Miti e riti del moderno. Marinetti, Bontempelli, Pirandello 88-00-81608-8

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Miti e riti del moderno. Marinetti, Bontempelli, Pirandello
 88-00-81608-8

Table of contents :
Mito, mitologia, mitopoiesi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5
1. Sincronia e diacronia, p. 5; 2. Note per una definizione del mito, p. 12; 3. Mitopoiesi
novecentesche, p. 24.
1. Il futurismo: mito e modernità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 30
1. Mito e mitologia, p. 30; 2. Fondazione e Manifesto del Futurismo, p. 37; 3.
Uccidiamo il chiaro di Luna!, p. 41; 4. Prometeo e Dioniso, p. 47; 5. Da Mafarka a
Kabango: le fonti del modello eroico futurista, p. 51; 6. La tenace resistenza del chiaro
di Luna, p. 63.
2. Bontempelli e il mito novecentista . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 67
1. Il ricorso al mito in funzione polemica: La vita operosa, p. 67; 2. Da Nostra Dea a
Madina: la metamorfosi in versione bontempelliana, p. 73; 3. Il mito novecentista,
p. 90; 4.Vecchi e nuovi miti, p. 97.
3. Pirandello e il mito come archetipo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 109
1. Il fu Mattia Pascal: l’eroe e l’eclisse del sacro nella modernità, p. 112; 2. Portare a
termine il mito, p. 119; 3. Il Pirandello «Vate» degli anni Venti, p. 123; 4. La mitopoiesi
secondo Pirandello, p. 138; 5. Su un’intervista poco conosciuta e sul rapporto Pirandello-
Nietzsche, p. 153.
4. Sondaggi trasversali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 164
1. Funzione ideologica del mito, p. 164; 2. Influenza di Nietzsche, p. 167; 3. Il ritorno
dell’eroe, p. 171; 4. Il «fanciullo divino», p. 174; 5. Sul «mito moderno» (tentativo di
conclusioni provvisorie e aperte), p. 177.
Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 183
Indice generale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 195

Citation preview

C A R T O G R A F I E

D E L L



I M M A G I N A R I O

Saggi di letterature comparate COLLANA DIRETTA DA REMO CESERANI

Le t t u re

e

i n terp r et a z ion i

Simona Micali

Miti e riti del moderno Marinetti, Bontempelli, Pirandello

Le Monnier

ISBN 88-00-81608-8

© 2002 by Felice Le Monnier, Firenze Edumond Le Monnier S.p.A.

Riguardo ai diritti di riproduzione, l’editore si dichiara disponibile a regolare eventuali spettanze derivanti dall’utilizzo di immagini per le quali non è stato possibile reperire la fonte.

Finito di stampare nel mese di agosto 2002 La Tipografica Varese S.p.A. - Stabilimento di Firenze

A mia sorella Loredana

I miti non rispondono a domande; le rendono indomandabili. Hans Blumenberg, L'elaborazione del mito (1979)

Vorrei ringraziare, per i consigli, le critiche, la pazienza e l’affetto che mi sono stati indispensabili per la scrittura di questo libro, Francesco Bitti, Remo Ceserani, Piero Cudini, Pietro Gibellini, Florian Mussgnug, Pierluigi Pellini, Chiara Piazzesi, Paolo Zanotti.

MITO, MITOLOGIA, MITOPOIESI

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Mito, mitologia, mitopoiesi

A che cosa accenna l’enorme bisogno storico della cultura moderna insoddisfatta, l’affastellarsi di innumerevoli altre culture, la divorante volontà di conoscere, se non alla perdita del mito, alla perdita della patria mitica, del mitico grembo materno? F. Nietzsche, La nascita della tragedia (1872)

orse più di altri generi di ricerca, lo studio dei rapporti tra letteratura e mito (anche quando si tratti di uno studio circoscritto all’opera di tre soli autori, come quello che mi accingo a compiere) pone il problema preliminare della definizione del metodo: come si può facilmente constatare, gli studi sul mito sono infatti uno dei campi della ricerca scientifica che più si sono arricchiti nel tempo di una grande varietà di tipi di approccio, dai quali è derivata una indiscutibile ampiezza di possibilità e prospettive, ma anche una certa confusione. Studi filologici, etnologici, psicoanalitici (freudiani e junghiani, ortodossi ed eretici), sociologici, filosofici, ricezionisti, strutturalisti, tipologici: in questo capitolo introduttivo non è mia intenzione affrontare l’esame sistematico dei vari metodi, né tantomeno stabilire qualche ‘primato’ tra di essi; semplicemente, cercherò di definire le linee essenziali del metodo che ho scelto di seguire, e i criteri nei quali andranno inquadrate le analisi che svolgerò nei prossimi capitoli. Il mio scopo non è dunque quello di fornire delle indicazioni di tipo normativo (vale a dire: come bisognerebbe studiare i rapporti tra mito e letteratura), bensì soltanto di tracciare le coordinate della mia personale ricerca. Soprattutto perché il metodo che ho scelto è stato in larga misura condizionato dalle caratteristiche dei materiali da analizzare: non riscritture di miti preesistenti ma tentativi di invenzione di miti, per giunta tentativi non collettivi ma individuali, compiuti da autori moderni. Le riflessioni teoriche che mi accingo a esporre vanno perciò intese come funzionali alla mia ricerca, ai suoi materiali e ai suoi scopi; ciò non toglie che esse possano anche servire – come mi auguro – a fornire qualche spunto di discussione e a chiarire alcuni aspetti generali degli studi sul mito e sui suoi rapporti con la letteratura.

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1. Sincronia e diacronia Forse la più importante alternativa che si presenta allo studioso del mito è quella tra l’adozione di una prospettiva sincronica oppure di una diacronica.

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SIMONA MICALI

Considerando i possibili metodi nel loro aspetto più generale, si può distinguere una prima grande famiglia, quella dei metodi sincronici, secondo i quali è possibile considerare unitariamente o comparativamente i miti con caratteristiche o funzionamento affine, indipendentemente dalla loro genesi: o, più precisamente, sia che venga ipotizzato tra di essi un rapporto di tipo filogenetico – come nelle analisi di Claude Lévi-Strauss e più in generale strutturaliste – sia che la somiglianza tra i miti venga invece ricondotta a un legame di tipo ontogenetico – come avviene nelle analisi di tipo junghiano, o anche, ma con significato diverso, di tipo freudiano; inoltre si ritengono varianti equivalenti di un mito tutte le versioni che di quel mito sono state date nel tempo e nello spazio. In sintesi, per la prospettiva sincronica un mito è «l’insieme delle sue varianti» 1, cioè si compone di un certo numero di varianti «probabilistiche» (determinate dalle circostanze della diffusione o dall’adattamento alle diverse situazioni ambientali in cui il mito viene a trovarsi), le quali vanno considerate e analizzate come un corpus unico. Il più importante vantaggio offerto dall’adozione di una prospettiva sincronica è quello di potere, da un lato, ricostruire nella maniera più dettagliata la struttura e il funzionamento di un mito, soprattutto attraverso l’esame comparativo dei miti affini o facenti parte di una stessa famiglia; dall’altro lato, la possibilità (reale o illusoria che la si voglia considerare) di risalire al ‘nucleo profondo’ di un mito, il senso o la forma originaria sottostante alle diverse varianti, molte delle quali hanno talmente rielaborato la struttura originaria da renderla irriconoscibile e incomprensibile a un’analisi di diverso genere. Lo svantaggio di un simile metodo, viceversa, è quello di perdere di vista la specificità di ogni singolo mito: vale a dire ciò che rende quella versione della storia diversa da tutte le altre, e che non è sempre quantificabile in termini di relazioni o equazioni di altro genere. Ma la scelta della prospettiva da adottare non è determinata solo dalla considerazione dei vantaggi o svantaggi che essa può offrire, bensì è spesso una scelta obbligata: dal momento che il metodo sincronico si rivela l’unico in grado di offrire dei risultati quando lo studioso si ritrovi a dover esaminare un codice di cui conosce con dovizia di particolari la forma presente, ma non le origini e la storia. Ciascun corpus studiato da Lévi-Strauss è infatti un sistema vivente e ancora in evoluzione organica ma, soprattutto, alla stato orale; per quanto invece riguarda la tradizione mitologica occidentale, di questo processo non si hanno più tracce se non puramente ipotetiche. Il mito classico è tràdito da un certo numero di testi scritti e, soprattutto, individuali: tutto ciò che abbiamo sono appunto quelle varianti d’autore, «probabilistiche», di cui parla Lévi-Strauss, per giunta in numero ridotto e notevolmente dislocate nel tempo – in altre parole, non il mito, bensì la tradizione del mito. In compenso, del sistema mitologico classico sono documentate con sufficiente ricchezza le successive fasi della sua elaborazione e della sua ‘lunga durata’ – dalle sue prime formulazioni in Omero e Esiodo, a quelle tardoellenistiche o latine, e poi via via la lunghissima rielaborazione occidentale che giunge sino ai nostri giorni: applicata a 1. Più precisamente: «Siccome un mito è composto dall’insieme delle sue varianti, l’analisi strutturale dovrà considerarle tutte alla stessa stregua» (Lévi-Strauss 1958, p. 243); inoltre nel paragrafo precedente Lévi-Strauss sottolinea tra i vantaggi dell’adozione di una prospettiva sincronica quello di poter aggirare «una difficoltà che ha costituito sinora uno dei principali ostacoli al progresso degli studi mitologici, ossia la ricerca della versione autentica o primitiva» (ibidem).

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un sistema di questo tipo, un’analisi di tipo sincronico non può che perdersi in una casistica minuziosissima e poco significativa, o subire riduttive forzature sullo stile dei manuali di mitologia per le scuole. Se una elaborazione diacronica esiste ed è documentata, è impossibile ignorarla: se consideriamo come varianti equivalenti di un unico modello due versioni distanti cinque, sei secoli (per non parlare di millenni), difficilmente potremo ricostruire il nucleo essenziale di un mito, o il suo funzionamento – a meno, appunto, di affidarci a generalizzazioni estreme o trasposizioni magari affascinanti, ma prive di qualsiasi specificità. Si può quindi dire che il metodo strutturalista trae la propria origine e la propria fisionomia dalle caratteristiche dei materiali ai quali deve essere applicato: i quali, essendo allo stato orale, non ammettono la possibilità di conoscere le varianti precedenti ma solo quelle compresenti: in questo senso, l’analisi strutturale di LéviStrauss si configura in modo da aggirare un limite dei propri materiali, e al tempo stesso sfruttarne tutte le possibilità. Nell’analisi di materiali che presentino invece limiti e possibilità opposti – poiché conosciamo le varianti successive, ma non quelle compresenti, di cui la tradizione scritta non conserva che minime tracce – il ricorso al medesimo metodo perde di senso, se non viene altrimenti giustificato. Oltre alla sincronia ‘reale’ della prospettiva strutturalista, c’è però anche una forma di sincronia che potremmo definire ‘ideale’: negli studi junghiani, la componente storica e quella individuale della elaborazione mitica – e, più in generale, letteraria – diventano il materiale di scarto del lavoro dell’analista, il cui scopo è invece quello di ricondurre l’opera al suo nucleo archetipico, che è il vero oggetto dell’indagine. Se l’archetipo è un a priori, come le categorie kantiane, non avrà senso ricercarne un’evoluzione storica, poiché esso è una possibilità sempre latente in ciascun individuo, e si manifesterà secondo modalità condizionate pressoché esclusivamente dalla psiche individuale, dalla sua interazione con quella latente base archetipica. L’assenza di sviluppo è anzi essa stessa un presupposto della teoria archetipica, secondo la quale il modello mitico viene attivato proprio allo scopo di mantenere intatto il legame con le condizioni originarie – come spiega Jung stesso parlando dell’archetipo del fanciullo: la pratica religiosa, cioè la continua ripetizione in racconto e in forme rituali dell’evento mitico, mira quindi a riportare nella coscienza l’immagine dell’infanzia e tutto ciò che le è connesso, per impedire la rottura con le condizioni originarie. (Jung-Kerényi 1940, p. 124)

Il cómpito dell’analista (della psiche, ma anche del mito) è dunque risalire a quelle «condizioni originarie», descrivere la fenomenologia dell’archetipo e circoscriverne il significato profondo 2, al di là e al di sotto di quelli che potremmo impropriamente definire i suoi ‘resti diurni’ – vale a dire: storia, civiltà, vita quotidiana, e così via. 2. Jung insiste sull’impossibilità di cogliere quel significato, bensì solo di circoscriverlo, poiché «ciò che un fatto archetipico sempre esprime è, anzi tutto, una similitudine» (p. 116); e Kerényi, nella sua introduzione al volume, ricorre all’analogia tra mito e musica per spiegare come non sia possibile tradurre il mito in un linguaggio scientifico: l’unico atteggiamento legittimo è quello dell’ascoltatore attento, che colga un senso non esprimibile in altro modo che ricorrendo al linguaggio mitologico stesso (pp. 15-17).

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Qualcosa di simile avviene anche negli studi di Northrop Frye, anch’essi vòlti a individuare le costanti dell’immaginario letterario al di sotto degli scarti dovuti ai generi o alle elaborazioni personali. E anche il tentativo di Frye di conciliare l’analisi archetipica con una prospettiva diacronica finisce per imbrigliare l’evoluzione letteraria in un percorso ciclico obbligato, che parte dal mito per ritornarvi seguendo un percorso dalle fasi rigidamente scandite: tutta la storia della letteratura viene in tal modo dissolta nel mito, unico nucleo e motore dell’immaginazione, che viene in ciascuna fase declinato secondo una diversa possibilità e una diversa forma già presenti in potenza nel modello originario (Frye 1957). Mito e letteratura perdono così entrambi la propria specificità, e la diacronia si dissolve nelle stagioni del ciclo, in un percorso immodificabile, finendo per azzerarsi nell’immobilità del percorso circolare. Per quanto invece riguarda la famiglia dei metodi diacronici, potremmo creare al suo interno un’ulteriore suddivisione, sulla base di una distinzione tra un orientamento prevalentemente testuale e uno prevalentemente tematico. Infatti, si può studiare la storia di un mito (di un motivo mitico, ovvero di un complesso di miti, o di un intero sistema mitologico) come una storia di testi, cercando di rintracciare le fonti e le filiazioni di ciascun testo – un metodo tutt’altro che arbitrario, dal momento che appunto l’evoluzione occidentale del mito è affidata a testi e opere, ciascuno dei quali deriva, rielabora, e comunque sempre presuppone un certo numero di testi e opere precedenti. A differenza di altri tipi di creazione artistica, nella rielaborazione di materiali mitologici esistono sempre delle fonti, consapevoli o inconsapevoli: ed è un aspetto che difficilmente può essere ignorato in una prospettiva diacronica. E tuttavia un mito non si risolve soltanto nel catalogo più o meno ricco e vario dei testi che ce lo tramandano: anche a prescindere da tutte le rischiose considerazioni sulla «pregnanza» o l’«archetipicità» del mito, andrà perlomeno osservato che la somma di quei testi e di quelle opere lavora nella mente del lettore in modo da creare un sistema, se si preferisce, una struttura, che rielabora quella somma in un complesso unico, più o meno articolato e stratificato, eppure ben individuato nella coscienza individuale e nell’immaginario collettivo. Perciò se il metodo filologico nello studio della mitologia è perfettamente legittimo, va tuttavia tenuto presente che esso non può esaurire l’argomento, né coprire tutte le varie possibilità di indagine; e anzi bisognerà fare attenzione a distinguere quando ci si trovi dinanzi a una rielaborazione testuale e quando invece a una rielaborazione mitologica. In parole povere: se, nel leggere un romanzo, ci imbattiamo nella frase «al mondo ci sono cose terribili, ma la più terribile è l’uomo», stiamo leggendo una ripresa testuale dall’Antigone di Sofocle (passata magari per l’importante traduzione/adattamento moderno di Hölderlin), cioè l’autore del romanzo sta riusando un testo, non un mito; se invece all’interno del romanzo leggiamo di un personaggio che seppellisce illegalmente il proprio fratello, l’autore sta riusando un mito – ma non un testo, o almeno solo secondariamente (nel senso che può essersi ispirato a una versione piuttosto che a un’altra). Naturalmente la maggior parte delle situazioni sono assai meno banali e lampanti del mio esempio ipotetico. Ma proprio per questo è necessario sempre tenere a mente che un mito è una struttura complessa, al tempo stesso derivata ma anche indipendente dalle varie realizzazioni testuali possibili: la storia di Edipo è un mito, l’Edipo Re di Sofocle è una tragedia particolare di argomento mitico.

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Ci sono poi gli studi sulla storia del mito che ho chiamato ‘di orientamento tematico’, ovvero quelli focalizzati maggiormente sui materiali mitologici piuttosto che sulle forme testuali 3. L’analogia tra lo studio del mito e quello dei temi letterari è evidente, e applicare al primo i metodi del secondo è un’operazione ugualmente legittima. Purché si tenga presente che un mito non è un tema: piuttosto, è un insieme di temi, situazioni, atti e eventi già strutturati narrativamente. In altre parole, un mito è una trama: una trama non generica, bensì legata a personaggi, situazioni e atti precisi. Potremmo anche definirlo una trama ‘fondamentale’, non nel senso di un’astrazione a posteriori da un certo numero di trame simili, bensì nel senso che è il fondamento, l’origine di molte versioni e variazioni. La distinzione non è un fatto secondario, poiché la differenza implica una maggiore complessità dello studio di un mito rispetto a quello di un tema: studiare la fenomenologia e l’evoluzione storica di un mito come se si trattasse di un tema è perlomeno riduttivo, spesso impossibile. Per restare agli esempi banali: cosa vorrà dire studiare il «tema di Edipo»? Studiare il tema dell’enigma della Sfinge? Oppure quello dell’incesto inconsapevole? Oppure del parricidio? Oppure della hybris punita? Non si può stabilire, se non in maniera puramente arbitraria, la priorità di uno solo di questi temi rispetto agli altri all’interno del mito di Edipo; se anche volessimo ipotizzare uno studio in cui ciascun tema fosse seguìto nella sua millenaria storia all’interno della tradizione occidentale, si tratterebbe di una ricerca condotta su temi diversi, con una diversa evoluzione storica e una diversa fenomenologia, i quali hanno in comune solo il fatto di comparire tutti all’interno del mito di Edipo. Mito che, viceversa, non si risolve soltanto nella somma di questi temi, ma nella loro organizzazione narrativa, se preferiamo, nella loro mise en scène e nella loro mise en intrigue: il mito di Edipo è una struttura nella quale i temi che ho enumerato vengono organizzati in base ad alcuni princìpi ordinatori – non solo i legami logici e cronologici tra i vari temi all’interno della vicenda, ma anche e soprattutto il protagonista unico (Edipo), il luogo (Tebe), la genealogia mitica (ovvero i legami di Edipo e della sua vicenda con il sistema mitico nel quale si inseriscono), la cosmologia mitica (le leggi fisiche e morali che reggono l’universo nel quale la vicenda ha luogo). Se scindiamo quei temi dalla trama nei quali sono organizzati in base a tali princìpi, non avremo più il mito, bensì soltanto un certo numero di temi distinti. Con tutte le distinzioni di cui ho detto e i conseguenti aggiustamenti, tuttavia, i metodi dell’analisi tematica potranno essere utilizzati anche nello studio diacronico dei miti: anche quest’ultimo infatti, come lo studio dei temi, procede in due sensi opposti e complementari. Da un lato, la storia cambia i miti, producendo in essi varianti significative o addirittura mutamenti radicali di senso; o, perlomeno, inducendo a leggerli in maniera diversa rispetto al passato, scoprendo sensi riposti o mettendo in luce aspetti prima considerati secondari. Ma uno studio storico dei miti può essere inteso anche in senso opposto: dal momento che uno dei più importanti meccanismi del mito è quello di filtrare e organizzare la percezione della realtà, i miti funzionano come schemi di rappresentazione e interpretazione

3. Due lavori che seguono questo metodo sono Brunel 1988 e Boitani 1992.

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non solo della Natura, ma anche del reale storico, che viene così interpretato secondo categorie metastoriche (o almeno apparentemente tali). Attraverso la messa in atto di questo meccanismo la contingenza non appare più tale, bensì espressione e attualizzazione di schemi e modelli eterni, archetipici: per usare la formulazione di Barthes, la Cultura viene trasformata in Natura (Barthes 1957, p. 210) 4. Insomma, nei rapporti tra mito e storia l’influsso si manifesta in entrambe le direzioni: se Colombo diventa l’incarnazione moderna di Ulisse, anche Ulisse si colombizza trasformandosi nell’eroe moderno che parte alla scoperta di nuovi mondi; e se Napoleone diventa Prometeo, al tempo stesso anche Prometeo assume tratti in qualche modo napoleonici agli occhi dell’intellettuale ottocentesco 5. Naturalmente, questo condizionamento reciproco tra il mito e la storia agisce su due livelli, quello consapevole e quello inconsapevole: una duplicità implicita e inevitabile, dal momento che il mito non è soltanto un repertorio di storie disponibili per vari riadattamenti, bensì è da un lato una componente fondamentale dell’immaginario collettivo, dall’altro il prodotto e l’espressione di una modalità di pensiero, di una logica mitica, che agisce a livello inconsapevole sotto la superficie del pensiero razionale; per questo motivo, l’affiorare dei modelli, degli schemi e dei temi mitici nella cultura di una comunità o in un’opera individuale può assumere i tratti di un ritorno del represso 6, in tutte le sue varie sfumature e gradazioni logiche. Dinanzi a questa duplicità di livelli, i vari tipi di analisi si risolvono in atteggiamenti diversi, a seconda del metodo seguìto: l’analisi di tipo filologico tenderà a trascurare il livello inconsapevole per concentrarsi su quello delle riprese volontarie (distinguendo però tra quelle esplicite e quelle dissimulate); le letture psicoanalitiche faranno il contrario, considerando significative solo le rielaborazioni prodotte al di sotto del livello cosciente; infine, tanto la prospettiva junghiana quanto quella strutturalista si disinteresseranno della distinzione, dissolvendo nel livello inconsapevole anche quello consapevole. Un approccio che riesca a tener conto di entrambi gli aspetti, e che anzi consenta di analizzare la loro interazione, è quello storico-ricezionista: il quale si propone di capire sia come la «lettura» del mito venga condizionata (consapevolmente e inconsapevolmente) dalle circostanze ambientali e da quelle individuali, sia come quella lettura condizioni a sua volta (consapevolmente e inconsapevolmente) i processi mentali del lettore e il suo atteggiamento nei confronti del reale – e quindi anche, se il lettore è lui stesso un produttore di testi, le sue opere future: opere che, a loro volta, entreranno a far parte del sistema del mito, influiranno sulle sue letture future, e così via. Naturalmente, nello studio del mito il metodo ricezionista non potrà venire applicato meccanicamente: come si è detto, la sostanza di un mito non è riducibile al corpus di testi e opere che ce lo tramandano. Se si vuole utilizzare e stu4. Più precisamente, secondo la formalizzazione di Barthes, il mito è lo strumento logico mediante il quale la storia viene trasformata in ideologia, e a sua volta l’ideologia assume le sembianze di Natura. 5. Un tentativo di sintetizzare i due aspetti e, attraverso questa sintesi, conciliare l’analisi sincronica con quella diacronica è effettuato da Harold Fisch (1984) mediante il ricorso al concetto di «archetipi storici», ovvero forme simboliche storicamente determinate: tra i quali include ad esempio il mito di Faust o quello del sacrificio d’Isacco. L’idea è senza dubbio interessante, ma la trattazione di Fisch non riesce a essere pienamente convincente, limitandosi a giustapporre metodi e aspetti diversi del problema senza risolverli in un’analisi compiutamente unitaria (lo stesso concetto di «archetipo storico» è inteso in maniera diversa nelle varie parti del libro, a seconda dei materiali dell’analisi). 6. Per il concetto e le sue applicazioni letterarie, vd. Orlando 1973.

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diare il mito come «testo», bisognerà considerarlo un testo del tutto particolare e anomalo: vale a dire un testo virtuale, aperto, stratificato, che include al proprio interno tutte le proprie varianti e tutte le proprie interpretazioni, e il cui significato risiede e va cercato proprio nel conflitto tra di esse, nella storia del rapporto tra quelle varianti da un lato e le culture che le hanno prodotte e tramandate dall’altro. In questo senso, due studi esemplari sono quello svolto da Hans Blumenberg, in L’elaborazione del mito (1979), sulla ricezione del mito di Prometeo lungo tutto il corso della tradizione occidentale; e quello di George Steiner in Le Antigoni (1984), sul ruolo ricoperto dal mito di Antigone nella cultura ottocentesca. Un’ultima annotazione, che può servire a chiarire ulteriormente la distinzione tra prospettiva sincronica e prospettiva diacronica: è stato detto più volte che il sistema delle varie versioni di uno stesso mito può essere paragonato a quello delle variazioni musicali su un tema unico. L’analogia tra mito e musica ha una lunga tradizione: compariva già in Wagner, che interpretava il mito come una partitura per orchestra; ritorna in Kàroly Kerényi, che vi ricorre per illustrare come il mito sia un linguaggio specifico, spiegabile ma non traducibile (Jung-Kerényi 1940, pp. 1517); la ritroviamo anche nelle Mitologiche di Lévi-Strauss (1964, pp. 30 sgg.) 7, che la utilizza per distinguere l’espressione mitica da quella linguistica, sottolineando come le analogie del mito con la musica ne dimostrino la specificità strutturale, collocando il mito a metà strada tra il linguaggio verbale e la musica; infine, anche Blumenberg considera il mito strutturalmente analogo a un tema, la cui formulazione è funzionale alla proposizione di un certo numero (meglio, un numero infinito) di variazioni (1979, p. 59). Tuttavia il modello di tema e variazioni non va inteso in senso strettamente musicale, bensì includendovi anche l’accezione narrativa (che a Lévi-Strauss ovviamente interessava meno, volendo concentrare la propria analisi sulle strutture paradigmatiche piuttosto che su quelle sintagmatiche del mito): è proprio il fatto che il mito sia una storia, nel senso più generico del termine, a rendere possibile la sopravvivenza del tema attraverso le sue molte variazioni: una storia le cui funzioni narrative (attanti, cronotopo, eventi e azioni) ricoprono il valore di significanti ai quali sia possibile assegnare un numero potenzialmente infinito di significati, e che sia inoltre possibile rielaborare in una serie di configurazioni diverse anch’essa potenzialmente infinita – con l’unica limitazione della riconoscibilità del tema originario. L’analogia con il modello musicale tema/variazioni può essere però intesa in due modi diversi: per Lévi-Strauss (e per la prospettiva sincronica) significa pensare un mito come una serie di variazioni compresenti, equivalenti e indipendenti l’una dall’altra, effettuate tutte su un tema noto, o almeno ricostruibile dall’analisi comparata di tutto il corpus di variazioni. La tradizione occidentale, però, si presenta come un insieme di variazioni le quali non possono venir considerate «equivalenti», dal momento che anzi ciascuna presuppone e deriva da tutte quelle che l’hanno crono7. Il fondatore dell’antropologia strutturale riprende il modello dell’analogia tra mito e musica proprio da Wagner: infatti l’idea del mito come partitura per orchestra a suo parere deve determinare anche la modalità dell’analisi mitologica; a tale scopo, Il crudo e il cotto (1964) è strutturato come un’opera musicale, come segnalano la ripartizione del testo e la denominazione dei capitoli: Overture, Parte prima: tema e variazioni, Sonata delle buone maniere, Doppio canone rovesciato, Sinfonia rustica in tre tempi, e così via.

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logicamente preceduta: dunque il tema di ciascuna nuova variazione sarà il complesso sistema dialettico composto dalle variazioni precedenti stesse – e lo studio filogenetico assumerà una fisionomia straordinariamente complessa. Se una successione diacronica esiste – intendo, nella coscienza dei produttori e dei fruitori di testi – non è metodologicamente corretto ignorarla nell’analisi del corpus; allo stesso modo, se disponiamo soltanto di versioni individuali, organizzate in una successione fissata, non è pensabile di poter studiare un mito come un tema unico, se non come astrazione a posteriori, frutto di un’operazione arbitraria (come quelle dei manualetti di mitologia): bisognerà piuttosto analizzare proprio quegli scarti individuali, ciascuno rispetto al sistema di quelli che l’hanno preceduto; oppure (meno correttamente) rispetto a un modello originario x che sarà possibile soltanto ipotizzare, secondo criteri filologici o puramente probabilistici. Come ho già detto, infatti, nella coscienza di produttori e fruitori di testi mitologici il tema in qualche modo esiste, nel senso che esso è un’astrazione sempre possibile a partire dalle versioni già date (noi possiamo sempre raccontare la storia di Edipo in generale); proprio per questo, però, non si tratta del tema originario del mito, al contrario: il tema è esso stesso variabile nel tempo, poiché ogni nuova variazione lo modificherà in misura maggiore o minore e più o meno stabilmente (a seconda del suo successo): introducendo nuovi elementi o eliminando alcuni dei vecchi, portando in luce nuovi significati e sfumature, variando gli equilibri e i rapporti interni, e così via. Aver chiarito alcune delle questioni relative allo studio della tradizione mitologica occidentale può tuttavia non essere sufficiente quando si voglia rivolgere l’attenzione a testi e autori del Novecento: un secolo in cui spesso non ci si accontenta soltanto di citare il mito, o di fornire la propria versione di un mito già dato, ma anzi si prova il desiderio di ricreare il mito o addirittura (con equivoci dalle conseguenze talvolta gravissime) di rivivere il mito. E infatti i tre autori di cui ci occuperemo non si limitano a prendere posizione nei confronti della tradizione mitologica – per la quale, anzi, professano disinteresse o addirittura aperta antipatia (sebbene le siano in realtà ampiamente debitori); bensì, a un certo punto della loro carriera, decidono di scrivere dei nuovi miti, creazioni originali e del tutto indipendenti da qualsiasi tradizione precedente. Per poter evitare confusioni e fraintendimenti nell’analisi di questi tre tentativi mitopoietici, la più importante delle questioni preliminari da chiarire sarà dunque quella di che cosa esattamente si debba intendere per mito.

2. Note per una definizione del mito Potremmo cominciare il discorso dall’esordio di un recente saggio di Bruce Lincoln, che sintetizza efficacemente una tipica posizione degli studi sul mito: It would be nice to begin with a clear and concise definition of ‘myth’, but unfortunately that can’t be done. (Lincoln 1999, p. IX) [Sarebbe bello iniziare con una definizione chiara e concisa di ‘mito’, ma sfortunatamente non è possibile.]

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Fornire una definizione generale di mito sembrerebbe a prima vista innecessario, e infatti spesso la questione viene accantonata in base alla considerazione che il mito – come la fiaba, o la leggenda – è una delle ‘forme semplici’ o ‘elementari’ del pensiero umano, immediatamente riconoscibili senza bisogno del ricorso a elaborate distinzioni concettuali. Quando però si tenti una definizione anche soltanto descrittiva della forma semplice ‘mito’, la questione si rivela più complessa di quanto in realtà non sembrasse: nel suo studio sulle Forme semplici (1930), André Jolles si propone di creare una fenomenologia dell’immaginario basato appunto sulle forme fondamentali che esso può assumere, costruendo così un sistema di «disposizioni mentali», sorta di categorie kantiane dell’immaginario, precedenti e in un certo senso indipendenti dalle concrete realizzazioni testuali (o «forme attualizzate»); all’interno di questo sistema, il mito viene definito mediante un’opposizione e al tempo stesso un parallelismo con la categoria della Conoscenza, intendendo per quest’ultima il ragionamento propriamente scientifico intorno ai fatti naturali – e dunque riproponendo la classica opposizione tra mythos e logos. Il mito, analogamente all’oracolo (che Jolles infatti inserisce nella stessa categoria), è una conoscenza creatrice strutturata per domande e risposte: «nel mito un oggetto si crea da un interrogativo e dalla sua risposta» (Jolles 1930, p. 99). In tal modo Jolles sopravvaluta l’aspetto conoscitivo del pensiero mitico fino a farne il suo unico tratto distintivo, mentre quello più propriamente normativo viene completamente ignorato; inoltre, scarsissimo risalto è dato alla componente narrativa del mito: secondo la visione di Jolles, infatti, è agevole attribuire alla forma semplice del Mito solo i racconti della creazione e quelli eziologici, mentre per i racconti storici o normativi l’attribuzione risulta controversa (le storie come la guerra di Troia, e in generale i miti degli Atridi vengono infatti inseriti nella categoria della «Leggenda profana» 8). Più in generale, il problema della definizione di Jolles è che essa si rivela insufficiente: non solo a coprire tutte le espressioni comunemente intese come miti, ma anche, e soprattutto, a distinguere quelle espressioni da altre – come appunto l’oracolo – che per certi aspetti rispondono alla medesima descrizione. La distinzione tra il mito e ciò che mito non è si pone come un problema fondamentale in uno studio incentrato su dei tentativi di invenzione del mito, ma non è un problema di facile soluzione. Anche solo passando in rassegna rapidamente la ricchissima bibliografia che nel corso dell’ultimo secolo si è accumulata intorno all’argomento è facile rendersi conto di come, pur parlando apparentemente della stessa cosa, spesso critici e scrittori intendano concetti sostanzialmente (e talvolta persino radicalmente) diversi: il mito inteso come concezione del mondo, come modalità del pensiero, oppure come modello culturale di successo (il mito della rock-star, o quello dei viaggi interstellari) o semplicemente come storia, tema, personaggio dalla lunga tradizione e dall’intensa suggestione… La posizione di Bruce Lincoln, dalla quale siamo partiti, diventa così una posizione tipica degli studi sul mitologismo moderno, e rappresenta anzi una dichiarazione di cautela che sta a sottolineare la serietà metodologica dell’analisi. L’argomento viene sviluppato in maniera esemplare da Manfred Frank nel suo saggio Il Dio a venire (1982), uno degli studi recenti più interessanti sul neomitologismo europeo. Frank infatti dedica due delle sue 11

8. Così la traduzione italiana rende, impropriamente, il termine tedesco «Sage» [«Saga»], usato da Jolles.

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lezioni sulla «nuova mitologia» all’argomento «Che cosa è il mito?»; ma avverte subito del rischio più ovvio che si corre affrontando una tale questione: Ci sarebbe la tentazione di risolvere il problema «empiricamente», ossia di prendere un paio di miti e ricavare da essi, per astrazione, alcuni tratti generali. Ma per compiere questa scelta dovremmo usare come criterio le nostre idee preconcette sul mito, e un tale modo di procedere non darebbe alcuna garanzia di specificità. (Frank 1982, p. 64)

Scartata la soluzione empirica, Frank passa dunque in rassegna le possibili prospettive per affrontare il quesito: quella contenutistica, che consiste nella «raccolta dei motivi tipici più frequenti», quella strutturale, che tratta il mito come un linguaggio specifico di cui studiare la grammatica, quella pragmatica, che si interroga sulla funzione del mito. Ma è sufficiente un rapido excursus tra le principali teorie che negli ultimi 250 anni hanno cercato di rispondere a una tale domanda per rendersi conto che, quale che sia la prospettiva adottata (Frank nel suo studio si serve della terza), è virtualmente impossibile riuscire ad accedere all’oggetto in sé, senza passare cioè per il filtro necessario e condizionante del modello epistemologico di volta in volta adottato: Ma non esiste un solo atteggiamento scientifico legittimo, e che nessuno sia definitivo lo dimostra già la storia delle scienze: una storia di paradigmi, di visioni del mondo che si succedono per essere via via criticate e contestate. Questo modo di vedere non relativizza la normatività del singolo paradigma, ma lo storicizza, ossia lo inscrive in un contesto motivazionale di cui è possibile ricostruire il senso e comprendere le linee di tendenza. In questa situazione sarà opportuno lasciar cadere il problema dell’essenza del mito per adottare invece un procedimento di tipo ermeneutico e domandarci come viene inteso il mito nel tardo ’700, e soprattutto: perché proprio quest’epoca trova così interessante il ritorno al pensiero mitico e perché, al nostro sguardo retrospettivo, questo ricorso appare così ovvio da non interrogarci nemmeno più sul senso della nostalgia classico-romantica per l’Antico. (Frank 1982, p. 67)

Per correttezza metodologica, Frank rinuncia dunque a offrire una sua propria definizione del mito. Per l’analisi che mi accingo a compiere, tuttavia, l’adozione di quello che Frank definisce «procedimento ermeneutico» mi costringerebbe a una sorta di tautologia: riportare i tentativi mitopoietici novecenteschi alle concezioni del mito degli autori di quei tentativi è senza dubbio un procedimento corretto, e tuttavia instaura un circolo interpretativo concluso in se stesso, al di fuori del quale non sarebbe possibile esprimere alcun giudizio critico oltre a quello sulla sua coerenza interna. In altre parole, non siamo in grado di dire nulla sulla natura e il significato di quei tentativi, a meno che non prendiamo come termine di paragone una definizione dell’oggetto «mito» in sé: una tale definizione non può certo aspirare a una sua validità assoluta e universale, ma dovrà perlomeno rendere ragione di quei testi e più in generale di quelle espressioni che la cultura occidentale ha ricondotto a una stessa categoria definita «mito» e che in quella categoria sono rimaste stabilmente e con il consenso unanime di studiosi e lettori dall’antichità ai giorni nostri. A questo scopo, una soluzione comunemente adottata è quella di stabilire una serie di caratteristiche tipiche del discorso mitico, e inserire nella categoria del mito

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qualsiasi espressione che risponda a tutte o almeno a un certo numero di queste caratteristiche. Alcune definizioni sono tuttavia così generiche che certo si adattano a comprendere tutti i miti conosciuti, ma anche moltissimi testi di natura completamente diversa – si veda per esempio la definizione fornita da Frye nel glossario della sua Anatomia della critica (1957): Mito: narrazione in cui alcuni personaggi sono esseri sovrumani che fanno cose che «accadono solo nelle favole»; perciò narrazione convenzionale o stilizzata che non si può completamente inserire nell’ambito della plausibilità o del realismo 9. (Frye 1957, p. 483)

Una tale definizione – come del resto la classificazione dei generi e dei modi di Frye – apre le porte del mito a qualsiasi trama non strettamente realistica, dalla fiaba alla science fiction, risultando così inutile ai fini di una classificazione distintiva del mito tra le altre forme di discorso. Più utili sono le definizioni in cui le caratteristiche attribuite al mito aumentano di numero: come quella di Eliade nel suo Aspects du mythe [Aspetti del mito (1963)], che ai personaggi sovrannaturali e agli atti meravigliosi aggiunge alcuni altri elementi importanti: le mythe raconte une histoire sacrée; il relate un événement qui a eu lieu dans le temps primordial, le temps fabuleux des ‘commencements’. (Eliade 1963, p. 15) [il mito racconta una storia sacra; riporta un avvenimento che ha avuto luogo nel tempo primordiale, il tempo favoloso degli ‘inizi’.]

Dunque abbiamo il carattere sacro e il tempo primordiale: due tratti che ci consentono di distinguere il mito con maggiore precisione da altri tipi di narrazione. Passando in rassegna i lavori di altri studiosi, è facile osservare come queste caratteristiche possano essere ulteriormente precisate e aumentate. Non è mia intenzione (anche perché ci allontanerebbe parecchio dal discorso che vorrei sviluppare) discutere tutte le definizioni, esplicite o implicite, già date dagli studiosi del mito; vorrei però tentare di riassumere i risultati accumulati nel corso del XX secolo, elencando un certo numero di caratteristiche che mi sembrano quelle fondamentali e irrinunciabili del mito, le caratteristiche necessarie – nel senso che devono essere presenti in un testo – e sufficienti – nel senso che basta la loro sola presenza – perché una narrazione possa essere considerata un mito. So bene che un’elencazione sommaria di caratteristiche generali non può ritenersi sufficiente senza una discussione dettagliata in merito alla loro formulazione e alla loro validità; soprattutto, non mi propongo di fornire una descrizione esaustiva e normativa del mito. Piuttosto, le note che seguono vorrebbero essere una sintesi della storia delle teorie del mito effettuata in maniera trasversale rispetto alla consueta discussione delle varie posizioni ordinate per metodo o successione cronologica 10; al tempo stesso, l’elenco che segue potrà essere utile a rendere più

9. La definizione di Frye tuttavia si modifica a seconda del tipo di analisi da svolgere: nella parte del volume dedicata alla «critica archetipica», per esempio, saranno chiamate «mythoi» le quattro trame generiche (romance, commedia, tragedia e satira) che sintetizzano tutte le possibilità di narrazione letteraria. 10. Per la quale vd. per esempio Jesi 1973,Vernant 1974 (pp. 192-250), Meletinskij 1976 o Lincoln 1999.

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chiare le mie successive analisi, illustrando il criterio da me utilizzato per distinguere che cosa è un mito da ciò che non lo è. I. Un mito è una storia, vale a dire un racconto. Anche trascurando il fatto che il termine mythos significa propriamente ‘racconto’, è impossibile pensare una mitologia che non si componga principalmente di racconti. Un mito non può limitarsi a un’immagine, una figura, un tipo, un’idea; e neppure può essere inteso come una pura forma, come una modalità del pensiero o un tipo di espressione linguistica. È comprensibile che nel corso del Novecento la critica del mito si sia concentrata particolarmente sull’aspetto logico e su quello linguistico del mito, allo scopo di analizzare e demistificare l’uso perverso del mito da parte dei regimi totalitari 11: questo interesse ha tuttavia finito per spostare sensibilmente l’accento dalla sostanza del mito ai suoi meccanismi logico-formali, rischiando così di annullare qualsiasi specificità dell’oggetto ‘mito’ in sé. Questa posizione è rappresentata nella sua accezione più estrema dalle analisi di Roland Barthes, che identificano completamente mito e ideologia. Per Barthes, «il mito non si definisce dall’oggetto del suo messaggio, ma dal modo in cui lo si proferisce» (Barthes 1957, p. 191): in tal modo qualsiasi materiale può diventare mito se elaborato secondo particolari meccanismi linguistici – Greta Garbo come la bistecca con patatine fritte, la grammatica latina come la Citroën. Da un lato, dunque, il racconto mitico viene confuso con il discorso ideologico (con il quale presenta svariate analogie, mantenendo però una propria specificità); dall’altro lato, il materiale del mito diviene un fattore secondario e del tutto contingente; infine, la componente narrativa del mito viene completamente ignorata. Barthes, in sostanza, confonde due fenomeni dell’immaginario collettivo che condividono alcuni meccanismi formali e linguistici, ma nella sostanza sono assai diversi: il mito e il «cult», cioè la trasfigurazione feticista di figure, prodotti o eventi in oggetti di culto di massa, che è un fenomeno riscontrabile esclusivamente nella cultura postmoderna. Mentre il mito si fonda su figure e avvenimenti assenti, collocati in un passato assoluto e prestorico, che danno origine e princìpi all’universo e alla storia come noi li conosciamo, il cult si fonda su figure ed eventi presenti, reali, documentabili, che agiscono ancora in qualche misura nel tempo storico presente. In altre parole, il mito tributa senso e valore a un oggetto assolutamente e definitivamente passato, mentre il cult fornisce senso e valore soltanto a oggetti presenti, o che in qualche forma manifestino la loro presenza nel quotidiano. Grazie alla sua ripetizione per mezzo del rito, la materia del mito viene metafisicamente attualizzata, e attraverso quest’attualizzazione vengono evocati i suoi protagonisti, oggetti del culto collettivo; viceversa nei concerti rock, che sono la manifestazione rituale più rappresentativa del cult, il rito collettivo viene officiato direttamente dal suo oggetto, né avrebbe alcun senso officiarlo in sua assenza 12. Infine, per tornare al punto dal quale eravamo partiti, mentre il mito è strutturato narrativamente, cioè si costituisce anche logicamente mediante la 11. Fondamentali, a questo proposito, i lavori di Ernst Cassirer e, in Italia, di Furio Jesi. 12. Proprio dalla confusione tra i riti primitivi e i concerti rock nascono svariate analisi di «miti d’oggi» che cercano, con rigore metodologico e risultati assai inferiori a quelli di Barthes, di conciliare mito e postmoderno: per esempio Coupe 1997.

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narrazione, il cult è assertivo, e può semmai servirsi di elementi narrativi soltanto in funzione secondaria e accessoria 13. Qualunque considerazione possa essere fatta sul mito come linguaggio e sul mito come logica, non bisognerà perciò dimenticare che i miti sono prima di tutto e fondamentalmente delle storie: in sintesi, ricorrendo alla formulazione di LéviStrauss, diremo dunque che «la sostanza del mito non sta né nello stile, né nel modo di narrazione, né nella sintassi, ma nella storia che vi é raccontata» (LéviStrauss 1958, pp. 235-36). II. Il racconto mitico è collocato in un tempo sacro (contrapposto al tempo profano, in cui vivono gli ascoltatori 14) e prestorico, nel senso che precede e fonda la Storia (che si svolge, appunto, nel tempo profano). In base al principio della logica mitica per cui il rapporto di prima-dopo equivale a quello di causa-effetto (vd. infra, punto V), l’inizio assume anche il valore di «principio», inteso nel senso di archè: raccontando come il mondo è iniziato il mito lo spiega, e postula la necessità che esso sia così e non altrimenti. Il legame tra tempo primordiale e carattere fondante del mito è stato illustrato in maniera molto chiara da Kerènyi: La mitologia «fonda». Essa non risponde in vero alla domanda: «perché?» bensì a questa: «da dove? da qual origine?». […] Non è una generalizzazione ingiustificata affermare che la mitologia racconta sempre delle origini o per lo meno di quel che è originario. Quando essa narra di una più giovane generazione di dèi, ad esempio delle storiche divinità greche, anche queste significano l’inizio di un mondo: il mondo governato da Zeus, in cui i Greci vivevano. Gli dèi sono «originari» nel senso che con una nuova divinità nasce sempre un nuovo «mondo»: una nuova era o un nuovo aspetto del mondo. (JungKerényi 1940, pp. 20-21)

Proprio questo carattere fondante costituisce il meccanismo sul quale si impernia la funzione ideologica del mito – la sua funzione principale, secondo gran parte degli studiosi: i miti infatti sono racconti nei quali una certa realtà storica o naturale viene messa in relazione con la sfera del sacro, e attraverso questa relazione viene fondata o legittimata 15. (Frank 1982, p. 68)

13. Le applicazioni e estensioni della teoria di Barthes alla società postmoderna di massa si ritrovano immancabilmente a fare i conti con questa confusione di fenomeni. Per esempio in Merci di culto (1999), Fulvio Carmagnola e Mauro Ferraresi cercano di chiarire i rapporti tra mito (barthesianamente inteso) e cult, senza riuscirvi: infatti oscillano da una distinzione tra «cult» inteso come merce e «mito» come discorso su quella merce (p. 101), al riconoscimento di una sostanziale analogia tra i due fenomeni, per cui il cult si limiterebbe a riprodurre amplificandolo il lavoro mitico sull’oggetto («Il cult […] agisce a sua volta come mito, agisce in maniera mitica», oppure rappresenta «la ripetizione variata del mito», p. 105). 14. Sull’opposizione ontologica tra tempo sacro e profano nella coscienza mitologica, vd. Eliade 1949. 15. Frank distingue però tra due tipi di fondazione: la «deduzione causale», che fonda spiegando le cause, e la «legittimazione», che fonda invece spiegando i fini; a suo parere, la giustificazione mitica è una «fondazione mediante fini» (pp. 143-144): un’opinione a mio parere discutibile, dal momento che non riesce da sola a dar ragione della mitologia in generale, mentre si attaglia molto bene al periodo indagato da Frank, vale a dire il Romanticismo.

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Non solo l’universo naturale, ma anche l’ordine politico e sociale si legittimano mediante il ricorso al passato mitico, che di quell’ordine ha stabilito i princìpi fondanti: il mito, oltre a essere una spiegazione prescientifica dell’universo e delle sue leggi, può così facilmente diventare anche giustificazione e strumento del potere, oggetto di manipolazioni e reinterpretazioni operate dai garanti dell’ordine ad uso delle masse. Va inoltre osservato che l’ambientazione della vicenda mitica esclusivamente in un passato prestorico imporrebbe l’esclusione dalla categoria del mito delle narrazioni apocalittiche; se vogliamo leggere l’apocalisse come mito 16, bisognerà correggere la definizione del tempo del mito – non più un tempo «prestorico» bensì «extrastorico»: come i miti di fondazione si pongono prima della storia, determinandola, i miti apocalittici si collocano al termine di essa (ma comunque al di fuori della storia), finalizzandola, e pertanto alla funzione fondante strettamente intesa si sostituisce quella profetica; a tale proposito, si potrebbe forse parlare di una «fondazione mediante il fine». Un’ultima annotazione. Proprio il carattere fondante del mito costituisce un importante criterio di distinzione rispetto alla fiaba: quest’ultima, infatti, può anche narrare di cambiamenti (come nel caso della fiaba eziologica), i quali però non incidono sul mondo umano, sulla storia e sulla civiltà, determinandone la fisionomia e le leggi: in altre parole, le azioni e gli avvenimenti narrati dalla fiaba si concludono in se stessi, senza rivestire un valore fondante nei confronti del mondo (inteso nel senso di natura e civiltà), bensì, tutt’al più, uno esemplare o morale 17. III. Il mito non possiede un autore, ovvero non è riconducibile interamente all’invenzione di un unico autore; allo stesso modo non è legato a una formulazione precisa, cioè a un solo testo. Detto altrimenti, il mito ha una genesi lunga e collettiva. Possiamo riformulare questo principio da un altro punto di vista, servendoci della definizione proposta da Lévi-Strauss nel primo volume delle Mitologiche: I miti non hanno un autore: quale che possa essere stata la loro origine reale, sin dall’istante in cui sono percepiti come miti essi non esistono se non incarnati in una tradizione. (Lévi-Strauss 1964, p. 35)

Negli anni successivi, quella non meglio specificata origine «reale» si precisa appunto in un’ipotesi di genesi collettiva: nel Finale all’ultima delle Mitologiche, L’uomo nudo (1971), Lévi-Strauss spiega infatti che i miti, sebbene derivino da creazioni o modifiche individuali, possono ugualmente venire studiati come espressione di una collettività, poiché quelle versioni individuali, che di per sé costituirebbero semplici varianti probabilistiche, nella pratica della trasmissione orale vengono «smussate» da un lungo processo selettivo, che lascia sopravvivere solo i tratti «cristallini», vale a dire quelli necessari e funzionali per la collettività:

16. Come fa ad esempio Pierre Brunel, che le dedica un capitolo del suo Dizionario dei miti letterari (1988). 17. Vd. ancora Eliade 1963, pp. 15 sgg.

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Ammettiamo quindi che qualsiasi creazione letteraria, orale o scritta, non possa in origine essere altro che individuale. Per il fatto di venir subito affidata alla tradizione orale, come avviene fra i popoli privi di scrittura, solo i livelli strutturati che poggiano su fondamenti comuni rimarranno stabili mentre i livelli probabilistici manifesteranno un’estrema variabilità, a sua volta funzione della personalità dei successivi narratori. Tuttavia, durante il processo di trasmissione orale, questi livelli probabilistici verranno a urtarsi producendo una reciproca usura, mettendo progressivamente in luce nella massa del discorso quelle che potremmo chiamare le sue parti cristalline. (Lévi-Strauss 1971, p. 590)

Le varianti riscontrabili dipendono esclusivamente dalle diverse esigenze geografiche, sociali e economiche che caratterizzano le varie comunità 18, ma è comunque possibile ricostruire il processo di derivazione di ciascuna struttura mitologica da quelle precedenti. Tale visione, che potremmo definire una filogenesi collettiva, oltre tutto riesce abilmente a risolvere il secolare dissidio tra ontogenesi e filogenesi: vale a dire, tra il postulato degli archetipi collettivi ed eterni, da cui deriverebbero tutti i miti di qualsiasi tempo e luogo, e l’ipotesi di un processo di derivazione dei miti l’uno dall’altro, ricorrendo magari a filiazioni improbabili o a vere e proprie mitizzazioni dei «padri del mito» dalla insuperabile immaginazione (come nel caso di Omero). Un modello genetico simile è infatti ipotizzato anche per il mito classico da Blumenberg, il quale però pone l’accento sulla selezione non tanto delle varianti «più utili» alla comunità (come appunto Lévi-Strauss, per il quale il mito è un sistema di rappresentazione dei conflitti funzionale alla loro soluzione), bensì di quelle più «significative»: le versioni giunte fino a noi sarebbero il risultato di un lunghissimo processo di selezione orale, che avrebbe lasciato sopravvivere solo le varianti massimamente «pregnanti». Sempre dal saggio di Blumenberg proviene un’altra precisazione, a mio avviso particolarmente utile per illustrare la natura extratestuale del mito, cioè il fatto che il mito non intrattenga legami privilegiati con un particolare testo. Blumenberg distingue infatti tra le categorie di «mito» e «dogma», intendendo per quest’ultimo una storia che presenta le caratteristiche del mito, ma avente pretese di storicità e affidata a un unico «testo sacro» (come la Bibbia ebraica): in questo caso la storia rimane legata a un’unica formulazione, e non è possibile – almeno fin quando se ne riconosca la sacralità – proporne delle varianti, le quali sarebbero considerate una forma di eresia; al posto della rielaborazione, la ricezione del testo si esprimerà dunque attraverso la sua interpretazione. Questa distinzione permetterebbe anche di spiegare come mai i miti biblici e le storie dei Vangeli, che pure hanno avuto nella cultura occidentale un peso e una diffusione assai maggiore del mito classico, abbiano viceversa avuto una fortuna letteraria tanto più povera, almeno fino a tempi recenti.

18. «Ciascuna versione del mito tradisce quindi l’influenza di un duplice determinismo: il primo la ricollega a tutta una serie di versioni precedenti o a un insieme di versioni estranee, il secondo agisce in certo senso trasversalmente mediante costrizioni di origine infrastrutturale che impongono la modifica di questo o quell’elemento di modo che il sistema si riorganizza per adattare queste differenze a necessità di ordine esterno» (p. 592).

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IV. Un mito si manifesta come tale solo nel tempo. La dimensione temporale del mito è anch’essa assai importante ai fini di una definizione del mito. Infatti, una storia mitica dimostra sempre una «lunga durata», nel senso che può essere raccontata ancora a distanza di secoli o addirittura millenni dalla sua prima comparsa, e anche molto tempo dopo il tramonto della civiltà che l’ha prodotta. La sopravvivenza ai cambiamenti storici, geografici, culturali è consentita da una duplice possibilità strutturale del mito: quella di tollerare da un lato una pluralità di significati, dall’altro la ripetizione; anzi, si potrebbe tranquillamente affermare che il mito è una storia che invita costantemente sia a essere interpretata sia a essere ripetuta. Proprio quest’ultimo aspetto la differenzia dalle espressioni artistiche convenzionali, per le quali la ripetizione può configurarsi soltanto come citazione oppure come plagio; viceversa, un mito si manifesta come tale solo attraverso l’instaurarsi di una tradizione, una lunga serie di ripetizioni che depositano sulla sua struttura originaria i molti strati dei diversi significati e delle diverse versioni individuali: in altre parole, potremmo dire che un mito esiste soltanto perché e finché viene ripetuto. Per questo motivo, inoltre, la ripetizione del mito è sempre ripetizione esplicita; da un punto di vista opposto, andrà anzi precisato che, perché un racconto possa essere considerato una versione di un mito, l’unica condizione è che la struttura della storia mitica sia in esso ancora riconoscibile. Naturalmente non esiste un criterio per stabilire a priori quali siano gli elementi sui quali si basa una tale riconoscibilità – si può trattare di un’azione ben precisa (come il furto del fuoco) oppure di una situazione generica (un eroe si sacrifica commettendo un’azione illecita per salvare l’Umanità in pericolo); ma si può trattare anche di elementi molto più esterni e apparentemente irrilevanti, come la ripresa dei nomi propri (Prometeo, Zeus, Pandora). Al tempo stesso, una versione di un mito può presentarsi come una rielaborazione complessiva o soltanto parziale (possiamo incontrare versioni dell’Ulisse sedotto da Circe, o di quello costruttore del cavallo di Troia); per non parlare della complessità dei problemi di mediazione: talvolta il rapporto di un testo con un mito può essere individuato solo se si conosca la versione intermedia (così spesso riconosciamo l’Ulisse nelle sue versioni moderne solo passando per quello dantesco). Se da un punto di vista teorico la questione della riconoscibilità si presenta come un problema complesso e che non può certo essere affrontato nell’àmbito di queste brevi note, nella pratica e a livello testuale essa è spesso facilmente risolvibile: per ora dunque ci limiteremo a dire che un testo qualsiasi non può essere considerato una rielaborazione di un mito se questo mito non è in qualche modo riconoscibile in esso. V. I miti presuppongono e rispecchiano una logica mitica, una modalità del pensiero contraddistinta da caratteristiche e meccanismi diversi da quelli della logica teoretica o del senso comune. Anche questa annotazione può apparire banale, dopo un secolo di studi sul pensiero primitivo e sulla coscienza mitica da parte di etnologi, sociologi, psicoanalisti e antropologi; eppure si tratta di un aspetto di fondamentale importanza per affrontare la questione della mitopoiesi moderna, dal momento che essa cerca di imitare i prodotti della logica mitica con gli strumenti di una logica non mitica. In questo senso, l’appello novecentista a liberare l’immaginazione dal controllo della razionalità, l’opzione futurista per un atteggiamento infantile nei

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confronti del reale e dell’arte, la volontà pirandelliana di recuperare i contenuti profondi della psiche individuale e collettiva si configurano come tentativi di risolvere il problema mediante il ricorso a logiche strutturalmente affini a quella mitica e ancora disponibili per l’individuo moderno. Vedremo nel corso di questo studio se e come questi tre tentativi abbiano ottenuto i risultati sperati. Una descrizione dettagliata dei risultati ottenuti nel XX secolo dagli studi sulle caratteristiche della logica mitica occuperebbe decisamente troppo spazio per essere tentata nell’àmbito di queste note. Tra gli studiosi che hanno teorizzato una specificità del pensiero mitico rispetto alle altre forme di pensiero, andranno almeno ricordati i lavori di Èmile Durkheim (Le forme elementari della vita religiosa, 1912), e Lucien Lévy-Bruhl (La mentalità primitiva, 1922) che per primi cercarono di analizzare il rapporto tra pensiero mitico e logica razionale. Da questo punto di vista, un ruolo importante è stato svolto da Ernst Cassirer (1925 e 1956), il quale per primo ha studiato la logica mitica come una «forma simbolica» a sé stante, un modo di espressione avente caratteristiche diverse da quelle del pensiero concettuale. Il mito, infatti, si esprime mediante simboli, mentre il linguaggio concettuale si affida ai segni: mentre il segno è arbitrario, relazionale e in relazione univoca con il proprio significato, il simbolo è motivato, autonomo, polisemico; da questa opposizione linguistica fondamentale, Cassirer deriva le caratteristiche del sistema logico del mito e rispetto a quello del pensiero concettuale 19. Nonostante sulle sue ricerche gravi ancora indiscutibilmente il pregiudizio evoluzionista e teleologico dell’opposizione tra mythos e logos – pregiudizio comprensibile negli anni in cui gli studiosi europei e specialmente tedeschi assistevano con sgomento alla barbarie prodotta dal pensiero mitico 20 – il contributo dato dagli studi di Cassirer all’analisi dei tratti e dei meccanismi della logica mitica è stato determinante. Secondo Cassirer, il pensiero mitico si caratterizza principalmente per una triplice indistinzione di categorie che sono invece separate nella logica razionale: l’indistinzione tra il segno e l’oggetto, per cui il segno è immediatamente percepito senz’altro come la cosa in sé (la bandiera è la nazione, così come il pronunciare un nome rende presente la cosa che esso rappresenta); tra la categoria di successione temporale e quella di causalità (ciò che precede determina ciò che segue, dunque ogni inizio va inteso nel senso più ampio di principio); tra quella di somiglianza e quella di sostanza, da cui ha origine la credenza nei riti «magici» (l’acqua versata da una brocca somiglia alla pioggia, quindi il gesto di versare l’acqua ha il potere di far piovere); inoltre, il mito confonde la parte con il tutto, l’unico con il generale, la cosa con i suoi attributi. Negli anni Sessanta, sono poi arrivati i fondamentali studi di Lévi-Strauss, il quale, dapprima con Il pensiero selvaggio (1962) e poi nei quattro volumi di Mitologiche (1964-71), ha applicato allo studio del mito i metodi della linguistica strutturale, considerando il sistema mitico come un insieme relazionale, nel quale il significato di ogni elemento va ricavato dalle sue relazioni con gli altri, e spiegato

19. Per una critica delle teorie di Cassirer e più in generale degli studi simbolici sul mito vd. Vernant 1974, pp. 226 sgg. 20. Si legga per esempio il suo saggio La tecnica dei nostri miti politici moderni (1945), in Cassirer 1981, pp. 246-70.

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mediante la funzione che ciascuna relazione svolge all’interno del sistema di conoscenze della comunità e della sua organizzazione sociale. Lévi-Strauss ha così mostrato come il pensiero primitivo sia caratterizzato da un rigore e da una «scientificità» forse pari a quelli del pensiero da lui chiamato «positivo», e ne ha illustrato i meccanismi fondamentali: i sistemi di opposizioni binarie (a partire dall’opposizione fondamentale, quella tra «natura» e «cultura») o ternarie, le classificazioni su base totemica, la creazione dei miti – mediante la tecnica del «bricolage» – come sistema per mediare le contraddizioni della comunità e organizzare la conoscenza 21. La descrizione dei tratti del pensiero mitico è stata poi integrata dalle indicazioni di carattere tipologico offerte da Jurij Lotman e Boris Uspenskij (1973), i quali hanno analizzato il «carattere nominativo» del mondo mitologico, cioè la regola (comune alla logica della mentalità infantile) per cui il nome ha sempre valore di nome proprio e la specie si riduce a una somma di oggetti singoli e non classificabili secondo gerarchie logiche: così Dafne, per esempio, non si trasforma in una pianta della specie «alloro», bensì nell’alloro; allo stesso modo, nell’universo del mito non si può incontrare una stella o un fiume, poiché ogni elemento naturale ha un nome proprio e un’identità specifica. Inoltre i due studiosi hanno analizzato le caratteristiche del sistema spazio-temporale del mito, precisando come le dimensioni spaziali e temporali del mondo mitologico non si configurino come un continuum, una dimensione astratta che l’universo mitico può occupare in modo indifferenziato, bensì secondo un modello «a mosaico», in cui vi sia soluzione di continuità tra le varie sezioni dello spazio e porzioni del tempo. Per concludere questa rapida e inevitabilmente arbitraria carrellata, va nuovamente ricordato anche lo studio di Blumenberg su L’elaborazione del mito (1979), il quale, nonostante non tenti un’analisi sistematica della logica del mito, fornisce diverse indicazioni assai utili per integrare il quadro che ho sommariamente delineato. In particolare, Blumenberg ritiene che il meccanismo (e al tempo stesso lo scopo) fondamentale del «lavoro del mito» sia «l’eliminazione dell’arbitrarietà» (p. 69): ogni mitologia racconta di come l’universo da caos si sia fatto cosmo, mediante l’eliminazione dei «mostri», la genesi di ogni fenomeno di rilievo (naturale o sociale) e l’istituzione delle leggi che vi presiedono; e un mondo di cui si conosca l’origine, governato da Leggi stabili e note, privo di mostri, è ancora un luogo minaccioso, ma sicuramente più «affidabile» per l’uomo. VI. Il mito è una storia personale, indissolubilmente legata al nome o ai nomi propri dei suoi protagonisti: una caratteristica che rientra all’interno di quel «carattere nominativo» del mito puntualizzato da Lotman e Uspenskij. In questo senso, si dovrà parlare del mito di Teseo, e non del mito dell’eroe civilizzatore; o del mito di Achille, e non del mito dell’eroe guerriero: piuttosto, si potrà dire che i miti di Teseo e di Achille fanno riferimento, rispettivamente, al «paradigma» (se si preferisce, all’«archetipo») dell’eroe civilizzatore o a quello dell’eroe guerriero.

21. Non è tuttavia immediata l’applicazione al mito classico delle descrizioni fornite dall’antropologia strutturale: sia per i motivi di cui ho già discusso, vale a dire la sua costituzione come tradizione scritta anziché come corpus sincronico e «vivente», ma soprattutto perché tutti i testi che ci tramandano la mitologia classica sono il prodotto di una cultura che aveva da lungo tempo superato la propria fase primitiva o «selvaggia».

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Tra l’altro, anche questo è un tratto distintivo importante, perché aiuta a eliminare alcune confusioni che potrebbero insorgere tra il mito da un lato, e la fiaba, la parabola o l’allegoria dall’altro: infatti, se il mito non conosce nomi comuni, un racconto che abbia per protagonisti «il lupo» e «il cacciatore», ambientato in «un bosco», andrà inserito nella categoria della fiaba; potremmo anzi generalizzare il principio, dicendo che la fiaba ambienta la trama mitologica in un universo di nomi comuni. Un tale meccanismo viene ipotizzato anche da Vladimir Propp nella sua replica a LéviStrauss, pubblicata in appendice alla traduzione italiana (1966) del suo studio sulla Morfologia della fiaba (1928): «quando l’eroe perde il suo nome e il racconto perde il suo carattere sacrale mito e leggenda si trasformano in favola» (p. 225) 22. VII. I miti di una stessa cultura tendono a comporsi in sistema, nonostante molto spesso le condizioni che presiedono alla loro genesi (lunga e diffusa) comportino il verificarsi di contraddizioni e incoerenze nei collegamenti logici e cronologici tra una storia e l’altra. Tra i princìpi che regolano la composizione del sistema, Jesi sottolinea la centralità del principio genealogico: non solo il rapporto genealogico tra le varie figure, generazioni e famiglie del mito viene a configurarsi come la «forma mitica» fondamentale, ma anche un tale principio «risolve oggettivamente il paradosso fra l’apparente astoricità del mythos e la storicità delle sorti umane» (Jesi 1973, p. 23). Anche Vernant, prendendo le mosse dalla costruzione del sistema mitico nel poema esiodeo, sottolinea l’importanza del principio genealogico nel pensiero mitico, affermando anzi che esso è il criterio rappresentativo e organizzativo di ogni struttura mitica: Per il pensiero mitico, ogni genealogia è nello stesso tempo e nella stessa misura spiegazione di una struttura; e non c’è altro modo di rendere conto di una struttura che il presentarla sotto forma di racconto genealogico. (Vernant 1965, p. 16)

Mi sembra tuttavia un po’ azzardato affermare che il principio genealogico sia l’unico principio ordinatore del mito. È vero che esso organizza il sistema mitico sul piano temporale e su quello gerarchico, e tuttavia bisognerà perlomeno riconoscere l’importanza del principio spaziale come ulteriore elemento organizzatore; come ho già detto, Lotman e Uspenskij hanno mostrato l’importanza della dimensione spaziale del mito: data la sua costituzione «a mosaico», mediante accostamento di zone e oggetti distinti tra i quali vi è soluzione di continuità, spostandosi da un luogo all’altro dell’universo mitico possono modificarsi anche le norme fisiche, logiche, etiche, gerarchiche, e persino lo scorrere del tempo (Lotman-Uspenskij 1973, pp. 89-95). 22. Nella prospettiva di Propp, tuttavia, la priorità logica del mito sulla fiaba si trasforma in priorità cronologica: la perdita del nome proprio e la perdita di sacralità della vicenda mitica determinano la fine del mito in sé, la cui storia sopravvive solo nella forma fiabesca; di qui la polemica con Lévi-Strauss, che viceversa tra mito e fiaba ipotizza un rapporto di analogia e complementarità: «l’esperienza etnologica ci induce a pensare che, al contrario, mito e favola sfruttino una sostanza comune, ma ognuno alla sua maniera. La loro relazione non è di anteriore a posteriore, di primitivo a derivato, ma è piuttosto una relazione di complementarità. Le fiabe sono miti in miniatura, in cui le stesse opposizioni sono riportate in scala ridotta» (C. LÉVISTRAUSS, La struttura e la forma [1960], in Propp 1925, p. 183).

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VIII. I miti sono depositari dei valori di una comunità. Se il «valore» connesso ai miti è un fatto scontato per la comunità che li ha prodotti, lo è meno per quanto riguarda le culture che continuano a tramandarli pur non attribuendo loro il credito originario. Il «valore del mito» andrà perciò inteso nel senso più ampio e generico possibile: se per la comunità primitiva il mito ha un valore conoscitivo, per le civiltà più evolute i miti sono depositari di un sapere di natura diversa da quello scientifico; allo stesso modo, i miti possono perdere il loro aspetto sacrale e il legame con il culto e tuttavia conservare la loro funzione di simboli culturali. I miti, in generale, possono sopravvivere alla perdita del loro significato e della loro funzione originaria, alla fine della religione di cui erano espressione, del sistema morale e politico di cui erano la legittimazione e del paradigma scientifico di cui erano la rappresentazione narrativa – vale a dire, alla fine della civiltà che ha raccontato in essi la propria origine e i propri fondamenti. Eppure i miti conserveranno ugualmente un valore all’interno della cultura che continuerà a tramandarli, e continueranno ad essere tramandati proprio in quanto depositari di valori: per la tradizione occidentale, essi conservano intatto perlomeno il valore dell’antico, dell’originario, del primigenio e perciò appunto perfetto, non intaccato dalle impurità della storia e della razionalità moderna, costituzionalmente impoetica. Per la cultura occidentale, il mito ha costituito una sfida sempre attiva, per la propria antichità e al tempo stesso per l’eccezionale capacità di resistenza: una sfida valida tanto per gli interpreti, chiamati a indagare la natura di quel valore, quanto per gli artisti, chiamati invece a misurarsi con quel modello, per demistificarlo o per cercare di riprodurne la grandezza. In questa prospettiva, il senso stesso di inferiorità dei moderni nei confronti del mito, di perdita di quell’originaria pienezza, ma anche la ribellione ironica o astiosa nei confronti della sua autorità, sono pur sempre delle forme in cui il «valore» del mito continua a perpetuarsi 23.

3. Mitopoiesi novecentesche Il mito, ammesso per ipotesi che esista, è un qualcosa che l’uomo di oggi non può presupporre ‘come immediatamente dato dalla rappresentazione’. ‘Immediatamente data dalla rappresentazione’è bensì la mitologia. (Jesi 1973, p. 13)

La distinzione tra mito e mitologia è sottile e tuttavia fondamentale per il corretto inquadramento dello studio che mi accingo a svolgere. Nel suo tentativo di defi23. A questi tratti, che ho considerato fondamentali e distintivi del mito rispetto ad altre forme di espressione, potrebbero aggiungersene altri, che tuttavia non definirei come necessari e costitutivi del mito. Per esempio, i miti possono trattare di esseri superumani o fare riferimento a una realtà soprannaturale; possono far parte delle credenze di una comunità; possono essere veicolati da forme (letterarie o visive) che rientrano nella sfera del sublime. Ma è anche vero che la sostanza di molti miti (quello di Fedra, o quello di Edipo) non dà particolare spazio al soprannaturale; inoltre, è difficile che il credito accordato a un mito sia totale e incondizionato, se non nelle culture allo stadio iniziale della loro evoluzione, ed è spesso implicito che in esso vi sia una certa dose di invenzione; infine, i miti possono collocarsi agevolmente in tutti i generi e modi consentiti dalle convenzioni artistiche di un dato periodo, dal dramma satiresco al film hollywoodiano. Perciò sarà forse più corretto considerare questi e altri tratti come tipici del mito, ma non essenziali né necessari alla sua definizione.

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nire «il concetto di mito nell’ambito di una enciclopedia» (p. 8), Furio Jesi inquadra la moderna «scienza del mito» come la paradossale scienza di un oggetto sulla cui sostanza non possiamo formulare alcuna ipotesi, neppure quella basilare e indispensabile dell’affermarne o negarne la stessa esistenza. La «scienza del mito» viene dunque a costituirsi come scienza di ciò che per definizione non c’è – non è mai stato; oppure fu, ma è perduto; oppure è estraneo all’essere e gode di un’‘esistenza’tra virgolette, sui generis. (p. 83)

Al di là delle considerazioni sulla distanza incolmabile che ci separa dagli antichi, o dai popoli cosiddetti «primitivi», l’accostamento dei moderni al mito – sia come oggetto di studio, che di fruizione estetica o rielaborazione artistica – si configura immancabilmente come accostamento a un oggetto dai poteri magici, in grado di offrire pienezza di vita e di senso, ma al tempo stesso impossedibile, poiché inesistente oppure perduto, e con il quale sia possibile entrare in rapporto solo attraverso il filtro delle sue rappresentazioni individuali che si sono venute accumulando nei millenni – appunto, la mitologia: La parola ‘mitologia’ […] rinvia a un oggetto ‘immediatamente dato dalla rappresentazione’: ai racconti «intorno a dèi, esseri divini (daimónon), eroi e discese nell’aldilà» (Platone, Repubblica, 392 a) che la Grecia trasmise a Roma e che furono poi accolti dall’umanesimo. (p. 14)

La mitologia verrebbe dunque a essere l’unico nostro legame con il mito, l’involucro dietro il quale il lettore moderno intuisce il pulsare di quel nucleo di pienezza vitale e di senso, ma al tempo stesso anche lo schermo opaco che lo separa definitivamente da esso. La nostalgia moderna di quella supposta originale pienezza perduta compare per la prima volta sul finire del XVIII secolo, configurandosi come rimpianto per la perdita tanto della funzione legittimante, stabilizzatrice e consolatoria del mito, quanto di una letteratura autorevole ma anche collettiva, espressione degli ideali di tutto un popolo: non a caso, è proprio allora che dalla consapevolezza della incolmabile distanza dagli antichi (una distanza resa lampante dalla critica illuminista) nascono per la prima volta l’auspicio e la richiesta di una nuova mitologia, di una mitologia moderna 24 . Quella nostalgia viene variamente declinata nel corso dell’Ottocento, e si acuisce particolarmente verso la fine del secolo, assumendo il tono tragico dell’elegia di Nietzsche sulla perduta «patria mitica» ma anche il fervore palingenetico dei Grandi iniziati (1899) di Edouard Schuré: ancora, il rimpianto per il mito perduto e l’auspicio per la rinascita del mito procedono appaiati, facce opposte – disforica e euforica, apocalittica e utopica – della stessa medaglia. Nella letteratura della prima metà del Novecento si registra così un massiccio ritorno al mito, in varie forme. Da un lato c’è chi, aggiornando l’esempio di simbolisti e decadenti, si protende ancora nostalgicamente verso un universo beato di cui lamentare la perdita – magari traendone gli strumenti per una critica alla cultura e

24. Per tutta questa questione vd. ancora Frank 1982.

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alla civiltà moderna – come avviene in Ezra Pound, che alterna l’aperta irrisione del mito al canto sulle sue rovine; oppure in certe opere di Alberto Savinio, per esempio i racconti di Achille innamorato (1938), nei quali il mito viene messo a reagire con una modernità degradata e degradante, e infine dichiarato inutile da Chirone, che fa una breve puntata all’ippodromo prima di rassegnarsi a scomparire per sempre (Savinio 1938, pp. 74-75). La parodia diventa allora uno strumento essenziale dell’armamentario dell’artista, l’estrema risorsa formale attraverso la quale il rimpianto possa ancora essere espresso: nel vincolo che unisce il parodista all’oggetto della parodia è lecito riconoscere la sopravvivenza di un’antica commozione, le tracce di un amore contro cui si lotta, ma che non si può sopprimere 25. (Jesi 1968, p. 189)

Ma c’è anche chi invece proclama che «il gran Pan non è morto» 26, e che il mito è solo assopito sotto le spoglie del «grigio diluvio democratico», pronto a tornare agli antichi splendori se l’artista sapiente sappia trovare le parole magiche per richiamarlo in vita: come le formule vagamente posticce del d’Annunzio tragico, di cui il futurismo potrà facilmente farsi beffe, o i più efficaci incantesimi messi in atto nelle liriche di Maya e di Alcyone (1902-3). Il mito sopravvissuto o risorto può assumere le sembianze di una dimensione altra dell’universo, in cui l’artista e i suoi seguaci possano trovare rifugio da quello che lo Stephen Dedalus joyciano chiama «l’incubo» della storia 27; ma può anche prendere le sembianze di quella storia stessa, diventando così lo strumento della sua rappresentazione allegorica o della sua comprensione. Si tratta di una via che gli artisti primonovecenteschi hanno ampiamente praticato, con mezzi, fini e risultati diversi – da André Gide a Jean Cocteau, da T. S. Eliot nuovamente a Savinio (stavolta quello di Capitano Ulisse, 1925), da Jean Anouilh al Bertolt Brecht dell’Antigone (1948). A seconda delle scelte ideologiche e di poetica, il mito può essere la risposta a un’opzione antiavanguardista, un formidabile strumento di indagine, un ricco repertorio da sfruttare per costruire allegorie e parabole, una via verso il fondo archetipico dell’immaginario collettivo, un banco di prova per le regole di una nuova poetica: in ogni caso, si tratterà sempre di un mito modernizzato, sul piano dei significati ma spesso anche su quello dell’ambientazione, aggiornato dalle teorie di Freud, Marx, Jung o Frazer – secondo, naturalmente, l’inclinazione dei rispettivi autori. L’attualizzazione del materiale mitico non si limita dunque a un meccanico riadattamento cronologico, ma spesso al contrario interviene profondamente sul modello mitico e sul suo significato, raggiungendo risultati di grande rilievo tanto sul piano del senso che su quello dell’originalità. Percorrendo una via opposta e complementare, il mito può anche incarnarsi nella Storia stessa, trasparire dalla contingenza come il fondo ultimo e universale

25. Per un inquadramento del meccanismo della parodia come forma estrema e dissimulata di adesione vd. Orlando 1982. 26. Il grido proviene dall’Annunzio che apre le Laudi (1903; l’affermazione viene ripetuta ai versi 117, 120 e 124) di d’Annunzio; ma non va dimenticato che già Carducci, nella sua A Nicola Pisano, proclamava che «Pan è risorto». 27. «History, Stephen said, is a nightmare from which I am trying to awake» (Joyce 1922, p. 35) [«La storia, disse Stephen, è un incubo da cui cerco di destarmi» (trad. 1991, p. 35)].

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degli accadimenti e degli individui – sia di quelli ‘eccezionali’, come Mussolini e l’Impero «rinato», che di quelli più modesti e quotidiani, come Leopold Bloom e i banali eventi di un qualsiasi 4 giugno dublinese. Non avremo più dunque il mito modernizzato, nello spirito o nel décor, bensì sarà la modernità stessa a venire mitologizzata: in altre parole, anziché adattare il mito a una diversa ambientazione, è il reale a venir ‘adattato’ al mito, ovvero reinterpretato e ordinato secondo lo schema del mito. In tal modo il mito può divenire filtro interpretativo del reale, metodo per ordinare il caos della storia e quello della banalità quotidiana 28, strumento della rappresentazione degli stati profondi della psiche e principio costruttivo dell’opera narrativa – in sostituzione di un’utopia dell’oggettività della rappresentazione artistica che cominciava gravemente a vacillare: La poetica della mitologizzazione è uno dei metodi utilizzati dopo l’abbandono, o almeno il grave indebolimento, della struttura del romanzo classico del XIX secolo; si tratta di un metodo fondato dapprima su paralleli e simboli che aiutano a ordinare il materiale della vita contemporanea e a strutturare l’azione interiore, quindi sulla creazione di un autonomo soggetto ‘mitologico’ che struttura contemporaneamente la coscienza collettiva e la storia universale. (Meletinskij 1976, pp. 368-69)

Come si può cogliere anche da questa frettolosa carrellata, i modi e significati del mitologismo novecentesco sono assai vari, tanto che qualsiasi tentativo di schematizzazione non può che risultare riduttivo 29. Possiamo però osservare che le maniere di accostamento al mito che ho fin qui rapidamente enumerato si caratterizzano tutte come un ritorno al mito, una rivitalizzazione di tradizioni mitologiche già date: l’autore può anche abbandonare la tradizione classica e rivolgersi a quella biblica, germanica, cristiana, celtica (come avviene per Thomas Mann, Eliot, Joyce o Yeats), magari contaminando tradizioni diverse, ma comunque la sua opera si pone esplicitamente (fin dal titolo) come rielaborazione più o meno libera di materiali mitologici preesistenti. Nei confronti del mito è però possibile incontrare anche un atteggiamento diverso: quello di chi nutre l’illusione che solo il mito classico sia definitivamente perduto dietro lo schermo appunto insuperabile di una millenaria mitologia; ma che il mito, in sé, la sorgente di quella originaria pienezza, svincolata dalle forme imposte dalla tradizione, sia ancora accessibile. Si tratterà dunque di quell’auspicato mito «nuovo», il mito «moderno»: l’artista, stanco di riscrivere i vecchi miti, si rifà Omero, ritorna mitopoieta e inventa lui stesso i miti dei quali servirsi nelle pro-

28. Vd. la nota recensione di T. S. Eliot all’Ulysses di Joyce, Ulysses, order and myth (1923). 29. Come per esempio il tentativo di Fausto Curi, che in La scrittura e la morte di Dio (1996) cerca di far quadrare il conto del mitologismo novecentesco forzandolo all’interno di due sole categorie, la demitizzazione umoristica e la soggezione al fascino del mito. Dato che Curi orienta la sua analisi in senso etico, affermando che se «la modernità letteraria ha un senso in rapporto al mito, questo senso sono il rifiuto e la negazione del mito» (p. 4), è poi obbligato a vistose forzature, come quella di inserire il «progressista» Joyce nella categoria della demitizzazione, adducendo la ragione che nonostante Joyce adotti una materia mitologica, il suo lavoro su di essa è totalmente antimitico (grazie alla scrittura dissacratoria, alla relativizzazione dell’oggetto e alla «democrazia diegetica», p. 55); oppure di accogliere tra i critici del mito tutti gli autori dell’umorismo italiano (Pirandello, Gadda, Palazzeschi, ecc.).

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prie opere. Un tale miracolo, invano auspicato dai romantici, verrebbe ora finalmente reso possibile grazie all’avvento di una Nuova Era, che chiude il ciclo della vecchia tradizione occidentale e ne apre uno nuovo, era che i futuristi vedono sorgere insieme con il nuovo secolo, mentre il novecentismo la farà cominciare con la fine della prima guerra mondiale: una cronologia sancita storicamente dall’avvento del fascismo, con la sua utopia dell’impero risorto e il suo corredo di riti e simboli, primo tra tutti l’adozione del nuovo computo degli anni. In entrambi i casi, il mito viene visto come un prodotto del tempo, un effetto naturale del nuovo inizio – sebbene all’artista spetti il cómpito di aiutarlo a venire alla luce. Un po’diverso il senso della mitopoiesi pirandelliana: per Pirandello, l’artista può sempre scrivere miti, senza dover attendere il nuovo inizio, ma dovrà cercarne l’ispirazione mediante la dolorosa discesa «nell’abisso» del mistero universale e dell’animo umano, dove zampilla la sorgente degli archetipi che danno vita a ogni mito, e dove dunque l’originaria ispirazione mitica può venire eternamente rinnovata. Nonostante le differenze, tuttavia, in tutti e tre i casi ci troviamo dinanzi a dei fenomeni riconducibili alla concezione mitica descritta da Mircea Eliade nel suo celebre saggio Il mito dell’eterno ritorno (1949). La tesi di Eliade è nota 30: l’affermarsi della concezione storicista, con la sua visione dell’esperienza umana orientata in una inarrestabile progressione lineare, impone una soluzione al problema morale e psicologico del «male della storia», la sofferenza e le ingiustizie ontologicamente connesse con il tempo storico. Il problema del male della storia accompagna da sempre lo sviluppo della civiltà: infatti lo si incontra già nelle società primitive, le quali rifiutano lo scorrere lineare per trovare consolazione e speranza grazie alle teorie cicliche e ai riti per la rigenerazione del tempo. Si tratta di concezioni che possono presentarsi sotto due forme: da un lato, il reale viene ricondotto all’archetipo mitico e giustificato mediante il ricorso a un passato prestorico; dall’altro, la storia si caratterizza come un percorso orientato verso una fine cui seguirà un nuovo inizio, e dunque la giustificazione del male presente passa per un ricorso a un futuro che terminerà la storia. L’unica via per superare la concezione ciclica primitiva senza precipitare nella disperazione e nel «terrore della storia» è, secondo Eliade, una filosofia della libertà che non escluda Dio. È peraltro quello che si è verificato quando l’orizzonte degli archetipi e della ripetizione è stato per la prima volta superato dal giudeo-cristianesimo, che ha introdotto, nell’esperienza religiosa, una nuova categoria: la fede. Non bisogna dimenticare che, se la fede di Abramo si definisce in questo modo: «Per Dio tutto è possibile», la fede del cristianesimo implica che tutto è possibile anche per l’uomo. (Eliade 1949, p. 202)

Ma il venir meno della fede religiosa, con la sua speranza di giustizia e beatitudine post mortem, precipita l’uomo moderno più profondamente in quella dispera30. Ed è stata sufficientemente analizzata e fatta oggetto di critica tanto da parte degli studiosi del mito quanto da quelli dell’ideologia. Per quanto mi sembri una forzatura affermare che «Eliade è un apologeta della mitopoiesi in contrapposizione allo storicismo» (Meletinskij 1976, p. 69), trovo comunque che la sostanza della critica di antistoricismo e fatalismo conservatore rivolta a Eliade sia pienamente condivisibile; e tuttavia il suo saggio rimane un passaggio fondamentale per capire la natura e il significato implicito del mitologismo novecentesco.

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zione dalla quale il Cristianesimo l’aveva protetto per quasi due millenni. Ecco allora che tornano in auge le concezioni cicliche e che l’orizzonte mitico torna a costituirsi come via di fuga dal «terrore della storia», un annullamento nell’immobilità del percorso circolare dello scorrere del tempo lineare e del male a esso ontologicamente connesso. Se tuttavia il mitologismo novecentesco per Eliade è pervaso dalla «nostalgia del mito dell’eterna ripetizione e, in fin dei conti, dell’abolizione del tempo» (p. 193) 31, gli autori italiani dei quali vorrei occuparmi aderiscono invece pienamente alla concezione ciclica, all’utopia della rigenerazione del tempo e della storia mediante l’inizio di un nuovo ciclo (nel caso di Bontempelli e dei futuristi) o il ritorno all’originaria sorgente archetipica (nel caso di Pirandello). La storia non è più la condanna dell’uomo cacciato dal paradiso degli archetipi e scagliato privo di guida e conforto nel tempo profano, bensì si fa teatro del mito nuovo, spazio sacro del rito di rigenerazione collettiva – rigenerazione storica e politica, nel caso di Bontempelli e del futurismo, o soltanto morale ed estetica, nel caso di Pirandello. Mi è parso dunque che questa posizione singolare, e le coincidenze tra il tentativo mitopoietico di Pirandello, quello di Bontempelli e quello futurista meritassero un’analisi più approfondita: nel panorama del mitologismo novecentesco, sostanzialmente orientato a rielaborare e rinnovare le diverse tradizioni mitologiche, queste tre esperienze rappresentano un’anomalia piuttosto vistosa, soprattutto perché concentrate in uno stretto giro di anni (dal 1909, data della fondazione del futurismo, alla fine degli anni Venti, in cui si collocano i primi due miti pirandelliani e la breve parabola della rivista «900») 32 e nell’àmbito di una stessa letteratura nazionale – pur trattandosi di autori che si differenziano notevolmente sia nella concezione che nella pratica artistica. Sarebbe troppo semplice far derivare la coincidenza dalla comune matrice fascista: anzitutto perché le adesioni al fascismo di Marinetti, Bontempelli e Pirandello ebbero natura e significato diversi; ma soprattutto, il forte interesse del fascismo nei confronti del mito – interesse ovvio, per le potenzialità del mito di cementare la coesione collettiva e legittimare il potere – era orientato soprattutto verso la rivitalizzazione di mitologie tradizionali, manipolate in modo da supportare il regime e dar sostanza ai suoi cerimoniali collettivi. Viceversa il fascismo non provò mai particolare interesse nei confronti dei «nuovi miti» – deludendo oltretutto le aspettative di Bontempelli e di Pirandello, che si aspettavano sia dal regime sia dal pubblico fascista maggiori plausi di quelli che in realtà le loro opere ricevettero 33. Nel séguito di questo studio cercherò dunque di delineare la modalità e il significato delle operazioni mitopoietiche di Filippo Tommaso Marinetti, Massimo Bontempelli e Luigi Pirandello, e proveremo a capire quali siano stati i risultati e il valore di questi tre tentativi.

31. A tale proposito, Eliade cita esplicitamente i casi di Eliot e Joyce. 32. Non ci sarebbe bisogno di puntualizzare che si tratta anche di autori appartenenti alla medesima generazione: Pirandello è nato nel 1867, Marinetti nel 1876 e Bontempelli nel 1878. 33. Come si sa, la delusione di Bontempelli si tramutò in dissenso e poi in aperta rottura con il regime nella seconda metà degli anni Trenta; mentre quella di Pirandello, inasprita dalla censura fascista nei confronti della Favola del figlio cambiato, si concretizzò nel velato sfogo dei Giganti della montagna.

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1. Il futurismo: mito e modernità 1

«Fiat ars – pereat mundus», dice il fascismo, e, come ammette Marinetti, si aspetta dalla guerra il soddisfacimento artistico della percezione sensoriale modificata dalla tecnica. È questo, evidentemente, il compimento dell’arte per l’arte. L’umanità, che in Omero era uno spettacolo per gli dèi dell’Olimpo, ora lo è diventata per se stessa. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936)

1. Mito e mitologia n una rassegna degli atteggiamenti verso il mito nella letteratura del primo Novecento, il futurismo merita un’attenzione particolare, non tanto per l’ampiezza del suo ricorso ai materiali mitici, quanto per l’ambiguità della sua posizione nei confronti del mito e della mitologia, nonché per la tipologia dei problemi che un’analisi di questo aspetto del movimento comporta. Una prima difficoltà – nella quale si imbatte chiunque si accinga a un’analisi del futurismo che abbia pretese di organicità – è l’estrema elasticità dei sistemi simbolici utilizzati nella rappresentazione del reale: da un lato infatti c’è una permanenza relativamente stabile degli schemi di base (per esempio le opposizioni futurismo vs passatismo, giovane vs vecchio, dinamico vs statico, maschile vs femminile, e così via), e dell’attribuzione al loro interno dei valori positivi e negativi 2; tale permanenza tuttavia non impedisce che vi sia invece una grande incoerenza nei significati e nel valore attribuiti ai singoli motivi nel tempo, e tra un testo e l’altro. Un elemento, un oggetto o una situazione possono subire volta a volta un trattamento radicalmente opposto e slittare dall’uno all’altro polo, a seconda delle esigenze di genere e del messaggio complessivo che il testo deve trasmettere: da qui derivano buona parte delle difficoltà cui va incontro chi voglia tracciare una ‘mappa’, sia pure parziale, dell’immaginario futurista. Per fare un esempio relativo ai testi di cui

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1. Una parte di questo capitolo (poi ampiamente modificata) è già stata pubblicata sulla rivista «Humanitas», come contributo al numero speciale dedicato a Il mito nella letteratura italiana del ’900 (Gibellini 1999, pp. 653-71). 2. Che negli esempi da me riportati prevedono sempre il valore positivo sul primo polo dell’opposizione e il negativo sul secondo.

IL FUTURISMO: MITO E MODERNITÀ

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mi occuperò tra breve, al motivo del Mare possono essere assegnati, in testi dello stesso anno (1909), valori completamente opposti. Se infatti esso è elemento positivo e ‘futurista’ per eccellenza in Uccidiamo il chiaro di Luna! (in cui l’Oceano è il fido alleato dei ribelli futuristi contro l’orda passatista, e travolge il vecchio mondo in una moderna riedizione del mito del diluvio), in Mafarka il futurista, invece, a causa della congiunzione con l’elemento femminile seduttivo (l’acquatica Sirena Colubbi) il mare diviene obiettivo polemico per il semidio Gazurmah: Quanto a te, Mare, io ti disprezzo… O pesante Mare sonnolento con le tacche azzurre delle tue onde metalliche a cui s’appendono e si arrestano le navi, come lente ruote… Oh, quanto mi divertirò a vederti tremare per tutte le membra, allorché la burrasca ti afferra e ti piomba addosso, serrata e massiccia, in un accanito e profondo assalto!… (Marinetti 1910, p. 290)

In particolare, per analizzare il rapporto del futurismo con il mito, è necessario tener conto di altri due ordini di problemi. Il primo riguarda l’aspetto della mediazione moderna nella rielaborazione di materiali mitologici classici. Come è stato spesso sottolineato dalla critica 3, l’ironia crepuscolare prima, la ribellione futurista poi contribuiscono a determinare la fine della figura ideale dello scrittore umanista, del letterato nutrito di buone letture e di un’assidua frequentazione con i classici. E infatti il rapporto con la mitologia classica per la generazione futurista non passa per una fruizione diretta delle fonti antiche, bensì viene mediato dalle versioni moderne; in particolare, per Marinetti è determinante il ruolo rivestito dall’opera di Dante, di d’Annunzio e dei romantici e simbolisti francesi. Se dunque ci imbatteremo in casi di riuso di materiali mitologici classici, sarà necessario compiere un’operazione di contestualizzazione; e soprattutto andrà tenuto presente che l’attacco diretto o la parodia futurista di materiali mitologici comporta e anzi significa sempre l’attacco alla «vecchia letteratura» attraverso uno dei suoi modelli dominanti. L’ostentata rottura con la tradizione letteraria, che è uno dei punti di forza – sebbene dalle ambigue applicazioni – del programma futurista, è anche un dato fondamentale per impostare il problema della sopravvivenza dell’ideale mitico nella produzione letteraria del movimento: non ha infatti molto senso parlare di rielaborazione consapevole del mito, dal momento che anzi il futurismo afferma subito e a chiare lettere – lo vedremo – il proprio rifiuto della mitologia insieme con quello della tradizione tutta. Eppure l’ideale mitico gioca un ruolo importante nell’ideologia e nella pratica artistica del movimento, ed è anzi possibile rintracciare tanto nei manifesti quanto nelle opere del gruppo un’incessante, accanita aspirazione al mito. Solo che questa ricerca di miticità andrà intesa non tanto come una rivalutazione o rifunzionalizzazione di materiali mitologici preesistenti, quanto piuttosto come un’illusione di ritorno a una mitopoiesi originaria, dettata da quella che potremmo definire «l’utopia euforica del punto zero», cioè la convinzione che il momento storico presente sia l’inizio di una nuova era culturale. Il presente non è più un tempo desacralizzato, del quale lamentare l’isterilimento e la decadenza,

3. Vd. per esempio Sanguineti 1961.

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bensì una nuova «era mitica», in cui il miracolo delle origini si rinnova nel presente grazie alla nascita di una nuova civiltà e una nuova umanità. A loro volta, i cantori della nuova epoca mitica partecipano attivamente e in prima persona al suo avvento, nuova razza di poeti-eroi che, sulle orme del d’Annunzio fiumano, spazza via lo stereotipo del poeta cólto e contemplativo tardoottocentesco. Così l’artista futurista – a differenza del suo predecessore simbolista – non si protende nostalgicamente verso un mondo di immagini e favole perdute, bensì raccoglie dalla realtà che lo circonda e dalla propria stessa esperienza gli oggetti poetabili. Rivelatrici risultano in tal senso le ragioni addotte da Marinetti per il suo ripudio dei «padri simbolisti» in Guerra sola igiene del mondo (1915): Noi abbiamo sacrificato tutto al trionfo di questa concezione futurista della vita. Tanto, che oggi odiamo dopo averli immensamente amati, i nostri gloriosi padri intellettuali: i grandi genî simbolisti Edgar Poe, Baudelaire, Mallarmé e Verlaine. Noi serbiamo loro rancore, oggi, di aver nuotato nel fiume del tempo, tenendo continuamente rivolta indietro la testa, verso la lontana sorgente azzurra del passato, verso il «ciel antérieur où fleurit la beauté» 4. Per quei genî non esisteva poesia senza nostalgia, senza evocazione di tempi defunti, senza bruma di storie e di leggende. Noi li odiamo, i Maestri simbolisti, noi che abbiamo osato uscir nudi dal fiume del tempo e creiamo nostro malgrado, coi nostri corpi scorticati sulle pietre dell’ascesa dirupata, nuove sorgenti di eroismo che cantano, nuovi torrenti che drappeggiano di scarlatto la montagna. (Marinetti 1983, p. 302)

Si potrà certamente discutere (e in parte infatti ne discuteremo) di quanto vi sia effettivamente di nuovo negli oggetti che il futurismo sostituisce al repertorio simbolista; ma è immediatamente evidente la vera novità della nuova poetica: vale a dire il fatto che gli oggetti cantati non sono più perduti, bensì presenti, immediatamente fruibili, mostrabili e addirittura propagandabili. Allo stesso modo, l’artista futurista non ha più bisogno di trasfigurare il presente rivestendolo di una patina mitologica oppure mostrando in trasparenza l’archetipo mitico ancora attivo al di sotto dell’oggetto presente – che è la duplice via che era stata seguìta da d’Annunzio, rispettivamente nella lirica e nei romanzi –, poiché l’oggetto presente è assunto immediatamente all’interno del mito, partecipa del mito in tutta la sua essenza – ma non più del mito degli antichi, della sorgente originaria inaridita dalla storia oppure offuscata da una contingenza opacizzante, bensì del mito nuovo, di una sorgente nuova e immediatamente disponibile. Vengono dunque scartate tanto l’alternativa simbolista quanto quella dannunziana 5: da un lato, infatti, alla poetica simbolista dell’assenza e della perdita il futurismo sostituisce una poetica della presenza e dell’abbondanza; dall’altro lato, la

4. La citazione proviene da Les Fenêtres (1863, raccolta in Du Parnasse Contemporain) di Mallarmé (Mallarmé 1941, pp. 32-33). 5. Naturalmente la definizione di «soluzione dannunziana» si giustifica solo in quanto d’Annunzio è, tra i grandi ‘mitologi del presente’, il più vicino cronologicamente, e pertanto l’esempio più immediato con il quale gli autori del primo Novecento potevano confrontarsi. Il procedimento di trasfigurazione della contemporaneità mediante il ricorso a materiali mitologici è, com’è noto, uno dei filoni più solidi e praticati della elaborazione del mito nelle letterature occidentali.

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poetica dannunziana della trasfigurazione mitologica del presente è rimpiazzata dalla poetica futurista della celebrazione del presente mitico. L’avvento della «nuova era» va però preparato e propiziato mediante la distruzione parodica degli estremi esiti di quella vecchia. In questo senso, è possibile leggere il complesso dei testi prodotti nei primi due decenni del secolo da questi autori come un colossale tentativo – sebbene variamente articolato e spesso contraddittorio – di chiudere un’epoca facendo piazza pulita dei suoi modelli letterari: mediante la parodia dei miti dannunziani, e più in generale dell’idea tradizionale di Arte; e al tempo stesso mediante lo smascheramento comico-demistificante dei cliché (l’amore romantico, il triangolo borghese, la donna fatale e così via); mediante, soprattutto, la sistematica demolizione della sua mitologia. Quindi, si potrebbero in qualche modo rintracciare due fasi di uno stesso processo – fasi che indicherò con due slogan particolarmente significativi, coniati proprio da Marinetti: 1. La mitologia e l’ideale mistico sono superati 6. 2. Gli uomini ridiventano mitici 7. La distinzione tra le due fasi non è tuttavia immediata come ci si potrebbe aspettare – e vengo al secondo ordine di problemi di cui dicevo – perché le due fasi non sono distinte cronologicamente, bensì avvengono in contemporanea (i due slogan marinettiani che ho citato sono infatti entrambi tratti da testi del 1909); e, anzi, sono proprio il processo e le modalità di quella demolizione che vengono assunti come tema principale dei nuovi miti. In sostanza, il futurismo demolisce la desueta mitologia per aprire la strada al nuovo mito, e, al tempo stesso, il nuovo mito si configura principalmente come racconto dei modi di quella demolizione. La distinzione è evidente eppure sottile, e l’ambiguità non sta solo nel fatto che il contenuto della nuova forma è il rovesciamento stesso della vecchia forma, ma nella ovvia conseguenza che di quella vecchia forma vengono in tal modo conservati gli oggetti, sia pure alterati, modernizzati o impietosamente aggrediti, eppure comunque salvati dall’estinzione, in qualche modo sottratti alla loro inattualità. L’esempio forse più eclatante di questo meccanismo lo ritroviamo proprio nel trattamento futurista del motivo del chiaro di Luna: in Uccidiamo il chiaro di Luna! (1909), come vedremo, esso è assunto a simbolo della vecchia mitologia tutta, di tutto il complesso di oggetti, sentimenti e stili di cui il futurismo vuol fare piazza pulita; e il chiaro di Luna sarà ancora simbolo passatista per eccellenza in uno dei drammi selezionati da Marinetti per la raccolta del 1916 del Teatro Futurista Sintetico, ovvero Chiaro di luna tricolore di Oscar Mara, nel quale il romantico e attempato professore tedesco, che si trova a Venezia con la sua amante per fare i «bagni di luna», viene ucciso dai riflettori bianchi, rossi e verdi con i quali i futuristi riescono a soppiantare il lume dell’astro. Eppure lo stesso Marinetti, cinque anni prima della nascita del futurismo, in uno dei suoi scritti francesi e prefuturisti, intitolato La momie sanglante (1904),

6. Fondazione e Manifesto del Futurismo (1909) in Marinetti 1983, p. 8. 7. Prefazione futurista a «Revolverate» di Gian Pietro Lucini (1909), in Marinetti 1983, p. 28.

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aveva fatto omaggio a quella poetica lunare che sarebbe poi stata ferocemente attaccata nei manifesti. È un testo che si rifà, per temi e atmosfere, a un certo estetismo macabro e esotico alla Gautier: la mummia del titolo è Ilaï, figlia del faraone e devota della Luna, che si è uccisa a causa di un amore proibito (e, truce dettaglio, ha fatto recapitare all’amante il proprio cuore); risvegliatasi nella sua cripta egiziana in una notte iperlunare, la donna mummificata ma ancora trepidante e appassionata eleva alla «blanche lune» il proprio lamento di dolore per la separazione dall’uomo amato, e maledice l’astro che non le ha concesso di unirsi a lui neppure nel sonno eterno. E le rabbiose invettive del 1909 contro l’astro istigatore delle sensuali passioni non impediranno a Marinetti di effettuare una romantica passeggiata al chiaro di Luna, per giunta sulla riviera ligure, in L’alcova d’acciaio (1921) – sia pure in un contesto futuristicamente ineccepibile: la passeggiata infatti fa parte di un corteggiamento assai atipico, diretto cioè non a una donna, bensì a un’automitragliatrice blindata che l’autore ha ricevuto in dotazione; e sei anni prima Marinetti era ricorso proprio al gelido lume lunare per creare l’inquietante ambientazione di una grottesca scena sentimentale, rappresentata in un’altra sintesi del 1915, intitolata, per l’appunto, Un chiaro di luna – compenetrazione alogica 8. Insomma, sia pure aggredendolo, rendendolo idolo polemico, Marinetti perpetua il mito del chiaro di Luna, in qualche modo salvandolo dall’usura romantica e addirittura facendone una costante nell’immaginario futurista in generale. L’intrinseca contraddittorietà di una simile operazione rispecchia per altri versi l’aporia fondamentale del gesto futurista, che mira ad abbassare l’arte (o meglio, a indicarne l’abbassamento in atto) al rango di merce, privandola della duplice opzione da un lato sulla soggettività individuale, e dall’altro sugli eterni valori, per renderla fedele specchio della contingenza; e tuttavia il mutamento dello status dell’opera d’arte ha lo scopo di conservare il ruolo socialmente privilegiato dell’artista, mediante la sua trasformazione in profeta della modernità e della collettività urbana e meccanizzata. Allo stesso modo, l’omologazione dell’arte allo sviluppo meccanico e tecnologico porta alla costituzione di quello che è stato definito un «sublime dell’effimero» (Luperini 1990, p. 126) 9, ma tuttavia consente, proprio grazie al recupero del legame tra arte e realtà economico-sociale, una contemporanea restaurazione della sua supremazia tra i prodotti umani. Solo in una simile prospettiva è spiegabile come, in tempi di «perdita d’aureola» (Curi 1977) e di crisi d’identità degli artisti, privati di una funzione sociale privilegiata, Marinetti possa ancora nutrire l’utopia di un partito politico di artisti, e di una forma di governo basata sulla supremazia dell’arte tra le attività umane, di cui è testimone esemplare uno scritto come Democrazia futurista (1919). La storia, come sappiamo – e come in parte vedremo – gli dimostrerà l’irrealizzabilità del suo disegno. 8. È contenuto in Marinetti 1915. 9. Anche Romano Luperini interpreta il fenomeno futurista non come una rottura bensì come estremizzazione della tradizione romantica; nella sua lettura, il segnale di questa posizione è il mancato approdo all’allegorismo modernista: con il ricorso all’intuizione e all’analogia, la poetica futurista tradisce le sue radici simboliste, dalle quali – a prescindere dalle dichiarazioni d’intenti – non riesce mai sostanzialmente a svincolarsi.

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Ma, a dispetto delle intenzioni, è solo la prima fase a produrre risultati di rilievo. La presunta fondazione di una nuova mitologia non risulta invece pienamente efficace, soprattutto per l’incapacità di fondare miti davvero nuovi e forme letterarie in grado di rappresentarli. Per quanto riguarda i materiali, infatti, ritroviamo perlopiù la riproposizione camuffata di materiali mitologici tradizionali, contaminati in combinazioni inedite (come avviene, lo vedremo, nel Tamburo di fuoco) o attualizzati grazie ad ambientazioni moderne. In molti casi, però, la ripresa può essere involontaria o addirittura inavvertita, conseguenza inevitabile della condizione storico-culturale dei loro autori, i quali proclamano fideisticamente l’utopia dell’era nuova e la scomparsa di una tradizione letteraria nella quale si sono formati e di cui sono perciò, loro malgrado, profondamente imbevuti. È innegabile che il rinnovamento operato dal futurismo in campo letterario, figurativo e culturale sia stato tutt’altro che superficiale e privo di rilievo, ma è altrettanto innegabile che quasi tre millenni di tradizione occidentale non possano scomparire – né dalla cultura di una comunità, né dalla memoria volontaria o involontaria dell’artista – per un semplice atto volontaristico. Anche per quanto riguarda le forme prescelte a veicolare i contenuti dell’arte nuova, va registrata una certa tendenza a rifarsi ai generi antichi che tradizionalmente veicolano il racconto mitico: in generale, la ricerca di forme artistiche collettive e rituali trova la sua principale espressione nelle ‘serate’, ma non mancano i tentativi di mimare l’epica (Mafarka il futurista), la tragedia (Il tamburo di fuoco) o la parabola di sapore biblico (Uccidiamo il chiaro di Luna!), o di riprodurre un modello primitivo di dramma rituale (per esempio la ‘sacra rappresentazione’, con maschere e personaggi allegorici, di Roi Bombance). Mentre all’umorismo e all’ironia, che sono le modalità più importanti di trasposizione di materiali mitici nella letteratura del Novecento, il futurismo ricorre solo in funzione critico-parodica – sebbene spesso con risultati eccezionali, come in larga parte del Teatro Sintetico 10 – mentre l’elaborazione di miti ‘al positivo’ comporta sempre l’abbandono di qualsiasi ironia. Dunque, rielaborazione di materiali mitologici tradizionali da un lato, ripresa dei generi classici dall’altro; ma ciò a cui si punta è fondamentalmente la riproduzione delle forme mitiche, dello ‘spirito’ e della mentalità mitici. In questa prospettiva, il dato più importante non sono gli espliciti rimandi al mito classico, bensì il tentativo di appropriarsi e mimare le sue modalità di rappresentazione del reale – più che citare il mito, produrre il mito. I segni di un tale desiderio di miticità si possono rintracciare già a partire dalle formulazioni di poetica e dai procedimenti di composizione e scrittura dei testi. A una volontà di adesione alla logica mitica si potrebbe per esempio ascrivere il rifiuto dell’io e dello psicologismo, e più in generale della soggettività dell’arte romantica tutta – come recita l’XI principio del Manifesto tecnico della letteratura futurista (1912):

10. Ma si leggano anche i romanzi di Bruno Corra o, per continuare con gli esempi tratti dal repertorio marinettiano, le 11 sintesi del Suggeritore nudo (1929).

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Distruggere nella letteratura l’«io», cioè tutta la psicologia. L’uomo completamente avariato dalla biblioteca e dal museo, sottoposto a una logica e ad una saggezza spaventose, non offre assolutamente più interesse alcuno. (Marinetti 1983, p. 50)

Scompare dunque il soggetto forte romantico, che occupa il posto principale nell’opera e filtra attraverso la propria coscienza qualsiasi elemento esterno: l’uomo ritorna parte dell’universo, preda delle minacce degli elementi ma anche partecipe delle infinite possibilità che gli si offrono. Ma, insieme al soggetto, il primo manifesto futurista decreta anche la morte del Tempo e dello Spazio: Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente. (Fondazione e Manifesto del Futurismo, in Marinetti 1983, pp. 10-11)

Il venir meno delle dimensioni naturali del processo storico consente la reintroduzione dell’uomo in una condizione primigenia, originalmente combinata con la modernità scientifico-tecnologica, ma integralmente pervasa di spirito mitico: in questo senso andranno anche interpretati l’animismo e la personificazione degli elementi naturali e cosmici, nonché l’animalizzazione degli oggetti culturali 11 (di cui passerò tra breve in rassegna alcuni esempi). L’annullamento della storia comporta anche una rappresentazione metaforica e decontestualizzata dei conflitti storico-sociali, i quali vengono conseguentemente elevati al rango di conflitti eterni, archetipici. L’indeterminatezza è voluta, ostentata: probabilmente anche allo scopo di lasciare aperte tutte le porte per chiunque volesse aderire al movimento; mentre un programma politico chiaro, una teoria sociale più nettamente determinata avrebbero comportato delle ovvie limitazioni per il significato del movimento – che in origine era inteso grosso modo come espressione di una ‘temperie spirituale’, una generica ma entusiastica propensione per la novità e la modernità, la forza e la poesia. E alla logica mitica, come indicato da Lévi-Strauss, appartengono anche la radicalizzazione e schematizzazione delle situazioni complesse in opposizioni duali, di cui il futurismo fa larghissimo uso. Nella elaborazione concettuale futurista la rappresentazione dei conflitti ricorre però sempre a una strategia melodrammatica: intendendo per strategia melodrammatica il procedimento di costruire un conflitto ricorrendo a un’opposizione dualistica di natura etica, per cui ciascun personaggio, elemento o azione viene fatto rientrare integralmente nella categoria di «bene» o in quella di «male», di «buono» o di «malvagio» 12: si tratta, naturalmente, di un procedimento sconosciuto al mito e all’arte classica – che racconta l’opposizione di forze, volontà e destini, lasciando in secondo piano l’aspetto morale – e che anzi può risultare un utile criterio di distinzione tra il mito classico e quello moderno, soprattutto ottocentesco.

11. A proposito della confusione tra natura e cultura nella logica mitica, vd. Meletinskij 1976, pp. 81 sgg. 12. Per la teoria del «modo melodrammatico» rimando a Brooks 1976.

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Assai interessante può essere una rilettura in questo senso dei testi dell’esordio futurista, i quali possono fornirci i tratti dell’intenzione originaria del fondatore del movimento (che si presenta come unico autore di tutti i primi documenti, a differenza dei successivi), le coordinate di un progetto non ancora viziato da necessità politiche (in senso lato) e dal desiderio di rispondere ad attacchi e polemiche, per così dire, di ‘aggiustare il tiro’. Pur nella discreta confusione di poetiche e ideologie, che resterà una costante del primo e più vivo decennio del movimento, è infatti possibile individuare delle direzioni, delineare una sia pur instabile fisionomia. Proverò dunque ad analizzare per sommi capi i primi due manifesti del movimento – Fondazione e Manifesto del Futurismo e Uccidiamo il chiaro di Luna! – cercando di rintracciare al loro interno, oltre al riuso (volontario o meno) di materiali mitici, i segnali di una volontà mitizzante e di un’adesione alla logica mitica.

2. Fondazione e Manifesto del Futurismo L’atto di nascita del movimento futurista 13 si compone di due parti distinte: oltre al Manifesto vero e proprio, contenente i celebri 11 punti e un discorso di propaganda, c’è infatti una prima parte soltanto narrativa, ricca di elementi che possono fornirci le prime coordinate della rappresentazione mitizzante del reale nella scrittura futurista. Nell’esordio, mentre i cosiddetti «saggi» dormono, i poeti protagonisti vegliano inquieti nella casa di Marinetti, fino a quando quest’ultimo, avvertendo il richiamo all’avventura lanciatogli dalle automobili in strada, li incita alla partenza: – Andiamo, diss’io; andiamo, amici! Partiamo! Finalmente, la mitologia e l’ideale mistico sono superati. Noi stiamo per assistere alla nascita del Centauro e presto vedremo volare i primi Angeli!… Bisognerà scuotere le porte della vita per provarne i cardini e i chiavistelli!… Partiamo! Ecco, sulla terra, la primissima aurora! (Marinetti 1983, p. 8)

Questo primo discorso di incitamento all’avventura è interessante per diversi motivi. Un primo elemento è sicuramente il ricorso alle metafore del centauro e dell’angelo per indicare rispettivamente la simbiosi dell’automobile con il guidatore e dell’aeroplano con il pilota. Inizieremo con l’osservare che la parte narrativa del Manifesto fa ampiamente ricorso a un tipico procedimento del pensiero mitico, l’animalizzazione (vale a dire la naturalizzazione) degli oggetti culturali, e principalmente di quelli meccanici; e andrà anche annotato che la convenzionalità del procedimento, già tipicamente romantico e dettato dalla necessità di una mediazione naturale tra l’uomo e la macchina che gli incute timore, rivela l’incompiutezza della poetica futurista della macchina, che a quest’altezza non è ancora approdata alle meraviglie dello «splendore geometrico e meccanico». Il treno viene per esempio definito con tratti che rimandano al più tradizionale dei suoi referenti metaforici, cioè il cavallo 14: la comunità dei poeti futuristi, al

13. Pubblicato su «Le Figaro» il 20 febbraio 1909. 14. Il paragone è uno dei topoi più utilizzati nei testi romantici e postromantici che trattano del treno: vd. Ceserani 1993.

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punto 11 del Manifesto vero e proprio, si ripropone di cantare «le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi» (p. 11, c.m.), ma già in apertura del testo si erano sentiti accomunati ai «neri fantasmi che frugano nelle pance arroventate delle locomotive» (p. 7); più originale la metafora di «serpi che fumano» (p. 11). Poco spazio ha per ora l’aeroplano, destinato a rivestire un importante ruolo già a partire dal secondo manifesto 15; e infatti il paragone è appena accennato e piuttosto banale: «il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento» (p. 11). Naturalmente, il posto dominante nell’immaginario tecnologico futurista lo occupa l’automobile 16, per la quale troviamo una vasta gamma di paragoni animali: […] noi udimmo subitamente ruggire sotto le finestre gli automobili famelici. (pp. 7-8) Ci avvicinammo alle tre belve sbuffanti, per palparne amorosamente i torridi petti. (p. 8) quella gente dispose alte armature e enormi reti di ferro per pescare il mio automobile, simile ad un gran pescecane arenato. La macchina emerse lentamente dal fosso, abbandonando nel fondo, come squame, la sua pesante carrozzeria di buon senso e le sue morbide imbottiture di comodità […], ed eccolo risuscitato, eccolo in corsa, di nuovo, sulle sue pinne possenti! (p. 9) Un automobile da corsa con il suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo… un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia. (p. 10)

Come si vede, le metafore preferite sono quelle di animali predatori: il pescecane per l’episodio del tuffo nel fossato, altrimenti il leone. Ma anche i guidatori del mezzo meccanico subiscono, quasi per contagio, un procedimento di animalizzazione che li rende simili ad esso: Marinetti paragona infatti se stesso e i propri compagni a «giovani leoni» (p. 8), e effettua un’inversione di marcia «con la stessa ebrietà folle dei cani che voglion mordersi la coda» (p. 9). Ma l’aspetto più interessante per il nostro discorso, per tornare all’orazione d’incitamento dalla quale siamo partiti, è appunto il ricorso esplicito all’immaginario mitologico per indicare il complesso mezzo + guidatore: in questo caso si tratta infatti di una creatura composita e nuovissima, un vero e proprio mostro (nel senso classico di «prodigio») che non potrebbe essere paragonata ad alcun animale consueto e conosciuto in natura. Marinetti ricorre così al repertorio del mito, quello di entrambe le tradizioni occidentali (classica e biblica) per definire l’unione al tempo stesso animale, umana e divina dell’automobile con il suo autista e dell’aeroplano con il pilota. E tuttavia, rileggendo la citazione, ci accorgiamo che la nascita del centauro e dell’angelo viene chiamata in causa proprio

15. In Uccidiamo il chiaro di Luna!, infatti, gli aeroplani dei ribelli futuristi subiscono anch’essi il procedimento di animalizzazione, essendo paragonati a degli «avvoltoi insanguinati che sollevassero in cielo vitelli convulsi» (p. 24: i «vitelli» corrispondono ai motori dei veivoli, montati sotto l’abitacolo). 16. Per un panorama dell’immaginario automobilistico novecentesco vd. Brilli 1999.

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per illustrare il fatto che «la mitologia e l’ideale mistico sono superati». La contraddizione è evidente: l’immaginario mitologico viene chiamato in causa per illustrare la morte della mitologia. Ma si tratta appunto, come annunciato, di una contraddizione solo apparente, basata sulla distinzione tra mito e mitologia: quest’ultima è lezioso e sterile ornamento dell’erudizione passatista, balocco per il letterato nato troppo tardi per poter assistere direttamente al ‘meraviglioso’ antico; mentre per i «fanciulli divini» 17 dell’era nuova il mito, in versione moderna e tecnologizzata, è una realtà viva e presente, visibile per chi ha l’ardimento e l’animo puro per guardare. La via per la riappropriazione di una condizione mitica passa quindi per il rifiuto della cultura tradizionale, accompagnato e giustificato dall’utopia euforica del punto zero («Ecco, sulla terra, la primissima aurora!»): il mito rinasce (o ridiventa visibile) proprio grazie alla morte della mitologia; e l’avvento ne viene propiziato mediante l’assassinio rituale della vecchia, morta cultura. Non a caso, la prima parte del Manifesto è strutturata a grandi linee secondo lo schema di un rito di iniziazione – naturalmente attualizzato per mezzo dell’introduzione di elementi prelevati dal repertorio della modernità tecnologica. I simboli di morte soprattutto sono richiamati a più riprese: i musei vanno visitati «una volta all’anno, come si va al Camposanto nel giorno dei morti» (p. 12), e «cimiteri di sforzi vani», oltre ai musei, sono anche accademie e biblioteche (ibidem), mentre l’ammirazione di un quadro antico «equivale a versare la nostra sensibilità in un’urna funeraria» (ibidem) 18. E la Morte stessa, inseguita avidamente dai predatori futuristi nella loro sfrenata corsa, viene direttamente raffigurata come una belva «dal pelame nero maculato di pallide croci», che sorpassa a ogni svolta l’automobile dell’autore «per porgermi la zampa con grazia» (p. 8) 19. Infatti l’orazione di incitamento di Marinetti determina la sortita degli eroi e la presa di possesso dei mezzi meccanici; e proprio a questo punto ha luogo la prima morte e resurrezione del narratore: Io mi stesi sulla mia macchina come un cadavere nella bara, ma subito risuscitai sotto il volante, lama di ghigliottina, che minacciava il mio stomaco. (p. 8)

È sempre lo stesso uomo a risuscitare, oppure assistiamo alla prima apparizione di quel Centauro del quale lui stesso ha appena annunciato la nascita? Di sicuro, la simbiosi tra uomo e mezzo meccanico produce subito i suoi effetti, e questi novelli eroi non hanno più molto in comune con gli intellettuali inquieti e meditabondi di poco prima: sospinti dalla «furente scopa della pazzia», corrono follemente per le

17. Della figura archetipica del «fanciullo divino» in relazione all’immaginario mitico futurista parlerò nei Sondaggi trasversali che chiudono questo volume. 18. Del resto, questa simbologia sarà una costante nei testi del primo periodo futurista. Nel Discorso ai Triestini (1909), per esempio: «Sì! Le tombe marciano contro di noi! Sinistro traboccare di cimiteri… I morti s’impadroniscono dei vivi!» (Marinetti 1920, p. 31); e l’anno dopo, nel Discorso futurista ai Veneziani: «I vostri gondolieri, non potrei forse paragonarli a dei becchini intenti a scavare cadenzatamente delle fosse in un cimitero inondato?» (Marinetti 1983, p. 36). 19. Marinetti cerca di mimare il genere dell’allegoria sacra, sulle tracce magari del Dante del primo canto dell’Inferno.

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strade addormentate inseguendo la Morte, appunto «come giovani leoni» (p. 8). Durante la corsa, Marinetti fa il suo secondo discorso di incitamento: – Usciamo dalla saggezza come da un orribile guscio, e gettiamoci, come frutti pimentati d’orgoglio, entro la bocca immensa e tôrta del vento!… Diamoci in pasto all’Ignoto, non già per disperazione, ma soltanto per colmare i profondi pozzi dell’Assurdo! (p. 9)

L’eco più immediata è sicuramente quella di Baudelaire, ed esattamente dalla strofa VIII di Le voyage, nelle Fleurs du mal (1861): O Mort, vieux capitaine, il est temps! Levons l’ancre! […] Nous voulons, tant ce feu nous brûle le cerveau, Plonger au fond du gouffre, Enfer ou Ciel, qu’importe? Au fond de l’Inconnu puor trouver du nouveau! (Baudelaire 1975, I, p. 134) [O Morte, vecchio capitano, è tempo, leviamo l’ancora! […] Noi vogliamo, per quel fuoco che ci brucia nel cervello, tuffarci nell’abisso, Inferno o Cielo, non importa. Giù nell’Ignoto, per trovarvi del nuovo. (trad. 1987, p. 259)]

Le coincidenze sono molte e innegabili: l’uso della prima persona plurale, l’incitamento alla partenza, l’avida caccia alla morte, la fame di nuovo, l’abisso e l’Ignoto (in entrambi i casi maiuscolo) 20. Ma è possibile rintracciare dietro questo testo anche un modello italiano ugualmente celebre, cioè «l’orazion picciola» di Ulisse ai suoi compagni nel canto XXVI dell’Inferno: come l’eroe omerico nella versione dantesca, anche qui il condottiero audace incita i propri compagni a non accontentarsi della vita domestica e quieta, bensì ad abbandonare certezze e saggezza per seguire l’avventura e il nuovo, in una «folle» corsa (equivalente del «folle volo» dantesco) fuori dai confini di ciò che è noto e concesso all’uomo, sulle tracce di una morte bella e eroica. Ma, a differenza di Ulisse e dei suoi compagni, la hybris futurista conduce a una morte solo simbolica: fatta una brusca inversione e ritrovandosi davanti due ciclisti «titubanti» (esplicita allegoria di logica e razionalità) 21, pur di non fermarsi Marinetti preferisce sterzare e scaraventarsi «colle ruote all’aria in un fossato». E questa è appunto la seconda, fondamentale tappa del rito di iniziazione: Oh! materno fossato, quasi pieno di un’acqua fangosa! Bel fossato d’officina! Io gustai avidamente la tua melma fortificante, che mi ricordò la santa mammella nera della mia nutrice sudanese… Quando mi sollevai – cencio sozzo e puzzolente – di sotto la macchina capovolta, io mi sentii attraversare il cuore, deliziosamente, dal ferro arroventato della gioia! (p. 9)

20. Per limitarmi alle coincidenze più precise: in realtà l’intera poesia baudelairiana è uno dei sottotesti del manifesto futurista. 21. «ed ecco a un tratto venirmi incontro due ciclisti, che mi diedero torto, titubando davanti a me come due ragionamenti, entrambi persuasivi e nondimeno contraddittorii. Il loro stupido dilemma discuteva sul mio terreno…» (p. 9).

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La simbologia è chiarissima 22: il fossato è un ventre materno che nutre la sua creatura con il buon fango della Madre Terra ma anche, futuristicamente, con sostanze industriali; da esso riemerge l’uomo nuovo, «sozzo e puzzolente», ma animato della violenta gioia della rinascita. Può essere interessante notare come la stessa terminologia del rito venga attribuita al mezzo meccanico, che viene ripescato per mezzo di reti dal fondo del fossato. Anch’esso, infatti, viene ritenuto «morto», ma basta una taumaturgica carezza del pilota a «rianimarlo»: «ed eccolo risuscitato, eccolo in corsa, di nuovo, sulle sue pinne possenti!» (ibidem). Solo a questo punto, purificati e rinnovati dal rito di morte e rinascita appena attraversato, gli «impavidi» uomini nuovi possono dettare all’Umanità le loro «prime volontà» (p. 10) 23, cioè gli 11 punti del Manifesto vero e proprio.

3. Uccidiamo il chiaro di Luna! Secondo manifesto futurista 24, e al tempo stesso primo testo compiutamente narrativo del gruppo, Uccidiamo il chiaro di Luna! (1909) racconta la battaglia mondiale dei futuristi, alleati con i pazzi e con le belve liberati dalle loro prigioni, contro la popolazione passatista rappresentata dalle città di Paralisi e Podagra: dopo aver distrutto le due città, sconfitto l’influsso nefasto della Luna per mezzo di potenti riflettori elettrici e costruito il Gran Binario futurista attraverso il continente asiatico (in un’avanzata verso oriente, quasi alla riconquista delle mitiche origini dell’Umanità 25), l’armata dei ribelli respinge le orde passatiste in fuga contro la muraglia del Gorisankar, e con l’aiuto dell’Oceano Indiano si appresta a travolgerle e cancellarne per sempre le tracce dalla Terra. Abbiamo qui un primo esempio di decontestualizzazione e trasposizione su un piano mitico dei conflitti storico-politici. Nonostante la trasparenza dell’allegoria, infatti, il conflitto cosmico tra l’armata dei poeti, dei pazzi e delle belve da un lato, di Paralitici e Podagrosi dall’altro, non si precisa oltre una generica opposizione tra nuovo e vecchio, tra la violenza liberatoria dell’istinto e dell’intuizione da una parte e la soffocante prigionia della razionalità, di una logica vecchia di secoli dall’altra. Altrettanto vale per le altre «battaglie» narrate nel testo: l’abbattimento della foresta sensualmente mortale rappresenta la sconfitta della mollezza femminea da parte dell’eroico ardore maschile; il prevalere delle lune elettriche contro l’astro notturno sta per la vittoria della modernità tecnologica contro il passatismo romantico. Fondazione e Manifesto del Futurismo non era certo inteso come mito, piuttosto come un’allegoria caricata di significati simbolici e risonanze archetipiche, e tuttavia perfettamente concreta e realistica. Uccidiamo il chiaro di Luna! si configura

22. Del resto già Maurizio Calvesi, nel 1967, riconosceva che «il fossato è comunque il ventre materno […], e l’uscita dal fossato del pilota allude indubbiamente ad una nascita» (Calvesi 1967, p. 17). 23. Evidente il rovesciamento del concetto di testamento – al posto delle ultime volontà, i futuristi dettano le prime. 24. Pubblicato sul n. 7-8-9 di «Poesia», e datato «agosto-settembre-ottobre 1909». 25. Il Binario collega infatti l’Occidente all’altipiano persiano, che viene definito da Marinetti «sublime altare del mondo» (Marinetti 1983, p. 21).

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invece come un mito vero e proprio: abbandonato il tempo storico, l’azione si sposta in una dimensione spazio-temporale archetipica, in cui si combinano originalmente la prospettiva apocalittica e quella cosmogonica. La catastrofe e il caos sono infatti la culla di una nuova creazione e la fondazione del futuro nuovo ordine: sebbene nel testo non venga precisato, probabilmente di proposito, se l’apocalisse raffigurata vada intesa come l’inizio di un nuovo ciclo, o piuttosto, biblicamente, come la fine del tempo storico e l’instaurazione di un ordine finale atemporale e permanente. In ogni caso, le caratteristiche della raffigurazione apocalitticocosmogonica richiamano i tratti dell’immaginario del «nuovo inizio» così come li ha descritti Mircea Eliade: volendo riprendere la prospettiva di Eliade, potremmo riconoscere nel manifesto una versione futurista del mito del «Grande Anno» (Eliade 1949, pp. 116 sgg.). Alla narrazione allegorica della vicenda fa da sfondo naturale un universo concepito miticamente. L’animismo applicato agli elementi naturali e al mondo vegetale si estende qui praticamente a tutti gli elementi nominati, che vengono dotati di una soggettività e di una volontà autonoma. Così il sole è ebbro e «barcollava tra nuvole color di vino…» (Marinetti 1983, p. 15); la Terra, vecchia e stanca, singhiozzando disperatamente «agonizza nell’orrore della luce», e Paolo Buzzi chiede «delle nuvole, dei mucchi di nuvole, per coprire i suoi occhi e la sua bocca che piange» (p. 18). Celebre l’allegoria della foresta femminea e sensuale 26, che allaccia alle caviglie l’armata di pazzi e poeti, fiaccandone le energie e addormentandone la volontà: rapidamente, con la facilità di un’aurora che si propaga sul mare, una verdura singhiozzante sorse per prodigio dalla terra increspata di onde inattese. Dal fluttuare azzurro delle praterie, emergevano vaporose chiome d’innumerevoli nuotatrici, che schiudevano sospirando i petali delle loro bocche e dei loro occhi umidi. […] Un sonno soavissimo vinceva lentamente l’esercito dei pazzi, che si misero a urlare dal terrore. (pp. 21-22)

L’imagery acquatica, il genere sensuale dell’aggressione, la raffigurazione metaforica delle donne-piante rimandano al mitologema delle Sirene, richiamando così nuovamente l’esperienza ulissiaca, che occupa davvero un ruolo di primo piano nella concezione eroica di marca futurista. Alla vicenda di Ulisse probabilmente rimanda anche, in esordio, il rifiuto della seduzione femminile che trattiene l’eroe in procinto di partire per l’eroica missione: Sì, i nostri nervi esigono la guerra e disprezzano la donna, perché noi temiamo che braccia supplici s’intreccino alle nostre ginocchia la mattina della partenza!… […] Alla loro vita vacillante, rotta da lugubri agonie, da sonni tremebondi e da incubi grevi, noi preferiamo la morte violenta e la glorifichiamo come la sola che sia degna dell’uomo, animale da preda. (Marinetti 1983 p. 15)

26. Forse una contaminazione dell’aspra selva dantesca con il pineto dell’Alcyone dannunziano: come in Dante, infatti, la foresta incute terrore e fiacca le forze; mentre da d’Annunzio potrebbe provenire l’animismo sensuale, nonché il linguaggio e alcuni stilemi della descrizione.

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Difficile non pensare agli episodi di Circe e di Calipso nell’Odissea, un modello che tanta fortuna ha avuto nella letteratura latina prima (per esempio nell’Eneide), e romanza poi (basterà citare l’episodio di Rinaldo e Armida nella Gerusalemme liberata). Anche in questo caso, gioca un ruolo forse determinante la mediazione dannunziana: il modello dell’eroe che nel suo slancio verso la gloria viene trattenuto dal legame sensuale con la femme fatale è centrale nell’opera narrativa e soprattutto teatrale di d’Annunzio; e Marinetti ha già versato il suo personale tributo al modello in un inedito Dramma senza titolo, scritto in francese probabilmente nei primissimi anni del secolo 27. All’episodio della foresta è legata la più importante delle personificazioni di elementi naturali, la Luna, «l’antica regina verde degli amori», di cui l’esercito futurista si impegna a sconfiggere il chiarore: Ma, mentre ci accanivamo, tutti, a liberar le nostre gambe e le nostre braccia dalle ultime liane affettuose, sentimmo a un tratto la Luna carnale, la Luna dalle belle cosce calde, abbandonarsi languidamente sulle nostre schiene affrante. (p. 22)

Il rimedio adottato contro la potenza femminile e svirilizzante simboleggiata nell’astro lunare è di pretta marca futurista: l’esercito dei pazzi costruisce un impianto elettrico potentissimo, e con vigorosi fari artificiali soppianta la luce naturale dell’astro. Contro la Luna e i suoi emissari, il ruolo di fedele alleato dei ribelli è assegnato all’Oceano (quello Indiano, per la precisione), il quale, in una riedizione dell’antico mito del diluvio 28 in versione moderna (l’arca con cui gli eroi si salvano dall’avanzata delle acque è, per l’appunto, l’aeroplano), avanza per travolgere l’orda dei passatisti e cancellare le vestigia delle loro città: E l’Oceano rispose all’appello, inarcando un dorso enorme e squassando i promontorî prima di prender lo slancio. Esso provò lungamente la propria forza, agitando le anche e ripiegando il ventre sonoro fra le sue vaste fondamenta elastiche. Poi, con un gran colpo di reni, l’Oceano poté sollevare la propria massa e sormontò la linea angolosa delle rive… Allora, la formidabile invasione cominciò. (p. 23, c.m.)

Si delinea pian piano un’approssimativa ‘cosmologia futurista’, nella quale si riflette abbastanza fedelmente la vicenda eroica narrata dal testo: da un lato vi sono gli elementi maschili, indeboliti dall’usura dei secoli o tenuti prigionieri (il Sole e l’Oceano, e come loro i pazzi e le belve), dall’altro gli elementi femminili e passatisti, da sconfiggere per propiziare la liberazione e la vittoria dei primi (la Luna e la foresta, ma anche la vigliacca schiera dei Paralitici e Podagrosi). Scontata l’osservazione che quello tra Luna e Sole è l’archetipo di tutti i conflitti mitici: gli etnologi lo riconducono all’antichissima successione fra il matriarcato delle popolazioni autoctone e il patriarcato degli invasori, nella Grecia preellenica – e infatti il

27. Lo si può leggere, nella traduzione di Benedetta Marinetti, in Marinetti 1960, vol. I, pp. 3-88. 28. Come mostrato ancora da Eliade, il mito del diluvio (e, più in generale, tutta la simbologia acquatica) è una componente fissa dell’immaginario del Grande Anno.

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manifesto si conclude proprio con la promessa futurista di ridar vigore all’astro esausto: «Sì, noi sapremo riscaldarti fra le nostre braccia fumanti, o misero Sole, decrepito e freddoloso, che tremi sulla cima del Gorisankar!…» (p. 26). È significativo, quindi, che Marinetti ricorra proprio a questa simbologia nel primo manifesto esplicitamente mitizzante del gruppo: infatti ciò che l’autore sta cercando di riprodurre è propriamente un mito di successione dinastica, cioè la rappresentazione di uno scontro tra due schieramenti – diverse razze o generazioni – con il coinvolgimento degli elementi cosmici, avente per oggetto il dominio dell’universo e l’instaurazione di un nuovo ordine. In questo senso vanno spiegati anche tutti i riferimenti al complesso mitico dei Titani – protagonisti appunto del mitico scontro contro gli olimpici per il dominio del mondo. Più che la precisione di dettagli, ritroviamo una sorta di sintesi indifferenziata dei vari motivi legati alla successione delle generazioni divine: così i futuristi liberano i pazzi e le belve come Zeus libera Centimani, Ciclopi e Titani quando vuole sconfiggere Crono; in séguito gli eroi si alleano con Oceano, che per l’appunto è uno dei Titani; scalano le vette come i Giganti assaltarono l’Olimpo per vendicare i Titani (confinati da Zeus nel Tartaro), e così via. Ma soprattutto si avverte la presenza del più celebre dei Titani, Prometeo, che ha un rilievo centrale nell’immaginario futurista: la sfida all’ordine costituito, la battaglia combattuta contro le leggi divine e naturali mediante le armi dell’astuzia e della téchne rimandano con forza al mitologema prometeico, segnalandoci nuovamente la nascosta ascendenza romantica dell’immaginario futurista 29. Le modalità della ribellione antipassatista rimandano anche a un’altra vicenda mitica, che portò scompiglio in tutto il mondo conosciuto e tra gli stessi dèi: l’avvento di Dioniso 30. L’alleanza con i pazzi e con le belve (che risultano essere appunto le fiere tradizionalmente associate al dio, cioè i felini), la folle e allegra distruzione di tutto quanto intralci il loro cammino, l’avanzata verso l’India (che Dioniso conquistò tra le sue prime imprese): sono tutti elementi che ricordano da vicino le varie storie tramandate sul dio. E difatti la distruzione del vecchio ordine e della popolazione di Podagra si svolge in maniera carnevalesca e al tempo stesso brutale – proprio come un baccanale: Con bruschi slanci e con lazzi da clowns, i pazzi inforcavano i bei leoni indifferenti, che non li sentivano, e quei bizzarri cavalieri esultavano ai tranquilli colpi di coda che ad ogni istante li gettavano a terra… […] Ci precipitammo fuori, coi pazzi gesticolanti e le pazze scarmigliate, coi leoni, le tigri e le pantere cavalcate a nudo da cavalieri che l’ebbrezza irrigidiva contorceva ed esilarava freneticamente. Podagra non fu più che un immenso tino, pieno di un rosso vino dai gorghi spumosi, che colava veemente dalle porte, i cui ponti levatoi erano imbuti trepidanti e sonori… (pp. 20-21)

Ed è tanto più significativa questa immagine del vino, in quanto Marinetti, stando ai ricordi del tempo di Aldo Palazzeschi, non apprezzava affatto l’ebbrezza

29. Per l’illustrazione della presenza e del significato del mito prometeico e della sua importanza culturale in età moderna vd. Trousson 1964 e Blumenberg 1979. 30. Sul mito di Dioniso vd. Detienne 1986.

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alcolica, e anzi la sua bevanda preferita era l’acqua ghiacciata 31: il vino avrà quindi un rilievo simbolico, di riferimento esplicito all’ebbrezza dionisiaca. Come dionisiaco è anche il tipo di follia che i futuristi esaltano (e non una moderna riedizione dell’ingenuità erasmiana, cui alcuni critici l’hanno associata): violenta irrazionalità, liberazione delle pulsioni, energia vivificante e creatrice, strettamente legata all’ispirazione artistica e alla capacità mitopoietica – e difatti, al momento della loro liberazione, i pazzi danno sfogo alla loro divina follia espandendo il proprio io fino a inglobare lo spazio circostante: Dalle porte spalancate, pazzi e pazze scamiciati, seminudi, eruppero a migliaia, torrenzialmente, così da colorare e ringiovanire il volto rugoso della Terra. Alcuni vollero subito brandire, come bastoni d’avorio, i campanili lucenti; altri si misero a giuocare al cerchio con delle cupole… Le donne pettinavano le loro lontane capigliature di nuvole con le acute punte di una costellazione. (p. 19)

Questi clowneschi Sileni e Menadi ben si accompagnano agli eroi-poeti, anch’essi agitati, oltre che da sacro furore battagliero, da pulsioni irrazionali, incubi e desideri nettamente mitopoietici. Innanzi tutto, per quanto riguarda i compagni futuristi, si potrebbe rilevare l’anomala percezione del reale, caratterizzata da un massiccio ricorso all’analogia e alla sinestesia – per esempio: Ma Paolo Buzzi non poteva dormire, poiché il suo corpo spossato sussultava ad ogni istante alle punture delle stelle velenose che ci assalivano da ogni parte. – Fratello! – mormorò – scaccia lontano da me codeste api che ronzano sulla rosa porporina della mia volontà. (p. 18)

Gli esempi di questo genere andranno letti come il tentativo di rifunzionalizzare in senso mitopoietico l’esperienza simbolista alla quale, perlomeno a questa data, il futurismo è ancora strettamente legato. Ancora più interessante, dal nostro punto di vista, l’analisi del tipo di nuove aspirazioni nutrite dagli eroi. Per esempio, mentre Paolo Buzzi si lamenta nel sonno delle punture delle stelle, accanto a lui Enrico Cavacchioli sogna di subire una interessante metamorfosi: – Io sento ringiovanire il mio corpo ventenne!… Io ritorno, d’un passo sempre più infantile, verso la mia culla… Presto, rientrerò nel ventre di mia madre!… Tutto, dunque, mi è lecito!… Voglio preziosi gingilli da rompere… Città da schiacciare, formicai umani da sconvolgere!… Voglio addomesticare i Venti e tenerli a guinzaglio… Voglio una muta di venti, fluidi levrieri, per dar la caccia ai cirri flosci e barbuti. (p. 18)

La rivendicazione della propria giovinezza – lo stato di grazia che assomma in sé i privilegi della totale deresponsabilizzazione oltre a quelli della ‘novità’ – si confonde con un tipicamente futuristico delirio d’onnipotenza ma anche, in maniera inedita, con la nostalgia di ritorno all’utero materno: una bizzarra combinazione, che proiet-

31. Vd. la Prefazione di Palazzeschi a Marinetti 1983, p. XVII.

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ta qualche dubbio sull’euforia del dominio dell’uomo futurista sull’universo. Ma ciò che mi preme sottolineare è il tipo di esperienza che Cavacchioli, in grazia della sua regressione infantile, ritiene gli sia «lecita», cioè non solo distruggere gingilli e città, ma anche e soprattutto dominare i venti: viene subito da pensare al dio Eolo, naturalmente; ma insieme a lui, di nuovo, a Ulisse, l’unico uomo che ebbe il privilegio di ricevere dal dio l’orcio dei venti – e che non seppe ben amministrare il dono, causando una tempesta che lo risospinse ancora una volta lontano da casa 32. Dunque la hybris futurista, la sfida eroica alle leggi naturali e divine si configura subito come una riedizione di modelli mitologici classici. Non si tratta di un caso isolato. Poche righe più sotto (è ormai l’alba), Paolo Buzzi si sveglia angosciato per i singhiozzi della Terra: A queste parole il Sole ci porse dall’estremità dell’orizzonte, il suo tremulo e rosso volante di fuoco. – Alzati, Paolo! – gridai allora. – Afferra quella ruota!… Io ti proclamo guidatore del mondo!… (p. 19)

Ecco dunque un altro dio che sovrintende ai fenomeni naturali, Elios, e un altro umano che ebbe l’ardire di prendere il suo posto: se Cavacchioli vuole imitare Ulisse, a Buzzi spetta l’onore di ripetere l’impresa di Fetonte. In questo caso, tuttavia, il modello mitologico viene aggiornato tenendo conto del progresso tecnologico: al posto dell’antiquato carro, l’astro solare è diventato una più moderna automobile. E Marinetti? Naturalmente anche per il leader del movimento c’è un esempio di hybris, ma questa volta più facilmente realizzabile, grazie appunto alle conquiste della tecnologia che sempre più rendono l’uomo simile agli dèi. Infatti Marinetti, come Icaro che osò appropriarsi del privilegio divino del volo, si accontenta di chiedere delle ali; ma subito, pragmatico, trova la soluzione per realizzare il suo desiderio: «Facciamoci dunque degli aeroplani» (p. 24). Quindi tre rimandi a figure divine della mitologia classica, e ad altrettanti miti di umani che osano appropriarsi dei privilegi di un dio – con tragiche conseguenze, in effetti, anche se i novelli eroi non sembrano ricordarsene. Nulla di strano nel fatto che la volontà di potenza dei protagonisti ricalchi lo schema classico della hybris: l’eroismo di marca futurista consiste appunto nell’osare, nel superare i limiti imposti al genere umano, nel farsi simili agli dèi. È invece sorprendente che gli esempi concreti di hybris vengano trascelti tutti dal repertorio mitologico classico (quella mitologia di cui contemporaneamente si decreta la morte), e in particolare tra i miti più celebri: la vicenda di Ulisse, quella di Fetonte o quella di Icaro sono troppo note – anche grazie al riuso di essi nell’opera dannunziana – perché il rimando possa credersi involontario. Probabilmente, la volontà di creare miti nuovi e assolutamente moderni si arresta contro una carenza di materiali originali; oppure (ed è forse l’ipotesi più credibile) la priorità del messaggio da trasmettere – «gli uomini ridiventano mitici» – prevale sul desiderio di originalità, e spinge Marinetti a scegliere dei materiali di riuso affinché il loro significato sia immediato, comprensibile a tutti.

32. Nel canto X dell’Odissea.

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Sul piano formale, il desiderio di mimare la narrazione mitica potrebbe essere segnalato dall’adozione del passato remoto (nel secondo manifesto, collegato a una collocazione temporale in un passato ‘assoluto’, indefinito e astorico e a un’ambientazione miticamente caratterizzata): tempo narrativo obbligatorio per il racconto epico 33 che Marinetti cerca di riprodurre, ma assai poco adeguato per un manifesto propositivo, come appunto sono i due testi in questione. Da un punto di vista di logica del discorso, al limite sarebbe stato più appropriato un futuro profetico di genere apocalittico. E infatti il distanziamento epico crea un forte contrasto con la persona narrativa, che, secondo la tipica caratteristica dei manifesti, è la prima plurale: il contrasto tra la solennità del racconto epico e la prima persona produce quel tono autocelebrativo caratteristico della narrazione autoreferenziale futurista, che causerà l’antipatia di buona parte della critica e la relativa facilità delle parodie (ne vedremo un esempio nel Bontempelli della Vita intensa e della Vita operosa, nel prossimo capitolo). Dal nostro punto di vista, tuttavia, il contrasto è interessante soprattutto come manifestazione esplicita di quello che si potrebbe definire un «paradosso della distanza»: la narrazione mitica viene condotta secondo la tradizione classica, e dunque come se gli eventi narrati si collocassero in un passato assoluto; mentre essa è intesa a predire profeticamente un futuro più o meno prossimo, o allegorizzare una situazione contemporanea riletta in termini mitici (come accadrà anche nei miti pirandelliani), o svelare una dimensione alternativa e ignorata nella vita d’ogni giorno (come accadrà nei «nuovi miti» di Bontempelli). In molti casi, il racconto mitico si presenta come un ibrido più o meno risolto delle tre diverse intenzioni – e Uccidiamo il chiaro di Luna!, per l’appunto, è un esempio abbastanza riuscito di questa voluta ambiguità di intenti. Alcuni di questi tratti originari del mitologismo futurista verranno però meno nei testi successivi di Marinetti e dei suoi affiliati; in particolare, lo spostamento dell’azione in una dimensione astorica e in un’ambientazione indefinita, come pure il netto allegorismo degli atti e delle forze in campo, cederanno il passo a una maggior concretezza di dati e ambientazione. Naturalmente, dopo una prima autopresentazione il più possibile eclatante e suggestiva, il movimento e il suo ideologo devono affrontare la necessità di concretizzare e contestualizzare la propria ideologia e la propria poetica. Da ciò deriverà il tentativo di infiltrare l’originario immaginario mitico nelle concrete condizioni di vita contemporanea – vale a dire, di mitizzare la modernità.

4. Prometeo e Dioniso La concezione eroica di marca futurista si presenta fin dall’inizio come debitrice del modello mitico di Prometeo. Già nel primo Manifesto ci sono alcuni riferimenti al mitologema titanico, per esempio la stessa chiusa: «Ritti sulla cima del mondo, noi scagliamo, una volta ancora, la nostra sfida alle stelle!…» (p. 14), che rimanda appunto alla rivolta dei Titani contro l’Olimpo; abbiamo poi riconosciu-

33. Vd. Bachtin 1938.

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to gli echi della rivolta titanica contenuti in Uccidiamo il chiaro di Luna!, e la presenza di Prometeo dietro l’ideale delle leggi naturali e divine sfidate e vinte per mezzo della téchne. Un altro aspetto dell’immaginario prometeico in versione futurista è naturalmente l’utopia della creazione dell’uomo nuovo, sia in senso spirituale che concreto (l’uomo meccanico), che è uno degli elementi centrali dell’immaginario del movimento: nella prossima sezione, vedremo come l’utopia si trasformi in trasparente allegoria narrativa, la cui grandiosità non si arresta neppure dinanzi al rischio dell’ingenuità né a quello del kitsch, dando così vita all’audace «romanzo africano» di Marinetti, Mafarka il futurista 34. Nel Prometeo eroe civilizzatore, che costruisce l’uomo e gli dona i mezzi intellettuali e scientifici per la sua sopravvivenza, e nel Prometeo titano, che sfida l’autorità divina e i suoi divieti in nome di una volontà e un ideale irrinunciabili, il futurismo eroico degli esordi trovava un modello ovvio, naturale e già perfetto, o meglio perfezionato dalla lunga tradizione occidentale e soprattutto da quella romantica. Il mitologema prometeico diventa così per l’immaginario futurista una ricca sorgente di immagini, simboli, stilemi: nel manifesto La «Divina Commedia» è un verminaio di glossatori (1910/11) Marinetti sintetizza il significato della propria opera in termini ortodossamente prometeici, dicendo che i futuristi hanno raccolto un masso incandescente in fondo a un vulcano, e lo trasportano «sulla cima eccelsa del pensiero umano, perché il mondo abbia più febbre di novità, più fuoco di violenza, più luce di entusiasmo, più amore di libertà!…» (Marinetti 1983, p. 268, c.m.). In altre parole: tutti i significati allegorici tradizionalmente attribuiti all’atto del donare il fuoco da parte dell’eroe culturale Prometeo, con l’unica modifica nell’inversione simmetrica della direzione del movimento, dal basso in alto anziché dall’alto (la cima dell’Olimpo) in basso (la Terra degli uomini). Una tale adesione assume però il valore di segnale, tanto più in quanto si tratta di un’adesione incondizionata: il Prometeo futurista è precisamente il Prometeo romantico passato attraverso l’elaborazione linguistica e ideologica del superuomo nietzscheano – rivelandoci il forte legame, e la sostanziale continuità, dell’immaginario e dell’ideologia futurista nei confronti di quelli romantici, al di là e al di sotto dell’ostentata volontà di rottura. Più sorprendente il versante dell’immaginario futurista sotto il segno di Dioniso: e non tanto perché Dioniso sia un modello mitico inedito nella tradizione occidentale, visto che anzi l’adesione futurista ribadisce nuovamente il legame del movimento con la matrice romantica 35, bensì per le modalità di quell’adesione, per il valore e i tratti del Dioniso futurista. Ricordiamo l’apocalisse carnevalesca innaffiata di vino e giochi violenti raccontata in Uccidiamo il chiaro di Luna!, e soprattutto la follia creatrice e mitopoietica che anima gli eroi della rivolta futurista. Una versione per molti aspetti analoga della liberazione dionisiaca sarà offerta alcuni anni dopo dal romanzo sintetico di

34. Della persistenza e dell’importanza del modello prometeico romantico nell’ideologia e nell’immaginario futurista ha parlato anche Luciano De Maria (nell’Introduzione a Marinetti 1983, p. XXXVII-XLI), richiamando proprio il caso di questo romanzo. 35. Per un’analisi dell’importanza e del significato del mito dionisiaco nel Romanticismo vd. Frank 1982.

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Bruno Corra Sam Dunn è morto (1917): il protagonista è un inetto, debole e effeminato, dotato però di eccezionale carisma e poteri paranormali (dunque dei tratti abbastanza conformi alla tradizionale raffigurazione del dio); in un giorno di un ipotetico 1952, chiuso in un appartamento parigino e grazie alle sole forze della sua «immaginazione creativa», riesce a indurre i popoli di ogni parte d’Europa alla liberazione subitanea dei più reconditi istinti: ne derivano scene di delirio collettivo, orge sfrenate e comportamenti illogici. Ma il fenomeno si esaurisce per il misterioso influsso di un manicomio ligure, che canalizza su di sé tutte le energie collettive, per cui il baccanale planetario si svilisce in una furibonda lotta a base di pizzicotti al sedere; Sam Dunn, per parte sua, verrà ucciso dalla sua cameriera a vigorosi colpi di fondoschiena. L’autore conclude però affermando che la vicenda ha un chiaro valore di segnale: l’uomo conserva nei profondi recessi della sua psiche una riserva imponente di «energie fantastiche», e prima o poi, seguendo il luminoso esempio di Sam Dunn, imparerà a servirsene per espandere la sua azione nell’universo 36. È un Dioniso, quello futurista, allegro e incendiario, legato alle energie psichiche inconsce e alla capacità fantastica: più che al dio orientale classico o al messianico «dio a venire» dei romantici, rimanda alla divinità cosmica e creatrice i cui misteri vengono celebrati dall’illuminato Orfeo nei Grandi iniziati di Schuré (1899), e di cui viene detto che «gli roteava negli occhi il sacro delirio dei mondi che debbono nascere» (Schuré 1999, p. 226) 37; ma ancor più rimanda al superuomo nietzscheano, e particolarmente a Zarathustra. I rilevanti debiti del primo futurismo nei confronti della dottrina e delle opere di Nietzsche sono un dato critico assodato da tempo 38. Ai generici richiami alla teoria del superuomo e al suo corredo simbolico, all’elogio della guerra purificatrice, al rifiuto della morale convenzionale e all’esaltazione della follia «incendiaria» contro la limitatezza del pensiero razionale si possono trovare conferme testuali più o meno precise. Riguardo a Uccidiamo il chiaro di Luna!, per esempio, si potrebbe citare l’invettiva contro la Luna in Also sprach Zarathustra (Così parlò Zarathustra, 1883-85): Als gestern der Mond aufgieng, wähnte ich, dass er eine Sonne gebären wolle: so breit und trächtig lag er am Horizonte. Aber ein Lügner war er mir mit seiner Schwangershaft […]. Freilich, wenig Mann ist er auch, dieser schüchterne Nachtschwärmer. Warlich, mit schlechtem Gewissen wandelt er über die Dächer. […] Seht doch hin! Ertappt und bleich steht er da – vor der Morgenröthe! Denn shon kommt sie, die Glühende, – ihre Liebe zur Erde kommt! Unschuld und Schöpfer-Begier ist alle Sonnen-Liebe! (Nietzsche 1967-77, Band 4, pp. 156 e p. 158)

36. Il romanzo, oltre che un divertente esempio di ottima letteratura futurista, occupa un ruolo importante nel catalogo dei rapporti tra il futurismo e il mito: si tratta infatti di uno dei pochissimi esempi di rielaborazione umoristica di materiali mitologici da parte di autori del movimento, ed è accostabile, piuttosto che ai testi mitizzanti di Marinetti, alle opere di Palazzeschi. 37. Ricordo che la prima edizione italiana del volume era uscita nel 1906. 38. Vd. ad esempio Calvesi 1967 – soprattutto per i rimandi allo Zarathustra.

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[Ieri, mentre sorgeva, mi sembrò quasi che la luna volesse partorire un sole: così slargata e gravida giaceva all’orizzonte. Ma la sua gravidanza era menzogna […]. Certo, questo timido nottambulo ha poco anche di virile. Davvero, con cattiva coscienza va in giro sopra i tetti. Infatti è cupido e geloso, il monaco della luna, cupido di terra e delle gioie degli amanti. […] Ma guardate! Sorpresa e impallidita ella ristà – avanti l’aurora! Ecco infatti che viene, l’incandescente – viene il suo amore per la terra! Innocenza e brama di creare è sempre l’amore del sole! (trad. 1965-77, vol. VI, tomo 1, pp. 147-50)]

Anche in Nietzsche la mollezza della Luna viene sconfitta dall’alleanza tra il Sole e l’Oceano; sebbene, naturalmente, manchi alla battaglia l’apporto tecnologico delle lune elettriche e del «grande binario» ferroviario. Altrettanta importanza potrebbe aver avuto la polemica di Zarathustra contro la cultura ufficiale, di cui si colgono non pochi echi nel feroce attacco contro le biblioteche, le accademie e i musei del primo Manifesto: Und ich hiess sie ihre alten Lehr-Stühle umwerfen, und wo nur jener alte Dünkel gesessen hatte; ich hiess sie lachen über ihre grossen Tugend-Meister und Heiligen und Dichter und Welt-Erlöser. Über ihre düsteren Weisen hiess ich sie lachen […] – und ich lachte über all ihr Einst und seine mürbe werfallende Herrlichkeit. (p. 247) [E io ordinai loro di rovesciare le loro vecchie cattedre, e tutto quanto aveva servito a quell’alterigia antica per stare assisa: ordinai loro di ridere dei grandi maestri di virtù e santi e poeti e redentori del mondo. Ordinai loro di ridere dei loro saggi pieni di tetraggine […] – e risi di tutto quanto il loro passato e della gloria sua, fracida e cadente. (pp. 240-41)]

E non è escluso inoltre che anche il Prometeo futurista sia prima passato anche lui per lo Zarathustra, il quale ne offriva una declinazione «incendiaria» che potrebbe aver suggestionato la formulazione futurista (si ricordi per esempio il frammento che ho citato da La Divina Commedia è un verminaio di glossatori): nell’esordio dell’opera nietzscheana, infatti, mentre Zarathustra sta scendendo a valle, incontra un vegliardo che gli dice: «Damals trugst du deine Asche zu Berge: willst du heute dein Feuer in die Thäler tragen? Fürchtest du nicht des Brandstifters Strafen?» (p. 12) [«Portavi allora la tua cenere sul monte: oggi vuoi portare nelle valli il tuo fuoco? Non temi i castighi contro gli incendiari?», p. 4]. Ma, più in generale, il futurismo ritrova nel Nietzsche dello Zarathustra e delle opere tarde un linguaggio, una retorica di formule e immagini adatte, quasi un prontuario del discorso ideologico e ispirato al quale rifarsi nella composizione dei manifesti e degli scritti ufficiali. Come ho già detto, l’influsso di Nietzsche sull’ideologia e sull’immaginario futurista è un argomento assodato e, nelle sue linee generali, inquadrato dalla critica in maniera sostanzialmente corretta – sebbene talvolta con vistose approssimazioni per eccesso o per difetto. Essenzialmente, la ricezione di Nietzsche da parte del futurismo potrebbe essere definita «entusiastica ma superficiale»: intendendo per

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«superficialità» non tanto un’incapacità di comprendere o una ricezione occasionale e disattenta, bensì una delle caratteristiche strutturali dominanti dell’atteggiamento culturale e politico futurista, di un movimento che trovava la propria identità specifica più in un tipo di comportamento e in un linguaggio che in contenuti strettamente intesi. Non sarebbe esatto dunque parlare di un vero e proprio «equivoco» (nulla di simile ai gravi travisamenti, in buona o in cattiva fede, e alle strumentalizzazioni che la filosofia nietzscheana ha troppo spesso subìto nella prima metà del secolo); piuttosto, di un’influenza forte ma per lo più limitata all’aspetto formale, dove la «forma» sia intesa nel suo senso più ampio. Quello futurista è un Nietzsche per slogan – l’elogio dell’incendiario, del riso, della buona guerra e della follia, la polemica anticlericale, il vitalismo, la «volontà di potenza» e così via – un Nietzsche i cui simboli e le cui dichiarazioni vengono prese alla lettera, senza troppo preoccuparsi del loro reale significato. E soprattutto, è il Nietzsche meno «filosofo» e più «visionario»: quello, appunto, di Also sprach Zarathustra, opera che in generale sembra aver ispirato la forma, lo stile e il tono dei primi manifesti del movimento. La versione più suggestiva dello Zarathustra futurista è però, a mio avviso, quella offerta da Aldo Palazzeschi: al di là delle riprese più esterne, come l’esplicita citazione della raccolta L’incendiario (1910), Palazzeschi offre una versione molto personale dell’ideale nietzscheano della leggerezza con il suo «uomo di fumo» Perelà (Palazzeschi 1911) 39, originale commistione futurista di tratti derivati dal profeta Zarathustra e da Cristo. Ma ancora più interessante è l’elaborazione della dottrina di Zarathustra nel manifesto Il controdolore (1913), pubblicato pochi mesi prima del litigio con Marinetti e dell’abbandono del movimento: l’idea che siano la gioia e la sublime manifestazione del riso che avvicinano l’uomo a Dio – anziché, come insegnato per millenni dalla dottrina cristiana, il pianto e l’ascesi – proviene senza dubbio dalla predicazione del profeta nietzscheano, ma tutto palazzeschiano è l’invito a superare proprio attraverso il riso il dolore e la morte (in una originale applicazione della dottrina umorista), così come l’invito a educare i bambini alla divina arte del riso attraverso veri e propri riti collettivi e catartici in cui si celebrino falsi funerali con cadaveri di cioccolata: cadaveri che potranno poi venire smembrati e gioiosamente mangiati, in una eretica commistione di rito eucaristico e sparagmós dionisiaco 40.

5. Da Mafarka a Kabango: le fonti del modello eroico futurista Nel processo di progressiva mitizzazione della modernità operata dal futurismo, particolare interesse riveste il romanzo marinettiano Mafarka il futurista, che si configura come una sorta di momento di transizione tra la fase genuinamente mitizzante dei primi manifesti e l’operazione di adattamento di quella primitiva volontà mitica alla concreta realtà (sociale, politica, ambientale), operazione che in gran parte ne soffocherà l’originario entusiasmo e la potenza fantastica.

39. Per le analogie tra Perelà e Zarathustra vd. per esempio l’appendice di L. DE MARIA, Ancora sul «Codice di Perelà», in Palazzeschi 1911, p. 209. 40. Il controdolore di Palazzeschi può essere letto in Marinetti 1920, vol. III, pp. 59-86.

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Pubblicato dapprima in francese nel 1909, e dunque nello stesso anno di Uccidiamo il chiaro di Luna!, uscito in Italia l’anno seguente nella traduzione di Decio Cinti 41, il testo si mantiene in equilibrio instabile tra le opposte necessità, da un lato, di dar vita e voce all’immaginario mitico del movimento e principalmente del suo autore, dall’altro di assolvere alla funzione di «romanzo-manifesto», concretizzando e specificando sia pure sotto forma allegorica un messaggio che aspira a una funzione perlomeno ideologica, oltre che puramente spirituale (come invece potrebbero lasciar credere i primi manifesti). La coincidenza cronologica con il manifesto è particolarmente significativa, perché illustra pienamente la sostanziale contemporaneità delle varie maniere futuriste di accostamento al mito. Se Uccidiamo il chiaro di Luna! si muove tutto entro un orizzonte allegorico e mitico, il romanzo aspira a un maggiore legame con la realtà, seppure non rinunciando alla dimensione religiosa e profetica. Ed ecco dunque la scelta dell’Africa, il continente per eccellenza primitivo: nella storia di Mafarka l’apparente realismo narrativo e descrittivo viene immerso in un’ambientazione africana esotica e allucinatoria, contenitore nel quale trovano agevole collocazione tanto la personificazione degli elementi naturali quanto la violenza delle passioni umane, tanto il misticismo quanto la brutalità. Desiderio di esotismo, certo, di dar voce al mito africano cui Marinetti era biograficamente assai legato, e per di più divenuto ora, in era coloniale, assai di moda; ma l’effetto principale dello spostamento d’ambientazione dalla «vecchia» Europa alla giovanissima Africa consiste nella possibilità di conciliare, sia pure su un piano fantastico, i due opposti e in certo senso contraddittori aspetti della dottrina futurista – cioè volontà mitizzante e esaltazione della modernità: variando la collocazione geografica Marinetti può contemporaneamente spostare indietro le lancette della Storia, sino al punto in cui la tecnologia possa ancora essere intrecciata alla magia, la religione della scienza a quella delle divinità naturali. Al tempo stesso, grazie al distanziamento della vicenda il messaggio può beneficiare ancora di un’indistinzione e di un’ambiguità che gli consentano di raggiungere il maggior numero possibile di proseliti, adattandosi elasticamente alla personalità e alle convinzioni politiche di ciascuno: gli allegorici Paralitici e Podagrosi hanno ora un nome, certo, e una condotta politica più determinata, ma si tratta pur sempre di nomi e politiche d’Africa (nonché di pura fantasia), e dunque l’allegoria non è immediatamente traducibile in termini europei. In tal modo, il profeta Marinetti può abbandonare la dimensione apertamente e totalmente allegorica di Uccidiamo il chiaro di Luna!, e tuttavia rinviare la piena contestualizzazione del messaggio quanto basti per poter dare ancora ampio spazio all’immaginazione mitizzante – che invece necessiterà di molti compromessi e ‘aggiustamenti’ per adattarsi a un’ambientazione europea e compiutamente moderna. Basterà confrontare l’ingenuo e totalitario animismo del manifesto con la religione solare del romanzo, complessa e organizzata in compiute gerarchie. Mentre in Uccidiamo il chiaro di Luna! la personificazione degli elementi segue uno schema poetico-infantile, da fiaba cosmologica – o meglio, come si è detto, da «mito delle

41. Nell’ottobre 1910 il romanzo causò a Marinetti un processo per oltraggio al pudore, che si tenne a Milano; in quell’occasione, in difesa del libro parlò anche Luigi Capuana. Un resoconto del processo, in verità assai parziale, si può leggere in Marinetti e il futurismo (1929), in Marinetti 1983, pp. 586-88.

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origini» – in Mafarka il quadro cosmologico fa riferimento a una concezione mitologica più evoluta, in cui la personificazione degli elementi cosmici si situa su un piano metaforico e si uniforma alle classiche rappresentazioni di divinità. Così il Sole, per fare un esempio, rinuncia all’innovativa automobile per tornare a servirsi del tradizionale trasporto a cavallo: E frattanto, le pianure sabbiose dello zenit fremevano sotto il galoppo del Sole, che cavalcava a bardosso la sua indomabile giumenta nera, convulsa di velocità… Eccone la schiuma abbagliante, ed eccone la sferzante criniera!… Arrovesciate il capo e vedrete i suoi zoccoli d’oro massiccio, che scalpitano nella bragia. Ma guardatevi dai suoi escrementi di caldo soffocante, che piombano dall’alto, accoppando uomini e bestie!… (Marinetti 1910, p. 15)

Altrettanto vale per le interferenze tra i due piani, umano e divino, non più puramente fantastiche, ma configurate secondo una tipica relazione religiosa dio-uomo: quando per esempio Mafarka è preoccupato per le sorti della guerra, prega intensamente l’astro solare chiedendogli consiglio, e ne interpreta i gesti come auspicio: A queste parole, il Sole fece impennare la sua giumenta nera dalla criniera incandescente; poi, con un violento strappo alle redini, si avventò, a galoppo, contro un ammasso di nuvole grasse… (p. 27)

Dopo aver correttamente interpretato il suggerimento, il protagonista lo ringrazierà come si conviene a un fedele devoto: «Ti ringrazio, o Dio!» (p. 28). C’è inoltre da registrare, a conferma della coerenza e dell’organicità della concezione religiosa nel romanzo, che le raffigurazioni personificate degli elementi (del resto numerosissime) si mantengono perfettamente stabili nel testo: e dunque il Sole resterà sempre a cavallo della sua impetuosa giumenta. Eppure, nonostante il grado sicuramente maggiore di ‘razionalità’ rispetto all’orizzonte interamente mitico del secondo manifesto, non si può certo dire che il quadro cosmologico di riferimento sia scientifico: l’eroe si muove e agisce pur sempre in un universo concepito miticamente, in un mondo religiosamente organizzato. Mafarka-el-Bar, l’eroe protagonista, è una perfetta versione ‘primitiva’ del ribelle futurista: coraggioso e brutale, abile ingegnere e eroico combattente, sprezzante della donna e del pericolo, impietoso distruttore del vigliacco passatismo pacifista; ma al tempo stesso devoto ai sacri affetti (che nella dottrina futurista sono però limitati ai vincoli familiari e all’amicizia virile) e votato anima e corpo all’Ideale (nella fattispecie, dar vita a un figlio superumano, costruito ingegneristicamente, potente e immortale). Figlio dell’ex re di tutta l’Africa, arabo, detronizza il fiacco re Bubassa e si sbarazza dei suoi ministri corrotti per salvare la propria città dall’attacco del negro Brafane-el-Kibir; ma l’ultima azione dei suoi nemici, che gli scatenano contro un’orda di cani rabbiosi, causerà la morte orrenda dell’amato fratello Magamal: morso da uno dei cani, Magamal sbrana la giovane moglie nella loro prima notte di nozze e poi muore tra le braccia di Mafarka. Dopo aver sventato diversi tradimenti, e consegnato il cadavere di Magamal presso la tomba della loro madre, Mafarka si ritira in cima a un monte, disgustato dal potere e dalle gioie

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degli uomini comuni, per costruire un figlio di legno e ferro che sia immune dalle umane debolezze, al quale dà nome Gazurmah. Sul versante umano della vicenda, la fonte forse più evidente dell’invenzione marinettiana è il mito di Ulisse, del quale ritroviamo disseminati nel testo parecchi elementi. Come l’eroe omerico, infatti, Mafarka combatte eroicamente, ma non disdegna di ricorrere all’astuzia e all’abilità ingegneristica: la «macchina da guerra» da lui progettata e costruita è solo un banale lanciasassi in ferro e legno ma, a imitazione della geniale invenzione ulissiaca, il suo creatore non rinuncia a darle una forma animale, e precisamente quella di una giraffa (più adatta all’ambientazione africana del cavallo greco). Contro i nemici più numerosi e agguerriti, poi, Mafarka ricorre allo stesso stratagemma utilizzato da Ulisse per introdursi tra i Proci senza destare l’allarme: travestito da vecchio mendico, si fa accogliere presso l’accampamento di Brafane-el-Kibir, e fa in modo che i suoi nemici mangino e si ubriachino per poterne approfittare. Nel frattempo, si finge persino un informatore e racconta false storie proprio su se stesso (come Ulisse travestito fa, successivamente, con Atena, Eumeo e Penelope), nonché, guarda caso, su un cavallo demoniaco e dai magici poteri (lo cavalca il demonio, e porta fuoco e distruzione ovunque passi): sfidato tra lo scherno generale a compiere un’impresa da possente guerriero, montare il cavallo impetuoso di Brafane (come Ulisse travestito viene incitato dai Proci a combattere contro Iro, nel Libro XVIII dell’Odissea), l’eroe getta il suo travestimento e si allontana al galoppo, e proprio la convinzione che si tratti del demonio sulla sua infernale cavalcatura porterà i suoi nemici alla rovina. Ma le analogie non finiscono qui: per il novello Ulisse africano non possono certo mancare le insidie di un viaggio per mare 42 e una pericolosissima traversata di uno stretto irto di scogli, sui quali si fracasseranno nel corso della vicenda numerose navi di alleati e stranieri (donde il titolo del capitolo XI, I velieri crocifissi). Ma la sua abilità di combattente e costruttore eguaglia quella di marinaio, e l’eroe sfugge agilmente alle insidie. Approda così, nel capitolo VIII, agli Ipogei, le grotte peninsulari che custodiscono i sepolcri ma anche le anime dei morti. Una sorta dunque di Ade africano, dove, nella più tradizionale nekyia, colloquierà con lo spirito di sua madre Langurama. La discesa all’Ade è un privilegio che il mito classico accorda soltanto ai più grandi tra gli eroi: tra gli altri, Eracle, Teseo, in tempi più recenti Enea, oltre, appunto, a Ulisse (nel Libro XI dell’Odissea) 43; ma va sottolineato, a riprova della parentela specifica tra Mafarka e l’eroe omerico, come quest’ultimo sia l’unico che parli con la propria madre. Infine, proprio come nell’Odissea, l’ingresso all’Ade si trova presso il mare: Gl’Ipogei, infatti, attraversavano da una parte all’altra le montagne di Tum-Tum, che s’allungavano su un promontorio, e le due estremità dell’immensa galleria di tombe davano entrambe sul mare. (p. 200)

42. Sebbene qui la fonte mitica venga contaminata con elementi derivati dalla popolare letteratura d’avventure marinaresche: e infatti Mafarka dovrà sventare anche un ammutinamento della sua ciurma, che tenta di assassinarlo. 43. La fonte omerica è stata recentemente segnalata anche da Cristina Benussi (Il mito classico nel riuso novecentesco, in Gibellini 1999, p. 556), sebbene tra i prelievi da Omero consideri più rilevante il peso dell’Iliade, da cui a suo parere provengono una buona quantità dei motivi del romanzo.

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Va tuttavia precisato che nel testo omerico non viene detto se Ulisse penetri nel regno dei morti, bensì pare si limiti a evocarne le anime sulla soglia; in questo caso, l’integrazione proviene dagli epigoni di Ulisse: sia Enea che Dante attraversano da un estremo all’altro l’oltretomba, uscendo entrambi, come Mafarka, da un ingresso diverso rispetto a quello da cui sono entrati. E naturalmente ritroviamo anche le Sirene, il motivo forse più fortunato nella ricezione dell’Odissea, al quale si alludeva già in Uccidiamo il chiaro di Luna!. Esse fanno una prima, dissimulata apparizione nella scena delle due sensualissime danzatrici che intrattengono gli ospiti alla festa per la vittoria di Mafarka: sedotto e «indebolito» dal bacio di una di loro, l’eroe si ritrae inorridito e ordina che siano gettate in pasto ai pesci carnivori, tuonando contro le donne troppo sensuali: Come le farfalle e le mosche, voi avete delle trombe, per pompare le forze e il profumo del maschio!… […] Vi coprite di squame, per somigliare al mare imbrillantato dal sole, e la nostra sete di freschezza ci fa vostre vittime!… (p. 142)

Ma la Sirena per eccellenza è Colubbi, amore di gioventù ancora troppo seducente, che compare alla vigilia della nascita di Gazurmah per distrarre il creatore dal compimento dell’Opera. Mafarka, come il precedente episodio ha dimostrato, dall’alto della sua esperienza eroica non si lascia certo indurre in tentazione, ma Colubbi non si dà per vinta e tenta di sedurre anche il neonato Gazurmah, proprio ricorrendo al canto e a una danza acquatica: Allora l’eroe si sentì ribollire nelle viscere una collera insostenibile, e presa una pietra, la scagliò in faccia alla donna. Questa la schivò agilmente, e abbandonandosi sull’onda come su un’altalena di argentei bagliori, se ne andò nuotando sul fianco e cantando una sua ironica canzone […] con voce stridula, a volte a volte amara e vellutata, come un canto di flauto in una foresta […]. Nella trasparenza elastica delle onde, ella snodava graziosamente il suo corpo imbrillantato di fosforescenze, e il suo busto era veramente stelo ad un fiore: al bel viso miracolosamente colorito di bagliori rosei, tra il fogliame ampio della capigliatura. (pp. 276-78)

Naturalmente una creatura simile conserva solo una lontana parentela con i mostri che tentarono di sedurre mortalmente Ulisse, essendo passata per la lunghissima tradizione occidentale, e in particolare per l’ingentilimento romantico e poi simbolista, che ne ha fatto donne bellissime e anche fisicamente irresistibili, nonché abitanti degli abissi marini 44: elementi del tema che certo risultavano più suggestivi per Marinetti rispetto alla versione originaria. Ma anche in un altro motivo il suo novello Ulisse si dimostra debitore nei confronti della tradizione del mito, e precisamente della versione dantesca, che è

44. Non ci sarebbe forse bisogno di rammentare che le Sirene omeriche, più simili a donne-uccelli che a pesci, risiedevano sul lido, dove con il loro canto attiravano mortalmente i naviganti di passaggio: la tradizione posteriore (passando per la leggenda di Melusina, le fiabe popolari e quelle d’arte) ne ha fatto creature marine, che attirano con la bellezza e il canto i marinai nei profondi abissi.Vd. Musti 1999.

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del resto un passaggio fondamentale per la ricezione moderna 45. Più che di un «ultimo viaggio», per Mafarka si tratta di un’ultima impresa, appunto la costruzione del figlio divino – impresa che comunque prevede un difficile viaggio per mare, nonché, come si è già visto, una visita all’oltretomba. Identiche sono però le motivazioni dei due eroi, naturalmente esposte anche da Mafarka in un’orazione ai suoi compagni – orazione che però nel caso dell’eroe africano non può certo essere definita «picciola», occupando la maggior parte del capitolo IX: dall’alto della scogliera degli Ipogei, sulla quale sta approntando l’armatura di Gazurmah, l’eroe arringa la folla dei suoi compagni che l’hanno raggiunto in nave, mescolando temi topici della dottrina futurista a gonfia retorica sulla voluttà del morire giovani 46. Trasformato egli stesso in invasata Sirena, incita i suoi compagni al suicidio di massa (uno di essi infatti si lancia sugli scogli), ed esulta quando le navi si schiantano sulle rocce, sulla via del ritorno. E tuttavia il nucleo centrale del discorso è il medesimo di quello dell’Ulisse dantesco: «In verità, io sono fuggito perché ho avuto paura d’invecchiare con un misero scettro tra le mani!» (p. 205). Uomo d’azione, votato a sempre nuove conquiste e a superare i limiti posti all’umano, l’eroe non può accontentarsi di un quieto regno e di sudditi obbedienti, bensì preferisce seguire il suo eccezionale destino che lo porta lontano dalla vita civile, fino alla morte eroica. Al nucleo ulissiaco si sommano naturalmente diverse integrazioni e contaminazioni. Sul versante delle integrazioni, si potrebbe osservare come alcuni passaggi dell’ultima parte del romanzo possono venire letti come una sorta di compimento o rovesciamento dei loro modelli. A cominciare proprio dal mito delle Sirene: non solo Gazurmah può subire il tentativo di seduzione e ascoltare il canto di Colubbi senza morirne, ma anzi sarà lui stesso a ucciderla, liberando così il mondo dalla sua minaccia: Ma mentre quell’essere miserevole s’arrampicava su per uno scoglio a fior d’acqua, Gazurmah trasalì di gioia crudele riconoscendo Colubbi. Ella si stese in mezzo a un fruscìo gasoso di schiuma, e, così stesa, aperte le braccia, chiamò a voce spiegata il suo implacabile amante. «Da te, da te, aspetto la morte!… O figlio mio! O amante mio!… Uccidimi, perché io sola ho assistito alla tua nascita divina!» Un grande urto. Miagolìo di onde lacerate e singhiozzanti… Un pesante getto di sangue si schiacciò come un roseo pennacchio contro il petto, che con un gran 45. Per la funzione della versione dantesca nella ricezione moderna del mitologema ulissiaco vd. Boitani 1992. Per quanto riguarda Dante, andrà annotato anche che alla dantesca selva dei suicidi (Inferno, canto XIII) rimanda la scena, nell’ultimo capitolo, in cui Mafarka rientra di corsa negl’Ipogei per salvare la mummia materna dagli sciacalli (guidati da Colubbi) che vi sono penetrati a far scempio delle salme: «Incespicò in un ingombro di velli puzzolenti… Si era forse smarrito?… Infatti, s’aggirava ora per una sinistra boscaglia di cisti, di lentische e di palme nane… […] La collera gli rinnovava le forze e istintivamente, fiutando l’oscurità, si slanciò contro la mandra ringhiante degl’immondi animali, che fuggivano da ogni parte masticando la fuliggine delle tenebre e mordendo avidamente i ghiotti polpacci della velocità» (pp. 280-81). Come solo a Ercole è stato concesso, Mafarka riuscirà però a ricondurre con sé alla luce il corpo e lo spirito a lui caro, con cui dialogherà teneramente sul lido. 46. Lunghi stralci del discorso verranno poi ripubblicati in Guerra sola igiene del mondo (1915).

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colpo d’ali s’innalzò fino al cielo… Tanto rapidamente, che egli udì appena, assai lontano, sotto di sé, la voce morente di Colubbi rantolare. (pp. 293-94)

Ma oltre a uccidere la Sirena, Gazurmah può anche compiere l’impresa che non riuscì a Icaro: le sue ali, infatti, costruite nel legno e nel ferro robusti, non temono il calore del sole; e anzi il nuovo uomo meccanico si appresta addirittura a prendere il posto dell’astro nell’impero del mondo: «O Sole!… Io vengo a te come un padrone che non può accontentarsi dell’impero del mondo!… E ti comando, o Sole, di guidarmi in capo al mare, là, dove esso affonda tra le isole delle nubi e si perde, come un fiume, nell’infinito!… […] Oh, puoi risparmiartelo il tuo sorriso, il tuo sorriso disdegnoso, poiché sono il più forte, poiché sono colui che riuscirà un giorno a incatenarti sugli altopiani dell’Africa!…» (pp. 289-90)

Più ricco il catalogo delle contaminazioni. Un primo sostanzioso apporto giunge, sorprendentemente, dal repertorio biblico, della cui pregnanza Marinetti sembra avvertire la suggestione. Al Libro di Giona rimanda per esempio il titolo del V capitolo, Il ventre della balena: si tratta di una grotta sotto il mare scavata dal padre di Mafarka, dove si svolgono feste orgiastiche ma anche atroci esecuzioni – Mafarka infatti vi giustizia i suoi nemici facendoli gettare in un acquario di pesci carnivori. Lì subisce e supera la minaccia dell’eros (le due sensuali danzatrici, che fiaccano la sua forza) e del tradimento di un cugino fedele a Bubassa; e non sarebbe impossibile leggere nei due episodi, proprio perché confortati dal rimando biblico del titolo, un’allusione alle vicende evangeliche di Salomè e dell’ultima cena (infatti la festa della vittoria è anche l’ultima che Mafarka celebra insieme ai suoi sudditi). Anche in questo caso però andrà osservato che Marinetti rovescia i suoi modelli: dal momento che la seduzione delle diaboliche danzatrici viene sventata, come pure il tradimento. Rimanda invece alla Genesi, e precisamente al dialogo tra Javhè e Caino dopo l’assassinio di Abele, nel capitolo VIII (Gl’Ipogei), una parte del dialogo tra Mafarka e lo spirito di sua madre Langurama, al cui sepolcro il nostro eroe ha condotto la salma di suo fratello: Eppure, ho paura, ho paura, madre mia… di udirti gridare ad un tratto: – Che ne hai fatto di tuo fratello?… Non ti avevo raccomandata la sua vita […]? (p. 194)

Molteplici sono invece, com’è ovvio, i modelli rintracciabili per il tema della creazione del figlio divino, l’evento prodigioso che per Marinetti costituiva il tema fondamentale del romanzo – come si può constatare dalla Prefazione alla prima edizione italiana del volume: «In nome dell’Orgoglio umano che adoriamo, io vi annuncio prossima l’ora in cui gli uomini dalle tempie larghe e dal mento d’acciaio figlieranno prodigiosamente, solo con uno sforzo della loro volontà esorbitata, dei giganti dai gesti infallibili…» (in Marinetti 1983, p. 255). Anche in questo caso un rimando obbligato è all’origine di Cristo, soprattutto per il messianismo connesso all’aspirazione per l’uomo nuovo, per la creatura umana e divina al tempo stesso, il cui avvento segna il passaggio a un nuovo ordine per l’Umanità e l’universo intero.

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Sul versante del mito classico, va osservato che la generazione paterna senza l’apporto femminile rimanda al mito della nascita di Atena; ma il richiamo più ovvio è quello, ancora una volta, al complesso mitologico di Prometeo: dal momento che la creatura nuova, destinata a ereditare il dominio sulla terra, come nel caso del mito della creazione dell’uomo, non viene fisicamente generata, bensì progettata e poi costruita manualmente, servendosi di materiali naturali; solo in un secondo momento il creatore instillerà in essa l’alito della vita (operazione che nel racconto classico spettava però ad Atena). Inoltre, come nel caso di Prometeo, il creatore si sacrifica per assicurare la vita alla sua creatura: e anzi, significativamente, muore quando viene scagliato via dal figlio e piomba «inerte sulla roccia, schiacciandovisi come un panno bagnato» (p. 287), proprio come su una roccia si era consumato l’interminabile tormento di Prometeo. Tuttavia, a riprova di quella reversibilità nell’attribuzione dei ruoli e dei valori nei sistemi simbolici del futurismo, va rilevato che anche la vicenda di Gazurmah, il figlio divino, presenta forti analogie con quella di Prometeo: anche lui, infatti, è incatenato alla roccia per volere del suo padre-creatore 47 (che non si decide a liberarlo, ben sapendo che ciò comporterebbe la propria fine); e, come accade anche nel Prométhée mal enchaîné (Prometeo male incatenato, 1899) di André Gide, si libera senza sforzo alcuno. Dunque del mitologema prometeico compaiono due diversi aspetti legati ciascuno ai due personaggi principali del romanzo: in questo caso, come molto spesso avviene nelle elaborazioni futuriste di modelli preesistenti, ciò che conta è lo schema attivato (il modello mitico di Prometeo), nonostante l’incoerenza del rimando. Quanto poi al rapporto di amore-odio, venerazione e terrore che lega il creatore alla creatura, si potrebbe anche pensare a una probabile mediazione di una importantissima versione moderna del mito di Prometeo, vale a dire il Frankenstein di Mary Shelley (1818) – il cui sottotitolo era, appunto, «Il Prometeo moderno». È infatti al romanzo di Mary Shelley che possiamo far risalire la fortunata tradizione del «figlio artificiale» costruito infrangendo le leggi naturali e divine in un atto di hybris tecnologica, figlio che risulta superiore in status, forza e determinazione al padre-creatore, e che spesso finisce per ucciderlo, o comunque muore contemporaneamente a lui – come appunto avviene in Frankenstein 48. Nel romanzo è presente anche un accenno esplicito al complesso mitico titanico, nella descrizione della violenza dell’uragano propiziato da Mafarka con il suo incendio sulla scogliera: Laggiù, scintillarono asce bianche, arrotate da mani invisibili sulla pietra dura e nera delle nuvole… Poi, bruscamente, la testa del tuono fu recisa, d’un colpo, da un lampo. Subito dei titani se ne impadronirono e la fecero rotolare interminabilmente nelle cantine impenetrabili, dove la notte andava gonfiando la sua pancia di partoriente. Che mondo stava per nascere?… (p. 255)

47. Ricordo che, secondo una tradizione che parte dall’ode Prometheus (1773) di Goethe, il titano sarebbe figlio di Zeus. 48. Vd. Zanotti 1998.

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Come si vede, Marinetti riassume qui i toni e le modalità di quello che, a proposito di Uccidiamo il chiaro di Luna!, ho definito un mito di successione dinastica in chiave futurista; e del resto non a caso: se la storia di Mafarka ricalca il modello di un mito eroico (e in particolare, come si è visto, di quello di Ulisse), con la nascita di Gazurmah la vicenda subisce una brusca svolta. Infatti la creatura umana, divina e meccanica al tempo stesso abbandona risolutamente il piano umano per agire in quello cosmico: interagisce con gli elementi atmosferici e geologici (dialoga con le Brezze Beffarde, provoca terremoti che rimodellano radicalmente il volto della Terra), dichiara che presto estenderà il proprio dominio anche agli altri pianeti del sistema solare, a cominciare da Marte, e si avvia infine a conquistare il regno del Sole. Assistiamo dunque al passaggio dalla dimensione umana (seppure miticamente concepita) a quella cosmica e divina, dal mito dell’eroe guerriero a quello dell’eroe civilizzatore: da Ulisse, insomma, a Prometeo. Un’ultima annotazione, sempre a proposito dell’obiettivo dell’impresa, la creazione del figlio divino, ideale prolungamento rafforzato dello spirito del padre ma anche in grado di compiere l’Opera che quest’ultimo, per limiti umani e storici, non avrebbe potuto sostenere: un altro possibile modello potremmo forse trovarlo più vicino rispetto all’orizzonte del mito classico, cioè nel romanzo dannunziano Le vergini delle rocce (1895). Sebbene senza alcun ricorso a magiche tecnologie e senza aspirazioni divine, anche Claudio Cantelmo rinuncia alle ambizioni personali irrealizzabili e concentra tutti i propri sforzi per la procreazione e l’educazione di un figlio superumano, che possa assurgere alla grandezza di nuovo Re di Roma. Entrambi, Cantelmo e Mafarka, avvertono dentro di sé lo spirito del figlio che vuol venire al mondo, e il suo richiamo diviene per entrambi un’ossessione. In d’Annunzio: E questa imagine di Re, tra tutte le imagini espresse dal suolo sacro ed entrate nella mia anima, mi era talvolta così visibile che quasi pareami una forma creata; e ardentemente io la contemplavo, mentre sul mio intelletto balenavano d’indescrivibile bellezza idee serpentine e s’oscuravano per non risplendere forse mai più. […] «O tu», egli mi diceva impadronendosi della mia anima col suo magnetico sguardo «sii quale devi essere.». (D’Annunzio 1989, pp. 26 e 39, c.m.)

Più concreto, il primitivo Mafarka non vede il figlio, bensì lo sente battere «col becco contro il guscio del suo cuore» (Marinetti 1910, p. 189), e esulta: «Finalmente, eccomi quale volevo essere: votato al suicidio e pronto a generare il Dio che ognuno porta nelle proprie viscere!…» (p. 215, c.m.). Anche in questo caso, il rapporto del nostro romanzo con il modello di partenza si configurerebbe come una sorta di compimento: quello che per Claudio Cantelmo era ancora un progetto viene infatti realizzato da Mafarka, ciò che per l’uno è un dover essere per l’altro è ormai un essere già diventato. Indipendentemente dalla probabilità del rapporto, l’accostamento può essere a mio parere un dato interessante per la ricostruzione del contesto del romanzo – il quale, al di là dell’opzione mitizzante e della volontà di rottura con la tradizione ottocentesca, in qualche modo viene così a riprendere motivi e ideali romantici o tardoromantici. Il mito prometeico si conferma dunque il paradigma fondamentale, insieme a quello di Ulisse, in cui si inscrive il modello eroico futurista. Lo ritroviamo ancora 13 anni più tardi, in un’interessante combinazione con elementi tratti dal paradig-

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ma cristologico, nel dramma marinettiano Il tamburo di fuoco (1922-23) 49, che si presenta come un ideale prolungamento della vicenda di Mafarka in un’Africa altrettanto selvaggia ma assai più reale – o meglio, una traduzione del messaggio di Mafarka su un piano di maggiore verosimiglianza storico-politica. Il compromesso dell’ambientazione africana, che consente di conciliare al tempo stesso l’attualità e l’ambiguità del messaggio, è quindi ancora valido, ma sortisce un’efficacia sicuramente minore: innanzi tutto perché il futurismo dei primi anni Venti, se così si può dire, ha già scoperto tutte le sue carte e tentato, con fortuna alterna, tutte le mosse, individuando nettamente le opposte schiere dei nemici e degli alleati – e pertanto la primitiva reticenza non ha più ragioni, né ideali né politiche, di esistere. In secondo luogo, va registrato che nel frattempo si è in gran parte dissipato l’originario impulso totalizzante e mitizzante, disperdendosi nei divergenti filoni dell’attività del gruppo: la rivoluzione totale, la distruzione del vecchio ordine è stata via via canalizzata e disciplinata per settori a seconda delle competenze dei singoli membri del gruppo – letteratura, spettacolo, arti visive, architettura, politica e così via – certo guadagnando una maggiore incisività nei vari interventi, ma contemporaneamente perdendo, com’era naturale, la grandiosità degli intenti e delle formulazioni iniziali. In tal modo, nel Tamburo di fuoco, Marinetti si ritrova costretto a specificare, chiarire su un piano strettamente realistico i contenuti del messaggio futurista; e l’orizzonte mitico, dissolta l’illusione di una piena rinascita in chiave moderna, sopravvive solo su un piano meramente evocativo, come suggestivo archetipo ancora latente nell’attualità e che traspare in controluce. La Natura non è più l’Altro divinamente animato e dotato di volontà propria con cui instaurare un rapporto interpersonale, bensì, secondo la concezione moderna dell’Occidente industrializzato, l’elemento inerte e tendenzialmente ostile da conoscere e quindi dominare, piegandolo al proprio utile. Scompare così la personificazione degli elementi, lasciando soltanto deboli tracce su un piano puramente metaforico: KABANGO (assorto) – Questo rullo, è il rullo del Sole, tamburo infernale, eterno eccitatore e massacratore dei sogni sovrumani! (Marinetti 1960, vol. III, p. 78)

Da divinità animata di volontà propria, e alla quale piegarsi, allearsi o ribellarsi, il Sole viene così declassato a semplice entità ambientale inanimata, il cui condizionamento negativo sulla vita umana (il calore che uccide e fiacca gli africani) può essere controllato e evitato mediante le cognizioni scientifiche e la perizia tecnologica. Ma veniamo alla vicenda. L’eroe erede di Mafarka è Kabango, nobile guerriero che ha studiato in Europa, dove ha acquisito un’ingente quantità di conoscenze scientifiche e tecniche in grado di migliorare radicalmente le condizioni di vita dei popoli africani. Tornato in Africa, ha raccolto tutti i suoi progetti in 22 pelli, dando loro il nome di Sinrun, e si è poi dedicato a predicare la nuova sapienza ai popoli. Ma i suoi sudditi non l’hanno compreso, e i suoi alleati gli si sono rivoltati contro per gelosia. Fuggendo perciò con la sua donna Mabima (stupida quanto sensuale e innamorata solo delle sue qualità maschili), con il fido servitore Bagamoio e l’infido

49. Il dramma fu recitato la prima volta l’11 maggio 1922, suscitando i soliti entusiasmi e polemiche, e pubblicato in volume con notevoli aggiustamenti l’anno seguente.

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e vigliacco poeta Lanzirica, Kabango sosta in una foresta invasa dai serpenti, uno dei quali lo morde mortalmente al piede. In punto di morte, egli affida il Sinrun a Bagamoio perché lo consegni a suo fratello, cui spetterà di continuare l’opera intrapresa; l’eroe, invece, con accanto la povera Mabima che finalmente ne ha compreso la grandezza, resta a trattenere i nemici, immolandosi per la vittoria del suo ideale. Dopo il Prometeo «creatore», dunque, ecco il Prometeo «civilizzatore»: Kabango ha sottratto dal concilio degli dèi europei il loro più grande strumento di beatitudine e dominio per farne gratuito dono ai popoli africani, disposto a qualsiasi sofferenza e anche all’estremo sacrificio di sé in nome della sua missione civilizzatrice: e quale «fuoco» più futurista della scienza e delle cognizioni tecnologiche? Dell’Europa, novello Olimpo per civiltà e progresso tecnologico – di cui egli era stato ammesso a godere – parla però con la spregiudicatezza e la laicità caratteristica dell’eroe futurista: KABANGO – […] La mia concezione è forte, chiara, pratica. Né odio, né amore per l’Europa! Conoscerla, come la conosco io! Utilizzare la scienza per sbarazzarsene domani, superandola. (p. 20)

Al modello mitico dell’eroe civilizzatore (che del resto la cultura occidentale aveva fatto proprio nei secoli, nelle sue varie interpretazioni allegoriche) si sovrappone però quello messianico, che vi apporta significative variazioni: infatti l’eroe non si limita a donare benessere e modernità, bensì definisce orgogliosamente il proprio cómpito come quello di «redimere la mia razza». Inoltre, come Cristo e diversamente da Prometeo, l’eroe non subirà la nemesi degli dèi cui aveva sottratto il suo dono, bensì verrà tradìto dal geloso Lanzirica-Giuda e giustiziato dagli uomini cui quel dono era destinato, e che non hanno saputo comprenderlo; le modalità stesse della sua morte – in piedi e inchiodato a un tronco da una pioggia di proiettili – ricordano in qualche modo una crocifissione (ma andrà anche rilevato che le circostanze di essa – l’eroe tradìto che muore per tener fede alla propria missione, trattenendo in retroguardia i nemici – rimandano a un altro mito dell’eroe guerriero, anch’egli ‘cristiano’ e sacrificale, quello romanzo di Roland). Kabango impone ai suoi sudditi, che lo temono e lo venerano al tempo stesso, una vera e propria nuova religione, in radicale contrasto con tutto quanto da essi creduto e praticato fino a quel momento; soprattutto, ciò che lui ha da donare non sono oggetti, ricchezze tangibili e immediatamente utilizzabili, bensì un testo scritto: progetti, formule, prescrizioni, insegnamenti di un nuovo modo di pensare e di agire 50. Del suo «testamento», dunque, si parla esattamente nei termini di un testo sacro e imitando il linguaggio evangelico: LANZIRICA – […] I popoli africani non meritano il tuo sacrificio. KABANGO – Nessuno merita nulla, e il Sinrun è per coloro che non lo meritano! Ora non lo comprendono, ma lo comprenderanno! Lo odiano, ma lo ameranno! Sono ciechi, ma vedranno! Il Sinrun può tutto. (p. 23)

50. «KABANGO – […] Io ho insegnato ai popoli africani la lavorazione del ferro, l’uso della bussola, del sestante, del barometro, del solfato di chinino, del laudano, della canfora. Essi mi devono, Bagamoio, una gratitudine eterna. / BAGAMOIO – Ma tu hai osato strappare dal collo dei bambini il magico pezzo di cordone ombelicale con cui le madri li proteggono dalle malattie!» (p. 18).

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Tra l’altro, proprio per ricalcare il modello messianico Marinetti introduce degli elementi che risultano in qualche modo ingiustificati nel contesto della vicenda; per esempio, fa sì che Kabango avesse preveduto il tradimento e (inspiegabilmente) lo avesse accettato, accentuando così l’aspetto sacrificale del suo ruolo – e il suo discorso assume toni forzatamente religiosi, nonché assai poco futuristi: KABANGO – […] Del resto, avevo preveduto tutto ciò. Ho favorito tutto ciò. LANZIRICA – Se sapevi che ciò era male, perché l’hai favorito? KABANGO – Il Male è necessario quanto il Bene. Lo sviluppo del Male esercita la forza del Bene. (p. 11)

Ma non si tratta solo di sovrapporre due figure, Cristo e Prometeo – tra le quali del resto la tradizione occidentale ha già istituito non pochi parallelismi. Marinetti sta in realtà compiendo un passaggio tra due paradigmi diversi, non privi di analogie interne eppure, sostanzialmente, in radicale divergenza. Prometeo dona agli uomini un oggetto (meglio, uno strumento), mentre Cristo lascia in eredità un testo scritto, il primo offre gratuitamente un’opportunità, il secondo prescrive una Legge: nel primo caso ci muoviamo entro un orizzonte mitico, nel secondo entro uno dogmatico. È abbastanza facile cogliere in controluce l’analogia con la parabola del movimento futurista: anch’esso gradualmente passato, nei suoi primi 13 anni di vita, dalla disponibilità confusa ma vitale degli esordi alla scolastica rigidità di una poetica e di una ideologia dalle regole ben precise, che vengono ripetutamente enunciate dai manifesti – i quali ora non sono più, come in principio, libera espressione di un entusiasmo visionario e profezie di apocalittiche rivoluzioni a venire, ma in parte rendiconti (spesso insinceri) di meriti e battaglie vinte, in parte puntate ben organizzate di un dettagliato ‘manuale del perfetto futurista’. Naturalmente, l’eroe futurista abbandona qualsiasi velleità di cosmiche rivoluzioni, e Kabango, umilmente, assicura al Sole (quello stesso Sole che Gazurmah si proponeva di sottomettere): «Chi ha mai osato disconoscere la tua sovranità?» (p. 12). Analogamente, da un altro punto di vista, Il tamburo di fuoco costituisce un momento importante e significativo di quella progressiva riduzione della prospettiva futurista da un orizzonte più ampiamente spirituale e culturale (nel quale il movimento già da alcuni anni non produce più nulla di nuovo, limitandosi a replicare per inerzia i precedenti contenuti) a uno strettamente tecnico: in epigrafe, Marinetti chiarisce infatti come l’intenzione del dramma fosse quella di «imporre la drammatizzazione lirica del rumore sulla scena, mediante immagini, musiche, luci e gl’intonarumori di Luigi Russolo» (p. 3), giustificando così il ricorso a un linguaggio e una forma drammatica nettamente tradizionale rispetto allo sperimentalismo del Teatro Sintetico 51. 51. Claudia Salaris, nella sua Storia del futurismo (Salaris 1985, p. 172-73), individua nel Tamburo di fuoco il momento di «ritorno all’ordine» della drammaturgia marinettiana: «l’opera che invece riflette l’atmosfera del rappel à l’ordre in tutti i sensi, la crisi insomma in cui si dibatte Marinetti nei primissimi anni Venti […]. I valori di Kabango-Marinetti adesso sono: ‘Bontà, Generosità, Patria, Progresso, Sacrificio, Ideale, Assoluto’, principi quasi religiosi nel sistema idealistico del nostro».

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Un dramma dunque non più «di propaganda», bensì di pura sperimentazione tecnica; e al tempo stesso, con un significativo parallelismo, una tappa importante per la delineazione della progressiva rinuncia all’ambizione mitizzante che aveva contraddistinto l’‘eroico’ futurismo degli esordi.

6. La tenace resistenza del chiaro di Luna È proprio negli ultimi anni del secondo decennio del secolo che si consuma il sogno futurista della nuova era: la pesante sconfitta del Partito futurista alle elezioni del 1919, cui segue il divorzio da Mussolini e l’ascesa di quest’ultimo nel favore delle masse, determina un progressivo ridimensionamento delle ambizioni rivoluzionarie e un esaurimento della spinta totalizzante nella dottrina del movimento. Già in Al di là del Comunismo (1920) il programma politico dell’ideologo del futurismo viene significativamente ristretto a obiettivi politici e culturali: se non si è ancora rinunciato del tutto all’utopia degli «artisti al potere», pure all’arte viene riconosciuta una funzione essenzialmente consolatoria: «Non avremo il paradiso terrestre, ma l’inferno economico sarà rallegrato e pacificato dalle innumerevoli feste dell’arte» (Marinetti 1983, p. 488). Nel 1924, al momento della riconciliazione con il fascismo diventato regime, Marinetti ha ormai abbandonato qualsiasi velleità di arte al potere, e si accontenta di ritagliarle un ruolo di secondo piano, assicurandole una totale libertà proprio grazie alla rinuncia a qualsiasi incidenza sul reale: Il Fascismo opera politicamente, cioè nell’ambito della nostra sacra penisola che esige impone limita vieta. Il Futurismo opera invece nei dominî infiniti della pura fantasia, può dunque e deve osare osare osare sempre più temerariamente. Avanguardia della sensibilità artistica italiana, è necessariamente sempre in anticipo sulla lenta sensibilità del popolo. Rimane perciò spesso incompresa e osteggiata dalla maggioranza che non può intendere le nostre scoperte, la brutalità delle nostre espressioni polemiche e gli slanci delle nostre intuizioni. (Futurismo e Fascismo, in Marinetti 1983, pp. 496-97)

Tra i due testi, va inserita la composizione del Tamburo di fuoco (1922), e quella del romanzo allegorico Gli Indomabili (1922), che sembra scritto proprio per illustrare la tesi esposta in Al di là del Comunismo: una storia di schiavi tenuti in condizione bestiale, che unicamente l’Arte (e la sua funzione memoriale) può consolare e rendere «umani» – come mostra il finale dell’opera: Così, più forte delle crudità cacofoniche del Sole e del Sangue, finalmente la sovrumana frescalata Distrazione dell’Arte operava la metamorfosi degli Indomabili. (Marinetti 1983, p. 1012)

Il loro crudele destino di schiavitù rimane tuttavia immutabile: e non a caso gli Indomabili scoprono la potente consolazione dell’Arte quando ormai le loro velleità di rivoluzione e libertà sono state pesantemente frustrate, e i Cartacei (facile allegoria di una classe dirigente cólta, che ha ogni interesse a mantenere il popolo lavoratore nella bruta ignoranza) hanno avuto buon gioco a rinchiuderli nuovamente nella fossa infuocata, ben assicurati da catene e museruole. Se la struttura

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dell’opera e la costruzione allegorica rimandano a quelle di Re Baldoria (1905), la potenza visionaria si è qui nettamente affievolita; ma, soprattutto, la chiusa pessimista assume ben altro significato dopo gli anni di violente battaglie e sogni rivoluzionari: il significato di una sofferta rinuncia agli obiettivi troppo ambiziosi e di un ritorno dimesso al più modesto àmbito delle competenze proprie dell’artista. Negli anni Venti e Trenta l’interesse marinettiano si incanala così nei filoni di una letteratura di svago, lieve e brillante, da una parte, e di un sempre maggior raffinamento delle innovazioni tecniche (come l’aeropittura, o il «tattilismo») dall’altra. Tra le opere che hanno una funzione di divertissment ritroviamo drammi satirici (come le undici, bellissime sintesi del Suggeritore nudo, 1929), melodrammi passionali a forti tinte (Vulcano, L’oceano del cuore), e racconti erotico-mondani. Tra questi ultimi, e precisamente nella raccolta delle Novelle colle labbra tinte (1930), càpita di imbattersi ancora in una Sirena: sebbene assai cambiata rispetto alle prime versioni che Marinetti aveva offerto della figura. La creatura protagonista di Fabbricazione di una Sirena ha infatti ben poco di minaccioso, e anzi si dimostra estremamente docile con il poeta che, lungi dal temerla e ucciderla, l’ha anzi evocata egli stesso nelle acque di Capri, con la pura suggestione dei propri versi lirici, per il desiderio di vivere un’avventura fuori del comune. L’atmosfera e il tono del racconto, lieve e fiabesco, non hanno nulla di religioso o primordiale, e semmai prendono le mosse dal contemporaneo «realismo magico» bontempelliano. Il racconto, in effetti, non parrebbe affatto futurista, se non fosse per la ‘trovata’ di rapire la creatura dalle acque materne con l’aiuto dell’aviatore fiumano Keller (diventato celebre per aver rovesciato un pitale su Montecitorio) e del suo idrovolante. Anche sul versante «tecnico» della produzione futurista si trovano frammenti di materiali mitologici: nel Poema non umano dei tecnicismi (1940), l’aviatore-poeta respinge la sensuale seduzione dei canneti femminili, che proprio come le «sensuali liane» di Uccidiamo il chiaro di Luna! cercano di svirilizzare l’eroe: Intorno si gonfiava il voluttuoso milione di canne ognuna folle di sentirsi non abbastanza nuda serica levigata e di diventare al più presto agile donna vestita di carne calda con possibilità di tattilismi odorosi respirante profumo d’ogni segreto cespuglio. Per consolare l’aeropoeta e convincerlo e convertirlo e ucciderlo di baci sfondando se occorre le sue spalle virili mille effluvii vellicamenti minuziose musichette d’insetti danzare danzare. (Marinetti 1983, p. 1156)

Ma i voluttuosi canneti verranno puniti per la loro lussuria dalla Dea Geometria, che li trasformerà in materiale d’arte – non più in flauti da suonare (come Siringa, che viceversa era stata punita da Pan per la sua castità), bensì in fogli su cui vergare parole in libertà. In entrambi i casi si tratta solo di allusioni fini a se stesse, materiali per una libera rielaborazione, senza più alcun rapporto con una visione collettiva o un’ambizione mitizzante in senso lato. In altre parole, per riprendere una formula utilizzata all’inizio di questo capitolo: il futurismo a questa altezza ha ormai deposto qualsiasi ambizione di produrre il mito, e semmai si accontenta di citarlo. Il ricorso alla citazione esplicita, però, presuppone non soltanto il decadere di quella dialettica tra rifiuto della mitologia e ricreazione del mito, sulla quale si basavano i primi testi mitologizzanti del gruppo, ma anche una più generale riconciliazione con la tradizione – dissimulata all’inizio, infine apertamente ammessa e giustificata.

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A questo proposito è illuminante la lettura di Firenze biondazzurra sposerebbe futurista morigerato, l’autobiografia «lirica» del movimento che Marinetti scrisse nel 1944 insieme ad Alberto Viviani e che, dopo la fine della guerra e la morte del creatore del futurismo, è stata dimenticata per quasi 50 anni e pubblicata per la prima volta soltanto nel 1992. Il testo è una commossa e orgogliosa rievocazione dei fasti del movimento, dei suoi momenti più vivi e dei protagonisti ormai scomparsi, scritta non secondo i classici schemi della letteratura memoriale, bensì in forma di creazione originale e visionaria: attraverso una bizzarra prospettiva fiorentina, fatti reali trasfigurati poeticamente si intrecciano con episodi fantastici (in cui i morti e i vivi festeggiano insieme la gioia di vivere e le vittorie personali e collettive) e trasposizioni allegoriche (come la cena e la discussione sul valore del futurismo cui prendono parte anche Joyce, Proust e Svevo). Uno degli ultimi capitoli vede i compagni futuristi radunati sulle rive dell’Arno per una bizzarra «festa dell’alta poesia del vino», una vera e propria celebrazione dionisiaca al termine della quale vengono evocati gli spiriti di tutti i «grandi» della poesia italiana e occidentale – e il «fraterno invito» viene accolto, sorprendentemente, anche da personaggi che mai ci si sarebbe immaginato di veder celebrare dal futurismo: accanto ai più scontati Poe, Verlaine, Rimbaud, ritroviamo Boccaccio, Cecco Angiolieri, Carducci e Pascoli, fraternamente abbracciati nella lode del Chianti: MARINETTI. […] Beviamo dunque amici con il contrario spirito di chi beve per dimenticare o per vizio di chi beve per acquistare un momentaneo e illusorio godimento di chi beve credendo nello sciocco latinetto «in vino veritas» Noi futuristi invece beviamo e festeggiamo il «Chianti» come un elemento simile a noi per forza creativa e potenza dinamica (Marinetti-Viviani 1992, p. 255)

Siamo davvero di fronte a un sorprendente ritorno all’antico spirito dionisiaco del secondo manifesto, seppur in tono nostalgico e più banalmente festaiolo: e difatti la «festa» in questo caso si consuma in privato, con i soli testimoni taciti degli elementi naturali, e i convitati sono tutti scelti tra i poeti e gli artisti, mentre in Uccidiamo il chiaro di Luna! il baccanale, condiviso con i pazzi e le fiere, era la forma mitica scelta per la diffusione della rivoluzione futurista sul volto della terra. Sempre riguardo ai «grandi» con i quali il futurismo si riconcilia – dopo 35 anni di sfida alla tradizione – i capitoli finali del libro ci riservano altre sorprese: a cominciare da d’Annunzio (morto sei anni prima della composizione del libro), che confessa di essersi convertito al futurismo durante la sua residenza fiorentina 52; e l’ultimo capitolo, L’estuario dei poeti beati, ci presenta poi Dante, Carducci, Pascoli, d’Annunzio raccolti insieme in un’inedita versione dei campi Elisi sulla foce

52. La riabilitazione del tanto osteggiato d’Annunzio non è però una novità assoluta: dopo l’impresa di Fiume, a cui Marinetti partecipò entusiasticamente, le ostilità vennero deposte: nel Discorso di Piazza Belgioioso (10 novembre 1919), poi raccolto in Futurismo e fascismo, Marinetti si spinge fino ad affermare: «Non dimenticate, o italiani, i grandi spiriti geniali di d’Annunzio e di Mussolini, che sintetizzano in questo momento l’Italia» (Marinetti 1983, p. 543). Dopo la pubblicazione del Notturno (1921), poi, Marinetti lodava la conversione dannunziana alle «parole in libertà» futuriste: per esempio, nell’Introduzione all’antologia I nuovi poeti futuristi (1925): «Le parole in libertà hanno conquistato i nostri maggiori scrittori: fra i quali Gabriele d’Annunzio» (Marinetti 1983, p. 189).

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dell’Arno, a far da coro a Mallarmé che recita la sua poesia Le tombeau d’Edgar Poe 53; l’opera si chiude con Dante che prega il «Gesù dei Poeti» di concedere la pace allo spirito di Poe e lunga gloria al futurismo. Un finale davvero significativo, che può illustrare meglio di qualsiasi altro discorso esplicito l’involuzione tradizionalista e tristemente autocelebrativa del movimento negli ultimi decenni. E perché la ritrattazione e la riconciliazione siano complete Marinetti vuol far definitivamente pace persino con la Luna, la sua nemica storica. Infatti in Firenze biondazzurra Marinetti si propone di offrire addirittura una Analisi chimica del chiaro di luna in onore della sua amante, simbolicamente chiamata Rose Gardens, che egli si reca a incontrare in un giardino toscano. Sarà invece l’occasione per una finale riappacificazione: la Luna creerà per il poeta l’atmosfera magica per la seduzione della sua amata, e Marinetti, in suo onore, citerà persino uno dei poemi in prosa di Le Spleen de Paris di Baudelaire, Les bienfaits de la Lune (I benefici della Luna, 1863) 54. Recita poi un lungo stralcio da Uccidiamo il chiaro di Luna!, per l’appunto quello sull’assassinio dell’astro grazie alle lune elettriche; ma giustamente Rose Gardens lo rimprovera scherzosamente: «Mon ami tu voulais la détruire et tu te lèves encore pour la contempler» (p. 145) [«Amico mio tu volevi distruggerla e ti alzi ancora per contemplarla»]. E Marinetti le dà ragione, elevando un lirico canto parolibero in onore del sorgere della Luna: ROSE GARDENS. La Bellissima or ora tutta irrora di sé a gocciolo di diamanti e nasce emerge e con spiralica mossa fa lustreggiare l’anca e la schiena e la coscia e una cascatella di perline lustrini inseguiti da baci furtivi MARINETTI. Chiudete pure i vostri occhi e mediante i miei polpastrelli vi trasmetterò sfiorando le vostre labbra gli splendori successivi di lei che si libera da trentotto e le ho contate ad una ad una da trentotto sete lane mùssole e finalmente è fuori nel cielo e vi stira la sua succosa oblunga soda cremosità di banana sensibile ai lontanissimi veggenti dentini di tutte le donne insonni 55. (p. 146)

La parabola è compiutamente delineata: l’oggetto romantico e poi simbolista – qui il chiaro di Luna – è stato aggredito, demonizzato, elevato a paradigma di tutto quanto dovesse essere demolito per fare spazio alla «nuova letteratura» e alla «nuova era»; e tuttavia, proprio grazie a questo processo, l’oggetto stesso è stato trasportato all’interno della nuova letteratura, intimamente rinnovato e quasi ringiovanito dalla polemica e dal ruolo che questa gli ha assegnato, pronto dunque per essere nuovamente fruito – ma soltanto nel momento in cui si sgretola l’orizzonte mitico entro cui gli era stato attribuito il ruolo negativo – nel duplice valore vecchio e nuovo, cioè come mito eterno. E tuttavia si potrebbe anche usare una formulazione diversa, e dire che, nella battaglia tra il chiaro di Luna romantico e il mito moderno futurista, alla fine è stata la Luna a vincere. 53. Mallarmé la pose in epigrafe alla sua traduzione delle liriche di Poe, pubblicata nel 1889 (Mallarmé 1941, p. 189). 54. Sempre in Baudelaire 1975, I, pp. 341-42. Può essere curioso osservare come tanto la citazione da Baudelaire, quanto quella di Le tombeau d’Edgar Poe di Mallarmé, contengano molte varianti rispetto agli originali: volute rielaborazioni marinettiane, oppure errori di chi citava a memoria? 55. Ma vd. tutto il capitolo Valore letterario del pianto e della notte, pp. 143-148.

BONTEMPELLI E IL MITO NOVECENTISTA

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2. Bontempelli e il mito novecentista

Nel migliore dei casi si continua a sognare il mito, dandogli una forma moderna. Carl Gustav Jung, Per la psicologia dell’archetipo «fanciullo» (1940)

1. Il ricorso al mito in funzione polemica: La vita operosa ontempelli si converte all’avanguardia assai tardi: nel 1919, data della pubblicazione delle poesie del Purosangue e della Vita intensa, il loro autore è tutt’altro che un giovane ribelle, desideroso di dar fuoco ai musei e menar pugni, bensì conta ormai 41 anni, buona parte dei quali passati a legger classici, scrivere tragedie o versi di buona fattura carducciana – e non dimentichiamo che Marinetti, in Fondazione e Manifesto del Futurismo, scriveva: «I più anziani fra noi, hanno trent’anni […]. Quando avremo quarant’anni, altri uomini più giovani e più validi di noi, ci gettino pure nel cestino, come manoscritti inutili» (Marinetti 1983, p. 13). Ma soprattutto, come abbiamo visto, nel 1919 il futurismo ha già bruciato la maggior parte delle sue carte e dei suoi entusiasmi. Sono intanto avvenute alcune defezioni importanti (solo nel 1914, Palazzeschi, Papini e Soffici), e da più parti già si levano appelli per il fatale, imminente «ritorno all’ordine» – ricordiamo che proprio nel 1919 viene fondata «La Ronda». Insomma, mentre il futurismo si avvia a essere sconfitto da una nuova ondata di «classicismo», un bonario classicista già in là con gli anni rinnega quasi tutta la sua produzione precedente 1 e si proclama avanguardista alle soglie degli anni Venti. Il primo frutto della ‘conversione’ sono La vita intensa e La vita operosa, i due «romanzi» pubblicati a puntate tra il 1919 e il 1920 2. Le virgolette sono necessarie soprattutto per quanto riguarda la prima delle due opere: La vita intensa, che giustamente reca il sottotitolo di «Romanzo dei romanzi», si presenta infatti come una raccolta di «romanzi sintetici», che sembrerebbe rispettare in pieno l’ortodossia delle

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1. Che annovera, tra l’altro, un dramma borghese abbastanza canonico (La piccola) e una tragedia in versi di ispirazione dannunziana (Costanza). Le sole opere salvate dalla condanna sono la raccolta di racconti Sette savi (1912), e il dramma Guardia alla Luna (1916). 2. La Vita Intensa viene pubblicato tra il marzo e il dicembre 1919 dalla rivista futurista «Ardita»; La Vita Operosa appare invece sulla rivista «Industrie Italiane Illustrate», con il titolo La vita degli affari, dal settembre al novembre 1920. Per un’analisi della struttura e degli elementi tematici e formali delle due opere vd. Galateria 1977.

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regole stilistiche e formali messe a punto dal futurismo per il Teatro Sintetico (il cui manifesto, ricordiamo, era stato pubblicato nel 1915). Più in generale, La vita intensa rispetta perfettamente la prima parte del programma estetico futurista, ossia la critica corrosiva e l’abbattimento delle forme tradizionali – in questo caso, naturalmente, di quelle romanzesche: ciascuno dei romanzi riproduce infatti, in versione sintetica, un modello di romanzo tradizionale (il romanzo di formazione, quello d’avventura, quello psicologico «alla russa», il romanzo sentimentale, quello «dell’artista», e così via), che viene poi sgretolato dall’interno, attraverso la messa in evidenza dell’arbitrarietà e inattendibilità dei meccanismi di rappresentazione del reale, il rovesciamento, l’ironia, l’abbassamento parodico e soprattutto la reductio ad absurdum. Manca invece la controparte positiva e propositiva, ossia la sperimentazione di nuove forme letterarie (come il simultaneismo o le parole in libertà). Inoltre, l’interesse di Bontempelli si rivolge esclusivamente agli aspetti delle forme romanzesche, rinunciando programmaticamente a veicolare contenuti che non siano puramente occasionali. La vita operosa, invece, si presenta come un’operazione per molti aspetti opposta e complementare: viene recuperata in certa misura la continuità narrativa e una forma coerente e pienamente strutturata, per cui è possibile considerare il testo come un «romanzo» unico a tutti gli effetti: la vicenda si sviluppa per episodi, dei quali ognuno occupa uno dei nove «capitoli» (Bontempelli utilizza infatti il termine canonico, mentre nella Vita Intensa ciascuna parte era definita, ovviamente, «romanzo»); ognuno di essi rappresenta una tappa nella progressiva presa di coscienza del protagonista dell’inutilità di qualsiasi tentativo di integrazione nella società postbellica e capitalista. A riprova dell’intenzione di recuperare una forma coerente e continua, si possono citare i diversi punti in cui l’autore, prima di intraprendere la narrazione di un nuovo episodio, riassume gli eventi avvenuti fino a quel punto, al fine di assicurarsi che il lettore abbia ben chiaro il senso della narrazione e di ogni successivo sviluppo; la continuità tra le varie parti viene segnalata anche dalla sequenza di dialoghi ‘conflittuali’ tra il narratore-protagonista e il suo Dàimone, l’alter ego «loico e ironico di natura», che svolge la funzione di contrappunto ironico e disincantato agli ingenui entusiasmi del protagonista. Il finale, naturalmente, vede la piena riconciliazione tra i due, grazie alla superiore e paradossale saggezza finalmente acquisita dal protagonista. Dopo la ricerca formale della Vita intensa, dunque, l’attenzione di Bontempelli torna a concentrarsi sul piano dei contenuti, e anzi su uno dei temi ‘forti’ del romanzo tradizionale: il rapporto conflittuale del personaggio con l’ambiente 3, e i suoi sforzi di trovare in esso la propria collocazione e il proprio ruolo. Lo schema, come si vede, è quello del romanzo di formazione; del quale tuttavia Bontempelli – e non poteva essere diversamente – ci offre una versione rovesciata e ironicamente disforica: dal momento che la narrazione registra i successivi fallimenti di ciascun nuovo tentativo, sino alla definitiva rinuncia all’integrazione, inizialmente tanto sospirata, in un ordine che nel frattempo si è scoperto sempre meno desiderabile. 3. Sull’importanza dell’ambientazione come punto nodale del senso del romanzo attira l’attenzione anche Luigi Baldacci, servendosi a questo proposito di un paragone significativo ma forse un po’ azzardato: «Protagonista dell’Ulisse di Joyce non è l’agente di pubblicità Leopold Bloom, bensì quella giornata del 16 giugno 1904 nella quale si svolge la sua odissea: così il protagonista della Vita operosa è la Milano del 1919, nella quale l’eroe, l’uomo si dissolve come in un bagno acido» (Baldacci 1967, p. 35).

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La chiave di lettura della Vita operosa, dunque, potrebbe essere proprio l’incongruenza di cui dicevo in apertura – quella di un letterato classicista che si converte entusiasticamente al futurismo alle soglie dei quarant’anni. La storia è infatti quella di un intellettuale, uno scrittore – peggio ancora, un «umanista»! – che ha onorevolmente attraversato le peripezie di una giusta guerra, e approda alla sfavillante e caotica metropoli postbellica (nella fattispecie, Milano) animato dall’imperativo categorico rimbaudiano del «dover essere assolutamente moderni». Ma poiché il nostro intellettuale è anche acuto osservatore e uomo dal sottile ingegno, a questa prima certezza non tarda poi ad associarne una seconda, di assoluta evidenza: «Perdio, qui bisogna trovar modo di fare molti quattrini» (Bontempelli 1978, p. 151), pensiero che l’autore definisce «d’estasi contemplativa». L’associazione dei due precetti dà origine ai successivi tentativi del protagonista di integrarsi nel sistema economico postbellico, ovviamente destinati tutti a un grottesco fallimento: volta per volta si camuffa da consulente pubblicitario, adulatore di pescecani, speculatore edilizio, commerciante in legnami e altri ruoli sorprendenti, ma ogni nuova iniziativa «operosa», intrapresa col più sacro entusiasmo, si arena al momento di tradursi in pratica. Incapace di adulazione, facile agli scoraggiamenti, totalmente privo di senso pratico, dotato di bioritmi lentissimi: il protagonista finisce per essere da tutti smascherato per quello che è – un «letterato», uno «scrittore». Ma soprattutto, a denunciare la sua inettitudine, la sua inadattabilità alla società moderna, sono i suoi punti di riferimento culturali, il retaggio di una formazione intellettuale classicista e ottocentesca che compromette irrimediabilmente la sua visione del mondo e i suoi criteri di giudizio. In questo senso, i frequentissimi rimandi alla mitologia hanno un valore paradigmatico: di spia e al tempo stesso di simbolo di quel retaggio culturale inalienabile e compromettente. Vediamo in che modo. I casi apparentemente più banali di rimandi al patrimonio culturale classico sono alcune formule desuete, incastonate ad arte nel discorso lieve e umoristico in maniera da risultare comicamente stonate: in apertura del primo capitolo, l’addestramento bellico cui l’autore si è sottoposto viene definito con la formula «discipline di Marte e Bellona» (p. 149); più tardi, una signora particolarmente notevole verrà descritta come una «bellezza imperatoria e fine nello stesso tempo, e un contegno da Olimpo» (p. 189). (Subito dopo verrà spiegato che la donna è un’ex equilibrista.) Si tratta di spie di un gergo acquisito in un solido apprendistato, e perciò difficilmente modificabile; potremmo considerarli alla stregua di lapsus, fenomeni involontari del linguaggio ma anche sintomi di un dissidio mentale, tra volontà e abitudini. Il lapsus infatti si distende facilmente in modo di dire, come «L’avvenire è sulle ginocchia di Zeus» (p. 232), o il più comico «La mia disoccupazione è figlia del sole, come Circe» (p. 161): in quest’ultimo caso, il contrasto tra la banale quotidianità dell’occasione e la letterarietà del rimando illustra il funzionamento del meccanismo mentale: la locuzione «figlia del sole» richiama meccanicamente «Circe», nonostante il parallelo tra la condizione del disoccupato e la mitica maga sia totalmente incongruo. L’abitudine linguistica, insomma, è il chiaro segnale di un’abitudine mentale; non bisognerà dunque meravigliarsi se il narratore ricorre all’immaginario mitico per raffigurare le meraviglie della tecnica moderna – come l’avveniristica macchina per il caffè espresso in un bar:

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Cominciai desolatamente a contemplare la macchina lucidissima che dall’alto del bancone di marmo continuava con grandi fremiti e sbuffi a esprimere robustamente dalle metalliche viscere negre spume di caffè, e ogni tanto, a un mezzo girar di manubrio, si convolveva di nuvole come Zeus pronto a discendere sul mondo. (p. 265)

Tra l’altro, il passo rimanda ovviamente alla mitologia meccanica di marca futurista, ma da un lato l’iperbole, dall’altro la gratuità del paragone (che nasce non tanto dalle caratteristiche intrinseche e dalla natura dell’oggetto meccanico, bensì dal dettaglio occasionale dell’emissione di vapore) ne rendono manifesta l’intenzione parodica: se l’automobile con il suo guidatore è «il nuovo centauro», la macchina per il caffè espresso diventa addirittura Zeus! Altrove (capitolo II), per una bizzarra riflessione sulla natura del rapporto tra vizio e virtù, il narratore prende subito a esempio la vicenda di Ercole al bivio, accostandola a quella di Cappuccetto Rosso (secondo la provata tecnica umoristica della commistione tra materiali eterogenei con effetto parodico): se l’eroe mitologico avesse scelto la via più facile, magari sarebbe diventato un dio anziché un semplice semidio; mentre Cappuccetto Rosso, percorrendo la via più lunga, avrebbe potuto incorrere in sventure più grandi, «per esempio essere violata da un malandrino, e di là finire nella vita disonesta, che, come ognuno sa, è peggiore della morte» (p. 163). Dal punto di vista della rielaborazione mitologica, tuttavia, l’aspetto più interessante consiste nella integrazione e nella conseguente reinterpretazione ironica della parabola di Ercole, grazie al rimando, come spesso avviene nelle integrazioni, a una presunta «fonte» andata persa: Ma su quel fatto c’è in un testo poco noto una versione anteriore a quella di Prodico, versione che fu poi dimenticata, sommersa dalla nuova forse perché la prima parve un po’ cinica. La leggenda poco nota è questa: Ercole fin da ragazzo aveva sentito dire molte volte da Alcmena che la virtù è bellissima e il vizio orribile. Trovatosi al bivio, vedendo una strada brutta e fetida si cacciò subito in quella, convinto di entrare nella strada del vizio. Quando s’accorse dell’errore non era più a tempo a tornare indietro. (p. 163)

Nella tradizione occidentale accade spesso che il ragionamento filosofico o morale trovi i propri esempi tra le storie mitiche, reinterpretandole o integrandole, ed è proprio a questa tradizione che si rifà Bontempelli: non c’è dubbio, tuttavia, che l’integrazione da lui operata, nonostante la finta serietà con cui viene esposta, risulti comicamente (e volutamente) inammissibile. In maniera simile, per convalidare la propria convinzione che l’aspirazione alla Bellezza imponga la necessità del benessere economico (convinzione sinteticamente espressa nella già citata esclamazione «Perdio, qui bisogna trovar modo di fare molti quattrini»), ne stabilisce la validità universale con un altro bizzarro parallelo mitologico: Forse quando nacque la divina Afrodite dal mare e si presentò sul lido terrestre vestita alla moderna di poca spuma, forse allora i Tritoni e i mortali si mormorarono l’un l’altro ammirandola: «Per Zeus, qui bisogna trovare il modo di far molti talenti». (p. 152)

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Anche qui Bontempelli ricorre allo stesso procedimento: convalidare un principio universale mediante il ricorso all’auctoritas del mito è esso pure un tipico procedimento letterario, per cui la trivialità del principio e il gratuito anacronismo del rimando producono un contrasto comico e un effetto di abbassamento parodico. Il testo è disseminato di rimandi al mito, il più delle volte ingiustificati o fuori luogo, come se il protagonista fosse vittima di una sorta di comica «coazione al parallelo mitologico». È assai significativo, a questo riguardo, come l’inconscio del protagonista metta in scena il sogno di gloria concepito alla prospettiva di incontrare una non meglio specificata «Sua Eccellenza», che gli promette importanti incarichi: Ma non mi riuscì ritrovare subito il solito sonno delle mie notti d’innocenza. L’inquieta larva dell’ambizione venne a poggiarsi sul mio guanciale, nel punto che stavo assopendomi, e di lì cominciò a torturarmi con insidie vili e sottili. Intravidi un lunghissimo porticato marmoreo, sotto cui svolgevasi una maestosa e sterminata panatenaica, e io da un trono sfavillante la contemplavo passare al mio cospetto e perdersi nel lontano verso un cielo marino. (p. 281)

L’ambizione carrieristica assume qui l’immagine di un’apoteosi classica; allo stesso modo, in un altro delirio d’onnipotenza, sognando di diventare il «semidio» dei moderni vampiri economici, il protagonista non può fare a meno di paragonarsi ad Apollo, che nella versione di Heine si trasformò in vampiro dopo esser stato decapitato dai primi cristiani: Comperare e rivendere, in un colpo, non sei vagoni di legna, ma, che so io? tutta la produzione d’un popolo, oppure tutto un esercito: appaltare una guerra, o una rivoluzione; comperare e rivendere un impero, una religione. Oscurare così, con una impresa enorme, alla soglia dell’èra nuova, tutto questo minuto e caduco vampirismo da caffè. Essere il semidio del Vampirismo. Il Vampirismo si sarebbe fatto eroico, e poi sarebbe morto, con me. Anche Apollo, racconta Heine, decapitato dai cristiani del terzo secolo, trasformossi in vampiro. (p. 221)

L’incongruenza dell’accostamento deriva dalla natura completamente diversa del «vampirismo» immaginato da Heine per Apollo, rispetto alla carriera affaristica che si propone di intraprendere il protagonista; la vera natura del parallelismo è tutta implicita, e coinvolge invece il senso della parabola costituita dall’intero romanzo: entrambi, Apollo all’avvento del Cristianesimo, e il protagonista «letterato» nell’era degli affari, sono i sopravvissuti della cultura sconfitta, per i quali è impensabile qualsiasi integrazione nel nuovo ordine – di qui, l’ansia di vendetta sui suoi rappresentanti, vendetta (reale o metaforica) distruttiva e contro natura. Infatti il bonario e poco pratico «letterato», come si è detto, con gli strumenti culturali di cui è in possesso fallisce immancabilmente tutti i tentativi di integrazione nel mondo degli affari. Una delle prime vie saggiate non può che essere quella della pubblicità – che nel nuovo ordine ha ricoperto il posto che prima spettava alla cultura e alla letteratura. I primi clienti di cui deve occuparsi sono una madre e una figlia, assetate di guadagni, che intendono aprire un haschisch bar e, per pub-

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blicizzare l’impresa, il protagonista non sa far di meglio che ideare una serie di iniziative complicate, dispendiose e totalmente irrealizzabili, tra cui, oltre alla committenza di romanzi e commedie a scrittori di successo che lancino la moda dell’oppio, troviamo: 1) Far tenere alla locale Università Popolare, da qualche dotto ellenista, una lettura e commento del libro IX dell’Odissea, dove si parla del loto. (p. 173)

Naturalmente il suo assurdo progetto non solo non verrà preso minimamente in considerazione (anche perché, tra l’altro, le sue due clienti gli scrivono una lettera di disdetta e di scuse, dalla prigione dove si trovano «in seguito a un incidente»), ma gli procurerà anche una lavata di capo da parte del direttore dell’azienda pubblicitaria, il Commendator Gattoni: Questo suo piano è assurdo; mi fa vedere che lei non è entrato nello spirito della B.A.I.A., nello spirito dei tempi, nello spirito della rinata Italia. Oltre la irrealizzabilità, e il tempo che richiederebbe, non sente come tutto questo puzza di letteratura? Di scuola e di letteratura, professorume e scrivaneria. Non ci voleva che un exprofessore per andare a pensare a Omero, al Lotòs, e alla Università, sia pure popolare. (p. 174)

L’autore-protagonista è insomma il sopravvissuto di un’era sconfitta: può mimare l’agitazione dei moderni, può persino scimmiottare il loro gergo affaristico, ma i suoi materiali culturali e i suoi punti di riferimento sono sbagliati, denunciano il suo essere ‘fuori moda’ e rendono impossibile l’integrazione tanto agognata. Gli esempi riportati, nonostante le diverse sfumature, tendono tutti a istituire un contrasto tra una cultura tradizionale, umanista e classicista, e la società contemporanea. Bontempelli si assicura in tal modo un effetto duplice: da un lato il contrasto prodotto mette in luce l’impoeticità e la volgarità del mondo moderno e metropolitano, del mondo degli affari e delle macchine; dall’altro lato, addita impietosamente il superamento della cultura tradizionale, dotata di una retorica e di un immaginario ormai definitivamente inservibili, incongrui e ridicoli se messi a reagire con la materia contemporanea: da questo punto di vista, a venire bocciata è quella che ho chiamato la «soluzione dannunziana», vale a dire la trasfigurazione del mondo moderno mediante il ricorso ai simboli classicamente ‘sublimi’. Ai due obiettivi espliciti, tuttavia, si associano altri due risultati non meno importanti ai fini del nostro discorso. Innanzi tutto, la strategia adottata impedisce il confronto con quella futurista – che prevede la demolizione recisa della mitologia e la messa in scena di una nuova mitopoiesi, mentre la sfumata soluzione bontempelliana si limita a constatare la refrattarietà del mondo moderno alla mitologia classica, senza per ora azzardare opinioni esplicite sulla ‘nuova miticità’. Il secondo effetto è più sottile, e in un certo senso paradossale: infatti Bontempelli riesce a esprimere le sue critiche alla contemporaneità utilizzando materiali mitologici, nonostante il loro rovesciamento parodico ma pure grazie a esso – in altre parole, ridicolizza la modernità (meglio: l’idea futurista della modernità) attraverso il mito, ma a prezzo della messa in ridicolo del mito stesso. L’ambiguità del compromesso è fondamentale, perché è proprio la messa in ridicolo del mito che consente l’iden-

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tificazione di Bontempelli come un «antipassatista», e dunque la sua calorosa accoglienza tra le file futuriste. La mancata apologia della modernità si giustifica infatti come scelta strutturale, quella del narratore «letterato» da ridicolizzare; e del resto Marinetti si dimostrava molto elastico nell’accogliere alleati che del futurismo condividessero i soli obiettivi polemici, pur senza aderire esplicitamente al suo programma positivo. In alcuni punti, tuttavia, l’ironia nei confronti della mitopoiesi di marca futurista sembrerebbe farsi meno velata e più esplicita – come nel passo seguente, in cui Bontempelli scimmiotta con comica sbrigatività quello che ho definito la versione futurista di un mito di «successione dinastica»: Il Verbo è eterno, ma le sue incarnazioni sono caduche come gli assi delle impalcature, si succedono come le dinastie dei monarchi mortali. A Zeus succedette Prometeo e ad Adonai succedettero Cristo e Allah. Ma a tutti gli dei più resistenti, a Brahama ad Allah a Cristo stesso, succede ora, in tutte le latitudini, il nuovo Dio, che si chiama OGGI. (p. 157)

In questo caso, con più forza che altrove si avverte che l’ironia critica di Bontempelli si rivolge, più che alle caratteristiche del mondo moderno, alla mistica della modernità, sommaria e superficiale, tra i cui adepti più entusiasti i futuristi occupano un posto in prima fila. E non è un caso, si potrebbe aggiungere, se La vita operosa non venne ospitata da pubblicazioni futuriste, che invece avevano accolto festosamente La vita intensa. In conclusione, si può osservare come, a quest’altezza, Bontempelli ricorra al mito in funzione esclusivamente polemica: ossia utilizza dei materiali mitologici come simboli e rappresentanti di una cultura di cui mostrare l’anacronismo, l’inadattabilità al mondo moderno. Non si può dunque propriamente parlare di un riuso del mito: anche nei casi in cui delle storie mitologiche vengono integrate, oppure reinterpretate, gli interventi operati hanno sempre una funzione occasionale e utilitaristica, e non sottintendono mai un metodo generale di accostamento al mito. Non c’è ancora un’effettiva intenzione di mostrare la degradazione del mito a contatto con la modernità (che è la via per esempio seguìta da Savinio, alla quale lo stesso Bontempelli si accosterà negli anni successivi): bensì, al limite, solo quella di additare la refrattarietà irriducibile che la modernità dimostra nei confronti di esso. Viceversa, nel corso degli anni Venti Bontempelli svilupperà il tema del rapporto tra mito e modernità in maniera più critica, e più ‘produttiva’ dal punto di vista della elaborazione novecentesca del mito.

2. Da Nostra Dea a Madina: la metamorfosi in versione bontempelliana Prima di passare all’analisi della teoria novecentista elaborata da Bontempelli nella seconda metà degli anni Venti, e dei «nuovi miti» che dovrebbero tradurla in pratica, può essere utile soffermarci sul trattamento bontempelliano di un tema classico

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quale la metamorfosi. Quest’analisi potrà fornirci qualche indicazione preliminare sull’intera evoluzione dell’atteggiamento di Bontempelli nei confronti del mito: si tratta infatti di un tema che, in tutte le sue accezioni, occupa un posto di primo piano nel repertorio fantastico bontempelliano per almeno un quarto di secolo. La prima metamorfosi ‘consistente’ – si tratta infatti di un fenomeno collettivo – dell’opera bontempelliana la troviamo già in un racconto contemporaneo della Vita operosa, cioè nel quarto viaggio dei Viaggi e scoperte (1920) 4. L’autore ci dice subito che il viaggio, benché sia durato soltanto un giorno, e quel giorno sia stato tutto da lui trascorso in un albergo, è ricco di «così strane e problemose avventure, che l’impressione me n’è rimasta come d’uno dei miei viaggi più degni di memoria e meraviglia» (Bontempelli 1961, I, p. 439); e infatti l’esperienza occorsagli è davvero curiosa: tutti gli ospiti e gli inservienti dell’albergo nel quale il protagonista risiede uno dopo l’altro si trasformano sotto i suoi occhi nei più svariati animali. Dapprima al posto di un cliente appisolato gli appare un cane abbastanza bizzarro, il quale reagisce agli approcci amichevoli del protagonista (che gli offre un piattino di latte) prendendolo a calci, poi un giovanotto si trasforma in vitello, due signore in una gazza e un pappagallo, tre bambini in grossi topi e un signore maturo in un pingue maiale. In un solo caso la metamorfosi è descritta con qualche dettaglio: Ed ecco quello che avvenne. Guardando io il giovinotto, che si era seduto su di un divano e sfogliava un giornale, dalla sua fronte, ch’era ossuta e come di pietra, scaturivano due brevi corna robuste, e tutto il muso suo era molle e umido, e lui moveva la gola e le gote rase ruminando; perché avevo davanti a me non già il giovanotto che avevo visto, o creduto di veder entrare, ma un robusto vitello. (p. 442)

I vari animali, tuttavia, conservano abbastanza fedelmente l’aspetto originario, e soprattutto si comportano in maniera perfettamente civile: il vitello continua a leggere il giornale, e la gazza e il pappagallo, pur «cincischiando» tra di loro animatamente, gli fanno «un cenno di saluto» (p. 443); per giunta, tutti scrutano con perplessità il protagonista, che ha ancora davanti a sé il piattino con il latte destinato al cane. Egli allora, che ha intrapreso il viaggio proprio per rimettersi da una malattia di natura nervosa, comincia giustamente a dubitare delle proprie facoltà: Il dubbio era trifido, cioè: – se avevo preso un cane per un uomo, aberrando nel primo momento della mia visione; – o se avevo preso un uomo per un cane, errando nel secondo momento; – o se avevo visto bene nell’uno e nell’altro momento, cioè assistito alla trasformazione d’un uomo in un cane. (p. 441)

Ma la sua incertezza è destinata ad aggravarsi fino a una crisi vera e propria: tornando verso la propria camera, infatti, si imbatte in una gallina (sotto le cui spoglie il lettore riconosce senza difficoltà una cameriera), e si mette a inseguirla per

4. I sei «viaggi», nei quali è abbastanza sensibile l’ispirazione dai Gulliver’s Travels di Swift, furono pubblicati su «Ardita» dal marzo al dicembre 1920.

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riportarla al pollaio da cui presume sia scappata; ma quando riesce ad afferrarla sotto le ali, si accorge con orrore di provare un «turbamento bramoso» di natura propriamente erotica (p. 445). Al violento trauma segue una precipitosa fuga del protagonista inseguito dagli animali ospiti dell’albergo, richiamati dalle acute strida della gallina (che evidentemente si è offesa per il moto di ribrezzo da lui manifestato); quando finalmente riesce a raggiungere la propria camera, affacciandosi alla finestra il protagonista scorge tutto «un brulicare di serpenti che si affrettavano (isolati, a coppie, a gruppi) in direzioni diverse» (p. 446). Ma l’evento peggiore – atteso e inevitabile – giunge solo alla fine, quando ormai il nostro eroe ha accettato la stranezza del luogo e anzi si sta pettinando allo specchio per poi andare a esplorare la città; ed è un fatto così terribile che il narratore non osa neppure descriverlo: Ma così esaminandomi, d’un tratto mi rividi impallidire più atrocemente.Vidi che il pettine mi tremava in mano, che le pupille mi s’allargavano di sgomento. Pure non potevo distogliere da quello specchio, da quell’immagine, il mio sguardo affascinato di ribrezzo. Non mi sfuggiva nessun particolare, ognuno più si incideva e si colorava quanto più lo fissavo. E ora sentii nitidamente scaturire dalla mia gola un suono lungo; dicevo: – Io… io… i-o… (p. 447)

Naturalmente non c’è nulla di tragico, come il tono fintamente angosciato vorrebbe far credere: basterà pensare alla natura tutta comicamente metaforica delle due ultime trasformazioni – il protagonista trova sensualmente eccitante una «gallina», e finisce per scoprirsi «asino» – per prevedere che l’avventura finirà con un risveglio travagliato, e una precipitosa fuga dalla città. Ma non bisogna sottovalutare, dietro al gioco scanzonato di Bontempelli, l’incertezza delle apparenze che si è insinuata nell’animo del protagonista e con lui del lettore. Allucinazione? O, al contrario, disvelamento di una natura più profonda e reale? O infine, più grave, venir meno dei limiti certi e intaccabili dell’identità personale? Bontempelli non ci fornisce alcuna chiave di lettura, né del resto il racconto ambisce a uscire dai limiti del gioco arguto e ammiccante, ma non dobbiamo dimenticare che la raccolta è contemporanea delle due Vite, e dunque della critica agli stereotipi della moderna società degli affari. E infatti da tutta la raccolta, pur senza mai infrangere il tono spassionatamente ironico, emerge netto il senso di una crisi di certezze, un venir meno dei punti di riferimento chiaramente stabiliti: nel Secondo viaggio il protagonista scivola dall’una all’altra di 24 donne perfettamente intercambiabili, a ciascuna delle quali si affretta a dichiarare un romantico ed eterno amore, e tra un’avventura e l’altra trova anche il tempo di dimostrarsi perfettamente indifferente al sentimento religioso; nel Terzo viaggio sarà disinteressato e confuso nei confronti del caos politico mondiale; nelle Nuove scoperte, scoprirà appunto che il potere (su un cane, su una donna, su una folla adorante e infine su un popolo) non gli dà l’ebbrezza sperata bensì la nausea; nelle Scoperte notturne dubita addirittura della solidità del mondo fisico, e ha bisogno di affidarsi all’istinto «scettico» del proprio gatto per credere all’esistenza degli oggetti nel buio; nel sesto e Ultimo viaggio entrano in crisi persino le dimensioni del Tempo e dello Spazio, che gli paiono inconsistenti e tutte relative alla percezione umana. Anche se ciascuna certezza – come quella nell’affidabilità delle apparenze e delle percezioni nel quarto episodio – viene messa in discussione in

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maniera ironica, come per gioco e senza gravi conseguenze sull’equilibrio del protagonista (e con lui, ancora, del lettore): in maniera tipicamente bontempelliana, appunto, il dubbio non vuole farsi prendere troppo sul serio. A riprova di questa stretta parentela tra i Viaggi e le Vite, basterà osservare che i rimandi al mito che è possibile rintracciare all’interno di Viaggi e scoperte sono quasi tutti della stessa specie di quelli della Vita operosa: citazioni ‘automatiche’ (un mare color del vino richiama l’«oínops póntos» omerico, p. 382), paralleli irriverenti (una pianta di «musa», pianta a larghe foglie ovali, impone la precisazione che si tratta «non già di una delle nove che addolcirono la vita ad Apollo e la amareggiarono a tanti suoi seguaci», pp. 402-3), allusioni parodiche (la Pizia che gli legge la ventura è una vecchia megera, il suo antro è «una specie di salotto bisbeticamente ammobiliato», e il protagonista non esiterà a irriderla apertamente, distruggendo gli strumenti del vaticinio e scappando con la «dea bendata», cioè la nipote officiante il rito, pp. 389-90). Un discorso a parte va fatto per il racconto che occupa il Terzo viaggio, nel quale il protagonista, imbarcato su una nave colpita da un’atroce epidemia, naufraga sull’isola Leucotería, i cui abitanti parlano in ionico purissimo e sono classicamente abbigliati. Gli viene infatti spiegato che l’isola è stata fondata da Ino Leucotea, colei che aveva aiutato Ulisse naufrago nel V libro dell’Odissea e che, secondo l’integrazione bontempelliana, avrebbe avuto anche il tempo di concepirne un figlio. Gli abitanti, discendenti tutti dall’eroe, avrebbero dunque vissuto in una perfetta, mitica immobilità per ben 28 secoli; finché, nell’Ottocento, non sono stati anch’essi raggiunti dai fermenti politici europei e dagli effetti della rivoluzione industriale, che hanno infranto la quiete portando moderno scompiglio e lotte intestine. Il racconto è molto interessante in quanto abbastanza ‘anomalo’ nel quadro dell’atteggiamento bontempelliano nei confronti del mito: il senso, chiarissimo, è ancora quello di una modernità incompatibile con il mito, che all’improvviso lo rende vetusto e ridicolmente incongruo – come dimostrano le due opposte fazioni (la campanilista e la «europeista») che si fronteggiano al grido di «eughe, ió, ãpaghe, óloito!» (cioè «evviva» e «morte» in greco antico). Ma il modo in cui il tema viene realizzato fantasticamente è assai diverso dal solito: non più, come nella Vita operosa, un conflitto tra la modernità e la mitologia, ossia un tipo di cultura, bensì tra la modernità e il mito, inteso come un mondo altro ancora miracolosamente vivo e reale, sebbene sopravvissuto solo a prezzo di un austero immobilismo e di un totale isolamento dalla civiltà del progresso. L’effetto prodotto è tristemente elegiaco; eppure neanche qui Bontempelli rinuncia al suo tono scanzonato, e rispetta anzi fedelmente la regola di non esprimere alcun giudizio o sentimento su quanto osserva. Ma non potrà evitare di fuggire di fronte all’irruzione della modernità distruttiva alla ricerca degli scampoli di mito superstiti: allontanatosi dai luoghi della battaglia politica, viene attirato da una casa da cui proviene un canto femminile. Una creatura con i capelli color dell’ambra e le braccia nude e bianche sciacquava lini multicolori in una bacinella d’acqua odorosa 5. Il colore dei capelli, la bianchezza della pelle, il profumo, mi vennero incontro; ella invece rimase ferma e ritta laggiù, e mi guardava ridendo. 5. Anche Nausicaa, sempre accompagnata dalla formula «braccio bianco», si reca al ruscello presso il quale dorme Ulisse per risciacquarvi dei vestiti di colori vivaci (Odissea, Libro VI).

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Io dissi: – Nausicaa. Ella mi ammonì: – No, signore; mi chiamo Orizia. Io le sorrisi. – Fa lo stesso. Ella concluse: – Anche a me. E rise più forte. Io mi feci avanti, e raccontai le mie pene a Nausicaa. Nausicaa, poiché aveva i colori dell’ambra e del giglio, non era né catoicheta né czenocheta [le due fazioni politiche dell’isola], ed ebbe quella sera cibo per la mia fame, e più d’un cuscino morbido per il mio capo, le mie membra e il mio sonno. (p. 423)

Il narratore non sa qui resistere alla tentazione: dismette i panni di Gulliver per indossare quelli di Ulisse, e racconta le proprie pene alla fanciulla che gli dona in cambio conforto e ristoro. L’incanto naturalmente non è destinato a durare: dopo due giorni, al protagonista pare «prudente» discendere «dalle altitudini occulte ove avevo dormito due giorni e conosciuto il paradiso due notti» (ibidem); ritorna al consueto ruolo di Gulliver, e trova un fortunoso passaggio per rientrare in patria. È tuttavia innegabile che, sia pure per qualche istante, il gioco si sia fatto incanto e l’ironia smaliziata si sia mutata in rimpianto elegiaco: un atteggiamento che non troveremo in nessun altro luogo dell’opera bontempelliana – non nei testi dei primi anni Venti, che celebrano allegramente il rito funebre del mito classico, né in quelli posteriori, che salutano gloriosamente la nascita di quello moderno. La metamorfosi in asino del protagonista di Viaggi e scoperte ritorna nel racconto Il buon vento, pubblicato nella raccolta La donna dei miei sogni e altre avventure moderne (1925) 6. In esso il narratore ci racconta di come, in séguito a lunghi esperimenti di chimica, aveva finalmente ottenuto in una polverina impalpabile «l’anello di congiunzione tra la vita fisica e quella metafisica», il cui effetto era quello di realizzare concretamente le metafore del linguaggio: così un avaro muore dissanguato per aver detto «il cuore mi sanguina» (Bontempelli 1961, I, p. 723), un altro riccone erutta fuoco e lava dal capo, per aver detto «La mia testa è un vulcano» (p. 727), il protagonista riesce a leggere sulla punta della lingua di un cameriere un nome che questi non riusciva a ricordare (p. 725)… Decide così di approfittarne: non avendo soldi per pagare il conto dell’osteria, al cameriere che glielo porta risponde dandogli dell’asino. L’effetto è immediato: Sostò un istante immobile, contemplandomi con gli occhi che gli diventavano immensi e tondi: e tosto intorno a essi sorse un pelame e avanti si spinse un muso carnoso e in alto scaturirono due vaste orecchie e tutto il corpo s’inalzò, ingrossò, setoloso ricadde con gli zoccoli avanti battendo il pavimento, che risonò. Tutto scrollandosi frustò l’aria della sala con una coda superba, e il muso proteso a me di sopra al tavolino uscì in un raglio che parve un trombone. (p. 726)

6. I 21 racconti della raccolta erano già stati pubblicati sul «Corriere della Sera» dal 1923 al 1925.

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È facilmente avvertibile la presenza di Apuleio, soprattutto tenendo conto che Bontempelli era molto affezionato alle Metamorfosi, e che nel 1928 ne pubblicò anche una traduzione intitolandola appunto Le trasformazioni (titolo poi cambiato dall’editore nel più canonico L’asino d’oro) 7. Naturalmente non ci sono coincidenze precise (Bontempelli non ricalca mai precisamente le proprie fonti, se non nel caso di citazioni esplicite e funzionali al testo), ma è facile notare che i particolari descritti sono pressappoco gli stessi – a eccezione di quello ‘scabroso’ dell’accrescimento degli attributi, che certo non poteva trovar posto in un lieve racconto bontempelliano: E già levavo le braccia con ripetuti sforzi, bramando di trasformarmi in uccello, quando né piume né penne, ma i peli mi si ingrossano come setole, la tenera pelle mi s’indurisce come cuoio, all’estremità delle mani le dita perduto il loro numero si uniscono in una sola unghia, e in fondo alla schiena mi spunta un’enorme coda. Ecco una faccia enorme, la bocca allungata, le narici fesse, le labbra pendenti, e poi mi crescono le orecchie in proporzioni enormi e si riempiono di peli. Non vedo più alcuna salvezza a così orrenda trasformazione; e intanto ora che mi era impossibile prendere Fotide, mi cresceva il membro 8. (Libro III, 24, trad. 1991, p. 82)

Si potrebbe però osservare come l’asino apuleiano sia passato in certo senso per quello di Pinocchio: giacché il significato dell’animale – in questo caso, ma forse ancor più nella non descritta metamorfosi di Viaggi e scoperte – non è più quello di essere «basso» (bachtinianamente), cioè umile ma anche sconcio per la dimensione degli organi sessuali, bensì propriamente quello metaforico di «persona ignorante, ottusa e caparbia» – insomma, esattamente il significato rivestito nell’episodio collodiano 9. Sempre nella raccolta La donna dei miei sogni, troviamo un altro esempio di metamorfosi classica, quello della statua che si anima. Nel racconto Le mie statue, il solito protagonista-narratore ci racconta infatti di come negli anni sia venuto in possesso di un gran numero di statue, in marmo o in granito, tutte molto ingombranti: tra di esse, c’è una copia dell’Apollo del Belvedere, una Niobe con tutti i suoi 14 figli, un condottiero a cavallo, uno scriba egizio… Tutte le raffigurazioni sono stipate in camera sua, e occupano tutto lo spazio disponibile, spaventando i visitatori. Di giorno il loro aspetto è assai comune, sembrano persino più misere del normale; ma di notte, con i giochi di luce, acquistano una consistenza quasi sovrannaturale, e il protagonista ne è intimorito. Finché una notte, spegnendo tutte le luci, accade un fenomeno meraviglioso:

7. Nella Nota che segue la traduzione (Apuleio trad. 1991, pp. 349-53), Carlo Carena offre alcuni esempi dell’influsso che il romanzo apuleiano può aver esercitato sull’ultima produzione di Bontempelli: dall’insistenza sul tema della metamorfosi (che tuttavia, come vediamo, è una costante dell’opera dello scrittore) alla tematica mistico-iniziatica del Viaggio d’Europa (1939). 8. Bontempelli si attiene qui strettamente all’originale, per il quale vd. Apuleio 1954, p. 72. 9. Per quanto invece riguarda descrizione della metamorfosi, non sembrano esserci particolari somiglianze con il racconto di Collodi.

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E il buio si gonfiò di moti regolati, uguali. Stentai ad afferrarli. Poi li compresi. Le mie statue respiravano. Lentissimamente respiravano, come il mare; e tutto il buio raccoglieva quei respiri in un palpito piano, che arrivava come una spiaggia fino a me, e mi premeva ora sul cuore, opprimeva, finché i sensi mi si offuscarono. (pp. 741-42)

Quando il protagonista si risveglia, è ormai giorno e non c’è più traccia del prodigio. Tanto che il narratore si concede di riflettere a mente fredda sul fenomeno, che non gli provoca più alcuno spavento o sentimento sacro; anzi, gli appare persino una prospettiva allettante: Confesso che se le mie statue si risolvessero a diventare vive, non mi dispiacerebbe. (Avrei curiosità di vedere se anche il fucile del cacciatore diventa vero e carico.) Perché allora un giorno o l’altro se ne anderebbero: tutte le cose vive a un certo momento se ne vanno. (p. 742)

Il Pigmalione moderno è affascinato dal prodigio più da un punto di vista intellettuale che religioso, e contempla la metamorfosi con interesse scientifico (come nel racconto Il buon vento) o con il distacco ironico di chi assiste a un fatto bizzarro, senza interrogarsi sul suo valore o significato; passato anzi il primo momento di inquietudine o timore, può persino ragionarci sopra con calma, per vedere quali eventuali vantaggi gliene possano derivare. Uomini tramutati in animali, statue che si animano: fin qui, le metamorfosi considerate sono tutte perfettamente tradizionali, tanto che con relativa facilità si può trovare per ciascuna uno o più antecedenti ovidiani. Ma quell’inquietudine, quella incertezza che abbiamo visto accompagnare alcune di esse e talvolta sfiorare la vera e propria crisi d’identità, trova il terreno migliore per attecchire in una metamorfosi di tipo diverso, «moderna» e anzi, diremmo, squisitamente novecentesca. Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, La donna dei miei sogni, il protagonista racconta la crudele fine della sua storia d’amore con la «donna ideale»: alla vigilia di un viaggio che li terrà lontani per due mesi, gli innamorati vanno al luna-park e visitano il baraccone degli specchi deformanti; ma qui il protagonista è preda di un’illusione simile e al tempo stesso opposta a quella di Narciso, e tuttavia altrettanto micidiale: ecco vidi vidi, là, anche la sua figura, di lei, accanto a quella del mostro che ero io: la figura di Anna, sformata, slargata, umiliata, vilipesa oltraggiosamente, orribilmente rugosa come un vecchio feto, stupidamente distorta; – e pure inchiodato e gelato la guardavo, mi protendevo a esplorarla, incrudivo a esaminarla. (p. 684)

Segue una lunga, impietosa descrizione del mostro apparso nello specchio, un mostro di cui il narratore non può fare a meno di pensare «ch’era lei, Anna», non riuscendo, come appunto Narciso, a distinguere la natura dell’immagine fallace dall’essere reale. Tanto che anche dopo la fuga precipitosa, e un lungo sonno ristoratore, il protagonista rivede il mostro orrendo tutte le volte che si prova a pensare

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alla donna amata, della quale non sa più ricostruire la vera immagine. Gliene deriva dunque un ribrezzo invincibile, che lo spingerà a partire per un lungo viaggio e perdere definitivamente la donna «dei suoi sogni». Dunque una metamorfosi solo apparente, né reale né prodigiosa, e che tuttavia coinvolge così profondamente chi vi assiste da metterne in crisi il principio di identità, annullando i confini tra immagine e cosa reale, apparenza (esplicitamente illusoria) e sostanza. Tra l’altro, La donna dei miei sogni è uno dei pochissimi racconti (in tutto tre) della raccolta in cui non venga raccontato un evento fantastico: anche qui infatti ha luogo un prodigio, ma è un prodigio tutto interiore, e proprio per questo terribile e angosciante. Non a caso, si tratta di uno dei rarissimi racconti della prima produzione di Bontempelli in cui il tono lieve e scherzoso venga abbandonato per accenti più amari e a tratti di vera disperazione 10. Una metamorfosi che finalmente unisca i tratti che ho definito «novecenteschi», ossia crisi di identità e effetti di forte disorientamento o persino angoscia, con quelli classici del «prodigio», è quella raccontata in Nostra Dea (1925). Nella prima metà degli anni Venti, dopo quella prima entusiastica conversione all’avanguardia testimoniata dalla Vita intensa e dalla Vita operosa, Bontempelli viene precisando gradualmente la propria poetica, e individua per i suoi testi una posizione più originale e al tempo stesso più decisa nel campo di forze prodotto dalle due opposte tendenze dell’innovazione da un lato e della tradizione dall’altro. Nella progressiva individuazione di una fisionomia, un ruolo fondamentale occupa l’esperienza teatrale e, a partire dal 1924, il rapporto con Pirandello all’interno del «Teatro degli Undici»: tanto che per Nostra Dea, che è forse il testo più rappresentativo e di maggior successo del teatro bontempelliano degli anni Venti (non a caso, venne scritto da Bontempelli dietro suggerimento di Pirandello, al quale aveva esposto il progetto), Luigi Baldacci ha giustamente coniato la formula di «pirandellismo teatralmente esteriorizzato» (Baldacci 1961). Infatti il tema tutto pirandelliano del dissidio tra «persona» e «personaggi», cioè le «maschere» che ciascuno forzatamente indossa nel rapporto con gli altri, e che tradiscono e adulterano la sua vera natura, viene brillantemente tradotto da Bontempelli su un piano meraviglioso e raccontato con la leggerezza e l’ironia di una favola per adulti. Il cosiddetto «cerebralismo» pirandelliano cede il posto all’invenzione fantastica pura, il dissidio psicologico viene sostituito dall’evento prodigioso: la protagonista, Dea, prende infatti alla lettera il principio dell’essere «centomila» per gli altri e per se stessa «nessuna», poiché la sua natura, la sua personalità e il suo carattere mutano radicalmente ogni volta che lei si cambia d’abito. Una Dea-sostanza, al di sotto delle identità che il guardaroba le fornisce, non esiste: la protagonista, prima di vestirsi, è nulla più che un fantoccio inerte – così come la descrive la didascalia nell’esordio del I atto:

10. La narrazione è infatti assai meno distaccata del solito, ricca di iterazioni («non la vedo come Anna; come Anna non vedo, non riesco a vedere», p. 686), con un ritmo concitato e franto («Mille volte mi strinsi la testa tra le mani e volevo pensare Anna, Anna vera, rivederla bella, com’era, ma non riuscivo, non sono riuscito mai, non le ho scritto mai», ibidem) e un linguaggio a tratti inusualmente espressionistico (come nella lunga descrizione del mostro, a p. 684).

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Sta ritta in mezzo alla scena con la faccia al pubblico, le braccia pendenti lungo i fianchi, inerte, lo sguardo assolutamente inespressivo; ha qualche cosa di abbandonato e insieme rigido, come i manichini. (Bontempelli 1978, p. 615)

La vicenda di base della commedia è volutamente banale 11: i due amanti Orsa e Dorante, dopo due anni di lontananza, hanno a disposizione solo una sera per stare assieme, prima che lui riparta per un viaggio che durerà altri tre anni. Il fatidico incontro deve aver luogo durante un ballo in maschera (anche questo motivo tradizionale), ma ci vuole l’aiuto di Dea, che scriva una lettera al conte Orso per convincerlo a lasciare che sua moglie partecipi alla festa. Solerte e vigile alleato dei due amanti è Vulcano, che si adopera in ogni modo per propiziare l’incontro e tenere a bada l’imprevedibile Dea. Ognuno dei personaggi «indossati» da Dea (tranne quelli che hanno solo funzione comica) si adatta perfettamente alla vicenda base: la Dea col vestitino grigio è la confidente e l’amica perfetta per Orsa, e con la propria intercessione l’aiuta a realizzare il suo sogno amoroso; la Dea in tailleur rosso è la giovane moderna e crudele che non comprende le pene d’amore e getta la povera Orsa nella disperazione; infine, Dea col suo splendido costume da serpente è la traditrice infida e bugiarda che con grande abilità ordisce trame per rovinare la povera Orsa e provocare una tragedia (cerca infatti di impedire che i due amanti si incontrino e nel frattempo manda a chiamare il conte Orso). L’eccezionalità della vicenda sta tutta nel personaggio di Dea: nella quale il principio della «volubilità femminile» si estremizza in vera e propria metamorfosi – una metamorfosi dalle caratteristiche non solo psicologiche ma anche reali, un autentico prodigio: come dimostra, per esempio, il fatto che Dea acquisisca non solo una personalità, ma anche competenze diverse per ciascuna delle forme assunte: ANNA. […] Se ha un vestito vivace, è vivace, come oggi; se ha un vestito timido, è timida, come ieri: e cambia tutta, tutta: parla in un altro modo; è un’altra. Un giorno l’ho vestita da cinese, s’è messa a parlare in cinese purissimo. Se le mettessi un vestito nero e un velo lungo, andrebbe a singhiozzare al cimitero sopra una tomba. VULCANO. Magnifico. Mostruoso. Neppure capisco bene. […] È straordinario. È da ridere. ANNA. Davvero? Io ci sono abituata. Credo che sia come una malattia. VULCANO (Improvvisamente si fa serio). No, forse non è come una malattia. E forse non è da ridere. (p. 623)

Se la Dea che cambia carattere e sentimenti può essere semplicemente pazza (o, più correttamente, schizofrenica), la Dea che parla in «cinese purissimo» deve necessariamente venire considerata un’altra rispetto alle sue precedenti incarnazioni; e Vulcano, giustamente, dopo una iniziale ilarità, viene còlto dal presentimento di trovarsi davanti non a un caso clinico, ma a un evento che merita la mas-

11. Per un’analisi della struttura della commedia, vd. Lapini 1978; per una collocazione nel teatro del tempo e una disamina delle probabili fonti, si può leggere A. BARSOTTI, «Nostra Dea», l’automa liberty, in Donati 1992, pp. 237-57.

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sima considerazione e la massima serietà (si noti come il suo cambiamento d’umore venga sottolineato nelle indicazioni di recitazione). Insomma, Dea non subisce solo un cambiamento d’aspetto o d’umore, bensì una vera e propria metamorfosi: sebbene, in questo caso, non di specie bensì di personalità. Eppure, se analizziamo attentamente questo concetto – «metamorfosi di personalità» – ci renderemo conto che non si tratta solo di un tipo particolare di metamorfosi, che investe solo alcune caratteristiche dell’individuo (come per esempio potremmo considerare quella di Eco che perde la libertà linguistica, o quella di Tiresia che cambia sesso): il mutamento di personalità è infatti un concetto assolutamente alieno alla metamorfosi nella sua versione classica; di più: è un concetto in contraddizione con il senso complessivo della metamorfosi classica. Analizziamo meglio questo aspetto. Tra una Dea e l’altra non c’è alcuna continuità; Dea, anzi, non riesce neppure a concepire la successione temporale: DEA. Sto tanto bene così. Ieri, sarà stato come oggi, no? Che cosa vuol dire ‘ieri’? E ‘domani’? (Un sospiro da una profondità inconscia) Lei mi fa fare molta fatica. (p. 650)

Non solo Dea assume una personalità solo a trasformazione avvenuta, restando materia inerte fino a quando non le venga imposta una nuova forma, ma, per di più, tra una forma e l’altra vi è una radicale soluzione di continuità psichica: Dea, delle sue precedenti forme, non solo non trattiene alcuna caratteristica psicologica o caratteriale, ma neppure una stabile memoria; necessaria conseguenza è l’assenza di un «io», della consapevolezza di un’identità personale e immutabile che dovrebbe derivare dalla somma di quei ricordi: MARCOLFO. Dea, Dea, vogliamoci bene. […] DEA. Come si fa? MARCOLFO. Ci si mette con la faccia vicina, così. Poi io dico: «Cara, io-voglio-benea-te.» Allora lei dice: «Caro…» DEA. «Caro» e poi? MARCOLFO. E poi dice: «io…» DEA. «I-o»… «i-o» È difficile. (Stanchissima). MARCOLFO. Non può… DEA. Non vuol dir niente. (pp. 651-52)

Viceversa, la metamorfosi nella sua versione classica prevede una continuità più o meno completa di identità nel soggetto che cambia: Lucio anche da asino conserva i propri ricordi e il proprio modo di pensare, insomma tutta intera la propria personalità, tanto da poter agevolmente ritornare uomo e raccontare la propria storia, e altrettanto succederà, parecchi secoli dopo, a Pinocchio; oppure può accadere, come nel caso di Atteone, che la trasformazione muti in parte il carattere del soggetto, e gli infonda il «pavor» caratteristico del cervo, che lo spinge a fuggire: ma, in ogni caso, «mens pristina mansit», la mente, l’entità psichica rimase quella precedente (Ovidio 2000, Libro III, vv. 198 e 203, pp. 110-11). Nella metamorfosi classica, infatti, la trasformazione può rivestire un duplice senso: o di adeguamento della natura fisica del soggetto alla sua condizione spirituale; oppure di risposta – ricompensa o punizione

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– a un suo comportamento. Dunque la metamorfosi classica non solo non modifica né tantomeno annulla l’io del soggetto che la subisce, ma anzi vi intrattiene un legame strettissimo, in quanto conseguenza diretta e ‘meravigliosa’ di quell’io. Tutt’altra la metamorfosi di Dea, che non è affatto emanazione dell’io, adeguamento esteriore a un’identità profonda – della quale, viceversa, prende stabilmente il posto. Se non c’è continuità tra uno stato e l’altro di Dea, viene meno anche qualsiasi causalità nella successione, in un duplice senso: da un lato, infatti, è eliminato l’aspetto della responsabilità individuale (ciascuna Dea non può essere considerata responsabile degli atti delle Dea precedenti o seguenti), e dunque la metamorfosi perde quel significato morale che è invece una componente importante della metamorfosi classica 12; dall’altro lato, viene meno anche ogni possibilità di rintracciare un destino, ossia un ordine e dunque un’interpretazione nella successione casuale e caotica degli eventi. Il corso della storia – la storia personale di Dea, ma anche di coloro che la circondano – muta capricciosamente in base alla scelta casuale che la cameriera Anna effettua ogni mattina nel guardaroba di Dea, o delle estrose trovate della sarta Donna Fiora: ciascun vestito determina infatti una svolta del tutto arbitraria nell’intreccio della vicenda. Il vestito da serpente che Dea indosserà al ballo in maschera viene definito una «tragedia»: DEA. Si può sapere com’è? DONNA FIORA. No. Il grande autore non racconta l’intreccio della sua tragedia. Il vestito che le ho preparato, è una tragedia. (pp. 634-5)

Ed effettivamente l’atto di indossare l’abito in questione comporta una trasformazione della commedia d’adulterio in tragedia: VULCANO. […] Dea, ho un vago sospetto che occorra tenervi d’occhio. Intuisco… DEA. Intuite, intuiiite, caro… VULCANO. Intuisco che stareste sprigionando una tragedia. (p. 672)

Ma un destino trasformato in guardaroba non è più una forza cosmica alla quale l’uomo non possa far altro che inchinarsi: e Vulcano può infatti indossare i panni del mitico eroe civilizzatore – di Eracle, di Teseo – e liberare i mortali dalla minaccia del mostro, semplicemente stracciando il vestito e sostituendolo con un altro: VULCANO. Disgraziata! Ah no, a qualunque costo, no!! Si precipita su Dea, mette un piede sulla coda della veste verde. Dea si rivolta con un guizzo, la coda si strappa. Dea emette rotti sibili. Vulcano le mette le mani addosso e strappa la testa di serpente; anche le spire che avvolgono il collo di Dea si snodano e si staccano, l’alto della veste rimane lacerato e cadente. Vulcano di là lancia con violenza la testa di serpente traverso la scena, giù tra la gente, che di sotto urla più forte.

12. Teniamo tuttavia presente che nell’orizzonte del mito classico il concetto di «responsabilità» va disgiunto da quello di «volontarietà» (secondo la connessione istituita dal Cristianesimo), bensì va inteso in senso «edipico»: Atteone che scorge involontariamente la nudità di Diana è comunque colpevole della hybris, e Callisto violata da Giove contro la propria volontà merita comunque la punizione di Diana.

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[…] DEA (sul proscenio a destra, si sta sbattendo e divincolando con brevi soffi, serpe troncato). VULCANO. Questo, e il diavolo m’aiuti. (Afferra Dea per le spalle, le mette addosso a forza il domino lacero: lo infila dall’alto lacerandolo anche più). Il capo di Dea ne esce più che mai scompigliato. In queste azioni Vulcano pronuncia parole mozze e inarticolate. DEA (cessa improvvisamente di sibilare, e si getta in terra lacrimando lamentosamente). Dio, Dio mio… (pp. 680-81)

Non è più necessario uccidere il mostro, basta imparare il trucco che genera il prodigio e trasformarlo in qualcos’altro, dal momento che, insieme all’aspetto, se ne può mutare anche l’indole, la personalità, il comportamento – insomma, il ruolo. Dunque non il prodigio è demolito, bensì il suo carattere sacro – ciò che lo rendeva appunto «prodigio»: il mito c’è ancora, ma svuotato della propria logica, ridotto all’assurdo, trasformato in un meccanismo manovrabile dagli uomini. Dea è ancora una creatura sovrannaturale («Credo», dice ancora il saggio Vulcano, «che le sarà molto difficile morire», p. 683; e poco oltre eleverà un inno all’«Olimpo» dell’armadio, pp. 684-86), ma è una «Dea» depurata degli attributi che individuano la divinità e la rendono sostanza, ridotta a Proteo burattinesco che non controlla le proprie forme e non ha coscienza della propria natura. Tuttavia proprio questo svuotamento di senso e questa nullificazione del prodigio consentono il riuso in senso critico e allegorico di un modello così abusato: poiché Dea, l’abbiamo visto, è anche il simbolo della moda, della alienazione moderna, della crisi di identità al cui posto si installano instabilmente le immagini socialmente costituite – la «donna moderna», la «fanciulla romantica», la «perfida», e così via – insomma, la stessa tematica che Pirandello e i suoi seguaci grotteschi venivano sviluppando da un decennio. Niente di cerebrale e amaramente pessimista in Bontempelli, che svolge l’argomento alla sua maniera, lieve e giocosa; se si esclude quell’unico punto, quell’improvvisa serietà di Vulcano al pensiero che ciò che capita a Dea «forse non è come una malattia. E forse non è da ridere». Ma Bontempelli rinuncia ad approfondire il discorso – già sufficientemente approfondito e sviscerato da altri, del resto – e non turba l’atmosfera spensierata della sua «tragedia». Quell’inquietudine, quel senso di labilità e di crisi dell’identità associato alla metamorfosi in La donna dei miei sogni e in Nostra Dea vengono meno nella seconda metà degli anni Venti: avremo invece dei racconti in cui il mutamento di natura viene vissuto con più autentico senso del prodigio e della meraviglia. Contemporaneamente, le metamorfosi rientrano di nuovo in una tipologia tradizionale e già ben documentata, lasciando da parte le stravaganze anomale e inquietanti delle trasformazioni di Dea o Anna; ma soprattutto, a differenza di quanto era accaduto finora, tutte le metamorfosi che s’incontreranno da questa data in poi risponderanno a una logica rigorosa, di tipo etico o sentimentale, abbandonando una volta per tutte la capricciosa arbitrarietà o inspiegabilità delle trasformazioni che avevamo incontrato fin qui. Donna nel sole e altri idilli, la prima raccolta di racconti posteriore a Nostra Dea (è stata infatti pubblicata nel 1928, e raccoglie racconti apparsi su vari quotidiani nei due anni precedenti), ce ne offre due esempi. Ancora abbastanza bizzarra e non

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troppo ‘seria’ la metamorfosi in cui incorre la protagonista di Le promesse sicure (Tizia): la quale, come il suo curioso nome lascia immaginare, quando si arrabbia si trasforma in una comica Pizia vaticinante oscure e terribili minacce. Le minacce espresse si basano tutte sulla figura retorica dell’adynaton, cioè un’iperbole eccessiva e irrealizzabile che ne comunichi l’assolutezza e l’inevitabilità; per esempio: «bada, sai, prima torneranno i fiumi ai monti, prima ch’io mi dimentichi di questa offesa» (Bontempelli 1961, I, p. 855) 13. Ma non sono solo la sua indole (solitamente «generosa e dolce») e la sua capacità oratoria a trasformarsi: contemplai come un’improvvisa metamorfosi di tutto l’essere suo. Il suo collo s’eresse, la faccia da dolce che era s’incavò di solchi tenebrosi, la sua fronte s’ingrandì, i suoi capelli turbinarono; e tutt’insieme lei diventò più alta e potente e dalla sua bocca periodi focosi irruendo s’arrotondavano verso il soffitto, s’incurvavano a scoppiare ai miei piedi come una tempesta. (p. 854)

Tizia si anima di sacro furore e si trasforma anche fisicamente, assumendo le fattezze terribili di una Sibilla; per parte sua, il narratore resta «pietrificato dallo stupore» (ibidem) e, a profezia avvenuta, «schiacciato dalle mie meraviglie» (p. 855). Naturalmente, è portato a credere che il fenomeno oratorio sia frutto di uno sdoppiamento di personalità, e quello visivo l’effetto di una suggestione indotta dal primo; ma anche in questo caso, come già era accaduto per Dea (che parlava in «cinese purissimo»), dovrà ricredersi, e riconoscere di essere al cospetto di un evento sovrannaturale: infatti, avendo Tizia profetizzato che «tra un’ora quel pianoforte sonerà da solo, se io respirerò ancora l’aria di questa terra» (p. 857), dopo un’ora lo strumento inizia regolarmente a emettere un’allegra varietà di scale cromatiche. Il protagonista, che inizialmente si spaventa e balza in piedi, «coi capelli dritti» (p. 858) alla maniera classica 14, si tranquillizza tuttavia quando si rammenta della profezia, e anzi trae dal prodigio un motivo di gioia, perché esso gli conferma che la donna amata non ha messo in atto il violento proposito.

13. In esordio, Bontempelli finge di aver dimenticato il nome della figura – che avrebbe voluto usare come titolo per il racconto – e coglie l’occasione per prendersi bonariamente gioco di Ovidio, per la sua cura stilistica e retorica: «Neppure ricordo esempi classici di questa figura, ma certo se ne trovano in Ovidio, in Tasso, in tutti i poeti per bene» (p. 854). 14. Come Enea dinanzi al fantasma di Creusa: «Obstipui steteruntque comae et vox faucibus haesit» (Aeneidos II, 774), ossia «Raggelai, e si drizzarono i capelli e la voce s’arrestò nella gola» (Virgilio trad. 1989, p. 105). Si noti la coincidenza dei tre effetti descritti da Enea – stupefazione, capelli ritti, afasia – con la reazione del protagonista bontempelliano dinanzi all’evento sovrannaturale: nel caso della prima metamorfosi di Tizia egli dice infatti «Pietrificato dallo stupore io tacevo» (p. 854) – che unito ai «capelli dritti» di qualche pagina dopo, dato l’argomento del racconto, potrebbe essere un rimando intenzionale all’episodio virgiliano. Così come la descrizione di Tizia invasata potrebbe ricalcare intenzionalmente quella della Sibilla Cumana del VI Libro dell’Eneide: «cui talia fanti / ante fores subito non voltus, non color unus, / non comptae mansere comae; sed pectus anhelum / et rabie fera corda tument; maiorque videri / nec mortale sonans, adflata est numine quando / iam propiore dei» (Libro VI, vv. 46-51: «A lei che parla così, davanti all’ingresso, d’un tratto non rimase lo stesso il volto, il colore, la chioma composta; ansima il petto, il cuore selvaggio si gonfia di rabbia, sembra più alta e di voce sovrumana, ispirata dal nume, ormai vicino, del dio», p. 257).

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L’idillio finito bene (Adelina), nella stessa raccolta, ci presenta invece una classica metamorfosi in costellazione: protagonista ne è una fanciulla molto innamorata del protagonista-narratore, e tuttavia terribilmente noiosa, soprattutto per la sua fissazione di rimirare per ore il cielo stellato e farsi raccontare le storie mitologiche degli umani assunti in cielo: Orione, il suo cane Sirio, Perseo, Andromeda, Elice… Nel mio intricato Atlante non trovavo più nulla di presentabile. Pensai che per accontentare il suo gusto raffinato ed esigente avrei potuto cercare in Ovidio qualche bell’aneddoto di metamorfosi in costellazione. Ma non ho mai posseduto un Ovidio. Nessuna delle persone che conoscevo possedeva un Ovidio. Mi sarei vergognato troppo a entrare da un libraio a chiedere un Ovidio. (Bontempelli 1961, I, p. 837)

Naturalmente non possiamo smentire il narratore-protagonista, ma certo potremmo tacciare il Bontempelli-autore di insincerità: non c’è alcun dubbio infatti che «un Ovidio» dovesse possederlo, e anche averlo letto. (Se servisse una prova di più, si potrebbe citare il passo immediatamente precedente a quello appena riportato, in cui il protagonista, che non sa più quali storie di stelle raccontare ad Adelina, le mostra «una stella qualunque» dicendole che si tratta di Giulio Cesare: la fonte è proprio Ovidio, che narra il catasterismo di Cesare su intercessione di Venere 15 – sebbene, appunto, non specifichi di quale stella si tratti.) E infatti la metamorfosi di Adelina rispetta perfettamente i criteri di una buona metamorfosi ovidiana: poiché il catasterismo giunge in premio del suo grande amore e della sua pia dedizione alle stelle; e per di più, secondo un motivo tradizionale, non è la sua figura tutta intera a essere raffigurata in costellazione, bensì la sua cintura soltanto 16. Quanto al protagonista, deposta finalmente la sua caratteristica ironia distaccata, è vivamente commosso e partecipe della sacralità del prodigio: Il suo nuovo aspetto m’investì d’una ammirazione affettuosa e sgomenta. […] Allibii. […] Così stette, lontana da me, e guardava il cielo, che la chiamava. Non osavo parlarle. Già il nero della sua veste, ai miei occhi confusi, si perdeva nel nero della notte; vedevo stranamente quella cintura d’argento sola palpitare. Non vedevo lei in faccia ma dai suoi occhi si spargevano pallide luci verso il cielo. Il cielo era sempre più inquieto. Avevo perduto ogni cognizione del tempo. […] Io non potevo parlare, né muovermi. (pp. 838-39)

Non possiamo non notare quanto sia mutato l’atteggiamento del personaggio maschile: l’ironia c’è ancora, ma è tutta relegata fuori della soglia del miracolo – sta tutta nelle descrizioni delle lunghe noiosissime serate sinora trascorse con la

15. Ai versi 843-851 del Libro XV delle Metamorfosi (Ovidio 2000, pp. 728-29). 16. Come Bontempelli stesso ricorderà nello scritto Stellato dell’anno successivo, il cielo si popola non solo di uomini e animali, ma anche di oggetti importanti, come la lira di Orfeo, la chioma di Berenice e il serto di Arianna.

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«tanto brava» Adelina, e nelle bugie pseudomitologiche imbastite per soddisfare la sua curiosità: ma, non appena sente di trovarsi al cospetto del prodigio, egli si dispone in atteggiamento religiosamente reverente (non osa parlarle, né avvicinarsi, né si sognerebbe di dare alcun segno di insofferenza), e si appresta a svolgere coscienziosamente il ruolo del testimone dell’evento meraviglioso (si noti l’insistenza sul verbo vedere), nonostante la consapevolezza delle proprie limitate capacità e il timore religioso nell’appressarsi all’evento sacro (gli occhi confusi). La fenomenologia della metamorfosi classica è restaurata compiutamente nel racconto Una rosa di più, contenuto nella raccolta Galleria degli schiavi (1934, contenente racconti già pubblicati dal 1928 in poi): che ci narra, secondo la definizione del narratore stesso in esordio, «come Stella si trasformò in rosa per fuggire al desiderio di un uomo che non amava» (Bontempelli 1961, II, p. 543). La protagonista è infatti una fanciulla bellissima e timida, e ha due pretendenti: uno è un ricco industriale di mezza età, il «buon partito» che una fanciulla non può permettersi di rifiutare, l’altro è un suo cugino poeta, per giunta ricco, che vuole forzarla a una unione colpevole. Così, mentre è nel salotto di casa sua ad attenderli entrambi, innalza la sua disperata preghiera alle tre rose in un vaso sopra una mensola, perché la accolgano tra loro. La pia preghiera della candida fanciulla non può non essere esaudita: Il suo corpo si assottigliò, e tutta si faceva minuta, e saliva; attorno al collo sentì una collana di foglie spuntare e agitarsi con dolce festa, il volto e il capo farsi corolla folta e respirare con i petali freschi. Ora le aveva raggiunte, loro si stringevano un poco per farle posto, un fresco delizioso la circondò, era fiore, era rosa, i suoi petali sfioravano i petali delle compagne, sentiva da sé sprigionarsi profumo di paradiso e confondersi con quello delle tre amiche che l’avevano soccorsa. (p. 547)

Il modello ovidiano è riprodotto fedelmente: la candida vergine fugge dall’uomo che vuole usarle violenza, e riesce a preservare la propria virtù grazie a una trasformazione in vegetale – trasformazione che subisce volontariamente, e conservando intatta la propria coscienza e la propria sensibilità. È la stessa storia di Dafne o di Siringa, trasposta in una modernità assai attenuata e stilizzata, simile a quella delle favole; per giunta, proprio come Apollo si cinge del lauro e Pan si adorna della siringa, il poeta innamorato, una volta resosi conto della metamorfosi che gli ha sottratto la fanciulla desiderata, decide di tenere con sé per sempre una rosa, in segno del suo eterno amore. Inoltre, per la prima volta conosciamo gli effetti della metamorfosi secondo il punto di vista della creatura che si trasforma: a partire da questa raccolta, infatti, scompare dai racconti l’onnipresente io narrante bontempelliano, protagonista, testimone e despota unico della narrazione. Il prodigio non patisce più dunque il filtro ironico e distanziante dello sguardo del protagonistanarratore, e la meraviglia si impone come oggettiva, naturalmente scaturita dall’evento miracoloso. Quando di tanto in tanto ricompare, la prima persona assume piuttosto il tono da autore sapiente e giocoso, che narra lievemente le sue storie al fine di incantare gli ascoltatori; esemplare, sotto questo aspetto, l’esordio prefatorio di questo racconto:

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Io, quell’io – come dicevano gli antichi poemisti 17 – che ho già raccontato come il mare venne da Aminta a farla felice e Vanessa fu assorbita dall’alba, e il tramutarsi di Adelina in costellazione e le morti inusitate di Romana e di Arabella, e quando Luciana legò l’arcobaleno al tronco dell’ulivo per grande amore, e come Arianna morì per umiltà e Adria per superbia, e tanti altri miracoli belli di cui è ricca la vita e ardenti avventure che si fanno ogni giorno tra gli uomini il cielo il mare e le stelle – quell’io vi narro ora un altro fatto delicato e ammirevole: come Stella si trasformò in rosa per fuggire al desiderio di un uomo che non amava, la timida Stella. (p. 543)

Bontempelli mima qui in maniera più esplicita che altrove la favola mitologica classica, pur senza rinunciare a una certa ironia metaletteraria (fino al punto di far parlare alcuni personaggi come «Coro», a p. 545); più in generale, si potrebbe riconoscere nella maniera narrativa dell’ultimo Bontempelli il modello della narrazione ovidiana da un lato, dell’Apuleio della favola di Amore e Psyche dall’altra. L’unica differenza ancora riscontrabile nella versione bontempelliana della metamorfosi, rispetto a quella classica, è che l’entità che concede e opera la trasformazione non è di natura divina bensì naturale – ossia le stesse rose, definite esplicitamente «amiche»; ma anche questo aspetto verrà recuperato nell’ultima delle metamorfosi del nostro elenco, cioè quella di Madina, protagonista del racconto lungo L’acqua (1945) 18. L’ambientazione moderna è qui assai più attenuata che negli altri racconti: la vicenda di Madina ha inizio nel bosco in cui sua madre è morta dandola alla luce, e dove la fanciulla è stata allevata da contadini che si sono curati assai poco di lei, lasciandola girovagare da sola nel bosco e giocare con l’acqua, sua grande passione; la storia continua poi in una non meglio specificata «città», che si caratterizza per grandi piazze, monumenti, negozi, una frivola vita mondana e una nobiltà dedita ai pettegolezzi. Potrebbe trattarsi di qualsiasi tempo e qualsiasi luogo; soprattutto, ogni novità è filtrata dallo sguardo ingenuo di Madina, strano esemplare di «candida» bontempelliana la cui refrattarietà agli stimoli emotivi e intellettuali rasenta quasi la disumanità. Madina è un idolo, bello e inaccessibile; e puntualmente sono destinati a restare frustrati i desideri di possesso che la ragazza scatena in tutti coloro che la incontrano. Fuggita dalla città, Madina torna nel bosco natio, dove rifiuta di unirsi a una bizzarra setta di adoratori dell’acqua corrente: tornerà infine presso il ruscello che l’ha vista nascere, per offrire soltanto a lui l’amore e la dedizione che non ha voluto concedere ai suoi simili e chiedergli protezione dagli uomini che la inseguono. Il fiume accoglie la preghiera di Madina, e il desiderio da lei espresso di poter «ricambiare l’abbraccio» che l’acqua le offre quando vi si immerge: Allora accadde il miracolo. Parve dapprima a Madina che il suo corpo s’allungasse. L’acqua scorrendovi intorno, dolcemente lo lima e assottiglia. Lei si sente tutta a poco a poco salire a fiore dell’acqua, eppure nulla del suo corpo ne emerge. Dov’è

17. Come per esempio – appunto – l’introduzione spuria all’Eneide (riferita da Servio e Donato): «Ille ego, qui quondam gracilis modulatus avena carmen, et egressus silvis vicina coëgi, ut quamvis avido parerent arva colono, gratum opus agricolis, at nunc horrentia Martis arma virumque cano» (Virgilio trad. 1989, p. 6 n.). 18. Il racconto è stato poi incluso nella raccolta L’amante fedele, l’ultima di Bontempelli, pubblicata nel 1953.

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il corpo? poco fa chinando gli occhi lo vedeva trasparire di sotto il velo liquido, ora le sue forme vacillano, le linee sfumano, quel ch’era pallida carne non è più che un gioco di riflessi, inquietudine d’ombra e di luci, acqua. […] Non vede più l’acqua e i suoi bagliori, quel ch’era la vista di Madina è diventato un bagliore tra cento. Quel che fu il volto di Madina s’è sciolto in onde fresche di felicità. Neppure il nome di Madina c’è più, è uno dei mille mormorii di questo canto che corre in gioia giù per le svolte della pendice. (Bontempelli 1961, II, pp. 1060-61)

Dunque una metamorfosi in fiume (di cui, da Aretusa a Aci, Ovidio offre un gran numero di esempi 19): questa volta con il duplice valore di premio per la lunga dedizione dimostrata ma al tempo stesso di adeguamento alla propria più intima natura – poiché Madina è ella stessa «acqua corrente» 20, pura e sfuggente, benefica e impossedibile –; e in più, come già era accaduto per la timida Stella, la metamorfosi ha lo scopo di sottrarla a dei pretendenti indesiderati. Come ho anticipato, però, la trasformazione è ora concessione di una divinità, che risponde alla preghiera della propria devota – giacché non vi è dubbio che il fiume sia una divinità, visto che vanta anche una setta di adoratori. Un compiuto ritorno alla tradizione, si direbbe, e un perfetto adeguamento ai canoni della metamorfosi classica; unico residuo moderno è appunto l’ambientazione, che tuttavia Bontempelli provvede accuratamente a depurare di tutte le scorie di reale di cui la modernità romanzesca solitamente si compone – la tecnica, la politica, l’economia, e persino l’arte – per ricreare magicamente uno sfondo atemporale e fiabesco, che della modernità conserva solo il nome. Con quest’ultima metamorfosi narrata da Bontempelli possiamo concludere la delineazione di una sorta di parabola: che parte dalle trasformazioni dei primi racconti, abbastanza convenzionali nella tipologia ma rappresentate come fatti bizzarri, che possono al massimo stimolare una curiosità di tipo scientifico e intellettuale; in séguito, verso la metà degli anni Venti, conduce alla metamorfosi anomala di Anna e Dea, simbolo inquietante e angoscioso della crisi di certezze e d’identità dell’uomo sociale moderno; per ritornare gradualmente, negli anni successivi, a una configurazione compiutamente tradizionale, e ritrovare il significato classico di prodigio, miracolo che induce nello spettatore meraviglia ma anche un sentimento religioso. 19. Non solo Ovidio, però: tra i modelli moderni cui si rifà il racconto di Bontempelli va senz’altro ricordata Undine (Ondina, 1811) di Friedrich de la Motte-Fouqué: come Madina, la protagonista della fiaba di la Motte-Fouqué, creatura acquatica per origine e natura, cresce nella foresta sul lago e poi si trasferisce in città, ma non può integrarsi nella comunità degli uomini per la sua radicale diversità, per cui si dissolverà infine nel fiume, che la riaccoglierà amorevolmente. Se nella materia e nelle modalità dei due racconti c’è molto di simile (entrambi, in diverso modo, rientrano infatti nel genere della «fiaba d’arte»), Ondina è tuttavia un personaggio assai diverso da Madina – solare, amorevole, generosa, pronta al sacrificio per amore dei suoi cari: si potrebbe dire che, se Ondina si conquista un’anima grazie all’amore per il bel cavaliere Uldebrando, Madina invece ne rimane sino all’ultimo priva. 20. Infatti gli adoratori del fiume, che le propongono di essere la loro regina, lo affermano chiaramente: «Nessuna ha mai avuto il coraggio di chiamarsi senz’altro Acqua. Tu lo meriti. Sarai tu: Acqua» (p. 1038).

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Per capire pienamente quest’ultima evoluzione, tuttavia, sarà necessario illuminare la produzione teorica di Bontempelli negli anni dal 1926 al 1929: vale a dire gli anni della rivista «900» e della campagna in favore della creazione di «miti moderni», la quale gioca un ruolo fondamentale nell’ultima produzione di Bontempelli, ma avrà importanti conseguenze anche per altri autori, tra i quali Luigi Pirandello.

3. Il mito novecentista Nel 1926, Bontempelli fonda insieme a Curzio Malaparte la rivista «900», che verrà pubblicata in francese per un anno, poi in italiano per i successivi due (dopo l’abbandono di Malaparte della redazione), e sospenderà le pubblicazioni nel giugno del ’29; per i primi 5 numeri viene segnalata la presenza di un comitato di redazione composto da James Joyce, Ramón Gómez de la Serna, Georg Kaiser, Pierre Mac Orlan 21 e Ilya Ehrenbourg 22. Nei Preamboli collocati in apertura dei primi quattro numeri della rivista, Bontempelli illustra la sua personale concezione dell’arte e più in generale della civiltà, presupposto fondamentale per comprendere le intenzioni e il significato dell’esperienza novecentista. Elevandosi – in maniera un po’ sorprendente – a pensatore dei massimi sistemi, Bontempelli suddivide la storia della civiltà occidentale in tre Epoche: la Prima, quella classica, si estende dalla Grecia preomerica all’avvento del Cristianesimo (o, più esattamente, al Discorso della Montagna di Cristo): Quando Cristo nacque, non è vero che era morto Pan, come gridò la tendenziosa voce eleusina. Aveva compiuto il suo lavoro, e chiudeva per sempre i rivi della poesia classica. (Bontempelli 1938, p. 11)

«Per sempre»: di qui la feroce polemica bontempelliana contro il principio del «riattaccarsi alla tradizione» (cfr. il punto 9 del terzo Preambolo, Consigli, pp. 1920), ma anche contro chi si illude di poter raccogliere un’eredità classicista miracolosamente sopravvissuta al di sotto della secolare tradizione romantica: non è infatti difficile cogliere un’eco polemica dell’orgogliosa affermazione dannunziana, già ricordata, secondo la quale «Il gran Pan non è morto». La Seconda Epoca, quella romantica, comprende tutto il periodo che va «da Cristo ai Balletti Russi», e trova la propria violenta conclusione nel rogo della prima guerra mondiale: l’epoca classica ha svolto il cómpito di scoprire il mondo naturale ed esteriore, quella romantica di indagare l’uomo e il mondo interiore. La Seconda Epoca ha conosciuto la propria fase estrema e autodistruttiva nel fenomeno delle avanguardie: «l’ultima e la più folgorante delle espressioni del romanticismo, che in esso si brucia e 21. Pseudonimo di Pierre Dumarchey (1882-1970), francese, in contatto con Apollinaire e il gruppo surrealista; le sue opere più note sono i romanzi Quai de Brumes (1927) e Babet en Picardie (1943). 22. Il’ja Grigorevicˇ Ehrenbourg (1891-1967), russo, trascorse lunghi periodi a Parigi e in altre capitali europee per attriti con il regime zarista prima, quello comunista poi (ma al tempo della sua collaborazione con «900» si era già riconciliato con quest’ultimo), svolgendo così un importante ruolo nella diffusione europea dell’arte e della letteratura russa.

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gloriosamente chiude la sua lunghissima vita» (p. 23); solo al di là di quella esperienza può avere inizio la Terza Epoca. Si tratta di una concezione della funzione dell’avanguardia (ed essenzialmente di quella futurista) che rispecchia piuttosto il tipo di esperienza futurista e poi grottesca di Bontempelli stesso che le intenzioni dichiarate del movimento marinettiano: è ignorata del tutto la fase positiva del futurismo, la proposizione di contenuti e forme «moderne» e quindi anche il tentativo di istituire una nuova miticità, e se ne riducono le istanze alla ribellione violenta al Romanticismo, alla critica distruttiva del suo sublime e dei suoi strumenti formali. Nel Preambolo al quarto numero di «900» (giugno 1927), dal titolo Analogie, Bontempelli affronta la questione dei rapporti tra futurismo e novecentismo, e indica i difetti del primo nel lirismo e nell’ultrasoggettivismo, nell’eccessiva cura stilistica, nell’elitarismo, nell’assenza di basi speculative e filosofiche; e nella conclusione dell’articolo liquida la questione con una formula poi diventata celebre: Marinetti ha conquistato e valorosamente tiene certe trincee avanzatissime. Dietro esse io ho potuto cominciare a fabbricare la città dei conquistatori. Evidentemente, la trincea è più ‘avanzata’: ma non tutti ci possono andare ad abitare. (p. 25)

In realtà le analogie tra le posizioni teoriche dei futuristi (soprattutto quelle espresse nei Manifesti) e quelle enunciate da Bontempelli nei quattro Preamboli non sono poche. La necessità di elaborare una «geometria spirituale» per l’uomo moderno e un nuovo ideale di «bellezza virile», la visione dello scrittore come un laborioso artigiano del prodotto artistico (che deve mirare soprattutto all’uso sociale di questo), il disprezzo per il meschino democraticismo ottocentesco, la sostituzione dell’esteriorità e dell’immaginazione al sentimento e all’interiorità che erano le fonti d’ispirazione dell’arte romantica: tutti questi sono princìpi già ampiamente propagandati dal futurismo. Ma, soprattutto, tipicamente futurista è il gesto di forzata rinuncia alla «tradizione letteraria», gesto con il quale però il novecentismo misconosce i suoi legami non solo con l’Ottocento ma anche con lo stesso futurismo, nonostante proprio le formule utilizzate per esprimere il principio rimandino, paradossalmente, al tipico linguaggio futurista: «La sola legge dello sviluppo è la legge dell’ingratitudine […] l’ammirazione per i passati è spesso un glorioso pretesto per gli impotenti» (p. 12); e ancora: «Guardando all’Ottocento, il Novecento deve anche contro voglia cercare di assumere un atteggiamento sprezzante» (ibidem). Nell’elaborazione dei nuovi contenuti e delle nuove forme, comunque, i due movimenti seguono strade totalmente divergenti. La «città dei conquistatori», cioè la nuova poetica e l’arte novecentista, dovrà tenersi lontana tanto dall’estetismo del periodo classico quanto dallo psicologismo di quello romantico, perciò dovrà essere un’arte esteriore, basata su personaggi, ambienti, storie immediatamente comprensibili e godibili per tutti – insomma, un’arte fatta di «miti popolari»: un concetto, questo, che rappresenta effettivamente una radicale novità nel panorama novecentesco. L’autore dovrà tenere di mira nelle sue creazioni proprio questa funzione sociale e produrre opere «d’uso quotidiano» (p. 24), sull’esempio dell’architettura: Il compito primo e fondamentale del poeta è inventare miti, favole, storie, che poi si allontanino da lui fino a perdere ogni legame con la sua persona, e in tal modo diventino patrimonio comune degli uomini, e quasi cose della natura. (p. 19)

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E ancora, nel già citato Analogie, il concetto viene ribadito: bisognerà «inventare i miti e le favole necessari ai tempi nuovi, come li inventò la Grecia preomerica, come li inventò il vecchio Medioevo romantico; ed esse poterono correre il mondo in mille forme» (p. 23). Infatti Bontempelli vede nella storia dell’arte (ma anche della civiltà) un’evoluzione che procede da un’età primordiale riccamente mitopoietica a una lenta ma inevitabile decadenza; quando la decadenza ha raggiunto il proprio punto estremo, vichianamente, ha inizio una nuova Epoca, nella quale si rinnova il genuino impulso iniziale e sorgono i nuovi miti che accompagneranno lo svolgimento del nuovo ciclo. Ritroviamo così pressoché tutti i tratti dell’utopia di una mitopoiesi personale e puntuale, cioè l’illusione che sia possibile un atto individuale e volontaristico per produrre il mito. Come sappiamo, però, i miti coniati dalla Grecia preomerica e dal Medioevo europeo derivano le loro caratteristiche e la loro «pregnanza» dal lungo processo di selezione cui li ha sottoposti la tradizione orale – condizioni che è impossibile riprodurre in epoca moderna, all’interno dello studio privato di uno scrittore. Bontempelli si rende almeno in parte conto dell’incongruenza, e infatti proclama che «l’ideale supremo di tutti gli artisti dovrebbe essere: diventare anonimi» (p. 19): ma questo anonimato è comunque considerato un punto d’arrivo, posteriore alla genesi dell’opera che resta necessariamente un prodotto individuale e originale. Inoltre, Bontempelli invita a prendere a esempio le forme d’arte più popolari, come il feuilleton e il nuovo cinema americano: infatti, pensando ai film di Chaplin e Buster Keaton, definisce gli americani «degli omerici» (p. 25). Il cinema – almeno quello dell’era del muto – rimarrà sempre per Bontempelli un formidabile serbatoio dell’immaginario mitico popolare: nel 1933, per esempio, scriverà del «culto appassionato, gentile e dolcemente rimbambito che alcune centinaia di donne di tutto il mondo hanno votato a Rodolfo Valentino, come alcuni millenni fa altre donne hanno creato quello di Narciso, che non valeva certamente più di Valentino» – un fenomeno che deriva dal «sentimento e bisogno del mito, che s’arrangia come può» (Bontempelli 1938, p. 185). Tuttavia Bontempelli, significativamente, confonde qui due diversi piani: da un lato l’oggetto reale trasfigurato nell’immaginario collettivo in oggetto del culto feticista di massa, dall’altro il mito in senso classico, che è cosa ben diversa: siamo quindi già alle soglie di quel travisamento del concetto di «mito» che verrà operato in età postmoderna e massmediologica. Ancora nel 1933, Bontempelli sintetizza ma anche precisa la campagna novecentista in uno scritto intitolato Riassunto, che verrà utilizzato in svariati discorsi e infine pubblicato sulla rivista «Valori primordiali» cinque anni dopo. Ritroviamo quasi tutte le affermazioni dei preamboli, insieme con qualche lieve ma significativa integrazione. Per esempio, viene detto che «l’arte ha oggi il compito di scoprire e creare i nuovi miti, le nuove favole, che nutriranno la giovinezza della Terza Epoca» (Bontempelli 1938, p. 350); e prosegue, spiegando il senso di quella importante aggiunta – «scoprire» – che modifica sensibilmente la concezione mitopoietica di Bontempelli: S’intende, che lo scrittore non ha da mettersi a tavolino a dire: «ora faccio il mito». I miti nascono con una spontaneità, che talvolta impedisce di distinguere dove e come e da chi veramente nascono. Ma tutta una corrente d’arte, di critica, soprattutto di attenzione, può favorire l’atmosfera, il desiderio, da cui la spontaneità del tempo potrà far germinare le favole che le occorrono per la sua nuova vita. (pp. 350-51)

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Dunque l’immagine dell’artista si precisa come quella di uomo sensibile e, soprattutto, attento a cogliere e interpretare i miti scaturiti dalla «spontaneità del tempo» – un concetto però un po’ oscuro e scarsamente indicativo. Bontempelli intende forse che l’artista, alla maniera di Boccaccio o dei fratelli Grimm, debba raccogliere, rielaborare artisticamente e poi diffondere le storie che sorgono spontanee e circolano oralmente? Sicuramente no: la produzione bontempelliana e più in generale novecentista è assai lontana da un ideale di questo tipo. Piuttosto, quel «far germinare» andrà inteso nel senso di «ispirare»: il poeta è l’interprete del proprio tempo, delle sue aspirazioni e dei suoi più nascosti tormenti, che egli riesce a rappresentare sotto forma di miti. Un’arte che interpreti il reale e il proprio tempo, secondo Bontempelli, non è infatti un’arte «realistica» nel senso comune e tradizionale del termine – come spiega nella Canzone all’Italia del 1929 23: Il contemporaneo crede, per dare un esempio e parlar chiaro, che un romanzo dove si parli di Italia fascista sia ipso facto più fascista (cioè rappresenti meglio il nostro tempo, Italia) che un romanzo ove non si parli d’altro, per esempio, che d’amore o di viaggi per mare; mentre tra cento anni un romanzo di pura fantasia potrà apparire aderente allo spirito fascista assai più di uno ove si metta in scena la marcia su Roma. (Bontempelli 1938, p. 213)

Come infatti chiarisce ancora nel Riassunto del 1933, lo strumento principale dell’approccio al mondo dell’«uomo nuovo», del figlio della Terza Epoca, deve essere l’immaginazione; e il fine dell’arte dell’immaginazione, che Bontempelli chiama «realismo magico», è «il piacere del miracolo e della maraviglia»: L’uomo può ottenere la maraviglia per due vie: – scoprendo le leggi delle cose (il bambino quando scopre che dagli alberi spuntano i fiori; che i suoi piedi lo fanno camminare) – oppure quando con la immaginazione si riesce a mescolare e sovvertire le leggi scoperte: far camminare gli alberi. (p. 351)

L’artefice dei nuovi miti sarà dunque colui che riesce a liberarsi del retaggio della sapienza dei Padri e del millenario ripiegamento romantico sulla propria interiorità per riscoprire un approccio vergine, infantile, in una parola «candido», al miracolo della natura e dell’esistenza. Ecco dunque che ritorna anche in Bontempelli l’ideale di un’infanzia creatrice, mitopoietica, prodigiosa: lo riconosciamo facilmente nelle candide fanciulle bontempelliane, adolescenti (come Madina) o giovani donne fissate ad uno stadio infantile (come Stella trasformata in rosa o Regina del dramma Nembo, 1935), impermeabili all’amore e ai desideri di beni materiali, immancabilmente orfane di madre – e quando pure c’è un padre non si tratta mai di una guida, semmai di un compagno di giochi, più immaturo e irresponsabile della propria creatura (come il protagonista di Bassano padre geloso, 1933). Il loro candore, il loro approccio vergine e incantato al reale è in grado di rendere possibili ogni sorta di prodigi, ma, sotto il loro sguardo, è il mondo tutto a svelarsi un meraviglioso prodigio: come Bontempelli spiega parlando dei pittori italiani del Quattrocento, veri precursori di questo spirito:

23. Pubblicata su «La Gazzetta del popolo» il 18 agosto 1929.

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Questo è puro ‘novecentismo’, che rifiuta così la realtà per la realtà come la fantasia per la fantasia, e vive del senso magico scoperto nella vita quotidiana degli uomini e delle cose. (Bontempelli 1938, p. 22)

In Stato di grazia (1931) Bontempelli cerca così di applicare questa disposizione di spirito (considerata appunto uno «stato di grazia») nell’interpretazione inusuale e «magica» di fatti diversi della vita comune: quasi una sorta di «guida al prodigio quotidiano», breviario delle meraviglie alla portata di tutti. Non si tratta esattamente di «miti» nel senso classico del termine: piuttosto, Bontempelli cerca di riprodurre qualcosa di simile ai miti platonici (quella categoria di creazioni che Jolles definisce «miti analogici» o «imitativi», 1930, pp. 104-108): il mito del sonno, che conduce l’uomo in un’altra dimensione meravigliosa, rispondente a leggi completamente diverse da quelle del mondo diurno (Modi di svegliarsi, e altre cose intorno al dormire); il mito della nascita del linguaggio, che è stato donato all’uomo da un dio (Informazioni sulle parole); e soprattutto, com’è ovvio, il mito dell’amore (Stato di grazia): Amore viene da fuori di entrambi. Cala dall’alto, sorge da intorno a noi. È una volontà superiore, la quale ha posto lo sguardo su due creature e stabilisce che si amino, e allora insieme le avviluppa come si avviluppano due farfalle in un solo movimento di rete. (Bontempelli 1931, p. 11)

Ma nella raccolta non mancano neppure esempi di mitologia tradizionale: in Stellato, per esempio, Bontempelli raccoglie ed espone buona parte delle storie mitologiche di umani trasformati in stelle – il saggio è stato scritto nel 1929, e già sappiamo che l’anno precedente, con il racconto di Adelina, Bontempelli aveva offerto un suo personale contributo al repertorio dei catasterismi classici. I miti vengono esposti con semplicità e leggerezza, come storielle per bambini, riducendo l’erudizione astronomica a una mitologia spicciola ad uso dei semplici: Su dunque, uno per uno con discrezione da principio, poi più spesso e con più facile generosità; su eroi come Ercole, cacciatori come Orione, amanti abbandonate come Calisto, inventori meccanici come Erittone, donne piagnucolose come le Esperidi, tranquille famiglie come quella di Perseo e Andromeda con i suoceri Cefeo e Cassiopea. (p. 101)

La mitopoiesi novecentista si viene dunque delineando secondo due direzioni strettamente collegate e complementari: da un lato, Bontempelli offre una sorta di quotidianizzazione del mito (gli eroi e la gente comune, mutati in stelle, sono ancora ogni notte dinanzi ai nostri occhi, ad arricchire il cielo di meraviglia); dall’altro, opera una mitizzazione del quotidiano: l’amore, il sogno, il linguaggio, sono altrettanti miracoli di cui si compone la nostra vita d’ogni giorno, ma che solo l’animo candido riesce a vedere. In Mia vita, morte e miracoli (1931), sorta di autobiografia scherzosa che vorrebbe integrare le esperienze personali fin qui raccontate, il prodigio dell’eco può suscitare nel ragazzo che lo scopre una meraviglia e una religiosa commozione anche senza ricorrere alla memoria mitologica:

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Sentivo in fiamme il mio volto. M’affacciavo al Mistero, ero solo in faccia a un mistero che era grande come tutto il creato. […] Una gioia immensa m’invase, mi gettai sulla terra come per abbracciarla; mi sentivo in comunione con la terra e con l’aria. […] nasceva in me la prima confusa impressione ch’esso non appartenesse a quello spazio ch’io conoscevo, di cui ero parte, che mi cingeva allontanandosi all’infinito, fatto di terra di cose d’aria di cielo di lontananze: la voce veniva certo da un altro spazio, da un’altra lontananza, da una diversa infinità, da una dimensione in cui i miei limiti corporei non potevano aver parte. (Bontempelli 1961, I, pp. 929-30)

Non bisogna tuttavia pensare che Bontempelli proponga un atteggiamento passivo nei confronti del reale, una mistica attesa del miracolo: la «magia» di cui egli parla è, all’opposto, una disposizione attiva, una ricerca incessante dei princìpi sui quali la natura si regge per poterla dominare secondo la propria immaginazione e con la forza della propria volontà – «il dominio dell’uomo sulla natura è la magia», afferma infatti nel primo dei Preamboli a «900» (intitolato Giustificazioni, del settembre 1926). Ma il mondo che l’artista mitopoieta si appresta a dominare magicamente dev’essere un mondo solido, un intreccio di materia e energia i cui princìpi possano essere penetrati e controllati: ecco che allora, a sorpresa, Bontempelli fa piazza pulita anche del relativismo critico che aveva animato la sua produzione dal 1919 al 1925 (non solo la sua: anche quella di Pirandello e della folta schiera di pirandellisti), e apre quel primo Preambolo proprio affermando la necessità di ricostruire uno Spazio e un Tempo certi e indubitabili – lo Spazio e il Tempo dei quali il Manifesto del Futurismo decretava la morte – nei quali collocare un mondo finalmente solido da esplorare e dominare magicamente: la malattia che minacciava gravemente la fine del secolo scorso (il quale, come ormai tutti sanno, non è finito che nel 1914) fu proprio questa: la rovina del vecchio concetto empirico di spazio e di tempo, cioè di un universo reale esistente intorno a noi, all’infuori di noi, più grande di noi: che ognuno di noi deve laboriosamente conquistare. Il mondo biblicamente preesistente all’uomo 24. (Bontempelli 1938, p. 26)

Un mondo solido, addirittura «biblicamente preesistente all’uomo», da esplorare con animo puro e gioiosamente dominare, in cui il meraviglioso sia una stabile componente e sia possibile vedere il prodigio tanto nei fatti inusuali e bizzarri che nei banali eventi di tutti i giorni: è chiaro ora perché la metamorfosi bontempelliana cambi fisionomia nella seconda metà degli anni Venti, e da simbolo dell’instabilità e della crisi d’identità diventi, anzi, da un lato compimento e rivelazione della natura più profonda del soggetto, dall’altro appagamento delle sue più ardenti aspirazioni. 24. Si legga anche la postilla aggiunta al preambolo nel 1929: «Il diavolo ha bisogno che l’uomo non creda a se stesso e al mondo, alla materia e allo spirito, alla terra e al cielo […]. Per qualche tempo la cosa gli è riuscita per mezzo del materialismo e poi del suo luogotenente il positivismo; quando non li ha più potuti tenere in piedi, ha dovuto ricorrere al relativismo, tanto che in qualche modo e da qualche parte la certezza che l’uomo ha delle cose e di se stesso si frantumi e si dilegui» (Bontempelli 1938, p. 28).

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Riassumendo dunque i tratti della concezione novecentista, il mito si caratterizza come una storia elementare, cioè di immediata comprensione e riguardante aspetti fondamentali della vita, e significativa, cioè avente un valore emblematico per una collettività; una storia che rispecchia una concezione del mondo candida (ingenua, infantile, o meglio «primigenia») e fantastica, che semplifica le situazioni e i conflitti in configurazioni elementari o ‘archetipiche’, e ammette nella sfera del quotidiano il magico e il meraviglioso, e più in generale tutti gli ordini del sovrannaturale. La concezione del mondo da cui le storie bontempelliane scaturiscono è dunque da un lato semplificata, dall’altro ampliata ad accogliere elementi e rapporti che normalmente restano fuori da quella comune – la quale tuttavia, pur così modificata, non è affatto abolita: tanto che la trama del mito ha origine proprio nella contrapposizione tra il personaggio portatore di questa nuova concezione e la comunità di coloro che la rifiutano, solidali con il vecchio sistema di pensiero e di vita. E tuttavia, se le storie di metamorfosi di cui ho parlato alla fine della scorsa sezione devono essere considerate esempi di miti moderni, ci ritroviamo subito dinanzi a due problemi, e due contraddizioni – l’una inevitabile, l’altra meno ovvia – del programma novecentista. Innanzi tutto, la difficoltà di catalogare i racconti di cui abbiamo parlato come miti. Ci sono infatti da considerare ancora alcune caratteristiche della metamorfosi bontempelliana che la differenziano radicalmente dalla metamorfosi mitica. Mi spiegherò con un esempio tra i più noti: Apollo si innamora di Dafne, e cerca di possederla; Dafne fugge, invoca suo padre Peneo, dio fluviale, a protezione della propria verginità, ed egli la trasforma in alloro per sottrarla alla violenza del dio. Fin qui, lo schema è identico a quello che Bontempelli segue nella storia di Stella, o in quella di Madina. Ma bisognerà ricordare il principio mitico per il quale Dafne non si trasforma in una pianta di alloro qualsiasi, bensì nell’alloro, cioè in una specie che non esisteva prima, e che ha la sua genesi esattamente in quell’istante. In altre parole, il mito di Dafne (mito eziologico) fonda l’alloro: e non solo, perché da quel momento in poi l’essenza di Dafne sarà in tutte le piante di alloro, essi saranno tutti Dafne; proprio per questo Apollo può eleggerlo come propria pianta. Viceversa, la Stella bontempelliana si trasforma in una rosa, cioè diviene un esemplare e uno solo di una specie già esistente: tanto che quando il poeta che l’ama vuole raccogliere una rosa del vaso da serbare in suo ricordo, è angosciato dal dubbio di non sapere quale sia Stella e di scegliere un’altra rosa, una rosa qualsiasi. Dunque abbiamo due importanti differenze. Potremo formalizzare la prima dicendo che il prodigio mitico è fondante, nel senso che modifica definitivamente l’universo nel quale ha luogo, mentre il prodigio bontempelliano si esaurisce in sé, coinvolgendo i protagonisti della vicenda ma lasciando l’universo e le sue leggi identiche a prima della sua manifestazione. Per definire invece la seconda differenza dovremo rifarci allo studio di Lotman e Uspenskij sul «carattere nominativo» del mito (1973, p. 88): e diremo che la metamorfosi mitologica si colloca in un universo di nomi propri, mentre quella bontempelliana ha luogo in un universo di nomi comuni. Più in generale, il mito novecentista, pur riproducendo un modello mitico (come la metamorfosi), non presuppone e non è espressione di una logica mitica, né si colloca in un universo mitico; per queste ragioni, nonostante le etichette e le dichiarazioni di intenti, il testo novecentista andrà ricondotto a una

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categoria diversa dal mito, e più precisamente alla fiaba: in cui la trama mitologica si ambienta in un universo di nomi comuni, e le azioni e gli avvenimenti si concludono in se stessi, senza rivestire un valore fondante nei confronti del mondo (inteso nel senso di natura e civiltà), bensì, tutt’al più, uno esemplare o emblematico 25. Alla fiaba rimandano anche le caratteristiche della produzione dei testi, così come Bontempelli stesso ce le propone: l’autore si pone in atteggiamento ricettivo nei confronti del mondo che lo circonda, dal quale raccoglie e rielabora artigianalmente delle storie, raccontandole nel modo più semplice e impersonale possibile, di modo che poi esse possano svincolarsi completamente dalla loro origine materiale e diventare un patrimonio collettivo, anonimo e popolare. Insomma, ciò che Bontempelli propone come modello di autore ideale non è tanto Omero, quanto piuttosto i fratelli Grimm. Il secondo problema che ho annunciato riguarda una questione più semplice, ossia la dichiarata modernità dei «miti» novecentisti. Proprio pensando alla parabola della metamorfosi delineata nella precedente sezione, infatti, non si può fare a meno di notare una contraddizione tra la teoria novecentista e la sua realizzazione concreta nei testi letterari: infatti le ultime due storie di metamorfosi raccontate da Bontempelli – quella di Madina e quella di Stella – rispondono a tutte le caratteristiche del realismo magico, ma non possono in nessun modo venir definite miti «nuovi», dal momento che anzi rispecchiano le caratteristiche della metamorfosi ovidiana assai più fedelmente di tutte quelle raccontate in precedenza. Ma questo fenomeno non riguarda soltanto le storie di metamorfosi: tutto l’immaginario mitico bontempelliano dei tardi anni Venti e degli anni Trenta sembra ad un rapido sguardo una riedizione in chiave moderna di tematiche e storie già rintracciabili nel mito classico. Proverò a fare qualche esempio.

4. Vecchi e nuovi miti Un primo nucleo tematico forte di questa seconda (forse, contando le opere rifiutate, dovrei dire terza) produzione bontempelliana è rintracciabile nel mito di Ulisse. Ho già parlato del Terzo viaggio di Viaggi e scoperte, in cui il protagonista approda sull’isola Leucoterìa e vive in una sorta di citazione dall’Odissea. Bisognerà aggiungere a quello il viaggio al Paese di Circe (1928) raccontato in Pezzi di mondo (la sezione aggiunta all’edizione di Stato di grazia del 1942): in una perfetta atmosfera da realismo magico, il narratore insegue per i lidi di Terracina le tracce della maga bella e pericolosa, scorgendola infine dietro una nuvola. Non mancano neppure le Sirene, che però «in un maraviglioso ‘Istituto di bellezza’ si sono fatte fendere la coda per il lungo in due magnifiche gambe lisce e brunissime». Il mito non è più quello di una volta, e il narratore, un po’ malinconicamente,

25. A ribadire la parentela della metamorfosi bontempelliana con quella fiabesca, potremmo ricordare nuovamente il caso di Ondina: come Madina, e diversamente da Aretusa e Aci, la protagonista della fiaba d’arte di de la Motte-Fouqué non dà origine a un fiume nuovo bensì si dissolve in un fiume già esistente (il Danubio), così come le altre creature della sua specie hanno il dominio sulle acque, ma non sono quelle acque.

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conclude che «non c’è più da contare su Circe» (Bontempelli 1931, p. 190), un pensiero che tuttavia non gli impedisce di gustare pienamente l’incanto che perdura ancora sull’isola e la sua magica atmosfera. Più amaro, quasi ‘saviniano’, il rimando al mito delle Sirene del racconto Sirena a Paraggi (in Galleria degli schiavi, 1934): la mitica creatura appare infatti al largo di una cittadina ligure, sotto gli occhi di un gruppo di villeggianti della buona società, che lei osserva con grande meraviglia e spavento, finché non sopraggiunge un fuoribordo che la investe in pieno. Di lei non si troverà nulla, e, pur convinte che si sia trattato di un miraggio, «quasi tutte le donne e le fanciulle di Paraggi, fecero quella notte strani sogni pieni di turbamenti» (Bontempelli 1961, II, p. 529). Il giorno seguente gli alberghi del paese imbandiranno le mense con una strana varietà di pesce, del quale non sapranno precisare la specie, e che tuttavia gli ospiti saranno concordi nel giudicare buonissimo, con un delicato gusto esotico. Il riuso più interessante è però quello di La via di Colombo (1940), uno dei tre racconti raccolti in Giro del sole (1941), che è l’opera in cui i critici concordemente riconoscono la migliore prova del novecentismo bontempelliano. Il rimando questa volta non è però all’Ulisse omerico, bensì a quello dantesco: infatti si narra di come Colombo, durante il suo primo viaggio alla ricerca delle Indie, scopra a bordo un clandestino, Garcia Martinez, che notte dopo notte cerca di convincerlo a deviare la rotta per raggiungere la montagna del Purgatorio – secondo appunto la geografia della Commedia. Nella versione bontempelliana è Garcia il viaggiatore mistico, noncurante dei divieti divini e del rischio pur di «seguire virtute e canoscenza» e di esplorare il fondo dell’ignoto e del mistero; Colombo, al contrario, è l’uomo moderno – anzi, il primo uomo moderno – che accetta di scendere a compromessi e cerca le vie legali per soddisfare il proprio desiderio di sapere, il quale rimane pur sempre nell’angusto àmbito della ragione: una volta, ricorda, costeggiando la Guinea aveva intravisto alcune sirene sulla spiaggia, ma in séguito si era lasciato persuadere che non era vero (Bontempelli 1961, II, p. 832). Così, quando arriveranno nel punto più vicino a dove dovrebbe trovarsi il Purgatorio, Colombo rifiuta di deviare dalla rotta stabilita, e Garcia dovrà lanciarsi per raggiungere il monte a nuoto; il viaggio di Colombo avrà successo, e finalmente giungeranno in vista di quelle che egli crede siano le Indie, ma il capitano non potrà reprimere il rimorso per la propria codardia, per non aver seguìto il temerario novello Ulisse. L’originalità del riuso deriva soprattutto da questo rovesciamento rispetto alla ricezione precedente, che aveva sempre identificato Colombo con Ulisse, mentre per Bontempelli Colombo è il viaggiatore moderno, dunque il viaggiatore accorto, provvisto di uno scopo politico e materiale – Garcia lo accusa infatti di star cercando l’oro, e nel finale Colombo riconoscerà che è proprio così. Con una tipica sospensione novecentista, non viene detto se Garcia trovi o meno la montagna: la suggestione del racconto sta tutta nel rimpianto di Colombo per non aver saputo scegliere la via di Ulisse. C’è poi un tema bontempelliano su cui mi soffermo rapidamente. Sebbene sia rappresentato soltanto da due racconti, si tratta di un tema assai particolare, che ritroveremo anche nel Pirandello dei Giganti della montagna. Mi riferisco al topos dello sparagmós, collegato al mito orfico e al rito del capro espiatorio: la vittima il cui corpo viene dilaniato e eventualmente consumato ritualmente dalla folla dei

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fedeli invasati. Secondo l’interpretazione di Frazer, la vittima rappresenta il dio sul quale vengono trasferiti i peccati e i mali della collettività, la quale può purificarsene attraverso la sua messa al bando o la soppressione violenta. Tra gli esempi più celebri di sparagmós c’è naturalmente il mito di Orfeo, nel quale il poeta viene dilaniato dalle Menadi su istigazione di Dioniso, di cui aveva disprezzato il culto; stessa sorte tocca anche a Penteo, il re di Tebe colpevole anche lui di gravi oltraggi a Dioniso (per giunta, la folla di baccanti che dilania il re è guidata proprio dalla madre di questi, Agave); ma del resto già lo stesso Dioniso da bambino aveva subìto lo smembramento, a opera dei Titani inviati dalla gelosa Giunone. Bontempelli ci offre due versioni del tema, dal tono assai diverso. La prima è quella del racconto Incidenti in Danimarca (contenuto in La donna dei miei sogni, 1925), che, coerentemente con la maniera bontempelliana dei primi anni Venti, è la versione più ironica e meno cruenta. In questo racconto il narratore narra di come una volta avesse fondato un teatro di prosa sotto la protezione del re di Danimarca, con il quale aveva ottenuto un successo strepitoso. Presto, tuttavia, egli inizia a stancarsi della gloria e desidera ripartire, ma non riesce a trovare una scusa per liberarsi del suo incarico. Saranno gli attori stessi a fornirgliela: le attrici (tutte innamorate di lui e puntualmente respinte) e gli attori (tutti ovviamente gelosi), decidono infatti di tendergli un agguato dopo lo spettacolo: Io dunque dovevo essere ucciso la notte del 19 giugno, subito dopo la recita; poi il mio corpo sarebbe stato diviso tra tutti gli attori e le attrici, un pezzettino per ciascuno: in tal modo sarebbe riuscito facile farmi scomparire. (Bontempelli 1961, I, p. 709)

Non viene detto, dato il tono lieve di tutto il racconto, in quale modo il corpo verrà fatto scomparire, e tuttavia il lettore viene astutamente indotto a immaginarlo. Lo stratagemma con il quale il capocomico si salva è abbastanza paradossale, e prende in giro le più aggiornate innovazioni e ‘stramberie’ teatrali che hanno invaso le scene sulla scia del polverone futurista. Per il 19 giugno, il protagonista allestisce un dramma in versi in cui, romanticamente, si rappresenta l’abbattimento di un tiranno crudele: mescolando i ribelli tra il pubblico, e facendo declamare appelli infuocati, fa sì che gli spettatori confondano azione e realtà, si sollevino in massa e salgano sulle scene a trucidare i congiurati, cui ovviamente erano state assegnate le parti del tiranno e dei cortigiani. Naturalmente, dopo il tragico epilogo della rappresentazione, il narratore non soltanto si è salvato dalla congiura, ma può anche abbandonare la Danimarca, decretando lo scioglimento della compagnia per la scomparsa di tutti gli attori. Più truce e inquietante la ripresa del tema effettuata nove anni dopo, nel racconto L’ultima notte di quell’anno (in Galleria degli schiavi, 1934). Una ballerina, dal significativo nome di Diva, danza la sera di San Silvestro dinanzi a un pubblico di sfrenati ammiratori, suscitando una sorta di delirio collettivo e orgiastico: Erano gridi di rabbia, d’amore, d’estasi, d’esecrazione: la pazzia furibonda, smania schiava di gettarsi addosso all’idolo. Il ballo di Diva aveva sbattuto le anime, violentato le verecondie, confusi i sessi, scardinati i costumi, rimescolato le caste, sommosso il vivere civile, annullato i fondamenti della storia. Tale è la fine di un impero, o del mondo. (Bontempelli 1961, II, p. 580)

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La danza di Diva scatena la parte più bestiale e primitiva dei suoi fedeli, ne risveglia gli istinti selvaggi. Ma il rito non è per essi che un preludio del baccanale vero e proprio: infatti la folla si accalca all’uscita del teatro, ad attendere l’idolo per continuare la scatenata festa. Diva, accortamente, scambia gli abiti con la propria cameriera e manda fuori lei, pensando che i fanatici si accontenteranno di salutarla da lontano. Ma la folla blocca l’automobile e costringe quello che credono l’idolo a mostrarsi per il tripudio collettivo; negli animi già eccitati, la scoperta dell’inganno solleverà un furore incontrollabile: la cameriera è spogliata e brutalmente malmenata, i fedeli «con la bava ai denti» si accalcano e si calpestano per dare sfogo alla loro rabbia sull’innocente capro espiatorio: Un vecchio levò alto un coltello sopra la sua testa, ma quattro braccia lo fermarono; gridavano: – No, no; con le mani. […] Un gentiluomo e un ragazzo s’afferrarono a una coscia della cameriera di Diva: indovinando il loro pensiero quattro, otto, dieci braccia – alcune erano braccia nude di dama – abbrancarono l’altra coscia e slanciandosi indietro tirarono fin che si sentì lo scricchiolare e lo squarcio, zampillò un sangue nero dall’aperta voragine; trenta bocche vi si gettarono sopra piene di sete, ruinando uno sull’altro. (p. 594)

Le coincidenze con la trattazione di Frazer sono significative, e lascerebbero credere che Bontempelli fosse a questa data venuto in contatto con Il ramo d’oro 26: innanzi tutto il fatto che la vittima sia di umile e disprezzabile estrazione sociale (la folla inferocita bontempelliana la definisce a più riprese «la serva»), sia travestita con gli abiti della divinità (per l’appunto, «Diva») e riceva in un primo momento gli onori destinati a quest’ultima – come accade in tutte le celebrazioni rituali in cui il capro espiatorio sia un uomo o un animale «divino» 27. Ma il dettaglio forse più rilevante è la datazione del cruento episodio alla notte di Capodanno, poiché Frazer dimostra con un’ampia messe di esempi che la cerimonia periodica del capro espiatorio si colloca sempre in coincidenza con l’inizio del nuovo anno astrologico (appunto, dicembre-gennaio), naturale (l’arrivo della primavera) o agricolo (l’epoca della mietitura) 28; inoltre, essa spesso segue un periodo di grande licenza nei costumi morali e sociali (come ad esempio i saturnali romani), licenza che ritroviamo puntualmente raffigurata nella follia orgiastica scatenata dallo spettacolo di Diva. Tuttavia più che l’indicazione di una fonte (che peraltro mi sembra assai probabile) mi interessa constatare il tipo di rielaborazione operata sul modello mitico: dal momento che Bontempelli riprende con puntualità la tipologia di un rito primitivo, ma lo trapianta in un’ambientazione contemporanea e metropolitana. In questo senso, un primo dato utile è il mutamento di funzione che René Girard ha

26. L’opera, ricordo, era stata pubblicata in 12 volumi tra il 1890 e il 1915; nel 1925 era uscita l’edizione ridotta in due volumi, che poi sarebbe stata tradotta in varie lingue: in Italia la prima edizione è quella tradotta da Adolfo De Bosis per l’editore Stock di Roma, nello stesso 1925. Può essere utile ricordare che Bontempelli pubblicò presso lo stesso editore Mia vita morte e miracoli nel 1931. 27. Frazer 1915, II, cap. LXII, Capri espiatori pubblici (pp. 249-72). 28. II, cap. LVI, L’espulsione pubblica degli spiriti maligni (pp. 225-48).

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indicato caratteristico del tema del capro espiatorio nella sua versione moderna (Girard 1982): non più vittima sacrificale per il benessere di un’intera collettività, com’era in origine, bensì vittima innocente sulla quale la collettività fa ricadere la colpa del male che la affligge. Così, mentre il capro espiatorio della società primitiva attira su di sé i peccati altrui o i demoni responsabili del male, in età moderna la vittima (ossia la strega, lo straniero, o l’ebreo) viene direttamente accusata di aver prodotto il male. Ma l’elemento più interessante, e per certi aspetti collegato a quel mutamento di funzione, è quello che si potrebbe definire uno «svuotamento di senso sacro» della cerimonia: poiché dell’antico rito, che celebrava la catarsi collettiva e propiziava la prosperità e la gioia della comunità, sono rimasti soltanto i gesti violenti, la furia cieca contro la vittima innocente, dilaniata e sbranata senza altro scopo che quello di sfogare un istinto selvaggio – non per potersi cibare eucaristicamente del dio, ma per esprimere la folle rabbia per la mancata epifania del divino. La raffigurazione terribile della folla inferocita non viene dunque in alcun modo redenta dalla sacralità del rito, e la narrazione che la ritrae, nella sua brutale crudezza, è un caso unico in tutta l’opera bontempelliana. Quasi a mettere in guardia contro le troppo facili mistificazioni e i pericoli della logica mitica (di cui la storia cominciava purtroppo a dare qualche segno), per una volta soltanto, Bontempelli ha spinto il proprio sguardo a sondare l’orrore che si può celare nell’abisso al di sotto del mito. Un terzo nucleo tematico che occupa grande spazio nell’opera bontempelliana è quello collegato al mito di Narciso. Innanzi tutto, Bontempelli manifesta in moltissimi dei suoi racconti un’autentica ossessione per gli specchi. Nel V capitolo di Mia vita morte e miracoli racconta di come una volta ha lasciato la propria immagine in uno specchio di Vienna, e questa sia riuscita a raggiungerlo solo dopo parecchi giorni 29; nel capitolo successivo, racconta l’incubo di una pensione i cui ospiti lo imitavano tutti fedelmente, come se fossero stati la sua immagine allo specchio: in entrambi i casi, tuttavia, il trattamento del tema non rimanda tanto al mito classico quanto al racconto fantastico ottocentesco. Quando invece l’immagine riflessa è quella di una donna, il riflesso assume un senso diverso, questa volta con implicazioni narcisistiche: la protagonista del romanzo Eva ultima (1923), anche attraverso le più sconvolgenti esperienze, riesce a tranquillizzarsi solo rimirando lungamente la propria immagine allo specchio; mentre lo stesso atto porta alla follia la povera protagonista del dramma Minnie la candida (1928), spingendola a gettarsi giù dalla sua finestra; abbiamo anche visto che uno specchio deformante determina la fine della storia d’amore tra il narratore e la donna «dei suoi sogni», e abbiamo riconosciuto in quel racconto una sorta di versione rovesciata del mito di Narciso. Potremmo aggiungere che anche Madina dell’Acqua presenta delle analogie con Narciso: per quella refrattarietà a qualsiasi relazione sentimentale o fisica con gli altri, e per la sua fissazione con l’acqua, nella quale finirà per dissolversi – infatti Madina ama soltanto l’acqua

29. La disavventura, lo si ricorderà, era capitata anche a Erasmus Spikher delle Abenteuer der Sylvesternacht (Le avventure della notte di San Silvestro, 1814-15) di Hoffmann, il quale però la prendeva con minor filosofia rispetto all’ironico protagonista bontempelliano.

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ma contemporaneamente è lei stessa «acqua», tanto che alla fine lo diventerà veramente, quando riuscirà a congiungersi in un abbraccio sensuale con il fiume amato. A questo catalogo va aggiunta anche quella nota del 1933 in cui Bontempelli collega la moderna idolatria di Rodolfo Valentino all’antico culto di Narciso: un rimando significativo, in quanto è curioso che Bontempelli citi Narciso – di cui i testi classici non tramandano notizie circa un vero e proprio culto collettivo – e non, per esempio, Adone, che sarebbe stato un esempio meno fuorviante. Una rielaborazione più complessa del mito di Narciso Bontempelli la compie nel romanzo Vita e morte di Adria e dei suoi figli (1930), che al suo apparire venne salutato come il prodotto maturo e compiuto della poetica del realismo magico. La protagonista, Adria, è una donna dell’alta borghesia romana che ha condotto sino ai vent’anni una vita comunissima, fatta di un matrimonio, due figli e impegni mondani; fino a quando, un giorno, dopo lunghe e tranquille meditazioni davanti allo specchio, Adria aveva capito d’aver raggiunta la perfetta bellezza, aveva stabilito come suo dovere sacro di dedicarvisi tutta. […] La bellezza fu la sua cura d’ogni minuto e scopo d’ogni atto, la sentiva come una cosa fuori di lei, che Dio le aveva data in custodia. Davanti a quella bruciò dunque ogni altra cosa, sentimento, inquietudini, piacere di vivere, ambizioni. Questa non era ambizione, ma un culto. (Bontempelli 1961, II, p. 168)

Nessun dubbio sulla divinità della bellezza di Adria, né sul carattere religioso della cura che le viene dedicata; Adria infatti non è più una donna ma una dea, e così come ha bandito i sentimenti umani dalla propria vita, allo stesso modo non suscita più reazioni umane in coloro che la circondano: «il marito dai gradini dell’altare serviva la cerimonia, i figli adoravano da lontano, gli amici non chiedevano confidenza, le donne non la chiamavano in gara, gli adoratori non se ne innamoravano» (p. 168). Il suo passaggio tra gli uomini è un prodigio vero e proprio, e suscita reazioni adeguate all’epifania di una divinità: Non vi furono applausi, la gente si stringevano l’uno l’altro le mani, esclamavano: – Bello, bella, paradiso, meraviglia, sole […]. Davanti era un silenzio attonito, che ai lati e dietro a mano a mano s’animava e le cingeva intorno un arco di mormorio. […] Le ebbrezze del ballo dei vini delle luci inventavano gli omaggi più impreveduti e ingenui, molti vedendola ridevano di candore, un giovinetto s’inginocchiò, una donna si strappava la collana e la gettava all’aria e mettendosi a ballare sola si scompigliava le chiome come una furia giocosa. Due vecchi dimenticando i capelli bianchi e l’abito nero si buttarono in terra abbracciati come bambini in un prato. (pp. 180-81)

Adria è una divinità benefica, e come tale si comporta: infatti si mostra in pubblico il più spesso possibile per offrire generosamente agli umani la possibilità di godere del miracolo della sua bellezza. Bontempelli opera inoltre una sorta di moralizzazione del mito originario, e precisa che «in quel comune entusiasmo degli uomini e delle donne non era ombra di sesso» (p. 180); ma soprattutto, anche l’amore narcisistico di Adria nei confronti del proprio corpo viene privato di qualsiasi erotismo: si legga per esempio la scena più compiutamente narcisistica del romanzo, quella dello specchio:

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Nessuno al mondo conosce quel sorriso e il volto di quell’ora e di quello sguardo. Il tremolio di rose che dagli angoli delle labbra saliva su per le guance, incontrò l’onda tenera che scendeva dal battere dei cigli. Ella si sollevò un momento sull’altro gomito, allontanò lo sguardo di tutta la lunghezza del braccio. Non pensò di carezzare quel braccio. Riavvicinò lentamente lo specchio, schiuse un poco le labbra e vedendo lampeggiare i denti rise. Gioiva della vista della bocca, delle gote, dei capelli che ora le ingombravano piano la fronte. Non desiderò di poter baciare quella bocca che dallo specchio le rideva con tanta giovinezza. Il suo amore era puro e tutto celeste. (pp. 171-72)

Narciso moderno, l’estasi di Adria è un fatto tutto spirituale: la creatura bellissima non conosce il tormento sensuale e l’ansia del possesso che avevano consumato Narciso ai bordi dello stagno. Ma la fine di Adria giungerà ugualmente dalla passione: cinque anni dopo (la donna è ormai alle soglie dei trent’anni), incontrando un giovinetto figlio di un uomo ch’era stato ucciso per lei, proverà uno strano turbamento. Quella sera, al momento del consueto rituale dello specchio, Adria scopre di essere diventata più bella, e ne prova spavento. «Forse la passione è più bella del Paradiso. Ma la passione trascina al disfacimento» (p. 209), pensa, e comprende che sta per iniziare il declino della sua bellezza. Allora stabilisce di ritirarsi per sempre in un appartamento di Parigi, dove nessuno la vedrà mai più, e dal quale verranno banditi gli specchi perché lei non debba mai scorgere lo sfiorire della propria bellezza; qui, dodici anni dopo, per non dover uscire dall’appartamento che dovrà essere demolito, vi appicca il fuoco e perisce nell’incendio: morirà concedendosi per l’ultima molta allo specchio, sorridendo all’amata immagine finalmente ritrovata. Un ultimo prodigio accompagna la sua mirabile esistenza: tra le macerie, a incendio spento, «niente fu trovato del suo corpo» (305). Abbiamo anche in questo caso un «mito moderno» che si configura come rielaborazione di un mito classico, trasportato in un’ambientazione novecentesca che ne modifica il senso e alcuni tratti: infatti Adria è una perfetta versione novecentista di Narciso, che, scoperta la propria bellezza, ne fa un prodigio mondano; inoltre Bontempelli trasforma il mito originario mediante l’inserimento di elementi fiabeschi (come il topos della creatura divina che, innamorandosi, perde la propria immortalità) e moderni (come il culto decadente della bellezza, e l’ideale estetizzante del «vivere la propria vita come un’opera d’arte»). L’ultimo nucleo tematico che illustrerò è quello legato al mito della Fenice, dalle cui implicazioni Bontempelli sembra subire il fascino 30. Nella raccolta di aforismi Il bianco e il nero, progettata negli ultimi anni della sua vita ma mai completata, sotto la voce «giocare» Bontempelli associa il mito della Fenice alla Speranza, proclamandola dio del giocatore che ogni sera perde tutto per rinascere al sogno di vittoria il giorno dopo (Bontempelli 1987, pp. 84-85). La Fenice è la divinità che presiede al ciclo di morte e resurrezione; e infatti proprio Fenice si chiama la bella fanciulla innamorata di Bassano, padre geloso (1933), una commedia in cui Bontempelli si rifà

30. Sul mito della Fenice nella letteratura occidentale vd. Fabrizio-Costa 2001.

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ampiamente al simbolismo legato all’uccello sacro. La bella Fenice metaforicamente muore alla sua vita infantile e rinasce all’amore e alla gioia, ma soprattutto una simbolica morte incontra il padre di lei, Bassano, per l’appunto morbosamente geloso della ragazza (Bontempelli è tuttavia molto attento a non scivolare mai nel torbido), che decide di lasciarsi morire per punirla dell’intenzione di lasciarlo per sposarsi; ma basterà che Fenice gli dichiari il proprio immutato affetto perché Bassano recuperi all’improvviso la propria salute, e rinasca questa volta come padre generoso e benevolo. Dell’uccello che muore e rinasce riconosciamo i tratti anche in Regina, la protagonista del dramma Nembo (1935), che un misterioso cataclisma uccide insieme a tutti i bambini del paese. Infatti nella prima parte del dramma la ragazza appare fissata a uno stadio infantile: si rifiuta all’amore e alle responsabilità di una vita adulta e trascorre la giornata giocando con i bambini. Quando però si risveglia dalla morte si scopre finalmente adulta, e accetta l’amore e il dolore della vita. In entrambi i casi la Fenice è dunque simbolo non solo e non tanto della speranza, quanto del cambiamento e della crisi – un significato del resto tradizionalmente associato alla mitica creatura. Ma la rielaborazione più importante (poiché è anche la più esplicita) è sicuramente quella del racconto Viaggio d’Europa (1939), contenuto in Giro del sole. Come accade anche negli altri due racconti della raccolta (La via di Colombo e Le ali dell’Ippogrifo), Bontempelli integra la trama del mito classico, raccontandoci questa volta cosa accade esattamente tra il momento in cui Giove in forma di toro rapisce Europa e la nascita di Minosse, e quale sia la fine della fanciulla; inoltre contamina appunto il mito d’Europa con quello della Fenice 31. Infatti, il giorno prima di essere rapita da Giove, la fanciulla era stata in pellegrinaggio in Libano per assistere alla morte e alla rinascita dell’uccello Fenice, evento che ricorre ogni 500 anni. Europa è assai colpita dal rito, ma ancora di più dalla natura divina dell’uccello che, prima di allontanarsi rinnovato, le rivolge un lungo sguardo «denso di una inafferrabile promessa» (Bontempelli 1961, II, p. 761). L’avventura con Giove, invece, risulta assai deludente: la fanciulla è un perfetto esemplare di candida bontempelliana, e dunque è infantile, legata alla propria famiglia e non nutre alcun interesse né per il sesso né tantomeno per la gloria d’essere amata da un dio. Anzi, quando il toro le rivela di essere Giove, Europa ha una reazione decisamente irriverente: Rideva buttata traversa sui cuscini senza potere frenarsi. Mordeva i cuscini, si stringeva la faccia tra le mani, scivolava rotolava si premeva a bocca in giù contro i tappeti, senza riuscir a chiudere quel diluvio che sgorgava da tutte le più ricche radici della sua innocenza. (p. 784)

Per giunta, ha la sfrontatezza di chiedere a Giove se potrebbe qualche volta ritrasformarsi nel toro, che le piaceva più del dio. La notte d’amore, poi, le porterà solo sgomento e stanchezza, e al mattino la sua impertinenza irriterà tanto Giove 31. Nella versione classica del mito, Fenice (insieme a Cadmo) era uno dei fratelli di Europa mandati dal padre Agenore a cercarla per tutte le terre: Cadmo si fermò e fondò la città di Tebe, mentre Fenice arrivò in Libia dove diede il suo nome ai Punici.

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da farlo partire subito. Per confortarla delle sofferenze patite, Clori, la più giovane delle Ore al servizio di Giove, le abbrevia la gravidanza a un giorno soltanto, che Europa trascorre tutto nel sonno. Al risveglio, Europa avverte languidamente di essere sul punto di morire, ma ritorna a trovarla la Fenice, che le promette di riportarla nel Libano e costruire anche per lei una pira dalla quale potrà rinascere, perché «chi è nato una volta non potrà più, mai più, morire per sempre» (p. 797). La versione bontempelliana risulta estremamente suggestiva e, nonostante la classicità del soggetto, ha tutte le caratteristiche di una fiaba moderna. In questo racconto, come negli altri due di Giro del sole, Bontempelli deroga al principio di offrire dei «nuovi miti», eppure il risultato appare stranamente più originale: anziché trapiantare storie e temi mitici in una modernità atemporale e generica, insinua uno spirito novecentista nel cuore stesso del mito, leggendolo con occhi nuovi e arricchendone il significato originario di implicazioni moderne. L’operazione è pienamente riuscita per quanto riguarda l’opera in sé e l’efficacia nella rielaborazione del mito; e tuttavia assume necessariamente il valore di un sostanziale fallimento del programma novecentista. L’interesse suscitato in Bontempelli dal mito della Fenice deriva anche dalle sue connessioni con i miti ciclici e con l’idea di eternità dell’anima: abbiamo visto il significato mistico associato al simbolismo dell’uccello mitico in Viaggio d’Europa, e il tentativo di ampliare il tema della rigenerazione a una legge universale, secondo la quale tutti coloro che sono nati veramente non potranno più morire. Nella seconda metà degli anni Trenta Bontempelli sembra infatti particolarmente attratto dalle concezioni cicliche (ma non dimentichiamo che la stessa dottrina novecentista nasce proprio nel segno della ciclicità), dall’animismo e dalle religioni naturali. Istituendo un fin troppo facile parallelismo, potremmo far risalire questo interesse all’amaro disincanto che gli proveniva invece dalla storia politica e sociale, con lo sgretolamento delle mitologie fasciste che lasciava sempre più chiaramente intravvedere una ben più meschina e preoccupante realtà 32. Ecco allora che la modernità dell’ambientazione si fa nei racconti sempre più rarefatta e generica, dalla relativa precisione di date e luoghi di Vita e morte di Adria (1930), in cui la storia dei personaggi si intreccia a quella d’Italia, con le inquietudini prebelliche e poi la gloriosa avventura della Grande Guerra – sebbene la storia collettiva sia ora funzionale alla trama romanzesca e non più autentica protagonista, come invece l’avevamo vista nella Vita operosa – a una concretezza quasi solo geografica di Gente nel tempo (1936); per sfociare da un lato nella parabola atemporale dell’Acqua e degli ultimi racconti, dall’altro nel rifugio in un tempo mitico (o storico, ma reso mitico dalla lontananza), come appunto nei racconti di Giro del sole (1941) o nei drammi La fame (1934), Cenerentola (1942) e Venezia salva (1948). Nel già menzionato Paese di Circe (1928), l’approssimarsi al luogo che conserva ancora l’impronta delle mitiche storie viene segnalato dai cambiamenti nell’aria, nella luce, nell’atmosfera che «si fa più smarrita»: una sensazione che Bontempelli descrive come «il graduale svolgersi di un sortilegio, una intensa fuoriuscita dal Tempo» (Bontempelli 1931,

32. Ricordo che la rottura ufficiale di Bontempelli con il regime data al 1938, ma era venuta lentamente maturando durante il corso degli anni Trenta.

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p. 182). Il mito dunque non si colloca più in un Tempo vergine e primordiale, un Tempo finalmente «ricostruito» (come auspicava il primo Preambolo di «900») e in cui la Storia possa ricominciare da zero, bensì fuori dal Tempo – e si intuisce facilmente che la distinzione è tutt’altro che secondaria. Nel già citato Riassunto del 1933, infatti, Bontempelli attenua l’entusiasmo per l’era nuova foriera di una giovinezza mitica, e sposta l’accento su una sorta di dimensione mitica atemporale da cui l’artista dovrebbe attingere la propria ispirazione: Cioè, risentirsi elementari. Elementare non vuol dire primitivo. Primitivo è il modo di essere al principio di un’epoca. Elementare è ciò che traverso il mutare dei tempi rimane immutabile e fondamentale. (Bontempelli 1938, p. 353)

Elementare, dunque, è tutto ciò che sta al di fuori della Storia, tutto ciò che si ripete identico e che proprio per questo diviene fondamentale. Il corollario è che l’accidentalità non conta, e che anzi il prodigio risiede nella regola. Una prima applicazione di questo principio è nel romanzo Gente nel tempo (1935), che racconta l’inesplicabile destino di una famiglia, annunciato dalla capostipite, di morire l’uno dopo l’altro ogni cinque anni esatti. Ma il destino – quel destino che in Nostra Dea era svilito nel capriccio delle scelte di una cameriera e di una sarta – quando è tale è necessariamente inesplicabile, e va accettato senza volerne indagare a fondo la natura – come recita la elementare sapienza del custode dell’obitorio dinanzi al miracolo di Regina resuscitata, in Nembo: «È il gran vizio del secolo: ragionare. Perché ragionare? Io ho imparato a trovar tutto molto semplice» (Bontempelli 1947, II, p. 229). L’approccio al mito dei racconti dei primi anni Venti è così del tutto ribaltato: la logica mitica non solo è completamente riabilitata, ma diviene una giustificazione delle incongruenze del reale, una sua sublimazione in un ordine superiore. Ed è quello stesso principio di «elementarità» che ispira il terzo e ultimo racconto di Giro del sole, Le ali dell’Ippogrifo (1941). Questa volta il mito integrato è ariostesco: durante il volo sul dorso dell’Ippogrifo verso l’isola di Alcina, Ruggero si ferma per un giorno e una notte su un’isola del Pacifico, dove si imbatte in una setta di adoratori del Sole. Essi vivono a bordo di un battello e circumnavigano instancabilmente l’isola seguendo il tragitto del Sole; ogni sera e ogni mattina celebrano un rito solenne per salutarne la partenza e glorificarne l’arrivo. Soprattutto quello serale è un rito assai importante, perché il Sole, spiega Bontempelli, «ogni sera scomparendo con l’ultimo raggio del giorno ci lascia nell’anima un’ombra di sospetto che forse abbiamo veduto quel raggio per l’ultima volta» (Bontempelli 1961, II, p. 873). Ma il culto degli adoratori del Sole si basa su tutta una religione della ripetizione e della ciclicità, come spiega uno di essi, Cèrilo: Nella lunghezza del tempo e nella infinità degli incontri di elementi naturali, qualunque modo di esistenza può darsi che in qualche momento si venga a formare; è l’opera d’un caso, quasi una deduzione meccanica, che non dipende più direttamente da un volere supremo. La maraviglia comincia quando il caso si ripete fino a diventare legge immutabile: è meraviglioso che il Sole ogni sera tramonti e ogni mattino risorga, da immemorabili secoli e millenni e miliardenni, con gli stessi aspetti e divisioni di tempi. Ogni anno a quella stagione un albero germinare e poi fiorire. Dentro noi ogni secondo il cuore dà un battito, e sale e s’abbassa il respiro;

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ogni sera il corpo d’ognuno s’addormenta e dopo tante battute si sveglia. […] Queste cose danno all’uomo una sicurezza, sono il germe della fede. Tutto il resto non ha importanza. (p. 858)

Potrebbe parere una raffigurazione di una religione un po’ stramba e un po’ saggia, una bizzarria esotica come quelle di cui sono pieni i resoconti fantastici di Viaggi e scoperte; ma Cèrilo aggiunge delle riflessioni che non possono che suonare significative in questo giro di anni: Noi diciamo e facciamo sempre le stesse cose, in un ambito minimo; allora un cambiamento di luce sull’acqua diventa un’avventura molto più profonda di quelle che raccontano le storie. […] In realtà, in quella vita [sulla terra ferma] la monotonia non è rotta che da sciagure e delitti, e allora l’uomo alza le braccia disperato al cielo. (p. 860)

È sorprendente come Bontempelli anticipi qui con precisione il saggio di Eliade sull’eterno ritorno, pubblicato pochi anni più tardi. Abbiamo visto come, secondo Eliade, le società primitive identifichino il tempo storico con il male e il peccato, e pertanto hanno la necessità di purificarsene mediante riti che restaurino il tempo mitico – basato sul ciclo e dunque l’eterno presente – e riportino così i loro membri nel «paradiso degli archetipi» 33. L’abolizione del tempo storico, inoltre, passa attraverso la svalorizzazione di qualsiasi avvenimento, ossia di qualsiasi azione umana che non sia la ripetizione di un archetipo o evento naturale che non sia un fenomeno ciclico: In una parola, l’uomo arcaico rifiuta di accettarsi come essere storico, rifiuta di accordare un valore alla «memoria» e di conseguenza agli avvenimenti inconsueti (cioè, senza modello archetipico) che costituiscono, infatti, la durata concreta. (Eliade 1949, p. 114)

La consonanza con la «saggia» dottrina di Cèrilo e la vita del popolo del Sole è straordinaria 34: se la Storia è monotonia rotta da sciagure e delitti, allora è meglio ritirarsi nella prodigiosa elementarità della natura, nel paradiso degli archetipi e della ripetizione. Con perfetta coerenza, sul piano letterario, il romanzo che parla dell’Italia fascista lascerà il posto un romanzo di pura fantasia, privo di qualsiasi

33. «Il bisogno che anche queste società sentono di una rigenerazione periodica è una prova che esse non possono mantenersi senza interruzione in quello che abbiamo chiamato prima il ‘paradiso degli archetipi’, e che la loro memoria giunge a scoprire (anche se meno intensamente, senza dubbio, di quella di un uomo moderno) l’irreversibilità degli avvenimenti, cioè a registrare la ‘storia’. Così dunque, anche per questi popoli primitivi, l’esistenza dell’uomo nel cosmo è considerata come una caduta. […] anche nelle società umane più semplici, la memoria ‘storica’, cioè il ricordo degli avvenimenti che non derivano da nessun archetipo, gli avvenimenti ‘personali’ (‘peccati’ nella maggior parte dei casi), è insopportabile» (Eliade 1949, pp. 102-3). 34. Va però precisato che Eliade fa risalire le concezioni cicliche al culto lunare, mentre Bontempelli, come abbiamo visto, si rivolge piuttosto all’astro diurno, la cui ciclicità (quotidiana e non mensile) è più precisa e «elementare».

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ironia o istanze critiche, che esprima attraverso una forma limpida e depurata una consolatoria evasione dalla contingenza, una trasfigurazione del reale quotidiano grazie a un filtro mitico-fiabesco, e una sorta di acquietamento estetico delle inquietudini dell’individuo moderno nel senso del «mistero» irrazionalizzabile che pervade tutta la vita umana e naturale 35. Una conclusione che vorrebbe indicare una superiore saggezza finalmente acquisita, ma che, paragonata all’entusiasmo dei «costruttori» novecentisti, non può che suonare come una resa incondizionata. Ed è una resa che in qualche modo, seppur fatte tutte le debite distinzioni, può ricordarci quella dei mitopoieti futuristi. La scoperta dell’America è un frutto dell’ambizione, meno importante della purificazione nell’anima, dice Bontempelli nella Via di Colombo; Madina e Europa ci mostrano che la gloria e il successo mondano non valgono nulla; gli adoratori del Sole in Le ali dell’Ippogrifo proclamano la Storia un accidente doloroso e irrilevante se paragonato alla meraviglia dell’eterna ripetizione che ci offre la Natura: il mito novecentista, che doveva nutrire e celebrare gli uomini nuovi della Terza Epoca, finisce per additare loro un rifugio dalla Storia, in un mito forse non «nuovo», ma pacificatore e consolatorio.

35. Come osserva acutamente Baldacci nella sua Introduzione all’edizione di Opere scelte, il Bontempelli avanguardista è un «realista critico», il quale «anziché contestare le cose o i sistemi di cose, si limita a dichiarare la sua impossibilità a capirle». Quello novecentista è invece «un Bontempelli che capisce, che penetra nel cuore segreto del reale, che riconosce il mistero, e si convince che le cose che un tempo non capiva non erano, infine, degne di essere capite e che solo valido e stabile è quel riconoscimento» (Bontempelli 1978, p. XII).

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3. Pirandello e il mito come archetipo

L’eroe del romanzo è il romanzo stesso. Esso narra la propria storia; rivela non soltanto di essere nato dall’estenuazione del mito, ma di essersi ridotto a un inseguimento estenuante della struttura, al di qua di un divenire che esso spia dal punto più vicino possibile senza poter ritrovare, al di dentro o al di fuori, il segreto di un’antica freschezza, salvo forse in qualche recesso in cui la creazione mitica rimane ancora vigorosa ma, contrariamente al romanzo, a sua insaputa. C. Lévi-Strauss, Dal mito al romanzo (1968)

ccoci dunque all’ultimo dei tre sondaggi sulla elaborazione novecentesca del mito in Italia: dopo il futurismo marinettiano e il novecentismo bontempelliano, non può mancare l’analisi dei rapporti tra Pirandello e il mito. Quest’ultima analisi sarà forse, delle tre, quella più delicata e insidiosa: infatti la parabola più limpida è probabilmente quella di Bontempelli, che si svolge gradualmente e ordinatamente dalla constatazione dell’inammissibilità e quindi dal rifiuto della mitologia (dalla fine degli anni Dieci alla metà degli anni Venti), per poi approdare, sulla scia dell’adesione entusiastica ai caratteri di una presunta «nuova era», al tentativo di una nuova mitopoiesi, corredata di una sua poetica ben precisa (il novecentismo) e di una quasi altrettanto precisa ideologia (tendenzialmente fascista, seppur con alcune importanti distinzioni). L’inquadramento del mito futurista, si è visto, può contare su una trasparenza assai minore; e tuttavia le contraddizioni (congenite e strutturali) dell’operazione futurista sono tutto sommato altrettanto evidenti e, potremmo dire, limpide: infatti non è stato difficile distinguere la presenza e la fisionomia delle due fasi dell’elaborazione (rifiuto della mitologia e nuova mitopoiesi), pur nella loro coincidenza cronologica e nello slittamento dei materiali di riuso da un polo all’altro. Per Pirandello la situazione si presenta meno facilmente inquadrabile, per due ordini di ragioni. Innanzi tutto, pochissimi autori italiani (e certo nessuno nel Novecento) hanno incontrato una fortuna pari a quella pirandelliana: nel corso degli ultimi cinquant’anni gli interventi e i dibattiti hanno proliferato con una fecondità da un lato preziosa, ma per altri aspetti quasi controproducente – al punto che è diventato pressoché impossibile azzardare qualsiasi analisi dell’opera pirandelliana senza preliminarmente aver preso posizione all’interno di uno dei dibattiti in corso. Dibattiti che sono spesso pluridecennali, come quello, appunto, sui miti pirandellia-

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ni, che data almeno dal 1973, anno del convegno su I miti di Pirandello (Lauretta 1974). Il nodo principale della discordia tra i critici a proposito dei miti è poi quello stesso che divide da sempre la critica pirandelliana in due ampie schiere: quella di coloro che indicano una frattura tra un primo Pirandello «umorista» e un secondo Pirandello, che volta a volta può essere definito «pirandellista», «ottimista», «vate», «mitografo», «ultralirico» e così via 1, e il gruppo di critici che non condividono l’idea di una svolta pirandelliana, o vedono in essa un fatto del tutto secondario rispetto alla sostanza di un’evoluzione che sarebbe invece coerente e unitaria. Parlando di miti, dunque, a seconda della loro appartenenza a una delle due schiere i critici pirandelliani si possono grosso modo ripartire in due sottocategorie: chi riscontra la frattura tra il primo e il secondo Pirandello legge anche i miti come un’«involuzione» del pensiero e della drammaturgia pirandelliana; chi non condivide la teoria di questa frattura riscontra le tracce di un’aspirazione mitica che accompagnerebbe Pirandello nel corso di tutta la sua carriera, e della quale la trilogia mitica dell’ultima produzione sarebbe soltanto il frutto più maturo 2. È una sintesi, questa, generalissima e un po’ grossolana, ma non mi sarebbe possibile riprendere i termini di questo dibattito che, per la sua ampiezza e varietà di posizioni, trasformerebbe il mio discorso sul mito in una saggio di storia della critica pirandelliana. E dunque mi limiterò a precisare in via preliminare che condivido da un lato la posizione dei sostenitori della cosiddetta «frattura» (sebbene il termine sia decisamente inappropriato, poiché fa pensare a una sorta di conversione improvvisa, mentre ovviamente si è trattato di un cambiamento preparato e graduale); ma che, dall’altro lato, una tale frattura non presuppone secondo me un disinteresse di Pirandello nei confronti del mito durante la fase umorista. Tutt’altro: semplicemente questa frattura è riscontrabile a mio parere anche all’interno dei rapporti tra Pirandello e il mito, e anzi uno studio di questo tema nella produzione e nella poetica dello scrittore siciliano può essere utile a illustrare qualche aspetto e alcune modalità di esse. Il secondo motivo della maggiore complessità della situazione pirandelliana ha invece a che fare con le caratteristiche della poetica e della pratica artistica pirandelliana. Pirandello non è un autore da etichette e slogans; quando pure ne vengano ricavati dalla sua produzione, talvolta anche con il suo esplicito consenso, risultano sempre formule a posteriori e indubbiamente riduttive rispetto alla complessità delle opere di cui vorrebbero costituire la chiave: come nel caso della ingiusta-

1. La varietà di posizioni si riscontra anche nell’indicazione del punto esatto in cui questa frattura si collocherebbe: da Gigi Livio che la anticipa addirittura al 1921 dei Sei personaggi (Livio 1976), ai più che la situano al più convenzionale 1924 – l’anno in cui Pirandello prende la tessera del Partito fascista. In ogni caso tutti i sostenitori della teoria della svolta o frattura la situano prima del 1926, che è l’anno in cui Pirandello inizia a parlare dei «nuovi miti». 2. I rimandi bibliografici occuperebbero uno spazio sicuramente eccessivo; e, del resto, la discussione è ben nota a tutti gli specialisti di critica pirandelliana. Per l’interesse ‘archeologico’ ricorderò che in quel primo convegno sui miti pirandelliani la teoria dell’involuzione era decisamente sostenuta da Lucio Lugnani, e che essa può essere vista come una costante della critica pirandelliana ‘di sinistra’: una delle formulazioni recenti più convincenti mi sembra quella di Luperini 1992. La posizione contraria, che nel convegno del ’74 era sostenuta principalmente da Enzo Lauretta, ha nel corso degli anni raccolto importanti consensi e ispirato studi di indubbio interesse; una delle letture più interessanti e recenti, a questo proposito, è quella di A. MEDA, Il mito classico nell’opera di Luigi Pirandello (in Gibellini 1999, pp. 586-608).

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mente fortunata formula tilgheriana «Vita e Forma», che venne calata come una camicia di forza a imbrigliare e schematizzare brutalmente la ricchezza dell’umorismo pirandelliano, e che si rivelò poi tanto nociva quando Pirandello la assunse esplicitamente come principio compositivo dei suoi drammi nuovi (due pessimi prodotti di quella formula, come si sa, sono Diana e la Tuda e Quando si è Qualcuno). Venendo al rapporto con il mito, sarebbe altrettanto riduttivo e altrettanto arbitrariamente schematico voler sintetizzare le due fasi dell’atteggiamento di Pirandello nelle due formule marinettiane – «la mitologia e l’ideale mistico sono superati» e «gli uomini ridiventano mitici» – che ho utilizzato come chiave interpretativa del mitologismo futurista e di quello bontempelliano. Da un lato, infatti, esse non si adatterebbero precisamente all’atteggiamento pirandelliano nei confronti del mito: Pirandello non condivide la fede in una nuova età dell’oro, e i suoi «nuovi miti» hanno pertanto un valore assai diverso rispetto a quelli di Bontempelli e Marinetti. D’altra parte, come si è spesso detto, Pirandello dimostra una «coscienza della crisi» molto maggiore rispetto ai suoi contemporanei, coscienza che si riflette integralmente anche nella modalità di accostamento al mito: anziché sbarazzarsi sbrigativamente della vecchia mitologia, infatti, Pirandello analizza approfonditamente (e, si direbbe, dolorosamente) le ragioni della morte del mito nella modernità, valutandone con lucidità critica le numerose implicazioni. E il nodo fondamentale di questa riflessione va a mio parere individuato nel primo decennio del secolo, negli anni della ideazione del Fu Mattia Pascal e della composizione del saggio su L’umorismo. Prima di passare all’analisi del romanzo è necessario tuttavia almeno accennare a due opere giovanili di Pirandello esplicitamente mitologiche: ossia i due poemetti Laomache e Scamandro, entrambi pubblicati nel 1906 (ma almeno Scamandro dovrebbe risalire al 1898). Si tratta di due testi piuttosto convenzionali, cui giustamente non è mai stata dedicata molta attenzione: Laomache, soprattutto, si presenta come una sorta di travestimento mitico di un tema tipicamente pirandelliano, quello della donna orgogliosa e sprezzante del focolare domestico (in questo caso, banalmente, un’amazzone) che, una volta divenuta madre, si tramuta d’incanto anche in casta e tenera sposa. Quanto a Scamandro, appare più una composizione di genere, un dramma in versi con un intrigo a metà tra l’idillio e la commedia plautina: un ateniese innamorato si traveste dal dio fluviale Scamandro per sedurre la fanciulla troiana già promessa sposa d’un giovane del luogo, e che si è recata al fiume per un simbolico rito prematrimoniale; scontato il lieto fine, e il corredo di battute garbatamente salaci. Entrambi i testi (sebbene Laomache in misura minore) appaiono decisamente lontani dalla consueta ispirazione narrativa e teatrale pirandelliana, e rimandano all’uso convenzionale e puramente retorico del repertorio mitologico classico ampiamente riscontrabile nella produzione poetica del primo Pirandello. Il dato forse più notevole relativo ai due poemetti è la loro ripubblicazione nei tardi anni Venti (Laomache nel 1928 e Scamandro nel 1929): un atto che a mio parere va letto come ispirato dal desiderio del Pirandello «mitopoieta» (sono infatti gli anni in cui vengono pubblicati sia Lazzaro che La nuova colonia) di dimostrare la costanza e la lunga durata della sua passione mitica, della quale le opere recenti sarebbero i frutti più maturi 3.

3. Su queste due opere, vd. il già citato saggio di Anna Meda in Gibellini 1999, pp. 595-98.

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1. Il fu Mattia Pascal: l’eroe e l’eclisse del sacro nella modernità – Non mi par più tempo, questo, di scriver libri, neppure per ischerzo. In considerazione anche della letteratura, come per tutto il resto, io debbo ripetere il mio solito ritornello: Maledetto sia Copernico! – Oh oh oh, che c’entra Copernico! – esclama don Eligio, levandosi su la vita, col volto infocato sotto il capellaccio di paglia. – C’entra, don Eligio. Perché, quando la Terra non girava… – E dàlli! Ma se ha sempre girato! – Non è vero. L’uomo non lo sapeva, e dunque era come se non girasse. […] Io dico che quando la terra non girava, e l’uomo, vestito da greco o da romano, vi faceva così bella figura e così altamente sentiva di sé e tanto si compiaceva della propria dignità, credo bene che potesse riuscire accetta una narrazione minuta e piena d’oziosi particolari. (Pirandello 1904, pp. 8-9)

Con questa bizzarra formulazione di un pensiero dalla lunga e nobile tradizione (da Giordano Bruno a Pascal, e da Leopardi a Nietzsche), la Premessa seconda (filosofica) a mo’ di scusa si sbarazza sbrigativamente del romanzo tradizionale e introduce nel cuore della poetica e – se si può usare un termine così azzardato – della filosofia umoristica, che dà vita al paradossale romanzo di formazione del primo inetto eroe del Novecento, Il fu Mattia Pascal (1904). La rivoluzione copernicana assume qui, come di consueto, il valore di emblema della crisi di certezze che investe l’intellettuale al passaggio di secolo 4, il cui elenco è stato più volte minuziosamente compilato – evoluzionismo e conseguente vacillamento del modello antropocentrico, crollo dei valori morali e della fede religiosa, irrazionalismo ed emergere delle pulsioni a livello individuale e collettivo, alienazione e angoscia esistenziale… L’intellettuale primonovecentesco reagisce come può; Pirandello, perlomeno in questa fase della sua evoluzione, affronta la crisi come un doloroso e tuttavia ineluttabile dato di fatto, cercando una forma artistica che possa rispecchiarla in maniera non passivamente meccanica, bensì consapevole e critica. In questo senso l’umorismo, come arte della riflessione e della scomposizione delle unità illusorie (l’io, le convenzioni, le interpretazioni univoche), si offre come la poetica ideale per una riflessione che agisca al tempo stesso sul piano psicologico, sociale e gnoseologico: ed è proprio grazie all’ausilio della tecnica umoristica che Pirandello risolve la crisi del romanzo nella creazione di una nuova forma, quella del moderno romanzo della crisi. È stato giustamente detto che Il fu Mattia Pascal apre il Novecento romanzesco, e la critica ha lungamente discusso sull’importanza e il significato di quest’opera 5; senza voler entrare nel merito di questa discussione, vorrei tuttavia sottolineare alcuni aspetti del romanzo che possono aiutare a inquadrare la posizione del Pirandello 4. Sul valore emblematico della rivoluzione copernicana e sul nesso con la poetica umoristica, basterà citare un passo proprio dell’Umorismo (1908): «Uno dei più grandi umoristi, senza saperlo, fu Copernico, che smontò non propriamente la macchina dell’universo, ma l’orgogliosa immagine che ce n’eravamo fatta» (Pirandello 1970, p. 156). 5. Per un ottimo riepilogo di questa decennale discussione vd. il volume collettivo Lo strappo nel cielo di carta. Introduzione alla lettura del Fu Mattia Pascal (1988).

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umorista all’interno dell’elaborazione novecentesca del mito. A questo scopo, può essere utile partire proprio dall’invettiva contro Copernico, con la quale Pirandello sembra aderire al lamento leopardiano sui mali che derivano alla coscienza umana dal progresso della scienza e dall’evoluzione del pensiero filosofico. La pratica umoristica comporta tuttavia la scelta di una affermazione sfumata e ironicamente paradossale dei concetti, per cui potrebbe essere di qualche utilità rileggere un articolo del 1896, Rinunzia 6, nel quale Pirandello anticipava, in termini certo meno ‘brillanti’, ma forse più chiari, il senso dell’invettiva del bibliotecario Pascal: Così noi siamo rimasti nel mistero e senza Dio, voglio dir, senza guida. Abbiamo negato, distrutto; e quindi dichiarato la nostra impotenza d’affermare, rinunziando a quel problema che è in fondo della più alta importanza per noi. La filosofia moderna ha voluto quasi esprimer la terra dal vuoto che la circonda, popolato di deliziose fantasie e di paure, per considerarla come per se stessa esistente, piccola patria di piccoli enti i quali dovrebbero intendere a procacciarsi quaggiù la possibile felicità, poggiando non più in cielo, ma in terra i propri ideali, senz’altro dimandare. Ma è possibile che la domanda non sorga, se la terra rimane pur sempre circondata dal cielo? (Pirandello 1970, p. 1059)

La scherzosa invettiva contro il progresso scientifico, che nella Premessa seconda assolve piuttosto l’ufficio di una giustificazione di poetica, nel saggio del 1893 si precisa senz’altro come elegia sul cosmo perduto e sostituito da un inintellegibile caos: un caos in cui i «piccoli enti» abitanti di una «piccola patria» sono abbandonati a un pauroso «mistero» perché privati di Dio. Può essere interessante confrontare questo passo con un brano di Zur Genealogie der Moral (Genealogia della morale, 1887) di Nietzsche, in cui il filosofo prende a esempio proprio la rivoluzione copernicana per mostrare come la scienza non annulli la sete di trascendenza nell’uomo e dunque la forza dell’ideale ascetico: Meint man in der That, dass etwa die Niederlage der theologischen Astronomie eine Niederlage jenes Ideals bedeute?… Ist damit vielleicht der Mensch weniger bedürftig nach einer Jenseitigkeits-Lösung seines Räthsels von Dasein geworden, dass dieses Dasein sich seitdem noch beliebiger, eckensteherischer, entbehrlicher in der sichtbaren Ordnung der Dinge ausnimmt? Ist nicht gerade die Selbstverkleinerung des Menschen, sein Wille zur Selstverkleinerung seit Kopernikus in einem unaufhaltsamen Forthschritte? Ach, der Glaube an seine Würde, Einzigkeit, Unersetzlichkeit in der Rangabfolge der Wesen ist dahin, – er ist Thier geworden, Thier, ohne Gleichniss, Abzug und Vorbehalt, er, der in seinem früheren Glauben beinahe Gott («Kind Gottes», «Gottmensch») war... (Nietzsche 1967-77, Band 5, p. 404) [Si pensa davvero che, per esempio, la sconfitta dell’astronomia teologica significhi una sconfitta di quell’ideale?… Forse che l’uomo è divenuto meno bisognoso di una soluzione trascendente del suo enigma esistenziale, in virtù del fatto che da allora quest’esistenza appare ancor più gratuita, messa da parte, superflua nell’ordine visibile delle cose? Non è forse, da Copernico in poi, in un inarrestabile progresso 6. Pubblicato su «La Critica» dell’8 febbraio 1896: Pirandello coglie lo spunto per la polemica contro i danni del progresso scientifico dalla recente scoperta dei raggi X.

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l’autodiminuirsi dell’uomo, la sua volontà di farsi piccolo? La fede, ahimè, nella sua dignità, unicità, insostituibilità nella scala gerarchica degli esseri è scomparsa – è divenuto animale, animale, senza metafora, detrazione o riserva, lui che nella sua fede una volta era quasi Dio («Figlio d’Iddio», «Uomo-Dio»)… (trad. 1965-72, vol. VI, tomo 2, pp. 359-60)]

Come ho già detto, l’uso emblematico della rivoluzione copernicana è un topos della riflessione filosofico-morale. Una coincidenza interessante mi sembra tuttavia l’accento, posto sia da Nietzsche che da Pirandello, sul bisogno dell’uomo di una fede trascendentale, una giustificazione di ordine superiore alla propria esistenza, che la scienza rende più difficile da trovare ma non per questo meno necessaria. La perdita delle certezze religiose, com’è naturale, non agisce soltanto su un piano filosofico e gnoseologico, ma ha gravissime conseguenze anche su quello etico – come Pirandello precisa in un saggio di due anni dopo, Arte e coscienza d’oggi 7: «Soffrire? Ma soffrir sulla terra era men che niente! Si chiedeva anzi di soffrire a pro dell’altra vita. Anzi la vita vera era il morire» (Pirandello 1970, p. 895). E ancora sembra di avvertire un’eco precisa della Genealogie der Moral, nella descrizione dell’insana dottrina del «prete asceta»: schon klagte man nicht mehr gegen der Schmerz, man lechzte nach dem Schmerz; ‘mehr Schmerz! mehr Schmerz!’ so schrie das Verlangen seiner Jünger und Eingeweihten Jahrhunderte lang. (p. 390) [ormai non ci si lamentava più contro il dolore, si era sitibondi di dolore; «più dolore! più dolore!» andava gridando per secoli il desiderio dei suoi discepoli e iniziati. (p. 347)]

Se la ricompensa non è più assicurata, proclamano tanto Pirandello quanto Nietzsche, come giustificare e tollerare la sofferenza della vita? Nello stesso saggio, inoltre, Pirandello critica il velleitarismo delle recenti dottrine morali (l’etica intuizionista, idealista, l’utilitarismo empirico e l’etica di Spencer) che cercano di mettere riparo al crollo della concezione religiosa: venuta meno la certezza nelle «grandi verità», è naturale che l’individuo ne derivi il senso di un integrale relativismo: Crollate le vecchie norme, non ancor sorte o bene stabilite le nuove; è naturale che il concetto della relatività d’ogni cosa si sia talmente allargato in noi, da farci quasi del tutto perdere l’estimativa. (p. 900)

Il Pirandello di fine secolo sembra dunque accordarsi con le voci che profetizzano un’imminente fine di un’epoca e della sua cultura; e, non a caso citando Nordau, parla chiaramente di «fin de race». Non sorprenderà dunque incontrare, a conclusione del saggio, un passo in cui si profila addirittura una sorta di aspettativa palingenetica:

7. Pubblicato su «La critica», 15 settembre 1895.

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Che avverrà domani? Siamo certamente alla vigilia d’un enorme avvenimento. E sorgerà forse anche adesso il genio che stendendo l’anima alla tempesta che s’appressa, al mare che dilagherà rompendo ogni argine e ingojando le rovine, creerà il libro unico, secolare, come in altri tempi è avvenuto. (p. 906)

Nei primi anni del secolo, invece, questa aspettativa sembrerà spegnersi; e anzi nel Fu Mattia Pascal Pirandello opera una sorta di ontologizzazione del relativismo: qualsiasi certezza e qualsiasi valore sono illusori, lumi collettivi che si limitano a colorare la tenebra dell’impenetrabile mistero, alimentati dalla fede collettiva; salvo spegnersi quando il carburante inizia a scarseggiare e gettare tutti nel più angoscioso sbandamento, fino all’avvento di un nuovo lume e di una nuova mistificazione. Ma Pirandello non si limita a enunciare questo relativismo radicale, poiché vi aggiunge la consolatoria ipotesi che quel mistero non sia un buio vuoto, e che anzi a farcelo credere tale è l’ingannevole lume della coscienza individuale, spenta la quale l’uomo può finalmente abbandonarsi a una sorta di mistica comunione con un non meglio specificato «Essere», spirito eterno e immanente all’universo. Si tratta naturalmente della ben nota teoria di Anselmo Paleari, nonché dello stesso Pirandello (lo scrittore la riprenderà quasi negli stessi termini nell’Umorismo), che Adriano Meis definisce un po’ ironicamente «lanterninosofia»; una teoria alla quale il protagonista evita – come sempre, del resto – di aderire apertamente, limitandosi a riferirne il contenuto. Va da sé, comunque, che fintanto che il «lume individuale» non si è spento, e se non si può ricorrere all’illusorio ausilio di uno di quei «lumi collettivi», l’esistenza non può che apparire come caos, ingiustificabile e incomprensibile. Il personaggio romanzesco stesso dunque, specchio e prodotto di quel caos, non può che risultare composito, non determinabile univocamente né descrivibile, e la narrazione della sua vicenda deve dar ragione, anche formalmente, di questa sua nuova e non più ignorabile complessità. A rivelarsi impraticabile è dunque il modello dell’homo fictus in versione ottocentesca: coerente, compatto, declinato a 360 gradi; mentre Mattia – s’intenda, il Mattia narratore, il «fu» Mattia – già alle prime frasi della sua autobiografia si dichiara come colui che non è più capace di definirsi e di imporre al mondo un suo io certo e indubitabile, corredato di altrettanto certe e indubitabili opinioni (egli ha infatti perso perfino la certezza del nome, la sola che avesse mai posseduto). Privo di un ordine conoscitivo e di una gerarchia nell’esperienza, il nuovo personaggio pirandelliano si ritrova schiavo della casualità e investito da un’infinità di dettagli inessenziali, fra i quali tenta di selezionare quelli di cui comporre una sua trama, necessariamente concatenata e solidamente provvista di senso, per arrendersi e dichiarare alla fine che una trama e un senso non sono rintracciabili. La raffigurazione più celebre della sua condizione è nella parabola di Oreste nel teatrino delle marionette, ideata sempre dall’estroso Paleari nel XII capitolo: Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? […] Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. (pp. 164-65)

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L’inconscio, il caos, l’assenza di Dio, il crollo della fiducia nella Legge, sociale, morale o scientifica che sia, l’insensatezza della Storia: qualunque tentativo di meglio specificare quei mali influssi risulta necessariamente forzato o riduttivo. Lo strappo rivela la natura precaria e illusoria delle certezze sulle quali gli uomini si sono costruiti la vita; al di là delle quali c’è appunto il «mistero» – o, come Pirandello si esprimerà cinque anni più tardi nell’Umorismo, l’abisso: Lucidissimamente allora la compagine dell’esistenza quotidiana, quasi sospesa nel vuoto di quel nostro silenzio interiore, ci appare priva di senso, priva di scopo; e quella realtà diversa ci appare orrida nella sua crudezza impassibile e misteriosa, poiché tutte le nostre fittizie relazioni consuete di sentimenti e d’immagini si sono scisse e disgregate in essa. Il vuoto interiore si allarga, varca i limiti del nostro corpo, diventa vuoto intorno a noi, un vuoto strano, come un arresto del tempo e della vita, come se il nostro silenzio interiore si sprofondasse negli abissi del mistero. (Pirandello 1970, pp. 152-53)

Non essendo costituzionalmente in grado di vedere e decifrare quel mistero, il personaggio è condannato a vivere in una realtà sprovvista di significati, o meglio a barcamenarsi tra sistemazioni provvisorie e sempre ridiscutibili: l’uomo dunque può riprendere la propria vita, le proprie abitudini – le quali però non potranno che apparirgli vuote finzioni prive di senso, ora che ha gettato una fugace occhiata a ciò che c’è «sotto», a quel «qualcos’altro, a cui l’uomo non può affacciarsi, se non a costo di morire o d’impazzire» (ibidem). Oreste si trasforma così in Amleto, l’individuo che – secondo l’interpretazione romantica – è incapace di agire perché la sua azione gli appare priva di senso. Ma una tale trasformazione, ormai è chiaro, non significa tanto una mutazione all’interno del paradigma dell’eroe: se il caos fosse ordinabile e disciplinabile, infatti, resterebbe pur sempre la possibilità dell’eroe civilizzatore (Eracle che uccide i mostri) capace con la sua azione di trasformare il disordine in cosmo; mentre il caos pirandelliano non è ciò che viene prima della civilizzazione, bensì ciò che segue il dissolvimento dell’illusione della civiltà, ciò che preme al di sopra o al di sotto della fragile superficie di quella illusione (del «cielo di carta», appunto). Per l’individuo che ha visto quel mistero, che conosce l’abisso, viene meno la possibilità stessa dell’azione – è insomma il paradigma eroico nella sua integrità a essere definitivamente precluso. Non a caso, ancora nel saggio del 1908, Pirandello afferma recisamente come l’umorismo non conosca eroi: Sì, un poeta epico o drammatico può rappresentare un suo eroe, in cui si mostrino in lotta elementi opposti e repugnanti; ma egli di questi elementi comporrà un carattere, e vorrà coglierlo coerente in ogni suo atto. Ebbene, l’umorista fa proprio l’inverso: egli scompone il carattere nei suoi elementi; e mentre quegli cura di coglierlo coerente in ogni atto, questi si diverte a rappresentarlo nelle sue incongruenze. L’umorista non riconosce eroi; o meglio, lascia che li rappresentino gli altri, gli eroi. (Pirandello 1970, p. 158)

Dunque il paradigma eroico risulta inattingibile da un lato sul piano gnoseologico (manca l’ordine necessario a conferire un senso all’azione eroica), dall’altro

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sul piano psicologico (l’individuo è composito e scisso). Rimane il piano etico: ma in base a quale Legge l’eroe potrebbe agire, se sono spenti i lanternoni dei grandi valori e degli ideali collettivi? Con la decadenza del Sacro nella modernità, alla Legge è infatti subentrato come surrogato l’ordinamento della società civile, in base al quale l’Uomo è mutato in buon cittadino, con diritti e doveri non più sacri e assoluti, bensì burocraticamente sanciti per esplicita convenzione da quella pseudodivinità che è il parlamento democraticamente eletto. Per l’individuo che agisce all’interno di un tale ordinamento, l’eroe non può essere considerato tale se il suo atto non sia prima ufficialmente registrato negli archivi e non gli sia stata tributata l’immancabile apoteosi giornalistica – giacché, se la società civile ha preso il posto degli dèi, e il codice civile ha sostituito la Legge, la funzione del coro tragico non può essere stata assunta che dai quotidiani. È questo il senso dell’avventura occorsa a Adriano Meis e raccontata nel capitolo XI, quando, dopo aver coraggiosamente salvato una prostituta dall’aggressione di quattro mascalzoni, è costretto a fuggire precipitosamente dinanzi alla prospettiva dell’ufficialità e della gloria: Ci volle del bello e del buono per liberarmi di quei due zelanti questurini, che volevano assolutamente condurmi con loro, perché denunziassi il fatto. Bravo! Non ci sarebbe mancato altro! Aver da fare con la questura, adesso! Comparire il giorno dopo nella cronaca dei giornali come un quasi eroe, io che me ne dovevo star zitto, in ombra, ignorato da tutti… Eroe, ecco, eroe non potevo più essere davvero. Se non a patto di morirci… Ma se ero già morto! (pp. 147-48)

Come la virtù non può dunque essere tale se non sia ufficialmente sancita, allo stesso modo la hybris si riduce anch’essa a trasgressione burocratica, come per esempio quella di cambiare nome, o di privare una legittima consorte del sostentamento materiale dovuto; quanto alla nemesi, com’è ovvio, essa sarà la privazione di quei diritti civili – la protezione della polizia, la possibilità di contrarre matrimonio con la persona amata o di vendicare legalmente l’onore offeso. Proprietà privata, matrimonio, onore: sono infatti questi i tre valori cardinali del sistema etico borghese, sanciti naturalmente dal codice civile – valori che Mattia Pascal, pur interiormente ed esteriormente rinnovato in Adriano Meis e pur iniziato alla filosofia del lanternino e del relativismo assoluto, non si sognerebbe mai di mettere in dubbio 8. Colpito duramente in ciascuno di essi (a causa del furto subìto, dell’impossibilità di sposare Adriana e di vendicare l’onore offeso da Bernaldez), a Adriano Meis, proprio come ad Ajace e Antigone, non resta che la via del suicidio –

8. La critica pirandelliana (da Giacomo Debenedetti in poi) ha più volte ribadito come Pirandello si dimostri vittima dello stesso meccanismo di cui lamenta le conseguenze, cioè la minimizzazione dei Valori nei valori borghesi e della Legge nel codice civile: infatti Mattia non fa tesoro dell’esperienza accumulata nella prima parte della sua vita, prendendo le distanze e criticando i princìpi su cui essa era basata; semplicemente è in cerca di un’altra possibilità per realizzarsi, ma sempre all’interno dello stesso sistema e mantenendone invariate le condizioni. Dunque Pirandello non sta mostrando criticamente un protagonista vittima dei pregiudizi del suo ceto e dell’educazione ricevuta, ma condivide egli stesso, nonostante la lucidità rara nell’indicare i mali della vita associata, la mistificazione borghese che quel sistema di vita associata sia l’unico possibile e naturale.

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come abbiamo appena letto, Adriano può attingere all’eroismo solo attraverso la morte. Tuttavia, se il sistema borghese ha sostituito all’eroe classico il cittadino, entità puramente sociale e burocratica, non ci sarà alcun bisogno che muoia la persona: sarà sufficiente che muoia quella sociale e burocratica finzione, che appunto aveva subìto l’onta tremenda: a venir gettata nel fiume sarà dunque quella identità convenzionale e fittizia, e l’individuo sarà libero di tornarsene («come nuovo», scrive Pirandello, cioè senza avvertire più alcuna traccia di quella triplice onta) alla sua vecchia identità. Alla Legge, si è detto, è stato sostituito un codice civile basato sui tre princìpicardine di proprietà privata, matrimonio e onore: perciò il posto della tragedia, il luogo dove si discuteva del rapporto tra eroe e Legge, è ora legittimamente occupato dal dramma borghese, specchio appunto del rapporto tra il buon cittadino e quei valori 9. E dunque il redivivo Mattia, non appena viene a sapere che il suo antico rivale gli ha portato via la moglie, vuol tentare la strada dell’eroe tragico tradotto in versione borghese, ossia indossare i panni del terribile vendicatore in un dramma della gelosia. La narrazione assume toni iperbolici nel descrivere il protagonista che si appresta a «piombar come un nibbio là sul nido di Pomino» (p. 261); e ancora, quando lo scontro è ormai imminente: Non saprei ridire in che animo fossi: ho soltanto l’impressione come d’una enorme, omerica risata che, nell’orgasmo violento, mi sconvolgeva tutte le viscere, senza poter scoppiare: se fosse scoppiata, avrebbe fatto balzar fuori, come denti, i selci della via, e vacillar le case. (p. 264)

Ma l’umorismo finisce per avere la meglio anche sul tragico, e il tono iperbolico della scena madre trapassa immancabilmente in farsa: Appena Pomino, spalancata di furia la porta, mi vide – erto – col petto in fuori – innanzi a sé – retrocesse esterrefatto. M’avanzai, gridando: – Mattia Pascal! Dall’altro mondo. Pomino cadde a sedere per terra, con gran tonfo, sulle natiche, le braccia puntate indietro, gli occhi sbarrati: – Mattia! Tu?! La vedova Pescatore, accorsa col lume in mano, cacciò uno strillo acutissimo, da partoriente. (pp. 265-66)

La terribile serietà necessaria al vendicatore è irrimediabilmente incrinata, e il protagonista, proprio come il burattino di Oreste, di fronte allo sconvolgimento che il suo ritorno ha prodotto, ma soprattutto all’innocenza della ‘figlia della colpa’, si sente immancabilmente cader le braccia. Alla vista di questo inatteso idillio infatti Mattia si commuove, e per preservarne l’integrità accetta di farsi da parte e rinunciare ai propri diritti (quegli stessi per i quali Adriano Meis era stato

9. Sui profondi legami simbolici che intercorrono tra proprietà privata e matrimonio (per i quali l’adulterio andrebbe interpretato come figura dell’alienazione della proprietà) e sulla funzione di rispecchiamento del dramma borghese nei confronti della società borghese vd. Livio 1976.

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spinto sino alla soluzione estrema del suicidio): neppure lo pseudotragico del dramma borghese riesce dunque a reggere la prova dell’umorismo, e lo pseudoeroe, cioè il marito disonorato, si ritrova nuovamento condannato all’inattività di «chi troppo sa». Nel finale lo ritroviamo infatti definitivamente relegato «fuori della vita», in una sorta di limbo tra gli spazi ugualmente funebri del cimitero e della biblioteca, rinunciatario nei confronti di qualsiasi azione e di tutte le proprie facoltà – tranne, appunto, quella dell’affabulazione, grazie alla quale può raccontare la propria storia. Una storia che è possibile leggere anche come la parabola della morte dell’eroe in séguito all’eclisse del Sacro, e dell’inattingibilità del tragico nella società moderna.

2. Portare a termine il mito Soffermiamoci ancora nei dintorni del Fu Mattia Pascal, per ricordare come non poche delle teorie e dei princìpi esposti nel romanzo verranno ripresi nel saggio L’umorismo di quattro anni dopo, che per tanti aspetti assolve alla funzione di giustificazione a posteriori nei confronti del romanzo, illustrando la poetica e la «filosofia» (intesa in senso lato) dalla quale nasce un monstrum come appunto apparve ai contemporanei la narrazione anticlassica e irriverente del bibliotecario Pascal 10. Il principio vale anche per la cosiddetta «lanterninosofia» – teoria certo più poetica che filosofica, come dimostra la modalità integralmente metaforica della sua esposizione – che ritroviamo naturalmente nell’Umorismo, e precisamente nella sua ultima e più ‘lirica’ parte, dove tuttavia la metafora dei lanternini subisce un’importante integrazione che la introduce all’interno di un orizzonte mitico: il lanternino, il lume che proietta la debole luce della coscienza umana, si precisa infatti mitologicamente come il fuoco che Prometeo ha donato agli uomini: Gli antichi favoleggiarono che Prometeo rapì una favilla al sole per farne dono agli uomini. Orbene, il sentimento che noi abbiamo della vita è appunto questa favilla prometèa favoleggiata. Essa ci fa vedere sperduti su la terra; essa projetta tutt’intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l’ombra nera, l’ombra paurosa che non esisterebbe, se la favilla non fosse accesa in noi; ombra che noi dobbiamo purtroppo creder vera, fintanto che quella ci si mantiene viva in petto. […] Se tutto questo mistero, in somma, non esistesse fuori di noi, ma soltanto in noi, e necessariamente, per il famoso privilegio del sentimento che noi abbiamo della vita? […] Forse abbiamo sempre vissuto, sempre vivremo con l’universo; anche ora, in questa forma nostra, partecipiamo a tutte le manifestazioni dell’universo; non lo sappiamo, non lo vediamo, perché purtroppo quella favilla che Prometeo ci volle donare ci fa vedere soltanto quel poco a cui essa arriva.

10. Non ci sarebbe bisogno di ricordare che l’edizione del 1908 del saggio recava l’epigrafe «Alla buon’anima di Mattia Pascal bibliotecario» – epigrafe poi eliminata nell’edizione del 1920, quando Pirandello aveva già raggiunto una più vasta notorietà attraverso il teatro, e desiderava quindi presentare il saggio come presupposto della sua produzione complessiva, narrativa e teatrale.

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E domani un umorista potrebbe raffigurar Prometeo sul Caucaso in atto di considerare malinconicamente la sua fiaccola accesa e di scorgere in essa alla fine la causa fatale del suo supplizio infinito. Egli s’è finalmente accorto che Giove non è altro che un suo vano fantasma, un miserevole inganno, l’ombra del suo stesso corpo che si projetta gigantesca nel cielo, a causa appunto della fiaccola ch’egli tiene accesa in mano. A un solo patto Giove potrebbe sparire, a patto che Prometeo spegnesse la candela, cioè la sua fiaccola. Ma egli non sa, non vuole, non può; e quell’ombra rimane, paurosa e tiranna, per tutti gli uomini che non riescono a rendersi conto del fatale inganno. (Pirandello 1970, pp. 155-56)

La presenza del mito di Prometeo – caro ai romantici 11, a d’Annunzio e presto anche ai futuristi – è già un elemento di per sé significativo, su cui pure la critica pirandelliana non sembra aver appuntato la propria attenzione in maniera particolare. E tuttavia il punto importante non è tanto quale mito Pirandello rielabori, bensì la modalità di quella rielaborazione. Nella sua versione del mito, infatti, Pirandello opera un primo fondamentale rovesciamento: il fuoco donato da Prometeo (tradizionale simbolo della ragione umana da un lato, del sentimento dall’altro) non è più un dono di inestimabile valore bensì un grave danno per l’Umanità, poiché è la fonte di una visione illusoria e deformata del reale – la comunione dell’Essere universale – e quindi, in accordo con la filosofia di Schopenhauer 12, l’origine del principio di individuazione in cui risiedono tutti i mali spirituali e intellettuali dell’uomo.Viene così abolita la lunga tradizione di glorificazione del gesto prometeico, cioè del gesto eroico per eccellenza: quello di colui che osa sfidare i limiti imposti dagli dèi per acquistare un bene di suprema importanza individuale (la conoscenza, faustianamente intesa) o collettiva. In una ipotetica evoluzione coerente e consequenziale della elaborazione del mito, dunque, la posteriore riassunzione della simbologia prometeica da parte del futurismo (di cui abbiamo analizzato alcuni esempi nel primo capitolo) dovrebbe venire considerata un irragionevole ritorno indietro. Ma Pirandello non si arresta qui. Il suo Prometeo, infatti, non solo ha causato la rovina dell’Umanità con il suo dono, ma ha anzi prima di tutti ingannato se stesso: poiché il dio al quale crede di aver recato il supremo oltraggio, e che gli impone il suo eterno castigo, è in realtà egli stesso il frutto dell’illusione che il suo dono ha causato. Un’illusione che per giunta comincia a vacillare, se il titano ha compreso che l’immagine che egli crede essere Giove non è altro che «l’ombra del suo stesso corpo che si projetta gigantesca nel cielo». Ma se Giove non esiste, se la Legge non esiste, l’oltraggio e la tremenda nemesi sono essi pure, necessariamente, illusori: il fato di Prometeo, non più eroe perché privato del conflitto tragico, è rovesciato in una sorta di farsa metafisica. Se posso usare un’immagine un po’ azzardata, è come se Pirandello si fosse arrampicato sul ramo più alto della elaborazione millenaria del mito prometeico e, da lassù, avesse cercato di tagliare il tronco della pianta alla sua base, impedendo qualsiasi possibilità di ricrescita su quella vecchia base. 11. Sul mito prometeico e sui significati via via a esso attribuiti nella storia del pensiero occidentale, rinnovo il rimando a Trousson 1964 e soprattutto a Blumenberg 1979 (dal quale traggo importanti spunti per l’analisi che segue). 12. Ricordo che Pirandello possedeva una copia ampiamente annotata del Mondo come volontà e rappresentazione (vd. Barbina 1980), e che il filosofo tedesco è a più riprese citato nelle Novelle.Vd. Polacco 1999.

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Una simile operazione rientra in quel particolare tipo di rielaborazione del mito che Hans Blumenberg ha chiamato «portare a termine», nel senso di produrre una versione del mito che appaia definitiva, l’ultima formulazione possibile di quella particolare storia. L’«esibizione dell’ultima possibilità di accostarsi al mito» è secondo Blumenberg l’esito finale cui di per sé tende inesorabilmente il lavoro sul mito: l’artista che sente di essere al tramonto di un’era culturale avverte l’urgenza di offrire l’ultima versione dei miti in cui essa si è espressa e riconosciuta, una versione tale da non ammettere alcuna rielaborazione ulteriore, così che il lettore non possa fare a meno di chiedersi: «cos’è ancora possibile dopo questo?» (Blumenberg 1979, p. 757). È ciò che fa Pirandello quando opera sulla vicenda di Prometeo una sorta di svuotamento: Pirandello sottrae dalla trama mitica elementi e personaggi fondamentali, rendendoli una proiezione illusoria o addirittura schizofrenica della psiche del protagonista, azzerando così al tempo stesso qualsiasi giustificazione e qualsiasi significato del mito. Naturalmente, spiega Blumenberg, la versione finale del mito prodotta è tale solo nell’intenzione dell’artista, che verrà contraddetto dal suo contemporaneo o successore che si proverà a offrire un’ulteriore «ultima versione». Ciò che mi preme sottolineare non è tuttavia l’efficacia o la ‘longevità’ del mito finale pirandelliano, bensì il fatto stesso che Pirandello, consapevolmente o meno, porti a termine un mito, e precisamente il mito di Prometeo. Infatti Pirandello non è l’unico autore che nei dintorni del passaggio di secolo offre una ultima versione della prometheia; anzi, a un sondaggio sia pure rapido e superficiale, scopriamo che Pirandello si trova su questa via in ottima compagnia. André Gide ha scritto nel 1899 un Prométhée mal enchaîné (Prometeo male incatenato), in cui il titano si libera dal suo supplizio con un banale atto di volontà, e in cui Zeus, il fato, la hybris e la nemesi si rincontrano nella Parigi fin de siècle per intrecciare un assurdo carosello il cui senso ultimo non può che essere la totale gratuità degli atti umani e l’ingiustificabilità del mondo; si tratta di una versione che – sempre secondo Blumenberg – porta a termine il mito prometeico attraverso la sua minimizzazione: «Il mito non può più avere luogo perché accade ‘troppo poco’» (p. 754). Del 1918 è invece il Prometheus di Franz Kafka (dunque la ‘durata’ della versione pirandelliana dovrebbe teoricamente venir fissata a dieci anni): nel brevissimo racconto il mito è radicalmente relativizzato e quindi sostanzialmente annullato nella somma delle sue diverse versioni, così come ce le ha tramandate la ricezione millenaria – quale fosse stata la verità originaria, chi fossero gli attori della vicenda, quali gli esatti nessi di causa effetto non è dato sapere, dal momento che «Die Sage versucht das Unerklärliche zu erklären; da sie aus einem Wahrheitsgrund kommt, muss sie wieder im Unerklärlichen enden» (Kafka 1994, p. 136) [«La leggenda tenta di spiegare l’inspiegabile. Siccome proviene da un fondo di verità, deve terminare di nuovo nell’inspiegabile» (trad. 1993, p. 430)] 13. Abbiamo dunque un dato già interessante: nel portare a termine il mito, e in particolare il mito di Prometeo, Pirandello dimostra un sorprendente allineamento

13. La relativizzazione e quindi il dissolvimento del mito nella somma delle sue versioni è un procedimento tipico di Kafka: per quanto riguarda il mito classico, esso era stato applicato già l’anno precedente al mito di Ulisse e le Sirene: vd. Das Schweigen der Sirenen (1917) in Kafka 1994, pp. 137-39 (trad.: Il silenzio delle Sirene, pp. 428-29).

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con le posizioni di due importanti autori modernisti. Ma la versione di Gide non è il primo tentativo di portare a termine il mito di Prometeo: prima di lui va infatti annoverata la versione del mito offerta da Nietzsche in Die fröhliche Wissenshaft (La gaia scienza, 1882) 14. L’aforisma 300 (nel IV libro), intitolato Preludi della scienza, presenta un parallelo tra la funzione propedeutica allo sviluppo del pensiero scientifico svolta dalla magia primitiva (in accordo con le teorie evoluzionistiche) e l’ipotesi di una futura evoluzione della religione trascendentale in autodivinazione immanentistica dell’uomo; un processo che viene illustrato con una versione allegorica del mito prometeico: Musste Prometheus erst wähnen, das Licht gestohlen zu haben und dafür büssen, – um endlich zu entdecken, das er das Licht geschaffen habe, indem er nach dem Lichte begehrte, und dass nicht nur der Mensch, sondern auch der Gott das Werk seiner Hände und Thon in seinem Händen gewesen sei? Alles nur Bilder des Bildners? – ebenso wir der Wahn, dei Diebstahl, der Kaukasus, der Geier und die ganze tragische Prometheia aller Erkennenden? (Nietzsche 1967-77, Band 3, p. 539) [Non dovette Prometeo in un primo momento supporre erroneamente d’aver rubato la luce e pagarne il fio, per giungere infine a scoprire che era stato lui nella sua brama di luce a creare la luce, e che non soltanto l’uomo, ma anche il dio era stato opera delle sue mani e argilla nelle sue mani? Che ogni altra cosa era soltanto l’immagine del plasmatore d’immagini? Così come l’illusione, il furto, il Caucaso, l’avvoltoio e l’intera tragica Prometheia di ogni uomo della conoscenza? (trad. 1965-72, vol.V, tomo 2, p. 175)]

Le analogie con la versione pirandelliana sono sorprendenti: anche per Nietzsche, come più tardi per Pirandello, la trama mitologica è puramente illusoria; non esiste alcuno Zeus, né Caucaso, né avvoltoio, e non si sono verificate né la hybris del furto, né la nemesi dell’eterno supplizio: in definitiva, in entrambi i casi il mito è portato a termine tramite quel procedimento che ho definito svuotamento. Laddove però in Pirandello l’illusione si configurava come maleficio, legando il titano alla rupe in un inutile tormento, nella versione nietzscheana essa è piuttosto una fase necessaria nel processo di autocoscienza dell’uomo e di presa di dominio sull’universo 15, e tuttavia è evidente che si tratti di due versioni opposte, l’una euforica e l’altra disforica, dello stesso tema. Dunque Pirandello aveva letto Die fröhliche Wissenshaft? È possibile, anche se la concordanza non è a mio parere sufficiente ad accertarlo 16. Più in generale, indipendentemente dalle differenze o analogie nel trattamento del tema, a mio parere non è necessario ricorrere a ipotesi di tipo filogenetico per spiegare le analogie tra le quattro versioni di cui ho parlato:

14. Già nella Geburt der Tragödie (Nascita della tragedia, 1872) Nietzsche considera la prometheia (insieme alla vicenda di Edipo) come il perfetto esemplare del mito tragico dionisiaco: vd. Nietzsche 1967-77, 1, p. 40 (trad. 1965-72, III, 1, p. 37). 15. All’altezza della Fröhliche Wissenshaft Nietzsche ha infatti in gran parte superato la fase del suo pensiero più nichilista e più influenzata da Schopenhauer, secondo la quale il principio di individuazione (ciò che Pirandello chiama «sentimento della vita») è il male ontologico, ed è in atto l’elaborazione del concetto di volontà di potenza, che di quel superamento è un nodo fondamentale. 16. Per tutta questa questione si veda l’ultima parte di questo capitolo.

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dal momento che quello prometeico è probabilmente il mito dominante nell’immaginario sette-ottocentesco, illuminista prima e romantico e postromantico poi (fino, come si è visto, a quell’estrema propaggine degenerata del romanticismo che è il futurismo). Si può tranquillamente affermare che la prometheia sia il mito-simbolo di un secolo, l’immagine più forte e emblematica della sua illimitata fiducia nelle potenzialità dell’uomo, della scienza, della volontà nel superare tutti i limiti posti dalla natura, da Dio e dalla società: e dunque è il mito deputato a far da bersaglio alla critica novecentesca, a tutti gli artisti che si sentono orfani della sacralità e della trasparenza di un cosmo ridiventato caos, e per i quali una tale fiducia è ormai definitivamente inattingibile. Dunque, nel 1908, Pirandello porta a termine un mito; e lo fa in un luogo tutt’altro che secondario, ossia a conclusione di quella sorta di «manifesto dell’arte di crisi» che è (o potrebbe essere per tanti aspetti considerato) L’umorismo. Abbiamo visto come, quattro anni prima, nel Fu Mattia Pascal, Pirandello abbia offerto una parabola sull’impossibilità dell’eroe e l’impraticabilità del paradigma tragico nella società moderna; ora la poetica umoristica, poetica fondata sulla scomposizione di caratteri e situazioni e sul rovesciamento del sublime, si spinge sino a decretare (consapevolmente o meno) la fine del mito. Ma al tempo stesso la fine dei miti assume il valore di segnale della fine di un’epoca (si ricordino le esplicite dichiarazioni di Arte e coscienza d’oggi), l’epoca che in quei miti aveva riposto e custodito gelosamente i propri valori e i propri significati più profondi.

3. Il Pirandello «Vate» degli anni Venti Voi dite: ma perché almeno non si macellavano lontano dalla folla tutti quei porci? E io vi rispondo: ma perché la festa allora avrebbe perduto uno dei suoi caratteri tradizionali, forse il suo primitivo carattere sacro, d’immolazione. Voi non pensate al sentimento religioso, signori. Ho visto tanti impallidire, turarsi con le mani gli orecchi […]; e per la verità ho torto il viso anch’io; ma lamentando dentro di me amaramente che l’uomo a mano a mano, col progredire della civiltà, si fa sempre più debole, perde sempre più, pur cercando d’acquistarlo meglio, il sentimento religioso. Seguita, sì, a mangiarsi il porco […]; ma torce poi il viso all’atto dell’immolazione. E certo è ormai cancellato il ricordo dell’antica Maja, madre del dio Mercurio, da cui il porco riprende il suo secondo nome. (Pirandello 1990, vol. III, pp. 425-26)

Così rifletteva il «pedagogo» narratore della novella Il Signore della Nave nel 1916 17, e le sue riflessioni sarebbero state raccolte pressoché negli stessi termini nell’adattamento scenico, La sagra del Signore della Nave, con cui nel ’25 iniziò la sua attività il «Teatro d’Arte» diretto da Pirandello – con l’unica differenza che nella versione teatrale le considerazioni sul primigenio carattere sacro della ceri-

17. La novella Il Signore della Nave uscì nel gennaio 1916 sulla rivista «Noi e il mondo»; l’anno successivo venne raccolta nel volume E domani, lunedì (edito da Treves); dal 1928 (edizione Bemporad-Mondadori), sarebbe rientrata definitivamente nel XIII volume delle Novelle per un anno, intitolato La Candelora.

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monia sono affidate al «mastro-medico», mentre il «giovane pedagogo» ribatte con l’osservazione sulla perdita dell’antico sentimento religioso. La riflessione sulla scomparsa del sacro causata dal progresso della civiltà da un lato conferma la lettura che abbiamo dato del Fu Mattia Pascal, dall’altro ne sviluppa un aspetto ulteriore, vale a dire l’intima connessione tra sacralità e ritualismo: se i due aspetti erano in origine intimamente connessi, il progresso della civiltà li ha irrimediabilmente dissociati, facendo sì che solo il rito sopravviva, ma ormai svuotato della sua originaria sacralità. L’attenuazione del senso del sacro comporta dunque che l’uomo si ritrovi incapace di sopportare la violenza espressa dal rito, che non può che risultargli ingiustificata e inspiegabile. Soprattutto, va sottolineato come una tale evoluzione venga da Pirandello (per bocca, appunto, del suo pedagogo-narratore) identificata come un «indebolimento» dell’uomo: il «sentimento religioso» viene così a costituire un importante elemento di forza per l’individuo. Di più, di sanità, poiché non c’è alcun dubbio che la truce raffigurazione che segue dei bagordi e dell’orgia festaiola miri a offrire l’immagine di un’Umanità degenerata, ridotta a una condizione bestiale nel soddisfacimento dei più bassi appetiti (alimentari, ma anche sessuali); salvo poi tentarne una redenzione in extremis, rappresentandola devota, gemente e penitente dinanzi all’effigie della croce – l’unico simbolo che ancora possa risvegliare quel senso religioso sopito, almeno per gli animi umili. La novella è un testo particolarmente interessante per due motivi: innanzi tutto l’immolazione dell’animale sacro al dio (come i maiali per Maja), che si svolge a settembre (ossia all’inizio del ciclo annuale agricolo), collegata a una grande festa nella quale i partecipanti liberano sfrenatamente i propri istinti, ricorda molto da vicino i riti di purificazione con capro espiatorio (più precisamente, animale divino) raccolti da Frazer nella sua monumentale opera di etnologia comparata, già chiamata in causa a proposito del racconto L’ultima notte di quell’anno di Bontempelli. L’edizione originale del Golden Bough fu pubblicata in 12 volumi tra il 1890 e il 1915, ma la prima edizione italiana fu quella del compendio in due volumi tradotta da Adolfo De Bosis per Stock, nel 1925. Dunque, volendo credere che Pirandello nel 1916 in qualche modo si rifaccia volutamente alle ricerche di Frazer, bisognerebbe supporre che avesse letto almeno parte dell’opera nell’edizione originale in inglese: un’ipotesi che non mi sembra molto probabile. Piuttosto, sarà più facile ipotizzare che Pirandello fosse venuto a conoscenza delle discussioni che Il ramo d’oro aveva sollevato sin dall’edizione del 1890, discussioni naturalmente rinnovatesi man mano che uscivano i nuovi volumi dello studio 18. Infatti, se è abbastanza evidente che la «sagra» pirandelliana presenta molte analogie con i riti primitivi descritti da Frazer, è anche vero che non vi sono nella novella pirandelliana ele-

18. Non azzardo ipotesi sui tramiti per i quali Pirandello potrebbe essere venuto a conoscenza delle ricerche di Frazer, dal momento che qualsiasi rimando risulterebbe assai arduo da dimostrare. A dimostrazione però di come gli studi di Frazer fossero conosciuti e discussi anche in Italia già prima che fosse pubblicato il compendio, si può citare il particolareggiato riassunto dei volumi già pubblicati fatto da Luigi Salvatorelli nel suo «Bollettino di scienza delle religioni», rubrica stabile della rivista «La cultura contemporanea», nel dicembre 1912 (pp. 270-73): Salvatorelli accenna solo vagamente alla parte sull’espulsione rituale dei demoni e sul capro espiatorio, che non era ancora stata pubblicata nell’edizione inglese; informa però che ne era uscita in anticipo la versione in lingua francese, nel secondo dei tre volumi in cui The Golden Bough era stato tradotto (per l’editore Schleicher, Paris 1908).

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menti tali da far pensare a una lettura diretta del Golden Bough (come invece accade per il racconto bontempelliano del 1934): com’è noto, nell’interpretazione frazeriana il capro espiatorio (oggetto, animale o uomo) viene scacciato o ucciso in quanto veicolo (volontario o meno) dei peccati della comunità o dei demoni maligni che la affliggono, ma nella novella non ci sono accenni di nessun genere alla originaria funzione catartica del rito, né si fa riferimento all’identificazione di cui parla Frazer tra l’animale e il dio – e infatti il sacrificio cruento della bestia è ancora definito, secondo l’interpretazione tradizionale del rito, «immolazione» dell’animale al dio. Non è raro che Pirandello faccia ricorso a opere compendiarie o divulgative, in particolar modo per argomenti e discipline per i quali poteva nutrire un interesse secondario e occasionale – come appunto nel caso dell’etnologia e della mitologia comparata, discipline recenti e tutto sommato di moda. Nella sua pur inaffidabile e disordinata biblioteca, sono presenti almeno due volumi su tali argomenti: Mitologia comparata di Angelo De Gubernatis (1887), e soprattutto Genesi ed evoluzione del mito di Francesco Adolfo Cannizzaro (1893), un fascicoletto di 44 pagine in cui l’autore fornisce ampi ragguagli sulle teorie filologiche di Max Müller (per le quali il mito andrebbe inteso come una «malattia del linguaggio»), quelle sociologiche di Spencer (che indicano all’origine dei miti il culto degli antenati, poi sfociato in totemismo e feticismo) e quelle della scuola storico-antropologica di Tylor e Lang, alla quale appunto si rifanno (sia pure in maniera un po’‘eretica’) gli studi di Frazer 19. Cannizzaro non dà notizia dei primi due volumi del Golden Bough pubblicati nel 1890, ma nel rapido sommario degli studi di Tylor illustra per esempio il concetto di «sopravvivenze», che viene ripreso da Frazer ed è sicuramente pertinente nella novella pirandelliana: vale a dire l’idea per cui parte dei riti e delle credenze primitive possono sopravvivere (specialmente negli strati più bassi della società) anche con lo sviluppo della civiltà e il venir meno del sistema di pensiero e religione che li giustificava e forniva di senso. E in effetti Il Signore della Nave è anche l’illustrazione di questo fenomeno, poiché l’associazione tra la festa del santo patrono e il rito della scanna dei porci sopravvive anche se non è più chiaro a nessuno (se non al pedagogo, e anche a lui in maniera piuttosto vaga) l’intimo legame tra la ricorrenza religiosa e il cruento rito. Il secondo motivo d’interesse della novella, ai fini del nostro discorso, è il suo finale, che vede la folla ubriaca incamminarsi in processione seguendo l’effige del «Signore del mare» (un grande crocifisso rozzamente scolpito), improvvisamente pervasa dalla commozione religiosa. Ed è proprio quella commozione che agli occhi del pedagogo la riabilita e la redime dall’orgia appena perpetrata, mostrando finalmente quella «umanità» che gli eccessi bestiali sembravano aver annullato: Si sono imbestiati, si sono ubriacati, ed eccoli qua che piangono ora inconsolabilmente, dietro a questo loro Cristo sanguinante su la croce nera! eccoli qua che piangono il porco che si sono mangiato! E volete una tragedia più tragedia di questa? (p. 427)

19. Vd. Cannizzaro 1893, parte I: Il mito, i mitografi e le loro scuole. Il fascicolo poteva rivestire, per Pirandello, un interesse quasi esclusivamente informativo: si tratta infatti di un testo d’ispirazione radicalmente positivista, che mira a presentare l’evoluzione delle religioni come un’ininterrotta progressione dal rozzo feticismo dell’uomo primitivo fino alla fede più pura, civile e intellettuale, quella nella Scienza. Come sappiamo, Pirandello aveva un’opinione assai meno entusiastica del progresso civile e scientifico.

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Bisogna tuttavia precisare che la frase sul porco non è presente fin dalla prima versione della novella, quella apparsa su «Noi e il mondo» nel 1916, bensì sarà introdotta a partire dall’edizione in volume per Treves dell’anno seguente. Nella stesura originale, il finale era: «si sono imbestiati, si sono ubriacati, ed eccoli qua che piangono inconsolabilmente dietro a quel loro Cristo sanguinante su la croce nera. Volete una tragedia più tragedia di questa?» 20. L’assenza del parallelismo tra Cristo e i maiali nella prima versione della novella in un certo senso ne accresce l’importanza: l’aggiunta è frutto di un ripensamento sul testo intervenuto in un secondo momento, e il procedimento è abbastanza raro in Pirandello, le cui varianti si limitano quasi sempre a aggiustamenti linguistici, ortografici e stilistici. La riduzione teatrale del 1925 conserverà quasi identico il finale della novella, sopprimendone però la battuta sul piangere il porco: sicuramente perché l’accostamento (tra il sacrificio del maiale e quello di Cristo) avrebbe troppo scandalizzato il pubblico a teatro. In un certo senso, però, la soppressione banalizza alquanto il senso del passaggio dall’orgia alla contrizione religiosa, come se si trattasse di una semplice successione e non esplicitando il rapporto intimo e necessario tra i due momenti. Nella interpretazione teatrale, infatti, la folla piange dinanzi al Cristo semplicemente dopo aver ucciso e mangiato il maiale, e questo pianto, rivelando la preesistenza nell’uomo del sentimento religioso, ne salva la dignità nonostante l’orgia bestiale appena perpetrata. Viceversa nella novella la folla può piangere e umiliarsi proprio perché ha ucciso e mangiato il maiale, e questo rapporto profondo, misterioso e necessario tra i due momenti della festa – tra l’orgia e la penitenza, l’assassinio e l’umiliazione – ha il carattere di uno svelamento della natura primordiale, barbara e violenta, del sentimento religioso e dei riti sacri. In questo senso, si spiega perché il pedagogo definisca «tragedia» lo spettacolo cui assiste: tragico è il mistero del sacro, nella sua intima commistione di animalità e idealità, e tragico è il destino dell’uomo, la cui natura è precariamente sospesa tra la condizione divina e quella bestiale; mentre nella rappresentazione di nove anni dopo il senso non può che risultarne mutato, nel senso che si riduce alla riflessione che il sentimento religioso è una delle componenti che distinguono l’uomo dalle bestie, e che questa umanità sopravvive pur attraverso il più truce «imbestiamento» – una riflessione che potrebbe avere un valore consolatorio, se non fosse per l’osservazione che questo sentimento viene attenuandosi con il progresso della civiltà. In questo impercettibile slittamento di senso nel finale della seconda versione della Sagra del Signore della Nave, a mio parere, è già possibile cogliere in parte il senso della cosiddetta «svolta» di Pirandello intorno alla metà degli anni Venti. Torniamo alle riflessioni sviluppate nel Fu Mattia Pascal, nell’Umorismo e negli articoli pubblicati in quel giro di anni: nel primo decennio del secolo, Pirandello da un lato decretava che il «lanternone» della fede cristiana era stato spento dal progresso della scienza, dall’altro considerava le verità scientifiche insufficienti a fornire di senso l’esistenza umana e a dare giustificazione del male ad essa connaturato; giudicava pertanto il proprio periodo storico come un tempo di crisi – politico-sociale, etica, esistenziale. Nel 1925, il messaggio è assai diverso: Pirandello pare additare

20. Vd. le Note al III volume di Pirandello 1990, p. 1359.

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nella fede religiosa un valore, una componente essenziale, irrinunciabile e nobilitante della natura umana, che può redimerla dalla gretta materialità. La novità, lo si nota facilmente, non sta soltanto nella riabilitazione della fede, ma già nel fatto stesso di indicare con certezza l’esistenza di un valore: dal momento che, se escludiamo la sacralità indiscussa (e indiscutibile) della maternità, non ci sono valori che la produzione umoristica pirandelliana dei primi due decenni del secolo non abbia intaccato, decomposto, corroso. A conferma della volontà di Pirandello di ricostruire, dopo aver caparbiamente smontato e demolito valori, convinzioni e luoghi comuni per più di due decenni, si potrà citare qualche battuta da un’intervista rilasciata a «L’Impero» (pubblicazione dichiaratamente fascista) nel novembre 1924: Per molto tempo sono stato creduto un pessimista, forse perché c’era nelle mie opere una mente antitradizionale e reattiva. Ma non ero stato capito. La mia arte è scevra di quel pessimismo che genera la sfiducia nella vita. […] C’è nella mia arte quasi la voluttà di creare il terreno sotto i piedi ad ogni passo che viene mosso dai miei personaggi; e fra un passo e l’altro l’abisso… Certo che è necessario il coraggio di rinnovarsi. C’è tutta un’etica in questa enunciazione. Non tutti gli uomini sono capaci di creare a se stessi la realtà: essa, d’altronde, è così labile che si può smontare ad ogni momento. Ci devono essere quindi i creatori, i datori di realtà 21.

Due mesi prima di questa intervista (19 settembre), proprio «L’Impero» aveva pubblicato la lettera con la quale Pirandello chiedeva di aderire al Partito fascista, un atto che, nel caos scoppiato in séguito all’assassinio Matteotti (10 giugno), era stato abilmente sfruttato dalla propaganda di regime. E Pirandello, due mesi dopo, risponde alle lodi (interessate, e che infatti si dimostreranno avare di conseguenze concrete) che gli vengono tributate raddrizzando l’immagine di sé e della propria opera, rigettando le accuse di nichilismo e, quasi riflettendo in campo artistico la funzione che Mussolini si era arrogata in campo politico, presentandosi come un «costruttore», addirittura un «creatore di realtà». Non solo: dal momento che «non tutti gli uomini sono capaci di creare a se stessi la realtà», l’artista non si ferma alla creazione fine a sé stessa, ma addirittura è «datore di realtà» per i propri simili, colui che scopre la via (o costruisce il terreno tra un passo e l’altro) e la mostra poi agli altri. In una sola frase, Pirandello ha ricostituito l’immagine vetusta e gloriosa del Poeta Vate: una svolta sorprendente per un autore che nei suoi romanzi – nel Fu Mattia Pascal, ma ancor più in Suo marito e nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore – aveva offerto un ritratto tra i più lucidi e dettagliati della crisi del ruolo dell’intellettuale nel Novecento 22. Del resto anche il pubblico che legge libri e va a teatro è mutato, e non desidera più vedere il riflesso dei propri dubbi e della propria crisi esistenziale, bensì ricevere soluzioni di pronto uso a quei dubbi e a quella crisi – come del resto credeva, 21. «L’Impero», 11-12 novembre 1924; traggo la citazione da Giudice 1963, pp. 496-7. 22. Basterebbe forse un confronto tra le affermazioni di questo tipo e quelle, di tono tanto diverso, con le quali il bibliotecario Mattia Pascal cercava di giustificare l’atto di raccontare la propria storia, per mostrare il senso della ‘svolta’ pirandelliana degli anni Venti: dall’autore che sente l’arte e qualsiasi affermazione certa come illecita, a quello che non solo si sente pienamente in diritto di produrre l’opera d’arte, ma persino attribuisce a quest’opera il cómpito di additare agli altri uomini «la realtà».

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con il fascismo, di aver trovato un’altrettanto rapida soluzione alla crisi politica. Che poi le soluzioni fossero destinate a rivelarsi palliativi, mistificazioni, o addirittura manipolazioni in mala fede della verità, è un’altra questione. Cambiando il messaggio da trasmettere si modifica naturalmente anche la struttura dei testi. Alla struttura anticlassica e scompositoria del romanzo umoristico, al dramma cerebrale, critico e aperto, si sostituisce una forma regolare e conclusa, in certi casi persino classicamente orchestrata. I conflitti sono posti chiaramente ed eticamente inquadrati (nel senso che è sempre lampante da che parte stia la ragione e da che parte il torto), e vengono condotti per ordine sino alla loro risoluzione finale, la quale spesso si esplica in un evento eccezionale o sovrannaturale; i caratteri sono ben definiti e rilevati, né si riscontra alcuna ambiguità e confusione di ruoli; addirittura, con la soppressione dell’angosciosa dialettica del personaggio, assistiamo al risorgere di una figura che Pirandello stesso, in un’intervista del 1926 (e parlando appunto dei primi due «miti» in progetto), non esita a definire «eroe»: Per me il carattere eroico è di tutti i tempi e per dare la misura dell’eroicità ai nostri contemporanei non vale ed è antipedagogico ricorrere al passato. (Drioli 1926)

Se il dramma ha lo scopo di «creare il terreno sotto i piedi» e «dare la misura dell’eroicità ai nostri contemporanei», dovrà sparire necessariamente anche l’io epico, cioè la voce critica e dissonante che aveva una funzione di straniamento nei confronti dell’azione e della convenzione scenica 23: nessuna contraddizione deve infatti restare irrisolta, l’opera drammatica dovrà avere una conclusione netta e un significato chiaro. Il dramma pirandelliano, da luogo dell’analisi e dell’autoanalisi dell’individuo e della società si tramuta gradualmente in parabola esemplare (la parabola della prostituta redenta, quella dell’uomo «celebre», la parabola dell’attrice, quella della donna «troppo virtuosa» e così via), in qualche caso persino strumento didattico; il discorso dialettico si tramuta in enunciazione di verità, la parola persuasoria si tramuta in parola assertiva – in altre parole, il logos cede il posto al mythos. Il caso della Nuova colonia, con il cambiamento intervenuto nel soggetto dalla sua prima ideazione, nel 1911, al «mito» scritto nel 1926, può servire a chiarire il senso di questa aspirazione alla massima chiarezza nella struttura e nel significato del dramma. La prima versione della storia appariva infatti come un’ideazione della scrittrice Silvia Roncella, la protagonista del romanzo Suo marito. Pirandello ne riassume la trama nel terzo capitolo del romanzo: si tratta di un’esposizione accurata, dalla quale è quindi possibile raccogliere alcuni dati interessanti. Il nucleo della vicenda è identico a quello del futuro mito pirandelliano: un gruppo di straccioni e delinquenti si trasferisce su un’isola, deserta perché devastata da un

23. L’ultima occorrenza di questa figura nell’opera teatrale di Pirandello è infatti Diego Cinci in Ciascuno a suo modo (1924). Per un’analisi di questa figura e delle sue funzioni, nel teatro pirandelliano e in quello grottesco, vd. Livio 1976; più in generale, sull’idea di «trasformazione epica del dramma», vd. Szondi 1956.

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terribile terremoto (che si immagina destinato a ripetersi); fra di essi c’è una sola donna, una prostituta ‘redenta’ grazie alla maternità, e ora trasformata in angelo buono che veglia sul gruppo: l’uomo di lei, Currao, assume naturalmente la funzione del capo. Quando però giungono sull’isola nuovi coloni, tra i quali molte donne, La Spera ritorna ad essere considerata da tutti una donnaccia, e Currao, il suo uomo, perde il fattore principale del proprio prestigio e quindi il ruolo di capo. Cercherà allora di riacquistare entrambi attraverso una seconda unione, con la figlia del nuovo capo; e pretenderà anche che La Spera gli affidi il bambino, gettando la donna nella disperazione. A questo punto tra le due versioni si registra un’importante differenza: mentre nel mito del ’26 La Spera comprenderà e accetterà l’abbandono da parte di Currao, importandole soltanto del bambino, nel romanzo si dice che la donna «s’aggrappa ora al figliuolo, con la speranza di tener così l’uomo che le sfugge» (Pirandello 1985, I, p. 678). Dunque nel 1911 la protagonista si caratterizzava integralmente come «donna tradita», che spera di riconquistare il suo uomo; addirittura, quando capisce di non avere più speranze, si risolve a una feroce, indicibile vendetta: Disperata, la donna, per non abbandonare il figliuolo e per colpire nel cuore l’uomo che l’abbandona, in un impeto di rabbia furibonda abbraccia la sua creatura e in quel terribile amplesso, ruggendo, lo soffoca. (p. 679)

Ed è proprio il suo ruggito a scatenare un nuovo tremendo terremoto, che seppellirà gran parte dei coloni. Ma La Spera non sembra affatto pentita dell’atto estremo da lei compiuto: le sue ultime parole rivolte all’agonizzante Currao sono infatti di trionfo: «Il figlio? Te l’avevo ucciso io con le mie mani… Muori, muori dannato!» (p. 679). Una vendetta indubbiamente brutale, e una raffigurazione altrettanto truce: non per niente, ripensandoci, alla mite Silvia Roncella il dramma appariva «mostruoso» (p. 677). È evidente che la storia ideata dalla scrittrice è una versione ‘folkloristica’ della Medea di Euripide, come fa notare con malignità il Betti, critico saputo e antipatico, che la definisce «una Medea tradotta in tarentino»; e gli fa eco lo scrittore invidioso Jàcono, il quale consiglia così al poeta Cosimo Zago: «È la cosa più facile del mondo, vedi… Quella ha preso Medea e l’ha rifatta stracciona di Taranto; tu piglia Ulisse e rifallo gondoliere veneziano. Un trionfo! Te l’assicuro io!» (p. 707). E tuttavia la Roncella, di nascita umile e scarsa cultura, non ha mai letto Euripide, né altri classici: Non sapeva nulla, proprio nulla, lei, della famosa maga della Colchide; aveva sì letto qualche volta quel nome, ma ignorava affatto chi fosse Medea, che avesse fatto 24. (p. 685)

Dunque La nuova colonia di Silvia non è affatto l’adattamento di un mito, come credono i critici supponenti e malevoli o gli scrittori sterili e invidiosi, bensì un

24. Per un confronto tra La nuova colonia e la Medea di Euripide (soprattutto tenendo conto dell’interpretazione di quest’ultima data da Kerényi), vd. Alonge 1972, pp. 308-10.

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mito ricreato: in altre parole, Pirandello sembra considerare il mito come un organismo che abbia una vita ideale a sé stante, atemporale e indipendente dai propri autori originari. Potremmo chiarire questo aspetto richiamando nuovamente l’intervista rilasciata nel 1926 a Romano Drioli, per leggere come Pirandello illustri alcune coordinate importanti della sua idea di mito: I miti del passato non suscitano la mia curiosità: io penso che si debba cercare e creare artisticamente il mito moderno […]. L’Umanità ha sempre presenti i miti, perciò si può sempre risolverli e dar loro vita nel tempo, senza bisogno di riferimenti e rivestimenti storici. (Drioli 1926, c.m.)

Riconosciamo, sebbene in un senso parzialmente mutato, la distinzione già futurista e poi bontempelliana tra mito e mitologia: quella che Pirandello si accinge a compiere nelle sue due nuove opere non è un’operazione mitologica bensì propriamente mitopoietica, cioè la creazione del «mito moderno». Ma soprattutto, da queste affermazioni traspare una concezione del mito come entità archetipica e atemporale, che vive e permane nell’immaginario dell’Umanità – una concezione precisata nel corollario che dunque sia sempre possibile per l’artista calare quegli archetipi nel proprio contesto storico-sociale e farli rivivere nella contemporaneità. Naturalmente, abbiamo a che fare con un’idea di «archetipo» che va intesa in senso romantico e prejunghiano, nel senso in cui Pirandello stesso ha usato il termine in un appunto del Taccuino di Bonn: «Ove in una società la corruzione sia giunta a tale estremo da cancellare quegli archetipi che son dati al genere umano per guida e freno dei sentimenti, questa società perisce o per discordia interna o per violenza di conquistatori» (Pirandello 1970, p. 1229) 25. E dunque, coerentemente con una tale concezione, il mito di Medea ha potuto trovar spazio nell’opera di Euripide e anche in quella di Silvia Roncella, indipendentemente, perché i due artisti non sono gli «inventori» di esso, ma solo gli umili strumenti della sua epifania. Non a caso, la prima rappresentazione del dramma ideato dall’autrice tarantina assume i tratti di un evento mistico: Era in tutti adesso una gioja tumultuosa, la certezza assoluta che quella vita […] non avrebbe potuto più frangersi per alcun urto di casi, poiché ogni arbitrio ormai, come nella stessa realtà, sarebbe apparso necessario, dominato e reso logico dalla fatalità dell’azione. Consisteva appunto in questo il miracolo d’arte, a cui quella sera quasi con sgomento si assisteva. Pareva non ci fosse la premeditata concezione d’un autore, ma che l’azione nascesse lì per lì, di minuto in minuto, incerta, imprevedibile, dall’urto di selvagge passioni, nella libertà d’una vita fuori d’ogni legge e quasi fuori del tempo, nell’arbitrio assoluto di tante volontà che si sopraffacevano a vicenda, di tanti esseri abbandonati a sé stessi, che compivano la loro azione nella piena indipendenza della loro natura, cioè contro ogni fine che l’autore si fosse proposto. (pp. 694-95)

25. Di questa riflessione sul valore etico degli archetipi, come vedremo, La nuova colonia potrebbe essere considerata l’illustrazione mitica.

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In quella «fatalità dell’azione», nella «vita fuori del tempo» e nella «piena indipendenza» dalla volontà dell’autore c’è tutta intera l’idea del mito come complesso di archetipi. La coincidenza è dunque un «miracolo d’arte» che si è potuto produrre grazie alla particolare natura di scrittrice di Silvia Roncella, prototipo dell’artista ingenuo (in senso schilleriano) e naturalmente creatore. Se ne deduce quindi che la ‘barbarie’ della vicenda non è opera della sua autrice, bensì è propria del mito, di cui costituisce il fondo terribile e irrazionale – quella violenza connessa al sacro che abbiamo incontrato nella Sagra del Signore della Nave. E anzi, quella violenza assume quasi l’ufficio di un ‘marchio di garanzia’del mito, per una sorta di principio filologico che potremmo battezzare lectio irrationalior: quanto più i caratteri e l’azione sono brutali, quanto più irrazionale è la materia del racconto, tanto più possiamo credere di essere vicini al sostrato mitico primigenio e alla sorgente archetipica. Pirandello tuttavia opera ugualmente una significativa razionalizzazione sulla sua fonte euripidea: infatti l’assassinio atroce della propria creatura non è un’azione premeditata e lucidamente perseguita dalla protagonista, come accadeva in Medea, bensì dettata dalla furia disperata di una madre che si vede privata del bene più prezioso. Ma la differenza più importante tra le due vicende (soprattutto tenendo conto della concezione pirandelliana) è che alla Spera la folla cerca di strappare via il figlio con la forza e contro la sua volontà, mentre Medea chiedeva spontaneamente a Giasone di tenere lui i figli, con il pretesto che sarebbero cresciuti più sicuri e agiati (in realtà, la richiesta aveva lo scopo di guadagnare la fiducia dell’uomo e della sua futura sposa, per poterli colpire più agevolmente). Dunque il crimine supremo della Madre è in Pirandello giustificato come reazione violenta e disperata all’oltraggio supremo commesso contro la maternità, laddove in Euripide l’oltraggio era stato commesso unicamente contro l’orgoglio femminile della protagonista, la quale per vendicarlo decideva freddamente di sacrificare il sentimento materno. Se la Roncella era artista ingenua e spontanea, Pirandello, nel momento in cui si accinge a scrivere dei ‘miti’, non poteva certo aspirare a presentarsi come tale; e infatti la versione drammatica della Nuova colonia (1926) è accuratamente depurata non solo degli elementi che richiamano più scopertamente la tragedia euripidea, ma anche dei tratti che potrebbero sollevare maggiore scandalo tra il pubblico borghese: moralizzando ulteriormente l’azione, Pirandello elimina l’assassinio della creatura e si limita a far sprofondare l’isola nelle acque, che lasciano emergere solo lo scoglio sul quale la protagonista si è rifugiata con il bambino in un estremo tentativo di fuga dai suoi assalitori. La razionalizzazione del modello mitico non si ferma tuttavia alla soppressione dell’atroce omicidio, ma passa anzi per un’accurata strategia melodrammatica finalizzata a scagionare di ogni colpa la donna, e a renderla così vittima assolutamente innocente della barbarie collettiva. Infatti l’arrivo della seconda ondata di coloni, e soprattutto di un gruppo di donne, non solo fa crollare il prestigio della protagonista, ma anzi dà vita, immediatamente, a un’ingiustificata persecuzione della Spera da parte di tutti coloro che l’avevano osannata e desiderata sino a un momento prima. La rapidità del cambiamento e la violenza dell’attacco appaiono del tutto inverosimili e irrazionali, e certo non basta a darne ragione la disponibilità di altre donne sull’isola. Infatti, non appena i nuovi coloni sono scesi a terra:

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CROCCO. […] Oh, la santa, guardate! La santa! FILACCIONE (sghignazzando anche lui, con gli altri). Uh già, guarda! La regina! La regina! OSSO-DI-SEPPIA. E dire che abbiamo spasimato per quella toppa là scassinata! BURRANIA. Puoi spegnere il moccolo che tenevi acceso per tutti, tu sola! CROCCO. Schifosa! Sgualdrina! Sgualdrina! (Pirandello 1958, vol. II, p. 1118)

L’attacco collettivo si configura come una sorta di persecuzione rituale, e senza molta fatica possiamo riconoscere nella Spera una chiara manifestazione del capro espiatorio, anche perché ci aiuta lei stessa quando, alle prime battute dell’atto successivo, si definirà «la pecora rognosa, a cui più nessuno si deve accostare» (p. 1138). Del resto, a conferma della ritualità della persecuzione ritroviamo anche la «grande festa», orgiastica e brutale, a farvi da cornice: per tener buoni i marinai eccitati dalla presenza delle donne, il nuovo capo Padron Nocio dispone che siano celebrate delle nozze collettive e simboliche, che diventano però l’occasione per una colossale ubriacatura e il consueto «imbestiamento della folla». E tuttavia non ci sorprenderà (tenuto conto da un lato dell’analogia istituita nella Sagra, dall’altro del valore religioso attribuito da Pirandello ai suoi miti) ritrovare in questa versione del capro delle connotazioni cristologiche: La Spera – a differenza dei maiali della Sagra – è un ‘capro’ tutt’altro che inconsapevole o riluttante, e anzi assume orgogliosamente il suo ruolo sacrificale, a espiazione dei peccati propri e di quelli di tutti, rivelando una netta vocazione al martirio: LA SPERA. Lasciateli dire! M’offendevano quando mi desideravano; ora che mi disprezzano, non m’offendono più. (Ai denigratori): E non ve lo dico per superbia, no; anzi perché me ne sento castigata, e che mi castiga Dio per vostro mezzo! Per me è meglio così; sì, sì; meglio così, sputata, disprezzata, avvilita. (pp. 1118-19)

Addirittura, la ricerca di una completa riabilitazione morale induce questa novella Medea a sacrificare completamente il proprio orgoglio di donna e le proprie legittime aspirazioni sentimentali: La Spera non solo comprende e compatisce il desiderio di Currao di ritrovare il potere e la gloria, ma anzi è lei stessa a indicargli la via che gli permetterebbe di riottenerli, spingendolo tra le braccia della figlia di Padron Nocio. Nel colloquio che segue al brusco voltafaccia dei coloni, infatti, La Spera dapprima invita Currao ad abbandonarla per non restare coinvolto nel disprezzo di cui viene fatta oggetto («Li richiamerai tutti a te, non dubitare! E non badare, non badare più a me!», p. 1128); poi, quando sopraggiungono Dorò e sua sorella Mita, i due figli di Padron Nocio, fa in modo che sia proprio la ragazza l’artefice del riavvicinamento e dell’alleanza tra Currao e il nuovo capo: «Fa’, fa’, Dorò, che lo persuada lei, tua sorella…» (p. 1129). Ma affinché la strategia melodrammatica realizzi appieno sia l’analogia con il capro che l’evocazione cristologica, non basta che la donna sia fatta rientrare integralmente – e in maniera, come si vede, eclatante – nella categoria dei ‘buoni e giusti’, poiché ella dev’essere anche l’unica buona e giusta in una folla di malvagi e di ingiusti. Così, replicando il capovolgimento di fronte che abbiamo già visto verificarsi all’arrivo del secondo gruppo di coloni, assistiamo al repentino passaggio al gruppo dei persecutori di tutti coloro che erano rimasti fedeli alla Spera e l’avevano difesa: dapprima Tobba, il «vecchio saggio», cerca di persuaderla a lasciare il bambino a Currao e alla sua nuova sposa;

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nel finale, poi, in un crescendo parossistico di cattiveria gratuita, Currao smetterà all’improvviso di difenderla e si metterà a inseguirla per strapparle il bambino dalle braccia, mentre la folla gli farà da coro proclamando con violenza l’indegnità della donna a tenerlo. L’oltraggio collettivo ha così raggiunto il suo culmine e, poiché si tratta di un mito, è il cosmo stesso a ribellarsi e a seppellire i malvagi sotto le acque – con un richiamo emblematico al mito del diluvio. «E la terra veramente, come se il tremore del frenetico, disperato abbraccio della Madre si propagasse a lei, si mette a tremare» (p. 1158): avendo espiato per intero le proprie colpe mediante la persecuzione subìta, la prostituta redenta è infine innalzata al ruolo e alla sacralità di «Madre» archetipica, che con la forza del suo abbraccio può scatenare le forze soccorritrici della natura contro la minaccia dei malvagi. La nuova colonia, nell’intenzione del suo autore, andrebbe intesa come «mito sociale». A questo scopo, Pirandello immagina una sorta di comunità ideale posta a contatto con una terra vergine, selvaggia e minacciosa ma al tempo stesso feconda e benevola per l’uomo virtuoso e laborioso – come decreta il saggio Tobba, «L’isola non affonderà, finché ci staremo senza peccare» (p. 1106). Di questa comunità viene poi rappresentata una sorta di evoluzione ‘a tappe forzate’: in principio il gruppo vive in una sorta di condizione edenica improntata alla castità, al lavoro collettivo e a una specie di instabile comunismo primitivo, una vita basata su pochi princìpi elementari, efficacemente illustrati dal vecchio Tobba: Ma non pensate a nulla! Cercate di fare! Date ascolto a me, che non ho pensato mai. C’è la terra da zappare? zappate; da seminare? seminate; gettare, tirare la rete? gettate, tirate! Fare, fare. Fare per fare, senza vedere neppure quello che fate, perché lo fate. E la giornata è passata (posando le mani sul petto a Quanterba) e non te ne sei accorto nemmeno. Stanco, ti butti a dormire; guardi le stelle e ti pare che dal cielo ti ridano, come se fossi un bambino 26. (pp. 1107-8)

Ma ben presto sorgono i primi conflitti per la conquista del potere, il possesso della donna (le due motivazioni che spingono dapprima Crocco, poi tutti gli altri alla rivolta contro Currao) e soprattutto il regolamento della proprietà privata: infatti, è proprio al grido di «è mio» che si incrina ripetutamente la pace e la santa concordia della comunità 27, e si avverte la necessità di leggi e tribunali (per decidere se la casa debba appartenere e Crocco o Papia); poi, quando la popolazione dell’isola si accresce, interviene naturalmente una disparità economica, per cui c’è bisogno di un ordinamento più complesso (con Padron Nocio, il più ricco, come capo e dei collaboratori in funzione di «ministri») e persino di una «polizia» che

26. Non si può fare a meno di notare, sia pure di passaggio, quanto di ideologia fascista ci sia in quest’elogio del lavoro bruto e nobilitante, in quest’etica del «fare e basta» che individua nel pensiero la radice di tutti i mali dell’uomo. 27. Papia rivendica contro Crocco il possesso della casa perché «sono corso io, prima, a mettere qua il piede e a dire ‘è mio’» (p. 1097); poco dopo, al grido di «Devi essere mia!» Crocco aggredisce La Spera (p. 1105); nel secondo atto, i primi coloni si sentono in diritto di aggredire i nuovi arrivati perché «Il coraggio di venire l’hanno preso dal rischio che abbiamo affrontato noi, e che l’ha fatta nostra, l’isola, ora!» (p. 1114); poi, dinanzi alle nuove donne, i coloni iniziano a disputarsele «Questa è mia! – No, no, mia!» (p. 1116), e proprio il fatto di poter avere delle donne proprie determina immediatamente il riversarsi del disprezzo su La Spera.

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difenda i governanti. Una volta introdotte delle disparità di classe sociale e un rudimentale apparato statale, la comunità precipita naturalmente nel disordine: ingiustizie (come quella contro La Spera), accordi politici (come il matrimonio d’interesse tra Currao e Mita), complotti (per uccidere Dorò e farne incolpare Currao); mentre gli elementi di benessere introdotti (cibo, vino, donne) conducono altrettanto naturalmente alla corruzione, come spiega Currao a Padron Nocio: CURRAO. Questo vostro di più, a noi, non bisognava. E guasterà tutto, per forza. […] Farà diventare facile il bene. Ecco. Sentite? Ora di là tripudiano, suonano, cantano, ballano… Avete portato l’ozio, lo spasso; e nascerà l’invidia, per forza, e la gelosia; nascerà l’ambizione e l’intrigo, per forza. (p. 1130, c.m.)

La decontestualizzazione, il trasferimento della problematica sociale in questa sorta di Eden divinamente animato consente la visione quasi ‘in vitro’ dell’evoluzione di una civiltà, dagli inizi semplici e virtuosi alla corruzione e al disastro finale, e tuttavia comporta anche la genericità e una certa ambiguità del messaggio. Pirandello intende forse che non si ha civiltà che non sfoci infine nella corruzione e nella degenerazione? O piuttosto, come sembra più probabile, che degenerazione e corruzione siano fatali dove la civiltà non sia intimamente animata di quello spirito cristiano umile e caritatevole, di cui La Spera è la limpida incarnazione? La donna è infatti l’unica a sottrarsi alla logica della proprietà privata e ad additarla esplicitamente come male: prima cercando di convincere Crocco a cedere spontaneamente la casa, poi ribellandosi a Currao e affermando di non essere un suo possesso, bensì la sua compagna per decisione propria e consapevole (pp. 1103-4); infine, all’inizio del II atto, cercando di impedire l’aggressione contro i nuovi arrivati perché «Non siamo mica noi i padroni dell’isola!» (p. 1114). Ma il sistema di valori e la concezione dei rapporti umani di cui La Spera è portavoce non vengono a costituire un ordine e una Legge alternativi, offrendosi anzi come un’abolizione di qualsiasi ordine che non sia puramente affettivo e naturale, di qualsiasi legge che non sia quella dell’amore e della carità cristiana. Così la tutela legale della prole è sostituita dal legame carnale tra madre e figlio, irrazionale e naturalmente ‘buono’; la proprietà privata non viene superata dalla legge della collettivizzazione, ma annullata nella spontanea offerta del proprio e di sé agli altri, dettata dalla carità cristiana; allo stesso modo, se la proprietà è annullata, non ci sarà bisogno di tribunali né di polizia; e i mali dell’ozio e del benessere saranno evitati sopprimendo l’ozio e il benessere, in una vita di bestiale lavoro nella quale non potrà trovar posto neppure la riflessione. In definitiva, non si tratta affatto di un ordine diverso, ma di una regressione al di qua di qualsiasi ordine: il messaggio del mito pirandelliano potrebbe venire ridotto alla formula «se gli uomini fossero buoni, laboriosi, caritatevoli e tolleranti delle altrui libertà non ci sarebbe bisogno della civiltà; la quale, necessariamente, è un male». Anche qui, come nel Fu Mattia Pascal, bisognerà rilevare che Pirandello, nonostante l’insoddisfazione acutamente avvertita, partecipa pienamente della convinzione tipicamente naturalista che l’ordine sociale borghese sia l’unico comunque praticabile: qualsiasi opposizione a esso si risolve nell’anarchia e nel sopruso del più forte (come la rivolta di Crocco), e più in generale nella ricaduta in una condizione selvaggia e incivile (come nell’orgia bestiale in cui precipitano i coloni nell’ultimo atto). Quanto alle possibili soluzioni

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concrete perché questo male sia almeno in parte alleviato, l’escatologia pirandelliana non ne fornisce alcuna, risolvendo anzi la crisi della civiltà mediante la catastrofe mitica e quindi la fuga nell’irrazionale: ossia nella sbrigativa soppressione della civiltà nel suo complesso (non solo gli individui malvagi, ma l’isola tutta), alla quale sopravvive solo il nucleo archetipico Madre-Figlio, misticamente sospeso sulla roccia risparmiata dal diluvio. L’identificazione della civiltà con la Legge dei Padri, la sua contestazione in nome del culto naturale della Madre; la soluzione del conflitto storico mediante la soppressione della storia e la fuga finale nell’irrazionale, divinamente ratificata dal prodigio e dal trionfo della fede sulla ragione: più che un mito sociale, La nuova colonia si delinea come l’utopia della fuga non solo dal sociale, ma più in generale dalla cultura nel suo complesso, e di un mistico dissolvimento nella natura. La riprova è nel fatto che Lazzaro (1929, ma iniziato già dal ’26), mito «religioso» che segue a quello sociale, è costruito su un sistema simbolico analogo. Anche qui viene presentato lo scontro tra la Legge del Padre e la Natura della Madre, solo che l’ordine patriarcale è qui inteso nelle sue implicazioni etiche e religiose anziché politico-sociali: il regno del Padre è il regno della trascendenza e dell’ascesi, della mortificazione del corpo e della penitenza, del buio e della sterilità. Un’altra variante nella presentazione del conflitto è quella cronologica: in Lazzaro lo scontro tra Diego Spina e sua moglie Sara è già avvenuto prima dell’inizio dell’azione, e naturalmente si è concluso con la vittoria legale del padre, il quale ha ottenuto dai tribunali cittadini (con l’ovvio compiacimento delle autorità religiose) la piena potestà sui figli. I due ragazzi, cresciuti nel chiuso e malsano ambiente del convento e del seminario, ne hanno riportato gravi conseguenze psicologiche – Lucio è un sacerdote fragile e in costante crisi, Lia è rimasta fissata a uno stadio infantile 28 – ma soprattutto fisiche, che, se nel primogenito si limitano a un grande pallore e una generale gracilità, per la ragazza si manifestano in una totale paralisi degli arti inferiori. Da parte sua, la madre non ha potuto tollerare di assistere impotente all’isterilimento delle energie vitali della sua prole e si è ritirata nel podere di campagna, dove, rinnovatasi a contatto con la terra e attraverso il duro lavoro (proprio come La Spera sull’isola), ha ricreato un nucleo familiare con Arcadipane, l’uomo «puro» 29, dal quale ha concepito due figli finalmente «forti» e «sani» (Pirandello 1958, II, p. 1201). Come si vede, la raffigurazione dei personaggi e delle rispettive posizioni nel conflitto mira alla massima chiarezza: il dominio paterno ascetico e la religione trascendentale sono esplicitamente posti come un male, tanto per le loro caratteristiche intrinseche che per le loro conseguenze su chi vi è forzatamente sottoposto; dall’altro lato, il regno della Madre coincide con la vita, la pienezza, la sanità. Altrettanto esplicito il corredo di simboli che circonda i due personaggi: sullo sfondo della casa del Padre risaltano un alto cipresso (albero funebre), un crocifisso nero, e dei cocci di vetro sul muro a proteggere la proprietà; la Madre è invece 28. Secondo la didascalia in apertura del primo atto, «Lia ha quindici anni, ma è come una bambina» (Pirandello 1958, II, p. 1165). 29. Una sorta di novello Adamo, secondo la descrizione che ne dà la donna: «quest’uomo puro – puro, Lucio, come una creatura uscita ora dalle mani di Dio» (p. 1199).

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accompagnata dal colore rosso – quello del suo abito, e del tramonto che fa da cornice alla sua prima apparizione 30 – e dall’emblema dell’acqua, sorgente di vita: SARA. […] Abbiamo trovato l’acqua, sai? quella vena che dicevi tu, che certe volte, ricordi?, si sentiva scorrere sotto il ciglio del sentiero che conduce alla vallata: quella! Una ricchezza. Ha rinfrescato e rinnovato tutto. Tre vivaj grandi sempre pieni, e scorre per le zane, da per tutto, allegra, e ti fa tirare dal fondo dei polmoni il respiro quando ne senti il fragore, certe sere di caldo. (p. 1180)

Il potere benefico e vivificante della Madre può agire però non solo sulla terra, ma anche su tutti coloro che si convertono alla sua religione naturale e immanentista, consegnandosi alla sua protezione. Così ha fatto Lucio, che è fuggito all’angustia del seminario e della religione patriarcale ed è venuto da lei per attingere una nuova vita: DIEGO. […] T’avrà pur dato una ragione della sua venuta. SARA. Sì. Per riconoscermi. DIEGO (stordito). Riconoscerti? SARA. Sì. E rinascere. Lui, da me. Rinascere da me, sua madre. L’ha detto! (p. 1182)

È un primo, duro colpo inferto contro l’autorità del Padre; ma la ribellione del figlio non basta, perché Pirandello mira a scardinare l’ideale ascetico a partire dalle sue basi, smascherandone il falso fondamento – quello della «vera vita» dopo la morte. Lo strumento di questo smascheramento – come indicavano già chiaramente i saggi pirandelliani di fine Ottocento – non può che essere la scienza, la quale, grazie a un’iniezione di adrenalina, riporta Diego Spina in vita dopo un incidente d’auto, quando già da mezz’ora il medico legale ne aveva constatato il decesso. Risvegliatosi, però, Diego non ha alcun ricordo di una vita altra: perciò deduce logicamente che non esista alcun aldilà e di aver vissuto tutta la propria vita passata confidando in un’illusione. La conseguenza di questa scoperta è catastrofica, poiché crolla nel suo complesso il sistema etico basato sul principio della punizione e della ricompensa nell’altra vita: la virtù e il perdono non servono più a nulla, perciò tanto vale cercare vendetta e piacere su questa terra. Il primo atto di Diego, dopo aver conosciuto l’orrenda verità, è sparare una fucilata contro Arcadipane (mancandolo), in una sorta di tardiva farsa della gelosia, mentre Cico, il vecchio mendicante, si getta sull’altrettanto vecchia Deodata per soddisfare finalmente gli appetiti tanto a lungo frenati, «come i cani». Come del resto recitava un altro passo del saggio Arte e coscienza d’oggi (1893): «Ma ognuno vorrebbe soddisfare i proprii istinti. Chi li correggerà? Chi li governerà? Quali saranno le norme della condotta? Quali azioni saranno reputate buone e quali cattive, giuste o ingiuste? Qui è il vero nodo; qui è la parte più essenziale del problema» (Pirandello 1970, p. 898). Ma più in generale, il crollo dell’ideale cristiano comporta il venir meno di una giustificazione del male, e dunque anche della consolazione per chi soffre:

30. «Sullo sfondo del cielo infiammato, Sara, tutta rossa e con manto nero, sembra un’irreale apparizione di ineffabile bellezza: nuova, sana, potente» (p. 1179).

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LIA (dopo una strana risatina, quasi tra sé). Le mie alucce, Deodata? Le alucce d’angeletta… Dovevo averle in compenso dei piedi che mi sono mancati per camminare sulla terra… Addio voli lassù! LUCIO (commosso). No, Lia… (Pausa. E poi, tra silenzi, con cupa lentezza): CICO. L’altra casa del Signore… la casa di là… per tutti quelli che qua hanno patito rassegnati… DEODATA (c.s.). E non hanno goduto per non peccare… CICO (c.s.). Gl’infelici, i diseredati… (p. 1209)

In questo caso, la soluzione offerta da Pirandello è duplice – e contraddittoria. Da un lato, infatti, egli addita la rinascita nel regno della Madre, il cui potere vivificante consente di rinnovare la gioia, la luce e la pienezza vitale per tutte le creature: se Lia non può più sperare di ricevere le sue «alucce» nell’altra vita, il richiamo della Madre è in grado di produrre il miracolo già in questa vita, e di farla camminare innanzi agli occhi sbigottiti dei suoi fedeli che gridano al miracolo. Dunque anche qui, come nella Nuova colonia, la crisi si risolve in una fuga nell’irrazionale e il conflitto si appiana per l’intervento del prodigio, che premia i buoni e questa volta, anziché annientarli, si limita a convertire i ‘cattivi’. D’altra parte, però, lo spostamento dell’ambientazione del mito dalla dimensione astorica dell’isola al presente storico e metropolitano (sebbene trasfigurato dal filtro mitico e dal suo corredo di simboli) determina la necessità di doverne concretizzare almeno in parte le soluzioni. Così Lucio, grazie al potere vivificante materno, ritrova il perduto senso religioso, ma concretamente la sua conversione si risolve in una ripresa dell’abito talare, e dunque nel ritorno ai luoghi e alle funzioni istituzionali connesse con il culto paterno, nonostante se ne sia dimostrata la natura falsa e degenerata: una scelta contraddittoria, e tuttavia necessaria, dal momento che, se esiste il dolore e l’infelicità sulla terra, «bisogna che Dio ci sia anche di là» (p. 1216). Altro è la rappresentazione di istanze irrazionalistiche in un contesto mitico o fiabesco, altro è la concreta traduzione di quelle istanze nel presente storico, che implica necessariamente dei compromessi con le convinzioni morali e le scelte sociali di un pubblico del quale il Pirandello mitopoieta si atteggia a nuovo Vate. Il testo conserva tuttavia ambiguamente il dubbio se per Lucio si tratti di un effettivo ritorno al Cattolicesimo o non piuttosto di un sacrificio ch’egli compie, rivestendo l’abito talare e ricominciando a predicare l’ortodossia, per amore di coloro che hanno bisogno di credervi. L’ambiguità si tradisce soprattutto nell’accostamento tra le espressioni misticamente ispirate della Verità di Lucio, e le chiose di Monsignore che convertono quella verità nei consueti dogmi cattolici, quasi una loro traduzione in linguaggio ortodosso: per esempio, quando Cico chiede a Lucio come spieghi l’esperienza del nulla dopo la morte, fatta da Diego, Lucio si limita a rispondere sibillinamente che «In Dio non si muore!», ma Monsignore chiosa, più concretamente, «E chi t’ha detto che Dio conceda di sapere a chi ritorna di là? Tu devi credere e non sapere!» (p. 1216); allo stesso modo, se Lucio spiega di voler reindossare l’abito «per il divino sacrificio di Cristo e per la fede degli altri» (p. 1216, c.m.), Monsignore tradurrà l’affermazione nel concetto, quanto meno riduttivo, che la fede, Lucio, «l’ha riacquistata» (p. 1221).

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Tirando le somme, si può dire che i primi due miti pirandelliani presentino svariate analogie: nell’impostazione (un conflitto radicale di concezioni incarnate dal personaggio maschile e quello femminile, contrapposti in una lite avente per oggetto concreto la tutela dei figli), nella struttura (la contrapposizione si sviluppa sino a una crisi non risolvibile per le vie della politica o della logica, crisi che viene superata mediante l’ausilio del prodigio e la fuga nell’irrazionale), nel sistema di simboli (la cui chiave è la mistica della Madre). In entrambi i casi, Pirandello mira alla massima chiarezza e trasparenza del testo, che assume così una valenza esplicitamente didattica; inoltre, cerca di realizzare un compromesso per molti aspetti ambiguo – velatamente nella Nuova colonia, più evidentemente in Lazzaro – tra la concezione archetipica e atemporale della narrazione mitica e la celebrazione dei culti tradizionali della borghesia primonovecentesca (la mistica della maternità, l’ortodossia cattolica e il potere clericale, l’utopia colonialista). Inoltre, sia La nuova colonia che Lazzaro sono, in diverso modo, la rielaborazione di miti precedenti. Per quanto riguarda il primo mito, abbiamo potuto osservare, nel confronto tra la prima e la seconda versione, come Pirandello si discosti gradualmente dal modello della Medea di Euripide, seguendo la direttiva di una progressiva razionalizzazione in senso morale del mito, e riorganizzandone gli elementi secondo una strategia melodrammatica. Per Lazzaro il rapporto con la fonte evangelica è ancora più esplicito (e evidenziato già nel titolo) e risolto in maniera più chiara e consapevole: si potrebbe però dire che il rimando al modello rivesta una funzione puramente denotativa (indirizzare sin dall’inizio l’attenzione dello spettatore sull’aspetto più importante del testo). La resurrezione evangelica viene intesa da Pirandello (secondo un’interpretazione di per sé tradizionale e ortodossa) in due sensi diversi: uno è quello letterale di Diego Spina che ritorna a vivere dopo essere a tutti gli effetti deceduto; l’altro, più importante, è il significato simbolico dell’uomo che risorge alla fede e alla vita dopo aver attraversato la morte della sfiducia e del nichilismo. Questo livello simbolico può essere però inteso anche in una maniera diversa (e in questa alternativa si riflette parzialmente l’ambiguità del messaggio), poiché si può anche interpretare la «resurrezione» nel senso dell’uomo (inteso sia come Diego sia come Lucio) schiavo dell’ideale ascetico che risorge alla fede nella Vita e all’amore per questa terra, grazie al prezioso aiuto della Madre sacerdotessa di un culto immanentista e rigenerante. Un ultimo dato a mio parere interessante è il proliferare dei Lazzaro pubblicati in questo giro di anni: quello di Borgese (scritto nel 1925, e che Pirandello aveva inserito nel programma del Teatro d’Arte del 1927), il Lazzaro laughed (Lazzaro rise, 1928) di Eugene O’Neill e La casa di Lazzaro di Marcello Gallian (uscito a puntate su «900» nel 1929): una concentrazione che mostra la forza di suggestione dell’episodio evangelico in questi anni di confusa ansia palingenetica.

4. La mitopoiesi secondo Pirandello Come abbiamo letto nell’intervista rilasciata a Romano Drioli, Pirandello nel giugno del 1926 esprime la necessità di produrre dei «miti moderni». A questa data Bontempelli stava lavorando alla creazione di «900», il cui primo numero uscì nell’autunno di quello stesso 1926 (e recava in apertura un invito a creare appunto dei

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miti moderni): la coincidenza del momento, soprattutto tenendo conto degli stretti rapporti di amicizia e collaborazione artistica che legavano i due autori, non può che apparire significativa e fornire lo spunto per un confronto più approfondito. Nello studio dei rapporti tra Pirandello e Bontempelli, i debiti accumulati da quest’ultimo nei confronti della poetica e della pratica artistica di colui che – perlomeno a partire dalla metà degli anni Venti – considerava come un maestro sono un dato acquisito da tempo e indagato dalla critica con sufficiente esaustività 31. Gli studi pirandelliani più recenti, tuttavia, dimostrano la salutare caduta del pregiudizio di una originalità pirandelliana a tutti i costi (secondo il falso postulato che l’autore più ‘grande’ debba anche essere, sempre, il più ‘innovatore’), e si cominciano a registrare le prime analisi degli influssi sull’opera pirandelliana delle sperimentazioni teatrali e narrative degli anni Dieci e Venti, soprattutto di quelle provenienti dal teatro del «grottesco». In questa nuova prospettiva, la descrizione del rapporto PirandelloBontempelli sembra aver perso buona parte della sua unilateralità: un primo contributo alla ricostruzione del ‘bontempellismo’ pirandelliano giunge nel 1982 da Gilbert Bosetti, il quale coglie con grande puntualità tutte le analogie tra il programma novecentista e le dichiarazioni teoriche (in verità non molte) di Pirandello sul mito, soffermandosi in particolar modo sulle vistose tracce di novecentismo presenti nei Giganti della montagna. Questo primo inquadramento viene integrato cinque anni dopo da Corrado Donati 32, che si prova a dirimere l’ingarbugliato nodo di rapporti tra i due autori, per i quali, anche in virtù dell’amicizia che li legava e del costante e proficuo scambio intellettuale durato un decennio, il computo dei crediti e dei debiti non è quasi mai di facile schematizzazione. Semplificando notevolmente i risultati di queste prime ricerche: è indubbio che la sperimentazione bontempelliana della prima metà degli anni Venti (grosso modo, dalla pubblicazione delle due Vite a quella di Minnie la candida nel 1927) possa essere letta come una rielaborazione di tematiche pirandelliane declinate secondo i tipici modi della scrittura di Bontempelli (divertissement, antipsicologismo, parodia degli stereotipi linguistici, funambolismo, comicità non sense e predilezione per i generi del fantastico), ma è altrettanto indubbio che la produzione pirandelliana dei tardi anni Venti e Trenta, e in particolar modo i tre miti e La favola del figlio cambiato, risentano in una certa misura delle teorie novecentiste e dell’esempio del realismo magico bontempelliano. Un buon punto di partenza per il confronto Pirandello-Bontempelli può essere il discorso di commemorazione Pirandello, o del candore pronunciato da Bontempelli all’Accademia d’Italia il 17 gennaio 1937. Come lascia intendere già il titolo, Bontempelli rilegge la vita e l’opera di Pirandello utilizzando una chiave interpretativa decisamente parziale, quel «candore» 33 che sintetizza l’approccio ingenuo e primigenio al reale delle nuove eroine bontempelliane e più in generale dell’arte novecentista nel suo complesso. Questo Pirandello bontempellizzato risulta certo bizzarro, eppure la lettura di Bontempelli non è del tutto arbitraria. Prendiamo un passo del discorso: 31. Vd. le analisi fornite da Luigi Baldacci (1961) e da Gigi Livio (1976). 32. Il rapporto Pirandello-Bontempelli dalla trasgressione grottesca al richiamo al mito, in Geers-MusarraVanvolsem 1987, pp. 389-416. 33. «Questo lume, la fonte di quell’unità, il carattere originale che muove e spiega tutto Pirandello, è una qualità elementare molto rara: il candore» (Bontempelli 1978, p. 812).

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La prima qualità delle anime candide è la incapacità di accettare i giudizi altrui e farli propri. L’anima candida affacciandosi al mondo lo vede subito a suo modo: la impressione e il giudizio degli altri, anche di tutti gli altri, di tutto il mondo, che si affretta ad andarle incontro e cerca di insegnarle tante cose, tanti giudizi fatti, questo non la scuote, ella può tutt’al più maravigliarsene […]. E l’effetto più immediato del candore è la sincerità. L’anima candida non fa concessioni. Con quel suo stile e sincerità, l’anima candida, che è una forza elementare, va facilmente al fondo delle cose, raggiunge i rudimenti immutevoli. Ella può subito isolare con istinto maraviglioso quel che è elementare da quello che è sovrapposto: convenzioni, decorazioni, cautela. (Bontempelli 1978, pp. 812-13)

Sembrerebbe un’interpretazione fortemente tendenziosa, e solo in parte rispecchiata nell’effettivo approccio dell’arte pirandelliana al reale; e invece questo passo è quasi una parafrasi di un articolo di Pirandello, Non parlo di me, pubblicato nel 1933 sulla rivista «Occidente» e solo di recente riscoperto e reso noto da Corrado Donati 34. In questo saggio, Pirandello prova a delineare la parabola esemplare dell’artista, a partire dall’infanzia, collegando anzi in un nesso strettissimo la capacità artistica con la psiche infantile: «Creare forme di vita, o forme vive, che è lo stesso, è opera ingenua e naturale cui nessuna abilità potrebbe condurre ed è una forza che all’artista resta dalla sua infanzia, una qualità del bambino che egli è stato» (Donati 1982, p. 112). Della sua infanzia, l’artista deve conservare gelosamente non solo la naturale capacità creativa, ma anche il «senso del mistero» che pervade l’esistenza («Il lato più importante, il mistero», p. 113) e, soprattutto, «l’ingenuità» dell’approccio con il reale: un’ingenuità che, se da un lato rende l’artista un uomo assolutamente inadatto alla vita comune e destinato ad accumulare «amari disinganni, crudeli delusioni, feroci colpi», dall’altra parte gli consente di acquistare un «senso schietto della vita», un’originale «coscienza delle cose e dei loro rapporti» (p. 115) 35 – ossia ciò che l’artista ha il cómpito di rivelare agli altri uomini, per farli «un po’ più ricchi». Approccio ingenuo e infantile al reale, refrattarietà al senso comune, capacità di provare e destare meraviglia, senso del «mistero»: tutti aspetti che Bontempelli sintetizza in un’unica qualità – quella, appunto, del candore. Un Pirandello, dunque, non arbitrariamente ‘bontempellizzato’, ma che si bontempellizza egli stesso in questi suoi ultimi anni? Non esattamente, o almeno non del tutto. Basterà rileggere con attenzione qualche passaggio dell’Umorismo, o magari qualcuno dei saggi pirandelliani meno noti – come l’intervento pubblicato nel 1923 sul teatro del «grottesco», Teatro nuovo e teatro vecchio 36:

34. Bontempelli aveva sicuramente letto il saggio pirandelliano, avendolo portato egli stesso alla redazione della rivista «Occidente». 35. Il saggio analizza anche la progressiva acquisizione da parte dell’artista di un linguaggio originale, che sappia riflettere appunto quella sua particolare coscienza dei rapporti e del mistero; e prosegue mettendo in guardia contro i pericoli (ambizione, successo, autocompiacimento) che minacciano la vocazione dell’artista, e che rischiano di distoglierlo dalla faticosa ma nobilissima via intrapresa. 36. L’intervento fu pubblicato su «Comoedia», V, 1 (1° gennaio 1923); la versione raccolta nei Saggi è quella rivista da Pirandello nel 1934, e pubblicata su «La Stampa», ma le lievi modifiche apportate al saggio (soprattutto di natura linguistica e stilistica) sono del tutto irrilevanti per il mio discorso.

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Infatti, ogni creazione, ogni visione della vita, ogni rivelazione dello spirito, porta con sé necessariamente problemi, questioni, contraddizioni logiche tanto più decise e evidenti quanto più è organica e comprensiva: e ciò semplicemente perché allo spirito è congenito il mistero, e guardare con occhi nuovi, esprimere schiettamente, riorganare la vita è riprospettare la vita nel mistero. (Pirandello 1970, p. 234, c.m.)

C’è già quasi tutto – il «mistero», lo sguardo «nuovo» e ingenuo, la sincerità: insomma, gli elementi che Bontempelli utilizzerà come chiave interpretativa della vita e dell’opera di Pirandello. Sarebbe dunque più corretto dire che nelle riflessioni e nelle opere di questi ultimi anni, grazie alla rinnovata poetica della ricostruzione e del mito, possono trovare compiuta espressione dei tratti più ‘bontempelliani’ della concezione e dell’arte pirandelliana che nella sua produzione umoristica erano rimasti del tutto impliciti o poco sviluppati. Eppure Pirandello non ha mai manifestato una qualsiasi forma di adesione esplicita al programma novecentista. Innanzi tutto, il suo nome non compare mai nell’indice dei contributi ai numeri della rivista: un fatto quanto meno curioso, considerata la caratura dei nomi che vi appaiono, da Joyce a Georg Kaiser, da Virginia Woolf a Tolstoj e via di séguito – Pirandello non poteva certo temere di ritrovarsi in compagnia di dilettanti e scrittori minori. In secondo luogo, privatamente lo scrittore dimostra scarsa stima del novecentismo, che pare considerare un fenomeno di costume troppo legato alla personalità di Bontempelli e destinato a una vita effimera – almeno così appare da alcuni passi della sua corrispondenza con Marta Abba: ‘Novecentista’ è una casacca bontempelliana; e Marta Abba è senza casacche: è lei, e basta: Marta Abba. Ma tutto ciò che è nuovo, essi lo chiamano ‘novecentismo’ per farlo loro; e alla fine, bisogna lasciarli dire, tutto fa pro’, purché dicano. (Pirandello 1995, p. 750; lettera datata 30 aprile 1931)

Così scriveva Pirandello nel 1931; e, volendo, è possibile interpretare le sue parole alla luce della recente chiusura della rivista, che lasciava presagire un forse imminente declino del movimento. Tuttavia, alla luce dell’amicizia con Bontempelli e soprattutto delle convergenze con la dottrina novecentista, è poco probabile che Pirandello, nell’atto di scrivere e pubblicare dei testi da lui stesso catalogati come «miti», non si sia posto il problema di definire la posizione nei confronti del programma di «900». L’elemento più interessante che emerge dal confronto è forse il fatto che le analogie tra la mitopoiesi pirandelliana e quella di Bontempelli si fanno più puntuali nelle ultime opere, cioè nella Favola del figlio cambiato (1930) e nei Giganti della montagna (1930-36): a questa altezza, infatti, non solo i due scrittori e amici sono accomunati dall’idea di voler offrire al pubblico dei «miti moderni», ma le stesse modalità dei miti da essi prodotti diventano assai simili. Questa sorta di accostamento di Pirandello al novecentismo è a mio parere abbastanza evidente nella evoluzione della concezione del fantastico e del prodigio. In Lazzaro e nella Nuova colonia il prodigio è ancora episodico all’interno di un contesto naturalisticamente concepito, evento eccezionale che si produce solo in

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particolari condizioni di crisi e se supportato da una fede robusta e incondizionata; soprattutto, il prodigio ha uno scopo: cioè interviene su precisa richiesta del credente a salvarlo da un pericolo di natura malvagia (La nuova colonia) o a premiarne la rettitudine, l’innocenza e l’intensità della fede (Lazzaro). In altri termini, il prodigio aveva carattere epifanico e miracoloso: da un punto di vista gnoseologico, infatti, non incrina minimamente la concezione del reale e la sua rappresentazione, ponendosene esplicitamente come eccezione; mentre, da un punto di vista etico, non oltrepassa l’àmbito classico del miracolo secondo la dottrina cristiana – nonostante ‘l’eresia’ pirandelliana (ferocemente stigmatizzata dalla critica cattolica 37) del far officiare il rito miracoloso in entrambi i casi dalla donna indegna e peccatrice (redenta e purificata dalla maternità, s’intende), in possesso del sacro potere non tanto in virtù di un’ortodossa investitura divina, quanto della intrinseca e autosufficiente sacralità del ruolo di Madre. Lo statuto del sovrannaturale nei Giganti della montagna si inquadrerà invece in una tipologia completamente diversa – ma una novità significativa si presenta già all’altezza della Favola del figlio cambiato, l’opera in versi che Pirandello aveva composto nel 1930 appositamente in funzione dei Giganti, dove avrebbe svolto la funzione di «rappresentazione da fare». Evidentemente Pirandello riprende qui la struttura metateatrale dei Sei personaggi in cerca d’autore, forse con un pizzico di manierismo, giacché l’opera, come si è detto, era stata effettivamente composta e aveva persino già tentato qualche palcoscenico, incontrando tuttavia un clamoroso fiasco e addirittura incorrendo nella censura politica 38. Nella Favola del figlio cambiato Pirandello riprende la storia di una sua novella del 1902 (Il figlio cambiato): una madre non accetta la disgrazia – forse una paralisi – che ha colpito la sua creatura, e crede che gli spiriti gliel’abbiano sostituita con un’altra. Il bozzetto veristico e patetico sull’ignoranza e la superstizione popolare nel 1930 viene trasformato in fiaba attraverso il passaggio per il repertorio mitico-folklorico delle credenze mediterranee (il bambino sarebbe stato sostituito dalle «Donne», spiriti malvagi e demoniaci, che si divertono a terrorizzare le povere madri e compiere ogni sorta di malefici sulle loro creature), e un’abbondante immissione di simbolismi archetipici: così la popolana ignorante della novella diviene semplicemente la «Madre», e per assolutizzare il suo ruolo accanto a lei viene soppressa la presenza borghese del marito. La protagonista incarna in sostanza l’archetipo della Grande Madre mediterranea, la Natura benefica e rigenerante (come già prima di lei l’avevano incarnato Sara e La Spera): il principe ammalato che giunge molti anni dopo nel villaggio per una salutare vacanza, e nel quale la Madre riconosce immediatamente il figlio rapito, sceglierà infatti di abbandonare il proprio regno (lasciandolo governare proprio al povero minorato che la Madre aveva allevato) e restare accanto a lei nel caldo e benefico Paese del Sud: 37. Vd. la rassegna degli interventi in Giudice 1963, pp. 526-31. 38. L’opera venne messa in scena prima in Germania, nel gennaio del 1934, dove il Ministro del Culto d’Assia ne proibì la rappresentazione perché «sovvertitrice e contraria alle direttive dello Stato popolare tedesco»; probabilmente per questo motivo, la prima italiana (al Teatro Reale dell’Opera di Roma, il 24 marzo dello stesso anno) fu violentemente fischiata dagli spettatori fascisti; né La favola venne più rappresentata.

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IL PRINCIPE. […] Ora bisogna ch’io trovi nel calore carnale di quest’amore di madre, nel calore carnale di questa tua veste, madre, […] il sentimento perduto della tua naturale umiltà. Vado a tuffar le mani in quella fontana! Voglio che la vita si rifaccia in me nuova come un’erba d’aprile! (Pirandello 1958, II, p. 1303)

Il simbolismo qui è apertamente esibito, come consente del resto il genere della favola cui Pirandello esplicitamente si richiama; eppure la configurazione del sistema simbolico (Madre = calore vitale, rigenerazione della terra, acqua sorgiva; Figlio debole e ammalato, e così via), così come i termini del legame tra Madre e Terra e del rapporto tra Madre e Figlio, rispecchiano perfettamente quelli riscontrati in Lazzaro e nella Nuova colonia. Ciò che cambia è piuttosto la modalità di rappresentazione del reale. Infatti nei primi due miti la situazione, i personaggi e la vicenda – nonché lo stesso miracolo finale – vengono raffigurati secondo i canoni realistico-mimetici (con punte veristiche nella Nuova colonia), sebbene si tratti di un realismo che lascia trasparire un più profondo livello simbolico e archetipico. Viceversa, La favola del figlio cambiato rinuncia a qualsiasi verosimiglianza caratterizzandosi esplicitamente come «fiaba», in cui il livello fantastico e archetipico non passa attraverso alcuna mediazione realistica: se la protagonista è semplicemente e universalmente la «Madre», suo figlio è anch’egli soltanto «il Principe», senz’altro nome; indeterminate e puramente simboliche sono le coordinate geografiche (ridotte all’opposizione archetipica tra Nord e Sud) e quelle temporali. Ed esplicitamente antinaturalistico è anche il tipo di rappresentazione prescelto: in versi e musica (di Malipiero), con l’ausilio del «coro» sia in scena (il «Coro delle Madri» nel primo quadro, quello dei «Monelli» nel terzo e delle «Donne» nell’ultimo) che fuori scena (le risate del coro invisibile degli scettici, nel primo quadro) e di un uso massicciamente simbolico delle luci e della scenografia. Dunque La favola può essere considerata una fiaba a tutti gli effetti; ma, si badi, una fiaba per adulti, sul tipo di quelle realizzate da Bontempelli, dal momento che in essa il credito al sovrannaturale non si limita a essere una caratteristica strutturale (o, più esattamente, modale) della fiaba, bensì viene assunto esplicitamente all’interno del testo, come parte integrante del suo messaggio. Per dirla in termini più semplici: la favola pirandelliana può essere letta in due modi, e il senso del suo messaggio poggia proprio sull’accostamento e sulla convivenza ambigua di queste due letture: la prima è quella propriamente fiabesca, del sovrannaturale scambio del figlio e della paziente attesa della Madre, premiata dal ritrovamento e dal finale ricongiungimento con il Figlio ritrovato; ma la vicenda può anche essere intesa, più scetticamente, come la parabola di una fede premiata e di un sogno realizzato, poiché non vi è alcuna prova (narrativa, s’intende) che il Figlio sia davvero stato cambiato, e che si tratti effettivamente del Principe. Al contrario: la fattucchiera Vanna Scoma, che ha informato la Madre dello scambio avvenuto,

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ammette esplicitamente di averle raccontato una frottola mossa da pietà per la sua disperazione (o, come altri suggeriscono, da un interesse economico): «Fu sapiente carità la mia. […] Feci dipendere il bene di quello / dal bene di questo, / e voi dite pretesto / di scrocco, / la carità mia!» (p. 1271). In questo caso, la decisione del Principe di restare accanto alla Madre va letta come una scelta consapevole di aderire alla logica fiabesca, l’opzione di fede nei confronti di una verità inverosimile e del tutto irrazionale: PRIMO MINISTRO. Ma come vuole,Vostra Maestà, che possiamo… Che cosa? Credere? IL PRINCIPE. Si può sempre! Si può tutto! MAGGIORDOMO. Ma questo, no, perché sappiamo che non è vero! Ma niente è vero, IL PRINCIPE. e vero può essere tutto; basta crederlo per un momento, e poi non più, e poi di nuovo, e poi sempre, o per sempre mai più. La verità la sa Dio solo. Quella degli uomini è a patto che tale la credano, quale la sentono. […] Io, ora, la so, la mia verità. (p. 1302)

In questa ambiguità, in questa magica sospensione tra verità fiabesca e consapevole illusione sta il nucleo della Favola pirandelliana, una sospensione che risponde quasi esattamente a uno dei princìpi della poetica novecentista: Quando si danno interpretazioni magiche delle cose comuni, occorre farlo con un piglio che lasci continuamente in dubbio se l’autore le dà come spiegazioni pienamente credute da lui e autentiche in istretto senso, o come simboli di un’interpretazione non già magica, ma puramente spirituale. (Bontempelli 1938, p. 29)

Inoltre, nella trasformazione della novella in favola, non è escluso che Pirandello abbia derivato qualche suggestione da alcuni testi proprio di Bontempelli. Qualche somiglianza è infatti rintracciabile con Guardia alla luna, la «rappresentazione» del 1916 scritta da Bontempelli sotto la suggestione incrociata del teatro futurista e di quello espressionista, in cui viene raccontata la crudele vicenda di una madre che, non volendo accettare la morte della figlioletta, si convince che l’abbia rapita la Luna, futuristicamente identificata come potenza sensuale e antimaterna. Al testo bontempelliano rimandano la divisione per quadri, la caratterizzazione della protagonista, fortemente patetica, alcune significative analogie nella trama; del tutto diverso, tuttavia, è il senso dei due drammi: se Bontempelli (ancora ben lontano dal realismo magico novecentista) ha voluto offrire una rappresentazione espressionistica del delirio ossessivo della protagonista fino alla sua tragica sconfitta, Pirandello ha inteso piuttosto celebrare la potenza della Madre, assurta a divini-

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tà rigeneratrice di un regno naturale e terrestre, in una fiaba popolare con il finale tripudio di uomini e natura, finalmente riconciliati in mistica unione sotto il benevolmente dispotico dominio matriarcale. Un altro testo bontempelliano affine è il romanzo Il figlio di due madri (1929), salutato alla sua uscita come il primo romanzo compiutamente «novecentista»: racconta la storia di una contesa giudiziaria tra due madri per un bambino, figlio biologico dell’una ma evidentemente reincarnazione del figlio morto dell’altra. Il tribunale naturalmente dà ragione ad Arianna, la madre naturale, soprattutto tenendo conto della condotta ‘trasgressiva’ della madre spirituale – la quale non è sposata, e ha trascorsi moralmente non proprio da buona madre borghese; alla fine il bambino verrà rapito dagli zingari, e sparirà per sempre. Dunque nel romanzo bontempelliano troviamo due madri che si contendono un figlio, mentre la Favola di Pirandello racconta di una madre alle prese con due figli: in entrambi i casi, tuttavia, c’è la diversamente velata valorizzazione della maternità spirituale su quella meramente naturale, e anzi entrambi gli autori elevano la maternità a fatto metafisico, che trascende i limiti di quello biologico o culturale. Velata, appunto, perché nessuno dei due autori ammette chiaramente una tale preferenza, ma per diverse ragioni: Bontempelli non voleva esprimere apertamente il giudizio che il figlio dovesse essere strappato alla madre naturale, per ovvi motivi di cautela nei confronti di un pubblico – quello borghese e fascista – che considera la maternità come uno dei valori sommi e indiscutibili; mentre Pirandello, come si è detto, lascia volutamente irrisolto il nodo fantastico dell’opera, senza chiarire se il Principe sia davvero figlio naturale della Madre oppure se scelga di eleggerla madre ideale. Più che nelle somiglianze concrete con alcune opere bontempelliane, tuttavia, mi pare che il dato più interessante sia proprio nel cambiamento di statuto del soprannaturale che si è osservato, in quell’ambiguità e sospensione tra vero e illusorio, tra fiaba e realtà: grazie alla quale l’atteggiamento di Pirandello nei confronti del meraviglioso viene a coincidere pressoché perfettamente con quello novecentista. Una simile ambivalenza viene dapprima riprodotta e poi decisamente superata nei Giganti della montagna. La trama dell’opera è nota: una compagnia di artisti, ridotta in miseria dalla cieca fede in un dramma (appunto, La favola del figlio cambiato) che si è rivelato un colossale fiasco, nella ricerca di nuove piazze in cui recitare approda su un’isola dove convivono, praticamente ignorandosi, due diversissime comunità: quella dei «Giganti», popolo rozzo e abbrutito da un duro lavoro che però li ha portati a un alto grado di benessere, e quella degli «Scalognati», folli e rifiuti della società che abitano in una villa magicamente attrezzata dove, sotto la sapiente regia dell’artista-mago Cotrone, i sogni e le più bizzarre fantasie possono divenire realtà. Nel primo e secondo quadro dell’opera ritroviamo appunto in una forma lievemente diversa l’ambiguità di cui si è detto, dal momento che i prodigi cui gli attori assistono si intuiscono prodotti dalla grande abilità ingegneristica e illusionistica di Cotrone: i finti lampi, il finto fantasma scozzese interpretato da Mara-Mara e ogni sorta di effetti luminosi. Eppure, accanto ai banali trucchi da baraccone, già nel secondo quadro Cotrone compie alcuni incantesimi di cui è più difficile scoprire il ‘trucco’:

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COTRONE. Mi chiamano il mago Cotrone.Vivo modestamente di questi incantesimi. Li creo. E ora, stiano a vedere. […] Ebbene, guardino:… là… là… là… (Appena dice e indica col dito in tre punti diversi, dove indica, s’aprono per un momento, fin laggiù in fondo alle falde della montagna, tre apparizioni verdi, come di larve evanescenti.) ILSE. Oh, Dio, com’è? IL CONTE. Che sono? COTRONE. Lucciole! Le mie. Di mago. Siamo qua come agli orli della vita, Contessa. Gli orli, a un comando, si distaccano; entra l’invisibile: vaporano i fantasmi. È cosa naturale. Avviene, ciò che di solito nel sogno. Io lo faccio avvenire nella veglia. Ecco tutto. I sogni, la musica, la preghiera, l’amore… tutto l’infinito ch’è negli uomini, lei lo troverà dentro e intorno a questa villa. (Pirandello 1958, II, p. 1336-37)

Illusionismo o magica evocazione? A questo punto del dramma è ancora difficile dirlo. Di chiaro c’è intanto che la villa della Scalogna è una metafora trasparente dell’Arte e che il mago Cotrone, sacerdote del tempio e artefice dei suoi arcani riti, rappresenta il perfetto esemplare di artista. Ma non un artista qualsiasi, bensì propriamente quello novecentista, giacché abbiamo appreso che, secondo la poetica di «900», creare «incantesimi», far entrare nel reale il sogno e l’invisibile è proprio il cómpito del perfetto artista. Fin dal suo primo apparire Controne si presenta come un creatore di ortodossa fede novecentista: la sua terza battuta è infatti: «Sù, svegli, immaginazione! Non mi vorrete mica diventar ragionevoli! Pensate che per noi non c’è pericoli, e vigliacco chi ragiona!» (p. 1313, c.m.). Si confronti ora questa battuta con alcune tra le più significative dichiarazioni bontempelliane pubblicate su «900» – per esempio il primo Preambolo, in cui anche Bontempelli definisce il lavoro dell’immaginazione come un atto di coraggio: Unico strumento del nostro lavoro sarà l’immaginazione. […] La vita quotidiana e normale, vogliamo vederla come un avventuroso miracolo: rischio continuo, e continuo sforzo di eroismi e trappolerie per scamparne. L’esercizio stesso dell’arte diviene un rischio d’ogni momento. Non esser mai certi dell’effetto. Temere sempre che non si tratti d’ispirazione ma di trucco. (Bontempelli 1978, pp. 750-51, c.m.)

E, da buon novecentista (nonché in piena consonanza con le riflessioni pirandelliane di questi anni 39), Cotrone invita i suoi seguaci a un atteggiamento fiducioso, infantile – in una parola, «candido» – nei confronti del mistero e della meraviglia, grazie al quale ogni prodigio diviene possibile: SPIZZI. Son tutti trucchi e combinazioni, signori! Non ci lasciamo abbagliare come allocchi noi stessi che siamo del mestiere! COTRONE. Ah no, caro, se dice così, lei non è del mestiere! Lei dà importanza a un’altra cosa che le preme di più! Se fosse del mestiere, si lascerebbe abbagliare, lei stesso per il primo, perché appunto questo è il vero segno che si è del mestiere! Impari dai bambini, le ho detto, che fanno il gioco e poi ci credono e lo vivono come vero! 39. Vd. il già citato saggio Non parlo di me.

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SPIZZI. Ma noi non siamo bambini! COTRONE. Se siamo stati una volta, bambini possiamo esserlo sempre 40! (p. 1367)

Dunque non più una rappresentazione naturalistica del reale, la quale venga, all’improvviso e per un solo istante, infranta dall’irruzione del prodigio (miracoloso o terribile), rivelando epifanicamente la presenza di una realtà altra – il mistero, l’universo degli archetipi o la mistica comunione dell’Essere. Nei Giganti – l’abbiamo sentito dalla voce di Cotrone – lo strappo nel cielo di carta si è fatto soglia dalla quale il mistero penetra nel reale, ampliandone le possibilità e mutandone profondamente la fisionomia: in un senso per molti aspetti analogo a quello sintetizzato nella formula novecentista di «realismo magico». E tuttavia l’opera in sé, il suo messaggio e il suo significato più profondo, non possono essere in alcun modo considerati un’espressione della poetica di «900». Innanzi tutto, la tipologia del soprannaturale presente nei Giganti non è interamente riconducibile alla categoria del realismo magico bontempelliano. Se nei miti novecentisti il prodigio ha sempre un’origine naturale, caratterizzandosi come l’effetto di forze extraumane (di natura personale, cioè divina, o più oscuramente ambientale, come dimensione ulteriore dell’universo), la magia che si produce nella villa della Scalogna ha invece sempre origine dall’uomo: COTRONE. […] Non bisogna più ragionare. Qua si vive di questo. […] Siamo piuttosto placidi e pigri; seduti, concepiamo enormità, come potrei dire? mitologiche; naturalissime, dato il genere della nostra esistenza. Non si può campare di niente; e allora è una continua sborniatura celeste. Respiriamo aria favolosa. Gli angeli possono come niente calare in mezzo a noi; e tutte le cose che ci nascono dentro sono per noi stessi uno stupore. […] Le figure non sono inventate da noi; sono un desiderio dei nostri stessi occhi. (p. 1340, c.m.)

La descrizione di Cotrone è chiara: i prodigi meravigliosi che si producono alla Scalogna non sono un dono di entità divine e neppure una semplice invenzione umana; bensì sono il concretizzarsi delle fantasie spontanee, dei sogni (come quelli che si intrecciano fantasticamente nel terzo quadro), dei desideri di coloro che la abitano. E infatti, poche battute più tardi, Cotrone ribadirà: «I fantasmi… non c’è mica bisogno d’andarli a cercare lontano: basta farli uscire da noi stessi» (p. 1341, c.m.). Il prodigio dunque nasce dall’uomo, ma non, si badi, dalla sua parte cosciente e raziocinante (come la magia maschile e consapevole nei primi racconti bontempelliani), bensì dalla parte più caotica e incontrollabile della psiche – i desideri, l’immaginazione, i sogni. L’unica condizione è infatti che gli abitanti si adeguino al fondamentale comandamento della comunità, quello di smettere di ragionare, oppure, secondo una facile traduzione in termini freudiani, rinunciare al controllo razionale del super-io e lasciar fluire liberamente i contenuti dell’inconscio (da questo punto 40. E già nel secondo quadro, illustrando i vari tipi di fantasmi che si rappresentano alla Scalogna, Cotrone aveva paragonato la loro attività ai giochi infantili: «Con la divina prerogativa dei fanciulli che prendono sul serio i loro giuochi, la maraviglia ch’è in noi la rovesciamo sulle cose con cui giochiamo, e ce ne lasciamo incantare. Non è più un gioco, ma una realtà meravigliosa in cui viviamo, alienati da tutto, fino agli eccessi della demenza» (p. 1345).

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di vista, la costruzione dei sogni del terzo quadro, con il tentativo di riproduzione della logica onirica, assume un significato quasi rivelatorio 41). Quasi a chiarire ulteriormente il riferimento all’inconscio, Cotrone stesso precisa poco dopo da quale parte della psiche umana provengano le immagini e i desideri, nei quali si configura una vera e propria ‘verità alternativa’a quella comunemente accettata: ILSE. […] Lei inventa la verità? COTRONE. Non ho mai fatto altro in vita mia! Senza volerlo, Contessa. Tutte quelle verità che la coscienza rifiuta. Le faccio venir fuori dal segreto dei sensi, o a seconda, le più spaventose, dalle caverne dell’istinto. (pp. 1343-44)

Il processo creativo dell’opera d’arte ha carattere analogo a quello del prodigio, che può esserne agevolemente (sebbene un po’ riduttivamente) considerato metafora: spontaneo, irrazionale, naturale – tanto che nel terzo quadro del dramma sarà la sola forza del testo poetico (quello della Favola del figlio cambiato) a provocare il materializzarsi dei fantasmi, cioè le due vicine che fanno da spalla alla recita di Ilse. Una concezione mistica dell’opera, e assai lontana da quella «artigianale» proposta da Bontempelli, come abbiamo visto, fin dai Preamboli a «900»; alla quale anzi Pirandello parrebbe quasi controbattere apertamente, nel discorso tenuto nel 1934 al Convegno Volta sul Teatro Drammatico: il mistero d’ogni nascita artistica è il mistero stesso d’ogni nascita naturale; non cosa che si possa fabbricare ma che deve naturalmente nascere, non a caso e tanto meno a capriccio degli scrittori, come libertà senza leggi, come erroneamente suppone chi non sa, ma anzi obbedientissima alle sue inderogabili leggi vitali 42. (Pirandello 1970, p. 1038)

Le differenze di statuto del soprannaturale e di concezione dell’opera d’arte non possono che riflettersi in una differente idea del mito, che in certo senso per Pirandello rappresenta una combinazione di questi due aspetti. Come si è già detto, Pirandello ha del mito una concezione archetipica e atemporale: i miti sono complessi di simboli ed exempla eterni e universali, i quali permangono intatti e vitali attraverso le varie epoche storiche e il succedersi delle civiltà, come una sorta di serbatoio al quale l’artista – e, più in generale, l’uomo – possa attingere in qualsiasi momento: Le origini dei miti sono appunto queste: le vicende elementari e inderogabili dei cicli terrestri: le albe, i tramonti, le nascite, le morti 43. 41. Secondo la maggior parte degli studi (a partire dalla biografia di Giudice), l’incontro di Pirandello con le teorie freudiane potrebbe essere avvenuto all’inizio degli anni Trenta: starebbero a dimostrarlo se non altro i molti indizi di una certa dimestichezza con le teorie psicanalitiche nel dramma Non si sa come (1934). 42. A riprova della analogia tra creazione artistica e prodigio nei Giganti, si può osservare come Pirandello nel descriverli ricorra a delle formule pressoché identiche: parlando dei fantasmi, infatti, Cotrone precisa: «A noi basta immaginare, e subito le immagini si fanno vive da sé. Basta che una cosa in noi sia ben viva, e si rappresenta da sé, per virtù spontanea della sua stessa vita. È il libero avvento d’ogni nascita necessaria» (p. 1362, c.m.). 43. Da un’intervista a Alberto Cecchi del marzo 1928, a proposito della Nuova colonia (citata ancora in Giudice 1963, p. 495).

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Le vicende «elementari e inderogabili», in una parola, archetipiche: dunque universalmente ed eternamente valide – mentre abbiamo visto che secondo la teoria novecentista il mito è un’espressione sì «elementare», ma soprattutto primigenia: ossia resa possibile soltanto in occasione di un nuovo inizio, profezia e sintesi delle caratteristiche dell’era e dell’Umanità che sta cominciando un nuovo ciclo. Ne deriva anche che, nel caso di Pirandello, non vi sia alcuna contraddizione nel far rivivere – naturalmente mutati dal tempo in cui vengono ripresi e rappresentati – dei miti vecchi di due millenni o più, come appunto quelli di Medea e di Lazzaro: giacché si tratta di nuove espressioni di archetipi eterni; viceversa, la contraddizione è evidente nei travestimenti novecentisti, che vengono invece offerti come nuovi miti per una nuova Epoca e una nuova Umanità. Alla radice di tutte le differenze segnalate, sta proprio il fatto che Pirandello non condivida l’utopia futurista e bontempelliana della «nuova era», nella quale l’uomo possa riacquistare la primigenia ingenuità e riattingere grazie a essa alla rinnovata sorgente del mito: Pirandello, nonostante la forte influenza della filosofia di Vico, dimostra sempre una convinta ostilità per le teorie cicliche; e, se è vero che qualcosa ha preso da Nietzsche, non si tratta certo della teoria dell’eterno ritorno 44. Lo stesso Bontempelli era perfettamente consapevole della differenza di concezione tra sé e Pirandello, e proprio per questo, nel suo discorso di commemorazione, lo colloca in chiusura della Seconda Epoca, come disgregatore dei suoi estremi esiti (una funzione che nei Preamboli del 1926 aveva assegnato anche al futurismo): E nell’opera di Pirandello il mondo romantico e le sue postreme deduzioni si distruggono fino all’ultima cellula. Di qua dal mondo che Pirandello ha denudato – ecco la denuncia – la compagine umana non può trovare che la distruzione totale, o il ricominciamento. Ricominciare, dai primi elementi. (Bontempelli 1978, p. 814)

Il mito del nuovo inizio in versione pirandelliana, Bontempelli lo individua nel progettato romanzo Adamo ed Eva 45, e si rammarica che Pirandello non abbia vissuto abbastanza a lungo da poterlo scrivere: si tratta infatti di un romanzo che Pirandello non riuscì mai a intraprendere – e, verrebbe da aggiungere, non a caso. Alla possibilità di «ricominciare dai primi elementi», almeno a giudicare dalle sue opere e dalle dichiarazioni, Pirandello non crede mai, neppure nei primi anni di entusiasta infatuazione per la svolta fascista. Al contrario, continua a leggere il proprio periodo storico come un’epoca di crisi, un’epoca che ha dimenticato «quegli archetipi che son dati al genere umano per guida e freno dei sentimenti» (secondo 44. Tra i vari possibili rimandi a riguardo, si può fare l’esempio di una novella del 1901, Notizie del mondo, che riporta le lettere dell’anziano e disincantato Tommaso al suo amico morto, Momino, al quale racconta gli avvenimenti del mondo ma anche le sue personali riflessioni. Tra di esse, troviamo anche una scettica esposizione della teoria del «Grande Anno»: «Sarei propenso a credere che tal credenza abbia avuto origine dal sogno di due esseri felici; ma poi non riesco a spiegarmi perché essi abbiano voluto assegnare un periodo così lungo [30.000 anni] al ritorno della loro felicità. Certo l’idea non poteva venire in mente a un disgraziato; e forse a nessuno oggi al mondo farebbe piacere la certezza che di qui a trenta mil’anni si ripeterà questa bella fantocciata dell’esistenza nostra. Il forte è morire. Morto, credo che nessuno vorrebbe rinascere» (Pirandello 1990, I, 1, p. 808-09). 45. Per il quale vd. Pirandello 1977, pp. 1098-99.

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la già citata annotazione del Taccuino di Bonn): la funzione dei suoi miti, appunto, non è di celebrare i valori nuovi dell’Umanità nuova, ma di rammentare quei valori fondamentali ed eterni che essa ha dimenticato. E infatti, se la trilogia mitica è indubbiamente ispirata da una volontà positiva e di ricostruzione, è altrettanto indubbio che la sostanza dei tre miti sia critica e radicalmente pessimista: La nuova colonia mostra l’evoluzione di una comunità dalla iniziale purezza alla inevitabile decadenza e corruzione, fino al venir meno del rispetto verso i più sacri valori; Lazzaro mostra i mali prodotti dall’ascetismo e dalla bigotteria; I giganti della montagna infine, per tornare al nostro discorso, delineano la parabola della morte dell’Arte nella società industrializzata e massificata: COTRONE. Ma io l’ho in odio, questa gente, signor Conte! Vivo qua per questo. E in prova, vedono? (mostra il fez che dall’arrivo degli ospiti tiene in mano e se lo caccia in testa) ero cristiano, mi son fatto turco! LA SGRICIA. Non tocchiamo, o oh! non tocchiamo la religione! COTRONE. Ma no, cara, niente da veder con Maometto! Turco, per il fallimento della poesia nella cristianità. (p. 1329)

A riprova di questo fallimento, poco dopo gli attori vengono informati che il teatro del paese, sul quale facevano affidamento per mettere in scena La favola, è ormai in disuso per mancanza di pubblico, e si pensa di abbatterlo per farci «un piccolo stadio» o addirittura «il cinematografo» – e sappiamo, fin dal Si gira… (1915), che Pirandello considera il cinema lo svilimento dell’opera d’arte in prodotto per le masse e industria dello spettacolo. Il paese – ossia il pubblico borghese e moderno – non sa che farsene dell’Arte, e anzi perseguita l’artista irridendolo o scandalizzandosi per le sue ‘verità’: per questo Cotrone è dovuto scappare, «perseguitato dagli scandali» (p. 1344), per venire a rifugiarsi nel suo magico Eden fuori dal mondo. A questo punto del dramma, si registra uno scarto rispetto alla struttura narrativa del mito delineata dalle prime due opere della trilogia. Il modello ‘crisi del valore-soluzione irrazionale e salvezza miracolosa del giusto’ prevedrebbe infatti che Ilse accettasse l’invito di Cotrone a restare alla Scalogna, dove potrebbe ristorarsi dei tormenti patiti per la cattiveria e la sordità all’Arte della società, e consumare la propria esistenza nel pieno godimento dell’ideale estetico – nello stesso modo in cui La Spera rimane da sola con la sua creatura nella natura incontaminata (dopo il miracoloso sterminio dei malvagi) e Lucio accetta di rientrare nella fede (grazie alla miracolosa illuminazione divina). Ma Ilse, a sorpresa, rifiuta tanto il deus ex machina del miracolo che la fuga nell’irrazionale: ILSE. Vuol dire che andrò io sola, a leggere, se non più a rappresentare la Favola. […] COTRONE. Comprendo che la Contessa non può rinunziare alla sua missione. ILSE. Fino all’ultimo. COTRONE. Non vuole neanche lei che l’opera viva per se stessa – come potrebbe soltanto qua. ILSE.Vive in me; ma non basta! Deve vivere in mezzo agli uomini! (p. 1408)

Perché Ilse rifiuta? Le interpretazioni della sua risoluzione potrebbero essere diverse, e nessuna appare così lampante e esaustiva da imporsi come dominante.

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Innanzi tutto, il trattamento mitico pirandelliano del tema dell’Arte e del teatro comporta un ovvio coinvolgimento personale e autobiografico dell’autore: basterebbe ricordare che tanto la Favola quanto i Giganti sono scritti per Marta Abba 46, l’attrice amata da Pirandello negli ultimi dieci anni della sua vita, e che la circostanza biografica è idealmente riflessa nei Giganti, in cui la compagnia della Contessa mette in scena l’opera che il poeta suicida ha composto proprio per sedurre l’attrice. Ma soprattutto non va dimenticato ciò che si è detto sul fiasco effettivamente incontrato sulle scene dalla Favola del figlio cambiato, fiasco che ha soltanto replicato in maniera più clamorosa gli insuccessi dei primi due miti 47: confrontando tali esiti con quello utopicamente prospettato nel romanzo Suo marito – quel sentimento mistico e quella «gioja tumultuosa» che Pirandello immaginava dovesse percorrere il pubblico dinanzi alla rappresentazione della Nuova colonia – possiamo facilmente immaginare la delusione e l’amarezza del loro autore per un pubblico che, con ogni evidenza, non lo capiva. A queste motivazioni di natura autobiografica si sovrappone però la particolare concezione del testo, che Pirandello pensava di offrire come ideale culmine e conclusione di tutta la sua opera teatrale. Abbiamo in parte visto come nei Giganti vengano ripresi temi e procedimenti centrali nel maggiore teatro pirandelliano 48: generalizzando, si può dire che quest’opera si offre come un tentativo di superare le diverse maniere drammatiche del primo e secondo Pirandello in una eccezionale sintesi, recuperando quindi, oltre ai temi, anche le modalità analitiche, il pessimismo radicale, la denuncia della crisi della prima produzione umoristica. Paradossalmente, questa volta il distanziamento dalla contingenza e la scelta di un’ambientazione fuori dal mondo, cioè fuori dalla vita d’ogni giorno e dalla concreta situazione storicosociale, consentono a Pirandello di costruire un’allegoria suggestiva ma anche estremamente lucida, realizzando quell’ideale di «prospettare» la vita contemporanea «sub species aeternitatis» che, nel discorso del ’34 al Convegno Volta (Pirandello 1970, p. 1038), indicava come il supremo e difficilissimo scopo dell’opera d’arte. Tra le ragioni della scelta di Ilse, però, potrebbe esserci anche una sorta di volontà di adeguamento alla logica mitica. Ilse si è spogliata delle proprie ricchezze e consacrata a quella che Cotrone stesso definisce una missione, ossia far conoscere agli uomini la bellezza dell’Arte: pur sapendo che la ‘buona novella’ è destinata a restare inascoltata e che tale missione la condurrà alla morte, e tuttavia decisa a tenervi fede «fino all’ultimo». Riconosciamo piuttosto facilmente nella sua vicenda il modello del paradigma cristologico; e accanto a esso, strettamente legato a esso (come sappiamo esserlo nella concezione pirandelliana) quello del capro espiatorio. Dunque Ilse non può cedere alla tentazione prospettata da Cotrone e rinuncia-

46. Vd. la lettera del 10 febbraio 1931: «E scrivo con gli occhi della mente fissi a te. […] Non potrei più andare avanti d’una parola, se la Tua divina Immagine ispiratrice m’abbandonasse per un istante. La seguo, questa Tua Immagine, nelle situazioni in cui l’ho messa, ed Essa a mano a mano mi trova le parole e mi crea le scene» (Pirandello 1995, p. 640). 47. Per un resoconto di questi fallimenti, vd. ancora Giudice 1963. 48. Ho accennato ai rapporti con i Sei personaggi e più in generale la riflessione metateatrale di Pirandello; tra i temi, andrà menzionata almeno la ripresa dello schema triangolare con la presenza di un figlio nato fuori del matrimonio (in questo caso, trasposto nell’opera concepita dalla relazione artistica di Ilse con il poeta suicida), che è un nodo tematico fondamentale del teatro pirandelliano.

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re alla missione sacra, che anzi persegue con quella aspirazione al martirio che caratterizza il capro pirandelliano. Il proseguimento e la conclusione (soltanto progettata) dell’opera confermano punto per punto l’adeguamento al modello del capro. Dinanzi alla ferrea volontà di Ilse, e data la esplicita refrattarietà all’Arte del pubblico borghese (vedi la chiusura del teatro del paese), Cotrone fa una proposta in linea con la sua identità ‘novecentista’: offre a Ilse di rappresentare la sua Favola in occasione di una grande festa dei «giganti della montagna», popolo «d’alta e potente corporatura», abbrutito dai «rischi e pericoli d’una immane impresa, scavi e fondazioni, deduzione d’acque per bacini montani, fabbriche, strade, colture agricole»; fatiche immani che «non han soltanto sviluppato enormemente i loro muscoli», ma «li hanno resi naturalmente anche duri di mente e un po’ bestiali» (p. 1360). La compagnia accetta, pur spaventata dalla brutalità del pubblico al quale va incontro. Dell’ultimo atto, rimane soltanto il resoconto di Stefano Pirandello, sul quale qualcuno non ha mancato di esprimere dei dubbi. Nelle sue linee generali, tuttavia, esso dovrebbe rispecchiare abbastanza fedelmente le intenzioni di Pirandello: gli attori si recano alla festa dei Giganti, i quali accettano che l’opera venga sì rappresentata, ma per i loro servi, perché essi hanno altro di cui occuparsi. Ed ecco che viene sfatato un altro dei più tenaci ideali novecentisti, quello del pubblico ingenuo e perciò naturalmente ricettivo all’Arte e al mito 49, poiché i servi si palesano come gente volgare, sorda alla poesia e interessata soltanto al varietà. Alle loro pretese Ilse reagisce con disprezzo, scatenando così la loro reazione violenta: invadendo la scena i servi l’aggrediscono e la uccidono – il suo corpo verrà condotto fuori scena «spezzato come quello d’un fantoccio rotto» – mentre i suoi compagni Spizzi e Diamante, accorsi in sua difesa, addirittura «sono stati sbranati: nulla più s’è trovato dei loro corpi» (p. 1375). Il delirio orgiastico della folla e la soluzione violenta ci riportano al racconto bontempelliano L’ultima notte di quell’anno e al modello tragico dello sparagmós, qui riprodotto esattamente, a classico compimento del destino del capro. Tra Arte e Vita si è interrotta ogni comunicazione, e la tomba «illustre e imperitura», che il Conte promette di erigere a Ilse con il risarcimento offertogli dai Giganti è anche il monumento funebre a un’idea dell’Arte (con la maiuscola) ormai definitivamente riconosciuta come impraticabile. Un’ultima annotazione: ho utilizzato la definizione di «modello tragico» per il finale dei Giganti; e infatti l’ultima opera incompiuta è anche quella che più limpidamente, tra le opere di Pirandello, rientra nel modo tragico. Innanzi tutto si può notare l’assenza del ricorso a qualsiasi strategia melodrammatica (ampiamente riscontrato invece nei primi due miti): gli scontri drammatici in atto – quello tra Cotrone e Ilse, e quello tra i «servi fanatici dell’arte» e i «servi fanatici della vita» da cui si originerà la catastrofe finale – non sono eticamente orientati lungo l’asse bene/male, bensì sono il riflesso del conflitto irrisolvibile, fatale, tra opposte conce-

49. Si legga ad esempio l’editoriale al primo numero della nuova serie di «900», intitolato Superbia, in cui Bontempelli riafferma orgogliosamente i princìpi del novecentismo che gli stolti critici mostrano di non aver compreso, ma che hanno invece raccolto «il consenso di una certa massa di gente ingenua» (Bontempelli 1928, p. 2).

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zioni della Vita, dell’Arte e soprattutto del loro rapporto. Una tale lettura acquisterebbe un significativo spessore se volessimo fidarci completamente del resoconto di Stefano Pirandello, in cui Cotrone offre dell’accaduto un’interpretazione di importanza fondamentale per intendere il senso dell’opera: Il Conte, rinvenuto, grida sul corpo della moglie che gli uomini hanno distrutto la poesia nel mondo. Ma Cotrone comprende che non c’è da far colpa a nessuno di quel che è accaduto. Non è, non è che la Poesia sia stata rifiutata; ma solo questo: che i poveri servi fanatici della vita, in cui oggi lo spirito non parla, ma potrà pur sempre parlare un giorno, hanno innocentemente rotto, come fantocci ribelli, i servi fanatici dell’Arte, che non sanno parlare agli uomini perché si sono esclusi dalla vita, ma non tanto poi da appagarsi soltanto dei propri sogni, anzi pretendendo di imporli a chi ha altro da fare, che credere in essi. (p. 1375, c.m.)

Il discorso di Cotrone – sempre, ripeto, che si voglia attribuirlo interamente a Pirandello stesso – getta una luce inedita sul significato dell’opera. Fin qui abbiamo rintracciato i riferimenti alla decadenza dell’Arte, al disinteresse del pubblico borghese, all’ostilità e all’incomprensione delle masse; e abbiamo assistito allo scontro tra le due diverse possibilità offerte all’artista: ritirarsi nella ‘torre d’avorio’ e accontentarsi di un consumo puramente narcisistico dell’ideale estetico (l’opzione di Cotrone), o continuare nonostante tutto la missione di condurre l’Arte tra gli uomini, a dispetto dei fallimenti e sino agli estremi esiti (la scelta di Ilse). Ma la colpa, afferma Cotrone, non è solo nella sordità delle masse e nel decadimento del senso estetico nella società borghese; la colpa è anche degli artisti stessi, che hanno perso il contatto con quelle masse e con la vita in generale, pretendendo poi di essere compresi ugualmente quando offrono al pubblico i loro privati sogni e le loro sublimi fantasie. La colpa, tradurrebbe facilmente un critico marxista, è della divisione del lavoro, che ha prodotto fatalmente quello scollamento. E proprio in questa fatalità di natura tragica potrebbe essere rintracciato il senso più profondo (e più attuale) dell’ultimo mito pirandelliano.

5. Su un’intervista poco conosciuta e sul rapporto Pirandello-Nietzsche Due mesi prima di morire (ottobre 1936), Pirandello rilascia a Giovanni Cavicchioli un’intervista che appare sul numero di ottobre di «Termini», rivista dell’Istituto Fascista di Cultura di Fiume. Qualche settimana dopo (15 novembre), il testo dell’intervista viene ripubblicato su «Quadrivio», con il titolo Pirandello parla di Pirandello. Si tratta di un testo a mio parere molto interessante, in cui Pirandello in un certo senso tira le somme della propria esperienza di mitopoieta, e in cui ritornano alcuni degli elementi sui quali si è discusso in queste pagine. Per questo motivo, e per il fatto che quest’intervista (al pari di molti altri interventi ‘occasionali’ di Pirandello) non appare in nessuna delle raccolte di scritti pirandelliani 50, mi è sembrato di qualche utilità riprodurne il testo per intero.

50. Brevissimi estratti dell’intervista vengono citati in Giudice 1963, pp. 525 e 544.

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Teatro serio, il mio, – dice Pirandello – vuole tutta la partecipazione dell’entità morale uomo. Non è un teatro comodo. Teatro difficile, diciamo teatro pericoloso. Nietzsche diceva che i Greci alzavano bianche statue contro il nero abisso, per nasconderlo. Sono finiti quei tempi. Io le scrollo invece per rivelarlo. «In questo nulla spero di trovare il tutto» dice Faust avventurandosi nella regione inferna delle Madri. Per poter scendere in fondo all’abisso ci vuole almeno la speranza di trovarvi Elena… Bisogna abituarsi a vedere nel buio. La difficoltà è tutta nell’esecuzione che dovrebbe essere pari alle difficoltà proposte. È la tragedia dell’anima moderna. Bisogna farla discendere dal palcoscenico fra questo pubblico. L’esecuzione dovrebbe avere appunto un carattere religioso: si tratta d’un «mistero» moderno. Se l’esecuzione fosse come la voglio, come la vedo, il pubblico, sono certo, seguirebbe, entrerebbe nel mio giro. In tempi d’azione e di rivoluzione questo teatro è teatro di rivoluzione e di esecuzioni capitali. In questo senso lo considero teatro del mio tempo. La distruzione esige una ricostruzione. Fa tabula rasa perché appaiono [refuso per «appaiano»?] nuovi valori. Essa chiama a raccolta perciò le più profonde forze vitali dell’uomo. Non ci sono programmi, non ci possono, non ci devono essere programmi e imbrigliamenti. L’arte, libera vita dello spirito, deve essere assolutamente libera, per manifestare se stessa. Tutto il mio teatro riconosce solo una necessità, proprio nel senso greco, una duplice contraddittoria necessità primordiale della vita: essa deve consistere e nello stesso tempo fluire. La vita ha pur da consistere in qualche cosa se vuole essere afferrata. Per consistere le occorre una forma, deve darsi una forma. D’altra parte questa forma è la sua morte perché l’arresta, l’imprigiona, le toglie il divenire. Il problema è questo, per la vita: non restar vittima della forma. È qui tutto il tragico dissidio della storia della libertà. Nietzsche, Weininger, Michelstädter, vollero far coincidere assolutamente, a ogni istante, forma e sostanza, e furono spezzati e travolti. Esiste in noi un punto fondamentale, un nucleo di sostanza vitale che non può essere impunemente chiuso e soffocato. Nei grandi momenti della vita lo sentiamo in pericolo e allora lo difendiamo. Nel Lazaro [sic] dò la risposta più netta al dissidio fondamentale, nel mio teatro, in quanto fatto religioso e sociale. Se all’uomo non libero togliete la forma, in quanto legame spirituale, subito egli ricasca fra le bestie, e il primo atto della sua così detta libertà è una fucilata contro un altro uomo, contro l’Adamo nuovo che vive in pace con la sua Eva. Il figlio allora si sacrifica, rientra nell’ordine, indossa ancora la veste sacerdotale per coloro a cui è necessaria. La sua fede razionale conduceva alla rovina, e non era che forma essa pure. Cristo è charitas, amore. Solo dall’amore che comprende, e sa tenere il giusto mezzo tra ordine e anarchia, tra forma e vita, è risolto il conflitto. Sono anche lieto che nessuna autorità religiosa abbia trovato da condannare. Della mia opera nulla è all’indice. La Civiltà Cattolica ne ha parlato a fondo, in tre articoli che formano addirittura un volume, e conviene della sua perfetta ortodossia. Perfetta ortodossia in quanto posizione di problemi. E tali problemi non comportano che una soluzione cristiana.

Si tratta di un testo dai molteplici elementi d’interesse e che riprende e conferma alcune delle osservazioni fatte sin qui. A cominciare dal ripiegamento del tardo Pirandello su posizioni gradite al pubblico borghese, che invece aveva avuto più di un’occasione per gridare allo scandalo nei decenni precedenti. E, poiché le abitudini sono dure a perdersi, allo scandalo aveva gridato anche di recente, per esempio in occasione dello stesso Lazzaro: tanto più significativo, dunque, che Pirandello cerchi a tutti i costi di rovesciare in positivo interesse le critiche feroci che erano piovute sul dramma proprio da parte dei cattolici – «Civiltà Cattolica» in testa.

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Un altro elemento interessante è il concetto di tabula rasa, di cui Pirandello si serve per ricapitolare la nuova prospettiva in cui egli cerca di inquadrare la propria opera a partire dalla seconda metà degli anni Venti. Come ho già detto, secondo questa nuova prospettiva la fase critica e umoristica della produzione pirandelliana viene ad assumerne il valore di momento negativo preliminare, necessario e funzionale alla successiva fase positiva, di ricostruzione dei valori e delle verità. L’idea di «tabula rasa», tuttavia, non è una novità in questo giro di anni, dal momento che è anzi uno dei concetti più insistiti della dottrina novecentista: Alla nuova espressione si può arrivare benissimo, anzi si deve arrivare, dal niente, dalla tabula rasa. (Bontempelli 1928b, p. 236)

Non si tratta soltanto di una questione terminologica: poiché con il ricorso a una tale formula Pirandello orienta la reinterpretazione della propria opera in un senso assai più preciso di quanto non avesse fatto finora – e un senso assai consono con le teorie novecentiste. Come abbiamo visto, nell’intervista rilasciata a «L’Impero» nel novembre 1924 Pirandello rigettava l’immagine convenzionalmente assegnatagli di «pessimista», «nichilista», per riaffermare il valore etico della propria arte, la quale consiste nel «creare il terreno sotto i piedi ad ogni passo che viene mosso dai miei personaggi», addirittura nel «creare la realtà»: la nuova immagine proposta, dunque, era quella di un Pirandello che analizza criticamente l’individuo e i rapporti sociali allo scopo di giungere a un fondo di certezze solide e a tutta prova – quelle certezze rappresentate negli archetipi di cui si costituiscono i miti. Questa intervista del ’36, invece, parrebbe cambiare ulteriormente la prospettiva: non più un’arte che va al fondo della contingenza per rintracciare i valori e le verità eterne, bensì che in un primo momento demolisce le certezze, le convenzioni, le ideologie perché in un secondo momento, sulla «tabula rasa», sia possibile ricostruire nuovi valori e nuove verità – se si preferisce, nuove convenzioni e ideologie. Insomma, Pirandello parrebbe infine aderire all’ideologia – già futurista, poi novecentista ma in ogni caso estremamente diffusa – del nuovo inizio: sebbene non si tratti di una «nuova era», di un «punto zero», e neppure effettivamente di un nuovo inizio storico, sociale o comunque collettivo, bensì semplicemente personale e artistico. Alla luce di un tale riorientamento, tuttavia non apparirebbe più così ingiustificata l’interpretazione novecentista di Pirandello offerta da Bontempelli nella sua commemorazione: Dopo l’ultimo scoppio, l’ultimo scroscio, e l’ultimo silenzio, non rimane che la tabula rasa. Sulla tabula rasa sappiamo che ricomincerà la vita, la vita dai primordi, dagli elementi. […] Luigi Pirandello sta col peso denso della sua opera a suggellare la Seconda Epoca della umanità civile d’occidente, a pronunciare di essa epoca la condanna implacabile, a indicare il deserto nuovo su cui dobbiamo costruire l’epoca nuova. (Bontempelli 1978, pp. 824-25)

Va inoltre tenuto presente che, in questi stessi anni, anche in Bontempelli si erano notevolmente attenuati gli entusiasmi degli anni Venti e che l’utopia del punto zero si era drasticamente ridimensionata: nel decennio intercorso tra i Preamboli e il di-

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scorso del ’37 infatti la cronologia bontempelliana delle Epoche è significativamente mutata, tanto che nell’edizione dell’Avventura novecentista del 1938, al primo Preambolo Bontempelli aggiunge una nota fondamentale: «Ma la guerra (la Guerra Europea), cominciata il luglio 1914, non è ancora finita. Perciò il nuovo secolo, e con esso la Terza Epoca, non è ancora cominciato» (Bontempelli 1978, p. 751). In qualche modo, per i due scrittori e amici si potrebbero delineare quasi due evoluzioni opposte di pensiero, la cui convergenza finale non potrà che apparire significativa. Un altro elemento d’interesse di quest’intervista pirandelliana è a mio parere il rimando al Faust. La citazione «In questo nulla spero di trovare il tutto» è un’esatta traduzione del verso 6255 del I atto della Parte Seconda della tragedia (dal che si deduce che Pirandello aveva letto attentamente o riaperto di recente il Faust), «In deinem Nichts hoff ich das All zu finden» (Goethe 1773-1831, II, p. 552). Ma è il rimando nel suo complesso ad essere significativo: Pirandello specifica infatti che la frase è pronunciata da Faust «avventurandosi nella regione inferna delle Madri». E aggiunge: «Per poter scendere in fondo all’abisso ci vuole almeno la speranza di trovarvi Elena… Bisogna abituarsi a vedere nel buio». Effettivamente il rimando è esatto: Faust ha chiesto a Mefistofele come fare per richiamare al mondo gli spettri di Elena e Paride, come gli è stato richiesto dall’Imperatore, e Mefistofele gli risponde che l’unica maniera è di scendere nell’abisso in cui abitano «le Madri», il luogo, appunto, del Nulla: «Von Einsamkeiten wirst umhergetrieben» (v. 6226) [«sarai travolto per le solitudini», pp. 550-51] lo avverte Mefistofele, e ancora «Nichts wirst du sehn in ewig leerer Ferne, / Den Schritt nicht hören, den du tust» (vv. 6246-47) [«in quella lontananza eternamente vuota non vedrai nulla, non udrai il passo che posi», pp. 552-53]. Faust si dichiara disposto ad andare comunque, con la speranza, appunto, di trovare il «Tutto» nel «Nulla» preannunciatogli da Mefistofele. Il riferimento pirandelliano potrebbe dunque essere interpretato come metafora di un tema che ritorna più volte negli scritti dell’autore (a partire almeno dall’Umorismo): quello della Conoscenza, o della Bellezza (Elena) conquistate a prezzo della solitudine, del coraggio, della agghiacciante contemplazione dell’abisso. Ma le Madri goethiane non sono divinità generiche, personificazioni magari della Grande Madre benefica e terribile, né sono custodi di un generico «abisso»; al contrario, il loro regno è qualcosa di ben preciso. Come Goethe spiega in uno dei colloqui con Eckermann, l’idea delle Madri gli deriva da Plutarco, che nella Vita di Marcello e in Della decadenza degli oracoli racconta di una città siciliana, Engyum, in cui c’è un tempio sede di dee chiamate «Madri», e di un campo in cui si trovano i lògoi – ossia le forme originarie, le basi prime – di tutto ciò che esiste nel mondo (p. 1088 n.). Dunque le Madri custodiscono le essenze immutabili, le idee platoniche o, meglio, gli archetipi di cui l’universo contingente rappresenta le attuazioni: e solo per questo motivo Faust vi può ritrovare anche Elena. Torniamo a Pirandello. Chiarito il significato del passo goethiano a cui fa riferimento, l’interpretazione del passaggio dovrebbe essere ovvia: Pirandello non parla di un generico «abisso», bensì dell’abisso in cui si celano gli archetipi; l’esplorazione di esso è segnata da angoscia, buio e solitudine, e l’uomo che vi si avventura dev’essere confortato almeno dalla speranza di riportarne un tesoro. E altrettanto chiara è la relazione tra questa immagine e la funzione che Pirandello assegna alla

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propria arte, in cui le convenzioni e le false certezze vengono violentemente scosse e abbattute, svelando l’orribile abisso che si cela dietro di esse; ma quest’operazione distruttiva non è fine a se stessa: poiché chi ha il coraggio di scendere in fondo a quell’abisso (cioè di partecipare all’opera con tutta la propria entità morale) e la capacità di «vedere nel buio» vi troverà in fondo il paradiso degli archetipi, e ne ritornerà con le nuove, eterne verità. Siamo così arrivati alle «bianche statue contro il nero abisso», e con esse a Nietzsche. Dopo un rapido controllo, credo di poter affermare con sufficiente sicurezza che non si tratta di una citazione vera e propria; ma non c’è alcun dubbio che Pirandello si riferisca alla Geburt der Tragödie (Nascita della tragedia, 1872). Il riferimento non è tuttavia totalmente generico, poiché l’immagine delle statue e dell’abisso che esse nascondono è già in Nietzsche, precisamente nel terzo capitolo dell’opera, e serve a rappresentare la dialettica di dionisiaco e apollineo: Um dies zu begreifen, müssen wir jenes kunstvolle Gebäude der apollinischen Cultur gleichsam Stein um Stein abtragen, bis wir die Fundamente erblicken, auf die es begründet ist. Hier gewahren wir nun zuerst die herrlichen olimpyschen Göttergestalten, die auf den Giebeln dieses Gebäudes stehen, und deren Thaten in weithin leuchtenden Reliefs dargestellt seine Friese zieren. (Nietzsche 1967-77, 1, p. 34) [Per comprendere ciò, dobbiamo per così dire disfare pietra per pietra il geniale edificio della cultura apollinea, fino a scorgere le fondamenta su cui esso è basato. Qui vediamo anzitutto le magnifiche figure degli dèi olimpici, che stanno sul frontone di questo edificio, e le cui gesta, raffigurate in luminosi e ampi bassorilievi, ne costituiscono il fregio. (trad. 1965-72, III, 1, p. 30)]

Dunque non direttamente le statue, bensì un edificio (quello della religione olimpica) ornato di esse; un edificio che anche per Nietzsche, com’è noto, è stato costruito per celare qualcosa di tremendo (che anche nell’allegoria del filosofo tedesco viene collocato al di sotto): Jetzt öffnet sich uns gleichsam der olympische Zauberberg und zeigt uns seine Wurzeln. Der Grieche kannte und empfand die Schrecken und Entsetzlichkeiten des Daseins: um überhaupt leben zu können, musste er vor sie hin die glänzende Traumgeburt der Olympischen stellen. (p. 35) [Ora si apre a noi per così dire la montagna incantata dell’Olimpo e ci mostra le sue radici. Il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza: per poter comunque vivere, egli dové porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli olimpici. (p. 32)]

E poco oltre ritroviamo anche l’immagine dell’abisso (del resto ricorrente più volte nel testo nietzscheano), ossia «l’abisso della contemplazione del mondo» che la cultura apollinea sconfigge grazie alle «immagini chimeriche» e alle «illusioni». Data la coincidenza, sembrerebbe dunque di poter affermare che il richiamo di Pirandello non sia generico, ma che anzi presupponga una effettiva lettura del testo. Ma non è tutto.

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Nel paragrafo che precede l’ultimo citato viene chiamata in causa anche Elena, come simbolo della serenità apollinea dei Greci, almeno agli occhi di un osservatore moderno: Und so mag der Beschauer recht betroffen vor diesem phantastischen Ueberschwang des Lebens stehn, um sich zu fragen, mit welchem Zaubertrank im Leibe diese übermüthigen Menschen das Leben genossen haben mögen, dass, wohin sie sehen. Helena, das «in süsser Sinnlichkeit schwebende» Idealbild ihrer eignen Existenz, ihnen entgegenlacht. (p. 35) [E così l’osservatore può rimanere profondamente colpito davanti a questa fantastica dovizia di vita, per domandarsi con quale filtro magico in corpo questi uomini tracotanti potessero aver goduto la vita, al punto che, dovunque guardassero, rideva loro incontro Elena, la dolce immagine ideale della loro esistenza, «fluttuante in dolce sensualità». (p. 31)]

Non è ancora l’Elena di Goethe, però, e non ha il valore simbolico che le assegnerà Pirandello; per trovare il riferimento all’episodio del Faust dobbiamo spostarci alla fine del capitolo XVIII, e, questa volta, il valore simbolico che Nietzsche assegna a Elena è uguale a quello che ella rivestirà per Pirandello. Il filosofo tedesco sta infatti immaginando una rinascita dello spirito dionisiaco nella modernità, e disegnando l’avvento di un’Umanità «tragica»: sollte es nicht nöthig sein, dass der tragische Mensch dieser Cultur, bei seiner Selbsterziehung zum Ernst und zum Schrecken, eine neue Kunst, die Kunst des metaphysischen Trostes, die Tragödie als die ihm zugehörige Helena begehren und mit Faust ausrufen muss: Und sollt’ ich nicht, sehnsüchtigster Gewalt, In’s Leben ziehn die einzigste Gestalt? (p. 119) [non sarebbe forse necessario che l’uomo tragico di questa civiltà desiderasse, nell’educare se stesso alla serietà e al coraggio 51, un’arte nuova, l’arte della consolazione metafisica, la tragedia, come l’Elena che a lui spetta? ed esclamasse con Faust: E non dovrei, con la più anelante violenza, Trarre in vita la forma unica fra tutte? (p. 122)]

Anche per Nietzsche dunque Elena è il simbolo del tesoro che attende l’uomo coraggioso, il quale sappia scendere nell’abisso (in questo caso, la conoscenza dionisiaca), dunque simbolo della tragedia rinata nella modernità – e, nell’intervista pirandelliana, la discesa nell’abisso alla ricerca di Elena viene definita esattamente «la tragedia dell’anima moderna» 52 – ma anche della «consolazione metafisica», ossia l’acquisizione della sapienza dell’inarrestabile fluire della vita e della mistica comunione dell’Essere che si cela dietro l’illusione della contingenza.

51. In realtà l’originale dice «Schrecken», vale a dire «terrore». La citazione faustiana in questo caso è tratta dalla Parte Seconda, atto II, vv. 7438-39 (p. 664): durante la Klassische Walpurgisnacht Faust si accinge appunto a richiamare alla vita Elena dal Regno delle Madri, dove ella è riprecipitata dopo la sua prima apparizione. 52. Si ricordi anche come Pirandello insista sulle profonde analogie di struttura (sottostanti alle apparenti diversità) tra la versione di tragedia da lui creata e quella dell’antica Grecia: «Tutto il mio teatro riconosce solo una necessità, proprio nel senso greco, ecc.».

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Per completare infine il repertorio delle analogie, anche Nietsche rimanda alle «Madri» del Faust, precisamente al capitolo XVI: Apollo steht vor mir, als der verkländere Genius des principii individuationis, durch den allein die Erlösung im Scheine wahrhaft zu erlangen ist: während unter dem mystischen Jubelruf des Dionysus der Bann der Individuation zersprengt wird und der Weg zu den Müttern des Sein’s, zu dem innersten Kern der Dinge offen liegt. (p. 103) [Apollo mi sta innanzi come il genio trasfiguratore del principium individuationis, grazie a cui soltanto si può conseguire davvero la liberazione nell’illusione; per contro al mistico grido di giubilo di Dioniso la catena dell’individuazione viene spezzata e si apre la via alle Madri dell’essere, verso l’essenza intima delle cose. (p. 105)]

Nessun dubbio che si tratti dello stesso concetto espresso di Pirandello: l’abbattimento delle statue apollinee, la discesa nell’abisso delle Madri alla ricerca della verità e degli archetipi. La citazione, oltre tutto, mi dà l’occasione per aprire una parentesi: se, anticipando le conclusioni di questo confronto, si volesse collocare la lettura pirandelliana della Geburt der Tragödie all’altezza del soggiorno tedesco di Pirandello (188991), non sarebbe fuori luogo ipotizzare un’influenza di questo passo e di altri simili dell’opera di Nietzsche su certi concetti dell’ultima parte dell’Umorismo, come l’opposizione del principio d’individuazione alla mistica comunione dell’essere, o la descrizione della visione epifanica, e tipicamente dionisiaca, di una realtà altra da quella della vita quotidiana. A titolo di esempio, vorrei proporre un confronto tra la descrizione nietzscheana degli effetti sull’individuo della conoscenza dionisiaca (capitolo VII) e un brano dell’Umorismo: Die Verzückung des dionysischen Zustandes mit seiner Vernichtung der gewöhnlichen Schranken und Grenzen des Daseins enthält nämlich während seiner Dauer ein lethargisches Element, in das sich alles persönlich in der Vergangenheit Erlebte eintaucht. So scheidet sich durch diese Kluft der Vergessenheit die Welt der alltäglichen und der dionysischen Wirklichkeit von einander ab. Sobald aber jene alltägliche Wirklichkeit wieder ins Bewusstsein tritt, wird sie mit ekel als solche empfunden; eine asketische, willeverneinende Stimmung ist die Frucht jener Zustände. […] In der Bewusstheit der einmal geschauten Wahrheit sieht jetzt der Mensch überall nur das Entsetzliche oder Absurde des Seins. (pp. 56-57) [L’estasi dello stato dionisiaco con il suo annientamento delle barriere e dei limiti abituali dell’esistenza contiene infatti, mentre dura, un elemento letargico, in cui si immerge tutto ciò che è stato vissuto personalmente nel passato. Così, per questo abisso di oblio, il mondo della realtà quotidiana e quello della realtà dionisiaca si separano. Ma non appena quella realtà quotidiana rientra nella coscienza, viene sentita con nausea come tale; una disposizione ascetica, negatrice della volontà, è il frutto di quegli stati. […] Nella consapevolezza di una verità ormai contemplata, l’uomo vede ora dappertutto soltanto l’atrocità o l’assurdità dell’essere. (pp. 55-56)]

Secondo Pirandello, invece:

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Lucidissimamente allora la compagine dell’esistenza quotidiana, quasi sospesa nel vuoto di quel nostro silenzio interiore, ci appare priva di senso, priva di scopo; e quella realtà diversa ci appare orrida nella sua crudezza impassibile e misteriosa, poiché tutte le nostre fittizie relazioni consuete di sentimenti e d’immagini si sono scisse e disgregate in essa. […] Con uno sforzo supremo cerchiamo allora di riacquistar la coscienza normale delle cose, di riallacciare con esse le consuete relazioni, di riconnetter le idee, di risentirci vivi come per l’innanzi, al modo solito. Ma a questa coscienza normale, a queste idee riconnesse, a questo sentimento solito della vita non possiamo più prestar fede, perché sappiamo ormai che sono un nostro inganno per vivere e che sotto c’è qualcos’altro, a cui l’uomo non può affacciarsi, se non a costo di morire o d’impazzire. (Pirandello 1970, pp. 152-53; c.m.)

I due testi andrebbero confrontati per intero; ma già da questi due brevi estratti si può notare come i due autori stiano descrivendo in realtà la stessa situazione, sebbene ciascuno facendo ricorso alle proprie personali modalità di rappresentazione: per Nietzsche, simboliche e tragiche, mentre Pirandello declina la descrizione in maniera più esistenziale e umoristica (nel senso di «soggettiva»: si noti l’uso della prima persona plurale). La collocazione all’inizio degli anni Novanta della ormai probabile lettura della Geburt der Tragödie da parte di Pirandello ci consentirebbe anche di dar ragione di un’analogia tra l’Amleto della parabola di Oreste nel teatrino del Fu Mattia Pascal e una parte di questo stesso brano, in cui Nietzsche presenta Amleto come prototipo dell’eroe dionisiaco integrale – analogia significativa soprattutto se si tiene presente che entrambi, Nietzsche e Pirandello, stanno discutendo la differenza tra Amleto e l’eroe tragico classico 53: Die Erkenntniss tödtet das Handels, zum Handeln gehört das Umschleiertsein durch die Illusion […]; nicht das Reflectiren, nein! – die wahre Erkenntniss, der Einblick in die grauenhafte Warheit überwiegt jedes zum Handeln antreibende Motiv. (p. 57) [La conoscenza uccide l’azione: per agire occorre essere avvolti nell’illusione […]. Non è la riflessione, certo – è la vera conoscenza, è la visione della verità raccapricciante, che prepondera su ogni motivo sospingente all’azione. (p. 55)]

Confrontando l’Amleto di Nietzsche e quello pirandelliano, sorprende la coincidenza che entrambi indichino l’origine dell’inazione amletica non tanto (come Schlegel e la tradizione romantica) nella riflessione, quanto propriamente nella conoscenza, identificata con la visione istantanea e sconvolgente dell’abisso che si cela al di sotto delle illusioni – quella visione appunto descritta da entrambi gli autori nei due passi della Geburt der Tragödie e dell’Umorismo che ho appena messo a confronto. Nel corso di questo capitolo, nel testo o nelle note, ho talvolta citato opere di Nietzsche come termine di confronto per passi o idee pirandelliane: per esempio

53. Di una probabile derivazione dell’Amleto di Pirandello da quello di Nietzsche parla anche F. COSSUTTA in Il mito di Oreste in Pirandello e Hoffmannsthal, in Gibellini 1999, p. 612.

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l’aforisma su Prometeo nella Fröhliche Wissenshaft e la versione pirandelliana del mito prometeico nell’Umorismo; o la Genealogie der Moral per il saggio Rinunzia. La stessa Genealogie potrebbe essere chiamata nuovamente in causa a proposito di Lazzaro: Diego Spina, il Padre, appare infatti una perfetta incarnazione dell’asceta descritto da Nietzsche nella dissertazione sugli ideali ascetici: vohin man nur sieht, überall der hypnotische Blick des Sünders, der sich immer in der Einen Richtung bewegt (in der Richtung auf «Schuld», als der einzingen LeidensCasualität); […] überall die Geissel, das härene Hemd, der verhungernde Leib, die Zerknirschung; überall das Sich-selbst-Rädern des Sünders in dem grausamen Räderwerk eines unruhigen, krankhaftlüsternen Gewissens; überall die stumme Qual, die äusserste Furcht, die Agonie des gemarterten Herzens, die Krämpfe eines unbekannten Glücks, der Schrei nach «Erlösung». (Nietzsche 1967-77, 5, pp. 389-90) [ovunque si guardi, c’è sempre lo sguardo ipnotico del peccatore, che si muove sempre in una sola direzione (nella direzione della «colpa», in quanto unica causalità del soffrire); […] in ogni dove la sferza, il cilicio, il corpo disfatto dall’inedia, la contrizione; in ogni dove il peccatore che mette se stesso alla ruota, alla ruota crudele di una coscienza senza pace, morbosamente libidinosa; in ogni dove il muto tormento, l’estremo terrore, l’agonia del cuore martirizzato, gli spasimi di una felicità ignota, il grido invocante «redenzione». (trad. 1965-72,VI, 2, p. 346)]

L’analogia più significativa (e che forse farebbe pensare a un’effettiva ‘parentela’) nel confronto fra la figura dell’«asketische Priester» di Nietzsche e il carattere del protagonista pirandelliano è l’associazione tra l’ideale ascetico e una sessualità malsana: puntualmente rilevata da Pirandello sia nel racconto di Lucio sulla perversione sessuale incontrata in seminario, sia nelle pesanti allusioni di Sara alla morbosità erotica del suo ex marito: «Sì, perché – faceva il santo, il tiranno – ma poi, quello che più mi inferociva di lui, quando mi s’accostava, era quella mollezza della sua timidità… (Tronca con un’esclamazione e un atto di schifo): – ah Dio!» (Pirandello 1958, II, p. 1198). Se si accetta l’ipotesi che il ritratto dell’asceta offerto da Nietzsche abbia in qualche modo influenzato la caratterizzazione di Diego Spina, qualche importanza può essere data anche a un altro passo della dissertazione, prossimo a quello appena citato, in cui vengono descritti i principali effetti degli ideali ascetici sugli uomini: «wir finden als andre Form seines Nachspiels furchtbare Lähmungen und Dauer-Depressionen» (p. 391) [«un’altra forma dei suoi effetti la troviamo nelle orride paralisi e depressioni croniche» (p. 348)]; ebbene, anche a non considerare significativo lo stato di prostrazione psicologica in cui versa Lucio, mi pare una coincidenza piuttosto rilevante che Lia, sotto la tutela del padre e la cura delle monache, sia divenuta appunto paralitica. Sul tema dei rapporti tra Pirandello e Nietzsche, la pur sovrabbondante critica pirandelliana si è finora mostrata stranamente disinteressata 54: fatto curioso, 54. Per esempio in Vicentini 1985, che è il più importante studio sulla formazione culturale di Pirandello, Nietzsche viene nominato solo per puntualizzare che tutte le somiglianze sono assolutamente generiche, e «possono dimostrare al più, da parte di Pirandello, una conoscenza indiretta e approssimativa» (p. 52). Fanno eccezione Graziella Corsinovi (1979), che inquadra le probabili letture nietzscheane di Pirandello all’interno

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considerando sia la formazione filosofica e filologica del Pirandello studente a Bonn, sia, soprattutto, la svolta irrazionalista e mitopoietica della sua produzione letteraria a partire dalla seconda metà degli anni Venti; e va anche ricordato come Pirandello citi apertamente Nietzsche in più di un’occasione 55. Probabilmente tra le cause della cautela degli studiosi ha avuto un peso predominante la ricezione entusiastica, riduttiva e acritica del pensiero nietzscheano nel panorama culturale del primo Novecento italiano: il Nietzsche reazionario e aristocratico di d’Annunzio o quello superomista e incendiario dei futuristi non potevano certo rivestire un interesse filosofico per il pensiero pirandelliano. Naturalmente in Nietzsche c’è ben di più di quanto la vulgata nietzscheana di fine Ottocento e primo Novecento non abbia diffuso in Italia; e del resto non c’è ragione di pensare che l’interesse di Pirandello per il pensiero di Nietzsche non potesse datare dai tempi del soggiorno tedesco, o comunque derivare da una lettura diretta delle opere del pensatore tedesco. Anzi, a sostegno di quest’ultima ipotesi vorrei citare l’atteggiamento ironico e un po’ sprezzante contro la pseudocultura da salotto appunto fatta di divulgazioni spicciole, manifestato da Pirandello in Suo marito (il romanzo, appunto, in cui Pirandello offre un impietoso ritratto dell’establishment culturale romano di inizio secolo): nel secondo capitolo del romanzo, Giustino si reca da Dora Barmis per avere dei lumi sui «nomi» che bisogna conoscere per far bella figura nei salotti: E come per raccogliere il frutto di quei primi ammaestramenti, quella sera, rientrò in casa con tre volumi nuovi da far leggere alla moglie: 1. – un breve compendio illustrato di storia dell’arte; 2. – un libro francese su Nietzsche; 3. – un libro italiano su Riccardo Wagner. (Pirandello 1985, I, p. 660, c.m.)

Si sa che non bisogna mai prendere troppo alla lettera l’umorismo pirandelliano; eppure mi parrebbe strano che Pirandello si facesse beffe proprio di chi conosce di Nietzsche solo generiche divulgazioni, se la sua personale conoscenza delle opere del filosofo si fermasse al medesimo livello… Proviamo dunque a tirare le somme. Devo premettere che i dati fin qui raccolti vanno naturalmente intesi come semplici spunti per una ricerca che non è certo pensabile di esaurire con una somma di confronti più o meno convincenti, ma che invece necessiterebbe di una lettura comparata attenta e sistematica. Su questa base sia pure esigua, tuttavia, penso che si possano delineare alcuni risultati preliminari. Mi pare che si possa dedurre con una certa sicurezza che Pirandello ha

della formazione filosofica dello scrittore, accanto a quelle di Kant e Schopenhauer; e Annamaria Andreoli (nella sua introduzione a Pirandello 1997), che indica possibili fonti nietzscheane in relazione all’elogio pirandelliano della follia, al «panismo» del finale di Uno, nessuno e centomila, e al violento rifiuto della filosofia nell’Avemaria di Bobbio. Tra i ‘possibilisti’, va annoverato anche Giancarlo Mazzacurati, che azzarda l’ipotesi: «Forse in Pirandello c’è più Nietzsche di quante letture banalizzanti dell’uno e dell’altro lascino credere» (Mazzacurati 1987, p. 227), sebbene sia più propenso a considerare che le somiglianze siano un effetto secondario della formazione germanista di Pirandello. Conclude l’elenco degli studiosi a favore dell’ipotesi il già citato Fabio Cossutta, con l’ipotesi di una parentela fra i due Amleto. 55. Per un elenco delle occorrenze esplicite di Nietzsche nei testi pirandelliani vd. Corsinovi 1979, p. 26.

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letto Die Geburt der Tragödie: i risultati emersi dal confronto fanno infatti pensare a una lettura di prima mano, piuttosto che a una generica ripresa della vulgata pseudonietzscheana. Inoltre, collocherei questa lettura durante il biennio 1889-91, cioè durante gli studi a Bonn, sia perché sembrerebbe di avvertirne degli echi almeno all’interno dell’Umorismo, sia perché nell’ultimo ventennio del secolo la discussione intorno alla filosofia nietzscheana era vivissima, soprattutto in Germania, e Pirandello ha dimostrato più volte di essere assai ricettivo nei confronti della cultura tedesca. Probabilmente l’interesse per il testo si è in qualche misura riacceso verso la fine degli anni Venti e soprattutto negli anni Trenta, quando Pirandello mirava alla creazione di una moderna tragedia attraverso i miti teatrali. Un’altra ipotesi forse altrettanto plausibile è quella di spostare in avanti anche la prima lettura di Nietzsche (per esempio alla prima edizione completa delle opere in traduzione italiana, quella dell’editore Monanni uscita nel 1927), dal momento che le coincidenze riscontrate tra l’ultima parte dell’Umorismo e Die Geburt der Tragödie potrebbero essere il risultato della influenza di Schopenhauer, comune sia a Pirandello sia al primo Nietzsche: il tema del «velo» della contingenza che copre un abisso di mistero è effettivamente uno dei temi schopenhaueriani più ‘forti’. Quanto alle altre opere: una lettura della Genealogie der Moral mi sembra probabile, se non altro per gli ovvi motivi d’interesse che il Pirandello anticlericale e critico della morale poteva nutrire per una tale opera. Eppure ci sarebbero anche degli elementi che porterebbero a escludere che Pirandello abbia letto, o almeno letto con attenzione, le opere tarde di Nietzsche. Infatti, per restare all’intervista del ’36 dalla quale siamo partiti, il sommario inquadramento della filosofia nietzscheana nel solito binomio Vita/Forma («Nietzsche, Weininger, Michelstädter vollero far coincidere assolutamente, a ogni istante, forma e sostanza, e furono spezzati e travolti») starebbe a dimostrare una considerazione riduttiva e parziale dell’opera del filosofo tedesco: come se, per Pirandello, tutto Nietzsche fosse riconducibile alla Geburt der Tragödie, e quindi al dissidio dionisiaco/apollineo (sbrigativamente tradotto in termini pirandelliani – anzi peggio, tilgheriani), mentre, come si sa, nel corso degli anni Ottanta la visione del filosofo muta radicalmente per approdare a una rivalutazione dell’immanenza, della divinità dell’uomo e della «volontà di potenza». Per le restanti opere, gli elementi raccolti non mi sembrano sufficienti per avanzare ipotesi credibili. E tuttavia, se questi primi dati risultassero convincenti, potrebbero costituire un buon punto di partenza per un’indagine complessiva sui rapporti tra Pirandello e il pensatore tedesco.

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4. Sondaggi trasversali

Lo scopo dei moderni mitologi è questo: avere sulla tavola qualcosa di molto appetitoso, che senza esitare si direbbe vivo, ma che è morto e che, quando era vivo, non possedeva un colore così gradevole. Furio Jesi, Gastronomia mitologica (1979)

on ho molta simpatia per le «conclusioni», riassunti un po’ sbrigativi solitamente a scopo retorico e persuasorio. Per concludere questo studio, vorrei fare piuttosto qualche esempio di indagine ‘trasversale’ attraverso l’opera degli autori di cui mi sono occupata, confrontando le loro posizioni su alcuni temi che hanno una stretta attinenza con la questione del mito – come la crisi del ruolo dell’intellettuale nel Novecento, il rapporto con la filosofia di Nietzsche, la tipologia dell’eroe novecentesco e il mito del ritorno all’infanzia. E chiudere con qualche considerazione sull’ideale di «mito moderno», cercando di puntualizzare i motivi per cui un tale obiettivo sia stato sostanzialmente fallito dai tentativi mitopoietici che ho analizzato.

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1. Funzione ideologica del mito Nei tre autori analizzati il ricorso al mito va inquadrato all’interno di una questione più generale, forse fondamentale per gli artisti del primo Novecento italiano: la perdita di sacralità (o caduta d’aura, se si preferisce la terminologia benjaminiana) dell’Arte, e la conseguente crisi del ruolo dell’artista nella società moderna. Lo strapotere economico delle industrie, l’importanza sempre maggiore della pubblicità, la trasformazione del pubblico in massa e il conseguente sviluppo dei mass media, sono altrettanti colpi mortali inferti all’Arte (con la maiuscola): e nella Vita operosa, in Suo marito o nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore i rispettivi autori forniscono delle analisi assai lucide della crisi che investe l’artista nei primi decenni del secolo. Del resto, l’argomento è stato ampiamente studiato 1. Tuttavia può essere interessante mettere a confronto le soluzioni proposte dai tre autori di cui mi sono occupata: soluzioni che passano tutte, sebbene in diverso modo, per il ricorso al mito. 1. Sulla questione mi limiterò a citare due testi fondamentali: naturalmente Benjamin 1936 e, per un inquadramento del problema all’interno del sistema letterario italiano, Curi 1977.

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La soluzione adottata dal futurismo è certamente la più audace, tanto precorritrice che sarebbero stati necessari svariati decenni per comprenderne appieno il significato: appiattire completamente l’opera d’arte sulla società, privandola della sua maiuscola e facendone un prodotto effimero e commerciale, da consumarsi nell’immediato e da dimenticare subito dopo; solo in questo modo l’arte può tornare a rivestire il suo ruolo di insostituibile specchio e coscienza della società, e l’artista può riacquistare il suo ruolo di genuino interprete del proprio tempo. L’errore commesso dal futurismo – errore di prospettiva del resto implicito nello stesso concetto di «avanguardia» – fu forse quello di non vedere che la società delle industrie, delle metropoli artificiali e dei consumi si avviava anche a diventare sempre più una società «di massa». Ci furono, certo, tentativi di una comunicazione collettiva e immediata (come l’apertura al Teatro del Varietà 2, o il grosso sforzo propagandistico in favore dell’interventismo) ma, in generale, il futurismo rimase un fenomeno volutamente elitario, ancora troppo legato a un ideale aristocratico della produzione culturale e della sua fruizione. La mitologia futurista e i connessi riti – al tempo stesso interpreti e strumenti essenziali dell’ambizione totalitaria del movimento – ricorrono infatti a un linguaggio e a una simbologia iconica e gestuale per iniziati, della quale alle masse non era comprensibile se non lo spirito farsescamente dirompente da un lato, e il livello più elementare dello slogan nudo e crudo dall’altro. «Bruciamo le biblioteche» è un messaggio ben chiaro, ma facilmente fraintendibile se non correttamente interpretato all’interno della grandiosa configurazione di quello che ho chiamato il «mito di successione dinastica» del futurismo; un mito che viceversa viene esposto per simboli e icone (i leoni, i pazzi, il figlio meccanico e così via) in gran parte indecifrabili per i non iniziati. Come abbiamo visto, il novecentismo evita ‘l’errore’ avanguardista, e si propone anzi come elaborazione di un’arte e una cultura a uso dei semplici. Come recita il quarto Preambolo a «900» (Analogie, dell’estate 1927): 4) il futurismo fu – ed era necessario – avanguardista e aristocratico. L’arte novecentista deve tendere a farsi ‘popolare’, ad avvincere il ‘pubblico’. Non crede alle aristocrazie giudicanti, vuol fornire di opere d’arte la vita quotidiana degli uomini, e mescolarle a essa. In altre parole, il novecentismo tende a considerare l’arte, sempre, come ‘arte applicata’, ha un’enorme diffidenza verso la famosa ‘arte pura’. (Bontempelli 1978, p. 768)

La limpidezza dello stile e la trasparenza del senso sono così un requisito fondamentale del buon testo novecentista, insieme con la completa abdicazione della soggettività autoriale in favore della storia raccontata. Per rimediare all’avvenuta scissione tra Arte e Società Bontempelli adotta dunque una soluzione per alcuni aspetti analoga a quella futurista (e si sono infatti registrati alcuni dei non casuali punti di contatto tra i due movimenti), ma con diverse significative differenze. Se la «nuova era» che sorge ripete il percorso delle ere che l’hanno preceduta, non c’è alcun bisogno di una rottura forzata con il passato, né di una lingua così

2. Vd. il manifesto del 1913 Il Teatro di Varietà (in Marinetti 1983, pp. 80-91).

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«nuova» da risultare incomprensibile a tutti coloro che non l’abbiano inventata (così come i primi cristiani non hanno smesso di parlar greco e latino, bensì hanno scoperto nuovi sensi e inventato nuovi sintagmi nelle lingue consuete): più che la radicale differenza, che era l’ideale dell’arte e della dottrina futurista, l’obiettivo novecentista sarà dunque la elementarità. Postulare l’inizio di un nuovo ciclo appare così una soluzione sufficiente ad appianare tutte le difficoltà concettuali, poiché, se tutto ricomincia daccapo, è naturale che sorgano nuove religioni e nuovi imperi, che il mondo sembri rinnovato e magico agli occhi ingenui degli uomini nuovi – ed è naturale soprattutto (almeno dal punto di vista dei novecentisti) che l’artista ritorni mitopoieta, l’inventore di «favole belle» che spiegano il mondo (appunto interpretando con un grado maggiore di consapevolezza proprio quello sguardo ingenuo) e nutrono la giovinezza dell’Umanità. Se ciò non è ancora accaduto, dicono i novecentisti, non è colpa né della civiltà né del pubblico – che anzi di quei miti sentono tutto il bisogno – bensì, appunto, degli artisti stessi, attardati in una pratica artistica solipsistica e sterile, rinchiusi nella loro torre d’avorio. Di qui l’insistenza del programma novecentista su una pratica letteraria che sia rivolta direttamente al «popolo», cioè alle masse ingenue, ignorando e aggirando l’edificio decrepito dell’establishment letterario. L’ideale di artista novecentista non è dunque né il rivoluzionario futurista né il «sacerdote» pirandelliano, bensì l’«artigiano», mitopoieta nel senso etimologico di «colui che fabbrica miti»: miti che, naturalmente, non possono che essere nuovi, poiché nuovo è il Tempo che li feconda e che dovrà accoglierli. Abbiamo già passato in rassegna le ragioni del fallimento del programma novecentista: da un lato, è velleitario presupporre che basti volerlo perché da un giorno all’altro si possa fare tabula rasa di una cultura vecchia di duemila anni; dall’altro, sappiamo che il mito non può nascere da un atto creativo puntuale e individuale. Il mito novecentista, lo si è visto, andrà classificato piuttosto sotto il genere della fiaba d’arte, e la sua «novità» spesso cela un riadattamento di vecchi schemi mitologici. Infine, Pirandello. Sulla questione della separazione tra Arte e Società, Pirandello adotta l’atteggiamento forse più ovvio, anche se il più scomodo: addita nei cambiamenti della società altrettanti mali per l’individuo (dedicando la maggior parte della sua opera narrativa e teatrale alla minuziosissima analisi delle condizioni in cui quei mali agiscono, e delle loro catastrofiche conseguenze), recisamente e senza possibili assoluzioni; l’unica salvezza è nel ritorno agli «archetipi», cioè i valori autentici e primordiali soffocati dal labirintico edificio della civiltà che pure ha in essi le proprie fondamenta. Attingendo a quella sorgente l’uomo sociale, ripudiate le maschere e le falsità del vivere civile, può purificare il proprio spirito stanco e ritrovare la propria più intima natura. Va da sé che il cómpito dell’Arte – cómpito altissimo – è appunto quello di mostrare tali archetipi, condurre gli uomini nella tremenda discesa alle più profonde regioni del proprio essere per ritornarne rinnovati e nutriti della verità che vi hanno incontrato; e dunque all’artista, in quanto sacerdote che officia tale rito, spetta un ruolo tanto importante quanto mai prima gli era stato affidato. A questo scopo appunto Pirandello può scrivere dei «miti», opere che additino agli uomini quelle verità fondamentali e, soprattutto, la via da percorrere per giungere ad esse, ed è ovvio che i miti pirandelliani trovino la

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loro naturale sede nel teatro, il mezzo che gli consentiva la comunicazione con un pubblico più ampio possibile. Come per i novecentisti, dunque, il mito è il luogo dove vengono svelate le verità ultime, da cui il popolo ingenuo potrà trarre il proprio nutrimento spirituale; e, come per i novecentisti, all’artista è consentito spingere lo sguardo più a fondo nel reale (per la dottrina novecentista: al di là del reale visibile) grazie a un’innocenza (o, per Bontempelli, un «candore») che ha saputo gelosamente serbare dalla propria infanzia, l’età per sua natura «magica». I giganti della montagna hanno però mostrato come Pirandello fosse consapevole della natura utopica della sua visione: poiché la società massificata, meccanizzata, oppressa da un lavoro alienante e dalle necessità materiali non è in grado di comprendere l’alto messaggio che l’artista ha affidato all’opera, né di intuire la sacralità del rito al quale è invitata a prendere parte. La rozza Roma fascista e imperialista 3 è altra cosa dall’Atene di Pericle: in questa condanna finale del progresso e della storia sta tutta la distanza della mitopoiesi pirandelliana da quella futurista e novecentista. La missione dell’artista è sacrificio; e tuttavia è una missione irrinunciabile per il martire (nel senso etimologico di «testimone») della Verità: Ilse lascia infatti il confortevole rifugio della Scalogna, la torre d’avorio in cui potrebbe confortarsi con il godimento narcisistico della Bellezza e l’approvazione di spiriti eletti e affini – perché l’Opera «vive in me; ma non basta! Deve vivere in mezzo agli uomini!» (Pirandello 1958, II, p. 1346). Nella sua sconfitta finale, per la quale Pirandello rinuncia anche alla soluzione estrema del miracolo, al deus ex machina con cui il conflitto era stato irrazionalmente risolto nei primi due miti, è possibile cogliere l’emblema più vivido del fallimento cui quella utopia era destinata.

2. Influenza di Nietzsche Nell’àmbito di questa ricerca, l’influenza di Nietzsche sui tentativi mitopoietici novecenteschi ha assunto quasi la caratteristica di un discorso collaterale, svolto in maniera discontinua e asistematica. Proviamo dunque a tirare sommariamente le fila di questo discorso. Come si è visto, la ricezione di Nietzsche da parte del futurismo potrebbe essere definita «entusiastica ma superficiale»: l’influenza delle opere di Nietzsche è senza dubbio consistente, ma per lo più limitata all’aspetto formale, intendendo per «forma» sia l’aspetto linguistico e retorico della produzione del pensatore tedesco, sia, più in generale, l’ampio corredo di simboli, immagini e metafore ai quali Nietzsche affida gran parte della forza e del senso del suo pensiero. Quello futurista è dunque un Nietzsche preso alla lettera, esteriorizzato, e in certo senso dato per scontato; e non a caso è il Nietzsche più visionario, principalmente l’autore di Also sprach Zarathustra, opera che sembra aver influenzato profondamente la forma, lo stile e il tono dei primi manifesti del movimento.

3. Quella che, secondo Umberto Artioli, è adombrata nei nomi dei due giganti sposi: Lopardo d’Arcifa e Uma di Dornio sarebbero in realtà i quasi trasparenti anagrammi di «Africa» e «un dio di Roma» (Artioli 1986, pp. 166-7).

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Se il futurismo guardava al Nietzsche degli anni Ottanta e della conversione vitalista, in cui poteva trovare un ampio repertorio di modelli formali e tematici pronti per l’uso, Pirandello invece sembrerebbe rifarsi al primo Nietzsche, quello più pessimista e schopenhaueriano: abbiamo visto come sia possibile accettare l’ipotesi di una lettura diretta e attenta della Geburt der Tragödie, sulla base non solo e non tanto degli echi che parrebbe di avvertirne già nel Fu Mattia Pascal e nell’Umorismo, ma soprattutto dell’adesione pressoché esplicita alle teorie esposte in quest’opera, nell’ultima intervista rilasciata da Pirandello a un mese dalla sua morte. Non è da escludere però che anche altre opere del filosofo tedesco possano aver lasciato tracce nel pensiero pirandelliano; e tuttavia, tenderei a escludere un’influenza diretta del pensiero nietzscheano degli anni Ottanta, di cui Pirandello, se pure ne aveva conoscenza, non pare condividere le nuove posizioni (fatta eccezione per alcuni aspetti della riflessione morale). Dunque sia Marinetti che Pirandello avrebbero subìto in una certa misura l’influenza di Nietzsche – un’influenza tuttavia «differenziata», proveniente da settori diversi del pensiero del filosofo e da aspetti diversi della sua opera. E Bontempelli? Nietzsche non è stato nominato nel capitolo sul mito novecentista, ma non perché sia assente dalle dichiarazioni di Bontempelli, al contrario: Nietzsche viene più volte citato, portato a esempio, apertamente lodato su «900» e altrove; e tuttavia si tratta di una presenza in certo senso scontata e, proprio perché esibita, tutto sommato non così rilevante. Per completare questo quadro sarà tuttavia utile fare qualche esempio. Nella definizione del programma novecentista Nietzsche entra in campo fin da subito, e con un ruolo di assoluto rilievo: nel secondo Preambolo a «900» (inverno 1926), intitolato Fondamenti, viene definito un «precursore della Terza Epoca»: La prima vittoria contro la bellezza fu il Cristianesimo. (Per questo Nietzsche – Nietzsche il Malcompreso, il precursore della Terza Epoca – doveva nel suo impegno anticristiano commettere l’errore di considerare ogni bruttezza come sintomo e simbolo di degenerazione). (Bontempelli 1938, p. 14)

Si tratta di una dichiarazione importante: soprattutto se si tiene conto del fatto che nel primo Preambolo Bontempelli si era affrettato a sbarazzarsi di eredità e filiazioni, proclamando la «legge dell’ingratitudine» nei confronti di anticipatori, padri artistici e quant’altri; e che nel quarto Preambolo, dovendo indicare dei «precedenti e maestri», preferirà cercarseli tra i pittori del Quattrocento piuttosto che tra gli scrittori o i filosofi più recenti. Ma il nome di Nietzsche non viene fatto a caso: nello stesso secondo numero di «900» c’è infatti un articolo di Julius Evola, intitolato Par delà Nietzsche, in cui si annuncia la resurrezione della religione dionisiaca, del culto solare e vitalista che per ben duemila anni il Cristianesimo ha soffocato con la fede trascendentale e l’ideale ascetico 4. Il luogo e il momento – il

4. Nonostante il titolo, nel saggio di Evola non si tenta alcun ‘superamento’ di Nietzsche, quanto piuttosto un sunto ispirato e fortemente retorico del messaggio delle sue opere tarde: «Donc ne pas vouloir un monde différent de celui qui est, mais le vouloir comme il est – absoluement, infiniment. C’est la mesure suprême de la force en deçà de la vérité même des Titans, la libération dionysienne» (Evola 1927, p. 149).

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secondo numero di «900» – sono senz’altro significativi; ma va osservato che il filone nietzscheano del novecentismo non avrà un gran séguito: anzi, si può tranquillamente affermare che non ne avrà alcuno. Del resto, il novecentismo in generale, e Bontempelli in particolare, non dimostra uno spiccato interesse per le questioni filosofiche, orientando piuttosto la loro attenzione sui fatti artistici, politici e culturali in senso lato. Nietzsche (quello, s’intende, delle opere tarde) è il profeta della Terza Epoca e il filosofo precursore del novecentismo: la dichiarazione di Bontempelli e la pubblicazione del saggio di Evola hanno quasi la funzione di un chiarimento preliminare, un’affermazione fatta proprio all’inizio perché poi non ci si debba pensare più. Generalmente, le occorrenze di Nietzsche negli scritti di Bontempelli rientrano in questa stessa categoria: di adesione esplicita e tuttavia, si direbbe, puramente ‘di principio’. Nel Riassunto del 1933, per esempio, Zarathustra è l’esempio della «ardita creazione»: «la grande avventura dell’uomo è proprio il pensiero; è muovere il creato secondo la necessità del proprio spirito, è inventare il Fedone, o Zarathustra» (Bontempelli 1938, p. 352). Altrove le affermazioni di Bontempelli fanno sorgere il dubbio che la sua conoscenza delle opere nietzscheane sia un po’ sommaria o di seconda mano, come quando, in un articolo dell’anno successivo, loda Ecce homo (1888) come esempio (accanto alle opere di Platone, alle Operette morali e al Cantico delle creature) di opera in cui «l’azione è fatta di contemplazione» (p. 203). Solo in qualche caso pare di sentire effettivamente l’eco del pensiero di Nietzsche, come in un intervento sul mito del 1933, che ricorda da vicino l’aforisma su Prometeo della Fröhliche Wissenshaft (che ho citato a proposito della sua somiglianza con un passo dell’Umorismo) 5: Ma l’uomo è l’uomo. L’uomo è il gran mito di se stesso; l’uomo non ha rinunciato al vecchio mito di Dio se non quando ha scoperto il mito del Dio-Uomo. (Bontempelli 1938, p. 185)

Non c’è tuttavia bisogno di ipotizzare una lettura diretta della Fröhliche Wissenshaft da parte di Bontempelli, dal momento che il concetto è uno di quelli più insistiti nella vulgata nietzscheana del primo Novecento. Maggior rilievo ha invece a mio parere l’influenza di Nietzsche in un altro intervento polemico, del 1938, intitolato Equivoco dell’arte per l’arte: S’intende che quando io parlo di identità, di incarnamento della morale nell’arte, intendo non di una o altra particolare regola di moralità, ma parlo della legge morale in assoluto, della legge morale come fondamento non come argomento; di quella legge morale unica che sta al fondo di ogni cosa e di cui ogni cosa veramente viva si crea: la Madre per eccellenza. Se qualcuno mi domanda che cosa è questa legge morale, quella che si trova nel più profondo, posso rispondere ch’essa è la appassionata ricerca di una sempre maggiore quantità e intensità di vita in atto. Il punto supremo di tale intensità, la mèta dello sforzo morale dell’uomo, è quel punto mistico in cui egli spera di sentirsi uno col tutto, traverso la comunione perfetta con le altre creature che vivono. Cioè, la legge morale è identica con lo spirito religioso.

5. Vd. supra, p. 122.

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L’arte – e dico proprio in atto, ogni opera d’arte, maggiore o minore, purché vera – l’arte non è, in ogni sua raggiunta attuazione, se non un riflesso di quella assetata ricerca dell’identità dell’uno col tutto, è la espressione diretta e naturale di quello sforzo. (In altre parole si può dire, in senso profondo, che l’arte è solo e sempre preghiera). (Bontempelli 1938, p. 211, c.m.)

Valeva la pena di leggere il passo per intero: sia per l’anomalia dello stile – solenne, insistito, compiutamente ‘scandito’, in definitiva assai diverso dalla piacevole e arguta leggerezza della conversazione bontempelliana – che per l’evidente ripresa di tematiche nietzscheane: l’intervento ricorda infatti da vicino un aforisma del Götzen Dämmerung (Crepuscolo degli idoli, 1888), intitolato appunto L’art pour l’art, nel quale Nietzsche nega che possa esistere vera arte che sia avulsa dalla morale, e individua come vero fine dell’artista la glorificazione della vita, di tutta la vita: Geht dessen unterster Instinkt auf die Kunst oder nicht vielmehr auf den Sinn der Kunst, das Leben? auf eine Wünshbarkeit von Leben? – Die Kunst ist das grosse Stimulans zum Leben: wie könnte man sie als zwecklos, als ziellos, als l’art pour l’art verstehn? (Nietzsche 1967-77, Band 6, p. 127) [Il suo ultimo istinto tende all’arte o non piuttosto al senso dell’arte, alla vita? a una immagine ideale di vita? – L’arte è il grande stimolante alla vita: come si potrebbe concepirla come priva di un fine, di una meta, come l’art pour l’art? (trad. 196572,VI, 3, p. 124)]

Non solo, poiché questo passo sembra anche presupporre la conoscenza (indiretta o, più credibilmente, diretta) delle pagine sull’arte del terzo libro della Wille zur Macht (Volontà di potenza, 1906). Com’è noto, si tratta di un’opera che Nietzsche ha progettato ma non ha mai scritto, e che è stata composta a posteriori da sua sorella Elizabeth e da Peter Gast sulla base di appunti, frammenti e progetti del filosofo; la questione è tuttavia irrilevante, dal momento che il testo spurio comunque circolava ed era letto nella prima metà del Novecento: in Italia, nel 1927, l’opera era stata tradotta nell’edizione Monanni delle Opere Complete di Nietzsche, suddivisa tra il volume IX (La volontà di potenza) e il X (Trasmutazione di tutti i valori). Il capitolo La volontà di potenza come arte è contenuta in quest’ultimo (Nietzsche trad. 1927, pp. 77-120), e contiene diversi passi che ci ricordano le riflessioni che Bontempelli veniva sviluppando proprio in quegli anni. Si legga per esempio l’aforisma 796, sul mondo inteso come suprema opera d’arte e sull’ideale di superamento dell’artista nell’opera d’arte in sé, autonoma e viva di vita propria: C’è un’opera d’arte in cui sembra non esservi un artista, per esempio quella che appare come corpo, come organizzazione (il corpo degli ufficiali prussiani, l’ordine dei gesuiti). In tal senso l’artista è soltanto un gradino preliminare. Il mondo può essere considerato come un opera d’arte che genera sé stessa. (Nietzsche trad. 1927, p. 79)

Oppure l’aforisma successivo, che potrebbe aver interessato Bontempelli ma anche il Pirandello «novecentista» dei Giganti, sul gioco come manifestazione di gioia divina e creatrice:

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‘Il gioco’, ciò che è inutile, – può essere considerato come ideale dell’uomo sovraccarico di forza, come cosa ‘infantile’. La ‘infantilità’di Dio, paîs paìzon. (p. 80)

Indipendentemente dal fatto se siano rintracciabili o meno delle ‘fonti’ precise, tuttavia, mi sembra che emergano comunque due dati interessanti: innanzi tutto, perlomeno verso la fine degli anni Trenta (e ricordiamo che l’intervista pirandelliana con le «bianche statue» è di due anni prima) Bontempelli sembra ispirarsi in maniera più concreta, seppure occasionale, al pensiero di Nietzsche; in secondo luogo, il creatore di «900» non sembra affatto portato per la riflessione e la discussione filosofica. Nel complesso, tuttavia, anche Bontempelli può essere inserito tra gli estimatori del filosofo tedesco; il suo interesse, però, si rivolge esclusivamente alle opere tarde (Ecce homo, lo Zarathustra, l’apocrifa Wille zur Macht): un dato che in una certa misura ribadisce le analogie di impostazione tra la mitopoiesi bontempelliana e quella futurista, mentre sottolinea le differenze di entrambe con quella pirandelliana.

3. Il ritorno dell’eroe Il ritorno della figura dell’eroe è un altro degli elementi che collegano le operazioni mitopoietiche dei tre autori analizzati: per Marinetti, Bontempelli e Pirandello, la creazione di miti implica necessariamente la presenza di un eroe che sperimenti le leggi dell’universo mitico o agisca in esso, condensando nella propria vicenda il messaggio e il valore dell’esperienza mitica. In realtà il termine «ritorno» è applicabile soltanto all’opera di Bontempelli e Pirandello, dal momento che la produzione futurista nasce fin dal principio sotto il segno del mito, e del mito propriamente eroico. Basterà ricordare il secondo e l’ultimo paragrafo di Fondazione e Manifesto del Futurismo: Un immenso orgoglio gonfiava i nostri petti, poiché ci sentivamo soli, in quell’ora, ad esser desti e ritti, come fari superbi o come sentinelle avanzate, di fronte all’esercito delle stelle nemiche, occhieggianti dai loro celesti accampamenti. […] Ritti sulla cima del mondo, noi scagliamo, una volta ancora, la nostra sfida alle stelle!… (Marinetti 1983, pp. 7 e 14)

Il primo testo futurista si apre e chiude con marcati accenti eroici, a chiarire fin dall’inizio il paradigma in cui si iscrive il modello umano e esperienziale propagandato dalla dottrina del movimento: quello dell’eroe attivo e più precisamente guerriero. Nei primi testi futuristi e nel romanzo marinettiano Mafarka il futurista (1909) sono presenti vistose tracce del mito titanico e prometeico: un risultato che conferma la forte impronta romantica sulla configurazione iniziale del movimento; non mancano però riprese del mito di Ulisse, sia nella versione omerica (l’astuto costruttore di macchine da guerra e l’esploratore impavido) che in quella dantesca e poi romantica (l’uomo assetato di ignoto, l’instancabile sfidante dei limiti umani e divini). Inoltre, il mito eroico e guerriero trova la propria collocazione naturale in una narrazione che aspira dichiaratamente alla modalità epica. Proprio sotto il segno di Prometeo, tuttavia, l’eroe guerriero si arricchisce gradualmente dei tratti di quello civilizzatore: nella versione dapprima grandiosamen-

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te mitica di Mafarka, creatore addirittura di una nuova razza umano-meccanica in grado di sfidare i vecchi dèi e dominare l’universo, per passare poi a quella più modesta e ‘colonialista’ di Kabango (Il tamburo di fuoco, 1922), il guerriero e al tempo stesso il profeta – un po’ Cristo, un po’ Zarathustra – di un nuovo vangelo scientifico e tecnologico che recherà benessere e civiltà alle popolazioni primitive. Nel corso degli anni Venti, infine, si assiste all’esaurimento dell’originaria ambizione totalizzante del movimento, e di conseguenza all’attenuazione dell’impulso mitopoietico: mentre la «ricostruzione futurista dell’Universo» cede il posto a un più modesto ideale di arte consolatoria e d’intrattenimento (magari nobilitata dal virtuosismo tecnico), l’eroe guerriero e civilizzatore riveste i panni del «grande seduttore» (peggio, del latin lover), l’epica trapassa in novella erotica o, nei momenti migliori, in effusione lirica, secondo il duplice filone dell’elegia da un lato, di un gioioso e aereo panismo dall’altro. L’eroe bontempelliano e pirandelliano appare invece il prodotto di una vera e propria rinascita. Abbiamo visto come entrambi gli autori approdino al mito nella seconda metà degli anni Venti, dopo aver praticato un modello di letteratura definibile come «umoristica» – sebbene ciascuno dei due autori declini l’umorismo secondo le proprie personali caratteristiche (divertissement, non sense, gioco metaletterario e meccanizzazione dei modelli per Bontempelli; sentimento del contrario, relativismo e arte della scomposizione per Pirandello), e con esiti differenti. A ogni modo sia Bontempelli che Pirandello, nel primo ventennio del secolo, demoliscono sistematicamente la tradizionale figura dell’eroe romanzesco. Gli esempi forse più limpidi di una tale operazione sono i due paradossali «romanzi di formazione» La vita operosa (1920) e Il fu Mattia Pascal (1904): nel romanzo bontempelliano l’eroe ottocentesco viene collocato in un ambiente metropolitano e postbellico, ambiente alieno e ostile che risulta ininterpretabile per i suoi strumenti culturali, e nel quale le sue potenzialità di azione risultano inservibili; mentre nel Fu Mattia Pascal l’impossibilità del paradigma eroico è radicata nella crisi della civiltà occidentale di inizio secolo, e sperimentata non soltanto a livello esistenziale, ma anche culturale e storico. La seconda metà degli anni Venti, insieme all’adesione al fascismo e a un ideale di letteratura positiva, per un ampio pubblico e mitopoietica, vede i due scrittori e amici d’accordo anche sulla necessità di offrire nelle loro opere esempi di «moderno eroismo». L’eroe pirandelliano, un eroe che potremmo definire «etico», presenta dei tratti incompatibili con l’eroe classico, che rimandano piuttosto al paradigma del capro espiatorio nella versione cristiana: infatti, anche laddove vi sia un rimando esplicito al mito classico – come nel caso della Medea di Euripide – Pirandello rielabora il modello originario nella direzione di una decisa razionalizzazione, facendo ricorso a strategie melodrammatiche e alla sovrapposizione di un ordinamento di tipo morale. L’eroe pirandelliano è l’individuo esemplare, il portatore dei valori ‘positivi’, che in base a una sistematica strategia melodrammatica viene messo a reagire in una comunità che abbia perso il rispetto e la fede in essi; il suo martirio – sia nel senso etimologico di «testimonianza» che in quello comune di «sacrificio» – viene premiato con il riconoscimento della sua superiorità etica e la punizione dei malvagi, magari grazie all’intervento del deus ex machina nelle vesti dell’evento

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miracoloso. Il conflitto dei valori, la persecuzione rituale, lo scontro finale risolto da un intervento miracoloso: la forma artistica in cui Pirandello aspira a collocare il suo mito non può che essere quella tragica – e infatti, nell’intervista rilasciata un mese prima della morte, lui stesso definisce i propri miti come «la tragedia dell’anima moderna». L’eroe di Bontempelli è invece il più anomalo, potremmo dire il più originale: un eroe che rispecchia perfettamente la sua particolare declinazione di mito, che nella modalità fantastica, nel tono e nello stile è accostabile piuttosto al modello della fiaba – magari, della fiaba mitologica di tipo ovidiano. L’eroe della fiaba novecentista ha dunque poco da spartire con il guerriero futurista e con il martire pirandelliano, entrambi prototipi di eroe attivo; bensì si caratterizza come personaggio contemplativo, che subisce passivamente l’azione degli altri (alla quale si oppone solo in forza di una sorta di insensibilità, di refrattarietà agli stimoli esterni) e le leggi di un universo di cui non prova neppure a penetrare intellettualmente il mistero. La sua unica attività è al limite il viaggiare, laddove però il viaggio si configura come un semplice accumulo di avventure e visioni meravigliose, alle quali non corrisponde un incremento di conoscenza e di saggezza del protagonista; e difatti l’eventuale ritorno non coincide mai con una raggiunta maturità, bensì, più spesso, ha origine dalla sazietà del mondo e del nuovo, e dal desiderio di regredire allo stato iniziale. Madina, Europa, Argentina concludono la loro avventura e i loro viaggi addirittura con una regressione a uno stadio prenatale, o almeno ‘preindividuale’: Madina si dissolve nell’acqua da cui è nata, Europa muore per ritornare in Oriente e risorgere insieme alla Fenice, Argentina perde la coscienza di sé in una sorta di dispersione nella natura. Si potrebbe forse obiettare che un personaggio così caratterizzato non presenti i tratti necessari per poter rientrare nella categoria dell’eroe; eppure non c’è alcun dubbio che Bontempelli lo considerasse tale, come si può intuire da una sua dichiarazione del 1933: Il compito più preciso della nostra letteratura potrebbe essere e dovrebbe essere – anche se la critica letteraria si sforza di inibircelo – quello appunto di ritrovare una nota di splendore solare, di riportare l’invenzione narrativa al poema. Riinventare gli eroi. (Bontempelli 1938, p. 170)

A questa netta presa di posizione si può aggiungere l’osservazione che i protagonisti dei miti bontempelliani, sebbene non presentino i tratti convenzionalmente associati alla tipologia dell’eroe, ne svolgono tuttavia la funzione narrativa: rendere possibile la rappresentazione di un’opposizione di valori. L’eroe bontempelliano è la sintesi vivente dei caratteri del mondo nuovo, il simbolo perfetto della novità della «nuova era», ed è proprio questa radicale alterità a renderlo incapace di interagire con gli altri personaggi, ancora appartenenti alla vecchia era e alla vecchia cultura. Il tratto dominante di questo eroe è il «candore», cioè una sintesi di ingenuità, elementarità e infantilismo, al quale è quasi sempre associata una capacità di attrazione prodigiosa e inspiegabile: gli eroi bontempelliani (non solo le candide fanciulle, o le bellissime divinità come Adria, ma anche i folli ispirati come Garcia) affascinano e provocano una sorta di mistica esaltazione (in una vasta gamma di manifestazioni che va da un’estasi di beatitudine al delirio orgiastico) in chiunque

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venga in contatto con loro, come se in essi il prodigio si incarnasse in una forma umana. Un’attrazione che non viene da essi in alcun modo ricambiata: e non a caso tra i modelli della fiaba bontempelliana il più rilevante è il mito di Narciso. Al quale va affiancato quello della Fenice, di cui Bontempelli sembra avvertire intensamente la suggestione, da un lato appunto per la sua radicale alterità rispetto all’esistenza e alla natura umana così come sono normalmente concepite, dall’altro perché essa è il simbolo del rinnovamento e della prodigiosa rigenerazione del tempo e della storia, e dunque l’espressione ideale dell’ideologia novecentista del «punto zero» e della Nuova Era. Un’ultima annotazione: a differenza del futurismo, che individua il proprio modello eroico nel giovane maschio guerriero coraggioso e tracotante, tanto il Pirandello mitico che il Bontempelli novecentista abbandonano il protagonista maschile prevalente della loro produzione umoristica e scelgono modelli eroici quasi esclusivamente femminili – segnando così una svolta significativa rispetto ai modelli tradizionali dell’eroismo moderno.

4. Il «fanciullo divino» Nelle grandi svolte della storia della cultura, e soprattutto negli istanti in cui la crisi del sentimento religioso si fa sintomo e annuncio del finire d’un ciclo, affiora dalle profondità della psiche l’immagine del fanciullo primordiale, dell’orfano. (Jesi 1968, p. 13)

Così scrive Furio Jesi, in un saggio del 1968, a proposito della figura del «fanciullo divino», il motivo del fanciullo che fa esperienza del mondo privo di guida, il quale ritorna ciclicamente ad affermarsi nei periodi di cambiamenti storici o ideologici: come appunto veniva avvertito quel primo Novecento che per tanti segnali – crisi ideologica, prima guerra mondiale, avvento del fascismo e così via – apparve ai contemporanei un tempo di crisi e di un nuovo inizio. Jesi riprende il motivo dallo studio di Jung e Kerényi del 1941, nel quale Jung descrive l’archetipo in questi termini: si tratta di un fanciullo divino, prodigioso, appunto non-umano, generato, nato ed allevato in condizioni del tutto anormali: le sue azioni sono altrettanto prodigiose e mostruose, quanto la sua natura e il suo aspetto fisico. Sono appunto unicamente queste caratteristiche non-umane quelle che ci impongono di parlare di un ‘motivo del fanciullo’. (Jung-Kerényi 1940, p. 123 n.)

Figura dell’unità e del rinnovamento, redentore e uccisore di mostri, androgino e invincibile: il fanciullo divino si è incarnato mitologicamente nelle figure di Apollo, Hermes, Zeus, Eros e Dioniso; ma ancora più numerose sono state anche le sue trasformazioni umane, nell’accezione di «giovane eroe». Attraverso questo archetipo, tanto attivo sul piano della psicologia individuale che su quello dell’immaginario collettivo, l’Umanità, secondo Kerényi, «parla della propria infanzia» (p. 75) ed esprime il proprio desiderio di rigenerazione, di ritorno all’unità originaria.

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Nella sua rassegna delle occorrenze novecentesche del motivo, Jesi non nomina nessuno degli autori di cui ci stiamo occupando; e tuttavia la situazione da lui descritta presenta svariate analogie con la posizione dei nostri autori: basterà ricordare la «crisi del sentimento religioso» illustrata da Pirandello nel Fu Mattia Pascal e nella novella Il Signore della Nave, la teoria dei cicli bontempelliana e l’aspirazione novecentista al ritorno a una condizione «primordiale», la capacità mitopoietica propria dell’infanzia secondo Cotrone, il quale invita i suoi compagni a recuperarne le potenzialità proprio nelle «profondità della psiche». L’idea dell’infanzia come età mitopoietica per eccellenza (idea non nuova, e risalente almeno a Vico) e l’invito a recuperare l’atteggiamento infantile e le potenzialità creative del bambino è un altro dei temi che collegano le tre esperienze di elaborazione novecentesca del mito che ho analizzato in questo studio. Soprattutto, il mito futurista e quello novecentista paiono i più fedeli alla descrizione offerta da Jesi: entrambi infatti hanno origine proprio dal gesto di violento rifiuto del Padre, vale a dire delle discendenze poetiche e della tradizione tutta: «Noi abbiamo sacrificato tutto al trionfo di questa concezione futurista della vita. Tanto, che oggi odiamo dopo averli immensamente amati, i nostri gloriosi padri intellettuali: i grandi genî simbolisti», dichiara Marinetti nel 1915 in Guerra sola igiene del mondo (Marinetti 1983, p. 302); e Bontempelli gli farà eco 12 anni dopo, ripudiando proprio i padri futuristi «per quella necessaria ed eroica ingratitudine e ribellione che i figli debbono avere verso i padri per non morire in loro» (Bontempelli 1978, p. 767). Del resto l’eroe dei nuovi miti novecentisti si caratterizza psicologicamente e intellettualmente come infantile, e proprio la figura del bambino dinanzi a un universo grandioso e inesplicabile è la chiave per interpretare correttamente la meraviglia, l’elementarità e l’atteggiamento di massima disponibilità (sintetizzati nella formula unica del «candore») cui il novecentismo invita l’uomo della Nuova Epoca 6. Per i futuristi il ritorno all’infanzia è invece inteso come recupero della massima spontaneità e libertà – libertà dai condizionamenti sociali e culturali, e soprattutto dalla logica razionale e borghese che imbriglia nei suoi sofismi la spontaneità delle energie vitaliste e creatrici 7. Si ricordi, a questo proposito, l’episodio allegorico dei due ciclisti che frenano la folle corsa automobilistica dei «giovani leoni», in Fondazione e Manifesto del futurismo: ed ecco ad un tratto venirmi incontro due ciclisti, che mi diedero torto, titubando davanti a me come due ragionamenti, entrambi persuasivi e nondimeno contraddittorii. Il loro stupido dilemma discuteva sul mio terreno… Che noia! Auff!… Tagliai corto, e, pel disgusto, mi scaraventai colle ruote all’aria in un fossato… (Marinetti 1983, p. 9)

La sazietà della logica e del sillogismo è risolta in un salto nell’irrazionale, vale a dire l’altrettanto simbolico «materno fossato», la cui «acqua fangosa» e «fortificante» 6. Un dato interessante, relativamente a Bontempelli, è la stretta associazione istituita da Jung e Kerényi tra il motivo del fanciullo e l’imagery dell’acqua: viene subito in mente Madina, creatura acquatica per eccellenza, ma anche i riti lustrali dei saggi-fanciulli protagonisti di Le ali dell’Ippogrifo. 7. Anche Maurizio Calvesi precisa il senso dell’elogio futurista dell’infanzia sottolineando che «L’infantilità è intesa come stato di gioia e di libertà, fuor dagli schemi di una meccanica razionalistica del pensiero» (Calvesi 1967, p. 18).

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ne esplicita ancor più l’analogia con il ventre materno. E che questo ritorno coincida con la suprema ‘liberazione’ ci viene confermato da un altro dei passi citati nel primo capitolo, cioè il delirio di Enrico Cavacchioli in Uccidiamo il chiaro di Luna!: – Io sento ringiovanire il mio corpo ventenne!… Io ritorno, d’un passo sempre più infantile, verso la mia culla… Presto, rientrerò nel ventre di mia madre!… Tutto, dunque, mi è lecito!… Voglio preziosi gingilli da rompere… Città da schiacciare, formicai umani da sconvolgere!… (Marinetti 1983, p. 18, c.m.)

Secondo un meccanismo di sorprendente ortodossia freudiana, regressione infantile, irresponsabilità, capacità mitopoietica e delirio d’onnipotenza procedono perfettamente affiancate: l’infantilismo appare così lo strumento e al tempo stesso la condizione basilare per l’espressione delle potenzialità vitali e creative dell’eroe futurista. Così, in maniera analoga ai tanto più aggiornati discendenti surrealisti, i futuristi (che conoscevano in parte Bergson e per nulla Freud) contro la ragione borghese ricorrono alle forze devianti dell’inconscio e della logica onirica, della follia mitopoietica e della mentalità infantile, cioè le antilogiche negate ed emarginate dal sistema per le loro potenzialità di sovversione e smascheramento. Il ruolo assegnato all’infanzia da Pirandello coincide solo in parte con quello futurista e novecentista: venendo meno l’utopia del «punto zero» e della Nuova Era, infatti, il mito del fanciullo divino perde gran parte della sua suggestione archetipica. L’infanzia pirandelliana non è una condizione culturale o storica, bensì puramente esistenziale; ma anche per lo scrittore siciliano il ritorno all’infanzia è essenziale alla mitopoiesi, e più in generale all’Arte, poiché l’artista è colui che ha saputo serbare gelosamente, nutrire e affinare mediante lunghi studi quella naturale disposizione creatrice del bambino 8. E anche per Pirandello, come per i futuristi, il ritorno all’infanzia è inteso come liberazione dalla logica razionale degli ‘adulti’: secondo la duplice regola insegnata da Cotrone, «non si deve più ragionare» e «se siamo stati una volta, bambini possiamo esserlo sempre» (Pirandello 1958, II, pp. 1340 e 1367). E tuttavia, il significato e il valore di quella regressione sono diversi da quelli rivestiti per il futurismo, per il quale l’irresponsabilità e la mitopoiesi infantile hanno una funzione attiva, essendo la modalità della gioiosa distruzione dell’universo e della storia, alla quale seguirà un’altrettanto gioiosa ricostruzione. Il mito pirandelliano, proprio come quello novecentista, nasce in un tempo in cui l’artista non si fa più alcuna illusione su a chi spetti di fare la storia e rimodellare l’universo, e su quale più modesto ruolo politico e storico sia invece riservato all’Arte 9: e dunque quel ritorno all’infanzia, nella versione novecentista e pirandelliana, andrà piuttosto letto come un ritrarsi dalla storia, una regressione a una condizione di beata innocenza e meraviglia in cui l’uomo possa trovare ristoro e consolazione, o al limite, come nel mito etico pirandelliano, riattingere alla fonte delle verità archetipiche e degli eterni valori – appunto, dei valori atemporali e astorici. 8. Si ricordino le affermazioni contenute nel saggio Non parlo di me (1933): «Creare forme di vita, o forme vive, che è lo stesso, è opera ingenua e naturale cui nessuna abilità potrebbe condurre, ed è una forza che all’artista resta dalla sua infanzia, una qualità del bambino che egli è stato» (Donati 1982, p. 112). 9. Ma si ricordi che, a quest’altezza, anche il futurismo aveva ridimensionato drasticamente la propria ambizione totalizzante.

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5. Sul «mito moderno» (tentativo di conclusioni provvisorie e aperte) Dopo l’analisi di questi tre tentativi mitopoietici, e alla luce di ciò che fin qui si è detto sulla natura del mito, è naturale interrogarsi sulla legittimità di quell’aspirazione mitopoietica: il programma mitopoietico del futurismo, del Bontempelli novecentista e dell’ultimo Pirandello è fallito per incapacità realizzativa dei suoi autori, oppure dietro quel fallimento andranno rintracciate delle ragioni strutturali, che rendessero costituzionalmente impossibile la riuscita di quei progetti? Detto in altre parole: indipendentemente dall’esistenza di una ipotetica «nuova era» e da qualsiasi discesa agli abissi, è sufficiente voler creare un mito per riuscire effettivamente a farlo? A questo proposito, potrebbe essere utile richiamare il modello di «genesi collettiva» del mito ipotizzato sia da Lévi-Strauss che da Blumenberg: vale a dire l’ipotesi per cui il mito come noi lo conosciamo, fin dalle sue primissime versioni scritte, non è mai un prodotto estemporaneo e individuale, bensì è il risultato di una lunghissima elaborazione orale grazie alla quale, darwinianamente, sarebbero state selezionate le varianti massimamente significative (o, per usare la terminologia di Blumenberg, pregnanti) e scartate lungo la via quelle meno riuscite. La «significatività» dei miti a noi tramandati, la loro evidente forza (intesa come capacità sia di trasmettere senso che di durare), sarebbe dunque il prodotto da un lato del lungo tempo di elaborazione, dall’altro delle caratteristiche della trasmissione orale. Ne deriva necessariamente che la cultura moderna, che si affida principalmente alla scrittura, non sia in grado di riprodurre un tale meccanismo di selezione, e dunque i miti moderni non possono che essere un pallido riflesso delle creazioni collettive delle comunità preomeriche o (in minor misura) medievali. Per ricorrere ancora alla formulazione di Blumenberg: Quasi tutti i tentativi di rimitizzazione sono nati dalla nostalgia per l’inoppugnabile evidenza di quelle supposte prime scoperte di un senso, ma sono falliti e falliranno a causa dell’irripetibilità delle condizioni che presiedettero alla loro genesi. (Blumenberg 1979, p. 204)

Da un diverso punto di vista, abbiamo visto che anche Lotman e Uspenskij sottolineano l’impossibilità di una genesi moderna individuale e volontaria dei miti: nell’analisi tipologica dei due studiosi, infatti, il mito si caratterizza fondamentalmente come espressione narrativa di una «coscienza mitologica», al di fuori della quale non può essere compreso né ricostruito. L’uomo moderno può ancora accostarsi al mito e in qualche modo comprendere il mito, poiché il nostro pensiero conserva degli «strati mitologici» – e dunque «la comprensione della mitologia equivale al riemergere di un ricordo» (Lotman-Uspenskij 1974, p. 97). Il prodotto di questi strati, la traduzione del mito nella nostra coscienza moderna, non mitologica, è la metafora; per questo motivo, la tendenza moderna verso il mito può esprimersi in un processo di senso inverso, vale a dire nella letteralizzazione della metafora: un procedimento che caratterizza l’arte del surrealismo (p. 99). Viceversa, i tentativi di mitopoiesi volontaria, di imitazione del mito mediante i mezzi stessi della coscienza non mitologica, sono costituzionalmente destinati al fallimento:

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Occorre distinguere gli strati mitologici, che insorgono spontaneamente nella coscienza individuale o sociale, e i tentativi coscienti, condizionati da ragioni storiche diverse, di imitare la coscienza mitogena coi mezzi del pensiero non mitologico. Testi di questo tipo possono considerarsi dei miti (e persino non venire distinti dai miti) solo dal punto di vista della coscienza non mitologica. Ma il loro organico inserimento nella serie non mitologica dei testi e la loro piena traducibilità in lingue non mitologiche attestano la fallacia di tale coincidenza. (pp. 99-100 n.)

Riassumendo: la mitopoiesi letteraria è puntuale, individuale e, proprio in quanto letteraria e individuale, prodotta da una coscienza non mitologica; per definire tali tentativi mitopoietici moderni Blumenberg ricorre alla formula di «miti d’arte», distinguendoli da quelli che lui chiama «miti fondamentali». Una definizione che ben si adatta ai testi dei quali abbiamo fin qui parlato: Uccidiamo il chiaro di Luna!, L’acqua, La nuova colonia sono tre diversi tentativi di imitazione del mito, tre diversi tentativi di recuperarne la funzione e le forme, privi di una genesi lunga e collettiva, e prodotti dalla coscienza individuale e non mitologica di autori letterati e umanisti. L’operazione si risolve così in una selezione, imitazione e rielaborazione di forme e materiali mitologici tradizionali, contaminati con forme e materiali moderni: a grandi linee, potremmo indicare nel mito futurista un modello di mito cosmologico di successione contaminato con temi e forme simboliste e nietzscheane; il mito novecentista rielabora la metamorfosi in versione ovidiana nelle forme della fiaba letteraria moderna; il mito pirandelliano, infine, da un lato lavora sul modello della tragedia classica traducendolo nelle forme del moderno teatro di massa, dall’altro lato rielabora il nucleo mitico mediante l’introduzione di elementi cristiani e la sistematica applicazione di una strategia melodrammatica. Tutti e tre questi testi – per riprendere la formalizzazione di Lotman e Uspenskij – sono pienamente «traducibili» in lingue non mitologiche, vale a dire comprensibili e spiegabili nel linguaggio proprio della coscienza non mitologica; e tutti, nonostante alcune anomalie rispetto ai prodotti artistici tradizionali, sono organicamente inseribili nella «serie non mitologica dei testi» letterari del primo Novecento. Bisognerà dunque dedurne che il «mito moderno» è un oggetto puramente utopico, costituzionalmente impossibile? Il problema se lo è posto anche George Steiner, nel suo studio sul mito di Antigone nella tradizione occidentale. Steiner parte dalla constatazione della sostanziale ripetitività dell’immaginario occidentale, che da quasi tre millenni continua a ripetere le stesse storie, vale a dire quelle ideate dai Greci; la sua spiegazione è legata all’ipotesi che il sistema mitologico nasca e si evolva in stretta connessione con quello linguistico, e che ciascun mito simbolizzi dei meccanismi e delle funzioni linguistiche: così Edipo e miti di parentela simbolizzerebbero la grammatica dei casi, il mito di Narciso rappresenterebbe «la lunga storia della definizione della prima persona singolare» (Steiner 1984, pp. 157), Prometeo i tempi verbali futuri, Memoria quelli passati, e così via. Al di là della singolarità della sua teoria – infatti i legami del mito con il linguaggio erano stati più volte affermati dagli studiosi, ma non era mai stata avanzata l’ipotesi di un rapporto causale diretto – Steiner riesce in tal modo a dar ragione della sostanziale mancanza di un rinnovamento nella mitologia occidentale:

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Il punto essenziale dovrebbe essere il seguente: le aggiunte al corpus primario dei miti (greci), primario in quanto autentica i segni semantici ed i riflessi della nostra condizione culturale, sono così rare quanto le aggiunte sostanziali alla struttura della nostra sintassi indoeuropea. Quali tempi significativi, quali coniugazioni, quali forme pronominali abbiamo annesso alla grammatica classica? Quali sono le differenze fondamentali tra i nostri strumenti metaforici e metonimici, analogici e deduttivi, e quelli usati da Omero e da Platone? (pp. 157-58)

L’Occidente non riuscirebbe dunque a rinnovare la propria mitologia poiché non ha rinnovato le proprie strutture logico-linguistiche: in parole povere, pensiamo ancora attraverso i miti greci poiché parliamo ancora la lingua greca. Non è mia intenzione discutere qui la plausibilità della teoria di Steiner – i cui punti deboli sono altrettanto evidenti quanto la sua affascinante originalità. Piuttosto, è interessante vedere come Steiner affronti la questione delle storie moderne che in qualche modo sembrano riprendere la struttura e la funzione culturale dei miti classici, compresa la lunga permanenza nell’immaginario collettivo. Steiner le riduce essenzialmente a quattro: Don Chisciotte, Amleto, Faust e Don Giovanni 10; tra queste, il solo Don Giovanni gli sembra possa definirsi un «mito moderno». Le ragioni della scelta di Steiner sono di diverso tipo. Innanzi tutto, sia Amleto che Don Chisciotte sono creazioni artistiche individuali, e nella coscienza collettiva rimangono strettamente legati al proprio autore e al testo originale: le imitazioni di Amleto – dal Lorenzaccio (1834) di Alfred De Musset agli omaggi della poesia russa – sono indubbiamente molte, ma non si registra quasi nessuna riscrittura della sua storia, nessuna «variante» 11, con la vistosa eccezione (anche se Steiner non vi accenna) dell’ingegnosa parodia Rosencrantz and Guilderstern are dead (Rosencrantz e Guilderstern sono morti, 1967) di Tom Stoppard; e anche in questo caso, l’efficacia della rielaborazione di Stoppard lascia intatta la vicenda e persino i dialoghi del testo originale, limitandosi al lavoro metaletterario su quanto il testo non dice, e anzi in certo modo affermando l’impossibilità che quei vuoti possano in alcun modo essere riempiti da un altro autore 12. Altrettanto accade per Don Chisciotte 13, e anzi anche nella sua tradizione si registra un’opera – il racconto Pierre Menard, autor del Quijote (Pierre Menard autore del «Chisciotte», 1939) di Jorge Luis Borges – che sottolinea l’impossibilità di riscrivere la storia se non come una replica minuziosa dell’opera di Cervantes, «palabra por palabra y línea por línea» (Borges 1944, p. 47) [trad. 1995: «parola per parola e riga per riga», p. 40].

10. Per una prospettiva diversa, e una diversa selezione di miti moderni, vd. Watt 1996. 11. Ci sono naturalmente le versioni come quella di Charles Lamb (nei suoi Tales from Shakespeare, 1807), vale a dire delle riduzioni in prosa a carattere divulgativo più che delle vere e proprie nuove versioni; l’unico caso interessante, per quanto sia anch’essa molto breve, è la riscrittura di Jules Laforgue (Hamlet, 1886), che Steiner definisce «un frammento inquietante, ma tangenziale al suo modello» (p. 150). 12. Anche Gérard Genette interpreta in maniera tutto sommato simile il senso dell’operazione di Stoppard, commentando: «È da idioti giocare a testa o croce con un’opera come questa: croce, vince lei, testa, perdi tu, e nessuna serie abolirà il destino» (Genette 1982, p. 252). 13. Infatti anche per il Chisciotte la riscrittura più autorevole, la Vida de Don Quijote y Sancho Panza (Vita di Don Chisciotte e Sancho Panza, 1905) di Miguel de Unamuno, si caratterizza come un commento al testo di Cervantes piuttosto che una sua rielaborazione.

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Dunque si tratta di due storie, e due personaggi, che hanno impressionato e influenzato profondamente l’immaginario occidentale, e che tuttavia non hanno subìto alcuna elaborazione collettiva, che non hanno dato vita al lavoro dell’immaginazione mitica collettiva, restando anzi fortemente legate ai loro autori e ai testi di appartenenza. Viceversa, tanto Faust che Don Giovanni sono un patrimonio collettivo: nati da leggende popolari (almeno il Faust), hanno prodotto una gran messe di versioni differenti, assurgendo in qualche modo a quell’«anonimato» che è la caratteristica distintiva del mito per Steiner. La ragione addotta da Steiner per l’esclusione di Faust dalla categoria del mito è che in realtà la sua storia sarebbe «una variante cristiana dell’archetipo di Prometeo» (p. 151). In questo caso, l’analisi risulta a mio parere meno convincente: Steiner infatti dimentica che uno dei meccanismi che presiedono alla genesi dei miti è proprio la trasformazione delle strutture di miti preesistenti – per esempio, Ercole e l’Idra, Teseo e il Minotauro, Perseo e Medusa rappresentano la stessa struttura mitica declinata secondo diversi significati e gradazioni. La storia e il personaggio di Faust trasformano i propri antecedenti classici a tal punto da occultare il loro rapporto con essi, da assumere vita propria nell’immaginario collettivo e da creare una tradizione autonoma. Se Don Giovanni può essere considerato un mito, allora dovrà esserlo anche Faust; e forse ai due andrebbe aggiunto almeno Orlando 14, che condivide la loro sorte di una lunga fortuna tanto nell’immaginario popolare che in quello letterario. Ma va sottolineato quel se: è legittimo e metodologicamente corretto assumere queste tre storie moderne – o anche una sola di esse – all’interno della categoria del mito, senza altro specificare? E, per venire all’argomento che più ci interessa, come dovremo collocare i tentativi più recenti? Ci sono risposte possibili all’utopia e all’appello prima romantico e poi novecentesco alla creazione di «nuovi miti»? In altre parole: intendendo questa volta per «modernità» non la civiltà occidentale dopo la fine del mondo classico, bensì, più correttamente, l’epoca che va dal tardo Settecento alla seconda metà del secolo scorso, può esistere il «mito moderno», il mito che simbolizzi, rappresenti, fondi una tale epoca e i suoi modelli dominanti? Sulla base delle considerazioni fatte, trovo che in linea di principio non sia impossibile la nascita di «miti moderni», ma essi andranno cercati non nelle opere scritte a tavolino dal letterato umanista nostalgico dell’originaria pienezza, bensì altrove, tra le forme di arte narrativa pienamente popolari, più anonime e legate al gusto e all’immaginario collettivo. E non sarà una ricerca troppo difficile, a maggior ragione nell’era dell’avvento della bassa letteratura, del cinema, del fumetto e della televisione – cioè di mezzi di diffusione culturale che si indirizzano alla comunità nella sua totalità e che per certi aspetti riproducono una forma di diffusione culturale non personale e indifferenziata, nel senso di poco legata tanto all’autore quanto al medium di diffusione: negli ultimi due secoli molte storie, indipendentemente dal medium per il quale erano state originariamente concepite, sono passate disinvoltamente dal testo scritto al fumetto, dal film al serial TV – e l’unico criterio della moltiplicazione è stato quello del successo di pubblico. Infatti, soprattutto con l’av-

14. Ma la serie dei miti popolari moderni potrebbe ulteriormente allungarsi con Sigfrido, Tristano, Perceval e molti altri.

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vento del cinema e dei mass media (che sviluppano delle tendenze già avviate dal teatro e dal feuilleton ottocenteschi), le esigenze di successo e audience ripropongono paradossalmente le condizioni dell’antica selezione orale, consentendo al pubblico di avere un enorme peso sui criteri di produzione delle opere. Si pensi soltanto a un meccanismo come quello dei cosiddetti «episodi pilota»: sui network statunitensi, da alcuni anni, la prima puntata di un progettato serial televisivo viene trasmessa in prova, per testare la reazione del pubblico e raccogliere eventuali spunti per miglioramenti sul modello base e i personaggi. Ma più in generale il meccanismo agisce a vari livelli per tutta la produzione artistica commerciale: i sondaggi, i fan club, ultimamente le newsgroup su Internet dedicate a personaggi, film, fumetti, serial televisivi – sono tutte importanti fonti di informazione sul gradimento popolare e di suggerimenti, fonti tenute nella debita considerazione da produttori ed editori, vale a dire da chi controlla e indirizza la produzione artistica commerciale. Le leggi, a guardar bene, solo le stesse dell’antica selezione darwiniana della diffusione orale: la storia che ha maggior presa sul pubblico viene ripetuta, le varianti più gradite vengono riprese e sviluppate, quelle meno gradite vengono espunte. Una vicenda esemplare è senza dubbio quella di Frankenstein: nato come romanzo nel 1818, è stato rielaborato in decine di versioni teatrali nel corso dell’Ottocento – la prima, già del 1823, è Presumption or The Fate of Frankenstein di Richard Brinsley Peake (andata in scena con grande successo all’English Opera House di Londra) – alcune delle quali comiche, o musicali; tra il 1910 e il 1994 si contano circa 40 versioni cinematografiche principali (escludendo cioè quelle con una circolazione ristretta); non mancano neppure le versioni «d’autore», come la sceneggiatura scritta da Cristopher Isherwood per il film Frankenstein: the True Story (GB 1973), lo spettacolo del Living Theatre dato alla Biennale di Venezia nel 1965, il film Andy Warhol’s Frankenstein (Il mostro è in tavola… barone F., ItaliaFrancia-Rft 1974) con sceneggiatura appunto di Warhol, Gothic (GB 1986) di Ken Russel, o il recente Mary Shelley’s Frankenstein (F. di Mary Shelley, USA 1994) di Kenneth Branagh. Un dato particolarmente interessante è quello relativo alle tendenze di sviluppo delle variazioni sulla trama base: a parte le parodie, o le modifiche più o meno rilevanti degli elementi interni della vicenda, una tendenza importante sembra seguire quello che Jesi e Vernant definiscono «principio genealogico»: The Bride of Frankestein (La moglie di F., USA 1935) di James Whale, Son of Frankestein (Il figlio di F., USA 1939), Frankenstein’s Daughter (La figlia di F., USA 1958) e Young Frankenstein (F. Junior, USA 1974) di Mel Brooks sono quattro esempi del tentativo di estendere il nucleo originale lungo un asse di parentela. Ma forse ancora più interessanti sono i film nei quali il mito di Frankenstein viene messo a reagire con altri miti o pseudomiti di massa: per esempio Frankenstein Meets the Wolf Man (F. contro l’uomo lupo, USA 1943), Dracula vs. Frankenstein (Dracula contro F., USA 1978) di Al Adamson, o ancora il rocambolesco The House of Frankenstein [La casa di F., USA 1944], dove Dracula, la Creatura e l’Uomo Lupo devono vedersela con un gobbo assassino e uno scienziato pazzo; oppure i film nei quali il nucleo originale viene arricchito di episodi collaterali tratti dall’infanzia dell’eroe – come Frankenweenee (USA 1984) di Tim Burton – o dalla sua vecchiaia – per esempio Frankenstein 1970 (USA 1958), con un invecchiato Boris Karloff. Naturalmente, questi sono solo alcuni casi trascelti dall’ampio repertorio delle riprese più esplicite: le citazioni, le brevi comparse di Frankenstein nella pro-

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duzione artistica popolare degli ultimi due secoli formerebbero un catalogo impossibile da compilare per la sua ampiezza, vastità e varietà. Dunque quello di Frankenstein potrebbe essere considerato un «mito moderno»? Personalmente, direi proprio di sì; e del resto la storia ideata e scritta per scommessa dalla giovane Mary Shelley, soprattutto grazie alla trasformazione subìta nell’immaginario collettivo, ha tutte le carte in regola per rientrare nella categoria: è una vicenda che parla di hybris punita, di un conflitto tragico, e soprattutto raccoglie l’utopia più forte dell’uomo moderno, quella di poter sconfiggere la morte, ma anche il suo malcelato terrore di fronte ai rischi della scienza e della tecnologia – temi, questi, che non rischiano certo di passare di moda, e che necessitano solo di modesti aggiornamenti per mantenere un posto centrale nell’immaginario collettivo. Tanto che ciascuno di questi due versanti della storia di Frankenstein alimenta altrettanti ricchi filoni della narrativa popolare: da un lato, il vasto e vario repertorio dei morti che ritornano, dalle declinazioni favolistiche e fantastiche a quelle propriamente horror; dall’altro, la ricca tradizione delle creature che si ribellano ai loro creatori umani, dagli animali umanizzati di The Island of Dr Moreau (L’isola del dottor Moreau, 1896) di H. G. Wells agli androidi di Blade Runner (USA 1982) di Ridley Scott. Rimarrebbe il problema posto da Steiner a proposito di Faust e di Amleto, e già dichiarato dal sottotitolo che Mary Shelley appose al suo romanzo: Frankenstein è «il Prometeo moderno», l’eroe punito per aver infranto le leggi divine allo scopo di fare un dono all’Umanità. Ma, come ho già detto, mi pare un problema mal posto: proprio come Faust e Amleto, anche Frankenstein ha rielaborato a tal punto e con tale efficacia il proprio modello da assumere un’identità propria e perfettamente definita, tanto forte da aver perso nella coscienza collettiva qualsiasi legame con quell’origine. Con questo, non intendo certo di aver esaurito la questione e battezzato Frankenstein come perfetto mito moderno, al pari di Don Giovanni e di Faust – e magari insieme a Dracula, Tarzan e Robinson Crusoe, che avrebbero ciascuno delle buone credenziali per ambire al titolo. Rimangono infatti molte possibili obiezioni delle quali dare ragione. Innanzi tutto, nessuno di questi presunti miti appare come un’espressione genuina di una logica mitica così come l’hanno studiata filosofi, sociologi e specialisti del mito, e come l’abbiamo fin qui intesa; inoltre, nonostante queste storie possano in una certa misura ritenersi dei prodotti dell’immaginario collettivo, non intrattengono strette relazioni con le credenze religiose della civiltà che li ha prodotti né hanno la pretesa di «fondare» in qualche modo l’ordine naturale o politico esistente; infine, non si manifesta quella tendenza a «comporre un sistema» che ho indicato come caratteristica dei miti prodotti da una stessa comunità – se non per qualche variante collaterale, sul genere appunto di Dracula contro Frankenstein, che non ha certo la pregnanza o l’efficacia per instaurarsi all’interno di un canone. Volendo affrontare la questione in maniera seria, bisognerebbe dunque indagare accuratamente se e come si possa parlare di una «coscienza mitologica moderna», e se e come le differenze con quella cosiddetta «primitiva» ci autorizzino a poter aggiornare anche le definizioni di mito e mitologia, in modo da poterle adattare ai fenomeni che vi si producono. Naturalmente l’argomento meriterebbe delle riflessioni ben più dettagliate e approfondite, e, dal momento che queste ci condurrebbero piuttosto lontani dall’oggetto specifico di questo studio, sarà meglio rimandarle ad altra occasione.

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Indice generale

INDICE GENERALE

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Indice generale

Mito, mitologia, mitopoiesi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

5

1. Sincronia e diacronia, p. 5; 2. Note per una definizione del mito, p. 12; 3. Mitopoiesi novecentesche, p. 24.

1. Il futurismo: mito e modernità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

30

1. Mito e mitologia, p. 30; 2. Fondazione e Manifesto del Futurismo, p. 37; 3. Uccidiamo il chiaro di Luna!, p. 41; 4. Prometeo e Dioniso, p. 47; 5. Da Mafarka a Kabango: le fonti del modello eroico futurista, p. 51; 6. La tenace resistenza del chiaro di Luna, p. 63.

2. Bontempelli e il mito novecentista . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

67

1. Il ricorso al mito in funzione polemica: La vita operosa, p. 67; 2. Da Nostra Dea a Madina: la metamorfosi in versione bontempelliana, p. 73; 3. Il mito novecentista, p. 90; 4. Vecchi e nuovi miti, p. 97.

3. Pirandello e il mito come archetipo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

109

1. Il fu Mattia Pascal: l’eroe e l’eclisse del sacro nella modernità, p. 112; 2. Portare a termine il mito, p. 119; 3. Il Pirandello «Vate» degli anni Venti, p. 123; 4. La mitopoiesi secondo Pirandello, p. 138; 5. Su un’intervista poco conosciuta e sul rapporto PirandelloNietzsche, p. 153.

4. Sondaggi trasversali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

164

1. Funzione ideologica del mito, p. 164; 2. Influenza di Nietzsche, p. 167; 3. Il ritorno dell’eroe, p. 171; 4. Il «fanciullo divino», p. 174; 5. Sul «mito moderno» (tentativo di conclusioni provvisorie e aperte), p. 177.

Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Indice generale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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C A RTO G R A F I E

D E L L



I M M AG I N A R I O

Saggi di letterature comparate COLLANA DIRETTA DA

REMO CESERANI

VOLUMI PUBBLICATI

IL

SOGNO RACCONTATO IN LETTERATURA

Sogni di carta. Dieci studi sul sogno raccontato in letteratura, a cura di Anita Piemonti e Marina Polacco, 2001, pp. 206, Euro 10,85. LETTURE

E INTERPRETAZIONI

PAOLO ZANOTTI, Il giardino segreto e l’isola misteriosa. Luoghi della letteratura giovanile, 2001, pp. 158, Euro 9,30. SIMONA MICALI, Miti e riti del moderno. Marinetti, Bontempelli, Pirandello, 2002, pp. 200, Euro 12,50. QUADERNI

DI

SYNAPSIS

I – I vecchi e i giovani, Atti della Scuola Europea di Studi Comparati. Pontignano, 24-30 settembre 2000, a cura di Marina Polacco, 2002, pp. 280, Euro 15,00.