Mezzogiorno a tradimento. Il Nord, il Sud e la politica che non c’è 9788842088356

Siamo il grande malato d'Europa, con tutti i sintomi di un malessere grave: impoverimento, incertezza del futuro, p

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Mezzogiorno a tradimento. Il Nord, il Sud e la politica che non c’è
 9788842088356

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Saggi Tascabili Laterza 320

© 2009, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2009

Gianfranco Viesti

MEZZOGIORNO A TRADIMENTO Il Nord, il Sud e la politica che non c’è

Editori Laterza

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel gennaio 2009 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8835-6

a Daniela, Martino e Matteo

MEZZOGIORNO A TRADIMENTO Il Nord, il Sud e la politica che non c’è

Avvertenza Dati, suggerimenti e commenti per la redazione di questo libro sono venuti da Fabrizio Barca, Antonio Caponetto, Paola Casavola, Franco Cassano, Michele D’Ercole, Guido Pellegrini, Vito Peragine, Daniele Petrosino, Francesco Prota, Flavia Terribile, Carlo Trigilia; nessuno di loro ha naturalmente la minima responsabilità per le tesi qui sostenute. Alcune delle argomentazioni presentate sono state sviluppate e discusse nel corso di seminari e incontri nella primavera del 2008, a Roma (Associazione Marco Fanno e Meridiana), Campobasso (Fiera delle Idee) e Bari (Facoltà di Scienze Politiche). Silvia Bruni ha collaborato alla revisione editoriale dei testi.

1.

UN PAESE SFIDUCIATO

A passo di lumaca Da ormai diversi anni l’Italia non cresce più molto. La differenza dei suoi risultati è enorme rispetto ai grandi paesi extraeuropei emergenti, che si stanno sviluppando a ritmi molto veloci; ma è sensibile anche rispetto agli altri paesi del Vecchio Continente. L’Italia appare come il grande malato d’Europa, più esposto agli effetti dei cambiamenti nello scenario internazionale. Le difficoltà economiche complessive si ripercuotono, anche se in misura tutt’altro che omogenea, sulla vita quotidiana degli italiani: molti percepiscono la fatica di «arrivare alla fine del mese». Le prospettive di vita e di lavoro dei giovani, la loro possibilità di acquistare una casa o di mantenere una famiglia, sono in molti casi peggiori rispetto a quelle dei loro genitori, venti o trenta anni prima. Nella vita quotidiana si percepisce l’incertezza sulle prospettive di benessere e di lavoro. Ma non solo: molti italiani hanno una rilevante percezione di insicurezza, anche se i dati sulla criminalità non la giustificano del tutto. Stanno sviluppando sentimenti di disagio e di insofferenza per la presenza straniera: collegati al veloce au3

mento degli immigrati in un paese storicamente di emigrazione, ma che tengono poco conto dei grandi benefici che questi flussi stanno portando. Molti italiani sembrano incarnare quel malessere di fronte alla globalizzazione descritto da economisti e sociologi: uno smarrimento identitario, una preoccupazione per il mantenimento delle condizioni di vita e di lavoro conquistate nel tempo. Un paese che appare impaurito e preoccupato, ma anche sfiduciato. Nel quale la politica sembra aver perso la sua capacità di indicare una direzione credibile, concreta, praticabile: la prospettiva di un paese migliore, in cui tutti vivano meglio, da costruire. Nel quale i cittadini sembrano chiedere alla politica più la soluzione dei propri concreti problemi che una visione comune del futuro. Nelle elezioni del 2008, svanite le ideologie e perso interesse per i programmi, gli italiani si sono nuovamente affidati a un uomo che promette daccapo di produrre grandi risultati, per quanto ne abbia prodotti ben pochi nei cinque lunghi anni in cui ha governato con una larga maggioranza; e a un partito territoriale, la Lega, che pone esplicitamente l’interesse particolare davanti all’interesse generale, il bene della propria città, del proprio territorio, davanti a quello del paese. Mentre il centrosinistra, dopo un’esperienza infelice di governo, sembra aver smarrito non solo la presa sugli elettori (il che, in democrazia, può accadere) ma anche valori e principi di riferimento. Per fortuna l’Italia rimane un paese ricco di energie e creatività; di imprese che riescono a competere modificando profondamente le proprie strategie; di amministratori pubblici onesti e capaci; di scuole di qualità in cui si formano le nuove generazioni. Ma nel difficile primo decennio del nuovo secolo la paura sembra preva4

lere sulla fiducia; le difficoltà economiche sulle trasformazioni in atto nell’economia. La storia ci dirà se e quanto l’Italia – con un colpo di reni – riuscirà ancora una volta a tirarsi fuori dalla stagnazione di questo decennio. Se e quanto gli italiani sapranno e vorranno riprendere a guardare anche a progetti collettivi di sviluppo per l’intero paese, e non solo all’interesse della famiglia o del quartiere. In un periodo di grandi cambiamenti, può darsi che questo accada. L’auspicio è che questo, a sorpresa, accada velocemente. Certo le difficoltà paiono più strutturali che congiunturali, e la mancanza di visioni condivise sul futuro del paese particolarmente sensibile. La palla al piede In questo quadro di preoccupazione e sfiducia, molti italiani sembrano aver definitivamente deciso che il Mezzogiorno è diventato una insopportabile palla al piede. Con tutti i problemi che ci sono, non è più tempo di farsi carico anche di quelli del Sud: che tanto restano sempre uguali a se stessi, e che non cambiano mai. L’immagine prevalente del Mezzogiorno è divenuta ormai quella della monnezza campana, con tutti gli annessi e connessi: lo spreco di colossali risorse pubbliche, l’incapacità o la vera e propria corruzione delle classi dirigenti, l’attitudine della popolazione solo alla protesta. Il perdurare nel tempo di un problema senza soluzione. Il Mezzogiorno è sempre più percepito da molti italiani come altro rispetto a sé. Altro rispetto all’Italia. Con le parole di Sergio Romano: «abbiamo istituzioni nazionali, leggi nazionali, statistiche nazionali e partiti nazionali. Ma tutti sanno, anche se preferiscono dirlo sotto5

voce, che le leggi buone per il Nord non sono buone per il Sud e viceversa»1. E allora che i meridionali, se ne sono capaci, se la vedano finalmente da soli; e soprattutto smettano di sprecare i nostri soldi. E non pochi meridionali sembrano convenire: è vero; non siamo capaci di amministrarci; sprechiamo tanto; qui da noi non cambia mai niente; forse non cambierà mai niente. Il ragionamento, che è ormai molto vicino alle tesi da tempo sostenute dalla Lega, e che rimbalza da pagina a pagina della grande stampa nazionale, e da opinione a opinione dei suoi commentatori, è lineare nel suo svolgimento. Il divario economico fra Nord e Sud non fa che ampliarsi, con il Sud che va sempre peggio del Nord. Questo avviene nonostante le colossali risorse che vengono trasferite nel Mezzogiorno: nel Sud si spende tanto, troppo. I cittadini del Sud ricevono ingenti risorse prelevate dalle tasse pagate dal Nord. E che ne fanno? Le sprecano. In progetti fasulli, partoriti dalla fantasia del ceto burocratico e politico meridionale; in forme di assistenza, che consentono a tanti, troppi meridionali di vivere alle spalle di chi lavora; in iniziative da cui trae principalmente beneficio la criminalità organizzata. Ma adesso basta. Le scarse risorse pubbliche vanno orientate dove servono di più e dove sono utilizzate meglio: a risolvere i problemi delle imprese e dei cittadini della parte più avanzata del paese. Basta trasferimenti automatici: è tempo di federalismo fiscale; ognuno con le proprie risorse. Magari così lo stesso Sud si avvantaggia: impara, con pochi soldi, a spenderli meglio; caccia i suoi 1 S. Romano, La Baviera e la Padania, in «Corriere della Sera», 27.4.2008 (http://www.corriere.it/editoriali/08_aprile_27/editoriale_ romano_baviera_e_padania_8ede89f6-1429-11dd-b006-00144f02aabc. shtml).

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amministratori corrotti. E se proprio non riesce avrà sempre un po’ di solidarietà filantropica. Negli anni della sfiducia nazionale, la sfiducia verso il Mezzogiorno ha raggiunto vette altissime; è difficile stabilirlo, ma forse fra le più alte nei quasi 150 anni di unità nazionale. Segno dei tempi, per spiegare la sconfitta elettorale del 2008 un deputato del centrosinistra ha sostenuto: «secondo lei avere un capogruppo che parla siciliano e l’altro che parla sardo ha aiutato?»2. Discorsi che sarebbe stato impossibile ascoltare, se non da frange antimeridionali minoritarie, fino a qualche anno fa. E che invece sono sempre più frequenti non solo nella destra ma anche nella sinistra; non solo a Varese o a Treviso ma anche a Milano e a Bologna. Quel che un tempo si sussurrava in qualche bar valligiano ora si scrive sulla prima pagina del «Corriere della Sera». L’analisi non è più sussurrata, ma proposta quasi giornalmente dai grandi quotidiani nazionali: storie di incapacità e di spreco, solo di incapacità e di spreco3. Condivisa dai responsabili nazionali di associazioni imprenditoriali e da molti economisti. E la proposta non è solo scritta nei programmi della Lega. Ma anche, a chiare lettere, nel programma elettorale del Popolo della Libertà: il federalismo fiscale «alla lombarda». Altro che politiche per lo sviluppo del Sud: meno trasferimenti possibile e ognuno per sé. 2 Li. P., Daniele Marantelli. A Varese il sorpasso del «leghista rosso» che parla come Bossi, in «Il Sole-24 Ore», 20.4.2008 (http://www.danielemarantelli.it/RassegnaStampa/Dettaglio.asp?IdRassegnaStampa =70). Non risulta che i vertici del PD abbiano in qualche forma censurato questa affermazione. 3 Mentre più equilibrata e meno prevenuta è l’analisi della stampa internazionale; si veda ad esempio J. Israely, Italian Elections: All Is Not Lost, in «Time», 2.4.2008 (http://www.time.com/time/magazine/article/0,9171,1727166,00.html).

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Partire dai fatti Ma quanto è reale l’immagine che si propone dell’economia e della società meridionali? Quanto è documentato il giudizio secondo cui le politiche di sviluppo che si sono fatte e che si fanno sono tutte un disastro? Un paese è in «declino» non solo quando il suo PIL non cresce. È in declino quando una parte rilevante delle sue classi dirigenti, e poi dei suoi cittadini, parlando del presente e del futuro del paese si affida a stereotipi e sentito dire. E già. Perché quel ragionamento che si è sinteticamente illustrato, e che pare a tanti italiani così verosimile, è invece ricco di stereotipi. Scopo di questo libro è cercare di smentirne, fatti e cifre alla mano, alcuni; di dimostrare quanto alcuni «sentito dire», che sembrano così verosimili, non sono veri. Il libro parte illustrando che cosa è successo nell’economia e – per quanto possibile – nella società del Sud e del Nord negli ultimi anni; scoprendo importanti differenze ma anche molte, fondamentali, somiglianze: il problema non è il rallentamento economico del Mezzogiorno ma quello dell’intero paese; l’incertezza e la sfiducia che si sono diffuse a tutte le latitudini. Passa poi a misurare il trasferimento di risorse verso il Mezzogiorno, per conoscerne le vere dimensioni, le tendenze, le decisioni politiche che lo determinano, e le possibili prospettive in un paese più «federalista». E documenta come la spesa per lo sviluppo del Mezzogiorno sia stata di gran lunga inferiore (di quasi 10 miliardi di euro all’anno negli ultimi anni) di quanto previsto dai governi di centrodestra e di centrosinistra; e come la spesa pubblica corrente che raggiunge il Mezzogiorno sia, in termini pro capite, del 28% inferiore a quella che raggiunge il Centro-Nord. Discute di come il «federalismo fiscale», a se8

conda della sua concreta attuazione, può essere un’importante occasione di crescita per il Sud o un duro colpo al suo benessere. Analizza le politiche attuate negli ultimi dieci anni mostrando come la loro impostazione sia stata corretta, ma i tempi di attuazione estremamente lunghi e i risultati raggiunti ancora molto parziali, comunque largamente inferiori alle attese; e cerca di spiegarne il perché. Le conclusioni di fondo del libro sono che i problemi del Mezzogiorno sono molto simili, in misura certo spesso accentuata, a quelli dell’intero paese. Ormai in Italia chiamiamo «Mezzogiorno» quello che non ci piace o che non vogliamo vedere del nostro paese; i problemi, difficili, che non riusciamo ancora a risolvere. Non è così. Risolvere i problemi del Mezzogiorno e risolvere i problemi dell’Italia richiede la stessa strategia di fondo. Ma di questo ormai pochi sono convinti. Se non si «abolisce il Mezzogiorno»4, come termine in sé negativo, come territorio per definizione diverso e peggiore rispetto all’Italia; se non si ricrea una fiducia reciproca fra gli italiani, se non si torna a occuparsi non solo del proprio interesse ma dell’interesse collettivo di tutti gli italiani, a disegnare e costruire un paese diverso da quello in cui viviamo, l’Italia non potrà che sperimentare una secessione dolce. Ma che non conviene a nessuno. Perché, per quanto in questo clima così depresso e povero di idee sia quasi difficile dirlo, è nel Mezzogiorno che l’Italia ha una grande riserva di crescita, un grande motore per la sua ripresa. Elaborare e attuare una strategia di crescita spetta alla politica; ma la politica sembra non essere all’altezza, tanto al Nord quanto al Sud, di rivedere profondamente il modello di 4

G. Viesti, Abolire il Mezzogiorno, Laterza, Roma-Bari 2003.

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sviluppo del nostro paese a vantaggio di tutti i suoi cittadini. Il rischio è quello di restare un paese a metà; diviso in due metà con livelli di benessere diversi; di diventare sempre più un paese impaurito e sfiduciato, nel quale ognuno cerca il proprio benessere, ma non crede più nella possibilità di un maggior benessere collettivo.

2.

CRONACHE DA UN’ITALIA IN DIFFICOLTÀ

La frenata dell’economia italiana Un primo tassello del ragionamento sul Mezzogiorno riguarda la sua economia. Ormai molti italiani sono convinti che sia sempre stata, sia oggi e probabilmente sarà per sempre depressa. Che si tratta di un territorio nel quale per un insieme di motivi (dalle caratteristiche etno-antropologiche della popolazione alla presenza di criminalità, dalla mentalità assistenziale alla scarsa dotazione di infrastrutture) le imprese sono poche e deboli e l’economia di mercato stenta ad affermarsi. E che dunque l’economia del Mezzogiorno non è mai cresciuta a sufficienza, non cresce, e forse non crescerà mai. Come è stato detto enfaticamente, Mazzini e Cavour «credevano che la parte più sviluppata del paese avrebbe portato l’altra in Europa. Non è successo e c’è da temere che forse non succederà mai»1. Il Sud cresce molto meno dell’Europa e dell’Italia; e così il divario economico con il resto dell’Italia non fa che allargarsi. E ai cittadini del Nord, se non si prenderanno decisioni co1 G. Belardelli, Il Sud non s’è fermato a Napoli, in «Corriere della Sera», 7.3.2008.

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raggiose, non potrà toccare altra sorte che finanziare permanentemente con le proprie tasse questa realtà così diversa, così depressa. Questo è vero solo in parte. Non vi è dubbio che il Mezzogiorno oggi cresca poco: negli anni Duemila il suo sviluppo è stato significativamente inferiore a quello del resto dell’Europa e di gran parte del mondo. È stato inferiore a quanto potrebbe essere date le risorse, innanzitutto umane, di cui dispone. È stato inferiore, senz’altro, a quanto dovrebbe essere, innanzitutto per offrire occasioni di lavoro alle sue ragazze e ai suoi ragazzi. Ma l’andamento economico del Sud – contrariamente a quello che molti pensano – è stato grosso modo simile a quello del Nord. Negli ultimi anni, l’economia del Mezzogiorno è andata male quanto tutta l’economia italiana, così come ai tempi del «miracolo economico» la crescita del Sud era stata forte in un quadro di crescita molto sostenuta dell’intero paese. Nel passato l’intero paese è cresciuto; oggi non è più così. Dopo un andamento già modesto negli anni precedenti, a partire dal 2001 l’Italia si è quasi fermata. E così dalla metà degli anni Novanta al 2007 è cresciuta il 14% in meno degli altri paesi dell’area dell’euro2. La frenata è stata tanto intensa e persistente che si è cominciato a usare la categoria del declino come chiave interpretativa dell’Italia nel nuovo secolo. Il Prodotto interno lordo (PIL), dato imperfetto ma comunque utilissimo per sintetizzare l’andamento economico, ha viaggiato per anni in Italia intorno allo zero, mentre nel re2 Banca d’Italia, Relazione Annuale. Presentata all’Assemblea Ordinaria dei Partecipanti. Roma, 31 maggio 2008. Anno 2007, Banca d’Italia, Roma 2008 (http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/relann/rel07/rel07it), p. 80.

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sto del mondo e in gran parte dell’Europa è cresciuto sensibilmente. La crescita del PIL dipende da due grandi variabili: l’aumento del lavoro (delle persone che lavorano e di quanto lavorano) e l’aumento della produttività (quanto rende, in un’ora o in un anno, il lavoro di ognuno e quindi di tutti). Su entrambi i fronti i dati sono negativi. Colpisce in particolare la dinamica negativa della produttività, per cui l’Italia è ultima fra i 27 paesi dell’Unione Europea negli anni Duemila. L’Italia sembra in grado di competere meno bene che in passato in un quadro internazionale profondamente cambiato da tre fondamentali punti di vista. Concorrenziale: perché nel sistema economico sono entrati a passo di carica nuovi paesi divenuti contemporaneamente temibili concorrenti e fondamentali mercati. Tecnologico: perché le nuove soluzioni disponibili, dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione alle nanotecnologie e alle biotecnologie, stanno non solo rendendo possibili nuovi prodotti e servizi, ma anche cambiando profondamente le modalità per realizzare e vendere prodotti e servizi tradizionali. Monetario: perché con l’euro, e con l’euro forte, le imprese italiane hanno visto ribaltare il tradizionale vantaggio di cambio di cui hanno a lungo goduto. Il modello italiano di capitalismo, che tanto successo ha avuto nei decenni precedenti, è entrato in una fase di difficoltà, non solo congiunturale. Le imprese non sono riuscite a produrre di più impiegando in maniera più efficiente i fattori produttivi di cui dispongono. Non crescendo la produttività, non aumenta il valore del lavoro: dunque non possono aumentare i salari, a meno che non si riducano i profitti, che rappresentano però anche le risorse di cui le imprese dispongono per poter investire, e quindi ampliare, o migliorare, la produzione. Un circo13

lo vizioso. Questa è una novità per l’Italia. Perché accade? Non è facile spiegarlo. Dipende dalle capacità dei lavoratori? Ma anche in passato erano le stesse. Dipende dalle capacità degli imprenditori? Difficile sostenere che siano diventati all’improvviso meno bravi. Una prima causa sta forse nella scarsa capacità delle imprese italiane di utilizzare al meglio le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione che si sono affermate nell’economia mondiale: non si tratta solo di comprare nuovi computer, ma di ridisegnare al meglio tutta l’organizzazione aziendale3. Le nuove tecnologie premiano soprattutto le aziende in grado di «codificare» le proprie informazioni, le proprie procedure, le proprie tecniche; di passare da pratiche basate sull’esperienza dei singoli e su conoscenze tacite (il meccanico che non sa bene come è composto un motore, ma in base alla sua esperienza sa dove mettere le mani e riesce a farlo funzionare) a pratiche più sistematiche; di passare da miglioramenti continui, estemporanei ad attività più sistematiche di ricerca e sviluppo. Pesa su questo risultato l’investimento modestissimo in ricerca delle imprese italiane: fra il 1996 e il 2005 le spese di ricerca e sviluppo restano inchiodate a un valore pari allo 0,54% del PIL; se è vero che in Francia, nel Regno Unito, negli Stati Uniti vi è una lievissima riduzione, questo avviene su livelli ben più alti4. Forte è invece l’incremento in Giappone e in Germania5 e soprattutto in Spagna, dove si parte dallo 0,4% e si arriva allo 0,6%: un livello ormai superiore a quello italiano. Pesa il limitato sforzo collettivo nella produzione di nuo3

S. Rossi (a cura di), La nuova economia, il Mulino, Bologna 2003. Banca d’Italia, Relazione Annuale 2007, cit., tav. a10.3: rispettivamente 1,34, 1,09, 1,83%. 5 Ibid., rispettivamente da 1,47 a 2,54% e da 1,49 a 1,72%. 4

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ve conoscenze che le imprese possono poi utilizzare: le città in cui operano le imprese italiane non sono della stessa qualità scientifica e tecnologica di quelle tedesche o francesi, per non dire americane. Le esportazioni italiane perdono colpi sui mercati internazionali: perché le imprese riescono relativamente poco a realizzare prodotti e servizi più innovativi in settori dove i cinesi non ci sono e la domanda mondiale è fortissima; perché nei mercati del made in Italy si rafforza notevolmente la concorrenza dei nuovi paesi produttori, a cominciare dalla Cina6; perché per diversi anni la domanda dei nostri mercati più importanti e vicini – a cominciare dalla Germania – è stata debole. Pesa molto su questo risultato la contenuta dimensione media delle imprese, un’altra possibile spiegazione delle difficoltà della nostra economia. Non si tratta di discutere se piccolo sia bello o brutto in assoluto, ideologicamente. Il capitalismo italiano delle piccole imprese è strutturalmente diverso da quello di altri paesi avanzati, e a lungo ha garantito sviluppo, profitti, benessere. Il punto è che nel nuovo quadro internazionale a essere piccoli si fa molta più fatica7; più difficile riorganizzarsi utilizzando al meglio le nuove tecnologie; più difficile presidiare al meglio grandi e complessi mercati esteri. La concorrenza si affronta ormai non più gareggiando sui prezzi, ma competendo su tutto quello che è diverso dal prezzo: la differenziazione del prodotto, la distribuzione, la logistica, il marketing, la pubblicità, il servizio al cliente; e per i piccoli è più difficile. Si orientano le esportazioni, 6 La cui presenza è ormai significativa anche nel mercato interno: dalla Cina origina ormai più di un sesto dell’import italiano in volume (ivi, p. 79). 7 F. Onida, Se il piccolo non cresce, il Mulino, Bologna 2004.

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dai tradizionali mercati europei e nordamericani verso i paesi emergenti, nei quali cresce molto il reddito e aumentano le importazioni; soprattutto di beni di investimento, che servono a far funzionare le nuove fabbriche; ma anche di beni di consumo, da parte delle nascenti classi medie. Nel giro di pochi anni, poi, molte imprese italiane spostano all’estero, specie nei paesi dell’Est europeo che hanno un costo del lavoro più basso, fasi produttive a maggiore intensità di lavoro per avere costi complessivi dei propri prodotti più contenuti8; e anche questa è una possibilità molto più alla portata delle medio-grandi imprese; e che rende la vita più difficile alle piccole, specie se subfornitrici. Con gli anni Duemila sembra finire quel lungo periodo in cui bastava essere bravissimi a produrre, bravi meccanici, bravi sarti per poter avere successo; non vengono più i clienti ai cancelli della fabbrica a ritirare il prodotto; occorre non solo saper produrre ma anche saper vendere, andarsi a cercare i clienti in giro per il mondo, convincerli. Una forbice inconsueta Alla stasi delle vendite all’estero si affianca una domanda interna debolissima. Fra il 1991 e il 2007 il reddito disponibile delle famiglie italiane cresce in termini reali solo dello 0,3% all’anno, contro l’1% in Germania e il 2,2% in Francia9. I consumi ovviamente ne risentono, nonostante si riduca progressivamente la capacità di risparmio: tradizionalmente alta in Italia, ma in contrazione già dalla metà degli anni Ottanta. Il trend dei con8 G. Viesti, F. Prota, La delocalizzazione del made in Italy, in «L’Industria», 3, 2007, pp. 409-40. 9 Banca d’Italia, Relazione Annuale 2007, cit., p. 69.

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sumi si biforca: fra le famiglie che riescono a mantenere redditi crescenti e aumentano gli acquisti soprattutto di beni e servizi sofisticati, dai telefonini ai viaggi all’estero, che però spesso attivano produzione all’estero, e le famiglie con maggiori difficoltà ad «arrivare alla fine del mese», che calmierano i consumi, dall’alimentazione all’abbigliamento, proprio quei prodotti realizzati dalle imprese che da sempre puntano molto sul mercato interno. Così, fra il 2001 e il 2007 la produzione industriale italiana è stazionaria, mentre cresce di quasi il 14% in Spagna, del 17% in Germania, di oltre il 40% in molti paesi dell’Europa orientale10. La disuguaglianza dei redditi familiari in Italia, cresciuta fortemente nei primi anni Novanta11, non sembra aumentare ulteriormente, anche se resta piuttosto elevata nel confronto internazionale12, ma crescono molto le disparità fra tipologie di famiglie. Fra il 1995 e il 2006 il reddito delle famiglie con capofamiglia lavoratore autonomo cresce del 44,3%, quello delle famiglie con capofamiglia impiegato o insegnante del 6,4%13. A questo poi si aggiunge, nel 2007, un’impennata dell’inflazione – connessa all’aumento dei prezzi internazionali del petrolio e delle materie prime agroalimentari – che aggrava le difficoltà: i rincari dei prodotti energetici e alimentari incidono tra 10

SVIMEZ,

Rapporto 2008 sull’economia del Mezzogiorno, Sintesi, Roma 2008 (http://www.svimez.it/Pubblicazioni/Rapporto%202008/sintesi.PDF). 11 OCSE, Growing Unequal? Income Distribution and Poverty in OECD Countries, Paris 2008. 12 L’Italia ha il sesto più grande gap di reddito tra ricchi e poveri tra i 30 paesi OCSE; OCSE, Growing Unequal?, cit.; cfr. anche Banca d’Italia, Relazione Annuale 2007, cit., p. 84. 13 Si tratta del reddito reale familiare disponibile equivalente, cioè che tiene conto della numerosità e della composizione delle famiglie: ivi, p. 97. SVIMEZ,

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l’altro di più sulle famiglie meno abbienti, per le quali rappresentano una quota maggiore della spesa14. Il settore dei servizi non riesce a trainare l’intera economia: perché in parte dipende dalla domanda dell’industria, e se l’industria è debole anche la sua domanda di servizi non è vivace; perché la concorrenza in molti mercati dei servizi è ancora limitata – nonostante i tentativi di nuova regolamentazione e liberalizzazione – e questo non stimola l’aumento dell’efficienza delle imprese, riduzioni dei prezzi, innovazione nei prodotti; perché l’Italia è relativamente debole in alcuni di quei servizi che oramai si vendono anche all’estero, dai trasporti internazionali e dalla logistica ai servizi finanziari e di consulenza, alla moderna distribuzione. L’edilizia va discretamente, in particolare al Centro-Nord: lì se fra il 2000 e il 2006 l’industria manifatturiera si riduce dello 0,6% all’anno è l’edilizia (+2,9% all’anno) a tirare. Occorrono nuove case per gli immigrati e abitazioni più piccole per le nuove famiglie con un numero inferiore di componenti, anziani soli, coppie senza figli. La ricchezza delle famiglie torna a essere investita in immobili: per proprio uso, per la parte non piccola di popolazione che si può permettere di comprare con i propri risparmi abitazioni più grandi; come rifugio per mantenerne il valore, dopo le esperienze non positive di investimenti in strumenti finanziari. Debole è, infine, la crescita della spesa pubblica, sottoposta a vincoli ormai permanenti dato l’enorme stock di debito e la difficoltà a contenere il deficit. L’economia italiana è stretta in una forbice inconsueta: una debole domanda interna, come negli anni Novanta; ma a differenza degli anni Novanta questo ac14

Ivi, p. 83.

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cade contemporaneamente a una sensibile difficoltà a vendere all’estero. Per fortuna molte analisi cominciano a evidenziare che le imprese italiane hanno sofferto, ma hanno reagito. I dati sembrano mostrare che questo, non a caso, è riuscito meglio alle imprese un po’ meno piccole. Che le strategie di reazione sono state basate su una forte focalizzazione sui propri prodotti principali, per i quali si cerca di conquistare una nicchia di domanda più vasta geograficamente (un prodotto ben preciso, diversificato, che si cerca di vendere in tutto il mondo); e, contemporaneamente o alternativamente, differenziando un po’ i propri prodotti, in modo da renderli un po’ più innovativi, meno imitabili. C’è stata una forte selezione; le cose non sono andate male per tutti; anzi, i risultati sono molto diversi da caso a caso. La differenza di redditività fra le imprese italiane nel decennio in corso è aumentata del 50% rispetto alla seconda metà degli anni Novanta. Molte imprese, specie piccole, specie subfornitrici o senza marchio, specie orientate al mercato interno, specie con prodotti poco differenziati, hanno chiuso: nel solo 2007 le cessazioni di impresa sono state 390.000, il dato più alto da sempre, superiore persino al picco del 199315. A spiegarlo non è tanto il settore di attività (anche se ovviamente è più facile restare competitivi producendo macchine per l’automazione industriale che scarpe) quanto la specifica collocazione della specifica impresa nel proprio settore (è possibile restare competitivi anche producendo scarpe). L’export italiano dà segnali confortanti di ripresa, non delle quantità, ma del loro valore: non una maggiore quantità di beni, ma beni di maggiore valore. Alcuni pensano che 15

Ivi, p. 101.

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l’effetto positivo dei processi di riorganizzazione del sistema delle imprese si potrà vedere presto anche nei dati sulla produttività. La crisi finanziaria dell’autunno 2008 ha però gelato molte di queste speranze. Il futuro è assai incerto. Problemi al Nord e al Sud L’economia italiana ha perso terreno in tutte le sue regioni. Rispetto al reddito pro capite medio dell’Unione Europea a 15, nel 1995 il Nord-Ovest aveva un livello pari al 131%: è sceso nel 2005 al 113%; il Nord-Est è passato dal 128% al 111%16. A partire dal 2003 la crescita delle regioni del Sud è un po’ più bassa di quella dell’intero paese. Dal 2003 al 2005 il Mezzogiorno registra una stagnazione più intensa di quella del Centro-Nord, la «ripresina» del 2006-2007 è più modesta e nel biennio il divario si amplia, nonostante un buon andamento dell’export, per la persistente debolezza della domanda interna. La differenza fra le due macroregioni è limitata, ma colpisce perché inverte la tendenza opposta che c’era stata fra il 1996 e il 2001. Complessivamente, comunque, nell’ultimo decennio la crescita è identica a Nord e a Sud17. Pochi oggi ricordano che nella seconda metà degli anni Novanta i risultati economici delle regioni del Sud sono stati discreti. Certamente non eccezionali, ma neanche disprezzabili. Il tasso di crescita del Mezzogiorno è 16 Banca d’Italia, Economie regionali. L’economia delle regioni italiane nell’anno 2007, Banca d’Italia, Roma 2008 (http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/ecore/sintesi/eco_reg_2007/economia_ regioni_italiane_2007.pdf), p. 13. 17 Ivi, p. 6.

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stato stabilmente superiore alla media nazionale, anche se in misura lieve, e tenendo conto che quella velocità di crescita dell’intera economia italiana era comunque modesta. Questo all’epoca sembrò sorprendente: molti si aspettavano che il Sud, dall’inizio degli anni Novanta, rallentata la spesa pubblica, finiti gli interventi straordinari centrali, letteralmente smantellato il suo sistema bancario, si sarebbe afflosciato su se stesso. Un’economia debole, malata, dipendente dall’intermediazione delle risorse pubbliche non poteva avere chance: un po’ come molti pensano oggi. Questo non accadde18. Il Sud registrò una buona accumulazione di capitali privati, un aumento delle esportazioni di beni e di servizi (il turismo), una discreta crescita dell’occupazione. Si creò un clima nuovo: persino i grandi organi di stampa nazionali furono costretti ad accorgersi che al Sud stava cambiando qualcosa. Era in corso una mobilitazione politica, intellettuale, economica (testimoniata ad esempio dalla fortissima natalità imprenditoriale) di un certo interesse. Nel dopoguerra il Sud è cresciuto quasi sempre un po’ meno del Centro-Nord, particolarmente negli anni Cinquanta e Sessanta, e in modo significativo (circa mezzo punto di minor crescita all’anno) fra il 1981 e il 1995. Proprio per questo gli andamenti del 1996-2001 avevano positivamente colpito. Ma, attenzione: la circostanza che permanga un sensibile distacco fra Sud e Centro-Nord non significa certo che il Sud sia fermo. Le condizioni sociali e civili di gran parte del Mezzogiorno sono nettamente migliorate con il passar del tempo: tutto è il Sud tranne che un’area immobile, sempre uguale a se stessa. Le sue trasformazioni nei decenni passati, e anche 18 G. Bodo, G. Viesti, La grande svolta. Il Mezzogiorno nell’Italia degli anni novanta, Donzelli, Roma 1997.

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nel periodo più recente, sono state impressionanti, sia nell’economia sia nella società. La differenza di crescita degli ultimi anni si cancella se si guarda non al PIL ma al reddito pro capite, che in tutti gli anni tranne il 2004 e il 2007 cresce più al Sud, contrariamente a quanto molti pensano. Il Sud passa dal 65,5% della media italiana del 1995 al 67,5% del 2007. Le differenze nell’andamento del reddito pro capite sono spiegate principalmente dalle diverse dinamiche della popolazione. L’incremento naturale è simile, e molto contenuto, in tutto il paese. Ma al Centro-Nord sono arrivati gli immigrati: molti, velocemente; i provvedimenti di sanatoria hanno fatto poi apparire di colpo nelle statistiche centinaia di migliaia di immigrati che erano già presenti. Questo ha fatto aumentare contemporaneamente popolazione e occupazione. Al Centro-Nord si sono creati nuovi posti di lavoro, specie nei servizi e nell’edilizia; sia per il basso livello della disoccupazione di quelle regioni, sia per il fatto che si tratta in molti casi di posti di lavoro con salari piuttosto bassi, sono stati appannaggio in misura rilevante di immigrati. Nel triennio 2005-2007 il 55% dei nuovi occupati al Nord sono stranieri19; a fine 2007 gli occupati stranieri al Nord sono più di un milione. Al Sud questo non è accaduto. Le differenti possibilità occupazionali hanno determinato anche un significativo spostamento di popolazione dal Sud al Nord: le migrazioni interne hanno ripreso a crescere significativamente dalla metà degli an19 I dati sono calcolati dalla «Rilevazione sulle Forze di Lavoro» dell’ISTAT. Informazioni precise sugli occupati stranieri sono disponibili a partire dal 2005: ISTAT, La partecipazione al mercato del lavoro della popolazione straniera, I-IV trimestre 2005, http://www.istat.it/ salastampa/comunicati/non_calendario/20060327_01/.

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ni Novanta. La differenza fra quanti spostano la propria residenza dal Sud al Centro-Nord e quanti vanno in senso contrario è passata dai 30.000 del 1993-94 agli 80.000 del 2000: negli anni successivi si è attestata sui 50.00020. Si tratta prevalentemente di giovani, anche con livelli di scolarità elevati; la loro provenienza geografica è concentrata; ci si sposta prevalentemente dalle aree con la domanda di lavoro più insufficiente: dal Napoletano, dal Foggiano, dalla Calabria; meno da altre aree. Un fenomeno ambivalente, con aspetti positivi (mobilità, esperienza) ma anche molto pericoloso nel lungo termine, perché può privare il Sud per sempre di risorse umane molto qualificate; simile alla «fuga dei cervelli» da tutt’Italia verso l’estero21. La modesta crescita del Centro-Nord è dunque principalmente connessa all’afflusso di immigrati, prevalentemente stranieri e in parte meridionali. Si sono creati nuovi posti di lavoro: questo è un fenomeno positivo. Ma in grande misura in attività a più basso valore aggiunto: nel Nord-Est gli immigrati sono impiegati come edili e badanti, non fanno nascere imprese come Google. Non è aumentata la produttività. È una crescita, in questi anni, tutta dovuta all’aumento del lavoro. Al Sud questo non è accaduto; si sono avute anzi migrazioni interne e una persistente, vasta disoccupazione, specie femminile. Ma, dato che al Sud non cresce la popolazione, l’andamento del reddito pro capite è del tutto simile nelle due aree. 20 Ad essi vanno sommati quanti lavorano al Centro-Nord pur continuando a risiedere al Sud. Sarebbero 120.000 nel 2006: Banca d’Italia, Relazione Annuale 2007, cit., p. 120. 21 G. Viesti, Nuove migrazioni. Il «trasferimento» di forza lavoro giovane e qualificata dal Sud al Nord, in «il Mulino», 4, 2005, pp. 67888.

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Un’Italia più debole Non c’è dunque un divaricarsi delle tendenze di sviluppo tra Nord e Sud. La crisi italiana morde ovunque; un po’ di più al Sud. Basta ricordare quello che è successo all’economia italiana per spiegarsi piuttosto agevolmente perché non si è riusciti ad avere una sufficiente domanda di lavoro al Sud. Le imprese meridionali presentano più accentuati i caratteri di debolezza delle imprese italiane. Sono più piccole22, e quindi hanno più difficoltà a esportare, a raggiungere i mercati emergenti, a investire in reti distributive. Sono meno numerose nei comparti a tecnologia medio-alta e nella produzione di beni di investimento, cioè nelle aree produttive in cui si sente meno la concorrenza dei paesi emergenti. All’interno del made in Italy sono relativamente più numerose al Sud le imprese per le quali il prezzo è stato un fattore competitivo più importante, e che quindi soffrono di più la concorrenza. E i distretti industriali del Mezzogiorno?23 La loro crescita negli anni Novanta era collegata a condizioni internazionali differenti. La concorrenza asiatica era meno vistosa, la domanda sui mercati italiano ed europeo più vivace, l’euro non così forte rispetto a dollaro e valute orientali. I distretti del Sud non sono spariti, ma hanno risultati mediamente peggiori della media nazionale24. Non è un fatto etno-antropologico (non vanno peggio perché sono meridionali) ma 22 Solo l’8% dell’occupazione è in imprese con più di 250 addetti, contro il 23% del Centro-Nord: dati ISTAT-ASIA. 23 G. Viesti, Come nascono i distretti industriali, Laterza, RomaBari 2000. 24 La pubblicazione trimestrale «Monitor dei Distretti», del Servizio Studi di Intesa Sanpaolo, documenta con precisione le differenze dei risultati fra i diversi distretti italiani e ne spiega le cause.

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prettamente economico. Si prenda il settore del mobile: negli ultimi anni hanno difficoltà tanto il distretto della sedia di Manzano in Friuli quanto quello dei divani sulla Murgia, perché soffrono molto la concorrenza dei paesi emergenti; molte meno ne ha la Brianza, dove le imprese hanno migliori risultati sui mercati internazionali grazie alle capacità di design e di innovazione di prodotto dell’area milanese. Anche all’interno del Sud ci sono visibili differenze25: nel settore dell’abbigliamento diverse imprese napoletane e abruzzesi, più grandi e strutturate, hanno risultati molto migliori di altre imprese campane e pugliesi. Non mancano segnali positivi anche al Sud. L’export continua a crescere (anche al netto del contributo dei prodotti petroliferi) più della media nazionale. Continua a crescere, anche se a una velocità modesta, il turismo; l’offerta ricettiva si sviluppa del 20% fra 2001 e 2006 e ne migliora la qualità: quasi tutto il Sud si va trasformando in un’economia anche turistica26. È forte lo sviluppo dell’industria energetica, anche nelle rinnovabili: il Mezzogiorno produce la quasi totalità dell’energia da fonte eolica (con un peso significativo a scala internazionale) e fotovoltaica e un terzo dell’energia da biomasse27; le fonti rinnovabili rappresentano il 7,6% 25

G. Viesti (a cura di), Le sfide del cambiamento, Donzelli, Roma

2007. 26 Ministero dello Sviluppo economico, Rapporto annuale del DPS 2007, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2008 (http://www. dps.tesoro.it/documentazione/docs/rapp_annuale_2007/Rapporto/ Rapp_DPS_2007_ridotto.pdf), pp. 67-68. 27 ARTI (Agenzia regionale per la tecnologia e l’innovazione della Puglia), Le energie rinnovabili in Puglia. Strategie, competenze, progetti, 17.3.2008 (http://www.arti.puglia.it/applicazioni/articalendar/ allegati/20080326_120839_VIESTI_Le%20Energie%20Rinnovabili%20in%20Puglia.pdf).

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della potenza elettrica installata al Sud, cinque punti in più che nella media nazionale28. Anche al Sud non mancano imprese che, come nel resto del paese, stanno uscendo da anni difficilissimi più focalizzate, più internazionalizzate. Come in tutto il paese, c’è una forte selezione: ne muoiono più che in passato, specie fra le piccole. Il saldo positivo fra imprese che nascono e imprese che muoiono nel Mezzogiorno diventa sempre più piccolo e nel 2006-2007 per la prima volta è proporzionalmente inferiore rispetto al resto del paese29. Ma le piccole imprese manifatturiere meridionali sopravvissute alla selezione sembrano rafforzate dall’aver superato le difficoltà, registrano buoni risultati occupazionali: fra il 1998 e il 2005 la loro occupazione aumenta del 30,9%, assai più che nelle altre regioni, e a fronte di una contrazione del 3,1% nell’insieme dell’occupazione manifatturiera al Sud30. Le imprese con più di dieci addetti passano in soli cinque anni dal 37,1% al 39% dell’occupazione31. Molte aree del Mezzogiorno mostrano dinamiche occupazionali interessanti, positive; processi di trasformazione della struttura economica32. Nel 200628 Ministero dello Sviluppo economico, Rapporto annuale del DPS 2007, cit., p. 100: i dati sulle rinnovabili sono al netto dell’idroelettrico. 29 G. Viesti, Le sfide del cambiamento, relazione al convegno Mezzogiorno 2007-13. Partecipazione e responsabilità alla prova del cambiamento, Napoli, 24.9.2007 (cfr. http://www.dps.mef.gov.it/documentazione/docs/2007/Viesti-Napoli%2024%20settembre%202007. pdf) e Unioncamere, Rapporto Unioncamere 2008, Retecamere, Roma 2008, p. 30. 30 L’analisi è realizzata da Unioncamere su 160.437 imprese italiane che avevano nel 2005 fra 1 e 49 dipendenti e che risultavano in attività anche nel 1998: cfr., ivi, pp. 121-28. 31 Ministero dello Sviluppo economico, Rapporto annuale del DPS 2007, cit., fig. I.18, anni 2000-2005, p. 20. 32 C. Trigilia (a cura di), Lo sviluppo locale nel Mezzogiorno degli anni 2000, mimeo, Università di Firenze, Firenze 2008.

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2007 Puglia e Basilicata tornano ad avere una crescita superiore alla media nazionale, nonostante le difficoltà dell’industria leggera. Le imprese di successo degli ultimi anni ci sono tanto al Nord quanto al Sud; al Sud sono un po’ meno. Quelle che hanno cambiato strategia, negli anni Duemila, per far meglio fronte alla concorrenza internazionale sono il 54% nel Centro-Nord e un, inferiore ma non disprezzabile, 47% nel Sud33. In questi anni va particolarmente male la domanda interna: nel 2001-2007 cresce nel Mezzogiorno a una velocità (0,7% all’anno) che è la metà di quella del Centro-Nord. I consumi locali, quelli di prodotti meridionali nel Mezzogiorno, crescono pochissimo. Le famiglie sono mediamente meno ricche, i loro redditi più incerti. Fra il 1995 e il 2006 il reddito delle famiglie del Sud aumenta solo del 15,4% contro il 21,2% al CentroNord34. Come si vedrà più avanti, sono più preoccupate del futuro; cosa d’altra parte abbastanza comprensibile. La spesa pubblica corrente cresce meno che nel resto del paese: la spesa per consumi finali delle pubbliche amministrazioni dell’1,5% all’anno, contro il 2,4% al Centro-Nord35. Tutto questo non sorprende. L’ambiente economico nel quale le imprese meridionali nascono e crescono è più difficile di quello del Centro-Nord. C’è minore storia e cultura d’impresa. La densità delle imprese è minore. C’è una geografia sfavorevole: una distanza molto maggiore dai grandi mercati europei, sistemi logistici e di trasporto meno sviluppati. Sono più carenti, in qua33

Banca d’Italia, Economie regionali, cit., p. 13. Id., Relazione Annuale 2007, cit., p. 97. 35 SVIMEZ, Rapporto 2008 sull’economia del Mezzogiorno, cit., anni 2001-2007, p. 5. 34

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lità e in quantità, molti beni e servizi collettivi decisivi per la competitività delle imprese: dai servizi energetici a quelli idrici e ambientali. L’indicatore sintetico di dotazione infrastrutturale mostra nel Mezzogiorno un deficit del 20% rispetto alla media nazionale36: è particolarmente ampio nelle strutture aeroportuali (39%) ed energetico-ambientali (35%). La legalità è tutelata con più difficoltà e vi sono zone a forte radicamento di presenza criminale. La scuola, come mostrato da indagini comparative nazionali e internazionali, funziona peggio. La giustizia funziona peggio: la durata di un procedimento civile di primo grado è al Sud nel 2005 di 1.124 giorni (+42,6% rispetto al Centro-Nord), di un provvedimento di lavoro di 1.011 giorni (+74,1%)37. Ci sono meno centri di ricerca e di trasferimento tecnologico. Tutto già noto, già detto. Come ampiamente noto è che queste condizioni sono abbastanza diverse da provincia a provincia, da area ad area. Il Mezzogiorno è diversissimo al suo interno (e potrebbe non essere così, in un territorio di oltre venti milioni di abitanti?), tutto è fuor che un’area omogeneamente arretrata: tuttavia nessuna delle sue province, a confronto con quelle del Centro-Nord, è in condizioni di contesto migliori. Il Mezzogiorno soffre in maniera particolarmente accentuata del «male italiano»: scuola, giustizia, sicurezza, pubblica amministrazione funzionano peggio che nella media nazionale. Peggio dell’Europa È il forte, persistente rallentamento dell’economia italiana, e non la diversa velocità fra Nord e Sud, il punto 36 37

Unioncamere, Rapporto Unioncamere 2008, cit., p. 69. Banca d’Italia, Relazione Annuale 2007, cit., p. 123.

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centrale. Ma, si dice, questo accade solo in Italia; è solo il Mezzogiorno, fra le regioni arretrate d’Europa, a rimanere indietro. Si dice ancora: in tutta Europa c’è convergenza; cioè le aree più arretrate crescono di più di quelle avanzate, e quindi le differenze si riducono; in Italia no. Ma in Europa questo accade perché le nazioni meno ricche crescono di più di quelle più avanzate: i paesi dell’Est, in particolare i baltici; l’Irlanda, in misura straordinaria; la Spagna. Le differenze fra regioni, all’interno delle grandi nazioni, si riducono molto meno. Questo appartiene, molto più di quanto si pensi, alla normalità degli andamenti economici: le teorie dello sviluppo illustrano molto bene i motivi, connessi all’esistenza di economie di agglomerazione e a processi di causazione cumulativa («piove sul bagnato») per cui all’interno di una nazione sono le regioni più ricche, e non quelle più povere, a crescere più facilmente38. C’è un indicatore sintetico di questi fenomeni, elaborato dall’Ufficio statistico europeo. Un indice di divergenza: se il valore si riduce vuol dire che le differenze si stanno riducendo. Nel decennio 1995-2004 l’indicatore della divergenza fra paesi diminuisce nell’Europa a 27 (così come nella vecchia Europa a 15): da 28,3 a 27,2; dunque, all’interno dell’Europa, i paesi più indietro vanno più veloce. Nello stesso periodo, l’indicatore della divergenza fra le regioni all’interno dei 27 paesi cresce, da 25,3 a 26,6: dunque, in media, all’interno dei paesi europei le regioni più indietro vanno più piano. Nella vecchia Europa a 15 aumentano in particolare le divergenze fra le regioni nel Regno Unito, in Grecia, in Finlan38 Si veda per tutti il testo del premio Nobel 2008 per l’economia, Paul Krugman, Geography and Trade, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1991.

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dia: paesi in cui, in genere, le capitali e le grandi aree urbane vanno meglio; al contrario, si riducono lievemente in Germania e in Spagna. Ma questo accade nel decennio 1995-2004 anche in Italia: l’indice passa da 26,4 a 24,739. Naturalmente la riduzione dei divari spagnoli assume un significato più rilevante perché avviene in un paese in cui tutti crescono molto; la modesta riduzione dei divari italiani è meno significativa. Per di più negli ultimi anni la riduzione dei divari interni è stata più decisa in Spagna e in Germania e in Italia si è arrestata: molte delle regioni deboli di questi paesi sono cresciute un po’ più della media nazionale, in Spagna grazie a un forte aumento dell’occupazione e in Germania grazie a una sensibile riduzione di popolazione e all’aumento della produttività40. Nel 1989, quando sono state potenziate e innovate le politiche di coesione dell’Unione Europea, l’Italia contava otto regioni nel gruppo di quelle a minor reddito, incluse nell’insieme che è stato a lungo definito Obiettivo 141. Per il 2007-13, questo numero è sceso a quattro: Campania, Puglia, Calabria, Sicilia. Abruzzo, Molise, Sardegna e Basilicata sono cresciute più della media europea e quindi hanno superato il limite di reddito (il 75% della media comunitaria) che 39 Per tutti i dati e gli indicatori si veda Ministero dello Sviluppo economico, Rapporto annuale del DPS 2007, cit., pp. 55-62. 40 Colpisce la debolezza delle regioni del Sud nei confronti delle aree arretrate di Spagna e Germania, in un aspetto cruciale: la capacità di esportare. Al 2005 il valore delle esportazioni del Mezzogiorno, diviso per il totale della popolazione, è pari a 1.600 euro pro capite: una cifra che è la metà di quella dei Länder dell’Est ed è molto inferiore anche alla media delle regioni meno avanzate della Spagna (2.500). Cfr. Ministero dello Sviluppo economico, Rapporto annuale del DPS 2006, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2007 (http://www.dps. mef.gov.it/documentazione/docs/rapp_annuale_2006/Rapp_DPS_ 2006.pdf). 41 Dal 2007 Obiettivo Convergenza.

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rappresenta la soglia per essere confinati fra le regioni deboli42. Questo ottimo risultato, tanto importante, quanto assai poco ricordato nelle ricostruzioni della storia dello sviluppo economico del nostro paese, è ora a rischio. Il rischio che dopo il 2013 il numero delle regioni italiane sotto il 75% per la prima volta torni a crescere. Ciò che conta è il forte legame fra il progresso di una nazione e quello delle regioni che ne fanno parte: difficile avere un significativo sviluppo regionale se il paese di cui si fa parte cresce poco. Si dice spesso che il Mezzogiorno è il problema dell’Italia. Da un certo punto di vista non c’è dubbio: se per assurdo il Mezzogiorno facesse parte della Spagna e non dell’Italia, il reddito italiano sarebbe più alto. Ma si potrebbe sostenere anche il contrario, e cioè che il problema del Mezzogiorno è che è in Italia: se per assurdo facesse parte della Spagna, il suo reddito crescerebbe più velocemente. Il problema dello sviluppo regionale in Italia, delle disparità territoriali, del Mezzogiorno oggi più che mai non può che essere interpretato tenendo conto del quadro nazionale. Il quadro di un paese con difficoltà strutturali, a lungo mitigate dal suo grande dinamismo, ma ormai da diversi anni messe a nudo da risultati economici cattivi. L’uno non può che andare insieme all’altro: non si può immaginare un soddisfacente sviluppo delle regioni italiane più deboli senza una significativa trasformazione e una ripresa complessiva di tutto il paese. Non si può immaginare una ripresa di tutto il paese senza una forte crescita delle sue regioni più deboli. 42 In parte, modesta, ciò è un’illusione statistica, grazie al fatto che allargandosi l’Unione il suo reddito medio, su cui è calcolato il valore del 75%, è diminuito; ma in parte principale è crescita vera.

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Proviamo a riassumere. L’Italia ha incontrato grandi difficoltà economiche negli ultimi anni; la sua crescita è stata assai inferiore al resto d’Europa e del mondo: l’andamento è simile in tutte le regioni43. Dal 2003 il Nord va un po’ (ma solo un po’) meno peggio del Sud, grazie soprattutto al forte aumento dell’occupazione straniera. L’economia del Sud soffre degli stessi mali di quella nazionale, in forma più accentuata. Il suo cattivo andamento recente può essere spiegato dagli stessi motivi che aiutano a capire le difficoltà dell’intera economia italiana. Gli anni delle aspettative decrescenti La cronaca degli ultimi anni, il contesto in cui inserire i fatti raccontati nei prossimi capitoli, non può però esaurirsi con i dati strettamente economici. È indispensabile qualche riflessione sulle dinamiche sociali e politiche. Qui il terreno si fa più accidentato; ci sono meno cifre; i fenomeni sono più sfumati. Come ha acutamente scritto Giulio Tremonti44, gli anni Duemila sono per la società italiana, a tutte le latitudini, gli anni della paura e della sfiducia. Le indagini dell’Istituto di studi e analisi economica (ISAE) mostrano un fortissimo calo della fiducia dei consumatori a partire dal 2002, con qualche 43 L’aritmetica non conforta dunque l’opinione, peraltro assai diffusa, ma che confonde i livelli di reddito con la loro dinamica, che «una importante causa del rapido avvicinamento o addirittura (oggi) della superiorità del PIL pro capite a parità di potere d’acquisto spagnolo rispetto a quello italiano risiede dunque nello schiacciamento verso il basso del reddito di molte regioni dell’Italia meridionale»: M. Fortis, La Spagna non vince la partita dell’export, in «Il Sole-24 Ore», 3.7.2008. 44 G. Tremonti, La paura e la speranza, Mondadori, Milano 2008.

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segno di ripresa, ma assai alterno, nel 2006-2007. Nemesi della storia, la fiducia degli italiani comincia a declinare proprio quando arriva a Palazzo Chigi Silvio Berlusconi, l’uomo politico che ha costruito tutta la sua immagine di leader e di uomo di governo sulla capacità di trasmettere ottimismo. Ma la crisi di fiducia finisce per travolgere poi anche il successivo, breve, governo di Romano Prodi. È in primo luogo strettamente legata al cattivo andamento dell’economia appena descritto. Alla percezione di insicurezza del reddito e del lavoro, dovuta alla stasi prolungata, alle crisi internazionali, energetica e alimentare, alla crescente concorrenza. Al fatto che il potere d’acquisto reale di salari e stipendi non aumenta. Le cronache degli anni Duemila sono cronache di famiglie con difficoltà ad «arrivare alla quarta settimana», cioè a mantenere con il proprio reddito il consueto tenore di vita: quelle che lo dichiarano all’ISTAT sono un sesto del totale45. Alla percezione, come aveva scritto in passato Paul Krugman per gli Stati Uniti, di vivere in un’era di aspettative che si riducono46: cioè un periodo in cui, a differenza dei decenni del dopoguerra, molte famiglie temono un peggioramento e non un miglioramento del proprio tenore di vita; temono per i figli condizioni di lavoro e di vita peggiori, e non migliori, rispetto a quelle dei padri. Negli ultimi quindici anni i nuovi lavoratori hanno avuto trattamenti retributivi meno favorevoli rispetto alle generazioni che li hanno preceduti47. I neolaureati del 2006 guadagnano in 45 ISTAT, Distribuzione del reddito e condizioni di vita in Italia, anni 2005-2006, http://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20080117_01/. 46 P. Krugman, The Age of Diminished Expectations: U.S. Economic Policy in the 1990s, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1994. 47 Banca d’Italia, Relazione Annuale 2007, cit., p. 91.

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termini reali il 7% in meno dei neolaureati del 200148. La mobilità sociale fra diverse generazioni è contenuta, e diventa ancora più bassa49. Il lavoro si eredita. I dati Almalaurea mostrano che il 44% degli architetti con figli laureati ha un figlio laureato in architettura, e lo stesso vale per farmacisti (41%), ingegneri (39%), medici (39%). E i figli degli operai? Se riescono a laurearsi guadagnano dopo cinque anni il 15% in meno dei figli di famiglie borghesi, a parità di facoltà e di capacità50. Certamente la crisi di fiducia connessa agli aspetti economici è più intensa nel Mezzogiorno, e si collega alla più forte caduta della domanda interna e alle difficoltà maggiori nel mondo del lavoro. Il clima di fiducia dei consumatori scende più intensamente, e risale più lentamente, al Sud (fig. 1); se nel 2002 lo scarto fra previsioni ottimiste e pessimiste sulla situazione economica futura della famiglia era al Sud positivo per il 15%, nel 2008, dopo una discesa continua, è diventato negativo per il 20%51. Le famiglie hanno redditi più bassi, e quando arriva la crisi la sentono di più; le prospettive di trovare un’occupazione sono più modeste. Si ampliano le disparità, fra diversi percettori di 48 Almalaurea, X Rapporto sulla condizione occupazionale dei laureati, 2008 (http://www.almalaurea.it/universita/occupazione/occupazione06/volume/volume.pdf). 49 «il luogo di nascita e le caratteristiche dei genitori hanno un impatto elevato e crescente nel tempo sui risultati ottenuti» (ci si riferisce ai lavoratori nati fra il 1940 e il 1974): Banca d’Italia, Relazione Annuale 2007, cit., p. 98. 50 Almalaurea, X Rapporto sulla condizione occupazionale dei laureati, cit.; G. Viesti, Quanto vale la laurea senza lavoro, in «Il Mattino», 29.2.2008. 51 DPS, «Quaderno congiunturale territoriale», aprile 2008 su dati ISAE, p. 24 (http://www.dps.tesoro.it/documentazione/docs/2008/ QUADERNO%20aprile%202008%20completo%2028%20aprile. pdf).

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Fig. 1. Clima di fiducia dei consumatori in Italia (numeri indice, 1995 = 100) Mezzogiorno 115,0 – 110,0 – 105,0 – 100,0 –

media 1994-1999 media 2000-2003

95,0 – 90,0 – 85,0 –

2008 –

2007 –

2006 –

2005 –

2004 –

2003 –

2002 –

2001 –

2000 –

1999 –

1998 –

1997 –

1996 –

media 2004-2008

1995 –

1994 –

80,0 –

Centro-Nord 115,0 – 110,0 –

media 1994-1999

105,0 – media 2000-2003

100,0 – 95,0 – 90,0 –

media 2004-2008

2008 –

2007 –

2006 –

2005 –

2004 –

2003 –

2002 –

2001 –

2000 –

1999 –

1998 –

1997 –

1996 –

1994 –

80,0 –

1995 –

85,0 –

Fonte: DPS, «Quaderno congiunturale territoriale», aprile 2008 su dati ISAE, p. 22 (http://www. dps.tesoro.it/documentazione/docs/2008/QUADERNO%20aprile%202008%20completo% 2028%20aprile.pdf).

reddito e fra famiglie con un livello di ricchezza diverso. Quando aumentano molto i prezzi delle case, e il costo degli affitti, stanno meglio i proprietari di case e peggio le giovani coppie in cerca di un alloggio in af35

fitto o da acquistare: al Sud sono proporzionalmente di meno i primi e di più le seconde. Le persone definite «povere» dall’ISTAT sono 5,2 milioni al Sud e 2,3 milioni nel resto del paese: al Sud, il 10,8% delle famiglie sono povere, l’11,8 sono quasi povere e un ulteriore 13,2 «a rischio di povertà»; in totale più di una famiglia su tre. Si tratta spesso di famiglie numerose, con tre o più figli, specie se piccoli, con capofamiglia con un titolo di studio basso o con capofamiglia donna52. Le famiglie povere del Sud hanno una spesa media mensile di 752 euro53. È maggiore al Sud la precarietà del lavoro; temporanei, co.co.co. o co.co.pro., prestatori d’opera occasionali sono quasi un milione sui 6,5 milioni di occupati, cioè il 15%, contro meno dell’11 nel CentroNord54. Il turnover dell’occupazione è più alto: nell’industria manifatturiera, le cessazioni del rapporto di lavoro nel 2007 riguardano il 18,3% degli occupati, contro una media nazionale del 13,155. Un lavoratore meridionale dipendente a tempo pieno su sei è considerato dalla Banca d’Italia «a bassa retribuzione»56. Sono pochissime le donne che lavorano: meno di una su tre, contro più di una su due nel resto del paese, quindi sono molte di più le famiglie monoreddito, più esposte ai rischi economici. Incide la diversa ricchezza patrimoniale: nel 2006, il valore medio del patrimonio di una famiglia italiana è stimato in circa 362.000 eu52

ISTAT, Distribuzione del reddito e condizioni di vita in Italia, cit. Ministero dello Sviluppo economico, Rapporto annuale del DPS 2007, cit., p. 43, su dati ISTAT 2006. 54 Banca d’Italia, Relazione Annuale 2007, cit., tav. 9.1, p. 85. 55 Ivi, tav. a9.16. Nei servizi non finanziari i dati sono più simili. 56 Cioè con un valore inferiore ai 2/3 del valore mediano delle retribuzioni, come da definizione OCSE (ivi, p. 96). 53

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ro, fra attività reali (62% del totale, principalmente abitazioni) e finanziarie (38%). Al Nord sale fino ai 502.000 euro della Valle d’Aosta; al Sud scende fino ai 199.000 euro della Calabria; una famiglia del Sud, che è anche mediamente più numerosa, ha una ricchezza patrimoniale pari al 61% di quella di una famiglia del Centro-Nord57. Le donne del Sud hanno sempre avuto, in media, più figli di quelle del Nord. Con il nuovo secolo, questa forbice si chiude. Difficile indicare con sicurezza le cause. Al Nord è forte e crescente il contributo delle famiglie immigrate. Al Sud non è chiaro quanto dipenda da comportamenti procreativi più consapevoli, dalla diffusione di valori sociali e familiari diversi rispetto alla tradizionale famiglia numerosa e patriarcale (dunque da cause tendenzialmente positive) ovvero dalla difficoltà ad avere figli quando è difficile trovare casa, mancano i servizi alla prima infanzia, i giovani devono spesso spostarsi geograficamente per lavorare o hanno troppa incertezza sul reddito futuro. Purtroppo, è lecito pensare che la caduta del tasso di fertilità al Sud non dipenda solo da una positiva modernizzazione dei costumi. Criminalità e immigrazione La paura e la sfiducia degli italiani vengono da nuove percezioni nella vita quotidiana, anche non economiche. Fra il 2002 e il 2006 cresce significativamente la percentuale di famiglie che denunciano almeno un problema (criminalità, violenza) nella propria zona di resi57 Stime Istituto Tagliacarne; Unioncamere, Rapporto Unioncamere 2008, cit., pp. 199-202.

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denza (dal 31,5 al 34,7%); più nettamente nel Mezzogiorno (dal 35,9 al 40,7%) e nelle grandi aree urbane58. Nove italiani su dieci ritengono, nel 2008, che la criminalità sia aumentata; due italiani su tre che «gli altri, se si presentasse l’occasione si approfitterebbero della mia buona fede»; più di metà degli italiani «ha paura» e quasi metà ha paura degli stranieri59; i dati sono omogenei in tutte le aree geografiche. La presenza degli immigrati raggiunge molto velocemente in Italia livelli simili a quelli degli altri grandi paesi europei. Gli stranieri residenti decuplicano dai circa 350.000 nel 1991 (0,6% della popolazione) ai 3,5 milioni di inizio 2008 (5,8%)60. Gli immigrati danno un contributo rilevante all’economia italiana, specie nelle regioni del Centro-Nord dove si concentrano per il 90% e determinano quasi undici punti del PIL totale61, svolgendo lavori tanto di cura nelle famiglie (badanti, collaboratori domestici) e i lavori più duri e a minor reddito nell’agricoltura e nell’industria; l’Italia riesce a valorizzarli ancora molto poco, come dimostra lo scarto fra la loro scolarità e capacità professionale media, relativamente elevate, e i compiti di livello molto modesto in cui sono impegnati62. Ma non sono questi i temi connessi alla presenza degli immigrati in Italia: il dibattito sull’immigrazione si incrocia invece principalmente con quello sulla clandestinità e con quello sulla sicurezza. 58 ISTAT, Indicatori di disagio sociale, anno 2006 (http://www.istat. it/salastampa/comunicati/non_calendario/20071126_00/). 59 Demos & Pi, XVII Osservatorio sul capitale sociale degli italiani, marzo 2008 (http://www.demosonline.it/ricerche/capitale/17.pdf). 60 Banca d’Italia, Economie regionali, cit., p. 70. 61 Unioncamere, Rapporto Unioncamere 2008, cit., p. 47. 62 Il 40% degli stranieri laureati che lavorano in Italia svolge attività non qualificate o manuali: ISTAT, La partecipazione al mercato del lavoro della popolazione straniera, cit.

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Persino l’ultimo allargamento dell’Unione Europea a Romania e Bulgaria, da essere un positivo – e assai utile per l’economia italiana – completamento dello spazio comunitario, diventa tema di recriminazione per la maggiore possibilità di cittadini romeni di soggiornare in Italia. Fatti di cronaca eclatanti e drammatici di cui sono protagonisti negativi cittadini romeni divengono esemplificativi dei comportamenti di un intero popolo. La questione dell’immigrazione domina al Nord, specie al Nord-Est e nei grandi centri urbani. La questione della sicurezza è invece presente in tutte le regioni. Complessivamente, il numero di delitti è di gran lunga maggiore al Centro-Nord: 526 per 10.000 abitanti contro 367 al Sud. L’andamento della delittuosità negli ultimi anni è peggiore nel Centro-Nord: l’indice di criminalità costruito dall’ISTAT mostra fra il 1995 e il 2006 una riduzione dell’11% nel Mezzogiorno e un aumento del 45% nel Centro-Nord63. Ci sono differenze di composizione, più furti al Nord, più estorsioni al Sud, ma il quadro d’insieme non muta. L’indice di microcriminalità nelle città del Centro-Nord è del 50% maggiore che nel Sud64. È evidente la presenza su tutto il territorio nazionale di grandi e ramificate organizzazioni criminali, e diffusi in tutto il paese sono i reati di criminalità organizzata, al Nord con un peso maggiore dello sfruttamento della prostituzione, delle rapine gravi, del traffico di stupefacenti; al Sud con un peso maggiore degli omicidi di mafia e camorra, dei reati di associazione a delinquere, degli ecoreati. L’intensità dei reati di 63 ISTAT, Informazione statistica territoriale e settoriale per le politiche strutturali 2001-2008, B. Indicatori di contesto chiave e variabili di rottura, http://www.istat.it/ambiente/contesto/infoterr/azioneB.html, asse VI-02. 64 Ivi, asse V-06.

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criminalità organizzata è solo di poco superiore al Sud rispetto al Centro-Nord65. Certo, nessuno può negare la pervasività assai maggiore della presenza criminale in alcune aree del Sud: la morsa della camorra a Napoli e Caserta, magistralmente descritta nel libro Gomorra66, e il suo ruolo fondamentale e assai preoccupante nella vicenda dei rifiuti campani; il controllo del territorio da parte della mafia nella Sicilia occidentale. Ma è altrettanto vero che gli omicidi di mafia nel 2006 sono stati 106: erano 141 nel 2000, 230 nel 1995, 506 nel 199067. La criminalità organizzata ha ormai dimensioni sovranazionali. Eppure, si tende immancabilmente a differenziare un Mezzogiorno con una società e un’economia totalmente in balia del crimine da un Nord fondamentalmente sano nella sua società e nella sua economia, infestato da fenomeni prevalentemente importati. È diverso il giudizio, la prospettiva; molti considerano la diffusione della criminalità al Sud un fatto inevitabile, ineliminabile, salvo rimanere poi sorpresi nel vedere i segnali che proprio la società meridionale ha dato nella lotta alla criminalità: dalle iniziative «antipizzo» degli imprenditori siciliani guidati da Ivan Lo Bello alla rivolta contro la n’drangheta dei ragazzi calabresi. Gli anni della sfiducia È fortissima la crisi di fiducia nella politica. È cambiato profondamente in questi anni il rapporto dei cittadini

65 Ministero dello Sviluppo economico, Rapporto annuale del DPS 2007, cit., p. 45, su dati del ministero dell’Interno. 66 R. Saviano, Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra, Mondadori, Milano 2006. 67 SVIMEZ, Rapporto 2008 sull’economia del Mezzogiorno, cit., p. 59.

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con la politica, e sono cambiati i meccanismi di formazione delle classi dirigenti, al Nord come al Sud. Si guardi al caso del Sud. Nel Mezzogiorno la grande svolta degli anni Novanta era stata forte. Il parallelo dissolversi dei partiti di governo, con la loro presa maggioritaria, il ciclone Tangentopoli, le privatizzazioni, la modifica in senso maggioritario delle leggi elettorali avevano introdotto cambiamenti radicali. La classe dirigente politica del Sud si era profondamente trasformata. Era emerso un interessante gruppo di nuovi sindaci; i presidenti delle Regioni avevano acquisito una visibilità politica, un potere reale, una responsabilità di rappresentanza assai maggiore. Il sistema maggioritario uninominale aveva portato entrambi gli schieramenti a un’attenzione maggiore nella scelta delle candidature, inserendo anche personalità locali di non diretta estrazione partitica ma di buona reputazione e capacità. Dall’inizio degli anni Duemila questo percorso si è certamente arrestato. Non è facile dire cosa stia esattamente accadendo nella politica delle città del Sud. Mancano indagini e studi recenti; si affastellano casi più o meno positivi, città che perdono e mantengono fiducia, ma non è difficile distinguere una linea di tendenza. Nelle Regioni, ci si è scontrati con dinamiche politiche che hanno reso l’azione di governo meno forte. Una cesura netta vi è stata nelle rappresentanze parlamentari, in seguito alla disastrosa legge elettorale approvata dal governo Berlusconi. Così come la legge elettorale comunale e regionale aveva accompagnato cambiamenti positivi, la nuova legge elettorale nazionale ne ha provocato di negativi. La legge Calderoli ha consegnato a una ristrettissima élite centrale ogni potere di selezione delle rappresentanze parlamentari. Come molti osservatori hanno sottolineato, questo ha probabilmente portato a privilegia41

re, specie al Sud, più che quelle élite in grado di intercettare un voto di opinione, quegli intermediari in grado di mobilitare fasce ampie di consenso. Certo pare assai più debole quel meccanismo di mobilità nella politica che aveva portato rappresentanti eccellenti delle comunità locali a divenire sindaci e poi magari consiglieri regionali o deputati. Fortissima in particolare è la crisi di rappresentanza dei partiti. Con la fine della Prima Repubblica si chiude traumaticamente l’esperienza dei partiti allora di governo. MSI e PCI subiscono complesse e profonde trasformazioni; nasce Forza Italia. Dopo le elezioni del 2008 sparisce la rappresentanza parlamentare della sinistra; nasce un partito (il PD) che ha ancora valori di riferimento e priorità politiche non ben definiti; AN si scioglie nel PdL, dominato da Berlusconi. Sembrano oggi mancare grandi partiti nazionali, in grado di rappresentare le istanze di tutti i cittadini, di elaborare progetti condivisi, di disegnare scenari di lungo periodo per l’intero paese. Sembra declinare la fiducia nelle soluzioni collettive, nelle imprese comuni. L’attenzione sembra concentrarsi verso la soluzione di problemi personali più che della comunità (seguendo d’altra parte esempi eccellenti): trovare un lavoro assai più che far crescere l’occupazione; ottenere un incentivo per le proprie imprese più che migliorare i sistemi di formazione del personale. Un’ottica più di breve che di lungo periodo. Questa sembra una caratteristica dell’intero paese. Provoca un moltiplicarsi della domanda politica di interventi individuali, per singoli, famiglie, gruppi, corporazioni, e di interventi immediati, di breve periodo. A questa domanda di soluzioni individuali corrisponde una offerta politica di soluzioni individuali. Un esempio. Nelle elezioni del 42

2008 il grande tema non è stato come intervenire per garantire a tutto il paese, ai milanesi come ai romani e ai siciliani, una migliore, efficiente, sostenibile mobilità aerea, anche affrontando la crisi dell’Alitalia: il grande tema è stato come salvare uno specifico aeroporto, quello di Malpensa, al centro di un bacino elettorale importante. Malpensa potrebbe essere il simbolo di questi anni: all’annuncio dell’Alitalia di eliminare molti dei suoi voli sull’hub perché fuori mercato, cosa insostenibile per un’azienda in stato prefallimentare, la reazione all’unisono è stata la richiesta di una soluzione ad hoc, assistenziale. Questo è accaduto a Milano: può essere esemplificativo di un paese che chiede meno progetti di grande respiro, e più soluzioni ad hoc, nell’immediato. Non sorprende, ad esempio, che il leader della incivile protesta dei taxisti romani, che a inizio 2008 si erano opposti a interventi tutto sommato assai contenuti per aumentare l’offerta a disposizione dei cittadini, e che per difendere i propri interessi corporativi non avevano esitato a bloccare la città, sia stato candidato in Parlamento nelle file dello schieramento vincitore. In parallelo con la paura e la sfiducia, sembra cresciuto nel paese negli anni Duemila un forte egoismo. Se singoli e famiglie vivono in un’era di aspettative economiche decrescenti, se sono preoccupati di immigrati e criminali, se hanno una crescente sfiducia nella politica e nella possibilità di grandi iniziative collettive e mirano conseguentemente a guardare al proprio interesse particolare più che a un ipotetico interesse generale, la logica del «ciascuno per sé, con le proprie risorse» trova sempre maggiore consenso. In Italia, questa logica è stata espressa, e con grandi risultati politici e di consenso, dalla Lega Nord. Come spesso accade quando una strategia politica ha un evidente successo, si tende a sot43

tolinearne oltremisura la qualità. In realtà la Lega ha espresso con coerenza e semplicità un programma politico arcaico, basato sulla paura e sull’egoismo. Un programma più adatto a governare una cittadella fortificata medioevale che un grande paese contemporaneo, europeo. Due i punti fondamentali. Da un lato alzare il più possibile i ponti levatoi delle cittadelle fortificate, per impedire (o consentire solo nella misura che conviene) l’accesso all’«altro», al diverso per razza, religione, colore. Anche con strumenti estremi, come la simbolica passeggiata di un impuro maiale sul terreno dove era prevista l’edificazione di una moschea68. La Lega è portabandiera di importanti identità territoriali, delle città e delle regioni, specie del Nord-Est; ma di queste identità dà una interpretazione di chiusura, di contrapposizione, di isolamento. L’altro caposaldo del leghismo è il tentativo di conservare il «tesoro» all’interno delle mura della cittadella. Come si vedrà più avanti discutendo di federalismo fiscale, l’obiettivo della Lega è lineare e trasparente: mantenere al Nord le tasse pagate dai cittadini, come nelle città fortificate del Medioevo. Paura e chiusura nei confronti del diverso ed egoismo localistico non sono derive solo italiane, ma tendenze che, con maggiore o minore intensità, si stanno manifestando in diversi paesi europei: dalle proteste presecessioniste delle Fiandre in Belgio (in quanto oggi più ricche della francofona Vallonia) all’abile ricatto politico con cui la Catalogna ha trasformato il suo passato di oggettivo schiacciamento culturale nella Spagna franchista in una rappresentanza elettorale autonoma capace di otte68 Maiale al guinzaglio contro la moschea, in «Corriere della Sera», 10.11.2007 (http://www.corriere.it/cronache/07_novembre_10/maiale_moschea_padova.shtml).

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nere colossali risorse. Persino nella lontana Bolivia c’è un conflitto simile. Sfiducia in grandi progetti collettivi, attenzione esasperata al proprio particolare localistico sono i connotati di una società che di sviluppo del Mezzogiorno, e soprattutto di investire risorse nazionali per lo sviluppo del Mezzogiorno, non vuole sentire più parlare. Il Mezzogiorno è ormai percepito come altro dall’Italia, altro dalle città e dalle regioni in cui si vive. La Lega ha in realtà in parte già vinto: la «secessione dolce» è già in corso, a uno stadio avanzato. La gravissima crisi dei rifiuti che a partire dal 2007 ha travolto Napoli e parte della Campania ne è stato il suggello. La percezione di luoghi di vita e di lavoro, sporchi e sgarrupati, così diversi da quelli in cui si vive; l’atteggiamento dei cittadini, pronti a protestare e a contestare ogni possibile soluzione, ma apparentemente così poco attenti, ad esempio, a collaborare alla raccolta differenziata; la presa delle organizzazioni camorristiche sulla società e sull’organizzazione stessa dei servizi pubblici; una gestione commissariale della crisi di cui reportage giornalistici hanno messo duramente in evidenza sprechi e inefficienze. L’immagine di una parte così significativa delle nuove classi dirigenti del Sud, in primo luogo Antonio Bassolino, responsabili del disastro e incapaci di porvi rimedio. I rifiuti sono Napoli. Napoli è il Mezzogiorno. Il Mezzogiorno sono i rifiuti.

3.

RISORSE PER LO SVILUPPO: IMPEGNI E REALIZZAZIONI

La spesa pubblica in conto capitale Si è detto che le difficoltà economiche del Mezzogiorno sono simili a quelle dell’intero paese e che sono spiegate dalle stesse cause. Ma questo sembra a molti poco credibile. Come può essere normale che il Sud cresca così poco nonostante i colossali trasferimenti di risorse che riceve dal bilancio pubblico? Nonostante le tante politiche di sviluppo che da tanti anni si fanno? Per moltissimi la spiegazione di questo apparente mistero è semplice. Le colossali risorse che vengono trasferite sotto varie forme al Mezzogiorno vengono sprecate. Per alcuni si fanno le politiche sbagliate; per altri, semplicemente, ogni euro che arriva al Sud viene deviato, per mille rivoli, verso una spesa improduttiva: «nonostante piovano soldi pubblici il divario è più ampio di quanto fosse 30 anni fa»; «un fiume di denaro corre da decenni verso il Mezzogiorno, con il principale effetto di alimentare una classe politica impresentabile, la corruzione diffusa, il degrado civile. Il disastro dei rifiuti campani ne costituisce la perfetta epifania»; «la storia del Mezzogiorno è storia di sprechi infiniti, ripetuti in tutte le forme immaginabili, che hanno solo aggravato i problemi di quelle re46

gioni»1. Peccato che tutte queste opinioni siano espresse, normalmente, senza portare alcuna prova documentale; sulla base del sentito dire, della conoscenza episodica, della lettura di un articolo di giornale. Non aiuta la circostanza che un gruppo di economisti fortemente caratterizzati da un approccio liberista dogmatico abbia assunto un ruolo di primo piano fra gli editorialisti dei maggiori quotidiani, economici e di informazione, italiani. Essendo rimpallata da un opinionista all’altro, da un organo di informazione all’altro, come una palla di neve lungo una discesa, la tesi si rafforza automaticamente. Assume caratteri di verità assoluta. Peccato però che, a volerle leggere, le cifre disponibili dicano altro. Vale allora la pena di fare un viaggio nelle cifre, perché possono rivelare fatti interessanti, contrari all’opinione comune: che per il semplice fatto di essere comune non è necessariamente corrispondente al vero. Prima di partire per questo viaggio una piccola mappa per orientarsi. Non è semplicissima, ma è indispensabile per essere correttamente informati. In primo luogo si proverà a misurare la quantità delle politiche pubbliche che si fanno in Italia e nel Mezzogiorno, rimandando successivamente l’analisi della qualità. Quantità e qualità sono entrambe decisive: per provare a capire, vanno analizzate entrambe. Si comincerà dalla quantità, misurando il trasferimento di risorse pubbliche che viene operato verso il Mezzogiorno. Si guarderà alla spesa effettiva: come si vedrà meglio in seguito, infatti, una caratteristica importante delle politiche per il Mezzogior1 D. Di Vico, Federalismo e consumi, in «Corriere della Sera», 1.6.2008; S. Micossi, L’Italia senza cultura di governo, in «Il Sole-24 Ore», 12.3.2008; F. Giavazzi, Giavazzi: i dazi hanno sempre creato grandi guai, in «Corriere della Sera», 7.3.2008.

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no è che all’annuncio di interventi non necessariamente segue la loro realizzazione. La spesa di chi? Anche questo può essere un problema, perché nel Mezzogiorno, come nel resto del paese, intervengono diversi attori: i Comuni e le municipalizzate, le Province, le Regioni, i diversi ministeri e le società a prevalente controllo pubblico. Fra questi vari attori e diversi livelli di governo ci sono notevoli trasferimenti di risorse, e quindi bisogna stare molto attenti, nel fare di conto, a eliminare tutte le duplicazioni. Per fortuna però, l’Italia – all’avanguardia nel quadro internazionale – dispone di un sistema informativo che è in grado di fornire tutte queste cifre con un buon grado di affidabilità; siamo perfettamente in grado di misurare le politiche pubbliche dal punto di vista quantitativo, di dire cioè quanto è stato speso in una specifica regione, e anche per grandi categorie di spesa. La spesa pubblica è composta da spesa in conto capitale e spesa corrente. La spesa in conto capitale comprende fondamentalmente a sua volta due grandi voci: investimenti pubblici (scuole, strade, ferrovie, ospedali e così via) e trasferimenti in conto capitale, risorse cioè trasferite alle imprese per cofinanziare i loro investimenti; a queste due voci, nel parlare corrente, si fa spesso riferimento con i termini spesa per infrastrutture e spesa per incentivi. La spesa corrente comprende principalmente i trasferimenti, gli acquisti e gli stipendi delle pubbliche amministrazioni. La spesa corrente è nettamente maggiore, ma la spesa in conto capitale dovrebbe essere quella più importante per lo sviluppo: quella che consente di dotarsi di moderne infrastrutture, di favorire gli investimenti delle imprese. Le infrastrutture producono i servizi che servono all’economia per crescere: consentono il trasporto delle persone e delle merci; con le scuole e gli ospedali «producono» cittadini colti e più sani. Le 48

moderne teorie dello sviluppo economico sottolineano che i paesi che crescono di più sono quelli che dispongono di una forza lavoro ben preparata, e di un sistema infrastrutturale efficiente e moderno, in grado di erogare servizi di qualità a cittadini e imprese. Si comincerà pertanto da questa parte della spesa. La spesa in conto capitale della pubblica amministrazione in Italia nel 2006 è stata pari a circa 60 miliardi di euro. La sua componente più importante è la spesa «ordinaria», cioè quella dei ministeri, delle Regioni, dei Comuni, a valere sui propri bilanci, che ammonta a quasi 47 miliardi di euro. Vi sono poi risorse nazionali che sono raccolte dal 2003 nei «fondi per le aree sottoutilizzate», cosiddetti FAS (sempre per il 2006 si tratta di circa 5,9 miliardi): sono programmati a livello centrale, ma spesso gestiti dalle Regioni anche a seguito della definizione di «accordi di programma quadro» con i ministeri. Vi sono infine i «fondi strutturali» europei, con il relativo cofinanziamento nazionale (sempre per il 2006 si tratta di 7,7 miliardi): sono gestiti dai ministeri e dalle Regioni. Fondi europei e FAS rappresentano la spesa «aggiuntiva» per le politiche di sviluppo delle aree più deboli, in attuazione delle politiche di coesione dell’Unione Europea (previste dai trattati dell’Unione) e del dettato nel quinto comma dell’articolo 119 della Costituzione italiana. Quindi spesa ordinaria per circa tre quarti e spesa aggiuntiva per un quarto, rispettivamente2. 2 Nel periodo 1998-2006, la spesa in conto capitale delle pubbliche amministrazioni è ammontata a 480,6 miliardi, per il 77% finanziata da risorse ordinarie. Cfr. Banca d’Italia, Economie regionali. L’economia delle regioni italiane nell’anno 2007, Banca d’Italia, Roma 2008 (http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/ecore/sintesi/ eco_reg_2007/economia_regioni_italiane_2007.pdf), p. 47.

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Dove vanno spese tutte queste risorse? La prima risposta a questa domanda va cercata nella Costituzione. Il nuovo articolo 119 – così come modificato dalla riforma del 2001 – recita testualmente al suo quinto comma: «per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni». Il senso è chiaro: per far sviluppare tutte le aree del paese, vengono destinate risorse aggiuntive a quelle meno forti. In maniera opportuna, questa nuova formulazione elimina il preesistente riferimento al Mezzogiorno; gli interventi aggiuntivi per lo sviluppo si fanno ovunque ve ne sia particolare bisogno. C’è quindi una chiara indicazione della Costituzione. Già, ma quante risorse? Per quanto possa sembrare sorprendente, in Italia è stata fornita una risposta molto precisa a questa importante domanda. Fu un’iniziativa di grande rilevanza del governo D’Alema con il Documento di programmazione economico-finanziaria (DPEF) per gli anni 2000-2003. Il peggiore meridionalismo del passato si era caratterizzato per una continua richiesta di nuove risorse da dirottare verso il Mezzogiorno; e i politici si attribuivano titoli di merito nell’aver ottenuto per il Sud risorse maggiori. Forse anche perché si temeva che il peggiore nordismo si sarebbe caratterizzato, come è poi avvenuto, per la speculare richiesta di ottenere per il Nord il più possibile di denari pubblici, si stabilì un criterio politico equo per tutto il paese. Quale criterio? La spesa aggiuntiva va per definizione principalmente alle aree più 50

deboli. La destinazione geografica dei fondi strutturali è definita da regole europee: vanno principalmente, ma non solo, al Sud; la destinazione geografica delle risorse FAS fu stabilita per l’85% nel Mezzogiorno e per il 15 nel Centro-Nord (proprio perché anche al CentroNord ci sono territori deboli). Come suddividere la spesa «ordinaria»? Si decise di seguire una opportuna via di mezzo fra il peso delle due grandi aree del paese in termini di PIL e in termini di popolazione, stabilendo che la spesa ordinaria in conto capitale dovesse andare per il 30% al Sud e il 70% al Centro-Nord. Mettendo insieme gli elementi di questo ragionamento si ottiene un numero di sintesi, facile da ricordare e verificare. Il 45% della spesa totale in conto capitale (europea, nazionale, ordinaria: tutto insieme) va al Sud; il 55% al Centro-Nord3. Accadde poi un evento straordinario, considerato il sistema politico italiano: questo obiettivo politico fu confermato non solo dal governo Amato, ma anche in tutti i DPEF dei governi Berlusconi, approvati anno dopo anno anche dai ministri della Lega Nord. Un obiettivo dunque pienamente bipartisan. Una scelta di principio, politica, che evidentemente sintetizzava un accettabile equilibrio fra schieramenti e istanze territoriali. Sappiamo dunque quanto avrebbe dovuto essere la spesa in conto capitale nel Mezzogiorno, secondo governo e Parlamento. Non un numero ma una percentuale indipendente dalla buona o dalla cattiva congiun3 Per la verità nel DPEF 2000-2003 presentato da D’Alema e Amato nel giugno 1999 si ipotizzava di raggiungere «circa il 47%» nel Mezzogiorno già nel 2002, per poi ridiscendere gradualmente fino al 45% nel 2007: Ministero dell’Economia e delle Finanze, Documento di programmazione economico-finanziaria per gli anni 2000-2003, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, settembre 1999 (http:// www.tesoro.it/documenti/open.asp?idd=4723), pp. 119-20.

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tura, dallo stato dei conti pubblici, dal valore numerico della spesa. Il 45% del totale. Obiettivi non rispettati In Italia, grazie al sistema dei Conti pubblici territoriali4 abbiamo tutti i dati disponibili, ufficialmente presentati in documenti del governo, per verificare quanto questo sia accaduto5. È possibile così scoprire che l’impegno di destinare al Mezzogiorno il 45% della spesa in conto capitale, che i diversi governi di centrosinistra e di centrodestra si erano dati, non è mai stato raggiunto. Negli anni Novanta ci si è mossi lentamente verso l’obiettivo: la quota delle otto regioni del Sud sul totale della spesa in conto capitale è infatti cresciuta, seppur lievemente, dal 38,6% del 1998 al 40,4% del 2001. Ma con il governo Berlusconi la tendenza è cambiata, e la quota si è ridotta progressivamente fino al 36,7% del 2005. Con il governo Prodi l’obiettivo del 45% è stato ridotto. Dall’obiettivo del 45% da raggiungere nel 2008, indicato dall’ultimo DPEF di Berlusconi, si è passati all’obiettivo del 42,3% (per il quadriennio 2007-11) e poi, ancora al ribasso, al 41,4% (per il biennio 2010-11). Ma la tendenza effettiva della spesa non è cambiata: la quota del Mezzogiorno sul totale nel 2007 si è ridotta, ancora, al 4 Realizzato dal Dipartimento per le politiche di sviluppo al momento in cui vennero compiute queste scelte anche per verificarne l’attuazione. 5 La speranza è che questo continui ad accadere anche in futuro. Preoccupa ad esempio la circostanza che il governo Berlusconi abbia immediatamente sostituito la responsabile del Rapporto annuale del Dipartimento per le politiche di sviluppo (una economista di grande valore che proveniva dalla Banca d’Italia), cioè del documento in cui queste cifre sono raccolte e presentate.

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Tab. 1. Spesa in conto capitale nel Mezzogiorno (pubblica amministrazione, miliardi di euro, valori correnti)

2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007

Spesa

% su Italia

18,3 21,0 21,6 21,8 21,0 21,2 22,2 22,3

39,1 40,4 38,5 36,7 35,9 36,0 36,7 35,3

Fonte: Ministero dello Sviluppo economico, Rapporto annuale del DPS 2007, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2008 (http://www.dps.mef.gov.it/documentazione/docs/rapp_ annuale_2007/Rapporto/Rapp_DPS_2007_ridotto.pdf), tav. IV.2, p. 177.

35,3%. Una percentuale di gran lunga inferiore a quel 38,6% del 1998, ritenuto talmente basso da far fissare al governo di centrosinistra dell’epoca l’obiettivo di arrivare al 45% (tab. 1). Dell’obiettivo politico di una ripartizione della spesa in conto capitale fra Centro-Nord e Sud non vi è infine più traccia nel DPEF del nuovo governo Berlusconi, varato nella primavera 20086. Per un decennio i governi hanno dunque fissato un obiettivo di spesa in conto capitale nel Mezzogiorno, condiviso fra tutte le forze politiche e confermato per tre legislature (anche se ridotto nell’ultima). Come nel passato, sono stati annunciati così grandi interventi, che hanno anche provocato un certo risentimento in parte dell’opinione pubblica del Nord. Ma poi non sono sta6 Ministero dell’Economia e delle Finanze, Documento di programmazione economico-finanziaria per gli anni 2009-2013, Roma, giugno 2008 (http://www.governo.it/GovernoAzione/politiche_economiche/dpefopen.pdf).

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ti realizzati. La spesa in conto capitale è aumentata nel Centro-Nord, non nel Mezzogiorno. Dal 2001 al 2006, al Sud è passata da 21 a 22,2 miliardi di euro (+5,7% in termini nominali), mentre nel resto del paese si è passati da 31 a 38,2 miliardi di euro (+23,2%, sempre in termini nominali)7. Perché l’obiettivo è stato così clamorosamente mancato? Innanzitutto perché la spesa aggiuntiva per le politiche di sviluppo non è stata aggiuntiva ma sostitutiva di mancata spesa ordinaria. Che cosa è infatti successo dei fondi europei per il 2000-2006? La domanda è interessante perché il bilancio comunitario destina rilevanti risorse allo sviluppo delle regioni meno avanzate dell’Unione, a patto che esse si aggiungano a quanto sarebbe stato in ogni caso speso all’interno del singolo Stato (il termine preciso è «addizionali»). In alcuni casi la verifica di questa addizionalità è banale. Quando tutte le regioni dell’Irlanda o del Portogallo erano nel gruppo di quelle meno avanzate, era garantita per definizione: le cifre trasferite dall’Unione venivano incamerate dal bilancio dell’Irlanda e poi spese, naturalmente, in Irlanda. Il caso italiano è più complesso. Bisogna essere certi che le risorse europee destinate al Mezzogiorno si aggiungano alle risorse che lo Stato italiano autonomamente destina a quell’area. Per garantirsi, l’Unione firma uno specifico accordo con gli Stati. Il perché è chiaro: se invece di aggiungersi le sostituiscono, non producono nessun effetto aggiuntivo di sviluppo; è solo il contribuente europeo che paga al posto del contri7 I dati sono tratti dal Quadro finanziario unico della spesa in conto capitale: cfr. Ministero dello Sviluppo economico, Rapporto annuale del DPS 2007, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2008 (http://www.dps.tesoro.it/documentazione/docs/rapp_annuale_2007/ Rapporto/Rapp_DPS_2007_ridotto.pdf), tav. IV.2, p. 177.

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buente italiano. Ed è esattamente quello che è successo in Italia. Se si guardano i consuntivi (non la spesa annunciata!) fra il 2002 e il 2006 si scopre che la spesa annua dei fondi strutturali8 è aumentata da 3,9 a 5,6 miliardi all’anno. Ma l’altra spesa in conto capitale è scesa dai 17,7 miliardi del 2002 ai 16,6 del 20069; in particolare la spesa ordinaria in conto capitale della pubblica amministrazione nel Sud, che avrebbe dovuto essere il 30% del totale, è stata di poco superiore al 20%. Così, il totale, nonostante i fondi europei, è rimasto costante; per la verità è diminuito, tenendo conto che i dati sono a prezzi correnti. Ma come è possibile che i fondi europei siano sostitutivi di spesa nazionale, quando si è detto che l’Italia firma un accordo con l’Unione Europea nel quale garantisce il contrario, e cioè che le risorse comunitarie vengono ad aggiungersi a quelle nazionali? Semplice. Il ministro Giulio Tremonti nel 2003 ha chiesto all’Unione di ridurre significativamente l’addizionalità: se prima l’Italia si era impegnata a sommare i fondi comunitari a 19,6 miliardi di spesa interna, dopo l’accordo è stata autorizzata a spenderne solo 18,2 (ma come si vede neanche questa cifra è stata raggiunta). Non risulta, tuttavia, che tale forte scelta politica sia stata particolarmente criticata dall’opposizione dell’epoca. Si tenga presente che la spesa convenuta con la Commissione Europea prima della revisione (cui si sarebbero dovuti aggiungere i fondi strutturali) era di circa 1.000 euro pro capite nel Mezzogiorno contro 1.600 euro nella ex Germania Est10. 8

Ivi, p. 189. La spesa dei fondi strutturali include il cofinanziamento nazionale; l’altra spesa in conto capitale comprende FAS e spesa ordinaria. 10 Commissione Europea, Secondo rapporto sulla coesione economica e sociale, Commissione Europea, Lussemburgo 2001 (http://ec. 9

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Nel quinquennio del governo Berlusconi è stata compiuta una precisa scelta politica: privilegiare il risparmio di risorse pubbliche, o il loro utilizzo per altri fini, rispetto agli obiettivi concordati di sviluppo del Mezzogiorno. Indirizzare la spesa nei programmi comunitari ha consentito alle finanze pubbliche italiane di giovarsi dei relativi rimborsi provenienti dal bilancio dell’Unione (circa 4 miliardi all’anno), che sono stati poi destinati non a finanziare la spesa in conto capitale del Mezzogiorno ma altri obiettivi di politica economica. I FAS hanno periodicamente subito riprogrammazioni che, pur senza intaccarne l’ammontare totale, ne hanno costantemente spostato in avanti il momento dell’effettivo utilizzo; vi sono stati storni di fondi per obiettivi, pur di grande importanza11, non direttamente connessi al riequilibrio territoriale. La mancata spesa ordinaria ha riguardato principalmente il livello nazionale. È stata sensibile nelle infrastrutture sociali, per le quali la spesa pro capite è stata al Sud, nel decennio 1996-2006, del 20% inferiore alla media nazionale12. Ma ha interessato anche i livelli locali, cui sono arrivate meno risorse. L’Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI) documenta come «mentre nel periodo 1996-2001 la spesa comunale per investimenti è cresciuta in modo uniforme lungo il territorio, a fronte di un’azione riequilibratrice dello Stato che ha investito maggiormente nel Mezzogiorno, nel periodo 2001-2005, in un contesto di bassa crescita degli europa.eu/regional_policy/sources/docoffic/official/reports/content pdf_it.htm), tav. A/45. 11 Ad esempio, in occasione della Finanziaria 2008: tagli festeggiati come misure «certamente efficaci per ridurre gli sprechi nel Mezzogiorno» (N. Rossi, L’inutile cabina di regia, in «CorrierEconomia», 3.12.2007). 12 Banca d’Italia, Economie regionali, cit., p. 87.

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Fig. 2. Impegni e spesa effettiva in conto capitale nel Mezzogiorno dal 2000 al 2007 (miliardi di euro) 30 – 25 – 20 – 15 – 10 – 5– 0– 2000

2001

2002

2003

Impegni (DPEF 2000-2003)

2004

2005

2006

2007

Spesa effettiva

Fonte: Ministero dello Sviluppo economico, Rapporto annuale del DPS 2007, cit., p. 174.

investimenti, la spesa dei Comuni del Centro-Nord è cresciuta più che nel periodo precedente, mentre quella del Sud è rimasta pressoché invariata»13. Dunque due chiari dati di fatto. Il primo, che i governi di centrodestra e di centrosinistra si sono dati un preciso obiettivo quantitativo per la spesa in conto capitale nel Mezzogiorno, anche in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione. Questo obiettivo è stato clamorosamente mancato: la figura 2 ne dà una chiara rappresentazione. Il secondo, che mentre fino al 2001 si è comunque cercato di avvicinarsi all’obiettivo, negli anni successivi ci si è progressivamente allontanati, rendendo 13 IFEL-ANCI, Economia e finanza locale, Rapporto 2007, Istituto per la Finanza e l’Economia locale, Roma 2007, p. 8.

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(in parte anche formalmente con l’accordo con la Commissione Europea di cui si è detto) la spesa aggiuntiva al Sud di fatto sostitutiva di mancata spesa ordinaria. E i 100 miliardi per il Mezzogiorno di cui tanto si parla? Con questa cifra ci si riferisce al totale per il 2007-13 dei fondi strutturali europei e dei FAS destinati alle regioni del Sud14. Una cifra senz’altro notevole; che impressiona moltissimo, per la sua imponente rotondità, ma non assurdamente grande: 100 miliardi sono ad esempio il totale della spesa in conto capitale nel Centro-Nord nel triennio 2000-2002, all’incirca quanto si è effettivamente speso nel Mezzogiorno nei cinque anni fra il 2000 e il 2004. Certo, questa dovrebbe essere aggiuntiva rispetto a quella ordinaria. Ma nulla di quanto avvenuto in passato lo lascia pensare: ancor più alla luce delle decisioni prese dal nuovo governo Berlusconi, cui si farà cenno più avanti. Il settore pubblico allargato Il quadro è in realtà ancora peggiore per il Mezzogiorno. Fino ad ora si è fatto riferimento alla spesa in conto capitale della pubblica amministrazione: governo centrale, Regioni, Comuni. Ma in Italia sono attive anche altre importanti istituzioni, controllate dal settore pubblico: ANAS, Ferrovie dello Stato, ENEL e TERNA, le aziende a capitale pubblico – o prevalentemente pubblico – che operano nei servizi locali, nel ciclo dell’acqua o dei rifiuti. Sono definibili come «imprese pubbliche» nazionali e locali. Sommate alla pubblica amministrazione compongono il settore pubblico allargato. La loro spe14 Rispettivamente 23 miliardi di fondi europei, 24 di cofinanziamento nazionale, 54 di FAS; da spendere entro il 2015.

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sa in conto capitale è molto grande: nel 2006 ammonta a 20,5 miliardi, che si aggiungono ai 60 di cui si è parlato finora; negli ultimi anni è aumentata molto di più rispetto a quella della pubblica amministrazione in senso stretto: fra il 2000 e il 2006 dell’83% contro il 17%15. Nel decennio 1996-2006 le imprese pubbliche nazionali hanno effettuato un sesto della spesa in conto capitale nel Mezzogiorno e addirittura quasi un quarto nel Centro-Nord16: in media quasi 4 miliardi e oltre 10 miliardi di euro all’anno, rispettivamente. A questo si sommano le imprese pubbliche locali che hanno speso al Sud circa 1,5 miliardi e al Nord circa 5 miliardi all’anno. L’Italia è molto cambiata in questi anni, ed è cresciuto il ruolo di questi attori, a prevalente controllo pubblico, ma esterni alla pubblica amministrazione in senso stretto. La loro azione ha però notevolmente acuito le disparità territoriali. Le imprese pubbliche nazionali, sempre più guidate da logiche di mercato e alle prese con rilevanti problemi di bilancio aziendale, hanno orientato la propria attività verso le aree più ricche e profittevoli del paese. Questo è avvenuto nonostante nel DPEF 2003-2006, presentato da Berlusconi e Tremonti nel luglio 2002, fosse indicato che «deve trovare piena attuazione la regola di destinazione del 30% delle risorse ordinarie in conto capitale al Mezzogiorno. [...] La regola verrà attuata e verificata sia per tutti i settori della Pubblica Amministrazione sia per gli enti esterni appartenenti alla componente allargata del settore pubblico [...] In particolare, i piani di spesa degli enti responsabili per la realizzazione delle infrastruttu15 Ministero dello Sviluppo economico, Rapporto annuale del DPS 2007, cit.: i dati sono calcolati a partire dalle tavv. all. 1 e 3, pp. 101, 102. 16 Ivi, p. 130.

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re, segnatamente delle Ferrovie dello Stato e ANAS, verranno strettamente monitorati»17. Ma questo non è accaduto. Il caso più clamoroso è quello del gruppo Ferrovie dello Stato. Gruppo al 100% pubblico, e di cui tutti i cittadini, di tutte le regioni, sono stati chiamati da sempre a ripianare le ingenti perdite con le proprie tasse. Fra il 1996 e il 1998 le Ferrovie dello Stato realizzavano investimenti per circa il 30% nel Mezzogiorno e per il 70% nel Centro-Nord: nel 2005 la percentuale della spesa nel Mezzogiorno era scesa in maniera progressiva a un risibile 14%; mentre al Centro-Nord si è passati fra 1998 e 2005 da 2,4 a 7,3 miliardi di euro, al Sud 1 miliardo era e 1 è rimasto (fig. 3). Questa cifra include tutte le fonti di finanziamento, e quindi anche gli interventi finanziati con i fondi strutturali e i FAS. Ciò significa che negli ultimi anni le Ferrovie sono intervenute con opere di costruzione o manutenzione di reti ferroviarie nel Mezzogiorno quasi esclusivamente in presenza di finanziamenti comunitari o nazionali a destinazione territoriale vincolata; con le risorse ordinarie, sono intervenute nel Centro-Nord. Evidentemente i dirigenti del gruppo hanno privilegiato gli interventi – a partire dai lavori per la cosiddetta «alta velocità» – preferibili in una logica di redditività aziendale a breve, escludendo gli interventi in grado di produrre redditività aziendale in un arco di tempo più lungo stimolan17 Ministero dell’Economia e delle Finanze, Documento di programmazione economico-finanziaria per gli anni 2003-2006 (http:// www.dt.tesoro.it/Aree-Docum/Analisi-Pr/Documenti-/Documento/ Documento-/documento/DPEF-2003-2006.pdf), Roma, settembre 2002, p. 99. L’obiettivo venne poi ribadito nella legge finanziaria per il 2005 (legge 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 17). Si tratta della regola del 30% sulla spesa ordinaria cui si è fatto riferimento in precedenza che valeva anche per questi soggetti.

60

Fig. 3. Spesa in conto capitale per le ferrovie, Centro-Nord e Mezzogiorno (1996-2005) 9.000 – 8.000 –

983

miliardi di euro

7.000 – 1.169

6.000 – 5.000 –

1.099

4.000 –

1.024

3.000 – 2.000 – 729

1.196

996

997

7.102

845

7.347

5.835

869 3.384

4.289

3.110 1.000 – 1.742 1.853 2.397 2.592 0– 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005

Centro-Nord

Mezzogiorno

Fonte: Ministero dello Sviluppo economico, Rapporto annuale del DPS 2006, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2007 (http://www.dps.mef.gov.it/documentazione/docs/rapp_ annuale_2006/Rapp_DPS_2006.pdf), p. 288.

do sviluppo e domanda di trasporto, come quelli nel Mezzogiorno (al netto dell’alta velocità Roma-Napoli). Le Ferrovie hanno continuato in pratica a definire la politica dell’infrastrutturazione e del trasporto ferroviario in Italia indipendentemente dalle precise indicazioni ricevute dal governo: mentre tutti i documenti indicavano nel potenziamento del trasporto ferroviario al Sud un fondamentale obiettivo, la concreta azione di investimento è andata in tutt’altra direzione. Mentre la Spagna progettava, realizzava e inaugurava il suo primo tratto ad alta velocità da Madrid a Siviglia, verso Sud, come segno tangibile della volontà di far crescere l’Andalusia e le altre regioni in ritardo di sviluppo, il trasporto ferroviario nel Mezzogiorno è rimasto e resta tut61

tora su standard ottocenteschi. L’amministratore delegato delle Ferrovie ha ammesso, tranquillamente, dopo l’ennesimo guasto a un convoglio, che al Sud si viaggia su treni «fuori mercato»18. La quota è altrettanto bassa per le altre aziende pubbliche ex IRI (come Finmeccanica e Fintecna): ad esempio nel 2006 hanno investito 1,1 miliardi di euro nel Centro-Nord e 200 milioni al Sud19. È più alta per l’ANAS e intorno al 30% per Poste e ENEL. Rilevante è poi l’effetto di spesa del settore pubblico locale, che nell’ultimo decennio si è particolarmente sviluppato nel Centro-Nord del paese. Naturalmente non si può certo contestare – a differenza del caso delle Ferrovie – alle ex municipalizzate del Nord il fatto che il loro ambito di investimento sia concentrato nelle rispettive aree di insediamento. Tuttavia esse effettuano interventi con risorse pubbliche: e anch’essi vanno tenuti in conto nel valutare la destinazione geografica della spesa complessiva. Se si guarda all’intero settore pubblico allargato, lo scarto fra l’obiettivo politico di destinare al Sud il 45% della spesa in conto capitale e l’effettiva realizzazione si fa ancora più netto; come più netto è il progressivo allontanamento da questo obiettivo nel corso degli anni Duemila. Dal massimo del 36,8% raggiunto nel 2001 si scende progressivamente fino al 32,1% del 200620. Nel 2006 la spesa in conto capitale del settore pubblico allargato nel Mezzogiorno è stata pari a poco più di 24 miliardi (una cifra stabile, in valori nominali, nel decen18 A. Mangiarotti, Buttate via quelle carrette, in «Corriere della Sera», 17.12.2007 (http://archiviostorico.corriere.it/2007/dicembre/ 17/Buttate_via_quelle_carrette_co_9_071217075.shtml). 19 Ministero dello Sviluppo economico, Rapporto annuale del DPS 2007, cit., p. 147. 20 Ivi, p. 136.

62

Fig. 4. Spesa in conto capitale «pro capite» 1996-2006 (settore pubblico allargato, euro costanti 2000) 1.400 – 1.250 – 1.100 –

media 96-06 = 1.105 media 88-06 = 1.043

950 – 800 – 650 –

1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 Centro-Nord

Mezzogiorno

Fonte: Ministero dello Sviluppo economico, Rapporto annuale del DPS 2007, cit., fig. III.1B, p. 117.

nio); sarebbe dovuta essere, in base alla regola del 45% indicata in ben otto consecutivi DPEF, pari a 33,8 miliardi. Se si fosse raggiunto nel 2002, e mantenuto fino al 2006 l’obiettivo indicato dal governo del 45%, la spesa in conto capitale del settore pubblico allargato nel Mezzogiorno sarebbe stata nel quinquennio pari a 171,5 miliardi; è stata di 123,5 miliardi. Rispetto all’obiettivo di politica economica sono stati dunque spesi 50 miliardi di euro di meno. Naturalmente è del tutto lecito pensare che quell’obiettivo fosse sbagliato o troppo ambizioso; così come è lecita l’opinione che sia stato un bene non indirizzare al Sud tutte quelle risorse. Quello che non è possibile sostenere è che il Mezzogiorno si sia giovato negli ultimi anni di un colossale trasferimento di risorse pubbliche; e ancor meno, che questo sia stato superiore a quanto stabilito. Fino al 2001 la spesa in conto capitale del settore pubblico allargato è stata, in termini pro capite, circa pa63

ri fra Centro-Nord e Mezzogiorno. Dall’inizio del nuovo decennio si è deciso di incrementare la spesa nel Mezzogiorno per favorirne il recupero nella dotazione infrastrutturale e quindi un più accelerato sviluppo economico. È avvenuto il contrario: a partire dal 2001 la spesa pro capite nel Mezzogiorno è sistematicamente diminuita (fig. 4). Investimenti pubblici e trasferimenti alle imprese C’è un’ultima, ulteriore, importante considerazione. Stiamo parlando della spesa in conto capitale: cioè – come si è ricordato all’inizio – della somma degli investimenti del settore pubblico (le infrastrutture) e di quanto viene trasferito alle imprese private per cofinanziare i loro investimenti (gli incentivi). C’è un rilevante problema di composizione fra queste due parti: al Sud la componente incentivi è molto più grande. È più di un terzo del totale, mentre al Centro-Nord è un quinto21. Questa è una differenza notevole nelle politiche di sviluppo nelle due aree, di cui si parlerà diffusamente più avanti. Qui va ricordata perché se ci interessa sapere quanto davvero si spende per le strade, le ferrovie, le scuole, gli ospedali nelle diverse regioni del paese occorre guardare ai soli investimenti pubblici. Alla luce di quello che è stato detto in precedenza, per saperlo bisogna sottrarre dalla spesa in conto capitale la parte che va alle imprese sotto forma di incentivi. Se si fa questa operazione i numeri che sono stati appena citati cam21 Ivi, p. 131: i dati si riferiscono alla media 2000-2006 a valori costanti, sono calcolati a partire dalla fig. III.8A, e si riferiscono al settore pubblico allargato; i valori precisi sono 36,9% per il Mezzogiorno e 20% per il Centro-Nord.

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biano ancora. Nel 2006 le spese per investimenti pubblici sono ammontate a 58,3 miliardi di euro nel Centro-Nord (72% del totale) e a 16,3 miliardi di euro nel Mezzogiorno. Nella media 2000-2006 gli investimenti pubblici pro capite sono stati 680 euro al Sud e 946 euro al Centro-Nord, con uno scarto che si è significativamente ampliato nel tempo (tab. 2). Questo, in un quadro europeo in cui gli investimenti pubblici italiani sono stati, negli anni 2000-2006, circa il 15% in termini pro capite inferiori a quelli degli altri paesi dell’area euro, con una differenza anch’essa aumentata nel tempo22. Guardando alle sole pubbliche amministrazioni, gli investimenti pubblici nel Mezzogiorno sono stati inferiori di circa un quarto rispetto alla media dei paesi dell’euro23. Tab. 2. Spesa «pro capite» per investimenti e trasferimenti alle imprese 2000-2006 (settore pubblico allargato, medie annue, euro costanti 2000)

Investimenti pubblici Trasferimenti alle imprese Totale in conto capitale

Sud

Centro-Nord

680 397 1077

946 236 1182

Fonte: Ministero dello Sviluppo economico, Rapporto annuale del DPS 2007, cit., fig. III.8, p. 131.

Si parla tanto del Sud «piattaforma logistica del Mediterraneo» e quindi della necessità di dotarlo, nell’interesse di tutto il paese, di porti, aeroporti, ferrovie. Di dotarlo di infrastrutture per la sicurezza, contro la criminalità. Di potenziare la rete ospedaliera. Il totale del22

Calcolo effettuato a partire dai dati presentati ivi, p. 134. Il calcolo, approssimato, è basato sui dati presentati ivi, nella fig. III.8A e a p. 134. 23

65

le spese in conto capitale (sempre inclusi anche i fondi europei) nei trasporti diversi dalle strade, nel 2006, è stato al Sud il 23% del totale italiano, e il 22% nelle infrastrutture per la sicurezza e per gli ospedali24. I dati sono in percentuale del totale perché in percentuale del totale della spesa in conto capitale era indicato, come più volte sottolineato, l’obiettivo di politica economica. Non si tratta di sostenere che gli investimenti pubblici al Sud sono un bene e al Nord no. Tutt’altro. La crescita complessiva dell’Italia richiede un forte potenziamento della rete infrastrutturale, in tutti gli ambiti, delle regioni del Centro-Nord. Molti interventi, poi, non danno un beneficio solo alle regioni che li ospitano, ma a tutta l’economia italiana: il traforo del Brennero o il potenziamento del porto di Taranto portano benefici a tutte le imprese. Ci vuole equilibrio nella localizzazione degli interventi: al Nord per superare i suoi notevoli gap infrastrutturali, al Sud per potenziare una dotazione assai inferiore e che ha necessità di un significativo incremento per avvicinarsi agli standard italiani ed europei. Per questo fu stabilita la regola del 45%. Per questo è molto negativo che non si sia minimamente raggiunta. Impressionante, soprattutto alla luce della crisi dei rifiuti in Campania, è il dato relativo alla spesa in conto capitale nell’ambito dei rifiuti urbani: fra il 2000 e il 2006 sono stati spesi ogni anno 138 milioni di euro al Sud e 574 al Centro-Nord, cioè rispettivamente 6,7 e 15,5 euro pro capite 25. Scopriamo così, guardando alle cifre ufficiali, che 24 Dati calcolati a partire dalla banca dati dei Conti pubblici territoriali (http://www.dps.mef.gov.it/cpt/cpt.asp). 25 Le cifre sono in euro costanti del 2000: cfr. Ministero dello Sviluppo economico, Rapporto annuale del DPS 2007, cit., tav. II.9, p. 84.

66

tutta questa colossale spesa per lo sviluppo del Sud negli ultimi dieci anni non c’è stata, cosa curiosamente sfuggita a tanti dotti commentatori. Non è materia di opinioni. L’obiettivo che per molti anni i governi della Repubblica si sono dati, la ripartizione 45%-55% fra Sud e Centro-Nord della spesa pubblica in conto capitale, è stato mancato. Nel quinquennio di centrodestra ci si è costantemente allontanati. Nell’ultimo biennio di centrosinistra quell’obiettivo è stato rivisto al ribasso. La spesa in conto capitale al Sud fra il 2001 e il 2007 è rimasta costante, nonostante l’apporto dei fondi europei: questi hanno sostituito la mancata spesa nazionale. I fondi strutturali europei, più che promuovere lo sviluppo del Sud, hanno aiutato il risanamento dei conti pubblici italiani, liberando fondi nazionali. La spesa in conto capitale nel Mezzogiorno è cresciuta meno che nel resto del paese, ed è ormai divenuta, espressa in termini pro capite, inferiore a quella del Centro-Nord. Rispetto al totale di questa spesa al Sud si destinano molte più risorse agli incentivi alle imprese, e conseguentemente meno alle infrastrutture: la spesa per infrastrutture è così nel Mezzogiorno espressa in termini pro capite, meno dei tre quarti di quella del resto del paese. I risultati economici del Sud non possono che esserne stati conseguenti.

4.

TROPPI SOLDI AL SUD?

La spesa pubblica corrente Va affrontata però una importante obiezione. La valanga di denari che viene trasferita al Sud non passa attraverso la spesa in conto capitale, di cui si è appena parlato, ma attraverso la spesa corrente, che è molto maggiore: stipendi pubblici, pensioni, trasferimenti e assistenza alle famiglie, acquisti correnti delle pubbliche amministrazioni a tutti i livelli. È vero? Anche in questo caso è opportuno partire con una domanda di fondo: quale dovrebbe essere la ripartizione geografica «equa» della spesa pubblica corrente? A differenza di quanto visto per la spesa in conto capitale, non c’è una risposta. Solo una parte della spesa corrente viene «territorializzata» direttamente, perché basata su fondi trasferiti dallo Stato alle Regioni o agli enti locali o su entrate dirette di Regioni ed enti locali. Gran parte della spesa corrente, invece, raggiunge i singoli cittadini in base alle loro caratteristiche individuali (pensionato, disoccupato) e non al luogo di residenza. Quali principi dovrebbero ispirare il bilancio pubblico? Sul fronte delle entrate la Costituzione italiana stabilisce che (art. 2) «La Repubblica [...] richiede l’a68

dempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale»; in particolare (art. 53) «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». La stessa Costituzione stabilisce poi (art. 3) che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale». Altri articoli chiariscono poi, più precisamente, i diritti di cittadinanza relativi alla salute (art. 32), all’istruzione (art. 34), all’assistenza sociale (art. 38) e così via. La spesa pubblica corrente dovrebbe rendere effettivi questi diritti. Il nostro dettato costituzionale ha una importante implicazione: quanto ciascun cittadino versa allo Stato sotto forma di tassazione non è uguale a quanto riceve dallo Stato. Essendo la tassazione progressiva, i cittadini a maggior reddito versano proporzionalmente di più; essendo la spesa basata su diversi criteri di ripartizione, i cittadini non ne beneficiano in proporzione; anzi, spesso il dettato costituzionale indica che sono proprio i cittadini meno abbienti quelli verso i quali si dovrebbero indirizzare maggiormente gli interventi. Quindi il bilancio pubblico – come in tutte le democrazie occidentali – svolge una importantissima funzione redistributiva: redistribuisce risorse dai più abbienti ai meno abbienti. Questa funzione assume in Italia (così come in Germania e in Spagna, in maniera netta) anche una valenza geografica. Essendo il reddito medio decisamente più alto al Nord, e i cittadini meno abbienti proporzionalmente più presenti al Sud, il bilancio pubblico ridistribuisce risorse da Nord a Sud. Come detto, 69

questo non avviene in base a un indirizzo «geografico», ma in attuazione dei principi della Costituzione: i meridionali non ricevono dalle casse pubbliche più di quanto versano perché sono meridionali, ma perché hanno un reddito più basso. Ciò detto, molti ritengono che la spesa pubblica che viene indirizzata verso il Mezzogiorno sia eccessiva. Si è già visto che questo non è vero, da nessun punto di vista, per la spesa in conto capitale; ma la spesa corrente è molto più grande. Molti pensano che ai meridionali siano trasferite troppe risorse pubbliche correnti. Questa affermazione va specificata: troppe rispetto a che? La spesa pubblica corrente nel Mezzogiorno è eccessiva rispetto a quello che il Sud versa nelle casse dello Stato (cioè è superiore alla capacità fiscale)? È eccessiva rispetto a quella che riceve un cittadino del Nord? È eccessiva rispetto a quello che dovrebbe essere perché il settore pubblico così com’è è troppo grande in Italia, soprattutto al Sud? È eccessiva rispetto alla qualità dei servizi che ogni cittadino riceve? Sono quattro punti di vista diversi fra loro ma tutti interessanti. E quindi conviene analizzarli tutti, uno alla volta. Troppi soldi al Sud-1 Troppi soldi al Sud prima versione. Le risorse pubbliche che vanno al Sud sono molte di più di quello che dal Sud viene versato alle casse pubbliche. È indubbio che sia così. Recenti stime della Banca d’Italia quantificano il trasferimento implicito di risorse – grazie all’azione redistributiva del bilancio pubblico – negli anni 19962006 fra il 10 e il 15% del PIL del Mezzogiorno1. Il va1

Banca d’Italia, Relazione Annuale. Presentata all’Assemblea Or-

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lore si attesta in particolare nel 2006 al 13% del PIL del Mezzogiorno; corrisponde a 46 miliardi di euro, cioè circa il 3% del PIL italiano, circa il 5% del PIL del Centro-Nord 2. Se Mezzogiorno e Centro-Nord fossero due Stati diversi, il reddito pro capite del primo sarebbe del 13% inferiore; quello del secondo, del 5% superiore. Il valore dei trasferimenti impliciti è molto diverso al Sud da regione a regione, andando dal 5,2% per l’Abruzzo al 20,9 per la Calabria, a seconda di quanto sia sviluppata l’economia. I trasferimenti impliciti non determinano solo flussi di risorse verso il Sud, ma anche verso l’Umbria, la Liguria, il Trentino-Alto Adige, la Valle d’Aosta e il Friuli-Venezia Giulia: tutte regioni i cui cittadini ricevono più spesa di quanto versino come tasse. Questi trasferimenti verso il Mezzogiorno sono diminuiti nel tempo. Negli anni Settanta e Ottanta, erano circa il 20% del PIL del Sud. Cosa molto interessante da notare, almeno fino alla metà degli anni Ottanta queste risorse non provenivano dal gettito fiscale delle regioni del Centro-Nord ma dal deficit pubblico: il CentroNord aveva un flusso di spesa pubblica pari al suo gettito fiscale, mentre la spesa pubblica al Sud – superiore, come detto, del 20% al suo gettito fiscale – era finanziata con nuovo debito pubblico3. Lo Stato italiano si dinaria dei Partecipanti. Roma, 31 maggio 2008. Anno 2007, Banca d’Italia, Roma 2008 (http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/relann/rel07/rel07it), p. 117. 2 Cfr. D. Alampi, P. De Matteis, M. Cozzi, A. Staderini, E. Vadalà, I flussi finanziari dell’operatore pubblico nel Mezzogiorno, mimeo, Banca d’Italia, Roma 2008. 3 Cfr. ivi, fig. 1, basata su ISTAT, Conti economici regionali delle amministrazioni pubbliche e delle famiglie, 1983-92, ISTAT, Roma 1996, e su M. Magnani, La ricchezza finanziaria delle famiglie e la bilancia dei pagamenti di parte corrente Nord-Sud (1970-1992), in «Rivista economica del Mezzogiorno», 1, 1997, pp. 29-68.

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indebitava prevalentemente con i più ricchi cittadini del Centro-Nord, a cui pagava lauti interessi, per garantire la spesa al Sud. Ma così il debito pubblico italiano è cresciuto dal 55% al 120% del PIL, fra il 1980 e il 1994. È evidente che questa situazione, molto negativa per le finanze pubbliche, era sopportata agevolmente non solo dai cittadini del Sud ma anche da quelli del CentroNord: questi ultimi godevano di una spesa proporzionata alla tassazione, e degli interessi sul debito. Le cose cambiarono drasticamente sul finire degli anni Ottanta, con la crisi fiscale. Al Nord si cominciò ad avere una spesa inferiore al gettito dalla metà del decennio. Poi dal 1990 il trasferimento di risorse pubbliche al Sud si ridusse drasticamente, scendendo dal 20 al 15% in un biennio. Due fenomeni paralleli, determinati dalla crisi dei conti pubblici e dalla necessità di ottenere forti avanzi primari: il Centro-Nord fu costretto a finanziare la spesa pubblica al Sud con una parte delle sue tasse; il Sud ottenne risorse inferiori. Nello stesso tempo, in tutto il paese crebbe la pressione fiscale, mentre la qualità dei servizi pubblici percepita dai cittadini come «ritorno» per le proprie tasse non aumentava. Tutto ciò fece nascere l’opposizione a questi flussi di trasferimenti. Il contributo del Mezzogiorno al risanamento delle finanze pubbliche è stato comunque rilevante. Non solo con la riduzione dei trasferimenti impliciti, ma anche con un maggiore sforzo fiscale. Fra il 1996 e il 2006 le entrate fiscali pro capite al Sud sono cresciute del 56,4% con punte di quasi il 70% in Calabria e Sardegna; nel Centro-Nord del 36,4%4, pur in presenza di una crescita 4 I dati, in euro correnti, sono calcolati a partire dalla tav. 2 di Alampi et al., I flussi finanziari, cit. Per il Sud si va da 4.738 a 7.410 euro, per il Nord da 9.994 a 13.634.

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economica grosso modo simile fra le due aree. Questo può essere stato causato in parte da un positivo recupero di evasione nel Mezzogiorno. Certamente è stato dovuto a un inasprimento fiscale, a scala comunale e regionale maggiore al Sud che al Nord. Nell’intero paese, le modalità di finanziamento degli enti locali sono profondamente cambiate: sul totale delle entrate si è molto ridotta la quota dei trasferimenti statali ed è cresciuta la quota di finanziamento con tributi propri. Con meno risorse disponibili enti locali e Regioni del Sud hanno utilizzato la propria capacità di imposizione fiscale5. L’addizionale IRPEF in media è dell’1,23% al Sud e dell’1,03 al Nord; la leva fiscale dei Comuni dell’81,1% al Sud e del 69,1 al Nord6. Fenomeno ambivalente: da un lato, i territori che più ricevono dal bilancio dello Stato stanno provando a ottenere più risorse dai propri cittadini; dall’altro, i cittadini delle regioni più povere (e con meno servizi pubblici), a parità di reddito, pagano più tasse. Ma per quanto si possano manovrare le aliquote, e aumentare la pressione fiscale, il gettito che si può ottenere nelle regioni del Sud resta contenuto perché il reddito pro capite è assai basso. Tuttavia molti italiani pensano che questi trasferimenti impliciti non siano più tollerabili. Un economista, Francesco Giavazzi, è arrivato a proporre al governo dalla prima pagina del «Corriere della Sera» di uti5 L’aliquota IRAP era nel 2007 al livello massimo del 5,25% in 4 regioni su 8 al Sud e in 2 su 13 al Centro-Nord; l’addizionale IRPEF al livello massimo dell’1,4% in 5 del Sud e in 3 del Centro-Nord. Le Regioni sono 19 in totale più le due Province autonome del Trentino-Alto Adige, Trento e Bolzano. I dati sono tratti sempre da Alampi et al., I flussi finanziari, cit.; gli autori elaborano dati del ministero dell’Economia e del ministero dell’Interno. 6 Cfr. «Il Sole-24 Ore», 3.6.2008, p. 16; leva fiscale = rapporto fra aliquote IRPEF e ICI e massimo di legge.

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lizzare i tre punti di PIL italiano di differenza fra il gettito fiscale del Sud e la spesa pubblica che raggiunge il Mezzogiorno per risanare i conti pubblici7. Di tagliare cioè permanentemente di circa 50 miliardi la spesa pubblica corrente al Sud: ad esempio, si può immaginare, chiudendo le scuole del Mezzogiorno e risparmiando sugli stipendi dei relativi insegnanti. Ma per raggiungere questo obiettivo servono scelte drastiche, che cambino profondamente l’Italia repubblicana: ad esempio modificare gli indirizzi costituzionali che regolano la progressività della tassazione, o i diritti di cittadinanza. Oppure seguire la via più diretta: modificare le scelte di fondo che fanno dell’Italia una nazione, «una e indivisibile», come recita l’art. 5 della Costituzione. Come proposto dalla Lega Nord da sempre, per trattenere al Nord le tasse versate dai settentrionali la soluzione più semplice è dividere l’Italia in più Stati separati. Con la secessione non ci sarebbe più né un’unica Costituzione né un unico bilancio pubblico, ciascuna nuova nazione dovrebbe badare a sé, come la Repubblica Ceca e la Slovacchia dopo la separazione consensuale. Il Nord avrebbe, rispetto alla situazione attuale, risorse più cospicue a disposizione, e il Sud molte meno. Ma c’è un problema, sul quale curiosamente i secessionisti nostrani tacciono: prima di separarsi occorrerebbe definire i criteri con i quali suddividere fra le nuove entità il colossale debito pubblico italiano, i cui titoli sono detenuti in maniera nettamente prevalente dai più ricchi cittadini del Centro-Nord. Un tema, questo, molto importante anche nelle discussioni 7 F. Giavazzi, Una svolta a metà, in «Corriere della Sera», 8.6.2008 (http://www.corriere.it/editoriali/08_giugno_20/finanziaria_tremonti_ 40df407c-3e88-11dd-ae8f-00144f02aabc.shtml).

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su possibili ipotesi di separazione del Belgio, e che potrebbe modificare non poco le convenienze immediate. Più interessante valutare se, nel lungo periodo, gli stessi cittadini del Nord avrebbero un benessere maggiore appartenendo a uno Stato padano; se, per fare un piccolo esempio, l’Expo 2015 sarebbe stata attribuita a Milano come capitale della Padania. Se la nascita di nuovi confini sia una buona cosa in un’Europa che da decenni prova a eliminare quelli che esistono. Si tratta di temi complessi, e che porterebbero lontano dal filo del ragionamento che si sta facendo. Ma che comunque, se il clima del paese e le scelte politiche che si vanno facendo rimarranno quelli attuali, sarà forse necessario affrontare molto seriamente. Un punto è chiaro. Se il Sud riceve più risorse pubbliche di quanto i suoi cittadini versano nelle casse dello Stato dipende dalle scelte di principio che sono nella Costituzione italiana. Negli ultimi anni i trasferimenti si sono ridotti ed è cresciuto lo sforzo fiscale al Sud, ma le cifre rimangono molto grandi. Parallelamente all’aumento della pressione fiscale e allo sforzo di risanamento dei conti pubblici è cresciuta al Nord l’insofferenza rispetto a questa situazione. Le strade per cambiarla sono due ed entrambe radicali: o si cambia la Costituzione, ad esempio eliminando la progressività dell’imposta o il diritto/dovere dell’istruzione obbligatoria, o si divide l’Italia in due o più Stati indipendenti. Ma come si vedrà, non pochi sperano di risolvere questo problema a Costituzione invariata, con il federalismo fiscale. Troppi soldi al Sud-2 Troppi soldi al Sud seconda versione. Il cittadino del Sud riceve troppo rispetto a quanto riceve un cittadino 75

del Nord. Questa ipotesi, di senso comune in Italia e su cui moltissimi, indipendentemente dalla latitudine a cui vivono si sentirebbero di convenire, è perfettamente verificabile. Ma, sorpresa, è falsa!8 Nel 2006 la spesa pubblica corrente pro capite è stata in Italia pari a 14.141 euro. Il valore sale a 15.719 euro al Centro-Nord e scende a 11.253 nelle otto regioni del Mezzogiorno. Dunque un cittadino del Sud, in media, beneficia di una spesa pubblica corrente del 28% inferiore rispetto a un cittadino del Centro-Nord. Tale scarto è rimasto costante nel corso degli anni: quello che vale per il 2006 vale anche per gli anni precedenti9. Nel decennio 1996-2006, il Mezzogiorno, dove risiede il 35,9% della popolazione italiana, ha ricevuto il 28,3% della spesa pubblica totale del settore pubblico allargato10. Il quadro delle singole regioni è però differenziato (fig. 5). Le cifre sono più alte per le Regioni a statuto speciale rispetto a quelle a statuto ordinario: i valori raggiungono il massimo in Valle d’Aosta (circa il 50% in più della media nazionale) e sono molto alti in FriuliVenezia Giulia; le province autonome di Trento e Bolzano si collocano sopra la media nazionale, ma un po’ al di sotto di quella del Nord; al Sud Sardegna e Sicilia 8 I dati dei Conti pubblici territoriali permettono di ricostruire perfettamente la destinazione geografica della spesa corrente: si ricordi che questi dati sommano la spesa di tutti i livelli di governo eliminando le duplicazioni e quindi sono molto più adeguati e completi per descrivere la situazione di quanto non sia l’analisi della sola spesa statale. 9 Si vedano i rapporti annuali del DPS, come pure le elaborazioni della Banca d’Italia in Alampi et al., I flussi finanziari, cit. 10 Ministero dello Sviluppo economico, Rapporto annuale del DPS 2007, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2008 (http://www. dps.tesoro.it/documentazione/docs/rapp_annuale_2007/Rapporto/ Rapp_DPS_2007_ridotto.pdf), p. 127.

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15.000 – 13.000 –

Piemonte Valle d’Aosta Lombardia Liguria P.A. Trento P.A. Bolzano

17.000 –

11.000 – Veneto

media 1996-2006 = 10.987

9.000 –

Friuli-V.G. Emilia-R. Toscana Umbria Marche Lazio Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia Sardegna

Fig. 5. Spesa pubblica corrente «pro capite» per regione (settore pubblico allargato, media 1996-2006, euro costanti 2000)

7.000 – 5.500 – Fonte: Ministero dello Sviluppo economico, Rapporto annuale del DPS 2007, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2008 (http://www.dps.tesoro.it/documentazione/docs/rapp_annuale_2007/Rapporto/Rapp_DPS_2007_ridotto.pdf), p. 119.

hanno i valori più alti, anche se inferiori alla media nazionale. Ma vi sono differenze significative anche fra le Regioni a statuto ordinario. Spicca il caso del Lazio, con una spesa estremamente alta, in parte connessa al ruolo di capitale di Roma, ma anche Lombardia e Liguria hanno livelli di spesa di gran lunga superiori a quelli del Piemonte e soprattutto del Veneto. Il Veneto ha il valore di spesa pubblica pro capite più basso del CentroNord, inferiore (–12%) anche rispetto alla media italiana. I valori per le Regioni a statuto ordinario del Sud hanno invece una maggiore omogeneità, tutti molto inferiori al livello medio. La distribuzione territoriale della spesa pubblica corrente è dunque piuttosto diversificata: è più alta al Nord che al Sud, ma è anche più alta nelle Regioni a statuto speciale rispetto a quelle a statuto ordinario. Lazio e Veneto sono opposte, rilevanti eccezioni. Campania, Calabria e Puglia, grandi Regioni a 77

statuto ordinario del Sud, sono quelle con i valori più bassi. Per provare a comprendere la logica di queste differenze, se complessivamente ve ne è una, può essere utile guardare alle principali voci di spesa (tab. 3)11. Quella di gran lunga maggiore è relativa alla previdenza. Come è noto il sistema di welfare italiano si caratterizza, rispetto agli altri paesi europei, per un peso estremamente alto delle pensioni sulla spesa totale12. Il valore della spesa pro capite per «previdenza e integrazioni salariali» è otto volte quello della spesa per «interventi in campo sociale». Naturalmente la spesa per le pensioni tende a essere più alta nelle regioni che hanno avuto in passato i tassi di occupazione maggiori: i valori più alti sono in Liguria, e poi in Piemonte, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Toscana, Lazio. Al Sud i valori sono molto più bassi, di un quarto inferiori alla media italiana. Una prima spiegazione della minore spesa pro capite al Sud sta dunque nella componente pensionistica. La distorsione del welfare italiano verso la protezione dei lavoratori anziani ha un impatto territoriale molto forte: se il welfare fosse più equilibrato (ad esempio, con un’azione più efficace verso donne e minori), anche la sua copertura territoriale sarebbe più equilibrata. Le risorse sono trasferite ai cittadini che maturano i diritti pensionistici, indipendentemente da dove risiedono: la penalizzazione delle regioni meridionali dunque non deriva da esplicite allocazioni di risorse, ma da come è articolato il welfare nazionale. Ciò conferma ancora una 11 Tutti i dati seguenti sono calcolati a partire dalla banca dati dei Conti pubblici territoriali (http://www.dps.mef.gov.it/cpt/cpt.asp). 12 Si veda ad esempio M. Ferrera, Le trappole del welfare, il Mulio, Bologna 1998.

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14.791 21.153 17.135 17.757 14.641 14.680 12.484 16.862 14.926 14.572 13.596 13.131 18.534 11.907 11.077 10.257 10.624 11.292 10.932 12.110 13.583 15.719 11.253 14.141

5.151 5.005 4.656 6.036 4.335 3.976 4.051 5.247 5.102 4.952 4.876 4.359 5.029 3.815 3.596 2.775 3.265 3.245 3.097 3.006 3.574 4.825 3.113 4.220

Previdenza e integrazioni salariali

1.510 1.847 1.961 1.516 1.719 1.905 1.643 1.508 1.661 1.707 1.868 1.172 1.006 1.405 1.310 1.319 1.343 1.443 1.522 1.498 1.713 1.607 1.427 1.544

Sanità

Fonte: Elaborazioni dell’autore su dati Conti pubblici territoriali

ITALIA

SUD

Piemonte Valle d’Aosta Lombardia Liguria Provincia Autonoma di Trento Provincia Autonoma di Bolzano Veneto Friuli-Venezia Giulia Emilia-Romagna Toscana Umbria Marche Lazio Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia Sardegna CENTRO-NORD

Totale

1.515 3.788 1.925 1.495 2.031 1.957 1.248 2.199 1.484 1.479 1.413 1.349 2.239 1.390 1.254 1.134 990 1.083 1.158 1.265 1.269 1.710 1.167 1.518

Amministrazione generale

818 1.282 786 827 1.295 1.273 755 966 870 935 1.000 863 1.117 907 903 893 844 931 962 925 956 885 905 892

Istruzione

219 363 204 296 192 223 181 268 208 232 205 215 445 271 249 221 212 211 254 241 238 246 232 241

Sicurezza pubblica

Tab. 3. Spesa pubblica corrente «pro capite» (settore pubblico allargato, euro 2006)

106 91 87 109 73 40 76 98 89 103 118 94 137 126 136 115 110 126 161 150 122 98 129 109

Giustizia

178 955 178 207 289 397 187 229 188 180 177 173 338 156 153 132 135 169 138 172 180 212 149 190

Cultura e servizi ricreativi

426 815 387 539 887 1.100 387 611 499 479 633 519 612 570 464 507 438 470 583 589 661 486 535 503

213 52 138 217 113 138 137 229 345 224 186 172 162 132 77 208 142 108 98 125 122 189 148 174

Interventi Smaltimento in campo dei sociale rifiuti

4.654 6.954 6.813 6.515 3.708 3.671 3.819 5.506 4.481 4.280 3.119 4.214 7.450 3.135 2.935 2.953 3.145 3.504 2.961 4.139 4.750 5.460 3.448 4.749

Altri settori

volta che per avere interventi territorialmente equilibrati contano moltissimo le scelte che si operano con le grandi politiche nazionali13. Ma anche al netto di questa voce, la spesa resta squilibrata: e l’importo medio per un cittadino del Sud è del 18% inferiore al valore nazionale. Questo squilibrio dipende da altri ambiti. Dalla spesa sanitaria, che nel Mezzogiorno è circa l’8% inferiore alla media italiana. Nelle regioni del Sud vengono spesi 1.427 euro per abitante, con punte inferiori ai 1.400 euro in Puglia, Basilicata e Calabria contro i 1.607 euro delle regioni del Centro-Nord, con punte particolarmente alte in Lombardia. Può destare sorpresa che anche la spesa corrente per l’amministrazione generale – sempre espressa in termini pro capite – sia notevolmente inferiore nel Mezzogiorno che nella media nazionale, di ben il 23%. Il numero di dipendenti pubblici, in percentuale della popolazione, è del tutto omogeneo nelle grandi aree del paese: 6,1 unità di lavoro per 100 abitanti, un valore che – contrariamente a quanto normalmente si pensa – colloca l’Italia al penultimo posto fra i 27 paesi europei. Il peso occupazionale del settore pubblico è in Italia circa il 30% inferiore alla media comunitaria14; naturalmente il peso percentuale degli occupati pubblici è maggiore al Sud se riferito al totale dell’occupazione, ma questo dipende dal fatto che sono troppo pochi gli addetti al settore privato. Il co13 G. Viesti, M. Capriati, The Impact of National Policies on Territorial Cohesion: The Case of Italy, Quaderni del Dipartimento per lo studio delle società mediterranee, Università di Bari, n. 29, Cacucci, Bari 2004. 14 ISTAT, 100 statistiche per il paese. L’incidenza del settore pubblico, anni 2005-2007, http://www.istat.it/dati/catalogo/20080507_01/ testointegrale20080507.pdf.

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sto dell’amministrazione generale è assai più alto, oltre che nelle Regioni a statuto speciale del Nord (in Valle d’Aosta è addirittura due volte e mezzo superiore alla media nazionale), anche in quelle a statuto ordinario: in Lombardia è circa il doppio che in Puglia, la regione in cui la spesa è minore. Scarti molto significativi, ma su cifre assolute più piccole, si hanno anche in altre voci di spesa: la spesa corrente pro capite per cultura e servizi ricreativi è nel Mezzogiorno del 22% inferiore alla media nazionale; quella per lo smaltimento dei rifiuti del 15%. Gli ambiti nei quali i livelli di spesa sono paragonabili fra Centro-Nord e Sud sono quelli della pubblica sicurezza e quello, molto rilevante, dell’istruzione. Una spesa pro capite maggiore nel Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord si registra solo in 7 dei 30 ambiti tematici in cui sono organizzati i Conti pubblici territoriali. Fra di essi i più significativi sono gli interventi in campo sociale (+6%) e le spese correnti per la giustizia (+18%). La spesa pubblica corrente svolge dunque in Italia, da un punto di vista territoriale, una funzione antidistributiva: premia di più le regioni dove risiedono i cittadini con i redditi più alti. La sua ripartizione geografica è l’esito di un insieme estremamente ampio di norme che governano i diversi flussi di spesa (le pensioni, gli stipendi degli insegnanti, la cassa integrazione, le spese sanitarie e così via). Come si è visto dai dati appena ricordati il quadro è particolarmente complesso; per molti versi è difficile rinvenire una logica di equità nella sua distribuzione geografica. I flussi di spesa sono frutto di una vasta pluralità di decisioni, di più livelli di governo. Tendono a essere influenzati, in molti casi, dalla «spesa storica»: la spesa di un anno in un certo ambito può essere influenzata da quella che è stata la 81

spesa in passato nello stesso ambito. Ma non è detto che la spesa del passato sia stata allocata sulla base di una valutazione coerente ed equa dei bisogni cui fare fronte, di parametri oggettivi. Piuttosto può valere una regola implicita negativa: una maggiore spesa storica può premiare, più che aree o ambiti nei quali si rilevino maggiori bisogni, aree o ambiti nei quali le amministrazioni sono meno efficienti nello spendere e quindi hanno reclamato, e ottenuto, maggiori risorse. È un tema su cui non è semplice avere dati certi; vi è una diffusa convinzione che questo favorisca il Mezzogiorno: dato che lì le amministrazioni sono meno efficienti, hanno sempre avuto bisogno di maggiori risorse per fare ciò che al Nord si fa con meno. Non mancano esempi in questo senso. Ma alla luce dei dati che sono stati ricordati, non è detto che sia sempre così. I divari territoriali di spesa sono evidenti soprattutto negli enti locali. La spesa corrente delle Province del Sud è di 98 euro pro capite contro i 112 nel Centro-Nord, quella dei Comuni del Sud di 699 euro – con una punta negativa di 549 in Puglia – contro gli 834 euro nel Centro-Nord. La minore spesa dei Comuni meridionali si avverte nettamente, ad esempio, negli interventi sociali: in media 49 euro contro i 115 al Centro-Nord; nella regione più povera d’Italia, la Calabria, la spesa pro capite per i servizi sociali dei Comuni è in media di 27 euro15. E così solo 105 bambini campani e 139 calabresi su 10.000 possono frequentare gli asili nido, contro 2.220 emiliani e circa 1.200 nella media del Centro-Nord16. Questo non 15 I dati per le Province sono una media del 2004-2006; quelli per i Comuni sono del 2004: per tutti la fonte è Alampi et al., I flussi finanziari, cit., tav. 5, basata sui dati dei Conti pubblici territoriali. 16 IFEL-ANCI, Economia e finanza locale, Rapporto 2007, Istituto per la Finanza e l’Economia locale, Roma 2007, tav. 3-2; bambini di età

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dipende dal fatto che nei Comuni del Mezzogiorno si destini prevalentemente la spesa per il personale: le «spese per il funzionamento» dei Comuni hanno un peso simile sulla spesa totale (con l’eccezione negativa della Sicilia), rispettivamente del 53% al Sud, 50 al Centro e 49 al Nord17. La «questione settentrionale» al Sud Spese pubbliche troppo alte al Sud, terza versione. La spesa pubblica è troppo alta in tutta Italia e va ridotta. L’argomento viene proposto come frutto di due considerazioni diverse, che a volte si sommano, a volte rimangono ben distinte. La prima ha a che fare con i problemi di finanza pubblica, e vede una riduzione della spesa, in particolare della spesa corrente, come una condizione necessaria per il risanamento. La seconda ha invece a che fare con motivazioni ideologiche, per cui è opportuna una riduzione della presenza pubblica nell’economia. Entrambe sono formulate con una gamma molto ampia di sfumature, con conseguenti ipotesi di riduzione della spesa molto diverse. Fino agli anni Sessanta la spesa pubblica italiana era molto inferiore a quella degli altri grandi paesi europei, e largamente inferiore era la tassazione; con gli anni Settanta sono state realizzate in Italia importanti riforme che hanno notevolmente modificato questo quadro: dai cambiamenti nel sistema pensionistico al nuovo sistema 0-2 anni. Questo non dipende dalle scelte dei genitori: ISTAT, Indagine campionaria sulle nascite (anno 2002), ISTAT, Roma 2006 (http:// www.istat.it/dati/catalogo/20060317_00/met_norme_06_28_indagine_campionaria_nascite.pdf/). 17 Cfr. IFEL-ANCI, Economia e finanza locale, cit., tav. 1.1.

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sanitario nazionale18. Queste riforme hanno portato a un sensibile aumento della spesa cui per lungo tempo non ha corrisposto un aumento della pressione fiscale. Un modello di politica economica che all’epoca non ha suscitato nessuna protesta: tanto il Nord-Est quanto il Mezzogiorno hanno storicamente espresso un fortissimo sostegno elettorale per i partiti, all’epoca, di governo. Ma, come è ampiamente noto, si sono così determinati a lungo forti deficit di bilancio, finanziati attraverso l’emissione di titoli pubblici; questo è stato alla base della crescita esplosiva del debito. Giunto sull’orlo della bancarotta il nostro paese ha dovuto affrontare anni molto difficili di risanamento delle finanze pubbliche; il risanamento ha comportato più un aumento della pressione fiscale che una riduzione della spesa. Ed è ancora largamente incompleto, visto il livello ancora molto alto del debito. Di fronte all’inasprimento della pressione fiscale, a partire dalla metà degli anni Novanta è andata crescendo una forte protesta; la riduzione della pressione fiscale è divenuto l’imperativo; la riduzione della spesa pubblica corrente lo strumento che può garantirla. L’impresa è però, al di là degli slogan elettorali, tutt’altro che facile. Il livello della spesa pubblica corrente, al netto degli interessi, non è in Italia più alto che negli altri grandi paesi europei. Gli interessi sul debito pubblico rappresentano, e rappresenteranno ancora a lungo, un peso rilevante e incomprimibile. Non è affatto facile ridurre le più importanti voci di spesa corrente. Il sistema pensionistico è stato sottoposto a una serie di interventi di riforma di notevole portata per ridurre la spe18 S. Rossi, La politica economica italiana. 1968-2007, Laterza, Roma-Bari 2007.

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sa futura, ma ancora insufficienti e soprattutto poco in grado di ridurre la spesa attuale. Il sistema sanitario è al contrario sottoposto a una pressione all’aumento della spesa, tanto per il crescente costo di cure mediche e farmaceutiche più sofisticate e in grado di affrontare le patologie più gravi quanto per il forte invecchiamento della popolazione italiana. Una delle strade possibili è quella di compiere un grande taglio territoriale: ridurre il peso sulla tassazione dei cittadini del Centro-Nord della spesa pubblica che si fa al Sud. Questo può consentire di ridurre le tasse al Centro-Nord, a parità di servizi pubblici offerti ai cittadini. Ovvero, nella sua versione più liberista, può consentire al Nord una forte riduzione della pressione fiscale, sia tagliando i trasferimenti interregionali, sia riducendo in tutto il paese l’estensione del settore pubblico. Naturalmente per il Sud questo significa una forte riduzione della spesa, e quindi dei servizi pubblici, non potendo ulteriormente incrementare in maniera significativa la tassazione, in assenza di basi imponibili che possano consentirlo. Infine, un’ultima versione della questione della spesa pubblica corrente. In questa versione il problema non è di comparazione con il gettito fiscale; né di comparazione territoriale; non è di riduzione dei flussi di spesa per esigenze di risanamento dei conti pubblici o per convinzione ideologica. In questa versione il punto è che rispetto alla pressione fiscale cui sono sottoposti i cittadini meridionali, e rispetto ai flussi di spesa che comunque raggiungono il Sud, i servizi pubblici disponibili sono scarsi, in quantità e in qualità. Il tema è uno degli aspetti che vengono sollevati quando si parla di «questione settentrionale»: i cittadini e le imprese sono scontenti perché, pur sottoposti a una pressione fiscale notevole, ne ricevono in cambio servizi pubblici che ri85

tengono insoddisfacenti. Il territorio in cui la «questione settentrionale», declinata in questa accezione, raggiunge il suo apice massimo è il Mezzogiorno. È qui che lo scarto fra la pressione fiscale cui sono sottoposti i cittadini e le imprese e i servizi pubblici che ne ricevono in cambio è massimo. In realtà è la definizione che è assai impropria: la questione vale a tutte le latitudini, è una vera e propria «questione italiana». La strada per affrontarla è quella di tentare di ottenere un miglioramento dei servizi offerti ai cittadini, magari con una spesa inferiore. Questo è possibile in tutto il paese, in molti ambiti. Soprattutto nel Mezzogiorno: molti indicatori mostrano infatti che nelle regioni del Sud i servizi pubblici sono in quantità o di qualità ancora più bassa della media nazionale. Il basso livello dei servizi può essere direttamente connesso alle risorse disponibili, come nel caso della spesa sociale dei Comuni. Ma la causa non è certamente solo finanziaria. Il basso livello dei servizi può essere connesso all’esistenza di problemi strutturali che si trascinano nel tempo. Si pensi al fondamentale servizio rappresentato dalla giustizia: a parità di pressione fiscale, un cittadino del Sud riceve un servizio di gran lunga peggiore. Perché? Recenti indagini della Banca d’Italia mostrano che il rapporto fra magistrati del settore civile e popolazione al Sud è molto maggiore che nel resto del paese. Una possibile causa del peggiore livello del servizio può essere il fatto che i magistrati del Sud lavorano meno o peggio di quelli del Nord o che gli uffici giudiziari nel Mezzogiorno sono organizzati peggio. Ma se si rapporta il numero di magistrati al numero di nuove cause che si avviano ogni anno si scopre che non c’è differenza fra Nord e Sud. Una notevole differenza sta nell’enorme accumulo di cause pregresse che c’è nei tribunali del 86

Sud19, che rallenta la normale operatività e riduce fortemente la qualità del servizio giustizia. La soluzione non è banale: può passare attraverso una migliore organizzazione del lavoro, il potenziamento delle dotazioni tecniche e informatiche, un intervento straordinario (come in parte si è tentato di fare in passato) per smaltire l’accumulo del pregresso. È un esempio di grande importanza: una recente stima indica che proprio il cattivo funzionamento della giustizia è il fattore più importante nello spiegare, ad esempio, la bassa capacità del Sud di attirare imprese dall’estero20. La Confartigianato stima che il costo del cattivo funzionamento della giustizia sia di 590 euro all’anno per un’impresa campana, contro i 350 euro per un’impresa lombarda21. Anche i servizi sanitari funzionano mediamente peggio nelle regioni del Mezzogiorno, pur non mancando esempi di segno contrario. Il dato che permette di verificarlo è quello della mobilità sanitaria: ogni anno molti meridionali si ricoverano presso strutture sanitarie del Centro-Nord. Anche la sanità è un sistema molto complesso e le cause della minore qualità del servizio disponibile nel Mezzogiorno possono essere diverse. Questo è un caso in cui vi è certamente evidenza di sprechi e cattive scelte nell’allocazione delle risorse disponibili. Recenti indagini della Banca d’Italia mostrano come la spesa farmaceutica pro capite, ponderata per i bisogni 19 Per tutti questi dati: Banca d’Italia, Relazione Annuale 2007, cit., p. 123. 20 R. Basile, L. Benfratello, D. Castellani, Attracting Foreign Direct Investments in Europe: Are Italian Regions Doomed?, in «LUISS LEE Working Document», 40, 2006 (http://www.luiss.it/ricerca/centri/ llee/file/llwp40.pdf). 21 Citato in SVIMEZ, Rapporto 2008 sull’economia del Mezzogiorno, Sintesi, SVIMEZ, Roma 2008 (http://www.svimez.it/Pubblicazioni/ Rapporto%202008/sintesi.PDF), p. 61.

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farmaceutici della popolazione per fascia d’età, sia al Sud dell’8% superiore alla media italiana: dal 2001 la spesa farmaceutica al Sud si è però ridotta del 3,6% all’anno, mentre ha continuato a crescere nel Centro e nel Nord-Est22. Con una ulteriore razionalizzazione e riduzione della spesa farmaceutica sarebbe possibile recuperare risorse finanziarie per migliorare i servizi ospedalieri. Ancora, il numero di parti cesarei, più costosi e decisamente meno appropriati in normali condizioni di salute delle donne, è al Sud assai più alto che nel resto del paese23. In questi casi scelte sbagliate e cattiva organizzazione producono evidenti sprechi, a danno di tutti i contribuenti italiani e in particolare dei cittadini-utenti del Sud. Allo stesso tempo le strutture sanitarie del Sud sono meno in grado, rispetto a quelle del CentroNord, di affrontare molti bisogni clinici «ad alta complessità»: in nessuna regione del Mezzogiorno le strutture specializzate nell’alta complessità superano il 20% del totale, a fronte di oltre il 40% nel Centro-Nord. Questo contribuisce a spiegare la mobilità: «le regioni che attraggono pazienti residenti in altre regioni detengono strutture sanitarie che consentono di soddisfare meglio, almeno nella percezione dei pazienti, esigenze più complesse»24. Questo, daccapo, può dipendere dal22 Banca d’Italia, Economie regionali. L’economia delle regioni italiane nell’anno 2007, Banca d’Italia, Roma 2008 (http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/ecore/sintesi/eco_reg_2007/economia_ regioni_italiane_2007.pdf), pp. 97-98. 23 Banca d’Italia, Relazione Annuale 2007, cit., p. 124. 24 La complessità dei trattamenti è basata sul sistema dei DRG, Diagnosis Related Groups: cfr. M. Lozzi, L’assistenza ospedaliera in Italia, presentato al convegno della Banca d’Italia I servizi pubblici locali: liberalizzazione, regolazione e sviluppo industriale, in «Questioni di Economia e Finanza (Occasional Papers)», 28, settembre 2008 (http:// www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/quest_ecofin_2/qef_28/Q EF_28.pdf).

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le scelte in materia sanitaria effettuate dalle Regioni del Sud, ma anche da una dotazione di apparecchiature sanitarie e chirurgiche più moderne, sofisticate e costose, minore nel Mezzogiorno. Ancora, vi è evidenza chiara di un sensibile – ma evidentemente insufficiente – sforzo compiuto nel Mezzogiorno negli scorsi anni per tagliare la spesa, attraverso una riduzione tanto dei posti letto quanto del personale delle strutture ospedaliere pubbliche. Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, tanto il rapporto posti letto/popolazione quanto quello personale sanitario/posti letto nelle strutture ospedaliere pubbliche del Sud sono inferiori alla media nazionale. Certo, c’è il grosso nodo delle strutture private accreditate che in diverse regioni del Sud (ma anche del Nord) sono responsabili di una quota cospicua della spesa. Indubbiamente nel sistema sanitario meridionale si nascondono aree di rendita, di spreco, di vero e proprio malaffare coperte da connivenze politiche o amministrative che è assai difficile scardinare, come mostrato da molteplici episodi di cronaca giudiziaria. Anche la scuola al Sud funziona peggio che al Nord: lo mostrano con tutta evidenza i risultati scadenti ottenuti dagli studenti meridionali nei test di valutazione internazionali, dalla scuola media in su25. Perché i risultati ottenuti dalle ragazze e dai ragazzi del Sud (e per molti versi anche del Centro Italia) sono così negativi? Gli studiosi del sistema scolastico riescono a spiegarlo con precisione. Il risultato dipende moltissimo dall’ambiente socio-culturale delle famiglie di provenienza e dal livello di istruzione dei genitori: la scuola non riesce, 25 P. Montanaro, I divari territoriali nella preparazione degli studenti italiani: evidenze dalle indagini nazionali internazionali, in «Questioni di Economia e Finanza (Occasional Papers)», 14, giugno 2008.

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drammaticamente, a essere veicolo di mobilità sociale per chi proviene dai ceti più deboli. Dipende dalle carenze infrastrutturali delle scuole del Sud – ben maggiori rispetto alla media nazionale – e dalle limitate risorse correnti, che non consentono ad esempio di attivare il tempo pieno. Ma dipende anche da «problemi di organizzazione e funzionamento della scuola che evidentemente il Nord riesce in parte a compensare»: ad esempio organizzazione degli istituti e delle classi, formazione di classi di livello molto diverso all’interno degli stessi istituti, mobilità eccessiva degli insegnanti26. La «questione settentrionale» raggiunge il suo apice nel Mezzogiorno. Portarla progressivamente a soluzione può portare un vantaggio duplice: per tutti i contribuenti, riducendo, per quanto possibile, il costo dei servizi pubblici; per i cittadini del Sud, rendendo i servizi pubblici migliori. Ma è un’operazione difficile, che richiede forte volontà politica e complesse capacità tecniche. Bisogna volerla. Al contrario molti in Italia oggi pensano che la pubblica amministrazione, soprattutto nel Mezzogiorno, non sia riformabile, e che quindi questa strada sia impossibile da seguire. L’unica cosa da fare è ridurne il costo, tagliando il più possibile trasferimenti e spese. Il «federalismo» Tutto questo porta alla discussione sul cosiddetto federalismo. Molti italiani pensano e molti politici sostengono che per tutti i problemi della spesa pubblica esiste 26 Ministero dell’Economia e delle Finanze, Ministero della Pubblica istruzione, Quaderno bianco sulla scuola, Roma, settembre 2007 (http://www.pubblica.istruzione.it/news/2007/allegati/quaderno_ bianco.pdf).

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una soluzione semplice, magica: il federalismo fiscale. Decentrare il più possibile verso il basso, verso Regioni ed enti locali, le competenze di governo; finanziare il più possibile queste competenze con il gettito fiscale dei rispettivi territori, rendendo così le amministrazioni responsabili verso i cittadini dell’uso delle risorse e della quantità e qualità dei servizi forniti. Tutta questa materia ha subito cambiamenti profondi, in seguito al forte processo di decentramento che ha avuto luogo in Italia negli anni Novanta27, e in particolare alla nuova formulazione del Titolo V della Costituzione (articoli 114-133) introdotta nel 2001. Essa ha riformato in particolare due aspetti. Il primo riguarda la ripartizione della potestà legislativa fra lo Stato e le Regioni (art. 117), con i conseguenti effetti sull’attuazione delle politiche pubbliche. Alcune materie, fra cui politica estera, difesa, «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti in tutto il territorio nazionale», norme generali sull’istruzione, previdenza sociale, sono di esclusiva competenza statale; altre, fra cui ricerca, innovazione, governo del territorio, grandi reti di trasporto, energia, valorizzazione dei beni culturali e ambientali, sono di competenza concorrente fra il governo centrale e quelli regionali; altre ancora diventano di esclusiva competenza del livello regionale. Il secondo riguarda il finanziamento delle pubbliche amministrazioni (art. 119): «I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano 27 G. Viesti, Decentramento dei poteri e questione territoriale in Italia, in «Economia Italiana», 3, 2001, pp. 599-625.

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tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio. La legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante. Le risorse di cui ai commi precedenti consentono ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite». Mentre sono stati fatti rilevanti passi in avanti nel decentrare le competenze, il nuovo sistema di finanziamento, almeno fino all’estate 2008, non ha fatto progressi, nonostante alcune sperimentazioni. Curiosamente nulla è stato realizzato dai governi Berlusconi nel 20012006, nonostante la vasta maggioranza parlamentare e la presenza nel governo della Lega Nord. Anzi, quei governi si caratterizzarono per scelte limitative dell’autonomia impositiva locale, come i tetti di spesa e il blocco delle addizionali IRPEF. Fu nominata con grande enfasi una Alta commissione incaricata di formulare proposte; ma il suo lavoro, il cui termine fu continuamente prorogato, non ebbe alcun impatto. I vantaggi di un forte decentramento delle competenze e delle responsabilità di spesa possono essere significativi; non a caso è un processo che, con intensità e velocità molto diverse, è in corso in tutta Europa. In primo luogo perché avvicina le decisioni ai cittadini: questo in teoria può far funzionare meglio il processo democratico, perché i cittadini possono controllare meglio ciò che accade e scegliere meglio i propri rappresentanti; può far migliorare la qualità delle scelte che si compiono, perché i decisori locali possono essere più e meglio informati di ciò che occorre fare nei propri territori ri92

spetto a decisori «lontani»; può far funzionare meglio i processi amministrativi, rendendoli più semplici. In secondo luogo perché può consentire alle città o alle Regioni di prendere decisioni differenziate sugli stessi argomenti, a seconda delle condizioni locali e delle convinzioni su cosa sia meglio fare. Questo è molto importante per lo sviluppo economico, per il quale servono certamente ricette diverse, fatte di ingredienti diversi a seconda delle condizioni, delle caratteristiche, delle vocazioni, delle potenzialità dei territori, che sono diversi. Ma questi vantaggi non sono automatici, e non valgono sempre e comunque: per molte questioni, è più opportuno che le decisioni siano prese in alto, a livello nazionale, a livello europeo. In altre, non si può prescindere dal coordinamento e dalla codecisione di più livelli di governo: questo può portare benefici, ma anche essere fonte di complicazioni. Da questo punto di vista l’esperienza italiana, così come quella spagnola o quella ben più consolidata della Germania, è assai interessante, e presenta risultati positivi, ulteriori potenzialità, ma anche problemi rilevanti. Proprio l’esperienza italiana ha mostrato come sia spesso ineludibile, ma al tempo stesso molto difficile, un processo di decisione congiunta; come esso possa facilmente portare a conflitti e rallentamenti. Ancora, ha mostrato come il decentramento possa portare a efficienza e risparmi ma possa portare anche, a seconda di come viene attuato e delle diverse materie, a duplicazioni, ridondanze, nuove burocrazie, aumenti di spesa. Per alcune funzioni pubbliche fondamentali le decisioni sul decentramento hanno una grande valenza politica: è ad esempio il caso dell’istruzione. Conservare il sistema scolastico e universitario statale, nazionale – pur con dosi, anche significative, di autonomia e differenziazione in sede locale – 93

rappresenta un obiettivo di assoluta importanza per l’Italia. Maggiore decentramento uguale migliore governo non è dunque un dogma. Ma certamente un significativo decentramento, insieme a meccanismi ben funzionanti di cooperazione verticale fra centro e periferia, può migliorare l’efficacia dell’azione pubblica. Questo vale in particolare per il Mezzogiorno. Un processo di sviluppo non ha mai soltanto una dimensione economica: un territorio si sviluppa quando ha la capacità di prendere da sé importanti decisioni, di mettere in atto da sé importanti politiche; e a tal fine vede crescere la capacità delle proprie istituzioni, rafforzarsi i meccanismi di formazione e partecipazione dei cittadini. Crescere, in una parola, il proprio capitale sociale. E come ha sottolineato in periodi lontani un filone particolarmente fecondo del meridionalismo – da Luigi Sturzo a Gaetano Salvemini – lo sviluppo del Sud non può che passare attraverso una sua maggiore autonomia, con tutti i rischi, ma anche con tutte le potenzialità che questo comporta. Il federalismo fiscale Il tema è importante per le questioni connesse alla spesa pubblica perché ha una fondamentale implicazione: se c’è decentramento dei poteri deve esserci anche decentramento delle potestà e delle responsabilità della spesa; città e Regioni che devono disporre di risorse finanziarie adeguate alle nuove funzioni che devono svolgere, e sono responsabili del loro utilizzo. Il meccanismo di finanziamento delle istituzioni subnazionali è assai complesso ovunque nel mondo. La Germania, pur essendo un paese federale con una lunga tradizione di estesi poteri decisionali dei suoi Länder e con un mec94

canismo rodato da decenni di attuazione, ha incontrato in questo ambito significativi problemi dopo la riunificazione. Gli stessi problemi si sono posti in Spagna, paese tradizionalmente centralizzato, ma che ha dato vita negli ultimi anni a un rilevante decentramento verso le sue Comunidades Autónomas. E gli stessi problemi si pongono in Italia. La questione di fondo è chiara. Con un forte decentramento, le Regioni vengono ad avere competenze e poteri simili, ma conservano un livello di sviluppo e, quindi, un gettito, derivante dalle imposte raccolte sul territorio, molto diverso: nel triennio 2004-2006 le risorse tributarie pro capite delle Regioni a statuto ordinario del Sud erano circa il 70% di quelle a statuto ordinario del Nord28. Se questo gettito non viene compensato, le regioni relativamente meno ricche sono costrette, contemporaneamente, a esercitare una pressione fiscale più alta e a offrire ai propri cittadini una quantità inferiore di servizi. Per i cittadini di queste regioni si può delineare un chiaro peggioramento a seguito del decentramento: tasse più alte e servizi inferiori. Con un decentramento squilibrato non esisterebbero più diritti di cittadinanza nazionali, ma diversi livelli di diversi diritti su base regionale. Proprio per questo è sempre previsto – anche dalla Costituzione italiana, come si è appena visto – un fondo perequativo per rafforzare le risorse disponibili per le regioni più deboli. Va tenuto presente, tra l’altro, che l’esperienza internazionale mostra che ad un forte decentramento fiscale corrisponde spesso un intensificarsi delle disparità regionali29. 28

Banca d’Italia, Economie regionali, cit., p. 44. A. Rodriguez-Pose, N. Gill, On the Economic Dividend of Devolution, in «Regional Studies», 39, 4, 2005. 29

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Ma non è semplice farlo funzionare. Occorre stabilire quali possono essere i tributi propri di Regioni ed enti locali, e quale la loro compartecipazione al gettito di tributi nazionali riferiti al loro territorio. La materia è difficile tecnicamente, ma la scienza delle finanze fornisce ragionevoli ipotesi per gli uni e per gli altri. Più complesso politicamente è invece stabilire l’ammontare del fondo perequativo; in modo particolare in Italia, dove le differenze di reddito fra regioni sono particolarmente forti, e quindi qualsiasi fondo perequativo non può che essere molto ampio. La distribuzione della spesa pubblica come si è storicamente determinata, poi, come si è visto, in molti casi non risponde a precisi criteri; quindi, quello che oggi i cittadini di una determinata regione ricevono, a titolo di spesa pubblica corrente per ogni funzione, non è necessariamente equo. Questo rende ancora più difficile stabilire i livelli teorici di risorse necessarie. Ancora, il quadro italiano è reso più complicato dall’esistenza di cinque Regioni a statuto speciale, che hanno meccanismi di finanziamento diversi e molto più generosi delle quindici Regioni a statuto ordinario e si giovano di livelli di spesa pubblica pro capite più alti. La discussione su questa materia non può che partire dai principi e gradualmente scendere verso soluzioni applicative. Partendo dalla finalità di questa operazione: che deve essere quella di migliorare i processi di produzione dei servizi pubblici per i cittadini e di diversificarli, se è il caso, da regione a regione a seconda delle scelte che le diverse comunità possono compiere. Non deve essere fra le finalità di questa operazione quella di determinare una situazione in cui i diritti di cittadinanza siano, per norma o nei fatti, maggiori in alcune regioni rispetto alle altre. Vanno dunque individuati – sul96

la base del dettato costituzionale – i diritti di cittadinanza che l’Italia garantisce a tutti i suoi cittadini, indipendentemente da dove nascono e dove vivono. Si tratta di una scelta eminentemente politica, di grande rilevanza per il futuro dell’intero paese. Individuati i diritti, si tratta di stabilire quante risorse sono necessarie per garantirli. Qui la questione si fa assai più complessa da un punto di vista tecnico, ma molto interessante per le ricadute positive che una corretta regolazione di questa materia può produrre. Le risorse necessarie non possono essere quelle che storicamente sono affluite a ciascun territorio; dovrebbero essere invece calcolate a partire da un elenco di prestazioni che le pubbliche amministrazioni sono chiamate a fornire; da un loro costo standard, anche rapportato a specifiche condizioni locali30; dalla quantità di servizi che devono essere erogati alla popolazione. In Italia si è fatta un’esperienza già abbastanza ricca in materia sanitaria, che ha fatto emergere tutte le criticità e le complessità di questo disegno. Si sono stabiliti i livelli essenziali delle prestazioni, si è provato a definirne i costi standard e si è infine calcolato ciò che ne scaturisce come fabbisogno per ciascuna regione. Lo stesso va fatto nelle altre materie decentrate da finanziare integralmente: è evidentemente molto difficile, ma possibile. Anche questi calcoli non sono neutri: con ogni scelta si possono determinare maggiori o minori disponibilità per ciascuna regione; se si dà un peso rilevante alle prestazioni sanitarie tipiche dell’età avanzata, ad esempio, si favoriscono le regioni con una più elevata quota di popolazione anziana. Sono necessarie discussioni atten30

Ad esempio una scuola può costare di più in montagna che in

città.

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te e serrate; periodi di sperimentazione; un lungo periodo di transizione dalla situazione storica a quella che si viene a definire a regime. Ma è necessario anche uno spirito collettivo che tenga sempre presente l’interesse nazionale. La definizione di questi costi standard può innescare in teoria meccanismi virtuosi di aumento di efficienza delle pubbliche amministrazioni. Se la tale prestazione è garantita nella tale regione con 100 euro, e da noi costa il doppio, ma noi riceviamo comunque 100 euro per ogni prestazione, il bivio è chiaro: se continuiamo come abbiamo sempre fatto potremo finanziarne solo la metà. Ma proprio l’esperienza dell’altra regione ci mostra che è possibile che costi solo 100 euro: questo può darci una forte spinta a imitare i comportamenti più virtuosi e a migliorare la nostra efficienza. Questi comportamenti emulativi, questa diffusione di buone pratiche, accelerata dai meccanismi finanziari che sono stati appena descritti, possono essere il prodotto più importante di un sistema di finanza pubblica decentrata responsabile. Non vengono necessariamente da sé. Possono essere favoriti da una forte assistenza tecnica a livello centrale e da meccanismi assai più intensi di quelli attuali di collaborazione tra Regioni ed enti locali. Stabilite le necessità finanziarie complessive di ciascuna Regione, esse vanno rapportate a quanto la stessa Regione può ricavare dalle tasse: dall’applicazione di aliquote standard ai propri tributi; dalla compartecipazione al gettito dei tributi nazionali. Questo deve valere per tutte, incluse quelle a statuto speciale: un decentramento di poteri così grande come quello previsto dall’articolo 117 toglie significato alla «specialità» del passato, e rende opportuno che gli stessi criteri valgano per tutti. È evidente che le regioni meno ricche mostre98

ranno grandi deficit di risorse. Questi dovranno essere compensati da pari trasferimenti da parte del governo nazionale con un fondo perequativo per la copertura totale del fabbisogno necessario. Andrà deciso se trasferire le risorse solo alle Regioni, e poi lasciare a queste il trasferimento ai Comuni, o definire un sistema per cui Regioni e Comuni sono finanziati parallelamente; come affrontare il tema di eventuali competenze aggiuntive acquisite da alcune Regioni (in base all’art. 116) e del loro finanziamento; la durata e le modalità del periodo di transizione31. A questo punto ciascuna amministrazione decentrata potrà governarsi come meglio crede: ad esempio aumentando la pressione fiscale per fornire più servizi; o differenziando la propria specifica offerta. I territori governati peggio si troveranno in deficit di risorse, e le amministrazioni saranno costrette a incrementare le aliquote fiscali e/o a tagliare i servizi: su questa base i cittadini potranno valutare l’azione dei propri governanti. In realtà quest’ultimo assunto pare eccessivamente teorico: suppone che i cittadini siano perfettamente informati, e che possano esprimersi con il proprio voto o cambiando residenza. Assai opportuni sembrano meccanismi centrali di informazione e comparazione dell’operato delle amministrazioni; e meccanismi, non semplici da stabilire, di surroga dei poteri locali per garantire comunque – in presenza di perduranti evidenze di cattiva amministrazione – ai cittadini la possibilità di fruire dei propri diritti. 31 Cfr. A. Zanardi, La ripresa del dibattito sul federalismo fiscale: i problemi aperti, www.nelmerito.com, 11.7.2008 (http://www.nelmerito.com/index.php?option=com_content&task=view&id=302& Itemid =70).

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Come si vede, una strada lunga e complessa, ricca di problemi tecnici e di decisioni politiche difficili, che deve conciliare importanti principi: l’autonomia finanziaria di Regioni ed enti locali, la perequazione necessaria per l’uniformità dei livelli essenziali delle prestazioni, la sostenibilità complessiva dei conti pubblici. Ma anche potenzialmente in grado, con il tempo, di migliorare la qualità dei servizi offerti e l’efficacia nella gestione delle risorse pubbliche. Ancora una volta, i potenziali benefici di questo sistema paiono particolarmente rilevanti proprio per le Regioni del Mezzogiorno. Ma allo stesso tempo esse corrono certamente anche i maggiori rischi. In Italia molti affrontano questo tema con spirito e finalità totalmente diversi. Il «federalismo fiscale», come viene impropriamente definito, non è visto come un sistema per raggiungere gli obiettivi di cui si è appena detto, ma come un meccanismo per trattenere all’interno delle regioni più ricche una quota maggiore, la più alta possibile, delle tasse pagate dai cittadini che vi risiedono. Così è esplicitamente e da sempre, nei programmi e nelle intenzioni della Lega Nord. Ma le tesi leghiste hanno conquistato negli ultimi anni un favore più ampio. Prova ne è una proposta di legge per il Parlamento nazionale su questo tema approvata dal Consiglio regionale della Lombardia nel 2007: un documento importante sia perché votato dall’intero centrodestra con l’astensione dei gruppi politici che poi sono confluiti nel Partito Democratico, sia perché esplicitamente citato come obiettivo da raggiungere nel programma elettorale del 2008 del Popolo della Libertà. Il «federalismo alla lombarda» parte da un evidente stravolgimento della Costituzione: le risorse fiscali non sono destinate allo Stato nazionale, ma «appartengono» alle Regioni, «perché sono del cittadino che paga, non dello 100

Stato», come sostiene il presidente della Lombardia, Roberto Formigoni32. Su questa base ideologica viene disegnato un meccanismo che consente alle Regioni di trattenere una quota straordinariamente alta di questo gettito fiscale. La finalità meramente finanziaria della proposta è resa evidente dal fatto che non si dice mai al finanziamento di quali funzioni dovrebbero servire queste risorse; è una questione di principio: le risorse sono della Lombardia, non dell’Italia. In questo quadro i diritti di cittadinanza diventano per principio assai diversi: viene individuato un meccanismo di perequazione che finanzia al massimo per metà le necessità delle regioni più deboli; che prevede un trasferimento diretto verso le regioni più deboli da parte di quelle più ricche (che tiene conto anche della supposta evasione fiscale e del supposto minor costo della vita), e con meccanismi di vigilanza e di intervento da parte di queste ultime tali da configurare un sistema di rapporti quasi di tipo coloniale33. Con ogni probabilità, il sistema di finanza pubblica che si è consolidato nel tempo in Italia sta per subire profondi cambiamenti, che influenzeranno organizzazione ed efficienza delle amministrazioni pubbliche, le prestazioni che esse sono in grado di garantire, l’effettiva fruizione dei diritti di cittadinanza. Ma può cambiare seguendo strade differenti. Una, che è complessa e che richiederà certamente molti anni per funzionare a regime, che cerca però di contemperare esigenze diver32 «Regione Lombardia News», 26.6.2007 (cfr. http://www. marketpress.info/notiziario_det.php?art=37040). 33 Regione Lombardia, Proposta di legge al Parlamento, n. 40, approvata dal Consiglio regionale il 19 giugno 2007, art. 3, lettera m (http://www.consiglio.regione.lombardia.it/c/journal_articles_1/view_ article_content?articleId=2981&version=1.0).

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se e di migliorare l’azione pubblica, a vantaggio dei cittadini, in tutte le regioni d’Italia. L’altra, che può sembrare apparentemente simile, si discosta profondamente nelle finalità e negli effetti: romperebbe nei fatti l’unità del paese. Nell’ottobre 2008 il ministro Calderoli ha presentato al Senato un articolato disegno di legge per l’attuazione del federalismo, la cui bozza – circolata in più versioni durante l’estate – era stata sottoposta a continue revisioni e modifiche. Il disegno di legge non scioglie i dubbi sulle reali finalità del «federalismo fiscale». Da un lato muove da principi molto generali, in larga misura condivisibili, relativi ad esempio alla necessità di ricalcolare, sulla base di costi standard delle prestazioni, le risorse trasferite dallo Stato a Regioni ed enti locali. Dall’altro disegna un meccanismo di perequazione finanziaria fra le diverse Regioni, per consentire a tutte di raggiungere comuni livelli essenziali delle prestazioni nella sanità, nell’istruzione e nell’assistenza (e in misura simile ma non identica nel trasporto pubblico locale), il cui effettivo esito può essere il più diverso a seconda della sua concreta costruzione. Lo stesso vale per le funzioni fondamentali svolte dai Comuni, che il testo nemmeno individua. Il disegno di legge solleva non pochi problemi34: relativamente alle Regioni a statuto speciale, interessate solo marginalmente a questo processo; ai complessi meccanismi di costruzione della finanza di Regioni ed enti locali; alla perequazione della spesa relativa alle funzioni non «essenziali» delle Regioni e degli enti locali; alle finalità stesse degli interventi struttu34 Fra le prime analisi del testo, la più interessante e condivisibile è senz’altro: Nens, Dottrina e prassi di un federalismo consapevole, Dossier Nens, Roma, novembre 2008.

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rali per il riequilibrio territoriale (quinto comma dell’articolo 119 della Costituzione), estesi – in maniera del tutto incongrua – agli enti confinanti con l’estero o con Regioni a statuto speciale35. La questione principale sta comunque nel fatto che l’approvazione del disegno di legge dà una delega amplissima al governo per intervenire in maniera precisa su molti fondamentali aspetti relativi all’intervento pubblico nel nostro paese e al suo finanziamento. A seconda di ciò che sarà scritto nei decreti delegati (frutto anche, auspicabilmente, di un dibattito politico che riesca a uscire dai tecnicismi e a confrontarsi sulle grandi scelte di fondo), il volto dell’Italia potrebbe mutare significativamente. 35

G. Viesti, Promozione dello sviluppo e coesione nazionale nel DDL Calderoli, www.nelmerito.com, 18.9.2008.

5.

LE POLITICHE DI SVILUPPO REGIONALE

La Nuova Programmazione La strada maestra per affrontare e progressivamente cercare di risolvere tutti i problemi discussi in precedenza è quella di avere una crescita economica particolarmente intensa nel Mezzogiorno. Una maggiore crescita al Sud favorisce la crescita dell’intero paese, beneficiando tutti i cittadini italiani; migliora le condizioni di vita dei cittadini meridionali, creando occasioni di impresa, di lavoro, di mobilità sociale, di realizzazione personale; con l’aumento del reddito, riduce la necessità di trasferimenti operati implicitamente o esplicitamente dal bilancio pubblico, limitandone parallelamente l’impatto fiscale su tutti i cittadini italiani. Il Mezzogiorno dispone di molte delle risorse necessarie per una sostenuta crescita economica, a cominciare da quelle umane, ambientali, culturali. Tuttavia presenta anche rilevanti criticità. Come le moderne teorie della geografia dello sviluppo economico documentano ampiamente e come chiarito da decenni dalle teorie classiche dello sviluppo, il Mezzogiorno presenta le tipiche difficoltà di un’area regionale relativamente debole all’interno di un paese avanzato. Le forze dell’economia 104

determinano tendenze alla concentrazione delle attività economiche nelle aree più forti del paese: questo avviene in Italia come in Portogallo, negli Stati Uniti come in Cina. Per questo in Italia come in moltissimi altri paesi, come nell’intera Unione Europea1, si mettono in atto specifiche politiche per lo sviluppo delle regioni relativamente più deboli. Della loro dotazione finanziaria si è già ampiamente detto. È venuto il momento di occuparsi della loro qualità. Quali sono state le politiche per lo sviluppo del Sud? Su quali principi sono state basate? Quali risultati hanno ottenuto? Che effetto stanno avendo sullo sviluppo dell’area, e quindi dell’intero paese? Nel 1998 si è aperta una nuova fase delle politiche per il Mezzogiorno. Ha fatto seguito a un lungo periodo, avviato all’inizio degli anni Cinquanta, di interventi per il tramite di istituzioni a carattere straordinario come la Cassa per il Mezzogiorno, e poi, a metà degli anni Novanta, a una sostanziale assenza di politiche. Di quel periodo storico non è possibile in questa sede, per evidenti motivi di spazio, tentare una ricostruzione sia pure sintetica2. Un punto di fondo va ricordato: pur essendo i risultati raggiunti con le politiche per il Mezzogiorno del passato tutt’altro che trascurabili, a partire già almeno dalla metà degli anni Settanta quel modello di intervento aveva mostrato vistose criticità, che ne suggerivano una profonda revisione3. La nuova fase delle politiche si è autodefinita come la Nuova Programmazione, e ha indissolubilmente legato 1 G. Viesti, F. Prota, Le nuove politiche regionali dell’Unione Europea, il Mulino, Bologna 2007. 2 Si veda ad esempio G. Viesti, Abolire il Mezzogiorno, Laterza, Roma-Bari 2003. 3 C. Trigilia, Sviluppo senza autonomia, il Mulino, Bologna 1992.

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il suo nome a quello di Carlo Azeglio Ciampi nella sua veste di ministro del Tesoro nel 1996-98. L’intuizione principale di queste nuove politiche è che per favorire lo sviluppo delle regioni deboli occorrono molti più interventi sulle condizioni di contesto in cui i cittadini vivono e le imprese nascono e operano, che sussidi e incentivi diretti a famiglie e imprese4. Dunque l’enfasi degli interventi viene posta sulle condizioni di sicurezza, legalità, giustizia; sulla formazione: sulla ricerca e l’innovazione; sui servizi collettivi, a cominciare da quelli di trasporto e di comunicazione. L’enfasi è sui servizi più che sulle infrastrutture che dovrebbero generarli: sulle effettive condizioni di trasporto piuttosto che sulla dotazione fisica di strade o ferrovie. Strumenti per migliorare le condizioni di contesto sono tanto investimenti pubblici quanto regole di funzionamento dei mercati, che favoriscono per l’azione di operatori pubblici e privati la effettiva fruizione di beni e servizi collettivi. In termini generali, si cerca di passare da una sequenza logica per cui occorre favorire direttamente l’accumulazione di capitale produttivo, e poi attendere che questo sviluppo economico produca sviluppo civile, culturale e sociale, a una logica per cui lo sviluppo economico è effetto del miglioramento delle condizioni civili, culturali e sociali di un’area. In questo la Nuova Programmazione si allinea alle conclusioni di tutte le maggiori istituzioni internazionali, dalla Banca Mondiale all’OCSE, all’Unione Europea. Secondo aspetto centrale delle nuove politiche, oltre al che cosa, è il come. Le nuove politiche, a differenza del passato, non possono essere calate dall’alto, ad ope4 Ministero del Tesoro, Bilancio e Programmazione economica, La nuova programmazione e il Mezzogiorno, premessa di C.A. Ciampi, introduzione di F. Barca, Donzelli, Roma 1998.

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ra di istituzioni centrali e straordinarie. Esse devono essere realizzate attraverso una fattiva collaborazione fra più livelli ordinari di governo, centrali e locali; devono seguire procedure e strumenti ordinari, assai più che speciali. Lo sviluppo economico, si sostiene, è anche frutto della capacità delle regioni più deboli di sapersi governare, anche in collaborazione con le istituzioni centrali: viene per questo costituito un organismo centrale di coordinamento tecnico, il Dipartimento per le politiche di sviluppo (DPS), alla cui guida Ciampi chiama un brillante economista della Banca d’Italia, Fabrizio Barca. Sono infine necessari meccanismi trasparenti e attenti di monitoraggio e di verifica di quel che si fa, di valutazione dei risultati conseguiti, di incentivo, per quanto possibile, dei comportamenti virtuosi delle amministrazioni. Obiettivo di fondo delle nuove politiche non è la redistribuzione all’interno dell’Italia delle risorse disponibili, né tantomeno una necessaria (ma nel nostro paese assai difficile per le enormi differenze interne) convergenza dei livelli di benessere fra regioni, ma stimolare la crescita delle regioni deboli affinché anch’esse contribuiscano alla generale crescita del paese. Le politiche non mirano dunque a trasferimenti permanenti e compensativi di risorse da Nord a Sud, ma a investimenti nel Sud che generino crescita e occupazione. Si tratta evidentemente di una politica assai ambiziosa, i cui effetti non possono che vedersi in un periodo di tempo lungo. Non a caso essa è promossa da un ministro del Tesoro molto particolare, Carlo Azeglio Ciampi, un ministro dallo «sguardo lungo», e dal grande senso di missione pubblica, che ritiene che, dopo il riuscito aggancio all’euro, sia possibile porsi l’ambizioso obiettivo di far accelerare lo sviluppo delle regioni 107

del Sud. E che questo può essere fatto solo innovando nelle politiche e guardando molto avanti. Le scelte della Nuova Programmazione, per quanto coerenti con le migliori buone pratiche internazionali, non sono unanimemente condivise. Contro la Nuova Programmazione si schierano gruppi differenziati. Quanti, di impostazione ideologica liberista, ritengono che lo sviluppo economico sia frutto esclusivo del corretto funzionamento dei mercati, e che l’intervento pubblico sia comunque inutile quando non controproducente. Quanti, parzialmente sovrapposti ai primi, che conseguentemente suggeriscono che le uniche iniziative di politica economica debbano solo accompagnare e assecondare l’azione dei privati, concentrando quindi le risorse su sgravi fiscali o crediti d’imposta. Ancora, quanti ritengono, anche in aggiunta agli argomenti precedenti, che le strutture pubbliche del Sud, impregnate del clientelismo e della corruzione tipiche dell’area, siano irrecuperabili, e che quindi sia errato attribuire loro responsabilità di governo e soprattutto risorse finanziarie. Quanti, ancora, ritengono che sia errato abbandonare un forte controllo centrale sulle politiche di sviluppo. Infine, e già all’epoca sono numerosi, quanti ritengono che in generale non sia opportuno destinare né un grande interesse politico né tantomeno rilevanti risorse finanziarie allo sviluppo del Sud perché sono convinti che l’Italia può crescere di più solo trainata da un Nord sempre più efficiente, e che dunque lì vadano concentrati interessi e risorse. La politica venne avviata e la programmazione dei fondi strutturali comunitari 2000-2006 ne fu il primo banco di prova. Cambiò però subito il ministro del Tesoro, nel 2001 cambiò la maggioranza di governo; nel 2006, e poi nel 2008, cambiò ancora. Formalmente per 108

dieci anni le politiche di sviluppo del Mezzogiorno sono state quelle della Nuova Programmazione. Ma come si vedrà, per un insieme di motivi quell’ambizioso programma è stato realizzato solo in parte e con il nuovo governo Berlusconi è stato definitivamente abbandonato. Che cosa si è fatto e che cosa si è ottenuto in questi dieci anni? Si può provare a illustrare quello che è successo raggruppando gli interventi in due grandi categorie, le due componenti della spesa in conto capitale di cui si è tanto detto in precedenza: incentivi per gli investimenti delle imprese; investimenti pubblici. Gli incentivi Cominciamo con l’occuparci degli incentivi alle imprese. Si tratta di misure che fanno parte da molto tempo, all’incirca dagli anni Sessanta, degli strumenti di intervento nelle regioni meno avanzate, in Italia come in altri paesi europei. L’argomento più tradizionale in loro favore deriva dalla teoria economica «neoclassica». Le regioni meno avanzate hanno una disponibilità proporzionalmente più grande di forza lavoro e più piccola di capitale. Questo fa sì che non tutto il lavoro trovi impiego e quindi ci sia insufficiente sviluppo: ci sono troppo poche «fabbriche». Come si risolve il problema? Anche abbassando, attraverso incentivi pubblici, il costo degli investimenti. Un modo alternativo ma con una conclusione simile di porre la questione è il seguente: al Sud le condizioni in cui le imprese operano sono molto peggiori che nel resto del paese, mancano le infrastrutture, i lavoratori sono meno qualificati e così via: occorrono dunque incentivi pubblici per compensare le imprese di queste diseconomie. Corollario di queste argomentazioni è l’idea che, con nuovi investimenti e la 109

nascita di nuove «fabbriche», l’intera società si possa modernizzare. In questa impostazione – per riassumere molto sommariamente – è l’economia che cambia la società. Incentivi alle imprese che investono al Sud sono stati concessi per decenni. Specie fra l’inizio degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta questi interventi hanno dato frutti copiosi, con la nascita di molte nuove fabbriche. Con il passar del tempo ci si è però resi conto che gli effetti di questi interventi sono stati differenziati. In alcuni casi hanno dato vita a insediamenti che sono rimasti competitivi e che talvolta hanno indotto nuove iniziative; in altri hanno dato vita a insediamenti che con il passar del tempo hanno perso competitività, sono rimasti isolati, sono stati ridimensionati o hanno chiuso. A partire dagli anni Settanta gli effetti di queste politiche sono divenuti più modesti: terminata la fase di grande sviluppo del paese c’era ovunque una necessità inferiore di nuove «fabbriche»; le mutate condizioni dell’economia internazionale hanno reso meno competitive le imprese più grandi e favorito invece lo sviluppo delle reti di piccole-medie imprese e dei distretti industriali. Dalla fine degli anni Ottanta alle imprese si sono aperte molte altre alternative per localizzare i propri nuovi impianti. Come appena ricordato, una delle scelte di fondo della nuova impostazione delle politiche per lo sviluppo del Mezzogiorno è stata quella di ridurre significativamente gli incentivi alle imprese. Perché oggi semplici incentivi al capitale sono assai meno efficaci che nella precedente fase storica. Perché la storia, del nostro come di altri paesi, mostra come l’effetto di induzione di nuove iniziative possa essere modesto. Perché sono molto costosi e i benefici di lungo periodo che se ne ot110

tengono non sempre superano i costi collettivi. Perché vi è sempre il dubbio che in molti casi finanzino investimenti che si sarebbero comunque fatti, rappresentando quindi un puro costo per le finanze pubbliche. Perché, specie se le misure sono generose, c’è il rischio che diano vita a imprese che hanno poi difficoltà a stare sul mercato. Perché la storia, del nostro come di altri paesi, mostra come in molti casi le imprese che sono state sussidiate tendono a domandare ulteriori sussidi. Perché, specie se mirano a spostare da altre regioni verso il Sud flussi di nuovi investimenti (e questo avviene con risorse pubbliche anche tratte dalla tassazione dei contribuenti di quelle regioni), rischiano una forte impopolarità. Perché se si investono cospicue risorse per compensare le imprese delle diseconomie dei territori in cui si insediano, ne rimangono poche per ridurre queste diseconomie: ciò rende necessarie nuove risorse compensative, in un circolo vizioso senza fine. Insomma, non dovrebbero essere più lo strumento principale di sviluppo di un’area relativamente arretrata. Le nuove politiche per il Mezzogiorno si sarebbero dovute incentrare molto meno sugli incentivi e molto più sugli investimenti pubblici. È quello che è successo? Nel 1999, su 100 euro di spesa pubblica in conto capitale nel Sud ben 40 erano destinati a incentivi (contro solo 24 nel Centro-Nord), nel 2005, ancora 33 (contro solo 19 nel Centro-Nord). Lo scarto è ben visibile in termini pro capite: la spesa per incentivi alle imprese è di 127 euro al Sud, di 27 al Centro-Nord 5. Negli stessi an5 Ministero dello Sviluppo economico, Rapporto annuale del DPS 2007, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2008 (http://www. dps.tesoro.it/documentazione/docs/rapp_annuale_2007/Rapporto/ Rapp_DPS_2007_ridotto.pdf), p. 147. Dati per il 2006.

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ni il peso degli incentivi alle imprese è significativamente diminuito in tutta Europa, sotto la spinta sia delle difficoltà dei bilanci pubblici, sia dell’azione della Commissione Europea, che tende a scoraggiare misure che possono essere lesive della libera concorrenza nell’Unione. Dal massimo dell’1,13% del PIL registrato nel 1997, nell’insieme dell’Unione gli aiuti alle imprese sono scesi a rappresentare lo 0,59% nel 20056. Insomma, il forte riequilibrio della spesa dagli incentivi agli investimenti pubblici, che era uno degli obiettivi principali delle nuove politiche di sviluppo del Sud, non c’è stato. Perché questo non è avvenuto? Essenzialmente perché è mancata la volontà politica di farlo. In parte sotto la spinta delle organizzazioni imprenditoriali. Le posizioni sulle politiche per il Mezzogiorno delle organizzazioni di rappresentanza, specie di Confindustria, sono cambiate negli anni. Anch’esse hanno riconosciuto la necessità di far prevalere gli investimenti pubblici rispetto agli incentivi. Naturalmente sono rimaste sensibili alle richieste dei propri associati; hanno espresso preoccupazione (in parte comprensibile) per la cancellazione di interventi di sostegno prima che le politiche pubbliche riuscissero ad avere concreti effetti sulla qualità dei territori. Ma questa richiesta ha rischiato di vanificare l’obiettivo: finché una parte così importante delle limitate risorse disponibili viene data alle imprese per compensarle del fatto «che le cose non cambiano», difficilmente «le cose cambiano». È un problema di fiducia (rinuncio meno malvolentieri se sono convinto che davvero le cose cambiano), e quindi di credibilità 6 Commissione Europea, State Aid Scoreboard 2007 (http://ec. europa.eu/comm/competition/state_aid/studies_reports/2007_ autumn_ en.pdf): i dati sono al netto delle ferrovie.

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delle politiche pubbliche. È un problema di quanto si guarda lontano: gli incentivi fanno sopravvivere oggi, ma si sarà competitivi domani solo se il territorio su cui si opera è di qualità. In parte principale sotto la spinta della politica. Gli incentivi sono misure dalla forte e immediata redditività politica: beneficiano destinatari ben individuati (gli imprenditori, i loro dipendenti) che ne sono ben consci; hanno tempi di erogazione, e quindi di fruizione, assai più rapidi dei complessi interventi per migliorare le scuole o le ferrovie. Possono consentire di favorire specifici destinatari. È assai interessante notare come, dopo aver lanciato nel 1998 le nuove politiche di sviluppo del Mezzogiorno che postulavano una forte riduzione degli incentivi, la stessa maggioranza di centrosinistra (seppure con un governo differente da quello del 1998) incrementò in un solo anno, fra il 2000 e il 2001, le erogazioni del 21%, attraverso l’introduzione di un generoso credito di imposta. Forse perché così pensava di ottenere consenso politico in vista delle imminenti elezioni (obiettivo, come si sa, fallito). Certamente perché all’interno della coalizione di centrosinistra coabitavano idee anche molto diverse su ciò che si dovesse fare: fra i gruppi contrari alle scelte della Nuova Programmazione molti facevano parte dello stesso schieramento politico che l’aveva promossa. Negli anni successivi il peso degli incentivi è effettivamente un po’ diminuito, ma con modalità che hanno destato grandi perplessità. Non si è trattato infatti dell’attuazione progressiva di decisioni annunciate, rispetto a cui il sistema imprenditoriale si è potuto adattare, ma di tagli improvvisi, sospensioni degli interventi. La tendenza alla riduzione delle erogazioni, assai più che rispondere a una grande scelta strategica, ha risposto alle necessità con113

tingenti della finanza pubblica. Come si è visto con dovizia di dati nei capitoli precedenti, in particolare con il ministro Tremonti i risparmi ottenuti riducendo alcune misure di incentivo alle imprese nel Mezzogiorno non sono stati destinati a più incisivi investimenti pubblici ma sono stati incamerati dal bilancio dello Stato. Questo ha creato un clima di grande incertezza nel mondo imprenditoriale, di grande perplessità circa la direzione di marcia che si stava intraprendendo. Ha suscitato l’effetto, negativo ma comprensibile, di correre a prenotare incentivi oggi nell’incertezza di ciò che può accadere domani. Quello in cui le politiche di intervento a sostegno delle imprese sono incerte e imprevedibili per gli imprenditori è il peggiore dei mondi possibili, che genera con facilità comportamenti opportunistici. Che si è ottenuto con queste politiche? La risposta d’insieme è: non moltissimo. Dividiamo, un po’ forzatamente, gli interventi in tre grandi categorie: contratti di programma (e simili), legge 19 dicembre 1992, n. 488 (e simili), credito di imposta per gli investimenti. I contratti di programma sono incentivi di grande dimensione, che vengono concessi sulla base di un negoziato fra la parte pubblica e una grande impresa o un consorzio di piccole imprese. Fra il 1987 e il 2005 ne sono stati stipulati 86 (fra cui quello per la FIAT a Melfi), assegnando risorse pubbliche per circa 7 miliardi di euro. Non tutti i progetti finanziati sono stati poi totalmente realizzati. Che effetti hanno determinato? I contratti di programma si sono rivelati7 (ma non in tutti i casi) capaci di in7 UVAL-DPS, Analisi di efficacia economico-sociale dei «contratti di programma». Relazione per il CIPE, Roma, dicembre 2006 (http:// www.dps.mef.gov.it/documentazione/uval/Relazione%20CDP.pdf); T. Bianchi, L’efficacia economico sociale dei contratti di programma, re-

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fluenzare le decisioni di investimento delle imprese. In alcuni, limitati casi hanno determinato la localizzazione in Italia di investimenti multinazionali; spesso hanno accelerato e/o reso più certa o più ampia la realizzazione di nuovi investimenti; ne hanno incrementato l’effetto occupazionale. Assai raramente, tuttavia, hanno creato un significativo effetto indotto su altre imprese, e spesso le attività di ricerca e sviluppo che erano state previste e finanziate si sono rivelate significativamente inferiori nei risultati. Particolarmente modesto sembra essere stato l’effetto dei contratti per i consorzi di piccole e medie imprese, che nel 2000-2005 hanno rappresentato due terzi degli stanziamenti. C’è stata una grande variabilità di risultati, segnale di una insufficiente capacità dell’amministrazione statale di selezionare i progetti; si è cercato, con esiti rivelatisi modesti, di condizionare i comportamenti delle imprese; si è provato meno, specie nel 2001-2006 quando i contratti sono molto aumentati, a mettere in concorrenza per l’accesso a risorse pubbliche diverse proposte imprenditoriali, selezionando quelle con il miglior rapporto fra costi e benefici. Un quadro dunque, tenendo conto delle rilevanti risorse trasferite alle imprese, con alcune luci e diverse ombre. La legge 488/1992 è invece basata su una sorta di gara. Vengono emessi dei bandi e le imprese presentano progetti di investimento da cui sono chiaramente deducibili alcuni indicatori numerici: la percentuale del contributo richiesto rispetto al totale dell’investimento, il numero dei posti di lavoro che vengono creati e così via. lazione al workshop Le politiche per lo sviluppo locale, Banca d’Italia, Roma, 22.2.2008 (http://www.bancaditalia.it/studiricerche/convegni/ atti/politiche_sviluppo_locale/contratti_programma/bianchi.pdf).

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In base a questi indicatori, i progetti sono collocati in una graduatoria di merito, che stabilisce chi ha diritto o meno all’incentivo. Nel periodo 2000-2007 le assegnazioni del Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE) sono state superiori agli 8 miliardi di euro nel Mezzogiorno e a 1,5 miliardi nel Centro-Nord. Negli anni fra il 2003 e il 2006 sono state approvate 3.644 domande al Sud e 2.178 domande al Centro-Nord8. Diverse valutazioni, comparando il comportamento delle imprese incentivate con quello di imprese simili, tendono a mostrare che la legge 488/1992 ha avuto sì l’effetto di determinare investimenti aggiuntivi ma principalmente anticipando quelli previsti per il futuro. Dato il meccanismo a punteggio per l’allocazione delle risorse, i richiedenti possono aver «forzato» gli indicatori: viene stimato che circa un terzo dei contributi concessi sia stato poi revocato o stia per esserlo. Una percentuale altissima; lievemente più alta nelle aree del Centro-Nord che nel Mezzogiorno. Questo fa sorgere dubbi sull’efficacia della misura: risorse pubbliche assai cospicue vengono tenute immobilizzate per investimenti che poi non si realizzano. A partire dal 2007, tuttavia, la discussione su questa legge ha preso tutt’altra piega. Essa è assurta a ennesimo emblema delle risorse pubbliche nel Mezzogiorno che finiscono immancabilmente per finanziare la malavita. Ma investimenti non realizzati non implicano dolo: nella stragrande maggioranza dei casi, le concessioni sono state revocate prima che sia stato erogato un solo euro all’impresa; in molti altri casi, le anticipazioni concesse sono state totalmente restituite. Non mancano i casi sospetti: valutatori esperti della legge stimano che pos8 Ministero dello Sviluppo economico, Rapporto annuale del DPS 2007, cit., fig. IV.8, p. 189; tav. Q.2, p. 203; tav. Y.2, p. 245.

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sano essere circa 1.000, una cifra importante, testimonianza di una vasta area di cattiva economia; ma 1.000 rappresentano poco più del 3% del numero di finanziamenti concessi. Sono sempre troppi: ogni finanziamento concesso per un investimento irregolare è una sconfitta per lo Stato e la legalità; spesso, però, l’irregolarità può essere scoperta solo successivamente. Ma, soprattutto, da qui a dire che la legge finanzia l’economia illegale, ce ne passa. Anche per l’esito dubbio delle misure basate su criteri di selezione, vi è stato un certo sostegno per i crediti di imposta: chi realizza un investimento ottiene una automatica detrazione. I crediti di imposta hanno comportato l’utilizzo di risorse molto rilevanti negli ultimi anni: gli stanziamenti del CIPE fra il 2000 e il 2007 hanno superato i 7 miliardi di euro nel Mezzogiorno, oltre a 1,2 miliardi nel Centro-Nord; al Sud nel 2003-2006 sono state approvate quasi 28.000 domande, per oltre 5 miliardi di contributo pubblico9. Questo strumento ha due indubbi vantaggi: è automatico, e quindi prescinde da qualsiasi domanda, istruttoria, valutazione; è successivo all’investimento e dunque premia chi ha già fatto. Per questo è molto amato dagli imprenditori: è semplice e compensa in parte la pressione fiscale sulle imprese che in Italia è molto alta. È tuttavia suscettibile di truffe e richieste improprie tanto quanto gli strumenti valutativi (basta dichiarare il falso) e ha grandi inconvenienti. È costosissimo, perché interviene su una platea vastissima di investitori; il suo effettivo onere, per di più, non può essere predefinito e quindi rappresenta una incognita anche sensibile per le finanze pubbliche. Comporta la rinuncia a priori a qualsiasi obiettivo pubblico: non si pre9

Ivi, fig. IV.8, p. 189 e tav. Q.2, p. 203.

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miano grandi investimenti (come per i contratti di programma) perché ad esempio si spera che determinino il nascere di insediamenti ad alta tecnologia; si premiano tutti. I crediti di imposta per gli investimenti sono gli strumenti preferiti da coloro che ritengono che la mano pubblica debba per principio rinunciare a sostenere determinati comportamenti da parte delle imprese (investire in alta tecnologia; creare occupazione qualificata) meritevoli di aiuto da parte dei contribuenti. Ma il risultato, proprio come è avvenuto al Sud negli ultimi anni, è che l’utilizzo di cospicue risorse pubbliche non determina grandi cambiamenti della struttura produttiva; le imprese continuano grosso modo a fare quello che hanno sempre fatto. Non a caso spesso viene indicata come via alternativa ai crediti di imposta una semplice riduzione delle aliquote fiscali sulle imprese; o addirittura la creazione di «zone franche» dove chi investe ha una tassazione molto ridotta. Molti paesi europei hanno ridotto la tassazione sulle imprese negli ultimi anni, per favorire investimenti e occupazione. Il problema, soprattutto in un paese con vincoli di finanza pubblica come l’Italia, è che una misura simile va valutata anche considerando che cosa si sarebbe potuto fare con quelle risorse pubbliche che con le riduzioni fiscali vengono meno. Il discorso diviene facilmente ideologico: i fautori di queste misure, che curiosamente in Italia si trovano tanto nello schieramento di centrodestra quanto in quello di centrosinistra, le sostengono proprio perché pensano che normalmente lo Stato utilizza male le risorse di cui dispone. Comunque sia, riduzioni delle imposte per le imprese limitate ad alcune regioni – e non estese all’intero territorio nazionale – sono proibite dalla Commissione Europea. Giusto o sbagliato che sia (e vi sono argo118

menti per l’una e l’altra valutazione) quello che si può fare in Irlanda non si può fare per il solo Mezzogiorno. Non si pensi che i problemi degli incentivi siano limitati al Mezzogiorno. Tutt’altro: anche al Centro-Nord non mancano. Vi sono tante misure diverse, con procedure e strumenti diversi, e attive, spesso, solo per periodi limitati. Interventi nazionali e interventi regionali tendono a sovrapporsi, e i secondi spesso duplicano i primi10. Questa sovrapposizione è molto più forte al Centro-Nord dove sono attivi molti più strumenti che al Sud, e dove molti di essi sono gestiti dalle Regioni. Nel quadriennio 2003-2006 sono state concesse agevolazioni a 301.124 imprese nel Centro-Nord (145.906 nel Mezzogiorno)11. Manca, complessivamente, una razionale riorganizzazione a scala nazionale delle politiche di incentivazione alle imprese, che contemperi interventi e priorità nazionali con interventi e priorità regionali. Quello che senz’altro cambia fra Sud e Centro-Nord è però la scala dell’impegno pubblico: come già detto, l’ammontare degli incentivi è assai più alto al Sud, sia in cifra assoluta che come peso sul totale dell’intervento pubblico. Che conclusioni trarre da questa analisi? Se le nuove politiche per il Mezzogiorno postulavano di ridurre fortemente gli incentivi alle imprese, questo è avvenuto solo in misura molto contenuta. Se le politiche nuove sono quelle con pochi incentivi, al Sud si sono fatte quelle vecchie. È interessante vedere uomini politici che si sono battuti per una estensione di misure automatiche e a pioggia, come i crediti di imposta per gli inve10 R. Brancati (a cura di), L’offerta pubblica e la domanda dei privati. Le politiche per le imprese, Donzelli, Roma 2007. 11 Ministero dello Sviluppo economico, Rapporto annuale del DPS 2006, cit., tavv. Q.2, p. 203 e Y.2, p. 245.

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stimenti nel Mezzogiorno, lamentare allo stesso tempo la scarsa efficacia complessiva delle politiche. Gli effetti di tutta la strumentazione sono stati in particolare assai modesti quanto a capacità di attrarre nuovi investimenti dall’esterno verso il Mezzogiorno: negli anni Duemila i nuovi investimenti esteri significativi si contano sulle dita di una mano; la presenza di unità locali nel Mezzogiorno delle medie imprese italiane si è ridotta12; gli incentivi sono stati prevalentemente rivolti al sostegno delle imprese meridionali. Non c’è evidenza che consenta di dire che siano stati inutili; e ancora meno che consenta di sostenere che siano stati preda di imprese truffaldine. Ma certamente, rispetto al loro costo complessivo per le finanze pubbliche, e all’uso alternativo che avrebbe potuto essere fatto delle stesse risorse, il bilancio è complessivamente negativo. Proprio per questo l’impostazione della Nuova Programmazione conserva tutta la sua validità: gli incentivi andrebbero ancora fortemente ridotti e meglio mirati. Che cosa va premiato, con risorse pubbliche? Vanno premiati, al Nord come al Sud, quei comportamenti dell’impresa che si differenziano dalla sua normale evoluzione, che tendono a rafforzarla nella competizione internazionale. Incentivi alle attività di ricerca, sviluppo di nuovi prodotti, innovazione; all’acquisizione e all’utilizzo di nuove tecnologie; all’espansione commerciale in12 Nel 2005 queste imprese hanno circa 1.000 unità locali in più rispetto al 2000. La stragrande maggioranza (90%) di queste nuove unità locali ha sede nella stessa provincia della capogruppo: è cioè limitatissimo il flusso di nuovi investimenti interni da Nord a Sud di questo insieme di imprese particolarmente importanti e di successo; anzi, al Sud prevalgono le chiusure sulle aperture di nuove unità locali (–80) (Unioncamere, Rapporto Unioncamere 2008, Retecamere, Roma 2008, p. 112).

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ternazionale; alla riduzione dell’impatto ambientale. La finalizzazione degli strumenti non va confusa con una loro necessaria complicazione: le attività di ricerca possono essere sostenute anche con strumenti automatici come i crediti di imposta per l’innovazione; si può avere un obiettivo selettivo con strumenti semplici. Accanto ad essi, come in tutti gli altri paesi europei, si possono sperimentare strumenti più complessi, più difficili, che richiedono un intervento pubblico più attento e di qualità: ad esempio per far crescere veri e propri distretti tecnologici, come si è fatto per il rilancio della ex Germania Est con il programma InnoRegio e come si fa in Francia con i Pôles de compétitivité. Un paese avanzato non rinuncia ad operare, con misura e attenzione, per influenzare i comportamenti delle imprese, per indurre quelli che possono produrre benefici collettivi, per sostenere quelli più rischiosi. Certo, meno e con strumenti assai diversi rispetto al passato, nel pieno rispetto delle giuste norme europee che proibiscono aiuti distorsivi dei mercati. Continuare a sostenere massicciamente le imprese solo perché operano nel Mezzogiorno rischia di non cambiare mai il passo dello sviluppo del Sud. Se si vuole cambiare, come si era giustamente detto nel 1998, occorre su questo il coraggio di un chiaro patto fra la politica e gli imprenditori: meno risorse per il semplice sostegno delle imprese, più risorse per cambiare le condizioni di contesto, e renderlo progressivamente un po’ più attraente anche per gli investitori esteri. Gli investimenti pubblici Siamo arrivati alla parte più importante delle politiche di sviluppo del Mezzogiorno: gli investimenti pubblici. Le infrastrutture materiali: le strade e le ferrovie, i por121

ti turistici e gli aeroporti, gli impianti di depurazione delle acque e quelli di trattamento dei rifiuti, gli interventi di difesa del suolo e di rimboschimento, il recupero dei beni culturali. Le infrastrutture immateriali: l’istruzione secondaria e universitaria, la formazione professionale e la riqualificazione degli adulti, la ricerca scientifica e i servizi informatici. Perché questa è la parte più importante delle politiche di sviluppo, in tutta Italia, e in modo particolare nel Mezzogiorno? Perché una elevata dotazione quantitativa e qualitativa di beni e servizi collettivi è un elemento fondamentale per lo sviluppo economico e civile; è una determinante fondamentale della capacità competitiva delle imprese che esistono, della loro capacità di realizzare beni e servizi che superino il test della concorrenza; così come della natalità di nuove imprese. Tutti i dati tendono a confermare che l’Italia dispone, specie in alcuni ambiti (si pensi alle ferrovie o al trasporto metropolitano o alle università e alla ricerca), di una dotazione di beni e servizi collettivi inferiore rispetto agli altri grandi paesi europei; che la dotazione italiana è cresciuta relativamente meno nell’ultimo decennio, sempre rispetto agli altri grandi paesi europei; che la dotazione delle regioni del Sud è di molto inferiore a quella media nazionale, in moltissimi casi inferiore a quella delle regioni più deboli degli altri grandi paesi europei, e che è cresciuta relativamente poco nell’ultimo ventennio13. È la minore quantità e, spesso, qualità di questi servizi col13 Nonostante ogni evidenza c’è tuttavia chi sostiene che «si continua anche a perpetuare il mito che al Sud vi sia una carenza drammatica di infrastrutture»: R. Perotti, Un’agenda per il Sud, eccola, in «Il Sole-24 Ore», 23.1.2008; si tratta dell’economista scelto da Confindustria per la relazione economica in occasione del convegno di chiusura della presidenza Montezemolo.

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lettivi a caratterizzare negativamente l’intero paese e soprattutto, con un divario molto significativo, le regioni del Sud. È questa quantità e qualità l’obiettivo primo delle politiche di sviluppo. Non si tratta però solo, o tanto, di costruire opere pubbliche. In molti casi servono anche, e molto; in altri, si tratta di far funzionare al meglio quel che già c’è. In tutti i casi gli investimenti pubblici non sono il fine, ma il mezzo. L’obiettivo non è asfaltare nuove strade, ma consentire alle merci di viaggiare in tempi ragionevoli; non è posare nuove condotte idriche, ma far arrivare l’acqua con regolarità nelle case dei cittadini e negli alberghi dei turisti. La realizzazione di investimenti pubblici ha un effetto duplice. Il primo, più immediato, è relativo alla spesa: ne beneficiano le imprese e i lavoratori chiamati ad operare; come tutta la spesa pubblica stimola reddito e consumi. Provoca un effetto di domanda, limitato nel tempo e nell’intensità. Il secondo è un effetto di offerta: i nuovi interventi, entrando in funzione, migliorano le condizioni di vita e di lavoro. È la differenza fra costruire una nuova scuola e aprirla alla fruizione degli studenti. La costruzione avvantaggia una tantum l’impresa che l’ha realizzata; il funzionamento della scuola avvantaggia, per tutti gli anni in cui funziona, gli studenti che possono frequentarla. L’esempio della scuola consente di mettere in evidenza alcuni aspetti fondamentali delle politiche di investimenti pubblici. In primo luogo, le questioni finanziarie; la disponibilità di finanziamenti è una condizione assolutamente necessaria, anche se per nulla sufficiente. Senza risorse disponibili, la scuola non si costruisce. In molti casi questi finanziamenti non possono che essere integralmente pubblici, dato che il settore privato non è interessato ad alcuni interventi (i rimbo123

schimenti) e che in altri ambiti (come per le scuole) si tratta di attività opportunamente mantenute in mani pubbliche. In altri casi, le risorse pubbliche possono accompagnarsi a risorse private: ad esempio quando ci sono modalità attraverso cui il privato riesce a ottenere un profitto dal suo investimento; in altri casi un investimento privato è in grado di fornire servizi alla collettività (ad esempio un’autostrada privata a pedaggio). La partecipazione del capitale privato può essere positiva e importante, specie in un paese come l’Italia nel quale le risorse pubbliche sono relativamente scarse. In alcuni casi una gestione privata può essere più efficiente. Va attentamente regolata, affinché la remunerazione del capitale sia quella opportuna e la gestione non crei condizioni sfavorevoli per gli utenti finali: se il pedaggio sull’autostrada privata è troppo alto, il beneficio collettivo diviene assai modesto. L’esperienza europea e italiana negli ultimi decenni è da questo punto di vista ampia ma nient’affatto priva di problemi. Nelle regioni meno ricche, comunque, attrarre capitali privati è più difficile, perché le possibilità di profitto sono più modeste che altrove: questo contribuisce a spiegare perché gli investimenti pubblici siano così importanti nelle aree relativamente deboli. Seconda condizione: i soldi spesi per la costruzione della scuola potevano essere usati diversamente? Meglio? L’utilità di quell’intervento va comparata con quella di interventi alternativi; ne vanno confrontati non solo i costi, cosa relativamente semplice, ma anche i benefici: cosa assai più difficile, anche se in parte possibile. Ne va misurata l’utilità sociale complessiva, e l’utilità per i diretti beneficiari. Non possono non essere considerate – anche se non dovrebbero essere valutate per la scelta – le ricadute più direttamente politiche, legate al 124

consenso che acquisisce il decisore politico (o più spesso, come si vedrà dati i tempi di realizzazione, il politico che porta a termine l’intervento) presso la comunità. Se prevale quest’ultimo tipo di considerazioni rispetto alle prime, non si fa un buon uso del denaro pubblico: è quello che, secondo molti commentatori, accade ad esempio immancabilmente nel Mezzogiorno. Ancora, la costruzione di una nuova scuola non può essere un intervento isolato, che così rischia di ridurne l’efficacia. Se è dotata di laboratori avanzati, i docenti devono ricevere una formazione adeguata a utilizzarli. La sua sicurezza deve essere garantita, per evitare che sia vandalizzata dopo poco. L’efficacia di un investimento pubblico è tanto maggiore quanto più esso si inquadra in una progettazione integrata: mentre si costruisce la scuola si pensa a organizzarne la manutenzione. Naturalmente – e questa è una terza, fondamentale, anche se ovvia riflessione – la scuola va progettata bene. Se gli spazi sono calcolati male, o i laboratori dotati di attrezzature obsolete, o se ci si dimentica delle scale di sicurezza, la scuola, nonostante i soldi spesi, non entrerà in funzione, o richiederà nuovi interventi o tempi assai più lunghi per la piena funzionalità. Se nel caso della scuola può non essere difficile una buona progettazione, si pensi alle grandi opere idriche, agli impianti di smaltimento e trattamento dei rifiuti, alle grandi opere ferroviarie o aeroportuali: in questi come in altri casi si può ben comprendere come una modesta qualità progettuale possa compromettere l’esito finale. In Italia, e specie al Sud, non sono rari ad esempio i casi di depuratori ultimati ma mai entrati in funzione perché progettati male. È fondamentale la questione dei tempi. La scuola diventa utile per la collettività, le risorse pubbliche utiliz125

zate diventano davvero un investimento, solo dal momento in cui funziona. Poi, negli anni, la nuova scuola produce i suoi effetti, attraverso migliori condizioni di apprendimento per i ragazzi; e infine i ragazzi mettono a frutto ciò che meglio e di più hanno imparato quando iniziano a lavorare. C’è dunque un primo lasso di tempo: fra il momento della decisione, dell’impegno e poi dell’erogazione delle risorse pubbliche e il momento dell’apertura della scuola; in questo periodo le risorse pubbliche producono ben pochi effetti positivi; non sono certamente spese male, se poi la scuola si apre: ma non se ne vedono ancora gli effetti. Questo lasso di tempo va ridotto il più possibile. C’è poi un secondo lasso di tempo: dal momento in cui la scuola apre al momento in cui – dopo decenni – occorrerà rifarla daccapo o abbandonarla. Per tutto questo tempo, auspicabilmente lungo, l’investimento pubblico iniziale di molti anni prima genera i suoi effetti positivi. Infine, una volta realizzata, la scuola deve funzionare bene. Anche questo non è ovvio. Se la scuola è gestita male e i laboratori restano chiusi, svanisce la loro utilità; se il pomeriggio è sempre chiusa e non viene usata, il rendimento sociale dell’investimento pubblico si riduce. Una politica di investimenti pubblici è tanto più utile quanto più i beni collettivi realizzati funzionano secondo regole e modalità in grado di ampliarne la fruizione. Regole tanto locali (il regolamento della singola scuola), tanto nazionali (i contratti del personale). Tenere in funzione le strutture realizzate richiede un buon funzionamento delle istituzioni che le gestiscono. E richiede, dopo l’investimento in conto capitale, un flusso costante di spesa corrente: occorre pagare i tecnici per far funzionare i laboratori, i bidelli per tenerla aperta di pomeriggio, gli operai per curarne la manutenzione. Vi 126

è dunque bisogno di un corretto bilanciamento fra la spesa iniziale in conto capitale e quella successiva corrente; le istituzioni che gestiscono le strutture realizzate devono avere capacità finanziaria e amministrativa. Ancora una volta, se non c’è questa capacità l’effetto dell’investimento iniziale rischia di essere modesto. Molte condizioni. Diventare un paese più civile e avanzato, mettendo a disposizione dei cittadini e delle imprese migliori condizioni di vita e di lavoro, non è facile. Questo non significa che non bisogna porsi questo obiettivo. Con buona pace del dogmatismo liberista, in molti casi, in molte aree, se non vi è un’iniziativa pubblica, il mercato non è in grado di produrre beni e servizi collettivi essenziali di quantità e qualità sufficienti e a costi ragionevoli.

6.

CHE COSA ABBIAMO OTTENUTO?

Gli interventi nel Sud Molti dati e informazioni consentono, assai più di quanto si ritenga normalmente, di poter valutare quello che si è fatto negli ultimi dieci anni nel Mezzogiorno. Della prima condizione per il successo di una politica di investimenti pubblici si è già diffusamente detto. La spesa per la realizzazione di infrastrutture materiali e immateriali è stata al Sud molto bassa: molto più bassa di quanto avrebbe dovuto essere in base alle indicazioni programmatiche dei governi degli ultimi dieci anni; più bassa che nel Centro-Nord; enormemente più bassa di quanto sarebbe necessario per realizzare nel Mezzogiorno condizioni paragonabili a quelle medie europee. Si è detto che questo è avvenuto in particolare a partire dal 2001 perché la spesa specificamente indirizzata verso il Mezzogiorno è stata sostitutiva di mancata spesa ordinaria. Una riprova di questo si ha guardando ai progetti finanziati dai fondi europei. Più precisamente, alla spesa che l’Italia presenta («rendiconta») all’Unione Europea per ricevere i relativi rimborsi. All’agosto 2007 l’Italia aveva rendicontato all’Unione Europea una spesa, a titolo di fondi struttu128

rali 2000-2006, di circa 30 miliardi1. La metà di questi 30 miliardi è costituita da «progetti coerenti»: si tratta di progetti già esistenti presso gli enti attuatori prima dell’avvio del programma comunitario, che disponevano già di un proprio finanziamento (di origine diversa), che sono stati realizzati e che poi sono stati rendicontati all’Unione Europea. Così facendo gli enti attuatori conservano il finanziamento originariamente disponibile; diventa, in gergo, una «risorsa liberata» da riutilizzare. I fondi europei per il Mezzogiorno sono stati in grande misura sostituti di mancata spesa nazionale: in parte perché la spesa nazionale che si sarebbe dovuta «ordinariamente» realizzare non si è più fatta; in parte perché, con il meccanismo appena descritto, si rendicontano all’Unione Europea spese già fatte con finanziamenti di altra fonte, e così si recuperano le risorse nazionali. Il caso più clamoroso è quello del Programma operativo nazionale (PON) Trasporti 2000-2006, gestito dal ministero delle Infrastrutture per dotare finalmente il Mezzogiorno di una migliore rete ferroviaria e stradale, per realizzare importanti opere aeroportuali. Il problema è che chiunque viva o viaggi al Sud queste opere nuove proprio non le vede. E infatti non ci sono: oltre il 70% delle somme rendicontate dal PON Trasporti all’Unione Europea fino all’agosto 2007 sono stati «progetti coerenti», oltre 3 miliardi di euro sui 4,5 del programma. Il ricorso a «progetti coerenti» ha riguardato, seppure in 1 Per regole comunitarie i fondi 2000-2006 si riferiscono a una spesa che deve essere definita («impegnata») entro la fine del 2006, ma che può essere effettuata e rendicontata fino al 31 dicembre 2008; si hanno cioè, senza che questo costituisca una patologia, due anni oltre il termine formale del programma per ultimare la spesa. Nel gergo comunitario questa è la regola dell’«n+2»: dopo ciascun impegno di spesa, in uno qualsiasi degli n anni del programma, se ne hanno 2 per realizzarla.

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misura inferiore e in percentuale variabile da caso a caso (maggiore in Campania, minore in Puglia) anche le amministrazioni regionali2. Al momento di scrivere le regole per l’utilizzo dei fondi comunitari, venne stabilito che nel caso di rendicontazione di «progetti coerenti» le «risorse liberate» avrebbero dovuto essere tempestivamente impegnate per la stessa tipologia di interventi nella stessa area territoriale. Dunque il ministero delle Infrastrutture deve tempestivamente riutilizzare in altri progetti per i trasporti nel Mezzogiorno gli almeno 3 miliardi di euro di fondi europei che ha risparmiato. Il rischio sempre presente è che, con le continue operazioni di sostituzione e di rinvio degli interventi nel Mezzogiorno che sono state documentate, anche queste risorse finiscano per sparire. Grande preoccupazione destano, ad esempio, le deliberazioni assunte dal governo Berlusconi nell’estate 2008 con il decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, di avocare a sé tutte le decisioni su oltre 14 miliardi di euro di «risorse liberate»: vi è il rischio che vengano utilizzate su territori e in ambiti differenti3. A parziale tutela c’è l’Europa: essendo le regole di riutilizzo di queste «risorse liberate» concordate con la Commissione, il loro corretto impiego dovrebbe essere assicurato. Ma, dato quello che è successo negli ultimi anni, e data la grande rilevanza quantitativa di questi interventi, il rischio è tangibile. Resta una fondamentale considerazione: se gli interventi finanziati con i fondi euro2 Ministero dello Sviluppo economico-DPS, XII Riunione del Comitato di Sorveglianza del Quadro comunitario di sostegno 2000-06; QCS Obiettivo 1 2000-06, Stato di attuazione, Roma, 7.3.2008. 3 G. Viesti, La trasformazione delle politiche di sviluppo territoriale e l’impatto nel Mezzogiorno, in www.nelmerito.com, 17.7.2008 (http:// www.nelmerito.com/index.php?option=com_content&task=view& id=317&Itemid=141).

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pei per il Mezzogiorno sono per metà vecchi progetti che disponevano già di finanziamento, non ci si può certo aspettare un impatto particolarmente rilevante sull’economia del Sud. Ma l’insieme degli interventi che si è deciso di realizzare è quello più opportuno? Molti italiani sono convinti, anche in base a quello che leggono sui giornali, che non sia così: che nel Mezzogiorno vengono prevalentemente, se non esclusivamente, finanziati non i progetti più utili per la collettività, ma quelli scelti dai politici locali in base alle proprie convenienze personali. Non è facile capire su quali dati sia basata questa convinzione. I progetti da realizzare con il cofinanziamento dei fondi strutturali europei vengono definiti in base a un lungo e complesso processo di programmazione, nel quale hanno voce in capitolo le autorità europee, le autorità nazionali, le autorità regionali e le forze economiche e sociali. Ad esempio, per il 2000-2006 il governo italiano ha definito il Quadro comunitario di sostegno dopo un lungo e articolato processo di consultazione; il documento è stato poi inviato alla Commissione Europea, e dopo un lungo confronto tecnico, da questa approvato. Si tratta di un programma che stabilisce gli assi prioritari di intervento: le risorse naturali, le risorse culturali, le risorse umane, i sistemi locali di sviluppo, le città, le reti e i nodi di servizio (principalmente trasporti). Si mira dunque a fare quello che moltissimi dicono sia necessario fare nel Mezzogiorno e più in generale nel nostro paese: tutelare e valorizzare le risorse naturali e culturali; rafforzare le risorse umane (più scuola, più formazione), rendere più competitivi i sistemi di impresa, migliorare le città, potenziare le infrastrutture di trasporto. Si dice poi come farlo: attraverso un piano finanziario delle risorse, l’identificazione di programmi operativi unitari regionali e di 131

programmi operativi nazionali (ricerca, scuola, sicurezza, sviluppo imprenditoriale, trasporti, pesca). Si completa con articolate condizioni di attuazione, per garantire trasparenza, sorveglianza, monitoraggio, valutazione. Questo documento è stato predisposto dalla maggioranza di centrosinistra e poi non modificato dalla maggioranza di centrodestra4. Il programma 2007-13 è stato avviato dallo stesso governo di centrodestra, e poi lasciato inalterato dal governo Prodi. Un processo per molti versi simile è avvenuto con i FAS, che sono progressivamente allocati sulla base di intese fra Stato e Regioni del Sud e del Nord. Per il periodo 2007-13 era stato poi deciso (decisione presa dal governo di centrodestra e confermata da quello di centrosinistra) di programmare anche i FAS per lo stesso periodo e con gli stessi criteri dei fondi strutturali, in modo da dare una coerenza ancora maggiore alla strategia di intervento, indipendentemente dalle fonti di finanziamento, europee o nazionali. Tutto questo garantisce che i soldi dei contribuenti, italiani e europei, siano spesi in maniera ottimale? Certamente no. Ma si tratta sicuramente del processo decisionale più trasparente e articolato all’interno del nostro sistema pubblico. È sottoposto a un attentissimo controllo da parte delle autorità comunitarie. È lo stesso per tutte le aree del paese. Ha evidentemente goduto di un consenso trasversale, fra i governi centrali e le amministrazioni regionali di diverso colore politico. Difficile trovare chi ne contesti le priorità: nello scarno dibattito sullo sviluppo del Mezzogiorno degli ultimi anni, sono stati evidenziati in particolare i temi dei grandi collegamenti internazionali (ferroviari, por4 Salvo nel 2004, con l’importante riduzione dell’addizionalità cui si è fatto cenno in precedenza.

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tuali, aeroportuali) cui era appunto destinato il PON Trasporti; la ricerca e l’innovazione, oggetto di interventi tanto nazionali quanto regionali; la formazione del capitale umano, cui è stato destinato un programma nazionale. Si è sostenuto che questa programmazione ha dato un’enfasi eccessiva agli interventi all’interno delle regioni del Sud e un po’ troppo limitata a grandi interventi, di sistema, che vedessero coinvolte più regioni: in realtà, una quota rilevante delle risorse è stata impegnata in grandi programmi validi per l’intero Mezzogiorno, disegnati dai ministeri e della cui attuazione sono stati politicamente responsabili tanto, per cinque anni, i ministri degli esecutivi Berlusconi del 2001-2006, quanto, per due anni, i ministri del governo Prodi 2006-2008. È però vero, come si dirà meglio più avanti, che le regioni del Sud sono state poco capaci di mettere in atto forme di collaborazione interregionale, coordinando meglio ciò che andavano realizzando all’interno dei propri confini. Interventi frammentati? Si è sostenuto che questa programmazione ha provocato un eccesso di frammentazione degli interventi nel Mezzogiorno. Giuste le grandi linee direttrici; errata la loro attuazione concreta, basata su un numero eccessivo di progetti di dimensione unitaria troppo contenuta. Un primo sguardo ai dati sembra confermare questa criticità. Nel Mezzogiorno, con i fondi europei 2000-2006 sono stati infatti cofinanziati oltre 245.000 progetti, con una dimensione media di 220.000 euro. Un numero davvero molto alto, con una dimensione molto contenuta. Ma questo è avvenuto, in misura ancora maggiore, nelle regioni del Centro-Nord: lì, con risorse complessive as133

sai minori, i progetti sono più di 285.000, con una dimensione media di 60.000 euro5. La questione si pone in termini molto diversi a seconda del tipo di progetti. Metà dei fondi strutturali per il Sud è stata destinata alla realizzazione di opere fisiche (in misura rilevante trasporti), il 20% a interventi immateriali (formazione, servizi, ricerca), il 30 a incentivi6. Per le opere fisiche, alla metà delle risorse totali corrisponde solo il 12% del numero complessivo dei progetti, con una dimensione unitaria nettamente maggiore7. Sono stati tantissimi i progetti per interventi immateriali: ma qui i 21.300 progetti di formazione nel Sud vanno comparati ai 133.000 del Centro-Nord; i 24.000 progetti sul mercato del lavoro nel Sud ai quasi 86.000 del Centro-Nord. Soprattutto, nel Mezzogiorno oltre la metà dei progetti corrisponde a misure di incentivo per singole imprese che, come detto, nonostante le intenzioni non si è riusciti a ridurre. In questi casi la numerosità dei progetti giustifica il sospetto di frammentazione delle risorse in una miriade di interventi a pioggia. Con i fondi strutturali nel Mezzogiorno sono stati infatti finanziati 64.000 progetti in agricoltura (prevalentemente piccoli incentivi alle aziende agricole) e incentivi per le imprese industriali e terziarie 5 Ministero dello Sviluppo economico, Rapporto annuale del DPS 2007, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2008 (http:// www.dps.tesoro.it/documentazione/docs/rapp_annuale_2007/Rapporto/Rapp_DPS_2007_ridotto.pdf): i dati sono calcolati a partire dalle tavv. IV.6 e IV.12, pp. 191 e 233. Nel Centro-Nord la minore dimensione è in parte spiegata dal fatto che la percentuale del costo di ogni progetto che può essere cofinanziata dai fondi europei è minore; dunque i 60.000 euro sono il cofinanziamento europeo e non necessariamente il valore del progetto. Ma questo nulla toglie al numero dei progetti. 6 Ivi, tav. R.1, p. 212. 7 Ivi, pp. 226-27.

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di taglia unitaria limitata. La larghissima maggioranza di questi interventi era prevista ed è stata gestita da programmi ministeriali, a livello nazionale. Ma, si dirà, i principali investimenti pubblici al Centro-Nord non sono finanziati dai fondi europei, ma da risorse nazionali: se si guardassero quelle, si scoprirebbe che al Nord si è stati molto più capaci di concentrare le risorse su pochi grandi interventi. I dati per compiere questa verifica ci sono, e confermano solo in minima parte questa opinione. È disponibile una completa banca dati su tutti i progetti finanziati negli accordi di programma quadro Stato-Regioni. Questi accordi mettono insieme i principali progetti delle amministrazioni centrali e regionali e comprendono gran parte degli interventi più rilevanti in programma e in attuazione: al Centro-Nord il loro valore complessivo è di 33,3 miliardi; al Sud di 44,8 miliardi. I 33,3 miliardi del Centro-Nord finanziano 7.407 progetti, con una dimensione media di 4,5 milioni; al Sud i 44,8 miliardi finanziano 10.637 progetti, con una dimensione media di 4,2 milioni8. Tuttavia i progetti di valore unitario superiore a 10 milioni di euro rappresentano oltre il 55% della spesa nel Mezzogiorno e solo il 42% nel Centro-Nord9. Decisamente maggiore al Centro-Nord è solo la dimensione unitaria dei progetti di trasporto, indice di una capacità strategica maggiore. Merito certamente di alcune amministrazioni regionali, a cominciare dalla Lombardia, ma frutto anche dell’attenzione pressoché esclusiva verso le aree più forti di alcune importanti istituzioni, a cominciare dalle Ferrovie. 8 Ivi, i dati sono calcolati a partire dalle tavv. IV.5 e IV.11, pp. 190 e 232. 9 Ivi, pp. 237 e 255.

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Gli interventi di grande importo unitario sono sempre preferibili? Per alcuni motivi sì. Con pochi grandi interventi si rappresentano bene chiare priorità strategiche; si possono ridurre le complessità gestionali; si possono creare condizioni nuove: si pensi al trasporto ferroviario passeggeri a maggiore velocità, che può rendere nettamente migliori le possibilità di muoversi fra una città e un’altra. Si può dire con chiarezza e semplicità ai cittadini cosa si sta realizzando. Con tanti progetti può essere più facile rispondere a interessi particolari, specifici. Questo può significare dare ad esempio risposte a esigenze locali, di amministrazioni comunali che, alle prese con difficoltà di bilancio, cercano di ottenere risorse aggiuntive per il finanziamento di opere e interventi di interesse locale: magari necessari, ma lontani dalle priorità che dovrebbero avere le politiche di sviluppo. Può significare utilizzare le risorse a favore di specifici gruppi di interesse per accrescere la redditività politica a vantaggio dei decisori: contrariamente a un’opinione diffusa non c’è evidenza documentale che questo sia avvenuto in misura rilevante, anche se la debolezza e la frammentazione delle rappresentanze politiche negli ultimi anni possono averlo certamente favorito. Può significare realizzare interventi di sviluppo troppo complessi, fatti di molti interventi, e che richiedono che tutti siano completati per produrre un risultato positivo. Ma non è detto che sia sempre così. In molti casi molte «piccole opere» ben fatte possono essere decisamente meglio di poche «grandi opere». Per restare all’esempio del trasporto ferroviario, un insieme di interventi per velocizzare e rendere più sicure le linee pendolari intorno alle aree urbane può essere molto più importante di una nuova, costosissima linea a più alta velocità. La difesa del suolo non richiede interventi faraonici ma tanti 136

progetti di messa in sicurezza del territorio; più che nuovi acquedotti servono tanti progetti di manutenzione straordinaria e modernizzazione di grandi reti già esistenti, obsolete. Politiche ben disegnate di sviluppo locale comprendono necessariamente una pluralità di interventi – anche di dimensione relativamente limitata – da realizzare in un territorio: per promuovere il turismo servono alberghi, strade, impianti idrici, manutenzione del territorio, migliore gestione dei rifiuti, formazione del personale, campagne di marketing. Un caso molto interessante è quello del ponte sullo Stretto di Messina. L’utilità effettiva di un’opera così imponente e costosa è molto modesta; modesti sono gli effetti sui tempi di percorrenza; i flussi di traffico aggiuntivi così contenuti da rendere impossibile qualsiasi vera forma di cofinanziamento privato. Se si sceglie di costruire il ponte – per tornare alla discussione precedente sui criteri di decisione fra diversi interventi – lo si fa principalmente per motivi di visibilità politica dei proponenti. Assai più utile sarebbe destinare quel colossale ammontare di risorse pubbliche (almeno 6 miliardi di euro) all’ammodernamento dell’ottocentesco sistema ferroviario calabrese e siciliano, consentendo ad esempio collegamenti più ragionevoli fra Palermo e Catania; e tenendo anche conto che per la mobilità dalla Sicilia al resto d’Europa i mezzi marittimi e soprattutto aerei non potranno mai essere sostituiti da quelli ferroviari. Tempi lunghi Una politica di investimenti pubblici produce effetti positivi se e quando gli interventi sono completati, e le nuove infrastrutture materiali e immateriali realizzate cominciano a produrre beni e servizi collettivi. Nel 137

Mezzogiorno questo in molti casi non è ancora avvenuto: vi è stata spesa, ma i risultati ottenuti sono ancora incompleti, provvisori. I tempi di realizzazione degli interventi sono stati molto lunghi. Questo è un gravissimo problema nazionale. Il Secondo rapporto sulle infrastrutture in Italia dell’Associazione nazionale costruttori edili (ANCE)10 documenta questo fenomeno con grande chiarezza. Il dossier analizza un campione di 196 opere pubbliche di importo superiore ai 10 milioni di euro in tutto il paese. Il quadro è quello di un’Italia quasi incapace di realizzare nuovi interventi. La sola progettazione delle opere dura in media 1.591 giorni per le opere di importo inferiore ai 50 milioni e 2.137 giorni, cioè sei anni, per le opere di importo superiore, con punte fino a 2.810 giorni per le opere ferroviarie. Poi vi sono, ancora, in media 125 giorni per pubblicare il bando di gara, 303 per le gare d’appalto e 101 fra l’aggiudicazione e la stipula del contratto. Solo a quel punto inizia la realizzazione dei lavori. La loro durata dipende naturalmente dal tipo di opera: ma è sempre superiore a quella prevista; per il campione di opere completate studiate dall’ANCE, il ritardo è pari al 43%11. Assai frequente è il ricorso a varianti; in questi casi il costo si incrementa di circa il 10%. Contrariamente all’opinione comune, non vi sono grandi differenze territoriali: i tempi di progettazione sono nel Mezzogiorno fra il 9% (opere sotto i 50 milioni) e il 18% (oltre i 50 milioni) più brevi che nella media nazionale. Simili sono le indicazioni che provengo10 Cfr. ANCE-Ecosfera, Secondo rapporto sulle infrastrutture in Italia, ANCE, Roma 2008. 11 Ritardi ancora più gravi si registrano per le opere in corso rispetto alle previsioni sull’andamento dei lavori.

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no da un’analisi realizzata nel 2007 dall’Unità di verifica degli investimenti pubblici (UVER) del DPS su 377 interventi prioritari finanziati negli accordi di programma quadro Stato-Regioni12. I tempi di realizzazione degli interventi sono molto più lunghi rispetto alle previsioni, con slittamenti compresi fra un anno e un anno e mezzo a seconda della tipologia delle opere; a giudizio dell’UVER, metà degli interventi ha una data prevista di fine lavori «non attendibile». Il messaggio è simile: tempi difficilmente preventivabili, comunque lunghissimi. Con una nota interessante: i problemi si riducono per gli interventi finanziati dopo il 2002 con i FAS rispetto a quelli finanziati in precedenza; c’è un lento, ma significativo, processo di apprendimento. Si è provato, nel 2004, ad accelerare il completamento di dodici grandi interventi infrastrutturali strategici nel Mezzogiorno (lotti della Salerno-Reggio Calabria, autostrada Palermo-Messina, statale jonica) destinando ad hoc anche una premialità finanziaria. Il monitoraggio di questi interventi a fine 2007 dava esiti sconfortanti, non essendosi determinata alcuna accelerazione: la spesa prevista nell’anno 2006 per le dodici opere era di 672 milioni di euro, quella effettiva solo di 21. «Si cita, a mero titolo esemplificativo, il progetto di adeguamento del megalotto 3 della Salerno-Reggio Calabria, per il quale l’ANAS ha impartito l’ordine di inizio attività il 21.2.05 stabilendo come data di ultimazione il 17.8.08. La redazione della progettazione esecutiva e la sua approvazione doveva intervenire entro 7 mesi dal citato ordine di servizio [...]. Durante la redazione del progetto sono tut12

UVER-DPS, Attività di verifica sugli interventi prioritari inseriti in Relazione finale, Roma, luglio 2007 (http://www.dps.mef.gov. it/documentazione/docs/uver/Relazione_APQ_2007.pdf). APQ.

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tavia insorte problematiche [...]. La progettazione esecutiva è stata infine approvata dal Consiglio di Amministrazione dell’ANAS con delibere del 8.3.07 e del 10.5.07, con [...] il riconoscimento di un maggior importo pari a 49,953 milioni di euro e la rideterminazione della durata dei lavori fissata in 1210 giorni»13. L’avvio dei lavori era previsto, finalmente, per settembre 2007; ma «Il Sole-24 Ore» dell’11 maggio 2008 informa che non è avvenuto e che è previsto a metà 2009, con conclusione, se saranno rispettati i tempi, a metà 2013. Complessivamente, dei lavori di ammodernamento della Salerno-Reggio Calabria ne è stato concluso poco più di un terzo: sono stati ultimati solo 166 dei complessivi 443 km. Si prevede a metà 2008 che i lavori, avviati nel 1998 e che si sarebbero dovuti concludere nel 2006, termineranno non prima del 2013 a patto che si riescano a reperire i 2,1 miliardi di euro di finanziamento ancora necessari14. Ma non è certo l’unico, anche se molto evidente, caso: il già citato dossier dell’ANCE menziona la Catania-Augusta, contratto siglato nel gennaio 1998 con apertura cantieri al febbraio 2005, dopo una progettazione durata 2.590 giorni. Il raddoppio dei 140 km di ferrovia fra Bari e Lecce è stato completato in ventisei anni. In trent’anni sono stati raddoppiati soltanto 14 dei 56 km della statale Bari-Matera15. Dal lato opposto del paese, per il progetto in project financing per la nuova autostrada Brescia-Ber13 UVER-DPS, 5a relazione di monitoraggio sullo stato di attuazione degli interventi finanziati a valere sulla manovra di accelerazione del Programma delle infrastrutture strategiche, Roma, settembre 2007 (http://www.dps.mef.gov.it/documentazione/docs/uver/Relazione_ semestrale_SET_07.pdf). 14 A. Arona, Salerno-Rc, mancano 2,1 miliardi, in «Il Sole-24 Ore», 11.5.2008. 15 M. Scagliarini, Bari-Matera, 30 anni non bastano, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 12.1.2008.

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gamo-Milano, presentato nel maggio 1999 (con un costo di 860 milioni di euro), l’apertura dei cantieri è prevista nell’aprile 2009 (con un costo di 1.580 milioni di euro)16. E che dire del raccordo fra l’autostrada MilanoTorino e l’aeroporto della Malpensa simbolicamente inaugurato il 30 marzo 2008, con dieci anni di ritardo, proprio il giorno in cui l’Alitalia ha drasticamente ridotto i suoi voli da quello scalo17 o del passante ferroviario di Milano, completato nel 2008 dopo ventisette anni dall’avvio dei lavori?18 Il confronto internazionale è impietoso: se per i 550 km della ferrovia Tokio-Osaka sono occorsi undici anni e sette mesi, e per i 417 della Parigi-Lione dodici anni e quattro mesi, per i 182 km dell’alta velocità Milano-Bologna si arriva a venticinque anni e due mesi19. Vi è un grande problema di qualità delle progettazioni: tanto tecnica, quanto economico-amministrativa. Secondo la Banca d’Italia, «un quadro normativo sovradimensionato e poco chiaro genera incertezza negli operatori, aumenta i costi di apprendimento e di adeguamento alle regole, favorisce la litigiosità»; insomma «un eccesso di produzione normativa e mutamenti troppo frequenti e disorganici delle regole». In Italia vigono poco meno di 22.000 leggi, contro circa 10.000 in Francia e poco più di 4.000 in Germania e «ogni anno fra il 1990 e il 2005 è stato modificato più del 10% agli 16 E. Se., Brebemi, la burocrazia contro tutti, in «Corriere della Sera», 19.3.2008 (http://www.corriere.it/cronache/08_marzo_19/test_ focus_brebemi_0a2fa234-f760-11dc-b233-0003ba99c667.shtml). 17 P.F., Alitalia lascia Malpensa, in «Il Sole-24 Ore», 31.3.2008. 18 M. Del Barba, Finito il passante, un cantiere lungo 27 anni, in «Il Sole-24 Ore», 15.7.2008. 19 E. Segantini, Autostrade e ferrovie, lavori sempre più lenti, in «Corriere della Sera», 19.3.2008.

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articoli dei 12 testi unici legislativi approvati nel periodo»; a questo si aggiunge un’ampia variabilità degli orientamenti giurisprudenziali, anche per l’elevatissimo numero di procedimenti che arriva in Cassazione20. Certamente non ha ancora ben funzionato il complesso sistema istituzionale, frutto della riforma costituzionale: in molti ambiti una condivisione programmatica e un raccordo operativo fra diversi livelli di governo sono indispensabili, tuttavia il quadro decisionale è ancora lontano da modalità di funzionamento rapide ed efficaci; contrasti e sovrapposizioni fra livelli di governo e sedi amministrative sono molto frequenti. Si prenda il caso dei rifiuti in Campania. Stando alla Commissione parlamentare di inchiesta, «uno dei maggiori problemi che investono ‘l’emergenza rifiuti’ in Campania è costituito dall’incertezza sulle competenze attribuite alle singole autorità di governo. Si è verificato, nei fatti, un vero e proprio ingorgo istituzionale che ha determinato una situazione di paralisi»21. L’inefficienza del sistema Italia si scontra con le regole comunitarie che governano i fondi strutturali. Progetti certi da realizzare nei sette anni di programmazione. All’interno di questi programmi, obiettivi di effettiva spesa annuale prefissati e due anni di tempo per erogare effettivamente una spesa decisa. Si tratta di un tempo che in un paese normale potrebbe essere adeguato. 20 Nel 2007 32.300 in Italia, 18.200 in Francia, 3.400 in Germania: Banca d’Italia, Relazione Annuale. Presentata all’Assemblea Ordinaria dei Partecipanti. Roma, 31 maggio 2008. Anno 2007, Banca d’Italia, Roma 2008 (http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/relann/rel07/ rel07it), pp. 110-11. 21 Senato della Repubblica, Camera dei Deputati, XV Legislatura, Commissione parlamentare di inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse, Relazione territoriale sulla Campania, approvata nella seduta del 13.6.2007, p. 13.

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Per esempio in Spagna si sono realizzate opere importanti. Ma in Italia si riesce evidentemente a fare poco. Le amministrazioni, centrali e regionali, riescono con grande difficoltà a prevedere i tempi di realizzazione degli interventi, che tendono a dilatarsi. In particolare nel Mezzogiorno, i tempi di realizzazione degli interventi previsti negli accordi di programma quadro sono stati rispettati solo in meno di un terzo dei casi. Questo segnala sia carenze nelle previsioni che inadeguata capacità realizzativa degli attuatori22. A fine 2007 risultavano così conclusi nel Mezzogiorno 132.815 progetti dei 245.304 cofinanziati dai fondi strutturali: una percentuale decisamente bassa, a un anno solo dalla fine del periodo di utilizzo dei fondi, il 54,1%. Nelle regioni del Centro-Nord ne erano stati conclusi 196.534 su 285.188 totali, pari al 68,9%. Una informazione simile si ha per i progetti cofinanziati dai fondi nazionali FAS e inseriti negli accordi di programma quadro Stato-Regioni: la percentuale di quelli conclusi a fine 2007 è del 24,6% contro il 46,2% nel Centro-Nord23. Se nella realizzazione fisica delle principali opere infrastrutturali non sembrano apparire grandi differenze fra Nord e Sud del paese, lo stesso non è dunque vero per l’insieme dei progetti. Qui i dati mostrano tempi di completamento maggiori nel Mezzogiorno: progetti gestiti sia da amministrazioni centrali che regionali e, ancora, da grandi enti di spesa. Anche gli scostamenti tra previsioni di spesa e risultati raggiunti con progetti inseriti negli accordi di programma quadro sono maggiori nel Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord a 22 Ministero dello Sviluppo economico, Rapporto annuale del DPS 2007, cit., p. 238. 23 Ivi, dati calcolati a partire dalle tavv. IV.5, IV.6, IV.11 e IV.12, pp. 190, 191, 232, 234.

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indicare una peggiore capacità di funzionamento delle amministrazioni24. Evidentemente si somma, a problemi di progettazione e realizzazione delle opere che appaiono comuni in tutto il paese, una capacità amministrativa inferiore delle Regioni del Sud, sotto il cruciale profilo dei tempi di realizzazione degli interventi. Questa è una informazione rilevante e negativa. Con tempi di realizzazione così lenti, le politiche di sviluppo non riescono a essere efficaci. Il dato relativo al completamento degli interventi è forse ancora più importante rispetto a quello sulla erogazione finanziaria. Questo è grave in sé. È grave per la percezione che ne hanno i cittadini, che non vedono effetti tangibili, concreti, nelle proprie vite, delle politiche di sviluppo. Può indurre valutazioni imprecise, o addirittura sbagliate, sulle politiche che si stanno facendo: dato che non ci sono effetti, si pensa che si stanno facendo le politiche sbagliate; i dati disponibili tendono invece a suggerire che si stanno facendo le politiche giuste, ma in tempi inaccettabilmente lunghi. Per quanto più intensi al Sud, tutti questi problemi sono comuni all’intero paese. Ascriverli solo allo specifico meridionale non corrisponde alla realtà; non aiuta a comprendere. Chiamare «Mezzogiorno» i più gravi problemi del paese non aiuta a risolverli. I risultati Ma alla fine si riesce a realizzare qualcosa? E quanto si realizza è effettivamente utile? Come sempre c’è chi ha una valutazione precisa: i progetti «in termini di sviluppo sono risultati in pratica insignificanti (e molto ‘significanti’, invece, per la fiorente industria dell’interme24

Ivi, p. 255.

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diazione clientelare, pubblica e privata)»25. Nel 1999 si decise come prima mossa di avvio della nuova fase delle politiche di sviluppo il completamento di una serie di opere iniziate in passato e mai portate a termine: grandi e piccole, al Sud (prevalentemente) e al Nord. Con un lavoro meritorio di controllo, l’UVER ha successivamente monitorato con visite in loco non solo il formale completamento delle opere, ma anche e soprattutto la loro capacità di generare quei servizi per cui erano state finanziate26. Anche questo documento conferma grandi ritardi dei tempi di realizzazione. Tuttavia questa verifica fornisce un’informazione più positiva sul risultato finale: dei 261 interventi controllati, 215 erano effettivamente funzionanti, e con una qualità operativa giudicata più che sufficiente27. Nella grande maggioranza dei casi, dunque, dopo una attenta verifica in loco l’UVER risponde: «valeva la pena spendere i nostri soldi per realizzare quell’opera»; abbiamo le nuove facoltà di Scienze ed Economia dell’Università Federico II di Napoli, il rinnovo della ferrovia Martina Franca-Lecce, il tratto Caricamento-Sarzano del metrò di Genova.

25 G. Gentili, L’emergenza Sud oscurata, in «Il Sole-24 Ore», 28.3.2008 (http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Economia %20e%20Lavoro/2008/03/sud-emergenza-scandali.shtml?uuid= 13403472-fc9e-11dc-a602-00000e251029). 26 UVER-DPS, La valutazione d’efficacia: secondo rapporto UVER, febbraio 2007 (http://www.dps.mef.gov.it/documentazione/docs/ uver/ secondo_rapp_uver.pdf) e informazioni più aggiornate fornite all’autore direttamente dall’UVER. La Corte dei Conti ha sottolineato come questo rapporto, per la prima volta, introduca il concetto di «qualità della spesa» intesa come bilancio consuntivo di quanto effettivamente realizzato e anche in termini di benefici alla cittadinanza (Comunicato stampa, 31/2008 del 16.7.2008, http://www.corteconti. it/Cittadini/Comunicati/COMUNICATO-STAMPAReti-idriche.doc _cvt.htm). 27 Gli altri: 16 funzionanti, ma con un’insufficiente qualità; 23 ancora non in esercizio; 7 definitivamente revocati.

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Questo vale per tutti gli interventi finanziati? Che cosa si è effettivamente realizzato? Una prima valutazione è possibile riguardo ai progetti finanziati con i fondi strutturali per il periodo 2000-2006. Si è realizzato complessivamente molto, rispetto a quanto possibile con le risorse effettivamente disponibili e spese. Ma in molti casi si sono raggiunte solo una parte delle condizioni che rendono una politica di investimenti pubblici davvero efficace. Solo in una parte dei progetti si è già arrivati alla produzione di nuovi beni e servizi collettivi per i cittadini e le imprese. Come si proverà a mostrare, non vi è evidenza che siano stati realizzati progetti sbagliati; ma non vi è ancora evidenza che questi interventi abbiano prodotto un significativo mutamento delle condizioni in cui vivono i cittadini e operano le imprese nel Sud. Troppi progetti sono ancora in corso, troppi progetti richiedono ancora tempo per «entrare in funzione». Una quota rilevante di risorse finanziarie – circa 6 miliardi di euro – ha sostenuto progetti per rafforzare alcune dotazioni infrastrutturali di base del territorio meridionale, ancora decisamente più carenti rispetto al resto del paese: messa in sicurezza di siti dal rischio idrogeologico (con 1.619 progetti ammessi a finanziamento), ripristino di foreste danneggiate da incendi (483), realizzazione di fognature (782), interventi di depurazione (268), opere di captazione, adduzione, distribuzione di acqua potabile (570), reti idriche per l’agricoltura (246), bonifiche (427), realizzazione di impianti di raccolta, stoccaggio e smaltimento rifiuti (137), interventi per potenziare la raccolta differenziata (923)28. 28 Ministero dello Sviluppo economico-DPS, XII Riunione del Comitato di Sorveglianza, cit.

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Come giudicarli? Proviamo a toccare alcune questioni, che in misura rilevante riguardano anche altri ambiti di intervento. Si è trattato di interventi decisivi per lo sviluppo del Mezzogiorno? Con tutta probabilità, no; si tratta in molti casi di interventi che avrebbero potuto e dovuto essere finanziati da risorse ordinarie, e rientrare nell’ordinaria attività di difesa del suolo, gestione delle risorse idriche e dei rifiuti; solo alcuni (come la promozione della raccolta differenziata e la realizzazione di impianti ad hoc) rappresentano un rilevante cambiamento, una modifica strutturale, nella situazione del Sud. Si è trattato allora di interventi sbagliati, di risorse sprecate? Certamente no. Tutti questi progetti hanno incontrato e soddisfatto specifiche esigenze di potenziamento delle infrastrutture di base al Sud: dall’Acquedotto del Menta in Calabria all’interconnessione dei sistemi idrici Tirso e Flumendosa-Campidano in Sardegna. Senza i fondi strutturali, il quadro sarebbe decisamente peggiore: sono stati ammodernati e potenziati oltre 3.000 km di acquedotti e 1.500 km di reti fognarie. Se i fondi europei non fossero stati in grande misura sostitutivi di fondi nazionali, i risultati per gli utenti finali sarebbero stati migliori? Con ogni probabilità, sì: maggiori investimenti in impianti e processi per la raccolta differenziata avrebbero consentito di estenderne ancora di più la copertura. Hanno ottenuto qualche risultato per gli utenti finali? Sì, ma non in misura straordinaria. La percentuale di famiglie del Sud che non ha problemi nell’erogazione domestica dell’acqua è passata dall’80,4% del 2000 all’88,2 del 2007. La quota della popolazione servita da impianti di depurazione di acque reflue è passata dal 48 al 62%, un valore superiore alla media nazionale. La quota dei rifiuti differenziati sul totale della raccolta è passata da un misero 2,4% del 147

2000 a un livello del 10,2% nel 200629. Ecco una tipica, non semplice valutazione: considerare il livello del 2006 della raccolta differenziata al Sud ancora bassissimo, insoddisfacente, paragonandolo a quello del resto del paese; considerarlo in parte soddisfacente, paragonandolo al punto di partenza del Mezzogiorno. Una corretta valutazione è probabilmente intermedia: si è fatto molto, ma i risultati sono ancora molto parziali. Ragionamenti in parte simili riguardano altri importanti ambiti di intervento. Sono stati destinati circa 3 miliardi al ripristino o al miglioramento di risorse ambientali e culturali per favorirne la fruizione da parte dei cittadini e incrementarne il ruolo come attrattori turistici. Si è proceduto al ripristino, recupero e conservazione di beni naturali (487 progetti), al restauro e recupero di molti beni culturali (1.866), alla ristrutturazione di musei (265), al recupero funzionale e all’allestimento di spazi per spettacoli e contenitori culturali (371), insieme a interventi di formazione e sostegno alle imprese negli stessi ambiti30. Con che esiti? In questi casi si pongono altre questioni di rilevanza generale. La prima è quella della numerosità, e quindi della dimensione unitaria relativamente contenuta, dei progetti. Da un lato questo risponde alla giusta esigenza di realizzare questi interventi in modo diffuso nel Sud, per migliorare la qualità della vita di tutti i suoi cittadini e per promuovere l’attrattività turistica di gran parte del suo territorio, cosa del tutto possibile e auspicabile. Ma allo stesso tempo sembrano mancare progetti di taglia 29 ISTAT, Statistiche per le politiche di sviluppo, Indicatori di contesto chiave e variabili di rottura, tavv. I.01, I.03quater, I.05. 30 Ministero dello Sviluppo economico-DPS, XII Riunione del Comitato di Sorveglianza, cit.

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maggiore (con l’eccezione del Madre a Napoli e del Marta a Taranto), in grado di fornire servizi culturali o museali di standard più elevato, di svolgere un ruolo di grandi attrattori culturali e turistici, di assumere un significato simbolico, agli occhi di residenti e non residenti di grandi processi di cambiamento. Si sono sprecati i soldi dei contribuenti europei nel favorire la conservazione e il ripristino di beni ambientali e architettonici nel Mezzogiorno? Certamente no. Si è tutelato e ripristinato un patrimonio di valore ambientale, storico, architettonico, e se ne sono poste le basi per la fruizione. Si è prodotto un forte miglioramento delle condizioni economiche del Sud, e di quelle dei suoi cittadini con questi interventi? Con tutta probabilità, ancora poco. Molti interventi fisici sono stati completati, mediamente in tempi lunghi; ora quei beni fisici devono produrre, attraverso una loro gestione attenta, nuovi servizi. Restaurare un castello in Calabria non è affatto sprecare risorse pubbliche; è uno dei non molti interventi che possono essere immaginati per promuovere, con il turismo, una maggiore sostenibilità economica di alcune sue comunità. Ma se quel castello, una volta restaurato, non viene affidato in gestione, aperto al pubblico, visitato, e non viene costantemente manutenuto, allora il rischio dello spreco di risorse pubbliche è evidente. Nella gran parte di questi interventi si è ancora a mezza via: si sono poste le basi, ma i risultati finali non sono né raggiunti né garantiti. Una relativa frammentazione degli interventi si ritrova anche all’interno del grande programma nazionale sulla ricerca, gestito dal ministero per l’Università e la ricerca. Ciononostante si sono avviati interessanti interventi, a partire dai distretti tecnologici dell’ingegneria dei materiali polimerici e compositi in Campania e del149

la biomedicina e delle tecnologie per la salute in Sardegna. E considerazioni simili valgono anche per le grandi infrastrutture di trasporto, in cui le capacità progettuali e attuative dei grandi enti ANAS e RFI (Rete ferroviaria italiana) avrebbero dovuto garantire rilevanti risultati31. Ma sono arrivati anche in questo ambito risultati per i cittadini. Per il sistema ferroviario di Napoli dal 2000 sono stati assegnati 4 miliardi, per metà regionali. Quasi 2 sono stati già spesi, e sono stati aperti al pubblico 23 km di binari e 16 nuove stazioni. Fra il 2003 e 2006 l’offerta di servizi regionali di trasporto ferroviario in Campania è cresciuta di quasi il 15%, avvicinandosi notevolmente a quella dell’Emilia. Con il completamento dei lavori in corso, Napoli potrà contare su 118 km di rete e 84 stazioni, superando la dotazione metropolitana per abitante di Londra e Parigi; il 60% dei napoletani abiterà a non più di 500 metri da una stazione32. La Regione Sardegna, abbandonata da sempre dalle Ferrovie dello Stato e dotata di un servizio di trasporto ferroviario da terzo mondo, ha lanciato un progetto particolarmente innovativo, basato sull’acquisto con fondi regionali di treni prodotti in Spagna (Talgo) in grado, con limitati interventi sull’infrastruttura esistente, e ovviando alla carenza strategica e finanziaria di istituzioni nazionali, di dimezzare i tempi di percorrenza nell’isola33. In Sardegna e in Puglia sono state mes31 Ministero dello Sviluppo economico, Rapporto annuale del DPS 2007, cit., p. 217. Le decisioni programmatorie nazionali hanno tra l’altro orientato ben il 57% delle complessive risorse (FAS e fondi strutturali) disponibili per trasporti e viabilità sulle strade, con una scelta decisamente discutibile. 32 B. Giugliano, Tempi più lunghi per la metro, in «Il Sole-24 Ore Sud», 19.3.2008. 33 F. Locatelli, Supertreno spagnolo: in due ore da Cagliari a Sassa-

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se in atto politiche di attrazione di voli low-cost, per aumentare le presenze straniere e destagionalizzare il turismo. Non si tratta di interventi semplici, tanto per la difficile congiuntura del trasporto aereo, quanto per le stringenti regole comunitarie a tutela della concorrenza34. I risultati sono incoraggianti: crescono i voli, aumentano le presenze. L’indice del traffico aereo costruito dall’ISTAT cresce nel 2000-2005 del 33% nel Mezzogiorno e del 18% nel resto del paese35. Il traffico merci nei porti del Mezzogiorno cresce del 37% nel 2000-2005 (24% nel Centro-Nord), specie in Sicilia e in Puglia. Rappresenta oltre la metà del traffico container italiano, che continua a svilupparsi, pur a velocità molto alterne. Gioia Tauro resta di gran lunga il principale scalo italiano; Taranto e Cagliari crescono moltissimo negli ultimi anni. Circa il 70% delle imprese meridionali (una quota di poco inferiore alla media nazionale) dispone ormai della banda larga, a fronte di una percentuale inferiore al 10% all’inizio del decennio; al 2005 dispone di accessi a banda larga il 35% delle amministrazioni comunali del Mezzogiorno: una quota di quattro punti superiore a quella del Centro-Nord. In Basilicata, dove sono state destinate particolari risorse ai servizi, il 92% dei Cori, in «Il Sole-24 Ore», 26.6.2008 (http://www.ilsole24ore.com/art/ SoleOnLine4/Economia%20e%20Lavoro/2008/06/sardegna-supertreno-spagnolo.shtml?uuid=f6d11356-434c-11dd-b707-be1e34ae86e 4&type=Libero). 34 La Puglia è stata la prima regione in Europa a varare un bando pubblico per il finanziamento dell’avvio di nuovi collegamenti. 35 ISTAT, Statistiche per le politiche di sviluppo, Indicatori di contesto chiave e variabili di rottura, tav. III-11. Particolarmente significativi i dati di Alghero dove, fra il 2000 e il 2006, crescono molto gli arrivi fuori del tradizionale periodo estivo (Ministero dello Sviluppo economico, Rapporto annuale del DPS 2007, cit., p. 74).

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muni è ormai informatizzato, una quota di dieci punti superiore alla media nazionale36. Molte risorse sono state opportunamente destinate al potenziamento qualitativo delle risorse umane. Interventi per politiche attive del lavoro (attività formative, orientamento, interventi per il reinserimento lavorativo, rafforzamento dei servizi pubblici per l’impiego), per l’inclusione sociale, per l’istruzione. Quest’ultimo caso è di un certo interesse: pur con una dotazione finanziaria relativamente modesta (1 miliardo), sono stati ottenuti importanti risultati intermedi. Sono stati realizzati 4.600 nuovi laboratori nelle scuole. Sono state concesse 13.500 borse di studio a laureandi in materie scientifiche e tecnologiche: i laureati in queste discipline sono passati, fra 2000 e 2006, dal 3,7 all’8,2% dei giovani fra i venti e i trent’anni. Si è portato il rapporto fra personal computer disponibili nelle scuole e studenti da 33 studenti per PC nel 2001 a 10 studenti per PC nel 2006 (un valore migliore della media nazionale); questo ha consentito a 70.000 ragazzi di acquisire una certificazione di livello europeo delle proprie competenze informatiche37. Se nell’anno scolastico 2000/2001 era iscritto al primo anno delle superiori l’86% dei giovani meridionali (contro circa il 90% nel Centro-Nord), nell’anno scolastico 2006/2007 la percentuale ha raggiunto il 93%, risultando superiore a quella del resto del paese (92%)38. Si tratta di risultati intermedi, la dispersione scolastica (mancato completamento degli studi, specie per l’abbandono 36 ISTAT, Statistiche per le politiche di sviluppo, Indicatori di contesto chiave e variabili di rottura, tav. VI-12. 37 Ministero dello Sviluppo economico-DPS, XII Riunione del Comitato di Sorveglianza, cit. 38 ISTAT, Statistiche per le politiche di sviluppo, Indicatori di contesto chiave e variabili di rottura, tav. III-11.

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subito dopo l’inizio delle superiori) è al Sud ancora molto alta39. Va verificato che questi interventi abbiano determinato effettivamente una migliore qualità dell’istruzione ricevuta dai ragazzi; poi, per avere effetti economici, bisogna attendere che questi ragazzi con il tempo entrino nel mercato del lavoro. Si può provare a leggere l’impatto complessivo di questo sforzo di investimento pubblico nel Mezzogiorno da dati aggregati, di sintesi. Nell’insieme, gli indicatori Unioncamere-Tagliacarne mostrano che il livello complessivo di infrastrutturazione nel Mezzogiorno, fra il 2000 e il 2007, resta del 20% inferiore alla media nazionale. Qualche recupero si nota però nelle aree, ricordate in precedenza, nelle quali gli investimenti pubblici sono stati di maggiore quantità e qualità; è il caso delle strutture per l’istruzione, in cui il gap del Sud scende, nei sette anni, da –7 a –1% rispetto alla media nazionale. Il gap rimane invece immutato per le infrastrutture strettamente economiche (energia, ambiente)40, mentre la valutazione per le infrastrutture di trasporto resta controversa41. Se si considerano i principali indicatori elaborati dall’ISTAT per misurare gli effetti delle politiche territoriali si scopre tuttavia che, nel decennio 1996-2006, per il 60% degli indicatori la situazione al Sud migliora più che nel resto del paese: lo scar39 P. Montanaro, I divari territoriali nella preparazione degli studenti italiani: evidenze dalle indagini nazionali internazionali, in «Questioni di Economia e Finanza (Occasional Papers)», 14, giugno 2008. 40 Unioncamere, Rapporto Unioncamere 2008, Retecamere, Roma 2008, pp. 69-70. 41 Mentre Unioncamere indica un miglioramento in quelle ferroviarie, una valutazione della Banca d’Italia mostra un persistente divario: G. Messina, Un nuovo metodo per misurare la dotazione territoriale di infrastrutture di trasporto, in «Temi di discussione», 624, aprile 2007.

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to favorevole al Sud è particolarmente sensibile per le risorse naturali e culturali, per le città, per le reti; non è così per la situazione delle imprese, per gli indicatori più direttamente collegati a variabili economiche. Per il 20% degli indicatori la situazione è, in assoluto, migliore nel Sud che nel resto del paese42. Mentre le evidenze disponibili, positive e negative, sui risultati raggiunti meriterebbero una discussione attenta e precisa, si è andata diffondendo in molti ambiti, anche a seguito di precise dichiarazioni di responsabili di associazioni di rappresentanza43, una valutazione secondo la quale i fondi strutturali non solo sarebbero stati tutti sprecati in progetti di nessuna utilità, ma avrebbero anche contribuito a finanziare la criminalità organizzata. Tale valutazione non ha alcun fondamento documentale. I dati dell’Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF) per il 200744 mostrano che le irregolarità registrate in Italia (una parte delle quali potrebbe essere dovuta a frodi) riguardano circa il 3% della spesa dei 42 L. Cannari, M. Magnani, G. Pellegrini, Quali politiche nazionali per il Sud?, mimeo, Banca d’Italia, Roma 2008. 43 «Come imprenditori non vogliamo più sentire parlare di fondi strutturali. Il gap infrastrutturale tra il Sud e il resto del paese è rimasto intatto e le risorse sono state in gran parte intercettate dalla criminalità organizzata» (A. Moltrasio, vicepresidente Confindustria, in G. Sarcina, Frodi e sprechi: i piani per rifare il bilancio Ue, in «CorrierEconomia», 23.6.2008, http://archiviostorico.corriere.it/2008/ giugno/23/Frodi_sprechi_piani_per_rifare_ce_0_080623035.shtml); «nel Mezzogiorno si sono buttati miliardi che hanno solo alimentato la delinquenza anziché sostenere le aziende sane» (E. Marcegaglia, presidente Confindustria, in C. Pasqualetto, No ai contratti territoriali, in «Il Sole-24 Ore», 25.5.2008). 44 Commissione Europea, Protection of Communities’ Financial Interests. Fight against Fraud. Annual Report 2007, SEC (2008) 2300, 22.7.2008 (http://ec.europa.eu/anti_fraud/reports/commission/2007/ en.pdf).

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fondi comunitari. Una cifra superiore alla media europea, ma inferiore a quella di Spagna, Olanda e Gran Bretagna, e influenzata dal fatto che per l’Italia il dato include tutte le indagini avviate mentre per altri paesi include solo le indagini concluse con l’individuazione di una effettiva irregolarità45. Una qualità delle amministrazioni ancora insufficiente La capacità di realizzare investimenti pubblici di qualità e soprattutto di metterli poi a frutto per produrre beni e servizi collettivi dipende in maniera cruciale dalla qualità delle amministrazioni chiamate a realizzarli e a gestirli. In quasi tutti i paesi europei, il governo delle politiche di sviluppo è organizzato su più livelli, con una forte collaborazione fra amministrazioni locali e centrali. Il decentramento di competenze e responsabilità è molto aumentato negli ultimi anni, tanto in paesi tradizionalmente decentrati come la Germania, quanto in paesi più centralizzati, Francia e Regno Unito. Gli esempi sono tanti: dalle agenzie regionali di sviluppo in Inghilterra alle politiche regionali per l’innovazione in Finlandia. Ogni paese è diverso: ma nella grande mag45 «Italy is the country that has reported the highest number of irregularities and related amounts. This does not necessarily mean that in Italy more frauds and irregularities occur than in other countries. The reason could be a higher number of controls»: Commissione Europea, Commission Staff Working Document, Annex to the 2006 Report from the Commission on the Protection of the European Communities’ Financial Interests and the Fight against Fraud Statistical Evaluation of Irregularities- Own Resources, Agriculture, Structural Measures, Pre-Accession Funds Year 2006, SEC (2007) 938, 6.7.2007 (http://ec.europa.eu/anti_fraud/reports/commission/2006/stat_en. pdf), p. 63.

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Tab. 4. Spesa pubblica in conto capitale per soggetto erogatore (media 19962006, in %)

Amministrazioni centrali Amministrazioni regionali Amministrazioni locali Imprese pubbliche nazionali Imprese pubbliche locali

Sud

Centro-Nord

32 20 26 16 6

18 15 31 24 12

Fonte: Ministero dello Sviluppo economico, Rapporto annuale del DPS 2007, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2008 (http://www.dps.mef.gov.it/documentazione/docs/rapp_ annuale_2007/Rapporto/Rapp_DPS_2007_ridotto.pdf), p. 120, fig. III.5.

gioranza le autorità regionali e locali svolgono un ruolo importante, crescente. In Italia, circa metà della spesa in conto capitale nel Mezzogiorno è di responsabilità di istituzioni centrali, circa metà di istituzioni locali, con differenze rispetto al Centro-Nord, tanto rispetto al peso del livello centrale quanto rispetto ai soggetti chiamati ad operare (tab. 4). Per completare l’analisi delle politiche nel Mezzogiorno è dunque importante occuparsi delle amministrazioni pubbliche, centrali e periferiche. I dati disponibili consentono di dire che negli ultimi anni l’azione delle amministrazioni centrali nel Mezzogiorno non è stata particolarmente brillante. Spicca il caso negativo, più volte richiamato, del programma sui trasporti. Si è detto anche degli interventi di incentivo, gestiti da quello che è ora il ministero per lo Sviluppo economico. Anche le azioni del ministero per l’Università e la ricerca e del ministero dell’Interno, titolari entrambi di cospicui programmi operativi, non si sono certo distinte né per particolare rapidità né per capacità di concentrazione degli interventi. Migliore, da diversi 156

punti di vista, la gestione dei programmi relativi all’istruzione. Anche dei tempi di progettazione e di attuazione degli interventi da parte di ANAS e Ferrovie si è già ampiamente detto. Colpisce, per questi enti, la tempistica di molte realizzazioni: l’ammodernamento della Salerno-Reggio Calabria non dipende dalla capacità dei calabresi o ancor meno della Regione Calabria. Dipende dall’ANAS: dalla qualità delle sue progettazioni, dalla capacità delle sue strutture amministrative di redigere e appaltare bandi di gara, di controllare qualità e tempistica delle realizzazioni da parte degli appaltatori. Colpisce la carenza della loro capacità progettuale nel Mezzogiorno: l’ammodernamento del collegamento ferroviario fra Bari e Napoli, che potrebbe rappresentare una di quelle «grandi opere» utili al Mezzogiorno anche in collegamento con l’alta velocità tirrenica, non sembra disporre al 2008 neanche di una progettazione di massima; considerando anche le non piccole (ma superabili in tutto il mondo) difficoltà operative e i tempi delle realizzazioni ferroviarie in Italia, non stupisce che esperti di sistemi di trasporto ritengano necessari una ventina di anni per il suo effettivo completamento. Anche in questi casi, si possono liquidare questi problemi ascrivendoli a uno specifico meridionale. Non è così. Sono problemi italiani: di attori fondamentali per ogni ipotesi possibile di rilancio del paese. È stato molto rilevante, in queste politiche, il ruolo delle amministrazioni del Mezzogiorno, in particolare delle Regioni. Vi sono state evidenti criticità nella loro azione. Nella programmazione delle risorse i governi regionali hanno mostrato una capacità ancora non soddisfacente nell’adattare le regole generali alle proprie specificità: i programmi regionali sono risultati relativamente simili, pur in presenza di differenze nel157

le situazioni locali e nelle possibili priorità di intervento46. Modesta è stata la capacità di individuare progetti di maggiore dimensione e di rilevanza prioritaria. Le dinamiche politiche, all’interno di entrambe le coalizioni, e coerentemente con il quadro nazionale, hanno fatto spesso sì che l’azione di governo si sia segmentata fra assessorati: attenti alle proprie competenze e alla propria azione settoriale; meno attenti alla necessità di coordinarsi per attuare progetti maggiormente integrati, ad esempio fra azioni infrastrutturali e attività di gestione. Va considerato che una quota rilevante delle risorse disponibili (molto maggiore che nel Centro-Nord) è stata sottoposta a regole di programmazione e di spesa più complesse e stringenti. Da un lato questo è stato positivo: le regole comunitarie hanno rappresentato un forte stimolo al miglioramento; dall’altro hanno creato inevitabilmente tensioni nell’operare e frequenti situazioni di emergenza; anche se resta il fatto che contrariamente a quanto avvenuto in passato non sono stati persi («disimpegnati») nel Mezzogiorno fondi comunitari. Un ambito nel quale i risultati negativi sono stati particolarmente evidenti è quello della collaborazione interregionale. Vi è stato un tentativo di creare un coordinamento dei presidenti delle Regioni del Mezzogiorno47 che però non ha prodotto alcun effetto. Le Regioni non sono riuscite a coordinare i propri progetti, né a mettere in atto significative modalità di confronto, di apprendimento reciproco, di diffusione di buone pratiche. L’attenzio-

46 Ministero dello Sviluppo economico, Rapporto annuale del DPS 2007, cit., tav. IV.8, p. 197. 47 G. Viesti, Per la Campania risorse e regole, in «Il Mattino», 5.7.2006.

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ne politica e amministrativa è stata principalmente rivolta all’interno dei confini regionali. Dalla politica nazionale non è arrivata d’altronde alcuna sollecitazione, stimolo, aiuto al coordinamento. Le possibili difficoltà delle amministrazioni meridionali erano ben chiare alla fine degli anni Novanta. Si era opportunamente deciso di sostenerne dal centro i processi di miglioramento. Un tentativo è stato legato ai fondi europei per il 2000-2006: venne stabilita una specifica premialità finanziaria nazionale (in aggiunta a un simile strumento a livello comunitario) per le Regioni in grado di raggiungere a data predefinita un set di risultati concordati all’inizio. Il meccanismo, per quanto molto sensibile politicamente, ha funzionato correttamente e ha mostrato ampie differenze: nel 2003 la Basilicata ha ricevuto un premio finanziario aggiuntivo del 35%, mentre Calabria e Sardegna hanno ottenuto soltanto il 40% della dotazione finanziaria «di premio»48. D’altra parte che il quadro fra le regioni sia diversificato lo si vede da molti indicatori di risultato: ad esempio, la percentuale di raccolta differenziata raggiunge nel 2006 il 19,8% in Sardegna (quasi la media nazionale del 25,8%; e toccherà quasi il 40% a fine 2008), mentre resta al 6,6% in Sicilia. Passi avanti molto significativi sono stati fatti nel Mezzogiorno per quanto riguarda la definizione degli strumenti di pianificazione generale e settoriale, che erano in fortissimo ritardo. Strumenti molto importan48 Ministero dell’Economia e delle Finanze, Proposta di attribuzione della riserva di premialità nazionale del 6%, Roma, 10.3.2003 (http://db.formez.it/storicofontinor.nsf/531d28b4c444a3e38025670 e00526f23/0BE15FF352ED3BC0C1256D09003E44F5/$file/Proposta_attribuzione_premialita_nazionale.pdf).

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ti per coordinare e finalizzare gli interventi: piani di tutela delle acque, di assetto idrogeologico, dei rifiuti, delle bonifiche; piani regionali paesaggistici, dell’energia, dei trasporti. In tutti questi casi il quadro è di un netto miglioramento49. Vi è nel paese una certa insofferenza verso i processi di pianificazione, visti come atti burocratici, formali, limitativi della libera azione dei privati. Il Mezzogiorno ha sofferto per decenni del contrario, della mancanza di documenti espliciti e vincolanti, che dessero ai cittadini e alle imprese un quadro più attendibile di riferimento e che rendessero più difficile prendere decisioni politiche frammentarie, estemporanee. Ha sofferto della mancanza di regole per l’edilizia, come per gli usi del suolo e delle acque, che impedissero o almeno limitassero comportamenti predatori, e dei ripetuti condoni edilizi. Parte rilevante del benessere raggiunto dal Trentino o dalla Toscana deriva da regole antiche, condivise, rispettate, che hanno indirizzato e influenzato i comportamenti dei singoli. Certo pianificare non produce alcun effetto concreto, non cambia la vita dei cittadini; per produrre effetti sono necessarie ulteriori azioni. Si prenda il caso delle aree protette. Nelle regioni del Sud ne sono state istituite 221: decisioni di grande rilievo politico, finalmente volte a tutelare e valorizzare, anche a fini economici, le grandi risorse naturali del Mezzogiorno. Il 23% della superficie del Mezzogiorno è oggi protetto50, una percentuale significativamente maggiore rispetto al resto del paese. Tutta49 Ministero dello Sviluppo economico, Rapporto annuale del DPS 2007, cit., pp. 267-69. 50 Dati 2006: ISTAT, 100 statistiche per il paese. L’incidenza del settore pubblico, anni 2005-2007, http://www.istat.it/dati/catalogo/20080507_ 01/testointegrale20080507.pdf. Al Centro-Nord è il 16,7%.

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via, al 2006, solo per cinque di esse si disponeva di piani di attuazione, con precisi indirizzi e criteri51. Questa stagione di pianificazione al Sud è ancora assai povera di risultati concreti, conseguenti; ha creato una condizione necessaria, anche se niente affatto sufficiente, per favorire i processi di sviluppo. Proprio la tragedia dei rifiuti in Campania mostra che la mancanza di una attenta pianificazione e il ricorso a procedure straordinarie producono risultati assai negativi. Al Sud hanno mosso i primi passi modalità di organizzazione dei servizi pubblici basate su procedure competitive: in 12 su 24 città capoluogo (50%), l’affidamento del servizio della raccolta dei rifiuti è avvenuto tramite gara, contro 4 soli casi su 47 (8%) nel Centro-Nord, dove prevalgono affidamenti diretti o «in house»52. Un’evidenza simile si riscontra nei servizi idrici, dove sono state costituite le autorità di ambito e redatti i piani d’ambito prima che nel Centro-Nord (come diretto effetto delle scelte della programmazione dei fondi strutturali). Al contrario, nel settore del trasporto pubblico locale il grado di liberalizzazione in tutte le regioni del Mezzogiorno (e in Veneto) è assai inferiore che nelle altre: i viaggiatori trasportati nelle città del Sud sono diminuiti nel decennio 1996-2005 del 2%, a fronte di un incremento a scala nazionale dell’11%. È migliorata tuttavia la qualità del servizio (così come percepita dagli utenti) e soprattutto l’efficienza della gestione che, 51 I dati si riferiscono a sette regioni del Sud, escluso l’Abruzzo: cfr. Ministero dello Sviluppo economico-DPS, XII Riunione del Comitato di Sorveglianza, cit., p. 25. 52 Cfr. P. Chiades, R. Torrini, Il settore dei rifiuti urbani a dieci anni dal decreto Ronchi, mimeo, Banca d’Italia; lavoro presentato al convegno della Banca d’Italia I servizi pubblici locali: liberalizzazione, regolazione e sviluppo industriale, Roma 19.2.2008, p. 27.

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partendo da una situazione nel 1996 nettamente peggiore, ha raggiunto un rapporto fra ricavi del traffico e costi totali in linea con la media nazionale53. È però complessivamente cresciuto lo scarto nell’efficienza e nella capacità delle imprese pubbliche locali. Nelle regioni del Nord, le imprese pubbliche locali si sono notevolmente rafforzate negli ultimi anni, grazie anche a processi di aggregazione che hanno dato vita a importanti soggetti dalle attività diversificate (multiutility); lì le imprese pubbliche locali spendono molto di più (circa 60 euro per abitante contro 20 al Sud), con costi di personale assai più ridotti (circa il 15% della spesa contro il 30); lì entrambi questi indicatori sono notevolmente migliorati negli ultimi anni54. Quasi nulla di ciò è avvenuto nel Mezzogiorno. Sono mancati del tutto processi di fusione, di acquisizione dall’esterno (con l’ingresso di nuovi più efficienti operatori anche stranieri), di diversificazione. L’unica azienda di rilevante dimensione, oltre le municipalizzate di Napoli e Palermo, è l’Acquedotto pugliese: ma il valore della sua produzione è inferiore al 20% rispetto a quello di Iride (TO) e Hera (BO) per non parlare di AEM (MI)55. Nel settore idrico al Centro-Nord è notevolmente cresciuto il 53 C. Bentivogli, R. Cullino, D.M. Del Colle, Regolamentazione ed efficienza del trasporto pubblico locale: i divari regionali, in «Questioni di Economia e Finanza (Occasional Papers)», 20, 2008, il rapporto ricavi del traffico/costi totali è nel 1996 del 17% al Sud (27 in Italia), nel 2005 del 35% al Sud (36 in Italia). 54 Ministero dello Sviluppo economico, Rapporto annuale del DPS 2007, cit., pp. 137 e 156-59. 55 Cfr. M. Bianco, D. Mele, P. Sestito, Le grandi imprese italiane dei servizi pubblici locali: vincoli, opportunità e strategie di crescita, in «Questioni di Economia e Finanza (Occasional Papers)», 26, 2008 (http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/quest_ecofin_2/qef_ 26/QEF_26.pdf).

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ruolo di operatori specializzati e multiutility, dotati di una efficiente organizzazione industriale e in grado di offrire servizi di migliore qualità: nel 2006 le imprese pubbliche locali operanti nel ciclo integrato dell’acqua gestiscono oramai quasi il 60% della spesa per investimenti; questo valore è inferiore al 30% nel Sud 56. Nel settore dei rifiuti, mentre nel Mezzogiorno la spesa è effettuata principalmente dalle amministrazioni locali, nel Centro-Nord le aziende hanno un ruolo oramai prevalente, con un’efficienza ben maggiore; gestiscono assai più spesso il servizio di raccolta per più comuni, con significative economie57. Senza un’accelerazione dei processi di riorganizzazione di questi fondamentali comparti la qualità dei servizi pubblici locali rischia di restare nel Mezzogiorno molto inferiore al resto del paese, anche indipendentemente dalle risorse disponibili per gli investimenti pubblici. Nell’insieme la decisione di affidare alle Regioni e agli enti locali del Sud un ruolo molto importante nelle politiche di sviluppo è stata giusta. Si è inserita in un più generale processo di decentramento. Era inevitabile: i processi di sviluppo, per essere compiuti, richiedono che le comunità locali maturino progressivamente la capacità di scegliere e attuare, di governarsi e di amministrarsi. Difficile dirlo, ma con tutta probabilità se le responsabilità fossero state mantenute tutte a livello centrale i problemi incontrati non sarebbero stati molto minori: pensare che le strutture ministeriali siano nettamente più efficienti di quelle delle amministrazioni re56 Ministero dello Sviluppo economico, Rapporto annuale del DPS 2007, cit., p. 144. 57 Cfr. Chiades, Torrini, Il settore dei rifiuti urbani a dieci anni dal decreto Ronchi, cit., p. 56.

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gionali può rivelarsi un giudizio molto azzardato. Ci sono stati miglioramenti nelle capacità di governo nelle Regioni e nelle amministrazioni locali del Sud. Eppure, il giudizio complessivo non può essere positivo. Le Regioni del Sud non sono state e non sono ancora in grado di far fronte alle proprie notevolissime responsabilità. È in parte un problema di guida politica. È certamente un problema di capacità amministrativa. Le Regioni del Sud sono state almeno per i primi venti anni della propria esistenza – al contrario di quelle del Centro-Nord – espropriate dei più rilevanti poteri di programmazione e di intervento, all’epoca affidati a strutture straordinarie centrali. Meno delle altre hanno imparato la difficile arte del governo, limitandosi a lungo a erogare le risorse trasferite per la spesa sanitaria. Il loro personale – in misura maggiore che nel resto del paese – è stato reclutato in tempi lontani, spesso con criteri politici più che tecnici, raramente in base alle competenze e alle abilità personali: è stato, in larghissima parte, il personale cui sono state affidate nuove, importanti responsabilità. Indipendentemente dai criteri di selezione all’epoca adottati non mancano funzionari e dirigenti di grande capacità; sicuramente sono migliorate le routine organizzative: oggi gli assessorati regionali funzionano molto meglio che dieci anni fa. Ma tutto questo non è sufficiente; i tempi di cambiamento sono troppo lenti; le capacità migliorano troppo poco. Senza un profondo ricambio del personale e una incisiva riorganizzazione amministrativa, le Regioni del Sud non sono e non saranno in grado di svolgere un ruolo corrispondente tanto ai poteri di cui dispongono quanto alla gravità dei problemi dei propri territori, quanto, ancora, alla complessità delle politiche da mettere in atto. Da questa considerazione non deve scaturire nessu164

na nostalgia né per forme di governo più centralizzate né per interventi straordinari, commissariali, ma l’esigenza di mettere mano, in tempi rapidi e in profondità, a una loro forte riorganizzazione. Una valutazione d’insieme I risultati finali delle politiche di sviluppo del Mezzogiorno, in termini di crescita economica, sono stati largamente inferiori anche agli obiettivi minimi che ci si poneva alla fine degli anni Novanta, all’avvio del ciclo di programmazione dei fondi comunitari 2000-2006: circa nove punti percentuali in meno di aumento del PIL fra il 2000 e il 2005. Lo scarto fra gli obiettivi di crescita previsti e realizzati è notevolissimo. Ma non è maggiore di quello di altre previsioni. Il governo italiano nei suoi DPEF ha sistematicamente e ampiamente mancato tutti gli obiettivi di crescita degli anni dal 2001 al 2007: se si calcola la media delle previsioni (che si è potuto via via aggiornare al ribasso tenendo conto della congiuntura) e l’effettivo andamento per gli anni dal 2000 al 2005 lo scarto è di oltre 8 punti. A scala territoriale non si è fatto di meglio. Ad esempio, la Regione Lombardia, nel suo Documento di programmazione economico finanziaria regionale 2003-2005, prevedeva che «la crescita regionale dovrebbe quindi attestarsi nel medio termine, ovvero a partire dal 2004, stabilmente al di sopra del 3%»58. La crescita media della Lombardia nel 20042006 è stata dello 0,8% (uno scarto di oltre 6 punti in soli tre anni); il reddito pro capite è diminuito dello 0,3% all’anno. 58 Regione Lombardia, Documento di programmazione economico finanziaria regionale 2003-2005, All. A, p. 31.

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È possibile misurare le cause della differenza di crescita del Sud rispetto alle previsioni59. La minore crescita è spiegata, in parti circa uguali, da due fattori che sono già stati messi in luce. Il primo può essere definito «effetto-Italia»: il Sud è cresciuto molto meno di quanto ci si prefiggeva perché l’intera Italia è cresciuta pochissimo; perché il sistema economico nazionale si è trovato in grande difficoltà nel nuovo quadro internazionale. Non è possibile che la parte più debole del paese possa crescere a passo sostenuto quando l’intera economia nazionale stenta. Il secondo è «l’effetto-spesa». Come dettagliatamente messo in luce, l’effettiva spesa per lo sviluppo al Sud è stata largamente inferiore a quanto programmato alla fine degli anni Novanta, per poco meno di 10 miliardi di euro all’anno. Se l’Italia fosse stata quella che era possibile intravedere nel 1998-99, capace almeno di tenere il passo della crescita europea e coerente nel mettere in atto la dimensione delle politiche per il Sud ipotizzate in tutti i documenti programmatici, gli obiettivi minimi di crescita sarebbero stati raggiunti60. Colpa, dunque, solo della congiuntura internazionale e del comportamento del governo centrale? Tutti i numeri consentono di dire con precisione che queste cause esterne sono state decisive. Ma non spiegano tutto. 59 UVAL-DPS, Aggiornamento della valutazione intermedia del QCS Ob. 1 2000-2006, novembre 2006 (http://www.dps.tesoro.it/documentazione/qcs/valutazione_qcs_novembre_2006/Agg_val_QCSOB1_ Parte%20II_%20A.pdf). 60 Curiosamente, questo fatto è ignorato da una valutazione sui fondi strutturali 2000-2006, talmente critica ed evidentemente così poco attenta agli effettivi dati di spesa da sostenere che il PIL sarebbe cresciuto di più se le risorse fossero state distribuite a pioggia ai cittadini. Già, le risorse previste, non quelle effettive: R. Leonardi, F. Grillo, Fondi UE al Sud: chi li farà rendere?, in «Il Sole-24 Ore», 16.3.2008.

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I programmi disegnati per lo sviluppo del Mezzogiorno sono stati complessi e ambiziosi. Hanno cercato di intervenire contemporaneamente su tutte le cause del relativo sottosviluppo, di eliminare gli ostacoli strutturali al funzionamento dei mercati, alla nascita e allo sviluppo delle imprese. Imparando dall’esperienza hanno evitato l’errore di pensare che qualche grande fabbrica o qualche grande opera pubblica potesse avere l’effetto magico di provocare processi accelerati di sviluppo. Eppure, questa giusta impostazione ha provocato corrispondenti problemi. Con tanti obiettivi ci sono stati tanti interventi; con tanti interventi le modalità di attuazione diventano più complesse; i tempi di realizzazione si allungano; si può essere portati a concentrare l’attenzione sul controllo di complessi processi amministrativi ed esecutivi (e da questo punto di vista le regole europee non aiutano). Pur con tanti obiettivi finali sono mancati grandi progetti più immediati e concreti, che potessero essere direttamente ed effettivamente verificati dai cittadini e che potessero contribuire anche a creare fiducia nelle politiche: il completamento della Salerno-Reggio Calabria; nuovi collegamenti ferroviari o aerei fra le città del Sud; nuovi centri di ricerca, con l’assunzione di giovani qualificati. Ma chi aveva il compito di concentrare le risorse nei programmi sui trasporti e sulla ricerca e di produrre risultati concreti se non il governo centrale? Chi doveva completare ferrovie o autostrade se non FS e ANAS? Nell’incertezza delle politiche nazionali, con forti vincoli di conto economico, i vertici di queste società hanno spesso interpretato le politiche per lo sviluppo del Mezzogiorno più come una modalità per «fare cassa» e finanziare così le opere da essi ritenute prioritarie perché collocate nelle aree a maggiore domanda. Non si può na167

turalmente sfuggire al nodo delle Regioni e delle amministrazioni locali del Sud. Che la loro efficacia fosse modesta (specie delle prime) era ben noto al momento di scrivere i programmi. Per questo si è molto insistito con interventi diretti e forme di premialità per potenziarle: ma i risultati ottenuti sono stati molto parziali, del tutto insufficienti. In alcuni casi le regioni del Sud non ce l’hanno fatta, come per la politica dei rifiuti in Campania. In altri casi è andata meglio: si sono ottenuti i risultati, ancora parziali ma significativi, che sono stati documentati. Spesso con affanno. Le strutture amministrative delle regioni del Sud ancora non sono all’altezza di questi come di altri compiti che gli assetti più decentrati dello Stato affidano loro; sono migliorate, ma senza un profondo, ampio, permanente rinnovamento i problemi incontrati in questi anni potrebbero tendere a riproporsi. La guida politica delle Regioni del Sud ha risentito, naturalmente, delle dinamiche nazionali; il tratto che forse le ha più caratterizzate è stata la difficoltà di disegnare vere strategie integrate di sviluppo e, all’interno di queste, chiare priorità. Facile criticarle per questo; ma difficile è stabilire se e quanto in questo siano state davvero diverse dalle altre Regioni e dai governi nazionali, nella frammentazione della rappresentanza politica, e nella mancanza di riferimenti programmatici di ampio respiro nei partiti. Solo la straordinaria enfasi della programmazione di insieme sull’integrazione degli interventi ha potuto, in parte, opporsi a queste dinamiche. Figurarsi cosa sarebbe accaduto con una programmazione, come nel passato, più settorializzata. Anche gli enti locali hanno svolto un ruolo importante, e ambivalente. Da un lato, sono stati protagonisti positivi di molti interventi; anche provando, più delle Regioni, a lavorare in collaborazione. Dall’altro, anch’essi al168

le prese con bilanci sempre più magri, e con una capacità di investimento ordinario sempre più ridotta, hanno teso a intercettare il più possibile le risorse per lo sviluppo per finanziare i propri programmi ordinari di investimento. Il nodo maggiore, però, è stato lo scollamento fra le politiche di sviluppo, le politiche nazionali, la politica. Molto limitato è stato il coordinamento tra le politiche di sviluppo regionale e le politiche ordinarie. Coordinamento che è la chiave del successo spagnolo: le risorse per le politiche regionali lì sono servite a mettere in atto più intensamente nelle aree più deboli le stesse grandi politiche di sviluppo e di modernizzazione nazionali. Troppo spesso i progetti finanziati dai fondi strutturali non hanno rappresentato la sperimentazione o il primo avvio di iniziative destinate a diventare permanenti grazie all’azione delle politiche ordinarie nazionali, nel campo dei servizi sociali o dell’istruzione, della ricerca o delle politiche del lavoro. Sono rimaste spesso iniziative straordinarie, altro dalle politiche ordinarie, destinate a durare per il periodo di finanziamento e poi a interrompersi, disperdendo ciò che si era faticosamente imparato e realizzato. È mancato, costantemente, un centro politico nazionale di coordinamento e di raccordo tanto delle iniziative dei differenti ministeri quanto di quelle delle Regioni. Vi è stato un luogo di coordinamento tecnico, il DPS. Ma non vi è stato un luogo di impulso politico, non solo di monitoraggio dei risultati e di controllo dei progetti e delle attività, ma anche e soprattutto di forte iniziativa per l’individuazione di grandi obiettivi (frutto dell’integrazione di singoli progetti a scala nazionale e locale), per il controllo dei tempi di attuazione, per la comunicazione a tutti i cittadini di ciò che si andava fa169

cendo, per la creazione di una forte condivisione nazionale sul grande programma di sviluppo del Mezzogiorno e dell’intero paese. In passato l’attività della Cassa per il Mezzogiorno era seguita, nel bene e nel male, con grande attenzione dalla politica. I suoi progetti erano al centro dei programmi elettorali; le sue realizzazioni venivano richiamate nei bilanci di legislatura. I partiti, sul territorio, discutevano e si confrontavano sugli obiettivi e sulle realizzazioni. Questo non è mai avvenuto con le politiche di sviluppo degli ultimi dieci anni. La loro definizione è stata un atto politico di primissima importanza, dovuto a Carlo Azeglio Ciampi: dopo l’euro, il Mezzogiorno. Ma con la caduta del governo Prodi, e l’elezione di Ciampi al Quirinale, quel legame si è spezzato. E non si è più ricostituito61. Ambiguo è stato l’atteggiamento dei governi di centrosinistra nel 1998-2001: ne hanno sostenuto l’impianto, ma, contraddicendolo in parte, hanno puntato molto sugli incentivi. Nella lunga legislatura di centrodestra le politiche sono state preservate, ma collocate in un ambito decisamente marginale; sottoposte, come documentato, a violenti tagli. D’altronde sarebbe stato davvero difficile immaginare che un ministro come Giulio Tremonti, tutt’altro che simpatetico con le prospettive di sviluppo del Mezzogiorno, le guidasse con passione. Assai deludente il biennio 20062008: il centro delle politiche di sviluppo è stato improvvisamente spostato dal ministero dell’Economia a quello dello Sviluppo economico e staccato dal CIPE. Il ministro Pier Luigi Bersani vi ha dedicato un’attenzio61 F. Barca, Un Sud persistente: riflessioni su dieci anni di politica per il Mezzogiorno d’Italia, in Come studiare i Sud, a cura di M. Petrusewicz, in corso di pubblicazione.

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ne politica modesta, quasi egli stesso non credesse alle politiche che il suo ministero stava coordinando62. Al di là dell’azione di governo, il tema è stato marginale nel dibattito fra i partiti; nessun confronto di idee; nessuna valutazione di ciò che si andava facendo; nessuna contrapposizione di priorità. Temi e contenuti delle politiche di sviluppo del Sud sono stati totalmente al di fuori dei programmi elettorali del 2008: quasi che la politica non li conoscesse, non se ne interessasse. Quasi totale è stato il disinteresse per quel che si andava facendo da parte della stampa e della televisione. Forse anche per una capacità modesta di comunicare obiettivi e realizzazioni da parte di chi ne aveva responsabilità; certamente perché a lungo nulla che provenisse dal Mezzogiorno sembrava, nel giudizio dei responsabili editoriali, far notizia. Ha pesato il fatto che non esistono mezzi di informazione insediati nel Mezzogiorno che abbiano una voce rilevante nel dibattito nazionale. Questo atteggiamento è poi cambiato, in peggio, a partire dal 2006. Senza alcun elemento concreto di valutazione, si è rapidamente affermata una linea editoriale su tutti i principali giornali, secondo cui tutti gli interventi nel Mezzogiorno sono stati solo uno spreco di risorse pubbliche quando non un finanziamento alla criminalità organizzata. Difficile valutare quanto ciò dipenda da una scarsa capacità o curiosità professionale nell’indagare la realtà al di là dei luoghi comuni e quanto invece dipenda da linee editoriali esplicite, volte (anche nell’interes62 «Piuttosto che vederli sperperati li rimando indietro. Meglio non spenderli che impiegarli male», dichiarazione sorprendente da parte del ministro, in carica da quasi due anni, responsabile delle politiche che si stanno realizzando (A. Caporale, Bersani: ridiamo i soldi alla UE, in «la Repubblica», 16.1.2008).

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se dei gruppi di controllo) a convincere gli italiani dell’opportunità di impiegare diversamente le scarse risorse disponibili. Tutto il Sud è stato così omologato ai rifiuti di Napoli e alla Gomorra di Saviano. Le politiche hanno mancato i risultati anche, molto, per questi motivi. Coerentemente con le migliori teorie dello sviluppo economico puntavano con la propria azione a creare fiducia nel Sud; e a favorire così processi di investimento più intensi: delle imprese, esterne e locali; dei cittadini, nella propria formazione, nella raccolta differenziata dei rifiuti, nella tutela della legalità; delle amministrazioni, nella propria efficienza. Al contrario, a dieci anni dall’avvio di quelle politiche, il clima di fiducia nel Sud e sul Sud è ai minimi storici.

7.

IL NORD, IL SUD E LA POLITICA CHE NON C’È

Il Sud fa bene all’Italia Negli ultimi anni, dopo Carlo Azeglio Ciampi, fra i più alti dirigenti del paese solo l’attuale governatore della Banca d’Italia Mario Draghi ha espresso con chiarezza la convinzione che «molto più che in passato, dal decollo del Sud può derivare una crescita sostenuta e duratura della nostra economia. Occorre percepire questo nesso e porlo al centro dell’analisi e della politica economica»1. Nella Relazione Annuale della Banca d’Italia per il 2007 si afferma con ulteriore nettezza che: «un innalzamento duraturo del basso tasso di crescita del Paese non può prescindere dal superamento del sottoutilizzo delle risorse al Sud»2. La tesi che la crescita del 1 Draghi ha espresso le sue convinzioni (a Brescia, il 12 settembre 2007) in occasione della commemorazione di Riccardo Faini, un bravo economista prematuramente scomparso: uno dei pochissimi che senza modificare le proprie idee aveva accettato negli anni precedenti di confrontarsi intellettualmente sul Mezzogiorno e sulle politiche per il Mezzogiorno. Discutendo, criticando, ma continuando a usare, anche se si trattava del Mezzogiorno e a differenza di molti suoi colleghi, un approccio basato sui fatti e un linguaggio scientifico. 2 Banca d’Italia, Relazione Annuale. Presentata all’Assemblea Ordinaria dei Partecipanti. Roma, 31 maggio 2008. Anno 2007, Banca

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Mezzogiorno è necessaria all’intero paese ed è una componente essenziale di un suo progetto di rilancio, anche se divenuta minoritaria nell’opinione pubblica e nelle classi dirigenti nazionali, resta pienamente valida. Sotto più profili. Lo è innanzitutto sotto un profilo politico. Che è naturalmente rilevante solo per chi crede ancora nei principi costituzionali, forse non più così di moda nell’Italia contemporanea. Che significa essere cittadini italiani? Un grande paese avanzato come l’Italia quali diritti di cittadinanza garantisce? Garantisce, al Sud come al Nord, il diritto alla sicurezza, anche affrontando frontalmente, per debellarla definitivamente, la criminalità organizzata? Garantisce ai suoi cittadini un effettivo diritto-dovere all’istruzione in una scuola pubblica di qualità, l’accesso a un servizio sanitario pubblico efficace? Fa il possibile per assicurare il diritto al lavoro, le pari opportunità uomo-donna? Oggi solo in parte; spesso, in misura minore nel Mezzogiorno. Migliorare le condizioni di vita dei cittadini, rafforzare la coesione e l’inclusione sociale, assicurare a tutti gli italiani l’effettiva fruizione dei diritti costituzionali restano un grande obiettivo da raggiungere per l’intero paese. Vi sono motivi economici per cui la crescita del Sud è un bene per l’Italia, anche se sono in parte diversi da quelli del recente passato. Le convinzioni leghiste sono basate su un assunto mercantilista, che sembra trascurare il contributo della teoria economica da Adam Smith in poi: l’idea che il benessere cresce trattenendo all’interno delle proprie città, delle proprie regioni, la maggior parte possibile della ricchezza prodotta. Così come d’Italia, Roma 2008 (http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/ relann/rel07/rel07it), p. 115.

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Smith dimostrò che il benessere cresce attraverso l’allargamento del mercato e la divisione del lavoro, David Ricardo due secoli fa dimostrò che non è la chiusura ma l’integrazione fra le economie il motore della crescita3. L’Italia si è molto sviluppata nell’ultimo dopoguerra creando un grande mercato unico al suo interno: grazie alla diminuzione dei costi di trasporto e di comunicazione; a una maggiore uniformità degli stili di vita, di consumo; al venir meno di barriere e ostacoli locali. L’integrazione del mercato nazionale ha prodotto grandi benefici per le imprese, che crescendo hanno raggiunto maggiori economie di scala e sono state in grado di diversificare i propri prodotti riuscendo così a competere con successo sui mercati internazionali. E ha indotto benefici per i consumatori, che da queste dinamiche hanno ottenuto prezzi più bassi e maggiori possibilità di scelta. I trasferimenti impliciti fra regioni determinati dal bilancio pubblico e dalle regole costituzionali hanno accompagnato questo sviluppo: più reddito e maggiori consumi al Sud hanno sempre significato anche maggiore domanda, e maggiore produzione e occupazione al Nord. Questo meccanismo di crescita a somma positiva assume oggi caratteri diversi rispetto al passato. Le imprese del Centro-Nord sono assai più internazionalizzate, tanto sotto il profilo delle vendite quanto sotto il profilo della produzione. Il Sud è meno importante: il suo mercato è stato ormai conquistato, da ultimo nei settori bancario e della grande distribuzione. La sua convenienza come localizzazione di attività produttive deve 3 A. Smith, An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, Strahan and Cadell, London 1776; D. Ricardo, The Principles of Political Economy and Taxation, Murray, London 1817.

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far i conti con molte alternative disponibili. Al crescere dell’integrazione internazionale dell’economia italiana, per le imprese del Centro-Nord sono assai più importanti i mercati esteri, europei e soprattutto extraeuropei. Visti da Vicenza o da Torino, ma anche da Firenze o da Pesaro, i paesi nuovi membri dell’Unione Europea sono più vicini (spesso molto più facilmente raggiungibili) e più interessanti, per la loro crescita, delle regioni del Sud. Che il Sud cresca è assai meno cruciale. Invece, in un quadro di risorse pubbliche sempre più scarse, diventa più visibile il costo dei trasferimenti impliciti operati dal bilancio pubblico verso il Sud. Gli anni Sessanta sono lontanissimi. Ma il Nord è da tempo in condizioni vicine alla piena occupazione; per le dinamiche demografiche del passato nei prossimi decenni la sua nuova offerta di lavoro «indigena» sarà contenuta. Con la crescita economica il Nord si troverà in un permanente, strutturale deficit di forza lavoro. Dovrà importare sempre più lavoratori, come la Germania degli anni Sessanta, come avvenuto negli ultimi anni. In parte verranno dal Sud. Ma in parte molto rilevante verranno dall’estero. I costi di questo modello di sviluppo possono però essere sensibili, anche se oggi molto sottovalutati, in termini di congestione e affollamento e in termini di presenza nelle regioni del Nord di una comunità straniera sempre più ampia da integrare. In parte questo processo è fisiologico, inevitabile. Molti nuovi posti di lavoro si creeranno nei servizi alle persone, attività caratterizzate dalla necessità di compresenza fisica del fornitore e del fruitore del servizio (l’assistenza infermieristica agli anziani non si può fare a distanza) e da livelli retributivi contenuti: sempre più saranno appannaggio di lavoratori stranieri. Tuttavia una parte non piccola del Nord, 176

specie del Nord-Est, è ormai a livelli elevatissimi di congestione. Per la crescita dell’Italia ci sono due strade: continuare a indurre lì la localizzazione di nuove attività economiche, importando manodopera, o sfruttare assai più di quanto non avvenga ora l’ampio bacino occupazionale del Sud. Come nelle altre fasi della storia economica italiana, i vantaggi di questa seconda opzione possono essere rilevanti per l’intero paese. Ma questi vantaggi non sono ovvi, come lo è stato in passato l’interesse per un forte mercato di consumo in crescita, e, piuttosto che favorire la nascita di nuove attività economiche laddove ci sono i lavoratori inutilizzati, può essere assai più semplice continuare, come negli ultimi anni, a favorire lo spostamento dei lavoratori4. Il Sud rappresenta la più grande riserva di crescita dell’economia italiana. Al Sud ci sono risorse utilizzate solo in parte, a cominciare dal suo patrimonio di donne e uomini con buoni livelli di scolarità ma disoccupati o precari. Al Sud ci sono i giovani. L’indice di vecchiaia del Centro-Nord (162) trascina il valore italiano (142) a essere il maggiore fra tutti i paesi dell’Europa a 27; al Sud è nettamente inferiore (113)5. L’economia italiana può ancora crescere, e molto, aumentando il tasso di occupazione, soprattutto dei giovani e delle donne, co4 Un caso limitato ma interessante a riguardo è quello della localizzazione di nuove strutture pubbliche. Si tratti dell’Istituto italiano di tecnologia (Genova), dell’Agenzia per l’innovazione (Milano), dell’Agenzia europea per la sicurezza alimentare (Parma), è stato sempre ritenuto più opportuno concentrare che decentrare. La semplice attribuzione a Foggia della sede della assai più modesta Agenzia italiana per la sicurezza alimentare ha suscitato vibranti proteste. 5 Dati 2006; ISTAT, 100 statistiche per il paese. L’incidenza del settore pubblico, anni 2005-2007, http://www.istat.it/dati/catalogo/ 20080507_01/testointegrale20080507.pdf. L’indice misura il rapporto fra anziani (sopra i 64 anni) e giovani (sotto i 15 anni).

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me continua ad argomentare molto convincentemente Maurizio Ferrera6. Ma evidentemente non tutti possono spostarsi a lavorare nelle regioni del Nord. Anche perché se, per assurdo ma come sembrano seriamente proporre alcuni economisti, tutti i lavoratori del Sud emigrassero per lavorare, nelle loro regioni di origine resterebbero solo vecchi e bambini, senza possibilità di generare risorse fiscali sufficienti per garantire i servizi pubblici; non basterebbero, come nel Mezzogiorno agricolo di fine Ottocento, le rimesse degli emigrati. Si assisterebbe in tutto il Sud, come sta davvero avvenendo in alcuni comuni del Subappennino, alla progressiva scomparsa di ogni attività economica di mercato e poi dei servizi pubblici, e infine di interi insediamenti. Per sfruttarne il potenziale di crescita moltissimi giovani meridionali devono lavorare nel Sud. L’Italia può crescere mettendo a frutto la localizzazione del Sud così protesa nel Mediterraneo: è stata un ostacolo allo sviluppo, perché ha significato essere più lontani dall’Europa continentale; può diventare un atout, in termini di vicinanza ai mercati in crescita del bacino del Mediterraneo e, tramite le grandi rotte marittime intercontinentali, al Nord America e all’Asia. Se l’Italia vuole strappare quote dell’enorme traffico marittimo futuro7 e delle connesse opportunità di attività di servizio a Rotterdam e ad Anversa, le risposte si chiamano Gioia Tauro, Taranto, Cagliari. L’Italia può crescere valorizzando il patrimonio ambientale e naturale 6

M. Ferrera, Il fattore D, Mondadori, Milano 2008. Si prevede un raddoppio del traffico container nei porti del Mediterraneo fra 2004 e 2015. Cfr. Banca d’Italia, Economie regionali. L’economia delle regioni italiane nell’anno 2007, Banca d’Italia, Roma 2008 (http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/ecore/sintesi/eco_reg_2007/economia_regioni_italiane_2007.pdf), p. 61. 7

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del Sud, per far sviluppare il turismo, e tutti i servizi connessi. Il numero di presenze turistiche per abitante del Mezzogiorno è di 3,5, contro 10,5 per Grecia e Croazia, 10,3 per la Spagna del Sud e 8,7 per la Francia del Sud8: le presenze turistiche al Sud possono triplicare. L’Italia può crescere trasformando il Mezzogiorno, con la sua insolazione e ventosità, in una grande piattaforma produttiva e tecnologica delle energie rinnovabili, a beneficio di tutto il paese; come sta già avvenendo, anche se su scala ancora modesta, negli ultimi anni. Oggi non si tratta tanto di spostare imprese dal Nord al Sud, come negli anni Sessanta. Il Sud offre opportunità di fare impresa diverse da quelle del Nord, aggiuntive e non sostitutive: per diversa disponibilità di risorse umane, geografia, dotazione di risorse naturali, specializzazione agricola e ambientale. Così come il turismo internazionale, o il vino – per citare due casi particolari ma interessanti – del Sud possono aggiungersi a quelli del resto del paese, così porti e centri di ricerca, imprese del made in Italy o fabbriche ad altissima tecnologia come quella dell’Alenia a Grottaglie (TA), prodotti agroalimentari e di meccanica fine, software house o società di progettazione localizzati nel Mezzogiorno possono contribuire a rilanciare la posizione competitiva dell’Italia. Valorizzare le significative eccellenze del mondo universitario e della ricerca del Sud9, mettere a frutto l’immenso bacino di creatività delle grandi città del Sud può fare molto bene all’intero paese. Ogni nuo8 Dati Mercury relativi al 2004, in SVIMEZ, Rapporto 2006 sull’economia del Mezzogiorno, il Mulino, Bologna 2006. 9 Puntualmente individuate in CIVR (Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca), Valutazione triennale della ricerca. Relazione 2001-2003, CIVR, Roma 2004 (http://www.civr.it/RELAZIONE% 20MIN%202005%203b.pdf).

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vo occupato, ogni nuova impresa nel Mezzogiorno apporta un beneficio netto al bilancio pubblico. Questo non tanto per la riduzione dei trasferimenti assistenziali e compensativi; ma per i contributi dei nuovi lavoratori del Sud, essenziali per aiutare a pagare nei prossimi decenni le pensioni degli ex lavoratori del Nord; per il gettito fiscale delle nuove imprese e dei nuovi lavoratori. L’Italia ha sempre tratto dalle sue diversità interne, dall’originalità del suo modello di capitalismo, un forte stimolo per la sua crescita. Era un modello in parte imprevedibile per i contemporanei, specie per coloro che continuavano a leggerlo solo con i caratteri del ritardo rispetto ad altre economie più avanzate. Un modello che è riuscito a sostituire, a partire dagli anni Settanta, una classica industrializzazione basata sulle grandi imprese pubbliche e private del triangolo industriale e sulle produzioni standardizzate ad alti volumi, con una industrializzazione fatta in misura rilevante da distretti e sistemi di piccola e media impresa, con produzioni diversificate e mutevoli, insediata su piccoli lotti. Grandi economisti come Giorgio Fuà10 hanno aiutato a capire in che misura il modello italiano fosse caratterizzato dal «ritardo», dalla conseguente necessità di recuperare terreno per diventare simili agli altri, e in che misura invece fosse caratterizzato da una positiva, interessante diversità. Ora che gli anni Duemila stanno mostrando, con il passare del tempo e il mutare delle condizioni internazionali, le nuove difficoltà di quel modello, c’è da cercare strade in parte nuove. In questa ricerca, in questa manutenzione straordinaria del 10 G. Fuà, C. Zacchia (a cura di), Industrializzazione senza fratture, il Mulino, Bologna 1983.

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modello di sviluppo italiano, le diversità interne sono una grande risorsa. A patto di non leggerle sempre e solo con le caratteristiche del ritardo, per giunta incolmabile, permanente. Un Sud a basso costo Come si fa a sfruttare questo potenziale di crescita? Le vicende degli ultimi anni, le azioni che sono state messe in atto, gli errori e i successi forniscono, a volerli leggere senza pregiudizi come si è tentato di fare nelle pagine precedenti, molti elementi per rispondere. È meglio continuare sulla strada seguita negli ultimi anni o cambiare radicalmente? La principale opzione alternativa è quella che oppone al tentativo di aumentare la competitività delle attività economiche al Sud attraverso interventi di miglioramento del contesto l’obiettivo di ridurre i costi delle imprese. Innanzitutto contenendo e riducendo il costo del lavoro. L’argomento è semplice e antico, ma ritornato in auge. I livelli salariali al Sud, si dice, sono troppo alti. Sono definiti in base alle condizioni nazionali del mercato del lavoro: ma queste condizioni sono troppo diverse da quelle delle regioni del Mezzogiorno; al Centro-Nord i tassi di disoccupazione sono molto più bassi e la produttività è superiore: livelli salariali adeguati a quelle condizioni sono troppo alti per il Sud e rendono poco competitive le imprese meridionali. Questo squilibrio provoca un’alta disoccupazione al Sud e determina vaste aree di lavoro nero e irregolare; ne rallenta complessivamente la crescita. Ma c’è di più: il costo della vita nel Mezzogiorno è molto più basso; quindi gli stessi salari nominali significano salari reali molto più alti, ingiustificati. «Il Sole-24 Ore» ha addirittura soste181

nuto che al Sud ci sono ben tre mesi di stipendio «di troppo» rispetto a un livello equo11. I suggerimenti sono diversi. C’è chi propone di legare strettamente gli aumenti salariali agli aumenti di produttività su base aziendale12, anche se questo non risolverebbe certo il problema degli attuali livelli salariali «troppo alti». C’è chi propone: «invece di litigare a Roma per trovare uno standard minimo che vada bene per le zone più forti dell’economia nazionale e per quelle più deboli, perché non consentire che nella prima si contrattino minimi più alti e nelle seconde più bassi?»13. D’altra parte un esponente politico di centrosinistra ha sostenuto (a Schio) che il fatto che «un lavoratore di Schio guadagni quanto quello che vive in un’area dove il costo della vita è due volte inferiore è una delle ragioni per cui il lavoro dipendente è in forte sofferenza»14. Insomma, «bisogna accettare che nel Mezzogiorno il lavoro sia pagato meno che nel resto d’Italia [...]; non basta dare più spazio alla contrattazione aziendale, bisogna anche consentire deroghe ai contratti collettivi nazionali»15. 11 G. Pogliotti, Il Nord e il Sud divisi da tre mesi di stipendio, in «Il Sole-24 Ore», 24.4.2008 (http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOn Line4/Economia%20e%20Lavoro/2008/04/salari-nord-sud.shtml? uuid=e95edc56-11c6-11dd-8500-00000e251029&type=Libero). 12 T. Boeri, Come unire Nord e Sud, in «la Repubblica», 6.6.2008 (http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2008/ 06/06/come-unire-nord-sud.html). 13 P. Ichino, Mercati neri e regole deboli, in «Corriere della Sera», 29.1.2008 (http://archiviostorico.corriere.it/2008/gennaio/29/MERCATI_NERI_REGOLE_DEBOLI_co_9_080129144.shtml). 14 P. Pica, Gabbie salariali, Letta apre: via ai contratti sul territorio, in «Corriere della Sera», 21.4.2008 (http://www.selpress.com/confindustriatoscana/immagini/210408S/2008042131975.pdf). 15 G. Tabellini, Il coraggio di una deroga per i contratti nel Sud, in «Il Sole-24 Ore», 11.5.2008 (http://www.arifl.it/rassegnastampa/ 20080511.pdf).

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I temi relativi al mercato del lavoro sono naturalmente di grande importanza: nessun paese o regione può avere una crescita duratura con costi del lavoro eccessivi, o con meccanismi di incontro tra domanda e offerta di lavoro che non funzionano a dovere. Le imprese del Sud devono avere costi del lavoro paragonabili ai livelli di produttività, altrimenti vanno fuori mercato. Tuttavia, l’enfasi su questi aspetti pare oggi eccessiva; gli squilibri sul mercato del lavoro meno rilevanti che in passato16. In primo luogo, dalla metà degli anni Novanta i salari si sono significativamente differenziati territorialmente. Nel 1995 la retribuzione netta di un lavoratore dipendente a tempo pieno meridionale era pari al 92% di quella di un lavoratore del Centro-Nord; nel 2006 la percentuale è scesa all’85%. In termini reali, la retribuzione netta di un lavoratore meridionale è cresciuta in totale in questi undici anni solo dello 0,9%: praticamente di niente; per un lavoratore del CentroNord dell’8,7%: non moltissimo ma certo assai di più17. Lo scarto nelle retribuzioni oggi è quasi pari allo scarto di produttività media fra lavoratori del Mezzogiorno e del Centro-Nord. La differenziazione salariale in Italia, su base regionale, sembra più contenuta che in altri paesi europei. Secondo la Banca d’Italia, però, questo dipende negli ultimi anni principalmente dal «ristagno 16 G. Bodo, P. Sestito, Le vie dello sviluppo, il Mulino, Bologna 1991; G. Bodo, G. Viesti, La grande svolta. Il Mezzogiorno nell’Italia degli anni novanta, Donzelli, Roma 1997. 17 A parità di caratteristiche individuali dei lavoratori. Sono elaborazioni di dati dell’indagine sui bilanci delle famiglie, tratti dalla tav. 9.4 in Banca d’Italia, Relazione Annuale 2007, cit., p. 96. Un’analisi, sempre della Banca d’Italia, sui dati INPS mostra una differenza nei valori lordi del 20%, a parità di sesso ed età ma senza poter tenere conto del titolo di studio. Anche i dati ISTAT sulle retribuzioni lorde nell’industria manifatturiera mostrano un differenziale di circa il 20% (ivi, p. 121).

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della produttività che ha ridotto i margini per incrementi retributivi aziendali [...]. Se la crescita della produttività fosse proseguita sui ritmi dei decenni precedenti agli accordi, la contrattazione di secondo livello e gli altri incrementi concessi al di fuori dei contratti di categoria avrebbero presumibilmente ampliato in misura maggiore il divario fra retribuzione complessiva e minimi retributivi, determinando un aumento della dispersione delle retribuzioni tra imprese e territori»18. Dunque, il problema non è che al Sud i salari, spesso vicini ai minimi retributivi, e particolarmente contenuti soprattutto per le donne, sono troppo alti: è che nelle aziende più avanzate del paese gli aumenti di produttività sono stati contenuti. La soluzione non è ridurre i minimi retributivi ma cercare in ogni modo di far aumentare la produttività – e quindi i salari – in tutte le imprese. Anche l’argomento relativo al livello reale delle retribuzioni pare decisamente troppo enfatizzato. In Italia non esistono dati ufficiali sul costo della vita in differenti luoghi. L’ISTAT ha effettuato una rilevazione nelle città capoluogo, che copre però solo prodotti alimentari, di abbigliamento e di arredamento. Essa mostra differenze fra le città del Nord e del Sud, ma che riguardano principalmente i prodotti «generici», e molto meno quelli con marchio. Sui mercati rionali della frutta i prezzi sono effettivamente diversi fra Milano e Palermo, mentre lo sono assai meno nei supermercati: la differenza nel costo dell’insieme degli «alimentari lavorati», fra queste due città, è solo del 3%19. C’è un pro18

Ivi, p. 93. ISTAT, Le differenze nel livello dei prezzi tra i capoluoghi nelle regioni italiane per alcune tipologie di beni. Anno 2006, http://www.istat. 19

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blema geografico; i dati riguardano le città capoluogo, ma questo non implica che i dati in tutte le località all’interno delle diverse regioni siano simili. Soprattutto, va valutato l’intero paniere di beni e servizi che determinano il costo della vita, e i relativi prezzi. Che prezzo ha la sanità se il servizio pubblico non funziona bene e bisogna farsi curare in un’altra regione? Che costo ha l’assistenza per gli anziani o la cura dei bambini piccoli nei luoghi dove non ci sono servizi pubblici? Inoltre, la teoria economica insegna che prezzi diversi indicano una qualità diversa, visibile o non visibile, dei beni e servizi: un biglietto di autobus può costare molto meno, ma proprio perché dà diritto a viaggiare su meno linee, con minori frequenze, con minor comfort. La Banca d’Italia indica che gli affitti medi del Centro-Nord, a parità di caratteristiche dell’abitazione e dimensione del comune di residenza, sono del 30% più alti20. Questa differenza esprime la diversità in termini di dotazioni di servizi nelle varie città. Le case a Mantova costano di più che a Catanzaro perché vivere lì significa disporre di migliore sanità, maggiore offerta culturale, maggiori opportunità di trovare o cambiare lavoro; costano di più perché «valgono» di più21; il mercato ne stabilisce il it/salastampa/comunicati/non_calendario/20080422_00/Notaparitaregionali_1.pdf. Si consideri che per alcuni beni, ad esempio gli alimentari, l’elaborazione è condotta confrontando, di ciascuna città, la referenza merceologica più diffusa: può essere quindi influenzata dal fatto che nelle città con redditi più bassi vengono consumati di più prodotti di marche «inferiori», che naturalmente costano meno. 20 Banca d’Italia, Economie regionali, cit.; dati riferiti al 2006. 21 «Si è quindi disposti a vivere in un posto con prezzi più alti perché in quell’area si vive meglio, si possono consumare diversi servizi, o vi sono prospettive di reddito migliori. Questa maggiore ‘qualità’ è incorporata nel prezzo dei beni, cosicché la localizzazione è uno dei caratteri distintivi dei beni»: G. Pellegrini, F. Terribile, Confronti in-

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prezzo. Misurare il costo della vita su base regionale è esercizio delicato e complesso, che va condotto con la massima attenzione22. E con la massima attenzione vanno definite le eventuali implicazioni sui trattamenti salariali. Bisogna pagare di più un insegnante che lavora a Milano, perché i prezzi degli alimentari sono più alti, o bisogna pagare di più un insegnante che lavora a Scampia, cercando con giornate di lavoro durissimo di reinserire nella nostra società i figli dei camorristi? Altre proposte vanno nella direzione di ridurre il carico fiscale per le imprese che operano nel Mezzogiorno. Il ragionamento è stato già affrontato discutendo delle politiche di incentivazione. È un problema di utilizzo alternativo delle risorse pubbliche. Il mancato gettito della tassazione va finanziato: come? Una ipotesi è che questo sia a carico della fiscalità generale, e dunque rappresenti un ulteriore trasferimento netto di risorse, sotto forma di mancato prelievo, verso il Mezzogiorno. In questo periodo pare assai difficile immaginarlo. Una ipotesi alternativa, più probabile, è che la riduzione fiscale sia a carico della complessiva spesa in conto capitale per il Sud. In questo caso il giudizio sulla misura non può che essere negativo, per i motivi esposti in dettaglio in precedenza: si sposterebbero risorse da misure volte a ridurre le diseconomie dell’operare al Sud a ternazionali del livello di reddito e di benessere: l’utilizzo delle parità dei poteri d’acquisto, mimeo, 2003. 22 Per un’opinione diametralmente opposta, secondo cui l’ISTAT non dovrebbe «attardarsi troppo sui pur comprensibili dubbi scientifici» e «per paura di dire cose precisamente sbagliate esitare a dire cose approssimativamente giuste», F. Galimberti, La vera gabbia è stipendio uguale con prezzi diversi, in «Il Sole-24 Ore», 23.4.2008 (http:// www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Economia%20e%20Lavoro/2008/04/gabbia-salariale-stipendio.shtml?uuid=352b180c-110411dd-949b-00000e251029).

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misure volte a compensare le imprese per l’esistenza di queste diseconomie, compensazione che naturalmente dovrebbe durare in eterno. Discutere di costo del lavoro o di carico fiscale sulle imprese non può certo essere un tabù. In particolare mercati del lavoro ben funzionanti e flessibili, e livelli salariali ragionevoli sono indispensabili. Ma quanto ne siamo davvero lontani in Italia e al Sud dopo i cambiamenti degli ultimi quindici anni? Ad ogni modo ciò non può implicare l’affidare a questi meccanismi un ruolo fondamentale nello sviluppo del Mezzogiorno: confidare nel funzionamento del mercato del lavoro per creare occupazione, e nel basso costo del lavoro e nella riduzione del carico fiscale per rendere competitive le imprese esistenti e attirarne altre. Si tratta di una strategia che ha ben poche speranze di successo nel quadro competitivo contemporaneo. Nessuna area della vecchia Europa può ragionevolmente pensare di poter competere, in attività esposte alla concorrenza internazionale, con i paesi della nuova Europa, a Est, o dell’Asia, in cui i costi del lavoro sono una piccola frazione di quelli italiani. Nessuna riduzione del carico fiscale può reggere al confronto con i bassissimi livelli di imposizione di tanti paesi del mondo, a cominciare dai nostri vicini dell’Europa orientale. Costi ridotti aiutano, ma il Mezzogiorno non può certo diventare competitivo e attrattivo puntando principalmente su questo. Affinché si sviluppino le imprese e cresca la loro domanda di lavoro occorrono condizioni che consentano alla produttività di crescere nel tempo: la strada non può che essere quella di inseguire i livelli di produttività delle regioni più avanzate d’Europa e non i livelli di costo di quelle più arretrate. Ma seguire questo ragionamento può avere un grande vantaggio: se lo sviluppo dipende principalmente dal 187

costo del lavoro, perché preoccuparsi di investimenti pubblici che migliorino scuole, sanità, trasporti? D’altra parte, questa opzione è esplicita nelle affermazioni di alcuni dei protagonisti di questa discussione; come è stato sostenuto da un economista bocconiano, con parole cariche di disprezzo: «più trasferimenti dallo Stato centrale o dall’Europa per finanziare infrastrutture o altri progetti in realtà alimentano corruzione e clientelismo, peggiorano la qualità della classe dirigente locale e abituano i cittadini a votare in base a criteri sbagliati»23. Meno soldi si trasferiscono al Sud meglio è. «Bisogna imprimere una svolta alle politiche per il Mezzogiorno. Il Sud non ha bisogno di risorse finanziarie»; «i 100 miliardi della programmazione per il periodo 200713 sono troppi [...occorre] trarne le ovvie conseguenze: chiedere all’Unione Europea di ridurli, e di ridurre in modo corrispondente i contributi italiani»24. Come sostiene esplicitamente il presidente della Regione Veneto, Giancarlo Galan, «non si può più continuare a sottrarre risorse da destinare alle attività produttive del Nord per assegnarle alla dissipazione del Sud»25.

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Tabellini, Il coraggio di una deroga per i contratti nel Sud, cit. Rispettivamente G. Tabellini, Tre priorità per rilanciare il paese, in «Il Sole-24 Ore», 1.6.2008 (http://www.confartigianatolodi.com/ uploads/all_rassegnastampa/rs_01_giugno_2008.pdf) e R. Perotti, Un’agenda per il Sud, eccola, in «Il Sole-24 Ore», 23.1.2008 (http:// www.brunoleoni.it/nextpage.aspx?codice=6227). 25 G. Galan, Aiuti soltanto a chi non sperpera, in «Il Sole-24 Ore», 25.7.2008, p. 3 (http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Norme%20e%20Tributi/2008/07/aiuti-a-chi-non-sperpera.shtml?uuid= 43f31d3e-5a16-11dd-8da0-e2756502ce23&DocRulesView=Libero& fromSearch). 24

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Politiche per migliorare Una grande regione di un paese avanzato può accrescere il suo benessere solo producendo beni e servizi competitivi a scala internazionale. Per questo, sono necessari crescenti livelli di produttività e una crescente capacità di innovazione. Non è facile ottenerli. Servono certamente mercati (del lavoro, dei capitali, dei prodotti) ben funzionanti. E al Sud, come in tutt’Italia, si può fare molto ancora per favorire condizioni di maggiore concorrenza, specie su molti mercati dei servizi. Le città del Sud non potranno mai diventare competitive senza una profonda riorganizzazione del fondamentale settore dei servizi pubblici locali. Ma l’idea che sia sufficiente il libero mercato per lo sviluppo sta tramontando in tutto il mondo, anche come frutto dei non pochi disastri seguiti a un’applicazione scolastica dei precetti del cosiddetto «Washington Consensus»26. Per la crescita non basta il mercato, servono anche le politiche economiche. La politica di sviluppo regionale in sé, senza forti e coerenti politiche economiche nazionali, non può fare magie. Può però aiutare, e molto, politiche nazionali di sviluppo a essere più intense ed efficaci, specie nelle aree più deboli, realizzando ciò che serve, drammaticamente, all’intero paese per riprendere la strada della crescita: una maggiore e migliore formazione delle risorse umane, migliori infrastrutture, più efficienti servizi pubblici, più innovazione e ricerca. Non c’è da fare grandi voli di fantasia sugli obiettivi che le politiche di sviluppo regionale 26 Da ultimo: D. Rodrik, One Economics Many Recipes: Globalization, Institutions and Economic Growth, Princeton University Press, Princeton 2008.

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devono darsi. Città e regioni all’avanguardia in tutto il mondo si caratterizzano per condizioni di legalità e sicurezza diffusa, buona dotazione di servizi collettivi per i cittadini, alta qualità della formazione e dell’istruzione, efficaci possibilità di trasporto e di comunicazione. Per realizzarle bisogna seguire una strada, come si vede in particolare dall’esperienza italiana, lunga e difficile; che richiede tempo; che richiede una forte volontà politica, uno sguardo lungo nel futuro. Per il Mezzogiorno, contrariamente a quanto molti ritengono, non c’è da cambiare strategia, non bisogna ripartire da zero. Negli ultimi anni sono stati ottenuti risultati parziali. C’è da attuare più compiutamente quella strategia, con maggiore qualità, velocità, intensità. Quantomeno le esperienze degli ultimi venti anni in Europa, ciò che si va facendo in tutti i paesi, convergono nell’indicare che i grandi assi di intervento non possono che essere inclusione sociale e politiche del lavoro; istruzione, ricerca e innovazione; valorizzazione dei beni ambientali e culturali; miglioramento degli ambienti urbani; potenziamento dei servizi di trasporto e comunicazione. Anche seguendo le indicazioni della Commissione Europea, che mira a fare delle politiche regionali un importante strumento per attuare la «Strategia di Lisbona», per il 2007-13 le risorse finanziarie vengono concentrate in modo particolare sulla formazione, sulla ricerca, sulla diffusione delle tecnologie e delle innovazioni. In Italia, il Quadro strategico nazionale 20071327, definito dal governo di centrodestra e poi com27 Ministero dello Sviluppo economico, Quadro strategico nazionale per la politica regionale di sviluppo 2007-13, Roma, marzo 2007 (http://www.dps.mef.gov.it/documentazione/QSN/docs/QSN20072013_definitivo%20CE%20tavole.pdf).

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pletato con gli strumenti attuativi dal governo di centrosinistra, destina in particolare risorse più cospicue che in passato agli ambiti dell’istruzione, delle città, della ricerca e produzione di energie rinnovabili; forte resta l’impegno finanziario per le grandi infrastrutture di trasporto. Più che un problema di «che cosa fare», c’è un problema di «come farlo bene». Non si tratta di seguire una ricetta unica, valida per tutti, ma di declinare e precisare questi grandi obiettivi con specifico riferimento alle realtà regionali e locali. La contrapposizione fra la necessità di interventi dall’alto, a scala dell’intero Mezzogiorno, e il decentramento alle singole Regioni di risorse e poteri è in grande misura – contrariamente a quanto non pochi ritengono – banale. Alcuni interventi, come quelli sulle grandi reti di trasporto o energetiche, sui grandi programmi di ricerca, non possono che essere disegnati a scala sovraregionale; di più: integrati non solo con le grandi scelte nazionali ma anche con le politiche europee. Altri, come gli interventi per le città o in genere quelli per la nascita e il rafforzamento di sistemi produttivi, non possono che essere condotti e realizzati a scala regionale e locale. Il problema, come insegna l’esperienza recente, non sta nell’attribuzione formale della responsabilità dei programmi, ma nella presenza o meno di un forte coordinamento politico e tecnico di ciò che si va facendo fra centro, Regioni, istituzioni locali. Le politiche di sviluppo hanno una componente locale imprescindibile; ma perché funzionino bene a scala locale c’è bisogno di autorità centrali forti, competenti, collaborative28. 28 Consiglio italiano per le scienze sociali, Tendenze e politiche dello sviluppo locale in Italia. Libro bianco, Marsilio, Venezia 2005.

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Alla luce dei risultati raggiunti negli ultimi anni si è cercato di imparare dall’esperienza e di far tesoro degli errori. Sempre con il Quadro strategico nazionale 2007-13 sono stati previsti grandi progetti, a scala nazionale e regionale, per favorire la concentrazione delle risorse29. Soprattutto, si è cercato di individuare correttamente gli obiettivi finali. Una buona capacità di progettazione, un flusso tempestivo di spesa, la realizzazione di progetti infrastrutturali o di formazione non sono che strumenti. Gli obiettivi veri sono effettivi miglioramenti nella disponibilità di beni e servizi collettivi; sono stati così individuati precisi e quantificati «obiettivi di servizio» per le regioni del Sud, negli ambiti dell’istruzione, della gestione dei rifiuti urbani, del servizio idrico integrato, dei servizi di cura per l’infanzia e gli anziani, al cui raggiungimento sono tra l’altro legate rilevanti risorse finanziarie per premiare le amministrazioni più capaci; per favorire trasparenza e comparazione; per stimolare dibattito pubblico e confronto politico30. Negli ultimi anni ci sono stati problemi tecnici di non poco conto nella realizzazione delle politiche, che sono stati illustrati in molte pagine di questo libro; si è provato a risolverne alcuni. Si può fare ancora di più: ad esempio, maggiore attenzione può essere posta alle fasi di progettazione degli interventi; in questo ambito va valutata la possibilità di creare una struttura nazionale di servizio, cui le Regioni e gli enti locali potrebbero affidarsi per ottenere progetti rapidi e di elevata qualità 29 Ministero dello Sviluppo economico, Rapporto annuale del DPS 2007, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2008 (http:// www.dps.mef.gov.it/documentazione/docs/rapp_annuale_2007/Rapporto/Rapp_DPS_2007_ridotto.pdf), p. 279. 30 Ivi, pp. 281 sgg.

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tecnica, evitando ridondanze e duplicazioni e facendo tesoro delle migliori esperienze. Tutto questo è indispensabile. Bisogna imparare e migliorare; e molto. Ma anche risolvendo tutti i problemi tecnici, migliorando strumenti e procedure, non si andrà lontano. Il migliore disegno tecnico delle politiche di sviluppo regionale non potrà che incontrare gli stessi problemi del passato, e dunque risultare solo modestamente efficace nel modificare strutturalmente le condizioni del Mezzogiorno e nell’accrescerne la velocità di sviluppo, se non sarà sostenuto da una forte volontà politica. Se non sarà anche la politica economica ordinaria, dell’intero paese, a farsi carico anche dell’obiettivo dello sviluppo regionale; a integrare e rendere coerenti gli interventi specifici per lo sviluppo regionale con la più ampia azione di governo del paese. È questione politica, e non tecnica, collocare il tema dello sfruttamento delle risorse disponibili nel Mezzogiorno fra le priorità dell’agenda del paese, assumendo la convinzione di Ciampi e di Draghi non come un espediente per intercettare voti nel Sud ma come una delle basi di un nuovo ciclo di crescita dell’Italia. Se si resta profondamente scettici sulla effettiva possibilità di creare intensamente impresa e occupazione al Sud, non si potrà che agire conseguentemente. Dove investire le non molte risorse finanziarie di cui l’Italia dispone? Dove promuovere la crescita? La risposta, per molti, è solo una: l’Italia riparte solo se riparte la locomotiva del Nord e traina l’intero paese; è lì che vanno concentrati tutti gli sforzi. Ma questa convinzione oggi così diffusa non è certo ovvia, dal punto di vista dell’economia. Certo, conviene realizzare gli investimenti pubblici dove c’è più sviluppo, perché c’è già più domanda e quindi le risorse investite rendono di più alla collettività: dove ci sono già 193

tante imprese c’è bisogno di tante infrastrutture31. Ma conviene portare le infrastrutture anche dove c’è meno sviluppo, perché possono avere un effetto maggiore sulla crescita, e quindi, con il tempo, creare più domanda. È la scelta fra fare una nuova ferrovia fra due città che già sviluppano molto traffico o farla fra due città che, proprio per l’assenza di una ferrovia, non hanno traffico, e che potrebbero crearlo una volta collegate. Dipende molto dalla fiducia che si ha nello sviluppo, dall’ottica temporale che si usa. Se si è molto ambiziosi, e si guarda lontano nel futuro, si costruisce anche la ferrovia dall’Atlantico al Pacifico quando San Francisco è ancora un piccolo borgo: proprio per farla diventare una grande città. Lo stesso ragionamento, ancora più netto, può valere per gli investimenti immateriali. Uno degli interventi pubblici più importanti per la crescita dell’Italia nei prossimi decenni è quello sulla scuola: in tutto il paese, e in modo particolare nel Mezzogiorno, perché lì il rendimento di anni di istruzione aggiuntiva è maggiore32. Occorre fare, perseguendo l’interesse dell’intero paese, entrambe le cose: investire sia dove lo sviluppo è già più forte sia dove può accrescersi notevolmente.

31 L’economista americano Paul Krugman ha teorizzato questo effetto e ne ha mostrato il carattere di «causazione cumulativa». Lo sviluppo di una regione fa nascere una forte domanda di infrastrutture; ma la realizzazione di quelle infrastrutture rafforza le imprese e quindi provoca una nuova domanda di infrastrutture: P. Krugman, Geography and Trade, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1991. 32 V. Peragine, G. Ferri, Pisa amara per meridionali e immigrati, www.lavoce.info, 28.3.2008 (http://www.lavoce.info/articoli/pagina 1000318.html).

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Abolire le politiche per il Mezzogiorno? In alternativa, basta continuare a fare come negli ultimi anni. Usare le risorse aggiuntive per il Mezzogiorno, specie quelle europee, in sostituzione di quelle ordinarie, e quindi con un effetto nullo. Lasciare che le Ferrovie dedichino ogni attenzione strategica, tecnica, progettuale solo ai grandi assi in cui c’è già domanda e redditività. Con il nuovo governo dopo i risultati elettorali del 2008 vi sono tutte le condizioni perché ciò accada. La coalizione vincitrice di centrodestra ha mostrato sin dal suo insediamento di muoversi in questa ottica, peraltro con proteste assai flebili da parte dell’opposizione e il totale silenzio delle organizzazioni imprenditoriali, a cominciare dalla Confindustria. Con decisione e tempismo, ha cancellato dopo dieci anni ogni obiettivo di equa ripartizione fra le grandi aree del paese della spesa in conto capitale: non ha quindi voluto assumere (dopo che l’aveva fatto nel precedente quinquennio) alcun impegno politico nei confronti del Mezzogiorno. Non vi è più alcun obiettivo politico di cui rispondere. Ha utilizzato circa 2 miliardi disponibili per l’infrastrutturazione trasportistica di Calabria e Sicilia per finanziare in parte, per il primo anno, la cancellazione dell’ICI su tutto il territorio nazionale, e ha finanziato oltre la metà della dura manovra di bilancio per il primo triennio cancellando quasi 8 miliardi di fondi FAS per la spesa in conto capitale per il Mezzogiorno. Ha sistematicamente utilizzato i fondi FAS come provvista finanziaria per i più disparati scopi, anche per coprire il buco del bilancio ordinario del Comune di Catania. Ha definanziato il credito d’imposta, rendendolo un intervento di efficacia quasi ridicola: alcune imprese dovranno aspettare sette anni dopo l’investimento per ot195

tenerlo33; ha sospeso i contratti di programma. Ha deciso di riportare sotto il proprio controllo diretto cospicue risorse soprattutto comunitarie, rivenienti dal vecchio e dal nuovo periodo di programmazione, ignorando apparentemente tutto il processo decisionale avviato nella legislatura 2001-2006 (fra cui il grande programma sulla scuola nel Sud). Ha stravolto la struttura del Dipartimento per le Politiche di Sviluppo riducendone le capacità di controllo e valutazione delle politiche34. Con il nuovo ministro per lo Sviluppo economico, ligure, è stato stabilito un particolare regime di favore per i voli dell’aeroporto di Albenga ed è stata estesa la misura per le cosiddette «zone franche urbane» alla città di Ventimiglia, che tuttavia non sembra afflitta da problemi di degrado urbano simili a quelli di Napoli35. All’inizio della legislatura 2001-2006 non era stato difficile prevedere che «il pericolo è il rafforzarsi di un laissez-faire all’italiana, in cui l’apparente liberismo berlusconiano nasconde il desiderio di tornare al passato: a condizioni di mercato poco concorrenziali, a regole poco trasparenti, ad una pubblica amministrazione ‘all’italiana’ che regola poco e sussidia tanto, a un Governo forte che decide in piena discrezionalità l’allocazione delle risorse; in cui è possibile edificare sulle spiagge, fornire beni e servizi allo Stato in regime di monopolio, sfruttare le debolezze del welfare per crearsi bu33 A. Criscione, Se prenoti subito avrai il credito d’imposta (nel 2015), in «Il Sole-24 Ore», 2.8.2008. 34 G. Viesti, La trasformazione delle politiche di sviluppo territoriale e l’impatto nel Mezzogiorno, in www.nelmerito.com, 17.7.2008 (http://www.nelmerito.com/index.php?option=com_content&task= view&id=317&Itemid=141). 35 Cfr. rispettivamente C. Fo., Sardegna, tornano gli oneri di servizio, in «Il Sole-24 Ore», 4.9.2008; N. Cottone, Scajola, individuate 22 zone franche urbane in 11 regioni, in «Il Sole-24 Ore», 1.10.2008.

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siness personali nella sanità. L’effetto sulle regioni più deboli non è certo difficile da immaginare: per il Mezzogiorno quella degli anni Novanta sarebbe solo una felice parentesi»36. All’inizio della legislatura 2008-13 non è difficile valutare che il governo ha posto le condizioni per un significativo depotenziamento di ogni politica di sviluppo del Mezzogiorno e per un ulteriore peggioramento della sua situazione economica. Questo non sorprende. L’azione del governo Berlusconi sembra orientata dall’esigenza di fornire risposte individuali a problemi individuali molto più che risposte e regole collettive per problemi collettivi; e di fornire prioritariamente risposte ai territori che rappresentano la base elettorale della Lega Nord. È ispirata dalle tesi formulate da Giulio Tremonti: «cadute le grandi ideologie, falliti i grandi sistemi politici, i popoli credono ancora, ma credono soprattutto nelle cose piccole e più concrete, nelle cose che sono loro più vicine e che sono più attuali. Credono ancora nel ‘domani’ ma non nel ‘futuro’; non chiedono la riforma della sanità, ma il funzionamento del ‘loro’ ospedale; non chiedono la riforma del lavoro, ma il ‘loro’ posto di lavoro. Il ‘campanile’ non può sostituire la ‘nazione’, ma può comunque compensare l’effetto di vuoto portato dalla crisi dello Stato-nazione». «La soluzione non è dunque e non può essere più pubblico impiego nei servizi sociali e più tasse per pagarli, immaginando un’illimitata quanto insostenibile imposizione fiscale: la soluzione è invece fuori dallo Stato, nel comunitario»37. Così per i problemi complessi di una società articolata e di un’economia capitalista avan36 G. Viesti, Abolire il Mezzogiorno, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 117. 37 G. Tremonti, La paura e la speranza, Mondadori, Milano 2008, rispettivamente pp. 97 e 95.

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zata vengono proposte soluzioni molto semplificate. Fatte di tentazioni protezionistiche rispetto alle sfide della concorrenza internazionale; di diffidenza verso l’Europa e la libera concorrenza; di difesa «delle nostre identità tradizionali, storiche e di base: famiglie e piccole patrie, vecchi usi e costumi, vecchi valori»38; di timore verso l’altro, il diverso, lo straniero: «l’inclusione degli altri in Europa può proseguire, però solo se gli altri cessano di essere altri e diventano noi»39. Vi sono molti motivi per ritenere che si tratti di una risposta sbagliata per l’intero paese: un sentiero profondamente diverso da quello seguito dall’Europa e dall’Italia negli ultimi decenni, fatto di apertura culturale, di integrazione europea e internazionale, di successi delle imprese basati sull’innovazione e la creatività. Ma un punto è importante da rilevare qui: manca l’attenzione all’interesse nazionale. Ogni attenzione è ai singoli, ai gruppi, alle piccole patrie locali. Non l’interesse di tutti gli italiani a collegamenti aerei efficienti e poco costosi, ma quello di un aeroporto, non la trasformazione in senso multifunzionale dell’agricoltura, ma la difesa dei produttori di latte40. Quel che chiedono i cittadini sfiduciati: non la riforma della sanità ma il funzionamento del loro ospedale, non la riforma e il potenziamento della scuola pubblica nazionale, ma un voucher per pagare l’istruzione dei propri figli nelle scuole migliori. Davvero difficile immaginare dove possa andare un paese che fa fatica ad individuare e perseguire l’interes38

Ivi, p. 97. Ivi, p. 78. 40 A. Capparelli, Proroghe fiscali per gli agricoltori, in «Il Sole24 Ore», 19.7.2008 (http://www.selpress.com/confapi/immagini/ 210708A/2008072132669.pdf). 39

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se nazionale, di tutti i suoi cittadini; che ne sta smarrendo anche i simboli identitari, nel quale un ministro della Repubblica che rivolge un gesto sguaiato e volgare all’indirizzo dell’inno nazionale quasi non desta più né scandalo né riprovazione. La politica che non c’è Nel quadro che si va delineando l’interesse allo sviluppo del Mezzogiorno come interesse nazionale, collettivo, politico ed economico, di lungo periodo è certamente ai minimi storici. Colpisce la grande debolezza politica delle forze che, all’interno della maggioranza, pur premiate da un consistente voto popolare, dovrebbero rappresentare questo interesse; sembrano in una posizione subalterna, attente principalmente a rivendicare – come nel caso degli autonomisti siciliani – specifici vantaggi per sé, una fettina un po’ più ampia della torta. Ma per alcuni versi questo interesse pare debole anche nell’azione dell’opposizione, che su non pochi temi sembra più inseguire la maggioranza alla ricerca del consenso immediato degli elettori impauriti e sfiduciati che disegnare progetti alternativi, per contrastare la paura e la sfiducia. Pur essendo stato il calo di voti omogeneo in tutto il paese, per molti dei suoi esponenti la priorità è solo quella di riconquistare rapidamente il consenso dei cittadini del Nord: impostando dunque l’azione solo sulle priorità di più immediato impatto che si ritiene possano essere premiate dal loro voto, dalla riduzione del carico fiscale al controllo della presenza degli immigrati. Particolarmente debole, infine, sembra la capacità di influenza sull’agenda politica del paese delle forze economiche e sociali nazionali; vuoi perché alle prese con propri problemi di ruolo e di rappresentanza, come nel ca199

so del sindacato; vuoi perché sembrano anch’esse ritenere assolutamente prioritarie le risposte alle esigenze delle proprie imprese e dei territori del Nord – da cui proviene la maggioranza dei propri iscritti – rispetto alle esigenze dell’intero paese, come nel caso di associazioni di rappresentanza degli imprenditori. In un paese così frammentato può essere forte allora la tentazione di far nascere istituzioni, anche politiche, di rappresentanza e di difesa degli specifici interessi del Mezzogiorno: una Lega Sud contro la Lega Nord. Sarebbe la risposta peggiore. La Lega non rappresenta un fenomeno così negativo perché è la Lega «degli altri», ma perché antepone sistematicamente l’interesse di alcuni italiani a quelli di tutti; perché interpreta la politica più come una competizione per la ripartizione delle risorse che come un tentativo per accrescere la disponibilità di risorse per tutti. Il punto non è difendere il Sud contro il Nord, lottare contro la Lega per ottenere di più. Non solo perché sarebbe una competizione destinata immancabilmente all’insuccesso, vista la grande sproporzione delle forze in campo. Ma anche e soprattutto perché gli ostacoli allo sviluppo del Sud sono anche all’interno dello stesso Mezzogiorno: dai politici che interpretano l’azione pubblica principalmente come uno strumento di promozione di interessi particolari, individuali e di gruppo, e non collettivi, agli imprenditori che cercano protezioni, commesse, incentivi, ai pubblici dipendenti, assenteisti o «fannulloni», che invece di contrastare l’inefficienza delle proprie strutture se ne giovano. Per molti italiani il Sud è da sempre solo questo. Niente di più falso; tra l’altro, i cambiamenti degli ultimi quindici anni sono stati di grandissima rilevanza: chiunque attraversi il Sud con sguardo non prevenuto incontra sindaci attenti all’interesse delle proprie comunità, imprenditori capa200

ci e di successo, insegnanti e dipendenti pubblici con un forte spirito di missione. Ma purtroppo non è certo possibile sostenere, al contrario, che il Sud sia solo questo. La Lega dei meridionali metterebbe assieme gli uni e gli altri. I problemi dell’Italia non si risolvono schierando il Nord contro il Sud, occupandosi ciascuno della sua piccola patria. La questione meridionale oggi è dunque una questione tutta politica. Non è un problema di strumenti tecnici per le politiche di sviluppo, per quanto vi possa essere molto da imparare dal passato, da migliorare, da perfezionare. Il punto di fondo è politico. La scelta è fra azioni di largo respiro per il miglioramento strutturale delle condizioni in cui i cittadini vivono e le imprese operano da un lato e incentivi e sostegni ai singoli dall’altro; fra azioni che cercano di aumentare la qualità della società e la produttività complessiva dell’economia del Mezzogiorno e interventi che mirano a ridurre i costi di produzione. Non è un problema di convincere gli italiani a destinare solidaristicamente risorse, ordinarie o aggiuntive, al Mezzogiorno. Alle prese con difficoltà strutturali del proprio modello di sviluppo, l’Italia ha la necessità di realizzarne un’opera di manutenzione straordinaria; di una costruzione collettiva di futuro. Di un progetto complesso, ambizioso, di largo respiro, adeguato ai cambiamenti del mondo contemporaneo, all’economia attuale, basata sulla conoscenza. Che metta dunque al centro della società la costruzione e la diffusione della conoscenza, attraverso una scuola pubblica nazionale e un sistema universitario profondamente trasformati. Che realizzi un nuovo welfare dell’inclusione e delle possibilità, con pari opportunità di lavoro e di realizzazione per le donne, per valorizzare tutte le intelligenze 201

e le creatività disponibili. Che superi posizioni di rendita e di cristallizzazione sociale consentendo percorsi di mobilità sociale che premino il merito e le capacità. Per questo, va riscritto un patto collettivo tra gli italiani. Diverso da quello del dopoguerra; che ha cambiato, modernizzato, migliorato fortemente il paese, ma è poi degenerato in un’espansione senza freni dell’indebitamento pubblico, rendendo tutti un po’ più poveri, e creando le basi per il forte conflitto distributivo, anche territoriale, degli ultimi anni. Un patto collettivo che ridia senso ai doveri fiscali e renda più concreti i diritti di cittadinanza, con una profonda rivisitazione del ruolo dello Stato e delle amministrazioni locali; che prenda atto che le risorse e le capacità dell’attore pubblico non potranno più essere quelle del passato e che devono essere razionalizzate e migliorate, anche attraverso il completamento di un processo di decentramento basato su regole chiare di ripartizione delle risorse, di premio o sanzione per l’efficienza delle amministrazioni, di responsabilità delle classi dirigenti locali. Proprio la discussione sul completamento dell’attuazione del nuovo Titolo V della Costituzione, sui meccanismi fiscali per finanziare il decentramento delle funzioni, potrebbe essere un primo importantissimo banco di prova di un nuovo patto collettivo. Non è facile. Tramontate in tutta Europa le grandi ideologie novecentesche, non è agevole disegnare coerentemente una società più coesa e dinamica, più aperta e inclusiva; tramontati i grandi partiti nazionali non è facile disegnare un sistema paese che promuova gli interessi di tutti e non di alcuni; tramontate le identità e le rappresentanze di classe non è facile costruire coalizioni politiche caratterizzate dal perseguimento di questi grandi interessi comuni. Anche per questo la que202

stione meridionale è oggi tutta politica. Perché si intreccia inestricabilmente con la manutenzione straordinaria del modello di sviluppo nazionale; con un nuovo patto collettivo di cittadinanza; con il riemergere di forze politiche, su entrambi gli schieramenti, capaci di perseguire un interesse nazionale, di guardare lontano, di progettare e costruire un paese diverso e migliore, per tutti. L’alternativa, se la politica continuerà a non esserci, è quella di restare un paese a metà: non solo diviso al suo interno ma anche dimezzato nella sua capacità di sviluppo.

INDICE

1. Un paese sfiduciato

3

A passo di lumaca, p. 3 - La palla al piede, p. 5 - Partire dai fatti, p. 8

2. Cronache da un’Italia in difficoltà

11

La frenata dell’economia italiana, p. 11 - Una forbice inconsueta, p. 16 - Problemi al Nord e al Sud, p. 20 - Un’Italia più debole, p. 24 - Peggio dell’Europa, p. 28 - Gli anni delle aspettative decrescenti, p. 32 - Criminalità e immigrazione, p. 37 - Gli anni della sfiducia, p. 40

3. Risorse per lo sviluppo: impegni e realizzazioni

46

La spesa pubblica in conto capitale, p. 46 - Obiettivi non rispettati, p. 52 - Il settore pubblico allargato, p. 58 - Investimenti pubblici e trasferimenti alle imprese, p. 64

4. Troppi soldi al Sud?

68

La spesa pubblica corrente, p. 68 - Troppi soldi al Sud-1, p. 70 - Troppi soldi al Sud-2, p. 75 - La «questione settentrionale» al Sud, p. 83 - Il «federalismo», p. 90 - Il federalismo fiscale, p. 94

5. Le politiche di sviluppo regionale La Nuova Programmazione, p. 104 - Gli incentivi, p. 109 - Gli investimenti pubblici, p. 121

205

104

6. Che cosa abbiamo ottenuto?

128

Gli interventi nel Sud, p. 128 - Interventi frammentati?, p. 133 - Tempi lunghi, p. 137 - I risultati, p. 144 - Una qualità delle amministrazioni ancora insufficiente, p. 155 - Una valutazione d’insieme, p. 165

7. Il Nord, il Sud e la politica che non c’è Il Sud fa bene all’Italia, p. 173 - Un Sud a basso costo, p. 181 - Politiche per migliorare, p. 189 - Abolire le politiche per il Mezzogiorno?, p. 195 - La politica che non c’è, p. 199

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