Metodi di analisi empirica in scienze sociali (Metodologia delle scienze sociali)

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Metodi di analisi empirica in scienze sociali (Metodologia delle scienze sociali)

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Saggi 000 Scienze politiche e sociali

kosmos e taxis. idee per la scienza politica

Kosmos e Taxis, ordine spontaneo e ordine progettuale, evoluzione e organizzazione, “legge e legislazione” – per dirlo con le parole di Friedrich von Hayek – sono le dimensioni costanti e talvolta contraddittorie del problema politico dai tempi remoti in cui la politica comincia a porsi come problema di regolazione dei rapporti sociali potendosi interpretare – a seconda delle prospettive di analisi di volta in volta prevalenti – nelle sue valenze “naturali” o “artificiali”. E di volta in volta risolvendosi, come tutti i processi di azione sociale, in una costellazione di conseguenze sia intenzionali che inintenzionali. La collana di scienza politica nasce all’interno del Centro di metodologia delle scienze sociali della Luiss “Guido Carli”, condividendo l’impostazione di fondo che ne ispira l’iniziativa, con l’intento di offrire ulteriori strumenti di analisi teorica e di ricerca empirica nel campo specialistico degli studi di politologia e di sociologia politica. I quali, tuttavia, non sono destinati soltanto agli “specialisti” a vario titolo della politica, ma al più vasto pubblico di lettori interessati ai temi di cultura politica. In questo senso, l’attività editoriale prevede la pubblicazione di opere classiche e contemporanee di particolare rilievo scientifico, prodotte in Italia o all’estero, nonché di saggi, monografie, raccolte collettanee o antologiche, materiali letterari e didattici, dai quali emergano contributi significativi per la conoscenza e lo sviluppo della scienza politica. Direttore: Raffaele De Mucci Comitato scientifico: Dario Antiseri Alejandro A. Chafuen Lorenzo Infantino Kurt Leube Randy Simmon I volumi della collana Kosmos e Taxis sono sottoposti alle procedure di selezione e valutazione da parte di referees qualificati, su indicazione dei membri Comitato scientifico internazionale.

Raffaele De Mucci

Metodi di analisi empirica in scienze sociali Una introduzione

© 2018 - Rubbettino Editore 88049 Soveria Mannelli Viale Rosario Rubbettino, 10 tel (0968) 6664201 www.rubbettino.it Progetto Grafico: Ettore Festa, HaunagDesign

Indice

Presentazione 7 1. Problemi di sfondo dell’analisi sociale e politica 11 1. Individuale e collettivo in scienza politica 11 2. Approcci “micro” e approcci “macro” (applicazioni di analisi elettorale) 19 3. Codicillo metodologico: esiste una “terza via” fra individualismo e collettivismo? 33 2. Sui metodi empirici (in generale) 39 1. Le ipotesi come teorie, le teorie come ipotesi 39 2. Il piano d’osservazione: unità, casi, proprietà 40 3. La scelta dei casi di indagine: il campionamento 45 4. Concetti empirici e “scala di astrazione” 52 5. La trasformazione dei concetti in variabili: “definizione operativa” e indicatori empirici 55 6. La misurazione delle variabili: indici, tassonomie e scale 58 7. Modelli di relazioni fra variabili 63 8. I metodi di controllo 70 3. Sul metodo comparato (in particolare) 75 1. Gli albori della politica comparata 75 1.1 I canoni induttivi della ricerca sperimentale (John Stuart Mill) 78 1.2 Esempi e casi pratici 84 2. Il metodo comparato nelle scienze sociali 87

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2.1 La posizione di Lijphart 91 2.2 Le critiche a Lijphart 102 3. Cosa, come e perché comparare 107 3.1 Cosa comparare 107 3.2 Come comparare 110 3.3 Perché comparare 113 4. Applicazioni del metodo comparato 115 4.1 I modelli di opposizione di Dahl 116 4.2 I sistemi di partito di Sartori 118 4.3 La classificazione dei sistemi politici di Almond e Powell 120 4.4 La formazione degli stati in Europa di Rokkan 122 4.5 Le rivoluzioni sociali e gli Stati moderni (T. Skocpol) 125 4.6 I “fallimenti” delle nazioni di Acemoglu e Robinson 127 Bibliografia 131

Presentazione

I materiali di studio raccolti in questo volumetto nascono in prevalenza da esperienze e sollecitazioni didattiche, maturate in diversi anni di insegnamento universitario, e sono destinati per intero a scopi didattici. Qualcosa di più rispetto alle semplici dispense distribuite agli studenti, qualcosa di meno rispetto a un lavoro compiuto. I saggi qui proposti hanno dunque per interlocutori privilegiati coloro che si accostano per la prima volta ai problemi di metodologia delle scienze sociali, in quanto scienze empiriche, e in particolare alle discipline di studio che hanno come oggetto di analisi i fenomeni della politica. Come sostiene Paul Lazarsfeld, il rapporto che si instaura tra le scienze sociali e la loro strumentazione metodologica è solitamente impostato in modo tale che «mentre la sociologia o la scienza politica studiano l’uomo nella società o nella politica, la metodologia studia il sociologo o il politologo al lavoro». Non arriviamo a tanto in queste pagine: tutt’al più vi si possono trovare suggerimenti utili per capire con quali modalità euristiche può svolgersi il lavoro delle scienze sociali nel continuo confronto tra ipotesi e fatti, alla cui prova – cruciale – ogni teoria empiricamente orientata deve sottoporsi per essere confermata o “sconfermata”. Gli strumenti di metodo costituiscono – semplicemente – l’insieme di regole e di concetti che ci consentono di risolvere meglio i problemi conoscitivi e teorici delle nostre discipline. In linea di principio, si può convenire con Max Weber quando si dice a sua volta d’accordo con il grande storico Eduard Meyer circa la sopravvalutazione che talvolta

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si tende a fare degli studi metodologici: «Ed infatti, come colui che volesse di continuo controllare il proprio modo di camminare in base a conoscenze anatomiche sarebbe in pericolo di inciampare, così la stessa cosa potrebbe capitare allo studioso di professione nel tentativo di determinare dal di fuori i fini del proprio lavoro sulla base di considerazioni metodologiche» [Weber, 1958, p. 147]. E tuttavia – per insistere nella stessa metafora – la conoscenza dell’anatomia potrebbe risultare utile, in caso di caduta, a prendere le misure più efficaci per curarsi le eventuali ferite. Insomma, “i protocolli” di metodo – ancorché mai rigidi e definitivi – rappresentano un aspetto importante delle strategie di ricerca nelle fasi che, con Kuhn, potremmo definire di «scienza normale». Ci dichiariamo ancora d’accordo con Weber (e Meyer) quando contestano il punto di vista prevalente nella metodologia positivistica del loro tempo, secondo cui le scienze storico-sociali dovrebbero riguardare i «fenomeni di massa», in contrapposizione all’agire individuale; l’aspetto «tipico» in contrapposizione a quello «singolare»; lo sviluppo della comunità, in particolare delle «classi sociali» o delle «nazioni», in contrapposizione all’agire degli individui [Ivi, p. 149]. Tutto al contrario – in una prospettiva di individualismo metodologico – ciò che conta davvero sono l’«accidentale» (ovvero le conseguenze non previste dell’azione sociale), «la libera decisione di personalità concrete, l’influenza delle idee sull’agire degli individui» [Ibidem]. È peraltro la stessa prospettiva che cerchiamo di seguire anche in questa breve ricognizione sui metodi empirici delle scienze sociali: con una scelta per molti versi controcorrente rispetto alle tendenze (e ai pregiudizi) tuttora radicati all’interno del paradigma dominante nella sociologia e nella scienza politica contemporanee. Gli argomenti trattati in questa raccolta seguono una logica espositiva che dalle questioni epistemologiche generali – sollevate dall’alternativa cruciale fra approccio sistemico e individualismo metodologico – conduce alle procedure di ricerca empirica fino al metodo comparato, che costituisce uno dei metodi più importanti nella logica delle scienze so-

Presentazione

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ciali, e anzi – per alcuni – il metodo per eccellenza soprattutto nell’ambito degli studi politologici. Il saggio è stato testato con un certo successo e accolto con discreto favore dagli studenti dei miei corsi di Scienza politica, Politica comparata, Sociologia politica e Analisi sociologica della politica, tanto da indurmi a ristamparlo in una nuova edizione corretta e integrata dalle ultime acquisizioni in materia di metodologia, o almeno quelle che mi hanno convinto di più e ritenevo indispensabili per rendere il materiale di studio e la sua impostazione al passo con l’evoluzione delle questioni di metodo nelle scienze sociali. Roma, aprile 2017

Raffaele De Mucci

1. Problemi di sfondo dell’analisi sociale e politica

1. Individuale e collettivo in scienza politica Se facessimo una graduatoria delle parole più usate nel lessico della politica, sia in senso comune che in senso scientifico (e non solo nell’ambito ristretto della scienza politica), troveremmo certamente al primo posto la locuzione «sistema politico». La genesi del concetto è antica, ma la sua formulazione moderna più compiuta risale al 1953, quando uscì negli Stati Uniti l’opera di David Easton dedicata alla teoria del sistema politico [Easton, 1961]. Due erano in sostanza i meriti maggiormente accreditati al concetto di sistema politico: da una parte, la possibilità di superare i limiti esplicativi della nozione formalistica di Stato, così come era venuta a precisarsi nella tradizione giuridica (e quindi di vedere la politica al di là dei confini istituzionali); dall’altra, la capacità di fornire un preciso orientamento teorico alla moltitudine di ricerche empiriche sui fenomeni politici. Ma a quasi quarant’anni da quella che fu definita nella storia della disciplina come la «svolta post-comportamentista», sembra che quello sforzo intellettuale cominci a denunciare una crisi di tenuta [Morlino, 1989]. Lo stesso Easton, in un articolo recente che propone un bilancio complessivo della disciplina in questo scorcio di secolo, è costretto ad ammettere che «oggi la scienza politica ha perso il senso di unità degli scopi e manca di un punto di vista dominante», così come d’altra parte, e su un piano più generale, è accaduto al metodo scientifico sotto il peso della critica epistemologica [Easton,

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1985, p. 105]. È successo, in particolare, che si sono moltiplicati i settori di indagine nella direzione di altri percorsi teorici, ricalcati soprattutto sulle orme dell’economia. E che questi abbiano rimesso in discussione l’autonomia metodologica e contenutistica della scienza politica tanto faticosamente perseguita negli anni passati (della quale, peraltro, l’approccio sistemico costituiva la sponda naturale contro i risucchi della filosofia, del diritto e della stessa sociologia). Sono venuti così a svilupparsi programmi di ricerca “parziali” nei campi della political economy, della policy analysis e della public choice [per un bilancio, Pasquino, 1984]: che sono tutti approcci fondati sul presupposto che nel comportamento politico vi sia una forte componente razionale, con ciò volendo dimostrare o che l’uomo agisce razionalmente, oppure che se ne possa comprendere meglio il comportamento anche limitandosi ad adottare tale razionalità come modello ipotetico. Questi mutamenti d’orizzonti cognitivi autorizzano a pensare che anche nella scienza politica contemporanea stia di fatto affiorando una qualche contrapposizione fra approccio sistemico e individualismo metodologico, sia pure in modo soltanto latente e spesso inconsapevole fra gli stessi cultori della disciplina. È appunto nei termini di questa alternativa – ormai finalmente approdata al centro del dibattito metodologico sulle scienze sociali [anche in Italia: Leonardi, 1981, Petroni, 1989, Antiseri, 1990] – che intendiamo rivisitare alcuni aspetti dell’evoluzione (e della crisi) della scienza politica contemporanea. Per la verità, i foci classici del dibattito sono da una parte l’individualismo metodologico e dall’altra l’olismo1. Ma non c’è pieno accordo nemmeno su questi termini. Si parla di individualismo metodologico – come fece Watkins [1952] che coniò l’espressione – per prendere le distanze dai significati meta-cognitivi del termine (l’individualismo come atteggiamento mentale dell’uomo della strada), ma anche 1. Per un chiarimento concettuale circa i contenuti di questa controversia che possono riguardare maggiormente l’analisi politica, cfr. Merton [1968], Popper [1975], Moon [1985].

Problemi di sfondo dell’analisi sociale e politica

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per distinguerlo – come fece successivamente Goldstein [1973] – dall’individualismo “ontologico” (i singoli individui come limite di ogni esperienza umana). E quand’anche connotato in senso specificamente metodologico, l’individualismo può presentarsi in versioni più radicali e in versioni più “morbide”, a seconda che sostenga la tesi che non vi sono leggi o teorie delle scienze sociali che non si possano ridurre a leggi o teorie dell’azione individuale [Watkins, 1958], ovvero che non vi sono concetti o proprietà collettive che non possono spiegarsi anche a livello individuale [Hayek, 1967]. D’altra parte, il termine olismo non ha avuto uguale fortuna semantica: non s’è mai parlato, ad esempio, di un olismo “metodologico” (il tutto come modello concettuale) che potesse differenziarsi dall’olismo “ontologico” (il tutto come realtà a sé stante), anche perché questo concetto è ricavato per intero dalla tradizione filosofica e non consente facilmente specificazioni di questo tipo. Eppure le differenze ci sono e sono assai rilevanti sul piano del metodo scientifico, consentendo di distinguere almeno tre varianti dell’approccio diciamo pure (in mancanza di meglio) olistico: a) una tesi organicistica, per cui la totalità è sempre un di più rispetto alle parti che la compongono; b) una tesi antiriduzionista che, senza stabilire priorità assiologiche, sostiene comunque che la totalità non può essere spiegata nei termini delle sue parti; c) una tesi analitica secondo la quale esistono proprietà che possono essere descritte come proprietà degli “insiemi”. E soprattutto a quest’ultima accezione – che taluni preferiscono definire con il termine collettivismo [Knorr-Cetina, 1983] e che, dal nostro punto di vista, può essere considerato di contenuto equivalente all’approccio sistemico – si richiamano tutte le impostazioni “macro-sociologiche” che non condividono gli assunti e le implicazioni meta-sociologiche dell’olismo. Le differenze di metodo fra l’uno e l’altro approccio2 si riducono allora a questa fondamentale: che, per l’indi2. In realtà, le differenze cruciali fra olismo e individualismo sono più d’una. Le riassumiamo qui di seguito in tre coppie di opposizioni [Marradi, 1984, pp.

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vidualismo, l’oggetto di studio delle scienze sociali sono le conseguenze intenzionali ma soprattutto inintenzionali delle azioni individuali (prevedibili o no), la cui spiegazione – anche quando queste si presentano in combinazioni di livello superiore – è sempre riconducibile, in ultima istanza, alle proprietà dell’individuo; mentre, per il collettivismo, le conseguenze dell’azione possono essere organizzate concettualmente in insiemi ordinati dei quali si possono analizzare le caratteristiche in termini di proprietà “emergenti”, tali cioè da non poter essere colte e tanto meno trasformate in regole di uniformità o leggi di tendenza facendo riferimento ai livelli inferiori di aggregazione. Ma anche nella sua versione “morbida”, la prospettiva dell’individualismo metodologico è rimasta per molto tempo estranea agli studi empirici della scienza politica. Per qualche aspetto si possono considerare affini a questa logica tutte le numerose ricerche svolte sulla scorta della lezione “comportamentista” che a partire dagli anni ’50 – e tuttora – sostiene la vocazione empirica della disciplina. Ma per diversi aspetti, 154-55]. Per l’olismo: a) l’unità di livello superiore (intero) differisce dalla mera sommatoria delle parti che la compongono, in quanto alcune delle sue proprietà non sono riducibili alle unità (parti) del livello inferiore; b) esiste almeno una proprietà attribuibile solo all’intero, ed è la struttura delle relazioni fra le parti; c) alcune proprietà/azioni delle parti non possono essere studiate in isolamento dal loro contesto (intero). Per l’individualismo metodologico: a) tutte le proprietà dell’intero sono riconducibili alle unità (parti) che lo compongono; b) le relazioni fra le unità (parti) sono accidentali e non costituiscono insiemi strutturali; c) tutte le proprietà/azioni delle unità (parti) devono e possono essere studiate senza riferimenti al contesto (intero). Di queste, soltanto la prima tesi marca una divaricazione effettiva nei lavori teorici ed empirici delle scienze sociali (e non a caso è quella più intrisa di elementi ontologici). Le altre, invece, non sembra siano adottate con coerenza e rigore assoluti nell’ambito dei rispettivi approcci: nel senso che è frequente trovare posizioni dichiaratamente individualiste che usano concetti tipicamente strutturali – si pensi al concetto di mercato o al cosiddetto “metodo zero” di Popper [1975] per cui l’azione è collegata alla logica della situazione – ed è per contro raro imbattersi in posizioni “collettiviste” che si spingerebbero a negare l’affermazione di Hayek, secondo la quale “gli insiemi come tali non sono mai dati alla nostra osservazione” [Hayek, 1967, p. 63].

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e nel suo insieme, il comportamentismo si rivela in contrasto con alcuni presupposti fondamentali dell’individualismo metodologico. Il programma del comportamentismo – in ciò alquanto distante dalla matrice behavioralista da cui pure deriva [Easton, 1971] – è lo studio delle azioni politiche direttamente o indirettamente osservabili, ma anche delle componenti percettive, motivazionali e attitudinali del comportamento che contribuiscono a formare le identificazioni, le esigenze e le aspettative politiche degli individui e i suoi sistemi di credenze, valori e obiettivi politici [Laswell e Kaplan, 1969, p. 76]. L’individuo rimane sempre il referente empirico dell’indagine, ma le unità teoriche dell’analisi (i livelli) possono essere i ruoli, i gruppi, le istituzioni, le organizzazioni, la cultura, il sistema. Esiste insomma una catena di interrelazioni verticali e orizzontali che legano l’individuo alle unità superiori per complessità. In questo senso è difficile dare un’interpretazione univoca del comportamentismo dal punto di vista che qui ci interessa: le sue istanze originarie sembrano privilegiare – quanto agli oggetti di indagine – le parti sul tutto, ma i suoi approdi concreti si rivolgono poi al concetto di gruppo (che la cosiddetta Group Theory, attraverso le opere pionieristiche di Truman e Bentley [1983], assume a unità omnibus di tutta la vita politica), ovvero alla teoria del potere analizzato più come struttura che come fatto relazionale [Stoppino, 1974], e infine alle prospettive sistemiche [Urbani, 1971]. Ciò che invece costituisce il nucleo forte del messaggio comportamentista in scienza politica è il rifiuto di ogni strategia “comprendente” e l’enfatizzazione, per contro, delle metodologie nomotetiche, la predisposizione a descrivere, quantificare, misurare i fatti che ricadono sotto il dominio dell’osservazione (portata spesso fino ai limiti di una concezione esasperata quanto ingenua di “iperfattualismo”): ciò nonostante, i contributi dati al consolidamento della scienza politica come teoria empiricamente orientata sono fuori discussione [Pasquino, 1971]. Ciò che invece interessa di più il tema che

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stiamo trattando è la circostanza che il comportamentismo ha messo sul tappeto, senza tuttavia risolverlo, il problema dei rapporti fra indagini “micro” e indagini “macro”: come arrivare a enunciazioni significative che riguardino aggregazioni più vaste sulla base di un’analisi del comportamento dei singoli attori politici [Eaulau, 1971, p. 83], tenendo conto che possono verificarsi errori di estrapolazione da un ambito all’altro, come ad esempio quando si “personificano” con attributi individuali gli insiemi, o viceversa si concentrano sugli individui le proprietà degli insiemi. E dunque il passaggio dalla fase comportamentista all’approccio sistemico, che si compie durante gli anni ’50 negli Stati Uniti nel segno di una reazione di protesta contro le suggestioni dell’«empirismo astratto» [Wrigth-Mills, 1970], può essere interpretato più come il bisogno di orientare la scienza politica con adeguati apparati teorici che non in termini di una contrapposizione metodologica fra individualismo e olismo (e d’altra parte è significativo il fatto che ritroviamo in queste posizioni critiche molti autori che avevano sostenuto il movimento comportamentista o comunque si erano ispirati alla sua lezione, che peraltro mostrano di non rinnegare almeno per quanto riguarda le implicazioni dell’analisi empirica). Certo, coloro che diffidano di ogni teoria che astragga dall’individuo, troverebbero validi appigli per dimostrare che l’approccio sistemico costituisce l’esito di una (ricorrente) tendenza nella storia intellettuale della politica a ricostituire dimore totalizzanti e in qualche caso a confondere il sistema come strumento concettuale (nominalismo) con il sistema come dato reale (realismo). E per certo non si può negare che cedimenti in questo senso si siano effettivamente verificati nelle diverse prospettive con cui in scienza politica si sono elaborate queste costruzioni teoriche: che tuttavia non sono tutte uguali, e che pertanto andrebbero classificate, al plurale, come approcci sistemici. Soltanto nella letteratura politologica possiamo distinguerne almeno tre. C’è l’approccio di Almond – di esplicita derivazione struttural-funzionalista – per cui l’azione politica è per definizione strutturata in un reticolo

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di interdipendenze, è in sostanza inconcepibile al di fuori della “sintassi” sistemica3. C’è l’approccio input-output di Deutch che adotta lo schema di comunicazione cibernetica per spiegare analogicamente i processi decisionali (prescindendo da chi li pone in essere)4. E c’è infine il modello di Easton che, come si è ricordato, prende le mosse dalla teoria generale dei sistemi, depurandola dagli “inquinamenti” organicistici del funzionalismo5. Roba vecchia? Mode passate? Nel suo «epitaffio per un approccio di successo», Morlino osserva che «dietro la nozione di insiemi e di interrelazioni, ci sono ruoli, strutture, processi e possibilmente spiegazioni causali, non individui e azioni con motivazioni da comprendere, e non vi è quindi spazio alcuno per spiegazioni intenzionali di qualche tipo» [Morlino, 1989, p. 81]. Ed è vero che spesso l’ansia di astrazione, dominante nelle teorie sistemiche, ha fatto perdere di vista l’aggancio con l’azione sociale. Ma non è vero, d’altra parte, che i programmi empirici della ricerca politologica devono poco o nulla alle teorie sistemiche (e semmai vi hanno trovato ostacoli in termini di costrizioni concettuali e metodologiche, è stato a tutto vantaggio della ricerca empirica). Al contrario, penso che gli debbano moltissimo: se non altro il tentativo di analizzare la realtà politica attraverso un modello idealtipico della complessità, e in prospettiva – per quelle che sono le potenzialità ancora inesplorate sul piano dei rapporti fra approccio sistemico e teoria dell’azione politica – la possibilità di ottenere un modello configurativo delle conseguenze intenzionali e inintenzionali dell’azione, che dia conto del modo in cui la scelta di un singolo individuo combinandosi 3. «Tutte le interazioni che riguardano l’uso o la minaccia dell’uso della forza fisica» [Almond e Powell, 1970, p. 55]. 4. «La complessa rete di comunicazioni e controlli che orientano l’azione politica dei cittadini e i comportamenti delle autorità governanti allo scopo di pilotare con decisioni significative una qualche unità sociale» [Deutch, 1972, p. 22]. 5. «L’insieme di interazioni, astratte dalla totalità del comportamento sociale, attraverso il quale i valori vengono assegnati a favore della società» [Easton, 1984, p. 79].

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con quella di altri innumerevoli individui, metta capo a processi che possono essere ricostruiti e studiati nelle molteplici forme di aggregazione sovra-individuale. Si può assumere, in questo senso, la definizione che dà Fisichella della scienza politica come «scienza del contesto strutturale»: che esamina strutture (partiti, gruppi di pressione, parlamenti, burocrazie, ecc.), si sofferma sulle loro funzioni (articolazione, aggregazione, comunicazione, decisione, ecc.), sa che le interazioni fra le unità strutturali danno luogo a sistemi o subsistemi (partitico, sindacale, elettorale, politico, ecc.) [Fisichella, 1988, p. 30]6. Non che in questo campo le intenzioni e le motivazioni individuali siano irrilevanti, ma per certo, quanto più ci si sposta verso livelli di complessità teorica ed esplicativa (a riflesso della complessità con cui si presenta la fenomenologia della politica), tanto più è necessario assumere che le regole di condotta e le connesse regolarità dei comportamenti rinviano all’influenza di istituzioni sociali, politiche ed economiche [Ivi, pp. 32-33] Per parte sua Easton ha dedicato gran parte del suo lavoro più recente [1990] a mostrare l’utilità euristica di una analisi delle strutture (e cioè dei constraint meta-individuali) dell’azione politica7. In tutto il volume difende la sua posizione teorica, pur confermando che essa non si muove nella 6. Osserva in proposito questo autore: «Pur se i cittadini votano, o possono votare, sulla base di intenzioni e motivazioni le più contraddittorie, disparate e persino apparentemente assurde (...), sono le strutture – principalmente, sistema elettorale, sistema partitico – che traducono e incanalano la varietà delle intenzioni, più o meno razionali, nel processo elettorale e politico, oltre che a retroagire esse stesse come fattori motivazionali» [Fisichella, 1988, p. 33]. 7. «La scienza politica, così come ogni scienza sociale, ha a che fare con esseri umani in quelle relazioni con gli altri che noi designiamo come politiche. Necessariamente tutti gli scienziati sociali devono essere riduzionisti; la spiegazione dei comportamenti sociali deve essere riducibile all’attività delle persone e delle loro connessioni empiricamente evidenziabili con ogni altro. “Questa conclusione non significa, comunque, che i nostri metodi saranno in ogni momento storico abbastanza raffinati da permetterci di perseguire indagini basate su un tal genere di riduzionismo (...). In pratica le deficienze dei nostri strumenti tecnici di indagine ci impongono di essere metodologicamente olisti”. [Easton, 1990, pp. 257 ss.].

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prospettiva di un olismo organicistico. Le entità sovraindividuali non hanno una originale consistenza ontologica. Tutti i processi sociali sono in ultima analisi il prodotto dell’interazione di esseri umani individuali. Ma molti di questi processi, insiste Easton, in ragione della loro complessità, sarebbero irrappresentabili e inspiegabili se non ricorressimo a un procedimento di astrazione concettuale. «Il genere di olismo, come base esplicativa, di cui parlo [...], non richiede un coinvolgimento né in una metodologia individualista né in una olistica. Infatti, se devo proprio costringermi entro questa dicotomia, preferirei descrivermi come un olista pragmatico, associando Herbert Simon in questa definizione, ed allo stesso tempo un individualista metodologico teorico. In questo modo sarebbe possibile gettare un ponte nel golfo che separa le due posizioni» [Ivi, pp. 256-7]. Easton pensa appunto a una strategia eclettica – come credo sia quella cui approderò alla fine del mio ragionamento – che sia in grado di muoversi da un livello di astrazione a un altro, secondo le necessità del caso. Siccome i dibattiti metodologici nelle scienze sociali servono (o dovrebbero servire) a risolvere i problemi della ricerca empirica, vediamo se e come i riflessi di queste posizioni – che sarebbe preferibile assumere, rispettivamente, come prospettive di micro e macro analisi – si proiettano all’interno di uno specifico campo di studio della scienza politica, quello dell’analisi elettorale, al quale si collegano alcuni dei temi più rilevanti della fenomenologia politica (per esempio la partecipazione, la cultura civica, i partiti). 2. Approcci “micro” e approcci “macro” (applicazioni di analisi elettorale) Apparentemente non c’è niente di più consono alla prospettiva dell’individualismo metodologico dell’analisi elettorale. La scelta di voto – beninteso nei regimi di democrazia competitiva – si configura infatti come il momento in cui il cittadino entra con le sue opzioni nella vita politica, e le op-

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zioni espresse da tutti i cittadini nell’esercizio della sovranità popolare determinano conseguenze che ricadono su tutti, sia che corrispondano agli obiettivi di ciascuno, sia che vi contrastino. Un elettore di orientamento conservatore può, per esempio, decidere di rafforzare la dc con il proprio voto, prevedendo di rafforzare il blocco moderato. Ma può darsi pure che l’esito di azioni combinate dello stesso tipo, rafforzando la dc, conferiscano a questo partito la possibilità di aprire a sinistra (come in parte è effettivamente successo nelle consultazioni del ’76). Questi sono precisamente esempi dei cosiddetti effetti di «amplificazione» – overshooting – che si generano nei sistemi di interdipendenza [Boudon, 1977, p. 81], variamente definiti come effetti di composizione o di aggregazione, effetti «emergenti», differiti o «perversi» [Shelling, 1978]. E sono molto simili al meccanismo delle previsioni «suicide» o «autoadempientesi» descritte da Merton [1968]: per cui è possibile che una certa aspettativa diffusa metta in moto comportamenti la cui combinazione a livello di interdipendenze sociali determini conseguenze contrarie a quella stessa aspettativa; o che, viceversa, la previsione di una certa conseguenza negativa inneschi una serie di azioni che valgono, loro malgrado, ad avverarla8. È vero in ogni caso che, quanto più si procede a livelli di aggregazione successiva lungo la scala di astrazione che va dall’individuo al sistema, tanto più si perde in connotazione e si acquista in denotazione [Sartori, 1979, pp. 70-71]: cioè aumenta mano a mano il numero dei casi che sono inclusi nell’analisi, ma di pari passo diminuisce il numero di proprietà che definiscono distintivamente i diversi casi trattati. Questo problema è conosciuto nel campo delle 8. Per la verità, il fenomeno era già noto a Weber come «paradosso delle conseguenze» [Weber, 1966, pp. 110 ss.] e risale al concetto di «eterogenesi dei fini», caro alla filosofia storicistica tedesca. Secondo la formulazione che ne diede W. Wundt nel 1866, sviluppando un’idea che si ritrova nelle conclusioni della Scienza Nova di Vico, i fini che la storia realizza non sono quelli che individui o comunità si propongono, ma piuttosto la risultante del rapporto o del contrasto delle volontà umane con le condizioni oggettive.

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analisi elettorali come il problema dell’“errore ecologico”. In un famoso articolo del 1950, Robinson dimostrò che la correlazione fra analfabetismo e appartenenza alla razza negra, forte a livello di contea, si abbassava fino quasi a scomparire quando si passava a livelli inferiori di aggregazione. Il passaggio da enunciazioni che riguardano i comportamenti aggregati – per esempio in un collegio elettorale – al comportamento individuale implicano deduzioni che possono essere sbagliate. Le tecniche usate per la misura delle parentele statistiche fra le variabili (tecniche di correlazione e di regressione fra risultati di voto da una parte e caratteristiche “ambientali”, quali il livello di benessere, l’istruzione, la stratificazione professionale dall’altra) contribuiscono a creare questo tipo di distorsioni in quanto si basano appunto sui grandi numeri [Robinson, 1950]9. Conviene distinguere, a questo proposito, fra unità di analisi e unità di raccolta o di rilevazione. Le unità d’analisi sono il tipo di oggetti – distinti in una pluralità di casi – di cui si occupa una particolare ricerca (e possono essere individui, gruppi, unità ecologiche o addirittura eventi, come per esempio le elezioni). Le unità di rilevazione costituiscono il contesto spazio-temporale nel quale vengono raccolte le informazioni relative alle proprietà dei casi (la sezione elettorale, la città, la regione ecc.). Se le informazioni sono raccolte a un livello inferiore di quello a cui sono riferite, si parla di proprietà analitiche o “aggregate” [Lazarsfeld e Menzel, 1967]: per esempio, sono proprietà aggregate del comune il reddito medio dei suoi abitanti e il tasso di partecipazione elettorale o i voti ottenuti dal partito ‘‘x’’ nella tale elezione. Caratteristica delle proprietà aggregate è di essere rilevate sulle 9. A parte le obiezioni metodologiche che sono state avanzate contro questa tesi, bisogna riconoscere che, anche se si disponesse di dati individuali da aggregare per formulare induttivamente proposizioni relative all’“insieme”, vi sarebbe sempre una significati-va perdita di informazioni sul comportamento individuale (le categorie statistiche dell’“uomo-medio” o del valore modale di una proprietà costituiscono semplificazioni non meno fuorvianti dei ragionamenti per aggregati). Per una discussione critica del problema: Alker [1974].

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parti e riferite all’intero. È possibile anche, con il processo inverso, che una proprietà rilevata sull’intero sia riferito a una parte: se parti sono gli individui, il numero dei membri delle famiglie, il prestigio della professione che esercitano, le dimensioni del comune di residenza, rappresentano altrettante proprietà contestuali [Ivi, p. 382], che possono includere anche proprietà appartenenti ad altri individui (preferenze politiche dei genitori, titolo di studio dei figli, ecc.). Resta il problema di che cosa vogliamo dire, in termini empirici, quando parliamo, ad esempio, di identificazione di partito, mobilità dell’elettorato, stabilità o volatilità del voto. Ci riferiamo a proprietà “globali” del sistema politico, del partito, dei gruppi sociali, dei ruoli, ecc., oppure stiamo parlando di caratteristiche aggregate di singoli individui? È ovvio che nei fatti sociali tutti i concetti sono riducibili in ultima istanza alle azioni degli individui (persino proprietà fisiche, come l’ampiezza di un comune, derivano da decisioni prese sotto forma di leggi o regolamenti per la delimitazione amministrativa del territorio). E c’è di più: che se si vogliono analizzare proficuamente dal punto di vista empirico queste proprietà, occorre procedere alla “operazionalizzazione” dei concetti, ovvero alla traduzione dei suoi significati in termini suscettibili di trattamento empirico (per “identificazione di partito” si può scegliere di considerare, ad esempio, la frequenza con cui un determinato soggetto si dichiara d’accordo con le strategie adottate dal vertice del partito cui aderisce). È chiaro che quanto più si scende di astrazione e di generalità nelle enunciazioni, tanto più ci si avvicina all’unità individuale. Questo, tuttavia, non esclude che si possano assumere come oggetti di studio sistemi di interdipendenza più ampi, e non esclude nemmeno che – entro certi limiti – questi sistemi abbiano delle proprietà autonome rispetto ai singoli individui, che finiscono col condizionare le loro stesse azioni e le scelte che le muovono. Il problema – dal punto di vista metodologico – si sposta allora nuovamente sul versante dei livelli di ricerca. Come ha rilevato Rokkan, gli studi che si ritrovano in letteratura

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sull’analisi dei comportamenti elettorali (e in genere degli altri comportamenti politici) possono essere raggruppati in quattro classi in base alle direzioni d’analisi [Rokkan, 1982, pp. 56-57]: 1) studi micro-micro sugli effetti delle posizioni di background sui comportamenti elettorali (per esempio i rapporti fra istruzione, reddito, sesso da una parte e partecipazione politica dall’altra [Verba, Nie e Kim, 1987]); 2) studi micro-macro sulle relazioni fra caratteristiche individuali e proprietà del sistema culturale (per esempio gli studi di Almond e Verba [1963] sulla cultura politica, intesa come l’insieme degli atteggiamenti cognitivi, affettivi e valutativi nei confronti della politica); 3) studi macro-micro sugli effetti di variazione dei contesti strutturali sulle decisioni politiche (per esempio le influenze dell’ingegneria elettorale sui comportamenti di voto [Fisichella, 1982]; 4) studi macro-macro sulle interdipendenze fra sottosistemi (per esempio partitico ed elettorale [Sartori, 1982, pp. 97-128] o i rapporti fra cultura e struttura politica [Almond e Powell, 1988]). Più in generale, negli studi elettorali possono distinguersi due tradizioni specifiche: l’analisi ecologica e le indagini survey [Mannheimer, 1989, pp. 146-150]. In realtà, sia l’una che l’altra possono essere impostate in chiave individualistica, anche se la seconda sembra la tecnica più conforme, ma non sempre efficace, a dar conto del comportamento elettorale e delle sue motivazioni. In ogni caso, come osserva Sartori [1976, p. 329], è illusorio pensare di inferire il tipo di personalità politica degli elettori dal comportamento di voto, sia che venga rilevato attraverso l’analisi di variabili «contestuali» (analisi ecologica), sia che venga rilevato attraverso un sondaggio diretto delle opinioni. Altro è il problema quando l’alternativa riguarda il modo in cui si guarda al fatto elettorale: se dal punto di vista complessivo del sistema politico o del sistema dei partiti, ovvero dal punto di vista dei comportamenti degli elettori. In questo caso, in effetti,

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l’alternativa rimanda in qualche modo alla contrapposizione fra approccio sistemico e individualismo metodologico (indipendentemente dalle tecniche di indagine utilizzate). Quando si parla di approccio sistemico nelle scienze sociali, non si può fare a meno di risalire per un verso o per l’altro all’opera di Talcott Parsons e alla complicata architettura del suo sistema di azione sociale. Non solo la politica come “sottosistema”, ma anche i comportamenti elettorali vengono presi in adeguata considerazione, alla luce di alcune osservazioni empiriche tratte dalle ricerche americane degli anni ’50. Il «cittadino-votante» di Parsons è un attore assolutamente privo di calcolo razionale, e persino di capacità di scelta: il voto che egli esprime è essenzialmente un «atto di fede» governato da meccanismi inconsci e automatici che lo inducono a un’azione di per sé estranea ai suoi interessi privati e ai suoi ruoli sociali [Parsons, 1975, p. 235]. Solo all’interno dei gruppi di riferimento l’individuo può trovare la sua identità politica e le motivazioni necessarie per compiere la sua scelta di voto, che equivale quindi a una riaffermazione dei propri vincoli di appartenenza. Alla logica delle identificazioni collettive – che si inserisce in un’ottica sistemica almeno nel senso di attribuire rilevanza ai condizionamenti del «tutto» sulle «parti» – si ispira anche la teoria della scelta democratica recentemente riproposta da Pizzorno. Anche il soggetto pensato da Pizzorno risulta un cittadino “debole”, frammentato in una pluralità di ruoli pubblici e privati che si disperdono nello spazio sociale e si succedono nel tempo storico. Il problema politico di questo individuo consiste pertanto nell’acquisizione di una identità coerente e stabile (per quanto possibile). L’argomento centrale della teoria di Pizzorno è infatti la constatazione che anche «le persone sono indeterminate come lo sono i partiti, le nazioni, i movimenti» [Pizzorno, 1983, p. 20]. E il comportamento politico si spiega dunque secondo due dimensioni prevalenti: il grado di identificazione dell’individuo nelle proprie «cerchie di riferimento», il modo in cui le realtà collettive influenzano orientamenti e opzioni individuali.

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L’eco di queste e altre teorie giunge comunque assai debole e quasi del tutto spenta sul campo della ricerca elettorale. Ciò nonostante, è possibile configurare un buon numero di studi che, pur non disponendo di una vera e propria teoria dell’azione politica10, adottano una prospettiva sistemica o più propriamente di tipo “macro-sociologico”, che si ricollega per più di un aspetto al modello del party-identification. Secondo un punto di vista largamente diffuso nella letteratura italiana, i voti contano solo in termini di risultati e i comportamenti vengono solo contati [Corbetta e Parisi, 1974, p. 218]. La storia elettorale diventa così immediatamente leggibile, piuttosto che come storia di cambiamenti degli elettori, come storia di cambiamenti dei partiti e dei loro equilibri all’interno del sistema politico. Se ripercorriamo tutta la tradizione degli studi in Italia, ci accorgiamo che questo è il punto di vista prevalente. I concetti di stabilità elettorale [Capecchi et al., 1968], di mobilità e di movimento [Parisi e Pasquino, 1977], di fluidità e vischiosità [Barbagli et al., 1979] rispondono a una logica di ricerca per la quale la catena delle interdipendenze è percorsa fino al livello estremo di aggregazione (il sistema cambia o non cambia come esito complessivo del gioco fra i partiti). Alla base di queste metodologie di indagine è implicita l’idea – espressa chiaramente da Parisi e Pasquino [1977, p. 217] – che «il risultato di una consultazione elettorale è figlio, oltre che del comportamento di voto, anche del sistema partitico e del sistema elettorale». Ma anche e soprattutto – secondo una consolidata tradizione di studi inaugurata dall’opera pionieristica del Cattaneo sul comportamento elettorale in Italia [Capecchi et al., 1968] – di subculture politiche, identificate sulla base di tradizioni storiche specifiche di alcuni contesti territoriali (com’è noto, la ricerca del Cattaneo ne 10. Sulla scarsa attenzione per una teoria dell’azione che faccia da sfondo alle analisi sulla società e sulla politica insiste specialmente (e giustamente) Gallino [1987]. Un tentativo di riconsiderazione del concetto di azione politica è quello di Stoppino [1994].

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individuava quattro: il Nord industriale, la zona «bianca», la zona «rossa» e il Meridione). Le subculture sono reti di appartenenza collettiva nelle quali l’integrazione allo Stato è mediata essenzialmente dai partiti di massa e dai loro retroterra ideologici e organizzativi [Sivini, 1967], che funzionano (o hanno in passato funzionato) come assi fondamentali del conflitto politico (cattolicesimo/socialismo, sviluppo/sottosviluppo, confessionalismo/ laicismo). Questo schema è servito per lungo tempo a spiegare la sostanziale stabilità nelle scelte di voto. Come scrivono i ricercatori del Cattaneo, «nelle zone nelle quali la tradizione politica è tanto radicata da essere anche fortemente tradizione familiare (...), nelle quali l’integrazione tra famiglia e ambiente in termini di diffusione dell’immagine della società, di modelli di comportamento, di processo di socializzazione risulta assai elevata, i partiti egemoni trovano il fondamento della propria egemonia nella percezione dell’atteggiamento acquisito e non modificabile se non in condizioni eccezionali» [Ibidem, p. 320]. Quando, negli anni ’70, si trattò di spiegare il “terremoto elettorale” che sembrò abbattersi sul sistema politico italiano, si tenne a distinguere fra i concetti di mobilità (degli elettori) e di movimento (dei voti), per cui si osservava che, a fronte di flussi di scelta elettorale anche cospicui che si trasferivano dall’uno all’altro partito, gli effetti complessivi in termini di spostamento dei voti ai singoli partiti erano assai modesti. E questo perché – era l’ipotesi di Parisi al quale si deve l’introduzione di questi concetti [1979, p. 37] – la convertibilità del processo di cambiamento a livello di orientamenti individuali nel contesto del sistema politico (potremmo dire in termini di individualismo metodologico: la coerenza fra le aspettative degli elettori e gli esiti di interdipendenza delle loro scelte) dipende dal grado di mobilitazione (o smobilitazione) della competizione fra i partiti, cioè dalla forza della contrapposizione fra schieramenti e programmi alternativi o viceversa dalla totale assenza di questa contrapposizione: nel primo caso (per

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esempio nelle elezioni del 1948 e del 1976) il movimento verrebbe innescato dall’incertezza dell’esito e dalla tendenza degli elettori a disporsi attorno a scelte semplificate e unificanti; nel secondo caso (per esempio nelle elezioni del 1963 e del 1983) il movimento è generato dal senso di maggior “rilassamento” dell’elettorato, che consente l’esplicazione di scelte più espressive che strumentali, la disponibilità a richiami localistici, il ritiro della delega verso l’astensionismo [Corbetta e Parisi, 1984, pp. 242-245]. Più o meno con la stessa logica è impostata la tipologia del voto di Parisi e Pasquino [1977] che ha avuto una larga risonanza nei lavori successivi dedicati al caso italiano. È una tipologia che cerca di rispondere all’interrogativo non solo per chi si vota, ma chi e per che vota, affidandone la soluzione alle relazioni che legano «votante» e «votato» [p. 220]. Ciò che si indaga sono in concreto, quanto al chi, i gruppi e le classi sociali rilevate su indicatori composti (reddito, qualifica professionale, età, sesso), quanto al per che, costrutti ipotetici ricavati in base a particolari “immagini” collettive con cui si suppone che gli elettori siano soliti rappresentarsi i partiti ai quali in un modo o nell’altro decidono di legarsi: come sistemi di solidarietà e di riferimento ideologico (voto di appartenenza), come strutture che distribuiscono risorse e “favori” (voto di scambio), come soggetti destinatari di un mandato politico, la cui titolarità – in democrazia – spetta al cittadino (voto d’opinione). Come si fa a sapere quale tipo di voto caratterizza l’elettorato di un determinato partito? Se ad esempio una data elezione altera in qualche misura la relazione fra cattolici e dc, o quella fra operai e Pci, o ancora quella fra laici e partiti minori – che si consideravano altrettante dimensioni costitutive della competizione politica in Italia – si è portati a supporre che in quella elezione sia cresciuto il voto d’opinione e correlativamente diminuito quello di appartenenza, oppure che, a parità di condizioni, siano subentrate presso alcuni segmenti di elettorato aspettative clientelari (come nel caso in cui specifiche categorie con interessi particolaristi-

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ci – pensionati, commercianti, insegnanti – dirigano le loro preferenze su questo o quel partito). A parte qualche riscontro su dati aggregati, la tenuta empirica della proposta è ancora tutta da dimostrare. Di fatto, essa può dar conto al massimo del tipo di voto, o meglio del significato complessivo che si possono attribuire ex post, con inevitabili margini (ed eccessi) di arbitrarietà, alle relazioni fra partiti ed elettori, ma non degli specifici orientamenti elettorali nei quali – come riconoscono gli stessi autori – sono normalmente presenti più tipi o motivazioni di voto11. Eppure, nonostante i suoi limiti, questa tipologia costituisce un tentativo assai apprezzabile di agganciare la logica del voto come prodotto di processi “ambientali” alla logica del voto come azione individuale (sia pure nel contesto di complesse relazioni con l’ambiente). Cioè il tentativo di superare il rischio latente di «behaviorismo acritico» che lamenta Gallino quando osserva che «le situazioni, i dati sociografici, le affiliazioni di classe e di partito o di cultura si configurano come inputs in una scatola nera, il cui contenuto ignoto rappresenta appunto l’attore mancante, e dalla quale fuoriescono a titolo di outputs scioperi e voti, migrazioni e comportamenti devianti, pratiche religiose e ideologie» [Gallino, 1985, p. 97]. La debolezza degli approcci “collettivisti” potrebbe essere svelata con le parole di Duesenberry [1960, p. 20], per cui, mentre l’economia studia come la gente compie delle scelte, la sociologia (e la scienza politica) spiegano perché non ha nessuna scelta da compiere. Se ne ricava dunque l’immagi11. Il problema se lo pongono lo stesso Parisi insieme a Rossi [1978] in un articolo che cerca di indicare la strada per un fruttuoso impiego empirico della tipologia in oggetto. E la lezione è colta in pieno da Cartocci [1990] con una ricerca che ha il merito di mettere a punto alcuni indicatori empirici – fra cui l’astensionismo e i risultati referendari – che sfruttano fino all’estremo limite le potenzialità dell’analisi aggregata. Senonché la tipologia dei comportamenti elettorali richiama proprietà troppo “individualistiche” per essere inferite correttamente dai soli dati ecologici.

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ne di una sociologia senza attori, per cui diventa necessario riportare gli uomini al centro della teoria [Homans, 1976]. A questa esigenza rispondono, anche nel campo degli studi elettorali, le teorie “economiciste” della politica basate sui fondamenti della rational choice. Il problema – da Schumpeter a Downs che ne sono gli ispiratori – è quello di trasferire i modelli di competizione fra imprese e di equilibrio del mercato in campo politico [per un bilancio critico: Pappalardo 1989, pp. 193-216]. Tutte queste teorie hanno in comune il presupposto che l’uomo agisce in vista della massimizzazione delle utilità attese. Nell’elaborazione teorica di Schumpeter la politica è concepita e descritta come «mercato», le politiche come «prodotti», il consenso politico come «moneta»: al soggetto individuale, come «imprenditore politico», corrisponde l’attore sociale «consumatore» di politiche e detentore della moneta elettorale [Schumpeter, 1955]. Ma la razionalità dell’elettore schumpeteriano è assolutamente limitata, in quanto non riesce a vedere oltre il proprio naso, oltre il proprio particolare. Il che, come ammette lo stesso Schumpeter (Ivi, p. 254), «lo induce a diventare cattivo giudice anche dei propri interessi lontani, dato che solo le premesse a breve termine esercitano una presa politica». Dal suo canto, la sagoma dell’attore razionale disegnata da Downs ha tratti ugualmente forti ma anche maggiore elasticità. Il modello dell’azione politica subisce alcune significative varianti e prevede, da un lato, che la funzione “imprenditoriale” sia esercitata non da un soggetto individuale, ma dal partito assimilato a un’azienda «che cerca di ottenere più voti di ogni altro al fine di conquistare e/o mantenere il governo», e dall’altro lato che «ciascun cittadino – per cui viene mantenuto il formato individuale – attribuisce il proprio voto al partito che, ritiene, gli fornirà una maggior quota di benefici rispetto ad altri» [Downs, 1957, pp. 30-36]. Si postula in questo caso il prototipo di un elettore più “scaltro”, che riesce a valutare interessi di lungo periodo e si attrezza a farlo accollandosi costi anche elevati soprattutto in termini di informazione sui programmi politici.

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Non è tuttavia chiaro, stando alle premesse di queste teorie, in cosa consista la razionalità strumentale di individui costretti a pagare prezzi assai onerosi – in attenzione, informazione, coinvolgimento, mobilitazione: costi, si potrebbe dire, se non altro di “lucro cessante” – in cambio di benefici eventuali e differiti, peraltro ottenibili ugualmente anche con investimenti più ridotti o addirittura senza sforzo alcuno dal momento che le politiche – per loro stessa definizione – sono orientate e distribuite collettivamente. È questo il senso del «paradosso del portoghese» – l’ormai celebre metafora del free-rider – enunciato e sviluppato da Olson [2013] a dimostrazione della sua logica di azione collettiva: nessuno è disposto a lasciarsi coinvolgere in imprese di partecipazione politica, tanto più in quanto consapevole che il proprio apporto rappresenta un incremento marginale del tutto trascurabile ai fini delle decisioni collettive e comunque assai inferiore rispetto ai costi (di tempo, di informazione, di tensione emotiva), a meno che non esistano degli incentivi negativi o positivi che lo inducano ad agire. Uno dei tentativi più compiuti e più recenti di superare quello che nella letteratura neo-utilitarista (e nelle riflessioni di senso comune) passa come il «paradosso del votante» (perché la gente continua a votare, sapendo che il suo singolo voto non avrà conseguenze) è quello elaborato da Fiorina [1978] nel solco della tradizione di rational choice. Per spiegare la scelta elettorale Fiorina costruisce una classificazione a tre voci basata sulle motivazioni individuali del comportamento di voto. Quando il voto è dato unicamente sulla base delle utilità attese dalle politiche di un partito viene chiamato «di contenuto» (issue voting): ed è la scelta razionale per eccellenza [Ibidem 1978]. Quando non si valutano promesse, ma si premiano o puniscono azioni passate, e l’elettore si comporta come «un dio razionale di vendetta e ricompensa» [Id., 1977, p. 604], siamo in presenza del «voto retrospettivo semplice». Anche l’identificazione di partito configurerebbe, in questa ottica, l’effetto di un bilancio complessivo da parte dell’elettore, in termini di voto «retrospettivo complesso

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(intertemporale)», di tutte le passate esperienze avute con un certo partito. Mentre, per spiegare la forte persistenza del fattore ereditario che sfugge a qualsiasi schema di comportamento razionale, si invoca un quarto fattore, definito the initial bias, la distorsione originaria, «che l’individuo porta con sé entrando nell’arena politica e che è presumibilmente funzione diretta della socializzazione, ma indirettamente è funzione delle esperienze passate dell’agente socializzante» [Id., 1978, p. 610]. Il modello di Fiorina si presta a osservazioni critiche estendibili a tutte le teorie utilitaristiche della “scelta democratica” che operano nella sfera della politica. La prima è che, perseguendo coerentemente la strada di un’analisi economica del voto – e più precisamente la riduzione della logica di comportamento individuale al «calcolo razionale», si giunge a conclusioni contraddittorie rispetto alle premesse di prevedibilità dell’«elettore razionale», unicamente determinato dalla lista delle proprie preferenze utilitaristiche. L’impossibilità di comprimere tutte le motivazioni del voto nel modello del «cittadino-calcolatore» (e fra parentesi l’impossibilità logica che le pratiche di scambio politico possano riguardare un numero ampio di soggetti), il ricorso alla figura del «cittadino-giudice» insieme all’ammissione che nelle scelte elettorali, come in ogni altra scelta politica, giochino fattori irriducibili allo schema utilitaristico, significa in sostanza due cose: che non è sostenibile una teoria dell’equilibrio politico basata sul presupposto – irrealistico anche in economia – della transitività delle preferenze individuali; che pesano comunque fattori esterni all’individuo come determinanti delle sue scelte. Sotto il primo profilo si deve convenire che la logica dell’azione individuale in politica non può essere ricostruita secondo un modello di razionalità “parametrica”. L’argomento del free-rider o il «dilemma del prigioniero» dimostrano che nessuno, per via razionale, accetterebbe mai strategie cooperative: tanto che l’esito normalmente previsto in questi modelli è la coercizione [Giglioli, 1989, p. 119]. Nell’ambito

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delle stesse posizioni ispirate all’individualismo metodologico vanno peraltro affermandosi risposte “deboli” al problema della razionalità: come nel caso della «razionalità situata» di Boudon [1987, p. 187], che altro non è se non la “ragionevolezza”, riconoscibile per interpretazione simpatetica, le buone ragioni che l’individuo dimostra di fornire a giustificazione del suo comportamento, date le proprie credenze, le risorse a sua disposizione e l’ambiente in cui opera. Sotto l’altro profilo, non convince del tutto l’obiezione di Pizzorno [1983, p. 25] che il processo politico, visto come schema di passaggio dalla domanda all’azione (degli elettori e degli eletti), è fondato precipuamente sui meccanismi di identità collettiva, ossia sul fatto che «l’identità di un individuo può soltanto consistere nell’identificabilità di esso da parte di altri individui (un gruppo, un pubblico, un’entità collettiva qualsiasi, insomma un sistema di relazioni), e che quindi i processi di soddisfazione dei bisogni variano secondo le diverse identità collettive che li sostengono (e li riconoscono)». Sta comunque di fatto che, alla base dei processi di identificazione collettiva – di adesione a un gruppo o a un sistema di valori – vi è sempre un comportamento mosso da interessi, anche se non necessariamente di tipo economico. Un’altra serie di osservazioni riguardano la debolezza empirica delle teorie neo-utilitaristiche della politica. Le previsioni specifiche avanzate in questi studi si dirigono specificamente verso i comportamenti di voto, le forme della competizione fra partiti, il funzionamento dei sistemi di rappresentanza, l’andamento dei “cicli” politico-economici. Finora l’esame di queste previsioni ha dimostrato o che esse sono comuni ad altre teorie, o che le variabili proposte non si manifestano in indicatori quantificabili e osservabili, o che le ipotesi proposte non sono verificate [Mueller, 1979]. Il che peraltro succede normalmente a tutte le altre teorie di diverso orientamento e non toglie nulla ai meriti di un’analisi che tenta di dar conto delle capacità degli individui, in un contesto di libere scelte, a conseguire criteri di efficienza nell’azione politica. Semmai ne segnala i limiti e alcune in-

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congruenze sul piano metodologico, nonché le carenze sul piano dei contenuti di analisi. 3. Codicillo metodologico: esiste una “terza via” fra individualismo e collettivismo? Vediamo di tirare qualche conclusione, riprendendo gli spunti da cui siamo partiti circa i rapporti tra approccio sistemico e metodologia individualistica nelle diverse varianti con cui si innestano rispettivamente nell’analisi della politica. Ne abbiamo cercato alcune esemplificazioni concrete sul terreno degli studi elettorali, che per la natura stessa del loro oggetto di indagine e la latitudine dei significati che assumono, si prestano assai bene a verificare la portata di una simile contrapposizione metodologica. Ma altri esempi sono naturalmente possibili, nella vasta fenomenologia presa in esame dalla scienza politica contemporanea, per dar conto – rovistando fra armamentari teorici e strumentazioni empiriche – delle impostazioni e delle soluzioni date a questo problema. I punti di domanda che rimangono in sospeso sono sostanzialmente due: esiste un tertium genus fra olismo e individualismo metodologico? E se no, queste due strategie di ricerca sono veramente alternative, come sembrano a prima vista o si possono trovare soluzioni di raccordo plausibili? Non credo che vi siano risposte definitive a questi interrogativi, e comunque io non ne ho. Il mio contributo si limiterà pertanto ad alcune riflessioni e a qualche modestissima proposta: sempre, tuttavia, volutamente discutibili. La “terza via” potrebbe essere quella indicata dall’insieme delle teorie “situazioniste” (interazionismo simbolico, sociologia cognitiva, etnometodologia, fenomenologia sociale)12 di recente raccolte in un’opera antologica a cura 12. Ciascuna di queste scuole ha una sua storia e una precisa collocazione teorica nell’ambito delle scienze sociali, che sarebbe oltremodo complesso ricostruire in

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di Knorr-Cetina e Cicourel [1981]. Ma il problema delle relazioni fra olismo e individualismo metodologico è qui riformulato – a mio parere più correttamente – nei termini di una relazione fra livelli di analisi distinti e tuttavia compatibili (e con ciò si viene a rispondere anche al secondo quesito prima posto). Nella sua introduzione all’opera, Knorr-Cetina precisa subito quali dovrebbero essere gli intenti programmatici del “situazionismo”: «la ricostruzione della teoria e metodologia macro-sociale basata su una fondazione micro-sociologica» [p. 2], lungo tre direttrici principali: un’ipotesi aggregativa, per cui i macro-fenomeni sono costituiti da condensazioni e ripetizioni di micro-fenomeni simili [R. Collins, 1975]; un’ipotesi «delle conseguenze», secondo la quale le proprietà del livello macro emergono per effetto delle conseguenze – intenzionali e non – di micro-eventi [Popper, 1975, Boudon, 1981]; e un’ipotesi «della rappresentazione», attribuita a Cicourel, che «concepisce il livello macro come attivamente costruito e perseguito all’interno della situazione micro-sociale» [Ibidem p. 40]. È vero che attraverso queste ipotesi (quanto meno la prima e la seconda) si riesce a stabilire un punto di equidistanza fra le versioni più radicali degli approcci “macro” e di quelli individualisti: contestando da una parte ai primi la tendenza, se non a ignorare, a rappresentare il ruolo dell’attore individuale con immagini costruite ad hoc, mediante aspetti tipizzanti in cui la logica del sistema osservante può nascondere la sostanza dell’azione; e al tempo stesso d’altra parte differenziandosi dai secondi, in quanto non si considera come unità d’analisi l’attore individuale scisso dal contesto sociale, ma la situazione elementare in cui gli individui interagiscono al fine questa sede. Bastino qui pochi riferimenti agli autori più rappresentativi delle diverse tendenze: per l’interazionismo simbolico Goffman [1974]; per la sociologia cognitiva Berger e Luckmann [1968]; per la fenomenologia sociale Schutz (1974); per l’etnometodologia Garfinkel [1967]. Cfr. inoltre, per una valutazione complessiva, Giglioli e Dal Lago [1983].

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di negoziare, definire e rielaborare costantemente l’identità e gli interessi individuali (si pensi, in questo senso, alla frames analysis [Gofmann, 1974]). È altrettanto vero, però, che il tertium genus rimane poco più che una presenza fantasmagorica, una presenza costantemente evocata e mai materializzata, come è costretta ad ammettere la stessa Knorr-Cetina quando tenta un bilancio complessivo dell’operazione: di fatto, la maggior parte degli orientamenti micro-sociologici finiscono per riproporre una scelta monista, per effetto della quale i livelli di analisi si riducono a uno solo, tanto che si sente la mancanza di un modello teorico «che tematizzi le interrelazioni fra eventi sociali e si riferisca ai legami fra lo svolgersi di diverse micro-situazioni» [Ibidem, pp. 38-40: corsivi nostri]. Non ci resta che ripartire dall’assunto popperiano sul quale non possiamo non dirci d’accordo: che fra i compiti delle scienze sociali rientri lo studio delle conseguenze volute e non volute delle azioni intenzionali. E cerchiamo di reinterpretarlo alla luce dei rapporti fra micro-situazioni e macro-fenomeni. Il che significa che il compito delle scienze sociali implica tanto la spiegazione del comportamento (come azione), quanto la spiegazione teleologica dell’azione, cioè del comportamento concepito intenzionalmente. Possiamo spiegarci meglio con alcune precisazioni concettuali ricavate da R.G. Collingwood [Von Right, 1977, p. 213]. L’azione può essere descritta, in sintesi, come un processo destinato al raggiungimento di determinati risultati. E si presenta normalmente con due aspetti: uno “interno”, che sta dietro le manifestazioni esterne dell’azione (comportamenti) e comprende i vari elementi della dimensione cognitiva (quindi, in primo luogo, l’intenzione, ma anche gli interessi e le aspettative che sostengono la volontà di agire); l’altro “esterno” che è l’evento al quale l’azione è causalmente collegata attraverso il comportamento. Proviamo a rappresentarci schematicamente questo processo come nel diagramma sottostante:

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Figura 1: Il processo d’azione Intenzione Interesse

Manifestazioni esterne

Risultato

Stati mentali

Comportamenti

Eventi

azione teleologica

Retroazione

Normalmente, i dati osservativi dell’analisi empirica sono costituiti dalle manifestazioni esterne dell’azione, che tuttavia possono presentarsi o senza intenzione, nel senso dei meccanismi «stimolo-reazione» descritti dalla psicologia behavioralista, o senza risultato, sia nel senso in cui questo venga del tutto a mancare, sia nel senso che venga a mancare il nesso teleologico fra intenzione e obiettivi dell’azione (e cioè l’evento è diverso da quello voluto). In quest’ultimo caso c’è da tenere presente gli effetti di retroazione che le conseguenze inintenzionali possono comunque produrre sulla sfera degli interessi soggettivi13. All’interno di questo schema i fatti che attengono alla partecipazione elettorale possono essere analizzati, ad esempio, in termini di comportamenti di voto (quanti hanno votato chi), in termini di stati cognitivi (le intenzioni degli elettori, i loro interessi, le loro opzioni di valore, gli orientamenti di cultura politica, ecc.), o in termini di eventi, cioè di fatti che 13. In proposito esiste una esemplificazione interessante nella cosiddetta «regola delle reazioni previste», enunciata nell’ambito delle teorie sul potere politico [Friedrich, 1963, pp. 199-215]: si può esercitare un’azione di potere in modo anche inintenzionale, purché gli effetti non previsti, né predeterminati (ad esempio l’autocensura che un giornalista si impone nei confronti di un esponente politico, semplicemente temendo una sanzione da parte di quest’ultimo) ricadano nella sfera di interesse del soggetto (l’esponente politico), che, senza aver indotto in modo esplicito il comportamento di autocensura, lo trova alla fine conveniente per sé.

Problemi di sfondo dell’analisi sociale e politica

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realizzano (o no) una qualche corrispondenza fra intenzioni e risultati. Ma il problema certamente più delicato per la scienza politica – come per le altre scienze sociali – è quello di rendere intellegibili, spiegabili e quindi prevedibili, i processi d’azione che scontano conseguenze inintenzionali e che, nel gioco delle interdipendenze incrociate, si collocano su un piano diverso da quello degli individui, essendo il risultato di combinazioni particolari degli effetti delle loro azioni. Queste possibilità “combinatorie” si sviluppano e si organizzano su gradi di complessità diversa e a differenti livelli di analisi: e a ogni passaggio di grado o di livello possono presentare qualità emergenti, in quanto non contenute dalle parti ma dipendenti dalla loro interazione [Phillips, 1980, p. 34]. Possiamo immaginarci una tipologia a quattro voci dell’azione sociale, incrociando le dimensioni dei livelli di analisi (micro/macro) e dei modi di combinazione degli effetti (inintenzionali) che conseguono dalle azioni degli individui, come nello schema qui appresso riportato: Tav. 1 - Tipologia dei modelli di azione sociale Gradi di composizione dell’azione Livelli di analisi

Interindividuale

Metaindividuale

Micro

effetti seriali

effetti situazionali

Macro

effetti aggregati

effetti sistemici

Questi effetti, a seconda delle prospettive d’analisi adottate, possono quindi essere studiati come: 1) effetti seriali, vale a dire come il risultato di azioni individuali indipendenti l’una dall’altra; 2) effetti aggregati, quelli che si ottengono dalla semplice sommatoria delle conseguenze imputabili alle azioni individuali; 3) effetti situazionali, in quanto “emergono” dall’interazione fra più individui in contesti di vita elementari; 4) effetti sistemici, che si collocano nella trama dei processi di interdipendenza con cui si combinano fra loro, a

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un livello più alto di complessità, le diverse situazioni sociali. Una prospettiva rigidamente individualista consentirebbe di muoversi esclusivamente sul piano delle combinazioni interindividuali. Al contrario, una prospettiva rigorosamente collettivista si troverebbe a suo agio solo sul piano dell’analisi sistemica (e forse, se meno rigorosa, accetterebbe almeno di spostarsi a livello dei piccoli contesti). Una prospettiva che non accogliesse nessun apriorismo – né in senso individualistico, né in senso collettivistico – proverebbe a considerare tutti questi piani di analisi come fra loro comunicanti, e semmai sceglierebbe l’uno o l’altro approccio sulla base delle necessità metodologiche sollevate dai problemi di ricerca, cercando di tener presente l’ammonizione di Wittgenstein a considerare «l’intento come adagiato nelle situazioni, nelle abitudini e nelle istituzioni umane».

2. Sui metodi empirici (in generale)

1. Le ipotesi come teorie, le teorie come ipotesi Il primo passo di qualsiasi programma di ricerca scientifica consiste nella formulazione delle ipotesi. Un’ipotesi di contenuto empirico può essere definita come un’affermazione congetturale relativa alle relazioni fra due o più fenomeni (“operativizzati” – vedremo poi come – in variabili), espressa in forma tale da poter essere empiricamente controllata ed eventualmente falsificata. La priorità delle ipotesi su ogni altra fase del procedimento di analisi dei dati è un logico corollario del principio di falsificazione che Popper e la sua scuola hanno fatto prevalere sul principio di verificazione, come criterio di demarcazione fra asserti scientifici e non scientifici. Le ipotesi, in questo senso, sono un’anticipazione o una conseguenza di teorie, poiché non nascono dal nulla ma presuppongono uno schema concettuale – un problema, un’idea, teorie precedenti – da cui vengono tratte. È sbagliato perciò ritenere che esse procedano per via induttiva, dalle osservazioni via via sviluppate “sul campo” di ricerca, ed è semmai più corretto riferirsi alla loro genesi in termini di procedimento deduttivo. In modo ancora più efficace, Pierce parlava delle ipotesi come retroduction, ovvero come «effetti di ritorno» delle teorie [Pierce, 2008]: sono queste che suggeriscono continuamente gli indizi, le congetture che possono contribuire a migliorarle o a invalidarle, in ogni caso a progredire nei loro contenuti esplicativi. Le ipotesi possono dunque intendersi a loro volta come teorie provvisorie, par-

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ziali e incomplete, che sono chiamate a misurarsi con la prova dei fatti (ovvero di proposizioni relative ai fatti). Le strade che conducono alla produzione di ipotesi sono pertanto infinite, come infiniti sono i prodotti della fantasia e dell’immaginazione sociologica: può esservi il caso di un’ipotesi “letteraria”, quella che scaturisce da studi precedenti, di un’ipotesi “di lavoro”, quella che serve a compiere una ricognizione preliminare del problema per farsi un’idea più precisa sulle possibilità di ricerca, più semplicemente di un’ipotesi che sorge da esperienze o suggestioni personali. Non esistono di conseguenza regole precise, dal punto di vista tecnico, che ci istruiscano sul modo di formulare ipotesi “corrette”, se non le indicazioni che ci provengono dagli insegnamenti dell’epistemologia contemporanea: di elaborare degli enunciati osservativi provvisti di quelli che Popper definisce come «falsificatori potenziali» – cioè di proposizioni linguistiche formulate in modo da poter essere dimostrate false – e di evitare le cosiddette ipotesi ad hoc, inserite nella ricerca al solo fine di fornire una scappatoia contro i rischi della falsificazione empirica [Popper, 1970]. 2. Il piano d’osservazione: unità, casi, proprietà Una ricerca empiricamente orientata, che intenda cioè basarsi sul criterio della «corrispondenza ai fatti», deve poter predisporre un proprio piano di osservazione entro il quale sia possibile controllare la validità delle ipotesi formulate all’inizio. Questo significa compiere una serie di operazioni concettuali che ci consentono di “ricostruire” i fatti secondo i nostri interessi e di organizzarli in vista del loro trattamento euristico: quindi, in sostanza, di “ritagliarli” dal flusso di esperienze caleidoscopiche con cui li percepiamo («la sezione finita dell’infinità priva di senso» di cui parlava Max Weber), di scomporli in quelli che riteniamo i loro attributi fondamentali, di ricondurli ai loro referenti soggettivi e oggettivi. Quando, per esempio, ci proponiamo di indagare empiricamente un

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“fatto” elettorale sulla base dell’ipotesi che la partecipazione al voto dipenda in qualche misura dallo status sociale, abbiamo bisogno di circoscrivere più dettagliatamente l’oggetto e il terreno della nostra indagine: quale tipo di elezione vogliamo considerare (generali, locali, ecc.), quanti “turni” elettorali negli anni, il numero dei soggetti implicati, le loro caratteristiche personali (in termini di reddito, di orientamenti ideologici, di collocazione geografica), i contesti territoriali in cui vanno assunte le informazioni di cui abbiamo bisogno. Tutto questo insieme di operazioni preliminari può essere illustrato e definito mediante la matrice dei dati, che consiste in una scheda (del tipo di quelle che si trovano sotto forma di fogli elettronici nei programmi informatici di database) nella quale si raccolgono le informazioni più rilevanti in ordine al fatto che si intende indagare. Come mostra la figura 2, la matrice si compone di due dimensioni fondamentali: quella orizzontale – le righe – che rappresentano i casi inclusi nell’analisi (da C1 a CN), e quella verticale – le colonne – che rappresentano altrettante proprietà individuali assunte come specificazioni particolari dei casi (da P1 a PM). Nell’intersezione fra ciascuna riga e ciascuna colonna – nelle singole celle – si collocano i dati, cioè i valori o stati (quantitativi o qualitativi) assegnati a un certo caso su una certa proprietà (da D11 a DNM). Figura 2: Esempio di matrice dei dati Proprietà1

P2



PM

Caso1

Dati11

D12

D1M

C2

D21

D22

D2M









CN

DN1

DN2

DNM

Chiariamo meglio, secondo i protocolli terminologici più accreditati, i diversi elementi che caratterizzano la procedura di raccolta e di sistemazione dei dati della ricerca:

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1) L’oggetto della ricerca è l’insieme dei fatti cui si indirizzano gli interessi di indagine conoscitiva. Gli oggetti, da questo punto di vista, possono essere i più vari a seconda del campo di studio in cui si opera: per un biologo possono essere le cellule o i tessuti di un organismo, per un fisico le particelle atomiche, per un etologo gli insetti, per un politologo o per un sociologo saranno le azioni degli individui e le loro conseguenze intenzionali o non intenzionali, quindi anche eventi (elezioni, guerre, processi sociali) o istituzioni (famiglie, gruppi, partiti). 2) Le unità sono il tipo particolare di oggetti di cui ci si occupa in una data ricerca: si parla dunque di unità-individuo, unità-famiglia, unità-partito per delimitare meglio il campo d’osservazione, precisando la classe degli oggetti prescelti. È bene distinguere, a questo proposito, le unità d’analisi (o di riferimento) dalle unità di rilevazione (o di raccolta) dei dati. Le unità d’analisi costituiscono i particolari referenti empirici ai quali vengono imputate le informazioni che si raccolgono nel lavoro di ricerca: sono, cioè, quelli che abbiamo definito i casi di indagine. Se oggetto dell’indagine sono le credenze politiche dei cattolici, le unità d’analisi diventano gli individui cattolici (in un particolare contesto spaziotemporale), mentre i casi si riferiscono ai vari signori Rossi, Bianchi e Verdi che compongono quella determinata classe di individui cattolici. Le unità di rilevazione costituiscono invece i livelli di aggregazione (o disaggregazione) dei dati che si riferiscono alle proprietà dei singoli casi. Se – come accade di frequente – non si ha la possibilità di intervistare direttamente i vari signori Rossi, Bianchi e Verdi sulle loro rispettive opinioni politiche (indagine survey), si cercherà di ottenere ugualmente informazioni significative traendole da unità “collettive” cui appartengono quegli individui (ad esempio, il numero dei battezzati in una data regione o il numero di voti ottenuti dal partito di ispirazione cattolica nella stessa regione). Viceversa, è possibile scegliere unità di rilevazione a un livello inferiore di aggregazione rispetto a quello in cui si trovano le unità d’a-

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nalisi, quando queste siano di tipo “collettivo” (come nel caso del reddito medio di un comune, rilevato sui singoli abitanti). Si parla in questi casi di indagini ecologiche (dal greco òikos, casa, e per estensione territorio): naturalmente, quanto più ci si allontana dall’individuo nella raccolta di informazioni che pure attengono all’individuo come termine ultimo di riferimento analitico, tanto più si incorre in quello che è stato definito come «errore ecologico», cioè nel rischio di perdere informazioni significative passando per stadi successivi di aggregazione e, correlativamente, nel rischio di distorcere il senso delle proprietà individuali inferendole da unità collettive. Quali che siano le unità di rilevazione, bisogna tuttavia tener presente che le unità d’analisi – i casi – in una matrice di dati devono essere sempre gli stessi (non è possibile che i casi dalla 1a alla 30a riga siano individui, e dalla 31a in poi famiglie). E occorre aggiungere che nelle scienze sociali, quando l’unità d’analisi è l’individuo, non sono pensabili unità di rilevamento che siano a esso riconducibili come parti (contrariamente a quanto avviene, per esempio, in biologia). 3) Le proprietà descrivono le caratteristiche dei casi di analisi in relazione a qualche criterio. Questi criteri possono essere di genere assai diverso e solitamente si distinguono sulla base della loro traducibilità in variabili suscettibili di misurazione in senso lato. Così, proposizioni del tipo «Mario è (più o meno) di destra» differiscono sensibilmente, sotto questo profilo, da altre del tipo «Maria ha un reddito alto», nella misura in cui l’«essere di destra» non può essere accertato altrettanto bene, sul piano empirico, rispetto all’«avere un reddito alto» (che, contrariamente all’altra proposizione, contiene il riferimento a una misura continua, cioè suscettibile di assumere un determinato valore compreso da 0 a infinito). Diremo, comunque, che Mario e Maria sono le due unità di analisi (i casi) ai quali vengono riferite non delle proprietà in se stesse (rispettivamente l’orientamento ideologico e il reddito), bensì due stati – cioè due specifici modi di esse-

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re – sulle proprietà considerate, a loro volta graduabili in intensità o estensione secondo criteri prestabiliti. Rispetto alle unità di rilevazione – come in parte abbiamo già visto – le proprietà possono essere individuali, aggregate o contestuali [Lazarsfeld e Menzel, 1967]. Mentre le proprietà individuali sono quelle riferite all’individuo in quanto unità irriducibili d’analisi (potendo peraltro essere rilevate anche su “casi” diversi da quelli della ricerca: il partito preferito dal padre, la religiosità della madre, la professione del coniuge), caratteristica delle proprietà aggregate è di essere rilevate sulle parti e riferite all’intero: se parte è l’individuo, l’intero possono essere, ad esempio, la famiglia, l’associazione professionale, il quartiere, il comune, lo Stato, e proprietà aggregate per unità di questo tipo possono essere il numero degli occupati, i voti ottenuti dal partito x nella tale elezione, e così via. È anche possibile, con processo inverso, che una proprietà rilevata sull’intero sia riferita a una parte: così a un individuo può essere attribuito il numero di membri della sua famiglia, il prestigio sociale della professione che svolge o le dimensioni del comune in cui risiede. In questo caso si parla di proprietà contestuali. Normalmente, tutte le proprietà di una matrice si intendono rilevate allo stesso tempo, anche se talune sono chiaramente sfasate rispetto alle altre (si pensi al comune di nascita e all’anzianità di laurea). Esistono peraltro tecniche di indagine “longitudinali”, che si protraggono cioè nel tempo, nelle quali una o più proprietà sono rilevate in fasi successive (e solitamente comparate): è questa in particolare la tecnica del panel (che significa “giuria” in inglese e, per estensione, ogni gruppo stabile). L’organizzazione matriciale dei dati, per casi e proprietà (queste ultime, come vedremo, adeguatamente trasformate in variabili), costituisce un’operazione indispensabile per ogni specie di ricerche sociali: siano esse di tipo “ecologico” o di tipo “survey”. In particolare, nel sondaggio per questionario – che è la forma più consueta di survey – le informazioni raccolte attraverso le singole domande sono sistemate nella

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medesima logica matriciale: i casi essendo rappresentati dagli individui intervistati, le proprietà (o variabili) ricavandosi dai diversi items (punti) in cui si articolano le domande somministrate agli intervistati, gli stati sulle proprietà potendosi calcolare in base alla frequenza delle risposte date sui vari items. 3. La scelta dei casi di indagine: il campionamento Uno dei problemi più rilevanti nelle strategie della ricerca sociale è quello sollevato dalla scelta dei casi di indagine. Poiché l’obiettivo implicito in ogni ricerca empirica è la generalizzazione dei suoi risultati, l’ideale sarebbe avere a disposizione o il “caso puro”, come nel metodo sperimentale, di modo che le proprietà direttamente osservabili in un caso siano virtualmente estendibili a tutti gli altri casi della stessa specie (una goccia d’acqua, un pezzo di zolfo), oppure – in mancanza di condizioni sperimentali – sia disponibile l’accesso ai dati di tutta la popolazione, l’universo dei casi che caratterizza l’oggetto dell’indagine. Come sappiamo, non solo la prima ma anche la seconda condizione sono difficilmente realizzabili nelle scienze sociali: soltanto per ricerche a “corto raggio”, che prendano in considerazione segmenti ristretti di popolazione, è possibile raccogliere le informazioni sufficienti sull’intero universo dei casi. Di qui la necessità di procedere a tecniche di campionamento che consentano di lavorare su un numero selezionato di casi, abbassando i costi di reperimento, elaborazione e analisi dei dati, ma sollevando un problema ulteriore di ordine metodologico: quello di fare in modo che i risultati ottenuti con l’indagine campionaria siano generalizzabili a tutta la popolazione. Ecco allora le due condizioni basilari che un buon campione deve poter soddisfare a questo fine: a) l’eterogeneità e b) la rappresentatività [Perrone, 1977]. Eterogeneità significa, in parole semplici, che gli stati sulle proprietà relativi ai diversi casi devono mostrare un buon grado di “varianza” statistica, devono cioè essere sufficientemente e reciprocamente “mobi-

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li” nei propri valori (sarebbe per esempio impossibile trovare relazioni significative fra sesso e voto politico, se queste due variabili non esibissero varianza – se non fossero appunto eterogenee – come succederebbe, ad esempio, in un campione di sole donne e di soli comunisti). Rappresentatività sta per probabilità – per buona probabilità – che le relazioni fra le diverse variabili riscontrate nel campione (ad esempio, la relazione fra sesso femminile e orientamenti di anticomunismo) riproducano nella medesima proporzione quelle realmente esistenti nella popolazione (cioè che l’eventuale 40 per cento di elettrici anticomuniste esistenti nel campione corrispondano – con buona approssimazione – alla stessa percentuale di casi “realmente” presenti nella popolazione). In altri termini, un campione rappresentativo è una “micro–popolazione” nella quale sono riprodotte con “giusta proporzione” le proprietà dell’intero universo. Ne deriva che un campione rappresentativo è anche eterogeneo (non viceversa), e che dunque il vero problema del campionamento consiste nella rappresentatività. I modi per estrarre un campione sono diversi e a essi corrisponde un diverso grado di rappresentatività. I più diffusi possono essere catalogati in due grandi famiglie: quella dei campioni non probabilistici e quella dei campioni probabilistici. 1) I campioni non probabilistici sono di semplice costruzione, talvolta utili per le cosiddette inchieste “di profondità” (che mirano a scandagliare ipotesi interpretative), ma di scarso rilievo scientifico a causa del livello assai modesto di rappresentatività che possono raggiungere. Rientrano in questa categoria il campionamento “a casaccio” (intervisto un certo numero di persone che mi trovo davanti per strada, o chi si fa avanti come volontario o è comunque disponibile) e in genere tutte quelle indagini del tipo avaibility samples non a caso frequenti nelle rubriche “di opinione” dei giornali, ma anche in studi più complessi come quelli intrapresi dal Rapporto Kinsey sulla sessualità in America negli anni ’60. Appena più sofisticata è la tecnica del judgment sample, spesso usata per ricerche su gruppi e comunità sconosciuti o

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“clandestini”, i cui membri cioè, per qualche ragione morale o legale, tendono a occultare la propria identità (come succede per immigrati illegali, massoneria o altre sette segrete, fuorilegge, omosessuali, lavoratori “in nero”, evasori fiscali, e via di seguito con categorie di questo tipo). Funzione così: si parte da soggetti conosciuti che rispondono a determinate caratteristiche conformi alle ipotesi di ricerca e si chiede loro di indicare altre persone con le stesse caratteristiche, e così via secondo un procedimento a catena (chain sample) che porta a una crescita esponenziale dei casi di cui si viene progressivamente a conoscenza. E questo è un vantaggio. Per contro, c’è lo svantaggio di selezionare solo i soggetti più attivi e più visibili del gruppo. E c’è anche il rischio che la catena imbocchi strade troppo specifiche. Il più diffuso e affidabile fra i metodi non probabilistici è il campionamento per quote (quota sample), specie nelle ricerche di mercato e nei sondaggi d’opinione. Si divide la popolazione di riferimento in un certo numero di strati, definiti da alcune variabili di cui si conosce la distribuzione complessiva (genere, classi di età, titolo di studio, ecc.). Si calcola poi il peso percentuale che di ciascuno strato, cioè la “quota” di popolazione che appartiene a ogni strato (la somma deve essere uguale a 1). Infine, si moltiplica ciascuna quota per l’ampiezza predeterminata del campione (n) al fine di stabilire il numero di interviste da fare all’interno di ciascuno strato. La logica sarebbe del tutto simile a quella del campione stratificato (come vedremo, il metodo di campionamento probabilistico per eccellenza), se non fosse per l’assoluta libertà di scelta dell’intervistatore sui casi da scegliere, fermo restando il vincolo delle quote, questo essendo anche il suo principale limite metodologico (che si rivelò con il sondaggio demoscopico della Gallup in occasione delle elezioni presidenziali americane del 1948, quando l’istituto predisse la vittoria del candidato repubblicano e in realtà vinse il democratico Truman, smentendo clamorosamente i risultati del sondaggio eseguito con la tecnica del quota sample).

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Abbiamo infine il campionamento a scelta ragionata, che viene utilizzato quando l’ampiezza “n” del campione è assai limitata e si vogliono evitare interferenze casuali che allontanino il campione dalle caratteristiche della popolazione che interessano di più (per esempio, la scelta di determinati quartieri in pari numero centrali o periferici, operai o borghesi senza curarsi delle altre dimensioni rilevanti che li distinguono; oppure, nella scelta dei comuni, si decide sempre di includere il capoluogo di provincia o la città sede universitaria). Insomma, la scelta dei casi da indagare è compiuta sempre sulla base di criteri razionali, senza mai ricorrere alla casualità. Una variante è il campionamento bilanciato, di modo che la media del campione sia prossima alla media della popolazione (ad esempio, si scelgono come casi di studio quei comuni nei quali la media dei voti rispettivamente presi dalle coalizioni di centrodestra e centrosinistra non presentino uno scarto diverso di tre punti dalla media conseguita sull’intero elettorato). Va da sé che questi metodi non offrono le stesse garanzie dei campioni probabilistici, e nemmeno del campionamento a quote, ma si rivelano indicati per lo studio di variabili particolari. 2) I campioni probabilistici si basano sull’idea familiare alla teoria matematica che ciascun caso della popolazione considerata abbia in partenza una probabilità nota di essere selezionato, secondo la nota formula p = 1/n (ovvero, come in una lotteria, ogni biglietto ha una probabilità poniamo su 100.000, quanti potrebbero essere i biglietti venduti, di venire estratto). Ci sono tre tipi di campione probabilistico. a) Il campione “randomizzato” (random sample) è quello più semplice in quanto interamente affidato alla casualità. Si fa un elenco dei casi ricompresi nell’universo, numerandoli separatamente, quindi si procede all’estrazione dei casi da includere nel campione pescando numeri a caso (spesso con l’aiuto di apposite tavole di numeri random). Le maggiori garanzie di rappresentatività sono legate alla completezza delle liste utilizzate – elenchi telefonici, tabulati anagrafici, repertori vari – nonché alla effettiva casualità della scelta.

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b) Il campione “multistadio”, nel quale si tende per così dire a dirigere il caso circoscrivendo, di volta in volta, le condizioni della scelta, per ragioni di opportunità metodologica o di semplice economicità. Più specificamente, si tratta di spezzare il campionamento in diversi stadi, usando come criteri l’appartenenza a determinati gruppi (cluster sample) o a determinate zone territoriali (area sample), in ordine decrescente di complessità. La procedura consiste – a dirlo qui sommariamente – nel cominciare con la lista delle regioni (per esempio, le 11 dell’Istat), selezionandone probabilisticamente alcune (1 stadio); si prosegue poi con la lista delle province per ciascuna regione ottenuta e se ne selezionano casualmente alcune (2 stadio); quindi, la lista dei comuni in ciascuna provincia, selezionandone con lo stesso metodo alcuni (3 stadio), finché non si raggiungono unità appropriate (zona residenziale, sezione elettorale) per il campionamento probabilistico semplice1. Si tratta di un metodo spesso applicato nelle ricerche elettorali, quando si tratta di selezionare casi da insiemi molto vasti – in genere l’intera nazione o l’elettorato nel suo complesso – tenendo ferme alcune condizioni di rappresentatività (l’appartenenza territoriale, il “colore” politico delle aree ovvero i gruppi di età o di professione). Per fare un esempio fra i più noti, gli exit polls (i sondaggi condotti all’uscita dei seggi per predire i risultati elettorali definitivi in tempi brevi) si basano in parte su questa procedura di campionamento multistadio: si divide il territorio italiano in aree politicamente omogenee, poi queste in altre sotto-aree con diversi requisiti socio-economici, via via fino ad arrivare alle singole sezioni elettorali, e a ogni passaggio si procede con le 1. Il numero di casi n per ogni stadio deve comunque rispettare una certa proporzionalità con la popolazione N rispetto a qualche dimensione prescelta (di tipo demografico, territoriale, di zona di “cultura politica”, ecc.: le regioni, per esempio, possono essere scelte a Nord, Centro, e Sud secondo le quote rispettivamente proporzionali in termini di densità demografica, di estensione territoriale, di reddito pro-capite, ecc.)

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tecniche del campionamento semplice che dovrà garantire alla fine una micro-popolazione sufficientemente eterogenea e rappresentativa (beninteso se tutte le operazioni sono eseguite in modo corretto e appropriato e non si hanno gli inconvenienti di sovra o sottostima del campione, piuttosto frequenti in questo tipo di procedura). Il campionamento multistadio presenta tuttavia diversi inconvenienti sul piano metodologico: è una procedura laboriosa che alla fine incorre nel rischio che possano esistere nel campione zone o cluster non sufficientemente eterogenei. Il che, per esempio, potrebbe portare alla sottorappresentazione delle regioni meridionali per tutta una serie di variabili a esse normalmente correlate (analfabetismo, redditi bassi, disoccupazione, ecc.), con gravi conseguenze sulla generalizzabilità dei risultati. c) Il campionamento stratificato costituisce l’artificio di maggiore impiego nella “correzione” del caso e delle distorsioni prodotte dal procedimento multistadio, assicurando che tutti i gruppi rilevanti (che incorporano cioè i valori delle variabili che interessano la ricerca) siano rappresentati secondo la loro nota proporzione nella popolazione reale. Si creano pertanto tanti sotto-campioni rilevanti quanti sono le dimensioni più importanti della ricerca (per esempio, età, sesso, luogo di nascita, titolo di studio), a loro volta ulteriormente suddivisi, se del caso, in altri sotto-gruppi, e all’ultimo livello di campionamento – quando il caso è adeguatamente “imbrigliato” nelle variabili-chiave – si procede con l’estrazione del campione nelle forme già viste della “randomizzazione”. È il metodo più noto e più usato (talvolta in combinazione con il “multistadio”) per la sua affidabilità. Riepilogando, la generalizzabilità dei risultati di un campione ai casi dell’intera popolazione dipende – come abbiamo visto – dal grado di rappresentatività del campione stesso: e un campione è rappresentativo nella misura in cui riproduce (approssimativamente), con la medesima proporzione, le relazioni fra le proprietà dei casi riscontrabili nell’intera popolazione e ritenute significative nella ricerca. A questo punto

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sorgono però due apparenti contraddizioni che meritano di essere almeno accennate. La prima: il campione serve a rappresentare una popolazione le cui caratteristiche sono per la gran parte sconosciute, ma non si può fare un campionamento senza conoscere i dati della popolazione cui si riferisce. La soluzione del problema è tutta teorica: la rappresentatività non può essere empiricamente controllata, ma deve essere per così dire dedotta a priori dal metodo probabilistico (o dal modello statistico) con cui è costruito il campione. Si chiama attendibilità del campione la stima di approssimazione all’universo, ottenuta sulla base di un calcolo di probabilità matematica, nei termini di una misura (percentuale) di “fiducia” o “confidenza” statistica, ed esprimibile con proposizioni del tipo «possiamo avere una fiducia statistica del 95 per cento che l’età media della popolazione è compresa fra i 35 e i 55 anni»2. L’altra contraddizione riguarda il problema della numerosità dei casi compresi nel campione: per ridurre i costi della ricerca occorre che n (il numero dei casi nel campione) si mantenga basso rispetto a N (il numero dei casi nella popolazione), ma per poter correttamente generalizzare i contenuti delle ipotesi di ricerca – perché il campione, come si dice, risponda a criteri di validità – n deve essere alto, deve potersi avvicinare quanto più possibile a N. La soluzione del problema sarebbe dunque quella di trovare il giusto n. Come regola generale, di cui non diamo i dettagli tecnici, la numerosità del campione dipende essenzialmente dalle variabili che interessano la ricerca, dalla loro distribuzione sui casi e dagli stati sulle proprietà che contengono. È stato calcolato, in linea di approssimazione teorica, che occorrono almeno 10 casi per 2. Il livello di confidenza è ottenuto mediante un test di significanza statistica chiamato «chi-quadro», che indica la percentuale dei casi in cui i risultati sono dovuti al puro caso oppure a dinamiche causali della popolazione. E questa scelta alla fine dipende dal ricercatore: se si fissano livelli di confidenza molto alti – poniamo il 99 per cento del campione – occorrerà un altissimo numero di casi per poterlo conseguire.

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ogni possibile stato o valore assunto da ciascuna variabile (v=numero di variabili x; r=numero di valori o categorie per ogni variabile), perché si dia una validità minima all’analisi delle correlazioni riflesse nel campione [10.vx1,x2,x3…xn. r]. 4. Concetti empirici e “scala di astrazione” Il modo in cui le proprietà vengono riferite agli oggetti (o alle unità) è quello tipico della formazione dei concetti. Questo accade normalmente nei processi di conoscenza comune non meno che nei procedimenti della conoscenza scientifica, e nella scienza empirica non meno che nelle scienze cosiddette teoriche. Lasciando sul margine tutte le complesse questioni logiche ed epistemologiche che caratterizzano la teoria dei concetti scientifici [Hempel, 1961], diciamo qui semplicemente che il concetto è un costrutto mentale mediante il quale ci rappresentiamo e comunichiamo la realtà, selezionandone (astraendone) gli aspetti che – per qualche motivo – più ci interessano. I concetti hanno dunque bisogno di traduzioni linguistiche, cioè di asserzioni o proposizioni che connettano logicamente dei termini linguistici al fine di dare significato a determinati oggetti del pensiero. I concetti di cui ci si serve nelle scienze sociali si distinguono di solito in concetti empirici (osservativi) e concetti teorici (non osservativi), a seconda che i rispettivi termini e le proposizioni in cui risultano combinati siano o no riconducibili, nei loro significati, a determinati referenti, cioè a fenomeni più o meno direttamente osservabili nell’ambito dell’esperienza sensoriale: di tanto – si potrebbe dire – i significati dei concetti hanno una “presa” diretta con i loro oggetti, di altrettanto mostrano di avere una “resa” empirica (è chiaro, in questo senso, che la resa empirica del concetto di elettore, espresso nei termini di una persona che si reca a depositare la scheda nell’urna, è maggiore del concetto di elettorato, espresso nei termini del complesso delle persone che votano).

Sui metodi empirici (in generale)

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Dal nostro punto di vista, che privilegia il piano della ricerca empirica, i concetti che hanno maggiore importanza sono appunto i concetti “empirici”. Come tutti gli altri, anche questo tipo di concetti possono essere collocati lungo una scala di astrazione sulla base del rapporto che lega l’insieme delle proprietà e delle caratteristiche, intesi come “predicati” delle cose, con l’insieme delle cose stesse, fenomeni ed eventi, che costituiscono la base dei referenti empirici ai quali si intende applicarli. Il primo insieme di significati è detto connotazione (o intensione), il secondo denotazione (o estensione) [Carnap, 1973]. Come si vede nella rappresentazione grafica della figura 3, connotazione e denotazione si pongono fra loro in una relazione inversa: quanto più è elevato il livello di “intensione” del concetto, tanto più è ridotto il suo livello di “estensione”, ovvero quanto più ricco e specifico è l’insieme delle caratteristiche e delle proprietà incluse nel concetto, tanto più ristretto è l’insieme dei casi cui può essere applicato. Figura 3: Livelli di astrazione dei concetti Concetti universali

Estensione (numero dei casi) Concetti generali

Concetti ideografici

Intensione (numero delle proprietà)

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Ciò posto, le regole di funzionamento della scala di astrazione sono, in linea di principio, molto semplici: per scendere in grado di astrazione, i concetti devono aumentare il loro potenziale connotativo, devono cioè attrezzarsi con proprietà specifiche e particolari che individuino – al limite estremo – un solo caso (concetti idiografici); viceversa, per salire in grado di astrazione i concetti devono rafforzare il loro potenziale denotativo con proprietà meno “caricate” individualmente e quindi più estendibili a un numero tendenzialmente infinito di casi, fino all’altro limite estremo dei concetti universali, validi in ogni luogo e in ogni tempo. Nel mezzo possiamo ipotizzare una situazione di equilibrio nella quale i termini osservativi di una ricerca empirica abbiano significati reciprocamente bilanciati in estensione e intensione, anche se l’esigenza prioritaria è quella di generalizzare, e quindi di rilevare similarità a scapito di differenze, senza tuttavia rinunciare a un minimo di precisione nelle proprietà degli oggetti [Sartori, 1979]. Tuttavia, non può esservi alcuna indicazione prescrittiva in materia. Il movimento ascendente o discendente dei concetti lungo la scala di astrazione dipende, in ultima istanza, dalle strategie di indagine e dalle rispettive metodologie d’analisi, a seconda che si privilegino – volta per volta – prospettive “generalizzanti” o “individualizzanti”. Il problema, semmai, può essere di misura e di confine: nel senso che si tratta di evitare, da un lato, l’“implosione” connotativa del concetto – il paradosso che dica tutto di niente – e dall’altro lato l’“esplosione” denotativa del concetto, la possibilità – sempre per paradosso – che dica niente di tutto. Facciamo qualche esempio che ci aiuti a capire meglio. Il concetto di “socializzazione” che si limiti a indicare il processo mediante il quale i valori dominanti in un determinato sistema culturale vengono interiorizzati dagli individui nel corso della loro vita, appartiene certamente alla classe dei concetti denotativi, applicabili a molti casi ma con poche specificazioni osservative che valgano a distinguerli come altrettanti referenti empirici. Al contrario, una definizione del concetto che desse conto dei processi di apprendimento

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e trasmissione dei valori politici all’interno delle famiglie di estrazione borghese di determinati quartieri residenziali in una data città, sarebbe in grado di circoscrivere in modo più preciso il concetto di socializzazione ma anche di limitarne l’applicazione ai possibili casi simili. Ancora, il concetto di astensionismo elettorale potrebbe essere espresso – a livelli “quasi-universali” – da termini astratti del tipo «coloro i quali non si recano a votare», oppure in termini che individuino in senso maggiormente connotativo taluni comportamenti politici, motivati da apatia o disaffezione nei confronti dei partiti, che si manifestano con varie modalità di «non voto» (scheda bianca, annullamento, astensione vera e propria), e li riferiscano addirittura al signor Bianchi, di anni ’50, nativo di Canicattì e residente a Milano. Riassumendo, le proprietà sono riferite ai casi mediante concetti più o meno complessi, espressi a loro volta con termini linguistici, asserzioni e definizioni a diverso contenuto di denotazione e connotazione. Sappiamo, inoltre, che una proprietà può assumere stati diversi da caso a caso nello stesso momento, o anche stati diversi nello stesso caso per momenti successivi: insomma, la proprietà deve avere la proprietà di variare, e il concetto che la esprime deve poter essere trasformato, in questo senso, in una variabile. 5. La trasformazione dei concetti in variabili: “definizione operativa” e indicatori empirici La trasformazione dei concetti in variabili costituisce una delle fasi più delicate e decisive per il corretto svolgimento di una ricerca empirica. Lo strumento con cui si attua questo passaggio è la definizione operativa (o come anche si dice, riprendendo il termine originale dall’inglese, “operazionale”); l’operazionalizzazione dei concetti serve a “spacchettarli” in tanti elementi che, allargando e specificando il campo dei referenti empirici, consenta di rilevare, registrare e analizzare accuratamente gli stati sulle proprietà.

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La nozione di definizione operativa nasce in fisica [Bridgman, 1952] e si richiama indirettamente alle tesi dell’«operazionismo logico»: per esse un concetto empirico – ad esempio, quello di temperatura – non è altro se non la serie di operazioni necessarie per determinarlo concretamente (il termometro, la dilatazione dei metalli, ecc.). Trasposta nel campo delle scienze sociali – sotto l’influenza determinante della scuola comportamentista – la nozione di definizione operativa sta a indicare una serie di istruzioni mediante le quali è possibile identificare un dato concetto e renderlo suscettibile di trattamento empirico, secondo le tecniche di controllo precedentemente stabilite (che il ricercatore è tenuto peraltro a esplicitare). Si prenda ad esempio il concetto di libertà di stampa. Se volessimo riferirlo come proprietà a un insieme di paesi, assunti come casi di ricerca, non potremmo accontentarci dei suoi significati puramente teorici e astratti (del tipo: facoltà di esprimere le proprie opinioni per iscritto senza alcuna censura, e simili). Dovremmo invece svolgerlo in variabili che abbiano una presa osservativa più diretta, secondo le ipotesi e i metodi di ricerca precedentemente stabiliti: ne daremo cioè una «definizione operativa», in base alla quale per libertà di stampa si intende il complesso delle condizioni che garantiscano un certo numero di testate in circolazione, la cui proprietà non interferisca con l’indirizzo redazionale, e i cui giornalisti non siano finiti in prigione per qualche reato di opinione, e così di seguito procedendo per ulteriori e successive specificazioni del concetto e delle variabili da esso derivate. Vediamo altri possibili esempi di definizioni operative: il concetto di disoccupazione, inteso come la percentuale delle persone che hanno perso il lavoro sul totale della popolazione attiva, rilevata dai dati dell’annuario Istat; il concetto di conservatorismo inteso come autopercezione della propria collocazione nello spazio politico, rilevata attraverso la domanda di un questionario circa le preferenze partitiche dell’intervistato, dopo aver precedentemente ordinato i singoli partiti lungo una scala ideale di intensità (da più a meno conservatore) in base alla valorizzazione nei rispet-

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tivi programmi dei temi relativi alla famiglia, alla religione, alla patria. Come è facile rendersi conto da questi esempi, la definizione operativa non implica necessariamente l’uso di tecniche quantitative, ma esige d’altro canto l’aumento di contenuto osservativo dei propri termini, e quindi in qualche modo una discesa nella scala di astrazione, un livello più basso di generalità (e più alto di connotazione) sul quale disporre le proprietà dei casi e i concetti che le esprimono. Molto spesso si tende ad assimilare la definizione operativa agli indicatori empirici di un concetto. Le due cose sono certamente connesse, ma non coincidenti. Possiamo dire così: che lo “spacchettamento” di un concetto in variabili attraverso la definizione operativa genera di per sé una pluralità di indicatori, ma questi possono esistere indipendentemente da quelli [Blalock, 1984]. Gli indicatori empirici sono dunque, semplicemente, una serie di termini osservativi di maggiore specificità analitica e normalmente a minore contenuto di astrattezza che fanno da ponte fra il concetto e la definizione operativa in base a rapporti di «rappresentanza semantica». Il che accade sovente nella vita di ogni giorno: quando usiamo il modo di vestire, il linguaggio, l’arredamento di una casa, il quartiere in cui si abita, come altrettanti indicatori o «rappresentazioni semantiche» (di significato sociale) che possono rivelarci lo status di un eventuale interlocutore. Nella ricerca scientifica cominciamo di solito a ragionare con concetti che, nella loro generalità e densità teorica, difficilmente possono suggerire elementi utili per una definizione operativa: lo scarto semantico fra essi e le concrete operazioni di trattamento empirico dei dati è tanto ampio da richiedere una serie di riformulazioni in termini meno generali e meno teorici. Il concetto di libertà di stampa, per giungere a una definizione operativa soddisfacente che consenta di rilevarne gli stati della proprietà sui casi presi in esame, dovrebbe poter essere scomposto, per esempio, nei termini seguenti: libertà di stampa → libertà di pubblicare riviste, giornali e scritti in genere di opposizione ai governanti → tempo trascorso in carcere da giornalisti o scrittori per le loro pubblicazio-

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ni di argomento politico. A questo punto diventa possibile organizzare una definizione operativa che istruisca il ricercatore sulle fonti da consultare, come calcolare il tempo di reclusione dei giornalisti, cosa significhino più esattamente i termini «argomento politico», «giornali e riviste», ecc. In base alla definizione operativa si possono registrare gli stati della proprietà «tempo di reclusione», tradotta in variabile, nei vari casi (Italia, Germania, Francia, ecc.), considerando queste variabili in un rapporto di indicazione, o rappresentanza semantica, con il concetto generale di libertà di stampa (la figura 4 schematizza l’intero procedimento fin qui descritto). Figura 4: Passi di trasformazione dei concetti in variabili

Proprietà dei casi (concetti)

Variabili

Definizione operativa

Indicatori empirici

6. La misurazione delle variabili: indici, tassonomie e scale Un’ultima fase di questo processo consiste nella ricerca dei metodi più appropriati, dal punto di vista della scienza empirica, per assegnare i valori alle variabili. Si dice, alquanto sbrigativamente, che si tratta di costruire degli indici, cioè dei criteri di misurazione delle variabili [Lazarsfeld, 1967]. Il problema della costruzione di un indice, nella sua forma più generale, è di come escogitare una misura unidimensionale di un oggetto multidimensionale. Questo obiettivo può essere raggiunto o facendo in modo che una delle dimensioni

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rappresenti il totale, oppure mediante una qualche formula che combini due o più dimensioni in un unico valore: gli esempi più immediati sono, nel primo caso, i totali di riga e di colonna in una matrice di dati (che rappresentano, rispettivamente, il numero complessivo dei casi e i valori complessivi per ciascuna proprietà), e nel secondo caso i rapporti percentuali. Altri indici di uso comune sono i valori medi (il totale diviso il numero dei casi), i valori modali (i valori più alti) in una distribuzione di frequenze, e altre applicazioni più complesse come le misure di ponderazione (ad esempio, indici dei prezzi, indici di consumo) e di scostamento dalla media. In realtà, il problema della misurazione è di tanto più controverso per le scienze sociali in quanto queste non possono tener dietro all’ideale positivistico secondo il quale – in un modo che si è rivelato troppo semplicistico anche per le discipline naturali – «science is measurement». La scienza empirica – e non solo le scienze sociali fra queste – non esauriscono il loro compito esplicativo nella quantificazione, e al limite nella “matematizzazione” dei concetti, tanto più che nei nostri campi di analisi abbiamo spesso a che fare con concetti che misurabili non sono (o almeno non sono misurabili in senso matematico). Solitamente, nelle procedure di assegnazione dei valori alle variabili si distinguono le tecniche di tipo quantitativo – di conteggio o misurazione dei dati – che consentono il trattamento di valori numerici, dalle tecniche di rank-ordering, che consentono soltanto di determinare la posizione “scalare” dei singoli valori. Certo, molto dipende dalla natura delle variabili che ci si trova ad analizzare: in modo particolare, se descrivono quantità “discrete” o discontinue (per esempio, l’intensità di identificazione in un partito politico), oppure quantità continue, suscettibili cioè di assumere tutti i valori compresi in una scala numerica da 0 a infinito (per esempio, il reddito monetario). Ciò nondimeno, possiamo per semplicità parlare del complesso di questi metodi in termini di misurazione, pur tenendo ben distinte le differenze logiche che passano fra misurazione, conteggio e classificazione delle

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variabili [Marradi, 1980]. Proponiamo allora di distinguere sommariamente le tecniche di trattamento empirico dei valori (stati sulle proprietà) in base a dei criteri di “operazionalizzazione” delle variabili – nominali, ordinali, metriche – che si è scelto di adottare nella ricerca (Tavola 2). Tav. 2 - Tecniche di assegnazione dei valori alle variabili Strumenti di classificazione, conteggio e misurazione

Variabili Nominali

Ordinali

Metriche

Tassonomie

+

-

-

Scale di grado

-

+

-

Scale a intervallo

-

-

+

1) Tassonomie: dal greco tàxis, che significa «disposizione ordinata», designa il complesso dei metodi attraverso i quali l’estensione del concetto (i suoi casi) è divisa in categorie o classi. La classificazione è l’operazione logica che serve a questo scopo e le sue regole classiche sono tre [Mill, 1872]: ogni caso deve essere attribuito a una classe (esaustività delle categorie), nessun caso deve essere attribuito a più di una classe (esclusività delle categorie), l’attribuzione deve basarsi su un unico criterio (fundamentum divisionis). Prendiamo ad esempio la classificazione tradizionale delle forme di governo in “costituzionali” e “non costituzionali”: tutti i sistemi politici esaminati (casi) devono poter rientrare per qualche aspetto in questa classificazione dicotomica; non è possibile che uno stesso caso presenti caratteristiche ambivalenti che non lo identifichino chiaramente in una delle due categorie; il criterio su cui si fonda la distinzione deve essere a sua volta univocamente determinato (per “costituzionale” può intendersi una forma di governo basata sul principio della separazione dei poteri sancito dalla Carta costituzionale). Un’applicazione specifica della logica classificatoria è la tipologia. La tipologia è definita come una «classificazione multidimensionale» ovvero come una classificazione otte-

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nuta dall’incrocio di più di un criterio. I tipi che risultano da questo incrocio sono caratterizzati da una serie di attributi, ognuno dei quali identifica una certa dimensione con un certo valore [Boudon e Lazarsfeld, 1969]. Un esempio classico di tipologia è quella sui sistemi di partito, ottenuta combinando due dimensioni o proprietà rilevanti, in generale, per ciascuno di essi: il numero dei partiti (ridotto/elevato), e la loro distanza ideologica (a polarizzazione debole/forte). Ne derivano due classificazioni dicotomiche incrociate, che producono quattro tipi inclusivi di tutti i casi considerati (che vanno dal monopartitismo al pluralismo polarizzato). 2) Scale di grado: sono tecniche di misurazione dei valori di una variabile, basate su un continuum ideale che va dal più al meno e che indica il grado di possesso, da parte di ciascun caso, della proprietà considerata. Le differenze così misurate non sono dunque di quantità, ma di grado. Il che non significa che non esistano dislivelli quantitativi fra i diversi “gradini” di cui si compone la scala (la misura cosiddetta “scalare” è sempre in qualche modo una misura di quantità), ma vuol dire che le misure applicate si limitano a “ordinare” le proprietà in base ad un criterio numerico (misure ordinali), senza tuttavia poter misurare aritmeticamente le differenze di grado. Molti studiosi inseriscono fra le scale di grado anche quelle definite nominali che tuttavia, limitandosi ad assegnare un nome a certi gruppi o categorie, verrebbero a coincidere con una semplice classificazione, in quanto tale non assimilabile ad alcuna operazione di misura. Le scale ordinali forniscono informazioni aggiuntive rispetto alle tassonomie, non solo classificatorie o tipologiche ma anche transitive: se A è maggiore di B, e B è maggiore di C, A è maggiore di C. Esempi di questo tipo di operazioni sono quelli in cui si chiede agli intervistati, in un questionario, il grado di accordo o disaccordo a una serie di affermazioni («la pena di morte è giusta»: molto, abbastanza, per niente d’accordo), ordinando le risposte in base a una graduatoria di punteggi precedentemente attribuiti a queste alternative di risposta (molto=10, abbastanza=5, per niente=1) in un’i-

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potetica scala di cultura reazionaria (e assumendo il favore per la pena di morte come indicatore empirico del concetto di “reazionarismo”). 3) Scale a intervallo: quando disponiamo di intervalli standard, o unità di misura, con cui determinare aritmeticamente le differenze di grado fra le proprietà di un concetto, espresso da variabili metriche. In questo modo possiamo operare con scale di misurazione di maggiore esattezza quantitativa che si definiscono scale a intervallo. Tale quantificazione sarebbe inappropriata nel caso delle scale ordinali, nelle quali si possono ad esempio graduare le qualifiche del lavoro operaio (manuale, ausiliario, specializzato), e contare i casi che rientrano nelle diverse categorie, ma non si può stabilire di quanti punti è in ipotesi più “alienato” un operaio nell’una o nell’altra categoria. Invece, una misurazione con scale a intervallo ci permette di estrarre le seguenti informazioni: che Tizio e Caio hanno diversi valori (per esempio in riferimento all’età); che Tizio è più vecchio di Caio; che Tizio è più vecchio di Caio di tre anni. Se a) e b) sono risultati che si conseguono normalmente anche con le misure ordinali, c) è solo possibile con misure a intervallo. Ma perché ciò sia possibile è necessario disporre di una scala i cui intervalli partano da uno zero reale o considerato tale (è discutibile, in questo senso, che un termometro possegga una vera e propria scala a intervallo, dato che il punto 0 non corrisponde affatto all’assenza della proprietà, mentre sono certamente fuori da questa logica di misurazione le scale adottate nella determinazione dei cosiddetti “quozienti di intelligenza”, dato che si basano su uno 0 assolutamente arbitrario). Variabili che si prestano bene a questo tipo di misurazione sono, ad esempio, il reddito, l’età, i voti ottenuti da un partito in una elezione. È perfettamente ragionevole parlare di Tizio come avente il doppio degli anni o dello stipendio rispetto a Caio, oppure del partito X con la metà dei voti rispetto al partito Y, cioè misurare la distanza dei valori dell’uno o dell’altro sia in termini di differenze, sia in termini di rapporti o proporzioni.

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7. Modelli di relazioni fra variabili Uno fra gli obiettivi centrali e qualificanti della conoscenza scientifica, di carattere empirico, è la spiegazione dei fenomeni osservati. Spiegare un fenomeno come insegna il modello Popper-Hempel – significa in sostanza ricondurre un fatto (explanandum) ai suoi antecedenti causali (explanans) sulla base di «leggi di copertura». La «teoria unificata del metodo» [Antiseri 1981] non ammette che vi siano, in questo senso, differenze rilevanti – sul piano logico – fra scienze naturali e scienze sociali. L’unica differenza, semmai, è data dalla natura di queste leggi e dal tipo di spiegazioni che se ne possono trarre nell’analisi della realtà fattuale: in quanto, nel caso delle scienze sociali, difficilmente disponiamo di leggi universali (di natura assiomatica), mentre le spiegazioni cui esse mettono capo – notava Stuart Mill ancora nel secolo scorso – non sono che «abbozzi incompleti e parziali» [Mill, 1838]. La procedura di indagine empirica, nelle scienze sociali, parte dunque da modelli ipotetico-deduttivi nei quali sono contenute una serie di asserzioni teoriche, espresse in forma probabilistica, circa le connessioni tra i fenomeni; trasforma – come abbiamo visto – le proprietà di questi fenomeni in variabili, raccogliendo il maggior numero di informazioni possibili sugli stati delle variabili per ciascun caso osservato; giunge infine all’elaborazione di generalizzazioni empiriche, cioè a enunciati che predicono le relazioni tra fenomeni in termini «legisimili» (del tipo: «per ogni X, se X allora Y»), in vista della conferma (o della confutazione) empirica di una particolare teoria. In quest’ultima fase del procedimento si tratta dunque di stabilire modelli di connessione, per quanto possibili causali, tra variabili che hanno superato lo stato puramente congetturale e hanno raggiunto un livello accettabile di “verosimiglianza” attraverso numerose osservazioni in casi e situazioni diverse. Il principio che viene comunemente seguito per mettere in luce le modalità logiche del rapporto fra variabili – en-

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tro uno schema che con Durkheim potremmo definire di «spiegazione sociologica» – è quello delle variazioni concomitanti, che figura fra i quattro canoni di logica induttiva enunciati da Stuart-Mill nel 1838, e che in termini più moderni definiamo come modello di covarianza (o correlazione). Nella sua formulazione originaria dice così: «Qualsiasi fenomeno che varia in un modo, quando anche un altro fenomeno varia in un modo particolare, è la causa o l’effetto di quel secondo fenomeno, o è ad esso connesso attraverso qualche altro fattore causale». Nelle concrete applicazioni metodologiche, la cosiddetta analisi “multivariata” – cioè l’analisi che studia le covarianze o le correlazioni fra variabili – si serve di particolari tecniche statistiche per accertare, appunto, il simultaneo cambiamento degli stati sulle proprietà che appartengono a due o più fenomeni (bivarianza o multivarianza) fra loro interconnessi. La rappresentazione simbolica della covarianza è A↔B, vale a dire: «Si ipotizza che tra la variabile A e la variabile B intercorra una relazione bidirezionale» (per esempio fra confessione religiosa e propensione al suicidio). Ovviamente, il modello può anche assumere la forma unidirezionale di A → B, cioè a dire: «Si ipotizza che tra la variabile A e la variabile B intercorra una relazione, e che tale relazione sia nel senso che A influenza B mentre non ne è a sua volta influenzata». Ma non esiste alcuna tecnica di controllo statistico che possa convalidare o falsificare questa seconda ipotesi: possono esservi solo modelli teorici che la asseriscono e metodi statistici che la presuppongono, prendendola per buona. Siccome è assai improbabile che nella realtà sociale si diano semplificazioni tanto drastiche come quelle offerte dai modelli di relazioni «bivariate» (modelli a due variabili), il quadro delle correlazioni assumerà di frequente la composizione descritta nella figura 5, con almeno tre variabili in gioco.

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Figura 5- Rappresentazione schematica del rapporto fra variabili

A

C

B

Un esempio, proposto dal metodologo americano Paul F. Lazarsfeld, può aiutarci a chiarire questi concetti. Controllando certe statistiche del comune di Chicago, Lazarsfeld notò che esisteva una stretta relazione di segno positivo fra il numero di autobotti accorse per spegnere un incendio e i danni (valutati in dollari) provocati dall’incendio: più autobotti (A), più danni (B). Il semplice modello bivariato (A→B) avrebbe portato però a conclusioni paradossali (smettere di mandare autobotti per spegnere l’incendio), perché non considerava un’altra variabile importante come la dimensione degli incendi (C). Inserendola nel modello, la correlazione primaria sarebbe risultata invece di segno diverso: a parità di dimensione degli incendi (C=0), più autobotti si inviano (+A), meno danni si hanno (-B). Evidentemente, il fenomeno contemplato nella variabile C, affinando il significato esplicativo della correlazione originaria, modifica la logica dei rapporti fra le variabili. Altro esempio: numerose ricerche sulla partecipazione politica mostrano che vi è una correlazione positiva fra status socioeconomico (A) e impegno associativo (B); se consideriamo un’altra variabile come il livello di istruzione (C), ci accor-

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giamo che essa interagisce positivamente sia con A che con B (una buona posizione sociale è di solito associata con un buon livello di istruzione, e chi lo possiede dimostra normalmente maggiore predisposizione a interessarsi di politica). In quest’altro caso, dunque, l’intervento di una terza variabile rafforza la correlazione originaria, ma non ne modifica l’impianto logico. Questi esempi dimostrano che l’aggiunta di un fattore addizionale – variamente definito come variabile interveniente o variabile-test (al modo di Lazarsfeld) – all’interno di una relazione bivariata produce comunque effetti di “raffinamento” del modello: sia che confermi la relazione originaria, contribuendo a spiegarla meglio (variabile reale: nella simbologia grafica della figura 5, C si colloca nel mezzo, in posizione asimmetrica rispetto alla relazione originaria, cioè A → C → B) oppure dimostrandosi del tutto ininfluente (variabile spuria: C si colloca nel mezzo in posizione simmetrica rispetto alle variabili originarie, cioè A ← C → B), sia che la invalidi in qualche modo fino al punto di dimostrare spuria la relazione originaria (C è la determinante reale di A o B, che sono tra loro in posizione simmetrica, cioè C →A ↔ B). Ciò nonostante, è comunque possibile, ed è anzi consuetudine metodologica, lavorare su una sola coppia di variabili per volta, scomponendole dall’insieme delle covarianze in cui sono inserite, ovvero “azzerando” – per artificio analitico – il peso delle altre variabili (clausola del ceteris paribus). Tradotta in equazione matematica, la relazione fra le variabili, che si usa denominare come X e Y, diventa: Y=(f) X, ed eventualmente, nel caso di un modello multivariato (a più variabili), Y=(f)X,Z,N. Nel significato matematico dell’espressione, Y rappresenterebbe la variabile dipendente, che è funzione (cioè deriva, è determinata) da X, intesa a sua volta come fattore causale. Ma nei modelli di correlazione che consideriamo, i rapporti fra le variabili sono di semplice associazione e non di dipendenza, per cui esiste completa intercambiabilità delle posizioni (può darsi benissimo che

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Y si trovi a essere la variabile indipendente e X quella dipendente): e solo per via di ipotesi teorica si può stabilire che l’una sia causa dell’altra. Con maggiore chiarezza analitica si possono esplorare le relazioni fra le variabili, mediante la trasposizione grafica dei loro trends, delle tendenze che esse mostrano. È sufficiente per questo riportare i valori relativi alle due variabili che vogliamo esaminare sugli assi cartesiani e osservare la distribuzione dei punti (ciascuno dei quali corrisponde all’interpolazione fra coppie di valori relativi alle variabili x e y su ogni singolo caso nella matrice dei dati). Si prenda ad esempio un’indagine sulla partecipazione elettorale che intenda verificare alcune ipotesi circa l’esistenza di connessioni significative fra l’astensionismo e una serie di altre variabili socio-economiche. Siano x la percentuale di coloro che si astengono dal voto in una data elezione, y gli indici relativi, di volta in volta, all’età, all’istruzione e al reddito del campione di elettori selezionati nell’indagine. I grafici riportati nella figura 6 – chiamati scattergrams, cioè diagrammi a punti – mostrano tre possibili tendenze di correlazione: a) quella in cui vi sia una forte relazione positiva fra astensionismo (x) ed età (y), tale cioè che, al crescere dell’uno cresce proporzionalmente anche l’altra (i punti – i casi – compaiono tutti accostati alla retta che si adatta alla loro distribuzione nello spazio cartesiano); b) quella in cui non vi sia alcuna relazione significativa fra astensionismo e livello di istruzione degli elettori (i punti si distribuiscono a casaccio attorno alla retta); c) quella in cui la relazione – fra astensionismo e reddito – sia debole e negativa, tale cioè che all’aumentare dei valori di astensionismo, diminuiscono i valori di reddito (i punti sono abbastanza vicini alla retta cosiddetta “di accostamento”, ma non come nel primo caso, e inoltre sono inclinati in senso decrescente).

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Figura 6 - Esempi di correlazione fra variabili rappresentata mediante diagrammi a punti (scattergrams) y

y c)

a)

x

x a) Forte relazione positiva

c) Debole relazione negativa

y b)

b) Nessuna relazione

x

Il coefficiente di correlazione (che si usa esprimere con rxy) misura dunque la distanza media dei punti dalla retta, diciamo pure che misura il grado di “parentela” statistica delle variabili considerate, ma non consente altre generalizzazioni se non quelle che ipotizzano trends di interdipendenza fra le variabili. Per dare soltanto un’idea di come si interpreti correntemente questo coefficiente nei suoi valori numerici – e facendo grazia di tutte le formule matematiche che servono a calcolarlo – diciamo che risulta compreso in una scala algebrica che va da –1 (massimo di correlazione negativa) a+1 (massimo di correlazione positiva), mentre i coefficienti prossimi allo 0 indicano correlazioni deboli e al limite nulle. Queste misure ci dicono in sostanza: ogni volta che, nella situazione elettorale esaminata, si incontrano determinate coppie di variabili con certi valori, esiste (o no) una relazione significativa fra loro (direttamente o inversamente proporzionale). In definitiva, è come se si delimitassero i confini del territorio da esplorare alla ricerca di eventuali nessi causali o

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legami di dipendenza. E qui sta in effetti lo scoglio più controverso di queste strategie metodologiche nelle scienze sociali. L’analisi delle covarianze o delle correlazioni non risolve affatto il problema della spiegazione. L’unico modo per risolverlo – con esiti sempre probabilistici – è quello di ricorrere a congetture ipotetiche, attraverso le quali si predetermina ex ante – con un’operazione concettuale – il senso causale della relazione (dati x e y, provo a supporre x come variabile indipendente), e si verifica empiricamente ex post – con le tecniche di supporto statistico – l’attendibilità delle ipotesi formulate (probability statements). La regressione è una tecnica con la quale è appunto possibile verificare statisticamente le relazioni di dipendenza fra variabili. In questo senso, esprime una misura complementare e integrativa rispetto alla correlazione. Mentre questa ci fornisce una media della distanza dei punti (che rappresentano i casi osservati nella realtà) dalla retta che li accosta – appunto definita come retta di regressione – la regressione (ovvero il suo coefficiente, by nelle formule tecniche) misura a sua volta il grado di cambiamento di una variabile dipendente per ogni unità di cambiamento della variabile indipendente. Ci dice in sostanza di quanto varierebbe Y (stima ipotetica) al variare di X (rilevazione effettiva): nell’esempio di prima, quali sono i valori “attesi” di astensionismo nel complesso dei casi considerati, per ogni mutamento unitario dei valori relativi all’età (all’istruzione o al reddito). Ed è soltanto in questa accezione tecnica che si può parlare della regressione come di un metodo esplicativo e predittivo: ma non già nel senso logico che essa sia in grado di rivelare i rapporti e i nessi causali tra i fenomeni osservati, in quanto – ripetiamo – la relazione causale è già posta nello schema concettuale della ricerca. Per riassumere, i passaggi metodologici sui quali si articola l’indagine sulle relazioni fra le variabili constano normalmente di tre fasi: a) accertamento del grado di correlazione fra due o più variabili, b) formulazione ipotetica dei nessi causali, c) verifica, attraverso la regressione, della loro significanza statistica.

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8. I metodi di controllo I modelli di relazioni tra variabili ci introducono al problema dei metodi di controllo degli enunciati osservativi e delle generalizzazioni empiriche ottenuti nel corso della ricerca. Per la verità, il percorso e l’accettazione di ipotesi e teorie scientifiche comprende due tratti diversi: nel primo – il contesto della scoperta – l’ipotesi viene ideata e sviluppata, nel secondo – il contesto della giustificazione – viene valutata razionalmente ovvero controllata, e talvolta giustificata, confermata, sulla base dell’evidenza empirica. Ma secondo Popper e la scuola neo-empirista non vi è alcuna logica della scoperta, non possono esistere regole metodologiche di alcun genere per questa fase della ricerca, giacché molti e diversi sono i modi, anche fantasiosi, di formulare ipotesi di cui non l’epistemologia o la metodologia possono occuparsi, bensì semmai la storia, la sociologia o la psicologia della scienza. È invece sul contesto della giustificazione, a livello di controllo, che si possono far valere regole logiche: per alcuni induttive, per altri rigorosamente deduttive e fondate sul principio di falsificabilità delle teorie scientifiche [Popper, 1970]. In questo senso, seguendo una tradizione ormai consolidata nel campo delle scienze sociali [Lijphart, 1985], accenneremo brevemente a tre metodi fondamentali di controllo: il metodo sperimentale, il metodo statistico, il metodo comparato (ai quali qualche autore aggiunge il metodo storico e lo studio del caso singolo che, tuttavia, data la loro specificità come vere e proprie strategie alternative di ricerca, meriterebbero un discorso a parte che qui non è possibile affrontare). Il metodo statistico è quello di più largo impiego nelle ricerche empiriche. Come abbiamo già visto, si tratta di un insieme di tecniche e di procedure di elaborazione teorica (matematica) dei dati osservati – che non possono essere manipolati in situazioni “di laboratorio” – allo scopo di scoprire relazioni significative fra variabili. Come sottolineava Nagel, «ogni branca di indagine che miri al conseguimento di leggi generali attendibili, concernenti argomenti empirici,

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deve adottare una procedura che, se non è sperimentazione rigorosamente controllata, esplica le funzioni logiche essenziali dell’esperimento di indagine» [Nagel, 1968]. Il metodo statistico possiede queste funzioni logiche essenziali, ma non può risolvere altrettanto bene della sperimentazione il problema del controllo, in quanto sottopone a controllo solo alcune variabili-chiave delle quali si conosce o si suppone l’influenza. Tuttavia, il limite del «poche variabili-molti casi» solitamente imputato al metodo statistico può ritenersi in larga parte superato dall’avvento – in epoca di sviluppo accelerato degli strumenti informatici – dei cosiddetti big data, cioè una raccolta di dati così estesa da giustificare la definizione di modello delle tre V – volume, velocità, varietà – e da richiedere tecnologie e metodi specifici per l’estrapolazione dei valori [Laney, 2001]. E ormai tanto diffusa da consentire di aggiungere un’altra V come variabile: nel senso che non esiste praticamente alcun attributo qualitativo o quantitativo che non possa essere tradotto in variabile in qualche modo misurabile o comunque suscettibile di trattamento statistico [De Mauro e Grimaldi, 2016]3. D’altra parte, nemmeno il metodo sperimentale può aspirare a un controllo completo e perfetto su tutte le variabili di ricerca. Nella sua versione più semplice, consiste nell’introdurre modifiche esterne sui valori delle variabili indipendenti per valutare l’effetto che hanno sui valori delle variabili dipendenti. Il che consente di costruire artificialmente le variabili per valutarne il peso causale nelle relazioni reciproche. Normalmente si opera dividendo i casi di indagine in due gruppi 3. Si pensi in proposito alla quantità di repertori di dati o data-base, annualmente aggiornati, che i ricercatori hanno a disposizione per mettere a punto i propri lavori su tutta una serie di concetti in uso nelle scienze politiche e sociali quali, ad esempio, libertà, democrazia, corruzione, disoccupazione, reddito, sviluppo, ecc. nei vari paesi del mondo. Fondazioni, istituzioni accademiche o culturali, organizzazioni non governativa sfornano ogni anno miliardi di valori nei loro data-set. Fra quelli più conosciuti: Freedom House, Democracy Index, Transparency, le statistiche economiche della Banca Mondiale, il particolarissimo Better Life Index dell’Oecd.

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il più possibile identici, dei quali uno (gruppo sperimentale) è sottoposto a uno stimolo, mentre l’altro (gruppo di controllo) non lo è. Se i due gruppi hanno reazioni simili, vuol dire che la variabile introdotta dall’esterno non è da considerarsi adeguatamente rilevante sul piano causale, e viceversa. In questo modo, realizzando la regola aurea del ceteris paribus che garantisce contro l’interferenza di altre variabili, il metodo sperimentale è quanto di più prossimo vi sia all’ideale della scienza empirica, ma trova solo pochissime e limitate applicazioni nel campo delle scienze sociali, per via di difficoltà che sono al tempo stesso di ordine pratico ed etico. Se ne fa un certo uso nella psicologia comportamentista e negli approcci di altre discipline da questa derivati: per esempio nelle ricerche della scuola behavioristica in scienza della politica, per controllare il rapporto che lega la partecipazione elettorale a determinati strumenti di propaganda politica, mediante la suddivisione di un campione di elettori in gruppi sui quali viene misurato l’impatto dei vari strumenti di propaganda agli effetti della partecipazione politica. Sennonché, anche l’approccio sperimentale è stato oggetto di una recente rivalutazione nelle scienze sociali sotto l’impulso dei successi ottenuti in economia, rimettendo al centro dell’indagine «l’uomo in carne e sangue» – secondo l’efficace definizione di Alfred Marshall – che opera le sue scelte con tutti i limiti del suo cervello e i vincoli dell’incertezza. A un sistema di assunzioni indimostrabili di un qualsiasi modello teorico, per quanto raffinato sia, si preferiscono batterie di esperimenti in laboratorio che testano un’ipotesi osservando direttamente il comportamento dei soggetti in azione. Naturalmente, anche per queste nuove forme di sperimentalismo valgono le consuete obiezioni: la validità esterna di un esperimento, che ne consenta la replicabilità, non è semplice da ottenere, così come è assai complessa la possibilità di isolare persone in un laboratorio e trattarle come molecole di un esperimento biologico. In realtà, la novità di questo metodo sta nel mettere in discussione il paradigma di razionalità dell’homo oeconomicus (e a maggior ragione quella dell’homo

Sui metodi empirici (in generale)

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sociologicus o politicus) e di osservare i comportamenti reali di consumatori o elettori, manager o governanti, se necessario simulandoli o inducendoli fittiziamente. Non è un caso, da questo punto di vista, che il “paternalismo libertario”, ispirato al nudge di Thaler e Sunstein [2008], sia stato alla base della leadership politica di Barack Obama e James Cameron. E non è nemmeno un caso che la teoria dei giochi sia stata rivista in laboratorio e riformulata come behavioural game theory, mediante l’uso di ingredienti psicologici volti a dinamizzare l’interazione strategica fra gli attori e a provare gli incentivi al comportamento cooperativo o conflittuale in soggetti che perseguono la realizzazione di interessi personali [Smith, 2010]4. Infine, anche il metodo comparato, come gli altri metodi di controllo, si pone l’obiettivo di spiegare le modalità logiche nelle relazioni fra variabili, ma ne differisce essenzialmente per l’uso di tecniche d’analisi prevalentemente qualitative. È per questo che lo si considera il meno “forte” tra i metodi di controllo empirico e il più vicino alla logica dell’indagine storica. I processi classificatori costituiscono la parte essenziale di questo metodo, in quanto strumenti di controllo delle differenze fra gli stati sulle proprietà degli oggetti. Comparando unità socio-politiche diverse – ad esempio, la struttura della famiglia o i sistemi elettorali in due paesi diversi – bisogna far ricorso a concetti che, come dice Sartori, “siano in grado di viaggiare”, cioè di muoversi sulla scala di astrazione in modo da superare in “estensione” e “intensione” tutte le barriere di relatività culturale poste dal confronto di due contesti diversi: parlando di sistemi elettorali, non si possono assumere, ai fini della comparazione, variabili troppo connotative (tipo la 4. A fronte della teoria classica dei giochi, che aveva il fine di stabilire le condizioni “normative” (ideali) per cui una decisione potesse venir definita razionale, la cosiddetta «teoria del prospetto», proposta in alternativa dalla psicologia sperimentale, si propone di fornire una descrizione di come gli individui effettivamente si comportano nel prendere una decisione, specialmente in condizioni di rischio nelle quali è conosciuta o si può stimare la probabilità associata ai possibili esiti di ogni alternativa a disposizione [Kanheman e Tversky, 1979].

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tradizione localista in Italia) o troppo denotative (le formule proporzionali senza altra specificazione). Di qui la difficoltà dei concetti “comparati” a essere operazionalizzati in variabili e misurati con metodi quantitativi. Per concludere, ripetiamo che tutti e tre questi metodi si propongono di raggiungere spiegazioni scientifiche, stabilendo relazioni empiriche generali fra due o più variabili e controllando – tenendo cioè costanti – le altre variabili intervenienti.

3. Sul metodo comparato (in particolare)

1. Gli albori della politica comparata Da sempre è esistita la convinzione che lo studio scientifico della politica avesse bisogno della più ampia quantità di dati e che tali dati dovessero essere raccolti anche mediante un confronto con realtà diverse e lontane nel tempo e/o nello spazio, rispetto a quelle che costituiscono oggetto diretto di analisi. Tuttavia, la nascita di una politica comparata “scientifica” può essere fatta risalire solo al secondo dopoguerra, quando l’ampliamento della disponibilità di dati – sia sotto il profilo temporale che geografico – ha reso più praticabile la strada della comparazione. Questa rinascita della politica comparata, che ebbe luogo negli Stati Uniti intorno alla prima metà degli anni ’50, avvenne innanzitutto come reazione rispetto a quel “provincialismo etnocentrico” di cui erano accusate le ricerche politologiche, prodotte fino a quel momento quasi esclusivamente nell’area nord americana ed europea; in secondo luogo, dall’esigenza di introdurre nella scienza empirica della politica un maggior rigore metodologico. Partendo da questi due obiettivi, che furono alla base della rifondazione degli studi di politica comparata, le ricerche condotte dagli studiosi si orientarono su due distinti filoni di indagine: il primo pose l’attenzione sull’ampliamento del campo di indagine, sulla raccolta di dati relativi a comportamenti, funzioni e strutture che caratterizzano le istituzioni politiche, al fine di comparare due o più unità; il secondo, al contrario, si concentrò sulla problematica epistemologica

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che configura la comparazione come uno specifico metodo di misurazione e controllo. Ripercorrendo brevemente le tappe che condussero a configurare la politica comparata come un campo autonomo di ricerca nell’ambito degli studi politici, si può collocare l’inizio effettivo di inversione di tendenza nell’ambito degli studi comparati nell’estate del 1952, con il seminario sulla politica comparata svoltosi presso la Northwestern University di Evanston nell’Illinois. Nel corso del seminario, i cui atti vennero successivamente discussi e pubblicati nell’«American Political Science Review» [Macridis e Cox, 1953] i relatori (tra cui Friedrich, Lasswell, Simon) posero le basi per la nascita di un vero e proprio movimento accademico unificato dal rifiuto di praticare una politica comparata essenzialmente rivolta allo studio dei singoli paesi e dalla volontà di rinnovare radicalmente quest’area. Essi sostennero la necessità di operare una rivoluzione metodologica nel campo della politica comparata, propugnando innanzitutto il rigetto di quella prospettiva “tolemaica” (tale era definita la tendenza a interpretare e leggere le vicende e le strutture dei paesi stranieri alla luce dell’esperienza e dei valori delle società occidentali – europea e americana) che aveva fino ad allora caratterizzato lo studio dei fenomeni politici in chiave comparata. A partire da questo incontro i neocomparatisti si proposero di combattere la scienza politica tradizionale almeno su tre fronti: il provincialismo, il formalismo e il descrittivismo. Con il termine provincialismo (parochialism) si intendeva il vizio di fondo degli studi comparati a concentrare il campo di indagine nella sola area occidentale, con la conseguenza che Stati Uniti e Stati europei diventavano i modelli alla luce dei quali erano descritte e commisurate tutte le altre esperienze politiche. D’altro canto, con il termine formalismo si faceva riferimento a una certa tendenza degli studi comparati – e non solo – a centrare il fuoco della ricerca più sugli aspetti di carattere formale-legale delle istituzioni e degli apparati normativi, con eventuali considerazioni

Sul metodo comparato (in particolare)

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sulle idee politiche e sulle ideologie dominanti piuttosto che sulla dimensione della partecipazione e del comportamento politico, del sistema elettorale e del sistema partitico o delle dinamiche effettive del processo decisionale. Infine, con il termine descrittivismo si accusava il convincimento diffuso tra gli studiosi secondo cui ogni fenomeno politico, ogni assetto istituzionale, ogni forma di Stato o di governo dovessero essere considerati come esclusivi e irripetibili prodotti storici del «carattere nazionale» o dello «spirito» di un popolo o di una nazione. Nell’anno successivo, il 1953, su iniziativa del neopresidente dell’American Political Science Association (Pendleton Herring) prende vita il Committeee on Comparative Politics. Sotto la direzione di Almond prima e di Pye successivamente l’attività del Comitato, protrattasi fino alla metà degli anni ’60, costituì un importante punto di riferimento, di incontro e di scambio per sociologi, politologi, antropologi ed economisti14. Nei suoi quindici anni di lavoro questo promosse la pubblicazione di libri e articoli, l’organizzazione di seminari, l’avvio di ricerche e la produzione dei più significativi quadri metodologici e concettuali per la ricerca comparata sia nei paesi occidentali che in quelli non occidentali. L’attività del Comitato può essere distinta in due fasi. Nel corso della prima, che coincide con la fine degli anni ’50, l’attenzione venne posta sulla “ricerca di campo”, quando molti ricercatori si spinsero in Africa, Medio Oriente, Asia e America Latina per studiare forme politiche e istituzioni «primitive e tradizionali», fino ad allora considerate degne di poca o nulla attenzione. La seconda stagione, che risale alla prima metà degli anni ’60, risultò invece caratterizzata da una maggiore sistematicità nell’attività di ricerca, grazie anche alla messa a punto del «modello di sviluppo politico» che trovò la sua elaborazione più compiuta nel libro di E. Shils, Political development in the New States (1960) e nel lavoro di Almond e Coleman, The politics of developing areas, pubblicato nello stesso anno.

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Contribuì indubbiamente al germogliare degli studi di politica comparata in questo periodo la crescente accumulazione di dati e informazioni sui paesi non-occidentali, resa possibile dalla concomitante concessione dell’indipendenza a quasi tutti i paesi ex coloniali dell’Asia e dell’Africa. Oltre a ciò, altri fattori tuttavia spinsero l’interesse dei ricercatori versi gli studi di politica com-parata: la rivitalizzazione del dibattito sui metodi e sui paradigmi – in particolare quello funzionalistico e quello sistemico – che, se da un lato portava a rifondare gli strumenti della scienza politica tradizionale, dall’altro trovava proprio nei paesi di nuova costituzione un affascinante e inesplorato campo di applicazione e di verifica; l’estensione della prospettiva psicologico-culturale dall’antropologia alla politica, che condusse molti politologi a rivolgersi a problemi connessi alla scoperta e alla misurazione del carattere nazionale e della cultura politica. 1.1 I canoni induttivi della ricerca sperimentale (John Stuart Mill) Quando John Stuart Mill mise a punto i cinque canoni (regole) del metodo comparato nella sua opera fondamentale, Logica raziocinativa e induttiva [1872, trad. it. 1988], due cose aveva chiare in mente: che il metodo comparato dovesse servire per la formulazione di leggi generali, e che questo compito – quindi anche l’uso della comparazione – fossero riservati alle scienze sperimentali (in particolare alle discipline naturali, in specie alla chimica) e invece sottratto a quelle che lui definiva complessivamente come scienze “morali”, comprendendovi lo studio della politica, della società e della storia, che potevano al massimo aspirare a «generalizzazioni approssimate» [Mill, 1988, pp. 1166-1177]. La logica del metodo comparato deve la sua fondazione scientifica ai «canoni dell’indagine induttiva» di John Stuart Mill. I canoni sono appunto regole di comparazione

Sul metodo comparato (in particolare)

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tra fenomeni che possono portare alla rilevazione di rapporti di causalità riconducibili a enunciati o leggi generali. Sono dunque strumenti “argomentativi” che si situano nel contesto della scoperta piuttosto che in quello della giustificazione (dove invece tanto Lijphart quanto Sartori collocano il metodo comparato inserendolo fra i metodi di controllo) [Reichenbach, 1966, pp. 223-4]. Vero è che Mill mette in guardia dall’usare i canoni induttivi della comparazione nelle scienze che lui definisce “morali” in quanto basate su scelte etiche che non possono ridursi a principi di uniformità, come accade invece per le scienze sperimentali che si basano sul principio generale di uniformità della natura. Diversamente dalle scienze naturali, le scienze storico-sociali possono contare soltanto su «abbozzi incompleti di spiegazioni» [Mill, 1843, trad. it. 1988, pp. 385 ss.]. È altrettanto vero, tuttavia, che gli studiosi di scienze sociali – soprattutto in scienza politica ma non solo – si sono sempre serviti della comparazione formalizzata nei canoni milliani come di un metodo di logica “dura”, al pari dei metodi quantitativi, per l’analisi prevalentemente qualitativa delle azioni umane e delle loro conseguenze sul piano della società e della storia. Le regole o canoni del metodo comparato enunciati da Stuart Mill sono cinque: 1) canone della concordanza, 2) canone della differenza, 3) canone congiunto della concordanza e della differenza, 4) canone dei residui 5) canone delle variazioni concomitanti. Come illustra la tavola seguente (Tavola 3):

«Se due o più casi del fenomeno che stiamo indagando hanno una circostanza in comune, la sola circostanza per la quale tutti i casi concordano è la causa (o l’effetto) del fenomeno dato»

«Se un caso in cui il fenomeno che stiamo indagando accade e un caso in cui non accade hanno tutte le circostanze in comune eccettuata una e quest’una si presenta soltanto nel primo caso, quella sola circostanza in cui i due casi differiscono è l’effetto, o la causa, o una parte indispensabile della causa del fenomeno»

«Se due o più casi in cui il fenomeno accade hanno soltanto una circostanza in comune, mentre due o più casi in cui il fenomeno non accade non hanno nulla in comune eccettuata l’assenza di quella circostanza, allora quell’unica circostanza, rispetto alla quale i due insiemi di circostanza differiscono, è l’effetto, o la causa, o una parte consistente della causa del fenomeno»

«Si sottragga da un fenomeno quella parte che, da induzioni precedenti, si sa essere l’effetto di certi antecedenti: il residuo del fenomeno sarà l’effetto degli antecedenti che restano»

«Qualunque fenomeno, che vari in un qualche modo qualsiasi ogni volta che un altro fenomeno varia in qualche modo particolare, è una causa o un effetto di quel fenomeno, o è connesso a quel fenomeno mediante qualche fatto di causazione» (p. 553)

Differenza

Differenza e concordanza

Residui

Variazioni concomitanti

Definizioni

Concordanza

Metodo

Tav. 3 - Canoni induttivi della comparazione

1° 2° 3°

1° 2° 3°

A+B D A°B D A-B D

ABC B è la causa di A C è la causa di A

ABCD AEFG BCD EFG

ABCD BCD

1° 2°

1° 2° 3° 4°

ABCD AEFG AHIL

Circostanze antecedenti

1° 2° 3°

Casi

b+ c b° c b- c

xyz y z

wxyz wtuv xyz tuv

wxyz xyz

wxyz wtuv wpqr

Fenomeni rivelati in concomitanza alle circostanze antecedenti

A è correlato casualmente con b.

A è la causa di x.

A è l’effetto, o la causa, o una concausa, di w.

A è la causa, o l’effetto, o la concausa, di w.

A è la causa (o l’effetto) di w.

Risultato inferito

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Sul metodo comparato (in particolare)

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Nella congerie di esempi che lo stesso autore propone per illustrare i suoi canoni, scegliamo quello che Mill trae dall’opera di un medico inglese, William Charles Wells, che per primo sottopose a esame scientifico il fenomeno della rugiada, richiamato poi da John Herschel nel suo Discourse on the Study of Natural Philosophy1. «“Supponiamo che il fenomeno propostoci sia la rugiada, e di volerne conoscere la causa. In primo luogo” dobbiamo determinare con precisione che cosa intendiamo parlando di rugiada; che cosa sia in realtà la causa che intendiamo investigare. “Dobbiamo separare la rugiada dalla pioggia e dall’umidità della nebbia e limitare l’applicazione del termine (…) alla comparsa spontanea di umidità su sostanze esposte all’aria aperta, quando non stia cadendo pioggia o umidità visibile. (…) Abbiamo fenomeni analoghi nell’umidità che ricopre un metallo o una pietra freddi quando respiriamo su di essi; quella che compare su un bicchiere d’acqua attinta di fresco da un pozzo quando fa caldo; quella che compare all’interno delle finestre quando una pioggia o una grandinata improvvise raffreddano l’aria esterna; quella che scorre sui nostri muri quando, dopo una lunga gelata, arriva un disgelo caldo e umido (…). Ora, tutti questi casi concordano su un punto: la bassa temperatura dell’oggetto cosparso di rugiada, in confronto con l’aria a contatto con esso”. (…) Ecco qui un’applicazione completa del metodo della concordanza, grazie alla quale si stabilisce che esiste una connessione invariabile tra il depositarsi della rugiada su una superficie e la bassa temperatura di quella superficie in confronto con la temperatura dell’aria esterna. Ma quale di queste due cose è la causa e quale l’effetto? O sono entrambe effetto di qualcos’altro? A questo punto dobbiamo chiamare in nostro aiuto un metodo più potente, il canone della differenza. “Dobbiamo raccogliere più fatti, 1. An Essay on Dew and Several Apperarances Connected with It, 1814. Le virgolette inserite nel testo di Mill (“) segnalano il diretto riferimento al libro di Harschel.

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o il che è lo stesso, far variare le circostanze (infatti, ogni caso in cui le circostanze differiscono, è un nuovo fatto): più in particolare dovremo osservare i casi negativi o contrari, cioè a dire quei casi in cui non si produce rugiada”: la condizione necessaria per mettere in giuoco il metodo della differenza è il confronto fra i casi in cui c’è rugiada e i casi in cui non c’è. “Ora, in primo luogo la rugiada non si produce sulla superficie dei metalli politi [lisci, levigati], ma si produce in quantità copiosa sui vetri”. Ecco un caso in cui l’effetto si produce e l’altro in cui non si produce, ma non possiamo ancora dichiarare, come richiede il metodo della differenza, che l’ultimo caso concorda con il primo in tutte le circostanze eccetto una. “Nel caso di metallo polito e di vetro polito, il contrasto mostra in modo evidente che la sostanza ha molto a che fare col fenomeno; perciò si faccia in modo di diversificare la sola sostanza, esponendo all’aria superfici polite di varie specie. Troveremo che si ricoprono maggiormente di rugiada quelle sostanze polite che sono peggiori conduttrici di calore, mentre quelle che sono buone conduttrici resistono alla rugiada in modo efficace”. Qui interviene in nostro aiuto il metodo delle variazioni concomitanti, dal momento che non è possibile applicare alcun altro metodo in quanto non è possibile escludere la qualità dell’essere conduttori di calore [induzione per eliminazione], che appartiene a tutte le sostanze. La conclusione che si ottiene è che, coeteris paribus, il depositarsi di rugiada è in qualche misura proporzionale al potere che il corpo presenta di resistere al calore [cattivo conduttore], e questa deve essere almeno una delle cause del fenomeno. C’è ancora una complicazione. “Se in luogo di superfici polite esponiamo superfici scabre [ruvide], troviamo che qualche volta questa legge soffre di interferenze. Così il ferro reso scabro, specialmente se cosparso di vernice o annerito, si ricopre più presto di rugiada di quanto non faccia la carta ricoperta di vernice: perciò la specie di superficie ha una grande influenza”. Se dunque si espone lo stesso materiale con superfici in stato diverso (applicando il metodo della

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differenza ai risultati delle variazioni concomitanti), “subito diventa evidente un’altra scala di intensità: si vedrà che quelle superfici che cedono più rapidamente il loro calore per irradiazione (superfici scabre) condensano una quantità più copiosa di rugiada”. Ecco dunque i requisiti per un secondo impiego del metodo delle variazioni concomitanti, anche in questa ipotesi l’unico disponibile perché, in misura diversa, tutte le sostanze irraggiano calore. Che è un’altra delle cause che promuovono il deposito di rugiada sulle sostanze. Ancora, l’influenza che abbiamo accertato di sostanza e superficie ci induce a prendere in considerazione la trama che induce una terza scala di intensità, indicando come sfavorevoli alla rugiada le sostanze dotate di trama solida e compatta, quali pietre, metalli, ecc., mentre come favorevoli quelle sostanze che presentano una trama allentata, quali stoffa, cotone, ecc.” Per la terza volta si è dovuto ricorrere al metodo delle variazioni concomitanti perché nessuna sostanza ha una trama assolutamente compatta o assolutamente allentata. La leggerezza della trama è un’altra circostanza che favorisce il depositarsi di rugiada, ma è di fatto riconducibile alla prima, la resistenza al calore” [più resistenza – cattiva conduzione – più rugiada]. (…) È dunque chiaro che i casi in cui si deposita una gran quantità di rugiada – molto diversi fra loro – concordano in questo: che irraggiano calore rapidamente o conducono calore lentamente. Per l’una o l’altra circostanza il corpo tende a perdere calore all’esterno più velocemente di quanto ne possa reintegrare dall’interno. Al contrario, i casi in cui non si forma rugiada – anch’essi diversi e svariati non concordano in nient’altro se non nel non avere la medesima proprietà. Abbiamo in questo modo soddisfatto ai criteri del metodo congiunto della concordanza e della differenza (…). Abbiamo trovato, nelle fasi precedenti della ricerca, che in tutti i casi in cui un corpo si ricopre di rugiada, la sua sostanza deve essere tale da diventare, in virtù delle sue proprie leggi o proprietà, più fredda dell’aria circostante. Dell’abbassamento di temperatura ci si può rendere conto

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indipendentemente dal fenomeno della rugiada, mentre è provato che tra le due cose esiste una connessione: deve essere dunque la rugiada a dipendere dal freddo [e questo è vicino all’applicazione del metodo dei residui]» [Mill, 1843, trad. it. 1988, pp. 568-75, passim]. È il caso di ricordare, a questo proposito, che il metodo dei residui costituisce per Mill una modificazione particolare del metodo della differenza: dei due casi richiesti da quest’ultimo – l’uno positivo, l’altro negativo – il caso negativo ovvero il caso in cui il fenomeno è assente – non è il risultato diretto di un’osservazione o di un esperimento, ma è stato determinato mediante deduzione, tanto più correttamente quanto più lo sono state le procedure induttive precedenti che avevano portato a individuare una certa causa. 1.2 Esempi e casi pratici Per rendere meno complicate le spiegazioni che lo stesso Mill fornisce circa i canoni del metodo induttivo e sperimentale – e per renderci conto del loro ampio (spesso inconsapevole) impiego nella logica della scienza ma anche in quella dei ragionamenti quotidiani – proponiamo un’altra serie di esempi. Cominciamo col metodo della concordanza. A New York cinque studenti della Cornell University si ammalano contemporaneamente con sintomi di cefalea, febbre, dolori muscolari, tumefazione delle linfoghiandole e della milza. Questi studenti frequentavano corsi in dipartimenti diversi, mangiavano in luoghi diversi e si conoscevano appena. Avevano però tutti partecipato a un pranzo per una ricorrenza dell’Università, dove avevano mangiato carni insaccate. Si sospetta subito che quest’unico fatto comune sia l’agente causale della malattia e successivamente si scopre che l’ingestione di carni mal cotte, quindi parassitate, aveva trasmesso loro la toxoplasmosi. Sullo sfondo di questo ragionamento induttivo c’è la «Tavola delle concordanze» di Bacone, ma allora come ora emergeva anche il suo limite: non si danno spesso casi in

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cui sia facile individuare il fattore comune, quale probabile fattore causale, dall’insieme delle condizioni rilevanti quasi mai riducibili a un solo fattore. È in questo senso noto il contro-esempio del «bevitore scientifico» che, cercando il perché finisse di ubriacarsi tutte le sere, prese a elencare con precisione scientifica le bevande che assumeva prima di ubriacarsi: bourbon con soda, scotch e soda, rum con soda, gin con soda. Alla fine poteva concludere, con serena consapevolezza metodologica, che la causa del suo stato di ebbrezza fosse la soda. Rimanendo nel campo degli effetti dell’alcol, vediamo un altro esempio ancora più semplice. Abbiamo a che fare con due diverse circostanze. Nella prima (a), un Tizio (1) sta tranquillo nella sua stanza silenziosa, (2) dove da qualche ora e con una certa insofferenza cerca di leggere (e capire) il Sistema di logica di Mill; (3) ha sete e beve una birra, (4) dopo di che gli viene mal di testa: sarà colpa di Mill o della birra? Nella seconda circostanza (b), lo stesso Tizio si reca (1) a cena con amici in un ristorante rumoroso; (2) si parla di sport e di donne, che è molto più piacevole che occuparsi di Mill, (3) pasteggia con birra, (4) ha di nuovo mal di testa. Morale (e risposta alla domanda precedente): con tutta evidenza, è la birra a provocare mal di testa. Anche questo esempio in sé elementare ci ammonisce sulla difficoltà di trovare un solo fattore come rilevante e sicuramente determinabile come causa (o effetto) del fenomeno che stiamo indagando. Ed è per far fronte a questa difficoltà che si introduce il metodo della differenza. Riportandoci all’esempio precedente, mettiamo che ci sia un altro piccolo gruppo di studenti della Cornell che conoscono molto bene i cinque studenti affetti da toxoplasmosi: frequentano gli stessi corsi, mangiano negli stessi posti, partecipano insieme al pranzo di festa dell’università ma, contrariamente ai loro amici, si astengono dal consumare carni insaccate e così non lamentano alcun disturbo. Il che conferma che proprio quelle carni sono causa della malattia che colpisce il primo gruppo dei cinque studenti. Torniamo adesso alle (dis)avventure alcoliche di Tizio,

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riproponendo tal quale la circostanza a, ma ipotizzando una circostanza b in cui Tizio beve solo acqua minerale: alla fine della cena non avvertirà più mal di testa. Le due situazioni vissute da Tizio sono identiche, tranne che per le bevande. Ergo: si conferma che, con tutta verosimiglianza, l’alcol – anche quel poco contenuto nella birra – è la causa dei suoi disagi post prandiali. Se mettiamo insieme i due metodi d’indagine per gli esempi già fatti – metodo congiunto della concordanza e della differenza – abbiamo un quadro più completo e preciso delle connessioni causali tra i fenomeni che stiamo indagando. Possiamo dunque dire che i metodi della concordanza e della differenza, nonché la loro congiunzione, servono per rintracciare le condizioni necessarie e/o sufficienti di un dato fenomeno, cioè il modo per inferire da una serie di eventi circostanze e proprietà che possono essere considerate come causa, prossima o remota, del darsi di quell’effetto. Potremmo usare questo approccio per dire che, in occasione dell’accadere di un dato evento, una condizione necessaria è quella in assenza della quale l’evento non può accadere, e il metodo della differenza è un’utile strategia per individuarla. Una condizione sufficiente, viceversa, è una condizione in presenza della quale l’evento deve accadere, e il metodo della concordanza è un’utile strategia per individuarla. Se infine cerchiamo di cogliere una relazione univoca fra causa ed effetto, cercheremo condizioni necessarie e sufficienti, e a questo scopo serve il metodo congiunto di concordanza e differenza. Quando non c’è modo di utilizzare concordanza e differenza, e occorre comunque cercare quanto meno degli indizi circa l’esistenza di una qualche relazione di corrispondenza tra due fenomeni, senza poterne distinguere – se non logicamente – la causa dall’effetto, si ricorre al metodo delle variazioni concomitanti, conosciuto in statistica come tecnica di correlazione tra variabili [Perrone, 1978] in questo senso applicato da Emile Durkheim nella sua famosa ricerca

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sul suicidio [Durkheim, 2007]. Se, rifacendoci agli esempi precedenti, troviamo che tutte le volte in cui si mangiano cibi malcotti e parassitati aumenta il rischio di contrarre una malattia infettiva oppure che l’assunzione di alcol nelle bevande può indurre mal di testa, allora possiamo dirci certi che tra i fenomeni associati nel loro accadimento possa esistere una relazione causale (sebbene ancora da fissare – logicamente ed empiricamente – nei suoi antecedenti e nelle sue conseguenze). Da ultimo c’è il metodo dei residui, se gli altri si rivelano poco esaurienti sul piano esplicativo. Questo, in realtà, costituisce una modificazione e un’integrazione del metodo della differenza. Dei due casi richiesti dalla differenza – l’uno positivo, l’altro negativo – il caso negativo (quello in cui il fenomeno è assente) non è il risultato diretto di un’osservazione o di un esperimento ma è ricavato mediante deduzione dalle precedenti induzioni, e la deduzione è tanto più corretta quanto più lo erano state le induzioni precedenti. Poniamo, nell’esempio della toxoplasmosi, che il gruppo di studenti astenutosi dall’ingestione della carne insaccata, manifesti qualche giorno dopo sintomi analoghi alla toxoplasmosi. Sappiamo dalla precedente induzione che non può trattarsi di un’infezione da cibo: ne deduciamo che il gruppo di studenti in questione abbiano contratto, contagiandosi a vicenda, una sindrome di tipo influenzale. Per passare alla vicenda del bevitore: (1) al ristorante mangia una buona varietà di pietanze, (2) beve birra, (3) gli viene mal di testa e (4) avverte pure mal di stomaco. Per precedente induzione sappiamo che il mal di testa è imputabile alla birra, per deduzione ricaviamo che il male allo stomaco possa farsi risalire alla quantità e/o alla qualità del cibo. 2. Il metodo comparato nelle scienze sociali Ciò detto, precisiamo subito che nel metodo comparato in uso alle scienze storico-sociali (contro il parere dello

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stesso Mill) si fa ricorso ai primi tre canoni (della concordanza, della differenza e al canone congiunto), nonché alla regola delle variazioni concomitanti, soprattutto per variabili di tipo quantitativo, mentre è pressoché trascurato il metodo dei residui. La vocazione generalizzante della comparazione ha indotto anche gli storici ad abbandonare l’approccio del caso singolo per volgersi alla produzione di modelli generali che consentono di mettere a confronto casi diversi per individuare condizioni e conseguenze di un certo fenomeno. La Skocpol, in modo assolutamente innovativo nella tradizione storiografica, indaga le cause della rivoluzione comparando tre esperienze diversissime fra loro, anche da un punto di vista storico e cronologico, come sono quelle della rivoluzione francese, della rivoluzione sovietica e della rivoluzione maoista, per ricavarne una teoria generale delle rivoluzioni. Scansa per questo le spiegazioni psicologiste, come quelle che assumono tutte le forme di ribellismo sociale quali conseguenze inevitabili di sentimenti collettivi di frustrazione e di deprivazione relativa [Gurr, 2010], e afferma piuttosto che la rivoluzione debba intendersi come una «particolare rottura sistemica» che ha fra le condizioni necessarie e sufficienti del suo accadimento determinate trasformazioni economiche e sociali (specialmente nella struttura delle classi) e come esito comune e rilevante una rapida trasformazione della “sovrastruttura” statale [Skocpol, 1981]. La tavola 4 mostra una serie di combinazioni del metodo di concordanza e differenza che si applicano nella comparazione in scienze sociali e che si distinguono fondamentalmente in due strategie di analisi: il Most Similar System e il Most Different System, l’una basata sulla ricerca di casi il più possibile simili e l’altra sulla ricerca di casi il più possibile differenti ovvero casi in cui si registrano differenze generali che conducono poi alla scoperta di una similitudine cruciale e casi in cui si registrano invece similitudini generali che possono svelare alla fine una differenza cruciale [Carsten, 2008, pp. 389-401].

Sul metodo comparato (in particolare)

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Tav. 4 – Tipologia dei metodi di ricerca comparativa Most Similar System

Metodo della Differenza

Metodo della Concordanza

Esempio 1 Differenze in casi simili Per es., le differenze fra percorsi democratici o non democratici verso la società moderna [B. Moore, Le origini sociali della dittatura e della democrazia, Einaudi,

Esempio 2 Similitudini in casi simili Per es., le somiglianze dei percorsi democratici nei paesi occidentali verso la società moderna [B. Moore, Ibidem]

Torino 1973] Most Different System

Esempio 3 Differenze in casi diversi Per es., le differenze fra la democrazia francese e americana [A. de Tocqueville, La democrazia in America,

Esempio 4 Similitudini in casi diversi Per es., la rivoluzione in Francia, Russia e Cina [T. Skocpol, Stati e rivoluzioni, Il Mulino, Bologna 1981]

utet, Torino 2007]

Ipotizzando di volere indagare le relazioni fra libero mercato e regime democratico, possiamo mettere a confronto le esperienze maturate da tre paesi, Germania, Stati Uniti e Cina, che risultano diversi per molti rispetti – per esempio la struttura del sistema politico (a,d,g), le tradizioni e i valori culturali (b,e,h), le politiche pubbliche (c,f,i): per riferirci alle specificazioni del metodo della concordanza illustrato nella figura – ma praticano tutti una qualche forma di economia capitalistica (x) che spiega probabilmente, almeno in parte, l’elevato sviluppo economico (y) su cui possono contare (misurato in termini di Pil annuale). Per mettere alla prova questa relazione e affinare meglio la logica della relazione fra condizioni necessarie e sufficienti (variabili

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economiche) e conseguenze politiche (regime democratico), cercando una certa plausibilità proprio per il caso cinese che continua a essere caratterizzato da un regime comunista di tipo quasi totalitario, nonostante quella che i suoi dirigenti chiamano «economia di mercato socialista», sottoponiamo al metodo della differenza la comparazione del caso cinese con quello statunitense. Troviamo allora che sono molto simili lo sviluppo economico (a), le tecniche di accumulazione capitalistica (b), l’apertura del commercio internazionale (c), mentre la differenza cruciale è che negli Usa esistono tutte le garanzie a tutela dei diritti di libertà (anche economica) che mancano del tutto in Cina (x /vs. non x), dove i processi capitalistici sono nelle mani dello Stato o comunque sottoposti al suo stretto controllo. Ne segue che in un caso si dà democrazia e nell’altro no (y/vs. non y). Non lo sviluppo economico in sé [Lipset, 1981], ma il libero scambio entro una cornice di tutela della proprietà privata – ciò che correttamente può definirsi come «libero mercato» – è la condizione necessaria ancorché non sufficiente per l’instaurazione e il consolidamento del regime democratico (cfr. Tav. 5). Tav. 5: Canoni milliani della concordanza e della differenza Metodo della Concordanza Caso 1

Caso 2

Caso 3

a b c x

d e f x

g h i x

y

y

y

Sul metodo comparato (in particolare)

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Metodo della Differenza Caso 1

Caso 2

a b c

a b b

x y

non x non y

2.1 La posizione di Lijphart A partire dalla prima metà degli anni ’70, il dibattito sul metodo comparato diviene uno dei punti focali di discussione all’interno del mondo della scienza politica. Punto di partenza del dibattito è l’articolo di A. Lijphart, pubblicato nel 1971 nell’«American Political Science Review», Comparative politics and comparative method. In tale scritto l’autore definisce il metodo comparato «come uno dei metodi fondamentali – insieme con quello sperimentale, con quello statistico e con lo studio dei casi – per costruire proposizioni empiriche di validità generale» [Lijphart, 1985, p. 270]. Specificando inoltre che tale metodo costituisce uno dei metodi scientifici fondamentali, e non il metodo scientifico, Lijphart intende valutarne l’efficacia in rapporto agli altri tre metodi – sperimentale, statistico e studio del singolo caso – alla luce di due criteri: a) la misura in cui i diversi metodi permettono di mettere alla prova una teoria mediante il confronto con spiegazioni rivali; b) la difficoltà di acquisire i dati necessari per impiegare ciascun metodo. Elemento comune ai quattro metodi indicati è che tutti si propongono – afferma Lijphart – di raggiungere spiegazioni scientifiche, ovvero: 1) di stabilire relazioni empiriche generali tra due o più variabili, 2) controllando, cioè tenendo costanti, tutte le altre. I punti 1) e 2) sono inseparabili: non si può essere certi che la relazione sia stata correttamente stabilita se non si è tenuta sotto controllo l’influenza delle altre

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variabili. La condizione del ceteris paribus è fondamentale per le generalizzazioni empiriche. Malgrado l’obiettivo sia fondamentalmente comune, le strategie sono tuttavia molto diverse. 1) Il metodo sperimentale, che consiste nel riprodurre artificialmente una relazione tra fenomeni tra cui si è in grado di stabilire una relazione causale, nella sua versione più semplice, usa due gruppi identici, di cui uno (gruppo sperimentale) è sottoposto a uno stimolo, mentre l’altro (gruppo di controllo) non lo è. Successivamente, i due gruppi sono raffrontati, e ogni differenza può essere attribuita allo stimolo. In questo modo si viene a conoscere la relazione tra due variabili, con l’importante garanzia che nessun’altra variabile abbia interferito, dato che sotto ogni aspetto i due gruppi erano uguali. Il metodo sperimentale è per Lijphart quanto di più prossimo vi sia all’ideale scientifico, ma disgraziatamente esso può essere solo raramente usato nelle scienze sociali per difficoltà di natura pratica ed etica. Esso può infatti essere utilizzato solo in riferimento a problemi circoscritti e trova un terreno corretto di applicazione quasi esclusivamente all’interno di contesti di dimensioni molto ridotte e per questo poco significativi. 2) Il metodo statistico, d’altro canto, contempla il ricorso a una tecnica di controllo delle ipotesi fondata esclusivamente su dati numerici. Esso comporta quindi l’elaborazione teorica di dati osservati empiricamente – che non possono essere manipolati in situazione sperimentale – al fine di scoprire relazioni controllate tra variabili. Il problema del controllo è affrontato con l’aiuto di correlazioni parziali: per esempio, se si vogliono esaminare le relazioni fra partecipazione politica e livello di istruzione, si deve controllare l’influenza dell’età, data la nota relazione tra età e istruzione. Ciò può essere fatto dividendo il campione in un certo numero di classi di età e osservando le relazioni tra partecipazione e istruzione politica all’interno di ogni classe di età separatamente. Il metodo statistico può essere quindi considerato – afferma ancora Lijphart – un’approssimazione del metodo sperimentale;

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tuttavia non è un metodo efficace come la sperimentazione, perché non può risolvere altrettanto bene il problema del controllo: non può cioè controllare tutte le altre variabili, ma solo le altre variabili chiave delle quali si conosce o si sospetta l’influenza. A rigor di termini anche il metodo sperimentale non risolve il problema del controllo in maniera perfetta, in quanto il ricercatore non può mai esser completamente certo che i due gruppi paralleli siano effettivamente uguali sotto tutti gli aspetti. Comunque, una procedura sperimentale è quanto di più prossimo si possa avere a un controllo ideale, e il metodo statistico, a sua volta, è un’approssimazione a quello sperimentale, non il suo equivalente. 3) Il metodo comparato costituisce, secondo Lijphart, una terza strada autonoma per il controllo delle ipotesi, il cui tratto distintivo rispetto agli altri è dato dal ristretto numero di casi (problema dell’«N piccolo») sottoposti ad analisi. Il metodo comparato richiama il metodo statistico sotto ogni riguardo, eccetto uno: la differenza fondamentale è che il numero dei casi considerati è troppo ridotto per permettere un controllo sistematico a mezzo di correlazioni parziali. Questa difficoltà si presenta anche nel corso dell’elaborazione statistica; specialmente quando si vogliono controllare molte variabili simultaneamente, ben presto si rimane a “corto di casi”. Si dovrebbe ricorrere al metodo comparato quando il numero dei casi disponibili all’analisi è così limitato che non è possibile sottoporli a tabulazione incrociata per controllarli in modo attendibile. Secondo Lijphart, non esiste quindi una linea divisoria chiara tra metodo statistico e comparato: la differenza dipende interamente dal numero dei casi. In quest’ottica, quando oggetto di studio sono i singoli sistemi politici nazionali – il che accade frequentemente in politica comparata – il ricercatore non ha che una strada: il metodo comparato, dal momento che i casi disponibili sono sicuramente in numero ristretto. Al contrario, quando il ricercatore dispone di un numero intermedio di casi, una combinazione dei metodi statistico e comparato è sicuramente la scelta più desiderabile.

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4) Lo studio del caso costituisce infine per Lijphart la quarta strategia di controllo delle ipotesi, il cui tratto distintivo rispetto ai precedenti metodi può essere rinvenuto nell’applicabilità del metodo in questione a un solo caso. Il metodo statistico può essere applicato ad un gran numero di casi, il metodo comparato a relativamente pochi (ma al minimo due) casi, il metodo dello studio del caso a uno solo. Tuttavia, quest’ultimo può e deve essere messo in rapporto stretto con il metodo comparato (e sotto certi aspetti anche con il metodo statistico); a certe condizioni si può persino considerarlo parte del metodo comparato: non solo infatti il case study richiama implicitamente il concetto di comparazione (individuo e descrivo le peculiarità di un sistema politico attraverso il confronto – anche implicito e inconscio – con altre realtà politiche) ma anche molte importanti comparazioni sono di solito fondate su studi di caso. Il gran vantaggio dello studio del caso consiste nel fatto che concentrarsi su un caso singolo permette di esaminarlo a fondo anche quando le risorse della ricerca a disposizione dell’analista sono relativamente scarse. Ad ogni modo, lo status scientifico del metodo in questione è in qualche modo incerto, poiché la scienza è un’attività generalizzante. Un solo caso non può servire da base per una valida generalizzazione né per falsificare una generalizzazione adottata. Ciò nonostante, lo studio dei casi può dare un importante contributo indiretto alla formazione di proposizioni generali e quindi alla costruzione di teorie in scienza politica2. 2. Lijphart distingue sei tipi di case study. 1) Gli studi ateoretici, privi di impianto teorico, sono le tradizionali analisi di una singola nazione o di un singolo caso. Sono interamente descrittivi e si muovono in un vuoto teorico: non sono infatti guidati da generalizzazioni accettate o ipotizzate, né motivati dal desiderio di giungere alla formulazione di ipotesi generali. 2) Gli studi interpretativi, somigliano ai primi in quanto sono scelti per l’analisi in virtù di un interesse specifico al caso piuttosto che in funzione della formulazione di una teoria generale. Tuttavia differiscono in quanto fanno uso esplicito di proposizioni teoriche consolidate. 3) Gli studi generatori di ipotesi iniziano con una nozione più o meno vaga delle ipotesi possibili e tentano di formularne

Sul metodo comparato (in particolare)

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Per riepilogare, in sintesi, pregi e difetti delle quattro strategie, si può dire che il metodo sperimentale, ha – secondo Lijphart – il grande merito di fornire robusti criteri di eliminazione delle spiegazioni rivali; ma purtroppo questo risulta difficilmente applicabile alla gran parte delle tematiche di interesse sociale (Tav. 3). Il metodo statistico presenta il vantaggio di mettere a confronto spiegazioni rivali ricorrendo alla procedura del controllo statistico, più debole ma comunque preziosa; tuttavia, la raccolta di una serie di dati sufficientemente ampia in grado di permettere il ricorso a questo tipo di metodo è spesso impossibile o eccessivamente onerosa. Sappiamo che queste obiezioni sono oggi in gran parte superate dagli sviluppi dello sperimentalismo in economia e sociologia e dalla disponibilità di interi set di big data in statistica. D’altro canto, il metodo dello studio del caso singolo ha il grande merito di consentire allo studioso dotato di poco tempo o di risorse modeste di analizzare attentamente almeno un caso. Tuttavia, con questo procedimento vengono a diminuire di gran lunga le possibilità di attuare un controllo sistematico delle ipotesi, ed è inoltre assai probabile confonderla con il procedimento storico del caso unico (e irripetibile) senza prospettive di generalità. In questo panorama di strumenti metodologici, il metodo comparato rappresenta una sorta di mediazione rispetto alle diverse alternative presentate.

alcune che siano definite e si possano successivamente controllare su un numero più ampio di casi. 4) Gli studi intesi a confermare una teoria e 5) intesi a infirmare una teoria, sono analisi di casi singoli nel quadro di teorie esistenti. Lo studio del caso è così un test della formulazione teorica che può quindi essere confermata o invalidata dal caso stesso. 6) Le analisi dei casi devianti sono studi di singoli casi che deviano da generalizzazioni comunemente accettate. Sono scelti per svelare perché i casi sono devianti: cioè per scoprire importanti variabili aggiuntive che prima non erano state considerate o per perfezionare le definizioni di alcune o tutte le variabili.

Il controllo sperimentale è impossibile per la maggior parte dei temi di sociologia e politica comparata.

Fonte: Elaborazione da David Collier, Il metodo comparato: due decenni di mutamenti, 1990.

Debole capacità di confrontare spiegazioni alternative, in particolare il problema di «molte variabili, pochi casi».

Offre un controllo inferiore alla formazione di teorie rispetto agli studi con più casi.

Problemi

Metodo sperimentale

Consente un esame intensi- Data l’invitabile scarsità Elimina le spiegazioni vo dei casi anche con risorse di tempo, energia e risorse rivali grazie al controllo limitate. finanziarie, l’analisi sperimentale. intensiva di pochi casi può essere più promettente di una superficiale analisi statistica di molti casi.

Metodo comparato

Meriti

Metodo dello studio del caso

Limiti di tempo e di risorse rendono difficile raccogliere informazioni adeguate su un numero di casi sufficienti.

Confronta le spiegazioni rivali mediante il controllo statistico.

Metodo statistico

Tav. 6 – I metodi comparato, statistico, sperimentale e del caso singolo secondo Lijphart

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Sul metodo comparato (in particolare)

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Per quanto riguarda il controllo delle ipotesi, questo offre un fondamento sicuramente meno solido rispetto al metodo sperimentale e statistico (per via del problema «molte variabili con un N piccolo»), ma decisamente più robusto rispetto agli studi del caso singolo. Infatti, pur presentando il problema di disporre di più variabili che casi, il metodo comparato offre comunque la possibilità di procedere ad analisi sistematiche che, se opportunamente utilizzate, offrono un contributo al confronto fra spiegazioni alternative. Inoltre l’applicazione del metodo comparato impone il ricorso a dati con requisiti più severi rispetto allo studio del caso singolo ma meno stringenti rispetto a una ricerca sperimentale o statistica. Per questo – secondo Lijphart – questo risulta il metodo più adatto a ricerche che dispongono di risorse limitate; del resto, nulla vieta che tale approccio costituisca il primo passo per un successivo sviluppo dell’analisi statistica, sempre che le risorse a disposizione aumentino. Dopo aver illustrato alcune «avvertenze nell’uso della comparazione»3, Lijphart cerca di trovare una soluzione al dilemma posto al metodo comparato dal problema delle «molte variabili con n piccolo». I due problemi sono stretta3. «Due osservazioni generali si raccomandano. Innanzitutto, se è in qualche modo possibile utilizzare il metodo statistico (e persino quello sperimentale) invece di quello comparato, è consigliabile farlo. Ci sono comunque validi argomenti contrari: per l’inevitabile scarsità di tempo, energie e risorse finanziarie a disposizione del ricercatore, un’analisi comparata di pochi casi in profondità può essere più fruttuosa che una più superficiale analisi statistica di molti. In situazioni siffatte, l’approccio più fecondo sarebbe considerare l’analisi comparata come il primo stadio della ricerca nel quale le ipotesi sono accuratamente formulate e l’analisi statistica come il secondo stadio, nel quale tali ipotesi sono sottoposte a controllo su un campione il più largo possibile. La seconda osservazione generale concerne un errore pericoloso ma seducente in cui può incorrere chi applica il metodo comparato: l’errore di attribuire un’importanza eccessiva alla presenza di elementi contrari all’ipotesi. Il metodo comparato non dovrebbe cadere nel ben noto sistema della citazione-illustrazione, in cui sono scelti casi che siano in accordo con l’ipotesi e l’ipotesi è rigettata se solo si incorre in un caso deviante. Tutti i casi dovranno – com’è naturale – essere oggetto di una selezione sistematica e la ricerca scientifica dovrà tendere a generalizzazioni probabilistiche, non universali» [Lijphart, 1985, p. 273].

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mente connessi: il primo («molte variabili») è praticamente comune a ogni ricerca di scienza sociale senza distinzione di metodi adottati; l’altro («n piccolo») è invece tipico del metodo comparato, e finisce per rendere di più difficile soluzione il primo. L’autore individua quattro diverse strategie per ridurre l’influenza del problema posto: 1) Aumentare quanto possibile il numero dei casi: l’estensione del numero dei casi sottoposti all’analisi dovrebbe secondo Lijphart aumentare le possibilità di istituire forme di controllo delle teorie più efficaci. Tuttavia, per quanto estendibile, di solito non è possibile accrescere il numero dei casi in modo sufficiente per permettere il passaggio al metodo statistico. Da questo punto di vista, anche la moderna politica comparata ha fatto grandi sforzi, cercando di elaborare un vocabolario di concetti politici fondamentali che fosse universalmente applicabile e ridefinendo le variabili in termini comparabili, in modo da aumentare l’estensione – sia spaziale che temporale – dei casi comparabili. 2) Ridurre lo «spazio d’attributi» dell’analisi: nel caso in cui il ricercatore non possa ampliare il numero dei casi disponibili, è possibile ridurre l’incidenza del problema «molte variabili, N limitato» combinando due o più variabili che esprimono una caratteristica essenzialmente simile in una sola variabile. Così il numero di caselle nella matrice che rappresenta la relazione è ridotto e il numero di casi di ciascuna casella si accresce in modo corrispondente. Nella sostanza, l’effetto che si ottiene è sempre quello di ampliare il numero dei casi, riducendo questa volta il numero di variabili sulla base delle quali vengono individuati i casi. Oltre che raggruppare due o più variabili in una sola, può in certi casi essere utile anche ridurre il numero delle classi in cui le variabili sono divise (riducendo per esempio un complesso di più categorie in una dicotomia) e così conseguire il medesimo obiettivo di aumentare il numero medio di casi per casella. Quest’ultima procedura presenta tuttavia lo svantaggio di sacrificare una parte dell’informazione a disposizione del ricercatore e non andrebbe usata con leggerezza.

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3) Orientare l’analisi comparata su casi “comparabili”: si intendono i comparabili quei casi considerati “simili” con riferimento a un ampio numero di caratteristiche (variabili) che si tratteranno come costanti, e “dissimili”, con riferimento invece alle variabili che si vogliono confrontare. Se esistono effettivamente casi comparabili, il metodo comparato risulta una delle strade migliori, dal momento che, controllando gran parte delle variabili, permette di concentrare l’attenzione e di stabilire relazioni solo tra un numero limitato di esse. Secondo Lijphart, quindi, mentre i primi due accorgimenti per migliorare il metodo comparato si preoccupano in modo prevalente del problema «numero limitato di casi», questo terzo si volge al problema «molte variabili». Quando si ha a che fare con casi comparabili, anche se non è possibile ridurre il numero delle variabili, si può tuttavia limitare considerevolmente il numero delle variabili operative, in modo che le loro relazioni possano essere studiate in condizioni di controllo senza il pericolo di restare a corto di casi. Insomma, i ricercatori si possono così concentrare su casi “comparabili”, vale a dire che 1) sono accomunati su molte variabili che non sono centrali per l’analisi, tenendo così sotto controllo queste variabili e 2) differiscono sulle variabili cruciali che costituiscono il fuoco dell’analisi, consentendo così una valutazione più adeguata della loro influenza. Naturalmente, la ricerca di casi comparabili comporta già di per sé in partenza una riduzione del numero dei casi da sottoporre ad analisi: di conseguenza, rispetto ai primi due metodi indicati, non solo pone l’attenzione sull’aspetto del «molte variabili» piuttosto che sul «numero limitato di casi», ma la raccomandazione che se ne ricava è di segno del tutto opposto ai precedenti: non più l’ampliamento del numero dei casi, ma la loro riduzione4. 4. Questo aspetto del metodo comparato è quello che John Stuart Mill descrisse come «metodo della differenza» e come «metodo delle variazioni concomitanti». Il metodo della differenza consiste nel comparare casi in cui un fenomeno si manifesta con casi per altri aspetti simili in cui esso non si manifesta. Il metodo delle variazioni concomitanti è una versione più sofisticata del metodo della dif-

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Sotto questo profilo la comparazione all’interno di aree geografiche definite – e per le quali quindi l’esistenza di un certo numero di caratteristiche comuni tra i diversi oggetti della comparazione permette di accrescerne la comparabilità – offre decisamente un terreno di applicazione molto più fertile rispetto alla comparazione tra un insieme di paesi scelti a caso5. L’approccio di area rappresenta secondo Lijphart una delle applicazioni migliori del metodo comparato, date le caratteristiche che le aree tendono ad avere in comune e che possono essere utilizzate come controlli, sempre che si tengano presenti due importanti considerazioni: a) l’approccio può essere utile alla politica comparata se è ausiliare al metodo comparato, non se diventa un fine a sé, altrimenti lo studio delle aree può divenire una forma di “prigionia”; b) l’approccio non deve essere usato indiscriminatamente, ma solo nei casi in cui offre la possibilità di istituire controlli di rilevante importanza. Oltre all’«approccio di area», anche l’analisi in chiave diacronica di uno stesso Paese in tempi ferenza: invece di osservare la mera presenza o assenza delle variabili operative, osserva e misura le variazioni quantitative di tali variabili e le mette in relazione fra loro. Come nel metodo delle differenze, tutti gli altri fattori devono essere tenuti costanti: con le parole di Mill, «perché siamo garantiti d’inferire una causalità da una concomitanza di variazioni, la concomitanza stessa deve esser provata con il metodo della differenza». L’enunciazione che Mill fece del metodo delle variazioni concomitanti è spesso invocata come prima formulazione sistematica del moderno metodo comparato. Bisogna però aggiungere – una volta di più – che Mill non riteneva che i metodi della differenza e delle variazioni concomitanti potessero essere applicati nelle scienze sociali, perché non era possibile trovare casi sufficientemente simili. Affermò anzi Mill che la loro applicazione in scienza politica era completamente fuori questione e bollò ogni tentativo di farlo come una «concezione grossolanamente errata del modo di investigazione proprio dei fenomeni sociali e politici» [Mill, 1872]. 5. Tuttavia, le opinioni su questo approccio tendono ad essere molto discordanti. Rustow [1968] ad esempio dichiara che lo studio di aree è «quasi obsoleto» e mostra scarsa fiducia nella sua utilità. Egli fa osservare che la mera prossimità geografica non costituisce necessariamente il presupposto migliore per la comparazione e, inoltre, che la comparabilità è una qualità non inerente a un qualsiasi insieme di oggetti, ma semmai è una qualità conferita loro dalla prospettiva dell’osservatore.

Sul metodo comparato (in particolare)

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differenti aumenta la comparabilità degli oggetti e offre sicuramente una migliore soluzione al problema di quanto non faccia la comparazione di due o più unità differenti ma simili (ad esempio nell’ambito della stessa area) considerate nello stesso tempo. Tuttavia, anche con riferimento a questo aspetto, Lijphart avverte che il controllo delle ipotesi non potrà mai essere perfetto, dal momento che lo stesso paese non è mai veramente lo stesso in momenti successivi. 4) Orientare l’analisi comparata sulle variabili chiave: nell’ultima indicazione fornita da Lijphart vi è infine un invito rivolto ai ricercatori a concentrare la propria attenzione, ogni qual volta si ricorre al metodo comparato, solo su quelle variabili realmente importanti («chiave»), trascurando quelle di rilievo solo marginale. In questo modo il ricercatore vaglierebbe in fase iniziale tutte le variabili, salvo poi includerne solo alcune, evitando in questo modo un perfezionismo eccessivo e controproducente. Non è un caso, al proposito, il fatto che le applicazioni più redditizie del metodo comparato si siano avute proprio nella ricerca antropologica dove, a livello di società primitive, il numero di variabili non è così tremendamente alto come nelle società più avanzate: tutti i fattori importanti possono quindi essere raccolti e analizzati più agevolmente. A un’analisi più attenta delle quattro proposte formulate da Lijphart, emerge tuttavia che alla fin fine le soluzioni al problema “molte variabili, N limitato di casi” sono sostanzialmente due. Per quanto riguarda infatti la prima delle modalità suggerite, che consiste nel massimizzare il numero dei casi della ricerca, questa implica il ricorso a procedimenti statistici per l’analisi dei casi. Di conseguenza, il metodo comparato non sarebbe altro che il metodo statistico in circostanze sfavorevoli ma suscettibili di miglioramento. Per quanto riguarda inoltre la terza raccomandazione – usare casi comparabili nei quali molte variabili siano costanti – questa è fondamentalmente diversa dalla prima. Essa pone l’accento sul problema delle «molte variabili» piuttosto che sul problema «N limitato» e, come sottoprodotto della ricerca di casi comparabili,

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il numero dei casi da analizzare verrà effettivamente quasi sempre a ridursi. Le altre due raccomandazioni – ridurre lo spazio «d’attributi» dell’analisi e porre l’accento sulle variabili chiave – possono essere combinate sia con l’approccio della massimizzazione di N sia con quello che prevede l’orientamento dell’analisi sui casi comparabili, ma questi ultimi due non possono essere a loro volta combinati insieme, sebbene sia possibile utilizzarli come metodi paralleli in una medesima ricerca. Due sono quindi le soluzioni al problema «molte variabili, N limitato»: 1) massimizzare il numero dei casi e manipolare statisticamente i dati per mettere alla prova le ipotesi empiriche mentre il controllo è esercitato mediante correlazioni parziali; 2) scegliere casi comparabili e acquisire un’ampia capacità di controllo come conseguenza della loro comparabilità. 2.2 Le critiche a Lijphart Malgrado le tesi di Lijphart rappresentino nell’ambito del dibattito sul metodo comparato uno dei momenti principali di riflessione, l’affermazione del politologo olandese secondo cui la comparazione è un particolare metodo alternativo ad altri delle scienze sociali ha suscitato più di una perplessità6. Quattro sono le critiche principali rivolte all’impostazione di Lijphart da parte di quegli autori che, al contrario, considerano la comparazione come una delle tante componenti di ogni indagine scientifica e non come un metodo a sé stante [Marradi, 1985]:

6. In particolare sono intervenuti sul punto Sartori [1970, 1971], Eisenstadt [1968], Lasswell [1968] e Almond [1966]. Eisenstadt afferma che il termine «metodo comparato» non designa propriamente un metodo a sé, quanto piuttosto una particolare attenzione agli aspetti macro-dimensionali, inter-dimensionali e istituzionali delle società e dell’analisi sociale. Lasswell, dal canto suo, argomenta che per chiunque abbia un approccio scientifico ai fenomeni politici, l’idea di un metodo comparato a sé stante appare superflua in quanto l’approccio scientifico è inevitabilmente comparato. Analoga è la posizione di Almond.

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1) La comparazione è già di per sé una componente del metodo sperimentale, dal momento che quest’ultimo si fonda su una comparazione tra gli stati della variabile dipendente prima e dopo l’alterazione degli stati della o delle variabili operative. 2) Così come quello sperimentale, anche il metodo statistico configura e presuppone di per se stesso un processo di comparazione. Se, infatti, alla stregua della definizione di Lijphart, consideriamo il metodo statistico come un metodo «quantitativo», basato cioè sull’applicazione del principio milliano delle variazioni concomitanti a due o più variabili metriche, ci accorgiamo che in realtà questo non è nulla più che un insieme di numerose comparazioni di vario genere: dei valori osservati rispetto alla loro media o rispetto ai valori predetti dalla retta di regressione; dei coefficienti empirici rispetto ai valori attesi in base alle ipotesi di ridistribuzione. Vale poi ancora il discorso inverso, per cui dati statistici sono presi in considerazione quando si procede a comparazioni complesse. Comparazione e analisi statistica sono quindi due operazioni di natura diversa che tuttavia non è possibile considerare categorie alternative e che vanno quindi collocate sullo stesso piano in una classificazione delle forme di controllo delle ipotesi. 3) Ancora, quando parla di metodo comparato, Lijphart si riferisce prevalentemente a un tipo di comparazione fondata su variabili di carattere «qualitativo», dal momento che l’adozione di tecniche statistiche metriche comporterebbe il passaggio alla categoria superiore del metodo statistico. Da questo punto di vista, oltre al fatto che, come detto, è impossibile scindere l’analisi statistica metrica dalla comparazione, si può aggiungere che molto spesso anche la comparazione sulla base di variabili «qualitative» avviene con l’ausilio di tecniche statistiche non metriche che, tuttavia, non per questo sono meno affidabili di quelle metriche. 4) Infine la comparazione è un processo che sta alla base anche dello studio del singolo caso. È infatti possibile che chi si cimenta nello studio di un singolo sistema politico, per

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controllare le sue ipotesi, faccia ricorso a una comparazione diacronica o all’uso di analisi statistiche. Di conseguenza – conclude il Marradi – anche se distinguibile rispetto alla comparazione fra due distinti sistemi politici, anche lo studio del singolo sistema politico non può però prescindere dal metodo comparato tout court. La comparazione costituisce quindi una componente di ogni tipo di indagine scientifica cui si ricorre continuamente. «Il metodo comparato si giustifica e si sviluppa quindi come una specializzazione del metodo scientifico in generale» [Sartori, 1990, p. 401]. Resta tuttavia da chiedersi, a questo punto, se una tale affermazione non porti alla configurazione di un concetto – quello di comparazione appunto – che rischia di essere troppo esteso e di perdere la sua significatività. In effetti, sulla base di quanto su detto, ricorriamo continuamente alla comparazione: compariamo – spesso del tutto inconsciamente – per classificare, descrivere, denominare; anche se è vero, del resto, che, per comparare dobbiamo prima aver classificato descritto e denominato. Insomma, per evitare che il concetto di comparazione finisca per diventare un grande non sense è opportuno e auspicabile utilizzare tale termine solo quando si fa riferimento a confronti espliciti e consci. Applicando questa delimitazione nel campo delle scienze sociali, verrebbe in questo modo lasciato fuori un ampio numero di oggetti: molti corsi di Comparative Politics o Comparative Government in università americane, che poco hanno di comparato e finiscono quasi sempre per essere delle monografie su un singolo sistema politico straniero; analogamente, molti saggi pubblicati in riviste come «Comparative Politics» o antologie che portano il termine «comparative» e che sono, per la maggioranza, studi di un solo caso. Insomma, si potrebbe in questo modo preservare il concetto di comparazione dal rischio di onnicomprensività. Se il comparare non ha una sua ragione distintiva rispetto ad altri metodi e non esiste effettivamente un «metodo comparato» nel senso indicato da Lijphart, è tuttavia possibile

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individuare due distinte strategie di comparazione: quella statistica e quella storica. La comparazione statistica imposta il controllo delle ipotesi sulla registrazione delle condizioni che accompagnano il verificarsi o il non-verificarsi del fenomeno in esame. In questo caso ci si limita a controllare ipotesi di portata generale, ad esempio l’esistenza o meno di un rapporto di associazione tra sviluppo economico e regime democratico, fra numero dei partiti e grado di instabilità governativa, ecc. L’espressione «comparazione statistica» si riferisce alla logica che presiede a questo tipo di ricerche comparate. Ciò che conta è il ricorso al canone milliano delle variazioni concomitanti. Non è necessario che la ricerca faccia anche uso di tecniche statistiche di trattamento dei dati per ricadere in questa categoria. In questa prospettiva il metodo comparato è una variante (più debole, meno affidabile) del metodo statistico. Quando non si può lavorare su grandi numeri, quando il numero delle unità disponibili è basso, il controllo delle ipotesi va necessariamente affidato al metodo comparato. Ma la logica del controllo comparato è la stessa del metodo statistico. In altri termini il metodo comparato è, in questa versione, una forma di controllo statistico “su piccoli numeri”. Si tratta di una strategia variable based, collegata all’obiettivo di produrre generalizzazioni ad ampio raggio e «coerente con il modello funzionalista prediletto dalla tradizione durkheimiana» [Panebianco, 1990, p. 521]. La comparazione storica è invece prettamente di origine sociologica e, seguendo il metodo weberiano, ha come obiettivo la spiegazione causale delle diversità storiche. In questa prospettiva il ricercatore fa ricorso ai canoni della somiglianza e della differenza ed è portato a concentrare la sua attenzione su singoli casi anziché su gruppi di variabili al fine di spiegare specifici fenomeni storico-politici individuandone i meccanismi causali. «Si tratta di una strategia case based, centrata sui casi, anziché variable based. Essa è rivolta a produrre modeste generalizzazioni sulle diver-

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sità storiche. La ricerca di spiegazioni genetiche comporta l’elaborazione di ipotesi – e il loro controllo tramite la comparazione – su combinazioni di cause temporalmente discrete. Nel caso della comparazione statistica, cause ed effetti sono legati in maniera continua. Variazioni delle prime determinano variazioni nei secondi. Invece gli argomenti genetici sono tipicamente combinatori: specifiche condizioni si combinano determinando uno specifico esito storico. Questa strategia consente, o dovrebbe consentire, l’identificazione di patterns of invariance (combinazioni di cause ed effetti) che danno luogo a percorsi storici differenziati. Essa è dunque coerente con la concezione della spiegazione intesa come identificazione di meccanismi causali, qui accolta7. Anzi, la disponibilità di buone comparazioni statistiche è una condizione che accresce la probabilità di buone comparazioni storiche. Le ricerche migliori le utilizzano simultaneamente. Lo scopo finale però non sarà semplicemente quello di controllare la veridicità di una proposizione generale (come accade quando ci si limita ad utilizzare la comparazione detta statistica) ma quello di spiegare specifici fenomeni storicopolitici identificandone i meccanismi causali, si tratti delle cause delle diverse vie alla modernizzazione in un gruppo di paesi oppure delle somiglianze e delle differenze nelle configurazioni dei sistemi di partito europeo-occidentali» [Panebianco, 1990, p. 522].

7. «Si noti cosa distingue in sostanza le due strategie. Nel primo caso partiamo da una proposizione legi-simile e andiamo a controllare su un campione di unità se la presenza di A è accompagnata o seguita dalla presenza di B e a quali condizioni. Nel secondo caso, partiamo dall’osservazione di una unità X in cui è presente B (il nostro explanandum) e attraverso confronti tra X e altre unità dissimili da X in cui B sia presente andiamo alla ricerca del possibile insieme di cause (A+C+...) di B» [Panebianco, 1990, p. 522].

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3. Cosa, come e perché comparare 3.1 Cosa comparare Comunque si intenda il metodo comparato, è indubbio che la sua salienza nelle scienze sociali contemporanee è legata al modo in cui coloro che vi hanno fatto ricorso hanno saputo rispondere a tre interrogativi: che cosa comparare? come comparare? perché comparare? Circa la domanda «che cosa è comparabile?», è ancora una volta Sartori ad affrontare il problema della comparazione sotto il profilo metodologico e a fornire una risposta. Partendo dalla constatazione che per comparare occorre sempre fare riferimento a certe proprietà o caratteristiche del fenomeno in esame, Sartori ha sostenuto che le comparazioni sono possibili tra unità i cui attributi sono in parte condivisi (simili), in parte non condivisi. A suo giudizio, quindi, la domanda «cosa è comparabile?» dovrebbe essere riformulata come «comparabile in quale rispetto?». «Cosa è comparabile? (...) Mele e pere sono comparabili rispetto a talune proprietà – quelle in comune – e non comparabili rispetto ad altre. Così mele e pere sono comparabili come frutta, come commestibili, come entità che crescono su alberi; ma non sono comparabili per esempio quanto a forma. In punto di principio allora la domanda è sempre da formulare così: comparabile (abbastanza simile) rispetto a quali proprietà o caratteristiche e non comparabile (troppo dissimile) rispetto a quali altre proprietà o caratteristiche?» [Sartori, 1990, p. 402]. Ma, a vedere bene, decidere se due soggetti siano o non siano comparabili presuppone che già li si siano messi in qualche modo a confronto: talché ogni criterio in questo senso finisce per rilevare una certa dose di ambiguità e arbitrarietà. La risposta offre lo spunto per fornire un chiarimento in chiave terminologico-concettuale degli elementi fondamentali della comparazione. Una semplice comparazione si compone infatti di almeno tre elementi concettuali: oggetto, proprietà e stato.

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L’oggetto della comparazione costituisce l’elemento che viene sottoposto al processo di comparazione. Prendendo in esame un semplice esempio – «il sistema elettorale olandese è più rappresentativo di quello britannico» – gli elementi della comparazione sono rappresentati rispettivamente dal sistema elettorale britannico e quello olandese. Definiti i due elementi, occorre tuttavia chiedersi rispetto a che cosa i due elementi sono comparabili. La proprietà della comparazione rappresenta appunto l’elemento rispetto al quale vengono comparati gli oggetti. Nel caso citato, la proprietà è data dalla rappresentatività del sistema elettorale. Seppure semplice, questa definizione comporta una conseguenza importante: gli oggetti non si comparano in sé, globalmente, ma sempre rispetto a qualche proprietà. Ciò significa che anche quelle comparazioni che sembrano apparentemente prescindere dal riferimento a specifiche proprietà («l’Olanda è diversa dalla Gran Bretagna») o sono tautologiche – in quanto per definizione ogni oggetto è diverso da ogni altro oggetto – o sono “ellittiche”, in quanto il loro inserimento in un contesto permette di sottintendere la proprietà cui si sta facendo riferimento. Definiti oggetti e proprietà, occorre infine chiedersi rispetto a quale criterio viene effettuata la comparazione. Lo stato sulla proprietà rappresenta la manifestazione dell’oggetto rispetto a una determinata proprietà. Quindi non si comparano gli oggetti e neppure le loro proprietà, ma gli stati sulla stessa proprietà. Tale accertamento degli stati sulla proprietà può avvenire, nel caso in cui tali stati siano ordinabili, attraverso un giudizio di maggiore/minore (è il caso del nostro esempio); nel caso in cui gli stati non siano al contrario ordinabili, il giudizio sarà di uguale/diverso. Una conseguenza del fatto che si comparano gli stati e non le proprietà è che per aversi comparazione non è necessario che gli oggetti siano due. In altre parole posso comparare due stati dello stesso oggetto sulla stessa proprietà purché li distingua con un altro criterio: il tempo cui si riferiscono i due stati. I punti nel tempo al momento

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dell’accertamento dei vari stati sulle proprietà sono quindi il quarto tipo di elemento (oltre a oggetti, proprietà e relativi stati) necessario alla struttura logica della comparazione. La presenza di questo elemento non è sempre evidente perché spesso le frasi con cui si enuncia l’esito di una comparazione lo sottintendono. Il processo di comparazione passa attraverso la predisposizione di classificazioni e di tassonomie, dal momento che “classificare” è già di per sé un’operazione che consente di stabilire che cosa è uguale e che cosa è diverso. «Classificare è ordinare un universo in classi che sono mutuamente esclusive; pertanto classificare è di per sé stabilire che cosa è uguale e cosa è diverso. Va da sé che “eguale” è una nozione relativa. Più precisamente, due oggetti che cadono nella stessa classe sono più simili tra loro – rispetto al criterio di assegnazione prescelto – che non agli oggetti che cadono in altre classi. Il che ci lascia in principio con gradi di similarità molto elastici. La regola di massima è che tanto minore è il numero di classi, tanto maggiore sarà la variazione (dissimilarità) intra-classe. Viceversa, tanto maggiore è il numero delle classi, tanto minore è la loro variazione interna» [Sartori, 1990, p. 403]. Una corretta classificazione si fonda quindi su due presupposti: a) due oggetti compresi nella stessa classe sono più simili tra loro, rispetto al criterio di assegnazione prescelto, che non agli oggetti che ricadono in altre classi; b) tanto minore è il numero delle classi tanto maggiore è la dissimilarità fra queste e viceversa. Ciò comporta che il ricercatore deve decidere quanto le classi che predispone debbano essere inclusive – ossia poche e a maglie larghe – oppure esclusive – ossia molte e a maglie strette. E ciò è un esercizio logico non scevro da rischi. In particolare, quattro sono le fonti di errore più ricorrenti in cui – secondo Sartori – più frequentemente incappano i ricercatori quando procedono a fare classificazioni: il parrocchialismo, il “mal classificare”, il gradismo, la slargatura dei concetti. Per parrocchialismo si intende la tendenza da parte di molti ricercatori a circoscrivere gli studi in un solo paese,

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ignorando sistematicamente le categorie di analisi poste da teorie generali e ricorrendo allo stesso tempo in modo del tutto spropositato all’adozione di terminologie ricavate da teorie generali, ma del tutto inappropriate alla descrizione del caso sottoposto ad analisi. Il mal classificare costituisce secondo l’autore un errore ancor più pericoloso e diffuso tra i ricercatori, che spesso e volentieri ricorrono a pseudo–classificazioni ignorando del tutto i principi che ne sono alla base: ovvero che un corretto classificare discende da un solo fundamentum divisionis, da un solo criterio, che necessariamente produce classi mutuamente esclusive, classi che non consentono che «uno» e «più di uno» vadano assieme. Ancora, il gradismo, ovvero la tendenza a considerare tutte le differenze come differenze di grado da disporre lungo un continuum «più-meno», rappresenta un’ulteriore tendenza dei ricercatori sociali ad applicare alle scienze sociali metodi e concetti propri delle scienze naturali. Ma nelle scienze sociali non c’è termometro né tantomeno esistono «gradi naturali» che stabiliscono le discontinuità del continuum: qui i cutoff, i punti di discontinuità, sono arbitrari, e cioè lasciati al nostro singolo decidere. Infine, il concept stretching, la slargatura dei concetti, fa riferimento alla tendenza sempre più diffusa ad aumentare la capienza dei concetti, fino tuttavia a renderne sfumata e del tutto imprecisa la definizione. Ciò accade a concetti come “democrazia”, “pluralismo”, “ideologia”, che vengono a essere talmente slargati da non significare più nulla e soprattutto da risultare inutilizzabili per la ricerca empirica. 3.2 Come comparare Il quesito «come comparare?» concerne il cuore vero e proprio della comparazione, ovvero la strategia da adottare nel predisporre l’indagine. A questo proposito si configurano due distinti percorsi: sottolineare le similarità oppure mettere in rilievo le differenze.

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Parallelamente si profilano due tipi di ricerche: uno in cui vengono scelti i sistemi più simili; l’altro in cui vengono invece privilegiati i sistemi più contrastanti. «Nel primo caso il ricercatore mette insieme sistemi vicini e cioè simili in quante più caratteristiche possibili, il che gli consente di accantonare un alto numero di variabili sotto la clausola ceteris paribus e cioè dichiarandole uguali. La presunzione è che i fattori comuni di paesi relativamente omogenei (le cosiddette aree come l’Europa Occidentale, l’America Latina, ecc.) sono irrilevanti al fine di spiegarne le differenze. L’ideale sarebbe quindi di trovare entità simili in tutte le variabili salvo una, e cioè salvo quella che investe il fenomeno da spiegare. Per contro, nel secondo caso, il ricercatore mette in relazione sistemi che differiscono quanto più possibile in tutto tranne che nel fenomeno da indagare» [Sartori, 1990, p. 407]. Sempre nell’ambito dei problemi connessi al «come comparare?» ne sono stati affrontati e sollevati due ulteriori: il nodo costituito dai rapporti tra universalità e particolarità e il ruolo assunto dal cosiddetto «studio del caso». Con riferimento al primo aspetto, la proposta del Sartori è di disporre di categorie analitiche lungo scale di astrazione, in cui connotazione e denotazione dei concetti siano in relazione inversa tra di loro. Precisato che per connotazione si intende l’intensione di una parola (l’insieme delle caratteristiche o attributi richiamati dalla parola in questione) e che per denotazione si fa riferimento all’estensione di un termine, cioè al campo di applicazione del termine (l’insieme degli oggetti o degli eventi cui esso si riferisce), ne deriva che per aumentare l’estensione di un termine se ne deve ridurre la connotazione. Secondo questa regola, se si vuole rendere un concetto più generale e applicabile a un numero elevato di casi se ne debbono ridurre correlativamente le caratteristiche o proprietà accentuandone il carattere denotativo. Viceversa, se l’obiettivo è di predisporre un concetto più specifico, se ne debbono accrescere le proprietà e le caratteristiche al fine di dotarlo di una maggiore intensione o connotatività.

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Anche il case study costituisce uno dei nodi della comparazione, dal momento che la comparazione può essere adoperata anche nello studio di pochi casi o addirittura di un solo caso. Spesso infatti, nell’analizzare fenomeni macro politici, come rivoluzioni, regimi, lo Stato, il ricercatore può decidere di rivolgere la sua attenzione a uno solo o a pochi contesti, guadagnando in termini di profondità ciò che perde nella rinuncia a generalizzare. Per quanto riguarda lo studio del singolo caso, nella letteratura si registra un accordo piuttosto diffuso sull’efficacia di questa tecnica che si presta sia a generare ipotesi sia a confermare o confutare generalizzazioni o teorie. Si è già in questo contesto sottolineato il ruolo attribuito al case study da Lijphart. Valga ancora comunque la pena di riprendere sul punto le parole di Sartori: «In sostanza il caso viene espressamente scelto o perché si presta a generare ipotesi o perché è cruciale ai fini della “confermasconferma” di una teoria. Quando è così, è chiaro che analisi del caso e analisi comparata sono indagini complementari che si rinforzano l’una con l’altra. È altrettanto chiaro che gli studi del caso debbano essere implicitamente comparati. Il che non toglie che lo studio del singolo caso esula dal metodo comparato. Un solo caso, per quanto cruciale, non basta a confermare una generalizzazione (anche se ne aumenta la plausibilità) e nemmeno basta a sconfessarla (anche se la indebolisce). Ma tener ferma la distinzione tra case study e comparazione non stabilisce in alcun modo che quest’ultima sia, euristicamente, superiore al primo. Stabilisce soltanto che quando si arriva al controllo di insieme, allora serve la comparazione» [1990, p. 413]. L’ultimo gruppo di problemi nasce invece in riferimento alle relazioni che legano comparazione e dimensione temporale. Sotto questo punto di vista il metodo comparato ha trovato applicazione soprattutto nell’ambito di analisi sincroniche, che privilegiano quindi la dimensione della varianza spaziale rispetto a quella temporale. Tuttavia, se si decide di aggiungere un ulteriore livello all’analisi, ovvero la dimensione temporale, possono essere percorse due dif-

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ferenti strade: si può svolgere l’analisi in chiave diacronica su uno stesso caso, comparato in tempi differenti, oppure si possono scegliere casi diversi comparati in momenti diversi. Alcuni comparatisti, tra cui Lijphart, hanno affrontato lo studio della dimensione longitudinale sottolineando l’opportunità di introdurla nella ricerca al fine di reperire ulteriori aree di raccolta e di confronto di dati. Partendo dalla constatazione del numero ridotto dei casi comparabili spesso a disposizione del ricercatore e della necessità di controllare l’effetto di terze variabili potenzialmente influenti, il politologo olandese ha difeso l’opportunità di studiare uno stesso paese in diversi periodi di tempo, aumentando così il numero dei casi in un contesto quanto più omogeneo possibile, ma ha suggerito anche di effettuare la comparazione tra diversi paesi, ognuno considerato in diversi periodi di tempo. 3.3 Perché comparare Infine, di fronte alla domanda «perché comparare?», Sartori [1990, pp. 397-99] afferma che la comparazione è un metodo di controllo delle nostre generalizzazioni o leggi del tipo se... allora. Paragonare serve a controllare – verificare o falsificare – se una generalizzazione (regolarità) tiene a fronte dei casi ai quali si applica. S’intende che compariamo per tantissime ragioni. Per “situare”, per imparare dalle esperienze altrui, per avere termini di paragone (chi non conosce altri paesi non conosce nemmeno il proprio), per meglio spiegare e altre ragioni ancora. Ma la ragione che ci obbliga a comparare sul serio è il controllo. Se quindi il controllo dell’ipotesi costituisce di base lo scopo generale di ogni comparazione, è tuttavia possibile realizzare tale scopo attraverso diverse strategie che pongono l’accento su obiettivi differenti. In particolare, lungo un continuum che si muove dalla minima alla massima rilevanza attribuita all’oggetto della comparazione, è possibile distinguere diversi obiettivi e tipologie di comparazione.

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1) Comparazione finalizzata al controllo di teorie universali. Naturalmente questo obiettivo è sottoscritto, esplicitamente o implicitamente, da tutti gli studiosi che assegnano compiti esclusivamente nomotetici alle scienze sociali. Tuttavia, l’obiettivo di controllare una teoria universale – che ambisce quindi a essere valida in ogni tempo e in ogni luogo – pone il ricercatore di fronte ad una serie di problemi difficilmente superabili. Vi è innanzitutto un problema di accessibilità alle informazioni a livello temporale, dal momento che la maggioranza degli individui, gruppi e società esistite sono scomparse, e ciò rende già di per sé logicamente impossibile la formulazione di teorie universali, dal momento che queste risultano empiricamente incontrollabili almeno sotto il profilo diacronico. Ma anche nel caso in cui si voglia circoscrivere la portata delle generalizzazioni agli “oggetti” esistenti al momento della ricerca, i limiti della pretesa universalistica restano elevati, dal momento che difficilmente sarà possibile sottoporre a controllo la totalità dei casi cui la teoria si riferisce. Di qui, l’unica avvertenza che ne può trarre il ricercatore che intenda imbattersi in tale programma di ricerca è di cercare quanto più possibile casi sfavorevoli alla sua generalizzazione e concentrare su di questi gli sforzi di controllo empirico. Ma è veramente poco credibile ipotizzare che gli scienziati applichino rigorosamente i canoni del falsificazionismo popperiano. 2) Comparazione finalizzata al controllo di generalizzazioni a un livello intermedio. Prendendo atto delle insormontabili difficoltà che incontra la ricerca di proposizioni universali nelle scienze sociali, un numero crescente di studiosi ripiega su un programma meno ambizioso per la ricerca comparata che è appunto quello di sviluppare concetti o generalizzazioni a un livello intermedio fra ciò che è vero di tutte le società e ciò che è vero di una sola società. In questo modo, viene fatta salva la prospettiva nomotetica – dal momento che non si rinuncia cioè alle generalizzazioni come obiettivo – ma si ammette che la loro portata incontri dei limiti invalicabili lad-

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dove gli oggetti-sistema presentano differenze scarsamente conosciute e controllabili dai ricercatori. 3) Comparazione finalizzata a evidenziare i limiti spaziotemporali delle generalizzazioni. In questo caso, la comparazione, pur partendo da generalizzazioni, addita alla ricerca comparata l’obiettivo di mettere in risalto i limiti spaziotemporali della loro validità. L’accento è inequivocabilmente posto sui limiti e sulle articolazioni, non più sulle generalizzazioni stesse. La varietà e la diversità storico-culturali dei contesti non sono più esorcizzate ma esaltate. 4) Comparazione finalizzata alla caratterizzazione degli oggetti-sistema. Si tratta di un approccio idiografico alla comparazione, per cui le connessioni e i percorsi causali individuati servono a caratterizzare un oggetto-sistema e a differenziarlo rispetto a uno o più oggetti-sistemi. In questa chiave, diversamente da quanto avviene nella prospettiva nomotetica, le connessioni tra le proprietà di un oggetto-sistema interessano tanto più sono diverse da oggetto a oggetto. 4. Applicazioni del metodo comparato Sotto il profilo della produzione scientifica, si possono delineare tre periodi particolarmente significativi nell’ambito delle ricerche condotte in chiave “comparata”. Il primo, che coincide con il rilancio della prospettiva comparata (1953-1963) si caratterizza per un contenuto prevalentemente metodologico delle ricerche di politica comparata. Il secondo, che si estende invece dal 1965 al 1975, è caratterizzato da un ripensamento dei limiti e delle opportunità del ricorso alla comparazione e vede come protagonisti alcuni importanti politologi europei, come Sartori [1970, 1971] e Lijphart [1971, 1975] sul piano del metodo, Rokkan [1970] su quello della ricerca. Importante sul piano del dibattito metodologico è anche il contributo della scienza politica americana: Verba [1967], Lasswell [1968], La Palombara [1968, 1970], Merritt [1970], Przerowski e Teune

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[1970]. Negli ultimi dieci anni il dibattito sul metodo si è fortemente rinnovato e si è nel complesso assistito al consolidamento di una tradizione comparata sempre più orientata sul fronte dell’acquisizione empirica e sempre più attenta alla significatività dei confronti. I principali protagonisti di quest’ultima fase sono stati Skocpol [1984], Przeworski [1987], Mayer [1989], Collier [1991], Sartori e Morlino [1991] e Rustow e Erickson [1991]. Nell’esplosione di studi teorici e di ricerche empiriche che hanno per obiettivo il confronto fra istituzioni, culture, funzioni e strutture di differenti paesi esiste un ristretto gruppo di autori che, per l’originalità di metodo e la profondità dei risultati raggiunti, rappresentano degli esempi paradigmatici di applicazione della prospettiva comparata alla politica: Dahl, Sartori, Almond e Powell, Rokkan. In epoca più recente, quando sembra ormai di intravvedere segni di crisi per ricerche che adottano questo particolare approccio metodologico, almeno quelle legate all’originario filone politologico, i lavori di Skocpol e Acemoglu (insieme a Robinson), in qualche modo innovativi rispetto alla tradizione degli studi comparatistici, segnano una importante ripresa di interesse per questo genere di metodologia: e per questo li proponiamo alla fine dei nostri esempi applicativi. 4.1 I modelli di opposizione di Dahl Una delle più articolate tipologie di modelli e di funzionamento delle opposizioni si ritrova nel volume curato da Dahl nel 1966, Political opposition in Western Democracies, nel quale l’autore, prendendo in considerazione le opposizioni esistenti in dieci paesi occidentali, ne arriva a costruire uno schema di classificazione. Constatata l’impossibilità di costruire un unico modello di opposizione in grado di spiegare le diverse realtà osservate, l’autore si pone due obiettivi: 1) individuare gli elementi che concorrono alla differenziazione delle opposizioni; 2) spiegare la diversità dei modelli di opposizione

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risalendo a una serie di precondizioni che strutturano tanto il sistema dei partiti quanto i modi in cui le opposizioni si manifestano. Con riferimento al primo aspetto – gli elementi di differenziazione delle opposizioni – l’autore individua sei elementi: il grado di coesione o concertazione organizzativa; il grado di competitività; le sedi in cui si realizza il confronto con il governo; l’identificabilità; i fini che seguono e le strategie adottate per portarli a compimento. Con riferimento invece alle precondizioni che sono alla base delle diversità nella strutturazione dei sistemi di partito e nella manifestazione delle opposizioni, Dahl distingue tra condizioni di fondo e condizioni secondarie. Le prime rimandano alla struttura costituzionale e al tipo di sistema elettorale e tengono conto delle differenze sociali ed economiche presenti nella popolazione. A queste condizioni strutturali si accompagnano poi due ulteriori condizioni secondarie: i fattori che incentivano la conciliazione oppure l’inasprimento delle opinioni in conflitto e il grado di polarizzazione, definita come divisione politica di una nazione in due campi distinti da caratteristiche socio-economiche differenti. Queste condizioni consentono a Dahl di impostare un quadro molto articolato dei diversi modi in cui si struttura e agisce l’opposizione democratica. Tuttavia, la misurazione del fenomeno pone non pochi problemi alla ricerca comparata. In particolare, due sono gli aspetti che hanno creato più problemi: l’influenza delle varie condizioni sulle strategie dell’opposizione e la nozione di polarizzazione. Per quanto concerne il primo aspetto, Dahl afferma che le strategie dell’opposizione possono essere determinate dalle altre variabili contemplate nel modello. Tuttavia il politologo si dilunga nello spiegare i cambiamenti che sono avvenuti nel diverso modo di condurre l’opposizione all’interno dei singoli paesi e riesce a elencare le differenze nelle strategie di opposizione solo accantonando il problema dei fini. Dahl delinea quindi quattro strategie per così dire “nor-

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mali”, definite dalle caratteristiche del sistema in cui opera l’opposizione e due ulteriori strategie di segno contrario che si sviluppano o quando l’opposizione si impegna con il governo a garantire la sopravvivenza del sistema politico seriamente minacciato da crisi interne o esterne, oppure quando un’opposizione mira alla distruzione dell’assetto istituzionale esistente. Anche il concetto di polarizzazione pone, a detta dell’autore stesso, non pochi problemi in ordine alla comparazione. Di fronte alla necessità di spiegare come le caratteristiche sociali ed economiche, psicologiche ed emotive possano influenzare le scelte, gli atteggiamenti e i comportamenti politici, Dahl sottolinea la difficoltà di individuare indici e indicatori soddisfacenti e conclude che solo una raccolta estesa di dati e una rigorosa specificazione dei concetti e degli indicatori adoperati potrà in futuro assicurare risultati attendibili sotto il profilo della comparazione e della comprensione dei fenomeni studiati. 4.2 I sistemi di partito di Sartori La classificazione dei sistemi di partito proposta da Sartori nel 1964 prima e nel 1976 compiutamente nel libro Parties and party system costituisce un altro significativo esempio di politica comparata. Rispetto alle classificazioni sui sistemi partitici, che risultavano basate essenzialmente sul computo del numero dei partiti, Sartori non solo integra il criterio numerico puro e semplice, ma costruisce una tipologia dei sistemi partitici articolata in base al grado di frammentazione di ciascun sistema e alla distanza ideologica che separa i vari partiti tra loro. Con riferimento al primo aspetto, Sartori costruisce una classificazione dei sistemi partitici sulla base del numero dei partiti – quindi adottando un criterio numerico – integrato dalle clausole del potenziale di coalizione e del potenziale di ricatto. Ovvero, l’autore sottolinea l’esigenza di ricorrere a un criterio di selezione dei partiti che devono

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essere computati ai fini della classificazione: ne deriva che solo quei partiti che presentano per un numero successivo di legislature un potenziale di coalizione (il grado con cui tale partito è chiesto come partner di maggioranze governative, indipendentemente dal fatto che partecipi direttamente al governo o lo appoggi dall’esterno) o di ricatto (l’attitudine di un partito a imprimere una spinta centrifuga alla tattica della competizione di uno o più partiti potenzialmente di governo) verranno effettivamente computati dal ricercatore. Il criterio numerico ci indica il formato di un sistema partitico: la successione dei vari formati ne dà la classificazione. Al contrario, la tipologia dei sistemi partitici viene costruita da Sartori tenendo conto delle proprietà funzionali di un sistema partitico e, in particolare, del suo grado di frammentazione, della distanza ideologica dei partiti all’interno del sistema e delle spinte che caratterizzano la dinamica competitiva dei partiti. Con la frammentazione si fa riferimento ai punti di coagulazione di un sistema partitico che può oscillare – senza corrispondere al numero dei partiti – da una situazione bipolare, orientata secondo un allineamento dualistico di tipo “governo-opposizione” che esclude la presenza di un eventuale centro, a una situazione “multipolare” in cui al contrario esistono tre o più punti di coagulazione per l’elettorato e le forze politiche. La polarizzazione invece misura la distanza ideologica che separa i partiti tra loro e, mentre da un lato riguarda la distanza fra i poli, dall’altro indica la distanza su cui si distribuiscono le opinioni dell’elettorato. Infine, tenendo conto delle direzioni e delle spinte che caratterizzano la competizione, un sistema partitico può muoversi da una tendenza centripeta, tipica dei sistemi bipolari in cui i partiti convergono verso il centro, a quella centrifuga, tipica invece dei sistemi multipolari. Dalla combinazione di queste variabili, Sartori costruisce una tipologia dei sistemi multipartitici che si articola in bipartitismo, pluralismo moderato e pluralismo polarizzato.

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Tav. 7 – Tipologia dei sistemi partitici Poli

Polarità

Direzione

Bipartitismo

bipolare

nessuna

centripeta

Pluralismo moderato

bipolare

moderata

centripeta

Pluralismo estremo

multipolare

massima

centrifuga

Fonte: Sartori, Teoria dei partiti e caso italiano, 1982.

4.3 La classificazione dei sistemi politici di Almond e Powell Nel 1966 Almond e Powell pubblicano Comparative politics, un testo che giunge a completamento di un approccio in chiave comparata allo studio dei sistemi politici intrapreso da Almond già dieci anni prima con il primo intervento pronunciato all’università di Princeton nel giugno 1955, The comparative methods in the study of politics. La classificazione dei sistemi politici elaborata dai due autori si basa su due criteri: 1) il grado di differenziazione strutturale, che fa riferimento al processo di specializzazione di ruoli e funzioni che caratterizza la crescita e lo sviluppo di un sistema politico e che si accompagna nella gran parte dei casi a una crescita di autonomia dei singoli sottosistemi; 2) la secolarizzazione, che indica invece un processo attraverso cui si sviluppa una cultura sostanzialmente pragmatica, negoziale, non dogmatica sul piano religioso e dotata di razionalità. Nel corso di questo processo gli orientamenti e gli atteggiamenti politici tradizionali cambiano, modificando la formazione delle decisioni collettive e diffondendo una mentalità che concepisce la competizione politica non più come una lotta da cui emergono vincitori e vinti, ma come un mercato dove si guadagna e si perde. Utilizzando la combinazione del grado di differenziazione con il grado di secolarizzazione, Almond e Powell dividono i sistemi politici in tre classi: 1) sistemi primitivi, caratterizzati da strutture politiche intermittenti in cui le funzioni politiche sono svolte in modo

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discontinuo e aspecifico da gruppi di parentela o da compagini di governo fortemente personalizzate. Congruente rispetto a questo tipo di struttura è una cultura politica “parrocchiale”, caratterizzata da modesta o nulla consapevolezza dei sistemi politici nazionali; 2) sistemi tradizionali, con strutture politiche e di governo differenziate e caratterizzate dal ricorso a una burocrazia più o meno specializzata. La cultura politica è di tipo suddito, orientata prevalentemente verso le ripercussioni che gli output del sistema possono avere sulla sfera privata, ma per nulla orientata alla partecipazione ai processi di input; 3) sistemi moderni, con infrastrutture politiche differenziate in cui si riscontra la presenza di partiti politici, gruppi di interesse e mezzi di comunicazione che consentono il passaggio dalla cultura politica del “suddito” a quella del “cittadino partecipante”, ovvero di un cittadino orientato verso le strutture e i processi di input e che si considera quindi impegnato nell’articolazione delle domande e nella formazione delle decisioni. Quest’ultima classe di sistemi comprende situazioni che per la maggior parte si sono consolidate nel xx secolo in collegamento con lo sviluppo culturale, economico e tecnologico. A loro volta i sistemi politici altamente differenziati e contraddistinti da una cultura politica secolarizzata possono suddividersi in sistemi democratici e in sistemi autoritari. I primi, tendenzialmente pluralisti sia a livello di sistema sociale che strutture politiche, si configurano diversamente in relazione al grado di autonomia concessa e garantita ai sottosistemi in cui si articolano; i secondi sono invece sistemi in cui l’autonomia formale delle infrastrutture politiche è eliminata, ma in cui persiste un certo grado di pluralismo e di competitività politica. Sempre in riferimento alle caratteristiche dei sistemi autoritari, Almond e Powell procedono poi a separare i sistemi autoritari veri e propri da quelli totalitari, in cui l’autonomia dei sottosistemi politici è ancora più ridotta.

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4.4 La formazione degli stati in Europa di Rokkan Il punto di partenza dell’indagine comparativa di Rokkan sulla «costruzione della nazione» può essere ritrovato in una constatazione da lui stesso enunciata nel lavoro curato con Lipset, Party system and voter alignments (1967), secondo cui i sistemi politici europei degli anni ’60 riflettono, con poche ma significative eccezioni, le spaccature strutturali degli anni ’20. Da questa affermazione Rokkan fa derivare il suo programma di ricerca, che si fonda sulla convinzione che per spiegare uniformità e difformità nei sistemi politici occorre immergersi nel passato e risalire alla fase di formazione dei partiti e dei sistemi di partito. La genesi di questi fenomeni consentirebbe di spiegare le differenze che derivano dalle divisioni storiche esistenti all’interno di ogni sistema tra i popoli, dall’incidenza di tali divisioni nel processo di democratizzazione, dalla combinazione e dalla trasformazione di queste divisioni in partiti contrapposti. Rokkan predispone quindi una griglia di modelli alla base dei quali vanno poste delle idee-guida. Innanzitutto, l’importanza attribuita al tempo e allo spazio. In netto contrasto con gli orientamenti prevalenti nella politologia americana, lo studioso insiste sulla necessità di tener conto del peso delle evoluzioni e delle eredità storiche per spiegare le divisioni politiche contemporanee e sottolinea il ruolo delle differenze geografiche all’interno di ciascun paese. Inoltre, al centro della costruzione del suo modello, che si fonda sull’individuazione di quattro linee di frattura, colloca un asse fondamentale di frattura che è quello centro/periferia e che caratterizza ciascun sistema politico. Analiticamente, il nuovo modello (Tav. 5) permette di elaborare una classificazione delle principali linee teoriche di frattura sociale; mentre se è storicizzato esso consente di distinguere tra i vari tipi di conflitto rilevanti nella storia europea e di valutarne il ruolo al fine della determinazione dei diversi sistemi di partito. Introducendo la variabile culturale-territoriale (g-l) ed economico-funzionale (a-i) Rokkan

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traccia uno schema dei quattro tipi polari di conflitto. Sul polo “l” viene collocata l’opposizione periferica contro l’élite nazionale, ossia il conflitto centro/periferia (connesso ai tentativi della periferia di preservare la propria identità culturale nei confronti dei processi di assimilazione del centro); sul polo “g” sono collocati i conflitti tra i diversi settori dell’élite centrale nella determinazione della politica nazionale; sul polo “a” sono distinguibili i conflitti di interesse tra organizzazioni concorrenti mentre sul polo “i” sono visualizzate le contrapposizioni ideologiche. Due di queste linee di frattura (cleavages) sono il prodotto diretto della rivoluzione nazionale: la frattura centro/periferia, che si esprime nella cultura centrale della costruzione della nazione contro la crescente resistenza delle popolazioni sottomesse etnicamente, religiosamente, linguisticamente; la frattura Stato/Chiesa che si esprime nello stato-nazione centralizzante, uniformante e mobilitante e i privilegi corporativi consolidatisi in Europa con la presenza della Chiesa. Le altre due fratture derivano invece dalla rivoluzione industriale, in quanto evidenziano il conflitto fra interessi agrari e interessi industriali e la contrapposizione tra proprietari e datori di lavoro da un lato e operai e braccianti dall’altro. Il conflitto centro/periferia nella formazione degli stati europei si è manifestato attraverso due processi che costituiscono altrettante modalità con cui un centro ha cercato di mettere un territorio sotto il suo controllo militare, economico e culturale. Questi due processi, non necessariamente coincidenti, hanno assunto la fisionomia di «formazione dello Stato» e «formazione della nazione». La prima fa riferimento a un processo di crescente integrazione politica, economica e culturale a livello di élite, all’istituzione di organizzazioni rivolte alla mobilitazione centralizzata delle risorse e alla garanzia di difesa e di mantenimento dell’ordine interno. La formazione della nazione comprende invece un insieme di attività che rafforzano i contatti tra l’élite del centro e i settori più larghi della popolazione periferica attraverso l’introduzione del servizio militare e l’istituzione della scuola pubblica.

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Naturalmente nei casi concreti, paese per paese, la molteplicità dei conflitti e la varietà dei processi costitutivi dello stato e della nazione si intrecciano e si intersecano in modo diverso. Rokkan ritiene comunque che si possano identificare almeno cinque grandi fratture che sono collegate a periodi critici della storia europea: 1) la contrapposizione centro/ periferia che viene esaltata nel periodo della Riforma e della Controriforma; 2) la contrapposizione Chiesa/Stato, conseguente alla mobilitazione politica derivante dalla Rivoluzione francese e dalle guerre napoleoniche; 3) il contrasto fra interessi agrari e industriali; 4) il conflitto fra lavoratori e datori di lavoro e proprietari, gruppi sociali connessi alla rivoluzione industriale; 5) l’alternativa socialismo/comunismo, conseguente all’affermazione della Rivoluzione bolscevica del 1917. Tav. 5 – Processi conflittuali nella costruzione della nazione Sistema politico (g) 4. Operatori/datori di lavoro, proprietari Economia (e) 3. Settore primario/secondario

2. Chiesa/ governo 1. Culture soggette/culture dominanti

Ordini integrativi(i)

Localismo, familismo (l)

Fonte: Rokkan, Citizens, elections, parties, 1970.

In tutte queste ricerche, i relativi programmi di comparazione prevedono come oggetto di studio unità collettive come i sistemi politici o i sistemi partitici; come rispettive proprietà sia attributi aggregati, sia strutturali, sia storico culturali (il grado di secolarizzazione in Almond e Verba; la natura dei cleavages o fratture fondamentali in Rokkan; gli stili di opposizione in Dahl; la distanza ideologica o “polarizzazione” in Sartori); come stati sulla proprietà differenze di specie, di grado e (in casi limitati) anche di quantità che in ogni caso – quale che sia l’unità di rilevazione effettivamente prescelta e quale che sia il livello di consapevolezza teorica degli autori – fanno

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riferimento alle azioni degli individui e alla combinazione dei loro effetti. Ne esce confermata la tesi secondo la quale non vi sono oggetti o proprietà collettive irriducibili a livello individuale (per esempio: al fine di ottenere una misura di “polarizzazione” del sistema partitico occorre costruire un indice sintetico ottenuto dai risultati di una survey in cui è chiesto a un campione di elettori di “autocollocarsi” su un continuum politico ideale destra-sinistra). E questo a prescindere dalla considerazione che nella ricerca comparata prevalgano strategie nomotetiche – generalizzare le “concordanze” decontestualizzando la specificità storica delle proprietà – ovvero prevalgano strategie idiografiche – spiegare le differenze fra proprietà contestualizzandole nell’“oggetto storico” cui appartengono. Quel che proprio non si può fare – da un punto di vista essenzialmente gnoseologico e ontologico – è di conferire esistenza reale a entità collettive secondo il postulato olistico che il “tutto” è superiore alle parti che lo compongono. 4.5 Le rivoluzioni sociali e gli Stati moderni (T. Skocpol) Il lavoro della Skocpol sulle rivoluzioni [Skocpol, 1981] matura sul terreno della ricerca storica, consentendo a questa di compiere un salto metodologico notevole, proprio attraverso gli strumenti della comparazione, dal piano dell’interpretazione dei casi singoli al piano della universalizzazione degli enunciati teorici. Un’operazione che, nei termini della metodologia weberiana, ascriveremmo alla strategia dei tipi ideali mediante la quale si cerca una sintesi efficace fra prospettive «ideografiche» e prospettive «nomotetiche» [Weber, 1958], dimostrando che la storia può perseguire obiettivi universalizzanti e le scienze sociali possono a loro volta volgersi all’analisi del particolare e confermando, per questa via, la relativa ma certa convertibilità della storia in sociologia e viceversa [Carr, 2000]. In questo senso Stati e rivoluzioni sociali costituisce l’esempio di un tentativo di successo a promuo-

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vere la reciproca convertibilità dello studio dei casi storici, orientato alla logica comprendente, e dello studio dei casi singoli, orientato alla logica generalizzante all’interno stesso del metodo comparato [Lijphart, 1985]. La ricerca comparata sulle rivoluzioni in Francia (1789), Russia (1917) e Cina (1948) mira a identificare le condizioni necessarie e sufficienti a che si dia una rivoluzione sociale, intesa come un radicale ribaltamento della struttura di classe in sistemi diversi e differenti epoche storiche che comporti significativi mutamenti nella forma-stato e nello stesso sistema economico-sociale. L’autrice, rifiutando spiegazioni psicologiste che avevano ricollegato i fenomeni ribellistici in genere a sentimenti diffusi di «frustrazione sistemica» [Gurr, 2010] o di «privazione relativa» [Feierabend & Feierabend, 1969], in definitiva a sentimenti di malcontento sociale, punta a produrre generalizzazioni estendibili a più casi e al limite falsificabili sulla base di nuove evidenze empiriche: è il metodo della comparazione variation finding, finalizzato alla ricerca delle variazioni causali che «ha il merito della parsimonia esplicativa» [Tilly, 1984, p. 116]. E intende dimostrare come i paesi che hanno sperimentato le “grandi rivoluzioni” (come, appunto, la Francia sotto la monarchia di Luigi xvi, la Russia sotto lo zar Nicola ii, la Cina sotto il regime nazionalista di Jiang Jeschi) presentano come caratteristica comune la debolezza sul piano finanziario che li rendeva particolarmente vulnerabili da guerre costose. Erano soprattutto le classi contadine a sviluppare forme autonome di organizzazione in grado di promuovere azioni collettive contro le élite di potere (le tradizionali assemblee di villaggio in Francia, i soviet in Russia, il partito comunista rurale in Cina). Di conseguenza, nel caso di una guerra che indebolisse ulteriormente lo Stato, o in caso di conflitti fra Stato ed élite di potere, le sollevazioni popolari non potevano essere facilmente arginate. La crisi fiscale e le ribellioni nella Francia del 1789, la sconfitta della Russia nella prima guerra mondiale, l’invasione della Cina da parte del Giappone nella seconda guerra mondiale aprirono la strada alle rivolte di massa. Mentre invece, nella Germania e nell’Inghilterra del xix e xx secolo, laddove lo Sta-

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to era più forte e l’aristocrazia esercitava un controllo maggiore sulle classi inferiori, le stesse pressioni di malcontento seguite alle guerre non sfociarono in rivoluzioni ma in movimenti di riforma sostenuti dal governo e dalle élite dominanti. Come si vede, c’è il tentativo di scoprire regolarità nei processi rivoluzionari senza ricorrere a complessi schemi epistemologici o a operazioni formali, ma sostanzialmente basandosi sull’interpretazione di fatti comuni a fenomeni (realtà sociopolitiche) diversi, decontestualizzati ovvero espunti – per quanto possibile – dai rispettivi contesti storici: che, entro certi limiti, sono trattati come variabili spurie ininfluenti sulle relazioni condizionali considerate nella comparazione. Il che non esclude tuttavia la consapevolezza sottintesa, e talvolta esplicita (come nel caso della Skocpol), che i sistemi politici e le strutture sociali messe a confronto sono talmente vari e differenziati fra loro – anche in linea longitudinale relativamente ai tempi storici – da richiedere ulteriori elementi per comporre il quadro di una spiegazione accettabile dal punto di vista generale del come, quando e perché in una data società si creino le condizioni per attuare processi rivoluzionari (e con quali conseguenze economiche, politiche e culturali). 4.6 I “fallimenti” delle nazioni di Acemoglu e Robinson Il contributo di Acemoglu e Robinson, Why the Nations Fail [2012, 2013], fornisce una serie di dati empirici e di casi storici sul ruolo esercitato da istituzioni, geografia e cultura sullo sviluppo economico e la stabilità politica degli Stati, mostrando come la variabile istituzionale si presti assai meglio delle altre due a spiegare le odierne disuguaglianze in termini di reddito pro-capite nei diversi paesi (istitution make the difference, si potrebbe dire parafrasando il contenuto di un’affermazione analoga assai discussa nel dibattito sugli studi di public policy a proposito della politica8). 8. Politics matter [Sharpe & Newton, 1984].

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I concetti di istituzioni «estrattive» e «inclusive» spiegano queste differenze fra Stati. I termini di economic loosers e political loosers sono conseguenti. L’idea dei “perdenti” in economia è legata alla diversa dimensione dei cambiamenti tecnologici nel mondo e si spiega con l’assenza di risultati efficaci nelle politiche di promozione e sostegno. L’ostacolo più forte alla nascita di istituzioni inclusive è dato dalla resistenza delle élite di potere ai cambiamenti per la paura di perdere i propri privilegi. L’idea dei “perdenti” in politica è invece legata al fenomeno di centralizzazione del potere di governo e del controllo pubblico in economia. Nogales è una cittadina americana divisa da un muro di confine tra Arizona (usa) e Sonoza (Messico): le due frazioni hanno la stessa gente, la stessa cultura e geografia, ma una è ricca e l’altra è povera, con una differenza di reddito pro-capite di tre volte tanto. Lo stesso paradosso si riscontra fra Stati confinanti o all’interno della stessa area geografica: per esempio, la Corea del Nord (arretrata) e la Corea del Sud (sviluppata), o il caso del Botswana che cresce a ritmi vertiginosi mentre altri paesi contigui nella medesima area africana (Zimbawe, Congo, Sierra Leone) versano in condizioni di miseria e violenza sociale. Perché queste diversità apparentemente inspiegabili? Gli autori sostengono che la prosperità e la povertà di nazioni e comunità «così vicine, eppure così lontane» dipendano dalle qualità delle relative istituzioni politiche ed economiche, le quali se sono «inclusive» favoriscono il coinvolgimento della maggioranza dei cittadini e pertanto, con la crescita economica, il loro sviluppo umano e civile, mentre al contrario, se «estrattive», sono finalizzate a raccogliere le rendite dalla cittadinanza per convogliarle verso una minoranza di privilegiati, l’élite dominante che, a sua volta, ha interesse a frenare l’innovazione per evitare la «distruzione creatrice» di cui parlava Shumpeter a proposito dell’economia di mercato sugli ordini precostituiti [Shumpeter, 1955]. La conclusioni degli autori è che «oggi le nazioni falliscono perché le loro istituzioni estrattive non

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creano gli incentivi di cui la popolazione ha bisogno per risparmiare, investire, innovare» [Acemoglu&Robinson, 2013, p. 383]9. Nell’opera sono riportati numerosi casi empirici a sostegno di questa tesi, con il ricorso alla comparazione storica e sociologica: dalle economie basate sullo sfruttamento delle piantagioni nei Caraibi del xvii secolo alla società feudale del Medioevo, fino ai casi in parte già accennati del mondo contemporaneo sulla linea della distinzione classica fra sviluppo e sottosviluppo.

9. Questa tesi è in parte confermata nella raccolta di saggi da me curata e dedicata ai rapporti controversi fra economia di mercato e democrazia [De Mucci, 2014], seppure in una prospettiva d’analisi più nettamente favorevole a valorizzare la logica della competizione, della «società aperta», nel ruolo di variabile indipendente di questo stesso rapporto.

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