Michael Moore
 8880334972, 9788880334972

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Federico Ferrone (1981), è regista e critico cinematografico. Dal 2000 ha collaborato con «L’Unità», «Il Corriere della Sera» e le riviste online «Drammaturgia» e «Cinema.it». Come regista ha lavorato per Al Jazeera e diretto i documentari Banliyo-Banlieue e Merica, selezionati e premiati in vari festival cinematografici.

Il Castoro Cinema n. 233 © 2009 Editrice Il Castoro srl viale Abruzzi 72 20131 Milano [email protected] www.castoro-on-line.it Edizione digitale a cura di RIDIGITO www.ridigito.it In copertina: Fahrenheit 9/11

ISBN: 978-88-8033-700-3

Federico Ferrone

Michael Moore

MICHAEL MOORE

America La maggior parte dei film in America sono stupidi e fanno un sacco di soldi. Poi ci sono alcuni film d’essai che non incassano molto. Credo che esista un enorme terreno intermedio. Le persone che vivono a Pittsburgh, a Milwaukee e a Flint hanno un cervello e sarebbero felici di vedere un film che rispetta tutte le convenzioni cinematografiche ma parla anche di qualcosa. Perché queste due cose devono per forza essere incompatibili? Perché non è possibile avere un Jim Carrey che fa critica sociale? Archivi Passiamo molto tempo negli archivi delle televisioni. Ho alcuni stagisti coriacei, degli studenti spesso reclutati nella working class: quando vieni da quegli ambienti hai una specie di fiuto speciale, si è più bravi nel distinguere il vero dal falso. Ma non bisogna dimenticare che le persone che lavorano per i grandi canali televisivi, i tecnici del suono, i montatori, spesso condividono le no stre idee. A volte ci chiamano e ci chiedono se una tale immagine ci interessa. Poi, naturalmente, bisogna comprarle. Occorre quindi trattare con i re sponsabili della Tv. Se sanno che stanno per dare via del materiale potenzialmente esplosivo? Certamente. Ma quello che interessa loro è innanzitutto guadagnare denaro. E noi paghiamo queste immagini molto care. Attivista Mi considero un filmmaker e non un attivista. Credo che la parola attivista, quando vivi in una democrazia, sia un termine ridondante. Tutti i cittadini, proprio perché vivono in una democrazia, sono degli attivisti. Deve essere così altrimenti non è una democrazia. La democrazia non è solo uno sport da vedere come spettatori. Funziona solo se tutti siamo attivi. Barack Obama Quando nel 1932 Franklin Delano Roosevelt è salito al potere con una vittoria schiacciante il risultato sono stati Frank Capra e Preston Sturges, Woody Guthrie e John Steinbeck, Dorothea Lange e Orson Welles. Sono stato assalito con domande del tipo: «Allora, Mike, cosa farai adesso che Bush se ne è andato?» Stanno Scherzando? Che effetto farà lavorare e creare in un ambiente che favorisce e sostiene il cinema e le arti, la scienza e l’invenzione, la libertà di essere ciò che si vuole? Sbocceranno migliaia di fiori! Bush Kevin Rafferty è la principale persona che mi ha insegnato come fare un film. Lui aveva girato The Atomic Café […] Così quando ho deciso di fare Roger & Me, Kevin è venuto e mi ha spiegato come far funzionare la telecamera e il Nagra e poi ha girato circa la metà del film. Per un sacco di tempo non mi ha detto che suo zio era il presidente degli Stati Uniti, che all’epoca era George Bush senior. La maggior parte delle persone non lo sanno. Quindi, l’ironia della cosa è che forse non mi sarei mai ritrovato a fare film se non fosse stato per la famiglia Bush. Cattolicesimo I miei genitori sono dei bravi irlandesi cattolici. Anche io mi sono sposato con rito cattolico. Ci sono un sacco di cose positive in quel tipo di educazione, dei bei valori su come trattare le persone, cose davvero importanti. Invece altre cose, come la confessione... Nella mia chiesa avevamo due preti, uno serio e uno hippy. Bisogna sempre scegliere il prete hippy, con lui la penitenza è sempre minore o nulla. (Intervista durante il Conan O’Brian Show, 21 luglio 1995).

Chaplin Come descrivereste Charlie Chaplin? Un grande comico, giusto? Certo, eppure no. I suoi film sono tutti tragedie. Viene maltrattato dallo stato, messo in prigione, licenziato, perde la sua ragazza e se ne va verso il tramonto senza niente in tasca. Eppure non è così che lo ricordiamo. Ci ricordiamo della comicità. Usava lo humour come un’arma. Si è reso conto che se vuoi che le persone pensino ai problemi, occorre farle ridere un pochino, intrattenerle. Cinema Mi trovavo bloccato a San Francisco e per un mese non mi sono alzato dal letto. Ero talmente depresso che per uscirne ho cominciato a vedere un sacco di film. Credo di essere stato al cinema una volta al giorno. Andavo a vedere di tutto: Stallone, Arnold [Schwarzenegger], qualsiasi cosa tranne i film di ninja e quelli di Neil Simon. Allora mi sono detto: «Beh, perché non provare a fare un film?». Classe Vengo dalla working class. È raro che uno come me, che ha smesso di studiare dopo il liceo possa dirigere il proprio film, fare un programma Tv o fare uscire un libro. Di solito non sentite parlare di noi, vero? Noi che costruiamo le vostre macchine, che puliamo i vostri bagni, non ci vedete la sera al telegiornale. Non abbiamo una voce nei media. Ecco che, finalmente, qualcuno come me, per qualche strano motivo, riesce a sfuggire al radar. E all’improvviso questo disturba alcune persone, soprattutto quelli con i soldi. Clinton Credo che Clinton sia stato un discreto presidente per essere un repubblicano. Discrezione Se avete seguito i miei lavori nel corso degli anni, sapete che mantengo un profilo sempre piuttosto basso quando sto girando un film. Non rilascio interviste, non vado in Tv e non scongelo il mio frigo. Aggiorno quotidianamente il mio sito web e il resto del tempo... Beh, non posso dirvi cosa faccio ma potete immaginare. Diventa sempre più difficile intrufolarsi nelle sedi delle grandi compagnie. Documentario Ci vorrebbero più documentari fatti da persone che detestano il documentario. Egocentrismo Sapevo, mentre mi trovavo in sala di montaggio [per The Big One] che alcuni critici non avrebbero avuto voglia di vedermi per novanta minuti. Sapevo che mi avrebbero attaccato dicendo «basta con questo tizio». Però non chiedono mai a Woody Allen o Robin Williams perché sono presenti in tutte le scene dei loro film. Non li definiscono dei pazzi egocentrici. Si tratta del mio film, delle mie affermazioni. E mi dispiace che dobbiate vedermi, so di non essere Tom Cruise. Fiction Avendo scritto la prima versione della sceneggiatura [di Operazione Canadian Bacon] in tre settimane e le versioni successive per tutto l’anno successivo, posso dire che i film di finzione sono, in un certo senso, più facili di quelli di non-fiction perché ovviamente sei libero di inventare

qualsiasi cosa desideri. Mentre quando esci e filmi un documentario non sai che cosa troverai, insomma non puoi inventarti Bunny Lady o lo sceriffo Fred. File sharing Non sono un grande sostenitore delle nostre leggi sul diritto d’autore. Penso che siano davvero troppo restrittive. […] Penso che condividere sia una cosa positiva. Hanno detto che la televisione avrebbe ucciso il cinema ma non è successo. Hanno detto che il video avrebbe ucciso il cinema, ma non è successo. Adesso dicono che è questo che lo ucciderà. Ma non sarà così. (Conferenza stampa, luglio 2004) Film a tesi È il genere di film più difficile da fare. Si tratta di chiedere alla gente di rinunciare al suo venerdì sera per guardare un film a tesi, è un tentativo di farsi largo nella terra di Mark Twain. Stiamo cercando di far sì che il pubblico americano si sieda, assimili il film e se ne vada sentendosi motivato e ispirato, desideroso di agire, non come se avesse subito una predica di due ore. Flint, Michigan Per un periodo, dopo Roger & Me, mi sono detto «Ok, non siamo obbligati ad andare sempre a Flint, potremmo anche andare altrove e fare altre cose». […] Poi qualcuno mi ha detto: «Nessuno ha mai criticato Steinbeck per il fatto che scrivesse sempre della Central Valley in California». Forse qualcuno sì ma non ci capita di rileggere i suoi libri e dire: «Ma perché non la smette con tutti quei fattori e quei coltivatori?». Giornalismo I miei film sono un lavoro di giornalismo. Ma di quel giornalismo tipico degli editoriali. Il mio compito non è di presentare tutte le opinioni. Humour L’umorismo non serve solo a lubrificare il meccanismo, ma talvolta anche per alleviare il dolore. L’umorismo è necessario per indurre la gente a voler fare qualcosa. Non puoi portare il pubblico, dopo due ore di film, a un tale stato di disperazione che, al momento di lasciare la sala, pensi: «Qual è lo scopo? Tanto è tutto inutile». In questa operazione, l’umorismo è un elemento necessario. Chaplin l’ha capito molto tempo fa: se metti a confronto il piccolo Vagabondo e il Padrone, l’umorismo ti permette di farti beffe del potere e dell’autorità. Lo sberleffo è una delle poche armi che ha la classe operaia. Ideologia Per Bowling a Columbine ho cominciato con una classica posizione liberal: se ci liberassimo di tutte le armi avremmo meno morti per armi da fuoco. Poi ce ne andiamo in Canada per far vedere come loro lo hanno fatto e scopriamo che esistono sette milioni di armi per dieci milioni di case. A quel punto abbiamo dovuto riconsiderare il tutto. Per questo il film ha preso una piega totalmente differente, cosa che non sarebbe successa se avessi agito seguendo l’ideologia. Influenze Sono cresciuto con i fratelli Marx. Con una cosa del genere è normale che uno diffidi dell’autorità. Poi, più tardi, ho visto Furore. Oggi mi trovo a metà strada tra le due cose.

Jean-Luc Godard/1 Questi film [Fahrenheit 9/11] aiutano Bush in un modo distorto, del quale non si è consci. Bush è meno stupido di quanto non si creda. L’industria cinematografica americana ormai non produce immagini, ma testi che vengono chiamati immagini. E Moore, che è per metà intelligente, non riesce a capire la differenza che c’è tra l’immagine e il testo. (Jean-Luc Godard, conferenza stampa del film Notre musique al festival di Cannes, 18 maggio 2004) Jean-Luc Godard/2 Mi è dispiaciuto che abbia commentato un film che non aveva visto. Credo abbia il diritto di fare quegli strani e perversi commenti. L’ho sempre ammirato. Per la gente di Flint l’unico modo di vedere i suoi film era farseli portare da me. Per quasi dieci anni ho avuto il mio piccolo cineforum ogni weekend, il venerdì e il sabato sera. Ho mostrato tutti i film di Godard, Fassbinder, Truffaut e Bergman [...] Per me Fino all’ultimo respiro è stato il suo miglior film, probabilmente perché era il più accessibile. Lavoro Vi siete mai trovati senza lavoro? Io sì. Mi ricordo del giorno in cui ho perso il mio lavoro, a metà anni Ottanta. Per un mese non mi sono più alzato dal letto. Si rimane inebetiti. Non si sa più che cosa significhi, che cosa ci succede. È una cosa di cui la gente non parla mai davvero. Majors/1 Tv Nation era trasmesso dal network della General Electric poi è passato a quello di Rupert Murdoch, The Big One è stato distribuito dalla Miramax, che è di proprietà della Disney. Roger & Me è stato distribuito dalla Warner Bros e Bowling a Columbine è prodotto dalla Mgm e la United Artists. Ef -fettivamente è strano questo mio andare a letto col nemico. Non mi dimentico mai dell’ironia di tutto questo. So perché lo sto facendo io e perché lo fanno loro: perché fare i soldi è il loro mestiere e io faccio guadagnare loro molti soldi. Majors/2 Il capitalismo ha questo incredibile problema che dice che bisogna fare quanti più soldi possibile, a tutti i costi. Anche se questo significa mandare in Tv un tizio che è in completo disaccordo con noi e che lotta contro tutto quello che noi sosteniamo. C’è un vecchio detto: il capitalista ti venderà la corda con cui si impiccherà. È una bellissima descrizione. Maschere Quando ero sul palco mi sono dimenticato di ringraziare i miei attori. Per cui, se potessi farlo adesso, vorrei ringraziare Bush, Mister Cheney, Paul Wolfowitz e Donald Rumsfeld. Credo che la scena d’amore tra Cheney e Rumsfeld mi abbia fatto venire le lacrime agli occhi. (Conferenza stampa dopo la Palma d’oro a Cannes, 22 maggio 2004) Montaggio Qualsiasi arte, qualsiasi articolo giornalistico manipola le sequenze temporali e le cose. Il semplice fatto di montare, che una certa parte venga eliminata o inserita, è una manipolazione. Non-fiction Ho invitato i miei amici documentaristi candidati [all’Oscar] sul palco. Sono qui d’accordo con me

perché amiamo tutti la non-fiction. Amiamo la non-fiction ma viviamo in un’epoca fittizia. Viviamo in un’epoca in cui abbiamo elezioni fittizie che eleggono un presidente fittizio. Viviamo in un’epoca in cui c’è un uomo che ci manda in guerra per ragioni fittizie. Che sia la finzione del nastro adesivo o quella degli allarmi arancioni, noi siamo contro questa guerra, mister Bush! Vergogna, mister Bush, vergogna! Anche il Papa e le Dixie Chicks sono contro di lei, il suo tempo è finito! Grazie! (Discorso d’accettazione dell’Oscar per Bowling a Columbine, 23 marzo 2003) Oliver Stone Non è una questione di essere d’accordo o meno con il suo messaggio. Quello che penso di Oliver Stone è che puoi odiarlo o amarlo ma ringraziamo Dio che esista. Abbiamo bisogno di film così. Abbiamo bisogno di toccare le persone che si danno alla macchia e si arruolano nei gruppi paramilitari per la disperazione di essere disoccupati. Performance Quando c’è una telecamera accesa, gli intervistati e il regista lo sanno […] si è sempre in una logica di performance, in un certo senso. Presenza Sono spesso nello schermo perché sono io che conduco l’inchiesta, muovo tutto, faccio parlare, porto in giro le persone come gli spettatori, trasmetto le mie idee. È una presenza un po’ bulimica, che talvolta può disturbare ma che è indispensabile. Perché è attraverso di me che gli spettatori fanno il collegamento tra tutti gli elementi del film e capiscono le mie intenzioni. In realtà il mio corpo è una sorta di dimostrazione del film. Quentin Tarantino Dopo che mi hanno dato la Palma d’oro sul palco di Cannes, Quentin Tarantino è venuto da me e mi ha detto “Credo che sia il primo film fatto solo per giustificare un discorso di accettazione dell’Oscar”. Religione Gli americani hanno un lato credulone. È facile ingannarli. E la religione è il miglior strumento. Roger & Me Non è un film di finzione. Diciamo che è un documentario raccontato con stile narrativo. Ho provato a raccontare un documentario come solitamente non vengono raccontati. Segnalazioni A volte la celebrità porta anche vantaggi. Ricevo molte e-mail e lettere di fan e di sconosciuti che mi segnalano fatti strani, anormali che sicuramente mi interesseranno. Il Paese è troppo grande perché uno possa essere al corrente di tutto. Successo/1 Avrei potuto dire che vivo ancora nei bassifondi di Flint. Oppure avrei potuto dire la verità, e cioè che è molto strano che uno come me, che nel 1990 aveva una dichiarazione dei redditi da dodicimila dollari, otto anni dopo si ritrovi a guadagnare molti più soldi, attaccando quelle stesse compagnie che lo pagano. Trovo tutto ciò incredibilmente ironico. Ma dovete capire che quando vieni dalla working class, una delle principali ambizioni è proprio uscirne. E mi sono accorto che le uniche

persone che sembrano nervose per il fatto che me la passo bene sono quelli che erano già benestanti. Come se fossi appena arrivato nel quartiere: «Cosa ci fai tu qui...?». Mentre a Flint nessuno mi dice: «Che cosa stai facendo nell’Upper West Side di Manhattan? Chi diavolo pensi di essere?». Semmai dicono: «Grande! Ce l’hai fatta, te ne sei andato». Sono tutti felicissimi. Successo/2 Non penso che sia una cosa cui ti abitui. Credo che se sei stato educato come lo sono stato io, è molto difficile cambiare. Un sacco di persone cercano di dimenticarlo, ma è molto difficile. Ho vissuto i primi trent’anni della mia vita prima di Roger & Me e a quell’età ormai sei già fatto a modo tuo. Telecamera Il mio obiettivo è far diventare la telecamera il protagonista, di modo che non mi vedrete più. Università Ci sono quelli che fanno film documentari preparando una sceneggiatura e che poi girano cercando di rispettare la sceneggiatura, l’idea, la tesi. Io invece sono sempre stato grato di non aver finito l’università e di non aver mai dovuto scrivere una tesi. Non sarei in grado di organizzarmi per girare in modo che il punto A segua il punto B e il punto C segua il punto B. Video Non mi piacciono neppure i Dvd. Lo giuro su Dio, in tutta la mia vita devo essere entrato in un videonoleggio per affittare un Dvd una dozzina di volte, perché non mi piace vedere i film in quel modo. Mi piace vederli sul grande schermo. Zio Mio zio Laverne ha partecipato al Grande sciopero di Flint del 1936-37 che ha portato al primo contratto per lo United Automobile Workers [il sindacato dell’auto americano, N.d.A.] e ha rappresentato, come hanno detto gli storici, l’inizio del moderno sindacalismo americano. Grazie alle lotte di mio zio e di altri come lui nel corso degli anni, le famiglie come la mia hanno potuto vivere in case di loro proprietà, andare dal dottore ogni volta che erano malate, curarsi i denti quando era necessario o iscriversi all’università, se lo volevano. Tutto ciò grazie al sindacato. Salvo dove diversamente specificato, le dichiarazioni sono tratte dalla newsletter ufficiale del regista, Mike’s Letter (diffusa sul sito www.michaelmoore.com) e da: Jodi Applegate, Filmmaker Michael Moore Discusses His New Film The Big One, Nbc Saturday Today, sabato 18 aprile, 1998; Simon Bacal, Un Certain Regard, U.S., Michael Moore, in «Moving Picture», 25 maggio 1995; Antoine de Baecque, in «Libération», 5 febbraio 2003; Marc Dadelsen, La méthode Moore. Analyse- entretien autour de huit séquences de Fahrenheit 9/11, in «Synopsis», n. 32, luglio-agosto 2004; Daniel Fierman, The Passion of Michael Moore, in «Entertainement Weekly», 9 luglio 2004; François Forestier, Moore, profession trublion, in «Le Nouvel Observateur», n. 1827, 11 novembre 1999; D.D. Guttenplan, in «The Newsday», 17 dicembre 1989; Harlan Jacobson, Michael & Me, in «Film Comment», vol. 25, n. 6, novembre-dicembre 1989; Rita Kempley, Michael Moore, Sticking Out Like a Sore Thumb, in «Washington Post», 23 aprile 1998; Michael Moore, Giù le mani!: l’altra America sfida potenti e prepotenti, Mondadori, Milano, 2004; Gavin Smith, The Ending is Up to You, in «Film Comment», vol. 40, n. 4, luglio-agosto 2004 (tr. it.: Giorgio Gosetti, JeanMichel Frodon, Print the legend. Cinema e giornalismo, Il Castoro, Milano, 2005); David Sterrit, A

Documentary Grabs Attention, in «Christian Science Monitor», vol. 87, n. 215, 2 ottobre 1995.

Non-fiction? Michael Moore e il documentario soggettivo «La rappresentazione ha, con verità, tutto il potere attrattivo della falsificazione. A tutti piacciono i falsari. È un sentimento umano e istintivo.» Fernando Pessoa «Ogni film è un documentario. Anche la più fantasiosa delle fiction rispecchia la cultura che l’ha creata e riproduce fedelmente l’aspetto di chi vi recita. In effetti, potremmo dire che ci sono due tipi di film: i documentari di immaginazione e i documentari di rappresentazione sociale.» Bill Nichols

Reagirebbero scandalizzati i padri nobili Robert J. Flaherty e Dziga Vertov se sapessero che oggi, dei sei documentari più visti nella storia del cinema, tre sono opera di Michael Moore, ex giornalista del Michigan, fisico scolpito a colpi di junk food, cappellino da baseball sempre in testa, fierezza operaia e cultura cinematografica invero scarsa? O magari si compiacerebbero del fatto che, anche

grazie al successo dei suoi film, nel nuovo secolo tutto il cinema documentario si riaffaccia nelle sale, nei festival e nei gusti del grande pubblico? Uno dei generi tradizionalmente percepiti come più rigorosi e “di ricerca” appare oggi rilanciato da questo rumoroso populista che, arrivato al cinema per caso grazie a un documentario sulla crisi economica della sua città Flint (Roger & Me, 1989), ha passato metà della carriera a cercare di mettere radici in televisione, prima che il successo di Bowling a Columbine (2002) lo spingesse a decidere che cosa fare da grande. Moore ha ottenuto i massimi riconoscimenti cui può ambire un regista: l’Oscar e, subito dopo, la Palma d’oro a Cannes per Fahrenheit 9/11 (2004), la prima per un documentario dai tempi di Il mondo del silenzio (Le monde du silence, Jacques-Yves Cousteau e Louis Malle, 1956). Eppure sostenerne il diritto a far parte del pantheon del cinema di non-fiction, come lo chiamano gli anglosassoni, significa prima di tutto ribattere a decine di obiezioni, tanto etiche quanto estetiche. Obiezioni innanzitutto di legittimità: Moore è davvero un regista cinematografico o piuttosto un abile provocatore capace di sfruttare ogni medium a sua disposizione per solleticare l’indignazione del pubblico? Magari attaccando abilmente, volta per volta, alcuni degli elementi più controversi del suo Paese, come il darwinismo economico in Roger & Me, la diffusione delle armi in Bowling a Columbine, l’amministrazione Bush in Fahrenheit 9/11 e la sanità a pagamento in Sicko (2007) e l’avidità di Wall Street in Capitalism: A Love Story (2009). Due sono gli elementi che contribuiscono al suo successo ma anche alla diffidenza della critica nei suoi confronti. Il primo è il fatto che il suo stile è apparso a molti non ortodosso rispetto a quell’invisibilità e neutralità registica che farebbero parte delle principali norme da rispettare in un documentario. Da sempre poco interessato alla verosimiglianza cronologica e alla neutralità delle sue affermazioni, Moore non ha avuto paura a manipolare le immagini, intervenire di persona e in maniera plateale nei suoi film, assaltare i personaggi intervistati, utilizzare materiale disparato (cinegiornali, animazioni, spot, film altrui) e imporre sulle immagini un’onnipresente voce over per avvalorare le sue tesi, strappare una risata o provocare l’indignazione. Il secondo elemento è la sua formidabile capacità di avventurarsi in terreni diversi dal documentario, dirigendo film di finzione tradizionale (Operazione Canadian Bacon, 1995), videoclip e programmi televisivi, scrivendo libri che si sono venduti a milioni di copie, tenendo discorsi pubblici, apparendo in decine di film altrui, curando un sito personale e organizzando grandi campagne di protesta. Moore è oggi una multinazionale dell’indignazione politica che travalica i confini dell’intrattenimento. Ma proprio questa esposizione mediatica ha creato non pochi equivoci sulla sua figura. La sua opera più celebre (nonché l’opera di non-fiction più vista della storia), Fahrenheit 9/11, deve molto al fatto di essere stata concepita come un atto di accusa contro George W. Bush e di essere uscita poco prima delle elezioni presidenziali del 2004. Cucendosi addosso un costume da personaggio politico e sostenendo che quest’ultimo è inscindibile dal suo essere regista, Moore si è attirato un seguito di pubblico, oltre che uno strascico di polemiche, straordinario, ma ha anche distratto la critica dalla sua originalità cinematografica. È stato giustamente osservato che, per molti versi, Moore rimane ancora oggi un equivoco, avendo pagato la sua popolarità con l’esclusione dai cenacoli del la critica che dapprima ne era rimasta ammaliata. Considerato di volta in volta un imbonitore, un comico o una figura politica, il regista di Flint viene ormai regolarmente paragonato, in ogni Paese, a personaggi televisivi locali. Peggio an cora, la critica ha spesso preso a giustificare i suoi presunti strappi alla regola documentaria in nome della bontà ultima dei suoi fini politici, riconducendo la complessità delle sue opere al dibattito politico e smentendo così la sua originalità cinematografica. Il cuore del problema forse è un altro. Anche a causa della sua relativa invisibilità, il cinema documentario continua a essere percepito da molti come un genere obiettivo, scientifico. Ma questa oggettività non solo è irraggiungibile: è già stata storicamente irrisa e superata, con metodi altrettanto manipolatori, da altri maestri della non-fiction. Senza sottovalutare la statura politica e la

versatilità di Moore, vale la pena di fare un passo indietro, anche a costo di prendere alcune scorciatoie, e ripercorrere la storia della soggettività del documentario. Anche per rendersi conto che Vertov e Flaherty sarebbero gli ultimi ad avere il diritto di scandalizzarsi del suo successo. Il cinema, come è noto, nasce soprattutto come documentario. Fin dagli esordi, la settima arte rinvigorì, più della fotografia, il sogno di rappresentare oggettivamente (e quindi dominare) il mondo. Basti pensare a Boleslaw Matuszewski, fotografo e operatore polacco che, nel 1898, formulò la pionieristica e utopica proposta (riassunta nel testo Une nouvelle source de l’histoire) di un archivio cinematografico che contenesse, a uso dei posteri, tutti i principali avvenimenti della storia umana. L’inevitabile fallimento della sua e di analoghe imprese fece tramontare l’illusione che il cinema potesse comprendere e dominare tutta la realtà, aprendo così la strada allo storico prevalere della fiction. Una svolta la cui portata è riassumibile nella definizione, riduttiva e “per opposizione”, assunta dal cinema documentario: non-fiction, appunto. Per anni (e a volte tuttora) è sembrato quasi che il cinema si potesse dividere in due categorie: la finzione e il documentario. La prima ricorrerebbe all’artificio e alla messa in scena. Il secondo avrebbe pretesa di obiettività e si configurerebbe come una mediazione tra una realtà oggettiva e un autore che tenta di coglierla con (anzi malgrado) la sua soggettività; quest’ultima, in tale ottica, risulterebbe quasi una debolezza. Il documentario, invece, non è né oggettivo né soggettivo ma è semmai il risultato di un negoziato costante tra questi due estremi. La ricerca di realtà passa sempre attraverso una reinterpretazione personale. Lo sapevano bene Vertov, pioniere dell’uso creativo del montaggio, e ancora meglio Flaherty: basti pensare alla sua opera più celebrata, Nanuk l’eschimese (Nanook of the North, 1922). Qui, incurante dello scrupolo di documentazione e di quello etnografico (la famosa “vita presa alla sprovvista”), il regista spingeva i suoi personaggi a “interpretare se stessi”, manipolando e ripetendo varie volte le scene come nel più classico set di finzione al fine di renderle più chiare e apprezzabili per il pubblico. Nanuk è così il capostipite della docu-fiction oggi tanto di moda. Ma la realtà raccontata è per questo meno veritiera? Una delle prime grandi espressioni del documentario fu proprio quella poetica, in cui l’osservazione del reale si mescolava con la rielaborazione personale: è il caso di alcuni film di Jean Epstein, Joris Ivens, John Grierson e Jean Vigo. Quest’ultimo, nel sottotitolo del suo À propos de Nice (t.l.: A proposito di Nizza, 1930), introdusse un’espressione destinata a fare scuola: il «punto di vista documentato». In maniera simile, in un fondamentale libro (Grierson on Documentary, Collins, Londra, 1946), Grierson definiva il documentario come «il trattamento creativo della realtà». Il bisogno di verità, o meglio di un approccio più veritiero al materiale filmato, si è affermato periodicamente come uno dei motori alla base di alcuni dei movimenti cinematografici più originali. Basta vederne i nomi: kino-pravda, neorealismo, cinema diretto, cinéma vérité, la stessa Nouvelle Vague. Ma anche qui, quanto c’è di scientificamente obiettivo? Consideriamo il nordamericano cinema diretto e l’europeo cinéma vérité (due scuole per molti versi assimilabili), nati alla fine degli anni Cinquanta dal desiderio di cogliere la realtà in “diretta”, senza mediazioni, grazie anche a telecamere e microfoni più leggeri. A loro si deve l’elaborazione di norme sia etiche sia estetiche ancora oggi fondamentali: l’invisibilità del regista, l’assenza di una voce over (la “voce di Dio” di tanti documentari didattici e di propaganda) o di musica preregistrata che commentino l’azione, la non manipolazione del materiale montato e l’approccio osservativo (il cosiddetto Fly on the wall, la “mosca sul muro”) che deve cogliere il soggetto nella sua postura più naturale. Si tratta di intuizioni fondamentali, che ancora oggi costituiscono una base irrinunciabile per molti autori e che infatti sono state in parte riprese, più recentemente, dal manifesto di Dogma’95. Ma anche alcune delle opere che più rivendicano l’appartenenza a questa scuola, come ad esempio Warrendale (di Allan King, 1967), Salesman (di Albert e David Maysles e Charlotte Zwerin, 1969) e molti film di Frederick Wiseman, cineasta osservativo per eccellenza, ricorrono a

manipolazioni di montaggio: rispettando, ad esempio, la cronologia interna a ogni sequenza ma di rado quella tra una sequenza e l’altra. Ogni regista interviene sempre, in un modo o nell’altro, sul materiale filmato. Come osservato da Sandro Bernardi in L’avventura del cinematografo. Storia di un’arte e di un linguaggio (Marsilio, Venezia, 2007) «il realismo non è che un tipo particolare d’interpretazione del reale. Non esiste documentario senza interpretazione, come non esiste alcuna antropologia oggettiva, che faccia a meno dell’antropologo e delle sue opinioni personali. L’importanza del cinema documentario consiste soprattutto nel connubio di soggettività e conoscenza». A proposito di antropologia e documentario, occorre citare il fondamentale apporto di Jean Rouch, etnologo e cineasta francese, inventore dell’antropologia visiva, dell’etnofiction e dell’espressione cinéma vérité, mutuata dal kino-pravda di Vertov. Dopo aver perseguito la strada di un cinema etnografico in cui l’autore non fosse più un essere superiore che giudicava le popolazioni “diverse”, Rouch ebbe un’intuizione illuminante di cui Moore avrebbe poi fatto uno dei suoi punti di forza. Riconoscendo l’impossibilità di far scomparire del tutto l’autore o la sua “aura”, il regista francese lo rese visibile e parte integrante della costruzione drammaturgica. In Chronique d’un été (1960), insieme all’altro autore Edgar Morin, decise di uscire allo scoperto e di passare davanti alla macchina da presa, mescolandosi agli altri personaggi. Per tutta la sua carriera, questa svolta narrativa non striderà con la ricerca dell’obiettività ma sarà anzi un modo per reinventarla, attraverso nuove forme di rappresentazione. Da Rouch in poi si sono moltiplicati i registi che rendono riconoscibile la propria presenza all’interno del film. Questo avviene con obiettivi e modalità diverse: divenendo attori dei propri film, facendo udire la propria voce o interagendo con i soggetti filmati. L’elenco sarebbe lungo: Chris Marker, Marcel Ophuls, Johan van der Keuken e, più recentemente, Nick Broomfield, Ross McElwee ma anche Werner Herzog, tutti autori che fanno della loro presenza, ma anche della soggettività e dell’autobiografia, uno dei motori della loro opera. Mentre il cinema di finzione tradizionale lo ha spesso tenuto lontano dalle sale e la televisione ha cercato d’imporgli una dimensione più didattica, il documentario d’autore (o “di ricerca”, come viene definito in Francia) non ha mai smesso di percorrere le strade della sperimentazione, adattando e facendo proprie anche alcune tecniche del mainstream. Un passo importante verso l’as sot tigliamento delle frontiere tra i due universi è stato quello compiuto da Errol Morris in La sottile linea blu (The Thin Blue Line, 1988), documentario su un celebre caso giudiziario relativo all’assassinio di un poliziotto. Sebbene la sua opera sia costituita quasi interamente da interviste convenzionali, il regista ha ricostruito le sequenze dell’omicidio, di cui ovviamente non possedeva immagini video, come in un film di finzione. È da qui che si diffonde l’abitudine, anche per la nonfiction, a ricorrere a questo tipo di ricostruzione o alla messa in scena (reenactement). Non è solo il documentario a prendere a prestito le tecniche della finzione ma è vero anche il contrario: il caso più sfacciato e celebre è quello di Orson Welles e del suo F come falso - verità e menzogna (F For Fake, 1973), prodigioso esempio di falsificazione “più vera del vero”. Oggi il proliferare di definizioni volte a classificare film che fondono linguaggi misti segnala in parte la fine della rigida distinzione tra fiction e non-fiction: mockumentary, docu-fiction, docu-drama, semi-documentary, rockumentary, false documentary. Nel nuovo millennio si riafferma così con forza la dimensione ibrida alla base del cinema di Flaherty e di Rouch. A forza d’influenzarsi a vicenda, finzione e documentario hanno finito con l’essere quasi un unico universo. Di tutte queste invenzioni, sperimentazioni ed evoluzioni, Moore, a volte senza saperlo, è depositario ed erede. Il suo cinema oscilla tra influenze inconsapevoli e altre più dirette, soprattutto americane, come quelle del cinema-collage di Emile De Antonio, padre del documentario politico e “arrabbiato” statunitense (con tendenze quasi marxiste), o di film come Hearts and Minds (di Peter Davis, 1974), documentario simbolo sulla guerra in Vietnam e ispirazione fondamentale, come

vedremo, per Fahrenheit 9/11. L’originalità del nostro autore sta nell’aver saputo trovare una sintesi cinematografica in cui la soggettività del documentario si fonde con altre forme di comunicazione. Capace di ricorrere al giornalismo d’assalto (quello che viene definito guerrilla journalism) e alla satira sociale, si appoggerà inoltre all’attivismo politico, derivante dal suo background sindacale, e al populismo di stampo anglosassone, alla Mark Twain. Il tutto con un riferimento costante alla musica e all’immaginario pop del suo Paese. A differenza di molti grandi maestri, Moore ha deciso di andare incontro ai gusti del grande pubblico: una scelta discutibile per alcuni puristi, che però gli ha permesso di aprire il documentario a una platea fino ad allora sconosciuta. Non è casuale il fatto che i suoi film utilizzino elementi tipici della Tv e dei grandi generi del cinema hollywoodiano: l’horror e la black comedy in Roger & Me, il film di tournée in The Big One (1997), il poliziesco in Bowling a Columbine e così via. La realtà è per Moore sì un elemento centrale ma non di rado usato per soddisfare un’idea scritta, narrativa. Gli eventi sono più spesso provocati che banalmente documentati. Moore scrive i suoi film quasi come opere di finzione, utilizzando registri visivi e performativi molto diversi: incursioni con politici e capi d’azienda, immagini d’archivio (il cosiddetto found footage, immagini d’origine disparata rimontate con effetti spesso stranianti e paradossali), film di famiglia, agit-prop, interviste frontali e invenzione di sotto-trame narrative, come vedremo a proposito di Roger & Me. Vedremo come, nel corso degli anni, il suo stile cinematografico si affini anche in seguito alle esperienze letterarie e televisive (le due trasmissioni Tv Nation, 1994-95 e The Awful Truth, 19992000), in una sorta di dialogo costante tra i diversi campi in cui si è cimentato. Figlio di un’epoca in cui i confini tra spettacolo, politica e intrattenimento cominciano a vacillare, Moore cavalca quest’onda, pur senza ammorbidire il suo messaggio politico. Tutta la sua carriera, non senza qualche contraddizione (essere portavoce dell’America operaia e anche regista milionario; accettare di farsi produrre da quelle stesse compagnie contro cui punta il dito) mira a conciliare l’impegno con la ricerca di una visibilità sempre maggiore. È inevitabile quindi che, con il passare degli anni e soprattutto da Bowling a Columbine in poi, egli si sia avvicinato sempre di più alla forma del film a tesi. È stato obiettato che i suoi non sono più documentari ma opere di finzione o, peggio, film bugiardi e manipolatori. Quel che sembra più interessante nel suo lavoro non è comunque la veridicità delle idee (peraltro non necessariamente sbagliate) ma l’originalità di questa mescolanza di scritture. Moore ha forse trovato una nuova forma, oltre che di documentario, di cinema popolare e impegnato, giocando con il bisogno di realtà degli spettatori ma anche con il loro bisogno di finzione, creando opere concepite quasi come film narrativi che soddisfino il pubblico pur disorientandone le attese. Dato più volte per spacciato, il film di finzione ha dimostrato di saper sempre rinascere. Ultimamente sembra che ciò avvenga anche grazie al documentario. Il ruolo del regista di Flint in questo processo, sia per l’impulso stilistico sia per quello economico dei suoi film, non è secondario. Ragione di più per tentare, quasi contro la sua stessa volontà, di separare il più possibile il Moore regista dal Moore attivista politico e polemista. Dimenticare le strumentalizzazioni e riscoprire così il suo cinema, come quello di qualsiasi grande regista. L’uomo di Flint «La finzione è quello che accade a me. Il documentario è ciò che accade agli altri.» Jean-Luc Godard

Folta è la schiera di quanti, da Croce a Calvino, hanno dichiarato nel tempo la più assoluta separazione tra biografia e opera di un artista. Forse Moore non è un artista (lui stesso, sicuramente

rifiuterebbe il titolo), forse la regola non è poi così universale o forse la definizione di artista si rimodella costantemente. È però certo che l’infanzia e gli anni della formazione in Michigan, che coincidono con quelli della grande contestazione, sembrano avere profondamente segnato tutta la sua opera. A rivelarlo bastano i primi minuti di Roger & Me dove, come vedremo nel prossimo capitolo, il regista ripercorre, romanzandoli, il suo background operaio e le vicende che lo hanno portato a girare il suo primo film. Michael Francis Moore nasce il 23 aprile 1954 in Michigan, a Flint, company town cresciuta all’ombra del colosso dell’automobile General Motors (Gm), ivi fondato nel 1908. Ancor più di quanto aveva fatto Torino con la Fiat o Sochaux con la Peugeot, Flint aveva legato la sua storia a quella della fabbrica automobilistica, crescendo al ritmo dello slogan «Quel che è buono per la Gm, è buono per la città». Qui si erano consumati alcuni degli eventi fondanti del sindacalismo e della sinistra statunitense, a partire dalla nascita dello United Automobile Workers (Uaw), il sindacato dei lavoratori dell’auto. Grazie proprio al sindacato ebbe luogo il celebre Flint Sit-Down Strike (1936-37), uno sciopero a oltranza che portò dapprima all’intervento dell’esercito ma aprì poi la strada all’età d’oro dei sindacati americani e alla concessione di più ampi diritti sociali e lavorativi. Moore, i cui familiari hanno quasi tutti lavorato in una delle tante divisioni della Gm, evocherà sempre con orgoglio le sue origini operaie, soffermandosi in particolare sullo zio Laverne, uno dei membri fondatori dell’Uaw. La madre è segretaria mentre il padre lavora per trentatré anni alla catena di montaggio. «Cattolici irlandesi democratici, brava gente, semplici liberal», dirà dei genitori il figlio che poi li mostrerà in alcuni Super8 familiari all’inizio del suo primo film. Questa coscienza di classe sarà uno dei motivi fondanti del suo cinema e della sua rivendicata diversità rispetto alla maggior parte dei colleghi, “colpevoli” di essere sostanzialmente degli intellettuali della costa est od ovest, senza legami con la realtà americana. Attento alla sua immagine dentro e fuori dal set, come già faceva ad esempio un maestro come Hitchcock, il regista coltiva fino a oggi un’immagine da americano medio cresciuto nella working class. Come Clinton, il cui successo elettorale deriva an che dall’essersi autoribattezzato «The Man from Hope» (hope significa speranza ma è anche il nome della cittadina dell’Arkansas dove è nato l’ex presidente), Moore fonda parte del suo successo sul fatto di essere l’uomo di Flint, ca pitale operaia dell’America profonda. Piccole forzature biografiche: se Clinton è in realtà cresciuto nella città di Hot Springs, Moore (che dedicherà all’argomento un ironico episodio della serie Tv Nation), sorvolerà quasi sempre sul fatto di aver trascorso l’infanzia non a Flint ma nella vicina Davison. Qui, dopo aver frequentato una scuola diretta da suore cattoliche, la St John’s Elementary School, segue a quattordici anni l’esempio del futuro collega Martin Scorsese ed entra in seminario. Un episodio che utilizzerà spesso per rispondere a quanti lo accuseranno di essere un regista sovversivo e un cattivo maestro per le famiglie americane. Passata dopo appena un’estate la febbre religiosa, si iscrive alla Davison High School dove comincia a muovere i suoi primi passi come provocatore politico. In quegli anni entra a far parte di una compagnia teatrale e organizza spettacoli che non mancano di suscitare la riprovazione di alcuni insegnanti per lo spirito un po’ troppo polemico. Il fiore all’occhiello della sua carriera liceale è senza dubbio l’elezione al Board (Consiglio d’istituto) della scuola, un organo generalmente composto da professori, ex allievi e altre autorità, cui accede grazie a una campagna elettorale incentrata sullo slogan “licenziamo il preside”. Moore diventa così il più giovane membro di un simile organo in tutto il Paese. Le foto dell’epoca ce lo consegnano con i capelli lunghi e una silhouette già paragonabile a quella odierna. Per i primi tredici anni della sua vita postliceale, tutto sembra indirizzarlo verso il giornalismo. Diplomatosi nel 1972, Moore si iscrive alla University of Michigan il cui campus si trova proprio a Flint. Qui collabora per un breve periodo con «The Michigan Times», importante giornale degli studenti, ma dopo appena un anno lascia gli studi. Questo precoce abbandono non farà che aumentare il suo orgoglio operaio e la convinzione di essere un cineasta diverso dagli altri. Grazie a

un contributo economico del suo ex liceo riesce, insieme ad alcuni amici, a creare un centro d’ascolto per cittadini con problemi sociali che organizza anche una mensa popolare. Da questa esperienza e dal gruppo di persone a essa legata, nasce nel 1976 la rivista «The Flint Voice», di cui Moore diventa subito caporedattore. Una dichiarazione programmatica apparsa nel primo numero anticipa lo stile della rivista e una delle convinzioni principali del regista: «Crediamo che la nozione comunemente accettata di giornalismo “obiettivo” sia una menzogna [...]. L’informazione non è obiettiva. Gli eventi non esistono nel vuoto. Ogni pubblicazione o mezzo d’infor mazione elettronico che pretenda di essere obiettivo sta mentendo non solo a se stesso, ma anche ai suoi lettori e ascoltatori». Il «Voice» si presenta come una rivista di controinformazione che non va troppo per il sottile, fortemente satirica, ricca di inchieste sul terreno e con vette di indignazione sociale tipiche dei populisti (ma anche dei moralisti) nordamericani. Le posizioni politiche pendono decisamente a sinistra, con interventi a favore dei palestinesi e dei sandinisti in Nicaragua. Qui Moore sviluppa quello stile giornalistico militante che segnerà anche la sua produzione cinematografica e televisiva, con quell’approccio aggressivo e irriverente, in cui confluiscono correnti che saranno poi tra i suoi marchi di fabbrica, come il guerrilla e il gonzo journalism alla Hunter S. Thompson (grande esempio di giornalismo in cui la percezione vale più dei fatti). Non esistono studi approfonditi in materia ma sarebbe interessante analizzare oggi i contenuti del «The Flint Voice» alla luce della produzione registica di Moore. La rivista contiene infatti molti articoli che criticano la Gm, il lassismo dell’Uaw e gli sciagurati investimenti del comune di Flint, nonché inchieste approfondite sui gruppi di estrema destra del Michigan: tutti elementi che verranno ripresi nei suoi film e nelle serie Tv successive. Sono pubblicate anche alcune strisce censurate di Doonesbury, il celebre fumetto satirico di Garry Trudeau, e gli editoriali dell’operaio-intellettuale Ben Hamper, amico di Moore, che apparirà in Roger & Me e nei suoi due show televisivi. Il successo della rivista si diffonde pian piano in tutto lo stato e nel resto del Paese, suscitando anche le ire di alcune autorità. Quando, nel 1980, si diffonde la notizia che la polizia di Flint vuole chiudere la redazione su pressione del sindaco, giungono attestati di stima e assegni da celebrità del calibro di Joan Baez. Nel 1982 entra a far parte della redazione Kathleen Glynn, che si occuperà della grafica e diventerà poi la moglie di Moore (che farà da padre alla figlia) e sua produttrice dalla prima stagione di Tv Nation a oggi. Nel 1983 la rivista cambia nome e diventa «The Michigan Voice», sancendo così il proprio salto di qualità anche geografico. Contemporaneamente alla sua attività di caporedattore, Moore comincia a essere l’ospite regolare e poi l’animatore di alcune trasmissioni radio durante le quali allena le sue, oggi arcinote, capacità oratorie. L’eco delle sue attività e del suo carisma arriva anche a Ralph Nader, grande attivista politico e più volte candidato del Green Party alla presidenza degli Stati Uniti. La fama di Nader era iniziata negli anni Sessanta, grazie soprattutto a Unsafe at Any Speed; the Designed-In Dangers of the American Automobile (Grossman, New York, 1965), un libro in cui denunciava la resistenza che i giganti dell’auto opponevano, per motivi economici, all’introduzione di sistemi di sicurezza nei veicoli. Quando apprendono delle attività di Moore, Nader e il suo staff hanno da tempo av viato in Michigan varie campagne in difesa dei lavoratori, contro la Gm e contro gli sgra vi fiscali concessi a questa dalle autorità federali e dello stato. Per il caporedattore del «Voice» è l’occasione di entrare in contatto con una figura politica d’importanza nazionale da lui molto stimata, ma il loro sarà un rapporto lungo e burrascoso. Il primo aiuterà il secondo coinvolgendolo nelle sue iniziative e assicurandogli più tardi un lavoro a Washington. Il regista, da parte sua, sosterrà la sua candidatura alle presidenziali fino alle controverse elezioni del 2000, salvo poi cambiare decisamente rotta. Nel 2004 infatti Moore sosterrà la candidatura di Kerry, accusando i supporter di Nader di aver permesso l’ele zione di Bush junior e ricevendo, in cambio, dichiarazioni sprezzanti. Quelli della rivista sono anni fondamentali anche se coincidono con il periodo forse più cupo della sinistra americana: gli anni del reaganismo imperante e di uno smantellamento industriale che

colpisce, più di ogni altro stato, proprio il Michigan, culla dell’industria automobilistica statunitense. Nel 1985 Moore riceve una lettera della rivista «Mother Jones» che, essendo alla ricerca di un nuovo collaboratore, sarebbe felice di conoscere le sue proposte. Nata nel 1976 sulle ceneri di «Ramparts», un’altra pubblicazione alternativa, «Mother Jones» è tuttora la rivista progressista con la più alta circolazione negli Stati Uniti. Dopo aver spedito una lettera di intenti in cui dichiarava il suo desiderio di allargare il più possibile la base dei lettori liberandola dalla sua patina intellettualoide, Moore vince la concorrenza ed è nominato caporedattore. Per il «Voice» è la fine di una fortunata storia decennale, per lui sembra essere arrivato il momento della svolta. Fin qui, di cinema, neanche l’ombra. Il fatto che, di lì a quattro anni, potesse realizzare il documentario di maggior successo della storia degli Stati Uniti non sembra allora un’ipotesi molto più plausibile di una sua elezione alla Casa Bianca. Ma le vie della gloria seguono strade imperscrutabili. Quella californiana non è un’esperienza fortunata per l’uomo di Flint che in breve tempo riesce a inimicarsi gran parte della redazione e della direzione. Lo ricorderà lui stesso all’inizio di Roger & Me, quando racconterà che dopo aver messo in copertina un operaio (Ben Hamper appunto) proponendo di affidargli una rubrica, il proprietario gli avrebbe risposto richiedendo un’inchiesta sui vari tipi di tè e tisane. Un’altra versione, sostenuta in seguito dal regista, racconta che la crisi si sarebbe consumata dopo il rifiuto, da parte dei proprietari, di pubblicare un reportage filo-sandinista. I motivi del fallimento, secondo alcuni redattori della rivista, sarebbero invece da ricercare nell’eccessivo egocentrismo di Moore e nella sua cronica incapacità di rispettare le scadenze e le regole non scritte di una redazione. Ciò che è certo è che le cose non vanno a finire bene: Moore, licenziato, fa causa alla rivista, chiedendo due milioni di dollari di danni ma ottenendone alla fine solo 58.000. Risale però al breve periodo di San Francisco, precisamente al marzo del 1986, il fondamentale incontro con i documentaristi Kevin Rafferty, Anne Bohlen e James Ridgeway. I tre stanno lavorando a un documentario sui gruppi di estrema destra americani quando scoprono che l’ex caporedattore del «Voice» ha già dedicato alcune inchieste all’argomento in Michigan. Que sti riesce così a organizzare loro alcuni incontri con membri del Ku Klux Klan, della Militia del Michigan e altri gruppi razzisti e paramilitari. Per la prima volta Moore viene coinvolto nella realizzazione di un film nel quale fa anche una breve apparizione. Il documentario u scirà solo nel 1991 con il titolo di Blood in the Face, ac compagnato da un omonimo libro del solo Ridgeway. Moore appare nel ruolo di intervistatore di una giovane neonazista cui dice, provocandone l’imbarazzo, che sembra più adatta a una pubblicità della Coppertone che a un gruppo di estrema destra (fot. 1). Un cameo che prefigura quello che sarà lo stile delle sue interviste.

FOT. 1

È questo il momento più importante della sua esperienza californiana. Soprattutto a contatto con Rafferty, uno dei tre registi di The Atomic Café (di Kevin Rafferty, Pierce Rafferty, Jayne Loader, 1986), importante documentario sulla Guerra fredda e sull’ossessione per la bomba atomica, Moore apprende i primi rudimenti tecnici del mestiere e riceve un’importante ispirazione che non rinnegherà neanche quando scopre che Rafferty è nipote del candidato alla presidenza George Bush senior (e quindi cugino di un altro futuro presidente, George W. Bush). Vedremo tra poco

l’influenza di un film di “collage” come The Atomic Café nella creazione di uno dei suoi caratteri più originali: l’uso del found footage. Con il licenziamento da «Mother Jones», comunque, inizia uno dei periodi più difficili per il futuro regista che forse rimpiange di aver lasciato il natio Michigan per un’avventura tanto ambiziosa quanto fugace. Moore, che nel frattempo è stato raggiunto da Kathleen Glynn, racconta di aver trascorso vari mesi a San Francisco in stato di semidepressione, dividendo le sue giornate tra il letto e le sale cinematografiche. Sembra un fallimento ma è qui che avviene la vera svolta perché ad allora risale la prima idea di realizzare un documentario su Flint. Pochi mesi dopo il licenziamento, Jim Musselman, stretto collaboratore di Nader, gli propone di trasferirsi a Washington e di curare una sintetica newsletter cartacea nella quale analizzare in maniera critica i media americani. Nasce così «Moore’s Weekly» un piccolo foglio che non otterrà mai il successo sperato. Anche perché è proprio nel periodo di Washington che Moore comincia, in maniera quasi clandestina, a lavorare al suo film d’esor dio. Dopo aver sperimentato la difficoltà di un lavoro redazionale sottoposto a scadenze, influenze esterne e rapporti professionali paritetici (lo stesso conflitto si ripeterà con il direttore della fotografia Haskell Wexler sul set dello sfortunato Operazione Canadian Bacon), decide di seguire una strada che accontenti il suo egocentrismo e che, con poche eccezioni, porterà avanti per tutta la sua carriera: sarà al contempo produttore, regista e attore principale dei suoi film. Le biografie parlano di un Moore inizialmente molto goffo e impreparato tecnicamente. Durante un’intervista (poi tagliata) al celebre reverendo nero Jesse Jackson, si narra sia stato quest’ultimo a spiegare alla futura Palma d’oro come far funzionare i microfoni. Nell’epoca del documentario predigitale anche solo effettuare alcune riprese ha un costo considerevole. Il regista decide quindi di realizzare un trailer per attirare l’interesse di eventuali finanziatori, affidandosi ai suoi unici contatti nel mondo del cinema: Anne Bohlen e Kevin Rafferty, che accettano di recarsi a Flint per girare alcune sequenze che poi appariranno anche nella versione definitiva. La prima aveva anche il pregio di possedere una certa conoscenza del soggetto, avendo prodotto il documentario candidato all’Oscar With Babies and Banners: Stories of the Women’s Emergency Brigade (di Lorraine Gray, 1979), storia della brigata femminile delle lavoratrici della Gm che parteciparono al grande sciopero di Flint. Il contributo di Rafferty, che alla fine sarà accreditato tra i direttori della fotografia, si spingerà poi ben oltre il trailer. Per trovare altri fondi Moore vende i mobili di casa e organizza partite di bingo a Flint, consapevole che in epoca di recessione il gioco d’azzardo conosce quasi sempre un boom. Grazie al trailer ottiene anche l’aiuto di alcune fondazioni private, ancora oggi una delle principali fonti di finanziamento dei documentari d’autore americani. Mettendo insieme anche i soldi di «Moore’s Weekly», l’anticipo per un libro sulla Gm che non scriverà mai e la buonuscita da «Mother Jones», raccoglie così i 250.000 dollari del budget. Titolo provvisorio: Dance Band on the Titanic: Autoworld and the Death of Flint. Il regista arriva quindi al suo primo film senza che sia chiaro un aspetto solitamente caro ai critici: quali sono le sue influenze prettamente cinematografiche? Di certo il rapporto con il documentario non sembra di grande affetto o deferenza. Fedele al suo zelo antintellettuale, Moore ha dichiarato più di una volta il suo rigetto per i documentari diffusi dalla Pbs, un network televisivo noto per la sua programmazione di qualità ma che, stando a lui, «a Flint non guardava nessuno». Il suo, come dirà, deve essere «un documentario per persone che odiano i documentari». Interrogato nel corso degli anni sui film e sugli autori che lo hanno segnato, ha dato sempre risposte degne di un cinefilo alle prime armi: Taxi Driver (Id., di Martin Scorsese, 1976), Il Padrino (The Godfather, di Francis Ford Coppola, 1972), Kubrick, Buster Keaton e infine Chaplin, che citerà spesso come esempio per la sua capacità di fondere commedia e critica sociale. C’è di che fare disperare il critico disarmato da tanta banalità. A poco aiuta sapere che a Flint Moore ha gestito per circa dieci anni un cineforum in cui ha proiettato i film di Fassbinder, Godard e Bergman, e che durante le settimane vissute da disoccupato andava al cinema a vedere di tutto, compresi i film di Stallone e Schwarzenegger. E

come credere che non sia il vezzo di un regista Palma d’oro quello di confessare di essersi formato più con i Monty Python e con i Simpson che con i maestri del cinema? Forse, però, non c’è niente di vezzoso. Pur evitando la tentazione romantica di credere all’idea di un artista solitario che elabora il suo stile dal nulla, è probabile che le radici del cinema di Moore vadano ricercate più nelle inchieste giornalistiche del «Voice» e nell’immaginario pop che nella sua frequentazione delle sale d’essai. Anche se, come vedremo, il suo primo film subisce non poco le influenze del documentario americano a lui contemporaneo. Come diceva Orson Welles «Nel cinema, come in qualsiasi mestiere, la tecnica si impara in quattro giorni. Difficile, invece, è servirsene per fare dell’arte. Per questo occorrono anni». E se la forma di Roger & Me, la cui lavorazione dura circa tre anni, è probabilmente frutto di una elaborazione progressiva, Moore sa esattamente quale sarà il soggetto: lo spaventoso declino economico e sociale della sua Flint per colpa delle politiche economiche reaganiane e dell’avidità della Gm. Un film sulla crisi di una città nutrita e poi abbandonata dalla grande industria. Chi meglio dell’uomo di Flint per un film che parla, in realtà, della crisi della classe operaia di tutto un Paese? Nascita di una maschera e moltiplicazione delle scritture: Roger & Me «Gli ho detto che era senza dubbio un errore mettere sé stesso nel film, che non avrebbe funzionato. È il peggior consiglio mai dato da un regista a un altro regista. Grazie a Dio non mi ha ascoltato.» Kevin Rafferty «Ogni uomo mente. Ma dategli una maschera e sarà sincero.» Oscar Wilde

Moore ignora che il suo primo documentario si appresta a trionfare al botteghino americano, avviando una carriera che lo porterà nel giro di quindici anni all’Oscar e alla Palma d’oro. Sa però molte cose, tra le quali come non fare l’ennesimo documentario sociale capace di interessare solo un ristretto numero di persone già convinte della bontà delle sue tesi sinistrorse. Esiste una regola oggi nota a quasi tutti i documentaristi che hanno avuto la sventura di dover sottoporre un proprio progetto (“pitchare”, come si dice in gergo) a un canale televisivo o a un produttore. Una regola che scimmiotta le basi del dramma aristotelico e che è divenuta negli anni quasi un dogma: per fare un buon documentario ci vuole un personaggio forte, un conflitto narrativo e una degna risoluzione. Moore si è sempre vantato di non aver mai finito il college e di essere per questo incapace di organizzare un discorso – e quindi un film – secondo le regole dell’arte. Eppure, mentre si trova a realizzare un documentario sulla spaventosa crisi economica della sua città natale segue, forse inconsapevolmente, proprio questa regola. Perché è anche applicando, a modo suo, una logica narrativa che è riuscito a trasformare un’inchiesta sociale nel film che ha rivoluzionato il rapporto tra il pubblico americano e il cinema documentario. I motivi del successo sono molti ma il principale è probabilmente quello di essere riuscito a dare una dimensione narrativa, autobiografica e comica a un tema così drammatico, sfruttando schemi tipici di Hollywood e del populismo anglosassone. Un personaggio forte, dicevamo? Michael Moore stesso, ovvero un figlio di operai senza diploma universitario che cerca di capire perché, negli Stati Uniti che si apprestano a divenire l’unica superpotenza mondiale, esistano zone depresse come Flint. Un conflitto narrativo? Per questo occorre inventarsi un “cattivo”, all’occorrenza Roger Smith, il capo della Gm, il colosso dell’auto che dopo aver diffuso benessere per svariate generazioni ha deciso di chiudere la maggior parte delle fabbriche e delocalizzarle in Messico (proprio questa delocalizzazione diventa il più classico degli “incidenti scatenanti”). La chiave di volta è dunque l’invenzione di un intreccio che supporti questa tensione: e quale miglior conflitto di quello di classe? Per tutto il film il regista-personaggio

cerca invano di intervistare Smith per convincerlo a recarsi a Flint e verificare di persona gli effetti sociali della politica economica della sua compagnia. Moore, che ha un’esperienza giornalistica più che decennale, sa bene che non è possibile intervistare un manager del livello di Smith senza almeno prendere un appuntamento con largo anticipo. Ma l’idea di dargli la caccia serve a creare una tensione narrativa, in un procedimento drammaturgico degno di un film poliziesco ma applicato al cinema della realtà, come analizzeremo meglio nel capitolo dedicato a Bowling a Columbine. François Niney (Be positive, in «Cahiers du cinéma», n. 430, aprile 1990) parla giustamente di una «parodia di Marlowe [...] che indaga nelle crepe del sogno americano». Per tutti questi motivi possiamo tentare di raccontare i suoi film come si farebbe per un film di finzione, descrivendo la realtà raccontata dal regista senza porci, almeno in questa sede, la questione della sua veridicità. Usando film amatoriali della sua famiglia, immagini promozionali della General Motors e altro materiale d’archivio, Moore presenta se stesso e Flint, sua città natale nonché culla della Gm, la più grande compagnia automobilistica del mondo, che qui produce le varie Cadillac, Buick e Chevrolet. Tutti i membri della sua famiglia hanno lavorato per la Gm, a partire dallo zio Laverne che partecipò al grande sciopero del 1937 da cui nacque il sindacato dell’auto. Solo il regista non si sente adatto alla catena di montaggio e vede i propri concittadini che hanno fatto fortuna altrove come degli idoli da imitare. Così, dopo essere stato per dieci anni caporedattore di una rivista locale, ha accettato la proposta di dirigere una pubblicazione alternativa a San Francisco. Ma il contatto con la California risulta difficile e dopo alcune frizioni con la direzione, troppo superficiale per lui, torna a casa. Qui scopre che, malgrado i super-profitti, la Gm si appresta a trasferire undici delle fabbriche di Flint in Messico e licenziare così trentamila persone. Fingendosi allora membro di una troupe televisiva documenta la chiusura di una fabbrica e la rabbia dei lavoratori nei confronti di Roger Smith, il capo dell’azienda. In seguito all’incontro con Tom Kay, un portavoce dell’azienda che elogia l’umanità di Smith, Moore decide di avere un colloquio con quest’ultimo. Dopo aver scritto, telefonato e spedito fax, si reca nella sede di Detroit ma è bloccato dagli agenti della sicurezza. Il regista comincia allora a verificare gli effetti dei licenziamenti sulla sua città e incontra Ben Hamper, un suo amico che, dopo essere stato licenziato cinque volte, è stato ricoverato in un centro di salute mentale. La situazione sociale di Flint, come confermano le news e le immagini degli edifici fatiscenti, si degrada velocemente. I licenziamenti aumentano e il numero di topi supera quello degli abitanti. Per fronteggiare la crisi arriva in città il presidente Reagan, che invita a pranzo dodici disoccupati cui suggerisce di cercare lavoro negli stati del sud mentre, nel frattempo, un ignoto ladro si impadronisce della cassa del ristorante. Nello stesso periodo alcuni membri della borghesia cittadina organizzano feste in costume stile “Grande Gatsby” utilizzando i disoccupati come statue umane. Intervistati, difendono la qualità della vita della città e invitano gli operai a darsi da fare. Il vicesceriffo Fred Ross è invece fra i pochi con un lavoro sicuro: deve infatti sfrattare chi non ha pagato l’affitto. Cosa che fa senza troppi scrupoli, anche se aiuta le persone cacciate, perlopiù afroamericani, a trasportare sul marciapiede i propri oggetti. Il vano inseguimento di Smith prosegue in vari luoghi frequentati dalla upper class: lo Yacht Club di Grosse Point, il Detroit Athletic Club o il Waldorf Astoria di New York, dove il manager riceve un premio per l’auto dell’anno. Frustrato, Moore torna a Flint, dove è atteso il ritorno di Bob Eubanks, un famoso conduttore televisivo che, intervistato, si lascia sfuggire una battuta omofoba e antisemita. Il regista si reca quindi all’annuale parata cittadina, cui partecipano anche il governatore del Michigan e il capo del sindacato dell’auto, che mostrano la loro passività di fronte alla chiusura delle fabbriche. Una delle attrazioni, Miss Michigan, sfila accanto ai negozi chiusi ma tutto il suo interesse è rivolto al titolo di Miss America, che otterrà due settimane dopo. Si scopre in seguito che il sindaco di Flint aveva offerto ventimila dollari al predicatore Robert Schuller perché tenesse un discorso per confortare gli abitanti. Anche due celebri cantanti difendono la Gm: Anita Bryant, che invita gli abitanti a essere più “positivi”, e Pat Boone, ex uomo immagine della Chevrolet. Gli effetti della crisi sono sempre più visibili: lunghe code di persone che donano il sangue per pochi dollari, ditte di traslochi che lavorano a pieno regime e armerie piene di clienti a causa dell’aumento del crimine. Per risolvere il sovraffollamento delle carceri, viene costruito un nuovo penitenziario al cui interno, la notte prima dell’apertura, è organizzata una festa durante la quale i ricchi della città possono provare il brivido di dormire “al fresco”. Nel frattempo, l’ufficio del turismo effettua investimenti record per costruire un hotel di lusso, un parco esposizioni e Auto World, un luna park dedicato alle automobili. In breve però i tre investimenti, malgrado l’entusiasmo degli amministratori locali, si rivelano un fiasco colossale. La crisi ha poi costretto alcune persone a cambiare lavoro. Moore incontra Janet Rauch, ex femminista divenuta “consulente

colorista” per una società di marketing, e visita uno dei fast food della catena Taco Bell, dove lavorano molti ex operai Gm che faticano ad adattarsi ai nuovi compiti. Incontra poi Rhonda Britton, una disoccupata che vende conigli come animali da compagnia o per uso alimentare. Davanti al regista, la donna uccide uno degli animali, lo appende a un albero e, senza smettere di parlare, lo scuoia. Moore si reca quindi all’assemblea annuale degli azionisti Gm dove è presente anche Smith ma prima che possa parlare il suo microfono viene staccato. In seguito viene chiusa anche la fabbrica che era stata teatro del grande sciopero del 1937. Solo quattro persone si presentano alla manifestazione di protesta e al regista è impedito di intervistare i lavoratori. Alla vigilia di Natale, mentre Ross continua a sfrattare famiglie, a Detroit si svolge la festa della Gm. Mentre Smith, nel suo discorso, cita Dickens per parlare della bellezza della festa, una delle famiglie reagisce con rabbia allo sfratto. Riuscito a penetrare nella festa, il regista si trova per la prima volta davanti al capo della Gm e lo invita a Flint per vedere gli effetti dei licenziamenti, ma questi rifiuta. Moore ammette la sconfitta: non è riuscito a convincere Smith e proclama sarcasticamente «Si avvicina l’inizio del XXI secolo, i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri più poveri. [...] È davvero l’alba di una nuova era». La didascalia finale rivela che il film non può essere proiettato a Flint perché tutti i cinema cittadini hanno chiuso.

Raramente le prime sequenze di un film d’esordio hanno condensato così tanto significato per l’opera di un regista. Non solo per i dati autobiografici esposti con militante autocompiacimento, quanto perché i primi minuti di Roger & Me rivelano subito alcuni dei caratteri più forti del suo cinema: la creazione del personaggio-regista, il ricorso a materiali d’archivio di origine disparata e l’uso esplicito della comicità in un documentario. Si tratta di elementi legati tra loro, che contribuiscono in maniera quasi programmatica alla definizione di uno stile originale e di rottura rispetto alla sobrietà e all’invisibilità registica proclamata dal cinéma vérité. Sebbene, come vedremo, sono pochissimi i procedimenti usati da Moore che non abbiano dei precedenti in autori più o meno noti, egli si pone chiaramente in antitesi con le strutture (e le obbligazioni etiche) che tradizionalmente il pubblico attribuisce al documentario. Al cuore di tutto ciò c’è la centralità assoluta di Michael Moore, che non è solo un regista ma è soprattutto un enfant du pays autorizzato dal suo background ad apparire sullo schermo e guidare lo spettatore attraverso tutto il film. La cittadinanza anagrafica diventa così cittadinanza cinematografica e il regista segue implicitamente il detto di Tolstoj «descrivete bene il vostro villaggio e avrete descritto il mondo». Agli antipodi dell’immagine dorata della terra delle opportunità, Flint è una città che muore di delocalizzazioni, risanamenti industriali e deterioramento sociale. In questo senso l’autobiografia diventa una lente attraverso cui leggere una realtà più ampia ed è in questa logica che si inserisce la creazione ad arte del personaggio- regista. Come accade nel cinema “narrativo” classico laddove il regista è anche attore, Moore ricopre nei suoi film due funzioni connesse eppure abbastanza diverse. Fuori campo, come sappiamo bene, egli è un regista consapevole e spesso manipolatore ma sullo schermo si trasforma in Mike, un alter ego falsamente naïf nel quale i tratti dell’uomo medio americano sono esasperati e resi visibili addirittura nel vestiario, grazie all’immancabile cappellino da baseball e alle rotondità che lo rendono meno inarrivabile dei normali personaggi dello spettacolo (fot. 2). L’esperienza co me giornalista gli insegna infatti che è importante essere distinguibili, anche fisicamente, per creare un rapporto di fiducia con lo spettatore. Si tratta della vera e propria invenzione di una maschera creata ad arte per veicolare caratteri specifici e immediatamente riconoscibili. Charlie Chaplin, Orson Welles (che con il nostro ha sorprendentemente molto in comune, non solo la stazza), Nanni Moretti e Woody Allen sono tutti casi, ovviamente differenti e forse discutibili, di attori-registi che esercitano questo tipo di dualismo e che hanno in comune, inoltre, una certa insistenza ironica sulle particolarità fisiche e caratteriali del proprio alter ego attore. Che tali particolarità esistano anche nella vita privata dei registi nulla toglie al fatto che si tratti di un processo tipicamente drammaturgico. «L’uomo medio è un mostro» diceva l’Orson Welles di La ricotta di Pier Paolo Pasolini (1962): «un pericoloso delinquente, conformista, colonialista, razzista, schiavista, qualunquista». Ma contrariamente a Pasolini, nel cinema di Moore, Mike è il classico everyman americano cresciuto all’ombra dei valori garantiti dalla costituzione. Semplice e generoso, può permettersi di indignarsi

di fronte alle malefatte del capitalismo e porre le domande all’apparenza più ingenue e disarmanti, rivelando così la malvagità e l’insensatezza di un potere economico o politico messo in scacco, appunto, dall’uomo medio. Anche perché sa che il suo alter ego regista monterà queste sequenze con ben altra consapevolezza e obiettivi politici. Questa centralità e visione positiva dell’ “uomo qualunque” suscita, non solo in Italia, alcune riserve e brutti ricordi, ma l’inevitabile qualunquismo che ne deriva, pur non essendo un elemento secondario, è una questione che esula dall’analisi strettamente cinematografica. Certo è che se Flint deve essere il metro attraverso cui valutare l’America (e la città infatti tornerà in quasi tutti i suoi film), c’è bisogno di un Mike per vederla con gli occhi dell’americano medio.

FOT. 2

Per questo, fin dal primo film, la critica ha individuato un parallelo tra Moore e i personaggi dei film di Frank Capra, uno dei capostipiti della grande scuola populista hollywoodiana cui il regista di Flint si ricollega più o meno esplicitamente. Come Mr. Smith e soprattutto Mr. Deeds, personaggi di due dei più famosi film di Capra (È arrivata la felicità, Mr. Deeds Goes to Town, 1936 e Mister Smith va a Washington, Mr. Smith Goes to Washington, 1939), anche Mike è un protagonista ingenuo e idealista cui il regista attribuisce l’autorità per condurre una lotta contro il sistema. Un’autorità che diventa una sorta di monopolio morale dell’indignazione. In entrambi i casi è inevitabile il ricorso a un manicheismo tipicamente hollywoodiano: da una parte il sistema avido e corrotto, dall’altra un eroe comune che è espressione della bontà popolare. Il titolo del film di Moore non fa che cristallizzare questa interpretazione personalizzata e donchisciottesca (ma un Don Chisciotte con il fisico di Sancho Panza) del conflitto di classe, che è anche conflitto drammaturgico. Niente di più semplice: Roger & Me, come dire “Golia e Davide”, “Loro e noi”. Il Me di Roger & Me, così come il Mr. Smith di Capra, sono uomini comuni che combattono, rispettivamente, contro il cattivo (Roger) o contro l’incarnazione stessa del potere (la città di Washington). In una reinterpretazione farsesca di alcuni “cattivi” del cinema di Welles – si pensi a Gregory Arkadin in Rapporto Con fidenziale (Mr. Arkadin, 1955) e ad Hank Quinlan in L’infernale Quinlan (Touch of Evil, 1958) – Roger è costantemente evocato attraverso fotografie (fot. 3), immagini d’archivio e la testimonianza di alcuni personaggi, ma non appare di persona che molto avanti nel film. La conclusione è la logica conseguenza di questa impostazione manichea: il ricco e crudele Roger andrà dritto per la sua strada ma è Moore che ne esce come vincitore morale, anche a costo di modificare, addomesticare o negare la realtà, come faceva appunto l’eroe di Cervantes. Il fatto che, nel caso di Moore, il detentore dell’autorità morale sia lo stesso regista sarà sempre motivo di fastidio per una parte della critica e del pubblico, che vi hanno spesso visto una forma di megalomania e d’insopportabile semplificazione.

FOT. 3

Torneremo sul parallelo tra Capra e Moore nel capitolo dedicato alla trasmissione The Awful Truth. Adesso concentriamoci sulla consapevole dialettica tra il Moore regista e il Mike personaggio perché su di essa si fonda gran parte della forza di Roger & Me e del suo cinema successivo. Nelle prime sequenze, in una sorta di captatio benevolentiae, Moore si presenta attraverso immagini di sé bambino e della sua famiglia a Flint, ironizzando sulla sua grassezza e sulla sua precoce passione per Kennedy. Sono così introdotti alcuni elementi chiave: l’autoironia, la propria legittimità nel parlare degli argomenti del film e, sommariamente, l’affermazione del proprio campo politico. Fin da subito le vicende della città sono raccontate con gli occhi di Moore bambino, in un processo per cui la sua storia privata finisce con il coincidere con quella della città (nel 2009, con toni molto più rarefatti e poetici, Terence Davies costruirà il suo Of Time and the City a partire da un found footage “della memoria” per costruire un film d’omaggio alla sua città, Liverpool). Dalle immagini in bianco e nero di Flint ai tempi del suo splendore economico si passa a quelle che raccontano la chiusura della sua rivista, il «Michigan Voice», nel 1985, come se si trattasse di una normale successione cronologica di eventi riguardanti un solo soggetto. (fot. 4)

FOT. 4

L’inserzione dell’autobiografia nel documentario e la sua fusione con meccanismi propri della finzione, oltre a essere un fatto ormai scontato in letteratura, non è un fatto nuovo nella non-fiction americana. Appena tre anni prima di Roger & Me era uscito Sherman’s March (di Ross McElwee, 1986), un documentario sul quale occorre soffermarsi poiché, secondo molti, costituirebbe il principale modello di riferimento del film di Moore. Formatosi all’ombra del cinéma vérité, il suo autore si è spostato negli anni verso uno stile profondamente personale in cui l’autobiografia si fonde o addirittura sovrasta e annulla il soggetto del documentario. Sherman’s March si apre con McElwee che intende visitare i territori attraversati nel 1864 dal generale Sherman nel corso della

celebre marcia effettuata durante la Guerra Civile americana. A mano a mano che il film avanza, il regista perde di vista il suo progetto principale e si concentra invece sulla sua personale ricerca di un’anima gemella (che ricorda la caccia a Roger Smith da parte di Moore). L’opera ha sicuramente esiti meno politici di Roger & Me ma è interessante vedere come in entrambi i registi il linguaggio documentaristico si mescoli con l’autobiografia che diventa il motore narrativo, come il soggetto si faccia oggetto e come la pretesa di obiettività sparisca senza alcun rimpianto. Al cuore di questo processo autobiografico ed egocentrico sta uno degli elementi più visibili e, per alcuni, disturbanti del documentario di Moore: la presenza in scena dell’autore (on screen persona, come viene definita). Come abbiamo visto, si tratta di un processo largamente praticato anche nel documentario, almeno dai tempi di Jean Rouch. Ma anche se non c’è innovazione formale assoluta, l’originalità di Moore sta nella sua capacità di fondere i modelli esistenti e giocare con la percezione che il pubblico generalmente ha di questo tipo di film. Bill Nichols in un suo importante libro (Representing Reality: Issues and Concepts in Documentary, Indiana University Press, Bloomington, 1991), ha individuato quattro modalità cui possono essere ricondotti tutti i film di non-fiction: «descrittiva» (caratterizzato da una voce fuori campo onnisciente), «d’os servazione» (nella quale l’autore è invisibile, tipica di molto cinéma vérité), «partecipativa» (nella quale l’autore e il soggetto interagiscono esplicitamente) e «riflessiva» (nella quale l’autore non insegue l’oggettività del reale e rivela più chiaramente i meccanismi registici). Roger & Me sembra attingere a tutti questi modelli. Investendosi in prima persona, Moore sembra rifiutare la postura dell’autore onnisciente eppure effettua un ricorso costante alla voce over. Quest’ultima però non è usata come “voce di dio” infallibile o didattica ma rinvia a un contesto diaristico, contempla un giudizio morale e ambisce a illustrare l’azione. Con la voce fuori campo il regista si presenta, racconta la sua strategia in fieri e sottolinea le sue opinioni, senza che vi sia una reale differenza di atteggiamento per ciascuna di queste funzioni. Come è stato detto, egli è in realtà «falsamente non onnisciente» perché non solo commenta il film ma è inoltre sempre presente in scena: anche quando non lo si vede, lo si percepisce come poco lontano. Moore non è il primo a mescolare questi modelli ma è forse il primo a imporre la presenza di un regista-attore in un film documentario di grande successo di pubblico. Anche per questo, nel suo importante libro successivo (Intro duzione al documentario, Il Ca storo, Milano, 2006) Nichols includerà altre due mo dalità di rappresentazione documentaria: quella “poetica” (tendenzialmente astratta e cronologicamente libera, tipica delle avanguardie) e soprattutto quella “rappresentativa”, che ha come strumento principale proprio il ricorso all’autobiografia. Per Moore quest’ultima è anche uno strumento per rendere credibile materiale che altrimenti risulterebbe troppo personale o fazioso per uno spettatore abituato a un’idea di documentario in cui l’autore prende debita distanza dal soggetto filmato. I filmati del regista bambino con la sua famiglia (fot. 5) sono così opposti alle immagini autocelebrative della Gm (fot. 6) in modo anche simbolico: il suo è un punto di vista che parte dagli affetti (che può quindi permettersi di esagerare e idealizzare come farebbe un bambino), quella dell’azienda è una realtà di propaganda. Proprio gli home movies, i film di famiglia divenuti da qualche anno argomento di studio privilegiato per storici e teorici del cinema, sono tra gli elementi più in novativi di un film che ricorre costantemente a frammenti audiovisivi di origine diversa (il found footage) il cui senso originario è reinventato grazie al montaggio. L’inizio di Roger & Me è esemplare: occorre infatti aspettare circa otto minuti perché si possano distinguere immagini chiaramente originali e girate dal regista. Prima di allora la storia di Flint e quella del protagonista sono presentate, in maniera quasi indistinta, attraverso materiali di origine ed epoche diverse. Inizialmente troviamo immagini d’archivio, perlopiù in bianco e nero, che affiorano chiaramente dal passato: super8 familiari, esibizioni canore di Pat Boone, film promozionali della Gm, cinegiornali, filmati di Flint, discorsi ufficiali del presidente della Gm. In seguito appaiono immagini più recenti: foto delle celebrità

cittadine, telegiornali che parlano della chiusura del «The Michigan Voice», vedute odierne di San Francisco, copertine di «Mother Jones». La sequenza di un film in bianco e nero in cui un giovane soldato americano in uniforme torna a casa dai genitori (fot. 7) sancisce in maniera comica la fine dell’introduzione e l’ingresso del documentario nel tempo del presente. Questa sequenza può essere presa ad esempio del modo in cui Moore ricorre al found footage rovesciandone il senso originale: una sequenza concepita per suscitare commozione è utilizzata a di stanza di anni per illustrare in maniera ironica il ritorno dalla California del regista. Moore parte dal presupposto che, per il pubblico odierno, le vecchie immagini in bianco e nero, specie se pubblicitarie o enfatiche, sono potenzialmente soprattutto ridicole. È un meccanismo talvolta crudele ed eticamente discutibile ma efficace perché basato sul più semplice dei procedimenti di montaggio: il contrasto, caro a Ejzenštejn (si veda Teoria generale del montaggio, Marsilio, Venezia, 2004) e qui applicato al grado zero o, più volgarmente, “all’americana”, con la voce fuori campo che sottolinea ulteriormente i concetti espressi.

FOT. 5

FOT. 6

Al di là delle critiche di manipolazione e cattivo gusto, l’uso in chiave comica del found footage è uno dei tratti riconoscibili di tutto il cinema di Moore. Anche qui vale la pena fare un passo indietro su quanto già emerso nel panorama documentaristico americano di quegli anni e sull’ispirazione fornita da un film come The Atomic Café (a sua volta figlio del “cinema-collage” di Emile De Antonio). Abbiamo già visto l’importanza di uno dei suoi tre registi, Kevin Rafferty, nel percorso artistico di Moore. The Atomic Café si basa unicamente su materiale d’archivio per ripercorrere la storia della paranoia atomica co struita negli Stati Uniti dalla Seconda guerra mondiale. Per realizzarlo i registi hanno recuperato frammenti sia audio che video di origine molto diversa: discorsi ufficiali, immagini di propaganda, filmati educativi che spiegano come difendersi da un attacco atomico, interviste a cittadini americani, filmati d’addestramento dell’esercito, canzoni popolari, comunicati radio, pubblicità etc. Insomma tutto quanto è stato trovato (found, appunto) e che potesse illustrare o evocare il soggetto dell’opera.

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Il gioco del contrasto agisce soprattutto in due modi, piuttosto semplici. Il più ovvio è la giustapposizione tra sequenze dal senso palesemente contraddittorio: ad esempio, le immagini di soldati e cittadini americani che festeggiano la fine della guerra sono seguite da quelle delle vittime civili vietnamite (fot. 8). L’altro è l’abbinamento, in contemporanea, tra un video e un audio portatori di un senso opposto: immagini di desolazione o guerra sono accompagnate da canzonette leggere che parlano della bomba in maniera distaccata o trionfalistici proclami radio. Questi due procedimenti sono spesso ripresi in Roger & Me. Rispetto al suo modello (che peraltro non utilizza voce over), Moore ha ancora meno scrupoli nel rovesciare il senso originale delle immagini e degli audio d’archivio per ottenere l’indignazione dello spettatore. Così, alle sequenze in cui Smith sostiene il suo interesse per i dipendenti vengono accostati i notiziari Tv che riportano i licenziamenti a catena della Gm. Oppure la canzonetta californiana Wouldn’t It Be Nice dei Beach Boys viene abbinata ai camera car che mostrano la desolazione “postatomica” di Flint e delle sue case in rovina. I film d’archivio sono uno dei generi eletti del cinema politico, non solo perché riprendono i meccanismi del cinema di propaganda. Se guardiamo al cinema europeo del dopoguerra scoviamo almeno due illustri precedenti di cinema militante di montaggio: La rabbia di Pier Paolo Pasolini e Giovannino Guareschi e Morire a Madrid (Mourir à Madrid), di Frédéric Rossif, entrambi del 1963. L’uso del montaggio per contrasto, anche senza il materiale d’archivio, serve a Moore per veicolare soprattutto un significato politico. Un esempio efficace lo abbiamo in una delle ultime sequenze, quando le immagini del discorso natalizio di Roger Smith sono alternate a quelle delle famiglie sfrattate (fot. 9). Una scelta che il regista ha voluto costruire su una delle ultime sequenze di Il Padrino dove le scene del battesimo della figlia di Michael Corleone (Al Pacino) si alternano a quelle degli omicidi dei cinque capifamiglia comandati dallo stesso boss. La presunta rispettabilità di Corleone, che in chiesa si presenta come devoto padre di famiglia, e quella di Smith, acclamato e umano dirigente d’a zienda durante la festa della Gm, stridono con gli effetti reali della loro attività: omicidi in serie da una parte e de vastazione sociale dall’altra.

FOT. 8

La dimensione politica fu determinante per il successo del film. In effetti l’argomento è particolarmente significativo se si considera l’anno di uscita: il 1989. Non è solo il primo anno dopo la fine dell’era Reagan, la cui continuità è assicurata dall’unico mandato di Bush senior, ma è soprattutto l’ultimo segmento del decennio forse più apolitico della storia di Hollywood. In controtendenza, Moore mette al centro del suo film una delle vittime sacrificali di quegli anni: la classe operaia. La storia insegna che nei periodi politicamente più difficili degli Stati Uniti (e il minimo che si possa dire degli anni Ottanta è che sono stati un periodo di rottura e crisi, soprattutto per la sinistra) è spesso al cinema fantastico che viene delegato il compito di trattare gli argomenti più scottanti. Nei primi anni Cinquanta, ad esempio, produttori e registi utilizzavano la fantascienza anche per realizzare film di critica politica che parlassero di Guerra fredda e maccartismo. Così era nato, ad esempio, Ultimatum alla terra (The Day the Earth Stood Still, di Robert Wise, 1951) che alludeva al clima di sospetto e caccia alle streghe di quegli anni. Qualcosa di simile avviene negli anni Ottanta, un periodo nel quale gli studios, con la notevole eccezione di Wall Street (Id., di Oliver Stone, 1987), evitano di affrontare i problemi specifici della working class americana e anche gli autori impegnati trascurano la politica interna per concentrarsi su quella internazionale. Così, peraltro, aveva fatto lo stesso Stone in Platoon (Id., 1986) e Salvador (Id., 1986). Per il resto Holly wood preferisce la fantascienza, film basati su valori tradizionali o quelli con un sottotesto ideologico decisamente yuppie. Tra i pochi a introdurre elementi di critica sono soprattutto registi horror come Brian Yuzna e John Carpenter. Pen siamo a un film di quest’ultimo, Essi Vivono (They Live, 1988), il cui protagonista, interpretato dal wrestler Roddy Piper, è un ex operaio di Denver (altra città che ha avuto un’industria automobilistica), costretto dalla crisi a trasferirsi in California, come accade ad alcuni abitanti di Flint nel film di Moore. In fondo lo stesso Roger & Me è una sorta di horror sociale, perché svela quanto c’è di spaventoso sotto le apparenze del sogno americano. Le succitate immagini in cui si vedono interi settori della città abbandonati sono degne di un horror urbano alla Carpenter (fot. 10).

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In questi anni la working class che appare sulle schermo non è utilizzata come spunto di denuncia ma semmai come ambiente in cui situare una storia di riuscita individuale senza alcun conflitto politico o idea di progresso di classe. A questa tendenza sono riconducibili film tanto operai quanto apolitici come Flashdance (Id., di Adrian Lyne, 1983), Staying Alive (Id., di Sylvester Stallone, 1983) o Gung ho (Id., di Ron Howard, 1986), un film sull’invasione automobilistica giapponese (uno dei temi del film di Moore) che si risolve in una sostanziale caricatura, vagamente razzista, dei nipponici. Come ha notato Beniamino Placido nel volume curato da Bruno Cartosio, Tute e technicolor: operai e cinema in America, Milano, Feltrinelli, 1980, la classe operaia statunitense ovviamente esiste ma, al contrario di quanto accade in Europa, è storicamente sottorappresentata al cinema. Il motivo è semplice: gli Stati Uniti sono da sempre impegnati in un progetto di creazione di una gigantesca classe media che fa sì che gli operai badino più alla promozione individuale che al progresso collettivo. È una sorta di tacito patto: graduale rinuncia alle pretese di rappresentazione (sindacale, politica, anche cinematografica) in cambio di un costante progresso economico. Il successo di Moore è legato anche al coraggio di aver messo i lavoratori americani al centro di un film proprio quando il patto sembra rompersi e la realtà prende il sopravvento sul sogno americano. Per farlo il regista non ricorre a compromessi con gli studios (distribuzione a parte) o ad allegorie ma va dritto all’obiettivo. Mostra cioè al pubblico americano che, contrariamente a quanto verrà cantato molti anni dopo in Italia, si può «uscire vivi dagli anni Ottanta», che può esistere ancora un cinema sociale e che – ed è questa la vera notizia – tutto ciò può anche essere divertente. Come ha sintetizzato il critico Harlan Jacobson (nell’importante articolo-intervista Michael & Me, in «Film Comment», vol. 25, n. 6, novembre-dicembre 1989, su cui torneremo), Moore ha riunito nel film le due principali correnti marxiste: quella di Karl e quella di Groucho. A oggi, rimane uno dei suoi meriti maggiori.

È vero che documentaristi come Frederick Wiseman, Barbara Kopple e Errol Morris, per citare i più famosi, non hanno mai smesso di investigare la realtà sociale americana ma è altrettanto vero che il loro impatto, in termini di pubblico, non è neanche paragonabile con quello che da subito accompagna Roger & Me. Nel 1990, ad esempio, la Kopple realizzerà, su un tema simile, American Dream, un documentario che racconta il declino del sindacato americano girato in stile vérité. Vincitore dell’Oscar, al momento della sua distribuzione il film è considerato un documentario di grande successo eppure incassa al botteghino americano circa un trentesimo del film di Moore (sugli incassi totali la proporzione è ancor più schiacciante). Malgrado la differenza di pubblico, la vicinanza di temi dimostra nuovamente come, almeno in questa fase, Moore non sia estraneo alle tendenze del documentario americano. Occorre quindi citare l’ultimo dei registi underground statunitensi a cui è stato accostato: Tony Buba, un regista poco noto in Europa. Più ancora di Moore, questi ha legato la sua filmografia alla sua città, Braddock, in Pennsylvania, importante polo siderurgico che ha conosciuto un destino simile a Flint. Anche i film di Buba partono da una fortissima ottica autobiografica e mescolano allegramente i confini tra fiction e documentario. Lightning over Braddock (1988) racconta, con gusto per il grottesco e perfido senso dell’umorismo, la storia di un regista (lo stesso Buba) che cerca di realizzare un film su un gigolo nel contesto del profondo declino della sua città. Seppur orientato verso la finzione, il film ricorda molto l’esordio di Moore, per il contesto in cui viene realizzato e per il coinvolgimento in prima persona del regista la cui presenza fisica (baffoni neri e vestiti di bassa fattura) ricorda quella del collega. Sintetizzando in maniera brutale, Moore sta a Buba come Flint a Braddock e come l’automobile all’acciaio. Entrambi sono figli di una fase storica precisa: la fine dell’età industriale in America e la terziarizzazione dell’economia americana, i cui esiti sono stati uno spostamento del baricentro economico e demografico del Paese verso gli stati del sud e l’impoverimento dei centri industriali della Rust Belt come Detroit (Motor City) e Pittsburgh (Steel City), di cui Flint e Braddock sono città-satelliti. Sono entrambi, insomma, esponenti di un cinema postindustriale degli Stati Uniti. Allora che genere di film è Roger & Me? Un documentario? Un film di finzione? Un pamphlet per immagini? Un pezzo di «agit-prop versione Midwest»? Un film a tesi? Ognuna di queste definizioni presuppone un tipo diverso di rapporto con la realtà e la difficoltà di catalogazione è una spia che permette di capirne l’originalità. Torna alla mente l’iconoclasta Jean Vigo e il suo “punto di vista documentato”: definizione che giustificherebbe anche la faziosità e le manipolazioni del reale e della cronologia, all’origine di un ampio dibattito critico di cui parleremo nel prossimo capitolo.

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Scomponendo il film, è possibile individuare sei assi principali: le interviste con le celebrità che visitano Flint, la denuncia degli investimenti edilizi per rilanciare la città, l’incontro con gli abitanti riconvertitisi a nuove attività, il found footage, il tentativo del regista di incontrare Roger Smith e l’autobio grafia. Sugli ultimi tre abbiamo cercato di fornire alcuni spunti di analisi, mentre gli altri elementi rientrano nella più classica tradizione dell’intervista e dell’inchiesta documentaria. È evidente che Moore pratica sì un cinema della realtà ma per farlo si appoggia su una concezione drammaturgica della non-fiction, probabilmente conscio del bisogno di finzione del grande

pubblico. E infatti personaggi come Rhonda Britton e il vicesceriffo Fred (fot. 11 e fot. 12) hanno una statura surreale degna della migliore black comedy. Già al suo esordio inizia così un processo che porterà Moore a reinventare il film di finzione «utilizzando la realtà come fiction in un contesto di documentazione della realtà» (Sandro Mauro, in «Segnocinema», n.119, gennaio-febbraio 2003). La realtà resta al cuore del procedimento (lasciamo da parte la questione della buona fede e dell’etica documentaristica) ma è adattata ai modelli del cinema narrativo: un protagonista cui identificarsi, un nemico, un’azione e una conclusione. In questo processo creativo vengono chiamati in causa anche elementi all’apparenza dissonanti come gli home movies, la pubblicità e i filmati di propaganda. Non è solo una mescolanza dei generi come quella praticata da registi quali Mel Brooks, ma una vera e propria mescolanza di scritture cinematografiche. Viene in mente Roger Odin, uno dei principali studiosi del cinema di famiglia e fondatore della teoria semio-pragmatica, secondo cui è proprio lo spettatore, con il suo bagaglio e sensibilità personali, a creare il senso di un film in una dinamica di “compatibilità”. Semplificando uno degli elementi principali del suo saggio Della finzione, Vita e pensiero, Milano, 2004, si può dire che la posizione e l’attesa di uno spettatore cambiano molto a seconda che questi si trovi di fronte a un film di finzione, a un documentario o un film di famiglia. Come già accennato, l’intuizione, forse inconsapevole, di Moore sta nell’aver saputo fondere non solo modelli diversi di fiction e di nonfiction, ma anche i linguaggi propri a questi diversi tipi di cinema, disorientando le attese degli spettatori. Un processo che conduce, per esteso, a una fusione dei diversi pubblici. Il successo al botteghino, mai così clamoroso per un film che si presenta come un documentario, lo dimostrerebbe.

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Non si può non pensare, per la quinta volta in poche pagine, a Orson Welles quando nel già citato F come falso - verità e menzogna mescolava scrittura documentaria e finzione, utilizzando la sua presenza sullo schermo in veste di regista e di attore per mantenere quest’ambiguità di cui lo spettatore non sempre è cosciente. Il modello di riferimento di Roger & Me è ancora, malgrado tutto, il documentario. Ma Moore, con questa moltiplicazione delle scritture cinematografiche, dà un impulso decisivo a un processo di unificazione dei diversi pubblici e alla creazione di un modello forte di nuovo spettatore. Dentro e fuori lo schermo: Pets or Meat: The Return to Flint Le reazioni che seguono l’esordio di Moore fanno emergere immediatamente due fenomeni che ne accompagneranno tutta la carriera: la creazione di un dibattito sulla sua ortodossia documentaria (nel senso di etica registica ma anche di legittima appartenenza al genere documentario) e il prolungamento del suo attivismo politico al di fuori dello schermo. L’uomo di Flint fatica infatti a considerarsi semplicemente un regista ed estende la sua militanza politica ovunque possibile: negli accordi di distribuzione, nella produzione di altri film e nell’organizzazione di campagne mediatiche e politiche. Proprio l’apparente mancanza di confini definiti tra la sua attività registica e quella politica, che lui stesso alimenta deliberatamente, creerà una inevitabile confusione di giudizio che

conoscerà il suo apogeo ai tempi di Fahrenheit 9/11 (2004). Nel suo porsi come figura politica, ancor prima che artistica, egli acquista certo una visibilità maggiore dei suoi colleghi ma si espone anche a critiche che hanno ben poco di cinematografico. Come detto, cercheremo di evitare la trappola (tanto sua quanto dei suoi detrattori) di analizzare i suoi film alla luce di polemiche e dibattiti politici, ma è comunque utile rendere conto del fenomeno per comprendere la portata mediatica di Moore. Procediamo con ordine. Presentato al festival di Toronto nel settembre 1989, Roger & Me diventa subito un caso nazionale. Selezionato e premiato in alcuni importanti festival (tra cui la Berlinale), ottiene valanghe di elogi attirando così l’attenzione di varie major hollywoodiane. Alla fine la spunta la Warner Bros che offre tre milioni di dollari, il più alto contratto di distribuzione di sempre per un film (almeno in teoria) documentario. Moore, che grazie al denaro può creare la sua casa di produzione, la Dog Eat Dog Films, pone nel suo contratto alcune condizioni. Vieta ad esempio che il film sia distribuito nei Paesi dove vigono ancora forme di separazione razziale (Sud Africa ma anche Israele, il che gli procurerà alcune critiche), fa distribuire gratuitamente ventimila biglietti alla popolazione di Flint e ottiene che in ogni sala sia riservato un biglietto per Roger Smith, dando naturalmente ampia eco alla notizia. Che i suoi fini siano sinceri o meno, Moore prolunga così la creazione del suo personaggio anche fuori dallo schermo. Investe poi una parte dei profitti (intorno ai 250.000 dollari) per creare a Flint il Center for Alternative Media con l’obiettivo di aiutare i cineasti indipendenti a produrre i propri film e di finanziare progetti d’impegno politico. I beneficiari sono vecchi amici, come Kevin Rafferty e James Ridgeway, gli autori di Blood in the Face che possono così concludere Feed (1992), un documentario sulle primarie democratiche nel New Hampshire, ma anche autori a lui sconosciuti impegnati in opere politicamente scomode. Sono almeno tre i film realizzati grazie anche al suo contributo e che riecheggiano, in qualche modo, la sua idea di cinema impegnato. Il più importante è The Panama Deception (di Barbara Trent, 1992), un documentario sui motivi nascosti dell’invasione di Panama da parte degli Stati Uniti e i rapporti tra Bush senior e Noriega, che vincerà addirittura l’Oscar. Gli altri due sono Spin (di Brian Springer, 1995), un film che utilizza immagini d’archivio e “fuori onda” televisivi per mostrare l’ipocrisia e le menzogne di politici e media americani, e Just Another Girl on the IRT (di Leslie Harris, 1995), presentato come la prima pellicola scritta, diretta e prodotta da una regista di colore negli Stati Uniti. Il contributo di Moore è più economico che cinematografico ma utilizzando parte degli incassi di Roger & Me per promuovere autori a lui affini delinea, almeno in parte, le tendenze del documentario americano di quegli anni. Insieme al successo arrivano però anche le prime controversie. Passati l’entusiasmo generale e i paragoni con Mark Twain (Vincent Canby, «New York Times», 27 settembre 1989), due articoli incrinano il quadro idilliaco, aprendo un dibattito tuttora piuttosto aspro sui suoi metodi. Il primo è di Harlan Jacobson che, nel già citato articolo, peraltro positivo, su «Film Comment», è il primo a dare risalto nazionale alle accuse, già mosse da alcuni giornali del Michigan, secondo le quali Moore avrebbe falsificato la cronologia degli eventi descritti e mentito su alcuni dati. Jacobson fa notare come le azioni del film sembrano tutte svolgersi nell’arco di poco tempo quando, in realtà, è stato provato che questi avvennero a distanza anche di molti anni. Altre omissioni volontarie e manipolazioni includono il numero dei licenziamenti e le sequenze riguardanti Reagan e il reverendo Schuller mentre alcuni testimoni affermano con certezza qualcosa di più scandaloso: Moore avrebbe avuto vari colloqui (tra cui un’intervista filmata) con Smith, poi tenuta segreta per evidenti motivi. La lista, come è facile immaginare, è lunga. Il comune denominatore è uno: il regista ha manipolato la realtà, il suo non sarebbe quindi un documentario. A queste critiche si aggiungono quelle di Pauline Kael, oggi defunta e allora celebre e influentissima madrina della critica statunitense. Un suo articolo sul «New Yorker» (The Current Cinema: Melodrama/Cartoon/Mess, 8 gennaio 1990), oltre a riprendere le accuse di manipolazione, afferma

che si tratta di un film «superficiale e grossolano [...] un esempio di demagogia gonzo che provoca risate delle quali uno si vergogna», deplorando in particolare il modo in cui vengono ridicolizzati gli abitanti di Flint. Un regista non è per forza il miglior difensore del suo film e soprattutto non è tenuto a dare un’esposizione teorica coerente delle tecniche usate nelle sue opere. Negli anni, Moore avrebbe imparato a rispondere con più sicurezza ma allora non sembra altrettanto a proprio agio nel replicare alle accuse. Per quanto riguarda gli errori di cronologia, afferma nell’intervista su «Film Comment» che nel film non ci sono date, ribadendo la sua volontà di fare un’opera su un intero decennio e non su pochi mesi. Le forzature sarebbero quindi un peccato minore perché contribuiscono a definire un quadro che resta, secondo lui, veritiero. Anche molti dei critici favorevoli a Moore, come Roger Ebert (che scrive un articolo di risposta a Kael e Jacobson sul «Chicago Sun Times», 11 febbraio 1990), considerano le forzature cronologiche come necessarie nel quadro di un film che perora una giusta causa e mantiene caratteri di verità. Tutte queste polemiche però sottovalutano l’originalità drammaturgica di Moore, il cui punto di vista non è quello del paziente e obiettivo raccoglitore di fatti bensì quello, discutibile eppure originale, di chi utilizza la realtà come strumento piuttosto che come fine narrativo, operando perciò senza obblighi di coerenza cronologica. Non è un caso che il regista affermi, sempre nell’intervista a Jacobson, di non aver voluto fare un documentario bensì un film di intrattenimento, alienandosi però così la piccola ma combattiva schiera dei documentaristi. Polemiche a parte, la sua carriera sembra lanciata ma Moore non sa che dovranno passare altri otto anni prima che possa realizzare un nuovo lungometraggio documentario (The Big One) e ben tredici prima di un nuovo film dotato di una ispirazione pienamente originale (Bowling a Columbine). Prima di allora si intestardisce nell’idea di proporre una sceneggiatura per il suo primo lungometraggio di finzione “tradizionale” a vari studios. Il film diventerà Operazione Canadian Bacon ma per alcuni anni il progetto raccoglie solo una serie di rifiuti. Per questo non può che accettare quando la (un tempo aborrita) Pbs si propone di finanziare un mini documentario da abbinare a Roger & Me nel quadro della celebre serie P.O.V (point of view). Pets or Meat: The Return to Flint viene così trasmesso il 28 settembre 1992 e conosce anche una breve distribuzione cinematografica, abbinato ai corti A Sense of History di Mike Leigh e The Appointments of Dennis Jennings di Steven Wright e Dean Parisot, con il titolo collettivo di Two Mikes Don’t Make a Wright. Una didascalia avverte gli spettatori che il filmato potrebbe disturbare i giovani, i vegetariani e gli azionisti della Gm. A Flint, due anni dopo l’uscita di Roger & Me, sono stati bruciati altri diecimila posti di lavoro. Moore racconta l’evoluzione della crisi, ma si interrompe per cercare ironicamente un approccio più positivo e mostrare alcuni discorsi ottimistici del presidente Bush. Racconta poi il successo del suo primo film attraverso le immagini di programmi televisivi che ne hanno parlato, negli Stati Uniti e in Europa. Roger Smith, che non ha visto il film, si è ritirato ma il suo successore gli ha tagliato la pensione di 100.000 dollari. Moore cerca allora di contattarlo e, parlando con la segretaria, si dice disponibile ad aiutarlo economicamente. Tornato a Flint, scopre che sono stati creati nuovi impieghi, quasi tutti lavori mal pagati in grandi catene di fast food. In compenso aumentano gli acquirenti di auto di lusso e armi da fuoco nonché i frequentatori della mensa dei poveri. Ritroviamo altri personaggi del film precedente. Ben Hamper è uscito dal centro di salute mentale e ha scritto un best seller. Dopo aver tentato di intervistare il sindaco di Flint che lo autorizza solo a filmare il suo ritratto, Moore ritrova il vicesceriffo Fred, che si occupa ormai anche di mettere all’asta le auto sequestrate e gli confida che i posti di lavoro persi sono più di diecimila. I funzionari dell’ufficio di collocamento condividono tale stima: per loro il vero tasso di disoccupazione è più alto dell’ufficiale 17,3%. Janet continua a fare la consulente colorista mentre Rhonda Britton, la venditrice di conigli, ha avuto un figlio ma deve lavorare gratis per ripagare i debiti. Per vivere vende anche topi e conigli come cibo per serpenti. Dopo aver esitato, visti i problemi provocati dalla scena di Roger & Me in cui la donna scuoiava uno dei suoi animali, Moore riprende un serpente che inghiotte un coniglio vivo. Quanto alle celebrità, Bob Eubanks si è scusato per la sua battuta e continua a lavorare, proprio come Pat Boone e Miss America, divenuta testimonial pubblicitario. Malgrado gli Stati Uniti siano ormai l’unica potenza mondiale, il numero dei suoi disoccupati è il più alto dai tempi della

Grande Depressione, dichiara Moore, che racconta di star preparando un film «sul nuovo ordine mondiale». Visto che Roger Smith non lo ha più richiamato si prepara a firmargli un assegno ma, all’ultimo momento, decide di strapparlo.

«Non ci sono piccoli ruoli, solo piccoli interpreti» diceva Konstantin Stanislavskij, che forse avrebbe guardato al regista-attore Moore con un certo interesse. Lo stesso dovrebbe valere anche per i film ma, al di là della durata, Pets or Meat è certamente un episodio minore della filmografia del regista. Nuova opera, stesso problema: come definirlo innanzitutto? Un sequel? Un aggiornamento? Un bonus, prima ancora che la diffusione del Dvd creasse, di fatto, una nuova sottocategoria? Uno spin-off? Un epilogo? Di sicuro, come è chiaro dalla sua genesi produttiva, il film risulta praticamente incomprensibile per chi non abbia visto il precedente cui però sembra aggiungere ben poco. Se Roger & Me nasceva quasi come un esperimento, i suoi esiti commerciali rendono evidente che non si tratterà dell’unico film del regista. Nel mescolare biografia e documentario, questi non solo mostra i primi segni di una certa autoreferenzialità, ma prolunga l’ambiguità tra attività cinematografica e impegno personale che a volte finirà per penalizzarlo. Pets or Meat comincia infatti da dove era finito il film precedente, al punto da includere addirittura le polemiche scatenate intorno a esso. Il titolo riprende un cartello apparso a casa di Rhonda Britton, la “Bunny Lady” in difficoltà economica che allevava conigli per venderli appunto come animali da compagnia o per farne cibo. Ma ha anche una valenza metaforica, esplicitata dalla voce over del regista. La Gm ha trattato i cittadini di Flint come i conigli della Bunny Lady: prima, finché la produzione non conosceva crisi, come innocui animaletti da compagnia; poi, quando ha deciso di chiudere le fabbriche, come carne da macello. Un concetto ribadito dalla scena più cruenta di tutto il cinema di Moore: un serpente («pet», come spiega la didascalia, fot. 13) che inghiotte letteralmente un coniglio («meat» fot. 14). Si tratta di una specie di variante gore del serpente che inghiottiva un elefante di Il piccolo principe che conferma l’idea che il film precedente avesse caratteri di horror sociale. Oltre a fornire retrospettivamente alcuni elementi di analisi in più circa l’esordio di Moore, il principale interesse di Pets or Meat sta forse nella sperimentazione di tecniche televisive che verranno riprese poco dopo da Moore nella trasmissione Tv Nation. Ci sono ad esempio momenti di (presunta) improvvisazione, come la telefonata alla segretaria di Smith, con tanto di didascalia «actual phone call» («vera telefonata» fot. 15) in sovraimpressione. Oppure l’ultima sequenza, nella quale Moore finge di scrivere un assegno per Smith che poi straccia. Televisivo è anche il gusto per la serialità, vista l’insistenza nel mostrare cosa è successo ai personaggi dell’opera precedente.

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Il secondo sforzo registico di Moore è certo una prova autoreferenziale e compiaciuta, la dimostrazione per alcuni critici che l’egocentrismo di Moore non ha solo aspetti positivi. Il primo dei tanti ritorni del regista a Flint è motivato anche dal desiderio di smentire le accuse di scarsa precisione e manipolazione di cui è stato oggetto. E la dimostrazione è per lui evidente: Flint sta peggio di prima, i disoccupati sono sempre di più, la povertà aumenta e i ricchi sono sempre più egoisti. Se da un lato il regista non può che essere preoccupato dalla situazione, dall’altro è quasi sollevato dall’evidenza di questa constatazione che dovrebbe spazzare via i dubbi sul suo film d’esordio. Anche in questo non è secondaria la collocazione televisiva accanto a Roger & Me perché Moore utilizza consapevolmente il mini sequel come spazio di chiarimento o addirittura di contrattacco dopo le polemiche sollevate dai media. Il primo film era fazioso? Qui mostra che le cose sono ancora peggiorate e che la disoccupazione viaggia intorno al 20%. Gli animalisti hanno protestato? Diamo loro una scena ancora più violenta. I cittadini di Flint erano stati ridicolizzati? Moore non si pone il problema di essere più gentile con i suoi personaggi, sottolineando gli aspetti grotteschi sia di Rhonda che del vicesceriffo Fred e infierendo anche sui membri del sindacato (mostrati mentre distruggono un’auto giapponese invece di protestare contro la Gm). È chiaro che, in Moore, la difesa dei lavoratori passa per un distacco dai loro modi di vita. In una sorta di rifiuto estetico già chiaro da Roger & Me, il regista attacca i suoi concittadini per la passività con cui accettano la loro stessa distruzione, per come cedono alle sirene della cultura di massa o preferiscano ascoltare un tele-evangelista piuttosto che protestare attraverso il sindacato. Quel che salva il film è proprio il gusto per l’umorismo nero, che non risulta minimamente scalfito. Anzi proprio la comicità di gusto televisivo sembra l’elemento dominante di questo strano episodio della carriera di Moore, affrontato con grande libertà ma il cui tono è quello del pastiche, con una varietà di elementi narrativi che si avvicina più alla superficialità degli show televisivi che alla compiutezza polisemica del film precedente. Sul momento Pets or Meat deve essere sembrato al regista, nella peggiore delle ipotesi, un innocuo diver-tissement ma è comunque l’inizio di una deviazione che porterà il regista lontano dal cinema documentario per alcuni anni. Il futuro immediato, infatti, lo conduce verso il piccolo schermo. Approdo televisivo: Tv Nation «La verità assoluta è una merce molto rara e pericolosa nel contesto del giornalismo professionista.» Hunter S. Thompson

Nei tre anni successivi all’uscita di Roger & Me, oltre ad aver assaporato per la prima volta sia il successo sia la gogna mediatica, Moore fa la spola tra New York (dove ha sede la sua casa di produzione), il Michigan e gli scettici studios di Hollywood, nel tentativo di farsi produrre la sua prima opera di fiction. Sbarca quindi quasi controvoglia nel mondo in cui, secondo alcuni, ha espresso il meglio della sua produzione: quello dei grandi network televisivi americani. Le

circostanze della svolta, raccontate dal regista e dalla moglie-produttrice Kathleen Glynn nel libro Adventures in a Tv Nation: The Stories Behind America’s Most Outrageous Tv Show (Harper Perennial, New York, 1998), risentono del gusto per l’aneddoto ma vale la pena riportarle. Nel 1992, durante uno dei suoi infruttuosi viaggi a Los Angeles, Moore riceve una chiamata dalla Nbc che gli chiede di incontrarlo quello stesso pomeriggio perché presenti un’idea per una serie Tv. Dopo aver rifiutato una simile proposta in passato, decide di accettare e telefona alla moglie, con la quale concepisce in poche ore le idee principali di quello che diventerà Tv Nation. Moore lo avrebbe presentato come «un misto tra 60 Minutes (un popolare programma d’informazione sul genere dell’italiano Report) e Fidel Castro, il tutto sotto l’effetto del gas esilarante». Fedele alla sua idea di cinema politico e non elitista, il suo doveva essere un programma impegnato che contemporaneamente raggiungesse anche il grande pubblico, in un misto d’intrattenimento, umorismo surreale e giornalismo d’inchiesta che raccontasse gli abusi cui erano sottoposti i cittadini ordinari e gli scandali politici degli Stati Uniti. L’idea è quella di uno show d’intrattenimento che presenti in ogni puntata vari servizi d’approfondimento: un po’ come in Roger & Me i temi sono serissimi ma i toni sono quelli della commedia. La Nbc e la Columbia Tristar, socio del network, gli accordano così un milione di dollari per preparare un episodio-pilota che viene poi consegnato a inizio 1994. Dopo qualche dubbio, il pilota viene trasformato in una miniserie estiva. La prima stagione di Tv Nation, coprodotta anche dalla Bbc, va in onda in prima serata, con ca denza settimanale, tra il 19 luglio e il 30 agosto 1994: sette puntate (la sigla è un gioiello di found footage, fot. 16) cui si aggiunge uno speciale di fine anno diffuso il 28 dicembre dello stesso anno. Ogni puntata dura circa quarantacinque minuti e contiene tra i cinque e i sette servizi (segmenti, come si dice in gergo). A Moore spettano vari compiti: oltre a coordinare la redazione, conduce ogni puntata e si occupa personalmente di alcuni dei servizi, delegando gli altri a un team di corrispondenti accuratamente scelto e di cui parleremo tra poco. Episodio numero 1. NAFTA: dopo gli accordi di libero scambio nordamericano, Moore visita il Messico per capire se può delocalizzarvi il programma. Taxi: grazie all’attore nero Yaphlet Kotto e il pregiudicato bianco Louie Bruno, si dimostra che a New York i tassisti discriminano i neri. Appleton: viaggio in un carcere del Minnesota che, per la disperazione del personale, non ha “ospiti”. Love Canal: reportage sugli agenti immobiliari che cercano di valorizzare l’inquinatissima Niagara Falls. Mike’s Missiles: dopo che per tutta l’adolescenza gli è stato detto di un missile sovietico puntato su Flint, Moore visita il Cremlino e una base missilistica. 2. CEO Challenge: sfida tra i capi di alcune grandi aziende per vedere chi conosce meglio i propri prodotti. AIDS Insurance Brokers: inchiesta sulle compagnie che speculano rilevando le assicurazioni dei sieropositivi. Klan PR Makeover: il Ku Klux Klan utilizza ormai i metodi pubblicitari delle grandi aziende per costruirsi un’immagine più moderna. Kuwait: Moore visita il Paese dopo la “liberazione” americana per valutarne gli effetti. Pets on Prozac: inchiesta sugli effetti della prescrizione di psicofarmaci agli animali.

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3. Dr. Death: incontro con il dr. Kevorkian, grande sostenitore dell’eutanasia. Lobbyist: per dimostrare il peso dei lobbisti sulla politica americana, la trasmissione ne assume uno che, per cinquemila dollari, ottiene che il Congresso proclami il 16 agosto “Tv Nation Day”. Amazon Avon: inchiesta sui rappresentanti di cosmetici che in Amazzonia vendono i propri prodotti a prezzi stratosferici. North Dakota: viaggio nello stato meno visitato del Paese. Sludge: viaggio nel percorso compiuto dai rifiuti degli scarichi di New York fino al profondo Texas. 4. O.J./Product Placement Night: visita ai rivenditori dell’auto con cui O.J. Simpson ha effettuato la sua fuga e inchiesta su come le aziende vendono il proprio marchio. 1-800-TOURISM: indagine sulle imprese che utilizzano i carcerati nei propri call center. Hot Springs: reportage dalla città dove è cresciuto Clinton. Lord Mike: in Inghilterra Moore acquista il titolo di baronetto. Health Care Olympics: i giornalisti sportivi Ahmad Rashad e Bob Costas commentano una sfida tra i sistemi sanitari di Canada, Cuba e Stati Uniti. 5. Tv Nation Day: viene festeggiato il primo Tv Nation Day. Millennium: alcuni gruppi millenaristi prevedono la fine del mondo nel 2000. Get Ready for Prison Test: un ex galeotto spiega come prepararsi a un soggiorno in carcere. Haulin: dopo la caduta del Muro, un tir decorato con falce e martello percorre il sud degli Usa per l’ultima tournée del comunismo. Bosnia: Moore cerca di convincere gli ambasciatori di Serbia e Croazia a riappacificarsi. 6. Fifth Week Anniversary Special: Sintesi dei migliori momenti degli episodi precedenti. 7. Gun Night: alcuni esempi della mania degli americani per le armi. Neighbors: per dimostrare l’indifferenza dei cittadini a quanto accade intorno a loro, in un quartiere residenziale sono simulate le attività di un serial killer. NY/NJ Grease: come hanno fatto altre aziende, la redazione minaccia il sindaco di New York Giuliani di trasferirsi in New Jersey se non ottiene riduzioni di tasse. Talk Show: indagine su come sono scelti gli ospiti dei talk show più trash. 8. Golf Night: il golfista Rodger Jabara dispensa consigli su come migliorare la trasmissione. Caning: in alcune scuole inglesi sono ancora inflitte punizioni corporali. Sabotage: inchiesta sulle tattiche utilizzate da alcuni dipendenti contro i maltrattamenti sul lavoro. Direct Mail: esperimento per capire chi, tra un giornalista, un truffatore o un celebre omicida, riceverà più denaro con una campagna di posta diretta. Corporate Consultants: come le grandi aziende, la redazione assume un “tagliatore di teste” professionista per ridurre i costi.

9. Speciale di fine anno. Jacuzzi: viene offerto un giro in limousine ad alcune delle categorie più odiate del Paese come fumatori, padroni di casa e satanisti. Corp Aid: sulla falsariga del Live Aid, viene organizzato un concerto per l’azienda petrolifera Exxon. White House Security Guard: per garantire più sicurezza alla Casa Bianca viene assunto un detective privato. Didn’t Die in ‘94: rassegna sulle persone che non sono morte nel 1994. ’95 Invasion: sondaggio sul Paese da invadere nel 1995. Republicans: panoramica storica sui repubblicani. Steven Wright/New Year: il comico Wright domanda agli esperti cosa non accadrà nel 1995. New Jobs: interviste ad alcune persone che hanno beneficiato dei nuovi posti di lavoro creati da Clinton.

Al termine della prima stagione, malgrado recensioni positive (il «Wall Street Journal» lo definisce uno dei rari programmi a essere al contempo divertente e importante) e un discreto successo di pubblico, con circa nove milioni di spettatori a episodio, il contratto con la Nbc non viene rinnovato. La trasmissione trova però subito un accordo con un altro gigante televisivo, la Fox di Rupert Murdoch, network noto per le simpatie repubblicane che in seguito diverrà uno dei bersagli principali del regista, ma capace per il momento di garantire un budget più alto di quello dei rivali. La seconda stagione va in onda tra il 28 luglio e l’8 settembre 1995 e la formula subisce pochissime variazioni, anche se alcuni segmenti saranno censurati, in ottemperanza alle tendenze televisive americane, piuttosto tolleranti per quanto riguarda la violenza ma inflessibili su scurrilità e riferimenti sessuali. Tra di essi, tutti poi ritrasmessi senza problemi dalla Bbc e altri canali europei, un’inchiesta di Ben Hamper sui preservativi di piccola taglia, una sull’aborto e una visita (poi ripresa in The Awful Truth) al pastore Fred Phelps, capo di un movimento estremista e omofobo. Il numero dei servizi aumenta mentre diminuisce la durata di ciascuno di essi. Episodio numero 1. Bruno for President: la redazione candida il pregiudicato Louie Bruno alle presidenziali del 1996. We’re #1: visita ad alcune città in testa a categorie come gli abbonamenti a Playboy o i furti d’auto. Greenwich: spettacolare protesta in una città che ha privatizzato le spiagge. Crime Scene Cleanup: incontro con due specialisti della pulizia dei luoghi del delitto. Slaves: prima che il Mississippi ratifichi l’abolizione della schiavitù, sono acquistati alcuni schiavi bianchi. Crackers: entra in scena Crackers, un gallo-pupazzo incaricato di combattere i crimini delle grandi aziende, che incontra il sindaco Giuliani. 2. Payback Night: vari capi d’azienda sono sottoposti a scherzi scelti dai passanti. KGB: Yuri: un ex agente del Kgb, Yuri Shvets, è assunto per verificare che Nixon sia davvero morto. NEA: mentre il principale fondo pubblico per l’arte rischia di sparire, Moore visita alcuni musei privati come il Kentucky Fried Chicken Museum. A-Bomb: incontro con un uomo che ha comprato un pezzo di bomba atomica a un’asta. Jerusalem Syndrome: indagine sulla sindrome che a Gerusalemme spinge i turisti a credersi Gesù. Johns of Justice: per ovviare alla cronica mancanza di toilette femminili, la trasmissione ne trasporta alcune a New York. 3. War Reenactment Night: in un parco sono ricreati alcuni momenti bellici come la Guerra civile e la lite tra Hugh Grant e Liz Hurley. Helltown: la redazione cerca di redimere la contea dell’Alabama che, secondo una chiesa battista, ha il più alto numero di peccatori. Crackers-Philly: Crackers va a Philadelphia dove le banche applicano commissioni scandalose. Electronic Sniffer: indagine sui “nasi elettronici” che sostituiranno i sommelier. Cobb: reportage dalla città dell’antistatalista Newt Grinch, che però riceve moltissimi fondi pubblici. School of Americas: viaggio in una scuola che addestra i soldati sudamericani alla repressione. Widgery: intervista con il presidente della società che effettua i sondaggi per Tv Nation. 4. Most Wanted: incontro con Brian Harris, arrestato venti volte solo per la somiglianza con un ricercato. Love Night: accompagnato da un coro di gay, cheerleaders e musicisti messicani, Moore incontra vari gruppi di estrema destra, come il Kkk e Aryan Nation, e il senatore omofobo Jesse Helms. Aquarium: storia della costruzione di due acquari e del loro fallimento economico. Militia: Moore accompagna al luna park i rappresentanti della Milizia del Michigan. KGB 2: Yuri Shvets indaga sui misteriosi motivi del successo degli show rivali. 5. Canada Night: omaggio trasversale ai vicini canadesi. DC Perks: inchiesta per verificare gli effetti del “contratto” con cui i repubblicani si impegnano a rinunciare ai propri privilegi. Nugent: intervista alla rockstar Ted Nugent, gran difensore delle armi da fuoco. Crackers Tour-St. Louis: Crackers indaga sugli effetti di una fabbrica di pile sulla popolazione locale. Falklands: gli abitanti delle Falkland hanno rifiutato un milione di dollari da parte dell’Argentina per rinunciare alla nazionalità britannica, ma in Galles molti accetterebbero. 6. Hug-A-Gov: Moore cerca di abbracciare i governatori dei cinquanta stati. Psy-Ops: un ex esperto dell’esercito è assunto per ridurre la presenza di O.J. Simpson nei media. Rosemont: a Chicago la trasmissione tenta di impedire la circolazione ad alcuni ricchi residenti che hanno creato posti di blocco nel

loro quartiere. Unions: carrellata su alcuni nuovi sindacati, come stripper, accalappiacani e personaggi di Disney World. White Men: alcuni bianchi esaminano presunte minacce alla propria “razza”. Most Wanted Part 2: seconda parte della storia dedicata a Brian Harris. Fan Mail: il candidato Louie Bruno risponde alle domande dei fan. 7. Bully Reunion Night: i corrispondenti del programma vittime di bullismo al liceo ritrovano i loro maltrattatori per una festa a base di vendette. Confession: uno stesso peccato è valutato diversamente a seconda della chiesa cattolica visitata. Tv Felons: in Inghilterra viene data la caccia a chi non paga il canone Tv. CrackersDetroit: Crackers analizza i motivi dello sciopero di due giornali di Detroit. KGB 4: Yuri Shvets indaga su che fine abbia fatto il Partito Democratico. Weatherman: la trasmissione assume un presentatore del meteo licenziato perché ha previsto pioggia il giorno del picnic del Partito repubblicano.

Malgrado i problemi di assestamento causati dal passaggio da un network all’altro (censura, cambi di formazione, modifiche alla durata dei servizi), le due edizioni di Tv Nation hanno uno stesso formato e uno stesso progetto editoriale ed è quindi possibile parlarne in un’unica sede. Moore arriva sul piccolo schermo nel momento in cui la televisione conosce, soprattutto negli Stati Uniti, il suo massimo successo. Le sale cinematografiche attraversano già una crisi significativa e lo strapotere della Tv sull’intrattenimento popolare non è ancora incrinato dalla diffusione generalizzata di internet. Per tutta la sua carriera il regista saprà sempre analizzare con lucidità le tendenze dei media, sfruttando spesso a suo favore lo sviluppo di nuovi canali e strumenti d’informazione (sarà tra i primi a utilizzare la dimensione interattiva del web facendone persino uno strumento di sceneggiatura in Sicko). Il titolo del programma nasconde un doppio senso: la nazione televisiva indica l’équipe della trasmissione (il regista, i suoi corrispondenti e la redazione) ma anche, per esteso, gli Stati Uniti, un Paese in cui la Tv assume proporzioni da Grande Fratello. Moore, con la baldanza del suo populismo, intende mostrare un Paese diverso da quello dei grandi show nazionali, ma ricorre spesso alle stesse tecniche di questi ultimi. I temi e la concezione personale dell’intrattenimento espressa nei suoi due film precedenti (interviste aggressive, domande da uomo di strada, comicità, gusto per l’assurdo) sono la base di un programma che fa suoi anche i meccanismi tipici dei grandi talk show americani. Con Tv Nation Moore fa un ulteriore passo verso il distacco dal mondo del documentario, imboccando una strada che appare, se non del tutto autoreferenziale, sensibile più alle tendenze del piccolo schermo che ai film dei registi a lui contemporanei. Se la lunga esperienza come giornalista in Michigan era stata fondamentale per concepire Roger & Me e maturare un contatto diretto con i personaggi del film, lo show televisivo servirà come ricognizione tematica e laboratorio stilistico per i film successivi. Malgrado una buona parte della critica europea sembri ignorare questa parte della sua carriera (il programma sarà distribuito in Vhs poco dopo la trasmissione ma mai in Dvd) uno dei principali motivi d’interesse sta nel vedere come lo stile e i temi dei suoi film più importanti si formino proprio nell’andirivieni effettuato negli anni No van ta fra televisione e grande schermo. A rivederli oggi, alcuni segmenti ap paiono chiaramente le “costole” di lungometraggi successivi, come mostreremo nei capitoli dedicati a ciascuno di essi. Il primo elemento di novità imposto a Moore dalla televisione è il più inevitabile e rappresenta in realtà un temibile ritorno al passato: il lavoro di redazione. Ideare e realizzare una serie televisiva non si presenta come una sfida facile, malgrado la schizofrenia di uno show si adatti bene alla varietà di scritture cinematografiche che Moore ha praticato, spesso senza soluzione di continuità, nel suo primo film. Sappiamo infatti che, quando fu nominato caporedattore di «Mother Jones», si era dimostrato incapace di prendere le redini di una redazione senza creare conflitti. La situazione è però qui radicalmente diversa, perché egli non entra in una realtà produttiva già consolidata bensì ha la facoltà di creare un programma su cui mantiene un controllo quasi assoluto grazie anche al ruolo di produttore esecutivo assunto dalla moglie. I due coniugi fanno appello ad alcuni personaggi dello spettacolo capaci di sviluppare la trasmissione secondo le premesse, enunciate alla Nbc, di fusione tra documentario politico e intrattenimento comico. Sebbene siano nomi poco noti in Italia, l’elenco delle persone che aiutano

Moore a concepire Tv Nation serve a comprenderne la varietà delle ispirazioni. Oltre a Kathleen Glynn vi sono Merrill Markoe, autrice del celebre David Letterman Show, Joanne Doroshow, la produttrice di Panama Deception, e Jim Czarnecki, uno degli autori della trasmissione Pee Wee’s Playhouse, lo show di Paul Reubens, protagonista anche del primo lungometraggio di Tim Burton, Pee-Wee’s Big Adventure (Id., 1985). La trasmissione è infatti un misto di queste influenze: il one man show comico alla Letterman, il documentario politico, l’umorismo alla Pee Wee, oltre che un po’ di gonzo journalism alla Hunter S. Thompson. In una parola, docutainment, come è stato definito. A collegare tra loro le varie parti c’è naturalmente Michael Moore, che per la prima volta nella sua carriera assume anche il ruolo di conduttore. Contrariamente alla maggior parte degli show, non c’è un vero studio televisivo ma al suo posto, soprattutto nella seconda stagione, il regista conduce ogni puntata dalle strade di New York, dalla celebre e affollatissima Time Square (fot. 17), servendosi di turisti e newyorchesi accaldati per porre do mande paradossali e lanciare i servizi. L’espediente del la strada, oltre a spezzare il ritmo della trasmissione, permette di testare, più che l’ignoranza, l’ingenuità dei passanti, appena prima di mostrare servizi d’inchiesta che dovrebbero invece rivelare la “scomoda verità”. Il contatto diretto con la folla permette a Moore, che spesso dialoga esplicitamente con i cameraman e dirige lo sguardo in camera, di creare degli sketch in presa diretta secondo lo stile degli intrattenitori alla Letter man. Allo stesso registro ap par tengono i surreali sondaggi che, sul modello di quelli del Saturday Night Live, appaiono dapprima alla fine e poi a metà di ogni puntata. Effettuati da una vera società di sondaggi (Widgery & Associates) su temi proposti dalla redazione, essi riportano ad esempio che «Il 15% degli americani vorrebbe che Dennis Hopper riprendesse a drogarsi» (fot. 18) o che «Il 12% degli intervistati ritiene che il successo di David Hasselhoff di Baywatch sia dovuto, almeno in parte, ai suoi patti con il diavolo».

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Visti gli stretti tempi televisivi, Moore si deve limitare a condurre due o tre servizi a puntata (durante i quali assume le fattezze di Mike, il common man), affidando gli altri a un gruppo di inviati dai profili diversissimi la cui formazione cambierà leggermente da una stagione all’altra. Tra di essi il giornalista Louis Theroux, il comico “Rusty” Cundieff, la modella ed ex Vj di Mtv Karen Duffy, l’attrice e attivista Janeane Garofalo, il pregiudicato Louie Bruno, l’operaio-intellettuale Ben Hamper e Crackers, un pollopupazzo di due metri (fot. 19). Gli inviati hanno il compito di realizzare servizi dall’andamento spesso demenziale (anche se di denuncia), imitando in maniera

palese lo stile d’intervista del loro capo. In questo sta la differenza con l’esperienza di «Mother Jones»: qui i suoi collaboratori agiscono sotto il suo controllo, quasi a sua immagine e somiglianza. Come accade per lui, anche gli inviati sono presenti nelle inquadrature, pongono domande scomode o assurde e intervengono costantemente a modificare la situazione. La loro voce over completa il commento dell’episodio e l’emulazione dello stile Moore, anche se ciascuno si permette piccole ma significative varianti legate alle proprie particolarità fisiche e personali. Ad esempio, Theroux (che diventerà a sua volta un apprezzato documentarista), con il suo accento inglese e la sua aria ingenua, può permettersi domande scomode ai membri del Ku Klux Klan (Klan PR Makeover, fot. 20) o alle sette millenariste (Millennium) senza apparire impertinente. Karen Duffy, con la sua allure da indossatrice (fot. 21), riesce ad ammorbidire gli intervistati e gli agenti della sicurezza più di quanto non farebbe il suo principale, spesso persona non grata per alcuni politici e grandi compagnie. Dopo averne creata una per sé (che continua a coltivare), Moore adesso confeziona maschere per i suoi collaboratori. Non si limita, però, a forgiarne lo stile sfruttandone i dati oggettivi ma, in certi casi, crea dei veri e propri personaggi ex novo, come il pollo Crackers, l’ex agente del Kgb Yuri Shvets e il pregiudicato Louie Bruno. Ciascuno di essi, come è prerogativa delle maschere, uti lizza le proprie caratteristiche (Shvets è stato un vero agente sovietico) in chiave comica, per assumere una fisionomia e un ruolo immediatamente riconoscibili per il pubblico. Crackers lotta contro le malefatte delle aziende, Shvets indaga sui misteri d’America e Bruno, caricatura del gangster italoamericano, è scelto come candidato presidenziale della trasmissione. Persino il temuto sindaco Rudolph Giuliani, che appare in due episodi e tornerà in The Awful Truth, diventa suo malgrado una maschera, rappresentativa di una classe politica permissiva con le grandi aziende ma inflessibile con i lavoratori. Questa creazione di personaggi e questa apertura del regista al lavoro di squadra modificheranno anche il suo modo di fare cinema, se è vero, come vedremo da Fahrenheit 9/11 in poi, che spesso delegherà molte delle interviste dei suoi film a collaboratori esterni.

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L’elemento più originale della trasmissione è però soprattutto il suo contenuto, molto più provocatorio e impegnato della media degli show americani, facilitato in questo dal fatto che la messa in onda estiva riduca il rischio di polemiche. Può bastare il riassunto delle puntate per comprendere il tono surreale utilizzato dalla trasmissione e la varietà, piuttosto coraggiosa, degli argomenti trattati. Come è naturale, l’orizzonte del programma rimangono gli Usa. An che le incursioni all’estero, concentrate soprattutto nella prima stagione e che vedono quasi tutte Moore impegnato in prima persona, riguardano Paesi molto presenti nel dibattito politico statunitense: la Russia post-comunista, il Kuwait “liberato” (fot. 22) dall’esercito americano, il Messico delle delocalizzazioni oppure Paesi anglofoni come Canada e Gran Bretagna. Ma questo americacentrismo permette al programma di penetrare in due delle anime che da sempre solleticano anche il pubblico europeo: quella del potere politico ed economico e quella della provincia profonda, fatta spesso di storie umane improbabili e di estremismi religiosi e politici.

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Una delle chiavi per la riuscita è il giornalismo d’assalto, ampiamente praticato già ai tempi del «Michigan Voice». Se in Roger & Me il regista giocava la carta dell’outsider, qui può sfruttare un atout supplementare poiché lavora per due importanti canali televisivi. Un elemento che si trasforma in un biglietto da visita ancora più efficace per farsi ricevere laddove non sarebbe mai accettato e mostrare così le storture del sistema dall’interno. Adesso può rivolgersi a un “tagliatore di teste” chiedendogli consigli su come licenziare il suo personale (Corporate Consultants) oppure andare da Giuliani minacciandolo di lasciare la città se non otterrà una riduzione di tasse (NY/NJ Grease). Più di una volta le dimostrazioni sono più divertenti e provocatorie nella loro concezione che efficaci nei risultati. Quando ad esempio decide di recarsi in Russia per scoprire dove si trovi il missile che, secondo la propaganda della sua infanzia, sarebbe stato puntato sulla sua città (Mike’s Missiles), è ovvio che difficilmente scoprirà alcunché. Ma la forza dello sketch risiede nello sbigottimento dei militari russi che lo vedono bussare ai cancelli di una base militare (fot. 23). Come nel film d’esordio, l’obiettivo del procedimento non è tanto ottenere una risposta quanto filmare la reazione degli ufficiali di sicurezza e le ipocrisie dei portavoce politici o aziendali. In questo il giornalismo d’assalto è al contempo un procedimento investigativo e un soggetto di ogni servizio. La principale dote di Moore e dei suoi collaboratori sta nel dosare bonarietà e indignazione. Il regista sa che la gente parla più volentieri quando non si

sente minacciata e che le frasi migliori si ottengono quando l’intervistato è più rilassato o addirittura convinto di non essere registrato. Questo funziona soprattutto con i gruppi più estremisti, dei quali Mike o i suoi alter-ego fingono di accettare la logica e l’amicizia per ottenere dichiarazioni sconvolgenti e surreali (in Militia e Klan PR Makeover, ad esempio). Quando invece si tratta di mostrare al pubblico la propria indignazione, come con i responsabili delle corporation, gli inviati si mettono a incalzare questi ultimi con domande imbarazzanti. In molti casi il programma non si limita a documentare una realtà ma tenta di modificarla attraverso la creazione di happening e provocazioni in pieno stile agit-prop. Talvolta ciò prende la forma di mascherate che possono apparire un po’ grossolane ma che contengono comunque una provocazione politica. In CEO Challenge, ad esempio, viene chiesto ad alcuni manager di dimostrare che conoscono davvero i loro prodotti, mentre in Corp Aid, viene provocatoriamente organizzato un vero concerto a Wall Street (fot. 24) per aiutare alcune compagnie ad affrontare le spese legali dei processi in cui sono imputate. In alcuni episodi, laddove gli obiettivi sono limitati, Moore e i suoi ottengono risultati tangibili. Riescono ad esempio a rimettere in discussione la chiusura al pubblico di alcune spiagge (Greenwich) e, grazie a un lobbista, addirittura a far approvare la creazione di un “Tv Nation Day” ufficiale da parte del Congresso. Allo stesso modo l’invenzione di Crackers permette di mobilitare migliaia di cittadini e di fare pressione su banche e compagnie private. Il fatto che la trasmissione sia distribuita su più settimane permette a Moore di verificare l’azione del suo giornalismo d’assalto. Come accadrà per i film successivi, sempre accompagnati da un’imponente campagna mediatica condita da appelli a telespettatori e internauti, in Tv Nation si crea una dinamica interattiva con il pubblico cui è richiesto di intervenire, votare sondaggi e denunciare scandali che vengono poi filmati e mostrati nelle puntate successive.

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Questa mescolanza di denuncia, provocazione e agit-prop è uno degli elementi più originali della trasmissione. Lo stile di Moore trova nel contesto televisivo un terreno in cui applicare al meglio la sua idea di documentazione spettacolare della realtà, sposandolo con un coinvolgimento politico popolare. Federico Greco dirà (Bowling for USA, in «Cineforum», n. 420, dicembre 2002), che «il cinema di Moore è piuttosto televisione d’intrattenimento e di approfondimento allo stato dell’arte, riversata con sottile consapevolezza su un medium che richiede un più sofisticato spettro linguistico». Rimandando il dibattito su quale sia la dimensione ideale di Moore, è certo che in televisione egli valorizza al meglio una delle sue anime, quella del provocatore, moralista e

pamphletista che ne fa il continuatore ideale di una lunga tradizione soprattutto anglosassone. Una tradizione cui possiamo ascrivere sia la satira sia appunto il pamphlet e che ha i suoi epigoni in figure come Jonathan Swift, Voltaire, Mark Twain, Ambrose Bierce e Thomas Paine: tutti personaggi cui Moore, per l’orrore dei puristi, è stato più volte accostato a inizio carriera. Certo all’uomo di Flint mancano la finezza e i riferimenti culturali dei maestri con i quali però ha in comune altri caratteri, sebbene aggiornati all’era della televisione e della massificazione della cultura: l’umorismo, l’indignazione morale, la provocazione, la retorica e il gusto del paradosso. Nel 1729, in Una modesta proposta, Swift proponeva che gli irlandesi poveri, per liberarsi del peso economico rappresentato dai figli, vendessero questi ultimi al mercato della carne. Così facendo si sarebbero contenuti i problemi di povertà e sovraffollamento degli irlandesi, rifornendo i ricchi inglesi di ottimo cibo. Il pamphlet si attardava su precisi calcoli economici che dimostravano il beneficio che avrebbe tratto da tale commercio tutta la comunità. Nel primo segmento della trasmissione, NAFTA, Moore parte da uno degli assunti economici del suo tempo (delocalizzare nei Paesi del terzo mondo produce benefici economici sia per le aziende sia per le popolazioni locali), e lo porta alle estreme conseguenze. Si reca quindi in Messico, dove visita varie fabbriche per valutare i vantaggi della delocalizzazione della sua stessa trasmissione, dimostrando però soprattutto le contraddizioni di questa politica economica. Nel meno raffinato ma non meno efficace segmento Slaves, Moore invia il comico (nero) Rusty Cundieff in Mississippi perché acquisti alcuni schiavi (bianchi) in virtù del fatto che, nel 1995, lo stato non ha ancora ratificato l’abolizione della schiavitù (fot. 25). Mentre discutono con i re sponsabili delle aziende americane in Messico o contrattano il prezzo degli schiavi, il regista e il suo inviato mantengono, proprio come Swift nella sua prosa, la massima serietà apparente, rendendo così ancor più evidente la forza del paradosso. Gli episodi improntati a questo tipo di umorismo paradossale, inscindibile da un forte moralismo, sono forse i più efficaci della serie. Moore è più esplicitamente politico di Swift e Twain, essendo la sua cultura un misto di sindacalismo, cattolicesimo, populismo, comicità e giornalismo d’inchiesta. Tv Nation dimostra che la sua ispirazione principale è forse la scuola socialisteggiante dei Muckracker (letteralmente “colui che rimesta nel letame”). Un termine coniato per indicare quel fertile filone di giornalisti e scrittori statunitensi che, a cavallo tra Otto e Novecento cominciarono a indagare i problemi sociali degli Stati Uniti approfondendo le condizioni di vita in luoghi come prigioni, ghetti, manicomi o miniere, prendendo posizione contro i poteri forti. Un nome su tutti, Upton Sinclair dal cui libro Oil! (1927), è stato tratto il film Il Petroliere (There Will Be Blood, di Paul Thomas Anderson, 2007). Oggi negli Stati Uniti l’aggettivo muckracking designa quanti proseguono questo tipo di indagine sociale e non è un caso che esso venga spesso accostato, fin dai tempi del «Michigan Voice», al nome di Moore. Un filone a cui non è estraneo un gigante come John Steinbeck, quando in Furore raccontava le conseguenze della Grande Depressione, se è vero che lo stesso regista aveva definito Roger & Me «un incrocio tra Furore e Pee Wee’s Big Adventure». Si sa che una delle derive possibili di un approccio indignato e moralista è il populismo o peggio ancora, quando si scrive dall’alto di un certo potere politico o mediatico, la demagogia. Sono questi due dei difetti che più spesso vengono attribuiti al regista. Ed effettivamente, nei momenti meno riusciti, Tv Nation si spinge talvolta anche nei pericolosi territori della semplificazione o addirittura della farsa. Si pensi a quando, nel segmento Bosnia, pretende di spiegare il conflitto nei Balcani invitando gli ambasciatori di Serbia e Croazia e dividendo con loro una pizza per spiegare la balcanizzazione della ex Jugoslavia (fot. 26). Possono disturbare, specialmente in questa fase in cui il lato comico di Moore è più forte del suo moralismo, anche l’eterogeneità degli stili e la tendenza a trattare temi seri in modo troppo leggero, degno di un programma per teen-ager. Alcuni segmenti, ancorché divertenti, risultano un po’ futili, come quelli sugli animali che as sumono prozac (Pets on Prozac) o sulle punizioni cor porali in Gran Bretagna (Caning). Due servizi (Payback Night e Bully Reunion Night) sono addirittura

incentrati sull’idea di payback, la vendetta in forma di scherzo demenziale. In questo lo show è quasi un antesignano, più politico, delle trasmissioni di scherzi, spesso estremi, che spopoleranno nel nuovo secolo, soprattutto su Mtv.

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Ma questa diversità di stili sembra anche una scelta necessaria per portare all’attenzione del grande pubblico tematiche spesso tabù nel panorama televisivo. Si pensi solo al numero di questioni politiche sollevate: immigrazione, controllo delle armi, razzismo, omofobia, neoimperialismo, mobbing, delocalizzazioni. Quando viene concepito Tv Nation è in corso ormai da tempo, soprattutto negli Stati Uniti, un processo di contaminazione che spinge l’informazione a ricorrere agli strumenti dello spettacolo. Un processo di spettacolarizzazione, oggi evidente anche in Europa, che si intensifica negli anni Ottanta, coinvolgendo anche la politica. Basti pensare alle riflessioni dedicate in quegli anni al trionfo della rappresentazione sulla realtà e ai “simulacri” da Jean Baudrillard, che vedeva in Reagan, capace di costruire la sua popolarità sul suo sorriso, la punta estrema di questa tendenza (L’America, Feltrinelli, Milano, 1987). Forse l’originalità o perlomeno l’efficacia del docutainment di Moore, qui espresso nella sua formula televisiva, sta nello sfruttare l’abbattimento delle frontiere di genere per veicolare su grande scala un messaggio politicamente impegnato. O, per dirla con una formula, nella spettacolarizzazione della sua indignazione sociale.

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Tra Kubrick e Homer Simpson: Operazione Canadian Bacon «Un canadese è un po’ come un americano, ma senza una pistola.» Anonimo «Il canadese non è un americano, o almeno non del tutto, non ancora.» Alistair Horne

Dopo anni di sforzi forse è proprio l’esposizione televisiva a consentire a Moore di realizzare il suo primo e unico film di finzione tradizionale. Nonostante quaranta rifiuti circa, la situazione si sblocca poco dopo la realizzazione del “pilota” di Tv Nation, nell’estate del 1994. Il regista riesce ad attirare sul progetto David Brown, famoso per aver prodotto, in coppia con Richard Zanuck, film come Sugarland Express (The Sugarland Express, di Steven Spielberg, 1974), Lo squalo (Jaws, di Steven Spielberg, 1975) e I protagonisti (The Player, di Robert Altman, 1992). Grazie a Brown, due importanti attori accettano di far parte del cast. Il primo è Alan Alda, stella della serie Tv

M*A*S*H, nata dall’omonimo film di Robert Altman (Id., 1970) e visto anche in due film di Woody Allen (Crimini e Misfatti, Crimes and Misdemeanors, 1989; Misterioso omicidio a Manhattan, Manhattan Murder Mystery, 1993). Il secondo è John Candy, una delle stelle comiche dell’epoca nonché alter ego fisicamente perfetto del regista (fot. 27). Quanto basta per risvegliare l’interesse della Propaganda Films, società specializzata in video musicali, da poco acquistata dal gigante Polygram, che aveva prodotto anche la serie Twin Peaks e film come Cuore selvaggio (Wild at Heart, di David Lynch, 1990) e A letto con Madonna (Madonna: Truth or Dare, di Alek Keshishian e Mark Aldo Miceli, 1991). Proprio quest’ultimo aveva scalzato Roger & Me dal primo posto della classifica americana degli incassi per un documentario. E a proposito di coincidenze, ci vorrà l’aiuto della stessa Madonna, anche lei nativa del Michigan, e della sua etichetta discografica Maverick Records per arrivare al budget finale di undici milioni di dollari. La distribuzione inizialmente doveva essere garantita dalla gloriosa Metro-Goldwyn-Mayer (anch’essa “assorbita” dalla Polygram) ma la lavorazione si rivelerà persino più complessa della lotta per l’approvazione del soggetto. Moore litiga con i responsabili della produzione che tentano, talvolta con successo, di modificare parti significative della sceneggiatura ritardando così i tempi di lavorazione, e con il direttore della fotografia Haskell Wexler. Due eventi tragici fanno precipitare la situazione. L’attore G.D. Spradlin è vittima di un infarto che determina la sospensione momentanea delle riprese. Ma soprattutto John Candy muore in maniera inattesa sul set del film Wagons East! (Id., di Peter Markle, 1994), rendendo impossibile girare alcune scene supplementari che erano state previste. Progressivamente disamorati del progetto e in rotta con il regista, i responsabili della Polygram ne boicottano la proiezione al Sundance Film Festival e annullano l’accordo di distribuzione con la Mgm. Dopo circa quattro anni di gestazione (in mezzo ai quali sono stati prodotti Pets or Meat e la prima stagione di Tv Nation), il film è presentato nella sezione “Un certain regard” al festival di Cannes del 1995.

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Niagara Falls, centro industriale affacciato sulle omonime cascate al confine con il Canada. Il presidente degli Stati Uniti (Alan Alda) arriva in città per visitare la Hacker Dynamics, una fabbrica di armi che, finita la Guerra fredda, ha interrotto la produzione e licenziato diecimila persone. Il disoccupato Roy Boy (Kevin J. O’Connor) tenta di suicidarsi gettandosi dalle cascate ma lo sceriffo Bud Boomer (John Candy) e la sua vice Honey (Rhea Perlman) gli sparano addosso per dissuaderlo. I tre, compagni di vecchia data, si recano alla Hacker, dove le armi residue sono vendute all’asta ai presenti, e raggiungono l’amico Kabral (Bill Nunn). R.J. Hacker (G.D. Spradlin), il manesco presidente dell’azienda, prende la parola per accusare il governo della chiusura. Arriva poi il presidente, accompagnato dal generale Dick Panzer (Rip Torn) e da Stuart Smiley (Kevin Pollak), capo della sicurezza interna, cui Hacker chiede di riarmare il Paese. Il presidente pronuncia un discorso sul futuro pacifico degli Usa accolto dai fischi dalla folla prima che un colpo del bazooka, appena acquistato da Roy, parta incidentalmente nella sua direzione. Boomer lo salva gettandoglisi addosso. A Washington, Panzer e Smiley commentano i bassi indici di gradimento del presidente che rimpiange la Guerra fredda, che manteneva alta la popolarità dei suoi predecessori. Per creare nuove tensioni, i tre invitano alla Casa Bianca il presidente russo che però rifiuta di riaprire le ostilità perché impegnato a diffondere il consumismo nel suo Paese. Al Pentagono, lo staff presidenziale osserva le diapositive dei nuovi possibili “nemici globali”, tutti già morti o poco adatti. Intanto Boomer, Roy, Honey e Kabral assistono a una partita di hockey tra i canadesi Ontario Beavers e gli statunitensi Buffalo Bisonts. Dopo averne sbeffeggiato l’inno e la bandiera, i quattro scatenano una enorme rissa con i canadesi. Smiley, che osserva le immagini in

Tv, si reca alla Cia per incontrare Gus, il responsabile del Canada Office. Questi gli rivela la pericolosità del Canada, dove medicina e università sono gratuite, il governo è socialista e vige il sistema metrico decimale. Al Pentagono, Smiley convince i presenti a lanciare una campagna di propaganda contro i vicini. Talk show, telegiornali e pubblicità diffondono messaggi diffamatori contro il Canada. Sono evocati piani militari contro gli Usa mentre lo spot “Camminano tra noi” rivela che stelle come Mike Meyers e Michael J. Fox sono canadesi. Boomer e altri volontari, allibiti, decidono di armarsi e difendere i confini nazionali. In un luogo imprecisato, Hacker suggerisce a Smiley, chiaramente succube, di fare come Lyndon Johnson, che bombardò il golfo del Tonchino per far approvare la guerra in Vietnam. Smiley propone allora al presidente di inscenare un sabotaggio canadese alla centrale elettrica di Niagara Falls. Il piano entra in azione ma è ostacolato da Boomer e dai suoi uomini che bloccano un gruppo di statunitensi travestiti da canadesi. La notizia del sabotaggio e dell’eroica azione del patriota Boomer è comunque riportata dalle Tv. Durante una partita a scacchi Smiley rivela a Hacker che, seguendo i suoi ordini, ha venduto il dispositivo atomico Hellstorm al Canada e che questo è stato installato dentro la Cn Tower di Toronto, il più alto edificio del continente. Solo allora Hacker rivela che Hellstorm serve ad attivare i missili nucleari ancora presenti negli Usa: solo lui, però, conosce il codice di attivazione. Intanto i quattro di Niagara attraversano il confine e rovesciano immondizie sulla spiaggia. Costretti alla fuga da due guardie canadesi, Boomer, Roy e Kabral non aspettano Honey. Tornati in patria, scoprono che il proprio governo considera quest’ultima un ostaggio di guerra e ha lanciato l’Operazione Canadian Bacon. I tre decidono di salvarla e fanno irruzione in una centrale elettrica canadese per provocare un enorme blackout. Si dirigono poi verso la prima centrale di polizia dove una guardia spiega loro che Honey è stata trasferita nella capitale. Non sapendo che si tratta di Ottawa, si dirigono verso Toronto su un camion rubato mentre la Tv rivela che alcuni statunitensi stanno bruciando simboli canadesi in un impeto nazionalista. Boomer e compagni vengono poi fermati da un poliziotto (Dan Aykroyd) che chiede loro di tradurre in francese gli insulti anticanadesi scritti sul loro camion per non urtare la sensibilità dei quebecois. Quando giunge a Toronto, Boomer scopre che Honey, che nel frattempo è riuscita a liberarsi e fuggire, è appena salita, armata, in cima alla Cn Tower e decide di raggiungerla a piedi. Al Pentagono è scattato l’allarme nucleare. Tutti credono che il responsabile sia il Canada ma Hacker rivela la verità: è lui che ha attivato Hellstorm ma è disposto a vendere un dispositivo capace di neutralizzarlo in cambio di un trilione di dollari. Smiley, resosi conto della situazione, aggredisce Hacker che precipita dalle scale e muore. In un crescendo di panico, Panzer propone di lanciare un attacco militare, ma il presidente si dice pronto a cedere alle condizioni del suo omologo canadese. Questi, però, non sa nulla. In cima alla torre, Honey, convinta di trovarsi di fronte a un armamento canadese, distrugge Hellstorm. Boomer la raggiunge e i due tornano a casa su un’ambulanza rubata. Lo staff del Pentagono, convinto che l’attacco sia stato bloccato con la diplomazia, applaude il presidente. I titoli di coda raccontano il destino dei personaggi: Boomer è ospite fisso del programma Cops, Honey ha vinto il premio di “humanitarian of the year” della National Rifle Association, il presidente ha perso le elezioni, Smiley è stato graziato dopo otto mesi di carcere, Panzer si è suicidato dopo la scoperta che la serie Hogan Heroes è un’opera di finzione, il corpo di Hacker è esposto nella sede del Partito repubblicano, Kabral è diventato il miglior giocatore della lega di hockey mentre di Roy si sono perse le tracce.

Considerata la complessità di Roger & Me e anche l’originalità di Tv Nation, la visione dell’unico film di finzione vecchio stile di Moore può lasciare interdetti, specie se si considera la tenacia con cui il regista ha continuato a tenere vivo un progetto puntualmente rifiutato da molte case di produzione. Fedele alle sue vecchie convinzioni, l’ex caporedattore del «Flint Voice» ha voluto coniugare il cinema di impegno civile con l’aspirazione al grande pubblico, cercando di adattare cinema politico e satira demenziale ai modi di produzione hollywoodiani. L’idea di un film sui nuovi equilibri mondiali dopo la caduta del Muro, oltre che da un’ossessione per la Guerra fredda maturata negli anni di Flint (si veda Mike’s Missiles in Tv Nation) e dalla visione di The Atomic Café, sarebbe germogliata nel 1991 durante la serata conclusiva del Sundance. Pochi giorni prima (e come sarebbe accaduto di nuovo alcuni anni dopo) un presidente di nome Bush, sostenuto da una popolazione americana largamente favorevole, aveva attaccato l’Iraq nascondendosi dietro lo scudo del ripristino della democrazia. Moore avrebbe chiesto a uno degli organizzatori del festival, teoricamente uno dei templi del cinema indipendente americano, di far firmare una dichiarazione contro la guerra ai presenti che, invece, rifiutarono, fischiando sonoramente la proposta. «Mi sono trovato lì a chiedermi se un presidente potesse scegliere un qualsiasi nemico ed essere seguito senza problemi dalla sua popolazione anche se questo Paese è... il

Canada? È allora che è nato Ope razione Canadian Bacon.» Alla base del film ci sono quindi due inquietanti scenari: quella per cui gli Stati Uniti, dopo la caduta del Muro, avrebbero campo libero per invadere un qualsiasi Paese e quello per cui l’industria militare avrebbe il potere di condizionare gli equilibri politici americani. Moore sviluppa queste due ipotesi insieme a uno dei suoi temi preferiti: il confronto con il Canada, il vicino progressista tanto odiato dai repubblicani. Già preso come pietra di paragone nei segmenti Canada Night e Health Care Olympics di Tv Nation, il Paese tornerà come specchio attraverso cui raccontare, per opposizione, le storture del sistema americano in Bowling a Columbine e Sicko. Proprio l’esasperazione dei cliché nazionali dei due Paesi nordamericani è alla base di una sceneggiatura non sempre perfettamente comprensibile e ulteriormente penalizzata dal doppiaggio italiano. Da una parte gli americani ignoranti, violenti ed etnocentrici, pronti ad accettare acriticamente quanto proclamato da presidenti e televisioni. Dall’altra i canadesi con il loro strano accento, provinciali ed educati al limite dell’idiozia, con le loro assurde leggi a tutela delle minoranze linguistiche, come sintetizzato nella scena in cui Dan Aykroyd appare nel ruolo dello zelante poliziotto (fot. 28). Gli Usa hanno effettivamente invaso due vol te i vicini: durante la famosa battaglia di Québec del 1775 e nella guerra del 1812. A par tire dal Novecento hanno poi preferito esercitare una costante influenza culturale, ai limiti dell’invasione, che però, salvo occasionali dispute sulla sovranità artica, non ha mai generato conflitti. L’idea di una guerra canado-americano rientra quindi nell’ordine della fantapolitica e non è la prima volta che un’opera di finzione racconta un simile scenario. Il mockumentary The Canadian Conspiracy (di Robert Boyd, 1985) disegnava un finto complotto del governo canadese per sovvertire il governo degli Stati Uniti prendendo dapprima il controllo dei suoi mezzi d’informazione. Non è escluso che il film abbia ispirato Moore, specie nella creazione del personaggio di Gus, il funzionario della Cia che crede di aver intercettato i piani sovversivi del Canada. Di sicuro Operazione Canadian Bacon si aggancia al filone delle commedie fantapolitiche americane, i cui capolavori si concentrano soprattutto negli anni Sessanta. Spielberg una volta disse che molti registi sono portati a rifare i film che hanno amato durante l’infanzia e l’adolescenza. Considerato il valore sentimentale che Moore assegna alla sceneggiatura di questo film, è probabile che i suoi modelli siano rintracciabili in pellicole che risalgono agli anni della sua formazione. Si pensi a Il ruggito del topo (The Mouse That Roared, di Jack Arnold, 1959), A prova di errore (Failsafe, di Sidney Lumet, 1964), M*A*S*H e, soprattutto, Il dottor Stra namore, ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba (Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb, 1964) di Stanley Kubrick. Proprio quest’ultimo rappresenta il riferimento più evidente, per ammissione dello stesso regista che ha raccontato di aver addirittura scritto a Kubrick per dichiarare la sua devozione nei confronti del film e chiedergli l’autorizzazione di mostrarlo alla sua troupe. Questi avrebbe risposto accettando ed elogiando Roger & Me. La derivazione dall’opera di Kubrick è lampante, ai limiti del plagio, fin nei dettagli della sceneggiatura e dei personaggi. In entrambi i film un presidente inetto è tenuto in scacco da collaboratori guerrafondai e psicopatici. La figura di Hacker ricorda, persino nei tratti, quella del generale Ripper (fot. 29): en trambi decidono di lanciare un attacco nu cleare grazie a un codice che sono gli unici a conoscere. Anche il presidente russo di Moore sembra modellato su quello dell’ambasciatore sovietico di Kubrick: tutti e due sono edonisti inizialmente più interessati al cibo che alla politica e subiscono, a un certo punto del film, un’aggressione da un consigliere statunitense (fot. 30). L’omaggio giunge fino all’imitazione scenografica, come è chiaro confrontando le sequenze che, in entrambi, mostrano il presidente americano e i suoi consiglieri riuniti all’interno del Pentagono (fot. 31). L’elenco delle analogie continua: si pensi all’esistenza di una fantomatica arma di distruzione totale (nel primo film Doomsday Machine), all’invisibilità dei nemici russi e alle surreali telefonate tra capi di stato.

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Ma se l’idea di aggiornare il capolavoro di Kubrick alla fine della Guerra fredda era sicuramente interessante, di buone intenzioni è però lastricato l’inferno degli insuccessi hollywoodiani. Insuccessi legati anche, come in questo caso, ai feroci conflitti sulla concezione dell’opera tra il regista e gli altri responsabili della produzione. L’idea di film impegnato che è alla base della sceneggiatura originale non coincide con quella, più leggera, auspicata dalla Propaganda Films, desiderosa di sfruttare la vena comica di John Candy, reduce dai grandi successi di Mamma ho perso l’aereo (Home Alone, di Chris Columbus, 1990), Io e zio Buck (Uncle Buck, di John Hughes, 1989) e Cool Runnings - Quattro sottozero (Cool Runnings, di John Turteltaub, 1993). Sul set, inoltre, la personalità di Moore si scontra con quella del due volte premio Oscar Haskell Wexler, celebrato direttore di Il ribelle dell’Anatolia (America America, di Elia Kazan, 1963) e Qualcuno volò sul nido del cuculo (One Flew Over the Cuckoo’s Nest, di Milos Forman, 1975). Simili screzi hanno una lunga tradizione nella storia del cinema americano, fin da quando David Wark Griffith seppe imporre la sua personalità su quella di Billy Bitzer, inaugurando la pratica di attribuire al regista, e non ai cinematographer (come avveniva fino ad allora), la paternità e il controllo di un film. Lo scontro con Wexler è abbastanza violento e porta all’eliminazione di alcune scene che, secondo il regista, sarebbero state volutamente rovinate da quest’ultimo.

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Non è dunque soltanto perché non girerà più opere di finzione che questa sarà l’unica esperienza di Moore con un direttore della fotografia blasonato. Durante tutta la sua carriera il regista sarà sempre più a proprio agio in condizioni di autorità quasi assoluta sui suoi collaboratori. Non facendo parte dei documentaristi che vogliono controllare direttamente l’immagine, egli riprenderà l’abitudine di affidarsi a semplici cameraman (spesso più di uno alla volta, quasi mai accreditati come direttori della fotografia) che ne assecondino semplicemente intenzioni e movimenti. I conflitti produttivi, insieme ai problemi sopraggiunti sul set, hanno contribuito a indebolire un film che avrebbe guadagnato dall’essere realizzato in tempi brevi. La sceneggiatura, in fondo, risale al 1991 e non è improbabile che Operazione Canadian Bacon abbia patito la sorte delle opere troppo a lungo rimandate. Uscito nell’autunno del 1995, sia i riferimenti alla fine della Guerra fredda sia quelli all’invasione dell’Iraq appaiono già datati. Forse però la principale contraddizione non è quella tra Moore e il resto della produzione, quanto quella interna alla stessa sceneggiatura. Nel tentativo di portare la critica sociale in una commedia satirica concepita per il grande pubblico, il film rischia di scontentare tutti. Paradossalmente, come conferma l’insuccesso di pubblico, questo risulta troppo complesso per lo spettatore “medio”, incapace di cogliere le gag sui canadesi e i riferimenti politici, ma non accontenta neppure la critica e gli spettatori più raffinati che trovano l’umorismo troppo grossolano. Date anche le costrizioni produttive e le leggi retoriche di un’opera di finzione, rispetto al documentario (usiamo le definizioni in senso largo), il film non ha trovato quella sintesi che in Roger & Me accontentava pubblico medio, snob e militanti. La debolezza è da ricercarsi anche in una sceneggiatura piuttosto banale, fatta di gag spesso buone per una stand-up comedy ma con poche invenzioni visive, e dal ritmo fiacco, specialmente nella prevedibile seconda parte. Come ha scritto Hubert Niogret in «Positif» (nn. 413-414, luglio-agosto 1995) anche la direzione degli attori è degna di un b-movie sebbene, proprio come accade per questi ultimi, tale approccio permette almeno a Moore di differenziarsi dal conformismo hollywoodiano. Per i suoi esegeti è interessante vedere come il film sia costellato di riferimenti a opere precedenti e contenga anticipazioni di opere successive: il Canada, la Guerra fredda, l’America postindustriale (Niagara Falls, già citata in Love Canal di Tv Nation, con le sue schiere di disoccupati e case abbandonate, ricorda Flint) e le armi (la svendita di residui atomici rimanda all’episodio A-Bomb). Questa ricchezza suggerisce un parallelo, come ha osservato una recensione del quotidiano «Buffalo News» (23 settembre 1995) di Ron Ehmke, tra le strutture drammaturgiche del film e quelle di una delle serie più celebrate della Tv americana degli ultimi anni: I Simpson. Fin dai tempi di «Mother Jones» Moore ha dichiarato il suo debito nei confronti della serie, nella quale apparirà, in versione animata, durante l’episodio The President Wore Pearls (stagione 15, episodio 3), conferma indiretta di una consolidata presenza nell’immaginario mediatico americano (fot. 32). Uno dei pregi principali di Operazione Canadian Bacon è proprio la gamma di riferimenti eterogenei e non sempre di immediata lettura che ricorda l’universo creato da Matt Groening. Si pensi alla scena all’interno del Pentagono dove scorrono le diapositive dei nuovi potenziali nemici globali degli Usa, ognuno scartato per ovvi motivi: Khomeini («morto»), Mao («morto»), Jane Fonda («riformata»), gli alieni. O, più sottile, a quella in cui Slimey discute con Gus all’interno della Cia: i due

attraversano un corridoio dove un cartello indica «Trophy Hall» («Stanza dei trofei», fot. 33) e alle cui pareti sono appese le foto delle più celebri vittime dei servizi segreti e della politica estera americana: Salvador Allende, Mohammad Mossadegh, Manuel Noriega e, last but not least, John Fitzgerald Kennedy. Pensiamo anche alla coppia di protagonisti: John Candy è una versione in carne e ossa di Homer e Rhea Perlman una versione violenta e compulsiva di Marge. Anche il ricorso a cameo celebri è di gusto “simpsoniano”: oltre al presidente russo (Vlad, proprio come sarà ribattezzato Putin da Bush jr.) si pensi a come intervengono nel film James Belushi, Steven Wright, Dan Aykroyd e lo stesso regista, che appare insieme all’amico Ben Hamper nel ruolo di un invasato cittadino anticanadese (fot. 34).

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Ma Moore, oltre a ricalcare un modello comunque noto, non dispone della serialità di cui gode la serie di Groening. Sorta di Armata Brancaleone dell’America profonda, i suoi personaggi sono troppo caricaturali per toccare le vette surreali dei Simpson o quelle, quasi metafisiche, del film di Kubrick. Anche rivedendo il film a distanza di anni si ha l’impressione che il regista, punti in alto ma colpisca in basso: come negli episodi meno riusciti di Tv Nation, quelli che si risolvono in farsa dando l’impressione di banalizzazione di un problema serio. E questo malgrado alcuni elementi riusciti: il presidente (di cui non viene rivelato il campo politico) è un buon surrogato di Clinton, così come sono efficaci i riferimenti alle minoranze canadesi e al ruolo dell’industria militare americana, come recita lo slogan della Hacker («Pace attraverso la guerra dal 1947»). Magra consolazione deve essere stata, per Moore, vedere che nei quattro anni successivi all’uscita del film sono usciti ben tre pellicole che ne riecheggiano le tematiche: La seconda guerra civile americana (The Second Civil War, di Joe Dante, 1997), Sesso e potere (Wag the Dog, di Barry Levinson, 1997), storia di una finta guerra inscenata dalla Casa Bianca per distrarre l’opinione pubblica dagli scandali del presidente, e South Park il film: più grosso, più lungo & tutto intero (South Park: Bigger, Longer, Uncut, di Trey Parker, 1999) in cui gli Usa dichiarano guerra brandendo lo slogan «Blame Canada».

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Per essere un regista che fa della fusione tra commedia popolare e critica sociale la sua forza, il debutto nel mainstream tradizionale si rivela per Moore un fiasco assoluto. Preso dalla foga di voler raggiungere il più ampio pubblico possibile, forse non ha calcolato i rischi di un lungometraggio di finzione e delle tradizionali limitazioni che Hollywood riserva soprattutto a esordienti e outsider. In ciò sembra non aver compreso un elemento fondamentale che lui stesso ha contribuito a determinare: per toccare un grande numero di spettatori l’unica via non è più un kolossal dal grande budget con attori conosciuti. Le forme di fruizione stanno cambiando e anche il cinema della realtà, forse proprio da Roger & Me in poi, non è più un affare di pochi specialisti ma incontra anche i gusti del grande pubblico. La storia della sua filmografia successiva, fatta di un ritorno progressivo alle forme dell’esordio, dimostra che Moore ha tratto dal fallimento di questo film un’importante lezione. L’ego espanso: The Big One «L’io è un mare sconfinato e immisurabile.» Khalil Gibran

La presentazione a Cannes di Operazione Canadian Bacon permette a Moore di riaffacciarsi nell’orizzonte dei cinefili e della critica europea che lo avevano perso di vista dopo Roger & Me. L’accoglienza e le recensioni sono però piuttosto tiepide. Nel settembre 1995 il film esce nelle sale americane ma, a causa anche della scarsa convinzione del nuovo distributore Gramercy Pictures (divisione secondaria della Polygram) si rivela un enorme insuccesso, con appena centosessantamila dollari di incasso, solo in parte compensati dalla distribuzione internazionale. Le cose non vanno molto meglio dal lato televisivo. Tv Nation, la cui seconda stagione si è da poco conclusa, ottiene un Emmy Award nella categoria “Serie di attualità” (Outstanding Informational Series) ma malgrado le numerose lettere dei fan, la Fox decide di non offrire a Moore un nuovo contratto. Tra 1996 e 1997 la Bbc prova a produrre una nuova stagione, raccogliendo promesse di finanziamento da parte dei network di cinque Paesi (Canada, Australia, Sudafrica, Nuova Zelanda e Francia), ma la mancanza di un partner americano affossa definitivamente il progetto. Per l’ennesima volta nella sua carriera Moore si ritrova a un bivio: sono passati quasi dieci anni dal suo fortunato esordio (i media ancora si riferiscono a lui come «l’autore di Roger & Me») e nel frattempo ha tentato l’esperienza del cortometraggio, della serie Tv e del film di finzione. Insomma, non ha ancora deciso che cosa fare da grande e, tanto per prolungare l’età dell’indecisione, decide di dedicarsi alla scrittura di un libro di denuncia: un’attività che costituirà d’ora in poi, più che un complemento, un terreno di preparazione fondamentale dei suoi film e gli permetterà di allargare sensibilmente la cerchia dei suoi adepti. Nel settembre 1996 esce così Downsize This! Random Threats from an Unarmed American, Crown Publisher, New York, 1996 (l’originale suona: «Ridimensiona questo! Minacce casuali da un americano inerme»), che verrà tradotto in Italia solo otto anni dopo, in versione aggiornata, con il titolo Giù le mani!: l’altra America sfida potenti e prepotenti, Mondadori, Milano, 2004. Il libro si muove su un terreno simile a quello di Tv Nation, denunciando con toni satirici e indignati l’avidità e i comportamenti immorali delle corporation

americane, la connivenza del governo e i danni che ne derivano per i cittadini. Non dimentichiamoci che siamo in un’epoca di grande ottimismo economico: le misure del governo Clinton sembrano aver garantito un recupero record e il tasso di disoccupazione è il più basso degli ultimi venticinque anni. Il libro di Moore si presenta quindi come un’analisi della faccia nascosta degli Stati Uniti: quella delle riduzioni del personale (downsizing appunto), delle delocalizzazioni e di milioni di persone costrette a cumulare due impieghi, lavorando oltre l’età pensionabile nei fast food o facendo le pulizie. Proprio dalla tournée promozionale del libro, che in circa tre mesi porta Moore in quarantasette città americane, nasce The Big One, il suo ritorno al lungometraggio documentario, otto anni dopo l’esordio. Il regista ottiene dalla Bbc i fondi necessari per farsi accompagnare da una piccola troupe che documenti tutta la tournée. Quale migliore occasione per chiedere ai vertici delle grandi aziende americane il perché dei loro comportamenti e osservare sul campo le condizioni di lavoro degli americani descritte nel libro? Sarà poi la Miramax a garantire al film una distribuzione nelle sale. Dal palco di un teatro, Moore racconta la storia della tournée con cui ha promosso il libro Downsize This!. Malgrado il rigido programma di presentazioni e interviste stabilito dalla casa editrice, ha deciso di portare con sé una troupe e di approfittare del viaggio per visitare le sedi di alcune grandi compagnie americane di cui parla nel libro e fare il punto sulle condizioni di lavoro degli americani. La cronaca del viaggio viene così alternata agli estratti degli interventi tenuti dal regista nelle diverse città visitate. Dopo aver presentato il libro a Saint Louis, Moore visita la fabbrica di Centralia, nell’Illinois, dove viene prodotta la barra di cioccolato Pay Day. I lavoratori hanno appena scoperto che lo stabilimento, nel quale molti lavorano da decenni, sarà chiuso. Prima di mettersi in viaggio verso l’Iowa, il regista promette loro che renderà visita ai vertici dell’azienda. Durante le soste discute con alcuni americani delle prossime elezioni presidenziali e delle difficili condizioni di lavoro. A Des Moines, mentre è intento a firmare alcune copie del libro in una delle librerie della multinazionale Borders, riceve un biglietto di alcuni impiegati che spiegano che la direzione ha impedito loro di recarsi alla presentazione. Nottetempo incontra tre di loro che gli rivelano il loro desiderio di creare un sindacato malgrado l’opposizione della compagnia. La tappa successiva è Rockford, una città in grave crisi che ha appena sostituito Flint nella lista delle peggiori città d’America pubblicata dalla rivista «Money». Qui il regista incontra Rick Nielsen del gruppo Cheap Trick con cui si esibisce in alcune canzoni di Bob Dylan e Yardbirds. A Milwaukee, visita la sede dell’azienda Johnson Controls, cui offre sarcasticamente un premio per aver licenziato migliaia di persone malgrado i profitti. Moore si reca poi, insieme a un dipendente che sarà licenziato, al quartier generale di Manpower, multinazionale del lavoro interinale, ma non ottiene risposta alle sue domande. Dopo aver appreso che il suo libro è nella lista dei dieci best-seller del «New York Times», fa rotta verso Madison, capitale del Wisconsin. Qui visita l’ufficio del governatore Tommy Thompson, che ha da poco ridotto gli aiuti sociali aumentando quelli alle grandi aziende, per protestare insieme ad alcune donne penalizzate da queste decisioni. A Minneapolis incontra lo scrittore Garrison Keillor da cui ottiene alcuni consigli su come sopravvivere ipocritamente alle fatiche di una tournée letteraria. Negli stessi giorni incontra un giovane che racconta di aver lavorato come centralinista per una compagnia aerea mentre si trovava in carcere. Sempre a Minneapolis, si reca al quartier generale della Pillsbury per chiedere ai dirigenti perché hanno ottenuto undici milioni di dollari di fondi pubblici per reclamizzare i propri prodotti nei Paesi in via di sviluppo. A Chicago è ospite di una trasmissione radio e discute del libro, dei sindacati e di come il governo insista sui rischi del terrorismo ma trascuri i licenziamenti che producono altrettanti morti. Come promesso a Centralia, si reca poi alla sede di Leaf, la società che produce Pay Day, per protestare, ma è cacciato dai responsabili della sicurezza che chiamano la polizia. A Cincinnati, nella sede di Procter & Gamble, chiede spiegazioni sui tredicimila licenziamenti effettuati in cinque anni malgrado gli utili record dell’azienda. Due dirigenti ribadiscono, imbarazzati, la necessità di rimanere competitivi. Ospite di un’altra radio, Moore propone di cambiare il nome degli Stati Uniti in “The Big One” per impressionare ancora di più il resto del mondo. Una breve sequenza mostra altri momenti della tournée in varie città americane, le azioni dimostrative di Moore contro alcune grandi aziende e le reazioni nei media. L’ultima tappa è Portland, sede della Nike, dove il regista è ricevuto cordialmente dal capo dell’azienda, Phil Knight, cui domanda perché le scarpe siano prodotte in Indonesia da lavoratori di meno di quattordici anni. Moore chiede se non sarebbe meglio guadagnare meno ma mantenere i posti di lavoro americani. Knight gli dice che gli americani non vogliono produrre scarpe ma che, se gli verrà dimostrato il contrario, potrebbe aprire una fabbrica a Flint. Quando però Moore si presenta con un video dove molti abitanti della città si dicono pronti a lavorare per lui, Knight non mantiene la promessa, limitandosi a firmare un assegno di

diecimila dollari per le scuole locali. Alla fine della tournée ci sono alcune piccole buone notizie: i lavoratori di Borders a Des Moines e a Philadelphia hanno creato un loro sindacato.

The Big One nasce apparentemente come un film poco meditato, frutto quasi di una genuina improvvisazione, performativa ancor prima che cinematografica. La tournée offre al regista l’occasione di “verificare” in giro per il Paese le tesi propugnate nel libro. Praticamente tutte le città visitate, a partire dalla piccola Centralia, sono sede di almeno una fabbrica o di una grande compagnia. Dovunque vada il regista osserva una dicotomia manichea tra le compagnie avide e i lavoratori sfruttati, che gli permette di riprodurre, in miniatura, i contrasti narrativi di Roger & Me e l’analisi degli effetti dei licenziamenti sui lavoratori. Il nucleo centrale della narrazione è dunque il diario, cronologicamente abbastanza lineare, della tournée. Ma Moore, tornando finalmente al lungometraggio, fa coesistere registri ed elementi visivi molto diversi fra loro. L’opera è infatti un pastiche di almeno tre generi ben riconoscibili: il film di tournée (variante documentaria dello sterminato genere on the road), il do cumentario d’inchiesta e il one man show, metà comico metà indignato. Parlare di genere e di pastiche non è casuale perché, contrariamente a Roger & Me, The Big One rinuncia a una sintesi drammaturgica elaborata, scegliendo piuttosto la strada dell’accumulazione, tipica delle opere di viaggio, ovviamente poi depurata in fase di montaggio e arricchita di elementi esterni. Come nell’esordio, l’autobiografia affiora come uno dei principali motori narrativi. Subito dopo i titoli di testa la voce over del regista racconta la genesi del film. «Mentre Wall Street faceva profitti record, io ero disoccupato, così ho fatto quello che fanno tutti: ho scritto un libro» (fot. 35). In una sequenza semiseria infarcita di found footage e di riferimenti alle sue attività letterarie e mediatiche Moore racconta l’entusiasmo con cui ha accolto la proposta dell’editore di fare una tournée di presentazione del libro e l’idea di chiamare alcuni «amici che lavorano nel cinema» per documentarla (fot. 36). L’autobiografia era uno dei linguaggi su cui era costruito tutto Roger & Me. Attraverso la memoria dell’infanzia, esagerata e talvolta distorta, Moore aveva creato una sua idea di Flint che lo accompagnava nel corso di tutta l’opera. Stavolta non c’è alcuna rielaborazione dell’infanzia: l’autobiografia è quella del presente, inevitabilmente meno evocativa e più cronachistica.

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The Big One è semmai un’autoritratto senza troppi filtri (se non quello dell’autocompiacimento, che

ne fa quasi un’agiografia) dell’autore, colto nel momento in cui esercita il suo ruolo di supereroe anticapitalista. In questo senso, come dicevamo, si collega in maniera esplicita al filone dei film di tournée. Un filone che rappresenta, soprattutto negli Stati Uniti di quegli anni, una delle forme più popolari del cinema documentario. Si pensi a Year of The Horse (Id., di Jim Jarmusch, 1997), dedicato a Neil Young, e a Wild Man Blues (Id., di Barbara Kopple, 1997) cronaca della tournée europea di Woody Allen. In entrambi i casi, e come prevede la consuetudine del genere, la tournée è soprattutto una lente privilegiata attraverso cui osservare un personaggio. Lo stesso può dirsi anche del film di Moore, che mai come in questo caso indulge sulla propria presenza in scena, sostanzialmente ininterrotta dall’inizio alla fine del film. «Che sia lui il Big One del titolo?» hanno ironizzato alcuni giornali. Effettivamente quale altro documentario si apre con una platea che applaude a scena aperta lo stesso regista che poi passa il suo tempo a far sbellicare i presenti, ad abbracciare i disoccupati (fot. 37) e a sfidare i potenti in nome dei lavoratori? Ma più che di autopromozione si tratta dell’esito inevitabile di un film tutto cucito intorno a Moore. La vera eccezione, semmai, è la coincidenza tra l’osservatore e il soggetto osservato. Molti film di tournée si fondano su un dualismo: da una parte vivono d’improvvisazione e imprevisti che i registi devono essere bravi a sfruttare, dall’altra possono contare su un nucleo di elementi di sicuro valore, sui quali si può fare affidamento già in fase di sceneggiatura. Per i film musicali, si tratta dei concerti e della musica e lo stesso vale per molti film-ritratto che sanno di poter contare perlomeno sulle opere dell’artista scelto come soggetto, siano essi sculture, musiche, fumetti o edifici. The Big One è sia un film di tournée che un film-ritratto e non fa eccezione a questa regola. Da una parte, basandosi su un libro da poco pubblicato, Moore ha una serie di elementi su cui contare: gli scandali denunciati, i nomi delle compagnie “colpevoli” e addirittura alcune battute che riproporrà invariate al pubblico. Inoltre conosce bene l’effetto delle sue scorribande negli uffici delle grandi compagnie (che ormai sappiamo non essere frutto d’improvvisazione). Ma d’altra parte il film si fonda anche su elementi non calcolati, tipici dei film di viaggio. Si intravedono aeroporti, camere d’albergo, trasferimenti in auto e aeroplano (fot. 38), momenti di riposo, di stanchezza e di tensione.

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Come accadeva in Tv Nation, lo sfondo decisamente politico non impedisce che vi siano parentesi di puro svago. Moore utilizza così gli incontri del viaggio per costruire almeno tre improvvisazioni comiche: quella in cui si esibisce con Rick dei Cheap Trick, quella con lo scrittore Garrison Keillor

(autore della trasmissione radio The Prairie Home Companion cui Altman dedicò il suo ultimo, omonimo film nel 2006) che gli consiglia di annullare la sua personalità per sopravvivere alla tournée e, infine, lo scherzo quasi infantile con il quale convince la polizia (fot. 39) che la rappresentante della casa editrice che lo accompagna sia una fan os sessiva. Pochi, in realtà, i colpi di scena, il più divertente dei quali è l’incontro segreto organizzato dai dipendenti della libreria Borders che chiedono di in contrare nottetempo il regista: una sequenza montata ironicamente come quella di un film poliziesco (fot. 40), con pochissima luce e con l’accompagnamento del Peter Gunn Theme di The Blues Brothers (Id., di John Landis, 1980). Moore, che usa molti frammenti di musica pop riconoscibile (David Bowie, Bob Dylan, il tema di Pulp Fiction), è consapevole della dimensione on the road e infatti ricorre a una colonna sonora degna di un viaggio coast to coast: la musica rock originale, ma tipicamente anni Settanta, dei The World Famous Blue Jays, che sottolinea soprattutto i momenti dello spostamento. Non è comunque un viaggio solitario quello del regista, che infatti fin dall’inizio, come non accadrà mai più, presenta al pubblico i suoi accompagnatori: i produttori Tia Lessin (fot. 41) e Jim Czarnecki (fot. 42) e i cameraman Brian Danitz e Chris Smith, tutte persone che collaboreranno anche ai suoi film successivi. Proprio in virtù della dimensione improvvisata di The Big One, Moore lascia che essi appaiano o vengano richiamati durante il film, lasciando filtrare alcuni dettagli sulla sua tecnica di ripresa. A Centralia, ad esempio, osserviamo il regista che, prima di entrare nella sede della fabbrica per discutere con i dirigenti, chiede ai cameraman di rimanere fuori. Questi ultimi però riprendono la scena da fuori, di nascosto. A Chicago, sia alla sede di Pillsbury sia a quella di Leaf, Moore, incalzato dai responsabili della sicurezza che non vogliono essere filmati, dice chiaramente ai cameraman di smettere di riprendere, senza che ciò avvenga. Il fatto che poi Moore abbia incluso queste sequenze nel montaggio è probabilmente il segno di un patto pregresso che viene addirittura esplicitato nella sequenza in cui la troupe si prepara a filmare all’interno della Johnson Control. Alla domanda di uno dei cameraman, «qual’è il piano?», Moore risponde chiaramente: «il piano è che non spegni mai la telecamera». Quando l’uomo di Flint si reca in missione negli uffici delle grandi aziende, chi riprende sa che deve filmare tutto quello che accade, incurante delle minacce dei responsabili della sicurezza e persino dei suoi stessi ordini. Un po’ come faceva Ulisse che per difendersi dal canto delle sirene tappò le orecchie dei suoi marinai e ordinò loro di non slegarlo neanche se lo avesse richiesto lui stesso. Memore delle disavventure con Haskell Wexler, il regista sacrifica volentieri la qualità dell’immagine al contenuto, preferendo una troupe ridotta e affidandosi al video in un’epoca in cui questo ancora non offre garanzie assolute, come dimostrano le imperfezioni nelle immagini. Tra sequenze in teatro, di viaggio e immagini d’archivio emerge anche una certa differenza di formati che però non stona con l’abitudine di abbinare materiale eterogeneo tipica del suo stile.

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Il secondo genere cui accennavamo è la stand-up comedy, quella comicità tipicamente anglosassone in cui un umorista si presenta solo sul palco con un microfono in mano e il pubblico davanti a sé. Moore si è ampiamente preparato a questo compito durante i suoi interventi da Times Square. Non dimentichiamo che, per tutti gli anni Novanta, la sua dimensione principale è quella televisiva. Molte sequenze del film (comprese quella d’apertura e di chiusura, tratte dalla presentazione del libro a Chicago, fot. 43) si svolgono all’interno di teatri o di auditorium. In esse il regista si carica tutto il peso del film sulle spalle, salendo sul palco con il suo look classico e discutendo con il pubblico in un quadro visivo e d’il luminazione che spesso ricorda la stand-up. La precisa funzione di questi momenti è di “cucire” tra loro i vari momenti del viaggio, scandendo la narrazione come in un diario, ma anche di sostituire la voce over che solitamente esplicita il pensiero politico di Moore.

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Dal palco questi può così commentare la situazione politica, lanciare le sue provocazioni ed esibirsi

in imitazioni e sketch che strappano al pubblico risate che fioccano come quelle, preregistrate, delle sit-com. La formula sarà ripresa due anni dopo in The Awful Truth. Il terzo genere che convive in The Big One è anche il più scontato: il documentario d’indagine sociale. Si può mettere in discussione la coerenza personale di Moore e la sua legittimità a rappresentare la classe operaia anche dopo che è divenuto milionario, ma non la scelta degli argomenti trattati. Prima che internet esasperasse la mania dell’indicizzazione e delle parole chiave, egli ha preso l’abitudine di battere testardamente sugli stessi tasti. Forse non è inutile ripetere quanto il suo cinema si costruisca in una dialettica costante, addirittura ripetitiva, tra cinema, televisione e letteratura. Molti dei temi di The Big One sono annunciati non solo da Downsize This! ma persino da Tv Nation: le delocalizzazioni e i licenziamenti (negli episodi NAFTA, Corporate Consultants), la desindacalizzazione (in Unions), lo sfruttamento del lavoro carcerario (in 1-800-TOURISM). A conferma di questo moto perpetuo tra un’opera e l’altra, dopo il film uscirà anche un’edizione aggiornata di Downsize This! che citerà anche alcuni momenti della tournée. Stranamente nel film mancano però le parti più provocatorie e “swiftiane” (si veda il capitolo su Tv Nation) del libro, nelle quali Moore lanciava alcune proposte paradossali come il trasferimento della capitale federale in Messico o in cui suggeriva ai neri di Los Angeles di bruciare le ville di Beverly Hills piuttosto che scatenare disordini a South Central, sobborgo povero di Los Angeles. Non mancano invece i riferimenti alle elezioni presidenziali previste per il novembre 1996, nel bel mezzo del tour. Il bersaglio dichiarato è Bill Clinton, colpevole di aver tradito il suo mandato e di aver addirittura rafforzato l’im postazione economica dei suoi predecessori. La tournée diventa così l’oc ca sione di condurre una campagna elettorale parallela, nella quale la figura del presidente viene rievocata in vari momenti-chiave: nell’introduzione, nelle conversazioni con gli americani disillusi incontrati durante il viaggio, nelle immagini d’archivio che mostrano la sua visita a Centralia (fot. 44) e nel finale, quando i due candidati sono definiti dal regista due cloni, espressione solo delle classi alte del Paese. In questo è interessante leggere The Big One come il modello di un successivo film di tournée di Moore: Slacker Uprising, cronaca del tour che il regista organizzò nel 2004 per convincere i giovani elettori a evitare la rielezione di Bush jr.

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La varietà di registri non impedisce però che il film, dal punto di vista drammaturgico, segua binari piuttosto prevedibili. Con una eccezione: l’incontro con Phil Knight, il capo del colosso Nike, già inserito nella lista dei manager più immorali d’America comparsa sul libro di Moore. L’in tervista è quasi un saggio di quello che sarebbe potuto essere un confronto più lungo con Roger Smith e un’anticipazione dell’incontro con Charlton Heston in Bowling a Columbine. Come intervistatore Moore ci fa un figurone: preparato, deciso e portatore di un di scorso morale, il regista mette alle corde il manager (fot. 45) che, nonostante il look giovanilistico, si dimostra un prodotto perfetto dell’avidità capitalistica che si rimangia le promesse e dice di non essere turbato dal fatto che nelle sue fabbriche lavorino minorenni. Eppure proprio questa sequenza, per quanto intensa e non prevedibile, è una spia di tutto quanto rende il film meno riuscito rispetto a Roger & Me. La presenza di Knight è forse una vittoria politica per Moore, ma risulta meno forte dell’assenza di Smith, sconfitta politica ma geniale intuizione di sceneggiatura.

In un lungo articolo (The Documentary Films of Citizen Activist Michael Moore: A Man on a Mission or How Far a Reinvigorated Populism Can Take Us, in «CineAction», n. 70, dicembre 2006), il canadese Garry Watson sostiene che il cinema di Moore non può quasi mai essere letto applicando una distinzione rigida tra arte e politica; l’unica eccezione è proprio The Big One che secondo lui «non ha particolari ambizioni cinematografiche ma è tutto affermazione politica (anche se in modo spesso divertente e assolutamente non trascurabile)». Forte nell’azione politicoperformativa (una delle definizioni dell’agit-prop) ma debole nella drammaturgia, il film segna una tappa ulteriore nel processo di ridefinizione del ruolo del documentarista da parte di Moore: qui egli, divenuto pienamente un personaggio pubblico, costruisce il film intorno alla verifica degli effetti provocati dal suo passaggio nel campo della politica e della vita sociale. Così facendo diventa inevitabilmente guastatore e saltimbanco, talora triste talora beffardo. Ad alcuni ciò pare un difetto imperdonabile. Altri ricordano che proprio ai buffoni, nel medioevo, era spesso delegato il compito di urlare al popolo la verità che nessuno osava dire. Come dirà Roberto Chiesi a proposito di Sicko («Segnocinema», n. 148, novembre-dicembre 2007): «sono sempre stati i giullari quelli che, indifferenti al buon gusto e all’assoluta attendibilità dei loro racconti, hanno usato ogni mezzo (dalle notizie arbitrarie ai lazzi) per dire la verità in faccia al re e ai loro sudditi».

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Il ritorno in Tv: The Awful Truth The Big One è presentato al Toronto Film Festival nel settembre 1997. Il distributore Miramax promette, con abile mossa pubblicitaria, di donare la metà degli incassi agli abitanti di Flint in difficoltà, ma la risposta del pubblico non è esaltante, con circa 650.000 dollari d’incasso. Moore trascorre tutto il 1998 cercando un modo per tornare in Tv. Il primo tentativo avviene con il canale Cbs, per cui prepara un episodio pilota per una serie comica intitolata Better Days. Il soggetto sembra quasi un sequel di Roger & Me: la storia di una città che cerca di sopravvivere dopo la chiusura delle sue fabbriche. Malgrado l’annuncio della presenza di Jim Belushi nel ruolo di un disoccupato, la serie non vedrà mai la luce. Non avrà miglior fortuna il secondo progetto, un non meglio precisato Michael Moore Show il cui episodio pilota è finanziato dalla Fox che però decide di non dare seguito alla cosa. Non esistono registrazioni di questo prodotto disponibili per il pubblico ma voci diffuse su internet da alcuni spettatori, parlano di un talk show cui avrebbero partecipato Jon Stewart (conduttore del Daily Show), la cantante Sheryl Crow e persino, in un cameo finale, O.J. Simpson. Durante la puntata sarebbero stati presentati servizi d’inchiesta su una prigione della Louisiana, la sfida tra uno scimpanzé e tre colletti bianchi di Wall Street (vinta ovviamente dal primo) e un servizio in cui Moore si recava all’Onu cercando di vendere carne scaduta ai Paesi del terzo mondo. Uno stile molto simile a quello di Tv Nation e che infatti viene riproposto l’anno successivo quando, al terzo tentativo, Moore riesce alfine a ottenere un nuovo contratto televisivo.

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La trasmissione The Awful Truth nasce grazie a Bravo, canale satellitare americano più o meno indipendente (anche se controllato in parte da Nbc), e soprattutto alla britannica Channel Four, il che spiega i frequenti riferimenti al pubblico europeo. I dodici episodi della prima serie vengono diffusi, con cadenza settimanale, tra l’11 aprile e il 27 giugno 1999. Ognuno dura venticinque minuti al netto della pubblicità e contiene due servizi d’inchiesta (dopo quattro settimane ne verrà aggiunto un terzo, più breve) inframezzati dagli interventi di Moore. Questi, dal palco dell’Herman Union Auditorium di Chicago (fot. 46), presenta la puntata al pubblico in platea. Come in Tv Nation, un sondaggio dai contorni surreali fa da spartiacque tra la prima e la seconda parte di ogni episodio. Episodio numero 1. A Cheaper Way To Conduct A Witch Hunt: Moore e alcuni attori travestiti da puritani organizzano una caccia alle streghe contro i membri del Congresso e Ken Starr, il procuratore dell’affaire Lewinsky. Hmo Funeral: Moore organizza un funerale per un uomo la cui assicurazione rifiuta di pagare un trapianto di pancreas che gli salverebbe la vita. 2. Beat the Rich: sfida di cultura generale tra americani ricchi e lavoratori. The Sodomobile: un camper carico di gay e lesbiche fanno visita gli stati che condannano l’omosessualità e al pastore fondamentalista Fred Phelps. 3. Crackers vs. Mickey Mouse: A Disneyworld, Crackers scopre le difficili condizioni dei lavoratori. The VoiceBox Choir: Alcuni ex fumatori che hanno perso l’uso delle corde vocali visitano le multinazionali del tabacco per cantare canzoni natalizie. 4. Sal, The Bill Collector: dopo che Ups ha rifiutato di creare un sindacato, la trasmissione invia il suo “esattore” Sal per chiedere giustizia. Interlude: un finto Thomas Jefferson rivela le sue relazioni extraconiugali. Duck and cover: mentre India e Pakistan preparano una guerra nucleare, Moore spiega agli abitanti dei due Paesi come proteggersi da un attacco. 5. The Awful Truth Man of the Year: Moore premia il super inquinatore Ira Rennert. Tv Pundits?: gara di sgradevolezza sonora tra il giornalista George Will, un uomo che raschia una lavagna e uno che mastica allumino. 150 Feet from Nbc: un giudice ordina a Moore di tenersi lontano dagli uffici di Rennert, impedendogli così di recarsi agli studios della Nbc per un’intervista. 6. Work Care!: come nel programma medico WorkCare, Moore costringe alcune persone a lavorare gratis in cambio di cure. LucyCam: Lucianne Goldberg ha denunciato lo scandalo Lewinsky e Moore la spia con una telecamera nascosta. Air-Drop Tv’s on Afghanistan: i talebani hanno proibito la Tv, Moore consegna alcuni apparecchi alla loro sede americana. 7. Cohen is a Wimp: critiche alla “mollezza” del segretario alla difesa William Cohen. LucyCam #2: aggiornamento sulla telecamera che spia Lucianne Goldberg. Mind That Memo: dopo che i dipendenti dell’agenzia Manpower hanno ricevuto un manuale su come comportarsi in caso di una visita di Moore, quest’ultimo li mette alla prova. 8. Montana Shacks: visita al Montana, stato dove sono cresciuti Unabomber e altri psicopatici. Joe Camel Needs a Job: dopo il “licenziamento”, la mascotte della Camel cerca un lavoro. LucyCam #3: Moore rivela alla Goldberg di averla filmata nelle ultime settimane. 9. Hail Turdonia: proposta di creare uno stato retto dal magnate Ted Turner. Teen Sniper School: spot per una scuola estiva che insegni ai giovani a sparare. Hitler Makes a Withdrawal: un finto Hitler reclama alle banche svizzere il denaro rubato alle vittime della Shoah.

10. Crackers vs. The Egg Farm: Crackers indaga sulle condizioni dei polli d’allevamento. The Michael Moore Playset: presentazione del kit giocattolo per emulare Moore. American Apartheid: analisi su come gli Usa pratichino da anni un regime di semisegregazione. Bill Gates’ Housewarming: Moore porta un regalo nella nuova casa di Bill Gates. 11. Weapons Inspectors: mentre gli Usa ispezionano le armi irachene, Moore chiede ad alcuni arabi di fare lo stesso con quelle americane. The Make a Wish Foundation: sketch comico per capire fin dove è disposta a spingersi la fondazione che esaudisce i desideri dei bambini malati. We Find Hillary a Date: Moore cerca un nuovo partner per la First Lady. 12. NAFTA Mike: mentre le aziende americane delocalizzano, Moore va in Messico per cercare personale per il suo show. Strikebreakers: nascita del sindacato dei crumiri professionisti. Mergers: Moore celebra come un matrimonio la fusione tra Chrysler e Daimler-Benz.

A fine 1999 va in onda su Channel Four anche una miniserie di sei episodi, intitolata Michael Moore Live. Registrata in diretta da New York, viene trasmessa solo in Gran Bretagna, a tarda sera. Il regista conduce ogni puntata da uno studio, rispondendo alle domande telefoniche del pubblico su questioni politiche e accogliendo alcuni ospiti. Quanto a The Awful Truth, per la prima e unica volta nella carriera televisiva di Moore, un suo programma Tv viene confermato da una stagione a quella successiva su uno stesso canale. La seconda stagione viene così trasmessa, sempre da Bravo e Channel Four, tra il 17 maggio e il 9 agosto 2000. Pochi i cambiamenti di formato: il più significativo è il ritorno a Times Square, da dove Moore conduce ogni puntata (fot. 47), come avveniva in Tv Nation. Identici il numero e la durata delle puntate. Leggermente diversa la struttura, che conta da subito tre segmenti. Il primo di essi dà il nome e il tono alla puntata e viene sviluppato, un pezzo alla volta, nel corso di essa. Gli altri due sono invece servizi più “compatti” condotti da Moore o dai suoi collaboratori e mandati in onda senza interruzioni. A metà di ogni puntata i sondaggi sono sostituiti dalle quote di Lenny (fot. 48), un allibratore clandestino che propone scommesse su temi altrettanto surreali (ad esempio: «Quota per il fatto che l’americano medio abbia trovato un antidolorifico “di cui si può fidare”: 6 a 5. Quota per il fatto che abbiano trovato un politico per il quale possono dire lo stesso: 10 a 1»). In Italia la serie sarà trasmessa per intero, solo nel 2004, dal canale satellitare Jimmy e distribuita in Dvd dalla rivista Inter nazionale l’anno successivo.

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Episodio numero 1. Advertiser Appreciation Night: Moore pubblicizza a modo suo alcuni prodotti. Presidential Mosh: la trasmissione garantisce il suo appoggio al primo candidato pronto a gettarsi da un palco su un pubblico di giovani. Gun Crazy: in risposta a Eddie Eagle, mascotte della National Rifle Association (Nra), viene creato Pistol Pete. 2. Compassionate Conservative Night: alcuni passanti spiegano cosa sia per loro un conservatore compassionevole. Don’t Shoot, It’s Only a Wallet: dopo che la polizia ha ucciso un uomo scambiando il suo portamonete nero per una pistola, Moore distribuisce portafogli arancioni per la strada. Sibling Rivalry: sfida tra Jeb e George W. Bush, governatori di Florida e Texas e grandi fautori della pena di morte.

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3. Help the Dead Guy: sfida per vedere in quale città, tra Londra, New York e Toronto, qualcuno aiuterà per primo un uomo steso per strada. Immoral Majority: dopo che Giuliani ha deciso che la merce venduta nei sexy shop deve essere al 60% “non porno”, Moore ne crea uno che venda gadget con il volto del sindaco. Seniors Strike Back: corso di autodifesa per anziani maltrattati. 4. German Vacation Night: tedeschi in vacanza spiegano i vantaggi del loro sistema sociale. Got It Maid!: Moore si vendica con un hotel che ha cercato di far espellere alcuni lavoratori messicani che volevano creare un sindacato. Bmw (Break My Windows): Sal Piro si reca alla sede della Bmw perché risarcisca i prigionieri utilizzati come schiavi durante la Seconda guerra mondiale. 5. Ficus for Congress (episodio speciale). The Choice: Constatato che in alcuni seggi esiste un solo candidato, Moore e la redazione cercano di candidare una pianta di fico in New Jersey. L’episodio ripercorre i momenti salienti della campagna e le reazioni di stampa e cittadini. 6. Taxi Driver/Whitey can’t ride: Moore diventa tassista a New York e accetta solo clienti afroamericani. Low Heels for Ho Heels: il “magnaccia” K-Flex Nasheed cerca di reclutare alcuni membri del Congresso come farebbe con le prostitute. Male Apartheid: panoramica sulla discriminazione di cui sono vittime le donne negli Stati Uniti. 7. Dixie Flag Night: analisi su come i valori dei sudisti siano stati accettati dalla classe politica americana. Molson Loses Its Head: visita a Barrie, dove una fabbrica di birra è stata trasferita in blocco, lavoratori compresi, a Toronto. Corporate Cops: Moore inaugura un programma parodico che denuncia i crimini delle grandi aziende. 8. Stop and Frisk Night: alcuni passanti sono fatti perquisire, senza motivi validi, da due ex poliziotti. No Trials Necessary: Moore visita la contea di Nevada, in California, dove agli accusati poveri viene sistematicamente negato il diritto di difendersi. No Intelligence Necessary: storia di un uomo cui la polizia ha negato l’assunzione a causa del Qi troppo alto. 9. Replacement Mike: alla ricerca di un sostituto, Moore invia alcuni bambini e tre modelle alla sede di Tosco, una compagnia petrolifera “criminosa”, per vedere come se la cavano. No Side Effects: Corporate Cops indaga sulle malefatte di un laboratorio farmaceutico. We Still Love NY: alcuni turisti salgono su un bus per una visita ai luoghi oscuri di New York. 10. Store the Homeless/Design for Living: proposte per togliere i senzatetto dalla strada e immagazzinarli come una merce. Thou Shalt Not...: intervista ai membri del Congresso che hanno imposto la presenza dei dieci comandamenti negli uffici pubblici. Affirmative Action: sguardo su George W. Bush, grande beneficiario della “discriminazione positiva”. 11. Gulf War: riflessioni sulla Guerra del Golfo e su Jack Welch, super manager prossimo alla pensione. Saddamized: Moore apre una pompa di benzina a basso costo, riempiendola di merchandising con il volto di Saddam e attirando molti clienti, anche tra i fautori della guerra. It’s All in Your Head: indagine sulla sindrome del Golfo che colpisce i marines in Iraq. 12. Find Clinton a Job: la trasmissione cerca un lavoro per il presidente uscente. Roe vs. Wade, R.I.P.: tragicomica inchiesta, in forma di cinegiornale, sui trionfi degli antiabortisti. Population Explosion: essendo la contea con il più alto tasso demografico, Sussex County ottiene ampi finanziamenti pubblici ma i nuovi abitanti sono in realtà gli ospiti di due prigioni locali.

The Awful Truth è il titolo di almeno tre film americani e uno di Hong Kong. Il più celebre è senza dubbio quello di Leo McCarey (L’orribile verità, 1937), interpretato da Cary Grant e Irene Dunne. Ma se il riferimento a Carey si esaurisce nel titolo, più stretto è il legame tra la trasmissione di

Moore e un altro maestro della screwball comedy, Frank Capra. Delle somiglianze tra i due registi americani abbiamo già detto e torneremo a parlare tra poco. Il nuovo programma riparte da dove era terminato Tv Nation. Il riassunto delle puntate aiuta a capire come, a distanza di anni, non cambino né gli ingredienti né la ricetta applicata da Moore, che continua a coniugare impegno politico e gusto comico, surrealismo e populismo, giornalismo d’inchiesta e scherzi degni di un programma per teen-ager di Mtv. La continuità rispetto al precedente show televisivo è tale che risulta più facile concentrarsi sulle differenze e rimandare, per le grandi linee, al capitolo dedicato a Tv Nation. Contrariamente a quanto accaduto cinque anni prima, il regista si affaccia sul piccolo schermo dopo alcuni film dall’esito commerciale sfortunato e deve quindi accontentarsi di un palcoscenico produttivo meno ricco di quello di Fox e Nbc, due giganti della televisione “in chiaro”. A produrre sono appunto la britannica Channel Four e Bravo, un canale satellitare dalla programmazione piuttosto sofisticata, dedito in particolare alla musica classica. Per la prima volta l’operaio mancato di Flint si muove in un contesto produttivo, almeno parzialmente, indipendente e non manca di far notare, in varie interviste, di esser dovuto andare in Europa per produrre una trasmissione “scomoda”. Proprio l’indipendenza dai grandi media è uno dei temi ricorrenti della prima stagione, come appare chiaro già dalla sigla iniziale. Questa mostra i capi dei cinque grandi network d’informazione americana seduti in cima al mondo (fot. 49) mentre una voce over commenta: «In principio esisteva una stampa libera. […] Alla fine del millennio cinque uomini controllavano i media di tutto il mondo, ma solo uno di loro era l’anticristo». Subito dopo, Moore e i suoi collaboratori sono presentati come la Repubblica Democratica Popolare della Televisione (Pdrt: People’s Democratic Republic of Television, fot. 50). «Il loro compito – conclude la sigla – è portare alla gente... la scomoda verità!». Malgrado questa dichiarazione programmatica costantemente reiterata, la formula della trasmissione è praticamente quella di Tv Nation. È vero che stavolta gli episodi sono ben dodici per stagione, ma ciascuno di essi dura la metà e i servizi diffusi all’interno di ogni episodio, vera unità di misura del programma, sono invece molto simili per durata, obiettivi polemici e protagonisti. Confermati anche molti membri dello staff, come i corrispondenti Crackers, Ben Hamper e Karen Duffy, la produttrice Tia Lessin, la montatrice Meg Reticker e il cameraman Brian Danitz.

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Tra i due programmi esiste un’unica differenza strutturale, peraltro annunciata da The Big One: invece che dalle strade di New York, Moore conduce la prima stagione del nuovo programma in diretta (salvo qualche aggiustamento di montaggio) da un teatro. Sbarbato ma con il suo solito look, si presenta nella più tra dizionale sobrietà da stand-up comedy: solo sul palco e con un microfono, su cui è apposto il logo della Pdrt (fot. 51). Sempre più fulcro del programma, il regista assume così il ruolo del classico presentatore Tv: ogni settimana arriva sul palco, intrattiene per qualche minuto il pubblico e presenta alla sala e ai telespettatori i servizi preparati da lui e dai suoi collaboratori. Le cose cambieranno solo leggermente nella seconda stagione, con il ritorno a Times Square. La derivazione da programmi di approfondimento come 60 Minutes non scompare, ma in questo momento della sua carriera Moore cavalca l’onda che, al la fine degli anni Novanta, vede trionfare

negli Stati Uniti conduttori comici che arricchiscono di elementi e inviati esterni il modello del one man show alla Andy Kaufman o alla Lenny Bruce. Protagonisti di questa tendenza sono figure come Jay Leno, David Letterman e Conan O’Brian, tutti attivi dall’inizio del decennio, ma anche il conservatore Dennis Miller e l’animatore del The Daily Show, Craig Kilborn. Si tratta di figure alla base di trasmissioni molto diverse tra loro ma che si fondano tutte sulla personalità comica del conduttore. Moore, che ha contribuito ad alimentare questa tendenza, ha due particolarità rispetto ai colleghi: da un lato un impegno politico dichiarato e dall’altro il fatto di ricoprire contemporaneamente, come da sua tradizione, vari ruoli.

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In un articolo su «Variety» (8 aprile 1999) Laura Fries ha affermato che Moore è molto più efficace come regista che come comico. Opinione condivisibile ma che non tiene conto degli altri ruoli assunti: quello di produttore, direttore di una redazione, autore. Abbiamo insistito fin da Roger & Me sulla diversità di ruoli, spesso contrastanti tra loro, assunti da Moore. In questo caso, limitandosi a quelli visibili, egli è da una parte l’intrattenitore che tiene banco dal palco; dall’altra il protagonista di molti servizi di denuncia. Nel primo caso usa spesso la sua vis comica, ma deve talvolta assumere una postura indignata oppure didattica. Nel secondo ridiventa Mike, l’inviato goliardico e falso ingenuo. Grazie anche alla dimensione televisiva che circoscrive in maniera molto più chiara i suoi diversi ruoli, il rapporto tra questi ultimi appare più “oliato” e adatto ai tempi televisivi. L’affinamento di questa mediazione tra le diverse identità del regista sarà fondamentale per opere cinematograficamente più articolate come Bowling a Columbine e Fahrenheit 9/11. Se si guarda a quanto prodotto negli undici anni successivi al suo esordio, tenendo conto anche delle trasmissioni abortite, si può parlare di un “decennio televisivo” di Moore, che all’epoca è percepito soprattutto come un personaggio del piccolo schermo. The Awful Truth rappresenta l’apogeo ma anche il momento conclusivo di questa fase. Tipicamente televisivi sono i segmenti incentrati sullo scherzo, come i tre dedicati a Lucianne Goldberg (nei quali Moore si esibisce addirittura in alcune telefonate in diretta), e sulla “mascherata”, come Low Heels for Ho Heels, dove un protettore nero visita il Congresso per arruolare alcuni deputati con tanto di fasce di banconote, sigari e slang della strada (fot. 52). Televisivo è anche l’orizzonte di riferimento di Moore, che spesso sceglie come bersagli polemici personaggi e trasmissioni del piccolo schermo americano. Nei due episodi di Corporate Cops, ad esempio, ridicolizza l’approccio ultradrammatico di Cops, uno show di real Tv che mostra gli

inseguimenti della polizia. Il modo falsamente serioso con cui Moore si rivolge alla telecamera e la sigla della finta trasmissione (poi citata in Bowling a Columbine, fot. 53), nella quale il regista dà la caccia ai criminali finanziari, sono tra i momenti più riusciti del programma.

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Tuttavia la trasmissione mostra, specialmente verso la fine della seconda stagione, servizi sempre più complessi e di gusto documentario. Rispetto a Tv Nation alcuni segmenti hanno una coerenza interna e una profondità che permetterebbe loro di funzionare autonomamente come cortometraggi documentari. È il caso di The Choice, che copre tutta la puntata Ficus for Congress ed è presentato esplicitamente come «un cortometraggio di Michael Moore», di Got it Maid! e di Hmo Funeral, il cui respiro narrativo eccede quello de gli altri episodi. Quest’ultimo segue la vicenda di Chris Donahue, un diabetico cui l’assicurazione sanitaria Humana ha negato un trapianto di pancreas che gli salverebbe la vita. Dopo aver tentato di farle cambiare idea, in uno dei momenti più divertenti ma anche grotteschi del programma, Moore si reca al quartier generale di Humana per officiare il funerale di Donahue, mentre questi è ancora vivo, con tanto di feretro e cornamuse, tenendo anche un discorso funebre (fot. 54). Piccoli film sono anche segmenti come American Apartheid, Roe vs Wade, R.I.P e Gun Crazy che dimostrano anche un rinnovato interesse per una certa originalità formale. Il primo è infatti costruito interamente attraverso l’amato found footage, da qualche tempo un po’ trascurato; il secondo, con esercizio di stile abbastanza raffinato, è un’in dagine sui trionfi dei movimenti antiabortisti girato e montato come un cinegiornale in tonalità seppia (fot. 55). I segmenti citati affrontano tutti temi importanti: la democrazia, l’immigrazione, le armi, la sanità e la discriminazione. Sebbene si concentrino su casi specifici, esprimono tutti un’indignazione più profonda, quasi sistematica. Temi già annunciati in Tv Nation e qui ripresi preparano il terreno per i film futuri, come in una prova generale. Nelle critiche alla Nra e nell’analisi dell’ossessione degli americani per le armi, Gun Crazy prefigura Bowling a Columbine. Allo stesso modo, Hmo Funeral ma anche Work Care! preparano la strada a Sicko. Volendo spingersi oltre si potrebbe addirittura provare ad azzardare, partendo dagli episodi Tv, quali saranno i futuri temi dei film di Moore. Vedremo così se l’insistenza con cui torna sugli scandali del sistema giuridico e carcerario americano saranno in futuro elevati a rango di soggetto principale di un film, come è accaduto per la sanità o le armi.

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L’attenzione all’evoluzione dei temi e delle tecniche di Moore da un film (e spesso anche da un medium) all’altro è fondamentale per un regista sensibile ai cambiamenti politici ma dallo stile quasi impermeabile alle influenze esterne. The Awful Truth è quindi anche una sorta di aggiornamento di Tv Nation all’attualità politica di cinque anni dopo. Rivisto oggi, è utile anche per ripercorrere l’agenda politica dell’epoca. Domina su tutti lo scandalo Lewinsky, alla base di quattro servizi nella prima stagione: i tre dedicati a Lucianne Goldberg e quello dedicato alla “caccia alle streghe” del procuratore Ken Starr, contro il quale il regista organizza una contro-crociata moralista insieme a un gruppo di attori travestiti da puritani (fot. 56). Anche Clinton rimane uno dei bersagli preferiti ma comincia a emergere, in vista della sua candidatura presidenziale e alla luce del suo inquietante curriculum come governatore del Texas, la futura bestia nera del regista: George W. Bush, protagonista di due episodi. Passa il tempo, cambiano le modalità produttive, i nomi dei presidenti e delle compagnie incriminate ma gli obiettivi e lo stile di Moore non si modificano in maniera sostanziale. Questa continuità, malgrado le differenze produttive, permette, a dieci anni dall’esordio, una prima riflessione sul suo ruolo nel sistema cinematografico e televisivo americano. A partire da quelli che sono, per quanto rozzi, i principali interrogativi sulla sua figura: vero outsider o prodotto del sistema? Contestatore sincero o scaltro manipolatore? Tutta la sua carriera dimostra due tendenze. Da un lato una costante ricerca di canali distributivi il più possibile estesi, che lo spingerà a lavorare quasi sempre per colossi produttivi e editoriali; dall’altra una continuità stilistica e politica molto forte che fa sì che non vi siano sostanziali compromessi tra un film autoprodotto come Roger & Me, uno show per il prime time della Fox e uno prodotto da due reti indipendenti come The Awful Truth. Lo statuto di fustigatore del potere si scontra però con due evidenze: non solo la pars costruens delle sue opere risulta inevitabilmente debole rispetto alla pars destruens, ma viene anche il dubbio che tutta la sua esistenza mediatica si giustifichi in fondo con la presenza di un nemico contro il quale scagliarsi, come se egli fosse un ingranaggio consapevole di quel sistema che vorrebbe condannare. È qui che torna in ballo il nome di Frank Capra, e non solo perché quest’ultimo fu anche un importante documentarista “seriale” di propaganda, avendo realizzato tra il 1942 e il 1945 sei dei sette episodi della serie Why We Fight, commissionati dal governo statunitense per convincere i soldati dei buoni motivi dell’entrata in guerra del loro Paese. Le somiglianze, come in parte già notato, sono lampanti: entrambi sono registi autodidatti, giunti al cinema per vie non convenzionali

(giornalista uno, ingegnere l’altro), fieramente antintellettuali e poco dediti ai virtuosismi tecnici. I due hanno in comune soprattutto il fatto di essere due autori profondamente popolari (spesso populisti) capaci di sopravvivere ai più alti livelli produttivi grazie a compromessi con i centri del potere produttivo: gli studios e il governo (per Capra), i grandi network televisivi (per Moore). Già ai tempi di Roger & Me, alcuni critici hanno notato in questo senso un’altra analogia meno lusinghiera: nei film di entrambi la critica al sistema si risolverebbe, di fatto, in un consolidamento di quest’ultimo. Ovvio per Capra ma anche per il regista di Flint che, specialmente in questa fase, concentra le sue critiche molto più sui comportamenti specifici di alcuni politici e aziende che non sul sistema americano o capitalistico in generale, di cui anzi si serve per i propri fini. Come ha scritto Philippe Pilard (Les regles du “je” in «Positif», n. 481, marzo 2001) entrambi attaccano ma poi, di fatto, consolidano una certa forma di sogno americano.

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Tale giudizio ignora almeno due dati essenziali. Il primo è la relatività dell’ottimismo del regista italoamericano: è vero che questi lavorò per il governo americano e venne spesso a patti con i suggerimenti degli studios ma, come è stato già ampiamente scritto, i suoi happy ending appaiono spesso come una specie di “toppa retorica” applicata per accontentare i produttori e il codice Hays. Il secondo dato, per noi più importante, è il fatto che la produzione di Moore, come il cinema di Capra, ha senso solamente in un contesto di pubblico realmente ampio e popolare: in una parola il mainstream, per definizione territorio dei grandi gruppi economici. Non è una giustificazione etica bensì una riflessione sui confini produttivi attraverso cui si sviluppa l’opera (cinematografica, letteraria e televisiva) di Moore. L’autore di The Awful Truth è un populista, procede per semplificazioni e fa leva sull’indignazione più che sulla cultura. Se i suoi confini politici sono molto definiti, quelli del buon gusto non lo sono. Ogni mezzo è buono, anche quelli del sistema che vorrebbe combattere, se ciò gli permette di aumentare il suo seguito. Contrariamente al collega, Moore non ha mai edulcorato il contenuto dei suoi film ma sa di avere bisogno di un uditorio che sia il più grande possibile quindi scende, volontariamente e anzi ostinatamente, a “patti distributivi” con il nemico. Prendere o lasciare, come del resto hanno fatto alcuni ammiratori della prima ora, progressivamente delusi dalla sua demagogia. Moore prende, perché sa che l’alternativa sarebbe non esistere. Lo sa così bene da sottolineare vistosamente l’ironia della situazione (si vedano le citazioni iniziali sui rapporti con le major) senza mai cercare davvero di cambiare il sistema distributivo. Il fatto stesso che per tutta la sua carriera, pur lavorando con case di produzione e case editrici di grosse dimensioni (Warner Bros, Fox, Nbc, Random House, Disney eccetera) non abbia smesso di causarne l’imbarazzo, litigarci e rompere contratti è la dimostrazione di questa contraddizione, serenamente accettata, tra obiettivi politici e mezzi distributivi. Michael Moore e i videoclip Nel periodo tra il 2000 e il 2003, forse timoroso che il suo curriculum non fosse abbastanza variegato, Moore trova anche il tempo di dirigere quattro video musicali. L’esperienza con il videoclip (e in misura minore con la pubblicità) è una prerogativa di molti registi americani emersi negli ultimi due decenni. Come è noto, così hanno esordito registi come David Fincher, Spike Jonze

e il francese Michel Gondry, tanto per citare i più famosi specialisti del genere poi passati al lungometraggio. Alla non sempre mercenaria arte del videoclip e dello spot si sono prestati anche mostri sacri come David Lynch, Wim Wenders, Roman Polanski e Spike Lee. Più raro che ciò accada a un documentarista, anche se esiste almeno una notevole eccezione: Errol Morris, cineasta integerrimo e personalissimo per quanto riguarda i “suoi” progetti ma capace di prestare più volte la sua arte ai commercials di aziende come Nike, Levi’s e Toyota. Moore non può sporcare la sua immagine come fa il collega ed è abbastanza famoso per non dover prestare servizio al miglior offerente. È quindi per una volontà precisa che decide di collaborare con tre gruppi rock noti per il loro impegno politico: Rage Against The Machine (Ratm), R.E.M e System of a Down. La scelta di estendere le proprie attività non sorprende: oltre alla natura dei gruppi in questione e all’influenza della musica rock sul regista (basti vedere come i suoi film, quasi sempre privi di partiture, siano costellati di canzoni orecchiabili e spesso molto note), il videoclip è il terreno d’elezione della contaminazione di generi e del ricorso al materiale d’archivio di cui, da sempre, il nostro subisce il fascino. Già in Roger & Me e The Big One trovavamo sequenze di circa un minuto montate come veri e propri videoclip, una tendenza che si accentuerà nel film successivo. Per tutta la sua carriera Moore intratterrà contatti abbastanza stretti con alcuni musicisti che contribuiscono in vario modo anche ai suoi film. Si pensi a Madonna, che lo aveva aiutato a produrre Operazione Canadian Bacon e che lancerà un appello a favore di Fahrenheit 9/11 quando la distribuzione del film sarà in pericolo, o alle apparizioni di Eddie Vedder, dei R.E.M. e di Tom Morello dei Ratm (che comporrà anche una canzone originale per Fahrenheit) in Slacker Uprising. Il primo video diretto è Sleep Now in the Fire, singolo dell’album The Battle of Los Angeles dei californiani Rage Against The Machine, uscito a fine 1999. Difficile trovare per Moore un equivalente musicale migliore di questo gruppo, la cui influenza musicale e politica ha lasciato un importante segno anche sulle generazioni successive, malgrado soli quattro album (di cui uno di cover), registrati in dieci anni di attività tra 1991 e 2000. Maestri del crossover (misto di rap e rock alternativo) che spopola a cavallo tra i due millenni, i Ratm sono il gruppo politico per antonomasia di questo periodo, con uno spettro di temi affrontati che va dal razzismo agli abusi della polizia, passando per la politica estera degli Stati Uniti, la repressione dei movimenti neri e indiani e una generale condanna del capitalismo. In linea con le tendenze agit-prop mostrate in Tv, Moore concepisce il video come una dimostrazione politica dal vivo. Il 26 gennaio 2000 la band e il regista decidono infatti, malgrado il parere contrario del comune di New York, di esibirsi davanti alla borsa di Wall Street in segno di protesta contro le speculazioni finanziarie. Dopo che Wall Street ha annunciato profitti record e che il sindaco Giuliani ha negato la possibilità di esibirsi dal vivo, la band si presenta davanti alla borsa di New York insieme a Moore e improvvisa un concerto per i passanti.

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Le immagini dell’evento sono alternate a quelle di un falso show televisivo Who Wants to Be Filthy Fucking Rich («Chi vuol essere schifosamente e fottutamente ricco?», fot. 57) nel quale i concorrenti rispondono a domande dapprima elementari e poi decisamente politiche («Quanti americani non hanno copertura sanitaria?») fino alla conclusione, segnata dalla rivolta del pubblico. Viene inoltre mostrata la band che suona

in studio, insieme a immagini evocative della ricchezza americana e ad alcuni momenti simbolici come la bomba su Hiroshima e le proteste contro il Wto a Seattle. A New York, mentre cresce la partecipazione del pubblico, arriva anche la polizia e Moore, dopo alcune discussioni, è arrestato. I membri del gruppo tentano di penetrare insieme alla folla dentro Wall Street ma sono fermati dalla polizia. Una didascalia spiega che alle 14.52 la Borsa ha chiuso in anticipo le porte e che «nessun denaro è stato ferito».

Basta questa descrizione per capire quanto profondamente “mooriano” sia questo video: per il contenuto politico, per la creazione di un evento politico di strada (che ricorda il provocatorio concerto organizzato, sempre a Wall Street, nel segmento Corp Aid di Tv Nation), per i momenti di tensione tra il regista e le autorità (fot. 58), per la trionfalistica conclusione. A proposito di temi ricorrenti, il sindaco Giuliani si conferma uno degli “attori” più amati dal regista di Flint, che ne fa nuovamente un bersaglio polemico. La band affida al regista un altro video dello stesso album, Testify il cui testo si riferisce allo scandalo Lewinsky e alla falsa testimonianza di Clinton. Girato durante le elezioni del 2000, il video diventa l’occasione per lanciare un atto d’accusa contro i due candidati Al Gore e George W. Bush. Vi si disegna un quadro totalitario della politica e dell’economia statunitense, nei quali i due principali partiti sono controllati dagli interessi economici delle grandi compagnie, soprattutto quelle petrolifere. Preparando l’invasione della Terra, un gruppo di alieni invia un mutante che può incarnarsi alternativamente in Gore o Bush, i due candidati alla presidenza degli Stati Uniti. Alcune immagini della campagna elettorale mostrano i due che pronunciano frasi identiche. A queste sono alternate le immagini della band che suona e sequenze d’archivio legate allo scandalo Lewinsky e alla politica estera, presente e passata, degli Stati Uniti. Fanno da filo conduttore i giuramenti di Clinton, dei due candidati e di altri politici americani. Il video si conclude con una frase di Ralph Nader («Se non vi occupate di politica, la politica si occuperà di voi») e una didascalia che spiega che nelle prossime elezioni circa cento milioni di americani non voteranno «per mancanza di una reale scelta».

Moore, che all’epoca è un fedele sostenitore di Nader, torna a un’idea già enunciata alla fine di The Big One: il Partito repubblicano e quello democratico fanno ormai solo gli interessi dei più ricchi e non è votando un loro candidato, sia esso Bush o Gore, che i cittadini americani potranno ottenere qualche vantaggio.

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Letteralmente qualunquista, sia nella di fesa dell’uomo qualunque sia nella sostanziale

equiparazione dei candidati (fot. 59), Moore cambierà presto idea ma, per l’intanto, sfrutta un’in tuizione narrativa (gli alieni che in viano un mutante) per costruire un video so vraccarico d’immagini ma chiarissimo nel suo messaggio, che colpisce nel segno soprattutto quando mostra la convergenza di vedute tra i due candidati su temi quali la pena di morte e il libero scambio. Con il montaggio convulso tipico dei videoclip di fine anni Novanta, utilizza molte immagini di found footage per attacare vari bersagli. Tra di essi ci sono le compagnie petrolifere, la destra cristiana, la Guerra nel Golfo e i finanziamenti che le grandi aziende garantiscono ai due candidati. Una sequenza che verrà poi ripresa, con i dovuti adattamenti, in Sicko, mostra Bush e il suo avversario circondati da alcune scritte in sovra impressione che con tengono il nome dei contribuenti e le relative ci fre donate per la loro campagna (fot. 60). La vena ironica è evidente nella sottotraccia fantascientifica per la quale Moore ricorre a im magini di film di fantascienza in bianco e nero. Echi fantascientifici, in chiave più minacciosa, risuonano anche nel ritornello orwelliano che recita: «Chi controlla il passato adesso controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il futuro». Per la cronaca, il regista appare brevemente mentre si rifornisce di benzina a una stazione di servizio. L’anno successivo Moore cura la regia di un video dei R.E.M., gruppo meno dimostrativo ed estremo dei Ratm ma anch’esso politicamente impegnato. Tratta dall’album Reveal, la canzone All the way to Reno non è un pezzo facilmente decifrabile, con un testo in cui il contrasto tra Reno (città del Nevada, sorta di sorella minore di Las Vegas) e il ritornello “You’re gonna be a star” suona anche un po’ malinconico.

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Bishop Ford Central Catholic High School, un liceo di New York. I R.E.M si esibiscono dal vivo: dapprima dietro la rete di recinzione della scuola, poi all’interno del cortile, dove si mescolano con gli studenti. Alcuni di questi ultimi riprendono la loro esibizione con una telecamera. Le immagini del concerto si alternano con quelle dei tre componenti che giocano con gli studenti all’interno dell’istituto.

A meno di non volerci leggere il ricordo dei tempi in cui anch’egli frequentava una scuola cattolica a Davison, il video appare subito lontano dalle corde abituali di Moore. Questi appare brevemente insieme ad altri studenti (fot. 61) e si limita in realtà a coordinare le immagini girate dai sei teenager cui viene reso omaggio alla fine del clip. Forse proprio l’idea di lavorare insieme ad alcuni giovani, oltre all’amicizia con i membri del gruppo, è stata la molla che ha spinto il regista a dirigere un video poco conflittuale per non dire politicamente corretto. Decisamente politico è invece il ritorno al videoclip effettuato nel 2003, all’indomani dell’uscita di Bowling a Columbine, poco prima dell’inizio della nuova guerra in Iraq. Moore dirige infatti quello della canzone Boom!, tratto dall’album Steal This Album del gruppo rock californiano System of a Down. Proba bilmente influenzati dai Ratm, anche loro praticano un rock, spesso racchiuso nel generico nome di nu metal (“nuovo metal”), molto contaminato da rap e musica progressive, e che utilizza anche strumenti tradizionali e sonorità vagamente orientali, forse in omaggio alle origini armene dei quattro membri del gruppo. La canzone era stata originariamente concepita come un atto di denuncia contro l’uso indiscriminato di armamenti da parte degli Stati Uniti. I testi, molto spesso più parlati che cantati, mettono in parallelo lo spreco di risorse destinate a fini militari e i morti per fame nel mondo. Mentre appare chiaro che Bush lancerà una nuova offensiva in Iraq, il gruppo e il

regista decidono di dare un senso più mirato al video. Il 15 febbraio 2003 in oltre seicento città del mondo vengono organizzate manifestazioni contro la guerra cui partecipano dieci milioni di persone. «Poiché preferiamo la pace alla guerra, anche noi eravamo lì» spiega una didascalia. Le immagini delle manifestazioni sono accompagnate dalle interviste ai partecipanti, alcuni dei quali ripetono parti del testo o il ritornello onomatopeico della canzone. Alcune didascalie chiariscono il luogo delle proteste e il numero di patecipanti (fot. 62) mentre scorrono informazioni sui motivi nascosti della guerra e i suoi costi economici e umani. Un’animazione mostra le caricature di Bush, Blair, Saddam e Bin Laden a cavallo di alcuni missili mentre sorvolano una città dal profilo mediorientale. I quattro non riescono a sganciare le proprie bombe, che si disintegrano nel cielo fomando il simbolo della pace. Il video si chiude con l’immagine di un bambino iracheno sorridente e una citazione di Yoko Ono e John Lennon: «La guerra è finita (se lo vuoi)».

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Anche in questo caso non è difficile leggere le impronte del regista: gusto per la protesta, uso di materiali di origine diversa (a partire dalle animazioni, fot. 63) e senso di partecipazione politica attiva. Per la prima volta Moore non appare in una sua opera ma tra i manifestanti sono chiaramente visibili i quattro membri del gruppo. Il video nasce con un obiettivo preciso: sensibilizzare l’opinione mondiale riguardo ai piani dell’amministrazione Bush, ma viene lanciato il giorno stesso dell’attacco in Iraq e questo ne vanifica in parte il senso. Senza contare che Mtv Europa decide addirittura di non trasmetterlo per paura di rappresaglie. Moore avrà ampiamente l’occasione di riaffrontare l’argomento della guerra in Iraq e delle responsabilità del “suo” presidente. Intanto l’esperienza del videoclip lascia alcune tracce anche sul film che imprimerà una svolta definitiva alla sua carriera. Ragazzi con le pistole: Bowling a Columbine

«Alla fine non è solo un film sulle armi. E neanche sul controllo delle armi. È un film sulla psiche e l’etica americana […] E le armi sono solo la mia chiave d’ingresso in una discussione molto più ampia e che mi piacerebbe venisse affrontata. Ciò che mi preoccupa davvero non è il fatto di avere troppe persone che impazziscono per le armi, ma il fatto che siamo diventati tutti pazzi, in America.» Michael Moore

Non è difficile affermare che Bowling a Columbine rappresenta per Moore il momento del definitivo ingresso nel mainstream cinematografico, con tutto quanto ne discende, in positivo e negativo, in termini di riconoscibilità ed esposizione mediatica. Il film è innanzitutto la sua prima opera post 11/9, il che non è ovviamente solo un dato cronologico. Perché significa in primo luogo che gli attacchi al World Trade Center e le sue conseguenze entrano a far parte del suo orizzonte documentaristico. E soprattutto perché, nella convulsa fase poltica che si apre, per una serie di motivi che vanno oltre il suo valore cinematografico (e invero piuttosto incredibili), il regista di Flint travalica i confini dell’intrattenimento e diviene addirittura un’icona mondiale dell’opposizione alla presidenza Bush. Prima di questo, durante le elezioni del 2000, Moore aveva offerto il suo sostegno ufficiale all’amico Ralph Nader che ottenendo l’1,66% delle preferenze, viene percepito da molti come il vero responsabile della sconfitta di Al Gore. Il 20 gennaio 2001 iniziano così gli otto anni della presidenza Bush jr. Finito l’impegno televisivo di The Awful Truth, Moore si dedica, oltre che ai videoclip, alla scrittura di un libro, come era accaduto dopo Tv Nation. Il titolo è eloquente: Stupid White Men... and Other Sorry Excuses for the State of the Nation, Regan Books, New York, 2001. Il volume è pronto per uscire quando gli attentati dell’11 settembre sconvolgono, oltre che il mondo intero, i piani dell’editore Harper Collins, che controlla Regan Books, e il cui proprietario è nientemeno che il capo della Fox, Rupert Murdoch. Il clima di unità nazionale e la cortina di controllo che si instaurano subito dopo gli attacchi non favoriscono le critiche all’amministrazione americana e la casa editrice tenta di convincere l’autore a cambiare il titolo ed espungere alcuni capitoli. Il regista ingaggia così un braccio di ferro da cui esce vincitore dopo alcuni mesi d’incertezza. Grazie anche alla minaccia di boicottaggio di librai e lettori che si schierano a suo favore, il libro esce a dicembre e conosce subito un successo impressionante. Stupid White Men, (edito in Italia con lo stesso titolo ma senza il sottotitolo, Mondadori, Milano, 2003), diventa l’opera di non-fiction let teraria più venduta del 2002 negli Stati Uniti, (giungendo oltre la quaran tesima ristampa), in Germania, nel Regno Unito e in Irlanda. Il libro, che si apre con una denuncia del semicolpo di stato che ha sottratto la vittoria elettorale ad Al Gore nel 2000 («Un colpo di stato molto, molto americano»), è l’ennesimo atto d’accusa contro l’amministrazione statunitense, equamente rivolto al pre sidente uscente e al suo successore. Sebbene i riferimenti a Bush, di cui tra bocca il libro, siano in parte ripresi in Bowling a Columbine, il rapporto tra Stupid White Men e quest’ultimo non è paragonabile alla filiazione quasi diretta che esisteva tra il libro Downsize This! e il film The Big One. Il pretesto che dà origine e titolo al film è la strage che il 20 aprile 1999 si consuma al liceo Columbine di Littleton, in Colorado. Due teenager, Eric Harris e Dylan Klebold, entrano a scuola armati, uccidendo dodici compagni e un insegnante e ferendo varie persone prima di togliersi la vita. L’evento è lo stesso che dà origine al film Elephant (Id., di Gus Van Sant, 2003), che però utilizza la strage solo come pretesto narrativo. Moore affronta invece in maniera esplicita una delle “eccezioni americane” già ampiamente trattate in Tv: la mania per le armi da fuoco e il dibattito legato alla loro limitazione. Il 20 aprile ‘99 è stato sia il giorno della strage della Columbine sia quello del più pesante attacco americano in Kosovo. L’indagine del regista sulle armi comincia dal suo stato, il Michigan. Qui, da giovane, ha vinto una gara di tiro organizzata dalla National Rifle Association (Nra), il gruppo che difende il diritto di possedere armi e di cui è portavoce Charlton Heston. Qui è possibile comprare pallottole da un barbiere e ottenere un fucile gratis aprendo un conto in banca. E qui vivono i membri della Militia, un gruppo paramilitare frequentato

anche da Tim Mc Veigh e Terry Nichols, responsabili dell’attentato di Oklahoma City che uccise centosessantotto persone nel 1995. Incontra anche James Nichols, fratello di Terry, e due amici di Eric Harris che gli dimostrano la facilità con cui possono procurarsi una pistola. Happiness is a warm gun dei Beatles accompagna alcune immagini d’archivio che mostrano quanto sia diffusa la cultura delle armi in America. Proprio questa cultura è alla base della strage di Columbine, secondo Moore. Questi, giunto in Colorado, scopre che vicino alla scuola si trovano un’accademia militare, un sito che costruiva bombe atomiche e la Lockheed Martin, industria che produce armi di distruzione per l’esercito. What a Wonderful World accompagna alcune immagini che ripercorrono le infamie della politica estera americana degli ultimi decenni in Paesi come Iran, Vietnam, Guatemala, Cile e Panama, e l’appoggio a dittatori quali Pinochet, Saddam e Noriega. L’ultima sequenza mostra gli attentati dell’11/9 orchestrati da Bin Laden, finanziato dalla Cia ai tempi della guerra in Afghanistan. Moore torna poi al 20 aprile 1999. Le fasi della strage alla Columbine sono ripercorse con video e audio d’archivio: telegiornali, immagini delle telecamere del liceo e telefonate alla polizia di studenti, insegnanti e genitori. Appena dieci giorni dopo, Heston partecipa a una manifestazione della Nra poco lontano dalla scuola. Il suo discorso è alternato con quello del padre di una delle vittime. Dopo aver intervistato Matt Stone, creatore della serie South Park ed ex allievo della scuola, Moore mostra come la sparatoria ha aumentato ulteriormente la paranoia degli americani. Negli Stati Uniti ogni anno muoiono oltre undicimila persone per colpi di arma da fuoco, ma qual’è la causa di questa violenza? Le opinioni divergono: l’heavy metal, l’assenza dei genitori, i videogame, la Tv, il passato violento del Paese. Eppure questi fenomeni esistono anche negli altri Paesi occidentali dove però i morti sono molti di meno. Alcuni accusano la rockstar Marilyn Manson, uno degli idoli di Klebold e Harris, d’istigare alla violenza. Intervistato, questi pare meno spaventoso e più ragionevole dei media che lo accusano. Moore si chiede ironicamente perché nessuno abbia dato la colpa della strage al fatto che i due assassini giocassero a bowling. Un cortometraggio di animazione, Una breve storia degli Stati Uniti d’America, suggerisce che la radice del problema sia la paura dei bianchi nei confronti dei “diversi” (nativi e neri) e ripercorre sotto quest’ottica i grandi eventi della storia americana: l’arrivo dei padri pellegrini, lo schiavismo, la sua abolizione, la nascita del Ku Klux Klan e la fine della segregazione. Moore si chiede se gli Usa non siano ancora vittime di questa paura, che viene oggi accentuata dai media. Si reca così a South Central, sobborgo “nero” di Los Angeles ritenuto molto pericoloso, insieme allo scrittore Barry Glassner, che gli spiega che il crimine nel Paese è in calo ma la sua visibilità nei media è aumentata. Incontra anche uno dei produttori di Cops, uno show che mostra inseguimenti di poliziotti bianchi a criminali neri. L’uomo si definisce liberal ma spiega che questa impostazione è una delle chiavi del successo del programma e non ritiene che Corporate Cops, uno show sui crimini finanziari proposto dal regista, possa funzionare. Moore si sposta allora in Canada. Discutendo con poliziotti, uomini politici e cittadini, scopre che qui gli omicidi sono molto rari e che molti si sentono sicuri. E questo nonostante i canadesi guardino film violenti, abbiano molti disoccupati, una popolazione mista e ben sette milioni di armi. Il motivo sembra una coscienza sociale molto forte e diffusa. Anche i telegiornali, in Canada, sono meno violenti e sensazionalistici. A Flint, intanto, un bambino di sei anni ha ucciso una compagna di scuola con una pistola trovata a casa dello zio. Moore incontra la direttrice della scuola e nota come molti giornalisti siano giunti subito sul luogo del dramma ma nessuno abbia mai visitato quel quartiere, dove l’87% dei bambini vive sotto la soglia di povertà e la prima causa di morte è l’omicidio. Heston si presenta poco dopo la tragedia a Flint, affermando che l’Nra spende un milione all’anno per tenere i bam-bini lontani dalle armi. Si scopre che la madre del bimbo, per ottenere cibo e assistenza sanitaria, era iscritta a un programma di welfare che la teneva lontana da casa, obbligandola a percorrere ogni giorno ottanta miglia per raggiungere la ricca Auburn Hills. Qui la donna lavorava in un ristorante di proprietà del presentatore Dick Clark che, per questo motivo, otteneva riduzioni fiscali. Quando, in California, il regista cerca d’intervistarlo, questi lo respinge sdegnosamente. Moore riflette su come, dopo l’11 settembre, siano aumentate la vendita di armi, la paranoia e le spese militari, mentre niente è stato fatto per ridurre la povertà. Incontra allora due dei ragazzi feriti alla Columbine e propone loro di protestare alla sede di K Mart, nei cui supermercati erano state acquistate le pallottole usate nella sparatoria. Dopo accese discussioni con la direzione, i tre si ripresentano alla sede dell’azienda con vari giornalisti. Una portavoce arriva e annuncia che la compagnia smetterà di vendere pallottole. Il regista si reca allora alla villa di Heston, a Beverly Hills, e ottiene un’intervista. Messo alle strette dalle sue domande, l’attore spiega che i motivi della violenza negli Usa sono il passato sanguinoso e la mescolanza etnica. Quando Moore gli chiede di scusarsi per essersi presentato alla manifestazione dell’Nra a Flint, Heston rifiuta e si allontana faticosamente. Il regista estrae allora la foto della bimba uccisa chiedendogli di guardarla. Dopo l’incontro, Moore racconta di aver lasciato Los Angeles e di essere tornato nell’America odierna, in cui tutti comprano armi, tutti hanno paura ma non riescono a spiegare il motivo di tutta questa

violenza.

Abbiamo visto quanto, malgrado la differenza di formati e mezzi, Moore abbia mantenuto un nucleo tematico e stilistico decisamente coerente nel corso degli anni. Sarebbe quindi eccessivo dire che egli riprenda finalmente un discorso interrotto tredici anni prima in Roger & Me. Di certo però torna qui a una compattezza e compiutezza tematica cui sembrava aver rinunciato. Il ritorno al lungometraggio documentario (The Big One lo era per durata ma non per complessità) segna anche il ritorno a quella varietà di “scritture” documentaristiche e drammaturgiche alla base del suo film d’esordio. Può sembrare strano parlare di compattezza per un film così personale, che mescola materiali e linguaggi di origine diversa. Bowling a Columbine è però un’analisi complessa e, tutto sommato, coerente, di un tema preciso: l’abnorme diffusione delle armi da fuoco negli Stati Uniti. Se l’oggetto d’analisi rimane circoscritto, l’esito della riflessione è più vasto, quasi metafisico: se l’America conosce così tanti omicidi e una tale cultura della violenza, per Moore il motivo è più profondo: l’atavica paura dei bianchi per il “diverso”. Il piccolo filmato d’animazione diretto da Harold Moss (fot. 64), ennesimo elemento extradiegetico aggiunto alla narrazione, chiarisce perfettamente, anche in prospettiva storica, la tesi principale del film. La strage della Columbine e tutta la riflessione sulle armi sono soltanto il pretesto per un’analisi sul disagio profondo di tutto un Paese. Un disagio che scivola, neanche tanto lentamente, verso la follia. Come chiarisce la frase di Moore citata in esergo, gli Stati Uniti sono un Paese pazzo per le armi o pazzo tout court? Il film assume così volontariamente il tono del saggio.

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Il critico Paul Arthur ha notato in un articolo (Essay Question. A look at the essay film, in «Film Comment», vol. 39, n. 1, gennaio-febbraio 2003) come il film sotto forma di saggio (essay film) diventi nel nuovo millennio una delle forme preferite del cinema di non-fiction, proprio per la sua capacità di fondere l’astrazione della riflessione personale con la concretezza dell’indagine sociale e storica. La presenza in scena dell’autore è uno dei segni rivelatori di tale dinamica saggistica che, senza essere necessariamente percepita come tale, esiste da oltre cinquant’anni. A questa possiamo ascrivere film pionieristici come Les maîtres fous (di Jean Rouch, 1954), Notte e nebbia (Nuit et brouillard, di Alain Resnais, 1955) o Lettre de Sibérie (di Chris Marker, 1957). Piccoli saggi in forma cinematografica sono anche alcuni film di Godard, Welles, McElwee ed Herzog, tutti autori citati dall’articolo di Arthur. Rispetto a Roger & Me la presenza in scena del regista non diminuisce ma avviene un salto significativo: malgrado i riferimenti all’infanzia e a Flint nei primi minuti, l’autobiografia si assottiglia in maniera decisa, mentre si allarga la riflessione di carattere sistematico, quasi filosofico. Come rivelerà in seguito lo stesso Moore in un’intervista a Gavin Smith (The Ending Is Up to You, in «Film Comment», vol.40, n.4, luglio-agosto 2004), il suo cinema saggistico assume un carattere ancor più preciso: quello del film a tesi. Più che i centri del potere economico e politico, stavolta al cuore dell’opera c’è l’America profonda, quella della provincia inquieta e impregnata di una violenza che istintivamente si fa risalire sempre al Far West e alla legge della frontiera, in cui tutti sono profondamente cowboy, a partire dall’icona del cinema eroico Heston e dallo stesso presidente (fot. 65). Basti pensare al cast che il regista è riuscito a mettere insieme: paramilitari invasati (con cui discute amabilmente, fot. 66), semiterroristi

riconvertiti all’agricoltura biologica, piccoli delinquenti che si rattristano di non essere primi nella classifica di pericolosità dell’Fbi, estremisti religiosi eccetera. Uno spaccato della popolazione statunitense ai limiti dell’allucinazione, che richiama i grandi cineasti americani della provincia profonda a lui contemporanei, da Lynch ai fratelli Coen di Il grande Lebowski (The Big Lebowski, 1998, che con il film di Moore ha in comune i richiami sia al bowling che ai cowboys). In un simile contesto i più normali tra gli intervistati appaiono i presunti corruttori della gioventù come il creatore di South Park, Matt Stone, e la rockstar maledetta Marilyn Manson, cui è affidata una delle frasi più sensate del film (alla domanda su cosa chiederebbe ai due assassini risponde: «A - scolterei cosa hanno da dire loro, cosa che nessuno ha fatto»). Altra sottotesi del film è che la paranoia, l’ac cumulo di armi e la possibilità di vedere esplodere atti di follia omicida siano particolarmente diffuse proprio tra le famiglie bianche e benestanti. Questo doppio rovesciamento della percezione va di pari passo con la rivalutazione degli outsider, di quanti, come dice Stone, ex allievo della Columbine «non erano bravi a 11 anni e a cui i professori avevano detto che sarebbero stati per sempre dei perdenti». Quelli come Moore, per intenderci.

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Ovvio che per essere efficace, un film a tesi deve nascondere la parte programmatica e costruirsi attraverso una progressiva scoperta di nuove prove. A proposito di Bowling a Columbine, Sandro Mauro, già citato nel capitolo su Roger & Me («Segnocinema», n. 119), sostiene che Moore utilizza la realtà per ridefinire in potenza l’action movie. L’intuizione è brillante e ci permettiamo solo di correggere il genere di riferimento. Perché per portare avanti il suo saggio ci sembra che qui il regista ricorra alle strutture del film poliziesco. Abbiamo già accennato ai paragoni tra Moore e Marlowe, che non si limitano alla creazione di un alter ego malinconicamente eroico ma riguardano anche la struttura narrativa, non a caso gestita da entrambi in prima persona. La cosa non deve scandalizzare. Se facciamo un passo indietro di oltre mezzo secolo ci rendiamo conto che il cinema della realtà e quello poliziesco hanno una lunga storia comune. Basti pensare a due delle declinazioni più famose dei due generi: il neorealismo e il film noir. Il primo, come si ripete ormai fino alla nausea, non fu una scuola ma un movimento di autori dagli interessi e dai metodi comuni. Molti dei suoi esponenti (come Pietro Germi e Luchino Visconti), per quanto fautori di un cinema in parte anti-hollywoodiano, erano impregnati di letteratura americana e noir. Allo stesso modo Hollywood, grazie anche all’apporto dei molti cineasti europei sbarcati oltreoceano, si dimostrò particolarmente ricettiva nei confronti delle novità proposte dal

neorealismo, che fu infatti tra le principali fonti del noir americano nel secondo dopoguerra (insieme al realismo poetico francese, da cui deriva il gusto per i personaggi maledetti e solitari, e l’espressionismo tedesco, che impose un’impronta formale decisiva). Due film su tutti sono spesso citati per dimostrare l’in fluenza reciproca tra noir e neorealismo: Ossessione (1943) di Luchino Visconti e La città nuda (The Naked City, 1948) di Jules Dassin. Il primo nasce come adattamento del libro di James Cain, uno dei maestri dell’hard boiled. Il secondo rinuncia alla ricostruzione in studio e sceglie di ambientare l’intreccio poliziesco nella vera New York e di affidarsi ad attori non professionisti, mostrando così un debito evidente nei confronti di film come Roma città aperta (di Roberto Rossellini, 1945). L’ibridazione tra cinema poliziesco e documentario non deve quindi sorprendere. I punti di contatto tra i due generi sono in fondo molteplici ed evidenti soprattutto laddove, nel documentario, il regista diventa anche il personaggio principale o, più precisamente, colui che conduce l’indagine: l’investigatore. Non è solo per imitazione lessicale se i due generi hanno in comune la parola indagine. Come nel film poliziesco, nel documentario d’indagine la scoperta della verità avviene attraverso la progressiva presa di coscienza, da parte del protagonista, della realtà e di nuove prove. L’uso della prima persona nella narrazione è quindi un elemento irrinunciabile di questa procedura. Ogni scoperta ulteriore modifica la traiettoria dell’autore-protagonista, costringendolo a esplorare nuove piste o a riesaminare quelle già affrontate. Proviamo a leggere Bowling a Columbine come l’adattamento al documentario di un romanzo alla Chandler di cui imita anche la narrazione letteraria in prima persona. Prendiamo l’inizio di Il grande sonno: «Erano pressappoco le undici del mattino, mezzo ottobre, sole velato, e una minaccia di pioggia torrenziale sospesa nella limpidezza eccessiva là sulle colline. [...] Ero corretto, lindo, ben sbarbato e sobrio, e me ne sbattevo che lo si vedesse. Dalla testa ai piedi ero il figurino del privato elegante. Avevo appuntamento con quattro milioni di dollari». Lo stesso tono disilluso e in medias res, pronunciato con gusto ironico, lo troviamo all’inizio del film di Moore: «Era la mattina del 20 aprile 1999 e sembrava proprio una mattina come un’altra in America. Il contadino riprendeva il suo lavoro quotidiano, il lattaio faceva le sue consegne, il presidente bombardava un Paese il cui nome non sapeva pronunciare e […] in una cittadina del Colorado, due ragazzi uscivano per giocare a bowling alle sei del mattino. Sì, era proprio una giornata tipo, negli Stati Uniti d’America». Come nei romanzi polizieschi, è un omicidio a innescare l’indagine. Il massacro della Columbine non lascia dubbi sugli assassini ma l’inchiesta che ne deriva vuole elucidare un diverso quesito: da dove nasce il disagio che spinge gli americani ad armarsi e uccidersi più che in qualunque altra nazione sviluppata? L’indagine comincia dallo stato natale del regista, sede peraltro di inquietanti gruppi paramilitari e terreno di addestramento dei più letali terroristi “interni” della storia statunitense. Dopo una prima panoramica, il protagonista si sposta, inevitabilmente, sul luogo del delitto: il Colorado. Qui avviene la prima intuizione: vicino alla scuola, malgrado le apparenze di normalità, si concentrano industrie e scuole militari. Che ci sia un legame tra la strage e tutto ciò? L’incontro con alcuni testimoni (altra affinità di linguaggio e procedimento tra poliziesco e documentario) come Stone e Manson sembra confermarlo. Desideroso di verificare la sua idea, Moore incontra anche uno scrittore, un procuratore e l’ideatore di un programma televisivo che gli confermano ciò che ormai sospetta (e che ha già teorizzato in Tv e nei libri): gli americani sono un popolo in cui la maggioranza bianca, spaventata, si arma fino ai denti perché teme le minoranze. Adesso tutto il quadro sembra più chiaro: anche i legami tra la stretta sulla sicurezza, le paranoie tipicamente americane come il millennium bug e le campagne mediatiche cripto-razziste. Moore crede che uno dei fulcri della questione sia il numero di armi presenti in un Paese, ma il viaggio in Canada gli permette di aggiungere un altro tassello alla sua indagine: scopre che qui, malgrado ne esistano in circolazione oltre sette milioni, gli omicidi sono pochi, e ciò grazie anche a una forte solidarietà interna tra gli abitanti. Ma ecco che interviene un incidente inatteso: nella sua città d’origine un

bambino ha ucciso una coetanea. Co stretto a tornare nei luo ghi del l’infanzia, l’investigatore scopre una re altà di sciacallaggio mediatico e d’in sen satezza burocratica di cui sono vittime so prattutto i cittadini di colore. Inizia così la sua controffensiva: prima si reca insieme a due delle vittime a reclamare giustizia presso una perfida multinazionale e poi si tro va faccia a faccia con il “cattivo” che (come avveniva con Roger Smith) è affiorato in vari momenti ma non ha mai potuto incontrare. Nel tesissimo finale, che peraltro si svolge in una villa della ultra- chandleriana Beverly Hills, Moore mette alle corde Heston il quale, fuggendo, conferma indirettamente le sue accuse (fot. 67). L’intuizione del regista è confermata: è lui il vincitore morale. L’ibridazione tra saggio e film poliziesco è soprattutto una scelta drammaturgica e non produce un metodo del tutto coerente né tanto meno scientifico. Stiamo pur sempre parlando di Moore: semplificazione e tautologia sono sempre in agguato. Ma rileggendo Bowling a Columbine alla luce della derivazione, più o meno consapevole, dal film poliziesco, l’opera risulta più coerente di quanto non suggerisca una visione superficiale che si limiti a osservare la varietà di linguaggi, registri e argomenti.

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Parlando di tecnica narrativa possiamo anche citare un altro gigante, Luis Buñuel, e il suo penultimo film, Il fantasma della libertà (Le fantôme de la liberté, 1974), scritto insieme allo storico collaboratore Jean-Claude Carrière. Il film è costruito secondo un’idea narrativa che potremmo definire imbriquement (o concatenamento): segue dapprima la storia di un personaggio ma quando questi ne incontra un altro, è quest’ultimo che diventa il centro della storia. Quando questo nuovo protagonista fa, a sua volta, un nuovo incontro con un’altra persona, è questa a divenire il personaggio principale, e così via. Una tecnica di stampo surrealista che ricorda la creazione dei cadavres exquis già osservata in L’âge d’or (Id., 1930). Il fantasma della libertà non è però solo l’applicazione drammaturgica su larga scala del principio dell’associazione d’idee: mantiene infatti una logica narrativa d’insieme, limitando anche il lato onirico tanto caro ai surrealisti. Il film di Moore utilizza, partendo da un impianto documentario, una tecnica di montaggio non dissimile. Si pensi a come, all’inizio del film, il regista parta dalla storia della sua prima pistola in Michigan per passare, nell’arco di pochi minuti, a Charlton Heston, alla Militia del Michigan e all’attentato di Oklahoma City. Ogni passaggio da un argomento – e quindi da un’im magine – all’altro avviene grazie a leggeri spostamenti dell’attenzione che seguono una logica coerente grazie anche alla voce over: «Da bambino ero un tiratore provetto, tanto da vincere il premio di miglior tiratore della Nra [si vedono fotografie del regista adolescente]. È che sono nato in Michi gan, il paradiso di chi ama le armi [immagini dello stato]. Come quest’uomo: vincitore del premio Oscar come miglior attore protagonista e presidente della Nra, il signor Charlton Heston [immagini dell’attore armato]» (fot. 68). Lo stesso avviene quando, partendo dalle im magini dei bombardamenti in Kosovo riesce a infilare, apparentemente senza divagare dal soggetto cen trale, le immagini del la Colum bine, un’in tervista a Matt Stone, una pa no ramica sul dibattito sulla violenza negli Stati Uniti, l’incontro con Marilyn Manson e l’animazione sulla storia del Paese. Ogni elemento serve al regista quasi come una parola chiave per abbordare il tema successivo. Nell’arco delle due ore del film, a forza di piccoli passaggi di senso e di argomento, lo spettatore viene così trasportato lontano dai territori iniziali. Anche in questo caso la tecnica non è del tutto razionale ma la progressione per associazione d’idee non è neppure del tutto caotica.

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Moore, trattandosi di un film a tesi, accumula prove facendosi guidare dall’istinto su terreni apparentemente diversi ma mantenendo un ragionamento coerente. Non c’è contraddizione con il meccanismo poliziesco sopra descritto e il regista non è certo il primo documentarista a utilizzare una tecnica simile. Il continuo ricorso alla divagazione è infatti una delle caratteristiche ricorrenti dei documentari saggistici e personali. Per prendere un esempio recente, Werner Herzog, in Il diamante bianco (The White Diamond, 2004), cambia almeno due volte il soggetto principale del film. La particolarità di Moore rispetto ai suoi colleghi è il tentativo esplicito di superare la “noia” (altri direbbero la serietà) del documentario tradizionale, soprattutto ricorrendo ai generi più popolari del cinema statunitense. È sempre in quest’ottica di allargamento del pubblico che si spiega l’uso di materiali d’archivio in chiave comica e una costante strizzata d’occhio a riferimenti noti al grande pubblico americano. Come è stato detto, per quanto Moore si appoggi su un populismo e su valori tradizionali, i suoi metodi assorbono e riutilizzano consapevolmente tecniche televisive degne della generazione Mtv. Il film è infatti costellato di elementi pop e il found footage riprende qui un ruolo preponderante. Il merito è probabilmente della schiera di stagisti ingaggiati e archivi consultati (basta vedere i titoli di coda) e della collaborazione con il “capo archivista” Carl Deal, che parteciperà anche al film successivo. La recente esperienza con i videoclip ri sveglia in Moore l’abitudine di utilizzare gli archivi per ottenere effetti spiazzanti. Già nei titoli di testa, immagini di vecchie partite di bowling in bianco e nero (fot. 69) sono accompagnate dalla canzone Take the Skinheads Bowling dei Teenage Fanclub, fatto che crea un primo sottile collegamento tra due dei fili conduttori del film: il bowling e l’estrema destra. So no tre, inoltre, le sequenze costruite come un videoclip in cui alcuni celebri estratti musicali accompagnano immagini di mor te e violenza. La prima, accompagnata da Happiness Is a Warm Gun dei Beatles, condensa immagini che illustrano a che punto le armi da fuoco sono penetrate nella cultura del Paese: ciechi che si esercitano al poligono, pubblicità di fucili

con donne seminude (fot. 70), immagini di una città dello Utah che ha imposto l’obbligo di girare armati e varie sequenze di persone che si suicidano o vengono uccise con armi da fuoco. La seconda, ritmata da What a Wonderful World di Louis Armstrong (ripresa nei titoli di coda nella versione punk di Joey Ramone), contiene un riassunto, con tanto di sottotitoli esplicativi, delle nefandezze della politica estera americana (fot. 71). L’ultima è quella dedicata al passato violento degli altri Paesi oc cidentali, in cui le immagini delle effera tez ze tedesche, francesi, giapponesi e britanniche sono accompagnate dalla Nona di Beethoven. Anche l’uso della musica classica, qui, risponde a una logica allusiva: il riferimento immediato non è direttamente Beethoven ma Arancia meccanica (A Clockwork Orange, di Stanley Kubrick, 1971). Lo stesso vale per la sequenza iniziale, accompagnata da The Battle Hymn of the Republic (senza il celebre ritornello «Glory! Glory! Hallelujah!»), storico inno abolizionista scritto durante la Guerra civile.

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L’uso del found footage è da un lato un elemento pop per eccellenza e facilmente ma nipolabile, specialmente se accompagnato da una voce over o utilizzato, a distanza di anni, in un contesto molto di verso da quel lo originario. Ma, fermo restando che ogni forma di montaggio comprende una manipolazione, Moore utilizza talvolta gli archivi anche nella maniera più neutra possibile. Si pensi infatti a due delle sequenze più impressionanti del film: le telefonate al servizio am bulanze da parte degli studenti della Columbine e dei loro genitori, accompagnate dalle immagini delle telecamere a circuito chiuso della scuola (nelle quali si osservano i due killer armati fot. 72) oppure quella, su schermo nero, della direttrice della scuola di Flint poco dopo lo sparo che ha colpito la bambina.

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Ancora una volta si rischia di non capire appieno la dimensione del regista se ci si attarda interdetti sulla rottura con gli standard di rigore del cinema documentario. L’uso di filmati animati (oggi il documentario d’animazione costituisce categoria a sé) non impedisce che interviste come quelle a Charlton Heston o alla Militia siano girate in puro stile vérité, con telecamera a spalla e imperfezioni tecniche non nascoste; così come la postura clownesca del regista mentre esce dalla banca con un fucile o nel finto programma Corporate Cops non impedisce momenti di raccoglimento e di lentezza. Anche l’uso di elementi da videoclip non impedisce un approccio tipico del documentario “di ricerca”, che spinge il regista (o meglio i suoi collaboratori, come vedremo nel prossimo capitolo) a trascorrere molto tempo a contatto dei personaggi che poi appaiono nel film, come nella toccante sequenza in cui Moore ripercorre in bus il tragitto percorso quotidianamente dalla madre del bambino di Flint che ha ucciso la sua coetanea, intervistando alcuni dei suoi compagni di viaggio abituali (fot. 73). Insomma ogni genere, o meglio ogni scrittura cinematografica, trova una sua collocazione se può servire l’idea del regista, che crea così un enorme calderone accessibile a quasi ogni tipo di pubblico. Se ci passate uno degli aggettivi più abusati della storia (che fin dall’inizio non osiamo pronunciare), quello di Moore è un cinema profondamente postmoderno. Se glielo diceste farebbe finta di non sapere cosa significa ma forse il termine non sarebbe speso a caso. Mr Moore va a Washington: Fahrenheit 9/11 «Ci siamo stancati di tutto tranne che di rendere ridicoli gli altri e congratularci per i loro difetti.» William Hazlitt

Forse, senza Bowling a Columbine, Fahrenheit 9/11 non sarebbe mai esistito. Di certo non avrebbe mai ottenuto un’eco mediatica e un successo di tali proporzioni. Moore sarebbe forse rimasto, per il pubblico non americano, il regista di Roger & Me. Fine delle ipotesi, perché Bowling gli permette di uscire dall’orizzonte quasi esclusivamente americano in cui si era confinato nei tredici anni successivi al suo esordio. Nel giro di due anni, tra 2002 e 2004, compie un salto doppio: da regista discontinuo e dispersivo diventa dapprima l’eroe del ritorno del documentario nelle sale e infine una figura politica di fama mondiale. Il film è infatti selezionato al festival di Cannes del 2002, divenendo il primo documentario in competizione ufficiale dai tempi di Mondo Cane (di Paolo Cavara, Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi, 1962). Il film ottiene anche il Premio speciale del 55° anniversario e la stampa europea si accorge all’improvviso di Moore: le recensioni sono quasi unanimi, il plauso è universale, l’antiame ricanismo (forse mai forte come allora) di molti critici in sollucchero. Il suo cinema affascina perché appare doppiamente originale: documentario e apertamente di sinistra. A rileggere oggi quegli articoli sembra che in pochi avessero un’idea chiara del personaggio e della sua produzione precedente. La sua attività televisiva è ad esempio quasi unanimemente ignorata e in molti si affannano a sintetizzarne la biografia tradendo una frettolosa ricerca d’ informazioni.

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Scherzi del destino o conferma indiretta della sua lungimiranza, un’altra congiuntura contribuisce al successo di Bowling a Columbine. L’uscita americana coincide infatti con la catena di omicidi del Beltway Sniper, un misterioso tiratore che per tre settimane terrorizza i residenti di Virginia e Maryland, uccidendo dieci persone. Un episodio che riapre il dibattito sulle armi da fuoco aumentando così, lugubre a dirsi, l’interesse intorno al film. Moore si riprende quindi il primo posto, stavolta con un margine abissale sugli inseguitori, nella classifica dei documentari con i maggiori incassi della storia: oltre 21 milioni di dollari in patria e circa 36 nel resto del mondo. E tanto per rendere l’idea del successo, anche critico, ottenuto dal film, di lì a poco arrivano anche il titolo di «Miglior documentario della storia» da parte dell’Ida, l’associazione internazionale dei documentaristi, e l’Oscar per il miglior documentario nel 2003. La premiazione degli Academy Awards si svolge il 23 marzo, tre giorni dopo l’inizio della campagna militare americana in Iraq. Chiamato a ricevere la statuetta, Moore sale sul palco insieme agli altri documentaristi nominati e pronuncia un famoso discorso contro Bush e la guerra, accolto da qualche fischio, molti applausi e l’imbarazzo degli organizzatori. Per l’orrore di molti registi della vecchia guardia si comincia a parlare di “effetto Moore” e a strombazzare la rinascita del cinema documentario. La popolarità di cui egli gode in questo periodo è proporzionale al disagio di una parte degli Stati Uniti (e del mondo intero) nei confronti dell’amministrazione Bush e dei fantomatici neoconservatori, impegnati in un ambizioso piano di ridefinizione degli equilibri medioorientali. Come è ormai consuetudine, in preparazione di un nuovo film, Moore si dedica alla scrittura di un libro. A fine 2003 esce così Dude, Where’s My Country?, Warner Books, New York, 2003 (tr. it: Ma come hai ridotto il mio Paese?, Mondadori, Milano, 2003). Mai come in questo caso la filiazione tra carta e video apparirà evidente ed è anzi probabile che la preparazione delle due opere si sia svolta in contemporanea. Memore delle accuse d’imprecisione di cui era stato oggetto, Moore infarcisce il libro di riferimenti bibliografici e note tesi a confermare la bontà delle sue informazioni. Quando si comincia a vociferare che sta girando un film contro il presidente americano, sul progetto si concentrano aspettative e polemiche che forse mai prima avevano circondato la preparazione di un documentario. Per vari mesi voci insistenti parlano di un’opera sui legami tra la famiglia Bush e quella Bin Laden. Nella primavera del 2004 il film è pronto e viene nuovamente selezionato in concorso a Cannes: la prossimità delle elezioni suggerisce a molti che il film possa addirittura modificarne il risultato. La Icon Productions dell’ultrarepubblicano Mel Gibson, che doveva garantire il finanziamento, si ritira ma a essa subentra la Miramax (entrata sotto il controllo della Walt Disney), che già aveva sostenuto The Big One. Prima ancora della proiezione alla Croisette, però, la Walt Disney annuncia di voler rinunciare a distribuire il film in America, forse per paura di rappresaglie politiche. Che si tratti di una minaccia reale o di una voce esagerata ad arte dallo stesso Moore, l’effetto è immediato: nutrite dalla paura di un inquietante complotto repubblicano-disneyano, le aspettative intorno al film crescono a dismisura. L’enorme successo e la mole di polemiche che nei mesi successivi accompagneranno il film sono la conferma del significato, non solo cinematografico, attribuito a Fahrenheit 9/11 fin dalla sua lavorazione.

«E se fosse stato solo un sogno?» si chiede Moore, mostrando le immagini delle contestate elezioni del novembre 2000 che portarono alla vittoria di George W. Bush. Non essendo così, vengono analizzati i primi mesi della nuova presidenza: le proteste inascoltate dei deputati afroamericani, i disordini durante l’investitura, le difficoltà legislative e la tendenza del nuovo presidente a passare più tempo nel suo ranch in Texas che a Washington. L’11 settembre 2001, durante una visita a una scuola elementare della Florida, Bush è informato degli attacchi alle torri gemelle ma per sette minuti continua a leggere con gli alunni il racconto The Pet Goat (La capretta). Attraverso immagini d’archivio, interviste con uomini politici, giornalisti ed ex agenti del Fbi, Moore ripercorre allora le negligenze della politica antiterroristica di Bush e i suoi rapporti con alcune potenti famiglie dell’Arabia Saudita. Nei giorni dopo gli attentati, con il traffico aereo paralizzato, centoquarantadue sauditi, tra cui alcuni parenti di Osama Bin Laden, furono autorizzati a lasciare gli Stati Uniti. Un documento dimostra che James Bath, l’uomo incaricato dalla famiglia Bin Laden di investire in Texas, è anche uno stretto amico del presidente. Sono allora spiegati i forti legami d’amicizia e d’affari che uniscono le famiglie Bush e Bin Laden, mantenuti anche dopo gli attacchi del World Trade Center. Al centro di questi rapporti c’è il Carlyle Group, compagnia specializzata in forniture militari che sarà tra i principali beneficiari del post 11/9. In tutto, gli investimenti sauditi costituiscono il 7% della ricchezza statunitense e il regista decide di visitare l’ambasciata saudita a Washington per dimostrare a che punto il proprio governo protegga i suoi alleati. Dopo poco sopraggiungono alcuni agenti dei servizi segreti che lo interrogano. Viene poi analizzato come l’amministrazione Bush, dopo gli attentati, abbia cercato di spostare l’attenzione mediatica dall’Afghanistan all’Iraq. Come conferma l’esperto dell’antiterrorismo Richard Clarke, Bush, dopo aver bombardato l’Afghanistan, ha atteso due mesi prima di cominciare la caccia a Bin Laden. Inoltre, prima dell’11/9, i talebani avevano stretto accordi con Unocal, Enron e Halliburton, tutte compagnie legate all’entourage del presidente. Nel marzo 2001 un delegato talebano era stato persino ricevuto al Ministero della difesa americano. Dopo l’invasione, gli Usa hanno fatto sì che due ex collaboratori di Unocal ottenessero dei ruoli chiave: Karzai e Khalizad diventano rispettivamente presidente afgano e ambasciatore americano in Afghanistan. Moore passa quindi ad analizzare il clima di paranoia e paura che si diffonde dopo l’11/9 per volontà del governo, che approva il Patriot Act, una legge in virtù della quale cittadini onesti e inoffensivi subiranno drammatiche conseguenze. Tra di essi un gruppo di anziani pacifisti, spiati per settimane dal Fbi, e un pensionato californiano, interrogato dalla polizia per alcuni commenti contro Bush. Scoprendo che molti deputati non hanno neppure letto la legge prima di votarla, il regista torna a Washington e, seduto su un camion per gelati, legge loro il testo completo. Sono poi mostrate le pacifiche immagini di vita quotidiana a Baghdad prima degli attacchi americani, iniziati il 19 marzo 2003. Moore dichiara che gli Stati Uniti hanno invaso una nazione sovrana che mai aveva attaccato obiettivi o individui americani. Le immagini delle vittime civili sono alternate a quelle dei soldati americani. Questi ultimi parlano della musica che ascoltano per caricarsi durante le missione, della guerra e delle difficoltà con cui si devono confrontare. Intanto, in America, la fiducia di Bush è aumentata prima dell’invasione grazie alla propaganda sulle armi di distruzione di massa e i presunti rapporti tra Saddam e Al Qaeda. Anche Britney Spears dichiara la sua fiducia nel presidente. Con un montaggio parodistico, sono mostrati i membri della “Coalizione della volontà” che sostiene gli Stati Uniti in Iraq: tutti Paesi senza un esercito autonomo, come Palau, Costa Rica, Islanda o Afghanistan. Moore afferma che i media hanno dapprima sostenuto l’invasione e poi evitato di mostrare le vittime americane e altri elementi “scomodi” del conflitto. Mostra allora alcune immagini raramente diffuse: membri della resistenza irachena, manifestazioni antiamericane, giornalisti rapiti, dichiarazioni sconfortate di soldati americani e immagini di questi ultimi che ridicolizzano il cadavere di un iracheno e che si fanno fotografare insieme a prigionieri incappucciati. Diminuendo i volontari, l’esercito americano comincia a reclutare nelle zone depresse degli Stati Uniti, soprattutto tra i neri e i latinos. Osserviamo due marine in uniforme che si recano nella zona povera di Flint per arruolare alcuni giovani. Moore incontra poi Lila Lipscomb, una donna che aiuta l’esercito nel reclutamento e che si dichiara una fiera patriota, dal momento che anche suo figlio Michael è in Iraq. Eppure Bush, malgrado le promesse, ha ridotto i benefici dei veterani, lasciando spesso senza assistenza i soldati feriti in combattimento. Molti di questi sono furiosi e anche Lila cambia opinione quando suo figlio è ucciso in guerra. La donna legge l’ultima lettera di quest’ultimo, piena di astio contro il presidente. Si scopre poi che Halliburton, azienda di costruzioni e servizi petroliferi, un tempo diretta dal vicepresidente Dick Cheney, ha ricevuto dal governo appalti faraonici in Iraq. Durante un incontro tra grandi compagnie i vertici di Halliburton spiegano la facilità di ottenere profitti dalla guerra, vista la disponibilità del governo a coprire le spese. I toni trionfalistici degli spot dell’azienda sono alternati ai commenti di due anziane donne indignate. Intano Lila decide di recarsi alla Casa Bianca. Di fronte all’edificio incontra una pacifista e una supporter di Bush che accusa Al Qaeda della morte del figlio. Scossa, la donna maledice l’ignoranza che ha permesso la guerra. Sapendo che solo un deputato ha un figlio al fronte, Moore si reca davanti al Congresso insieme a Abdul

Henderson, reduce “pentito” della guerra. I due distribuiscono volantini dell’esercito ai parlamentari chiedendo se sarebbero disposti a inviare i loro figli in guerra. Nel monologo finale il regista si chiede perché le persone che vivono nelle zone più difficili siano le più disposte a morire per salvare il sistema in cui vivono. Citando Orwell afferma che i governanti dichiarano la guerra per mantenere l’ignoranza e la povertà che permettono loro di restare al potere. Rockin’ in the Free World di Neil Young accompagna i titoli di coda.

Abbiamo finora separato l’analisi di ogni opera da quella del suo destino critico e commerciale ma qui è inevitabile un’eccezione. Se le proporzioni del successo del film precedente erano in buona parte inattese, lo stesso non vale per Fahrenheit 9/11 (a proposito, Ray Bradbury non sarà felice della citazione), annunciato con mesi d’anticipo come un’opera epocale. Il film è uno dei più clamorosi esempi recenti di come le circostanze storiche e di fruizione modifichino non solo la percezione individuale di un’opera ma anche quella collettiva. Il clamore mediatico è stato però per il film un’arma a doppio taglio. Da un lato è verosimile che l’inaspettata Palma d’oro (l’unico altro documentario a ottenerla era stato Il mondo del silenzio di Malle e Cousteau nel 1956) sia giunta, malgrado le smentite di Tarantino, anche per un’interpretazione politica del premio da parte della giuria di Cannes. Ma proprio questo trionfo e l’eccessiva esposizione mediatica hanno segnato la fine dell’idillio tra Moore e parte di critica e pubblico. Prevedibilmente, media e politici repubblicani hanno attaccato da subito il film, dando vita a un vero e proprio sottogenere anti Moore (pamphlet, articoli e anche documentari) che analizzeremo nel prossimo capitolo. Anche il resto della critica si è divisa. Alcuni hanno sostenuto il primato dei fini politici: «Ogni tanto un buon film di esplicita e sfacciata propaganda ci vuole. In questo caso poi, oltre che giustamente propagandistico, il film è anche necessario e utile» ha scritto Bruno Fornara («Cineforum», n. 436, luglio-agosto 2004). Ma cominciano a manifestarsi anche evidenti malumori per i metodi. Paolo Cherchi Usai («Segnocinema», n. 129, settembre-ottobre 2004) è chiaro: «Metà degli americani vuole sbarazzarsi di Bush mentre l’altra metà lo sostiene. Desidero sostenere i primi, ma non a questo prezzo. Non con questo film. Il fine non giustifica i mezzi». Altri parlano di un film «verboso e confuso» (Sylvain Bourmeau, Fahrenheit 9/11: Super primaire, in «Les Inrockuptibles», 7 luglio 2004), dell’«incoerenza tipica del ricatto morale» (ancora Cherchi Usai) con il quale «Moore abbandona ogni pretesa di essere un documentarista» (Kirk Honeycutt, in «The Hollywood Reporter», 19 maggio 2004) e così via. I faraonici incassi al botteghino mantengono comunque viva la speranza di una vittoria democratica alle elezioni presidenziali e attenuano momentaneamente le delusioni per il film. La sconfitta di Kerry pone però fine alle illusioni: le critiche diventano sempre più esplicite e Fahrenheit torna a essere, all’improvviso, solamente un film. Alla luce dei risultati elettorali il fine, tanto più quello non raggiunto, non giustifica più i mezzi. Le manipolazioni, l’opportunismo, persino la Palma d’oro, diventano un peccato mortale e la prova di una fiducia mal riposta. Non possiamo soffermarci sulle complesse implicazioni mediatiche del film, né tanto meno dare conto del dibattito che esso ha provocato tra critici, politici e media, per cui rimandiamo al libro di Robert Brent Toplin dal significativo titolo Michael Moore’s Fahrenheit 9/11. How One Film Divided a Nation (University Press of Kansas, Lawrence, 2006). Ma più di quanto non sia accaduto con altri suoi film, l’accoglienza riservata a Fahrenheit conferma uno degli equivoci fondamentali su Moore: da una parte inseguito dalle accuse di demagogia, incoerenza e menzogna, dall’altra difeso in nome della bontà dei fini politici. Pochi sono quelli che riescono ad astrarsi dalla connotazione politica. Il rischio è sempre quello di dimenticare l’originalità cinematografica del regista. Ecco perché è probabile che fosse necessario aspettare la fine della presidenza Bush, che dal gennaio 2009 ha definitivamente lasciato la Casa Bianca, per analizzare più serenamente il film. A distanza di cinque anni, si rischia di scoprire un’opera meno disonesta di quanto ci ricordassimo. E soprattutto non così diversa dalle precedenti opere del regista. Malgrado il consueto ricorso a materiali eterogenei e una retorica che tende a soffocarlo, Fahrenheit ha una struttura relativamente semplice, divisibile in soli cinque blocchi narrativi facilmente

individuabili (nel nostro riassunto ogni capoverso coincide con l’inizio di uno di essi). Ciascuno ha al suo interno una coerenza d’argomento, talvolta anche temporale, abbastanza netta. I primi quindici minuti (compresi i titoli di testa) analizzano la prima parte del mandato Bush, dalle elezioni (fot. 74) fino all’11/9. Il secondo ricostruisce, in flashback, l’intricato groviglio di rapporti che unisce la famiglia del presidente, i Bin Laden, alcune grandi compagnie americane e i talebani. Il terzo riparte dagli attentati al Wtc per ripercorrere l’intro duzione del Patriot Act e la stretta sui diritti civili messa in atto dal governo americano. Il quarto si concentra sulla guerra e la costruzione del consenso intorno ad essa. L’ul timo (che comprende il monologo finale) e più lungo, è diviso tra Iraq e Stati Uni ti e affronta il tema del sacrificio dei sol dati americani, spesso espressione delle zone e delle classi più povere del Paese, in nome delle ambizioni e degli interessi dei loro governanti. Partiamo da uno dei principali dati polemici: il tempismo e la natura “personale” del film. Fahrenheit inizia come un’opera aperta, addirittura onirica: nella primissima sequenza un elaborato movimento di macchina dall’alto (fot. 75) inquadra una platea di supporter de mo cratici che, dalla Florida, festeggia la presunta vittoria di Al Gore (tra di essi lo stesso candidato, Stevie Wonder, Ben Affleck e Robert De Niro), mentre la voce di Moore commenta: «E se fosse stato tutto un so gno?». Ma il tono interrogativo cede presto il passo a quello del film a tesi. Al genere ap par tengono appunto Bowling a Columbine e il successivo Sicko, che però muovono da un argomento specifico (le armi e la sanità), non troppo definito nel tempo, elevandosi poi a riflessione più ampia sulla condizione morale degli Stati Uniti. Qui invece l’orizzonte d’indagine, a parte le inevitabili digressioni, è contemporaneamente più trasversale come tema e più concentrato come cronologia: gli intensi anni del primo mandato dell’amministrazione Bush. Una simile implicazione temporale, assente in Bowling e Sicko, esisteva in Roger & Me: se quest’ultimo era un film su un decennio, Fahrenheit è un film su un quadriennio. Quanto alla scelta di un nemico programmatico, nella costruzione manichea e donchisciottesca di Moore c’è sempre stato bisogno di un rappresentante che incarni l’obiettivo polemico di ogni film: la Gm e Roger Smith, Phil Knight e altri capi d’azienda, Heston e la Nra etc. Qui il nemico è ancor più chiaro e l’obiettivo più ambizioso: evitare la sua rielezione. La costruzione contra personam è pienamente rivendicata dall’autore che, nell’intervista rilasciata a Gavin Smith per «Film Comment», dichiara: «Spero che la gente vada a vedere questo film e cacci il bastardo fuori dal suo ufficio», aggiungendo che «Questo film non ha una vera fine. La fine avrà luogo il 2 novembre 2004». Inoltre, a poche settimane dalle elezioni, Moore autorizza la diffusione del film in pay per view per tentare l’ultimo assalto agli indecisi. Non è una scelta indolore perché, per regolamento, il film è escluso dalla corsa agli Oscar. Fahrenheit è quindi un’opera concepita, negli Stati Uniti del 2004, per l’hic et nunc. Una costruzione che comporta delle scelte discutibili ma non sorprendenti. Sappiamo che fin dagli esordi Moore attinge al registro dell’agit-prop o, come ha suggerito il direttore artistico del Festival di Cannes Thierry Frémaux, a quello dei films d’intervention, opere concepite per essere prolungate fuori dalle sale e suscitare una reazione politica. Comprendendo la dimensione pratica, più che programmatica, se ne possono capire anche gli elementi che più hanno disturbato la critica.

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Nella logica di Moore il film non si rivolge a un pubblico di intellettuali. Non vuole convincere i democratici ma gli indecisi, tendenzialmente repubblicani e poco informati: deve quindi far leva sulla loro indignazione senza dimenticarne il patriottismo e il perbenismo. Per questo forse non tocca uno degli aspetti più controversi del presidente americano: il suo legame con le chiese evangeliche. La religione, per l’elettorato cui crede di rivolgersi, rimane un argomento tabù e viene quindi lasciato fuori. Anche per questo il regista mantiene quasi sempre uno sguardo simpatetico nei confronti dei soldati americani, criticando i quali rischierebbe di scandalizzare il suo pubblico. Così si spiega anche l’insistenza su Lila Lipscomb, la madre patriota che dopo aver perso il figlio, si reca davanti alla Casa Bianca e scoppia in lacrime: una sequenza straziante, vagamente voyeuristica, persino sgradevole. Ma Lila è il prototipo dell’americano che Moore spera paternalisticamente di convincere: patriota, blandamente repubblicana “per ignoranza e non per cattiveria”, ancora capace di cambiare idea. Anche le rivelazioni sui legami di Bush coi sauditi e sugli interessi americani in Medio Oriente non sorprendono un pubblico informato; per il regista invece toccheranno le decine di milioni che hanno accesso solo a un’informazione di massa. Si è molto scritto sulle omissioni mediatiche della guerra in Iraq, paradosso di un conflitto globale con pochissimi inviati sul posto. Il risultato è stato, per Moore, un’informazione molto parziale, con i grandi media che avrebbero seguito un copione imposto dalle autorità. Se il film è, per certi versi, un instant movie, non ha però quella superficialità che solitamente accompagna questa definizione perché rielabora e approfondisce temi di cui il regista si occupa da anni e che sono stati alla base anche dei suoi ultimi due libri. Ancor più che in The Big One, Moore utilizza questi ultimi come pun to di partenza per la sceneggiatura, de ri vando da essi intere sequenze e persino alcune espressioni lette in voce over. Le sequenze dell’introduzione relative alle elezioni del 2000 riprendono molti elementi del primo capitolo di Stupid White Man: i probabili brogli, la contestazione a Bush du rante la passeggiata d’investitura a Washington e la raggelante sequenza in cui i deputati neri chiedono al Congresso di ricontare i voti ma ottengono un fermo rifiuto dallo stesso Al Gore (fot. 76). Ancora più evidente la derivazione da Ma come hai ridotto questo paese? il cui capitolo d’apertura, intitolato “Sette domande per George d’Arabia”, anticipa il secondo blocco narrativo del film, quello più prettamente giornalistico. Significativo che l’ultima delle domande nel capitolo sia: «Cosa voleva dire quell’espressione sul tuo viso in quell’aula della Florida la mattina dell’11 settembre quando il capo del tuo staff ti ha detto che l’America era stata attaccata?». La celebre sequenza in cui Bush, avvertito degli attacchi, continua a leggere impassibile un libro per bambini (fot. 77) è lo snodo narrativo che chiude l’introduzione e fa partire il flashback investigativo sugli strani traffici della famiglia Bush. Quasi tutti i nomi e i dati citati in questa sequenza (Carlyle Group, James Bath, Unocal, l’ambasciatore saudita Bandar etc.) sono già presenti nel relativo capitolo del libro. Ma anche altre sequenze chiave del film nascono da quest’ultimo, come quelle relative alla propaganda sulle armi di distruzione di massa di Saddam, ripresa dal capitolo “La casa delle palle”, e quella sul Patriot Act e la restrizione delle libertà individuali, derivata dal capitolo “Stati Uniti del ‘Al lupo! Al lupo!’”.

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Visti anche gli esiti, non è per la sua influenza sulle elezioni che Fahrenheit può essere considerato un film epocale. La sua originalità sta semmai nell’essere stato tra i primi, molto più dello stesso Bowling a Columbine, a tentare un’analisi del post 11 settembre. Sappiamo che in breve tempo sia gli attacchi alle torri gemelle che la guerra in Iraq sono entrati nell’immaginario collettivo americano (e quindi mondiale) al fianco di eventi come Pearl Harbour, l’assassinio di Kennedy o il Watergate. Come sempre, non sono tanto gli eventi in sé a segnare le coscienze ma piuttosto le loro conseguenze politiche, ma anche psicologiche, collettive. Gli attentati aprono una nuova fase le cui principali incarnazioni saranno appunto la guerra in Iraq, la lotta al terrorismo e l’ossessione per la sicurezza. Ma essi scuotono anche le certezze degli americani, risvegliando fantasmi nascosti e aprendo una difficile analisi di coscienza. Poco più di un anno dopo sembra che il cinema dei grandi registi statunitensi sia già permeato dagli effetti profondi che l’11/9 ha contribuito a scatenare. Si pensi al senso di colpa espresso in film come Mystic River (Id., di Clint Eastwood, 2003) e La 25ª ora (25th Hour, di Spike Lee, 2002), peraltro uno dei primi film a mostrare Ground Zero. Ma anche la riflessione sull’origine violenta degli Stati Uniti di Gangs of New York (Id., di Martin Scorsese, 2002) e il successo del documentario premio Oscar The Fog of War (di Errol Morris, 2003) preannunciano l’interesse intorno al film di Moore. Sono tutti film concepiti prima del settembre 2001 ma la cui realizzazione risente del clima di disagio che attraversa il Paese. Nel momento in cui gli Usa, non si sa se più spaventati dalle minacce esterne o da quelle interne, s’interrogano non solo sul senso di questa guerra ma sul proprio passato e il proprio futuro, Fahrenheit è concepito e accolto, nel bene e nel male, come un’opera generazionale. Pur con tutte le sue imprecisioni, è infatti il primo film di questa portata a riflettere sulle implicazioni del nuovo scenario politico. Per questo viene da pensare a un altro documentario, di portata epocale, sull’altra grande guerra che dilaniò le coscienze americane: il Vietnam. Un film che il regista di Flint ha più volte citato come una dei più importanti della sua vita: Hearts and Minds di Peter Davis. È quindi interessante, come è stato fatto da Carol Wilder (Separated at birth: Argument by Irony in Hearts and Minds and Fahrenheit 9/11, in «Atlantic Journal of Communication», vol. 13, n. 2, estate 2005), esaminare le somiglianze di concezione, realizzazione e ricezione dei due film. Hearts and Minds nacque dalla volontà del regista e di Bert Schneider, storico produttore della New Hollywood, di creare un film che rovesciasse il discorso ufficiale sulla guerra in Vietnam, mostrando le sue conseguenze sulla popolazione vietnamita e sugli stessi soldati americani. Il titolo

si riferisce a una celebre campagna, lanciata da Lyndon Johnson all’interno delle operazioni in Vietnam, che mirava appunto a vincere “cuori e menti” della popolazione vietnamita, convincendola della bontà dell’intervento statunitense. Anche la costruzione di Davis si fonda principalmente sul contrasto (soprattutto quello tra i discorsi ufficiali e le immagini di guerra), di cui l’ironia, nella sua accezione più profonda, è uno degli esiti più frequenti. Moore fa vedere una Baghdad quasi idilliaca prima degli attacchi (fot. 78). Allo stesso modo Davis è tra i primi a mostrare non solo le vittime del campo opposto ma anche il volto umano e la sofferenza profonda del nemico. Una delle sequenze più celebri del suo film alterna le dichiarazioni del generale Westmoreland (capo delle operazioni militari in Vietnam fino al 1968), secondo il quale «per la filosofia degli orientali la vita non è un valore importante», alle strazianti immagini di un funerale cui partecipano alcuni vietnamiti letteralmente disperati (fot. 79) In entrambi i casi si tratta di un’operazione non banale perché su pera non solo una certa propaganda xeno foba (soprattutto nel caso di Davis) ma rompe quello che è, de facto, il tabù della non rappresentabilità dell’“altro”, praticata dai media americani di entrambe le epoche.

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L’altra fondamentale influenza di Hearts and Minds su Fahrenheit è la compassione con cui vengono guardati i militari. In entrambi i film le autorità politiche veicolano un messaggio inevitabilmente falso, manipolatore e asservito al potere economico (il cinismo dell’uomo d’affari americano a Saigon in Davis ricorda quello dei vertici della Halliburton) mentre i soldati appaiono le vittime sacrificali del conflitto, catapultati in guerra e sottoposti a un difficile conflitto interno tra le ragioni della patria e le personali esperienze di violenza. Il che non significa occultare le

aberrazioni dei militari. Entrambi i film insistono anzi sul contrasto tra l’attitudine ingenua, quasi infantile, dei soldati americani e gli effetti della loro azione come nella celebre sequenza in cui bruciano le capanne vietnamite con i loro accendini zippo (fot. 80). Un’ingenuità che si incarna nel riferimento dei soldati alla musica. Una sequenza del film di Davis mostra il reduce Randy Floyd raccontare l’esaltazione provata nell’atto di lanciare bombe dal suo B52 («ci si sente come un cantante che esegue un’aria»). Moore invece riprende addirittura alcune sequenze da un documentario dedicato proprio al ruolo della musica per i soldati americani in Iraq, Soundtrack to War (2005) dell’australiano George Gittoes. Difficile non pensare alla sequenza di Apocalypse Now (Id., di Francis Ford Coppola, 1979) in cui l’attacco degli elicotteri americani è accompagnato dalla Cavalcata delle valchirie di Wagner. Ma questa ingenuità è anche la misura di quanto i soldati siano manipolati e mandati a morire come pedine inconsapevoli di manovre militari e politiche più grandi di loro. Sia Fahrenheit che Hearts and Minds contengono molte sequenze che mostrano i danni fisici e psicologici della guerra su alcuni reduci. In modo simile a quello in cui Moore utilizza Lila Lipscomb (fot. 81), Davis fa assurgere due ex combattenti al ruolo di portavoce pacifisti: Bonny Muller, ex soldato in sedia a rotelle poi divenuto un celebre pacifista, e appunto Floyd (fot. 82), figura dolorosa e incarnazione vivente del senso di colpa dei reduci. Anche il destino commerciale e di pubblico dei due film si rivela molto simile. Come Fahrenheit, il film di Davis era nato su basi di grande solidità economica ma aveva poi incontrato inattesi problemi distributivi. Boicottato dalla sua stessa casa di produzione (Columbia) e poi osannato a Cannes, ottenne l’Oscar nel 1975. Come accadrà trent’anni dopo, i giudizi si divisero: molti lo salutarono come un film importante e coraggioso. Altri, come Stefan Kanfer su «Time», 17 marzo 1975, parlarono di un «documentario caotico che manipola il tempo per raggiungere i propri fini». La storia, a volte, si ripete davvero.

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Non è quindi improbabile che Moore abbia cercato, in maniera programmatica, di fare per l’Iraq quello che Davis aveva fatto per il Vietnam. E valga come conferma, oltre ai numerosi omaggi del regista di Flint al collega, la breve sequenza di Fahrenheit in cui un ufficiale americano parla della necessità di «vincere i cuori e le menti degli iracheni». Ciò non toglie che esistano enormi differenze formali che separano i due registi. Davis è un adepto del giornalismo classico, ignora il gonzo e la contaminazione di generi ed è molto più vicino al cinéma vérité. Il docutainment di Moore è invece qui ai suoi massimi livelli. Malgrado si sviluppi attraverso blocchi tematici molto definiti, Fahrenheit riprende molti degli elementi e degli stili

dissonanti sperimentati nei film precedenti. A partire dagli abbinamenti di alcune sequenze con brani di musica pop, anche qui usati in chiave ironica: We Gotta Get Out of This Place degli Animals per la fuga dei talebani da Kabul, Shiny Happy People dei R.E.M per gli idilliaci rapporti tra sauditi e Bush, il tema di I magnifici sette (The Magnificent Seven, di John Sturges, 1960) per l’invasione dell’Afghanistan, mentre Cocaine di Eric Clapton suggerisce i vizi giovanili del presidente. Fahrenheit è inoltre l’opera di Moore in cui il lavoro d’inchiesta giornalistica è più complesso, complice anche la preparazione di Ma come hai ridotto il mio paese?. Il film offre alcuni scoop (come il documento dell’aeronautica americana, poi censurato dalla Casa Bianca, che prova i legami tra Bush e James Bath) ma è soprattutto un prezioso lavoro di sintesi concepito per un pubblico con scarso accesso all’informazione non ufficiale. Due sequenze sono entrate nell’immaginario collettivo: quella di Bush nella scuola della Florida (ottenuta con una semplice richiesta alla direzione dell’istituto) e quella dove i soldati americani sghignazzano davanti ai feriti e ai prigionieri iracheni umiliati (fot. 83). All’epoca delle riprese non erano ancora note le foto delle torture della prigione di Abu Ghraib: il primo servizio sull’argomento è stato diffuso dalla trasmissione 60 minutes nell’aprile 2004. Ma Moore decide di montare solo alcuni secondi di queste immagini, con un breve commento («L’immoralità genera altra immoralità») che attribuisce la colpa ai vertici politici. Pur possedendo molto materiale del genere, Moore non lo inserisce per paura d’infierire sui soldati: anche il cinema di denuncia e il populismo hanno dei limiti.

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Limiti che invece il regista non si pone quando si tratta di attaccare i membri dell’amministrazione americana, come gli è stato rimproverato da quanti, da Godard fino addirittura a Massimo Cacciari, lo hanno accusato di ridicolizzare Bush in maniera eccessiva e poco credibile, sottovalutandone la

protervia e riducendo in farsa un problema serio. Di sicuro tra i rari momenti comici del film ci sono alcune sequenze dedicate allo staff presidenziale: Ashcroft che canta goffamente, Bush che parla delle sue vacanze in Texas o lo stesso presidente che, dopo una perentoria e seriosa affermazione contro il terrorismo, esclama ai giornalisti presenti «E adesso guardate questo colpo!» e colpisce una pallina con la sua mazza da golf (fot. 84). Moore riprende un trucco appreso da The Atomic Café: mostrare i secondi appena precedenti o appena successivi a un discorso ufficiale, (quelli che nell’era televisiva si chiamano “fuori onda”), ottenendo effetti surreali, come appunto nella sequenza del golf. Una delle prime sequenze di The Atomic Café mostrava un Truman che rideva allegramente pochi istanti prima di un discorso in cui spiegava agli americani i motivi dell’uso della bomba atomica. Allo stesso modo i titoli di testa di Fahrenheit, subito dopo l’introduzione, presentano una carrellata di “fuori onda” di Bush e dei suoi collaboratori mentre si preparano a interviste o dichiarazioni ufficiali. Nella loro semplicità sono immagini sconvolgenti perché mostrano i responsabili della guerra in tutta la loro ipocrisia. La riduzione a farsa, come è stato scritto, è necessaria per denunciare la “mediocrità del male” di questa amministrazione. Le immagini più inquietanti sono le strane smorfie di Bush, che muove bocca e occhi in maniera clownesca pochi secondi prima del discorso di entrata in guerra e quelle di Paul Wolfowitz che lecca un pettine prima di passarselo tra i capelli (fot. 85). Già vent’anni prima Noam Chomsky aveva sostenuto, una settimana dopo la sua morte, che Reagan non fosse in realtà un vero politico ma un attore che leggeva dal gobbo discorsi che tranquillizzavano gli americani (The Reagan Era, www.zmag.org, 11 giugno 2004). Queste sequenze svelano un meccanismo narrativo preciso: Moore utilizza i vertici del governo americano come veri e propri personaggi per creare una sorta di farsa fantapolitica, tanto più inquietante per lo spettatore se si pensa che è impersonata dai membri della più potente amministrazione mondiale. Moore riesce così a esprimere tutto quello che un film di finzione come Operazione Canadian Bacon presentava in maniera più banale. In una logica in cui la realtà è usata come fiction, le figure pubbliche diventano anche attori. La sequenza dei titoli di testa fa capire come i membri dell’amministrazione Bush sono, ancor più che degli attori, delle maschere malvagie. A lui tocca il compito – è il caso di dirlo – di smascherarle. Tanto più che sono loro stessi ad agire, nei confronti della telecamera, come performer che si preparano a recitare una parte, certi della propria credibilità e impunità. Non è solo per provocazione se il giorno dopo aver ricevuto la Palma d’oro Moore ha ringraziato il suo cast come se si trattasse di attori professionisti. Ma il vero elemento di novità rispetto al passato è un altro: la scomparsa dell’autore. Scomparsa fisica, prima che metafisica. È infatti innegabile che la presenza di Moore nelle inquadrature sia molto minore che in passato. Come accadeva in Tv, il regista affida ad altri molte delle riprese, “scomparendo” dallo schermo per buona parte del film. Se si escludono alcune immagini d’archivio ricavate perlopiù dai suoi show televisivi, egli compare di persona solo dopo quaranta minuti, un po’ come faceva Welles nei propri film. Complessivamente, è chiaramente presente in sole quattro sequenze: una volta a casa di Lila e tre a Washington.

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A eccezione della sequenza in cui guida un camioncino davanti al congresso (unico momento di gusto clownesco, fot. 86) anche il suo stile è meno irruento che in passato. Spesso si comporta come un intervistatore classico: pone domande chiare, ascolta, non forza le risposte e decide persino di nascondere la sua voce e la sua presenza al momento del montaggio. Il motivo di questa mutazione non è solo una sopraggiunta maturità anagrafica. Sempre nell’intervista a Gavin Smith, Moore ha dichiarato: «Harvey [Weinstein, il produttore, N.d.A.] era molto deluso dal fatto che la mia faccia non comparisse nel film ogni tre minuti. […] In questo film lasciamo che la storia si racconti da sola. Certo che si tratta della mia voce e della mia visione dei fatti, ma ho pensato che fosse meglio ridurre al minimo i miei gesti caratteristici». Dosando le proprie apparizioni, queste assumono un peso più forte. Tanto ci pensa l’onnipresente voce over a esplicitare il suo pensiero: in Moore l’assenza fisica è quasi sempre surrogata dall’insistenza sonora. La minore presenza in scena è frutto di una scelta, ma è anche un adattamento inevitabile a una nuova realtà. Dopo il successo di Bowling a Columbine il regista è ormai una vera e propria “corporation individuale” del documentario, il che comporta vantaggi e inconvenienti. Tra i primi ci sono una disponibilità economica e un gruppo di collaboratori rari per un documentarista. Difficile trovare un altro documentario con una simile lista di credits, a partire dai tre montatori e dai moltissimi stagisti e cameraman. Se Lila Lipscomb risulta un personaggio così complesso è anche perché è stata “pedinata” dall’equipe del film per un periodo di cinque mesi. Ma il successo comporta anche alcune scelte dolorose. Moore stesso dichiara di essere diventato troppo famoso e di dover quindi inventarsi nuovi modi per infiltrarsi: non può più contare sulla sua apparenza goffa e familiare che tranquillizzava gli americani e spingeva Phil Knight o Charlton Heston a farlo accomodare in casa. In scene come quella, girata a Flint, nella quale due marine cercano di reclutare nuo vi soldati (fot. 87), è facile notare che egli non è fisicamente presente.

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Se così fosse stato, i due reclutatori non avrebbero avuto la sicumera che invece mostrano nel film e anzi difficilmente avrebbero accettato di far si riprendere. Pur mantenendo un controllo assoluto sul mon taggio e sulla scrittura del documentario, come accadeva in Tv, Moore è obbligato ad affidare alcune fasi del lavoro ai suoi collaboratori. Ecco che Fahrenheit, pur non discendendo, a differenza di Bowling a Columbine e Sicko, da un precedente episodio televisivo, è quindi il film che più ricorda le modalità produttive di Tv Nation e The Awful Truth per quanto riguarda il lavoro d’équipe. Ma la celebrità procura a Moore anche un nuovo strumento di scrittura. Il grande lavoro di ricerca archivistica che lui e i suoi collaboratori effettuano fin dagli esordi è rafforzato da alcune segnalazioni spontanee. Il regista ha dichiarato di essere spesso contattato da alcuni suoi ammiratori che lavorano come montatori o tecnici del suono nei grandi canali televisivi e che gli segnalano l’esistenza di sequenze “scomode” che potrebbero interessarlo. In molti casi, dopo aver valutato il materiale in questione, Moore si è deciso ad acquistarlo e inserirlo nel montaggio. Quindi è grazie alla sua popolarità e ai mezzi economici a sua disposizione che il regista può reperire e acquistare sequenze come i “fuori onda” di Bush e Wolfowitz, le immagini inedite dei soldati in Iraq (opera di un free-lance che lo ha contattato al ritorno dal fronte) e la visita alle coste sguarnite dell’Oregon, segnalategli da un ammiratore via internet. In Sicko, memore della lezione, chiederà ai fan di aiutarlo raccontandogli le loro disavventure di salute per includerle nel suo film. Moore dunque si eclissa come attore e delega parti del suo lavoro ad altri. Basta per dire che anche per lui vale l’inesorabile legge della scomparsa dell’autore? Non sembrerebbe: in fondo è sempre lui che assembla, sceglie, mescola e provoca i vari elementi del film. In una conferenza stampa a Cannes, Godard ha accusato il regista di Flint di non saper distinguere tra «immagine e testo». Forse dimentica quel che diceva Roland Barthes in Il brusio della lingua a proposito di testo e scomparsa dell’autore: «Sappiamo oggi che un testo non consiste in una serie di parole esprimenti un significato unico, in un certo senso teologico (che sarebbe il messaggio dell’Autore-Dio), ma è uno spazio a più dimensioni, in cui si congiungono e si oppongono svariate scritture, nessuna delle quali è originale: il testo è un tessuto di citazioni, provenienti dai più diversi settori della cultura». Ovvio che in tale ottica il ruolo dello scrittore è soprattutto quello di mescolare queste diverse scritture. Forse Moore non avrà letto Barthes. Di sicuro quest’ultimo non ha fatto in tempo a vedere i film del regista di Flint. Ma se trasportassimo il discorso dalla letteratura al cinema sembrerebbe che stesse parlando proprio di lui. L’effetto Michael Moore «È un figlio di puttana. È terribile. Ma la cosa peggiore è che è la persona più famosa del mondo nel mondo del documentario e quello che ne trae più giovamento. È quello che ha il pubblico più largo e che ottiene tutte le ricompense. E ha due obiettivi. Il primo: liquidare le persone per i suoi interessi. Il secondo: poco importa quello che si trova a osservare, deve provare ciò che sa già.» Albert Maysles «La nostra scelta non era tra uno status quo pacifico e le carneficine della guerra ma tra la guerra e una

minaccia ancora più grave. Non lasciate che nessuno vi dica il contrario. Né i nostri avversari politici. E certamente non un regista bugiardo che ci vorrebbe far credere che l’Iraq di Saddam era un’oasi di pace quando era un luogo di indescrivibile crudeltà, camere di tortura e fosse comuni.» John Mc Cain, convention nazionale repubblicana, 30 agosto 2004 «Gli Stati Uniti producevano auto, adesso produciamo proprietà intellettuale. Siamo ancora bravi a fare film e siamo tutti documentaristi. Dappertutto sorgono scuole di cinema. Grazie a Michael c’è un grande interesse a distribuire documentari al cinema. Non posso che fargli tanto di cappello.» Kevin Rafferty

Nella loro diversità, le tre citazioni scelte possono suggerire alcuni dei principali effetti suscitati negli anni da Michael Moore: la disapprovazione della vecchia guardia dei documentaristi per i suoi metodi, il fastidio degli uomini di destra (a riprova di una dimensione non solo cinematografica), lo straordinario successo di pubblico e, infine, il ruolo fondamentale nel ritorno d’interesse mondiale per il cinema documentario. Delle polemiche politiche abbiamo cercato di non occuparci e dei successi abbiamo già detto: Oscar, Palma d’oro, tre volte autore di un documentario che batte il record d’incassi di tutti i tempi. Vale qui la pena però ripercorrere brevemente i contorni dell’“effetto Moore” sulla diffusione del cinema documentario. Al di là dei successi personali, Bowling a Columbine e Fahrenheit 9/11 segnano una svolta per tutto il genere documentario. Non serve uno specialista per constatare che proprio dal 2002 il cinema di non-fiction comincia a sconfinare in territori che fino ad allora erano appannaggio quasi esclusivo del cinema narrativo tradizionale: in sala, nell’home video e nelle selezioni ufficiali dei grandi festival mondiali. Anche in televisione, da sempre suo terreno d’elezione, sottrae spazio al cinema di finzione. In Italia, negli ultimi sette anni, sono stati distribuiti più documentari (esclusi i cinegiornali) che dal dopoguerra al 2002. Dovunque, ma soprattutto negli Stati Uniti, sono ormai vari anni che il documentario politico ha surclassato l’unico genere non-fiction di cassetta: quello musicale. Il merito non è solo dell’ex caporedattore del «Flint Voice», ma anche di una congiuntura mondiale dove crescono i movimenti no global e un disagio diffuso nei confronti della politica e delle strategie economiche statunitensi. Fatto sta che poco dopo Bowling a Columbine conoscono ampia diffusione opere che ricordano spesso sia lo stile sia gli intenti politici del regista di Flint. I due più emblematici sono forse Super Size Me (Id., 2004) di Morgan Spurlock, e Mondovino (Id., 2004) di Jonathan Nossiter, che viene addirittura selezionato in concorso a Cannes: due film piuttosto anticinematografici, costruiti intorno al coinvolgimento in prima persona del regista. Meno “soggettivi” ma altrettanto politici sono opere di successo mondiale come The Fog of War di Errol Morris, The Corporation (Id., di Mark Achbar e Jennifer Abbott, 2003), The Take - La presa (The Take, di Avi Lewis e Naomi Klein, 2004) e Enron - l’economia della truffa (Enron: The Smartest Guys in the Room, di Alex Gibney, 2005). All’onda medio-lunga del revival documentario appartiene anche il folgorante successo di Una scomoda verità (An Inconvenient Truth, di Davis Guggenheim), premiato addirittura con l’Oscar e all’origine, neanche troppo indiretta, del Premio Nobel attribuito al suo protagonista-ideatore Al Gore, divenuto paladino della lotta al surriscaldamento globale. Ovviamente la scena documentaria americana non nasce nel 2002. Tutti i film citati sarebbero probabilmente esistiti anche senza quelli di Moore: registi come Achbar, Gibney e Morris sono documentaristi attivi da molto prima dell’uscita di Bowling a Columbine. Ma senza l’interesse mondiale intorno al documentario suscitato dai film di Moore tutti loro (tranne forse Morris) probabilmente non avrebbero avuto una circolazione nel circuito mainstream anche in Paesi, come appunto l’Italia, dove la distribuzione di film documentari è sempre stata estremamente ridotta. Lo stesso vale anche per film europei dal registro molto diverso, come Essere o avere (Être ou avoir, di Nicholas Philibert, 2002, presentato a Cannes lo stesso anno di Bowling, seppure non in concorso) e La marcia dei pinguini (La marche de l’empereur, di Luc Jacquet, 2005). Ad alcuni è parso che proprio l’“effetto Moore” abbia spinto, negli ultimi anni, alcuni mostri sacri

del cinema di finzione come Werner Herzog, Jonathan Demme (The Agronomist, Id., 2003; Man from Plains, 2007) e Spike Lee (When the Leeves Broke: A Requiem in Four Acts, 2006) a dedicarsi con maggiore insistenza al documentario. Affermazione sicuramente inesatta poiché tutti questi registi si erano già cimentati con tale genere, soprattutto Herzog, la cui filmografia è per due terzi composta da opere di non-fiction, molti realizzati ben prima dell’esordio di Moore. Non è però improbabile che il rinnovato interesse per il documentario degli ultimi anni abbia, da un lato, reso più facile la produzione e la distribuzione di questi film e, dall’altro, amplificato la loro eco mediatica. Simile è anche il caso di Oliver Stone, regista politico per eccellenza ma che gira i suoi primi documentari tra 2003 e 2004 (ben tre: Persona Non Grata, Id., 2003; Comandante, Id., 2004; Looking for Fidel, Id., 2004). Se dal punto di vista della diffusione commerciale il ruolo dei film di Moore è abbastanza incontestabile, più controversa è la questione della sua influenza stilistica. Come abbiamo già detto, molti degli elementi che lo caratterizzano (presenza in scena del regista, autobiografia, found footage etc) hanno tutti dei precedenti illustri in registi spesso più anziani ma con minore visibilità. Ma pur non possedendo il brevetto di tutte le sue componenti, è però certo che esiste una connotazione percepita come “stile Moore”. In alcuni film altrui Moore interviene direttamente, come in The Corporation, dove appare tra gli intervistati (a lui è addirittura riservata la battuta finale del film), e in The Yes Men, diretto da Dan Ollman, Sarah Price e Chris Smith, cameraman di The Big One. E a proposito di ex collaboratori cresciuti alla sua ombra, Tia Lessin, sua ex produttrice, ha girato insieme a Carl Deal, “capo archivista” di Bowling, il documentario Trouble the Water (2009) nominato all’Oscar. Ma tra gli effetti tangibili del successo di Moore ce n’è anche uno tanto eloquente quanto paradossale: la nascita, soprattutto negli Stati Uniti, di una vera e propria corrente documentaristica anti Michael Moore e lo sviluppo di una cinematografia apertamente repubblicana. Solo nell’anno successivo all’uscita di Fahrenheit escono almeno tre documentari, tutti inediti in Italia, nei quali l’attacco al film Palma d’oro è evidente fin dal titolo: FahrenHYPE 9/11 (di Alan Peterson, 2004), Michael Moore hates America (di Michael Wilson, 2004) e Celsius 41.11: The Temperature at Which the Brain… Begins to Die, Michael & Me (di Kevin Knoblock, 2005). Negli Stati Uniti il biennio 2004-2005 è ricchissimo di documentari che hanno chiaramente l’obiettivo di bilanciare “da destra” gli effetti politici del film di Moore. Uno dei più elaborati del gruppo, FahrenHYPE 9/11, scritto da Dick Morris, ex consigliere di Clinton convertitosi alla causa repubblicana, viene distribuito in contemporanea con il Dvd di Fahrenheit. Come analizza puntualmente Alice Lovejoy (Dueling Docs. Polemical documentaries on U.S. Politics, in «Film Comment», vol. 41, n. 1, gennaio-febbraio 2005) si tratta perlopiù di instant movies, spesso realizzati con budget ridotti, con poca cura formale e distribuiti attraverso canali particolari come le televisioni cristiane. A differenza del film di Moore, la loro circolazione rimane modesta al di fuori degli Stati Uniti ma la loro proliferazione è comunque la dimostrazione del grande impatto avuto da Fahrenheit sul panorama mediatico americano. Altro elemento da non sottovalutare, nel settembre del 2004 si tiene a Dallas la prima edizione dell’American Film Renaissance Festival (Afr), il primo festival esplicitamente conservatore. Il fenomeno prosegue anche negli anni successivi con l’uscita dei documentari Shooting Michael Moore (di Kevin Leffler, 2008) e il canadese Manufacturing Dissent (di Rick Caine e Debbie Melnyk, 2007). L’unico degno di nota è forse quest’ultimo, il cui titolo gioca sulla celebre espressione di Chomsky ed è stato proiettato anche ai Festival di Toronto e Torino. Anche se inevitabilmente opinabile nel mescolare le critiche ai metodi di Moore con i dati della sua biografia, è un’inchiesta piuttosto approfondita di tutta la filmografia del regista e comprende delle interviste ad alcune persone che hanno partecipato ai suoi film o collaborato con lui fin dai tempi di Roger & Me. Chiudono l’elenco del filone anti- Moore due opere di finzione. Il primo è Team America (Team America: World Police, di Trey Parker 2004), diretto dai creatori di

South Park, un film iconoclasta nel quale Moore è solo uno dei tanti bersagli. Più mirato l’attacco contenuto in An American Carol (di David Zucker, 2008), satira piuttosto greve nella quale il protagonista Michael Malone è chiaramente modellato sul regista di Flint, non a caso presentata in anteprima all’Afr festival e molto sostenuta dai media repubblicani. Registi come Albert Maysles, storico pioniere del direct cinema, contestano a Moore dei metodi eticamente discutibili che lo porrebbero al di fuori dell’ortodossia documentaria. In questo senso il suo successo non dovrebbe stupire: i suoi film sarebbero opere di finzione e come tali più facilmente recepibili dal grande pubblico. Il concetto di ortodossia documentaria è di per sé opinabile e non riprenderemo la serie di argomenti cui abbiamo accennato nel primo capitolo. L’avvicinamento tra finzione e documentario non è una pratica universale, né tantomeno preferibile all’etica di un cinema più osservativo e meno invasivo. Sicuramente però, come abbiamo già osservato, uno dei principali motivi d’interesse di Moore risiede nell’aver saputo, al momento giusto e in maniera migliore (o perlomeno più abile) di altri, fondere i modelli di scrittura documentaristica con quelli del cinema di finzione. Il successo dei film qui analizzati lo dimostra. Quella di Moore è solo una delle sintesi possibili: probabilmente non la più raffinata e neppure la più onesta ma sicuramente quella che più di tutte ha permesso di aprire il film di non-fiction al grande pubblico. La salute degli altri: Sicko «Trovo la medicina peggiore della malattia.» John Fletcher

Del successo di Fahrenheit e delle polemiche a esso legate abbiamo ampiamente parlato. Vale la pena, per dare un’idea della circolazione del film, segnalare gli incassi: circa centoventi milioni di dollari in patria e cento nel resto del mondo. I duecentoventi cumulativi (che escludono l’home video e gli introiti televisivi) sono una cifra di quasi otto volte superiore agli incassi di A letto con Madonna, all’epoca il documentario “non di Michael Moore” di maggior successo della storia. Già nell’ottobre 2004, poco dopo l’uscita in sala, vengono pubblicati il Dvd di Fahrenheit e ben due libri a firma del regista. Il primo è The Official Fahrenheit 9/11 Reader, Simon & Schuster, New York, 2004, una sorta di guida al film, inedita in Italia, che comprende la sceneggiatura, la documentazione usata dal regista, alcune lettere del pubblico e altro materiale. Il secondo è Will They Ever Trust Us Again?: Letters From the War Zone, Simon & Schuster, New York, 2004 (tr. it.: Ingannati e traditi: lettere dal fronte, Mondadori, Milano, 2005), che raccoglie le lettere dal fronte iracheno di soldati americani delusi dall’amministrazione Bush. Come ultima mossa preelettorale Moore organizza, con l’aiuto di alcuni musicisti, volontari e altre figure dello spettacolo, lo Slacker Uprising (letteralmente «Rivolta dei fannulloni») Tour, durante il quale visita venti stati americani per convincere soprattutto i giovani a registrarsi nelle liste elettorali e votare per John Kerry. Uno sforzo che lo porterà a tenere discorsi pubblici in oltre sessanta città e da cui nascerà il documentario Slacker Uprising cui è dedicato il prossimo capitolo. Nono stante quest’imponente campagna, Bush viene rieletto e Moore si prende alcuni mesi di riposo. L’anno successivo appare sporadicamente in Tv e in alcuni documentari altrui come The Drugging of Our Children (di Manette Loudon e Gary Null, 2005), film sull’eccessiva prescrizione di psicofarmaci ai bambini, e This Divided State (di Steven Greenstreet, 2005), che ripercorre le polemiche legate alla sua visita in Utah durante lo Slacker Uprising Tour. Lo stesso anno è tra i fondatori del Traverse City Festival in Michigan, una rassegna di cinema indipendente che acquista presto una discreta fama. Solo nel febbraio 2006 emerge un chiaro indizio sul suo nuovo film. Dal suo sito Moore lancia un appello agli americani perché gli raccontino le loro storie di malasanità. Appare chiaro che i soggetti del suo nuovo documentario saranno il sistema sanitario statunitense e le perfide Hmo (le assicurazioni sanitarie private) che lo dominano, da tempo tra i suoi bersagli polemici preferiti. Prodotto dalla Weinstein Company, creata nel 2005 da Harvey e Bob Weinstein

che hanno ormai ceduto alla Disney il controllo della Miramax, Sicko è presentato a Cannes nel maggio del 2007. Ennesimo record: il budget di nove milioni di dollari è il più alto della storia per un film di non-fiction. Sono circa cinquanta milioni gli statunitensi senza copertura medica, ciononostante Moore spiega che il film è dedicato ai duecentocinquanta milioni di americani “coperti” che lottano contro gli abusi di un sistema perverso. Dopo aver lanciato dal suo sito un appello ai suoi compatrioti perché gli raccontassero le loro disavventure sanitarie, ha ricevuto venticinquemila risposte in una settimana e ha deciso di mostrarne alcune. Larry e Donna hanno avuto per anni un buon reddito ma per pagare le cure hanno dovuto vendere la loro casa e trasferirsi a Denver da una delle figlie. Il pensionato Frank, invece, deve fare le pulizie in un supermercato per pagarsi le medicine. Altre storie raccontano di persone cui le Hmo hanno rifiutato la copertura o il rimborso delle spese mediche perché troppo grasse o troppo magre, per cavilli burocratici o per risparmiare denaro. Moore è stato contattato anche da dipendenti delle Hmo che denunciano l’inumanità del loro lavoro. Tra di essi Linda Peeno, che ha confessato di aver rifiutato le cure necessarie a un paziente per far risparmiare cinquecentomila dollari alla sua compagnia, e Lee Einer, che per anni ha studiato le cartelle cliniche dei pazienti per far recuperare denaro a una compagnia assicurativa. È poi ripercorsa la storia recente della sanità americana. Registrazioni telefoniche del 1971 mostrano come Nixon ne abbia approvato lo smantellamento. A inizio degli anni Novanta il tentativo di Hillary Clinton di creare un sistema di copertura universale è stato affossato dall’azione di repubblicani e di lobby farmaceutico-sanitarie. Gli Usa sono così scivolati al 37° posto della classifica dei sistemi sanitari dell’Oms mentre le lobby hanno finanziato le campagne elettorali di molti uomini politici, tra cui la stessa Clinton. Molti dei deputati e senatori eletti durante la presidenza Bush jr. hanno approvato leggi che favoriscono l’industria farmaceutica ma danneggiano categorie come pensionati ed ex soldati. Il regista confronta allora il sistema sanitario americano con quello di altri Paesi, a partire dal Canada. Qui mostra la storia di Adriene, una statunitense malata di cancro che ha sposato un canadese per beneficiare del sistema sanitario universale, la cui bontà è confermata da alcuni parenti del regista e da varie persone all’interno di un ospedale. Un pensionato spiega poi di essere un sostenitore della sanità pubblica malgrado sia membro del Partito conservatore. A Londra Moore racconta la storia di Eric, un turista americano curato gratuitamente dopo essersi infortunato mentre attraversava Abbey Road sulle mani. Visitando una farmacia e un ospedale pubblico scopre che le cure sono gratuite e le medicine a buon mercato. Il deputato Tony Benn spiega che tale sistema, oggi intoccabile, è stato elaborato all’indomani della Seconda guerra mondiale in uno slancio di solidarietà collettiva. L’incontro con un dottore, che con lo stipendio statale può permettersi una casa e un’auto di lusso, dimostra a Moore che il sistema britannico non comporta una riduzione dello standard di vita dei medici. Il regista traccia allora un bilancio preoccupante degli Stati Uniti: un Paese con un sistema sanitario e scolastico meno sviluppati che in alcune nazioni povere e dove molti vivono sotto lo stress continuo dei debiti da pagare e la paura di perdere il lavoro, accedendo difficilmente a università e cure mediche. Confronta poi le storie di Dawnelle e Corina, due donne che hanno dovuto ricove-rare d’urgenza le loro figlie. La figlia della prima è morta dopo che l’ospedale le ha rifiutato l’accesso per motivi burocratici, mentre quella della seconda è stata curata gratuitamente. Il motivo? Semplice, Corina abita in Francia. Moore si reca allora a Parigi dove nota che, nonostante le abitudini alimentari, le persone vivono più a lungo degli statunitensi. Incontra Alexis, un uomo che qui ha ottenuto cure gratuite malgrado abbia vissuto quasi tutta la vita negli Usa. Durante una cena, alcuni americani spiegano i vantaggi del servizio pubblico francese, tra questi il basso numero di ore lavorative, la durata delle ferie pagate e l’accesso gratuito a scuole e ospedali. Il motivo di tutto ciò, secondo il regista, è il coraggio con cui i francesi protestano contro il proprio governo. L’incontro con un medico, una coppia borghese e i volontari di un servizio notturno di assistenza confermano l’eccellente giudizio sulla Francia. Di ritorno in patria, Moore racconta le storie di malati espulsi da alcuni ospedali perché incapaci di pagare e racconta che alcuni eroici soccorritori dell’11 settembre sono stati lasciati senza assistenza. Tre di loro, John, William e Reggie, raccontano le loro difficoltà di salute. Esiste però un luogo, negli Usa, dove esiste un servizio sanitario gratuito e di buon livello: la base militare di Guantanamo, dove sono rinchiusi alcuni presunti terroristi. Moore decide di affittare tre barche a Miami e raggiungere il centro di detenzione insieme ai tre eroi dell’11/9 e a Donna, la signora di Denver che aveva presentato all’inizio del film. Non riuscendo ad entrare nella base, decide di accompagnare i suoi compagni di viaggio all’Avana dove scoprono che i farmaci hanno un costo irrisorio e che i medici sono pronti a curarli gratuitamente. Ricevono così visite, medicine e un piano di cure da seguire in patria. Dopo che Moore ha intervistato Aleida Guevara, la figlia del “Che”, i cinque sono ricevuti da un gruppo di pompieri che omaggia gli eroi delle Torri gemelle. Il regista racconta poi di aver spedito anonimamente un assegno da dodicimila dollari a Jim Kenefick, il

responsabile del più importante blog anti Michael Moore. L’uomo aveva smesso di scrivere perché incapace di pagare le cure della moglie malata. Nel monologo finale Moore dichiara che la forza del suo Paese è sempre stata quella di appropriarsi delle migliori invenzioni altrui. Lo stesso andrebbe fatto per la sanità, se gli Usa non vogliono rimanere l’unica nazione occidentale senza copertura universale.

Oltre che da una profonda indignazione per la situazione sanitaria americana, Sicko nasce da due segmenti dei precedenti show televisivi di Moore: Hmo Funeral di The Awful Truth e Health Care Olympics di Tv Nation. Il primo raccontava la storia di Chris Donauhe, un uomo cui una Hmo aveva negato un trapianto di pancreas e cui Moore organizzava un funerale “da vi vo”. Il secondo era una sorta di sarcastico Giochi sen za frontiere nel quale due giornalisti sportivi giudicavano i sistemi sanitari di Cuba, Usa e Ca na da sotto vari punti di vista: livello delle cure, accessibilità, prezzi, tempi d’attesa (fot. 88). Da qui discendono i due nuclei fondamentali del film, che contiene nella prima metà l’illustrazione (attraverso vicende “minime” e un excursus storico) dell’intrinseca malvagità della sanità statunitense, mentre nel secondo confronta quest’ultima con quella di altri Paesi. Come Bowling a Columbine, Sicko è un’analisi puntuale di una delle “eccezioni americane” rispetto agli altri Paesi occidentali: là le armi, qui la sanità a pagamento. In entrambi l’attacco a un obiettivo particolare si eleva a ragionamento universale. In Bowling il nemico da abbattere era, più che le lobby delle armi, la storica paura degli americani per il diverso. Anche in questo caso le lobby farmaceutiche e le Hmo sono solo la punta dell’iceberg. All’obiettivo politico, la riforma della sanità, si affianca una soluzione morale: a dover essere rifondato è tutto il sistema sociale di un Paese che ha perso il senso di solidarietà, come dimostra il confronto con il resto del mondo.

FOT. 88

Tesi, antitesi, sintesi: un ragionamento degno di una struttura tripartita hegeliana anche se, come sempre nei film di Moore, siamo piuttosto nell’ordine della dimostrazione sostanzialmente tautologica. Non è il suo unico difetto: l’ap proccio rimane partigiano e l’insistenza con cui ricorre al tragico e al farsesco inficiano forse la purezza logica della tesi di fondo di Sicko. Eppure, sebbene priva della forza comica di Roger & Me e dell’importanza contingente di Fahrenheit, si tratta forse dell’opera più matura di Moore, quella in cui il materiale esposto appare più solido e meglio distribuito. Sarà che, dopo le polemiche di quello precedente, questo appare un film di basso profilo. Oppure che, se non proprio onesto, il metodo del regista (che, realizzando tre lungometraggi documentari in sei anni, sembra finalmente aver deciso quale sia il suo formato d’elezione) si basa ormai su regole chiare per la maggior parte degli spettatori. Sempre di film a tesi si tratta, ma si gioca ormai a carte scoperte. Raggiunta ormai una fama mondiale, Moore, che dedica elogi più sfacciati che mai a Canada ed Europa, ambienta al di fuori degli Usa più di metà delle sequenze del film. Ma proprio l’acriticità con cui racconta la realtà di altri Paesi è la spia di come Sicko sia concepito in una prospettiva eminentemente americana. In molti hanno giustamente notato l’indulgenza con la quale Sicko descrive sistemi sanitari tutt’altro che perfetti come quello francese e soprattutto quello cubano. Vincent Thabourey su «Positif» (n. 557-558, luglio-agosto 2007), parla di una «Francia da cartolina» e di un viaggio a Cuba che «finisce in mascherata». Come conferma lo stesso Moore

nell’intervista rilasciata a Sophie Benamon (Michael Moore sur le gril, in «Studio», n. 238, settembre 2007), ciò che a lui interessa non è tanto analizzare in profondità i sistemi sanitari esteri quanto piuttosto utilizzarli come lente, inevitabilmente deformata e faziosa, attraverso cui parlare della sanità americana. Il contrasto ormai non è più solo una tecnica di montaggio con cui legare due sequenze ma una delle colonne su cui si fonda la scrittura di tutto un film. In quest’ottica si comprendono anche i momenti più didattici e le domande più banali po ste ai beneficiari degli altri sistemi sanitari («perché pagare per la salute altrui?») o l’insistenza su elementi altrimenti piuttosto insignificanti come, ad esempio, l’agio economico del medico britannico e della coppia borghese francese (fot. 89): il regista vuole qui smentire la paura dei medici, e non solo, statunitensi che un sistema nazionalizzato implichi una diminuzione del loro stile di vita. Durante tutto l’arco del film vengono infatti dapprima ironicamente rievocate, e quindi confutate, le principali obiezioni a una estensione universale del servizio sanitario che da sempre animano il dibattito politico americano. Argomenti che vanno dal diritto quasi consumistico di scegliere il proprio medico («volete che la vostra madre malata parli con un burocrate o con un medico?» dice, indignato, un politico) all’idea che il sistema canadese sia profondamente arretrato e inefficace (Bush senior tuona: «se pensate che la medicina pubblica sia buona, chiedete ai canadesi!», cosa che il regista puntualmente farà) fino alla paranoia, quasi maccartista, che la medici-na pubblica sia uno strumento di affermazione del socialismo in America.

FOT. 89

Per scardinare queste affermazioni, Moore ricorre al suo consueto manicheismo. Da una parte, attraverso immagini d’archivio, frasi a bruciapelo e soluzioni grafiche d’impatto, sottolinea i profitti record di industrie farmaceutico-sanitarie e i contributi versati da queste per la campagna elettorale di vari politici (fatto per cui rispolvera una vecchia idea del video di Testify, attaccando a ognuno di costoro una didascalia con il montante dei contributi ricevuti, fot. 90). D’altra parte concede ampio spazio, come vedremo fra poco, alle tragiche storie di semplici cittadini americani traditi dalle loro assicurazioni e costretti a lottare per curarsi o sopravvivere. Se il metro di riferimento è, come sempre, l’a me ricano medio, gli esiti politici sono più radicali e le ambizioni più alte che mai: l’obiettivo immediato di Sicko è appunto la nazionalizzazione (o meglio l’ac cesso universale e gratuito) del sistema sanitario americano. Malgrado si muova sullo schermo con una pacatezza che avrebbe stupito il Mike di Roger & Me, la progressiva normalizzazione della sua presenza sembra inversamente proporzionale a quella del suo messaggio politico. Come ha notato Richard T. Kelly («Sight & Sound», vol. 17, n. 12, dicembre 2007) Moore sembra seguire una parabola di radicalizzazione politica abbastanza rara tra i cineasti americani di successo (tra di essi viene in mente Warren Beatty).

FOT. 90

FOT. 91

Nei primi film sembrava un populista figlio del sindacalismo americano, interessato soprattutto al tenore di vita dei lavoratori americani. In Sicko troviamo invece un elogio di Cuba, una difesa universale del settore pubblico, un’intervista a Tony Benn (storico rappresentante dell’ala socialista del Labour britannico), estratti da musical sovietici (fot. 91) e una breve visita alla tomba di Marx a Londra (fot. 92). Persino lo storico cappellino da baseball si tinge di rosso. Attenzione però a parlare di svolta marxista: gli ultimi due elementi sono usati chiaramente in chiave ironica, persino canzonatoria e anche i costanti accenni sarcastici alla propaganda anticomunista americana contengono più una critica alle lobby e ai politici statunitensi che una difesa in sé dei valori socialisti. Più complessa la scelta di difendere l’uni versalità del sistema sanitario cubano. Innanzitutto perché il viaggio all’Avana è costato a Moore un’inchiesta del ministero del Tesoro per violazione dell’Embargo. Ma soprattutto perché la rappresentazione positiva di Cuba costituisce davvero un tabù difficile da rompere nel contesto del mainstream americano. Certo lo sbarco nell’isola, presentato nel film come una scelta improvvisata, è frutto di un’operazione studiata e appoggiata dalle autorità castriste (tra i ringraziamenti finali troviamo l’Icaic, l’istituto cubano dell’arte e dell’industria cinematografica) che naturalmente hanno gradito l’operazione. Ma al di là di ciò e dei toni vagamente stucchevoli, è proprio in questo sovraccarico finale che Moore riesce, sfruttando la vicinanza geografica tra Guantanamo e l’Avana, a sintetizzare in una sola sequenza molti temi al centro del dibattito politico del tempo: gli eccessi della lotta al terrorismo, il trattamento riservato ai soccorritori del World Trade Center, il sistema sanitario americano e la ridefinizione dei rapporti cubano-americani. Un po’ come in Bowling a Columbine, la rivalutazione di soggetti tabù contiene, implicitamente, anche un invito a rivalutare lo stesso regista, che si sforza infatti di mostrarsi più presentabile e misurato che in passato. Un’operazione che si fonde con quel processo di scomparsa di Moore dal l’in quadratura, già inaugurato in Fahrenheit. Anche in Sicko il regista compa re a circa metà film e limita le sue apparizioni ai viaggi fuori dagli Stati Uniti, durante le quali indossa soprattutto i pan ni del clown divertito e sorpreso dalla bontà dei sistemi sanitari esteri, mentre quasi tutte le sequenze più drammatiche si sviluppano in sua assenza.

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Se a Cuba si concede ancora una piccola scorribanda in stile guerrilla con tanto di megafono e provocazione nei confronti delle autorità (fot. 93), in Canada e in Gran Bretagna non smette di compiacersi dell’altrui umanità, mentre nella sequenza francese passa addirittura la maggior parte del suo tempo a discutere di politica con alcuni commensali al tavolo di un ristorante (fot. 94), come forse il vecchio Mike non a vrebbe mai fatto. Se il suo coinvolgimento emotivo rimane ov viamente molto forte, scompare quasi del tutto il riferimento all’autobiografia (a eccezione del la sequenza, più propagandistica che biografica, in cui spiega di aver aiutato anonimamente il suo nemico blogger): anche Flint, finora onnipresente, non trova più posto nel film. Il cammino è ancora lungo ma con gli anni Moore mostra di avvicinarsi a quell’idea dell’invisibilità registica che per molti è la regola, seguendo così un itinerario opposto a quello di registi come Nick Broomfield e Ross McElwee. Chissà se è vero, come dichiarava a Gavin Smith nel 2004, che il suo obiettivo è sparire definitivamente dall’inquadratura e rendere la telecamera l’unico protagonista dei suoi prossimi film. A proposito d’invisibilità registica, forse proprio la progressiva discrezione del Moore personaggio all’interno dei suoi film ha reso finalmente possibile ad alcuni critici un paragone, che appariva finora irrispettoso, con uno dei più importanti eredi del direct cinema: quello con il bostoniano Frederick Wiseman, grande osservatore dell’intrinseca assurdità della burocrazia e delle istituzioni americane. Può sembrare un confronto assurdo per come il cinema osservativo di Wise man sia da sempre privo di ogni minimo indizio della presenza dell’autore, ivi compresa la voce over, con un ricorso misuratissimo alle interviste frontali. Ep pure, come Moore, egli ha analizzato per oltre quarant’anni, in film quasi sempre inediti in Italia, i fallimenti delle istituzioni americane: gli ospedali criminali di Titicut Follies (1967), la scuola di High School (1968), l’assurdità del sistema di aiuti sociali in Welfare (1975) e in altri film la cui sobrietà e chiarezza d’obiettivo è evidente fin dal titolo, come Juvenile Court (1973) e Domestic Violence (2001). L’opposizione stilistica è apparsa per anni gigantesca: non invasivo e fautore dei tempi lunghi il regista di Boston; aggressivo, rozzo e fisicamente ingombrante Moore. Come ha scritto Ernest Callenbach («Film Quarterly», vol. 61, n. 2, inverno 2007), laddove «Wiseman ha raggiunto una sorta di luttuosa eleganza nel dipingere la nostra società […] Moore invece cerca il sangue». Ma l’evoluzione degli ultimi film di quest’ultimo rende meno scandalosa l’ovvia constatazione della vicinanza di temi delle loro opere. Sicko richiama soprattutto, come tematica, Hospital (1969), cronaca neutra e drammatica delle

attività quotidiane di un ospedale di New York. Sono molti gli elementi comuni tra i due film: l’in capacità di molti cittadini di ottenere una cura a causa delle malattie pregresse, la loro ignoranza del sistema e il conflitto tra profitto e servizio pubblico che è al cuore del sistema sanitario americano. Il pessimismo di Wiseman verso l’insensatezza burocratica delle istituzioni è impersonale e quasi cosmi co, mentre la denuncia di Moore è più politica, con tanto di nomi di deputati e aziende responsabili. Ma, al di là delle differenze, in entrambi emerge un contrasto (anzi, un fossato) tra le istituzioni e i cittadini comuni, che li spinge a dare voce a piccole storie individuali. Proprio l’at tenzione a queste ultime è uno dei punti più originali del film di Moore, che le sviluppa nella prima mezzora. Con le debite differenze di formato ed epoca, il regista utilizza le testimonianze di alcuni cittadini americani per disegnare una sorta di affresco collettivo, fatto di persone comuni (come Frank o la coppia Donna-Larry, fot. 95) e “pentiti” del sistema (come Linda Peeno, fot. 96), sugli scandali di un sistema sanitario basato sul profitto.

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La principale innovazione risiede, come accennato, nel modo in cui sono state raccolte queste storie, ovvero attraverso un appello diffuso dal sito del regista: «Speditemi le vostre storie horror sanitarie... Un appello da Michael Moore».

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Oltre a rievocare i contorni da horror sociale di Roger & Me, l’appello ha un incipit significativo: «Cari amici, cosa ne direste di essere nel mio prossimo film?». Pur senza rivelare i dettagli delle riprese, il regista richiede esplicitamente un aiuto ai suoi fan: «Ecco la vostra chance. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno è di mettere alcuni di voi nel film per far sapere al mondo che cosa la più grande nazione in tutta la storia dell’universo può fare alla sua

gente semplicemente perché hanno la sfortuna di ammalarsi». Come viene spiegato nel film, in poche ore sono state raccolte migliaia di testimonianze (fot. 97). In seguito, grazie ai suoi collaboratori, Moore ha ripreso alcune di queste storie che poi, in alcuni casi, sono entrate a far parte di Sicko. Il tema della pluralità delle scritture che è al cuore del cinema di Moore si arricchisce di un nuovo strumento: internet, che diventa così un fondamentale elemento di sceneggiatura o addirittura di casting. Doug Noe, uno dei personaggi, si spinge persino oltre: dopo che la sua assicurazione si è rifiutata di coprire un’operazione che avrebbe ripristinato l’udito della figlia, minaccia di far riprendere l’accaduto a Moore. Il tutto, naturalmente, senza l’assenso del regista che però, venuto a sapere della vicenda, ha poi deciso d’includerla nel montaggio. La scrittura documentaria, oltre che plurale, diventa così persino preterintenzionale. Come ha notato Anton Giulio Mancino («Cineforum, n. 468, otto-bre 2007), vengono in mente i personaggi in cerca d’autore di pirandelliana memoria. Il manifestarsi del soggetto al suo autore rimanda anche a una delle intuizioni che, attraverso i decenni, è stata al centro di varie correnti documentarie ma non solo (si pensi alla Nouvelle Vague o al Candid Eye): la realtà esiste comunque, là fuori, ma occorre scendere in strada a catturarla, aggredirla o perlomeno documentarla. Grazie al suo status politico, prima ancora che cinematografico, per Moore l’accesso alle storie che possono interessarlo si fa ormai in maniera automatica, quasi spontanea. Basta lanciare un piccolo appello e avere un gruppo di aiutanti che selezioni per te una enorme massa di informazioni: è il sogno di ogni documentarista.

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Grazie a un lavoro di squadra sempre più affinato, in Sicko anche l’uso del materiale d’archivio in chiave paradossale raggiunge probabilmente i livelli più elevati, unendo commedie americane, spot pubblicitari e un ampio repertorio di pro paganda co munista (musical, parate, film di propaganda). Ancora più interessante l’uso degli audio, con l’in credibile telefonata tra Nixon e Edgar Kaiser che dà il via allo smantellamento della sanità americana e soprattutto il discorso contro la medicina pubblica registrato da Reagan (allora soltanto attore, fot. 98), diffuso dalla American Medical Association per evitare la nazionalizzazione del la sanità: uno dei punti più alti di uso degli archivi da parte di Moore e della sua squadra di archivisti. In un momento del discorso, il futuro presidente spiega come la medicina pubblica sia lo strumento attraverso cui lo stato impone la propria presenza, trasferendo i medici in altre città e finendo poi con l’imporre il socialismo. Per illustrare il discorso, Moore utilizza ironicamente alcune immagini tratte da vecchi filmati di propaganda anticomunista ma anche della serie Tv Kings’ Row. Quest’ultima nasce dall’omonimo film di Sam

Wood (Delitti senza castigo, 1941), storia di una tranquilla cittadina americana che nasconde segreti inconfessabili. Nel film un perverso chirurgo amputa entrambe le gambe dell’innocente protagonista. E quale attore interpreta il ruolo di quest’ultimo? Reagan, naturalmente (fot. 99). Proprio nella capacità di recuperare questa dimensione divertita (di cui il found footage è parte integrante), oltre che nella sua progressiva scomparsa dallo schermo, si gioca forse l’evoluzione futura del cinema a tesi di Moore.

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On the road again: Slacker Uprising «Non sono d’accordo con le leggi sul copyright e non mi disturba che la gente scarichi il mio film e lo condivida con altre persone […] Faccio questi libri e questi film perché voglio che le cose cambino quindi più persone li vedono, meglio è.» Michael Moore

Visto il successo di Fahrenheit, quello di Sicko passa relativamente inosservato, anche se i vetiquattro milioni di dollari incassati in patria (più contenuti i risultati in Europa) ne fanno il terzo documentario di maggior successo della storia americana. Al secondo posto, per la cronaca, si piazza La marcia dei pinguini, con settantasette milioni. Come dirà lo stesso regista, che ormai conta ben tre film nella top five documentaria degli incassi di tutti i tempi, «l’unica cosa che separa Sicko e Fahrenheit sono quei fottuti pinguini». Poco dopo l’uscita di Sicko, Moore decide di rimettere mano al materiale filmato durante lo sfortunato Slacker Uprising Tour del 2004, cui abbiamo accennato all’inizio del capitolo scorso. Il film che ne risulta viene presentato come Captain Mike Across America al Festival di Toronto, nel settembre 2007, ottenendo recensioni perlopiù negative. Un anno dopo, mentre la campagna elettorale tra John Mc Cain e Barack Obama entra nel vivo, viene pubblicato Mike’s Election Guide, Grand Central, New York, 2008 (tr. it.: Chiedilo a Mike!: consigli al nuovo presidente degli Stati Uniti, Mondadori, Milano, 2008) una breve “guida elettorale” del regista. Nel settembre 2008, a poche settimane dalle elezioni, Moore decide di rimontare Captain Mike Across America e di distribuirlo via internet, gratuitamente e ad alta risoluzione, con il titolo Slacker Uprising. Il tentativo esplicito è quello di aiutare il candidato democratico. Parallelamente il film viene anche messo in vendita in Dvd con alcune sequenze extra che poco aggiungono alla versione “pubblica”. Nel luglio 2004, John Kerry è in testa ai sondaggi per l’elezione presidenziale. Ma quando i repubblicani scatenano un’offensiva mediatica che mette in dubbio il suo curriculum militare, questi è incapace di reagire. Insieme ad altri musicisti, Moore organizza allora lo Slacker Uprising Tour durante il quale parla ai giovani di venti swing states (gli “stati indecisi”), offrendo loro noodles e biancheria intima per convincerli a votare. Il film ripercorre le cinque settimane della tournée che comincia in Michigan e tocca soprattutto i campus universitari, l’eco mediatica legata all’evento e i tentativi di sabotaggio dei repubblicani. A Seattle Eddie Vedder interviene a sostegno del regista che poi mostra al pubblico i tre finti spot elettorali pro Bush da lui girati. Nella tappa di Nashville intervengono e si esibiscono i cantanti country Robert Ellis Orrall e Steve Earle. Sono poi mostrate varie testimonianze di veterani o familiari di soldati delusi dalla guerra in Iraq e dal comportamento di Bush. A Cincinnati sono i R.E.M., tutti figli di ex soldati, a parlare a favore di Kerry. Una

sequenza mostra molte immagini di manifestanti e simpatizzanti repubblicani, in varie parti del Paese, che esprimono il loro supporto al presidente e il loro disprezzo per Moore, di cui però non hanno visto i film. Nelle università di Florida e West Virginia alcuni oppositori interrompono i discorsi del regista mentre in Utah un uomo d’affari offre venticinquemila dollari per cancellare l’incontro. A Reno, agli organizzatori viene offerto il quadruplo per lo stesso motivo ma questi rifiutano e per l’occasione si esibisce anche Tom Morello dei Rage Against The Machine. A San Diego, dopo che l’università ha rifiutato di accoglierlo, Moore si sposta in uno spazio più grande, davanti a un pubblico più ampio del previsto. Alla Ucla interviene Joan Baez, che canta l’inno finlandese. Prima di parlare a Kent State, Moore visita il campus dove nel 1970 la National Guard uccise quattro studenti che manifestavano contro l’intervento americano in Cambogia. Avvicinandosi la data delle elezioni, Moore intensifica la sua campagna in quattro stati: Ohio (dove interviene Viggo Mortensen), Pennsylvania, Florida e Wisconsin. L’ultima tappa è Tallahssee, la capitale della Florida dove nel 2000 si è consumata la beffa elettorale che ha portato al potere Bush. Malgrado lo sforzo, quest’ultimo è rieletto. I pannelli finali enumerano i risultati del tour: cinquantaquattro delle sessantadue città toccate hanno votato per Kerry, mai così tanti giovani hanno partecipato alle elezioni e Bush ha vinto con il minor margine degli ultimi cento anni per un presidente rieletto.

Dieci anni dopo The Big One, Moore torna al film di tournée, anche se Slacker Uprising è poco più che un riassunto del tour organizzato dal regista e non è difficile affermare che si tratta del meno complesso tra i suoi lungometraggi. Pur nascendo in buona parte sulla spinta dell’improvvisazione, il film del 1997 era infatti un progetto più elaborato perché utilizzava la tournée come pretesto per “verificare” in chiave spettacolare i comportamenti delle grandi compagnie denunciate nel precedente libro del regista. Qui invece ci troviamo di fronte a un resoconto molto lineare, quasi privo di materiale aggiuntivo e drammaturgicamente molto elementare. Come scrive il canadese Will Sloan, Slacker Uprising «non ha tanto l’andamento di un film, e neanche di un film-concerto ma piuttosto di un highlight reel [un filmato con i migliori momenti di un evento]». Impressione rafforzata dall’uso insistente della musica a sottolineare i momenti della tournée che si vogliono far apparire come i più esaltanti o drammatici. Più ancora che The Big One, si potrebbe dire che, malgrado la forma, Slacker Uprising appartiene più al registro del Moore attivista politico piuttosto che a quello cinematografico, tanto il film appare, in tutte le sue fasi produttive e distributive, come un momento di agit-prop senza particolari ambizioni cinematografiche. L’egocentrismo del regista è infatti ai suoi massimi storici ma soprattutto, contrariamente al passato, non sembra parte di una strategia drammaturgica particolarmente elaborata, tanto che Grégory Valens parla su «Positif» di un film «troppo ombelicale e quasi senza humour» e che sarebbe stato meglio non distribuire. Già dall’introduzione Moore presenta con contorni salvifici la sua decisione di scendere in campo per limitare l’auto le sio nismo dei democratici, utilizzando la celebre marcetta della guerra civile When Johnny Comes Marching Home, un po’ come avveniva nell’incipit di Bowling a Columbine. Ma gli obiettivi universali e nobili con cui viene organizzato il tour (convincere i giovani a votare), che sicuramente voleva av vicinarsi al modo in cui i musicisti americani manifestavano il loro impegno politico durante gli anni delle grandi contestazioni (non è casuale il cameo di Joan Baez), stridono con l’onnipresenza e la re torica del regista. Tutto, dal modo in cui è organizzato il tour a quello con cui sono montate le im magini, sembra suggerire che questi si è ormai elevato al grado di rockstar: le folle oceaniche venute a vederlo (fot. 100), l’importanza dei suoi ospiti e la maniera in cui li abbraccia (fot. 101), l’apparato scenografico con cui è sottolineato il suo ruolo di oratore (fot. 102) e i suoi modi nel rivolgersi alla folla, iniziando ad esempio i suoi discorsi urlando il nome della città in cui si esibisce («Orlando!!», «Tallahassee!!»). Se si aggiunge a questo, come suggeriscono i cartelli iniziali, il fatto che si tratta della cronaca di una sconfitta, aumenta l’im pressione di una gigantesca autocelebrazione. A poco servono le piccole svolte narrative, come i ripetuti tentativi repubblicani di bloccare la tournée, soprattutto a Reno e nello Utah (l’episodio ha ispirato addirittura un libro di Joseph Vogel, Free Speech 101: The Utah Valley Uproar over Michael Moore, WindRiver, Silverton, 2006), raccontati soprattutto con le immagini dei telegiornali dell’epoca. L’uni co momento realmente

originale è dato dai tre demenziali spot repubblicani anti Kerry girati da Moore e proiettati durante alcuni degli incontri, che ricordano i finti trailer del quasi contemporaneo Grindhouse (Id., di Quentin Tarantino e Robert Rodriguez, 2007). In uno di essi, ad esempio, una voce impostata con l’en fasi tipica degli spot elettorali accusa Kerry di non amare abbastanza la patria perché, «se così fosse, sarebbe morto in Vietnam», suggerendo poi di votare Bush (fot. 103). Se voleva essere la fotografia di un rinnovato interesse per la politica da parte dei giovani americani, l’obiettivo non è stato raggiunto e viene quasi da pensare che il titolo originario fosse più consono. L’originalità del film risiede semmai nella modalità di distribuzione. Se il tour originario nasceva come tentativo di convincere gli elettori degli swing states a votare per Kerry, la decisione di “resuscitare” il film nel 2008 trasferisce lo stesso obiettivo a quattro anni dopo. Slacker Uprising è stato definito la prima opera di un regista importante distribuita gratuitamente su internet. I detrattori hanno avuto gioco facile nell’affermare che si trattava di uno sforzo assai ridotto, o peggio un’operazione autocelebrativa, per un multimilionario che poteva permettersi di fare bella figura rischiando assai poco, visto lo scarso potenziale commerciale di un documentario del genere. Di certo la scelta di distribuire gratuitamente il film può essere letta in vari modi: senso di colpa per quanto accaduto nel 2004 (o nel 2000, quando Moore appoggiò Nader), impegno politico, operazione di marketing. L’elemento più innovativo è l’uso che viene fatto della rete che, già utilizzata come strumento di scrittura in Sicko, diviene qui cassa di risonanza gratuita per l’immagine del regista oltre che, naturalmente, risorsa disponibile per gli spettatori. In teoria, a beneficiarne sono solo i cittadini statunitensi e canadesi, poiché l’accesso al file è (ancora oggi) teoricamente bloccato per i provider degli altri Paesi. Ma sapendo come funziona il file sharing, Moore, che si è espresso più volte a favore della libera condivisione dei prodotti culturali, è ben conscio che milioni di persone vi avranno accesso. Che ciò, insieme al lavoro fatto nei precedenti anni, abbia avuto un ruolo nell’elezione di Barack Obama, è tutto un altro discorso. È comunque certo che, per concezione e distribuzione, Slacker Uprising è soprattutto un film rivolto ai fans incondizionati del regista.

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Il cerchio si chiude: Capitalism: A Love Story Per vari mesi, già dalla fine del 2007, si rincorrono voci su un presunto sequel di Fahrenheit 9/11, concepito per raccontare il secondo mandato di George W. Bush e dall’eloquente titolo di lavorazione Fahrenheit 9/11 and ½. Ma nel settembre 2008, quasi vent’anni dopo Roger & Me, la storia costringe Moore a modificare i suoi piani e tornare ai temi del suo primo film. Rivelatasi già alla fine del 2006, la “crisi dei subprimes” esplode in tutta la sua gravità con il fallimento di Lehman Brothers, una delle più potenti banche americane. L’effetto domino è impressionante: moltissime società dichiarano bancarotta, la borsa crolla e tutta l’economia mondiale entra in recessione. Milioni di risparmiatori sono ridotti sul lastrico. La parola crisi torna d’attualità mentre sul mondo si adombra lo spettro della Grande Depressione del 1929. Aggravante non secondaria: responsabile del disastro sembra essere soprattutto il comportamento sciagurato dei grandi gruppi finanziari. Emblema della rapacità di Wall Street è il finanziere Bernard Madoff, condannato a centocinquanta anni di carcere per frodi finanziare che sarebbero costate agli americani circa sessantacinque miliardi di dollari. Malgrado ciò, in ottobre, il Congresso e l’amministrazione Bush, ormai alla fine del suo mandato, approvano il discutibile Emergency Economic Stabilization Act, un piano di salvataggio delle banche, finanziato con denaro pubblico e meglio noto come bailout. Dopo essere stato eletto nel novembre 2008, Barack Obama prende posto nella Casa Bianca nel Gennaio 2009, mentre l’11 febbraio appare sul sito di Moore un appello che vale più di qualsiasi indizio: «Will you help me with my next film?». Il regista dichiara di essere nel bel mezzo delle riprese e spera che «alcune brave persone che lavorano a Wall Strett o nel mondo della finanza facciano un passo avanti e gli raccontino alcune delle cose che sanno». Contrariamente a quanto successo con Sicko agli internauti non viene promesso di apparire nel film ma il tono dell’appello è ancor più militante, come di chi volesse lanciare una riscossa attesa da decenni. A giugno succede l’impensabile: dopo anni di tagli, delocalizzazioni e difficoltà finanziarie, la General Motors dichiara bancarotta, richiedendo ufficialmente l’aiuto del governo. La nuova Gm risulta così al 60% di proprietà dello stato: in sostanza, una nazionalizzazione. Per Moore, che non manca di commentare con toni trionfalistici l’accaduto, è una vittoria morale pesantissima. Altra notizia non trascurabile: Obama lancia nei primi mesi della sua presidenza un’ambiziosa riforma per rendere universale il sistema sanitario statunitense, come suggerito in Sicko. Prodotto dai fratelli Weinstein,

dalla Paramount e da Overture Films, Capitalism: A Love Story viene presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia nel settembre del 2009. Nei titoli di testa, le immagini di rapine registrate con telecamere a circuito chiuso annunciano il saccheggio subito dai cittadini americani da parte delle grandi banche. Un video d’epoca sul declino dell’impero romano spiega che quest’ultimo crollò per l’immoralità, la corruzione e l’insipienza dei propri governanti, mentre immagini che ricostruiscono la vita nell’antica Roma sono alternate con quelle degli Stati Uniti odierni e della loro classe politica. Sequenze filmate a Lexington, Peoria e Detroit mostrano l’umiliazione e la rabbia di alcune famiglie della classe media costrette ad abbandonare le proprie case perché incapaci di pagare i debiti. A Miami, invece, l’immobiliarista Peter Zalewski fa affari d’oro rilevando e rivendendo le case delle persone sfrattate. Per questo si procura la lista dei pignoramenti direttamente dal tribunale. Immagini d’archivio mostrano l’attaccamento della società americana al capitalismo, che le ha permesso di diventare la prima potenza economica mondiale. Insieme all’amico attore Wally Shawn, il regista discute di come tale sistema crei disparità all’interno della società. Attraverso filmati di famiglia, ripercorre poi la sua infanzia a Flint: grazie al lavoro del padre operaio, lui e i suoi fratelli hanno potuto studiare, andare in vacanza e ricevere cure mediche. All’epoca gli americani pagavano il 90% di tasse ma erano felici perché ciò permetteva di finanziare infrastrutture e servizi essenziali. Questa “love story” con il capitalismo sembra interrompersi con l’arrivo di Carter ma la vera rivoluzione è l’elezione di Ronald Reagan. Con lui inizia un’epoca di smantellamenti industriali e di favori ai grandi gruppi economici. Negli ultimi trent’anni sono aumentati i licenziamenti e i profitti delle corporations mentre gli stipendi dei lavoratori, sempre più indebitati, sono rimasti gli stessi. Il regista cerca quindi di entrare, una volta di più, nella sede della Gm, ma invano. Accompagna allora il padre nel luogo dove sorgeva la fabbrica in cui questi ha lavorato per trentatré anni e ridotta ormai a una distesa di macerie. I due rievocano i giorni felici e lo spirito collaborativo tra operai. Negli Usa odierni, invece, il profitto sembra l’unico fine delle aziende. Osserviamo Bush tessere le lodi del capitalismo mentre ovunque le fabbriche chiudono e le case vengono pignorate. In Pennsylvania un comune ha subappaltato la gestione di un carcere minorile a una società privata. Quest’ultima ha poi stretto un accordo con due giudici i quali, in cambio, hanno condannato per futili motivi 6.500 minori permettendo all’azienda di ottenere milioni di dollari di fondi pubblici. Si scopre anche che i piloti aerei ricevono ormai degli stipendi irrisori, che li costringono a donare il sangue o a fare più lavori insieme. L’incidente aereo di Buffalo nel febbraio 2009 è frutto anche di questa logica. Moore racconta poi della “Dead Peasant Insurance”, una polizza con cui le compagnie speculano sui loro dipendenti, incassando forti somme in caso di morte di questi ultimi. Attraverso le testimonianze di un avvocato e dei familiari di alcune vittime, scopre che quasi tutte le grandi aziende sottoscrivono contratti del genere. Anche alcuni preti cattolici confermano l’intrinseca malvagità del capitalismo a Moore che racconta come, da bambino, avrebbe voluto divenire uno di quei sacerdoti che lottano per la giustizia sociale. Eppure da sempre i ricchi hanno utilizzato la religione per la propria causa. Ridoppiando immagini del film Gesù di Nazareth (di Franco Zeffirelli, 1977) viene mostrato un Cristo convertito ai principi dell’alta finanza. Nel 2006 un rapporto del gruppo Citigroup riservato ai suoi clienti più ricchi aveva sostenuto che gli Usa non sono più, de facto, una democrazia ma una plutocrazia: l’1% più ricco della popolazione possiede più del 95% più povero. Moore si reca allora a Washington per verificare la costituzione e scopre un testo improntato a principi egualitari che non usa mai la parola capitalismo. Mostra poi alcuni esempi di aziende basate sui principi cooperativi e racconta di Jonas Salk, che ha scoperto e reso gratuito il vaccino contro la poliomelite. Oggi invece negli Usa i migliori laureati lavorano tutti per l’alta finanza. Moore cerca quindi di capire il significato di prodotti finanziari come bonds, derivati, swaps, subprimes. A Wall Street, dopo alcuni rifiuti, trova una persona disposta a spiegarglielo ma il meccanismo gli rimane oscuro. La morale è che l’economia americana è diventata come Las Vegas: tutta fondata su pericolosi azzardi finanziari che hanno spinto molti a indebitarsi e ipotecare le proprie case. A Peoria, intanto, una famiglia sfrattata dalla fattoria dove ha vissuto per tutta la vita è costretta anche a ripulirla e a distruggere i mobili: per tutto ciò la banca che la rileverà consegnerà loro un assegno da mille dollari. Eppure le compagnie che offrono prestiti esosi ai lavoratori sono molto generose con vip e politici, che garantiscono loro impunità e favori vari. Molti politici, come gli ex ministri del tesoro Robert Rubin e Larry Summers, sono stati ricoperti d’oro da queste compagnie. L’economista Bill Black spiega che nel 2004 l’Fbi aveva denunciato un’epidemia di frodi finanziarie perpetrate ai danni dei privati cittadini ma che Bush aveva deliberatamente sottovalutato la cosa. La crisi del 2008 è quindi l’inevitabile risultato di anni di avidità finanziarie e collusioni con la politica. Non a caso la soluzione prevista da Washington è stata un bailout, un salvataggio delle principali banche con settecento miliardi di denaro pubblico. Interrogando alcuni deputati sulla decisione, il regista scopre che la banca Goldman Sachs, la principale beneficiaria, ha una fortissima

influenza sul governo. Il ministro del tesoro Paulson è infatti un ex presidente della banca. Sotto le pressioni popolari, il bailout era stato bocciato ma in seguito, con un accordo tra democratici e repubblicani, in una sorta di golpe finanziario, viene approvato. Alla guida di un furgone blindato Moore si reca a Wall Street per esigere che parte del denaro pubblico sia restituito e per arrestare i responsabili del crollo. Intanto la campagna elettorale è entrata nel vivo: malgrado la propaganda che lo dipinge come un socialista, Obama è eletto. Secondo i sondaggi i giovani americani cominciano addirittura a preferire il socialismo al capitalismo. In tutto il Paese avvengono fatti insoliti. A Detroit uno sceriffo vieta i pignoramenti di case. A Miami un gruppo di persone si organizza perché una famiglia sfrattata occupi una casa sfitta, convincendo la polizia e il proprietario a non intervenire. A Chicago alcuni operai lasciati senza stipendio dopo il fallimento di una fabbrica, occupano a oltranza gli stabilimenti, ottenendo l’appoggio di Obama, del vescovo della città e di moltissime persone. Secondo Moore è il segno che i tempi stanno cambiando e il regista rievoca un’altra occupazione, il grande sciopero di Flint del 1936, appoggiato dall’allora presidente Roosevelt, e la Carta dei diritti che quest’ultimo elaborò poco prima di morire. Se questa fosse stata approvata forse oggi gli Usa sarebbero un Paese che garantisce i fondamentali diritti civili. E non, come ha dimostrato l’uragano Katrina a New Orleans, uno nel quale a essere in difficoltà sono sempre i più poveri. Occorre che tutti gli americani si attivino per eliminare il capitalismo e ridare forza alla democrazia, afferma il regista, che conclude: «Mi rifiuto di vivere in un Paese così. E non me ne vado».

Peccato che il titolo fosse già stato prenotato da Fernando Solanas perché Diario del saccheggio (Memoria del Saqueo, 2004) sarebbe stato un titolo perfetto. Capitalism: A Love Story non ha molto della commedia romantica che pure aggiungerebbe una voce all’elenco dei generi hollywoodiani cui Moore ama ricorrere. Si tratta proprio della cronaca del saccheggio subito per anni dalle classi più povere d’America ma emerso in maniera drammatica solo con la crisi del 2008, “obbligando” il regista a tornare sul terreno del suo esordio, in una sorta di resa dei conti consumata (fredda) a vent’anni dal suo primo film. Tanto è trascorso dall’uscita di Roger & Me, precoce grido d’allarme sui rischi della deindustrializzazione e di un’economia pericolosamente disinteressata alle condizioni dei lavoratori. Vent’anni in cui nessuno dei presidenti che si sono succeduti ha realmente tentato di arginare le delocalizzazioni o l’in gordigia dei grandi gruppi finanziari. Ma la spaventosa recessione che da Wall Street si è diffusa in tutto il mondo, oltre a rimettere in discussione un modello economico che si credeva l’unico possibile, sembra sancire la bontà di quanto Moore va denunciando fin dai suoi esordi. In tutto il Paese, mentre la disoccupazione raggiunge i più alti livelli dal 1983, intere famiglie devono lasciare la propria casa perché incapaci di pagare i debiti contratti con le banche. Le chiusure delle fabbriche, le case abbandonate e gli sfratti che erano il fil rouge visivo di Roger & Me (debitamente rievocato) sono diventate un’immagine ricorrente per molti americani. Per uno che ha sempre fatto della sua Flint il simbolo della crisi di un Paese, la constatazione è fin troppo facile: gli Stati Uniti si stanno “flintizzando”. Per impostazione e argomenti trattati, il film non sorprende chi ha visto i precedenti documentari del regista: piuttosto trasversale come contenuti e in buona parte elaborato a lavorazione iniziata, ricalca soprattutto l’impianto di Fahrenheit 9/11. Non sono molte le novità, rispetto al recente passato, per quanto riguarda elementi come la presenza scenica, il cinema-collage e il ricorso alle testimonianze di semplici cittadini “vittime” del sistema. Va però notato il recupero di quell’ironia che, almeno da Bowling a Columbine in poi, era andata un po’ scemando. Un’ironia che si materializza di nuovo in un uso spregiudicato e incontenibile del found footage: home movies (addirittura il regista che, da bambino, visita Wall Street), grotteschi spezzoni di Reagan attore o testimonial pubblicitario, video di Youtube con gatti che tirano lo sciacquone, film d’epoca (fot. 104), discorsi di Roosevelt e addirittura Gesù di Nazareth, ridoppiato per l’occasione. Anche stavolta siamo di fronte a un film concepito essenzialmente per il pubblico americano, verso il quale sono rivolti gli appelli alla rivolta pronunciati nel finale, e nel quale i riferimenti ai paesi stranieri servono solo a mostrare le storture del proprio Paese: Germania, Giappone e Italia vengono citati come paesi dalle costituzioni esemplari anche perché elaborate dai colaboratori di Roosevelt. Ma ha una differenza sostanziale, forse non immediatamente percepibile: è l’opera di chi assapora

una vittoria morale attesa da anni. L’indignazione nei confronti dell’amministrazione Bush e delle grandi banche non è certo attenuata ma nemmeno urlata con la rabbia di una Cassandra. Semmai è de nunciata con la serenità di chi sa che, forse per la prima volta, la maggioranza della popolazione è d’accordo con lui. Anche i blitz nelle sedi delle grandi corporations (in questo caso soprattutto a Wall Street, fot. 105), vecchia abitudine rispolverata per l’oc ca sione, han no il sapore di una passerella trionfale. Re catosi alla sede della Gm, che nel frattempo ha dichiarato bancarotta, il nostro si concede il lusso di non infierire, limitandosi a dire agli agenti di sicurezza che sono anni che tenta di avvertire i dirigenti dei rischi che correvano. Non è facile capire se sia Moore ad avere sottilmente attenuato il suo fervore o il mutato quadro politico a rendere le sue invettive più vicine al senso comune che in passato. Ma la crisi, insieme all’elezione di Obama, gli hanno dato una legittimità che rende credibile e ragionevole quanto prima era spesso percepito come una provocazione.

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Concepito come un pamphlet ispirato dall’attualità e un manuale di rivolta politica, emerge in maniera più forte la vaghezza della controproposta, che si riduce in un generico invito a rafforzare la democrazia, presentata come l’esatto opposto del capitalismo. Più che quest’ultimo in sé, presentato come un sistema antiamericano e anticristiano (mai così esplicito era stato il riferimento al cattolicesimo), bersaglio del film è quello senza scrupoli praticato da alcuni squali di Wall Street. Soprattutto agli occhi europei, alcuni dei controesempi “virtuosi”, come le due aziende cooperative e l’esempio del vaccino contro la poliomelite diffuso gratuitamente, non appaiono poi così rivoluzionari. Malgrado le strizzate d’occhio, anche il riferimento al socialismo non è mai davvero convinto. Capitalism: A Love Story è per il regista un film doveroso: un’opportunità, presentatagli dal destino, di ribadire con forza idee portate avanti da anni. Dal punto di vista della coerenza non c’è niente da obiettare, ma da quello cinematografico il film non aggiunge molto a quanto visto dal 2002 in poi. Contrariamente a quanto aveva annunciato, Moore non ha azzerato la sua presenza nel film: è anzi un po’ più presente che in Sicko. Nel finale, dopo l’ultima incursione con tanto di megafono in mano e nastro isolante srotolato intorno a Wall Street (fot. 106), egli dichiara (ironico o stremato?) di averne abbastanza di questa vita. Da un lato ciò gli serve per preparare l’appello finale, in cui richiede agli spettatori di non lasciarlo solo nella sua battaglia. Ma dall’altro si avverte, se non un desiderio esplicito di voltare pagina, la sensazione che il documentario metta il sigillo su vent’anni

di carriera. Una carriera i cui tratti caratteristici sembrano convergere tutti nel corso delle due ore del film: Flint, il grande sciopero del 1936, gli idoli polemici Reagan e Bush (fot. 107), Roosevelt e Obama, i poveri contro i ricchi, la chiesa cattolica, l’agit-prop, la ma scherata (come quando si mette alla guida di un furgone blindato per ri prendersi il denaro del bailout, fot. 108), il found footage, i film di famiglia e addirittura un cameo del padre.

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Moore ha dichiarato alla stampa di volersi prendere una pausa dal documentario per dedicarsi di nuovo al cinema di finzione. Probabile che nel frattempo non mancheranno di emergere bersagli (magari gli stessi che si credevano sconfitti) contro cui scagliarsi e battaglie per cui varrà la pena rimet tersi in gioco. Sta remo a vedere. Intanto il regista di Flint può godersi una constatazione: nei primi vent’anni di carriera, malgrado le contaminazioni tra documentario e finzione proseguano, i suoi imitatori perdono di visibilità mentre nessuno come lui continua ad attrarre il grande pubblico verso il cinema documentario.

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REGIE 1989 | Roger & Me | Id.

Regia: Michael Moore; sceneggiatura: Michael Moore; fotografia: Chris Beaver, John Prusak, Kevin Rafferty, Bruce Schermer; montaggio: Jennifer Beman, Wendey Stanzler, suono: Judy Irving; interpreti: Michael Moore, Rhonda Britton, Fred Ross, Pat Boone, Anita Bryant, Tom Kay, James Bond, Kaye Lani Rae Rafko, Ben Hamper, Bob Eubanks, Roger B. Smith, Ronald Reagan; produttori: Michael Moore, Wendey Stanzler; produzione: Dog Eat Dog Films, Warner Bros. Pictures; formato: 16mm gonfiato a 35mm; origine: Usa; durata: 87’. Premi principali: Miglior film, Festival di Toronto 1989; Miglior Film, Festival di Chicago 1989; Miglior documentario 1989, National Society of Film Critics; Premio del pubblico, Festival di Berlino 1990; Altri titoli: Roger and Me; A Humorous Look at How General Motors Destroyed Flint, Michigan (sottotitolo). 1992 | Pets or Meat: The Return to Flint | t.l.: Animali da coccole o da macello: il ritorno a Flint

Regia: Michael Moore; sceneggiatura: Michael Moore; fotografia: Ed Lachman; montaggio: Jay Freund; interpreti: Michael Moore, Rhonda Britton, Fred Ross, Janet K. Rouch, Bob Eubanks Roger

B. Smith, George Bush; produttori: Lydia Dean Pilcher, Michael Moore: produttore esecutivo: Marc N. Weiss; produzione: Pbs, Dog Eat Dog Films; formato: 35mm; origine: Usa; durata: 22’. Note: Trasmesso il 28 settembre 1992 in abbinamento a Roger & Me durante il programma «P.O.V» sulla rete Pbs. Distribuito anche, insieme ai cortometraggi A Sense of History di Mike Leigh e The Appointments of Dennis Jennings di Dean Parisot e Steven Wright, con il titolo collettivo di Two Mikes don’t make a Wright. 1995 | Canadian Bacon | Operazione Canadian Bacon

Regia: Michael Moore; soggetto e sceneggiatura: Michael Moore; fotografia: Haskell Wexler; montaggio: Michael Berenbaum, Wendey Stanzler; musica: Elmer Bernstein, Peter Bernstein; scenografia: Carol Spier; casting: Lynn Kressel; costumi: Kathleen Glynn; interpreti: John Candy (sceriffo Bud Boomer), Alan Alda (presidente degli Usa), Rhea Perlman (Honey), Kevin Pollak (Stuart Smiley), Rip Torn (Generale Dick Panzer), Kevin J. O’Connor (Roy Boy), Bill Nunn (Kabral), G.D. Spradlin (R.J. Hacker), Steven Wright (guardia canadese), Brad Sullivan (Gus), Richard Council (Vlad), Wallace Shawn (primo ministro canadese), Jim Belushi (Charles Jackal), Dan Aykroyd (poliziotto canadese); produttori esecutivi: Freddy DeMann, Sigurjon Sighvatsson; produttori: Michael Moore, David Brown, Ron Rotholz, Kathleen Glynn, Louis G. Friedman; produttore esecutivo: Freddy DeMann; produttore associato: Terry Miller; produzione: Dog Eat Dog Films, Polygram Filmed Entertainement, Propaganda Films, David Brown/Maverick Picture Company, Gramercy Pictures; distribuzione Italia: IIF; formato: 35mm (Panavision); origine: Usa; durata: 95’. Note: Prima proiezione al festival di Cannes 1995 (sezione “Un certain regard”). 1997 | The Big One | Id.

Regia: Michael Moore; sceneggiatura: Michael Moore (in parte ispirato al suo libro Downsize This! Random Threats from an Unarmed American); fotografia: Brian Danitz, Chris Smith; montaggio: Meg Reticker; musica originale: The World Famous Blue Jays; suono: Sarah Price; interpreti: Michael Moore, Elaine Bly, Dan Burns, Chip Carter, Bill Clinton, Jim Czarnecki, Brian Danitz, Steve Forbes, Doug France, Mary Gielow, Kevin Keane, Garrison Keillor, Phil Knight, Tia Lessin, Rick Nielsen, Chris Smith, Studs Terkel; produttori: Jim Czarnecki, Kathleen Glynn, Tia Lessin; produzione: Dog Eat Dog Films, Miramax, Bbc, Mayfair Entertainement International; formato: video gonfiato a 35mm; origine: Gran Bretagna, Usa; durata: 91’. 2002 | Bowling for Columbine | Bowling a Columbine

Regia: Michael Moore; sceneggiatura: Michael Moore; fotografia: Brian Danitz, Michael Mc Donough, Ed Kukla; montaggio: Kurt Engfehr: musica originale: Jeff Gibbs; interpreti: Michael Moore, Charlton Heston, Arthur Busch, Dick Clark, Barry Glassner, Mary Lorenz, Marilyn Manson, Tom Mauser, Timothy McVeigh, James Nichols, Terry Nichols, Tamarla Owens, Robert Pickell, Matt Stone, Mark Taylor; capo archivista: Carl Deal; produttori: Charles Bishop, Jim Czarnecki, Michael Donovan, Kathleen Glynn, Michael Moore; produzione: Dog Eat Dog Films, Alliance Atlantis, Iconolatry Productions, Salter Street Films, Time Film-und Tv Produktions, United Artists, Vif 2; distribuzione Italia: Mikado; formato: 35mm; origine: Usa, Canada, Germania; durata: 120’. Premi principali: Oscar 2003 per il miglior documentario; Premio del pubblico, International Documentary Festival Amsterdam 2002; Premio speciale del 55° anniversario festival di Cannes 2002; César 2003 per il Miglior film straniero; Miglior documentario di tutti i tempi-International Documentary Association. 2004 | Fahrenheit 9/11 | Id.

Regia: Michael Moore; sceneggiatura: Michael Moore; fotografia: Mike Desjarlais; montaggio: Kurt Engfehr, T. Woody Richman, Christopher Seward; musica originale: Jeff Gibbs; suono: Francisco Latorre; interpreti: Michael Moore, George W. Bush, Lila Lipscomb, Al Gore, James

Baker III, Condoleeza Rice, Saddam Hussein, Dick Cheney, Donald Rumsfeld, John Ashcroft, George Bush, Bill Clinton, Richard Clarke, Paul Wolfowitz, Colin Powell, Thomas Kean, Bandar Bin Sultan bin Abdulaziz, Jim McDermott, Abdul Henderson, Howard Lipscomb; produttore d’archivio: Carl Deal; autore animazione “Una breve storia degli Stati Uniti d’America”: Harold Moss; produttori: Jim Czarnecki, Kathleen Glynn, Michael Moore, Tia Lessin, Jeff Gibbs, Kurt Engfehr; produttori esecutivi: Bob Weinstein, Harvey Weinstein, Agnes Mentre; produzione: Dog Eat Dog Films, Miramax Films, Lions Gate Films, Ifc Films, Fellowship Adventure Group, Westside Production Services; distribuzione Italia: Bim; formato: HD (Sony HDC-F950); origine: Usa, Canada, durata: 122’. Premi principali: Palma d’oro e Premio Fipresci 2004, festival di Cannes; César 2005 per il Miglior film straniero. 2007 | Sicko | Id.

Regia: Michael Moore; sceneggiatura: Michael Moore; fotografia: Tony Hardmon, Peter Nelson, Jonathan Weaver, Andy Black, Daniel Marracino, Jayme Roy; montaggio: Geoffrey Richman, Christopher Seward, Dan Swietlik; musica originale: Erin O’Hara; interpreti: Michael Moore, Donna Smith, Larry Smith, Reggie Cervantes, John Graham, Aleida Guevara, William Maher, Linda Peeno, Hillary Clinton, Richard Nixon, George W. Bush; produttori: Meghan O’Hara, Michael Moore; produttori esecutivi: Kathleen Glynn, Harvey Weinstein, Bob Weinstein; produzione: Dog Eat Dog Films, The Weinstein Company; distribuzione Italia: 01 Distribution; formato: HD; origine: Usa; durata: 123’. 2007 | Slacker Uprising | t.l.: La rivolta del fannullone

Regia: Michael Moore: soggetto e sceneggiatura: Michael Moore; fotografia: Kirsten Johnson, Bernardo Loyola; montaggio: David Feinberg, Bernardo Loyola; suono: Francisco Latorre, Noah Vivenkand Timan; interpreti principali: Michael Moore, Eddie Vedder, Tom Morello, Joan Baez, Peter Buck, Michael Stipe, Mike Mills, Robert Ellis Orrall, Viggo Mortensen, Roseanne Barr, Steve Earle, George W. Bush, John Kerry; produttori: Michael Moore, Monica Hampton; produttore associato e assitente alla regia: Jason Pollock; produttori esecutivi: Kathleen Glynn, Harvey Weinstein, Bob Weinstein; produzione: Dog Eat Dog Films, The Weinstein Company, Brave New Films; formato: HD; origine: Usa; durata: 97’. Note: inizialmente presentato come Captain Mike Across America (durata: 103’) al festival di Toronto del 2007; altri titoli: Michael Moore’s Uprising. 2009 | Capitalism: A Love Story | t.l. Capitalismo: una storia d’amore

Regia: Michael Moore; sceneggiatura: Michael Moore; fotografia: Dan Marracino, Jayme Roy; montaggio: John Walter, Conor O’Neill, Jessica Brunetto, Alex Meillier, Tanya Ager Meillier, Pablo Proenza, T. Woody Richman; musica originale: Jeff Gibbs; interpreti: Michael Moore, Barack Obama, George W. Bush, Wally Shawn, William K. Black, Michael D. Myers, Dick Preston, Peter Dougherty, Elizabeth Warren; suono: Francisco Latorre, Mark Roy, Hillary Stewart; produttori: Michael Moore, Anne Moore, Rod Birleson, John Hardesty, Tia Lessin, Carl Deal; produttori esecutivi: Kathleen Glynn, Bob Weinstein, Harvey Weinstein; produzione: Dog Eat Dog Films, Paramount Vantage, Overture Films, The Weinstein Co.; distribuzione Italia: Mikado; formato: HD; origine: Usa; durata: 120 minuti. REGIE TELEVISIVE 1994-1995 | Tv Nation | t.l.: Nazione televisiva

Note: Inedito in Italia. I titoli dei segmenti qui riportati riprendono quelli elencati nel sito ufficiale del regista, talvolta leggermente diversi da quelli che appaiono nei titoli di coda. Alcune fonti (imdb.com, tv.com) attribuiscono anche un titolo generico ad alcuni episodi, spesso ripreso dal

primo segmento (es. “Gun Night” per l’episodio 7 della prima stagione). Prima stagione (Nbc 1994)

Regia e conduzione: Michael Moore; autori: Michael Moore, Randy Cohen, Chris Kelly, Stephen Sherrill, Eric Zicklin; montaggio: Jay Keuper, David Zieff, Wendy Stanzler, Kristen Huntley, Peter Kinoy, Mary Manhardt, Lisa Shreve, Howard Silver, Gloria Whittemore; tema musicale: Bob Golden, Tomandandy; corrispondenti: Michael Moore, Jonathan Katz, Karen Duffy, Ben Hamper, Louis Theroux, Janeane Garofalo, Merrill Markoe, Roy Sekoff, Jane Morris; produttori: Michael Moore, Kathleen Glynn, David Wald; produttori segmenti: Joanne Doroshow, Jerry Kupfer, David Royle, Louis Theroux, Merril Markoe, Jonathan Katz, Jim Czarnecki, Paco de Onis, Frances Alswang, Geoffrey O’Conner; produzione: Nbc, Columbia Tristar, Bbc, Dog Eat Dog Films; diffusione: Nbc, Bbc 2; formato: video; origine: Usa; durata: nove episodi di 45’ ciascuno. Elenco puntate, data di trasmissione originale e titolo dei segmenti interni: Episodio 1 - Pilot (19 luglio 1994): NAFTA, Taxi, Appleton, Love Canal, Mike’s Missiles. Episodio 2 (26 luglio 1994): CEO Challenge, AIDS Insurance Brokers, Klan PR Makeover, Kuwait, Pets on Prozac. Episodio 3 (2 agosto 1994): Dr Death, Lobbyist, Amazon Avon, North Dakota, Sludge. Episodio 4 (9 agosto 1994): O.J./Product Placement Night, 1-800-TOURISM, Hot Springs, Lord Mike, Health Care Olympics. Episodio 5 (16 agosto 1994): Tv Nation Day, Millennium, Get Ready for Prison Test, Haulin, Bosnia. Episodio 6 (21 agosto 1994): Fifth Week Anniversary Special. Episodio 7 (23 agosto 1994): Gun Night, Neighbors, Ny/NJ Grease, Talk Show. Episodio 8 (30 agosto 1994): Golf Night, Caning, Sabotage, Direct Mail, Corporate Consultants. Episodio 9 - Year End Special (28 dicembre 1994): Jacuzzi, Corp Aid, White House Security Guard, Didn’t Die in ’94, ’95 Invasion, Republicans, Steven Wright/New Year, New Jobs. Seconda stagione (Fox, 1995)

Regia e conduzione: Michael Moore; autori: Michael Moore, Ann Cohen, John Derevlany, Francis Gasparani, Jay Martel, Jeff Stilson, Louis Theroux, Richard Whitley; montaggio: Kristen Huntley, Wendey Stanzler, David Zieff, Ann Collins, Jay Keuper, David Tedeschi, Karl Woitach, Daisy Wright; tema musicale: Bob Golden, Tomandandy; corrispondenti: Michael Moore, Louis Theroux, Karen Duffy, Rusty Cundieff, Janeane Garofalo, Yuri Shvets, Crackers (Lee Brownstein, John Derevlany), Jeff Stilson; produttori segmenti: Paco de Onis, Joanne Doroshow, David Berrent, Adrienne Salisbury, Jim Czarnecki, Patrick Farrelly, Kate O’Callaghan, Kent Alterman, Pamela Yates, Peri Muldofsky, Chuck Smith, Frances Alswang; produttori: David Wald, Kent Alterman, Andy Aaron; produzione: Fox, Dog Eat Dog Films; diffusione: Fox; formato: video; origine: Usa; durata: sette episodi di 45’ ciascuno. Premi principali: Emmy Award 1995 for Outstanding Informational Series. Elenco puntate, data di trasmissione originale e titolo dei segmenti interni: Episodio 1 (21 luglio 1995): Bruno for President, We’re #1, Greenwich, Crime Scene Cleanup, Slaves, Crackers. Episodio 2 (28 luglio 1995): Payback Night, KGB: Yuri, NEA, A-Bomb, Jerusalem Syndrome, Johns of Justice. Episodio 3 (4 agosto 1995): War Reenactment Night, Helltown, Crackers-Philly, Electronic Sniffer, Cobb, School of Americas, Widgery. Episodio 4 (11 agosto 1995): Most Wanted, Love Night, Aquarium, Militia, KGB 2. Episodio 5 (25 agosto 1995): Canada Night, DC Perks, Nugent, Crackers Tour-St. Louis, Falklands. Episodio 6 (1 settembre 1995): Hug-A-Gov, Psy-Ops, Rosemont, Unions, White Men, Most Wanted

Part 2, Fan Mail. Episodio 7 (8 settembre 1995): Bully Reunion Night, Confession, Tv Felons, Crackers-Detroit, KGB 4, Weatherman. 1999-2000 | The Awful Truth | La Terribile verità

Note: I titoli dei segmenti non appaiono nei titoli di coda della trasmissione. Poiché il sito ufficiale di Michael Moore risulta al riguardo incompleto, ci siamo basati sul database Tv.com. Anche in questo caso va segnalata una certa discrepanza tra i titoli riportati su quest’ultimo, su imdb.com e sul sito del regista. Prima stagione (1999)

Regia e conduzione: Michael Moore; autori: Michael Moore, Ann Cohen, Nick McKinney, Francis Gasparani, Henriette Mantel, Jay Martel, Gideons Evans; capo cameraman: Brian Danitz; responsabile suono dal vivo: Francisco Latorre; montaggio: Kurt Engfehr, David Zieff, Doug Abel, Richard Calderon, Tommy Fasano, Meg Reticker, Dave Tedeschi, Jim Villone; tema musicale: Bob Golden, Nicholas Katsopoulos; inviati: Michael Moore, Crackers (Gideon Evans), Louis Bruno, Joe Camel; produttori segmenti: Helen Demeranville, Patrick Farrelly, Kate O’Callaghan, Jim Paul; regista trasmissione dal vivo: Linda Mendoza; produttore: Ellin Baumel, Dave Hamilton, Tia Lessin, James Ridgeway, Charlie Siskel; produttore esecutivo: Michael Moore, Kathleen Glynn; produzione: United Broadcasting per Channel Four, Bravo, Dog Eat Dog Films; diffusione: Bravo, Channel Four; distribuzione Dvd Italia: Internazionale; formato: video; origine: Usa, Regno Unito; durata: dodici episodi di 24’ ciascuno. Elenco puntate, data di trasmissione originale e titolo dei servizi interni: Episodio 1 (11 aprile 1999): A Cheaper Way To Conduct A Witch Hunt, Hmo Funeral. Episodio 2 (18 aprile 1999): Beat the Rich, The Sodomobile. Episodio 3 (25 aprile 1999): Crackers vs. Mickey Mouse, The Voice-Box Choir. Episodio 4 (2 maggio 1999): Sal, The Bill Collector, Interlude, Duck and Cover. Episodio 5 (9 maggio 1999): The Awful Truth Man of the Year, Tv Pundits?, 150 Feet from Nbc. Episodio 6 (16 maggio 1999): Work Care!, LucyCam, Air-Drop Tv’s on Afghanistan. Episodio 7 (23 maggio 1999): Cohen is a Wimp, LucyCam #2, Mind That Memo. Episodio 8 (30 maggio 1999): Montana Shacks, Joe Camel Needs a Job, LucyCam #3. Episodio 9 (13 giugno 1999): Hail Turdonia, Teen Sniper School, Hitler Makes a Withdrawal. Episodio 10 (6 giugno 1999): Crackers vs. The Egg Farm, The Michael Moore Playset, American Apartheid, Bill Gates’ Housewarming. Episodio 11 (20 giugno 1999): Weapons Inspectors, The Make a Wish Foundation, We Find Hillary a Date. Episodio 12 (27 giugno 1999): NAFTA Mike, Strikebreakers, Mergers. Seconda stagione (2000)

Regia e conduzione: Michael Moore; autori: Michael Moore, Ann Cohen, Nick McKinney, Jay Martel; capo cameraman: Brian Danitz; responsabile suono dal vivo: Francisco Latorre; montaggio: David Zieff, Caroline Christie, Doug O’Connor, Randy Snitz, Laure Sullivan, Stan Warnow, Kurt Engfehr, Rachel Kittner; tema musicale: Bob Golden, Nicholas Katsopoulos; inviati: Michael Moore, Jay Martel, Gideon Evans (Crackers), Louis Bruno, Karen Duffy, K-Flex, Ben Hamper; produttore: Ellin Baumel, Dave Hamilton, Tia Lessin, Charlie Siskel, Marc Henry Johnson, Rob Huebel; produttore esecutivo: Michael Moore, Michael Donovan, Kathleen Glynn; produzione: Channel Four, Bravo, Salter Street Films, Dog Eat Dog Films; diffusione: Bravo, Channel Four; distribuzione Dvd Italia: Internazionale; formato: video; origine: Usa, Regno Unito; durata: dodici episodi di 24’ ciascuno. Elenco puntate, data di trasmissione originale e titolo dei servizi interni:

Episodio 1 – Advertiser Appreciation Night (17 maggio 2000): Presidential Mosh, Gun Crazy. Episodio 2 – Compassionate Conservative Night (24 maggio 2000): Don’t Shoot, It’s Only a Wallet, Sibling Rivalry. Episodio 3 – Help the Dead Guy (31 maggio 2000): Immoral Majority, Seniors Strike Back. Episodio 4 – German Vacation Night (7 giugno 2000): Got it Maid!, Bmw (Break My Windows). Episodio 5 – Ficus for Congress (21 giugno 2000): The Choice. Episodio 6 – Taxi Driver (28 giugno 2000): Whitey can’t ride, Low Heels for Ho Heels, Male Apartheid. Episodio 7 – Dixie Flag Night (5 luglio 2000): Molson Loses Its Head, Corporate Cops. Episodio 8 – Stop and Frisk Night (12 luglio 2000): No Trials Necessary, No Intelligence Necessary. Episodio 9 – Replacement Mike (19 luglio 2000): No Side Effects, We Still Love NY. Episodio 10 – Store the Homeless (26 luglio 2000): Design For Living, Thou Shalt Not..., Affirmative Action. Episodio 11 – Gulf War (2 agosto 2000): Saddamized, It’s All in Your Head. Episodio 12 – Find Clinton a Job (9 agosto 2000): Roe vs. Wade, R.I.P., Population Explosion. VIDEO MUSICALI 2000 | Sleep Now in the Fire

Regia: Michael Moore; artista: Rage Against The Machine; album: The Battle of Los Angeles; fotografia: Welles Hackett; effetti speciali: Nahum; origine: Usa; durata: 3’25”. Premi principali: Miglior video rock dell’anno, Mtv Video Music Awards. 2000 | Testify

Regia: Michael Moore; artista: Rage Against The Machine; album: The Battle of Los Angeles; effetti speciali: Nahum; origine: Usa; durata: 3’30”. 2001 | All the Way to Reno (You’re Gonna be a Star)

Regia: Michael Moore; artista: R.E.M.; album: Reveal; origine: Usa; durata: 3’25”. 2003 | Boom!

Regia: Michael Moore; artista: System of a Down; album: Steal This Album!; origine: Usa; durata: 3’01”. INTERPRETAZIONI (FICTION) 1999 | EDtv | EdTV

Regia: Ron Howard; origine: Usa; durata: 122’. 2000 | Lucky Numbers | Magic Numbers

Regia: Nora Ephron; origine: Usa, Francia; durata: 105’. 2000 | The Private Public

Regia: Dana Altman; origine: Usa; durata: 90’. 2004 | The Fever

Regia: Carlo Gabriel Nero; origine: Usa, Regno Unito; durata: 83’. PRINCIPALI INTERPRETAZIONI (DOCUMENTARIO) 1991 | Blood in the Face

Regia: Anne Bohlen, Kevin Rafferty, James Ridgeway; origine: Usa; durata: 78’. 2000 | Trade Off

Regia: Shaya Mercer; origine: Usa; durata: 95’. 2001 | Last Party 2000

Regia: Rebecca Chaiklin, Donovan Leitch; origine: Usa; durata: 90’. 2003 | The Yes Men

Regia: Dan Ollman, Sarah Price, Chris Smith; origine: Usa; durata: 83’. 2003 | The Corporation

Regia: Mark Achbar, Jennifer Abbott; origine: Canada, Usa; durata: 145’. 2003 | Orwell Rolls in His Grave

Regia: Robert Kane Pappas ; origine: Usa; durata: 84’. 2005 | The Drugging of Our Children

Regia: Manette Loudon, Gary Null; origine: Usa; durata: 104’. 2005 | This Divided State

Regia: Steven Greenstreet; origine: Usa; durata: 88’. 2005 | Martial Law 9/11: Rise of the Police State

Regia: Alex Jones; origine: Usa; durata: 155’. 2006 | I’m Going to Tell You a Secret

Regia: Jonas Akerlund, Dago Gonzales; origine: Usa; durata: 121’/127’ DOCUMENTARI SU MICHAEL MOORE 2004 | Michael Moore Hates America

Regia: Michael Wilson; origine: Usa; durata: 125’. 2004 | FahrenHYPE 9/11

Regia: Alan Peterson; origine: Usa; durata: 80’. 2004 | Celsius 41.11: The Temperature at Which the Brain... Begins to Die

Regia: Kevin Knoblock; origine: Usa; durata: 72’. 2004 | Michael & Me

Regia: Larry Elder; origine: Usa; durata: 90’. 2006 | Me & Michael

Regia: Willard Morgan; origine: Usa; durata: 60’. 2007 | Manufacturing Dissent

Regia: Rick Caine, Debbie Melnyk; origine: Canada; durata: 97’. 2008 | Shooting Michael Moore

Regia: Kevin Leffler; origine: Usa; durata: 84’. DOCUMENTARI PRODOTTI GRAZIE AL CONTRIBUTO DI MICHAEL MOORE 1992 | The Panama Deception

Regia: Barbara Trent; origine: Usa; durata: 91’. 1992 | Feed

Regia: Kevin Rafferty, James Ridgeway; origine: Usa; durata: 76’. 1995 | Spin

Regia: Brian Springer; origine: Usa; durata: 57’. 1995 | Just Another Girl on the IRT

Regia: Leslie Harris; origine: Usa; durata: 92’.

Non è compito semplice districarsi nella giungla di articoli e pubblicazioni dedicate a Michael Moore. Il motivo è semplice: il regista non si è solamente cimentato in quasi tutte le forme principali dell’audiovisivo (finzione, documentario, televisione, videoclip) ma è anche giornalista, saggista, oratore e soprattutto una figura politica e mediatica chiamata in causa anche da chi non ha mai visto i suoi film. Soprattutto dopo il successo di Bowling a Columbine la sua opera e la sua figura sono al centro di numerose polemiche e dibattiti di valore assai ineguale, che spesso esulano dalla sua produzione di cineasta, sconfinando fino all’attacco personale. Piuttosto che fornire un elenco esaustivo che avrebbe incluso anche articoli di poco valore, abbiamo indicato gli interventi che si concentrano in particolare sulla sua opera di regista, ben sapendo che non è sempre possibile separare le sue diverse anime. Le ricerche hanno preso in considerazione studi in lingua italiana, inglese e francese, escludendo, salvo casi particolari, i quotidiani. SCRITTI DELL’AUTORE Michael Moore, Downsize This! Random Threats from an Unarmed American, Crown Publishers, New York, 1996 (tr.it.: Giù le mani!: l’altra America sfida potenti e prepotenti, Mondadori, Milano,

2004); Michael Moore, Kathleen Glynn, Adventures in a Tv Nation: The Stories Behind America’s Most Outrageous Tv Show, Harper Perennial, New York, 1998; Michael Moore, Stupid White Men... and Other Sorry Excuses for the State of the Nation, Regan Books, New York, 2001 (tr.it.: Stupid White Men, Mondadori, Milano, 2003); Michael Moore, Dude, Where’s My Country?, Warner Books, New York, 2003 (tr.it.: Ma come hai ridotto questo paese?, Mondadori, Milano, 2003); Michael Moore, The Official Fahrenheit 9/11 Reader, Simon & Schuster, New York, 2004; Michael Moore, Will They Ever Trust Us Again?: Letters From the War Zone, Simon & Schuster, New York, 2004 (tr.it.: Ingannati e traditi: lettere dal fronte, Mondadori, Milano, 2005); Michael Moore, Mike’s Election Guide, Grand Central, New York, 2008 (tr.it.: Chiedilo a Mike!: consigli al nuovo presidente degli Stati Uniti, Mondadori, Milano, 2008). Sul sito ufficiale dell’autore www.michael-moore.com è raccolto l’archivio delle newsletter indirizzate ai suoi fan (Mike’s letter) dal 1995 a oggi. INTERVISTE Che sia perché Moore ha le idee molto chiare sui suoi film o perché è abitudine della stampa “riciclare” materiale altrui, fatto sta che le sue dichiarazioni risultano spesso molto ripetitive da un articolo all’altro. Fanno eccezione alcune importanti interviste come: Andrew Collins, «The Guardian» (edizione online), 11 novembre 2002; Gavin Smith, The Ending Is Up to You, in «Film Comment», vol. 40, n. 4, luglio-agosto 2004 (tr.it.: in: Giorgio Gosetti, Jean-Michel Frodon, Print the legend - Cinema e giornalismo, Il Castoro, Milano, 2005); Dan Georgakas e Barbara Saltz, Michael and Us: an Interview with Michael Moore, in «Cineaste», vol. 23, n. 3, aprile 1998; e naturalmente Harlan Jacobson, Michael & Me, in «Film Comment», vol. 25, n. 6, novembredicembre 1989, che scatenò una grande polemica i cui effetti sono analizzati nel capitolo di questo libro dedicato a Pets or Meat: the Return to Flint. Si vedano inoltre: Andrea C. Basora, Michael & Me, in «Newsweek», 20 aprile 1998; Antoine de Baecque, in «Libération», 5 febbraio 2003; Sophie Benamon, Michael Moore sur le gril, in «Studio», n. 238, settembre 2007; Sylvain Bourmeau, Michael Moore - Just do it, in «Les inrockuptibles», n. 220, 10 novembre 1999; Marc Dadelsen, La méthode Moore. Analyseentretien autour de huit séquences de Fahrenheit 9/11, in «Synopsis», n. 32, luglio-agosto 2004; Daniel Fierman, The Passion of Michael Moore, in «Entertainement Weekly», 9 luglio 2004; François Forestier, Moore, profession trublion, in «Le Nouvel Observateur», n. 1827, 11 novembre 1999; Massimo Rota, Michael Moore: la mia guerra a Bush, in «Duellanti», n. 9, settembre 2004; Fabrice Rousselot, Je donne des munitions pour voter contre Bush, in «Libération», 7 luglio 2004; Ron Sheldon, Exclusive Interview with Michael Moore of TV Nation, in «People’s Weekly World», 23 settembre 1995; Tiziano Sossi, Michael Moore, alla ricerca della verità, in «Film Cronache», n. 99, luglio- settembre 2004; David Sterrit, One Filmaker’s Answer to Apathy, in «Christian Science Monitor», vol. 87, n. 215, 2 ottobre 1995; John C. Tibbets, An Interview with Michael Moore, in «Film & History», vol. 34, n. 2, 2004. Tra le interviste televisive segnaliamo: Jodi Applegate, Filmmaker Michael Moore Discusses His New Film The Big One, Nbc Saturday Today, sabato 18 aprile, 1998 (trascrizione disponibile su www.michaelmoore.com); David Brancaccio, Now, Public Broadcasting Service (Pbs), episodio 326, 29 giugno 2007 (trascrizione su www.PBS.com). SAGGI, BIOGRAFIE, MONOGRAFIE Per un profilo sommario si vedano i capitoli dedicati a Moore in volumi più generali come: Ian Aitken (a cura di), Encyclopedia of the Documentary Film, vol. II. Routledge, New York, 2006; John Pierson, Spike Mike Reloaded: A Guided Tour Across a Decade of American Independent Cinema, Miramax Books/Hyperion, New York, 2004. Tra i molti testi dedicati alla storia del

documentario che analizzano i film di Moore in una prospettiva di genere abbiamo utilizzato soprattutto Jack C. Ellis, Betsy A. Mac Lane, A New History of Documentary Film, Continuum, New York, 2005; Bill Nichols, Introduzione al documentario, Il Castoro, Milano, 2006; Carl R. Plantinga, Rhetoric and Representation in Nonfiction Film, Cambridge University Press, Cambridge, 1997. Le due biografie più complete e meno faziose sono: Roger Rapoport, Citizen Moore, An American Maverick, Methuen, Londra, 2007; Emily Schultz, Michael Moore. A Biography, Ecw Press, Toronto, 2005. Si veda anche Ken Lawrence, Il mondo secondo Michael Moore, Sperling & Kupfer, Milano, 2005. Decisamente elogiativo, e più incentrato sull’attività politica che sul cinema, è il libro di François Primeau, American Dissident: The Political Art of Michael Moore, Lulu Press, 2007. Tra i libri apertamente ostili: David T. Hardy, Jason Clarke, Michael Moore Is a Big Fat Stupid White Man, Regan Books, New York, 2004; Jesse Larner, Forgive Us Our Spins: Michael Moore and the Future of the Left, J. Wiley & Sons, Hoboken, 2006; Guy Millière, Michael Moore, au delà du miroir, Rocher, Parigi, 2008. In Italia l’unico volume dedicato specificamente al suo cinema è quello recente di Luca Roveri, Il cinema contro di Michael Moore, Bulzoni, Roma, 2008. Altrimenti si possono vedere Giovanni Robertini, Michael Moore, l’intellettuale in bermuda, in «Duel», n. 101, dicembre 2002-gennaio 2003, oppure Alberto Morsiani, Michael Moore: dalla parte del common man, in (volume collettaneo), Stronger Than Real. Il documentario americano contemporaneo, Edizioni di Cineforum, Torre Boldone (Bg), 2004. Per un interessante dibattito italiano sull’evoluzione recente del documentario si veda lo speciale Nobiltà e miseria del documentario, in «Segnocinema», n. 149, gennaio-febbraio 2008 e in particolare gli interventi di Paolo Cherchi Usai, Fiction/Non-Fiction; Le immagini anticorpo di Roberto Chiesi e il polemico Contro il documentario di Alberto Pezzotta. Un lungo articolo che analizza tutta la produzione di Moore alla luce del suo impegno politico è di Garry Watson, The Documentary Films of Citizen Activist Michael Moore: A Man on a Mission, or, How Far a Reinvigorated Populism Can Take Us, in «CineAction», n. 70, dicembre 2006. Sul suo rapporto con la tradizione documentaria classica si veda Louis Menand, Nanook and Me: Fahrenheit 9/11 and the Documentary Tradition, in «New Yorker», vol. 80, n.22, agosto 2004. Sul modo in cui egli fonde modi e scritture tipici della fiction e di diversi tipi di documentario, cfr. Matthew Bernstein, Roger & Me, Documentaphobia and Mixed Modes, in «Journal of Film and Video», vol. 46, n. 1, primavera 1994. Il rapporto con i populisti di sinistra americani è analizzato in François Forestier, Jean-Gabriel Fredet, Le néopopulistes, in «Le Nouvel Observateur», n. 2046, 22 gennaio 2004. Sul cinema autobiografico e le analogie tra Roger & Me e Lightning over Braddock di Tony Buba cfr. Jim Lane, The Autobiographical Documentary in America, University of Wisconsin Press, Madison, 2002, che contiene anche un’analisi dell’opera di Ross McElwee e in particolare di Sherman’s March. Un precoce studio sull’originalità di quest’ultimo e di Roger & Me rispetto al panorama documentario americano si trova in Carl Plantinga, The Mirror Framed: a Case for Expression in Documentary, in «Wide Angle», vol. 13, n. 2, aprile 1991. Sempre sull’autobiografia cfr. anche Marie Danniel-Grognier, L’autodocumentaire américain, une nouvelle utopie: Roger & Me de Michael Moore, in «Cinémaction», n. 115, aprile 2005. Per un’analisi sulla vicinanza di temi e sulle differenze di stili tra Roger & Me e America Dream di Barbara Kopple, cfr. Miles Orvell, Documentary Film and the Power of Interrogation. American Dream & Roger and Me, in «Film Quarterly», vol. 48, n. 2, inverno 1995. Sul cinema saggistico, compreso quello di Moore, si veda Paul Arthur, Essay Question. A Look at the Essay Film, in «Film Comment», vol. 39, n. 1, gennaio-febbraio 2003. Sulla centralità e la visibilità del regista di documentari cfr. Vincent Amiel, la puissance du

désordre, in «Positif», n. 481, marzo 2001, e Philippe Pilard, Documentaire, les règles du “je”, ibidem. Sullo stesso argomento un articolo del regista Jon Ronson, The Egos have landed, in «Sight & Sound», vol. 12, n. 11, novembre 2002, analizza il rapporto di Moore con altri documentaristi “egocentrici” come McElwee, Nick Broomfield e lo stesso Ronson. Molto è stato inoltre scritto, dopo l’uscita di Bowling a Columbine, sull’influenza di Moore nel rilancio del cinema documentario in vari Paesi. Per l’Italia si veda ancora Nobiltà e miseria del documentario, in «Segnocinema» (vedi supra). Per quanto riguarda la Francia cfr. Juliette Cerf, Olivier Joyard, Le réel est entré dans les salles, in «Cahiers du cinéma», n. 573, novembre 2002; Charles Tesson, Foi en l’école ou loi des armes, ibidem. Negli Stati Uniti si veda Steven Mintz, Michael Moore and the Re-Birth of the Documentary, in «Film & History», vol. 35, n. 2, 2005. Sulla fioritura, negli Stati Uniti, di un filone documentario politico influenzato da Fahrenheit 9/11: Alice Lovejoy, Dueling Docs. Polemical documentaries on U.S. Politics, in «Film Comment», vol. 41, n. 1, gennaio-febbraio 2005; Alissa Quart, Dude, Where’s My Aesthetic? Anti-corporate documentaries: The Corporation and Super Size Me, in «Film Comment», vol. 40, n. 3, maggiogiugno 2004. SULLE SINGOLE OPERE Dal sito dell’autore si può accedere alla versione integrale di recensioni, articoli e interviste apparse sulla stampa nordamericana relativamente a quasi tutte le sue opere (mancano quelle di Fahrenheit 9/11 e Slacker Uprising, mentre per Sicko sono presenti solo brevi estratti). Si tratta di uno strumento limitato, perché esclude sistematicamente le stroncature, ma prezioso, specie per i film precedenti a Bowling a Columbine. Roger & Me

Matthew Bernstein, in «Journal of Film and Video» (vedi supra); Sophie Bonnet, in «Les inrockuptibles», n. 149, 29 aprile 1998; Vincent Canby, A Twainlike Twist for Flint, in «The New York Times», 27 settembre 1989; Paolo Cherchi Usai, in «Segnocinema», n. 44, luglio 1990; Federico Chiacchiari, in «Cineforum», n. 295, giugno 1990; Michel Cieutat, Michael’s Movie, in «Positif», n. 351, maggio 1990; Roger Ebert, Roger and Me Strikes Out at the Greed That Fuels General Motors, in «The Chicago Sun Times», 10 settembre 1989; D.D. Guttenplan, in «The Newsday», 17 dicembre 1989; John Harkness, in «Sight & Sound», vol. 59, n. 2, primavera 1990; Luca Norcen, in «Cinema Nuovo», n. 325, maggio-giugno 1990; François Niney, Be positive, in «Cahiers du cinéma», n. 430, aprile 1990; Carl Plantinga, Roger and History and Irony and Me, in «Michigan Academician», vol. 24, n. 3, primavera 1992; Peter Rainer, in «Los Angeles Times», 20 dicembre 1989; Dementrio Salvi, No-fiction Films, in «Cineforum», n. 295, giugno 1990. Le due controverse recensioni citate nel nostro capitolo dedicato a Pets or Meat sono: Pauline Kael, The Current Cinema: Melodrama/Cartoon/Mess, in «The New Yorker», 8 gennaio 1990, e il succitato articolo-intervista di Harlan Jacobson in «Film Comment», novembredicembre 1989. La replica in difesa del film si trova in Roger Ebert, Attacks on Roger & me completely miss point of film, in «The Chicago Sun-Times», 11 febbraio 1990. Pets or Meat: The Return to Flint

Vincent Canby, Of an Earl, an Old Love and Roger, in «The New York Times», 26 settembre 1992; Roger Ebert, Pets or Meat: Moore Adds a Chapter to Roger & Me Saga, in «Chicago SunTimes», 27 settembre 1992; Diane Katz in «Detroit News», 20 settembre 1992; e l’intervista di Susan King, in «Los Angeles Times», 27 settembre 1992. Tv Nation

Robert Golderg, Voice of the Underdog, in «Wall Street Journal», 18 luglio 1994; Marvin Kitman, in «Newsday», 29 dicembre 1994; Ray Loynd, in «Variety», 19 luglio 1994 e 24 luglio 1995;

Alexandra Marks, Why Groundbreaking Tv is so Rare, in «Christian Science Monitor», 16 marzo 1995. Il libro di Moore e Kathleen Glynn, Adventures in a Tv Nation: The Stories Behind America’s Most Outrageous Tv Show (vedi supra) oltre a raccontare la genesi del programma contiene un riassunto delle puntate e un utile indice dei contenuti di ciascuna. Sul sito del regista è disponibile l’archivio delle newsletter del programma. Operazione Canadian Bacon

Simon Bacal, Un Certain Regard, U.S., Michael Moore, in «Moving Picture», 25 maggio 1995; Ron Ehmke, Doh! Canada! A “Simpsons”-Style Spoof on Our Enemy to the North, in «The Buffalo News», 23 settembre 1995; Dominic Griffin, Moore the Merrier, in «Film Threat», dicembre 1995; Leonard Klady, in «Variety», 26 maggio 1995; Pierpaolo Loffreda, in «Cineforum», n. 345, giugno 1995; Hubert Niogret, in «Positif», nn. 413- 414, luglio-agosto 1995. The Big One

Sylvain Bourmeau, in «Les inrockuptibles», n. 220, (vedi supra); Emmanuel Burdeau, in «Cahiers du cinéma», n. 540, novembre 1999; Dan Georgakas e Barbara Saltz, in «Cineaste» (vedi supra); Rita Kempley, Michael Moore, Sticking Out Like a Sore Thumb, in «Washington Post», 23 aprile 1998; Joe Leydon, in «Variety», 8 settembre 1997; Janet Maslin, The Big One: Another Michael Moore Documentary on Plant Shutdowns, in «The New York Times», 10 aprile 1998; Jacqueline Nacache, The Big One. Candid Camera, in «Positif», n. 466, dicembre 1999; Vincent Ostria, in «Les inrockuptibles», n. 220, 10 novembre 1999; Vincent Remy, in «Télérama», n. 2600, 10 novembre 1999; Philippe Roger, in «Ètudes», tomo 392, n. 2, 2000. The Awful Truth

Warren Berger, Giving a Guerrilla Journalist the Freedom of Cable, in «The New York Times», 4 aprile 1999; Giorgio Cremonini, L’orribile verità, in «Cineforum», n. 434, giugno 2004; Laura Fries, in «Variety», 8 aprile 1999; Joe Joseph, It’s Easy to Be Brave While Toting a Camera, in «The Times», 4 marzo 1999; Joyce Millman, Truth and Consequences, in «www.Salon.com», 19 aprile 1999 (online). Bowling a Columbine

Patrick Blouin in «Cahiers du cinéma», n. 572, ottobre 2002; Eric Derobert, Bowling for Columbine, le Franciscain de Flint, in «Positif», n. 500, ottobre 2002; Simone Emiliani, in «Cineforum», n. 416, luglio 2002; Massimo Galimberti, in «Duel», n. 101, dicembre 2002-gennaio 2003; Federico Greco, Bowling for USA, in «Cineforum», n. 420, dicembre 2002; Richard T. Kelly, in «Sight & Sound», vol. 12, n. 11, novembre 2002; Stuart Klawans, Moore’s dystopia, in «Film Comment», vol. 38, n. 6, novembredicembre 2002; Matthew Leyland, in «Sight and Sound», vol. 13, n. 5, maggio 2003; Sandro Mauro, in «Segnocinema», n. 119, gennaio-febbraio 2003; Alberto Morsiani, in «Cineforum», n. 420, novembre 2002; Hubert Niogret, in «Positif», nn. 497-498, luglio-agosto 2002; Christopher Sharrett, William Luhr, in «Cineaste», vol. 28, n. 2, primavera 2003. Si veda anche Bowling for Columbine Teacher’s Guide, 2003, creata dallo staff del regista (e disponibile online sul suo sito) per fornire un supporto didattico di analisi del film a insegnanti e studenti americani. Fahrenheit 9/11

Ezio Alberione, in «Duellanti», n. 9, settembre 2004; Sylvain Bourmeau, Fahrenheit 9/11: Super primaire, in «Les inrockuptibles», 7 luglio 2004; Emmanuel Burdeau, Double M contre double W, in «Cahiers du cinéma», n. 592, luglio 2004; Massimo Cacciari, in «la Repubblica», 25 agosto 2004; Carlo Chatrian, L’occasione persa dal signor Moore, in «Duellanti», n. 9, settembre 2004; Paolo Cherchi Usai, in «Segnocinema», n. 129, settembre-ottobre 2004; Mark Cousins, in «Sight & Sound», vol. 14, n. 9, settembre 2004; Roger Ebert, in «Chicago Sun-Times», 18 giugno 2004;

Bruno Fornara, in «Cineforum», n. 436, luglio-agosto 2004; Kirk Honeycutt, in «Hollywood Reporter», 19 maggio 2004; Kent Jones, This Means War!, in «Film Comment», vol. 40, n. 4, luglio-agosto 2004; Anton Giulio Mancino, Stupid White President, in «Cineforum», n. 438, ottobre 2004; Todd Mccarthy, in «Variety», 17 maggio 2004; Hubert Niogret, Fahrenheit 9/11. Le monde selon Bush. Entre farce tragique et décryptage, in «Positif», nn. 521-522, luglioagosto 2004. Tra le decine di articoli sulle implicazioni e gli effetti mediatici del film (specialmente in rapporto alle elezioni presidenziali americane del 2004) segnaliamo: Sergio Rizzo, Why Less Is Still Moore: Celebrity and the Reactive Politics of Fahrenheit 9/11, in «Film Quarterly», vol.59, n. 2, inverno 2005-06, e il libro di Robert Brent Toplin. Michael Moore’s Fahrenheit 9/11. How one film divided a Nation, University Press of Kansas, Lawrence, 2006. Sul modello di quanto avvenuto con il film precedente, i collaboratori di Moore hanno creato Fahrenheit 9/11 Teacher’s guide, 2004 (disponibile sul sito del regista). Il confronto con il film di Peter Davis, Hearts and Minds, è contenuto in Carol Wilder, Separated at Birth: Argument by Irony in Hearts and Minds and Fahrenheit 9/11, in «Atlantic Journal of Communication», vol. 13, n. 2, estate 2005. L’articolo che critica l’approccio di Davis è di Stefan Kanfer, War-Torn, in «Time», 17 marzo 1975. Sicko

Dante Albanesi, Critica Doc, in «www.ildocumentario.it» (online); Sophie Benamon, Michael Moore sur le gril, in «Studio» (vedi supra); Ernest Callenbach, in «Film Quarterly», vol. 61, n. 2, inverno 2007; Roberto Chiesi, in «Segnocinema», n. 148, novembre-dicembre 2007; François Forestier, Dr. Michael et Dr. Moore, in «Le Nouvel Observateur», n. 2235, 6 settembre 2007; Richard T. Kelly, in «Sight & Sound», vol. 17, n. 12, dicembre 2007; Stuart Klawans, Fever Pitch: Michael Moore’s Sicko Swears to Tell the Whole Truth and Nothing but the Truth. But Does It?, in «Film Comment», vol. 43, n. 4, luglio-agosto 2007; Anton Giulio Mancino, in «Cineforum, n.468, ottobre 2007; Paolo Perrone, in «Filmcronache», n. 111, ottobredicembre 2007; Alissa Simon, in «Variety», 19 maggio 2007; Vincent Thabourey, in «Positif», nn. 557-558, luglio-agosto 2007; Antoine Thirion, in «Cahiers du cinéma», n. 626, settembre 2007; Grégory Valens, in «Positif», n. 560, ottobre 2007. Slacker’s Uprising

Joe Leydon, in «Variety», 8 settembre 2007; Will Sloan, Michael Moore Pads His Ego with Slacker Uprising, in www.thevarsity.ca (online), 4 ottobre 2007; Grégory Valens, in «Positif», n. 562, dicembre 2007; Joseph Vogel, Free Speech 101: The Utah Valley Uproar over Michael Moore, Silverton, WindRiver, 2006. Sulle posizioni di Moore rispetto al filesharing e la condivisione gratuita dei suoi film cfr. Iain Bruce, Moore: Pirate My Film, No Problem, in «Sunday Herald», 4 luglio 2004. Capitalism: A Love Story

Matthew Belloni, Q&A: Michael Moore, in «The Hollywood Reporter», 18 agosto 2009; Silvia Bizio, Michael Moore a Wall Street, Seppelliamo la finanza con una risata, in «la Repubblica», 12 agosto 2009; Mary Corliss, With Capitalism: A Love Story, Michael Moore Goes For Broke, in «Time», 6 settembre 2009; Leslie Felperlin in «Variety», 5 settembre 2009. ALTRI TESTI CITATI Roland Barthes, Il brusio della lingua: saggi critici, Einaudi, Torino, 1988; Jean Baudrillard, L’America, Feltrinelli, Milano, 1987; Sandro Bernardi, L’avventura del cinematografo. Storia di un’arte e di un linguaggio, Marsilio, Venzia, 2007; Bruno Cartosio (a cura di), Tute e technicolor: operai e cinema in America, Feltrinelli, Milano, 1980; Raymond Chandler, Il grande sonno, Milano, Feltrinelli, 1989; Noam Chomsky, The Reagan Era, www.zmag.org, 11 giugno 2004 ; Sergej

Ejzenštejn, Teoria generale del montaggio, Marsilio, Venezia, 2004; Siegfried Engelmann, Elaine C. Bruner, The Pet Goat, in Reading Mastery II: Storybook 1, McGraw-Hill, Worthington, 1995; John Grierson, Grierson on Documentary, Collins, Londra, 1946; Boleslas Matuszewski, Une nouvelle source de l’histoire (cre ation d’un de pôt de cine matographie historique); La photographie anime e: ce qu’elle est, ce qu’elle doit être, Association française de recherche sur l’histoire du cine ma: Cine mathe que française, 2006; Ralph Nader, Unsafe at Any Speed: the Designed-in Dangers of the American Automobile, Grossman, New York, 1965; Bill Nichols, Representing Reality: Issues and Concepts in Documentary, Indiana University Press, Bloomington, 1991; Roger Odin, Della finzione, Vita e pensiero, Milano, 2004; James Ridgeway, Blood in the Face: The Ku Klux Klan, Aryan Nations, Nazi Skinheads, the Rise of a New White Culture, Thunder’s Mouth Press, New York, 1990; Upton Sinclair, Oil!, University of California Press, Berkeley, 1997; John Steinbeck, Furore, Bompiani, Milano, 2001; Jonathan Swift, Una modesta proposta e altre satire, Rizzoli, Milano, 1977. SUL WEB Il riferimento principale rimane il sito ufficiale del regista. Da segnalare, oltre all’archivio delle newsletter e la rassegna stampa, la rubrica «Facts in Mike’s Film» che contiene informazioni e fonti aggiuntive sui dati citati nelle sue opere. Numerose sono anche le pagine, tendenzialmente piuttosto amatoriali, create per contestare la veridicità dei dati esposti nelle opere di Michael Moore o la sua personalità tout court: tra di esse vale la pena menzionare il virulento www.moorewatch.com, citato anche nel finale di Sicko. Interessante e altrettanto rancoroso è www.westfallmike.tripod.com, un sito che analizza le presunte manipolazioni e inesattezze di Roger & Me, scritto da Mike Westfall, membro del sindacato Uaw di Flint. Ringraziamenti

Il mio ringraziamento più grande va a Sandro Bernardi per l’incitamento e la guida. Un grazie speciale a Francesca Lico e Filippo Bologna per la pazienza e la fiducia. L’occasione è propizia anche per riconoscere il debito ormai decennale con la redazione di Drammaturgia, Massimo Papa, Ugo Bisteghi, l’Istituto Stensen, la Vezfilm e l’Agorà di San Casciano dei Bagni.

Indice

Abbecedario documentario Michael Moore Non-fiction? Michael Moore e il documentario soggettivo L’uomo di Flint Nascita di una maschera e moltiplicazione delle scritture: Roger & Me Dentro e fuori lo schermo: Pets or Meat: The Return to Flint Approdo televisivo: Tv Nation Tra Kubrick e Homer Simpson: Operazione Canadian Bacon L’ego espanso: The Big One Il ritorno in Tv: The Awful Truth Michael Moore e i videoclip Ragazzi con le pistole: Bowling a Columbine Mr Moore va a Washington: Fahrenheit 9/11 L’effetto Michael Moore La salute degli altri: Sicko On the road again: Slacker Uprising Il cerchio si chiude: Capitalism: A Love Story

Filmografia Nota bibliografica