origini7. A stilizzarne la forma in modo così netto e capace di riverberarsi nei secoli a venire, di farsi a sua volta mythos, è stata proprio la drammaturgia di Eschilo. Le variazioni del mito che Graves sapientemente rintraccia si dipanano tra una grande varietà di autori, anche molto distanti nel tempo: Omero, Esiodo, Sofocle, Euripide, Apollodoro, Pausania, Virgilio, Igino... Certo è che a precedere Eschilo nel racconto delle vicende accadute nella reggia di Argo è stato in primis Omero che, nell’XI libro dell’Odissea, in pochi versi enuclea il cuore della vicenda che è stato poi successivamente sviluppato dal tragediografo: è il fantasma di Agamennone che parla ad Ulisse dalle oscurità di Ade a svelare la verità sulla sua morte: “Egisto ha costruito il mio destino di morte, Egisto insieme alla mia sposa malvagia, dopo avermi inviato a casa, a banchetto, come si uccide un toro alla greppia. Questa è stata la mia tristissima morte”8. Altre vicende del mito sono disseminate in tutta l’Odissea, senza voler fare una ricognizione esaustiva, basta ricordare la vendetta di Oreste (Odis7 8

Graves [1955] 2008, p. 382. Omero, Odissea XI 409 segg., traduzione di Maria Grazia Ciani (cfr. Ciani 1994).

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Mito e teatro

sea I 35 segg.), i fatti che precedono la cospirazione tra Egisto e Clitemnestra (Odissea III 263-75), il ritorno di Agamennone alla reggia (Odissea IV 524-37). Eschilo quindi raccoglie questi frammenti, “il lacerto del mito – e lo ricompone, ne distende la materia facendo accadere in scena eventi in sequenza”9. La trama essenziale della vicenda, la “forma tipica” di cui è possibile rilevare nelle varianti trasformazioni e metamorfosi, come direbbe Vladimir J. Propp, implica un re che, allontanatosi temporaneamente dal regno, solitamente per compiere delle imprese, viene ucciso e spodestato da chi, tramando in sua assenza, ne ha preso il posto, e, diretta conseguenza di questo evento è la vendetta del figlio del re spodestato. A partire da questa traccia ricorrente, individuabile di volta in volta nella diversa stratificazione delle varianti, la trama si compone articolandosi di vari elementi che fanno l’originalità di ciascuna opera. E la composizione degli elementi che danno vita all’opera è certo condizionata dalla contingenza storica del momento in cui è creata. In questo senso la tragedia attica si comprende come “forma della città Atene”10. Nella tragedia, che nasce ad Atene in un momento storico preciso e lì fiorisce e degenera nell’arco di un secolo, “la città si fa teatro”11. La tragedia è riflesso della polis, della città nuova, riflesso non pacificato, come osserva Jean Pierre Vernant, perché la “mette in causa”12 ne svela la complessità antinomica, l’intensa problematicità; è il riflesso che risponde alla necessità di auto-rappresentazione della comunità coinvolta nella trasformazione epocale. E il riflesso non è solo stilistico ma anche tematico. Nella tragedia la nascita della democrazia viene messa in scena nell’espressione della crisi di valori, nel passaggio da una società in cui il potere politico è fortemente gerarchizzato, in mano a tiranni e famiglie nobiliari che trovano auto-rappresentazione nelle mitiche leggende eroiche condivise dalla narrazione epica, a una società in cui il potere è ridistribuito tra il demos, i cittadini, i protagonisti del nuovo orizzonte politico che non possono più condividere serenamente gli stessi valori. Ma il dramma riflette questo passaggio anche in termini formali, compositivi: formandosi “sul movimento antilogico, dialettico, sull’andirivieni di domanda e risposta fra coro e corifeo, coro e attore, poi attore e attore, assomiglia strutturalmente alla realtà politica che è chiamata a rappresentare”13. La forma plurivoca e composita 9 10 11 12 13

Centanni 2003, p. XLVIII. Centanni 2003, p. XXVII. Vernant - Vidal-Naquet [1972] 1976, p. 12. Vernant - Vidal-Naquet [1972] 1976, p. 12. Centanni 2003, p. XXVII.

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riflette la nuova distribuzione politica della società dove le parti che compongono il nuovo assetto cittadino si emancipano differenziandosi da una struttura totalitaria e indifferenziata. Questo si prefigura già dalla fine del VI secolo nella riforma di Clistene che organizza la costituzione della città secondo la suddivisione in tribù14; nelle riforme di Clistene sono leggibili i nuovi lineamenti del tipo di pensiero che si esprime nella struttura politica della città15. Quanto viene messo specularmente in scena è il confronto fra le parti che spezza l’univocità della declamazione; il confronto tra ragioni parziali è reso possibile dalla forma dialogica, inaugurata nel dramma tragico dall’introduzione da parte di Eschilo del secondo attore. Così l’Orestea, presentata nel secondo anno della 80ª Olimpiade (459/458 a. C.), mette in scena, dipanandolo nella struttura progressiva tripartita della trilogia, il conflitto tra una società arcaica, rappresentata anzitutto dalla città di Argo, e Atene la nascente polis. Due realtà, due visioni del mondo si contendono la scena, le persone del dramma ne rivendicano le ragioni d’essere che, incarnate nelle loro figure, sono spesso simultaneamente presenti. Ad esempio nella figura di Agamennone, che appare nel terzo episodio della prima parte della trilogia, si sovrappone allo stesso tempo l’immagine del re di Argo, al vertice dell’antica stirpe micenea, e il nuovo principe della polis, che dialoga con i cittadini impersonati dal Coro degli Argivi. Nel rivolgersi a questi infatti, al suo ritorno in patria, in prossimità del Palazzo, in vista dei suoi impegni futuri, Agamennone afferma che le decisioni saranno prese “insieme in assemblea”16. Di riflesso a quanto si stava svolgendo in Atene, nella ridistribuzione del potere tra governanti e cittadini, in Agamennone, la gerarchia presupposta dal suo ruolo, dalla sua origine è incrinata, o meglio riequilibrata dal nuovo soggetto emergente nella città, il demos, con cui l’antico re entra in dialogo. Questa compresenza di elementi antitetici è un aspetto ricorrente della tragedia, è una struttura essenziale che ne compone la drammaturgia. Gli esempi potrebbero essere molti, seguendo via via le tracce tematiche differenti che concorrono alla tessitura della trama. Sembra non esserci figura, concetto, aggettivo che non sia composto in immagine con la sua antitesi o con un ulteriore elemento che ne impedisca la lettura univoca. Così la personalità del protagonista principale di Agamennone, che Eschilo decide essere Clitemnestra17, diversamente dalle altre varianti del mito, anche 14 15 16 17

Centanni 2003, p. XXI. Vernant [1957] 2008, p. 406. Eschilo, Agamennone 845. Per tutte le citazioni da Eschilo si fa riferimento alla traduzione di Monica Centanni. Sul ruolo di Clitemnestra nell’Agamennone si veda Centanni 2013.

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rispetto a Omero dove è solo complice del delitto di seguito a Egisto, è qualificata da un ossimoro: la Guardia nel prologo si riferisce al “cuore maschio della Signora” che comanda, dando così una prima connotazione al personaggio. Questa doppiezza della sua figura si dipana lungo tutta la tragedia polarizzandosi di volta in volta con le figure maschili in gioco, Agamennone in primis, ma anche Egisto, che incarnano quindi a loro volta, in doppio con il maschile rappresentato da Clitemnestra, qualità particolari del femminile. La regina, sostituendosi al re spodestato, sembra condensare nella sua figura l’eredità maschile dell’uomo che esercita il potere sul regno con l’eredità femminile personificata dalla figura dell’Erinni, detentrice della giustizia arcaica del genos; come si evince dall’ultimo atto della trilogia, Eumenidi, è infatti questa giustizia arcaica il vecchio re da spodestare, e sarà spodestata dalla nuova giustizia della polis. Questo potrebbe giustificare la scelta di Eschilo di mettere Clitemnestra al centro dell’azione tragica, di inventare questa particolare variazione del mito, di mettere cioè una donna, per quanto ‘uomo’, per quanto “dal maschile cuore”, al timone dell’azione, nella prima parte della trilogia. Clitemnestra soprattutto alla fine della tragedia è nel profondo Erinni, le figlie della Notte che puliscono il sangue con il sangue, i demoni che hanno una genealogia totalmente materna e si scontrano con il diritto paterno. Egisto, il nuovo compagno che in qualche modo ne completa la figura, rappresenta l’esito estremo del dispotismo tirannico, che ad Atene il nuovo assetto politico bandirà. Nel dramma i conflitti culturali che la società vive si trovano espressi polarmente incarnati nelle persone che lo animano e nel linguaggio che veicolano. Se ne possono fare molti di esempi, a cominciare dalla parola dike, e dai suoi composti disseminati nel testo. Dike ricorre spessissimo in tutta la trilogia caricandosi di volta in volta di significati diversi, con sfumature di senso che si approssimano variamente alla polarità semantica principale: è la giustizia che si colora di vendetta per i torti subiti, quella perpetrata dalle Erinni che intervengono nei delitti tra consanguinei; ma dike è anche la giustizia che, sotto la tutela delle nuove divinità olimpiche, fonda il diritto civile, la giustizia pattuita tra cittadini come esito di un processo istituito tra soggetti che si fanno egualmente parti in causa. Eschilo, che vede da giovane l’avvento della nuova forma politica che si chiamerà democrazia, mette in scena quanto si stava compiendo in Atene, il ridimensionamento dei poteri degli Areopagiti e quindi la questione delle competenze dell’Areopago. Come afferma Monica Centanni: “Eschilo propizia la salvaguardia dello spirito dell’istituzione e, facendosi portavoce dell’indirizzo pericleo, propone un nuovo ruolo agli Areopagiti che vedono riconosciuta, proprio nel restringimento

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delle loro funzioni, la residuale competenza ratione materiae sui delitti di sangue”18. Dike, per bocca dei personaggi della tragedia si colora via via di sfumature diverse, nell’Agamennone, vive del contrappunto con il significato di themis, “il nome della giustizia fondata”. Nella parodo, riferito per bocca del Coro è il discorso risolutivo di Agamennone in merito al sacrificio della figlia Ifigenia in cui giustizia-themis è quanto si impone in modo irrevocabile (v. 217). Più oltre, sempre per bocca del Coro, giustizia-dike indica l’equilibrio tra le parti, nello specifico giustizia è ciò che rende sapere in cambio di sofferenza (v. 250), coerentemente al detto ricorrente in Eschilo del πάθει μάθος, la conoscenza acquisita per mezzo del dolore. E sempre nell’Agamennone, disgiunta dal contrappunto con themis, dike oltre a confermare in vari passaggi il significato di giustizia come equilibrio tra le parti, si colora, per bocca di Clitemnestra, della giustizia che ha ricondotto a casa Agamennone (v. 910), in accordo con quanto affermato precedentemente dallo stesso re (v. 810) ma, nello stesso tempo, in questa accezione, si riverbera il senso della giustizia come Erinni-vendetta espressa dal Coro19. Dike è infine nell’esodo contesa tra la regina, il Coro ed Egisto20, ciascuno la rivendica per sé con sfumature semantiche inevitabilmente diverse: in Clitemnestra è la giustezza della sua colpevolezza, del suo atto assassino, la sua mano è “matrice di giustizia” (v. 1406), e giustizia ancora una volta è associata a Erinni (vv. 1432-3); per il Coro giustizia è la punizione di cui si fa paladino, che dovrebbe abbattersi sull’assassina, e successivamente rispetto al controbattere di questa, è l’ingiustizia del compianto che la stessa Clitemnestra intende rendere al morto. Infine c’è la giustizia di Egisto che rivendica per sé come vendicatore dei delitti della stirpe micenea; la giustizia che poi il Coro, in atto punitivo nei confronti del nuovo re, giudica inguaribilmente “imbrattata”. Nelle Coefore la parola dike sarà per voce di Elettra, nel primo episodio, a porsi nuovamente, questa volta con esplicito riferimento al doppio significato che riverbera in tutta la trilogia: la domanda che la fanciulla rivolge alla Corifea riguarda la qualificazione di chi si invoca che giunga ad Argo come “giudice” o “giustiziere” (v. 120), quindi come chi agisce in nome di vendetta o meno. Fatta eccezione per questo verso, a cui il Coro risponde in sostegno della causa di vendetta, in tutta la tragedia, il senso della parola giustizia sarà principalmente di pertinenza del Coro. Sempre nel 18 19 20

Centanni 2003, p. XXXVI. Centanni 2003, p. 999. Centanni 2003, pp. 1028-1030.

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primo episodio, l’accezione di giustizia come vendetta è infatti esplicitata chiaramente dal Coro che, essendo costituito da donne troiane fatte schiave a seguito della conquista della città, è particolarmente incattivito con chi le sottomette. Il Coro non può che incitare i fratelli a compiere vendetta sulla coppia regale, a rispondere a “morte con morte”, a invocare la legge per cui il sangue versato chiama altro sangue (vv. 400-404). È la legge di Erinni, che viene invocata, e assieme a queste la legge della “cruenta Ate e della feroce Eris, la faida intestina”21. Sempre per bocca del Coro, nel primo stasimo, torna anche la contrapposizione tra dike e themis, che pur nella complessità della interpretazione, conferma la convinzione delle schiave Troiane che Oreste debba agire in nome di Erinni. Così nel terzo stasimo il Coro esulta in nome di dike per suggellare l’atto di Oreste: la morte dei padroni è festeggiata con canti che inneggiano a giustizia. Giustizia che di per sé è “pura da inganni” è stata oltraggiata dall’inganno ma ora, finalmente, con il compimento della vendetta, tutelata da Apollo, è tornata ad abitare la reggia, casa di Agamennone, liberandola. Nelle Eumenidi infine l’opposizione dei due sensi di intendere giustizia viene formalizzata nell’esito della fondazione dell’istituzione del processo in tribunale. Il Coro questa volta è costituito dalle Erinni che non semplicemente parteggiano per la giustizia-vendetta come poteva fare anche il Coro delle due precedenti tragedie, ma la incarnano, sono esse stesse la vendetta, e al pari di Oreste, sono protagoniste della tragedia; l’opposizione tra i due tipi di giustizia è esplicitata inequivocabilmente dai personaggi che sostengono o l’un significato o l’altro, salvo poi trovare mediazione, una sintesi di opposti, nella trasformazione stessa della natura del Coro da Erinni in Eumenidi. La parola dike appare quindi nella parodo per bocca delle Erinni in riferimento alla trasgressione della giustizia operata dalle nuove divinità (v. 163), le divinità olimpiche che violano la legge delle “dee antichissime”. Il doppio significato della parola giustizia si connota ulteriormente qui dello scarto tra il vecchio e nuovo, passato e presente. Il conflitto si annuncia nel dialogo serrato tra Apollo e Corifea nel primo episodio: per la divinità olimpica dike presiede il patto che suggella l’amore tra l’uomo e la donna (vv. 217-19), e su dike veglia Pallade Atena; per l’Erinni dike è la punizione che deve essere agita contro il matricida (v. 230). E però già in questo dialogo si compone e prefigura la scena di un processo. Oreste introduce ulteriormente il nuovo significato di dike, perché “perseguitato dal demone vendicatore” attende al cospetto di Atena “il compimento della giustizia” (vv. 235-243); la giustizia è inoltre associata al saper parlare e sa21

Centanni 2003, p. 1055.

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per tacere (vv. 277-78), ossia alle regole dialogiche che andranno a strutturare la modalità processuale della nuova giustizia, propria dell’istituzione del tribunale. Si riconfigurano qui per bocca di Oreste rispetto a un nuovo valore principi, quali l’uso delle parole opportune, già espressi sia nell’Agamennone che nelle Coefore per bocca di altri protagonisti22. Per voce di Atena dike trova la sua giusta collocazione nel consesso del tribunale; è la decisione dei giudici (v. 483), la giustizia dei migliori cittadini (v. 487) a fare da discrimine rispetto alla giustizia degli uomini in genere, e alla giustizia di themis (vv. 470-472), in nome della quale neppure la dea può appellarsi. Posta questa nuova collocazione di dike il conflitto finalmente può esplodere nel secondo stasimo per voce del Coro: la giustizia delle Erinni è minacciata da altra giustizia, tutto il corale è un’invocazione a dike, “Potere delle Erinni”, per scongiurarne la fine. Nel terzo e ultimo episodio della tragedia dike è agita nel processo delle parti in causa, le Erinni qui sono già sconfitte prima che la votazione porti a compimento il verdetto. L’Areopago, sotto i numi tutelari delle divinità olimpiche, è istituito e non c’è più spazio per la giustizia vendicativa delle Erinni, le dee antichissime. A questo punto la parola dike ha raggiunto l’univocità del significato, ma la sapienza di Eschilo ribadisce la necessità di mantenere le antitesi polari in equilibrio, per cui le Erinni, le figlie della Notte, per quanto sconfitte, trasformate in benevolenti (v. 992) – da cui il nome Eumenidi – troveranno dimora in città, troveranno collocazione nella polis coabitando con Atena; in questo modo l’ambiguità tragica non è eliminata, ma permane con tutto il suo portato di ambivalenza23. Ciò significa che il principio inestirpabile di cui sono portatrici, il “terrore” (δεινὸν), come un virus, viene incubato per garantire la salvezza della città; questo è il precetto delle Erinni, che affermano: “c’è un momento in cui è bene che ci sia terrore, che la paura stia a guardia dei pensieri” (vv. 517-518), ma è anche il precetto del nuovo nume tutelare della città, di Atena che così si rivolge al popolo dell’Attica: “Vi ordino di non cacciare fuori dalla città la potenza del terrore. Chi può stare nel giusto se non ha nulla da temere?” (vv. 698-699). Atena alla fine della trilogia insegna che il terrore “è un’energia di segno reversibile: la composizione della giustizia di Erinni insieme alla giustizia dell’Areopago è, nel suo complesso, la custodia del principio tremendo, trasformato in fondamento benefico”24.

22 23 24

Centanni 2003, p. 1106. Vernant [1969] 1976, p. 12. Centanni 2003, p. XXXVIII.

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Altro esempio significativo è la rete: un’immagine che ricorre molto frequentemente in tutta la trilogia mostrando il suo carattere ampiamente metaforico e polisemico. È possibile quindi tracciare, come si è fatto per il concetto capitale di dike, il differente uso del termine a seconda del contesto in cui viene collocato, rilevando le variazioni della sua significazione. A partire dalla prima parte della trilogia, dove la la rete risulta: “al centro del sistema retorico di tutti gli attori del dramma”25. L’immagine della rete appare in Agamennone per la prima volta nel primo stasimo, nelle parole del Corifeo, si tratta della “rete stretta” (v. 357) che la Notte amica ha gettato sulla rocca di Troia, favorendone la conquista; qui l’associazione con la notte fa della rete strumento per eccellenza dell’inganno. L’immagine della rete ricompare poi nelle parole di Clitemnestra che nel terzo episodio, accogliendo Agamennone davanti alla reggia, rievoca le sofferenze della sua attesa e, in riferimento al corpo del marito, usa l’espressione: “avrebbe più buchi di una rete” (v. 868); i buchi della rete metaforica evocata dalla regina sono le ferite che sarebbero state inferte sul suo corpo se avesse dato credito a tutte le false notizie che arrivavano alla reggia mentre il marito era combattente a Troia. Qui usata dalla futura assassina l’immagine risulta particolarmente sinistra perché preannuncia l’oggetto reale con cui il re verrà ucciso. Cassandra è più esplicita nel suo delirio profetico, nella visione che prefigura l’assassinio appare “la rete di Ade”, rete di morte, che però, afferma la profetessa subito dopo, è la rete di Clitemnestra (vv. 1116-1117). Nell’esodo l’immagine torna nelle parole della regina, dopo che si è compiuto il delitto, e quindi si svela anche l’inganno; la rete è usata nei suoi molteplici significati, rete di recinzione, rete da pesca, rete tessuto, rete trappola, tutti espressivi di un unico fine delittuoso; la rete è allora quella che è stata tramata e tesa per la rovina; è una rete “così alta” da non poter “essere scavalcata” (vv. 1375-1377); una rete “senza uscita, una rete da pesca … come fosse una fastosa veste funesta” (vv. 1382-83). Nei lamenti del Coro dei vecchi Argivi, davanti al corpo morto del re, torna poi l’espressione “in questa rete di ragno sei preso” (v. 1492), che condensa il senso dell’inganno e la realtà fisica dell’oggetto che è stato usato per ucciderlo. Infine è Egisto a usare per l’ultima volta il termine ponendo un rapporto esplicito tra il significato materiale dell’oggetto e la giustizia agita dalla funesta trama parentale che è ricaduta nel destino di Agamennone: la rete sono le “vesti tessute dalle Erinni” (v. 1580) che avvolgono il corpo morto del re e che più avanti saranno propriamente definite le “reti di dike” (v. 1611). 25

Centanni 2003, p. 1024.

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Nelle Coefore torna l’immagine della rete con un ulteriore significato, questa volta opposto, rispetto a quelli espressi nella tragedia precedente; per voce di Oreste, nel primo episodio, nel dialogo concitato con la sorella Elettra, la rete è usata metaforicamente nel suo significato marino per indicare la possibilità di salvezza che i figli hanno nei confronti dei padri: “come il sughero trascinano a galla la rete e dal fondo del mare traggono in salvo la maglia di lino” (vv. 506-508), qui la rete-corpo del re è portata in salvo, non trafitta a morte, come appare invece nell’Agamennone. Infine nelle Eumenidi l’immagine della rete torna nelle parole che la regina, ricomparsa in scena come Fantasma, rivolge alle Erinni addormentate: nel prologo la rete è la trappola da cui il re è riuscito a scappare senza sforzo, facendosi beffa di loro (vv. 112-113). Così come viene ribadito più avanti dalla lamentazione dello stesso Coro: “dalla rete è saltato via con un balzo, è fuggita la mia preda!” (vv. 147-148), quindi con un esito diametralmente opposto a quello dell’Agamennone. Ma la polarità semantica, lungi dal condensarsi solo nei nuclei principali, si riverbera in molti dettagli disseminati in tutta la drammaturgia della tragedia. Dettagli anche secondari, ma che sono evidentemente essenziali all’economia del tutto e indicativi oltre che dello stile di Eschilo, anche della peculiarità polisemica della parola mitica che la composizione drammatica ha il pregio di mettere in risalto, di evidenziare. Si possono portare ad esempio molti casi sparsi, attingendo a tutte e tre le tragedie. Nell’Agamennone, nel prologo, la gioia della Guardia, provocata dal segnale di “luce del fuoco” tanto atteso che rischiara le “tenebre” (vv. 2021) in cui versava oramai da un anno, si colora subito di un senso sinistro che preannuncia la tragedia imminente. I vecchi argivi che compongono il Coro, rimasti a casa proprio per lo status d’anzianità, hanno la “forza di un bambino appoggiata a un bastone” (v. 75), sono “più deboli di un bimbo”(v. 81). Il loro giudizio sulla guerra che si combatte da dieci anni si divide tra la totale adesione e la condanna dell’atto “empio impuro e sacrilego” di Agamennone nel sacrificare la figlia Ifigenia. Le loro memorie attingono a metafore ricche di vividi contrasti: per narrare il passato dei regnanti del popolo Acheo, il doppio trono della città di Argo e di Micene diviso tra Agamennone e Menelao è figurato da due aquile, “una scura, l’altra chiara sul dorso” che si avventano su di una lepre gravida e fanno scempio del ventre, portando morte lì dove la vita è sul nascere. Il loro è un “canto di lutto” in cui invocano però che “il bene trionfi su tutto”. Artemide viene invocata come la dea che “odia il pasto delle aquile” ma è invocata allo stesso tempo anche come Ecate, che vuole i sacrifici cruenti. Così, alla notizia certa della vittoria su Troia, il canto del Coro non è un esultare dei

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vincitori, ma la memoria delle conseguenze funeste subite dai vinti a causa dell’atto che provocò la guerra decennale; il pensiero è quindi in primis per chi ha subito la vittoria. Ma già da prima, nelle parole di Clitemnestra è anticipato il tema della doppiezza dell’evento che ha coinvolto Achei e Troiani, facendone vincitori e vinti: l’immagine che rende questa duplicità è quella dell’aceto e dell’olio versati nello stesso contenitore che non si mescolano al punto di confondersi. Sempre nelle parole di Clitemnestra c’è il riconoscimento del dolore dei vinti e accanto la memoria del dolore dei morti che appartiene anche a coloro che tornano vittoriosi. Nel secondo episodio, nelle parole dell’Araldo che porta la notizia della vittoria accanto ai ricordi delle molteplici sofferenze sopportate, il gioco del contrasto avviene tra l’evidenza del giorno felice e l’eventualità di annunciare cattive notizie: “è un giorno felice: non è bene contaminarlo con brutte notizie” (vv. 636-37), oppure: “io che porto buone notizie di salvezza …perché dovrei mescolare il bene con le disgrazie, e raccontare della tempesta che l’ira degli dei ha scatenato sugli Achei” (vv. 646-649). Il contrasto è giocato anche dalla scelta di parole che accostate risultano stridenti: la distesa del mare Egeo è descritta come “tutta fiorita” di “corpi di guerrieri achei e rottami di navi” (vv. 659-660), l’immagine del fiore e del cadavere si trovano qui accostate in un effetto contrastante. Il personaggio di Clitemnestra nell’Agamennone prima che arrivi all’atto decisivo dell’assassinio del marito è tutto giocato sulla doppiezza delle sue intenzioni, così, un’immagine su molte può renderne il senso: quando la regina dichiara la sua fedeltà al marito, figurandosi come “brava cagna della sua casa”, usa una metafora e dei termini che fanno presagire in modo sinistro gli sviluppi della vicenda: afferma che non ha conosciuto “il piacere, né diceria infamante per un altro uomo, più di quanto non conosca il bagno che tempra la lama di bronzo” (vv. 611-14); il riferimento sottile è alla tempra di un’altra spada, quella che proverà nell’acqua del bagno in cui di lì a poco si immergerà il re. Anche la figura di Elena, rievocata dal canto del Coro nel secondo stasimo, facendo leva sulla radice etimologica ἑλ- del nome, è tutta resa dall’ambiguità di personaggio seducente e incantevole e al tempo stesso portatore di distruzione; la doppiezza della sua figura è suggellata poi dalla parola κῆδος che indica sia il lutto che la parentela, le nozze: “Poi a Ilio quelle nozze consonanti al suo nome…” (v. 700). Senza aver esaurito i possibili esempi da attingere dall’Agamennone, se ne possono portare altri tratti dalle Coefore dove, già dall’inizio, nella parodo, il Coro composto da schiave troiane esprime il dolore del lutto con accenti che si colorano di tinte contrastanti: il peplo che portano è da loro strappato a brandelli sul petto per “una sciagura che ha cancellato ogni gio-

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ia” (vv. 30-31). Riferendosi poi all’azione di Clitemnestra, ossia l’ordine di fare libagioni alla tomba del re per “scongiurare il male”, la nomina con l’espressione ossimorica “disgraziato atto di grazia” (v. 44) dove si condensa la doppia natura della regina assassina e del ministro del lutto, allo stesso modo di come aveva fatto il Coro di Argivi nell’Agamennone nominando come “grazia sgradita” (v. 1545) la volontà di Clitemnestra di fare il compianto funebre per il marito26. La sventura che si è abbattuta nella reggia è paragonata alle tenebre, al calare della notte che improvvisamente ha invaso la casa; il contrasto luce, ombra, notte ricorre frequentemente nel loro intervento intrecciandosi anche al contrasto giusto e ingiusto: “non c’è più sole: odiose tenebre avvolgono la reggia” (vv. 51-52); “ma la bilancia della Giustizia proietta la sua ombra rapida su quelli che si mettono in luce; mentre chi sta nella penombra {angoscia} attende di avere fortuna col passare del tempo; e altri vengono avvolti in una notte infinita” (vv. 61-65); “al giusto e all’ingiusto devo assentire” (v. 78). Più avanti nel primo episodio, nel dialogo con Elettra, il re assassinato è “il baluardo di ogni bene” per il quale, la loro difesa – i libami delle donne troiane – “scongiura ogni male”. Rivolta a Elettra la Corifea le chiede se da “più vecchia” quale è deve imparare da lei che è “più giovane”(v. 171). Più oltre Elettra riferendosi al dolore che la invade, nel riconoscere la ciocca di capelli del fratello, si riferisce alle lacrime che prima “diseccate” sono ora “irrefrenabili” (vv. 185-186); e ancora in un’immagine di speranza per i possibili sviluppi afferma come “da un piccolo seme può crescere un albero grande” (vv. 203-204). È di Oreste invece, nel momento del riconoscimento con la sorella, l’espressione che indica indirettamente, in due qualificazioni opposte, la madre comune: “sai bene che chi più dovrebbe volerci bene per noi è il più aspro nemico” (vv. 233-234). Senza avere esaurito gli esempi che si possono trarre da Coefore, è possibile ricavarne qualche altro di indicativo anche dalla terza parte della trilogia, Eumenidi. Nella prima parte della tragedia, nel prologo il contrasto è reso particolarmente evidente non tanto, o non solo, dalla scelta dei termini nelle parole dei protagonisti, quanto dalla stessa struttura drammaturgica, dalla scansione degli interventi dei personaggi che appaiono in scena. Si tratta di interventi molto diversi tra di loro, che sussistono indipendentemente l’uno dall’altro e risultano perciò giustapposti, compresenti simultaneamente; risultano, come ha notato Centanni, “portatori di tre sguardi, tre voci diverse sulla situazione mitica e drammatica e mettono in atto tre diversi modi di dire l’evento”27. Il primo intervento, quello della Profetessa, è 26 27

Centanni 2003, p. 1039. Centanni 2003, p. 1094.

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di per sé doppio in quanto, nella prima parte si limita a un’invocazione alle divinità venerate a Delfi, e nella seconda, improvvisamente fa entrare emotivamente nel cuore della vicenda perché rende partecipi in modo concitato di quanto le sta di fronte agli occhi: Oreste supplice sull’omphalos con le mani insanguinate e attorno i demoni delle Erinni addormentati. Il secondo intervento è quello di Apollo che si rivolge ad Oreste per rassicurarlo e invitarlo ad andare ad Atene. Infine il terzo intervento è del Fantasma di Clitemnestra che si rivolge ai demoni dormienti nel tentativo di risvegliarli e aizzarli contro Oreste. E anche all’interno di questi tre interventi, nelle scelte linguistiche di Eschilo, si possono individuare alcuni esempi di polarità semantiche. La Sacerdotessa, quando descrive la scena che le si presenta davanti agli occhi, riferendosi alla sensazione di debolezza che la prende afferma: “è niente una vecchia impaurita, è debole come un bimbo” (v. 38). Apollo a Oreste che gli chiede protezione, risponde con questa espressione: “non ti tradirò, fino in fondo ti proteggerò. Sarò con te quando sarò vicino, sarò con te quando sarò lontano; e non sarò tenero con i tuoi nemici” (vv. 64-66). Le furie sono nominate dal dio “fanciulle decrepite, antiche bambine” (vv. 68-69). Clitemnestra rivolgendosi alle Erinni dormienti per risvegliare la loro consapevolezza afferma: “Quando la mente dorme, il suo occhio lampeggia dal profondo e vede più chiaro {alla luce del giorno il destino dei mortali non si lascia scrutare}” (vv. 103-104). La costruzione della polarità semantica attraverso l’uso di parole di segno opposto simultaneamente presenti, ossia giustapposte, all’interno di uno stesso discorso di pertinenza di un personaggio piuttosto che di un altro, risulta quindi essere uno dei segni distintivi dello stile di Eschilo. Questo si compone nell’abbondante uso di metafore che, proponendo accostamenti inusuali, danno vita a immagini, a figure del pensiero vivide, dialettiche. Come ha osservato Centanni, non si tratta di similitudini, che sono più di pertinenza della scrittura epica, dove il paragone collegando tra loro figure diverse e distanti mantiene pur salda la loro identità, ma si tratta nella scrittura drammaturgica tragica di Eschilo dell’uso della metafora che “invece sfonda bruscamente i recinti di pertinenza dei termini e confonde con prepotente efficacia figurativa i singoli ambiti semantici”28. L’identità dei singoli elementi in gioco è messa in discussione dalla compresenza, dalla presenza simultanea, non mediata, di altri termini, senza che vi sia il loro annullamento, ma un effetto di insieme da cui scaturisce un’immagine, una visione complessiva. Semplicità, essenzialità e complessità risultano assolutamente commiste nel genio poetico di Eschilo, così come superficie 28

Centanni 2003, p. 1199.

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e profondità sono comunicate contemporaneamente in uno stesso quadro. Il contrasto, l’attrito, il contrappunto che sono l’effetto della giustapposizione semantica, fungono da indicatori di senso che creano e dirigono il movimento del dramma: sono il motore che dà energia all’azione, gli snodi, i nessi lungo i quali si conduce e si alimenta l’azione dipanandosi via via nello svolgimento della trama. La struttura del dramma, nella disposizione alternata di scene in sequenza e interventi dei personaggi, è l’altro elemento fondamentale che concorre a dare forma allo stile, a contenere, articolandola a livello micro e macroscopico, la peculiarità semantica polare della scrittura eschilea. Così come lo è a volte il contrasto leggibile tra la forma lessicale e il contenuto che intende veicolare. La percezione della polarità semantica, nei contenuti come nella forma lessicale drammaturgica, è possibile solo da una prospettiva aperta a una visione d’insieme, che consideri la tragedia nel suo dipanarsi globale; la parzialità dell’ottica infatti impedirebbe la percezione delle differenze rimanendo chiusa nell’isolamento di un singolo elemento. La composizione delle parti nel suo insieme è leggibile anzitutto nella scansione e alternanza concatenata di prologo, parodo, episodi, stasimi, esodo e, a un ulteriore livello più interno di lettura, è rinvenibile in ciascuna di queste parti, nella scansione della forma lessicale che caratterizza di volta in volta gli interventi lirici o recitativi dei diversi personaggi; quindi, nell’alternarsi ad incastro del parlato rispetto al canto e al recitativo: le rhesis, i brani, i dialoghi sticomitici, i canti e i corali con diversificata composizione strofica e relativa variazione ritmica del metro che ne caratterizza i versi. L’alternarsi e l’incastrarsi di tutte queste parti, all’interno delle quali si riverbera in un continuo gioco di rimandi la polarità semantica, danno il ritmo del tempo e la collocazione nello spazio, ossia strutturano il movimento della composizione tragica nella sua dimensione temporale e spaziale, per dare forma all’accadimento, allo svolgimento dell’azione. La composizione formale del dramma tragico appare quindi, a partire da Eschilo, “un’articolazione progressiva di movimenti”29, e sarà peculiarità dei poeti drammatici mettere “le immagini in movimento”30. La staticità propria dell’unità viene vanificata nella scansione e distribuzione degli elementi che vengono composti dialetticamente nel dramma ed entrano così in relazione. La trama si compone di una molteplicità di parti, incarnate nei personaggi, che prendono posizione, il loro alternarsi è espressione delle loro ragioni, del loro essere, della loro identità; la collocazione decide della 29 30

Centanni 2003, p. XLVII. Centanni 2003, p. XLVII.

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loro presa di posizione e la dynamis che tale composizione provoca innesca il movimento, lo sviluppo dell’azione. In questo senso è da leggere l’affermazione di Aristotele secondo cui il mythos, che è composizione di fatti è al tempo stesso imitazione dell’azione31, ossia riproduce nella composizione drammaturgica dei fatti in scena l’accadere degli eventi.

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III. Persiani: il rovesciamento prospettico Altra tragedia esemplare ai fini dell’indagine è i Persiani. Si tratta del primo componimento tragico di Eschilo conservato e, a differenza dell’Orestea che trae spunto da un frammento mitico per innestarlo e svolgerlo nel contesto storico della città di Atene, ha come argomento un fatto che per il drammaturgo e i cittadini dell’epoca apparteneva al passato recente, trattando di una vicenda realmente accaduta e vicina nel tempo. Ma come si cercherà di dimostrare, l’uso di un soggetto mitico o storico come spunto, come punto di partenza di una creazione drammaturgica è una questione inesistente per l’epoca in cui il discorso storico doveva ancora porsi ed è secondario rispetto alla finalità ultima dell’operazione creativa. La vicenda in oggetto nei Persiani non solo è realmente accaduta ma anche molto vicina temporalmente rispetto all’anno della messa in scena che è il 472 a. C., perché, la battaglia che Eschilo decide di rappresentare nella tragedia è quella navale, combattuta a Salamina nel 480, che vede i Persiani sconfitti dalla flotta ateniese. La tragedia viene messa in scena nel teatro di Dioniso ad Atene, la città che ha subito l’invasione del nemico, che è stata scenario di guerra lo stesso anno della vittoria navale di Salamina. L’Acropoli è fatta bruciare da Serse, è offesa dallo stesso re persiano che, vincitore ad Atene, sarà vittima a Salamina; e probabilmente, otto anni dopo, la fortezza porta ancora i segni delle ferite subite, segni freschi nella memoria dei cittadini oltre che visibili a occhio nudo. Eschilo, che come una buona parte dei cittadini ha preso parte alle battaglie e ne è sopravvissuto, anche in questa tragedia vuole rappresentare un conflitto, quello tra Greci e Persiani, e lo rende con una strategia drammaturgica estremamente efficace: è il nemico, sono i Persiani, a mettere in scena la sconfitta subita di fronte a un pubblico che è vittorioso pur avendo sperimentato la violenza dell’offesa. Anche in questa opera il tragediografo mette in azione un meccanismo di polarità semantica che, oltre ad essere leggibile all’interno del testo nella 31

Aristotele, Poetica 49 b 36 - 50 a 4.

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scelta del lessico, anche se forse in forma minore rispetto all’Orestea che è più tarda, è soprattutto giocato nel rovesciamento di prospettiva. Accade che la vittoria, perché è questa che prevale nel vissuto dello spettatore, dell’ateniese, sia raccontata dalla versione rovesciata degli sconfitti, quindi nella tragedia vittoria e sconfitta entrano in un conflitto polare illuminandosi a vicenda. La vicenda è narrata da chi, convinto di vincere, si è trovato invece sconfitto; tutti i personaggi del dramma sono Persiani, lo sono i protagonisti, figure realmente esistite, membri della famiglia reale, e lo sono gli abitanti del regno che impersonano il Coro degli anziani; anche la scena è reale nel suo essere persiana, prevalentemente costruita dalla stessa tenda di Serse32, il trofeo di guerra utilizzato come scenografia. Lo spettatore, l’ateniese vincitore è indotto a mettersi nei panni dell’attore, del nemico persiano sconfitto; è indotto a mettersi nei panni dell’altro. Quello che viene messo in crisi dal meccanismo drammaturgico di Eschilo è l’univocità dello sguardo: la rappresentazione non può provocare un “compiacimento univoco”33, non è l’autocelebrazione dei vincitori, ma il compatimento dell’altro, la condivisione del dolore, provocato anche in virtù della memoria fresca per la sconfitta che l’ateniese serba in cuore. E l’altro posto a confronto non è solo l’avversario, ma il rappresentante di un mondo diverso: è la cultura, la civiltà da cui Atene si è difesa per salvare la propria libertà e identità; sono i Barbari, è l’Asia, l’Oriente da cui l’Occidente ha marcato i confini fondando la propria differenza. La battaglia di Salamina non è stata scelta a caso da Eschilo, la sconfitta dei Persiani è stata determinante per il destino di Atene e della Grecia tutta. Eschilo mette bene in scena il conflitto provocato dal confronto culturale, la differenza tra i due mondi; è tra questi due registri che si giocano le polarità semantiche interne al testo. Quindi in primis, la lingua greca della tragedia che crea un effetto contrastante inevitabile perché parlata dai personaggi, dai Barbari che non parlano greco; e per converso la lingua barbara che connota lessicalmente solo un lungo elenco di nomi di guerrieri partiti per la battaglia: “Dedakes”, “Tenagon”, “Lilaios”, “Arsames”…nomi che non possono che risultare stranieri per l’orecchio greco. E la lingua stride anche con il contenuto che comunica, usi e costumi che non appartengono ai cittadini d’Atene, ad esempio i frequenti riferimenti al valore metaforico e reale dell’oro, nelle architetture persiane, nell’abbigliamento regale, nelle origini della stirpe. Quelle che possono essere lette come “antinomie

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Centanni 2003, p. XII. Centanni 2003, p. XII.

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tra due sistemi culturali irriducibili”34 sono palpabili ad esempio nel botta e risposta tra la Regina e il Coro, lì dove Atossa, ignara di dove si trovi Atene, si fa istruire dai vecchi Persiani. Allora l’Ellade viene connotata nel suo differire rispetto alla Persia, all’Oriente, in tensione polare rispetto ad elementi propri della cultura persiana fatti emergere precedentemente: Atene è in Occidente, nella terra della sera, del tramonto (v. 232); i condottieri greci si distinguono per il valore, la qualità (vv. 236-237), non per il numero, la quantità di uomini che risulta invece essere un elemento spesso rivendicato dai persiani; la Grecia possiede una sola “vena d’argento” (v. 238), poche miniere da cui attingere il prezioso metallo, rispetto alla ricchezza d’oro che sfoggia la Persia; i greci non usano l’arco e la freccia come i barbari ma impugnano la lancia (v. 240) e combattono a piedi prediligendo invece lo scontro ravvicinato del corpo a corpo; i greci non hanno padroni, “si vantano di non essere schiavi di nessun uomo, sudditi di nessuno” (v. 242), a differenza della rigida gerarchia che struttura l’organizzazione militare e politica persiana. Ma ci sono immagini nel testo che condensano più di altre i due mondi in conflitto nella tragedia: accade ad esempio nel sogno premonitore della regina Atossa. Nell’immagine prefigurata nel sogno, Persia e Grecia, Oriente e Occidente sono incarnate in una figura di doppio, sono due sorelle, due donne, entrambe belle, vestite l’una di “vesti persiane” l’altra di “vesti doriche” e sono “sorelle di sangue, della stessa stirpe” (v. 186). Gli opposti, i nemici hanno una comune origine nell’allegoria della fratellanza, provengono dallo stesso seme; l’identità comune nell’origine Eschilo la esprime anche ricordando la genealogia persiana che riconosce Perseo, figlio di Danae, come capostipite (v. 145). L’unità in partenza risulta poi spezzata geograficamente dalla sorte, nel sogno di Atossa alle sorelle “era toccato in sorte” (v. 187) di abitare l’una la terra greca, l’altra la terra dei barbari. E le sorelle sono in contrasto, antitetiche l’una all’altra: nella memoria del sogno Atossa sembra dare a questo fatto il valore di un dettaglio secondario, come sopra è la leggerezza del caso che decide della distribuzione dei regni. Così le “parve di vedere” il contrasto, suo figlio Serse “se ne accorse”, come se il conflitto, messo in primo piano in tutta la tragedia, qui fosse passato come secondario rispetto al valore della fratellanza originaria o, nel meccanismo della premonizione, avesse per converso intenzionalmente valore di anticipare nella reticenza la catastrofe imminente. Persia e Grecia nel sogno reagiscono diversamente al tentativo di Serse di ammansirle, di legarle come cavalle al giogo di un carro per quietare la lite 34

Centanni 2003, p. 724.

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fraterna: la Grecia è ribelle, recalcitrante, la Persia docile e fiera di essere legata al giogo; la Grecia infine “spezza il giogo a metà” (v. 196) e provoca la caduta di Serse, e si prefigura quello che avverrà poi: il giovane figlio con la veste a brandelli alla presenza del padre che lo commisera. In questa immagine i fatti sono interpretati dal punto di vista del nemico, in modo molto differente quindi dall’immaginario greco, si tratta per l’appunto della “lettura necessaria alla rappresentazione tragica della complessità del conflitto”35, dove lo sguardo del vincitore e del vinto si ritrovano necessariamente congiunti. Alcune delle immagini usate dalla Regina nel sogno ricorrono in altri punti del testo, fungendo da catalizzatori della polarità semantica. È il caso del giogo che simbolizza anzitutto la modalità di gestire il potere proprio dei regnanti persiani, un potere assoluto, una monarchia che richiede la sudditanza totale, in aperto contrasto con il nuovo assetto politico che si va delineando in quel periodo nella polis greca. Il conflitto quindi è in primo luogo tra autocrazia barbara e libertà ellenica e questo emerge in molti passaggi della tragedia concentrandosi nell’immagine del giogo, che appare per la prima volta ripetutamente nella parodo come “giogo di schiavitù” che i Persiani si propongono di imporre “sul collo alla Grecia” (v. 50); come giogo che hanno “gettato sul collo del mare” dell’Ellesponto (v. 70; 130) per conquistarlo. Il giogo è anche il vincolo coniugale di cui le donne persiane soffrono l’allentamento, a causa dell’assenza del marito impegnato nella spedizione di guerra (v. 138). Il giogo è usato, come si è già visto, da Serse nel sogno di Atossa per legare le due donne, Persia e Grecia, al carro (v. 190), e in questa immagine sembra “un sigillo dello stile del potere di Serse”36, che ribadisce il significato principale di sudditanza emerso da subito nell’uso della parola fatto dal Coro; e appare in ultimo, ancora nelle parole del Coro alla fine del primo stasimo, nella consapevolezza della sconfitta, come il “giogo del potere” persiano oramai “sciolto” (v. 594). Anche la veste è un elemento che ricorre frequentemente nel testo caricandosi di sensi diversi. È un elemento fondante per la cultura persiana, carico di valore identitario, e infatti la si può immaginare addosso alla Regina all’inizio della tragedia, perché più avanti, nel secondo episodio quando la sconfitta aleggia nell’aria, siamo informati dalla stessa Regina del fatto che entra in scena “senza i carri né lo sfarzo di prima” (vv. 607-8). Così l’immagine di Serse che si strappa le vesti è presagita nel sogno della Regina, confermata dalla testimonianza del Messaggero che annuncia la disfatta e 35 36

Centanni 2003, p. 721. Centanni 2003, p. 721.

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riconosciuta infine dalla Regina come la peggiore delle disgrazie: sapere del “disdoro figlio” e delle “vesti stracciate che porta addosso” è quanto di peggio le possa accadere (vv. 846-8). La veste è un evidente simbolo del potere monarchico persiano, sconosciuta alla cultura greca, e l’esibizione della veste stracciata è segno di una regalità offesa e decaduta. Serse nell’esodo, nel pieno dell’afflizione, si rivolge al Coro mostrando le vesti di cui oramai non rimane più nulla, e dichiara di essersi “stracciato le vesti” di fronte alla vista della fuga della sua armata (v. 1030). Quello che era sfoggio di potere all’inizio della tragedia diviene quindi segno di disfatta alla fine; i simboli della cultura persiana di pari passo allo svolgersi dell’azione si caricano di valori antitetici, molti sono i segni che indicano questa trasformazione. Un esempio è l’immagine della ritirata persiana verso la fine del primo episodio, che risulta rovesciata rispetto all’immagine di marcia trionfale che emerge dal primo canto del Coro nella parodo37; così come il finale dell’esodo si chiude con un corteo funebre che segue il re dentro la reggia. Ma anche il mutamento dei caratteri dei personaggi è segno particolare della trasformazione che svela le antitesi. Come osserva Vernant appellandosi ad Aristotele, non è l’azione tragica “che si sviluppa conformemente alle esigenze di un carattere, è al contrario il carattere che deve piegarsi alle esigenze dell’azione, cioè del mythos”38; in questo modo, contro l’idea dell’unità di carattere, è affermata la complessità del personaggio che non è mai uguale a se stesso e che si trasforma collocandosi variamente nella articolazione polare della trama. Quindi le opposizioni semantiche in alcuni casi si distribuiscono in modo tale che sembrano dividere in due parti il testo, di pari passo alla mutata sorte dei protagonisti, e, in altri casi, come nell’Orestea, Eschilo fa uso contemporaneamente di termini con significati opposti, come ad esempio nel primo stasimo, dove l’immagine della disfatta è resa soprattutto con l’uso di metafore marine. Serse qui appare come la “guida” e al contempo la “rovina” (vv. 550-551), in opposizione anche a Dario che viene menzionato poco dopo come “l’invitto” (v. 555); guida e rovina si riferiscono anche alle navi dove si condensano nell’uso del termine “βᾶρις”, l’imbarcazione egiziana, l’immagine di un’imbarcazione esotica e di un veicolo funebre39; il contrasto si gioca inoltre tra l’immagine del mare “incorrotto”, incontaminato e i corpi “putridi” dei cadaveri in esso dispersi (vv. 576-78). 37 38 39

Centanni 2003, p. 736. Vernant [1969] 1976, p. 16. Centanni 2003, p. 738.

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Visibile in tutte queste sfaccettature disseminate nel testo, la polarità semantica ha però nei Persiani il nucleo focale nel meccanismo del rovesciamento di prospettiva ottenuto nel mettere in scena il nemico. Se come afferma Aristotele, il mito, a differenza della storia, dice gli universali è proprio l’universalità che Eschilo riesce ad esprimere attraverso questo espediente drammaturgico. È proprio il rovesciamento, in cui si condensa tutta la tensione della polarità semantica vincitori/vinti, che dà alla vicenda storica una dimensione mitica, ossia un valore universale che è il presupposto fondamentale del fine ultimo dell’operazione teatrale: la condivisione della rappresentazione da parte di un gruppo di persone che nel contesto di uno stesso spazio e di uno stesso momento sono una comunità. È quindi nel rovesciamento di prospettiva, reso dalla forma compositiva, che va individuato il meccanismo mitopoietico, la possibilità di fare mito, non tanto nella trasfigurazione dei fatti in un altrove leggendario come afferma Vernant40 analizzando il caso della drammaturgia eschilea in generale e dei Persiani in particolare. Per lo studioso, Eschilo ha la capacità di “assimilare i monarchi persiani e la loro corte al mondo degli eroi di un tempo”, in modo tale che “gli eventi ‘storici’ non sono presentati sulla scena che in un clima da leggenda” capaci di un riverbero che proviene da un “altrove lontanissimo”41. Nell’ambientazione persiana della tragedia Vernant legge la proiezione del passato mitico da cui la nuova civiltà ateniese si sta emancipando e giustifica in questi termini lo scarto tra mito e storia; e su questa base giustifica anche la differenza tra la messa in scena de La presa di Mileto di Frinico – tra le primissime opere del repertorio tragico – e quella di Eschilo. La prima precede di ventidue anni la seconda e, come i Persiani, ha per argomento un fatto storico; è “tragedia di attualità” perché rappresenta la disfatta della città greca di Mileto per mano dell’armata persiana. Però l’effetto della sua messa in scena di fronte a un pubblico greco fu, come riporta la testimonianza di Erodoto raccolta da Vernant, deleterio: l’impatto troppo forte provocò il pianto del pubblico e di conseguenza il divieto di rappresentare ancora il dramma, oltre alla punizione del drammaturgo “per aver ricordato delle sventure nazionali”. Secondo Vernant, all’alba del V secolo, quando la tragedia fa i suoi primi passi, i grandi eventi del tempo, i drammi della vita collettiva, le sventure che riguardano ogni cittadino non appaiono come suscettibili di essere trasportate sulla scena del teatro. Sono troppo vici-

40 41

Vernant [1979] 2011, p. 73. Vernant [1979] 2011, p. 73.

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ne, non permettono quel processo di distanziamento, quella trasposizione grazie a cui i sentimenti di terrore e pietà vengono trasferiti in un altro registro42.

Nei Persiani invece, sempre secondo Vernant, evidentemente questo altro registro Eschilo lo trova, ed è la capacità di mettere in scena il nucleo del dramma, ossia le sventure, come disgrazie non proprie del popolo greco ma “estranee e straniere” e la capacità di trasporre gli eventi storici nella dimensione del mito, ossia di assimilare i protagonisti della tragedia e le loro vicende al “mondo degli eroi di un tempo”. Evidentemente Vernant intende il mito come il passato eroico, leggendario, da cui la storia, e in particolare l’Atene del V secolo si emancipa, e questo coerentemente a una concezione consolidata che assimila il mito al pensiero primitivo. A partire da questa stessa premessa Vernant tiene distinto il mito dalla tragedia, interpretando la nascita del nuovo genere drammatico come un emergere conflittuale dal passato mitico. Secondo questa interpretazione la tragedia compare alla fine nel VI secolo quando il linguaggio del mito non ha più presa sulla realtà politica della città43 ed è rigettato da essa pur essendone al tempo stesso ancora parte. Che il conflitto sia un elemento essenziale della tragedia è quanto è emerso anche nell’analisi dell’Orestea; il conflitto tra culture diverse è l’elemento centrale nei Persiani, e l’assimilazione dei suoi protagonisti a figure divine, l’accusa di hybris che traspare dai versi di Eschilo contro la cultura persiana, è indice della volontà di porre uno scarto rispetto alla cultura greca che ha tutt’altro giudizio sulla forma di potere monarchico. Tragedia è propriamente rappresentazione del conflitto, è messa in scena della tensione dialettica che attraversa la realtà nelle sue molteplici sfaccettature e la messa in scena della trasformazione culturale in atto, che avviene attraverso il conflitto. Ma proprio questa è la capacità di “dire gli universali”, la capacità che Aristotele attribuisce al linguaggio mitico nel contesto teatrale della tragedia, è la funzione mitopoietica propria della tragedia. Il mito, riportato alla lezione aristotelica, non è quindi il passato leggendario da cui la storia si è emancipata, ma il mito nella tragedia è la capacità di contenere e riflettere gli opposti, i termini diversi, di riflettere quindi al contempo il passato leggendario e le nuove leggi dell’istituenda democrazia, e di contenerli per la capacità di dare parola e immagine alle polarità semantiche, così da rappresentare gli universali. Questa composizione di elementi in conflitto è ciò che qualifica la creazione drammaturgica e che può essere 42 43

Vernant [1979] 2011, p. 73. Vernant - Vidal-Naquet [1972] 1976, p. VII.

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riconosciuto, da uno sguardo che dall’oggi si affaccia al V secolo a. C., come il principio drammaturgico del montaggio. Del componimento di Frinico non è rimasto quasi nulla, non conosciamo la qualità della sua poesia e del suo stile, ma probabilmente il fatto che sia passato alla storia come una sorta di ‘psicodramma’ dipende dalla unidirezionalità della prospettiva che ha proposto facendo raccontare la storia di una disfatta da vittime a un pubblico di vittime. Evidentemente, a Frinico mancava quello scarto di prospettiva che è riuscito invece a creare il meccanismo drammaturgico di Eschilo, che non consiste tanto nella dislocazione in un mitico passato, ma nella capacità di dire gli universali nell’attualità, ossia di fare mito nel presente. La tragedia, per come è stata inventata da Eschilo ai suoi inizi, è capace di dire gli universali perché si rivolge a una comunità che condivide quanto viene messo in scena, quindi nella misura in cui è riflesso della polis, nella misura in cui spartisce con i cittadini, tutti assieme e ciascuno singolarmente, la rappresentazione della realtà in atto – e come nei casi analizzati dell’Orestea e dei Persiani la rappresentazione di mutamenti epocali in corso – la tragedia racconta gli universali. E la tragedia è capace di dire gli universali anche perché quanto mette in scena, quanto il drammaturgo compone, come si è visto, per giustapposizione di livelli semantici diversi e in tensione polare, non è l’assolutezza di un’unica prospettiva, di una definizione univoca, ma la possibilità di apertura a più prospettive, a una pluralità anche antitetica di ragioni, a uno spettro di significati in cui può riflettersi un uditorio altrettanto diversificato di singoli cittadini. IV. Ambivalenza e polarità semantica del mito È in questa complessa articolazione di piani che si legge l’ambiguità semantica che Vernant riconosce come proprium della tragedia raccogliendo e sviluppando l’indicazione di William Bedell Stanford44, e intravvedendo in essa anzitutto un dualismo, irrisolvibile nel contesto della polis greca del V secolo, tra l’orizzonte del mito e quello della città, del passato e del presente, del divino e dell’umano, personificati rispettivamente dalle figure degli eroi protagonisti e del coro. E assieme al dualismo in continua tensione, lo studioso riconosce come proprio della tragedia il “discorso duplice” cioè il “discorso ambiguo”, in cui la questione degli opposti è più 44

Cfr. Stanford [1939] 1972.

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stemperata nel versante della pluralità: individua infatti nella lingua dei tragici anche la presenza di una molteplicità di livelli più o meno distanti, e una profondità di lettura che si dipana su più piani contemporaneamente45. È la pluralità di significati differenti che acquistano le stesse parole in bocca a diversi personaggi che trasmette al pubblico il senso di “opacità e d’incomunicabilità” e la consapevolezza “che esistono in realtà due sensi possibili, o più”46. Se Vernant coglie nell’ambiguità il carattere proprio della tragedia, allo stesso modo lo attribuisce al mito, pur tenendo salda, a monte, la distinzione tra mito e tragedia. L’ambiguità risulta con evidenza caratterizzare il pensiero e linguaggio mitico se analizzato nella Grecia arcaica, nel momento in cui si fa strada il pensiero filosofico, anticipato, nello smarcarsi da esso, dalla fisica ionica dei presocratici, già critica nei confronti del “poetare” mitico a cui risponde con una prosa e una prima alternativa di discorso filosofico. Che sia la cosmogonia di Esiodo o la cosmologia filosofica dei primi fisici, la lotta degli opposti e la loro complementarietà sono il tratto comune che spiega la genesi del divino, della natura, dell’umano, ossia quello che viene anche pensato come illustrativo del passaggio da uno stato di caos a uno stato di ordine. La tensione tra gli opposti, la loro compresenza, la loro unione e il loro rovesciamento qualificano il concetto di ambiguità che caratterizza il pensiero mitico, sia che si tratti di relazioni tra divinità che tra elementi della physis. Lo scarto tra i due ordini di discorso si coglie nel grado di ‘astrazione’: i principi fisici non hanno più il volto personificato degli dei, ma, sempre meno qualificati in immagini, si compongono secondo elementi che seguono dinamiche polari. La coscienza di questo principio, coerentemente agli altri pensatori milesi, è espressa sapientemente da Eraclito nell’immagine del polemos, la guerra, l’opposizione in cui ogni cosa consiste e da cui è generata. L’opposto di ambiguità è univocità, ed è la definizione di questo concetto che soddisfa le prime esigenze della nascente filosofia. Parmenide è stato generalmente riconosciuto come il primo pensatore che ha spezzato la dinamica oppositiva polare propria dell’ambiguità del discorso mitico. Significativamente la sua responsabilità in merito è stata però ridimensionata a scapito dei suoi successori, in particolare rispetto al monismo eleatico di Zenone e Melisso47, ed è stato ricollocato al di qua dell’opposizione tra mythos e logos, così da poterlo definire al tempo stesso, per usare un’espres45 46 47

Vernant [1969] 1976, p. 23. Vernant [1970] 1976, p. 90. Reale [1991] 1992, p. 11.

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sione aristotelica, “philomythos e philosophos”48. Il proemio del Poema sulla natura, a lungo ignorato dai filosofi, è infatti composto dall’autore con vivide immagini che appartengono di pertinenza al discorso mitico piuttosto che logico; sono le cavalle guidate dalle figlie del Sole a condurre su di un carro il filosofo al cospetto della verità rivelata per bocca della Dea. Il resto dell’opera è composto secondo un diverso registro, in cui le immagini si riducono e prende piede il discorso filosofico: in questo duplice registro sta la ‘doppiezza’ di Parmenide. Il “solido cuore della Verità ben rotonda”49 è quanto la Dea nel proemio dichiara che il filosofo dovrà apprendere e prefigura quanto verrà svolto teoreticamente nel resto del poema. Il fatto che il filosofo di Elea abbia detrattori o sostenitori divisi sulla sua collocazione – basti pensare anche all’importanza che gli riconosce Severino50 intravedendo nell’essere parmenideo la parola più essenziale e più dimenticata di tutto il sapere occidentale – è sicuramente indice della sua ambiguità, oltre che dell’impossibilità, per chi interpreta, di sottrarsi al senso dettato più dalla prospettiva da cui lo osserva che dal significato oggettivo preteso nell’ideale di aderenza al dato storico. Certo è che in Parmenide, l’opposizione polare come proprium della composizione mitica viene trasposta nel dualismo tra essere e non essere, ossia, gli opposti ricondotti a queste due dimensioni perdono la tensione polare, non hanno più niente in comune e si negano a vicenda, con l’esito della supremazia dell’uno sull’altro che avviene nell’unità dell’essere. Con un ulteriore scarto di astrazione la physis dei fisici è tradotta dal filosofo di Elea nell’essere, tò ón, rispetto a cui – negato – può esserci solo il nulla, perché “l’essere è mentre il nulla non è” (fr. 6. vv.1-2), per cui “l’essere non è non-essere” e “il non essere non è”. Questa è la prima univocità di significato da cui prenderà le mosse il pensiero filosofico della cultura occidentale: è la prima volta che viene affermata una opposizione in cui uno dei due termini esclude assolutamente l’altro. Due quindi sono le vie del sapere che si possono pensare: la via della Persuasione che persegue la Verità per cui “l’essere è”, e l’altra “che non è” ed è per questo impercorribile (fr. 2). Nel Poema sulla natura la problematica dell’Essere e dell’Uno introdotta dal filosofo eleatico è alla base della speculazione metafisica che verrà. L’essere parmenideo è “ingenerato”, “imperituro”, “tutto intero nel suo insieme”, “immobile e senza fine”, “non è divisibile”, “tutto intero è uguale” (fr. 8); uno e identico in ogni 48 49 50

Ruggiu [1991] 1992, p. 23. Parmenide, Poema sulla natura fr. 1, 29. Cfr. Severino 1982.

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parte, contiene in sé tutte le differenze, e con esse la totalità del molteplice; se l’essere è il tutto, al di là dell’essere non vi è niente. La molteplicità e pluralità che le teorie della physis riconoscevano come qualità intrinseche della natura, in corrispondenza della molteplicità mitica espressa dalle genealogie divine, vengono incluse nella categoria logica dell’essere; e l’essere diventa il principale oggetto del pensiero che di conseguenza risulta prioritario rispetto alla realtà fisica. In Parmenide la polarità che sussiste ancora, nella seconda parte del poema, lì dove discute sulle “opinioni dei mortali” (δόξας), è però ricondotta all’unità dell’essere: la luce e la notte non hanno ragione di essere considerate opposte, come da opinione fallace, ma sono necessariamente unite nell’essere, infatti “tutto è pieno ugualmente di luce e di notte oscura, uguali ambedue, perché con nessuna delle due c’è il nulla” (πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτερ ων, ἐπει οὐδετέρωι μέτα μηδέν) 51. L’essere come lo intende Parmenide porterà i successori, e nello specifico il pensiero platonico, a svalutare l’esistenza del molteplice, ossia l’insieme delle cose tra loro differenti, perché l’affermazione del molteplice e con esso del diverso, equivarrebbe all’affermazione che il non essere è, ossia la negazione della verità incontrovertibile che sostiene l’opposizione assoluta tra essere e non essere. Anche la doxa, che in Parmenide ha senso solo in relazione all’essere e ha valore positivo52, acquisterà un’accezione totalmente negativa, come opinione fallace rispetto alla verità, in conseguenza della scissione tra essere intellegibile ed essere sensibile, perché conoscenza intermedia tra l’essere e il nulla. Platone, per cui Parmenide è stato padre spirituale, coerentemente con questo assunto proseguirà nell’affermare la negazione del molteplice su altri piani, e Aristotele sempre coerentemente a questo passaggio, se afferma l’essere come avente molteplici significati, perché “detto in molti modi” (pollakôs legomenon), contraddicendo l’unità di senso dell’essere parmenideo, teorizzerà anche il principio di identità e non contraddizione, che sarà il presupposto fondativo dell’univocità di significato, infatti con esso si formula che “è impossibile che la stessa cosa convenga e insieme non convenga a una stessa cosa e per il medesimo rispetto”53. È il principio che Aristotele considera più saldo di tutti perché “è impossibile che uno stesso creda, a un tempo, che la stessa cosa sia e non sia”, quindi confuta di necessità chi lo nega, e per questo non ha bisogno di dimostrazione. Su questa base il principio fonda i concetti basilari della 51 52 53

Parmenide, Poema sulla natura fr. 9, 67-69. Cfr. Ruggiu [1991] 1992, p. 36. Aristotele, Metafisica IV 3.

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metafisica ontologica, quelli di sostanza ed essenza; e inoltre implica come suo corollario il principio del ‘terzo escluso’, secondo cui, tra le due parti della contraddizione non può esistere un termine medio. L’essere quindi è detto in molti modi, ma sempre a partire da un unico presunto nocciolo di identità. Sulla base della stessa premessa parmenidea anche l’esistenza del divenire è inevitabilmente negata, perché ammettere la generazione e distruzione implicherebbe il passaggio dall’essere al non essere, che non è permesso dall’opposizione assoluta dei due termini a favore del primo. Il divenire che è proprio delle trasformazioni del cosmo, dell’accadere, del nascere, morire, mutare, del rovesciarsi nell’opposto, diventa un’opinione senza verità. Se l’essere parmenideo contiene come totalità tutte le determinazioni, il passo successivo sarà la negazione della possibilità del suo moltiplicarsi e divenire perché ciò metterebbe in discussione l’inviolabilità della sua unità originaria che è totalizzante; è una unità da cui non può separarsi alcuna parte, se non mettendosi in contraddizione. L’acquisizione del concetto di essere è quindi avvenuta a discapito della pluralità dell’esistente. La non contraddizione è tutt’uno con la logicità del discorso, e come afferma Vernant, “la dottrina di Parmenide segna il momento in cui è proclamata la contraddizione fra il divenire del mondo sensibile e le esigenze logiche del pensiero”54. È evidentemente il registro logico a decidere della verità del discorso, ossia la verità è subordinata alla correttezza dell’argomentazione, e questo è il principio del logos, del pensiero razionale che nella storia della filosofia si è voluto contrapporre al pensiero mitico; per quanto, come afferma Marcel Detienne, la parola mythos sarà sinonimo di logos per tutto il VI secolo e ancora nella prima metà del V55. L’univocità di significato è quindi uno dei primi traguardi del nascente pensiero filosofico e da subito associato al concetto di universalità; la domanda “τί εστίν;” “che cos’è una cosa?” chiede in risposta l’identità non contraddittoria della stessa e fonda attraverso il concetto di essenza la questione ontologica relativa all’universale che sarà determinante per lo sviluppo del pensiero occidentale. Definire significa infatti, secondo Friedrich Nietzsche – il filosofo che per primo ha profetizzato il valore della parola mitica per il pensiero delle generazioni a venire – porre fine al significato delle cose, perché la logica, smascherata, non è altro che “l’arte della designazione non equivoca”56. 54 55 56

Vernant [1957] 2008, p. 413. Cfr. Detienne [1981] 1983. Nietzsche [1906] 1975, p. 292.

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Però, ai fini dell’indagine, il concetto di universale (καθόλou), che in accordo con l’affermazione aristotelica nella Poetica – e non con l’Aristotele degli Analitici posteriori dove la questione dell’universale è affrontata da un’altra prospettiva – è attribuito al pensare mitico poetico, va nettamente smarcato da quello di univocità. Di fatto, nella storia della filosofia gli universali della poesia sono stati considerati, come testimoniano anche le parole di Paul Ricoeur, “di un livello inferiore rispetto a quelli della logica e del pensiero teorico”57. L’universalità va quindi smarcata dalla sua riduzione in univocità e individuata prima della sua cristallizzazione nell’essenza e nel concetto dove l’accidentale e il transeunte sono esclusi, e ricondotta all’immagine, alla dimensione del vedere e del percepire. L’universalità del pensiero mitico non chiede univocità di significato, ma consiste nell’ambiguità della sua natura che contiene la differenza senza negarla. E questa universalità, nel contesto della dimensione teatrale, è possibile sulla base della condivisione collettiva dell’ambiguità mitica veicolata dalle parole e dalle immagini che rifrangono differenze. Ma assieme a questa c’è anche un’altra accezione con cui intendere l’universalità: è quella che si percepisce come eventualità sempre aperta dell’accadere dell’evento, precisamente quella “necessità” o “possibilità” dell’accadere dell’evento, così come è detta nella Poetica o come, con stesso senso, è detta da Salustio nell’‘aureo libello’ Sugli dei e il mondo: “E queste cose non avvennero mai, ma sono sempre: l’intelligenza le vede tutte assieme in un istante, la parola le percorre e le espone in successione (ταῦτα δὲ ἐγένετο μὲν οὐδέποτε, ἔστι δὲ ἀεί· καὶ ὁ μὲν νοῦς ἅμα πάντα ὁρᾷ, ὁ δὲ λόγος τὰ μὲν πρῶτα τὰ δὲ δεύτερα λέγει.)”58. Nell’accadimento c’è allora l’identità dell’evento, ossia, la possibilità del suo ripetersi che è uguale per tutti, condiviso da tutti e percepito con l’intelligenza della vista capace di coglierlo con lo sguardo subitaneo della visione d’insieme. Significativamente, al di fuori e prima dell’astrazione concettuale filosofica, non è tanto l’universo l’oggetto del mito ma il cosmo, e le teogonie e cosmogonie si costruiscono su visioni del kosmos, su una percezione tutta sensibile del cosmo che si verifica soprattutto come visione. La parola universo, come ha giustamente affermato Hillman, rivela l’etimologia del termine latino universum ossia ciò che è “volto in una sola direzione e quindi ‘tutto intero’”59, dove l’interezza, nell’intenzione di dare una visione unita57 58 59

Ricoeur 1994, p. 173. Salustio, Sugli dei e il mondo IV 8, 26-29. Hillman [1989] 1996, p. 67.

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ria di un tutto genericamente inteso, è concepita a discapito del particolare sensibile che è invece interesse del kosmos. La parola greca kosmos, traducibile come ‘buon ordine’ – cosmo è anzitutto quanto emerge dal chaos – è recuperato da Hillman a partire dall’uso che viene fatto sia da Eschilo che da Omero e indica la “giusta collocazione delle cose molteplici nel mondo, la loro sistemazione ordinata”, condensando così un valore estetico oltre che etico. Nel kosmos quindi il particolare e il molteplice trovano collocazione avendo in sé la loro intrinseca intelligibilità e intrinseco ordine, senza necessitare di una superiore spiegazione che renda loro ragione. In questo contesto chaos non è da intendere nel significato di disordine, ma di apertura; il chaos, che appartiene alla radice χα – χαίνο, χάσκω: ‘mi apro’, ‘mi dischiudo’ – è apertura alla eventualità del mondo nella molteplicità delle sue manifestazioni; chaos in questi termini è comprensibile solo all’interno di una concezione ‘cosmica’ e non universalistica della natura. Il caos non è il disordine che la totalità unitaria, come ordine monoteista del mondo, deve controllare in quanto sua negazione; ma, in un ordine politeista del mondo, il caos è la manifestazione del molteplice empirico, l’offrirsi all’umano della varietà naturale. Il cosmo è sufficiente a se stesso, nulla accade fuori da esso, o meglio è a esso preesistente per giustificarne l’esistenza: né una realtà trascendente, come il mondo ideale platonico, né un creatore rispetto a cui il mondo è creatura, come il Dio della tradizione monoteista ebraico-cristiana. Se è rinvenibile un monismo classico, questo si fonda su di un’idea di unità senza trascendenza, un’unità che non è un’entità separata dal mondo e autosufficiente, ma che si articola in connessione con le altre parti: il medesimo è il dispiegarsi della differenza e ciascuna parte è a misura dell’altra. Nella physis, intesa nel senso greco del termine, tutto è natura e parte di natura, e ogni cosa però si differenzia continuamente in essa; dei e uomini si generano nel processo del divenire, di modo che ogni cosa è metamorfosi della medesima physis. Ogni determinazione è percepita come parte e momento della totalità molteplice e illimitata che si differenzia nella metamorfosi continua. È per questo che si può affermare con Giorgio Agamben che “il problema centrale della conoscenza non è, per l’antichità, quello del rapporto fra un soggetto e un oggetto, ma quello del rapporto tra l’uno e il molteplice”60, perché in una dimensione cosmica è la categoria della relazione a governare i rapporti nel mondo, non quello dell’essenza o della sostanza.

60

Agamben [1978] 2010, p. 12.

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L’associazione del concetto di univocità a quello di universalità attraverso la mediazione del pensiero logico è un legame che è rimasto saldo lungo tutto il corso del pensiero occidentale, attraversando epoche, autori e indirizzi filosofici diversi. Uno scarto significativo però si è avuto in epoca contemporanea con Ludwig Wittgenstein che, introducendo l’idea di “somiglianze di famiglia” ha posto la questione dell’universalità, per la prima volta nel contesto filosofico, da un punto di vista differente. Infatti nelle Ricerche Filosofiche, applicando la riflessione all’ambito dell’analisi dei giochi linguistici, Wittgenstein muove il suo affondo teoretico sul problema che tocca nel vivo la questione dell’identità concettuale in relazione all’universalità, perché l’idea delle somiglianze di famiglia mina proprio l’equazione che lega l’identità, espressa nel concetto di essenza, all’universalità. Wittgenstein significativamente propone di scavalcare il problema logico e di aprirsi a una prospettiva visiva, quindi, come esempio, alla domanda su cosa accomuna una molteplicità di giochi, intesi come giochi di carte, gare sportive, giochi a palla ecc…, risponde: “Non dire: «Deve esserci qualcosa di comune a tutti altrimenti non si chiamerebbero ‘giochi’» – ma guarda se ci sia qualcosa di comune a tutti. – Infatti, se li osservi, non vedrai certamente qualche cosa che sia comune a tutti, ma vedrai somiglianze, parentele, e anzi ne vedrai tutta una serie. Come ho detto: non pensare, ma osserva!”61. Se si volge questa osservazione alla molteplicità di casi presi in esame alla fine ne risulterà “una rete complicata di somiglianze che si sovrappongono e si incrociano a vicenda”. A questa rete di somiglianze Wittgenstein dà il nome di “somiglianze di famiglia”, intendendo “le varie somiglianze che sussistono tra i membri di una famiglia si sovrappongono e s’incrociano nello stesso modo: corporatura, tratti del volto, colore degli occhi, modo di camminare, temperamento, ecc.”; per cui “i giochi formano una famiglia”. Un’immagine a cui fa riferimento Wittgenstein per rendere il significato di questa rete di somiglianze è quella della tessitura del filo: “nel tessere un filo, intrecciamo fibra con fibra. E la robustezza del filo non è data dal fatto che una fibra corre per tutta la sua lunghezza, ma dal sovrapporsi di molte fibre una all’altra”62. Quindi, per tornare all’argomento che nelle Ricerche ha stimolato la questione, invece di mostrare ciò che è comune a quanto si definisce linguaggio, riconducendo fenomeni diversi a una stessa parola, e individuando in essa la forma generale o l’essenza, Wittgenstein osserva con lo sguardo come fenomeni diversi sono imparentati l’uno con l’altro in modi differenti. 61 62

Wittgenstein [1953] 1974, pp. 46-47; corsivo di chi scrive. Wittgenstein [1953] 1974, pp. 46-47.

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Il concetto di identità fondato sulla sostanzialità, l’ousia su cui si è basata la questione ontologica degli universali, viene così sgretolato da una prospettiva che recupera il potere gnoseologico dello sguardo e riporta a una dimensione che rovescia il rapporto tra unità e molteplicità. La scelta di introdurre l’idea di famiglia non risulta casuale se la si riconduce allo stesso meccanismo di rapporti implicato nel significato di genealogia, che è proprio della visione del mondo ellenica e si colloca nel contesto del pensiero mitico dando forma alle teogonie e, almeno nel meccanismo delle relazioni tra gli elementi in gioco, alle cosmologie.

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V. Genealogia, identità nel molteplice differente È rispetto all’ordine che si struttura all’interno dei rapporti genealogici che va individuata la relazione tra particolare e universale implicata nel mito: in quest’ordine infatti, l’identità risulterà riverberarsi sempre e solo nella costellazione del molteplice differente, e sarà quindi rovesciato il rapporto tra l’uno e i molti: non l’unità che contiene il molteplice ma il molteplice che contiene al suo interno l’unità. È infatti nell’articolarsi genealogico, nell’emergere di un ordine dal caos, nella trasformazione da un elemento a un altro che si dipanano i rapporti fra l’uno e il molteplice, l’indeterminato e il definito, il conflitto e l’unione dei contrari e dei diversi, e questo prima della loro definizione cristallizzata dal logos. Le relazioni tra i personaggi agenti nella tragedia sono articolate in rapporti genealogici, che regolano non solo i miti di dei ed eroi, ma tutte le varie categorie mitiche individuabili in base al contenuto, quindi anche i miti cosmogonici e teogonici, e i miti relativi alla storia di città e di stirpi. La genealogia secondo lo studio condotto da Paula Philippson è “la forma in cui si esplica il genos”63, oltre ad essere la forma mitica tout court e la forma che esprime l’essenza del cosmo. Il genos si esplica nell’unità dei rapporti di un progenitore con i discendenti, in modo tale che l’unità sta a indicare una sorta di ‘sopravvivenza’ o ‘presenza’ del progenitore, dell’identità del progenitore nei discendenti, tale che l’“essere originario, immanente del progenitore” non si spegne con la morte dello stesso, ma “si presenta in sempre nuove modificazioni nei suoi discendenti, durante il corso dei tempi”64. L’identità del progenitore che decide dell’universalità è rintracciabile nella variazione dei discendenti, ma in modo tale che questa 63 64

Philippson [1936] 2006, p. 49. Philippson [1936] 2006, p. 49.

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è compresente e rinvenibile proprio nella diversità del discendente. Per cui, l’identità di una divinità o di un eroe la si comprende collocandola rispetto al legame familiare, alla costellazione di legami che la riguardano; capire era, come scrive Vernant, “trovare il padre e la madre, ricostruire l’albero genealogico”65. E con Mazzarino sappiamo che le genealogie, riflessi mitici della struttura della società greca, sono costitutive della concezione greca della storia primitiva e arcaica66. Per fare un esempio con un personaggio incontrato nell’Orestea, si può prendere il caso di Clitemnestra che, per quanto traspaia molto sottilmente67 nella tragedia, rivela la sua intima parentela con Elena, la sorella nata come doppio dall’uovo di Leda fecondato da Zeus e dal mortale Tindaro, per la sua natura di moglie infedele. Le sorelle – imparentate a loro volta a una coppia di fratelli: Castore e Polluce – sono legate dallo stesso destino perché figlie dello stesso padre contro cui si scaglia la maledizione di Afrodite per essere stata dimenticata in un sacrificio. Un altro esempio è Atena, la cui figura è determinante nelle Eumenidi; la sua genealogia è fondamentale nel contesto della tragedia, perché Atena è figlia di Zeus, nata direttamente dalla testa, o dal polpaccio del padre, senza il concorso di un corpo di madre e quindi di origine solo paterna e rappresentante del diritto paterno, quindi non a caso collocata come istitutrice del tribunale per il processo contro i delitti di sangue tutelati dal diritto materno. Gli dei olimpici che presiedono ai diritti paterni sono in opposizione polare rispetto alle divinità che presiedono ai diritti del genos, le Erinni, ma anche Clitemnestra; nella tragedia i due sistemi genealogici si trovano a fronteggiarsi icasticamente. Un altro esempio è dato nei Persiani, dove Eschilo introduce un riferimento genealogico, come si è visto, per affermare la comune origine di greci e persiani: Serse è discendente di Zeus attraverso Danae, e questo fa gioco nel meccanismo del doppio che viene a istaurarsi tra i due popoli. Philippson mostra come nell’indagine tra mitologia babilonese e mitologia esiodea, le rispettive genealogie siano rivelative di due visioni del mondo nettamente diverse. I due poemi presi in esame, la Teogonia di Esiodo, la più antica cosmogonia greca pervenuta (VII a. C.) e il Poema della Creazione babilonese composto intorno all’anno 2000 e pervenuto in una redazione dell’età del regno di Sardanapalo (668-628 a. C.), hanno entrambi una forma genealogica, ossia partono da una prima fase in cui c’è la creazione di una coppia di progenitori seguita da una serie di padri e 65 66 67

Vernant [1957] 2008, p. 392. Mazzarino [1965-66] 2000, p. 14. Centanni 2003, p. 995.

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figli divini, e una seconda fase in cui c’è la creazione del regno da parte del più giovane dei discendenti. Nel mito babilonese i due esseri primordiali che presiedono la creazione, Apsu e Thiamat, il primo generatore e la prima madre, nella prima fase della loro esistenza non si differenziano, sono immobili, non hanno sviluppo. Quando successivamente si sviluppa una serie di dei, tra cui Marduk, che è il creatore del mondo, la differenziazione è avversata dalle potenze primordiali immobili che intraprendono una lotta con la discendenza68. Nel poema esiodeo, nella prima fase del mito cosmico, da Chaos e Gaia, le due divinità primordiali, si sviluppano delle stirpi di discendenti costituite da entità divine genealogicamente connesse tra di loro, sono fenomeni naturali (terra, cielo, mare astri, fiumi), forze dinamiche (Eros, Eris, Pallas), aspetti del mondo (Thaumas, Theia), e potenze normative (Themis, Nemesis, Mnemosyne, Styx), tutte autonome in se stesse. Nel mito greco da subito quindi c’è una differenziazione senza che vi sia una contrapposizione rispetto al creatore, c’è da subito un divenire, e i discendenti sono “l’esplicazione dell’essere delle divinità genitrici, vale a dire le loro modificazioni particolari”69. La differenza tra le due visioni del mondo è evidente e si riflette nell’organizzazione sociale dei due popoli; si legge nei Persiani nell’opposizione tra la rigida gerarchica regale, l’assimilazione del potere regale al potere divino, e la libertà che è invece rivendicata come elemento proprio della cultura greca, condizione indispensabile per la costruzione della democrazia. Sempre secondo lo studio di Philippson, le relazioni che intercorrono tra le divinità secondo la forma genealogica, appaiono con chiarezza nel loro articolarsi nella Teogonia di Esiodo dove, nella seconda fase del mito cosmico, quella in cui Zeus ha ottenuto la sovranità rispetto al regno di Uranos e Kronos, il nuovo cosmo che da lui si genera, composto dagli dei olimpici, non si contrappone al precedente, ma convive con esso. Il cosmo precedente, “sopravvive e agisce nei suoi elementi anche durante il nuovo. Il Chaos non si distrugge nel cosmo di Zeus, ma continua a esistere”70 e questo avviene nelle discendenze attraverso i matrimoni: Zeus sposa Metis, Themis, Eurynome e Mnemosyne, tutte appartenenti al tempo precedente, e attraverso questi connubi viene collegato il nuovo mondo a quello passato; la concezione presocratica cosmica contempla infatti l’esistenza di più kosmoi; un cosmo è tale sempre rispetto ad altri, compresenti, precedenti o futuri. Inoltre, nella successione degli dei, che siano le prime o le seconde 68 69 70

Philippson [1936] 2006, p. 62. Philippson [1936] 2006, p. 56. Philippson [1936] 2006, p. 73.

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generazioni, nei rapporti tra genitori e figli, nelle origini di ciascuna nascita c’è sempre l’incontro di “due sfere polarmente opposte”71, a partire dall’inizio, dai due poli Chaos e Gaia, per proseguire con Notte che fecondata da Erebos dà vita a Aither e Giorno, e così via. La polarità è peculiarità della genealogia greca, anche diversamente, come si è visto, da quella babilonese, e l’articolazione della genealogia “è costruita in rispondenza strutturale alla forma di pensiero greca”, ossia la “forma polare del pensiero”72. Giustamente Philippson distingue la polarità dalla forma di pensiero monistica o dualistica, in cui gli opposti vengono a escludersi, e un polo ha la prevalenza definitiva sull’altro. Nella polarità gli opposti, o i diversi, devono sussistere contemporaneamente giustapposti perché il venire meno dell’uno provoca l’annullamento dell’altro; come scrive Philippson “perdendo il polo opposto, essi perderebbero il loro stesso senso”73. Così, la polarità dà forma alla natura delle divinità considerate ciascuna singolarmente e dà forma alle relazioni tra divinità, che risultano quindi essere inscindibili tra di loro, e comprensibili solo se considerate nell’insieme; le loro singole identità si definiscono infatti rispetto alle relazioni che intrattengono reciprocamente. In questo senso la genealogia è comprensibile sempre rispetto a una visione d’insieme dove le parti che la strutturano sono considerate per le relazioni reciproche che intrattengono tra di loro. Un esempio tra i molti possibili che permette di ricollegarci a casi già presi in esame sono le Erinni che nell’Orestea si compongono assieme alle Eumenidi, le divinità benevole in cui si trasformano, e che rappresentano il loro opposto complementare. Nelle Eumenidi accade che le divinità della notte che presiedono ai vincoli di sangue e portano sterilità – le stesse che misurano e sorvegliano il corso del Sole, come si legge nel frammento di Eraclito74 – diventano divinità che portano prosperità e fecondità alla città. Ma, secondo Philippson, la polarità si esplica anche rispetto a un’altra dimensione che investe la struttura genealogica, ossia quella temporale, per la coesistenza di atemporalità e divenire75. Nel genos si contempla un decorso di passato, presente e futuro tale che queste tre temporalità risultano contemporanee; nel meccanismo della discendenza e della “sopravvivenza” dell’identità del progenitore nel successore c’è la compresenza di due 71 72 73 74 75

Philippson [1936] 2006, p. 58. Philippson [1936] 2006, p. 81. Philippson [1936] 2006, p. 82. Eraclito DK 22 B 94. “Elios non oltrepasserà le sue misure: altrimenti le Erinni, ministre di Dike, lo troveranno” [Ἥλιος γὰρ οὐχ ὑπερβήσεται μέτρα· εἰ δὲ μή, Ἐρινύες μιν Δίκης ἐπίκουροι ἐξευρήσουσιν]. Philippson [1936] 2006, p. 83.

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tempi diversi, per questo, secondo la studiosa essere e divenire si trovano congiunti nel mito. Nelle relazioni genealogiche si crea un collegamento degli antenati con i discendenti attuali e futuri e un collegamento tra i singoli membri viventi nel presente, per cui il genos realizza “l’unità di una molteplicità di membri, sia nel senso longitudinale, che in quello trasversale di un decorso temporale”76. Nella prima fase cosmica della Teogonia Philippson osserva come la nascita degli dei da Chaos e Gaia avvenga automaticamente come una sorta di distacco e non sia un graduale e continuo divenire, ma da un essere atemporale si genera un altro essere atemporale. Le divinità infatti non nascono come bambini per crescere progressivamente, ma esistono subito nella loro identità, immutabili ed eterni. Il tempo che caratterizza la loro nascita è quello dell’‘ora’, il ‘νῦν’, che è atemporale e senza estensione e per questo esplica un’esistenza atemporale nella sua eternità, è un momento privo di durata che rende l’eterno presente. La seconda fase cosmica vede la genealogia della seconda generazione con Uranos, Kronos e Zeus che si contendono la sovranità, ma la genesi degli dei avviene secondo un’evoluzione nel tempo continuo misurata secondo il percorso degli astri, e infatti nascono bambini per poi diventare grandi. Le due fasi cosmiche però non si escludono a vicenda ma sussistono contemporaneamente e sono ulteriormente suggellate dai matrimoni tra divinità della prima generazione e della seconda generazione. Quindi quello che Philippson definisce il tempo dell’essere si interseca al tempo dell’accadere, il primo è l’aion, il secondo è il chronos e nell’insieme, dal loro incontro (συμβάλλεσθαι), danno vita al tempo del mito, che si compie nel kosmos symbolikos77. Aion e chronos sono le due forme di temporalità che distingue Platone nel Timeo, il tempo dell’essere perdura in unità, si identifica in un ‘punto di tempo’ che non ha estensione, ed è assimilabile al tempo dell’essere parmenideo; il chronos procede secondo un ritmo numerico che quantifica un prima un poi, secondo una successione lineare; il suo è un continuo trapassare senza essere mai; e della prima temporalità si dà conoscenza, della seconda si dà opinione. Philippson immagina il tempo del mito come l’effetto della loro unione, del loro incontro, ma avrebbe più senso immaginare la compresenza di queste due dimensioni temporali come qualcosa che precede la loro divisione e la loro distinzione. Un esempio che la studiosa fa per illustrare la capacità della forma genealogica di connettere tempi differenti simultaneamente attraverso le generazioni è particolarmente indicativo perché riferito al contesto drammatur76 77

Philippson [1936] 2006, p. 49. Philippson [1936] 2006, p. 45.

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gico della tragedia. Si tratta infatti del Prometeo incatenato di Eschilo. Nel testo del tragediografo la studiosa scopre una variazione del mito rispetto a quello narrato nella Teogonia di Esiodo: ossia Prometeo non è, come nel poema, figlio dell’Oceanide Klymene, ma figlio di Themis, che sarà sposa di Zeus. In questo legame di sangue si prefigura la futura conciliazione tra il titano ribelle e Zeus, che prima del matrimonio con Themis spadroneggia in un dominio ‘illegale’, e quindi si prefigura la conciliazione tra divinità antiche e nuove. Qui la continuità è suggellata dalla discendenza e la variazione rispetto al mito ha valore all’interno del dramma per il senso che Eschilo ha voluto dare allo sviluppo dell’azione. Ma la dimensione genealogica propria del mito svelando la compresenza di diverse temporalità introduce la questione dell’anacronismo nel contesto della composizione teatrale. VI. Anacronismo, il tempo del teatro Giustamente Vernant, riflettendo sulla “storicità e transistoricità” del soggetto tragico afferma che “mettere in scena il corso reale degli avvenimenti sarebbe semplicemente raccontare ciò che è successo e nulla più. Montare una tragedia è tutt’altra cosa”78. E, sempre secondo lo studioso, montare una tragedia significa dare una “strutturazione drammatica – con il suo inizio e la sua fine, la concatenazione combinata delle sequenze, la coerenza degli episodi articolati in un tutto, l’unità formale dell’opera”79. È infatti proprio la modalità del montaggio, della “composizione dei fatti”, del metterli insieme, volendo riconoscere nella definizione di Aristotele questa accezione del significato di comporre come montare, che fa la differenza e decide del valore storico o mitico di un’opera. E di conseguenza nel montaggio sembra giocarsi la possibilità di creare la finzione, dove per finzione si intende lo scarto rispetto al “corso reale degli avvenimenti” narrato invece dalla storia. La storia, intesa come esperienza realmente accaduta e di cui si può averne verifica, quindi come scienza empirica, ha la sua definizione in Erodoto che, nel raccontare le guerre della Grecia contro la Persia, certifica l’accadimento dei fatti con la testimonianza veridica dello sguardo autoptico. La storia che da qui ha preso le mosse per fondarsi poi nella scienza moderna come salda episteme è una nozione totalmente assente nel pensiero tragico, che è precedente la distinzione oppositiva tra 78 79

Vernant [1979] 2011, p. 74. Vernant [1979] 2011, p. 75.

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verum e factum/certum messa in discussione da Gian Battista Vico. Tale distinzione è stata così delegittimante rispetto alla veridicità del discorso mitico, al punto da portare il verum della storia a sostituirsi, come ha ben visto Claude Lévi-Strauss e prima di lui Nietzsche, a quello mitico, anche in qualità di datore di senso. La finzione è secondo Vernant un elemento fondante del genere tragico e si esplica nella mimesis ossia nel far parlare e agire davanti agli spettatori le figure leggendarie dell’epoca eroica, di un altrove distante nello spazio e nel tempo, come fossero presenti realmente; in modo tale da toccare la sensibilità dello spettatore da lontano, perché, essendo il loro luogo “immaginario”, “vengono posti a distanza nel momento stesso in cui vengono rappresentati”80. È quindi nella “transistoricità” che sta, secondo Vernant, la dimensione della finzione, dell’illusione teatrale che è costitutiva della tragedia. Ma, al tempo stesso, la finzione non va disgiunta dal fine ultimo della composizione poetica che lo studioso recupera appellandosi a sua volta ad Aristotele, ossia l’espressione del generale diversamente dalla storia che mira al particolare. La tragedia riorganizza quindi “in funzione dei propri criteri”, quelli propriamente drammaturgici, “la materia della leggenda”, e il generale è raggiunto grazie alla “libertà che la finzione del mythos le assicura”81. La parola finzione va evidentemente ripulita dalle incrostazioni di accezione negativa che la secolare opposizione rispetto alla parola ‘Verità’ ha provocato nei vari ambiti disciplinari relegandola in una ingenua dimensione fabulatoria. A partire dal caso esemplare tra tutti di Platone che nella Repubblica, e non solo, distingue il sapere dell’essere dal ‘raccontare favole’ (mythoi) ossia le “fiabe che le balie e le mamme raccontano ai bambini” che il filosofo-governante deve bandire82. La finzione va ricondotta e rivalutata qui, nel contesto della prima espressione teatrale della storia, al fine ultimo che Aristotele ha riconosciuto come proprio dell’intento poetico, ossia la capacità di dire gli universali. Ricongiunta a questa finalità la finzione viene intesa allora nella sua capacità di rendere il senso degli eventi che rappresenta; la strutturazione drammatica, il montaggio che compone la creazione tragica, ha la finalità di comunicare “un’intelligibilità che il vissuto non comporta”, e quindi “strappate all’opacità del particolare e dell’accidentale dalla logica di una trama che purifica semplificando, condensando, sistematizzando, le sofferenze umane [...] divengono nello 80 81 82

Vernant [1979] 2011, p. 75. Vernant [1979] 2011, p. 74. Platone, Repubblica 377 a 4 - 381 b 7.

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specchio della finzione tragica oggetto di una comprensione”83. Il senso è da collocare all’interno di questa comprensione e va distinto dalla verità che richiede la verifica; il senso è funzionale alla finzione ed è da attribuirsi, appellandosi ancora una volta ad Aristotele, alle cose che “possono avvenire, cioè quelle possibili secondo verisimiglianza o necessità”84. Il senso risulta così dominio della poesia che proprio per questa capacità di dire gli universali “è cosa di maggiore fondamento teorico e più importante della storia”85. Vernant parla di “transistoricità” riferendosi a un tempo altro, legato alla leggenda, un illo tempore che viene ricondotto al presente della tragedia, ma si potrebbe anche usare il termine anacronismo volendo indicare semplicemente la coincidenza di due temporalità diverse, il passato e il presente. La finzione infatti, componendo i fatti senza dovere attenersi al loro corso reale, fa inevitabilmente un libero uso dell’anacronismo, può cioè associare fatti distanti nel tempo, col fine ultimo di perseguire il senso di quanto sta raccontando. Nel contesto della drammaturgia un esempio può essere osservato nella composizione anacronistica di scene diverse, o nel passaggio da un atto a un altro. Un caso è nelle Eumenidi dove nel primo episodio sono individuabili due atti per il fatto che avviene un cambio di scena improvviso, ossia il passaggio automatico da una scena che rappresenta Delfi e il contrasto tra Apollo e il Coro di Erinni, a una scena che rappresenta Atene, e ospita Oreste che afferma di essere giunto da Delfi e di seguito le Erinni giunte per braccarlo. Tra il primo e il secondo atto, tra l’uscita del Coro e l’entrata di Oreste in scena c’è una continuità che possiamo immaginare essere interrotta solo da un breve intervallo della scena vuota, e di fatto, quello che viene risolto nel tempo di pochi versi è il viaggio di Oreste e delle Erinni da Delfi ad Atene. Quello che nei fatti risulterebbe assolutamente inverosimile nella scena è invece credibile; nel passaggio da Delfi ad Atene avviene un’automatica risemantizzazione dello spazio, coerentemente con l’esigenza dello svolgimento dell’azione. Come la composizione drammaturgica si articola in modo tale da creare una struttura, in cui ogni singola parte, ogni tassello è concatenato agli altri, così per il pensiero mitico “ogni genealogia è nello stesso tempo e nella stessa misura esplicitazione di una struttura”86, dove il rapporto tra le parti non è regolato da una successione cronologica, ma secondo rapporti di opposizione e complementarietà.

83 84 85 86

Vernant [1979] 2011, p. 75. Aristotele, Poetica 51 a 36. Aristotele, Poetica 51 b 5. Vernant [1960] 2008, p. 18.

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Ma si può intendere l’anacronismo anche in un senso più ampio che non nel contesto più circoscritto della costruzione drammaturgica. Contrariamente a Vernant, Dario Del Corno afferma la piena congiunzione tra mito e tragedia, intravede un’organica corrispondenza tra i due che spiega proprio nella condivisione di una stessa temporalità, e individua nel concetto di anacronismo l’anello di tale congiunzione. Per cui “l’intersezione fra materia mitica e struttura drammatica è possibile soltanto grazie al paradosso della coincidenza dei due sistemi temporali”87, ossia l’opposizione e la simultaneità di passato e presente. Diversamente dal tempo della storia che è continuo, e si misura secondo una progressione rettilinea che ne definisce la cronologia, scandito secondo un prima e un poi in una continuità lineare, e diversamente dal tempo dell’epos che è narrativo, e riposa nel passato, il tempo mitico è discontinuo. Si è visto come non ci sia tempo nel mito, o per lo meno non il tempo inteso nel senso cronologico come è stato codificato dalla storiografia moderna, ma gli eventi si svolgano nella forma genealogica, nel dipanarsi e intrecciarsi delle relazioni che si susseguono secondo la coesistenza di atemporalità e divenire, dove temporalità diverse sussistono contemporaneamente in una dimensione che può apparire a tutti gli effetti anacronistica. E si tratta di una dimensione che si svolge inoltre secondo le relazioni dialettiche di un sistema di antinomie. Il tempo mitico, secondo Del Corno “si coagula nell’evento”, quel momento istantaneo in cui accade la catastrofe, per questo l’evento risulta essere “la forma assoluta del mito”. Nell’evento mitico allora è rinvenibile quella coincidenza di essere e divenire proposta da Philippson, ossia di essere eterno (aion) che è nell’‘adesso’, l’attimo atemporale senza estensione e il divenire che ha un prima e un dopo ma mai un ‘è’. Nel pensiero greco esiste un tempo verbale che significativamente la cultura occidentale ha perso: l’aoristo; e non a caso Henri Maldiney lo considera una dimensione essenziale del senso greco del tempo88. Si tratta di una forma verbale che è indeterminata perché, rispetto ad esempio all’imperfetto che ha un aspetto durativo riferito allo svolgimento e all’origine, ha un aspetto momentaneo perché immagina che un’azione o un fatto, considerati di per sé, siano accaduti in una dimensione assoluta, in un tempo indefinito che può essere il passato ma senza determinazione esatta del momento del suo accadimento. Pur non avendo determinazione esatta è però indicativo di un momento preciso, puntuale e tempestivo del verificarsi di qualcosa. Accade allora che se nell’imperfetto il presente 87 88

Del Corno 1998, p. 14. Cfr. Maldiney 1975.

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da cui si guarda viene ricondotto al passato, nell’aoristo il passato viene ricondotto al presente, con l’effetto di pensarlo riattivato e riattualizzato nel presente. E nel presente l’aoristo viene utilizzato anche per esprimere significati di valore universale: è quello che in linguistica viene solitamente definito ‘aoristo gnomico’ e attribuito generalmente alle sentenze. In relazione all’aspetto verbale allora l’imperfetto sembra essere la temporalità con cui si dipana la narrazione epica, storica, e l’aoristo invece sembra svelare una temporalità mitica. Allo stesso modo nel pensiero greco esiste un’altra forma di temporalità peculiare andata persa: il kairos che infatti è intraducibile se non come ‘tempo opportuno’ poiché indica un momento pregnante, fecondo e in sé atemporale. La peculiarità dell’aoristo è anche colta da Maldiney rispetto alle altre forme verbali, come coesistenza paradossale di due temporalità differenti, che si disputano la presenza e il loro presente: “l’orizzonte del presente attuale e quello di un presente di una volta tendono a confondersi nell’orizzonte unico dove il presente passato è un passato presente”89. E significativamente pone come esempi esplicativi della dimensione che esso dischiude l’anamnesi platonica, il transfert freudiano e la rêverie proustiana. Ma, se l’aoristo è considerato dal filosofo francese come temporalità privilegiata del racconto e peculiare dell’epos, quanto si propone in questa sede è di pensarlo più propriamente come tempo del mito e ricondurlo specificatamente al dramma. Nell’evento mitico, in questa anacronistica dimensione temporale del mito, la tragedia trova allora “la dimensione assoluta del tempo”, che è la “condizione primaria per la riattualizzazione dell’evento nel presente della mimesi teatrale”90. Quindi nel mito come nella tragedia si assiste alla “riattualizzazione dell’evento nel presente”. L’evento mitico strappato al racconto epico dove è già accaduto, viene fatto accadere sulla scena, nel presente, come se accadesse per la prima volta. Che sia il passato remoto del mito o il passato prossimo della generazione, rispetto al presente della scena c’è sempre l’incontro di due dimensioni differenti che coesistono nella contemporaneità. Per certi versi, nella drammatizzazione operata dalla tragedia si svela il paradosso temporale del mito, la sua eterna, costante, attualità nel presente. Ed è il presente, l’attualità specifica del teatro, l’angolatura attraverso cui si deve leggere l’anacronismo. Dice bene Bruno Snell quando afferma che nel dramma l’avvenimento mitico trova una collocazione diversa rispetto a quella che ha, ad esempio, nei poemi omerici, e che in questa collocazione interviene una dimensione 89 90

Maldiney 1975, p. 84. Del Corno 1998, p. 12.

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di finzione che è funzionale alla possibilità di dire l’universale, ma questo non significa che la conseguenza è il distacco tra mito e realtà, il distacco dalle situazioni determinate, concrete91. Non si tratta di un distacco rispetto a un tempo in cui il mito aveva un valore di realtà: l’universale non è l’astrazione rispetto a cui il reale viene meno, l’universale si spiega nella tipicità di quanto viene rappresentato e se c’è un’idealità nell’universalità, questa è incarnata nella tipicità perfettamente ancorata alla realtà. Tipi sono gli dei e gli eroi che compongono le trame della genealogia e tipi sono i personaggi del dramma, e tipici sono gli eventi che è necessario o probabile che accadano. Perché è nella tipicità che può avvenire il riconoscimento del pubblico che assiste alla sua rappresentazione, è nel grado di tipicità che può avvenire la condivisione. La finzione della rappresentazione segna un distacco rispetto al reale, non nel senso che lo falsifica, nell’accezione negativa del termine, ma nel senso che lo manipola per comunicarlo a una collettività e renderlo così universale. È il presente il momento ma anche il luogo in cui si gioca la possibilità della comunicazione, in cui gravita il senso di quanto si fa accadere in scena, perché il presente che la scena vive nella riattualizzazione dell’evento è allo stesso tempo il presente che accomuna lo spettatore che condivide in quel momento la visione dell’evento. La coesistenza si fonda sulla condivisione della presenza. Così nell’Orestea lo spettatore ateniese vede riflesso il conflitto che vive nel cambiamento dal passaggio a una visione del mondo costellata dagli antichi dei ai nuovi; e nei Persiani lo spettatore si percepisce rispetto all’altro, al nemico sconfitto nei confronti del quale pochi anni prima era stato a sua volta vittima. Rispetto al senso del presente che il teatro sposa costitutivamente, l’anacronismo è condizione della condivisione dell’evento da parte del pubblico che proprio in virtù di questa condivisione diventa una comunità. L’anacronismo quindi risulta essere, per uno sguardo che dall’oggi è totalmente dislocato nell’orizzonte diacronico del tempo storico, il termine più adatto per indicare la dimensione temporale propria del teatro. Come afferma Jean-Luc Nancy, è la presenza il primo elemento distintivo e costitutivo del teatro, non il soggetto, ma la presenza del corpo in cui si condensa temporalità e spazialità; con la presenza in scena avviene l’accadimento, avviene nello spazio della scena in un “tempo sottratto al corso del tempo”92, ossia, in un tempo che non disponendo di altro termine possiamo definire anacronistico. Ma che forse si potrebbe dire ‘presente aoristo’.

91 92

Cfr. Snell [1948] 2002. Nancy 2010a, p. 31.

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VII. Dioniso, dio della rappresentazione Del Corno identifica l’evento mitico nella tragedia con l’accadimento della catastrofe. La catastrofe è ciò che interrompe improvvisamente il corso lineare degli eventi creando una frattura dell’ordine dato, è lo scatenarsi improvviso del disordine, del caos. A questo proposito, non è un caso che la figura mitica rappresentativa all’arte teatrale sia Dioniso. Come osserva Vernant, non ha tanto senso cercare di comprendere il legame tra Dioniso e il teatro andando a indagare nelle origini della tragedia il culto tributato al dio, i festeggiamenti e i riti legati alle Grandi Dionisie. Significativamente, già nel V secolo, il greco si chiedeva che cosa la tragedia avesse più a che fare con Dioniso nell’espressione proverbiale “Niente a che vedere con Dioniso”93; perché era evidente uno scarto tra i culti legati alla divinità e la nascita della tragedia. Più che farne una questione archeologica cercando la giustificazione di un fenomeno a partire dalle sue origini, “più ancora che nelle radici che per lo più ci sfuggono, è in ciò che la tragedia ha istituito di più nuovo, in ciò che fonda nel V secolo – e ancora oggi per noi – la sua modernità che risiede la sua connivenza con Dioniso”.94 Anche in questa prospettiva c’è uno scarto tra uno sguardo che si vuole storiografico e uno sguardo che, di pari passo alla saggezza mitica, si pone come genealogico. Non si tratta infatti in questo caso di individuare il reale inizio di un fenomeno dando la priorità alle condizioni storiche che lo hanno generato, ma, d’accordo con la lettura che Umberto Galimberti fa dell’idea di genealogia a partire da Nietzsche, si tratta di individuare l’“apertura di senso”95 che un fenomeno nuovo dischiude. Perché il senso è inscindibile dal valore che un qualsiasi fenomeno nel tempo della storia ha sempre rispetto al punto da cui si osserva, ossia, quell’“oggi per noi”, a cui fa riferimento Vernant. E il senso di un fenomeno si snoda attraverso i nessi che collegano tra loro le cose, allo stesso modo con cui i nessi apparentano tra loro i componenti delle genealogie. Ma quale nesso c’è tra la frattura di un ordine, ossia la sua frammentazione, e Dioniso il dio del teatro? Un’immagine antica rende il senso del rapporto tra i due. A partire dalla tradizione orfico-eleusina per arrivare fino alla sua ripresa neoplatonica, nelle testimonianze di Clemente Alessandrino, Olimpiodoro, Proclo e Plotino, nelle molteplici varianti del mito 93 94 95

Suida ad voc. οὐδὲν πρὸς Διόνυσον. Vernant [1981] 2011, p. 9. Galimberti [1987] 1992, p. 264.

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Dioniso è un bambino, è il dio-fanciullo i cui attributi sono i giochi, i balocchi regalati dai Titani per distrarlo e sbranarlo; e Dioniso è anche il bimbo che giocando con lo specchio lo manda in frantumi, e in questi frantumi si riflette scorgendo la pluralità del mondo96. La frammentazione è quanto qualifica di più l’immagine del dio, il suo corpo smembrato si riflette nei cocci dello specchio. Dioniso è un bambino perché la catastrofe, quella che ha subito nello smembramento e quella che provoca con la rottura, è la distruzione del preesistente per la creazione del nuovo, è la frammentazione di un ordine, la rottura dei nessi che legano tra loro le parti e che prelude a una nuova composizione delle parti. L’atto del bambino è sovversivo, è rivoluzionario. E l’oggetto in mano a Dioniso non può che essere un gioco oltre che uno specchio, perché nel teatro quello che “si gioca” è il meccanismo del riflesso. Nel riflesso si specchia la visione del mondo, che cambia nel passaggio da un ordine all’altro, e nel riflesso si specchia la pluralità del mondo che è tale per il fatto di rifrangere un cosmo. Il cosmo intero si rifrange sia nello specchio nella sua interezza che in ciascuno dei frammenti in cui si parcellizza; come è argomentato dalla filosofia medievale e in particolare da Alberto Magno per affermare la dimensione squisitamente qualitativa e non quantitativa-estensiva dell’immagine dello specchio: se si rompe uno specchio in dieci parti, in ciascuno di questi frammenti si ritroverà l’immagine intera e non frammentata (si speculum frangatur in decem partes, in qualibet illarum partium erit forma tota)97. La pluralità del mondo è la molteplicità del cosmo che si riflette nelle molte sfaccettature dell’umano che vengono agite sulla scena. Il riflesso sulla scena richiede inoltre la potenza dello sguardo, perché quanto si comunica è veicolato dall’immagine; e sono immagini quelle che arrivano al pubblico, il molteplice umano che sta di fronte alla scena. Nel contesto neoplatonico di ripresa del mito, quello orfico è raccolto dalla tradizione per essere collocato nella temperie storica che vive il crepuscolo del paganesimo e l’alba del cristianesimo: Dioniso è l’ultimo nato della generazione degli dei Olimpi, quindi è l’ultimo rappresentante degli dei, l’ultimo sovrano del cosmo ancora pagano, dopo di lui nasceranno gli uomini, la razza dei mortali; i Titani si avventano sul dio bambino nella lotta per le successioni, ma saranno folgorati dalla punizione del padre Zeus. Nelle ben più tarde opere di Nonno di Panopoli (metà del V secolo d. C.), Le Dionisiache: poema epico dedicato a Dioniso e la Parafrasi del Vangelo di Giovanni: una rielaborazione in esametri del Quarto Vangelo, 96 97

Cfr. Colli [1977] 2009, pp. 245-251. Cfr. Anzulewicz 1999, vol. I, p. 186.

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si leggerà tutta la doppiezza del passaggio tra paganesimo e cristianesimo focalizzato nella figura di Dioniso/Cristo. Significativamente, come nota Andrea Tagliapietra98, è la lettura neoplatonica che insiste sulla frammentazione, è Proclo ad affermare nel commento al Timeo platonico che il dio guardando nello specchio e “contemplando la propria immagine, si gettò a creare tutta la pluralità”99. Lo specchio di Dioniso è l’anello di congiunzione con cui il neoplatonismo riconnette il sensibile all’intelligibile: nelle Enneadi di Plotino, è attraverso lo specchio del dio che le anime degli uomini rispecchiando le loro immagini, balzano a terra, salvo peccare però di essere scese troppo100. Nel molteplice infatti si dispiega il sensibile, ed è il sensibile che lo specchio veicola, e per questo probabilmente lo specchio, nelle varianti del mito di Dioniso, ha spesso una connotazione negativa. Oltre ad essere ingannevole nelle intenzioni dei Titani, lo specchio lì dove dovrebbe riflettere l’Uno, il volto di Dioniso bambino, riflette il molteplice, la pluralità delle parti, questa è la sua forza straniante. Dioniso è portatore di un senso diverso della pluralità rispetto a quello che va definendosi nella speculazione della filosofia dell’uno, e rispetto al concetto di unità sotteso al pensiero cristiano. Come ha osservato Riccardo Di Giuseppe nel commento a Sugli dei e il mondo scritto sul finire del IV secolo da Salustio, al fianco di Giuliano durante il declino dell’Impero, nel tentativo di restaurare l’ellenismo nel momento cruciale della sua crisi: “se il segreto del cristianesimo è una nuova unità, e se il neo-platonismo è la filosofia dell’Uno, il senso del conflitto tra cristianesimo e paganesimo può allora essere raccolto in una disputa sull’unità”101. Nel nuovo concetto di unità della nascente religione cristiana c’è la dichiarazione della sua natura extramondana, c’è la fine del mondo, quello stesso mondo che, salvo, Dioniso vede riflesso nello specchio. L’unità richiede la distinzione, ma una cosa è la distinzione che interessa tutte le componenti, come nel monismo classico, un’altra è la distinzione che le nega, ponendo “l’opposizione dualistica tra un io, separato, e il resto, materia opaca”102, come fa il cristianesimo dagli albori. Il concetto di unità e universalità che si delinea a partire dalla filosofia antica viene infatti confermato dal cristianesimo nel monoteismo del suo credo. La parola katholikon, come fa notare Di Giuseppe, sta ad indicare proprio l’universalità nell’accezione monoteistica del termine: è infatti l’icona, l’immagine diventata unica, l’unica immagine universale. 98 99 100 101 102

Tagliapietra 1991, p. 21. Proclo, Commento al Timeo di Platone 33b in Colli [1977] 2009, p. 251. Plotino, Enneadi IV 3, 12. Di Giuseppe 2000, p. 32. Di Giuseppe 2000, p. 28.

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Ma sono gli sviluppi concettuali che si sovrappongono nella lettura del mito a connotare negativamente lo specchio, come osserva Tagliapietra: non certo il dettato del mito, che si limita a offrire immagini da comporre, perché “il mitologema orfico allude a una dimensione anteriore l’antitesi di vero e falso, una dimensione che precede la disposizione logica”103. Dioniso infatti è la divinità che più di ogni altra rappresenta la polarità, non tanto, o non solo, la contraddizione, come afferma Colli104, perché la contraddizione implica già lo stare da una, solo una, delle prospettive dischiuse. Colli, raccogliendo la lezione di Nietzsche, scrive anche che “Dioniso nasce da un’occhiata su tutta la vita: come si può guardare assieme tutta la vita?”: perché rifrange nella visione d’insieme tutte le prospettive, non solo quella che è scelta implicitamente quando si afferma una contraddizione. È la simultaneità della contraddizione a dischiudere la totalità, sempre però distinguendo la parola totalità dalla sua secolare assimilazione a unità. VIII. Baccanti: la fenomenologia del dio Ma Dioniso non è solo il bambino che gioca con lo specchio è anche il giovane dio che viene dall’Oriente e il cui culto viene rifiutato dalla città di Tebe. È nelle Baccanti di Euripide che si rivela più che in altri contesti del mito il significato che ha la figura di Dioniso per la messa in discussione del concetto di identità, per l’espressione della sua crisi. Nell’ultima tragedia pervenutaci Dioniso è l’incarnazione dell’alterità, che Euripide fa riverberare in tutto il testo sempre secondo il meccanismo, già improntato da Eschilo, della polarità semantica, probabilmente meno diffusa rispetto al primo tragediografo e meno giocata nella scelta linguistica dei termini ma altrettanto forte nel complesso drammaturgico. Anche in questo caso, come nell’Orestea, è la struttura sociale della polis a essere investita dalle questioni portate in scena dalla vicenda, a ribadire il rapporto inscindibile tra tragedia e comunità cittadina: la natura intrinsecamente politica della rappresentazione, e il meccanismo di autorappresentazione della città / comunità che avviene eminentemente nella forma-tragedia. E nel periodo storico della messa in scena di Baccanti (alla fine del V secolo a.C.) la città è evidentemente una struttura sociale più consolidata di quanto lo fosse ai tempi di Eschilo. Il culto di Dioniso si diffonde di città in città, ‘arriva’, fa irruzione – perché il suo arrivare nel mito appare come un corteo trionfante 103 Tagliapietra 1991, p. 23. 104 Colli 1977, p. 15.

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– mettendosi di volta in volta a confronto con la capacità comunitaria di accoglierlo; e perché dalla sua accettazione, dalla capacità di inglobarlo, di essere iniziati, dipende la salute della stessa comunità cittadina. Il rischio che il culto di Dioniso dovrebbe fugare qualora fosse accolto è la rigida definizione delle parti, il rifiuto del cambiamento e della messa in discussione del sistema che permane immobile nel suo ordine consolidato. Ed è una città sprofondata nel rigido ordine tirannico del suo governante quella che trova Dioniso quando arriva a Tebe. Penteo, anche rispetto allo scarto che rappresenta nei confronti del padre Cadmo, incarna proprio l’ordine consolidato, incapace di mettersi in discussione o confrontarsi con l’altro da sé, con la differenza da sé, e per questo assolutistico nel suo solipsismo. Come ha analizzato Vernant105, i poli attraverso cui si riverbera l’alterità di Dioniso in Baccanti sono molti: il maschile e il femminile; il giovane e il vecchio; il lontano e il vicino, che si traduce sia sul versante dell’estraneità del dio, il suo essere straniero, sia il suo essere trascendente e immanente, dio e uomo; il folle e il pazzo; il nuovo e l’antico; il selvaggio e il civilizzato. Tutte queste polarità si riverberano nel testo, e per ciascuna di esse è possibile individuare dei passaggi esplicativi in cui la drammaturgia si dipana. Così, l’essere a un tempo divino e umano di Dioniso è espresso subito già nel prologo, nella sua prima epifania, dove viene proprio rivendicata la natura divina che la città di Tebe deve riconoscergli: “ho mutato l’aspetto divino in umano” (v. 4)106, qui, accanto a questa peculiarità, è svelata subito anche quella della sua mutevolezza, ossia la capacità trasformativa che lo vedrà modificarsi non solo da dio in uomo e viceversa, ma anche in animale, nelle fattezze di toro, drago, serpente, leone: Dioniso è il dio delle metamorfosi, e la metamorfosi è per eccellenza quanto, nel passaggio da una forma all’altra, nella trasformazione, nega l’identità, nega la fissità in una forma definita. Di seguito è subito dichiarato anche il suo essere straniero, le peregrinazioni e la provenienza dall’Arabia e dall’Asia, luoghi in cui “Greci e Barbari vi abitano insieme” (v. 18), e più avanti si saprà che è nativo della Lidia (v. 464). E però al tempo stesso è anche greco, perché discendente di Cadmo, il vecchio re di Tebe, di cui Semele, sua madre, è figlia. Infatti il termine straniero è reso nel testo dal termine xénos, non barbaros, ossia è il diverso all’interno dell’analogo, non è il totalmente altro. Nel secondo episodio, nel dialogo concitato tra Dioniso/lo Straniero e Penteo tutto giocato su opposizioni semantiche, i barbari che celebrano i 105 Vernant [1985] 2011, p. 240-241. 106 Per le citazioni da Euripide si fa riferimento alla traduzione di Giulio Guidorizzi (cfr. Guidorizzi 1989).

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riti di Dioniso sono tacciati come “primitivi” dal re tebano, che viene però subito contraddetto dal dio il quale nega la primitività e afferma, di contro, la diversità dei costumi (vv. 483-484). Nel dialogo tra Tiresia e Cadmo, nel primo episodio, si esplicita la polarità tra giovinezza e vecchiaia, incarnata dai due anziani che si dispongono a officiare al culto di Dioniso come potrebbe farlo un giovane, per come sono agghindati e per l’energia necessaria, e questa polarità è dichiarata esplicitamente nell’affermazione che “il dio non fa distinzione se debba danzare il giovane o il vecchio” (v. 208). E Dioniso è sia maschio che femmina; nelle prime parole di Penteo, il re fin troppo maschio e virile, lo straniero è connotato negativamente per l’effeminatezza del suo aspetto: “ha riccioli biondi tutti profumati e negli occhi azzurro cupo spira il fascino di Afrodite” (vv. 235-236). Ma la sua connotazione femminile è già anticipata dalla parodo nella modalità del suo culto officiato dalle baccanti, le donne che inneggiano al suo arrivo, alla sua epifania a Tebe. Sono le donne che sottratte al ruolo domestico di mogli e madri si scoprono sacerdotesse del dio nel delirio collettivo che le investe. La doppiezza del maschile femminile non riguarda solo Dioniso, effeminato, ma per rovescio anche Penteo che, rifiutando il femminile, si ritrova per converso a identificarsi con esso. Allora Penteo vestito come una donna, “con un peplo lungo fino ai piedi”, “sul capo una mitra”, e con il “tirso tra le mani e una pelle screziata di cerbiatto”, si ritrova a somigliare a “una delle figlie di Cadmo” (v. 917). Ma l’ambivalenza maschile femminile induce a riflettere anche sulla sessualità che Penteo attribuisce, connotandola come lascivia e libidine sfrenata, alle donne invasate del dio, ma che di fatto non appartiene alle baccanti, le quali, nel terzo episodio, nella testimonianza del Messaggero in risposta a Penteo, appaiono dormienti castamente nei giacigli “ognuna per conto suo, in atteggiamento composto : non, come tu dici, stordite dal vino e dal suono dei flauti, appartate nella solitudine del bosco per carpire l’amore” (vv. 685-688). Allo stesso modo Colli può affermare che “il fallo si accompagna a Dioniso, ma Dioniso ne è tenuto separato” perché, a differenza di altre divinità, “non è mai rappresentato itifallicamente”107. E Dioniso è anche sia folle che saggio, e la sua follia e saggezza si contrappongono alla follia e stoltezza di Penteo. La follia del dio è quella che induce stati di trance, di mania, di estasi, che si manifestano come stati di possessione in cui il dio abita l’uomo e l’uomo è ‘entusiasta’, ossia ‘ἔνθεος’, ‘contiene dentro’ il dio. La modalità di manifestarsi del dio quindi non ha nulla di trascendentale, come ben osserva Vernant, ma ha 107 Colli 1977, p. 20.

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a che fare con l’immanenza, la presenza, fisica, nel corpo degli adepti, di Dioniso. E infatti il senso del mito di Dioniso si declina tutto nell’esistenza presente; l’alterità che dischiude non apre a un altro mondo ma al presente in terra, nel mondo. Ma è segno di saggezza onorare Bromio (v. 329), come afferma la Corifea nel primo episodio in risposta a Tiresia che presenta le caratteristiche del dio e definisce invece Penteo un pazzo furioso (v. 326). È infatti frequente l’accusa reciproca di follia che si fanno Penteo e Tiresia: il primo scaccia il vecchio profeta per non essere contagiato dalla sua follia (μωρία) che viene dai baccanali (v. 344) e il secondo dà definitivamente del folle oltre che dello stupido al re che già aveva manifestato precedentemente segni di follia (v. 359). E nello scontro diretto tra il dio e il tiranno, Dioniso dà dell’insensato a Penteo che confonde saggezza con sciocchezza (v. 480), e più avanti si definisce saggio di contro alla demenza del suo avversario (v. 504) che accusa di assoluta ignoranza: “non sai quello che ti sta accadendo, né quello che fai, e neppure che persona sei” (v. 506). Quindi c’è uno stravolgimento totale dei valori relativamente a cosa è folle e cosa è saggio, cosa è sapere e cosa ignorare, soprattutto in relazione a chi è devoto o nemico al dio. L’essere folle (μαίνομαι) è di chi ignora il dio, di Penteo o delle donne Tebane; le devote di Dioniso infatti nella trance del culto esprimono “purezza, pace, gioia, felicità soprannaturali”108. Inoltre, la follia che provoca l’invasamento bacchico ha il dono di essere profetica, è potenza divinatoria in grado di presagire il futuro (vv. 298-300), come ricorda Tiresia nel primo episodio, nell’elencare le caratteristiche del dio. E assieme alla profezia, l’altra faccia della mania dionisiaca è la saggezza. Nel primo stasimo per bocca del Coro la saggezza che viene da Dioniso si compone con la sophrosyne, con l’avere pensieri che non peccano di hybris, che non superano l’umano (vv. 395-396); è una saggezza che gode del momento presente, il saggio è colui che sa tenere il cuore e la mente lontano da “uomini tronfi”. Nel terzo stasimo questa forma di saggezza è ancora ribadita dal Coro nel suo legame con moderazione, misura, distinzione tra umano e divino, nel riconoscimento dei limiti dettati da natura, nella capacità di godere quotidianamente della vita, della felicità del quotidiano. I limiti dettati dalla natura che il culto del dio chiede di rispettare si equilibrano al suo potere civilizzante, nella mediazione di natura e cultura. Per questo Dioniso è selvaggio e civilizzato al tempo stesso, è il dio che disloca, che porta fuori dalla città, dalle case, il cui culto viene celebrato nei boschi, di notte, lontano dalle attività quotidiane, ed è a contempo il dio che porta salvezza alla città, perché ristabilisce la distribuzione differenziata 108 Vernant [1985] 2011, p. 247.

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del potere tra le parti. Penteo pecca di un eccesso di potere, che lo porta a negare la differenza, per questo viene destabilizzato dal dio. Ma c’è un altro aspetto importante di Dioniso che trapela dal testo di Euripide, oltre a incarnare la dimensione dell’alterità, il dio è profondamente legato a quella del vedere, della visione, che non è mai unidirezionale ma sempre reciproca, è un vedere e un essere visti, è plurifocale, aperta a più prospettive. Come afferma Vernant la presenza nel testo di termini che rimandano alla vista è fortissima: “Eȋdos e anche idéa, morphḗ, phanerós, phaínō, emphanḗs, horáō, eídomai, con i loro composti: nessun altro testo comporta con un’insistenza paragonabile, e che si potrebbe quasi dire ossessiva, una tale profusione del vocabolario del vedere e del visibile”109. Polisemia, ambiguità, polarità, rovesciamenti sono mediati dalla dimensione del vedere, che risulta quindi funzionale allo svelamento della dimensione dell’alterità incarnata dal dio. Significativamente Dioniso non solo è il protagonista della tragedia, ma è anche regista del dramma perché agisce su di un altro piano, “tra le quinte, per annodare i fili dell’intreccio e macchinare il suo scioglimento”110. E questa regia ha a che fare con lo svelarsi del dio, concorre all’articolazione della visione che ne permette lo svelamento. Il dio si presenta da subito come epifania, la sua è una manifestazione, il suo arrivo a Tebe è una apparizione che richiede di essere vista, così alla fine del prologo Dioniso esorta la città di Cadmo a vedere il suo corteo di baccanti (v. 61), a vedere la sua epifania. Nel primo serrato confronto con Penteo, Dioniso/lo Straniero intrappolato nella rete è prima di tutto osservato dal suo nemico, che ne descrive l’aspetto piacevole alla vista. Alla domanda poi sulla modalità con cui aveva imparato i riti di devozione al dio, se in stato di sogno o di veglia, la risposta è “io lo vedevo e lui mi guardava” (v. 471). Quindi Dioniso non solo veicola una conoscenza che avviene per mezzo della visione ma anche per mezzo della reciprocità speculare della visione, indica un guardare che allo stesso tempo è un essere guardati; in questa rifrangenza c’è un cortocircuito dello sguardo che nega l’unidirezionalità. Alla domanda su quale vantaggio portano i riti dionisiaci, la risposta del dio è che “non è lecito sentirlo: ma vale la pena conoscerli”, dove il verbo che traduce la parola conoscenza è horáō, vedere. Penteo vuole anzitutto sapere “com’era” questo dio che lo Straniero ha “visto distintamente” (v. 477). La risposta di Dioniso/lo Straniero è indicativa del fatto che il dio si fa conoscere mostrandosi, che il suo essere corrisponde all’apparire, e nella piena libertà 109 Vernant [1985] 2011, p. 234. 110 Vernant [1985] 2011, p. 222.

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dell’apparire, così “come gli piaceva” (v. 478), indifferentemente secondo una forma piuttosto che un’altra. E ignorare il dio infatti consiste nell’incapacità di vederlo, così Penteo chiede dove sia allo Straniero che risponde che Dioniso è lì, accanto a lui; la vista del dio gli è negata perché sacrilego (vv. 500-503). Allo stesso modo la conoscenza del dio da parte di Penteo avviene, oltre che con il travestimento in donna e lo smembramento, prima di tutto con la visione dei riti in onore del dio, e sarà quindi condotto sul monte a “vedere le donne” (v. 811), a vedere ciò che lo farà patire (v. 815). E quando Dioniso è propizio, quando è in pace con Penteo che ha accettato il travestimento, giunge finalmente il momento di vedere ciò che deve essere visto (v. 924). Nel terzo stasimo, che anticipa il quinto episodio dove il Servo racconta quanto successo al suo povero padrone, il Coro di baccanti invoca l’apparizione del dio: “mostrati!” (v. 1018), chiede: “mostrati toro, o drago con mille teste da vedere, oppure leone che sputa fuoco da esser visto”, secondo le possibili metamorfosi del dio. E l’appalesarsi del dio sarà tutt’uno col precipitare degli eventi, lo sparagmos ad opera anzitutto della madre fattasi baccante. Visibilità e invisibilità, apparizione e sparizione vengono poi accostate nell’immagine che vede nello stesso momento Penteo perfettamente visibile alle baccanti e Dioniso/lo Straniero scomparire improvvisamente: “il tempo di scorgerlo installato nell’aria, e già lo straniero era scomparso allo sguardo” (v. 1077), gli stessi termini esprimono il contrasto della contemporanea caduta di Penteo e l’elevazione del dio111, questo anche coerentemente alla continua opposizione in cui, lungo tutto il dramma, si collocano rispettivamente le due figure. La capacità di vedere torna a essere cruciale anche nel momento della presa di coscienza di Agave per il terribile delitto compiuto. La capacità di discernere è messa alla prova da Cadmo che chiede alla moglie di guardare il cielo: “rivolgi lo sguardo in alto verso il cielo” (v. 1264), e lei domanda: “perché vuoi che io lo guardi?” (v. 1265); il passo successivo è la richiesta di guardare la testa che Agave ha in mano: “osservalo bene: non è una gran fatica” (v. 1279), e la terribile scoperta successiva: “vedo un dolore immenso” (v. 1282). La visione e il vedere appartengono dunque alla fenomenologia del dio, e infatti ad esso si associa anche l’epopteia, la visione considerata il grado più alto dell’iniziazione ai Misteri Eleusini. Non a caso Dioniso appare rappresentato nell’affresco della Sala dei Misteri di Villa Item (I secolo a. C.), presso Pompei, con i suoi simboli, lo specchio e la maschera. Alla luce dei vari aspetti della divinità che si sono considerati, il ‘guardare al di sopra’ risulta alludere ad uno sguardo contemplativo capace di cogliere le dif111 Vernant [1985] 2011, p. 237.

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ferenze, quindi uno sguardo d’insieme in grado di vedere una cosa assieme al suo opposto e al suo diverso, come la molteplicità del mondo riflesso nei frammenti dello specchio di Dioniso bambino. La conoscenza che veicola il dio, e con il dio l’arte che esso rappresenta, il teatro, passa attraverso la frammentazione, ossia il riconoscimento della parte rispetto all’isolamento dell’uno. Per questo Penteo dovrà subire lo smembramento, frammentarsi, come lo specchio rotto, in molte parti, quelle stesse che verranno poi raccolte e ricomposte dalla madre: “rimettiamo al suo posto la testa, ricomponiamo il suo forte corpo, per quanto ci è possibile”. Frammentazione e ricomposizione, nei movimenti opposti simbolizzati da Dioniso, danno forma al meccanismo della tragedia, in cui nessun ruolo, nessuna parte è fissata in una posizione rigida, definita per sempre ma, posta in relazione con l’altro, con le altre parti, dove ciascuna è messa in discussione, in tensione polare rispetto a queste, nella ridefinizione globale della visione d’insieme. La messa in discussione delle parti è garantita in modo eminente nell’arte del teatro dalla reciprocità degli sguardi, quel guardare ed essere guardati in cui si riverberano gli sguardi tra attori e spettatori. IX. Nietzsche o della profezia Ma non si può parlare di tragedia e di Dioniso senza incontrare Nietzsche che ci fa balzare direttamente nel Novecento. Il filosofo tedesco ha compreso a pieno il valore della tragedia greca per la cultura occidentale, cogliendone il valore eminentemente psicologico: il paradosso della sua vicenda, come d’altronde quello di Antonin Artaud sul versante della pratica e della teoria teatrale, è di essere stato troppo in anticipo rispetto alla consapevolezza dell’epoca, di aver pensato e detto troppo presto quanto aveva intuito, almeno mezzo secolo prima, rispetto alle capacità di comprensione del tempo. In Ecce homo, ultimo dei suoi testi, significativamente si chiede “Sono stato capito?”, nella prescienza che “alcuni nascono postumi”112. Troppo presto quindi per reggere la potenza di quello che vedeva, capiva, presagiva. La tragica identificazione con Dioniso, emblematicamente siglata dalla firma che appare nello stesso testo, in calce agli ultimi scritti – quelli della follia – assieme al suo doppio ‘il crocifisso’: “Dioniso contro il Crocifisso” , avviene anche sul versante del dono della profezia che, come il dio, il filosofo vive sulla sua pelle. Della sua vicenda si potrebbe parlare in termini di apocalisse psicopatologica, come catastrofe personale in cui 112 Cfr. Nietzsche [1908] 1981, p. 385.

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si rivela una verità collettiva: la sua follia sarebbe allora la rivelazione di un passaggio epocale, della fine della modernità. Nietzsche, che muore nell’anno 1900, parla agli uomini che possono comprenderlo e assumere consapevolmente le sue parole solo dopo, nel dipanarsi del XX secolo. Da filologo convertito alla filosofia denuncia la malattia della modernità proprio in virtù della consapevolezza dello scarto rispetto al pensiero antico greco, immune da essa; quindi la crisi della modernità appare come il preludio del ritorno di quel pensiero, della salute di quel pensiero. Il passaggio epocale, per la sensibilità profondamente religiosa del filosofo, è segnato anzitutto dall’annuncio della “morte di Dio”, del dio monoteistico del cristianesimo. Ma Nietzsche si è offerto come capro espiatorio di questo passaggio epocale in quanto l’annuncio della morte di Dio si è compiuto al prezzo della sua identificazione con lo stesso Dio detronizzato. Quella che Carl Gustav Jung – che al Così parlò Zarathustra ha dedicato tra il 1934 al 1939 un importante seminario113 – ha definito col termine “inflazione”, ossia l’identificazione inconsapevole dell’io con Dio. Nietzsche infatti arriverà ad identificarsi tragicamente con Dioniso e con Cristo, il suo opposto complementare, incarnando così proprio quel dualismo che voleva combattere, il dualismo che la cultura Occidentale ha sviluppato nei secoli attraverso l’affermazione della ragione sugli istinti, istituzionalizzata in modi diversi e complementari dal pensiero religioso e scientifico. Il dualismo che Nietzsche per primo mette in discussione in nome della affermazione del pensiero mitico e tragico, capace di esprimere tutto quello che il monoteismo della cultura occidentale ha cercato di negare: il male, la morte, la materia, le passioni, gli istinti, il femminile, quindi la natura e la vita nella loro completezza, nella loro bellezza e terribilità, al di là del bene e del male. È la capacità espressiva di trarre bellezza dall’orrore, così “come sbocciano le rose da un roveto”, che attribuisce alla creazione tragica. Nietzsche denuncia nella Nascita della Tragedia114 la fine del mondo mitico incarnato nella forma suprema della tragedia greca, e lo fa cogliendone l’aspetto essenziale, ossia l’articolarsi secondo immagini anziché concetti e secondo polarità semantiche, che intravede eminentemente espresse nelle categorie dell’apollineo e del dionisiaco. In ultimo però queste due categorie saranno concepite più come opposti escludentisi a vicenda che come polarità in continua tensione, così da riverberare ancora inevitabilmente l’ombra del dualismo di cui il filosofo annuncia la volontà di emancipazione. Nietzsche cercherà di affermare Dioniso su Apollo per 113 Cfr. Jung [1988] 2011-12. 114 Cfr. Nietzsche [1872] 2006.

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compensare l’eccesso di apollineo che vedeva imperversare nel razionalismo della sua epoca, con la conseguenza che il dio della tragedia avrà effettivamente il sopravvento su di lui. Lo smascheramento dell’imperare del logos nella filosofia, come nella religione e nella scienza, il riconoscimento della necessità della maschera, della verità della finzione ossia dello schermo mitico con cui la natura, il mondo si rende leggibile, esperibile nella sua totalità agli occhi umani, non l’hanno salvato dall’essere irretito dalla stessa maschera. Per Jung, il medico che non ammette di analizzare il pensiero indipendentemente dalla vita, colui che ha per primo esortato a dire di sì alla vita ha in realtà vissuto “al di là dell’istinto, nell’aria rarefatta dell’eroismo […]. Egli parlava di dire Sì e visse una vita di No”115. Nietzsche, denunciando la fine del mondo mitico all’alba del pensiero filosofico, esprime allo stesso tempo, presagendola, la necessità del ritorno o la consapevolezza della sua trasfigurata permanenza; ma l’annuncio della fine del dualismo occidentale, sigillato dall’affermazione della morte di Dio precorre i tempi del suo effettivo realizzarsi e della sua comprensione, che sarà possibile solo dopo di lui per le generazioni a venire.

115 Jung [1917-43] 1991, p. 31.

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II. IL NOVECENTO, ‘PENSARE PER IMMAGINI’

Il secolo scorso può essere considerato tragico nella misura in cui è stato segnato dai conflitti mondiali. Anzi, si può affermare con Arnold Hauser che il Novecento è stato inaugurato dalla Prima guerra mondiale così come l’Ottocento era cominciato solo con il 18301, data della ‘rivoluzione di luglio’, o seconda rivoluzione francese. Le guerre mondiali sono le tragedie del Novecento che, in forma diversa rispetto al frangente storico in cui si collocano, riflettendo profonde crisi sociali dischiudono una cesura rispetto al passato e corrispondono alla nascita di una nuova visione del mondo. La crisi come sintomo della fine della modernità si compie di pari passo al consumarsi del predominio della forma metafisica di pensiero improntata al concetto di identità e unità trascendentale, coerentemente alla supremazia del logos sul mythos. Allora, quello che può essere definito come un ‘pensare per immagini’, un pensiero diversamente improntato all’immagine anziché al concetto astraente, sembra essere il tratto saliente della nuova visione del mondo che permea la trasformazione della coscienza nel XX secolo. Consapevolmente vissuto e agito, il pensare per immagini trova agli inizi del secolo nella psicoanalisi i suoi principali esponenti, che non esitano a leggere, attraverso il filtro della psiche, nel pensiero immaginale il contemporaneo ‘ritorno’ del pensiero mitico, inevitabilmente trasfigurato. Se il mito torna nel Novecento attraverso le inquiete immagini mentali per denunciare la crisi della modernità e del suo soggetto concepito come separato dal mondo, dall’altra un consistente numero di pensatori è portavoce di un pensiero capace di restituire le immagini al mondo, di riflesso alla riappropriazione sensibile del suo spazio. Senza avere pretese di esaustività si può tratteggiare una costellazione significativa di intellettuali e artisti che, in contesti disciplinari diversi, sono stati testimoni di questa rivoluzione epocale e portavoci di un pensiero gnoseologicamente fondato sull’immagine. Una costellazione in grado di fungere da mappatura degli 1

Hauser [1953] 1967, p. 451.

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Mito e teatro

astri pensanti che hanno orientato i percorsi alternativi offerti dal nuovo orizzonte novecentesco e che rappresentano le fondamenta teoriche su cui basare le riflessioni sul teatro. In questa ricognizione il pensiero di Goethe – geniale per la possibilità di farsi ricollocare anacronisticamente dal XVIII al XX secolo – funge da cerniera, da chiave ermeneutica tra il versante degli autori che nel secolo scorso si sono rivolti allo studio delle immagini mentali e quello degli autori che si sono dedicati specificatamente alle immagini sensibili del mondo o materializzate nell’arte, lì dove, comunque, il confine tra queste due dimensioni, un tempo nettamente definito, comincia via via a sfumare. La morfologia goethiana – in virtù di un’influenza diretta su buona parte dei pensatori considerati – offre, nelle differenti sue ricezioni, un codice di lettura delle immagini dove il principio di identità e di invarianza, scardinato da qualsivoglia metafisica dualista, ha la sua collocazione nella dimensione del visibile e del molteplice sensibile, in una mutata relazione tra particolare e universale, e torna in questo modo ad avere un’articolazione strutturale affine a quella riconoscibile nel mito. Attraverso il rinnovato paradigma gnoseologico dell’immagine viene stravolto il rapporto tra le parti e l’intero dettato dall’impostazione metafisica; il rapporto tra l’uno e i molti è rovesciato: non è l’unità che contiene il molteplice, ma la molteplicità a contenere al suo interno l’identità e unità. E questo avviene di pari passo al superamento della distanza cartesiana tra uomo e mondo, io e non-io. Nella ridefinizione dei rapporti tra particolare e universale propria di un pensiero eminentemente visivo, il montaggio appare allora come il principio costruttivo, compositivo proprio del pensare per immagini e in quanto tale un meccanismo mitopoietico e drammatico. Il superamento del dualismo moderno ha l’effetto di ricondurre a una dimensione che ha come termine di paragone il pensiero che precede tale dualismo: il pensiero antico, anch’esso profondamente improntato, come si è potuto verificare nell’indagine sulla drammaturgia antica, al paradigma visivo e nel fondo tragico e mitico. Il montaggio risulta essere in questo modo la “forma simbolica” del pensiero della postmodernità, così come lo è stata, nella definizione che ne ha dato Erwin Panofsky2 mutuando un’espressione di Ernst Cassirer, la prospettiva nel Rinascimento per la modernità3.

2 3

Cfr. Panofsky [1927] 1999. Per lo studio della prospettiva come espressione del razionalismo moderno e stadio della coscienza a cui si contrappone una successiva visione del mondo “aprospettico-integrale”, multiprospettica e pluralista si veda Gebser 1949.

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Il Novecento, ‘pensare per immagini’

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I. Psicoanalisi e crisi della modernità* La psicoanalisi può essere considerata la corrente di pensiero che, dall’alba del XX secolo con Freud e di seguito attraverso i suoi successori, ha registrato più di altre discipline la crisi della modernità e, non solo si è limitata a rifletterla, ma in qualche modo ha contribuito a provocarla. Realizzando per certi versi quello che aveva prefigurato Nietzsche, ha inferto un colpo alla modernità in virtù della capacità di ricollocare il pensiero mitico, inevitabilmente trasfigurato, nel contesto storico e gnoseologico del Novecento. La psicoanalisi, pur nella diversità delle teorie dei suoi rappresentanti, del pensiero antico è riuscita a riattingere, assieme ai contenuti e ai nuclei di sapienza propri di quella visione del mondo, anche il lessico: le trame narrative, i miti e la relativa sintassi che risulta, in ultima istanza, essere immaginale, ossia costituita, nelle particelle elementari, da immagini e da intrecci di immagini. Il recupero del pensiero mitico, rispondendo alla volontà di denunciare e guarire la ‘malattia’ dell’Occidente, riflette il percorso della psicoanalisi che, inaugurata con Sigmund Freud e la scoperta delle inquiete immagini mentali, trova con James Hillman l’annuncio della sua possibile fine nel momento in cui, come atto di guarigione, queste immagini che vivevano patologicamente nell’interiorità sono restituite al mondo. La consapevolezza dell’impatto della teoria psicoanalitica nel pensiero contemporaneo e soprattutto nella cultura umanistica è piuttosto tardiva e per certi versi ancora tutta da approfondire. Significativamente, a detta di Jaques Lacan, Freud è stato uno dei pochi autori contemporanei che sia stato in grado di creare dei miti4. Come Eschilo nel V secolo a. C. raccoglie il frammento di mito dalla tradizione epica per comporre le tragedie, così Freud agli albori del Novecento si appropria della tragedia greca per restituirla all’uomo contemporaneo come mito in grado di dare senso alla sua esistenza quotidiana. Riscopre un linguaggio e un immaginario capace di dare parole al pathos, alle passioni dell’anima; le parole di cui il linguaggio clinico non dispone e restituisce così trame, nomi e volti antichi alla psicopatologia. Allora l’Edipo re di Sofocle nella rilettura freudiana è la messa in scena di una vicenda, di un motivo in grado di spiegare la psicologia personale e collettiva dell’umanità. Il mito di Edipo è il caso più noto, ma nella teoria del padre della psicoanalisi è rintracciabile la presenza della tradizione filosofica di matrice platonico-aristotelica e presocratica o elle* 4

Una parte dei contenuti del presente paragrafo è stata pubblicata in Sacco 2013. Cfr. Lacan [1986] 2008.

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nistica a cui attinge a piene mani per fondare la nuova scienza dell’anima5. Freud sembra avere il fervore archeologico che negli stessi anni guida le imprese di Heinrich Schliemann e Arthur Evans alla scoperta del mondo antico. L’interesse per il patrimonio della civiltà classica è molto forte nella Vienna fin de siècle dei tempi di Freud, ed è stato stimolato anche da una temperie storico politica particolare. Il crollo dell’impero austro-ungarico provoca la divisione tra Austria e Ungheria e una ridefinizione dei confini con delle conseguenze sociali importanti; gli stravolgimenti politici e geografici obbligano l’integrazione culturale tra la popolazione austriaca e le nuove etnie che affluiscono: cechi, polacchi, sloveni. Ne consegue un milieu culturale attraversato da forze contrasti, dal desiderio di tradizione o innovazione, di passato o di futuro, tra rivendicazioni nazionalistiche e aperture alla borghesia nascente. E proprio perché carica di tensioni e contraddizioni Vienna diventa un luogo creativo per lo sviluppo dell’arte, frequentata da un gran numero di artisti e intellettuali: Gustav Klimt, Karl Maria Swoboda, Arthur Schnitzler, Hugo von Hofmannsthal, Gustav Mahler, Adolf Loos, Ludwig Wittgenstein, per ricordare alcuni tra i principali. La realtà cultuale è così variegata che “il patrimonio della civiltà classica si configura come una sorta di koiné di valori culturali unanimemente condivisi, al di là delle varie divisioni confessionali ed etniche tra ebrei ed austriaci, e dunque tra giudaismo e cristianesimo”6. E se la Grecia classica è il modello immaginale a cui il nascente stato liberale si riconduce per fondare se stesso, la Grecia arcaica, cretese e micenea, è il modello dionisiaco a cui gli artisti attingono immagini e metafore per raccontare il presente. L’operazione di Freud si inserisce in questo contesto e ha un significato rivoluzionario perché non solo restituisce alla narrazione mitica un valore di verità in grado di illuminare il presente storico dell’esistenza, ma agisce in un ambito scientifico positivista, mettendo quindi in discussione il confine che le scienze positive avevano posto tra la dimensione considerata veritiera dell’oggettivo e quella fittizia dell’immaginario. Michel de Certeau, indagando i rapporti tra storia e psicoanalisi, riconosce la necessità di non separare i due domini, di considerare la connessione tra storicità e letteratura/finzione; e osserva anche come il modello psichico che introduce Freud sia affine a quello teatrale. Lo schema della psiche tripartito nelle istanze dell’Io (Ich), dell’Es (Es) e del Super-io (Ueber-Ich) riproduce il modello teatrale, alla maniera della tragedia greca o del teatro shakespeariano, due 5 6

Cfr. Oudai Celso 2006. Oudai Celso 2006, p. 23.

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riferimenti fondamentali in tutta produzione teorica del padre della psicoanalisi. De Certeau afferma che, rispetto alla tragedia, nella psicoanalisi:

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degli ‘attanti’ non umani (qui dei ‘principi’, là delle divinità) danno vita a un gioco di ‘ruoli’ che entrano in dialogo contrapponendosi. Fin dall’inizio dell’opera, queste funzioni scandiscono sincronicamente le tappe attraverso cui dovrà passare l’eroe eponimo – l’Io per Freud, re Lear o Amleto per Shakespeare – per trovarsi, alla fine, in una situazione opposta a quella di partenza. In principio, una suddivisione delle diverse istanze in gioco fornisce, in forma topografica, le varie ‘fasi’ che si svilupperanno, in senso diacronico, sotto forma di mutamenti successivi dell’‘eroe’. Ogni opera o storia è la trasformazione progressiva di un ordine spaziale in serie temporale. La struttura e la dinamica della psiche sono edificate a partire da questo schema ‘letterario’ tipico del teatro7.

L’analogia tra modello teatrale e modello psicoanalitico è funzionale, secondo de Certeau alla spiegazione storica, perché quella della psicoanalisi è sì una rappresentazione, ma in grado di spiegare quanto accade concretamente nella vita di tutti i giorni; per cui “se il modello resta di natura tragica, il suo funzionamento è di tipo storico” e Freud di conseguenza, si mantiene in quella ‘zona osmotica’ che è la tragedia di cui, ci dice sempre de Certeau tra parentesi, “è noto il funzionamento, presso i greci, come una forma di storicizzazione del mito”8. Non a caso lo storico e filosofo francese prende in considerazione due forme di narrazione, quella della letteratura e quella della storia, che nel corso della cultura occidentale hanno raccolto l’eredità del mito spartendosela nettamente in due opposti: nella finzione di dominio della prima e nell’oggettività di dominio della seconda, negando così il discorso mitico. E de Certeau, come osserva Didi-Huberman, rappresenta un’eccezione nel panorama degli storici, in special modo francesi, per il riconoscimento degli effetti della ‘scoperta dell’inconscio’ sulla disciplina storica, perché la regola è stata ignorare la lezione della psicoanalisi9. Però, se si può osservare con de Certeau nel meccanismo della psicoanalisi una forma di letteratura in funzione della storia, allo stesso modo si può osservare come il discorso storico, e in particolare la scienza storiografica moderna, che ha avuto nella modernità la sua definizione oggettiva, abbia dovuto accogliere le figure, i meccanismi, le strutture, i significati del mito per correggere una sua intrinseca insufficienza in qualità di datrice di senso. 7 8 9

de Certeau [1987] 2006, p. 105. de Certeau [1987] 2006, p. 105. Didi-Huberman [2000] 2007, p. 48.

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Il mito sarebbe quindi l’inconscio della storia che si fa strada attraverso le sue crepe, quelle che Didi-Huberman in riferimento alla storia dell’arte definisce, denunciando così una sorta di malattia della storia, le immagini-sintomo10, espressioni dell’effetto destrutturante dell’anacronismo nel corso cronologico del tempo della storia, affini alle immagini dialettiche di Walter Benjamin. È significativo che in una lettera del 1922 destinata a Arthur Schnitzler nel giorno del suo sessantesimo compleanno Freud abbia confessato al drammaturgo di avere fino ad allora evitato di incontrarlo a causa “una sorta di paura del doppio”11, spiegando la familiarità che aveva provato leggendo le sue opere per le molte somiglianze con le scoperte fatte dalla psicoanalisi. Ed è curioso anche ricordare che Jung considerava suo doppio Nietzsche, a conferma che, se la psicoanalisi si differenzia dalle altre discipline: la letteratura, la religione, la storia, dall’altra, in qualità di erede contemporanea del pensiero mitico, sfonda i loro rigidi confini disciplinari attraversandole trasversalmente. Il sogno, la fiaba, il racconto sono narrazioni reintrodotte dalla psicoanalisi con la funzione mitica che è loro propria nell’ordine di pensiero creato dalla ragione illuminata proprio sulla base della loro esclusione: è questa la risposta della nuova disciplina alla crisi della modernità. Rappresentano il linguaggio con cui parla l’inconscio che, definendosi come opposto della ragione, si compone di quanto la ragione ha escluso come suo altro: di immagini visive bizzarre, di processi atemporali, non ordinati secondo la scansione cronologica del tempo, indipendenti dal principio di realtà e indipendenti anche rispetto alla coerenza logica del principio di non contraddizione. Perciò il sogno è considerato la “via regia per l’accesso all’inconscio”, e viene interpretato attraverso i meccanismi che strutturano il processo definito da Freud “primario” perché considerato originario e antecedente rispetto alle elaborazioni del pensiero vigile, ossia il “processo secondario”. Meccanismi quali la drammatizzazione, lo spostamento, la condensazione, la dispersione, la simbolizzazione sono riconoscibili nel sogno come nello stato di veglia attraverso il metodo tecnico delle “libere associazioni” oltre che dell’analisi simbolica. La drammatizzazione come trasposizione di pensieri in immagini, la condensazione che concentra in un unico elemento (immagine, persona, cosa) aspetti appartenenti a diversi altri, implicando così la sovra determinazione e la molteplice e contraddittoria significazione dello stesso elemento; la dispersione che al contrario, implica la frammentazione in una molteplicità; lo spostamento 10 11

Cfr. Didi-Huberman [2000] 2007. Jones [1953-1957] 1977, p. 520.

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che porta il valore emotivo da un elemento a un altro; la simbolizzazione che corrisponde a una rappresentazione simbolica di un contenuto rimosso. A questi meccanismi si aggiunge il concetto di libido che spiega l’energia vitale e incarna la tensione pulsionale specificatamente sessuale dell’uomo, ed è significativamente governata dal principio polare degli opposti Eros e Thanatos. Freud inoltre, ponendo al centro dell’indagine l’analisi dell’inconscio del paziente rispetto alla sua vicenda personale, la sua storia e quella della sua famiglia, reintroduce indubbiamente un senso di storia inteso piuttosto nei termini di genealogia. Non è un caso che, tra gli sviluppi più recenti della dottrina freudiana, sia stata formulata la teoria del “telescopage delle generazioni” nell’intento di spiegare in un’ottica genealogica i traumi individuali, e ricondurre il presente patologico al passato familiare o collettivo attraverso salti temporali tra generazioni12. Il processo primario, per tutte queste caratteristiche sinteticamente elencate, è evidentemente ascrivibile alla modalità del pensare mitico, che risulta essere, per una cultura che lo ha rimosso, l’inconscio del pensiero logico e, proprio perché negato, la sua malattia. La “scoperta dell’inconscio”13, così come l’ha definita Henri F. Ellenberger, è la conquista con cui la psicoanalisi si affaccia al Novecento. Significativamente il termine ‘Es’ che lo designa è mutuato da Freud dal lessico di Nietzsche, filosofo da cui lo psicoanalista, a differenza di Jung, si terrà però a debita distanza preferendo il pensiero di Arthur Schopenauer, soprattutto relativamente alla concezione del rapporto tra coscienza e inconscio. Originale è indubbiamente l’uso che di questo concetto fa la psicoanalisi nel contesto della nuova temperie culturale novecentesca. L’inconscio fa capolino dalle vette di una ragione inflazionata: allo zenit della sua potenza questa ragione con cui si è identificata la coscienza illuminista sembra esplodere, e l’inconscio allora si rivela bruscamente come negativo della coscienza. Le prime osservazioni cliniche del fenomeno sono associate ai casi isterici osservati da Jean-Martin Charcot a Parigi nell’ultimo decennio dell’Ottocento. L’isteria ha una storia molto antica, ma l’apice della sua manifestazione sembra toccarlo proprio alla fine del XIX secolo e in particolare alla Salpêtrière, dove si studiano e riproducono fotograficamente i fenomeni patologici, in un contesto che sembra più un setting teatrale che uno studio medico. Alle leçons du mardi à la Salpêtrière14 le pazienti sono esposte a un pubblico alquanto

12 13 14

Cfr. Faimberg [1985] 2007. Ellenberger [1970] 1995. Il riferimento è al titolo del volume di Charcot Leçons du mardi à la Salpêtrière, professeur Charcot: policlinique 1887-1888.

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vario: non solo medici e specialisti, ma anche artisti. studiosi, giornalisti e gente comune. L’isteria è – o sarebbe meglio dire è stata visto che è scomparsa dai manuali diagnostici delle malattie mentali – una forma di alienazione che si manifesta nell’esposizione all’attenzione degli altri, e non a caso è stata definita alla fine dell’Ottocento una “malattia da rappresentazione”15. Se l’isteria consiste nell’ostensibilità della presenza e nella sua simulazione, come si può dedurre da un’indagine sul senso delle intenzioni sottese al suo manifestarsi16, dall’altra lo studio fotografico del pathos richiede la sua messa in scena, la sua drammatizzazione; per questo il sintomo isterico è, come ha osservato Didi-Huberman nel saggio dedicato agli studi di Charcot, il “sintomo-immagine” per eccellenza17. E proprio dalla Salpêtrière comincia l’avventura di Freud che assiste da studente nel 1885 allo spettacolo del dolore e a partire da questo evento pone le basi della sua futura teoria. Ma se Charcot aveva “forzato l’isteria ad assoggettarsi al campo neuropatologico; Freud invece, grazie alle sue grandi capacità di ascolto, con l’isteria tornò a far tremare le basi epistemologiche della neuropatologia”18. È infatti a partire dagli studi sull’isteria che Freud mette in crisi il modello scientifico della modernità. E sempre secondo Didi-Huberman la peculiarità visiva della malattia ha avuto un ruolo fondamentale se “Freud dovette comunque passare per il gran teatro dell’isteria, alla Salpêtrière, prima di dedicarsi all’ascolto e inventare la psicoanalisi. Fu necessario lo spettacolo, e il suo dolore: e, prima di tutto, fu necessario riempirsene la vista”19. Quindi l’inconscio irrompe come ricettacolo dell’irrazionale, di tutto quanto la ragione scientifica aveva escluso come suo altro e in primis irrompe come pathos, si esprime nelle passioni, negli affetti. L’epistemologia del XIX secolo le aveva emarginate, come afferma de Certeau, “decretando il loro esilio dal discorso legittimo della ‘ragione’ sociale, deportandole nel territorio di quella ‘non serietà’ che è la ‘letteratura’, riducendole a deviazioni psicologiche in rapporto all’ordine”. Le aveva esiliate anche l’economia produttivistica del XIX secolo in cui il rifiuto epistemologico collude con la “scomunica etica della borghesia produttivistica”20. Grazie a Freud invece le passioni fanno ritorno anche nel discorso economico e ciò avviene come conseguenza della reintroduzione nelle for15 16 17 18 19 20

Roccatagliata 2002, p. 209; la definizione è di P. Janet ed ha una accezione più tecnica neurologica che di significato. Cfr. Galimberti [1979] 1991, pp. 273-286. Didi-Huberman [2000] 2007, p. 119. Didi-Huberman [1982] 2008, p. 115. Didi-Huberman [1982] 2008, p. 115. de Certeau [1987] 2006, p. 109.

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me espressive loro proprie: la parola che le esprime è sottratta al lessico neuropatologico e restituita alla retorica e alla letteratura. Le passioni nel descrivere i processi mentali, nell’indicare paradigmi di vicende psicologiche, sottratte a terminologie cliniche scientifiche parlano di nuovo il linguaggio del mito, che torna quindi a riaffacciarsi con potenza nella cultura contemporanea attraverso le teorie della psiche. In Studi sull’isteria Freud parlando del suo approccio alla comprensione del fenomeno afferma:

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la diagnostica locale e le reazioni elettriche non valgono nello studio dell’isteria, mentre una rappresentazione [Darstellung] particolareggiata dei processi psichici, quale in genere ci è data dagli scrittori, mi permette, con l’impiego di poche formule psicologiche, di raggiungere una certa quale comprensione dell’andamento di un’isteria21.

Evidentemente la rappresentazione (Darstellung) permette di comprendere quello che la terminologia scientifica non è in grado di fare. Se è possibile riconoscere in Freud il primo pensatore che ha restituito al mito un valore gnoseologico sottraendolo alla dimensione fittizia di fiaba in cui era relegato, dall’altra si può leggere allo stesso tempo un’operazione di riduzionismo razionalistico ai danni del discorso mitico. Questo è visibile soprattutto alla luce degli sviluppi che la teoria psicanalitica freudiana ha avuto rispetto ai suoi successori, in particolare lungo il versante che ha accentuato lo studio dell’inconscio come immaginale: anzitutto Carl Gustav Jung e James Hillman22. Freud adoperando il mito come allegoria efficace dell’inconscio ha fatto un uso per certi versi univoco del suo linguaggio, che viene in definitiva riportato al registro del discorso logico razionale. Infatti il pensare mitico, etichettato come pensiero infantile e primitivo, è stato alla fine negativamente relegato in una patologica e irrisolta conflittualità sessuale. Freud ha ricondotto quindi l’immaginale al sessuale nella necessità di ridurlo al processo razionale, ritenuto evidentemente capace di risolvere l’intrinseca patologica negatività del processo primario. Freud è stato artefice di quella rivoluzione copernicana, che esso stesso si 21 22

Freud [1895] 1989, p. 313. Per quanto già chiamato in causa con un accenno, si tralascia in questo contesto di affrontare la teoria di Lacan, che richiederebbe un capitolo a parte. Basti osservare che la dimensione dell’immaginale ha un ruolo importante anche per il filosofo francese e gli studi sul rapporto tra la formazione dell’identità nel bambino e il riflesso della sua immagine nello specchio basterebbero a stimolare una riflessione in linea con l’ipotesi di questo ragionamento. A questo proposito si consideri il capitolo “Diventare ciò che si vede” in Coccia 2011 che ha il pregio di cogliere il valore filosofico dell’immagine nella riflessione lacaniana.

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attribuisce al seguito di Niccolò Copernico e di Charles Darwin, per aver contribuito a ridimensionare la megalomania dell’uomo contemporaneo dimostrando che “l’Io non è padrone a casa propria”; ma nelle intenzioni ultime della sua dottrina c’è il rafforzamento dell’Io, e l’annessione “di nuove zone dell’Es”: “dove era l’Es, deve subentrare l’Io”: questa è per Freud un’opera di civiltà, come il prosciugamento dello Zuiderzee, il mare interno bonificato lungo le coste olandesi23. Un utilizzo differente del mito è invece stato fatto da Jung, allievo di Freud presto emancipatosi dal Maestro. Con lo psicoanalista svizzero è ulteriormente affermata la rivalutazione dell’immaginazione come linguaggio proprio del mito dopo la rimozione della dimensione simbolico-imaginale perpetrata dal razionalismo illuminista, e questo avviene in virtù della teoria degli archetipi dell’inconscio collettivo. Il nucleo germinale della teoria di Jung muove dalla consapevolezza che esistono “due forme del pensare”, due forme costitutive della psiche che strutturano il pensiero: la “prima forma del pensare” ossia il pensare logico, indirizzato e la “seconda forma del pensare”, che caratterizza il sogno e la fantasia. Riconoscere che le forme del pensare sono due anziché una significa implicitamente attribuire pari dignità a entrambe. Una dignità che evidentemente Freud non aveva ancora osato porre tra “processo primario”, ossia il corrispettivo della “seconda forma del pensare”, e “processo secondario” corrispondente alla “prima forma del pensare”. A questo proposito così si esprime Jung in Simboli della trasformazione, testo capitale che segna nel 1912 il distacco da Freud: Esistono due forme del pensare: il pensare indirizzato, e il sognare o fantasticare. Il primo, operando con gli elementi del linguaggio, serve a comunicare ed è faticoso e sfibrante. Il secondo, per contro, opera senza sforzo, spontaneamente potremmo dire, con contenuti già belli e pronti e guidato da motivi inconsci. Il primo crea acquisizioni nuove, adattamenti, imita la realtà e cerca di influire su di essa. Il secondo invece volge le spalle alla realtà, mette in libertà tendenze soggettive ed è, per quel che concerne l’adattamento, improduttivo24.

Quella che è considerata la prima forma del pensare ha portato, nell’ottica evolutiva del vertiginoso sviluppo razionale della civiltà occidentale, al discredito della seconda, che si è caricata di negatività; è stata infatti 23 24

Freud [1917] 1976, p. 446. Jung [1912/1952] 1992, p. 32. Successivamente, in una nota a margine del testo, Jung correggerà in positivo il riferimento all’improduttività, riconoscendo il valore creativo del pensare per mezzo di fantasie e associazioni.

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etichettata come pensiero primitivo e giudicata superata da forme più raffinate di elaborazione mentale. Jung quindi, rispetto al suo predecessore, riconosce pienamente l’autonomia del linguaggio psichico che considera proprio per questo mitico, e legge l’immaginale nel sessuale – non il contrario – ponendo sempre, accanto ad esso, la necessità vigile del suo controllo permessa dal pensiero razionale proprio per bilanciare il potere della sua forza autonoma. Inoltre è tramite la teorizzazione di Jung che la psicoanalisi reintegra, attraverso la realtà mitica della psiche, accanto alla narrazione della letteratura e della storia, anche quella della religione che, agli albori della cultura occidentale, era tanto originariamente quanto diversamente propria del mito. Osservando la peculiarità della produzione junghiana rispetto a Freud, per quanto quest’ultimo affermasse di sé che “il romanziere ha sempre preceduto lo scienziato”25, si può notare come lo psicoanalista svizzero, pur provenendo da una formazione medico scientifica, sia approdato e abbia preferito utilizzare un linguaggio drammatizzante, e quindi mitico, perché capace di riflettere, contrariamente a quello scientifico, la ricchezza e complessità della vita. II. Il Libro rosso di Jung* C’è l’imbarazzo della scelta nell’individuare tra gli scritti di Jung l’opera più rappresentativa per il recupero del pensiero mitico-immaginale nella cultura del Novecento. Il Libro rosso (Das rote Buch), pubblicato per la prima volta nel 2009, può fungere da esempio perché è estremamente indicativo del valore gnoseologico che l’immagine ha avuto per lo sviluppo delle sue teorie, oltre che per il valore dei contenuti rispetto al frangente storico in cui si colloca. Una pubblicazione tardiva se si considera che Jung ci lavora dal 1912 al 1930, ma comprensibile anche alla luce delle vicissitudini che l’hanno accompagnata. L’incertezza sulla pubblicazione, espressa da parte dello stesso autore a causa della tipologia decisamente eccentrica rispetto al corpus delle altre produzioni scientifiche, ha fatto sì che il libro venisse chiuso in un caveau di una banca svizzera dal 1983, anno in cui gli eredi detentori dei diritti si resero conto del suo valore, considerandolo un documento privato e per questo non destinato alla pubbli* 25

Una versione precedente di questo paragrafo è stata pubblicata in “La Rivista di Engramma” 89, aprile 2011, pp. 45-58 (cfr. Sacco 2011). Freud [1906] 1974, p. 264.

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cazione. Un libro dunque così prezioso da giustificare la segreta custodia in una banca, e ‘prezioso’, “ovvero con un suo prezzo”, come ne scrive Jung, perché la sua stesura, durata ben sedici anni costò all’autore sforzi mentali e fisici non indifferenti, segnandone profondamente il destino intellettuale e la vita intera. Il Libro rosso o, come è anche titolato, Liber novus consiste in un volume in folio dalla foggia e le dimensioni di un manoscritto miniato medievale rilegato in pelle rossa – da cui il nome – dalle stesse mani dell’autore; ha le pagine vergate in scrittura calligrafica gotica, i capolettera dei paragrafi istoriati, e un corredo di immagini tanto fantastiche quanto complesse e articolate, disegnate e dipinte da Jung. Testi e immagini sono la riproduzione dettagliata di quanto lo psicoanalista svizzero visualizzava mentalmente, in forma di sogni e fantasie; sono visioni a cui aveva deciso di abbandonarsi, fiducioso di poterne poi carpire un significato. Per questa peculiarità l’opera è stata considerata per lungo tempo alla stregua di una produzione privata, personale; ma è proprio lungo la sottile linea che congiunge il privato con il pubblico, l’individuale e il collettivo, che si può leggere tutto il suo valore. Lungo questo confine il Libro rosso segna il definirsi dell’identità di Jung attraverso la consapevolezza di una nuova visione del mondo; la sua vicenda personale è infatti profondamente iscritta nella temperie dei nuovi mutamenti epocali agli albori del XX secolo. La pubblicazione, la restituzione al collettivo delle fantasie private permette di svincolarle ulteriormente dalla prospettiva personale in cui, isolate, correvano il rischio di risultare insignificanti o deliranti. Del contenuto dell’opera, prima della pubblicazione, si sapeva a sufficienza a partire dall’importante capitolo VI dell’autobiografia pubblicata postuma Ricordi sogni riflessioni26, titolato significativamente “A confronto con l’inconscio”. Il Libro rosso di fatto consiste essenzialmente in un drammatico dialogo con l’inconscio avvenuto in un periodo di grande isolamento, in cui Jung si trova dopo la rottura con Freud, contemporaneo allo scoppio della Prima guerra mondiale. In questi due versanti si gioca il doppio registro personale e collettivo di cui è rivelativa l’opera: l’emancipazione da Freud e dalle sue concezioni legate a una visione del mondo passata, e la percezione del mutamento epocale il cui incalzare è annunciato tragicamente dalla guerra mondiale. Il conflitto con Freud si comprende quindi nella capacità di Jung di vedere, diversamente e oltre rispetto al Maestro, il nuovo che avanza. Il Liber novus annuncia infatti la “via di quel che ha da venire” come recita il sottotitolo del Liber primus, primo capitolo che, assieme al Liber secundus e le Prove strutturano l’opera. Nell’inter26

Cfr. Jaffè [1961-62] 1998, pp. 212-244.

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pretazione di questa fase della vita di Jung è prevalsa una lettura personale delle cause che hanno portato il pensatore al confronto con l’inconscio. È passato invece in secondo piano, o non sufficientemente compreso, il significato culturale del mutamento della psiche collettiva che lo psicoanalista svizzero ha introiettato drammaticamente e elaborato nella composizione dell’opera. A Jung calzerebbe a pennello l’appellativo che Aby Warburg, in un curioso gioco di riflessi speculari, ha attribuito alle figure di Jacob Burckhardt e Nietzsche27: quello di “sismografo sensibilissimo”. Anche Jung, come i due grandi pensatori della generazione precedente, è stato un “sismografo sensibilissimo”, “captatore dell’onda mnemica” che, raccolta dalla “regione del passato”, dà “il dono della veggenza”, e come Burckhardt e diversamente da Nietzsche, non ne è stato travolto, perché ha saputo difendersene col dono della sophrosyne. E il terremoto di cui Jung da buon sismografo capta dapprima la minaccia è lo scoppio della Prima guerra mondiale. Sonu Shamdasani nel saggio che introduce l’edizione italiana, giustamente scrive che “non è esagerato affermare che, se la guerra non fosse stata dichiarata, con ogni probabilità il Liber novus non avrebbe preso forma”28. Lo scoppio della guerra mondiale, avvenuto nel giugno del 1914 con l’uccisione dell’arciduca erede al trono d’Austria Francesco Ferdinando, e successivamente nell’agosto con la mobilitazione delle forze tedesche contro la Russia e la Francia, chiarifica improvvisamente sogni e visioni che lo psicoanalista aveva avuto nei mesi immediatamente precedenti e che aveva da principio erroneamente interpretato come una personale minaccia di schizofrenia. Nell’ottobre del 1913 Jung fu colpito dalla prima di una serie di visioni: si trattava di una spaventosa alluvione che dilagava in Europa, da nord a sud, tra il Mare del Nord e le Alpi, provocando migliaia di morti. Al precipitare degli eventi, Jung comprese che le sue non erano fantasie personali e private ma espressioni dell’inconscio collettivo che riflettevano e anticipavano lo sviluppo degli eventi reali. Questo lo sollevò dal timore di poter sprofondare nel delirio e lo legittimò a prestare seria attenzione e registrare le fantasie che facevano irruzione dall’inconscio, con l’intenzione di capire cosa fosse accaduto e quanto la sua esperienza personale coincidesse con la memoria sociale del suo tempo e dell’umanità in generale. Ciò che contava non era certo il valore di premonizione che le fantasie potevano avere, quanto l’intima connessione tra psiche individuale e psiche collettiva di cui erano rivelative. Proprio lo studio di questa connessione 27 28

Cfr. Warburg [1927] 1984. Shamdasani in Jung [2009] 2010, p. 202.

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sarà la missione dell’intera vita di Jung. Da questo momento in poi, segnato significativamente dallo scoppiare del conflitto mondiale, Jung si apprestò a dare ascolto alle sue fantasie, e ciò scatenò nel tempo un flusso incessante di irruzioni visionarie a cui poteva dare contenimento solo mediante una loro concreta riproduzione. E quindi traducendo le emozioni che provava in immagini che disegnava e dipingeva, trascrivendo in modo più possibile fedele le fantasie in figure e in parole che, nella forma testuale, adottavano, come lo definisce Jung, il “linguaggio elevato”, lo stile “patetico e persino ampolloso” degli archetipi. Così, nell’insieme, il Libro rosso si presenta come un magma caotico composto di testi per lo più dialogati e immagini tanto suggestive quanto indecifrabili al punto che, come ebbe a dire lo stesso autore, all’osservatore superficiale potevano sembrare delle assurdità. Ma quelle che, a uno sguardo poco allenato potevano risultare tali, si sono rivelate invece i contenuti in nuce, i nuclei di senso che segnano la topografia di quella che sarà la successiva ricchissima produzione teorica di Jung. Che la Grande Guerra abbia rappresentato uno spartiacque nel mondo contemporaneo, provocando una frattura nel corso storico e la profonda trasformazione del paesaggio mentale, è una riflessione oramai matura, soprattutto nel contesto dell’indagine storiografica e non. Stephen Kern ha letto come effetto della Prima guerra mondiale i cambiamenti nella tecnologia e nella cultura che hanno creato nuovi modi di pensare e di esperire lo spazio e il tempo29. L’“idea della simultaneità”, l’“affermazione della pluralità di spazi e tempi”, l’“affermarsi della realtà del tempo privato”, il “livellamento delle gerarchie spaziali tradizionali” sono tra le più importanti nuove emergenze mentali che Kern associa alle principali rivoluzioni sociali: il livellamento delle gerarchie, lo sgretolarsi della società aristocratica, l’ascesa della democrazia. Lungo la stessa traiettoria Antonio Gibelli30, a partire dalle testimonianze di medici, psichiatri e psicologi, ha studiato la trasformazione delle strutture mentali negli effetti traumatici della devastazione provocata dalla guerra su chi l’ha vissuta. Gibelli osserva come il vissuto della guerra ha l’effetto di provocare, attraverso l’esperienza percettiva disgregata e scomposta, la moltiplicazione e la frammentazione delle immagini visive e sonore del mondo: la guerra “dilata fino alla rottura le possibilità di esperire il mondo, dissocia violentemente gli elementi di una esperienza che costituivano, nella loro combinazione, un universo ordinato e, come tale,

29 30

Cfr. Kern [1983] 1988. Cfr. Gibelli [1991] 1998.

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percepibile”31. Ne consegue che l’esperienza della discontinuità, oltre che della dissociazione, sia stato un tratto caratteristico così forte da lasciare un segno indelebile nel rapportarsi dell’uomo alla realtà. Ed è avvenuto con il concorso di nuove forme di comunicazione e rappresentazione tecnologiche, nuove forme di riproduzione e manipolazione delle immagini, assunte poi dalle correnti artistiche dell’avanguardia, dalla pubblicità e in generale nella comunicazione sociale. Gibelli, da storico, spiega le caratteristiche di questo nuovo paesaggio mentale come conseguenze del conflitto mondiale, direttamente esperito o indirettamente veicolato dai media. Ma da un punto di vista filosofico e psicologico l’osservazione del fenomeno richiede un cambio di prospettiva, altrettanto legittimo, rispetto allo sguardo storico, e pone una interrogazione che sospende la dinamica causa-effetto, messa in luce dalle più attente indagini storiografiche: c’è da chiedersi invece se non sia stata l’ineluttabilità del mutamento d’orizzonte mentale a concorrere alla genesi del conflitto, e se di conseguenza non si debba leggere la guerra più come un sintomo, che come la causa delle trasformazioni psicoculturali in corso. In questa prospettiva si colloca Jung che, agli albori del conflitto, può solo presagire quello che avverrà di lì a poco, ma i segni che capta prefigurano in immagini e visioni la realtà della psiche delle generazioni a venire. In quanto sismografo della psiche collettiva, consapevole dell’imprescindibilità dell’orizzonte mitico entro cui l’umano da sempre vive, riconosce i simboli della sua trasformazione: coglie nel segno l’elemento peculiare del darsi fenomenico del mito, ossia la metamorfosi dei suoi contenuti e delle sue forme, e legge il conflitto mondiale come crisi causata dalla sua mutazione in atto. Quindi sperimenta e legge il caos provocato inevitabilmente dal sovvertimento del vecchio ordine di senso, un ordine condiviso e fino ad allora indiscusso ma oramai non più efficace, riproducendolo nel Libro rosso nella forma della rappresentazione in immagini e del testo dialogato. Significativamente l’opera che segna l’originalità del pensiero di Jung rispetto a Freud, datata 1912, quindi poco prima dell’inizio della stesura del Libro rosso, è titolata Wandlungen und Symbole der Libido (Trasformazioni e simboli della libido, tradotto in italiano nel 1970 come Simboli della trasformazione). Jung, convinto che la “psicologia del singolo corrisponda alla psicologia delle nazioni”, legge nei processi psicologici che accompagnano il conflitto mondiale “il problema dell’inconscio caotico, che sonnecchia inquieto

31

Gibelli [1991] 1998, p. 170.

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sotto l’ordinato mondo della coscienza”32. Ed è proprio la trasformazione della coscienza e dei suoi labili confini con l’inconscio che Jung monitora nel corso di tutta sua produzione scientifica. In Ricordi, sogni, riflessioni Jung riflette sul traguardo giunto con la pubblicazione di Trasformazioni e simboli della libido: il possesso della “chiave per la mitologia” la spiegazione dei “miti dei popoli del passato”, del “mito dell’eroe nel quale l’uomo è vissuto da tempo immemorabile”, e dichiara che giunto a quel punto, la domanda che si è posto nel momento in cui sentiva di aver raggiunto il limite prima di abbandonarsi al confronto con l’inconscio, è stata: Ma qual è il mito nel quale gli uomini vivono oggi? La risposta poteva essere: “Nel mito cristiano”. “Vivi tu in esso?” mi chiedevo. “Se devo essere sincero, no! Non è il mito in cui vivo”. “Allora, non abbiamo più alcun mito?” “No, evidentemente non ne abbiamo più nessuno”. “Ma allora qual è il tuo mito? Il mito nel quale vivi?”. A questo punto il dialogo con me stesso diventava sgradevole, e smettevo di pensare. Ero giunto al limite33.

Quanto realizzerà da questo momento in poi sarà il tentativo di rispondere a questa domanda; la risposta è tutta contenuta nel Libro rosso nella forma peculiare del testo dialogato e dell’immagine, e successivamente è dispiegata in analisi teoretica nella ricerca scientifica che perseguirà fino alla morte. La capacità di tenere ben saldo l’obiettivo di trovare una risposta gli permetterà di non essere travolto dall’impresa a cui si accinge; il Doppelgänger da temere è Nietzsche che, come aveva ben visto anche Warburg, fu travolto dall’“onda mnemica”. Significativamente Jung, come i due “sismografi sensibilissimi” Burckhardt e Nietzsche, era figlio di un pastore protestante, su cui incombeva la difficile eredità paterna della questione del “senso di Dio nel mondo”. Accenti, toni, immagini, figure che appaiono nel Libro rosso riecheggiano il Così parlò Zarathustra, ma Jung riuscirà a prendere le distanze dal suo doppio grazie all’analisi rigorosa dell’opera maggiore del filosofo tedesco, condotta durante il Seminar on Nietzsche’s Zarathustra tenuto presso Università di Yale negli Stati Uniti. Jung era ben consapevole dell’importanza del testo di Nietzsche come premonizione del cataclisma che con la guerra avrebbe investito l’Europa e il mondo. In un seminario del 1939 osserva come il filosofo fosse “a contatto con l’inconscio e dunque con il destino dell’Europa intera”34; e di questo 32 33 34

Jung [1917-43] 1991, p. 3. Jung in Jaffè [1961-62] 1998, p. 213. Cfr. Jung [1988] 2011-12, vol. IV, p. 1618.

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inconscio lo psicoanalista, con lo studio e il commento puntuale del testo, riesce coglierne e custodirne il “tesoro”. Jung quindi si confronta con il mondo delle immagini dell’inconscio e affonda nella matrice dell’immaginazione mitopoietica che è stata rimossa dalla civiltà razionalistica, messa al bando perché temuta e di conseguenza relegata nei patimenti degli inferi della follia. La tesi capitale di Jung è che “gli dei sono diventati malattie”35: rimossi dalla loro collocazione mondana e celeste (astra), sono stati ricacciati come monstra nel chiuso dell’interiorità. Quanto Jung sperimenta e testimonia nel Libro rosso è la classica nekyia, il viaggio nell’Ade, la discesa negli inferi. Questo viaggio è stato associato alla discesa nell’inferno di Virgilio nella Divina Commedia, anche in virtù del dato che attesta la lettura dell’opera di Dante da parte di Jung proprio in questo periodo36. L’associazione è indubbia, anche se – e non si tratta di un dettaglio secondario – gli inferi in cui Jung compie la katabasis non sono l’inferno cristiano, pur nella visione dantesca, ma il mondo infero della tradizione classica, che meglio rappresenta la complessità della psiche nella profondità della sua natura mitologica. Lungo questo viaggio Jung incontra una carrellata di personaggi che entrano in dialogo con lui fungendo, ciascuno in forma diversa, da psicopompo. Nell’affiorare alla coscienza la matrice dell’immaginazione mitopoietica si presenta dunque, in prima istanza, nell’essenza drammatica: è nella natura più profonda teatro, drama; i personaggi che le danno forma sono, come nella tradizione dell’arte della memoria, imagines agentes, immagini attive e personae dramatis, che dialogano e agiscono trovando ciascuna una propria collocazione e un proprio ruolo nel teatro mentale. Una delle principali acquisizioni che Jung ricaverà da questa esperienza sarà proprio la teoria dell’immaginazione attiva; una tecnica volta a utilizzare la potenzialità delle imagines agentes, ossia la capacità, in stato di veglia, di intervenire direttamente nelle fantasie inconsce, in modo tale che coscienza e inconscio entrino in dialogo relativizzandosi reciprocamente. Jung mette in pratica, ricontestualizzandole storicamente, tecniche già sperimentate con altri fini da tradizioni antiche. L’arte della memoria ne è un esempio, ma lo è anche la pratica degli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola che, nel cuore della religiosità del Medioevo, erano volti, attraverso la reviviscenza emotiva, a creare in una realtà scenica, una vera e propria ‘drammaturgia’ dei sentimenti e delle passioni, intesa a trasformare l’emozione scaturita dalle immagini agenti, debitamente trattenuta e sublimata nell’interiorità, 35 36

Jung [1929-57] 1970, p. 47. Jung [2009] 2010, p. 203.

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in estasi mistica. E non è un caso che tali pratiche siano state in buona parte sfruttate dal teatro, sia in contesti religiosi, come ad esempio nelle sacre rappresentazioni o, sempre in epoca medievale, nei Morality Plays, sia, in epoca più recente nelle tecniche di recitazione per gli attori, quindi sottratte definitivamente alla dimensione religiosa, basti accennare ad esempio alle tecniche di Konstantin S. Stanislavskij. Una significativa lettura degli esercizi di Ignazio di Loyola ci viene anche da Ejzenštejn che, proprio a partire dall’utilizzo fattone da Stanislavskij, ne legge la genesi nella mente attraverso meccanismi di montaggio e li interpreta come una prefigurazione del metodo cinematografico. Queste imagines agentes sono le personificazioni di una molteplicità di personaggi storici o mai esistiti, quindi figure mitologiche che Jung incontra e con cui entra in dialogo lungo il percorso di discesa agli inferi. Assieme a questi torna più volte a incontrare, in diversi sembianti femminili, la figura di Anima che rappresenta il personaggio più importante e la chiave per intendere l’opera. Ciò che Jung ‘mette in scena’ è la crisi dell’idea di Dio della cristianità – corrispondente all’annuncio nietzschiano della morte di Dio – e la sua trasformazione che avviene con la rinascita psicologica nell’anima come imago Dei in homine. Nel Liber primus si legge: Tutto ciò che troppo invecchia diventa un male, dunque lo diventa anche il vostro Essere supremo. Dalle sofferenze del Dio crocifisso imparate che un Dio si può anche tradire e crocifiggere, in specie il Dio dell’anno vecchio. Allorché un Dio cessa di essere la via della vita, deve segretamente cadere. Il Dio si ammala quando supera il culmine dello zenit. Perciò fui afferrato dallo spirito del profondo dopo che lo spirito di questo tempo mi aveva condotto fino alle vette.

E, di seguito: Gli antichi ci hanno già descritto ogni cosa. È da loro che possiamo imparare. Aprite i vecchi libri e imparate ciò che verrà a voi nella solitudine. Vi sarà donato tutto, e nulla risparmiato: sia la grazia che il tormento37.

La trasformazione dell’idea di Dio passa attraverso la messa in discussione del modello eroico dell’imitatio Christi, a cui è profondamente connessa e che costituisce ormai da tempi immemorabili il compito esemplare assunto più o meno inconsapevolmente da ciascun uomo e donna. La messa in crisi del modello dell’imitatio Christi è variamente espressa nel dialogo con i personaggi incontrati, ed è anche simbolicamente letta come 37

Jung [2009] 2010, p. 210.

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uccisione dell’eroe nell’evento scatenante la guerra mondiale: l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, l’erede al trono austro-ungarico, per mano di un diciannovenne studente serbo. Jung nelle opere successive chiamerà la rinascita di Dio nell’anima, ossia l’imago Dei in homine, con il termine di Sé – la totalità della psiche nelle sue componenti consce e inconsce – che può essere a tutti gli effetti considerato la cifra del mito da lui incarnato e quindi la risposta alla domanda su quale fosse il mito in cui personalmente viveva e in cui l’umanità collettivamente viveva. Il presupposto di fondo, in realtà ancora molto legato a una concezione evoluzionistica, è quanto Jung teorizzerà più tardi, ossia che: “al posto di una visione religiosa perduta subentra una costruzione simbolica più antica e arcaica, e che questa sostituzione non è soltanto ‘meccanica’, ma ha un significato anche in riferimento agli eventi dell’epoca”38. Accade cioè che in una fase di crisi epocale vengono accolti contenuti, forme e visioni del mondo appartenuti ad altre culture, o alla memoria remota della propria cultura, per riadattarle al contesto storico contemporaneo. Il Sè quindi rappresenta una trasformazione in seno al vissuto del monoteismo della cristianità; l’eresia che Jung afferma rispetto alla visione cristiana dell’individuo e del mondo, consiste nel riconoscimento dell’autonomia e complessità irriducibile della psiche, comprensiva delle funzioni consce e inconsce. È la complessità che troverà articolazione nella teoria degli archetipi dell’inconscio collettivo, rivelativa di un volto più complesso del divino, comprensivo di tutto ciò che il cristianesimo, con la riduzione del Pantheon antico al monoteismo, aveva rimosso. L’anima, come appare nelle personificazioni raccontate nel Libro rosso, è il canale che permette l’accoglimento di questo variegato rimosso, l’organo di ricezione di tutto quanto è andato perduto e che Jung definirà anche “quarto mancante”, il tassello che porterebbe al completamento simbolico dell’immagine della trinità cristiana. La figura di Cristo, considerata da Jung nella prospettiva psicologica manca della “metà oscura della totalità umana”, personificata dall’Anticristo, e questo come effetto del dualismo metafisico implicito nella visione cristiana per cui il male non può essere altro che una privatio boni, rispetto al summum bonum. A questo proposito si legge nel Liber primus: Ho compreso che il Dio che cerchiamo nell’assoluto, non può trovarsi in ciò che è assolutamente bello, buono, serio, elevato, umano o addirittura divino. Un tempo lì si trovava il Dio. Ho compreso che il nuovo Dio sta in ciò che è relativo. Se Dio fosse assoluta bellezza e bontà, come potrebbe racchiudere la 38

Jung [1938-40] 1992, p. 113.

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pienezza della vita che è allo stesso tempo brutta e bella, cattiva e buona, ridicola e seria, umana e non umana? Come può l’essere umano vivere nel grembo della divinità se la divinità si interessa solo a una sua metà?39.

Il concetto psicologico del Sé invece “non può trascurare l’ombra che appartiene alla figura di luce”40, e si prospetta come un completamento psichico della stessa immagine di Cristo, che rispetto ad esso risulta inadeguato, come inadeguata è l’imitatio Christi. Il Sé lo completerebbe implicando inevitabilmente una integrazione del male, e questo è quanto Jung prospetta per le generazioni successive riferendosi all’“età dell’‘Acquario”. Se la venuta della figura di Cristo si è accompagnata al segno astrologico dei Pesci, ossia, al “motivo archetipico dei fratelli nemici” – il problema del dualismo – l’epoca successiva, che per Jung corrisponde alla realizzazione del Sé, ha come simbolo il segno astrologico dell’Acquario, ossia, il “problema dell’unione degli opposti” – la coincidentia oppositorum – in cui non sarebbe più “accettabile la vanificazione del male in quanto mera privatio boni: la sua reale esistenza deve ben essere riconosciuta”41. Jung portando tematiche teologiche di pertinenza prettamente religiosa nella prospettiva psicologica ha avuto l’enorme merito di aver ridefinito, di pari passo alla percezione dei mutamenti culturali in atto, l’evoluzione dei rapporti tra conscio e inconscio, e di riflesso, anche le relazioni tra umano e divino che, attraverso la scoperta dell’autonomia della psiche, si sono sicuramente ravvicinati, ma proprio per questo anche più differenziati. Il Sé infatti riequilibra la distanza che si era creata tra l’Io – la coscienza razionale occidentale giunta all’apice del suo sviluppo – e Dio, una distanza che nascondeva però, come insegna la vicenda di Nietzsche, il rovescio di una folle identità. Il divino che viene recuperato attraverso la speculazione di Jung nella teoria della complessità della psiche ha i molti volti della mitologia e riflette il politeismo della cultura antica. Nel concetto di coincidentia oppositorum si legge il tentativo di risolvere nella psiche il dualismo moderno razionalista che, erede del dualismo religioso, sussiste nella separazione di bene e male, essere e non essere, e si esprime nell’univocità del linguaggio. Se il riavvicinamento di quanto è separato ha come primo effetto la coincidenza dei due poli considerati opposti, il passo successivo è la compresenza dei due poli in tensione polare e bilanciamento reciproco, e di seguito l’ulteriore passo è il recupero della molteplicità plurale propria

39 40 41

Jung [2009] 2010, p. 244. Jung [1951] 1997, p. 41. Jung [1951] 1997, p. 81.

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dell’antica visione del mondo, eminentemente riflessa nell’immaginario mitologico. Quindi, in aggiunta a Freud che per primo ha ridato valore gnoseologico al mito, a partire dal suo valore espressivo narrativo, Jung si spinge oltre. Riconosce il mito come elemento fondante del funzionamento della psiche e il significato gnoseologico degli elementi che strutturano la sua narrazione: le immagini; e studia la trasformazione del valore religioso del mito in psicologico, osservandone la metamorfosi nella psiche individuale e collettiva dell’uomo contemporaneo.

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III. James Hillman, oltre la psicoanalisi Nella genealogia dei padri fondatori della psicoanalisi, il terzo anello è costituito da James Hillman42 che, per certi versi, ne chiude la parabola. A un’ulteriore distanza epocale dal predecessore – muore esattamente cinquanta anni dopo Jung – accoglie la sua eredità ‘pagana’ e ne mette a frutto ermeneutico il lascito, spingendosi oltre il fronte dell’‘eresia’ nei confronti del cristianesimo, nella direzione di una rivendicazione piena della tradizione classica e del discorso mitico. Hillman registra un nuovo stadio di trasformazione della coscienza che, sottratta definitivamente alla costellazione dell’Io con cui l’Occidente l’ha a lungo identificata, avendo come modello il filosofico Ego cogito cartesiano, è ricondotta infine alla variegata costellazione dell’anima politeista. L’effetto gnoseologico di questa ulteriore riflessione è l’assunzione ancora più forte nel pensiero contemporaneo del valore della cultura pagana, capace di accogliere, ancor più di quanto non abbia fatto il Sé junghiano, la pluralità dei volti del divino che il cristianesimo aveva rimosso. Se il confronto tra Freud e Jung si gioca nel differente valore che i due hanno attribuito alle due forme del pensare, lo stesso può essere affermato per quel rapporto fittamente intrecciato di continuità e tradimento che risulta essere anche il confronto tra Jung e Hillman. Lo psicoanalista americano raccoglie l’eredità dell’autonomia della psiche – la teoria degli archetipi dell’inconscio collettivo – liberandola dalla necessità del suo controllo da parte di un io vigile, ultimo baluardo di un ormai logoro monoteismo della ragione. La conquista teoretica di Hillman si colloca in un contesto storico culturale diverso rispetto a quello di Jung: è il pensiero della e sulla civiltà occidentale della seconda metà del XX secolo fortemente connotato dalle 42

Per uno studio approfondito sull’autore si rimanda a Sacco 2013.

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origini americane, di contro l’ambiente cristiano-protestante mitteleuropeo della prima metà XX secolo. A partire da questo orizzonte accade che la stessa consapevolezza dell’autonomia della psiche porti a una risposta differente: se per Jung rimane sempre la necessità del suo controllo vigile, per Hillman si tratta di invertire il rapporto tra le due forme del pensare, per cui se:

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l’Ottocento tradusse le parole dell’inconscio nel linguaggio della ragione. Noi abbiamo l’opportunità di tradurre il linguaggio della ragione nello sfondo archetipico dell’inconscio e delle sue parole, abbiamo l’opportunità di trasformare il concetto in metafora43.

In questa prospettiva, non è più il pensiero razionale a vigilare sull’inconscio, ma viceversa, il mythos osserva il logos. In questo gioco di ruoli il pensiero metaforico, mitico, risulta così includere sempre la ragione come uno dei suoi modi, contrariamente al pensiero razionale che servendosi del principio di non contraddizione esclude la plurivocità del pensiero mitico. Per Hillman, la scoperta dell’inconscio, che suggella la nascita della psicoanalisi agli inizi del Novecento, è interpretata come “l’ultimo stadio del modernismo”44, ovvero il rovescio del monoteismo della ragione. L’inconscio è l’opposto della ragione arrivata allo stremo delle sue forze, e per questo nominato e qualificato per negazione: “Irrazionale, inconscio, insania, sono segni negativi, attribuiti controvoglia dalla ragione a ciò che essa non comprende”45. Smascherando in questo modo l’inconscio, Hillman intende riappropriarsi del suo antico volto, che qualifica come immaginale, o memoria: le forme e le immagini del mito che la cultura occidentale ha storicamente negato ma con cui deve inevitabilmente, per l’urgenza del presente, tornare a fare i conti. Quelli che per la filosofia postmoderna sono nichilisticamente intesi come ‘cocci’, i frammenti risultanti dallo sgretolamento della ragione, per la psicologia sostenuta da Hillman al seguito di Jung sono le immagini; immagini che hanno un valore assolutamente irriducibile al pensiero nichilista. Per Hillman la possibilità di una prima seria riemersione dell’inconscio come memoria, che riconosce come “ritorno a un’antica impostazione”46 individuando in Plotino, Ficino e Vico i precursori della psicologia junghiana, è offerta proprio in ambito psicoanalitico dalla rivoluzionaria teoria 43 44 45 46

Hillman [1972] 1991, p. 170. Hillman [1986] 1992, p. 109. Hillman [1972] 1991, p.147. Hillman [1973] 1993, p. 323.

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degli archetipi dell’inconscio collettivo di Jung; la teoria che, secondo Hillman, ha consentito di “separare gli stati inconsci in senso stretto (stupor, trance, coma, abitudine e dimenticanze) dall’inconscio nel senso più antico di memoria”47. Nel 1954 Jung, preparando l’introduzione alla sua ultima grande opera, Mysterium coniunctionis, afferma a malincuore che la moderna scoperta degli archetipi “è rimasta ignorata o perlomeno incompresa dai più”48. E Hillman, proprio perché vede nella teoria degli archetipi dell’inconscio collettivo l’“eredità demonica” di Jung e la sua potenza trasgressiva per la nostra epoca49 si impegna ad accogliere e maturare questa eresia. Reinterpretato come immaginale, come memoria, l’inconscio porta a sua volta inevitabilmente al ridimensionamento del concetto di coscienza, perché non è più, o soltanto, il suo negativo. Allora la coscienza accoglie in sé il “fondamento delirante”, quelle malattie in cui, secondo la lezione di Jung, si sono ricacciati gli dei, e accetta di essere a sua volta inconscia: e, così trasformata, la coscienza divenuta multipla, politeista, ed è ricondotta alla costellazione che Hillman individua nel complesso archetipale dell’Anima. Come si è visto, l’archetipo del Sé è il simbolo del mito incarnato da Jung, un mito che non è più cristiano ma un’eresia all’interno dello stesso cristianesimo e rappresenta la totalità della psiche nelle sue funzioni consce e inconsce. Il Sé che contiene l’originalità della teoria degli archetipi dell’inconscio collettivo: il traguardo di una coscienza sempre irrorata dall’inconscio, la consapevolezza della psiche autonoma e di riflesso un volto più complesso del divino, comprensivo di tutto ciò che il cristianesimo aveva rimosso. Per Hillman invece il demone dell’eresia va cercato nell’anima che, non ammettendo più barriere tra psicologia e religione, è pagana e politeista. In questo politeismo, l’anima è comprensiva anche del cristianesimo che, accolto al suo interno, ne risulta inevitabilmente trasfigurato. Nella variatio hillmaniana l’anima è ancora più comprensiva di tutto ciò che il cristianesimo aveva rimosso, più di quanto lo non sia stato il Sé di Jung. Nel passaggio dal Sé di Jung all’anima di Hillman si legge quindi il percorso che conduce il monoteismo della psiche che contiene il politeismo – il pensiero dell’unità che contiene la molteplicità – a trasformarsi in un politeismo della psiche che, con prospettiva inversa, contiene al suo interno anche il monoteismo – il molteplice che contiene l’unità. I miti rappresentano allora le storie e i modelli di comportamento a cui la 47 48 49

Hillman [1972] 1991, p. 190. Jung [1955-56] 1970, p. 6. Cfr. Hillman 1987, pp. 93-102.

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coscienza deve attingere per dare trama e volti, per dare in ultima istanza immagini al pathos che senza questa rappresentazione mitica, nell’iconoclastia del linguaggio clinico, è patologico; i miti offrono allora un contenitore differenziato alla dissociabilità psichica, che come controparte dell’uno sarebbe caos. Questo passaggio si compie attraverso l’eresia che sottrae all’Io la coscienza con cui l’Occidente l’ha a lungo identificato, per ricondurla invece alla costellazione dell’anima, che è tutt’uno con le immagini. Un’anima, dunque, con il compito di cancellare il pregiudizio contro le immagini, che affonda le sue ragioni nell’associazione degli eidola con il politeismo pagano. L’emersione dell’immaginale dall’inconscio negativo della psicopatologia è infatti per Hillman il sintomo della rimozione dell’immaginazione della memoria ad opera della tradizione razionale occidentale, che l’ha considerata “moralmente sospetta e ontologicamente inferiore”50. La coscienza si fonde con le immagini, è tutt’uno con esse perché riflette il loro politeismo: Hillman in questo modo si fa portavoce di uno spostamento epocale della prospettiva sull’Io e, insieme, di una trasformazione in atto della coscienza, di un ulteriore spostamento del limite tra ciò che è umano e ciò che non lo è, tra ciò che è umano e ciò che è divino. Se con Jung c’è il sospetto di rimanere, per quanto debolmente, ancorati a un pensiero ancora per certi versi irretito nei doppi del dualismo, nella consapevolezza che si tratti di un limite storico, con Hillman l’acquisizione dell’idea di politeismo permette di sfondare gli ultimi baluardi del pensiero dell’uno che ha nella modernità il suo apice. È proprio a partire dall’acquisizione della complessità della psiche fatta da Jung, della sua struttura di scintillae, di centri multipli di coscienza che nasce l’idea di politeismo psicologico proposta da Hillman. Il politeismo riflette questa molteplicità; politeismo è anzitutto pluralità differenziata, per questo è l’alternativa a un pensiero fatto di opposizioni: universale-particolare, astratto-concreto, unità-molteplicità, perché nell’opposizione dualista c’è sempre, implicita sullo sfondo, la prospettiva unitaria che ragiona per esclusioni e per aut aut. Ma politeismo significa anche riappropriazione del mondo. Al traguardo della coscienza intesa come anima, segue nella teoria hillmaniana quello dell’anima mundi elaborato anche avendo come modello di riferimento il pensiero neoplatonico rinascimentale. Il Rinascimento per Hillman è un orizzonte privilegiato per uno sguardo che intende recuperare la prospetti-

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Hillman [1972] 1991, p. 68.

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va mitica51. La tradizione neoplatonica rinascimentale, nelle riflessioni di Plotino, filtrate da Ficino e dai neoplatonici dell’Accademia Platonica che rappresentano un esempio di efficace rielaborazione dei miti della cultura classica, è la metafora cui la coscienza contemporanea deve potersi ricondurre. Il ritorno alla Grecia a cui si appella Hillman avviene coerentemente alla teoria di Jung secondo cui, come si è già visto, la crisi di un sistema culturale implica, a seguito della disintegrazione della psiche, la riemersione di simboli e motivi di culture precedenti. Hillman si libera dall’accezione evoluzionistica implicata nella teoria junghiana e riconosce come in frangenti storici ben precisi, quali la Roma antica, l’Italia rinascimentale, la cultura romantica, il recupero immaginale del politeismo greco abbia avuto una funzione psicologica fondamentale, contenendo la frammentazione provocata dalla crisi del sistema culturale e fungendo da stimolo alla rivitalizzazione per una rinascita futura. Nella stagione del nuovo rinascimento dell’anima annunciato da Hillman, la coscienza liberata può riprendere ad abitare il mondo perché non è più una coscienza isolata, identificata con l’Io, con l’Ego cogito. Non vive più nella separazione rispetto al non-io in conseguenza della spaccatura cartesiana tra res cogitans e res extensa, né è fatta prigioniera di un mondo interiore capace solo di proiettarsi al suo esterno come monstra di incubi interiori. Si registra in questa prospettiva un differente modo di vivere e abitare lo spazio e la realtà circostante. Il mondo appare allora animato e molteplice, non più frutto di proiezioni illusorie o terrifiche del’Io, ma con un’esistenza propria; è la pluralità in cui ogni parte ha in sé, e non in un altro, in un unico altro, la sua ragione d’essere. L’anima si apre a una dimensione orizzontale, volta alla scoperta del divino nel mondo, della bellezza cosmica e politica. La bellezza è restituita al mondo animato che torna così a offrirsi a un’esperienza estetica, al contempo conoscenza sensibile del divino. Il mondo torna ad animarsi dopo che lo sguardo oggettivante dell’Ego cogito cartesiano lo aveva reso un vuoto deserto inanimato, uniforme in tutte le sue parti – universum – regolato esclusivamente da leggi fisiche che presiedono all’estensione e al movimento: la res extensa resa disponibile all’umana manipolazione. Restituita anima al mondo, questo torna ad apparire, come nell’orizzonte del pensiero mitico, un cosmos: quella “giusta collocazione delle cose molteplici nel mondo, la loro si-

51

Cfr. Sul valore del Rinascimento nel pensiero di Hillman si rimanda a Sacco 2005a.

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stemazione ordinata”52; riacquista cioè un volto e riappropriandosi della bellezza torna a provocare l’aisthesis dell’uomo che non è più insensibile, anestetizzato di fronte a essa. Questa attenzione per il cosmo, per il darsi fenomenico della realtà mondana si comprende anche rispetto alla relativizzazione della narrazione storica che Hillman ha sempre sostenuto, rimarcando da buon americano di non avere mai avuto “un reale senso della storia”53. La storia non è il fine ultimo dell’umano indagare che deve invece poter osservare in trasparenza, oltre la bruta fattualità dei dati, gli universali fantastici di cui sono costellati. E però, assieme alla fantasia anche la geografia deve avere più autorevolezza della storia perché secondo Hillman è più profonda. A partire dalla geografia si possono trovare le più ricche immagini archetipiche, senza abolire la storia ma ridimensionandola, andando oltre essa54. Gli spazi con cui si compone la geografia e il senso estetico pretendono un’assunzione di responsabilità; la provocazione della bellezza mondana pretende una risposta estetica che è al tempo stesso etica e inevitabilmente politica, nel senso che richiede una consapevolezza civica ma anche una presenza attiva nella polis. Significativamente, l’acquisizione della teoria dell’anima mundi fa affermare a Hillman la fine della psicoanalisi, la constatazione dell’esaurirsi della sua necessità e funzione sociale. Riconquistata una coscienza collettiva e mondana l’uomo torna ad essere cittadino del mondo. La crisi del soggetto nata come disagio interiore all’atto di nascita della psicoanalisi sembra risolversi nel momento in cui, liberatosi dal chiuso dell’interiorità, torna ad abitare il mondo ed è capace di farlo con uno sguardo rinnovato, capace di coglierlo e rifletterlo nella sua varietà e di viverlo responsabilmente come soggetto politico. Il soggetto non è più isolato rispetto a un oggetto-mondo, ma è una parte di una totalità molteplice: in una visione olistica è parte tra parti che sono in relazione le une con le altre. Se gli albori della psicoanalisi sono segnati dalla scoperta che gli dei sono diventati malattie, il loro riconoscimento e la loro ricollocazione nel mondo porta alla guarigione dalla malattia dell’isolamento dell’io, della crisi del soggetto e quindi l’esaurirsi della vicenda psicoanalitica che Hillman intravede dalla seconda metà del XX secolo, nella compiuta fine della modernità.

52 53 54

Hillman [1989] 1996, p. 52. Hillman 2001, p. 95. Hillman in Beck 2008.

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IV. L’Atlante della Memoria di Aby Warburg Contemporaneo di Jung è Aby Warburg55 che condivide con i fondatori della psicoanalisi lo Zeitgeist del cosiddetto fin de siècle, preludio di trasformazioni epocali che il nuovo secolo vivrà pagandole al tragico prezzo dei due conflitti mondiali. Se è stato possibile leggere la crisi della modernità alla luce del ruolo cruciale svolto dalla psicoanalisi e in particolare nel caso esemplare del Libro rosso, si può tentare di farlo anche per il Bilderatlas Mnemosyne di colui che è stato considerato il fondatore dell’iconologia, quindi nel diverso contesto della disciplina storico-artistica. In entrambi i casi la messa in discussione dei principi della modernità illuminista avviene in virtù del valore gnoseologico riconosciuto alle immagini. Il fatto che nel primo caso si tratti di immagini mentali (nel senso di Vorstellung) e nel secondo di immagini appartenenti al patrimonio artistico (nel senso di ‘rappresentazione’: Darstellung) è secondario rispetto ai fini dell’indagine, perché in ultima istanza, l’orizzonte comune è la memoria culturale, scandagliata, seppur diversamente, da entrambi. L’opera di Warburg è l’ultimo – quanto unico nel suo genere – progetto realizzato dallo studioso tedesco in cui leggere, illustrato in figura attraverso un atlante di immagini – il Bilderatlas intitolato a Mnemosyne – il metodo di lettura delle immagini applicato alla storia dell’arte. I materiali che compongono l’opera, realizzata con grandi pannelli neri, sono principalmente riproduzioni fotografiche di opere d’arte e documenti storici che, appuntati sul panno nero delle tavole spaziano oltre i limiti cronologici dettati da una lettura diacronica della storia dell’arte: da un nucleo principale quattro-cinquecentesco, i materiali si spingono alla remota antichità e alla contemporaneità. Si tratta di una mappa delle tracce impresse nella memoria culturale dall’apparire, nel corso dei secoli, di figure, simboli, immagini della tradizione classica, una mappa che scardina i confini geografici spaziando da Oriente a Occidente.56 Le immagini, le riproduzioni fotografiche, sono scelte e appuntate secondo una selezione coerente al tema che guida di volta in volta la composizione di una tavola o di un gruppo di tavole. I temi portanti che attraversano l’intera composizione sono, di fatto, tutti da decifrare, poiché il montaggio che guida la disposizione delle immagini è affatto privo di supporto esplicativo. La fisionomia delle composizioni e di ciascuna immagine è esplicativa; l’individuazione dei quadri e la disposizione anche 55 56

Per un confronto tra i due si veda Sacco 2002. Cfr. Mazzucco 2005.

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seriale delle immagini rappresentano sinossi significative e dettano i possibili percorsi interpretativi. A uno sguardo tipologico e morfologico d’insieme, che compone e interpreta il disporsi delle immagini, l’opera svela, tra le tante e possibili letture57, i caratteri di permanenza e trasformazione che contraddistinguono il migrare delle immagini attraverso il tempo e lo spazio. E tale migrare è permesso da un costante movimento generato dalle tensioni polari che, generate dalla collocazione per giustapposizione delle immagini, rimbalzano, all’interno di una tavola e di tavola in tavola, di immagine in immagine. La figura mitologica di Atlante offre a Didi-Huberman la chiave per reinterpretare il Bilderatlas Mnemosyne, e arricchire ulteriormente la già profonda riflessione maturata su Warburg58. L’Atlante è un genere epistemologico utilizzato dai tempi del Rinascimento nel contesto della cartografia e diffusosi, attraverso l’enciclopedismo dell’Illuminismo, nelle scienze soprattutto verso la fine del XIX secolo, ma è anche prima di tutto una figura mitologica. Il titano Atlante secondo il filosofo francese “risulta, nella totalità del progetto di Warburg, una figura al tempo stesso mitologica e metodologica, allegorica e autobiografica”59. L’immagine di Atlante compare nelle fattezze del cosiddetto Atlante Farnese – la copia romana da originale ellenistico conservata nel Museo Archeologico di Napoli – nella seconda tavola di Mnemosyne, che nel complesso sembra illustrare la rappresentazione greca del cosmo, e segue la prima tavola dedicata, a giudicare dalla scelta delle immagini utilizzate relative a fegati divinatori, all’antica pratica orientale della epatoscopia. Didi-Huberman interpreta questa collocazione del titano all’inizio dell’Atlante e rispetto agli altri pannelli – i pannelli A, B, C dedicati sempre a tematiche cosmologiche – come un monito rispetto a tutta l’opera, giocato sulla polarità della sua immagine: Atlante è sia il corpo piegato sotto il peso di un carico sia lo spazio dispiegato, sferico e leggibile del cielo astrologico scolpito nel bassorilievo della sfera romana e tenuto alzato ancora in un’incisione del XVIII secolo posta accanto. Il pensiero di Warburg è leggibile secondo una dialettica polare: l’immagine di Atlante evoca “da un lato la tragedia attraverso cui ogni cultura illustra i suoi propri mostri (monstra), dall’altra la conoscenza attraverso cui ogni cultura spiega, riscatta,

57 58 59

Per un’ipotesi di lettura delle tavole del Bilderatlas Mnemosyne: cfr. Forster Mazzucco 2002 e Mnemosyne 2004. Cfr. Didi-Huberman 2010; Didi-Huberman 2011. Didi-Huberman 2010, p. 60. Tutte le citazioni tratte da questo testo sono tradotte a cura di chi scrive.

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o contrasta questi stessi mostri nelle sfere del pensiero (astra)”60. Atlante, il guerriero sconfitto nella lotta contro gli dei Olimpici, è il “portatore per eccellenza”, e in questo suo portare, la forza con cui sostiene sulle spalle il mondo è pari alla sofferenza che prova per il peso che deve sopportare. In questo senso quella di Atlante è un’immagine dialettica, un Dynamogramm che condensa in sé la polarità semantica. Se il portare personifica il controllo dell’uomo sull’universo, dall’altra personifica anche la debolezza dell’uomo immobilizzato sotto il peso della volta celeste. E, per il fatto di sostenere il mondo ed essere in contatto con la volta celeste e il movimento delle stelle, il portare indica anche il potere di conoscere. Una conoscenza che Didi-Huberman non esita a definire tragica, perché avviene “attraverso il contatto e il dolore”61, perché tutto ciò che il Titano impara è guadagnato per mezzo delle sfortune e delle punizioni. Ma è anche una conoscenza abissale, che il filosofo francese desume dalla qualificazione che caratterizza Atlante nell’Odissea: “il terribile Atlante che conosce gli abissi del mare e da solo sostiene le enormi colonne che tengono divisi terra e cielo”62: allora Atlante è possessore di “una conoscenza abissale che è dolorosa quanto necessaria, tanto terribile quanto fondamentale”63. Secondo questa prospettiva, l’Atlante di Mnemosyne è a tutti gli effetti l’opera di Warburg rivelativa dell’acquisizione di una nuova forma di conoscenza e di un nuovo metodo di conoscenza che si potrebbe riconoscere tragico. E questo si comprende anche per la sua collocazione storica e biografica. La genesi del Libro rosso di Jung è paragonabile a quella dell’Atlante di Warburg per la contiguità storica rispetto alla Prima guerra mondiale; in questo frangente infatti la vicenda personale dell’uomo e quella collettiva si toccano tragicamente. L’immagine del “sismografo sensibilissimo” che Warburg aveva affibbiato a Burckhardt e Nietzsche calza a pennello anche per lui, ed è come scrive Didi-Huberman proprio “immergendosi nella Grande Guerra che il sismografo si è spezzato”64. Sappiamo che, dall’inizio della guerra nel 1914, Warburg comincia ad accumulare un consistente archivio di articoli di giornale che la documentano, e traccia l’evoluzione del conflitto disegnandone le linee di trincea, quasi per controllare con un gesto apotropaico il potere esplosivo che poteva avere anche sulla sua psiche. È dal 1918 – “nelle settimane successive alla capitolazione tedesca”, puntua-

60 61 62 63 64

Didi-Huberman 2011, pp. 84-85. Didi-Huberman 2010, p. 67. Omero, Odissea I 52-54. Didi-Huberman 2010, p. 67. Didi-Huberman [2002] 2006, p. 339.

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lizza Didi-Huberman65 – che viene diagnosticato il primo manifestarsi di una psicosi da parte di Ludwig Binswanger che, dopo due anni e mezzo di frequentazioni di cliniche tra Amburgo e Iena, lo avrà in cura dal 1921 nella clinica di Bellevue a Kreuzlingen, dove rimarrà fino al 1924. In tutti questi anni, il corrispettivo del Das rote Buch di Jung è il Tagebuch su cui Warburg trascrive l’urgenza di fissare con la scrittura le parole: sessantanove taccuini con copertina in tela nera e numerati a mano le cui pagine sono totalmente “coperte da una scrittura nervosa e, a tratti, totalmente destrutturata”, che “si aggroviglia in modo così caotico che le righe si sovrappongono in un inestricabile guazzabuglio”66: il testo, per lo più intraducibile, è infatti esplicativo dell’energia che lo investiva. Ma come nel caso di Jung nel caos trascritto e rappresentato nel Libro rosso è rivelativo della distruzione di un sistema, di un ordine che prefigura la costruzione di una nuova visione del mondo, lo stesso possiamo pensare per Warburg, alla luce di quanto realizzerà di seguito all’esperienza destrutturante della malattia. Warburg, durante la malattia, si confronta con i monstra che riuscirà a ricollocare come astra nella sua produzione successiva; come scrive nell’introduzione a Mnemosyne: “i monstra della fantasia diventano maestri di vita che decidono l’avvenire”67. E questo avviene nel 1923 a cominciare dalla conferenza tenuta sull’esperienza che lo aveva portato trenta anni prima nel Nuovo Messico alla scoperta del pensiero primitivo degli indiani Pueblo della tribù degli Hopi, per arrivare di seguito, con l’Atlante della Memoria, al dispiegamento di un metodo che sembra aver acquisito il meccanismo intrinseco al ‘pensare primitivo’ – o per dirla con Freud al ‘processo primario’ o con Jung alla ‘seconda forma del pensare’, o con Hillman all’‘imaginale’ o alla ‘memoria’ – che aveva cercato e trovato letteralmente con il viaggio negli Stati Uniti. È significativo notare come il viaggio di Warburg, tra il 1895 e il 1886, è a tutti gli effetti precursore di una vera e propria moda che soprattutto negli anni 20 del Novecento, si diffonde tra artisti e intellettuali europei spinti oltreoceano proprio dal desiderio di trovare il ‘pensiero primitivo’, il pensiero prelogico. In quegli anni infatti, a conclusione della guerra civile il Messico torna ad essere frequentabile, e la lista di personaggi che lo visitano è veramente consistente: a cominciare dallo stesso Jung, per proseguire con David Herbert Lawrence, Max Ernst, Georges Bataille, Artaud, André Breton, Ejzenštejn68. L’idea di fondo che

65 66 67 68

Didi-Huberman [2002] 2006, p. 341. Didi-Huberman [2002] 2006, p. 343. Warburg [1929] 1988, p. 37. Cfr. Somaini 2011, pp. 116-118.

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accomuna tutti questi, ma anche tanti altri personaggi che li hanno preceduti in frangenti storici diversi, è che gli indiani del continente americano fossero interessanti perché gli ultimi depositari di una cultura paragonabile al paganesimo antico, quindi in qualche modo degli esemplari dell’infanzia filogenetica dell’umanità. Le conquiste teoriche che Warburg aveva fatto negli studi precedenti Mnemosyne, scardinando l’epistemologia su cui si fondava la moderna storia dell’arte, trovano conferma, applicazione e ampliamento nel dispiegamento di immagini che lo studioso compone nell’Atlante. I fondamenti scientifici messi in crisi dall’opera di Warburg sono quelli di ascendenza winkelmanniana, con la filosofia della storia e i relativi modelli teorici temporali in essi implicati, ossia, il modello naturale, biologico, che scandisce la successione tra la vita e la morte, e quello ideale che, forzando quello naturale, si alimenta dell’assenza del suo oggetto – l’opera d’arte antica – con la conseguenza di idealizzarlo, e di concepire la relazione ad esso esclusivamente attraverso il meccanismo teorico e pratico dell’imitazione, della mimesis intesa come rapporto riproduttivo tra copia e modello. Warburg, che si definisce “psico-storico” nel tentativo di “diagnosticare la schizofrenia dell’Occidente”69, rompe con questi modelli e sostituisce al modello naturale quello culturale e al modello ideale quello psichico sintomale che contempla non tanto l’imitazione ma la sopravvivenza della forma antica: il Nachleben delle formule del pathos, le Pathosformeln. Warburg comprende così il valore culturale del riutilizzo delle forme desunte dall’antichità greca, e con esso il valore vitale che la cultura del Rinascimento legge nelle immagini in movimento dell’antichità e che assume per fondare se stessa. Warburg va quindi collocato, come ha fatto Didi-Huberman, in una traiettoria ben precisa: quella aperta prima da Nietzsche e condotta poi dalla psicoanalisi inaugurata da Freud. Warburg, inserendosi lungo il tracciato che tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento ha smascherato l’autonomia della ragione rivelando la potenza vitale dell’inconscio, si apre a quella dimensione che costituisce l’alternativa contemporanea al dualismo moderno tra natura e idea e che è mediata dal filtro della psiche. In questa dimensione vanno collocati il concetto warburghiano di Nachleben e di Pathosformeln. Così il concetto di Nachleben introduce un’idea di temporalità specifica delle immagini che nulla ha a che vedere con il modello temporale cronologico dello storicismo positivista, perché anacronizza il presente, il passato e il futuro, ed è intessuta di contrattempi, 69

Warburg citato in Gombrich [1970] 1983, p. 258.

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sbalzi, sopravvivenze, ripetizioni, impurità. La restituzione dell’Antico, lo studio della sua sopravvivenza deve compiersi nel “tentativo di scendere nel profondo intrico istintuale di spirito umano e materia stratificata acronologicamente”70. È una temporalità intesa come forza plastica in continuo divenire e metamorfosi, che incrina il concetto positivista di storia già ridimensionato dal colpo inferto da Nietzsche alla “storia che vuol essere scienza” attraverso il pensiero della genealogia e dell’eterno ritorno, ed è in definitiva l’anacronismo del tempo mitico. Didi-Huberman giustamente per leggere il rapporto che guida le somiglianze tra le immagini nel metodo di Warburg si serve dell’uso concettuale che la filosofia contemporanea – in primis Michel Foucault – ha fatto dell’idea, tutta mitologica, di genealogia desumendola da Nietzsche. Questo è comprensibile perché proprio nella genealogia, come si è già visto, si dispiega la dimensione aoristica del tempo del mito; e in essa è implicato un rapporto tra particolare e universale non mediato e uniformato dal modello ideale dell’unità, ma che veicola un concetto di identità concepibile solo rispetto al suo continuo differenziarsi. Allo stesso modo il concetto di Pathosformel acquista senso se inteso, come lo intende Didi-Huberman, come sintomo, prendendo a prestito il termine e il concetto coniato da Freud: quindi sintomo del tempo del Nachleben, della sopravvivenza. La Pathosformel è sintomo, manifestazione del Nachleben, suo veicolo, sua forma corporea; per questo i due concetti si integrano e completano a vicenda. L’ipotesi dell’inconscio in Freud nasce come conseguenza della visione del sintomo; il sintomo è la manifestazione fisica della memoria inconscia; così la Pathosformel è l’espressione tanto involontaria quanto discontinua di una memoria rimossa che trova forma nella gestualità fisica rappresentata nell’immagine. Didi-Huberman fa luce sullo statuto dell’immagine in Warburg: l’immagine è psichica, è una formazione che rimbalza continuamente tra la dimensione mentale, interna mobile e indefinita, e quella fisica esterna, cristallizzata nelle rappresentazioni artistiche. Nella dimensione psichica si comprende il concetto di forma che introduce Warburg con l’espressione Pathosformel. Un concetto in cui, come ha rilevato Andrea Pinotti, convivono le due accezioni fondamentali del termine, ossia forma come morphè e forma come eidos; per cui “alla caratterizzazione della forma sensibile come aspetto esteriore si affianca, compenetrandola, quella di forma ideale come struttura eidetica, come formula tipica”.71 Quindi una sintesi di ideale e sensibile, che intende scalzare ogni dualismo, perché morphé indica ciò che viene direttamente 70 71

Warburg [1929] 1988, p. 23. Pinotti 2001, p. 85.

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presentato ai sensi, ma anche il contorno, il limite esterno, la superficie visibile, quindi la forma considerata nel suo aspetto sensibile, che appare in una continua metamorfosi, come fenomeno complesso e mutevole perché soggetto a continue trasformazioni, e quindi non è conoscibile nell’aspetto di perfezione cristallizzata. Nell’accezione di eidos la forma invece indica il modo in cui le parti si armonizzano nel loro insieme, si strutturano, anche in relazione a un disegno, che funge da tipo rispetto alle parti in composizione. La forma è considerata in questo caso come dimensione astratta, compresa come proporzione, come simmetrica e armonica disposizione e connessione tra le parti. Quindi la Pathosformel nelle intenzioni di Warburg esplicita l’identità tra “la formula iconografica – l’aspetto di fissità ripetibile come schema”, ossia l’eidos – e “un contenuto di pathos in cui la mimica gestuale è declinata a un alto grado di eloquenza espressiva”72, ossia la morphé. Nell’Atlante la questione dello statuto dell’immagine sembra risolversi tutta nella sua disposizione, visione e ricezione, in una parola, nel meccanismo del montaggio in cui si dispiega la collocazione delle immagini; come se il problema ontologico dell’immagine si risolvesse tutto nella sua fenomenologia. Non risulta che Warburg abbia mai utilizzato il termine montaggio per indicare il suo metodo, che invece gli è stato attribuito da molti autori tra cui Philippe Alain Michaud73 e in particolare Didi-Huberman, il quale ne ha ampiamente approfondito il valore epistemologico soprattutto a partire dall’uso affine che ne ha fatto dichiaratamente Benjamin. Warburg nel 1912 commentando lo studio fatto sugli affreschi di Palazzo Schifanoia a Ferrara afferma di non ambire alla soluzione di un enigma figurato che si può al massimo “intravedere cinematograficamente”, “a colpi di proiettore cinematografico” (kinematographisch scheinwerfen)74, facendo riferimento alla modalità di utilizzare il proiettore per diapositive che era solito adottare durante le conferenze. In questa espressione, il riferimento al cinema rimanda indubbiamente in modo implicito al metodo racchiuso nel montaggio che per primo Ejzenštejn ha teorizzato in riferimento al contesto cinematografico. L’associazione al montaggio che si deduce qui è da intendersi per il valore chiarificatore rispetto al suo metodo, come giustamente ha osservato Didi-Huberman75; quindi non per affermare o negare un’ap-

72 73 74 75

Mazzucco 2005, p. 147. Cfr. Michaud 1998. Warburg [1932] 1996a, p. 268. Didi-Huberman [2002] 2006, p. 444.

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partenenza di Warburg alle esperienze artistiche a lui contemporanee che hanno fatto uso programmatico del montaggio, quali il collage cubista, gli esperimenti dadaisti, surrealisti o per l’appunto le prime esperienze cinematografiche. Il valore dell’uso del montaggio infatti, anche in riferimento a queste esperienze artistiche, va ricondotto al minimo comune denominatore che lo qualifica anzitutto come forma di pensiero, come un pensare che si dipana per immagini e per sequenze di immagini e costituisce a tutti gli effetti un metodo di conoscenza. Il presupposto che muove l’impresa condotta da Warburg nell’Atlante è che l’immagine sia canale privilegiato di conoscenza e che, fungendo da codice interpretativo fondamentale, abbia piena dignità, avendo una sua autonomia nel dettare le regole di un metodo osservativo. Sembra che Warburg colga lo stesso valore autonomo che Jung, per primo, aveva riconosciuto pienamente alle immagini. Sono quindi anzitutto le immagini a dettare le regole del gioco, a direzionare l’indagine, a dare indicazioni sulla traiettoria da seguire di volta in volta, ed è la loro attenta osservazione a obbligare all’attenzione tanto per il dettaglio quanto per la visione d’insieme. È proprio la peculiarità del darsi visivo dell’immagine a imporre la necessità di considerarla mai irrelata ma continuamente connessa al contesto e alle altre immagini con cui è composta; in altri termini l’immagine obbliga alla relazione, aprendo alla multidirezionalità della prospettiva. L’attenzione all’immagine richiede la focalizzazione ottica del particolare, del dettaglio, e al tempo stesso richiede che lo sguardo sia volto all’interezza del quadro, all’inquadratura globale; e le traiettorie interpretative che legano il particolare al contesto sono tanto molteplici quanto di volta in volta differenti. A direzionare il percorso di lettura delle immagini è la polarità semantica che le attraversa, riconoscibile proprio dallo sguardo d’insieme capace di cogliere visivamente le immagini in modo sinottico. Il concetto di Polarität, si è già visto, è fondamentale da subito negli studi di Warburg; come ha osservato Pinotti il concetto di polarità e polarizzazione sono il fulcro del suo approccio morfologico all’immagine76. La polarità si legge non solo nel concetto di Pathosformel come identità non pacificata di forma e contenuto, ma anche nell’interpretazione generale dell’arte fiorentina del XV secolo, attraverso le immagini chiave che ne hanno permesso la comprensione. Un esempio caro a Warburg è l’immagine della fanciulla incedente dalle vesti mosse che l’artista rinascimentale riprende dalla ninfa o menade dei rilievi antichi per rappresentare figure particolari. Figure che possono incarnare, di volta in volta, o la saldezza 76

Pinotti 2001, p. 177.

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morale del giustiziere o la salvazione dell’anima, o la seduzione mondana come si legge nelle immagini della Giuditta o Raffaele che accompagnano Tobiolo o la Salomè danzante77. Nella lettura di Warburg una stessa intensità patica viene osservata alla luce della sua risemantizzazione che cambia a seconda del contesto in cui viene applicata. La polarizzazione si comprende rispetto al contatto della forma antica con la nuova epoca:

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I dinamogrammi dell’arte antica sono lasciati in retaggio in uno stato di tensione massima ma non polarizzata, rispetto alla carica energetica attiva o passiva, all’artista che può reagire, imitare o ricordare. È solo il contatto con la nuova epoca a produrre la polarizzazione. Questa può portare a un radicale rovesciamento (inversione) del significato che essi avevano nell’antichità classica78.

Sulla base di questi rovesciamenti o inversioni Warburg individua nel susseguirsi di permanenza e trasformazione la particolarità metamorfica delle immagini, come Jung coglie nella continua trasformazione l’elemento peculiare del darsi fenomenico del mito. Un esempio sono lo smascheramento dei travestimenti dei soggetti rappresentati nella fascia mediana degli affreschi del Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia a Ferrara dove, dietro le barbare vesti degli antichi demoni-decani indiani della tradizione astrologica orientale, Warburg riconosce i volti delle divinità olimpiche79. Ma la polarità veicola anche la relazione di accostamento tra le immagini distribuite nelle tavole dell’Atlante. Se per Warburg la polarità implica una coesistenza dinamica, non risolta, dei poli opposti che in continua tensione conservano l’ambivalenza nella relazione, nel contesto dell’Atlante tale polarità si distribuisce nella molteplicità delle immagini, quindi nella pluralità e non esclusivamente nella tensione oppositiva tra due singoli poli. Un esempio di lettura dell’Atlante fatto sulla base della polarità semantica è quello condotto sulla tavola 48 dedicata alla figura di Fortuna nel Rinascimento80, dove la polarità semantica è letta attraverso le varie personificazioni di Fortuna che Warburg decide di collocare sul pannello. Quanto si dispiega nell’Atlante è una molteplicità significante di singolarità non riconducibili ad alcuna unità; Didi-Huberman riprendendo una citazione di Saxl per cui con Mnemosyne si avrebbe una “dimostrazione ad oculos” afferma come questa dimostrazione non ha “la forma di un sil77 78 79 80

Cfr. Warburg [1932] 1996b, pp. 283-307. Warburg citato in Gombrich [1970] 1983, p. 215. Cfr. Warburg [1932] 1996a, pp. 249-269. Cfr. Bordignon - Sbrilli 2011.

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logismo classico: non riduce il diverso all’unità di una funzione logica”81. Quindi è il primato della vista che guida il senso e il significato della disposizione e della lettura di tale disposizione, e nella vista si configura propriamente la forma di conoscenza mediata dal montaggio: in esso si dispiega la complessità non riconducibile a unità. E infatti la pluralità della visione è garantita dalla non fissazione delle immagini che, per quanto collocate sui pannelli, erano potenzialmente spostabili perché semplicemente appuntate con spilli. E la “dialettica proliferante” così come la definisce Didi-Huberman è data anzitutto dall’attrito che gli accostamenti provocano favorendo la mobilità dello sguardo. L’accostamento e l’attrito tra immagini è mediato se non garantito dalla loro distanza o meglio dall’intervallo che si apre come spazio vuoto tra di loro, quello che Warburg individua anche come Denkraum, lo “spazio del pensiero”82. Didi-Huberman spiega nel contesto dell’armatura visiva e del montaggio il senso dell’espressione di Warburg che definisce la sua un’“iconologia dell’intervallo (Ikonologie des Zwischenraumes)”83, e trova conferma nella teoria del cinema di Dziga Vertov, nel significato di intervallo come elemento di passaggio da un movimento all’altro. L’intervallo sarebbe allora una sorta di cerniera, un cardine che garantisce la struttura del montaggio. Un’ulteriore comprensione può essere stimolata se si considera anche il concetto di “spaziatura” introdotto da Nancy per significare la relazione tra il singolare e il plurale84. Come l’intervallo, la spaziatura è il ‘tra’, la “distensione e la distanza aperta dal singolare in quanto tale” è “l’intersezione dei fili”. La spaziatura pone la relazione perché rimanda sempre ad altro, apre la relazione per contatto, senza che le parti chiamate in causa siano negate nell’unidirezionalità di una sola prospettiva. Significativamente Nancy usa la giustapposizione di parole per indicare il rapporto tra “essere singolare e plurale”85 che si può pensare solo dopo la fine di ogni ontologia metafisica, svelando però in questo modo sia il limite della significazione discorsiva che la potenza della collocazione spaziale, visiva. La giustapposizione di parole riproduce il meccanismo di segmentazione dell’immagine in inquadrature semplicemente poste l’una accanto all’altra – senza che vi siano quindi segni interpuntivi o congiunzioni – proprio del linguaggio cinematografico. “Essere singolare plurale” è a tutti gli effetti un montaggio di parole accostate, dove l’intervallo tra parole è fondante, l’assenza di 81 82 83 84 85

Didi-Huberman [2002] 2006, p. 424. Cfr. Warburg [1939] 1984. Cfr. Warburg [1929] 1988. Cfr. Nancy [1996] 2001. Nancy [1996] 2001, p. 43.

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determinazione sintattica garantisce il significato che il filosofo francese intende comunicare:

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‘essere’ può essere verbo e sostantivo, ‘singolare’ e ‘plurale’ possono essere aggettivi o sostantivi, si può scegliere la combinazione che si vuole – marcano al tempo stesso un’equivalenza assoluta e la sua articolazione aperta, impossibile da racchiudere in un’identità86.

Qui in discussione è l’essere che agli albori della filosofia ha fondato il principio di identità e non contraddizione, e che è stato posto come sostanza preesistente all’esistenza; l’essere che intende svelare Nancy è “singolarmente plurale e pluralmente singolare” e “non preesiste al suo singolare plurale”. Nella spaziatura c’è allora la co-essenzialità dell’essere, quella “spartizione in guisa di assemblaggio”, dove è il “‘con’ a fare l’essere, non ad essere aggiunto all’essere”. Nell’Atlante di Mnemosyne il rapporto tra le parti, tra le immagini, tra ciascuna tavola e la totalità dell’opera, il dettaglio, la parte che funge da frammento e l’insieme è tale da richiedere questa singolarità plurale, perché lo sguardo rinnovato con cui Warburg inaugura la nuova forma di conoscenza – che abbiamo visto essere una conoscenza tragica – è quella che, veicolata dallo sguardo, richiede una “visione d’insieme” (Übersicht). V. La morfologia goethiana Certamente l’acquisizione di uno sguardo capace di una visione d’insieme è stata conquistata da Warburg al prezzo di un’esperienza dolorosissima, a conferma del valore mai esauribile del pathei mathos eschileo. Però bisogna riconoscere un’influenza molto forte in Warburg proprio rispetto a questa capacità di cogliere il rapporto tra particolare e universale e di pensare secondo polarità: il pensiero di Goethe, nei confronti del quale, di fatto, sono espressamente debitori molti degli autori incontrati fin qui e ancora da incontrare, a partire da Nietzsche, Freud e Jung, per proseguire con Benjamin e Ejzenštejn. La morfologia goethiana ha offerto al Novecento un pensiero per immagini che ha il pregio di restituire il valore gnoseologico perduto alle immagini e si colloca, rispetto al contesto storico in cui si dipana, a metà strada tra arte e scienza, quindi oltre l’immagine estetizzata dell’arte e

86

Nancy [1996] 2001, p. 43.

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Mito e teatro

l’immagine concettualizzata dalla scienza. Si comprende quindi su questo versante l’attualità di Goethe per il XX secolo, in cui si assiste allo spalancarsi delle profondità di quello che Olaf Breidbach e Federico Vercellone hanno designato – in un’accezione forse che risente ancora di un’ottica evoluzionistica – come “l’ambito del prediscorsivo”: ossia “l’affiorare di elementi compressi, dal sogno all’intuizione, al simbolo all’immagine”87; o in altre parole quella che sopra è stata designata, a partire dalla prospettiva psicoanalitica, come la scoperta dell’inconscio. La morfologia goethiana è un codice di lettura delle immagini, oltre che una visione del mondo alternativa a quella della modernità, che approda al Novecento, dopo esersi diffusa in modo sotterraneo fin dal XIX secolo, attraverso percorsi molteplici, investendo ambiti disciplinari differenti quali le scienze umane e naturali, e interessando la scienza della letteratura, le pratiche artistiche, il folklore, l’antropologia88, ma anche ambiti del sapere filosofico come la gnoseologia, l’estetica, la filosofia della storia, la filosofia della natura e la teoria della cultura. Tutto da indagare sarebbe il rapporto tra questa visione del mondo così come si è formata nel pensiero di Goethe e gli eventi storici di cui è spettatore e protagonista, prima di tutti la rivoluzione francese, l’evento che ha segnato la fine della società del Settecento. È certamente condivisibile l’idea di Breidbach e Vercellone secondo cui la tradizione morfologica a partire da Herder e da Goethe risponde alla necessità di rimettere ordine entro un mondo che minaccia di perdere la propria unità fondamentale anche in forza di eventi sconvolgenti come la rivoluzione francese

per cui, all’unità intellegibile viene sostituendosi […] l’unità del visibile89.

Ma questo sembra valere ancora di più per la società del Novecento che sopravvive alle deflagrazioni dei due conflitti mondiali. Goethe, che vive a cavallo tra due secoli il passaggio dall’Illuminismo al Romanticismo, evidentemente assiste allo sgretolarsi di un ordine a cui segue la creazione di un nuovo ordine ed è capace di riverberarlo nel suo pensiero. Didi-Huberman giustamente osserva come il poeta abbia anticipato Warburg nell’in87 88 89

Breidbach - Vercellone 2010, p. 30. Ginzburg 1982, pp. 5-17. Breidbach - Vercellone 2010, p. 18.

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Il Novecento, ‘pensare per immagini’

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tento di esaminare le cose dal duplice punto di vista della collezione e del caos: in quest’ottica allora i campioni della collezione, gli elementi singoli selezionati e raccolti secondo una costellazione, appaiono come ciò che dà la possibilità, di fronte alla moltitudine del caos, dei monstra, di percepire un ordine, ‘gli astri’ della conoscenza, gli universali90. Significativamente Cassirer ha osservato come in Goethe “predomina una relazione del ‘particolare’ col ‘generale’, che è difficile trovare altrove nella storia della filosofia o delle scienze naturali”91, e infatti il rapporto tra particolare e universale che concepisce Goethe si spiega proprio in relazione alla visione d’insieme. L’assoluta peculiarità di Goethe, se lo si osserva rispetto alle opere di carattere prettamente scientifico sulla natura e sull’arte, è quella di essere stato un poeta. Lo sguardo poetico è quanto sta a monte della speculazione che dà forma agli studi di scienze naturali: le categorie che muovono la visione del mondo sottesa sono le stesse. O meglio, convergono nella finalità ultima che Aristotele, nella Poetica, attribuisce alla poesia, ossia quella di dire gli universali. Ed è questa stessa ‘priorità’ dell’arte sulla scienza che gli fa affermare, quasi profeticamente, in riferimento alle incomprensioni che i contemporanei avevano dimostrato nei confronti dei suoi scritti scientifici: Nessuno voleva ammettere che si potessero combinare scienza e poesia. Si dimenticava che la scienza è uscita dalla poesia, né si considerava che, mutando i tempi, le due potrebbero amichevolmente ritrovarsi, con vantaggio reciproco, su un piano superiore92.

A questa affermazione fa da eco il rovesciamento di prospettiva tra le due forme del pensare, tra mythos e logos, prefigurato da Hillman. Per questo Goethe, collocandosi storicamente nel secolo precedente rispetto agli autori considerati, ha messo in crisi la scienza moderna inaugurando un approccio diverso alla natura, quello morfologico, che ha valore nella misura in cui si smarca dalle impostazioni concettuali e metodologiche dell’epistemologia moderna per recuperare un approccio alla physis affine a quello degli antichi. Il presupposto dell’indagine scientifica goethiana – e dell’originalità che propone rispetto alla gnoseologia moderna – riposa tutto nella particolare visione del mondo che egli matura in relazione all’esperienza visiva e alla conoscenza artistica del classico, così come emerge durante il viaggio in 90 91 92

Cfr. Didi-Huberman 2010, p. 94. Cassirer [1906] 1963, p. 230. Goethe [1790; 1817-24] 2005, p. 86.

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Italia. L’esperienza artistica vissuta in Italia tra il 1786 e il 1788, e redatta retrospettivamente solo trenta anni dopo, è parallela alle osservazioni morfologiche che, condotte sulle piante, gli animali e i colori e cominciate indicativamente a partire dal 1780, trovano la forma di una prima pubblicazione nel 1790, dopo il ritorno a Weimar, nella Metamorfosi delle piante. Più precisamente, in questo periodo la genesi delle idee è tale da intrecciarsi nei due ambiti proprio come effetto dell’esperienza visiva artistica e naturalistica vissuta. Non è da considerarsi quindi un caso il fatto che l’idea della pianta originaria si delinei nettamente, per la prima volta nel pensiero di Goethe, in occasione della visita al giardino pubblico di Palermo nell’aprile del 1787, circa un anno dopo la prima intuizione avuta nel giardino botanico di Padova. Così come la teoria dei colori, elaborata in modo sistematico solo successivamente, ha la sua origine in Italia, e in special modo in Sicilia, dove la particolare luce del sud stimola le riflessioni sul colore in relazione alla pittura. La Sicilia era di fatto identificata con l’antica Grecia nell’immaginario della borghesia tedesca che viveva la tradizione del viaggio alla scoperta dell’Italia come scoperta del classico93. L’esperienza artistica che Goethe vive in Italia, e che poteva essere vissuta solo in Italia, consiste proprio nella ‘scoperta’, o riscoperta rispetto agli studi fatti in patria, dei Classici nell’arte antica e in quella rinascimentale. In Italia si compie la formazione estetica e scientifica di Goethe, proprio nell’esperire la cultura classica; si tratta di un’idea di classico carpita nelle immagini artistiche che fanno da ambiente al suo viaggio e che si imprimono “nella mente e nell’anima”, diventando di riflesso criterio di lettura e comprensione di quelle naturali. Qui vengono ideati i concetti cardine dei suoi studi scientifici: il concetto di Urpflanze, la pianta originaria degli studi botanici, di Urtier, il tipo studiato nel contesto degli studi anatomici, a cui si affianca l’Urphänomen, il fenomeno originario che, nato nel contesto della Teoria dei colori, è in qualità di invariante, la struttura cardine nella serie di variazioni fenomeniche. Il primato della vista è continuamente ribadito nelle ricerche di Goethe al punto che la sua finalità principale consiste nella rappresentazione, piuttosto che nella spiegazione94. Tutti questi concetti originali che nascono da un approccio visivo al reale, fenomenologico ante litteram, hanno un valore fondamentale rispetto alla modalità di leggere il rapporto tra particolare e universale e implicano la prospettiva della visione d’insieme.

93 94

Cfr. Sprengel 1987, pp. 159-179. Cfr. Goethe [1817-24] 2005, p. 103.

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La morfologia come alternativa all’epistemologia moderna è definita da Goethe una “dottrina” affine all’arte per la peculiarità della sua “visione intuitiva”, in grado di conoscere “il vivente in quanto tale, di vederne in mutuo rapporto le parti esterne visibili e tangibili, di considerarle indizi del loro interno, e per tal modo dominare l’intero”95. La scienza ufficiale con cui Goethe si confronta è impostata metodologicamente sui principi della rivoluzione scientifica, definiti da Galileo Galilei, rafforzati da Isaac Newton e supportati teoreticamente anzitutto da Cartesio e Bacone. L’Illuminismo – che se per un verso, al tempo di Goethe regna sovrano, dall’altro comincia però a subire i contraccolpi del nascente Romanticismo – è il principale erede della rivoluzione scientifica moderna in quanto si appropria di questo metodo per portarlo alla sua massima assimilazione e utilizzo. I principi su cui si fonda tale metodologia hanno inaugurato una visione della natura e del mondo che ha dominato fino a oggi in campo scientifico, e di riflesso, in modo più o meno consapevole, si è imposta anche in ambiti non specificatamente o esclusivamente scientifici. Per quest’ottica metodologica la natura è anzitutto la subìta oggettivazione: fatta rientrare in un ordine oggettivo, la natura viene cioè sottratta sia all’ordine spirituale, di dominio religioso, che all’ordine soggettivo, di dominio dei sensi. La natura oggettivata, ossia posta di fronte o di contro (ob-iectum), è concepita come dimensione da osservare per essere quantificata, misurata secondo criteri desunti dal sapere matematico e geometrico, assurto a criterio di verità per il rigore logico-dimostrativo dei suoi procedimenti. La finalità dell’osservazione è l’individuazione del sistema di leggi che regolano la natura, pensato essenzialmente come uniforme, necessario, immutabile, esatto e per questo vero. Strumento efficace della misurazione è l’esperimento che si distingue dall’esperienza immediata dei sensi soggettivi e perciò fallaci, perché volto a una elaborazione teoricomatematica del dato; elaborazione che risulta essere quindi un’ipotesi stabilita a priori da verificare poi a posteriori nei fatti. L’interpretazione quantitativa della natura procede di pari passo alla sua lettura in forma di meccanismo perfettamente funzionante, giacché sottoposto alla ratio umana e strutturato secondo regole, prima tra tutte quella della causalità efficiente, che stabilisce rapporti costanti e univoci, ovvero necessari, tra cause ed effetti. Se i rapporti di causa ed effetto spiegano le relazioni che intercorrono nel reale, è bandita però ogni causa finale, essendo il finalismo, sia umano che divino, ascritto all’etica che Galilei per primo ha sottratto al dominio scientifico. Presupposto ‘inconscio’ però del 95

Goethe [1817-24] 2005, pp. 42-43.

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meccanicismo, strutturato dai rapporti di causa efficiente, è il creazionismo, ossia la concezione che pone Dio come prima causa da cui è scaturito lo sviluppo successivo di tutte le creature. In questa concezione l’uomo esiste come ratio ordinatrice e dominatrice, poiché la realtà è considerata esclusivamente per la sua funzionalità: quindi se un fine umano è ammesso, è esclusivamente quello dell’utilizzo, come ci segnala l’identificazione baconiana tra sapere e potere, che travalica la coscienza etica. L’uomo quindi si qualifica e caratterizza per l’ordine razionale, in quanto Ego cogito cartesiano che, per essere strumento di verità, deve essere spassionato, spossessato della sua soggettività e della sua esperienza del mondo immediata, sensibile-percettiva. Dall’altro, l’ordine quantitativo che regola la natura ha l’effetto di renderla uniforme perché assolutamente conformata all’ordine ideale che le si attribuisce. Uomo e mondo appaiono in questa visione omologhi, perché entrambi assolutizzati in una oggettività tanto astratta quanto fedele a un modello ideale matematico. Tanto simili quanto, purtuttavia, separati, perché avulsi l’uno dall’altro, irretiti in un profondo dualismo: il mondo come res extensa, risolta nelle leggi fisiche che presiedono a estensione e movimento, e l’uomo come res cogitans, cosa pensante, decorporeizzata e demondanizzata, soggetta però alle stesse leggi della realtà estesa96. Si impone così un isolamento dell’uomo rispetto al mondo e del mondo rispetto all’uomo, che si realizza attraverso il sacrificio di una comprensione globale del tutto a vantaggio della spiegazione dettagliata della parte; il sapere quantitativo, statistico, matematico e tecnico del dato implica l’astrazione della parte dall’intero. Lo studio goethiano della natura invece si propone come osservazione nel senso pieno del termine; la rappresentazione che Goethe sostituisce alla spiegazione nell’approccio diverso alla natura non intende cercare cause sottese ma condizioni attraverso cui la realtà si mostra,97 intende scoprire i modi del suo manifestarsi. Il rapporto con la realtà è immediato, ossia non mediato dal filtro logico-concettuale che avanza un’ipotesi interpretativa a priori dei fatti – quale ad esempio la spiegazione causale – per poi cercarne una verifica, provocando l’esperienza a confermare quell’ipotesi. Il termine ‘concetto’ etimologicamente indica proprio l’afferrare, il circoscrivere e dominare, attraverso la sussunzione sotto un’astrazione, e questo significato è espresso sia dal tedesco Begriff – da begreifen – che dal latino conceptum – da cum-capio. Il rapporto immediato con la realtà è invece, nella prospettiva goethiana, visivo, percettivo e intuitivo. Non è il concetto 96 97

Cfr. Galimberti [1979] 1991, pp. 111-127. Cfr. Goethe [1817-1824] 2005, p. 136.

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che, per supplire alla fallibilità dei sensi, media il primo approccio con l’esperienza, ma l’immagine, la quale non afferra il reale, ma lo riflette, lo specchia, laddove il concetto interviene più tardi, come una elaborazione successiva che si cristallizza in idea. L’immagine, das Bild, che ricompare nel termine Bildung utilizzato da Goethe per intendere tanto ‘formazione’ quanto ‘forma’, è essenziale sia nella percezione diretta della realtà sia nell’intuizione che risulta una elaborazione ulteriore della realtà tramite l’immaginazione. La percezione e l’elaborazione delle immagini, implicando sempre una visione d’insieme e non esclusivamente frammentaria, richiedono non solo l’analisi ma soprattutto l’analogia e la comparazione come strumenti principali di indagine; se infatti, più di una volta, Goethe si sbilancia sul versante del pensiero analogico e sintetico è proprio per controbilanciare l’eccesso di analiticità del metodo delle scienze moderne98. La visione per immagini è una visione intuitiva, il termine aperçu utilizzato da Goethe riassume il senso di questo intuire. L’aperçu è il colpo d’occhio che coglie le cose nel loro insieme e nel loro luogo d’appartenenza, è la visione di un quadro, una sinossi, e per questo molto simile alla modalità della rappresentazione artistica; attraverso l’aperçu si colgono i contorni delle cose, le contiguità e la continuità con cui si percepiscono le concatenazioni che relazionano le cose tra di loro. L’intuizione appare a tutti gli effetti come il momento supremo in cui singolare e universale sono pensati contemporaneamente. L’idea della pianta originaria nasce infatti dalla varietà di piante osservate nel contesto visivo e sensibile del giardino; a partire da questa multiforme visione, Goethe formula l’idea di modello: Con questo modello e con la relativa chiave si potranno poi inventare piante all’infinito, che debbono essere coerenti fra loro: vale a dire che, anche se non esistono, potrebbero esistere, e non sono ombre o parvenze pittoriche o poetiche, ma hanno un’intima verità e necessità. E la medesima legge potrà applicarsi a ogni essere vivente99.

È nella variazione della forma, nella mobilità dell’organico, nella metamorfosi percepibile dalla diversificazione di quanto si offre alla vista che Goethe individua l’invariante della pianta originaria. Per forma infatti intende, come si è visto, Bildung, la formazione come ciò che è già prodotto e ciò che sta producendosi, non Gestalt con cui è stata spesso identificata la Bildung, perché, al contrario, astrae da ciò che implica movimento e indica 98 99

Cfr. Goethe [1833] 2005. Goethe [1816-1817] 2005, p. 359.

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ciò che è “stabilito, concluso e fissato nei suoi caratteri, un tutto unico”. Lo scarto essenziale è tra il processo di formazione rispetto al risultato del processo, e la tendenza a identificare la seconda con la prima risponde significativamente a quella che Hans Georg Gadamer ha giudicato come la “consuetudine di appiattire il divenire sull’essere”100. Così l’Urtier, il ‘tipo anatomico’ è un “modello o immagine universale”101 in cui sono comprese tutte le forme animali; tale modello è ‘costruito’ a seconda dell’utilità, il carattere artificiale della creazione del tipo è reso esplicito dal verbo aufstellen, che indica il valore metodologico e strumentale dell’operazione di costruzione dell’universale rispetto al particolare empirico. Di fronte alla varietà delle forme “il tipo generale […] apparirà nell’insieme invariabile” e però al tempo stesso richiederà uno sguardo mobile, una duttilità nel variare i punti di vista in modo da poterlo distinguere nelle varie trasformazioni: ecco perché, come era accaduto per la foglia, il tipo generale viene paragonato a Proteo sfuggente. Allo stesso modo della pianta e dell’animale, il fenomeno originario, Urphänomen, indica il darsi del fenomeno nella sua tipicità, ed è costruito da Goethe a partire dagli esperimenti sulla luce e sui colori. È in questo contesto che introduce il concetto di polarità, lo stesso che Warburg, considerandolo una propria creazione, riconosce anche al centro del pensiero di Goethe102, rivelando l’importante affinità rispetto al suo predecessore. Il fenomeno dei colori è l’effetto dell’azione dei due elementi polari di luce e oscurità, di contro alla teoria newtoniana secondo cui la luce era considerata semplice, non composta, non scomponibile e incolore. L’esperimento che viene condotto per studiare il fenomeno dei colori è sottoposto a “diversificazione e moltiplicazione”, implica cioè una pluralità di punti di vista da cui lo si osserva, intesi tutti come possibili e legittimi, potenzialmente in grado di conoscere l’oggetto senza escludersi a vicenda, ma egualmente concorrenti e in rapporto di collaborazione sia per il raggiungimento di un risultato, sia per avere comunque un approccio multilaterale all’oggetto. In Massime e riflessioni al concetto di fenomeno originario Goethe può attribuire ugualmente e contemporaneamente tre aggettivi indicativi della pluralità di prospettive attraverso cui può essere osservato: il fenomeno risulta quindi “ideale in qualità di ultimo conoscibile, reale in quanto conosciuto e simbolico perché comprensivo di tutti i casi e identico a tutti i casi”103. Le opposte derive, quella astratta e speculativa

100 101 102 103

Gadamer [1960] 2000, p. 33. Goethe [1795] 1986, p. 27. Gombrich [1970] 1983, p. 209, in nota. Goethe [1833] 1988, n. 1369.

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da una parte e quella empirista dall’altra, sono quindi entrambe da evitare, e l’immanenza risulta invece in definitiva essere la prospettiva in cui collocare la speculazione goethiana. Ideale e reale, teoria ed empiria sono considerati intimamente congiunti, e questo è ripetutamente espresso in tutta la sua produzione scientifica e non; espressioni quali: “Non si cerchi nulla dietro i fenomeni: essi stessi sono già la teoria”104 o “Che cos’è l’universale? Il caso singolo. Che cos’è il particolare? Milioni di casi”105 oppure “L’universale e il particolare coincidono: il particolare è l’universale che si manifesta in condizioni diverse”106 sono, tra le tante, tutte indicative di siffatta prospettiva immanente permessa da un approccio visivo al reale. In questo modo la polarità, temine scientifico desunto da Goethe dal magnetismo e applicato in modo sublime anche nel contesto del romanzo con la formula delle “affinità elettive”, oltre a descrivere il formarsi dei colori è un concetto esteso in generale alla comprensione del vivente e capace di rendere simbolicamente la sua complessità. Per Goethe il respiro della natura è scandito dal ritmo della polarità che rende possibile una concezione del vivente secondo cui: tutto ciò che si manifesta, tutto ciò che si presenta come fenomeno deve rinviare o a una scissione originaria, capace di ricomposizione, o a una unità originaria capace di scindersi […]. La vita della natura è questo scindere ciò che è unito e unire ciò che è scisso […]. È l’eterna sistole e diastole, l’eterna synkrisis e diakrisis, l’ispirare ed espirare del mondo in cui viviamo, agiamo e siamo107.

La polarità funge quindi da segno in grado di rendere la complessità del fenomeno, in grado di essere più aderente a esso senza però volersi sostituire a esso, ma per ovviare a un altro sistema di rappresentazione più unilaterale e distante dal suo significato vivente. Significativamente anche il termine “immagine primordiale”108, utilizzato da Jung in Simboli della trasformazione per indicare la rappresentazione di “un modello di comportamento” e prima espressione del più tardo concetto di archetipo, è mutuata da Burckhardt che, in una lettera a un allievo, definisce il Faust un’autentica Urbild, servendosi a sua volta proprio dell’espressione di Goethe. Lo stesso Jung nel 1955, pochi anni prima della morte, dichiara che la sua teoria è stata un tentativo di “confermare su base sperimentale le intuizioni di 104 105 106 107 108

Goethe [1833] 1988, n. 488. Goethe [1833] 1988, n. 558. Goethe [1833] 1988, n. 569. Goethe [1810] 1979, p. 179. Jung [1912-52] 1992, p. 45.

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Goethe”109. Gli archetipi dell’inconscio collettivo si comprendono quindi ulteriormente se ricondotti a questa ascendenza rispetto all’Urphänomen osservato da Goethe nelle scienze naturali, e liberati quindi da derive ontologiche sostanzialistiche o trascendentali in cui sono stati spesso ingabbiati. Anche i concetti di polarità e polarizzazione sono importanti nella teoria archetipica di Jung: l’archetipo come modello esplicativo per la storia delle immagini simboliche, nella sintesi di differenza e ripetizione, riproduce il nesso di permanenza e trasformazione. Il fenomeno originario, come termine ultimo, non come causa ma come condizione sotto la quale i fenomeni appaiono, non permette di avanzare ma solo di discendere; in questo senso non può essere considerato derivato rispetto ad altro. Come per la pianta originaria e il tipo è evidente, in modo ancora più esplicito forse, la peculiarità del carattere morfologico del fenomeno originario, che risulta originario non rispetto a un’origine o una successione storicamente determinata, ma rispetto a un punto di vista, all’intuizione di un disegno secondo cui, a un determinato livello di consapevolezza, i fenomeni risultano leggibili nella relazione tra particolare e universale stabilita per mezzo di nessi analogici. Il concetto di “originarietà”, reso dal prefisso ‘Ur’, che accompagna e qualifica i concetti di “pianta originaria”, o “fenomeno originario”, non ha un significato di reale antecedenza storica, di origine come punto di inizio assoluto, distante nel tempo della creazione. Così si esprime Goethe a proposito del fenomeno originario: “il fenomeno originario non va ritenuto simile a un principio dal quale derivano conseguenze molteplici, ma a una manifestazione fondamentale all’interno della quale è da riscontrarsi il molteplice”110. È qui ribadito come il concetto sia una modalità per cogliere intuitivamente il particolare nel suo relazionarsi al molteplice, ossia in una visione sinottica d’insieme, per cui l’originarietà risulta essere ideale ma sempre immanente. Per Goethe rappresenta la fine di ogni sapere, il termine ultimo del pensabile, del concepibile, e al tempo stesso la possibilità in nuce di tutto il concepibile. Si comprende in questo modo, ulteriormente, l’affermazione a proposito dell’intuizione della pianta originaria: “Con questo modello e con la relativa chiave si potranno poi inventare piante all’infinito, che debbono essere coerenti fra loro: vale a dire, anche se non esistono, potrebbero esistere”111. In questa potenzialità di esistenza riecheggia ancora una volta la possibilità o necessità dell’accadere degli eventi di 109 Jung [1977] 1999, p. 344. 110 Goethe citato in Schmitz 1998, p. 143. 111 Goethe [1816-17] 2005, p. 359.

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cui parla Aristotele nella Poetica, così come riecheggiano “le cose che non avvennero mai ma sono sempre” a cui fa riferimento Salustio in Sugli dei e il mondo. Come osserva Cassirer, in Goethe “il concetto di ‘genesi’ è dinamico ma non è storico”112 perché non c’è intenzione di individuare un’origine che implichi una scansione diacronica del tempo, coerentemente all’idea di metamorfosi estranea a una visione creazionistica della natura in cui vi è un inizio assoluto nel tempo e una destinazione necessaria finale. Allora per spiegare questa visione alternativa alla storia si riaffaccia l’idea mitologica di genealogia iscritta in una concezione che nega la prospettiva teleologica della storia e “si oppone alla ricerca dell’origine”113. Piuttosto che ricerca dell’Ursprung, la genealogia, come osserva Foucault riferendosi a Nietzsche, è “ricerca della Herkunft e dell’Entstehung”, ossia della provenienza come rete intricata di appartenenze rilevate tanto nelle similitudini che nelle differenze, e dell’emergenza, del momento della nascita come apparizione, come lotta in campo di forze, dove di volta in volta una forza – un’interpretazione – ha la supremazia sulle altre. Sono queste le linee guida con cui Nietzsche, profondamente influenzato da Goethe, traccia la genealogia della morale. La ricerca dell’origine è rigettata poiché sottintende una concezione metafisica dell’essere, una concezione che va alla ricerca della sostanza ultima, “dell’essenza esatta della cosa [...], la sua forma immobile e anteriore a tutto ciò che è esterno, accidentale e successivo”;114 una concezione che cerca dietro la mutevolezza del fenomeno la stabilità della ‘cosa in sé’, la risposta alla domanda: ‘τί εστίν;’ posta agli albori della filosofia. Analogamente per Goethe non c’è una sostanza che stia dietro le infinite variazioni, ma c’è una continua variazione, dove l’unica cosa che permane è ciò che costantemente si modifica; la comprensione di una cosa è data dall’osservazione di come essa diviene, e il divenire, la trasformazione, non significa “un processo di allontanamento da un’origine”, perché l’invariante, il tipo, a cui è ricondotto il variare, “non è un primum da cui discendano forme che più o meno se ne allontanano: ogni forma è ugualmente trasformata, ed è ugualmente ‘lontana’ dal tipo come lo è qualsiasi altra”115. Come ha affermato Francesco Moiso, in Nietzsche “l’eliminazione della teleologia [...] comporta la sostituzione di una filosofia storica e compara-

112 113 114 115

Cassirer [1906] 1963, p. 236. Cfr. Foucault [1971] 1978, pp. 29-54. Foucault [1971] 1978, p. 31. Moiso 1998, p. 327.

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tiva alla visione di un mondo retto da realtà eterne rispecchiate in strutture di pensiero invariabili e valide a priori in ogni tempo”116. La genealogia nietzschiana, disgregando ogni presupposto storiografico, approda alla necessità di aprirsi a uno “sguardo sovrastorico”117 nella volontà di cogliere l’eterno nel transeunte e di desiderare la sua continua presenza, l’eterno ritorno, nel divenire. Così la genealogia si smarca dalla storia nel restituire la visione del mondo sottesa al mito di cui la storia difetta nella misura in cui, come movimento della metamorfosi, come continua trasformazione è in grado di rappresentare il divenire. La genealogia, idea eminentemente mitica, è la lettura della storia attraverso la natura. La teoria della metamorfosi applicata alla ricerca naturalistica permette quindi a Goethe di istituire un rapporto nuovo sia tra ideale e reale che tra universale e singolare, nella misura in cui si avvicina, in virtù del pensare per immagini, al pensiero mitico e si allontana dall’impostazione della metodologia dualistica delle scienze moderne. VI. Benjamin, l’Urphänomen della storia Ma la principale messa in discussione della concezione positivista della storia è stata attuata da Walter Benjamin che, probabilmente più degli altri autori incontrati, ha mostrato di essere stato profondamente influenzato dal pensiero di Goethe dall’inizio alla fine della sua avventura speculativa. Anch’esso si colloca nella temperie che attraversa il passaggio tra Ottocento e Novecento e, a giudicare dalla sua vicenda personale, è stato esposto alla violenza dei conflitti mondiali forse – anche rispetto a questo – più di quanto lo siano stati gli altri suoi contemporanei. Per il filosofo tedesco l’intenzione critica nei confronti dello storicismo positivista consiste proprio, come afferma nel suo ultimo lavoro Tesi sul concetto di storia, nella volontà di “spazzolare nel senso opposto il pelo della storia”118, ossia rovesciare di centottanta gradi il punto di vista prevalente del modo di intendere la storia. Il concetto di origine (Ursprung) che Benjamin comincia a indagare già nel Dramma barocco tedesco è ben distinto da quello di genesi (Entstehung), l’origine infatti è quanto “sta nel flusso del divenire come un 116 Moiso 1993, p.80. 117 Cfr. Nietzsche [1874] 1973. 118 Benjamin [1942] 1997, p. 31.

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vortice e trascina dentro il suo ritmo il materiale della propria nascita”119; l’originario “non si dà mai a conoscere”, è “imperfetto e inconchiuso”. Si potrebbe quindi estendere a Benjamin l’osservazione di Cassirer sul senso per Goethe di intendere in concetto di genesi come dinamico e non storico. Ma soprattutto l’originario dandosi nel divenire si offre solo alla rappresentazione, alla esposizione (Darstellung), e non può essere colto indipendentemente da essa. Così, nella Premessa gnoseologica dell’indagine sul dramma barocco il compito filosofico è esplicitato pienamente nella forma della rappresentazione120: “la rappresentazione delle idee si compie nel medium dell’empiria”, che per Benjamin si può esprimere solo nella sua costitutiva frammentazione rispetto alla maestà dell’insieme a cui tende il pensiero astratto: “come nei mosaici la capricciosa varietà delle singole tessere non lede la maestà dell’insieme, così la considerazione filosofica non teme il frammentarsi dello slancio”121. Allo sguardo malinconico del filosofo tedesco nell’empiria si riverbera la ragione ottocentesca andata in frantumi. Per Benjamin come per gli autori presi in considerazione la critica alla ragione avviene per mezzo del valore attribuito all’immagine, elemento fondante della rappresentazione. Come ha osservato Didi-Huberman, Benjamin, allo stesso modo di Warburg, “ha posto l’immagine (Bild) nel centro nevralgico della ‘vita storica’”122, e si tratta dell’immagine-Bild profondamente affine alla concezione di Goethe. Se in Warburg è la polarità a qualificarla, per Benjamin l’immagine è dialettica (Dialektik Bild), è costitutivamente contraddittoria, instabile, ambivalente. Rispetto alla Bild goethiana l’immagine in Warburg e Benjamin a uno sguardo retrospettivo sembra caricarsi ulteriormente di una costitutiva tragicità. Tragicità tutta novecentesca, verrebbe da dire. Nell’immagine dialettica, la frammentarietà dell’empiria e la maestà dell’insieme eidetico cercano una conciliazione; e si tratta per Benjamin di un’alternativa al concetto di simbolo inteso tradizionalmente come unità di forma e contenuto, fenomeno e noumeno, perché l’immagine, che risolve questi dualismi, è, come per Goethe, il termine ultimo dietro il quale è impossibile cercare altro. L’immagine dialettica in Benjamin dispiega il vortice del divenire, lo rappresenta. Quindi nell’immagine dialettica, come afferma Didi-Huberman, “l’essere si disgrega”123 a

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Benjamin [1928] 1999, p. 20. Cfr. Barale 2009, p. 61. Benjamin [1928] 1999, pp. 4-5. Didi-Huberman [2000] 2007, p. 88. Didi-Huberman [2000] 2007, p. 109.

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favore della visibilità, l’essere dell’ontologia metafisica lascia il posto alla visibilità del molteplice diveniente. Il vortice del divenire introdotto dal filosofo tedesco nel Dramma barocco tedesco trova il suo dispiegamento nel Passagen-Werk, opera incompiuta a cui si dedica nel corso di tredici anni, costruita secondo il meccanismo compositivo del montaggio di testi e che Benjamin dichiara espressamente di aver intrapreso anche col fine di “esplorare l’origine”124. Qui la questione storica fondante del rapporto tra passato e presente è formulata e maturata in tutta la sua originalità e si compie pienamente quella che, a detta di Didi-Huberman, è la “rivoluzione copernicana della storia che Benjamin non ha avuto timore di enunciare come un omaggio epistemologico all’invenzione di Marcel Proust e alla scoperta freudiana”125. Benjamin nell’intento dell’indagine si appella a un esperimento di “tecnica del risveglio” nel “tentativo di prendere atto della svolta copernicana e dialettica della rammemorazione”126. È in questa dimensione che va collocato il “già-stato”, ossia quel passato che Benjamin sottrae alla bruta fattualità e oggettività dello storicismo per ricondurlo alla dimensione dell’inconscio, del sogno, dell’immagine, coerentemente con le “concezioni della memoria”127 nate con Freud, Henri Bergson, Marcel Proust e i surrealisti. Ossia le concezioni che attraverso la memoria hanno introdotto una forma di temporalità diversa rispetto a quella dello storicismo, fatta di salti, di anacronismi, discontinuità; una memoria non temporale ma che è concepita come immaginale grazie all’aquisizione della dimensione psichica. Qui non vale il principio di causalità per spiegare un fatto, né alcun ideale di progresso storico, ma il fatto, sottratto all’isolamento dell’in sé a cui lo vincola la storia, e sottratto anche alla fede che si possa conoscere il passato “proprio come è stato davvero”, come fatto oggettivo, è invece riportato alla memoria, è ricondotto alla dimensione del ricordo in cui il rapporto con il presente è imprescindibile. Nella memoria passato e presente sono quindi sempre congiunti e in Benjamin lo sono in un modo peculiare: tra passato e presente si instaura quella dialettica che è colta in maniera fulminea dall’immagine. Per Benjamin la dialettica tra passato e presente si comprende meglio nei termini del “già-stato” e dell’“adesso”: “mentre la relazione del presente con il passato è puramente temporale, continua, la relazione tra il già-stato e l’adesso è dialettica: non è un decorso, ma un’im-

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Benjamin [1982] 2010, p. 516, fr. N 2a, 4. Didi-Huberman [2000] 2007, p. 108. Benjamin [1982] 2010, p. 432, fr. K I, I. Didi-Huberman [2000] 2007, p. 100.

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magine discontinua, a salti”128. Il continuum della storia è quindi spezzato, tagliato dall’immagine, perché “non è il passato che getta la luce sul presente o il presente che getta la luce sul passato”, ma è nell’immagine “che il già-stato si unisce fulmineamente (blitzhaft) con l’adesso (Jetzt) in una costellazione”129. Nell’immagine dialettica, il passato diventa improvvisamente leggibile: si tratta di una leggibilità data dalla “dialettica dell’immobilità” (Dialektik im Stillstand) tale che il passato subisce una sorta di “téléscopage del passato attraverso il presente”130. La simultaneità molteplice, leggibile nell’immagine istantanea della costellazione, risulta dunque essere in grado di esprimere il rapporto tra presente e passato mediato dalla memoria, infatti “là dove il pensiero si arresta in una costellazione satura di tensioni, appare l’immagine dialettica”131; la frantumazione del pensiero implicito nello storicismo dà vita alle immagini. In questi termini si comprende come l’immagine dialettica sia esplicitamente affermata da Benjamin come “il fenomeno originario della storia (das Urphänomen der Geschichte)”, desumendo il termine direttamente da Goethe: l’immagine dialettica è quella forma dell’oggetto storico che soddisfa le esigenze che Goethe pone per l’oggetto di un’analisi: mostrare una vera sintesi. È il fenomeno originario della storia132.

È durante lo studio simmeliano dell’idea di verità in Goethe che Benjamin ha la netta certezza che il concetto di origine introdotto nel Dramma barocco tedesco “è una rigorosa e cogente trasposizione”133 del fenomeno originario goethiano. Precisamente l’origine è “il concetto di fenomeno originario trasposto dal contesto pagano della natura a quello ebraico della storia”, con l’effetto di destrutture la storia. Come osserva Didi-Huberman134 già dal primo testo compiuto di Benjamin con cui discusse la tesi di dottorato nel 1919, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco135, è possibile leggere l’ascendenza teorica goethiana, perché una frase del poeta è espressamente citata all’inizio dello scritto in esergo, come fosse una massima a cui attenersi costantemente nello svolgimento successivo dell’argomentazione. La questione posta è 128 129 130 131 132 133 134 135

Benjamin [1982] 2010, p. 516, fr. N 2a, 3. Benjamin [1982] 2010, p. 516, fr. N 2a, 3. Benjamin [1982] 2010, p. 527, fr. N 7a, 3. Benjamin [1982] 2010, p. 534, fr. N 10a, 3. Benjamin [1982] 2010, p. 532, fr. N 9a, 4. Benjamin [1982] 2010, p. 517, fr. N 2a, 4. Didi-Huberman 2010, p. 109. Cfr. Benjamin [1920] 1982.

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la messa in discussione del procedimento critico dell’analisi rispetto alla sintesi, rispetto alla capacità di vedere un aggregato anziché un oggetto isolato, piuttosto che una contiguità incoerente, oppure la capacità di osservare un fenomeno nella sua trasformazione. Così come nel Dramma barocco tedesco è citata un’altra affermazione tratta dalla Teoria dei colori di Goethe, dove la questione del rapporto tra particolare e universale, parte e tutto si esplicita nel contesto dei domini di arte e scienza come un problema cruciale per intendere la possibilità della conoscenza: Poiché nel sapere come nella riflessione non si può mettere insieme tutto, in quanto a quello manca l’interno, a questo l’esterno, noi dobbiamo di necessità pensare la scienza come arte se da essa ci aspettiamo un genere qualsiasi di totalità. E questa, non dobbiamo cercarla nel generale, nel ridondante, bensì, come l’arte si rappresenta sempre tutta in ogni singola opera d’arte, così anche la scienza dovrebbe ogni volta dimostrarsi totalmente in ogni singolo oggetto trattato136.

Quello che poteva interessare a Benjamin nella costruzione della sua teoria dell’origine rispetto al concetto di fenomeno originario desunto da Goethe era, come afferma Didi-Huberman, prima di tutto “che l’autentica conoscenza si costruisce sul doppio fronte delle singolarità (micrologie) e delle configurazioni (connessioni, affinità, costellazioni)”137. E il meccanismo che permette di contemplare questo doppio fronte è, come viene affermato esplicitamente nel Passagen-Werk, il principio del montaggio (Montage) che Benjamin intende quindi “adottare nella storia”138: si tratta infatti di “erigere le grandi costruzioni sulla base di minuscoli elementi costruttivi, ritagliati con nettezza e precisione. Nello scoprire, anzi nell’analisi del piccolo momento singolo, il cristallo dell’accadere totale”139. I “minuscoli elementi costruttivi” sono i frammenti, le parti essenziali implicate nell’operazione perché il meccanismo del montaggio implica la sua operazione inversa, ossia lo smontaggio, il decoupage, la scomposizione in parti, in frammenti che vengono successivamente ricomposti, montati appunto. Sottoposta a questo meccanismo la storia torna a essere leggibile, perché attraverso il montaggio si produce una vera e propria conoscenza140, una conoscenza che sembra essere alternativa a quella presupposta dalla scienza moderna, così come alternativa lo è anche la morfologia goethiana. 136 137 138 139 140

Goethe citato in Benjamin [1928] 1999, p. 3. Didi-Huberman 2010, p. 109. Benjamin [1982] 2010, p. 515 fr. N 2, 6. Benjamin [1982] 2010, p. 515 fr. N 2, 6. Cfr. Didi-Huberman [2000] 2007, pp. 114-122.

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In parallelo all’inconscio della psicoanalisi, l’“inconscio ottico”, introdotto da Benjamin ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, è quanto destruttura il tempo presupposto nel corso lineare della storia, ed è un inconscio provocato dall’ottica delle nuove tecnologie, dalla fotografia e dal cinema, perché la cinepresa “col suo scendere e salire, col suo interrompere e isolare, col suo ampliare e contrarre il processo, col suo ingrandire e ridurre” apre appunto a uno “spazio elaborato inconsciamente”. Il cinema ha allora la potenza deflagrante della dinamite, che fa saltare il mondo tanto “simile a un carcere” e permette così di “intraprendere tranquillamente avventurosi viaggi in mezzo alle sue sparse rovine”141: sono queste le passeggiate del flâneur che attraversa i passages parigini come attraversa i tempi eterogenei della storia. La riscoperta del mondo avviene qui in virtù di una ritrovata dimensione dello spazio, la cui conoscenza è mediata dalla nuova tecnologia. La parola montaggio è utilizzata da Benjamin in un frangente storico in cui si registra un uso diffuso del termine introdotto dalla fotografia e dal cinema ed ha il suo fulcro negli anni venti e trenta del Novecento142. In questo periodo è molto diffuso soprattutto nella sua applicazione pratica nelle arti; è a tutti gli effetti un tratto distintivo della cultura visuale di quegli anni e si diffonde anche al di fuori del contesto specificatamente artistico in virtù della sua intrinseca valenza critica e politica. È ripreso, come ad esempio nel caso di Benjamin, di Marc Bloch e Siegfried Kracauer anche da storici, critici letterari e filosofi. Il momento in cui, già alla fine degli anni dieci, il termine montage viene sottratto dal contesto meccanico della fabbrica e utilizzato nelle pratiche del fotomontaggio dagli esponenti del dadaismo berlinese – nelle figure dei principali esponenti George Grosz, John Heartfield e Raoul Hausmann – è segnato dall’esigenza di rappresentare la percezione di frantumazione provocata dalla catastrofe della Prima guerra mondiale, ed esprimere, assieme alla potenza esplosiva, al tempo stesso anche quella costruttiva e compositiva del meccanismo applicato alla fotografia. Come si è già osservato anche rispetto alle riflessioni di Kern e Gibelli, il montaggio sembra essere un fenomeno consonante all’effetto di disgregazione e moltiplicazione che l’esperienza percettiva della guerra provoca nel pensiero di chi la vive direttamente o indirettamente.

141 Benjamin [1936] 2000, pp. 41-42. 142 Cfr. Somaini 2011. Per una ricostruzione storica dell’uso del montaggio agli inizi del Novecento si rimanda a pp. XIII-XIV.

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In questi anni è il regista Lev Vladimirovič Kulešov a parlarne per primo come meccanismo compositivo peculiarmente legato al cinema, e successivamente saranno Dziga Vertov ed Jean Epstein ad approfondirne il valore epistemologico, che sarà scandagliato più tardi nella teoria di Ejzenštejn. Precedentemente, negli anni dieci, una forma di montaggio si sperimenta anche nella pratica del collage realizzato anzitutto da Pablo Picasso e Georges Braque, ed è diffuso con intenzioni e poetiche diverse anche nei costruttivisti russi, negli artisti vicini al Bauhaus e nei surrealisti, con affinità espressive anche rispetto al cubismo e all’espressionismo. Benjamin fa evidentemente uso del termine montaggio desumendolo dagli ambiti artistici che lo circondano: dai dadaisti berlinesi ma anche dal cinema sovietico che sappiamo aveva visto nel 1926 a Berlino nell’esemplare della Corrazzata Pötemkin di Ejzenštejn, e che nel 1927 aveva conosciuto direttamente in occasione di un soggiorno a Mosca143. Strada a senso unico del ’28 è una composizione per montaggio di micro testi o di “immagini di pensiero”144 (Denkbilder) che non a caso Ernst Bloch, in un articolo scritto nello stesso anno, considera come esempio tipico dello stile di pensiero surrealista costruito con il montaggio di frammenti145; ed è di fatto il preludio alla successiva stesura del Passagen-Werk. Il valore della singolare “costruzione” di Strada a senso unico è ben compreso dal suo autore che intravede nella nuova strada aperta, nel nuovo metodo una prospettiva di abissale profondità146. Ed è a partire da quest’opera che il filosofo tedesco sembra concepire le idee in termini di ‘costellazioni’, ossia le strappa alla significazione riduttiva di concetti per rivendicarne il significato di configurazioni, in modo tale che le idee stanno alla realtà come le costellazioni ai pianeti. Come si è visto, il concetto di montaggio con Benjamin significativamente ha un effetto teorico deflagrante perché si inserisce, esplicitamente dichiarato, nel contesto critico sulla storia; entra in scena con effetti destrutturanti nella narrazione storica che ha sostituito il mito come datrice di senso più di quanto forse lo abbiano fatto le altre grandi narrazioni della religione e dall’arte. La storia allora divenuta sguardo capace di cogliere il passato inscindibilmente legato al presente, come avviene nel meccanismo del téléscopage, e capace di analizzarne le metamorfosi, le variazioni a partire da un confronto anacronistico di momenti iscritti in tempi differenti, assume l’aspetto della genealogia – parola ‘antica’ che il mito ci restituisce.

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Cfr. Somaini 2011, p. 390. Benjamin [1972-89] 2003, pp. 528-533. Cfr. Bloch [1962] 1992, pp. 308-311. Cfr. Benjamin [1962] 1978.

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VII. L’Ulisse di Joyce Se l’influenza della psicoanalisi sul discorso storico è stata di ‘inquinarla’ al punto di avvicinarla alla genealogia, un effetto di pari entità può essere osservato anche nel contesto della narrazione del romanzo. Quindi come la psicoanalisi accoglie la narrazione al suo interno rivalutandone il valore gnoseologico, così la narrazione nei primi del Novecento, la nuova forma di romanzo che riflette il passaggio epocale, ingloba nella scrittura l’inconscio, nella forma dell’esperienza onirica, della rammemorazione, della libera immaginazione e del flusso di coscienza. L’esempio più calzante è la scrittura di James Joyce, che ha vissuto a Zurigo nello stesso periodo in cui Freud e Jung davano alle stampe le loro opere maggiori. Umberto Eco non a caso la pone a modello supremo di “opera aperta”147, ossia quell’apertura “di secondo grado” che riconosce come propria della poetica del Novecento. L’intrinseca ‘apertura’, dell’opera d’arte di per sé e dell’opera d’arte di tutti i tempi, nelle nuove poetiche del Novecento diventa “di secondo grado” perché accresce l’ambiguità e la non univocità del senso che sprigiona. Allora l’opera di Joyce appare come un “chaosmos”148 perché sprigiona una molteplicità di sensi e interpretazioni che fino ad allora non erano stati espressi dalla poetica precedente. Eco, ad esempio, pone a confronto un verso di Joyce con un verso di Dante rilevando come il verso del poeta italiano risulta stimolare la fruizione sempre nuova di un messaggio che di per sé è univoco, diversamente dal poeta irlandese in cui si legge una fruizione sempre nuova di un messaggio che di per sé è plurivoco, e lo è in virtù della forma, della composizione degli elementi che lo costituiscono149. Il gioco linguistico che propone Eco con l’espressione chaosmos è tra il caos generato dalla rottura di un ordine e il nuovo ordine che si intravede rispetto a quello vecchio, e in questo si esprime la natura rivoluzionaria dell’apertura. Il caos è sì espressione di crisi ma anche una forma di vittoria sulla crisi; quello che si evince dal gioco di parole è che non esiste un caos assoluto che può essere tale solo rispetto a un ordine assoluto, e questa sembra essere la conquista propriamente Novecentesca che riscopre il bilanciamento degli opposti nella pluralità delle prospettive. Allora appare evidente che nella scelta di usare il termine ‘apertura’ c’è sottointeso il significato legato alla radice etimologica di chaos che, come si è già osservato, derivando dalla radice χα – χαίνο, χάσκω: ‘mi 147 Eco [1962] 2009, p. 42. 148 Eco [1962] 2009, p. 91. 149 Cfr. Eco [1962] 2009, pp. 89-93.

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apro’, ‘mi dischiudo’ indica l’apertura, l’atto di aprirsi, dischiudersi. Quanto caratterizza l’opera del poeta è un oggetto non univoco in cui vengono utilizzati segni non univoci secondo rapporti non univoci, per cui l’unica regola stabile sembra essere la possibilità di molti raccordi. Quello che si riverbera nella sua scrittura è allora la nascita di un nuovo cosmo. Joyce, come ha ben visto Edmund Wilson nel 1931, si è imposto come il poeta di una nuova fase dell’umana coscienza150. Un anno dopo, Jung, che non ama l’opera ma ne riconosce il valore da psicologo, la interpreta in parallelo con la psicologia dell’autore, e giunge alla stessa conclusione, definendo l’Ulisse/Joyce, con un implicito riferimento al Faust di Goethe, “l’omunculo di una nuova coscienza del mondo”151. Secondo Jung la coscienza rappresentata dall’Ulisse è “inattiva, puramente percettiva, anzi soltanto un occhio, un orecchio, un nervo tattile esposti […] alla roboante, caotica, folle cateratta degli eventi spirituali e fisici, registrati da esso in modo pressoché fotografico”; il suo è un “pensiero viscerale” limitato essenzialmente alla percezione. E in questa peculiarità della scrittura sta la capacità di cogliere il microcosmo di un giorno nel “macro-caos-cosmo della storia del mondo”152. La distruzione della visione del vecchio mondo che Joyce si lascia alle spalle va di pari passo con la riproduzione del caos e, insieme, con il tentativo di trovare nel caos un nuovo principio d’ordine. Da Ulisse al Finnegans Wake, seguendo l’indagine condotta da Eco153 (il termine ‘chaosmos’ probabilmente è stato suggestionato dal testo di Jung che Eco conosce bene) è possibile registrare nelle metamorfosi del linguaggio le fasi della progressiva presa di distanza del poeta dal vecchio ordine e la volontà di rappresentare il nuovo mondo e l’avvento di un’altra cosmologia, o meglio di una cosmologia diversa rispetto all’ordine universale – universum – con cui era strutturata la visione di mondo precedente. L’immagine che emerge fa piazza pulita della precedente visione del mondo liberandosi del dualismo che la caratterizzava: “scompare l’astratta distinzione di interiorità esteriorità, spirito e materia, bene e male, idea e natura”154 che implica l’univocità del discorso e appare il molteplice proteiforme che, rispetto alla nettezza dell’ordine dualistico, è percepito come caos. Il molteplice proteiforme è quanto vivono e testimoniano i protagonisti dei romanzi di Joyce, che esperiscono costantemente una messa in crisi delle nozioni di 150 151 152 153 154

Wilson [1931] 1965, p. 197. Jung [1932] 1949, p. 129. Jung [1932] 1949, p. 126. Cfr. Eco [1962] 2002. Eco [1962] 2002, p. 109.

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tempo, identità e connessione causale: il nuovo mondo è un orizzonte di eventi insignificanti, spazialmente connotati e collegati tra loro in fragili costellazioni. Ciascuno, indifferentemente centro e periferia, causa prima ed effetto ultimo di una catena di vicende, è un orizzonte di coscienze multiple celate in un turbinio di metamorfosi continue. Una visione resa potentemente da Joyce grazie alla plasticità di una nuova lingua, in cui prevale il flusso delle parole e dei pensieri, il gioco delle rifrazioni semantiche, acustiche e l’intreccio inaudito dei diversi registri tonali. Così il capitolo a cui corrisponde il titolo Proteo rappresenta per Eco il cuore dell’Ulisse, nel senso che apre a un mondo “dominato dalla metamorfosi che produce continuamente nuovi centri di relazione”; il caos che rappresenta la mutevolezza della figura mitologica di Proteo è il dischiudersi in di un cosmo in cui sono stabiliti nuovi nessi tra le cose. La rottura dei nessi che legavano le cose secondo l’ordine abituale sembra così procedere di pari passo alla capacità di “dire mostrando”, quindi il racconto diventa immagine e automanifestatività della forma espressiva perché le briglie che prima legavano gli elementi in gioco sono deposte e il gioco si configura secondo una nuova composizione. Gli elementi in gioco sembrano avere una loro autonomia indipendentemente dallo sguardo esterno unificante dell’autore, e questo avviene, secondo Eco, a favore di una realizzazione dell’“ideale drammatico” in cui la presenza dell’autore, il suo punto di vista è sostituito dal punto di vista dei personaggi e degli eventi stessi. Un meccanismo riconoscibile anche nell’interpretazione dei casi clinici da parte di Freud nella misura in cui lo psicoanalista, nel narrare la storia dei soggetti in questione, assume di volta in volta la loro prospettiva ed esprime le loro idee come se fossero le proprie. La sparizione dell’autore consiste nel farsi punto di vista altrui; l’autore di fatto “si traduce nella forma oggettiva”. Eco chiama questo fenomeno l’“ideale impersonale-drammatico” ossia: “l’autore non parla più egli stesso, né si limita a far parlare i personaggi; ma fa parlare, rende espressivo il modo con cui i personaggi parlano e le cose si presentano”155, e questo, osserva, è quello che in sostanza accade anche nel contesto narrativo cinematografico. Accade nel cinema e, bisogna aggiungere, accade anche nel mito, nella forma definita della ‘personificazione’, che paradossalmente, pur esprimendosi in una retorica della soggettività è più oggettiva del discorso astratto perché non implica uno sguardo distanziato e un giudizio univoco, ma permette di calarsi nelle realtà differenti dei suoi protagonisti e nei modelli diversi di vita che incarnano. 155 Eco [1962] 2002, p. 69.

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L’opera inoltre, nella sua conformazione, appare “conchiusa e definitiva” in se stessa come “un cosmo al di fuori del quale vi sia il nulla”. Un cosmo però che contempla l’infinità di mondi possibili; Eco riconosce come in Joyce l’influenza del pensiero di Niccolò Cusano e Giordano Bruno – oltre a quella di Gian Battista Vico – sia stata determinante per liberarlo dall’idea dell’universo stabile e circoscritto della Scolastica medioevale che aveva formato la sua educazione sin dall’infanzia. Evidentemente questo conflitto di visioni del mondo si sovrappone alla rivoluzione che il poeta vive a cavallo tra i due secoli, e il pensiero rinascimentale trova rispondenze e si ricontestualizza nella nuova temperie novecentesca. Questo riferimento al pensiero dei due filosofi è un dettaglio rilevante se si pensa che hanno influenzato e corrisposto anche il concetto di infinità in Goethe e collegato ad esso il rapporto tra particolare e universale, nel contesto di un cosmo compreso come molteplicità diversificata piuttosto che unità totalizzante. La concezione di infinito a cui fa riferimento Goethe si avvicina infatti alla concezione immanentista di Bruno, secondo la quale Dio è la “mens insita omnibus” e l’infinito, il divino, non è tanto una totalità, quanto ciò che è ovunque, ubique, o meglio, secondo la definizione assunta da Bruno dal De docta ignorantia di Cusano, è quella “sfera infinita di cui il centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo (sphaera infinita cuius centrum est ubique, circumferentia nusquam)”.156 Quindi è certamente l’insieme di tutte le parti, ma è anche indivisibile in ogni parte, in quanto nell’infinito il punto e l’immenso coincidono in modo tale che ogni singolo punto è un modo d’essere dell’infinito. In gioco sono la complexio oppositorum e la dialettica dei contrari; secondo Eco la poetica di Joyce, nelle sue diverse fasi, sembra “realizzare a livello estetico la dottrina cusaniana della complicatio: in ogni cosa si attua il tutto e il tutto è in ogni cosa, ogni cosa apparendo infine una prospettiva sull’universo e una contrazione di esso”157. Joyce nel 1920, quando ancora doveva terminare l’Ulisse, in una lettera destinata a Carlo Linati, riferendosi al metodo di costruzione dell’opera – che cominciata in Italia nel 1914 stava componendo oramai da sei anni e terminerà l’anno seguente, nel 1921 – afferma: “nella concezione e nella tecnica ho cercato di raffigurare la terra, che è pre-umana, e presumibilmente post-umana”, spiegando poi che l’intenzione di fondo era quella di “trasportare il mito sub specie temporis nostri”158. 156 Cusano, De docta ignorantia II, XI, 156. 157 Eco [1962] 2002, p. 135. 158 Joyce 1957, pp. 146-147.

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Si tratta scrive Joyce “dell’epopea di due razze (israelita e irlandese) e al tempo stesso il ciclo dell’intero corpo umano così come la ‘storiella’ di un giorno qualsiasi”, e aggiunge che “è anche una sorta di enciclopedia”. Un’enciclopedia che, verrebbe da pensare, alla luce delle osservazioni su Warburg, sembra replicare più che altro una “forma Atlante” per usare un’espressione di Didi-Huberman. Ogni avventura, si legge ancora nella lettera, ossia ogni parte in cui è suddivisa l’opera e che è interconnessa al tutto, deve non solo condizionare, ma anche creare la propria tecnica; quindi riconoscendo il valore autonomo di queste parti che compongono l’opera, per Joyce “ogni avventura è per così dire una persona o composta da persone”, e lo è nel senso in cui lo erano le schiere angeliche per Tommaso d’Aquino. Il mondo dischiuso dal mito sembra essere il modello di riferimento più adatto a puntellare la nuova cosmologia che Joyce intende rappresentare, nella sua dimensione di caos e di nuovo cosmo. Allo stesso modo sembra fare la titolazione cifrata dei capitoli dell’Ulisse dedicati ciascuno a una tappa – o meglio a un’immagine – tratta dall’Odissea di Omero, a cui corrisponde di seguito per ciascuno un’ora del giorno, un organo del corpo, un’arte, un colore, una figura simbolica e l’uso di una determinata tecnica stilistica, ciascuna interconnessa e interrelata allo schema strutturale del tutto. La mitologia scelta da Joyce quindi non ha i nomi delle schiere angeliche aquiniane ma quelli della cultura classica, e il riferimento esplicito alla vicenda di Ulisse, secondo Wilson, è assolutamente imprescindibile come chiave di accesso all’opera. Thomas Stearns Eliot nel 1923 definisce l’Ulisse “l’espressione più importante della nostra epoca”159 e rinviene nell’opera dell’amico l’invenzione di un nuovo metodo che definisce “mitico” distinguendolo, in una riflessione sulla fine del romanzo come genere appartenuto all’epoca precedente, da quello “narrativo”: “Usando il mito, e operando un continuo parallelo tra contemporaneità e antichità, Joyce instaura un metodo che altri potranno utilizzare dopo di lui”. Lo stesso Eliot attribuisce a questo metodo “l’importanza di una scoperta scientifica”. Il passato, il già-stato e il presente, l’adesso sono congiunti nel “metodo mitico” che sembra di conseguenza avere la stessa funzione dell’immagine dialettica di Benjamin. Questo metodo ha, nell’ottica di Eliot, la funzione di un principio ordinatore: “Un modo di controllare, ordinare e dare forma e significato all’immenso panorama di futilità e di anarchia che è la storia contemporanea”. Il mito appare così come la prima forma di ordinamento possibile 159 Eliot [1923] 2001, p. 86.

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del caos, come allo stesso modo lo è la struttura genealogica delle teogonie e cosmogonie che si plasma sul caos originario. L’attenzione sul metodo posta da Eliot conferma l’importanza peculiare della forma come struttura dell’opera, in accordo con l’idea di Eco secondo cui nel caso dell’Ulisse “è la forma il principale e più esplicito dei messaggi”160. Evidentemente per un’epoca che non può concepire il mito, se non letteralmente nella sua riduzione allegorica, perché non dispone più della capacità metaforica di leggerlo nella tramatura del reale, è più facile individuarlo nelle sue forme, nei meccanismi compositivi con cui si struttura. E il montaggio, a giudicare dalla lettura del testo di Joyce fatta da Ejzenštejn, risulta essere il meccanismo più consono a spiegarne la costruzione. La significativa lettura dell’Ulisse ci viene infatti dal massimo teorico del montaggio applicato al contesto cinematografico. L’attenzione per quest’opera è costante nella vita di Ejzenštejn che la considera la “bibbia del nuovo cinema”161 e che studia, nelle diverse fasi della sua teorizzazione sul cinema, il monologo interiore di cui è intessuta sia come una espressione di una fase “prelogica” della coscienza sia come un “flusso estatico” di continue associazioni di cui il cinema avrebbe dovuto essere espressione162. Un’attenzione particolare la dedica in Teoria generale del montaggio del 1937, proprio per rivelarne la struttura esemplare di montaggio. Il teorico cineasta russo collocando Joyce nel contesto avanguardistico della crisi della borghesia ottocentesca legge l’Ulisse come “l’ultimo momento dell’epos borghese”163, intendendo per letteratura borghese quella che “porta in sé il conflitto con la propria classe e un quadro palese della sua rovina”. Ciò che muove l’osservazione di Ejzenštejn è ovviamente, considerato il contesto storico, politico, ideologico che lo circonda in quegli anni, la denuncia del capitalismo di cui la borghesia è agli occhi del regime sovietico il prodotto esemplare. In questo contesto l’opera di Joyce è però sottratta dal cineasta russo alle critiche di formalismo e individualismo che l’Unione Sovietica sferra in generale contro le avanguardie nate in Europa tra gli anni 10 e 20. L’opera di Joyce è scelta come esempio, tra i molti, finalizzato alla dimostrazione di un principio sotteso al montaggio associato alla figura mitologica di Dioniso; quindi l’Ulisse non è giudicato alla stregua di un’opera surrealista e tacciabile di formalismo, ma è un esempio eccelso di montaggio. L’anello di congiunzione tra questo prin-

160 161 162 163

Eco [1962] 2002, p. 65. Somaini 2011, p. 64. Somaini 2011, p. 96. Cfr. Ejzenštejn [1963-70] 2004.

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cipio e la forma e il contenuto del testo di Joyce è l’immagine del corpo smembrato. L’Ulisse, scrive Ejzenštejn, è anche la rappresentazione di un uomo: “è un quadro di tutto ciò che passa attraverso una persona o una persona fa passare attraverso di sé nel corso di una giornata” e incarna così quel modello perfetto di composizione che è il corpo umano. Il principio del corpo diviso si rifrange lungo tutto il romanzo nelle singole parti che lo compongono e che, in una visione d’insieme, si costituiscono in intero articolandosi nella suddivisione dei capitoli. Si rifrange quindi nella suddivisione temporale: le ventiquattro ore che scandiscono la giornata; nella suddivisione dello spazio: le varie parti della città; nei “regni fisici della natura”, nello spettro solare che si suddivide in colori; nella suddivisione delle arti; nella suddivisione delle forme letterarie. Così Dioniso che Ejzenštejn considera essere il prototipo mitico del metodo del montaggio, lo è al tempo stesso in modo eccelso di quest’opera. Se lo smembramento e la ricomposizione sono i due momenti che caratterizzano la tecnica del montaggio, Dioniso è la figura mitica che meglio esemplifica il suo meccanismo. In Dioniso Ejzenštejn vede addirittura la lontana origine del montaggio, abbozzando una ricostruzione storica che dall’antico atto sociale del rituale dello smembramento del capo tribù passa alla sua trasformazione, nel corso delle epoche, nella forma della rappresentazione tragica, nella simbolizzazione dell’azione in immagine. Quello che rimane della simbolizzazione dell’antico atto rituale è il “principio costruttivo” che Ejzenštejn ritiene sia alla base di qualunque costruzione artistica, ossia “il principio che ha accolto in sé la caratteristica fondamentale del processo di smembramento e riunificazione a un nuovo livello qualitativo”164. Si è già visto in riferimento all’attribuzione della figura mitica di Dioniso al teatro che scavare nelle origini rituali di quest’arte, fare dell’archeologia, per giustificare questa associazione è sviante; ha più valore invece analizzare il significato simbolico che la figura mitica sprigiona, come si è fatto con la lettura del mito orfico di Dioniso bambino e della fenomenologia del dio nella tragedia di Euripide. Il motivo dello smembramento e della ricomposizione si riverbera nella figura di Dioniso proprio in qualità di divinità esemplificativa dell’arte teatrale. Allora il meccanismo del montaggio si legge nello specchio frantumato di Dioniso bambino: nello specchio come strumento dove scorgere la propria immagine e l’immagine del mondo, e nel frammento di specchio che, pur essendo parte, riflette sempre un intero; si legge nella frantumazione dello specchio che è emblema dell’atto rivoluzionario, che spezza un ordine per crearne un altro, e nella novità 164 Ejzenštejn [1963-70] 2004, p. 230.

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che inaugura l’atto compiuto da un bambino, il futuro a venire. E il meccanismo del montaggio si legge nell’epifania del dio che deve essere visto per essere riconosciuto: la sua ‘verità’ è espressa nella visibilità, e dalla reciprocità dello sguardo; ma si legge anche nella crisi di identità, che si attua nel travestimento e nella metamorfosi e nel suo essere donna e uomo al tempo stesso, vecchio e giovane, straniero e familiare, umano e divino, folle e savio; si legge nella polarità semantica che tutte queste qualificazioni riverberano. Dioniso, prototipo mitico del montaggio, è per il cineasta russo la “soglia da cui muove l’arte del teatro, che diventerà in seguito arte del cinema”165. Il meccanismo del montaggio è infatti sperimentato per la prima volta da Ejzenštejn nel contesto teatrale e successivamente teorizzato in quello cinematografico. VIII. Ejzenštejn, l’Urphänomen cinematografico Nel contesto della settima arte il montaggio viene definito dal cineasta russo Urphänomen cinematografico, con esplicita assunzione della terminologia goethiana. Siamo a Mosca nel 1937 e nello scrivere la Teoria generale del montaggio, dove viene enucleato il concetto, Ejzenštejn si rivolge volente o nolente al Regime Sovietico che, in pieno esercizio del realismo socialista, intendeva fare del cinema uno strumento di propaganda del partito. La priorità per il cineasta russo quindi è quella di difendere il cinema e il suo principale meccanismo pratico e teoretico, il montaggio, dalle accuse di formalismo rivolte alle avanguardie in generale, e nello specifico a quelle a cui poteva essere attribuita la paternità dell’uso del montaggio. In questo senso si spiega in parte la volontà di Ejzenštejn di analizzare il montaggio come un meccanismo “universale”, un potente mezzo compositivo, capace di efficacia sul pubblico, radicato nella natura umana, estendibile a tutte le arti e verificabile in una molteplicità diversificata di casi, così come avviene nel testo sopra citato166. La morfologia goethiana influenza quindi anche le ricerche di Ejzenštejn andando ad aumentare il già consistente numero di autori che, come si è visto, dovendo sviluppare teorie in cui le immagini hanno un valore gnoseologico fondamentale trovano in Goethe una chiave d’accesso importante. Il principio stesso a guida dell’indagine del cineasta russo è profondamente 165 Ejzenštejn [1963-70] 2004, p. 227. 166 Cfr. Somaini 2011, pp. 187-215; pp. 310-314.

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affine a quello di Goethe, ossia che l’oggetto della ricerca e i presupposti che guidano l’analisi si trovano strettamente congiunti, e quindi, ci sia una corrispondenza, una specularità tra lo sguardo e il suo oggetto. L’idea di fondo espressa nell’affermazione secondo cui se l’occhio “non fosse solare non potrebbe mai percepire il sole”167 Goethe la mutua in realtà dalla sapienza neoplatonica, e in particolare da Plotino per cui è necessario che il sapiente prima si renda simile a ciò che deve essere visto e solo poi si disponga alla visione168. In quest’ottica se la similitudine è la condizione prima del riconoscimento e della conoscenza, l’oggetto della corrispondenza è l’analogon tra l’intuire umano e il meccanismo insito nella natura, ossia il processo creativo. Per questo Goethe, a differenza di Kant, ammette la possibilità di un intellectus archetypus, di un intelletto che mediante l’intuizione di una natura sempre creante si renda spiritualmente partecipe delle sue creazioni169. Analogalmente per Ejzenštejn il montaggio rappresenta un meccanismo creativo del pensiero umano e nella Teoria generale del montaggio ricostruisce una vera e propria genealogia delle sue forme di cui si possono trovare tracce in contesti pre- ed extra-cinematografici. Considerandone quindi la “preistoria” e “la storia successiva”170 pone a confronto tutte le varianti della sua espressione, per coglierne, come lo sguardo sinottico di Goethe, il fenomeno originario. Per cui si troveranno esempi che spaziano dall’analisi della disposizione degli edifici sull’Acropoli, alla pittura cinese, al Laocoonte, all’Anna Karenina di Tolstoj, agli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola ecc… E in accordo con la morfologia goethiana, come osserva Antonio Somaini, la relazione tra il montaggio come fenomeno originario e le sue variazioni storiche non è univoca, non è decisa prima dell’analisi delle sue manifestazioni, ma piuttosto “consente di riconoscerle ex post, guardando indietro alla storia delle arti dal punto di vista di un cinema che cerca di comprendere pienamente la propria identità e la propria genealogia”171. E in definitiva, l’Urphänomen cinematografico che viene colto dal confronto di tutte le varianti di costruzione per montaggio consiste essenzialmente nel “formarsi del movimento da due immobilità”172. Precisamente si verifica nell’operazione secondo cui due o più riprese immobili o foto167 168 169 170 171 172

Goethe 1989, p. 1270. Cfr. Plotino, Enneadi I, 9. Cfr. Goethe [1820] 2005, p. 140. Somaini 2011, p. 314. Somaini 2011, p. 324. Ejzenštejn [1963-70] 2004, p. 141.

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grammi, due o più rappresentazioni (izobraženie), proiettate a una certa velocità, danno vita a un movimento ossia un’immagine (obraz). Il movimento generato dalla composizione è espressione di pathos, quindi l’immagine, o quella che Ejzenštejn definisce “immaginità” (obraznosť), è sempre espressiva di emozione e di conseguenza è efficace, provoca cioè un effetto nello spettatore. L’attenzione per l’efficacia, l’effetto che la creazione di montaggio ha nei confronti del pubblico è da subito imprescindibile nelle teorizzazioni di Ejzenštejn: lo spettatore è terminus a quo, lo sfondo politico e sociale in cui si colloca l’“atto di montaggio”, come si evince già ne Il montaggio delle attrazioni, la prima pubblicazione sul tema, edita nel ’23. L’immagine che consegue dalla creazione per montaggio è una generalizzazione del fenomeno: nella sua essenza è sempre “un’immagine generalizzata” perché indica sia le singole unità autonome di cui è costituita, sia la totalità. L’immagine in questo modo è una terza cosa rispetto alle rappresentazioni di partenza. Per mezzo della composizione del montaggio accade che un frammento che di per sé non ha significato o è provvisto di un significato ben definito, combinandosi con un altro acquisti un significato tutto nuovo, spesso di senso opposto o diverso a quello di partenza. Il montaggio inoltre non consiste tanto nella successione di una serie di pezzi, o rappresentazioni, ma nella giustapposizione, nella loro contemporaneità e compresenza, che è la condizione perché si crei lo “scatto dinamico che costituisce il senso basilare del movimento”173. Il montaggio cinematografico, proprio in qualità di fenomeno originario, è osservabile anche come funzionamento stesso della mente, ed è secondo il cineasta russo: “un’immagine riflessa di quel processo che ha luogo in ogni coscienza individuale e nella storia della coscienza nel suo complesso, nel corso della formazione di concetti generali a partire da singoli fenomeni”, e riflette così le “tappe evolutive nella formazione della coscienza conoscente”174. Il meccanismo del montaggio è dinamico e dialettico, e lo è esplicitamente in tutti gli stadi del pensiero di Ejzenštejn, dalle prime teorizzazioni agli inizi degli anni 20 in cui è qualificato anzitutto come “conflitto”, fino alla concezione dell’Urphänomen dove l’attenzione è rivolta più alla sintesi e armonia che al conflitto. Quindi l’aspetto polare e dialettico che abbiamo trovato nella teoria di Warburg come in quella di Benjamin trova una conferma anche in Ejzenštejn. Somaini pone un confronto diretto tra questi autori, e in particolare per quanto riguarda Warburg, se diversamente da Banjamin non è riscontrabile alcun contatto diretto o indiretto tra i due, 173 Ejzenštejn [1963-70] 2004, p. 104. 174 Ejzenštejn [1963-70] 2004, p. 48.

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il confronto è però d’obbligo rispetto all’uso da parte di entrambi dell’analoga espressione “formula del pathos”175. Nei differenti contesti in cui si situano la formula pàfosa di Ejzenštejn e la Pathosformel di Warburg è rilevante il fatto che entrambe abbiano un fondamento gestuale, che entrambe siano attive ed efficaci, ossia trasmettitrici di movimento, e in continua trasformazione. Entrambe sono quindi individuabili incarnate sotto sembianze differenti in contesti culturali storici e temporali diversificati. Per entrambi uno sguardo morfologico è in grado di rilevare la loro tipicità, la loro identità colta nella varietà di forme, nella molteplicità di esempi che la cultura può offrire. Inoltre il pathos è fondamentale per entrambi: è frutto della dinamica sottesa della polarità per Warburg e della ‘dialettica’ che guida la composizione del montaggio per Ejzenštejn. Una dialettica di cui il cineasta trova conferma, autorevolezza, oltre che ‘riparo politico’, nelle teorie di Friedrich Engels relative alla processualità dialettica intravista nella realtà storica e nel mondo naturale. Nella teoria del cineasta russo, un altro aspetto fondamentale coerente alla prospettiva morfologica implicata è il rapporto tra particolare e universale. La segmentazione e la composizione che articolano il meccanismo del montaggio accompagnano sempre una visione d’insieme, perché la “principale caratteristica del pezzo di montaggio è la sua capacità di suggerire, cioè la presenza di tratti tali da suscitare il senso dell’intera configurazione”176. Questa idea è enucleata, relativamente all’inquadratura, nel concetto della pars pro toto, secondo cui: quando passiamo dalla combinazione dei fotogrammi alla combinazione delle inquadrature, il metodo e il fenomeno rimangono gli stessi, compiendo però, un salto di qualità. La pars del pezzo di montaggio suscita l’immagine del toto, cosicché per la coscienza essa è già l’immagine di un intero quadro177.

Ed è il caso, per fare un esempio, del primo piano sul pince-nez in frantumi che nella Corazzata Potëmkin vuole indicare la morte del medico di bordo178; ma è anche il principio elementare della figura retorica della sineddoche, estendibile alle figure più generiche della metafora e della metonimia. Il rapporto tra la parte e il tutto anche in questo caso è inteso in senso dialettico, i due elementi sono infatti indissociabili; il montaggio per il cineasta non sarà mai finalizzato esclusivamente alla frammentazione, e 175 176 177 178

Somaini 2011, pp. 363-367. Ejzenštejn [1963-70] 2004, p. 206. Ejzenštejn [1963-70] 2004, p. 157. Cfr. Somaini 2011, p. 203.

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alla dispersione nella frammentazione, operazione che invece attribuisce criticamente ad alcune espressioni dell’avanguardia degli anni 20, ma implicherà sempre la relazione tra particolare e universale. In accordo anche su questo con i presupposti della morfologia goethiana, il concetto della pars pro toto implica una relazione tra particolare e universale che non è di sussunzione in unità da parte dell’universale rispetto al particolare, ma come si è già visto nel contesto del pensiero antico, il particolare, la parte, il molteplice contiene in sé l’unità e identità; come nel frammento dello specchio di Dioniso, nella parte si rispecchia l’intero. È interessante che anche Ejzenštejn abbia trovato ‘letteralmente’, come i suoi predecessori, suggestioni e prove delle sue teorie oltreoceano, nel pensiero prelogico, prerazionale osservabile nel Nuovo Messico che, a differenza del Vecchio Continente, ancora ne conservava l’espressione. La ricerca sul pensiero primitivo incontrato nella cultura messicana tra il ‘30 e il ‘31 – e nella complessità dell’‘anacronistica’ stratificazione culturale che la caratterizza in quel periodo179 – è coerente all’ipotesi, maturata successivamente ma già abbozzata dalle sue prime indagini, che il fenomeno originario cinematografico corrisponda a un meccanismo basilare del pensiero umano. A queste ricerche sul campo accompagna anche, assieme ad altri studi, quelli sul pensiero primitivo di Lucien Lévy-Bruhl, e in primis l’acquisizione che il pensiero prelogico coesista, avendo una sua propria e ‘diversa logica’, con quello logico analitico, quindi sia sempre presente per quanto apparentemente latente. Del concetto di pars pro toto che sperimenta grazie al meccanismo compositivo del montaggio trova conferma proprio nell’osservazione delle tradizioni messicane e negli studi sul pensiero selvaggio, come ad esempio nella “legge di partecipazione” (loi de partecipation) che Lévy-Bruhl considera distintiva del pensiero primitivo e che comporta una visione del mondo in cui tutto è in relazione con tutto, senza le separazioni poste dal pensiero logico180. Ne consegue l’esito teorico, che non risulta però esplicitato da Ejzenštejn, che la forma espressiva cinematografica nella misura in cui si avvicina al pensiero prelogico rinvenuto nella cultura primitiva è una forma mitica di pensiero, una forma mitica assolutamente contemporanea. Il pensiero prelogico è nelle intenzioni del cineasta quanto il cinema riesce a riattivare; la sua efficacia, la capacità di comunicare al pubblico, risposa proprio nella possibilità della forma cinematografica di ricreare quell’‘immaginità’ riscontrabile nel pensiero primitivo. Ejzenštejn crederà fino alla fine dei 179 Cfr. Somaini 2011, pp. 114-136. 180 Cfr. Somaini 2011, p. 203.

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suoi giorni alle potenzialità del cinema come arte suprema, “erede e sintesi delle arti”, con la missione di agire sulla psiche del pubblico per formarne la coscienza e il dovere politico di trasformare il mondo; e questo ovviamente, anche di riflesso all’ideologia sovietica di cui era satura l’aria in cui respirava. Estremamente rilevante ai fini dell’indagine è il fatto che tutta la sua vicenda teorica prenda le mosse dal teatro, come conferma anche la matura associazione tra il meccanismo del montaggio e quello che definisce il “principio di Dioniso”. È nel contesto teatrale che il cineasta mette in pratica le prime forme di montaggio, sperimentate quindi per la prima volta nello spazio del palcoscenico. Ed è in questo ambito che il montaggio svela la sua intrinseca natura teatrale e si svela come principio drammaturgico, perché, come Ejzenštejn afferma nel ’29 ne La drammaturgia della forma cinematografica, il principio che lo regola è eminentemente drammatico, piuttosto che epico. Il montaggio infatti non implica “un pensiero composto da pezzi che si succedono bensì un pensiero che trae origine dallo scontro di due pezzi indipendenti l’uno dall’altro” e questo è il meccanismo proprio del principio drammatico181. Se il principio epico implica il rapporto di successione, e rende il montaggio “descrittivo”, come si legge nel testo, il principio drammatico invece implica un rapporto di conflittualità, implica lo scontro tra le parti e la loro “sovrapposizione” che scatena lo scontro. È nello scarto tra successione e giustapposizione che si condensa la distinzione tra epico e drammatico, e di riflesso tra storico e mitico. Il movimento nasce dal conflitto ed è reso possibile da una dialettica sempre aperta. Si è visto allo stesso modo come l’analisi della drammaturgia antica nella tragedia greca conferma questo principio, perché costruita in ogni sua parte su polarità dialettiche, attraverso l’uso di parole di segno opposto che, giustapposte e simultaneamente presenti, creano l’effetto della plurivocità e ambiguità di senso. Accade nel 1923, durante l’allestimento dello spettacolo Anche il più saggio si sbaglia, tratto dalla commedia di Aleksandr N. Ostrovskij, che Ejzenštejn scopre e applica la tecnica del montaggio; e non perché la messa in scena contenesse un breve film comico ma perché in un punto preciso della rappresentazione viene applicata in modo originale la nuova tecnica. È il momento cruciale della rappresentazione in cui si mette in scena un incontro di pugilato. Diversamente dagli altri momenti del film Ejzenštejn (che era inizialmente coinvolto nel progetto solo in qualità di scenografo)

181 Ejzenštejn [1973-84] 1992, p. 23.

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propone di rendere realistica questa scena che viene quindi impostata diversamente dal resto e però montata con il resto:

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alla scenografia immaginaria, si sostituì un ‘quadrato realistico’ […] con le comparse ammassate tutt’attorno; in questo quadrato avveniva la vera lotta, corpi che crollavano sul pavimento, respiro affannoso, luccicar di sudore sui dorsi nudi e infine il suono indimenticabile dei guantoni sulla pelle tirata e i muscoli tesi182.

Rispetto al contesto in cui si colloca questa singola scena Ejzenštejn osserva come si era creato il conflitto tra “l’azione reale” e “la fantasia visiva” di cui era intessuta la rappresentazione nel suo complesso, ossia nello stile di recitazione, nell’intonazione, nei gesti, nella mimica e nella definizione della scenografia. Nelle esperienze teatrali successive questo contrasto sarà ulteriormente sperimentato e compreso come “conflitto tra principio materiale-pratico e quello romanzesco-descrittivo”. Nel caso della messa in scena nel 1924 di Maschere antigas di Nikolai Tret’jakov, la scelta di collocare la rappresentazione in una vera fabbrica di maschere antigas convinse definitivamente Ejzenštejn a passare alla ripresa cinematografica, consapevole del fatto che la finzione teatrale non avesse nulla a che fare con lo sfondo reale in cui si sarebbe dovuta collocare. È quindi in nome del realismo e della sua maggiore potenzialità di impatto sul pubblico, in nome della sua efficacia che nel ’24 Ejzenštejn decide di abbandonare il teatro, la finzione teatrale per praticare il montaggio con l’ausilio della nuova tecnologia del cinema.

182 Ejzenštejn [1934] 1964, p. 9.

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III IL TEATRO CONTEMPORANEO, POIESIS DEL MONTAGGIO

Si è cercato di mostrare attraverso una serie di casi esemplari in che termini il pensare per immagini può essere considerato il tratto distintivo della visione del mondo del Novecento. Lo è precisamente nella misura in cui rompe con la forma metafisica di pensiero che ha predominato come paradigma concettuale nella cultura europea dall’antichità fino al XIX secolo. Ne è emerso che la crisi del concetto di identità e unità trascendentale che ha governato il pensiero improntato metafisicamente ha portato a una rivoluzione del modo di intendere il rapporto tra la le parti e l’intero, rapporto che ha nel montaggio il criterio definitore del suo articolarsi. Il pensare per immagini ha la più matura ed esplicita estrinsecazione nella nascita del cinema che non a caso inaugura il nuovo secolo: il cinema risulta quindi essere la conferma oltre che il momento culminante – nella forma della piena attuazione artistica – di questa nuova visione del mondo. Ed è nel contesto cinematografico che la categoria del montaggio è diventata, come ha affermato Edoardo Sanguineti nel tracciare un ritratto del XX secolo, perfettamente consapevole di sé1. Il cinema rende evidente il valore creativo del suo meccanismo, così da svelare il Novecento come il “secolo del montaggio”2 e illuminare retrospettivamente, come è avvenuto ad esempio nelle speculazioni di Ejzenštejn, anche la cultura passata. I. Teatro e Avanguardie Storiche Il fatto che il meccanismo del montaggio abbia l’atto di nascita consapevole nel contesto del teatro, come si è visto specificatamente nell’esperienza di Ejzenštejn, ha un significato fondante, e il fatto che la sua tecnica si sia sviluppata successivamente soprattutto nel contesto del cinema non toglie nulla alla sua prima appartenenza all’arte scenica. Anzi, la nascita e 1 2

Cfr. Sanguineti 2009. Sanguineti 2009, p. 6.

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Mito e teatro

il vorticoso sviluppo del cinema hanno messo il teatro nelle condizioni di riflettere e riscoprire le sue proprie caratteristiche e questo è avvenuto a partire dalle Avanguardie Storiche. Come ha osservato Roberto Tessari, il teatro ha infatti un ruolo primario rispetto a tutte le varie forme artistiche dell’avanguardismo novecentesco: è nel suo contesto che si compie la prima rivoluzione3. Gli uomini di teatro, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, nei differenti casi delle singole avventure creative, sono autentici promotori di lotte avanguardistiche che precedono il configurarsi delle Avanguardie Storiche; il teatro quindi si colloca a capo delle avanguardie in senso ideale oltre che cronologico. E l’antecedenza ideale del teatro sulle altre forme d’arte e sul cinema è da attribuirsi indubbiamente al valore squisitamente e intimamente politico della sua pratica. Così, Filippo Tommaso Marinetti, fondatore di una tra le prime Avanguardie Storiche, ha individuato in Alfred Jarry “l’unico exemplum-modello d’un orientamento artistico da ritenersi prototipico rispetto all’Avanguardismo novecentesco”4. Contemporaneamente all’elaborazione e pubblicazione del Manifesto del Futurismo, l’esordio teatrale di Marinetti, segnato nel gennaio 1909 dalla messa in scena a Torino de La donna è mobile e nell’aprile dello stesso anno di Roi Bombance nel Teatro dell’Œuvre a Parigi, è fatto a immagine e somiglianza – pur con esiti ben diversi – dell’Ubu roi di Jarry andato in scena con la regia di Aurélien Lugné-Poe (stesso regista voluto da Marinetti per la pièce parigina) tredici anni prima nello stesso teatro. Proprio nel tempio della drammaturgia simbolista, il 10 dicembre del 1896, il pubblico parigino aveva assistito rapito da sconcerto alla messa in scena dell’originale opera di Jarry. E da questo momento in poi “le emergenze prime e le ultime vette che segnano l’intero arco delle avanguardie novecentesche rivendicano – a vario titolo – il diritto di parlare in nome di Jarry”5. È invece dell’anno precedente, il 28 dicembre del 1895, la prima proiezione pubblica, sempre a Parigi, di una pellicola cinematografica dei fratelli Lumière che sbalordisce gli spettatori perché li mette improvvisamente di fronte a immagini che, diversamente dall’immobilità delle forme artistiche figurative conosciute fino ad allora, sono in movimento, sono vive nella misura in cui riproducono, nella ripresa di una scena quotidiana, il movimento che dà impulso alla vita. In questi stessi anni, poco prima e poco dopo l’evento voluto da Jarry, esempi di rivoluzioni rispetto al teatro convenzionale si hanno rispettiva3 4 5

Cfr. Tessari 2005. Tessari 2005, p. 9. Tessari 2005, p. 10.

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mente nella regia di Adolphe Appia e Gordon Craig, ma a confronto, il caso del giovane autore francese rappresenta, anche drammaturgicamente, una svolta dagli effetti dirompenti per la forza trasgressiva con cui viene provocata. La pièce di Jarry scardina ogni convenzione teatrale rispettata fino ad allora: in scena gli attori sono marionette, fantocci travestiti con maschere che cavalcano cavalli di cartone; e la critica ha voluto riconoscere nella storia messa in scena nientemeno che una parodia del Macbeth di Shakespeare, dove Padre Ubu e Madre Ubu scimmiottano come epigoni la diabolica coppia protagonista della tragedia nell’intenzione di usurpare il trono al re Venceslao. L’ambientazione prevede che il tutto si svolga in una Polonia concepita come un “Nessun Luogo”, e la scena si compone dei corpi degli attori: l’edificio di una prigione è mimato da un attore a braccia aperte, e l’atto di aprirne la porta si compie facendo girare nella sua mano una chiave e recitando il verso del ‘cric-crac’. I personaggi sono dissacranti, brutali, così come le parole che proferiscono, spesso composte da neologismi, sono urlate e fatte risuonare sullo sfondo di una musica da fiera, che sopperisce alla mancanza di un’orchestra. In una frase di William Butler Yeats, spettatore della pièce, si condensa il senso di quello che avviene sulla scena: “Dopo di noi”, ossia dopo i principali simbolisti: Stéphane Mallarmé, Paul Verlaine, Gustave Moreau… “il Dio Selvaggio”6. Questo è quanto sembra prefigurare per il futuro del teatro il grande poeta irlandese. I pochi e sintetici dettagli qui riportati di quanto si tramanda avvenne sul palco del teatro dell’Œuvre sono sufficientemente esplicativi dell’intenzione espressa da Jarry e fatta propria da tutte le avanguardie del primo Novecento: di rompere il codice rappresentativo della mimesi realistica, il codice su cui si basava il teatro portato sulle scene fino a quella data. Quello che si vuole scardinare è qualsiasi ipoteca del verosimile, ogni intenzione di riproduzione fedele della realtà, riproduzione avvertita di contro come finta, come superficialmente estetizzante. Di conseguenza, il postulato indiscusso che viene messo in crisi da Jarry in poi nelle avanguardie teatrali è che “il teatro è rappresentazione, ora più ora meno fedele, ed effettuata in ossequio a talune convenzioni sceniche, del testo drammatico inventato e composto da un autore”7. Il teatro fedele a questo postulato rimarrà di fatto attivo accanto alle nuove emergenze non solo per tutto il XIX secolo ma anche oltre, vivo e vegeto fino a oggi. Ciò però non impedisce di leggere in queste emergenze la cifra distintiva del nuovo teatro; dopo Jarry, alcuni focolai di rivoluzione delle avanguardie teatrali sono individuabili 6 7

Yeats 1955, pp. 348-349. Tessari 2005, p. 11.

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sparsi sia nel Vecchio che nel Nuovo Continente8: a Vienna in cui si assiste nel 1905 alla messa in scena dello scandaloso Die Büchse der Pandora di Frank Wedekind con l’allestimento di Karl Kraus; l’anno dopo a Berlino un altro dramma di Wedekind è messo in scena da Max Reinhardt, si tratta di Frühlings Erwachen, che diversamente dalla messa in scena viennese incontrerà l’entusiasmo totale da parte del pubblico. A Mosca Vsevolod E. Mejerchol’d, chiamato da Stanislavskij nell’ambito del Teatro d’Arte di Mosca, dirige dal 1905 un Teatro-studio da cui nascerà nel 1922 la messa in scena di Le cucu magnifique di Fernand Crommelynck; spettacolo anticipato a sua volta da un progetto di messa in scena di un altro dramma anticonvenzionale: La mort de Tintagiles e la messa in scena nel 1918, nell’allora Pietrogrado, del poema teatrale di Vladimir V. Majakovskij Misterija buff. Tra le primissime esperienze registiche del capofila dell’avanguardia teatrale sovietica, nel 1906, c’è anche un dramma lirico composto da Aleksandr Block intitolato Balaganćik (Il baraccone: dei saltimbanchi o delle marionette) che ha delle somiglianze impressionanti con l’opera di Jarry9. Nel primo quindicennio del Novecento, come si è visto, in Italia l’avanguardia si dichiara nei manifesti del teatro futurista. Nel 1916 a Zurigo è inaugurato dal regista teatrale Hugo Ball e da Emmy Hennings il Cabaret Voltaire che, culla del dadaismo, vede passare artisti quali Marcel Janco, Richard Huelsenbeck, Tristan Tzara e Hans Arp. Nel 1916 a New York, la compagnia dei Provincetown Players mette in scena Bound East for Cardiff di Eugene O’Neill, uno spettacolo considerato influente nella cultura americana in modo analogo rispetto a quanto succedeva in Europa per effetto delle avanguardie. Le avanguardie teatrali, pur nella varietà delle loro espressioni e della dislocazione spazio temporale in cui si collocano, sono coerenti alla rivoluzione della visione del mondo peculiare del Novecento, che ha comportato il recupero del valore noetico dell’immagine e del pensiero prelogico e prediscorsivo. Visionarietà e immaginazione, rivendicate dall’avanguardia di contro alle forme artistiche convenzionali, acquisiscono un rinnovato valore di verità per contrastare la tendenza della cultura occidentale e in particolare della modernità a relegare il pensiero fantastico e immaginale nell’irreale, nel mitico, nel meraviglioso, intesi tutti come categorie del fittizio, dell’apparente, dell’illusorio. L’attacco delle avanguardie è sferrato contro l’estetismo fine a se stesso, vuoto di contenuto, che promuove 8 9

Cfr. Longhi 1999, pp. 25-29, a cui si rimanda per una ricognizione dettagliata delle emergenze artistiche nel periodo considerato. Cfr. Tessari 2005, pp. 37-38.

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un’arte separata dalla conoscenza e dalla vita, puro esercizio di stile e che ha avuto storicamente la massima espressione nel secondo Ottocento. Si tratta di un estetismo supportato da un ingenuo naturalismo inteso come imitazione speculare della natura; così i personaggi, le storie, le scene, i dialoghi del teatro convenzionale che la vis polemica dell’avanguardia intende destituire sono fatti “secondo natura”, come scrive Jarry10 nelle riflessioni teoriche con cui presenta il suo nuovo teatro. Contro “la natura” nel nuovo teatro si afferma invece il segno, che è caricato di un significato universale, per cui “l’attore dovrà sostituire la sua testa con l’effigie del personaggio, per mezzo di una maschera che la racchiuda”, l’effigie del personaggio esprime il carattere, ossia il tipo: “l’Avaro, l’Incerto, l’Avido …”, perché nella maschera, secondo Jarry è “incluso il carattere eterno del personaggio”11. Nella ricerca di questa universalità, che appare stilizzata nel simbolo, sta la volontà quindi di sostituire l’uomo-attore alla marionetta, che compie, diversamente dal “linguaggio mimetico convenzionale, faticoso e incomprensibile”, un “gesto universale”. La maschera ha inoltre il compito di occultare il corpo dell’attore per rivelare “l’uomo interiore” e ha la “mineralità dello scheletro che dissimula sotto la carne animale, il significato tragicomico del quale è stato riconosciuto in ogni epoca”. Allo stesso modo la scena che non è intesa preesistente allo spettacolo, non è il luogo in cui è collocata la rappresentazione ma è tutt’uno con lo spettacolo; deve essere astratta, deve “rappresentare la sostanza”, e può essere resa “con simbolica esattezza” da un cartello che illustra i cambiamenti di luogo, senza pretendere l’effetto della scenotecnica che renda illusionisticamente i cambi di scena. Con lo stesso intento Craig farà della Supermarionetta l’ideale dell’attore capace di sostituire il “burattino” ossia l’attore che, nel teatro convenzionale, scimmiotta i personaggi, identificandosi con essi. Per Craig portare in scena la Supermarionetta equivale al “ritorno dell’immagine nel teatro”12 e la possibilità di dare vita a una vera poiesis drammatica. La Supermarionetta, l’attore disincarnato, è infatti il complemento dell’invenzione più importante con cui Craig rende possibile il nuovo teatro: gli screens, ossia i pannelli mobili che, costruiti con materiali, colori e dimensioni diverse, creano la scena, di volta in volta mutevole, componendosi nei modi più vari. E non è difficile intravedere nel meccanismo degli screens un’applicazione artigianale del montaggio che troverà poi un utilizzo tecnico più evoluto nel cinema. 10 11 12

Jarry 1896 in Carandini 1988, p. 99. Jarry 1896 in Carandini 1988, p. 99. Craig [1911-13] 1971, p. 57.

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II. La questione della mimesis La messa in discussione da parte delle avanguardie dell’approccio mimetico al reale proprio del teatro etichettato come convenzionale è indicativa di un diverso modo di intendere l’immagine e un rinnovato approccio al sensibile. Come osserva Gottfried Boehm13 ciò che accomuna le poetiche delle nuove emergenze artistiche tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo è la messa in discussione dell’idea di riproduzione che va di pari passo alla scoperta delle più autentiche e produttive prestazioni dell’immagine; è la prestazione poietica delle immagini a rappresentare il tratto comune di correnti diverse, dall’arte astratta all’inconscio surrealista, alla visione cubista, all’approccio dadaista, per nominare le principali. Il principio sotteso a questa nuova impostazione è di fatto antico, per cui, diversamente dall’approccio diffuso del secolo precedente, l’idea di fondo che l’arte inaugurata con le avanguardie del Novecento condivide con il pensiero antico è che sì, “ars imitatur naturam” ma, come recita Tommaso d’Aquino, ciò avviene “in sua operatione”, ossia, l’arte non riproduce banalmente le forme della natura ma rende proprio il processo formativo e si pone come analogon della natura. Quello che le avanguardie teatrali cercano nel nuovo teatro è una vitalità che gli artisti possono trovare nella creatività intesa come analogo dei processi creativi della natura. È un’impostazione che significativamente accomuna anche l’approccio antimimentico alla natura di Goethe che, abbiamo visto nella seconda parte di questo volume, essere filtrato in molti autori proprio nel Novecento in virtù dell’approccio differente rispetto al sensibile e all’immagine intesa come mediatrice del rapporto con il reale. Per Goethe l’uomo è creatore – poietes – nella misura in cui imita la legalità interna della natura. Il concetto goethiano di stile risulta, nell’aspetto creativo, speculare all’aspetto eidetico della percezione fenomenica, alla possibilità cioè del darsi del fenomeno nella sua decisiva tipicità, ossia la percezione dell’Urphänomen. Per cui, nello stile c’è da parte dell’artista che lo crea la capacità di sintetizzare, in modo peculiare in ogni epoca, particolare e universale, sensibile e intelligibile. La sintesi fenomenica, leggibile nella percezione come nella creazione – in una parola nello stile – si differenzia quindi dal meccanismo imitativo che implica un rapporto riproduttivo rispetto a un modello, perché a essere imitato non è appunto un modello inteso come oggetto storicamente esistito, che si offre alla mimesis ed esige dall’artista la riproduzione nella copia. L’Urbild, il ‘tipo’ inteso goethia13

Cfr. Boehm [1994] 2009.

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namente, è differente dal modello innanzitutto nel non essere un oggetto reale: come un criterio categoriale, che essendo tutt’uno con il principio formativo è matrice stessa della riproducibilità – quindi antimimetico per principio – sussiste immanente nel modello come sua possibilità costitutiva ed è anche suo criterio d’ordine, di sintesi del molteplice empirico. Le premesse fondamentali dell’estetica occidentale fondate sul rapporto mimetico della copia rispetto al modello sono radicate nella speculazione platonica, e precisamente nella mossa di Platone di sottrarre al termine mimesis il suo significato originariamente espressivo-rituale, per intenderlo nel senso di imitazione della natura, ovvero di riproduzione del mondo esteriore. Prima di Platone, la mimesis, attribuita all’attività propria del poeta14, è intesa come tecnica compositiva che permette di visualizzare e descrivere ogni elemento dell’esperienza sensibile. In Alceo e Pindaro, ad esempio, la poiesis è intesa come attività che struttura ordinatamente secondo la modalità di una pratica artigianale; parole quali ‘artefice’ e ‘architetto’ designano il poeta. La mimesis è inoltre da subito associata anche all’espressività teatrale: è imitazione di animali e uomini attraverso la voce, la musica, il gesto, la danza. Per la prima volta invece, a partire da Platone, il concetto di mimesis indica la copia di un modello, la rappresentazione di un originale, la riproduzione in un senso dall’accezione negativa, proprio per il suo statuto di derivazione da un’originale posto a modello. Da qui ne consegue il problema, per l’estetica che nascerà paradossalmente dalle premesse antiestetiche di Platone, sia della possibilità dell’opera d’arte intesa come riproduzione sia del suo valore. A partire da Platone l’opera d’arte, ossia quanto è sensibilmente originale, di per sé non è che brutta copia di un originale ideale, originale che è quindi incatturabile dalla poiesis artistica. La conoscenza del vero è conoscenza dell’eidos, la falsa conoscenza è conoscenza sensibile, e l’arte come riproduzione di questa falsa conoscenza è da condannare. E non solo l’arte è da condannare, ma di essa non si dà conoscenza perché si rivolge all’apparenza sensibile delle cose di cui non può esservi scienza. Il discredito nei confronti dell’arte è riflesso del discredito nei confronti dell’esperienza meramente sensibile – il disprezzo della natura non è platonico, ma successivo, platonista (ma non neoplatonico) e biblico; natura e arte nel pensiero platonico hanno di fatto lo stesso statuto; e come non può esserci scienza della natura in virtù del suo carattere peculiarmente sensi14

Sull’uso polisemico preplatonico nella poetica arcaica dei termini mimesis, mimema, mimeîsthai, si veda Gentili 1984. Sul concetto di mimesis nell’antichità si veda Sacco 2005b.

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bile così non può esserci scienza dell’arte. Il mondo sensibile è il regno del divenire, del continuo fluire indeterminato, dove nulla permane stabilmente, ma tutto si trasforma, in un continuo oscillare della percezione sensibile nell’indeterminatezza del molteplice. Quindi la natura e l’arte, come riproduzione della natura, sono quei due ambiti “in cui non sussiste alcuna stabile e veritiera conformazione dell’essere, bensì nei quali il movimento della rappresentazione e della fantasia ci simula soltanto l’immagine di una tale conformazione”; natura e arte sono gli ambiti dell’apparenza, della “mera immagine”15. Il divenire, che è in continuo movimento, per il suo carattere sfuggente alla categorizzazione, esclude di per sé il sapere; del divenire non può darsi scienza, e nella vista, che funge da specchio, immagine riflessa del divenire sensibile, non può darsi verità. Così Platone porta a maturazione quel processo che, come si è visto nella prima parte del volume, ha le premesse in Parmenide, perciò può affermare: “io ritengo che non ci sia scienza vera […] se non quella che abbia per oggetto ciò che è in quanto è, ciò che non è visibile con l’occhio fisico”16. L’essere come pura forma è l’unica possibile verità, perché, nell’astrazione dell’identità con se stesso, nell’univocità, si sottrae alle contraddizioni del variare proprio del divenire, che sgretola il principio d’identità nella visibilità. L’identità è cieca delle variazioni, e le variazioni sono prive di identità in una concezione come quella platonica che considera mondo sensibile e mondo intelligibile separatamente, l’unità e la molteplicità come appartenenti a due mondi diversi, e ritiene lo sguardo – meramente sensibile – privo del principio d’ordine del molteplice, di contro alla visione intellettuale che è tale in quanto sottratta al mutamento. In questa concezione, i fenomeni indeterminati e fluttuanti diventano univoci, comprensibili e dominabili solo se intesi come copie delle idee. Ma Platone non condanna il teatro per la capacità di svelare, mettendola in scena attraverso la rappresentazione, la natura del divenire e la plurivocità della vita; lo condanna per i risvolti politici che esso può implicare: per il potere virulento di provocare la sensibilità, le passioni dei cittadini, degli spettatori che stimolati e distratti emotivamente sono distolti dal giudizio vero sul bello e sul giusto; l’esito estremo da paventare secondo Platone è il potere del teatro di catturare e obnubilare le menti dei cittadini. E il pericolo del teatro è anche quello di fare credere ai cittadini che potendo giudicare le gare teatrali possano allo stesso modo decidere sulle questioni del governo della città. 15 16

Cassirer [1924] 2003, p. 140. Platone, Repubblica 259 a.

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L’approccio al sensibile e all’immaginale inaugurato da Goethe con la morfologia tenta proprio di risolvere questa secolare frattura tra sensibile e intellegibile: se per il poeta tedesco la percezione del fenomeno è un’estrema sintesi e la creazione artistica è la realizzazione poietica di questa sintesi, l’arte è intesa come “la più grande mediatrice”, è il medium tra sensibile e intelligibile, medium che Platone aveva invece voluto riconoscere nella matematica. E il processo creativo che dà forma all’opera d’arte, nella sua più alta espressione, è “stile”, e in quanto tale, come si è già detto, via d’accesso al fenomeno originario. L’accezione positiva della natura e del sensibile proposta da Goethe non ha quindi come esito, all’opposto di Platone, la possibilità dell’imitazione, della mimesis intesa come riproduzione dell’oggetto così come è osservato dalla vista sensibile, vista di cui si presuppone l’incapacità di coglierne la legalità; allo stesso modo, l’antimimetismo di Goethe non ha origine dalla svalutazione del sensibile. Poiché la vista sensibile in Goethe è altrettanto spirituale e propriamente fenomenica ante litteram, l’esito artistico è la creatività come analogon della formatività naturale, della Bildung, e non del suo aspetto “meramente esteriore”, oggettivo. Questa è l’inventio della poiesis artistica: non è dunque la possibilità della riproduzione del modello naturale, né, per converso, la negazione di tale possibilità; questa la cifra antimimetica della concezione artistica e dell’estetica di Goethe che ne consegue. Il figurativo, nella misura in cui svela un legame con la Bildung, “è sciolto da ogni associazione immediata con il raffigurativo nel senso di illustrativo o copiativo o imitativo di una realtà esterna o interna preesistente”17. Nel tentativo dell’approccio morfologico di superare la frattura tra sensibile e intelligibile si riflette anche la volontà di superare la distanza presupposta tra l’Io e il non-Io, ossia quel dualismo che il pensiero moderno suggella nella speculazione cartesiana. È all’interno di una visione del mondo che vive la frattura tra la res cogitans e la res extensa che trova collocazione la concezione della mimesis come copia di una realtà pensata appunto come esterna, separata dall’io e disponibile a offrirsi come modello. Per una tale visione è contemplabile solo un’idea di conoscenza della realtà aderente a un modello riproduttivo, rispetto a una realtà fissa, identica a se stessa, impersonale tanto quanto lo è presupposto il soggetto conoscente che, distanziato, la osserva. Infatti il concetto di stile introdotto nella teoria goethiana, a detta di György Lukács, “toglie terreno alla teoria di qualsivoglia naturalismo e idealismo, poiché

17

Pinotti 2004, p. 81.

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supera quel dualismo che contrappone da un lato una datità naturale neutra e dall’altro un’attività artistica che la riproduca più o meno fedelmente”18. Goethe cerca di superare questo dualismo proponendo una conoscenza e una visione di mondo che implicano un approccio diverso all’immagine: un’immagine che si riappropria del significato antico per cui, come ricorda Gadamer, era percepita come qualcosa di zoon, di vivente. Il concetto di mimesis applicato a questa accezione di intendere l’immagine è invece affine al significato aristotelico, differente da quello platonico. In Aristotele la mimesis non ha valore meramente riproduttivo ma anche conoscitivo: essa permette all’uomo di “procurarsi le nozioni fondamentali”; è principio di distinzione e quindi al tempo stesso di sintesi, perché “vedendo le immagini [...] accade che guardando si impari e si consideri che cosa sia ogni cosa, come per esempio che questo è quello”19. La mimesis non è il meccanismo riduttivo chiamato a riprodurre una natura che di per sé è già copia del vero ideale; viene meno così il dualismo platonico, e si afferma la creazione artistica come sintesi tra forma e materia, come sintesi, nella forma eminentemente poetica, di particolare e universale, dove il particolare è riflesso del molteplice universale. Si afferma anche il valore del verosimile, della finzione artistica, dove il senso di finzione è reso dal termine latino fingere, ossia, anzitutto forgiare. La mimesis, inoltre, ricondotta al suo antico significato mimetico-espressivo, recupera il pathos che era negato nell’accezione platonica e si collega al concetto di katharsis, implicando una riabilitazione dei sensi e della sensibilità in tutto il loro valore20. La celebre affermazione con cui Paul Klee nel 1920 apre lo scritto La confessione creatrice, dedicato alla rappresentazione delle forme in movimento, secondo cui “l’arte non ripete cose visibili, ma rende visibile”21 è in perfetta sintonia con la concezione di stile proposta da Goethe. L’arte di cui si fa promotore l’artista tedesco nei primi decenni del nuovo secolo è intesa anzitutto come ‘genesi’, quindi non imita la facciata dello stile, ma attraverso una compenetrazione vitale, ‘interna’, tocca i suoi presupposti generativi. La concezione di Klee lungi dall’essere un caso isolato, è rivelativa dell’impostazione generale che accomuna gli artisti appartenenti alle Avanguardie Storiche. Si è visto come il meccanismo del montaggio possa spiegare il rapporto tra particolare e universale, parte e tutto che viene a crearsi nel momento in

18 19 20 21

Lukács [1947] 1983, pp. 45-85. Aristotele, Poetica 48 b 15. Cfr. Centanni 1995. Klee [1920] 1959, p. 23.

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cui l’approccio alla conoscenza del sensibile è veicolato dall’immagine, dalla visione e presuppone un rapporto di non opposizione o distanziamento tra il soggetto e l’oggetto, l’io e il non-io, in sintesi, l’uomo e il mondo. È proprio in virtù di questo rapporto che Ejzenštejn parla di montaggio in termini di Urphänomen cinematografico, recuperando il termine goethiano. Come principio di associazione tra immagini il montaggio implica la dimensione per cui il particolare è rivelativo del molteplice, quindi plurivoco nella sua singolarità. L’immagine è veicolo di indentità e universalità in una modalità diversa da come lo è stato il concetto di essere dagli albori della filosofia in poi, il significato di universalità sprigionato dall’immagine è quindi distinto da quello di univocità, a cui il concetto è invece costitutivamente legato. E il montaggio, come meccanismo di manipolazione delle immagini rivelativo di un mutato valore espressivo e conoscitivo attribuito alle stesse, non a caso comincia a essere utilizzato diffusamente nelle avanguardie artistiche del Novecento e nelle avanguardie teatrali che abbiamo visto capeggiare il movimento. III. Il montaggio, codice drammaturgico del Novecento Uno studio importante per profondità di indagine del rapporto tra montaggio e teatro relativamente all’analisi della drammaturgia è condotto da Claudio Longhi in due scritti che si completano a vicenda. Nel primo La drammaturgia del Novecento tra romanzo e montaggio Longhi individua il paradigma unitario della drammaturgia del XX secolo nel montaggio che, derivato dall’uso fattone anzitutto dal cinema, è inteso come codice sintattico della diegesi novecentesca che ha nella forma di narrazione del romanzo il suo modello esemplare. Nel secondo Tra moderno e postmoderno, la drammaturgia del Novecento il montaggio, assunto come paradigma drammaturgico del Novecento, è indagato nel contesto di drammi storici esemplari messi in scena nella prima metà del secolo. L’indagine si rivolge a drammi storici perché l’assunto argomentato dall’autore è che la narrazione storica sia l’orizzonte di senso che dà forma e significato alla diegesi del Novecento. Coerentemente a una prospettiva che registra la progressiva secolarizzazione della cultura occidentale, il romanzo, come principale erede contemporaneo dell’epos, è la narrazione che ‘cala’ il racconto nel divenire del processo storico reale sottraendolo “all’extratemporalità della dimensione mitica”22. Per cui il montaggio risulta in ultima analisi, dal punto di vista 22

Longhi 2001, p. 16.

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di Longhi, lo strumento compositivo proprio della trama narrativa storica, che ha riportato nella quotidianità, nella concreta contingenza di ogni giorno, la dimensione di assolutezza propria delle vicende del mito. Che la narrazione storica abbia sostituito quella mitica nella pretesa di essere datrice universale di senso, più di quanto lo siano state altre forme di narrazione, da quella letteraria a quella religiosa, è quanto si offre con evidenza alla consapevolezza comune; che questa forma di narrazione però abbia occultato quella mitica è quanto ci è dato da ipotizzare a partire da una lettura diversa del mito. Una lettura che intende strappare il mito alla sua storica letteralizzazione in allegoria o alla sua ipostatizzazione metafisica per ricondurlo alla matrice immaginale e compositiva che ha nel meccanismo del montaggio il codice normativo. Rispetto al modello drammaturgico principe di riferimento rappresentato dall’Orestea di Eschilo, che secondo Longhi è il modello “mito-storico” in cui si compie il passaggio dall’universo del mito a quello della storia e che designa ab origine “le coordinate intrasgredibili dello svolgersi dell’azione drammatica dei secoli a venire”23, si può osservare come: la scrittura per la scena occidentale a partire dal Cinquecento sempre più di frequente riveli, allo sguardo dell’interprete, una naturale propensione a ricalcarsi sull’alfabeto della storia: anche quando apparentemente si trova ad affrontare soggetti mitologici, il drammaturgo moderno è infatti tendenzialmente portato a coniugare l’azione teatrale non già nelle forme dell’ineffabile ed autonoma extratemporalità del Mito, ma in quelle della temporalità appassionatamente e disperatamente condizionata della Storia24.

Così, dal Cinquecento in poi, si assiste al “lento scivolare dell’Europa dalle regioni iperuraniche del mito al mondo ‘umano’, anzi fin ‘troppo umano’ della storia”25. La narrazione storica che si riverbera nella forma del romanzo e di riflesso nella drammaturgia del teatro contemporaneo e ha nel montaggio il paradigma diegetico è intesa quindi da Longhi come forma narrativa propria di una società che assiste alla disgregazione di un sistema culturale che aveva i suoi pilastri fondanti nel concetto di unità, identità, totalità unificata, ossia i principi del razionalismo imperante e della logica metafisica. Il montaggio nasce proprio come conseguenza di questo disgregarsi della logica metafisica.

23 24 25

Longhi 2001, p. 16. Longhi 2001, p. 16. Longhi 2001, p. 19.

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In La drammaturgia del Novecento tra romanzo e montaggio Longhi riferendosi a Jürgen Habermas giustifica “la tensione alla conservazione o ricostituzione dell’‘identità’” propria del pensiero metafisico occidentale “a partire dal rapporto intrattenuto dalla metafisica antica col mito nel segno di un’astrazione concettualizzante del narrativo accadere primigenio dell’Uno”26. Longhi legge quindi nelle pagine de Il pensiero post-metafisico del filosofo tedesco la filiazione dell’idea filosofica della totalità intesa come Unità dallo sguardo propriamente mitico dispiegato sull’Intero. A ben leggere Habermas però, più che di filiazione bisognerebbe parlare di rottura tra “il pensiero idealistico dell’unità” e quello che il filosofo definisce come il “concretismo” della visione del mondo mitica, ossia quel modo di percepire l’unità diversamente rispetto al logos. Vale a dire come “contatto ininterrotto del particolare col particolare, come corrispondenza del simile e del dissimile, come riflessi fra parvenza e riverbero, come concatenazione concreta, sovrapposizione e intreccio”27: tutte modalità sensibili di percezione che il pensiero metafisico successivo comprende invece solo nella relazione logica e ontologica assieme. Habermas, per quanto affermi che “la filosofia antica eredita dal mito lo sguardo sull’Intero”28, sembra cogliere lo scarto tra il senso di intero proprio dell’orizzonte mitico e il concetto di unità e identità che la filosofia successiva andrà sviluppando. Come si è visto dall’analisi della drammaturgia della tragedia greca condotta nella prima parte del volume, la visione mitica sull’intero consiste nella capacità di cogliere la plurivocità della realtà e la polarità semantica che la attraversa: l’intero sta nella visione delle sfaccettature spesso antitetiche di una stessa realtà, non è quindi assimilabile al concetto di unità e identità che viene sviluppato successivamente. Ne consegue che se è giusto leggere la frammentazione dell’unità del discorso novecentesco, ossia la nuova modalità di raccontare la percezione del reale, come riflesso della crisi della metafisica e dell’ordine razionale del pensiero, dall’altra – lo si è argomentato nella seconda parte del volume – bisogna leggere in conseguenza di questa disgregazione l’emergere del pensiero prelogico e prediscorsivo che ha come termine di riferimento non tanto la storia quanto il mito. Perché la narrazione storica, con l’ideale di aderenza al vero, è assolutamente complice del sistema metafisico. Il montaggio, paradigma diegetico conseguente la crisi del pensiero metafisico, risulta essere quel meccanismo compositivo che definisce la semantica 26 27 28

Longhi 1999, p. 106. Habermas [1988] 1991 p. 33. Habermas [1988] 1991 p. 33.

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e la grammatica delle immagini, le particelle elementari del pensiero prelogico e prediscorsivo. Il montaggio quindi articola la connessione e l’associazione delle immagini tra loro dando vita a una forma espressiva alternativa a quella fornita dall’articolazione logica e discorsiva, e perciò è ricondotto non alla narrazione storica ma a quella mitica. Longhi per indicare sintatticamente la peculiarità della tramatura del montaggio usato nella costruzione drammaturgica prende a prestito da Sanguineti il termine “paraipotassi”29, coniato in riferimento allo stile del poeta Nanni Balestrini, esponente dell’Avanguardia dei Novissimi. Nella paraipotassi – che Sanguineti dichiara di usare “parlando per allegoria” – si legge un evidente intreccio di paratassi e ipotassi, o meglio una “discontinuità sintattica” o “asintassia” dei “frammenti di mosaico” che costituiscono la composizione poetica dei Novissimi strutturata secondo il meccanismo del montaggio. Sanguineti in riferimento a questa avanguardia degli anni 60 parla di un “ritorno al disordine”, in cui “la relazione dei dati calcolatamente irrelati costituisce una sorta di costellazione” in cui il disordine “si stabilizza in modi sufficienti perché possano ambire a presentarsi come strutture immaginative”30. Il ritorno al disordine è inoltre giudicato in linea d’ipotesi come “la via maestra del ritorno del tragico”31. Significativamente Sanguineti, nello stesso capitolo dedicato allo studio della poetica nella nuova avanguardia e alla questione della funzione fabulatrice, afferma che per un poeta, che vive in una società “che ha censurato e dissolto variamente mito e fiaba” e “eminentemente confinato i miti nelle biblioteche degli istituti di storia delle religioni, e le favole nell’esercizio semiclandestino della trasmissione orale”, scrivere una storia che non ambisca ad essere vera o falsa, ma viva della consapevolezza della “massima indiscriminazione immaginabile” di vero e falso, implichi avere come inevitabile riferimento il sogno. La fabula onirica diventa allora la struttura esemplare, grazie a cui l’uomo contemporaneo può tentare, quando lo voglia, di risalire verso un’esatta percezione narrativa, ritentando à rebours la filogenesi del romanzo, e procedendo dal sogno alla fiaba e dalla fiaba al mito32.

Il sogno è per il poeta e scrittore italiano la terza soluzione rispetto alle opposte proposte narrative dei romanzieri dell’Avanguardia dei Novissi29 30 31 32

Longhi 2001, p. 21 e Sanguineti 1965, pp. 89-90. Sanguineti 1965, pp. 90-91. Sanguineti 1965, p. 103. Sanguineti 1965, pp. 90-91.

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mi, che da un lato sono volte a dimostrare “l’irrealtà della res cogitans”, ossia l’incapacità della parola di rendere la vita, dall’altro “l’irrealtà della res extensa” ossia la capacità di fare la vita tutt’uno con il pensiero, la parola; quindi la terza soluzione si colloca, come si evince, prima o oltre questa spaccatura. Il sogno – e il riferimento concreto nel testo è al suo romanzo Capriccio italiano – si colloca in quella dimensione dove il vero e il falso, come nel mito, sono possibili nella stessa misura e il romanzo non è degradato a “mimesi naturalisticamente intesa dell’esistenza”. Se Longhi riconduce la forma diegetica della paraipotassi alla narrazione storica come orizzonte di riferimento per la drammaturgia e il romanzo contemporanei, diversamente, seguendo il tracciato di Sanguineti, il termine di riferimento è individuabile nella poesia e nel mito come sua forma originaria che la cultura occidentale ha dimenticato. Come si è visto, anche l’uso del montaggio che fa Benjamin rispetto alla narrazione storica avviene nella volontà di “spazzolarne nel senso opposto il pelo”33, per decostruire l’esito metafisico dello storicismo. Il montaggio non è uno strumento che dà forma all’ordine storico ma ne mette in crisi il discorso che, diversamente dal discorso mitico, è coerente al pensiero metafisico. Così, quella che Longhi definisce “extratemporalità” del mito collocandola in una distanza iperuranica, metafisica rispetto al tempo condizionato della storia, va ridimensionata secondo l’accezione, analizzata nella prima parte del volume, di anacronismo o aoristicità del tempo del mito. Quindi non associando l’extratemporalità attribuita al mito al significato di eternità, che risulta essere l’esatto opposto, il totalmente altro, il rovescio del tempo storico inteso come chronos: il tempo misurato secondo una progressione lineare, il tempo diacronico scandito secondo un prima e un poi irreversibili, ma considerando l’anacronismo come coincidenza di due temporalità diverse, il passato e il presente; o per dirla con Benjamin del “già stato” con “l’adesso”. La traduzione dell’anacronismo mitico in dimensione eterna extratemporale è evidentemente un effetto non solo del pensiero metafisico, ma anche della proiezione nel mito di un senso religioso del divino inteso monoteisticamente. L’accezione di eternità attribuita al mito potrebbe invece essere ammessa solo se fatta in riferimento al concetto espresso da Aristotele di “possibilità o necessità dell’accadimento” propria dell’evento mitico, per cui risulta eterno non ciò che ha una durata infinita, ma ciò che può ripetersi continuamente nel senso di poter accadere sempre in un qualsiasi momento. 33

Benjamin [1942] 1997, p. 31.

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IV. Artaud con Brecht, mythos ed epos Significativamente ai poli opposti della questione sul destino del teatro, dopo la grande rivoluzione attuata dalle avanguardie, Longhi pone Antonin Artaud e Bertolt Brecht, che sembrano, in quest’ottica, spartirsi i domini rispettivamente del mito e della storia, avendo da una parte l’ipotesi tragica di Artaud e dall’altra l’ipotesi epica di Brecht. Con l’esito che il teatro del Novecento di fatto è stato rappresentato dalla via aperta dal teatro epico di Brecht, mentre per il teatro che auspicava Artaud non si può che decretarne un “sostanziale fallimento” almeno “in rebus”34. Quello che si intende invece argomentare in questa sede è una certa qual comunanza di intenzioni a monte delle prospettive teatrali di Artaud e Brecht, collocate però rispetto al sistema culturale occidentale in posizioni diametralmente opposte. Per cui da un lato la rivoluzione del primo che intende rovesciare il sistema e dall’altro la rivoluzione del secondo che intende mettere in crisi il sistema agendo al suo interno. I due giganti del teatro risultano così essere per certi versi complementari e questa complementarietà può leggersi incarnata nelle soluzioni teatrali che sono nate anche dopo la loro esperienza negli esiti ‘postmoderni’ e ‘postdrammatici’ del teatro del Novecento. IV.I. Artaud: il doppio del teatro L’esperienza artistica di Artaud significativamente ha l’atto di nascita in nome di Jarry: nel 1926 assieme a Robert Aron e Roger Vitrac fonda, con intento ancora molto intriso di ideologia surrealista, il Théâtre Alfred Jarry che prevede nella programmazione la messa in scena di testi di Jarry inclusa la rappresentazione dell’Ubu Roi. Nei manifesti che accompagnano la fondazione e l’attuazione del teatro, dagli anni 20 agli anni 30, è leggibile tutta la critica al teatro convenzionale che il modello proposto da Jarry aveva stimolato. Quindi la critica al teatro come illusione nel senso di “verosimiglianza o inverosimiglianza dell’azione”, a favore di un teatro invece che recupera il senso di illusione come forza comunicativa e realtà dell’azione e a favore di un teatro che rende lo “spettacolo una sorta di avvenimento”, di “irruzione inedita di un mondo”, come lo sono gli atti della vita quotidiana nel carattere di non prevedibilità e irripetibilità35. Allora, il caso che contraddistingue la vita deve essere 34 35

Longhi 1999, p. 229. Artaud [1926] 1997, pp. 5-7.

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portato sulla scena col suo portato di spontaneità e deve rendere l’azione teatrale un evento di modo che lo spettacolo sia di volta in volta diverso. Il teatro deve essere riportato alla vita dopo che per secoli se ne è distanziato; coerentemente alla critica delle avanguardie, la verosimiglianza è messa in discussione per il valore di finzione che rappresenta nella pratica teatrale dell’epoca. Quanto si cerca di ritrovare nel teatro è una realtà più vera di quella fino ad allora messa in scena, una realtà più reale della realtà. Il teatro che Artaud intende riformare è quello che restituisce al pubblico “la verità corrente della vita” “con scene e illuminazioni più o meno realistiche” oppure attraverso “l’illusione di falso accessorio, di cartone o di tele dipinte che la scena moderna ci presenta!”36. L’idea di fondo per Artaud è, coerentemente con la critica dell’accezione platonica di mimesis, che “l’arte non è l’imitazione della vita, ma la vita è l’imitazione di un principio trascendente attraverso il quale l’arte ci rimette in comunicazione”37. Non si tratta quindi di dare “l’illusione di ciò che non è” ma di comunicare diversamente la vita, ossia “di fare apparire agli sguardi un certo numero di scene, d’immagini indistruttibili, incontestabili, che parlino direttamente allo spirito”38. In questo rapporto che il teatro intreccia con la vita come il suo doppio è evidente che la riforma proposta da Artaud investe una più ampia critica della cultura occidentale e del suo sistema. Il valore d’eccezione di Artaud consiste proprio nel fatto che la riforma della cultura occidentale – desiderio profondo che si legge sottotraccia al suo pensiero – si catalizzi e trovi il suo strumento d’elezione nel teatro. Anche per questo non si può non valutarne il peso intellettuale in riferimento alle origini della cultura occidentale radicate proprio nel teatro, e precisamente nella tragedia greca, perché quanto si propone Artaud è proprio di “risalire alle sorgenti umane o inumane del teatro e resuscitarlo totalmente”39. Il teatro infatti “deve diventare una sorta di dimostrazione sperimentale della identità di fondo fra concreto e astratto”40 perché è questa identità che la cultura occidentale ha rimosso, ponendo una frattura fra la vita e il pensiero che, costruito sull’ordine razionale astratto, si è allontanato da essa. Nella concezione di Artaud il teatro rappresenta quindi una possibilità fondamentale; come un pharmakon, tanto “crudele”, tanto difficile da ingoiare quanto curativo, ha il ruolo estremo di sanare la malattia dell’Occidente: 36 37 38 39 40

Artaud [1928] 1997, pp. 54-55. Artaud citato in Derrida [1965] 2002, p. 302. Artaud [1927] 1997, p. 13. Artaud [1927] 1997, p. 13. Artaud [1938] 1997a, p. 223.

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la più alta idea possibile del teatro dovrebbe essere quella che ci riconcilia filosoficamente con il divenire, che ci suggerisce attraverso ogni sorta di situazioni oggettive l’idea furtiva del passaggio e della trasmutazione delle idee nelle cose, assai più che quella della trasformazione e del conflitto dei sentimenti nelle parole41.

Per la capacità in potenza che Artaud attribuisce al teatro di essere l’arte per eccellenza in grado di superare la scissione tra forma e materia, tra io e non-io, Jaques Derrida lo giudica un antimetafisico. Per questo il filosofo francese scorge in Artaud la capacità di indicare l’“unità anteriore alla dissociazione” e la sfida di “distruggere una storia, quella della metafisica dualista” che sta alla base di tutti i dualismi, anzitutto quello “dell’anima e del corpo”, che fonda “la dualità della parola e dell’esistenza, del testo e del corpo”42. Allo stesso modo Gilles Deleuze accosta Jarry a Martin Heidegger, facendone un suo precursore misconosciuto, nell’intento di oltrepassare la metafisica; la Patafisica (da ἓπι μετὰ τὰ φυσικὰ), “la scienza delle soluzioni immaginarie”, “scienza del particolare” e “delle eccezioni” fondata dal drammaturgo francese è interpretata dal filosofo come un tentativo di fare “la grande Svolta, il superamento della metafisica”43. E Artaud quindi, imboccato il varco aperto da Jarry si pone lungo la stessa traiettoria. Per la stessa ragione Artaud è confrontabile con Nietzsche, sia rispetto all’impatto dirompente e riformatore paragonabile nella storia del teatro a quello provocato dal filosofo tedesco nella storia del pensiero, che per l’affinità tematica antimetafisica che li accomuna. Le similitudini tra i due, come nota Derrida, sono sorprendenti, fatte di curiose coincidenze e questo però non deve portare a pensare Artaud come l’erede di Nietzsche né alla domanda oziosa su chi si sia spinto più lontano nella distruzione del sistema44. Come Nietzsche, Artaud ha cercato nell’affermazione degli istinti, delle passioni, della sensibilità, del corpo la risposta alla loro negazione metafisica e teologica che il pensiero occidentale ha perpetrato. È in virtù del recupero di questa dimensione rimossa dall’Occidente che sostiene la necessità della “crudeltà” a teatro; come ha teorizzato Jung con l’espressione “integrazione del quarto”; si tratta per Artaud di reintegrare il male nella vita come sua naturale componente assieme a tutti gli altri, perché la vita “in quanto ammette l’estensione, lo spessore, la pesantezza e la materia, 41 42 43 44

Artaud [1938] 1997a, pp. 223-224. Derrida [1965] 2002, pp. 225-226. Deleuze [1993] 1996, pp. 119-129. Cfr. Derrida [1965] 2002, pp. 240-241.

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ammette di conseguenza anche il male e tutto ciò che è inerente al male, allo spazio, all’estensione e alla materia”45. Riconoscendo il potere virulento del teatro, Artaud rovescia la posizione di Platone e per certi versi afferma la necessità della “teatrocrazia”: il teatro deve essere come la peste, in virtù del suo impatto fisico apparentemente invisibile – che uccide senza distruggere gli organi – deve investire la società come un’epidemia, sovvertendone e sconvolgendone le regole. Il teatro eminentemente inteso come pharmakon è quindi la malattia, il veleno che porta la guarigione. Probabilmente le esperienze di vita di Artaud e di Nietzsche sono paragonabili se interpretate anche in qualità di ‘apocalissi psicopatologiche’, ossia rivelative di un passaggio epocale e per questo tanto profetiche e non comprese quanto premature rispetto a quello che verrà dopo di loro. Nelle parole di Artaud si leggono le principali caratteristiche del teatro a venire, disseminate nelle eterogenee sperimentazioni novecentesche: dall’uso dello spazio come scrittura scenica alla realizzazione dello spettacolo-evento negli happening, alla relativizzazione del testo nel teatro che si definisce postdrammatico, per elencarne qualcuna. Allo stesso modo si può riconoscere con Jerzy Grotowski come Artaud abbia intuito che “nel mito risiede il centro dinamico della rappresentazione” e invece non abbia compreso che “nella nostra epoca […] la comunità teatrale […] non può trovare la propria identificazione nel mito. È possibile solo un confronto”46; o per lo meno sembrerebbe possibile solo un confronto col significato di mito che è sopravvissuto fino alla nostra epoca. Quindi quello di cui si fa portavoce Artaud è una riforma del teatro come riforma della cultura occidentale, sintetizzabile, come ha ben teorizzato Jacques Derrida, nella “destituzione della forma della rappresentazione”47. Ossia la rappresentazione in cui si afferma il meccanismo della mimesis di ascendenza platonica, dell’imitazione, quindi la forma più ingenua di rappresentazione48; dove quello che viene negato è la vita, la realtà sensibile perché l’imitazione presuppone un distacco, una distanza da essa: “se il segno dei tempi è la confusione”, afferma Artaud, “vedo alla base di tale confusione una frattura tra le cose, e le parole, le idee, i segni che le rappresentano”, “niente aderisce più alla vita”49. Poiché la violenza della rappresentazione agisce su più livelli della cultura occidentale, e – come direbbe 45 46 47 48 49

Artaud [1938] 1997a, p. 228. Grotowski [1968] 1993, p. 140. Cfr. Derrida [1966] 2002, pp. 299-323. Derrida [1966] 2002, p. 301. Artaud [1935] 1997a, p. 127-128.

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Foucault – attraverso le istituzioni che strutturano il contesto religioso, politico, sociale, … le intenzioni di Artaud sono di strappare all’espropriazione di questa violenza gli elementi essenziali alla creazione di un teatro. Un teatro diverso e che è tanto crudele quanto vicino alla vita, e a quello che essa ha di irrappresentabile. L’irrappresentabile è l’origine rimossa, per cui portare la vita a teatro significa ricreare la vita a dispetto delle espropriazioni che ha subito da parte della società. Ma nel ricreare la vita non si intende “la vita quale la conosciamo attraverso l’aspetto esteriore dei fatti”, ossia la vita che viene rappresentata dal teatro che Artaud intende destituire, ma ricreare quello che definisce “il suo nucleo fragile e irrequieto, inafferrabile dalle forme”50. Il pensiero di Artaud, vivendo la violenza del dualismo che intende risolvere, la lacerazione tra forma e materia, corpo e spirito, uomo e mondo non può nell’esprimersi non essere impregnato di doppiezza e polarità; per cui come osservano Umberto Artioli e Francesco Bartoli in esso tutto si presenta come sdoppiato e sdoppiabile, non esiste identità sicura, ma ogni termine è pronto a rovesciarsi, ad assumere le sembianze dell’antagonista51. Per questo il pensiero di Artaud è inevitabilmente dialettico e lo è negli stessi termini in cui Jung legge la peculiarità del pensiero di Nietzsche come espressione della enantiodromia, termine significativamente desunto da Eraclito, che mette al centro del movimento vitale l’oscillare o il rovesciarsi tra posizioni opposte. Il risolvimento del dualismo nella molteplicità plurale e polisemica dell’immagine intesa come medium non ulteriormente oltrepassabile tra sensibile e intelligibile è un traguardo – per quanto intravisto – ancora lontano dalla prospettiva lacerata di Artaud. La funzione di medium in grado di sintetizzare alchemicamente concreto e astratto, di ottenere realtà dall’immaginale è attribuita dal pensatore francese propriamente al teatro in virtù della capacità di catalizzare immagini e segni – come osserva ad esempio eminentemente manifestati nel teatro Balinese – e di creare una dimensione intermedia tra sogno e realtà, come afferma esplicitamente anche nello scritto relativo alla messa in scena di Sogno di August Strindberg52. Allo stesso modo ritiene che il teatro “ristabilisce il legame fra ciò che è e ciò che non è, fra la virtualità del possibile e ciò che esiste nella natura materializzata”53 ossia la dimensione dove dovrebbe trovare collocazione l’uomo: “fra il

50 51 52 53

Artaud [1935] 1997a, p. 133. Cfr. Artioli - Bartoli, 1978, p. 35. Artaud [1928] 1997, pp. 54-55. Artaud [1934] 1997, p. 146.

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sogno e gli avvenimenti”54. Ricreare la vita significa allora operare in questo medium, ritrovare la funzione della poiesis, la creazione poetica come atto anarchico che è tale “nella misura in cui rimette in discussione tutti i rapporti fra soggetto e oggetto, e fra le forme e i loro significati”55. Mettere in discussione l’ordine consolidato significa allora riaprire il caos, fare disordine lì dove poi la poesia può prendere forma come “un’anarchia che si organizza”. La “vita liberata” dalla vita rappresentata ed espressa dalla poesia come atto anarchico trova collocazione nel teatro che per Artaud deve essere capace di “creare miti”, “esprimere la vita nel suo aspetto universale, immenso ed estrarre da questa vita immagini in cui saremmo lieti di riconoscerci”56; ecco il teatro “tipico” e “primitivo” di cui auspica l’esistenza. Il teatro deve ritrovare l’“attualità mitica e patetica” da cui si è allontanato, e dovrebbe poterlo ritrovare nel contesto dell’epoca in cui si situa, riacquistando la capacità di rappresentarla. Ma la frattura provocata dal fallimento della cultura razionalistica europea è tale che Artaud trova modelli esemplari di teatro fuori dal Vecchio Continente. Li trova nel teatro Balinese osservato in occasione dell’Exposition Coloniale di Parigi del 1931; nei riti messicani degli indiani Tarahumara osservati nel 1936 in occasione del viaggio nel Nuovo Messico – che abbiamo visto essere un costume diffuso tra artisti e intellettuali nei primi decenni del Novecento – dove andrà per cercare gli dei che in Europa “dormono nei Musei”, e in generale nella cultura orientale, anche non specificatamente teatrale. In questi luoghi lontani Artaud cerca quelle forze che preesistono e resistono alla società occidentale eurocentrica: Si può incendiare la biblioteca di Alessandria. Al di sopra e al di fuori dei papiri esistono delle forze; potremmo temporaneamente perdere la facoltà di ritrovare queste forze, ma nulla riuscirà a spegnere la loro energia. È bene che talune nostre eccessive comodità scompaiano, che certe forme siano dimenticate: allora la cultura fuori dallo spazio e dal tempo, racchiusa nella nostra capacità emotiva riapparirà con accresciuto vigore. È dunque giusto che ogni tanto avvengano cataclismi per incitarci a ritornare alla natura, o, in altre parole, a ritrovare la vita57.

54 55 56 57

Artaud [1932] 1997a, p. 208. Artaud [1932] 1997b, 160. Artaud [1938] 1997a, p. 231. Artaud [1935] 1997a, p. 130.

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Non è difficile leggere nelle forme della cultura fuori dallo spazio e dal tempo e racchiuse nell’emotività di cui scrive Artaud le eco dell’idea degli archetipi teorizzati da Jung o dell’idea delle formule del pathos introdotte da Warburg. Così come non è difficile leggere nella prefigurazione dei cataclismi gli eventi tragici dei due conflitti mondiali a cui Artaud assiste inevitabilmente proprio nel periodo più intenso della sua vita, che coincide tra l’altro con la genesi della malattia mentale i cui primi segni sono datati al 1914. Tutto da studiare sarebbe, come è stato fatto parzialmente nel caso di Jung e di Warburg, l’impatto che questi due eventi possono aver avuto direttamente o indirettamente nel pensiero e nella vita di Artaud. Ma il cataclisma è anche l’evento tragico di per sé, sempre suscettibile di accadimento, è il pericolo sempre in agguato che destabilizza l’ordine della sicurezza, perchè il primo compito del teatro è, nella concezione artaudiana, insegnare proprio questo, che “il cielo può sempre cadere sulla nostra testa”58. Ricreare la vita a teatro significa quindi rompere il codice usuale per rifondarlo, ricominciando da capo, ripensando totalmente gli elementi che lo costituiscono, dallo spazio, al testo, al corpo, alla voce, alla presenza dell’attore. Allora lo spazio non sarà più il luogo inerme dove collocare ciò che deve essere presentato e messo in scena, né lo sfondo da cui far emergere la rappresentazione: non avrà più un ruolo accessorio rispetto ad altri elementi considerati più importanti ma, pensato diversamente, sarà anzitutto uno spazio sensibile in tutte le sue parti. Per questo Artaud rifiuta il termine accessorio di scenografia e parla di spazio. Lo spazio avrà allora una sua poesia, una “poesia spaziale” che è “propria del linguaggio dei segni” contro la dittatura della parola e la poesia del linguaggio. Lo spazio, avendo in sé una capacità di espressione dinamica, è il luogo semantico per eccellenza dove si compie la materializzazione visuale e plastica della parola, dove le parole diventano immagini e parte del tutto. Da contenitore vuoto torna a essere uno spazio da cui si sprigionano immagini, il luogo della visione e della condivisione. Il teatro per la sua componente fisica, oltre a esigere una soddisfazione anzitutto dei sensi, “esige l’espressione dello spazio”59. Ne consegue che l’idea artaudiana dello spazio scenico, stimolata anche in questo dalla visione di un esempio di teatro ‘altro’ come quello Balinese, implica che sia “utilizzato in tutte le sue dimensioni e [...] su tutti i piani possibili. I gesti in esso hanno come “obiettivo finale l’illustrazione di uno stato o di un problema spirituale”, si tratta di “un 58 59

Artaud [1938] 1997b, p. 196. Artaud [1932] 1997a, p. 204.

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linguaggio di gesti fatti per evolvere nello spazio e privi di significato fuori di esso”60. Questa concezione di spazio applicata al teatro ha un valore fondamentale se si pensa che è di fatto una critica all’idea di spazio derivata dal pensiero scientifico moderno, resa nel termine oggettivato di res extensa. Nelle parole di Artaud si registra un cambiamento di prospettiva relativamente alla concezione e percezione dello spazio che è propria del Novecento. Foucault, tra i primi a mettere l’accento sulla questione negli anni 60, afferma che se “la grande ossessione che ha assillato il XIX secolo è stata la storia […] forse quella attuale potrebbe essere considerata l’epoca dello spazio”61. Nel Novecento si assiste al passaggio da una centralità attribuita al tempo e una percezione del mondo che si dipana nel tempo a una rivalutazione dello spazio percepito come simultaneo, giustapposto, disperso, caratterizzato da rapporti relazione di vicinanza e lontananza. In sostanza viene meno la concezione spaziale della modernità classica, ereditata dalle scienze moderne, per cui lo spazio è vuoto, omogeneo, infinito, separato dalla materia secondo una concezione che divide soggetto e oggetto, forma e sostanza, e prende piede invece una concezione anticartesiana e antinewtoniana in cui lo spazio si carica di qualità sensibili e lo sguardo è il senso prevalente della percezione. Se lo spazio che auspica Artaud si appropria della parola rendendola immagine, segno scenico, la destituzione dell’uso del testo a teatro, della dittatura della letteratura e in definitiva della parola è un ulteriore atto contro uno dei capisaldi della metafisica occidentale. La dittatura del testo a teatro corrisponde, nella prospettiva di Artaud, alla dichiarata superiorità, nella cultura occidentale, del discorso del logos; che a sua volta corrisponde alla legge del Padre, la legge del Dio monoteista del Cattolicesimo, e la legge del Verbo. Per questo nel teatro Balinese, agli antipodi del pensiero occidentale, cercherà e troverà l’“idea fisica e non verbale del teatro” di contro a un teatro in cui la “Parola è tutto”62. La scena del teatro che va sovvertito è quella che illustra questo discorso, lo presenta, lo mette in scena, e che agisce la violenza e prepotenza della parola responsabile di aver espropriato la vita. Allora Artaud può affermare che “spezzare il linguaggio per raggiungere la vita, significa fare o rifare il teatro”63. Il teatro non si deve 60 61 62 63

Artaud [1931] 1997, p. 178. Foucault [1984] 2001, p. 19. Si tratta della conferenza tenuta a Tunisi nel 1967 titolata Des espaces autres in cui il filosofo francese introduce il concetto di ‘hétérotopie’. Artaud [1935] 1997b, p. 185. Artaud [1935] 1997a, p. 132.

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servire di un linguaggio ma di tutti i linguaggi: “gesti, suoni, parole, luce, grida”; è un linguaggio fatto di sensi e rivolto ai sensi anziché allo spirito inteso come linguaggio della parola. È quanto Artaud vede incarnato nel teatro Balinese che, anche per illustrare temi astratti, evita ogni ricorso alle parole, e fa ampio uso del linguaggio dei gesti; e la forza di tali segni è così forte da “rendere inutile qualsiasi trascrizione in un linguaggio logico e discorsivo”64. Quindi, se lo spazio si appropria della parola, la parola si rende a sua volta spaziale, si concretizza nell’estensione dello spazio; e non si tratta di sopprimere la parola ma di ridimensionarla rispetto agli altri elementi che compongono la creazione teatrale. Si tratta di far parlare lo spazio, di adoperare “gli oggetti, gli elementi dello spazio, come immagini, come parole” raccolti, connessi tra di loro “secondo le leggi del simbolismo e delle analogie viventi”, quelle leggi che “eterne” appartengono “ad ogni poesia e ogni linguaggio vitale”65. Significativamente Derrida pone un’analogia tra la resa immaginale della parola in Artaud e la trasformazione dei pensieri in immagini che Freud osserva nel sogno come messa in scena del meccanismo proprio del processo primario66. Allo stesso modo del testo, la parola e la voce, in quanto organi del discorso che va sovvertito, devono poter rinascere, essere rinnovati, essere inediti, devono incarnare la prima parola, ossia “la Parola prima delle parole”67. Da ascrivere a questa finalità sono gli esperimenti di Artaud per la reinvenzione fonica ma anche gestuale del linguaggio e della scrittura che, spinti oltre i limiti semantici e grammaticali, culminano nella creazione delle glossolalie. La voce viene cioè rieducata dal respiro, dal soffio – le souffle – che presiede organicamente alla vita e genera così delle nuove sillabe, le “xilofonie verbali” che Artaud inventa nell’ultimo periodo della sua vita, quello che è stato definito da Marco De Marinis la fase del “secondo Teatro della Crudeltà”68. La rinascita o nuova nascita della voce e della parola aprono inevitabilmente alla rinascita dell’identità e implicano al tempo stesso la sua messa in discussione, e in primo luogo la messa in discussione dell’identità dello stesso Artaud, anch’essa usurpata dal pensiero, o meglio dall’“Essere”. Si tratta dell’Essere che agli albori della filosofia ha nominato le cose, defi-

64 65 66 67 68

Artaud [1931] 1997, p. 171. Artaud [1938] 1997a, p. 225. Derrida [1966] 2002, p. 310. Artaud [1931] 1997, p. 176. Cfr. De Marinis [1999] 2006.

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nendole appunto nell’univocità della loro identità, e che Artaud intende come “ripetizione rappresentativa” tanto violenta quanto espropriante. Artaud, come afferma Derrida, “rifiuta di assoggettare la Vita all’Essere e rovescia l’ordine della genealogia”69, ossia la vita deve precedere l’essere e non viceversa. In questo senso si può interpretare anche l’operazione di ricreazione della propria identità che opera affermando la genealogia materna su quella paterna: Artaud nel ’38 dal manicomio di Sotteville-lès-Rouen in una lettera si firma Antoneo Arlanapulos e si dice cittadino greco nato a Smirne, la città d’origine della madre. In questo dettaglio si può osservare espressa la critica alla società patriarcale e alla legge del Padre, ossia al predominio della logica teologica e metafisica dell’Occidente di contro all’affermazione della genealogia femminile e della cultura matriarcale. L’atto di negazione dell’identità, e della personale identità, al fine di poterla rifondare è leggibile anche nella pratica di disegnare e di autoritrarsi che caratterizza soprattutto l’ultima produzione artaudiana, dal 1945 alla morte avvenuta nel 1948. In questa fase Artaud, incapace di scrivere solamente, è necessitato ad accompagnare la scrittura al disegno; e l’autoritratto diventa il motivo ossessivo nei suoi disegni. Oltre alla voce e alla parola è sul viso che si concentra la volontà di rifacimento del corpo e del complesso dell’identità: il volto umano è infatti “tutto quello che resta della rivendicazione rivoluzionaria del corpo”70, e quindi della riappropriazione di sé. Il rapporto che Artaud instaura con questa identità è di tipo agonistico, conflittuale; Derrida ha voluto rendere questo rapporto nell’espressione “forcener le subjectile”71, cogliendo nel termine ‘subjectile’ – che il filosofo ritiene Artaud abbia usato solo tre volte nei suoi scritti – la cifra esplicativa del suo pensiero. La difficile traduzione del complesso termine – introdotto nel lessico contemporaneo da un’origine più antica, italiana o francese, nel contesto della tecnica pittorica – in “soggettile” rende l’idea, nell’uso che ne fa Artaud, di un supporto, di ciò che sta sotto o è la superficie su cui opera, disegna o dipinge; quindi come qualcosa che corrisponde a una sorta di hypokeimenon, di chora platonica, matrice suscettibile di ricevere l’impronta del segno. Sussistendo prima della determinazione ha in potenza tutte le forme, è una “identità inidentificabile”72, è l’in-nato. Quindi il soggettile nella lettura di Derrida è il supporto della rappresentazione, il “sostrato sottomesso di una rappresentazione” che riceve l’espropriazione

69 70 71 72

Derrida [1966] 2002, p. 318. Artaud 1987, p. 48. Cfr. Derrida [1986] 2005. Cariolato 2005, p. 111.

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della rappresentazione, l’unilaterità dell’identità che la rappresentazione impone. Forsennare il soggettile significa allora forzarlo: forsennarlo per renderlo folle, farlo uscire di senno, espropriarlo al logos, portarlo fuori dalla univocità della definizione. Se si segue la traccia aperta dall’interpretazione del filosofo francese sembra che Artaud abbia voluto spingersi oltre il punto da cui è stato determinato l’essere come sostanza e identità, il punto da cui ha avuto origine il pensiero di quanto poi si è sviluppato come metafisica dando forma alla cultura occidentale. In questo senso è da intendere la posizione di Artaud che da un lato tenta di sovvertire, rovesciare il sistema di cui soffre la lacerazione, e però dall’altro sussiste inevitabilmente in questo rovesciamento, come allo stesso modo si può affermare per Nietzsche. IV. II. Brecht: la dialettica del teatro* Bertolt Brecht, contemporaneo di Antonin Artaud e collocabile, come ha notato Jerzy Grotowski, a metà strada tra la prima e la seconda riforma del teatro novecentesco perché “troppo giovane per la prima e già scomparso prima della seconda”73, compie un’altra rivoluzione: fa i conti con il sistema che vuole trasformare senza però cercare di rovesciarlo ma convivendoci, standoci dentro e operando in esso. Quindi non intende negare la rappresentazione o rovesciarla, ma la mette in scena e così facendo la svela. La critica con cui intende riformare il teatro si fonda sulle stesse premesse di Artaud, che sono le stesse dell’avanguardia. Ciò che viene messo in discussione è sempre la distanza accumulata dal teatro rispetto alla vita, l’incapacità di parlare del e al tempo presente e quindi l’attaccamento a stilemi obsoleti per quanto alla moda. Viene criticata la vuota estetizzazione del teatro, il suo formalismo, con l’obiettivo di resuscitarne la forza politica, la capacità di impatto sulla società per risvegliarla da una fruizione disinteressata e finalizzata semplicemente allo svago e al divertimento. Di qui, in nome di un realismo socialista, le accuse di Brecht al teatro decaduto, di cui fanno parte anche le messe in scena dei classici, e al teatro che nella bellezza formale della facciata nasconde un contenuto stantio e riflette immagini falsate della realtà. L’arte teatrale per il regista e drammaturgo tedesco ha il potere e il dovere di trasformare il pubblico e con il pubblico il mondo. L’approccio eminentemente politico di Brecht fa si che il focus della questione si sposti quindi sul versante della ricezione dello spettacolo. A partire da una visione * 73

Una versione precedente di questo paragrafo è stata pubblicata in Sacco 2012. Grotowski 1994, pp. 109-110.

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globale condivisa dell’evento teatrale, se per certi versi si può affermare che l’attenzione di Artaud è più concentrata su quello che avviene in scena, e quindi sulla dimensione che pertiene più all’attore – senza per questo togliere nulla alla sovversione politica implicita nella sua idea di teatro – di Brecht si può affermare una maggiore attenzione per la prospettiva dello spettatore. La differenza tra la natura tragica e mitica del teatro di Artaud e quella epico narrativa di Brecht si chiarifica anche rispetto a queste diverse prospettive. Non è un caso che buona parte del teatro che nel Novecento si è ispirato esplicitamente ad Artaud sia stato un teatro senza spettatori – “un teatro senza teatri”, per riprendere un’espressione di Ferdinando Taviani74 – tutto volto al vissuto rituale dell’esperienza teatrale, come, ad esempio tra tutti, il teatro di Grotowski. Le due prospettive, quella artaudiana e quella brechtiana danno ragione dei due momenti fondanti dell’evento teatrale che sono naturalmente intrecciati: da una parte il presente vivente (l’hic et nunc), l’accadimento dell’evento che Artaud vuole rendere sulla scena nella sua forma inevitabilmente tragica e dall’altra lo sguardo distanziato (ex post) dello spettatore che osserva e che Brecht pone come presupposto, termine a quo del teatro di cui si fa promotore. Teatro che qualifica da subito come epico e narrativo e, in una riflessione più matura che risente dell’esperienza del lungo esilio dovuto alla Seconda guerra mondiale, dialettico. Brecht rispetto ad Artaud sembra spostare l’evento dalla scena, dal suo fittizio accadimento sulla scena, per portarlo in platea, nello shock dello spettatore che è chiamato a prendere posizione rispetto a ciò a cui assiste. Infatti la questione della ricezione è alla base della riforma del teatro etichettato dal regista e drammaturgo tedesco come “aristotelico”. Ossia quel teatro che per secoli si è uniformato alla canonizzazione della teoria sulla poetica di Aristotele, o come è più corretto riconoscere, della lettura rinascimentale della Poetica che comincia a consolidarsi dal 1508, anno in cui la prima pubblicazione del testo greco da parte di Aldo Manuzio – dieci anni dopo la pubblicazione della traduzione latina curata da Giorgio Valla – ne favorisce una nuova diffusione e studio. Brecht per primo dissocia la Poetica dal “canone delle tre unità” su cui invece ha insistito la critica del testo e le pratiche del teatro che hanno cercato di applicarle sulla scena, e ne riconosce l’originaria non rilevanza per lo stesso Aristotele75. Critica invece la teoria della katharsis, quindi, proprio nella prospettiva della ricezione, la finalità che il filosofo greco ha attribuito alla tragedia, ossia “la 74 75

Cfr. Taviani 1995. Cfr. Brecht [1957] 1975, p. 127.

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purificazione dello spettatore dalla paura e dalla compassione, mediante l’imitazione di atti suscitatori di compassione e paura”76. In un testo del ’33 Brecht definisce “aristotelica” la drammaturgia che provoca l’immedesimazione dello spettatore nei personaggi imitati dagli attori; e a tale drammaturgia ne oppone una in cui il meccanismo dell’immedesimazione viene annullato nell’effetto di “straniamento”: il Verfremdungseffekt teorizzato negli scritti sul teatro. Lo straniamento da ultimo deve portare alla presa di posizione del pubblico anziché alla immedesimazione. Probabilmente anche Brecht risente della lettura ‘platonizzante’ che la Poetica ha in qualche modo subito nella formalizzazione che la ha caratterizzata nei secoli, soprattutto relativamente al concetto di mimesis. In Platone il pericolo virulento del teatro si concentra proprio nella mimesis e nella funzione di immedesimazione che essa provoca, rendendo incapace lo spettatore di discernere il vero perché condizionato dalle passioni. In Aristotele la mimesis come elemento fondamentale dell’arte tragica è totalmente salvata dalla condanna platonica e inoltre, la mimesis non si risolve nella cieca identificazione con la scena rappresentata e i suoi protagonisti. Secondo Centanni di questo abbiamo testimonianza anche da un frammento di una versione siriaca della Poetica risalente al X secolo, condotta su esemplare greco del V/VI secolo, in cui si evince un significato di catarsi diverso dalla lezione canonica pervenuta. La tragedia, secondo il frammento siriaco “attraverso la pietà e il terrore, stempera le affezioni e provoca la purificazione di coloro che provano quelle affezioni”77. Lo stemperarsi delle passioni è reso dal verbo κεράννυμι che indica “la ‘mescita’, nel senso della diluizione di un liquido con un altro (ad esempio il vino con l’acqua), e quindi anche il ‘raffreddamento’ fino ad ottenere una giusta temperatura”78. Qui accanto alla catarsi della versione canonica, si fa spazio anche l’idea di crasi, come giusto equilibrio, giusta misura, fusione di elementi diversi. A mediare il significato della crasi è proprio l’accezione del concetto aristotelico di mimesis come finzione, per cui l’azione tragica non accade in scena realmente, ma è imitazione fittizia. Il senso platonico della mimesis artistica come copia – mancata – della realtà e troppo lontana delle idee è superato dall’attribuzione alla mimesis della funzione di filtro. Come osserva Centanni, nella teoria di Aristotele si evince che:

76 77 78

Brecht [1957] 1975, p. 127. Centanni 1995, p. 76. Centanni 1995, p. 86.

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per ottenere l’effetto-catarsi è indispensabile che tra lo spettatore e l’evento non ci sia l’immediatezza della realtà, ma il filtro della mimesis, la consapevolezza della finzione che assolve a una doppia e opposta funzione: la prima è costituire la necessaria barriera di distacco psicologico dal fatto, che razionalmente lo spettatore riconosce per fictum; la seconda è consentire, proprio in forza della protezione di questa barriera, il libero e pieno sfogo di emozioni interiori altrimenti represse79.

L’immedesimazione, condizione basilare per la catarsi, non equivale quindi all’illusione, e la distanza critica è salva. Brecht contro Aristotele vuole in verità recuperare proprio la finzione che intende rendere in scena con l’effetto di straniamento, quindi contro un’accezione in realtà molto platonica di mimesis che implica l’illusione, sostiene un significato della finzione che sottotraccia è in linea con la teoria aristotelica. La finzione nel teatro di Brecht deve essere dichiarata ed esplicitata per stimolare la distanza critica dello spettatore. Quindi differentemente da Artaud la rappresentazione non è negata con l’intenzione di affermare uno stato che la precede: la “parola prima delle parole”, ma è esibita, messa in scena, esplicitata e messa in crisi attraverso l’effetto dello straniamento. E però Brecht attua proprio quello “spezzare il linguaggio” che, come si è visto, aveva proposto Artaud. Così facendo Brecht con la consapevolezza di non poter parlare alla sua epoca prescindendo da essa, rivoluziona il teatro a partire dal sistema, lo mette in scena e lo spezza al suo interno, e l’esito ultimo di questa operazione sarà scoprire la natura eminentemente dialettica del teatro. Allora la narrazione storica, come una delle forme della rappresentazione – nel senso artaudiano del termine – come un suo discorso che più di altri ha preso il posto del mito e che tocca il momento culminante nello storicismo, è portata da Brecht sulla scena nella forma epica e qui spezzata per essere ricondotta al presente del dramma. E a permettere la frantumazione della narrazione storica al fine di provocare lo straniamento è proprio il meccanismo del montaggio. Il modello-base elementare per una messa in scena di teatro epico in cui attuare l’effetto di straniamento è, come scrive in un testo del 1938, una scena in cui ci si può imbattere per strada: “un testimonio oculare di un incidente stradale mostra a un assembramento di gente come è capitata la disgrazia”80. Il testimone deve dare dimostrazione agli astanti del comportamento dei soggetti in questione di modo che si facciano una opinione in merito. Il testimone per spiegare il fatto potrà mimarlo e quindi 79 80

Centanni 1995, pp. 87-88. Brecht [1950] 1975, p. 44.

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ripeterlo per spiegarlo ma non creerà l’illusione del suo evento, del suo accadimento: “l’elemento nettamente distintivo è che nella nostra scena di strada manca una delle caratteristiche basilari del teatro corrente, e cioè l’apprestamento dell’illusione”. Ne consegue che “come la dimostrazione per la strada non nasconde la sua natura dimostrativa (cioè non pretende di essere l’evento)” 81 così il teatro non deve nascondere la sua natura di teatro. Il teatro sarà allora dimostrativo come lo è la scena di strada e l’attore sarà un dimostratore senza però “trasformarsi completamente nella persona che dimostra”. Questo perché il messaggio che si intende comunicare al pubblico del teatro è che l’attore “non è la persona che viene rappresentata, ma colui che la rappresenta” 82. L’attore e la persona rappresentata non saranno mai identificati ma sempre sdoppiati, in un continuo entrare e uscire dal personaggio. Il fine ultimo del mostrare il meccanismo della finzione è quello di stimolare le capacità critiche dello spettatore, di modo che si senta investito nell’avere un giudizio e prendere una posizione. Brecht vuole che l’opera teatrale abbia un effetto tale nello spettatore da trasformarlo, perché la trasformazione del pubblico è il primo passo per la trasformazione della società e per la presa di coscienza che la realtà deve essere riconosciuta e trattata come qualcosa di modificabile e non di stabile e immutabile. Non è estraneo a questa intenzione il pensiero della lotta di classe che Brecht abbraccia dagli anni 30 con l’adesione all’ideologia comunista e la fiducia nel marxismo come scienza della società capace di trasformarla. L’effetto di straniamento implica proprio il rendere strano, sorprendente, importante e non ovvio un evento di per sé consueto, di modo da esigerne spiegazioni e prese di posizione; i vari meccanismi che lo permettono: ad esempio il passaggio dalla prima alla terza persona; l’interruzione continua dello spettacolo con canzoni di un coro, o cartelli, o proiezioni; l’utilizzare il grottesco della parodia sono tutti finalizzati a impedire che il pubblico creda all’evento rappresentato nello spettacolo come realtà immutabile, ma ne prenda conoscenza come qualcosa di modificabile. L’evento che prima era pensato come naturale, e per questo eterno e immutabile, diventa sorprendente e provoca l’effetto di stimolare la ricerca delle cause che lo hanno determinato al fine di comprenderlo. Alla reazione di identificazione e commozione dello spettatore del teatro drammatico si sostituisce quella di contraddizione e stupore del teatro epico. Brecht prenderà coscienza della natura propriamente dialettica del meccanismo dello straniamento più tardi rispetto alla sua prima teorizzazione, 81 82

Brecht [1950] 1975, p. 45. Brecht [1950] 1975, p. 49.

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e precisamente dopo l’esperienza del lungo esilio durante la Seconda guerra mondiale, che lo terrà lontano dal teatro per ben quindici anni. Cominciato nel febbraio del 1933, a seguito dell’avvento al potere di Adolf Hitler e del partito nazionalsocialista in Germania, l’esilio durerà fino al 1947 e lo porterà a vivere per periodi di tempo diversi in varie città: a Praga, Parigi, Londra, Mosca, in Danimarca, a Stoccolma, in Finlandia, a Leningrado, di nuovo a Mosca e infine negli Stati Uniti, passando da Los Angeles a New York, per poi tornare a Zurigo e infine a Berlino. E nella Berlino Est, dove nel 1948 si stabilisce definitivamente, Brecht fonda il Berliner Ensemble. È di questi anni la creazione del Kriegsfibel83, o come è stato tradotto nella prima edizione italiana l’Abicí della guerra. Un singolare sillabario su cui si è concentrato uno studio di Didi-Huberman84 che permette di far luce sul metodo drammaturgico del regista tedesco e di trarre delle considerazioni sull’evoluzione del suo pensiero rispetto alle teorizzazioni sul teatro precedenti l’esilio. Il Kriegsfibel è un atlante fotografico sul tema della guerra e, come lo ha definito il filosofo francese, “un’opera elementare di memoria visuale”85 che nella struttura tematica sembra seguire cronologicamente lo svolgimento del conflitto mondiale: dalla guerra di Spagna, alla controffensiva degli Alleati, al ritorno dei prigionieri. Realizzato soprattutto durante gli anni dell’esilio, viene pubblicato per la prima volta nel 1955 nella Berlino Est dopo una serie di rimaneggiamenti e non poche battaglie contro la censura. La struttura compositiva di questo atlante segue il meccanismo dell’assemblaggio associativo di immagini e testi utilizzato da Brecht anche per l’Arbeitsjournal, il Diario di lavoro86 a cui si dedica sempre nello stesso periodo. Il Diario di lavoro, che il regista utilizzerà in forma più sistematizzata anche per costruire alcune messe in scena, è un montaggio di testi di varia natura e di immagini altrettanto varie che ritaglia e incolla seguendo il flusso associativo del pensiero. Similmente dal punto di vista formale le pagine del Kriegsfibel sono nel complesso un assemblaggio di frammenti poetici, immagini tratte dalla stampa e didascalie, di modo da costituire quadri composti ciascuno da una foto accompagnata o meno dalla relativa didascalia e da un epigramma posto a commento. Entrambi i lavori risultano essere frutto della condizione di esiliato in cui è costretto Brecht, quindi senza la possibilità di lavorare in teatro, senza denaro e in contesti culturali e linguistici estranei. Una con83 84 85 86

Cfr. Brecht [1955] 2002. Cfr. Didi-Huberman 2009. Tutte le citazioni tratte da questo testo sono tradotte a cura di chi scrive. Didi-Huberman 2009, p. 32. Cfr. Brecht [1938-42; 1942-55] 1976.

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dizione assolutamente precaria in cui “non era in grado di fare altro che ritagliare immagini della stampa e comporre qualche ‘piccolo epigramma’ di quattro versi”87. Brecht, come osserva Didi-Huberman, è “esposto alla guerra” con tutta la fragilità che questa esposizione comporta, ma anche con il guadagno dell’accentuazione di facoltà di pensiero diverse da quelle utilizzate in condizioni di normalità. Questa “esposizione alla guerra” ha rappresentato “un sapere, una presa di posizione e un insieme di scelte estetiche assolutamente determinanti”88. Assieme alla riduzione del testo in frammenti in cui si riflette in qualche modo una certa fragilità del logos, della capacità razionale di fare ordine sugli eventi tragici che lo investono, si accompagna dall’altra un’“acutizzarsi della vista” che, nel pathos del momento, si esprime nella necessità di parlare per immagini. L’epigramma è la forma poetica che Brecht desume dall’antichità classica per commentare la scelta delle immagini apposte nel Kriegsfibel e che nell’insieme formano quel che ha definito “Fotoepigramm”. Il fatto che storicamente in origine sia un’iscrizione soprattutto funebre rende la scelta obbligata ancora più pertinente rispetto alla tragicità degli eventi su cui riflette. Il montaggio è il meccanismo compositivo con cui Brecht tesse le relazioni tra gli elementi, testi e immagini; e si rivela anche in questo caso, proprio per la contemporaneità con il conflitto mondiale, come si è già visto per molti altri artisti e intellettuali che vivono tra le due guerre, “un metodo di conoscenza e una procedura formale nata dalla guerra, che prende atto del ‘disordine del mondo’”89. In uno scritto del 1940 Brecht afferma che il soggetto dell’arte è il disordine del mondo, e che non conosciamo mondo che non sia disordine e questo disordine è anzitutto guerra: che ne dica l’università dell’armonia greca, il mondo di Eschilo è pieno di lutto e terrore […]. Per quanto possa sembrare pacifico quello che ci raccontano, parla sempre di guerra e quando l’arte fa pace con il mondo, c’è sempre un patto con un mondo in guerra90.

L’armonia greca evidentemente non è data dalla pacificazione, ma, come è emerso dall’analisi della drammaturgia eschilea, è data dalla compresenza di elementi e significati diversi e da uno sguardo di insieme capace di

87 88 89 90

Brecht citato in Didi-Huberman 2009, p. 31. Didi-Huberman 2009, p. 13. Didi-Huberman 2009, p. 86. Brecht citato in Didi-Huberman 2009, p. 25.

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coglierli. È l’armonia di cui parla Eraclito che “da un estremo ritorna all’altro estremo com’è nell’arco e nella lira”91. Nelle pagine del Kriegsfibel i frammenti poetici e le immagini sono composti attraverso il montaggio come se queste fossero delle tavole warburghiane; il libro risulta in questo modo affine al Bilderatlas Mnemosyne di Warburg. Il meccanismo compositivo è anche in Brecht regolato da rapporti dialettici tra le componenti in gioco, per cui nel libro si condensano e interagiscono dialetticamente piani differenti: l’evento che il drammaturgo intende riportare, l’immagine catturata dal giornale con la descrizione della didascalia, il suo commento poetico. L’effetto che ne consegue è una visione assolutamente inedita degli accadimenti in corso durante la guerra. Accade che il montaggio, nel comporre tutti questi elementi, disarticola la percezione abituale dell’evento, o la percezione che passa la cronaca o il dettato storico e costruisce un nuovo ordine di senso. Interviene cioè una comprensione nuova che attraverso il montaggio smonta l’ordine spaziale e temporale delle cose che vengono così sottratte alla loro ‘origine’ e poste in una nuova collocazione, in un nuovo “reticolo di relazioni” dove si intrecciano dialetticamente. Nel montaggio che compone il Kriegsfibel Didi-Huberman legge il portato epico dell’operazione che Brecht ha utilizzato pienamente nel contesto teatrale. E l’operazione epica consiste da un lato nello spezzare lo svolgimento cronologico dei fatti, quindi creare delle interruzioni nello svolgimento storico e dall’altro nel mettere in crisi l’effetto illusionistico della finzione rappresentativa; rispetto a queste due operazioni, il montaggio ricolloca gli eventi tra loro secondo un nuovo “reticolo di relazioni” che ne stravolge totalmente la connotazione originaria. La trama portata sulla scena, come vede bene Benjamin nello scritto sul teatro epico, è sottoposta all’atto dello “snodare le articolazioni fino al limite estremo”92. L’ interruzione del normale svolgimento crea discontinuità e anacronismi funzionali a una visione differente, nuova e inusuale delle vicende, provocando così stupore e non immedesimazione. Attraverso questa percezione straniata dell’evento si afferma il paradigma eminentemente politico del montaggio che mette in crisi la visione abituale del dato di fatto per stimolare una “presa di posizione”. Dopo il lungo periodo dell’esilio, in cui Brecht vive nel profondo l’esperienza dell’essere straniero, torna al teatro e a occuparsi specificatamente dell’effetto di straniamento già ideato dagli anni 30. Nel frattempo la sua posizione rispetto all’adesione al realismo socialista è mutata in favore di 91 92

Eraclito DK 22 B 51 [παλίντροπος ἁρμονίη ὅκωσπερ τόξου καὶ λύρης]. Benjamin [1939] 2000, p. 128.

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un recupero della funzione artistica del godimento estetico che non è più vista in contrasto con la funzione eminentemente politica del teatro, ma un suo importante elemento. Nel 1940 Brecht nello spiegare la nuova tecnica di recitazione che deve essere assunta per provocare l’effetto di straniamento parla di “storicizzazione”, ossia della necessità che: l’attore deve recitare la vicenda come una vicenda ‘storica’: cioè come fatto che si verifica una volta sola, transitorio, connesso con una determinata epoca. Il comportamento dei personaggi all’interno della vicenda non è alcunché di tipicamente umano e invariabile, presenta invece certe particolarità, aspetti superati o superabili dal corso della storia, ed è soggetto a critica per chi si ponga dal punto di vista dell’epoca immediatamente successiva. Un processo di sviluppo costante ci rende ostico il comportamento di quelli che vissero prima di noi. E questa presa di distanza che lo storico compie verso avvenimenti e modi di vivere del passato, l’attore deve compierla verso gli avvenimenti e i modi del presente: deve cioè straniare ai nostri occhi quei fatti e quelle persone93.

Questa storicizzazione di cui parla implica però una frattura dell’ordine storico: come per Benjamin, il montaggio è applicato alla storia per spezzarla, per interromperne la cronologia, è un atto di rottura rispetto alla processualità dello storicismo. Il valore dialettico dell’operazione di straniamento, che ha l’effetto di riverberare una luce diversa sul concetto di storia o di storicizzazione, è un’acquisizione più matura nella teoria di Brecht e significativamente si colloca al termine dell’esperienza dell’esilio. In un testo contemporaneo a quello sopra citato, ma su cui l’autore è tornato successivamente, la storia è intesa come la narrazione in cui rischia di rifugiarsi lo spettatore; per cui attraverso lo straniamento, che rende eccezionale un fatto ordinario, “lo spettatore non continuerà a sfuggire all’oggi per rifugiarsi nella storia: l’oggi diventa storia”94. Il discorso storico, quindi nella prospettiva brechtiana vive e si alimenta proprio della dialettica tra “il vivere un’esperienza e rappresentarla, fra l’immedesimarsi e il mostrare, fra il giustificare e criticare”. Il montaggio allora, anche rispetto all’uso fattone nel Kriegsfibel così come nel Diario di lavoro, appare “un gesto drammaturgico fondamentale”95. È il riconoscimento dell’elemento dialettico, inscindibile da quello epico e che Brecht matura dopo l’esperienza della guerra, a rendere pienamente il senso della drammaturgia brechtiana. Il 93 94 95

Brecht [1952] 1975, pp. 181-182. Brecht [1963] 1975, p. 95. Didi-Huberman 2009, p. 79.

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Il teatro contemporaneo, poiesis del montaggio

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teatro epico di Brecht è eminentemente dialettico e lo è nella misura in cui il suo processo compositivo avviene attraverso il montaggio. Il montaggio dispone gli elementi dialetticamente di modo che mantengono la loro eterogeneità in continua tensione polare, senza mirare ad alcuna sintesi. Il teatro dialettico intende mostrare quindi i conflitti e le contraddizioni, e la tecnica utilizzata per la scena sarà tutta finalizzata alla loro resa. Brecht osserva come procedimenti contrari devono comporsi nel lavoro dell’attore: “l’attore ottiene i propri effetti ricavandoli dalla tensione, come pure dalla profondità, dei due elementi in contrasto”96; elementi che quindi non devono sintetizzarsi o annullarsi tra di loro, ma mostrare il loro intersecarsi. Secondo questo principio ad esempio un ruolo femminile sarà reso meglio da un attore uomo, come il ruolo di un vecchio sarà reso meglio da un attore giovane o il ruolo di un borghese da un attore abituato a recitare il ruolo del proletario. La tensione polare tra gli elementi contrastanti che rende l’effetto dello straniamento emerge dal conflitto degli stessi elementi mantenuto in scena. L’idea della mutabilità del mondo da subito intesa come la condizione per la possibilità d’intervento del teatro su di esso al fine di cambiarlo è ora compresa nella sua intrinseca contraddittorietà. Se di ritorno dall’esilio Brecht utilizza l’accezione di dialettico per qualificare ulteriormente il teatro epico, allo stesso tempo cambia anche l’atteggiamento nei confronti dei classici. In uno scritto del 1928 in cui, in forma dialogata riporta una discussione radiofonica con l’amico critico Herbert Jhering a proposito del contributo di quest’ultimo sui classici, Brecht si domanda: “Se sono [i classici] morti, quando sono morti? La verità è questa: sono morti in guerra – sono anch’essi vittime della guerra”97. I classici sono tacciati di essere inattuali e, evidentemente, nella prospettiva di Brecht, la guerra ha cambiato il mondo e il teatro che ripropone i classici alla maniera classica, secondo i dettami e l’ideale che ha predominato fino all’Ottocento, sembra ignorare questo cambiamento. I classici non sono più efficaci e la critica a essi è perfettamente in linea alla critica al naturalismo, al finto illusionismo, all’ornamento, al teatro di cui si può fare solo un “uso culinario”. Ma venti anni dopo, nel 1948, di ritorno dall’esilio americano, Brecht si cimenta subito con un classico e in particolare una tragedia greca: l’Antigone di Sofocle con la traduzione di Friedrich Hölderlin. Lo spettacolo, andato in scena il 15 febbraio del 1948 in Svizzera presso lo Staddtheater di Coira con il titolo Antigone des Sophokles, rappresenta un evidente 96 97

Brecht [1955] 1975, p. 187. Brecht [1929-63] 1975 p. 85.

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segno di un mutato atteggiamento nei confronti dei classici e delle loro messe in scena. Senza entrare nello specifico dello spettacolo, interessa qui parlarne come segno del nuovo approccio di Brecht influenzato dal vissuto dell’esilio e della guerra, e come esperienza fondante anche per la più matura teorizzazione del carattere dialettico del teatro epico. Come ha osservato Olga Taxidou è il concetto di frammento, di rovina che connota la nuova attitudine di Brecht nei confronti dei classici98. Nella Prefazione all’AntigoneModell-buch99, il ‘libro-modello’ relativo alla messa in scena di Antigone, costruito con bozzetti e foto delle prove secondo la modalità di montaggio di testi e immagini propria del Diario di lavoro, la rovina è pensata come quel che rimane del vecchio con il pericolo sempre in agguato della sua restaurazione, ma è anche il principio della possibilità della ricostruzione, ne catalizza la sfida, oltre che rappresentarne la memoria storica. E significativamente, a simbolizzare questo valore del frammento, sullo sfondo della scena dello spettacolo, Brecht fa apporre una grande fotografia di città ridotta in macerie. Il teatro che è sopravvissuto alla guerra deve secondo Brecht rispondere a quella “sete di novità” che “il completo sfacelo materiale e spirituale ha indubbiamente prodotto nel nostro paese sventurato e provocatore di sventura”100. Ed è, però, una sete di novità che deve fare i conti con il passato: Il guaio delle rovine non è solo che va distrutta la casa, ma anche che il posto non c’è più; e i progetti degli architetti, a quanto sembra, non si cancellano mai del tutto; sicché con la ricostruzione riappaiono le vecchie infiltrazioni e i focolai di malattia. Quella che è vita febbricitante afferma di essere vita sprizzante di energia: nessuno muove passi più decisi del tisico che ha perso ogni sensazione dalla pianta dei piedi. […] Può darsi perciò che, proprio in tempo di ricostruzione, fare dell’arte progressiva sia tutt’altro che facile. Ma questa dovrebbe essere la sfida101.

Secondo Taxidou, questo straordinario progetto che lega il passato con il futuro attraverso le rovine potrebbe sembrare più proprio di Artaud che di Brecht: i “progetti degli architetti che sopravvivono alla tradizione classica sembrano più dei ‘focolai di malattia’ che producono ‘vita febbricitante’. 98

Cfr. Taxidou 2007. Tutte le citazioni tratte da questo testo sono tradotte a cura di chi scrive. 99 Cfr. Brecht [1949] 1975. 100 Brecht [1949] 1975, p. 237. 101 Brecht [1949] 1975, p. 238, traduzione modificata da chi scrive.

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Come la peste per Artaud, il veleno può contenere in sé la possibilità della cura”102. In questa affermazione si coglie un punto di contatto tra i due grandi rivoluzionari del teatro contemporaneo che, se non è possibile osservare tanto nel confronto diretto, è però possibile farlo, come si vedrà, nel confronto mediato da alcune esperienze teatrali posteriori che hanno maturato la loro lezione. Quindi l’Antigone che Brecht mette in scena di ritorno dall’esilio, a guerra conclusa, sembra avere la funzione e il valore di un pharmakon. La scelta artistica di mettere in scena questa tragedia greca in particolare è dettata dalla convinzione che Antigone incarni “la funzione della violenza al momento del crollo dell’autorità statale”103, e sollevi per questo un tema assolutamente attuale e cogente ai tempi. E però non c’è alcun intento filologico e alcuna intenzione di “evocare lo spirito degli antichi”, ma lo scopo è “di far fare ad essa [l’opera] qualcosa per noi”104. Rispetto a questo intento, la scelta della traduzione di Hölderlin datata 1803 – su cui comunque interviene con una certa libertà – ha una funzione ben precisa: Brecht salta un’intera generazione di esponenti del neoclassicismo tedesco e sceglie una traduzione che a suo tempo non era stata ben accolta ma tacciata come oscura. Nell’intenzione di creare l’effetto di straniamento per Brecht tale traduzione risultava particolarmente funzionale, inoltre gli permetteva di acquisire un’idea di ellenismo che non aveva nulla a che fare con quella di cui si era appropriato il Nazismo e di restituirla così alla Germania e all’intera Europa105. Brecht è affascinato dalla radicalità del testo di Hölderlin e dalla capacità di averne fatto una “favola di distruzione”106, per questo, come afferma Taxidou, si può pensare all’intero progetto come un tentativo di trovare una forma per “aggiustare la catastrofe storica”. Lo studio e la preparazione dell’Antigone è significativamente contemporaneo alla scrittura del Breviario di estetica teatrale107, ossia il primo testo in cui è espressa la matura accezione dialettica di teatro, e dove si coglie la peculiarità del metodo teatrale capace di rendere la contraddittorietà dei processi sociali e umani in continua trasformazione. Le idee di contraddizione, polarità, di dialettica tra passato e presente sono ricorrenti in tutto lo scritto. Allo stesso modo, nell’Antigone Brecht non intende mettere in scena l’affermarsi di un potere su di un altro, o di una violenza su di 102 103 104 105 106 107

Taxidou 2007, pp. 171-172. Brecht [1949] 1975, p. 238. Brecht [1949] 1975, p. 239. Cfr. Taxidou 2007, p. 172. Brecht citato in Taxidou, p. 173. Cfr. Brecht [1955] 1975.

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un’altra, ma la compresenza dialettica, irrisolta di due sistemi differenti che sussistono contemporaneamente in uno stato di guerra108. Anche rispetto alla contraddizione tra imparare, quindi mantenere la distanza dallo spettacolo e divertirsi, ossia lasciarsi immedesimare nella scena, Brecht ha in questi anni cambiato atteggiamento, la definisce infatti una contraddizione “da conservare come un elemento importante”109; quindi, anche questa mutata posizione è indice di una ricollocazione del significato epico del teatro in una accezione propriamente drammatica. Ciò che fa dramma nel teatro epico di Brecht è il meccanismo dialettico reso possibile con il metodo del montaggio. Assieme alla comprensione della natura intimamente dialettica del teatro nell’Antigone-Modell-buch Brecht chiarifica anche il senso con cui intendere il rapporto con il modello, e quindi di conseguenza anche il rapporto da intrattenere con i classici, intesi nella nuova accezione. Modello è quanto c’è di “imitabile e inimitabile” al tempo stesso, quindi quanto viene proposto per essere violato; il suo tradimento instaura il rapporto dialettico con esso che è auspicabile di contro a un’epoca “che sa applaudire solo l’‘originale’, l’‘incomparabile’ il ‘mai visto’: che non ammette altro che l’‘unico’”. E aggiunge che “perché qualcosa possa essere utilmente imitato, bisogna che si faccia vedere ‘come si fa’”: quindi è il meccanismo creativo a dover essere imitato non la creazione. In questa affermazione si coglie il significato di imitazione, a cui si è già fatto riferimento, come creazione in analogia al processo formativo della natura, quindi suo analogon. E si chiarifica inoltre sia il rapporto che Brecht ha instaurato, nel mettere in scena l’Antigone, con il modello classico sia il rapporto che intende porre, attraverso la proposta di un modello, l’Antigone-Modell-buch, nei confronti delle messe in scena a venire. Alla luce delle riflessioni sulla natura dialettica del teatro e dell’esperienza della messa in scena di Antigone, il teatro epico di Brecht non risulta riconducibile tout court all’orizzonte della narrazione storica, come la denominazione epica intende significare. Il teatro epico del regista e drammaturgo tedesco appare invece tragico e quindi mitico nella misura in cui è dialettico e drammatico nell’interrompe attraverso il montaggio la narrazione storica. È un teatro tragico e mitico, nella misura in cui si smarca dal teatro drammatico inteso come forma decaduta di tragedia, quel teatro che Brecht, in una tavola sinottica stilata e pubblicata nel ‘30 e poi rimaneggiata nel ‘38, illustra differenziandolo punto per punto rispetto al 108 Cfr. Taxidou, p. 174. 109 Brecht [1955] 1975, p. 186.

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teatro epico110. Significativamente, la consapevolezza della natura dialettica e quindi – per uno sguardo retrospettivo – drammatica e tragica del teatro epico avviene proprio con la messa in scena di una tragedia greca. Lo scarto tra epico e drammatico si è compreso in riferimento a Ejzenštejn e in particolare rispetto alla differenza tra successione e scontro degli elementi che vengono a comporsi nel montaggio. Diversamente Brecht, sostiene la discontinuità della forma teatrale epica per smarcarsi dalla continuità attribuita alla forma teatrale aristotelica; e lo fa appellandosi a Alfred Döblin, secondo cui l’epica al contrario della drammatica “poteva essere tagliata con le forbici in tanti pezzi, ciascuno dei quali conservava tutta la sua vitalità”111. Alla luce di questa fondamentale distinzione si comprende di riflesso il risvolto drammatico, tragico e mitico di cui si colora il teatro epico e storicistico di Brecht. V. L’Antigone del Living Theatre Un tentativo concreto e probabilmente riuscito di sintetizzare le poetiche tanto antitetiche, quanto, per certi versi, consonanti di Artaud e Brecht è stato fatto nel contesto della cultura americana da Julian Beck e Judith Malina, fondatori a New York nel 1947 del Living Theatre. Con questi artisti statunitensi si misura uno scarto generazionale rispetto alla prima riforma del teatro in cui si colloca Artaud e parzialmente anche rispetto a Brecht che, come si è già detto, si situa a metà tra la prima e la seconda riforma. Il Living Theatre è infatti uno dei principali fautori della seconda riforma che investe il teatro a partire dalla metà del Novecento, dagli anni 50 fino agli anni 80. La seconda generazione – che ha tra i principali esponenti oltre al Living anche Jerzy Grotowski, Eugenio Barba e Peter Brook112 – ha di fatto maturato e portato a compimento le intenzioni avanzate e in parte già attuate dalla prima, e quindi anzitutto, oltre ad Artaud e Brecht, anche Stanislavskij, Mejerchol’d, Evgenij B. Vachtangov, Craig, Erwin Piscator, Jacques Copeau. Come ha osservato Franco Perrelli, i due fronti su cui gli esponenti della seconda riforma insistono in continuità rispetto alla generazione precedente sono la critica al teatro di rappresentazione, quindi al teatro come finzione e illusione scenica meramente imitativa, che è sostituito dalla ‘viva’ presenza scenica dell’attore, e la valorizzazione 110 Cfr. Brecht [1930-38] 1975 p. 57. 111 Brecht [1957] 1975, p. 145. 112 Cfr. Perrelli 2007.

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della referenza allo spettatore. E, come si è già visto, questi sono anche i due aspetti su cui si sono maggiormente concentrati Artaud e Brecht, l’uno più coinvolto sul primo versante, l’altro più sul secondo. La generazione di avanguardie che viene dopo spinge ulteriormente per una concezione e attuazione non mimetica dell’arte, quindi un’arte improntata alla poiesis piuttosto che alla mimesis, coerentemente alla mutata visione del mondo che permea il Novecento. Una testimonianza della volontà di sintetizzare la poetica di Artaud a quella di Brecht la troviamo espressamente dichiarata nelle parole di Malina in occasione di un seminario tenuto in Italia negli anni 80: nell’incontro tra Artaud e Brecht si attua la possibilità di creare la “persona totale – non una persona parziale, in cui la ragione è in guerra contro la sensibilità”113. Nella concezione dell’artista, ragione e sensibilità sono dunque i due termini che si trovano congiunti come conseguenza del lavoro sulla poetica di entrambi i grandi rivoluzionari della stagione precedente. Un tentativo concreto di questa sintesi ha trovato attuazione nella messa in scena dell’Antigone nel 1967, dove il modello improntato da Brecht è sposato alla poetica di Artaud che il Living Theatre ha fatto molto presto propria. La scoperta di Artaud da parte di Beck e Malina avviene con la lettura – nella traduzione in inglese di Mary Caroline Richards per l’edizione della Grove Press – de Il teatro e il suo doppio nel 1958, anno in cui il pensiero artaudiano comincia ad avere diffusione negli Stati Uniti, dopo venti anni dalla prima pubblicazione francese. Il confronto con questo testo ha la potenza di una folgorazione per i due artisti che fanno subito propria la rivoluzione teatrale in esso annunciata: se la vita è il doppio del teatro, allora la ‘presentazione’ della vita e non la sua ‘rappresentazione’ sarà lo scopo del teatro e dello spettacolo proposto dal Living Theatre. Il teatro allora dovrà avere, seguendo la traccia di Artaud, l’impatto virulento della peste, tanto crudele quanto capace di trasformare l’attore e lo spettatore114. Il versante della presenza scenica e dell’impatto sulla ricezione dello spettatore sono i due punti focali su cui si concentra tutto il lavoro del gruppo statunitense. Come ha osservato Perrelli, negli anni 60 è il Living Theatre il “più penetrante profeta di Artaud”115, solo dopo il gruppo americano anche altri lo affronteranno, come ad esempio Brook con l’importante messa in scena nel 1964 del Marat/Sade. Il caso dell’Antigone è emblematico ai fini dell’indagine perché è esplicitamente costruito sulla ‘partitura’ di 113 Malina citata in Perrelli 2007, p. 13. 114 Cfr. Valenti 1995, p. 133 e Perrelli 2007, p. 12. 115 Perrelli 2007, p. 13.

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Brecht; ma la capacità di sintetizzare la poetica brechtiana e quella artaudiana è rinvenibile in tutta la produzione del Living Theatre, già a partire dai primi spettacoli e dalla messa in scena nel 1959 di The connection che ha un impatto rilevante nella comunità teatrale americana prima ed europea poi, introducendo così al mondo la novità del gruppo. L’Antigone è indubbiamente un’opera matura che consegue a molti importanti traguardi precedenti, come ad esempio l’abbandono del teatro di interpretazione o la creazione collettiva, per citarne solo i più importanti. L’idea di mettere in scena l’Antigone nasce proprio dalla scoperta del Modell-buch di Brecht che Malina e Beck trovano nel 1961 in una libreria di Atene durante la loro prima tournée europea116. Il libro composto di immagini, testo e note di regia affascina i due artisti; e tre anni dopo, nel 1964, Malina lavora alla sua traduzione dal tedesco in una situazione assolutamente particolare: si trova, assieme a Beck, in carcere, nel Passiac Country Jail del New Jersey117, condannata a trenta giorni di reclusione per vilipendio alla Corte in occasione del processo loro intentato a seguito della chiusura del Living Theatre durante le rappresentazioni di The Brig nell’ottobre del 1963. La decisione di lavorare sull’Antigone risulta dunque stimolata proprio da questa condizione di prigionia in cui si trova Malina che, “sotto il giogo della tirannia del carcere”118, si identifica a pieno con l’eroina greca, la rappresentante per antonomasia della disobbedienza civile che, anche nel destino di morte, è un “esempio perfetto di individualità anarchica”, “totalmente libera e indipendente”119. La prima dell’Antigone è messa in scena nel 1967 allo Stadttheater di Krefeld in Germania, a questa seguirà poi una tournée in Italia, dove il gruppo è conosciuto già dal ’61120. La vicenda personale della carcerazione subita dai due artisti entra in risonanza con l’atmosfera esplosiva di quel particolare frangente storico: i movimenti contestatori studenteschi sono oramai diffusi anche in Europa, e il teatro, in particolare quello professato dal Living Theatre funge da veicolo della rivoluzione che dall’America giunge fino al Vecchio Continente. Negli Stati Uniti la prima manifestazione contro la guerra nel Vietnam è del 1965 e 116 117 118 119 120

Cfr. Biner 1968, p. 147. Cfr. Valenti 1995, p. 171. Valenti 1995, p. 172. Valenti 1995, p. 172. Per una descrizione dettagliata dello spettacolo si veda Molinari 1977, che riferisce dello spettacolo visto nel 1967 e di una registrazione della Biennale di Venezia; e si veda Sansalone 2005 per una descrizione da una ripresa video Rai, con la regia di Gigi Spedicato, di una replica italiana al Teatro Petruzzelli di Bari il 1 febbraio 1980.

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l’Antigone del Living Theatre oltre a incarnare una ribelle contro i soprusi del potere è anche una paladina della pace. Di fatto come dichiara Malina, tra il ’66 e il ’67, quando il Living ha cominciato a lavorare ad Antigone “era un momento di importante azione rivoluzionaria”121. Nelle intenzioni del Living Theatre lo spettacolo era “una produzione artaudiana di un testo brechtiano, che rispettava moltissimo il testo di Brecht e tentava di esprimerlo attraverso l’azione artaudiana”122. In quel periodo i due artisti stavano lavorando su Artaud e Malina in carcere riesce a fare uno studio incrociato che le permette di “tracciare l’arco da Sofocle a Hölderlin a Brecht”. A guidare il progetto della messa in scena dello spettacolo c’è quindi una forte intenzione politica veicolata sulla scena da una altrettanto potente espressività fisica che, come ha dichiarato Malina, era finalizzata a colmare la “distanza fra l’espressione fisica e il significato verbale”123. Nello spettacolo questa distanza è colmata grazie al lavoro dell’insieme degli attori: “l’ensemble funziona realmente come un corpo: un corpo fatto di tante persone, ma un corpo”124; si tratta del corpo attorale inteso come “persona totale” – di cui si diceva sopra – in cui sensibilità e ragione sono congiunti. Gli attori agiscono sulla scena come un vero e proprio materiale plastico che si dispone nello spazio secondo posizioni e traiettorie che riproducono i rapporti di antagonismo o solidarietà, e si distribuiscono quindi secondo polarità in continua tensione; come dichiara Malina: “è attraverso la costruzione delle azioni che vengono fuori le reciproche posizioni […] in questo modo [gli attori] disegnano le dinamiche delle alleanze e dei conflitti”125. Oltre che per scelta artistica, la gestualità è evidenziata anche perché si trattava di uno spettacolo che veniva recitato in inglese per un pubblico che non lo parlava. Lo spettacolo si sviluppa attraverso una partitura di gesti assemblati sulla scena secondo una successione di fotogrammi e una frantumazione di episodi che, se da un lato hanno la finalità di provocare l’effetto di straniamento, dall’altra vogliono essere l’esatta espressione fisica del sottotesto della parola. Probabilmente l’effetto che doveva fare la visione di questa composizione lo si può leggere similmente nel commento di Brook alla visione di un altro spettacolo del gruppo, The connection. Il regista britannico coglie “una particolare connotazione brechtiana” dello spettacolo 121 122 123 124 125

Valenti 1995, p. 170. Valenti 1995, p. 173. Valenti 1995, p. 174. Valenti 1995, p. 175. Valenti 1995, p. 174.

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resa dalla sensazione di “essere di fronte all’estrema espansione del teatro naturalistico” eppure, allo stesso tempo, dalla sensazione di essere “del tutto distanziati”. E quasi profeticamente immagina che questa peculiarità sarà anche quella del teatro a venire:

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Credo che questo spettacolo dimostri che nel nostro futuro vi sarà un teatro ipernaturalistico dove il puro comportamento potrà accampare il diritto di avere un valore di per sé, come lo ha il puro movimento nel balletto, il puro linguaggio nella declamazione, e così via126.

Il naturalismo che veniva agito in scena non ha nulla a che vedere con quello che si intendeva destituire del teatro precedente, ma risponde a un’esigenza di verità, di realismo nel presentare spaccati di vita autentica, con tutta la crudezza che il Living Theatre intende sostenere in nome di un teatro della crudeltà di artaudiana memoria. In queste seconde avanguardie, la presenza autentica dell’attore, come performance dal vivo, è quindi sintetizzata alle istanze antinaturalistiche proprie delle Avanguardie Storiche. La recitazione che Malina sperimenta nelle prove per l’imbastitura dello spettacolo è da subito intesa come qualcosa che non ha niente a che fare con un’interpretazione realistica; come dichiara l’artista: “Stavamo rompendo la forma recitativa e aprendola a quella della danza, nonostante non stessimo danzando”127. L’influenza di Brecht sul Living Theatre, può essere individuata nella scelta di lavorare sull’Antigone, e precisamente sull’Antigone-Modellbuch, che è scelto dal gruppo a modello di costruzione per montaggio dello spettacolo; ma si spiega anche nella fama che il Berliner Ensemble aveva a livello internazionale in quel periodo. E come rileva Perrelli128 se Artaud rappresenta per il Living Theatre l’istanza del corpo, dei sensi, della follia, è Piscator a rappresentare – come prima Brecht – l’istanza della ragione, dell’intelletto, della chiarezza. Il regista tedesco esule come Brecht negli Stati Uniti ha infatti profondamente influenzato il teatro sperimentale americano e Malina era stata sua allieva dal ’45 al ’47 al Dramatic Workshop di New York. Una riflessione andrebbe fatta anche sul rapporto tra straniamento ed esilio nel vissuto di Malina come in quello di Brecht; perché la caratteristica dei rappresentanti della seconda riforma è proprio la condizione di esuli: Beck e Malina, come Brook, erano ebrei figli di emigranti, e allo stesso 126 Brook citato in Perrelli 2007, p. 20. 127 Malina citata in Valenti 2005, p. 173. 128 Perrelli 2007, p. 14.

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Mito e teatro

modo Barba e Grotowski condividono vicende di emigrazione ed esilio129. La dimensione dello straniamento sembra essere una forma espressiva legata allo sradicamento, alla mancanza di punti fermi, alla precarietà dell’esistenza vissuta nella distanza di un luogo in cui ci si sente stranieri ed estraniati. Nello spettacolo lo straniamento è reso in particolare dall’azione del mimare: gli attori mimano tutto quanto viene detto, mimano tutto il testo che è integralmente preso dalla versione brechtiana, anche i versi di liaison, di legamento che Brecht aveva scritto nel Modell-buch con la descrizione in terza persona dei fatti: i passi più ermetici del coro e gli avvenimenti di cui dava semplice notizia sono tutti mimati in scena130. Per cui, i versi che Brecht usava per passare dal prologo all’inizio della tragedia, ad esempio quelli in cui si descrive Antigone che si reca a raccogliere la polvere per coprire il corpo del fratello, sono recitati a turno dagli attori e accade che l’azione drammatica è continuamente interrotta dalla recitazione discontinua e diventa episodica, con il risultato di provocare un effetto di straniamento; quindi anche nel lavoro del Living Theatre lo straniamento funziona proprio con uno strumento brechtiano, per quanto agito in maniera molto diversa. Nello spettacolo sono inscenati azioni e avvenimenti anacronistici rispetto alla storia del dramma, ma funzionali al senso che la regia intende comunicare. Ad esempio, tra gli atti simbolicamente più importanti c’è la morte di Polinice, che Brecht si limitava ad annunciare, e invece il Living agisce più volte nel corso della rappresentazione e questo avviene alla presenza costante del cadavere del personaggio in scena. Se in Brecht l’attore si fa al tempo stesso spettatore e lo spettatore è chiamato a prendere posizione, per il Living Theatre è esplicito il progetto di eliminare completamente la distinzione tra attori e spettatori. Ed è anzitutto lo spettatore a essere coinvolto, spesso forzatamente, nell’azione scenica; per questo nel caso dell’Antigone, anche fisicamente, manca la separazione tra platea e scena e la linea che ne segna il confine – il sipario – è dislocata sul fondo del muro di scena, quindi uno sfondo di fronte al quale stanno indistintamente attori e spettatori. Se Brecht voleva indurre lo spettatore a prendere posizione il Living Theatre gli ‘impone’ un ruolo nel dramma: gli attori si rivolgono direttamente agli spettatori come se fossero parte della rappresentazione, si avvicinano a loro, gesticolano in modo ostile, vogliono spaventare; in questo modo nell’Antigone gli attori agiscono nella parte 129 Cfr. Perrelli 2007, p. 16. 130 Cfr. Sansalone 2005.

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di cittadini di Tebe e gli spettatori sono agiti come rappresentanti della città di Argo. Attori e spettatori sono di conseguenza nemici in guerra gli uni contro gli altri. La trasformazione del rapporto tra attore e spettatore avviene con la complicità dello spazio e del suo differente uso. Avviene di fatto quanto si auspicava Artaud che immaginava lo spazio teatrale come una dimensione autonoma e carica di segni. E la stessa trasformazione avviene anche con la complicità del corpo, con l’uso espressivo della fisicità e del coinvolgimento diretto, non mediato o distanziato dei corpi, e anche questo in sintonia con quanto prefigurava Artaud. Il Living Theatre nel sintetizzare le acquisizioni di Artaud e Brecht, antitetiche più in apparenza che di fatto, segna un punto di svolta ulteriore nel contesto del teatro del Novecento che, in continuità con la rivoluzione attuata dalla prima avanguardia, per certi versi la porta a compimento. Significativamente anche per il Living Theatre il rapporto con la tradizione e il superamento della stessa si pone in termini antimimetici nel senso di non riproduzione dei prodotti della tradizione, ma di acquisizione del metodo, e quindi nel senso, a cui si è già fatto riferimento, di creatività da intendersi come analogon della natura. Malina dichiara come avesse imparato da Beck “cosa significhi la rottura con la tradizione”, ossia secondo quanto dice lo stesso Beck che ha la sua prima formazione artistica nell’avanguardia pittorica americana: Esiste una forma tradizionale e convenzionale da cui apprendiamo ogni cosa, ma […] quello che dobbiamo fare è superarla, risvegliarci al di fuori di essa, prenderne gli elementi e decostruirli, riorganizzarli, distribuire il colore sulla nostra tela e arrivare al punto a cui arrivò Kandinskij quando capì, guardando i pagliai di Manet, che non era importante il soggetto bensì la pittura, non erano i pagliai ad essere importanti, ma il modo in cui era stato spalmato il colore, e che la materia è allo stesso modo il soggetto dell’arte131.

Malina rivela come la comprensione di questo sia stata fondamentale per la loro creazione artistica e Cristina Valenti osserva come la novità del loro teatro sia dipesa dalla capacità di distruggere le forme artistiche precedenti raccogliendone il portato creativo, per questo l’artista: non abbandonò mai il riferimento alla tradizione che l’aveva formata: ma ne decostruì gli elementi, distendendoli diversamente sulla tela del suo teatro e scoprendone, in questo modo, la portata reale, il potenziale più deflagrante, senza paura di far esplodere l’involucro delle forme teatrali precedenti132. 131 Valenti 2005, p. 35, corsivo di chi scrive. 132 Valenti 2005, p. 36.

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Mito e teatro

Il Living Theatre nel far proprie le istanze di Artaud (il valore della fisicità, l’uso del corpo e della presenza scenica) e quelle di Brecht (l’uso del montaggio e l’intento politico) dà vita a un fenomeno originale, in continuità con il passato, che segna in modo fondante il teatro del Novecento collocandosi storicamente tra la tarda modernità e la postmodernità. La scelta di considerare il caso della messa in scena dell’Antigone è necessitata dalla volontà di riflettere sulla peculiare sintesi delle poetiche artaudiane e brechtiane che lo spettacolo incarna rispetto alla sua collocazione nella rivoluzione novecentesca del fare teatro. Il fatto che si tratti anche di una ripresa di una tragedia greca è estremamente significativo, ma secondario rispetto ai fini dell’indagine. È rilevante osservare invece che dopo questa esperienza del Living Theatre sia seguito in quegli anni un fenomeno molto diffuso di ripresa delle messe in scena di tragedie greche. Tra tutte nel 1968 in un garage di New York, la performance di Richard Schechner Dionysus in 69 – il cui testo si compone di 600 battute tratte da Baccanti, 16 da Antigone e 11 da Ippolito133 – che nello scandalo ebbe un successo tale da segnare storicamente, così come è stato indagato da Edith Hall, Fiona Macintosh e Amanda Wrigley134, il momento da cui si assiste al rinnovato interesse per la tragedia. Secondo le studiose risultano più numerose le tragedie greche portate in scena nell’arco di quei trent’anni che in tutte le altre epoche della storia, dai tempi dell’antichità greco romana135. E le ragioni storiche di questa ripresa sono ben argomentate: La crisi della società americana che stava dividendo i falchi dalle colombe, i giovani dai vecchi, i cappelloni da quelli con i capelli corti, i profeti della liberazione sessuale e psichica dai moralisti conservatori, trovò un’espressione teatrale eccitante e lucida nell’esplosione dionisiaca che aveva avuto luogo ogni notte nel Performing Garage, un ampio spazio nel downtown di New York136.

Si riconosce di conseguenza nel mondo mitico “disfunzionale e conflittuale” che emerge dalle tragedie greche un “prisma estetico e culturale” attraverso cui leggere il mondo altrettanto disfunzionale e conflittuale della realtà contemporanea. Nello studio collettaneo condotto dalle ricercatrici l’indagine si sviluppa sulla ricognizione di un numero molto vasto di attualizzazioni della tragedia greca, selezionate sulla base di grandi aree di ricerca, che rende l’idea dell’uso fatto nel Novecento del grande patrimonio 133 134 135 136

Cfr. D’Ambrosio 2000. Cfr. Hall, Macintosh, Wrigley 2004. Cfr. Hall, Macintosh, Wrigley 2004, p. 2. Hall, Macintosh, Wrigley 2004, p. 1.

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condiviso di trame e personaggi. La questione che viene elusa, per quanto spesso sfiorata – come osserva Oliviero Ponte di Pino in una recensione alla pubblicazione137 – è in che termini, al di là delle trame, è stato possibile trascendere il dramma moderno e ritrovare un senso contemporaneo del tragico paragonabile a quello tragico antico. E quindi cosa ha caratterizzato la sensibilità e visione del mondo del Novecento per giustificare questo paragone. Il rischio infatti è di ridurre i classici esclusivamente a un repertorio di trame, di fabulae per quanto variabili, modificabili e adattabili a contesti sempre diversi. Al di là della ricognizione delle trame, la questione che andrebbe posta è eminentemente filosofica: si tratta di entrare nel meccanismo creativo della composizione teatrale, di comprenderne la struttura e di capire il rapporto che instaura con la visione del mondo contemporanea. VI. La scrittura scenica e le origini americane del ‘teatro immagine’ Per il Living Theatre l’uso di immagini è un elemento compositivo essenziale nella costruzione dello spettacolo; significativamente Cesare Molinari osserva che descrivere lo spettacolo Antigone equivale a descrivere l’effetto di un continuo fluire di immagini138. La formazione di Beck è importante per questo aspetto, in quanto, come si è già accennato, prima di dedicarsi al teatro nasce artisticamente come pittore a New York, che dagli anni del dopoguerra è centro nevralgico delle nuove avanguardie, e frequenta il giro di Peggy Guggenheim e dell’action painting che ha Jackson Pollock come capostipite. Questo imprinting è stato così fondante che continuerà costantemente a dipingere, a disegnare e creare collage anche non esclusivamente per le produzioni teatrali. Anche Malina dichiara di “lavorare moltissimo con le immagini: fotografie, stampe, disegni”139. La creazione o individuazione di immagini e il loro assembramento procede di pari passo alla costruzione dello spettacolo. L’espressione fisica del corpo in scena e il significato verbale che si intende comunicare trovano nell’immagine il loro medium, una sintesi in grado di esprimerli contemporaneamente. Per cui ad esempio nella realizzazione dell’Antigone l’idea dell’ensemble come un corpo unico che si dispiega nello spazio è possibile sulla base di una visualizzazione in immagini dell’intera rappresentazione. 137 Cfr. Ponte di Pino 2005. 138 Molinari 1977, p. 189. 139 Molinari 1977, p. 175.

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Mito e teatro

E il lavoro procede su di una partitura di immagini stabilite ma suscettibile di essere sempre reimbastita mano a mano che si dà vita allo spettacolo. Il caso dell’Antigone rispetto ad altri spettacoli del gruppo americano è probabilmente uno di quelli più ancorati a una partitura testuale sovrapposta a una immaginale, ma in altri casi come ad esempio Mysteries and smaller pieces, lo spettacolo-happening si costruisce con un montaggio di sequenze diverse che non hanno un nucleo narrativo di partenza. Questo metodo costruito sulle immagini e il loro montaggio, che vale per il Living Theatre come per molti altri casi, si comprende se ricondotto alla nozione di “scrittura scenica” che qualifica il fare teatro a partire dagli anni 50 e 60140. Questa nozione implica essenzialmente che la scena sia considerata con una sua autonoma dimensione creativa; i presupposti di questa concezione sono tutti dichiarati nelle avanguardie dei primi del Novecento, ma trovano piena maturità espressiva e consapevolezza teorica nella seconda metà del secolo. La scena quindi non è intesa riduttivamente come scenografia ma ha una autonomia rispetto a tutti gli elementi che concorrono a comporla e che al suo interno acquisiscono il valore di segni. Nella scrittura scenica si realizza quel concetto di spazio teatrale che Artaud aveva prefigurato, ossia quello spazio che non è lo sfondo rispetto a cui si illustra un testo ma è di per sé, in ogni sua componente, evento teatrale. Il termine di scrittura scenica è significativamente introdotto per la prima volta da Roger Planchon nel 1961 proprio in riferimento a Brecht. Il regista e drammaturgo francese ha dichiarato come per Brecht: la rappresentazione forma al contempo una scrittura drammatica e una scrittura scenica; ma questa scrittura scenica – ed è stato il primo a dirlo […] – ha una responsabilità uguale alla scrittura drammatica e, in definitiva, un movimento sulla scena, la scelta di un colore, di una decorazione, d’un costume, etc., impegna una responsabilità totale141.

Come osserva Lorenzo Mango anche l’esperienza di Brecht non può prescindere da quelle innovatrici di Appia e Craig che l’hanno preceduto e profondamente influenzato. Certo è che se la scena viene pensata come una pagina su cui scrivere, se viene considerata alla pari di un testo, allora i codici scenici con cui viene scritta divengono elementi costitutivi del dramma, della rappresentazione: sono veri e propri segni. E il testo diventa uno di questi segni, una parte del tutto ma non necessariamente l’elemento preponderante. Questo valore dato alla scena e allo spazio che la contiene è 140 Cfr. Mango 2003. 141 Planchon citato in Mango 2003, p. 20.

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indubbiamente in sintonia con la più generale valorizzazione attribuita allo spazio rispetto al tempo e alla storia che si registra nella società novecentesca e di cui si scriveva sopra in riferimento alle riflessioni di Foucault. La dimensione visiva implicata in questo cambio di prospettiva è fondamentale e il meccanismo sotteso alla costruzione della scrittura scenica è propriamente il montaggio. L’uso del montaggio nella costruzione dell’evento teatrale diventa ancora più importante là dove la particella elementare, il nucleo della composizione è l’immagine che va via via sostituendo il testo e la drammaturgia esclusivamente testuale. Longhi, nel condurre l’indagine relativa alla trasformazione della drammaturgia nel corso del Novecento, osserva come a partire dagli anni 50 si assiste a una svolta che segna il passaggio dalla tarda modernità a quella che, a partire dagli anni 70, sarà definita postmodernità. Il codice diegetico della drammaturgia tra la prima metà e la seconda metà del secolo è sempre il montaggio; c’è una continuità semantico/formale rispetto al passato, ma quanto cambia è la “modalità di applicazione della sintassi drammaturgica” che compone il montaggio stesso 142. Se i drammaturghi del primo Novecento utilizzano il montaggio come meccanismo disgregante l’ideale metafisico dell’unità e vivono della tensione, per certi versi irrisolta, rispetto a questa unità infranta, nel secondo Novecento il montaggio è utilizzato proprio in forza della sua piena frammentarietà. Come osserva Longhi si tratta di una variazione di prospettiva che registra un diverso atteggiamento nei confronti del collasso del pensiero metafisico e della dissociazione contemporanea delle strutture portanti della civiltà Occidentale, per cui se: i drammaturghi primonovecenteschi vivono, o meglio ancora patiscono, la disgregazione tardottocentesca della storia (e più in generale dei sistemi culturali e dei codici comportamentali e percettivi) come un evento traumatico […], i drammaturghi del secondo Novecento superato lo shock della perdita dell’‘uno’, sono portati, fatte salve poche eccezioni, a con-vivere con tale disgregazione143.

Il frammento allora nella postmodernità risulta essere “il solo ed insuperabile orizzonte dell’esperienza”144. Il primo riferimento drammaturgico preso a esempio da Longhi per indicare questa svolta è Fin de partie di Samuel Beckett, andato in scena a Londra nel 1957, il cui testo è costruito da un montaggio di battute che vengono giustapposte senza rispettare gli 142 Longhi 2001, p. 153. 143 Longhi 2001, p. 153. 144 Longhi 2001, p. 159.

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Mito e teatro

schemi logici della normale conversazione. È la disgregazione sintattica e semantica degli enunciati a guidare l’intreccio come una “accumulazione caotica di istanti, parole, gesti”. Quindi il drammaturgo postmoderno sembra polverizzarsi “in una nebulosa d’istanti” in cui i tradizionali confini temporali sono annullati in una indistinzione tra ieri, oggi e domani; questa polverizzazione nella cultura postmoderna è pienamente accettata e diventa per certi versi sistema, ossia il caos e la frammentazione vengono per certi versi istituzionalizzati. Si è visto come la costruzione drammaturgica attraverso il meccanismo del montaggio vada di pari passo a una ridefinizione globale dell’intera messa in scena dell’opera teatrale che è compresa nella più generale definizione di scrittura scenica. Il metodo del montaggio, nel ridimensionamento del ruolo del testo nella creazione artistica teatrale, diventa criterio compositivo privilegiato delle emergenze teatrali collocabili a partire dai tardi anni 50 in poi. In questo contesto, lo studio del fenomeno teatrale a partire esclusivamente dal testo non può che risultare per certi versi riduttivo, per cui, lo studio sulla drammaturgia non è più un criterio di indagine privilegiato ma deve fare i conti con i codici della scrittura scenica e con quello che è stato definito alla fine degli anni 90 da Hans-Thies Lehmann il “teatro postdrammatico”145. Di diretta discendenza dalle esperienze del Living Theatre oltre che da altri fenomeni di avanguardie americane teatrali e non (l’Open Theater, il Performance Group, il Manhattan Project, lo Iowa Theatre Lab, i gruppi politici come El Teatro Campesino, il San Francisco Mime Troupe e il Bread and Puppet Theatre), sensibili naturalmente alle sperimentazioni che avvenivano parallelamente nel Vecchio Continente (Jerzy Grotowski, Tadeusz Kantor, Carmelo Bene, Peter Brook), è il teatro definito “teatro immagine”146. Questo teatro si iscrive a pieno titolo nell’accezione di teatro inteso come scrittura scenica perché la componente visiva ha la preponderanza e il valore dell’immagine diviene centrale. Il teatro immagine risulta essere una specificità propria della cultura americana, che ha avuto poi un’ampia diffusione anche in Europa, ma ha la sua origine nel Nuovo Continente. Il teatro immagine rappresenta di fatto l’apporto più importante del teatro contemporaneo americano a livello internazionale e segna uno spartiacque nella storia del teatro. Il termine è coniato da Bonnie Marranca nel 1977 in particolare in riferimento all’avanguardia americana rappresentata da Richard Foreman, Robert Wilson e Lee Breuer, e in generale in riferimento ai gruppi sperimentali e a casi di singoli drammaturghi che negli anni 60 e nei primi 70 ruppero i pa145 Cfr. Lehmann [1999] 2002. 146 Cfr. Marranca [1977-96] 2006, p. 246.

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rametri tradizionali dell’esperienza artistica vanificando ogni considerazione del teatro convenzionalmente inteso in termini di trama, personaggio, messa in scena, linguaggio e movimento. Si tratta di una drammaturgia che introduce nuovi approcci alla recitazione, alla scrittura e alla creazione di ambienti teatrali, e ripensa da capo i rapporti fra lo spettatore e lo spazio performativo, essenzialmente eliminando il dialogo o usando al minimo le parole in favore di un immaginario uditivo, visivo e verbale che richiede modi di percezione alternativi da parte dello spettatore. La scena è codificata come immagine, gli attori, non impersonando ruoli, funzionano come media attraverso i quali il drammaturgo che scrive la scena esprime le sue idee; quindi come osserva Marranca, fungono da icone e immagini, rispetto alle quali il testo è solo un pretesto. Ne consegue che nel teatro immagine sono accentuate le qualità scultoree e pittoriche di quella che è più corretto definire una performance che una recitazione. Venendo meno il dialogo e la narrazione, il teatro risulta più dominato dallo spazio e dalla sensorialità che dal tempo, che di conseguenza si spazializza: spazio e tempo sono asincroni e il linguaggio è frantumato e disordinato. Il corpo dell’attore è malleabile e plastico e parte integrante dello spazio che, se da un lato può essere astratto e figurativo, dall’altra può essere naturalistico perché costruito sulla naturale presenza del corpo in scena che si stilizza o plasticizza nell’insieme del tutto. Il testo e il linguaggio in generale sono destituiti di ruolo nell’affermare una critica della realtà, e al logos si preferisce l’espressione polisemica dell’immagine. Importante in questo teatro è la posizione critica dello spettatore che se da un lato deve essere coinvolto sensorialmente allo spettacolo, dall’altro deve essere cosciente dei meccanismi che vengono attuati in scena. Marranca osserva come il tableau vivant sia l’unità compositiva di questo teatro, come era stato per gli innovatori storici del teatro del XX secolo e fa riferimento ai Cubisti, a Gertrude Stein, a Bertolt Brecht e a Jean-Luc Godard147. È evidente come il meccanismo dei tableaux vivants sia lo stesso che regola quello del montaggio, e come quest’ultimo termine sia più esplicativo per connotare il metodo che accomuna gli artisti riconducibili al teatro immagine. Il fatto che questo teatro nasca proprio negli Stati Uniti non è casuale; la società americana è altamente tecnologica e quindi fortemente “dominata da stimoli orali e visivi”; è una società particolarmente sensibile, come ha notato Richard Kostelanetz, a “un’epoca post-letterata” come lo è la postmodernità148. Il teatro immagine è infatti quasi esclusivamente promosso

147 Marranca [1977-96] 2006, p. 265. 148 Marranca [1977-96] 2006, p. 264.

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Mito e teatro

da una generazione di artisti cresciuti avendo come principale riferimento culturale le immagini in movimento del cinema e della televisione. A questo aspetto determinante se ne aggiunge anche un altro tipicamente americano, ossia la dominanza della dimensione spaziale in tutti gli aspetti della vita. Marranca in riferimento al multiculturalismo proprio della società americana – altro elemento fondante del teatro contemporaneo – cita lo scrittore William Gass secondo cui “l’unica storia che l’America può avere è geografica”149. Questa semplice affermazione dischiude un’ampia sfaccettatura di questioni implicate l’una nell’altra: in America, oltre alla reale forte presenza della natura in cui la dimensione spaziale risalta spesso per effetto del confronto con gli esigui centri abitati, è evidente anche la mancanza di una tradizione e una storia paragonabile a quella del Vecchio Continente. Lo spazio, la geografia vince sulla storia: l’America è una nazione giovane, con un passato molto recente; è una nazione di conquistatori e di conquistati ed è a sua volta una nazione conquistatrice, e in questo aspetto si connota come un vero e proprio impero. Come per il pensiero greco antico non c’era distinzione tra la storiografia e la ricerca geografica150, allo stesso modo – facendo salve le debite distanze storiche – per la cultura americana la nozione dello spazio è un elemento determinante della visione del mondo. Quella americana è stata da subito più di ogni altro paese occidentale una cultura composta da diversità etniche, da un melting pot costituito di europei e nativi indigeni; è stata per secoli la terra che ha dato asilo a popoli che fuggivano dalla propria storia e dalla propria cultura, pur aggrappandosi ai valori e simboli che si erano lasciati alle spalle. L’immagine della frontiera come orizzonte aperto alla conquista, o come luogo da cui partire per nuove esplorazioni, ha segnato profondamente l’immaginario del popolo americano. Come ha osservato Jackson Turner151, lo sviluppo sociale americano è fondato su una “frontiera mobile”, posta al limite dei territtori aperti all’espansione e alla conquista. Una frontiera quindi profondamente diversa da quella europea, che ha promosso la formazione della nazionalità composita del popolo americano, lo sviluppo del nazionalismo, dell’individualismo e della democrazia152. Il multiculturalismo è nel cuore della cultura americana e con esso la questione dell’identità che è continuamente messa in discussione nel confronto tra popolazioni differenti e allo stesso tempo affermata da una nazione che, essendo giovane, deve fondare se stessa.

149 150 151 152

Marranca [1996] 2006, p. 31. Cfr. Mazzarino [1965-66] 2000, p. 70. Turner [1953] 1967, p. 6. Turner [1953] 1967, pp. 25-30.

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Sulla base di questi aspetti, è inevitabile che quello che è stato connotato dagli anni 70 come ‘pensiero postmoderno’ abbia trovato in questo paese un terreno fertile dove nascere e svilupparsi e la storia del suo movimento sia essenzialmente americana153. Il termine ‘postmoderno’ è utilizzato da Jean-François Lyotard, che più di altri autori ne ha trasmesso il significato alla cultura contemporanea, proprio a seguito di un viaggio in America e della lettura di Ihab Hassan, il critico letterario americano di origini egiziane. Gli Stati Uniti sono stati un terreno fertile e ricettivo per correnti di pensiero che hanno riflettuto la crisi della cultura Europea e la crisi della modernità, come ad esempio la psicoanalisi, che si è diffusa anche in ambiente accademico con largo anticipo rispetto all’Europa che pure è il luogo in cui ha avuto origine. Allo stesso modo si spiega la fortuna oltreoceano del pensiero filosofico decostruzionista francese, del pensiero della differenza, e quindi anzitutto la diffusione degli scritti di Foucault, Derrida, Lyotard, Deleuze, Félix Guattari, Jean Baudrillard. VII. Il teatro postdrammatico Lehmann significativamente considera tra gli artisti più rappresentativi del teatro postdrammatico lo statunitense Robert Wilson, e individua la sua specificità, anche rispetto ad altri come ad esempio il polacco Tadeusz Kantor o il tedesco Klaus Michael Grüber, nella capacità di fare teatro con l’utilizzo della piena potenzialità del nuovo linguaggio dei media. Quello che Lehmann riconosce infatti come distintivo del teatro postdrammatico, anche rispetto alle Avanguardie Storiche e alle neoavanguardie è l’uso delle nuove tecnologie. La vera cesura rispetto al teatro drammatico si realizza, secondo il teorico tedesco, solo con i nuovi media che cominciano ad essere utilizzati pienamente a partire dagli anni 70; e il teatro che precede questa cesura, anche nelle intenzioni antidrammatiche, a suo giudizio rimane comunque ancorato a stilemi e metodi del teatro drammatico. Nella definizione di Lehmann, la peculiarità del teatro postdrammatico, collocato tra gli anni 70 e 90 del Novecento, è la non dominanza del testo, che è invece ridimensionato in uno degli aspetti della disposizione

153 Per una comprensione del postmoderno come fenomeno americano si veda Carravetta 2009.

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Mito e teatro

scenica, come suo elemento, come sua sfera o “materiale”154. Di contro, il teatro drammatico si qualifica per il primato del testo, per la subordinazione dell’evento scenico al testo. Se per Brecht il teatro da cui prendere le distanze e opporre il teatro epico è il teatro drammatico, Lehmann osserva come il teatro postdrammatico sia però un teatro post-brechtiano. Alla luce dell’evoluzione del teatro successivo all’esperimento epico, Lehmann afferma che nel teatro di Brecht “si è realizzato un rinnovamento e un compimento della drammaturgia classica”, perché di fatto rimane solido il principio fondante del teatro drammatico, più volte rivendicato dal regista e drammaturgo tedesco, ossia la vicenda: “la favola rimaneva per lui la chiave di volta del teatro”155. Quindi la soluzione epica proposta da Brecht, che abbiamo visto è ricompresa come dialettica dopo l’esperienza della guerra e dell’esilio, non è risolutiva e non rappresenta il compimento delle intenzioni rivoluzionarie dell’Avanguardia Storica. E significativamente, Lehmann osserva che coloro i quali hanno sostenuto come definitiva la soluzione epica di Brecht nella riforma del dramma, Peter Szondi e Roland Barthes anzitutto, abbiano totalmente ignorato quella linea del nuovo teatro che, partita da Artaud, è passata per Grotowski e il Living Theatre e può essere tracciata fino ad arrivare a Robert Wilson. Per questo è fondamentale pensare il teatro contemporaneo come un tentativo di porre una sintesi di queste due correnti che hanno Artaud e Brecht come capofila. Ciò che costituisce la vicenda, il nucleo del dramma, è secondo l’analisi di Lehmann, quanto viene teorizzato da Aristotele nella Poetica: la μίμησις πράξεως, l’imitazione dell’azione che deve essere realizzata secondo regole precise, ossia con un inizio, uno svolgimento e una fine distribuiti nel tempo in modo tale che la peripezia ha uno sviluppo che si conclude nella catastrofe finale. Questo schema, codificato nella teoria delle tre unità – che si è visto essere più che altro una lettura moderna del dettato aristotelico – e ricondotto all’ideale della visione d’insieme è secondo Lehmann frutto della razionalizzazione operata da Aristotele coerentemente all’intento del pensiero logico filosofico. Per cui, se prima di Aristotele il teatro in quanto rappresentazione visiva (ὄψις) è il regno dell’accidentale, con la condanna platonica che ne consegue, “dopo Aristotele si attribuisce al logos drammatico l’instaurazione della logica alle spalle dell’illusione fallace. La drammaturgia fa quindi apparire le ‘leggi’ dietro le apparenze”156. La complicità

154 Lehmann [1999] 2002, p. 20. Tutte le citazioni tratte da questo testo sono tradotte a cura di chi scrive. 155 Lehmann [1999] 2002, p. 44. 156 Lehmann [1999] 2002, p. 58.

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tra dramma e logica e poi tra dramma e dialettica – intesa nel senso hegeliano del termine – ha dominato senza interruzione nel teatro europeo che è stato di conseguenza profondamente improntato alla tradizione aristotelica. Lehmann osserva che questa complicità è stata così serrata da portare a un rapporto di equivalenza tra teatro e dramma e l’esclusione di altre realtà teatrali, oltre che l’occultamento della comprensione del fenomeno teatro in tutta la sua complessità. E non solo ha portato l’esclusione del teatro contemporaneo ma anche di quello che definisce “predrammatico” perché, smascherata la fallacia dell’identità tra dramma e teatro, assieme al postdrammatico, a smarcarsi dal teatro drammatico è anche quello predrammatico, ossia la tragedia greca: La tragedia antica, i drammi di Racine e la drammaturgia visiva di Wilson sono, certamente, delle forme di teatro. Ma si può dire – se ci si basa sull’accezione moderna del dramma – che la prima è di natura ‘predrammatica’, che i drammi di Racine sono indubitabilmente del teatro drammatico, e che le ‘opere’ di Robert Wilson devono essere qualificate come postdrammatiche157.

Lehmann non entra qui nel merito della peculiarità del teatro predrammatico, semplicemente lo qualifica come altro e storicamente precedente rispetto al teatro drammatico: questo è il confine oltre al quale si collocano sia il teatro drammatico che il teatro postdrammatico. Però a partire dalla dichiarazione di questi confini non può non porsi inevitabilmente anche una interrogazione su ciò che possono avere in comune le due forme di teatro, quella predrammatica e quella postdrammatica, nello smarcarsi entrambe dal teatro drammatico. Come ha osservato Nancy, Aristotele viene dopo la tragedia158: è il teorico e in qualche modo lo storico della tragedia perchè la analizza alla distanza di un secolo circa dalla sua nascita. Oggi, quello che si può evincere della tragedia greca ci viene anzitutto dalla lettura dell’unica cosa che è rimasta, ossia il testo; ci viene dall’analisi della drammaturgia, così come si è tentato di fare nella prima parte del volume, con la consapevolezza – tutta contemporanea – di avere a che fare con un frammento di una realtà che doveva essere molto più articolata e di osservarla da una posizione ben situazionata, obbligata a servirsi di un ‘pre’ e un ‘post’, denunciando in questo modo il limite invalicabile da cui è possibile osservare. Lehmann afferma che “solo la costellazione degli elementi decide alla fine dei conti se un momento stilistico può essere considerato come ineren157 Lehmann [1999] 2002, p. 45. 158 Cfr. Nancy 2010b.

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te a un’estetica drammatica o postdrammatica”159. È quindi la relazione con cui vengono composti gli elementi che concorrono a formare una creazione teatrale a essere determinante per il discrimine tra le due modalità teatrali; ciò significa che il criterio distintivo pertiene in ultima analisi al meccanismo del montaggio, come struttura elementare di composizione e organizzazione dei singoli elementi. Ed è proprio la forma della costellazione a qualificare lo strutturarsi degli elementi nel teatro postrammatico, lì dove le parti sono organizzate in modo tale da spezzare la logica, i legami necessari con cui era costituito il teatro drammatico e in particolare lo svolgimento della vicenda come mimesis praxeos, la descrizione narrativa e fabulatrice del mondo realizzata grazie ai mezzi della mimesis secondo la lezione aristotelica filtrata da Lehmann. Allora la costellazione viene a sostituirsi alla narrazione. Il teatro postdrammatico secondo Lehmann si è progressivamente costituito come “una successione di tappe nell’autoriflessione, la decomposizione e la separazione degli elementi del teatro drammatico”160. Queste tappe si possono leggere nel passaggio dalle Avanguardie Storiche alle neoavanguardie degli anni 50 e 60 fino alle esperienze postdrammatiche proprie della fine del XX secolo. Quello che viene sgretolato, come ha notato Longhi, è proprio la tensione all’unità e alla totalità unificata che il dramma ottemperava nel rispetto delle regole di composizione delle vicende trasposte sulla scena. Nel teatro postdrammatico non si cerca più di realizzare sulla scena la totalità coerente di una composizione costituita da parole, suoni, gesti, azioni ma questi elementi vengono riorganizzati secondo un montaggio che tende alla frammentazione e si smarca dal criterio di sintesi unitaria propria del dramma. Viene meno quindi la volontà di sviluppare una vicenda oppure viene relegata in secondo piano e, al posto della vicenda, la categoria del nuovo teatro è “la situazione”, “l’insieme dinamico”. In questo contesto la percezione risulta aperta, frammentata, esplosa in modo tale che “la sintesi è detronizzata”161. La scena, nel suo insieme, sembra più che altro ricordare il sogno, proprio per l’assenza di gerarchia nella composizione delle immagini, dei movimenti e delle parole. Il sogno allora, come eredità del surrealismo, è il modello per eccellenza di un’estetica teatrale non gerarchica perché “costituisce una tessitura che assomiglia al collage, al montaggio, al frammento, ma non allo svolgimento logicamente strut-

159 Lehmann [1999] 2002, p. 32 160 Lehmann [1999] 2002, p. 69 161 Lehmann [1999] 2002, p. 128

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turato degli avvenimenti”162. Di conseguenza, le gerarchie son stravolte in modo tale che la rappresentazione è sostituita dalla presenza; l’esperienza trasmessa è sostituita dall’esperienza condivisa; è più importante il processo del risultato; la manifestazione piuttosto che la significazione e l’impulso energetico piuttosto che l’informazione163. Questi rovesciamenti implicano ulteriori caratteristiche inerenti al teatro postdrammatico quali la paratassi, la giustapposizione di segni, ossia il legame ipotattico tra gli elementi che genera una percezione sinestetica e non gerarchizzata nella subordinazione ad uno di essi; la simultaneità dovuta proprio al carattere frammentario della significazione scenica e alla parcellizzazione della percezione, di modo che si crea un doppio legame: “nello stesso tempo, bisogna concentrarsi sul particolare concreto e allo stesso tempo percepire la totalità”164. Caratteristica ulteriore del rapporto che si instaura tra gli elementi della complessità scenica è di essere simile a una partitura musicale, non intendendo con questo un teatro musicale ma un “teatro come musica” dove si genera “una semiotica uditiva”165. Allo stesso modo, la drammaturgia si definisce “visiva”, di modo che le sequenze e le corrispondenze, i nodi e i punti in cui si concentra la percezione della costruzione delle significazioni sono definiti a partire da dati ottici166. Altro aspetto importante che accomuna le creazioni teatrali postdrammatiche è quello che Lehmann definisce “l’irruzione del reale”167, aspetto che ha di fatto la sua origine nella critica dell’illusione scenica, del fittizio con cui esordiscono le avanguardie, e quindi di riflesso come critica al concetto di mimesis, di imitazione del reale. Qui il reale non è imitato, riprodotto ma è un elemento essenziale per la composizione dell’evento teatrale. Il teatro postdrammatico per primo ha esplicitato il ruolo del reale come “coautore” permanente a livello pragmatico e non solo teorico. Il che non significa negare la funzione fittizia del teatro, ma utilizzare il reale in modo differente da come era utilizzato nel teatro drammatico. Si tratta di un utilizzo “autoriflessivo” nella consapevolezza che: Rappresentazione e presenza, gioco mimetico e performance, rappresentato e processo rappresentativo: di questo binomio, il teatro del presente, tematizzando radicalmente e accordando al reale la stessa legittimità del fittizio, ha guadagnato un elemento centrale del paradigma postdrammatico. Non è tutta162 163 164 165 166 167

Lehmann [1999] 2002, p. 131. Lehmann [1999] 2002, p. 134. Lehmann [1999] 2002, p. 138. Lehmann [1999] 2002, p. 143. Lehmann [1999] 2002, p. 147 Lehmann [1999] 2002, p. 157.

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via l’apparizione del ‘reale’ in quanto tale, ma il suo utilizzo autoriflessivo che caratterizza l’estetica del teatro postdrammatico168.

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La consapevolezza, tutta novecentesca, che permette una significazione diversa del reale sta infatti nel valore di verità e legittimità che viene attribuito al fittizio, a quello che era precedentemente screditato in virtù di un reale più reale. E una delle conseguenze di questo nuovo aspetto è spesso “il malessere per l’indecidibilità di sapere se si tratta di realtà o finzione”169. La coautorialità con il reale ha infatti l’effetto di rendere questo teatro liminale rispetto ad altre forme artistiche e/o politiche come l’happening e la Performance Art. VIII. Robert Wilson* L’importanza di Robert Wilson per la definizione del teatro postdrammatico è cruciale, e lo è anche in virtù delle origini americane. Una influenza fondamentale nella sua poetica è stata l’opera di Gertrude Stein che non a caso Lehmann considera come riferimento drammaturgico rilevante per comprendere l’istanza antinarrativa propria del teatro postdrammatico. Wilson è giudicato il regista ideale per la realizzazione scenica delle opere teatrali e non di Stein, ignorate o considerate a lungo non trasponibili sulla scena. A permettere l’affermazione di questa ‘filiazione’ è lo stesso Wilson che dichiara come la lettura di The Making of Americans lo abbia portato a fare teatro170. Stein con il termine di Landscape Play introduce l’idea che il teatro, la scena e il testo sono da intendersi come paesaggio, ossia esprime la volontà di rapportarsi al teatro, a quanto si realizza sulla scena, sia dal punto di vista dell’autore che dello spettatore, come si trattasse della contemplazione di un parco o di un paesaggio. Significativamente, lo scrittore e drammaturgo americano Thornton Wilder, amico di Stein, autore di prefazioni ai suoi libri e influenzato anch’esso nella scrittura teatrale dall’opera The Making of Americans, spiega l’assimilazione da parte di Stein del teatro al paesaggio riportandola alla dimensione del presente propria del mito: “Un mito non è una storia che si legge da sinistra a destra, dall’inizio alla fine, ma una cosa che si ha 168 Lehmann [1999] 2002, p. 162. 169 Wilder citato in Lehmann [1999] 2002, p. 160 * Una versione precedente di questo paragrafo e del successivo è stata pubblicata in Sacco [2011] 2012a. 170 Cfr. Lehmann [1999] 2002, p. 126.

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costantemente davanti agli occhi. Può essere ciò che voleva dire Gertrude Stein quando pensava a una pièce di teatro come un paesaggio”171. La dimensione del presente come propria del mito è allo stesso tempo la dimensione del presente che Wilder afferma come paradosso del teatro: “sul palco è sempre ‘ora’: i personaggi sono sempre in piedi sul quel rasoio-bordo, tra il passato e il futuro, che è proprio dell’essere coscienti; le parole salgono alle loro labbra in una spontaneità immediata”172. Il teatro contemporaneo e postdrammatico ha voluto catturare proprio questo presente, cercando di metterlo in scena. Così il principio del “continuo presente”, ossia gli intervalli di tempo presente che condensano nell’attimo il passato e il futuro, reso nella scrittura di Stein, trova concretizzazione sulle scene con l’annullamento sia della narrazione drammatica o storica che di protagonisti definiti o personaggi identificabili con nettezza. Allo stesso modo, la forma come giustapposizione di elementi collocati simultaneamente in uno spazio in modo tale da permetterne l’osservazione da prospettive variabili è quanto il teatro postdrammatico ha cercato di rendere sulla scena per mezzo del meccanismo del montaggio. Ed è anche quanto Stein legge espressa nel cubismo e vede riflessa sia nel paesaggio americano, quando per la prima volta lo osserva dall’alto di un aeroplano, sia nella ‘forma’ della “composizione” della Grande Guerra – che in Picasso non esita a definire “cubista”173 – come principio di distruzione che definisce la forma propria al Novecento174. Lehmann definisce il teatro di Wilson “neo-mitico”175, intendendo per miti le immagini che fanno parte del “cosmo immaginario” e non sono portate sulla scena nella loro consistenza di azioni ma “con la loro logica pre-razionale” e come immagini virtuali che si offrono alla vista e alla sensibilità piuttosto che al racconto. Sono immagini mitiche indifferentemente Medea o Prometeo, Einstein o Freud, piuttosto che Stalin o Faust, tutte figure che compaiono in forme diverse nei suoi spettacoli e tutte riassorbite nel contesto virtuale di un catalogo d’immagini della storia dell’umanità, che sembra fungere, come ha osservato Marranca176, da immenso archivio a cui attingere a piene mani. Anche Frédéric Maurin, tra gli interpreti più acuti di Wilson, considera la sua opera “una

171 172 173 174 175 176

Lehmann [1999] 2002, p. 95. Wilder 1956, p. 25. Stein [1938] 1959, p. 21. Cfr. Kern [1983] 1988, pp. 368-396. Lehmann [1999] 2002, p. 124. Cfr. Marranca [1996] 2006.

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delle principali mitologie artistiche dei nostri tempi”177. Si comprende ulteriormente questa accezione di mitico se si intende il teatro immagine di Wilson come indicativo del montaggio del visuale proprio dell’epoca contemporanea, perché di fatto il metodo dell’artista americano si realizza, come ha osservato Maurin, attraverso un vero e proprio “pensare in immagini”178. È attraverso il montaggio di immagini che Wilson assembla elementi eterogenei e compone le sue opere. Anche una sola immagine è considerata un elemento mitico e in quanto tale di per sé già una ‘storia’. In occasione di una intervista l’artista americano dichiara che l’ideazione di un’opera comincia dalla definizione dello spazio e della struttura con cui viene composta la scena: la prima cosa che faccio quando penso a una pièce sono i diagrammi della scena. È quello il mio punto di partenza. Una volta stabilito il mio spazio la storia è narrata. Per esempio basta mostrare una sala di corte e la cosa essenziale è detta, perché sei già di fronte a una situazione mitica179.

VIII. I. Einstein on the Beach Coerentemente alla notazione sulla irrilevanza della narrazione posta da Lehmann come segno distintivo del teatro postdrammatico, lo spettacolo che più di altri ha segnato un punto di svolta fondamentale nella storia del teatro musicale e non solo e nella carriera artistica di Wilson: Einstein on the Beach180 non intende raccontare una storia e in particolare la storia del famoso scienziato. Esempio originale di teatro musicale andato per la prima volta in scena al Festival d’Avignone nel luglio del 1976, lo spettacolo, pur utilizzando elementi che rimandano alla biografia di Albert Einstein (dal titolo dello spettacolo che nasce dalla suggestione di una sua fotografia su di una spiaggia, ai costumi usati in scena che riprendono dettagli del suo modo di vestire, alla sua figura impersonata da un violinista e molti altri dettagli tratti dalla sua vita), intende essere un’opera che, senza raccontarne trama e vicende, sia un “ritratto”, come l’ha definita Philip Glass che ne ha composto la musica. Per cui molti elementi utilizzati rimandano ad 177 Maurin [1998] 2010, p. 11. Tutte le citazioni tratte da questo testo sono tradotte a cura di chi scrive. 178 Maurin [1998] 2010, p. 87. 179 Wilson in Adnan 1976, p. 18. 180 Sulla ripresa italiana dello spettacolo il 24 e 25 marzo del 2012 al Teatro Valli di Reggio Emilia si veda Sacco [2011] 2012a.

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Einstein, ma sono usati con libertà e aperti a un’ulteriorità di senso che la forma conchiusa di una vicenda biografica avrebbe potuto imbrigliare. Lo stesso approccio è stato utilizzato da Wilson per altre figure storiche a cui ha dedicato alcune opere, ad esempio The Life and Times of Sigmund Freud o The Life and Times of Joseph Stalin. Di fatto, la creazione di tutti i suoi spettacoli sin dall’inizio della carriera procede secondo una modalità modulare, ripetendo, riprendendo e ampliando in ogni nuovo spettacolo i motivi affrontati in quelli precedenti, di modo da creare una continuità. Si tratta dello stesso pensiero che si rivela di volta in volta nella poetica specifica di ciascuna differente opera, e che Wilson spiega con la metafora eraclitea del fiume, diverso in ogni suo punto ma sempre lo stesso fiume181, svelando in questo modo l’assunto del suo creare pensato a immagine del divenire, dove l’immagine è il fondamento del divenire. Per questo si potrebbe applicare il termine di genealogia allo sviluppo delle opere di Wilson, perché si tratta di vere e proprie filiazioni, dove un elemento utilizzato nel contesto di un’opera ricompare modificato, variato, nel contesto di un’altra opera. La continuità modulare tra le opere fa sì che molte osservazioni riferibili ad uno spettacolo in particolare possano valere in generale per tutta la sua poetica, ma ciò non toglie che Einstein on the Beach segna, in continuità con le prime esperienze databili dal ’65, un passaggio importante per la compiutezza della sua poetica. In Einstein on the Beach la sperimentazione sullo spazio e il suono va a completare quella sul tempo e la visione a cui era approdato con i lavori precedenti. Se la storia di Einstein non è quanto Wilson intende raccontare, la sua immagine è però evocativa della rivoluzione del modo di intendere lo spazio e il tempo di cui è stato portavoce; rivoluzione che, di riflesso, vuole essere rappresentata in scena come trasformazione del modo di intendere e vivere lo spazio e il tempo del teatro distintiva della poetica del regista statunitense rispetto al teatro che lo ha preceduto. Come ha osservato Maurin: Nella simultaneità o successione, il montaggio dei tempi equivale certamente a una illustrazione del tempo – ma di un tempo eterogeneo, differenziale, prodotto in funzione di ogni movimento e del suo spazio di visibilità. Al tempo astratto, assoluto, omogeneo e meccanico come lo concepiva Newton, segue in Wilson un tempo instabile, irregolare: lo stesso che ha messo a nudo Einstein e che il regista può giocare a interrompere, a lavorare a invertire o a far scomparire secondo i suoi bisogni”182.

181 Wilson in Adnan 1976, p. 19. 182 Maurin [1998] 2010, p. 49.

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Il tempo si spazializza, si offre come uno spazio da costruire, viene pensato esclusivamente rispetto a esso, e il ritmo che regola i movimenti degli attori, così come la musica, è creato rispetto allo spazio. Questo aspetto è illustrato metaforicamente anche attraverso dettagli che compaiono in scena: gli orologi al polso degli attori non mostrano il tempo e ugualmente gli altri orologi collocati in scena; sono orologi senza lancette oppure con lancette che si muovono all’inverso, o orologi che impiegano venti minuti per segnare un’ora. Il senso di questo tempo è soprattutto agito nello spazio attraverso le coreografie dei movimenti degli attori che si alternano nella polarità tra lentezza e velocità. Ad esempio, alla lentezza della prima immagine che appare nella prima scena del primo atto, ossia l’immagine di una locomotiva che avanza impercettibilmente dal fondo della scena, si giustappone il movimento veloce e carico di energia di Lucinda Childs che dal proscenio disegna una diagonale composta da otto passi in avanti e otto passi indietro: l’effetto è tale che “la diversità dei tempi si sovraimprime sulla scena, i tempi diversi si urtano nella percezione”183. Lo slow motion è considerato un elemento essenziale nel teatro di Wilson perché rivelativo di una percezione dello spazio e del tempo diversa da quella canonica; una percezione che comunque il regista statunitense rivendica come espressione di una temporalità naturale, nel senso di aderenza ai ritmi della vita quoridiana, del vissuto di tutti i giorni. Gli esperimenti sul ralenti nascono nei suoi primi lavori teatrali dall’osservazione di persone portatrici di handicap, e gli permettono di comprendere e riprodurre sulla scena i meccanismi di una percezione diversa. L’attenzione per una percezione altra sembra la costante nei primi lavori e conferma l’esigenza da parte di Wilson di appropriarsi di un codice diverso di percezione del reale, come bagaglio fondamentale per la costruzione della sua poetica; si pensi anzitutto al caso di Raymond Andrews, il ragazzo sordomuto che appare in The Deafman Glance, ma anche al caso schizoide di Cindy Lubar in Ouverture, o a Francine Felgeirolle in The Life and Time of Joseph Stalin, o alla balbuzie di Christopher Knowles in A letter for Queen Victoria. Sono tutti casi in cui Wilson scopre una percezione sensoriale distinta dalla comprensione verbale che nella normalità è preponderante. Ad esempio l’atrofia del tempo, che è resa dal ralenti del movimento, ha l’effetto di provocare l’ipertrofia dello sguardo; come afferma Wilson: “più gli attori si muovono lentamente, più si vedono cose”184. È evidentemente questa percezione che ha un rapporto diverso con il tempo e lo spazio a interessarlo e indurlo a portarla in scena. 183 Maurin [1998] 2010, p. 45. 184 Wilson citato in Mourin [1998] 2010, p. 21.

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Un altro elemento fondamentale nella poetica di Wilson è l’uso della ripetizione e della variazione. La stessa struttura dello spettacolo, che si è visto essere la base su cui si costruisce il tutto ed è pensata e resa da subito in immagini, è costruita sulla ripetizione e variazione. “Io comincio da una forma – afferma Wilson – anche prima di sapere l’argomento. Comincio da una struttura visiva e all’interno di questa forma, conosco il contenuto”185. La struttura elementare di base, è concepita anche come un edificio – Wilson significativamente ha abbandonato gli studi di architettura per dedicarsi al teatro – e viene riempita di contenuti scelti secondo meccanismi associativi, che si dispongono nella griglia di partenza. Così Einstein on the Beach si struttura in quattro atti, della durata di un’ora circa ciascuno, inframmezzati da cinque Knee Plays, o giunture (letteralmente “scene ginocchio”), della durata di circa dieci minuti che inquadrano ogni atto e danno nell’insieme l’idea che l’opera nella sua interezza sia pensata come un organismo, come l’anatomia di un corpo. Ciascun atto si compone di due scene eccetto il quarto e ultimo atto che è composto da tre; nel corso dei diversi quadri che formano questa struttura, tre elementi costituiti da immagini emblematiche o tipi di ambiente-immagine, ossia un treno, un tribunale e un campo-macchina spaziale si alternano e ripetono per tre volte trasformandosi via via. La struttura è modulare secondo il ripetersi, l’accorparsi e l’alternarsi dei numeri 1-2-3. Di modo tale che nei primi tre atti i tre elementi si ripetono due volte con alternanze e combinazioni di ambienti interni ed esterni: così il treno (1), il processo (2) e il campomacchina spaziale (3) si dispongono nell’ordine 1-2 (nel primo atto), 3-1 (nel secondo atto), 2-3 (nel terzo atto), andando a formare in successione la serie 1-2-3/1-2-3. Infine nel quarto atto ricompaiono tutti e tre gli elementi però trasformati. Gli elementi che compongono gli atti, nel ricomparire nelle scene, inducono ogni volta a un mutamento della prospettiva, per cui nella prima scena il treno appare avanzare lentamente dal fondo da destra verso sinistra, nella seconda scena invece si intravede la coda del treno allontanarsi rispetto a una stazione; il tribunale che appare frontalmente nella prima scena con accanto un letto è sezionato nella seconda dove appare per metà come prigione; il campo è attraversato da un’astronave-macchina del tempo che attraversa lo spazio e nella seconda scena si avvicina in primo piano; nella terza scena gli elementi che tornano sono trasfigurati: il treno è trasformato in un edificio che ne mantiene i contorni, il tribunale è sostituito interamente dal letto che prima gli stava accanto e si trasfigura ulteriormente 185 Wilson citato in Mourin [1998] 2010, p. 87.

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all’arrivo dell’astronave-macchina del tempo di cui si intravede l’interno. Si assiste in questo modo a una metamorfosi di tutti gli elementi sempre riconoscibili però nel progressivo differire. I Knee Plays tra un atto e l’altro costituiscono le giunture o le articolazioni della struttura, fungendo sia da taglio che da sutura quindi appartenendo a pieno titolo alla struttura e però destabilizzandola al tempo stesso: rispetto all’opera totale possono introdurre un principio di discontinuità, d’alternanza e di specularità186. La struttura dello spettacolo quindi si definisce come ha osservato Maurin attraverso “una dialettica spazialista con il divenire, attraverso un ritmo temporale che nasce, come una tavola visiva, dai rapporti di equilibrio e di simmetria, di disequilibrio e d’asimmetria tra differenti unità costitutive”187. Infatti, oltre alla polarità lentezza/velocità anche la polarità ripetizione/variazione ha l’effetto di rovesciare l’ordine strettamente cronologico del tempo. Ciò non toglie che le immagini utilizzate, quali il treno o l’astronave, avessero nelle intenzioni di Wilson anche un valore storico rispetto alla vita di Einstein, indicando “in qualche modo la misura della durata della sua vita”188, quindi il treno come mezzo di trasporto ai tempi dell’infanzia dello scienziato e l’astronave come emblema dello sviluppo della tecnologia al momento della morte. Allo stesso modo il disco nero che ricopre un quadrante di un orologio con due luci alle estremità del diametro intende riferirsi per analogia all’eclissi di luna che nel 1919 ha confermato la teoria della curvatura dello spazio formulata dallo scienziato. Gli eventi storici, i dettagli accaduti realmente sono così trasfigurati nel prodotto artistico in entità mitico-poetiche. Come ha osservato Maurin, non si tratta tanto di immagini della storia ma “di immagini tagliate della storia”, per cui nella creazione interviene il decoupage, il taglio, l’estrazione del dato, del fatto storico che viene ricollocato in un nuovo contesto, e per questo trasfigurato poeticamente. Maurin per rendere significanti i rapporti di corrispondenze e variazioni dei motivi che si dipanano nella visione d’insieme dell’opera si rifà a LéviStrauss e all’idea dei “fasci di relazioni” che regolano la struttura dei miti; così alla logica lineare discorsiva si sostituisce il tempo dello spettacolo “che si organizza secondo la struttura ‘sincro-diacronica’ propria dei miti”189. Sulla scena si assiste a un ripetersi e variare di motivi che, anche rispetto alla resa scenica di azioni propria del teatro drammatico o alla narrazione di

186 187 188 189

Mourin [1998] 2010, p. 104. Mourin [1998] 2010, p. 87. Wilson citato in Maurin [1998] 2010, p. 92. Maurin [1998] 2010, p. 93.

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eventi (la mimesis praxeos), può essere spiegato come un processo di “metamorfosi” come lo ha definito Lehmann. Le ripetizioni e variazioni trasportano lo spettatore in un “universo immaginario fatto di trasformazioni, d’ambiguità e di corrispondenze”190 in cui realtà uguali ed eterogenee vengono collegate in una pluralità di piani. In un cosmo inteso come mitico, come il microcosmo degli spettacoli wilsoniani, non c’è termine migliore per rendere il senso del movimento e della trasformazione della forma che quello di metamorfosi. Come “il fenomeno precede la narrazione”191 allo stesso modo, si può affermare, sempre con Lehmann, il carattere fenomenico delle opere di Wilson, l’aspetto morfogenetico in cui cogliere e catturare il trasformarsi della forma. Wilson compara esplicitamente il suo teatro ai processi naturali; la vita che intende portare in scena è parte della molteplicità cosmica, in un’idea di cosmo in cui non è affermata la divisione tra spazio e tempo, soggetto e oggetto, e lo spazio non è concepito secondo un apriori kantiano, implicito nella visione newtoniana ed euclidea, ma è un pullulare di processi, è saturo di dispersioni, diffrazioni, variazioni. Anche le parti costitutive dell’opera sono chiamate da Wilson con una terminologia pittorica e naturalistica: i Knee Plays corrispondono a dei “ritratti” perché si compongono di oggetti o persone in primo piano; le scene in cui compare il treno o il processo sono intese come “nature morte” perché si collocano in una profondità di campo intermedia; e le scene di danza e i movimenti degli attori nello spazio sono “paesaggi”, perché utilizzano tutto lo spazio del palcoscenico e sfruttano tutta la profondità di campo. A questi tre tipi di spazio corrispondo inoltre tre gradi di intensità espressiva del gesto che va da un’intensità minima a una media a una massima. Einstein on the Beach è totalmente costruito sulla combinazione di strati vocali, musicali e verbali realizzati secondo le stesse modalità di ripetizione e variazione progressiva, per cui accade che una stessa scena è ripetuta in momenti diversi e atti diversi dello spettacolo con minime variazioni. Ad esempio il movimento di Lucinda Childs lungo la diagonale si ripete, ma spostato rispetto al punto spaziale in cui veniva fatto prima, o un’azione viene ripetuta quasi identica salvo qualche variazione nei movimenti, o un suono si ripete ma leggermente modificato. Anche la drammaturgia – che Marranca ha definito “del testo disperso”192 poiché si tratta più che altro di brandelli di testo che vengono cantati o parlati sparsamente da qualche personaggio – si struttura secondo lo stesso trattamento, ossia si sviluppa 190 Lehmann [1999] 2002, p. 120. 191 Lehmann [1999] 2002, p. 125. 192 Marranca [1996] 2006, p. 248.

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nella ripetizione di una stessa frase che può progressivamente addizionarsi di parole; si tratta di parole che fungono da unità sonore, che valgono come atomi di materialità fonica amalgamandosi al suono e al movimento. Il senso della ripetizione in Wilson sta tutto, come ha colto Maurin, nella funzione “di dire o mostrare lo stesso diversamente, di dire o mostrare l’altro dello stesso; in breve, di salvare la differenza dallo scoglio della ridondanza”193. Nella ripetizione si riverbera il rapporto tra l’unità e la molteplicità. Si tratta della stessa funzione e significato della ripetizione utilizzata nella scrittura di Stein: nel “presente continuo” un oggetto o un personaggio è mostrato nella sua identità da prospettive ogni volta differenti. È anche il senso della famosa espressione “a rose is a rose is a rose” secondo cui una rosa può essere rossa per la prima volta dopo un secolo di poesia inglese; espressione che quindi non è da intendersi come una conferma del principio logico dell’identità di una cosa con se stessa quanto, al contrario, l’affermazione del riverbero della novità, della sua identità vivente, nella ripetizione e variazione continua. L’iterazione, afferma Maurin, ha il potere di “cristallizzare l’essenza” e questo però avviene nello spostamento continuo, per cui questa essenza è ogni volta differente poiché l’istante con il quale coincide non è mai lo stesso. Secondo Stein nella ripetizione, come nell’insistenza che qualifica il movimento della vita, ogni volta c’è una differenza perché si colloca ogni volta nel presente, in un presente che è ogni volta differente. La rosa si dice ogni volta nella differenza, garantisce la ripetizione, è ciò che sposta e differisce continuamente l’identità ontologica, ed è ciò che acuisce la differenza precisa di ogni fenomeno. Allora è la novità ciò che Wilson cerca nella ripetizione: cerca l’effetto della resistenza e del decentramento percettivo mettendo ogni volta in gioco l’identità di quanto viene ripetuto. Questo vale per l’opera intesa nel complesso, come ripetizione e variazione di scene nel passaggio da un atto all’altro, e vale per ciascun elemento che compone la scena, dalla musica alla coreografia. Senza entrare nello specifico della particolarità della musica di Glass definita minimalista o postminimalista, si può riconoscere come la sua struttura compositiva segua gli stessi meccanismi della struttura drammaturgica. Per cui il materiale elementare di base seguendo il processo di ripetizione e variazione del processo additivo e ciclico, dà vita a sequenze in continua trasformazione che danno il senso del movimento e del divenire; l’effetto di staticità dato della ripetizione è solo apparente: secondo lo stesso Glass la “musica non si ripete mai, ma cambia per tut-

193 Maurin [1998] 2010, p. 119.

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to il tempo”194. E di riflesso, anche per ciò che concerne la coreografia, a seconda della prospettiva viene di volta in volta colta la variazione di uno stesso elemento. Bisogna aggiungere che gli elementi che concorrono alla creazione dell’opera nella sua globalità, sia che si parli di Einstein on the Beach o di altre creazioni wilsoniane, pur essendo concepiti insieme, secondo una corrispondenza che li riconduce tutti alla struttura primaria, dall’altra sono elaborati e sviluppati separatamente per poi ritrovarsi infine congiunti solo nel momento ultimo della messa in scena. Il principio affermato da Wilson a sostegno di questo programma compositivo è che quando le forme artistiche sono pensate separatamente, pur convergendo in una stessa opera, sono esaltate nella loro differenza con l’effetto di rendersi reciprocamente più percettibili. Per cui il paradosso è che la relazione tra le forme che compongono l’opera sta tutta nel non porle organicamente in relazione. Se i termini in questione sono l’immagine e il suono costruiti indipendentemente, accade che “la vista non sconfina nell’udito né l’udito sconfina sulla vista: si vede di più e meglio; si sente di più e meglio”; “la dualità, la rottura, la differenza acutizzano la percezione, là dove la ridondanza, l’unità, la somiglianza la smusserebbero”195. IX. Mythos: mimesis praxeos e opsis Alla luce dell’analisi fatta sul caso esemplare wilsoniano risulta evidente come questo tipo di creazione teatrale risponda bensì ai parametri definiti da Lehmann nel connotare il teatro postdrammatico, ossia anzitutto nel non riprodurre la struttura di una vicenda: la mimesis praxeos e nell’essere espressiva di una pura visibilità: l’opsis, ma risulta altrettanto evidente che questa creazione risponde comunque alla strutturazione di un ordine. Se il teatro drammatico è il modello precedente, la sua ‘distruzione’ provoca certamente a uno stato di caos rispetto alla perdita delle coordinate fino ad allora accettate indiscutibilmente, ma al caos corrisponde in realtà un nuovo ordine, caotico nella misura in cui risulta diverso dal precedente. L’opera di Wilson è indicativa di come l’opsis, la visione, sia attivata e composta secondo delle regole che ne definiscono la struttura e queste regole rispondano al meccanismo del montaggio. La frammentarietà con cui si qualifica l’opera postdrammatica, spesso intesa in un’accezione negativamente caotica, elude solo in apparenza il principio della mimesis 194 Glass citato in Maurin [1998] 2010, p. 124. 195 Maurin [1998] 2010, p. 148.

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praxeos: nello spettacolo di Wilson i Knee Plays sono elementi di frattura, di intervallo, ma allo stesso tempo sono elementi di sutura, di relazione e collegamento. La frammentazione è un processo ambivalente, nella separazione e nell’intervallo c’è al tempo stesso la coordinazione, la relazione, il collegamento, il dialogo tra le parti: in questa duplicità sta il principio del montaggio. E questo stesso principio è riconoscibile all’opera sia nella drammaturgia antica, in cui si vuole leggere in azione il meccanismo della mimesis praxeos, che in quella postdrammatica in cui si vede concretizzato l’opsis. Jacques Rancière riflette sull’apparente sovvertimento attuato dal cinema della gerarchia che privilegia il primato dell’intreccio – della favola intesa in senso aristotelico, come concatenarsi di azioni necessarie e verosimili che presiedono alla costruzione ordinata del nodo drammatico e del suo scioglimento, ossia il mythos – rispetto a quello dell’opsis, in cui il primato del visibile ha la capacità di cogliere le cose per come si danno nella pura presenza, nella singolarità incommensurabile, nella essenzialità insignificante della pura datità e passività della cosa in sé. Di fatto il cinema, attraverso il meccanismo tecnologico ottico della ripresa, ha la capacità di catturare proprio questa datità, la passività del visibile e la pura potenzialità della materia sensibile. Il cinema porta alle estreme conseguenze le intenzioni di destituzione del vecchio ordine mimetico, quello della rappresentazione, che sono state affermate per la prima volta dall’Avanguardia Storica. E infatti Lehmann colloca lo scarto tra il teatro drammatico e quello postdrammatico solo a seguito dell’acquisizione nel teatro delle tecnologie dei novi media, che producono un uso potenziato dell’immagine. Nel cinema sembra compiersi il rovesciamento della condanna platonica della mimesis che opponeva l’intelligibile al sensibile, perché nel sensibile filmico dell’immagine, nella composizione per montaggio delle sue immagini, si realizza l’identità tra l’ideale e il reale. E però Ranciere nota come lungi dal destituire realmente l’ordine che regolava il regime della rappresentazione artistica “la giovane arte cinematografica non si è limitata a riallacciare i rapporti con la vecchia arte del raccontare storie, ma ne è divenuta il più fedele guardiano”196. E questo non avviene solo esclusivamente per questioni meramente economiche, per cui le sceneggiature dei film hollywoodiani improntate sulla favola secondo la logica della mimesis praxeos vendono di più e ne giustificano la realizzazione, ma anzitutto in virtù di una profonda coappartenenza tra mythos e opsis. Una coappartenenza che si fonda sulla condivisione della stressa struttura compositiva 196 Rancière [2001] 2006, p. 12.

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elementare di base, ossia il montaggio. Allora l’opsis, la pura visibilità, il darsi sensibile della cosa non contraddice l’intreccio narrativo, il mythos, ma ne è la sua parte costitutiva, il suo complementare. Ciò che qualifica la loro apparente differenza è una questione di prospettiva, si tratta, come scrive Rancière, di osservare lo stesso fenomeno da due punti di vista differenti, ossia di vedere l’infinitamente piccolo (il particolare, il materiale) piuttosto che l’infinitamente grande (l’ideale come tipo, come sintesi del molteplice), o di riconoscere all’opera nell’uno come nell’altro il medesimo meccanismo basilare del montaggio, al di là della diversa combinazione che può regolare la connessione o sconnessione tra le parti. Rancière assimila e supera la lezione deleuziana sostituendo l’opposizione tra l’immagine-movimento e l’immagine-tempo con l’alternanza tra il montaggio dialettico e il montaggio simbolico. Deleuze ha affermato l’opposizione tra l’immagine-movimento, con cui si costruiscono solidi impianti narrativi, e l’immagine-tempo, in cui l’immagine è rivelativa del divenire degli eventi del mondo e rompe l’intreccio narrativo; e significativamente ha osservato l’emergenza della seconda dalla prima a seguito dell’evento catastrofico della Seconda guerra mondiale, ossia di quella crisi che ha fatto esplodere e frammentare la logica intrinseca dell’immagine-movimento197. Secondo Rancière questa opposizione è fittizia e “il loro rapporto è piuttosto quello di una spirale infinita”198. Affermare l’opposizione significa negare la dialettica costitutiva del cinema o il suo paradosso, ossia l’identità tra due prospettive contrarie: “l’unione dell’occhio passivo automatico della macchina da presa e dell’occhio cosciente del cineasta”199, e quindi il darsi della cosa in sé nella sua datità insignificante, nella casualità del suo accadere, e la sua collocazione rispetto a una trama di relazioni con altre datità, secondo un disegno, una volontà. Bisogna invece riconoscere, grazie all’acquisizione della consapevolezza cinematografica, che l’immagine ha uno statuto duplice e paradossale: da un lato vale come potenza liberante, forma pura e puro pathos che sopprime l’ordine classico dei concatenamenti di azioni funzionali, delle storie. Dall’altro, essa vale come elemento di legame che compone la figura di una storia comune. Da una parte essa è una singolarità incommensurabile, dall’altra è un’operazione di messa in comune200. 197 198 199 200

Cfr. Deleuze [1983] 2010, pp. 234-244. Rancière [2001] 2006, p. 168. Rancière [2001] 2006, p. 166. Rancière [2003] 2007, p. 66.

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Fatto questo debito riconoscimento, si tratta allora di pensare a due modalità diverse attraverso cui l’immagine è accostata per mezzo del montaggio ad altre immagini e che giustifichino la differenziazione tra la mimesis praxeos e l’opsis. Queste due modalità per Ranciere sono il montaggio dialettico e il montaggio simbolico201 di quella che, diversamente da Deleuze, individua come la “frase immagine”. Questa non è l’unione tra una sequenza verbale e una forma visiva ma “l’unione di due funzioni da definire da un punto di vista estetico, vale a dire attraverso il modo in cui esse disfano il rapporto rappresentativo del testo nei confronti dell’immagine”202. La frase immagine travolge la logica dello schema rappresentativo secondo cui a un testo che definiva il concatenamento ideale delle azioni seguiva il supplemento dell’immagine che gli dava corpo e consistenza. Per cui in questo rovesciamento la funzione-frase è sempre quella del concatenamento, ma “la frase ormai concatena solamente in quanto essa è ciò che dà corpo”, “come frase essa accoglie la potenza paratattica respingendo l’esplosione schizofrenica”. La virtù della frase-immagine è quella di una sintassi paratattica, e questa sintassi “si potrebbe anche chiamare montaggio”, il montaggio come “misura del senza misura, o disciplina del caos”203. Allora la maniera dialettica: investe la capacità caotica nella creazione dei piccoli marchingegni dell’eterogeneo. Frammentando dei continui e allontanando termini che si richiamano o, all’inverso, avvicinando degli eterogenei e associando loro degli incompatibili, essa produce degli choc204.

Diversamente, la maniera simbolista: mette in rapporto gli eterogenei e costruisce piccoli dispositivi per il montaggio di elementi senza rapporto gli uni con gli altri. Ma essa li mette insieme secondo una logica inversa. Essa si occupa di stabilire tra gli elementi estranei una familiarità, un’occasionale analogia, testimoniando di una più fondamentale relazione di co-appartenenza, di un mondo in cui gli eterogenei sono rinchiusi in uno stesso tessuto essenziale, suscettibili sempre di assemblarsi secondo la fraternità di una nuova metafora205.

201 202 203 204 205

Cfr. Rancière [2003] 2007, pp. 93-107. Rancière [2003] 2007, p. 81. Rancière [2003] 2007, p. 83. Rancière [2003] 2007, p. 93. Rancière [2003] 2007, pp. 94-95.

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Si tratta quindi di due forme diverse attraverso cui il montaggio, lo stesso principio di strutturazione, disciplina il caos. Ne consegue che sostenere la postdrammaticità come negazione della mimesis praxeos implica attribuire al mythos una logicità che appartiene invece pienamente solo al logos – al pensiero logico come identità di una cosa con se stessa, come consequenzialità sillogistica, come principio di causalità – e non riconoscere nella struttura del mythos la tramatura del meccanismo del montaggio che non risponde a quella logicità. La categorizzazione proposta da Lehmann risulta allora collocarsi all’interno dell’acquisizione indebita che il logos ha fatto del mythos, riconducendolo alla propria logicità; con la conseguenza che, nel momento in cui il pensiero ‘postrammatico’ o ‘postmoderno’ vuole sottrarre al mythos questa logicità per affermare l’opsis, non può che negarlo tout court. Il pensiero contemporaneo può invece salvare il mythos se ne riconosce la coappartenenza rispetto all’opsis. X. Peter Sellars Significativamente, nell’elenco stilato da Lehmann di artisti e compagnie teatrali che a pieno titolo rientrano nel teatro postdrammatico manca un nome importante: Peter Sellars. Questo avviene evidentemente nell’ottica dello studioso tedesco in virtù del fatto che il regista statunitense fa uso delle narrazioni, o meglio fa liberamente uso o meno del testo e fa indistintamente uso di testi classici e non. Personalità eclettica, Sellars spazia dalle produzioni internazionali del teatro lirico, il teatro musicale, e il teatro di prosa all’animazione teatrale in situazioni marginali, socialmente problematiche; si confronta spesso con i classici, la tragedia greca ma non solo, e fa liberamente uso dei nuovi media. Storicamente viene poco dopo la sperimentazione avanguardistica di Wilson, ed avendo cominciato a lavorare dagli anni 80 si colloca artisticamente a pieno titolo negli anni 90 fino a oggi. È proprio dagli anni 90 che nel teatro si regista la tendenza a tornare al testo dopo l’elaborazione dell’esperienza della ‘drammaturgia visiva’ che ha avuto la massima diffusione tra gli anni 70 e 80. Secondo Valentina Valentini, la seconda ondata di artisti americani – che comprende per fare qualche esempio: John Jesurun, Robert Lepage, il Wooster Group – prende le distanze dalla precedente per effetto di una reazione, generalizzata negli Stati Uniti, al conformismo dell’arte e della cultura degli anni 80, al cinismo e yuppismo post-avanguardistico nati a loro volta dal rifiuto dell’im-

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pegno totale della generazione degli artisti della neo-avanguardia206. In sostanza si tratta come ha osservato anche Bonnie Marranca di un rifiuto di un certo formalismo disimpegnato, e, in qualche modo, di un ritorno, per quanto diverso, all’impegno politico che aveva caratterizzato le neoavanguardie degli anni 60 e 70. E non a caso Peter Sellars, interrogato sulla sua considerazione del nuovo teatro americano risponde di aver visto Einstein on the Beach cinque volte, di ammirare la grandezza di Wilson ma di non apprezzarene troppo il formalismo che manca, a suo giudizio, di “presenza morale”207. Di fatto Wilson e Sellars si collocano ai due poli che danno forma al mythos: la mimesis praxeos e l’opsis. Wilson in occasione di un’intervista, alla domanda sull’affermazione di un giudizio morale su Stalin relativamente all’opera The Life and Time of Joseph Stalin, risponde appellandosi alla sospensione del giudizio, evidentemente al di là del bene e del male: “No. Guarda Ivan il terribile di Ejzenštejn. Non ti vien fatto di dire quanto è malvagio. Lo è e basta. Tutto diventa scenico e non giudichi più, guardi e basta”208. Questo è il regime della pura visibilità, dell’opsis, dove si annulla il giudizio per far emergere la crudezza della cosa in sé. Sellars di contro non vuole annullare il giudizio e quanto intende mettere in scena sono storie, o non storie, che hanno la capacità di comunicare un senso morale. Entrambi sono americani ed entrambi rivendicano influenze comuni nella loro formazione, a partire da Gertrude Stein con cui Sellars condivide la città d’origine, Pittsburgh in Pennsylvania, e ha condiviso la casa parigina nella quale il regista diciottenne ha trovato ospitalità. Quello di Sellars è un teatro politico; il teatro è “un dialogo con il testo e fra gli attori, è una conversazione sempre aperta tra persone che collaborano”209. L’arte teatrale di cui vuole essere portavoce “è cambiamento” e con questo intento segue la via aperta da Brecht che assieme a Mejerchol’d è tra i principali riferimenti nella sua formazione. Sellars in particolare, anche rispetto a Wilson, rivendica continuamente le sue origini americane, la sua nazionalità, e questo proprio perché il suo teatro è consapevolmente connotato politicamente. Il contesto in cui si fa teatro è un aspetto imprescindibile per il regista statunitense; dovendo essere un luogo di confronto e condivisione, è fondamentale in esso riuscire a “dare forma a una esperienza comune”210, e ciò può avvenire solo sulla base di 206 207 208 209 210

Valentini 1999, p. 63. Sellars in Pomarico 1999, p. 80. Wilson in Adnan 1976, p. 20. Sellars in Pomarico 1999, p. 79. Sellars in Marranca [2004] 2006, p. 149.

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una conoscenza profonda della realtà in cui si agisce. Sellars lavora con artisti americani e crea le sue produzioni negli Stati Uniti nella convinzione che il teatro debba “fondare le sue radici sulla sua infanzia, sul suo futuro condiviso, sul suo passato in comune”211. Porta nel mondo le sue opere consapevole del filtro culturale americano che propone alle altre culture, e cosciente di metterlo al tempo stesso continuamente in discussione. Il teatro richiede la comunicazione e il dialogo perché “riporta sempre alla questione della democrazia”212. Questo aspetto è centrale nella poetica di Sellars che non si stanca mai di dichiarare il debito che il teatro contemporaneo dovrebbe riconoscere con la tragedia greca. Nell’ottica del regista statunitense, il teatro dovrebbe ritrovare la funzione per cui è nato, perché è stato “una delle prime pietre miliari nella storia dell’istituzione della democrazia” che “forniva ai cittadini l’informazione di cui avevano bisogno per votare, facendo loro udire voci che normalmente non ascoltavano”213. E come modello di riferimento per il teatro contemporaneo, assieme al potere visivo del teatro greco, Sellars rivendica anche “il potere acustico” e “lo spazio sonoro, spazio d’ascolto” proprio del teatro antico che era pensato, anche in funzione di questo, in termini architettonici. In questo spazio sonoro, in questa struttura pubblica che contempla un posto per ogni cittadino, trovano collocazione le voci che sono ignorate nei centri di potere, perciò il teatro è il luogo fondante della democrazia. Il proprium del teatro secondo Sellars è la condivisione dello spazio, e questa peculiarità lo distingue profondamente dal cinema; è fondamentale tenere conto di questo aspetto nel momento in cui si considera la trasformazione che il teatro ha subito nel Novecento a seguito dell’influenza dei nuovi media. Il teatro è sì il luogo della visibilità ma è anche il luogo della condivisione e questo aspetto, secondo Sellars, ne sancisce anche la priorità: Nel teatro tante persone si riuniscono in uno spazio che alla fine della serata non è né il ‘mio’ spazio né il ‘tuo’ spazio, ma uno spazio condiviso dove si ha un’esperienza condivisa, dove i confini sono dissolti. Per il cinema non è così: il film ha il proprio spazio e il pubblico, a sua volta, ha il suo; è uno spazio mentale perché lo spazio fisico non è lo stesso. Quindi per me la ragione per cui il teatro ha la priorità è proprio la condivisione214.

211 212 213 214

Sellars in Marranca [2004] 2006, p. 148. Sellars in Marranca [2004] 2006, p. 144. Sellars in Marranca [2004] 2006, p. 144. Sellars in Sacco [2011] 2012b, p. 41.

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L’affermazione della natura intrinsecamente democratica del meccanismo teatrale sembra derivare anche dalla consapevolezza dell’artista del valore fondante che la democrazia ha per cultura americana. Quell’idea di democrazia che proprio rispetto all’antico modello greco ateniese è stata parte costitutiva del mito di fondazione della cultura e della politica americana; a questo proposito Sellars è molto esplicito: L’America è stata fondata con molta consapevolezza su dei principi ateniesi, nel tentativo di capire la democrazia ateniese, e con altrettanta consapevolezza le strutture del nostro governo si sono basate sui modelli di Atene, sui testi classici. Non è a caso che in America l’ufficio postale abbia i capitelli corinzi, o la Casa Bianca un’architettura che si rifà alla classicità greca. Queste cose non sono a caso: ci siamo costruiti nell’immagine di Atene e su quella che era la promessa della democrazia ateniese. Per me i testi greci sono fondanti del mio paese, non fondanti di un qualsiasi altro paese: per me hanno un significato personale. E credo che lo abbiano avuto anche per Jefferson e Franklin che hanno anche dibattuto a lungo su questi temi, cercando di tirarne fuori un futuro, cosa che non era stata possibile nell’Atene di Pericle, che infatti è collassata215.

Ed è rispetto al costante pericolo del collasso della democrazia o al pericolo della sua crisi, del suo misconoscimento che Sellars impronta l’azione del suo teatro. Si tratta di un’azione politica, ma anche di un’azione estetica e culturale, per cui, rispetto alla politica intesa in senso stretto, la finalità non è quella di ottenere nell’immediato un qualcosa, ad esempio la riforma di una legge, ma di agire in profondità, per mirare a una trasformazione che avviene nel tempo, attraverso le generazioni e con delle conseguenze a lungo termine. E questo, secondo Sellars, è il proprium della dimensione artistica in cui si colloca il teatro216. Anche relativamente alla natura eminentemente poietica del teatro, Sellars afferma che il suo lavoro implica “la creazione di un autentico sistema mitologico, in cui risuonino una serie di immagini, e che permetta a una certa società di parlare a se stessa”217. Si comprende questa affermazione se si considera che nel teatro di Sellars il visivo e auditivo sono considerati inscindibili e il significato della parola mito è ricondotto all’accezione del ‘dire gli universali’ coniata da Aristotele, filosofo a cui di frequente il regista fa riferimento. E il mito è ugualmente ricondotto al significato personale dell’esistenza singola, e alla vicenda incarnata individualmente dal personaggio teatrale in cui “risuona” il valore universale. Il concetto di 215 Sellars in Sacco [2011] 2012b, p. 45. 216 Cfr. Marranca [2004] 2006, p. 151. 217 Sellars in Shewey 1984, p. 24.

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risonanza, che ricava dalla conoscenza dell’uso del suono nel teatro Nō218, è indicativo per Sellars dell’importanza della musica per il teatro al punto da fargli affermare tra i due una perfetta equivalenza o – che è lo stesso – di non essersi mai occupato di prosa in vita sua219. Per questo considera l’Opera il genere teatrale da privilegiare, perchè se l’utilizzo della musica da un lato ha una formulazione completamente astratta – gli artisti cantano note e il cantante non è confuso col ruolo che impersona – dall’altra implica anche una identificazione emozionale totale, e questi due aspetti sono simultanei, implicando al tempo stesso distanziamento e immediatezza emotiva220. Per questa stessa ragione afferma anche che la poetica brechtiana è stata redenta dalla musica e che la musica implica di per sé un effetto di straniamento. L’Opera è da privilegiare in un’epoca in cui la questione dei rapporti e delle interazioni tra le cose è centrale: Per la sua dimensione multilingue, multiculturale, multimediale, per il suo aspetto diacronico, dialogico, dialettico, per quel strano diletto che provoca, è la sola forma capace di evocare e di rappresentare la simultaneità degli eventi, la loro confusione, la loro giustapposizione, l’amara tragedia del mondo – in breve, tutto il caos che costituisce la trama della storia contemporanea221.

Sellars intravede così nell’Opera, che è stata continuamente reinventata nel corso delle epoche fino ad arrivare alla contemporaneità, la tragedia greca analizzata da Aristotele nella Poetica per il fatto di essere una sintesi ibrida composta da musica, danza, poesia, pittura e spirito civico. Ed è l’amore per l’Opera che lo ha portato ad occuparsene di frequente e a essere il più delle volte iconoclasta rispetto alla tradizione consolidata del genere. X. I. Tra storia e mito In qualità di creatore di miti Peter Sellars si cimenta nel mettere in scena indifferentemente fatti storici o trame raccolte dal repertorio dei classici. È interessante notare come la modalità con cui opera sulle trame, in un caso come nell’altro, sia di fatto il medesimo meccanismo poetico: una trasfigurazione dell’evento storico in mito e una ricollocazione della vicenda mitica in un contesto storico. Il presupposto di fondo che giustifica questo intervento è la concezione temporale che Sellars attribuisce al teatro, in cui 218 219 220 221

Cfr. Sacco [2011] 2012b. Cfr. Delgado 1999, p. 28. Cfr. Trousdell 1991, pp. 67-70. Sellars [1989] 2003, p. 16. Traduzione a cura di chi scrive.

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sussistono due cornici temporali: “abbiamo la cornice temporale di generazioni, di centinaia di anni, di voci di antenati e abbiamo il tempo di un istante”222. Anche per Sellars probabilmente il termine genealogia potrebbe essere il più indicato per rendere il senso di questa coincidenza di passato e presente che il teatro incarna; una temporalità che si è visto è espressa dalla forma dell’aoristo. Il tempo del teatro è il tempo presente, quel “momento in cui – afferma Sellars – io sono qui e voi siete là. È un momento esatto, preciso, sempre. Il teatro non può fare che il presente. Ma quello che è interessante, è che parla del passato e del passato nel presente”223. Allora questa frizione di passato e presente la si può osservare tratteggiando sinteticamente alcuni casi esemplari di messe in scena operistiche di eventi storici: Nixon in China la cui prima è del 1987 a Houston, The Death of Klinghoffer andata in scena nel 1991 a Bruxelles e I Was Looking at the Ceiling and Then I Saw the Sky, la cui prima è del 1995 a Berkeley. Tutte e tre – che nell’insieme costituiscono per certi versi una trilogia – sono costruite su vicende della, relativamente recente, storia americana e trasposte sulla scena per il loro portato mitico. Create tutte con l’apporto della musica minimalista del compositore John Adams, affrontano ciascuna in modo differente gli stessi temi: il ruolo dei media nella cultura americana; il rapporto tra culture differenti; il rapporto tra umanità ed eroismo224. In Nixon in China è portato in scena il viaggio del presidente Richard Nixon a Pechino nel 1972: il focus si concentra tutto sull’incontro, di capitale importanza per le vicende della storia mondiale, tra il presidente americano e Mao Tse-tung. Sellars intende mettere in discussione “la deviazione ipermediatica dell’era reaganiana” e per far questo si serve esplicitamente di immagini di repertorio, immagini che la stampa ha immortalato pilotando l’immaginario collettivo. Queste immagini sono fedelmente riprodotte con un gioco che lavora sulle proporzioni e sul montaggio; il fine è rendere l’evidenza del loro impatto mediatico e della loro funzione nella costruzione della storia mitizzata, in modo tale da smascherare la loro artificialità e metterele così profondamente in discussione. Allo stesso modo il confronto per contrappunto dei due personaggi e le rispettive mogli, oltre a evidenziare la differenza tra culture differenti se non opposte, intende ridimensionare le loro figure in una realtà più umana, più intima che si rivela alla fine essere il tratto comune ai personaggi e di riflesso all’Oriente e all’Occidente. 222 Sellars in Marranca [2004] 2006, p. 161. 223 Sellars in Picon 2003, p. 119. 224 Cfr. Liéber 2003, p. 81.

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In The Death of Klinghoffer viene messo in scena il dirottamento della nave da crociera “Achille Lauro” da parte di terroristi palestinesi avvenuto nel 1985 e in cui viene ucciso l’ostaggio Leon Klinghoffer, cittadino americano, ebreo e disabile. La prima va in scena il 19 marzo del 1991 a Bruxelles, e accade che le vicende storiche di quel periodo si intrecciano tragicamente con la rappresentazione: il clima politico è teso a causa dalla guerra del Golfo, che coinvolge gli Stati Uniti e l’Iraq, in cui è implicata anche la questione palestinese. Le repliche rischiano di essere posticipate a causa di alcune minacce di attentato e vengono alla fine decentrate in un luogo lontano dal Théâtre Royal de la Monnaie in cui erano destinate, come era avvenuto per la prima rappresentazione225. Anche in questo caso si tratta di un evento storico che ha avuto un impatto mediatico molto forte e ha come protagonisti, inversamente rispetto a Nixon in China, delle persone comuni che si scoprono eroi. Sellars non intende mettere in scena la vicenda che invece preferisce dispiegare solo per lampi attraverso la giustapposizione di piani multipli; la scena non è evocativa dell’imbarcazione o di un luogo preciso e connotato; nelle intenzioni del regista c’è la volontà di creare “un paesaggio spirituale”, perché si tratta di un “dramma essenzialmente religioso”; allora lo spazio sembra riprodurre “una cattedrale, piuttosto che una moschea, o una prigione, oppure una gigantesca tela di ragno, o ancora un vascello fantasma”226. Il luogo geografico in cui si compie la vicenda, al largo del porto del Cairo, stimola l’argomento dell’opera, perché si tratta di una delle culle delle grandi religioni monoteiste: giudaismo, cristianesimo, islam e il focus tematico è proprio il conflitto tra questi universi religiosi. Pensata sul modello delle Passioni di Johann Sebastian Bach in cui il coro si alterna alle arie dei personaggi, l’opera si sviluppa con un utilizzo importante del coro, i cui interventi sono sempre in contrasto con le scene a cui si rivolgono: come scarto rispetto all’azione i cori fungono allora da legame tra l’avvenimento puntuale e la dimensione naturale e sacra del mondo227. Il principio del contrasto interviene anche nel recitativo dei personaggi costruito secondo “un montaggio complesso di voci multiple”: l’aria di ciascun personaggio è interrotta dagli interventi di altri personaggi, dislocati secondo temporalità differenti, per cui, ad esempio, al racconto di un avvenimento vissuto in diretta se ne sovrappone un altro vissuto al passato. Lo stesso meccanismo si realizza con la danza, e si tratta, dichiara Sellars, di mettere in scena la 225 Cfr. Liéber 2003, p. 94. 226 Liéber 2003, p. 95. 227 Cfr. Liéber 2003, p. 97.

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“nozione di vite multiple: vita privata, vita pubblica, vita quotidiana sulla superficie degli avvenimenti; vita spirituale, vita meditativa all’interno della memoria come una sorta di sogno”228. I Was Looking at the Ceiling and Then I Saw the Sky andato in scena nel 1995 ha come riferimento storico il terremoto di Los Angeles che proprio l’anno precedente ha messo in ginocchio la metropoli. A differenza degli altri lavori, si tratta di una commedia musicale, di una “polifonica love story” come l’ha definita Adams nel comporla. Nello spettacolo l’intenzione di Sellars è di mettere in scena le varie reazioni all’evento naturale da parte delle diverse etnie che abitano l’universo violento della California e sono incarnate da sette giovani di Los Angeles. Vicende amorose, questioni razziali, e di identità sessuale, problematiche legate all’immigrazione e all’integrazione, conflitti con l’autorità e il potere sono osservate attraverso la lente d’ingrandimento provocata dell’evento catastrofico che come un deus ex machina accade improvvisamente nella vita dei protagonisti trasformandola radicalmente. Il terremoto è presentato come una entità astratta che si manifesta attraverso la musica e si palesa solo in seguito visivamente attraverso la proiezione di immagini reali della distruzione; allora di fronte a questa visione accade che i protagonisti si mettono profondamente in questione. In tutti questi casi le vicende storiche realmente accadute sono state trasfigurate in miti, in favole per svelarne il senso universale rispetto a un’umanità molto diversificata; il processo per certi versi inverso, ma con la stessa finalità, avviene nei casi in cui Sellars si confronta con i classici. Un esempio è la messa in scena nel 1993 dei Persiani di Eschilo di cui il regista statunitense non si preoccupa di modificare in parte la trama ambientandola nel contesto della guerra del Golfo. Si assiste quindi a una proiezione reciproca della tragedia di Eschilo nelle vicende contemporanee della guerra e viceversa, con un intervento consistente sul testo fatto dal drammaturgo Robert Auletta, spesso al fianco del regista statunitense. L’aspetto fondamentale dell’approccio ai classici di Sellars è che non si tratta tanto di desumerne la trama adattandola a un altro contesto storico, ma di servirsi dei meccanismi con cui le trame sono intessute; quindi nel caso della tragedia greca sono le categorie strutturali rese anzitutto in ambiguità e rovesciamenti prospettici ad essere in vario modo restituite in scena. Sellars rifiuta il termine ‘adattamento’ per qualificare il lavoro che fa sui classici: l’adattamento è uno strumento, un mezzo, ma non il fine ultimo

228 Sellars citato in Liéber 2003, p. 98.

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della messa in scena. In questo senso si giustifica anche l’uso dei classici rispetto ad ambientazioni culturali americane, perché come afferma Sellars: Sofocle, Mozart, Shakespeare scrivevano per l’America! Sono tutti americani! Scrivevano specificatamente per il mio Paese: stranamente, scrivono del Paese ‘più potente’, scrivono di potere, di come funziona il potere e l’America è, oggi, il Paese al mondo che sta vivendo proprio l’esperienza di cui scrivono loro229.

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La tragedia greca per Sellars è fondamentale per cogliere il rapporto tra individuale e collettivo: in Sofocle, in Eschilo, abbiamo un cambiamento di scala, che mostra come il destino di un individuo sia il destino di una nazione. […] Il teatro spiega che la decisione di un individuo, su come vivere o non vivere la propria esistenza, forma il clima e la temperatura morale di una nazione, influisce sulla direzione politica e il temperamento di un’epoca230.

Con The Persians Sellars intende mostrare quello che gli americani non hanno saputo e non hanno visto della guerra del Golfo perché distolti dalla manipolazione televisiva dell’evento. Il testo non riproduce un’azione drammatica, il dialogo sembra dissolto dagli effetti della disfatta militare, e si compone essenzialmente di quattro monologhi-lamentazioni della durata di una mezz’ora ciascuno intervallati dalle immagini televisive trasmesse dagli schermi in scena. Vengono presentati dei montaggi, della durata di tre minuti ciascuno, di spezzoni di réportage fatti dalla CNN sulla guerra del Golfo: si crea così un contrappunto tra la lunghezza e la profondità di contenuto dei monologhi e la brevità e superficialità del format televisivo. L’idea di fondo che muove l’operazione di Sellars è giocata nel contrappunto tra visibile e invisibile; l’intenzione è quella di mostrare la storia come non è stata comunicata nella sua realtà, di mostrare quanto nella guerra e della guerra non si è visto, quindi quello che per primi i militari americani ignoravano nel condurre la guerra e quello che la popolazione comune ignorava per responsabilità dei media. Il meccanismo eschileo del rovesciamento di prospettiva nel far parlare il nemico, che si è osservato nello specifico della drammaturgia del tragediografo, è quindi mantenuto da Sellars: oltre che nel dare la parola agli iracheni nei quattro monologhi, il rovesciamento prospettico è provocato anche nel mostrare quanto è stato nascosto o ca229 Sellars in Sacco [2011] 2012b, p. 44. 230 Sellars 1999, pp. 91-92. Queste affermazioni risalgono al 1989, fatte in occasione di un convegno internazionale sul Teatro Greco Antico a Carnutum, in Austria.

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muffatto dalla superficialità del discorso mediatico. Ma altri rovesciamenti di prospettiva vengono ulteriormente agiti in scena: ad esempio in un dialogo muto tra l’ombra di Dario incarnata in scena da un attore che parla con il linguaggio dei segni e la vedova Atossa; dialogo che viene ripreso al microfono da un coro nascosto alla vista del pubblico, secondo un’operazione che David Lescot definisce di “incarnazione demoltiplicata”231, ossia di dissociazione del personaggio per manifestarne soprattutto la complessità e sfaccettatura. Tale quadro, e il dialogo che ne emerge, è pensato da Sellars come evocativo del dramma psicologico-familiare nello stile di una pièce di Eugene O’Neill, con l’effetto di ricondurre la coppia ‘straniera’ in una dimensione piccolo-borghese tipicamente americana: i ‘nemici’ sono così dipinti con immagini comuni al pubblico americano232. Il tema dell’immigrazione e del rifugio politico spesso affrontato da Sellars è al centro della messa in scena di un testo di Euripide: i Figli di Eracle. È interessante fare riferimento a questo spettacolo per il frangente storico rispetto a cui si colloca: Sellars decide di lavorarci dopo l’attacco terroristico alle Twin Towers avvenuto l’11 settembre del 2001. Il regista dichiara di essere stato spinto ad occuparsene poco dopo l’accaduto dalla persona che segue la produzione dei suoi spettacoli, Diane Malecki che, sulla scia del tragico evento, suggerisce di cancellare tutta la produzione prevista da lì agli anni seguenti e di fare “un lavoro che parli di quello che sta succedendo in America oggi”233. Le domande scaturite dalla tragedia dell’11 settembre mettono profondamente in questione l’identità della nazione americana che si ritrova a definirsi nel rapporto di confronto e scontro con l’altro, con il nemico; sono domande che interrogano sui limiti, le frontiere e i confini. Ma identità, alterità e confini si costruiscono nella capacità di sostenere un dialogo con l’altro; dopo l’11 settembre, afferma Sellars: “ti chiedi con chi non abbiamo buone relazioni, con chi dobbiamo stabilire relazioni migliori, con chi dobbiamo approfondire un dialogo, chi dobbiamo capire di più, con chi dobbiamo aprire più canali di comunicazione”234. Per una nazione che è nata da immigranti e composta da immigrati secondo Sellars è inconcepibile pensare lo straniero come nemico; allora la vicenda di Euripide, in cui si narra dei profughi – i figli di Eracle – che dopo la morte del padre vengono perseguitati dal tiranno di Argo e cercano rifugio presso la superpotenza di allora che è Atene, diventa

231 232 233 234

Cfr. Lescot 2003, pp. 314-317. Cfr. Lescot 2003, p. 323. Sellars in Marranca [2004] 2006, p. 146. Sellars in Marranca [2004] 2006, p. 147.

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una occasione per affrontare la questione. Lo spettacolo è stato messo in scena sia negli Stati Uniti che in Europa ed è stato di volta in volta ripensato e ricreato rispetto al contesto in cui si collocava, composto sempre da differenti comunità di immigrati, e rifugiati politici di varie nazionalità. L’aspetto più rilevante è che in ogni contesto in cui viene messo in scena, lo spettacolo comincia con un dibattito, quindi con una situazione reale in cui delle persone si incontrano, si confrontano e raccontano le loro vicende cominciando così a conoscersi. Solo dopo il dibattito si entra nel testo di Euripide, che è ampiamente riscritto – si tratta di una versione del 1953 curata da Ralph Gladstone – secondo “un americanismo da inizio guerra fredda, alla Eisenhower”, frammentato e per questo molto televisivo ma efficace per l’uso nello spettacolo. E il passaggio dal dibattito alla poesia del testo è cruciale secondo Sellars: Dopo questa prima ora, così interessante e potente, il ruolo della poesia risulta più chiaro. Capisci perché i Greci dicevano che parlare di tutto ciò solo da un punto di vista legale o economico non sia sufficiente. […] Tutto questo deve essere sollevato su un altro livello e dobbiamo discutere non solo delle leggi scritte ma anche di quelle non scritte. Dobbiamo interrogarci su questioni più alte, con un linguaggio più alto, e parlare non solo di dove siamo ma anche di dove vorremmo essere. […] È per questo che il linguaggio della pura arte è potente. Aristotele ha detto che la poesia è più importante della storia, perché la storia è quello che è successo e la poesia è quello che potrebbe succedere235.

X. II. Kafka Fragments* Sellars non si stanca mai di ripetere che la questione fondamentale del XXI secolo è come condividere il territorio e le risorse del pianeta; è la massa di persone che abbandonano le loro terre in cerca di cibo, protezione, asilo nel mondo occidentale. Il confronto tra culture diverse che si ritrovano a vivere assieme richiede di affrontare la questione della condivisione, della comunione. Per questo è un tema così ricorrente nelle sue creazioni, come lo è anche in Kafka Fragments236 andato in scena per la prima volta nel 2005 a New York. Si tratta della messa in scena dell’opera composta da György Kurtág per soprano e violino su una tessitura di frasi tratte dai diari, lettere e aforismi privati di Franz Kafka. I Kafka Frag235 Sellars in Marranca [2004] 2006, p. 159. * Una versione precedente del seguente paragrafo è stata pubblicata in Sacco 2012. 236 Si rimanda qui all’intervista già citata fatta in occasione della ripresa italiana dello spettacolo a Roma nel novembre del 2010 (cfr. Sacco [2011] 2012b).

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mente, creati tra il 1985 e il 1986 dal compositore romeno naturalizzato ungherese, sono costituiti da quaranta frammenti, divisi in quattro parti, che musicati durano da una manciata di secondi fino a sette minuti. I frammenti che il compositore seleziona dagli scritti di Kafka sembrano corrispondere per affinità allo stile aforistico che lo contraddistingue, in cui brevità e profondità fanno la qualità delle sue ricerche sul suono. Questi frammenti sono estratti dal contesto d’origine e ridisposti secondo delle costellazioni a cui Kurtág dà una coloratura esistenziale e psicologica; una certa qual rielaborazione in chiave autobiografica si legge anche nella dedica dell’opera fatta alla sua psicoanalista. I temi che emergono dalla selezione sono vari: si spazia dall’amore, il sogno, la disperazione, l’esilio, alla salvezza, gli animali, il sentiero, il suolo. Portati sulla scena i frammenti vengono cantati da un soprano e musicati da un violino, accostamento ardito, ma coerente alle sperimentazioni di Kurtág, se si pensa che il suono dello strumento risulta più acuto della voce, diversamente dal canone che invece vuole il suono più grave rispetto alla voce. Così soprano e violino si avvicendano per tessere la partitura dei frammenti, che sono scollegati come in un flusso di coscienza, ma trovano un fil rouge proprio in questo duetto di voce e suono, in cui spesso il violino gioca con le onomatopee aiutando così la ricezione del testo cantato. Ma soprano e violino sono anche personaggi: Sellars attribuisce alla prima il ruolo di una casalinga e al secondo quello di un musicista da strada. Per cui i frammenti, elevatissimi nella tensione poetica che sprigionano, vengono catapultati a terra, perché cantati dalla casalinga impegnata nelle faccende di casa. Il passaggio tra un atto e l’altro è così scandito dall’avvicendarsi della casalinga tra una tavola da stiro, un secchio, uno straccio, una ramazza, nella volontà di creare un contrasto forte tra le altezze dello spirito ma anche le passioni dell’anima e la banale realtà quotidiana. E il violino che si accompagna alla casalinga incarna, nelle intenzioni del regista, lo zingaro che, solo per strada, non ha una casa e non avrà mai una casa. Il tema del frammento è da Sellars strettamente collegato alle vicende esistenziali di Kurtág e alla sua condizione di rifugiato. Si tratta di fatto dello stesso valore che acquisisce il frammento nell’esperienza dell’esilio osservata precedentemente anche per Brecht. Kurtág più precisamente compone i Kafka Fragmente in virtù del suo essere rifugiato, avendo alle spalle l’esperienza dell’esilio a seguito della rivoluzione ungherese del 1956. La frantumazione è tutto quello che rimane della vita precedente; ovvero, come nel caso di Brecht, è l’unica forma di pensiero di cui si è capaci vivendo in una condizione precaria di esilio. E però dai frammenti c’è la possibilità di ricominciare la ricostruzione per una nuova esistenza:

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Sellars riconosce questa condizione come propria dell’esperienza degli immigrati, che ricostruiscono le loro vite e creano nuove narrative dai pezzi rotti237. I frammenti tratti dalle macerie trovano quindi nella composizione la possibilità di una nuova combinazione e di una ricostruzione; quello che vuole mostrare in scena Sellars è anche un grande meccanismo in cui vengono montati e ricomposti i frammenti dei testi di Kafka, resi leggibili su schermi alle spalle dei due personaggi e alternati a una serie di immagini proiettate di continuo. Le immagini fanno da eco o da contrappunto ai testi e raffigurano per lo più persone coinvolte in progetti di recupero, in comunità per alcolisti e tossicodipendenti: “persone che avevano la vita a pezzi ma che hanno iniziato a raccogliere i pezzi per ricostruirsi la vita”238. L’idea del frammento è intrinsecamente legata a quella di montaggio. Ne è parte costitutiva, la particella elementare e però allo stesso tempo rimanda alla composizione, all’intero senza avere la pretesa di esserlo; per questo incarna: “l’idea di una verità frammentaria” e però in grado di rappresentare la verità, perché “non pretende di essere totale, perché dice sin dall’inizio che è una comprensione parziale, e non pretende di essere l’intero”. Il frammento apre all’intervallo, all’interruzione della narrazione permessa dall’operazione del montaggio che, interrompendo il flusso normale della narrativa, lima i margini della verità, o di una particolare narrazione per sovrapporne altre. Per Sellars l’uso del montaggio è un meccanismo tanto potente perché “crea una situazione in cui guardi le cose da tante sfaccettature anziché da una sola, da tanti punti di vista differenti”. Allo stesso modo “la narrazione non è mai una singola narrazione, ossia non vi è un singolo montaggio: ma sono sempre narrazioni ‘multiple’, ovvero immagini multiple. Tutto è multiplo e dunque vi è spazio per molte narrazioni e meta-narrazioni”. Il meccanismo del montaggio è esplicitamente utilizzato in Kafka Fragments sia nella composizione di Kurtág che nella messa in scena del regista americano, e scopertamente visibile a partire dalla sua particella costitutiva elementare: il frammento. Ma il montaggio è anche il metodo con cui Sellars compone le sue opere sia che si costruiscano su vicende definite sia che non abbiano una trama compiuta, o immediatamente riconoscibile. In entrambi i casi il montaggio è cruciale, e come ha osservato lo stesso regista si tratta di un meccanismo assolutamente contemporaneo ma allo stesso tempo antico, si tratta della stessa tecnica con cui lavoravano i tragici greci:

237 Cfr. Sellars in Sacco [2011] 2012b. 238 Sellars in Sacco [2011] 2012b, p. 49.

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Sofocle creava sempre degli episodi che poi venivano tagliati e in cui inseriva il coro: in lui non vedi il dispiegarsi degli eventi nel tempo reale, c’è tantissimo che non mostra, anzi esclude. Sofocle presenta un momento molto specifico nel tempo, poi taglia in un altro momento e affianca questi due momenti nel tempo contigui: ciò ha un impatto emotivo straordinario, esattamente perché Sofocle lavora al montaggio di questi pezzi. […] Da questi momenti distribuiti nel tempo che normalmente non vengono attaccati assieme, ma che vengono connessi grazie a questa tecnica, si ottengono dei contrasti molto intensi e molto estremi. Si crea una crisi, ma anche qualcosa di più profondo, ossia la consapevolezza che tutto è connesso239.

Il frammento è divisione e congiunzione al tempo stesso, e frammento è parte nella misura in cui può valere per il tutto senza sostituirsi ad esso: nel montaggio, come ha notato Ejzenštejn, vale il meccanismo della pars pro toto. Il frammento, la parte, lo specifico è l’indicazione per sineddoche di qualcosa di più vasto, per cui, sempre secondo Sellars nella parte c’è l’incontro tra realtà condizionata e realtà incondizionata, e ancora rifacendosi alla tragedia greca: Edipo Re è una realtà condizionata: c’è quella madre, quel padre, tutto nella sua vita era basato su un certo numero di condizioni; ma d’altro canto, quello specifico gruppo di condizioni porta a una realtà incondizionata. Come esseri umani noi non sappiamo nulla di noi stessi, le specifiche condizioni di quella realtà condizionata sono un indicatore della realtà incondizionata, di una verità più grande che in qualche modo guida la verità più piccola. Quindi sei dentro a un rapporto di verità relativa, di verità condizionata, di verità provvisoria e di verità più grandi, che rimangono tali attraverso un tempo più o meno lungo e attraverso periodi della storia più lunghi e vite diverse240.

Questa frizione tra condizionato e incondizionato si gioca nel presente teatrale dove si incontrano due temporalità: il kairos si interseca con l’aion nella puntualità aoristica. Per questo Sellars afferma che la bellezza del montaggio consiste nel fatto che si contrappone un’esistenza precedente con un’esistenza che è ora: mettere due cose una accanto all’altra ha l’effetto di “scioccare attraverso il processo lungo delle loro esistenze, cattura l’attenzione proprio perché si avverte un salto nell’ordine delle cose, e non si percorre, invece, il lungo sentiero tra loro”241. Allora il frammento, il pezzo di giuntura che viene inserito “diventa quel lungo sentiero: ed è lì che ci sono i secoli, che passano tutti in un inserto, 239 Sellars in Sacco [2011] 2012b, p. 42. 240 Sellars in Sacco [2011] 2012b, p. 43. 241 Sellars in Sacco [2011] 2012b, p. 43.

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in un punto solo. Quindi tagli vengono fatti attraverso il tempo, attraverso lo spazio e attraverso il processo…”242. In questo senso si comprende anche il valore di tipicità e universalità precipitato nella particolarità del frammento. E se colleghiamo le parti attraverso giunture, questa interconnettività, insegna Sellars, si chiama poesia.

242 Sellars in Sacco [2011] 2012b, p. 43.

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Mito e teatro

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Bibliografia

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Mito e teatro

Tagliapietra 1991 Andrea Tagliapietra, La metafora dello specchio. Lineamenti per una storia simbolica, Milano 1991 Taviani 1995 Ferdinando Taviani, Uomini di scena uomini di libro. Introduzione alla letteratura teatrale del Novecento, Bologna 1995 Taxidou 2007 Olga Taxidou, Modernism and performance. Jarry to Brecht, New York 2007 Tessari 2005 Roberto Tessari, Teatro e Avanguardie storiche, Roma-Bari 2005 Trousdell 1991 Richard Trousdell, Peter Sellars Rehearses Figaro, “The Drama Review”, 129 Spring 1991 Turner [1953] 1967 Frederick Jackson Turner, La frontiera nella storia americana (New York 1953), tr. it., Bologna 1967 Valenti 1995 Cristina Valenti, Conversazioni con Judith Malina: l’arte, l’anarchia, il Living Theatre, Milano 1995 Valentini 1999 Valentina Valentini, Interculturalismo e modernismo nel teatro di Peter Sellars, in Peter Sellars, a cura di M. Delgado e V. Valentini, Catanzaro 1999 Vernant [1957] 2008 Jean-Pierre Vernant, La formazione del pensiero positivo nella Grecia arcaica (Paris 1957), tr. it., in Jean-Pierre Vernant e Pierre Vidal-Naquet, Mito e pensiero presso i Greci, Torino 2008 Vernant [1960] 2008 Jean-Pierre Vernant, Il mito esiodeo delle razze. Tentativo di analisi strutturale (Paris 1960), tr. it., in Jean-Pierre Vernant e Pierre Vidal-Naquet, Mito e pensiero presso i Greci, Torino 2008 Vernant [1969] 1976 Jean-Pierre Vernant, Tensioni ed ambiguità nella tragedia greca (Baltimore), tr. it., in Jean-Pierre Vernant e Pierre Vidal-Naquet, Mito e tragedia nell’antica Grecia, La tragedia come fenomeno sociale, estetico e psicologico, Torino 1976 Vernant [1970] 1976 Jean-Pierre Vernant, Ambiguità e rovesciamento. Sulla struttura enigmatica dell’Edipo re (Paris 1970), tr. it., in Jean-Pierre Vernant e Pierre Vidal-Naquet, Mito e tragedia nell’antica Grecia, La tragedia come fenomeno sociale, estetico e psicologico, Torino 1976 Vernant [1979] 2011 Jean-Pierre Vernant, Il soggetto tragico: storicità e transistoricità (Firenze 1979), tr. it., in Jean-Pierre Vernant e Pierre Vidal-Naquet, Mito e tragedia due. Da Edipo a Dioniso, Torino 2011 Vernant [1981] 2011

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INDICE DEI NOMI

Adams, John, 214, 216, 234 Adnan, Etel, 198n., 199n., 210n., 225 Agamben, Giorgio, 45, 225 Alberto, Magno, 59, 225 Andrews, Raymond, 200 Apollodoro, 19 Anzulewicz, Henryk, 59n., 225 Appia, Adolphe, 141, 186 Aristotele, 10, 14, 17, 18, 32, 36-38, 42, 44, 52-54, 109, 117, 148, 153, 165167, 192, 193, 212, 213, 218, 219 Aron, Robert, 154 Arp, Hans, 142 Artaud, Antonin, 5, 14, 67, 100, 154-165, 167, 174, 175, 177-184, 186, 192, 225-226, 228, 229 Artioli, Umberto, 158, 226 Ateneo, 18 Auletta, Robert, 216 Bach, Johann Sebastian, 215 Balestrini, Nanni, 152 Ball, Hugo, 142 Barale, Alice, 119n., 226 Barba, Eugenio, 177, 182, 235 Barthes, Roland, 192 Bartoli, Francesco, 158, 226 Bataille, Georges, 100 Baudrillard, Jean, 191 Beck, Gustavo, 96n., 226 Beck Julian, 177-179, 181, 183, 185, 238 Beckett, Samuel, 187 Bene, Carmelo, 188 Benjamin, Walter, 5, 76, 103, 107, 118124, 129, 134, 153, 171, 172, 226-227 Bernhard, Thomas, 14, 227 Biner, Pierre, 179n., 227

Binswanger, Ludwig, 100 Block, Aleksandr, 142 Boehm, Gottfried, 144, 227 Bordignon, Giulia, 105n., 227 Bread and Puppet Teatre, 188 Brecht, Bertolt, 5, 14, 154, 164-177, 178184, 186, 189, 192, 210, 220-227, 228, 236, 238 Breidbach, Olaf, 108, 228 Breton, André, 100 Breuer, Lee, 188 Brook, Peter, 177, 178, 180, 181, 188, 235 Bruno, Giordano, 128 Burckhardt, Jacob, 83, 86, 99, 115, 236, 239 Carandini, Silvia, 143n., 228 Cariolato, Alfonso, 163n., 228, 230 Carravetta, Peter, 191, 228 Cassirer, Ernst, 72, 109, 117, 119, 146n., 228 Centanni, Monica, 18n., 20-21n., 22, 23-26n., 29, 30, 31n., 33-36n., 48n., 148n., 166, 167n., 228, 230, 235, 236 Certeau, Michel de, 74, 75, 78, 229 Charcot, Jean-Martin, 77, 78, 229 Childs, Lucinda, 200, 203 Ciani, Maria Grazia, 19n., 228 Coccia, Emanuele, 79n., 228 Colli, Giorgio, 59n., 60n., 61, 63, 229, 236 Copeau, Jacques, 177 Copernico, Niccolò, 80 Craig, Gordon, 141, 143, 177, 186, 229 Crommelynck, Fernand, 142 Cusano, Nicolò, 128

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D’Ambrosio, Dominique, 184n., 229 Darwin, Charles, 80 Del Corno, Dario, 55, 56n., 58, 229 Deleuze, Gilles, 156, 191, 207, 208, 229 Delgado, Maria, 213n., 229, 236, 238 De Marinis, Marco, 162, 229 Derrida, Jaques, 155n., 156, 157, 162, 163, 191, 228, 230 Detienne, Marcel, 43, 229 Di Giuseppe, Riccardo, 60, 230 Didi-Huberman, Georges, 75, 76, 78, 98103, 105, 106, 108, 109, 119-122, 129, 169-172, 229, 230 Döblin, Alfred, 177 Eco, Umberto, 125-128, 130, 230 Einstein, Albert, 6, 197, 198-199, 201203, 205, 210, 236 Ellenberger, Henri F., 77, 230 Ejzenštejn, Sergej Michajlovič, 5, 13, 88, 100, 103, 107, 123, 124, 130-139, 149, 177, 210, 222, 230, 237 El Teatro Campesino, 188 Eliot, Thomas Stearns, 129, 130, 230 Eraclito, 40, 50, 158, 171 Ernst, Max, 100 Eschilo, 10, 18-23, 25, 27, 30-34, 36-39, 45, 48, 52, 61, 73, 150, 170, 216, 217, 228 Esiodo, 18, 19, 40, 48, 49, 52 Euripide, 10, 19, 61, 62n., 65, 131, 218, 219, 232, 239 Evans, Arthur, 74 Faimberg, Haydée, 77n., 230 Felgeirolle, Francine, 200 Ferraris, Maurizio, 12n., 230 Ficino, Marsilio, 92, 95, 232 Foreman, Richard, 188 Forster, Kurt W., 98n., 230 Foucault, Michel, 102, 117, 158, 161, 187, 191, 230 Franklin, Benjamin, 212 Freud, Sigmund, 11, 73-82, 85, 91, 100, 101, 102, 107, 120, 125, 127, 162, 197, 199, 230-231, 233, 235 Frinico, 37, 39

Mito e teatro Gadamer, Hans-Georg, 114, 148, 231 Galimberti, Umberto, 58, 78n., 112n., 231 Gass, William, 190 Gebser, Jean, 72n., 231 Gentili, Bruno, 145n., 231 Gibelli, Antonio, 84, 85, 123, 231 Ginzburg, Carlo, 108n., 231 Glass, Philip, 198, 204, 205n. Godard, Jean-Luc, 13, 189, 231 Goethe, Johann Wolfgang von, 12, 72, 107-119, 121, 122, 126, 128, 132, 133, 144, 147, 148, 231-232, 234, 237 Gombrich, Ernst Hans J., 101n., 105n., 114n., 232 Graves, Robert, 19, 232 Grotowski, Jerzy, 157, 164, 165, 177, 182, 188, 192, 232, 235 Grüber, Klaus Michael, 191 Guattari, Félix, 191 Guidorizzi, Giulio, 62n., 232 Guggenheim, Peggy, 185 Habermas, Jürgen, 151, 232 Hall, Edith, 184, 232, 236 Hauser, Arnold, 71, 232 Heidegger, Martin, 156 Hennings, Emmy, 142 Hillman, James, 5, 11, 12, 44, 45, 73, 79, 91-96, 100, 109, 226, 232, 236, 237 Hitler, Adolf, 169 Hofmannsthal, Hugo von, 74 Hölderlin, Friedrich, 173, 175, 180 Huelsenbeck, Richard, 142 Igino, 19 Ignazio di Loyola, 87, 88, 133 Iowa Theatre Lab, 188 Jaffè, Ainela, 82n., 86n., 233 Janco, Marcel, 142 Jarry, Alfred, 140-143, 154, 156, 225, 238 Jefferson, Thomas, 212 Jesurun, John, 209 Jhering, Herbert, 173 Jones, Ernst, 76n., 233 Joyce, James, 5, 125-131, 230, 233

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Indice dei nomi

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Jung, Carl Gustav, 5, 68, 69, 76, 77, 7995, 97, 99, 100, 104, 105, 107, 115, 116, 125, 126, 156, 158, 160, 232-234, 236, 237 Kafka, Franz, 6, 219-221 Kandinskij, Vasilij Vasil’evič, 183 Kant, Immanuel, 14, 133, 227, 235 Kantor, Tadeusz, 188, 191 Kern, Stephen, 84, 123, 197n., 233 Klee, Paul, 148, 233 Klimt, Gustav, 74 Klinghoffer, Leon, 214, 215 Knowles, Christopher, 200 Kostelanetz, Richard, 189 Kraus, Karl, 142 Kurtág, György, 220, 219-221 Lacan, Jaques, 73, 79, 233 Lauro, Achille, 215 Lawrence, David Herbert, 100 Lehmann, Hans-Thies, 188, 191-198, 203, 205, 206, 209, 234 Lepage, Robert, 209 Lepschy, Giulio, 12n., 234 Lescot, David, 218, 234 Lévi-Strauss, Claude, 53, 202 Liéber, Sophie-Justine, 214-216n., 234 Living Theatre, 5, 14, 177-186, 188, 192, 227, 235, 238 Longhi, Claudio, 142, 149-154, 187, 194, 231, 234 Loos, Adolf, 74 Lubar, Cindy, 200 Lugné-Poë, Aurélien-François-Marie, 140 Lukács, György, 147, 234 Lumière fratelli, 140 Lyotard, Jean-François, 191 Macintosh, Fiona, 184, 232, 236 Mahler, Gustav, 74 Majakovskij, Vladimir Vladimirovič, 142 Maldiney, Henri, 55, 56, 234 Malecki, Diane, 218 Malina, Judith, 177-181, 183, 185, 238 Mango, Lorenzo, 186, 234 Manhattan Project, 188 Manuzio, Aldo, 165

243 Mao, Tse-tung, 214 Marinetti, Tommaso, 140 Marranca, Bonnie, 188-190, 197, 203, 210, 211n., 212n., 214n., 218n., 219n., 234 Maurin, Frédéric, 197-200, 202, 204, 205n., 234, 236 Mazzarino, Santo, 48, 190n., 234 Mazzucco, Katia, 97n., 98n., 103n., 230, 234-235 Mejerchol’d, Vsevolod Emil’evic, 142, 177, 210 Michaud, Philippe Alain, 103, 235 Moiso, Francesco, 117, 235 Molinari, Cesare, 179n., 185, 235 Mozart, Wolfgang Amadeus, 217 Nancy, Jean-Luc, 57, 106, 107, 193, 235 Nietzsche, Friedrich, 5, 43, 53, 58, 61, 67-69, 73, 76, 77, 83, 86, 88, 90, 99, 101, 102, 107, 117, 118, 156-158, 164, 230, 233, 235, 239 Nixon, Richard, 214, 215 Nonno di Panopoli, 59 O’Neill, Eugene, 142, 218 Omero, 18, 19, 22, 45, 99n., 129, 228 Open Theatre, 188 Oudai Celso, Yamina, 74n., 235 Paltrinieri, Gian Luigi, 12n., 235 Panofsky, Erwin, 72, 235 Parmenide, 40-43, 51, 146, 225, 236 Pausania, 19 Performance Group, 188 Pericle, 212 Perrelli, Franco, 177, 178, 181, 182, 235 Philippson, Paula, 47-51, 55, 235 Picon, Sophie-Aude, 214n., 235 Pinotti, Andrea, 102, 104, 147, 236 Piscator, Erwin, 177, 181, 243 Planchon, Roger, 186 Platone, 42, 51, 53, 60, 145-147, 157, 166, 228 Plotino, 58, 60, 92, 95, 133, 232 Pollock, Paul Jackson, 185 Pomarico, Alessandra, 210n., 236 Ponte di Pino, Oliviero, 185, 236 Proclo, 58, 60

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Racine, Jean, 193 Rancière, Jacques, 206-208, 236 Reale, Giovanni, 40, 236 Reinhardt, Max, 142 Richards, Mary Caroline, 178 Ricoeur, Paul, 44, 236 Roccatagliata, Giuseppe, 78n., 237 Ruggiu, Luigi, 41n., 42n., 236 Sacco, Daniela, 73n., 81n., 91n., 94n., 97n., 145n., 164n., 196n., 198n., 211213n., 217n., 219n., 236-237 Salustio, 44, 60, 117, 230 San Francisco Mime Troupe, 188 Sanguineti, Edoardo, 139, 152, 153, 237 Sansalone, Laura, 179n., 182n., 237 Sbrilli, Antonella, 105n., 227 Schliemann, Heinrich, 74 Schopenauer, Arthur, 77 Schmitz, Hermann, 116n., 237 Schnitzler, Arthur, 74, 76 Sellars, Peter, 6, 14, 209-223, 229, 234, 235, 236, 237, 238 Severino, Emanuele, 41, 237 Shakespeare, William, 75, 141, 217 Shamdasani, Sonu, 83, 233 Shewey, Don, 212n., 237 Snell, Bruno, 56, 237 Sofocle, 19, 73, 173, 180, 217, 222, 235 Somaini, Antonio, 100n., 123n., 124n., 130n., 132n., 133-136, 237 Spedicato, Gigi, 179n. Sprengel, Peter, 110n., 237 Stanford, William Bedell, 39, 237 Stanislavskij, Konstanstin S., 88, 142, 177 Stein, Gertrude, 189, 196, 197, 204, 210, 237 Strindberg, August, 158

Mito e teatro Swoboda, Karl Maria, 74 Szondi, Peter, 192 Tagliapietra, Andrea, 60, 61, 238 Taviani, Ferdinando, 165, 238 Taxidou, Olga, 174-176, 238 Tessari, Roberto, 140, 141n., 142n., 238 Tommaso, d’Aquino, 129, 144 Trousdell, Richard, 213n., 238 Tzara, Tristan, 142 Vachtangov, Evgenij B., 177 Valenti, Cristina, 178-181n., 183, 238 Valentini, Valentina, 209, 210n., 229, 234, 236, 238 Valla, Giorgio, 165 Vercellone, Federico, 108, 228 Vernant, Jean-Pierre, 20, 21, 25, 36-40, 43, 48, 52-55, 58, 62, 63, 64n., 65, 66n., 238-239 Gian Battista Vico, 53, 92, 128, 233 Virgilio, 19, 87 Vitrac, Roger, 154 Warburg, Aby, 5, 83, 86, 97-107, 108, 114, 119, 129, 134, 135, 160, 171, 225, 226, 228, 229, 230, 232, 235, 236, 239 Wedekind, Frank, 142 Wilder, Thornton, 196, 197, 239 Wilson, Edmund, 126, 129, 239 Wilson, Robert, 6, 14, 188, 191-193, 196205, 206, 209, 210, 225, 234, 236, 237 Wittgenstein, Ludwig, 46, 74, 239 Wooster Group, 209 Wrigley, Amanda, 184, 232, 236 Yeats, William Butler, 141, 239

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Mimesis Filosofie del teatro Collana diretta da Maddalena Mazzocut-Mis

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Franco Ricordi, Shakespeare filosofo dell’essere. L’influenza del poeta drammaturgo sul mondo moderno e contemporaneo 2. Claudio Rozzoni, Per un’estetica del teatro. Un percorso critico 3. Pierre Francastel, Guardare il teatro 4. Fabio Poggiali, Giorgio De Lullo regista pirandelliano. Dal teatro alla televisione 5. Luciano Parinetto, Verdi e la rivoluzione. Alienazione e utopia nella musica verdiana, a cura di Manuele Bellini e Gabriele Scaramuzza 6. Gabriele Scaramuzza, Il brutto all’opera. L’emancipazione del negativo nel teatro di Giuseppe Verdi 7. Mariagabriella Cambiaghi, Il caffè del teatro Manzoni. Autori e scena a Milano tra Otto e Novecento 8. Freddie Rokem, Filosofi e uomini di scena. Pensare la performance, cura e traduzione di Annalisa Sacchi 9. Francesco Ceraolo, Verso un’estetica della totalità. Una lettura critico-filosofica del pensiero di Richard Wagner 10. Carlo Fontana, A teatro negli anni Settanta. Scritti per l’“Avanti!” (1969-1976), a cura di Alberto Bentoglio 11. Alessandro Bentoglio, Alessia Rondelli, Silvia Tisano, Il teatro dell’Elfo (1973-2013)

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Finito di stampare nel mese di ottobre 2013 da Digital Team, Fano (PU)

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