Memorie per Paul De Man. Saggio sull'autobiografia 8816403667, 9788816403666

A partire da un breve frammento autobiografico, il testo (tre conferenze e un lungo saggio sull'opera di Paul De Ma

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Memorie per Paul De Man. Saggio sull'autobiografia
 8816403667, 9788816403666

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Titolo originale

Mémoires pour Pau/ de Man Traduzione parte prima di Giovanna Borradori parte seconda di Enzo Costa

© 1988 Éditions GaliléeJ Paris © 1995 EditorialeJaca Book SpA, Milano Prima edizione italiana settembre 1995 Copertina e grafica Ufficio grafico Ja.ca Book In copertina Specchio cinese. Da G. de Champeaux, S. SterckxJ I simboli del Medioevo, Jaca Book, Milano 1981.

ISBN 88-16-40366-7 per informazioni sulle opere pubblicate e in programma ci si può rivolgere a Ed.itorialeJaca Book SpA- Servizio Lettori via Gioberti 7, 20123 Milano, telefono 4699044, fax 48193.361

INDICE

Il dovere dell•affermazione, di Silvano Petrosino

I

l. Sul tempo

IV

2. Sulla decostruzione

XI

3. Sulla filosofia

xvn

4. Sulratto

Avvertenza

7

PARTE PRIMA

In memoriam: dell'anima

11

Prefazione alla prima edizione (americana)

17

Mnemosine

19

V arte delle memorie

49

Atti. D significato di una parola data (The Meaning of a Given Word)

79

Indice PARTE SECONDA Come il rumore del mare in fondo ad una conchiglia la guerra di Paul de Man Indice dei nomi

. . .

123

195

IL DOVERE DELL'AFFERMAZIONE di Silvano Petrosino

«Dietro l'ironilz, al di là dell'ironia più esigenu, più critica, più impietosa, in quell'Ironie der Ironie di cui parla Schkgel e che egli amava citare, Paul de Man fu un pensatcre dell'affenna­ tione. Con queste, voglio dire, e per ora non è chiaro, come/or· se non le sarà ffllli, ch'egli stesso era in memoria di un'afferma· zione»1•

TI saggio che J. Derrida dedica a Paul de Man rappresenta senza. dubbio un episodio del tutto particolare all'interno dell'ampia produzione derridia­ na, ma al tempo stesso è anche un testo esemplare, forse come pochi altri, di un certo modo di intendere e praticare la riflessione filosofica, e non solo filosofica, da parte del pensatore francese. La singolarità di queste pagine è dovuta al pathos che le attraversa, al fatto ch'esse si susseguono come mo­ menti di un «dialogo» sofferto con l'amico scomparso e con la sua opera, in modo tale che le diverse questioni in esse affrontate-questioni cosidette teoriche, filosofiche ad esempio, e/o di critica letteraria, e/o psicoanaliti­ che, ecc.-si trovano internamente strutturate, ma cosl in una certa misura anche destrutturate, dal continuo appello all'amicizia e alla memoria eli de Man, dalla necessità di dovergli rendere, attivamente e pubblicamente, testi­ monianza. Derrida lo dichiara fin dall'inizio, qualificando un tale gesto qua]. Derrida, Mlmoim pour Pau/ de MtJn, Edi�ions Galilée, Paris 1988, trad. it. di G. Borra­ Memorie per Pau/ de Man. Saggio sull'autobiografia, Jaca Book, Milano 1995,

dori e V. Costa,

p .35. .

D'ora in poi questo testo sm indicato con la sigla MEM. I

Silvano Petrosino si come un «atto dovuto», o meglio-ed è proprio questo, il rapporto «do­ vere»-«respondabilità» in re lazione alla problematica della «memoria» e dell' «atto», l'asse centrale attorno a cui tutto il testo si organizza-come un atto di re sponsabilità nei confronti di una «incomparabile amicizia»: «Dopo

la morte di Paul de Man, il21 dicembre, la necessità (corsivo mio, S.P.) mi si parò davanti agli occhi: non ce l'av rei fatta a preparare queste conferen­ ze, non ne avrei avuto la forza o il desiderio, se non avessi fatto in modo

che esse lasciassero o rendessero la parola (cors iv o mio, S.P.) all'amico scom­ parso, o almeno, essendo c iò impossibile, all'amicizia, all'unica, incompara­ bile am icizia che fu per me, grazie a lui. Non avrei potuto parlare che in me­

moria di lui»2• D'altra parte queste pagine singol ari, cosllegate ad un evento' particola­ re,

cos} segnate dal l utto per l'amico morto, sono anche esemplari di una

pratica del pensiero i cui contenuti ed effetti, benchè presenti fin dai pri­ missimi lavori di Derrida�, trovano nella sua pr oduzi one più recente l'e­ spressione più chiara e matura . MEM è infatti un testo in cui si affollano molte ques tioni, in cui ci si confronta con diversi autori, in cui ci si rivolge

a più uditori (che appartengono ad e se mpio al macra-uditorio «Stati Uniti», 2 l

MEM, p.

34

.•

Bisogna ad esempio riconoscere che, contrariamente a quanto afferma Habermas nel sag­

gio citato proprio in MEM, nell ' o pera e nei testi derridiani non si è mai trattato del « p rimat o

della retorica sulla logica» 0. Habermas, Der phiwsophische Diskurs der Moderne.

Zw61/ Vor/e·

sungen, Su hrkam p Verlag, Frankfurt am Ma.im 1985, trad. it. a cura di Elena ed Emilio Aga�

zi, Il discorso filosofico del/4 modemit4. Dodici lezioni, Late rza, Roma-Bari 198 7, p. 194), quanto pi uttosto della contaminazio11e essenziale tra la logica e la ret orica, e di consegue n:�:a del­ l'impossibilità di una pura considerazione logica o retorica d el l ogos (Cfr. S.

Petrosino, «Del

segno. (Disseminario)», in J. Derrida , La disseminazione, trad. it. di S. Petrosino e M. Odorici,

Jaca Book, Milano 1989, pp. 7-41).

È. Derrida stesso a volc:rlo sottoline are quando,

introducendo con un certo imbarazzo il

suo primo lavoro scr it to nell953·54, afferma: «Questa lettura panoramica che spazia qui su tutta l'opera di Husserl con l'impudenza imperturbabile di uno scanner, si appella a una sorta

di legge la cui stabilità mi sembra oggi tanto più sor prendente in quanto, fin nella sua formula­

zione letterale, non ha cessato, d4 allora, di guidare tutto quanto ho tentato di di most r are, come se una s pec ie di idiosincrasia negoziasse già, a modo suo, una necessit à che l'avrebbe

sempre superata e di cui sarebbe stato interminabilmente necessario riappropriarsi. Quale

necessità? Si tratt a sempre di una complicazione originaria dell'origine, di una contaminazio­

ne iniziale del semplice, di uno scarto inaugurale che nessuna analisi potr�bbe presentare, ren­ dere presente nel suo fe nome no o ridurre alla puntualità istantanea, identica a sè, dell'elemento (...).Una legge della contaminazione differen:z.iale impone la propria logica da un capo all'altro

del libro»

U. Derrida, Le problème de la genèsc d4ns la phiwsophic de flusserl, PUP, Paris

1990,

trad. it. di V. Costa, Il problema della genesi nella fiwso/ia di Husserl, Jac a Book, Milano 1992, pp. 50-51; si veda in proposito anche V. Costa , «La fenomenologia della contaminazione», ivi, pp. 7-43). Il

Il dovere dell'affermazione

ma che da un altro punto di vista si ritrovano anche in Europa), in cui non si riesce mai a stabilire un confine netto tra la parola di Derrida e quella de­ gli autori da essa citati, e in cui alla fine-per riprendere un altro testo der­ ridiano attraversato dalla tematica dell' «obbligo» e da una certa urgenza del «dover rendere»-«non sappiamo più chi ha la parola e a che punto siamo»4• Senza dubbio si potrebbe tentare di ordinare la complessità di queste pagine individuando come degli assi semici lungo i quali si dispongono le se­ guenti questioni: tempo-morte-lutto-memoria-responsabilità, promessa-de­ cisione-atto-performatività, testo-retorica-allegoria-ironia, proprio-nome­ nome proprio-firma· biografia-auto biogra#a, legge-dono-calcolo-possibile­ i mpossibile, decostruzione-traduzione-filosofia; anche se poi bisognerebbe subito riconoscere che in una tale classificazione ogni asse si riordina auto· nomamente attraverso tutti gli altri per generare cosl sempre nuovi e legit­ timi raggruppamenti. Analogamente si potrebbe stilare un elenco degli au­ tori su cui MEM si sofferma con più insistenza: Rousseau, Hegel, Holderlin, Schlegel, Nietzsche, Heidegger, Austin, ed evidentemente de Man; anche se poi bisognerebbe subito riconoscere-e questo mi pare vero soprattutto per quanto riguarda il rapporto che Derrida dichiara di dover stabilire tra la sua opera e quella demaniana, proprio per quella parola ch'egli desidera la­ sciare o rendere all'amico-che non si è in grado di stabilire una volta per tutte i «diritti d'autore» e distinguere cosl il detto derridiano dalle parole ch'esso cita, commenta, valorizza, dilata e a volte esaspera. Questi tratti dei testi del filosofo francese sono cosl conosciuti ed evidenti-tratti che in definitiva rinviano tutti al concetto di lutto e che la finitudine, come tratto essenziale della memoria, «non ha innanzitutto la forma di un limite, di una capacità, di un'attitudine o facoltà limitata, di un potere circoscritto; un limite che ci spingerebbe a molteplicare i segni testa­ mentari, le tracce, gli ipogrammi, gli hypomnemata, le firme e gli epitaffi, le 'memorie autobiografiche'. No, essa può assumere questa forma solo grazie alla traccia dell'altro in noi, alla sua precedenza irriducibile, in altri termini alla traccia tout court, che è sempre traccia dell'altro, finitudine della memo­ ria, e quindi (corsivo mio, S.P.) ricordo (venir ou souvenir) del futuro. Se esi­ ste una finitudine della memoria, è perché vi è l'altro, vi è memoria come me­ moria dell'altro, che viene dall'altro e ritorna all'altro»16• All'interno di una simile impostazione-che, come si è già indicato, si sviluppa attorno alla categoria dell'alterità, e più precisamente attorno al­ l'alterità in quanto amicizia e all'amicizia in quanto alterità-il riferimento all'>21•

C) La memoria è dunque luttuosa per essenza; attraverso Ia possibilità del lutto l'altro è in me nella memoria; ma contemporaneamente, proprio perché dell'altro, il lutto è anche da un certo punto di vista del tutto impos­ sibile, essendo esclusa ogni possibile interiorizzazione dell'altro in quanto parte dello stesso: l'altro in.me non può mai stare veramente in-me. In tal senso ogni possibile lutto in quanto strutturato dall'in-me dell'altro è sem19

MEM, p. �6, corsivi miei. Poco prima, a proposito di tale «retorica• Derrida precisa: «Nel dominio ristretto e quQi

istituzionale della retorica, le figure, i modi o i tipi, siano o no classificabili, ricevono la loro poss ibilità d'essere (inclassificabile) da qu este strultu� paradossali: inclusione, in un insi eme ,

di una parte più grande dell'insieme stesso; logica a-logica in cui non si può più dire se essa cor­ risponda a quella del lutto nel significato corrente del termine, ma che regola (talvolta in quan­ to l utto in senso stretto, sempre come lutto nel senso di possibilità generale) tutti i nostr i rap­ porti con l'altro, in quanlo altro, vale a dire mortale per un mortale, dovendo pur sempre mori­ re uno prima dell'altro( ...). L'Erinnerung diviene tanto fatale quanto invivibile; qui, trova la sua origine e il suo limite, la sua condizione di pos sibilità e impossibilità- (MEM, pp. 47-48, il pri mo corsivo è mio). 20

2a

MF.M, p.21. MEM, p. 47, l' u hi mo corsivo è mio. IX

Silvano Petroaino pre per o delfaltro, ma proprio in quanto tale esso � anche essenzialmente impossibile, è dunque possibile e impossibile al tempo stesso. Tuttavia-ec­ co un'altra di quelle «strutture paradossali>> proprie della memoria più sopra segnalate-questa impossibilità deve essere possibile e nessun lutto può di fatto costituirsi senza l'attuarsi e l'insistente riproporsi della possibilità di questo impossibile; se dunque qualcosa di simile ad un lutto, ma ancora più a fondo se qualcosa di simile ad una memoria dell'altro (cootiginaria appar­ tenenza tra memoria e lutto) avviene, se esso avviene in-me, ecco che allora non può avvenire che alla condizione di disporsi secondo una struttura della possibilità dell'impossibile. Ha qui origine la terza linea di sviluppo della lettura derridiana del pen­ siero di de Man; a questo livello la riflessione sul tempo incontra, passando attraverso l'esperienza e il pensiero della memoria e/o del lutto, la proble­ matica della responsabilità12• Derrida ritorna sull'essenza della memoria, che ora però descrive nel seguente modo: «Lo sappiamo, lo sapevamo, ce ne

ricordiamo, prima della morte dell'amato, che l'essere-in-me o l'esssere-in­ noi si costituisce a partire (depuis) dalla possibilità del lutto. Noi non siamo noi stessi che a partire da questo sapere più antico di noi stessi, ed è per tale ragione che dico che cominciamo attraverso questo ricordo, giungiamo a noi stessi attraverso questa memoria del lutto possibile. Più precisamente, ecco l'allegoria, del lutto impossibile. Pau! de Man direbbe l'illeggibilità del lut­ to. A questo livello la possibilità dell'impossibile ordina l'intera retorica del lutto e descrive l'essenza della memoria»l). La responsabilità qui interviene come condizione della risposta e della

fedeltà-mai garantita e come tale mai del tutto garantibile-alla possibilità di questo impossibile; qui si tratta, resistente certamente all'oscurità dell'o­ blio, ma anche all'«infedeltà più mortale, persino mortifera ( ... ) che interio­ rizza in noi l'immagine, l'idolo e l'ideale dell'altro», all'infedeltà che rin­ chiude l'altro «nella tomba o nella cripta del narcisismo>>2\ qui si tratta di mantenersi nel per-l'altro rilanciando la possibilità di questo impossibile che rappresenta l'unica possibilità della memoria stessa (la memoria non è forse proprio questo «mantenere rilanciando»?): «Alla morte dell'altro tut­ to resta 'in me' o 'in noi', 'tra noi'; tutto mi� affidato, ci è lasciato in eredi.u

Anche in questo caso pub essere utile tenere sotto gli occhi il testo di E. Uvinas, Le 14tnps

�� fautTe, Fata Morgana, Montpellier 1979, trad. it. di F.P. Ciglia, Il tempo e l'a/Jro, ll melan­ go!o, Genova 198,7. 23



MEM,

p. 44.

Si veda la nota 12. x

Il dovere dell'11ffermazione tà o dato a ciò che chiamo memoria, aUa memoria, luogo di questo strano dativo»2'. All'interno di un simile impianto la responsabilità si configura come il luogo stesso di questa eredità (passato) e quindi di questo affidarsi (avvenire), essa è l'attivo dispiegarsi di questo «strano dativo»; poco più avanti Derrida avanza la seguente proposta: «Esiste un solo idioma per esprimere, insieme, memoria e interiorizzazione: Erinnerung. In tedesco significa ricordo, e He­ gel vi ravvisa il motivo dell'interiorizzazione soggettivante. In francese, sa­ rei tentato da un nuovo uso della parola intimazione (intimation) il cui artifi­ cio potrebbe indicare ad un tempo sia l'ordine o l'ingiunzione (si intima un ordine, lo si dà: è necessario) che l'intimità del di dentro»16• Ciò di cui, firi dalle primissime righe, l'«avvertenza» di MEM avvertiva era proprio dell'esi­ stenza di questo nesso essenziale: «Ciò che si richiama alla memoria ne ri­ chiama in causa la responsabilità. Come pensare l'una senza l'altra?»27•

2. Sulla decostruzione n tema della «decostruzione>>-dell'identità e delle questioni che accom­ pagnano questo termine, che a volte è anche utilizzato per indicare un movi­ mento di pensiero-ritorna con particolare insistenza ed evidenza nelle pagi­ ne di MEM. Derrida è intervenuto sull'argomento in più di un'occasione nei suoi testi18, talvolta persino con fastidio29, giungendo infine a quella che può 2S

MEM, p. 43.

l6

MEM, p. 4.5.

n

MEM, p. 7. A proposito del rapport o morte-responsabilitl Uvinas osserva: «È a partire dalla mortali­ tl dell'altro uomo ( ...) che la mia non·indifferenza ad altri ha il significato irriducibile della socialitl e non è subordinata alla priorità del mio essere-per-la-morte che misurerebbe ogni autenticità, come vorrebbe Sein und Zeit (... ). La morte significa originariamente nella prossi­ mitA stessa dell'altro uomo o nella socialità (...)come se la m or t e dell'altro uomo non ponesse alcuna questione. Questione che richiama alla responsabilitl la quale non è un ripiego pratico che consolerebbe un sapere che si arena nel suo adeguamento all'essere; responsabilità che non è la privazione del sapere, della comprensione, dell'intendere e del capire, ma prossimità etica nella sua irriducibllità al sapere, nella sua socialitb (E. Uvin as, De Dieu qui vicnt à l'idée, Vrin, Paris 1 982, tra d. it. di G. Zennaro, Di Dio che viene all'idea, Jaca Book, Milano 1983, pp. 189-19 1). 2t

Segnalo a tale rigu ardo solo «Lettre à un ami japonais», inJ. Derrida, Psyché. bwentions tk '

l'autre, Editions Galilée, Paris 1 987, pp. 387-393.

29

J. Culler ricorda che D errida parla di «decostrm:.ione• come di wna parola che non mi è

mai piaciuta e la cui fortuna mi ha spiacevolmente sorpreso» ij. Culler, On Decostruction.

Thtory and Criticism a/ter Structuralism, Cornell University Press, Ithaca 1982, tra d. it. di S. Xl

Silvano Petrosino

essere considerata una conclusione: «Ciò che la decostruzione non è? ma tut­ to! Che cos'è la decostruzione? ma niente! lo non penso, per tutte queste ra­ gioni, che sia un bon mot»}(J. Non intendo in queste sede proporre un'analisi del concetto derridiano di «decostruzione»,.; vorrei qui limitare l'attenzione ad alcuni dei tratti che emergono dalle pagine di

MEM'l.

Derrida ricorda che, secondo una prima ipotesi, le conferenze sull'opera di de Man avrebbero dovuto «analizzare i diversi modi secondo i quali io percepivo, facevo esperienza ed interpretavo quella che un libro allora ap­ pena pubblicato definiva Deconstruction in America»H. Questa prima ipote­ si venne in seguito lasciata cadere, perché «Come può una. narrazione ren­ der conto di un fenomeno in corso?)>... . n riferimento all ' «essere in corso» non indica tuttavia soltato l'attualità del fenomeno

Apparso in «The New Criterion» (dicembre 198.3), questo articolo assume il suo significa· to più proprio all'interno di una congiuntura precisa, nel senso che appartiene ad una serie, o si potrebbe meglio dire ad una campagna: dei professori investiti di un grande prestigio, che significa anche di un grande potere accademico, promuovono una campagna contro coloro che, cosl a loro pare, minacciano i fondamenti stessi di questo potere, dd suo discorso, deUa sua assiomatica, delle sue procedure retoriche, dei suoi limiti teorici e territoriali, ecc. Nel cor· so di questa campagna fanno d'ogni erba un fascio, si dimenticano delle regole elementari del­ la lettura e della correttezza filologica nel nome deUe quali dichiarano di battersi: Credono di essere riusciti ad identificare U nemico comune: la decostruzione. Ricordo ciò che Pau! de Man diceva a proposito di una di queste operazioni, queUa inoltrata da Walter Jackson Bate, Kingsley Porter University Professor a Harvard, nel saggio The Crisis in English Studies («Har­ vard Magazine:., settembre-ottobre 1982}: il professor Bate «qUesta volta ha limitato le sue fonti d'informazione al settimanale 'Newsweek' ( ...}. Ciò che se ne conclude è il problema di una legge da far applicare, piuttosto che un dibattito critico. Infatti, bisogna sentirsi molto minacciati per mantenersi sulle difensive in modo cosl aggressivo» (Th�. ReJum lo Philology, cTimes Literary Supplement», 10 dicembre 1982). Altrove avevo giA segnalato, nella stessa serie, l'articolo The Shat�d Humanitits («Wall Street Journal», 3 1 dicembre 1982), del presi· dente del fondo di ricerca National Endowmmtfor the Humanities. Ho ricordato_ questo testo l'anno scorso, in una conferenza letta in aprile (cfr. The Principle o/ Rtason: the Vnivmity in the Eyes o/its Pupils, .Oiacritics», autunno 1983). Da allora, la serie non cessa di arricchirsi di nuovi contributi, tutti basati sullo stesso rifiuto o incapacità di fronte al primo, e più elemen· tare, obiettivo: la lettura. In preda ad un panico sempre maggiore, U dogmatismo diventa più offensivo, l'ironia sempre più rara, vengono occultati i veri motivi del dibattito, ci si autorizza a vendere, nella !orma di vere argomentazioni filosofiche, osservazioni vagamente colte nei salotti mondani (ad esempio quelle attribuite a Michel Foucault da John Searle, in un recente articolo sulla «New York Review of Books�, 27 ottobre 1983), si è preso a trattare gli avversa· ri o i «discepoli» da «moonies» (stralunati}, come fa Arthur Danto in un recente dibattito sul «Times Literuy Supplement», 30 agosto 1983. Tutto ciò non è molto serio, ma deve essere preso sul serio. Un'analisi prudente e minuziosa di tutti questi sintomi, negli Stati Uniti e altrove, ci insegna molto-e non soltanto su quello che la decostruzione può chiarire o disloca­ re rispetto alla cultura accademica e alla politica istituzionale. Qui mi accontenterò, ricordando gli attacchi che si sono concentrati su di lui in questi ultimi tempi, di rimandare alle analisi che loro dedica lo stesso Paul de Man nel saggio The Resistmce lo Theory («Yale French Stu· dies», 63, 1982; ripubblicato con lo stesso titolo presso Minnesota University Press, 1986) e nell'introduzione a Hegel on the Sublime in t:Displacement:., a cura di M. Krupnick, Indiana University Press, Bloomington 1983. Di René Wellek (al quale de Man stesso' mi presentò cir· ca dieci artni fa, che ci capitava di incontrare e di cui parlavamo ogni tanto a Yaie, sempre in momenti di condivisa scrcnitA}, egli non aveva certamente letto quel passo di Destroying Lite­ rary Studies che lo dipinge come un esistenzialista « decostruzione, a sospendere queste attribuzioni, sempre fretto­ lose, di nomi propri. Dobbiamo quindi abbandonare l'ipotesi. No, «deco­ struzione» non è un nome proprio e r America non è il suo. Diciamo piutto-

33

Memorie per Pau] dc Man

sto: la decostruzione e l'America sono due insiemi aperti che si integrano parzialmente secondo una figura allegorico-metonimica. E in questa finzio­ ne di verità, rAmerica sarebbe il titolo di un nuovo romanzo per la storia della decostruzione e la decostruzione della storia. Ecco perché avevo deciso di non parlare della «decostruzione in Ameri­ ca». In dicembre, non avevo ancora scelto il titolo per queste tre confe­ renze. Dopo la morte di Paul de Man, il 21 dicembre, la necessità mi si parò davanti agli occhi: non ce l'avrei fatta a preparare queste conferenze, non ne avrei avuto la forza o il desiderio, se non avessi fatto in mod� che esse la7 sciassero o rendessero la parola all'amico scomparso, o almeno, essendo ciò impossibile, all ' amicizia, all'unica, incomparabile amicizia che fu per me; grazie a lui. Non avrei potuto parlare che

In memoria di lui,

in memoria di lui.

queste parole turbano la vista, e il pensiero. Cosa di­

ciamo, cosa facciamo, cosa desideriamo, attraverso queste parole: in memo­ ria di. . . ? Parlerò dell'avvenire, di ciò a cui ci lega e che ci permette l'opera di Paul de Man. Come vedete, ciò non è estraneo alla sua memoria, m� riguar­ da anche quanto egli ha detto, pensato e affermato della memoria. Sl, affer­ mato, e questa affermazione della memoria senza la quale non avrebbe avu­ to luogo l'amicizia di cui parlo, la vedo nella forma dell'anello o dell'allean­ za

(al/iance)". Questa alleanza è molto più antiéa, resistente, segreta di tutte le mani­

festazioni di alleanza strategica o famigliare che ella deve in verità rendere possibili e alle quali non sarà mai riducibile. Nel contesto della cosiddetta «decostruzione in America», c'è stata certamente qualche alleanza apparen­ temente strategica tra Paul de Man e alcuni suoi amici. La loro analisi sa­ rebbe interessante, necessaria, difficile, ma non può essere attuata soltanto sul piano socio-istituzionale. Non si capirebbe nulla di ciò che accade ed ha

luogo se non si

tenesse conto di questa affermazione giunta a sigillare un'al­

leanza. Un'alleanza che non è segreta perché si proteggeva dietro la clande­ stinità di qualche «causa» occultata assetata di potere, ma perché il «sl», che

è un atto non attivo, che non constata né descrive nulla, che non manifesta né definisce in se stesso alcun contenuto, questo sì impegna semplicemente,

al di qua o al di là di tutto. E per farlo, deve ripetersi, sì, sì, conservare la memoria, impegnarsi a conservare la sua memoria, promettersi, legarsi alla memoria per la memoria, senza di che nulla potrà mai giungere dall' avveni1s

U termine francese alliance significa «alleanza», «Unione», «affinità» e infine anche «anel­ lo matrimoniale» e «fede» (ndt).

34

Mnemosine re.

Ecco la legge, ecco ciò che la categoria del performativo, nel suo stato

at tuale, non può avvicinare se non nell'istante in cui si dice al «Sh>.

È questa affermazione di Paul de Man che vorrei cercare di chiamare e di richiamare, che vorrei ricordarrni con voi oggi. Ciò che la lega alla memo­ ria, ad un pensiero della memoria pensante, coincide anche con la misura e la possibilità del suo futuro.

Una tale affermazione non è estranea a quella che si trova, l'ho ripetuto spesso, al cuore della decostruzione. Parlando oggi di Paul de Man, parlan­ do alla memoria di Paul de Man, non sorvolerò certamente sulla «decostru­ zione in America». Che cosa sarebbe stata senza di lui? Nulla o un'altra co­ sa, è sin troppo evidente perché vi insist� Ma cosl come s9tto il nome e nel nome di Paul de Man non ci è concesso di dire tutto sulla decostruzione,

fosse soltanto in America, analogamente non saprei nemmeno, in cosl poco tempo e al solo titolo della memoria, dominare o esaurire l'opera immensa di Paul de Man. Chiamiamo allegoria o doppia metonimia questo modesto tragitto che tenterò di percorrere con voi per qualche ora. Tragitto modesto, ma magneti.zzato dall'alleanza della memoria e del si­ gillo del «sl, sl», oltreché da una firma di Paul de Man o, almeno, dai pochi tratti di una tale parafa. La parafa non è che una controfirma schematica e marginale, un frammento di firma. Chi può vantarsi di saper decifrare una firma intera? Realizzando questo «sl» in memoria di lui, vorrei soprattutto denunciare la sinistra inezia di un'accusa, quella di >, dal momento che conten­ gono sempre, «interiorizzata>>, una «Struttura speculare». Seconda questio­ ne, la totaliuazione: !ungi dall'assicurare l'identificazione con sé, il racco­ glimento presso di sé, tale struttura speculare mette in evidenza una disio· cazione tropologica che proibisce la totalizzazione anamnestica di sé: «> il testo dell'epitaffio (ecco ancora, en abime, un esempio di ciò che Paul de Man chiama allegory o/ reading: questa mi pare detenere tutto il privilegio, esso stesso allegorico-metonim.ico, del sole, e, direbbe PongeJ del sole collocato nell' abisso (en abime) . II saggio ci dice, attraverso una citazione di Milton che tratta di Shakespeare, in che cosa consiste il testo: «'Perché e per che cosa necessitate della debole testimonianza del vostro no­ me?'. Nel caso di poeti come Shakespeare, Milton e lo stesso Wordsworth, l'epitaffio non può consistere che in ciò ch'egli chiama 'nome nudo'v, tale quale è letto dall'occhio del sole. A questo punto, si può dire, a proposito del 'linguaggio dell'insensibile pietra', ch'esso assume una 'voce' in modo tale che la pietra che par/4 controbilanci il 24

Ibid. , p. 77.

z'

Ibid. , p. 133.

vedere del sole. n sistema passa dal sole al-

39

Memorie per Paul de Man l'occhio e in fine al linguaggio sotto forma di nome e di voce . Possiamo identi­ ficare la figura che completa la metafora centrale del sole e quindi lo spettro tropologico che il sole ingenera: è la figura della prosopopea, la finzione di un ' apostrofe rivolta ad un'entità assente, deceduta o senza voce, che pone ad essa la possibilità di una risposta attribuendole il potere di parola. La voce ac­ quisisce

una bocca, degli occhi , ed infine una faccia, una sequenza questa che

è eviden te nell'etimologia del nome tropo, prosopon poiein, conferire una ma­ schera o una faccia (prosopon). La prosopopea è il tropo dell' autobiografia, per mezzo del quale, come nella po esia di Milton, il nome di qualcuno è reso tanto intelligibile e memorabile (il corsivo è

di J .D.) quanto una faccia. La nostra te­ piea ha a che fare con il darsi e il ritrarsi delle facce, con la faccia e la cancella­ zione (fa face et l'elfacement), con la figura, la figurazione e lo sfigurare» (difi­

guration)26. «Metafora centrale>>, «spettro tropologico»: negli ultimi testi di de Man la figura della prosopopea guarda

(regarde)

indietro, serba (garde) nella me­

moria, si potrebbe dire, fa luce e ricorda, tutto ciò ch'egli ha firmato, da

Rhetoric of Temporality ad Allegories of Reading.

Come se la scena dell'epi­

taffio e della prosopopea gli si fosse imposta negli ultimi anni di vita. Ma è una scena alla quale, e ce lo dimostra, nessun discorso poetico saprà mai sottrarsi. La prosopopea della prosopopea che ho appena ricordato risale al 1979. Nel 198 1 , in

Reading,

Hypogram and Inscription, Michel Riffaterre's Poetics of

la prosopopea diventa «il tropo principale del discorso poetico»27,

24•

È

possibile t quando ci si trova a ricordare l'altrot a ricordare luttuosa­

mente l' amico, è forse desiderabile pensare e oltrepassare questa alluncina­ zionet andare oltre una prosopopea della prosopopea? La morte, se ve ne è t intendo dire se accade e non accade che una volta, all ' altro e a se stessit è il momento in cui non si pone più altra scelta-si potrebbe pensare-che tra la memoria e l' allucinazione. Se la morte accade all ' altro e ci accade tramite l'altro, l'amico non è più se non in

noi, tra di noi.

In se stessot per se stessot

noi non siamo (moi)» non è mai in se stes­

da se stesso, non è più, più nulla. Non vive che in noi. Ma mai

noi stessi,

e tra di noi, identici a noi, un «io

sot identico a se stesso; questa riflessione speculare non si chiude mai su se stessà, non compare mai prima di una tale possibilità del lutto, prima e fuori

26

IbiJ., pp . 75-76.

:n

lbìJ. , p. 34.

27

In «Diacritrks», inverno 198 1 , p. 3 3 .

40

\. .

Mnemosine

da questa struttura dell'allegoria e della prosopopea che, in anticipo, costi­ tuisce ogni «essere-in-noi» e «in-me (moi}», tra noi o tra sé. Il Selbst, il sel/, il se stesso non compare se non in questa allegoria luttuosa, in questa proso­ popea allucinatoria-e perfino prima che la morte dell'altro sopraggiunga

effettivamente, come si dice, nella «realtà». La strana situazione che sto qui de�crivendo, la mia amicizia con Paul de Man per esempio, mi avrebbe per­ messo di dire ciò che sto dicendo anche prima della sua morte.

È sufficiente

che lo sappia mortale, ch'egli mi sappia mortale-non si dà amicizia senza una tale coscienza della finitudine. E tutto quanto iscriviamo nel presente vivente del nostro rapporto con gli altri porta con sé, già da sempre, una fir­ ma da memorie d'oltretomba (mémoires d'outre-tombe) . Ma questa finitudi­ ne, che è anche la finitudine della memoria, non ha innanzitutto la forma di un

limite, di una capacità, di un'attitudine o facoltà limitata, di un potere

circoscritto; un limite che si spingerebbe a moltiplicare i segni testamenta­ ri, le tracce, gli ipogrammi, gli hypomnemata, le firme e gli epitaffi, le «me­ morie» autobiografiche. No, essa può assumere questa forma solo grazie al­ la traccia dell'altro in noi, alla sua precedenza irriducibile, in altri termini alla traccia tout court, che è sempre traccia dell'altro, finitudine della me­ moria, e quindi ricordo (venir ou souvenir} del futuro. Se esiste una finitudi­ ne della memoria, è perché vi è l'altro, vi è memoria come memoria dell'al­ tro, che viene dall'altro e ritorna all'altro. Essa sfida ogni totalizzazione e ci rinvia ad una scena dell'allegoria, ad una finzione della prosopopea; in al­ tri termini, a delle tropologie del lutto: memoria del lutto e lutto della me­ moria. Ecco perché non potrebbe esistere il vero lutto, anche se poi la verità e la lucidità lo presuppongono sempre e , in verità, non hanno luogo se non come verità del lutto. Del lutto dell'altro, ma dell'altro che parla sempre in

me e prima di me, che firma al mio posto, poiché l'epigramma o l'epitaffio è sempre dell'altro e per l'altro, che significa anche al posto dell'altro.

È forse per questo,

per il fatto che non si dà un «vero» lutto, che Paul

de Man mette il lutto tra virgolette, quando parla di «true 'mourning'>>.

È

«mo�rning>> ch'egli racchiude tra virgolette e non «vero». Ma lo fa in un te-· sto,

«Anthropomorphism and Trope in the Lyric»2', in cui esordisce citan­

do Nietzsche: « Was ist a/so Wahrheit? Ein bewegliches Heer von Metaphern, Metonymien, Anthropomorphisen»'0• La «verità» del «Vero 'lutto'>> fa an­ ch'essa parte di questa sequenza; essa segue o precede la teoria delle figure e tale retoricità non ha nulla del simulacro consolatorio. Direi addirittura che il lutto assume, in questa sequenza, tutta la gravità del suo significato; 19

JO

Rhetoric o/ Romanlicism, op. cit. , p. 239. «Che cos'è la verità? Un esercito mobile di metafore, metoni.mie, "' tropomorfismi.. Ripreso in The

41

Memorie per Paul de Man

da essa nasce, in essa perdura e vi rimane in tutta la sua pena. Ecco le ulti­ me righe del saggiq inaugurato dalla citazione di Nietzsche, righe che con­ cludono un'analisi comparativa estremamente ricca tra Obsession

e

Co"e­

spondances di Baudelaire: «< termini che designano

un

genere come la 'lirica' (oppure le sue molteplici

sottospecie come l"ode', )"idillio•, o l" elegia'), come anche i termini che desi­ gnano periodi pseudo-storici come 'romanticismo' o 'dassicismo', sono sem· pre termini di resistenza e di nostalgia, nella massima distanza rispetto alla ma­

terialità della storia effettiva. Se

il lutto è chiamato una 'chambre d'éternel

deuil où vibrent de vieux rales' (una camera di lutto eterno in cui vibrano gli antichi rantoli dei moribondi) (Obsession), allora questo pathos del terrore esprime la desiderata coscienza dell'eternità e dell'armonia temporale come voce e come canto. Il vero 'lutto' è meno abusato. Il massimo che esso può fare è di permettere l'incomprensione ed enumerare i modi non-antropomorfici, non-elegiaci, non-celebratori, non-lirici, non-poetici, vale a dire prosaici, o meglio ancora storici del potere del linguaggio»u.

Nella citazione del passo ho sottolineato le parole «resistenza>> e «mate:. rialità della storia». La critica o decostruzione demaniana è sempre anche un• analisi delle , sarà Paul de Man.

È lui che invocheremo (appellerons}, è verso di lui

che rivolgeremo ancora i nostri pensieri.

"

Cfr. J. Derrida, Psychi, Invenlion de l'autre, in Psyché , op. cit. ...

48

L' A RTE DELLE MEMORIE

Ieri, forse ve nè rammenterete, ci siamo fatti una promessa. Ora mi accingo a ricordarla, ma voi già presentirete tutta la pena che ci costerà mettere ordine tra questi molteplici presenti. I presenti passati appartengono alla presenza di una promessa la cui apertura verso il presente a venire non fu quella delrattesa o dell'anticipa­ zione, ma piuttosto quella dell'impegno (engagement) . Ci eravamo promessi-in realtà, ero stato io soltanto a farlo-di invo­ care (appeler) il nome nella sua nudità, un «naked name»: Pau! de Man. Ho detto, concedetemi di citarmi, «il 'naked name' sarà Pau! de Man. È lui che invocheremo, è verso di lui che rivolgeremo ancora i nostri pensie­ ri». Di proposito avevo allora abusato di una lingua, la mia: in francese non è dato discernere se è verso Paul de M an o soltanto verso il suo nome che ri­ volgiamo i nostri pensieri. Era questo soltanto un gioco indecoroso con r ambiguità di una grammatica? Un magico incanto, senza grandi illusioni, per far sl che l'amico morto, ormai unito, confuso con il suo nome nella mia memoria, rispondesse alla sola invocazione (appel) del suo nome? Come se l'impossibilità di distinguere Pau! de Man dal nome «Pau! de Mam> confe­ risse alla semplice nominazione, o meglio ancora all'apostrofe dell'invoca­ zione che fa appello al «the naked name», il potere della resurrezione? Co­ me se ogni nome pronunciato potesse resuscitare la resurrezione: «Lazzaro, alzati!»? Ecco ciò inscenerebbe l'apostrofe al «naked name». Ma ciò che Paul de Man ci dice dell'atto di rivolgersi (adresse), dell'apostrofe, della pro­ sopopea, del suo «spettro tropologico», ci impedisce di cedere alla magia. Non bisogna dimenticare ciò che, nella struttura o nel potere del nome, in 49

Memorie per Pau! dc Man

particolare del nome detto proprio, suscita, invoca o rende possibile una ta­ le magia: non soltanto il desiderio, ma anche l'esperienza dell'allucina­ zione. Ciò che d costringe a pensare, senza poterlo credere, al «true •mour­ ning' », se ve ne è uno, è l'essenza del nome proprio. Ciò che, dal fondo del­ la nostra tristezza, chiamiamo la vita di Paul de Man, corrisponde, nella no­ stra memoria, al momento in cui Pau! de Man, lui in persona, poteva rispon­ dere al nome Pau! de Man e rispondere del nome Paul de Man. Nell'istante della morte il nome proprio resta; possiamo nominarlo, chiamarlo, invocar­ lo, designare attraverso di esso, ma sappiamo, possiamo pensare (tale pensie ro

­

deriva da una memoria, ma non si limita alla semplice memoria) che Pau!

de Man in persona, il portatore del nome e polo unico di tutti questi atti, di tutti questi riferimenti, non risponderà più ad esso, mai più personalmente, se non attraverso quella che, misteriosamente, chiamiamo la nostra memo­ ria. L'ho già detto ieri: se ho scelto di par1arvi di in memoria di Pau! de Man, è senza dubbio per procurarmi la possibilità di trattenermi ancora accanto all'amico, conservare, raccogliere, rallentare o annullare la separazione. Ma è anche perché la «memoria>> è stata, per Paul de Man, un luogo (un topos o un tema, come preferite) di una meditazione originale, continua e, mi sembra, ancora oscura ai suoi lettori. Dal momento che non desideravo trattare di tutta l'opera di Paul de Man, bensl seguirne un solo filo che incrociasse, tanto modestamente, quanto puntualmente, quello del­ la «deconstruction in America», ho pensato che il filo della memoria potes­ se esserci d'orientamento, lungo tale itinerario, in questo labirinto allegori­ co. A meno che il filo di Arianna non sia anche quello delle Parche. Natu­ ralmente, come avrete già capito, «memorie» non rappresenta qui il nome

di un semplice topos, di un tema identificabile; è forse il luogo d' incontro ifoyer) senza identità intoccabile di un enigma, la cui decifrazione è tanto più difficile in quanto non nasconde nulla dietro il puro manifestarsi di una parola, ma gioca con la struttura stessa del linguaggio e di peculiari effetti

di superfice. «Memoria>> è innanzitutto il nome di qualcosa che non vorrei, per ora, definire. Sottolinerei soltanto questo tratto: è il nome di ciò che, per noi (un «noi» che non definirei oltre), conserva un rapporto essenziale e neces­ sario con la possibilità del nome, di ciò che, nel nome, assicura la conserva­ zione. Non la conservazione nel senso che preserva o mantiene la cosa no­ minata: al contrario, abbiamo appena ricordato che la morte rivela tutta la forza del nome nella misura in cui quest'ultimo continua a nominare, a chiamare colui che chiamiamo il portatore del nome e che non può più ri-

50

.

L'arte delle memorie

spendere al suo nome né del suo nome. E questa situazione, poiché rivela la sua possibilità di fronte alla morte, possiamo pensare che non attenda la morte, o che in essa la morte non attenda la morte. Chiamando o nominan­ do qualcuno mentre è vivo, sappiamo che il suo nome gli può sopravvivere e

già gli sopravvive; esso comincia durante la sua vita per poi oltrepassarlo, di­ cendo e portando con sé la sua morte ogni qualvolta è pronunciato nella Do­ minazione o nell'interPella�ione, ogni qualvolta è iscritto in una lista, in uno stato civile o in una firma. E se, alla morte dell'amico, non conservo che la memoria e il nome, la memoria nel nome, se qualcosa dd nome riflui­ sce nella pura memoria perché una certa funzione vi è defunta, defuncta, e perché r altro non è più qui a rispondere; questa mancanza o manchevolez­ za (défaut ou défaillance) dimostra la struttura del nome, ed anche il suo im­ menso potere: esso è innanzitutto è essa stessa un nome, anche se ciò, lo vedre­ te più avanti, non è un dato privo d'interesse. Ma quando diciamo che il nome è «in memoria di», parliamo forse di ogni nome, sia esso nome proprio o comune? E l'espressione «in memoria di» significa forse che il nome è, «nella» nostra memoria, quel preteso pote­ re vivente di ricordare immagini o segni del passato? Oppure il nome è in se stesso, laggiù, fuori, come un segno o un simbolo, un monumento, un epi­ taffio, una stele o una tomba, un memorandum, un promemoria, un me­

mento, un accessorio esteriore detto > o «alla memoria di», potrebbe essere sufficiente citare, se si suppone 51

Memorie per Paul de Man

che si sappia dove comincia e dove termina una citazione. La fedeltà richie­ de di citare nel desiderio di lasciare o rendere la parola all'altro, ma non si deve, non ci si deve accontentare di citare. È con la legge di questa doppia legge che abbiamo a che fare, ed è ancora la doppia legge di Mnemosine, a meno che non sia la legge comune dell� doppia sorgente: Mnemosine/Lete, sorgente della memoria, sorgente dell'oblio. Si dice, e qui sta renigma, che presso l'oracolo di Trofonio, in Beozia, due sorgenti si offrivano a coloro che lo consultavano. Dovevano bere all'una e all'altra, alla sorgente della memoria e alla sorgente dell'oblio. E se Lete incarna l'allegoria dell'oblio, della morte e del sonno, riconoscerete facilmente in Mnemosine il suo al­ tro, una figura della verità, altrimenti detta aletheia. Mi è dunque necessario citare, ma anche interrompere le citazioni. l . Ho scelto la prima delle due citazioni perché pone un certo rapporto tra la memoria e il nome. Paul de Man ha appena richiamato l'opposizione tra Gediichtnis e Erinnerung nell'Enciclopedia di H egei. Gediichtnis è ad un tempo la memoria che pensa (e che preserva in sé, nel suo nome, la memoria di Denken) e la memoria volontaria, la facoltà meccanica della memorizza­ zione: mentre l'Erinnerung è la memoria interiorizzante, il ricordo come raccoglimento interiore e «conservazione dell' esperienza»• . Ciò che innan­ zitutto interessa Paul de Man, e che sottolinea con forza, è questa strana collusione, nella memoria in quanto Gediichtnis, tra il pensiero pensante e la techne più esteriore, l'iscrizione apparentemente più astratta e spaziale: «Tuttavia si tratta ancora di sapere se la manifestai';ione esterna dell'idea, quando si produce nello sviluppo consequenziale del pensiero di Hegel, acca­ de veramente nel modo del ricordo, come una dialettica tra dentro e fuori, su­ scettibile di essere compresa e articolata. Dove, nel sistema hegeliano, si può dire che l'intelletto, la mente o l'idea, lascia una traccia materiale nel mondo e in quale forma questa apparenza sensoriale prende corpo? La risposta s'ispira ad un'allusione fatta nella stessa sezione (par. 458) verso la fine dell'Enciclo­ pedia, nel corso di una discussione intorno alla struttura del segno, dalla quale abbiamo cominciato. Dopo aver stabilito che è necessario distinguere il segno dal simbolo, e dopo aver fatto cenno all'universale tendenn a confonderli, Hegel fa riferimento ad una facoltà della mente che definisce Gedachtnis e che 'nel linguaggio comune (nel senso della contrapposizione a quello filosofico) è spesso confusa con l'interiori�zazione-rammemorante (Erinnerung), cosl come con la rappresentazione e l'immaginazione'»-allo stesso modo che segno e simbolo sono spesso usati intercambiabilmente in quelle forme del linguaggio comune quali il commentario o la critica letteraria [. . .] La memorizzazione de­ ve essere nettamente distinta dal ricordo e dall ' immaginazione. Essa è com-

Paul

de

Man, Sign and Symbol in flegel's Amhetics, art. cit .• 52

p. 7 7 1 .

L'arte delle memorie pletamente priva di immagini (bildlos) e Hegel parla in modo derisorio dei ten­ tativi pedagogici di insegnare ai bambini a leggere e scrivere associando deter­ minate figure a determinate parole. Purtuttavia, essa non è del tutto priva di

materialità . .

.

».

Interrompo la mia citazione per un istante dopo aver sottolineato la pa­ rola «materialità». C ' è un tema della «materialità», invero un'originale for­ ma di materialismo in Paul de Man. Si tratta qui di una «materia» che non risponde alle definizioni filosofiche classiche dei materialismi metafisici, né tantomeno alle rappresentazioni sensibili (l' abbiamo appena constatato) o ulle immagini di una materia colta nell'opposizione tra sensibile e intelligi· bile. La materia, una materia senza presenza e senza sostanz�, è proprio ciò che resiste a queste opposizioni. Abbiamo situato tale resistenza dalla parte del pensiero, nel bel mezzo della sua strana connivenza con la materialità. Avremmo potuto riconosceda ieri, dalla parte della morte e di quell'allusio­ ne al «vero 'lutto'» che distingue la «pseudo-storicità» dalla «materialità della storia effettiva». Malgrado tutte le sue riserve nei confronti dello sto­ ricismo e delle retoriche storiche cieche di fronte alla loro stessa retoricità, Paul de Man si è costantemente confrontato con l'irriducibilità di un certo tipo di storia, quella rispetto alla quale non possiamo fare altro che farci una croce sopra (/aire son deuil, son «Vrai 'deuil'»). Ricordatevi: «i termini che designano un genere come la 'lirica' ( . . .) come anche quelli che designa­ no periodi psuedo-storici come 'romanticismo' o 'classicismo' sono sempre termini di resistenza e di nostalgia, di massima distanza rispetto alla mate­ rialità della storia effettiva». La materia di questa storia effettiva è quindi ciò che resiste alla resistenza storica, storicizzante. E più oltre: «D vero 'lutto' è meno abusato. n massimo che esso può fare è di permettere l'in­ comprensione ed enumerare i modi non-antropomorfici, non-elegiaci, non­ celebrativi, non-lirici, non-poetici, vale a dire prosaici, o meglio ancora stc­

rici, del potere del linguaggio>>. Di una tale materia, più «antica» delle oppo­ sizioni metafisiche nelle quali il più delle volte si iscrivono il concetto di materia e le teorie materialistiche, possiamo dire che è «in memoria» di ciò che precede tali opposizioni. Ma proprio per questa ragione, e lo verifiche­ remo, essa conserva un rapporto essenziale con la finzione, la figuralità, la retoricità. Materia e memoria, ecco il titolo che avrei potuto dare a questa lunga parentesi. Ancora una citazione prima di chiuderla: «Gediichtnis, cer­ tamente, significa memoria nel senso di qualcuno che ha una buona memo­ ria, ma non nel senso che ha un buon ricordo. In tedesco si dice sie o

er hat

ein gutes Gediichtnis, e non eine gute Erinnerung. La parola francese memoria (mémoire), come nel titolo di Bergson Materia e memoria, è più ambivalente; 53

Memorie per P1ul de Man tuttavia esiste una simile distinzione tra memorill e

ricordo (souvenir)2; un

buon ricordo (bon souvenir non è la stessa cosa di una buona memoria (bonne mémoire)». Chiusa questa parentesi riprendo la precedente citazione (si tratta della stessa pagina) per giustificare il titolo che ho scelto per questa conferenza, «L'arte delle memorie», e fare emergere l'incrocio di genitivi o di genealogie tra il nome «memoria» e la memoria del nome. « . Ma essa (la memoria) non è completamente priva di materialit�. Possiamo imparare a memoria soltanto nel momento in cui ci si dimentica di ogni signi­ ficato e le parole suonano come se fossero una semplice lista di nomi 'È ben noto-dice Hegel-che non si impara un testo a memoria [o meccanicamente} se non quando smettiamo di assodare le parole a1 significato; recitando ciò che si è imparato a memoria si lascia necessariamente cadere ogni accentua· zione'». Siamo molto lontani, in questa sezione delrEnciclopedia sulla memoria, dalle icone mnemotecniche descritte da Francis Yates in The Art o/Memory e allo stesso tempo molto vicini al consiglio di Agostino sul come ricordare e sal­ modiare le Scritture. La memoria, è, per Hegel, l'imparare meccanicamente i nomi (il corsivo è di de Man} o le parole intese come nomi ». .

.

.

...

Questa precisazione di de Man mi pare decisiva, poiché sottolinea il fat­ to che non soltanto la memoria funziona meglio quando concerne l'appren­ dimento di liste di nomi, ma anche che tutto ciò che impariamo a memoria, e

tutto ciò che lega stranamente la memoria in quanto Gediichtnis al pensie­

ro, riguarda il nome. ll nome-o ciò che possiamo considerare come tale, ciò che possiede la funzione e la virtù del nome-, questo è il solo oggetto e l'u­ nica possibilità della memoria, e in verità l'unica «Cosa» che essa possa al tempo stesso nominare e pensare. II che significa ancora una volta che ogni nome, ogni funzione nominale, è «in memoria» di-fin dal primo «presen­ te» della sua apparizione, e ultimamente nella memoria virtualmente lut­ tuosa dello stesso essere vivo del suo portatore. Un appello (appe/J chiama sempre (per [par]) il nome, e il nome emerge assieme alla possibilità del ri­ chillmare (rappeler), anche se nessuno è là per rispondere o non vi è nulla da mostrare. Ma una sostituzione di nomi è sempre possibile (metonimia, allu­ sione, ecc.). . ed è per questo che [la memoria, ndt] non può essere separata dalla nota­ zione, dall'iscrizione, o dalla scrittura di tali nomi. [Ricordate quanto diceva­ mo ieri intorno agli Essays upon Epithaphs]. Al fine di ricordare si è obbligati a prendere nota per iscritto di ciò che si rischia di dimenticare. In altre parole, l'idea fa la sua comparsa sensoriale, in Hegel, in quanto iscrizione materiale «.

2

.

Ibid. , p. 772.

54

L'arte delle memorie dei nomi.

n pensiero dipende interamente da una facolt� mentale che è in

ogni senso meccanica, distante il più possibile dai suoni e dalle immagini del­ l' immaginazione o dall'oscura fonte dei ricordo celata al di l� della portata del­ le parole e del pensiero. La sintesi tra nome e significato che caratterizza la memoria è un 'nesso vuo­ to'

(d4s /eere Band) e, di conseguenza, essa è assolutamente diversa dalla mu·

tua complementarità e dall' interpenetrazione di forma e contenuto che carat­ terizza l'arte simbolica»'.

2 . La seconda citazione non riguarda direttamente, nello stesso testo, la memoria del nome ma, potremmo dir cosl e questo rientra nello stesso ordi­ ne di problemi, l'oblio del pronome, e più precisamente della prima persona pronominale, l'Io. Questa cancellazione dell'Io in una sorta di oblio funzio­ nale ed a priori, potreste metterla in rapporto con quanto si affermava ieri a proposito dell'Autobiography as De-facement. Ma bisognerebbe che d ricor­ dassimo anche delle conseguenze che, tra molte altre, una tale cancellazione dell'Io produce nell'ambito della teoria classica del performativo. D perfor­ mativo «esplicito» sembra supporre un assoluto privilegio dell'enunciazione



in prima persona singolare (con un verbo al presente nel «modo attivo»). Tale privilegio dell'Io può estendersi talvolta persino ai performativi detti «primari» (piuttosto che espliciti)4 • Ecco ora la conclusione di Paul de Man a seguito dell'analisi della celebre «odd sentence» hegeliana >. Non si riusci­ rà a comprendere tutto, ma certamente non si comprenderebbe nulla se non si tentasse di decifrare ciò che è stato firmato dall'idioma demaniano, oyve­ ro la singolarità della sua impronta. Se l'arte è una cosa del passato, ciò dipenderebbe dal suo legame, attra­ verso la scrittura, il segno, la techne, a questa memoria pensante, a questa memoria senza memoria, a questo potere di Gedà'chtnis senza Erinnerung; potere, come ora sappiamo, preoccupato da un passato che non è mai stato presente e che non si lascerà mai rianimare nell'interiorità di una coscienza. Siamo qui prossimi ad una memoria pensante (Gedà'chtnis) il cui movi­ mento sarebbe portatore di un'affermazione essenziale, di una sorta di im­

pegno al di là della negatività, che è come dire anche al di là della memoria luttuosa, dell'introiezione simbolica (Erinnerung): memoria di un pensiero fedele, riaffermazione dell'impegno, ma memoria che ha fatto una croce so­ pra

(a fait son deuil) alla dialettica. E la dialettica è il lutto stesso. Di conse­

guenza, memoria senza lutto, e fedeltà di un'affermazione che non si po­ trebbe dire «anamnestica» se non in rapporto all'appropriazione simbolica e al ricordo interiore.

È necessario pensare ad un tempo le due sorgenti: Mne­

mosine e Lete. Potete tradurre, se lo credete opportuno: è necessario salva­ guardare nella memoria la differenza tra Lete e Mnemosine che potete so­ prannominare aletheia. Ieri mi domandavo: dove cercare, come situare que­ sto tipo di pensiero affermativo al quale sono sempre stato sensibile al di là dei movimenti più critici e più «ironici» di Paul de Man? Ci troviamo qui nei suoi paraggi. La fedeltà più affermativa, il suo atto di memoria più sollecito non si impegna forse nei pressi di un passato assoluto, irriducibile ad alcuna forma della presenza: l'esser morto, che non tornerà mai più in quanto tale, che non sarà mai più qui, presente per rispondere a questa fede o per condivi­ derla? Alcuni ne concluderebbero subito che Narciso fa cosl ritorno, ritor­ no su se stesso, all 'interno dell'economia dell'interiorizzazione, dei lutto e della dialettica, nella fedeltà a sé. Certo, è vero, ma che dire di questa verità se il se stesso non ha quel rapporto con sé se non a partire dali' altro, a partire dalla promessa {per l'avvenire, traccia d'avvenire) fatta all' altro in quanto passato assoluto, a partire da questo passato assoluto, grazie all'altro la cui soprav-vivenza, ovvero il suo esser-mortale avrà sempre ecceduto il «noi» di un presente comune? Nell'istante presente, il «presente vivente» che riuni­ sce due amici-è r amicizia-, questa incredibile scena della memoria si

63

Memorie per Paul de Man scrive al passato assoluto, essa detta la follia di una fedeltà amnesica, di un'immemore ipermnesia, la più grave e Ja più leggera. Tra le due sorgenti succitate, Mnemosine e Lete, qual è quella più pro­ pria a Narciso? L•altra. V arte è una cosa del passato perché la sua memoria è senza memoria; questo passato, fin dall'insorgere dell'opera, questo passato non può essere

ritrovato poiché la sua Erinnerung ne è rifiutata. Tutta la dimostrazione del saggio tende verso questa conclusione: non vi è passaggio dialettico dal sim­ bolo al segno. L'arte è, come il pensiero o la memoria pensante, legata al se­ gno e non al simbolo, e dunque ha a che fare solo con il passato assoluto, va­ le a dire con rimmemoriale o l 'immemorabile, con un archivio che nessuna memoria interiorizzante potrà mai assumere su di sé:

«Nella misura in cui il paradigma è per Parte il pensiero piuttosto che la perce­ zione, il segno piuttosto che il simbolo, la scrittura piuttosto che la pittura o la musica, sarà parimenti la memorizzazione (memorization) piuttosto che il ri­ cordo (recollection). In questa accezione, esso appartiene decisamente ad un passato che, secondo le parole di Proust, non potrà mai essere ritrovato. L'arte è 'una cosa del passato' in un senso radicale; simile in questo alla memorizza­ zione, essa si lascia per sempre alle spalle l'interiorizzazione dell'esperienza»14• La frase successiva allude ancora una volta a quella materialità che po­

e anzi avevo sottolineato in quanto non «metafisica» né «dialettizzabile»:

«È una cosa del passato nella misura in cui iscrive materialmente, e cosl sem­ pre dimentica il suo contenuto ideale». Va da sé-e quindi non mi ci soffermerò-che questa interpretazione della lettera hegeliana, della sua iscrizione materiale, è un'interpretazione

pensante. Essa è senza dubbio arrischiata. È facile

discernere a partire da

quale lettura o teoria della lettura hegeliana le si potrebbe opporre un'altra interpretazione.

È ciò che si fece11 e che potrebbe ancora essere fatto in al­

tro modo. Tuttavia) quello che qui mi interessa è di sottolineare ciò che tale interpretazione pensante sposta all'interno dell'assiomatica filosofica clas­ sica, della teoria normativa della lettura (quella di Hegel in particolare) e che è presupposto sia dalle istituzioni filosofiche che dalle istituzioni lette­ rarie, ma anche dai dibattiti accademici che, talvolta) le si oppongono. Paul de Man ne dà dimostrazione nella sua «Reply to Raymond Geuss»; vi ri­ mando a quelle poche pagine. Esse ci dicono di più sulle istituzioni e sulle strategie della lettura, sulle loro implicazioni e sui rispettivi effetti politici, sulla loro sonnolenza ed amnesia, di quanto non facciano le molte cantilene 14

u

Paul de Man, Sign and Simbol in Hegei's Aesthetics, art. cit., p. 773.

Cfr. Raymond Geuss, A mponse lo Paul tk Man, «Criticai lnquiry», lO dicembre 1983.

64

L'arte delle memorie

pietistiche o i frammenti di bravura rivoluzionaria che mirano allo stesso scopo. Ecco soltanto qualche riga di questa risposta, onde avvicinarci alla questione della strategia «decostruttrice»: «Il suggerimento avanzato da una lettura quale è quella che propongo consiste nel fatto che le difficoltà e le discontinuità (piuttosto che le 'esitazioni', ter­ mine di Geuss e non mio), persistono anche in un capolavoro tanto intenso co· me l'Estetica. Tali difficoltà hanno lasciato una traccia o addirittura dato for­ ma alla storia della comprensione di Hegel sino ad oggi. Esse non possono es· sere risolte dal sistema canonico, esplicitamente stabilito da Hegel stesso, ov· verosia dalla dialettica. Ecco la ragione per cui queste difficoltà sono sempre state usate per introdurre all'esame critico della dialettica in quanto tale. Per rendersene conto è indispensabile prestare ascolto non solo a ciò che Hegei as­ 'Serisce apertamente, ufficialmente, letteralmente e canonicamente, ma anche a

ciò che viene detto in modo obliquo, figurato ed implicito {anche se in modo

non meno stringente) nelle zone meno in vista del corpus. Questo modo di leggere non è velleitario; esso ha i suoi requisiti di rigore, forse persino più esi­ genti di quelli propri al metodo canonico»16•

Una tale strategia ha quindi portato a riconoscere e trattare nell'Estetica di Hegel lo strano corpo di un testo la cui unità o omogeneità non è assicu­ rata dall'univocità rassicurante di un voler-dire: testo «doppio e forse dupli­ ce» «double and possibly duplicitous text» che ouol dire