Michelangelo. Una vita inquieta
 9788842084761

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Economica Laterza 453

Dello stesso autore nella «Economica Laterza»:

Raffaello. Una vita felice 1545. Gli ultimi giorni del Rinascimento

Antonio Forcellino

Michelangelo Una vita inquieta

Editori Laterza

© 2005, Gius. Laterza & Figli Nella «Economica Laterza» Prima edizione 2007 Terza edizione 2010 www.laterza.it Edizioni precedenti: «i Robinson/Letture» 2005 Progetto grafico di Silvia Placidi/ Graficapuntoprint L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte, là dove non è stato possibile rintracciarli per chiedere la debita autorizzazione. Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

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Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel luglio 2010 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8476-1

INDICE

INTRODUZIONE

IX

1. LA GIOVINEZZA 1. Nel nido di capre 2. Firenze magnifica e spietata 3. Un apprendista inquieto 4. Il giardino delle meraviglie 5. L’ultimo omaggio a Donatello

5 10 16 22 30

2. LA PRIMAVERA DEL GENIO 1. Attacchi di panico 2. Uno scherzo finito bene 3. La fatica dell’artista 4. Un Davide per la Repubblica 5. La bottega di Michelangelo 6. La lotta per il primato

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3. ALLA CORTE DI GIULIO II 1. Un papa battagliero 2. Un committente terribilmente paziente V

101 107

3. L’avventura della volta

119

4. La crisi

131

5. Pennelli

140

6. Il trionfo e la leggenda

145

4. TRA ROMA E FIRENZE 1. In nome del padre

155

2. Anni sereni

166

3. Ambizioni pericolose

176

4. La riconciliazione

183

5. Il fallimento

191

6. Prigioniero del destino

201

5. NEL SEGNO DEI MEDICI 1. Un artista conteso

213

2. Una politica fallimentare

222

3. In difesa della Repubblica

232

4. La gloria dei Medici

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6. GLI OCCHIALI DI MICHELANGELO 1. Un cuore ancora giovane

259

2. Il cielo e la terra

268

3. Il dono di Vittoria

279

4. Una passione eretica

291

5. La maniera nuova

302

6. I due Mosè

307 VI

7. LA CAPPELLA PAOLINA 1. Problemi di economia domestica 2. L’emozione della luce 3. La «Conversione di san Paolo» 4. Immagini pericolose 5. Lo sguardo di Pietro 6. L’ombra della censura

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8. LA FINE DELLE ILLUSIONI 1. Soggetti di devozione 2. La famiglia romana 3. Proposte di matrimonio 4. La «fabrica di Santo Pietro» 5. Sopravvivere agli amici 6. Paolo IV, il nemico 7. La «Pietà» distrutta

365 371 380 385 393 405 409

NOTE

423

REFERENZE ICONOGRAFICHE

459

INDICE DEI NOMI

463

Introduzione Il venerdì 18 febbraio 1564, Michelangelo di Ludovico Buonarroti, patrizio fiorentino, «divino» scultore pittore e architetto, moriva in una casa nel quartiere detto del Macello dei Corvi a Roma. Era una casa piccola, con al pianterreno alcune camere adibite a laboratorio, una fucina per forgiare attrezzi, una cucina e al primo piano le camere da letto. Cinque giorni prima, lunedì di Carnevale, sotto la pioggia fredda che illividiva Roma, qualcuno aveva visto quel piccolo vecchio vestito di nero, senza cappello, camminare per la strada. L’avevano riconosciuto, ma non avevano avuto il coraggio di avvicinarlo. Avvisarono Tiberio Calcagni, un discepolo che lo assisteva come un figlio, ma neppure a lui fu facile riportarlo a casa. Non voleva saperne di fermarsi e riposare. I dolori, diceva, non gli davano requie. Tentò di cavalcare il suo cavallino morello, come faceva sempre quando il tempo lo permetteva, ma quando capì che non ce l’avrebbe fatta, né avrebbe cavalcato mai più, fu preIX

so dal panico. Nonostante attendesse la morte ormai da decenni, adesso che era arrivata insieme a quella pioggia gelida s’impaurì come tutti gli uomini, anche quelli che come lui erano vissuti assai a lungo. Assistito da Daniele da Volterra, un altro suo discepolo, cominciò una lenta resa alla morte, attesa due giorni in poltrona vicino al fuoco e poi altri tre nel letto. All’ora dell’Avemaria del venerdì, vigile e assistito soltanto da Tommaso Cavalieri, Diomede Leoni e Daniele da Volterra, morì. Il quartiere del Macello dei Corvi era situato tra l’area dei Fori e le pendici del Quirinale. I disegni di antichità redatti da viaggiatori e studiosi ci danno un’idea molto precisa di cosa fossero in quegli anni i Fori su cui affacciava l’abitazione dell’artista: una campagna selvatica dalla quale emergevano gli scheletri dei maggiori monumenti dell’antichità. Primo e più grande tra tutti, la montagna bucata di travertino del Colosseo, con la base ancora sepolta e i fornici trasformati in grotte dove trovava albergo ogni tipo di precarietà. Poi i grandi archi trionfali, pure loro interrati fino a metà, dove nei giorni freddi come quelli che portarono via Michelangelo le mucche e le pecore si stringevano una addosso all’altra per ripararsi dalla pioggia, ammassandosi contro i rilievi di marmo scolpiti a eterna gloria degli imperatori. Sui ruderi e sugli alberi secolari che vi crescevano intorno, si alzavano infine le colonne ciclopiche del Tempio di Saturno, coronate dal marmo bianco della trabeazione miracolosamente sospesa nel cielo. Il quartiere, che limitava a nord la spianata dei Fori segnando l’inizio della città medievale e rinascimentale, non poteva dirsi uno dei siti eleganti della nuova Roma. Era già X

quasi campagna, con orti e vigne che s’intrufolavano nelle rovine della città antica, quelle stesse che Michelangelo, sotto la guida attenta del vecchio Sangallo, aveva disegnato e studiato appena arrivato da Firenze, sessant’anni prima. Da almeno un secolo, la strategia papale aveva concentrato la «rinascita» urbanistica di Roma dalla parte opposta, nell’ansa che il Tevere forma tra il Castel Sant’Angelo e l’isola Tiberina. Qui, a partire dagli ultimi anni del Quattrocento, i migliori architetti italiani avevano tentato di resuscitare l’architettura antica. Certo si erano dovuti accontentare di risorse infinitamente più limitate di quelle dei Romani, ma con l’ingegno erano riusciti a superare anche questo limite, facendone anzi motivo di un nuovo stimolo creativo. Raffaello, Bramante, Peruzzi e poi i Sangallo, artisti eccellenti che Michelangelo aveva conosciuto e che aveva visto morire uno dopo l’altro, avevano costruito in quest’area palazzi che sembravano arrivati direttamente dall’antichità. Bianchi, decorati con bugnati di pietra e con colonne, facevano bella mostra di sé sulle nuove vie tracciate ampie e diritte per aprirsi un varco nel dedalo di vicoli malsani in cui si era asserragliata la popolazione romana nel Medioevo, come un popolo naufragato che si adatta nel relitto di un’immensa nave. Nessuno di questi palazzi né di queste vie si trovava nelle vicinanze della casa di Michelangelo. Gli unici interventi urbanistici di qualche rilievo in quella zona li aveva eseguiti Paolo III, demolendo le catapecchie che assillavano la Colonna Traiana, il gigantesco tronco di marmo sul quale si srotolavano i rilievi con le gesta dell’imperatore romano. Lo aveva fatto per impressionare un altro imperatore, CarXI

lo V, venuto nel 1536 a inscenare una cavalcata trionfale a Roma dopo un fortunata battaglia contro l’ammiraglio dei turchi a Tunisi. Con senso scenografico molto moderno, Paolo III aveva pensato bene di liberare i monumenti più antichi della città, convinto che avrebbero impressionato il visitatore, assai permeabile alle suggestioni delle cerimonie e della teatralità. A parte ciò, il quartiere di Macello dei Corvi era a dir poco modesto. Case di soli due piani, addossate l’una all’altra senza cortili, costruite con materiali di risulta sottratti al cadavere della città antica. Tufi viterbesi rozzamente squadrati, montati su filari di mattoni romani rubati ai vecchi muri. Blocchi di peperino o anche travertino scolpiti, cementati senza nessun interesse per i rilievi raffinatissimi che supportavano, ma impiegati come blocchi nei cantonali, nelle soglie e negli architravi di porte e finestre. Qualche volta questo tessuto murario incerto e raccogliticcio aveva la protezione di un intonaco di pozzolana, livido, rosso o viola a seconda della localizzazione della cava, che quasi sempre era una vigna interna alle Mura aureliane. In questo quartiere povero Michelangelo era arrivato intorno al 1510, quando Giulio II o i suoi eredi gli avevano messo a disposizione quella casa-laboratorio perché vi lavorasse le sculture della tomba progettata per il grande papa Della Rovere. Poi nel 1517 aveva lasciato Roma ritornandovi nel 1533, artista ormai di fama mondiale. Negli anni successivi la sua fortuna economica e sociale non aveva conosciuto arresti. Eppure non si era mai spostato da quella casa così poco decorosa, così lontana dal centro della corte papale. La sua permanenza in quel quartiere periferico XII

era testimonianza di un’integrazione mai davvero voluta in una città dove sostanzialmente si era sentito per trent’anni un esule fiorentino. Anche le circostanze della morte furono quelle caratteristiche di un esule, a dispetto della fama che lo circondava. La malattia brevissima che lo atterrò era arrivata senza preavviso. Qualche mese prima, una mattina agli inizi di ottobre, era apparso in ottima forma sul sagrato della chiesa di Santa Maria sopra Minerva, accompagnato dai suoi fedeli servitori Antonio del Francese e Pier Luigi da Gaeta, forse per ascoltare la messa, ma certamente per dare ancora uno sguardo al suo adorato Pantheon, l’edificio meglio conservato dell’antichità, che sarebbe bastato da solo a dimostrare quale irraggiungibile bellezza avevano toccato i costruttori romani. Sul sagrato lo riconobbe e lo accolse con riverenza un altro fiorentino, Miniato Pitti, che poi descrisse il vecchio artista come un uomo che «Va chinato et con fatica alza il capo et anchora attende del continuo a scarpellare, standosi in casa»1. Quasi novantenne, Michelangelo continuava ancora a lavorare. E non con la matita, ma con lo scalpello e la subbia. Quattro mesi dopo quell’incontro, il vecchio vigoroso che si era presentato a cavallo sul sagrato di Santa Maria sopra Minerva morì nella miserabile casa di Macello dei Corvi: solo, senza neppure uno di quei parenti per i quali aveva lavorato e risparmiato tutta la vita, e in particolare senza il nipote Leonardo, che amava ma teneva lontano, a Firenze, infastidito dall’idea che aspettasse la sua morte per entrare in possesso delle sue ricchezze. Eppure di quelle ricchezze Leonardo poteva essere certo, perché uno degli XIII

scopi principali della vita di Michelangelo era stato proprio quello di rendere ricca e onorata la stirpe dei Buonarroti. Per quanto la storiografia successiva abbia cercato di trasformare Michelangelo Buonarroti in un mito addomesticato dalla magnificenza dei prìncipi che aveva servito, le circostanze della sua morte, nella cronaca puntigliosa dei testimoni, raccontano di un conflitto feroce e insanabile tra l’artista e il resto del mondo. Fanno eccezione soltanto alcune persone molto semplici a cui permetteva di accudirlo e quel Tommaso de’ Cavalieri, nobiluomo romano, che Michelangelo aveva troppo amato per rifiutarne la familiarità negli ultimi giorni della sua vita. Il resoconto dei testimoni racconta ora per ora l’agonia dell’artista, sicché la stessa esegesi romantica ha avuto difficoltà ad ammantarla di quel mistero e di quella grandezza che sono necessari alla genesi del mito. Anche per Michelangelo, come per molti altri uomini, le circostanze della morte risultano rivelatrici. Come tutti non era preparato a morire e chiedeva come un bambino di non essere lasciato solo mai, neppure per un istante. Ma appena arrivata nella casa modestissima, la morte scoprì subito un’altra debolezza dell’uomo: l’avarizia che lo afflisse per tutta la vita. Una cassa piena d’oro, sufficiente a comperare l’intero Palazzo Pitti, era nascosta sotto il letto. Non si fidava di nessuno, neppure delle banche. Temeva sempre l’inganno, la persecuzione, la truffa. Viveva come un miserabile, ma accumulava denaro in una cassa di legno tenuta sotto il letto. Un uomo divinizzato già in vita avrebbe forse dovuto regalare al suo pubblico un’altra morte, diversa dalla scomparsa lenta e penosa di un vecchio spaventato e XIV

sofferente, che come tutti rimaneva fino all’ultimo ferocemente attaccato alla vita. Ma quella morte sarebbe stata presto riscattata dal lavoro celebrativo dei migliori intellettuali fiorentini, Giorgio Vasari e Vincenzio Borghini, accademici impegnati nella costruzione dell’immagine pubblica del duca di Firenze Cosimo I de’ Medici. Appena saputo della scomparsa del grande artista, furono loro a mettersi immediatamente al lavoro per trasformare e depurare la sua morte da ogni ruga e ogni lacerazione, per offrire il vecchio maestro in pasto alla nascente mitologia fiorentina assecondando un disegno politico di grande respiro e lungimiranza. Lo stato di debolezza nel quale Cosimo I aveva ereditato il ducato subito dopo l’assassinio del sanguinario cugino Alessandro, gli aveva suggerito infatti che uno dei modi di renderlo più sicuro, e soprattutto di perseguire la pacificazione con i fuoriusciti repubblicani delle cui ricchezze e della cui intelligenza aveva grande bisogno, era proprio quello di esaltare l’identità sociale e culturale della nazione fiorentina. In questa strategia Michelangelo era destinato ad avere il ruolo più importante, perché era il simbolo stesso del talento di Firenze, il suo figlio più amato e conosciuto nel mondo, a dispetto dei banchieri e degli aspiranti principi che avevano tentato di legare il loro nome alla città. In vita il vecchio artista, ostinato repubblicano, non ne aveva voluto sapere di assecondare questo progetto. Non era mai voluto tornare a Firenze come chiedeva il duca, e non era stato neppure generoso con le sue opere verso Firenze. Fuori di ogni ragionevole aspettativa, aveva addirittura sperato di vedere la città liberata dai Medici almeno fiXV

no alla morte, nel 1547, del re di Francia Francesco I. Poi si era rassegnato ad un atteggiamento decorosamente rispettoso, quel tanto che bastava a non creare problemi ai suoi eredi e ai beni che aveva accumulato in città e nel contado. Forse perché sentiva una reale venerazione per quell’uomo e per la sua «toscanità», ma certamente per compiacere il duca, Vasari aveva invece profuso molte energie in questo piano. Aveva continuamente allettato l’artista con ogni tipo di proposta, facendogli balenare soprattutto i vantaggi per la sua discendenza, sapendo quanto Michelangelo fosse sensibile a questo argomento. Ma era stato tutto vano. Michelangelo si nascondeva dietro la necessità di portare a termine San Pietro, impresa che davvero sentiva come un voto fatto direttamente a Dio. E non si volle muovere da Roma neppure quando l’elezione di Paolo IV Carafa mise la sua vita in pericolo. Testimonianza di un odio senza quartiere per il duca e per il papa fu anzi la distruzione dei disegni e dei cartoni, ordinata quando sentiva avvicinarsi il momento della morte. Li aveva fatti bruciare: aveva fatto un rogo di quelle carte che Cosimo I avrebbe pagato qualsiasi prezzo. Persino al regalissimo duca scappò una frase insolente di fronte a questa determinazione: «Ci accresce questa molestia il non havere lasciato alcun dè suoi disegni: non ci è parso atto degno di lui, l’havergli dati al fuoco»2. Ma ora che il vecchio e testardo Michelangelo era morto, nessuno poteva più arginare le esigenze e i progetti dei potenti che non lo avevano piegato in vita. Il potere aveva campo libero nella manipolazione delle sue spoglie e del suo mito. Era in fondo l’occasione aspettata. Il cinico Don Vincenzio Borghini intuì subito, appena saputo dell’agoXVI

nia, che la morte dell’artista avrebbe rappresentato un’ottima occasione per migliorare quella che oggi chiameremmo l’«immagine» della società accademica fiorentina e del suo patrono Cosimo I. «Considerate questo, che io vi dico; che qualche volta la malignita di certi invidiosi della virtù d’altri si lascia certe cose, che danno riputatione più a chi le fa, che à per chi le son fatte. Hora, come ho detto, voj ci penserete un po voj; che a me basta muover certe cose, et voj le terminerete»3. Al Borghini erano fin troppo chiari i vantaggi derivanti da un funerale di Stato: Cosimo, monarca illuminato che premiava la virtù, la fecondava con la propria generosità e riconosceva il valore dei suoi figli. Come si sarebbe potuto accusare di tirannia un uomo del genere? Come si sarebbero potute mettere in discussione le fondamenta virtuose di quello Stato toscano che s’identificava con i Medici? I fuoriusciti non avevano assolutamente armi di fronte ad una propaganda che poteva utilizzare uno dei simboli più venerati di tutto il secolo. Per rendere l’operazione ancora più efficace, l’orazione funebre sarebbe stata affidata a Benedetto Varchi, un fuoriuscito repubblicano di grande prestigio rientrato a Firenze già vent’anni prima dietro pressione di Cosimo, che con quel gesto aveva iniziato una politica di recupero e riconciliazione con gli oppositori repubblicani (almeno con quelli che non faceva assassinare dai suoi sicari). Ma bisognava fare presto e bene. Altri poteri rivendicavano quelle spoglie per ornarsene, primo tra tutti il papato romano, che aveva utilizzato incessantemente l’opera di Michelangelo negli ultimi trent’anni. Il sabato mattina, appena saputo della morte dell’artista, si precipitò infatti nelXVII

la casa di Macello dei Corvi una commissione del governatore di Roma, seguita poi dallo stesso governatore Alessandro Pallantieri. Come fosse morto un papa o un re, dovevano inventariare tutti i beni presenti nell’abitazione. Ma le loro reali intenzioni furono subito chiarissime: quando a Roma arrivò il nipote e legittimo erede dell’artista, l’amato Leonardo, lo minacciarono e gli ingiunsero a brutto muso di accontentarsi dei soldi che gli avevano lasciato, quella cassa con i diecimila ducati che il vecchio artista custodiva ingenuamente a casa. Delle opere, qualche disegno e tre sculture abbozzate, non c’era più traccia. Era quello il vero tesoro inestimabile, ma le guardie avevano avuto l’ordine di portare via tutto. Leonardo capì che il servizio migliore da rendere al suo signore Cosimo I era riportare a Firenze almeno il corpo dello zio. Per fortuna era un inverno rigidissimo e la salma si conservò bene. Trafugata all’alba dalla chiesa dei Santi Apostoli, dove era stata temporaneamente depositata, caricata su un carro per il trasporto di merci, arrivò a Firenze tre giorni dopo. Cosimo, Vasari e Borghini cercarono di tenere segreto l’arrivo per controllare meglio la macchina scenica. Michelangelo rimaneva comunque il simbolo più forte della fede repubblicana e a Firenze l’opposizione repubblicana non poteva mai dirsi vinta del tutto. Ma in città si sparse subito la voce dell’arrivo della salma dell’artista. Prima gli artisti, poi il popolo, certamente i repubblicani, si recarono in processione nella notte a venerarla come quella di un santo. Migliaia di uomini in lacrime sfilarono in silenzio, vestiti con le stesse sottane nere e logore, gli stessi giubboni «frusti» che lo scrupoloso inventario aveva scoXVIII

perto nell’armadio di Michelangelo. I fiorentini restituivano con quell’abbraccio spontaneo, mai tributato a nessun altro, l’amore sconfinato che l’artista aveva portato alla città per tutta la vita, pagandolo con l’esilio. Fu poi la volta dei funerali di Stato in San Lorenzo, la chiesa di famiglia dei Medici che si potevano finalmente insignire della gloria di Michelangelo così come si erano impadroniti delle statue che non aveva voluto regalare loro in vita. Nella casa di Firenze erano rimasti infatti gli abbozzi dei Prigioni e la statua Vittoria per la tomba di Giulio II. Sarebbe stato naturale decorare con quelle sculture la tomba dell’artista, ma Vasari trovò subito il modo per sostituire a quelle statue la Pietà che Michelangelo aveva mutilato e regalato a Francesco Bandini, così da rendere disponibili le sculture per il duca Cosimo. Il piano fu suggerito al docile nipote Leonardo nei giorni appena successivi alla morte dell’artista e neppure il rifiuto del figlio di Bandini di cedere la Pietà fece arretrare Vasari dal suo proposito. Era più facile tradire Michelangelo che deludere Cosimo I. Fu deciso quindi di privarne la tomba, affidando a giovani scultori dell’Accademia la realizzazione di statue tanto brutte da offendere ancora oggi la memoria dell’artista. Il ducato di Cosimo aveva finalmente il suo campione di virtù e il duca le sue sculture. Anche a Roma molti tirarono un sospiro di sollievo. Carlo Borromeo poté dare immediatamente ordine di censurare con orribili mutandoni i nudi del Giudizio e nel 1565 il lavoro era già eseguito. Con Michelangelo era morto uno degli ultimi esponenti degli Spirituali, un gruppo che aveva tentato negli anni precedenti una rischiosa ipotesi di conciliazione con la Riforma protestante. La fede che MichelanXIX

gelo aveva «illustrato» con il marmo e i pennelli nel cuore stesso della cristianità traboccava della devozione eretica che li aveva accomunati, ma ora, con la sua morte, poteva iniziare un’abile opera di recupero da parte della Chiesa ufficiale. Proprio a Daniele da Volterra fu affidata la censura dei nudi più «osceni» del Giudizio Universale. Il resto, come gli affreschi della Cappella Paolina, si poteva assimilare con sistemi ancora più raffinati, affiancando pitture didascaliche che orientassero in senso ortodosso la lettura di quelle michelangiolesche, pervase di una fede che nulla aveva a che vedere con l’ortodossia trionfante a Trento. Il mito di Michelangelo sarebbe continuato a crescere e ad essere manipolato negli anni e nei secoli successivi. Il figlio di suo nipote Leonardo, Michelangelo il giovane (1568-1647), quando diede alle stampe i suoi sonetti, si premurò di volgere le desinenze dal maschile al femminile, per allontanare dallo zio l’ombra inquietante della passione omosessuale che lo aveva animato. Neppure la più potente fabbrica moderna di miti si trattenne dal manipolarlo e Hollywood, grazie al fascino irresistibile di Charlton Heston, consegnò al consumo di massa un Michelangelo addirittura innamorato di una donna che non conobbe mai. Quello che arriva a noi oggi è un personaggio invisibile per la troppa luce che lo illumina: una luce che ha occultato l’uomo e perfino l’opera, se è vero che addirittura il Mosè, la sua statua più guardata, ha avuto bisogno di un restauro e di un rilievo analitico per rivelare quanto avrebbe già potuto vedere un occhio meno accecato dal pregiudizio, e quanto un importante documento pure raccontava, e cioè che Michelangelo lo trasformò completamente in una fase XX

molto avanzata della sua lavorazione e della propria vita. Ma l’apertura degli archivi del Sant’Uffizio e le ricerche storiche di Adriano Prosperi e di Massimo Firpo hanno chiarito finalmente gli scenari ambigui in cui operò l’ultimo Michelangelo. I restauri, soprattutto quelli eccezionali diretti da Gianluigi Colalucci nella Cappella Sistina, hanno permesso di avvicinarsi di nuovo ad un artefice che impasta malte e colori, che scolpisce marmi e tormenta fogli con la matita, separandolo almeno in parte dal mito che lo teneva prigioniero. L’enorme quantità di documenti accumulati già a partire dalla metà dell’Ottocento è stata sistemata filologicamente da Giovanni Poggi e poi da Paola Barocchi e si è accresciuta di recente grazie al lavoro fondamentale di Rab Hatfield sui conti correnti dell’artista, che permettono una verifica molto spesso impietosa di numerose vicende che Michelangelo si era sforzato di addolcire nelle versioni dettate ai suoi biografi. Se poi a metà del secolo scorso Charles de Tolnay aveva curato il catalogo delle opere, Michael Hirst molto più recentemente ha curato quello dei disegni, mentre una miriade di studi specialistici producono ogni anno nuove avventurose vivisezioni di singole opere o di singoli momenti della vita. Una tale ineguagliata ricognizione documentaria racconta da sola quale sia l’interesse per Michelangelo e quale la mole di testimonianze accumulate su di lui. Le ultime sistematizzazioni tentate nel secolo scorso, necessarie e fondamentali per ogni approccio all’artista, hanno messo a disposizione nuove interpretazioni fondate sulla mole sterminata dei documenti, ma hanno finito per rendere inavvicinabile l’opera di Michelangelo se non a specialisti forteXXI

mente orientati. Accostando alla filologia documentaria quella materiale, il suo modo di dipingere e di scolpire, questo libro mette a confronto i dati emersi dalle ricerche più recenti con le opere, intese non soltanto come pure immagini, ma anche come imprese concrete, finanziarie e tecnologiche, in cui l’artista si consuma fisicamente con tutta la propria passione umana. Dopo i grandi restauri dei cicli pittorici della Sistina e quello della tomba di Giulio II, abbiamo oggi conoscenze nuove da utilizzare per la prima volta nell’interpretazione di Michelangelo nella sua interezza: conoscenze che possono aiutarci a neutralizzare il mito e ad avvicinarci all’artista divino e all’uomo sofferente che fu Michelangelo. I risultati sono sorprendenti. Da un lato è l’artista stesso a smentire il proprio mito. Dall’altro la sua arte diventa ancora più sublime perché mostra le sue radici nelle miserie, nei conflitti e nelle sofferenze di una vita ordinaria e stentata. Una contraddizione solo apparente, che i secoli passati non potevano accettare ma che la modernità conosce molto bene. È certo per questo che Michelangelo continua oggi ad affascinarci come il più moderno degli artisti mai vissuti.

MICHELANGELO Una vita inquieta

1. LA GIOVINEZZA

1. Nel nido di capre Mancavano ancora quattro lunghissime ore allo spuntare del giorno. La piccola casa era in cima a una rupe affacciata su foreste tormentate dal gelo invernale. Sul lato nord, dove le mura seguivano il filo del burrone, non si aprivano finestre, perché la tramontana era incontenibile. Ma la facciata aperta sulla corte del minuscolo borgo aveva tre finestre al primo piano, in corrispondenza di tre piccole camere, dove si concentrava il via vai delle serve e dove messer Ludovico cercava scampo all’ansia crescente. Le mura grosse della casa, costruite con le pietre grige e argillose franate dai fianchi della montagna, non riuscivano a trattenere le grida della donna sul punto di partorire il suo secondo figlio. Non era soltanto il luogo tanto isolato a spaventare Ludovico, che già aveva patito un’altra volta quel tormento, né era la paura di un soccorso che non poteva arrivare in cima a una montagna del Casentino. In quel momento non faceva che pensare alla caduta da cavallo della moglie di sei mesi prima, nel trasferimento in quel posto 5

dimenticato da Dio. Nonostante fosse incinta di tre mesi e il viaggio fosse faticoso, e ancor più rischioso si annunziasse il parto in un luogo forse neppure mai attraversato da un medico, aveva dovuto accettare quell’incarico di podestà nel più insignificante dei possedimenti fiorentini per salvarsi dall’indigenza. La paga era irrisoria, 500 lire per sei mesi, da cui doveva detrarre le spese per due notai, tre servi e un cavallaio. Ma cosa poteva fare? Non avrebbero certo offerto a lui le podesterie ricche del territorio fiorentino, quelle pagate 2600 o 3000 lire. Lui ormai era scivolato in fondo alla scala sociale, si era impoverito tanto da vedere compromessa la sopravvivenza decorosa della propria famiglia e stava addirittura per perdere i suoi privilegi di cittadino, confondendosi con la massa socialmente insignificante degli artigiani, dei lavoratori salariati e degli artisti. Erano lontanissimi i tempi in cui la sua famiglia poteva vantare una posizione di rango nel patriziato fiorentino, quando due secoli prima il suo antenato Simone di Buonarrota era nel Consiglio dei Cento savi. Lontani anche i tempi in cui suo nonno, Buonarrota di Simone, lanaiolo e cambiavalute, aveva prestato una grossa somma di danari al Comune ed era stato eletto nelle maggiori cariche pubbliche. Purtroppo era morto troppo giovane, a soli cinquant’anni, nel 1405, portandosi nella tomba la buona stella della famiglia. Poi più niente: con il padre Leonardo era cominciato il declino, con le doti onerose delle figlie, le tasse non pagate e gli incarichi sempre più miserabili. Già lui aveva dovuto accettare vent’anni prima quell’insignificante podesteria e ci aveva portato i figli. Forse per questo anche Ludovico aveva accettato. Quel buco di villaggio doveva 6

essergli sembrato in qualche modo familiare e preferibile ad un castello altrettanto desolato e in più sconosciuto. Però la moglie incinta, il viaggio lunghissimo e quella caduta da cavallo con chissà quali conseguenze sul nascituro... E mancavano ancora quattro ore al giorno. Poi le grida divennero improvvisamente più esasperate e altrettanto improvvisamente cessarono, per lasciare posto al pianto trionfante di un bambino che ce l’aveva fatta. In quell’anfratto inospitale, era riuscito a nascere e sembrava sano. Il paese che aveva scelto per affacciarsi al mondo si chiamava Caprese e da quella mattina avrebbe occupato un posto di tutto rispetto nella memoria geografica del mondo. Il bambino si sarebbe chiamato Michelangelo, avrebbe fatto il pittore, lo scultore e l’architetto e sarebbe diventato l’artista più conosciuto del suo tempo. Tra i luoghi magnifici che faranno da sfondo alla sua lunghissima vita, Firenze e Roma sopra tutti, quel piccolo nido di capre appeso nel vuoto di una valle appenninica rimarrà il posto che più di tutti potrà raccontare il suo carattere selvatico e scontroso, anche se lo abbandonò pochi mesi dopo la nascita. Il giorno che finalmente rischiarò le ansie di Ludovico era il 6 marzo del 1475, ma per i fiorentini – che seguivano un calendario secondo il quale l’anno iniziava con l’Incarnazione, convenzionalmente fissata al 25 marzo – quel giorno era ancora il 6 marzo del 1474. Ludovico nel suo ricordo registrò diligentemente la differenza delle due date: «Ricordo come ogi questo dì 6 di marzo 1474, mi nacque uno fanciulo mastio: posigli nome Michelagnolo, et nacque in lunedì matina, inanzi di 4 o 5 ore (...) Nota che addi 6 di 7

marzo 1474 è alla Fiorentina ab incarnatione, et alla Romana a nativitate, è 1475»1. La notte che accolse l’arrivo nel mondo di Michelangelo aveva stelle che per fortuna non si curavano dei diversi stili cronologici che differenziavano, fra le tante altre questioni, i piccoli Stati dell’Italia. A Roma era il 6 marzo del 1475, a Firenze era il 6 marzo del 1474, ma in cielo Mercurio e Venere entravano nella seconda casa di Giove determinando un destino fortemente segnato dalla sensualità, sia pure una sensualità rappresentata con ogni mezzo e quasi mai vissuta. Due giorni dopo, l’8 marzo, Michelangelo fu battezzato nella piccola chiesa di San Giovanni, un santo carissimo ai fiorentini, alla presenza del rettore della chiesa, di un notaio e di alcuni paesani di Caprese. L’incarico di Ludovico finì il 29 dello stesso mese e appena fu in grado di viaggiare la famiglia ritornò a Firenze. Non Michelangelo, però, che fu affidato ad una balia nel piccolo paese di Settignano, a tre miglia dalla città, dove i Buonarroti possedevano una piccolissima proprietà: «Uno podere (...) chon chasa da signore e llavoratore, et terre lavorati e vite e ulivi»2, che produceva una rendita di appena 32 fiorini, ma che in seguito Michelangelo avrebbe trasformato con successivi acquisti in un cospicuo latifondo. L’affidamento ad una balia era costume a Firenze, dove inutilmente gli eruditi esaltavano l’importanza dei legami che si stabiliscono durante l’allattamento tra madre e figlio. Chiunque avesse voluto mostrarsi agiato doveva tra le altre cose affidare a balia i propri figli, preservando alla madre naturale l’unico ruolo che aveva importanza per il marito, 8

quello di feconda generatrice di una abbondantissima prole. Come gli affari e lo Stato, anche la famiglia a Firenze era un fatto essenzialmente maschile. L’affidamento dei neonati era seguito personalmente dal padre, il quale stipulava un contratto con il marito o il padre della balia. Le donne erano pura merce e mai intervenivano in questo scambio interfamiliare. La madre era estromessa molto precocemente dall’educazione dei figli, che quasi subito dopo il loro ritorno a casa venivano allevati secondo una cultura familiare di stampo esclusivamente maschile. Le donne erano a tal punto inessenziali in questa trasmissione di sangue e cultura che in caso di vedovanza erano costrette a lasciare i figli e la casa del marito per trasferirsi, con la dote che riuscivano a trattenere, in una nuova casa, nella prospettiva di prestare a un nuovo maschio il proprio apparato riproduttivo. I bambini venivano affidati alla balia per un periodo di circa due anni, fino all’avvenuto svezzamento. In genere la famiglia di origine sorvegliava l’andamento della crescita da lontano. Poche famiglie potevano permettersi di mantenere una balia sotto il proprio tetto o addirittura nella stessa Firenze. Molto più frequente, quindi, era l’affidamento dei neonati a ragazze del contado fiorentino, che percepivano uno stipendio inferiore alle balie di città. Settignano era un paese affacciato sulla valle dell’Arno e su Firenze. Allora come oggi, vi crescevano bene gli ulivi e le viti. Ma vi si estraeva anche la pietra serena, una grigia roccia argillosa di facile lavorazione impiegata da secoli nel capoluogo per le costruzioni di maggiore riguardo. Brunelleschi era riuscito a intagliarvi colonne e archi di perfetta geometria. Le cave di pietra serena avevano tradizional9

mente sviluppato un’industria molto redditizia e tutti a Settignano lavoravano la pietra, la cavavano, la squadravano e la modellavano. Quando diventavano particolarmente bravi, scendevano giù a Firenze e vi aprivano una bottega di scultura, magari specializzandosi, come aveva fatto Desiderio, in malinconiche madonne. Era insomma un paese di scalpellini, e la balia stessa a cui fu affidato il piccolo Buonarroti era figlia e moglie di scalpellini. Più tardi Michelangelo dirà che con quell’affidamento era stato deciso il suo destino di scultore, visto che i primi suoni uditi furono certo quelli dello scalpello e che il latte bevuto fu impastato con la polvere di marmo. Ma la freddezza del marmo intorno a cui fu allevato il neonato faceva presagire anche un altro tratto drammatico del suo destino: la freddezza dei sentimenti familiari, che segnò di sofferenze tutta la sua vita futura.

2. Firenze magnifica e spietata La Firenze che accolse il piccolo Michelangelo è molto più facile da vedere che da capire. La sua immagine ci è consegnata con nitore primaverile nella Veduta della catena disegnata da Francesco Rosselli nel 1472 con quella tecnica analitica che fece balzare gli artisti fiorentini all’avanguardia nelle ricerche sulla rappresentazione. Molto più difficile è penetrare i complessi meccanismi di governo di una città-Stato che aveva esteriormente e formalmente l’assetto di una repubblica, ma che nei fatti, con sofisticatissimi e modernissimi strumenti di controllo, stava diventando un 10

principato laico, conquistato da una famiglia di mercanti e banchieri che sperimentava forme di potere che ancora esaltano e dividono gli storici del XXI secolo. Arrivata a una popolazione di 80.000 abitanti negli anni appena precedenti la peste nera del 1348, alla fine del Quattrocento Firenze contava a fatica 40.000 abitanti e si batteva con tutte le sue prodigiose energie per mantenere un ruolo di primo piano tra gli Stati italiani in continuo e precario equilibrio: la Chiesa, il Regno di Napoli, Venezia e soprattutto il Ducato di Milano, diventato terra di conquista per le potenze oltramontane. L’elemento forte e distintivo di Firenze stava nella ricchezza dei suoi traffici e nella razionalità della sua organizzazione politica, da cui derivava l’intelligenza delle alleanze esterne, prima e fondamentale condizione dell’autonomia interna. La veduta di Francesco Rosselli ci mostra la traduzione urbanistica di una tale organizzazione politica [fig. 1]. La città è in tutto formata. I quartieri, che raccolgono e organizzano localmente la popolazione, mediano il passaggio dal clan familiare, vera unità politica della città, all’autorità municipale. Ciascuno si stringe attorno a una delle chiese costruite nel secolo precedente, vera età dell’oro di Firenze: Santa Croce, Santa Maria Novella, Santa Trinita e Badia con forme ancora gotiche, San Lorenzo e Santo Spirito con un disegno nuovissimo che non s’era visto in Italia da molti secoli. Soltanto un ceto innamorato della singolarità del proprio destino avrebbe potuto accettare un rigore così folgorante e innovativo. Le strade chiare e rettilinee collegano i punti strategici della città toccando i luoghi dei molti poteri che vi si con11

Fig. 1. Francesco Rosselli, veduta di Firenze detta «della Catena», particolare, 1472 ca.

frontano. Il Duomo innanzitutto, intorno al quale sembra costruita l’intera veduta e la città stessa. I fiorentini lo avevano voluto immenso e coperto dalla cupola miracolosa di Brunelleschi per celebrare la fede dei cittadini, ben distinta dall’autorità di Roma che non li intimoriva mai troppo: proprio in quegli anni avrebbero appeso alle finestre del palazzo comunale un vescovo, colpevole di essersi intromesso un po’ troppo negli affari di governo locali. Perché fosse ben chiaro quanto i fiorentini tenessero alla propria autonomia, il vescovo era stato appeso a una finestra in compagnia di altri impiccati e lasciato lì qualche giorno, così che anche i bambini potessero cogliere la lezione. Imponente almeno quanto il duomo e spinto in alto dalla torre merlata più celebre d’Italia, la veduta mostra il Palazzo della Signoria, presidio militare del governo, perno altissimo confitto vicino all’Arno e spalleggiato dal Palazzo del Bargello (allora del Podestà). Intorno ai due capisaldi del potere si leggono gli altri luoghi, non meno rappresentativi della vita cittadina. Sono i palazzi dei signori, non di cavalieri e nobili feudali ma di patrizi del denaro, mercanti e banchieri soprattutto, che avevano conquistato il diritto a governare da soli una città tra le più ricche d’Europa. Per la posizione sopraelevata si distingue il palazzo dei Pitti, che domina il quartiere di San Felice di là d’Arno lungo la via Romana, mentre si fondono con le case adiacenti quello dei Rucellai, quello Spini Ferroni all’imbocco del ponte di Santa Trinita e il palazzo dei Medici costruito da Michelozzo nella parte nord di Firenze, in un quartiere che era diventato già all’epoca della veduta del Rosselli una piccola enclave della famiglia, una città nella città, con una propria chiesa, quella 13

di San Lorenzo, un convento, quello di San Marco, e molti altri annessi, giardini e case che rispondevano ad esigenze di rappresentanza e di strategia militare della ricca famiglia che aveva in mano il destino di Firenze. Nel disegno di Rosselli si osservano anche le vaste aree vuote, destinate ad orti nel prezioso terreno interno alla cinta muraria. Nelle speranze della municipalità quelle aree avrebbero dovuto riempirsi delle case di nuovi cittadini, ma la crescita demografica stentava a riprendere i ritmi del secolo precedente. Un’altra significativa realtà colta puntualmente dal disegno è l’aggregazione di più edifici collegati in vario modo a costituire delle specie di insulae all’interno del quartiere. Sono le case dei clan familiari, nuclei nei quali si rispecchia la forma più elementare della struttura sociale cittadina. Governata da uno o più uomini, la famigliaclan trovava proprio in questa aggregazione spaziale la forza di proporsi alla città come un’unità politica di un peso tale che nessun individuo o singolo capofamiglia avrebbe potuto avere. È la forma più brutale e semplificata della «consorteria» fiorentina, un’aggregazione vincolante di individui che segnerà tutta la storia successiva della città. Dalla consorteria familiare si passa alla consorteria del quartiere e da questa a quella cittadina: le tre forme amministrative più significative della Firenze repubblicana. Infine, in basso a destra nel disegno, proprio vicino alla Porta Romana, vediamo appesi ai gentili alberelli alcuni uomini impiccati, lasciati a marcire all’aria sotto gli occhi di tutti. Era un chiaro avvertimento che quell’ordine e quella prosperità, riflessi in quei tanti palazzi che nessun’altra città poteva esibire, nemmeno Roma con i suoi principi e car14

dinali, erano fondati su relazioni e leggi severe fino alla brutalità. Non era una città pietosa, Firenze, ma una città pratica fino al cinismo. Mentre Rosselli disegnava scrupolosamente questa meraviglia architettonica da lasciare alla posterità, un altro fiorentino, non meno intelligente e non meno innamorato della propria città, iniziava un diario semplice ma inesorabile, che racconta senza manipolazioni la vita di tutti i giorni tra quelle mura eleganti e quelle strade orgogliose. Il suo ricordo ci aiuta a immaginare quello che sentì e vide il piccolo Michelangelo appena tornato dall’esilio di Settignano: E a dì 17 di maggio 1478, circa a ore venti, e fanciugli lo dissotterròno un’altra volta, e con un pezzo di capresto, ch’ancora aveva al collo, lo straccinorono per tutto Firenze; e, quando furono a l’uscio della casa sua, missono el capresto nella canpanella dell’uscio, lo tirorono su dicendo, picchia l’uscio, e così per tutta la città feciono molte diligioni; e di poi stracchi, non sapevano più che se ne fare, adorono in sul Ponte a Rubaconte e gittorolo in Arno. E levorono una canzona che diceva certi stranbotti, fra gli altri dicevano: Messer Jacopo giù per Arno se ne va... E si del vederlo andare a galla, che andò insino disotto a Firenze, vedendolo tutta volta sopra l’aqua, erano pieni e ponti a vederlo passare giù3.

Così Luca Landucci descrive lo strazio del cadavere di Jacopo de’ Pazzi, uno degli autori della congiura antimedicea del 26 aprile 1478. Per punire i congiurati, ma soprattutto per liberarsi definitivamente dell’opposizione politica cittadina, Lorenzo de’ Medici fece trucidare più di settanta uomini in pochi giorni. Li fece appendere alle finestre del palazzo comunale, lasciandone schiantare ogni tanto uno al suolo così che i poveri potessero rubargli le calze e i 15

vestiti. Uno dei congiurati, un prete, ebbe una sorte ancora più terrificante: squartato in piazza, gli fu poi mozzata la testa, che venne infilzata su una picca e portata in giro per un giorno intero. Il piccolo Michelangelo era appena arrivato a Firenze, lo portavano ancora al collo, ma fu così impressionato da queste scene da conservarne un vivo ricordo fino all’ultimo giorno.

3. Un apprendista inquieto Nel disegno di Francesco Rosselli si vede, subito dietro il palazzo comunale, la grande facciata spoglia della chiesa di Santa Croce, stretta dalle case dell’omonimo quartiere. Tra queste c’erano anche le case dei Buonarroti. Più volte nel corso del Quattrocento, prima del loro declino, alcuni esponenti della famiglia erano stati proposti in rappresentanza del quartiere all’elezione dei Dodici Buonuomini, una delle magistrature importanti del governo cittadino. Al piccolo Michelangelo la casa di città parve sicuramente estranea. Come del resto dovette apparirgli estranea Francesca, la madre che nel 1477 aveva partorito già un altro fratello a Michelangelo, Buonarroto, e nel 1479 partorì ancora Giovan Simone. Avrebbe fatto in tempo a dare alla luce ancora un altro bambino, Sigismondo, nel 1481, per poi morire forse di parto in quello stesso anno. Nei sei anni in cui Michelangelo ebbe una madre, tutto congiurò perché non ne potesse essere accudito: la mancanza di cure materne avrebbe lasciato nel bambino un vuoto intorno a cui si sarebbe costruito tutto il dolore della sua vita futura. Come tutti i fiorentini, 16

invece, Ludovico non perse tempo a risposarsi e nel 1485 impalmò Lucrezia degli Ubaldini. Ma non fu molto fortunato, perché rimase nuovamente vedovo nel 1497, padre di ben cinque figli da accudire. Prima di riuscire ad avere un altro incarico amministrativo di qualche rilievo dovrà aspettare fino al 1510, quando sarà nominato podestà di San Casciano. La tradizione di famiglia avrebbe imposto per Michelangelo un’educazione classica, base dignitosa anche per un futuro di mercante, di banchiere o di agente di cambio. Ma purtroppo la miseria e l’indigenza spinsero Ludovico a mettere il piccolo Michelangelo in una bottega artigiana. Nel 1488 secondo Vasari, ma molto prima secondo i documenti, perché il 28 giugno del 1487, a dodici anni, il bambino riscuoteva già un credito per i fratelli Ghirlandaio. La fiducia accordatagli dai datori di lavoro fa supporre che il bambino fosse arrivato in bottega già da qualche tempo: «Domenico di Tomaso del Ghirlandaio dè dare a di 28 di giugno 1487, fiorini tre larghi, portò Michelagnolo di Lodovico in lire 17, soldi otto...»4. Ancora bambino, Michelangelo iniziava la sua faticosa carriera, come consueto per chi era destinato al mestiere di artista nella Firenze del tempo. Fu forse l’unico momento in cui la sua vita fu simile a quella degli altri artisti di cui abbiamo notizia. La scelta di Ludovico fu senza dubbio molto sofferta, perché ratificava inesorabilmente il declino della famiglia. L’origine patrizia di Michelangelo veniva in questo modo sconfessata con l’avvio ad una carriera artigianale che poco aveva a che vedere con la condizione della classe abbiente fiorentina. I registri dell’archivio di Firenze cancellano ogni illusione romantica sul ruolo interpretato nella città 17

rinascimentale dagli uomini che a noi sembrano i protagonisti assoluti di quei giorni ma che in realtà avevano scarso accesso alla vita politica della città perché considerati di condizione troppo bassa. Quasi non c’è traccia di artisti coinvolti nel governo cittadino, sia pure ad un livello modesto, nella Firenze repubblicana. Nel corso delle elezioni effettuate tra il 1378 e il 1532, quando i Medici posero definitivamente termine al governo costituzionale, ci furono circa 23.100 scrutini per le cariche delle «Tre Maggiori», gli organi di maggior rilievo amministrativo. E solo cinque volte appaiono i nomi di artisti conosciuti. Quasi sempre si trattò di figure che svolgevano importanti funzioni sociali, come i capimastri del duomo e del battistero Lorenzo Ghiberti e Filippo Brunelleschi. Spesso chi riusciva a sfondare il muro delle barriere sociali accedendo alla classe di governo cercava poi di cambiare profilo professionale. Lo fecero gli eredi di Giotto e di Taddeo Gaddi, così come gli eredi di altri artisti di successo. Quello di Michelangelo fu dunque un doloroso cammino all’indietro, dal ceto aristocratico all’artigianato, con tutte le conseguenze che quella retrocessione comportava. Non stupisce perciò che quando con il suo prodigioso talento avrà frantumato tutte le barriere sociali e culturali della sua epoca, rubando accanto ai papi la sedia dei cardinali e quella degli ambasciatori accanto ai re, l’artista cercherà di nascondere gli inizi della sua carriera trasformandoli da un normale apprendistato professionale in una chiamata inarrestabile dello spirito, a cui suo padre Ludovico avrebbe inutilmente tentato di resistere. In realtà, se i soldi dell’apprendistato non fossero stati necessari alla famiglia, 18

già all’età di sei anni Michelangelo avrebbe dovuto iniziare un percorso formativo che prevedeva anche l’insegnamento del latino. Ma l’artista non conobbe mai questa lingua perché la sua educazione, anche prima dell’apprendistato artigianale, era stata molto modesta. La bottega dei fratelli Ghirlandaio era allora considerata una delle più importanti di Firenze e non soltanto per i 1100 fiorini che erano riusciti a spuntare per gli affreschi della cappella di Santa Maria Novella, a cui la tradizione fa partecipare lo stesso giovane apprendista. I Ghirlandaio risultano tra gli artisti di ceto sociale più elevato, tra i pochi in possesso di un nome di famiglia, già di per sé segno di distinzione, e tra i pochissimi ad essere in seguito scrutinati per cariche pubbliche di qualche importanza (Ridolfo Ghirlandaio nel 1518 per il Consiglio dei Dodici). Anche la scelta della bottega, quindi, riferisce in qualche modo degli sforzi di Ludovico per non allontanarsi troppo dai suoi orizzonti sociali. L’apprendistato in bottega era molto impegnativo ed iniziava con le mansioni più umili. Innanzitutto si imparava a prendersi cura degli attrezzi da lavoro e a mantenerli in piena efficienza. Poi bisognava familiarizzare con i materiali, dai più semplici come le malte di calce ai più complessi come le mestiche di preparazione per i dipinti e la macinazione dei colori. Non c’era molto tempo per imparare la pittura e il disegno, a cui venivano dedicati i ritagli lasciati liberi dalla servitù agli adulti. L’apprendistato era molto lento e il tempo passato a servire doveva compensare l’accesso ai segreti del mestiere. Solo quando un giovane diventava perfettamente esperto di ogni materiale e del suo 19

uso poteva cominciare l’assistenza vera e propria ai più alti in grado: preparare il supporto dei dipinti, le mestiche di colla e gesso che si spalmavano sulle tavole per avere un fondo chiaro e liscio dove stendere i colori a tempera e, molto più avanti, campire con il colore piccole porzioni dei dipinti a cui lavoravano i più anziani. Nei ritagli di tempo era concesso ai ragazzi di esercitarsi nel disegno. Con molta parsimonia però, perché la carta costava moltissimo e non poteva essere sprecata. Uno dei massimi privilegi era quello di poter accedere ai modelli di proprietà del capobottega, condizione indispensabile per apprendere l’arte del disegno. La copia dei modelli di bottega era poi integrata dallo studio delle opere realizzate dagli artisti nelle chiese e nei palazzi aperti al pubblico. Firenze era da questo punto di vista il palcoscenico più ricco d’Europa. Anche Michelangelo, come gli altri ragazzi, disegnò i modelli di bottega e quelli dei grandi artisti precedenti, soprattutto Giotto e Masaccio, di cui apprezzava già allora la concretezza corporea e la verosimiglianza naturale e che tentava già di migliorare mostrando un acutissimo spirito critico [tav. 13]. La bottega era regolata dalla più rigida gerarchia. Ma il giovane Michelangelo, forse già dolorosamente consapevole della propria decadenza sociale, si lasciò andare alla più grave trasgressione pensabile per un apprendista: la competizione con il proprio maestro e la di lui umiliazione. Secondo il racconto del suo biografo più affidabile, Ascanio Condivi5, Michelangelo si spinse a migliorare un modello propostogli da Domenico Ghirlandaio e soprattutto ne rise con un altro garzone della bottega. L’episodio, apparen20

temente di poco conto, non denuncia soltanto l’affacciarsi nella vita dell’artista di quella superbia che gli esegeti benevoli diranno terribilità: segna anche l’enormità della sconfitta del maestro, che prese molto a male l’arroganza del ragazzo. La bottega di Domenico, oltre a poter vantare un’eccellenza tecnica senza confronti nella realizzazione degli affreschi e delle tavole dipinte a tempera, disponeva proprio grazie al suo personale talento di un’eccellenza nel disegno e nella naturalezza dell’invenzione che non avevano pari in quel momento e che, fatto fondamentale, gli assicurava una posizione egemone nel mercato italiano. I fogli rimastici di Domenico stupiscono per la pulitezza e sicurezza del tratto, la credibilità delle proporzioni anatomiche, la misura dignitosa e quasi classica delle espressioni e la ricchezza narrativa dei particolari delle stoffe e delle pieghe. Tutto questo, il patrimonio d’eccellenza di una piccola industria, cancellato da un ragazzino, per giunta pagato per apprendere quel «mestiere» che già sbeffeggiava! Si può immaginare che la reazione del maestro non fosse timida e scatenasse nel giovane e arrogante allievo quel dispetto che nel tempo sarebbe diventato ingratitudine, trasformandosi nella negazione di ogni contributo dato dai valentissimi fratelli all’apprendistato del genio. Sia al maestro che all’allievo dovette subito essere chiaro che il tirocinio non avrebbe avuto mai la conclusione naturale per tutti gli altri apprendisti. Pochissimo tempo dopo, troviamo infatti Michelangelo affrancato dalla bottega e alle prese con un clan di ben altra levatura: quello raccolto intorno al vero signore di Firenze, Lorenzo il Magnifico. 21

4. Il giardino delle meraviglie Nel destino di un uomo proposto già in vita alla mitologia non poteva mancare un giardino, come in quello di molti eroi antichi. Il giardino che aprì nuovi ed infiniti orizzonti all’adolescente apprendista pittore, chiudendogli per sempre alle spalle le porte di un destino di artigiano, si trovava accanto alla via Larga, tra il convento di San Marco e il nuovo palazzo dei Medici, separato dalla piazza di San Marco da un muro alto poco più di un uomo. Il suo perimetro misurava poche centinaia di metri ed era chiuso su due lati da una loggia ad archi. Non aveva disegno speciale e neppure troppo speciali erano gli alberi che ospitava, forse alloro e limoni, certamente una fitta fila di cipressi che si vedevano da ogni lato della piazza e che lo individuano nelle rare rappresentazioni contemporanee che ci sono pervenute6. A Firenze non usavano ancora i giardini di delizie, perché nei mesi primaverili era abitudine dei ricchi patrizi trasferirsi in villa, dove si godevano più pienamente le bellezze naturali. A rendere mitico e specialissimo questo piccolo orto risparmiato dalle costruzioni in pieno centro urbano erano però le statue antiche e moderne che vi andava raccogliendo Lorenzo de’ Medici. Statue intere o frammentarie, ma preziose per la loro antichità. I cipressi che le proteggevano con la loro ombra le facevano forse sentire meno spaesate in quella città così nordica; certamente servivano ai giovani cultori di antichità che le studiavano, per immaginare, dietro il verde cupo degli alberi, il mare scintillante di 22

Omero e le rocce abbaglianti da cui erano state estratte nelle isole assolate dell’Egeo. Nel 1471 Lorenzo aveva visitato Roma accompagnato dalla guida più colta che si potesse avere allora in Italia, Leon Battista Alberti. Lì aveva potuto constatare il furore con cui principi e cardinali collezionavano le sculture sottratte giorno dopo giorno al ventre generoso della Città eterna. Sistemate nei giardini dei palazzi, in quelli che saranno i primi abbozzi di collezioni accresciute poi fino al secolo scorso e che faranno maestosa anche la Roma moderna, le prodigiose «anticaglie» conferivano ai proprietari una nobiltà nuova, fondata sul gusto e la cultura oltre che sul patrimonio. Iscrizioni latine e greche, frammenti di sculture e di architetture più o meno integre, si ammassavano tra le fontane e i portici che tentavano di imitare quelle stesse decorazioni che ancora si leggevano sui marmi antichi. Il possesso di queste anticaglie conferiva una distinzione sociale che non temeva più il confronto con la distinzione della nascita, o almeno aumentava di molto il prestigio. Questa moda non poteva lasciare indifferente Lorenzo, che con molta fatica stava costruendo una legittimità principesca intorno alla sua famiglia e alla sua stessa figura. Suo nonno Cosimo aveva per primo avviato i Medici ad una posizione di preminenza tra il patriziato fiorentino, con un’attenta politica di ricerca del consenso ritagliata con molta intelligenza sulle strutture sociali e costituzionali della Repubblica fiorentina. Senza mutare in apparenza le forme costituzionali di governo, Cosimo aveva occupato con i suoi alleati i posti più significativi dell’amministrazione cittadina. E grazie alla cospicua ricchezza (che non era però tra le 23

principali di Firenze) aveva comprato quanto gli serviva a prevalere nel governo. Da questa posizione di preminenza aveva iniziato una micidiale campagna di distruzione degli avversari politici, diminuendo con imposizioni finanziarie esagerate le fortune di quelle famiglie che potevano insidiarla e accrescendo con gli stessi strumenti le fortune di uomini e gruppi familiari assolutamente mediocri, per ottenerne l’eterna riconoscenza e la certezza di non vedersi mai insidiato nella posizione di controllo. La città vide mettere al bando i cittadini che contavano di più, quelli che potevano gareggiare per eccellenza con i Medici. Nonostante la loro prodigiosa fortuna economica, gli Strozzi subirono l’ostracismo, e la stessa sorte toccò a molti altri. In questo modo il governo di Firenze era saldamente assicurato nelle mani dei Medici e rimaneva svuotato di ogni contenuto democratico, anche se formalmente la Repubblica continuava ad esistere. Il nipote di Cosimo, Lorenzo, aveva dovuto sostituire ancora giovanissimo suo padre Piero al governo degli interessi familiari, che erano ormai tutt’uno con quelli della «loro» Firenze. Era un momento in cui le fortune della famiglia erano decisamente indebolite. Molti oppositori erano convinti che il giovane rampollo non avrebbe superato la crisi finanziaria in cui, nonostante i vergognosi abusi, la sua famiglia si era cacciata. Ma fu proprio l’insipienza dell’opposizione a dare nuova e definitiva legittimità al suo governo. Alcuni membri della famiglia dei Pazzi, più antica e ricca degli stessi Medici e molto maltrattata da Lorenzo, timoroso della sua grandezza, non vollero aspettare la naturale evoluzione della crisi medicea e organizzarono una congiura contro Lorenzo e suo fratello Giuliano con 24

l’appoggio di Gerolamo e Raffaele Riario, parenti del papa Sisto IV. Il 26 aprile del 1478, mentre i maggiorenti fiorentini ascoltavano in duomo la messa di Resurrezione, i congiurati aggredirono Lorenzo e Giuliano spuntando all’improvviso dall’altare maggiore. Giuliano fu subito ucciso, ma Lorenzo riuscì a difendersi e scortato dai suoi fedelissimi raggiunse la sagrestia, dove si barricò7. La città insorse. Non contro i Medici però, come aveva erroneamente supposto Jacopo de’ Pazzi, bensì contro i congiurati. Lorenzo aveva lavorato benissimo, adulando i ceti bassi della città che ora lo difendevano dall’attacco degli ottimati. Scampato alla congiura, Lorenzo capì subito che non poteva avere occasione migliore per consolidare il suo governo. La repressione fu atroce e motivata con la necessità della distruzione radicale dell’opposizione politica cittadina, indipendentemente dal ruolo che aveva avuto nella congiura. I morti furono decine e soprattutto Lorenzo riuscì a far passare provvedimenti di riforma costituzionale che assicuravano saldamente il suo governo, da allora in poi fu definitivamente tirannico, seppure addolcito dalla civiltà dei modi. Ebbe una guardia armata personale e la facoltà di bandire i nemici, il che gli assicurò il controllo totale sulla città pur mantenendo in piedi le formalità repubblicane. Ben presto ambasciatori e governanti abbandonarono la consuetudine di conferire con i Priori nel Palazzo della Signoria e si diressero direttamente nel palazzo di via Larga dove abitava Lorenzo, ormai vero principe della città anche se ufficialmente privo di qualsiasi ruolo di governo. Una forma così singolare di governo tirannico, esercitata da un semplice cittadino privo di investitura regale o di25

GIOVANNI SALVIATI cardinale

PIERO (1472-1503)

NANNINA moglie di Bern. Rucellai

GIOVANNI (Leone X) (1475-1521)

MARIA (nat.) moglie di Leonetto Rossi

CARLO (nat.) († 1492)

MADDALENA moglie di Franceschetto Cibo (1473-1519)

BIANCA moglie di Guglielmo de’ Pazzi

LUCREZIA moglie di Jacopo Salviati (1470-ca. 1550)

LORENZO MAGNIFICO (1449-1492)

IL

GIOVANNI (1421-1463)

ALESSANDRO (nat.) (1510-1537)

CATERINA moglie di Enrico II di Francia (1519-1589)

CIBO MALASPINA

MARIA FRANCESCA LORENZO CLARICE INNOCENZO LORENZO moglie di moglie di duca moglie di Cibo Cibo Giovanni Ottaviano d’Urbino F. Strozzi cardinale delle de’ Medici (1492-1519) (1493-1528) Bande Nere

GIULIO (nat.) (Clemente VII) (1477 o 78-1534)

GIULIANO (1453-1478)

PIERO IL GOTTOSO (1416-1469)

COSIMO IL VECCHIO (1389-1464)

PIERFRANCESCO IL GIOVANE (1487-1525)

LORENZO POPOLANO (1463-1503) IL

FRANCESCO

LAUDOMIA GIULIANO MADDALENA moglie di (1520 o 21moglie di Piero Strozzi 1588) Roberto Strozzi vescovo

IPPOLITO (nat.) cardinale (1511-1535)

NICCOLÒ RIDOLFI cardinale

LORENZINO (1514-1548)

GIULIANO duca di Nemours (1479-1516)

CONTESSINA moglie di Piero Ridolfi

I Medici da Cosimo il Vecchio a Cosimo I

COSIMO I (1519-1574)

GIOVANNI BANDE NERE (1498-1526) DELLE

GIOVANNI POPOLANO (1467-1498) IL

PIERFRANCESCO IL VECCHIO (1430?-1476)

LORENZO (1395-1440)

vina, aveva bisogno di una politica di controllo sociale molto accorta, che rispettasse innanzitutto le forme e la «civiltà» urbana. Era, questo della civiltà, un valore assai complesso da definire, ma molto concreto per i contemporanei di Lorenzo, che vi si richiamavano continuamente nelle loro acutissime analisi politiche. Consisteva innanzitutto nell’onorare le virtù pubbliche e nel far sì che il governo dello Stato fosse diretto a rispettare e accrescere l’onore dell’intera comunità urbana, a coltivare i princìpi fondamentali su cui essa aveva costruito il proprio potere, primi fra tutti l’amministrazione equa della giustizia e la dignità dei singoli. In ciò Lorenzo fu eccellente e conferì con sapienza al proprio governo un carattere discreto, che non ostentava eccessivamente il potere personale ma sembrava riverberarlo sull’intera città. La sua maggiore abilità politica fu quella di governare e asservire le magistrature cittadine senza mai contraddirne pubblicamente l’autonomia. In questa strategia di consenso l’arte e la sua promozione erano destinate ad occupare un ruolo fondamentale. Il mito fondante di Firenze era senza dubbio l’intraprendenza dei suoi cittadini, e l’arte come forma di rappresentazione di questa intraprendenza era coltivata al punto tale da vedere l’intera città trasformarsi in una comunità di critici e ammiratori che partecipava in varie forme ad una produzione artistica già celebrata in tutta l’Europa. Pur senza arrivare a confondere l’arte con la nobiltà delle professioni liberali, Firenze aveva dimostrato di saper allargare a volte la sua maglia politica ammettendo al governo, seppure in cariche non troppo importanti, perfino chi, con l’arte, aveva contribuito ad accrescere la fama della città. La dignità pub27

blica concessa a Giotto, Brunelleschi e Ghiberti era lì a testimoniarlo. Lorenzo non fu da meno. Accordò grande spazio all’arte e cooptò energie intellettuali capaci di celebrare indirettamente la propria grandezza. Ma diede sempre l’impressione di celebrare quella della città. Il magnifico palazzo che fece costruire a Michelozzo in un quartiere fino ad allora insignificante, e che divenne il quartiere dei Medici, fu proposto come una nuova gemma che aumentava il prestigio di Firenze non meno di quello dei suoi proprietari. Di fatto quel palazzo rappresentava la cittadella fortificata che in altre città ospitava la corte del principe, ma a Firenze ciò avrebbe urtato il sentimento repubblicano e lo spirito competitivo della altre famiglie ricche non ancora rassegnate al dominio mediceo. Le forme pensate da Michelozzo erano potenti ma gentili e rievocavano l’eleganza dell’architettura classica, introducendo in città un nuovo disegno che faceva sembrare il Palazzo della Signoria una gigantesca stalla di campagna. Le decorazioni interne fecero il resto e finirono per incantare i fiorentini, che anche grazie all’affresco di Benozzo Gozzoli si abituarono a vedere i Medici come i nuovi Re Magi e non si stupirono più quando Lorenzo si autocelebrò pubblicamente in città con processioni che diedero vita alle figure in oro e lapislazzuli dipinte sulle pareti del palazzo. Il giardino di San Marco, adiacente al convento dei domenicani e non lontano dal palazzo di famiglia, non era che un gradino più alto o un’articolazione più raffinata di questa strategia di seduzione politica attraverso le immagini. L’idea Lorenzo l’aveva importata da Roma. Ma a lui servi28

va qualcosa di più: era il principe di una città e non poteva limitarsi a raccogliere opere d’arte che esprimessero il suo gusto e la sua raffinatezza, come facevano i cardinali e i nobili che risiedevano nella Città eterna. Sia pure con discrezione, aveva bisogno di materializzare attorno a sé una corte e di far sentire in città la presenza di un centro culturale sostanzialmente diverso dalle botteghe artigiane che avevano caratterizzato la Firenze mercantile e che erano inserite nel tessuto industriale della città, con regole precise paragonabili a quelle delle altre «arti» produttive. Il suo giardino doveva evocare la munificenza dei principi antichi e delle antiche Accademie, dove il sapere si perpetuava al di fuori degli schemi rigidi delle gabbie corporative medievali. Affidò il giardino alla responsabilità di Bertoldo, uno scultore allievo di Donatello, l’indiscusso maestro della generazione precedente che personificava più di ogni altro artista il talento cittadino. La sua competenza professionale era quanto mai opportuna, perché il giardino nasceva intorno alla raccolta di statue antiche e moderne e necessitava quindi di un esperto scultore. Anticipando di secoli l’idea centrale dell’accademia artistica, Lorenzo proponeva allo studio dei giovani quei modelli di perfezione ai quali da almeno un secolo la tecnica e la cultura artistica dell’Italia centrale cercavano di avvicinarsi. Il controllo dell’intera città gli rendeva ancor più facile concentrare in quel giardino non solo artisti, poeti e pensatori, ma anche eruditi di ogni disciplina che commentassero le opere conformemente a una tradizione che risaliva all’età classica e che era testimoniata dai libri antichi, la cui collezione, traduzione e divulgazione rappresentava un altro ramo della sua strate29

gia culturale. Chiunque avesse talento e perspicacia veniva coinvolto in una rete di relazioni ordita discretamente e discretamente controllata, che rendeva il prestigio della famiglia Medici tanto più alto quanto più alta e diffusa era la fama dei cortigiani.

5. L’ultimo omaggio a Donatello Con grande abilità Lorenzo aveva organizzato una corte principesca in una città ostinatamente repubblicana. L’impresa era riuscita così bene che la banale qualifica di «Magnifico», con cui veniva designato insieme agli altri cittadini eminenti, fu trasformata dai biografi in un aggettivo sostantivato, che gli ha assicurato per sempre un posto di rilievo nella storia degli uomini. La sottigliezza con cui costruì e mantenne la sua strategia di governo sembra impressa nei lineamenti sfuggenti e furbi che i ritratti e le monete ci hanno consegnato. Non alto, leggermente curvo per le sofferenze della gotta, i capelli lisci e il mento sporgente sotto un naso schiacciato e tondo, la sua persona si direbbe certamente brutta se non si riscattasse con gli occhi furbissimi e inafferrabili, simili a quelli della volpe con cui viene naturale confrontarlo. Sono proprio quegli occhi scuri e tanto dolci a tradire un forte sentimentalismo che stupì i contemporanei e che lo legò per anni a una donna non giovane e non bella, in un’epoca in cui gli uomini del suo rango non disdegnavano la violenza e lo stupro di ragazze e di giovani uomini, come testimoniato dai casi di Galeazzo Visconti e Cesare Borgia. 30

Chi lo conobbe bene e fu immune dalle sue insidiose seduzioni ne lasciò un ritratto decisamente poco lusinghiero, che può aiutarci a capire meglio chi fosse quell’uomo che si affezionò al giovanissimo Michelangelo cogliendone immediatamente il talento prodigioso. Nel suo trattato sul governo di Firenze, scritto all’indomani della morte di Lorenzo, Girolamo Savonarola metterà in guardia i fiorentini dai pericoli del governo tirannico e in special modo di un tiranno che non abbia mandato regale o divino come appunto era stato Lorenzo. Ne svelerà il cinismo e la crudeltà, la violenza con cui distrugge i giusti e i valorosi per non farli emergere nel governo dello Stato, così come la spregiudicatezza con cui favorisce i mediocri a danno della città. Ne denuncerà l’avidità con cui svuota le casse dello Stato e la vanità con cui vuole ad ogni costo affermarsi sugli altri servendosi dell’arte e delle pompose cerimonie, la necessaria concessione al vizio sfrenato in cui cerca consolazione, la solitudine alla quale lo costringe la tirannia, la mancanza di regole che ha stabilito per se stesso8. Il tirannico Lorenzo aveva certamente tutti questi vizi. Ma non gli facevano difetto l’intelligenza, il gusto e il sentimento. Capì subito che quel ragazzino ambizioso di nobile discendenza, Michelangelo dei Buonarroti, aveva un grande avvenire davanti a sé. Lo volle perciò a casa sua oltre che nel giardino di San Marco, in quello stesso palazzo che quarant’anni più tardi, manifestando il picco più alto della propria ingratitudine, l’artista avrebbe addirittura cercato di demolire. Passato dalla bottega dei Ghirlandaio al giardino di San Marco e al palazzo di via Larga, Michelangelo ebbe proprio 31

in Lorenzo il primo critico delle sue sculture: un modo come un altro perché la grandezza del principe annunziasse la grandezza futura del giovane, consolidando in un gioco di specchi la raffinatezza del mecenate e il talento dell’artista. Appena quindicenne, Michelangelo si dava da fare abbozzando nel giardino una maschera di fauno copiata o ispirata a modelli antichi e oggi purtroppo andata perduta. Aveva definitivamente lasciato i pennelli per gli scalpelli, che mostrava di saper utilizzare con un talento inarrivabile al povero Bertoldo, messo a guardia di una tradizione verso la quale il ragazzo si sentiva già insofferente. Lorenzo apprezzò la maschera e senza dimenticare che chi l’aveva fatta era ancora un fanciullo lo prese in giro ricordandogli che i vecchi, anche se fauni, non possono avere tutti quei denti che il ragazzo aveva scolpito. Deciso a non rimanere indietro alla natura, né alle grazie di Lorenzo, Michelangelo si affrettò a rompere i denti al fauno: «cavò un dente al suo vecchio di quei di sopra, trapanando la gingiva, come se ne fusse uscito colla radice, aspettando l’altro giorno il Magnifico, con gran desiderio»9, il che piacque e divertì molto il suo illustre ospite. Ma nel giardino non c’erano soltanto Lorenzo con la sua benevolenza e il vecchio Bertoldo ormai prossimo alla morte. C’erano altri giovani meno bravi ma non meno ambiziosi di Michelangelo. Uno di loro, Pietro Torrigiani, avviato alla scultura da Bertoldo, dotato anche lui di sicuro talento ma a differenza del giovane Michelangelo anche di una inquietante bellezza, apparteneva ad una famiglia di un certo rilievo sociale. Possiamo immaginare che la sua superbia in quell’ambiguo trapasso sociale non fosse inferio32

re a quella di Michelangelo, perché il conflitto tra i due arrivò ben presto a conseguenze violente. Michelangelo ebbe la peggio e un pugno del ragazzo gli spezzò il naso, deturpandogli il profilo, già non bello di suo, per tutto il resto della vita. Ancora ragazzi, Michelangelo e Pietro sperimentavano già l’asprezza e la violenza della competizione per il successo. Nella corte del Magnifico, dove si trattenne fino al 1492, anno della morte di Lorenzo, Michelangelo incontrò anche Angelo Poliziano, che lo convinse a rappresentare una delle più belle favole di Ovidio: il ratto di Ippodamia e la conseguente battaglia tra Centauri e Lapiti. La leggenda racconta che nelle montagne ombrosissime della Grecia vivevano in stretta amicizia il popolo dei Lapiti e quello dei Centauri, metà uomini e metà cavalli. Questi ultimi furono invitati dal re dei Lapiti alle nozze di Ippodamia, ma purtroppo persero ben presto il controllo sotto l’effetto delle bevande alcoliche servite al banchetto e tentarono di rapire la sposa, scatenando una zuffa dalla quale i Lapiti uscirono vittoriosi. La leggenda aveva un valore fondante per la cultura greca e poi per quella romana, perché richiamava i tempi della rozza preistoria umana, simboleggiata dai Centauri ancora per metà bestie, e il definitivo affermarsi della civiltà attraverso il controllo sui propri istinti e l’affermazione dello spirito di ragione che rendeva e rende l’uomo diverso e superiore rispetto a quel mondo naturale da cui pure proviene. Questa ricca allegoria del dischiudersi del progresso era quanto mai cara alla cultura umanistica del tempo, in particolare a Firenze, che si candidava orgogliosa come erede delle virtù della Roma repubblicana e che, proiettandosi nel tempo mi33

tico delle leggende, si sentiva artefice di una rinascita di civiltà. Mai come in quegli anni una numerosa tribù di Centauri popolò i dipinti fiorentini e risorse nella statuaria di marmo e di bronzo, soprattutto in quella che gravitava intorno alla corte dei Medici. L’interpretazione data da Michelangelo al tema proposto da Poliziano sembra abbastanza indifferente al valore allegorico della narrazione, tanto che il Vasari la interpreta erroneamente come la «battaglia di Ercole coi Centauri», mentre il più fedele Condivi la descrive come il «Ratto di Deianira e la Zuffa dei Centauri»10 [tav. 14]. Ma la soddisfazione dei committenti non fu per questo meno grande. Sebbene non narri con linearità gli eventi ricordati da Ovidio, il marmo restituisce perfettamente il carattere «antico» della favola, tanto che a prima vista il rilievo potrebbe sembrare una parete di sarcofago ellenistico. L’interesse dello scultore è tutto concentrato sui corpi agitati dalla battaglia e sulla tensione muscolare degli arti che si avvinghiano al punto da rendere addirittura difficile distinguere a chi appartengano, se a uomini o a Centauri. Proprio nell’ambiguità del groviglio muscolare si coglie l’ingenuità giovanile di Michelangelo. La novità dell’opera sta tuttavia nella capacità di trasformare in rilievo tutto il marmo e di creare dei piani di rappresentazione che digradano dalla superficie al fondo con una congruità che non si era vista se non nella migliore scultura antica. Invece di disporre le figure per piani paralleli nettamente separati tra loro dalla superficie al fondo, come era stato fatto fino ad allora e con grande perizia da Ghiberti e Donatello, Michelangelo fa infatti sfumare i corpi in un’infini34

tà di piani che digradano in maniera naturale e senza nessun artificio, evitando di disporsi su piani intercettati astrattamente dallo scultore per controllare la trasformazione del disegno in scultura. Nei pannelli del I e II secolo d.C. gli scultori romani avevano ottenuto un effetto simile, grazie a una consuetudine e a una perizia tecnica centenarie, ma avevano mantenuto una certa rigidità nella sequenza dei piani separati parallelamente, con la conseguenza di rappresentare non uno spazio reale in cui si articolavano le figure, ma uno spazio gerarchico in cui ogni figura si situava su un piano parallelo e nettamente distinto da quello delle altre. Nel rilievo con la battaglia dei Centauri Michelangelo annuncia la sua personale rivoluzione. Intanto riesce a restituire in modo congruo la prospettiva del singolo corpo: riesce cioè a collocare nello spazio non più un corpo fermo ma un corpo in movimento, con gli arti che si prolungano gradualmente e non più su tanti piani successivi. Le giunture corporee si articolano perfettamente nelle «appiccature», come si chiamavano allora: polsi, spalle, gomiti e ginocchi, da sempre cruccio degli scultori, raccordano finalmente gli arti senza incepparsi, come dimostra a mo’ di manifesto la figura in torsione sulla sinistra del rilievo. L’altra novità è che il ragazzo (perché ancora di ragazzo si tratta) riesce a percepire al di là del disegno preparatorio le potenzialità delle singole porzioni di marmo, trasformando il sottosquadro di un corpo nel corpo retrostante fino a immergersi nell’ultimo fondo come in un liquido dal quale emergono solo per accenni gli altri corpi. Il risultato dovette sorprendere i suoi stessi ammiratori e la condizione di non-finito in cui è lasciato il rilievo non fa che sotto35

linearne il valore di manifesto di una poetica. Gran parte dei corpi sono ancora segnati dalle gradine che Michelangelo usò per scolpire nei dettagli il rilievo dopo una abbozzatura a subbia e un uso arditissimo dei trapani per ricavare i sottosquadri uniti e approfonditi con lo scalpello. Anche in questo si coglie l’essenza molto precoce della rivoluzione tecnica di Michelangelo: non soltanto una capacità di vedere il marmo nella sua tridimensionalità, indipendentemente dal disegno che si può tracciare sulla sua superficie, ma la capacità di usare la gradina o lo scalpello fino alla pelle del marmo stesso, laddove gli altri artisti vi si avvicinavano prudentemente con la raspa. Il rischio della tecnica michelangiolesca è quello di rovinare con un colpo troppo forte la superficie finale della figura, perché la punta dello strumento ne oltrepassa il limite. Ma questo non gli succede mai, almeno per quanto ne sappiamo. Conosciamo invece il vantaggio di questa spericolatissima tecnica: la possibilità di un brusco cambiamento, di un rapidissimo passaggio dal concavo al convesso, laddove la raspa degli artisti precedenti irrigidiva le forme e intontiva il disegno eliminando la vibrazione che rende palpitante il marmo di Michelangelo. Il carattere giovanile dell’opera emerge da alcune incongruenze plastiche, prodotte dalla difficoltà di raccordare i corpi pienamente tridimensionali in uno spazio così affollato. Il centauro disteso in primo piano mostra un’eccessiva e poco credibile separazione del torace dalla groppa vista da dietro, così come la figura che si accascia su di lui non trova sufficiente spazio tra il centauro ferito e l’uomo visto di schiena che afferra per i capelli la figura reclinata. Ugual36

mente irrisolto appare il contatto delle natiche della figura reclinata con la gamba destra dell’uomo stretto alla gola da un avversario. Il rilievo risulta tuttavia pienamente credibile e rappresenta molto bene la furia della battaglia e la forza muscolare di chi la impegna. La portata della rivoluzione si comprende pienamente avvicinando alla Battaglia dei Centauri un altro rilievo, che si colloca generalmente negli stessi anni e che mostra una maniera espressiva ancora molto legata ai modelli contemporanei tardo quattrocenteschi: la Madonna della Scala11 [tav. 15]. Esempio abbastanza tipico del rilievo votivo fiorentino, così come l’aveva virtuosamente elaborato Donatello e come certamente Bertoldo si sforzava di insegnare ai giovani del giardino di San Marco, la Madonna della Scala accoglie ancora la tecnica di Donatello, fondata su piani molto ben compenetrati ma pur sempre paralleli, sui quali si spalma lo scorcio delle figure come se trovasse un ostacolo invisibile ma impenetrabile. Michelangelo porta questa tecnica al suo massimo grado di perfezione, ma ne mostra al contempo il limite tecnologico. La prima e più vistosa incongruenza compare nel braccio della Madonna, quasi separato dalla mano che regge il bambino. Del tutto irrisolti anche lo scorcio del suo piede destro e la ripida scala su cui un putto esibisce un rilievo molto aggettante nella spalla e uno schiacciatissimo nelle gambe e nel corpo. Tutto fa pensare ad un giovane ancora alle prese con una forma molto rigida di lavorazione del marmo. Sul piano più esterno del blocco il ragazzo ha disegnato il profilo delle figure e si sforza di scontornarlo per piani paralleli. Soltanto dopo, all’interno di questi piani da 37

cui l’impostazione non si può più liberare, tenta di scavare, rilevare e rendere espressive le pieghe dei panneggi e le muscolature. In questo desiderio di dare forza e solennità al rilievo si percepisce l’ambizione del giovane talento. La monumentalità della figura costretta nel blocco annuncia tutti i suoi sviluppi posteriori. Già qui, nella prima o in una delle prime opere marmoree, appare chiaro che a Michelangelo il blocco non basta mai: la Madonna potrebbe frantumarne i limiti se solo raddrizzasse leggermente il collo. Anche la compattezza del corpo del bambino annuncia le anatomie piene di energia delle opere successive. Un altro elemento che caratterizza la suggestione del giovane Michelangelo è il fascino per l’antico. Se la Madonna della Scala discende dai rilievi di Donatello, è pur vero, infatti, che ricorda al tempo stesso, nella compostezza del movimento e nell’astrazione delle fisionomie e delle espressioni, i rilievi funerari antichi. Infine, i gradini che vanno verso il fondo più che verso l’alto sono una promessa di spazialità interna alla figura, che sarà pienamente conquistata nella Battaglia dei Centauri. La Madonna della Scala sembra per queste ragioni una tipica esercitazione donatelliana stimolata dal solerte custode del giardino, il vecchio Bertoldo. Solo con la Battaglia dei Centauri Michelangelo supera invece l’orizzonte fiorentino e donatelliano, gettando un ponte verso l’antico che oltrepasserà già con le prime opere successive.

2. LA PRIMAVERA DEL GENIO

1. Attacchi di panico La sera del 5 aprile 1492, mentre una paurosa tempesta tormentava il cielo di Firenze, un fulmine colpì la lanterna di Santa Maria del Fiore, scaraventandone a terra una buona parte. Appena fuori città, nella sua casa di Careggi, Lorenzo il Magnifico osservava angosciato la tempesta e si abbandonava ai presentimenti più cupi. Da molti mesi era costretto a letto da una malattia insidiosa, che si era presentata inizialmente come un lieve disturbo e aveva ingannato i medici, che l’avevano sottovalutata. La sua vita era stata così eccezionale che Lorenzo si convinse che anche la sua morte avrebbe avuto un carattere fuori dall’ordinario e si sarebbe annunziata con segni premonitori rivolti al mondo intero1. Quando gli raccontarono della saetta che aveva fracassato la lanterna di Santa Maria del Fiore, chiese subito da che parte erano caduti i massi. Dal momento che erano caduti dal lato di casa sua, non ebbe dubbi nel presagire la propria fine. Vide bene, perché tre sere dopo quella saetta, l’8 aprile del 1492, morì nel suo letto di malato lasciando la 41

famiglia e la città in mano al figlio Piero, troppo giovane e troppo sventato per governare. Il ventenne Piero mostrò subito di non essere all’altezza del compito assegnatogli dal destino e rese ben presto palese quanto il padre aveva invece accuratamente simulato: l’arroganza e l’illegalità della tirannia dei Medici. Le cronache lo dipingono vizioso e dissoluto, ma è difficile precisare di quali vizi si compiacesse, perché per ancora due secoli la storia ufficiale di Firenze sarebbe stata scritta dalla stessa famiglia che aveva ucciso la Repubblica. Certamente fu prepotente come pochi, assassinò uomini con leggerezza colpendoli vigliaccamente di notte, ed ebbe la sfacciataggine di mostrarsi per le strade a giocare al pallone mentre la città a lui affidata attraversava la sua crisi più nera. A lui Michelangelo fu legatissimo negli anni immediatamente successivi alla morte di Lorenzo, al punto che quando la posizione di Piero divenne precaria pensò bene di scappar via dalla città prima ancora del crollo definitivo: quasi che fosse stato un suo ministro e non un giovane artista che frequentava la sua corte. Come per molti altri rapporti della sua vita, Michelangelo cercherà in seguito di nascondere la profondità reale di quel sentimento e di quel tradimento. Ma della relazione tra i due sono rimaste tracce più che significative. Il 20 gennaio del 1494, giorno di San Sebastiano martire, verso sera cominciò a nevicare su Firenze. Un vento sostenuto spingeva la neve ovunque, in ogni buco e in ogni fessura, tanto che dopo ventiquattro ore di ininterrotta tormenta la città fu sommersa da una coltre altissima e molti faticarono a liberare le case malamente sigillate. Per le stra42

de non passavano né uomini né animali e le botteghe non potevano aprire i battenti. A memoria d’uomo non si ricordava una nevicata del genere e i ragazzi ne approfittarono per fare i pupazzi che la moda e la tradizione volevano a forma di leoni. Piero de’ Medici però non si poteva accontentare dei leoni di neve fabbricati dagli altri ragazzi. Voleva un pupazzo eccezionale, degno del suo grado principesco. E mandò a chiamare Michelangelo, che dopo la morte di Lorenzo era ritornato a casa del padre Ludovico, a cui Lorenzo per amore del ragazzo aveva assegnato un piccolo ufficio alla dogana. Il giovane artista arrivò, pronto a eseguire i desideri del nuovo padrone. E fece con la neve un Ercole tanto bello quanto effimero, per la gioia della piccola corte di Piero. Le cronache per fortuna ci assicurano che la scultura non durò un baleno e che la neve in città non si sciolse per almeno otto giorni: il tempo di fare apprezzare a tutta Firenze la nuova opera di Michelangelo2. Anche in quel caso la mente frivola di Piero non aveva concepito nulla di più duraturo di una scultura di neve e perfino per un desiderio così futile il giovane tiranno aveva voluto l’impegno del suo servo migliore. Da quel momento Michelangelo ritornò a frequentare casa Medici e il giardino di San Marco. Per i fiorentini fu in quegli anni l’«ischultore dal giardino». Il sodalizio tra i due durò almeno fino all’ottobre del 1494, quando Michelangelo, preso dal panico, lasciò Firenze senza dire nulla a Piero e si diresse verso città che in quel momento dovevano apparirgli più sicure: la Bologna dei Bentivoglio, da sempre amici dei Medici, e la Venezia della Repubblica aristocratica. Fu forse quello il primo attacco di 43

panico nella vita dell’artista, sopraggiunto alla giovane età di diciannove anni. A due anni e mezzo dalla morte di Lorenzo, quella fuga segna il culmine del periodo più oscuro della vita di Michelangelo, non solo per la rarità dei documenti rimastici, ma per il legame dell’artista con un ambiente che tutti allora e dopo considereranno malvagio e vizioso. La morte di Lorenzo aveva lasciato la città sull’orlo di una crisi difficilissima, resa ancora più acuta dal fatto di trovarsi coinvolta nel conflitto che opponeva il papa al re di Francia. Piero, giovane e troppo preso dal soddisfacimento dei propri vizi, non seppe essere all’altezza della situazione e si attirò ben presto l’odio degli stessi amici del padre, che inutilmente si erano sforzati di aiutarlo nel governo della città. Nell’estate del 1494, la presenza in Italia del re di Francia e le sue mire espansionistiche posero la città, come molti altri Stati italiani, di fronte a scelte ardue. Fu allora che Piero rifiutò l’aiuto e i consigli che molti volevano offrirgli per il bene della casa e della città. Reso cieco dalla propria arroganza, Piero ebbe la sfacciataggine di recarsi a contrattare di persona con il re di Francia senza neppure avvertire la Signoria delle decisioni prese, cancellando così di fatto le deboli apparenze che avevano permesso ai fiorentini di sentirsi ancora titolari del proprio Stato sotto la tirannia del padre Lorenzo. La gravità del gesto e della situazione che si era determinata a Firenze produssero una sollevazione popolare che il 9 novembre 1494 mise in fuga Piero e i suoi intimi. Ma Michelangelo non aveva atteso l’evoluzione degli eventi. Prima ancora che la città si ribellasse, aveva lasciato di nascosto la corte di Piero ed era scappato il più lontano 44

possibile dal suo amico e padrone. La fuga, di pubblico dominio, fu registrata in una corrispondenza del 14 ottobre 1494 e fu forse il primo colpo inferto all’orgoglio del giovane tiranno3. Un artista neppure ventenne che si sente a tal punto coinvolto con il tiranno da temere conseguenze per sé dalla caduta del suo governo è fatto troppo insolito per non lasciar supporre che la corte di Piero, composta principalmente di giovanissimi, non si fosse trasformata in una consorteria prepotente e depravata, accomunata da un innaturale potere e da una sconfinata disponibilità finanziaria. Questo ambiguo delirio giovanile, presto sfociato in tragedia, si manifesta nelle tracce documentarie che raccontano dell’eccessiva benevolenza accordata da Piero a un bellissimo staffiere spagnolo, che oltre alla bellezza poteva vantare come unica qualità la portentosa velocità nelle corse. In questa comunità di eccentrici, raccolta intorno a un tiranno dissoluto, si scioglieva la rigorosa eredità di Lorenzo, che aveva aperto università, fatto tradurre dal greco libri di filosofia e sovvenzionato i più fini pensatori dell’Italia contemporanea. Ma in questa corte grottesca Michelangelo si era trovato bene e aveva stretto con Piero un forte sodalizio, che lo spinse a fuggire quando il suo governo stava per crollare. Il rivolgimento che accompagnò la cacciata di Piero da Firenze rischiò di trasformarsi in un bagno di sangue tra le fazioni opposte, che si erano contenute ma non dissolte sotto il lungo dominio dei Medici. Ad evitare la pericolosa caduta nella guerra civile fu l’abilità di Girolamo Savonarola, un frate domenicano che già dal 1484 predicava a Firenze ed era diventato un’autorità indiscussa anche grazie all’appoggio di 45

Lorenzo e dei suoi più ascoltati consiglieri. Poco prima della morte di Lorenzo i pulpiti dai quali fra Girolamo scagliava le sue prediche infuocate erano diventati il luogo più significativo della vita civile e politica fiorentina. Il duomo stesso non riusciva a contenere i suoi ascoltatori, atterriti e incantati dalle promesse ora di punizione ora di trionfo. La fortunata coincidenza di alcune sue profezie con eventi effettivamente accaduti in quegli anni ne fecero un’autorità soprannaturale. Ben presto la città fu in suo potere, soprattutto dopo che Lorenzo lasciò al figlio Piero il suo governo. Originario di Ferrara, il frate dall’enorme naso che ricordava il becco di un avvoltoio aveva abbracciato la predicazione spinto da una fede fortissima nel rinnovamento della Chiesa e della religione, che lo aveva portato ben presto in conflitto con l’autorità di Roma. Nella sua visione profetica faceva coincidere la bontà del governo con la santità dei costumi cristiani e cercava di convincere i fiorentini che la loro città era stata scelta per dimostrare al mondo come poteva nascere in terra il regno di Dio. Il buon governo politico, che a Firenze coincideva necessariamente con la tradizione repubblicana e non con la tirannia medicea, era la forma migliore per lo sviluppo di una vera vita cristiana. Una simile predicazione s’impose in un momento di crisi profonda della città e della sua politica estera, e il frate divenne a tal punto influente sul governo cittadino da essere inviato lui stesso in rappresentanza della città al re di Francia nei difficili mesi dell’autunno 1494. L’abilità e la forza con cui fra Girolamo seppe conquistare una città spaventata dai tempi si accompagnarono però all’intransigenza invasata con cui chiedeva una rinuncia a 46

quelli che considerava peccati di vanità e che erano per molti cittadini un’espressione essenziale e irrinunciabile della nobiltà d’animo. Le violente accuse contro la vanità e i lussi in cui indugiavano i fiorentini non potevano non atterrire lo stesso giovane Michelangelo, che fu certo presente a molte delle sue prediche, tra le urla disperate delle donne in lacrime e dei bambini terrorizzati. Forse si sentì anch’egli stigmatizzato dal potente profeta, che fece bruciare nelle pubbliche piazze proprio quelle opere d’arte che per Michelangelo rappresentavano la speranza di futuro. A rendere ancora più cupe ai suoi orecchi le minacce di Savonarola furono certamente le dissezioni anatomiche a cui il giovane artista si dedicava con la complicità del priore di Santo Spirito, che senza dubbio lo assecondò anche per la sua familiarità con i Medici. Le dissezioni erano guardate con molta diffidenza dalle autorità e dall’opinione pubblica, ma l’ansia di perfezione dello scultore non poteva arretrare di fronte a niente, neppure di fronte ai rischi sanitari di pratiche che per sua stessa ammissione lo impressionarono al punto da guastargli per sempre l’appetito e che giovarono però enormemente alla sua arte. Per compensare il priore della sua complicità Michelangelo scolpì per la chiesa di Santo Spirito un crocifisso poi disperso. Più dirette e più dolorose dovevano in ogni caso risultare le accuse del frate contro i cedimenti ad un vizio come la sodomia. Savonarola la combatté con una violenza ossessiva e sconosciuta a Firenze, dove la sodomia era quanto mai diffusa e tollerata senza troppo scandalo nonostante i divieti formali. Nel XV secolo i maschi fiorentini arrivavano al matrimonio intorno ai trent’anni, quando la passionalità 47

giovanile era già in discesa, e si cominciavano a cercare scorciatoie di cui nessuno poteva seriamente stupirsi. Qualche anno dopo, nelle sue corrispondenze con Francesco Vettori, Niccolò Machiavelli ne parlerà come di un fatto del tutto naturale, e come tale appare nelle memorie di Francesco Guicciardini quando commenta i gusti sessuali dei suoi antenati4. Ma Savonarola si scagliò con tale violenza contro i sodomiti da chiederne addirittura la morte per abbruciamento (paradossalmente finirà lui stesso bruciato su un rogo acceso, sembra, da uno di quei sodomiti che gli sarebbero felicemente sopravvissuti a Firenze come nel resto dell’Italia cristiana). Non furono solo i sodomiti, tuttavia, a pagare il prezzo della rettitudine morale del profeta ferrarese. L’intera città sotto la sua influenza si trasformò, anche a causa della grave crisi politica che la assediava, in una triste comunità di penitenti. Non si giucava più in publico, e nelle case ancora con timore; stavano serrate le taverne che sogliono essere ricettaculo di tutta la gioventù scorretta e di ogni vizio; la soddomia era spenta e mortificata assai; le donne, in gran parte lasciati gli abiti disonesti e lascivi; e’ fanciulli, quasi tutti levati da molte disonestà e ridutti a uno vivere santo e costumato [...] frequentavano le chiese, portavano e’ capelli corti, perseguitavano con sassi e villanie gli uomini disonesti e giucatori e le donne di abiti troppo lascivi; andavano per carnasciale congregando dadi, carte, lisci, pitture e libri disonesti, e gli ardevano publicamente in sulla piazza de’ Signori, faccendo prima in quello dì, che soleva essere dì di mille iniquità, una processione con molta santità e divozione [...] Confortava tutto dì gli uomini che, lasciate le pompe e vanità, si riducessino a una simplicità di vivere religioso e da cristiani5. 48

Fra Girolamo aveva fatto leva sugli elementi più deboli della comunità: i ragazzi. Un esercito di quindicimila «fanciulli» tra i sei e i sedici anni vigilava sulla moralità dei fiorentini, con il fanatismo cieco della loro età. Facevano irruzione nelle case dove si giocava d’azzardo, strappavano per strada le acconciature delle donne quando gli sembravano troppo vistose e si esaltavano con processioni faraoniche tentando di suggestionare una città che doveva al proprio spirito pratico la sua ricchezza. Nessun artista avrebbe voluto o potuto vivere in una città del genere e Michelangelo decise di cambiare aria, almeno fino a che i tempi a Firenze non avessero promesso qualcosa di meglio. Certo non fu il solo insofferente alle prediche del Frate Nero, se è vero che al suo rogo, il pomeriggio del 23 maggio 1498, partecipò molta più gente di quanta fosse mai accorsa alle sue prediche moralizzatrici. Non fa molta differenza che il giovane artista, nell’ambiente dissoluto del palazzo abitato da Piero e dal suo bellissimo staffiere, avesse agito concretamente l’omosessualità che attraversò minacciosamente tutta la sua vita, o si fosse invece trattenuto anche allora, a dispetto della promiscuità fisica e dell’ambiente così inclinato al godimento. Di sicuro dovette avvertire un forte disagio di fronte alle accuse isteriche che quotidianamente Savonarola lanciava nelle sue affollatissime prediche. Lui stesso si sentì preso di mira insieme a Piero e alla sua corte e quando vide declinare il potere del suo protettore immaginò per se stesso un castigo terribile da parte di quella folla manipolata dal furore moralizzatore del frate. Il clima isterico di quei giorni rimarrà profondamente impresso nella memoria di Michelangelo, che più di cin49

quant’anni dopo racconterà al suo docile biografo Ascanio Condivi le visioni che ossessionavano lui e il suo amico “cardiere”, musico gentile e semplice di spirito, tormentato dal presagio di sciagura al punto da sognare più volte il cadavere di Lorenzo afflitto e ricoperto «con una veste nera e tutta stracciata sopra lo ignudo»6 per annunziare al figlio la prossima cacciata da Firenze. Il sogno materializzava i sensi di colpa dei ragazzi alla deriva, ma Piero non si lasciava intimidire da quelle facili premonizioni, che anzi finivano per eccitare ancora di più la sua arroganza. Era solo irritato dal fatto che suo padre avesse scelto un servo, invece del proprio figlio, per inviargli messaggi tanto importanti. La fuga di Michelangelo non passò inosservata, se un influente osservatore cittadino ne diede notizia a un corrispondente, in quello stesso giorno, sottolineandone la giusta rilevanza politica: «Sapi che Michelagnolo ischultore dal giardino se n’è ito a Vinegia sanza dire nulla a Piero, tornando lui in chasa: mi pare che Piero l’abia auto molto male». Una testimonianza preziosa, perché rivela molte cose insieme: che a quella data Michelangelo è ormai considerato uno scultore, che è ancora strettamente legato a Piero e al giardino di San Marco e che la sua fuga fu repentina e avvenne senza il permesso di Piero. Stando alla leggenda affidata più tardi al proprio biografo, la fuga in compagnia di altri due giovani spaventati come lui sarebbe finita ingloriosamente nelle prigioni di Bologna per mancanza di soldi, se non fosse stato per l’intervento di Francesco Aldrovandi. Legato alla famiglia dei Bentivoglio, che governava allora Bologna e che era molto amica dei Medici, Aldrovandi accolse Michelangelo nella stessa casa in cui pochi 50

giorni dopo avrebbe accolto Piero in fuga lungo il medesimo tragitto. A Bologna Michelangelo si trattenne il tempo sufficiente ad aspettare che le turbolenze politiche fiorentine si calmassero e prendesse corpo un nuovo governo dopo la cacciata dei Medici. Aldrovandi lo tenne in casa come un gentiluomo e gli procurò l’incarico prestigioso di completare il monumento che Niccolò dell’Arca aveva lasciato incompiuto nella chiesa di San Domenico. Michelangelo scolpì un bellissimo angelo reggicandelabro [tav. 16], più simile a un atleta olimpico che a un abitatore dei cieli, e un San Procolo in abito da guerriero [tav. 17], che nella posa dinamica già lascia intuire gli sviluppi futuri della statua del David. Scolpì inoltre la statua di San Petronio [tav. 18], patrono della città, ancora segnata dai guizzi nervosi del disegno quattrocentesco nell’espressione affilata del viso e soprattutto nel panneggio calligrafico, forse per meglio accordarsi con le sculture di Niccolò dell’Arca (il mantello pesante cade ad ogni modo con una morbidezza che rende già pienamente visibile il virtuosismo tecnico raggiunto dallo scultore ventenne). La protezione dell’Aldrovandi e l’incarico di concludere un monumento così importante per la città testimoniano comunque della grandissima considerazione in cui Michelangelo fu tenuto a Bologna. I suoi meriti apparivano già fuori dal comune. A quella data l’unica opera compiuta e di un certo rilievo che aveva realizzato di propria iniziativa, forse nel 1493, era un «Ercole di braccia quattro, che sté molti anni nel palazzo degli Strozzi»7. L’opera fu venduta senza difficoltà e sappiamo che rimase nel palazzo degli Strozzi fino al 1529, quando Giovanbattista della Pal51

la l’acquistò per mandarla in Francia. Un’opera d’esordio dunque, apprezzata da una committenza d’eccezione quale erano gli Strozzi e tuttavia insufficiente da sola a garantire l’accesso a un incarico tanto importante come la conclusione dell’Arca di San Domenico. Pur avendo scolpito pochissime statue, il giovane e irrequieto scultore era già fuori dagli schemi correnti della produzione artistica. L’ambiguità della sua condizione sociale si riproponeva comunque anche a Bologna, dove viveva nella casa dell’Aldrovandi leggendogli Dante e Petrarca, poeti amatissimi da entrambi. Michelangelo occupava un ruolo più vicino al cortigiano che allo scultore. Ma il mercato dell’arte bolognese non era neppure paragonabile a quello fiorentino e appena possibile l’artista tornò nella sua città, indifferente alle attrattive di commissioni che giudicava di poco conto per lui ma che avrebbero fatto la gioia di qualsiasi scultore italiano del tempo, soprattutto degli scultori bolognesi, che sembrarono non apprezzare per niente l’arrivo in città di quel giovane presuntuoso. Bologna non serbava le ricchezze e il gusto che tre soli luoghi possedevano in questi anni: Venezia, Roma e naturalmente Firenze.

2. Uno scherzo finito bene Dopo la cacciata di Piero, a Firenze si era instaurato con il favore di Savonarola un governo repubblicano molto vicino a quella classe media a cui era appartenuta nei suoi tempi migliori la famiglia dei Buonarroti. Questi si gioveranno presto della maggiore apertura democratica del nuovo go52

verno, con il quale lo stesso Michelangelo è destinato a stabilire una duratura amicizia. La Firenze dove l’artista fece ritorno nel Natale del 1495 era una città ancora fortemente instabile sul piano politico, incendiata dalle prediche di un Savonarola sempre più potente e sempre più intransigente verso le debolezze degli uomini. Attraverso il suo singolarissimo esercito di ragazzini, il frate condizionava l’intera vita della città. Le sue prediche avevano a tal punto un carattere politico che in molte occasioni ordinava la presenza di soli uomini, poiché non considerava le donne altrettanto rilevanti dal punto di vista del peso sociale8. Firenze non era dunque una città accogliente per un giovane ambizioso, affascinato profondamente proprio da quell’arte che il frate domenicano si ostinava a denigrare in prediche che somigliavano sempre più a uno psicodramma collettivo. Savonarola odiava a tal punto l’arte non devozionale da rifiutare anche una somma consistente offerta da un mercante veneziano che intendeva acquistare tutte le opere destinate a bruciare nella pubblica piazza. Nella sua mente, soltanto il fuoco poteva purificare definitivamente l’indegnità degli uomini. Nella coscienza del popolo fiorentino, i toni cupi delle sue prediche stavano sostituendo gradualmente la fierezza con cui la città aveva accolto lo sviluppo dell’arte e della civiltà. Ma Michelangelo non si perse d’animo e riprese la sua ricerca esattamente da dove l’aveva interrotta: dalla competizione con quella scultura classica tanto odiata dal nuovo padrone della città. Realizzò un Cupido dormiente, un soggetto molto frequentato dagli artisti greci e romani. La scultura riuscì così bene da sembrare in tutto identica ad 53

una statua antica. Al punto che a Michelangelo o a qualcuno a lui molto vicino venne in mente di organizzare una truffa ai danni dei ricchi collezionisti di antichità, spesso accecati dal desiderio di possesso. La scultura venne interrata e contraffatta in maniera da apparire come se fosse rimasta sepolta per lunghissimo tempo. Lo scopo era venderla come un oggetto antiquario. Naturalmente non a Firenze, trasformata ormai in una città di «piagnoni», come erano detti i seguaci di Savonarola che predicavano rigore e astinenze di ogni tipo. La truffa doveva puntare a Roma, dove le «anticaglie» suscitavano una febbre altissima nella ricca corte pontificia, presa di mira per le sue dissolutezze proprio da fra Girolamo, che alla città del papa opponeva la sua Firenze in via di costruzione, tutta virtù e necessità morale. Sapientemente affumicato e sporcato di terreno appiccicoso, il Cupido venne dunque portato a Roma e offerto a uno dei più ricchi collezionisti italiani, il cardinale di San Giorgio Raffaele Riario. La somma concordata per la vendita era spropositata: 200 ducati, a fronte dei 15 pagati correntemente per una statua moderna e dei 18 che erano stati pagati a Michelangelo per la statua del San Petronio a Bologna. Fu questa la cifra effettivamente pagata dal mediatore della truffa a Michelangelo. Il successo fu però troppo grande perché l’artista non decidesse di uscire allo scoperto rivendicando per sé la differenza del guadagno. Sdegnato, il cardinale richiese indietro i suoi soldi9. Ma era a tal punto uomo di mondo da cogliere perfettamente, al di là del maneggio vergognoso di cui era stato oggetto, l’eccezionalità di quel giovane talento. 54

Recuperati i suoi soldi, Riario invitò senz’altro Michelangelo a Roma nella sua raffinatissima corte. Il giovane artista non aspettava altro. L’incontro fu favorito da Lorenzo di Pierfrancesco, membro di un ramo cadetto dei Medici che era stato da questi esiliato durante il loro governo e che adesso poteva tornare a Firenze per rivendicare, senza suscitare sospetti, un ruolo di primo piano nel nuovo governo antimediceo. Anche questo era un modo di volgere le spalle ai vecchi protettori, tanto più che proprio Raffaele Riario era stato coinvolto nella congiura dei Pazzi ed era stato fatto prigioniero dai Medici, che lo avevano trattenuto a Firenze dal 26 aprile al 12 giugno 1478 impiccando molti uomini del suo seguito e appendendoli alle finestre di Palazzo Vecchio come stracci stesi ad asciugare al sole. Ma l’ambizione di Michelangelo non poteva aspettare. La sua vita irregolare gli aveva finora impedito di raccogliere i frutti di quel talento di cui tutti erano ormai convinti: la politica e le amicizie influenti gli vennero ancora una volta in soccorso. Ancora giovane e permeabile ad ogni influsso, Michelangelo venne scoperto e adottato dall’uomo che più di ogni altro in Italia rappresentava a quella data il perfetto esempio di un mecenatismo colto, ricco e indifferente al pregiudizio religioso e morale che ancora teneva lontani dalla cultura antica molti influenti cittadini europei. Nominato cardinale di San Giorgio da suo zio, il papa Sisto IV Della Rovere, Raffaele Riario aveva iniziato la costruzione del più grande palazzo romano del Quattrocento con il frutto di una favolosa vincita a dadi che sarebbe rimasta nella leggenda della Città eterna. Nell’episodio è inscritto l’intero orizzonte culturale del personaggio. Disinvolto 55

e raffinato, cinicamente distaccato dai vincoli e dai costumi sociali dei suoi tempi, Riario aveva per l’arte una considerazione superiore persino a quella dei principi e dei papi, che fino ad allora erano stati i committenti più munifici. Nell’unione tra cultura e ricchezza si delineava il carattere più tipico della committenza rinascimentale. Con il Palazzo della Cancelleria il cardinale non si era limitato a commissionare un palazzo ricco e favoloso. Voleva realizzare un edificio «all’antica», capace di rievocare se non superare in splendore i palazzi costruiti dagli antichi romani, di cui rimanevano, scavati e ammirati ogni giorno di più, frammenti colossali. Per arrivare a questo obiettivo aveva chiamato gli architetti all’avanguardia nello studio della composizione antica, non esitando a demolire la vecchia e venerabile chiesa di San Lorenzo in Damaso e a utilizzare le colonne della sua navata per il cortile classicheggiante largo come una piazza comunale. Come un animale mitico, Roma rinasceva ancora una volta divorando le proprie membra: le colonne di età augustea erano state utilizzate dai cristiani per costruire la chiesa di San Lorenzo, ora tornavano a decorare un palazzo costruito in omaggio al rinato amore per la bellezza, l’unico vero carattere sopravvissuto attraverso i millenni nella Città eterna. Ma il cardinale Riario non si era limitato a immaginare un fastoso palazzo all’antica. Aveva addirittura modificato un’industria cittadina calibrata su una produzione edilizia miserabile, che non contemplava neppure la possibilità di un edificio del genere. Aveva fatto aprire fornaci per i mattoni, fatto arrivare da Firenze scalpellini che sapevano temperare il ferro molto meglio di quelli romani, fatto traspor56

tare travertini sugli affluenti del Tevere per vestire di un ricco bugnato all’antica il suo palazzo. Soprattutto, aveva raccolto una collezione di statue greche e romane che da sola avrebbe potuto cambiare il corso dell’arte di Michelangelo. Ne era invasato a tal punto che quando la mattina del 25 giugno 1496 lo sfrontato ventenne che aveva osato beffare il suo intuito di conoscitore gli si presentò a casa, appena arrivato da Firenze, lo portò direttamente a visitare la collezione, senza neppure dargli il tempo di esibire le lettere di presentazione di cui lo aveva fornito Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici. Il cardinale voleva che Michelangelo entrasse subito in contatto con le sue preziose sculture e il ragazzo, che non chiedeva di meglio, vi passò l’intera giornata. Doveva essere anche lui esaltato non meno del cardinale, se per essere a Roma il più presto possibile non aveva esitato a lasciare la sua città proprio alla vigilia del 24 giugno, giorno della festa di San Giovanni, considerato da ogni fiorentino il più felice e importante dell’anno per i festeggiamenti bellissimi che si tenevano in tutta la città e che rinsaldavano i legami di famiglia, di clan e di quartiere. Il giorno dopo, il 26 giugno, il cardinale lo mandò ancora a cercare. Voleva sapere cosa pensava delle sculture e se se la sentiva di fare qualcosa che vi somigliasse. Tentato dalla modestia per la prima volta nella sua vita, di fronte al sole bruciante dell’arte antica, Michelangelo rispose come Raffaele si aspettava: «Risposi ch’io non farei sì gran chose, ma che è vedrebe quello che farei»10. La mattina del giorno successivo Michelangelo era già in giro per Roma per comprare un pezzo di marmo adatto a una figura a grandezza naturale. L’obiettivo fu subito messo a fuoco: la 57

figura naturale, il centro della poetica classica che diventò subito anche il centro della poetica del nuovo Michelangelo. Lunedì 4 luglio, nella casa di un gentiluomo amico di Riario vicino a Campo de’ Fiori, in quello che stava diventando il nuovo centro della città risorta, Michelangelo cominciò a scolpire un Bacco a grandezza naturale. Di Roma aveva già visto quanto bastava e ciò che gli era necessario: le sculture raccolte da Raffaele Riario. Mai si era visto ingaggio più frenetico. Puntuale il cardinale gli versò 10 ducati il 18 luglio e poi 50 fiorini larghi d’oro il 23 agosto, seguiti da altri due pagamenti, di 50 fiorini l’uno, l’8 aprile e il 3 luglio dell’anno successivo. Considerati i primi 10 ducati necessari all’acquisto del marmo, in un anno Michelangelo guadagnò con il Bacco 150 fiorini d’oro, una cifra altissima per uno scultore. Appena arrivato e a soli ventun anni, il cardinale lo aveva di fatto nominato primo artista di Roma, guidandolo con il suo gusto alla scoperta della scultura antica, che a Firenze l’artista aveva potuto soltanto intravedere. La statua fu un successo clamoroso [tav. 19]. Il dio del vino è ritratto in una difficile posa, con il braccio sinistro alzato e mollemente inclinato su un fianco. Le forme e le proporzioni del corpo sono quelle dei modelli classici, colte in una perfezione vicina al naturale ma sufficientemente distante da rendere l’immagine evocativa di un’umanità divinizzata, che si supponeva dovesse esistere ma che non si incontrava mai incarnata in un esempio concreto: un’umanità che dava agli artisti il vantaggio di sollevarsi sul mondo bello ma troppo limitato della natura. La grandezza del giovane Michelangelo allenta la morsa fredda dell’astrazio58

ne per dare alla carne un palpito vitale appena colto eppure straziante. I muscoli abbandonano la rigidezza dei modelli antichi e si ammorbidiscono, si arrotondano, conferendo al giovane dio un’ambiguità che solo poteva nascere dall’apprezzamento profondo per la sensualità pagana. Bacco ha il ventre dolcemente prominente, la schiena, i glutei e il petto morbidi come quelli di un ragazzo non ancora divenuto uomo e ancora ingentilito dalle tracce di femminilità tipiche dell’adolescenza. L’espressione estatica, libera da ogni colpa, offre senza riserve il dono della propria giovinezza e della propria selvatica genuinità. La scultura rappresenta meglio di ogni altra quell’idea dell’anima pagana che cominciava a delinearsi nella mente di uomini come Raffaele Riario, distanti dal frate che in quegli stessi mesi infiammava Firenze di ascetiche penitenze al punto da rendere inimmaginabile la realizzazione di una statua del genere nella città toscana. I marmi della collezione del cardinale e la sua colta influenza erano il presupposto indispensabile di questa perfetta fioritura pagana, che anni dopo arretrerà nella figura del David, più vicino ai nervosi soldati moderni. Il Bacco è una delle poche opere perfettamente finite di Michelangelo. Così voleva il proprietario, il quale non poteva certo consentire che la nuova statua sfigurasse accanto alle sculture antiche cui doveva accompagnarsi. Tecnicamente segna l’ingresso di Michelangelo nella maturità artistica. I passaggi tra i muscoli sono morbidi e appaiono realizzati senza nessuna fatica. La forza che s’intravede nella muscolatura, compressa in alcuni punti e distesa in altri, è frutto della perfetta cognizione anatomica acquisita da Mi59

chelangelo nelle macabre e solitarie sedute nell’ospedale di Santo Spirito. Soprattutto, appare già decisamente superato quel problema che impegnerà gli altri scultori per ancora un secolo: il raccordo tra le membra e delle membra al corpo. L’attaccatura delle spalle e delle gambe, il piegarsi del gomito e delle ginocchia hanno perso ogni legnosità e ogni stento, contrariamente a quanto accadeva ancora nella scultura quattrocentesca. Il Bacco avvertiva il mondo intero che si poteva competere con gli antichi, almeno nella scultura, segnando un traguardo importante per quell’ambiente che a Roma stava preparando la più bella stagione dell’arte occidentale. Generosamente Riario aveva aiutato Michelangelo a migliorare il suo stile mettendogli a disposizione la sua cultura e la sua collezione e soprattutto introducendolo in quell’ambiente cardinalizio da cui gli sarebbero arrivate le successive importantissime committenze. Eppure Michelangelo ripagherà malissimo questa disponibilità, facendo dire al suo biografo Condivi che il cardinale era ignorante e non gli aveva commissionato nulla. L’artista smentiva così le sue stesse lettere di mezzo secolo prima. Forse non voleva, nel 1553, quando a Firenze regnava incontrastato il duca Cosimo I, padrone e arbitro delle fortune della discendenza michelangiolesca, che ci si ricordasse come il giovane artista avesse condiviso la casa e la tavola dei Medici nel palazzo di via Larga per poi dileguarsi al declinare della loro fortuna e trasferirsi a Roma, dove si era rivolto nientemeno che a uno dei principali avversari della famiglia Medici, il cardinale che aveva partecipato alla congiura del 1478 finita in un bagno di sangue e mai dimenticata in Italia. Eppure proprio a lui ave60

va chiesto protezione il giovane artista, sdegnando il fratello di Piero, Giovanni, cardinale anche lui dal 1488 e futuro papa con il nome di Leone X, intorno al quale si andavano ricompattando già in quegli anni le clientele familiari. O forse, più semplicemente, il mito che l’artista si era costruito non contemplava la presenza di comprimari né di sostenitori, neppure nelle prime fasi della sua vita. Sta di fatto che mentirà sfacciatamente sul suo esordio romano e sul rapporto con il cardinale Riario, facendo scrivere al Condivi: «E che ’l Cardinal San Giorgio poco s’intendesse o dilettasse di statue, a bastanza questo ce lo dichiara, che in tutto il tempo che seco stette, che fu intorno a un anno, a riquisizion di lui non fece mai cosa alcuna»11. Non poteva allora immaginare che la sua notorietà avrebbe in seguito spinto a riesumare non soltanto le lettere di quei giorni, ma addirittura le incontestabili ricevute bancarie dei versamenti del povero cardinale di San Giorgio, innamorato dell’arte più di quanto potesse esserlo lo stesso Michelangelo. Il riconoscimento generoso del cardinale permise in ogni caso a Michelangelo di fare i primi passi a conforto della sua sfortunata famiglia, rimasta a Firenze a fronteggiare la carestia seguita all’ennesima crisi civile scatenata dai tentativi di Piero di rovesciare il governo repubblicano e culminata nella scomunica emessa dal papa Alessandro VI contro Girolamo Savonarola nel giugno del 1497. Dopo aver aperto un conto corrente presso il banco romano dei Balducci, il 23 marzo del 1497 Michelangelo fece pagare a suo padre Ludovico 9 fiorini larghi d’oro, i primi di una lunga serie di rimesse con le quali cominciava a riscattare la famiglia dallo stato di indigenza in cui era venuta a trovarsi. 61

Il successo riscosso come scultore non impedì d’altra parte a Michelangelo di continuare a mettere a frutto gli insegnamenti in materia pittorica appresi nella bottega dei fratelli Ghirlandaio. Il 27 giugno 1497, appena finito il Bacco, l’artista prelevò dal proprio conto tre carlini per «uno chuadro di legno per dipingerlo»12. Era una cifra sufficiente a comprare una tavola delle dimensioni della Madonna di Manchester, che alcuni oggi gli attribuiscono. Lo stile dei Ghirlandaio è ancora molto presente nella nettezza metallica del disegno e nella vaga rigidità delle espressioni atteggiate secondo il codice psicologico che caratterizzava la devozione di fine secolo. Nonostante buona parte della critica sia propensa ad attribuire questo dipinto a Michelangelo, la sua paternità rimane però dubbia. Le articolazioni volumetriche delle figure sono troppo semplificate rispetto a quelle pienamente risolte del Bacco e occorrerebbe quindi supporre un’arretratezza del Michelangelo pittore rispetto al Michelangelo scultore, fatto che non trova conferma nella produzione successiva. A meno che non si voglia retrodatare la pittura di parecchi anni e sottrarla così al confronto con un’altra certamente di mano di Michelangelo, il Tondo Doni, di qualche anno successivo.

3. La fatica dell’artista La pausa pittorica era comunque destinata a durare molto poco. Nel novembre 1497 sul conto corrente di Michelangelo venne infatti accreditata la consistente somma di 133,1/2 fiorini di Reno (100 ducati camerali), una valuta 62

nordica che annuncia la committenza di un’altra opera capitale della gioventù: la Pietà o Madonna della Febbre, oggi a San Pietro. Il committente era ancora una volta un cardinale, dunque un uomo al vertice della gerarchia cortigiana di Roma: Jean de Bilhères-Lagraulas. Ma questa volta Michelangelo non poteva accontentarsi dei blocchi di marmo di recupero che si rimediavano sul mercato romano. Con appena un decimo della somma ricevuta comprò un cavallo e partì per Carrara, incontro per la prima volta a quelle cave che per tutta la vita gli avrebbero dato un’ebbrezza creativa senza confronti. L’inverno, il freddo e la neve che tormentano le Alpi Apuane si rivelarono quell’anno particolarmente feroci. A febbraio la Toscana fu stretta da una morsa di gelo che fece ghiacciare l’Arno, sul quale si giocava a palla come su un canale dipinto da Bruegel. Era un evento eccezionale, che si protrasse per più di due mesi e che certo provocò la disperazione di Michelangelo, prigioniero del gelo nelle montagne già martoriate dai Romani per il prezioso marmo serrato tra foreste e dirupi. Il giovane ambizioso non poteva aspettare la primavera. Il successo e la protezione degli ambienti più potenti di Roma lo avevano convinto che in futuro non avrebbe avuto ostacoli e che il successo valeva bene qualche sacrificio. Era a tal punto convinto del proprio valore da non aspettare che gli venissero commissionati nuovi lavori per comprare diversi blocchi di marmo, certo che le occasioni non gli sarebbero mancate. Fatto ancora più insolito, era convinto di poter scolpire di sua iniziativa statue da vendere successivamente. Precorrendo anche in questo modo i tempi, il po63

co più che ventenne Michelangelo diventava così un abile imprenditore di se stesso e investiva sul proprio talento prima ancora che lo facessero gli altri. L’estate del 1498 la trascorse a Roma, al porto di Ripetta, a far scaricare i marmi che Simone il marinaio gli portava da Carrara con la sua barca salpata dal litorale toscano, da quella spiaggia bianca dell’Avenza dove gli scalpellini di sua fiducia, inchiodati anche dal nome alle cave delle Apuane, li avevano faticosamente trasportati. L’inverno dovette invece concentrarsi sull’impresa che gli avrebbe dato definitivamente la palma di primo scultore d’Italia e per la quale aveva pattuito una cifra notevolissima: 450 ducati d’oro, come recita il contratto stipulato a Roma il 27 agosto 149813. Il suo primo capolavoro nasceva nelle condizioni più difficili da immaginare per un uomo così giovane, solo e lontano dalla sua città e dai suoi affetti, alloggiato in una casa miserabile per la quale pagava un affitto di un ducato e mezzo al mese. Il denaro che cominciava ad affluire copioso nelle tasche dell’artista non cambiò il suo stile di vita, che rimase ai limiti della sopravvivenza. Non dormiva, non mangiava, non si copriva abbastanza. In visita a Roma, il fratello lo trovò in condizioni di straordinaria indigenza e se ne preoccupò, perfino lui che a Firenze viveva di stenti. Michelangelo era insensibile a tutte le seduzioni, perfino a quelle rese impellenti dalla giovinezza. Il padre, che in quegli anni gli scrisse più volte molto preoccupato, gli ricordava che non serve a niente risparmiare soldi se gli stenti provocano malattie che col tempo impediscono perfino di guadagnarsi il pane. Ma Ludovico conosceva troppo bene il fi64

glio per non capire che quella di Michelangelo era pura avarizia, un vizio non soltanto dannoso per la salute ma riprovevole per la religione e la morale. Glielo ricordava con la sua autorità: «(...) la miseria è chattiva, però che è vizio che dispiacie a·dDio e alle gienti del mondo, et inoltre ti farà male all’anima e al chorpo; e mentre se’ giovane sopporterai qualche tempo chotesto disagio, ma chome mancha la virt[ù] della giovanezza, si schuopre poi delle malattie et infermità che·ssi sono in[g]ienerate per chotesti disagi e per vivere male e chon miseria»14. Quello che il povero Ludovico non poteva immaginare era fino a che punto l’avarizia tenesse in pugno Michelangelo. Non poteva immaginare che l’artista aveva depositato in quegli anni centinaia di ducati sui suoi conti correnti, che aveva guadagnato già tanto da mettersi al riparo dall’indigenza. Tanto meno poteva immaginare che il figlio si sentiva un derelitto pur non essendolo mai stato e faceva di tutto per convincere di questo anche gli altri, se non altro per arginare le richieste di aiuto che si riversavano su di lui (principalmente da parte dello stesso Ludovico, il quale non faceva altro che lamentarsi dei propri stenti, delle scodelle che doveva lavarsi da solo, della fame, dell’indigenza e della vita miserabile che era costretto a condurre per non essersi risposato una terza volta, pur di garantire ai figli l’affetto di un’intimità non violata dalla presenza di una matrigna). Lo scultore a cui ormai si rivolgevano soltanto i cardinali viveva come il più miserabile degli scalpellini, accumulando soldi e rifiutando i minimi conforti, ignorando la sua stessa gioventù quasi fosse un ostacolo alla concentrazione sul lavoro. 65

Da queste rinunce e da questa tensione terrificante tutta convogliata sul lavoro, da questo azzeramento totale della propria esistenza carnale, nasceva una scultura che sembra alimentata proprio dalla vita che l’artista non poteva concepire per se stesso. Il cardinale Jean de Bilhères, noto come il cardinale di San Dionigi, gli aveva chiesto una Pietà, una Madonna che regge in grembo il figlio morto appena deposto dalla croce. Era un’immagine molto cara alla devozione nordica per la passione tragica e tormentosa che rappresentava. Un’immagine che i tedeschi chiamavano Vesperbild perché era particolarmente adatta alle contemplazioni malinconiche della sera, quando soprattutto le monache si concentravano su quella maternità straziante, più bella e più dolorosa della maternità concessa alle altre donne e in cui si scioglieva la pena e la fatica dell’anima umana mentre il sole spariva dal mondo. Michelangelo colse al massimo grado proprio il sentimento di malinconia legato a quella fase del giorno e tradizionalmente associato a quell’immagine di devozione [tav. 20]. La Vergine straziata dal dolore esibisce al mondo le spoglie martoriate del figlio che si è offerto in sacrificio per lavare i peccati degli uomini. È un’immagine di profonda sofferenza, eppure la Vergine di Michelangelo è una giovane donna dai lineamenti purissimi che tenta di arrestare la caduta del corpo morto di suo figlio. Con la mano destra lo trattiene sotto l’ascella, aiutandosi con il ginocchio sollevato grazie alla provvidenziale presenza di un gradino roccioso. Si tira leggermente indietro per equilibrare il peso di quel corpo abbandonato dalla vita. Il piede sinistro del Cristo è trattenuto da un tronco spezzato come la sua 66

esistenza, che consente alla gamba di rimanere sollevata e di non essere nascosta da quella destra in primo piano. Anche il braccio abbandonato s’impiglia con un dito in un pesante solco del vestito, formando un arco sottolineato dall’arco parallelo della piega che conclude severa il panneggio di Maria. L’abbandono e la concretezza carnale del corpo di Cristo si manifestano drammaticamente nel muscolo pettorale gonfiato dalla presa della madre e dal capo riverso che mostra in primo piano la gola e il pomo di Adamo. La mano che trattiene il torace non tocca la carne divina del figlio ma affonda le dita in una stoffa corposa che si modella sotto la loro pressione, mentre la mano sinistra si allontana dal corpo e si sospende nell’aria in un gesto tragico e stupito. La potenza espressiva della scultura è incentrata principalmente in questo gesto interrogativo con cui la donna sembra chiedere conto agli astanti di quanto è successo e al tempo stesso mostra la propria resa di fronte alla inesorabilità dell’evento. Contrariamente alla tradizione, la sua espressione è estremamente contenuta. Seguendo un criterio di rappresentazione fortemente classico, Michelangelo evita un’imitazione troppo naturalistica per atteggiare il volto ad una tristezza sovrannaturale. L’espressione sentimentale si distacca da un’eccessiva umanizzazione, ricreando l’effetto straniante che caratterizzava la rappresentazione classica del divino. La stessa bellezza del volto richiama una partecipazione contemplativa del divino, molto lontana dalla realtà umana. Anche il corpo di Cristo esprime un’idea pagana della divinità. Nonostante il martirio subìto rimane bellissimo. E 67

proprio la sua bellezza sovrannaturale, lontana da ciò che si può incontrare nel nostro mondo, ne manifesta il carattere divino. Le membra sono perfettamente proporzionate. L’abbandono, che generalmente scopre la goffaggine del corpo senza vita, è composto in maniera da non alterarne la bellezza. Le vene, i muscoli e i tendini che seguono fedelmente la postura del corpo sono anch’essi appena accennati, per rendere la rappresentazione credibile ma non volgare ed evitare una mimesi naturale che avrebbe finito per diminuire anziché esaltare la bellezza divina del corpo. Come già nella scultura classica, la carne perde ogni carattere di accidente per contrarsi in pura forma, in modo da suggerire un’umanità superiore, una divinità che gli uomini possono soltanto intuire grazie al talento degli artisti. Il Cristo di Michelangelo potrebbe essere un Apollo addormentato sull’erba, se non fosse sostenuto con tanto sgomento da quella donna sul punto di piangere. I sentimenti, solo suggeriti dai volti e dai corpi bellissimi, lasciano senza fiato lo spettatore. La perfezione dell’immagine sembra essa stessa una epifania divina. Non c’è dubbio che l’artista volesse mostrare definitivamente la sua capacità non soltanto di inventare forme perfette, ma di realizzarle con una tecnica che non aveva precedenti. Molti in seguito si stupirono delle forzature della rappresentazione, trovando inverosimile la giovinezza di una Vergine che era pur sempre la madre del Cristo che teneva in braccio. Michelangelo, che ancora molti anni più tardi non poteva ammettere l’urgenza di bellezza che lo aveva portato a forzare perfino le Sacre Scritture, provò a giustificarsi sostenendo che la verginità conserva la salute e la bellezza molto più delle prati68

che amorose. Dimostrava così di sapere pochissimo dell’amore carnale, e ancor meno del suo effetto benefico sulle donne molto amate. Il protagonista assoluto della scultura è comunque il meraviglioso panneggio che accoglie il corpo di Cristo e incornicia di ombre tormentate il volto affilato della Madonna. La veste di Maria ubbidisce ad una precisa gerarchia di organizzazione spaziale. La grande e possente piega che conclude la scultura a sinistra deve sottolineare l’andamento curvo e diagonale del corpo in caduta. Sotto i glutei del Cristo il trapano scava un vuoto molto profondo, un’ombra su cui il bacino resta completamente sospeso. Il pesante panneggio della veste raccoglie l’energia della tensione plastica disperdendola al suolo in piccole pieghe curve avvitate su se stesse. Ma è la camicia della Madonna a stupire per la sua temeraria complessità. La stoffa leggera è compressa sul petto dalla cinghia su cui in seguito Michelangelo scrisse, secondo la leggenda, la propria firma. La camicia, trattenuta a forza dalla cinghia, esplode sul petto in tanti mobilissimi guizzi, in maniera da guidare per contrasto lo sguardo verso la carne perfettamente liscia del collo e del viso. Il velo che si arriccia sulla testa conclude l’accerchiamento ombroso del volto di Maria. Quale che fosse il ruolo formale e forse anche simbolico di questo maestoso e variegato panneggio, non c’è dubbio che in termini artistici esso costituisse un chiaro messaggio di superiorità rivolto agli scultori contemporanei. Nessuno era mai riuscito a creare un panneggio tanto mobile e tanto congruente. Nonostante i guizzi e le bizzarrie della stoffa, il corpo di Maria è sempre visibile sotto il groviglio di pieghe: 69

sono visibili i seni virginali, le spalle aggraziate e perfino la gamba da cui spunta il piede di cui si indovinano le dita. Gli altri scultori rappresentavano il panneggio quasi autonomamente dal resto, come dotato di una vita propria e quasi mai molto credibile. Inutilmente si cercherà nella Pietà una piega che forzi le leggi della natura, bruscamente interrotta o semplificata. Ogni piega si gonfia e si estingue come in un vero vestito, e lo stesso accade nel suo contatto con i corpi. Un tale paesaggio continuamente mutevole non era progettabile, se non per sommi capi, con un disegno iniziale. Di volta in volta lo scultore doveva seguire con il proprio intuito l’andamento della piega che stava estraendo dal marmo. E Michelangelo dimostrava una capacità eccezionale di giocare con la materia, inseguendo fantasiosamente i capricci dei suoi ferri prima ancora che quelli di un comune vestito. Per piegare l’andamento del marmo all’increspatura ventosa di lini e di velluti, l’artista ricorreva al trapano creando dei sottosquadri che successivamente univa con scalpelli e ferri ricurvi di cui miracolosamente cancellava poi ogni traccia con raspe sempre più fini e poi con la pietra pomice. La scultura veniva portata ad un estremo grado di finitura con la lustratura delle superfici, in una maniera che non sarebbe più tornata nella produzione successiva. Per ottenere questo effetto così vibrato l’artista toscano saltava probabilmente alcuni passaggi consueti, levigando direttamente con la pomice o la sabbia una superficie scolpita con lo scalpello e le gradine quasi fino alla pelle finale. In questo modo riusciva ad evitare l’irrigidimento provocato dalla raspa, con la quale gli altri scultori si avvicinavano all’ultima pelle delle statue. 70

Forse questa esibizione di virtuosismo era addirittura eccessiva e riportava la scultura a una cifra calligrafica più vicina al gusto quattrocentesco che all’essenzialità della scultura classica (se si eccettua il virtuosismo ellenistico che in seguito Michelangelo mostrerà di non apprezzare molto). Quali che fossero nel dettaglio gli accorgimenti adottati dall’artista, l’effetto sul committente e sul pubblico fu in ogni caso strepitoso. Ancora cinquant’anni dopo Vasari non poteva fare a meno di celebrare, al di là dell’ideazione e della bellezza delle forme, la straordinaria abilità tecnica che la distingueva: «Alla quale opera non pensi mai scultore né artefice raro potere aggiugnere di disegno né di grazia, né con fatica poter mai di finezza, pulitezza e di straforare il marmo tanto con arte, quanto Michelagnolo vi fece, perché si scorge in quella tutto il valore et il potere dell’arte»15. E infatti neppure Michelangelo si provò più a replicare un’opera tanto virtuosa, considerandola forse un vertice che non portava espressivamente da nessuna parte. Dopo la sua ultimazione, probabilmente avvenuta nel luglio del 1500, la Pietà fu trasferita nella cappella di Santa Petronilla, uno dei due mausolei situati sul lato meridionale dell’antica basilica costantiniana di San Pietro che fu poi inglobata nella nuova basilica di San Pietro. Il generoso cardinale francese che l’aveva commissionata morì il 6 agosto del 1499, prima di riuscire a vederla finita. Ma il successo fu tale che un altro cardinale di primissimo piano si fece avanti per una nuova importantissima commissione. Nei primi mesi del 1501 Francesco Piccolomini, nipote di papa Pio II, contattò Michelangelo per affidargli il completamento del celebre altare di famiglia, iniziato alcuni anni prima nella 71

cattedrale di Siena. Era un lavoro molto impegnativo: quindici statue alte poco più di un metro, in marmo di Carrara, che Michelangelo decise di scolpire a Firenze, dove poteva contare su una rete di aiuti e di sostegni che abbassavano di molto i costi di lavorazione. Del resto al volgere del secolo la partenza da Roma appariva opportuna anche per altri motivi. Il suo principale protettore, il cardinale Riario, era in pessimi rapporti con papa Alessandro VI, dal quale era ostacolato in ogni modo, al punto da dover rallentare i lavori del suo amatissimo palazzo e da scegliere un allontanamento volontario dalla città il 21 novembre 1499. Il clima instaurato dal papa Borgia a Roma e in Italia era dei più terrificanti sotto ogni punto di vista. Suo figlio, Cesare Borgia detto il Valentino, aveva iniziato con l’aiuto del padre una campagna di conquista dei piccoli e fragili Stati dell’Italia centrale: Imola, Forlì, Rimini, Pesaro. Né disdegnava di minacciare la stessa Firenze. I metodi con i quali aggrediva uomini ed eserciti sarebbero rimasti leggendari come i suoi appetiti sessuali, che non conoscevano limiti di genere. Tra le «prodezze» carnali i contemporanei registrarono lo stupro del giovanissimo Astorre Manfredi, signore di Faenza, figlio di Galeotto e Francesca Bentivoglio, al quale aveva precedentemente sottratto i possedimenti, nonché la relazione incestuosa con la sorella Lucrezia, data poi in sposa sotto lo sguardo scandalizzato della nobiltà italiana ad Alfonso, primogenito di Ercole d’Este. Tra gli assassinii, per i quali l’intera famiglia mostrò un talento mai più eguagliato, furono clamorosi quelli dei suoi più stretti alleati: Paolo Orsini, Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo e il duca di Gravina Francesco Orsini, convo72

cati a Senigallia e fatti strangolare nei loro letti la notte del 31 dicembre 1502. Alessandro VI non fu da meno e fece imprigionare numerosi cardinali, risolvendo qualche volta con il veleno i contrasti interni al Sacro Collegio. Mentre il clima romano diveniva sempre più malsano sotto l’effetto delle ambizioni incontenibili dei Borgia, a Firenze la gravissima crisi aperta con la cacciata di Piero de’ Medici andava gradualmente rientrando. Il governo popolare aveva trovato una nuova stabilità, rafforzata nel settembre del 1502 con l’elezione a gonfaloniere a vita di Pier Soderini, un uomo universalmente stimato in città; anche la minaccia di un’invasione sembrava perdere consistenza. Certo, rimanevano sul tappeto problemi gravi come la riconquista di Pisa, sottrattasi dal tempo della crisi medicea al dominio fiorentino, e soprattutto la grave pressione fiscale provocata dalle esose richieste del re di Francia per accordare la sua protezione alla città. Ma il pericolo di un’aggressione da parte del Valentino sembrava scongiurato, perché il re di Francia cominciava a fare i conti con la potenza nascente di Massimiliano d’Austria e con un nuovo gioco di alleanze che sostanzialmente rafforzava l’autonomia di Firenze. Il governo che raccoglieva i frutti della crisi medicea era diretta espressione di quel ceto medio di cui, pur con grande fatica, la famiglia Buonarroti faceva parte, oltre che di quella parte dell’aristocrazia mercantile con cui Michelangelo era rimasto in ottimi rapporti. Ludovico si affrettò a comunicare al figlio la buona disposizione del governo cittadino nei confronti di un artista ormai famosissimo, che rappresentava un’eccellente risorsa per celebrare le virtù dell’orgogliosa repubblica. E il figlio accettò la committenza 73

delle statue per l’altare Piccolomini che lo riportarono a casa come voleva il padre. Il 5 giugno del 1501 venne stipulato il contratto, nel quale si legge una clausola che dovette soddisfare non poco l’artista. Si trattava infatti di portare a termine una statua già cominciata dal Torrigiani, lo stesso irascibile artista che anni prima gli aveva distrutto il naso con un pugno. In particolare, Michelangelo doveva rendere la scultura del tutto omogenea al suo stile, cancellando ogni traccia della mano dell’ex compagno. Il prezzo pattuito, vantaggiosissimo, era di 500 ducati. Ma il vero obiettivo del ritorno fiorentino era un altro. Il 16 agosto 1501, in rappresentanza dell’intera cittadinanza fiorentina, gli Operai dell’Opera del Duomo affidarono a Michelangelo il compito di realizzare un gigantesco David. Era un’investitura ufficiale. Spettava a lui creare il nuovo simbolo della libertà repubblicana.

4. Un Davide per la Repubblica Molto prima che lo scalpello furioso di Michelangelo sfiorasse il David, la scultura era già un caso pubblico nell’orgogliosa comunità artistica fiorentina. Il 18 agosto del 1464, in preda ad uno dei frequenti deliri di protagonismo che da due secoli spingevano i fiorentini a cercare il primato italiano in ogni campo, gli Operai dell’Opera del Duomo Andrea della Stufa e Jacopo Ugolini avevano commissionato ad Agostino di Duccio un colosso marmoreo alto quasi sei metri da collocare su uno dei contrafforti dell’interminabile duomo: «locaverunt Aghostino Antonii Ghucci, sculto74

ri, cittadino fiorentino, una fighura di marmo bianco chavata a Charrara di braccia nove a ghuisa di gughante (...) per porre in sununo degli sproni di s. Maria del Fiore»16. Statue colossali non se ne erano più fatte dall’antichità, e in un sussulto di modestia gli ambiziosi committenti avevano stabilito che la scultura sarebbe stata composta di quattro diversi blocchi: un pezzo per «il chapo ella ghola, 2 pezzi le braccia e resto in pezzi uno». Difficilmente infatti si sarebbe riusciti a cavare dai fianchi delle Apuane un blocco così grande e a portarlo fino a Firenze. La fortuna sembrò in un primo momento assistere Agostino di Duccio, che grazie soprattutto all’esperienza di un cavatore, Baccellino da Settignano, riuscì a cavare e a condurre a Firenze un blocco tutto intero anziché quattro blocchi. Anche quella volta, stando a quanto è dato di capire dai documenti, per agevolare il trasporto dell’enorme blocco lo scultore si era recato direttamente nelle cave e aveva «sbozzato» la figura portandola vicina alla sagoma finale. Quanto fosse delicato il lavoro di sbozzo lo prova un altro colosso quasi delle stesse dimensioni, il Kouros di Mèlanes, rimasto per duemilacinquecento anni in un’altra cava del Mediterraneo, nell’isola di Naxos in Grecia [fig. 2]. Anche nell’antica Grecia gli scultori andavano nelle cave a scolpire i giganti per portare a casa una sagoma leggera e già quasi vicina alla versione finale. Per non sbagliare, ripetevano rigidamente una tipologia formale sempre identica. Analogamente, il «bozzo» di cui parlano i documenti fiorentini consiste in quello strato di pochi centimetri che ancora avvolge la figura prima che lo scultore definisca i dettagli finali della sua pelle. Ma forse per la fretta, forse per la 75

Fig. 2. Kouros di Mèlanes (VI secolo a.C.), Naxos.

scomodità del lavoro in cava a cui non era abituato, Agostino dovette abbandonare l’impresa. Probabilmente si era sopravvalutato nell’accettare quell’incarico così singolare, e il gigantesco blocco rimase allo stato di avanzato abbozzo nel grande cantiere di Santa Maria del Fiore. I sovrintendenti dell’Opera del Duomo non si diedero però per vinti. Se Brunelleschi era riuscito a costruire una cupola così ardita, doveva riuscire ad uno scultore di realizzare un colosso in fondo non più grande dei due guerrieri di Montecavallo a Roma, fatti pure loro da uomini e per di più da pagani, che non si erano quindi potuti giovare della fede nella Madonna a cui il duomo e le sue sculture erano dedicati. Il 6 maggio 1476 affidarono ad Antonio Rossellino l’incarico di portare a termine «uno gughante di marmo el quale è al presente allato á fondamenti el quale gughante s’aveva a finire e porre in sununo degli sproni della chiesa». Ma i tempi non erano ancora maturi per rivaleggiare con gli scultori antichi e in quei giorni Michelangelo stava ancora attaccato al seno della sua balia a Settignano, cullato dai colpi di scalpello che si sentivano all’interno della casa. Anche Antonio Rossellino fallì. Finalmente nel 1501, con una delibera del 2 luglio, gli Operai decisero di rizzare in piedi quella figura «male abozzatum et resupinum existentem in curte dicte Opere»17. Bisognava vedere se si riusciva a trovare un uomo capace di portarlo dignitosamente a compimento. Il fatto che la scultura fosse già abbozzata e portata avanti rendeva l’opera molto più complicata, perché nell’impostazione iniziale si decide l’esito finale della scultura e si rischia di asportare porzioni di marmo che possono risultare in seguito indi77

spensabili al buon esito del lavoro. Ma questa volta i tempi erano maturi. Un cittadino fiorentino di ventisei anni aveva già stupito il mondo con una Pietà di cui tutti parlavano, e non c’era dubbio che soltanto lui poteva portare a termine con successo l’opera. Anche un altro grande scultore, Andrea Contucci da Monte San Savino detto il Sansovino, avanzò la sua candidatura. Ma non c’era competizione possibile. Il 16 agosto di quello stesso anno gli Operai affidarono l’incarico al degno maestro Michelangelo di Ludovico Buonarroti, cittadino fiorentino, «ad faciendum et perficiendum et perfecte finiendum quendam hominem, vocatum gigantem, abozatum, brachiorum novem ex marmore, existentem in dicta opera, olim abozatum per magistrum Augustinum (...) de florentia et male abozatum»18. Il prezzo inizialmente fu molto contenuto: un salario di 6 fiorini al mese per una previsione di lavoro di due anni. Ma il furbo Michelangelo, appena mostrato quel che poteva e sapeva fare di quel blocco abbandonato per quasi quarant’anni, chiese una rettifica del contratto e spuntò una remunerazione ben più consistente: duecento fiorini contro i circa centocinquanta iniziali. Il lavoro cominciò nel settembre del 1501. Geloso della propria arte, Michelangelo si fece costruire addirittura un muro intorno al piccolo cantiere per tenere lontani gli sguardi dei fiorentini, tutti impegnati ora a commentare la nuova sfida cittadina. Il gigante greco di Naxos, abbandonato per una gamba rottasi nel trasporto, ci può dare un’idea di quale fosse lo stato del David su cui l’artista cominciò a posare i suoi attrezzi. Certamente erano definite sia la postura che le dimensioni massime, altezza e larghezza, co78

sì come lo spessore che avrebbe potuto avere il blocco. Forse il giovane greco, per il fascino esercitato dalla sua tomba agreste, per la superficie levigata dalle piogge millenarie, e per la maggiore arditezza degli scultori arcaici che per risparmiare sul viaggio si spingevano molto avanti nella definizione della scultura, appare a uno stato un po’ più avanzato rispetto al David che Michelangelo prese a lavorare. Ma il punto di partenza non doveva essere troppo lontano da quello. Come stupirsi dunque se per descrivere la scultura che Michelangelo trasse da un blocco di fronte al quale si erano arresi i migliori scultori della generazione precedente, già i contemporanei si abbandonarono alla pura iperbole celebrativa? Se nel 1504 Pomponio Gaurico, nel suo De Sculptura, inserì Michelangelo tra i maggiori scultori viventi? E se un uomo misurato come Benedetto Varchi poté proclamare che con quell’opera Firenze aveva sorpassato l’antica Roma nella scultura almeno quanto il Tevere sorpassa l’Arno per la portata delle sue acque? Il David [tav. 21] che tre anni dopo si mostrava alla città con un clamoroso abbattimento del muro in cui l’artista si era rinchiuso, è la statua che afferma il canone moderno della bellezza maschile, ancora insuperato a cinquecento anni dalla sua creazione. Forse per i vincoli trovati nel blocco già scolpito, o forse deliberatamente, per assecondare ancor più l’identificazione con Firenze e la Repubblica, Michelangelo abbandonò la vaga astrazione classica che aveva mostrato nel Bacco e in misura minore nella stessa Pietà di Roma. Il corpo perdeva la sua tendenza a fondersi con la forma pura, depurata dall’accidente naturale, per incarnare perfettamente un bellissimo adolescente consapevole del 79

proprio coraggio e della propria forza. Non un profeta mitico, ma il garzone più bello di Firenze che si riveste dopo un bagno con gli amici in Arno, turbato da una battuta o da un’offesa che sta già meditando di vendicare o che ha appena punito. Il David della Bibbia era il giovane profeta che contro ogni aspettativa, con la forza della sola fede e del coraggio, abbatte con un colpo di fionda il gigante Golia che sembrava inatterrabile. Quello di Michelangelo mostra le radici della sua forza e del suo coraggio nella consapevolezza di un corpo bellissimo, anche se lontano dai canoni classici per le mani troppo grandi e la testa enorme. Lo sguardo è teatrale, con le sopracciglia aggrottate, la radice del naso contratta e la bocca quasi disgustata dalla visione che gli sta di fronte o dal ricordo di ciò che ha fatto. Quasi per richiamarsi alla tradizione fiorentina, che esaltava il contorno delle figure con un insistito disegno, Michelangelo contorna vistosamente il segno delle labbra e il profilo appuntito del naso con gli occhi dalle palpebre segnate come se fossero sbalzate nel metallo. Nella schiena sottile e nella posa leggermente sbilanciata in avanti sembra di leggere il vincolo del blocco originario, assottigliato al punto da privare la statua dello spazio sufficiente a rendere i muscoli gonfi e torniti come dovrebbero essere per seguire le curve turgide dei glutei perfetti. Il resto del corpo si contende le migliori possibilità che la natura qualche volta concede agli uomini [tav. 22]: la mano destra leggermente aperta per mostrare la linea perfetta delle dita, le unghie larghe come sempre saranno negli uomini di Michelangelo, le leggere palpitazioni delle vene e 80

dei muscoli del polso e poi delle braccia. Il torace indovina il miracoloso equilibrio del corpo adolescente, non ancora appesantito dalla muscolatura pienamente sviluppata dalla fatica della guerra. Sul petto appena accennato si attarda l’esagerazione dei capezzoli provocanti. La gola bruscamente girata mette in evidenza i tendini che si attaccano alla clavicola con una naturalezza mai vista fino ad allora non solo a Firenze ma nel mondo intero. E poi, sotto un ventre appena teso dalla piegatura della gamba sinistra, l’attaccatura lunghissima delle gambe dà spazio all’inguine e al sesso più inquietante della scultura rinascimentale. Il piccolo rigonfiamento inguinale, tipico della prima giovinezza che segue un andamento quasi femminile nell’attaccatura del sesso, incornicia un ciuffo di peli esageratamente evidenti, che si discosta dalla resa naturale e trattiene il pene pieno di energia con i testicoli mostrati in pieno vigore. Proprio nel ventre aggraziato del David ritorna un’eco del fascino androgino che Vasari sottolineerà già nel Bacco scolpito a Roma per il Riario. La morbidezza con cui l’inguine trapassa nelle gambe piene di forza, puntate a terra come un perno, sembra un’esplosione di femminilità nel corpo acerbo del guerriero, soprattutto se lo si guarda dal basso, com’era previsto nella sua destinazione originaria sullo sprone della cattedrale. Palpitante di vita, il nuovo dio della bellezza maschile fa apparire subito desueti i simboli antichi, troppo eterei e immobili per diffondere quell’attrazione vitale che il guerriero di Michelangelo esercita incontrastato da cinquecento anni. Perfino l’Apollo di Belvedere, che allora Giuliano Della Rovere, cardinale di San Pietro in Vincoli, esibiva orgogliosamente nel giardino della chiesa, sembrò 81

statico e irreale di fronte al movimento aggressivo dell’opera di Michelangelo. La statua venne subito riconosciuta come un capolavoro dai concittadini, a cominciare da Pier Soderini, che seguì i lavori da vicino. Al gonfaloniere della repubblica la ricostruzione di Vasari riserva un aneddoto poco glorioso, probabilmente nell’intento di blandire in modo servile Cosimo I. Durante una sua visita all’artista, racconta Vasari, Soderini gli avrebbe consigliato di ridurre il naso della statua, suscitando così la beffa di Michelangelo il quale per accondiscendere alla presunzione del gonfaloniere, raccolta una manciata di polvere, fa finta di accorciargli il naso con un deciso colpo di scalpello ma non lo sfiora neppure. La realtà dei documenti rivela invece una vicenda che non ha confronti per la sua singolarità e che un linguaggio meno abusato si azzarderebbe forse a definire «democratica». Anche se la scultura era nata per l’Opera del Duomo, la sua eccezionalità innescò un processo di identificazione e di valorizzazione simbolica molto più complesso. David che resiste a Golia era il simbolo perfetto della Firenze repubblicana, che proprio in quegli anni si vedeva messa al sicuro dall’invasione dell’orrendo Cesare Borgia grazie all’accordo stipulato con il re di Francia. Era solo l’ultima di una lunga serie di lotte che nel secolo precedente la città aveva condotto per conservare la sua autonomia e i suoi valori, che assegnavano ad ognuno, perfino agli artisti, un ruolo rilevante nella gestione della cosa pubblica. Con una lungimiranza mai vista prima, la Signoria decise che la statua poteva e doveva diventare il simbolo stesso della città. Perché questo avvenisse, doveva essere colloca82

ta nel luogo di massima rilevanza simbolica. Il fatto straordinario è che la Signoria delegò a una commissione di artisti la decisione di scegliere il luogo più idoneo, riconoscendo implicitamente il valore politico dell’arte e, fatto ancora più straordinario, riconoscendo al talento e all’esperienza degli artisti una funzione civica, utile per il bene di tutti. Il 25 gennaio del 1504 l’Opera del Duomo convocò un gruppo di artisti per prendere l’importante decisione. Erano i migliori della città, come attesta la fama che avrebbero conseguito presso i posteri: Andrea della Robbia, Cosimo Rosselli, Francesco Granacci, Piero di Cosimo, Davide Ghirlandaio, Simone del Pollaiolo, Filippino Lippi, Sandro Botticelli, Antonio e Giuliano da Sangallo, Andrea Sansovino, Leonardo da Vinci, Pietro Perugino, Lorenzo di Credi. Messi da parte le invidie personali e perfino i motivi di risentimento che alcuni, come il Sansovino, potevano covare rispetto a quell’opera, gli artisti mostrarono di essere pienamente all’altezza della situazione e di credere in quella repubblica che riconosceva loro tante qualità. L’importanza politica della posta in gioco fu sottolineata dall’araldo della Signoria, messer Francesco: Io ò rivolto per lanimo quello che mi possa dare el iuditio: havete dua luoghi dove può sopportare tale statua, el primo dove è la Iuditta [di Donatello, N.d.A.], el secondo el mezzo della corte del palzzo, dove è el Davit; primo perché la Iuditta è segno mortifero, e’ non sta bene, havendo noi la + per insegnia et el giglio, non sta bene che la donna uccida lhomo, et maxime essendo stata posta chon chattiva chonstellatione, perchè da poi in qua siate iti de male in peggio: perdessi poi Pisa (...) per tanto Io consiglierei che si ponesse questa statua in una de’ dua luoghi, ma più tosto dove è la Iuditta19. 83

Alla fine di un lungo dibattito, nel quale vennero sviscerate questioni legate alla conservazione e alla migliore visibilità dell’opera, si decise di collocare il David davanti al Palazzo della Signoria, al posto della Giuditta, come auspicato dall’araldo. Restava il problema del trasporto, ma a questo pensò l’abilità pratica di Simone del Pollaiolo e degli altri maestri. Il gigante venne imballato all’interno di un grande castello di travi e fatto scivolare per quattro giorni lungo il breve tragitto che separa il Duomo dalla piazza della Signoria, spinto su pali unti da sevo, come fosse stato una barca ricoverata in secca. Alla mezzanotte del 14 maggio 1504 il David uscì fuori dal muro in cui l’aveva sequestrato la gelosia del suo autore, per approdare alla piazza il 18 maggio alle dodici. Il percorso doveva aggirare gli ostacoli che potevano produrre contraccolpi alla scultura. L’enorme statua rischiò di seguire la stessa sorte dell’antico gigante greco di Naxos, che trascinato lungo il pendio a testa in giù si era spezzato una gamba ed era stato impietosamente abbandonato dal suo scultore e dai cavatori. Venne perciò appeso a un argano con dei canapi in modo che non toccasse terra con i piedi e che i colpi potessero essere ammortizzati dalle corde che trattenevano l’oscillazione. Risolti brillantemente gli ostacoli di carattere pratico, rimanevano le insidie politiche, molto più pericolose in una città sempre divisa tra fazioni opposte. La parte filomedicea non tardò ad accorgersi del vantaggio politico che quel simbolo, già universalmente celebrato, poteva dare alla repubblica. Decise perciò di attaccarlo nella notte, quasi fosse un esercito nemico da prendere di sorpresa. I cronisti contemporanei registrarono con il dovuto rilievo l’evento 84

e il suo carattere conflittuale: «Guardavasi la notte, per causa delli spiacevoli et invidiosi; finalmente alchuni giovenastri assaltorono le guardie; et con sassi percossono la statua, mostrando volerla guastare, onde, conosciuti l’altro giorno, ne furono presi dalli Otto, e rimasene condannati nelle Stinche circa 3»20. Non ancora esposto, il David pagava già il suo tributo alla celebrità. Ma un tributo ancora più grave lo pagherà in occasione della rivolta repubblicana del 1527, quando dalle finestre del palazzo saranno lanciate delle panche che lo colpiranno al braccio sinistro mandandolo in pezzi. I frammenti rimarranno a terra per tre giorni senza che nessuno osi raccoglierli nel clima turbolento della rivolta. Finalmente, di notte, Giorgio Vasari ancora ragazzo troverà il coraggio di farlo insieme a Cecchino Salviati, per ricoverarli a casa del padre di questi e farli poi pervenire a Cosimo I. Quest’ultimo, ormai saldamente padrone della città, li farà riappiccicare nel novembre del 1543, sicuro che quel gesto di pietà verso il massimo simbolo repubblicano gli avrebbe giovato molto più che un oltraggio all’amore che universalmente Firenze portava a Michelangelo21.

5. La bottega di Michelangelo Michelangelo arrivò a Firenze intorno alla metà di maggio del 1501 e ne ripartì per il suo secondo soggiorno romano nel marzo del 1505. Durante i quasi quattro anni passati a scolpire il massimo simbolo della Repubblica fiorentina, lavorò anche a molte altre opere richiestegli da committenti 85

privati. Se si tengono in considerazione soltanto i contratti certamente sottoscritti e le opere che per motivi più che convincenti gli vengono tradizionalmente attribuite, la produzione di questo periodo appare mostruosa, tanto più se si tiene conto che per l’esecuzione della sola Pietà di San Pietro l’artista aveva impiegato due anni, dall’estate del 1498 a quella del 150022. In neanche quattro anni, invece, un tempo che a un altro artista sarebbe bastato a malapena a scolpire il gigantesco David, Michelangelo realizzò da solo e senza aiuti le seguenti opere: il David di bronzo, che la Repubblica fiorentina gli commissionò per il Maresciallo di Giè; la Madonna di Bruges (128 cm); il San Matteo dell’Accademia (216 cm); il Tondo Pitti (82 cm di diametro); il Tondo Taddei (107 cm di diametro); il Tondo Doni; il grandioso cartone della Battaglia di Cascina; le quattro statue per l’altare Piccolomini nel duomo di Siena, corrispondenti secondo la critica a San Pietro (123 cm), San Paolo (127 cm), San Pio (135 cm) e San Gregorio (135 cm)! Michelangelo non volle mai ammettere che aveva «fatto bottega» della propria arte. Impegnato com’era a costruire il mito di se stesso, voleva che la sua posizione fosse percepita del tutto distinta da quella degli altri artisti della sua generazione. Di fronte a una produzione così vasta in così breve tempo, tuttavia, i dubbi sulle modalità di produzione della «bottega-Michelangelo» sono più che legittimi, tanto più che in questa produzione ci sono innegabili cadute di qualità. Si stenterebbe a credere che il Tondo Pitti e i quattro santi per l’altare Piccolomini (così quattrocenteschi nell’insistenza calligrafica dei panneggi e nella semplificazione dei volti) possano essere usciti interamente dalle mani dello 86

stesso artista che aveva già scolpito il Bacco, la Pietà di San Pietro, il David e la Madonna di Bruges, cioè opere collocate a una distanza siderale da quella che possiamo senz’altro definire una produzione di bottega. Pur alla luce di qualche perplessità riguardo la loro totale autografia, è importante però soffermarsi anche sulle opere minori di questi anni23. Il 24 aprile 1503 i consoli dell’Arte della Lana commissionarono a Michelangelo l’esecuzione delle statue di dodici apostoli alte quattro braccia e mezzo (circa 270 cm), da collocare nella cattedrale. L’artista prese molto tempo per questo lavoro, impegnandosi a fornirne una all’anno per i futuri dodici anni. Voleva mantenersi libero per altre commesse di certo più importanti. Di queste statue ci è rimasto il San Matteo [tav. 23], oggi alla Galleria dell’Accademia di Firenze. Anche se scolpito soltanto nella parte frontale, del santo si può già apprezzare la poderosa muscolatura esaltata dalla torsione in cui è impegnato. La gamba sinistra piegata crea una spazialità monumentale all’interno della figura, anche grazie alla muscolatura tornita che comunica con molta convinzione l’energia liberata dal movimento. Il panneggio, molto scarno, è ben rilevato nelle pieghe di stoffa che cadono dalla spalla sinistra e risalgono su quella destra, e invece di impedire l’apprezzamento del corpo atletico lo esalta seguendo fedelmente l’anatomia del torace. La distanza dalle proporzioni del David è così grande, e le fattezze sono così più vicine al Bacco romano, che lascia intuire quanto forti furono i vincoli che si trovò di fronte Michelangelo nella scultura del gigante precedentemente abbozzato. Un’altra impresa «minore» lo impegnò certamente a partire dal dicembre dello stesso anno, quando i Masche87

roni, una famiglia di mercanti fiamminghi, gli versarono cinquanta fiorini larghi per l’esecuzione della Madonna di Bruges [tav. 24], finita nell’agosto del 1506 e spedita in Fiandra, da dove irradierà in tutte le ricchissime terre del Nord la fama dello scultore italiano. La scultura colpisce per la sua somiglianza con la Madonna della Pietà di Roma, per l’identica malinconia che trascina la donna molto lontano, in una riflessione che la separa addirittura dal piccolo bambino che le si arrampica addosso. L’identità del sentimento delle due Madonne non si può spiegare soltanto con la contemplazione e la premonizione di un destino tragico. L’espressione di regale contenutezza delle due donne racconta piuttosto che Michelangelo riteneva indecoroso atteggiare i volti delle sue figure in espressioni troppo vivaci o troppo naturalistiche, sia pure nella felicità o nella tragedia della maternità. La perfezione dei lineamenti, anche qui ancora quattrocenteschi per il naso affilato ed allungato, si spiega come un tentativo di avvicinarsi a quella astrattezza distaccata delle statue classiche, che rappresentano dèi e si separano dagli uomini proprio per il controllo sovrannaturale dei sentimenti. La sensibilità dello scultore si concentra nel controllo dell’attitudine espressiva, resa inquietante ed enigmatica dalla perfezione dei lineamenti della Madonna, e per contrasto dalla ricchezza del panneggio. È qui, ancora una volta, che Michelangelo si spinge in un’altissima esibizione di virtuosismo. Impareggiabile l’effetto della piega del manto tesa in un gioco innocente e quanto mai verosimile dal piede sinistro del bambino, come pure il mantello raggomitolato dietro la sua testa, con la profondissima ombra che Mi88

chelangelo ricava assottigliando fino all’impossibile la stoffa, spessa solo pochi millimetri. A completare la compostezza classica della scena e ad evocarne l’antichità quasi antiquaria concorre la bella spilla che ferma il vestito della Madonna proprio all’attaccatura del collo e che impone una pausa alle pieghe metalliche per preparare lo sguardo di chi osserva al collo lungo e perfetto della giovane e al volto incorniciato dalle ombre, anch’esse profondissime, dei veli sottili che lo accarezzano24. Intorno al 1503 si collocano anche i due tondi con bassorilievi marmorei noti come Tondo Pitti [tav. 25] e Tondo Taddei [tav. 26], oggi rispettivamente al Bargello di Firenze e alla Royal Academy di Londra. Sono opere devozionali fatte per ricchi committenti, lasciate entrambe a un livello di finitura non troppo approfondito. Il Tondo Pitti, considerato generalmente superiore per qualità a quello londinese, presenta una Madonna compressa in uno spazio circolare che come al solito non basta all’artista per esprimere la sua esuberanza formale. La Vergine è seduta su un piccolo dado e con la mano destra offre al bambino il libro delle Scritture, mentre della sinistra si intravedono soltanto le dita che aiutano il piccolo a stare in piedi in un gesto protettivo. La posa è quasi frontale per entrambe le figure e l’espressione della Vergine è molto vicina a quella della Madonna di Bruges, anche se più rassicurante. La spazialità del rilievo risente di qualche incertezza nell’utilizzo del blocco di marmo: la figura della Vergine sembra schiacciata contro il piano più esterno del blocco e il bambino stenta a trovare il suo spazio tra il fondo del rilievo e le gambe accucciate della madre. 89

Nel Tondo Taddei la Vergine allunga la mano destra verso il piccolo San Giovanni, che porta in mano un cardellino, simbolo della passione di Cristo, mentre il piccolo Gesù, spaventato dall’uccello, scavalca la gamba della madre creando una torsione plastica molto credibile. Lo spazio costruito da Michelangelo nel blocco è molto articolato rispetto ai modelli precedenti, perché riesce a dare l’impressione di una profondità illimitata. La piena padronanza dello scultore sembra rimarcata, con un compiacimento quasi virtuoso, dal Sangiovannino che incrocia le braccia. Il forte rilievo acquistato dalla figura del bambino è sottolineato invece dal lembo di mantello che segue il dorso pieno di energia, compatto e guizzante nel movimento di torsione. Il terzo tondo che Michelangelo realizzò in questi anni è il dipinto conosciuto come Tondo Doni [tav. 1], quasi certamente commissionatogli per le nozze di Agnolo Doni con Maddalena Strozzi25. Si tratta però di un dipinto e non di una scultura, l’unico pannello autografo pervenutoci di Michelangelo. La pittura è eseguita a tempera con una tecnica necessariamente lentissima, con piccole pennellate di colore che vengono stese in campiture regolari mescolando il pigmento ad un legante organico. Stupisce che il furioso Michelangelo, già provato da tante opere che mostrano una frenesia inarrestabile, si costringa ad un lavoro tanto contenuto, lento e riflessivo. Ma stupisce soprattutto l’accettazione di un lavoro che richiede un tempo di esecuzione lungo, e proprio in anni in cui viene oberato da richieste di ogni genere. Il tondo rappresenta una Sacra Famiglia in una posa molto originale. La Vergine, seduta a terra e avvolta da un panneggio ricchissimo, si gira per prendere il bambino dal90

le mani di San Giuseppe, che glielo passa al di sopra della spalla destra. Nello sfondo, separato da un muretto dalla scena dove siede la famiglia, alcuni personaggi nudi sembrano discutere appoggiandosi ad un sedile naturale formato dalla roccia. La libertà garantita a Michelangelo dal mezzo tecnico utilizzato, svincolato dalle costrizioni del marmo, diventa occasione per uno scorcio magistrale della figura femminile. La torsione della Vergine è talmente ardita che il suo profilo diventa sinuoso come l’avvolgersi di un serpente. La resa delle anatomie, anche delle figure nello sfondo che si muovono e si agitano piene di vita, è superba e rifugge da ogni posa statica. I corpi muscolosi sono pieni di energia. Nessuna delle figure è presentata nelle consuete pose frontali o di profilo e lo sforzo fatto dai muscoli per assecondare i movimenti è restituito con estrema cura. La linea dei contorni è ancora insistita e calligrafica, ma è l’unico legame che sopravvive con la tradizione fiorentina quattrocentesca. Lo stesso significato della pittura è oscuro. A una prima immediata visione se ne ricava un’esaltazione del passaggio dall’era pagana, a cui sembrano alludere i personaggi sullo sfondo, all’era cristiana, celebrata nel bambino che si aggrappa ai capelli della madre per non cadere nel difficile transito. I colori, così come sono emersi dal restauro recente, sono al tempo stesso metallici e trasparenti, un po’ irreali, come se anche nella pittura Michelangelo fosse interessato non tanto a restituire la realtà quanto piuttosto al sentimento che essa produce sugli uomini. Il rosa freddissimo del vestito della Vergine è quasi annullato dalla luce e l’enorme mantello che le copre le gambe, azzurro con 91

un’ombra di viola, lascia intravedere le gambe tornite della ragazza nonostante le pieghe metalliche. La limpida luce primaverile serve anche a individuare l’anatomia dei personaggi, fermandosi sui muscoli in rilievo. Con effetto tipicamente quattrocentesco, il disegno chiaro delle figure ci fa vedere perfino l’ombelico del bambino, avvicinando la pittura a un disegno. Le vere novità pittoriche sono però nello sfondo del dipinto. Le figure nude sono impastate, quasi non avessero disegno e fossero create sulla tela dai soli effetti di colore. La pastosità dei loro corpi serve a rendere più netta la separazione dal mondo in cui vive la sacra famiglia, ma serve anche a concretizzare una nuova forma di restituzione spaziale che avrà nella Cappella Sistina effetti sconvolgenti. Quello della Sacra Famiglia, e in particolare della Madonna con bambino, era un tema devozionale molto diffuso nella Firenze del Quattrocento. Non stupisce perciò che i ricchi patrizi fiorentini chiedessero all’artista di maggior successo del momento di interpretare per loro un motivo tanto caro alla tradizione cittadina. Stupisce invece che Michelangelo si rassegni in questo periodo a «far bottega» con tanto accanimento del proprio lavoro, una condizione che in seguito rinnegherà risolutamente26. La critica ha visto talvolta in questa frequentazione del tema della Madonna con bambino una volontà di competizione, da parte dell’artista, con il cartone di Leonardo da Vinci che rappresenta la Vergine con il bambino e Sant’Anna, che aveva scioccato Firenze nel 1501. Nella sua lotta per il primato artistico in città, Michelangelo non poteva sottrarsi alla gara con Leonardo, che ormai cinquantenne ave92

va consolidato la sua posizione di genio inarrivabile a Firenze e nel resto d’Italia. Il conflitto che soprattutto Michelangelo sentiva verso il vecchio maestro non sembra frutto di una leggenda successiva, ma rispecchia uno stato d’animo reale del giovane in inarrestabile ascesa che deve superare il rivale circondato dalla stima universale. L’occasione per un confronto diretto tra i due non si fece attendere. La repubblica, fiera del talento dei suoi cittadini più ammirati, decise di chiamarli a una competizione diretta nel luogo pubblico più significativo della città e del potere repubblicano: la sala del Gran Consiglio di Palazzo Vecchio.

6. La lotta per il primato Il 23 ottobre 1503 la Signoria commissionò a Leonardo da Vinci il cartone preparatorio per l’affresco della Battaglia di Anghiari nella sala del Consiglio Maggiore in Palazzo Vecchio [fig. 3]. L’affresco doveva celebrare la vittoria contro Milano ottenuta dai fiorentini e dalle truppe pontificie loro alleate nel 1440 nei pressi, appunto, della cittadina di Anghiari. Leonardo era considerato a Firenze molto più di un artista. Egli stesso guardò sempre con distacco alla propria produzione artistica, convinto come tutti che fosse un’attività di scarso rilievo intellettuale. La speciale considerazione di cui godeva si riflette d’altronde già nel particolarissimo contratto stipulato con la committenza il 4 maggio 1504. I Priori di Libertà, consapevoli del bizzarro carattere di Leonardo, gli chiedevano di portare a termine il car93

tone entro il febbraio successivo, assicurandogli un compenso mensile di 15 fiorini larghi d’oro ma riservandosi di richiedere indietro le somme versate nel caso il lavoro non fosse stato portato a termine. Gli permettevano tuttavia, fatto davvero straordinario, d’iniziare l’affresco anche nel caso che il cartone non fosse del tutto finito: «Et potrebbe essere, che a detto Lionardo venissi bene cominciare a dipignere et colorire nel muro della Sala detta quella parte che lui havessi disegnata et fornita in detto cartone»27. Inoltre i committenti s’impegnavano, fatto anche questo eccezionale, a riconoscere a Leonardo una sorta di «diritto d’autore» sul cartone che loro stessi avevano profumatamente pagato, promettendogli che non avrebbero affidato a nessun altro il suo trasporto su muro e la coloritura ad affresco. Il cartone diventò subito oggetto di culto a Firenze. Leonardo concentrò la scena nella battaglia per la conquista della bandiera, combattuta da alcuni cavalieri in primissimo piano. Si soffermò sulla resa dell’ira che deforma l’espressione dei cavalieri, sottolineandone tutti i significati passionali e filosofici con il ricorso ad una raffinata simbologia che i contemporanei più colti avrebbero ammirato come espressione della sua grande erudizione. Per la connotazione del furor dei combattenti si servì dei simboli classici di questo sentimento: l’ariete sull’armatura di Francesco Piccinino, condottiero dell’esercito di Milano, le corna sulla testa di Ammone, la pelle di ariete sul busto. I condottieri fiorentini sono invece rappresentati con fisionomie meno deformate e i loro attributi iconografici richiamano l’aspirazione a controllare razionalmente il furore guerriero di Marte. In alcune copie dell’affresco sono anche visi94

bili il drago alato, simbolo di saggezza e avvedutezza, e la maschera di Minerva, la dea che con la sua intelligenza trionfa sulla bestialità furiosa di Marte. Per trasferire il suo capolavoro sulla parete, l’irrequieto Leonardo ricorse ad una nuova tecnica di pittura. Preparò il muro con alcune sostanze isolanti, in modo da poterlo decorare in tutta tranquillità con colori ad olio mescolati a cera, non soggetti alla tirannia dei tempi rapidi di asciugamento dell’intonaco. Non conosciamo nel dettaglio la tecnica utilizzata da Leonardo per il trasporto della pittura sul muro, ma la nota dei materiali che utilizzò, conservata nelle partite di spesa della tesoreria, fa tremare i polsi a chiunque abbia dimestichezza con la semplicità rigorosa della pittura ad affresco. Il 30 aprile del 1505, si pagarono a «Francesco et S. Piero Pinadoro, spetiali, per libre 260 di gesso da murare et per libre 89 oncie 8 di pere [pece, N.d.A.] greche per la pictura, a s.3 la libra, et per libre 343 di gesso volterrano, a s.5 la libra, et libre 11 oncie 4 d’olio di lino sema a s.4 la libra, et per libre 20 di biacha alexandrina, a s.4 d. 8 la libra, et per libre 2 oncie 10 e 1/2 di spugna viniziana a s. 25 la libra; ebbe ogni cosa Lionardo da vinci per dicta pictura»28. La mestica sperimentale utilizzata da Leonardo portò al rapido deterioramento dell’opera, che del resto l’artista capriccioso non aveva finito perché attirato da nuove lucrose commesse a Milano, lasciando la città natale e Pier Soderini a lamentarsi della sua inaffidabilità29. La sfida con il giovane e ambizioso rivale era destinata perciò a rimanere confinata al confronto dei cartoni, perché neppure Michelangelo lasciò ai posteri il suo dipinto30. Nell’estate del 1504 95

gli venne commissionata la realizzazione della Battaglia di Cascina, destinata alla parete di fronte a quella dove Leonardo avrebbe dipinto la Battaglia di Anghiari. L’affresco doveva evocare gli eventi del luglio 1364, quando i soldati fiorentini erano stati presi di sorpresa dalle truppe nemiche di Pisa mentre cercavano refrigerio nelle acque dell’Arno. Il comandante fiorentino Manno Donati, che non aveva preso parte al bagno, aveva sventato l’attacco con un provvidenziale allarme. Michelangelo rappresentò proprio il momento della sorpresa [fig. 4]. Il suo linguaggio è drasticamente nuovo rispetto a quello di Leonardo. Nessuna allusione simbolica, nessun compiacimento colto. Solo uomini nudi sorpresi al bagno, che con movimento fulmineo cercano di approntarsi alla battaglia. La narrazione utilizza un linguaggio interamente incentrato sul corpo: una sorta di retorica muscolare, come sprezzantemente la chiamava Leonardo, infastidito dagli sforzi dei contemporanei di gonfiare le muscolature degli uomini rappresentati. Ma i corpi di Michelangelo non attraversano mai il limite di una piacevole e potente vitalità e risultano perfettamente armoniosi. L’assoluta centralità del corpo maschile nudo cancella la necessità del ricorso al riferimento colto e alla tradizione iconografica, che si condensa tutta nel patrimonio di immagini tratto dalla scultura antica. Il giovane artista spiazzava così il sapiente vecchio, rendendo improvvisamente obsoleto il suo raffinato linguaggio. La vittoria di Michelangelo sarà sancita proprio da Leonardo, che poco dopo il 1504 riprenderà i suoi studi di anatomia disegnando muscolosi corpi virili. Nella concorren96

Fig. 3. Peter Paul Rubens, copia della Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci. Parigi, Louvre.

Fig. 4. Bastiano da Sangallo, copia del cartone di Michelangelo Buonarroti per la Battaglia di Cascina. Norfolk, Collezione Leicester, Holkham Hall.

za tra giganti l’artista giovane, Michelangelo, sembra aver impressionato l’anziano, Leonardo, piuttosto che viceversa31. Ma la competizione tra i due aveva anche sfumature esistenziali. Leonardo era prodigo di spese e non si negava nulla, nemmeno la soddisfazione dei desideri erotici orientati, come quelli di Michelangelo, verso il suo stesso sesso. Il giovane aveva già allora deciso di incanalare ogni pulsione sentimentale ed erotica verso la propria creatività artistica, che, diversamente dal caso di Leonardo, costituiva il centro del suo riscatto sociale e personale. Quel diverso modello di vita prima ancora che di creatività non poteva non provocargli sentimenti di rancore. Anche se in quella circostanza ebbe vinta la battaglia per la considerazione dei concittadini, non si può dire altrettanto della battaglia che continuò a combattere per tutta la vita contro le proprie pulsioni all’autocensura e al sacrificio.

3. ALLA CORTE DI GIULIO II

1. Un papa battagliero All’alba del 19 ottobre 1503 Roma sprofondava sotto una pioggia torrenziale mentre una notizia angosciosa si diffondeva assieme alla luce autunnale che tentava di filtrare attraverso il muro di nuvole incastrato fra il Tirreno e le montagne abruzzesi. Le strade senza selciato erano un pantano melmoso, che trascinava inesorabile nel Tevere ogni sorta di immondizia. Dai tetti, che quasi si toccavano sui vicoli attorcigliati tra il Pantheon e San Pietro, si scaricavano a terra torrenti d’acqua, che scavavano buche nere schizzando sui muri la pozzolana strappata dal suolo. Pioveva sulle grotte di mattoni rossi dei palazzi imperiali, dove si erano rifugiati i pastori con i piccoli greggi che in quella stagione brucavano tra l’Arco di Tito e le gigantesche colonne del Tempio di Saturno. Pioveva anche sull’Arco di Settimio Severo, benché il suo fornice ancora per metà interrato fosse un’isola asciutta contesa tra le mucche lamentose. Ma la pioggia, che con il passare delle ore non accennava a diminuire, non riusciva a fermare una folla di ogni stato e condizione che lasciava i tuguri e i palazzi di 101

una città ancora fortificata come una rocca medievale sotto teloni scuri impermeabilizzati con la cera. La folla aumentava e si accalcava intorno al Ponte di Sant’Angelo, raggiungendo alla spicciolata San Pietro in lacrime. Era morto il papa Pio III Piccolomini, uomo tanto buono e mite da sembrare un miracolo nella Città eterna sfinita dagli abusi del papa Borgia e di suo figlio Cesare. Il miracolo era durato poco meno di un mese e la scomparsa del papa riapriva le ferite di una successione troppo difficile. La morte di Alessandro VI, salutata da tutti gli italiani con gioia, aveva lasciato suo figlio Cesare, insignitosi con efferata prepotenza dell’Italia centrale a spese dei piccoli Stati e del territorio della Chiesa, in balia della vendetta di quelli che aveva offeso. Erano tanti, soprattutto a Roma, a pretendere la sua testa. Gli Orsini in particolare, la potente famiglia romana a cui pochi anni prima Cesare aveva strangolato un valoroso comandante, avevano assediato il palazzo Vaticano, dove il figlio del papa Borgia si era rifugiato fingendosi in fin di vita. Ad ogni angolo della città, uomini molto scaltri stavano bene attenti a non lasciarsi sfuggire Cesare, che poteva dileguarsi travestito da frate come spesso accadeva a Roma. Appena dissoltosi il piccolo esercito che avrebbe dovuto garantirgli le pressioni sul conclave per l’elezione di un papa a lui favorevole, le altre fazioni che cercavano di condizionare l’elezione papale – spagnoli, francesi e in ordine sparso gli italiani – non avevano trovato un accordo migliore se non quello per la designazione di un papa di transizione, il quale avrebbe lasciato sbollire il clima incandescente che infuocava Roma, sull’orlo della guerra civile. 102

I papi dal 1471 al 1565 Sisto IV (Della Rovere), 1471-1484 Innocenzo VIII (Cibo), 1484-1492 Alessandro VI (Borgia), 1492-1503 Pio III (Todeschini-Piccolomini), 1503 Giulio II (Della Rovere), 1503-1513 Leone X (Medici), 1513-1521 Adriano VI (Florensz), 1522-1523 Clemente VII (Medici), 1523-1534 Paolo III (Farnese), 1534-1549 Giulio III (Del Monte), 1550-1555 Marcello II (Cervini), 1555 Paolo IV (Carafa), 1555-1559 Pio IV (Medici di Marignano), 1559-1565

Con la morte di Pio III a neanche un mese dalla sua elezione, l’atmosfera si accendeva di nuovo pericolosamente. La pioggia che continuava a cadere non sembrava poterla raffreddare, ma bastava a lavare via dall’anima del popolo stremato la speranza di una pace duratura. Per questo i fedeli non potevano fare a meno della piccola consolazione di baciare il piede al papa buono, colui che li aveva fatti sognare per qualche giorno e al quale serbavano una riconoscenza che stupiva il corrispondente del duca di Ferrara: «Et tutto heri il corpo stette in sancto Petro, et quantunque sempre piovesse multo forte, li corsse tutta Roma, et donne et homini cum gran calca tutti se sforciavano basiarli li pedi»1. Ma la cattura di Cesare Borgia era soltanto l’ultimo dei problemi aperti dalla morte di Pio III. In fondo a nessuno interessava più salvare la vita di quell’assassino passato nel giro di un mese da imperatore in pectore a rifugiato poli103

tico. Lo Stato della Chiesa era ridotto in condizioni pietose. I Borgia avevano saccheggiato le casse e smembrato i territori, l’autorità papale rischiava di essere per sempre assoggettata agli equilibri degli Stati europei. Roma era assediata a nord dai francesi, a sud dagli spagnoli. E i cardinali italiani, espressione di piccoli potentati regionali, erano troppo intenti a inseguire l’arricchimento delle proprie famiglie per elaborare un progetto politico di qualche significato. Tutti tranne uno. Giuliano Della Rovere era stato infatti più che mai chiaro già alla vigilia del conclave di settembre conclusosi con l’elezione di Pio III. Soprattutto era stato chiarissimo nella sua opposizione ai Borgia durante il decennio precedente, speso interamente in esilio. Rientrato a Roma ai primi di settembre del 1503, il nipote di Sisto IV, nato ad Albissola nel 1443 e nominato dallo zio cardinale di San Pietro in Vincoli nel 1471, aveva detto senza mezzi termini che non si sarebbe prestato né alle mire francesi né a quelle spagnole. Avrebbe invece perseguito l’interesse primario per un italiano: il rafforzamento dello Stato della Chiesa, visto come centro e perno di un’alleanza politica nazionale capace di contenere l’espansione francese in Lombardia, quella spagnola nel Meridione e quella strisciante ma non meno pericolosa della Repubblica veneziana sulla parte orientale dello Stato della Chiesa. Senza aspettare che spiovesse, con un piglio da combattente, Giuliano iniziò quello stesso 19 ottobre, quando Roma sembrava dover scivolare nel Tevere e sprofondare sotto il peso di ambizioni incontenibili, le trattative politiche 104

con i suoi avversari. Non esitò nelle promesse, che furono tantissime e non tutte lecite. Ma il suo talento politico produsse il più grande capolavoro diplomatico del Rinascimento: il 31 ottobre Roma e la cristianità avevano già un nuovo papa, che prese il nome di Giulio II. Il conclave, durato soltanto un giorno, fu tra i più brevi della storia della Chiesa. Un Collegio cardinalizio che si era sentito minacciato al punto da pensare di riunirsi nella fortezza di Castel Sant’Angelo anziché in Vaticano aveva eletto il suo uomo più coraggioso. Forse per l’intervento dello Spirito Santo, forse per la paura di una crisi definitiva che rischiava di travolgere tutti, i cardinali puntarono quasi unanimemente sull’unico uomo che aveva dimostrato di poter condurre la Chiesa fuori dal guado. Al momento della sua elezione al soglio pontificio, Giuliano aveva sessant’anni, i capelli bianchi e un colorito rosato che si accendeva in rubizzo sotto gli attacchi di collera che lo assalivano ogni volta che qualcuno lo contraddiceva. Gli occhi, molto infossati nelle orbite, erano piccoli e liquidi e molto mobili; al contrario della bocca, che teneva quasi sempre stretta con la forza dell’indignazione. Ma era il suo naso pronunciato e «maschio», come lo definivano i suoi adulatori, ad esprimere una grande forza di carattere, trasformatasi con il tempo in una virtù guerriera che l’Italia imparò presto a riconoscergli. Collerico, energico e determinato, il suo era forse un carattere più da re che da papa. Ma in quel momento era soprattutto di un re che aveva bisogno il papato di Roma e Giuliano lo servì come doveva. Fu spontaneo fino all’indecenza, incapace di contenere i pensieri di governo ma anche la tristezza. Stupì tutti quan105

do si abbandonò al pianto irrefrenabile per la morte dell’amata sorella Lucchina. Era, in termini rinascimentali, un temperamento «melanconico», capace di grandi furori e di grandi abbandoni. Non aspettò un attimo per sferrare la sua battaglia militare contro gli usurpatori dello Stato della Chiesa. E siccome l’azione gli era necessaria al punto da non poterla delegare a nessun altro, seguì di persona perfino le campagne militari, lasciando esterrefatti i suoi stessi comandanti quando si presentò sotto la fortezza della Mirandola incurante della neve e del fuoco dei nemici, stretto in una pelliccia bianca e in un grande coraggio, per dare con le proprie mani l’assedio a quel castello che tanto inopportunamente si ostinava a resistergli. Ma accanto alle strategie politiche e militari dispiegate nelle corti e sui campi di battaglia, Giulio II assecondava il suo disegno politico con un’altra e più importante strategia di dominio, perseguita attraverso la trasformazione della città di Roma nella capitale di uno Stato che doveva mostrarsi invincibile, giusto e potente almeno quanto quello degli antichi romani, il cui ricordo egli voleva «instaurare»2. A Roma doveva contrastare il potere dei baroni locali, sempre pronti a soffiare sul fuoco dell’autonomia comunale. Per riaffermare la supremazia politica del papato nella città, Giulio da un lato introdusse leggi che miravano a sfiancare la timida borghesia imprenditoriale, dall’altro progettò modifiche urbane e architettoniche che rendessero visibile e rafforzassero il suo piano politico. Iniziò l’apertura di una nuova arteria dall’altra parte del Tevere, la via Giulia, dove il suo architetto di corte, Donato Braman106

te, iniziò a costruire il palazzo dei tribunali, nel quale si dovevano raccogliere e ordinare le magistrature cittadine e i notai che regolavano i rapporti civili. Il palazzo del Vaticano doveva diventare una sorta di reggia all’antica e si avviò, sempre su progetto di Bramante, la costruzione del Belvedere, un cortile teatrale che collegava con rampe, portici e corridoi la vecchia villetta del Belvedere ai palazzi adiacenti la basilica di San Pietro. La stessa basilica doveva poi essere ricostruita secondo un disegno moderno, che mostrasse tutta la grandezza trionfante della religione cattolica. Anche per questa Bramante iniziò i lavori con un progetto a pianta centrale nel maggio del 1506. Per la celebrazione della sua stessa persona, occorreva tuttavia il grande scultore fiorentino di cui tutti in Italia parlavano. In particolare, gliene parlava Giuliano da Sangallo, architetto fiorentino da lui molto stimato, che aveva già costruito per lui alcuni palazzi e intorno al quale si raccoglieva a Roma la comunità di artisti toscani, che sperava in ricche commesse da questo papa così attivo.

2. Un committente terribilmente paziente La chiamata a Roma di Michelangelo non tardò a venire. Il 25 febbraio 1505 il papa gli fece pagare a Firenze 100 ducati per le spese di viaggio, a cui seguirono quasi certamente altri 60 ducati che l’artista si affrettò a versare al banco dei Balducci appena arrivato a Roma3. 100 ducati era una somma considerevole per un ingaggio, se si considera che la paga mensile di un buon artista ammontava allora intorno ai 107

10 ducati e che la paga giornaliera di un capomastro era di appena 20 baiocchi, 20 centesimi di ducato. Da quel momento in poi, il rapporto tra Michelangelo e Giulio sarebbe ruotato tutto intorno ai soldi, che l’artista chiedeva in continuazione, riceveva in abbondanza, ma avrebbe negato in seguito di aver avuto. La Roma che Michelangelo tentava di conquistare per la seconda volta era molto diversa da quella lasciata cinque anni prima. Ora era il papa stesso a mettere l’arte e gli artisti in cima alle necessità della politica vaticana. E in più il pontefice era personalmente divorato da una smania per il collezionismo di sculture antiche paragonabile a quella del cardinale Riario, suo stretto parente, che certo aveva avuto modo di parlare a Giulio del prodigioso scultore fiorentino, unico in Italia capace di eguagliare gli artisti greci e romani. Il clima irreale, da nuova età dell’oro, che in quegli anni si respirava a Roma sedusse Michelangelo a pochi giorni dal suo arrivo definitivo in città. Una giornata fredda e tersa del gennaio 1506, in una vigna dalle parti del Colosseo, comparvero due grossi serpenti risvegliati da un letargo millenario. Erano i serpenti di marmo che avevano stritolato il vecchio Laocoonte e i suoi due giovani figli per essersi opposti al regalo mortifero fatto da Ulisse ai Troiani [fig. 5]. Dalla storia narrata da Omero, due scultori di Rodi avevano tratto una statua celebrata in tutto il mondo e segnalata da Plinio, secondo il quale l’imperatore Tito l’aveva acquistata e fatta portare a Roma. Ora la statua riemergeva dal suolo quasi come un segno premonitore dell’eccellenza che l’arte stava nuovamente raggiungendo sotto il regno di Giulio II. Questi si 108

Fig. 5. Laocoonte. Roma, Musei Vaticani, Cortile Belvedere.

affrettò ad offrire al fortunato proprietario del terreno una somma favolosa (più di 600 ducati) per poter collocare la statua in una cappella appositamente fatta costruire nel Belvedere, quasi si trattasse di una reliquia di Cristo. I poeti più colti di Roma, tra cui il Sadoleto, composero versi per celebrare l’avvenimento. Cesare Trivulzio, nel raccontare l’episodio al fratello, si disse convinto che quello fosse l’evento di maggior rilievo accaduto a Roma nel corso dell’anno. Quel giorno freddo e asciutto di gennaio, Michelangelo si trovava a casa di Giuliano da Sangallo, di ritorno da Carrara, dov’era andato a scegliere i marmi per la tomba che Giulio gli aveva commissionato. Quando vennero ad informare l’architetto del ritrovamento, corse anche lui entusiasta alla vigna per assistere alle operazioni di recupero. Certo doveva avere ben chiaro che quella scultura poneva a lui e al mondo intero un nuovo altissimo traguardo da superare, soprattutto perché, accanto alla perfezione delle anatomie, Laocoonte e i suoi figli mostravano un’espressione di pathos così convincente quale non si conosceva ancora a quella data in Italia. Ma Michelangelo era più che certo del suo talento e non si lasciò avvilire dalla scoperta proprio in quei giorni di fervida contrattazione con il papa. Non esitò anzi a promettergli la più grande opera di scultura che il mondo avesse mai visto: «e se quella vole fare la sepultura a ogni modo, non gli debbe dare noia dov’io me la facci, pur che in capo de’ cinque anni che noi siàno d’achordo la sia murata in Santo Pietro, dove a quella piacerà, e sia cosa bella chom’io ò promesso: che·sson cierto, se·ssi fa, non à la par cosa tucto el mondo»4. Neanche di fronte a 110

quella terribile testimonianza di eccellenza l’autostima di Michelangelo vacillò. Del resto l’artista aveva ricevuto la prima importante commissione da Giulio – una commissione senza precedenti – molto prima di quanto lui stesso si aspettasse. Appena arrivato a Roma, nel marzo del 1505, non aveva dovuto faticare molto a convincere il papa a finanziare un progetto colossale per la sua tomba. Nel giro di due mesi avevano concordato disegno e prezzo, al punto che già il 28 aprile del 1505 l’artista poteva trasferire a Firenze 50 ducati5 per le spese di viaggio e per l’acquisto dei marmi a Carrara. Tempi così rapidi per la gestazione del progetto e per la contrattazione delle spese avevano del miracoloso: i due giganti erano fatti l’uno per l’altro. Giulio aveva compreso subito non solo il talento dell’artista, ma anche la sua ossessione per i soldi. E non gli lesinò mai complimenti e risorse, proprio mentre atterriva l’intera corte pontificia e la diplomazia di mezza Europa con i suoi modi spicci, che spesso si servivano delle mani e del bastone per portare rapidamente una discussione al traguardo voluto. A Firenze Giulio fece contare a Michelangelo altri mille ducati e l’artista ne depositò sul proprio conto 600, che gli servirono il mese di gennaio successivo per l’acquisto della sua prima proprietà terriera di un certo rilievo: un podere nei pressi di Pozzolatico. Era talmente sicuro di poter contare sul favore del papa, che la somma consistente richiesta per anticipare l’acquisto dei marmi finì invece in un investimento immobiliare che segnava finalmente la ripresa decisa delle sorti economiche della sua casata. Tutto d’altronde procedeva per il meglio in quei mesi. Michelangelo 111

rimase a Carrara l’autunno e l’inizio dell’inverno del 1505, facendo ritorno a Roma il 29 dicembre, giusto in tempo per assistere al ritrovamento del Laocoonte due settimane dopo, quasi fosse un segno del destino. Giulio riconquistava felicemente i possedimenti usurpati alla Chiesa. Bramante terminò il progetto di San Pietro e stava per iniziarne la ricostruzione, dividendosi tra i lavori del cortile del Belvedere, già a buon punto, e la via Giulia, dove si cominciavano a intravedere le fondamenta del nuovo colossale palazzo dei tribunali. Roma insomma risorgeva e Egidio da Viterbo, assistente colto e fedele del papa, si sforzava nelle sue prediche ufficiali di accreditare il pontefice come un nuovo portatore dell’età dell’oro. Improvvisa e inaspettata, però, una lite violentissima scoppiò tra il papa e Michelangelo nell’aprile del 1506. Della vicenda conosciamo la versione data dall’artista, faziosa quanto basta per lasciare aperte molte congetture sulla realtà dell’evento. Stando a quanto farà raccontare al docile Condivi, a fine aprile Michelangelo si rifugiò a Firenze mettendosi sotto la protezione di Pier Soderini, che aveva sempre manifestato una disposizione molto benevola nei suoi confronti. Nella lettera del 2 maggio a Giuliano da Sangallo, che in definitiva aveva la responsabilità di averlo presentato al papa, sostenne di aver subìto a Roma torti e minacce tali da vedere messa in pericolo la sua stessa vita: «basta ch’ella mi fe’ pensare, s’i’ stavo a·rRoma, che fussi facta prima la sepultura mia che quella del Papa»6. In questa lettera e nelle successive Michelangelo non accenna neppure al fatto che il papa si sentiva giustamente insolentito dalle pressanti richieste dell’artista e che riteneva di 112

avergli dato soldi sufficienti a pagare tutti i marmi del mondo: soldi che però erano finiti nel podere di Pozzolatico invece che a Carrara. Il tono oscuramente tragico della lettera sembra diretto unicamente a giustificare l’artista nel suo comportamento riprovevole. Niente fa pensare che Michelangelo avesse subìto realmente minacce di morte. Ciò che si è pazientemente raccolto intorno a questa vicenda autorizza invece a pensare che lo scontro con Giulio mirasse come al solito a far lievitare i guadagni della commessa, e in particolare ad ottenere l’autorizzazione di trasferire i marmi e il lavoro a Firenze, dove l’artista avrebbe speso molto meno per l’esecuzione e dove avrebbe potuto facilmente portare a termine altri lavori che gli stavano a cuore, come le statue Piccolomini o il dipinto per la sala del Maggior Consiglio, per i quali aveva già stipulato contratti. Nelle recriminazioni manifestate al Sangallo, che si prestò ad una paziente mediazione con il papa, Michelangelo sostenne che il sabato santo aveva sentito Giulio II dire a un gioielliere che non intendeva spendere neppure una lira per le pietre né piccole né grandi, con un palese riferimento alla sua volontà di lasciar cadere la commessa della tomba. Fatto difficile da credere, dopo che il papa aveva già stanziato 1600 ducati, in parte utilizzati da Michelangelo per l’acquisto dei marmi, ma soprattutto spesi per le sue proprietà immobiliari o versati sul suo conto corrente di Roma. Michelangelo sostenne anche di aver visto ribadire questo rifiuto nei cinque giorni successivi, quando era tornato dal papa per chiedere i soldi necessari a pagare i marmi sbarcati al porto di Ripetta, ma non era stato nemmeno 113

ricevuto. Conoscendo oggi, a differenza del povero Sangallo coinvolto in quella sgradevole lite, lo stato reale delle finanze di Michelangelo, già concretamente rimpinguate dagli acconti versati dal papa, crediamo più probabile che il pazientissimo Giulio ritenesse davvero esagerata quella ulteriore richiesta di danaro, per un’opera di cui non aveva visto ancora nulla ma che gli era costata già un patrimonio. Michelangelo si ritenne in tutti i casi gravemente offeso da quel rifiuto. Lasciò Roma e riprese da Firenze la sua trattativa con Giulio, con l’obiettivo di rimanere nella sua città a lavorare e tornare a Roma solo per montare il monumento. Ma Giulio non era affatto disposto ad accondiscendere a quella pretesa, anche perché contemporaneamente alla tomba aveva intenzione di affidargli un altro lavoro: la decorazione della volta della cappella che suo zio Sisto IV aveva fatto costruire trent’anni prima e che era stata di recente danneggiata al punto da imporne una ristrutturazione. Contrariamente a quanto l’artista sosterrà in seguito attraverso i mansueti biografi Condivi e Vasari, non era stato Bramante a suggerire al papa, nel 1508, di affidare la decorazione della Cappella Sistina a Michelangelo, con lo scopo di vederlo fallire e precipitare dalle grazie del pontefice. Una lettera spedita a Michelangelo da un fidatissimo amico di Roma il 10 maggio 1506 racconta tutta un’altra storia. Sempre a cena, perché come tutti i grandi amanti dell’arte anche Giulio preferiva parlarne di fronte a un buon vino corposo e ai vetri scintillanti d’oro, il papa aveva manifestato a Bramante l’intenzione di richiamare Michelangelo a Roma per affidargli la decorazione della volta della Sistina. A quella proposta Bramante, con molto buon sen114

so, aveva sollevato dei dubbi circa l’opportunità di affidare un incarico così complesso a un artista che non aveva quasi nessuna esperienza della pittura a fresco: «(...) perché lui non à fato tropo di figure, e masimo le figure sono a[l]te e in i[s]co[r]cio ed ène atra cosa che a dipi[g]nere i[n] tera»7. Conoscendo bene l’avidità di Michelangelo per quelle lucrose commesse e sentendosene senza dubbio interprete, il suo amico, il capomastro Piero Rosselli, presente anche lui alla cena, cominciò a insultare Bramante, mandando all’aria l’atmosfera conviviale e la cena del papa. Michelangelo, sostenne Rosselli, non avrebbe mai rifiutato quella commissione ed era pronto a venire a Roma per eseguire il nuovo incarico, nonostante i dubbi di Bramante sulla sua capacità di portarlo a termine. La «cena di lavoro» tra i lumi del vecchio palazzo Vaticano era finita in una lite. I fatti successivi dettero pienamente ragione a Piero Rosselli, rivelando che il vecchio Bramante aveva avuto in realtà un ruolo opposto a quello in seguito assegnatogli da Michelangelo. Ma la cronaca del Rosselli smentisce anche la leggenda di un papa irascibile e prepotente, sempre maldisposto verso il povero artista. Esattamente al contrario, Giulio II, che pure non piegava la testa davanti a niente e a nessuno, si era dimostrato disposto a sorvolare sul comportamento vergognoso dell’artista, che gli era ormai debitore di una cifra considerevolissima spesa in fruttuosi investimenti immobiliari. Inviò anzi, per quella che ormai era diventata una causa di Stato, un breve ufficiale alla Repubblica fiorentina, pieno di gentilezza e comprensione verso il bizzoso artista che avrebbe potuto fare arrestare come un debitore insolvente: 115

Diletti figliuoli, salute, e apostolica benedizione. Michelagnolo scultore, che si è partito da noi senza fondamento e a capriccio, per quanto intendiamo, teme di tornarci, contro cui non abbiamo che dire, perché conosciamo l’umore degli uomini di tal fatta (qui a nobis leviter et inconsulte discessit, redire, ut accepimus ad nos timet, cui nos non succensemus, novimus huiusmodi hominum ingenia). Ma tuttavia, acciocchè deponga ogni sospetto, esortiamo quell’affetto che avete a noi, perchè gli voglia promettere da parte nostra, che se ritornerà, da noi non sarà nè tocco, nè offeso, e lo rimetteremo in quella stessa apostolica grazia, nella quale era avanti la sua partenza. Roma, li 8 di luglio, 1506, l’anno III del nostro pontificato8.

Michelangelo non poteva tirare troppo la corda. Né in quel momento poteva sostenere, come avrebbe fatto in seguito con gli eredi, che i soldi erano andati via per i marmi di Carrara, per i quali in realtà aveva speso poco più di un terzo della somma ricevuta. Da uomo prudente e pratico qual era, decise perciò di ricucire la frattura con il papa andando a prostrarsi ai suoi piedi a Bologna, dove Giulio II si era recato per risolvere alcune cocenti questioni politiche e militari con i signori di quella città. Arrivato a Bologna ai primi di dicembre del 1506, Michelangelo ricevette subito una nuova commissione: una statua in bronzo del papa da collocare sul portale della chiesa di San Petronio. Il 19 dicembre aveva scritto al fratello Buonarroto promettendogli che avrebbe terminato la fusione della scultura in quella stessa primavera e che sarebbe ritornato subito a casa. La realizzazione dell’opera presentava invece problemi tecnici di una certa importanza, soprattutto per uno scultore che in precedenza si era cimentato con il getto di bronzo soltanto per il piccolo David fuso per i francesi. Si trattava di formare una scultura in terracotta e ri116

vestirla di uno strato corposo di cera che doveva in seguito essere sostituito dal getto del bronzo fuso. All’esterno di questo strato doveva costruirsi una controforma, anch’essa di terracotta, provvista di uno spessore sufficiente a resistere alla colata di bronzo. Non era semplice, perché il getto di bronzo doveva raggiungere ogni parte della scultura e far fuoriuscire la cera fusa dal calore attraverso canali di sfiato, per prenderne il posto in ogni piccolo anfratto. Più era grande la scultura e complessa la posa della figura, maggiori erano le difficoltà. Perfino il grande Leonardo, che d’ingegneria e tecnica s’intendeva certo moltissimo, aveva dovuto rinunciare alcuni anni prima alla fusione di una grande statua in bronzo per il duca di Milano, un fallimento che proprio Michelangelo gli aveva sfacciatamente ricordato in pubblico qualche tempo prima. Ora era lui ad annaspare dietro difficoltà analoghe. Convintosi della necessità di un aiuto esperto, Michelangelo si rassegnò a chiedere la collaborazione di due artisti, naturalmente fiorentini visto che si ostinava a non fidarsi di nessun altro. Bastarono però poche settimane di lavoro in comune nelle delicate operazioni della fusione, perché il lunatico artista cominciasse a litigare con i due assistenti, accusando uno di loro, Lapo, di aver millantato una partecipazione troppo paritaria all’impresa, laddove era stato ingaggiato per una collaborazione limitata alla fusione. A questo, che Michelangelo considerava un peccato gravissimo, si aggiungevano i sospetti sulla poca onestà dell’uomo, che si sarebbe appropriato di qualche spicciolo in occasione delle forniture di materiale. Il carattere diffidente e sospettoso di Michelangelo, intollerante ad ogni confronto con chicchessia, tor117

nava così a ritorcerglisi contro, obbligandolo all’isolamento proprio in un momento di massima difficoltà. Lunedì primo febbraio 1507 comunicò al fratello Buonarroto di aver licenziato i due assistenti. Lo fece soprattutto per metterlo in guardia dalle ingiurie che i due, tornati a Firenze, gli avrebbero certamente riversato addosso. Nella lettera successiva che scrisse al padre, invece, non mancò di sottolineare la pretesa esosità del compenso corrisposto ai due: «Lapo chacciai via, perché egli è uno mal fagnione e chactivo, e non faceva el bisonio mio. Lodovicho pure è meglio e are’ lo tenuto anchora dua mesi; ma lLapo, per non essere vituperato solo, lo sobillò i’ modo che amendua ne son venuti (...) che l’uno à avuto in uno mese e mezo ducati venti secte e ll’altro diciocto larghi e lle spese»9. La partenza dei due esperti fonditori complicò non poco l’impresa del getto. La fusione si rivelò in un primo momento disastrosa, anche se con il passare del tempo il danno apparve più contenuto. Nell’estate di quell’anno la statua era ormai fusa, ma Michelangelo rimase tutto l’autunno del 1507 e i primi mesi del 1508 a lavorare di cesello per correggere la scultura. Della statua non conosciamo niente, perché pochi anni dopo venne abbattuta nel corso di una rivolta contro lo Stato della Chiesa. Come quasi sempre in quegli anni, il bronzo fu reimpiegato per fare bombarde che, considerato il carattere di Giulio, dovettero certamente riuscire particolarmente efficaci. Ancora meno sappiamo del soggiorno bolognese di Michelangelo, anche se una lettera scritta il 15 marzo 1508 da un amico, il frate Lorenzo Viviani, testimonia che non ci furono solo preoccupazioni e lavoro, come 118

Michelangelo voleva far credere nelle sue lamentose lettere ai familiari, ma anche momenti conviviali molto allegri, per i quali il frate sentiva nostalgia augurandosi un presto ritorno dell’artista. Come al solito, Michelangelo si descriveva invece al padre prigioniero di una brutta città, dove l’aria era cattiva e il vino ancora peggiore, e dove non c’era neppure il tempo di guardarsi intorno. La stessa ambigua reticenza riguardava il frutto economico di quel viaggio e di quell’impresa. Nel 1523 Michelangelo si lamenterà con l’amico Giovan Francesco Fattucci di averne ricavato non più di quattro ducati e mezzo! Ma la realtà fu di sicuro molto diversa, se il 17 febbraio 1508 suo padre poteva depositare a suo nome 250 fiorini, certamente rimastigli dai 1000 che aveva ricevuto per la statua. Quei soldi servirono di lì a poco, nel marzo dello stesso anno, per l’acquisto di nuove proprietà immobiliari: le case di via Ghibellina a Firenze, dove i Buonarroti si stabiliranno per sempre. L’espansione familiare continuava a ritmo sostenuto e le aspettative per le nuove commesse a Roma facevano sperare ancora meglio. Era arrivato il momento di ristabilire la fortuna economica della famiglia.

3. L’avventura della volta Tornato a Roma nell’inverno del 1508, Michelangelo si organizzò per affrontare contemporaneamente l’impresa della tomba e la decorazione della Cappella Sistina. Un ricordo dell’aprile dello stesso anno riassume le sue intenzioni per i mesi successivi: 119

Per chonto della sepultura mi bisognia duchati quatro ciento ora, e dipoi cento ducati el mese pel medesimo chonto, chome sono i nostri primi pacti. Pe’ garzoni della pictura che s’ànno a far venire da Fiorenza, che saranno garzoni cinque, ducati venti d’oro di chamera per uno, chon questa chonditione, cioè che, quando e’ saranno qua e che e’ saranno d’achordo chon esso noi, che i decti ducati venti per uno che gli aranno ricievuti vadino a chonto del loro salario, incominciando decto salario il dì ch’e’ si partono da Fiorenza per venire qua; e quando non sieno d’achordo con esso noi, s’abbi a esser loro la metà de’ decti danari per le spese che aranno facto a venir qua e per il tempo10.

Più ancora della fusione della statua di Giulio a Bologna, la decorazione della volta della Sistina si annunciava come un’impresa piena di difficoltà, come saggiamente aveva previsto Bramante. Una enorme superficie da decorare, e in un luogo così importante della cristianità, in cui in alcune occasioni si riuniva a celebrare messa la Cappella Papale, intesa come la corte più rappresentativa del papa inclusi gli ambasciatori e gli ospiti di riguardo. Le difficoltà cominciavano dal ponteggio, che andava progettato per permettere di proseguire le celebrazioni più solenni anche durante i lavori. La cappella costruita da Sisto IV a partire dal 1477 aveva una forma rettangolare molto regolare. Era lunga tre volte la sua larghezza e alta la metà della lunghezza (m 40,20 x 13,40 x 20,70), per una superficie complessiva di 1200 metri quadrati da dipingere con la testa rivolta verso l’alto, facendo attenzione alle deformazioni create dalla superficie curva [tav. 2]. Fino a quel momento Michelangelo non aveva avuto (se non nella bottega del Ghirlandaio, vent’anni prima e molto marginalmente) esperienza della pittura ad affresco. 120

Questo tipo di decorazione imponeva una sapienza tecnica straordinaria, perché i pigmenti disciolti in acqua andavano applicati alla parete prima che l’intonaco indurisse, cioè entro 24 o 48 ore dalla sua stesura. Per questo motivo, dopo aver preparato un disegno generale e averlo riportato nelle sue linee essenziali sullo strato sottostante l’intonaco, chiamato «arriccio», si doveva provvedere a stendere sulla parete piccole porzioni di intonaco, le cosiddette «giornate», cioè quelle porzioni che l’artista era in grado di decorare entro la successiva giornata di lavoro. Le variazioni di umidità e di temperatura rendevano difficile ottenere ogni giorno la stessa qualità d’impasto e la stessa prestazione sul muro. Ma il rischio era che la differenza delle giornate si manifestasse già attraverso una diversa stesura e una diversa presa della malta. Risolto il problema meccanico delle porzioni di intonaco da rendere identiche nell’arco di un lavoro che doveva durare anni, e quindi essere in grado di attraversare tutte le stagioni climatiche, c’era poi il problema della coloritura, che doveva essere omogenea almeno nelle parti adiacenti. Il colore si preparava mescolando all’acqua un pigmento molto fine. Ma, come è facile intuire, bastavano piccoli mutamenti nella finezza o quantità del pigmento o del suo rapporto con l’acqua perché il colore finale risultasse diverso. Quel che è peggio è che l’effetto definitivo si poteva controllare solo dopo che l’intonaco era completamente asciutto, con il rischio di scoprire troppo tardi che una porzione di pittura eseguita risultava disomogenea rispetto a quelle adiacenti. In tal caso non si poteva ricorrere a correttivi di nessun genere, perché non era possibile intervenire sul dipinto una 121

volta che l’intonaco si era asciugato. C’era un unico drammatico rimedio: demolirlo e rifarlo daccapo. Infine, proprio perché i tempi erano inesorabilmente scanditi dall’essiccazione della malta, il disegno non si poteva improvvisare. Occorreva preparare una copia su carta delle varie scene, in scala 1 a 1, da trasportare sulla parete mentre l’intonaco era ancora fresco. Il trasporto avveniva principalmente in due modi. Il primo comportava che il cartone con il disegno fosse fissato alla parete con piccoli chiodi e ripassato con uno stiletto appuntito di ferro, in modo da eseguire un ricalco che impressionava l’intonaco sottostante. Bisognava in questo caso stare molto attenti a non far slittare il cartone in fase di trasporto o a non calcare troppo con lo stilo rovinando l’intonaco. Il secondo metodo prevedeva di bucherellare a piè d’opera il disegno del cartone e, dopo aver appoggiato il foglio sull’intonaco tenendolo fermo con i chiodi, passare lungo le linee un sacchetto pieno di polvere di carbone che filtrava attraverso i buchi disegnando sulla malta le linee, che immediatamente venivano unite dall’artista con un pennello imbevuto nel colore in maniera da ricostituire fedelmente il disegno. Per tutte queste operazioni occorrevano più persone e una coordinazione perfetta all’interno della squadra, soprattutto se il tutto si svolgeva a ventun metri di altezza su una scomoda impalcatura di legno e cordami. Le botteghe toscane del Quattrocento, ma più in generale da Giotto in poi, avevano raggiunto nell’uso di queste tecniche un grado di eccellenza che non aveva confronti nel mondo. E Michelangelo aveva avuto la fortuna di compiere il suo tirocinio presso la migliore di queste botteghe. Resta il fatto che una 122

volta così enorme non era mai stata dipinta con figure ad affresco negli ultimi secoli in Italia, e che in precedenza la stessa volta era stata forse affrescata da un artista, Pier Matteo d’Amelia, che se l’era cavata con un grande cielo stellato, come più o meno avevano fatto tutti nelle volte gotiche del Duecento e del Trecento (Assisi rimane l’esempio più famoso e meglio riuscito). Alla luce di tutte queste difficoltà, Michelangelo avrebbe dovuto rinunciare all’impresa. Era e si sentiva fondamentalmente uno scultore, e come tale si firmò, paradossalmente, negli stessi documenti relativi all’impresa della Sistina. Ma l’ingordigia per i soldi offertigli da Giulio era troppo forte: non poteva rinunciare a quell’occasione di guadagno, eccezionale per i tempi. Cercò allora di organizzare in maniera imprenditoriale il lavoro, arruolando persone tecnicamente molto più preparate di lui. Chiamò a raccolta i suoi amici fiorentini, quelli conosciuti durante gli anni d’apprendistato presso la bottega dei fratelli Ghirlandaio, ma soprattutto quelli, pochissimi, di cui si poteva fidare perché gli erano rimasti sempre vicini. In nessun momento pensò di avvalersi di collaboratori romani. Quello romano rimaneva per lui un universo infido, con il quale non voleva avere niente a che fare. Si rivolse per primo a Francesco Granacci, suo coetaneo e affezionatissimo amico, al quale diede incarico di mettere su una piccola ma agguerrita squadra di pittori. Furono cooptati Giuliano Bugiardini, Iacopo di Sandro, più altri due o tre amici di identità incerta. Si presentò all’appello anche un pittore che aveva già lavorato con Pier Matteo d’Amelia, il primo decoratore della volta, il quale richiese 123

un salario tutto sommato modesto che fu ritenuto congruo anche per gli altri: 10 ducati al mese11. Stando al racconto dei biografi, Michelangelo progettò un ingegnoso ponteggio che si può considerare la sua prima opera d’ingegneria (anche se è difficile credere alla leggenda che in quella progettazione avesse superato addirittura Bramante, di cui a ragione il papa si fidava ciecamente). Sospese il ponte a dei puntoni inclinati detti «sorgozzoni»12, che erano molto comuni a Firenze per sostenere gli aggetti delle case e venivano costruiti con due travi, una inclinata e una orizzontale, collegate entrambe alla muratura retrostante. Riuscì così a ridurre da 14 metri (la larghezza della volta è maggiore al di sopra della prima cornice) a circa 7 la distanza da coprire con la pedana, che fu realizzata senza problemi con una normale capriata di legno. L’11 maggio 1508, il giorno dopo aver ricevuto il primo acconto per la nuova impresa, Michelangelo incaricò Piero Rosselli, il fedele capomastro che esattamente due anni prima gli aveva fatto la spiata sulla conversazione del papa con Bramante, di costruire il ponte e arricciare la volta della Sistina. Rosselli cominciò subito a spicconare il vecchio intonaco sostituendolo con un nuovo arriccio di preparazione e il 27 luglio successivo questa parte di lavoro poteva già dirsi conclusa. Per i cardinali, che tentavano ostinatamente di portare avanti gli uffici liturgici in mezzo alla polvere e al frastuono, quei mesi furono esasperanti. La vigilia di Pentecoste, alcuni di loro si recarono in pompa magna nella cappella con i loro preziosi paludamenti. La polvere imbruttiva i lini candidi e i velluti rossi, ma gli operai sulle impalcature non vollero saperne di interrompere i la124

vori. Avevano buone ragioni per procedere in fretta. Soprattutto avevano il sostegno di Giulio II, che non ebbe mai troppa simpatia per le liturgie astratte della Chiesa ed era tanto ansioso di vedere la volta finita che avrebbe voluto certamente imparare lui stesso a dipingere per abbreviare i tempi13. In quei mesi Michelangelo non sembrava per nulla spaventato dall’impresa. Convinto di poter lavorare allo stesso tempo anche alla tomba, fece arrivare i marmi da Carrara. Promise inoltre al povero Pier Soderini che sarebbe tornato presto a Firenze per portare a termine il David di bronzo. Il gonfaloniere lo aspettava fiducioso, così come aveva aspettato Leonardo, che negli stessi anni aveva preferito Milano alla Firenze repubblicana, patria amatissima ma certo meno larga di incarichi eccellenti rispetto a uno Stato governato da un solo uomo, soprattutto quando si aveva la fortuna di essere nelle sue grazie14. Intanto venivano fatti riprodurre i disegni delle scene con cui si era deciso di decorare la volta. Stando al racconto dello stesso Michelangelo, inizialmente l’intenzione del papa era stata quella di rappresentare sui pennacchi i dodici apostoli. Da buon imprenditore, consapevole ormai della divorante passione di Giulio per l’arte, l’artista non aveva però faticato troppo a convincerlo ad affidargli un incarico ben più impegnativo. Nei pennacchi sarebbero stati dipinti i profeti e le sibille, che avevano annunciato l’avvento del cristianesimo. Nelle lunette sarebbero stati affrescati gli antenati di Cristo (una rappresentazione che fino a quel momento aveva rari precedenti in pittura). Nella volta, infine, si sarebbero succedute nove scene del Vecchio Testa125

mento: la divisione della luce dalle tenebre, la creazione degli astri, la separazione delle acque, la creazione di Adamo, la creazione di Eva, il peccato originale, il sacrificio di Noè, il diluvio universale e l’ebbrezza di Noè [tavv. 3 e 4]. Con ogni probabilità il programma era stato stabilito dal più ascoltato e colto consigliere papale, Egidio da Viterbo, un teologo molto impegnato nel recupero della tradizione pagana e nella sua ibridazione con la cultura cattolica. La presenza delle sibille pagane nella decorazione esprime con molto coraggio questa volontà di salvaguardare l’eredità e la dignità del mondo pagano, tenuto in massima considerazione in quegli anni dagli umanisti e dagli uomini di cultura europei. L’esegesi raffinata dei testi antichi permetteva di riscontrare nelle sentenze delle sibille una chiara premonizione, un annuncio della venuta del Cristo, in un modo che portava a rivalutare l’intero mondo pagano con la sua straordinaria ricchezza culturale e a collegarlo con l’avvento di Cristo accanto alla tradizione della Bibbia. Proprio negli anni di Giulio II gli studi e le interpretazioni della continuità tra mondo pagano e cristiano diventarono così autorevoli, che nella maggiore cappella della cristianità si poterono finalmente sedere gli uni accanto agli altri, sui loro troni di marmo, i profeti della Bibbia e le profetesse celebrate dagli scrittori pagani. Se il contenuto delle decorazioni fu senza dubbio stabilito dalla corte pontificia, a Michelangelo fu lasciata certamente molta libertà nel decidere come rappresentarlo. I pochi studi progettuali che ci rimangono suggeriscono che il processo di ideazione dell’intero sistema decorativo della volta fu rapidissimo, cosa del resto provata dai documenti 126

che registrano un accordo fulmineo tra il papa e Michelangelo, come era già avvenuto per il progetto della tomba due anni prima. Lo schema di partenza suggerito dalla tradizione e forse dai consiglieri pontifici – nonché dallo stesso Bramante, che non si può immaginare estraneo a tanta impresa – riprendeva quello dei soffitti romani scoperti nella Domus Aurea di Nerone. Pochi anni prima, nei pressi del Colosseo, un contadino era stato inghiottito dal pozzo che stava scavando ed era precipitato negli ambienti sepolti della casa di Nerone, tutti decorati con figurette strane e polimorfe: animali con il corpo di fiori e uomini con il corpo di animali o di piante, realizzati a stucco o dipinti ad affresco. Con quello scivolone il contadino aveva aperto la strada ad una delle fasi più avventurose del Rinascimento, la ripresa delle decorazioni a «grottesche» che invasero in poco tempo le pareti di tutti i palazzi italiani. Lo schema delle volte decorate romane, riproposto fino a quel momento da tutti quelli che si erano misurati con la decorazione di volte anche più piccole, prevedeva un susseguirsi di figure geometriche alternate: rombi, quadri e tondi, nei quali in vario modo si inserivano scene figurate. Anche Michelangelo, come testimoniano due disegni oggi rispettivamente a Londra e Detroit15, tentò inizialmente di seguire questo schema. Ma lo abbandonò rapidamente a favore di una concezione più libera e totalmente innovativa. Nel giro di pochi giorni, l’uomo che continuava ostinatamente a firmarsi «scultore» e che tutti consideravano ancora tale, aveva bruciato l’intera tradizione iconografica della pittura quattrocentesca, per imporre una perfetta macchina scenica sottomessa alle sue personali e originali pulsioni creative. 127

Nella cappella più importante della cristianità, Michelangelo decise di dar vita a una narrazione tutta centrata sulla figura umana, riducendo al minimo l’ingombro dell’architettura e degli accessori paesaggistici. Contro ogni legge prospettica, immaginò una volta a botte policentrica, sfondata nel suo culmine e collegata da costoloni di marmo che ordinano la sequenza delle scene e fingono una struttura verosimile abitata da figure che con funzione diversa partecipano alla celebrazione. Sugli sporti dei costoloni si siedono giovani nudi che reggono festoni di rovere, in omaggio al simbolo araldico del committente. Lo spazio basso tra i costoloni lasciato libero dagli angoli dei veri pennacchi ospita i troni dove siedono le sibille e i profeti. Ognuno di questi troni ha una sua prospettiva centrale e deve idealmente essere visto di fronte rinunziando quindi a un’idea di prospettiva unica che inquadri tutta la finta architettura della volta. L’osservatore deve apprezzare l’architettura camminandoci dentro, non guardandola da un punto di vista prestabilito. A dare unità e continuità all’architettura illusoria bastano le cornici in finto marmo che chiudono i troni e li collegano alle altre nervature che attraversano la volta. Al centro la volta è sfondata, ma alterna due scene di diversa grandezza: una più piccola, che accoglie l’ingombro dei nudi e dei medaglioni; l’altra, adiacente, più grande perché libera da ogni ingombro. In questo modo Michelangelo risolse brillantemente l’alternanza a cui era obbligato dalla struttura reale della volta, scompartita dai pennacchi e dalle vele. Il risultato più prodigioso di questa rivoluzione prospettica è che non è più l’architettura ad imporre alla figura umana di adeguar128

si all’artificio proporzionale, ma al contrario la decorazione architettonica è «cucita addosso» alla figura, che si avvantaggia in ogni modo possibile della cornice. Per percepire fino a che punto l’artista rincorresse per le sue figure la massima spazialità, basti pensare che dopo un’interruzione dei lavori intorno all’estate del 1510, alla loro ripresa Michelangelo continuò la pittura trasformando e allargando i troni dei profeti per dare ancora più spazio alle figure, arrivando a cambiare le forme delle tabelle con i nomi degli antenati di Cristo nelle lunette. Michelangelo era tanto veloce nell’ideazione che non riusciva a stare dietro a se stesso. Bastavano pochi mesi perché le proprie invenzioni gli sembrassero superate. La potenzialità delle idee e delle forme lo trascinava in una continua evoluzione creativa. Per fortuna il suo furore riuscì ad imporsi anche alla committenza. Nella volta sono visibilissime le discontinuità create dal cambio «in corsa» di un impianto iconografico la cui credibilità era strettamente legata alla sua unità stilistica. Ci volle perciò tutta l’intelligenza di Giulio II per accettare le differenze nelle targhe dei troni, nelle lunette e nelle cornici dei pennacchi, che appaiono decorati soltanto fino alla scena del peccato originale. L’idea stessa dei nudi, ripresa dai monumenti romani dove i «geni» celebravano la gloria dei defunti, sottolineava il carattere profondamente pagano della decorazione. Chi si era aspettato angeli con le ali e simboli di fede rimase certamente deluso, perché la narrazione è interamente laica e quasi anticipa la pittura di storie che troverà tanta fortuna nell’età dell’Illuminismo. Nella cappella dove i massimi pittori della generazione precedente avevano ap129

pena finito di rappresentare rigidamente e rigorosamente le storie di Cristo e di Mosè, Michelangelo insediò una popolazione di uomini che in varie forme la abitava e la riempiva di vita. Le scene centrali si riferiscono ai «quadri riportati» che generalmente si fingevano rappresentati in finti arazzi. Ci sono poi gli ignudi, che con la loro vitalità e la loro carnalità collegano lo spettatore alle scene rappresentate, e i profeti, seduti ma smaniosi nei troni sempre troppo stretti, con alle spalle i piccoli assistenti rappresentati in carne ed ossa. I troni sono fiancheggiati da putti marmorei che di nuovo celebrano la fisicità degli uomini insieme ai nudi bronzei che occupano lo spazio di risulta dei triangoli. Infine, nei triangoli e nelle lunette, si svolge la narrazione degli antenati di Cristo, anch’essi trattati senza una particolare caratterizzazione simbolica grazie al fatto che erano privi di una solida tradizione iconografica. Né Michelangelo si limitò al rifiuto di una costruzione prospettica di tipo quattrocentesco, a favore di una volta che si poteva apprezzare muovendosi lungo l’intero asse della cappella. Ricercò un effetto decisamente sconcertante dal punto di vista percettivo, ritraendo le figure dei profeti come se tentassero di contrastare l’incurvatura della prima parte della volta. Questo segmento curvo appare piano e scavato grazie allo scorcio anatomico, come dimostra l’impressionante figura del profeta Giona, che si spinge indietro dando l’impressione di avere alle spalle un grande spazio. Questa porzione della volta, la più curva, era la più difficile da risolvere in una rappresentazione illusionistica. Giustamente Bramante temeva per la difficoltà della rappresentazione in scorcio, proprio lui che di illusionismo era 130

il maggior esperto. Ma l’artificio michelangiolesco, incentrato sullo scorcio della figura e non sulla costruzione prospettica e geometrica dell’architettura, esprimeva una scelta poetica che sarà la costante della sua produzione artistica: la centralità della figura umana in uno spazio tutto costruito dal suo corpo. Tuttavia, se questa straordinaria costruzione illusionistica, tutta incentrata sulla fascinazione e la conoscenza del corpo e delle sue attitudini, trovò la sua collocazione sulle complicate superfici della volta della Cappella Sistina, fu a prezzo di una grandissima sofferenza fisica e psicologica da parte di Michelangelo e dei suoi assistenti: una sofferenza che diventò leggenda insieme alla pittura stessa appena le impalcature vennero giù, nell’autunno del 1512.

4. La crisi La scelta, dettata dalla diffidenza, di mettere insieme una squadra di lavoro interamente fiorentina aveva i suoi svantaggi sul piano pratico. Intanto, la vita forzatamente in comune condotta dagli artisti nella casa di Michelangelo, e il suo controllo ossessivo sulle loro abitudini e i loro tempi, non potevano giovare a un’impresa di per sé tanto complicata. Ma soprattutto la poca esperienza dei materiali romani, calce di travertino e pozzolana, creò drammatici problemi alla squadra. I pittori guidati da Michelangelo cominciarono a lavorare nell’autunno 1508: in quella prima fase erano certamente presenti Francesco Granacci, Giuliano Bugiardini, 131

Aristotile da Sangallo e Agnolo di Donnino. È quasi sicuro che la pittura iniziò dalla scena del diluvio universale, la seconda a cominciare dall’ingresso in cappella. La procedura era molto timida e prudente e denunciava l’incertezza e la paura dell’inizio. Il trasporto del disegno originario venne fatto con lo spolvero, la tecnica più lenta e meticolosa, che permetteva però di trasferire in modo più preciso ogni dettaglio del disegno sull’intonaco, così da lasciare all’esecuzione pochi margini di errore. Vennero riportati dai cartoni preparatori perfino i dettagli del paesaggio, come l’isolotto su cui trovano momentaneo rifugio i disgraziati che tentano di scampare al diluvio mandato da Dio per punire l’infedeltà degli uomini. Le giornate d’intonaco erano piccolissime, al punto da scomporre la scena in 30 porzioni16: un numero mai più toccato in seguito per scene analoghe [fig. 6; tav. 4]. La pittura non fu eseguita a buon fresco, ma si fece ricorso a velature a secco, una tecnica in cui il pigmento è steso con un legante organico (una colla animale) in modo da avere più tempo a disposizione per la definizione dell’immagine senza i tempi strettissimi dell’asciugamento dell’intonaco. Vennero utilizzati pigmenti che non potevano tollerare la corrosività della calce fresca, come il minio e il cinabro per i rossi o il resinato di rame per i verdi: la loro instabilità avrebbe in seguito provocato un vistoso degrado della scena. Purtroppo gli espedienti a cui ricorse la squadra non riuscirono a garantire il buon esito della pittura. La pozzolana e la calce di travertino funzionavano in modo molto diverso dalla calce marnosa e dalla sabbia d’Arno utilizzate a Firenze. L’intonaco steso sulla volta fu miscelato nella stes132

sa proporzione con cui si miscelava quello fiorentino, provocando ben presto un disastro amplificato, forse, dall’infiltrazione di acqua dalla sommità della volta. Michelangelo decise perciò di demolire gran parte della pittura. La cesura delle giornate, evidenziata dagli studi dei restauratori, non lascia dubbi su una parziale demolizione e un rifacimento della scena del diluvio. Della primitiva redazione rimane oggi il gruppo di figure a destra che cerca scampo sull’isolotto. Per il resto l’intonaco venne interamente demolito e ridipinto. Ancora una volta fu Giuliano da Sangallo a intervenire per amor di patria in aiuto di Michelangelo. Aveva il doppio merito di essere fiorentino e di aver trascorso abbastanza tempo nell’odiata Roma da conoscerne a fondo i segreti anche materiali. I nuovi impasti che consigliò diedero ben presto i loro effetti positivi, ma nel gennaio del 1509 e per tutta la primavera successiva troviamo ancora Michelangelo prostrato da una delle crisi più difficili della sua esistenza. Era così avvilito e frustrato da ammettere, per la prima e unica volta nella sua vita, di essere professionalmente incapace di portare avanti l’impresa, assunta con troppa superficialità e soprattutto con troppa avidità. Quasi personificazione del destino avverso, il clima non l’aveva aiutato neppure quella volta: sappiamo che quell’inverno e quella primavera furono tra i meno piovosi del secolo, e la siccità fu con ogni probabilità accompagnata da una temperatura tanto rigida da provocare seri danni agli intonaci e ai pittori, costretti a lavorare in un ambiente freddissimo per la sua vastità17. Il fallimento non poteva non riflettersi immediatamente sui rapporti tra gli artisti. La prima vittima della frustra133

zione fu Iacopo, cacciato in malo modo da Roma a fine gennaio 1509. Alla sua partenza, Michelangelo cominciò subito a temere per i pettegolezzi che il concittadino avrebbe scatenato contro di lui appena arrivato a Firenze. Ripetendo un copione fisso avvertì quindi il padre e delegò a lui la propria difesa: «Di qua s’è partito a questi dì quello Iachopo dipintore che io fe’ venire qua; e perché e’ s’è doluto qua de’ casi mia, stimo che e’ si dorrà ancora costà. Fate orechi di merchatanti, e basta; perché lui à mille torti e are’mi grandemente a doler di lui»18. La crisi, d’altra parte, era resa ancora più drammatica dagli equilibri interni alla corte romana. Se già due anni prima Michelangelo era scappato da Roma inventandosi una persecuzione di cui nessuno è mai riuscito a ravvisare traccia, possiamo immaginare come si dovesse sentire in quei mesi, lui sull’orlo del fallimento, aggrappato alla volta che si sgretolava con le «muffe», mentre pochi metri più sopra esplodeva il nuovo astro della pittura italiana, Raffaello Sanzio, che sbaragliava già dalle prime pennellate l’intera concorrenza chiamata da Giulio II a decorare i suoi appartamenti in Vaticano. Raffaello era arrivato a Firenze nell’ottobre del 1504, accompagnato da una caldissima lettera di raccomandazione di Giovanna Feltria Della Rovere, sorella del duca di Urbino, che si spendeva senza remore per il «discreto e gentile giovane»: «per ogni rispetto io lo amo sommamente, e desidero che egli venga a buona perfezione: però lo raccomando alla signoria vostra strettamente, quanto più posso»19. Anche questo ragazzo, dunque, arrivava alla ribalta in maniera inconsueta, sostenuto da amicizie importanti e 134

Fig. 6. Diagramma delle giornate della scena del Diluvio universale nella volta della Cappella Sistina.

pronto a cambiare il gusto della pittura italiana che in quegli anni aveva a Firenze la sua espressione più alta. Dopo il fortunato soggiorno fiorentino, Raffaello arrivò a Roma alla fine del 1508, già forte di una fama precoce e soprattutto dell’amicizia di Donato Bramante, suo conterraneo e mallevadore. La pittura aggraziata e perfetta di Raffaello era già diventata uno degli stili di maggior successo di quegli anni e l’artista, con la sua bellezza e la sua grazia, sembrava la migliore incarnazione del proprio talento. La sua vita era essa stessa un’opera d’arte. Brillante conversatore, avido di ogni conoscenza, affascinava e soggiogava chiunque lo avvicinasse. Era l’uomo moderno ed elegante per eccellenza. Nel giro di pochissimo tempo divenne una delle gemme più preziose della scena romana. Tanto quanto Michelangelo era selvatico e ombroso, Raffaello era socievole e solare. La fisicità tormentata del primo cedeva di fronte alla grazia cortigiana del secondo e lasciava pochi dubbi sulla natura del loro carattere. Diverso e opposto fu subito anche il loro modo di affrontare la questione della produzione artistica, della bottega. Raffaello coglieva immediatamente il talento dei collaboratori e li gratificava fino a collocarli in posizioni di rilievo. Da ciascuno cavava il meglio e soprattutto faceva sì che i suoi collaboratori partecipassero responsabilmente alla riuscita dell’impresa, in modo che il successo di tutti diventasse soprattutto il suo successo. Michelangelo al contrario concepiva il rapporto con gli aiuti soltanto in termini fortemente gerarchizzati, al punto da cacciare il povero Lapo da Bologna perché aveva osato mormorare in sua assenza che erano soci nell’impresa, per non parlare dei pittori fiorentini, per giunta suoi amici d’in136

fanzia, che lo avevano seguito con fiducia a Roma e stavano per essere liquidati in maniera molto sbrigativa. Questi due diversi modi di intendere non solo la pittura, ma la vita stessa, stavano per entrare in collisione messi com’erano l’uno accanto all’altro, a pochi metri di distanza, dalla casualità del destino, o forse dalla raffinatezza di Giulio. E in quei mesi la palma non sembrava dovesse toccare a Michelangelo. Per fortuna, però, i problemi e le incertezze legati alla pittura della volta andavano svanendo con il progredire del lavoro. Nella scena dell’ebbrezza di Noè, dipinta subito dopo quella del diluvio, la situazione appare molto migliorata. Diminuisce l’impiego di pigmenti dati a secco. L’intonaco sembra meglio confezionato, fatta eccezione per la giornata dove compare Noè che pianta la vigna, su cui Michelangelo stesso fu costretto a intervenire con molti ritocchi a secco per coprire i difetti della pittura. Le giornate, dodici in tutto, sono ancora tante considerate le dimensioni della scena, ma l’organizzazione spaziale appare molto più convincente. Ogni corpo occupa razionalmente due giornate e il paesaggio è dipinto per grossi campi con una certa sicurezza e soprattutto senza bisogno di cartoni preparatori. Ancora più congrua appare l’organizzazione spaziale della scena del sacrificio di Noè, che presenta undici giornate. I colori ormai sono tutti quelli del buon fresco. Il cielo è dipinto con lo smaltino su una preparazione di bianco sangiovanni, come avrebbe fatto il Ghirlandaio. Il disegno però è ancora prevaricante rispetto alla pittura e il raccordo tra le figure segue una logica quattrocentesca. 137

A partire da quella che è probabilmente la quarta scena dipinta al centro della volta, il peccato originale, i problemi sembrano ormai decisamente risolti [tav. 5]. La pittura, nello stile e nella tecnica, raggiunge l’assetto definitivo che manterrà in tutto il resto della volta. Il perfetto equilibrio che si coglie subito nella scena fa riscontro ad un salto di qualità sul piano tecnologico che rivela la sicurezza e l’ottimizzazione raggiunta dalla squadra di lavoro di Michelangelo. Le giornate sono solo tredici contro le trenta della scena del diluvio, che ha identiche dimensioni. Le figure hanno trovato una nuova, congruente collocazione nello spazio. Se nelle tre scene precedenti la rappresentazione è ancora tutta quattrocentesca, con il tentativo naturalistico di ambientazioni paesaggistiche reali e figure ritratte a grandezza naturale, come nei registri inferiori della cappella, nel peccato originale scompare tutto: scompare il paesaggio, scompare l’ambientazione naturalistica. Lo spazio è costruito intorno alle grandi figure dei progenitori, che con un salto di scala improvviso diventano almeno il doppio di quelle che compaiono nelle scene precedenti. Da qui in poi, lo spazio non sarà più sprecato e perduto in organizzazioni complicate, ma sempre plasmato dal gesto perfetto di poche figure d’impressionante grandezza, perfettamente convincenti se viste dal basso. La tecnica dei dipinti segue l’evoluzione della composizione. Con la scena del peccato originale si cominciò gradualmente ad abbandonare il timido trasporto con lo spolvero e si affacciò per la prima volta quello attraverso l’incisione indiretta del cartone, che permetteva maggiore libertà interpretativa all’artista ma richiedeva maggiore perizia e sicurez138

za. Come se non bastasse, molte parti della scena risultano addirittura dipinte senza l’aiuto del cartone. Non soltanto l’albero di fico e il paesaggio che fa da sfondo al peccato originale sono senza tracce di trasporto, ma lo stesso serpente tentatore, che si avvita dal basso trasformandosi tra le fronde in una perfida adulatrice, è dipinto senza aiuto di disegno preparatorio. La rivoluzione era fatta. La tecnica era ormai sotto controllo e da questa scena in poi Michelangelo si avviò volando verso un traguardo formale che lo avrebbe scagliato in una posizione mitica irraggiungibile dai suoi contemporanei, dopo la morte precoce dell’unico vero antagonista, Raffaello. Forse rassicurato da questo nuovo equilibrio e dalla conquistata padronanza della specifica procedura di lavoro adatta a quell’impresa, l’artista pensò bene di liberarsi dei suoi colleghi e amici fiorentini. Ormai non aveva più bisogno di loro e poteva sostituirli con altri collaboratori, come ad esempio Bernardino Zacchetti, un pittore emiliano che nel 1510 aveva 38 anni e non era certo un garzone, ma di sicuro aveva meno pretese degli amici d’infanzia. I nuovi aiuti rimasero a lavorare alla volta anche quando, nell’estate del 1510, Michelangelo dovette allontanarsi da Roma perché grossi problemi finanziari e di salute affliggevano la famiglia a Firenze. Anche loro, lo rassicurava un altro assistente, Giovanni Michi, gli stavano facendo onore: «e chontinuo Gismondo e Bernardino sono drieto a ritrarre, e per mia fe’ vi fanno honore e voglionvi bene, e a voi si rachomandano»20. Ancora una volta, dunque, i documenti permettono di ricostruire un comportamento non proprio esemplare di Michelangelo nei confronti degli amici fiorentini che avevano affrontato con lui, nell’ostile Roma, l’avventura della 139

Sistina. I rapporti con Granacci e Bugiardini, è vero, non ne furono segnati più di tanto, anzi continuarono con affetto fino alla fine dei loro giorni. Ma, forse consapevole dei torti inflitti in quell’occasione, Michelangelo in seguito si prestò a fornir loro cartoni e disegni per aiutarli nel lavoro di bottega. Molti decenni dopo, però, quando i suoi compagni di quei giorni erano ormai morti, l’artista divulgò una menzogna destinata a diventare uno dei principali pilastri del suo mito: «E così del tutto condusse alla fine perfettamente in venti mesi da sé solo quell’opera senza aiuto pure di chi gli macinassi i colori»21. Da quella menzogna trarrà origine la leggenda romantica del genio aggrappato alla volta in eroica solitudine a portare avanti la più grande impresa pittorica del Rinascimento. Sconvolgente invece risulta, dal punto di vista creativo, il percorso seguito da Michelangelo nella difficile impresa. Proprio per l’inesperienza con cui l’aveva affrontata, per le conseguenze drammatiche che aveva dovuto scontare all’inizio del lavoro, appare ancor più stupefacente la sapienza tecnica e formale manifestata a partire dalla quarta scena, una sapienza che raggiungerà nelle ultime porzioni della volta e delle lunette un grado di virtuosismo negato anche al più consumato dei pittori.

5. Pennelli Così come è emersa dal recente importante restauro, la pittura della volta rivela un carattere e una perfezione capaci di lasciare indietro gli stessi maestri fiorentini del 140

Quattrocento. Descritta spesso come una pittura liquida, la stesura cromatica di Michelangelo inizia con una velatura trasparente, povera cioè di pigmento sull’intonaco umido. I volumi sono creati con pennellate piccole e fitte come il chiaroscuro dei suoi disegni. Sono costruiti con una tecnica scultorea, perché la pennellata incrociata definisce di volta in volta i passaggi chiaroscurali come se fosse monocroma, utilizzando cioè l’ombra più che il colore, o più precisamente utilizzando il colore in funzione dell’ombra. Sulla prima stesura omogenea di un volto, Michelangelo traccia con il pennello fino e i colori più scuri una fitta rete di ombre, tratteggiandole senza mai mescolarle. Da vicino si può osservare la rete di pennellate come se fosse fatta con una matita e non con un pennello. In questo modo la superficie dell’intonaco si satura soltanto fino al necessario e appare pulita, senza corpo, brillante come una porcellana. L’effetto è garantito anche dall’utilizzo di pigmenti puri, pochissimo mescolati e semmai sovrapposti in campiture successive. Il risultato è una luminosità diffusa che sembra arrivare dall’interno delle figure. Per i panneggi Michelangelo utilizza invece pennelli larghi che lasciano sull’intonaco macchie omogenee e sicure, larghe e compatte. Anche qui l’uso di pigmento puro trova la sua applicazione più sorprendente. I cangiantismi a cui l’artista ricorre per rendere ben riconoscibili dal basso le forme e le fogge delle stoffe, sono ricercati accostando tra loro colori forti senza mai mescolarli, se non rapidamente e nei soli punti di contatto. Gialli aranciati sono accostati a verdi acidi per le ombre, in modo che l’ombra abbia un co141

lore suo proprio e non risulti quasi mai dallo scurimento del colore che appare in luce. Per graduare la profondità spaziale tra le diverse figure Michelangelo ricorre ad una tecnica mutuata dal non-finito scultoreo. Le figure in secondo piano e quelle nella parte più lontana vengono soltanto abbozzate con pennellate rapide e sicure, che colgono il volume e l’espressione ma non descrivono i dettagli. Accostati l’uno all’altro, troviamo un volto descritto dettagliatamente come una porcellana e un volto solo abbozzato, con una sapienza espressiva che relega nel fondo la figura conferendo profondità alla scena senza però ridurre il suo impatto emotivo nella narrazione. Il controllo della materia diventa via via così totale che Michelangelo concepisce effetti espressivi mai visti in pittura. Come negli occhi dell’Adamo nella scena della creazione, dove l’intonaco grigio è lasciato scoperto per dare profondità e mistero allo sguardo: l’artista rinuncia a dipingere le pupille e le palpebre, costruendo gli sguardi con pennellate rapide e contrasti cromatici intorno alle orbite [tav. 6]. Quando poi si arriva alla pittura delle lunette, tutto è pronto per una nuova sorprendente innovazione: l’eliminazione del cartone preparatorio. Sulle lunette non si è trovata traccia di disegno trasportato né a spolvero né ad incisione [tav. 7]. Il disegno è realizzato direttamente sull’intonaco con una linea rossa, che l’artista potrebbe aver improvvisato di volta in volta. È vero che la superficie piana delle lunette dovette sembrare una passeggiata divertente al Michelangelo che aveva affrontato e risolto gli scorci della volta, ma disegnare senza ricorrere al cartone è pur sempre un azzardo 142

di cui a tutt’oggi abbiamo evidenza soltanto nelle lunette della Sistina. Questo azzardo fu certamente dovuto alla necessità di semplificare le procedure e accorciare i tempi di realizzazione dopo che erano stati allontanati i primi aiuti ed era stata formata una squadra di assistenti più mediocri, ai quali difficilmente si poteva delegare la pittura vera e propria della volta. Anche se non vi sono tracce di trasporto del disegno, tuttavia, va detto che potevano esserci altri modi di aiutarsi nella realizzazione delle lunette. Uno di questi è ricordato nei diari di Benvenuto Cellini e riferito proprio a Michelangelo e alle sue ricerche sullo scorcio: Noi pigliavamo uno uomo giovane di bella fatta, di poi in una camera, dove fussi inbiancato, posto il detto giovane a sedere o ritto con diverse attitudine, con le quali noi potessimo vedere e’ più difficili scorci; dapoi messoli un lume a ragione di dietro non troppo alto, nè basso, né troppo discosto da lui, lo mettevamo con quella discrezione che ci mostrava il più bello e il più vero. E veduto quell’ombra che esso faceva nel muro, faccendolo star fermo, prestamente si proffilava la detta ombra; da poi facilmente si faceva passare alcune linee, le quali non mostrava l’ombra, perché nella grossezza del braccio alcune pieghe che sono nella piegatura del gomito, così nella spalla drento e fuora, così nella testa (...) Addunque questo modo del disegnare è quello che hanno usato i migliori maestri, con il qual si fa la mirabil pittura; e fra i migliori pittori che noi aviamo mai conosciuti, Michel’ Agnolo Buonaroti, nostro fiorentino, è stato il maggiore22.

La scena descritta dal Cellini ebbe probabilmente luogo molte volte sul ponteggio della Cappella Sistina, che per le sue condizioni di luce si prestava benissimo alla proiezione ottica. Il giovane modello utilizzato per le lunette veniva probabilmente fatto sedere su uno sgabello a una distanza 143

sufficiente a proiettarne l’ombra sulla parete della lunetta e ingrandirla nelle proporzioni dovute. La linea di colore con cui Michelangelo tratteggiava i contorni segnava il profilo sicuro della figura, completata poi rapidamente nelle parti interne dalla fantasia dell’artista. Questo procedimento spiegherebbe non soltanto l’assenza di cartone preparatorio, ma anche il carattere androgino che presentano le figure femminili delle lunette, oltre a quel particolare allungamento delle braccia e delle gambe che sembra dovuto proprio alla leggera deformazione provocata dall’ombra. La qualità della pittura della volta tocca comunque il suo apice nei colori accesi e cangianti usati per gli abiti degli ebrei ritratti nelle lunette. Le leggi suntuarie stabilivano da secoli le norme dell’abbigliamento cui era tenuto ogni gruppo sociale ed etnico nelle città italiane. Per gli ebrei l’obbligo di portare il colore giallo era diventato così un tratto distintivo, che Michelangelo volgeva a favore di una pittura vivace e brillante in cui il giallo, declinato in ogni tonalità, veniva accostato a diversi colori complementari. In questo modo i cangiantismi cromatici esasperati dei vestiti degli antenati sconfiggevano l’ombra in cui le lunette erano relegate dai pennacchi soprastanti, e nello stesso tempo diventavano un segno caratterizzante dell’appartenenza etnica degli antenati di Cristo, immediatamente riconoscibile per tutti i contemporanei di Michelangelo. Nello stesso tempo, la ricerca di un contrasto ottenuto accostando colori diversi e spesso complementari, anziché toni più scuri di uno stesso colore, rappresentava una innovazione stilistica senza precedenti. A questo risultato Michelangelo arrivava forse per la sua riluttanza a mescolare i 144

pigmenti, che lo portava ad esaltare invece le potenzialità della loro purezza: un gusto che sembrerebbe in evidente contrasto con lo spirito di scultore, che avrebbe lasciato supporre una predilezione per il volume monocromo chiaroscurato e che ha legato all’interpretazione della volta della Sistina un pregiudizio durato fino al recente restauro. Per secoli, infatti, i colori sgargianti e i loro contrasti esplosivi sono stati attutiti dall’alterazione delle colle animali che più volte sono state ripassate sui dipinti per ravvivarli e che si sono annerite con i fumi delle candele, unica illuminazione possibile nella cappella. Queste colle scurite lasciavano intravedere soltanto i volumi delle figure, ma nessuno aveva mai sospettato, nonostante l’evidenza dei cangiantismi del Tondo Doni, che quei volumi monocromi fossero il frutto di un grave degrado e non di un gusto dell’artista, tanto che una sofisticata teoria è stata elaborata al riguardo nel corso del XIX e del XX secolo. Quando finalmente il restauro ha rivelato la complessità anche cromatica della pittura michelangiolesca, non è rimasto altro che prendere atto del fatto che l’artista aveva attuato anche con il particolare uso dei colori una rivoluzione senza precedenti e che intere generazioni di critici erano state vittime del proprio pregiudizio e della tendenza a catalogare e semplificare l’immensa complessità dell’arte e degli artisti.

6. Il trionfo e la leggenda La fase più acuta della crisi attraversata da Michelangelo durante la lavorazione della volta della Sistina può dirsi su145

perata nel giugno 1509. A quella data l’artista ricevette dal papa, come secondo pagamento, la considerevolissima cifra di 500 ducati: ne trattenne per sé solo una piccola parte, per depositare tutto sul conto dell’Ospedale di Santa Maria Nuova a Firenze, che continuava a considerare il «conto di famiglia», amministrato prima dal padre e poi dall’amatissimo fratello Buonarroto. Michelangelo trovò comunque il modo di rendere drammatici perfino i mesi in cui si cominciava a profilare il suo più grande trionfo artistico. Era ferito per una lite dovuta a motivi economici che andava avanti da più di un anno con il padre Ludovico. Dopo la morte di Francesco, fratello di Ludovico, la zia Cassandra aveva chiesto giustamente la restituzione della dote, visto che per le donne fiorentine l’unico esile margine di autonomia e indipendenza era assicurato dai soldi concessi dalla famiglia di appartenenza in occasione del matrimonio. Ludovico aveva però rifiutato di restituire la dote e Cassandra lo aveva citato in giudizio. Prima di arrivare al verdetto finale, nel settembre di quello stesso anno i due si erano accordati per un risarcimento di 196 fiorini. Per liquidare Cassandra, Ludovico prelevò i soldi dal conto di Michelangelo. Senza avvertirlo, perché il figlio gli aveva più volte assicurato che poteva disporre a suo piacimento di quanto ritenesse opportuno. Ma quando Michelangelo scoprì l’ammanco ne scaturì una crisi gravissima nei rapporti tra padre e figlio. Il vecchio genitore si lamentò con gli altri figli dell’avidità di Michelangelo23. Quest’ultimo, da parte sua, decise che a partire dall’inverno successivo i suoi soldi sarebbero stati amministrati dal fratello Buonarroto, segno che non si fidava, almeno in quel momento, del padre. 146

L’esiguità della cifra e la sproporzionata reazione di Michelangelo raccontano bene il rapporto ossessivo dell’artista con il denaro, fondamentale veicolo di relazione tra sé e il mondo esterno. A Giulio II non perdeva occasione di ripetere che non poteva lavorare senza danari, pur avendo accumulato sul conto di Firenze ben 1000 fiorini provenienti dai pagamenti per la Sistina. Solo nel periodo tra il settembre 1510 e il febbraio 1511 si recò due volte dal papa per chiedere nuovi versamenti. E il papa, pur impegnato a Bologna in una sfortunata campagna militare che assottigliava il suo tesoro, acconsentì alle petulanti richieste dell’artista. Nella primavera del 1512, quando i lavori della volta erano ormai in via di ultimazione, Michelangelo aveva accumulato abbastanza denaro per acquistare una grandissima proprietà immobiliare chiamata Macia, nelle immediate adiacenze di Firenze. Se con i soldi anticipatigli da Giulio per la tomba aveva comprato le case di via Ghibellina, con il nuovo compenso poteva acquisire una proprietà di valore quasi doppio. La solitudine a cui si era costretto in quegli anni, appena intravista la possibilità di portare avanti il lavoro sostituendo i suoi amici d’infanzia con assistenti di minor valore, era servita a far compiere al patrimonio familiare un altro salto consistente. Ma la soddisfazione per la riuscita economica dell’impresa fu poca cosa, se confrontata alla considerazione universale che Michelangelo raggiunse appena furono calati i ponteggi della volta, il 31 ottobre 1512. Secondo la leggenda, la fama delle pitture della Sistina era iniziata prima ancora che le impalcature fossero rimosse dalla cappella. E non soltanto perché, come racconta Vasari, Raffaello era riusci147

to ad approfittare di un viaggio a Bologna di Michelangelo per farsi introdurre furtivamente sulle impalcature dal perfido Bramante. Né perché, sempre secondo il racconto vasariano, lo stesso Giulio II aveva cercato di salire di nascosto sui ponteggi, salvando a stento la pelle quando l’artista, accortosi della manovra, aveva fatto cadere una palanca di legno in direzione del papa. Tutto questo appartiene a una falsa mitologia coltivata amorosamente dalla tradizione. In realtà i documenti rivelano una situazione ben diversa. L’impresa di Michelangelo era conosciuta, apprezzata e seguita dagli ambienti artistici e mondani di tutta Italia. Il suo ponteggio, come quelli dei moderni restauri, era meta di visite e sede di amabili discussioni che coinvolgevano non solo artisti, ma anche collezionisti e amatori d’arte che volevano assaporare da vicino l’ebbrezza di una visione ravvicinata, destinata a divenire impossibile dopo la rimozione delle impalcature. La cronaca di una di queste visite, condotta proprio a ridosso della fine dei lavori, mentre l’artista e gli assistenti attendevano frenetici e ansiosi agli ultimi importanti ritocchi destinati a migliorare l’effetto generale, ci descrive per la prima volta un rito frequentissimo ai nostri giorni ma che ha radici molto lontane. In una giornata afosa del luglio 1512, la Cappella Sistina era certamente uno dei luoghi più freschi della città e là si rifugiò la gioiosa comitiva che accompagnava Alfonso I d’Este duca di Ferrara. Così il suo segretario Grossino racconta la visita all’invidiosissima Isabella d’Este, che certo non avrebbe esitato a strapparsi di dosso tutte le vesti pur di salire la ripida scala a pioli che portava a cospetto della volta più preziosa d’Europa: 148

Sua Ex. desiderava assai di veder la volta di la capella granda che dipingie Michelangello et il S. Fed.co per il mezo del Mondovi lo fece che lo mandò a dimandar per parte del Papa, et il S.r Ducha andò in su la volta con più persone; tandem ogni uno a pocho a pocho se ne vene giù de la volta et il S.r Ducha restò su con Michel Angello et non si poteva satiar di guardar quelle figure, et assai careze li fece di sorta che Sua Ex. desiderava el gie facesse uno quadro et li fece parlar e proferir dinari et li ha inpromesso de fargiello. Il S. Fed.co vedendo che sua Ex. stava tanto a la volta menò li soi gientilhomini a veder le camere del Papa et quelle che dipingie Rafaello da Urbino. 12 luglio 151224.

Un’intera elegante comitiva ascendeva dunque nella mitica tana dell’orco, chiedendo permesso non a Michelangelo, ma al suo padrone il papa Giulio II. E con tutto il daffare che aveva, l’artista non mancò di rispettare i doveri mondani: ormai la sua posizione nella gerarchia sociale andava cambiando. Neppure il tempo di rifinire i dettagli e smontare le impalcature, ed ecco arrivare il grande giorno della celebrazione: il 31 ottobre 1512, vigilia di Ognissanti. Spolverati i velluti buoni e i lini abbaglianti, i cardinali si prepararono all’evento mondano a cui nessuno voleva mancare. L’inaugurazione fu preparata con una sapiente regia che avrebbe lasciato esterrefatti gli odierni creatori di «eventi». Dopo un pranzo luculliano dato in onore dell’oratore di Parma, il papa fece recitare due commedie volgari che suscitarono l’entusiasmo generale. All’ora della messa, si avviò trionfante alla «sua» cappella. Era accompagnato da ben 17 cardinali, che per l’occasione indossavano la cappa festiva in un tripudio di damaschi rossi, di ori splendenti e bianchi accecanti. La processione sembrava voler gareggiare con le 149

pitture nei contrasti abbaglianti dei colori e nell’eleganza delle forme. L’opera finita segnava il successo più visibile e indiscutibile tra i tanti che avevano accompagnato il pontificato di Giulio II25. La fortuna dell’impresa michelangiolesca si involò immediatamente in tutte le direzioni, per vie dirette e indirette, vecchie e nuove. Ogni strada venne utilizzata per raccontare lo stupore dei contemporanei. La pittura non era ancora finita, che già a Roma venne stampata quella che possiamo considerare la prima guida in senso moderno alle sue bellezze: l’Opusculum de Mirabilibus novae & veteris urbis Romae di F. Albertini. L’autore non poteva fare a meno di citare la volta della cappella: «ac superiorem partem testudineam pulcherrimis picturis et auro exornavit, opus praeclarum Michaelis Arcangeli floren. statuariae artis et picturae praeclarissimi»26. Lo stesso accade nel libro di Antonio Billi scritto tra il 1516 e il 1530, dove si legge che Michelangelo «ha volsuto a tutto il mondo mostrare che tutti li altri pittori gli sono inferiori, et tutti quegli che vogliono di tale arte essere chiamati maestri, a pari di quella di Michelagniolo conosciesi essere tutte le altre cose impiastrate»27. Ma furono soprattutto gli artisti stessi a decretare il trionfo dell’opera, a cominciare da Raffaello, che nelle opere di quegli anni ne subì forte l’influsso. A testimoniare la sua «svolta» michelangiolesca sono rimasti non solo gli affreschi della chiesa di Sant’Agostino a Roma, ma anche alcuni disegni direttamente ispirati alla Sistina28. Il suo influsso arrivò subito fino a Venezia, attraverso copie, disegni e stampe tra cui quella certamente documentata di Mar150

cantonio Raimondi, anteriore al 1527. Nessun artista poteva ormai esimersi dal confronto con la pittura della volta. Era un fenomeno nuovo. Fino ad allora era frequente lo studio dei modelli antichi di scultura e architettura e anche di pitture di artisti quasi contemporanei, come dimostrano gli stessi studi che Michelangelo aveva eseguito da Giotto o Masaccio. Ma la volta della Sistina diventò immediatamente un testo cardine del linguaggio artistico del suo tempo: insieme alle stanze di Raffaello, un inarrivabile paragone con cui si sarebbe dovuta confrontare tutta la produzione successiva. Quello che Michelangelo aveva fatto con la scultura del David neppure dieci anni prima venne ribadito con ancora maggior clamore nella pittura della volta. A trentasette anni, l’ambizioso fiorentino era ormai un mito vivente.

4. TRA ROMA E FIRENZE

1. In nome del padre L’inverno del 1512 fu molto freddo in tutta Italia, tanto che a marzo Firenze e la Toscana erano ancora ricoperte di neve. L’estate fu invece bellissima e calda. Nelle sere d’agosto i contadini della campagna pratese rimanevano volentieri sulle aie, incantati per l’aria così bella e quieta e per il cielo che scoloriva lentamente, sospeso sulle loro teste. L’esercito spagnolo, che in quei giorni discendeva per il Mugello, si nutriva di fichi e di uva già matura: i contadini delle campagne che stavano devastando avevano avvelenato sia il vino che il pane e i soldati furono costretti a farne a meno. La sera del 29 agosto, domenica, il silenzio profumato dell’estate in declino fu rotto dai rumori lontani delle artiglierie spagnole, che dalla mattina del giorno prima bombardavano le mura di Prato. Dopo aver aperto nel muro una breccia di almeno sei metri, i soldati entrarono a migliaia in città. Subito dopo entrarono nelle donne, poi nelle bambine e infine nei bambini. Era la carne fresca che gli era stata promessa come premio: «basta che non perdonor155

no a persona nessuna, menando prigione le nobili donne e fanciulle dove a lor pareva, non perdonando al sesso masculino e femminino, né a monache sagrate in sodomitandole bruttalmente (...) che giovanetti da sette a dodici anni gli guastavano colla sodomia»1. Quando la carne non fu buona neppure più per lo stupro, gli spagnoli la macellarono. Riempirono i pozzi della città con 5560 cadaveri. Un frate, che non credeva possibile quella barbarie, si fece incontro ai soldati con in mano il crocifisso. Glielo strapparono dalle mani e lo usarono per massacrarlo. Non andò meglio a un altro frate che si trovava in quei giorni un po’ troppo soprappeso: lo squartarono, lo tagliarono a pezzi e lo bollirono in una pentola per farne grasso. A pagare gli impietosi soldati era un papa; a guidarli un cardinale, Giovanni de’ Medici, a cui Giulio II, stanco per l’inaffidabilità dei fiorentini, aveva affidato l’incarico di punire la città e i suoi alleati, promettendogli in cambio la riconquista del governo cittadino. Questa volta il massacro era tutto cattolico, al punto che sarebbe passato nel ricordo dei pratesi come il «sacco dei papalini». Lo stupro e l’assassinio di migliaia di cristiani loro conterranei non incrinarono d’altra parte la felicità dei Medici per la riconquista di quella che ostinatamente consideravano la loro città. La sera stessa del 31 agosto, nella città devastata dalla furia del sacco, Giuliano – il fratello di Giovanni – scrisse a Isabella d’Este dandole la lieta novella, senza neppure accennare al prezzo pagato. Dalla lettera traspare una calma olimpica, e nessun riferimento a quanto stava succedendo sotto i suoi occhi: «et però la aviso con satisfactione et contento di tucta la città di Firenze mons. r.mo patrone et 156

fratello mio et io domani ce ne tornamo in patria et in casa nostra, et a questo effecto son venuti qui mandati da queli mag.ci et ex.si S.ri tre oratori. Infiniti cittadini son venuti qui a congratularsi con noi di tanto ben nostro, del quale son certissimo V. Ex. dover pigliare piacere grande insieme con lo Ill.mo S.re suo consorte»2. Con tutta evidenza i Medici non volevano sentire le grida degli uomini a cui venivano tagliati i testicoli dopo averli schiacciati sulle tavole con le pietre. Non volevano vedere le donne denudate nelle piazze a cui i soldati «colla paglia accesa abbrunavano la natura». Non volevano sentire i bambini e le bambine, né i preti e i vecchi. Sentivano in quel momento soltanto il piacere della vittoria sull’odiata Repubblica fiorentina. La memoria dell’orribile strage di Prato fu ben presto cancellata da Firenze. Appena rientrato in città, il 14 settembre 1512, Giovanni emise un bando perché fosse proibito a chiunque di parlare di quanto era accaduto. Francesco Guicciardini avrebbe fatto il resto consegnando alla memoria futura una versione talmente manipolata dei fatti che il cardinale Giovanni de’ Medici sembrò il protettore e non il carnefice dei pratesi. Era il ritorno dell’intelligente propaganda che da sempre si era accompagnata al dominio dei Medici su Firenze. Ma non fu tanto facile cancellare del tutto il ricordo di quegli avvenimenti. Già due giorni dopo la disfatta, i primi feriti scampati miracolosamente al massacro arrivarono nei paesi vicini e da lì le notizie si diffusero in tutta Italia. Non servì a niente costringere i pratesi a celebrare l’elezione di Leone X con luminarie pubbliche e campane a stormo, umiliandoli brutalmente una seconda volta. Né servì il cinismo dei fio157

rentini, che già nella Prato in fiamme, dopo averla lasciata sola senza aiuto militare, erano corsi a fare affari comprando dagli spagnoli le masserizie ancora sporche di sangue. C’era un’Italia che rabbrividiva e giudicava il comportamento dei Medici per quel che era: un crimine ignobile e disumano. Tra questi c’era Michelangelo, che non si trattenne dal pronunciarsi pubblicamente contro i Medici. Da Firenze i suoi parenti lo misero in guardia: era arrivata l’ora delle vendette e c’erano buoni motivi per rivalersi contro l’artista. La sua inimicizia nei confronti di Giovanni e Giuliano, d’altra parte, non poteva non avere per i Medici il sapore del tradimento: i ragazzi avevano passato insieme l’infanzia e la scelta repubblicana di Michelangelo si colorava inevitabilmente di sfumature amare. Lui rispose evasivo, diminuendo la portata delle sue critiche. Anche in quell’occasione la ragione pratica prevalse sopra il legittimo sdegno: «Del chaso de’ Medici, io non ò mai parlato contra di loro chosa nessuna, se non in quel modo che s’è parlato generalmente per ogn’uomo, come fu del caso di Prato»3. In ogni caso l’artista non abbandonò il lavoro a Roma e nella torrida estate del 1512 apportò freneticamente gli ultimi ritocchi alla volta della Cappella Sistina. Voleva a tutti i costi concludere per il giorno di Ognissanti, il primo novembre, ma non voleva mancare di prestare all’opera la cura necessaria per essere all’altezza delle aspettative suscitate da quell’evento tanto atteso. Ai familiari si limitò a consigliare di ritirarsi «(...) in qualche parte che voi siate sicuri, e abandonare la roba e oggni cosa, perché molto più vale la vita che la roba»4. Di fronte all’emergenza, perfino lui ridimensionava il valore di quella ricchezza inseguita a rischio della sua stessa vita. 158

Il ristabilimento del dominio mediceo su Firenze seguì quello che era diventato il suo motivo caratteristico: il controllo sotterraneo delle istituzioni attraverso il controllo delle cariche elettive. Ancora una volta le istituzioni repubblicane rimanevano formalmente intatte, dando alla città la possibilità di illudersi di essere ancora padrona del proprio destino e salvando in apparenza quella «civiltà» di rapporti che permetteva ai fiorentini di riconoscersi nello Stato. La restaurazione del 1512 ebbe tuttavia un carattere più marcatamente politico. Le epurazioni e le violenze furono ridotte al minimo, anche se l’allontanamento dei repubblicani dalle cariche di governo fu implacabile. Il 12 febbraio 1513 Niccolò Machiavelli, che era stato fedele segretario di Pier Soderini e leale servitore della repubblica, venne arrestato perché sospettato di aver preso parte a una congiura antimedicea. A suo carico non emersero prove, ma fu lo stesso allontanato dal governo e dalla città. Invano negli anni successivi avrebbe tentato di rientrare al servizio dello Stato fiorentino: l’atteggiamento dei Medici verso i repubblicani rimase di netto rifiuto. Anche Michelangelo seguì il destino degli oppositori. Sentendosi vittima di un’ingiusta vendetta, pensò addirittura al trasferimento della famiglia: «(...) pensate se si può vendere ciò che noi abbiàno; e andreno a abitare altrove»5. Questo sentimento di sfiducia lo assaliva proprio nei giorni in cui volava per l’Europa la notizia dell’eccezionale scoprimento della volta della Sistina. Ma il suo malumore e la sua naturale tendenza alla disperazione avevano in questo caso ottimi motivi per alimentarsi. Era talmente prostrato dalla depressione che annullò persino il viaggio a Firenze 159

che aveva programmato per le feste di Ognissanti, rinunciando così al meritato riposo. L’immane fatica della volta gli aveva deformato la schiena e compromesso la vista: per molto tempo fu costretto a leggere portando in alto il foglio perché non riusciva ad abbassare gli occhi. La risposta alla depressione fu comunque il lavoro, che per fortuna non gli mancava e che lo assorbì anche nei giorni successivi allo scoprimento della volta. Il 18 gennaio 1513 Giulio II, felicissimo dell’esito della pittura, diede mandato ai Fugger di pagargli 2000 ducati, per riprendere con un nuovo accordo i lavori della tomba. Era una cifra vertiginosa, soprattutto se si considerano le poche spese che l’artista doveva sostenere per quell’impresa, realizzata questa volta in quasi completa solitudine. Giulio morì tuttavia solo un mese più tardi, il 21 febbraio, e in via dei Banchi, dove tutto era oggetto di scommesse, iniziarono quelle sul nuovo pontefice. I mercanti e i banchieri fiorentini non osavano sperare nell’elezione di Giovanni de’ Medici, che avrebbe aperto agli affari toscani enormi prospettive di investimenti e guadagni nella città di Roma. Con il cinismo e la praticità che li contraddistinguevano in ogni occasione, scommisero però proprio su quell’elezione. E alla fine riscossero una doppia mercede, per le puntate azzardate e per i favori che si annunciavano. Giovanni fu infatti eletto papa, con il nome di Leone X, l’11 marzo, di venerdì. Nel giro di soli sei mesi, i Medici erano passati dall’esilio alla conquista non solo di Firenze, ma dell’Italia tutta. Giovanni de’ Medici aveva buoni motivi per invitare parenti ed amici a «godersi il Papato», come ebbe a dire. Con il nuovo papa Michelangelo aveva chiaramente po160

che prospettive di lavoro, ma fu ancora una volta Giulio II, con il suo testamento, ad assicurargli un futuro invidiabilissimo. Prima di morire il vecchio papa aveva lasciato ai suoi eredi Della Rovere una somma enorme per la realizzazione della sua tomba e il 6 maggio venne stipulato un nuovo contratto che destinava a Michelangelo 16.500 ducati6. Era una cifra sufficiente a fare ricco per sempre l’artista e l’intera sua famiglia. Come il padre Ludovico gli aveva più volte ricordato, per godersi una posizione di tutto rispetto a Firenze occorrevano almeno 3000 ducati. Con quella sola opera Michelangelo ne guadagnava cinque volte tanti! Il contratto prevedeva tra l’altro che allo scultore fosse assegnato, per tutta la durata dei lavori, l’usufrutto di una casa nel quartiere del Macello dei Corvi. In quella casa Michelangelo si apprestò a organizzare un fervido laboratorio di scultura. Come al solito il reperimento delle maestranze avvenne a Firenze. Nonostante i ripetuti contrasti avuti con artisti fiorentini, Michelangelo continuava a diffidare di quelli del resto d’Italia. Ma questa volta il reclutamento non fu così facile. Tutti volevano lavorare con l’artista, non tanto per i soldi, che continuava a lesinare, ma per il prestigio che ormai assicurava una collaborazione con lui. Molti garzoni si offrivano e altri venivano offerti, magari facendo leva sui gusti dell’artista, che si sapevano sessualmente orientati verso i giovani maschi. Qualcuno ad esempio gli magnificò le qualità di un giovane dicendogli che appena lo avesse visto se lo sarebbe portato a letto prima ancora che a casa: Michelangelo, fortemente risentito per quell’allusione, evitò perfino di incontrarlo. Per chi passava l’esame del capriccioso maestro, non c’era d’altronde vita facile a Roma. Nell’ottobre del 1514 gli 161

venne mandato da Firenze un ragazzo che avrebbe dovuto badare alla casa accontentandosi del vitto e dell’alloggio e della possibilità di passare qualche ora a disegnare. Era un ragazzo gentile, con una forte passione per il disegno, ma Michelangelo era solo esasperato dal tempo che in questo modo sottraeva alla servitù. Lo considerò quindi un inutile scroccone, «un merda secca»7, e pretese dal padre Ludovico che gli fosse tolto dinanzi immediatamente e senza pietà. Niente poteva rallentare i ritmi serrati del lavoro, anche se nella stessa lettera, forse attraversato dalla compassione, Michelangelo confessava che il ragazzo non meritava di essere maltrattato: aveva solo troppo bisogno di essere governato e lui non poteva prendersi cura di nessuno, neppure di se stesso. L’episodio ritrae non tanto il furore creativo di Michelangelo, bensì quello imprenditoriale: appena uscito dall’incubo della Sistina, l’artista riuscì subito a trasformare in incubo anche la realizzazione della tomba, quasi che non conoscesse altro modo di procedere. Il pressante ritmo di lavoro doveva del resto assecondare l’espansione delle sostanze familiari oltre ogni ragionevole limite di sicurezza. Già dai primi cospicui guadagni ricavati dal servizio per Giulio II, Michelangelo aveva cominciato ad acquistare una proprietà immobiliare dietro l’altra. Il 28 maggio 1512 aveva comprato dall’Ospedale di Santa Maria Nuova una grande fattoria a Macia per 1300 fiorini8. Comprò altre proprietà nel corso dei due anni successivi. Nel luglio 1513 acconsentì inoltre a prestare ai fratelli un capitale rilevantissimo, perché potessero iniziare una loro impresa nell’Arte della Lana. 1000 fiorini furono accreditati sul conto del fratello Buonarroto e del padre Ludovico, con la promessa che gli sarebbero stati resi di lì a dieci anni. 162

Eppure la disponibilità di Michelangelo non bastava a quietare i conflitti con i familiari. Sia il padre che i fratelli sembravano avere verso quel figlio ormai celebre, pretese inesaudibili anche per un Re Mida. E lui, per riprendere le sue stesse parole, correva come un cavallo sforzato pur di accontentarli e tirarli fuori dagli stenti. Forse fu proprio il rigore con cui controllava l’uso delle risorse finanziarie a generare nei suoi familiari una forma spesso palese di ingratitudine. A Buonarroto, suo fratello prediletto, Michelangelo ricordò proprio alla vigilia di quel prestito la sua ingratitudine e la sua mancanza di tatto. Ma i contrasti forti, radicali e drammatici dovette affrontarli con l’altro fratello, Giovan Simone, del quale sappiamo pochissimo oltre all’odio che lo contrapponeva a un fratello padre e padrone a cui non voleva sottomettersi. Un impegno tanto gravoso come il prestito di 1000 ducati per l’impresa commerciale era solo l’ultimo dei gesti con i quali Michelangelo riscattava la sciagurata famiglia. Il suo ruolo in quegli anni non si limitava a quello di finanziatore economico, ma comprendeva il controllo e l’autorità di un vero capofamiglia, che lo portava a intervenire anche nelle crisi più profonde che attraversavano i rapporti tra i fratelli e il padre Ludovico. Per la famiglia, unico riferimento sociale da lui riconosciuto, in alcuni momenti Michelangelo intervenne addirittura fisicamente, mettendo in gioco tutto se stesso per riportare i conflitti in un ambito controllabile. Il caso più tragico era stato quello che lo aveva opposto, come si è accennato, a Giovan Simone nell’estate del 1509, quando Cassandra, la vedova dello zio, chiese indietro la sua dote mettendo a repentaglio la proprietà della villa di Setti163

gnano. La crisi provocò tensioni altissime tra Giovan Simone e il padre Ludovico e a Michelangelo arrivò, non sappiamo attraverso quali vie, la voce di minacce che il fratello avrebbe indirizzato al padre. La risposta dell’artista fu di una passione e di una vitalità straordinarie, al punto da costituire una delle testimonianze più vere della sua profonda umanità. Dimentico di tutto, delle fortune e degli impegni, della fragilità fisica e soprattutto del ruolo già mitico occupato nel panorama italiano, Michelangelo affrontò il fratello con il vigore di un combattente primitivo che vede minacciato quanto di più caro ha al mondo: gli affetti, le sostanze, il proprio rigido sistema di valori. La minaccia a Giovan Simone diventò fisica e liberatoria. Michelangelo gli promise di cercarlo ovunque e annientarlo con le sue stesse mani, se ancora avesse insistito a molestare suo padre. Come se non vi fossero altri fratelli a doversi e potersi occupare della questione, fu lui a Roma, arrampicato ai ponteggi della Sistina, dove per lavorare e guadagnare rinunciava persino a bere e mangiare, a minacciare il fratello, sentendosi investito del ruolo insostituibile di capofamiglia. Posati i pennelli, nella calura estiva, afferrò la penna e la usò come una clava contro il fratello irresponsabile. Il contrasto ricorda quegli stessi episodi biblici che stava rappresentando proprio in quei giorni sulla volta della Sistina, come la triste vicenda del vecchio Noè nudo e ubriaco irriso dai figli. Scritta certamente di getto, la lettera al fratello fotografa meglio di ogni altro documento il rapporto autoritario e parossistico che Michelangelo intrattenne con i suoi parenti: Giovan Simone, e’ si dice che chi fa bene al buono, il fa diventare migliore, e al tristo, diventa peggiore. Io ò provato già più anni 164

sono, con buone parole e chon facti, di ridurti al viver bene e im pace con tuo padre e con noi altri, e·ctu peggiori tuctavia. Io non ti dico che tu sia tristo, ma tu·sse’ i’ modo che tu non mi piaci più, né a me né agli altri. Io ti potrei fare un lungo dischorso intorno a’ chasi tua, ma·lle sarebon parole come l’altre che t’ò già facte; io, per abreviare, ti so dire per chosa cierta che tu non ài nulla al mondo, e·lle spese e·lla tornata di casa ti do io e òcti dato da qualche tempo in qua per l’amor de Dio, credendo che tu fussi mio fratello chome gli altri. Ora io son cierto che tu non se’ mio fratello, perché, se·ctu fussi, tu non minacceresti mio padre; anzi se’ una bestia, e io come bestia ti tracterò. Sappi che chi vede minacciare o dare al padre suo, è·ctenuto a mectervi la vita; e basta. Io ti dicho che tu non ài nulla al mondo; e chom’io sento più u’ minimo che de’ casi tua, io verrò per le poste insino costà e mosterroti l’error tuo e insegnierocti stratiar la roba tua e fichar fuocho nelle case e ne’ poderi che tu [non] à’ guadagniati tu. Tu non se’ dove tu credi; se io vengo costà, io ti mosterrò cosa che tu ne piangierai a chaldi ochi e chonoscierai in su quel che tu fondi la tua superbia. Io t’ò a dir questo anchor di nuovo, che se·ctu voi actendere a far bene e a onorare e . rriverir tuo padre, che io t’aiuterò chome gli altri, e farovi infra pocho tempo fare una buona boctega; quando tu non facci chosì, io sarò chostà e achoncierò i chasi tua i’ modo che tu chonoscierai ciò che tu se’ meglio che tu chonosciessi mai, e·ssaperai ciò che tu ài al mondo, e vedra’lo in ongni luogo dove tu anderai. Non altro. Dov’io mancho di parole, superirò cho’ facti. Michelagniolo in Roma. Io non posso fare che io non ti schriva ancora dua versi: e questo è che io son ito da dodici anni in qua tapinando per tucta Italia, sopportato ogni vergognia, patito ogni stento, lacerato il corpo mio in ongni faticha, messa la vita propia a mille pericoli solo per aiutar la chasa mia; e ora che io ò cominciato a·rrilevarla un poco, tu solo voglia esser quello che schompigli e·rrovini in una ora quel che i’ ò facto in tanti anni e chon tanta faticha, al chorpo di Cristo, che non 165

sarà vero! ché io sono per ischompigliare diecimila tua pari, quando e’ bisognierà. Or sia sa[vio], e non tentare chi à altra passione9.

La strategia familiare di Michelangelo è chiarissima: massima severità e impegno perfino fisico nel mantenimento delle regole, ma anche ricorso alle promesse di sostegno per il futuro di tutti. E i risultati furono eccellenti, perché il 30 luglio 1513 fu avviata con 1000 fiorini un’attività che si sperava lucrosa per i fratelli e per il padre.

2. Anni sereni Dal giorno della stesura del nuovo contratto, il 6 maggio 1513, gli eredi di Giulio II incaricati di far eseguire la tomba continuarono a versare a Michelangelo pagamenti regolari di 200 scudi al mese, che si accumularono rapidamente sui conti correnti dell’artista grazie al regime di rigorosa economia in cui faceva progredire il lavoro. Antonio da Pontassieve, uno scultore fiorentino, lavorava alle grottesche dell’«opera di quadro» insieme ad altri collaboratori che vengono saltuariamente menzionati nelle corrispondenze: un mastro Bernardo e mastro Rinieri, insieme a Cecho e Bernardino, tutti impegnati dal 1513 a scolpire le cimase e gli architravi di quella parte del monumento che oggi si può ammirare nella chiesa di San Pietro in Vincoli a Roma. Michelangelo intanto lavorava per conto suo alle figure sui blocchi di marmo che in parte aveva già portato da Carrara nel 1506, in parte faceva arrivare con nuove commissioni. Nel contratto si era impegnato a farne circa quaranta, di proporzio166

Fig. 7. Michelangelo Buonarroti, Schiavo morente, particolare. Parigi, Louvre.

ni diverse a seconda della loro collocazione. Non conosciamo il disegno esatto del primo progetto, ma dal contratto del 1513 possiamo ricavare con una certa precisione cosa aveva cominciato a fare Michelangelo. La nuova tomba del papa Della Rovere doveva essere appoggiata al muro del coro della basilica di San Pietro in Vaticano, dal quale sporgeva su due lati per circa otto metri e sul lato frontale, parallelo al muro, per 4 metri e 40 centimetri. Questo primo piano, considerato un basamento sul modello di quelli degli archi trionfali romani, doveva essere decorato con circa ventidue figure alte venti centimetri più del naturale. Sul monumentale basamento si ergeva poi una cappelletta di marmo alta 6 metri e 60 centimetri, circondata da figure a sedere molto più grandi del naturale (della stessa grandezza del Mosè, iniziato insieme alla Sibilla e al Profeta proprio in questi anni). Al centro della cappelletta e circondato dalle figure si trovava infine il sarcofago con il papa disteso, con due figure a capo e due a piedi grandi quasi il doppio del naturale perché più lontane dall’osservatore. Nell’insieme il monumento sembrava pensato più sul modello dei monumenti imperiali che di quelli cattolici. Al pian terreno le allegorie dei «prigioni», al piano superiore i profeti con le sibille, quindi il papa con le figure allegoriche a capo e a piedi: nel progetto originario non comparivano né angeli né santi ma solo una Madonna. Come già nel programma celebrativo per la Sistina, dove le suggestioni antiche avevano avuto lo stesso peso di quelle bibliche, l’ispirazione appare fondamentalmente pagana. Anzi nel monumento funebre di Giulio II il paganesimo laico doveva essere ancora più evidente, quasi si stesse celebrando un condottiero anziché un papa. 168

Il contratto impegnava Michelangelo a realizzare quaranta sculture, tutte maggiori del naturale. Considerato anche il valore dell’opera di quadro, si può arrivare a stimare il valore di ciascuna figura a circa 300 ducati d’oro: una cifra completamente fuori mercato per l’epoca, per di più destinata a crescere rapidamente, come vedremo, negli anni successivi. Michelangelo si era impegnato a lavorare soltanto per la tomba fino alla sua conclusione: «promette il prefato maestro Michelagnolo non pigliare altro lavoro a fabricare certo et importante per il quale si potessi impedire la fabbrica et il lavoro d’essa sepultura»10. Ma l’artista non aveva nessuna intenzione di rispettare questa clausola. Pochi giorni dopo aver firmato il contratto con i Della Rovere, si accordò anzi con Metello Vari de’ Porcari per scolpire un Cristo risorto. Pur non essendo ricchissimo, questo nobiluomo romano era disposto insieme ad altri familiari a pagargli 200 scudi per una scultura che ricordasse la memoria di Marta Porcari, sua parente, nell’importante chiesa di Santa Maria sopra Minerva a Roma. A partire dall’estate del 1514, Michelangelo lavorò contemporaneamente a entrambi i progetti. Per la tomba dei Della Rovere scolpì le due figure dei Prigioni, oggi al Louvre. Per Metello Vari cominciò una figura che fu però presto abbandonata a metà, perché una vena nera sul volto ne compromise la riuscita. Oltre ai Prigioni, destinati al basamento della tomba, sbozzò anche alcune delle grandi figure da collocare al piano superiore: il Mosè, la Sibilla, il Profeta e forse qualche altra di cui non abbiamo notizia. Non sappiamo a quale grado di finitura portò le sculture sedute, mentre più avanzato fu senza dubbio il lavoro condotto sui due prigio169

ni conosciuti universalmente come lo Schiavo morente e lo Schiavo ribelle. Oggi entrambi al Louvre di Parigi. Lo Schiavo morente [tav. 27; fig. 7] esprime meglio di ogni altra scultura il carattere pagano del clima romano di quegli anni, in cui il fascino dei testi scritti e figurati dell’antichità classica era di gran lunga superiore a quello esercitato dalla tradizione delle Sacre Scritture. Nella statua come nel monumento, la discendenza classica è quasi letterale. Sul piano formale, quel braccio sinistro sollevato nel misterioso gesto di un risveglio o di un assopimento, e comunque di un languore sensuale, fa i conti con il braccio sollevato del Laocoonte, che in quegli anni impegnava tutti gli scultori italiani in una competizione impari. La sensualità del giovane, vero manifesto di omoerotismo, è resa ancora più evidente dalla muscolatura affusolata, morbida e femminile come quella del Bacco scolpito per Raffaele Riario. Di nuovo Michelangelo si allontana dal disegno teso fiorentino, che aveva influenzato il David, per ripiombare nella morbidezza, nel contenuto e sommesso equilibrio della tradizione classica. Molto esplicita si fa inoltre la ricerca di un’espressione sentimentale intensa, sempre stimolata dal teatrale sentimentalismo del Laocoonte. Parimenti nella figura dello Schiavo ribelle [tav. 28] la compiacenza per l’anatomia tesa e vigorosa si sposa ad un’espressione mimica sorprendente e decisa. La novità delle due sculture si manifesta anche nella distanza dalle proporzioni canoniche della statuaria classica. I prigioni, guerrieri o schiavi che siano, vengono dalle sponde dell’Arno e del Tevere, non dai frontoni dei templi greci o dagli archi romani. La loro muscolatura segue con più since170

rità quella degli uomini in carne e ossa, pur rifuggendo dal cadere in un naturalismo che avrebbe banalizzato il fascino di cui è portatrice una bellezza vagamente astratta. Michelangelo si avvicina alla natura, ma non oltrepassa mai la soglia di una vaghezza ideale. Crea in questo modo un nuovo modello di perfezione maschile, e precisamente giovanile, che segna la piena maturità della scultura rinascimentale molto più di quanto avesse fatto nel David fiorentino, in cui la linea era ancora esageratamente ostentata, fino a raggiungere livelli di astrazione quattrocenteschi. La tecnica perfetta di queste sculture modula i passaggi chiaroscurali in modo da dare alle anatomie una verità e una vibrazione che non si ritrovano in nessun altro scultore contemporaneo. La rotondità delle muscolature non risente del minimo sforzo tecnico. Il marmo quasi non sembra scolpito, bensì plasmato dalle mani stesse dell’artista. Della figura umana viene colto quanto è essenziale a mostrarne la vita, la bellezza e l’universalità, omettendo la rappresentazione di tutto ciò che nelle sculture degli altri artisti finisce per rendere l’immagine dell’uomo troppo accidentale. In questo miracoloso processo di selezione di ciò che va mostrato (un gonfiore di muscoli, una vena o un tendine irrigidito) rispetto a ciò che va eliminato, consiste la prodigiosa creatività di Michelangelo: una creatività che viene ancora prima, molto prima, della tecnica, che pure incanta per la sua sapienza. Lo stesso discorso vale per il Cristo della Minerva, che oggi vediamo alla sinistra dell’altare maggiore della chiesa romana, nella versione che Michelangelo scolpì a Firenze tra il 1516 e il 1521 [tav. 29]. Purtroppo la statua è oggi de171

turpata da un panno frutto di censure successive, che impedisce di apprezzarne pienamente l’anatomia. Quando fu scolpita per Metello Vari, nessuno invece si scandalizzava se in una chiesa romana un Cristo mostrava i genitali pieni e vigorosi. Proprio per non impedirne l’apprezzamento anatomico, anzi, Michelangelo sviluppò la figura in una doppia torsione intorno alla croce, tenuta a sufficiente distanza dal corpo. Tornano anche le gambe forti e i polpacci «italiani» che si erano già visti nei Prigioni, mentre le braccia che sorreggono la croce presentano un’eccezionale snellezza se confrontate alla pienezza forse eccessiva dell’inguine e dei glutei. Tutta l’anatomia di un uomo maturo, non di un giovane, si mostra insomma qui nella sua generosa articolazione. Solo l’espressione ineffabile manifesta la natura divina del Cristo, che se non avesse la barba potrebbe anche essere scambiato per un Apollo o, meglio ancora, per un Marte sorpreso a riposarsi pensieroso. Nella valutazione della scultura bisogna comunque considerare che non fu Michelangelo a completarla. Con rammarico suo e di tutta Roma, il compito toccò al fedelissimo assistente Pietro Urbano, in circostanze che esasperarono molto l’artista. Nell’estate del 1521, infatti, la scultura fu imbarcata da Firenze, dove il paziente Metello, che l’aveva pagata in anticipo e aspettava da quasi dieci anni di vederla realizzata, aveva tempestato Michelangelo di pressanti quanto legittime richieste. Arrivata a Civitavecchia, il porto più vicino a Roma, la barca dovette fermarsi per più di un mese, perché un inopportuno scirocco formava davanti all’ingresso del Tevere una «barra», come ancora oggi si chiama l’onda di contrasto che si forma in certe condizioni climatiche 172

davanti al fiume. Quando finalmente raggiunse Roma per essere messa sul piedistallo della Minerva, restavano ancora alcuni dettagli da ultimare. Michelangelo ne diede incarico al fedele Pietro, a cui da tempo affidava compiti di responsabilità e impegno, perché non poteva lasciare in alcun modo Firenze, anzi Carrara, dove era perennemente impegnato nella ricerca di marmi. Ma Pietro storpiò la statua con un intervento impietosamente descritto a Michelangelo da Sebastiano del Piombo, che da Roma lo teneva aggiornato su tutte le vicende che lo riguardavano: Ma io vi fo intender che tutto quello ha lavorato ha storpiato ogni cossa, maxime ha scortato el piede drito, che si vede manifestamente ne le ditta che lui l’à mozze; ancora ha scórte le ditte de le mane, maxime quela che tiene la croce, che è la drita, che ’l Frizzi dice che par che li habi lavorato colloro che fano le zanbele: non par lavorate de marmo, par li habi lavorato colloro che lavorino de pasta, tanto sonno stentate. (...) et credo certamente li capiterà [male], perché io ho inteso che lui iocha et de putane le vol tutte, et fa la ninpha con le scarpe de veluto per Roma et diè dar de molti baiochi11.

Purtroppo anche a Michelangelo scappava a volte il controllo delle persone più vicine e questa volta il giovane Pietro si fece attrarre dalle seduzioni romane molto più che dai princìpi morali del maestro. Che ad ogni buon conto lo perdonò, perché le corrispondenze tra i due li mostrano ancora per molto in rapporti affettuosi. La scultura fu «aggiustata» da un altro scultore, Federico Frizzi, che si occupò di rimediare ai guai di Pietro sopraffatto dagli ormoni giovanili. A parte i normali incidenti di lavoro, comunque, gli anni dal 1513 al 1516 furono per Michelangelo tra i più sereni in 173

assoluto. I pagamenti regolari degli eredi Della Rovere stavano accrescendo rapidamente le sue sostanze, tanto che ancora nel marzo 1515 poteva ingrandire il podere di famiglia a Settignano acquistando la fattoria di Scopeto, adiacente alla sua, per 575 fiorini d’oro larghi12. Nei mesi precedenti aveva avuto la tentazione di investire anche a Roma i suoi soldi. Ma vi aveva rinunciato. Non riusciva proprio a considerarsi cittadino dell’Urbe e vedeva in Firenze il traguardo della sua vita sociale e affettiva. Ciononostante, nell’ansia che gli procurava la gestione del cospicuo patrimonio accumulato e depositato sulla banca fiorentina dell’Ospedale di Santa Maria Nuova, maturò l’inspiegabile decisione di ritirare da lì tutti i suoi depositi per trasferirli a Roma sul banco di Francesco Borgherini, un giovane banchiere di cui si era, secondo le sue parole, invaghito totalmente e che desiderava servire con ogni mezzo. A lui, forzando la propria innata diffidenza, si affidava senza riserve mettendogli in mano quanto aveva di più caro: il patrimonio. Non andò però oltre il trasferimento di denaro. A Roma non acquistava neppure i vestiti, che continuò a farsi mandare da Firenze, quasi che nella Città eterna non ci fossero i migliori sarti al servizio della società cosmopolita stabilitasi alla corte papale. Anche i prodotti alimentari più pregiati li faceva arrivare dalla città toscana, come un qualsiasi emigrante che non aspetta altro se non il momento di chiudere il doloroso esilio e tornarsene in patria. Fu questo il suo progetto costante durante questi anni, in cui l’avvio di una florida attività da parte dei fratelli gli faceva sperare che per il futuro lo avrebbero lasciato libero dalle loro pressanti e continue richieste di danaro. 174

Il clima di serena produttività fu però interrotto nella primavera del 1516 da una serie di avvenimenti che avrebbero precipitato Michelangelo, lentamente e inesorabilmente, nel periodo più spaventoso e disgraziato della sua esistenza. Nonostante la gelosia e il carattere scorbutico dell’artista, l’atelier del Macello dei Corvi era diventato ben presto il punto di riferimento degli artisti fiorentini a Roma. Lo frequentavano soprattutto quegli artisti, come Sebastiano del Piombo, che cercavano di opporsi allo strapotere della cricca raffaellesca, favorita da Leone X oltre ogni pensabile discrezione. Nel giro di sette anni Raffaello era diventato l’arbitro indiscusso della scena artistica romana e Michelangelo viveva sempre più emarginato. In quello studio il 21 aprile 1516 venne annunciata dal cardinale Leonardo Grosso Della Rovere, esecutore testamentario di Giulio II, la visita della duchessa di Urbino, Elisabetta Gonzaga, che, scrisse a Michelangelo il cardinale, «desidra grandemente vedere la opera vostra ne la sepultura di la bona memoria di papa Iulio, et voi sapeti quello che la è con noi et noi cum la Excellentia sua»13. Elisabetta Gonzaga, che portava in fronte un gioiello a forma di scorpione da cui non si separava mai, era in quegli anni la donna più ammirata d’Italia, per la sua bellezza, l’eleganza e l’intelligenza che le aveva permesso di raccogliere a Urbino la corte più raffinata d’Europa. Non era però soltanto l’ammirazione per Michelangelo a spingere la cognata di Isabella d’Este a discendere gli Appennini fino a Roma. Veniva a nome del figlio adottivo Francesco Maria Della Rovere, duca di Urbino, per tentare di dissuadere il papa dall’aggressione che aveva portato al loro ducato, scatenando una guerra che avrebbe avuto ripercussioni importanti sul papato e, come vedremo, su Michelangelo. 175

3. Ambizioni pericolose Leone X era stato chiamato dal Collegio cardinalizio a difendere l’autonomia che il suo predecessore Giulio II aveva restituito alla Chiesa. Per mantenere l’autonomia della Chiesa, nessuna delle potenze straniere doveva diventare egemone in Italia. Per dirla con le parole di Von Pastor, il papa si doveva adoperare con tutti i mezzi affinché «(...) nessun principe portasse insieme la corona di Milano e di Napoli»14. Il progetto, che impegnava tutte le energie del pontefice, era reso maggiormente difficoltoso dal legame strettissimo che ormai, con l’elezione di un papa Medici, si era istituito tra lo Stato di Firenze e quello della Chiesa. A partire dal 1515, il controllo di Firenze fu affidato quasi esclusivamente nelle mani del cugino del papa, Giulio de’ Medici. Nato il 26 maggio 1478, Giulio era il figlio illegittimo di Giuliano, ucciso nella congiura dei Pazzi. La questione dell’illegittimità fu sveltamente risolta dal papa inventando un falso matrimonio che sarebbe avvenuto tra suo padre e la madre Fioretta: il 9 maggio 1513 Giulio poté quindi essere nominato arcivescovo di Firenze e il 23 settembre dello stesso anno gli fu conferito il cappello cardinalizio. Molto più energico di Giuliano (il fratello del papa, afflitto da vari acciacchi che i maligni attribuivano all’amore per la carne, anche quella che consumava a tavola), Giulio aveva grandi doti di misura e prudenza, che ne facevano il candidato ideale per guidare il ripristino dell’influenza medicea sulla città. A Firenze era ancora fortissimo il sentimento repubblicano del popolo, mentre persistevano le aspirazioni di governo dell’aristocrazia, che non ave176

va mai smesso di considerare i Medici non i signori di Firenze, ma i primi tra i pari, secondo una formula che anche l’abile cerimoniale mediceo aveva contribuito a tenere stentatamente in vita. Giulio cooptò ben presto gli intellettuali più brillanti della scena fiorentina, che in sostanza erano e sarebbero rimasti i più brillanti dell’Italia cinquecentesca. Il più influente fu Francesco Vettori, uno degli artefici della restaurazione medicea, che tentò di ricucire i rapporti tra i Medici e Niccolò Machiavelli. Anche se aveva lavorato con grande lealtà per il gonfaloniere della repubblica, Pier Soderini, Machiavelli si considerava soprattutto devoto allo Stato fiorentino, al punto da aspirare a servirlo anche sotto i nuovi padroni. Anche Francesco Guicciardini fu abilmente coinvolto dal cardinale Medici nella restaurazione moderata dell’influenza medicea. Purtroppo, però, la faticosa ricerca dell’equilibrio perseguita fino al 1515 da questo brillante circolo intellettuale non aveva fatto i conti con due forze naturali brutali e dagli effetti devastanti: l’ambizione materna e il delirio di onnipotenza che emanava dalla tiara pontificia. La sconfinata ambizione materna che periodicamente si affacciava sulla scena politica italiana aveva quella volta le sembianze di Alfonsina Orsini. Madre del giovane Lorenzo de’ Medici, nipote del Magnifico, questa attivissima nobildonna voleva a tutti costi uno Stato per il figlio, non potendosi accontentare dell’influenza di governo che poteva esercitare a Firenze in accordo con le istituzioni locali. Leone X non era certo all’oscuro delle disastrose esperienze nepotiste dei suoi predecessori. Si trovava d’altronde a 177

gestire l’eredità solidissima dell’unico papa moderno che non si era lasciato travolgere dalle ambizioni familiari. L’astensione dal delirio nepotista durò tuttavia solo tre anni. La tiara papale, infatti, cominciò ben presto a esercitare anche su di lui il potere nefasto di scatenare ambizioni illimitate: più o meno a partire dal 1515 cominciò a piegare la politica della Chiesa alle pretese dinastiche della sua famiglia, innescando una drammatica serie di avvenimenti che avrebbe portato qualche anno dopo al sacco di Roma. A rompere il delicato equilibrio politico fiorentino fu Lorenzo. Spinto dalla madre, il 23 maggio del 1515 si fece nominare capitano della Repubblica fiorentina. Questo gesto rompeva una legge non scritta del sistema di governo dei Medici: quella di non far occupare mai direttamente ai membri della famiglia cariche pubbliche importanti, tanto più se delicate come quelle militari. Fu proprio l’aristocrazia, infatti, a sentirsi maggiormente offesa dalle pretese di Lorenzo. Da Francesco Guicciardini, che pure era disponibile a sostenere un sistema politico imperniato sull’influenza della famiglia Medici, arrivarono le parole che esprimevano come meglio non si poteva lo sconforto e l’umiliazione per quell’affronto politico: «Chi ha avuto insino a ora questo governo, gli è parso che la grandezza sua sia tanto maggiore quanto li altri sieno più bassi, e però tutte le cose della città e del dominio ha voluto disporre da sé medesimo»15. In quegli stessi mesi Leone X si spinse ancora più in là. Approfittando del mancato sostegno offertogli da Francesco Maria Della Rovere [fig. 8] nella guerra contro la Francia, pensò che fosse quella l’occasione migliore per espropriare i Della Rovere del Ducato di Urbino e insignirne il 178

Fig. 8. Tiziano, Ritratto di Francesco Maria Della Rovere. Firenze, Uffizi.

nipote Lorenzo. Dopo aver vinto la resistenza del re francese, con il quale si accordò a Bologna nel gennaio del 1516, marciò con le truppe pontificie contro il duca di Urbino e lo minacciò, previa condanna in contumacia, di presentarsi a Roma a sostenere un giudizio già dato per scontato. Prima di Francesco Maria, citato il primo marzo a Roma sotto minaccia di contumacia, e in sua vece, si presentò a Roma la duchessa madre, Elisabetta Gonzaga, per ricordare tra l’altro a Leone X i debiti di riconoscenza che aveva verso la famiglia Della Rovere, che aveva accolto i Medici quando erano stati cacciati da Firenze, un ventennio prima. Il papa fu irremovibile e il 26 maggio del 1516 emise contro Francesco Maria Della Rovere un monito pubblico. Ma i Della Rovere erano anche i principali responsabili della realizzazione della tomba di Giulio II. Per questo motivo la duchessa, nella sua scabrosa missione politica, volle fare visita all’autore di quella che giustamente considerava la più importante committenza di famiglia sul palcoscenico romano. Con quella visita il lavoro di Michelangelo entrò nell’orbita rischiosissima dei ricatti e delle pretese politiche. Certo il papa – come più tardi avrebbe detto, forse esagerando, lo stesso Michelangelo – non aveva nessuna voglia di far costruire la tomba del suo predecessore, a gloria proprio della famiglia che stava cercando di annientare. Forse in quei giorni si parlò anche di un nuovo e più agile disegno per il monumento, visto che a tre anni dal contratto, e a dispetto di tutti i soldi che aveva già ricevuto, Michelangelo non aveva in studio che due statue quasi finite e non più di quattro abbozzate, insieme all’opera di quadro della parte inferiore di una sola faccia, per un valore che di 180

sicuro non superava un quinto della somma già ricevuta a quella data. Quali che furono le considerazioni della duchessa intorno a quel lavoro eccellente ma molto minore del previsto (che secondo il contratto precedente si sarebbe dovuto ultimare entro tre anni, cosa chiaramente impossibile), fu deciso comunque di redigere un nuovo contratto con un nuovo disegno della tomba. Stipulato l’8 luglio del 151616, il nuovo accordo portava da sette a nove gli anni a disposizione di Michelangelo per completare l’opera (sempre calcolando a partire dal 1513). L’artista era tenuto a fare non più quaranta ma venti sculture, meno della metà del contratto precedente, ma manteneva invariato il compenso. Ciò significa che per ogni scultura Michelangelo percepiva un compenso di circa 600 scudi: che era altissimo per l’epoca, ma soprattutto che adeguava il valore delle sculture alle stime di quegli anni, mentre il pagamento era già in buona parte avvenuto anni prima. Era cioè un contratto che svantaggiava i committenti, che avrebbero avuto tutto il diritto di esigere almeno il lavoro già pagato. Michelangelo aveva già ricevuto 8000 scudi e avrebbe quindi dovuto già consegnare almeno venti delle quaranta sculture promesse: quelle venti che si impegnava ora a realizzare a un prezzo raddoppiato. Ma i Della Rovere volevano avere a tutti i costi la tomba di sua mano e il nuovo accordo sanciva il riconoscimento della straordinaria fama raggiunta dall’artista. Appena firmato il vantaggiosissimo accordo, Michelangelo partì per Carrara alla ricerca di nuovi marmi. Prima di partire chiese però a Pier Soderini di raccomandarlo presso il marchese di Carrara per avere il suo aiuto nell’impre181

sa. Il legame con Soderini era ancora strettissimo, nonostante la fama antimedicea sua e della sua famiglia. Niccolò Machiavelli, invitato da Francesco Vettori a Roma, si era a lungo interrogato sull’opportunità di andare a salutare l’ex gonfaloniere e sul rischio di apparire ai Medici ancora troppo legato al partito repubblicano. Michelangelo invece non esitò a intrattenere con lui rapporti stretti e fu anzi proprio Soderini, due anni dopo, a chiedergli prima i disegni e poi l’impegno diretto a realizzare un monumento sepolcrale del valore di 500 ducati. A Carrara iniziò subito la faticosa opera di contrattazione con i cavatori locali. Michelangelo non si accontentava di commissionare i blocchi. Voleva vedere da vicino la qualità del marmo e del sito da cui proveniva, voleva assicurarsi sull’effettiva compattezza e purezza di ogni singolo blocco. Prima di stipulare un contratto con i cavatori, voleva vedere come lavoravano, da quali rocce scavavano, come trasportavano il marmo, che capacità avevano di sbozzare il blocco senza rintronarlo, senza cioè provocare danni che in seguito sarebbero affiorati nel blocco rovinando il lavoro. In definitiva, non riusciva a fidarsi neppure dei cavatori delle Apuane, mettendosi a rischio di incidenti che gli sarebbero costati quasi la vita nei mesi successivi. Per facilitare il trasporto, come già si è visto, era necessario sbozzare il blocco per portarlo pressappoco alla forma stabilita per la scultura. Era una fase decisiva per l’esito del lavoro successivo, soprattutto per un artista che come Michelangelo voleva mantenersi la possibilità di cambiare anche all’ultimo momento l’impostazione della figura. Per questo i soggiorni di Michelangelo nelle cave delle Apuane 182

vanno considerati un momento fondamentale della sua scultura e testimoniano la massima attenzione per gli aspetti anche più pesanti e scabrosi del lavoro. Una tale cura maniacale per questa fase del lavoro non la ritroviamo in nessun artista contemporaneo a Michelangelo, ma neppure in quelli delle epoche posteriori. Viveva in bivacchi freddi, dentro capanne rozze e prive di ogni comfort urbano, in cui non era facile far arrivare vivande: una vita brutale e rozza che certo non ci si aspetta potesse essere ambita dall’artista già più famoso e ricco dell’Occidente. Eppure i soggiorni a Carrara si protrassero per mesi e poi addirittura per anni, sottraendolo a quella parte del lavoro forse più intellettuale ma certamente per lui meno appassionante. Neppure le malattie del padre, frequenti in quei mesi, riuscirono a strapparlo da un isolamento che era forse l’ennesima autopunizione materiale. A meno che, come pure è possibile, non si voglia riconoscere nell’attrazione per quella vita e quelle persone tanto semplici il rifiuto per ogni cerimonia mondana e l’amore per un universo virile concreto e fattivo, dal quale le donne erano completamente escluse.

4. La riconciliazione Prima di raggiungere Carrara, Michelangelo si fermò per pochi giorni a Firenze. La restaurazione medicea cominciava finalmente ad alimentare anche le aspettative degli artisti, che ancora ricordavano l’età dell’oro di Lorenzo il Magnifico e ne aspettavano, se non la ripresa, almeno un’eco dignitosa. Il richiamo alla strabiliante tradizione fami183

liare era stato fatto proprio da Leone X nel suo ingresso a Firenze durante la visita del novembre 1515. Il corteo papale aveva fatto una entrata trionfale in città dispiegando una coreografia degna dello stesso Lorenzo il Magnifico. Una schiera di giovani nobili precedeva la lettiga papale portata in trionfo. Erano tutti vestiti con saioni di raso rosso paonazzo e portavano in mano bastoni dorati. La porpora e l’oro sarebbero bastati da soli a raggiungere le più alte vette dell’estetica rinascimentale. Ma c’era di più. La sedia del papa era sormontata da un ricco baldacchino di broccato sostenuto dalla guardia e dai palafrenieri. Tutt’intorno seguiva la Signoria di Firenze, in abiti splendenti di ricami e di tessuti. Questo sfolgorante corteo si snodò per tre giorni nelle strade della città mentre il giubilo delle campane si alternava ai fuochi d’artificio. Ma come se la bella Firenze non fosse ancora abbastanza regale per il gusto del papa Medici, furono eretti in tutta la città ben dieci archi trionfali. Leone non lesinò a nessuno elemosine generose. In quella circostanza fu deciso che il ritorno dei Medici doveva avere un segno visibile in quella tradizione di abbellimento cittadino che era già stata il fondamento della strategia politica di Cosimo e di Lorenzo. La scelta cadde sulla facciata della chiesa di San Lorenzo, fatta costruire da Cosimo a Brunelleschi e da allora rimasta incompiuta. Ma se i Medici del XV secolo avevano avuto un Brunelleschi, quelli del XVI dovevano a tutti i costi avere un Michelangelo. I rapporti con l’artista però non erano buoni, né si prospettavano facili. Tutti sapevano che Michelangelo era tenuto per contratto a lavorare esclusivamente alla tomba di 184

Giulio II, attesa da tutta la corte pontificia per l’autorità che ancora emanava la memoria del papa Della Rovere. Le prospettive di guadagno per l’artista e di eccellenza per il committente, tuttavia, erano tali che né l’uno né gli altri si potevano fermare di fronte ad ostacoli tanto piccoli per un papa e per un genio. Una diplomazia sotterranea cominciò a lavorare per favorire la riconciliazione, che avrebbe portato prestigio a Firenze e celebrità alla casa Medici. Più o meno nei giorni in cui firmava il contratto esclusivo con i Della Rovere, quindi, Michelangelo conduceva trattative sotterranee con Leone X, quello stesso Giovanni de’ Medici nella cui casa aveva vissuto da ragazzo, con cui aveva mangiato e dormito, dileguandosi poi senza farsi mai più vedere appena la fortuna aveva girato le spalle alla sua famiglia. Negli ultimi giorni di ottobre 1516, nelle sperdute montagne di Carrara dove già faceva la prima comparsa il nevischio tagliente dell’inverno vicino, Michelangelo fu avvertito da Baccio d’Agnolo (un architetto fiorentino sapiente e molto ben introdotto) che il papa aveva intenzione di assegnare i lavori della facciata di San Lorenzo a lui e a Michelangelo associati. Del resto Leone si era già perfidamente vendicato della irriconoscenza di Michelangelo, affidando a Raffaello l’incarico più ambito d’Italia, quello di architetto di San Pietro e di progettista ed esecutore delle decorazioni delle stanze papali. Raffaello era stato portato in tale gloria dal papa che in quegli stessi mesi perfino il re di Francia ne reclamò i servigi e un uomo potente come il duca di Ferrara Alfonso d’Este attese pazientemente un suo segno di benevolenza (pagato peraltro a carissimo prezzo). Michelangelo non poteva più ignorare che l’inimicizia del 185

papa lo stava danneggiando professionalmente: spinto anche dalle proprie clientele e da Sebastiano del Piombo, che vedeva chiudersi ogni giorno di più il mercato per l’influenza di Raffaello e dei suoi collaboratori, ormai egemoni sul mercato artistico romano, si dichiarò disponibile a una riconciliazione. Per il papa e per l’artista era giunto il tempo di ricucire la vecchia frattura, nel nome dei comuni interessi fiorentini. Ai primi di dicembre Michelangelo lasciò Carrara per andare a Roma a parlare con Leone di questa nuova commessa. Si parlò dei costi e dei modelli progettuali. Il lavoro avrebbe dovuto essere appaltato a Michelangelo, a Baccio d’Agnolo e a un terzo architetto, Baccio Bigio. Michelangelo avrebbe dovuto essere soddisfatto della distribuzione del lavoro, che gli consentiva di adempiere allo stesso tempo ai doveri contrattuali con i Della Rovere. Ma non era così. L’esilio di Francesco Maria Della Rovere, riparato a Mantova dal suocero Federico Gonzaga, lo metteva temporaneamente al sicuro dalle pressioni degli eredi di Giulio II. Cominciò allora ad accarezzare l’idea di prendere la commissione tutta per sé e guadagnare da solo una cifra straordinaria. Applicando la consueta strategia di obliqua interferenza con le decisioni degli altri, non affrontò subito la questione con chiarezza, ma iniziò una guerra di nervi con gli altri artisti coinvolti nella vicenda. Tra essi c’era anche Iacopo Sansovino, maestro affermato e stimato che avrebbe dovuto affiancarlo nelle opere di scultura. La trattativa seguì i soliti modi sotterranei e contorti. Michelangelo lasciò che Baccio d’Agnolo si esponesse con i suoi progetti, che vennero però sottoposti a una critica implacabile. 186

Lo stesso delegato papale, il povero Domenico Buoninsegni, uomo pure abituato alle sottili tecniche della diplomazia, perse il controllo dei nervi di fronte a un simile osso duro. La strategia di Michelangelo fu inesorabile e coinvolse in una campagna diffamatoria l’intero circolo imprenditoriale fiorentino. Uno dopo l’altro vennero sbaragliati tutti i concorrenti, o meglio quelli che si erano illusi di poter diventare suoi soci, e Michelangelo rimase l’unico appaltatore dell’impresa di San Lorenzo. Il cardinale Giulio, che seguiva con passione la vicenda (arrivando a discutere non soltanto dell’identità delle statue della facciata ma anche dei loro vestiti) si stupì non poco quando vide che l’importo dell’impresa era passato da trenta a quarantamila ducati. Chiese anzi a Michelangelo di spiegargli se il prezzo era cresciuto a causa di un errore o perché le dimensioni dell’impresa erano aumentate. Ma la smania di guadagno di Michelangelo era tale che non si limitò ad escludere tutti i possibili soci dalla costruzione della facciata. Appena fu certo della commessa, concepì addirittura l’idea temeraria di associarsi con un cavatore di Carrara per estrarre insieme i marmi da impiegare nel lavoro, in modo da guadagnare anche sulla provvigione dei materiali. Il testo di questa associazione temporanea d’impresa, stipulata il 12 febbraio 1517, fornisce preziosi dettagli sulle aspettative economiche di Michelangelo in quest’impresa: Sia noto come avend’io a fare per comessione di papa Leone Decimo, fiorentino, una quantità di marmi per la faccia di San Lorenzo di Firenze, e trovandomi a Carrara per altri mia lavori e per questo, e cercando io Michelagniolo, scultore fiorentino, de’ detti marmi, e avendomi mostro Lionardo, detto Cagione, d’Andrea di Ca187

gione da Carrara una sua cava antica dove si potrebe fare grande aviamento; m’è parso da farvelo per cavare tutti marmi. E avendo il detto Cagione caro far meco compagnia nella detta cava e io seco, ci siàno acordati oggi questo di dodici di febraio mille cinque cento diciassette, e abiàno fatto compagnia insieme; intentendosi stare a meza la spesa e a meza l’utilità, tenendo io tanti uomini a lavorare per me, quanti il detto Cagione ne terrà lui per sé nella detta cava; e promettesi l’uno all’altro avere a durare la detta compagnia, tanto che io sia fornito di tutti e’ marmi che io ò di bisognio per l’opere sopra ditte; non acadendo o morte di Papa o d’altri o guerre, o mia infermità o cose che dieno noia, e riuscendo e’ marmi begli e recipienti alle cose che ò da fare17.

Ma questa volta l’eccessiva avidità di Michelangelo era destinata a giocargli un brutto scherzo. I Medici avevano saputo che nei loro domini di Pietrasanta si cavava un marmo altrettanto bello di quello di Carrara e accusarono Michelangelo di favorire i carraresi per interessi personali (come effettivamente era). Mentre Michelangelo stipulava l’ottimistica convenzione con Leonardo Cagione, ricevette dal cardinale Giulio una secca e risentita lettera che suonava come un ordine: abbandonare Carrara e organizzare l’estrazione e il trasporto dei marmi da Pietrasanta, dove secondo il giudizio di molti valorosi scultori il marmo era ottimo. Non era un buon inizio per Michelangelo, giunto subito a scontrarsi con le persone che conoscevano più che bene le sue debolezze18. Lo smacco e l’offesa non potevano essere più brucianti. Michelangelo non era mai stato trattato così, neppure quando non era ancora il valentissimo artista che tutta l’Europa ammirava. Ci volevano dei fiorentini per cogliere e domare l’ostinazione dell’artista, trattato quasi come un 188

paria. Con la lettera di Giulio i Medici volevano ricordare a Michelangelo che il suo comportamento con la famiglia non era stato dimenticato e che non sarebbe stata tollerata più nessuna doppiezza da parte sua. Tanto quanto era stato intimo del papa in gioventù, ora se ne doveva sentire distante, al punto che i loro rapporti erano demandati alla mediazione del segretario, che quel giorno stesso scrisse a Michelangelo una lettera piena di paura e apprensione. Il rapporto con casa Medici, appena ricucito ridiventava incandescente. Nella commissione che aveva visionato i marmi di Pietrasanta c’era anche Iacopo Sansovino: nelle intenzioni dei committenti e nelle aspettative opportunisticamente alimentate da Michelangelo fino a quel momento, doveva anch’egli partecipare all’impresa di San Lorenzo. Ma ancora una volta Michelangelo fece in modo di allontanare l’unico artista di valore che seppure lontanamente poteva venirgli accostato in un ipotetico confronto. Non intendeva condividere niente, meno che mai il lavoro di scultura, con nessun altro. Sansovino si vendicò scrivendogli una lettera violentissima, che rappresenta una testimonianza di quanto fu duro in certi momenti il giudizio dei contemporanei su Michelangelo e di quanto consapevoli fossero i suoi colleghi delle fragilità di un artista che non poteva vantare nella vita meriti altrettanto grandi di quelli che gli erano universalmente riconosciuti nell’arte. La rottura definitiva tra i due si consumò il 30 giugno 1517, sulla strada di quell’appalto molto lucroso che si sarebbe rivelato, per troppa avidità, il peggior affare della sua vita. Sansovino lo accusò di aver illuso e ingannato molti 189

galantuomini sulla partecipazione a quell’impresa e di aver poi manovrato vigliaccamente per escluderli, rivelando in questo modo la sua natura meschina e falsa: E più vi dicho che el Papa, el Cardinale e Iachopo Salviati sono uomini che quando dicano uno sì è una carta e uno contratto, con ciò sia sono verili e non sono come voi dite. Ma voi misurate loro colla cana vostra, che non vale con esso voi né contratti né fede, e a ogni ora dite no e sì come vi venga bene e utile. E sapiate c[h]’el Papa mi promesse le storie, e Iachopo anchora; e sono uomini che me le manterano. E ò fatto inverso di voi tanto quanto io ò potuto, di cosa vi sia utile e onore. E non mi ero avisto anchora che voi non faciesti mai bene a nessuno; e che, cominciando a me, sarebe volere che·ll’aqua none inmollassi. E massimo sapete siamo stati insieme a molti ragionamenti, e maladetta quella volta che voi dicessi mai bene di nessuno universalemente. Or sia con Dio. Non dirò altro. Sono stato raguagliato assai bene; el simile sarete voi alla vostra tornata. E basta19.

Il tono appassionato e quasi di rammarico dell’accusa la rende ancora più drammatica. Appare chiaro con quanto dispiacere il Sansovino tracciasse l’ingrato profilo caratteriale di Michelangelo. A quella data egli poteva considerarsi il secondo scultore italiano, e non c’è dubbio che avesse tentato in ogni modo di conciliarsi con Michelangelo anche con molta umiltà, riconoscendogli una condizione di superiorità difficile da accettare per un artista ambizioso qual era. La frequentazione assidua a cui fa riferimento la lettera conferma inoltre quanto emerge continuamente dagli altri documenti michelangioleschi: la sua diffidenza e maldisposizione verso il mondo intero («voi dicessi mai bene di nessuno universalmente»). Destinato dalla sua stessa diffi190

denza a un isolamento penoso, quasi che il confronto gli riuscisse doloroso anche con chi si collocava parecchi gradini più in basso di lui, Michelangelo si sentiva rassicurato solo se circondato dal vuoto e dalla totale soggezione. E solo dal vuoto rimase circondato nella mastodontica impresa della facciata di San Lorenzo. Il contratto fu stipulato il 19 gennaio 1518. Per la considerevole cifra di 40.000 ducati, l’artista s’impegnava a fare tutto da sé nel giro dei successivi otto anni: «et tutto lo spendio di cavatura, conductura, lavoramento di quadro et figure di rilievo et basso rilievo di marmo et bronzo, et ad marmo et bronzo et calo, sia ad spese di detto Michelagniolo»20. Ma era appena entrato nel suo prossimo calvario.

5. Il fallimento Per portare via i marmi da Pietrasanta, come voleva il papa, Michelangelo fu costretto a costruire una strada che permettesse di calare i blocchi dai poggi fino alla marina, da dove si potevano imbarcare per Firenze. Le maestranze di Pietrasanta non erano esperte come quelle di Carrara e l’artista dovette spendere buona parte del suo tempo tra Pisa e Pietrasanta a occuparsi dei dettagli più insignificanti: i canapi per fasciare e trasportare i pezzi di marmo, gli argani, i cancani, gli anelli di ferro per movimentare i blocchi. In più i carraresi, inferociti per quello che consideravano un tradimento, si rifiutarono di consegnargli i marmi da lui stesso cavati e fatti cavare nei mesi precedenti per la tomba di Giulio II. 191

Sulla spiaggia dell’Avenza sostarono per anni, abbandonati alla furia del maestrale e della tramontana, malinconici fantasmi bianchi che imprigionavano le nuove fantasie di Michelangelo: figure sedute, figure in piedi tormentate dalle catene, prigioni e profeti destinati al primo e al secondo piano della tomba di Giulio. Due anni dopo, nel febbraio del 1520, i barcaioli e i cavatori che per ritorsione contro l’artista tenevano sotto sequestro quegli abbozzi di statue alti due metri e mezzo e larghi poco più di un metro cercarono di venderli proprio a Iacopo Sansovino e ad altri scultori romani, sotto gli occhi impotenti e disperati di Michelangelo. I carraresi boicottavano il trasporto dei marmi perché vedevano sfumare importanti prospettive di guadagno per il futuro. Il papa aveva decretato che anche i marmi per San Pietro dovevano cavarsi in Seravezza e non in Carrara. Gli abitanti delle caverne bianche delle Apuane vedevano le loro montagne svuotarsi giorno dopo giorno, costretti a scegliere tra una vita ancor più stentata sui poggi natii o l’emigrazione verso Pietrasanta, dove si aprivano nuove cave e nuovi «avviamenti» per soddisfare il papa Medici. Rassegnato, Michelangelo cercò di sopperire con la sua permanenza fissa nelle cave all’inesperienza dei pochi cavatori di Pietrasanta. I lavori erano finanziati dal papa e dall’Opera del Duomo di Firenze, che aveva bisogno dei marmi per i pavimenti di Santa Maria del Fiore. Per l’apertura della nuova strada dalle montagne alla spiaggia occorreva scegliere con attenzione il tracciato più comodo ma anche più breve. Fu necessario disboscare foreste, rassodare pendii, tagliare rocce. Ma intanto Michelangelo procedeva anche all’estrazione dei primi importanti blocchi per la fac192

ciata di San Lorenzo. I pezzi più pregiati e difficili da staccare dalla montagna erano quelli destinati alle colonne del primo ordine, che Michelangelo voleva realizzare in un unico blocco. Così avevano fatto i migliori architetti romani e così doveva riuscire a fare anche lui: la facciata di San Lorenzo doveva diventare lo specchio della migliore architettura d’Italia. Non era facile, però, cavare e trasportare blocchi di pietra tanto grandi. Dopo gli antichi, nessuno c’era più riuscito e gli architetti si erano limitati a spogliare i monumenti romani. L’estrazione delle colonne diventò così da subito il test tecnologico decisivo per la riuscita dell’impresa di San Lorenzo. Una cosa era disegnare una colonna ben proporzionata alta sei metri, un’altra era cavarla e portarla in cantiere. Michelangelo cominciò con l’approvvigionamento degli attrezzi più elementari: carrucole di ferro, canapi, girelle, opere provvisionali di legno proporzionate all’operazione. A dieci anni dall’impresa della Sistina era ancora una volta la tecnica a sfidarlo. La cavatura vera e propria iniziò alla fine di marzo del 1518 e Donato Benti registrò i progressi dello scavo della prima colonna. I cavatori, entusiasti del blocco, mordevano il freno per poterlo sbozzare. Ma nel giugno vennero già cavati altri blocchi. Alla fine di luglio Michelangelo arrivò a Seravezza per supervisionare il trasporto a valle della prima colonna. L’enorme blocco di marmo doveva essere calato dalla parete da cui era stato estratto fino ad un luogo abbastanza vicino al sentiero, dove finalmente sarebbe stato poggiato su pali di legno e avviato lentamente all’imbarco marittimo. Da lì doveva raggiungere le anse dell’Arno 193

più vicine alla chiesa di San Lorenzo, oppure il laboratorio fatto allestire appositamente non lontano dalla chiesa. Per portare a compimento la delicata operazione, Michelangelo mandò il suo assistente più bravo, Michele Pippo, a Firenze per chiedere agli Operai dell’Opera del Duomo una carrucola di ferro sufficientemente grande. Fu lui a preparare gli argani di legno, servendosi anche di due enormi pulegge di ferro che erano servite per la costruzione del duomo. Riuscì a trovare una corda lunga 120 metri. Con l’aiuto di undici uomini la colonna fu portata a valle. Era un trionfo, tanto grande che gli echi arrivarono presto a Firenze e a Roma. «De’ marmi, io ò la cholonna cavata giù nel chanale a presso alla strada a cinquanta braccia, a·ssalvamento. È stata magio[r] cosa che io non stimavo, a chollarla giù; èccisi facto male qualchuno nel chollarla, e uno ci s’è dinocholato e morto subito, e io ci sono stato per mectere la vita»21. Purtroppo l’illusione di vittoria durò pochissimo. Appena due giorni dopo, la colonna che si tentò di calare a valle si ruppe in mille pezzi. Fu un danno enorme e Michelangelo, distrutto dal fallimento, si ammalò per lo sforzo e per il dispiacere. Il commissario incaricato dal papa di seguire e finanziare i lavori, Iacopo Salviati, tentò in ogni modo di confortarlo, scrivendogli subito che un’impresa così straordinaria come quella doveva necessariamente fare i conti con disgrazie del genere. Molto prostrato, Michelangelo fu invitato da un amico a trascorrere un periodo di riposo nella sua casa di Pisa. Doveva subito, gli consigliava l’amico, abbandonare gli spuntoni di roccia in cui si era acquartierato ormai da quasi due anni. 194

Ancora più deciso fu il giudizio del fratello Buonarroto, che conosceva talmente bene Michelangelo da capire in che disperazione e in che rischio si trovasse in quei giorni. Anche lui gli scrisse, per ricordargli che ancora più importante della grande impresa era salvarsi la vita. Doveva capire quanto dannosa potesse rivelarsi la sua ostinazione, che lo inchiodava malato e depresso alle montagne di Seravezza: «Parmi, sechondo me, che tu deba stimare più la persona tua che una colona e che tuta la chava e che il Papa e·ttutto il mondo. E qui mi pare che co[n]sista la prudenza d[e] li homini valenti, d[i] rispiarmare prima l’animo e ’l chorpo suo, poi, fato suo d[e]bito, segua che vuole, perché ogni cosa sia sempre salvo la vita»22. Michelangelo, naturalmente, decise di non desistere dalla sua impresa. Rimase a Seravezza, inchiodato ai problemi insormontabili delle cave e del trasporto. Anche il segretario del papa, Domenico Buoninsegni, che seguiva dall’inizio le vicende della costruzione, gli suggerì a nome del committente di appaltare a qualcun altro l’estrazione dei marmi. Ma Michelangelo volle convincersi che senza di lui il lavoro in cava non poteva dare risultati. Ancora una volta non poteva delegare, non poteva fidarsi di nessuno, si riteneva indispensabile in tutti i passaggi del lavoro, dall’individuazione del poggio roccioso dove cavare il blocco di marmo alla lustratura della scultura finita. Si riavviò quindi sulle montagne ad affrontare una vita di stenti che cominciava a pesargli sul fisico non più giovanissimo. Persino il papa Medici si riempì di commozione a vedere finalmente l’artista piegato con ogni fibra del suo essere alla creazione di quell’opera che doveva essere il trionfo visibile della sua casata. 195

Di fronte al generoso sacrificio di Michelangelo, Leone ritornò forse a pensare alla loro adolescenza comune, alle grandi stanze piene di filosofi del palazzo di via Larga, al giardino di San Marco, ai giochi di quella stagione troppo breve per entrambi. Come già Giulio II prima di lui, cominciò però anche ad essere ansioso di vedere finito il lavoro di Michelangelo. Lo fece pregare di scolpire qualcosa di sua mano, qualche figura, meglio ancora i bassorilievi con le storie dei Medici che dovevano andare nella facciata. Sperava che nel suo prossimo viaggio a Firenze avrebbe visto le prime sculture, più ancora della struttura della facciata, che poco gli interessavano. Ora che Michelangelo mostrava totale disponibilità e fedeltà all’impresa dei Medici, il papa acconsentì addirittura a far acquistare due o tre colonne a Carrara. Era una notizia formidabile per l’artista, che vedeva in questa autorizzazione la possibilità di riallacciare i rapporti con le maestranze carraresi e di sbloccare i marmi della tomba di Giulio II tenuti in ostaggio sulla spiaggia dell’Avenza. Il Salviati lo mise però in guardia con estrema chiarezza dalle possibili conseguenze della sua avidità: «Come di sopra si dice, quando tu vogli pigliare dua o tre colonne d[i] quelle di Carrara, Nostro Signore ne sarà contentissimo, quando questo si faccia per condurre le cose più presto; ma quando fussi per uno pocho d’utile più o meno, questo non piacerebbe a Sua Santità, perché à desiderio che questa cava di Pietrasancta sia et favorita et aiutata»23. Michelangelo doveva stare molto attento, se non voleva che i Medici perdessero nuovamente la loro fiducia in lui. Il lavoro nelle cave riprese comunque di buona lena mentre cominciavano ad arrivare a Firenze, attraverso il 196

porto di Pisa e l’Arno, i primi blocchi destinati alla facciata. Purtroppo la bella primavera che portava via il gelo dalle montagne non portò buone cose a Michelangelo. Il 16 aprile 1519 si ruppe ancora un’altra delle colonne che dovevano essere calate giù dalla montagna. Nel darne notizia al suo garzone a Firenze, Pietro Urbano, Michelangelo usò la prosa secca e cruda del dramma che rendeva superfluo ogni commento: «Pietro, le chose sono andate molto male: e questo è che sabato mactina io mi messi a fare chollare una cholonna chon grande ordine, e non manchava chosa nessuna; e poi che io l’ebbi chollata forse cinquanta braccia, si rupe uno anello dell’ulivella che era alla cholonna, e·lla cholonna se n’andò nel fiume in cento pezzi»24. Michelangelo vedeva andare in frantumi sotto i suoi occhi il lavoro di mesi. Si era messo in gioco personalmente e fisicamente, si era aggrappato ai canapi e al blocco rischiando la vita come il povero cavatore che era rimasto schiacciato: non c’era stato niente da fare. Quante volte, prima di addormentarsi la sera, avrà rivisto quella scena di puro orrore: i canapi che saltano, il blocco che precipita nel vuoto, e poi lo schianto e il volo di mille frammenti che dissolvono il sogno accarezzato per mesi. Le notizie che qualche settimana dopo gli arrivavano da Carrara erano ancora meno confortanti: le colonne commissionate ai cavatori locali erano troppo scure per la facciata, e per giunta i carraresi stavano rivendendo ad altri scultori i marmi originariamente destinati alla tomba di Giulio II. Uno degli acquirenti era proprio Iacopo Sansovino, che consumava così la sua lenta vendetta per essere stato escluso dall’appalto di San Lorenzo. Tornato a Roma 197

dalle cave carraresi, era andato dritto dal cardinale Della Rovere a raccontargli come Michelangelo avesse abbandonato completamente il lavoro della tomba di Giulio, per il quale era già stato pagato generosamente dieci anni prima. Il cardinale era furioso, anche se gli uomini di Michelangelo a Roma tentarono di calmarlo promettendogli che nel giro di pochi mesi l’artista avrebbe cominciato a spedire le figure che stava scolpendo per la tomba. Ma non erano soltanto gli eredi di Giulio II a tenere d’occhio le barche che approdavano al porto di Ripetta, sperando di veder apparire le sagome bianche imballate dalla mano scrupolosa di Michelangelo. Anche Metello Vari era disperato per il mancato arrivo del suo Cristo portacroce per la chiesa della Minerva, per il quale aveva già pagato nel 1514 i tre quarti dell’enorme costo. Gentile e paziente oltre ogni umana possibilità, Metello tempestava Michelangelo di lettere, perché i parenti che aveva trascinato in quell’impresa pretendevano di entrare al più presto in possesso della statua. Implorava l’artista di mandargli subito la scultura, anche in caso non fosse del tutto finita. Per non parlare di Leone X, che si aspettava di vedere scolpiti i primi bassorilievi per la sua facciata, per cui aveva già pagato parecchie migliaia di ducati. Nella primavera del 1520 il papa decise di togliere a Michelangelo l’appalto e di affidare ad altri la gestione delle cave di Carrara. All’artista non restava che tirare le somme di quei tre anni disperati e cercare di recuperare almeno parte delle spese sostenute, consapevole del danno ricevuto, della vergogna e della situazione drammatica in cui si era cacciato con gli eredi di Giulio. Ancora una volta fu con il segretario del papa, Do198

menico Buoninsegni, che tentò di contrattare la soluzione. A lui Michelangelo inviò un drammatico riassunto dei fatti susseguitisi in quegli anni, nella speranza di poter trattenere almeno una parte dell’anticipo riscosso per San Lorenzo: (...) non mectendo a chonto a decto papa Leone el richondurre e’ marmi lavorati della sepultura dicta di papa Iulio a Roma, che sarà una spesa di più che cinque cento ducati. Non gli mecto anchora a chonto el modello di legniame della facciata decta, che io gli mandai a·rRoma; non gli mecto a[n]chora a chonto el tempo di tre anni che io ò perduti in questo; non gli mecto a chonto che io sono rovinato per decta opera di San Lorenzo; non gli mecto a chonto el vitupero grandissimo dell’avermi chondocto qua per far decta opera e poi tormela, – e non so perché anchora; non gli mecto a chonto la casa mia di Roma che io ò lasciata, che v’è ito male, fra marmi e masseritie e·llavoro facto, per più di cinque cento duchati. Non mectendo a chonto le sopra dicte cose, a me non resta i’ mano, de’ dumilia trecento ducati, altro che cinque cento ducati. Ora, noi siàno d’achordo: papa Leone si pigli l’aviamento facto, cho’ marmi detti cavati, e io e’ danari che mi restano i’ mano, e che io resti libero; e chonsigliòmmi che io facci fare un breve e che ’l Papa lo segnierà25.

L’impresa più grande d’Italia naufragava miseramente dopo tre anni di stenti e disgrazie. Per inseguire le sue smodate ambizioni Michelangelo aveva buttato via quattro anni della sua vita senza concludere niente. Ora non restava che riprendere in mano i fili delle commesse che aveva interrotto, per ristabilire il proprio onore e saldare i debiti contratti con i committenti. Per il papa la risoluzione di quel contratto era diventata ormai inevitabile. La sua posizione politica si era fatta estremamente difficile. La guerra contro Francesco Maria 199

Della Rovere si era rivelata molto più difficoltosa del previsto: già ai primi di gennaio del 1517 il duca, con l’aiuto di Federico Gonzaga e del governatore di Milano Odet de Foix, aveva raccolto un esercito di 5000 uomini ed era rientrato in possesso del suo ducato senza troppe difficoltà. Il giovane e ambizioso nipote del papa, Lorenzo, nominato duca d’Urbino nell’agosto 1516, non aveva dato grande prova di sé. Ferito leggermente sul campo nel marzo del 1517, si era poi rifiutato di tornare a combattere, mentre i mercenari si lamentavano perché le finanze papali, ridotte in condizioni drammatiche, non permettevano di saldar loro le paghe arretrate. Nell’incertezza di quei mesi, a Roma era stata ordita anche una congiura contro il papa. Il cardinale di Siena Alfonso Petrucci, probabilmente in accordo con Francesco Maria Della Rovere, con il cardinale Soderini – infaticabile oppositore dei Medici – e con l’altro antico oppositore della casa Medici, nonché patrono e mecenate di Michelangelo a Roma, Raffaele Riario, avevano tentato l’avvelenamento di Leone X. La congiura venne sventata e subito si scatenò la repressione del papa, che coglieva così l’occasione, come già aveva fatto suo padre, per rafforzare il suo potere e abbattere l’opposizione. Ma la sua posizione rimaneva debole e per rientrare in possesso di Urbino fu costretto a sborsare cifre enormi. Francesco Maria Della Rovere si ritirò a Mantova portandosi dietro i due beni più pregiati: l’artiglieria e la preziosa biblioteca fondata da Federigo da Montefeltro. La guerra di Urbino era costata al papa almeno 800.000 ducati: una cifra enorme che dissestò le finanze della Chiesa e della città di Firenze e non valse ai Medici ad ottenere 200

il ducato. L’armistizio di Francesco Maria durò fino alla morte di Leone X, ma già prima, il 4 maggio 1519, era morto il giovane Lorenzo, la cui memoria paradossalmente sarebbe stata riscattata proprio da Michelangelo, che lo avrebbe ritratto in una scultura: l’immagine scolpita era destinata a prevalere sulla storia molto mediocre della sua vita, confondendolo nell’eternità a venire con il talento inarrivabile dello scultore.

6. Prigioniero del destino Il conto in sospeso tra Michelangelo e i Medici fu ricomposto grazie a una nuova e più contenuta commissione affidata all’artista dal cardinale Giulio: le tombe di famiglia nella cappella funeraria di San Lorenzo. Di questo progetto si trovano ampie tracce nelle lettere che il cardinale e Michelangelo si scambiarono a partire dalla fine del 1520. Giulio era persona molto prudente e coltivata, e voleva seguire l’ideazione del monumento insieme all’artista, discutendone a lungo – come del resto aveva già fatto per la facciata di San Lorenzo – le forme, le misure e i dettagli. Questa nuova opera, d’altronde, serviva a Michelangelo per ricucire il rapporto con i Medici, entrato nuovamente in crisi con il fallimento dell’impresa della facciata di San Lorenzo. Nei primi mesi del 1521 l’artista sembrò aver ritrovato la serenità e la concentrazione necessarie per tornare finalmente, dopo quattro anni, alla scultura. Per prima cosa riuscì a terminare il Cristo per Metello Vari e a imbarcarlo per Roma in quella stessa primavera. 201

Come abbiamo visto, l’opera venne poi storpiata da Pietro Urbano, soprattutto nelle mani e nei piedi, ma almeno l’artista poteva sperare di vedere interrotte le pressanti quanto legittime richieste del paziente Metello. Se il ritorno al lavoro doveva e poteva dargli nuova serenità, a togliergliela, in quegli stessi giorni, ci pensò tuttavia suo padre. Preoccupato dall’andamento che avevano preso le sue facoltose committenze, Michelangelo aveva chiesto ai suoi familiari di poter recuperare i 1000 fiorini che aveva prestato loro nel gennaio 1514. Gli arbitri chiamati a risolvere il lodo stabilirono che il modo migliore per soddisfare Michelangelo sarebbe stato cedergli la proprietà di famiglia a Settignano (che egli stesso aveva salvato dalla zia Cassandra più di dieci anni prima), purché lo stesso artista si fosse impegnato a liquidare il fratello più giovane Gismondo, che non aveva beneficiato di quell’investimento, con 500 fiorini. A questa soluzione si pervenne nel 1523, ma già nella primavera del 1521, quando Michelangelo si sentiva più vicino all’orlo del fallimento, la discussione familiare assunse toni drammatici. Le punte d’isterismo toccate dal padre finirono per sprofondarlo ancora di più nella disperazione. A fine febbraio Ludovico lasciò la casa di Michelangelo a Firenze e si ritirò a Settignano, dicendo a tutti, in quella città così pettegola e sarcastica, di essere stato cacciato di casa dal figlio ingrato. Per un uomo come Michelangelo, che aveva dedicato ogni istante della propria vita alla prosperità della famiglia, che aveva difeso quel padre lamentoso minacciando perfino di percosse il fratello Giovan Simone, non poteva esserci accusa più dolorosa. Se un mese prima 202

aveva affrontato il papa a viso aperto chiedendogli conto delle ingiurie e dei danni arrecatigli nel lavoro per la facciata di San Lorenzo, adesso, di fronte alla crudeltà e all’ingratitudine del padre, che lo aveva usato e continuava ad usarlo senza scrupoli, abbassò la testa. Accettò di assumersi la responsabilità di colpe che non aveva, pur di calmare quel vecchio dispotico, senza il cui affetto non era in grado di affrontare con un piglio così terribile il resto del mondo. L’umiltà e la generosità di cui Michelangelo diede prova in quella circostanza non saranno mai più rintracciate nella sua vita, fatta eccezione per i pensieri devoti rivolti a Dio quando cominciò a sentirsi vicino alla morte. Con la stessa prosa asciutta e incisiva con la quale aveva affrontato il papa, depose il suo cuore dolorante, liberato da ogni diffidenza, ai piedi di Ludovico, che non per questo avrebbe smesso di tormentarlo: Ora, sia la chosa chome si vuole, io voglio darmi ad intendere d’avervi chacciato e d’avervi facto sempre vergognia e danno; e chosì, chome se io l’avessi facto, io vi chieggo perdonanza. Fate chonto di perdonare a un vostro figl[i]uolo che sia sempre vissuto male e che v’abi facti tucti e’ mali che si possono fare in questo mondo. E chosì, di nuovo vi prego che voi mi perdoniate, chome a un tristo che io sono, e non vogliate darmi chostassù questa fama che io v’abbi chacciato via, perché la m’importa più che voi non credete. Io son pur vostro figl[i]uolo!26

Ma Ludovico era un osso duro, molto più duro del figlio, e dimostrò di superarlo infinitamente in diffidenza ed autocommiserazione. Continuò a recitare la parte del povero vecchio vessato dal figlio arrogante, esasperando l’artista a tal punto che nel giugno del 1523, abbandonata ogni 203

prudenza e ogni rispetto filiale, questi sbottò in un accesso d’ira incontrollabile invitandolo a lasciarlo finalmente e definitivamente in pace: «Gridate e dite di me quello che voi volete, ma non mi scrivete più, perché voi non mi lasciate lavorare, che a me bisognia anchora scontare ciò che voi avete avuto da·mme da venti cinque anni in qua»27. Purtroppo per lui si sarebbe rimangiato troppo presto queste risoluzioni, consegnandosi nelle mani di un padre lagnoso e vessatore, pronto a riprendere il controllo su un figlio tanto pieno di talento quanto privo di autonomia affettiva. Altre molestie arrivavano intanto a Michelangelo da Roma, dove la morte di Raffaello aveva di nuovo aperto la questione dei grossi appalti pontifici. Il suo clan – costituito in primo luogo da Sebastiano del Piombo, Bernardino Zacchetti e Giovanni da Reggio, insieme ad altri numerosi e sconosciuti artisti mediocri che gli gravitavano intorno – voleva che ritornasse a Roma per occupare il posto che tutti gli riconoscevano sulla scena cittadina. Se Michelangelo fosse arrivato a Roma, sarebbero state certamente appaltate a lui le storie delle stanze vaticane lasciate incompiute da Raffaello e in via di allogazione presso i suoi discepoli. E così pure, verosimilmente, altre numerose allettantissime imprese. L’artista era considerato uno degli ultimi grandi maestri sopravvissuti alla generazione d’oro esplosa sotto Giulio II. A lui ci si rivolgeva ormai anche per far stimare i lavori di altri pittori. A Roma sarebbe stato senza dubbio arbitro indiscusso della scena artistica, occupando il posto che gli spettava di diritto. Ma Michelangelo non aveva nessuna voglia di lasciare Firenze. Fu il caso, questa volta, a decidere per lui toglien204

dolo dall’imbarazzo. Il primo dicembre 1521 verso mezzanotte Leone X, ultimo figlio di Lorenzo il Magnifico, morì, ancora piuttosto giovane. L’unica via che il destino sembrava aver trovato per contenere le ambizioni dei Medici era quella di accorciare la vita dei rappresentanti maschi della famiglia. La rete di interessi costituitasi intorno a lui cominciò rapidamente a dissolversi. Il nuovo papa, Adriano di Utrecht, che era stato precettore del giovane imperatore Carlo V, gettò gli artisti italiani nella disperazione. Era avaro e del tutto disinteressato all’arte: al contrario dei suoi predecessori non promosse nessuna iniziativa di rilievo. Non si interessò nemmeno a Michelangelo, destinato già allora ad essere utilizzato come la migliore macchina di propaganda per la politica pontificia. Di questa indifferenza Michelangelo si giovò, perché la sua smodata ambizione, non trovando questa volta sponda nelle gerarchie più alte della Chiesa, non ebbe modo di nuocergli come era successo negli anni precedenti. Anche Sebastiano del Piombo si dovette dare pace con tutto il clan che reclamava il suo ritorno a Roma. Fallita l’impresa della facciata di San Lorenzo, l’artista poté quindi riprendere i lavori per la tomba di Giulio II, che ricevettero un incremento fortissimo dalla scomparsa di Leone X. Senza la protezione del papa che lo aveva sottratto ai Della Rovere, Michelangelo si vide costretto da Francesco Maria, sotto minaccia di un’azione legale, a ottemperare al contratto stipulato. Del resto Francesco Maria non era uomo malleabile. Condottiero valentissimo al punto da essere nominato capitano dell’esercito veneziano, non si ritraeva dall’amministrare la giustizia con le sue stesse mani quando era il ca205

so. Già da giovane aveva assassinato brutalmente un importuno corteggiatore della sorella e un cardinale che non faceva troppo onore alla porpora. Spaventato per i possibili effetti delle inadempienze contrattuali con i Della Rovere, Michelangelo cominciò a scolpire a Firenze nuove statue per la tomba di Giulio II: i Prigioni oggi all’Accademia di Firenze e la Vittoria di Palazzo Vecchio [tavv. 30-33 e 34]. Le statue dei Prigioni dovevano essere collocate al primo ordine della tomba e si richiamavano ai prigionieri rappresentati nei monumenti trionfali romani come bottino di guerra dell’imperatore. L’esibizione del bottino, soprattutto di quello umano, celebrava la grandezza del vincitore. A questa tradizione Michelangelo si era richiamato quando aveva concepito il monumento per il papa cattolico, che aveva rifondato lo Stato della Chiesa con l’energia e la forza di un condottiero antico. Due di queste statue erano state già scolpite e addirittura murate nella casa romana di Macello dei Corvi, che i Della Rovere gli avevano messo a disposizione per scolpire la tomba. Negli anni del soggiorno fiorentino, fu sempre grande preoccupazione di Michelangelo che nessuno potesse vedere le sue sculture già realizzate. La scelta di riprendere il lavoro proprio dai Prigioni fu legata con ogni probabilità allo stato d’animo dell’artista: si sentiva anch’egli prigioniero delle circostanze e del destino, che in quegli ultimi anni lo aveva perseguitato. A differenza dei Prigioni di Roma, quelli di Firenze riflettono infatti una passionalità più sofferente. Anche il corpo è meno giovanile, più appesantito dal dolore e dagli anni (come del resto doveva essere quello del loro artefice). La lotta degli uomini con il destino che li opprime permette206

va allo scultore di rappresentare il corpo maschile impegnato nell’azione e di esaltarne la vitalità e la bellezza dell’anatomia. La distanza dal canone proporzionale classico è qui ancora più grande di quella segnata nelle sculture di Roma. L’ideale astratto della virilità antica è abbandonato a favore di una credibilità espressiva che della statuaria romana mantiene la capacità di cogliere l’essenza eliminando i tratti naturalistici. Nella scultura più avanzata, il cosiddetto Schiavo barbuto [tav. 33], si legge compiutamente il progetto di Michelangelo di fare di questi uomini dei guerrieri potenti e tuttavia sopraffatti dalla vita, che può concedere solo casualmente delle vittorie che rimangono comunque transitorie. La comprensione per gli sconfitti è totale: di loro apprezziamo la forza indomabile con cui resistono al destino. Lo stato non-finito delle sculture, oltre a generare un fascino che permetterà di riassorbirle molto facilmente nell’estetica moderna, permette anche di comprendere appieno la tecnica di lavorazione di Michelangelo e di capire fino a che punto fosse diversa da quella di tutti gli altri artisti contemporanei. Già presso gli scultori greci, la procedura tecnica imponeva all’artista di sgrossare interamente la figura per arrivare al «bozzolo» (abbozzo), ovvero a una figura ancora circondata da un sovrappiù di materia che poi doveva essere rimossa con molta cautela. Stabilite con un disegno o un modello le misure e le attitudini della figura, si levava tutto intorno il materiale in eccesso, verificando continuamente il rispetto delle misure prefissate. Michelangelo ignorava questo procedimento, arrischiandosi in una procedura ben più difficile da controllare. Attaccava il blocco sviluppando perfettamente alcune parti di esso, 207

mentre altre erano ancora racchiuse nel macigno lasciato rozzo com’era estratto dalla cava. Nello schiavo detto Atlante [tav. 30] questa tecnica appare estremamente chiara. Il corpo e il braccio sinistro dell’uomo sono già quasi finiti, mentre la testa, la schiena e il braccio destro sono ancora dentro un blocco appena squadrato. Chiunque avrebbe avuto paura di procedere in questo modo, perché dopo aver fatto tanto lavoro su alcune parti poteva succedere che nel cavare la schiena o l’altro braccio o la testa si potesse accorgere che non c’era spazio sufficiente per tirar fuori le membra nelle pose e nelle dimensioni progettate. A Michelangelo questo non poteva succedere: era talmente capace di vedere lo spazio ancora prigioniero della pietra, che a partire dalla sua superficie e dal volume era in grado di capire perfettamente dove si trovasse il resto della statua. Questa particolarissima abilità tecnica gli permetteva di correggere le figure in corso d’opera come gli pareva meglio accordandole alle nuove potenzialità generate dalla parte già scolpita. Nel caso di Atlante, la testa e il braccio ancora dentro il blocco potevano avere posizioni differenti e tutte compatibili con quanto già scolpito. Se avesse lavorato per gradi, come facevano gli altri, avrebbe dovuto già dall’inizio fissare le posture della testa e del braccio senza poterle cambiare o migliorare nel corso del lavoro. L’altra caratteristica tecnica che rende prodigioso il suo lavoro risiede nell’uso particolarissimo degli strumenti. Michelangelo usava lo scalpello e spesso anche la subbia fino alla pelle delle sculture. Quei segni che tormentano le superfici e di cui si innamoreranno gli artisti romantici del XIX secolo sono prodotti dagli scalpelli con i quali toglieva gli ul208

timi residui del marmo. La prudenza avrebbe consigliato, e consigliava agli altri, di procedere con le raspe e con strumenti sottili per non rischiare con un colpo troppo forte di rovinare inesorabilmente il marmo giunto all’ultima pelle. Michelangelo non temeva questi pericoli e segnava il marmo con strumenti grossi che avevano il vantaggio di evitare l’appiattimento dovuto alla raspa e al lento consumarsi del materiale. Con lo scalpello e le gradine piatte riusciva a ottenere passaggi immediati dal concavo al convesso e improvvisi cambi di volumi che si traducevano in quel fremito continuo per cui le sue sculture ci appaiono vive. Anche la Vittoria [tav. 34] di Palazzo Vecchio, realizzata in quegli anni di cupo avvilimento per i «tabernacoli» del primo ordine della tomba di Giulio, risulta nonostante il tema del tutto priva di trionfalismo. Il giovane che aggioga il vecchio sotto le sue gambe torna a essere un giovane fiorentino appena adolescente, molto vicino al David della tribuna. Nel volto non c’è traccia di soddisfazione, ma una fierezza appena contenuta, più per aver scampato un pericolo che per aver sconfitto un nemico. La posizione contratta del vinto è dovuta allo spazio esiguo del tabernacolo in cui doveva essere collocata la scultura e offre a Michelangelo l’occasione di comprimere ancora di più quelle forze e quelle energie che concepiva soltanto in forte tensione. La posizione del giovane guerriero è molto virtuosa sul piano tecnico e porta all’estremo la torsione del Cristo della Minerva, a cui è vicino nella costruzione anatomica della schiena potentemente curvata dalla muscolatura. Il gesto della mano che ripone o scioglie la fionda è un capolavoro nel capolavoro, per la naturalezza con la quale 209

le dita afferrano il cuoio. Quel gesto dà occasione a Michelangelo di gonfiare e rendere evidente la muscolatura del torace in torsione, raccontata con la precisione di una tavola anatomica, come se si trattasse di un culturista in posa. Ma anche qui le tensioni muscolari sono trattenute da una levità di rappresentazione che spinge la figura dentro un mondo ideale molto lontano dai corpi pure pieni di energia che chiunque poteva ammirare in una palestra di addestramento militare.

5. NEL SEGNO DEI MEDICI

1. Un artista conteso Una mattina del luminosissimo giugno del 1519 i preti di San Lorenzo passeggiavano nel chiostro grande per godere il calore della stagione mite. All’ora di pranzo, bello e maestoso, arrivò tra loro il cardinale Giulio de’ Medici, perfettamente a suo agio in quella che era considerata da almeno un secolo la chiesa di famiglia. Gli occhi scurissimi, resi ancora più affascinanti dal leggero strabismo, erano intristiti da un lutto grave e recente: la morte del nipote Lorenzo, duca di Urbino, ultimo discendente diretto della casa Medici. Nella piccola corte che gli si raccolse come sempre intorno, Giulio cercava una persona in particolare: Giovanni Battista Figiovanni, il mite e fedele priore di San Lorenzo, da sempre devoto alla famiglia e al suo santo protettore. Spaventato dalla severità e dalla maestosità di quello sguardo, il priore tentò di nascondersi facendosi scudo con una delle colonne di pietra serena già consumate e fratturate dal tempo. Ma Giulio cercava proprio lui. Avanzò quindi severo e alla fine, a poco meno di un metro, lo fissò negli oc213

chi chiedendogli se davvero la sua fedeltà alla famiglia fosse rimasta immutata negli anni. In un attimo si dileguarono tutte le paure del priore, che si buttò ai piedi del potente cardinale per confermargli amore e fedeltà eterna. L’incarico che Giulio si apprestava a dargli, in quella giornata felice, sembrava il miglior regalo che Dio potesse fare al priore: Noi siamo d’animo fare una spesa di circa ducati 50 mila appresso a San Lorenzo, la libreria et la sacrestìa in compangnia di quella già fatta et nome harà di cappella, dove molti sepolcri da seppellirvi li antenati mancati di vita che sono in deposito: Lorenzo et Iuliano nostri padri et Iuliano et Lorenzo frategli et nipoti. Se tu volessi la spalla porre socto tal peso, io la vedrei facta1.

I lutti recenti avevano convinto il papa Leone X e il cardinale Giulio, suo cugino, della necessità di dare avvio a un’impresa che celebrasse la famiglia attraverso la memoria, visto che la sua gloria era più certa nel passato che nel fumoso futuro. Attraverso le sepolture dei morti, ai Medici sembrava poter affermare molto più facilmente quella regalità che Firenze repubblicana, i suoi cittadini ostinati e orgogliosi, continuavano a negargli. L’eccezionalità dell’impresa era garantita non soltanto dall’entità della somma stanziata, 50.000 ducati, più della cifra già vertiginosa prevista pochi anni prima per la facciata della stessa chiesa di San Lorenzo, ma anche dalla presenza dell’artista più celebre del mondo, Michelangelo Buonarroti, immediatamente investito del prestigioso incarico. Tuttavia questa volta i Medici, istruiti dalle difficili esperienze precedenti, chiesero a Figiovanni di gestire i 214

rapporti con l’artista, a cui furono affidate soltanto – per il ragguardevole salario di 50 ducati al mese – la responsabilità del progetto e la realizzazione delle sculture. Nacque così, il 4 novembre di quello stesso anno, il cantiere più ricco e più moderno della Firenze del XVI secolo. Capomaestro della architettura – scrisse lo stesso Figiovanni – l’unico Michelangnolo Simoni, el quale Iob pazienzia havuto non harebbe con quello un giorno. Seguitò questo ordine anni circa cinque. Bernardo paghava, et io adoravo Michelangnolo come se il papa stato fusse, anzi san Lorenzo (...) quantunque Michelangnolo facesse roctura con molti strumenti come troppo utili di quella fabbrica, nè volse perdonare nè respectare el papa che con tanta fede la commissione dato mi haveva in tale opera, et molto manco conto fece di Iacopo Salviati. (...) Eravi allora 12 maestri di cazuola, 20 mastri manovali et 60 scarpellini, altri capi maestri2.

Non esagerava per niente, il povero priore di San Lorenzo, quando evocava il carattere insopportabile dell’adorato Michelangelo. Lui stesso ne avrebbe fatto le spese di lì a qualche tempo, cadendo vittima dell’insofferenza dell’artista che non sopportava di doversi confrontare con nessuno, fosse pure per dettagli amministrativi legati al ciclopico cantiere. Tante furono le sue insistenze, che Michelangelo ottenne la rimozione del fedele Figiovanni dall’incarico e accentrò su di sé tutte le responsabilità gestionali. A parte la sorte del povero Figiovanni, i lavori per le cappelle medicee progredirono almeno inizialmente con grande fervore. Lo stesso cardinale Giulio confermò tutto il suo impegno per l’impresa, dalla quale sembrava trarre la principale soddisfazione della sua vita. Discuteva con Michelangelo ogni dettaglio, dal legno dei soffitti alla forma 215

delle panche. E quando nel 1521 fu avviato il disegno definitivo delle tombe, intervenne pesantemente nel progetto, nella collocazione e nella dimensione dei singoli monumenti, cambiando così spesso opinione che Michelangelo nel 1523 gli attribuiva la causa della lentezza dei lavori. Con la morte di Leone X e l’elezione di Adriano VI nel 1522 vi fu una nuova interruzione dei lavori, poiché il nuovo papa fece conoscere subito a Michelangelo la sua intenzione di far rispettare i diritti degli eredi Della Rovere. Solo nel gennaio 1524 Michelangelo arrivò dunque a preparare dei modelli in scala 1 a 1 per le figure, che cominciò certamente a sbozzare nell’ottobre del 1524. Qualcosa tuttavia gli impediva anche quella volta di godersi la sua buona fortuna, di lavorare con tranquillità all’opera più importante della città, coccolato da tutti, invidiato e blandito dalla turbolenta comunità artistica fiorentina. Aveva la città ai suoi piedi, eppure l’unica sua felicità era inseguire di notte Luigi Pulci, che con la sua bellezza adolescenziale faceva innamorare di sé uomini e donne, soprattutto quando la notte si metteva a cantare con gli amici in riva all’Arno o nello slargo di una stradina profumata di menta. Benvenuto Cellini – che non si poteva stupire di niente, visto il suo temperamento e la vita che aveva avuto – racconta che appena Michelangelo aveva notizia della presenza di Luigi, abbandonava tutto per andarlo ad ammirare estasiato, mescolato alla folla di perditempo in cerca di scampo dall’afa inesorabile che schiaccia come una pressa di piombo la città nelle notti estive. Smetteva allora di essere quel cittadino rispettabile che aveva tanto sgomitato per rientrare nei ranghi abbandonati da suo nonno, e tornava ad essere gar216

zone libero, uomo pratico e originale come gli altri artisti fiorentini. Ma anche quella consolazione non bastava, e svaniva con i primi raggi del giorno nuovo3. La ragione principale che impediva a Michelangelo di dedicarsi serenamente al grandioso progetto delle tombe di San Lorenzo erano comunque le minacce di Francesco Maria Della Rovere, duca di Urbino. L’ingiunzione di Adriano VI di ottemperare al contratto con gli eredi di Giulio II lo fece poi sprofondare in una cupa crisi di angoscia all’idea di dover restituire i soldi o lavorare per un’opera già pagata con tutto quello che aveva da fare. Di certo Michelangelo non avrebbe avuto altra scelta che restituire i soldi, se ancora una volta il caso, adorato come un dio dai fiorentini, non fosse intervenuto per aiutarlo. Nel novembre del 1523, infatti, un conclave lungo e travagliato elesse successore di Adriano VI, morto due mesi prima, proprio il cardinale Giulio de’ Medici, che venne incoronato il 26 dello stesso mese con il nome di Clemente VII. La festa dell’incoronazione avvertì subito dei gusti molto più sobri del nuovo papa rispetto a quelli eccessivi e chiassosi di Leone X, che per «godersi il papato», come aveva promesso, aveva riempito il Vaticano di buffoni e svuotato le casse della Camera Apostolica, lasciando al cugino molti debiti e una preoccupazione che nella perfida corte papale diventò subito un segnale di incontenibile avarizia. Bello come nessuno dei Medici era mai stato, di temperamento moderato ma naturalmente elegante, Clemente aveva una statura superiore alla norma e le spalle di un atleta greco. I lineamenti erano marcati e regolari, nobili come quelli onestamente raccontati dal ritratto di Sebastiano 217

del Piombo. I capelli neri e gli occhi scuri emanavano un’energia vitale a cui pochi erano in grado di resistere. Con il suo fascino fisico, il nuovo papa suppliva facilmente alle ombre addensate su di lui dalla fama di malinconico. Nel pieno del suo vigore virile, non sembrava interessato alle passioni carnali. A dispetto della sua bellezza e della sua eleganza, anzi, impose subito alla Curia le virtù di un grande lavoratore e di un raffinato intenditore di musica. (Ciononostante non mancò chi, nei giorni tragici che precedettero il sacco di Roma, lo accusò pubblicamente di essere uno sfrenato sodomita e di aver provocato con le sue perversioni il castigo che si stava abbattendo sulla città.) Ricchezza, bellezza e prudenza fecero salutare la sua elezione con grande soddisfazione in tutte le corti italiane, anche se il suo ruolo di consigliere di Leone X ne aveva fatto sopravvalutare l’acume politico, attribuendogli risoluzioni che erano dovute in realtà al cugino e non a lui. Per le cancellerie europee circolavano i profili che gli ambasciatori e le spie redigevano per i propri committenti, avidi di dettagli privati non meno che di virtù pubblicamente riconosciute. Ne emergeva un uomo dal portamento elegante ma mai compiaciuto, che mangiava poco e mai fuori dai pasti, che alle cacce e alle cene con i buffoni preferiva la musica e la letteratura. Alcuni si chiedevano se fosse davvero lui il padre legittimo del giovane Alessandro de’ Medici, mandato subito a Firenze sotto la tutela di un precettore senese, quel Passerini cardinale di Cortona la cui presenza risultò subito estranea ed offensiva per l’aristocrazia fiorentina, che avrebbe voluto maggiore considerazione da parte del nuovo papa. 218

Nel ritratto dei contemporanei anche meno benevoli, Clemente VII rifuggiva tutto ciò che era eccessivo. Non lesinava però i suoi favori, tanto che all’indomani della sua elezione l’ambasciatore di Bologna si affrettò a scrivere compiaciuto che il nuovo papa aveva concesso in una sola giornata più favori di quanti ne avesse elargiti durante tutto il suo pontificato Adriano VI. La sobrietà e la serietà del carattere, unite a quel tratto signorile che per un Medici si ereditava con il sangue, ne facevano un mecenate ideale per Michelangelo, che negli anni precedenti aveva già imparato a conoscerlo e apprezzarlo. Ma subito dopo la sua elezione, quando fu costretto ad assumersi in prima persona delle responsabilità, Clemente VII cominciò a manifestare anche nel rapporto con l’artista quell’indecisione e quel continuo tentennare che lo avrebbero portato alla rovina politica. Nelle sue lettere all’artista sollevava continui dubbi sull’opportunità di erigere un monumento per i duchi al centro della cappella, o addossarlo alle pareti, sulla lunghezza di un lato o la sua altezza. I suoi ministri fecero più di tutti le spese di quella irresolutezza. Una lettera, una parola bastava per rovesciare di botto una determinazione presa dopo lunghi esami e calcoli e per ricacciare il papa nella stessa perplessità nella quale si era trovato prima della decisione4. Lo ricorda con molto rammarico anche Francesco Guicciardini, che lo conobbe e seppe misurarlo meglio di ogni altro e che partecipò attivamente al governo di Clemente. Ma quello non era purtroppo tempo per le incertezze, perché il destino aveva messo il nuovo papa a confronto con due re giovani, valorosissimi e di grande risolutezza: Carlo V e Francesco I di Francia. 219

L’oscurità tragica del carattere di Clemente VII non si manifestò comunque subito. Anzi, appena si sparse la notizia della sua elezione gli amici di Michelangelo si affrettarono a congratularsi con lui come fosse stata resa pubblica un’alleanza matrimoniale particolarmente vantaggiosa. In effetti fu così che lo stesso Michelangelo accolse la notizia e molti nei giorni successivi all’elezione gli invidiavano già i nuovi sostanziosi appalti: «In questo mezzo credo harete fatto col Papa qualche buona conventione, che Idio il voglia»5. Michelangelo godeva ormai di una posizione straordinaria, mai raggiunta da nessun artista. Era chiamato a giudicare le opere degli altri. Tutti chiedevano un suo parere o un suo schizzo, accontentandosi anche di opere progettate da lui ma eseguite dai suoi amici. Dopo la morte di Raffaello non aveva più rivali e la commissione delle tombe medicee si allungava già, nelle intenzioni di Clemente, in quella di altre due tombe: la sua e quella di Leone X, da porre entrambe all’interno della chiesa di San Lorenzo. C’era di che arricchire dieci generazioni di artisti! Lo stesso Sebastiano del Piombo, anche lui ormai in un’ottima posizione nel mercato artistico romano, si affannava a sottolineare gli enormi vantaggi della condizione in cui era venuto a trovarsi l’amico e lo invitava ad approfittarne senza esitazione. C’era però il solito ostacolo, sempre più temibile: la tomba di Giulio II e le minacce degli eredi, che continuavano a rivendicare giustizia. Non stupisce dunque che la prima questione posta da Michelangelo a Giovan Francesco Fattucci, il cappellano di Santa Maria del Fiore che curava i suoi interessi a Roma, un mese dopo l’elezione papale, riguardava proprio una possibile soluzione legale della vicenda. Fat220

tucci si era affrettato a comunicargli che Clemente intendeva aiutarlo con ogni mezzo a liberarsi del peso della tomba senza restituire i soldi. Il nuovo papa contava in questo modo di poterlo utilizzare esclusivamente per le imprese fiorentine della sua famiglia. Ma trascurava il fatto che i Della Rovere avevano già pagato da anni la loro commissione e che nella Curia romana era ancora forte il ricordo di Giulio II, così come la presenza di suoi sostenitori. Fattucci, insieme a Sebastiano del Piombo e con l’assenso neppure troppo tacito di Clemente VII, iniziò così a cercare di trovare una soluzione. A Michelangelo fu chiesto, per iniziare la contrattazione con gli eredi di Giulio II, di riassumere la tormentata storia. E a fine dicembre 1523 l’artista redasse una lettera in cui falsificava coscientemente tutti i dati della questione, arrivando paradossalmente a rivendicare un credito presso i Della Rovere anziché ammettere il proprio debito, convinto forse che l’arroganza papale e i pessimi rapporti dei Medici con i Della Rovere potessero coprire anche il suo sfacciato opportunismo. Ma i tentativi di alterare i conti furono rapidamente e miseramente sventati dai documenti esibiti al Fattucci dal curatore testamentario di Giulio II, il cardinale dei Santi Quattro. Il 10 marzo 1524 Fattucci comunicò a Michelangelo di aver visto quei conti, che concordano perfettamente con quanto siamo oggi in grado di ricostruire attraverso i documenti raccolti sulla contabilità dell’artista. «Michelagniolo, io sono stato con Santi Quattro, il quale m’à mandato con una poliza di sua mano et àmmi mostro il vostro conto; et dipoi mi portò una scritta, che v’è di vostra mano la riceuta di sette mila ducati, et mille cinque cento sono 221

quelli avesti da Iulio, come dice in sul contratto. Per modo che in tutto si vede che voi avete riceuti ducati otto milia cinque cento et resteresti avere otto mila ducati»6. Non c’è dubbio che Francesco Maria Della Rovere dovette rimanere profondamente disgustato dal comportamento di Michelangelo. Ma non aveva nessuna intenzione di cedere di fronte a quel papa che andava mostrando giorno dopo giorno la sua incapacità diplomatica sulla graticola accesa della politica europea. Da quel momento in poi, per l’ennesima volta, la partita della sepoltura di Giulio II si intrecciò con i precari equilibri politici che si apparecchiavano in Italia.

2. Una politica fallimentare Rassicurato dalle promesse di Clemente, a capo di un esercito di artisti, muratori e scalpellini nei giardini del chiostro di San Lorenzo, Michelangelo attendeva a costruire la gloria visibile dei Medici, propiziandone quella politica. A poche centinaia di metri, un altro esercito, meno folto ma non meno determinato, lavorava per accelerare la nuova crisi politica di quella stessa famiglia. Nel giardino del Palazzo Rucellai, lontano un tiro di freccia dal cantiere di San Lorenzo, gli intellettuali più raffinati della città si riunivano per discutere di letteratura, di storia, e naturalmente di politica. Era un piccolo giardino urbano, con fontane discrete, limoni e siepi di bosso tagliate in geometrie che facevano invidia a tutta Europa. L’armonia naturale di quel piccolo mondo incontaminato aiutava i pensa222

tori a collegarsi ai valori eterni della storia e della filosofia, anch’essi immutabili e incontaminati. Ma quegli intellettuali, appartenenti alle migliori famiglie fiorentine, coltivavano soprattutto l’orgoglio della libertà civile, in cui rivedevano la gloria e la virtù dell’antica Repubblica romana. Da anni in quei giardini si coltivava il desiderio di una rinascita della Repubblica fiorentina. Machiavelli vi leggeva ad alta voce i suoi Discorsi e il suo Principe e i più giovani s’infiammavano per l’idea di una Firenze faro della civiltà universale e della libertà comunale. Si passavano sistematicamente in rassegna gli eventi dell’ultimo secolo, si discutevano le forme delle istituzioni cittadine. Soprattutto, si cercava di capire quale costituzione avrebbe potuto garantire al meglio la grandezza di Firenze e del suo complicatissimo corpo sociale. C’erano gli intellettuali che esprimevano il punto di vista degli ottimati, l’aristocrazia del denaro che vagheggiava un governo dei pochi e che si sentiva naturale alleata dei Medici. Ma questi ultimi, sempre molto attenti a che nessuna delle grandi famiglie fiorentine diventasse tanto potente da avvicinarsi pericolosamente alla loro, sceglievano i più fedeli alleati in ceti più bassi e distanti dall’aristocrazia urbana, finendo per avversare quei potenziali alleati. C’erano poi i popolani, appartenenti al ceto medio, che vedevano in una repubblica con ampia apertura partecipativa una prospettiva coerente con le proprie aspirazioni, nonché la promessa di una giustizia capace di premiare gli uomini per le loro virtù morali anziché per la provenienza familiare. Tra questi due ceti, un intrico di sfumature sociali e politiche legate agli interessi di clan, di famiglia e di mercato, che rendevano da due secoli Firenze una pentola sempre sul 223

punto di esplodere. Ma tutti, indistintamente, non potevano rassegnarsi alla signoria sfacciata di una sola famiglia, al punto da fare dell’idea di una Firenze libera e repubblicana il mito fondante della propria identità. I temi che si coltivavano nella quiete dell’orto aristocratico volavano poi ancora più in alto, toccando lo stato dell’Italia e la politica scellerata di principi e pontefici che aveva fatto arrivare sul suolo della penisola quei re stranieri che la stavano straziando. Addirittura si arrivò a interrogarsi sulle questioni della Riforma protestante, che cominciava a porre quesiti urgenti anche nella società italiana. Alcuni dei partecipanti agli incontri, come al solito i più giovani, erano così infervorati da compromettersi già nel 1522 con i primi tentativi di sottrarre Firenze al giogo mediceo. Molti entrarono in contatto con Michelangelo e sarebbero rimasti a lui legati per sempre, influenzandone le scelte sia pubbliche che private. Donato Giannotti, nato nel 1492 da una famiglia di ceto medio, insegnò a Pisa e a Padova fino al 1526 e sviluppò un pensiero particolarmente sensibile alla partecipazione di tutti i cittadini al governo e all’esigenza di autodifesa militare della città (questione posta con fermezza da Machiavelli, che vedeva proprio nella mancanza di una milizia cittadina il punto di maggior debolezza dello Stato fiorentino). Battista della Palla, giovane aristocratico di grande passione repubblicana e sognatore utopico, fu costretto a emigrare dopo il 1522 e fece fortuna in Francia con il commercio antiquario. Antonio Brucioli, raffinatissimo e prolifico scrittore, fu estensore di trattati di carattere filosofico e politico e si avvicinò infine ai temi della Riforma, arrivando a tradurre e a stampare una Bibbia in lin224

gua volgare che gli attirò accuse di eresia dopo la congiura antimedicea del 1522: sarebbe stato costretto a una lunga contumacia che iniziò a Venezia, dove nel 1529 avrebbe accolto un Michelangelo sopraffatto dal terrore e dal panico. Questi uomini, segnati dall’amore sviscerato per il mondo antico e per l’arte, da un umanesimo vissuto come religione politica, non potevano certo restare indifferenti a quanto accadeva in quegli anni nel cantiere michelangiolesco di San Lorenzo, dove l’umanesimo prendeva le forme visibili che sarebbero sopravvissute al suo declino culturale. Ma la breve strada dal Palazzo Rucellai al cantiere di San Lorenzo dovette essere percorsa con molta prudenza dai raffinati giardinieri degli orti, lacerati tra l’ammirazione per l’opera dell’artista, che già vent’anni prima si era votato alla repubblica, e il fastidio per il servizio che stava prestando ai tiranni della città. Conoscevano bene le insidie del mecenatismo mediceo, nato proprio come strumento di propaganda e oppressione delle loro aspirazioni di libertà. Nella primavera del 1526 quella breve distanza sembrava incolmabile: eppure di lì a qualche mese si sarebbe inaspettatamente dissolta. Nel 1526 Michelangelo aveva ultimato i modelli di sei statue e portato avanti la loro sbozzatura. La bellezza e la solennità che aveva dato ai due duchi Medici, che in realtà erano sopravvissuti solo pochi mesi alla loro investitura, era destinata a cancellare la miseria di quelle vite insignificanti e disonorevoli per scagliarle nell’Olimpo della virtù eterna e prestare ad esse un talento che come per magia trasformava ciò che toccava in frutto divino. Lorenzo, il primo duca d’Urbino, conosciuto più per la vigliaccheria militare e per 225

l’arrendevolezza mostrata all’ambiziosissima madre, era adesso un giovane Cesare, inarrivabile nella bellezza del corpo e nell’espressione nobile, che alludeva a pensieri mai concepiti dal giovane superficiale e vago [tav. 36]. Giuliano, fermato nell’atto di torcere il busto, sembrava un condottiero furioso appena sceso da cavallo, con i capelli ancora scomposti dalla battaglia e il volto appagato dall’azione eroica, lui che era stato sempre malaticcio e di debolissima costituzione fisica [tav. 37]. Ai loro piedi, la Notte, il Giorno, il Crepuscolo, l’Aurora, i fiumi: tutto a celebrare una regalità mai comparsa sulle sponde dell’Arno. Firenze stupiva e si amareggiava, mentre Clemente, interrompendo le udienze e le riunioni politiche, continuava a farsi raccontare da tutti le meraviglie che non poteva ancora vedere. Gli ambasciatori non capivano perché il papa, ogni volta che l’emissario di Michelangelo gli raccontava il progresso dei lavori, diventasse felice come un bambino e si disperavano di non avere anche loro un Michelangelo per trattare con il pontefice le questioni politiche. La felicità del papa alla notizia dei modelli finiti, d’altra parte, era ancora più grande perché negli stessi giorni sembrava realizzarsi un sogno che gli avrebbe consegnato un altro pezzo di paradiso. Le truppe della Lega Santa che il papa aveva stretto con Venezia, gli svizzeri e i francesi si stavano raccogliendo sotto le mura di Milano per infliggere all’esercito imperiale la sconfitta che avrebbe posto fine all’influenza dell’imperatore nella penisola, aprendo una nuova età dell’oro per i Medici prima ancora che per l’Italia. Nel giugno 1526 le truppe della Lega cinsero d’assedio la città, dove si erano asserragliati gli imperiali in grave difficoltà. L’eserci226

to pontificio, di scarsa rilevanza, era guidato da Francesco Guicciardini. Quello di Venezia, molto meglio organizzato, era guidato per ironia della sorte da quello stesso Francesco Maria Della Rovere che aveva ricevuto da Leone X l’onta dell’esproprio del Ducato di Urbino e che ora si trovava a militare dalla stessa parte di un nuovo papa Medici, per giunta con una responsabilità vitale. Le cronache raccontano della crisi paradossale di quei giorni senza riuscire a spiegarla nei suoi effetti devastanti. Francesco Maria, non senza il consenso dello Stato che rappresentava, rifiutò di esporsi ad un attacco pericoloso per il proprio esercito prima che arrivassero gli aiuti promessi dai francesi e dagli svizzeri. Ma i giorni passati ad aspettare i rinforzi diedero agli imperiali la possibilità di riorganizzarsi e di riprendere il pieno controllo del castello di Milano. Il 7 luglio, nell’afa insopportabile che avviliva le truppe già gravate dalle pesantissime armi, Francesco Maria si decise a un attacco che si rivelò infruttuoso; ritirò quindi rapidamente l’esercito, tra la rabbia del Guicciardini che lo accusò di aver tradito la causa della Lega. A molti contemporanei il contegno del duca di Urbino sembrò una vendetta per come si era comportato con lui Leone X. Se anche non fu una vera vendetta, certo Francesco Maria dimostrò di non avere particolari motivi di gratitudine per Clemente VII. Soprattutto, non sembrava temerlo come il papa si era forse aspettato. Le sorti della guerra, che in primavera erano sembrate decisamente favorevoli alla Lega, andarono rapidamente mutando. L’alleanza perdeva giorno dopo giorno il controllo dell’enorme esercito imperiale che, affamato per le paghe non ricevute e desideroso di vendetta, si diresse verso sud nel 227

miraggio dei saccheggi delle odiate città italiane. A Roma Clemente VII non seppe fronteggiare la situazione. Semmai la peggiorò con la sua irritante irresolutezza, arrivando a stipulare con i Colonna, alleati dell’imperatore, un accordo che lo consegnò senza difesa nelle loro mani. L’accordo era stato abilmente suggerito dall’ambasciatore imperiale, che voleva infliggere al papato una severa punizione per la sua politica filofrancese. La situazione divenne ancora più drammatica quando, tra il 7 e il 12 febbraio 1527, le truppe imperiali spagnole guidate dal conestabile di Borbone si ricongiunsero ai lanzichenecchi guidati dal generale Georg von Frundsberg nei pressi di Piacenza. I salari non corrisposti e l’odio seminato dai luterani contro gli italiani, tacciati nel loro insieme di papismo, avevano trasformato 22.000 uomini sbandati in un flagello biblico, che più volte rischiò di aggredire i suoi stessi comandanti. Nell’ultimo tentativo di disciplinare la truppa, Frundsberg tenne un’arringa così appassionata che gli provocò un infarto e una morte gloriosa sotto gli occhi dei suoi uomini. A Roma, dove non potendosi votare alla ragione si attaccavano alla superstizione, la morte del Frundsberg fu salutata come un segno della collera divina contro i lanzichenecchi. In realtà quella morte rese ancor più fatale e inarrestabile la tragedia che si stava per abbattere proprio sulla Città eterna, lasciando l’esercito ai soli istinti bestiali dei soldati e all’avidità del conestabile di Borbone, che da quella violenta campagna di annientamento si aspettava la carica di viceré d’Italia. I 22.000 mila soldati cominciarono a muoversi verso sud al grido di «Avanti ad ogni costo, avanti verso Firenze, avanti verso Roma». La neve, che quel228

l’inverno aveva coperto abbondante l’Appennino centrale, ritardò la marcia delle truppe e le piogge di marzo furono particolarmente copiose e bene accolte dai toscani, che si sapevano ormai abbandonati alla furia degli eventi e protetti solo da quella degli elementi naturali. Il 16 aprile l’orda entrò nel territorio fiorentino. La città negoziò una taglia di 150.000 ducati per salvarsi dal saccheggio, ma niente sembrava poterla mettere al sicuro da quel flagello, che lasciava una scia di terrore sul suolo attraversato e che evocava il ricordo di altri eserciti, quelli che avevano per sempre messo fine alla gloria di Roma antica. Clemente VII commise allora l’ultimo dei suoi tanti errori. Spinto anche da quell’avarizia che tutti ormai gli rinfacciavano, licenziò le ultime guarnigioni, convinto di essere vicino all’armistizio. L’orrore si abbatté invece su Roma la mattina del 6 maggio, appena la fresca nebbiolina primaverile, sollevandosi dall’acqua placida, liberò le sponde del Tevere dall’ultima esilissima difesa. Nessuna violenza può paragonarsi a quella generata dall’odio religioso e i luterani scesi a punire il papa cattolico e vizioso lasceranno ai posteri un’insuperata lezione di atrocità, che anche quella volta – come raccontano le testimonianze di quei giorni – si accanì contro gli inermi e i più deboli: «(...) le monache delle più religiose et di buona vita che fussero in Roma si son vendute per Roma ad un giulio l’una a chi se ne ha voluto satiar le voglie sue, li stridi et li ululati delle povere madri, alli quali son stati morti in seno li figlioli che lattavano o rapiti per farli recattare (...) l’imagine del crucifisso del Populo et molte altre delle più divote di Roma son state bersaglii di archibusi»7. 229

A Firenze, intanto, la comparsa sul territorio comunale dell’esercito imperiale aveva provocato immediatamente una rivolta politica. La città era ormai esasperata dalle spese per le imprese folli dei Medici. Guicciardini, scrupoloso cronista di quelle vicende, da buon toscano non tralascia di sottolineare il saldo monetario che causò lo sdegno dei fiorentini: 500.000 ducati per finanziare la guerra contro il re di Francia, 300.000 ai capitani imperiali, 600.000 per la guerra contro l’imperatore, per non parlare dei 500.000 che avevano dovuto pagare per sostenere la guerra tutta dinastica contro il duca di Urbino. Bizzarria della storia, proprio quest’ultimo entrò in città ad aprile, scintillante nella corazza d’argento resa immortale da Tiziano e con il cimiero che tratteneva a stento i riccioli nerissimi, per ergersi a difensore di Firenze e degli interessi del papa. Il 26 aprile 1527, un venerdì, tutti gli eserciti erano intorno a Firenze. Dalla lanterna del Brunelleschi i responsabili militari della città scrutavano l’orizzonte dove si alzava la polvere delle colubrine trascinate dalle orde degli imperiali, che avevano scavalcato l’Appennino per fermarsi presso Arezzo. Vedevano pure l’esercito della Lega avvicinarsi da nord per acquartierarsi vicinissimo a Firenze. Il duca di Urbino si mosse di buon mattino dal campo per andare in avanscoperta a scegliere i prossimi alloggiamenti dell’esercito, ma fu richiamato in città, insieme al marchese di Saluzzo, per i tumulti scoppiati contro i Medici. Una folla inferocita si era chiusa nel palazzo comunale cacciandone gli amici dei Medici. Non voleva saperne di restituire il palazzo al governo manovrato dal cardinale di Cortona a tutela dei giovani Alessandro e Ippolito. 230

Toccò proprio a Francesco Maria Della Rovere, nemico giurato dei Medici ma capitano di un esercito alleato, sconsigliare l’impresa che in quelle circostanze avrebbe messo a rischio l’intera città. Anche quella volta il sanguigno duca diede prova della forza e della decisione che mancavano invece al papa, risolvendo una crisi politica grave senza nessuno spargimento di sangue. L’arrivo in città di un drappello militare al suo comando dovette certamente impressionare e sgomentare il povero Michelangelo, che da dieci anni si opponeva a lui in un contenzioso disperato e che difficilmente quel pomeriggio pensò di poterne uscire vincitore. Se non incontrò lo sguardo terribile dell’unico uomo che non lo tollerò mai, certamente quella stessa sera gli fu raccontata fin nei dettagli più insignificanti la scena che salvò Firenze dal sacco, meritando al duca la gratitudine di tutti i cittadini. Ma se l’intervento di Francesco Maria sventò il tumulto del 26 di aprile, nessuno avrebbe potuto contenere l’odio antimediceo che scoppiò in città venti giorni dopo, quando a Firenze arrivò la notizia del sacco di Roma e della prigionia del papa in Castel Sant’Angelo. Era il 16 maggio. Nemmeno un mese prima le statue sbozzate da Michelangelo annunciavano la gloria dei Medici. Ora bande armate devastavano tutto quello che ricordava il nome di quella famiglia, accanendosi a demolire le loro insegne ben consapevoli di quanto la dinastia fidasse sui simboli del proprio potere: «Scancellorno per tutta la città impetuosamente le insegne della famiglia de’ Medici, affisse eziandio negli edifici fabbricati da loro; roppeno le immagini di Leone e di Clemente che stavano nel tempio della Annunziata, celebrato per tutto il mondo»8. 231

Fortuna volle che le statue di Lorenzo e Giuliano non fossero ancora pronte. Non si sarebbero certo sottratte alla furia iconoclasta con cui, secondo tradizione, Firenze celebrava i suoi rivolgimenti.

3. In difesa della Repubblica Il cantiere monumentale di San Lorenzo andò in frantumi. L’esercito di scalpellini, muratori e capomastri abbandonò il sogno dei Medici; mentre l’altro esercito, quello degli intellettuali che si riunivano a Palazzo Rucellai, lasciò il giardino raffinato pronto a sperimentare l’ultimo tentativo di instaurare una repubblica democratica. Il nuovo governo elesse gonfaloniere per un anno, con la possibilità di rinnovare la carica per altri due, Niccolò Capponi, un aristocratico che aveva sempre mostrato un sincero amore per le libertà repubblicane. Capponi avviò una politica prudente di rinnovamento istituzionale, mirata a non irritare ulteriormente il papa Medici e a garantire alla sua famiglia i diritti costituzionali previsti per tutti gli altri cittadini. Ma questa politica prudente sollevò l’allarme immediato della fazione più radicale, che nel giro di pochi mesi lo destituì dalla carica eleggendo al suo posto Francesco Carducci, un uomo giudicato dagli ottimati fiorentini indegno di occupare la massima carica della città. Il nuovo governo affrontò immediatamente l’emergenza militare posta dalle scorrerie degli eserciti di tutti i paesi in tutte le direzioni. Le riflessioni di Machiavelli sulla necessità di avere nella milizia popolare la miglior garanzia di 232

libertà non erano passate invano. Ogni quartiere formò la sua «milizia popolare» e i legami di clan divennero strettissimi. Nobili, ricchi e poveri, fianco a fianco, costruivano la difesa della città esaltati dalle orazioni infuocate che continuamente venivano tenute in ogni quartiere da giovani e colti repubblicani. Una febbre patriottica rinsaldava l’orgoglio comunale e i legami tra le persone. La prima preoccupazione del nuovo governo fu quella di rafforzare le scorte militari e le mura difensive. Suscitando ancora una volta lo stupore dei Medici e dell’intera città, Michelangelo si votò appassionatamente alla causa, contro quella famiglia che lo aveva allevato da ragazzo e per la quale stava lavorando ancora il giorno prima dell'insurrezione. La sua fede repubblicana era così solida che il suo contributo non si limitò a un appoggio passivo, ma meritò uno degli incarichi più delicati del nuovo governo: l’adeguamento della cinta muraria alle nuove esigenze belliche. Le fortificazioni che cingevano Firenze, risalenti alla prima metà del XIV secolo, erano diventate obsolete con la comparsa delle armi da fuoco, che ponevano problemi del tutto nuovi alla difesa militare. Le cortine murarie dovevano essere inclinate in ogni direzione per togliere forza ai colpi sparati dalle artiglierie. La percussione delle bombarde imponeva una concentrazione delle forze in alcuni punti e obbligava alla costruzione di avamposti difficili da abbattere nei quali concentrare le artiglierie della difesa. Tutto questo aveva già da tempo condotto i grandi architetti militari ad abbandonare le forme geometriche piane e semplificate a favore di un dinamismo molto più articolato, come dimo233

strano l’opera di Francesco di Giorgio Martini e quella dello stesso Leonardo da Vinci. I disegni redatti in quei giorni da Michelangelo, pervenutici in ottime condizioni [tav. 35], dimostrano lo zelo, la passione e addirittura il furore del suo impegno in difesa della Firenze repubblicana, che certamente anche lui viveva come il simbolo stesso della libertà italiana e l’esempio illuminante di uno Stato formato da uomini virtuosi. Le sue piante dei bastioni e delle porte fortificate hanno un andamento zoomorfo, quasi che a guardia della città l’artista intendesse mettere animali minacciosi che al solo apparire spaventavano i nemici. Granchi muniti di chele gigantesche, insetti mitici che gonfiano i muscoli nella tensione della difesa, masse murarie compresse fino al punto di esplodere contro un nemico a cui Michelangelo rivolgeva innanzitutto un ammonimento simbolico: che avesse però effetto anche per gli abitanti della città, sostenuti da quelle mura non meno che dalla virtù delle istituzioni. Il suo impegno creativo in difesa della repubblica fu così grande che proprio in quella circostanza Michelangelo riuscì a superare con la forza della passione ogni linguaggio classicista e antichizzante, imprimendo alle forme un’energia vitale e un sentimento che avrebbe recuperato anni dopo nella costruzione delle poche architetture portate a compimento. Se Stendhal vide nel fallimento di quell’insurrezione il primo serio indebolirsi della bellezza rinascimentale, i disegni di Michelangelo dimostrano invece che proprio in quel frangente il Rinascimento trovò, per mano del suo interprete più grande, la forza di abbattere ogni barriera ideologica e di gettare le fondamenta di tutta la sperimentazione artistica dei secoli successivi9. 234

La novità delle costruzioni michelangiolesche, in particolare intorno al forte di San Miniato, considerato da tutti uno dei punti strategici per la difesa della città, sbalordì molti tra gli stessi esperti militari, che ritennero poco idonee le sue realizzazioni. Ma il lavoro di Michelangelo per le fortificazioni fu molto umile, contrariamente a quanto era avvenuto nelle imprese affrontate fino ad allora. Fece viaggi e sopralluoghi in molte zone. Visitò Ferrara, considerata allora grazie all’esperienza del duca d’Este una delle città meglio munite d’Europa. Né disdegnò di servirsi di provvedimenti ingegnosi ma di poca spesa, come dimostrano i materassi che fece sospendere ai bastioni di San Miniato per infiacchire i colpi delle palle di cannone. Proprio quella volta, tuttavia, il suo lavoro non fu circondato dall’ammirazione che avrebbe meritato, se non altro per il coraggio che aveva avuto a tradire ancora una volta i suoi potentissimi committenti. Niccolò Capponi era un aristocratico, e come molti aristocratici vedeva di mala voglia la presenza di un popolano come Michelangelo al governo: «Oltre a ciò l’invidia può qualcosa nelle repubbliche, e massime dove sono assai nobili, come era nella nostra, che sdegnavano, non ch’altro, di vedere uno de’ Carducci Gonfaloniere, Michelagnolo dei Nove, un de’ Cei o de’ Giugni dé Dieci, e così fatti»10. Anche se la sua condotta fu poi raccontata come la più virtuosa tra quelle tenute dai cittadini in quei mesi infernali, la posizione di Michelangelo non era facile. A rendere la situazione in città ancora più drammatica intervenne anche la peste, che fece la sua comparsa nell’estate del 1527. Michelangelo rimase in città, rifiutando di seguire la famiglia nella più salubre tenuta di Settignano. 235

Era però della famiglia che si preoccupava. E la paura del contagio irruppe nella sua corrispondenza quotidiana: «Non toccare le lectere che io ti mando chon mano». Ma fu tutto inutile. Nell’estate del 1528, l’adorato fratello Buonarroto gli morì tra le braccia, lasciando due figli, Francesca e Leonardo, sui quali si chiuse l’affetto di Michelangelo e del padre Ludovico, che ormai solo a quel bambino affidavano le speranze di una continuità dinastica senza la quale la stessa vita d’inferno passata dall’artista a migliorare le condizioni patrimoniali della famiglia non avrebbe avuto alcun senso. Nonostante Michelangelo si fosse immediatamente precipitato a prendersi cura del nipote orfano, Ludovico gli ingiunse da Settignano un comando che era anche un grido disperato di dolore e di vitalità inaspettata: Michelangniolo, la Margherita iersera mi disse chome tu mandasti per el ban[bi]no e di tutto mi raguagliò. La mia intenzione [è] di volere el banbino in ongni modo. Senza mancho veruno io lo voglio, e non voglio per veruno mod[o] ch’ella lo porti im Mugiello; per nessuno modo non voglio che vada im Mugiello. (...) Noi non chrediamo ch’egli tema troppo, perché el bambino è naturale e mangia e beve chome una persona grande11.

Le trame dei Medici che assediavano Firenze, la malattia più spietata di un esercito, le difficoltà della politica interna, la nera notte di una tragedia così disperata, spinsero la famiglia decimata ad aggrapparsi a quel bambino: i delicatissimi problemi di cura fisica non spaventavano il nonno e lo zio. Pochi mesi dopo la morte del fratello, Michelangelo entrò a far parte dei Nove di Milizia, una delle cariche più im236

portanti della città. Fu anche nominato «generale governatore et procuratore costituito sopra alla detta fabbrica et fortificatione delle mura»12. Ma la situazione della città era sempre più difficile. La violenza del sacco di Roma rischiava di travolgere l’immagine del giovane Carlo V, che in definitiva era pur sempre l’imperatore, la massima figura politica della cristianità, sebbene avesse inflitto alla capitale del cristianesimo un tormento che era sembrato eccessivo e sacrilego a tutto il mondo. Ricucire i rapporti con Clemente VII era indispensabile e più che mai opportuno, se voleva continuare nella sua politica di unificazione dei territori ereditati. Dal canto suo il papa aveva una sola ossessione, comune a quasi tutti coloro che lo avevano preceduto nell’ultimo secolo sul trono di Pietro: la famiglia. Nell’accordo stipulato a Barcellona tra i rappresentanti del papa e quelli dell’imperatore, una delle condizioni fu proprio il recupero di Firenze alla signoria medicea. Il destino della gloriosa repubblica era ormai segnato perché il cinismo della politica aveva distrutto le resistenze ancor prima che fossero entrati in azione gli eserciti. Sospettoso e diffidente come sempre, Michelangelo vedeva addensarsi intorno a sé le trame dei peggiori tradimenti. Si mormorava che il capitano delle milizie fiorentine, Malatesta Baglioni, stesse accordandosi segretamente con il papa per consegnargli Firenze. I provvedimenti ordinati da Michelangelo venivano difficilmente eseguiti, per l’opposizione politica interna, o forse solo per la disorganizzazione della città, quasi sull’orlo della guerra civile per il contrasto tra la fazione che voleva trattare con i Medici e quella degli irriducibili. Inoltre, cosa certo di grande momento 237

per Michelangelo, i cittadini abbienti come lui erano continuamente tassati per far fronte alle esigenze sempre più pressanti della difesa. La sua natura conflittuale lo lacerava tra una passione quasi irragionevole per la repubblica e gli interessi personali, che aveva tradito impegnandosi così apertamente contro quei Medici che ora ricucivano inesorabilmente la trama del proprio potere. L’artista faceva la spola tra la lanterna della cupola rossa del Brunelleschi, da dove dominava la città e la campagna, e gli avamposti dei soldati, da lui visitati due volte al giorno per seguire i lavori di fortificazione, che a suo parere procedevano sempre troppo lentamente. Le critiche che muoveva alla gestione militare erano messe sul conto del suo carattere, universalmente riconosciuto difficile. Ma l’ansia cresceva e lo isolava, facendo affiorare giorno dopo giorno quella diffidenza che aveva segnato tutta la sua vita. La paura di perdere i soldi accumulati in una vita di stenti prese il sopravvento sugli ideali repubblicani e sull’affetto per parenti ed amici. Il 21 settembre 1529 decise di fuggire da Firenze insieme a un amico, Rinaldo Corsini, e al giovane assistente Antonio Mini. Per eludere la sorveglianza fece il giro delle porte. Infine, proprio perché riconosciuto membro autorevole del governo, sgattaiolò dalla Porta a Prato verso nord. I movimenti dei tre amici erano lenti e impacciati. Nei saioni di panno scuro e doppio che indossavano erano cuciti e serrati ben 12.000 scudi, un tesoro per il quale Michelangelo aveva sgobbato tutta la vita e che ora voleva mettere in salvo. La scelta era ancora più disperata di quella compiuta con il tradimento dei Medici: i ponti con il passato erano ormai ta238

gliati per sempre. Il progetto era radicale e pensato in ogni dettaglio: doveva raggiungere Venezia, da dove sarebbe passato in Francia al servizio di Francesco I, suo grande ammiratore, avvertito dalle lettere del suo ambasciatore Lazare de Baie il 14 e il 23 ottobre e poi ancora il 16 novembre. Negli anni successivi alla rivolta del 1527, un esponente di punta della Repubblica fiorentina aveva mandato proprio a Francesco I un regalo speciale: l’Ercole che Michelangelo aveva scolpito subito dopo la morte del Magnifico e che era rimasto per molti anni nel giardino degli Strozzi. A occuparsi della spedizione era stato Battista della Palla, il fuoriuscito repubblicano che aveva fatto fortuna in Francia con il commercio di opere d’arte, ma che, richiamato dalla passione politica, era ricomparso a Firenze subito dopo la rivolta antimedicea. Da Venezia, Michelangelo scrisse proprio a Battista della Palla, invitandolo a raggiungerlo per proseguire insieme per la Francia come d’accordo. La lettera rivela un fatto importante, che sarà in seguito negato da Michelangelo: la fuga dalla Firenze assediata fu un’azione meditata e ponderata e non il frutto di un attacco di panico improvviso e irresistibile, come l’artista volle far credere in seguito avvolgendo anche questa circostanza nella solita nebbia di ambiguità e mistero. Nella città lagunare Michelangelo aspettò l’amico per molti giorni, vedendosi intanto con Antonio Brucioli, l’altro rivoluzionario che aveva lasciato Firenze dopo il 1522 per ritornarvi e lasciarla definitivamente nel 1527, e che l’artista doveva aver conosciuto e frequentato già prima di quella data. In quei giorni Brucioli stava portando a termine la traduzione in volgare del Nuovo Testamento, che sa239

rebbe poi stata messa all’Indice da Paolo IV. È probabile che proprio in quella circostanza Michelangelo, emotivamente molto provato dalla fuga e dal progetto che avrebbero dovuto cambiargli radicalmente la vita, si sia confrontato per la prima volta con serietà con i temi della Riforma protestante, che si sarebbero rivelati in seguito fondamentali per lui e per la sua arte13. Intanto da Firenze Battista della Palla gli rispose con una lettera ardente, piena di passione per quell’avventura meravigliosa che si stava realizzando nella città toscana. Era una lettera traboccante di sentimento rivoluzionario, una lettera che sarebbe potuta partire dalle barricate della Comune di Parigi. Invitava l’artista a ritornare in città, a nome anche dei tanti amici che lo aspettavano e che avevano provveduto a fargli revocare il bando di ribelle che la Signoria aveva emesso contro di lui il 30 settembre all’indomani della sua fuga. E Michelangelo capitolò, pronto anche a pagare una salatissima multa per la sua diserzione. Il cielo di Firenze, il vecchio padre, i fantasmi bianchi che aveva abbandonato e che aspettavano ancora di essere resuscitati dal suo scalpello prodigioso: non sapremo mai che cosa lo convinse a tornare senza neppure aspettare che la situazione diventasse più chiara. Ancora una volta la ragione fu sopraffatta dalla passione. Ma ad aspettarlo c’era la fine di un sogno. L’accordo definitivo tra l’imperatore Carlo V e il papa venne celebrato con l’incoronazione del primo a Bologna il 24 febbraio 1530 e la riconsegna al secondo della sua città, Firenze, nell’agosto dello stesso anno. Per Michelangelo e i suoi amici c’era ormai solo l’attesa della vendetta dei vincitori, che questa volta erano decisi a non fare prigionieri e a 240

spegnere per sempre il partito repubblicano in città, evitando che in futuro a qualcuno potesse ancora venire in mente di contrastare il dominio della famiglia più potente d’Italia. L’Arno in secca e l’aria pietrificata dall’afa di agosto resero immobile e agghiacciante la scena degli assassinii compiuti senza resistenza dal commissario papale Baccio (Bartolomeo) Valori, per il quale fu costretto a scolpire il DavidApollo oggi al Bargello [tav. 41] per conto del giovane duca Alessandro, fino a quel momento famoso per la pelle scura ereditata dalla madre e da allora in poi conosciuto per l’efferatezza del suo carattere sanguinario. Michelangelo, per un momento assurto a simbolo dei nemici stessi dei Medici, fu accusato di ogni tradimento e nefandezza. Perfino di aver incitato la folla a radere al suolo il palazzo dei Medici, proprio quello dove era stato allevato e coccolato da ragazzo. In molti lo cercarono per ammazzarlo, e con particolare impegno lo cercò un assistente di Valori, Alessandro Corsini. Riteneva forse di avere motivi particolari per fregiarsi di quel delitto, avendo Michelangelo sezionato, quando tutto gli era permesso, un cadavere di particolare bellezza appartenuto proprio a un Corsini. Ora la famiglia voleva vendicarlo: non si era mai rassegnata in quegli anni all’idea di aver servito l’arte in un modo tanto originale. Ma fu ancora una volta il suo talento divino ad aiutare l’artista, imponendo anche ai suoi nemici del passato un rispetto che non fu concesso ai ricchi e ai potenti. Una delle sue vittime, il povero priore di San Lorenzo, insospettabile e tollerato sostenitore dei Medici, non aveva mai smesso di amarlo «come un S. Lorenzo». E nella frenesia sanguinosa di quelle giornate lo accolse dove certo nessuno lo avrebbe cerca241

to: nella chiesa di San Lorenzo, a due passi da Palazzo Medici che immediatamente si riapriva ripopolandosi degli splendori di sempre. Nessuno, nemmeno i sicari venuti più volte a rovistare, riuscì a trovarlo. Poi, passati i primi giorni, quelli più pericolosi per il furore inebriante della vendetta, fu lo stesso Clemente VII, che sapeva di non poter radere al suolo il suo futuro regno, ad annunciare che intendeva perdonare Michelangelo e continuare a servirsene. Il potere non considera gli uomini se non per quel che possono fruttargli e la legge valeva tanto più per l’artista che da solo avrebbe reso immortale la casa Medici. Figiovanni rassicurò e liberò l’artista, aiutandolo a riprendere il suo posto nel cantiere e nella corte dei Medici. Fu lui a scrivergli già il 17 novembre del 1530, neppure due mesi dopo la sanguinosa epurazione, che il cardinale Cibo, nipote del papa, si trovava a Firenze e voleva vedere a che punto fossero i lavori per le tombe, per fare rapporto al papa a Roma. Tutto riprendeva dunque da dove era stato interrotto: Michelangelo doveva ora scolpire quelle statue alle quali era affidato il proprio futuro, ancora una volta da ricostruire. Per sopravvivere fu costretto a trasformare in devozione l’odio per i Medici, a celebrarli cogliendo nella pietra la perfezione che nessun uomo al mondo sapeva nemmeno sfiorare. Più volte aveva lui stesso molestato i committenti sostenendo che un artista non può lavorare bene se non ha la mente sgombera dalle preoccupazioni. Ora stava per dimostrare a tutto il mondo che la paura può essere una molla creativa molto più potente della felicità e della libertà, e i contemporanei più sensibili colsero perfet242

tamente quella lezione di disperata umanità, riconoscendo che lo scultore lavorò «più per bella paura che per voglia ch’egli avesse di lavorare»14.

4. La gloria dei Medici La forma delle tombe medicee era stata pensata da Michelangelo, con un corposo contributo del futuro papa Clemente VII, intorno al 1521, in un clima ancora lontano dalle disgrazie che negli anni immediatamente successivi si sarebbero abbattute sull’Italia. La celebrazione dei due duchi, Lorenzo e Giuliano, non poteva prescindere a quella data da un colto e forte riferimento alle forme antiche, sempre utile per esaltare la nobiltà dei contemporanei. Il richiamo all’antico era evidente sin dalla struttura architettonica, nella quale Michelangelo sposava il linguaggio utilizzato dal Brunelleschi nella Sagrestia vecchia con la suggestione della migliore architettura romana, il Pantheon in particolare, di cui riproponeva la cupola spartita in lacunari per dare potenza e sensualità alla luce, che nella cupoletta brunelleschiana fluiva limpida come un teorema matematico. Lo schema quattrocentesco era variato con il ricorso a un ordine classico che forzava i singoli elementi linguistici fino a far raggiungere loro una suggestione plastica e formale completamente autonoma. La forzatura dell’ordine classico, fino a scomporlo e ricomporlo secondo una regola che valorizzava le potenzialità espressive dei singoli elementi, sarebbe diventata da qui in poi il personalissimo linguaggio con cui Michelangelo recuperava l’antico senza assoggettarsi a nessuna rigida legge compositiva. La profon243

dità delle nicchie scavate nella parete, la monumentalità dei capitelli rilevati come sculture, le mensole che concentravano e ripartivano le forze con le loro curve turgide, e soprattutto i grandi finestroni che nell’ordine superiore si rastremavano verso l’alto spingendo in avanti i timpani curvi, erano altrettanti elementi che servivano a mettere in moto lo spazio della cappella funeraria. Il contrasto tra la pietra serena più scura e il marmo bianco dei rivestimenti del primo ordine esaltava la vitalità delle membrature architettoniche, che si imponevano con un’evidenza plastica generalmente raggiunta soltanto dalle sculture. In questo tessuto rigido e potentemente evocativo, Michelangelo collocò le tombe vere e proprie nelle nicchie, collegandole all’intera cappella senza alterarne la perfetta autonomia. Le tombe erano una sorta di arche curve, come sarcofagi, e non poteva essere altrimenti in una città che già da un secolo celebrava i morti proprio con sarcofagi lavorati a imitazione di quelli antichi. Sopra i sarcofagi erano appoggiate due figure allegoriche; nello spazio che li separava dal pavimento, infine, erano previste altre figure distese poi non più realizzate. La riflessione sul tema della morte e della gloria che trapela dall’invenzione michelangiolesca, pur affondando in una radice classica, è radicalmente innovativa rispetto alla tradizione medievale e rinascimentale, che proprio a Firenze aveva dato i suoi frutti migliori. Relegate su un altare a sé stante la figura della Madonna con bambino e quelle dei santi protettori Cosma e Damiano, le tombe dei duchi sono completamente prive di evidenti riferimenti alla tradizione cristiana e alle sue simbologie. I duchi sono raffigu244

rati seduti come imperatori romani, con vestiti di foggia militaresca. Ai piedi di Giuliano, distese sopra i coperchi tondi, stanno le allegorie del Giorno e della Notte [tav. 38]. Ai piedi di Lorenzo, nella stessa collocazione, quelle del Crepuscolo e dell’Aurora [tav. 39]. Al di sotto di queste dovevano comparire, a concludere la simbologia della morte, le allegorie dei fiumi. La rappresentazione della morte e del dramma, ma anche della vittoria che la gloria può segnare sulla morte, è affidata all’immagine del tempo che consuma tutto, fino a fermarsi quando la vita abbandona l’uomo. Il tema era particolarmente congeniale a Michelangelo, che nelle sculture cercava sempre di cogliere il movimento fermato nella pietra, incatenato dalla materia, elaborando quella difficile poesia delle attitudini che consisteva proprio nel suggerire un corpo nel pieno movimento pur rappresentandolo necessariamente immobile. Il tempo è rappresentato nella sua dimensione più semplice: il ciclo naturale del giorno, scomposto a sua volta nelle sue quattro fasi di Aurora, Giorno, Crepuscolo e Notte. I fiumi previsti per la parte più bassa dovevano simboleggiare lo scorrere incessante, il movimento continuo che caratterizza nell’immaginario umano l’essenza stessa del tempo. Erano questi concetti condivisi più con la comunità umanistica italiana che con quella religiosa, riconducibili alla filosofia naturale piuttosto che alla dottrina cristiana. Concetti e fantasie a cui portano le poche tracce certe lasciate da Michelangelo della genesi creativa di queste allegorie. L’annotazione stesa ai margini di un disegno preparatorio, oggi al British Museum, allude alla morte come im245

mobilità del tempo: «la fama tiene gli epitaffi a giacere non va ne inanzi ne indietro perché son morti e e loro operare e fermo». E così pure un’annotazione in margine a un disegno del 1524, oggi alla casa Buonarroti: «El di e la Nocte parlano e dichono: Noi abiano chol nostro veloce chorso condocto alla morte el ducha Giuliano; è ben gusto, che e’ ne facci vendecta chome fa. E la vendecta è questa: Che avendo noi morto lui, lui chosi morto a tolta la luce a noi e chogli ochi chiusi a serrato e nostri, che non risplendon piu sopra la terra. Che arrebbe di noi dunche facto, mentre vivea!»15. Il programma delle tombe era dunque chiaramente comprensibile ai contemporanei: la morte, che immobilizza il tempo dell’uomo, può essere vinta solamente dalla fama e dalla gloria, che trasmettono ai posteri la memoria degli uomini molto dopo che la loro carne si è consumata. Questa concezione della gloria aiuta a capire perché Michelangelo si fosse rifiutato di ritrarre le caratteristiche somatiche dei duchi, che aveva conosciuto personalmente, sostenendo che nel giro di pochissimi anni nessuno avrebbe ricordato le loro facce ma tutti avrebbero ricordato la loro memoria. La celebrazione dei due uomini non ha niente di biografico, ma si svolge tutta all’interno di un gioco di allusioni culturali fondato sulla condivisione di simboli e immagini familiari. Anzi la biografia dei due duchi rimane quasi l’unico ostacolo alla comprensione del messaggio delle tombe. I contemporanei sarebbero stati più propensi a riconoscere nella figura pensosa il mite e riflessivo Giuliano, che aveva raccomandato a Leone X di non invadere il ducato dell’amico Francesco Maria Della Rovere. Men246

tre nella figura di giovane guerriero, in dinamica torsione mentre brandisce un bastone di comando, sarebbe stato più facile scorgere la figura di Lorenzo, morto ad appena 26 anni, che aveva cercato, sia pur con esito infausto, di affermare proprio con l’impresa militare di Urbino una legittimità di condottiero che lo zio intendeva associargli contro l’evidenza storica. Del resto non c’è traccia, se non successiva alla morte di Michelangelo, di un’identificazione precisa dei duchi: lo stesso sonetto che lega a Giuliano le allegorie del giorno e della notte appartiene a una fase così remota che potrebbe immaginarsi facilmente il cambiamento delle corrispondenze senza che questo indebolisse il programma iconografico delle tombe. Stabiliti i motivi simbolici che spinsero Michelangelo a immaginare quelle figure, rimane aperta la questione iconografica delle sculture, che sono esse stesse una novità assoluta nella tradizione occidentale. L’idea di figure monumentali collocate su una superficie curva aveva precedenti significativi soltanto nella statuaria romana. Nella facciata est dell’Arco di Traiano a Benevento, che Michelangelo conobbe attraverso i disegni del suo maestro Giuliano da Sangallo, due figure nude, molto vicine a quelle delle tombe medicee, sono collocate lungo la ghiera dell’arco di cui seguono la curvatura. Sono divinità fluviali, altro elemento che le avvicina alla fantasia michelangiolesca. E sono scolpite ad altorilievo, quasi del tutto staccate dalla parete di fondo. Per Michelangelo quella particolare collocazione era l’occasione per rappresentare l’anatomia umana in una libertà spaziale quasi assoluta, come soltanto la pittura era fi247

no ad allora riuscita a fare. Le figure scolpite erano generalmente collocate in piedi, distese o sedute. Quelle di Michelangelo galleggiano nello spazio come se avessero sostanza immateriale, pur avendo un’apparenza straordinariamente concreta e potente. La libertà spaziale delle figure viene sottolineata dal loro fortissimo aggetto, che produce un effetto di libertà mai toccato fino ad allora da nessuna scultura antica o moderna. Che l’interesse di Michelangelo fosse unicamente diretto alla possibilità espressiva dei corpi, lo dimostra la lettera con la quale dichiara di volersi occupare direttamente delle allegorie, delegando ad altri (Montorsoli e Montelupo) le stesse statue dei santi protettori, che agli occhi del papa avrebbero dovuto essere ben più importanti. Ma i santi protettori erano seduti ai lati della Madonna e non ponevano la sfida rappresentata dalle meravigliose figure collocate sui coperchi. Messere Giovan Francesco, di questa sectimana che viene farò choprire le figure di sagrestia che vi sono bozzate, perché io voglio lasciare la sagrestia libera (...). Io lavoro el più che io posso, e infra quindici dì farò chominciare l’altro chapitano; poi mi resterà, di chose d’importanza, solo e’ quatro fiumi. Le quatro figure in su’ chassoni, le quatro figure in terra che sono e’ fiumi, e’ dua chapitani e la Nostra Donna che va nella sepultura di testa sono le figure che io vorrei fare di mia mano: e di queste n’è chominciate sei16.

Un altro segno dell’interesse preminente di Michelangelo per l’espressività del corpo è rappresentato anche dal fatto che i volti delle figure, come anche nei Prigioni dell’Accademia, sono lasciati indietro e tollerano meglio uno 248

stato di poca finitezza. Quello che l’artista aveva da dire, lo diceva attraverso i corpi. E realizzò corpi così sconvolgenti che Cosima Wagner, secondo la leggenda, riassumendo teatralmente l’emozione di un’intera civiltà di fronte a quest’opera, svenne alla loro vista! Per raggiungere i suoi risultati Michelangelo non esitò a forzare le regole della rappresentazione anatomica, esasperando nelle figure gli elementi più idonei a esaltarne il fascino. I rapporti proporzionali tra le parti del corpo e tra esse e l’intero corpo, che erano stati la guida preziosa per gli artisti precedenti, furono definitivamente abbandonati. Il torace della Notte, la figura più celebrata, si allunga oltre i limiti possibili alla misera natura, fino a raggiungere però quella perfetta espressione di raccoglimento che soltanto un artista capace di violare il limite naturale poteva restituire. Allo stesso innaturale allungamento è forzato il braccio dell’Aurora, che la libera dal velo, per condensarne il gesto dolce di una schiusura prolungata nelle gambe che si aprono. La stessa alterazione dell’anatomia si ritrova in tutte le altre sculture. Il processo di trasfigurazione e distorsione del corpo, per inseguire la perfetta espressione dell’attitudine intesa come unione di movimento naturale e psicologico, è reso credibile dalla perfezione dei dettagli. Gli studi anatomici servivano a Michelangelo non come traguardo della rappresentazione, ma come punto di partenza per raggiungere un ideale che elimina dal corpo tutto ciò che non concorre a renderlo essenziale ed espressivo. Ma questa visione non si sarebbe potuta concretizzare senza la tecnica sovrumana dell’artista, che in queste statue tocca il suo apice. 249

Michelangelo torce il braccio destro di Lorenzo facendogli attraversare tutta la profondità dello spazio. Fa incrociare la gamba destra del Crepuscolo su quella sinistra senza che il movimento imbruttisca la fluidità e lo slancio dei muscoli. Mostra un piede appeso nel vuoto, scaricato da ogni tensione e mostra il pene solido e vitale appoggiato sul muscolo della gamba sinistra, che ha perso il turgore astratto della statuaria greca senza cadere nella miseria di una rappresentazione prosaica. Si può immaginare quale potesse essere, davanti a tanto inarrivabile virtuosismo, la reazione dei migliori scultori dell’epoca, che lavoravano moltiplicando le immagini frontali delle figure. Pur lavorando in condizioni di disperazione e di terrore, Michelangelo raggiungeva con quelle statue il vertice della sua pienezza vitale. Smentiva così perfino se stesso: per tanti anni, ogni volta che aveva avuto bisogno di forzare un papa o un principe alle proprie necessità, aveva infatti ripetuto con petulanza che solo una mente sgombra da preoccupazioni può creare e creare bene. Per lui sembrava adesso valere il contrario: soltanto l’oppressione psicologica e la fatica fisica parevano fornirgli l’energia necessaria per liberare tutte le sue risorse creative. Sono soltanto le espressioni dei volti, malinconici e sconfitti, a trattenere qualcosa della tristezza di quei giorni. Manca invece qualsiasi accenno al trionfalismo retorico che pure Clemente avrebbe desiderato per quei regnanti in pectore che dovevano propiziare la fortuna dei regnanti futuri. La retorica della vittoria e del trionfo non riesce a penetrare nell’umanità sofferente di Michelangelo. L’unica soluzione a tanta disperazione sembra soltanto l’oblio, co250

me racconta l’espressione serena e placata della Notte, simbolo di ogni verginità, a cui l’artista stesso farà dire quello che lui purtroppo non aveva potuto dire quando Clemente lo aveva riportato in ceppi a lavorare alla propria gloria: Caro m’è ’l sonno, e più l’esser di sasso, mentre che ’l danno e la vergogna dura; non veder, non sentir m’è gran ventura; però non mi destar, deh, parla basso17.

Non vi sono dubbi che le sculture siano state realizzate nella loro parte più significativa, dopo l’insurrezione repubblicana del 1527. In una lettera al suo procuratore a Roma del 17 giugno 1526, Michelangelo registrava lo stato dei lavori, in verità non molto avanzato, delle statue della sagrestia e ne programmava la continuazione. In quello stesso mese si innescava poi la spirale terribile di eventi militari che avrebbe portato al sacco di Roma e alla rivolta repubblicana meno di un anno dopo, nonché al momentaneo abbandono del lavoro. Dunque le statue, pensate e sbozzate prima del 1527, furono realizzate solo dopo il 1530. E sono segnate dal clima particolarissimo in cui l’artista lavorò. Le tracce della sua sconfitta si leggono nella malinconia dei volti, nella fatica con cui le figure sembrano guardare o riflettere sulla propria vita. L’unica traccia di serenità si percepisce sul volto della Notte, come se l’unica consolazione possibile per gli uomini fosse il rifugio nei propri sogni. Nella statua della Madonna con bambino [tav. 40] i sentimenti di tristezza e di sconfitta che divoravano Michelangelo in quegli anni sembrano liberarsi per dare vita a una delle immagini in assoluto più coinvolgenti dell’artista. La 251

malinconia rassegnata della Madonna sembra senza scampo e la possibile felicità, che nelle rappresentazioni della Madonna si concede attraverso l’immagine del bambino, ci è negata per la torsione del piccolo verso il seno della madre: un movimento che permette all’artista di esibire uno splendido scorcio anatomico, ma nello stesso tempo ci priva della possibile consolazione della faccia felice del piccolo Gesù. Lo stato di lavorazione non perfettamente finito della scultura poi, aumenta la suggestione del sentimento, allontanando l’immagine da una verosimiglianza naturalistica che avrebbe costretto la figura in una mimesi troppo concreta e limitata. Sul viso della Madonna non c’è nessuna speranza, soltanto la consapevolezza di un dolore pervasivo e inappellabile reso ancora più frustrante dalla negazione del bambino. E nel dolore senza vie di uscita di questa giovane, essenziale fino a raggiungere uno dei vertici più alti del classicismo michelangiolesco, si specchia il dolore dell’artista, sconfitto e inchiodato a un futuro servile senza possibilità di riscatto. Se l’arte e il talento lasciano appena affiorare le condizioni drammatiche dell’artista, la cronaca non lascia invece dubbi sull’amarezza dei giorni di Michelangelo durante la restaurazione medicea. Il lavoro delle tombe era diventato talmente frenetico da alimentare le preoccupazioni degli stessi Medici. Le condizioni di salute dell’artista erano pessime. Non mangiava e non dormiva, e molti temevano che quella furia autodistruttiva lo potesse portare di lì a poco alla morte. Il 29 settembre 1531 lo stato di prostrazione fisica e psicologica dell’artista era gravissimo, come testimonia un suo caro amico, Giovan Battista Mini: «E perché dito Mi252

chelagniolo mi parse molto istenuato e diminuito de le charne, l’alttro dì chol Bugiardino e Antonio Mini a lo stretto ne parlamo, e’ qualli sono chontinovi cho lui, e infine faciemo un chonputo che Michelagni[o]lo viverà pocho, se non si rimedia; e questo è che lavora asai, mangia pocho e chativo e dorme mancho, e da u’ mese in qua è forte inpedito di ciesa e di dolore di testa e chapogiri»18. Le condizioni di salute dell’artista erano tali che il papa stesso gli chiese di diradare il lavoro e addirittura di farsi aiutare da qualcuno, permettendo che a finire la statua di Giuliano fosse il Montorsoli. Ma Michelangelo era sopraffatto anche dalla vertenza con il duca di Urbino, che era tornato di nuovo alla carica e pretendeva che il contratto per la tomba di Giulio II venisse onorato. Le trattative a Roma furono febbrili, tra Sebastiano del Piombo per conto dell’artista e Girolamo Staccoli ambasciatore del duca. Per tutto il 1531 e l’inverno del 1532 la contrattazione seguì gli alti e bassi che tennero sospeso Michelangelo nell’incertezza. Poi nella primavera del 1532, grazie all’intervento di Clemente VII, venne trovata una soluzione e Michelangelo partì per Roma per stipulare con gli agenti del duca un nuovo accordo. L’immagine di Michelangelo in questi anni è quella di un uomo disperato. Superati i cinquant’anni, si sentiva sconfitto e prigioniero di ambizioni che non era riuscito a realizzare. Le tombe medicee gli apparivano ormai come un lavoro forzato e la tomba di Giulio II, che doveva essere il capolavoro della scultura moderna, era scivolata in un incubo da cui non riusciva più a venir fuori. Era prigioniero di un’angoscia più solida di un muro. Eppure anche quel 253

muro si sbriciolò quando, improvvisa e non più aspettata, arrivò a liberarlo la luce abbagliante dell’amore: un amore fino ad allora solo intuito e mai provato, e che non trovò argini a contenerlo. Durante il breve viaggio romano aveva incontrato un giovane che lo aveva stordito con la sua bellezza e i suoi modi. Era Tommaso Cavalieri, un giovane appartenente alla migliore aristocrazia romana che si dilettava di arte e di architettura e che lo rapì al suo mondo come l’aquila di Giove aveva rapito Ganimede. Le sue condizioni sociali si intuiscono attraverso la descrizione che una cronaca di quegli anni fa di Sofonisba Cavalieri, probabilmente sua parente, apparsa ad una festa «in veste di ciambellotto candidissimo listata di velluto cremesino, zenzilli di sopra, cinto di medaglie d’oro, secondo intendo antiquissime»19. Così, come un’apparizione di angelica eleganza, il giovane Tommaso dovette folgorare Michelangelo. Le prime tracce dell’esplosione amorosa si trovano in una lettera mandatagli dall’amico Giuliano Bugiardini da Firenze nell’ottobre del 1532. Una lettera strana, che mostra come le coincidenze dalla vita possano essere molto più sbalorditive di quelle immaginate dalla letteratura. Il vecchio e affezionato amico d’infanzia scriveva per dargli notizia di una folgorante cometa apparsa nel cielo di Firenze, «una cometa verso levante». Ma Bugiardini non poteva sapere che una cometa ancora più folgorante era apparsa all’amico in quegli stessi giorni. L’associazione fu immediata nella mente di Michelangelo, che proprio sui margini di quella strana lettera annotò, con il furore dell’emozione incontenibile, i primi versi con i quali cercava di spiegare a se 254

stesso l’incantesimo da cui si sentiva sopraffatto. «S’i’ avessi creduto al primo sguardo / di quest’alma fenice al caldo sole / rinnovarmi per foco, come suole / nell’ultima vechiezza, ond’io tuct’ardo»20. Pochi giorni dopo, prima di tornare a Firenze con il solo desiderio di rientrare presto a Roma, Michelangelo scrisse a Tommaso una lettera che rivela un mutamento esistenziale fino ad allora insospettabile. Lo stile ruvido e brusco che aveva segnato la sua corrispondenza in tutti quegli anni, la brutalità con cui aveva trattato con principi e cardinali, si piegava ad una prosa femminile e arrendevole, supplicante e timida, che scopriva tutta la fragilità del vecchio orso, preso nei lacci di una passione che lo consegnava inerme nelle mani di un giovane a cui era pronto a riconoscere talenti e virtù sempre negati ai suoi emuli e in questo caso totalmente inesistenti: Inconsideratamente, messer Tomao s[ignio]r mio karissimo, fui mosso a scrivere a Vostra S(igniori)a, non per risposta d’alcuna vostra che ricievuta avesse, ma primo a muovere, come se creduto m’avesse passare con le piante asciucte un picciol fiume, o vero per poca aqqua un manifesto guado. (...) Però Vostra S(igniori)a, luce del secol nostro unica al mondo, non può sodisfarsi d’opera d’alcuno altro, non avendo pari né simile a·ssé. E se pure delle cose mia, che io spero e promecto di fare, alcuna ne piacerà, la chiamerò molto più aventurata che buona; e quand’io abbi mai a esser certo di piacere, come è decto, in alcuna cossa a Vostra S[ignori]a, il tempo presente, con tucto quello che per me à a venire, donerò a quella, e dorrami molto forte non potere riavere il passato, per quella servire assai più lungamente che solo con l’avenire, che sarà poco, perché son troppo vechio21.

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L’offerta illimitata dei suoi servigi appare tanto più stupefacente in quanto negli stessi mesi li chiedevano, inascoltati, il re di Francia, il duca di Mantova e persino Vittoria Colonna, che si serviva del cugino di suo marito nonché quasi figlio adottivo, il potentissimo condottiero imperiale marchese del Vasto, per avere qualcosa di mano dell’artista22. Nessuno di loro ottenne niente, mentre Tommaso, alla sua prima lettera all’artista, doveva già ringraziarlo per due disegni che Michelangelo gli aveva mandato in segno di devozione. Negli anni a venire Michelangelo avrebbe giocato i suoi sentimenti sul registro conveniente dell’amore platonico: l’unico tollerato nel contesto sociale in cui entrambi gli uomini occupavano una posizione troppo in vista per consentire trasgressioni più radicali. Ma intanto, sicuramente anche per l’influsso di Tommaso, Michelangelo trovò la forza di lasciare Firenze, una città che ormai lo rendeva infelice per la tirannia dei Medici, per quella della famiglia e per l’angustia di un mercato da cui si sentiva definitivamente fuori. La Roma dove si accingeva a trasferirsi era molto diversa da quella lasciata diciassette anni prima, ma sufficientemente ricca di opportunità e idee da convincerlo a non abbandonarla mai più per il resto della sua ancora lunghissima vita.

6. GLI OCCHIALI DI MICHELANGELO

1. Un cuore ancora giovane La Firenze che Michelangelo si decise finalmente a lasciare nell’autunno del 1534 era una città integra, nel pieno del suo splendore fisico, ma moralmente prostrata. I Medici la stavano sanguinosamente epurando da quella «società repubblicana» che nei secoli precedenti era stata il nerbo e il sale della città e che l’aveva fatta grandissima. Da ora in poi, sarebbe diventata la capitale di uno staterello dinastico, di quelli che in Italia impegnavano ogni energia disponibile nel resistere alle alchimie della politica internazionale. Roma, dove Michelangelo aveva ormai lanciato il cuore, era una città che portava ancora visibili i segni della devastazione fisica dal sacco del 1527. Ma era in pieno fermento intellettuale, ben decisa a rioccupare un ruolo centrale nella politica europea. Le case bruciate nel sacco si andavano ricostruendo più belle di prima e la città si sarebbe avvantaggiata delle energie profuse nella rinascita. Come molti altri artisti, Baldassarre Peruzzi, scappato dall’assedio di maggio in mutande per raggiungere Siena, era torna259

to fiducioso e stava curvando con i mattoni e il travertino, come un segmento di Colosseo, la facciata del nuovo palazzo dei principi Massimo, inglobando i muri e gli affreschi anneriti dagli incendi appiccati dai lanzichenecchi. Dove il fumo non veniva via con l’acqua, il piccone demoliva gli affreschi violati e nuove squadre di artisti, arrivati soprattutto dal Nord, avevano già i pennelli pronti a stendere colori e forme alla moda sul corpo della città che rinasceva sempre più magnifica dalle sue eterne rovine. In Vaticano, i progetti per gli ampliamenti dei palazzi papali diventavano ogni giorno più imponenti. Non c’era ormai dubbio che la scena artistica si sarebbe sviluppata soprattutto a Roma. Nella vertenza che opponeva Michelangelo ai duchi di Urbino, l’intervento paziente e interessato di Clemente VII aveva dato i suoi frutti e l’artista poteva sperare in una risoluzione definitiva della questione. Dopo accuse reciproche e contestazioni legali, che dovevano fare i conti con tre contratti e una serie di pagamenti risalenti ai primi mille ducati versati da Giulio II nel 1505, i committenti e l’artista avevano raggiunto un nuovo accordo a Roma nell’estate del 1532. Il contratto, il quarto in ventisette anni, stabiliva che in cambio dei soldi ricevuti fino ad allora, che venivano stimati definitivamente a 8000 ducati più la casa di Macello dei Corvi, Michelangelo avrebbe realizzato una tomba con sei statue autografe, da collocare non più nel San Pietro in costruzione ma nella basilica di San Pietro in Vincoli, di cui Giulio II era stato titolare prima di diventare papa. Clemente VII aveva acconsentito a lasciare libero l’artista di passare a Roma alcuni mesi all’anno per ultimare i la260

vori della tomba di Giulio. Ma il trasferimento a Roma non fu solo una generosa concessione ai diritti degli eredi Della Rovere. Dopo essersi assicurato che a Firenze fosse stata realizzata un’opera che avrebbe reso indimenticabile il nome dei Medici a prescindere dal destino futuro della dinastia, il papa voleva ora realizzare a Roma, cuore della cristianità, un’opera che rendesse immortale il suo pontificato. A compierla non poteva essere altri che Michelangelo1. Fu quasi certamente per questo motivo che nell’autunno del 1533 i due si incontrarono a San Miniato, presso Firenze, durante il viaggio del papa verso la Francia, dove sua nipote Caterina, in pegno della sua importante riconciliazione con la casa di Francia, andava in sposa al duca di Orléans Enrico di Valois. Clemente aveva proposto o imposto a Michelangelo la decorazione di una delle pareti della Cappella Sistina in Vaticano, la stessa dove ventidue anni prima l’artista aveva ultimato la grandiosa pittura della volta. Come attesta una fonte coeva, già nella stessa primavera del 1534 si costruivano i ponteggi dietro l’altare della cappella per dipingervi una «resurrezione». Michelangelo non poteva chiedere di meglio che trasferirsi a Roma. Ormai alla soglia dei sessant’anni, la passione per Tommaso Cavalieri lo spingeva con forza verso la Città eterna e un’impresa così eccezionale sarebbe stata un’ottima referenza da poggiare sul piatto del suo amore tanto singolare. Era tanta la voglia di raggiungere l’amico, che si rassegnò perfino ad affidare alcune sculture ai collaboratori Angelo Montorsoli e Raffaello da Montelupo, mentre scriveva a Tommaso «posso prima dimenticare il cibo di che io vivo, che nutri[s]ce solo il corpo infelicemente, che 261

il nome vostro, che nutriscie il corpo e l’anima, riempiendo l’uno e l’altra di tanta dolcezza, che né noia né timor di morte, mentre la memoria mi vi serba, posso sentire»2. Grazie anche all’aiuto dei collaboratori, le sculture per le tombe dei Medici erano quasi finite, almeno quanto bastava per piacere al papa e ai contemporanei, e si poteva organizzare un trasferimento se non definitivo di certo molto duraturo. Anche la fine delle speranze repubblicane e il governo del sanguinario nipote del papa, Alessandro de’ Medici, che non aveva per l’artista nessuna simpatia, contribuivano a rendere irrespirabile l’aria fiorentina. Tra il 15 gennaio e il 23 marzo del 1531 era morto il padre, all’età di ottantotto anni. A Roma Michelangelo non avrebbe avuto tra i piedi i suoi parenti insopportabili, ai quali poco prima della partenza fu costretto ancora una volta a ricordare che aveva fatto per tutti loro «sempre più che per me medesimo, e patiti molti disagi perché non ne patissi voi, e che voi non avevi mai facto altro che dir male di me per tucto Firenze»3. Come in ogni relazione nevrotica, il trascorrere del tempo non allentava ma alimentava ulteriormente i rancori. Il quasi sessantenne Michelangelo si trovava a ripetere ossessivamente ai fratelli quello che aveva già detto alla soglia dei venti, dei trenta o dei quaranta, forse anche lui rassegnato a non valicare se non con la morte la prigione in cui si era sistemato. Si capisce bene, dunque, che l’artista affrontasse quella partenza con un cuore giovane, aperto a prospettive che neppure trent’anni prima si erano mai delineate tanto chiaramente davanti ai suoi occhi. La nuova smania lo spinse perfino a essere brusco e forse crudele verso vecchi amici, 262

vecchie passioni che ora alla luce del nuovo sole nascente gli apparivano troppo poca cosa. Una lettera di quella vigilia di partenza è rimasta nel suo archivio a testimoniare il dolore di un amante liquidato con troppa disinvoltura: Amantissimo mio M[ichelagniolo], non ti meravigl[i]are se io ti scrivo questi mia pochi e mal conposti versi, inperò che chi non sa che chi ha perso ogni suo contento et piacere è quasi una cosa insensata? E adviene sol, questo, perché la passione dell’animo è troppo dura cosa a soportare. Et se nessuno scontento, nessuno apassionato trovar si può, sappi che io son desso. Et non guardare alla mia tenera età, ché le forze d’amore possono in me pur troppo et mi tormentano tanto per haverti perso, che io non so dove mi rivoltare, sì che io trovi la mia quiete, se non in te4.

Dell’uomo sappiamo solo quel che dice la lettera: è giovane, innamorato e dolorante. Il resto è avvolto nelle ombre che il carattere prudentissimo di Michelangelo stese abilmente intorno ad ogni sua passione amorosa. Certamente il dolore dell’amico abbandonato lo commosse, se ne conservò il lamento per tanti anni tra le sue carte. Ma non abbastanza da trattenerlo: Roma era ormai la vita nuova e nei mesi che passarono prima del trasferimento definitivo Michelangelo fu tormentato unicamente dalla nostalgia per Tommaso Cavalieri, come se tutto fosse cancellato da quell’amore: lutti familiari, rovesci politici, fame e peste, tutto spariva di fronte a quell’astro lucente che aveva acceso la sua vita stentata. Nell’ansia di raggiungerlo e di mantenerne l’amore, Michelangelo inviò a Tommaso disegni bellissimi e preziosi, che suscitarono l’invidia di papa Clemente e di suo nipote il 263

cardinale Ippolito, costretti a piatire dalle mani di un piccolo signorino una merce che non riuscivano ad ottenere dall’artista che doveva a loro la fortuna e la vita. I tre disegni che certamente Michelangelo mandò a Tommaso subito dopo l’inizio della loro relazione rappresentano tutti soggetti che alludono al tormento amoroso: Fetonte caduto dal cielo per aver osato avvicinarsi troppo al sole, metafora della presunzione di cui si accusava Michelangelo per essersi avvicinato al «sole» del giovane Tommaso [tav. 42]; Tizio tormentato dall’aquila di Giove per aver rubato il fuoco agli dèi, incatenato alla roccia come l’innamorato al proprio amore [tav. 43]; infine Ganimede rapito dall’aquila di Giove, metafora dell’anima sollevata al cielo dal sentimento amoroso [tav. 44]. Il raffinato gioco di allusioni architettato da Michelangelo per dichiarare il suo amore a Tommaso non bastava a nascondere l’urgenza erotica del suo desiderio. Nei disegni l’impellenza carnale della sua attrazione è svelata in tutta la sua crudezza. Il ratto di Ganimede descrive un’estasi erotica che non lascia dubbi sull’identificazione dell’artista con l’aquila avvolgente che abbraccia il giovane nella libertà di un volo che somiglia troppo a un amplesso, così come il Tizio tormentato dall’aquila si offre con tutta la sua bellezza all’assalto dell’animale, ricavandone un evidente piacere. I disegni che Michelangelo inviò a Tommaso Cavalieri sembravano alla corte smaliziata di Roma un dono enorme. Ma erano in realtà poca cosa al confronto del dono che Michelangelo aveva fatto a se stesso innamorandosi perdutamente di Tommaso se per la prima volta nella sua vita l’amore gli fece allontanare ogni prudenza e lo spinse perfino ad ammettere di essere felice. Salutando il giovane amico l’inchiostro 264

della sua penna non tracciò corpi tormentati né parole amare, ma una semplice fede di felicità che dichiarò quel primo banalissimo giorno del gennaio 1533 il giorno «primo, per me felice, di gennaro». I contemporanei che ebbero accesso ai disegni ne colsero immediatamente il carattere sensuale. I fogli erano stati mandati a Tommaso già prima dell’estate del 1533 e suscitarono l’ammirazione invidiosa del cardinale Ippolito de’ Medici, che li richiese immediatamente per farli copiare e riprodurre nel cristallo. Aveva anche lui ottimi motivi per identificarsi nel tormento di Michelangelo: come il vecchio artista, era vittima di un incantamento amoroso forse ancora più arrischiato, visto che si era innamorato della bellissima Giulia Gonzaga, contessa di Fondi. La donna era tanto bella che Solimano il Magnifico tentò di farla rapire per ornarne il suo favoloso serraglio, per fortuna senza riuscirci. Ma la bella Giulia non era per niente interessata alla passione amorosa, almeno a quella che accendeva negli uomini. Ippolito si dovette accontentare del ritratto che commissionò a Sebastiano del Piombo e delle poesie con le quali i maggiori poeti cantavano la bellezza della donna più celebre d’Italia, di cui conosciamo gli occhi neri, il perfetto ovale del viso e la raffinata cultura che la porterà di lì a qualche anno nel cuore di un pericoloso circolo riformato. Non stupisce allora che il giovane cardinale s’identificasse nella disperazione amorosa di Michelangelo, campione nel racconto del sentimento impossibile, e che implorasse Tommaso di far copiare il disegno del Tizio nel cristallo, la materia che più evocava la purezza intangibile del cuore di Giulia: «Il cardinal de’ Medici à voluti veder tutti li vostri 265

disegni, e sonnogli tanto piaciuti che voleva far fare quel Titio e ’l Ganimede in cristallo; e non ò saputo far sì bel verso che non habbia fatto far quel Titio, e ora il fa maestro Giovanni»5. A Roma e nella corte pontificia, intanto, si preparava l’accoglienza a Michelangelo come meglio l'artista non poteva sperare. Ma le cose, purtroppo, anche quella volta non andarono come previsto. Michelangelo non fece in tempo ad arrivare a Roma che il suo protettore Clemente VII morì. Era il 25 settembre del 1534. Il suo successore, il cardinale Alessandro Farnese, era un uomo di mondo, forse anche troppo. Proveniente da una famiglia della piccola nobiltà laziale, s’impegnò subito nell’ambiziosissimo progetto di creare un regno per la propria discendenza. Aveva un figlio, Pierluigi, una figlia, Costanza, e molti nipoti. L’abile e ipocrita linguaggio di corte permetteva di mantenere intorno alla parola «nipoti» una sufficiente ambiguità, perché non fosse mai necessario chiarire apertamente che si trattava di figli dei suoi figli e non di figli dei fratelli. A questi nipoti ad ogni modo occorreva procurare ricchezza e dignità, visto che di partenza i Farnese avevano poco sia dell’una che dell’altra. L’ostacolo maggiore per il progetto erano i tempi, avviati ormai verso una rigorosa moralizzazione forzata dalle pressioni della Riforma protestante, che martellava accuse contro gli abusi perpetrati dai papi e dalla corte pontificia per l’arricchimento delle proprie famiglie. Ma il nuovo papa, cardinale di ottima formazione e lunga carriera, sapeva come affrontare gli impedimenti politici anche nei momenti più gravi. Conosceva gli effetti benefici della propaganda artistica e non perse tempo a ricon266

fermare a Michelangelo l’incarico di affrescare la parete della Cappella Sistina. Il primo settembre 1535, a pochi mesi dalla sua elezione, Alessandro Farnese, che aveva preso il nome di Paolo III, conferì a Michelangelo la carica di «Supremo architetto, Scultore e pittore dei palazzi Vaticani», con un appannaggio di cento scudi mensili pagabili per metà dalle casse vaticane e per metà dai ricavi delle tasse di una dogana del Po che gli veniva conferita come beneficio. Era l’appannaggio più ricco mai percepito da un artista del Rinascimento. Ancora una volta, però, Michelangelo si trovava intralciato dagli impegni sottoscritti con i Della Rovere. Ma anche in questo frangente fu il papa stesso a trarlo dall’imbarazzo. Si può immaginare che lo fece molto volentieri, visto che aveva dichiarato una personale ostilità a Francesco Maria Della Rovere. Aveva intenzione di sottrargli parte dei possedimenti per concederli al suo scelleratissimo figlio Pierluigi. Il 17 novembre 1536 Paolo III emise un motuproprio con cui confermava Michelangelo nell’incarico e lo liberava dai suoi impegni con i Della Rovere, affinché potesse dedicarsi unicamente alla nuova impresa. In pochissimo tempo Michelangelo divenne un intimo del nuovo papa, che aveva all’incirca la sua stessa età. Il suo inserimento nella corte romana dovette essere rapido ed eclatante, se il 10 agosto 1537 il maestro di palazzo Jacopo Meleghino lo invitò a tenere compagnia al pontefice che si trovava in palazzo per prendere un bagno di vapore e non aveva chi lo intrattenesse6. Il nuovo lavoro nella Sistina creò intorno a lui una crescente ammirazione e ne fece uno degli esponenti più ammirati di quella corte di intellettuali 267

e artisti che Paolo III proteggeva e usava per mostrare la virtù del suo pontificato. Intanto anche il rapporto con la famiglia attraversava finalmente una pausa di serenità, dovuta certamente anche alla distanza. Sua nipote Francesca, di cui si era sentito tutore dopo la morte del fratello Buonarroto, aveva coronato uno dei suoi sogni più ambiziosi sposando Michele Guicciardini, esponente di una nobile casata fiorentina. Il matrimonio segnò il primo piccolo traguardo verso quella promozione sociale sempre ricercata affannosamente dall’artista. Il 7 marzo 1538 Francesca partorì un bel bambino, Gabriele Maria. Sia pure non per via direttamente patrilineare, la schiatta dei Buonarroti sembrava ritrovare una via di ripresa. Michelangelo poteva cominciare a rilassarsi.

2. Il cielo e la terra Nella primavera del 1535 Michelangelo era già al lavoro per approntare i cartoni per il Giudizio Universale [tav. 8]. La sua posizione di eccellenza era ormai tale da meritargli l’anno dopo una visita del papa e di almeno una decina di cardinali nella modestissima casa di Macello dei Corvi. I suoi disegni erano già oggetto di attrazione e argomento di discussione nella corte pontificia. Nel gennaio del 1536 si cominciò a preparare l’intonaco sulla parete della cappella. L’attenzione alle questioni pratiche e tecnologiche che implicava un’impresa decorativa così ampia consigliò a Michelangelo la costruzione di una gigantesca fodera di mattoni che aggettava verso l’alto, in 268

maniera da ridurre il più possibile l’accumulo della polvere. Anche in questo originale accorgimento, peraltro importantissimo per la futura conservazione e leggibilità dell’affresco, s’intravede la convinzione dell’artista che una grande opera d’arte sia prima di tutto una grande impresa tecnologica. I colori più preziosi furono comprati a Ferrara, dove la forte presenza di ebrei favoriva gli scambi con le regioni orientali e dove arrivava dalla Persia il lapislazzuli frantumato che Michelangelo avrebbe coagulato pennellata dopo pennellata per trasformarlo in un cielo che nulla ha da invidiare a quello che sovrasta le montagne da cui si estrae la preziosissima pietra blu. Questa volta l’artista non tentò neppure di formare una squadra. Fece da subito tutto da solo, con l’unico aiuto di un garzone, Francesco di Amadore da Casteldurante, detto Urbino, che aveva preso il posto di Antonio Mini partito per la Francia. Il suo ruolo era quello di macinargli i colori e aiutarlo a trasferire sul muro i segni dei cartoni preparatori. Forse un muratore gli impastava e stendeva la malta per le giornate di lavoro. Il resto era lavoro solitario. Il disegno che si apprestava a comporre giorno dopo giorno sull’enorme parete era radicalmente innovativo rispetto alle precedenti rappresentazioni del Giudizio Universale. Nel corso dei secoli, la resurrezione dei morti era stata dipinta trasformando le rappresentazioni dei trionfi imperiali romani e adattandole al racconto dell’Apocalisse, il testo su cui si basava la tradizione del Giudizio. Se nei rilievi celebrativi romani compariva l’imperatore affiancato dai suoi soldati o dai suoi consiglieri, nei disegni di età bi269

zantina il posto dell’imperatore fu preso dal Cristo trionfante e quello delle guardie dagli arcangeli (inizialmente anch’essi armati di lance). Con il passare dei secoli ogni dettaglio trovò una sua precisa collocazione, anche se l’assenza di un testo di riferimento chiaro e univoco lasciava sempre spazio alla libera reinterpretazione dell’artista. Una rappresentazione molto strutturata del Giudizio Universale comparve all’inizio del Trecento, per mano di Giotto, nella Cappella degli Scrovegni a Padova. Ma senza dubbio Michelangelo aveva ben impresse nella memoria le raffigurazioni del Battistero di Firenze e quelle del Camposanto di Pisa, entrambe molto aggressive nella loro impressionante emotività. Per quanto non rigidissima, la tradizione imponeva la rappresentazione di un Cristo Giudice che solleva al cielo il popolo degli eletti con il gesto della mano destra e destina alle fiamme dell’inferno i peccatori. Altri particolari rendevano comprensibile e godibile la rappresentazione, come gli angeli che annunziano il giorno nuovo con le trombe, quelli che scrivono il destino di ognuno sul libro della vita e, a seconda della puntigliosità dell’artista e dello spazio disponibile, le diverse articolazioni del popolo di Dio, distinto tra le Vergini, i Patriarchi, i Padri della Chiesa, gli Apostoli. Tutte queste necessità iconografiche condizionavano lo schema compositivo, riducendo quasi sempre il Giudizio a una sovrapposizione orizzontale di piccole folle a cui corrispondeva un ruolo nella gerarchia celeste e su cui dominava la figura del Cristo Giudice. Solo in basso, la rappresentazione dell’inferno era occasione di un’anarchia figurativa in cui le pene inflitte ai dannati permettevano di ritrarre attitudini e modi sen270

timentali ben diversi dalla pietosa devozione che accomunava tutti gli altri protagonisti della scena, inclusi la Vergine Maria e san Giovanni Battista, collocati rispettivamente a destra e a sinistra del Cristo nell’atto di intercedere per il destino degli uomini. Michelangelo accolse e rielaborò l’apparato iconografico della tradizione, ma lo trasformò in maniera dinamica e originalissima. Per lui, innamorato del corpo maschile, la rappresentazione del tema era soprattutto la possibilità di esprimere l’infinita varietà dei moti dell’anima attraverso l’altrettanto infinita varietà delle attitudini dei corpi nello spazio. La prima forte novità è rappresentata proprio da uno spazio ordinato dal movimento delle figure e non più dai registri geometrici su cui erano precedentemente allineati gli uomini e i santi. La gerarchia delle figure è scandita solo da una leggera variazione delle loro proporzioni. Cristo, la Vergine e i santi principali sono raffigurati leggermente più grandi, quanto basta a segnarne l’importanza ma non tanto da squilibrare e rendere incongrua la rappresentazione di uno spazio unitario e credibile. Il dinamismo della rappresentazione è generato dalla posa del Cristo, non più seduto ma in atto di alzarsi in piedi, trascinato dal gesto del braccio che mette in moto tutto il vortice di figure che lo circonda. In conseguenza della forza scaturita da quel gesto, i dannati precipitano verso il basso e i salvati si sollevano verso l’alto, mentre le schiere degli eletti, dei santi e dei martiri, tutti indistintamente impressionati dall’evento grandioso e definitivo, circondano il Cristo affollando in una immensa visione biblica il cielo irrealistico e spirituale. Nella parte inferiore, uno spoglio 271

orizzonte di cruda terra accoglie la resurrezione dei corpi sul lato destro e un anticipo d’inferno sul lato sinistro. Alcuni dettagli dell’inferno, come la barca di Caronte che traghetta e tormenta i disperati destinati al fuoco eterno, rendono riconoscibile l’influsso del racconto di Dante, poeta venerato da Michelangelo. I diavoli risultano spaventosissimi per l’abilità dell’artista di fondere l’anatomia umana con caratteri fantastici rubati ai pesci più bizzarri del Tirreno, come aveva già fatto da ragazzo in una pescheria fiorentina. Se Giotto a Padova e Buffalmacco a Pisa avevano rappresentato i diavoli come creature aliene dal regno umano, Michelangelo si richiama all’esempio del Signorelli nella Cappella di San Brizio a Orvieto e alle sculture della facciata di quel duomo, rappresentando diavoli che sembrano una leggera degenerazione degli uomini e degli angeli. Anche con i loro artigli, le piume e i colori rubati agli uccelli, non tradiscono mai la congruenza anatomica e naturalistica, rispettando le forme potenti e seducenti del corpo umano in piena fioritura [tav. 45]. Sembrano soltanto uomini soggetti a una trasformazione fisica che spinge oltre il conosciuto le forme umane, uomini che abitano un incubo molto verosimile. Nella loro rappresentazione, che si può considerare una delle vette più alte del dipinto, Michelangelo coglie i sentimenti peggiori dell’animo umano, quelli solitamente indicibili eppure comuni ad ognuno. La crudeltà estrema, la cattiveria, l’avidità, la mostruosa forza del male: tutto è riportato rigorosamente all’interno dell’universo degli uomini. Si può anzi dire che i diavoli dipinti da Michelangelo siano i diavoli più umani comparsi nella sto272

ria della pittura occidentale fino a quella data. Pensando a loro, l’artista ha forse pensato soltanto alla parte più oscura dell’anima umana. Dare anche ai diavoli aspetto di uomini gli permette d’altronde di svolgere la rappresentazione tutta all’interno di un orizzonte umano. Tutto avviene in un concitato scontro di corpi, che ha fatto parlare molto a proposito di un’immensa gigantomachia. La prima impressione è quella di una lotta disperata tra il bene e il male, che si confrontano per un momento con la forza dei loro corpi e l’energia dei sentimenti che li abita. Lottano gli angeli per strappare ai diavoli le anime salvate. Lottano i dannati per non precipitare nell’inferno. E lottano i diavoli, con massima soddisfazione, per spingere le «anime prave» verso la condanna eterna. Gli stessi santi, che circondano Cristo mostrando le insegne del loro martirio, sembrano angosciati come gli uomini da questa battaglia, quasi che non ci fosse neppure per loro una certezza di salvazione [tav. 9]. Finiscono quasi per tradire quello che era il tradizionale scopo «politico» della scena: rassicurare gli uomini obbedienti ai precetti della Chiesa sulla certezza della loro salvazione. Nella parte alta del dipinto, tra le due grandi lunette accanto al trono di Giona, gli angeli che espongono le insegne della passione di Cristo – la colonna, la croce e la corona di spine [tav. 46] – sembrano combattere con una tempesta che li scaraventa fuori dall’orizzonte. Per dare più forza e verità al loro impegno fisico, sono mostrati senza ali. L’intera rappresentazione è costruita del resto intorno ai gesti dei protagonisti, esaltati nella loro potente fisicità quasi che per un giorno, quello finale dell’umanità, tornas273

sero tutti ad essere uomini per condividere il dramma più grande della storia. Santi e beati senza aureole, angeli senza ali: una sola grandiosa e disperata umanità di fronte al dramma del Giudizio. Gli scorci vertiginosi degli uomini librati nell’aria eppure appesantiti dalla carne, la perfetta bellezza delle anatomie e la commovente misura dei gesti faranno eleggere immediatamente questa pittura come la più bella e irraggiungibile opera d’arte della cristianità. Ma con eguale tempestività attireranno sull’artista critiche di oscenità e di mancanza di fede, per i nudi e per la rappresentazione così umana dei santi e degli angeli. Michelangelo aveva seguito una convinzione precisa, riecheggiata anche nelle conversazioni tramandateci da un suo grande ammiratore, Francisco de Hollanda, che pochi anni dopo la conclusione del Giudizio diede alle stampe una sintesi dei colloqui avuti con Michelangelo, Vittoria Colonna e Lattanzio Tolomei, un colto umanista senese, proprio negli anni della pittura del Giudizio. La bellezza dell’uomo – si sosteneva in questi colloqui – è frutto della grandezza di Dio, e non si può glorificare Dio senza mostrarla. Ricoprirla con i vestiti sarebbe come voler celebrare la superiorità della pelle di un capretto o del vello di una pecora sulle membra dell’uomo. Il dibattito polemico si sarebbe presto impossessato del dipinto di Michelangelo spingendolo fino al giudizio del Concilio di Trento, quasi si trattasse di un’opera di teologia. Ma per l’artista quella rappresentazione era la più riuscita celebrazione della grandezza di Dio e degli uomini, del cui destino si sentiva partecipe per la sua educazione umanistica e per la sua sensibilità, che lo rendeva capace di 274

ammirare anche nell’artificio estremo dell’arte il segno di una volontà divina. I problemi con i quali si era misurato in quegli anni sui ponteggi, da solo e senza nessun interlocutore, erano del resto problemi artistici e non teologici. Aveva rappresentato la grandezza di Cristo, la sua generosità ma anche la sua terribilità, attraverso il mezzo limitatissimo del disegno e del colore. Aveva rifiutato ogni aiuto didascalico come ali e aureole e ogni altro attributo simbolico di cui la Chiesa cattolica si era servita nei secoli per identificare gerarchie e attributi dei suoi personaggi e per sottolineare il proprio carattere di istituzione divina. Ancora una volta nella sua pittura aveva trionfato il classicismo inteso come assoluta preminenza del corpo umano su ogni altro linguaggio simbolico e la forza di questo sentimento si era imposta, divorandola, sulla funzione didascalica della pittura. Senza averne consapevolezza, coloro che criticavano Michelangelo si sentivano traditi proprio da questo risultato. La grandezza dell’arte e del talento umano avevano prevalso sull’efficacia delle Scritture sacre: un risultato che oggi appare ancora più evidente, se si considera che a venerare il Giudizio accorrono uomini di diversa fede religiosa. Per arrivare fin lì, Michelangelo aveva portato al suo massimo grado la capacità espressiva del corpo umano, in particolare di quello maschile, che era sempre stato oggetto del suo interesse e del suo amore. Aveva ridotto tutto all’essenzialità dell’anatomia e all’intuizione spiritualissima del cielo azzurro, che forma con i corpi chiari un contrasto simbolico senza precedenti e provoca un’emozione estetica straziante. Il risultato fu così straordinario, che ancora oggi non è pos275

sibile sottrarsi a una forte commozione di fronte a quel mondo ricreato ex novo sulle pareti della Sistina. Origine e fine di ogni movimento e ogni emozione, come detto, è il gesto perfetto di Cristo che sottomette la carne liberata dalla miseria umana e trionfante nel cielo di lapislazzuli. Quanto difficile e importante fu quel gesto per la riuscita del dipinto, quanto Michelangelo lo studiò e quanto confidò nella perfezione del braccio scorciato dal basso, ce lo racconta la sua stessa storia concreta, la storia materiale del colore e dell’intonaco. Anche se quel gesto era stato oggetto di puntigliosi studi preparatori, Michelangelo lo rifece e lo corresse, lo cancellò e lo ridipinse molte volte, quasi che non potesse trovare soluzione a un dettaglio tanto significativo. I «pentimenti» osservati dai restauratori dicono molto su tutta la pittura del Giudizio, perché testimoniano come la riuscita dell’intero dipinto fosse affidata soprattutto alla perfezione e alla persuasività dei dettagli anatomici e dei rapporti spaziali. Era qualcosa che l’artista doveva creare dal nulla, ricavare dalla sua sola fantasia, senza l’aiuto di strutture iconografiche prestabilite: come se quel soggetto fosse rappresentato per la prima volta. Nessun artista aveva mai avuto un atteggiamento simile di fronte a una commissione tanto importante. Come in una recita teatrale il regista impone mille prove all’attore principale prima di raggiungere l’espressione più persuasiva, Michelangelo faticò moltissimo prima di creare un gesto che esprimesse da solo il dramma nuovo scoppiato tra il cielo e la terra nell’unico momento che li unisce nell’eternità. Ma senza la perfezione e la grande forza simbolica di quel gesto le figure sospese sarebbe276

ro cadute improvvisamente come corpi celesti non più sorretti dalla forza di gravità. La pittura fu sostenuta ancora una volta da una tecnica sconvolgente per la sua raffinatezza, come se nel ventennio che lo separava dal lavoro per la volta Michelangelo non si fosse dedicato ad altro che alla pittura murale anziché alla scultura. L’intonaco, perfettamente tirato fino a formare una superficie smaltata come marmo, assorbe pochissimo colore e traspare con il suo chiarore rendendo i corpi particolarmente luminosi. Il pennello lavora sul bianco dell’intonaco, separando le ombre e facendolo diventare esso stesso parte della rappresentazione, fino a lasciarlo senza nessuna copertura come nelle pupille e nelle teste di alcuni personaggi. Le figure in primo piano sono dipinte con una pennellata descrittiva e puntigliosa, ma appena si allontanano nel fondo la pennellata diventa veloce e sommaria come in un quadro contemporaneo, con il risultato di dare maggiore profondità allo spazio e di aumentare la potenza descrittiva anche delle figure minori, ridotte a pura espressione con rapidi tocchi di colore. Ma l’impresa più straordinaria fu quella di conferire omogeneità formale, materiale e cromatica a una pittura durata sei anni, in cui centinaia di figure si scompongono in migliaia di giornate. Alla fine, miracolosamente, tutto appare fatto in un sol giorno, e senza l’aiuto di diaframmi architettonici o paesaggistici che possano nascondere e raccordare le difformità. Non solo. Diversamente dalle altre composizioni paragonabili, nelle quali ad alcuni soggetti principali e ben curati fanno corona una moltitudine di figure poco rifinite e poco strutturate, nel cielo del Giudizio 277

ogni figura ha il suo ruolo nella narrazione e la sua struttura formale estremamente convincente. Ogni uomo dialoga e partecipa al tutto narrando un piccolo episodio di vita e di sentimento, tanto che il nostro occhio non si posa mai invano, non manca mai il segno; ovunque guardi, riceve uno stimolo emotivo. Come se neppure quell’immensa parete, la più grande affrescata da un solo artista, potesse contenere i pensieri di Michelangelo, i suoi desideri di forma e l’immaginazione che piegava in infinite pose uno stesso meraviglioso strumento: il corpo dell’uomo. Quando il dipinto fu scoperto nel novembre del 1541, una folla di celebrità corse ai piedi del muro, stordita e sconcertata da tanta grandezza. L’emozione provocata da quella visione era ingigantita dalle notizie drammatiche che arrivavano dal mare di Algeri. L’imperatore Carlo V aveva organizzato una spedizione contro il Barbarossa, padrone di Algeri, che aveva assunto i connotati di una crociata a cui si erano precipitati cavalieri e nobili da tutta Europa. Ma la notte del 24 ottobre una tempesta aveva distrutto 150 navi cristiane, ucciso migliaia di uomini e messo in serio pericolo la vita stessa dell’imperatore, che riuscì a fatica a ritornare in Europa con la flotta disfatta. Con le navi sprofondarono nelle acque ancora tiepide del Mediterraneo le speranze degli europei di esorcizzare la minaccia che li perseguitava da decenni: l’occupazione del Turco Infedele, al quale ad ogni modo i principi europei non disdegnavano a turno di rivolgersi per alleanze contro il nemico più prossimo, sempre cristiano. Peggio non poteva andare, e i cristiani cominciarono a temere che niente avrebbe fermato l’avanzata degli infedeli e dell’Impero del278

la Sublime Porta in quell’Europa dilaniata dalle lotte religiose e dagli scontri dinastici. Il disvelamento del Giudizio, negli stessi giorni in cui cominciavano ad arrivare le notizie della disfatta, non poteva avere un maggior impatto emotivo. Principi e cardinali volevano copie, disegni di quell’opera che divenne celebre in tutta Italia prima ancora che cominciassero a circolare le riproduzioni e le incisioni susseguitesi numerosissime negli anni successivi. Ma la solitudine di quel prodigio vivente, ormai ultrasessantenne, era tale che non si riuscivano a trovare neppure assistenti o collaboratori da impegnare nel lavoro di copiatura. Solo i principi più facoltosi furono in grado di cooptare i pochi copisti disposti ad affrontare l’impresa. Anche le critiche e le accuse di oscenità iniziarono subito. Ma come scrisse l’ambasciatore del cardinale Gonzaga, Sernini, in una corrispondenza di quei giorni, a corte ci si burlava di quelle critiche, e molti cardinali avrebbero dato migliaia di ducati per una sola delle figure rappresentate sulla parete. Purtroppo per loro, però, l’arte di Michelangelo non era più in vendita.

3. Il dono di Vittoria Anche dopo lo scoprimento del meraviglioso dipinto del Giudizio Universale, Michelangelo non smise mai di lavorare. Non si fermava se non per pochissimi giorni, perfino nelle torride estati romane, universalmente considerate molto dannose per la salute. In quella del 1543, mentre era impegnatissimo a scolpire le ultime statue per la tomba di 279

Giulio II e aveva da poco cominciato ad affrescare i muri della Cappella Paolina, si concesse una breve gita a Viterbo, per visitare la sua grande amica Vittoria Colonna, che in quella città, nel monastero di Santa Caterina, aveva stabilito il suo quartier generale già dal settembre del 1541. Vittoria era nata nel 1490 a Marino, vicino Roma, da Fabrizio Colonna e Agnese da Montefeltro. La sua famiglia era una delle più potenti e di più antica nobiltà della città di Roma. Prospero Colonna, fratello di Fabrizio, era stato uno degli artefici del successo militare del giovane imperatore Carlo V in Europa. La sua tattica militare, calcolata e prudente, gli aveva meritato fama universale e l’infinita gratitudine dell’imperatore intorno al 1520. Sempre fedeli, i Colonna lo avevano appoggiato nello scontro con Clemente VII nel 1527 e la loro politica aveva contribuito in maniera decisiva a consegnare il papa nelle mani dell’imperatore e la città ai lanzichenecchi. Vittoria aveva consolidato la sua posizione sociale sposando nel 1509 il marchese di Pescara, Ferrante Francesco d’Avalos, anche lui destinato all’immensa riconoscenza dell’imperatore per il suo grande valore militare, in anni in cui il valore militare era l’unico vero fondamento del potere in Europa. Il marchese di Pescara ebbe un ruolo decisivo nella battaglia di Pavia, che segnò nel 1525 la supremazia imperiale sul potente nemico francese Francesco I, al quale sembrava destinato invece il successo militare. Il marito di Vittoria aveva annunciato con una lettera di suo pugno all’imperatore la vittoria di Pavia e l’arresto del re francese, poco prima di morire eroicamente per le ferite riportate in battaglia. Non stupisce quindi che quando venne a Roma nell’aprile del 1536 l’im280

peratore la onorò di una visita personale che certificò la sua elevatissima posizione nella scena europea. Ma il prestigio familiare perdeva importanza di fronte ai suoi meriti, largamente apprezzati in quegli anni. Dopo la morte del marito, Vittoria si dedicò infatti alla sua passione per la poesia, che dilagava in quegli anni in Italia come un raffinato rituale mondano, ma che nel suo caso le permise di manifestare un talento subito riconosciuto e celebrato negli ambienti più colti di Roma, Napoli e Venezia. La sua educazione umanistica e le riconosciute qualità poetiche la misero ben presto in contatto con gli ambienti intellettuali più raffinati d’Italia, che con Paolo III ebbero grande riconoscimento nella Curia pontificia, se si pensa che letterati come Bembo e Sadoleto furono nominati cardinali proprio dal papa Farnese. La nascita e lo sviluppo della sua amicizia con Michelangelo rimangono avvolti nell’oscurità. Di certo nel 1531 Vittoria, profondamente sedotta dall’arte di Michelangelo, era ancora costretta a ricorrere alla mediazione di suo cugino, il marchese del Vasto, per impetrare, senza successo, qualcosa di mano del maestro. Nel 1538 l’amicizia era però già strettissima e i loro dialoghi, incentrati principalmente sui temi umanistici dell’arte e della letteratura, furono registrati da un pittore portoghese che li avrebbe dati alle stampe qualche anno dopo. A partire da quella data il percorso di Vittoria Colonna mutò di direzione. Come disse un suo stretto frequentatore, «ha rivolto il suo stato a Dio et non scrive d’altra materia»7. Questa ricerca spirituale, focalizzata sui temi della salvezza e di un rinnovamento della fede, rifletteva un per281

corso comune a moltissimi letterati educati all’umanesimo, alle scienze filosofiche e allo studio della cultura antica, che negli anni Quaranta del Cinquecento svilupparono un interesse sempre più totalizzante per i temi legati alla riforma religiosa e alla vita spirituale dei cattolici, certo sotto l’impressione dei radicali mutamenti che la Riforma protestante stava producendo nell’Europa del Nord. In modo particolare, Vittoria fu toccata dalle idee diffuse a Napoli tra il 1536 e il 1540 da Juan de Valdés, un intellettuale spagnolo nobile, bello e raffinato che aveva seguito Carlo V nel suo viaggio italiano del 1536. A Napoli Valdés diede vita a un circolo che discuteva con fervore sempre crescente i temi della salvezza e della fede. Lo fece in maniera nuova, intrecciando le prediche che i suoi discepoli diffondevano dai pulpiti con le discussioni tenute nel suo bel palazzo di Mergellina, affacciato sul golfo della città più bella e appassionata del mondo, dove anche la religiosità acquistava una carnalità e una sensualità tutta particolare. I napoletani risposero con impressionante entusiasmo alle idee di Valdés, tanto che divennero leggendarie le riunioni di quanti accorrevano alle prediche sue e dei suoi seguaci. In una di queste riunioni furono raccolti con la sola elemosina 5000 scudi, una cifra molto ragguardevole che metteva in ombra perfino i frutti delle tumultuose prediche del «monaco nero» Savonarola a Firenze, città più cauta nelle elargizioni e che mai poté vantare tali donativi caritatevoli. Intorno al Valdés si raccolsero molte figure di spicco della società napoletana, che avrebbero accompagnato Vittoria per tutto il resto dei suoi giorni: Giulia Gonzaga, vedova di Vespasiano Colonna, vana282

mente amata da Ippolito de’ Medici; Marcantonio Flaminio, celebratissimo letterato; Pietro Carnesecchi, che era stato protonotario apostolico di Clemente VII; e Bernardino Ochino, frate cappuccino proveniente da Siena e famoso per la bellezza e il coinvolgimento delle sue prediche. Del gruppo il solo Ochino poteva vantare lo status di religioso: gli altri erano laici e testimoniavano molto bene quale vitale interesse suscitassero i temi religiosi nell’intera società italiana. Le idee più forti e originali di Valdés riguardavano il tema della grazia divina, data da Dio agli uomini non per il loro merito ma per la sincerità della fede nei confronti del sacrificio di Cristo, fattosi uomo per donare la salvezza agli uomini. Altre questioni – come la vana presunzione delle opere meritorie, la chiarezza delle Scritture e perfino l’inesistenza del Purgatorio – furono discusse a Napoli, ma subito i loro contorni divennero ombrosi e sfumati per la persecuzione dell’Inquisizione. Già intorno al 1538, infatti, i temi della predicazione valdesiana divennero oggetto di preoccupazione per quella parte più zelante della Chiesa cattolica che li sentiva pericolosamente vicini all’eresia luterana e che già dal 1530 aveva deciso che la sola risposta da opporre alla Riforma doveva essere la netta e incontestabile riaffermazione dell’indiscutibile primato della Chiesa di Roma. Ma nel composito e mobile panorama teologico italiano intorno al 1540 non era facile inquadrare l’ortodossia di una devozione, soprattutto se essa si manifestava nelle forme ambigue e volutamente simulate delle riunioni private e delle conferenze improvvisate di cui si alimentava il fervore religioso di quegli anni. 283

A partire dalla morte di Valdés, nel 1541, i suoi principali discepoli, Ochino e il Flaminio, spostarono lontano da Napoli il centro di riflessione e propagazione di idee divenute consapevoli della loro pericolosa carica eversiva per la struttura istituzionale della Chiesa di Roma. Ochino iniziò a predicare con successo sempre maggiore nelle principali città italiane, protetto proprio da Vittoria Colonna, che spendeva la sua nobiltà per aprirgli le porte delle chiese più frequentate d’Italia. Le predicazioni del cappuccino diventavano però sempre più minacciose per l’ortodossia romana e nel 1542 Ochino fu costretto a scappare in Svizzera, aprendo una crisi profonda all’interno della società italiana. Con la sua fuga e poi con le sue lettere, tra cui una molto compromettente spedita proprio a Vittoria Colonna appena arrivato in Svizzera, Ochino rivelava quanto radicale e insanabile fosse diventata la frattura con la Chiesa istituzionale di Roma. E soprattutto rivelava chiaramente che il fondamento della sua dottrina teologica era quasi sovrapponibile all’eresia luterana, avendo egli abbracciato l’idea che la salvezza è possibile solo con la fede e non con le opere. Con quella fuga Giampietro Carafa – zelante fondatore dei teatini e poi a capo, negli stessi mesi della fuga di Ochino, dell’appena rinata Inquisizione romana – vedeva confermati i suoi peggiori sospetti riguardo l’infiltrazione luterana all’interno della società italiana. L’altro discepolo di Valdés, Marcantonio Flaminio, entrò invece a far parte del seguito del cardinale inglese Reginald Pole, cugino di Enrico VIII, dal quale era dovuto scappare per essersi opposto, tra le altre cose, al matrimonio con Anna Bolena. La corte di Pole, raccolta a Viterbo dopo la sua no284

mina a Legato del patrimonio nel 1540, era diventata il luogo dove si elaboravano nuove ipotesi teologiche e riformiste per l’uscita dalla crisi sempre più profonda in cui gli attacchi dei protestanti stavano precipitando la Chiesa di Roma. Intorno al cardinale inglese si riunivano il Flaminio, Apollonio Merenda, Alvise Priuli, Giovanni Morone e Ludovico Beccadelli, amico fino agli ultimi giorni di Michelangelo. In maniera singolare, in quanto donna, ma non per questo meno coinvolgente, ne faceva parte la stessa Vittoria Colonna. La repressione del Sant’Uffizio rende oggi difficile riconoscere i tratti distintivi della fisionomia teologica di questo gruppo. Ma si può dire senza sbagliare che sostenesse l’ipotesi di una riconciliazione con i luterani. Tale ipotesi fu rappresentata con prudenza e generosità dal cardinale Gasparo Contarini ai colloqui di Ratisbona del 1541, ma venne drasticamente censurata dalla parte più zelante della Curia romana, che nella sua maggioranza vedeva già allora come estranee al proprio corpo quelle opzioni teologiche. Le idee del gruppo trovarono voce in un libretto stampato prudentemente anonimo a Venezia nel 1543, ma che circolava manoscritto già almeno dal 1541: il Beneficio di Cristo. Scritto probabilmente da un monaco benedettino di Mantova, il libro fu rivisto da Marcantonio Flaminio proprio a Viterbo, e proprio negli anni in cui Vittoria Colonna vi soggiornava stringendo sempre di più la fratellanza con quel circolo che i maligni già indicavano come «Ecclesia Viterbense», per significare che si era data regole proprie e comunque diverse da quelle dell’ortodossia romana. Nel libro è chiaramente espressa la convinzione secondo cui la grazia di Dio è donata all’uomo attraverso la fede e non at285

traverso le opere, che pure hanno il valore di illuminare la verità e la veridicità della fede. Il sentimento religioso veniva così riportato al suo valore primitivo, cancellando decisamente la mediazione della Chiesa come istituzione. L’osservanza dei precetti su cui la Chiesa fondava il controllo dei fedeli veniva spostata molto sullo sfondo, minando dalle fondamenta il potere stesso delle gerarchie ecclesiastiche. Il forte accento sull’interiorità della fede e sul valore salvifico del sacrificio di Cristo aveva come conseguenza la richiesta di un mutamento della Chiesa e del suo ordinamento nella direzione di un assetto più spirituale e di un ridimensionamento del potere temporale. Si arrivava a mettere in discussione la gestione dei benefici ecclesiastici, considerati ormai come pura rendita economica senza nessun rapporto con la cura delle anime dei fedeli. E addirittura si poneva in questione l’autorità assoluta del papa e il suo rapporto con i Concili, così come il rispetto di regole e precetti di cui non v’era traccia nei Vangeli, ad esempio il celibato dei preti o il divieto di mangiare carne il venerdì. Tutte questioni che si allontanavano da quello che era il corpus di canoni e discipline su cui fondava la propria sopravvivenza la Chiesa di Roma. C’era abbastanza radicalismo in quelle ipotesi per accusare di eresia i loro sostenitori. Il libro fu condannato a Trento nel 1546, anche se la caccia ai suoi autori era già cominciata subito dopo la sua uscita. Ma il colpo più duro all’ipotesi di riconciliazione con l’eresia luterana fu portato dall’assemblea conciliare di Trento, il 13 gennaio 1547, con l’approvazione di un decreto che ribadiva come la salvezza fosse fondata sia sulla fede che sul valore meritorio delle opere, cioè sul rispetto dei 286

precetti imposti ai fedeli dalla tradizione ecclesiastica. Ciò equivaleva a sancire una rottura definitiva e irrimediabile con i luterani e con quella parte che all’interno della Chiesa lavorava segretamente a un’ipotesi di riconciliazione. Appena si rese conto che avrebbe prevalso l’ipotesi contraria a quella sostenuta da lui e dai suoi sodali, Reginald Pole, Legato pontificio al Concilio, lasciò Trento con la scusa di un’indisposizione fisica, riempiendo di gioia i suoi amici «viterbesi», prime fra tutte Vittoria Colonna e Giulia Gonzaga, e di rabbia la parte zelante della Curia che sanciva con quel decreto la propria vittoria. Le prudenze usate da quel gruppo nebuloso e sfumato che già dal 1540 passò alla storia come degli «Spirituali» non servirono a salvarlo dalla persecuzione inquisitoriale. Quanto radicali e quanto consapevoli fossero le idee e le responsabilità dei singoli componenti del gruppo è ancora difficile da appurare, visto che gli stessi cattolici che li perseguitarono non smisero mai dopo la loro morte di tentare un recupero della loro memoria in considerazione dell'elevatissima statura morale e intellettuale, oltre che politica, che li contraddistingueva. Il gruppo che nell’estate del 1543 accolse come un fratello Michelangelo a Viterbo ha lasciato poco altro dietro di sé oltre alla cronaca della sua disfatta, scritta naturalmente dalla parte opposta. Cinquant’anni dopo, i seguaci di Carafa, usciti vincitori dallo scontro, sostenevano ancora l’eresia della «Ecclesia Viterbense»8 e quanto fosse stato giusto annientarla. Anche se la storiografia successiva ha spesso tentato di sfumare il suo giudizio, resta il fatto che gli Spirituali uscirono sconfitti dallo scontro cruentissimo che tra il 1540 e il 1559 combatterono contro 287

Giampietro Carafa, diventato papa nel 1555 con il nome di Paolo IV. La loro ipotesi teologica e riformatrice sarà sentita come una minaccia dalla Chiesa ufficiale ancora all’inizio del secolo XVII, quando Antonio Caracciolo, biografo di Paolo IV, s’incaricherà di illustrare dettagliatamente le colpe di Pole e Vittoria Colonna giustificando ampiamente la repressione scatenata contro di loro dal Carafa. A questa vicenda, pur nella sua sfumata complessità, è necessario fare riferimento per leggere la produzione michelangiolesca successiva al Giudizio Universale. Non soltanto perché i suoi committenti appartennero quasi esclusivamente al gruppo, anche molto dopo che furono vittime della persecuzione (Giovanni Morone). Ma soprattutto perché l’amicizia di Michelangelo con Vittoria e gli altri suoi amici, nonostante il disperato tentativo della cultura ottocentesca di ascriverlo alla sfera sentimentale se non addirittura sessuale, fu una condivisione interamente spirituale e religiosa, uno scambio circolare di riflessioni sui problemi della salvazione e sull’accento particolare che questo tema aveva assunto nelle discussioni del gruppo. Le opere di Michelangelo, a differenza delle sue lettere e dei libri che scambiava con Vittoria e Pole, non furono né bruciate né requisite (anche se a volte si tentò di demolirle). Oggi forse rappresentano, liberate dal raffinato apparato manipolatorio che fu approntato per poterle annettere alla parte ortodossa della Chiesa, quella stessa contro la quale erano state pensate, uno dei documenti più vivi di quella fede particolare e pericolosa stroncata sul nascere dal Concilio di Trento. Ad alcuni quella fede costò la vita, ad altri il carcere. A Michelangelo costò l’amara solitudine in 288

cui si consumarono gli ultimi anni della sua vita. A Vittoria le umiliazioni furono risparmiate solo perché la morte arrivò prima dell’Inquisizione. Il dialogo tra Michelangelo e Vittoria Colonna rimane comunque inquietante per i destini di entrambi, soprattutto se si considera che nel lungo compendio dei processi inquisitoriali la semplice frequentazione di Vittoria e di Pole fu quasi sempre considerata indizio sicuro di colpevolezza eretica. La premura con la quale Vittoria accolse l’amico a Viterbo nella drammatica estate del 1543 resta la chiave più idonea per aprire la porta di quell’amicizia subito oscurata dalle persecuzioni. Lo testimonia la sollecitudine con cui Vittoria chiese agli amici di prestarle gli occhiali per aiutare la vista dell’artista, messa a dura prova dal lavoro nella Cappella Paolina. L’incontro si svolse con Alvise Priuli, il Flaminio e Reginald Pole: il nucleo degli Spirituali che incrocerà Michelangelo in molti altri documenti che ne attestano la familiarità. La Colonna chiese di poter dare all’artista gli occhiali di Pole: solo per qualche giorno però, perché aveva già provveduto a ordinare dei vetri a Venezia che avrebbe fatto montare su «un piede d’argento dorato», affinché il gusto e lo stile non venissero meno neppure in quell’oggetto così pratico. A Venezia era sorta due secoli prima l’industria più avanzata della fabbricazione di occhiali e il gusto raffinatissimo degli orefici e degli artigiani veneziani ne aveva già fatto un indispensabile accessorio regale. Del resto come negare aiuto all’amico «che se lli fatica forte nella cappella che fa di S. Paulo»?9 Per una volta il dialogo religioso di cui traboccano le rare corrispondenze rimasteci lascia il posto alle cure materne di Vittoria, con289

fermando quel ruolo che già da anni si era scelta per i suoi amici e soprattutto per Pole. È difficile dire di cosa parlarono Vittoria e Michelangelo tra i tufi umidi del monastero di Santa Caterina. Sappiamo però di cosa Vittoria parlava in quei giorni a tutti i suoi amici, e lo sappiamo grazie ai verbali dell’Inquisizione, che per provare l’eresia della donna raccolse le lettere scritte proprio in quei giorni da Viterbo. In un fascicolo emerso solo pochi anni fa dagli archivi del Sant’Uffizio sono enunciati i capi di accusa: «Videtur astruere errorem de sola fide et de certitudine, (...) Videtur tenere certitudinem gratiae (...) Videtur tenere securitatem et confirmationem in via (...). Videtur astruere haeresim dicentium Christum purum hominem. (...) Videtur negare propria merita et tantum asserere imputationem etc.»10. Le spie dell’Inquisizione che intercettarono le lettere dell’amica più vicina a Michelangelo non ebbero dubbi sulla sua eresia e sulla pericolosità delle sue conversazioni. Di certo comunque Vittoria e Michelangelo parlarono appassionatamente anche dei lavori che stavano consumando la vista dell’artista: le statue per la tomba di Giulio II e gli affreschi della Cappella Paolina. Vittoria era convinta che tutto quanto si muoveva intorno a lei in quegli anni fosse frutto di un preciso disegno divino: un disegno che aveva affidato al suo maestro spirituale, Pole, la santità e la prudenza necessaria a riformare la Chiesa di Roma, mentre a Michelangelo aveva regalato l’ispirazione e la fede viva che gli permetteva di rappresentare con le sue pitture e sculture la grandezza del sacrificio di Cristo e la purezza della loro fede rinnovata. 290

Come invece Michelangelo fosse arrivato in quegli anni a quella particolare forma di devozione, attraverso quali vie si fosse coinvolto in quella passione eretica, possiamo soltanto immaginarlo. Uno dei punti di maggior fascino della dottrina era costituito dall’accoglienza che prometteva ai peccatori, che più degli altri erano meritevoli della grazia divina perché – come diceva san Paolo e come sottolineava il Beneficio e in molte lettere la stessa Vittoria – «non può gustare il bene chi non ha conosciuto il male»11. L’imperfezione degli uomini, accoppiata alla loro fede, non ostacolava ma al contrario favoriva la salvazione. Non c’è dubbio che la personalità contorta e conflittuale di Michelangelo, la sua omosessualità rifiutata o comunque mai agita felicemente, la diffidenza che si trasformava in delirio di persecuzione ad ogni minima difficoltà, lo mantenessero in un continuo stato di colpa, rendendolo particolarmente disponibile ad accogliere il tema della salvezza che agitava le coscienze di tutti gli uomini e le donne della sua generazione. E non c’è dubbio che quella particolare devozione, così misericordiosa ma allo stesso tempo così rispettosa del valore di ogni uomo, esercitasse sull’artista un fascino molto forte, che lo portava a confrontarsi con quel Vangelo che tutti ormai studiavano e interpretavano con ansia frenetica.

4. Una passione eretica Appena svelato e presentato al pubblico il Giudizio Universale, Michelangelo pensò che era arrivato finalmente il momento di ultimare la tomba di Giulio II. Voleva così 291

chiudere la vertenza che lo opponeva ormai da quarant’anni ai Della Rovere: una vertenza trasformatasi, secondo le sue stesse parole, nella tragedia della propria vita. Quando aveva iniziato i lavori di muratura in San Pietro in Vincoli, nel 1533, Michelangelo aveva deciso con piglio pratico molto disinvolto di utilizzare il materiale approntato per il monumento prima della sua partenza da Roma del 1517. Per adattare i marmi già lavorati e squadrati al nuovo sito, aveva fatto aprire una grande lunetta nel muro a cui doveva poggiare la tomba, in modo che la luce, arrivando dal retro oltre che da sinistra e da destra, venisse a creare un effetto di ambiguità spaziale tale che la tomba non risultasse appoggiata al muro ma elevata liberamente nell’aria. Questo espediente, che anticipava di un secolo le ricerche di Borromini e Bernini sulla luce «interna» ai monumenti e sull’ambiguità teatrale delle architetture, era il modo migliore per non rinunciare del tutto all’idea di monumento tridimensionale a cui aveva lavorato per trent’anni. La grande intelaiatura architettonica venne quindi bucata al suo interno, ricevendo la luce come se fosse collocata nello spazio libero e permettendole di scivolare sulle sculture e sulle modanature dell’ordine in maniera morbida e diffusa, così da creare un’atmosfera molto spirituale con l’eliminazione di una fonte diretta e brutale di illuminazione [tav. 48]. L’idea era ardita non solo dal punto di vista compositivo, ma soprattutto dal punto di vista statico, perché la parete su cui Michelangelo fece aprire la grande lunetta – al confronto della quale, come disse Sebastiano del Piombo, «el Coliseo serà una bestia» – sosteneva una volta più bas292

sa che si trovava pericolosamente sbilanciata dall’apertura del muro. Sicuro della propria perizia ingegneristica, Michelangelo fece ancorare la chiave di volta della lunetta alla parete di fronte con una catena di ferro che compensava la resistenza eliminata con la parte di muro demolita. Lo scultore e pittore era ormai diventato un eccellente architetto, molto sicuro di sé riguardo alla tecnica costruttiva. Preparato questo grandioso e suggestivo scenario, Michelangelo aveva pensato di collocarvi dentro sei statue, quasi tutte già pronte o in avanzatissimo stato di lavorazione. Per dimensioni le statue dovevano essere compatibili con le nuove strette nicchie ricavate nel muro. Tra quelle già lavorate per i precedenti progetti c’erano una Sibilla, un Profeta, una Madonna e il papa reclinato, tutte destinate all’ordine superiore. Al basamento erano invece destinati due dei Prigioni già cominciati quasi vent’anni prima. Eccetto la Madonna, che aveva fatto iniziare a sbozzare a Scherano da Settignano nel 153712, e il papa che lui stesso cominciò a lavorare in quegli anni, le altre quattro sculture erano quasi finite. In pochi mesi, in teoria, avrebbe potuto portare a termine il lavoro e chiudere finalmente l’annosa questione. Ma ancora una volta il suo talento non doveva giovare alla sua tranquillità. Appena finita l’immane impresa del Giudizio, Paolo III aveva già pronta per lui un’altra impresa, meno onerosa ma non semplicissima vista l’età dell’artista, prossimo ai settant’anni. Il vecchio papa, geloso del fatto che la magnifica cappella che pure lui aveva contribuito a decorare fosse ormai irrimediabilmente designata Sistina dal nome del suo iniziatore Sisto IV, voleva legare la propria memoria alla nuova cappella che aveva fatto co293

struire da Antonio da Sangallo. Situata in Vaticano non molto distante dalla Sistina, la nuova cappella si sarebbe chiamata finalmente Paolina. Lì sarebbe stato custodito il Santissimo Sacramento e, cosa importantissima, lì si sarebbero svolti i conclavi per l’elezione dei nuovi papi. Era a tal punto deciso a fare di questa nuova costruzione la più splendida di Roma, che non soltanto pretese subito che Michelangelo si mettesse all’opera per dipingerla, ma pensò bene di espropriare i Della Rovere delle statue che l’artista aveva già scolpito per loro. Paolo III non aveva nessuna simpatia per i duchi di Urbino. Anche lui, come altri suoi predecessori, aveva cercato di espropriarli di una parte del ducato per darlo a suo figlio Pierluigi. Ma Francesco Maria Della Rovere, con il suo piglio guerriero, era riuscito a contrastare almeno in parte questa manovra, opponendosi militarmente al papa con l’appoggio della Repubblica veneziana. Morì però nel 1538, lasciando erede il giovane Guidobaldo, che senza dubbio dovette sembrare al papa un osso meno duro del padre. Nell’autunno del 1541, Paolo III si mostrava del tutto certo che i suoi desideri sarebbero stati presto esauditi. Ma Guidobaldo, nonostante la sua giovane età, dimostrò di essere un buon diplomatico. Per aumentare il suo peso politico nello scacchiere italiano, si alleò segretamente con il re di Francia, abbandonando il campo imperiale e ribaltando i fragili equilibri della penisola, divisa tra le due potenze europee, proprio nel momento di massima crisi di Carlo V, rovinosamente sconfitto ad Algeri nell’ottobre di quello stesso anno. A quel punto il papa capì di dover sostenere segretamente quella scelta per il proprio interesse dinastico. Co294

me scrisse un acutissimo osservatore contemporaneo, «se Francesi saranno superiori in Italia il Papa si troverà haver gratificato al Re con tale consenso che il Duca [Guidobaldo, N.d.A.] gli serva, si anco succumberanno e che l’Imperatore resti vincitore s.B.ne per aventura potrebbe havere disegno per lo Nipote su quello stato d’urbino col mezzo dell’Imperatore per assicurarsi ancho in un medesimo tempo di quello di Camerino»13. L’abile mossa politica di Guidobaldo impose a Paolo III una maggiore considerazione verso il giovane duca. E questa influenzò anche la trattativa di affari «minori» come la contesa su Michelangelo, che ancora una volta venne travolto dalla politica quasi costituisse ormai una posta troppo importante per restare all’interno dei normali rapporti tra artista e committente. Se nel novembre 1541 il papa, attraverso il suo commissario nelle Marche, si limitava a «comunicare» al duca l’esproprio delle sculture, tre mesi dopo, mutato l’equilibrio politico tra i due, venne stipulato un nuovo accordo – l’ennesimo – per il monumento funebre di Giulio II. Guidobaldo lasciava Michelangelo libero di servire il papa nella Cappella Paolina e lo autorizzava a far finire da un altro scultore tre delle statue già cominciate per la tomba: la Madonna con bambino, la Sibilla e il Profeta. Le altre tre statue – i due Prigioni e il papa reclinato – erano quasi finite, al punto che quella del papa era già stata collocata sul monumento ancora in costruzione, certo per rassicurare i Della Rovere della buona volontà di portare a termine l’impresa, ma anche perché di quella statua il nuovo papa non sapeva che farsene. D’altra parte, a compensare il duca per la perdita di valore economico delle tre statue finite dal suo assistente Raffaello 295

da Montelupo, Michelangelo si impegnò a fornire una scultura in più: quella del Mosè, che poteva essere collocata soltanto nella nicchia centrale del basamento, dov’erano previste alcune storie in bassorilievo che segnavano l’ingresso ideale alla tomba (in parte già collocate e ancora in situ, ma rese oggi invisibili dalla statua del Mosè). Tutto insomma si sarebbe potuto concludere in pochi mesi, visto che a Michelangelo rimaneva da finire soltanto il Mosè, universalmente apprezzato prima ancora che fosse ultimato. Ma Michelangelo era ormai un altro uomo, lontano da quello spirito pratico che aveva sempre guidato la sua vita. Il Mosè al centro del basamento alterava radicalmente il programma a cui si era mantenuto fedele per quarant’anni e i Prigioni non avevano più ragion d’essere accanto alla figura biblica che evocava, soprattutto in quella collocazione, tutt’altre suggestioni. Gli interessi economici gli avrebbero imposto di ultimare l’opera in quel modo, ma la sua irrequieta spiritualità compromessa ormai profondamente con le idee eretiche provenienti dal Nord, gli suggeriva altre e più faticose soluzioni. Erano questi i mesi di massima intimità con Vittoria Colonna e con il suo gruppo, tra cui si può annoverare con certezza anche Eleonora Gonzaga, moglie di Francesco Maria Della Rovere e madre del giovane Guidobaldo. I pensieri condivisi sulla fede si intrecciarono sicuramente ai pensieri sulle opere che dovevano esprimere per immagini la loro profonda devozione. Se è vero che in generale può essere fuorviante sovrapporre l’opera degli artisti alle loro convinzioni, in questo caso una committenza che coinvolgeva Eleonora Gonzaga e suo fratello, il cardinale Ercole Gonzaga, doveva senza 296

dubbio evocare per Michelangelo la condivisione di una spiritualità nuova e pericolosa. Attraverso il rapporto con Vittoria Colonna, il Michelangelo di questi anni aveva frantumato ogni schema predefinito. Il loro rapporto si basava su affinità spirituali del tutto libere da ogni ombra di compravendita di un «servizio», fosse pure un servizio raffinato come un’opera d’arte. Le opere che Michelangelo produsse per Vittoria sono un’affermazione della loro vicinanza spirituale e della loro condivisione di fede: Li effetti vostri excitano a forza il giuditio de chi li guarda et per vederne più exsperientia parlai de accrescer bontà alle cose perfette. Et ho visto che omnia possibilia sunt credenti. Io ebbi grandissima fede in Dio, che vi dessi una gratia sopranatural a far questo Christo: poi il viddi sì mirabile, che superò in tutti i modi ogni mia exspettatione: poi, fatta animosa dalli miraculi vostri, desiderai quello che hora maravegliosamente vedo adempito, cioè che sta da ogni parte in summa perfectione, et non se potria desiderar più, né gionger a desiderar tanto. Et ve dico che mi alegro molto che l’angelo da man destra sia assai più bello, perché il Michele ponerà voi Michel Angelo alla destra del Signore, nel dì novissimo. Et in questo mezzo io non so come servirvi in altro che in pregarne questo dolce Christo, che sì bene et perfettamente havete depinto, et pregar voi mi comandiate come cosa vostra in tutto et per tutto14.

È fin troppo evidente come il valore spirituale e devozionale della critica svolta dalla Colonna sia prevalente su quello puramente formale e stilistico. L’opera diventava il tramite di una relazione che comportava una comunanza di sentimenti del tutto simile a quella che legava Vittoria a Reginald Pole, di cui commentava gli scritti con identica partecipazione. E fu precisamente in questo clima accorata297

mente devoto che Michelangelo decise coraggiosamente, contro i suoi stessi interessi economici, di apportare alla tomba l’ultima radicale trasformazione, che si può leggere come il frutto della sua particolare e soffertissima fede. Nella primavera del 1542, incurante della fatica, Michelangelo cominciò a scolpire due nuove statue destinate a sostituire i Prigioni, che pure erano già perfettamente finiti e pronti per essere collocati ai lati del Mosè: una Vita Attiva e una Vita Contemplativa. Le due figure furono scolpite da Michelangelo, ma partorite dall’universo teologico sintetizzato dal Beneficio di Cristo, proprio in quei mesi al centro del dibattito nel circolo di Viterbo. Se Mosè per tradizione veniva associato a Cristo, portatore della legge salvifica prima del sacrificio e pertanto suo antesignano nel Vecchio Testamento, le due allegorie rappresentavano la via della salvezza indicata da Cristo proprio con il suo sacrificio. La Vita Contemplativa [tav. 49], allegoria purissima del fervore della fede, è come una fiamma che brucia il corpo quasi inesistente della donna con gli occhi rivolti verso l’alto, al cielo dove cerca la causa della propria salvezza. Tutta l’espressività della figura è racchiusa nel movimento di torsione, nello slancio di quella fede viva che addirittura il corpo può trasmettere, sempre che a scolpire il corpo sia Michelangelo Buonarroti. Il viso è smunto dall’ardore e i lineamenti sfumano sotto la forza del sentimento. Dalle sue mani è scomparso il calice che la rendeva riconoscibile in tante rappresentazioni precedenti ma che agli occhi di Michelangelo è ormai simbolo di una fede troppo superstiziosa. La sua fede purissima non ha bisogno di simboli ma solo di sincera passione. 298

La Vita Attiva [tav. 50], simbolo della carità, guarda invece davanti a sé con l’umiltà che le raccomandava san Paolo. Ha un corpo generoso e i piedi scalzi, perché le opere devono essere sollecite e il dono è soprattutto dono di sé. Il suo vestito è più mondano e l’acconciatura esageratamente complessa, perché deve guidare gli occhi dell’osservatore verso quel piccolo oggetto che tende con la mano destra: una lucerna il cui fuoco è alimentato dai capelli stessi che vi finiscono dentro. Nella tradizione medievale i capelli che ardono come fiamme erano il simbolo dei pensieri buoni che ispirano la carità, e il concetto tornava continuamente nel linguaggio metaforico di Vittoria e dei suoi amici15. Nella mano sinistra la Vita Attiva regge una corona di alloro, simbolo di carità per il suo perenne verdeggiare e la sua circolarità senza fine. Le due figure, così concepite, alludono alla particolare funzione che la teologia del Beneficio di Cristo assegnava rispettivamente alla fede e alla carità nel suo tentativo di mediare tra cattolicesimo conservatore e Riforma protestante. La fede salva e con il suo fervore si rivolge al cielo, dove sembra ascendere come il fuoco. La carità non salva, ma è ugualmente apprezzata per la sua capacità di illuminare la verità del sentimento di fede, così come la fiamma rivela l’ardore del fuoco. Il consiglio di Pole a Vittoria Colonna esemplifica efficacemente questa concezione: prega come se dovessi salvarti per la fede e agisci come se dovessi salvarti per le opere. Le sculture di Michelangelo lo gridavano al mondo intero. Sopra le due figure di donna, un’altra scultura ci porta al centro della teologia degli Spirituali: quella del papa recli299

nato al centro del primo ordine della tomba. Lo spazio disponibile per la scultura, che in quanto effigie del morto doveva essere la più importante del monumento, si era ridotto ad una sporgenza di 42 centimetri per 140 e poneva i maggiori problemi compositivi, perché a quell’altezza era poco visibile. Per darle più monumentalità, Michelangelo concepì una figura distesa ma in atto di sollevarsi e torcere in avanti il busto, mentre le gambe si raccolgono in una contrazione e si separano leggermente: una posa molto complessa, ma che riesce a dare alla piccola figura un’imponenza altrimenti impossibile da restituire. Ma non è soltanto nella posa che Michelangelo compie un azzardo compositivo senza precedenti: lo fa anche nell’aria dimessa e spoglia dell’espressione e del vestito, mai comparse in un monumento che celebrava un pontefice romano. Giulio II, il papa che tutta l’Italia ricordava con la spada in mano, più fiero di un imperatore, è ora un uomo sconfitto e dubbioso che s’interroga su quanto lo aspetta nell’eternità. Solo conforto a questo dubbio è il crocifisso, simbolo ossessivamente celebrato dagli Spirituali quale mezzo sicuro della salvezza degli uomini, esibito sul Manipolo che gli ricade dal braccio sinistro: unico emblema rimasto di quei paramenti dove tutti gli altri artisti si affannavano a dipingere e scolpire intrecci di oro e pietre preziose per celebrare la potenza mondana del vicario di Cristo. Non si poteva essere più lontani non solo dai trionfalismi temporali di Giulio, che Michelangelo stesso aveva celebrato con la statua di bronzo realizzata a Bologna trentacinque anni prima, ma anche dal decoro che avevano i papi in tutti i monumenti che si erano fatti e si facevano in loro memoria 300

(basti pensare alle tombe coeve dei papi Medici scolpite dal Bandinelli nel coro di Santa Maria sopra Minerva). L’aspetto spoglio e dimesso del papa voleva celebrare un altro sentimento che si andava affermando nel circolo di Viterbo: quello di un ritorno della Chiesa a una dimensione puramente spirituale, lontana dal governo temporale e dai nefandi commerci sviluppati in suo nome. Questo sentimento, questa richiesta manifestamente espressa dal Giulio di Michelangelo, era forse l’elemento della tomba più eversivo rispetto ai codici di rappresentazione della regalità papale e non poté certo attuarsi senza il consenso di chi sovrintendeva alla sua realizzazione. La statua che Michelangelo realizzò certamente con la condiscendenza di Eleonora Gonzaga esprimeva una chiara presa di posizione all’interno del dibattito in corso in quei mesi sulla riforma della Chiesa e sulla natura della salvazione. Per una fortuita coincidenza, intorno alla tomba di Giulio II si trovarono radunati in quei mesi i principali protagonisti della pericolosa passione riformatrice già consapevole della propria trasgressività: la committente Eleonora Gonzaga, suo fratello il cardinale Ercole, Vittoria Colonna, Reginald Pole e la sua corte eretica. Una lettera di Vittoria, tra le poche scampate alla censura, racconta quante riunioni devote di quel circolo traessero spunto proprio dalle opere di Michelangelo, che aveva avuto il dono di esprimere per tutti loro la passione dolcissima di una fede rinnovata. «Cordialissimo mio signor Michelagnelo, ve prego me mandiate un poco il Crucifixo, se ben non è fornito, perché il vorria mostrare a’ gentilhomini del reverendissimo cardinal de Mantua; et se voi non seti oggi in lavo301

ro, potresti venir a parlarmi con vostra comodità»16. Le migliaia di opere d’arte che Roma cristiana aveva accumulato in millecinquecento anni di devozione, sparse nelle centinaia di chiese e di case della città, non bastavano a placare la sete della fede rinnovata di quegli uomini e di quelle donne, che volevano vedere e commentare il piccolo crocifisso che Michelangelo dipingeva nel suo studio anche se non era ancora ultimato. Su scala monumentale, la tomba di Giulio II finì per essere il simbolo stesso, l’espressione più raffinata delle speranze del gruppo, che cominciò a subire la persecuzione inquisitoriale proprio nel momento in cui l’opera fu terminata.

5. La maniera nuova La realizzazione tra il 1541 e il 1545 delle statue della Vita Attiva, della Vita Contemplativa e del papa reclinato segna anche un rinnovamento stilistico nella produzione michelangiolesca, forse il più importante della sua lunghissima carriera. Le sculture sono caratterizzate da un trapasso morbidissimo dei volumi, che avvicina il marmo alla cera per quanto riesce a sfumare e impreziosire i contrasti plastici. Le pieghe dei vestiti lasciano miracolosamente intravedere le anatomie sottostanti, ormai non più le turgide muscolature che ancora dominavano le statue delle tombe medicee, ma una carne che esprime soltanto il sentimento. La figura in preghiera ritratta nella Vita Contemplativa si consuma nello slancio verso il cielo, e del suo corpo s’intravedono soltanto il piccolo seno, il volto appuntito e il 302

fianco appena velato offerto come un mallo di noce dai pesanti paludamenti che la ricoprono. La fede non è del mondo ma è tutta spirito ed è già in cielo. La rappresentazione della carità nella Vita Attiva è invece la celebrazione stessa della natura, una Demetra o una Flora, con i fianchi larghi e fertili, le braccia forti e le gambe tutte visibili sotto i veli senza foggia con i quali Michelangelo ricopre in questi anni le sue figure bibliche: veli semplici e suggestivi che non richiamano mai una moda particolare, antica o moderna, ma soltanto l’idea di pura semplicità a cui una mente dedita al bene assoggetta il corpo. La Vita Attiva mostra la sua acconciatura complicata per sottolineare la ricchezza dei suoi pensieri e la forza che deve avere chi vuole operare il bene in questo mondo. Le gambe che accennano al movimento sono uno dei più alti traguardi raggiunti dalla scultura di Michelangelo. Sono rivestite dai veli sottili che scorrono come acqua trasparente sulle loro forme con una naturalezza ed una congruità difficile perfino da immaginare. Anche qui le tensioni del gesto e dell’attitudine sono contenute da una calma soprannaturale, che si rispecchia nella morbidezza con cui sfumano le pieghe del vestito e nell’espressione dolcissima del viso, regolare e irreale come il ritratto di una dea antica. La sua espressione è raccolta e modesta, nonostante la nobiltà regale dei lineamenti e dell’acconciatura. Chi opera la carità deve essere anche consapevole della limitata efficacia delle opere nella via che porta alla salvezza. Il sentimentalismo contenuto delle due sculture, privo di ogni retorica celebrativa, si serve di una tecnica assolutamente straordinaria. I sottosquadri dei panneggi e le pieghe 303

che esaltano le linee del corpo sotto i vestiti sono scavati per una profondità inarrivabile ad altri scalpelli. E la difficoltà della lavorazione non diminuisce la perfetta credibilità e naturalezza dei dettagli più difficili da modellare, come la sequenza delle mani giunte sopra il petto della Vita Contemplativa o il fianco destro della Vita Attiva, dove il braccio scompare nella profonda caverna creata dal mantello che lo copre. Il carattere di queste sculture è così nuovo che nonostante l’indiscutibile evidenza anche documentaria della loro autenticità, la critica ha spesso tentato di sottrarle al catalogo michelangiolesco: tanto è diverso il loro sentimento dall’affermazione di vita ed energia che Michelangelo aveva incarnato in tutta la sua produzione precedente. Un altro miracolo compositivo è rappresentato dalla figura reclinata del papa [tav. 51]. La doppia torsione a cui lo costringe lo spazio angusto è magnificamente risolta da Michelangelo, che spande il blocco come una creta compressa fino a fargli superare i limiti imposti dall’architettura. La spalla destra, su cui si concentra tutta l’energia del movimento, si flette per oltrepassare la base della lesena e il piede destro si allunga appena fuori dallo spigolo dell’altra base che lo delimita. Perché l’illusione di movimento sia più convincente, la gamba sinistra si separa con un’ombra profonda dall’altra, anche se per scavare l’inguine Michelangelo arriva quasi a consumare l’intero spessore del blocco. Ma il punto più alto della scultura sono sicuramente le mani, che stabiliscono un vertice mai più toccato da nessuno nella mimica corporea. Nelle statue dei papi le mani, fuoco centrale del cerimoniale funerario insieme al volto, avevano due sole possibilità: benedire o riposare. Ma Mi304

chelangelo non si può accontentare del già detto e inventa mani che parlano con la loro particolarissima postura. Sono le mani della resa, della consapevolezza dell’inutilità e vanità dell’operare, perché non da questo sarà determinato il destino eterno. Sono le mani in cui si condensa l’umanità del morto e la sua infinita distanza dalla grandezza di Dio, abbandonate dopo l’inutile tentativo di stringere una sostanza che non può essere di questa terra. Mani che raccontano la miseria degli uomini, siano anche papi, e l’immensità della misericordia divina. Non per caso nella loro realizzazione si concentrò una perizia tecnica quasi sovrumana. Scavare le dita e modellarle attraverso il minuscolo spazio a disposizione per trapani e scalpelli fu un’impresa senza pari. Il restauro ha portato nuove prove del furore con cui Michelangelo scolpì questa statua, scoprendo nelle profonde pieghe scavate dallo scalpello e dai trapani la polvere di marmo della lavorazione: non c’era tempo per rifinire accuratamente quella preziosa scultura. Per dare poi maggiore spessore a quel gesto Michelangelo gli costruì intorno l’ombra profonda di un torace arretrato quasi al limite del blocco. Anche se quella sequenza intricatissima di piani sarebbe stata difficilmente visibile dal basso, l’artista la fece vivere come se avesse una ragione sua di esistenza, indipendente dallo sguardo del mondo. Anche l’espressione del volto del papa fu riempita della commovente sconfitta che segna le sue mani. I colpi di scalpello strapparono furiosamente al marmo quel volto incompiuto, dalla barba appena sbozzata ma già traboccante di sentimento, con le orbite scavate, le sopracciglia sfuggenti e acute come quelle di un’aquila, il na305

so forte appena abbassato dall’età. Gli zigomi sono alti e larghi e riproducono quella tipologia umana ed espressiva che sarà portata alla sua massima perfezione nel Mosè, ma che già qui servono a dare al vecchio papa una forza e un’energia che traspare sotto l’abbandono della morte. La statua ebbe poi accidenti che ne diminuirono la preziosità. Un danno, forse nel trasporto, causò la rottura della tiara appena sopra la fronte, rifatta poi maldestramente da un aiuto che sbilanciò in avanti l’inclinazione della testa. Le gambe, lasciate alla finitura di un assistente, vennero «spianate» con la gradina abortendo le potenzialità plastiche che Michelangelo aveva già impresso al marmo. Anche questa volta, l’intervento che l’artista concesse a un aiuto su una sua statua fu molto limitato, perché preferiva che la scultura rimanesse incompiuta piuttosto che un estraneo ne snaturasse l’anima, come stava succedendo sotto i suoi occhi alle tre sculture affidate al Montelupo. La Sibilla, il Profeta e la Madonna, che pure erano già a uno stadio molto avanzato, furono affidate all’assistente con la stessa consapevolezza con cui si compie un sacrificio. Furono rigorosamente ultimate in ogni dettaglio, come non era successo mai per nessuna delle sculture autografe di Michelangelo (anche quelle apparentemente più «finite» mantennero sempre un dettaglio o una porzione abbandonata a uno stato intermedio). Ma il Montelupo fece largo ricorso alla raspa, che Michelangelo non usava mai per scolpire ma soltanto per levigare, perché irrigidiva l’impostazione delle statue fino a renderle una pallida eco dell’idea originaria. I volti furono resi inespressivi dalla grossolanità dei piani di costruzione. La Sibilla e il Profeta, in particolare, sono ca306

ratterizzati da pieghe pesanti e braccia legnose, anche perché il Montelupo non poté finirli a causa di una malattia17. A lui il Vasari, molto ingiuriosamente e molto malignamente, diede l’intera responsabilità del fallimento. Gli negò invece ogni merito per la statua della Madonna, che gli era valsa l’apprezzamento di Michelangelo, per assegnarla allo Scherano, un anonimo scalpellino che aveva solo sbozzato il blocco nel 1537.

6. I due Mosè Tanto fu singolare la genesi del Mosè [tav. 52], quanto fu universale l’apprezzamento che riscosse appena mostrato al pubblico, fino a diventare una leggenda tra i contemporanei. Abbozzata prima della partenza per Firenze nel 1517, la scultura era nata da un blocco non molto diverso per dimensioni da quello della Sibilla, a cui doveva fare da pendant su uno degli angoli del primo ordine della tomba di Giulio. Come era già accaduto nella volta della Cappella Sistina, profeti del Vecchio Testamento e sibille della tradizione pagana dovevano mescolarsi tranquillamente in una prospettiva di sincretismo culturale e religioso molto diffusa in quegli anni. Dopo il suo ritorno definitivo a Roma nel settembre del 1534, Michelangelo aveva scartato l’idea di collocare ancora il Mosè nella nuova struttura, perché per essere addossate alla parete le nicchie del piano superiore non avevano più lo spazio necessario ad accoglierlo. La stessa Sibilla, che già era di qualche centimetro più piccola del Mosè, fu mutilata 307

dall’artista per essere incastrata nella nicchia dove oggi la vediamo. Il Profeta che fu collocato nella nicchia a sinistra era ancora più piccolo e per incastrarlo fu sufficiente una mutilazione del retro che non appare all’osservatore, ma che si è resa evidente nel corso del restauro del 200018. Per inserire in una di quelle nicchie il Mosè, Michelangelo avrebbe dovuto mutilarlo in maniera troppo radicale, tanto da snaturarlo completamente. La mutilazione sulla gamba della Sibilla dà un’idea di quanto avanti Michelangelo avesse portato queste statue prima di ripartire per Firenze. Sappiamo d’altronde che già prima del 1536 il Mosè, sia pure ancora in stato di abbozzo, era stato celebrato dal cardinale Ercole Gonzaga. Quando Michelangelo si vide costretto a offrire al giovane Guidobaldo Della Rovere anche questa scultura, per compensare la perdita di valore delle tre statue affidate al Montelupo, non ebbe altra scelta che metterla al centro del monumento. Ne riprese dunque la lavorazione nell’inverno del 1542, per portarla a compimento nei due anni successivi. Ma come già era successo nella Cappella Sistina, quando l’interruzione di pochi mesi aveva spinto Michelangelo a riprendere il lavoro con un diverso disegno per i troni dei profeti, anche questa volta l’ansia creativa dell’artista non trovò freno. Quando riprese a scolpire il Mosè, Michelangelo volle cambiargli la postura, nonostante il suo avanzato stato di lavorazione. Questo straordinario azzardo tecnico ha lasciato molte tracce sulla statua e perfino un documento, passato inosservato fino a quando le anomalie materiali della scultura, apparse evidenti nel corso del suo restauro, non hanno richiesto una spiegazione fondata. Un 308

anonimo testimone che fu molto vicino a Michelangelo raccontò a Vasari, dopo la morte dello scultore, come lui stesso avesse assistito a quel miracolo realizzato in soli due giorni: «Et andando io a vedere, trovai, che li haveva svoltata la testa et sopra la punta del naso gli haveva lasciata un poca della gota con la pelle vecchia, che certo fu cosa mirabile; ne credo quasi che a me stesso, considerando la cosa quasi che impossibile»19. La scultura concepita tra il 1513 e il 1516 era ancora vicina al mondo figurativo della volta della Sistina e aveva forse non solo la faccia rivolta in avanti ma anche i piedi uniti come quelli della sibilla Cumana (secondo quanto si deduce dalla strana forma che ha il lembo di mantello che oggi si affianca al piede destro proprio come la sagoma di un altro piede). Nel 1542 a Michelangelo questa postura non piaceva più. I motivi erano certamente di carattere artistico, ma forse sulla scelta di girare il volto del profeta pesò anche la presenza dell’Altare delle Catene sul lato opposto del transetto dove era collocato il Mosè. Questo altare era il simbolo stesso della superstizione cattolica e il fondamento di quel potere temporale che continuava a rivendicare una Chiesa in cui Michelangelo non si riconosceva più. Un’antica tradizione raccontava che un frammento delle catene che avevano tenuto prigioniero san Pietro si era miracolosamente saldato ad un frammento trovato in Palestina, quando Eudosia sposò Valentiniano, segnando l’unità simbolica dell’impero sotto la nuova fede cristiana. Se Mosè avesse guardato dritto in avanti, com’era nel primo progetto, avrebbe posato lo sguardo proprio su quell’altare, mentre con la mirabolante modifica volgeva lo 309

sguardo verso la luce che scendeva da una finestra aperta proprio alla sua sinistra e oggi purtroppo tamponata. Il raggio di luce che illuminava i suoi «corni» al tramonto sarebbe stato il completamento più raffinato di quella suggestione spirituale a cui tutto il monumento tendeva. Ma la svolta della testa e la nuova posizione delle gambe permisero a Michelangelo anche di creare una spazialità interna alla figura che nessuno scultore prima di lui aveva realizzato. La gamba sinistra ripiegata all’indietro per alzarsi è carica di tensione, perché il marmo precedentemente scolpito non gli permetteva di trovare spazio per il piede se non in una posizione molto arretrata. La flessione della gamba finisce così per diventare fortissima proprio a causa di una congiuntura accidentale. Per cambiare la posizione della gamba sinistra, Michelangelo fu costretto a rastremare il ginocchio e allargarlo creando lo spazio immenso e ambiguo nel pesante mantello, da cui nasce il busto turgido del profeta. Il ginocchio sinistro, per la mancanza di marmo già asportato sul suo lato esterno, diventa molto più piccolo di quello destro, creando un evidente contrasto nella figura. Michelangelo risolse il problema facendo attraversare il ginocchio da una piega di stoffa che intercetta lo sguardo e lo guida altrove, verso il basso, dissimulando perfettamente la radicale diversità delle due ginocchia. Nella parte superiore della scultura, la mancanza di marmo dovuta alla precedente lavorazione si vede molto bene nel trattamento della barba. La metà destra della barba, che occupa ancora il posto inizialmente occupato dalla sua parte superiore, è rilevata con una potenza mai vista. Le ciocche sono scolpite a tutto tondo, separate tra loro e addirit310

tura dal collo, tanto che si può toccare con le dita la loro parte posteriore. Nella parte sinistra invece, dove non c’era più marmo, la barba è appena rilevata, senza spessore e senza spazialità interna. Per risolvere il problema della mancanza di marmo nella parte inferiore della barba, Michelangelo la spostò tutta a destra con quel gesto appena accennato dell’indice che nella realtà non potrebbe mai avere le conseguenze che origina nella scultura. Le ciocche che discendono come un fiume in piena dal mento si diradano inspiegabilmente all’altezza della mano che le intercetta e l’unica ciocca che scende sul lato sinistro è talmente schiacciata sul torace da essere appena accennata, come se appartenesse a un’altra scultura. Anche nel movimento del collo si fa sentire la mancanza di marmo. Nel lato destro del Mosè, dove l’artista poteva contare ancora sul marmo del mento barbuto originario, il collo si torce meravigliosamente con una naturalezza che lascia senza respiro. Sull’altro lato invece, dove era costretto a sfruttare il poco marmo disponibile, il movimento è secco e inceppato, del tutto innaturale, dal momento che la spalla sinistra, già impostata, non può seguire, come sarebbe naturale, la torsione del collo. Parimenti la strana asimmetria dei due corni, quello destro che punta in alto e quello sinistro che inclina verso il basso, sembra dovuta alla necessità di seguire la sagoma digradante del primo abbozzo della testa, nella quale anche lo spazio per l’orecchio sinistro è scavato con estrema difficoltà tra le ciocche di capelli, laddove l’altro orecchio svetta decisamente al di sopra della chioma. Queste imperfezioni erano meno visibili quando la scultura fu collocata al 311

suo posto nel monumento funebre. Michelangelo l’aveva messa più indietro e più in basso nella nicchia, ma da quella collocazione originaria fu malauguratamente spostata ai primi dell’Ottocento dal Canova e dagli Accademici di San Luca, erroneamente convinti che di quell’oscuro monumento, frutto della vecchiaia e del cinismo imprenditoriale di Michelangelo, si dovesse salvare soltanto la statua del Mosè con una nuova artificiosa ribalta. La reinvenzione della scultura e le difficoltà tecniche che pose sembrano comunque aver giovato a Michelangelo più che danneggiarlo, come certamente sarebbe successo a un altro artista. Il gesto, nel tentativo di rompere i limiti angusti assegnatigli dal marmo già lavorato, diventa ambiguo e inafferrabile e produce un’impressione d’inquietudine che avvince l’osservatore, così ben indagata da Sigmund Freud. La statua si ribella al progetto originario e nel suo materializzarsi acquista i connotati che la resero subito tanto ammirata. Per quanto inconsapevolmente, il processo creativo è molto moderno: un processo che gli artisti contemporanei tentano da almeno un secolo di governare, ma che Michelangelo porta ad un massimo grado creativo perché ne sente l’urgenza fisica e non il richiamo ideologico. La potenzialità della figura s’impone sullo stesso progetto originario dell’artista e ne guida la mano verso nuove immagini. La tecnica messa in campo per superare gli ostacoli è al limite delle possibilità umane. Il Mosè che sostituisce la vecchia scultura sembra nascere da una disponibilità illimitata di marmo mentre invece sfrutta al millimetro una sagoma fortemente limitata. I sottosquadri e i vuoti interni al marmo sono tanti e di tale imponenza che si dovrebbe par312

lare non di una scultura ma di un complesso monumentale. La gamba maestosa è separata dal mantello in tutta la sua tridimensionalià e ci si chiede come abbia potuto fare l’artista a scolpire la parte retrostante del polpaccio. Il mantello pesante che si avvolge sul ginocchio separa così profondamente le pieghe una dall’altra che fa pensare più a una stoffa magicamente pietrificata che a un roccia modellata. La barba, che nella riuscita espressione del Vasari sembra «svellata» con il pennello più che scolpita, non meraviglia soltanto per la sua potenza spaziale, ma anche per l’idea e il disegno di quelle curve che scendono dolcissime, senza nessun intoppo, come un leggero agitarsi delle acque di un fiume in cui l’occhio si perde seguendo ognuna delle ciocche, liberate perfino nel retro dal marmo che le imprigionava. La perfetta misura dei muscoli delle braccia si aggiunge alla perfezione con cui sono modellati dallo scalpello di Michelangelo, che ormai non spinge e comprime l’energia ma la fa scorrere liberamente in ogni dettaglio della figura, concentrandola infine in quegli occhi da cui esce per investire il mondo e soggiogarlo con la sua grandezza divina. Proprio questo sembra essere uno dei motivi di maggior fascino della scultura: le forme umane, la potenza anatomica, il capriccio naturale, asserviti però ad un sentimento che s’impone su tutto il resto e sembra provenire non da quel meraviglioso corpo ma da un mondo fuori di esso, che lo usa soltanto come veicolo di comunicazione per mostrarsi. La forza spirituale di Mosè dilaga nei movimenti sinuosi e irrefrenabili della barba e dei capelli e si fissa negli occhi coraggiosamente aperti verso la luce che annuncia la salvezza, 313

una luce che purtroppo oggi non siamo più in grado di vedere perché, come già accennato, la finestra da cui irradiava è stata tamponata. Per gli scultori del tempo, tutto questo dovette essere molto simile alla manifestazione di un miracolo: il marmo piegato alla naturalità della stoffa e della carne, ma soprattutto concepito con un disegno di proporzioni così perfette da evocare in maniera necessaria la presenza del divino.

7. LA CAPPELLA PAOLINA

1. Problemi di economia domestica Gli anni Quaranta del Cinquecento trovarono un trono di Pietro sempre più rimpicciolito dall’espandersi dell’influenza luterana nel Nord Europa, mentre la basilica simbolo della cristianità, che ormai da decenni si stava costruendo a Roma in onore dell’apostolo, stentava a crescere, tra mille problemi e mille miserie. Roma era presa d’assedio come non mai dai problemi religiosi e dalle sconfinate ambizioni della famiglia papale, che proprio nel 1540 iniziò a consolidare la propria posizione mondana sulla scena europea con alcune furbissime alleanze matrimoniali. Purtroppo, anche impegnato nell’altissimo combattimento con lo spirito, Michelangelo non poté trascurare il confronto molto più prosaico con la carne e lo stomaco. Quelli di Urbino, in particolare: un assistente a cui si era legato molto più di quanto avrebbe dovuto e che si approfittava vergognosamente di quella vita e di quel talento preclusi ai principi e potenti di tutto il mondo. Francesco di Bernardino d’Amadore da Casteldurante, detto appunto 317

Urbino, era entrato come servo e garzone al servizio di Michelangelo dopo la partenza di Antonio Mini per la Francia, intorno al 1530. Non aveva nessun talento e la vita in comune con Michelangelo, durata fino all’anno della sua morte, il 1556, non riuscì a renderlo accettabile né come pittore né come scultore se non agli occhi del suo padrone, che pianse per lui lacrime che non aveva pianto né per il padre né per i fratelli e tanto meno per gli amici più nobili e affezionati. Grazie alla generosità di Michelangelo, alla sua morte aveva accumulato una fortuna valutata intorno a 2800 fiorini fra terreni e proprietà. Urbino aveva un potere enorme sul vecchio artista e spesso uomini di elevatissima condizione si rivolgevano a lui per ottenere dallo scorbutico padrone favori che non avevano il coraggio di chiedergli direttamente. Benvenuto Cellini fu testimone della sua arroganza quando a nome del duca Cosimo I chiese all’artista di tornare a Firenze. Meravigliato, vide Michelangelo interpellare il suo garzone su questa possibilità: «io non mi voglio mai spiccare dal mio messer Michelagniolo, insino o che io scorticherò lui, o che lui scorticherà me». Era una frase tanto insolente, tanto rivelatrice della dipendenza dell’artista nei confronti del suo servitore, che l’amico orefice si trattenne a stento dal prenderlo a schiaffi, lui che per molto meno aveva passato a fil di lama gente di ben altra condizione. Urbino – scrisse Cellini – lo aveva servito «più di ragazzo e di serva che d’altro; e il perché si vedeva, che ’l detto non aveva inparato nulla dell’arte»1. Urbino macinò i colori per Michelangelo sia durante la realizzazione del Giudizio Universale nella Cappella Sisti318

na che durante i lavori nella Cappella Paolina. Con un breve di Paolo III del 26 ottobre 1543 era anche riuscito a farsi nominare mundatoris picturarum Cappellarum palatii apostolici, il che comportava un congruo compenso di 6 ducati al mese: un vitalizio che avrebbe fatto gola ad artisti di molto maggior talento. Intorno al grande maestro, però, sembrava poter allignare soltanto la mediocrità senza fine di servi profittatori. Quel che più meraviglia è che Michelangelo gli regalò due dipinti che compaiono nell’inventario redatto alla sua morte nel 1556: «in uno un Cristo et in l’altro una Nonciata»2. Sono dipinti rarissimi, perché pochi ne fece Michelangelo dopo gli anni Quaranta e ormai neppure i cardinali a lui più vicini avevano il coraggio di chiederglieli. Come egli stesso ripeteva, non faceva bottega della propria arte, concessa solo in segno di stretta intimità e di profondo affetto. Non contento della rendita assicuratagli dalla sua posizione di assistente, nel 1542 Urbino convinse il povero Michelangelo, oppresso dalle richieste del papa e del duca di Urbino, ad appaltargli metà dell’«opera di quadro» – corrispondente all’intelaiatura di marmo del piano superiore – necessaria per completare la tomba di Giulio II in San Pietro in Vincoli. Non completamente accecato dal suo amore, Michelangelo gli mise a fianco un valente professionista, mastro Giovanni «scarpellino in piaza di Branca», che avrebbe certo vigilato sulla buona riuscita del lavoro. Ben deciso ad approfittare delle debolezze del padrone, Urbino ampliò una parte della casa di Macello dei Corvi utilizzandola come proprio atelier e appartamento riservato, e nel giro di pochi mesi impose all’artista di estromettere mastro 319

Giovanni dall’appalto per poterlo condurre da solo. Fu un momento molto difficile per Michelangelo, che s’impegnò personalmente a dirimere la lite provocata dal suo garzone e alla fine si risolse (come dubitarne?) a darla vinta al suo protetto. Questi fece un lavoro così scadente che si stenta a comprendere come Michelangelo abbia potuto sopravvivere a tanta cialtroneria, lui che per la tomba aveva scolpito le sue statue più belle. Ma la sicurezza del servo che era riuscito a conquistare la fiducia di Michelangelo, impresa riuscita nella sua lunga vita davvero a pochi, lo convinse a non accontentarsi di quell’appalto lucrosissimo. Oppresso dalle richieste del suo servo, dal papa che voleva che iniziasse al più presto le pitture della Paolina e dal duca di Urbino Guidobaldo che pretendeva l’ultimazione della tomba, nell’autunno del 1542 Michelangelo sprofondò in un’angosciosa disperazione. Ancora una volta tentò di cambiare le condizioni del suo accordo con i Della Rovere, chiedendo il permesso di far finire a Raffaello da Montelupo, al quale aveva già affidato nell’inverno precedente l’ultimazione delle statue della Madonna, della Sibilla e del Profeta3, anche le due sculture della Vita Attiva e della Vita Contemplativa che erano già molto avanti nella lavorazione. Ancora una volta chiese con insistenza l’intervento del papa, che mobilitò suo nipote, l’abilissimo cardinale Alessandro Farnese, vero segretario di Stato, nella trattativa con Guidobaldo. Le pressioni non servirono a niente e il duca di Urbino tenne fermo il suo proposito: Michelangelo doveva finire personalmente le sculture. Lamentandosi e compiangendosi, il vecchio artista si rassegnò ad affrontare una fatica im320

mane e cominciò la pittura ad affresco della Cappella Paolina mentre ancora finiva di scolpire nel suo studio il Mosè e le due statue femminili. I due lavori richiedevano energie difficili da pretendere per un quasi settantenne, e gli amici si dissero preoccupati per lo sforzo a cui era costretto. Sebastiano del Piombo, il più fedele e premuroso, oltre che l’unico dotato di un sicuro talento per l’arte e la politica, gli aveva consigliato già nella Sistina di dipingere a olio o a secco sul muro, perché non fosse schiavo dei tempi faticosi dell’affresco. In cambio ricevette però uno di quei grugniti che resero leggendaria la spigolosità di Michelangelo: «il colorire a olio era arte da donne e da persone agiate ed infingarde come fra Bastiano». La questione era chiusa: Michelangelo non concepiva l’arte se non attraverso la bellezza della materia che la concretizza.

2. L’emozione della luce Michelangelo cominciò a dipingere le mura della Cappella Paolina in Vaticano tra la fine del 1542 e l’inizio del 1543. L’impresa lo avrebbe impegnato per i successivi otto anni, nonostante la dimensione dei dipinti fosse molto più ridotta rispetto alle superfici sterminate del Giudizio Universale, che pure aveva portato a termine in soli sei anni. I primi documenti che attestano l’impegno nella Cappella Paolina registrano i pagamenti ad Urbino per la macinazione dei colori: «16 Novembre 1542. D. Otto pagati ad Urbino servitore di messer Michelangelo pittore, per sua solita provisione di macinarli li colori per depingere la ca321

pella nova di San Paulo»4. L’incarico a Urbino, che seguiva Michelangelo sui due cantieri con mansioni del tutto differenti, era la fase preliminare alla pittura del maestro. Urbino doveva raffinare i colori macinandoli e pestandoli in un mortaio di marmo e liberarli da ogni impurità attraverso lavaggi ripetuti. La tavolozza della Paolina è in tutto simile a quella del Giudizio: terra d’ombra e bianco sangiovanni per gli incarnati; terra verde, ocra gialla, bruno di Marte, ocra rossa, morellone per il paesaggio e i vestiti; per il cielo, di nuovo il pregiatissimo lapislazzuli fatto arrivare dalla Persia via Ferrara. I dipinti realizzati tra il 1542 e il 1549 nella cappella sono due grandi «quadroni» lunghi 6 metri per 6, realizzati ognuno, stando al rilievo pubblicato dopo i restauri del 1930, in più di ottanta giornate di lavoro. Sempre stando alle informazioni preziosissime offerte da questo rilievo, possiamo dedurre che il vecchio artista non cambiò di molto la quantità di pittura condensata in una giornata5. Ci si potrebbe aspettare che nell’estrema vecchiezza, intorno ai settant’anni, arrampicato su un’impalcatura di legno che per quanto ampia non poteva essere in nessun modo comoda, riuscisse a realizzare poca pittura nello spazio di presa di una giornata d’intonaco. Ma in una sola giornata Michelangelo affrontava ancora porzioni molto significative di pittura, dimostrando di essere in pieno possesso del suo vigore. Questa semplice constatazione smonta senz’appello la convinzione molto diffusa che i dipinti della Cappella Paolina siano il frutto inaridito di un uomo ormai in piena decadenza. La loro particolarità va spiegata con altre ragioni, 322

se è vero che a testimoniare la forma smagliante di questi anni è lo stesso Michelangelo, che in una lettera alla nipote, liberatosi per un momento dalle ossessioni ipocondriache, confessava di non sentirsi per niente diverso da quando aveva trent’anni. La pittura ce lo conferma appieno. Nella Conversione di san Paolo [tav. 10], la complicata testa del Cristo occupa una sola giornata, mentre un’altra ne occupano le due braccia e lo scorcio superbo del torso. Né si notano défaillances nell’articolato chiaroscuro con cui vengono modellate le braccia in fuga della figura. Se soltanto avviciniamo a questo scorcio quelli che faticosamente il Vasari dipingeva negli stessi anni nella Sala dei Cento giorni alla Cancelleria, siamo costretti a prendere atto di quanto poco possano la giovane età e la comodità di fronte a uno smisurato talento e a una passione divorante. In una sola giornata furono dipinti anche le braccia e il torso del guerriero che sfodera la spada a sinistra di san Paolo. E ugualmente in una giornata fu dipinto il soldato di spalle che emerge con le salmerie nella parte inferiore del dipinto, quasi una citazione testuale dal rilievo sud dell’Arco di Costantino a Roma: a riprova che anche nel momento di massimo coinvolgimento con la spiritualità cattolica Michelangelo conservava intatto il suo amore per i modelli e la cultura dell’antichità classica, che proprio in quegli anni veniva disprezzata sia dalla fazione luterana che da quella controriformista. Solo un po’ più frazionato appare il diagramma della Crocifissione di san Pietro [tav. 11]. Molte teste, quasi tutte, sono qui dipinte in una giornata, mentre nel caso della Conversione di san Paolo la giornata comprendeva oltre al323

la testa anche una parte del busto. La figura di san Pietro richiese otto giornate contro le quattro di san Paolo, anche se il primo vicario di Cristo viene presentato in uno scorcio anatomico che risulta inarrivabile per perfezione e fluidità. L’altra caratteristica che distingue la Crocifissione dalla Conversione riguarda la meticolosità con cui le giornate seguono l’andamento del disegno, scomponendolo in frammenti minuti. Nella Conversione di san Paolo, le giornate sono isole larghe che comprendono in una sola porzione braccia, gambe, teste e piedi [fig. 9]. Nella Crocifissione di san Pietro, il bordo della giornata delimita dettagliatamente le forme e quasi coincide con esse. Se oscurassimo il colore e guardassimo al solo rilievo dei contorni, avremmo ancora la possibilità di leggere molto nel disegno delle giornate della Crocifissione, per quanto coincidono i profili del disegno con quelli delle porzioni di intonaco. Questa particolare evoluzione della tecnica pittorica sembra l’unico elemento valido a favore di una posticipazione della Crocifissione rispetto alla Conversione, vista la mancanza di altri seri indizi atti a chiarire la cronologia dei due dipinti. L’esperienza accumulata negli anni permise a Michelangelo di migliorare la graduazione degli effetti chiaroscurali fino ad arrivare a un pieno coinvolgimento emotivo dello spettatore. La luce diffusa proveniente dall’alto a sinistra, ancora più in alto di Cristo, esalta i gesti e le espressioni di ogni singola figura. Senza troppi contrasti, senza sbattimenti violenti, scivola sui corpi con morbidezza seguendo le anatomie guizzanti e i dettagli dei vestiti. Una luce «emotiva» nel senso che sottolinea la passione dell’azione e che sarà capita ed esasperata soltanto sessant’anni dopo dall’al324

Fig. 9. Diagramma delle giornate di lavoro dell’affresco con la Conversione di san Paolo nella Cappella Paolina.

Fig. 10. Raffaello, Conversione di san Paolo (arazzo per la Cappella Sistina). Roma, Musei Vaticani.

tro grande Michelangelo della pittura italiana, Caravaggio. Quasi mai nell’esegesi michelangiolesca si riflette sulla luce, perché si è sopraffatti da quel disegno che già nelle semplificazioni critiche cinquecentesche diventò il carattere distintivo dell’artista. Ma nelle pitture della Paolina la selezione luministica delle azioni e dei dettagli essenziali raggiunge una perfezione che non era stata toccata neppure nel Giudizio Universale, con i suoi eccessi di contrasto che lo rendevano ancora violento e teatrale. In particolare nella Crocifissione di san Pietro, la luce tira fuori da ognuno il gesto che caratterizza il suo ruolo nella rappresentazione e lo propone allo spettatore. Colpisce il braccio e la gamba del soldato curioso che si sporge per guardare il martirio. Isola il braccio del capitano che arriva a cavallo e che indica la croce. Sottolinea la sospensione del galoppo dei due cavalli. Mette in risalto il gesticolare del devoto che vorrebbe ribellarsi e dell’amico che lo invita al silenzio indicando il cielo, dove si è già deciso il destino che si sta compiendo. Va infine rilevata l’assoluta omogeneità della tavolozza dei colori nelle due opere. L’ocra gialla e la terra verde prevalgono nel paesaggio di entrambi i dipinti, insieme a chiazze isolate di rosso e di bianco che sottolineano i momenti di maggior tensione della narrazione, come note acute che irrompono all’improvviso in una partitura andante. In entrambe le scene prevale una base fluida che accorda le sfumature delle terre naturali senza creare eccessivo rilievo ai singoli episodi. Anche se la loro esecuzione si protrasse per sette lunghissimi anni, e anche se la loro storia fu senza dubbio molto travagliata, i due dipinti mantennero un’indiscutibile omogeneità stilistica. 326

Purtroppo sono pochissimi i documenti che ci consentono di indagare le vicende che li riguardano. Sicuramente ci furono varie interruzioni. Non però legate all’età del maestro, se facciamo eccezione per una seria malattia che nel giugno 1544 lo bloccò a letto per molti mesi in casa degli Strozzi a Roma. Ma con buona probabilità nell’autunno del 1545 Michelangelo era già al lavoro per dipingere il secondo quadrone, quello della Crocifissione, perché il 10 agosto del 1545 erano stati pagati a «Francesco (alias) Urbino, servitore de messer Michelangelo pictore Scudi quattro Y. cinquantaquattro et mezzo per tanti, che lui ha speso in fare spicanare e arricciare una facia della cappella Paulina, fatta novamente in palazzo Apostolico, dove esso messer Michelangelo depinge, come appare per la lista, dove è fatto il mandato»6.

3. La «Conversione di san Paolo» Nella scena della conversione di san Paolo, contrariamente ad ogni consuetudine figurativa, il centro è spostato in alto a sinistra, nella figura di Cristo. I gruppi di angeli ed eletti che circondano la figura di Cristo convergono verso di lui come cunei inzeppati in uno spazio che si addensa fino quasi a diventare solido. Questa spinta centripeta si accumula nella figura del Cristo, che la assorbe e comprime nelle spalle poderose per scioglierla poi nel mantello rosso. Solo in piccola parte questa forza si disperde verso l’alto attraverso il piede destro e lo svolazzo del manto. La tensione maggiore si scarica come un fulmine attraverso il braccio 327

muscoloso e il raggio di luce che schiaccia a terra il vecchio san Paolo, fisicamente annientato dall’improvvisa irruzione di questa forza innaturale. In questo modo e a dispetto dell’asimmetria, il centro della narrazione risulta immediatamente e drammaticamente evidente e la storia si riassume tutta nel dialogo diretto tra Cristo e Paolo. Per assecondare questo schema, per renderlo più vivo, Michelangelo abbandonò la tradizione iconografica ufficiale. Il suo Cristo vigoroso, spinto dagli angeli e dai gruppi di eletti, compare totalmente capovolto e proteso verso il basso, in una posa che non era stata mai adottata prima e mai lo sarà dopo, soprattutto nelle composizioni di carattere ufficiale. I contemporanei rimasero sconcertati da quella libertà e i più zelanti, quelli convinti che l’arte dovesse mostrare e non interpretare le scritture, appena poterono criticarono violentemente quel Cristo, come fece monsignor Andrea Gilio nel 1564: «Però mi pare che Michelagnolo mancasse assai nel Cristo che appare à San Paolo ne la sua conversione; il quale fuor d’ogni gravità, e d’ogni decoro; par che si precipiti dal cielo con atto poco honorato, dovendo fare quella apparizione con gravità, e maestà tale, quale appartiene al Re del Cielo et de la terra, e ad un figliuolo di Dio». La Chiesa istituzionale che era uscita vittoriosa dal Concilio di Trento stentava a riconoscersi nella libertà di sentimento religioso espressa da Michelangelo. Si era ben guardato dal correre questo rischio Raffaello negli arazzi della Sistina [fig. 10], così come il Salviati della cappella di Alessandro Farnese alla Cancelleria [fig. 11], quasi contemporanea al dipinto della Paolina. Lo stesso dicasi del Cristo che appare in altre due importanti rap328

presentazioni della conversione di san Paolo: l’incisione di Francesco Rosselli, databile al secondo decennio del Cinquecento, e quella di Domenico Campagnola del 1511. Sono queste le principali fonti iconografiche con cui si può confrontare il dipinto di Michelangelo. In tutte queste rappresentazioni Cristo si sporge maestosamente dalle nuvole senza rinunciare al decoro che conviene alla sua figura divina. Nell’arazzo di Raffaello, l’impossibilità di inclinare la figura di Cristo impedisce di mettere in relazione Cristo con Paolo. È piuttosto al soldato che fugge alle spalle di Paolo che sembra rivolgersi il Cristo, collocato naturalmente al centro della scena in perfetta simmetria tra il gruppo dei soldati che sopraggiunge e il gruppo di Paolo annientato dallo spavento. Capovolto in quella posizione così poco regale, ma dinamica e potente, il Cristo di Michelangelo diventa invece il motore di una forte energia vitale. Lo stesso vale per la figura di san Paolo, che compare come un uomo maturo già in dipinti precedenti a quello di Michelangelo, ma mai come un vecchio totalmente annientato dalla visione, che lo trasforma repentinamente da soldato aggressivo in un profeta santo e consumato dalla fede. Raffaello aveva insistito nella descrizione puntuale delle sue insegne militari per conferirgli decoro e forza. Lo aveva vestito di tutto punto con un’armatura ricchissima. Michelangelo lo veste invece di semplici panni e solo l’impugnatura della spada, appena intravista sul fianco, ci ricorda che era un soldato. Intorno a questa scena, che sottolinea il carattere tutto spirituale e diretto del dialogo tra Cristo e san Paolo, si dipana una narrazione accessoria che deve enfatizzare l’esclu329

sività di questo dialogo. Così come in cielo gli angeli e gli eletti addensano l’energia intorno alla figura di Cristo caricando la forza del fascio di luce, nella parte bassa del dipinto la stessa energia si disperde in ogni direzione. La curva disegnata dal corpo di san Paolo si prolunga da un lato nella figura dell’uomo che lo soccorre, per poi dissolversi nell’impennata del cavallo, dopo un rapido turbinio che la avvolge intorno alla testa sbigottita dell’uomo subito dietro il santo. La forza violenta sprigionata da Cristo si addensa nel gruppo di san Paolo e delle figure a lui prossime e si disperde verso l’ampio e desolato paesaggio. La fuga del cavallo è la prima cosa che vediamo, e ci annuncia che è in atto un dramma. Nelle rappresentazioni tradizionali la figura del cavallo era spesso presente e conferiva all’evento un carattere innaturale e drammatico, come di battaglia. Mai nessuno però, prima di Michelangelo, aveva dato tanto spazio a questo dettaglio affidandogli un ruolo così importante nella composizione. Le figure che sciamano in ogni direzione hanno anch’esse la funzione di disperdere verso l’esterno l’energia accumulata e rimandare così l’attenzione al suo centro generatore, il legame tra Cristo e Paolo. Vedere gli uomini e il grande cavallo in fuga obbliga lo spettatore a cercare la ragione della fuga. Senza contare che per esaltare la centralità del dialogo divino il paesaggio in cui avviene il dramma è semplice fino all’autodissoluzione, con i profili delle colline a formare un cono ottico che converge verso la valle in cui avviene l’incontro. Con un gesto imperiosamente intellettuale, Michelangelo cancella gli alberelli umbri dalle chiome sfrangiate, le nuvolette leziose che solcano i cieli e le gole marine in cui ancora avevano indugia330

to tutti i pittori contemporanei, incluso il grande Tiziano che aveva utilizzato lo sfondo paesaggistico per rafforzare la psicologia dei suoi personaggi. Lo schema inventato da Michelangelo frantuma definitivamente il linguaggio retorico che da almeno un secolo la Chiesa e gli artisti al suo servizio avevano ripristinato elaborando i modelli romani. La simmetria e l’equilibrio statico, le corrispondenze e le gerarchie prospettiche, tutto quello che faticosamente era stato messo a punto negli anni precedenti e che aveva trionfato nelle Stanze di Raffaello, vero manifesto della retorica curiale, sparivano sotto l’impatto distruttivo di una forza sentimentale che urlava un linguaggio innovativo al punto tale da non poter avere continuatori. A rendere perfettamente drammatico questo schema contribuisce una tavolozza essenziale, che sottomette sapientemente anche i colori alla gerarchia narrativa. Il mantello rosso fuoco di Cristo è la prima cosa che si percepisce guardando il dipinto ed è un modo di spostare il centro della rappresentazione da san Paolo (che nella tradizione occupa la scena da protagonista) alla figura di Cristo, che si impone subito come origine dell’evento e suo protagonista assoluto. Il rosso è il colore più violento dopo il nero, che non poteva essere utilizzato per ovvi motivi simbolici. Per rafforzare la spinta centripeta degli angeli senza ali e delle figure circostanti, compaiono anche tra loro panneggi rossi, disegnati come sciabolate nel cielo spirituale, per il quale Michelangelo volle di nuovo il prezioso lapislazzuli orientale. Il blu freddo del lapislazzuli è la migliore preparazione all’esplosione di rosso del mantello e al fascio di luce gialla che si abbatte sul vecchio abbagliandolo. Blu, rosso e 331

giallo sono tre colori primari, che si rafforzano reciprocamente provocando un forte impatto visivo. Per esaltare cromaticamente il suo legame con Cristo, intorno a cui è costruita tutta la composizione, anche san Paolo è avvolto in un bellissimo manto rosso, che riceve il raggio luminoso ed esalta ancora di più il primo piano su cui è disposto. È così vicino al bordo del dipinto da sembrare sul punto di rotolarne fuori. Anche così, con la forza cromatica dei panneggi, Cristo e Paolo sono isolati e immediatamente percepiti nella pittura come protagonisti di un dialogo esclusivo. Pur di ottenere il rafforzamento della loro relazione, Michelangelo non esitò a forzare il realismo della rappresentazione, avvolgendo interamente il santo nel rosso vivo e facendo vedere alle sue spalle il mantello sollevato, laddove dovrebbe essere a terra come nella parte anteriore e quindi invisibile. Ma in questo modo, rispettando una rappresentazione più naturalistica, Paolo sarebbe stato meno isolato, meno immediatamente percepibile e meno legato alla figura del Cristo soprastante. Questa forzatura così evidente non poteva non avere una forte intenzionalità creativa. Ma non è l’unica deroga al naturalismo che troviamo nel dipinto. Le figure in primo piano sulla destra, che emergono da un piano sottostante, dovrebbero avere dimensioni uguali se non superiori a quelle del santo, mentre sono incongruamente più piccole nelle proporzioni. Con un accento mistico che vedremo ancora più evidente nella Crocifissione di Pietro, la centralità narrativa segue una gerarchia compositiva che prescinde dalla proporzione naturale. Anche in questo c’è il precedente del Giudizio Universale, dove le figure più signifi332

cative della narrazione hanno dimensioni maggiori delle altre, pur essendo rappresentate dall’artista in uno spazio naturale che le include tutte. Altre sciabolate di rosso compaiono nei busti di alcune figure più esterne per aiutare l’occhio a seguire la dispersione di energia provocata dai corpi in fuga. Sono però piccoli guizzi, per stimolare la fuga prospettica senza interferire con le due chiazze rosse del Cristo e del Santo. Il resto dei colori è graduato sui toni del paesaggio desolato: il verde, il giallo e il viola, distribuiti in maniera da assecondare la dispersione delle forze, mediano tra i rossi e i bruni che sfumano nella campagna. Nella parte inferiore del dipinto, infine, una volta catturato dalla conchiglia aperta del manto di Paolo, l’occhio è attirato sui due lati da due vestiti che hanno uguale peso nella percezione: il bel viola della casacca del soldato che si protegge con lo scudo e il giallo oro del soldato che in splendida torsione si ottura le orecchie. Basterebbero queste due figure, insieme alle tre subito vicine al santo, a rendere perfetta e conclusa la narrazione. Per questo la loro evidenza formale è sottolineata da colori tanto eclatanti, mentre il resto delle figure serve a colorire ulteriormente il racconto e declina le varie sfumature dello stupore e dello sgomento.

4. Immagini pericolose Le scelte compositive della Conversione di san Paolo comportavano uno spostamento deciso dei significati del rac333

conto rispetto all’iconografia precedente. Nelle non frequentissime rappresentazioni dell’episodio ci si rifaceva a quanto riportato negli Atti degli Apostoli: il soldato Saulo o Paolo, persecutore dei primi cristiani, mentre si reca a Damasco viene folgorato sulla strada da una visione che lo converte alla nuova religione. Alla scena della conversione l’iconografia tradizionale preferiva la vicenda del martirio, visto come un fondamento, insieme a quello di Pietro, dell’autorità della Chiesa di Roma. È questo che troviamo rappresentato nei cicli decorativi di importanti chiese cattoliche, tra cui il vecchio Vaticano [fig. 12], San Paolo fuori le Mura a Roma, la chiesa di San Piero a Grado vicino Pisa. La figura di san Paolo aveva un’importanza secondaria nell’arte cristiana del Medioevo, e della sua vita venivano rappresentati generalmente solo quegli episodi che si riconnettono con la vita di san Pietro e che meglio ne esaltano le azioni. Ma intorno al 1540 san Paolo era al centro del dibattito tra riformatori e conservatori. Ad autorizzare l’interpretazione luterana della salvazione erano proprio i suoi scritti, che pertanto venivano sottoposti a continue e minuziose esegesi. La sua figura aumentò d’importanza e necessariamente anche la rappresentazione della sua vita diventò un modo per intervenire nel dibattito in corso. Negli stessi anni in cui Michelangelo lavorava nella Cappella Paolina, il cardinale Alessandro Farnese, anche per rendere omaggio al nome scelto dal nonno Paolo III, si fece affrescare dal Salviati nella cappella del Palazzo della Cancelleria una Conversione di san Paolo che aveva caratteri profondamente diversi da quella michelangiolesca, ma che proprio per questo può aiutarci a comprenderne la portata innovativa. 334

Fig. 11. Francesco Salviati, Conversione di san Paolo, particolare. Roma, Palazzo della Cancelleria.

Fig. 12. Affreschi del portico del vecchio San Pietro in Vaticano, dal Cod. Barb. Lat. 2733, f. 137r.

La precedente rappresentazione di Raffaello possedeva tutti i caratteri dell’ufficialità istituzionale. Disteso per terra, un centurione romano giovane e vigoroso, vestito con precisione antiquaria di tutti gli attributi del soldato, vi si torceva come colpito da una saetta invece che da una chiamata. Il tentativo di produrre uno scorcio virtuoso si arenava in un effetto grottesco che non riusciva ad essere sostenuto neppure dalla perfetta simmetria della scena. Il protagonista della scena sembra piuttosto il soldato che cerca di recuperare in primo piano il cavallo imbizzarrito, bardato anch’esso con i finimenti di una battaglia all’antica. Tutt’intorno, scene di sgomento fanno assumere alla truppa delle posture forzate più caratteristiche di una battaglia che di un evento spirituale. Nella Conversione di Salviati (che già nel 1545 aveva disegnato una Conversione incisa da Enea Vico) troviamo lo stesso schema, con in più un virtuoso compiacimento per la teatralità dei gesti e per le anatomie contorte (soprattutto quelle dei cavalli spaventati). Anche qui il racconto ha la precisione di una cronaca antiquaria, come voleva evidentemente la committenza e come di lì a poco si sarebbe raccomandato di fare il Concilio di Trento. Niente divagazioni e interpretazioni ambigue: le Scritture dovevano essere rappresentate con efficacia e puntualità. Rispetto a questi due precedenti, la rappresentazione di Michelangelo introduce una novità importante, che certo dovette essere molto pensata e che deve perciò costituire la principale chiave di lettura del dipinto. Intorno alla figura di Cristo, non compaiono solo gli angeli che tradizionalmente lo sostengono nell’apparizione, ma con ogni evidenza anche gruppi di uomini e donne identificabili come le schiere 336

di «eletti» che già coronavano il Cristo del Giudizio Universale. Occorre riflettere attentamente su questa innovazione iconografica per comprendere appieno lo spirito con il quale l’artista concepì il dipinto e nello stesso tempo intervenne nel dibattito sulla salvazione. Non c’è dubbio che se decise di variare lo schema tradizionale è perché intendeva affermare una prospettiva particolare nell’interpretazione dell’episodio altre volte rappresentato prima di lui, per di più in importanti sedi istituzionali. La scelta di enfatizzare fortemente la presenza di Cristo e la corona di «eletti» posta intorno a lui doveva servire soprattutto a questo. La loro riconoscibilità non è in questione: l’uomo che si sporge in primo piano dalle nuvole più basse aprendo le mani in meravigliata e timorosa contemplazione del Cristo è quasi una replica della figura che compare nel Giudizio a sinistra del Cristo sopra la testa di san Pietro. Intorno a lui la folla di personaggi che sembra contenuta dagli angeli in primo piano ha le stesse caratteristiche formali, la stessa mimica, gli stessi semplici vestiti delle turbe di eletti che coronavano il Cristo del Giudizio, visibile a pochi passi dal nuovo dipinto: la citazione era un richiamo chiarissimo. L’identificazione di questi personaggi come il popolo dei primi martiri e dei più autentici seguaci della dottrina di Cristo aiuta senza dubbio a comprendere il significato della loro presenza nella rappresentazione michelangiolesca. Il racconto degli Atti degli Apostoli era in realtà molto scarno, ma nella traduzione in volgare curata da Antonio Brucioli, l’amico presso cui Michelangelo si era rifugiato nel 1529 durante la sua fuga da Firenze, il racconto aveva avuto un’interpretazione puntuale. La traduzione di Bru337

cioli fu una delle prime a comparire in Italia e non c’è dubbio che Michelangelo la utilizzò come fonte per la sua rappresentazione della conversione di san Paolo, anche se la stessa Vittoria Colonna e Reginald Pole non poterono essere estranei all’elaborazione del programma iconologico, come non lo furono a quello della tomba di Giulio II, messo a punto negli stessi mesi. L’interpretazione di Brucioli ci aiuta a capire il senso della forzatura iconografica con cui Michelangelo introdusse improvvisamente dei personaggi che non erano mai comparsi nelle rappresentazioni precedenti, almeno in quelle significative per la propaganda della Chiesa istituzionale. Et Agrippa disse a Paulo, egli ti si permette parlare per te stesso (...). Per la cura delle quali cose, andando in Damasco, con autorità, e commissione de principi de sacerdoti, nel mezo giorno, o rè, viddi per via, dal cielo, sopra lo splendore del sole, splendermi uno lume intorno, e intorno à quegli che camminavano meco. Et essendo tutti noi caduti in terra, udimmo una voce, che mi parlava, e diceva in Hebraica lingua, Saul, Saul, perché mi perseguiti? Egli ti è dura cosa à repugnare agli stimoli. Et io dissi, chi sei Signore? Et quello disse, io sono Giesu che tu perseguiti. Ma rizati, e sta sopra i tuoi piedi, perché à questo ti apparsi, accioché io ti constituissi ministro, e testimonio di quelle cose che tu vedesti, e di quelle ne le quali io ti apparrò, cavandoti dal popolo, e da le genti ne le quali hora ti mando, acciocché tu apra gli occhi di quegli, à fin che si convertino da le tenebre, alla luce, e dala potesta di Satan a iddio: a fin che ricevino la remissione de peccati, e la sorte fra quegli che sono santificati per la fede, che è verso di me7.

Fu proprio a questo passo, con ogni probabilità, che Michelangelo fece riferimento quando mostrò per la prima 338

volta coloro che sono stati santificati per la fede in Gesù e che lo attorniano insieme agli angeli. La novità iconografica, pensata e coraggiosamente introdotta nel cuore stesso della sede apostolica, serviva a ribadire la centralità della fede nel cammino verso la salvezza. Quale altro significato possiamo dare alla forzatura iconografica introdotta da Michelangelo nella sua versione della Conversione? Rappresentare intorno al 1543, in pieno scontro teologico, «quegli che sono santificati per la fede, che è verso di me» era una presa di posizione evidente nel dibattito sulla salvazione che lo occupava in quegli anni insieme agli amici della «scuola» di Pole, i quali erano certamente in grado di cogliere con soddisfazione il valore di quella sottolineatura, considerato che erano anch’essi convinti come i luterani che la salvezza fosse assicurata dalla fede viva e non dall’esercizio delle opere. Contrariamente a quanto avveniva nelle rappresentazioni precedenti, la presenza degli eletti carica l’apparizione di Cristo di significati molto particolari. Non soltanto causa la conversione, ma mostra la via della salvezza attraverso la visione di quanti popolano il regno eterno per aver creduto in lui. La presenza degli eletti era molto più evidente prima che i dipinti venissero censurati con drappi per coprirne le nudità. Gli angeli, nudi, si distinguevano immediatamente dagli eletti che si affollano timorosi e pieni di pietà dietro di loro, come si vede benissimo in una incisione del Beatrizet realizzata prima della censura [fig. 13]. Quando, pochi anni dopo, le nudità degli angeli furono ricoperte da panneggi grossolani, la loro identità e soprattutto la loro differenza con le figure retrostanti si affievolì, in 339

maniera che una censura apparentemente di carattere «sessuale» finì per coprire una censura ben più urgente di carattere teologico. Solo un ripristino delle condizioni originarie del dipinto potrebbe dare pienamente conto del messaggio teologico di Michelangelo. Il valore teologico della rappresentazione è come sempre di difficile valutazione, ma è forte l’impressione che Michelangelo prendesse così una posizione esplicita nel dibattito in corso ribadendo, proprio nella cappella che il papa voleva destinare al conclave, il valore salvifico della fede in Cristo. La turbolenza dei tempi avrebbe certamente consigliato all’artista di attenersi scrupolosamente alla tradizione precedente, omettendo quella popolazione di santi, di devoti barbuti ed emaciati, di donne caritatevoli estasiate dalla fede. Né la sua scelta gli costò poco in termini di tempo e di denaro. Nel cielo che avrebbe potuto lasciare vuoto come quello della Crocifissione sono raccolte circa un terzo delle giornate di lavoro di tutto il dipinto. È un universo di corpi che ha quasi lo stesso peso di quello sottostante. Perché affrontare questa fatica? Perché l’unico motivo valido per dipingere la cappella era per lui dipingerla a modo suo, affermare la parola in cui credeva, confortare i suoi amici, segnare con la sua devozione il centro stesso della Chiesa: opporre alla retorica delle gerarchie istituzionali quel popolo di fedeli semplici come pastori, trasfigurati dalla fede, senza insegne, vestiti di bende e veli come quasi tutte le figure scolpite o disegnate in quegli anni. Identificare così il popolo della fede e contrapporlo al popolo dei prelati, che come principi dovevano riunirsi in 340

quella sala per eleggere un re ormai sempre più lontano dalla spiritualità della fede viva. Con la Conversione di san Paolo Michelangelo mostrava nello stesso tempo le origini e le conseguenze della fede. Il raggio di luce fortissima che lega il santo a Cristo mostra subito che la fede ha un carattere individuale, diretto, interiore. Non è la luce che traspare intorno al Cristo di Raffaello, emanazione di potere e regalità, lume istituzionale che di lì a poco sarebbe stato ulteriormente connotato dalla presenza dello Spirito Santo, simbolo dell’ortodossia di Roma. È la luce della chiamata individuale, del dialogo tra le anime. Non si sparge come gloria rivelata, si concentra sullo spirito dei semplici. Il carattere mistico, spirituale e sovrastorico del racconto è sottolineato anche da altre variazioni all’iconografia corrente. Il paesaggio è ridotto a paesaggio spirituale. La città di Damasco sullo sfondo sfuma nel profilo di una città simbolica, senza connotati precisi. Cristo sembra indicarla a Paolo come luogo in cui deve compiersi il suo destino di predicatore, di convertitore di anime alla giusta fede. Anche la rappresentazione dolente del santo, dal quale scompaiono gli attributi del guerriero, è un’altra forte novità del racconto. Dobbiamo aguzzare gli occhi per scorgere un manico di spada sporgere dal fianco del vecchio atterrato. Nessuno scudo, nessun elmo, e soprattutto nessuna corazza. Il corpo dell’uomo ancora vigoroso si offre senza riserve alla colonna di luce. Persino i commilitoni abbandonano il piglio militare per trasformarsi senza aggressività in un drappello di uomini sbandati sotto la potenza della divinità. Le figure che affiorano dal basso in primo 341

piano sono soldati, forse, ma portano sulle spalle i propri bagagli come transfughi o pellegrini. Sono scomparsi i simboli della guerra, dell’offesa, del dominio temporale. L’evento è tutto racchiuso nelle coscienze e collocato nella dimensione sovratemporale della fede. La riduzione spirituale serve a rinnovare, a rendere attuale l’evento della conversione trasformando, come raccomandava Ochino, una rappresentazione in una meditazione. L’episodio è sottratto al passato storico, ad una data precisa, ed è consegnato al presente infinito della coscienza e della «fede viva», partecipata con tutti i sensi. Chi guardava il dipinto, dai cardinali del conclave fino al papa appena eletto, doveva sentire la necessità di rinnovare il proprio atto di fede in Cristo e ricordare che è la fede che salva e distingue il vero cattolico dal superstizioso. La perdita o l’indebolimento dei connotati storici della rappresentazione mirava a coinvolgere lo spettatore e a farlo sentire non distaccato testimone di un episodio vecchio di millecinquecento anni, ma partecipe di un atto di fede che si deve continuamente rinnovare nello spirito. Michelangelo non poteva accontentarsi di ribadire una «storia» già altre volte rappresentata, chiusa nella sua struttura iconografica e nel suo valore simbolico. Aveva invece urgenza di piegare quell’occasione alla devozione che gli riempiva l’anima e trasformava la vecchia parabola in una storia nuova. Ribadiva così ancora una volta il vero esclusivo sentimento che lo pervadeva, la fede in Cristo che salva e il suo carattere individuale, imponendo quell’astrazione e quella sospensione del tempo storico proprio nel luogo dove doveva nascere il potere supremo del papa: la cappella del conclave. 342

5. Lo sguardo di Pietro Come quello della Conversione di san Paolo, anche lo schema compositivo della Crocifissione di san Pietro non ha precedenti per la sua forza visionaria nella pittura rinascimentale. Né avrà seguito per moltissimo tempo ancora. Protagonista assoluto della rappresentazione è san Pietro, ritratto in scorcio come un atleta che raccoglie tutte le sue forze per rivolgere un ultimo sguardo di monito a chi assiste, dentro ma soprattutto fuori del dipinto, al suo martirio. Con la sua tensione muscolare, la figura del santo è il vero soggetto attivo e motore della scena, anziché l’oggetto passivo di un martirio simbolico come in molte rappresentazioni precedenti. Essa viene isolata e messa in risalto attraverso l’esagerazione delle dimensioni e il vuoto creatogli intorno. Nonostante lo scorcio arditissimo e la sua collocazione arretrata rispetto alle figure più vicine allo spettatore, la figura di Pietro è più grande di tutte le altre, il che crea un primo grado di indiscutibile evidenza. Il ricorso di Michelangelo alla differenza di scala delle figure resta d’altronde prudente, perché la maestà assegnata al santo non arriva al punto da squilibrare la scena, con effetti che i contemporanei avrebbero senza dubbio giudicato grotteschi. In questo modo l’attenzione dell’osservatore viene attirata su alcuni passaggi narrativi senza però sconvolgere la verosimiglianza e la credibilità del tutto, senza rendere troppo percepibile la differenza di scala. La croce inclinata crea un piano di luce, una pausa spaziale e un silenzio di forze, su cui si mostra lo sforzo titanico del santo, che raccoglie come in un esercizio ginnico 343

le gambe e la parte superiore del torace. L’andamento centripeto di questo movimento, che gira e si richiude su se stesso attraverso l’intero corpo, si prolunga in tutto il piccolo gruppo di uomini impegnato a sollevare la croce. L’intreccio di braccia contratte dallo sforzo, illuminate da una forte luce diretta, compone un cerchio che lega il martire ai suoi carnefici. Ancora una volta, uomini separati soltanto da un diverso destino confondono i propri ruoli senza concedere nulla all’esteriorità del divino e dell’umano. Le luci che guizzano sulle braccia del santo e dei carnefici disposti in cerchio fanno l’effetto di un fulmine che gira in tondo e che sostiene con la propria energia lo sforzo di Pietro, rimasto sospeso in una faticosa posizione che rende ancora più impellente il suo sguardo di rimprovero. L’occhio ripercorre continuamente questo cerchio in movimento, costituito almeno per metà dal suo corpo in tensione. Anche in questo caso il colore sostiene il dinamismo dei corpi. La luce chiara sul corpo del santo continua senza interruzione nei pantaloni bianchi degli operai, nelle loro braccia nude. Il centro si impone attraverso la luminosità del gruppo di figure, brevemente interrotto con una pausa equilibrata, dai due colori otticamente equivalenti della casacca viola a sinistra di Pietro e di quella giallo oro alla sua destra. Come accadeva sul muro di fronte, nella scena della Conversione di san Paolo, i colori viola e giallo incastrano e impreziosiscono l’evento centrale, sottratto alla partitura geometrica attraverso la luce e la composizione. La luce che attraversa la scena viene catturata nella parte alta della croce, si materializza con lo sforzo contratto delle gambe e si dirige verso il torace, le spalle e finalmente 344

la testa sollevata del santo, inchiodandosi in quello sguardo ammonitore da cui la narrazione parte e a cui continuamente arriva. Lo sguardo di Pietro è il vero soggetto del dipinto. La macchia rossa della casacca dell’uomo che scava la buca sotto le sue spalle serve a dargli forza, a supportarlo come un pilastro. Noi non vediamo l’espressione dell’uomo che scava, niente del suo disegno ci distrae: vediamo soltanto una macchia rossa che ci allarma e ci mette sull’avviso, una macchia informe che cattura lo sguardo per intrappolarlo negli occhi severissimi di Pietro. A partire da questo centro, la storia aneddotica si organizza con ritmo via via decrescente verso l’esterno. Separato il gruppo centrale dalla pausa del fosso, la narrazione si svolge ancora con un moto circolare ma pacato, condensata in una corona di figure che abbraccia l’azione e la riconduce sempre al suo centro in un perpetuo, forte movimento. Le figure di spalle che salgono da sinistra ci portano al soldato che si sporge in avanti per meglio vedere quello che anche noi andiamo a guardare: il martirio di Pietro. Anche il gruppo centrale di figure ci riporta immediatamente all’azione attraverso il braccio e poi l’indice teso dell’uomo in primo piano. Nelle figure a destra della croce c’è poi come uno scioglimento della tensione, una dispersione di forze che esprime gli effetti del martirio. Il dolore, lo sgomento, la rassegnazione e la pena sono tutti racchiusi nel bellissimo personaggio in primo piano, quasi un fratello di Pietro per la sua possanza fisica, monumento a quella devozione purissima, sprezzante verso ogni seduzione mondana che si celebra con gli stracci, scalza, sola anima dolente. Ai suoi piedi, in una posizione poco spiegabile in termini pro345

spettici e proporzionali, ci imbattiamo infine nelle quattro donne i cui bianchi abbaglianti dei veli e dei volti di nuovo catturano sfacciatamente lo sguardo dell’osservatore per riportarlo su quello di Pietro. Tutto ricomincia con il moto circolare intorno alla croce, mentre il paesaggio viene risolto nel cielo sospeso e nei profili astratti dei colli che si avvallano in corrispondenza dell’azione, guidando anch’essi al centro dell’evento. Michelangelo risolveva così brillantemente (se la modestia della parola non offendesse l’evidente prova di genialità) i problemi connessi ad una rappresentazione che era sempre stata infelice, con quella crocifissione capovolta che portava incongruamente la testa del martire ben al di sotto delle teste delle comparse. Filippino Lippi, nella Cappella Brancacci a Firenze [tav. 12], aveva avuto per primo l’idea di rappresentare la crocifissione di Pietro non come fatto avvenuto ma nel suo compiersi, mostrando lo sforzo degli operai al lavoro e quindi umanizzando la scena secondo il dettato rigoroso dell’umanesimo fiorentino di fine Quattrocento. Si era però dovuto piegare all’infelice soluzione della testa del martire quasi a terra, dove guardano tutti gli astanti. Certamente Michelangelo colse la tensione di questo dipinto e la sua potenzialità comunicativa, ma non volle arrendersi a riportare il protagonista della scena in una posizione tutto sommato ridicola. Per ottenere il suo obiettivo abbandonò allora la composizione simmetrica a vantaggio di un sistema di forze che assecondava uno schema formale più articolato. Alla simmetria e alla centralità geometrica sostituì delle forze attive rese più evidenti da un tessuto cromatico accuratamente 346

pensato e da una luce che stabiliva le gerarchie dei ruoli e le sequenze delle azioni. Il confronto con l’iconografia precedente ci aiuta a capire non soltanto i modi attraverso i quali Michelangelo innovò la tradizione, ma anche i motivi per i quali non poteva più seguirla. L’iconografia tradizionale della crocifissione di Pietro ci è testimoniata efficacemente dai dipinti nell’abside della basilica superiore di Assisi, da quelli che decoravano il portico di San Pietro in Vaticano (e stavano ancora sotto gli occhi di Michelangelo, perché furono demoliti soltanto sotto papa Borghese) e dai dipinti della chiesa di San Piero a Grado a Pisa, vicino a un mare molto frequentato dall’artista nei suoi anni carraresi. Altri precedenti significativi erano certamente la predella dipinta da Giotto oggi ai Musei Vaticani e l’affresco di Filippino Lippi nella Cappella Brancacci a Firenze. Le fonti su cui si basavano tutte queste rappresentazioni, e su cui poggiava anche quella michelangiolesca, erano alcuni passi dei Vangeli apocrifi, ma principalmente la Legenda Aurea di Jacopo da Varagine. Nei cicli duecenteschi e trecenteschi lo schema era molto rigido e quasi invariabile: san Pietro appare frontalmente crocifisso, tra due ali di folla che rappresentano i soldati romani e i primi fedeli che si disperano impotenti di fronte all’accaduto. Sullo sfondo sono riconoscibilissimi due monumenti che caratterizzavano la rappresentazione medievale della città di Roma: la piramide Cestia e l’obelisco di Nerone, presso il quale si voleva fosse stato martirizzato San Pietro. «Grande è la discordia che regna tra gli scrittori per la identificazione del luogo del martirio del Principe degli Apostoli (...) Alcuni sostengono che San Pietro fu 347

crocifisso al Vaticano, altri sul Gianicolo. Inoltre secondo una tradizione, derivata dagli atti apocrifi, San Pietro sarebbe stato martirizzato apud palatium neronianum iuxta obeliscum»8. Simboli che scompaiono nel dipinto di Michelangelo. Il martirio aveva una rappresentazione fortemente simbolica e non somigliava in nessun modo a un’azione in corso. La sua rappresentazione ha una tradizione iconografica rigidissima. La croce era capovolta con il corpo immobile del santo, vittima inerme della crudeltà di Nerone. Nella basilica di Assisi Cimabue tentò di risolvere l’inconveniente della testa troppo abbassata del santo disegnando una croce enormemente allungata verso il basso, in maniera da portare la testa alla stessa altezza di quella degli altri protagonisti. In San Piero a Grado e (come ci testimoniano i disegni realizzati prima della distruzione) nel portico di San Pietro in Vaticano, l’effetto è sconveniente perché lo sguardo dei presenti viene rivolto verso le gambe e non verso la testa del martire. Nella rappresentazione di Giotto troviamo un colpo di genio: per ovviare al vuoto che veniva necessariamente a crearsi nella parte superiore della scena, alcuni soldati sui loro cavalli entrano in scena dai lati, colmando in parte anche la zona più alta del dipinto. L’arrivo dei soldati a cavallo fu ripreso da Michelangelo anche nella gestualità dialogante, seppure in un diverso contesto. Ma certamente ad ispirare Michelangelo fu soprattutto il martirio dipinto nella Cappella Brancacci a Firenze. Anche se san Pietro vi compare immobile in posizione frontale sulla croce, intorno a lui si affannano gli operai a sistemare e sollevare la cro348

ce, sostenendola con le proprie braccia e trasformando la scena in un’azione reale che vede coinvolti i carnefici intorno al santo in un’azione molto credibile. Che Michelangelo avesse bene in mente questo dipinto quando ideò il suo martirio lo conferma la presenza, quasi una citazione testuale, del soldato che si appoggia ad una lancia per guardare il martire nel gruppo di figure alla sua sinistra. L’azione iniziata nella Cappella Brancacci diventa nella Paolina ancora più coinvolgente, perché la partecipazione attiva del santo ottiene due effetti immediati. Per prima cosa la rende più drammatica: secondo lo schema già adottato nel crocifisso per Vittoria Colonna, infatti, la rappresentazione del tormento viene enfatizzata dalla vitalità del martire che proprio sotto i nostri occhi ferma l’azione nel suo compiersi e ci trascina dentro il suo svolgimento. Se l’esibizione del corpo morto, immobile seppur martirizzato, allontanava l’azione dal nostro sentimento collocandola nel passato anche molto prossimo, l’esibizione di un corpo vitale ci fa entrare nella scena e partecipare al dolore e all’azione del martirio. La capacità di inscenare una rappresentazione credibile dal punto di vista emotivo perché credibile dal punto di vista naturalistico è l’inarrivabile forza dell’arte di Michelangelo. Quel gesto pieno di tensione di Pietro che si torce sulla croce ci inchioda sospesi nell’attesa della sua risoluzione dinamica. Cogliere una forza in atto era per Michelangelo, nella scultura come nella pittura, un modo per rendere attuale la rappresentazione e coinvolgere lo spettatore. La sua capacità persuasiva discende dalla capacità d’immaginare l’attitudine più efficace e la forma più naturale agli occhi dello spettatore. 349

Certo, sul piano della narrazione lo spettatore aveva bisogno di una condivisione di fonti per interpretare l’azione. E Michelangelo si mantenne abbastanza fedele alle fonti tradizionali. Ma non c’è dubbio che il suo obiettivo era quello di piegare la narrazione a un sentimento nuovo: il suo stesso sentimento religioso, che in questo caso si esprimeva obbligando i prelati riuniti a conclave a pensare al martirio, fondamento della Chiesa come fatto in essere e non come fatto passato, liturgia celebrativa. Era di nuovo il senso delle meditazioni condivise con Vittoria Colonna a ritornare, a riportare alla luce il valore profondo delle Scritture e della storia per renderle attuali, perché il fedele potesse rivivere emotivamente quegli eventi. Nella Legenda aurea si racconta che durante il martirio di Pietro qualcuno nel popolo dei neofiti rumoreggiò di fronte a tanta empietà ed accennò quasi a una ribellione. Fu lo stesso Pietro che intimò loro di calmarsi, perché doveva compiersi il suo destino di martire. Il dipinto dà fedelmente corpo al racconto. La figura in piedi al centro della scena indica sdegnata il martire ai soldati romani, accorsi per assistere al martirio, come già nel dipinto di Giotto. I suoi amici lo trattengono e lo placano, intimandogli il silenzio con l’eloquente gesto dell’indice posato sulle labbra. Con l’altra mano, il neofita che si trova in asse con la testa di Pietro indica il cielo con l’indice destro, richiamando senza dubbio la volontà celeste a cui tutto è riconducibile. Anche in questo caso il martirio si manifesta come attuazione di un piano divino, anche se poco comprensibile agli uomini smarriti. La piccola scena è molto importante perché ci aiuta a identificare le numerose persone che a destra di Pietro assi350

stono al martirio. Una fiumana di gente, semplice se non addirittura miserabile nell’apparenza, attraversa tutta la parte destra del dipinto. Dalla sommità del monte, contrapposti ai soldati di Nerone che arrivano sui cavalli da sinistra, compaiono persone di ogni età. Sfilano avviliti scendendo dal monte, mentre sull’altro lato i soldati visti potentemente di schiena, lo risalgono. Sono uomini vestiti di stracci, quasi che la Chiesa delle origini non facesse proseliti se non tra i semplici e i poveri. Umili, totalmente identificati in un sentimento piuttosto che in un carattere sociale o storico, i testimoni del martirio sono presumibilmente i primi cristiani, il popolo che segue la predicazione di Pietro. Questo popolo è la Chiesa stessa, intesa come la comunità di coloro che condividono il medesimo sentimento di fede e sono il vero fondamento della tradizione cattolica. Anche nella loro caratterizzazione così dimessa, così lontana dalle forme di rappresentazione istituzionali inscenate in quegli stessi anni intorno a Michelangelo, la raffigurazione del martirio diventava un proclama a favore della Chiesa dei fedeli contro la Chiesa istituzionale: un’idea che Michelangelo condivideva con gli Spirituali e che veniva considerata già da qualche anno come eversiva da parte dell’ambiente più conservatore della Curia romana. Sparite le guglie della piramide e dell’obelisco, che avevano accompagnato da sempre la rappresentazione del martirio, neppure Roma era più riconoscibile in quell’evento definitivamente spirituale. A caratterizzare la purezza di fede dei primi cristiani, come già succedeva nella schiera di uomini che circonda Cristo nella Conversione di san Paolo e come accadeva nei disegni di devozione per Pole e la Colonna, tornava anche 351

la severa essenzialità dei dettagli. I vestiti sono brandelli di tela senza foggia, fasce per un corpo ridotto a puro prolungamento dell’anima. Il paesaggio diventa una pura astrazione d’aria e terra. La bellezza, la forza e l’armonia dei muscoli mettono in moto una macchina teatrale che nel gesto e nella mimica racconta il sentimento senza cedere niente al decoro, all’istituzione, alla riconoscibilità gerarchica dei personaggi; soprattutto senza cedere nulla alla storia come fatto circoscritto a un’epoca precisa. Michelangelo approda ad una rappresentazione spirituale collocata in un’eternità che coincide con la perennità della fede. Siamo, ricordiamolo, nella cappella che Paolo III voleva destinata al conclave. Lo sguardo di Pietro era dunque rivolto ai cardinali che eleggevano il papa ed era la prima cosa che il nuovo papa avrebbe visto subito dopo la sua elezione. A quel papa, Pietro ricordava la sua Chiesa, fatta non di armati e potenti ma di un popolo toccato dalla fede devota: un popolo eletto che giustamente occupa la destra del crocifisso, come nel cielo occuperà la destra dell’altro Crocifisso, primo e più santo simbolo di salvezza. Naturalmente non è possibile spingere troppo in là questa lettura di un dipinto per molti aspetti ancora oscuro. Eppure le piccole variazioni rispetto a una tradizione rigidamente codificata e molto presente nei luoghi istituzionali comunicano qualcosa che ogni contemporaneo di Michelangelo non poteva non rilevare facilmente: la sparizione di Roma e quindi della fisicità della Chiesa istituzionale, lo sguardo severo di Pietro e il suo gesto ammonitore all’osservatore, infine la presenza di quel popolo che non era mai entrato così da protagonista nella rappresentazione. 352

Quel popolo che nel suo stesso connotato fisico si richiamava alla purezza e semplicità della viva fede che ritroviamo in tutte le opere tarde di Michelangelo, dalla Vita Attiva e Contemplativa alle Marie ai piedi del crocifisso nei tanti disegni di questi anni, dai dipinti regalati a Vittoria e a Pole e a Morone fino alle figure di pietra che compaiono nelle ultime Pietà. Ma i cardinali raccolti in conclave e il futuro papa non avrebbero potuto non registrare un’altra evidenza iconografica del dipinto: la tonsura di Pietro. La posizione pensata per il santo sembra fatta apposta per mettere in evidenza la sua testa tonsurata. La stessa puntigliosa lavorazione che si coglie a un’osservazione ravvicinata dell’affresco dimostra quanto fosse importante per Michelangelo quella piccola porzione del dipinto e ne collega idealmente l’importanza al braccio del Cristo del Giudizio Universale, frutto anch’esso di molti pentimenti. Nelle rappresentazioni precedenti questo dettaglio non era mai stato messo così in evidenza. Nonostante lo stato di degrado dei dipinti di Assisi, i disegni tratti in seguito ci danno la certezza che la testa di Pietro non era tonsurata. A San Piero a Grado i capelli sono ben visibili, come lo sono, seppure molto in ombra, nel dipinto della Cappella Brancacci. Che significato aveva quella tonsura così ostentata nel dipinto michelangiolesco, già rappresentata nel san Pietro del Giudizio Universale? È sempre la Legenda Aurea, nella narrazione delle celebrazioni della Cattedra di San Pietro, a ricordarcelo: Il quarto motivo di questa festa è l’onore tributato alla tonsura poiché secondo una tradizione ebbe inizio proprio con S. Pietro; 353

quando il santo predicava ad Antiochia gli tagliarono i capelli sulla sommità della testa, in segno di disprezzo verso la fede cristiana; poi ciò che era stato fatto con offesa al primo degli apostoli divenne un segno di onore per tutto il clero. La tonsura dei capelli sta a significare la purezza della vita poiché nei capelli si raduna l’impurità della testa; l’abbandono di ogni esteriore bellezza perché i capelli servono da ornamento; la rinuncia ai beni terreni perché niente deve intromettersi fra il sacerdote e Dio ma stretto deve essere il loro abbraccio e senza velo la visione della divina gloria. La tonsura è poi di forma circolare perché tale figura non ha né principio né fine così come non ha né principi né fine Iddio di cui i sacerdoti sono i ministri9.

Negli anni in cui Michelangelo dipingeva la Cappella Paolina la questione della tonsura era molto dibattuta tra i riformatori proprio per il suo alto valore simbolico. Il valore polemico di quella testa non poteva dunque sfuggire a nessuno dei cardinali riuniti in conclave. Né sembra forzato leggere in quella scelta un ulteriore richiamo al carattere spirituale che doveva avere il papato, alla sua umiltà e alla sua purezza evangelica. Erano le posizioni espresse chiaramente da Reginald Pole, che proprio per la forza con cui le sostenne vide fallire la propria elezione al soglio pontificio nel conclave del 1549, tenuto sotto gli affreschi ancora umidi di Michelangelo e lo sguardo certamente indignatissimo di Pietro.

6. L’ombra della censura Non c’è dubbio che con la decorazione della Cappella Paolina Michelangelo intervenne ancora una volta, e pesante354

mente, nel dibattito in corso sulla riforma della Chiesa. Generalmente si sostiene che l’iconografia non era in potere dell’artista, il quale si limitava a rappresentare un programma definito dal committente. E soprattutto qui nella Cappella Paolina, luogo della massima ufficialità della Chiesa, non possiamo immaginare che Michelangelo stabilisse autonomamente il programma della rappresentazione. Tuttavia quando Paolo III chiese a Michelangelo di affrescare la cappella, l’artista era vicino ai settant’anni e aveva ottime ragioni per rifiutare l’incarico. La libertà d’espressione fu sicuramente uno degli elementi della contrattazione, come era già accaduto per il Giudizio Universale e come accadde per la continuazione di San Pietro, dove l’intervento di Michelangelo fu devastante per gli assetti di potere della Curia e dove persino i cardinali dovettero abbassare la testa di fronte alle richieste dell’artista. Ne fanno fede proprio le polemiche dotte del Gilio, del Dolce e degli altri censori, che non si lamentavano degli intellettuali di Curia ma criticavano direttamente Michelangelo, riconoscendogli la responsabilità delle scelte e delle trasgressioni operate: segno che al Buonarroti era accordata una libertà creativa non concessa ad esempio ad artisti come Giorgio Vasari nella Cancelleria, al quale Paolo Giovio, erudito al servizio del cardinale Alessandro Farnese, dettò fin nei minimi dettagli il programma dei dipinti, arrivando a stabilire in che posizione si dovesse trovare ogni singolo personaggio. La libertà di Michelangelo in quegli anni era tale che gli permise di rifiutare perfino al cardinal nipote Alessandro Farnese i cartoni che gli erano serviti per il Giudizio. Era ormai al di fuori delle regole e degli schemi validi per tut355

ti gli altri artisti del Rinascimento. Del resto in entrambi i dipinti della Paolina non si può davvero parlare di rivoluzione, ma piuttosto di un trasgressivo slittamento iconografico. A rigore la tradizione era rispettata. Eppure il messaggio che alludeva alla devozione particolare di Michelangelo si faceva strada attraverso la comparsa di nuovi dettagli (gli eletti), e soprattutto attraverso un linguaggio abilissimo nel dare peso differente ai vari elementi da sempre rappresentati in maniera da comunicare un sentimento di sofferta partecipazione individuale alla fede. A essere celebrata non era l’autorità della Chiesa istituzionale, come accadeva negli affreschi della Cancelleria (e come sarebbe in seguito accaduto nel completamento della stessa Paolina), ma la purezza di una devozione spirituale che si nutre del rapporto diretto con le Scritture e con gli insegnamenti dei martiri. Siamo ancora una volta di fronte a una «meditazione» piuttosto che a una celebrazione passiva dell’istituzione: di fronte ad eventi ai quali siamo chiamati a partecipare con la forza del sentimento e che dovrebbero spingerci a una riflessione attiva sulla fede e le sue radici. Questo sentimento, che nasce da un ben più vasto progetto di riforma e da una profonda riflessione sullo stato della Chiesa e della religione in quegli anni, era perfettamente compreso dai contemporanei di Michelangelo. Fino ad un certo punto esso derivava da un progetto condiviso, se non dalla parte più influente della Curia, certamente da un circolo di uomini sufficientemente potenti a legittimarlo in quella sede: il gruppo di Pole, Morone, Bembo, Sadoleto e dello stesso Giovio, quello stesso circolo che per scel356

Fig. 13. Nicolaus Beatrizet, Conversione di san Paolo (incisione). Reggio Emilia, Biblioteca Panizzi.

Fig. 14. Giorgio Vasari, Paolo III attorniato dalle Virtù. Roma, Palazzo della Cancelleria. Accanto al papa sono riconoscibili i ritratti del cardinale Reginald Pole, con la barba nera nello sfondo, e del cardinale Pietro Bembo.

ta dei Farnese venne ritratto negli affreschi celebrativi del Palazzo della Cancelleria alle spalle di Paolo III, per sottolinearne la virtù morale e religiosa [fig. 14]. L’intreccio fra rigore morale e cinismo politico rendeva estremamente complessi i rapporti nella Curia romana alla vigilia del Concilio di Trento. Ma il progetto di Pole e dei suoi amici era destinato a perdere, sconfitto da un richiamo autoritario alla tradizione della Chiesa e alle sue chiare liturgie, ai suoi secolari strumenti di controllo e di dominio. Le vicende della Cappella Paolina provano proprio questo. I due dipinti che ci sono pervenuti sono infatti solo la parte realizzata tra il 1542 e il 1549 di un più vasto programma messo a punto da Michelangelo, che lo avrebbe portato a termine se la morte di Paolo III non lo avesse bruscamente interrotto. Il 13 ottobre del 1549, pochi giorni prima di morire, il papa, secondo la testimonianza certa dell’ambasciatore del duca di Firenze a Roma, era andato a trovare Michelangelo che dipingeva sul ponteggio, arrampicandosi su una scala di dieci pioli e lasciando tutti esterrefatti per la sua vitalità. Niente allora faceva presagire la sua morte e l’interruzione dei lavori allo stato in cui poi ci sono pervenuti. Erano già pronti i cartoni per gli altri dipinti che avrebbero dovuto completare il ciclo e che Michelangelo, d’accordo con Paolo III, avrebbe affidato all’esecuzione materiale di Marcello Venusti. È quanto ci dice l’importantissimo documento conservato nell’Archivio Vaticano accanto alla cronaca del conclave del 1549, nel quale il segretario del conclave chiedeva ai cardinali che Marcello Venusti potesse continuare la decorazione della cappella come stabilito da Michelangelo e da Paolo III: 358

[Tra il 10 novembre 1549 e il 7 febbraio 1550] Al R.do messer Giovanni Francesco [Bini] maestro di Cerimonie. Trovandosi il Mantoano dipintore deputato già da Papa Paolo B: M. à seguitar la cappella nuova, havere incominciati i cartoni d’essa, ne potendo per sua povertà senza provisione finirli, prega i R.mi et Ill.mi tutti a far commettere et provvedere, che possa lavorare. E li bascia reverentemente le mani10.

La preparazione dei cartoni era la fase conclusiva del complesso e laborioso processo preliminare alla realizzazione di un affresco. Se esisteva un cartone, si può dire che il dipinto fosse cosa fatta. Dunque nel 1549 c’era un avanzato progetto di Michelangelo per l’ultimazione della decorazione della Cappella Paolina. O forse sarebbe più corretto dire che i dipinti di Michelangelo mancavano solo della loro fase conclusiva. Il cartone si realizzava infatti quando tutto era stato deciso in ogni minimo dettaglio. E Michelangelo aveva praticamente predisposto l’ultimazione della cappella con i cartoni anche di altre scene. Il celebre cartone conservato al Museo di Capodimonte di Napoli, destinato al riquadro della crocifissione, può dare un’idea di quale fosse il livello di approfondimento raggiunto dall’artista per ultimare la decorazione della cappella. Perché questo ciclo pittorico non fu eseguito? Perché, a dispetto della considerazione universale di cui godeva Michelangelo in quegli anni, dopo che il papa lo aveva quasi scippato ai Della Rovere pur di fargli dipingere la sua cappella, si rinunciò al suo genio proprio quando era a completa disposizione del papato, libero da ogni impegno verso altri committenti? È azzardato pensare che il divieto che 359

Fig. 15. Lorenzo Sabbatini, Il martirio di santo Stefano. Roma, Palazzi Vaticani, Cappella Paolina.

bloccò l’opera di Michelangelo fu la forma che prese la censura inquisitoriale rivolta all’opera dell’artista? Sul se e il come la censura intervenne ai danni di Michelangelo non possiamo fare altro che congetture. Ma sul fatto che il sentimento delle sue opere fosse ormai lontano dalle necessità di rappresentazione della Curia e dai nuovi equilibri che vi si andavano affermando non possono esservi dubbi. Basta vedere il carattere dei dipinti realizzati a partire dal 1572 accanto a quelli di Michelangelo per misurare la distanza abissale tra la sua devozione e quella dispiegata, sotto la vigile guida dei teologi post-tridentini, dal Sabbatini e poi da Federico Zuccari [fig. 15]. L’interruzione dei lavori provocata dal conclave seguito alla morte di Paolo III coincise con l’inizio delle ostilità di Giampietro Carafa contro il gruppo degli Spirituali. La denuncia dell’eresia di Reginald Pole, nella seduta del 5 dicembre 1549, proprio sotto le pareti umide appena affrescate da Michelangelo, ebbe come effetto immediato la sua esclusione dalla candidatura al soglio pontificio11. Da quel momento in poi la lotta proseguì sotterranea ma implacabile. I dipinti che secondo l’aspettativa di Michelangelo avrebbero dovuto celebrare l’elezione del suo amico Pole e la svolta tanto aspettata della Chiesa assisterono invece alla sua sconfitta. Il nuovo papa, Giulio III, era un grande ammiratore di Michelangelo e non fu particolarmente ostile al gruppo dei riformatori, ma il Sant’Uffizio, sempre più tenacemente controllato dal Carafa, procedeva ormai senza soste nella raccolta di elementi contro Pole e la sua scuola, tanto che intorno a loro veniva sempre più materializzandosi la possibilità di un processo per eresia. Le contrat361

tazioni politiche che l’imperatore Carlo V intratteneva con i principi protestanti e i legami fortissimi che legavano Pole e il suo entourage all’imperatore rendevano la posizione del circolo relativamente sicura perfino a Roma. Ma nel clima sempre più avvelenato della Curia non ci poteva essere più spazio per un’espressione aperta della devozione che caratterizzava il gruppo attraverso i dipinti di Michelangelo. Nonostante i cartoni dovessero essere solo trasferiti sul muro, il lavoro non fu portato a termine. A rafforzare questa ipotesi interviene anche la considerazione enorme in cui furono tenuti i cartoni di Michelangelo in quegli stessi anni. Se autografi, i suoi disegni preparatori bastavano a decuplicare il valore di un quadro dipinto da un suo assistente. I due piccoli quadri regalati a Urbino erano ad esempio quasi certamente di mano di Marcello Venusti, ma realizzati su cartonetti del maestro: tanto bastò nel 1557, ancora vivi l’artista e il Venusti, a farli valutare infinitamente più di quanto potesse valere una semplice copia da Michelangelo di mano dello stesso Venusti12. Non c’è dubbio quindi che i contemporanei fossero consapevoli anche del valore inestimabile che i cartoni preparati per la Paolina avevano sul mercato. Eppure li rifiutarono, con un gesto che equivaleva quasi alla distruzione di dipinti esistenti, solo meno scandaloso perché meno pubblico. Il rifiuto di continuare le decorazioni secondo il progetto di Michelangelo era una sconfessione radicale della sua poetica e un’ammissione della distanza che ormai esisteva tra le esigenze di rappresentazione della Curia pontificia e il sentimento devozionale del grande artista ormai vicino alla propria fine. 362

8. LA FINE DELLE ILLUSIONI

1. Soggetti di devozione Con la fine dell’impresa del Giudizio Universale, Michelangelo era assurto a una posizione sociale e culturale mai toccata da nessun altro artista prima di lui. Benedetto Varchi, esponente di punta dell’Accademia fiorentina voluta da Cosimo I per dare sostanza culturale al suo dominio politico, dedicò nel 1547 una lezione memorabile a un suo sonetto, segnando l’assunzione dell’artista nell’Olimpo ideale dei semidei. E la vicinanza al circolo di Reginald Pole e di Vittoria Colonna ne consolidò la posizione raggiunta nella sua lunghissima e faticosa ascesa sociale. A questi amici Michelangelo dedicò la sua produzione «minore», realizzata nel tempo lasciato libero dagli incarichi impostigli dal papa. Il soggetto dei quadri e dei disegni di questi anni è esclusivamente incentrato sui temi devoti affrontati e scandagliati nelle meditazioni, prediche e componimenti letterari degli Spirituali. Purtroppo di questa produzione, intrecciata a persone ed eventi successivamente travolti dalla persecuzione inquisitoriale, non rimango365

no se non tracce e testimonianze avvolte dal mistero e dalla disgrazia. Un crocifisso d’avorio viene menzionato nella collezione raccolta da Alessandro Farnese nel suo palazzo romano intorno al 1570: «Un crocifisso d’avorio croce e piede di ebbano titolo e diadema dorati di mano di Michele Angelo» insieme a «Un quadretto di carta tirato in tavola con cornicie di noce dentro e disegnato di lapis un Crocifisso vivo mano di Michele Angelo»1. Due quadri, «in uno un Cristo et in l’altro una Nonciata», furono regalati da Michelangelo a Urbino e inventariati alla morte di questi nella sua casa di Casteldurante: erano copie da due dipinti che utilizzavano ancora i disegni preparatori autografi e come tali vanno ascritti al suo catalogo2. Su questa produzione è calata una nebbia fittissima, che la critica ha cercato di diradare senza molto successo. Sono stati identificati soltanto due disegni, oggi a Londra e a Boston, aventi per soggetti un Crocifisso [tav. 53] e una Pietà [tav. 54], riconducibili a quelli che secondo Ascanio Condivi l’artista aveva fatto per Vittoria Colonna. Anche se sull’autenticità dei due disegni rimangono perplessità, sull’identificazione del loro soggetto non può esservi dubbio. Entrambi nascono tra il 1540 e il 1545 dalla riflessione che Michelangelo condusse all’interno della «ecclesia Viterbense» sul tema del sacrificio di Cristo come fondamento e origine della salvezza dell’uomo. Il «Giesù Cristo in croce, non in sembianza di morto, come comunemente s’usa, ma in atto di vivo, col volto levato al padre, e par che dica – Heli heli – dove si vede quel corpo non come morto abbandonato cascare, ma come vivo per l’acerbo supplizio risentirsi e contorcersi» – descrit366

to così dettagliatamente da Ascanio Condivi – condensa tutta la forza del pensiero e della passione che Michelangelo e i suoi amici dedicarono in quegli anni al sacrificio salvifico del Redentore. Il valore di infinita grazia di quel gesto è esaltato dalla letteratura devozionale sviluppatasi in quegli anni intorno a Pole, che Michelangelo riesce a condensare in un’immagine molto semplice ma che nello stesso tempo esprime tutto il pensiero e la passione intellettuale incentrata su quel tema. L’immagine diventa icona e attraversa come una pugnalata fulminea gli stati della coscienza, per infiggersi nel cuore con tutta la forza, il dolore e la bellezza di quell’evento. Nel Crocifisso per Vittoria Colonna, la bellezza è la chiave del coinvolgimento perseguito da Michelangelo per sedurre l’osservatore e farlo partecipe emotivamente del martirio. Il Cristo che si contorce nel più umano dei gesti non ha nulla di astratto e sovrumano, è un uomo bellissimo che potrebbe abbandonare la croce e abbracciare il mondo intero accogliendolo in quel corpo perfettamente proporzionato. Se al posto dei chiodi e della croce avessimo un diverso supporto, quel Cristo potrebbe diventare un Apollo che mostra fiero la sua bellezza. La figura atletica è così convincente nel movimento che l’intera rappresentazione può ridursi all’essenzialità del corpo e del gesto. Tutto è sparito, il paesaggio e perfino la croce. Tutta la forza dell’evento è nel corpo che si torce mantenendo anche nel dolore del martirio una regalità che nasce dalla convinzione del proprio sacrificio, dalla volontà di offrire il proprio corpo per la salvezza degli uomini. Più di cento anni prima Brunelleschi aveva rimproverato a un giovane Donatello di 367

aver messo in croce un contadino, trascurando la bellezza e la regalità che si addicono a Cristo. Con il suo Crocifisso Michelangelo chiude il lungo percorso che aveva impegnato gli artisti del Rinascimento italiano a identificare la bellezza con la divinità, come avevano fatto i Greci duemila anni prima. Gli stessi elementi di bellezza, di eleganza contenuta dei sentimenti, di essenzialità che diventa forza comunicativa, si ritrovano anche nella rappresentazione della Pietà disegnata per la Colonna e i suoi amici. Anche qui il corpo bellissimo di un Cristo-Apollo è offerto interamente allo sguardo degli uomini, aperto dagli angeli che sembrano esibire anziché sorreggere il giovane abbandonato dalla vita. Lo strazio del dolore, contenuto e mai grottesco, è tutto in quel gesto disperato e rassegnato della madre che lo partorisce per la seconda volta, consegnandolo a una morte destinata a salvare gli uomini. I due disegni, o meglio le due icone, sono il punto più alto della rappresentazione mistica, ma anche il punto più alto della rappresentazione «pagana» della passione cattolica. Ed è questo il motivo per cui furono prodotti e consumati all’interno di una cerchia che era impregnata di classicismo e paganesimo, due modi di definire un patrimonio di sentimenti e d’immagini in cui ancora si identificavano Reginald Pole, Vittoria Colonna, Marcantonio Flaminio e gli altri amici per i quali Michelangelo creò questi piccoli capolavori. Le due rappresentazioni sono «antiche» non soltanto per la proporzione curata e raffinata del corpo apollineo del Cristo, ma soprattutto per quella compostezza dei sentimenti, mai gravati dal naturalismo eccessivo che sprofonda 368

nella volgarità la produzione degli artisti coevi a Michelangelo. La loro classicità, ciò che li rendeva simbolicamente pregnanti nel circolo tardoumanistico del Pole, è la soglia di astrazione su cui l’immagine si ferma, sospesa tra un bello ideale e una verosimiglianza naturale. Questo equilibrio tra un canone astratto e un’allusività naturalistica costituisce il carattere specifico del classicismo di Michelangelo, che raggiunge in questi disegni e in questi anni il suo apice di maturità. La capacità del corpo di ribadire con la propria mimica e con la propria bellezza, con il proprio modo di abitare lo spazio, ogni sfumatura del sentimento e dello spirito, è un modo fortemente «classico» di comunicare per immagini. Michelangelo lo aveva cercato per tutta la vita, approdandovi definitivamente in questi anni, quando lo piegò alla devozione profonda e raffinata del circolo di Viterbo. Basterebbe la totale scomparsa del paesaggio in entrambe le rappresentazioni per capire quanto classico sia il suo linguaggio tardo, quanto sia centrato unicamente sul corpo e sul gesto. È un classicismo filtrato attraverso le immagini dell’antico più che attraverso i trattati di filosofia platonica. Non stupisce dunque che queste immagini fossero diventate, all’interno di un circolo ristretto ma potente, un riscontro di fede e di cultura, un segno d’identità che trasformava in puro sentimento le riflessioni e le ricerche degli Spirituali. È quasi certo che Michelangelo realizzò direttamente per Vittoria anche una Crocifissione e una Pietà. Intanto altre immagini o copie dei suoi quadri, realizzate con i disegni originali da pittori di fiducia come Venusti, comincia369

rono a circolare tra gli amici che in quegli anni frequentavano l’artista. Immerso nei faticosi lavori del Concilio di Trento, Reginald Pole portò con sé durante un suo trasferimento un piccolo quadro di Michelangelo e lo offrì come dono regale degno del destinatario al cardinale Ercole Gonzaga, potente alleato dell’imperatore Carlo V in Italia, sostenendo che poteva averne altri da Vittoria. Ercole non poteva accettare quella reliquia, ma si accontentò di farselo copiare: «Mon.or mio come fratello quando mi possiate far haver quello quadro della immagine di Christo del Re.mo Polo per questo effetto solo ch’io lo possa far copiar da mr. Giulio romano n.ro qui e remandarglielo, mi sarà rariss.o haverlo quando mo la cortesia del cardinale volesse passar questo segno vi dico liberamente che non intendo ch’egli se ne privi in alcun modo non sapendo ove meglio possa star l’immagine di Christo che nelle mani di colui che lo porta per fede sculpito nel cuore»3. Dalle parole del Gonzaga traspariva chiaramente che non si trattava di un semplice quadro, bensì di una vera e propria reliquia, che un artista come Giulio Romano era appena in grado di copiare ma che non avrebbe mai potuto concepire, mancandogli quella devozione che a detta di tutti gli amici aveva illuminato il cuore di Michelangelo. Altri amici, come il fiorentino Francesco Bandini, vicino a Michelangelo fin dai tempi della repubblica e ricco banchiere fuoriuscito, si fece trasformare in scultura la Pietà che era stata disegnata per Vittoria e che Pole si era portato a Trento. Lo stesso Morone, ancora anni dopo, chiedeva a Michelangelo di rappresentare quel Cristo che aveva avuto il dono di interpretare come nessun altro. Tutti i 370

capi del circolo riformatore furono dunque raggiunti da un dono di Michelangelo, segno del valore di appartenenza che per quegli uomini ebbero le opere dell’artista. Attraverso i disegni e i piccoli quadri di devozione, Michelangelo strinse il legame con i suoi amici arrivando a stabilire una perfetta circolarità con le meditazioni di Vittoria Colonna. Quale dei due e in che maniera influenzasse l’altro è difficile e perfino inutile da sapere. È certo però che la produzione di entrambi si riflette come in uno specchio dai dipinti di Michelangelo alle prose devote di Vittoria, unendoli in uno sforzo di comprensione spirituale che li strappa alla sfera semplicemente creativa per proiettarli in una dimensione complessa, dove l’arte si piega alla fede che diventa il vero punto di arrivo.

2. La famiglia romana Il primo settembre 1535 Paolo III Farnese, un papa che a parere di tutti non aveva molto tempo davanti, aveva assegnato a Michelangelo una cospicua rendita vitalizia, in modo da assicurarsi i servizi dell’artista per tutto il resto della sua vita. Era un provvedimento importante perché sanciva il ruolo di Michelangelo come massimo artista della Chiesa cattolica. La rendita assegnatagli consisteva nelle tasse o dazi pagati dai viandanti che attraversavano sopra un ponte di barche il fiume Po nelle vicinanze di Piacenza. Il ricavato si stimava intorno ai 600 ducati annui, integrati da altri 600 pagati in contanti dalla Camera Apostolica in rate mensili di 50 ducati. 371

Era una cifra straordinaria, sufficiente a mantenere nel lusso un’intera famiglia. L’assegnazione di una rendita simile avrebbe dovuto placare definitivamente le ansie economiche dell’artista e permettergli di dedicarsi senza problemi alla sua attività creativa. Michelangelo, che non aveva grandi esigenze di lusso né grandi spese da affrontare, continuò a investire i proventi del suo lavoro a favore della famiglia fiorentina, concentrando su suo nipote Leonardo (17 aprile 1522 - 18 novembre 1599) le aspettative di riscatto familiare inseguite per tutta la vita. Ancora negli anni Quaranta tale strategia di riscatto si concentrò su investimenti lucrosi per la discendenza, nella quale però il vecchio e diffidente Michelangelo non aveva grande fiducia. Via via che accumulava somme cospicue di denaro, proponeva ai fratelli Giovan Simone (11 marzo 1479 - 9 gennaio 1548) e Gismondo (22 gennaio 1481 - 13 novembre 1555) di investire in terreni e imprese industriali. Ma la sua diffidenza rendeva molto faticosa la scelta degli investimenti. Ogni volta che si profilava l’acquisto di una casa, un terreno o una bottega, si attivava da Roma per prendere informazioni sull’affare, attraverso la fitta rete dei suoi agenti fiorentini e in generale della nutrita comunità che si divideva tra Roma e Firenze, nella quale poteva vantare amicizie importantissime. La sua diffidenza diventò un vero tormento per i familiari, costretti a ubbidire agli ordini impartiti da Roma. Non aveva nessuna intenzione di delegare ai fratelli, che pure stavano sul posto, le decisioni importanti. La predilezione per il mercato fiorentino denuncia d’altro canto il suo perenne sentimento di esule. Nonostante l’età e gli impegni romani rendessero molto diffici372

le un ritorno a Firenze, continuava a sentirsi precario a Roma e a proiettare il suo futuro nella città di origine. Ben presto la scena familiare venne occupata soprattutto dal nipote Leonardo, figlio del fratello prediletto Buonarroto. Alla morte di Buonarroto, nel 1528, Michelangelo si era dovuto occupare direttamente del bambino, l’aveva visto crescere e lo considerava molto più di un nipote. Il ragazzo era vivace ed esuberante e, contrariamente allo zio, ben deciso a godersi la vita con il minimo dispendio possibile. Non stupisce allora che a partire dalla metà degli anni Quaranta la corrispondenza di Michelangelo sia quasi interamente dedicata al nipote, con il quale stabilì un rapporto come al solito tormentato e tormentoso, incapace anche in quel caso di abbandonare la diffidenza che lo aveva devastato per tutta la vita e di concedersi, almeno in ambito familiare, quel godimento affettivo che si era sempre negato. Benché i suoi pensieri familiari fossero quasi unicamente rivolti al nipote, Michelangelo lo tenne il più possibile lontano da Roma, quasi fosse un fastidio insopportabile e un’interferenza faticosa con la sua vita romana. Gli impedì di visitarlo con troppa frequenza e si privò della sua compagnia, come se avesse sempre cose troppo importanti da fare e non conciliabili con la vita familiare. Ogni tentativo di Leonardo di raggiungere lo zio a Roma, sia pure per pochi giorni, veniva sentito da Michelangelo come una calamità. La presenza del nipote era una minaccia agli equilibri della nuova famiglia formatasi a Roma con pochi amici fedeli e pazienti e con il suo servo Urbino, al quale si era abituato e affezionato come a un consanguineo e che si mostrava più accondiscendente, almeno in apparenza. 373

Nell’estate del 1544 una grave malattia colse Michelangelo, facendo temere per la sua vita. Il nipote lo raggiunse a Roma, com’era naturale, ma Michelangelo interpretò quella visita come un cinico tentativo di assicurarsi che nulla venisse sottratto dalla cospicua eredità di cui era in attesa. A soffiare sul fuoco della sua diffidenza fu forse lo stesso Urbino o qualche altro malevolo consigliere, che sapeva come a Firenze vedessero molto male la sua intimità con il servitore di cui molti lo consideravano addirittura un ostaggio. La reazione alla visita del nipote fu dura e feroce, prova che neppure in tardissima età Michelangelo era disposto ad ammorbidire il terribile carattere che gli aveva avvelenato tutta la vita. Della sua malattia si occupò il caro e fedele amico Luigi del Riccio, suo principale tramite con il papa. Lo ricoverò in casa di Roberto Strozzi, un altro ricco fuoriuscito repubblicano, e lì lo fece curare dal miglior medico di Roma. Appena rimessosi in forze, Michelangelo scrisse a Leonardo una lettera cattivissima, minacciando di diseredarlo e liberando tutti i sospetti che gli impedivano di godersi l’unico discendente della stirpe, l’uomo per il quale in definitiva lavorava come un disperato: Lionardo, io sono stato male; e tu, a stanza di Ser Giovan Francesco, sé venuto a darmi la morte e a vedere s’ì lascio niente. Che non à’ tanto del mio a Firenze, che ti basti? Tu non puoi negar di non somigliar tuo padre, che a Firenze mi cacciò di casa mia. Sappi che io ò facto testamento in modo, che di quel ch’io ò a . rRoma tu non v’ài più a pensare. Però vacti con Dio, e non m’arrivare inanzi e non mi scriver ma’ più, e fa’ a modo del Prete4.

L’altra vittima del suo anatema, il «prete» che secondo lui aveva spinto Leonardo a Roma per controllare che Ur374

bino non gli soffiasse l’eredità, era il suo vecchio amico Giovan Francesco Fattucci, che aveva passato una vita ad aiutarlo e servirlo. Alla salute di Michelangelo non giovò certamente la furia distruttiva a cui si abbandonò nel suo letto di convalescente, che dovette essere approntato a casa degli Strozzi perché nonostante le ricchezze accumulate la casa miserabile di Macello dei Corvi non era capace né degna di affrontare quell’emergenza. Neppure vecchio e malato l’artista affievoliva il suo carattere furioso e insofferente, così come non si affievoliva il suo fervore repubblicano. Nonostante in Italia gli esperti di politica considerassero ormai molto difficile scalzare Cosimo de’ Medici dal governo di Firenze, Michelangelo e i pochi amici che frequentava continuavano a sognare una rinascita della Repubblica fiorentina. Fosse un difetto o una virtù, Michelangelo non fu mai capace di rassegnarsi alla morte dei pochi ma saldi ideali a cui aveva votato la propria vita. Dal letto del Palazzo Strozzi, da cui poteva vedere il Tevere in secca diventare giallo come il fieno tagliato nelle sue terre, Michelangelo fece sapere a Francesco I, re di Francia, che se avesse riportato la libertà a Firenze lui gli avrebbe eretto una statua di bronzo sulla piazza della Signoria. Lo avrebbe fatto, cosa davvero eccezionale, a sue spese. La collera contro il nipote amatissimo comunque sbollì e perfino il Fattucci fu perdonato. Con i suoi modi bruschi e infantili Michelangelo gli scrisse qualche tempo dopo, mandandogli un sonetto, come ai vecchi tempi, per fargli sapere che era ancora vivo e aveva ancora una luce di riconoscenza nell’anima agitata dai fantasmi della diffidenza. 375

Ma quella sua fede repubblicana, così ostinata e addirittura fuori dalla realtà, non poteva non preoccupare i parenti a Firenze, dove le spie di Cosimo facevano puntuali rapporti sull’attivismo repubblicano di Michelangelo e dei suoi amici. Da parte sua Cosimo aveva messo in atto un’intelligente politica di recupero delle migliori energie fiorentine e non chiedeva di meglio che poter assorbire anche Michelangelo nel suo progetto di pacificazione. A metà degli anni Quaranta si mostrò già molto preoccupato del destino suo e delle opere d’arte che ancora aveva in casa. E in occasione di una seconda malattia, nell’inverno del 1546, non esitò a inviare il giovane Leonardo a Roma, raccomandandolo a Lorenzo Ridolfi perché lo aiutasse a recuperare ogni cosa di suo zio in caso di morte. Considerava quello il modo più sicuro per entrare in possesso delle opere ancora in disponibilità di Michelangelo, che invece gliele rifiutava5. Le manovre di avvicinamento all’artista coinvolsero anche vecchi amici come Benvenuto Cellini, che intorno al 1551 visitò Michelangelo per conto di Cosimo per proporgli di tornare a Firenze, dove sarebbe stato ricoperto di onori. Ma Michelangelo era di tutt’altro avviso. La Firenze che amava e a cui non poteva rinunciare se l’era ricostruita a Roma, nel piccolo ed esclusivo gruppo di amici che frequentava assiduamente: Donato Giannotti, Roberto Strozzi, Luigi del Riccio e Francesco Bandini, tutti fuoriusciti repubblicani ma appartenenti alle famiglie più nobili di Firenze, nel senso che potevano vantare da secoli un coinvolgimento diretto negli affari pubblici, elemento che agli occhi di Michelangelo definiva il grado più alto della nobiltà cittadina. 376

Donato Giannotti in particolare era stato uno degli intellettuali di punta della rivolta repubblicana del 1527 e da allora non si era più separato da Michelangelo. Coltissimo e raffinato, Giannotti divenne segretario del cardinale Ridolfi e introdusse Michelangelo al mondo delle lettere. Fu lui ad ispirare la scultura del Bruto [tav. 47], che Michelangelo offrì al cardinale Ridolfi, figura di riferimento del partito antimediceo a Roma, per celebrare l’assassinio (o «tirannicidio», come preferivano chiamarlo) del perfido Alessandro de’ Medici ad opera di suo cugino Lorenzino nel 1537. Fu lui a correggergli i sonetti e perfino le lettere eleganti, come quelle indirizzate a Vittoria Colonna. E ancora a lui dobbiamo una delle testimonianze più belle della vita di Michelangelo nella metà degli anni Quaranta: quella di un uomo appagato, innamorato dei suoi amici e delle conversazioni dotte che intrattiene passeggiando per una Roma che nessuno di loro, fiorentini ed esuli, può fare a meno di amare. Il tempo sottratto alle fatiche dell’arte è dedicato al culto di Dante e della poesia, ma anche al piacere per la musica e per l’amicizia vera, di cui si dice schiavo. Una di queste giornate svagate, nella quale il gruppetto di arzilli settantenni gironzolava senza troppa fretta per il Campidoglio e per i Fori di marmo fioriti di lauri e di lecci, per le case nuove e vecchie della città in perenne trasformazione, fu per nostra fortuna trascritta in un dialogo pubblicato poi dallo stesso Giannotti. Le informazioni che ne ricaviamo sono preziosissime e confermano il sospetto alimentato da molti altri documenti che riguardano Michelangelo. Nel dialogo egli si dice incapace di abbandonarsi alla sensualità degli affetti e delle passioni, perché lo distol377

gono dalla creatività e dal lavoro, che fiorisce soltanto in condizioni di cupa concentrazione e di rimozione di ogni altro bisogno vitale. La grandezza dell’arte nasce per sua stessa ammissione dalla rinuncia alla felicità della vita, come se le due sfere fossero in netta contrapposizione. È un modo molto «moderno» di intendere la propria missione creativa, che altri artisti in tempi vicinissimi a noi tenteranno di praticare con consapevole sacrificio. Michelangelo ci arriva per istinto, in maniera inconsapevole, e solo alla fine della sua vita si rivela sereno di fronte alle sue scelte, che illuminano le sofferenze patite durante i settant’anni trascorsi ad erigere il muro scintillante della sua arte contro le paure provocate dalle proprie pulsioni. Alla luce di questo meccanismo si può spiegare anche la difficoltà a portare a termine le opere, la propensione a vivere molto meglio lo spazio del possibile a discapito del reale. Tutto ciò che agisce dentro ha bisogno, per essere portato fuori e reso accettabile a sé e agli altri, di complesse trasformazioni che finiscono per produrre gli inarrivabili capolavori attraverso la vena artistica, il talento sovrumano e la straordinaria abilità manuale. Per Michelangelo, l’arte è nemica della vita e la vita è nemica dell’arte: solo il sacrificio della sua stessa vita può permettere all’uomo di accedere alle vette dell’arte. Ancora una volta siamo lontanissimi da Raffaello e dalla sua pienezza vitale. La vitalità di Michelangelo è piegata allo sforzo creativo, senza concessioni a nessun altro piacere, e quello che più impressiona nell’ascoltare le sue parole è proprio la profonda consapevolezza di questo meccanismo interiore, la sua accettazione da parte dell’artista che ha scelto per sé la perfezione dell’arte. 378

La scena, dunque, è quella di una limpida giornata romana di precoce primavera, con il cielo e il sole e l’aria sottile che invitano agli «ozi» di cui in ogni epoca sono stati eccellenti maestri gli abitatori delle sponde del Tevere. Nell’aria il profumo dell’erba tenera e dei primi fiori di mandorlo che punteggiano di rosa le vigne sparse per tutta Roma. A godere questa dolcezza Michelangelo è invitato dai suoi più cari amici, che sbalorditi si vedono rifiutare l’offerta con ragioni stupefacenti: Mich. - Voi siete in un grande errore; et per mostrarvi che voi vi siete dato, sì come noi diciamo, della scura in sul piede, con questo vostro ragionamento che havete fatto per persuadermi a venire a desinare con esso voi, sappiate che io sono il più inclinato huomo all’amar le persone che mai in alcun tempo nascesse. Qualunche volta io veggio alcuno che habbia qualche virtù, che mostri qualche destrezza d’ingegno, che sappia fare o dire qualche cosa più acconciamente che gli altri, io sono constretto ad innamorarmi di lui, et me gli do in maniera in preda, che io non sono più mio ma tutto suo. Se io, adunque, venissi a desinare con voi, essendo tutti ornati di virtù e gentilezze, oltre a quello che ciascuno di voi tre qui mi ha rubato, ciascuno di coloro che si trovasse a desinare me ne torrebbe una parte; un’altra me ne torrebbe il sonatore, un’altra colui che ballasse, et così ciascun degli altri n’harebbe la parte sua. Talchè io, credendo per rallegrarmi con voi recuperarmi et ritrovarmi, si-come voi diceste, io tutto quanto mi smarrirei et perderei, di sorte che poi, per molti giorni, io non saprei in qual mondo mi fussi. (...) Et vi ricordo che a voler ritrovare et godere sè medesimo, non è mestiero pigliare tante dilettationi et tante allegrezze, ma bisogna pensare alla morte. Questo pensiero è solo quello che ci fa riconoscere noi medesimi, che ci mantiene in noi uniti, senza lassarci rubare a’ parenti, agli amici, a’ gran maestri, all’ambitione, all’avaritia et agli altri vicij et peccati che l’huomo all’huomo rubano et lo tengono disperso et dissipato, senza mai lassarlo ritrovarsi et riunirsi. 379

Et è maraviglioso l’effetto di questo pensiero della morte, il quale – distruggendo ella per natura sua tutte le cose – conserva et mantiene coloro che a lei pensano, et da tutte l’humane passioni li difende; la qual cosa io mi ricordo haver già assai acconciamente accennato in un mio madrialetto, nel quale, ragionando d’Amore, conchiusi che da lui niuna altra cosa meglio che il pensier della morte ci difende. (...) Non pur la Morte, ma ’l pensier di quella Da Donna iniqua et bella Ch’ogni hor m’ancide, mi difende et scampa. Et se tal’hor m’avvampa Più che l’usato il foco in ch’io son corso, Non truovo altro soccorso Che l’immagin sua ferma in mezzo al core. Che dov’è Morte, non s’appressa Amore6.

Dalla poesia trapela tutta la disperazione con la quale l’artista si aggrappa al pensiero della morte per non soccombere alla perdita di sé provocata dal coinvolgimento amoroso. Ma a quel punto della propria vita, Michelangelo doveva essere ben contento di averla sottratta agli accidenti quotidiani per collocarla in un Olimpo dove regnava ormai da solo.

3. Proposte di matrimonio Tra la stima e la devozione del suo esclusivo circolo sociale e l’amore sempre più forte del suo coetaneo Paolo III, Michelangelo poté assistere all’ascesa del suo prestigio mondano dopo aver toccato i vertici dei riconoscimenti artistici. La sua vita romana, tutta incentrata sulla coltivazio380

ne del talento artistico ed intellettuale, finì in questi anni per essere sempre più separata dalla vita familiare fiorentina, afflitta perennemente dai contrasti con parenti di cui non riusciva a fidarsi. Ma non sembra esservi dubbio che la passione più forte fosse quella per i terribili parenti, che coinvolgeva istinti più viscerali. La ricerca di una moglie per il nipote Leonardo diventò ben presto l’obiettivo più delicato della strategia di ascesa familiare. Le preoccupazioni spirituali condivise con personaggi di grandissima elezione non distolsero Michelangelo dalle miserie che lo avevano tormentato per l’intera vita e la ricerca di una moglie degna del nome dei Buonarroti, che segnasse il traguardo della casata, diventò l’ossessione che lo teneva sveglio di notte e che illuminava impietosamente la sua fragilità e la sua solitudine. Voleva che il nipote si sposasse al più presto, così da continuare la dinastia dei Buonarroti e dare senso ai sacrifici fatti nel corso di tanti anni. La feroce misoginia, coltivata per tutta la vita, esplose in questa circostanza, quando Michelangelo si sentì coinvolto al punto da immaginare di essere lui stesso a dover prendere moglie. La naturale diffidenza diventava inarginabile quando l’affare aveva per oggetto una donna, da cui però dipendeva il vantaggio dell’alleanza sociale. L’opinione che il vecchio artista aveva delle donne traspare dai consigli elargiti al nipote: è bassissima e spiega più che bene la sua scelta di tenersene lontano per tutta la vita. Del tutto indifferente a quell’amore che aveva cantato negli ultimi anni, quasi sempre per degli uomini, voleva per il nipote una donna non bella e neppure ricca; ma nobile sì: di un ceto che permettesse alla famiglia uno scatto sociale verso l’alto. 381

Era riuscito a sposare la nipote Francesca a un Guicciardini e questo lo aveva soddisfatto. Ma la scelta per Leonardo era molto più complicata, perché da essa dipendeva il futuro della casata. Le donne belle e ricche tendono, spiegava Michelangelo, a prevalere sull’autorità del marito e a perdersi nelle frivolezze se non nel vizio, considerata la loro natura debole. Anche un difetto fisico è tollerabile, purché la donna sia sottomessa e dedita unicamente alla famiglia, alla cura della discendenza e all’amministrazione oculata del patrimonio7. Una convinzione del genere poteva maturare soltanto in un uomo radicalmente indifferente alla bellezza femminile. Da Firenze arrivavano direttamente a lui proposte di matrimonio. E lui le vagliava, per quanto gli era possibile, prima di girarle al nipote. Leonardo, dal canto suo, non era un modello di rettitudine: amava la bella vita e non disdegnava frequentazioni poco lecite, scatenando la rabbia dello zio che non si era concesso niente nell’ansia di accumulare sostanze e di riscattare la famiglia. La ricerca della moglie per Leonardo, quasi fosse in ballo il suo stesso futuro, si incrociò del resto dopo il 1546 con altri eventi dolorosi, che precipitarono il vecchio artista in una disperazione sempre più cupa. Nel 1546 morì Luigi del Riccio, più che un amico un protettore e un mediatore della sua scontrosa personalità. Perfino il papa era disperato, perché senza la sua mediazione le relazioni con Michelangelo diventavano problematiche. La morte dell’amico e consigliere non poteva arrivare in un momento meno opportuno: in quegli stessi mesi, il figlio del papa Pierluigi Farnese, diventato duca di Parma e Piacenza, 382

tentò di sottrargli il munifico appalto del ponte sul Po. Pierluigi – che nel 1545 i corrispondenti da Roma dell’imperatore descrivevano come l’uomo più abominevole del mondo8 – aveva riempito di raccapriccio l’Italia intera per le imprese scellerate condotte sotto la protezione di suo padre. Non fu dunque inattesa la manovra che intraprese per ridare ai vecchi beneficiari la rendita del Po, per poi poterla più facilmente reincamerare come duca di Piacenza. La reazione di Michelangelo a questo sopruso fu immediata e radicale: sospese subito i lavori di decorazione della Cappella Paolina e cominciò a tempestare di proteste e lamentele il papa. Per fortuna Paolo III, che amava fuor di misura Michelangelo e che si considerava forse come lui un testimone di tempi definitivamente tramontati, non consentì neppure al figlio, per il quale si era piegato ai disegni più nefasti, di molestare il vecchio artista. Pretese quindi da Pierluigi la rinuncia al suo disegno, soprattutto dopo che la morte di Antonio da Sangallo il Giovane aveva lasciato vacante la carica di architetto di San Pietro, che soltanto Michelangelo poteva occupare senza che l’impresa sprofondasse in un fallimento ancora maggiore e più scandaloso di quello in cui versava da vent’anni. I corrispondenti di Pierluigi a Roma registrarono puntualmente le furiose rimostranze di suo padre contro le manovre per espropriare l’artista della rendita del Po. I loro resoconti raccontano di un Michelangelo ben deciso a difendere i suoi interessi economici: «N.S. discorse che, se mai s’ebbe bisogno di lui, si ha ora, massimamente per la fabrica di San Pietro, e per il Palazzo qua, essendo morto il Sangallo: et se mai fu difficultà a intrattenerlo et a re383

durlo, è adesso; essendo morto quel messer Luigi, il quale lo governava, et era mezzo di condurlo a i disegni di S.Beat.ne»9. A settantuno anni, Michelangelo Buonarroti teneva così in ostaggio con il suo talento la Chiesa di Roma, che si doveva ora confrontare con l’impresa più impegnativa del secolo: la fabbrica del nuovo San Pietro. Ma neppure il papa sapeva come trattare il vecchio dispotico e si affannò a prevenire ogni contrasto che lo potesse alterare, considerando saggiamente che il talento è l’unica risorsa che non si può prelevare dagli uomini con la forza e con l’astuzia. Il perfido Pierluigi, sprezzante, si vide costretto ad abbandonare il suo disegno e dispose la fine di quella vicenda, dettando al suo portavoce un ordine secco e insolente: «Trovatelo, et ditegli in nostro nome che riputiamo che ci facci torto a confidare così poco de l’affettione che li portiamo, et havemo portata sempre»10. Come se fosse stato facile per qualsiasi uomo anche meno diffidente di Michelangelo fidarsi di un criminale come lui, uno che aveva sodomizzato un giovane vescovo facendolo poi morire di dolore, uno a cui neppure il talento accondiscendente di Tiziano riuscì a mascherare i segni della sifilide e della perversa malignità. Purtroppo la vicenda era destinata a concludersi in maniera comunque disastrosa per Michelangelo. Il 10 settembre 1547 Pierluigi cadde massacrato dai pugnali di un gruppo di congiurati armati da Ferrante Gonzaga, fratello del cardinale Ercole e uno dei principali e più amati collaboratori dell’imperatore Carlo V. Il ducato che i Farnese si erano appena annessi sottraendolo alla Chiesa passò con tutti i suoi benefici in podestà di Carlo V. Ma Michelangelo ven384

ne risarcito dal papa con un altro beneficio ecclesiastico nelle terre di Romagna. In quegli stessi mesi un’altra perdita gravissima aveva colpito il vecchio artista: la morte di Vittoria Colonna, spentasi a Roma il 25 febbraio del 1547. Quella morte privò Michelangelo di un solido sostegno affettivo e di un interlocutore importante per contenere le profonde inquietudini attraversate dalla sua tormentata devozione. Era a quel punto proprio all’inizio dell’ultima grande impresa della sua vita, che si rivelò subito un campo di battaglia durissimo: la continuazione della fabbrica di San Pietro.

4. La «fabrica di Santo Pietro» Alla morte, nel 1546, di Antonio da Sangallo il Giovane, che per anni era stato il direttore del cantiere di San Pietro, c’era un solo uomo a Roma che poteva prenderne il posto. Era naturalmente Michelangelo, e Paolo III lo investì dell’incarico già nel novembre 1546. Intorno alla fabbrica vaticana si erano consolidati negli anni interessi enormi, legati agli appalti dei materiali e all’arruolamento delle maestranze e gestiti da decenni dal gruppo di artisti e imprenditori fiorentini con i quali Michelangelo si era scontrato già ai tempi dei progetti per San Lorenzo. Le risorse assorbite dalla costruzione di San Pietro rischiavano di mandare in bancarotta la Camera Apostolica e gli sprechi alimentavano uno scandalo internazionale sul quale non mancavano di soffiare i luterani, che potevano così dimostrare l’avidità e la corruzione della Chie385

sa di Roma. La stessa Riforma poteva dirsi in definitiva iniziata con la costruzione della nuova basilica di San Pietro, quando Leone X aveva concesso un’indulgenza straordinaria a chi versava un obolo ad essa destinato, affidando ai Fugger la riscossione dei tributi. Gli esattori dei Fugger si erano dimostrati poco delicati nel propagandare quell’indulgenza, e Lutero se ne era talmente scandalizzato da avviarsi alla rottura con Roma. L’Europa si era divisa e la lotta di religione aveva fatto così tanti morti che la nuova basilica, se mai fosse stata completata, non sarebbe riuscita a contenere tutti i cadaveri di quelle guerre. L’ultimazione della fabbrica era diventata una priorità politica che andava molto oltre le questioni architettoniche. Ma era pur vero che per concludere l’impresa quelle questioni andavano risolte. Poco dopo aver ricevuto l’incarico, Michelangelo ricevette da Firenze una lettera che lo informava dei veleni sparsi dai capomastri della «setta sangallesca», come chiamava gli imprenditori fiorentini amici dei Sangallo foraggiati per lungo tempo da quel cantiere, intorno al suo incarico. Diventò subito consapevole delle difficoltà spaventose che doveva superare. Nel maggio 1547 erano già iniziate le manovre per screditarlo, intraprese da un gruppo di architetti tra cui quel Nanni di Baccio Bigio che Michelangelo aveva estromesso dal cantiere di San Pietro e che ora presentava il conto rovesciandogli addosso una quantità di infamie che gli rendevano molto difficile governare l’impresa. La considerazione goduta da Michelangelo come pittore e come scultore non impediva ai suoi nemici di accusarlo di dilettantismo in architettura e di incapacità imprenditoriale. A Roma perfino gli dèi perdeva386

no facilmente gli altari, se contrastavano troppo con gli interessi economici. Per Michelangelo fu un colpo durissimo, anche perché i suoi rapporti con gli ambienti professionali fiorentini e romani erano avvelenati dai comportamenti poco limpidi che aveva tenuto nei loro confronti nei decenni passati. Tuttavia il vecchio artista caricò il suo impegno per San Pietro di valenze devote che si sposavano perfettamente con il fervore religioso di quegli anni e s’impegnò con tutte le sue forze a portare a termine l’impresa tra difficoltà sempre maggiori. Aveva un bell’affannarsi contro di lui la «setta sangallesca»: Paolo III era convintissimo che solo lui avrebbe potuto portare la Chiesa fuori dal pantano e la fabbrica a compimento con dignità. Lo aveva detto a un amico di suo figlio, Fabio Coppalati, che lo registrò in una lettera del novembre del 154611. Sicuro dell’appoggio incondizionato del papa e della sua fede in Cristo, Michelangelo si presentò alla Congregazione della Fabbrica il 25 febbraio 1547 e dettò le sue condizioni, drastiche come al solito ma irrinunciabili, ai faccendieri romani: Nostro Signore me ha mandato a dire per uno suo parafrenero che io dovesse venire in questa congregatione per fare sapere alle Signorie Vostre quello che io voglio. Da poi che Sua Santità me ha dato carico della fabrica di Santo Pietro, io dico che non voglio che altri se ne impaccia si non io, et che non si faccia altro che quello che ms. Giovanbaptista qui dirà da parte mia. – voltandosi a detto ms. Giovanbaptista – Et non voglio che si gli habbino da fare nella fabrica tanti inganni et robbarie, che intendo che il medesimo che è venditore di tevertine, è quello che fa il patto; et non voglio che si muri con altra calcia, pretre et puzolana, che quella mi piacie a me12. 387

L’intransigenza di Michelangelo appare quasi visionaria nella Roma corrotta di Paolo III, ma la brutalità delle sue parole quel giorno era frutto anche del dolore straziante per l’agonia dell’amica adorata, Vittoria Colonna, che stava per morire proprio in quelle ore non lontano dal luogo di quella cinica contrattazione. Nella Roma spolpata dai faccendieri, Michelangelo si apprestava a un’impresa che non aveva precedenti e che faceva sembrare futile persino la dipintura del Giudizio Universale e della volta della Sistina: moralizzare il più ricco appalto pubblico del secolo. Era stato del resto testimone diretto della nascita del nuovo San Pietro ai tempi di Bramante e Giulio II. E proprio nella nuova basilica doveva essere inizialmente collocata la tomba progettata per il papa Della Rovere. Sapeva che quell’edificio era nato per emulare le costruzioni degli antichi e che per questo era stata scelta la grandiosa pianta centrale: un tempio all’antica era stato ritenuto il modo più appropriato per onorare l’apostolo Pietro. La pianta bramantesca aveva la forma di una croce inscritta in un quadrato, resa complessa da grandi deambulatori che dilatavano lo spazio intorno al coro e ai bracci del transetto. Bramante aveva subito iniziato la costruzione del coro e del deambulatorio corrispondente, demolendo l’abside della vecchia basilica costantiniana. Ma alla morte di Giulio II e di Bramante l’impresa era passata a Leone X e a Raffaello, che sotto la spinta del papa allungò e ingrandì la basilica fino a coprire interamente lo spazio occupato longitudinalmente dall’antica costruzione, consacrando in questo modo l’intero terreno dedicato anticamente al martire. 388

Fig. 16. Étienne Dupérac, pianta di San Pietro secondo il progetto michelangiolesco.

L’impresa procedette in questa direzione nel secondo decennio del secolo, ma con la crisi di Leone X e il sacco di Roma apparve evidente che non si poteva portare a termine la fabbrica seguendo il grandioso progetto bramantesco. Venne quindi affidato a Baldassarre Peruzzi il compito di ridurre la costruzione. Ma l’elezione di Paolo III nel 1534 segnò un ritorno alle grandi idee. Anche contro la volontà di Antonio da Sangallo, a cui nel frattempo era stata affidata l’impresa, il papa impose la costruzione di grandiosi ambulacri che rendessero immenso lo spazio interno della chiesa. Per cogliere l’effetto che avrebbe avuto questo progetto se fosse stato realizzato, si può immaginare di entrare nell’odierno San Pietro, già colossale, e vedere moltiplicato lo spazio al di là delle attuali pareti, con l’impressione di abbracciare oltre il coro e oltre il transetto altri spazi altrettanto giganteschi. Pur essendo contrario a quell’eccessiva grandiosità e pur desiderando eliminare gli ambulacri di Bramante, Antonio da Sangallo fu forzato suo malgrado a conservarli. Tentò però di trovare soluzioni agli altri problemi lasciati aperti da quella pianta, come la costruzione di una loggia delle benedizioni in facciata dalla quale il papa potesse rivolgersi alla folla, o la copertura di tutta l’originaria lunghezza della basilica costantiniana, diventata un’urgenza cultuale. Le sue risposte furono più che convincenti, perché aggiunsero un vestibolo che allungava verso la città la pianta centralizzata. Ma sotto il pontificato di Paolo III il cantiere rimase paralizzato dalla sua stessa grandiosità e dalle troppe esigenze che doveva ricomporre. Si trattava di rispettare una filologia classicista e le interpretazioni che ne avevano dato i diversi 390

architetti succedutisi, conciliando al tempo stesso le esigenze creative con quelle costruttive (tutt’altro che irrilevanti) e soprattutto con i desideri dei papi, legati in parte al culto ma soprattutto al delirio di grandiosità che li spingeva a unire il proprio nome al più grande edificio della cristianità. In questo clima gli sprechi avevano raggiunto livelli scandalosi e tutti cominciavano a sentire che la fabbrica stava diventando uno dei principali problemi politici del papato di Roma. Alla morte di Sangallo la situazione appariva molto difficile. San Pietro era un’enorme carcassa bucata di mattoni, molto più vicina a una rovina che a una fabbrica. Paolo III se ne sentiva comunque il padre e nel 1545 si fece ritrarre da Giorgio Vasari, sulle pareti del Palazzo della Cancelleria Apostolica, di fronte allo scheletro in costruzione, per celebrare come novello Ercole la sua fatica maggiore. Ma proprio in quei mesi era sempre più chiaro che mancavano i fondi per terminare l’impresa: anche per comprare l’assenso dell’imperatore Carlo V al suo disegno nepotista, il papa si era impegnato a versargli enormi contributi in denaro per sostenere le sue guerre contro la Lega di Smalcalda. In una situazione di crisi disperata, Michelangelo ebbe comunque l’autorità per imporre quelle scelte che agli altri maestri erano state vietate. Capì che gli ambulacri da poco costruiti s’inserivano in un progetto troppo grandioso e che avrebbe comportato la rovina di gran parte dei palazzi vaticani e ne impose la demolizione tra mille polemiche. Le resistenze ad abbattere ciò che era stato appena edificato furono tantissime, ma Michelangelo ebbe la testardaggine di convincere l’intera corte che quel sacrificio sarebbe stato nel tempo un guadagno, perché avrebbe permesso di risparmia391

re milioni di scudi e di portare a termine la fabbrica. Contro il parere di tutti, anche questa volta ebbe la meglio! Nonostante la sconfessione di uno degli elementi più caratteristici del progetto bramantesco [fig. 16], ne recuperò però quasi tutte le altre caratteristiche formali. Tornò ad una pianta centrale chiara e luminosa, abolendo il vestibolo. E tornò ad una puntuale corrispondenza plastica tra l’articolazione dell’interno e dell’esterno, recuperando perfino la travata ritmica che alternava paraste e finestre sovrapposte, inventata da Bramante e abbandonata da Raffaello e da Sangallo. Il suo debito verso l’artista che non aveva mai smesso di criticare era altissimo e per qualche momento fu addirittura tentato di riconoscerlo pur di affossare le idee di Sangallo, che da grande ingegnere qual era aveva ad ogni modo apportato grossi contributi per lo sviluppo della fabbrica, definita da Michelangelo un luogo comodo «a’ infinite ribalderie; come tener segretamente sbanditi, far monete false, impregnar monache»13. L’idea davvero innovativa di Michelangelo riguardava essenzialmente la luce, che dopo l’eliminazione dei tanti filtri immaginati dagli architetti precedenti, o forse costruiti forzatamente per motivi strutturali, poteva finalmente circolare libera nella chiesa. Michelangelo concentrò nel tamburo le spinte, facendole scaricare sui contrafforti colonnati in maniera da liberare le pareti e potervi aprire il doppio delle finestre previste dai suoi predecessori. Diminuendo in corrispondenza delle finestre anche lo spessore dei muri, la luce arrivava ora limpida e diretta nella chiesa, con un effetto di commozione del visitatore laddove prima il coinvolgimento emotivo era affidato all’effetto di penombra. Questo 392

recupero della luce è senz’altro spiegabile con la devozione di Michelangelo, che nella luce limpida e diretta leggeva l’emanazione dello spirito divino che chiama il fedele a Cristo. Accanto a questa esigenza di luminosità, in cui l’artista condensava la propria suggestione religiosa, il suo progetto esprime una piena consapevolezza del valore emblematico dell’architettura antica a cui si richiamava il progetto bramantesco. Si può dire che fu Michelangelo, dopo un intervallo di decenni, a recuperare e testimoniare la forza del classicismo del pieno Rinascimento, anche se, a differenza di Bramante, egli era consapevole che quella pianta non corrispondeva per niente all’archetipo del tempio antico, che nel frattempo aveva trovato nei trattatisti la sua perfetta sistematizzazione filologica.

5. Sopravvivere agli amici Impegnato con inesauribile ostinazione nella battaglia contro i profittatori che gravitavano intorno al grande cantiere vaticano, Michelangelo ricevette un nuovo durissimo colpo con la morte di Paolo III, che gli aveva dato totale fiducia in quell’impresa e un potere assoluto di governarla, sostenendo anche le sue posizioni più intransigenti. L’incognita sul suo successore tenne sospeso Michelangelo nei giorni freddissimi del lungo conclave del 1549. All’inizio del conclave era opinione generale che il nuovo papa sarebbe stato Reginald Pole. Ne facevano fede le scommesse dei giocatori nella strada dei Banchi, di fronte al Vaticano, e ne faceva fede l’istruzione che Paolo III aveva lasciato a suo 393

nipote, il cardinale Alessandro, pregandolo di far convergere su Pole i voti delle clientele legate ai Farnese. Dall’elezione del cardinale inglese Michelangelo avrebbe tratto di certo benefici immensi, se non altro di carattere spirituale. Ai massimi livelli, avrebbe visto affermata quella particolare devozione che gli aveva ispirato le opere dell’ultimo decennio e che fu invece immediatamente combattuta per il suo contenuto eretico. Con un papa come Pole l’incarico per San Pietro sarebbe stato un’avventura felice, con la quale avrebbe potuto coronare la sua vita di artista e di uomo. Quasi per auspicio aveva dipinto le pareti della Cappella Paolina, dove materialmente si teneva il conclave. Purtroppo le cose presero una piega bruttissima. Dopo le prime votazioni, che diedero quasi subito la maggioranza a Pole, il suo principale avversario, Giampietro Carafa, che per risolvere le controversie religiose aveva scelto l’Inquisizione e non la dialettica, si decise ad uscire allo scoperto con un’accusa violentissima di eresia contro il cardinale inglese. La mattina del 5 dicembre 1549, sicuro che alla votazione successiva Pole avrebbe guadagnato il papato e lui la rovina, Carafa entrò in conclave accusandolo di eresia luterana. Portava due prove pesanti come macigni: il suo allontanamento dal Concilio di Trento in occasione della votazione sul decreto della giustificazione e la sua partecipazione alla stesura del libretto eretico del Beneficio di Cristo. Le accuse colsero nel segno e l’elezione di Pole sfumò rapidamente, aprendo una lacerazione destinata ad allargarsi negli anni successivi. Dopo una serie di complesse e intricatissime trattative, la scelta cadde sul cardinale Del Monte, eletto con il nome 394

di Giulio III. Il nuovo papa era persona carnalissima e incline alla cultura paganeggiante che aveva dominato la scena e la formazione degli uomini degli inizi del secolo. Erano comunque caratteristiche che lo dovevano portare inevitabilmente ad incontrarsi con Michelangelo, il quale, sia pure con altro rigore, poteva vantare un’identica formazione umanistica e un’identica passione per l’arte. Uno dei primi provvedimenti di Giulio III, tra lo scandalo generale, fu la nomina a cardinale di un suo giovane protetto, raccolto letteralmente dalla strada, di cui non si conoscevano neppure i natali. Per il resto il papa sembrò subito interpretare il suo ruolo come i predecessori del primo Rinascimento. Iniziò la costruzione a San Pietro in Montorio di due splendide tombe di famiglia, affidate a Vasari e all’Ammannati sotto la guida preziosa di Michelangelo. E soprattutto iniziò la costruzione di uno dei monumenti più belli e sfarzosi del Cinquecento, la Villa Giulia fuori Porta Flaminia, dove alcuni visitatori dell’epoca lo videro prendere un bagno nudo in giardino attorniato dai paggi. Per lo stile architettonico, per le decorazioni pittoriche e per l’impianto tipologico, la villa si richiamava espressamente alla Villa Madama costruita da Raffaello per Leone X proprio sulla collina di fronte. Giulio s’illudeva ancora che fossero possibili, nella Roma degli anni Cinquanta, gli stessi ozi favolosi che si erano concessi i grandi papi trent’anni prima. Con il nuovo papa Michelangelo aveva in comune la passione per il bello e la loro amicizia divenne ancora più solida di quella che lo aveva legato a Paolo III, al punto che l’artista, settantacinquenne ma sempre attentissimo al denaro, sperò di veder aumentato il suo salario. Dopo la per395

dita del passo sul Po, Paolo III gli aveva assegnato quale beneficio l’Ufficio del Notariato di Romagna, che fruttava una ventina di scudi al mese, meno dei 50 del passo ma pur sempre una somma considerevolissima. Questa entrata continuava ad essere integrata dai 50 scudi di salario mensile che Michelangelo riceveva direttamente dalle casse vaticane, sicché il salario annuale su cui poteva contare ammontava alla mirabile cifra di 837 scudi. Nell’agosto del 1550, appena dopo l’insediamento di Giulio III, Michelangelo chiese comunque al nipote Leonardo di mandargli da Firenze i due brevi di Paolo III con i quali gli erano stati promessi 1200 scudi all’anno. È molto probabile che intendesse mostrarli al papa per ottenere almeno quella cifra. Ma non ci riuscì, e il suo salario rimase invariato. In questo periodo si occupò quasi esclusivamente della fabbrica di San Pietro, che considerava un impegno di carattere religioso. Anche se riceveva un salario che nessun architetto della fabbrica aveva mai ricevuto prima, viveva quest’impegno professionale come un voto alla propria fede, al punto che nelle corrispondenze e nelle memorie dettate ad Ascanio Condivi in quegli anni dichiarava di non ricevere nessun compenso per quel lavoro. La bugia nasconde probabilmente la convinzione stessa di Michelangelo, per il quale il suo impegno per la fabbrica era tale che nessun salario avrebbe mai potuto ripagarlo. Del resto la sua posizione in questi anni non aveva precedenti. Se al divino Raffaello Sanzio, quarant’anni prima, il duca Alfonso d’Este si rifiutava di scrivere direttamente poiché lo considerava sconveniente, non esitando a farlo minacciare dai suoi attendenti, Michelangelo riceveva lettere del re 396

di Francia, della regina Caterina, del duca Cosimo e di numerosissimi cardinali, che si accostavano a lui con l’affetto che avrebbero usato per un loro pari. Dopo la lezione pubblica tenuta dal Varchi all’Accademia del disegno di Firenze, che aveva sostanzialmente istituzionalizzato il culto dell’artista, nel 1550 era stata pubblicata l’edizione torrentiniana delle Vite del Vasari, nella quale la biografia di Michelangelo, unico vivente, aveva un carattere fortemente agiografico. Eppure quella biografia dovette lasciare molto perplesso Michelangelo, che acconsentì a dettare una propria versione della sua lunga vita a un discepolo di non eccelso talento, Ascanio Condivi da Ripatransone, che raccolse fedelmente le informazioni del maestro e le pubblicò nel 1553. Di Ascanio Condivi si conosce pochissimo, e se non avesse legato il suo nome a quello di Michelangelo si conoscerebbe ancora meno. Fu per qualche tempo al servizio del cardinale Ridolfi, amico di Michelangelo e «patrone» dell’altro suo carissimo amico Donato Giannotti (che non dovette essere estraneo alla redazione di questa biografia, se si considera il suo genio intellettuale e la sua supervisione su tutto quanto avesse a che fare con la passione letteraria del maestro). La Vita di Condivi rappresenta ad ogni modo il primo caso di una memoria antecedente alla morte che viene data alle stampe per correggere i molti errori dell’altra biografia apparsa nella raccolta del Vasari. La vicenda denuncia da sola la considerazione in cui Michelangelo era tenuto in questi anni. Tuttavia i giorni dell’artista furono segnati dalle amarezze di sempre, prima tra tutte quelle provocategli dalla sua famiglia. Leonardo stentava ad esaudire il suo desiderio di vedere presto una discendenza dei Buonarroti. Dopo 397

otto anni d’insistenze e di affanni intorno al suo matrimonio, Michelangelo venne a sapere che il nipote aveva ingravidato la moglie di uno scalpellino. La notizia era volata dalle cave fiorentine al grande cantiere di San Pietro, dove gli operai, con grande divertimento, allentavano la fatica con il pettegolezzo e non facevano che parlare del furbo nipote e del povero zio, che aveva faticato tutta la vita per rendere più comodo il letto del nipote. Michelangelo era furioso («non vole lasciare le fatiche di 60 ani a uno che disegnia forse, dopo la morte sua, godersele com putane e com bagasce»14) e minacciò di lasciare tutti i suoi soldi agli orfani e agli ospedali, mentre sul nipote piovevano i rimproveri e le minacce degli amici e persino un ipocrita avvertimento di Urbino, che non mancava di far sapere allo zio, con le opportune cautele, ogni misfatto del nipote, così da sottrargli affetto e denari. Dal canto suo, Leonardo aveva ottime ragioni per supporre che Urbino e i garzoni che assistevano Michelangelo a Roma ne approfittassero bassamente. Le notizie circolavano incessantemente attraverso la fitta rete di maestranze che si divideva tra Firenze e Roma, avvelenate dal compiacimento della chiacchiera popolare. Urbino era diventato una sorta di figlio adottivo, al punto che alla sua morte, nel 1556, Michelangelo prese la cura testamentaria dei suoi piccoli figli Michelangelo e Giovansimone. Ma l’affetto spropositato portato a Urbino non poteva non allarmare la famiglia lontana, tanto più che Michelangelo continuava a vedere con fastidio ogni visita romana di quel nipote che pure amava di cuore, non mancando di chiamarlo «carissimo» ad ogni lettera, come raramente faceva con le persone 398

a lui vicine. Nel progetto di riscatto a cui aveva dedicato la sua vita, Leonardo e la famiglia fiorentina erano collocati nella sfera del dovere sociale e familiare. Ma ora quel progetto finiva per mostrarsi lontano ed astratto, anche se sulle sue finalità Michelangelo non avrebbe avuto cedimenti fino all’ultimo giorno. La vita quotidiana, il sostegno affettivo di ogni giorno, era invece rappresentato da Urbino, che lo accudiva come un figlio, come un servo e come un assistente, occupando una posizione di assoluta preminenza in quella strana compagnia che era la casa del Macello dei Corvi. La sua preminenza si manifestava anche con l’assoluto controllo mantenuto dal furbo marchigiano sui nuovi personaggi ammessi vicino al vecchio maestro. A partire dagli anni Cinquanta, quasi tutti i servitori di Michelangelo arrivarono dal paese di Urbino, incluso quell’Antonio del Francese che sarebbe rimasto fino all’ultimo accanto al maestro anche perché, morto Urbino, nessuno poteva più ostacolargli quella intimità. Nel suo piccolo, Urbino diventò un centro di smistamento importante delle clientele che ruotavano attorno a Michelangelo. Troviamo un importante capomastro, Cesare di Casteldurante, suo parente, perfino nella fabbrica di San Pietro, e individuato come uno dei pochissimi di cui il maestro si poteva fidare. Il rapporto con Firenze e la famiglia era reso difficile anche dall’ostinazione con la quale la fortuna sembrava voler negare a Michelangelo la gioia della discendenza. Il figlio di Leonardo, Michelangelo, nato nell’aprile del 1554, morì pochi mesi dopo. Il dramma non sembrò toccare il vecchio artista se non nei suoi riflessi «dinastici». 399

Negli anni successivi, l’arrivo di un altro nipote lo rasserenò almeno su questo fronte. Anche negli anni del papato di Giulio III, e a dispetto degli onori tributatigli, non cessarono i contrasti con i soprastanti la fabbrica di San Pietro e con gli enormi interessi economici che ruotavano intorno al cantiere. Stando a una lettera del Vasari, Michelangelo lo aveva liberato in quegli anni dai ladri e dagli assassini. Ostinatamente deciso a controllare fin nei dettagli i lavori, le partite di calce, le partite di mattoni e di pietre, l’abbozzo dei capitelli e delle cornici, questo vecchio, che molti consideravano un pazzo e che aveva messo come condizione del suo incarico un potere assoluto e indiscutibile, era diventato l’incubo delle maestranze che lavoravano a San Pietro. Il suo perfezionismo e la sua sapienza erano il peggior castigo che si potesse immaginare per i disinvolti architetti, capomastri e imprenditori romani. Non stupisce dunque che più volte si sia tentato di metterlo in crisi quando un passaggio costruttivo risultava particolarmente difficile. Michelangelo, nonostante l’età, non mostrava nessuna intenzione di allentare il controllo ossessivo sul faraonico cantiere: a quell’impresa si sentiva anzi sempre più legato, al punto che ottenne di far nominare soprintendente della fabbrica uno dei «parenti» di Casteldurante, quel Cesare che viveva a casa sua e poteva ragguagliarlo quotidianamente sull’andamento dei lavori. Dopo lo scialo dell’epoca sangallesca, gli imprenditori romani non potevano avere penitenza maggiore. In questa lotta durissima, che era anche lotta per un’idea di fede, Michelangelo vide progressivamente diradarsi gli 400

amici che lo avevano sostenuto negli anni più difficili e che adesso dovevano apparirgli anche i più belli della sua vita. Non per distrazione o per infedeltà, ma perché il loro tempo scadeva inesorabilmente o, come nel caso dell’incauto Cesare, il povero capomastro che lo assisteva tra la casa e le ciclopiche impalcature di San Pietro, perché non riuscivano a contenere i richiami della carne e si facevano sorprendere da mariti gelosi tra le gambe di mogli disinvolte. Le tre coltellate del marito furioso furono fatali al Cesare, mentre le quattro inferte alla moglie non bastarono ad ucciderla. Ma per Michelangelo quella leggerezza significò la perdita di uno degli strumenti più efficaci di controllo sull’immenso cantiere. Luigi del Riccio lo aveva lasciato nel 1546. Nel 1547 lo aveva lasciato l’unica amica della sua vita, Vittoria Colonna, circondata da un alone di leggenda e di sospetto sulla sua fede eretica che andava aumentando con il passare degli anni. Nel 1551 lo abbandonò anche Reginald Pole, diretto prima al suo monastero di Verona e poi in Inghilterra per aiutare la regina Maria nel difficile tentativo di recuperare il paese all’ortodossia cattolica. Con la sua partenza si frantumò e si disperse quel gruppo degli Spirituali che aveva avuto tanta importanza per Michelangelo non soltanto sul piano religioso, ma anche su quello esistenziale. In quel gruppo si era scelto amici carissimi, come Ludovico Beccadelli, che insieme al cardinal Morone raggiunse Augusta nel 1555 per tentare un ultimo dialogo con i protestanti, sperando in una riconciliazione inseguita per tutta la vita. Beccadelli sarebbe stato in seguito esiliato a Ragusa, lontano dall’aria repressiva della Curia di Roma. 401

Ma le lettere che i due amici si scrivevano ancora nel 1557 parlano sempre della loro passione religiosa, velata ormai inesorabilmente dalla malinconia della sconfitta e dalla struggente nostalgia per gli anni in cui erano ancora tutti insieme e vicini: gli anni passati a Viterbo e a Orvieto a sognare un mondo nuovo che ormai sapevano non sarebbe più arrivato. «Desidero intendere che Vostra Signoria stia bene del corpo, ché dell’animo son certo non può star male, sapendo quanta prudenza e pietà li tengano del continuo compagnia; le quali non la lassaranno turbare per gran tempesta che faccia questo procelloso pelago del mondo»15. La tempesta era naturalmente quella scatenata dall’odioso nemico comune, Giampietro Carafa, diventato papa nella primavera del 1555 con il nome di Paolo IV e impegnato in una furiosa lotta alle idee condivise dagli amici ora lontani. Lo scompaginamento del gruppo degli Spirituali segnò anche l’incrinarsi di uno dei centri di maggior potere politico della Curia, presso il quale Michelangelo aveva goduto delle protezioni più alte. La mancata elezione di Pole e il suo allontanamento da Roma furono accompagnati dall’ascesa del nemico principale del gruppo, il cardinale Giampietro Carafa, che già da anni lo considerava il centro più infetto della diffusione eretica in Italia. Perso nel teatro delle sue nostalgie classiciste, Giulio III assicurò una protezione solo momentanea a Michelangelo e agli Spirituali, mentre la contrattazione politica di Carlo V con i principi protestanti mantenne ancora un equilibrio precario tra le confessioni europee almeno fino alla pace di Augusta del 1555. Ma Giulio III non era in grado di contrastare seriamente il lavoro 402

ossessivo e martellante di Carafa e del suo tribunale dell’Inquisizione. Mentre dieci anni prima Pole e i suoi amici scrivevano libri, Carafa aveva estorto a Paolo III il permesso di aprire a Roma un Tribunale del Sant’Uffizio. Senza aspettare i finanziamenti della Curia, nonostante fosse tanto povero da implorare una pensione dall’imperatore, era corso a spendere i pochi soldi rimastigli per comprare egli stesso gli strumenti di tortura e i chiavistelli da mettere alle porte del palazzo che gli era stato assegnato per quello scopo. Il tempo confermava che aveva avuto ragione lui. I libri di Pole e degli Spirituali erano ricercati per essere bruciati, mentre le confessioni estorte dalle torture dell’Inquisizione andavano ad accrescere i fascicoli segreti del Tribunale, con il quale Carafa era in grado di ricattare ormai tutti e di condizionare la politica della Sede Apostolica. Il passo principale era stato realizzato nel drammatico conclave seguito alla morte di Paolo III. Poi la strada era stata tutta in discesa. La lontananza di Pole aveva lasciato campo libero alla costruzione del processo che Carafa preparava contro di lui e i suoi amici. A nulla era servita la fama sempre crescente del cardinale inglese, che stava recuperando la sua patria al cattolicesimo sotto la protezione caldissima non soltanto della regina, ma anche dello stesso imperatore Carlo V e di suo figlio Filippo. Il clima di sospetto a Roma e in Italia si fece opprimente già dopo il 1550 e questo potrebbe spiegare la versione particolarissima che Michelangelo dettò ad Ascanio Condivi (suggerita forse dal Giannotti) riguardo alle ultime statue della tomba di Giulio II, scolpite nel momento di massima 403

vicinanza agli Spirituali. Diventava ora molto pericolosa l’allusione espressa nella Vita Attiva alla particolare concezione delle opere come strumento d’illuminazione della vera fede, ma non come strumento di salvazione, smentita ormai dal decreto tridentino del gennaio 1547, che aveva visto un Pole sconfitto abbandonare alcuni mesi prima l’assemblea per non dover votare quella che considerava una decisione profondamente ingiusta. Molto a proposito, quindi, la biografia di Condivi sviava sospetti di vario tipo addensatisi sulla carriera di Michelangelo, che proponeva una lettura della statua descritta come la «Vita attiva, con uno specchio nella destra mano, nel quale attentamente si contempla, significando per questo le nostre azioni dover essere fatte consideratamente, e nella sinistra con una ghirlanda di fiori. Nel che Michelagnolo ha seguitato Dante, del qual è sempre stato studioso, che nel suo Purgatorio finge aver trovato la contessa Matilda, qual egli piglia per la Vita attiva, in un prato di fiori»16. Inutilmente si cercherebbe questa scultura nella tomba di Giulio II in San Pietro in Vincoli, perché non c’è! C’è invece una donna che ha nella mano destra una corona di alloro e nella sinistra regge un oggetto che in nessun modo può essere considerato uno specchio, dal quale distoglie prudentemente gli occhi per non bruciarseli, trattandosi con ogni evidenza di una piccola lucerna. Se non serviva a comprenderla, la spiegazione insolitamente lunga dedicata da Condivi alla Vita Attiva serviva però a spostarla dalle pagine pericolose del Beneficio di Cristo, sua vera origine, ai prati del Purgatorio dantesco, un libro che non poteva in nessun modo essere accusato di eresia. L’espediente, nella Roma del 1553, era più che giustificato. 404

6. Paolo IV, il nemico Purtroppo il modo con cui Michelangelo prese le distanze dall’opera che più di altre ricordava i suoi legami con la cerchia di eretici a cui il Tribunale dell’Inquisizione dava la caccia con sempre maggior accanimento non servì a molto. Eletto papa nell’aprile del 1555, Giampietro Carafa aveva fatto della lotta all’eresia la sua ragione di vita e non lasciò alcun dubbio sulle sue intenzioni repressive. Del resto non ci si poteva aspettare clemenza da un uomo il quale aveva dichiarato che avrebbe bruciato anche suo padre, se lo avesse saputo eretico. E infatti clemenza non fu riservata neppure a Michelangelo. I rapporti dell’artista con la cerchia di Pole erano troppo noti al Carafa, che aveva accumulato dettagliate informazioni su tutto il circolo e su tutti gli amici di Michelangelo. Quest’ultimo ricopriva però un incarico determinante per le finanze e per la propaganda cattolica. Vecchio quasi quanto Michelangelo, il nuovo papa ne conosceva benissimo il punto debole e lo colpì immediatamente proprio nei suoi interessi economici, bloccandogli la sostanziosa provvisione pecuniaria. Lo fece subito, il primo giorno che fu eletto, come se non avesse aspettato altro da anni17. Il lunghissimo registro contabile delle entrate di Michelangelo presenta per gli anni del papato di Paolo IV un drammatico zero alla voce delle entrate. Per la prima volta nella sua vita, Michelangelo non ricevette dalla Chiesa di Roma nessuna retribuzione per il suo lavoro e scomparve dalla posizione altissima che occupava ormai ininterrottamente, da ben vent’anni, nella contabilità della Camera Apostolica. Per l’artista ottantenne furono giorni terrifi405

canti almeno quanto quelli della segregazione fiorentina, privi per di più del sostegno della giovinezza. Dalle vette che aveva raggiunto precipitò in una posizione debole e precaria, in un momento in cui personaggi anche più in alto di lui si videro consegnati alla disgrazia e addirittura alla morte dalla furia inarrestabile del fanatico Paolo IV. La punizione economica, la più crudele per Michelangelo, rischiava del resto di non essere l’unica a rovinargli gli ultimi anni di vita. Suscitando l’orrore del mondo intero, Paolo IV fece imprigionare il cardinale Giovanni Morone, fraterno amico di Michelangelo e soprattutto di Pole, con il quale aveva condiviso la guida spirituale del gruppo considerato ormai senza ombra di dubbio pericolosamente eretico. Imprigionato Morone, anche altri amici cominciarono a temere il peggio. Da Roma partì il nipote di Paolo IV con il fascicolo raccolto contro Pole dall’Inquisizione, per convincere Filippo II di Spagna e la regina Maria d’Inghilterra, che lo proteggevano, a consegnarlo al Tribunale del Sant’Uffizio. Entrambi opposero resistenza e la situazione si risolse da sola con la morte di Sir Reginald in Inghilterra il 17 novembre del 1558. Di fronte a una furia che non arretrava neppure di fronte alle massime cariche del potere regale del continente, alla sicurezza di Michelangelo non poteva bastare la sua tarda età e il suo incarico per San Pietro, contrastato dal Carafa immediatamente con la nomina a sovrintendente della Fabbrica di Pirro Ligorio, nemicissimo di Michelangelo, nella speranza di esasperarlo ed escluderlo dall’incarico che ricopriva ormai da quasi un decennio. Con ammirevole puntualità, appena saputo dell’elezione del nuovo papa e 406

delle sue intenzioni persecutorie, Cosimo I inviò a Roma un suo ambasciatore, evitando di esporre per lettera le scabrose considerazioni con le quali invitava senza più indugi il vecchio artista a rientrare a Firenze per sottrarlo alla vendetta di un papa che non si fermava di fronte a niente e a nessuno. La visita dell’emissario arrivò a Roma alla metà di giugno del 1555, appena pochi giorni dopo l’elezione papale. Michelangelo ne scrisse poi a Vasari. Messer Giorgio amico caro, a queste sere mi venne a trovare a chasa un giovane molto discreto e da bene, cioè messer Lionardo, camerier del Duca, e fecemi con grande amore e affetione da parte di Sua S[igniori]a le medesime oferte che voi per l’ultima vostra. (...) e che pregassi Sua S[igniori]a che con sua licenzia io seguitassi qua la fabrica di Santo Pietro fin che fussi a termine che la non potessi esser mutata per dargli altra forma; perché, partendomi prima, sare’ causa d’una gran ruina, d’una gran vergognia e d’un gran pechato; e di questo vi prego per l’amor di Dio e di Santo Pietro ne preg[h]iate il Duca18.

Le motivazioni di Michelangelo erano efficacemente sintetizzate da lui stesso: la fabbrica di San Pietro era diventata il punto d’arrivo di tutte le sue aspirazioni di uomo e di artista, ben al di là delle contingenze fastidiose e miserabili della realtà quotidiana. La scelta di rimanere – nonostante tutto – a Roma era una scelta di estremo coraggio, dettata forse da un effettivo distacco dalla vita, un sentimento che si affacciava in questo periodo. Completare la fabbrica di San Pietro, o almeno condurla a un punto tale che nessuno più potesse poi modificare, diventava la conclusione di una carriera artistica che non si era mai concretizzata, come aveva desiderato, in un’opera davvero gran407

diosa, un viatico per quella salvezza dell’anima che lo tormentava da più di un decennio. La forza vitale sempre mostrata da Michelangelo nel resistere ai colpi della vita venne messa a durissima prova non soltanto da Paolo IV, ma dalla furia del destino. Nel novembre dello stesso terribile 1555 morì suo fratello Gismondo, portandosi nella tomba un pezzo importante della vita di Michelangelo che nessuno più poteva ormai testimoniare. La famiglia con cui aveva condiviso la vita era ormai sparita. Ma quel lutto appare ancora poca cosa di fronte al dolore che lo aspettava di lì a qualche mese. Il 3 gennaio 1556 morì Urbino, provocandogli un dolore che lo fece letteralmente uscire di senno, al punto che gli amici preoccupati invocarono l’intervento dei parenti fiorentini dichiarandolo in grave pericolo di vita. In quell’occasione Michelangelo affidò il suo dolore a una lettera a Giorgio Vasari, che rimane forse la testimonianza più alta di tutta la sua produzione letteraria: Voi sapete come Urbino è morto, di che m’è stato grandissima gratia di Dio, ma con grave mie danno e infinito dolore. La grazia è stata che, dove in vita mi teneva vivo, morendo m’a insegniato morire non con dispiacere, ma con disiderio della morte. Io l’ò tenuto venti sei anni e òllo trovato reallissimo e fedele, e ora che io lo’ avevo facto richo e che io l’aspectavo bastone e riposo della mia vecchiezza, m’è sparito, nè m’è rimasto altra speranza che rivederlo im paradiso (...) benchè la maggior parte di me n’è ita seco, né mi rimane altro ch’una infinita miseria19.

Per nessuno dei suoi fratelli, né per suo padre, Michelangelo aveva avuto parole di così lucida e straziante dispera408

zione. La solitudine era ormai totale e la crudeltà di Paolo IV peggiorò il suo dolore. Lo stesso amico che si prendeva cura di lui era convinto che se il papa gli avesse restituito la sua pensione, Michelangelo si sarebbe ripreso in poco tempo20. Ma i suoi nemici non mancarono di approfittare della situazione per rendergli difficile l’impresa di San Pietro, che continuava a rallentare e si fermò del tutto nel settembre dello stesso anno, per effetto della guerra dichiarata dal papa agli spagnoli che assediavano Roma. In questo clima maturò una delle tragedie più oscure della vita di Michelangelo: la distruzione della meravigliosa Pietà a cui stava lavorando da anni.

7. La «Pietà» distrutta Intorno al 1548, secondo la testimonianza di Vasari, Michelangelo stava lavorando a una Pietà di marmo nella sua casa di Macello dei Corvi [tav. 55]. Dopo quarant’anni, lo scultore si misurava di nuovo con il tema che lo aveva reso celebre: il corpo di Cristo esibito nelle braccia della madre dopo la deposizione dalla croce. In quegli anni quel tema era stato al centro di una riflessione nuova sul sacrificio di Cristo, sviluppata con particolare sensibilità dal circolo di Viterbo. Tra gli scritti più importanti e celebrati di Vittoria Colonna, troviamo proprio un Pianto sul Cristo morto che possiamo considerare a tutti gli effetti l’espressione letteraria speculare dei sentimenti condivisi con Michelangelo sulla natura del sacrificio di Cristo, tanto da poter ritenere anche questa scultura ispirata direttamente da Vittoria poco prima della sua morte. 409

Nel compianto di Vittoria21, il dolore di Maria sottolineava il valore del sacrificio che Cristo aveva fatto per salvare gli uomini. Questa particolare interpretazione del tema della pietà, nella quale è Cristo il vero centro della rappresentazione, mosse Michelangelo a ideare una composizione nella quale il corpo di Cristo non era più, come nella Pietà di San Pietro, adagiato sulle gambe della madre e sottratto in parte allo sguardo dell’osservatore, ma mostrato frontalmente in tutta la sua potenza comunicativa. La volontà di esaltare principalmente il corpo del Salvatore spinse Michelangelo a dare vita a una composizione complessa, in cui tre figure sorreggono il corpo privo di vita. Scolpire quattro figure in un solo blocco, per giunta non allineate sullo stesso piano ma disposte su piani differenti, costituiva una prova mai tentata fino ad allora dagli scultori italiani. Il corpo di Cristo, centrato perfettamente, ricorda le parole con le quali il vescovo di Fano aveva celebrato la Pietà di proprietà di Pole nell’offrirla al cardinale Ercole Gonzaga: un Cristo «in forma di Pietà, pure se gli vede tutto il corpo». Michelangelo rappresenta il corpo in caduta, privo di forza vitale, sostenuto alle spalle da Nicodemo e a destra da Maria Maddalena. Sulla sinistra, la madre in ginocchio si sforza di arrestarne la caduta con un gesto molto drammatico, quasi volesse entrare lei stessa nel corpo del figlio per condividerne lo strazio fisico. Nella figura di Nicodemo Michelangelo ritrasse se stesso. Voleva utilizzare la scultura sulla propria tomba e voleva con questo significare il grado profondissimo di coinvolgimento nel culto di Cristo, il mezzo di salvezza degli uomini celebrato dalla teologia di Pole e della Colonna. Nell’i410

dentificazione con Nicodemo, denunciava il suo senso di colpa per non aver avuto il coraggio di celebrare più apertamente la sua pericolosa devozione. La figura del Cristo, pure priva di vita, si presentava molto bella, ancora quella di un Apollo o di un Adone dormiente con le membra perfettamente proporzionate nonostante la scompostezza impostagli dalla morte. Il dramma della crocifissione si celebrava attraverso il dolore composto di Nicodemo, di Maddalena e della Vergine, ancora fedeli ai canoni espressivi del pieno classicismo rinascimentale, che rifuggiva da drammatizzazioni eccessive ma soprattutto – ancora una volta – si celebrava attraverso la bellezza di Cristo, specchio della bellezza di Dio. Come il Vasari già sottolineava prima ancora che la scultura fosse finita, il gruppo marmoreo era il più maestoso mai realizzato da Michelangelo, per la presenza di tante figure e per la loro disposizione nello spazio. Una tale composizione poneva difficoltà tecniche di massimo grado, sia perché risultava difficile utilizzare gli scalpelli in quell’intrico di figure dove non si poteva girare intorno, sia perché occorreva calcolare perfettamente sin dall’inizio lo spazio che ognuna di loro avrebbe occupato alla fine, così da non rischiare intersezioni di piani che avrebbero guastato la scultura. Tutti questi problemi furono risolti perfettamente da Michelangelo, come dimostra lo stato attuale della scultura. La prima parte ad emergere dal blocco è il ginocchio sinistro, che coincide con il punto di massimo aggetto del blocco nella parte anteriore. Seguendo la coscia ben tornita dai muscoli rilassati, Michelangelo arriva a scolpire il ventre del giovane 411

attraversato da un perizoma tanto raffinato da poterne percepire la trasparenza: un perizoma di cotone scivolato fino al pube. Le spalle del Cristo sono sostenute dalla figura di Nicodemo, che ne esibisce anche la imponente bellezza. Il braccio sinistro in strabiliante torsione è mostrato dalla Maddalena, mentre la Vergine sostiene, come un puntone reso fermo dal dolore, la caduta del torace. Questa rappresentazione così «aperta» del corpo di Cristo serve a Michelangelo per subordinare gli altri personaggi della scena alla figura del Salvatore. Il loro unico scopo è quello di rendere visibile e libera la rappresentazione del Cristo, vero centro dell’interesse dello scultore. In questo modo, anche morto, il corpo di Cristo organizza lo spazio e il racconto. Com’era logico dal punto di vista tecnico, Michelangelo scolpì per primo il Cristo, portandolo a perfetto compimento e continuando poi con la Maddalena, con Nicodemo già quasi finito, quindi con la Madonna, sbozzata ma già compiuta nei suoi legami spaziali con il figlio. La figura del Cristo è portata ad un grado di finitura molto raro nelle sculture di Michelangelo, già levigata con la pomice e già pronta ad accogliere e riflettere quella luce che avrebbe sottolineato il fascino spirituale della statua. L’artista aveva già sperimentato lo stesso effetto nel Mosè di San Pietro in Vincoli, levigato sulla parte destinata ad accogliere e riflettere la luce diretta che proveniva dalla finestra alla sua sinistra. Proprio sulla figura del Cristo, portata a perfetto compimento e riuscita oltre ogni possibile aspettativa, si abbatté però, in un giorno cupo degli ultimi anni Cinquanta, la furia autodistruttiva di Michelangelo. Negli stessi giorni in cui tutta Roma inorridiva di fronte alla carcerazione del suo 412

amico il cardinale Morone, oppresso dalla morte di Urbino e dalla censura economica di Paolo IV, il vecchio ottantenne afferrò un pesante martello e si avventò proprio contro quel corpo meraviglioso. Prima che qualcuno potesse accorrere in suo soccorso, e soprattutto in soccorso della statua, fece in tempo a mutilarne il ginocchio sinistro, la clavicola e il braccio destro, frantumandoli in molti pezzi. Qualcuno si riuscì ad aggiustare, altri non poterono riattaccarsi. E la scultura rimase mutilata per sempre, simbolo di una coscienza straziata dal tormento e da una furia incontrollabile. L’«infinita miseria» di cui Michelangelo aveva scritto al Vasari in quei giorni era quella che trova il vecchio artista devastato dal dolore di fronte ai resti mutilati della sua opera più bella e spirituale. Era un evento troppo tragico, troppo devastante per trovare posto nella biografia dell’artista senza suscitare inquietanti interrogativi sulle vicende tormentate che lo angosciarono negli ultimi anni di vita. Giorgio Vasari ne fu perfettamente consapevole e benché nel 1564 non ricordasse neppure il numero esatto delle figure della Pietà, scrivendone come della «pieta delle cinque figure, chegli roppe»22, pochi anni dopo, nel 1568, diede alle stampe una ricostruzione debitamente purgata di quella tragedia. Nonostante la sua palese infondatezza, la ricostruzione sopravvisse al tempo perché era funzionale al mito che lo stesso Vasari aveva contribuito a creare, manipolando saggiamente gli spigoli e le oscurità della vita di Michelangelo. Le cause, spiegò, sarebbero state da cercarsi nell’insofferenza dell’artista per le pressioni di Urbino a finire la scultura e in una vena difettosa del marmo che gli rendeva difficile il lavoro. 413

Nessun documento prova che la distruzione sia avvenuta prima della morte di Urbino. Al contrario, non c’è traccia di questo evento nella corrispondenza che Michelangelo intrattenne con Vasari proprio nei giorni successivi alla scomparsa dell’amato servitore. Ma ancora più insostenibile appare il riferimento ad un «pelo» del marmo: un difetto di adesione, una piccola fessura, che avrebbe spazientito Michelangelo. Non c’è traccia di «pelo» nella scultura superstite, né si può immaginare che ve ne fosse nel ginocchio distrutto, essendo quella parte la prima ad essere ultimata perfettamente e senza nessun ostacolo (come prova lo stato di finitura dell’inguine). Nessuno può credere sensatamente che Michelangelo portasse ad un tale perfetto stato di lavorazione le gambe del Cristo per poi successivamente distruggerle a causa di difetti che, nel caso ci fossero stati, si sarebbero evidenziati all’inizio della lavorazione. Del resto, basterebbe la prova dello Schiavo ribelle del Louvre, attraversato nel volto e nel torace da una fessura evidentissima, per capire quanto Michelangelo fosse in grado di portare a compimento marmi con ben altri difetti tettonici. Il tentativo di Vasari di attribuire la furia autodistruttiva al terribile carattere di Michelangelo e alla sua decadenza senile non trova fondamento nel quadro che abbiamo dell’artista in quegli anni. E la scultura superstite è la migliore testimonianza della falsità della spiegazione vasariana: anche nello stato in cui ci è arrivata, sarebbe stata molto più finita di molte altre che Michelangelo aveva consegnato ai committenti e alla storia senza distruggerle, come fanno fede le stesse statue delle tombe medicee. Per l’investimento psicologico che un’opera d’arte porta in sé, la sua 414

distruzione si può paragonare all’uccisione di un figlio. Tanto più per un’opera così straordinaria, che comprendeva tra l’altro l’unico autoritratto dell’artista. Neppure il carattere insofferente di Michelangelo può da solo spiegare una tale crisi autodistruttiva. La storia dei mesi in cui si compì la tragedia ci dice cose diverse sulle sue possibili cause. Michelangelo aveva molti motivi per essere sopraffatto dalla disperazione: la morte di Urbino, l’elezione di Paolo IV al pontificato, che iniziò le ostilità sospendendogli la provvigione e minacciò punizioni anche più gravi come la prigione inflitta, nel 1557, al cardinale Giovanni Morone. Calata in questo quadro di totale sconfitta ideale e pratica delle sue ambizioni, l’aggressione alla Pietà, e in particolare al Cristo in essa rappresentato, lascia immaginare altri scenari, soprattutto se messa in relazione alla traccia leggendaria ma non per questo meno significativa dell’urlo scagliato contro il Mosè: «Perché non parli?». La scultura del Mosè non fu mai aggredita e non vi sono segni di martellate, ma la leggenda potrebbe aver intrecciato storie e momenti diversi di un dramma troppo profondo per essere raccontato senza rischio. Se nella furia distruttrice delle martellate il «Perché non parli?» fosse stato gridato al Cristo dell’ultima Pietà, l’episodio avrebbe un diverso significato per la storia di Michelangelo. Sconfortato dalla piega degli eventi, l’artista avrebbe chiesto a Cristo perché non intervenisse nella catastrofe religiosa e umana perpetrata da quelli che avrebbero dovuto essere i suoi più santi ministri. Ne uscirebbe diminuita la sua mitica irascibilità, che invece l’artista seppe piegare alla ragione dell’autopromozione in ogni momento importante della sua 415

vita. E si aprirebbe invece in tutta la sua drammaticità la questione fino ad oggi ancora irrisolta del suo coinvolgimento con il gruppo degli Spirituali e della sua paura di condividerne, sotto Paolo IV, la persecuzione. In questo clima di paura e di attesa di punizione visse ad ogni modo Michelangelo gli ultimi anni della sua vita. Il cantiere di San Pietro, che era per lui nello stesso tempo un voto e una garanzia di sopravvivenza, perché nessun altro era in grado di mandarlo avanti con successo e senza infliggere perdite finanziarie impossibili per la Chiesa cattolica, arrivò quasi ad essere sospeso negli anni di Paolo IV. La punizione inflittagli dal papa con la cancellazione delle provvigioni economiche fu poi ingigantita dalla minaccia di distruggere la sua opera pittorica più importante, il Giudizio Universale, già famoso nel mondo intero per le riproduzioni e le copie che circolavano. Perfino Vasari riferisce della minaccia di Paolo IV: «In questo mentre alcuni gli avevon referto che papa Paulo quarto era d’animo di fargli acconciare la facciata della cappella dove è il Giudizio universale; perché diceva che quelle figure mostravano le parte vergognose troppo disonestamente»23. Ma coprire le figure nude del Giudizio era impresa di notevole impegno da molti punti di vista, non ultimo quello tecnico, per la necessità di montare un enorme ponteggio, e si dovette aspettare una risoluzione del Concilio di Trento perché Daniele da Volterra, discepolo di Michelangelo, fosse incaricato di imbracare misericordiosamente le nudità del Giudizio deturpandole con quelle bizzarre mutande che purtroppo sono state lasciate al loro posto a irridere i dipinti anche nel recente restauro. Ma un’altra opera di Michelangelo fu cen416

surata in quegli anni, i dipinti della Cappella Paolina, dove furono coperte le nudità degli angeli che sostengono il Cristo della Conversione e il ventre originariamente nudo di san Pietro. Nei pagamenti emessi a favore di Daniele da Volterra nel 1565 non si fa nessuna menzione dei dipinti della Paolina, tanto che si può ipotizzare che Paolo IV, quando fece eseguire importanti lavori nella Cappella Paolina, non soltanto escluse Michelangelo dall’intervento, ma avendovi fatto montare i ponteggi avesse fatto eseguire direttamente quello che aveva intenzione di replicare in scala maggiore nella Cappella Sistina. Se davvero, come minacciava il papa, la pittura del Giudizio fosse stata distrutta, Michelangelo stesso sarebbe stato equiparato ad un eretico e le sue ambizioni devote spazzate via dalla condanna dell’Inquisizione. Un’intera vita passata a costruire la propria posizione di preminenza era messa a rischio dalla politica e dalle pieghe bizzarre che aveva preso la storia. La Roma desolata di Paolo IV sfiorò una nuova, immane tragedia nel 1557. I cittadini impauriti, chiusi dentro le mura, sentirono la vicinanza delle truppe spagnole, insediatesi nella pigra campagna circostante e pronte a dare l’assalto. La paura di un nuovo sacco della città era palpabile. Il vecchio artista, ormai più che ottantenne, trovò la forza di resistere e sopravvivere anche a questo nuovo incubo, facendo appello a risorse vitali che sembravano inesauribili. Mantenne con i denti le redini del cantiere di San Pietro, dove gli appaltatori fremevano per cacciarlo via e per consegnare la direzione al suo nemico più infido, l’architetto fiorentino Nanni di Baccio Bigio. Quel che restava della 417

sua meravigliosa Pietà, Michelangelo lo regalò a Francesco Bandini, l’ultimo amico rimastogli a Roma, conosciuto negli anni dell’assedio fiorentino e certamente partecipe anche lui della sua particolare devozione, visto che si era fatto tradurre in marmo un’immagine di quella Pietà tanto particolare che Michelangelo aveva dipinto per Pole e Vittoria Colonna. Ancora una volta l’intimità e la fiducia dell’artista non uscivano dalla cerchia ristrettissima con cui aveva condiviso le sue passioni più violente. La morte di Paolo IV e la successiva elezione di un papa ben disposto verso Michelangelo, Pio IV, permisero all’artista di riprendere meglio il controllo degli incarichi che gli stavano a cuore. Nel settembre del 1563 i deputati della fabbrica di San Pietro tentarono di nuovo di estrometterlo dall’incarico. La lettera con cui Michelangelo respinse l’attacco è un capolavoro di fierezza e di lucidità, che mostra quanto intatte fossero le sue facoltà mentali e le sue passioni a pochi mesi dalla morte. Ai deputati che gli avevano comunicato la decisione del papa di affidare a Nanni di Baccio Bigio l’incarico della fabbrica, rispose ironicamente: In questo caso, dico alli Signori Vostri che han fatto come le monache da Genova, perché primo han fatto quel che han voluto et dopoi me hanno avisato. Circa che sia ordine de Sua Sanctità, respondo che Sua Sanctità, se vorrà qualche cosa da me, è atto a comandarmene lui, come à fatto per altri volti; et non sto per altro in Roma eccetto per obedirlo et servirlo24.

Vicino ai novant’anni, Michelangelo non cedeva il passo a nessuno e rivelava intatta quella sostanza vitale e morale che gli aveva permesso di rappresentare per tutta la vita uo418

mini di eccezionale spessore umano, dimostrando che senza questa tempra psicologica l’arte da sola non sarebbe certo bastata a creare i Mosè, i Profeti e i Santi che ancora ci impressionano. Non erano venute meno in quei mesi neppure le sue facoltà fisiche, visto che ancora impugnava scalpello e mazzuolo per scolpire l’ultima opera che ci ha lasciato, ancora un Cristo sacrificato e ancora una madre dolorante [tav. 56]. Su un blocco rimastogli certamente da quelli intaccati per la tomba di Giulio, asportò la precedente scultura lasciandone soltanto un braccio per non sbilanciare il marmo e scavò sempre di più nella parte posteriore in cerca della nuova figura. Lo spazio esiguo rimasto nel blocco lo spinse ad assottigliare il Cristo fino a ridurne il corpo a somiglianza di un’anima dolorante. L’accidente della rilavorazione originò anche questa volta un capolavoro, l’ultimo della sua vita: il corpo del Cristo si libera di ogni impaccio inutile e arriva ad essere finalmente un sentimento puro di fronte al quale anche l’anatomia arretra. Nell’ottobre di quello stesso anno, il 1563, Michelangelo comparve una mattina sul suo cavallo morello davanti alla chiesa di Santa Maria sopra Minerva, accompagnato da due assistenti che non lo lasciavano mai: Antonio del Francese e Pier Luigi da Gaeta. La vecchiaia lo affaticava25, ma la mente era ancora lucida, anche se di quella lucidità malinconica che obbliga i vecchi vicini alla morte a ricordare la parte più lontana della propria vita. Michelangelo ricordava ancora i giorni terrificanti della congiura dei Pazzi, i delitti e la violenza che avevano segnato il bambino di appena tre anni. La Firenze che si apprestava a portare con sé nel suo ultimo viaggio era ancora la Firenze tragica e gran419

dissima delle lotte politiche per la supremazia del governo. La Firenze dell’oro scintillante e del sangue sempre in agguato appena si scrostava quell’oro. Qualche mese dopo quell’ottobre, in una giornata fredda e piovosa di febbraio, si congedò a modo suo da quella Roma che aveva servito per mezzo secolo e che aveva fatto ancora più grande senza però mai amarla davvero. Era un vecchio che arrancava solo, sotto la pioggia ghiacciata con indosso i vestiti logori che continuava a conservare gelosamente nell’armadio. Niente di più lontano da quel potere che aveva servito con le sue sculture e le sue pitture. Quattro giorni dopo, confortato dal Vangelo e dal racconto della passione di Cristo, lettagli dal suo discepolo più affezionato, morì nella casa modestissima di Macello dei Corvi. Il tenore dei suoi ultimi giorni è tutto inscritto nell’inventario dei suoi beni redatto il 19 febbraio dal notaio Roberto Ubaldini: i vestiti pochi e «frusti», «una lettiera ferrata con pagliariccio, tre matarazzi, due coperte di lana bianca et una di pelle bianche di agnello», la biancheria che i nipoti gli avevano mandato da Firenze riposta come nuova, nessun mobile di pregio, né quadri né oggetti preziosi, ma vennero fuori uno dopo l’altro vasi di rame ammaccato, di ceramica sbrecciata, fazzoletti annodati e sacchetti logori. Tutti pieni di piccoli tesori, di monete d’oro accumulate e nascoste in quella casa. Il guardaroba non somigliava neppure lontanamente a quello di un uomo della sua condizione. Il notaio percorse la casa, immersa nel silenzio definitivo della morte, alla ricerca di suppellettili preziose, specchi, argenti, dorature, damaschi e sete orientali. Ma non trovò niente di tutto questo, niente di quello che 420

avrebbe trovato in casa di qualsiasi uomo abbiente di Roma. Gli oggetti rinvenuti sembravano invece quelli lasciati ottant’anni prima nella casa immiserita di suo padre. La ricchezza accumulata riguardava gli altri, non lui. Anche dell’arte si era spogliato. A casa si trovarono solo pochi disegni e tre marmi abbozzati, tra cui la Pietà Rondanini che tentava ancora di lavorare con la subbia nonostante la febbre. Pochi giorni prima aveva fatto bruciare tutti i suoi disegni, tranne due o tre abbozzi e uno più laborioso che stava portando a termine per il cardinale Giovanni Morone, l’unico amico rimastogli del gruppo degli Spirituali, l’unico su cui Paolo IV era riuscito a mettere le mani rinchiudendolo nella prigione di Castel Sant’Angelo. I cartoni e i disegni sfuggiti ai roghi furono sequestrati. I beni di Michelangelo e le sue opere erano d’interesse pubblico e niente meglio di quel sequestro può dimostrarlo. La salma venne portata nella vicina chiesa dei Santi Apostoli e poi furtivamente a Firenze. L’arrivo della salma in città, tenuto segreto soltanto per poche ore, scatenò la commozione di tutti i fiorentini, artisti e cittadini comuni. Ignorando le regole cerimoniali a cui sarebbero stati consegnati il corpo e la memoria di Michelangelo, una folla piangente di uomini, con in mano le fiaccole per rischiarare la notte, si recò in processione ad adorare la salma avvolta nei panni semplici usati per la fuga. Da quella notte in poi tutto quel che rimane di Michelangelo – il corpo, la memoria e l’arte – appartiene al potere, così come era appartenuta al potere la sua stessa miserabile vita.

NOTE

Introduzione 1

Lettera di Don Miniato Pitti in Roma a Giorgio Vasari in Firenze, 10 ottobre 1563, in G. Vasari, Der literarische Nachlaß Giorgio Vasaris, edizione e apparato critico a cura di K. Frey, 2 voll., Georg Müller Verlag, München 1923-1930, vol. II (1930), p. 9. Le ultime ore di Michelangelo sono registrate dalla cronaca puntualissima che Daniele da Volterra invia a Vasari pochi giorni dopo la morte dell’artista: «Quando samalo, che fu il lunedj dj carnovale, egli mando per me, come faceva sempre che si sentiva niente; et io ne facevo avisato messer Federigo de Carpi, che subito veniva, mostrando, la venuta fussi a caso [per non spaventarlo, N.d.A.], et cosi feci alotta. Come mi vidde, disse. ‘O Daniello, io sono spacciato, mi ti racomando, non mi abandonar’; et fecemi scriver’ una lettera a messer Lionardo, suo nipote, ch’e dovesse venire, et a me disse, ch’io lo dovessi aspettar’ li in casa et non mi partissi per niente. Io così feci, quantunque mi sentissi più male che bene. Basti, il male suo durò cinque di, due levato al fuoco, et tre in letto: si ch’egli spiro il Venerdi a sera, con pace sua sia, come certo si puo credere. Il Sabato mattina, mentre si dava ordine alla casa et l’altre cose, venne il giudicj con un notaro del governatore da parte del papa, ch’ voleva l’inventario dj cio ch’ vera: Al quale non si pote negare; et così fu scritto tutto vi si trovo: Quattro pezzi di cartonj. Uno fu quello; (...) l’altro quello che dipigneva Ascanio, se ve ne ricorda; et uno apostolo, il quale disegnava per farlo di marmo in San Pietro; et una Pieta, ch’egli haveva cominciata: della quale vi sintende solo le attitudine delle figur’, si ve poco finimento. Basta, quello del Christo e il meglio: Ma tutti sono iti in luogo, che

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si durera faticha a vederli non che a riaverlj; pur io ho fatto ricordare al cardinale Morone, ch’e fu cominciato a stantia sua, e offertomi dj fargnene una copia, se lo potra rihavere. Certi disegni piccolj, dj quelle Nuntiate et del Cristo che ora all’orto, egli li haveva donati a Jacopo suo [del Duca, N.d.A.] e compagno dj Michele [degli Alberti, N.d.A.], se vene ricorda. Ma il nipote per donare qualche cosa al duca gleli levera. Di disegni non si e trovato altro. Si sono trovate cominciate tre statue di marmo, un San Pietro in abito di papa, in sul quale (...) una Pieta in braccio alla Nostra Donna et un Cristo che tiene la croce in braccio, come quel della Minerva, ma piccolo et diverso da quello. Altro non si trova dj disegni. Il nipote arivò 3 giorni da poi la morte sua et subito ordino, ch’il corpo suo fussi portato à Fiorenza, secondo che luj ci haveva comandato piu volte, quando era sano, et anche dua di inanti la morte. Dipoi andó dal governator’ per rihaver’ e detti cartonj et una cassa, dove erano dieci mila & in tanti ducati (di) camera et & vechi del sole et circa a cento & di moneta, equalj furono conti il Sabato che fu fatto l’inventario, inanti ch’il corpo fussi portato in Sancto Apostolo. La detta cassa li fu resa subito con tuttj e danarj dentro, ch’era suggellata. Ma i cartonj non li sono anchora stati resi, et quando li domanda, li dicano che gli dovea bastar’ haver’ hauti e danarj: si che non so che sene sara» (Daniele da Volterra a Giorgio Vasari il 17 marzo 1564, ivi, p. 53). 2 Cosimo I de’ Medici in Firenze ad Averardo Serristori in Roma, 5 marzo 1564, in F. Tuena, La passione dell’error mio, Fazi, Roma 2002, p. 205. 3 Vincenzio Borghini a Giorgio Vasari il 21 febbraio 1564, in Vasari, Der literarische Nachlaß, a cura di K. Frey, cit., vol. II, p. 23.

1. La giovinezza 1

La memoria di Ludovico Buonarroti è nelle Ricordanze di casa Buonarroti e fu pubblicata in Vita di Michelangelo Buonarroti narrata con l’aiuto di nuovi documenti, a cura di A. Gotti, 2 voll., Gazzetta d’Italia, Firenze 1875, vol. I, p. 3. 2 La descrizione è tratta dall’estimo catastale del 27 aprile 1564 riportato in R. Hatfield, The Wealth of Michelangelo, Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, Roma 2002, p. 485. 3 L. Landucci, Diario fiorentino dal 1450 al 1516, continuato da un ano-

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nimo fino al 1542, Sansoni, Firenze 1883, pp. 21-22. Sul ricordo di Michelangelo di quei giorni, cfr. l’incontro con Miniato Pitti ai primi di ottobre 1563: «Gli domandai, quanto tempo haveva? Dice, che ha ottantotto anni, che per il caso de Pazzi era portato in collo; et si ricorda, quando messer Jacopo de Pazzi ne venne prigione, che fu preso in Casentino, che si fuggia dopo lo eccesso fatto» (Vasari, Der Literarische Nachlaß, a cura di K. Frey, cit., vol. II, p. 9). 4 Il documento è riportato con ampio commento da J. K. Cadogan, Michelangelo in the Workshop of Domenico Ghirlandaio, in «The Burlington Magazine», CXXXV, 1993, pp. 30-31. Vasari sostiene di aver visto nei registri dei Ghirlandaio il documento dell’ingresso di Michelangelo in bottega e lo pubblica nelle sue Vite, ma la data è sbagliata e va rivista alla luce del documento da poco emerso dagli archivi fiorentini: cfr. G. Vasari, La vita di Michelangelo nelle redazioni del 1550 e del 1568, a cura di P. Barocchi, 5 voll., Ricciardi, Milano-Napoli 1962 (d’ora in poi Vasari-Barocchi), vol. I, p. 6. Il primo di aprile del 1488, Ludovico stipula per il figlio un contratto di apprendista presso la bottega di Domenico e Davide di Tommaso di Currado Bigordi, conosciuti poi come i fratelli Ghirlandaio. Il contratto stabiliva che per i successivi tre anni «detto Michelagnolo debba stare con i sopradetti detto tempo a imparare a dipignere et a fare detto essercizio e ciò i sopradetti gli comanderanno; e detti Domenico e Davit gli debbon dare in questi tre anni fiorini ventiquattro di suggello». 5 A. Condivi, Vita di Michelagnolo Buonarroti, copia anastatica dell’edizione originale (1553), a cura di G. Nencioni con saggi di M. Hirst e C. Elam, SPES, Firenze 1998, p. 10: «Essendogli data una testa perché egli la ritraessi, così a punto la rappresentò, che, rendendo al padrone il ritratto in luogo dell’essempio, non prima fu da lui lo ’nganno conosciuto, che, ciò conferendo il fanciullo con un suo compagno e ridendosene, gli fusse scoperto». 6 La precisa individuazione del giardino è in C. Elam, Il giardino delle sculture di Lorenzo De’ Medici, in Il giardino di San Marco. Maestri e compagni del giovane Michelangelo, a cura di P. Barocchi, Silvana, Firenze-Cinisello Balsamo 1992, pp. 157-172. 7 Sulla congiura dei Pazzi cfr. F. Guicciardini, Storie fiorentine dal 1378 al 1509, a cura di A. Montevecchi, Rizzoli, Milano 1998, p. 117. Una cronaca molto vivida è anche in Landucci, Diario Fiorentino cit., p. 17. 8 «Tiranno è nome di uomo di mala vita, e pessimo tra tutti gli altri uomini, che per forza sopra tutti vuole regnare, massime quello che di cittadi-

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no è fatto tiranno» (G. Savonarola, Trattato sul Governo di Firenze, Editori Riuniti, Roma 1999, p. 53). 9 Condivi, Vita di Michelagnolo, a cura di G. Nencioni, cit., p. 11. Sull’episodio e la maschera di fauno vedi anche la scheda ricostruttiva di C. L. Frommel, in Giovinezza di Michelangelo, a cura di K. Weil-Garris Brandt, C. Acidini Luchinat, J. D. Draper, N. Penny, Artificio Skira, Firenze-Milano 1999, p. 226. 10 Condivi, Vita di Michelagnolo, a cura di G. Nencioni, cit., p. 13. Per l’analisi critica del rilievo cfr. la scheda di K. Weil-Garris Brandt, in Giovinezza di Michelangelo, a cura di K. Weil-Garris Brandt, C. Acidini Luchinat, J. D. Draper, N. Penny, cit., p. 75. Il rilievo sembra ispirato dalla leggenda raccontata in Ovidio: si tratterebbe quindi del ratto di Ippodamia. Cfr. Ovidio, Metamorfosi, Einaudi, Torino 1979, Libro XII, p. 479. 11 Anche per questo rilievo cfr. Giovinezza di Michelangelo cit., p. 170.

2. La primavera del genio 1

La morte di Lorenzo è raccontata dettagliatamente da Landucci: «E a dì 5 d’aprile 1492, venne la sera, circa a 3 ore di notte, una saetta in sulla lanterna della cupola di Santa Maria del Fiore, e ruppela presso che mezza, cioè levò uno di que’ nicchi di marmo, e molti altri marmi, di verso la porta che va à Servi, per tale miracoloso modo che né nostri dì non vedemo d’una saetta tale effetto» (Landucci, Diario fiorentino cit., p. 63). «E a dì 8 d’aprile 1492, morì Lorenzo dè Medici a Careggi, à luogo suo; e dissesi, che sentendo lui le nuove dell’effetto della saetta, così amalato, dimandò donde era cascata, e da che lato. Fugli risposto, e fugli detto; e che disse: Orbè: io sono morto, ch’è cascata verso la casa mia. E forse non ne fu nulla, ma pure si diceva. E a dì detto, lo recorono in Firenze, la notte alle 5 ore, e messolo in San Marco nella Conpagnia; e quivi stette tutto dì 9, che fu lunedì. E a dì 10, martedì, si seppellì in Sa’ Lorenzo, circa a ore 20» (ivi, p. 64). 2 «E adì 20 di giennaio 1493 [1494 stile comune, N.d.A.] el dì di San Bastiano, nevicò in Firenze la maggiore neve che si ricordi mai [...] Così durorono què monti, perché più d’otto giorni durò per la città. Chi lo vide lo crede» (ivi, p. 66). Un’altra fonte sulla nevicata è riportata da Gaetano Milanesi in G. Vasari, Le Vite de più eccellenti Pittori Scultori ed Architetti Scritte da Giorgio Vasari con nuove Annotazioni e commenti di Gaetano Milanesi, Firenze 1881, vol. VII, p. 341: «Fu un gran nevajo che durò più di un giorno a

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nevicare, e alzò in Firenze più di un braccio; e in luoghi, dove il vento soffiava, ancora due o tre braccia» (Ricordanze di Ribaldo d’è Rossi, in Ildefonso di San Luigi, «Delizie degli eruditi toscani» [1770-1798], t. XXII, p. 286). 3 La fuga è raccontata in G. Poggi, Della prima partenza di Michelangelo Buonarroti da Firenze, in «Rivista d’Arte», IV, 1906, p. 34: «Sapi che Michelagnolo ischultore dal giardino se n’è ito a Vinegia sanza dire nula a Piero tornando lui in chasa mi pare che Piero l’abia auto molto a male. Fata a di XIIII d’otobre 1494». La lettera è pubblicata anche in Elam, Il Giardino, a cura di P. Barocchi, cit., p. 167. 4 N. Machiavelli, Lettere a Francesco Vettori e a Francesco Guicciardini (1513-27), a cura di G. Inglese, Rizzoli, Milano 1989. Le lettere costituiscono un definitivo, incontestabile documento sulla tolleranza con cui negli ambienti colti fiorentini si guardava alla pratica dell’omosessualità. Cfr. in particolare la lettera di Niccolò Machiavelli a Francesco Vettori del 5 gennaio 1514, pp. 210 sgg. Un altro importante documento relativo alla tolleranza con cui si guardava all’omosessualità degli uomini a Firenze si trova nelle memorie di famiglia di Francesco Guicciardini, in F. Guicciardini, Diario del Viaggio in Spagna, Studio Tesi, Pordenone 1993, p. 99: «[Rinieri Guicciardini] Fu uomo di cervello ed ingegno assai comodo, ma furioso e mutabile e di poco animo; ebbe una memoria profonda colla quale teneva a mente tutti fatti e le cose sua, benché non ne scrivessi nessuno. Furono è costumi sua cattivi, perché e’ fu dedito assai alla lussuria e massime co’ maschi, nel quale vizio fu notato pubblicamente ed èbbene carico grandissimo non solo da giovane ma da vecchio ed insino al tempo che morì». La critica è rivolta più all’eccesso che alla natura dei gusti sessuali che ad ogni modo non impedirono a messer Rinieri di condurre una vita splendidissima e di diventare vescovo di Cortona nel 1502, morendo poi nel suo letto con tutti i conforti religiosi e sociali. 5 F. Guicciardini, Storie fiorentine dal 1378 al 1509, a cura di A. Montevecchi, cit., p. 278. 6 Condivi, Vita di Michelagnolo, a cura di G. Nencioni, cit., p. 15. 7 Vasari-Barocchi, vol. I, p. 13. 8 Predica del 28 luglio 1495, in Vita di Girolamo Savonarola, a cura di R. Ridolfi, Sansoni, Firenze 1981, p. 110. 9 Il documento che attesta la restituzione dei soldi al cardinale è riportato in M. Hirst, J. Dunkerton, Making and Meaning. The Young Michelangelo, National Gallery Publications, London 1994, p. 72, n. 25: «Lo Reverendissimo Cardinale di San Giorgio [Riario, N.d.R.] de’ avere a dì 5 di magio ducati 200 di charlini 10 per ducato avuti da...».

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Michelangelo a Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, 2 luglio 1496, in Il Carteggio di Michelangelo, 5 voll., edizione postuma di G. Poggi a cura di P. Barocchi e R. Ristori, SPES-Sansoni, Firenze 1965-1983, d’ora in poi Carteggio, vol. I (1965), p. 1. 11 Condivi, Vita di Michelagnolo, a cura di G. Nencioni, cit., p. 19. Secondo Michael Hirst, la bugia di Michelangelo nasconde il suo desiderio di vendetta verso il cardinale che avrebbe rifiutato, alla fine, il suo Bacco dopo averlo commissionato (M. Hirst, J. Dunkerton, Michelangelo giovane. Pittore e scultore a Roma, 1496-1501, Panini, Modena 1997, pp. 33 sgg.). L’ipotesi però risulta inaccettabile alla luce dei pagamenti corrispondenti agli «stati di avanzamento del lavoro» che il cardinale ha effettuato fino all’ultimo. Nessun committente continua a pagare i lavori per poi disfarsi dell’opera dopo averla acquistata. Il cardinale dovette essere ben contento della scultura che Michelangelo gli aveva fatto: altrimenti avrebbe manifestato il suo scontento molto prima dell’ultimo pagamento. 12 «Adì 27 di giugno a Michelangnolo carlini 3 per j° chuadro di legno per dipignerlo», in Hatfield, The Wealth of Michelangelo cit., p. 350. Nella nota a p. 5 Hatfield discute la possibilità che questo pannello possa essere servito a dipingere la Madonna di Manchester. Purtroppo lo confronta con il pagamento di un’altra «tavola» costata ben 400 carlini. Quest’ultima, però, fu certamente già preparata con i laboriosi strati di gesso e colla che Michelangelo doveva ancora stendere sul legno il cui prezzo (3 carlini) è perfettamente congruente con il costo di un pannello di legno delle dimensioni della Madonna di Manchester. Per una aggiornata esegesi della Madonna di Manchester, cfr. la scheda di K. Weil-Garris Brandt, in Brandt, Giovinezza di Michelangelo cit., pp. 334 sgg. Cfr. anche Hirst, Dunkerton, Making and Meaning cit., p. 37. 13 Il contratto è riportato in Gaetano Milanesi, Le lettere di Michelangelo Buonarroti pubblicate coi ricordi ed i contratti artistici, Le Monnier, Firenze 1875, pp. 613-614. 14 Carteggio, vol. I (1965), p. 9. Ludovico Buonarroti al figlio Michelangelo, il 19 dicembre 1500. 15 Vasari-Barocchi, vol. I, p. 17. 16 G. Poggi, Il Duomo di Firenze, con note a cura di M. Haines, Bruno Cassirer Editore, Berlino 1909, vol. I, p. 81. Sono raccolti i documenti essenziali per ricostruire la storia della scultura prima dell’intervento di M. 17 «quod quidem homo ex marmarmore (sic) vocato Davit, male abbozzatum et resupinum existentem in curte dicte Opere, et desiderantes...»

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in K. Frey, Studien zu Michelangiolo Buonarroti und zur Kunst seiner Zeit, in «Jahrbuch der königlich Preussischen Kunstsammlungen», Supplement, 1909, 30, p. 106. Si cita la versione del Frey, leggermente diversa da quella del Poggi e maggiormente attendibile. La filologia documentaria in questo caso è di estrema importanza poiché dai documenti si evince chiaramente che la statua esisteva già e che M. lavora su un’opera preesistente; un fatto questo decisamente troppo trascurato dagli studiosi di M. 18 G. Gaye, Carteggio inedito d’Artisti dei secoli XIV-XV-XVI, 3 voll., Molini, Firenze 1839-1840, vol. II (1840), p. 454: «Incepit dictus Michelangelus laborare et sculpire dictum gigantem die 13 Settembris 1501 die lune de mane, quamquam prius alio die eiusdem uno vel duobus ictibus compulisset, quoddam nodum quod habent (?) pictores; dicto die incepit firmiter laborare». Poggi restituisce una versione leggermente diversa dello stesso passo (Poggi, Il Duomo di Firenze, con note a cura di M. Haines, cit., p. 84): «(...) lune de mane, quamquam prius videlicet die 9 eiusdem uno vel duobus ictibus scarpelli substulisset quoddam nodum quem (!) habebat in pectore». Per un aggiornamento sugli studi, cfr. J. Poeschke, Michelangelo and his World, H. N. Abrams, New York 1996, pp. 84 sgg. 19 Gaye, Carteggio inedito cit., vol. II (1840), pp. 456 sgg., dove sono riportati ampi stralci del dibattito. 20 P. Parenti, Storie Fiorentine, riportato in Vita di Michelangelo, a cura di A. Gotti, cit., vol. I, p. 30, nota 5. 21 Questo almeno il racconto del Vasari, commentato esaustivamente in Vasari-Barocchi, vol. II, p. 207, che però è stato smentito dalle recenti indagini diagnostiche eseguite in occasione del restauro del David conclusosi nel maggio 2004, e che hanno rivelato che i pezzi furono almeno sette. Cfr. F. Falletti, Historical research on the David’s state of conservation, in Exploring David. Diagnostic Tests and State of Conservation, Giunti, Florence 2004, p. 60. 22 Hirst, Dunkerton, Making and Meaning cit., e degli stessi autori Michelangelo giovane cit. Hirst, in omaggio alla leggenda vasariana, tenderebbe a far concludere il lavoro nell’estate del 1499, quindi a un anno dall’inizio, ma il confronto tra il contratto riportato in Milanesi e i pagamenti riassunti dallo stesso Hirst, 1997, a p. 61, n. 33 autorizza a credere che la scultura fu finita soltanto nell’estate del 1500, quando il 3 luglio a Michelangelo vengono pagati 232 ducati. 23 Le opere elencate nel testo sono attribuite a Michelangelo in base ad una documentazione molto eterogenea e di diverso peso filologico. I docu-

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menti relativi al David sono ampiamente riprodotti e commentati da Poggi, Il Duomo di Firenze, a cura di M. Haines, cit., e da Frey, Studien zu Michelangiolo cit. Il contratto con i consoli dell’Arte della Lana del 24 aprile 1503 per le statue dei dodici apostoli, con il quale si mette correttamente in relazione il San Matteo della Galleria dell’Accademia di Firenze, è edito dal Gaye, Carteggio inedito cit., vol. II (1840), p. 473. I pagamenti per la Madonna di Bruges del 2 dicembre 1503 da parte dei mercanti Mascheroni sono pubblicati insieme ad altri documenti relativi all’opera in H. R. Mancusi Ungaro Jr., Michelangelo: The Bruges Madonna and the Piccolomini Altar, Yale University Press, New Haven-London 1971, pp. 160, 168, 170. Il contratto con il cardinale Piccolomini per le statue dell’altare fu steso in Roma e sottoscritto da Michelangelo a Firenze il 5 giugno del 1501 ed è ampiamente commentato ivi, p. 64. Tuttavia la critica non è concorde sulla reale esecuzione delle quattro statue da parte di Michelangelo, che trascinò la vicenda fino alla sua morte senza trovare il modo di esaudire le richieste contrattuali né di restituire i soldi dell’anticipo. Solo il nipote Leonardo, due mesi dopo la morte dello zio, restituì agli eredi Piccolomini il debito residuo di 100 ducati, che corrispondevano a quanto ricevette sicuramente all’atto di stipula del contratto trattenendo gran parte dei soldi ricevuti dallo zio. Il David di bronzo commissionato sempre in questi anni a Michelangelo dalla Signoria della repubblica il 12 agosto del 1502 è documentato dalle lettere della Signoria già in Gaye, Carteggio inedito cit., vol. II (1840), pp. 55 e 58-59; e recentemente la sua vicenda è stata ricostruita in F. Caglioti, Il David bronzeo di Michelangelo (e Benedetto da Rovezzano): il problema dei pagamenti, in Ad Alessandro Conti (1946-1994), a cura di F. Caglioti, M. Fileti Mazza, U. Parrini, in «Quaderni del Seminario di Storia della Critica d’Arte», Scuola Normale Superiore di Pisa, Pisa 1981-1996, VI, 1996, pp. 87-132. Il cartone della battaglia di Cascina è documentato dalla fornitura dei «fogli reali bolognesi» il 31 ottobre 1504, in Frey, Studien zu Michelangiolo cit. e già in Gaye, Carteggio inedito cit., vol. II (1840), p. 92: «31 ottobre 1504, Bartolomeo di Sandro cartolaio, lire 7 per 14 quaderni di foglie reali bolognesi per il cartone di Michelagnolo, come a dicto giornale». L’autografia del Tondo Doni è testimoniata dal Condivi con sufficiente sicurezza (Vita di Michelagnolo a cura di G. Nencioni, cit., p. 22): «E per non lasciare affatto la pittura, fece una Nostra Donna in una tavola tonda a messer Agnolo Doni, cittadin fiorentino, della qual egli da lui ebbe ducati settanta»; anche se le testimonianze del Condivi e del Vasari vanno sempre considerate con molta circospezione visto che poco più innanzi il Condivi

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confonde la Madonna di Bruges con una statua in bronzo: «Gittò anco di bronzo una Madonna col suo figliuolino in grembo, la quale da certi mercanti fiandresi de’ Mascheroni (...)». Dei tondi di marmo parla invece Vasari dopo aver confuso anche lui la Madonna di Bruges con un tondo di bronzo: «Et ancora in questo tempo abbozzò e non finì due tondi di marmo, uno a Taddeo Taddei, oggi in casa sua, et a Bartolomeo Pitti ne cominciò un altro» (Vasari-Barocchi, vol. I [1962], p. 23). Sulle opere giovanili cfr. il saggio fondamentale di C. de Tolnay, The Youth of Michelangelo, Princeton 1947. 24 Un’altra importante opera di quegli anni, dal sapore fortemente politico, è il David di bronzo che la Signoria della repubblica commissionò a Michelangelo nell’agosto del 1502. La statua, poi perduta, gli fu commissionata per farne omaggio al maresciallo di Gié Pierre de Rohan e stringere in tal modo i legami di amicizia con la Francia, tradizionale alleato della repubblica. Purtroppo il maresciallo cadde in disgrazia presso il re e la statua rimase a Firenze fino a quando, rinettata da Benedetto da Rovezzano, fu spedita in Francia nel 1508. Il contratto per la scultura di bronzo è riportato in Milanesi, Le lettere di Michelangelo cit., p. 624. Per le vicende di questa statua vedi F. Caglioti, Il David bronzeo di Michelangelo (e Benedetto da Rovezzano): il problema dei pagamenti, in Ad Alessandro Conti (19461994), a cura di F. Caglioti, M. Fileti Mazza, U. Parrini, cit., p. 103. Così Caglioti riassume la vicenda: «A finire, rinettandolo, il getto, fu infatti, come si sa, non Michelangelo stesso, che non v’aveva più apposto le mani dopo il 1503, o al massimo il 1504 ma Benedetto da Rovezzano». 25 L’ipotesi, credibilissima, è di G. Poggi, commentata in Vasari-Barocchi, vol. II, p. 240. 26 Determinante per capire l’atteggiamento di Michelangelo nei confronti della propria attività artistica è una sua lettera al nipote Leonardo del 2 maggio 1548. Nella lettera Michelangelo rivendica un suo status particolarissimo rinnegando la sua attività artigianale: «che io non fu’ mai pictore né scultore come chi ne fa boctega» (Carteggio, vol. IV [1979], p. 299). 27 Il documento è riportato in Frey, Studien zu Michelangiolo cit., p. 131, e commentato acutamente in F. Zöllner, Leonardo da Vinci. Sämtliche Gemälde und Zeichnungen, Taschen, Köln 2003, pp. 164-168 e p. 209. 28 L’elenco è in Gaye, Carteggio inedito cit., 1840, vol. II, p. 89. 29 Lettera di Pier Soderini a Jafredus Kardi da Firenze il 9 ottobre 1506, ivi, p. 87: «Anchora ciscusa la S.V. in concordar un dì Leonardo da Vinci, il quale non si è portato come doveva con questa republica; perchè ha preso

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buona soma di denaro e dato un piccolo principio a una opera grande doveva fare». 30 Michelangelo lasciò Firenze richiamato a Roma dalle allettanti proposte di Giulio II nell’inverno del 1505. Aveva disegnato un cartone che conosciamo attraverso il dipinto di Bastiano da Sangallo. Nel partire Michelangelo si raccomandò al padre di non lasciar vedere a nessuno il cartone, che però diventò presto un ammirato esempio del nuovo linguaggio classicista. 31 Zöllner, Leonardo da Vinci cit., p. 174.

3. Alla corte di Giulio II 1

Lettera di Beltrando Costabili al duca di Ferrara del 19 ottobre 1503, in L. von Pastor, Storia dei Papi dalla fine del Medio Evo, a cura di C. Benetti, Desclée Lefebvre & C.i Editori Pontifici, Roma, vol. III (1895), p. 1772 (ed. or., Geschichte der Päpste seit dem Ausgang des Mittelalters, Freiburg 1886-1933). 2 Su Giulio II e le strategie urbane cfr. M. Tafuri, Roma instaurata. Strategie urbane e politiche pontificie nella Roma del primo Cinquecento, in C.L. Frommel, S. Ray, M. Tafuri, Raffaello Architetto, Electa, Milano 1984, p. 53. 3 Il pagamento è commentato in Hatfield, The Wealth of Michelangelo cit., p. 17. A p. 371 si riporta l’importante documento della registrazione della riapertura del conto corrente di Michelangelo a Roma il 27 marzo 1505: «Michelagnolo di Lodovicho Buonarotj schultore de’ avere adi’ XXVIJ di marzo ducati sesanta d’oro jn oro larghj. Rechò luj chontanti. Disse autj di Iacopo Rucellaj per ordine di Nostro Signore». 4 Carteggio, vol. I (1965), p. 14. Michelangelo in Firenze a Giuliano da Sangallo in Roma, 2 maggio 1506. 5 Hatfield, The Wealth of Michelangelo cit., p. 409: «1505, lunedì adì 28 d’aprile Chopia a Firenze a’ Fazzj adì 28 d’aprile. Questa per dirvj che della presente sarà aportatore Michelagnolo di Lodovicho Bonarotj schultore, al quale paghate a ssuo piaciere et sanz’altra di chambio d. 50 d’oro larghj. Et sono per la valuta quj dal detto. Et ponete a nostro chonto, d. 54». 6 Carteggio, vol. I (1965), p. 13. Michelangelo in Firenze a Giuliano da Sangallo in Roma, 2 maggio 1506: «Ma questo solo non fu cagione intera-

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mente della mia partita, ma fu pure altra cosa, la quale non voglio scrivere; basta ch’ella mi fe’ pensare, s’ì stavo a·rRoma, che fussi facta prima la sepultura mia che quella del Papa. E questa fu chagione della mia partita subita». 7 Ivi, p. 16. Piero Rosselli in Roma a Michelangelo in Firenze, 10 maggio 1506. 8 Breve di Giulio II ai Priori della Libertà ed al Gonfaloniero di Giustizia del Popolo Fiorentino, in Raccolta di lettere sulla pittura, scultura ed architettura, scritte da’ piu celebri personaggi dei secoli XV, XVI, e XVII pubblicata da M. Gio. Bottari e continuata fino ai nostri giorni da Stefano Ticozzi, Silvestri, Milano 1822-1825, vol. III (1822), p. 472. Tuttavia Michelangelo aveva troppa paura di Giulio II e il gonfaloniere Pier Soderini cercò di convincerlo con ogni mezzo a partire per Bologna. Faticò molto, come confessò al cardinale di Volterra in una lettera tra il 7 e il 22 luglio: «Michelagnolo iscultore è in modo impaurito, che non obstante il breve di N. S. sarebbe necessario che il Rmo. di pavia facesse una lettera, soscripta di mano propria a noi, et ci promettessi la sicurtà sua et inlesione; et noi habbiamo adoperato et operiamo con tucti mezzi da farlo ritornare, certificando la S.V. che si non si va dolcemente, se anderà via di qui, come già ha voluto fare due volte» (Gaye, Carteggio inedito cit., II [1840], p. 83). Soderini precisò la situazione in un’altra lettera del 28 luglio 1506: «Habbiamo havuto a noi Michelagnolo, et non manchato di diligentia alcuna per persuaderli di venire di costà; et in somma l’habbiamo trovato, ad non se volere fidare, perché la S.V. non ne promette cosa alcuna certa» (ivi, p. 84). Per farlo partire da Firenze bisognava aspettare la lettera del cardinale di Pavia alla Signoria di Firenze il 21 novembre del 1506. La diffidenza sospettosa si impone già come la cifra caratteristica del temperamento di Michelangelo. 9 Carteggio, vol. I (1965), p. 22. Michelangelo in Bologna al fratello Buonarroto in Firenze, il primo febbraio 1507, e lettera dello stesso al padre Ludovico datata 8 febbraio, ivi, p. 26. 10 Annotazione del primo aprile 1508 in I Ricordi di Michelangelo, a cura di L. Bardeschi Ciulich e P. Barocchi, SPES, Firenze 1970, p. 1. 11 Carteggio, vol. I (1965), p. 73. Giovanni Michi in Firenze a Michelangelo in Roma: 22 luglio 1508, «...Raffaellino dipintore...verrà al vostro chomando quando e’ crederrà passare el salario che già gli dette maestro Pier Matteo d’Amelia. Dice gli dava ducati 10 el mese d’oro». 12 Sulla questione cfr. A. Forcellino, Sul ponteggio michelangiolesco per la decorazione della volta Sistina, in Michelangelo, la Cappella Sistina: do-

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cumentazioni e interpretazioni, 3 voll., De Agostini, Novara 1994, vol. III, p. 57. 13 «Vesperae in vigilia pentecostes. Hodie papa non venit ad vesperas, quae habitae sunt in capella palatii, ad quam cardinales cum citius solito venissent, forte putantes papam ad illas venturum et cum ipso, ut solent, de contigentibus collocuturi, cardinalis celebraturus, qui fuit cardinalis s. Georgii episcopus Albanensis, hora condicta venit et fuit ultimus omnium. In altis cornicibus capellae fabbricabatur cum maximis pulveribus, et operarii ita iussi non cessabant. Ex quo cardinales conquaesti sunt. Ego autem cum aliquoties operarios arguissem, et illi non cessarent, ivi ad papam, qui mecum quasi turbatus est, duod illos non admonuissem, et excusatione facta fuit opus, quod papa duos successive de suis camerariis mitteret qui iuberent cessari ab opere, quod vix factum est. Vesperae ipsae factae sunt ordine et more solito» (diario di Paris de Grassis, 10 giugno 1508, in E. Steinmann, Die sixtinische Kapelle, 2 voll., Bruckmann, München 1905, vol. II, p. 699). 14 Sappiamo delle promesse di Michelangelo a Pier Soderini dalle lettere del gonfaloniere a Giovanni Ridolfi in Gaye, Carteggio inedito cit., vol. II (1840), p. 102, 24 agosto 1508, Pier Soderini a Giovanni Ridolfi, da Firenze: «il Davit si farà finire a Michelagnolo, et ci harà ad essere per di qui ad ognisanti...». 15 Sulla genesi della volta cfr. l’illuminante saggio di C. L. Frommel, Michelangelo e il sistema architettonico della volta della Cappella Sistina, in Michelangelo, la Cappella Sistina: documentazioni e interpretazioni cit., vol. III, Atti del convegno internazionale di studi, Roma marzo 1990, a cura di K. Weil-Garris Brandt, 1994, p. 135. 16 Per i diagrammi delle giornate lavorative e ogni altro materiale sulle tecniche di esecuzione dei dipinti, vedi Michelangelo, la Cappella Sistina cit., 1994, Rapporto sul restauro della volta, a cura di F. Mancinelli, ivi, vol. II, p. 235. 17 L’ipotesi è più che fondata perché le cronache di quell’inverno sono estremamente esplicite, cfr. Landucci, Diario fiorentino cit., p. 291: «E a dì 6 di maggio 1509, ci feciono venire la tavola di Madonna di Santa Maria Impruneta, per essere stato un buon tenpo sanza piovere: e l’altro dì piovve, come piacque a Dio, che ci fa grazia senpre pe’ prieghi della Vergine benedetta». Nota a p. 291: «Nel priorista Iacopo De’ Rossi leggesi una più estesa relazione della venuta di questo tabernacolo, deliberata perché era stato cinque mesi senza piovere» (G. B. Casotti, Memorie istoriche della miracolosa im-

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magine di Maria Vergine dell’Impruneta raccolte da Giovambattista Casotti lettore d’istoria sacra e profana nello studio di Firenze, Giuseppe Manni, Firenze 1714, p. 141). Il freddo intenso è il nemico peggiore per gli intonaci perché li indurisce rendendoli poco permeabili al colore, fino ad arrivare, in caso di gelate notturne, alla loro disfatta. Eppure nessuno ha preso in considerazione la relazione tra il particolare clima di quell’inverno e le cause che provocarono il danneggiamento delle prime pitture sistine. Per altre ipotesi, cfr. G. Colalucci in Michelangelo, la Cappella Sistina cit., vol. II, p. 18. 18 Carteggio, vol. I (1965), p. 88. Michelangelo in Roma al padre Ludovico in Firenze, 27 gennaio 1509. 19 La singolare lettera di raccomandazione è riportata in Raccolta di lettere sulla pittura cit., vol. I (1822), p. 1: «Sarà lo esibitore di questa Raffaele pittore da Urbino, il quale avendo buono ingegno nel suo esercizio, ha deliberato stare qualche tempo in Fiorenza per imparare. E perchè il padre so che è molto virtuoso, ed è mio affezionato, e così il figliuolo discreto e gentile giovane, per ogni rispetto io lo amo sommamente, e desidero che egli venga a buona perfezione: però lo raccomando alla signoria vostra strettamente, quanto più posso...». Recentemente l’autenticità del documento è stata messa in discussione da J. Shearman, Raphael in Early Modern Sources, Yale University Press, New Haven-London 2003, vol. I, p. 18, e vol. II, p. 1457. Ma il documento rimane credibile nella sua generalità, come hanno ribadito T. Henry e C. Plazzotta in Raffaello. Da Urbino a Roma, 5 Continents, Milano 2004, p. 34. 20 Carteggio, vol. I (1965), p. 110. Giovanni Michi in Roma a Michelangelo in Firenze, 28 settembre 1510. Sul problema degli assistenti di Michelangelo nella volta della Sistina, cfr. W. E. Wallace, Michelangelo’s Assistants in the Sistine Chapel, in «Gazette des beaux arts», 1987, pp. 203-216, che rimane lo studio più aggiornato sulla questione. 21 Vasari-Barocchi, vol. I, p. 39. 22 B. Cellini, Opere, a cura di B. Maier, Rizzoli, Milano 1968, p. 849. 23 Sulla questione e sull’entità delle cifre che portano alla lite familiare esiste un vastissimo carteggio e conseguentemente vi sono diverse valutazioni. I documenti più significativi sembrano ad ogni modo la lettera di Ludovico al figlio Michelangelo il 26 settembre 1510 e la lettera di Ludovico al figlio Buonarroto il 29 settembre. Si confronti la cronaca che ne fanno P. Barocchi, K. Loach Bramanti, R. Ristori in Il Carteggio Indiretto di Michelangelo, vol. I, SPES, Firenze 1988, p. XX, e quella, che sembra più persuasiva, di Hatfield, The Wealth of Michelangelo cit., p. 42.

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Il racconto è in Steinmann, Die sixtinische Kapelle cit., vol. II (1905), p. 729. 25 La cronaca del diarista papale Paris de Grassis è ivi, pp. 735-736: «Ottobre 31, 1512 Hodie primum capella nostra, pingi finita, aperta est: nam per tres aut quatuor annos tectum sive fornix eius tecta semper fuit ex solari ipsum totum cooperiente. Alia more solito». 26 F. Albertini, Opusculum de mirabilibus novae et veteris urbis Romae, per Iacobum Mazochium, Romae 1510, libro terzo. 27 Il libro di Antonio Billi esistente in due copie nella Biblioteca Nazionale di Firenze (1516-20), a cura di K. Frey, Grotesche, Berlin 1892, pp. 52 sgg. 28 Per i disegni di Raffaello ispirati alla Sistina e in generale per la fortuna dei modelli della volta, cfr. Michelangelo e la Sistina: la tecnica, il restauro, il mito, F.lli Palombi, Roma 1990.

4. Tra Roma e Firenze 1

J. Modesti, Il miserando Sacco dato alla terra di Prato dagli Spagnoli, in «Archivio Storico Italiano» (1842-1941), I, Firenze 1842, pp. 242 sgg.: la cronaca dettagliata del sacco e degli orrori commessi dalle truppe guidate da Giovanni e Giuliano de’ Medici. 2 Lettera di Giuliano dei Medici a Isabella d’Este da Prato il 31 agosto 1512, in Von Pastor, Storia dei Papi cit., vol. III (1895), p. 796. 3 Carteggio, vol. I (1965), p. 139. Michelangelo in Roma al padre Ludovico in Firenze, ottobre/novembre 1512. 4 Ivi, p. 135. Michelangelo in Roma al fratello Buonarroto in Firenze, domenica 5 settembre 1512. 5 Ivi, p. 140. Michelangelo in Roma al padre Ludovico in Firenze, ottobre/novembre 1512. 6 Il contratto è in Milanesi, Le lettere di Michelangelo cit., pp. 635 sgg., 6 maggio 1513: «Sia noto a qualunche persona com’io Michelagniolo, scultore fiorentino, tolgo a fare la sepultura di papa Iulio di marmo da el cardinale d’Aginensis e dal Datario, e’ quali sono restati dopo la morte sua seguitori di tale opera, per sedici migliaia di ducati d’oro di Camera e cinquecento pur simili, e la composizione della detta sepoltura à essere in questa forma ciò è: Un quadro che si vede da tre facce, e la quarta faccia s’appicca al muro e non si può vedere. La faccia dinanzi, cioè la testa di questo qua-

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dro à essere per larghezza palmi venti e alto quattordici, e l’altre dua faccie che vanno verso el muro dove s’appiccha detto quadro, anno a esser palmi trenta cinque lunge e alte pur quattordici e in ognuna di queste tre faccie va dua tabernacoli, è quali posano in sur uno imbasamento che ricignie attorno al detto quadro e con loro adornamenti di pilastri, d’architrave, fregio e cornicione, come s’è visto per un modello piccolo di legnio. In ognuno di detti sei tabernacoli va dua figure magiore circa un palmo del naturale, che sono dodici figure, e innanzi a ogni pilastro di quegli che mettono in mezo e’ tabernacoli, va una figura di simile grandeza; che sono dodici pilastri: vengono a essere dodici figure; e in sul piano di sopra detto quadro viene un cassone con quatro piedi, come si vede pel modello, in sul quale à a essere il detto papa Iulio et a capo à a essere i’ mezo di due figure ch’el tengono sospeso ed a piè i’ mezo di du altre; che vengono a essere cinque figure in sul cassone tutte e cinque magiore che’l naturale, quasi per dua volte el naturale. Intorno al detto cassone viene sei dadi, in su quali viene sei figure di simile grandeza, tutte a sei a sedere; poi in questo medesimo piano dove sono queste sei figure, sopra quella faccia dela sepultura che s’apicca al muro, nascie una capelletta, la quale va alta circa trenta cinque palmi, nella quale va cinque figure maggiore che tutte l’altre, per essere più lontane dall’ochio. Ancora ci va tre storie o di marmo o di bronzo, come piacerà a’ sopra detti seguitori, in ciascuna faccia da la detta sepultura fra l’un tabernacolo e l’altro come nel modello si vede. E la detta sepultura m’obrigo à dar finita tutta a mie spese col sopradetto pagamento, faccendomelo in quel modo che pel contratto aparirà, in sette anni e mancando finito i sette anni qualche parte della detta sepultura che non sia finita, mi debba esser dato da’ sopra detti seguitori tanto tempo quanto fia possibile a fare quello che restassi, non possendo fare altra cosa. (...) In prima sonno convenuti, et così promette il prefato maestro Michelagniolo non pigliare altro lavoro a fabricare certo et importante per il quale si potessi impedire la fabbrica et il lavoro d’essa sepultura; ma di continuo attendere in la fabbrica et lavoro d’essa; la quale sepultura promette di fare et finirla integralmente in fra sette anni prossimi futuri, da ogi incominciando et come seguita finirsi; secondo el disegnio et modello, overo figura de essa sepultura, vel incirca, et secondo il tale desegnio et modello, quanto esso poterà, per magiore honorificentia et bellezza di essa sepoltura. Item sonno convenuti dette parti a detti nomi, che il prefato Michelagniolo habbia havere per la sua merzede et salario di decta sepultura et per tutte le expese che sonno da fare in detta fabricatione, alle quale sia tenuto esso Michelagniolo ducati sedicimilia cinquecento

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d’oro di Camera per pagarli à tempi, modi et termini infrascripti, et che sopra il valore, extimatione et perfectione delle figure di detta sepultura se ne abbia a stare a iuditio et conscientia de esso Michelagniolo per quanto esso extima suo honore et sua fama. Item il prefato Michelagniolo si confessa havere hauto et receputo di detta somma di ducati sedicimila cinquecento d’oro simili, ducati tre milia cinquecento dalla prefata felicie memoria [di] Julio Secondo; cioè mille e cinquecento simili per le mani de essa felice memoria et dumilia per le mani di Bernardo Bini merchante fiorentino delli quali tremilia cinquecento si domanda bene contento et pagato et proterea [sic] esso et li sua successori et tutti altri...». Quali che siano le ipotesi accumulate nel tempo sulla consistenza del primo progetto per la tomba, è certo che questo documento rimane la base principale per la storia del monumento e per la storia di Michelangelo negli anni successivi. Del contratto vanno sottolineati alcuni aspetti importanti. Michelangelo dichiara di aver ricevuto 3500 ducati per la sepoltura dalle mani di Giulio II. Si impegna a lavorare solo per la tomba per i prossimi sette anni, e viene dichiarato perito di se stesso, nel senso che il suo giudizio diventa insindacabile supponendo che lui per primo è interessato a fare l’opera migliore possibile. Sul progetto di questi anni, cfr. C. L. Frommel, Capella Iulia: Die Grabkapelle Papst Julius’ II in Neu-St. Peter, in «Zeitschrift für Kunstgeschichte», XL, 1977, 1, pp. 27-62, e C. Echinger-Maurach, Studien zu Michelangelos Juliusgrabmal, 2 voll., Hildesheim, Zürich-New York 1991. La bibliografia sull’esegesi della tomba è stata recentemente ordinata da M. Forcellino in appendice II a A. Forcellino, Michelangelo Buonarroti, Storia di una passione eretica, Einaudi, Torino 2002. 7 «Ora ò avuto questa merda secha di questo fanciullo che dice che non vole perder tempo, che vole imparare; e dissemi costà che e’ gli bastava dua o tre ore el dì: adesso non gli basta tucto el dì, che e’ vuole anche tucta la nocte disegniare». Carteggio, vol. I (1965), p. 151. Michelangelo in Roma al padre Ludovico in Firenze, il 21 ottobre 1514. 8 In Hatfield, The Wealth of Michelangelo cit., p. 434: «E adì 28 dj magio 1512 fiorinj mille terciento d’oro larghi jn oro. Sono per la valuta d’uno podere conperato da questo spedalle posto a Macìa, chome apare carta per mano dj Ser Giovannj da Romena sotto detto dì». 9 Carteggio, vol. I (1965), p. 95, luglio/agosto 1509. Michelangelo in Roma al fratello Giovan Simone in Firenze. 10 Vedi supra, nota 6.

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Carteggio, vol. II (1967), pp. 313 sgg. Sebastiano del Piombo in Roma a Michelangelo in Firenze, 6 settembre 1521. 12 Hatfield, The Wealth of Michelangelo cit., p. 466: «Unum podere cum domo pro domino et laboratore et terris laborativis vineatis et olivatis et fructatis, positum in populo Sancte Marie de Septigniano predicto». 13 Carteggio, vol. I (1965), p. 186. Il cardinale Leonardo Grosso Della Rovere in Roma a Michelangelo in Roma, lunedì 21 aprile 1516. La cronaca di quella visita è dettagliatamente raccontata dalle lettere di Elisabetta Gonzaga a Isabella d’Este, in A. Luzio, R. Renier, Mantova e Urbino. Isabella d’Este ed Elisabetta Gonzaga nelle relazioni famigliari e nelle vicende politiche, Roux e C., Torino 1893. 14 Von Pastor, Storia dei Papi cit., vol. IV, t. 1 (1908), p. 61. 15 La critica del Guicciardini è riportata e ampiamente commentata in R. von Albertini, Firenze dalla repubblica al principato (1970), prefazione di F. Chabod, Einaudi, Torino 1995, p. 32, nota 1. 16 Il contratto è in Milanesi, Le lettere di Michelangelo cit., p. 649, Terzo Contratto, Roma 8 luglio 1516: «(...) Imprima si convennono et così l’uno all’altro et presertim ditto Michelangelo promisse non pigliare alcuna opera di grande importanza, per la quale si possa impedire la fabrica prefata, anzi promisse a quella dare opera ferventemente. E la quale sepoltura promisse fare e finire infra nove anni prossimi futuri, cominciati più tempo fa, ciò è a dì sei di maggio 1513, e così finire come segue, secondo uno nuovo modello, figura e disegnio fatto per detto Michelagniolo a detta sepoltura; et secondo tale disegno e nuovo modello promisse a’ detti Reverendissimi fare quanto lui potrà per maggiore bellezza e magnificentia di detta sepoltura secondo la sua conscienzia. Del quale nuovo modello el tenore si è questo, ciò è: ‘El modello è largo nella faccia dinanzi braccia undici fiorentine vel circa; nella quale largeza si muove in sul piano della terra uno inbasamento con quatro zocoli overo quatro dadi co la loro cimasa che ricignie per tutto, in su quali vanno quatro figure tonde di marmo di tre braccia e mezo l’una e drieto alle dette figure, in su ogni dado va el suo pilastro; alti insino alla prima cornice, la quale va alta dal piano dove posa l’inbasamento in su braccia sei; e dua pilastri dall’uno de’ lati co’ loro zocholi mettono in mezo un tabernacolo, el quale è alto el vano braccia quatro e mezo; e similmente dall’altra banda e’ dua altri pilastri mettono in mezo uno altro tabernacolo simile: che vengono a essere dua tabernacoli nella faccia dinanzi dalla prima cornicie in giù, ne’ quali in ognuno viene una figura simile alle sopra dette. Di poi fra l’un tabernacolo e l’altro, resta un vano di braccia, dua e mezo, alto per insino alla prima corni-

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cie, nel quale va una storia di bronzo. E la decta opera va murata tanto discosto al muro, quant’è (la) largezza d’uno de’ tabernacoli detti, che sono nella faccia dinanzi; e nelle rivolte della detta faccia che vanno al muro, cioè nelle teste, vanno dua tabernacoli simili a quelli dinanzi co’ lor zocoli e con le lor figure di simile grandeza: che vengono a essere figure dodici dalla prima cornice in giù e una storia, come è detto; e dalla prima cornicie in su, sopra e’ pilastri che metto(no) in mezo e’ tabernacoli di sotto, viene altri dadi con loro adornamento, suvi meze colonne che vanno insino all’ultima cornice, ciò è vanno alte braccia otto simile dalla prima alla seconda cornice che è suo finimento; e da una delle bande in mezo alle dua colonne, viene un certo vano, nel quale va una figura a sedere, alta a sedere braccia tre e mezo fiorentine: el simile va fra l’altre dua colonne da l’altra banda: e fra ’l capo delle dette figure e l’ultima cornicie resta un vano di circa a braccia tre per ogni verso, nel quale va una storia per vano, di bronzo: che vengono a essere tre storie nella faccia dinanzi: e fra l’una figura a sedere e l’altra dinanzi, resta un vano che viene sopra el vano della storia del mezo di sotto, nel quale viene una certa trebunetta, nella quale va la figura del morto, ciò è di papa Iulio, con dua altre figure che ’l mettono in mezo; e una Nostra Donna di sopra di marmo, alta braccia quatro simile: e sopra e’ tabernaculi delle teste, o vero delle rivolte della parte di sotto, viene le rivolte della parte di sopra, nelle quale, in ognuna delle dua, va una figura a sedere in mezo di dua colonne, con una storia di sopra simile a quelle dinanzi’. Item si convennero dette parte in detti modi e nomi, che il prefato Michelangiolo habi havere per sua mercede et salario di detta sepultura et edifizio e per ogni spesa da farsi in detta fabrica; le quali in detta s’abino a fare per detto Michelangelo; e debba avere per recompensa d’essa e per sua fatica, ducati sedicimila cinque cento d’oro di Camera, da pagarsi pe’ detti a detto Michelangiolo ne’ modi e forma, tempi e termini infrascritti: con patto che sopra alla stima et perfezione di detta sepoltura et figure se ne stia e habi a stare al parere et conscienzia di detto Michelagniolo. Ancora, perchè detto Michelangelo nel detto primo contratto per mano di Francesco Vigorosi, come di sopra, ha confessato havere avuto e ricevuto de’ detti sedicimila cinque cento ducati, tremila cinquecento da papa Iulio, ciò è mille cinque cento per le mani di detto Papa, e duo mila per le mani di Bernardo Bini mercante fiorentino: de’ quali medesimamente oggi si chiama contento e pagato. Ancora si convennono de’ pagamenti da farsi de’ ducati tredici mila restanti della somma de’ sedici mila cinque cento, che detto Michelagniolo habbi havere et habbi ogni mese ducati dugento d’oro simili, cominciati del mese di maggio 1513, per dua anni; e finiti detti dua anni, cominciati ut supra,

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habbi avere ogni mese dipoi ducati cento e trenta simile insino al compimento et perfetione e resto del pagamento di detta somma de’ sedici mila cinque cento d’oro, come di sopra. Ancora si convennono che in caso che detto Michelangiolo detta sepoltura finissi innanzi al sopra scritto tempo, che ogni volta che l’àrà finita secondo el nuovo modello, come di sopra; allora et in tale caso, a detto Michelagniolo si debba fare lo intero pagamento di detta somma, come di sopra, non ostante le cose premisse. Ancora si convennono per maggiore comodità di detto Michelagniolo et acciò che più facilmente possa lavorare così in Roma, come fuora; detti Cardinali promissono a detto Michelagniolo presente infra il tempo degli anni nove soscritti, cominciati a dì sei di maggio nel 1514 e per (e’) tempi concedessono et dessino ad habitare, come oggi dànno e concedono per habitare solamente o per sè o altri per lui o di sua commissione gratis et amore, e senza alcuna mercede o pigione durante il tempo soscritto a detto Michelagniolo presente: Una casa con palchi, sale, camere, terreni, orto, pozzi e sui altri habituri, posta in Roma in nella Regione di Treio apresso alle cose di Ieronimo Petrucci da Velletri (...) adpresso a Santa Maria del Loreto (...) et nella quale detto Michelagniolo à più figure avute et e’ marmi et lavori, et ha lavorato per molti mesi per detta sepoltura. Et per tanto detto reverendissimo monsignore Laurentio de’ Pucci cardinale fece fine a detto Michelagniolo d’ogni e qualunche pensione potessi adomandargli per conto di detta casa. (...) cardinale Agenna promisse infra e per il tempo che resta da fare detta sepoltura, dare et concedere, come oggi dà e concede, ad habitare a ditto (...) et lavorando fuor di Roma o in Roma abi l’uso della casa. (...) Item promisse il reverendissimo cardinale de’ Pucci al detto Michelagniolo presente et stipulante, ogni mese dare et pagare per primi dua anni cominciati come di sopra, ducati dugento il mese, insino che a lui tochi il pagamento insino alla somma de’ ducati settemilia di Camera, e’ quali gli restorno della somma de’ ducati diecimila cinquecento, e’ quali il prefato santissimo nostro papa Iulio lasciò per fare detta sepultura». 17 Milanesi, Le lettere di Michelangelo cit., 1875, p. 660, 12 febbraio 1517. Sull’atteggiamento imprenditoriale di Michelangelo in questa commessa, cfr. W. E. Wallace, Michelangelo at San Lorenzo. The Genius as Entrepreneur, Cambridge University Press, Cambridge 1994. 18 «Spectabilis noster charissime, havemo recepute le vostre et mostrole ad Nostro Signore; et considerato li vostri progressi tutti seguire in favore delle cose di Carrara, ne havete dato admiratione non pichola ad Sua Santità et ad noi, perché non risponde al dire vostro quello che intendemo da Iachopo Salviati, quale è stato in sul loco delle cave et marmi di Pietrasancta

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con multi maestri intelligenti et ne referisce esservi marmi in quantità grandissima, bellissimi et comodi al condurre; il che essendo, ci dà qualche suspitione che vogliate, per qualche vostro comodo, favorire li marmi di Carrara et torre la riputatione alli di Pietrasancta. Il che certo non doveresti fare, attento la fede havemo sempre in voi havuta. (...) Per tanto vedete di exequire quanto vi havemo ordinato et non mancate, perché quando altrementi facessi, sarebbe contro la voglia di Sua Santità et nostra, et haveremo causa di dolerci di voi grandemente. Domenico nostro [Buoninsegni, N.d.A.] ve ne debbe scrivere el medesimo: rispondetene a·llui quanto vi ochorre et presto, levandovi dalla mente omni pervicacia. Et bene valete» (Carteggio, vol. I [1965], p. 244. Giulio de’ Medici in Roma a Michelangelo in Carrara, lunedì 2 febbraio 1517). 19 Ivi, p. 291. Iacopo d’Antonio detto il Sansovino in Firenze a Michelangelo in Carrara, martedì 30 giugno 1517. 20 Il contratto è in Milanesi, Le lettere di Michelangelo cit., p. 671. 21 Carteggio, vol. II (1967), p. 82. Michelangelo in Seravezza a Berto da Filicaia in Firenze, 13-14 settembre 1518. Per la cronologia dei lavori, cfr. anche Wallace, Michelangelo at S. Lorenzo cit., pp. 46 sgg. 22 Ivi, p. 85. Buonarroto Buonarroti in Firenze al fratello Michelangelo in Seravezza, lunedì 20? settembre 1518. 23 Ivi, p. 143. Salviati in Roma a Michelangelo in Firenze, sabato 15 gennaio 1519. 24 Ivi, p. 185. Michelangelo in Seravezza a Pietro Urbano suo assistente in Firenze, mercoledì 20 aprile 1519. 25 Ivi, p. 220. Michelangelo in Firenze a Domenico Buoninsegni in Roma (?), fine di febbraio-10 marzo 1520. 26 Ivi, p. 274. Michelangelo in Firenze al padre Lodovico in Settignano, seconda metà di febbraio o primi di marzo 1521. 27 Ivi, p. 374. Michelangelo in Firenze al padre Ludovico in Settignano, metà giugno 1523.

5. Nel segno dei Medici 1

G. Corti, Una ricordanza di Giovan Battista Figiovanni, in «Paragone» XV, 1964, 175, p. 27. 2 Ivi, pp. 28 sgg.

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Cellini, Opere cit., p. 123: «Luigi Pulci (...) era di grazia e di forma oltramodo bello (...) E perché, quando questo giovane era in Firenze, la notte di state in alcuni luoghi della città si faceva radotti inelle proprie strade, dove questo giovane in fra i migliori si trovava a cantare allo inproviso; era tanto bello udire il suo, che il divino Michelagniolo Buonarroti, eccellentissimo scultore e pittore, sempre che sapeva dov’egli era, con grandissimo desiderio e piacere lo andava a udire». Il Pulci, sopraffatto dalla sifilide, passò i suoi ultimi anni a Roma prostituendosi agli uomini. 4 In Von Pastor, Storia dei Papi cit., vol. IV, t. 2 (1912), p. 165. L’indecisione di papa Clemente VII costerà molta pena anche a Michelangelo, ritardando di molto i lavori per le cappelle e la libreria di San Lorenzo, come lui stesso racconta in una lettera dell’aprile 1523 a Giovan Francesco Fattucci (Carteggio, vol. II [1967], p. 366), dalla quale si deduce che a quella data i lavori erano in alto mare proprio per l’irresolutezza di Giulio de’ Medici, ancora cardinale a quella data. Cfr. anche F. Guicciardini, Storia d’Italia, a cura di S. Seidel Menchi, 3 voll., Einaudi, Torino 1971, XVI, 5, vol. III, p. 1668: «Donde, e nel deliberarsi e nello eseguire quel che pure avesse deliberato, ogni piccolo rispetto che di nuovo se gli scoprisse, ogni leggiero impedimento che se gli attraversasse, pareva bastante a farlo ritornare in quella confusione nella quale era stato innanzi deliberasse». 5 Carteggio, vol. III (1973), p. 3. Piero Gondi in Firenze a Michelangelo in Roma, 12 dicembre 1523. 6 Ivi, p. 43. G.F. Fattucci in Roma a Michelangelo in Firenze, 10 marzo 1524. La memoria mandata a Fattucci per sottoporla al papa era stata redatta e scrupolosamente manipolata nel dicembre precedente: ivi, p. 10, Michelangelo in Firenze a Giovan Francesco Fattucci in Roma, fine dicembre 1523. Michelangelo vi sostiene che nel 1505 è partito per Carrara e dopo sei mesi ha condotto a Roma i marmi e ha iniziato a lavorarli con altri collaboratori: «(...) e chominciai a.llavorare el quadro e le figure, di che c’è anchora degl’uomini che vi lavororno; e in chapo d’octo o nove mesi el Papa si mutò d’openione e non la volse seguitare». In realtà Michelangelo non iniziò a lavorare i marmi né spese a Carrara tutti i soldi avuti da Giulio ma ne depositò 600 sul conto di Firenze e se ne servì poi per acquistare alcune proprietà immobiliari. Era rientrato a Roma da Carrara nel dicembre del 1505 e nell’aprile del 1506 ne era già ripartito e non c’era stato materialmente il tempo per impiantare il dispendioso cantiere di cui nel 1523 rivendicava i costi altissimi. Il secondo passo in cui Michelangelo mente è quello relativo alla statua bronzea fatta nel 1507 a Bologna per Giulio II: «Basta che all’ultimo, messa la fi-

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gura dove aveva a stare, chon gran miseria in capo de dua anni mi trovai avanzati quatro duchati e mezzo». Le registrazioni dei suoi conti correnti ci dicono che appena tornato a Roma da Bologna Michelangelo, il padre deposita 250 fiorini sul suo conto (Hatfield, The Wealth of Michelangelo cit., p. 65), che uniti ai 600 depositati dall’acconto dei 1000 avuti prima di partire per Carrara, costituiscono una cifra molto ragguardevole. Ma la cifra maggiore che Michelangelo tenta di sottrarre alla contabilità degli eredi di Giulio sono i 2000 ducati ricevuti poco prima della morte di Giulio per riprendere i lavori della sepoltura e che ora tenta di far passare come un pagamento postumo per le pitture della Sistina (ivi, p. 9): «(...) e dolendomi un dì con messer Bernardo da Bibbiena e chon Actalante, com’io non potevo più stare a.rRoma e che e’ mi bisogniava andar con Dio, messer Bernardo disse a Actalante che gniene ramentassi, che mi voleva fare dare danari a ogni modo, e fecemi dare dumila ducati di Chamera, che son quegli, chon que’ primi mille de’ marmi, che e’ mi mectono a chonto della sepultura; e io stimavo averne aver più, pel tempo perduto e per l’opere facte». Michelangelo attribuisce dunque ben 2000 ducati ricevuti per la tomba al pagamento per la Sistina ma fuor di ogni possibile equivoco egli aveva sottoscritto nel 1513 un contratto con gli eredi di Giulio che recita: «Item il prefato M. si confessa havere hauto et receputo di detta somma di ducati sedicimila cinquecento d’oro simili, ducati tre milia cinquecento dalla prefata felicie memoria [di] Iulio Secondo, cioè mille e cinquecento simili per le mani de essa felicie memoria et dumilia per le mani de Bernardo Bini merchante fiorentino: delli quali tremilia cinquecento si domanda bene contento et pagato, et proterea [sic]» (Milanesi, Le lettere di Michelangelo cit., p. 638). Negli anni successivi a questo contratto Michelangelo aveva intascato senza fiatare la bella somma di altri 4000 ducati, più la disponibilità di una casa che doveva ritornare secondo il contratto agli eredi una volta finito il lavoro e che invece adesso Michelangelo rivendicava per sé. Negli anni in cui aveva servito Giulio II e poi i suoi eredi, Michelangelo aveva ricevuto compensi strepitosi che si possono calcolare, secondo le tracce lasciate sui suoi conti correnti, a poco meno di 15.000 ducati, una cifra del tutto spropositata per un artista laddove si consideri che lo stesso Leonardo da Vinci negli stessi anni aveva accumulato meno della decima parte di una tale ricchezza. Con i soldi avuti da Giulio, Michelangelo si era comprato case e terreni, aveva avviato l’impresa commerciale dei fratelli e poteva contare su una liquidità ancora molto forte. Come nessun altro committente, gli eredi di Giulio avevano avuto la pazienza e l’umiltà di accettare le deroghe e le inadempienze dell’artista, che continuava a ricevere lauti pagamenti senza

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mostrare il frutto del suo lavoro e si può dire che a quella data, a lato di una cifra ricevuta per la tomba di 8500 ducati, Michelangelo non aveva sbozzato che poche statue e aveva fatto lavorare una quantità irrisoria di blocchi decorati, quelli che erano rimasti nella casa di Roma. 7 Lettera di G. Battista Sanga a Uberto da Gambara, 27 giugno 1527, riportata in Von Pastor, Storia dei Papi cit., vol. IV, t. 2 (1912), p. 726. 8 Guicciardini, Storia d’Italia cit., vol. III, p. 1870. 9 Stendhal, Cronache Italiane, introduzione di D. Fernandez, Tascabili economici Newton, Roma 1993, p. 19: «Proprio in quell’epoca [1600, N.d.A.] si spense l’originalità italiana già messa in serio pericolo dalla caduta di Firenze nel 1530». 10 Lettera di G. Battista Busini a Benedetto Varchi, in Opere di Benedetto Varchi con le lettere di Gio. Battista Busini, 2 voll., Nicolò Bettoni, Milano 1834, vol. II, p. 41, lettera decimoquinta. Sull’esperienza politica di Michelangelo vedi G. Spini, Michelangelo politico, Unicopli, Milano 1999. Significativa sulla fuga di Michelangelo è la ricordanza di Giovan Battista Figiovanni, che non lascia nessun dubbio sul vero motivo della fuga di Michelangelo da Firenze: «(...) et così io sempre tenni mano alla sua gloria, massime che Michelagnolo si absentò per a Ferrara fuggendo da pericolo el suo tesoro minacciato dal populo nel bisogno della guerra (...)» (Corti, Una ricordanza cit., p. 29). 11 Carteggio, vol. III (1973). Ludovico in Settignano a Michelangelo in Firenze, 23 settembre 1528, p. 260. 12 La nomina è in Milanesi, Le lettere di Michelangelo cit., p. 701, datata 6 aprile 1529: «ricordandosi della fatica per lui durata et diligentia usata nella sopradetta opera sino a questo dì gratis et amorevolmente, (...) detto Michelagnolo conduxono in generale governatore et procuratore costituito sopra alla detta fabrica et fortificatione delle mura». L’impegno di Michelangelo a favore della repubblica era dunque stato immediato ed incondizionato. 13 Sull’attività di Antonio Brucioli (1495-1566) vedi E. Campi, Michelangelo e Vittoria Colonna: un dialogo artistico-teologico ispirato da Bernardino Ochino, Claudiana Editrice, Torino 1994, p. 156: «Il 1530 a Venezia per i tipi di Lucantonio Giunti veniva pubblicata una traduzione del Nuovo Testamento curata dal Brucioli, che nel 1531 pubblicò i Salmi e nel 1532 l’intera Bibbia (...). Fedele ai testi originali o meno, è certo che la Bibbia del Brucioli ebbe una vasta influenza, come provano le numerose ristampe fino al 1559, anno in cui fu posta all’indice da Paolo IV». Cfr. anche Von Albertini, Firenze cit., p. 73, n. 2: «Nato nell’ultimo decennio del se-

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colo XV, il Brucioli è allievo del Diaccetto e viene introdotto forse dall’Alamanni negli Orti Oricellari. Dopo la congiura del 1522 si rifugia dapprima a Venezia; poi a Lione. Ha inizio un’intensa attività di scrittore e di editore. Egli viene a contatto con gli ambienti umanistici del versante nord-alpino. Nel 1527 ritorna a Firenze, ma, in quanto amico dell’Alamanni e avversario dei Piagnoni, egli è subito sospetto. Dopo la caduta di Niccolò Capponi viene posto sotto accusa per i suoi legami con la Riforma e quindi mandato in esilio. Trascorre a Venezia il resto della sua vita». 14 Benedetto Varchi, osservatore attentissimo e grande estimatore di Michelangelo, comprese e testimoniò per sempre le drammatiche condizioni in cui l’artista scolpì forse le statue più belle ed emozionanti della sua lunga carriera: «Perché Michelagnolo pervenutogli ciò d’una bocca in un’altra all’orecchie, uscì fuori, e più per bella paura che per voglia ch’egli avesse di lavorare, essendo stato più e più anni ch’egli non che adoperato, non aveva veduto né mazzuolo, né scarpegli, si pose giù, e in non gran tempo condusse, e adornò la sagrestia nuova di San Lorenzo in nuova e maravigliosa foggia con tante si belle e si artificiose figure (avvengadiochè non fornite) che la nostra età (se i più intendenti artefici dicono vero) non ha mediante cotale, e altre opere di Michelagnolo, che invidiare all’antica, nè Firenze a Roma» (Opere di Benedetto Varchi cit., vol. II, p. 375). Inequivocabile è anche la cronaca che di quei giorni trasmette Figiovanni con la sua «ricordanza»: «Bartolommeo Valori commissario cercò farlo morire da Alexandro Corsini strumento del papa, per molte offensione facte alla casa de’ Medici. Io lo canpai dalla morte et salva’li la roba: addomandonmi mille volte perdono» (Corti, Una ricordanza cit., p. 29). 15 Brani commentati acutamente nel recente studio di Poeschke, Michelangelo cit., pp.109 e 113. 16 Carteggio, vol. III (1973), p. 227, Michelangelo in Firenze a Giovan Francesco Fattucci in Roma, 17 giugno 1526. 17 Commentato in Vasari-Barocchi, vol. I, p. 63. 18 Carteggio, vol. III (1973), p. 329. Lettera di Giovan Battista Mini a Bartolommeo Valori, in data 29 settembre 1531. 19 La cronaca della cerimonia, in cui apparvero i migliori esponenti dell’aristocrazia romana, si trova in una lettera del 19 giugno 1519, in Gaye, Carteggio inedito cit., vol. I (1839), p. 408, ed è ripresa da Bruto Amante, Giulia Gonzaga contessa di Fondi e il movimento religioso femminile nel sec. XVI, Zanichelli, Bologna 1896. Il riferimento alle medaglie antiche uti-

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lizzate come decoro coglie appieno uno dei tratti caratteristici dell’eleganza «colta» della società romana dell’epoca. 20 I versi sono scritti sui margini della lettera che Giuliano Bugiardini gli ha spedito il sabato 5 ottobre 1532 da Firenze. In Carteggio, vol. III (1973), p. 434. 21 Ivi, p. 443. Michelangelo in Roma a Tommaso Cavalieri, fine dicembre 1532. 22 M. Hirst, G. Mayr, Michelangelo, Pontormo und das Noli me tangere für Vittoria Colonna, in Vittoria Colonna Dichterin und Muse Michelangelos, a cura di S. Ferino Pagden, KHM, Wien 1997, pp. 335-344.

6. Gli occhiali di Michelangelo 1

Un primo accenno all’impresa del Giudizio Universale sembra contenuto nella lettera di Sebastiano del Piombo a Roma a Michelangelo in Firenze il 17 luglio 1533, «che ha deliberato, inanti che tornate a Roma, lavorar tanto per vui quanto havete facto et farete per Sua Santità, et farvi contratto di tal cossa che non ve lo sogniasti mai» (Carteggio, vol. IV [1979], p. 18). Ad ogni modo l’inizio dei lavori veri e propri si colloca nella primavera del 1536, quando si fanno gli intonaci sulla parete e si comprano i colori preziosi per il cielo. Cfr. Steinmann cit., p. 766, a proposito della costruzione del ponteggio il 16 aprile 1535. 2 Carteggio, vol. IV (1979), p. 26. Michelangelo in Firenze a Tommaso Cavalieri in Roma, il 28 luglio 1533. 3 Ivi, p. 63. Michelangelo in Firenze al fratello Giovan Simone in Settignano, giugno-settembre 1534. 4 Ivi, p. 65. Lettera di un anonimo a Michelangelo in Firenze prima del 23 settembre 1534. 5 Ivi, p. 49. Tommaso Cavalieri in Roma a Michelangelo in Firenze, il 6 settembre 1533. 6 La notizia, preziosissima per inquadrare la storia dell’amicizia tra i due, si ricava da una lettera di Jacopo Meleghino a Michelangelo del 10 agosto (1537?), ivi, p. 81: «Hor, perchè Sua Santità se trova qui sola et non ha chi la intertenga, desideraria, quando non vi fusse di scommodo alcuno, ragionare con voi, et se vi fusse piacere vederia volentieri la pittura della capella». 7 Lettera di Gualteruzzi a Cosimo Gheri del 12 giugno 1536, in V. Colonna, Sonetti in morte di Francesco Ferrante d’Avalos Marchese di Pescara, a cura di T.R. Toscano, Milano 1998, p. 25.

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Il giudizio inappellabile della Chiesa di Roma sulla effettiva eresia di Reginald Pole, Vittoria Colonna e quasi tutti gli altri componenti del gruppo è testimoniato con impressionante materiale documentario, che dimostra quanto interesse ebbero le spie dell’Inquisizione per questi personaggi, nella monumentale opera del biografo di Paolo IV Carafa, Antonio Caracciolo, che ordinò il materiale della propria opera pochi anni dopo la morte dei personaggi e che poté servirsi, oltre che dei documenti ufficiali, anche delle testimonianze di molti uomini contemporanei a Pole e Vittoria in Vita di Paolo IV, di Antonio Caracciolo Chierico regolare, manoscritto in Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. Lat. 4961. Contro quel giudizio non valgono a molto gli sforzi della storiografia cattolica moderna, che ancora di recente vorrebbero poter recuperare il gruppo di Viterbo perseguitato dalla Chiesa all’interno di una cultura ortodossa, contrastata soltanto dalle «intemperanze» di un papa esuberante come Paolo IV. Cfr. a tale riguardo la lettera di monsignor Giuseppe de Luca al segretario del Sant’Uffizio riportata in S. M. Pagano, C. Ranieri, Nuovi documenti su Vittoria Colonna e Reginald Pole, Archivio Vaticano, Città del Vaticano 1989, p. 26, n. 8. Documento importante per la valutazione delle accuse di eresia mosse a Pole e Vittoria Colonna è anche il Compendio dei processi del Santo Uffizio di Roma da Paolo III a Paolo IV, pubblicato a cura di C. Corvisieri in «Archivio della Società romana di Storia Patria», 3, 1880, pp. 261-290. Fondamentale per la comprensione del rapporto che lega Vittoria a Michelangelo è l’opera di E. Campi, Michelangelo e Vittoria cit. 9 Lettera di Vittoria Colonna ad Alvise Priuli del maggio-giugno 1543, in Pagano, Ranieri, Nuovi documenti cit., p. 150. 10 Ivi, pp. 127-130, dove sono accuratamente commentate le censure inquisitoriali alle lettere di Vittoria scritte proprio in quei giorni e che esprimono i concetti più volte ribaditi nella corrispondenza con Michelangelo di quegli anni. La raccolta delle lettere di Vittoria è in E. Ferrero, G. Muller, Carteggio di Vittoria Colonna Marchesa di Pescara, Ermanno Loescher, Torino 1889. 11 Sul libretto del Beneficio di Cristo cfr. S. Caponetto, Il Beneficio di Cristo, Sansoni-The Newberry Library, Firenze-Chicago 1972, e C. Ginzburg, A. Prosperi, Giochi di pazienza. Un seminario sul «Beneficio di Cristo», Einaudi, Torino 1975. Infine, dello stesso A. Prosperi, L’eresia del Libro grande: storia di Giorgio Siculo e della sua setta, Feltrinelli, Milano 2000. 12 La ricevuta del pagamento percepito dallo scalpellino per il lavoro di sbozzo è in I Ricordi di Michelangelo, a cura di L. Bardeschi Ciulich e P. Barocchi, cit., p. 298: «Dicembre 1537, Io Sanandro di Giovani òne ricivu-

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to da Michelangiolo ischudi cinqui pere chonto de la Madona che io facevo da deto Orenbino. Io mi chiamo chontento di quelo òne auto a fare cho lui, cho dito Michelangiolo insino a questo dicembre 1537». 13 Il commento è del cardinale Ercole Gonzaga, in Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. Lat. 5790, c. 140r. Lettera del cardinale Ercole Gonzaga in Mantova a Don Ferrando in Roma, 10 marzo 1542, commentato anche in Forcellino, Michelangelo Buonarroti cit., p. 246. 14 Carteggio, vol. IV (1979), p. 105. Vittoria Colonna a Michelangelo, senza data certa. I curatori del carteggio la collocano dubitativamente tra il 1538 e il 1541 ma niente osta a una datazione anche successiva. Purtroppo sono rimaste pochissime delle molte lettere di Vittoria che Michelangelo in una lettera al nipote del 1552, diceva di conservare ancora. Circostanza questa, che lascia immaginare quanto Michelangelo fosse consapevole della pericolosità di quella corrispondenza. 15 Una strana coincidenza lega questa allegoria michelangiolesca a un’altra allegoria di carità che si trova in un luogo che fu centrale per la diffusione del valdesianesimo. A Napoli, nella chiesa di San Giorgio Maggiore dove aveva predicato Bernardino Ochino, a pochi passi dal pulpito che lo sostenne, c’era e c’è un’allegoria di Carità con i capelli che si trasformano sulla fronte in una fiamma che aspira al cielo. L’effetto ingenuo di questa come di altre allegorie che purtroppo non ci sono pervenute, non poteva adattarsi a Michelangelo, che studia quella meravigliosa acconciatura che termina nella lucerna alimentandone simbolicamente il fuoco. Il vocabolario degli «Spirituali» è ricco di riferimenti ai pensieri ardenti della carità; cfr. la lettera di Paolo Sadoleto ad Alvise Priuli scritta da Carpentras il 4 luglio 1559 a commento della morte di Reginald Pole, «et che egli [Pole, N.d.A.] ha accumulato in capo i carboni accesi della sua gran carità...» (P. Simoncelli, Il caso Reginald Pole, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1977, p. 201). 16 Carteggio, vol. IV (1979), p. 101. Vittoria a Michelangelo, s.d. 1541-44. 17 Per una cronaca dettagliata dell’ultimazione della tomba, cfr. Forcellino, Michelangelo Buonarroti cit., pp. 266-267. 18 Le evidenze del restauro per quanto riguarda lo stato mutilo delle sculture del primo ordine della tomba di Giulio II sono state rese pubbliche da A. Forcellino, Le statue della Tomba di Giulio II, in «Monumenti di Roma», 2003, 1, p. 145. 19 Lettera di un anonimo a Vasari, marzo 1564, in Vasari, Der literarische Nachlaß, a cura di K. Frey, cit., vol. II (1930), p. 64. Per il commento, cfr. Forcellino, Michelangelo Buonarroti cit., p. 269.

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7. La Cappella Paolina 1

Cellini, Opere cit., p. 552. Un’altra preziosa testimonianza sull’oscura personalità di Urbino è emersa dal carteggio dei deputati della Fabbrica di San Pietro pubblicato da L. Bardeschi Ciulich, Documenti inediti su Michelangelo e l’incarico di San Pietro, in «Rinascimento», XVII, 1977. I deputati della Fabbrica, ancora fedeli al progetto e agli interessi della «cricca sangallesca», denunziano al papa, il 4 settembre 1548, il maltrattamento subito da un loro commissario (p. 274): «esso ms. Michelangelo lo menò per darli uno buffetto, lo quale esso commissario lo reparò con una mane. Dall’altro canto Urbino lo prese per li bracci stretto dicendoli ch’era stato uno tristo et un giotto (...) ma bene soggiunse Urbino, et disse queste parolle; – Si tu torni, più tu non te ne partirai». Una minaccia degna di un gaglioffo prepotente quale emerge dal giudizio di Cellini. 2 L’inventario è in C. Leonardi, Michelangelo, l’Urbino, il Taruga, Petruzzi, Città di Castello 1995, p. 41. 3 I Ricordi di Michelangelo, a cura di L. Bardeschi Ciulich e P. Barocchi, cit., p. 303: «Sia noto a qualunche persona come io Michelagniolo Buonarroti ò dato oggi, questo dì ventisecte di febraio 1452 [sic!], a finire tre figure di marmo maggiore che ’l naturale, bozzate di mia mano a Raffaello da Montelupo, scultore qui in Roma, per iscudi quactrocento». 4 Steinmann, Die sixtinische Kapelle cit., p. 770; e in F. Baumgart, B. Biagetti, Gli affreschi di Michelangelo L. Sabbatini e F. Zuccari nella Cappella Paolina in Vaticano, Città del Vaticano 1934, p. 69. 5 Le informazioni tecniche relative ai dipinti sono tratti da Baumgart, Biagetti, Gli affreschi cit., che rimane lo studio di fondamentale riferimento per i dipinti. Il diagramma delle giornate è riportato nelle tavole XLVII e L. Recentemente torna a fare ipotesi sull’interpretazione degli affreschi P. Hemmer, Michelangelos Fresken in der Cappella Paolina und das «Donum Justificationis», in Capellae Apostolicae Sixtinae, Collectanea Acta Monumenta, 9, 2003, pp. 131-152. 6 In Baumgart, Biagetti, Gli affreschi cit., p. 70. 7 A. Brucioli, La Biblia quale contiene i sacri libri del Vecchio Testamento...Co’ divini libri del Nuovo Testamento..., In Venetia 1539, p. 56; vedi Fatti degli Apostoli, cap. IX. Sulla storia di questo libro, cfr. Campi, Michelangelo e Vittoria cit., p. 156. Dalla Bibbia del Brucioli alla Bibbia di Ginevra. «Il Brucioli pubblicò a Venezia nel 1530 una traduzione del nuovo testamento,

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proprio quando Michelangelo si trovava presso di lui. Non ci può essere dubbio quindi che Michelangelo conoscesse già da quella data l’interpretazione di quel passo del vangelo. La Bibbia di Antonio Brucioli fu messa al bando da Paolo IV nel 1559». Che Michelangelo possedesse molto probabilmente la bibbia di Brucioli lo sostiene anche Spini, Michelangelo politico cit., p. 30. 8 P. D’Achiardi, Gli affreschi di S. Pietro a Grado presso Pisa e quelli già esistenti nel portico della basilica Vaticana, in Atti del congresso Internazionale di Scienze Storiche, 1903, vol. VII, Tipografia della R. Accademia dei Lincei, Roma 1905, p. 217, nota 1. Ivi a p. 243 si trova un’illuminante considerazione sull’iconografia che accoppia i due santi: «La figura di San Paolo dunque ha sempre un’importanza secondaria nell’arte cristiana del medio evo: e dei fatti relativi alla vita di lui vengono generalmente rappresentati solo quelli che in qualche modo si riconnettono alla vita di San Pietro e servono sempre più ad illustrare e ad esaltare le azioni di questo». Una più recente riflessione sull’iconografia della conversione di san Paolo si trova in P. Rubin, The private Chapel of cardinal Alessandro Farnese in the Cancelleria, Rome, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», vol. L, 1987, pp. 82-112. 9 Jacopo da Varagine, Leggenda Aurea, a cura e traduzione di C. Lisi, Libreria editrice fiorentina, Firenze 1985, p. 193. 10 Archivio Segreto Vaticano, Lettere dei Principi e Titolati, vol. XVI, f. 411. Riportato in Baumgart, Biagetti, Gli affreschi cit., p. 78. 11 Per le cronache di questo conclave vedi T. F. Mayer, Cardinal Pole in European context: a Via Media in the Reformation, Ashgate Publishing, Burlington (Vermont) 2000, pp. 345-375, e Simoncelli, Il caso Reginald Pole cit. 12 Per la valutazione altissima dei dipinti di proprietà di Urbino si veda la lettera a Michelangelo della vedova Cornelia Colonnelli in Carteggio, vol. V (1983), pp. 120-121, dove la vedova di Urbino avverte Michelangelo che «li quadri erano tanto belli che non era prezzo che li potesse pagare, e che se lui li volesse pagare, bisognarebbe andare a i migliaia de scudi; ma che volea che li putti godessero per amor suo cento scudi». Eppure lo stesso Venusti nel 1571 per un’Orazione nell’Orto copiata dal disegno di Michelangelo ma che evidentemente non si poteva avvalere dei suoi cartoni, chiedeva a Niccolò Gaddi soltanto 21 ducati; in Bottari-Ticozzi, Raccolta di lettere sulla pittura cit., vol. III (1822), p. 265.

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8. La fine delle illusioni 1

L’inventario dei Farnese è in Archivio Segreto Vaticano, Arm. LXI, vol. 14 (c. 177). 2 Per l’inventario dei beni di Urbino vedi C. Leonardi, Michelangelo cit., pp. 41-42: «Item dua quadri depinti, in uno un Christo et in l’altro una Nonciata». Per il testamento del servitore steso in casa di Michelangelo il 24 dicembre 1555, vedi Vita di Michelangelo, a cura di A. Gotti, cit., vol. II, p. 137. 3 La risposta di Ercole Gonzaga al vescovo di Fano, che per conto di Pole gli offriva il quadro, è datata 21 maggio 1546, ed è in Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. Lat. 5793, c. 135. 4 Carteggio, vol. IV (1979), p. 183. Michelangelo al nipote Leonardo, primi di luglio 1544. 5 Lettera di Cosimo I de’ Medici in Firenze a Lorenzo Ridolfi in Roma, 12 gennaio 1546, in Carte michelangiolesche inedite, G. Daelli, Milano 1865, n. 22, c. 32: «et appresso perchè tal malattia si ritrahe perniciosa, per trovarsi costì et vedere che le sue facultà non si ascondino, ma venghino in luce et se ne segna quel tanto sia ragionevole secondo la mente di Michelagnolo. Et perchè Luigi del Riccio, agente dei vostri cognati è stato ed è molto familiare et interessato di detto Michelagnolo et secondo si tiene per certo ha maneggiato e maneggia suo mobile et ragionevolmente può havere notizia se altri ne maneggiano...». 6 Dialoghi di Donato Giannotti, de’ giorni che Dante consumo nel cercare l’Inferno e ’l Purgatorio, ed. critica a cura di D. Redig de Campos, Sansoni, Firenze 1939, p. 68. La data del dialogo viene collocata tra il gennaio 1546 e il marzo dello stesso anno. 7 I consigli che Michelangelo dispensa al nipote tra il 1547 e il 1550 sulla scelta matrimoniale sono un chiaro catalogo dei suoi sentimenti misogini. Da un lato spinge suo nipote al matrimonio perché vuole a tutti i costi un erede visto che ormai nella sua famiglia «c’è più roba che uomini»; dall’altro non riesce a nascondere il disprezzo per le donne proprio quando dovrebbe cantarne le attrattive; citiamo i passi più significativi. Lettera del 20 dicembre 1550 in Carteggio, vol. IV (1979), p. 357: «solo ài aver l’ochio a la nobiltà, a la sanità, e più alla bontà che a altro. Circa la bellezza, non sendo tu però el più bel giovane di Firenze, non te n’ai da curar troppo, purchè non sia storpiata né schifa». Lettera dell’1 febbraio 1549, ivi, p. 310: «Tu ài bisognio d’u-

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na che stia teco e che tu gli possa comandare e che non voglia stare in su le pompe e andare ogni di a conviti e a nozze; perché dove è corte, è facil cosa diventar puctana, e massimo chi è senza parenti». Il picco è raggiunto nella lettera del 16 agosto 1550, ivi, p. 349: «se mi trovassi una serva che fussi buona e necta, benché sie dificile, perché son tucte puctane e porche». I pensieri e i sentimenti alati come l’aquila a cui fece rapire il bel Ganimede per Tommaso Cavalieri, sembrano destinati per Michelangelo unicamente ai bei ragazzi. 8 «Porque se ha hecho de Parma y Placencia en Pero Luyis, haviendo sydo nombrada S. Excellentia sempre para ello y tornandola por escendo del negozio y parar despues en el duque de Castro, aquien aborrisce todo el mundo por su vida y malas qualidades». Il giudizio molto condiviso dalle corti di tutta Europa è in G. Buschbell, Die Sendung des Pedro de Marquina an den Hof Kaiser Karls V im September/Dezember 1545 und September 1546, in «Spanische Forschungen der Görresgesellschaft», IV, 1933, p. 333. 9 Lettera dell’ambasciatore Coppalati a Pierluigi Farnese il 17 novembre 1546, in A. Ronchini, Michelangelo e il Porto del Po a Piacenza, in «Atti e memorie delle RR. Deputazioni di storia patria per le Provincie modenesi e parmensi», II, 1864, pp. 33 sgg. 10 Lettera di Pierluigi Farnese al suo agente romano il 25 novembre 1546, ibid., p. 34. «Con molto dispiacere havemo inteso che messer Michelagnolo habbi tanto poca fede in noi, et che dia fastidio a S.B. fuor d’ogni proposito, Trovatelo, et ditegli in nostro nome che riputiamo che ci facci torto a confidare così poco de l’affetione che li portiamo, et havemo portata sempre. (...) Di Parma a li 25 novembre 1546». 11 Lettera di Fabio Coppalati a Pierluigi Farnese del 17 novembre 1546, in Ronchini, Michelangelo e il porto cit., p. 33. 12 Riunione del 25 febbraio 1547, raccontata con una lettera del giorno successivo da Antonio Arborino in Roma a monsignor Archinto in Trento in L. Bardeschi Ciulich, Documenti inediti cit., p. 258. Per la storia di San Pietro cfr. anche J. Ackerman, The Architecture of Michelangelo, Penguin Books, London 1986, e G.C. Argan, B. Contardi, Michelangelo Architetto, Electa, Milano 1990. Dalla documentazione pubblicata dalla Ciulich si deduce abbastanza chiaramente che Michelangelo fu coinvolto nella direzione della fabbrica di San Pietro già nel novembre del 1546. 13 Carteggio, vol. IV (1979), p. 251. Lettera di Michelangelo a Bartolomeo Ferratino, fine 1546-inizio 1547, p. 251: «in modo che chiunche s’è discostato da decto ordine di Bramante, come à facto il Sangallo, s’è discostato dalla verità».

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Lorenzo Mariottini a Leonardo il 25 febbraio 1553, in Il Carteggio Indiretto, a cura di P. Barocchi, K. Loach Bramanti, R. Ristori, vol. II, 1995, cit., p. 43. 15 Carteggio, vol. V (1983), p. 89. Ludovico Beccadelli in Ragusa a Michelangelo in Roma, 28 marzo 1557. 16 Condivi, Vita di Michelagnolo, a cura di G. Nencioni, cit., p. 48. 17 «Cinquanta scudi doro che tanti me ne ordinò (...) per parte della restitutione dell’entrata di mille dugiento scudi d’oro che mi fu tolta dal papa Caraffa, datami prima dal papa Farnese; vero è che ’l porto di Piacenza me l’aveva tolto prima l’imperadore, e ultimamente il papa Caraffa l’ufitio di Romagnia mi tolse il primo dì che fu facto papa» (I Ricordi di Michelangelo, a cura di L. Bardeschi Ciulich e P. Barocchi, cit., p. 346). 18 Carteggio, vol. V (1983), p. 35. Michelangelo a Giorgio Vasari il 22 giugno 1555. 19 Carteggio, vol. V (1983), p. 55. Michelangelo in Roma a Giorgio Vasari in Firenze, 23 febbraio 1556. 20 «Et son certissimo, se si venissi a l’effetto che questo Papa gli restituissi niente di suo si scorderebbe in modo la fantasia de l’Urbino, che forse un’altra volta, quando torneresti qua, vi meraviglieresti» (Sebastiano Malenotti a Leonardo Buonarroti il 21 marzo 1556, in Il Carteggio Indiretto, a cura di P. Barocchi, K. Loach Bramanti, R. Ristori, vol. II, 1995, cit., p. 58. 21 Per la composizione di Vittoria Colonna, cfr. E.-M. Jung, Il pianto della Marchesa di Pescara sopra la passione di Christo, in «Archivio italiano per la storia della pietà», vol. X, 1997, p. 115. 22 Così erroneamente scriveva Vasari il 18 marzo 1564 in una lettera a Leonardo Buonarroti, in Vasari, Der literarische Nachlaß, a cura di K. Frey, cit., p. 59: «E venutomj consideratione, che Michelagniolo, dudita io, et che lo sa anche Daniello et messer Tomao Cavaljerj e molti altri suoi amici, che la pietà delle cinque figure, [sic!] chegli roppe, la faceva per la sepoltura sua, et vorrej ritrovare, come suo erede, in che modo laveva il Bandino». Appare chiaro come nel 1564 Vasari avesse una cognizione vaghissima della scultura e delle sue vicende perché la ritiene formata da cinque e non da quattro figure e non sa come sia venuta in possesso di Francesco Bandini. 23 In Vasari-Barocchi, vol. I, p. 97. Le censure ai nudi del Giudizio hanno oscurato la vicenda altrettanto importante delle censure che hanno deturpato e deturpano gli angeli in volo nella Conversione di san Paolo nella Cappella Paolina. In Baumgart, Biagetti, Gli affreschi cit., sono riportati i commenti sulle ridipinture osservate dal Biagetti sugli Angeli della Conversione, la-

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sciate prudentemente al loro posto, mentre fu asportata a cuor leggero la ridipintura della testa del cavallo che potrebbe essere stata addirittura di Michelangelo. Nel lavoro di C. de Tolnay, Michelangelo, The Final Period, Princeton University Press, Princeton 1960, si esaminano accuratamente le incisioni che ritraggono gli affreschi della Paolina prima della loro censura, che non viene datata dall’autore. Per l’importanza dei lavori condotti da Paolo IV Carafa nella Cappella Paolina senza interpellare Michelangelo, e durante i quali potrebbero essere stati censurati i dipinti di Michelangelo, cfr. Frey, Studien zu Michelangiolo cit., p. 164 sgg. Le maestranze presenti nella Cappella sono di vario tipo, tra cui anche pittori: «Addì 9 di marzo 1556, a messer Adriano pittore S. tredici bol. 64 per tante opere et spese all’apparato del sepolcro della cappella Paulina» (ivi, p. 164). I documenti provano che Paolo IV fece condurre importanti lavori in Cappella e che vi furono montati ponteggi con i quali dovette essere estremamente semplice ricoprire gli angeli e san Pietro con i drappi. 24 Carteggio, vol. V (1983), p. 324. Michelangelo in Roma ai deputati della Fabbrica di San Pietro in Roma, 6 settembre 1563. È l’ultima lettera di Michelangelo e sortisce l’effetto desiderato perché sventa la manovra dei deputati. 25 Vedi nota 1 all’Introduzione.

REFERENZE ICONOGRAFICHE

Tavole Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali: – Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Fiorentino. Divieto di ulteriori riproduzioni o duplicazioni con qualsiasi mezzo: 1, 19, 21, 22, 23, 25, 30, 31, 32, 33, 41; – Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Veneziano: 42. Città del Vaticano, Monumenti, Musei e Gallerie Pontificie: – Foto Musei Vaticani: 2, 3, 6, 8, 9, 10, 11, 45, 46; – Per concessione dei Musei Vaticani: 4, 5, 7. Londra, © The British Museum: 13, 53. Firenze, Casa Buonarroti: 14, 15, 35. Firenze, Archivio Scala: 16, 18, 28, 47. Londra, Royal Academy of Arts: 26. Parigi, Musée du Louvre: 27. Firenze, Archivi Alinari-archivio Anderson: 29, 33, 41. Firenze, Musei Comunali: 34. Windsor, The Royal Library: 43. Per gentile concessione di Lottomatica Spa: 48, 49, 50, 51, 52. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo: 55. Comune di Milano: 56. Foto Andrea Jemolo: 21, 22, 30, 32, 34, 36, 37, 38, 39, 40, 48, 49, 50, 51, 52, 55. 461

Roma, Foto: Bibliotheca Hertziana – Max-Planck-Institut für Kunstgeschichte: 25. Documentazione redazionale: 12, 17, 20, 24, 44, 54.

Figure Parigi, Musée du Louvre: 3, 7. Città del Vaticano, Monumenti, Musei e Gallerie Pontificie: – Per concessione dei Musei Vaticani: 5; – Foto Musei Vaticani: 10, 11, 14, 15. Città del Vaticano, © Biblioteca Apostolica Vaticana: 12. Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali: – Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Fiorentino. Divieto di ulteriori riproduzioni o duplicazioni con qualsiasi mezzo: 8. Reggio Emilia, Collezione Angelo Davoli – Gabinetto delle Stampe Biblioteca Panizzi: 13. Foto Andrea Jemolo: 7. Documentazione redazionale: 1, 2, 4, 6, 9, 16.

INDICE DEI NOMI

Acidini Luchinat, C., 428. Ackermann, J., 455. Adriano VI (Adriaan Florensz, di Utrecht), papa, 216-217, 219. Agenna, cardinale, 443. Agnese da Montefeltro, 280. Agnolo di Donnino, 132. Agostino di Duccio, 74-75, 77. Alamanni, Luigi, 448. Alberti, Leon Battista, 23. Alberti, Michele degli, 426. Albertini, F., 150, 438. Albertini, R. von, 441, 447. Aldrovandi, Francesco, 50-52. Alessandro VI (Rodrigo Borgia), papa, 61, 72-73, 102. Amante, Bruto, 448. Ammannati, Bartolomeo, 395. Andrea della Stufa, 74. Anna, santa, 92. Antonio da Pontassieve, 166. Antonio del Francese, XIII, 399, 419. Arborino, Antonino, 455. Archinto, monsignore, 455. Argan, Giulio Carlo, 455. Avalos, Ferrante Francesco d’, 280. Baccellino da Settignano, 75. Baccio Bigio, 186. Baccio d’Agnolo, 185-186. Baglioni, Malatesta, 237.

Baie, Lazare de, 239. Balducci, famiglia, 61, 107. Bandinelli, Baccio, 301. Bandini, Francesco, XIX, 370, 376, 418, 456. Barbarossa, Khair ad-D∞n, 278. Bardeschi Ciulich, L., 435, 450, 452, 455-456. Barocchi, Paola, XXI, 427, 429-431, 435, 437, 448, 450, 452, 456. Bartolomeo di Sandro, 432. Baumgart, F., 452-453, 456. Beatrizet, Nicolas, 339. Beccadelli, Ludovico, 285, 401, 456. Bembo, Pietro, 281, 356. Benedetto da Rovezzano, 433. Benetti, C., 434. Benti, Donato, 193. Bentivoglio, famiglia, 43, 50. Bentivoglio, Francesca, 72. Bernardo da Bibbiena, 446. Bernini, Gian Lorenzo, 292. Berto da Filicaia, 444. Bertoldo di Giovanni, 29, 32, 37-38. Biagetti, B., 452-453, 456. Bilhères-Lagraulas, Jean de, 63, 66. Billi, Antonio, 150, 438. Bini, Bernardo, 440, 442, 446. Bini, Giovanni Francesco, 359. Bolena, Anna, 284. Borbone, famiglia, 228.

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Borgherini, Francesco, 174. Borghese, Camillo, vedi Paolo V. Borghini, Vincenzio, XV-XVIII, 426. Borgia, famiglia, 73, 104. Borgia, Cesare, detto il Valentino, 30, 72-73, 82, 102-103. Borgia, Lucrezia, 72. Borromeo, Carlo, XIX. Borromini, Francesco, 292. Botticelli (Sandro di Mariano Filipepi, detto il), 83. Bramante, Donato, XI, 106-107, 114-115, 120, 124, 127, 130, 136, 148, 388, 390, 392-393, 455. Brucioli, Antonio, 224, 239, 337338, 447-448, 452-453. Bruegel, Pieter, 63. Brunelleschi, Filippo, 9, 13, 18, 28, 77, 184, 230, 238, 243, 367. Buffalmacco, Buonamico (soprannome di Buonamico di Martino da Firenze), 272. Bugiardini, Giuliano, 123, 131, 140, 253-254, 449. Buonarrota di Simone, 6. Buonarroti, famiglia, XIV, 8, 16, 52, 73, 119, 268, 381, 397. Buonarroti, Buonarroto, 16, 116, 118, 146, 162-163, 195, 236, 268, 373, 435, 437-438, 444. Buonarroti, Francesca, 236, 268, 382. Buonarroti, Francesco, 146. Buonarroti, Giovan Simone, 16, 163-164, 202, 372, 440, 449. Buonarroti, Gismondo, 202, 372, 408. Buonarroti, Leonardo, nipote di Michelangelo, XIII, XVIII-XX, 236, 372-374, 376, 381-382, 396-399, 425, 432-433, 454, 456. Buonarroti, Leonardo, padre di Ludovico, 6. Buonarroti, Ludovico, IX, 5-8, 1719, 43, 61, 64-65, 73, 78, 118, 146,

161-164, 202-203, 236, 426-427, 430, 434-435, 437-438, 440, 444, 447. Buonarroti, Michelangelo, nipote di Michelangelo, 399. Buonarroti, Michelangelo il Giovane, nipote di Michelangelo, XX. Buonarroti, Sigismondo, 16. Buoninsegni, Domenico, 187, 195, 198-199, 444. Buschbell, G., 455. Busini, Giovanni Battista, 447. Cadogan, J.K., 427. Cagione, Andrea, 187-188. Cagione, Leonardo, 187-188. Caglioti, F., 432-433. Calcagni, Tiberio, IX. Campagnola, Domenico, 329. Campi, E., 447, 450, 452. Canova, Antonio, 312. Caponetto, S., 450. Capponi, Niccolò, 232, 235, 448. Caracciolo, Antonio, 288, 450. Carafa, Giampietro, vedi Paolo IV. Caravaggio (Michelangelo Merisi, detto il), 326. Carducci, Francesco, 232. Carlo V, imperatore, XI-XII, 205, 219, 237, 240, 278, 280, 282, 294, 362, 370, 384, 391, 402-403. Carnesecchi, Pietro, 283. Casotti, G.B., 436. Cassandra, zia di Michelangelo, 146, 163, 202. Cavalieri, Sofonisba, 254. Cavalieri, Tommaso de’, X, XIV, 254-256, 261, 263-265, 449, 455. Cellini, Benvenuto, 143, 216, 318, 376, 437, 445, 452. Cesare di Casteldurante, 399-401. Chabod, F., 441. Cimabue (Cenni di Pepo, detto), 348. Clemente VII (Giulio de’ Medici),

466

papa, 176-177, 187-189, 201, 213215, 217, 219-222, 226-229, 231232, 237, 241, 243, 250-251, 253, 260-261, 263, 266, 280, 283, 444445. Colalucci, Gianluigi, XXI, 437. Colonna, famiglia, 228, 280. Colonna, Fabrizio, 280. Colonna, Prospero, 280. Colonna, Vespasiano, 282. Colonna, Vittoria, 256, 274, 280282, 284-285, 287-291, 296-297, 299, 301, 338, 349-351, 353, 365371, 377, 385, 388, 401, 409-410, 418, 449-451, 456. Colonnelli, Cornelia, 453. Condivi, Ascanio, 20, 34, 50, 60-61, 112, 114, 366-367, 396-397, 403404, 425, 427-430, 432, 456. Contardi, B., 455. Contarini, Gasparo, 285. Coppalati, Fabio, 387, 455. Corsini, Alessandro, 241, 448. Corsini, Rinaldo, 238. Corti, G., 444, 447-448. Cosma, santo, 244. Costabili, Beltrando, 434. D’Achiardi, P., 453. Damiano, santo, 243. Daniele da Volterra, X, XX, 416-417, 425-426. Dante Alighieri, 52, 272, 377, 404. Della Robbia, Andrea, 83. Della Rovere, famiglia, 161, 169, 174, 178, 180-181, 185-186, 205206, 216, 221, 261, 267, 292, 294295, 320, 359. Della Rovere, Francesco Maria, 175, 178, 180, 186, 199-201, 205, 217, 222, 227, 231, 246, 267, 294, 296. Della Rovere, Giovanna Feltria, 134.

Della Rovere, Giuliano, vedi Giulio II. Della Rovere, Guidobaldo, 294296, 308, 320. Della Rovere, Leonardo Grosso, 175, 441. Del Monte, Giovanni Maria de’ Ciocchi, vedi Giulio III. de Luca, Giuseppe, 450. Desiderio da Settignano, 10. Dolce, Ludovico, 355. Donatello (Donato di Niccolò di Betto Bardi), 29, 34, 37-38, 83, 367. Donati, Massimo, 96. Doni, Agnolo, 90, 432. Draper, J.D., 428. Dunkerton, J., 429-431. Echinger-Maurach, C., 440. Egidio da Viterbo, 112, 126. Elam, C., 427, 429. Enrico di Valois, 261. Enrico VIII, re d’Inghilterra, 284. Este, Alfonso d’, 72, 148, 185, 396. Este, Ercole d’, 72. Este, Isabella d’, 148, 156, 175, 438, 441. Eudosia, 309. Falletti, F., 431. Farnese, famiglia, 266, 358, 384, 394, 454. Farnese, Alessandro, vedi Paolo III. Farnese, Costanza, 266. Farnese, Pierluigi, 266-267, 294, 382-384, 455. Fattucci, Giovanni Francesco, 119, 220-221, 374-375, 445, 448. Federigo da Carpi, medico, 425. Federigo da Montefeltro, 200. Ferino Pagden, S., 449. Fernandez, D., 447. Ferratino, Bartolomeo, 455. Ferrero, E., 450.

467

Figiovanni, Giovanni Battista, 213215, 447. Fileti Mazza, M., 432-433. Filippo II d’Asburgo, re di Spagna, 403, 406. Fioretta, madre di Giulio de’ Medici, 176. Firpo, Massimo, XXI. Flaminio, Marcantonio, 283-285, 289, 368. Foix, Odet de, 200. Forcellino, Antonio, 435, 440, 451. Forcellino, M., 440. Francesco I, re di Francia, XVI, 219, 239, 280, 375. Freud, Sigmund, 312. Frey, K., 425-427, 431-433, 438, 451, 456-457. Frizzi, Federico, 173. Frommel, Ch.L., 428, 434, 436, 440. Frundsberg, Georg von, 228. Fugger, famiglia, 160, 386. Gaddi, Niccolò, 453. Gaddi, Taddeo, 18. Gaurico, Pomponio, 79. Gaye, G., 431-433, 435-436, 448. Gheri, Cosimo, 449. Ghiberti, Lorenzo, 18, 28, 34. Ghirlandaio, fratelli, 17, 19, 31, 62, 123, 427. Ghirlandaio, Davide, 83, 427. Ghirlandaio, Domenico, 17, 20-21, 120, 137, 427. Ghirlandaio, Ridolfo, 19. Ghirlandaio, Tomaso, 17, 427. Giannotti, Donato, 224, 376-377, 397, 403. Gilio, Andrea, 328, 355. Ginzburg, C., 450. Giotto, 18, 20, 28, 122, 151, 270, 272, 347-348, 350. Giovanbattista della Palla, 51-52, 224, 239-240. Giovanni Battista, santo, 90, 271.

Giovanni da Reggio, 204. Giovanni da Romena, 440. Giovansimone, figlio di Urbino, 398. Giovio, Paolo, 355-356. Giulio II (Giuliano Della Rovere), papa, XII, XIX, XXII, 81, 104-106, 108, 110-116, 118, 120, 123, 125126, 129, 134, 137, 147-150, 156, 160-162, 166, 168, 175-176, 180, 185-186, 191-192, 196-199, 204206, 209, 217, 220-222, 253, 260261, 280, 290-291, 295, 300-302, 307, 319, 338, 388, 403-404, 419, 434-435, 439-440, 442-443, 445446, 451. Giulio III (Giovanni Maria de’ Ciocchi Del Monte), papa, 361, 394-396, 400, 402. Giulio Romano, 370. Giunti, Lucantonio, 447. Giuseppe, santo, 91. Gondi, Piero, 445. Gonzaga, Eleonora, 296, 301. Gonzaga, Elisabetta, 175, 180, 441. Gonzaga, Ercole, 279, 296, 301, 308, 370, 384, 410, 451, 454. Gonzaga, Federico, 186, 200. Gonzaga, Ferrante, 384. Gonzaga, Giulia, 265, 282, 287. Gotti, A., 426, 431, 454. Gozzoli, Benozzo, 28. Granacci, Francesco, 83, 123, 131, 140. Grassis, Paris de, 436, 438. Grossino, segretario di Alfonso d’Este, 148. Gualteruzzi, 449. Guicciardini, Francesco, 48, 157, 177-178, 219, 227, 230, 382, 427, 429, 441, 445, 447. Guicciardini, Michele, 268. Guicciardini, Rinieri, 429. Haines, M., 430-432.

468

Hatfield, Rab, XXI, 426, 430, 434, 437, 440-441, 446. Hemmer, P., 452. Henry, T., 437. Heston, Charlton, XX. Hirst, Michael, XXI, 427, 429-431, 449. Hollanda, Francisco de, 274. Iacopo di Sandro, 123, 134. Inglese, G., 429. Jacopo da Varagine, 347, 453. Jacopo del Duca, 426. Jung, E.-M., 456. Kardi, Jafredus, 433. Landucci, Luca, 15, 426-428, 436. Leonardi, C., 452, 454. Leonardo da Vinci, 83, 92-96, 98, 117, 125, 234, 433, 446. Leone X (Giovanni de’ Medici), papa, 61, 156-158, 160, 175-178, 180, 184-187, 192, 195-196, 198201, 205, 214, 216-218, 220, 227, 231, 246, 386, 388, 390, 395, 438. Leoni, Diomede, X. Ligorio, Pirro, 406. Lippi, Filippino, 83, 346-347. Lisi, C., 453. Loach Bramanti, K., 437, 456. Lorenzo di Credi, 83. Luigi del Riccio, 374, 376, 382, 401, 454. Lutero, Martin, 386. Luzio, A., 441. Machiavelli, Niccolò, 48, 159, 177, 182, 223-224, 232, 429. Maier, B., 437. Malenotti, Sebastiano, 456. Mancinelli, F., 436. Mancusi Ungaro, H.R., 432. Manfredi, Astorre, 72.

Manfredi, Galeotto, 72. Maria Tudor, regina d’Inghilterra, 401, 406. Mariottini, Lorenzo, 456. Martini, Francesco di Giorgio, 234. Masaccio (Tommaso di Giovanni di Mone Cassai, detto), 20, 151. Mascheroni, famiglia di mercanti, 87-88, 432-433. Massimiliano I, imperatore, 73. Mayer, T.F., 453. Mayr, G., 449. Medici, famiglia, XV, XVII, XIX, 13, 18, 22-25, 28, 30, 34, 42-43, 45, 47, 50-51, 55, 60, 156-160, 176, 178, 180, 182, 184-185, 188-189, 196, 200-201, 205, 213-214, 217, 219, 221-223, 225-226, 230-233, 236238, 241-242, 252, 256, 259, 261262, 448. Medici, Alessandro de’, XV, 218, 230, 241, 262, 377. Medici, Caterina de’, 261, 397. Medici, Cosimo de’, il Vecchio, 2324, 184. Medici, Cosimo I de’, XV-XIX, 60, 85, 318, 365, 375-376, 397, 407, 426, 454. Medici, Giovanni de’, vedi Leone X. Medici, Giuliano de’, fratello di Lorenzo il Magnifico, 24-25, 176, 214. Medici, Giuliano de’, duca di Nemours, 156, 158, 214, 226, 232, 243, 245-247, 253, 438. Medici, Giulio de’, vedi Clemente VII. Medici, Ippolito de’, 230, 264-265, 283. Medici, Lorenzino di Pierfrancesco il Giovane de’, 377. Medici, Lorenzo de’, detto il Magnifico, 15, 21-25, 27-33, 41-46, 50, 177, 183-184, 205, 239, 428.

469

Medici, Lorenzo de’, duca di Urbino, nipote del Magnifico, 177178, 180, 200-201, 213-214, 225, 232, 243, 245, 247, 250, 377. Medici, Lorenzo di Pierfrancesco il Vecchio de’, 55, 57, 430. Medici, Piero de’, detto il Gottoso, 24. Medici, Piero de’, figlio di Lorenzo il Magnifico, 42-46, 49-52, 61, 73. Meleghino, Jacopo, 267, 449. Merenda, Apollonio, 285. Michelangelo, figlio di Urbino, 398. Michelozzi, Michelozzo, 28. Michi, Giovanni, 139, 435. Milanesi, Gaetano, 428, 430-431, 433, 438, 441, 443-444, 446-447. Mini, Antonio, 238, 253, 269, 318. Mini, Giovan Battista, 252, 448. Modesti, J., 438. Montevecchi, A., 427, 429. Montorsoli, Angelo, 248, 253, 261. Morone, Giovanni, 285, 288, 353, 356, 370, 401, 406, 413, 415, 421. Muller, G., 450. Nanni di Baccio Bigio, 386, 417418. Nencioni, G., 427-430, 432, 456. Nerone, imperatore, 127, 348, 351. Niccolò dell’Arca, 51. Ochino, Bernardino, 283-284, 342, 451. Oliverotto da Fermo, 72. Omero, 23, 108. Orsini, famiglia, 102. Orsini, Alfonsina, 177. Orsini, Francesco, 72. Orsini, Paolo, 72. Ovidio, 33-34, 428. Pagano, S.M., 450. Pallantieri, Alessandro, XVIII.

Paolo, santo, 291, 299, 323-324, 328-334, 341, 453. Paolo III (Alessandro Farnese), papa, XI-XII, 267-268, 281, 293-295, 319-320, 328, 334, 352, 355, 358, 361, 366, 371, 380, 383, 385, 387388, 390-391, 393, 395-396, 403. Paolo IV (Giampietro Carafa), papa, XVI, 240, 284, 287-288, 361, 394, 402-403, 405-406, 408-409, 413, 415-418, 421, 447, 450, 453, 457. Paolo V (Camillo Borghese), papa, 347. Parenti, P., 431. Parrini, U., 432-433. Passerini, cardinale, 218. Pastor, Ludwig von, 176, 434, 438, 441, 445, 447. Pazzi, famiglia, 24, 55, 176, 419. Pazzi, Jacopo de’, 16, 25, 427. Penny, N., 428. Perugino (Pietro Vannucci, detto il), 83. Peruzzi, Baldassarre, XI, 259, 390. Petrarca, Francesco, 52. Petrucci, Alfonso, 200. Petrucci da Velletri, Ieronimo, 443. Piccinino, Francesco, 94. Piccolomini, famiglia, 432. Piccolomini, Francesco, 71. Pier Luigi da Gaeta, XIII, 419. Pier Matteo d’Amelia, 123, 435. Piero di Cosimo, 83. Pietro, santo, 309, 324, 337, 343355, 388, 453, 455. Pio II (Enea Silvio Piccolomini), papa, 71. Pio III (Francesco Todeschini Piccolomini), papa, 102-104. Pippo, Michele, 194. Pitti, famiglia, 13. Pitti, Bartolomeo, 433. Pitti, Miniato, XIII, 425, 427. Plazzotta, C., 437.

470

Plinio il Vecchio, 108. Poeschke, J., 431, 448. Poggi, Giovanni, XXI, 429-433. Pole, Reginald, 284, 287-290, 297, 299, 301, 338-339, 351, 353-354, 356, 358, 361-362, 365, 367-370, 393-394, 401-406, 410, 418, 450451, 454. Poliziano, Angelo, 33-34. Pollaiolo, Simone del, 83-84. Porcari, Marta, 169. Porcari, Metello Vari de’, 169, 172, 198, 201-202. Priuli, Alvise, 285, 289, 450-451. Prosperi, Adriano, XXI, 450. Pucci, Laurentio de’, 443. Pulci, Luigi, 216, 445. Raffaello da Montelupo, 248, 261, 295-296, 306-308, 320, 452. Raffaello Sanzio, XI, 134, 136, 139, 147, 149-151, 175, 185-186, 204, 220, 328-329, 331, 336, 341, 378, 392, 395-396, 435, 437-438. Raimondi, Marcantonio, 151. Ranieri, C., 450. Ray, S., 434. Redig de Campos, D., 454. Renier, R., 441. Riario, Gerolamo, 25. Riario, Raffaele, 25, 54-61, 72, 81, 108, 170, 200. Ridolfi, Giovanni, 436. Ridolfi, Lorenzo, 376, 454. Ridolfi, Niccolò, cardinale, 377, 397. Ridolfi, R., 429. Ristori, R., 430, 437, 456. Rohan, Pierre de, 433. Ronchini, A., 455. Rosselli, Cosimo, 83. Rosselli, Francesco, 10-11, 13-16, 329. Rosselli, Piero, 115, 124, 435. Rossellino, Antonio, 77.

Rossi, Iacopo de’, 436. Rubin, P., 453. Rucellai, famiglia, 13. Rucellai, Iacopo, 434. Sabbatini, Lorenzo, 361. Sadoleto, Iacopo, 110, 281, 356. Sadoleto, Paolo, 451. Salviati, Francesco, detto Cecchino, 85, 328, 334-336. Salviati, Iacopo, 190, 194, 196, 215, 444. Sanga, Giovanni Battista, 447. Sangallo, famiglia, XI, 386. Sangallo, Antonio da, il Giovane, XI, 294, 383, 385, 387, 390-392, 455. Sangallo, Bastiano da, detto Aristotile, 132, 434. Sangallo, Giuliano da, 83, 107, 110, 112-114, 133, 247, 434. Sansovino (Andrea Contucci da Monte San Savino, detto), 78, 83. Sansovino, Iacopo, 186, 189-190, 192, 197, 444. Savonarola, Girolamo, 31, 45-49, 52-54, 61, 282, 428. Scherano da Settignano, 293, 307. Sebastiano del Piombo, 173, 175, 186, 204-205, 217-218, 220-221, 253, 265, 292, 321, 441, 449. Sernini, Nino, 279. Serristori, Averardo, 426. Shearman, J., 437. Signorelli, Luca, 272. Simoncelli, P., 451, 453. Simone di Buonarrota, 6. Simone, marinaio, 64. Sisto IV (Francesco Della Rovere), papa, 25, 55, 104, 114, 120, 293. Soderini, Pier, 73, 82, 95, 112, 125, 159, 177, 181-182, 200, 433, 435436. Solimano il Magnifico, 265. Spini, G., 447, 453.

471

Staccoli, Girolamo, 253. Steinmann, E., 436, 438, 449, 452. Stendhal (pseudonimo di Henri Beyle), 234, 447. Strozzi, famiglia, 24, 51-52, 239, 375. Strozzi, Maddalena, 90. Strozzi, Roberto, 374, 376. Taddei, Taddeo, 433. Tafuri, M., 434. Tito, imperatore, 108. Tiziano Vecellio, 230, 331, 384. Tolnay, Charles de, XXI, 433, 457. Tolomei, Lattanzio, 274. Torrigiani, Pietro, 32-33, 74. Toscano, T.R., 449. Trivulzio, Cesare, 110. Tuena, F., 426. Ubaldini, Lucrezia degli, 17. Ubaldini, Roberto, 420. Uberto da Gambara, 447. Ugolini, Jacopo, 74. Urbano, Pietro, 172-173, 197, 202, 444. Urbino (Francesco di Amadore da Casteldurante, detto), 269, 317319, 321-322, 327, 362, 366, 373375, 398-399, 408, 413-415, 452454, 456.

Valdés, Juan de, 282-284. Valentiniano, 309. Valentino, vedi Borgia, Cesare. Valori, Baccio (Bartolomeo), 241, 448. Varchi, Benedetto, XVII, 79, 365, 397, 447-448. Vasari, Giorgio, XV-XVI, XVIII-XIX, 17, 34, 71, 81-82, 85, 114, 147, 307, 309, 313, 323, 355, 391, 395, 397, 400, 407-409, 411, 413-414, 416, 425-432, 437, 448, 451, 456. Vasto, marchese del, 256, 281. Venusti, Marcello, 358, 362, 369, 453. Vettori, Francesco, 48, 177, 182, 429. Vico, Enea, 336. Vigorosi, Francesco, 442. Visconti, Galeazzo, 30. Vitelli, Vitellozzo, 72. Viviani, Lorenzo, 118. Wagner, Cosima, 249. Wallace, W.E., 437, 443-444. Weil-Garris Brandt, K., 428, 430, 436. Zacchetti, Bernardino, 139, 204. Zöllner, F., 433-434. Zuccari, Federico, 361.