Medio Oriente_ la Terra Proibita. In moto dalla Turchia all'Egitto attraverso Israele 9788897336112

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Medio Oriente_ la Terra Proibita. In moto dalla Turchia all'Egitto attraverso Israele
 9788897336112

Table of contents :
1. Il senso di un viaggio
2. La preparazione
3. Ad Aqaba!
4. Egitto
5. Giordania
6. Israele e Territori Palestinesi
7. Siria e Libano
8. Turchia
9. Rientro a casa
10. Conclusioni
11. Consigli utili
12. Tabelle
Tabella di marcia
Riepilogo e consumi di benzina
Pernottamenti: punti gps
Valute locali
Spese
Cartine e guide
SMS quotidiani
13. Foto e cartina

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Indice 1. Il senso di un viaggio 2. La preparazione 3. Ad Aqaba! 4. Egitto 5. Giordania 6. Israele e Territori Palestinesi 7. Siria e Libano 8. Turchia 9. Rientro a casa 10. Conclusioni 11. Consigli utili 12. Tabelle Tabella di marcia Riepilogo e consumi di benzina Pernottamenti: punti gps Valute locali Spese Cartine e guide SMS quotidiani 13. Foto e cartina

orizzonti -2-

Marcello Anglana

Medio Oriente: la Terra Proibita In moto dalla Turchia all’Egitto, attraverso Israele

© 2010 Marcello Anglana - www.gold-wing.it Edizioni Antilia sas - www.edizioniantilia.it ISBN: Versione digitale 9788897336112

Foto in copertina: Wadi Rum (Giordania); moto e tenda nel deserto

Marcello Anglana, nato nel 1963, guida la sua Honda Gold Wing 1500 da 12 anni e 650.000 km. Sposato, una figlia, funzionario dell'Agenzia delle Entrate, interpreta il viaggio in moto soprattutto come movimento e scoperta. Viaggia normalmente da solo e... non si ferma quasi mai. Ha percorso con questa moto le strade di 60 Stati, in tre continenti, dall'Islanda alla Mongolia, dalla Norvegia all'Egitto. Ha pubblicato nel 2008 La meta è la strada (www.boopen.it) e nel 2010 Fino in Mongolia! (Edizioni Antilia sas). I suoi viaggi sono illustrati sul suo sito: www.gold-wing.it .

Prefazione Niente può fermare un motociclista in viaggio. Lo accompagna perennemente il desiderio di libertà, di conoscenza, di avventura, portandolo a straordinarie esperienze di vita e di moto. È il caso del protagonista di questo libro. Instancabile e determinato motociclista che non conosce orizzonti. Dal grande Nord, ai paesi dell’Est, dall’Asia al Mediterraneo, ovunque ci sia una possibile strada da percorrere, lui e la sua inseparabile Honda Gold Wing del ’98, con oltre seicentomila chilometri all’attivo, riescono a lasciare una traccia. Solitario e motivato, con una grande forza di volontà, Marcello Anglana arriva a compiere imprese che difficilmente si possono comprendere, se non si condivide l’autentica passione che le motiva. Il senso del viaggio può essere ricercato in un evento anche casuale: un sogno, una località leggendaria, oppure il nome di una meta che batte nella mente del protagonista come un mantra. Quello che per molti rimane un desiderio recondito, un progetto forse fattibile, un sogno realizzabile un giorno, per Marcello diventa un “impegno” da rispettare. Primo con se stesso. Ed ecco che con la capacità organizzativa che solo pochi motociclisti sono in grado di rispettare, inizia la preparazione del percorso, il compimento dell’atto finale: una meta, la strada, il viaggio. Un impiego normale nella vita di tutti i giorni non è riuscito a fiaccare una forza fisica e mentale straordinaria, che consente al nostro protagonista di realizzare avventure incredibili, permettendogli di superare distanze chilometriche a volte enormi, sia pure nell’agiatezza di una moto confortevole. Cosa induce un uomo dalla vita comune, con una famiglia felice e accondiscendente, a compiere esperienze in moto e in solitaria per il mondo? È complesso spiegarlo se non si conosce in profondità il variegato mondo dei viaggiatori motociclisti, illoro entusiasmo e la loro determinazione. Così, per celebrare questa sua recente avventura in Medio Oriente, occorre scorrere le pagine di un libro. Tante sono le cose da

raccontare, i fatti, gli aneddoti, le emozioni trascorse e le miriadi di informazioni da trasferire a tutti gli appassionati giramondo. Questo è un viaggio iniziato molto tempo prima di essere compiuto. Fatto di preparazione, di notti passate consultando le carte, di ricerca di informazioni, di visti, di timbri, di corrispondenze. Alla fine l’impegno è sfociato nell’atto conclusivo con la decisione irrevocabile: raggiungere la meta. Il motto di Marcello – “la meta è la strada” – è infatti una conferma del suo credo. La destinazione raccontata in questo libro parla appunto delle strade di Egitto, Giordania, Israele e i Territori Palestinesi, Siria, Libano… Ma sono certo che ancora molti altri luoghi dovranno assistere al passaggio delle ruote di questa Gold Wing e del suo temerario pilota in continuo movimento per il mondo. TIZIANO CANTATORE direttore della rivista Mototurismo

A mia madre, che mi ha sempre seguito in tutti i miei viaggi; dai giri in bici da ragazzo, a quelli in moto da adulto.

1. Il senso di un viaggio Ci sono dei viaggi che nascono per caso; viaggi però che, dopo questa nascita casuale, assumono un senso, una motivazione profonda; quasi inattesa. Questo è uno di quelli. L’anno scorso (2009) ho compiuto un viaggio impegnativo, dall’Italia alla Mongolia e ritorno (vedi libro Fino in Mongolia! 25.000 km in moto attraverso la Via della Seta e la Siberia, stesso editore, 2010), e per il prossimo anno ho programmato il giro del mondo, sempre in moto, ovviamente. Quest’anno, quindi, era destinato ad una pausa, o meglio, un anno tranquillo, col solito viaggio estivo di medio raggio (10.000 km in 15 giorni), probabilmente l’Irlanda, che è l’unico Stato europeo da me ancora non raggiunto in moto. Ma, tornato dalla Mongolia, comincio a riflettere sul fatto che, eredità di quel viaggio, ho ancora il Carnet di Passaggio in Dogana (fatto per poter entrare con la moto in Iran), valido per un anno, cioè fino al 20 marzo 2010; mi dispiace quindi sfruttare questo documento per un solo viaggio e penso che sarebbe meglio utilizzarlo anche quest’anno, per altri Stati. Con una rapida ricerca, trovo alcuni Stati che lo richiedono: Libia, Egitto, Giordania e Siria. Per essere precisi, per alcuni di questi Stati se ne potrebbe fare a meno, presentando altri documenti o pagando una tassa supplementare, comunque certo per l’Egitto è indispensabile. Unendo con una linea tali Stati, il viaggio è pronto: arriverò in Libia (traghetto dalla Sicilia e poi attraverso la Tunisia), continuerò lungo la costa fino all’Egitto, da qui Israele, Giordania, Siria, Libano, Turchia, Balcani e casa. Fisso la partenza al 1° marzo, in modo da uscire dalla Siria entro il periodo di validità del Carnet; tanto la stagione è buona per un viaggio in quelle zone, dove (a sud) presumibilmente farà già caldo. Avrò con me, come al solito, la tenda, che prevedo di utilizzare almeno in alcune occasioni. La moto, ovviamente, è la mia inseparabile Honda Gold Wing 1500 del 1998, con 616.500 km alla partenza. Come mio solito, sarò solo e senza assistenza. Guardando la carta, mi rendo conto che il “viaggetto” per l’anno di transizione tra il viaggio in Mongolia e il giro del mondo si è trasformato in un giro impegnativo; già, non è un

viaggio semplice, soprattutto per come intendo realizzarlo io, e le difficoltà cominciano subito a manifestarsi. Il primo problema è la Libia. La Libia non è uno Stato “normale”; non solo serve il visto per entrarci (a questo ormai sono abituato), non solo questo visto si può ottenere soltanto tramite agenzie libiche, ma non è consentito viaggiare in Libia da soli: è necessario, infatti, affidarsi a un’agenzia locale che procurerà una “guida”, la quale dovrà obbligatoriamente seguirmi per tutta la durata della mia permanenza in Libia. Guida ovviamente che dovrò pagare io. Ma non è finita qui; a conferma che la Libia non è un paese “normale”, quando ho superato le difficoltà per ottenere il visto e procurarmi la guida necessaria, la Libia (appena 15 giorni prima della mia partenza) blocca i visti per tutti i cittadini europei dell‘area Schengen (anche quelli già concessi) e mi ritrovo quindi a non poter raggiungere l’Egitto come programmato. Aspetto un po’, ma ormai la data della partenza è vicina ed elaboro quindi un itinerario alternativo. Raggiungerò l’Egitto non da ovest (Libia), ma da est (Giordania): scenderò rapidamente (1 settimana) dalla Turchia, Siria, Giordania fino in Egitto e poi tornerò indietro, come programmato, attraverso questi Stati (15 giorni), oltre a Israele e Libano. 12.000 km in 22 giorni, 12 Stati, 24 confini. Sono un po’ seccato dal contrattempo, ma questo inconveniente aumenta la mia determinazione a compiere il viaggio. Anzi, anche questo imprevisto sento che sta dando un senso ancora maggiore al viaggio, che, così come ormai sta prendendo forma, assume davvero l’aspetto di un viaggio attraverso la “Terra Proibita”. Indipendentemente dal problema Libia, infatti, nel percorso dall’Egitto alla Turchia io voglio passare da tutti gli Stati che incontrerò lungo la mia strada, anche da Israele. Ed è proprio Israele il problema più grosso del viaggio; o meglio, il problema è la Siria. I due Stati, infatti, sono formalmente ancora in guerra (tra di loro c’è solo un cessate il fuoco), oltreal fatto che la Siria (come altri Stati arabi) non riconosce Israele. Questa “negazione di Israele” da parte della Siria giunge al punto che, se sul passaporto del viaggiatore che cerca di entrare in Siria

c’è traccia di un passaggio in Israele, la Siria non lo accetta nel proprio territorio e quindi lo respinge alla frontiera! D’altra parte, dalla Siria devo per forza passare, poiché non corro certo il rischio di aggirarla passando per l’Irak e la sua pericolosa capitale Baghdad, unica alternativa via terra, poiché anche tornare indietro dalla Libia è impossibile, sia per il fatto dei visti bloccati in questo periodo, sia perché anche la Libia ha lo stesso atteggiamento riguardo Israele (comunque anche l’Irak non accetta chi è stato in Israele). Traghetti verso l’Europa da Israele (o dall’Egitto) non ce ne sono, quindi dovrò trovare una soluzione. Ecco quindi il perché di un tale titolo al mio viaggio: la “Terra Proibita”. Proibita perché l’ostinazione e l’odio di alcuni ancora non accettano l’esistenza di uno Stato in questa regione, arrivando all’assurdo di non permettere a nessuno che vi sia transitato l’accesso al proprio territorio. Proibita anche perché l’ultima “stranezza” di uno Stato come la Libia mi ha impedito di passare dal suo territorio, costringendomi ad un giro più lungo per arrivare in Egitto. Ma certi divieti io non li accetto; con la moto, simbolo di libertà, voglio aggirare tali proibizioni e, pur consapevole del rischio, è questo che cercherò di fare. Questo è il senso del mio viaggio. A parte questo, ovviamente, è una regione molto interessante da visitare (le piramidi, Petra, la Terra Santa,…); una regione sede di antiche civiltà (basti pensare all’Egitto); ricca di storia e di bellezze naturali; crocevia di popoli e attraversata (tutt’ora) da conflitti. Ma in questo momento sono soprattutto i divieti al centro dei miei pensieri. Divieti da violare.

2. La preparazione Potrei dire che la preparazione di questo viaggio è stata lunga, complessa, accurata e minuziosa, ma non sarebbe vero. Non del tutto almeno. Questa volta, infatti, il tempo è poco. Come ho scritto nel paragrafo precedente, l’idea del viaggio è maturata ben dopo il mio rientro in Italia dal viaggio precedente (in Mongolia), terminato nel luglio 2009. I problemi riguardanti la concessione del visto libico, inoltre, hanno complicato ulteriormente la preparazione, al punto che, fino a due giorni prima di partire, non so se mi dirigerò a sud o a nord. In questo viaggio mi sembra quasi di partire sull’onda di quello precedente, talmente lungo e impegnativo da darmi la sensazione che, dopo, quasi ogni viaggio risulterà più semplice e agevole. Ma non è così e, comunque, è bene preparare al meglio ogni viaggio, tanto più che questo, me ne rendo presto conto, agevole e semplice non è. Prima ipotesi: passaggio dalla Libia Il primo problema che affronto è quello della Libia. Come accennato prima, sembra che il visto lo si possa ottenere solo attraverso un’agenzia libica. La cosa mi secca un po’; non capisco perché non possa rivolgermi, come per tutti gli altri Stati, alla rappresentanza diplomatica di quello Stato in Italia. Sembra però anche che, per chi viaggia da solo e si limita a percorrere la strada costiera, si possa fare a meno della guida e quindi si possa ottenere il visto senza rivolgersi ad un’agenzia libica. Provo quindi a chiedere, tramite un’agenzia italiana, all’ambasciata libica in Italia. I libici mi tengono in attesa per settimane; mi chiedono varie notizie e documenti (timbro bilingue, professione, estratto del conto in banca…), per poi comunicarmi, senza alcuna spiegazione, che il visto lo può rilasciare solo un’agenzia libica! Ma che razza di modo di comportarsi! Ditemelo subito che non potete darmi il visto! Perché farmi perdere tanto tempo, quando poi almeno voi dovreste sapere, subito, se il visto me lo potete concedere o no?! Un comportamento davvero indisponente!

Mi rivolgo quindi ad un’agenzia libica; il tempo non è molto, ma, dopo un fitto scambio di e-mail, sembra che sia tutto a posto e l’agenzia sta per farmi avere il visto, oltre ad avermi trovato l’obbligatoria guida (130 euro al giorno!). A proposito della guida, poiché la devo pagare un tot al giorno, avviso che nel viaggio il ritmo lo decido io e quindi attraverserò la Libia velocemente, al massimo in 4 giorni: a questo punto per me la Libia è poco più che un passaggio obbligato; non perdo molto tempo a visitarla, almeno fino a che non cambierà politica verso gli stranieri! Ma l’imprevisto è in agguato! Proprio il giorno in cui sto per effettuare il bonifico per il visto (14.2.2010), la Libia blocca i visti per i cittadini europei dell’area Schengen (anche quelli già concessi). E adesso come ci arrivo in Egitto?! Mancano appena 15 giorni alla partenza (1° marzo), data che, per una serie di ragioni, non posso modificare (scadenza del Carnet, prossimità della Pasqua, cristiana ed ebraica, che renderebbe problematica la visita in “Terra Santa”, avvicinarsi della stagione calda che sconsiglia viaggi in quelle zone); cosa posso fare? Inizia un fitto scambio di messaggi col mio corrispondente libico; anche loro sono rimasti molto sorpresi da questa decisione; oltre al fatto che, per le agenzie libiche, è una questione di lavoro estremamente importante; questo divieto, infatti, toglie loro la maggior parte dei possibili clienti. Non mi resta che aspettare, sperando che la situazione si sblocchi. Per chi non ricorda le motivazioni di questo blocco, le riassumo brevemente. Tutto è iniziato con il fermo (per poche ore) di un figlio del colonnello Gheddafi in Svizzera, accusato da un suo domestico di averlo picchiato; questo figlio di Gheddafi, tra l’altro, non è nuovo a simili accuse di violenza. Si è trattato comunque di un normale interrogatorio che in un paese civile non avrebbe certo creato problemi. Ma la Libia è un paese “di verso” e quindi, al rientro in patria, Gheddafi padre ha cominciato le sue ritorsioni contro la Svizzera. La quale, da parte sua, non è stata certo a guardare e ha stilato una “lista nera” di oltre 100 cittadini libici “non graditi” (tra i quali lo stesso Gheddafi padre), ai quali è quindi impedito l’accesso al suo territorio. Il problema è che, essendo la Svizzera parte dell’area Schengen (area di libera circolazione delle persone in

Europa, pur non facendo parte dell’Unione Europea), tale lista di indesiderati si applica automaticament a tutta tale area. Per questo motivo, quando la Libia ha deciso per ritorsione contro questa decisione svizzera il blocco dei visti, lo ha esteso a tutti i cittadini dell’area Schengen. Stendo un velo pietoso sulle reazioni dell’Italia (guardo sbigottito la replica del nostro governo che, invece di protestare energicamente contro la Libia, se la prende con la Svizzera) e non mi resta che aspettare, sperando che la situazione si sblocchi presto. Non posso però fare a meno di notare l’anomalia di uno Stato che, per fatti meramente privati (il figlio del “capo” Gheddafi), attua ritorsioni immotivate, senza alcun preavviso, contro tanti Stati; ritorsioni che inoltre colpiscono anche le persone già in possesso di regolare visto (ci sono state decine di stranieri respinti alla frontiera, col visto già ottenuto!). Il tempo passa e, nonostante le rassicuranti dichiarazioni del nostro Ministro degli Esteri (che tranquillamente consiglia di rinviare i viaggi in Libia, in attesa di una celere soluzione; come se tutti potessero scegliere quando andarci!), non accade nulla di concreto e il blocco resta in vigore. L’agenzia, da parte sua, non ha novità significative da comunicarmi, tranne il fatto che (mi assicura), in caso di revoca del divieto, è in grado di farmi avere il visto in 24 ore. Non posso più aspettare: il 1° marzo è vicino, gli altri visti ormai li ho ottenuti, la preparazione del viaggio è completa, devo partire. Sono arrivato al giorno prima della partenza e ancora non so se domani partirò verso sud o verso nord! Oggi, 28 febbraio, ancora non ci sono novità dalla Libia. Decido: attuo il “piano B”, preparato in questi ultimi giorni. Il piano B “Buscar el levante por el ponente”. Mi torna in mente questa frase di Cristoforo Colombo mentre decido il nuovo itinerario: arriverò in Egitto (posto a sud) non dirigendo (come la logica, ma non la politica, vuole) verso sud (attraverso Sicilia e Tunisia, come inizialmente programmato), ma verso nord.Infatti domattina partirò

verso Trieste, da lì entrerò nei Balcani e quindi, attraverso Turchia, Siria e Giordania, arriverò in Egitto. 1.500 km in più, ma stimo di compiere il viaggio nello stesso tempo (22 giorni), poiché ho deciso che arriverò ad Aqaba (Giordania, di fronte all’Egitto) in 5 giorni. Una settimana quindi in totale fino all’Egitto (i 5 giorni fino ad Aqaba più 2 in quello Stato) e poi 15 giorni per tornare indietro (con più tempo per visitare i paesi attraversati), attraverso gli stessi Stati, oltre a Israele (e Territori Palestinesi) e Libano. 12.000 km in 22 giorni, 12 Stati, 24 confini. Alla faccia della Libia! Carte stradali e guide Mi procuro le carte stradali e le guide di tutti i paesi attraversati, dalla solita libreria specializzata italiana. Cartografia elettronica dettagliata non ce n’è per quei posti; mi basterà il World Map, installato sul mio gps in occasione del viaggio in Mongolia; non è aggiornato, ma è più che sufficiente per il viaggio. Inoltre la cartografia elettronica europea che uso normalmente copre (senza dettaglio) anche la maggior parte di quell’area. Visti Tranne il caso “complesso” della Libia, me li procuro senza problemi richiedendoli, tramite un’agenzia di Roma, alle rispettive rappresentanze diplomatiche in Italia: Siria e Giordania. Quelli relativi a Egitto e Libano li otterrò direttamente in frontiera (così consigliato dall’agenzia). Carnet di Passaggio in Dogana Stavolta questo documento non mi fa impazzire; già ottenuto in occasione del precedente viaggio, vale un anno (nel mio caso fino al 20 marzo); devo quindi solo stare attento ad uscire dalla Siria entro quella data. Per sicurezza chiedo all’ACI se devo fare qualcosa, come mostrare loro le ricevute compilate dei precedenti viaggi: mi rispondono che non devo fare nulla e posso liberamente usare il documento fino alla data di scadenza. Preparazione della moto

La moto è stata rimessa a posto, alcuni mesi fa, dopo l’impegnativo viaggio in Mongolia. Effettuo la solita ordinaria manutenzione, sostituendo tutto quello che sembra usurato. Per questo viaggio prevedo circa 12.000 km; posso quindi farlo senza cambi d’olio intermedi (sia pure allungando un po’ il mio solito intervallo, che è di 10.000 km). Mi porto solo mezzo kg d’olio, per i prevedibili rabbocchi (il motore di strada ne ha fatta tanta, ormai, e, in base alla mia esperienza, sarà questo il consumo durante il viaggio). Per le gomme non ci dovrebbero essere problemi: le cambio normalmente ogni 20.000 km, quindi ho un ampio margine di sicurezza. Mi porto i miei soliti due kit di riparazione gomme e due bombolette per le forature. Memore dell’esperienza della Mongolia (da dove sono tornato solo perché avevo con me una camera d’aria, con la quale, inserita nella mia gomma tubeless, ho rimediato all’ammaccatura del cerchione anteriore), mi porto le camere d’aria della misura delle mie gomme. Anche in questo viaggio, infatti, sia pure in misura inferiore rispetto al precedente, non troverò sempre buone strade. Pezzi di ricambio La Gold Wing è una moto robusta, ma pesante; affidabile, ma complessa da riparare; comoda, ma difficile da gestire su sterrati e strade sconnesse. Ma, come ho scritto all’inizio, è la mia moto e con questa io viaggio, sempre. La lista dei pezzi di ricambio è forzatamente corta, anche perché, se dovesse essere completa, sarebbe esageratamente lunga. Oltre al problema che, anche avendo il pezzo, non è detto che si trovi chi lo sappia montare. Un filtro dell’olio. Non per usarlo, ma perché, dopo che mi è successo (una sola volta, in Kosovo) di rompere il filtro scendendo da un marciapiede ed avere rischiato per questo motivo di restare senza olio (oltre a non aver trovato un filtro Honda ed essermi dovuto adattare con… non so cosa), non voglio rischiare di nuovo. Se dovesse rompersi, avrò il ricambio (uno dei pochi che sono in grado di sostituire da solo, tra l’altro).

Un filtro della benzina (quella che troverò sarà di dubbia qualità). Dei kit per riparare le gomme ho già detto. La cassetta degli attrezzi della moto è già abbastanza completa, quindi non mi serve altro. Assistenza stradale Dopo l’esperienza dello scorso anno (inutile attesa per ore),ho capito che, se mi succede qualcosa in certi posti, devo cavarmelada solo (o con i mezzi locali); inoltre nessuno (che io sappia)fornisce servizi di assistenza stradale in tutto il mondo permoto con più di 8 anni (la mia ne ha 12). Ho comunque l’assistenzastradale inclusa nella mia tessera FMI (per quel che vale;non ci conto molto, fuori Europa). Foto e filmati Porterò la mia solita compatta digitale; non mi va di usare reflex o altro tipo di fotocamere. Mi trovo bene con la mia compatta, anche se le prestazioni non sono il massimo; ma ritengo che, in questi casi, la foto peggiore sia quella non fatta e, con questo tipo di fotocamera, posso scattare anche in movimento, infilarla nel taschino, tenerla appesa al collo per 12.000 km senza provare fastidio. La praticità è per me la cosa più importante in queste circostanze; e poi, comunque, fa ottime foto. D’altra parte, usata in questo modo, è molto esposta alla polvere, tanto che, quando scatta il flash, ormai “fuma”; mi porto quindi una fotocamera di scorta. Riguardo alla videocamera, in occasione di questo viaggio decido di cambiare sistema. Per anni ho usato una custodia stagna sulla moto, sotto lo specchietto sinistro; piuttosto ingombrante (anche se non fastidiosa), protegge la videocamera dall’acqua e soprattutto dalla polvere, che altrimenti, in viaggi lunghi, la renderebbe inutilizzabile in breve tempo; la videocamera è una semplice a cassette minidv. Questa videocamera, però, per quanto si sia dimostrata robusta e affidabile (ho registrato oltre 130 cassette da un’ora), è ormai arrivata alla fine della sua onorevole carriera. Inoltre ormai la tecnologia mette a disposizione videocamere più compatte e leggere, che registrano direttamente su scheda (preferibili nel mio caso a quelle su disco o su dvd, a causa delle vibrazioni di un

viaggio in moto). Ritengo quindi arrivato il momento di pensionarla e ne acquisto una nuova, ad alta definizione. Userò però questa videocamera solo per riprese “a mano”, non dalla moto (non almeno in movimento); per le riprese dalla moto decido di cambiare sistema e utilizzare una telecamera da casco, in modo da avere un punto di ripresa migliore, più elevato e più “coinvolgente” (inquadra anche una parte della moto e del pilota), oltre che modificabile (riprendo infatti quello che osservo, mentre il precedente sistema era fisso). Questa telecamera non è ad alta definizione (ma di qualità comunque sufficiente), ma ha un utile telecomando senza fili, purtroppo progettato davvero male (non presenta infatti alcun riscontro dell’avvio e dello stop della registrazione, né permette di verificare che la telecamera sia accesa); meglio che niente, comunque, visto che il mercato non offre nessun altro modello dotato di telecomando senza fili. Denaro In Europa uso spesso le carte di credito; sono comode, permettono di portare con sé (e maneggiare) meno contante, risolvono il problema del cambio dove ancora non si usa l’euro. Ma fuori Europa non sempre sono accettate, a cominciare dai distributori di benzina, che sono la “fonte di spesa” più frequente per chi viaggia in moto. Porto con me quindi un quantitativo sufficiente di contante, ben nascosto e separato; anche dollari, questi ultimi più “spendibili” fuori Europa. Cerco di procurarmi un numero adeguato di biglietti di piccolo taglio: in certi casi, infatti, il resto non è scontato, soprattutto nell’ipotesi di “mance”. Pernottamenti Ovviamente non prenoto nulla. In Europa normalmente dormo in tenda; in questo viaggio motivi logistici (campeggi organizzati quasi inesistenti) e di costo (certi alberghi costano meno di un campeggio in Italia) mi inducono a prevedere di dormire quasi sempre in albergo o simili. Prevedo di campeggiare solo nel deserto, dove un tetto di stelle vale più di qualsiasi stella d’albergo. Uso sempre (con soddisfazione) lo stesso modello di tenda, da molti anni ormai (comodo il suo sistema di montaggio/ smontaggio rapido ad ombrello). Da chiusa è un po’ ingombrante, ma la sistemo sulla sella

posteriore in modo che non dia fastidio. Porto anche il mio fornelletto ad alcol e alcune bustine di cibi pronti disidratati, in modo da essere autonomo per qualche giorno. Sicurezza e comunicazioni Niente armi; considero portare armi in viaggio un pericolo e fonte di problemi più di quelli che possono risolvere: come spiegare a un doganiere di un remoto confine che quel coltello (o peggio, pistola) serve solo per difesa personale? Oltre al fatto che, se qualcuno mi affronta con un’arma, sarà probabilmente più bravo di me ad usarla, perché quello è il suo “mestiere”. In caso di aggressione, la miglior difesa è la fuga, se possibile. Altrimenti mi difenderò con quello che ho a disposizione: sulla moto ho di che spaccare la testa a un aggressore, senza bisogno di altro. Per sicurezza intendo anche la possibilità di comunicare, che ritengo importante, soprattutto in un viaggio in solitario. In questo viaggio dovrebbe esserci adeguata copertura telefonica nella maggior parte delle zone attraversate, anche se in alcuni Stati (Egitto p.e.) sembra che non ci sia roaming con l’Italia; dovrei comunque essere in grado ovunque di inviare sms. In ogni caso, io all’estero non telefono mai, salvo in caso di emergenza. Non vale la pena spendere cifre assurde per dire “tutto bene”. Le comunicazioni sono comunque importanti anche ai fini della sicurezza, soprattutto in un viaggio del genere: in moto, da solo, attraverso zone “calde”. Utilizzerò quindi un servizio (gratuito) presente su internet (youposition.it), che permette, inviando semplicemente un sms, di comunicare la propria posizione e dare notizie sul viaggio. Scarico da internet un utile programma che permette di trasmettere la propria posizione in modo completamente automatico (utilizzando un cellulare, come il mio, dotato di gps integrato); in questo modo mi basterà premere un tasto, aggiungere (se voglio) alcune notizie sull’andamento del viaggio, aspettare un paio di minuti (o meno) perché il mio telefono calcoli la posizione e immediatamente questa mia posizione comparirà sul sito indicato, con una vera e propria cartina che rappresenterà tutto il mio viaggio,

memorizzando anche tutti i messaggi (e le posizioni) precedenti. Semplicemente al costo di un sms. In questo modo tutti potranno sapere dove sono, giorno per giorno (o anche più volte al giorno, se mi va): famiglia, amici, autorità. È anche un modo per condividere il viaggio in diretta. Sponsor Nessuno. Nel viaggio precedente mi ero impegnato a cercarli, trovando qualcosa (molto poco, in verità); ormai non perdo più nemmeno tempo a cercarli, visti gli scarsi riscontri. Salute La salute è ottima, per fortuna. Nessun problema dell’ultimo momento. Non sottovaluto però questo aspetto. Quindi rinforzo adeguatamente il kit di pronto soccorso che ho sempre in moto. Per le vaccinazioni, non ho bisogno di provvedere; ne ho fatte tante l’anno scorso, prima di partire per il viaggio in Mongolia (difterite, tetano, tifo, colera, meningococco, rabbia, epatite), richiami compresi, che non ho bisogno di altro. Israele Israele sarà il punto più delicato del viaggio, perché, se sui miei documenti ci sarà anche solo un segno del mio passaggio in quello Stato, la Siria non mi farà passare e mi ritroverò quindi bloccato con la moto in Medio Oriente. Non potrò infatti né andare avanti (per aggirare la Siria dovrei passare dall’Irak e la sua pericolosa capitale Baghdad), né indietro (la Libia, come detto, ha bloccato i visti, e comunque ha nei confronti di Israele la stessa politica della Siria); inoltre non ci sono traghetti da Israele o Egitto verso l’Europa. Mi informo su come fare per superare l’ostacolo. Sembra che l’unico sistema sia chiedere agli israeliani di non timbrarmi il passaporto; in questo modo i siriani non vedranno traccia del mio passaggio in Israele. Pare che gli israeliani accettino questa richiesta. Ma c’è un altro problema: i siriani si sono “fatti furbi” e ormai non gli basta che non ci sia il timbro di Israele sul passaporto, ma negano l’entrata anche se c’è il timbro di un valico di confine con Israele (della Giordania o dell’Egitto, unici Stati che confinano con

Israele, oltre al Libano e alla stessa Siria, che però non hanno valichi di frontiera con Israele). Dovrò quindi chiedere il favore di non timbrare il passaporto anche ai doganieri giordani (ho deciso di entrare in Israele da lì). Speriamo bene! È vero che la Giordania non è più in guerra con Israele, ma sono pur sempre arabi e i loro rapporti non è che siano di fraterna amicizia. Il timbro (perché comunque un qualche timbro in confine me lo dovranno apporre) dovrà essere applicato su un foglietto a parte, che ovviamente non mostrerò ai siriani; questi ultimi, quindi, controlleranno con la solita attenzione tutte le pagine del mio passaporto, ma non troveranno nulla di strano. O meglio, non dovrebbero, perché c’è un altro problema, che invece non si presenta a chi entra in Israele senza un proprio veicolo: entrando in Israele, gli israeliani dovrebbero annotare sul passaporto la targa della mia moto e questa annotazione sembra che debba andare proprio sul passaporto. Va bene, quello che potevo fare l’ho fatto; gli altri problemi li risolverò sul posto. Preparo quindi più copie del mio passaporto (potrebbero servire) e un messaggio trilingue (inglese, arabo ed ebraico), in cui chiedo di non apporre timbri sul mio passaporto, poiché dopo dovrò recarmi in Siria. Ovviamente questo messaggio lo farò vedere solo ai doganieri dei valichi di confine con Israele. Per sicurezza, la solita pagina del mio sito (www.gold-wing.it), dove presento il mio viaggio, questa volta non avrà collegamenti diretti col resto del mio sito; voglio infatti evitare la sia pur remota possibilità che un doganiere siriano (ormai internet è quasi ovunque) possa risalire dal mio nome (o dagli adesivi presenti sulla mia moto) al mio sito e, quindi, al vero itinerario del mio viaggio. Per questo stesso motivo, la cartina adesiva applicata in bella mostra sulla moto (raffigurante tutto l’itinerario previsto e molto utile per far comprendere il mio percorso a gente che magari non conosce una parola d’inglese, oltre che per “rompere il ghiaccio” durante i controlli di frontiera) non presenta traccia del mio previsto passaggio in Israele. Ho però preparato un piccolo adesivo a parte, con la zona “incriminata”, applicato sull’adesivo principale: prima di entrare in Siria, rimuoverò questo piccolo adesivo.

Per lo stesso motivo, coprirò l’adesivo della bandiera di Israele (una delle 61 presenti sulla mia moto, rappresentanti gli Stati da me attraversati in moto) prima di entrare in Siria. Penso anche alla carta stradale e alla guida di Israele che mi porterò in moto; copro la cartina con una copertina staccata dalla carta della Turchia e, per la guida, scannerizzo l’analoga guida della Giordania, la stampo su cartoncino e la incollo sulla guida di Israele, aumentandone anche in modo adeguato la misura del dorso. In questo modo, ad una normale perquisizione, i doganieri siriani non “dovrebbero” accorgersi di tali pubblicazioni “compromettenti”. Problemi dell’ultimo momento Si riducono al già spiegato blocco dei visti da parte della Libia e conseguente cambio di itinerario. Tempi Per il viaggio ho programmato 22 giorni; sono posti che meriterebbero certo più giorni e molti mi dicono che 22 giorni sono pochi. Ma, come dico spesso, io sono una persona normale, con un lavoro normale e una famiglia normale. Non rinuncio certo a nessuno dei due per i miei viaggi in moto. Le ferie non sono illimitate, ma soprattutto non posso lasciare la mia famiglia sola per molto tempo; già così le “rubo” molto del tempo che invece potrei dedicarle. Se posso fare un viaggio in 22 giorni, in 22 giorni lo farò. Inoltre, in questo periodo, non posso permettermi di “sprecare” molti giorni di ferie: ho consumato tutte quelle dello scorso anno per il viaggio in Mongolia e devo risparmiarne il più possibile per il giro del mondo del prossimo anno. D’altra parte, ai viaggi in moto io non rinuncio; meglio viaggiare veloce e arrivare dove si vuole, che limitare i propri orizzonti o, peggio, non partire. E poi, in fondo, a me piace così.

3. Ad Aqaba! Sono queste le parole che si ripetono nella mia mente la mattina della partenza: ad Aqaba! Il grido degli arabi, guidati da Lawrence d’Arabia, protesi all’assalto della piazzaforte turca di Aqaba, impresa ritenuta impossibile dai più, risuona nella mia testa. Ad Aqaba! Scendo in garage che è ancora buio: oggi voglio fare molta strada e il primo giorno, come tradizione nei miei viaggi, voglio partire presto, per guadagnare tempo. La moto è pronta, i bagagli caricati da ieri sera: - baule posteriore centrale (effetti personali, carte, guide, caricabatterie di tutti i tipi); - valigia sinistra (pezzi di ricambio della moto e altro); - valigia destra (cibo, fornello e altro); - sella posteriore (materiale da campeggio, in borse stagne, legato con cinghie); - altre cose sparse nei vari portaoggetti della moto. Qualche foto e via; il cancello si apre sul mio viaggio. Aqaba, dunque, quasi 5.000 km davanti a me! Il blocco dei visti della Libia, infatti, costringendomi a riprogrammare l’itinerario, ha fatto sì che io abbia deciso di arrivare subito in Egitto (passando appunto per Aqaba, in Giordania); dopo l’Egitto, con (relativa) calma, tornerò indietro, con divagazioni, con più tempo a disposizione per visitare i paesi attraversati. In questo modo, potrò abbastanza facilmente amministrare il tempo a mia disposizione, decidendo se, dove e quanto fermarmi lungo il percorso di ritorno, avendo già sperimentato qual è il tempo “limite” per tornare a casa. Considero la programmazione dell’itinerario di un viaggio una parte importante del viaggio stesso. Sia chiaro, ognuno viaggia come gli pare e il viaggio può riuscire benissimo anche senza alcuna programmazione di questo tipo. Si può partire senza avere nemmeno un’idea di quanto tempo ci voglia per percorrere l’itinerario programmato, addirittura senza nemmeno programmare un itinerario; ma credo sia opportuno, almeno quando i tempi sono vincolati, fare dei calcoli prima, con calma, a casa e non sulla strada, chissà dove, magari in mezzo a un territorio sconosciuto. Inoltre,

partire senza programmare prima può voler dire non vedere dei posti interessanti, magari per aver “perso tempo” in luoghi che avremmo potuto tranquillamente saltare. In ogni caso, è importante anche come uno “sente” il viaggio, indipendentemente da tutti i discorsi logici che si possono fare; io questo viaggio lo “sento” così, per come è nato, per come si è “evoluto”; mi va di andare dritto ad Aqaba, e così farò. In un viaggio in moto, infatti, ci sono varie componenti; c’è quella di esplorazione, quella turistica, quella di avventura, quella tecnica, quella di sfida. Sì, lo ammetto, in questa “tirata” fino ad Aqaba, c’è un po’ di sfida e un po’ del puro piacere di guidare la moto senza altre “distrazioni”, senza pensare a guide turistiche, a monumenti, a siti da visitare. C’è il gusto della sfida, del vedere se ne sono capace (lo so che ne sono capace, ma, ogni tanto, mi piace mettermi alla prova); c’è, soprattutto, il gusto di assaporare ognuno di quei 5.000 km insieme alla mia moto, in una simbiosi perfetta, uomo e macchina, l’uno necessario all’altra e viceversa, una lunga cavalcata attraverso nuove terre; una cavalcata tendenzialmente senza fine. Alzarsi ogni mattina e non avere uno stop obbligato durante la giornata, ma poter guidare, liberamente, dall’alba al tramonto, senza fine, senza limiti, senza che la meta arrivi prima della fine della giornata, percorrendo il massimo numero di chilometri che, in base alla nostra moto, le circostanze e le nostre capacità siamo in grado di percorrere. È una sensazione bellissima, che regge tranquillamente il confronto con gli altri aspetti positivi di un viaggio in moto, come vedere nuovi posti, incontrare popolazioni diverse, ammirare i monumenti costruiti dall’uomo e le meraviglie della natura. Io almeno interpreto così il viaggio in moto, perché un viaggio è, per me, innanzitutto movimento; senza movimento il viaggio semplicemente non esiste. Questi 5.000 km che sto per affrontare mi ricordano altri 5.000 km, i primi che intrapresi tutti di fila nella mia vita. Era il 2003 e affrontavo il mio primo grande viaggio all’estero: Capo Nord. Avevo deciso di compierlo velocemente, perché così mi andava di fare, in 10 giorni: 5 da Lecce a Capo Nord e 5 per tornare. 10.000 km in 10 giorni: oltre 5.000 all’andata attraverso la Norvegia e 5.000 al ritorno dalla Svezia (il viaggio è raccontato in La meta è la strada. 10 anni in Gold

Wing: 500.000 km in moto, edito da www.boopen.it). Ricordo ancora la magnifica sensazione provata quel giorno, uscendo da casa, sapendo di avere davanti a me 5.000 km di strada da percorrere, guidando da mattina a sera. Ad Aqaba, quindi; ad Aqaba! 1.3.2010 – lunedì – giorno 1 Lecce (I) (6.25) – 30 km Est Zagabria (HR) (20.18) km 1.375, viaggio h 13.53, guida h 11.30 La giornata è nuvolosa, temperatura fresca, sui 10 gradi. Questo è un viaggio anomalo, per le mie abitudini. Normalmente viaggio d’estate, non tanto perché fa più caldo (anzi, il caldo elevato in moto è fastidioso), ma perché, in questo modo, ho il massimo di ore di luce; e, per uno come me, che preferisce guidare molto, avere molta luce durante la giornata è comodo, permette di guidare meglio e con maggiore sicurezza; ma non è il caso di recarsi nei luoghi in cui sono diretto (soprattutto Israele, Giordania e Egitto) in estate, poiché farebbe davvero troppo caldo, soprattutto per un viaggio in moto. Inoltre il Carnet scade il 20 marzo e quindi mi vincola come data. Noi motociclisti non abbiamo l’aria condizionata, non abbiamo comodi abitacoli che ci riparano dal freddo e dal caldo; oltre a questo, dobbiamo (o dovremmo) sempre coprirci, per ripararci dagli effetti di una sempre possibile caduta, e, anche se ben studiati e aereati, a volte i completi da moto diventano insopportabili con il caldo. Ma ci piace così e io non affronterei mai un simile viaggio in un comodo pullman granturismo con l’aria condizionata! Dicevo quindi che questo per me è un viaggio anomalo, per il periodo. Conseguentemente, non indosso la mia solita tenuta estiva (giubbotto traforato), ma il mio fedele (comprato l’anno prima della moto, quindi ormai ha quasi 13 anni) giubbotto di pelle. In base alle temperature che incontrerò, modificherò in parte il mio abbigliamento, a strati, togliendo la fodera impermeabile e traspirante o aggiungendo un pile sotto o modificando altro del mio abbigliamento, mantenendo però sempre il mio giubbotto di pelle, che, da solo, è sufficientemente fresco (almeno spero), oltre a garantire un’ottima protezione in caso di caduta. Il contachilometri segna 615.563 km (616.555 reali): ho fatto poca strada dal mio ritorno dalla Mongolia (il 20 luglio, quando raggiunsi i 600.000 km).

In questo viaggio saranno almeno 12.000. Abbasso la visiera del mio solito casco jet e parto; è l’alba. Oggi ho da attraversare quasi tutta l’Italia, da sud a nord, fino a Trieste, dove mi attende un amico (Giannipiuma) per salutarmi all’inizio di questo viaggio. L’autostrada scorre tranquilla, vivacizzata dalle solite (poche) curve del tratto abruzzesemarchigiano. Mantengo i consueti “legali” 130 km/h. L’utile cruise control ogni tanto difetta, esitando ad entrare in funzione. Nelle settimane scorse mi ha creato qualche problema; sembrava sistemato, ma forse è arrivato ormai alla fine della sua onorata carriera: al ritorno eventualmente lo sostituirò. Nei tratti in cui il cruise non funziona, è facile che mi “prenda la mano” e devo stare attento a non superare il limite, tanto è comoda la moto, buona la strada e… ridicolmente basso il limite! Poche ore e meno di 1.000 km e sto percorrendo la pianura padana; oltrepasso senza grossi problemi il nodo di Bologna e mi dirigo verso Trieste. Il tempo è variabile; a volte sole, ogni tanto un po’ di pioggia (ma non forte); la temperatura sale fino a 15 gradi. Temperatura mite per essere inverno; mi sta andando proprio bene, se penso che fino a pochi giorni fa l’Italia era coperta dalla neve. Avevo qualche timore per i primi giorni del viaggio, temendo di incontrare temperature ancora rigide (almeno fino a quando non scenderò a sud); in fondo siamo all’inizio di marzo e, fino alla Turchia, posso tranquillamente trovare la neve per strada. Prima di Trieste telefono a Giannipiuma per confermare il mio orario di arrivo e, puntuali, ci incontriamo al casello prima di Trieste. Gianni è un amico, anche se l’ho incontrato solo poche volte in vita mia. Come altri motociclisti, ci frequentiamo soprattutto su forum di mototurismo, tenendoci in questo modo in contatto quasi quotidiano. Ma, a volte, non è necessario incontrarsi per far nascere un’amicizia e, dopo tanti messaggi scambiatici sui forum, la prima volta che l’ho incontrato mi sembrava di conoscerlo da tempo e non era certo la sensazione di vedere un estraneo quella che ho provato. A volte penso che sia strano come tra persone tanto diverse (ed io e Gianni siamo molto diversi, sotto tanti aspetti), anche con idee opposte su alcuni argomenti, possa nascere un’amicizia; forse c’entra anche il fatto che, entrambi, nel profondo, ci sentiamo

motociclisti ed abbiamo un grande rispetto l’uno per l’altro. Il rispetto e, anche, il senso di fratellanza che dovrebbe essere, credo, più diffuso tra noi motociclisti. È la seconda volta che mi incontro qui con Gianni; l’altra fu in occasione del mio viaggio nel Balcani del 2008 (La meta è la strada…, cit.); come allora, lui ci ha tenuto a salutarmi e ad augurarmi buona strada. Percorriamo insieme alcune decine di chilometri del “suo” Carso ed entriamo in Slovenia, superando il primo dei 24 confini di questo viaggio (in 22 giorni programmati: più di uno al giorno). Questo è semplice, non è nemmeno necessario rallentare; altri saranno ben più complessi e richiederanno diverse ore. Sempre in Slovenia, arriviamo a casa di Tomaz (è proprio sulla strada), il mio compagno di viaggio dell’Islanda (La meta è la strada…, cit.), uno dei miei pochissimi viaggi non in solitaria, che saluto con piacere. Un caffè ed è il momento di ripartire, da solo; non posso perdere troppo tempo; ho ancora soltanto un’ora di luce e voglio che il buio mi raggiunga in una comoda autostrada e non su una strada ordinaria tra le montagne dei Balcani. Oggi, contrariamente al resto del viaggio, ho programmato di guidare fino a dopo il tramonto; ho infatti calcolato che questo avverrà in autostrada in Croazia e quindi non dovrei aver problemi a continuare per due o tre ore. Arrivare ad Aqaba in 5 giorni non è semplice, sia per le strade (mediamente buone, ma non sempre), che per la stagione, con meno di 12 ore di luce (ed io, per motivi di sicurezza, su certe strade preferisco non guidare al buio); oltre l’incognita dei numerosi confini da attraversare, che certamente mi faranno perdere un tempo rilevante, difficilmente prevedibile. Entro in Croazia (confine molto “facile”: meno di un minuto per uscire dalla Slovenia, con gli sloveni che quasi non aprono il mio passaporto, altrettanto per entrare in Croazia, con i croati che danno solo una rapida occhiata allo stesso); non scendo nemmeno dalla moto: resto in sella durante le velocissime operazioni doganali. Noto che l’entrata in Croazia è ancora più semplice e veloce dello scorso anno. Per fortuna il tempo si mantiene buono e attraverso con calma le Alpi Dinariche (col di Vrata, m 900), lasciando alle mie spalle il mare,

che rivedrò, tra un paio di giorni, in Turchia. Il buio mi raggiunge sereno, non stanco; continuo. La strada si abbassa, sono nella pianura pannonica, poco prima di Zagabria. Supero la capitale croata; sono in orario. Decido di fermarmi nello stesso posto dello scorso anno (quando ero diretto in Mongolia, vedi Fino in Mongolia!..., cit.), come programmato; ho infatti memorizzato il punto sul gps e questa sosta mi è comoda, essendo il motel sull’autostrada, senza inutili perdite di tempo. Riconosco l’ambiente e le persone; cena al ristorante e a dormire: domani sarà un’altra lunga giornata di viaggio. 2.3.2010 – martedì – giorno 2 30 km E Zagabria (HR) (7.38) – Plovdin (BG) (18.511) km 899, viaggio h 10.13, guida h 8.33 La mattina osservo il parcheggio del motel, deserto; l’unico veicolo è la mia moto, coperta dal suo telo; c’è meno gente rispetto a questa estate, probabilmente per la stagione. Temperatura piuttosto fresca: 7°. Abbondante colazione e via, verso la Turchia! Dopo le prime prove con la telecamera da casco, trovo un sistema per appenderla al manubrio quando non mi serve, a portata di mano, in modo da poterla riagganciare al casco in pochi secondi, anche in movimento (dopo un po’ di pratica). In questo modo riesco anche a controllare se è accesa, visto l’assurdo telecomando che non dà alcun riscontro al riguardo. l cielo è nuvoloso e resto ben coperto, anche perché ogni tanto piove. Ben presto la pioggia aumenta: mi rassegno, oggi sarà una giornata bagnata, fortuna che la strada è buona. Entro in Serbia, piuttosto velocemente (1’ per uscire dalla Croazia, 3’ per entrare in Serbia); che sollievo attraversare questi confini così semplicemente; tanto ne incontrerò di complicazioni più avanti, meglio non perdere tempo adesso. Anche in Serbia non cambio in moneta locale. Non è necessario, poiché praticamente ovunque accettano l’euro (anche l’uso della carta di credito è diffuso): per pagare l’autostrada, al ristorante/bar, albergo e soprattutto nel posto più importante per un viaggio in moto, quello di cui nessun motociclista può mai fare a meno, il distributore di benzina. Posso infatti stare un giorno senza acquistare da

mangiare, senza un albergo, senza autostrada, ma senza benzina no. Senza benzina il viaggio si blocca. Un po’ di tregua dalla pioggia. Attraverso Belgrado e il suo ponte sulla Sava, con la solita autostrada cittadina. Rifletto su come ormai questa strada balcanica mi sia familiare: è la terza volta che la percorro. L’autostrada continua verso sud, fino a Nis, dove svolto in direzione di Sofia. Ma prima della capitale bulgara c’è finalmente un tratto molto bello motociclisticamente, con la strada che corre sul fondo di una stretta valle, lungo il fiume, con numerose gallerie scavate nella viva roccia. Peccato solo che piova e quindi non possa apprezzare in pieno la sinuosità della strada. La frontiera con la Bulgaria si annuncia con la solita lunga fila di TIR. È caratteristica comune di queste frontiere, dai Balcani in poi, e ancora peggio sarà, immagino, in Asia. La Bulgaria fa parte dell’Unione Europea, quindi, passando questa frontiera, vi rientrerò, prima di uscirne definitivamente una volta arrivato in Turchia: 2 minuti per uscire dalla Serbia, altrettanti per entrare in Bulgaria. La strada continua verso Sofia, ancora ordinaria (l’autostrada la ritroverò solo dopo la capitale), ma è il superamento di Sofia il punto più delicato. Intorno alla città c’è una circonvallazione che disegna un cerchio completo; provenendo da est ed essendo diretto a ovest (o anche il contrario), ogni volta mi chiedo se mi convenga passare Sofia da nord o da sud. Ma cambia poco, poiché lo stato della strada è terribile; buche, anzi voragini, dappertutto; asfalto che cede ovunque, probabilmente sia per l’intenso traffico pesante che per la cattiva qualità della strada. Lo avevo notato già lo scorso anno, ma speravo che qualcosa fosse migliorato; invece niente, anzi, forse, anche peggio. Aggiungete a questo l’intenso traffico e la pioggia e otterremo una situazione piuttosto pesante. Non vedo l’ora di uscirne. Ormai sono quasi le 17 (entrati in Bulgaria, l’orologio va messo avanti di un’ora e quest’ora resterà fino al ritorno) e mi rendo conto che non riuscirò ad arrivare in Turchia oggi. Superata Sofia, un tratto di autostrada fino a Plovdin, dopo la quale riprende però la viabilità ordinaria. Piove ancora; ritengo quindi più prudente cercare una sistemazione per la notte, sistemazione che arriva ben presto nella forma di un comodo motel lungo la

strada. Peccato, avrei preferito arrivare alla frontiera turca (che so essere piuttosto lunga da attraversare) al tramonto, in modo da sfruttare le ore di buio nelle operazioni doganali, tanto conosco un posto subito dopo la frontiera dove poter dormire. Domattina, invece, il passaggio di frontiera mi ruberà preziose ore di luce. Comunque la sicurezza è prioritaria e, una volta ritenuto (come accade adesso) che non ci sono più le condizioni di sicurezza per continuare, è meglio fermarsi. Comunque posso essere soddisfatto: due giorni e sono quasi arrivato in Turchia; nei prossimi due, se tutto va bene, dovrei attraversarla; me ne resterà uno per attraversare Siria e Giordania (che grandi non sono) ed arrivare ad Aqaba. Cena vicino al motel, dopo numerosi sforzi di comunicazione con la cameriera locale (riguardo al cibo). 3.3.2010 – mercoledì – giorno 3 Plovdin (BG) (6.37) – Sud Ankara (TR) (17.30) km 920, viaggio h 10.53, guida h 8.54 Partenza all’alba, 5 gradi. Lungo la strada per la Turchia perdo un po’ di tempo perché l’autostrada in costruzione sembra completa, ma all’ultimo momento l’accesso è bloccato e, tentando di costeggiarla sperando di trovare un varco più avanti, finisco in un villaggio tra le montagne, ben lontano dalla strada principale. Chiedo indicazioni e mi rassegno a tornare indietro: d’ora in poi, niente “iniziative” e seguirò le indicazioni stradali. Alla frontiera con la Turchia la fila di TIR è davvero impressionante; chilometri e chilometri di camion fermi. Gli autisti non mostrano segni di impazienza; probabilmente sono abituati o magari è solo rassegnazione; rabbrividisco al solo pensiero di cosa voglia dire una simile fila, in termini di tempo, di stress. Ma li vedo davvero calmi; diversi si preparano il pranzo, altri riposano, altri ancora chiacchierano o passeggiano. Li sorpasso tutti, a velocità moderata, salutando; rispondono al saluto, sorridenti. Uscito in 2’ dalla Bulgaria, alla frontiera turca, per la prima volta dalla partenza dall’Italia, scendo dalla moto (e vorrei vedere, questa è una frontiera “seria”). Noto però un deciso miglioramento rispetto allo scorso anno. Non credo dipenda dal fatto che siamo in marzo

(l’anno scorso era estate, giugno, stagione di maggior traffico turistico); forse finalmente anche la Turchia, candidata all’ingresso nell’Unione Europea, sta cominciando ad adeguarsi a certi standard? Comunque, in mezz’ora ne sono fuori e soprattutto senza tanto girare tra vari uffici (la cosa più antipatica nelle frontiere). In frontiera ne approfitto per cambiare in valuta locale (anche questo per la prima volta dalla partenza), poiché da qui l’euro non sarà tanto facilmente spendibile per la strada e anche sulla carta di credito potrò fare poco affidamento. In moto penso. Credo che molti motociclisti, soprattutto durante le ore di guida di una lunga tappa, pensino. E rifletto. Sto per arrivare a Istanbul, ormai mancano pochi chilometri. Sono partito, come al solito, da casa mia e, come quasi sempre, ho compiuto tutto il percorso via terra, senza traghetti, passaggi in treno o altro. Perché? Abito ad appena 40 km da un attivo porto di traghetti per la Grecia (Brindisi); avrei potuto prendere un traghetto, arrivare comodamente dopo qualche ora in Grecia e quindi percorrere in moto meno della metà della strada che ho percorso per arrivare ad Istanbul. Forse avrei speso meno, forse avrei anche guadagnato mezza giornata, forse sarei perfino arrivato più fresco e riposato in Turchia. Ma allora perché ho fatto tutta questa strada in moto? Credo che, prima di partire, ognuno dovrebbe chiedersi perché parte. Parti per visitare Istanbul? Parti per visitare Istanbul in moto? O parti per arrivare a Istanbul in moto? Nel primo caso, non sarebbe forse meglio prendere un volo low cost? Spenderesti meno, impiegheresti meno tempo, potresti visitare la città con calma. Nella seconda ipotesi, la moto è proprio il mezzo più adatto per visitare una grande città come Istanbul? Forse no. Fra traffico, stress di guida, rischio incidenti, costi, forse ci sono mezzi più adatti. Forse è più adatto un bus turistico, un taxi o girarla (in parte) a piedi. Se invece parti per arrivare a Istanbul in moto, allora, forse,non ti sfiorerà nemmeno l’idea del traghetto; allora ti interesserà poco sapere che col traghetto magari risparmi 100 euro o mezza giornata di viaggio o qualche litro di sudore o guadagni qualche ora di sonno. No, se parti per arrivare da qualche parte in moto, in moto parti, in moto viaggi e in moto arrivi.

Sì, è vero, forse questo mio modo di viaggiare, questo voler testardamente arrivare in un luogo come Istanbul completamente via terra, invece che almeno in parte con un traghetto, è, da un punto di vista strettamente di costo e tempo, non conveniente; ma non viaggio in moto perché costa meno o è il mezzo più veloce; viaggio in moto perché mi piace. Quindi, se devo spendere x euro e due giorni per arrivare in un posto in un modo che non mi piace (p.e. con un traghetto), preferisco spendere la stessa quantità di denaro e tempo (o anche qualcosa in più) in moto, che è quello che mi piace. E Istanbul è solo una tappa del mio viaggio; la mia meta finale è l’Egitto. Già, le piramidi! Ma le piramidi io le ho già viste, due volte, e le ho pure visitate all’interno. E anche un’altra meta importante del mio viaggio, Israele, che tanti problemi organizzativi mi sta creando e mi creerà per via dell’ostacolo Siria, l’ho già visitata: il Santo Sepolcro, il Muro del Pianto, sono luoghi che ho già visto. E allora perché ci sto tornando? Perché la mia precedente visita non era in moto. Perché un posto, per me, visto in moto, assume un “gusto” particolare. La moto arricchisce qualunque cosa. Inoltre, come detto prima, non solo vedrò questi posti in moto (potrei anche noleggiarne una lì, mi costerebbe forse meno denaro, tempo e fatica), ma li raggiungerò anche in moto. E, ne sono convinto, arrivando alle piramidi in moto, con la mia moto, proverò sensazioni diverse da quelle che provai quando scesi da un pullman granturismo, con l’aria condizionata, dopo un comodo viaggio di un paio d’ore proveniente da una nave crociera. Sarà diverso e molto, molto più bello. E sarà ancora più bello, perché dietro avrò oltre 5.000 km di strada, di fatica, di bellezza, di sorprese, di incertezze, di scoperte; un lungo filo che collega la mia casa alla mia meta finale, un lungo filo ininterrotto. Ecco perché sto guidando la moto, in questo momento. Sempre col massimo rispetto, ovviamente, per chi viaggia in modo diverso. Una comoda autostrada mi porta fino a Istanbul. Comoda,anche se con l’asfalto in certi tratti in rifacimento; e soprattutto con le pericolose, antipatiche, odiose rigature longitudinali di quando grattano via la superficie dell’asfalto (per rimuoverlo o anche per aumentare l’attrito delle gomme con il terreno); soluzione che

provoca solo un piccolo fastidio alle auto, ma di grande pericolosità per le due ruote. Ma non si rendono conto, questi incoscienti che gestiscono le strade, del pericolo che corre una moto su queste vie, con la stabilità seriamente minacciata da queste righe longitudinali? Il mezzo ci sarebbe per evitare il problema: creare le righe in senso trasversale, anziché longitudinale alla strada, ma ovviamente costerebbe di più. Il fenomeno, verifico nei miei viaggi, non è limitato all’Italia. Istanbul si preannuncia con un notevole aumento del traffico, che in breve raggiunge livelli “preoccupanti”. Non solo infatti le tre ampie corsie per ognuna delle due carreggiate dell’autostrada faticano a smaltire il costante flusso di auto e mezzi pesanti, ma ho anche modo di “apprezzare” la guida dei turchi, che saltano da una corsia all’altra, spesso senza segnalare: il viaggio entra nel “vivo” e immagino che, da qui in poi, le frecce saranno sempre più un accessorio poco usato. Concentrato sul traffico e sulla fitta sequenza di uscite autostradali (guai a perdere quella giusta e il gps più di tanto non può aiutarmi, a causa della mancanza di cartografia dettagliata, come per il resto del viaggio), scorgo all’orizzonte la sagoma del ponte Ataturk che, scavalcando il Bosforo, mi porterà in Asia. Al casello acquisto una tessera prepagata; non vedo infatti la possibilità di pagare in contanti, oltre a una specie di telepass. È sempre un’emozione attraversare il Bosforo, passando dall’Europa all’Asia. È la terza volta nella mia vita che lo percorro in tale direzione e rifletto sul fatto che in questo viaggio saranno tre i continenti attraversati; anche l’Africa, infatti, mi aspetta, quando sarò in Egitto. Ammiro alla mia destra lo stretto canale e, sullo sfondo, le moschee, i palazzi, le strade dell’antica città. Entro in Asia. Costeggio il Mare di Marmara, lo specchio d’acqua, transizione tra il Mar Nero e il Mediterraneo (dal quale lo separa lo stretto dei Dardanelli). È una bella giornata e qualche nuvola nel cielo non impedisce al sole di scaldarmi. Bene, perché ho davanti le montagne dell’Anatolia e questa dovrebbe essere, meteorologicamente, la parte più difficile del viaggio, con le prevedibili basse temperature (e la neve) che incontrerò su quei monti. Un’auto ferma a bordo strada,

intenta a cambiare una gomma, mi ricorda che l’imprevisto è sempre in agguato. Sono sull’autostrada per Ankara; si comincia a salire e la temperatura si abbassa. Mi fermo a mangiare qualcosa e ne approfitto per coprirmi meglio. Oggi ho fatto 500 km; l’intenzione è di percorrerne altrettanti (o quasi), per superare Ankara. Poco prima del bivio per Gerede, arrivo nel punto in cui, l’anno scorso, caddi con la moto (Fino in Mongolia!... cit.). Oggi è una giornata completamente diversa: non c’è la pioggia dell’altra volta, né il gran caldo che rendeva l’asfalto estremamente scivoloso; anche se, forse, in quell’occasione ci fu qualcos’altro, almeno come concausa (macchia d’olio o gasolio). Ripenso a quei momenti, mentre riconosco il luogo e guardo il guard-rail che, per pochi metri, non mise fine al mio viaggio e, forse, a qualcosa di più. Quota 1.200; intorno a me le montagne sono innevate. Si sale ancora. Il segno meno fa capolino sul termometro della moto, la neve aumenta e arrivo al valico, a m 1.600. Tutto intorno è coperto dalla neve (tranne la strada, per fortuna): -1,5°! Ci siamo! Questo dovrebbe essere il punto più freddo del percorso, quello più temuto, per via soprattutto della neve. E fortuna che c’è il sole! Ho riflettuto, durante la preparazione, sulla scelta del periodo (comunque in parte vincolato per via del Carnet); ritengo che questo sia il compromesso migliore, tra il freddo delle montagne dell’Anatolia e il caldo (prevedibile) dei deserti della Giordania e dell’Egitto. In un viaggio del genere, del resto, non posso aspettarmi sempre temperature gradevoli: troppo diversi meteorologicamente sono i territori attraversati; inoltre ricordo che, anche a giugno dello scorso anno, su queste montagne trovai un clima piuttosto fresco. Ma poi, in fondo, non è anche questo il bello di un viaggio in moto? Sentire il freddo quando fa freddo, il caldo quando fa caldo! Viaggio in moto anche per questo, per “assaporare” completamente i territori che attraverso. Non sono nella “cella” ovattata di un’auto o un pullman, con l’aria condizionata; sono esposto agli elementi. Io “sento” i luoghi che attraverso, li vivo (credo) in modo più completo di altri tipi di viaggiatori. Il sottile strato di pelle del mio giubbotto non ferma gli odori, le sensazioni, tutti gli input che mi vengono dall’esterno; anzi, un vero e proprio filtro non c’è tra me e l’ambiente; io sono “nella” scena, io vi sono parte. Che bella la moto!

Comunque, è con un certo piacere che noto che la strada sta finalmente scendendo e, pian piano, la temperatura si alza (almeno un po’). Arrivo nel vasto altopiano che ospita la capitale della Turchia, Ankara. Non c’è il gran traffico di Istanbul, ma certo più che tra le montagne di poco fa. Rifletto sul significato di questa scelta, fatta decenni fa dal “Padre dei Turchi” (è questo il significato di Ataturk, la cui immagine in Turchia si vede ovunque, dai manifesti sui muri, alle banconote e monete, ai quadri negli uffici e negozi), di portare la capitale in una nuova città, in mezzo alla Turchia, dalla “vecchia” e carica di storia Istanbul. In pochi paesi al mondo ho visto un tale culto della personalità come in Turchia (con Ataturk), certo in nessuno di quelli democratici. E sembra davvero sincero, non “imposto” dall’alto, nonostante certi eccessi che non posso fare a meno di notare; il modo più semplice per litigare con un turco è parlare male di Ataturk. Il sole si abbassa, dietro agli alti palazzi della periferia di Ankara. È ora di cercare da dormire. Ma prima voglio togliermi un dubbio; infatti, nella programmazione del viaggio, questo è un punto rimasto in sospeso. Mi risulta un’autostrada che, da Ankara, dirige verso sud; ma la mappa di cui sono in possesso la segna ancora in costruzione; spero che, nel tempo trascorso tra la stampa della carta ed oggi, la strada sia stata completata; questo velocizzerebbe il mio itinerario e mi consentirebbe di continuare a guidare ancora un po’ (guidare al buio in un’autostrada normalmente non è un problema). Arrivato presso il punto in cui dovrebbe esserci lo svincolo, vedo i segni dell’autostrada, ma l’esultanza dura poco; anche se pare finita, l’accesso è sbarrato: evidentemente non è completa. Pazienza; sulla mia carta ho già evidenziato l’itinerario alternativo; un po’ più lungo e lento, ma comunque niente di preoccupante. A questo punto, però, devo trovare da dormire; non mi fido di continuare qui al buio su viabilità ordinaria. Superata Ankara, qualche domanda e trovo subito un comodo albergo, in bella posizione su un lago. Credo sia una specie di luogo di villeggiatura per i vicini abitanti della capitale, troppo lontani dal mare per avere alternative a un lago. Dall’apparenza sembra un po’ caro (per gli standard turchi, ma non certo per quelli italiani) e forse più avanti

potrei trovare qualcosa di più economico; ma preferisco non rischiare, mi sta bene così. Scarico i bagagli, parcheggio la moto davanti all’ingresso, qualche foto al bel lago al tramonto e ceno comodamente nell’albergo. L’ampia piscina all’aperto non suscita in me, vista la temperatura, alcun desiderio. C’è anche la connessione wireless e quindi mi connetto a internet col mio pc, salutando amici e famiglia. A proposito del discorso prima accennato sul culto della personalità di Ataturk in Turchia, noto che non riesco a visualizzare il video del mio incontro di due giorni fa con Giannipiuma, messo su Youtube dal mio amico. Mi rendo presto conto che Youtube in Turchia è oscurato! La causa, scoprirò dopo, è che in alcuni filmati erano apparse critiche ad Ataturk. La Turchia sarà anche uno Stato democratico, ma credo che debba compiere ancora dei passi avanti per raggiungere certi standard di libertà. Per curiosità, faccio una rapida ricerca su altri siti “scottanti” e verifico che anche quelli sono oscurati. 4.3.2010 – giovedì – giorno 4 Sud Ankara (TR) (7.37) – Idlib (SYR) (18.18) km 714, viaggio h 10.41, guida h 7.46 La mattina, ho una piccola esitazione nell’abbandonare, all’alba, il comodo letto dell’albergo per la sella della mia moto, seduto sulla quale la prima cosa che vedo è… il termometro sottozero. Ma, dopo pochi minuti, nessun rimpianto è nei miei pensieri, mentre attraverso l’altopiano anatolico, su una strada in condizioni decisamente migliori delle previsioni, ampia e a doppia carreggiata. Verdi colline interrompono l’uniformità dell’altopiano, ma l’elemento di spicco della prima parte della giornata è il grande lago Tuz. Si tratta di un lago salato (uno dei tanti dell’interno della Turchia); le coste non sembrano particolarmente abitate; diverse spiagge sulle sue rive: chissà se d’estate è affollato di bagnanti. Fortunatamente il tempo regge: solo qualche nuvola; fa comunque freddo e la temperatura si mantiene appena sopra lo zero. Mi fermo ad una stazione di servizio, più per scaldarmi che per effettiva necessità di rifornimento benzina. I gestori, gentilissimi, mi offrono subito il te, senza che nemmeno faccia in tempo a chiederlo.

Chiacchieriamo un po’, sorridendo: loro ammirano la mia moto e la mia… incoscienza (su un veicolo aperto a 0°); io la loro ospitalità; mi regalano anche una carta stradale della Turchia. Ammiro il vicino Hasan Dagi (m 3.268), innevato, e le montagne a est, verso la Cappadocia, anch’esse completamente coperte di neve: mi percorre un brivido, pensando che tra una quindicina di giorni sarò tra quelle montagne, per visitare quella regione. Vedo all’orizzonte altre montagne; si tratta della catena costiera che mi separa dal Mediterraneo. Guardandola da qui, sembra non esserci nessun varco, ma ovviamente c’è; anzi, fortunatamente, l’autostrada prima in costruzione qui è completata e quindi percorro facilmente questi chilometri che mi riporteranno sul mare. L’autostrada è davvero bella: tre corsie per senso di marcia, si insinua tra le montagne con ampie curve, superando in modo abbastanza ripido il notevole dislivello; è proprio un piacere guidare, aprendo il gas quel tanto che serve a tenere i prescritti 120 km/h anche in salita, cosa invece al di sopra delle possibilità dei TIR e anche di diverse auto che, annaspando sulla ripida ascesa, sembrano quasi fermi al mio passaggio. Anche l’autostrada può essere bella. Comincia la discesa, ripida anch’essa, tant’è che diversi cartelli avvertono di tenere marce basse e non superare i 90 km/h anche per le auto. Ignoro i limiti: il freno motore della Gold Wing lavora bene anche nella marcia superiore (la quinta) e non devo quasi mai usare i freni, limitandomi a decelerare ogni tanto. Finalmente la temperatura si alza! Arrivo al mare presso Adana; siamo ormai a 20 gradi e mi fermo ad una stazione di servizio per alleggerirmi. Bene: l’Anatolia è superata: da qui all’Egitto non dovrei più affrontare il freddo. Compio anche un’altra importante operazione: ormai sono vicino alla frontiera con la Siria, è quindi il momento di rimuovere dalla cartina raffigurante il mio percorso (attaccata sul frontale della moto) l’adesivo con la parte contenente il tratto in Israele; provvedo anche a coprire la bandiera di quello Stato. Il simpatico gestore della stazione di servizio (foto sulla moto anche per lui) segue l’operazione, sorridendo e annuendo.

Ripartito, costeggio il Mediterraneo; questo non è un luogo qualunque del “Mare Nostrum”; sono presso la città di Alessandretta (Iskenderun) ed è il punto più orientale di questo mare. Fin da ragazzo mi affascina questo luogo, guardandolo sugli atlanti; l’ampio golfo è costellato di navi all’ancora, presumo in attesa di scaricare o caricare nel locale porto. Ho raggiunto anche questo estremo del Mediterraneo come, anni fa, il punto più settentrionale (Monfalcone, in Italia) e quello più occidentale (Tarifa, in Spagna); quello più meridionale (golfo della Sirte, in Libia), che avrei dovuto raggiungere in questo viaggio, dovrà aspettare ancora un po’, quando la situazione in Libia cambierà. Dopo Iskenderun la strada si dirige verso l’interno, scavalcando una catena costiera; scollinato a Belen, mi affaccio sulla fertile valle di Antiochia e del fiume Oronte; quest’ultimo è il nome siriano (da dove proviene, dopo essere nato tra le montagne del Libano), in turco Asi Nehri; è strano come a volte i nomi dei fiumi siano completamente diversi a seconda degli Stati attraversati. Anche Antiochia mi richiama alla mente tanti ricordi di letture, come le prime comunità di cristiani. La zona di Iskenderun è stata contesa tra Turchia e Siria; assegnata infine alla Turchia, credo che la Siria non lo abbia mai accettato; nulla comunque rispetto ai contenziosi territoriali con Israele, di cui ben presto dovrò tenere conto. Ormai manca poco al confine; la conferma me la danno dei TIR parcheggiati sulla strada; ci siamo, la solita fila in attesa delle operazioni doganali. Sfilo tutti i camion, salutando come al solito, e mi avvicino alla prima sbarra: il primo Stato nuovo del viaggio (non ero infatti mai stato in Siria)! Sono preparato a lunghe attese e numerosi controlli: le dogane orientali sono tutt’altra cosa rispetto all’Europa e quanto ho letto non mi fa certo sperare di sbrigarmi. 18’ per uscire dalla Turchia, senza grosse complicazioni: essenzialmente il controllo del numero di targa della moto, annotato all’entrata sul passaporto. Poi circa 3 km di “terra di nessuno” e affronto la dogana siriana. Non mi ricordo la sequenza di operazioni e del resto ormai, in certe frontiere, ho rinunciato a memorizzarla. Talmente assurda,

complessa e lunga appare agli occhi di un occidentale moderno (o almeno ai miei occhi), che l’unico modo che ho di non arrabbiarmi è lasciarmi “trasportare dalla corrente”. Mi affido al primo ufficio che trovo, sfodero il miglior sorriso che le circostanze mi consentono e, se proprio la cosa sembra molto complessa… spero che qualcuno mi aiuti, per poi ricominciare con l’ufficio successivo! Sì, è proprio questo che non riesco a mandar giù; capisco che ogni Stato ha le sue leggi, le sue “abitudini”, i suoi tempi; ma perché mai, oltre a farmi perdere un’ora, mi fate anche girare fra tanti uffici, in una specie di caccia al tesoro?! Fatemi pagare tutto in una volta, mandatemi in un unico ufficio e poi datemi il via libera! Comunque, dopo 1h 4’ e un totale di 38 dollari (la Siria è il primo Stato dove mi hanno chiesto dollari e non valuta locale) e circa 9 euro in dinari siriani, ho il via libera e passo. All’ultimo controllo, il poliziotto di guardia si avvicina entusiasta e mi chiede di fare una foto con la mia moto: lo accontento, accendendo tutte le luminarie, e le luci della moto risplendono nella incipiente sera siriana. Già, perché ormai il sole è tramontato… Bene: il primo impatto con la Siria, il paese più temuto del viaggio, è andato bene; noto molta simpatia in giro. È pur vero che il problema non è tanto adesso, ma al ritorno, quando, dopo il mio passaggio da Israele, dovrò fare in modo che nessuna traccia del mio transito sia su di me, la moto o i miei documenti… o almeno che, se traccia ci sarà, non sia visibile ai siriani. Altrimenti, tutta la simpatia che vedo (è inutile illudersi) si tramuterà in un attimo in ostilità. Ma adesso non posso perdere tempo: sono quasi le 18 e non voglio stare ancora in giro su queste strade al buio. La prima città è Idlib, a circa 40 km; sulla mappa sembra abbastanza grande e anche le persone presso la frontiera mi confermano che lì troverò alloggio. Andiamo! Prima però cambio un po’ in moneta locale presso la frontiera, in modo da non aver problemi per le prossime spese. Per fortuna la strada è discreta e, prestando la massima attenzione alle possibili insidie del manto stradale (e al traffico piuttosto disordinato), giungo in breve alla città, dove, dopo un po’ di giri viziosi, chiedendo in giro, trovo un albergo (l’unico?). Parcheggio la moto nel cortile, la copro

(non prima di aver dato la possibilità ai numerosi curiosi di fotografarla) e prendo possesso di una camera. Mi assegnano la n. 10 e fin qui niente di strano; in tutti gli alberghi del mondo c’è il numero della camera sulla porta. Il problema è che qui il numero è… in arabo. E i numeri arabi non sono i nostri (quelli che normalmente definiamo “arabi”), ma, almeno per me, completamente incomprensibili (come il loro alfabeto). Per complicare le cose, il numero sulla chiave è invece scritto in modo “normale” (con caratteri occidentali), quindi resto un po’ perplesso guardando i 2 numeri (chiave e porta) e cerco di memorizzare il numero arabo, per non confondermi poi. Da ora in poi, dovrò fare molta attenzione alle indicazioni; è un “altro mondo”. Cena in albergo, breve giro a piedi in città. Noto i prezzi dei negozi e dei numerosi chioschi di generi alimentari, estremamente bassi (almeno secondo lo standard occidentale). A letto presto; ho fatto qualche calcolo e mi rendo conto che, partendo di buon’ora, domani posso farcela, posso arrivare ad Aqaba. 5.3.2010 – venerdì – giorno 5 Idlib (SYR) (6.14) – Aqaba (HKJ) (19.03) km 863, viaggio h 12.49, guida h 8.24 La moto ha riposato tranquilla (coperta dal suo telo), come il suo padrone; sa che oggi l’aspetta una lunga cavalcata: da qui, vicino al confine con la Turchia, dove ancora si percepisce una stagione invernale, a sud fino ad Aqaba, di fronte all’Egitto, sul Mar Rosso, dove l’inverno in pratica non esiste. Tutta la Siria e la Giordania da attraversare da nord a sud in una giornata. Sono circa 850 km, con in mezzo il confine tra i due Stati. Solita partenza poco dopo l’alba e raggiungo in breve l’autostrada. Autostrada? Gli standard sono molto diversi dai nostri e quindi, quando dico autostrada, non pensate a quello cui siamo abituati in Europa; diciamo che, comunque, la strada è buona, a doppia carreggiata, asfalto discreto e, generalmente, non si passa dalle città. Ogni tanto qualche incrocio, qualcuno che va contromano, traffico molto “promiscuo” (qualche carro agricolo e animali), intersezioni messe un po’ qui e un po’ lì. Ovviamente è gratuita

(anche perché, per farla pagare, dovrebbero controllarne gli accessi, cosa praticamente impossibile in queste condizioni). Ma non siamo in Europa e, comunque, è meglio di quanto mi aspettassi. Il problema è un altro. Per far prima, ieri (era ormai buio) non mi sono fermato a fare benzina e adesso, quindi, ho necessità di rifornirmi, entro poche decine di chilometri. Non vedo distributori, quelli che vedo sono sull’altro lato dell’autostrada, quei pochi che sono dal mio lato sono chiusi. Sono infatti partito molto presto e credo che qui non siano abituati a cominciare a lavorare all’alba. Sono in riserva; so esattamente quanti litri ho (3,8) e quanti chilometri posso percorrere con la riserva (da 38 a 76, a seconda della mia velocità): stimo che, in queste condizioni, dopo 60 km rischio di fermarmi. Chiedo indicazioni, ma non ne arrivano di molto chiare e, compiuta un’inversione di marcia, trovo un distributore chiuso. Passa una moto e ne richiamo l’attenzione; il motociclista si ferma (come in tutto il mondo, ma qui ancor di più), gli spiego il problema e subito mi accompagna da un amico, che abita lì vicino. Il siriano esce di casa con una bottiglia, che riempie di benzina; ripete l’operazione ed ora sto tranquillo: ho qualche litro di benzina che mi permette di raggiungere tranquillamente un distributore. Pochi euro bastano per pagare la benzina (al prezzo ufficiale), visto il costo molto basso del carburante qui in Siria (€ 0,64 al litro). Riprendo l’autostrada, diretto a sud. Ben presto però ho un altro tipo di problema; mi fermo presso una specie di bar e vado in bagno, o meglio, ci provo. Il problema infatti è linguistico. Normalmente i bagni sono indicati, oltre che nella lingua del posto, con dei semplici disegni esplicativi. Qui, invece, nessun simbolo, solo parole. Scritte in arabo, però, quindi completamente incomprensibili. Mi trovo pertanto davanti a un muro sul quale sono scritte solo due parole arabe: una (presumo) indica “donne”, l’altra “uomini”. Il problema è: quale?! Consapevole delle conseguenze “spiacevoli” di un mio errore del genere in un paese islamico, resto prudentemente in attesa, sperando che prima o poi qualcuno mi “mostri la via”. Dopo qualche minuto (finalmente!), arriva un uomo: bene, adesso so dove andare.

Ripresa la marcia, supero alcune moto; l’abbigliamento è poco “tecnico”. Di caschi manco a parlarne: la testa è a volte “protetta” dal classico copricapo arabo, il kaffiyeh, o da qualcosa del genere. Ai piedi spesso semplici sandali o poco più. In mezzo, normali pantaloni e camicia, oppure una lunga tunica. Quasi tutti salutano: lo “strano”, per loro, sono io. La temperatura è decisamente più alta rispetto alle montagne della Turchia, ancora però non fa caldo; è un clima perfetto per andare in moto. Ogni tanto nuvoloso, spesso c’è il sole. Oltrepasso Hama e Homs; Hama è interessante da visitare, ma lo farò al ritorno: l’obiettivo principale di questi giorni è arrivare ad Aqaba, ci sarà tempo dopo per le soste. Avvisto un cartello: “Baghdad”. Non è il caso di seguirlo, meglio mete più tranquille. Il paesaggio diventa mano a mano più arido e la strada sale di quota, vicino al confine con il Libano, presente pochi chilometri alla mia destra. Sono alle pendici delle montagne dell’Antilibano, una delle due catene montuose che attraversano quel paese. Penso che, appena dietro quei rilievi, proprio tra i monti del Libano e dell’Antilibano, c’è la valle della Bekaa e territori molto “chiacchierati”, sedi di campi di addestramento di estremisti islamici. Ci passerò al ritorno. Anche qui, tra le montagne, ogni tanto sono presenti statue del presidente Assad; a volte del padre, altre del figlio, segno di un culto della personalità che è poco cambiato nel passaggio generazionale del capo dello Stato. Arrivo al valico, in un paesaggio quasi desertico, a 1.500 m. C’è ancora neve sui monti, verso il Libano. Comincia la discesa verso la capitale siriana, Damasco. Farei volentieri a meno di attraversarla (tanto la visiterò al ritorno), ma non c’è una circonvallazione completa da nord a sud, quindi mi tocca. Già dalla periferia si ripetono incessanti le gigantografie dei due presidenti Assad, in tutte le salse. Comincio ad averne abbastanza: poveretti però i siriani che ci vivono! L’attraversamento della città richiede meno tempo del temuto, grazie anche alla gentilezza dei poliziotti motociclisti siriani, che bloccano il traffico al mio passaggio e mi danno indicazioni per uscire rapidamente dalla città.

Arrivo quindi senza problemi al confine con la Giordania, non prima di aver potuto ammirare, sull’autostrada, un’autentica rarità: un siriano col casco! Il passeggero, comunque, no (non pretendiamo troppo!). L’attraversamento del confine, lungo l’autostrada, richiede 42’ per uscire dalla Siria e 54’ per entrare in Giordania. Piccola tassa in uscita dalla Siria e una simile in entrata in Giordania, più un’assicurazione temporanea per la moto. Tutti gentili, anche se il posto di confine non è certo il massimo dell’efficienza. Le formalità comunque non mi sembrano troppo pesanti, anche se non vedo l’ora di riprendere la marcia. Nessuna mancia. Entrato in Giordania, l’autostrada prosegue verso la capitale del regno hascemita, che però fortunatamente si supera abbastanza velocemente con una circonvallazione. A partire dalla Giordania, fa decisamente caldo; la temperatura aumenta fino a 30 gradi: ormai, dopo il breve periodo di transizione della Siria, ho il problema opposto della Turchia. Dopo Amman, comincia l’“Autostrada del deserto”. Si tratta di una strada alternativa al classico itinerario che collega Amman ad Aqaba passando dai luoghi più interessanti (e più abitati) della Giordania (la Strada dei Re). È molto comoda perché è molto più veloce, corre quasi interamente in una zona disabitata ed è poco trafficata. Anche questa strada, però, ha un suo fascino: è bello, infatti, percorrerla, nella solitudine e tranquillità del deserto. Le due carreggiate si snodano sinuose nel deserto, su e giù per montagne e colline; la Giordania infatti, si presenta piuttosto varia sotto il profilo altimetrico e lo stesso deserto è tutt’altro che piatto e uniforme. Supero una grande installazione militare, appollaiata su una collina. Avanzo veloce verso sud, a volte anche un po’ più veloce del limite dei 110 km/h che vedo sui cartelli. Il sole si abbassa alla mia destra; comincio a vedere i segnali stradali che indicano Aqaba. La meta finale di questi 5 giorni di viaggio ormai è vicina, sembra proprio che ce la faccia a raggiungerla in serata. Un’auto mi supera e i bambini seduti sul sedile posteriore mi salutano sorridenti; rispondo al saluto e vedo distintamente i loro visi e le loro mani, espressivi ben più delle parole.

Mi rendo conto che il tramonto arriverà prima di raggiungere Aqaba, ma ormai sono abbastanza vicino e decido quindi di proseguire: voglio arrivare ad Aqaba stasera. Non ci sono comunque problemi nel deserto di notte, la strada è buona e quindi continuo tranquillo. La via piega a sud-ovest. Il deserto mi regala un magnifico tramonto, infuocando il cielo davanti a me. La strada sale: ci sono delle montagne prima di arrivare al mare e ad Aqaba; giungo al valico (m 1.500, il secondo della giornata e alla stessa quota di quello in Siria) quando ormai è quasi buio e comincio la discesa verso Aqaba. Il dislivello è notevole e in pochi chilometri sono al livello del mare. Arrivo comunque ad Aqaba che è buio pesto. Ce l’ho fatta, ho raggiunto il Mar Rosso! Il porto di Akaba godeva di una così forte posizione naturale che si poteva prenderlo soltanto da terra, di sorpresa…partimmo insieme per la lunga marcia… Ingannammo i Turchi e, con il favore della fortuna, entrammo in Akaba. (T. E. Lawrence, I sette pilastri della saggezza, Bompiani, 2008, pag. 263 – The Seven Pillars of Wisdom, Arnold Walter Lawrence Esq., 1926). Poi attraverso un uragano di sabbia, corremmo giù ad Akaba, a quattro miglia di distanza, e ci tuffammo in mare. (cit., pag. 368) [Thomas Edward Lawrence (1888-1935) negli ultimi anni della sua vita guidava veloci motociclette; morì in un incidente di moto.] Il primo problema è trovare il porto, o meglio, il punto di imbarco all’interno del porto. Le indicazioni, infatti, sono pari alla mia conoscenza dell’arabo: zero. Ma, per fortuna, prima di partire ho memorizzato sul gps alcuni punti importanti del viaggio; in particolare il punto esatto dell’imbarco mi è stato fornito da un amico motociclista, che è passato da qui 6 mesi fa. Forse, se non lo avessi avuto, starei ancora a girare per trovare l’imbarco! In ogni caso, anche con il punto esatto segnato sul gps, non è immediato trovare la strada, perché non ho la cartografia dettagliata del luogo e non posso certo viaggiare in linea retta. Arrivo infine a quello che sembra un ufficio di imbarco; c’è una gran confusione, con gente accampata per terra, alcuni che

mangiano, altri dormono. Sono quasi tutti arabi. Mi faccio strada tra i corpi, prima con la moto, poi a piedi. Potete immaginare l’effetto che fa l’arrivo della mia moto, con le luci accese, in quel posto. È in questi momenti che, a volte, per un attimo preferirei avere una moto un po’ meno appariscente; non che mi senta a disagio, ma, per motivi di sicurezza, sarebbe meglio non dare troppo nell’occhio in certe circostanze. Ho comunque poca scelta: sono solo, quindi qualche “rischio” devo prenderlo; parcheggio la moto, lasciandoci necessariamente sopra il bagaglio, ed entro nell’edificio per raccogliere informazioni sul traghetto (dopo aver chiesto, senza molto successo, anche fuori). Non è questa l’entrata! Riprendo la moto e mi sposto di un centinaio di metri, fino a raggiungere il vero ingresso carraio al piazzale d’imbarco. È presidiato da soldati che non hanno le idee molto chiare sugli orari del traghetto. Credo che, in effetti, nessuno sappia esattamente quando partirà il traghetto per Nuweiba. Comunque, sembra che il traghetto parta tutte le mattine tranne il sabato: e domani è proprio sabato! Per fortuna pare che ci sia un altro traghetto (quello che la guida definisce lento, perché impiega 3 ore invece di una), a mezzanotte. Il cancello è ancora chiuso, ma dopo un po’ di attesa si apre e finalmente raggiungo il piazzale. Eccomi finalmente nell’edificio degli uffici dei traghetti; faccio il biglietto (si paga solo in dollari, poco più di 100; accetta una banconota da 5 euro perché non ha resto). Anche il bigliettaio è piuttosto vago sull’orario di partenza del traghetto: formalmente mezzanotte, ma, mi fa capire, può partire anche diverse ore dopo. Sbrigo le formalità doganali di uscita dalla Giordania e torno nel piazzale. C’è una piccola folla intorno alla mia moto, ma nessuno ha toccato nulla. In effetti la situazione sembra tranquilla; c’è solo un po’ di confusione, quanta è lecito aspettarsene presso un imbarco di un traghetto tra 2 paesi arabi, in un porto quasi tropicale, sul Mar Rosso. La gente è accampata alla bell’e meglio, a riposare. Ci sono anche alcuni posti di ristoro e molte persone mangiano. Una tv trasmette incomprensibilmente (per me) in arabo. Solo adesso mi ricordo di essere praticamente digiuno: la lunga cavalcata dal nord della Siria

(quasi al confine turco) fino a qui, nel sud della Giordania (di fronte all’Egitto), mi ha talmente assorbito che il pensiero del cibo mi viene in mente solo adesso. Un breve giro tra i chioschi e la cena è fatta. Intanto, però, il mio pensiero principale è “quando partirà il traghetto?”. C’è un piccolo ufficio sul piazzale e le notizie che ne ricevo non sono confortanti; sembra che, per misteriosi motivi (il traghetto che proviene dall’Egitto non è ancora arrivato?), la nave non partirà a mezzanotte e la partenza è rinviata di ora in ora. Chiacchiero un po’ con i “vicini di attesa”: davanti alla mia moto c’è una coppia di anziani tedeschi, in auto; dietro due coppie di italiani in due auto fuoristrada, diretti verso il deserto egiziano (anche loro hanno dovuto modificare il loro programma originario che prevedeva la Libia). Di lato c’è un arabo che continua a versare acqua nella sua auto; la carrozzeria è ampiamente macchiata dalle esalazioni del radiatore, probabilmente quindi il problema va avanti da molto: non so se riuscirà ad arrivare in Egitto. Il campionario di auto locali (tolte quelle dei pochi turisti) non è dei più recenti. Dopo una serie di rinvii, l’orario (approssimativo, ovviamente) della partenza è fissato a domattina. Passare la notte qui? È ormai tardi; non ho nessuna voglia di andare ad Aqaba, trovare un albergo per la notte e poi tornare qui domattina. Passerò la notte come gli arabi che mi circondano, steso per terra, magari nel mio sacco a pelo o seduto sulla moto. Per fortuna ho fatto amicizia con gli impiegati dell’ufficio traghetti presente qui sul piazzale e, ad una certa ora, mi fanno cenno di accomodarmi in una sala dell’ufficio, dove alcuni di loro riposano. Stendo quindi il mio sacco a pelo per terra e riesco almeno a chiudere occhio per qualche ora (dopo aver coperto la moto col suo telo, per sicurezza). 6.3.2010 – sabato – giorno 6 Aqaba (HKJ) – Nuweiba (ET) (16.11) – Nord Nuweiba (ET) (18.40) km 115, viaggio h 2.29, guida h 1.45 Non è una notte molto confortevole; il sacco a pelo è steso su una stuoia, ogni tanto qualcuno entra ed esce dalla sala; ma riesco comunque a riposare abbastanza.

La mattina qualcuno avvisa che è ora di andare ai veicoli, per l’imbarco. Imbarco che, però, tarda ancora alcune ore. Finalmente qualcosa comincia a muoversi; prima i pedoni, poi le auto (i camion sono in un’altra zona del porto e di moto c’è solo la mia). Passiamo attraverso un hangar, per un altro controllo, e qui l’addetto mi dice che manca un timbro sul foglietto che mi hanno dato ieri sera, quando ho fatto il biglietto. Di fronte alle mie proteste (me lo potevano dire prima: sono oltre 12 ore che aspetto!), “rimedia” lui stesso, ma, arrivato all’imbarco, un altro addetto dice che il timbro non va bene: devo tornare indietro, agli uffici del porto, per mettere il timbro! Sono esasperato, ma per fortuna l’addetto non capisce l’italiano e così posso “sfogarmi”. C’è poco da fare: torno indietro, trovo l’ufficio, metto questo benedetto timbro e mi ripresento all’imbarco. Salgo per ultimo: almeno, in questo modo, sarò il primo a scendere (la nave ha un solo ingresso). Lego con cura la moto, con le mie cinghie: gli addetti lasciano fare. Sono ormai quasi le 10 quando, finalmente, la nave parte. È fatta, finalmente mi sono lasciato dietro il caos dell’imbarco giordano; ora mi aspetta un caos peggiore: lo sbarco in Egitto. 1 Da questo punto in poi, l’ora locale è un’ora avanti a quella dell’Italia. È sempre indicato l’orario locale.

4. Egitto Il traghetto è una vecchia nave norvegese (ci sono ancora le scritte in quella lingua, che “stona” un po’ a queste latitudini). La nave percorre il golfo di Aqaba, stretto tra l’Arabia Saudita a est e il Sinai egiziano a ovest; vedo distintamente le relative montagne, poiché questo tratto di mare è largo mediamente appena 15 km. La traversata è breve… come distanza (sono appena 62 km), ma, data la velocità della nave, piuttosto lunga come tempo. In effetti l’Egitto è proprio di fronte, ad appena 7 km, ma il porto di attracco è più a sud. Il traghetto arriva a Nuweiba (nel Sinai) dopo oltre 4 ore, alle 14. Vedo con emozione le caratteristiche montagne rossastre del Sinai; sono in Egitto, ho “attraversato il Mar Rosso”! Riesco a sbarcare che sono quasi le 15. E adesso affrontiamo la dogana egiziana. Sbarcato sul piazzale… non c’è nessuna indicazione. Seguo il “flusso” del traffico e cerco di capire qual è il primo ufficio dove devo andare. Arrivo in un punto da dove sembra che si debba cominciare. Per fortuna si fa avanti una persona che pare abbia intenzione di assisterci nelle varie operazioni; probabilmente si aspetta una mancia, ma questo lo vedrò dopo; in ogni caso, è in divisa, quindi è un funzionario doganale, non uno dei tanti “faccendieri” che affollano certe dogane. Non mi ricordo la sequenza delle operazioni; troppo complesse, numerose e apparentemente senza senso. Vago nell’ampio piazzale, da un ufficio dall’altro, a volte accompagnato dal funzionario (che, oltre a me, si occupa contemporaneamente di altri turisti), altre volte semplicemente indirizzato. Fa molto caldo, siamo sui 30° all’ombra, ma di ombra ce n’è poca. Cambio un po’ di euro nella locale banca (contrariamente alle previsioni, gli uffici non vogliono dollari, ma moneta locale), ma mi rendo presto conto che non basteranno: inaspettata, infatti, arriva un’alta tassa da pagare (assicurazione per il veicolo) di ben 175 euro! Ritorno in banca e continuo il giro tra i vari uffici. Per fortuna il funzionario che ci assiste è molto veloce e soprattutto va a colpo sicuro (è il suo lavoro!) da un ufficio all’altro.

La cosa che mi dà più fastidio di tutto ciò, non è però la spesa, il tempo perso o la fatica; ma il pensiero che questa dogana di Nuweiba la devo subire solo per evitare di attraversare Israele, cosa che avrei tranquillamente fatto ieri sera, in poco tempo (sono po chissimi chilometri di territorio e la dogana israeliana non sarà più lunga di questa), se non ci fosse la cocciutaggine siriana di non accettare persone che sono transitate da Israele. Eccomi infine all’ultimo adempimento: la targa egiziana. Infatti devo applicare sulla mia moto una targa temporanea, scritta in arabo; quando me la consegnano, la guardo incerto: qual è la parte superiore?! Me lo spiegano e la attacco con del nastro adesivo sopra la mia targa; ci sarebbe anche una seconda copia della targa egiziana da applicare sulla moto, ma, dopo le mie proteste, l’addetto capisce che non è agevole posizionarla sulla mia moto (dovrebbe andare davanti o di lato) e quindi la metto semplicemente… nel bagagliaio. È fatta; mi è andata bene; sono passate “appena” 2 ore (sono le 17) e ho finito. Esco dalla dogana e apprezzo subito una delle cose migliori dell’Egitto: la benzina a 25 centesimi! È bello fare il pieno con 5 euro. Raggiungo la litoranea del Sinai e faccio il punto della situazione: tra ritardi nella partenza, nel percorso via mare e nelle formalità di sbarco, si è fatto troppo tardi per percorrere molta strada: ho meno di un’ora di luce e non voglio certo attraversare il Sinai al buio; oggi pochi chilometri. Mi conviene, quindi, andare verso nord, verso il “vietato” Israele, cercando un posto per dormire sulla litoranea, il più a nord possibile, per poi domani puntare verso le piramidi. Questa costa del Mar Rosso è una zona turistica, quindi dovrei trovare diverse opzioni. Mi dirigo verso nord; temperatura 29°. Dopo pochi chilometri raggiungo Nuweiba (il porto dove sono sbarcato è poco a sud del centro abitato); oltre lo stretto braccio di mare si vedono benissimo le montagne dell’Arabia Saudita (a meno di 20 km). La costa è bella, ma si notano i segni di uno sviluppo turistico un po’ disordinato; edifici in costruzione quasi ovunque, sbancamenti diffusi, parecchia sporcizia in giro: speriamo che non si rovini troppo nei prossimi anni.

La strada è ben tenuta e piacevole. Passo accanto a una piccola isola (isola del Faraone). Non trovo però, ancora, una soluzione per la notte: sembra ci siano solo alberghi di lusso. Arrivo all’incrocio con la strada che si dirige verso l’interno del Sinai, ma non è il caso di prenderla adesso: nel deserto della penisola difficilmente troverei alloggio e ormai il sole sta per tramontare. Meglio quindi restare sulla costa: qualcosa troverò. Ormai la costa egiziana sta per finire; poco prima di Taba, trovo un posto di blocco militare; il controllo è veloce, ma mi ricorda che, qui nel Sinai, le preoccupazioni per la sicurezza sono ben presenti e in particolare in questa zona. Entro a Taba, ultima località prima del confine con Israele. Taba è l’ultimo territorio restituito da Israele all’Egitto, dopo il trattato di pace nel 1979; a causa di una contesa sui confini (Israele sosteneva che fosse all’interno delle sue frontiere), la questione fu risolta da un arbitrato internazionale nel 1988. Come parte di quell’accordo, fu concesso agli israeliani di visitare Taba senza visto, per 48 ore. Ma Taba è stata di recente luogo di un tragico attentato. Nel 2004 un gruppo di palestinesi fece esplodere 3 bombe in città, uccidendo 34 persone e provocando il crollo di 10 piani del Taba Hilton. In seguito a ciò, il turismo qui è quasi cessato. L’Hilton è stato ricostruito, ma gli alberghi restano quasi vuoti; comunque, come ho modo di verificare da un rapido sondaggio, troppo cari per me: non spendo oltre 100 dollari a notte, non almeno qui in Egitto. Ho la prova delle tensioni ancora esistenti in questa località quando entro in un albergo per chiedere il prezzo: devo passare da un metal detector, svuotando le tasche di tutti gli oggetti. Pochi metri davanti a me, vedo la frontiera con Israele; giro la moto e torno indietro. Prima di uscire da Taba, chiedendo in giro, trovo un egiziano che guida un pullmino; mi dice che, tornando verso sud, c’è un residence sul mare che costa poco. Seguo il pullmino. L’egiziano guida leggermente… da pazzi; a volte ho difficoltà a stargli dietro con la moto, anche perché ormai è buio e la strada è tortuosa. Arriviamo comunque indenni all’ingresso del residence; da solo difficilmente l’avrei trovato, essendo le indicazioni molto scarse; un lungo sterrato (ma facile) porta dalla litoranea al mare, fino al

residence; è molto semplice, ma comodo, proprio sulla spiaggia. È composto da una serie di bungalow e una struttura che funge da ristorante. Ho un bungalow tutto per me per l’accettabile cifra di 17 euro. Tutti i bungalow hanno il tetto di paglia. Chiedo al gestore che succede se piove; la risposta è semplice: “non piove”. Ringrazio l’egiziano e prendo possesso del bungalow. Le docce sono in un edificio a parte; i lavori sono ancora in corso e purtroppo l’acqua calda è quasi inesistente, ma comunque una doccia è assicurata, dopo due giorni così “intensi”. In ogni caso, ci sono ancora 25°, quindi la temperatura dell’acqua non è un problema. Il bungalow ha un’utile zanzariera sopra il letto, ma la cosa più bella è certamente la posizione, proprio sulla spiaggia. La cena invece non è buona, ma costa pochissimo. 7.3.2010 – domenica – giorno 7 Nord Nuweiba (ET) (6.37) – Sud Suez (ET) (18.54) km 649, viaggio h 12.17, guida h 8.11 Ho dormito magnificamente nel mio bungalow, riparato dalla zanzariera, con la moto parcheggiata fuori la porta. E il risveglio non è da meno: appena apro la finestra e la porta, vedo il Mar Rosso e la spiaggia. Ammiro una magnifica alba, col sole che sorge dietro le montagne dell’Arabia Saudita. La situazione invoglierebbe a restare, prendermela comoda, ma mi basta vedere la moto (anzi, anche solo pensarla) che ritorna irrefrenabile la voglia di partire. Non c’è nessuno in giro, tutti dormono. Ho già pagato ieri sera, non c’è nulla che mi trattenga; posso partire. Oggi sarà la giornata centrale del viaggio in Egitto, con la visita alle piramidi. È ancora abbastanza fresco (17°), ma so che durerà poco; il cielo è completamente sereno. Meglio sbrigarsi. Tornato sulla litoranea, punto verso nord (ripercorrendo la via fatta ieri) e raggiungo in breve il punto da dove parte la strada verso l’interno del Sinai. Il solito posto di blocco militare e finalmente via, verso il deserto! La strada è molto bella; si insinua, tortuosa, in uno stretto canyon, con le rossastre rocce del Sinai illuminate dal sole ancora basso. Paesaggio davvero spettacolare e posso anche rilassarmi, poiché il fondo stradale è ottimo. Dopo qualche chilometro, sbuco nella parte

settentrionale del Sinai, quella più tipicamente desertica, piatta a perdita d’occhio. Lunghi rettilinei, qualche roccia isolata qua e là. Il caldo comincia a farsi sentire (quasi 30°) e il giubbotto di pelle ormai lo sento un po’ pesante. Mi fermo per la colazione in una struttura isolata nel deserto, frequentata da beduini. I beduini del Sinai appartengono a diverse tribù, molte delle quali hanno forti legami con i beduini del Negev (Israele), Giordania e Arabia Saudita. Penso a quanto sia dura la vita qui, in questo deserto che sto attraversando velocemente con la mia moto. Riprendo la strada attraverso il Sinai. Percorrendo questo territorio, il pensiero va anche ai racconti della Bibbia, a Mosè che, attraverso questo deserto, condusse il suo popolo, il “popolo eletto”, in fuga dall’Egitto verso la “Terra Promessa”; penso a quanto fosse dura la loro marcia, ai lunghi anni trascorsi in questa regione, prima di giungere alla meta. Il territorio è sempre più arido, la temperatura ormai è di 30°. Supero il bivio per Al-Arish, la località egiziana sul Mediterraneo presso il confine con Gaza. Adesso dritto a ovest, verso il canale di Suez. Durante una breve sosta per foto, si avvicina un beduino, sulla sua piccola moto; sorride, mi saluta: lo faccio sedere sulla mia moto. A volte non serve parlare la stessa lingua per comprendersi. Adesso il deserto assume il classico aspetto della distesa di sabbia, con numerose dune. Il canale di Suez (lungo 163 km dal Mediterraneo al Mar Rosso) è ormai vicino e scruto l’orizzonte cercando di vederne i segni. Mi viene in mente un film visto da ragazzo, in cui due militari inglesi, in fuga da non so quale guerra, percorrevano a piedi il Sinai, diretti verso il canale; e il momento in cui, dopo la traversata del deserto, avvistavano il canale, che rappresentava per loro la salvezza. Purtroppo però, oggi, questo non è possibile. Il canale è zona militare, fortemente presidiata, e non è possibile avvicinarsi liberamente. La strada giunge all’incrocio con la via che costeggia il lato orientale del canale (senza poterlo vedere) e mi dirigo qualche chilometro verso nord. Alcuni monumenti militari ricordano le

battaglie che furono combattute qui. Per diversi anni il canale fu il limite occidentale della zona occupata da Israele, in una delle tante guerre arabo-israeliane; in conseguenza di ciò, restò chiuso per diversi anni. Prendo la strada che porta al tunnel sotto il canale, per raggiungerne il lato occidentale. Poco prima di imboccare il tunnel (ormai sotto il livello del mare), vedo i numerosi militari egiziani di guardia, nelle loro postazioni, sulla sponda del canale; qualcuno mi osserva incuriosito. Certo che deve essere lunga la giornata, qui, sotto il sole, con solo il canale da guardare. Passato il tunnel, lungo 1,6 km, una superstrada piuttosto affollata e caotica mi porta fino a Il Cairo. Ma non è niente rispetto a quello che trovo quando arrivo alla circonvallazione della capitale egiziana: 4 corsie per ognuna delle 2 carreggiate, piene di veicoli di ogni genere, che saltano “allegramente” da una corsia all’altra, senza alcuna segnalazione. Credo però che, almeno, guardino dietro ogni tanto; dopo un po’, mi adeguo alla situazione e scivolo in mezzo al traffico. Vedo il Nilo, il grande fiume d’Egitto, il più lungo del mondo. La metropoli egiziana si stende sulle sue rive e oltre, a perdita d’occhio. Individuo quella che dovrebbe essere l’uscita più vicina alle piramidi e lascio la circonvallazione del Cairo. Mi immergo, quindi, nel traffico della grande città che è perfino peggiore di quello affrontato fino a poco fa sulla circonvallazione; non è possibile descriverlo, bisogna esserci dentro. Intanto il caldo aumenta; siamo a 35° e l’unico aspetto positivo è che è molto secco. L’occhio gira intorno a cercare le piramidi; ecco, ci siamo, comincio a vederle! Dopo qualche esitazione sulla strada, trovo quella giusta e arrivo di fronte alla piramide di Cheope. La prima sensazione è quella di trovarsi non davanti a una costruzione umana, ma una montagna. È semplicemente imponente e credo che nessuna fotografia possa rendere l’idea. È pur vero che le piramidi le avevo già viste (una escursione durante una crociera), ma non ci ero mai arrivato in moto. E ho ancora una volta la conferma che l’emozione che provoca raggiungere un luogo con la propria moto, dopo un lungo percorso

con la stessa da casa, non è paragonabile a quella di arrivare dopo un comodo volo aereo o scendendo da una nave. È diverso, è diverso, almeno per me. Sono qui, davanti alle piramidi, domenica 7 marzo: appena lunedì 1 sono partito in moto da casa mia, oltre 5.000 km fa. Resto qualche secondo ad ammirare la piramide e mi avvicino al cancello di ingresso. Provo ad entrare, ma non si può: il cancello resta chiuso! No, non mi fate questo scherzo: non ho percorso oltre 5.000 km per fermarmi davanti ad un cancello! L’egiziano di guardia non è molto chiaro nelle spiegazioni (del resto, parlando lui solo arabo, potrebbe dire qualunque cosa, per me sarebbe lo stesso); torno indietro di pochi metri, nel piazzale, e cerco le guardie; per la verità, non ho nemmeno bisogno di cercarle, poiché, appena vedono la moto, numerose guardie si avvicinano incuriosite. Spiego il problema; per fortuna alcune parlano inglese, quindi riusciamo ad intenderci. Sembra che sia vietato alle moto entrare nella zona delle piramidi. E che storia è questa?! Perché mai una moto non potrebbe entrare dove è consentito alle auto e addirittura ai grandi pullman turistici?! Non lo accetto, non lo posso accettare. Continuo a indicare alle guardie le auto che entrano (poche, per la verità) e la mia moto, chiedendo il perché del diverso trattamento. Forse, anche tra le auto, entrano solo le autorizzate. Insisto ancora con le guardie e una di loro alla fine mi risponde che ci vuole l’autorizzazione per entrare con la moto. “Bene, allora ditemi dove si ottiene l’autorizzazione!”. Mi rispondono che la devo chiedere presso gli uffici posti nel centro del Cairo. No, non se ne parla proprio! Non mi immergo nel traffico del Cairo, alla ricerca di chissà quale ufficio, per cercare chissà quale permesso, perdendo comunque diverse ore. “Chi comanda qui?”, chiedo deciso; se c’è una regola, ci sarà chi ha l’incarico di farla rispettare, ma anche chi ha il potere di stabilire delle… eccezioni. Un po’ spiazzati dalla mia richiesta, mi portano dal comandante delle guardie, cui spiego in breve la situazione e che mi concede il permesso di entrare con la moto. Torno quindi al cancello, al cui custode le guardie spiegano il permesso ricevuto, ed entro con la moto davanti alle piramidi. Prima che cambino idea, penso sia meglio che mi sbrighi a scattare la foto

alle grande piramide di Cheope, di fronte a me, e posiziono il cavalletto per inquadrare anche me e la moto. Ma, proprio quando sto per scattare, arriva una guardia su un cammello e mi blocca, affermando che è vietato! Ma come, ho avuto il permesso! Non capisco se il permesso ricevuto non sia sufficiente per entrare o se ci voglia un permesso speciale per fare una foto alla mia moto e alla piramide col cavalletto. Comunque sia, non basta, devo ricominciare da capo. Spiego che ho avuto il permesso, che, se ne serve un altro, che mi dicano chi comanda qui: ci sarà pure qualcuno in grado di darlo questo benedetto permesso! Il capo delle guardie, insieme a una delle guardie del “primo permesso”, mi accompagna agli uffici e qui, dopo diverse insistenze, riesco infine a parlare col “gran capo”. Si capisce subito che questo è il vero capo, quello che può decidere ciò che è permesso o no. Dopo un po’ di anticamera, mi riceve nella sua stanza; è una persona distinta, che parla perfettamente inglese. Mi presento, spiego che ho fatto oltre 5.000 km dall’Italia a qui, per vedere le piramidi e fotografarle CON LA MIA MOTO; che le piramidi le ho già viste, ma con la moto è la prima volta che ci arrivo e per me è importante proprio questo: arrivarci e fotografarle con la mia moto. Gli do il mio biglietto da visita, parlo un po’ dell’Egitto e delle sue bellezze, gli indico il mio sito internet dove uscirà un report del viaggio. Il funzionario annuisce, dimostra di essere interessato e mi dà il permesso. Un custode mi accompagnerà all’interno del sito delle piramidi. Torno alla moto e slego la tenda e il sacco a pelo dalla sella posteriore, dove faccio salire il custode; si terrà il bagaglio sulle gambe. Finalmente ci siamo! Entro dal cancello, prima proibito, arrivo di fronte alla grande piramide di Cheope e sistemo il cavalletto per le foto. La piramide di Cheope, completata nel 2570 a.C., era alta 146 m, adesso 137 (manca la punta); è la più grande piramide d’Egitto. Per la sua costruzione furono impiegati due milioni e mezzo di blocchi di calcare, pesanti in media 2,5 tonnellate ciascuno (Lonely Planet, Egitto, 2008).

Scattate le foto, resto un po’ in contemplazione della piramide. Come detto prima, la sensazione che dà non è quella di una costruzione umana, ma di una montagna, tanto è imponente. Bisogna fare uno sforzo di immaginazione per essere consapevoli che è stata costruita da uomini di 4.600 anni fa. Il rivestimento originario, costituito da lastre di lucida pietra calcarea bianca, è stato asportato (come per le altre piramidi), per essere utilizzato nella costruzione di palazzi. Guardando da vicino la piramide, si vede che in effetti la sua superficie, erosa dagli agenti atmosferici (senza la protezione originaria), è costituita da tanti blocchi parallelepipedi, che hanno perso l’originaria regolarità. Ma non voglio approfittare troppo del permesso ricevuto e faccio cenno al custode di risalire in sella. Noto però una certa disponibilità nelle guardie: probabilmente il “permesso speciale” è ancora più speciale di quello che sperassi e quindi chiedo se posso continuare con la moto, lungo il viale che si snoda tra le due grandi piramidi, fino alla Sfinge. Permesso concesso! Risalito sulla moto col custode, percorro quindi il viale; è un’esperienza stupenda! Alla mia sinistra la piramide di Cheope, alla mia destra quella di Chefren, il figlio di Cheope, alta 136 m; la sua sommità è ancora rivestita della pietra calcarea bianca, che luccica al sole. Supero la costruzione moderna, accanto alla piramide di Cheope, che contiene la Barca Solare del Faraone, l’imbarcazione usata per trasportare la mummia del faraone attraverso il Nilo. Oltrepassata la piramide di Chefren, giungo infine all’altro ingresso dell’area delle piramidi, presso la Sfinge. Da qui si ha l’incomparabile visione d’insieme delle tre piramidi: Cheope, Chefren e Micerino (la più piccola: 66 m, ora 62). Bene, ora posso tornare indietro, dalla stessa strada, rivivendo quindi ancora una volta l’emozione di attraversare questi luoghi unici con la mia moto. Tornato all’ingresso principale, scarico il custode (una mancia è “dovuta”), un’ultima occhiata alle piramidi di Cheope e Chefren, e via, senza perdere tempo: la piramide a gradoni di Saqqara mi aspetta! Ho programmato, infatti, nella mia pur breve permanenza in Egitto, di visitare non solo le famose piramidi di Giza, ma anche quella di

Saqqara. È posta circa 10 km a sud. Ho qualche difficoltà a trovare la strada, ma, dopo un paio di giri, sono finalmente fuori dal Cairo e mi dirigo verso sud, lungo un ramo laterale del Nilo. È una strada secondaria, non molto battuta dai normali flussi turistici. In effetti, quasi tutti vanno a Giza, ma pochi poi continuano per Saqqara. Ma si tratta forse dei chilometri più interessanti che abbia percorso in Egitto, durante i quali mi rendo conto delle condizioni di vita della popolazione. La vita, in pratica, si svolge per strada; ma non come spesso si vede anche in tanti paesi italiani; no, qui proprio “per strada”, con i bambini che attraversano improvvisamente, uomini che svolgono i vari mestieri sulla strada (marciapiedi in pratica non esistono), donne che compiono le varie faccende domestiche al di fuori di anguste abitazioni; e ancora animali, carretti che vanno di qua e di là, cumuli di spazzatura ovunque, e il fiume che sembra più una fogna a cielo aperto, dove, nonostante tutto, alcuni pescano, dalla riva o da piccole imbarcazioni. Sto molto attento a evitare ogni tipo di incidente e guido con la massima attenzione. Penso anche che sto percorrendo la valle del Nilo, a sud del Cairo, una zona che (secondo la guida e le informazioni prese in Italia prima della partenza) i turisti stranieri potrebbero percorrere solo con la scorta della polizia, con i famigerati convogli. Penso anche a questo quando mi fermo per chiedere un’indicazione ad un uomo che, magari, potrebbe essere un simpatizzante di quegli integralisti islamici che hanno compiuto numerosi attentati a danno di turisti in Egitto negli anni ’90. Ma il mondo è fatto (normalmente) di brave persone, e ricevo solo cortesi indicazioni: sempre dritto, Saqqara è lì davanti, a sud. Arrivo a Saqquara e trovo quasi subito l’ingresso al sito archeologico; il sole è ormai basso (sono le 16.15 e il tramonto è alle 17.55) e ho un brutto presentimento, che puntualmente si avvera: non si può entrare, è troppo tardi, il sito chiude alle 16.30 e per quell’ora tutti i turisti devono essere fuori. Come? No, non è possibile! Spiego alle guardie che provengo direttamente dalle piramidi di Giza e sono corso qui per visitare quella di Saqqara; questa è la mia ultima possibilità, domani sarò nel Sinai e poi uscirò dall’Egitto per tornare in Italia. “Vi prego, solo 5

minuti: arrivo alla piramide, faccio una foto e torno”. Ma non c’è niente da fare, le guardie sono inflessibili: “torni domattina”. Che fare? Non posso permettermi di perdere un giorno per Saqqara, ma d’altra parte non voglio rinunciare a vedere la piramide a gradoni. Allora uso la tattica che ha funzionato a Giza e chiedo alle guardie: “chi comanda qui?” I custodi sono colti un po’ di sorpresa, esitano; io “colgo il varco” e incalzo: “portatemi da chi comanda”. Si vede che le guardie hanno voglia di chiudere subito il loro turno, ma soprattutto non hanno voglia di “complicazioni”; ma cosa vorrà questo strano viaggiatore su una strana moto, vestito in modo strano (sono con un giubbotto di pelle a 30°, con la gente intorno in pantaloncini corti e maglietta)? Alla fine le guardie cedono e mi portano dal comandante, che, nel suo ufficio, sta tranquillamente fumando; è l’immagine del “non voglio problemi”; non lo faccio parlare e gli dico subito che mi bastano 5 minuti, fino alla piramide in moto e ritorno, non creo problemi. Mi fa cenno di andare, con un sorriso. Ringrazio e mi precipito fuori. Si alza la sbarra; ho perso solo 8 minuti; e non devo nemmeno pagare il biglietto. La piramide è posta presso una grande oasi: vedo migliaia di palme, una enorme macchia verde che contrasta con l’aridità del deserto, posta poco sotto il livello della strada che sale verso il sito della piramide. Raggiungo l’antica piramide a gradoni, mentre gli ultimi turisti vanno tutti in direzione opposta, verso l’uscita, a chiusura della giornata. Arrivo davanti alla piramide ed un altro custode, incredulo del vedermi arrivare a quest’ora, mi fa cenno che è tardi e me ne devo andare; lo zittisco con un perentorio “ho il permesso del capitano; 5 minuti, una foto e vado via”; poi, per non perdere tempo col cavalletto, chiedo alla stessa guardia di farmi una foto. Bene, anche questa è fatta. Saqquara è diversa dalle altre piramidi egizie; è fatta a gradoni (6), per un altezza di 60 m. Anche questa era rivestita di calcare bianco (ora non più presente). È il più antico monumento in pietra del mondo, quasi un secolo precedente alla piramide di Cheope (Lonely Planet, Egitto, 2008). Resto qualche minuto a guardare la piramide; ormai sono l’ultimo turista. Penso a quanta storia ho davanti e… quanto sono lontano da casa. Sono le

16.30 (sono stato puntuale, ho mantenuto la parola data al capitano), mi trovo nel punto più lontano da casa raggiunto nel viaggio; qui e in questo momento comincia il ritorno. –––––––– Faccio dei rapidi calcoli; ho ancora un’ora e mezzo di luce; decido di arrivare sulla costa del Mar Rosso, dove non dovrei avere problemi a trovare alloggio per la notte. Ho voglia di uscire subito dalla confusione del Cairo. Per arrivare al Mar Rosso ho 2 possibilità: la strada che ho fatto all’andata e un’altra, più meridionale, segnata sulla carta come autostrada a pagamento, più lunga ma all’apparenza più tranquilla. In ogni caso, devo tornare sulla trafficata circonvallazione del Cairo, almeno per un tratto. Scelgo la strada più lunga. Ripercorro, stavolta verso nord, la strada secondaria lungo il ramo laterale del Nilo e quindi mi immetto nel traffico del Cairo. Sulla circonvallazione della capitale egiziana, non ho problemi a trovare lo svincolo per il Mar Rosso, anche perché lo avevo memorizzato sul gps all’andata. Il pedaggio dell’autostrada verso il Mar Rosso è minimo. È un’ottima strada, in buone condizioni e poco trafficata. Sono felice della scelta fatta; è stata una giornata intensa e ho bisogno di arrivare, senza problemi, ad un posto per riposare. Il sole si abbassa alle mie spalle, arrossando il Deserto Orientale. Arrivo presso la costa del Mar Rosso che è ormai buio; sono 50 km a sud di Suez e decido di puntare verso nord (la strada che dovrei comunque percorrere domani), in una zona che presumibilmente disporrà di alcune strutture turistiche. Dopo qualche chilometro, però, ancora non trovo niente; ricordo allora di aver memorizzato sul gps un albergo in questa zona (le coordinate mi erano state fornite dallo stesso amico del punto del porto di Aqaba). Individuo l’ingresso del residence (presidiato da un guardiano): immagino che sia piuttosto caro, ma la situazione mi induce a non pensare tanto al risparmio e quindi percorro il lungo viale di accesso, in direzione del mare. Arrivato all’albergo, ho la conferma visiva che siamo sicuramente ad un livello ben superiore al bungalow col tetto in paglia dell’ultima

notte; infatti costa l’equivalente di 47 euro, la cifra più alta finora per una notte. Ma ha tutti i comfort, compresa la connessione internet in camera; ne approfitto per comunicare con l’Italia. E adesso riposiamo; domani c’è il Sinai. 8.3.2010 – lunedì – giorno 8 Sud Suez (ET) (7.40) – Nuweiba (ET) (18.09) km 561, viaggio h 10.29, guida h 8.25 Oggi non parto presto come mio solito: me la prendo un po’ più comoda, anche perché la colazione in albergo è pagata e non inizia prima delle 7. Mi sveglio comunque presto e faccio una passeggiata fino alla spiaggia dell’albergo: si tratta di un bel complesso, dotato di piscine, ampi spazi alberati, prati e, appunto, una spiaggia. Calcolo in modo di arrivare alla spiaggia proprio all’alba ed ammiro quindi il magnifico sorgere del sole, al di là dello stretto braccio di mare (golfo di Suez, Mar Rosso), dietro alle montagne del Sinai. La lunga spiaggia è deserta; temperatura ancora fresca: 19°. La mia prossima meta è proprio lì, davanti a me, oltre questo stretto golfo, il monte Sinai. Ma per arrivarci devo prima risalire verso nord, fino a Suez, per poi ridiscendere a sud. Non posso certo attraversare il Mar Rosso come Mosè che, proprio in questa zona, sfuggì all’esercito egiziano che lo inseguiva, portando in salvo il suo popolo. Il Signore disse a Mosè:… “Prendi in mano il bastone e stendilo sul mare. Così aprirai un passaggio nel mare perché gli Israeliti possano camminarvi all’asciutto”. Allora Mosè stese il braccio sul mare. Per tutta la notte il Signore fece soffiare da oriente un vento così forte che spinse via l’acqua del mare e lo rese asciutto. Le acque si divisero e gli Israeliti entrarono nel mare all’asciutto: a destra e a sinistra l’acqua era per loro come un muro. Gli Egiziani li inseguirono: tutti i cavalli del faraone, i carri da guerra e i cavalieri entrarono nel mare dietro a loro … Il Signore disse a Mosè: “Stendi di nuovo il braccio sul mare: le acque ritornino sui carri da guerra e sui cavalieri egiziani!”. Mosè ubbidì. Sul far del mattino il mare tornò al suo livello normale.

Gli Egiziani in fuga gli si diressero contro. Il Signore li travolse così nel mare… neppure uno si salvò. (Esodo 14,15-28. Tutte le citazioni della Bibbia sono tratte dalla traduzione interconfessionale in lingua corrente, LDCABU, 1985). Torno nell’albergo a fare colazione e parto. Costeggio il golfo di Suez verso nord, lungo la solita superstrada con pedoni che attraversano senza preavviso e veicoli di ogni tipo, compresi quelli a trazione animale, con qualche indicazione stradale solo in arabo, e in breve entro a Suez. Simpatici degli operai egiziani che si sbracciano da un pullmino per salutarmi. Giro un po’ in città, cercando quello che non sono riuscito a trovare all’andata: un punto da dove vedere bene il canale. Riesco a raggiungere l’imbocco sud di questa opera imponente, da dove si possono osservare le navi che, provenienti dall’oceano Indiano e dal Mar Rosso, si dirigono verso il Mediterraneo; si possono vedere anche le imbarcazioni dei piloti, ormeggiate all’inizio del canale. Continuo a girare per la periferia di Suez e finalmente riesco a trovare un punto (ricordo che, come notato all’andata, il canale è zona militare ed è quindi proibito avvicinarsi) da dove si può assistere allo strano spettacolo delle navi che “navigano nel deserto”; infatti la presenza di alte dune ai bordi del canale fa sì che, guardando da lontano il canale durante il passaggio di una nave, sembra che quest’ultima stia navigando tra le sabbie del deserto e non nelle acque, non visibili. Rientrato nel Sinai, ne costeggio la costa occidentale, diretto a sud. Comincio a soffrire il caldo, sia per la temperatura, che ormai raggiunge i 33°, che per il sole, che mi ritrovo dritto negli occhi. Sosta gelato. Anche qui i cartelli sono spesso solo in arabo, ma generalmente sono replicati dopo pochi metri da una versione in inglese. Qualche installazione petrolifera in mare, vicino alla costa. Arrivo finalmente al bivio per Sharm El Sheik (a sud) e il monastero di Santa Caterina e il monte Sinai (a est). Ora la strada comincia a salire, lentamente: spero che questo porti un sollievo come temperatura, arrivata a 35°; intanto però, almeno, non ho più il sole negli occhi.

Il paesaggio è desertico, qualche rara oasi ogni tanto. Talvolta la sabbia invade parte della strada. Ormai sono a oltre 1.200 m: la strada è parzialmente ingombra di cumuli di terra, per dei lavori stradali in corso, forse di allargamento; però, in questo modo, la sede stradale, già non molto larga, diventa pericolosamente stretta. A quasi 1.400 m, raggiungo il bivio per il Monte Sinai e il Monastero di Santa Caterina. Ancora 11 km di salita e arrivo ai 1.600 m del monastero: l’ultimo breve tratto dell’ascesa è sterrato, ma dal fondo compatto e regolare. L’antico monastero fu eretto dall’imperatrice romana Elena nel 330, per gli eremiti locali, accanto a quello che si riteneva fosse il roveto ardente dal quale Dio aveva parlato a Mosè. In quel tempo Mosè portava al pascolo il gregge di suo suocero Ietro. Una volta condusse il gregge oltre il deserto e arrivò fino all’Oreb, la montagna di Dio. Gli apparve allora l’angelo del Signore come una fiamma di fuoco in un cespuglio. Mosè osservò e si accorse che il cespuglio bruciava ma non si consumava. Pensò allora di avvicinarsi per rendersi conto meglio di quel fatto straordinario; egli voleva capire perché il cespuglio non veniva consumato dal fuoco. Il Signore vide che si era avvicinato per guardare e Dio chiamò dal cespuglio: “Mosè, Mosè!”. Egli rispose: “Eccomi!”. Il Signore gli comandò: “Fermati lì! Togliti i sandali, perché il luogo dove ti trovi è terra sacra! Io sono il Dio di tuo padre, lo stesso Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Mosè si coprì la faccia perché aveva paura di guardare Dio. (Esodo 3,1-6) Nel VI sec. l’imperatore Giustiniano fece costruire una fortezza intorno alla cappella originaria e da allora il monastero è diventato meta di pellegrini provenienti da ogni parte del mondo. Da tenere presente che Mosè è considerato un profeta da tutte e tre le grandi religioni monoteiste (Cristianesimo, Ebraismo e Islam). Il monastero è dedicato a Santa Caterina, una martire originaria di Alessandria d’Egitto, il cui corpo fu portato secondo la tradizione dagli angeli fin

sulla montagna più alta d’Egitto (il vicino Gebel Katarina, 2.642 m) e ritrovato 300 anni dopo dai monaci del monastero. La vista del monastero desta una grande emozione: in mezzo alle brulle montagne del Sinai, proprio alle pendici del sacro monte Sinai, appare improvvisamente, dall’aspetto imponente di una fortezza. Passo accanto alla guesthouse del monastero e giungo quindi con la moto ad un cortile, sul lato occidentale del complesso, attraverso il quale c’è un’entrata secondaria al monastero stesso. Purtroppo è aperto solo la mattina (dalle 9 alle 12, adesso sono le 15), come mi conferma un monaco che però mi promette che mi farà entrare, tra un po’. Nell’attesa, giro intorno al monastero, con qualche difficoltà, perché nell’ultimo tratto la strada diventa molto stretta e un po’ tortuosa, poco più di un viottolo. Arrivo con la moto al lato settentrionale, quello più imponente. È davvero spettacolare! Con le sue mura massicce e alte; in effetti sembra più una fortezza che un monastero, ma, d’altra parte, i tempi in cui fu costruito erano periodi difficili, in cui anche i luoghi religiosi dovevano essere difesi non solo con la parola. Raggiungo infine l’angolo nord-est, da dove si ha la visione più bella del monastero, con i suoi massicci torrioni. Da qui si continua solo a piedi o a dorso di cammello. In questa zona stazionano diversi beduini, con i loro cammelli (alcuni col fuoristrada), in attesa di clienti per la salita al Monte Sinai (2.285 m). Da questo punto infatti parte il sentiero che porta in cima. È un posto magnifico; oltre alla bellezza del paesaggio, con l’imponente monastero-fortezza sotto le rocce strapiombanti del monte Sinai, il selvaggio ambiente desertico, anche solo il pensiero di essere in questo luogo biblico, dove Dio parlò a Mosè e incise le Tavole della Legge, mette i brividi. Mosè rimase sul monte con il Signore quaranta giorni e quaranta notti, senza mangiare e senza bere. Il Signore scrisse sulle tavole di pietra le parole dell’alleanza, i dieci comandamenti. (Esodo 34,28). Mi arrampico qualche metro sulle rocce, mi siedo e resto un po’ ad osservare; e a pensare.

I beduini si avvicinano, non tanto per un nuovo “cliente” (non intendo salire sulla montagna), ma per pura curiosità, verso l’uomo e la macchina. Chiacchieriamo un po’ (la continua frequentazione con i turisti ha insegnato loro un po’ di inglese), mi chiedono da dove vengo e soprattutto sono attratti dalla moto, probabilmente la prima (e l’ultima) del genere vista nella loro vita. Ricorderò sempre il sorriso di uno di loro, felice e sorridente nella foto scattata con lui in sella alla mia moto. Torno all’ingresso laterale del monastero e qui il monaco, come promesso, mi fa entrare, nonostante ufficialmente il monastero sia ormai chiuso. Non voglio disturbare i monaci e quindi mi attengo scrupolosamente alle indicazioni di non uscire dai luoghi aperti al pubblico. Entrato nel monastero, la prima cosa che mi colpisce sono le vie, strettissime: lo spazio era evidentemente prezioso in questa pur vasta fortezza e quindi, tra celle dei monaci, edifici religiosi e di servizio, non bisognava sprecarne. Dall’interno del monastero, le circostanti montagne sembrano ancora più incombenti, quasi una seconda cinta muraria che lo circonda tutto. Individuo subito il campanile della Chiesa della Trasfigurazione, l’unico edificio visibile dall’esterno; quindi entro nella chiesa, in fondo alla quale, a sinistra sotto l’altare, è la zona più sacra di tutto il monastero: la cappella del Roveto Ardente. E qui non ci sono parole per descrivere la mia emozione. Dopo aver girato un po’ tra le strette vie del monastero e respirato ancora qualche minuto quell’aria di sacralità che permea tutto il luogo, esco dal monastero dallo stesso ingresso laterale da dove sono entrato. È ora di tornare “al mondo”. Guardo l’orologio: è troppo presto per dormire qui, ma forse troppo tardi per arrivare con la luce a Nuweiba, da dove lascerò l’Egitto col solito traghetto per Aqaba. D’altra parte gli orari dei traghetti per Aqaba sono talmente inaffidabili che potrei fare tutti i calcoli del mondo per prendere il traghetto di mezzanotte e poi ritrovarmi puntuale in porto a prendere quello… del mattino. Concludo che la cosa migliore è partire: prevedo che il tramonto mi coglierà comunque a pochi chilometri da Nuweiba, quindi non dovrei avere problemi.

Un’ultima occhiata al complesso del monastero, un saluto ai beduini che stazionano, molti sui cammelli, intorno ad esso, e comincio la discesa, forse nel momento più bello della giornata, col sole al tramonto che infuoca le montagne, ogni singola pietra, col vantaggio di averlo alle spalle. La luce e l’ambiente sono talmente belli e suggestivi che, nonostante la premura di arrivare alla costa prima del buio, non posso fare a meno di fermarmi per fotografare questi momenti. La strada scende, sinuosa, verso la costa, dai 1600 m del monastero. Passo accanto all’aeroporto di Santa Caterina e mi domando che senso abbia arrivare in questo posto in aereo, scendere dal velivolo e fare i pochi chilometri fino al monastero; ma ognuno, ovviamente, viaggia come gli pare. Le ombre si allungano e, gradualmente, l’oscurità scende sul deserto. Supero le ultime alture che si frappongono fra me e il Mar Rosso e vedo le luci delle navi ormeggiate nel porto di Nuweiba. Ma non è la mia nave. Raggiunto il porto, chiedo subito informazioni sul traghetto. Dopo un po’ di ricerche, riesco a individuare la biglietteria, ma è chiusa; chiedo in giro e mi dicono che la nave partirà solo domani (quella lenta), non si sa a che ora; in ogni caso la biglietteria aprirà solo domattina o forse stasera, per un po’. E io che speravo di partire stasera! Questo traghetto è proprio un disastro: non si sa quando parte, quando arriva, se parte, quale parte (ce ne sono due, ma quello veloce non lo trovo mai)! Mi rassegno: fino a domani sono ancora bloccato in Egitto. Ora però è meglio trovare da dormire: la situazione qui nel porto è perfino peggiore che in Giordania: c’è ancora più confusione e sporcizia, nessun riparo; meglio non passare la notte qui. Inoltre so già per certo che prima di domattina non si parte, quindi meglio dormire comodi. Raggiungo con la moto la vicina Nuweiba e trovo (nonostante la mancanza quasi assoluta di indicazioni) un residence/campeggio. È molto semplice (anche più di quello di due giorni fa), ma bellissimo: semplici capanne di paglia e canne poste direttamente sulla spiaggia, un’analoga struttura che funge da ristorante; un posto perfetto per rilassarsi, fuori dal mondo, anche per giorni, su una spiaggia tropicale.

Dopo il record (massimo) di ieri, oggi stabilisco quello minimo di costo per un pernottamento: 3 euro. Parcheggio la moto proprio davanti alla mia capanna, con qualche difficoltà per passare sulla sabbia. Dopo essermi sistemato, torno al porto per controllare la situazione (voglio essere sicuro delle prime informazioni ricevute; non vorrei che la nave partisse senza di me); è confermato, la nave non parte prima di domattina: mi dicono che posso presentarmi domani, “con comodo”. Torno al residence, per la mia ultima notte in Egitto. 9.3.2010 – martedì – giorno 9 Nuweiba (ET) – Porto di Aqaba (HKJ) (20.45) – Aqaba (HKJ) (0.38) km 28, viaggio h 3.53, guida h 0.54 Anche questa mattina posso prendermela comoda. C’è tutto il tempo per un giro nel residence (breve, per la verità, essendo vasto poche decine di metri), una passeggiata per la spiaggia deserta, un bagno nelle acque del Mar Rosso, una doccia. Carico la moto, tranquillamente parcheggiata sulla sabbia a due metri dalla capanna, e vado al porto. Qui finisce la pace e la tranquillità. Per prima cosa devo fare il biglietto. Dopo un po’ d’attesa, l’ufficio apre; quello giordano al confronto di questo sembra un ufficio svizzero. La gente si accalca ovunque, chiede informazioni, mostra documenti; di file ordinate manco a parlarne; gli addetti, d’altra parte, sono di una simpatia e cordialità… pari a zero, rinchiusi dietro le loro sbarre. Sembra che ogni informazione sia elargita come un generoso dono. Trovo un ragazzo inglese che viaggia insieme a un siriano e faccio un po’ di file con lui, scambiandoci informazioni (anche se abbiamo esigenze diverse, poiché lui è a piedi). Riesco comunque a fare il biglietto, anche stavolta per il traghetto lento (c’è solo quello, ma quello veloce dov’è?!); costa qualche dollaro in più dell’andata (109 contro 104), per qualche misterioso motivo. Incontro un simpatico ragazzo russo, che sta girando il mondo… in bicicletta! La sua mountain bike è attrezzata con borsoni da viaggio e freni a disco anteriori e posteriori (ma senza cavalletto). È partito dalla Russia diversi mesi fa e sarà in viaggio ancora per

molto. Il biglietto per Aqaba gli sembra caro e probabilmente cercherà un altro sistema per entrare in Giordania: lo avviso del “problema” Israele. Sbrigata la pratica biglietto (sono ormai le 10.30), affronto adesso quelle ben più complesse doganali. Entro nel piazzale del porto e comincio la ricerca dei vari uffici. E chi vedo, più o meno nello stesso punto in cui l’ho lasciato tre giorni fa? Il funzionario doganale egiziano che mi aveva assistito (insieme ad altri viaggiatori) al mio ingresso in Egitto. Stavolta però non mi dà nessun aiuto, limitandosi a salutarmi: che si ricordi del fatto che non gli ho dato nessuna mancia? Non mi perdo d’animo e comincio dal primo ufficio che capita; in uscita ci sono meno tasse da pagare (l’assicurazione l’ho fatta all’entrata in Egitto, la targa la devo semplicemente restituire), ma il giro tra i vari uffici è semplicemente allucinante! La cosa assurda di tutta questa burocrazia egiziana è che non solo i vari timbri necessari per completare l’iter di uscita dall’Egitto sono ognuno di competenza di un ufficio diverso, non solo i vari uffici sono fisicamente posti in edifici distinti e a volte anche distanti, non solo ogni ufficio sembra infischiarsene delle competenze del successivo, non solo ogni ufficio, finito il proprio compito, non informa su quale sia l’ufficio seguente, ma non c’è nemmeno qualcuno che (ufficialmente) ti dica che hai finalmente terminato il tuo giro e puoi quindi andare alla nave per imbarcarti tranquillamente. Praticamente un grande “gioco” dell’oca, in cui però non vedi il tabellone. Vago per il grande piazzale del porto, a volte a piedi, a volte in moto, sotto un sole implacabile che fa salire la temperatura ben oltre i 30° (nei pochi tratti all’ombra; al sole meglio non pensarci). Allucinante, veramente; la peggiore dogana che abbia mai dovuto affrontare in vita mia. Noto però anche le condizioni di lavoro degli impiegati egiziani; in uffici spesso fatiscenti, su sedie traballanti, in mezzo a pile di carte accatastate ovunque (in scaffali strapieni, su tavoli consunti, per terra); a volte senza niente da fare; niente aria condizionata e pochissimi pc. La macchina burocratica egiziana mi dà l’impressione di un apparato enorme, tecnologicamente e organizzativamente molto arretrato.

Come scritto prima, il funzionario stavolta non mi aiuta, ma io, testardamente, ogni tanto vado da lui e gli chiedo qual è l’ufficio successivo. In fondo ha la divisa della polizia turistica egiziana: non può rifiutarsi di dare un minimo di informazioni e quindi, magari non proprio di buona voglia, qualche indicazione me la dà. Comunque sia, alla fine ottengo tutti i timbri e arrivo all’imbarco del traghetto: sono quasi le 15. Sembra che finalmente ce la stia facendo ad uscire da questo paese. Ma ancora non è finita. Entro nella nave; per il caldo e il protrarsi dell’attesa, negli ultimi metri ho tolto il casco e l’ho agganciato dietro, sotto il baule della moto, all’apposito gancio. Grave errore: non lo fate mai, non toglietevi il casco dalla testa fino a che non siete scesi dalla moto. Immobile nella stiva, in sella alla moto, attendo che gli addetti mi diano le indicazioni su dove parcheggiare; improvvisamente sento un urto, da dietro a destra. L’impatto è leggero, ma la moto si piega a sinistra e non riesco a raddrizzarla; resisto qualche secondo, ma poi la gamba sinistra cede a mezza tonnellata di moto, che cade a terra. Cos’è successo? Mi guardo intorno e vedo un’auto dietro la mia moto, con gli addetti della nave che ancora stanno gridando al conducente di stare attento e fermarsi. Un egiziano, facendo manovra, non mi ha visto (o ha calcolato male gli ingombri) e mi ha urtato, per fortuna a bassa velocità, proprio sul casco (appeso dietro), spingendo quindi la moto e provocando la caduta. Rialzo la moto, che fortunatamente (vista la velocità dell’impatto e la caduta in piano) non si è fatta praticamente niente, appoggiandosi sugli appositi sostegni. Ma, avendo preso in pieno l’urto, il problema è il casco: la visiera è volata via (è un casco jet). La recupero e controllo i danni: ha un graffio e soprattutto non so se il delicato meccanismo di plastica che la aggancia al casco è ancora integro. Già mi vedo attraversare tutto il Medio Oriente senza visiera! Mi precipito verso l’egiziano, rimproverandolo per la manovra e mostrandogli i danni al casco. Intanto cerco di riagganciare la visiera. L’egiziano, con una faccia da ebete, fa finta di nulla, come per dire “non ho fatto niente”; a quel punto mi arrabbio davvero, ormai è diventata una questione di principio; costi quel che costi, ma

questo non la farà franca! Insisto, con forza, chiamo a testimoni tutti gli addetti della nave presenti, mi rifiuto di spostare la moto (bloccando in questo modo le manovre di caricamento degli ultimi veicoli), alzo la voce, fino a che qualcuno mi dà retta. Finalmente alcuni addetti si avvicinano e confermano la mia versione, che cioè l’egiziano mi è venuto addosso con la sua auto. Parcheggiata la moto, torno alla carica con l’egiziano, che continua a fare spallucce. Va bene, vuoi la guerra: che guerra sia! Non sopporto la strafottenza, da qualunque livello provenga; che sia quella di un ricco alto funzionario o di un morto di fame. La nave batte bandiera giordana, ma siamo in acque egiziane, quindi la competenza è delle autorità di questo paese. Chiedo, ad alta voce, l’intervento della polizia. Scandisco chiaramente le parole “tourist police” e mi piazzo in mezzo alla stiva, come a dire: “la nave non parte fino a che non arriva la polizia”. Arriva un ufficiale della nave e cerca di sistemare le cose, ma l’egiziano continua a fregarsene e io d’altra parte ovviamente insisto, mostrando il graffio alla visiera (intanto sono riuscito a rimontarla sul casco, quindi il timore maggiore è svanito). “Questa visiera in Italia costa decine di euro, il casco 500; pretendo almeno un piccolo risarcimento per il graffio alla visiera; almeno 10 euro, per principio”. “Tourist police” ripeto con fermezza; e alla fine chiamano la polizia. E chi mi arriva, ancora una volta? Sempre quel funzionario di prima, quello che mi aveva assistito all’andata e (parzialmente) al ritorno; più andiamo avanti e più mi convinco che forse avrei fatto bene a dargli una mancia; vabbè, pazienza, continuiamo, ormai è una battaglia di principio che sto combattendo, non una economica. Negli occhi del funzionario vedo per un attimo passare un lampo, come per dire “ancora questo qui mi ritrovo, ora che vuole?”. Lo avrò svegliato dal riposino pomeridiano (l’ora è quella)? Mi avvicino subito a lui e gli do la mia versione (in inglese), prima che senta quella dell’altro. Poi parla con l’egiziano (in arabo, ovviamente); temo di non avere molte speranze, forse il suo giudizio sarà un po’ di parte. Il funzionario torna verso di me e cerca di sistemare la questione, come farebbe un qualsiasi svogliato funzionario mediorientale: “lascia perdere”, mi dice. “Lascia perdere un c###o!” gli rispondo (parzialmente) in inglese: mi avete fatto penare per ore per entrare e

uscire in questo paese, mi avete sottoposto alle vostre assurde, complicate e costose regole doganali; adesso lavorate per quello per cui io (anche) vi ho pagato: risolvete i problemi, invece di crearli, per una volta! Il funzionario egiziano capisce che non mollo, ma, d’altra parte, l’autista egiziano continua a ignorare le mie richieste. Allora gioco il tutto per tutto; pretendo l’apertura di una inchiesta ufficiale sull’incidente; il funzionario non può sottrarsi a questa richiesta, essendo l’incidente avvenuto in territorio egiziano e quindi (come immaginavo, certe regole giuridiche sono uguali in quasi tutto il mondo) invita me e l’autista egiziano ad uscire dalla nave, per procedere ad una inchiesta formale. Avete voluto 175 euro per un’assicurazione temporanea di 3 giorni; ora dimostratemi che non sono soldi rubati! Ho deciso di giocare il bluff e quindi mi avvio alla moto, come per uscire dalla nave; il funzionario mi guarda, un po’ smarrito; ma finalmente anche l’autista egiziano mi guarda, con un’aria non più strafottente. Sarà anche un morto di fame o uno strafottente, ma non può ignorare il rischio di perdere il traghetto. Io faccio l’indifferente, come se di partire oggi o domani non me ne importi niente. È il momento. Il funzionario si avvicina all’egiziano, gli parla, probabilmente sta cercando di farlo ragionare; vedo che l’autista egiziano esita. Li guardo con la coda dell’occhio e, con finta indifferenza, salgo sulla moto e la sposto, come per scendere dalla nave. I due egiziani si avvicinano e il poliziotto mi dice di fermarmi. L’autista ha in mano una banconota; la guardo con aria di sufficienza: è giordana, da 5 dinari (poco più di 5 euro). “No, non basta. Ho detto 10!” L’egiziano si ritrae, il poliziotto lo ferma; l’autista fruga nelle proprie tasche e tira fuori qualche altra banconota stropicciata e qualche moneta. Ad occhio ci siamo, siamo a 10 euro, più o meno. Forse salterai la cena, per questo. Oppure magari i soldi ce li hai (non tanti, a giudicare dall’auto scassata che guidi); ti avrei anche lasciato andare, abbonandoti il danno, se non avessi fatto tanto lo strafottente e mi avessi invece chiesto scusa, ammettendo il tuo torto; ma adesso devi pagare. Prendo i soldi e gli stringo la mano. Ringrazio e saluto il poliziotto e faccio cenno agli addetti della nave che è tutto a posto; possiamo salpare.

Lego la moto e salgo sul ponte. Ancora non si parte; stavolta io non c’entro; non ho provocato veri ritardi col mio incidente; tutto è durato pochi secondi. Inutile chiedersi il perché del ritardo; quando tutto sarà pronto, si partirà; l’orario previsto di arrivo slitta dal pomeriggio alla sera. Approfittiamone per pranzare e… cenare. Sulla nave la solita confusione, con gente che riposa per terra, sui divani, sulle sedie. Quasi tutti arabi, soprattutto egiziani. Osservo in particolare le donne arabe. C’è abbastanza “varietà”; da quelle vestite all’occidentale (non molte, per la verità, comunque in modo “castigato”), a quelle col fazzoletto in testa, a quelle col velo (il niqab, che lascia scoperti solo gli occhi), a quelle infine col burka, una tunica che le copre completamente, con solo una retina all’altezza degli occhi per consentire loro di vedere. Nessuna, mi sembra, che viaggi sola. Rifletto sulla loro condizione, soprattutto di quelle che portano costumi più “tradizionali”, che lasciano immaginare una situazione di “libertà limitata”. Quante si vestono così per libera scelta e quante, in un modo o nell’altro, vi sono costrette? Finalmente la nave parte; anzi, è già partita. Stanco di controllare in continuazione, siamo salpati mentre, steso su un divano, facevo il punto sul viaggio: sono arrivato in Egitto, percorrendo velocemente in 5 giorni la strada fino ad Aqaba e impiegando 4 giorni per visitarlo (di cui 2 per questo assurdo traghetto). Ora ho 13 giorni per tornare a casa, più lentamente, fermandomi a visitare vari luoghi in Medio Oriente, compreso il temuto passaggio in Israele e Siria. Anche di questo parlo col ragazzo inglese, che ho ritrovato sulla nave; col suo amico siriano ometto di parlare del previsto passaggio in Israele. Si fa sera, arriveremo tardi.

5. Giordania Sono circa le 19, vedo le luci di Aqaba. Scendo nella stiva per controllare la situazione della moto e mettere a posto il bagaglio, in modo da essere pronto a uscire appena si apre il portellone, per puntare verso il Wadi Rum e pernottare lì (non mi va di fermarmi ad Aqaba, mi attira molto di più il deserto). Inserisco la chiave, la giro per avviare il motore e spostare di un po’ la moto e… non succede nulla: la moto non parte! Riprovo: nulla, niente da fare, la moto resta muta; nessun segno, nessuna luce, nessun rumore. Attimo di panico; poi rifletto. Ieri avevo notato che a volte alcune luci posteriori non si spegnevano, poi il problema sembrava essere passato. I sintomi attuali mi fanno pensare a un guasto elettrico. Accedo alla batteria e controllo gli attacchi: tutto in ordine, ma la moto continua a non dare segni di vita e tutto è spento. Mai, mai durante i miei viaggi la mia moto ha avuto un guasto che l’abbia bloccata; l’anno scorso, in Mongolia, ho rotto i paraoli e ammaccato il cerchio anteriore, ma quello era un incidente, provocato dalle buche: un guasto mai. Devo cercare di risolvere il problema, che non è solo la moto che non parte, ma anche le sue immediate conseguenze: fra un po’ il traghetto attraccherà, al buio, nel porto di una remota città araba, a diversi chilometri di distanza dalla città, in un luogo quindi dove non troverò officine o meccanici che possano aiutarmi. Che il primo “blocco” della moto in viaggio mi capiti a 5.000 km da casa, in zona “disagiata”, non è un fatto fortunato, ma, visti i miei viaggi, da mettere in conto. Torno sul ponte del traghetto e cerco aiuto; chiedo dei cavi per far partire la moto, collegata a un’auto (penso che, in questo modo, riuscirò almeno ad avviarla), ma non trovo nulla: l’equipaggio mi tranquillizza con un serafico “si troverà qualcosa ad Aqaba”. Non mi resta altro da fare che aspettare: alla peggio, posso sempre partire a spinta (forse; almeno qualche volta ci ho provato e ce l’ho fatta). Passa oltre un’ora prima che la nave attracchi e siano completate le complesse procedure burocratiche dello sbarco, con i funzionari

giordani che salgono sul traghetto. Intanto penso: l’alternatore è nuovo (un mese), la batteria quasi (un anno), cosa può essere? Adesso finalmente possiamo sbarcare. Sono le 20.45; scendo con la moto dalla nave, sfruttando la pendenza favorevole della rampa di sbarco, e mi fermo nel piazzale. Chiedo a qualcuno di prestarmi dei cavi (visto il “parco macchine” locale, rivolgo la richiesta solo ad auto in buono stato) e si ferma una Mercedes (nuova) giordana: collego i cavi e la moto parte al primo colpo! Bene, almeno adesso posso muovermi! Il gentilissimo giordano, quando faccio per restituirgli i cavi, me li regala, nel caso mi servano ancora. Ringrazio. Alcune luci posteriori, però (le stesse che davano problemi prima), restano accese, anche quando tolgo la chiave dal quadro. Accelero: la moto sembra rispondere bene, vedo dal voltmetro che la batteria ha un livello di carica discreto e decido quindi di raggiungere Aqaba, che dista alcuni chilometri; poi vedremo. Ma, dopo un paio di chilometri, mi rendo conto che c’è qualcosa che non va. Per quanto stia marciando quasi a luci spente (e con tutti gli accessori staccabili spenti), il voltmetro comincia a scendere: 12, 11, 10. So che se scende sotto i 10 V la moto, inevitabilmente, si spegne, anche se sono a 100 km/h. Sono leggermente nei guai; mi trovo in una zona desertica, su una strada poco frequentata, al buio e la moto si può spegnere da un momento all’altro. Scalo le marce e tengo su di giri il motore, nel tentativo di caricare il più possibile la batteria: spengo anche le luci di posizione, limitandomi ad accenderle solo in presenza di altri veicoli (sperando che non le abbiano spente anche loro, cosa possibile, viste le abitudini di guida degli indigeni). Col motore che si chiede perché mai sto usando la seconda o terza marcia a 70 km/h (a un regime di oltre 4.000 giri, inusuale per la mia moto), riesco a tenere la batteria ad un “livello di sopravvivenza” al limite dei 10 V. Quando sono costretto dalla strada a decelerare sento che la moto sta per spegnersi, ma riesco sempre a recuperarla in extremis, con delle abnormi sgasate. In questo modo riesco ad arrivare alla periferia di Aqaba. Punto verso il centro, cercando un albergo (un meccanico a quest’ora è improbabile), in modo da avere un ricovero sicuro per la notte (per la moto e me) e affrontare il problema domattina.

Ma la moto va sempre peggio e, dopo qualche giro in città, chiedendo di un albergo ai passanti (il gps non funziona, per il basso voltaggio della batteria), si spegne definitivamente. Proseguo un po’ per abbrivio, sfrutto una pendenza della strada per fare ancora qualche metro e parcheggio mezza tonnellata di moto inerte presso una via (fortunatamente) abbastanza centrale. La moto, ovviamente, non riparte. Scarto l’idea di provare a ripartire con i cavi e un’auto di passaggio, visti i precedenti. Decido di trovare un albergo e risolvere il problema della moto domattina. Giro un po’ a piedi e ne trovo uno abbastanza vicino. L’albergatore mi indica una strada, attraverso la quale dovrei riuscire a portare la moto di fronte all’albergo; c’è un tratto in pendenza favorevole, per il resto, con la sua spinta, potrei farcela; certo meglio provare che lasciare la moto incustodita per strada tutta la notte. Nel tratto di strada in discesa, riesco per qualche secondo a riavviare la moto, ma dura poco e così mi ritrovo di nuovo fermo, su una strada meno centrale della precedente. Decido di provare di nuovo con i cavi, giusto per arrivare all’albergo; fermo un giordano di passaggio in auto, ma la moto non parte lo stesso. Ma il giordano (Abdul) conosce un meccanico e, nonostante l’ora tarda, gli telefona. Dopo un po’ arriva, ma ci capisce poco (probabilmente non ha mai visto una moto del genere) e a sua volta chiama un altro meccanico; questo sembra capirne almeno qualcosa di più, mi chiede qualche dettaglio sulla moto: avviene così un interessante colloquio, sul bordo di una strada semibuia di una remota città mediorientale, tra un viaggiatore italiano che si esprime in inglese e un meccanico arabo che non conosce altra lingua se non la sua. Il meccanico comincia chiedendomi “Dov’è la dinamo?”, mettendomi quindi qualche (ulteriore) dubbio sulla sua conoscenza del mezzo; dopo avergli spiegato che, a differenza delle bici, qui c’è un vero e proprio alternatore (a sinistra), continua armeggiando sul lato destro della moto. Passa il tempo, ma ancora non si riesce a far ripartire la moto; è quasi mezzanotte, ormai, e dico al meccanico di non preoccuparsi: lascerò la moto qui e riproveremo domattina. Ma lui insiste: forse lo considera un punto d’onore riuscire almeno a far ripartire (se non riparare) quella grossa moto.

Dopo diversi tentativi, fa un ponte tra un paio di fili della moto, la collega con i cavi alla sua auto e la moto parte. Né io né lui sappiamo quanto durerà: decidiamo quindi di portare la moto direttamente presso un’officina; non la sua (almeno questo capisco), ma quella di un altro meccanico (forse più esperto). Mi segue in auto Abdul, mentre il meccanico torna a casa; per le ore di tentativi mi chiede solo pochi euro. Arrivati all’officina, lascio la moto lì davanti; Abdul mi rassicura che la zona è tranquilla: nessuno toccherà nulla. Speriamo: copro la moto col telo, ben legato, e Abdul mi accompagna all’albergo (scarico tutti i bagagli dalla moto); domattina Abdul mi prenderà dall’albergo per riaccompagnarmi qui. Lo ringrazio. Domani si vedrà. 10.3.2010 – mercoledì – giorno 10 Aqaba (HKJ) (17.11) – Wadi Rum (HKJ) (18.15) km 77, viaggio h 1.04, guida h 1.00 La mattina, alle 9 (sembra che qui di lavorare prima non se ne parli proprio), come d’accordo, Abdul passa a prendermi in albergo e andiamo all’officina dove abbiamo lasciato la moto stanotte. Il meccanico ancora non c’è; Abdul mi invita nel suo ufficio (è agente immobiliare), posto proprio qui di fronte, e mi offre da bere; è una giornata molto calda e apprezzo l’aria condizionata della stanza. Abdul mi racconta che Aqaba è una città in grande espansione e ci sono molti compratori, soprattutto ricchi arabi sauditi, che acquistano seconde case qui. Torniamo in officina, dove intanto è arrivato Mohamed, il meccanico. Quando vedo l’officina, le mie speranze di riparare la moto calano drasticamente e comincio istintivamente a pregare. L’officina si presenta come un minuscolo locale, all’interno del quale regna una gran confusione; olio per terra, pezzi meccanici di vario genere (alcuni rotti, altri nuovi, altri “riparabili”) sparsi ovunque. I veicoli da riparare sono all’esterno: si tratta in maggioranza di… biciclette; i mezzi tecnologicamente più avanzati che vedo sono degli scooter, al massimo 125 cc. Prima di cominciare, mi offrono il te; beviamo insieme, mentre io penso a quante tazze di te dovrò sorbirmi prima di uscire con la moto da questo buco.

Spiego anche a lui la struttura fondamentale della Gold Wing e l’urgenza del problema (devo continuare il viaggio); guardiamo un po’ insieme. Non va bene, non va per niente bene; il meccanico sembra procedere per tentativi e non pare aver individuato il problema. Continua a parlarmi dell’alternatore, ma io gli spiego che è nuovo e lo invito a controllare che l’alternatore carichi, in modo da escluderlo come causa del problema. Ad un certo punto il meccanico sembra alzare bandiera bianca e mi propone di portare la moto a un’officina vicina, probabilmente da un amico meccanico. Va bene, sarà il quarto meccanico arabo a vedere la mia moto, speriamo con miglior fortuna! Intanto mi offre un altro te, ma, mentre stiamo bevendo, noto che il ragazzo dell’officina sta spostando la mia moto, per portarla all’altra officina! Ma è scemo?! La sta spostando come si sposta una moto “normale”; prendendola per il manubrio, in piedi, di lato alla moto. Ma non si sposta così una moto di quasi mezza tonnellata; nemmeno io mi arrischio di spostarla così, mi metto sempre sulla moto e la sposto o col motore o puntando i piedi, mai di lato! Solo i miei meccanici osano spostarla di lato, ma loro sono esperti. Riesco solo ad aprire la bocca, la voce non fa in tempo ad uscire, che quello che temevo e prevedevo accade; il ragazzo perde il controllo della moto, che cade dal lato opposto a lui. Mi precipito. Rimprovero aspramente il ragazzo e il meccanico (è lui che ha dato l’incarico al ragazzo), chiarendo con forza che SOLO IO posso spostare la mia moto: loro si limitino a ripararla, ma che non si azzardino a spostarla di un metro. E comunque quella moto non si sposta così! L’officina dove dobbiamo portarla è vicina, ma… non c’è strada: si deve passare sopra un marciapiede, un pendio sterrato e per finire una breve salita ghiaiosa. Perlustro il percorso che questi incoscienti stavano per fare con la mia moto e li avviso che non è una cosa semplice, a motore spento. Mi metto in sella e, sfruttando le pendenze favorevoli, mi avvio verso l’officina; per le pendenze sfavorevoli non c’è problema: sarà la punizione del ragazzo che ha fatto cadere la mia moto. È lui infatti che sostituisce i 100 cavalli del motore, spingendo da dietro, sotto il sole a picco, i 470 kg della moto. Per l’ultimo tratto (in salita ripida), decido di aiutarlo e trovo

altri due volontari. Io resto sempre in sella, il mio compito è guidare, non spingere: ognuno ha il suo ruolo. Sistemata la moto davanti alla seconda officina, vedo che continua ad occuparsene prevalentemente il precedente meccanico: probabilmente quindi ha voluto portarla qui per ricevere un aiuto, oltre che per il fatto che è un poco più spaziosa (non tanto, comunque, da accogliere la Gold Wing, che infatti resta fuori). Visto che la cosa sembra andare per le lunghe, torno in albergo con Abdul: restiamo d’accordo che, appena ci saranno novità, il meccanico mi avviserà tramite Abdul, che mi riporterà qui. Nella mia camera d’albergo, steso sul letto sotto un ventilatore che cerca di alleviare la calura di questo fine inverno sul Mar Rosso (la frase “Every Room Is Provided With Air Condition”, stampata sul bigliettino bilingue arabo/inglese dell’albergo, è leggermente ottimistica), i miei pensieri sono più numerosi dei gradi di temperatura. È la prima volta che mi capita un guasto in viaggio; sono un po’ spiazzato. L’anno scorso (l’incidente in Mongolia) vedevo qual era il problema, avevo i dati per prendere una decisione. Adesso non so qual è il guasto, mi sento impotente; e un po’ tradito. Come se la fedele compagna di tanti viaggi, che mi ha portato in quasi 60 Stati nel mondo, accompagnato per oltre 600.000 km in 12 anni, ora mi avesse abbandonato. Probabilmente è un problema elettrico, ma quale? Riuscirò a risolverlo, qui? Ci riuscirò in tempi rapidi? E, se lo risolvo, si ripresenterà durante il viaggio, ancora lungo, sia come chilometri che come giorni? Per la prima volta, serpeggia in me un dubbio sull’affidabilità della mia moto. Dopo tanti tipi di strade, paesi, dogane, persone, sarà un banale problema elettrico a fermarmi? A fermarci? Aqaba meriterebbe una breve visita, ma non sono dell’umore giusto e non mi va di immergermi nel caldo della città. Scendo in strada per pranzare; c’è un ristorante proprio sotto l’albergo; propone specialità siriane; già, la Siria, riuscirò a tornarci? Dopo un pranzo buono ed economico, torno in albergo e riposo un po’. Il morale è giù. Improvviso, squilla il telefono. È Abdul: mi

annuncia che la moto è riparata! Riparata? Quasi non ci credo. Dopo pochi minuti Abdul passa a prendermi e mi riporta al meccanico. La mia moto è lì, davanti all’officina. Il caldo sole del pomeriggio la illumina da dietro, facendola luccicare; non tanto, però, da non farmi notare qualcosa di strano: le luci posteriori sono accese. Il meccanico, trionfante, mi comunica che la moto è riparata; io ho un brutto presentimento, dopo aver notato quelle luci. La fattura riporta la sostituzione della batteria e di un relè del motorino d’avviamento, oltre al lavoro, naturalmente. Guardo il meccanico (che sorride), senza sorridere. Gli chiedo cosa ha fatto per risolvere il problema delle luci che restavano accese. Il suo sorriso scompare. Lo porto dietro alla moto, mostrandoli con la mano sinistra le luci accese, mentre con la mano destra tengo in vista la chiave della moto. Il sorriso si tramuta in una smorfia. Salgo in moto e, mostrando platealmente la chiave, la inserisco, la giro e… non succede nulla. Siamo punto a capo, ma non sono sorpreso. Guardo verso il meccanico: è sconsolato. Scendo dalla moto e gli restituisco la fattura. Dopo un lungo, interminabile minuto di silenzio, il meccanico si rimette al lavoro sul fianco destro della moto, dove per primi erano intervenuti gli altri meccanici, questa notte. Gli dico di trovare la dispersione di corrente e il contatto, probabili vere cause del problema. Lui mi dice di aspettare in albergo, dove torno col solito Abdul che, pazientemente, ha assistito a tutta la scena. Sono di nuovo in albergo, di nuovo con i miei dubbi, di nuovo solo, senza la mia moto. Per la prima volta in vita mia si fa strada perfino l’idea di comprarne un’altra; e non so nemmeno se riuscirò a riportarla in Italia. Sono proprio demoralizzato. Ma passa poco, appena due ore, che il telefono squilla di nuovo. È ancora Abdul: la moto è pronta (di nuovo). Andiamo a vederla. Il sole è un po’ più basso, stavolta; la moto è nello stesso posto, ma mi sembra che le luci ora siano spente. Chiedo al meccanico cosa ha fatto, cosa c’è di nuovo rispetto all’ultima volta, che possa giustificare un esito migliore. In questi colloqui, mi fa un po’ da tramite Abdul, poiché è l’unico che, oltre l’arabo, conosce un po’ di inglese. Il meccanico mi mostra dei fili nastrati: dice che ha fatto un

ponte per risolvere il problema. Metto in moto: il motore gira regolare. Faccio un giro nel piazzale, accendo tutte le luci: l’alternatore sembra caricare, la batteria è carica. Metto poi la moto all’ombra, per verificare che, spente le luci, siano effettivamente tutte spente. Controllo: è tutto a posto. Pago i 120 dinari giordani (€ 125) al meccanico. Credo che sia avvenuto questo: 1) un contatto ha provocato una dispersione di corrente e lasciato accese alcune luci posteriori; 2) in seguito a ciò, la batteria si è scaricata, non permettendo l’avviamento della moto; 3) persistendo la dispersione, nemmeno in movimento la batteria riusciva a caricarsi. Il meccanico ha cambiato la mia batteria, ma forse era ancora buona, oppure si era rovinata a causa della continua scarica. Il relè del motorino credo non c’entrasse nulla. Penso che l’intervento risolutivo sia stato l’ultimo, cioè semplicemente l’individuazione della dispersione con la realizzazione del ponte che ha escluso il problema, almeno per ora. Adesso mi trovo con una batteria araba di dubbia affidabilità, un relè cinese di amperaggio leggermente diverso dall’originale Honda, dei fili nastrati, un ponte che dovrebbe escludere il problema elettrico e… 6.400 km e 13 giorni di viaggio davanti. Che fare? Ci metto pochi secondi per decidere; guardo l’orologio: sono le 17.10. Parto subito per il Wadi Rum, stanotte voglio dormire nel deserto sotto una tenda. Il viaggio continua! Ringrazio Abdul, che in questi giorni mi ha ripetutamente accompagnato con la sua auto per Aqaba, e via, verso nord! Decido di compiere tutto il resto del viaggio a luci spente; non mi fido molto della riparazione, in particolare della batteria araba, e voglio sollecitare il meno possibile l’impianto elettrico della moto. In breve esco da Aqaba e comincio la salita verso le montagne. Ho poco tempo; partito da Aqaba alle 17.11, il Wadi Rum dista 77 km e il sole tramonterà alle 17.41. Arriverò quindi dopo il tramonto, ma non troppo tardi; pazienza se mi perderò il tramonto nel wadi, ma un altro giorno ad Aqaba non voglio passarlo, ho bisogno di riprendere il viaggio, ho bisogno di ampi spazi: il deserto mi chiama.

Percorro la comoda autostrada del deserto, da dove sono già passato 5 giorni fa. Arrivo al bivio per il Wadi Rum; la strada ora punta verso est, il sole tramonta alle mie spalle. Il cielo è sereno e ancora azzurro: ho ancora qualche minuto di luce. Ammiro nella luce crepuscolare le formazioni rocciose, che annunciano il Wadi Rum. Rocce isolate, piccole montagne, si ergono dall’altopiano sabbioso, erose dal vento. Più vado avanti, più la sabbia aumenta: sono in pieno deserto. Ecco infine, attesa, l’ultima deviazione verso sud, verso l’ingresso del wadi. Il Wadi Rum è un deserto di montagna, posto circa a m 1.000 di altezza, reso famoso da T. E. Lawrence, che vi abitò durante la Rivolta Araba contro i turchi (1917). Le truppe attraversarono il Wadi Rum durante il percorso per conquistare Aqaba e lo stesso Lawrence vi tornò per utilizzare la zona come base prima di spostarsi verso Damasco. Lawrence descrisse il Wadi Rum nel suo I sette pilastri della saggezza (cit.). È un ambiente di straordinaria bellezza e importanza naturalistica. Area protetta dal 1988, è composto, oltre che dalla valle centrale, da una serie di spettacolari vallate poste per oltre 100 km da nord a sud. La montagna più alta dell’area è il Jebel Rum (1754 m, la più alta della Giordania, dopo il Jebel Umm Adaami, m 1832, posto sul confine con l’Arabia Saudita). Molti dei 5000 beduini che vivono nella zona hanno scelto la vita stanziale nei villaggi di Rum e (appena fuori dai confini dell’area protetta) Diseh e Shakriyyeh (Lonely Planet, Giordania, 2009) Vedo le deboli luci del Centro Visitatori, posto all’ingresso del parco. Alla mia sinistra, la famosa formazione rocciosa dei Sette pilastri della saggezza, che ha dato il nome all’omonimo libro di T. E. Lawrence. Il cielo ancora azzurro, nonostante il sole sia tramontato da un quarto d’ora, contrasta con il colore rossastro di tutto il resto (il terreno sabbioso e le rocce). Arrivo all’ingresso, pago i 2 dinari di biglietto e proseguo. Improvvisa, cala l’oscurità, ma il paesaggio è comunque spettacolare. Mano a mano che mi inoltro nel Wadi Rum, l’emozione aumenta, insieme alla consapevolezza di trovarmi in un posto straordinario, dove “il paesaggio cessò dalla sua parte accessoria, e

si levò sino al cielo, lasciando noi loquaci esseri umani come polvere ai suoi piedi” (I sette pilastri della saggezza, cit., pag. 652). Ho difficoltà ormai, per il buio, a individuare la rocce, ma le “sento”, incombenti, monumentali, maestose, sempre più vicine, a serrare il wadi da est e da ovest, mentre io continuo verso sud. Arrivo infine al villaggio di Rum, unico centro abitato del parco. E’ buio e devo ancora decidere dove dormire. Avevo letto sulla guida della possibilità di pernottare presso il centro visitatori, ma voglio proseguire verso sud, verso il cuore del Wadi Rum, verso il deserto; almeno fino a che è possibile, perché so bene che è impossibile per la mia moto (e per molte altre) affrontare la fine sabbia del deserto, che mi aspetta, inesorabile, al termine dell’asfalto. Percorro il villaggio di Rum, sordo ai richiami dei suoi abitanti, che vorrebbero mi fermassi presso di loro per la notte, e arrivo alla fine del villaggio. Anche l’asfalto finisce, come previsto e ho davanti solo sabbia. Improvviso, nella notte, appare davanti a me un ragazzo (un beduino); mi fa cenno di seguirlo, sulla sabbia, con ampi gesti. Forse non ha ben chiaro il veicolo che sto guidando e gli faccio capire che il fondo sabbioso che mi sta indicando di attraversare non è il più indicato per la mia moto, anzi, ho seri dubbi di riuscire a passare. Il ragazzo insiste e io stesso mi dico: “hai voluto arrivare, testardamente, fino alla fine del villaggio, invece di fermarti comodamente al centro visitatori, dove avresti potuto tranquillamente pernottare, come consigliato dalla guida? E ora “pedala” e vai avanti, altrimenti qui nella sabbia resti, con quella mezza tonnellata di moto che cavalchi!” Tocca a me: accendo tutta la “luminaria” (due fari, due faretti, due fari supplementari) e la notte, di colpo, diventa un po’ meno buia. Un fascio luminoso squarcia la notte e illumina… un’ampia distesa di sabbia, di cui non vedo la fine, segnata da numerosi solchi, tutti di quattroruote. Il beduino, all’accensione del tutto, istintivamente si ritrae un attimo, per poi farsi di nuovo avanti, riparandosi in parte gli occhi con una mano. Ingrano la prima e affronto la sabbia, piano… ma non troppo. Quando la ruota anteriore assaggia il terreno, esita un po’: do gas e avanzo, ma ogni tanto, lo ammetto, mi fermo; non è la moto adatta

per certe cose. Stimo che, almeno qui, sotto la sabbia ci sia qualcosa di più compatto; ma dieci metri più avanti è solo sabbia. Il ragazzo mi fa cenno di entrare in un recinto, dove potrò accamparmi. Ma il recinto è ancora lontano. La ruota posteriore ogni tanto parte in derapata, la moto si scompone tutta, diverse volte devo puntare i piedi; è un po’ peggio che in Tunisia, qui la sabbia mi sembra più fine. Le luci della moto illuminano un varco del recinto, metto la freccia e svolto (sì, direte voi, che metti a fare la freccia in un deserto? Ma è più forte di me). È un ampio recinto, aperto, dove sono presenti alcuni cammelli dei beduini. Trovo un posto lontano dai cammelli e fermo la moto. Ringrazio il ragazzo (Hassan), che mi saluta calorosamente, chiedendomi da dove vengo. Resto d’accordo con lui che domani suo fratello mi accompagnerà con un fuoristrada in giro per il Wadi Rum (Hassan invece guida i cammelli). Monto la tenda. È una magnifica notte quella che sto per passare: poco più di un’ora fa ero ad Aqaba, con la moto guasta e senza sapere se avrei potuto continuare il mio viaggio, e ora le stelle del Wadi Rum illuminano la mia tenda, accampato nel deserto. Sistemata la tenda, mi preparo la cena, col mio fornello. Sono solo, solo nel deserto; il silenzio cala su tutto, c’è una gran pace. Vorrei ritardare il sonno, per assaporare a lungo questi momenti; ma il sonno giunge, puntuale, ristoratore, sereno. 11.3.2010 – giovedì – giorno 11 Wadi Rum (HKJ) (11.26) – Petra (HKJ) (14.32) km 129, viaggio h 3.06, guida h 1.55 La mattina mi sveglio all’alba. La notte, com’è usuale nel deserto, è stata ben più fresca del giorno e il mio sacco a pelo ha quindi giustificato il suo ingombro nel bagaglio. Il programma è girare il Wadi Rum con il fuoristrada, per poi andare a Petra. Per questo motivo non c’è tempo da perdere e vado verso la vicina abitazione dei beduini, dove la famiglia di Hassan mi ha preparato la colazione. Siamo infatti rimasti d’accordo ieri sera di vederci all’alba, per fare colazione e poi partire per il giro in fuoristrada; in questo modo avrò 2 vantaggi: eviterò le ore più calde

della giornata e farò in tempo ad arrivare a Petra oggi (e magari anche a visitarla). La colazione è pronta: il solito ottimo pane arabo (grandi sfoglie circolari), marmellata, uova sode, succo d’arancia; tutto in uno stanzone, dove sono presenti alcuni materassi per terra e… il fratello di Hassan (Yousef), che sta ancora dormendo. Mi spiace svegliarlo, ma è giunto il momento che si guadagni i dinari del giro. Faccio colazione e intanto discuto con Yousef del percorso da seguire; il beduino mi dà una bella cartina del Wadi Rum (più dettagliata della mia) e scelgo tra i vari giri previsti. Ci sono infatti delle escursioni, la cui tariffa varia in base alla durata, da un’ora a una giornata intera (o più). Nel caso poi di giri individuali, è possibile prendere accordi con la guida per personalizzare l’itinerario. Ci accordiamo per un giro di 4 ore, che mi sembra consenta di vedere la maggior parte del Wadi Rum. Segno sulla mappa i luoghi che visiteremo; sono 50 dinari giordani (€ 52). La guida consiglia di prendere i giri organizzati al centro visitatori, ma io non ho il tempo di andare lì, aspettare il mio turno, partire chissà quando; inoltre voglio la libertà di un veicolo autonomo, visto che non posso usare la mia moto. Non mi costa però più di quanto indicato dalla guida (anzi meno). Yousef controlla i messaggi sul suo cellulare (sarà una costante del giro, segno di come questa tecnologia abbia raggiunto tutto il mondo) e andiamo a prendere il suo fuoristrada. Si tratta di un… boh, difficile individuarne la marca. Non è difficile invece immaginarne lo stato di conservazione: piuttosto precario. Ammaccature ovunque, un po’ di ruggine qua e là. All’interno l’aerazione è garantita, oltre che dai finestrini che, con qualche difficoltà, si riescono ad abbassare (con un’unica manovella che gira a turno tra tutti), anche da un’apertura sul fondo, da dove si può quindi vedere… il terreno del Wadi Rum. Il sistema di avviamento è senza chiavi. No, non immaginate chissà quale moderno congegno; semplicemente il blocchetto di avviamento è rotto, quindi Yousef avvia l’auto facendo contatto tra due fili. Speriamo bene: gli ultimi fili che facevano contatto mi hanno creato problemi (sulla moto)! Il rivestimento del cruscotto è costituito da una spessa pelle di pecora, dal pelo talmente lungo e folto che,

se ci poggio sopra la mia fotocamera, rischio di non trovarla più. La gomme sono talmente consumate che, su una strada italiana, qualunque poliziotto ci bloccherebbe immediatamente. Però ha quattro ruote motrici (almeno credo, da ferma è difficile valutare), quindi dal deserto dovremmo anche farcela ad uscire. Passiamo dal supermercato del villaggio a comprare una bottiglia d’acqua per me e… la benzina per l’auto; già, la benzina si compra qui, non vedo infatti distributori in zona. E adesso via, verso il deserto! Fin dai primi metri mi rendo conto che la strada sarebbe stata impraticabile per la mia moto (e per la maggior parte delle moto): è tutta sabbia soffice e spesso le piste sono appena tracciate. La prima sosta è presso la sorgente di Lawrence. Si tratta di una delle sorgenti della zona, che hanno reso il Wadi Rum un importante luogo di sosta per le carovane in viaggio tra l’Arabia e la Siria, descritta da Lawrence nel suo I sette pilastri della saggezza. Presso la sorgente vedo alcune iscrizioni sulla parete di roccia. In ognuno dei luoghi citati Yousef si ferma e quindi io li visito a piedi, con calma. Continuiamo verso sud e giungiamo al canyon di Khazali. È una sottile spaccatura in un grande massiccio, una stretta gola. Presso il canyon è presente un accampamento temporaneo di beduini, che vende prodotti locali. Ci offrono il te. Mi inoltro nel canyon. A guardarlo da fuori sembra solo una fenditura nella roccia, si potrebbe passare davanti senza notarlo; solo avvicinandosi ci si rende conto che il canyon continua all’interno della montagna. Le rocce sono levigate dall’erosione e (immagino) dall’azione dell’acqua, durante le piene. La prima sensazione è di frescura. Infatti, nonostante sia ancora presto (le 7.55), il caldo fuori è già notevole; l’interno del canyon, invece, è tutto in ombra e un fresco rivolo d’acqua scorre sul suo fondo. Risalgo il canyon: è spettacolare. È talmente stretto che, a volte, più che un canyon sembra una galleria: le due pareti sono vicinissime (spesso posso toccarle contemporaneamente con le mani) e ogni tanto si chiudono sopra la mia testa. Continuo a risalirlo: il rivolo d’acqua talvolta si allarga in piccoli laghetti; arrivo ad un punto in cui, per continuare, dovrei arrampicarmi su una parete ripida e scivolosa e preferisco fermarmi. È un posto bellissimo: resto

un po’ ad ammirarlo, prima di tornare verso l’uscita e… il caldo del sole del deserto. Raggiungo l’auto, dove mi aspetta Yousef. Dirigiamo verso est e poco dopo giungiamo al Piccolo ponte di roccia: un esile ponte, scavato dall’erosione, nella roccia rossastra. Quindi, il Ponte di roccia di Burdah; è al limite sud-orientale dell’area protetta: in equilibrio precario (si vede distintamente la roccia che ne compone l’arco superiore con una profonda fenditura verticale che quasi la stacca dal resto del blocco roccioso), è alto circa 80 m. Anche Yousef, dopo aver parcheggiato il fuoristrada all’ombra, si mette in posa sotto il ponte per una foto. Incontro un gruppo di turisti francesi: non sono molti i turisti nel Wadi Rum; forse è l’ora o anche il periodo dell’anno. Mi arrampico fino a sotto il ponte di roccia, piuttosto in alto. Torniamo quindi in direzione di Rum. Incrociamo un gregge al pascolo: è sorvegliato da una donna beduina. Yousef mi dice che le loro donne abitualmente portano il viso coperto (anche se non col burqa, ma un semplice velo). È così infatti che quella donna sta badando al gregge, in pieno deserto. Torniamo verso nord per diversi chilometri, lungo una strada diversa dall’andata, fino alla Casa di Lawrence. Si tratta dei resti di un edificio, dove la tradizione dice che sia vissuto Lawrence durante la Rivolta Araba, costruito sui ruderi nabatei di una cisterna per la raccolta dell’acqua. Entro tra i ruderi: il panorama che si gode da questo luogo isolato è magnifico. Andiamo ancora verso nord, verso le vicine incisioni rupestri di Anfaishiyya: è un’enorme parete verticale, con delle estese incisioni (tamudiche e nabatee), soprattutto cammelli. Quindi un breve tratto verso sud-ovest, fino alle dune di sabbia rossa di Al-Hasany. Sono bellissime; difficile valutarne l’altezza, ma credo si tratti di decine di metri. Yousef parcheggia l’auto all’ombra, di fronte a una parete di roccia, ed io mi avvio per la salita lungo le dune. Il pendio di sabbia è praticamente intatto (sono presenti solo altri cinque turisti, arrivati con un altro fuoristrada prima di noi): è una magnifica sensazione risalire questa enorme duna. Il cerchio si sta chiudendo e torniamo al villaggio di Rum, ma prima passiamo dalle rovine del tempio nabateo, subito a ovest del villaggio. Risale circa a 2000 anni fa, ed è eretto sulle fondamenta di un precedente tempio di una tribù araba (Lonely Planet, Giordania,

2009). Poggiato a un muro del tempio, guardo il panorama del Wadi Rum. Il giro si è concluso e mai come questa volta sono felice di aver superato la mia naturale avversione a lasciare la moto per visitare con altri mezzi i posti attraversati. Il Wadi Rum è un luogo magnifico, che spero resti così preservato per le generazioni future. Torniamo alla moto: sono quasi le 11; partiti poco dopo le 7, siamo riusciti a mantenere la visita nelle previste 4 ore. Smonto la tenda, carico la moto e mi avvio prudentemente lungo la pista di sabbia, per uscire dall’accampamento. Vicino c’è un ragazzino (Abdallah), incuriosito ovviamente dalla moto; ho un’idea: perché non affidargli la mia telecamera, in modo da avere un ricordo di me in movimento sulla moto in questo luogo (da solo è difficile fare riprese del genere)? Gli do quindi istruzioni e proseguo, piano, sulla sabbia. Ma la prudenza non basta e, dopo qualche metro, la ruota anteriore è bloccata dalla sabbia, la moto si inclina e, nonostante i miei sforzi, va giù. Scendo ridendo dalla moto, mentre indico ad Abdallah di continuare a riprendere. Provo a raddrizzare la moto, ma è inutile: è infossata nella sabbia, soprattutto la ruota anteriore. Va bene, chiediamo aiuto o resto qui fino a mezzogiorno. Chiedo ad Abdallah di aiutarmi, ma immagino che non basti l’aiuto di un ragazzino per raddrizzare la moto, visto com’è infossata (se fosse in piano, la raddrizzerei da solo senza problemi, come è capitato più volte). Ne arrivano altri due: non ce la facciamo. Mi serve un adulto: guardo in giro, ma non vedo nessuno, tranne una donna. Come tradizione beduina, è interamente coperta, dalla testa ai piedi; esito, conoscendo le usanze locali, che non prevedono normalmente contatti, nemmeno verbali, con le donne. D’altra parte la moto è lì, nella sabbia, e devo muovermi, non posso restare a cuocere sotto il sole. Richiamo la sua attenzione, con gesti esplicativi. La donna capisce e si avvicina; le indico dove afferrare la moto e, stando attento a evitare ogni contatto fisico, insieme la raddrizziamo (anche i ragazzini danno un piccolo contributo). Ringrazio e la saluto: i suoi occhi sorridono. È unica parte del suo corpo (oltre le mani) che posso vedere. Grazie, anonima donna beduina. All’uscita dall’accampamento, fermo un attimo la moto e mi volto; i ragazzini mi stanno salutando, la donna sta velocemente tornando verso la sua abitazione. Faccio una foto ai ragazzini che mi salutano;

vorrei fotografare anche la donna, ma non lo faccio, immagino non sia permesso; infatti lei mi fa cenno di non fotografarla. Obbedisco e inquadro i ragazzini: nella foto lei è solo un’ombra scura, sulla sinistra, che si ritira silenziosa. Esco da Rum, diretto a nord; adesso, a differenza dell’arrivo, è pieno giorno; posso quindi ben ammirare, a cavallo della mia moto, il magnifico ambiente che mi circonda, con le rocce e le montagne incombenti sul deserto. Direte voi: ma lo hai visto per 4 ore, dal fuoristrada! Sì, ma in moto, come dico sempre, è un’altra cosa, e questi pochi minuti in moto per me valgono le 4 ore in auto. Arrivo al centro visitatori, posto all’uscita del Wadi Rum; mi fermo, perché da qui è possibile ammirare un bel panorama del wadi, oltre alla grande formazione rocciosa che forse ne è il simbolo, battezzato con questo nome in onore del libro di Lawrence, I sette pilastri della saggezza. La montagna è imponente, con i suoi sette torrioni di forma tubolare, verticali. Resto qualche minuto in contemplazione del Wadi Rum. Adesso è ora di partire: Petra mi aspetta. Fuori dal Wadi, costeggio per un po’ la ferrovia. Si tratta della linea ferrata che porta fino in Arabia Saudita, la famosa linea dell’Hegiaz, teatro di tante battaglie (descritte da Lawrence nel suo I sette pilastri…) durante la rivolta araba. Originariamente estesa fino a Medina, ora la parte finale è abbandonata. Arrivo alla via principale e svolto verso nord. Sono di nuovo sull’“Autostrada del deserto”, percorsa in senso inverso 6 giorni fa. Dopo 40 km, però, lascio l’autostrada per imboccare una delle strade più belle della Giordania, la Kings Way (Strada dei Re). È l’antica via che collega il nord al sud della Giordania. La strada è interessante sia per i siti storici attraversati, sia per l’ambiente: è quasi sempre in quota, a un’altitudine tra i 1.000 e i 1.700 m, che dà un po’ di sollievo all’alta temperatura, arrivata ormai a 33°. Molto tortuosa, corre spesso sulla cresta delle montagne, non permettendo certo le medie dalla quasi parallela “Autostrada del deserto”, ma sono un motociclista e non cerco le vie più veloci; in questo ritorno, posso prenderla con relativa calma: sono giunto ad Aqaba in 5 giorni, posso impiegarne 13 per tornare.

È una strada davvero bella da guidare e, complice lo scarso traffico, posso divertirmi un po’, sempre però prestando la massima attenzione, poiché il tipo di via non consente velocità elevate. Il paesaggio è prevalentemente arido; ogni tanto qualche paesino e alcune macchie di verde. Arrivo a Wadi Musa, il centro abitato più vicino a Petra. Percorrendo la cittadina, mi rendo conto che questo è un posto molto turistico: non c’è certo la tranquillità del Wadi Rum. D’altra parte è inevitabile: Petra è una meta troppo famosa per sperare altro. È comunque imperdibile per chi passa dalla Giordania e quindi proseguo. Devo decidere cosa fare: sono le 14.30; è un po’ tardi per visitare Petra, che sarebbe meglio vedere nelle prime ore del mattino, sia per la luce migliore nella zona del “Tesoro”, che per sfuggire al caldo che, anche se siamo solo a marzo, comincia a farsi sentire. D’altra parte, rinviare la visita a domani significherebbe perdere un pomeriggio (ci sono ancora oltre 3 ore prima del tramonto). Decido di visitare Petra adesso, quindi supero velocemente la sfilza di alberghi (con relativi procacciatori fuori dalla porta) che si allineano lungo la tortuosa via principale e arrivo all’ingresso dell’antica Petra. Trovo un parcheggio il più vicino possibile all’area chiusa al traffico, lascio il mio giubbotto di pelle in custodia ai guardiani (troppo pesante da indossare per le 3 ore previste di visita e troppo ingombrante da mettere nella moto ormai piena; né mi arrischio a legarlo di fuori sulla moto); qualche incertezza sul tipo di tariffa e ho in mano il biglietto d’ingresso. Ci sarà molto da camminare; sono le 15, ho quindi 2h 40’ prima del tramonto. Un assaggio della strada da fare l’ho subito: l’“ingresso”, infatti, non è il vero ingresso a Petra. C’è da fare quasi 1 km per giungere all’inizio del Siq, la stretta entrata della città antica. Petra è stata costruita dai Nabatei, una tribù nomade proveniente dall’Arabia occidentale che si insediò in questa zona nel VI secolo a.C.; nel periodo di maggiore prosperità Petra contava circa 30.000 abitanti. Conquistata dai romani nel 105 d.C., dimenticata dal 1189 (quando fu riconquistata ai Crociati dal Saladino), fu riscoperta nel 1812 (Lonely Planet, Giordania, 2009).

Mi trovo quindi nel tratto tra la biglietteria e l’ingresso al Siq; è in leggera discesa, ma mi rendo subito conto che farlo tutto a piedi mi porterebbe via tempo prezioso. Contatto quindi alcuni beduini che offrono cavalli e asini per i visitatori; per la verità non c’è bisogno di contattarli, perché si fanno subito avanti loro; le tariffe mi sembrano un po’ care, per un tratto così breve. D’altra parte mi rendo conto che siamo alla fine della giornata: quasi tutti i turisti stanno uscendo da Petra, quindi difficilmente il mio interlocutore incontrerà clienti per percorrere questo tratto nella mia direzione e rischia pertanto di fare a vuoto questo percorso necessario per lui per andare a prendere turisti all’ingresso del Siq, dove invece ne troverà molti. Declino quindi gentilmente la sua offerta, rispondendogli che mi sembra cara, e continuo a camminare, ma non troppo veloce, per dargli la possibilità di raggiungermi; il beduino si fa di nuovo avanti e concludiamo l’accordo per la metà. Arrivo quindi a cavallo all’ingresso del Siq. Lo stretto Siq, lungo 1,2 km, non è un canyon, poiché non si tratta di una gola scavata dall’acqua, ma di una spaccatura tettonica; questa infatti è una zona sismica. Comincio a percorrerlo a piedi, come in antichità lo percorrevano le processioni dei pellegrini nabatei; è spettacolare, stretto (a volte appena 2 m), alto, tortuoso; sulle sue pareti è possibile vedere gli antichi canali scavati per convogliare gli approvvigionamenti di acqua a Petra. Ma la sua caratteristica più bella è la funzione, potrei dire preparatoria, allo spettacolo incomparabile cui il visitatore può assistere alla sua fine. Dopo una curva, qualcosa si nota in fondo; non è la solita roccia, è il “Tesoro”. Raramente, nella mia vita, ho visto qualcosa di più emozionante; è come una visione, improvvisa, inattesa; quasi mi dispiace di sapere già che è lì, alla fine del Siq, da due millenni. Immagino quale sia stata la sorpresa dei primi visitatori che sono arrivati qui. Il Tesoro, costruito come tomba di un re nabateo, è scolpito in un’alta parete di arenaria. Questa è una caratteristica comune di quasi tutti i monumenti di Petra: non sono “costruiti”, sono scavati nella roccia. E l’altra particolarità è che la facciata è la parte più

interessante; l’interno del Tesoro, infatti, è una semplice sala disadorna. La facciata del Tesoro è talmente bella e sorprendente, che una delle cose più interessanti è non solo, ovviamente, guardarla, ma osservare i turisti che escono dal lungo Siq: vedo la meraviglia dipinta sui loro volti sorridenti, di fronte a tale improvvisa visione. Dopo il Tesoro, continuo seguendo il cosiddetto Siq esterno (il letto del Wadi Musa, questo sì un canyon, a differenza del Siq), lungo la strada della facciate; si tratta anche in questo caso di tombe, oltre 40. Subito dopo, c’è il teatro, anche questo costruito dai Nabatei 2000 anni fa (3000 posti, poi ampliato dai romani a 8500). Continuando, sul lato opposto del Wadi Musa (ora più ampio), passo davanti le tombe reali. Quindi il wadi piega decisamente verso ovest, fino alla Strada Colonnata, la via centrale di Petra. Al termine della strada, la Porta del Temenos. Dopo la Via Colonnata, arrivo al tempio del Qasr Al-Bint, uno dei pochi edifici di Petra non scavati nella roccia. Resto un po’ seduto, alla fine di Petra, a riposare e ad ammirare le tombe illuminate dal sole che sta per tramontare, donando un bel colore rosso alle pietre. Accanto a me vedo diversi altri turisti, anche loro che “prendono fiato”; molti sono in giro dalla mattina e appaiono stanchi della lunga camminata. Questo è un posto strategico, posto quasi alla fine di Petra, nel punto più lontano raggiungibile a piedi, da dove quindi comincia la lunga marcia di rientro, per di più in salita. Per questo motivo qui stazionano molti beduini, con i loro cammelli (o asini), per vendere un passaggio agli stanchi turisti; le tariffe, ovviamente, sono più alte che all’entrata. Guardo i beduini; sono stanco: è un’ora e mezzo che cammino quasi senza sosta e so che il ritorno sarà lungo (non ci sono scorciatoie, devo rifare la stessa strada). D’altra parte le tariffe mi sembrano care, anche se capisco che pure per loro è faticoso, poiché il turista è sulla cavalcatura, ma loro normalmente seguono a piedi. Mi offrono un passaggio, ma rifiuto: troppo caro. Mi incammino, lentamente, e dopo una decina di metri il prezzo cala sensibilmente: accetto e monto su un asino, che, piano piano, mi riporta fino al Tesoro.

Siedo un po’ sui gradini del Tesoro; è stata una visita magnifica, un posto davvero suggestivo. Sono talmente entusiasta che mando un sms in Italia, per rendere partecipi famiglia e amici di questo mio stato d’animo. Il sole ormai sta scomparendo dietro le rocce; attraverso il Siq a piedi e poi, a cavallo (solito “passaggio” da un beduino), l’ultimo tratto fino all’uscita. Rientro al parcheggio, recupero il giubbotto dai guardiani e, finalmente in moto, mi avvio verso il centro di Wadi Musa per trovare un albergo. Trovo quello indicato dalla guida, nominato, con un “ardito” sforzo di fantasia, “Cleopetra”. Ancora tre piani di scale a piedi: sono decisamente stanco, ma finalmente posso riposare. La tv dell’albergo trasmette, quasi in continuazione, il film Indiana Jones e l’ultima crociata, la cui scena finale (il ritrovamento del Sacro Graal) è ambientata all’interno del Tesoro di Petra. È stata una giornata fantastica, unica: il Wadi Rum stamattina e Petra nel pomeriggio! Un pieno di emozioni, da stordire. Domattina partenza presto: il nord della Giordania mi attende 12.3.2010 – venerdì – giorno 12 Petra (HKJ) (7.15) – Pella (HKJ) (21.52) km 471, viaggio h 14.37, guida h 8.07 Solita sveglia all’alba, la cui luce ammiro distendersi gradualmente sull’anfiteatro delle case di Wadi Musa, con le montagne di Petra sullo sfondo. La moto mi aspetta, fedele, davanti all’albergo, coperta dal suo telo: nessuno ha toccato nulla e comunque è sorvegliata dall’addetto dell’hotel. Riprendo la Strada dei Re: è veramente piacevole da guidare, serpeggiante sul crinale delle montagne, quasi sempre oltre i 1.000 m (fino a 1.700). La temperatura è ancora fresca (17°) e quindi si sta benissimo, ma, lo so, durerà poco. Il solito paesaggio arido, ma suggestivo. Arrivo a Karak, dove c’è un bel castello crociato; è uno dei tanti costruiti dai crociati sulla linea tra Aqaba e la Turchia. Edificato nel 1142 dal re crociato Baldovino I di Gerusalemme, fu conquistato dal famoso Saladino nel 1183. Qualche foto al castello e… al solito bambino che non resiste al fascino della moto e vuole “provarla”. Il castello è in magnifica posizione e il panorama è spettacolare. La fortezza si affaccia sulla

profonda valle del Mar Morto, 1.400 m più in basso, 1.000 di altitudine del castello e -400 del Mar Morto: d’ora in poi, per le altitudini, il livello del mare non sarà l’unico riferimento, poiché dovrò tenere presente che sono presso la maggiore depressione della Terra, quella del Mar Morto, appunto. Sosto un po’ presso il castello, luogo di tante battaglie tra i crociati e gli eserciti musulmani. Immagino gli scontri, le grida, il sangue; la passione e il dolore, l’esultanza e la sofferenza; tutte le emozioni passate attraverso questo luogo, ora tranquilla meta di turismo. Riprendo la Strada dei Re, verso nord. Dopo 40 km giungo in vista del Wadi Mujib: definito il “Grand Canyon della Giordania”, segnava il confine tra il regno degli amorini (a nord) e i moabiti (a sud). È bellissimo, imponente. La gola è profonda 1 km e larga 4; la strada però impiega ben 18 km di tornanti per scendere fino in fondo al wadi, passare sulla diga che forma un vasto bacino artificiale e risalire sull’altro lato. Il wadi continua verso ovest, fino a terminare nel Mar Morto. È forte il contrasto tra le aride pareti del canyon e la grande (e preziosa, visto il luogo) massa d’acqua del lago. Oggi è venerdì, giorno festivo in un paese islamico come la Giordania. Mi spiego così le numerose famiglie intente in tranquilli picnic a bordo strada, in numerose aree verdi sotto gli alberi, che vedo a sud di Madaba. Poco prima di quella città, lascio la Strada dei Re per la spettacolare strada che scende verso il Mar Morto. In 37 km, quindi, mi porto dagli 800 m di Madaba ai -400 del Mar Morto. Il paesaggio è arido; per quanto il cielo sia sereno, non riesco a vedere il lago sottostante, a causa della cappa di umidità che ricopre la depressione. Emozionante il passaggio, per la prima volta in moto nella mia vita, a quota 0. Ora la strada si fa davvero ripida: in 5 km scendo da +100 a -350. A bordo della strada ogni tanto sono presenti le uscite di emergenza per i camion che possono avere problemi di freni. La mia moto non ha problemi: va che è una bellezza, con un filo di gas o un colpo di freno ogni tanto. A quota -230 riesco a vedere il Mar Morto: sembra senza fine, enorme, si perde nella foschia. Fa caldo, ma più che i 30° dà fastidio l’umidità, ben maggiore in questa depressione che nel deserto.

Giungo infine al lago: quota -400. Il Mar Morto è un lago chiuso, senza emissari; l’unico immissario significativo, il Giordano, negli ultimi anni, sempre più sfruttato per l’irrigazione, ha progressivamente ridotto la sua portata. In conseguenza di questo diminuito afflusso d’acqua dolce, il livello del Mar Morto si è abbassato di alcuni metri (attualmente è a -413). La sua enorme salinità (30%) è dovuta al non avere emissari e all’alto tasso di evaporazione; la salinità è talmente elevata che non è presente alcuna forma di vita nelle sue acque, d’altra parte sfruttate, fin dall’antichità, per ricavarne sale. È il luogo più basso sulla superficie della Terra. La conseguenza divertente della sua elevata salinità è quella che cercherò di sperimentare tra qualche minuto, appena trovo un posto per fare il bagno. Costeggio il Mar Morto verso nord, fino ad arrivare all’Amman Beach. Parcheggio la moto e mi precipito dentro (il caldo è soffocante e non vedo l’ora di restare in costume da bagno). Piuttosto caro l’ingresso (15 dinari, quasi 16 euro), soprattutto per gli standard locali; ma la guida la descrive come la spiaggia della capitale e immagino quindi che chi la frequenta abbia una disponibilità economica superiore alla media dei giordani. La spiaggia è affollata (ricordo che è venerdì, quindi giorno festivo); è interessante notare come, almeno in questo luogo, si allentino le rigide regole dell’abbigliamento femminile. C’è un po’ di tutto; le donne completamente coperte (velate), che sono in spiaggia solo per accudire i propri bambini (che corrono felici da tutte le parti, come tutti i bambini del mondo sulle spiagge); quelle in pantaloni e camicia; alcune in pantaloncini corti e maglietta; e infine (finalmente!) quelle in costume. Tra queste ultime (le più numerose) si va da costumi anni ’60, ad altri che potremmo considerare normali anche sulle nostre spiagge; nessun bikini troppo “striminzito”, comunque (tantomeno topless, ovviamente). Penso alla beduina di ieri completamente coperta nel deserto del Wadi Rum; come si vestirebbe qui? La battigia è abbastanza in basso rispetto all’inizio della spiaggia (effetto dell’abbassamento del lago); la raggiungo e comincio ad immergermi. Inizialmente non noto nulla di particolare, tranne

l’acqua piuttosto opaca. È quando l’acqua supera la vita che comincia a sentirsi la spinta; faccio un salto e subito mi sorprende la resistenza dell’acqua quando ricado, che mi riporta subito a galla. Provo a buttarmi in avanti, per nuotare, ma… è praticamente impossibile! Il galleggiamento è incredibile! Si sta a galla talmente in alto che è difficilissimo nuotare in avanti! La cosa più divertente è quando faccio il “morto”; resto oltre il livello dell’acqua (senza alcuno sforzo) con tutta la testa, la pancia, buona parte delle spalle e delle gambe! È una sensazione stranissima e molto bella. Provo anche ad immergermi (rigorosamente con gli occhi chiusi) e gli occhi mi bruciano per l’alta concentrazione di sale: resto qualche secondo stordito, prima di riuscire a riaprire gli occhi. Quando esco prendo la fotocamera per scattarmi alcune foto, ma è difficile maneggiarla, poiché i notevoli residui di sale sulle mie mani mi rendono difficoltoso perfino asciugarle. Diversi bagnanti si spalmano sulla pelle il nero fango del Mar Morto, noto fin dall’antichità per le sue proprietà curative. Uno dei prodotti del Mar Morto più famosi nell’antichità era il bitume, che galleggiava sulla sua superficie. Era usato nella cosmetica e soprattutto per impermeabilizzare le imbarcazioni. Adesso però è il momento di togliermi tutto questo sale dal corpo, usufruendo delle comode docce della spiaggia. Torno alla moto e riprendo verso nord, costeggiando il Mar Morto. La temperatura arriva a 32°. Giungo alla superstrada verso Amman e la strada comincia a risalire. Noto ancora molte famiglie, a bordo strada, intente nel picnic festivo. Dopo 5 km arrivo all’uscita per uno dei luoghi biblici, che d’ora in poi saranno numerosi: il monte Nebo. Mi vengono in mente le parole del Signore: Va’ su queste montagne degli Abarim, sulla cima del monte Nebo, nella regione di Moab di fronte a Gerico. Di là guarda la terra di Canaan, che io sto per dare in proprietà agli Israeliti. Morirai sul monte su cui sarai salito e raggiungerai i tuoi antenati nello stesso modo in cui tuo fratello Aronne è morto sul monte Or. Voi due, infatti, avete peccato contro di me alla presenza

degli Israeliti, quando eravate alla sorgente di Meriba, a Kades nel deserto di Zin. Allora voi non avete riconosciuto la mia santità di fronte agli Israeliti. Per questo vedrai da lontano la terra che sto per dare agli Israeliti, ma tu non potrai entrarvi! (Deuteronomio 32,49-52). Supero quota 0, tornando quindi sopra il livello del mare. La strada sale verso il monte; uno strano monte, per la verità, alto appena 700 m, ma che spicca ben più nel paesaggio, salendo dal Mar Morto (come sto facendo adesso), cioè da una depressione di 400 m sotto il livello del mare; il dislivello quindi è di oltre 1000 m, in 12 km (sulla strada fatta sono 25 km). Il paesaggio è arido, disabitato. Giungo alla cima del monte. Una stele ricorda la visita del Papa in occasione del Giubileo del 2000, riportando le parole “Unus Deus, Pater Omnium, Super Omnes” (Un solo Dio, Padre di tutti, sopra tutti), in latino e arabo. È in luoghi come questo che è ancora più evidente lo stretto intrecciarsi delle tre religioni monoteiste (Cristianesimo, Islam ed Ebraismo) in questa regione. Religioni diverse, ma con molti simboli comuni, con tanta storia comune. Nel sito sono presenti i resti di una basilica, risalente al VI secolo, costruita sulle fondamenta di una chiesa del IV; la cosa più bella della basilica è il grande mosaico. Mi avvio verso il punto panoramico, da dove si potrebbe ammirare un bellissimo panorama verso la valle del Giordano … se la stessa non fosse coperta dalla nebbia. Delle incisioni su una lastra di marmo indicano le direzioni dei luoghi di fronte a me: Hebron, Mar Morto, Betlemme, Gerusalemme, Ramallah, Gerico, Nablus, Lago di Tiberiade…; nomi che mettono i brividi solo a pronunciarli, per quanto sono carichi di storia e di lotte, antiche, recenti ed ancora attuali. Resto accanto al cartello, guardando verso l’orizzonte, e penso a quanti uomini, a quanta storia è passata da qui; da Mosè, cui il Signore negò l’accesso alla Terra Promessa, permettendogli comunque di vederla, proprio dal punto dove sono io adesso, fino ai tempi attuali. La mia prossima meta (Israele e Palestina) è proprio lì, di fronte, a pochi chilometri in linea d’aria. Ma, per le complicazioni della politica,

dovrò fare un giro ben più lungo per arrivarci. Infatti il valico di confine qui vicino, posto sulla strada diretta tra Amman e Gerusalemme, non è accessibile agli stranieri; devo quindi entrare in Israele più a nord, poco a sud del lago di Tiberiade. Sono le 16.41: ho esattamente un’ora prima del tramonto, un’ora per percorrere buona parte della valle del Giordano, fino al valico di confine, superarlo e poi trovare alloggio. Non credo di farcela prima del buio; pazienza, intanto partiamo, poi vedrò cosa fare; alla peggio, passo il confine (che immagino sarà lungo e complesso) “sfruttando” il buio (senza quindi sprecare preziose ore di luce per queste complicazioni burocratiche) e poi mi fermo al primo posto che trovo. Mi dirigo verso la vicina Madaba e poi punto sulla capitale giordana, Amman. Poco prima di Amman, svolto a ovest, lungo la superstrada Amman-Gerusalemme. La strada è la stessa che avevo percorso più a valle, poco fa, salendo dal Mar Morto. Il traffico è molto intenso, quasi tutto di gitanti del venerdì che tornano dalla valle del Giordano e dal Mar Morto; una fila continua di auto incolonnate: evidentemente gli ingorghi del finesettimana non sono prerogativa del mondo occidentale. Per fortuna il traffico è tutto nel senso opposto al mio e io continuo tranquillo. Troppo tranquillo, però, forse. Capita infatti una cosa strana; improvvisamente mi accorgo di non essere più sulla superstrada, ma su una strada secondaria, che scende tortuosa per una collina, tra gruppi di giordani intenti a completare il picnic. Non capisco come abbia potuto sbagliare strada in modo tanto evidente; sono incerto se tornare indietro, verso la superstrada, o andare avanti; istintivamente vado avanti (mi dà fastidio tornare sui miei passi), ma la strada diventa sempre più stretta e malridotta, fino a che finisce completamente l’asfalto e mi ritrovo su un sentiero. Vedo la superstrada pochi metri alla mia sinistra, ma irraggiungibile per mancanza di collegamento. Sto per mollare e tornare indietro (si tratterebbe solo di tre chilometri), ma decido di continuare. Fortunatamente, dopo una curva, vedo il passaggio e mi immetto sulla superstrada, con una manovra da ritiro patente in Italia, ma che qui passa completamente inosservata (immissione da sinistra in superstrada, con salto di carreggiata).

Continuo la discesa verso il Giordano, ma, prima di arrivare al punto già raggiunto durante la salita di poche ore fa, individuo la strada che porta verso nord, lungo il Giordano, e svolto. Adesso via, senza nessuna sosta, sempre dritto fino ad arrivare presso il valico di confine con Israele: sono già le 17.45, il sole è appena tramontato. Decido di continuare verso nord: la strada sembra buona, quindi non dovrebbe crearmi problemi col buio, e voglio arrivare al confine. Il valico di frontiera dove sono diretto chiude alle 20 nel finesettimana (che comincia oggi, venerdì), ma stimo di fare in tempo. È uno dei rari tratti del viaggio percorsi col buio, quindi vedo poco del paesaggio. Seguo la traccia del gps, che gradualmente mi porta dai circa -300 m ai -200. È strano questo salire… restando sotto il livello del mare. Anche se non la vedo, comunque, la valle del Giordano la intuisco, alla mia sinistra; ma da quel lato nessuna strada è percorribile, poiché tutta la zona del Giordano è militare, inavvicinabile, da entrambi i lati del confine. Percorrendo la valle del Giordano, passo accanto a 4 valichi di frontiera, da sud a nord, ma solo l’ultimo fa al caso mio (tra parentesi il nome israeliano): - il primo, King Abdullah Bridge, è quello posto proprio sulla superstrada Amman-Gerusalemme e sarebbe quindi il più logico e vicino, ma non è aperto agli stranieri; - dal King Hussein Bridge (Allenby Bridge), pochi chilometri a nord, potrei passare, ma non con un veicolo privato (cosa ovviamente inconcepibile per me, perché viaggio con la mia moto); - Prince Mohammed Bridge è chiuso agli stranieri; - Sheikh Hussein Bridge (Jordan River) è quindi l’unico che posso attraversare con la mia moto, ed è qui che sono diretto. Devo fare attenzione alla strada, poiché i margini della sede viaria non sono ben segnalati e ogni tanto incrocio qualche veicolo locale a fari spenti. In effetti mi rendo conto che la stima iniziale sulle condizioni della strada era ottimista e forse la mia scelta non è stata la più prudente. Arrivo finalmente all’altezza del confine e svolto a sinistra. Sono le 19.15: un’ora e mezzo per percorrere 80 km lungo la valle del

Giordano; viste le condizioni della strada e il buio, non potevo metterci di meno. Questo è uno dei punti cruciali del viaggio, da cui dipenderà la riuscita dello stesso. Come spiegato nel capitolo sulla preparazione, dovrò uscire dalla Giordania ed entrare in Israele (e viceversa, tra qualche giorno), senza che nessun segno di questi passaggi resti sul mio passaporto. Arrivo al posto di confine giordano. Sono le 19.28: bene, ho fatto in tempo (ricordo che questo valico chiude alle 20). È tutto molto tranquillo, non ci sono altre persone in transito oltre me. Mostro i documenti e, bene in evidenza, il foglio dove ho scritto (in inglese, arabo ed ebraico) di non timbrare il mio passaporto (o il carnet), perché dopo devo andare in Siria. I doganieri guardano incuriositi il foglio e sorridono; sembrano apprezzare il fatto che sia scritto anche in arabo. Mi rassicurano di stare tranquillo: il mio passaporto non sarà timbrato. In ogni caso, non perdo d’occhio il passaporto: non voglio che, nel passaggio di carte di mano in mano, qualche doganiere distratto apponga un timbro. Per questo motivo mostro il foglietto con la richiesta ad ogni guardia di confine che prende in mano i miei documenti. Le operazioni procedono con una celerità incredibile, non perquisiscono nemmeno la moto; pago la tassa di uscita di 20 dinari (21 euro) e alle 19.45 (appena 17 minuti dopo essere entrato in dogana!) ottengo il via libera e mi avvio verso Israele. Raggiungo il fiume Giordano (che segna il confine) e passo sopra il ponte. È la prima volta che vedo il Giordano, inavvicinabile in altri punti (è tutto zona militare); non è molto ampio, è poco più di un ruscello. Entro nella dogana israeliana, sono le 19.46. Qui cambia tutto.Sono 8 giorni che viaggio attraverso paesi arabi, valicando frontiere quasi ogni giorno; basta superare il Giordano per rendersi conto di essere in un altro mondo. Sono stati scritti centinaia di libri e milioni di parole sul lungo conflitto arabo-israeliano e non è questo il luogo per un saggio su questo contrasto. Ma, quando viaggio, non mi limito a guardare il paesaggio; guardo le persone, interagisco con loro (a volte più, a volte meno); e i rapporti con le persone sono tra le cose che più arricchiscono in un viaggio. E rifletto.

Superata la frontiera, quindi, ho proprio l’impressione di entrare in un altro mondo. Tutte le frontiere sono zona militare (anche se, spesso, in Europa ne è rimasta poca traccia) e certo nei paesi arabi attraversati la presenza dei militari si vedeva. Ma qui è diverso. Qui non ci sono militari che controllano, magari svogliatamente, un posto di confine; confini presidiati, anche in forze, per evitare un possibile attacco straniero che potrebbe mettere in pericolo l’integrità territoriale del paese; o per bloccare eventuali infiltrazioni di agenti nemici. No, qui i militari che vedo stanno lottando per la propria sopravvivenza; per la sopravvivenza del loro Stato. La sofferta storia di Israele (e parlo dello Stato di Israele, fondato nel 1948; lascio perdere, per ora, i riferimenti all’Antico Testamento), è la storia di uno Stato, di un popolo, in lotta per la propria sopravvivenza. Nel giorno stesso della proclamazione d’indipendenza, Israele fu attaccato dai suoi vicini arabi; e ne uscì vincitore, come in tutte le successive aggressioni subite. Israele è uno Stato che è nato sotto il segno dell’aggressione araba e ha dovuto convivere con questa aggressione per tutta la sua esistenza, che è stata un continuo susseguirsi di periodi di guerra e di semplice “non belligeranza”; ma il rischio del terrorismo arabo interno non conosce soste ed è sempre presente. È a questo che penso mentre mi avvicino, a bassissima velocità, al primo posto di blocco, col militare israeliano che mi attende col mitra spianato, dietro una postazione protetta da sacchetti di sabbia. Qui è tutto un altro clima. Il militare è vestito in modo molto informale, come spesso capita per i soldati israeliani; una semplice camicia, aperta, pantaloni militari e un distintivo appuntato. Mi fa cenno di attendere e mi fermo. La notte è squarciata dalle luci del posto di frontiera; osservo intorno; non vedo altri militari, ma so che sono presenti, poco oltre. Dopo un po’, si avvicina una ragazza; avrà 20 anni, forse meno. Ricordo che in Israele il servizio militare è obbligatorio per tutti, uomini e donne; a queste ultime è solo concesso di prestarlo più breve (20 mesi contro tre anni degli uomini, che dopo sono anche obbligati a diverse settimane ogni anno da riservisti). La ragazza si avvicina: bionda, minuta, uno sguardo dolce e… un mitra al braccio. Mi ordina, in perfetto inglese

(certo migliore del mio), di parcheggiare la moto sotto una tettoia lì accanto e aspettare. Eseguo. Siedo su una panchina accanto alla moto e aspetto. Dopo qualche minuto, la ragazza mi chiede i documenti. Gentile, ma fredda, molto professionale. Non c’è la naturale simpatia dei doganieri arabi, il loro allegro e confuso avvicinarsi, curiosare, chiedere informazioni, stringere la mano, anche qualche pacca sulla spalla. Cose che rendono un po’ meno frustrante il su e giù tra i vari uffici e l’interminabile sequela di timbri e balzelli medioevali necessari per superare i confini. No, qui non si scherza: resta al tuo posto e dammi i documenti. Insieme ai documenti consegno subito il solito foglietto, con la richiesta di non timbrare il mio passaporto perché dopo devo andare in Siria. La ragazza guarda incuriosita il biglietto e sorride: è il primo sorriso che le scappa. Si rivolge al collega militare di prima, parlando in ebraico, indicando il foglietto (che è scritto in 3 lingue: inglese, arabo ed ebraico). Annuisce, comunque, dimostrando di aver compreso; chissà se sorride per la mia richiesta, per averla scritta su un foglio trilingue o per qualche mio errore di scrittura (tornato in Italia, scoprirò che la mia traduzione in ebraico era grammaticalmente non completamente corretta, ma comunque sostanzialmente esatta). Per consegnarle il foglietto (accompagnato da una sommaria spiegazione orale in inglese), mi ero alzato dalla panchina; quasi a “ristabilire le distanze” (che sembravano forse troppo ravvicinate dopo il suo sorriso), mi ordina di rimettermi a sedere. Sì, è proprio un altro mondo rispetto agli arabi; mi sento comunque, mentalmente, razionalmente, più vicino a questa ragazza ebrea, col mitra in spalla in questo sperduto posto di confine della valle del Giordano, che ai numerosi, probabilmente più simpatici, doganieri arabi del Medio Oriente. Lei sta davvero lottando per la sua sopravvivenza e per quella del suo paese. La ragazza, con una torcia, illumina attentamente la moto, controllandola anche di sotto, con uno specchio speciale; le infiltrazioni di terroristi e armi non sono una eventualità remota, in queste terre. Poi si allontana.

Intanto si avvicina il primo militare; ha pochi anni più della ragazza, forse è un professionista e non di leva; comunque sia, molto giovane anche lui; sembra un po’ combattuto, tra il dovere che gli impone la massima attenzione e prudenza, e la naturale curiosità di un ragazzo che vede, forse per la prima volta nella sua vita, una moto del genere. Osserva la moto, con occhio da ragazzo più che da militare, mi guarda e un mezzo sorriso scappa anche a lui; torna subito alla sua postazione. Passa il tempo e comincio ad innervosirmi; le mie informazioni dicono che il posto di frontiera oggi (venerdì) chiude alle 20; sono arrivato ben prima delle 20 (sul lato giordano); anche al lato israeliano sono giunto prima delle 20 (erano le 19.46), ma adesso sono ormai le 20 e sono ancora fermo qui, in quelli che, immagino, siano solo i “preliminari” dei severi controlli di frontiera israeliani. Dopo un po’ arriva un altro militare. Credo sia un ufficiale, forse il comandante del posto di frontiera. E qui la sorpresa. Il colloquio è in inglese: - “Deve tornare indietro, la frontiera è chiusa dalle 20”. - “Come?! Ma io sono arrivato qui prima delle 20! Erano le 19.46 quando sono entrato in questo posto di frontiera israeliano!”. - “Mi spiace, ma la frontiera è ormai chiusa; non posso effettuare i controlli perché non ci sono più le persone che li devono fare. Deve ritornare domattina”. - “Ma non è possibile! Se io mi presento prima delle 20, mi aspetto di poter passare, comunque, per quanto lunghi siano i controlli! E poi come trovo da dormire a quest’ora, e dove?”. - “Le ho detto che non è possibile, torni domattina, alle 8”. E qui smetto di insistere, perché noto nella voce dell’ufficiale, cortese ma deciso, una leggera alterazione, segno che forse è stanco di discutere. Faccio quindi presente che, a questo punto, anche la dogana giordana sarà chiusa, poiché anche loro chiudono alle 20; quindi, se torno indietro, rischio di restare nella “terra di nessuno”, cosa evidentemente non accettabile, né per me né per loro, per motivi di sicurezza. L’israeliano mi rassicura che ha telefonato ai giordani e loro mi aspettano, per farmi tornare indietro, in Giordania.

Ormai sono rassegnato. Peccato, ho fatto tanto per arrivare in tempo; passare la frontiera stasera mi avrebbe fatto risparmiare diverse ore, trovandomi domattina già in Israele, con tutta la giornata a disposizione per visitare la Galilea e poi arrivare a Gerusalemme e a Betlemme. Invece mi tocca tornare qui domattina. Saluto l’ufficiale, ringraziandolo comunque (me lo ritroverò davanti domani, meglio “tenerselo buono”), risalgo sulla moto e attraverso per la seconda volta in poco più di un’ora la frontiera, col suo ponte sul fiume Giordano (sono le 20.56). La rabbia per il forzato dietrofront pian piano passa, soffocata dalla razionalità; in fondo quell’ufficiale ha solo fatto il suo dovere, era nell’impossibilità di effettuare i controlli, a quest’ora; e qui i controlli sono seri: non si può scherzare. Ritorno quindi alla dogana giordana (sono le 20.57). Le persone sono le stesse di un’ora fa; loro mi riconoscono per forza, con la mia moto con tutte le luci accese nella tiepida notte mediorientale. Anch’io le riconosco, almeno la maggior parte. Vado quindi a colpo sicuro nell’ufficio di prima, sperando di sbrigarmi subito. Il controllo dei documenti in effetti è veloce, ma c’è un imprevisto: dopo aver spento la moto presso il primo controllo, la stessa non riparte! Ho un brivido: la riparazione di fortuna di Aqaba non regge? Di nuovo lo stesso problema elettrico? O è la batteria araba (della cui bontà ho dubitato fin dall’inizio) che è già “andata”? Forse ho lasciato troppo la moto con le luci accese (nei continui “stop and go” delle frontiere); ma, comunque, se la moto fosse a posto, la batteria non dovrebbe calare tanto per così poco! Spiego al militare giordano il problema (più a gesti che in inglese, visto l’interlocutore) e lui, gentilmente, si dà subito da fare e fa arrivare un collega con un’auto, cui collego i cavi che mi porto dietro da Aqaba. La moto riparte subito, ma non sono tranquillo; l’inconveniente può ripresentarsi in qualunque momento e adesso è sera, non posso girare a luci spente, come ho fatto da Aqaba a qui. Evito di spegnere la moto e la parcheggio di fronte all’ufficio col motore acceso, spiegando il problema anche agli altri doganieri. I controlli sono comunque veloci, ma c’è un altro imprevisto: finita la

verifica, mi chiedono di nuovo la tassa di 20 dinari, pagata un’ora prima, quando ero arrivato alla frontiera! - “Come! Ma se l’ho pagata un’ora fa?!”. [In inglese] - “Allora era per uscire, adesso è per entrare”. - “Ma sta scherzando?! Io non sono uscito dalla Giordania; Israele mi ha fatto tornare indietro perché la frontiera a quest’ora è chiusa. Io non sono mai uscito dalla Giordania! E che, domattina mi fa pagare di nuovo altri 20 dinari?!”. - “Esatto: domani lei paga altri 20 dinari”. E qui mi arrabbio davvero. - “Ma mi prendi per il c###? [questa frase non la dico in inglese] Non puoi farmi pagare 3 volte!”. Non c’è niente da fare, il doganiere è irremovibile: devo pagare. Continuo a protestare, mi agito; ormai è una questione di principio! Trovo davvero ridicolo questo comportamento. Poi però capisco che è inutile agitarsi e mi calmo. E comincio a ridere: penso a quel film in cui Troisi, a bordo di un carretto, attraversa un posto di frontiera medioevale. Il doganiere ripete solo le frasi “Chi siete? Cosa trasportate? Una moneta!” e Troisi gli risponde, sborsando la moneta di tassa. Poi, proprio mentre oltrepassa la sbarra, un sacco del carico cade dal carretto e Troisi scende a recuperarlo. “Una moneta!”, intima subito il gabelliere, dovuta per il semplice passaggio di Troisi che recupera il sacco, a un metro di distanza. Troisi abbozza una giustificazione, ma poi, rassegnato, paga. A questo punto Troisi rientra sul carretto e il gabelliere gli chiede di nuovo una moneta, perché, tecnicamente, il suo è un nuovo passaggio di frontiera. Infine, mentre il carretto riparte, il compagno di Troisi si accorge che hanno dimenticato una cosa oltre la frontiera e fa per tornare indietro, ma Troisi lo blocca subito, per evitare altre pretese del gabelliere. Ecco, mi sento come Troisi nel film. E alla fine rido; rido della tassa, rido delle leggi, rido delle frontiere, rido della stupidità umana, rido della situazione; rido di tutte le frontiere del mondo. Rido e i doganieri mi guardano, un po’ increduli, mentre tiro fuori i 20 dinari e li consegno ridendo; poi sorrido, ringrazio, saluto e do appuntamento a domattina, quando mi presenterò, puntuale, alle 8 per passare, questa volta spero con successo, la frontiera.

E adesso affrontiamo il problema alloggio: è ormai piuttosto tardi (sono le 21.35), sono presso una frontiera chiusa (i doganieri smobilitano appena esco e chiudono le porte, tornando alle loro abitazioni), in aperta campagna, in un paese del Medio Oriente e non ho la minima idea di dove sia un alloggio. Arrivo alla strada principale e mi avvicino a un gruppo di case; i negozi sono chiusi, sia per l’ora tarda che per la giornata festiva. Ricevo comunque qualche indicazione, contraddittoria, e, dopo aver percorso la strada un paio di volte nei due sensi, realizzo finalmente che probabilmente all’interno, sulle colline, c’è un posto per dormire. Sono presso l’antica colonia greca di Pella e sembra che lì vicino ci sia un albergo (l’unico della zona). La strada risale la collina, piuttosto stretta e ripida. Buio assoluto; proseguo. Infine vedo un edificio; nessuna insegna, potrebbe essere qualunque cosa, ma credo sia un albergo; non c’è nessuno e non riesco nemmeno a individuare l’entrata. Esito un po’, mi guardo intorno e finalmente arriva un ragazzo: mi apre il cancello e mi invita ad entrare nel cortile. È fatta, ho trovato da dormire anche stanotte, anche alla fine di questa lunga e travagliata giornata (sono le 21.52: non ho mai fatto così tardi in questo viaggio). L’edificio è nuovo, non c’è nessuna reception; è una normale palazzina con alcune stanze; credo abbia aperto da poco, per la presenza del vicino sito turistico di Pella. Chiedo al ragazzo quanto costa la stanza. Per fortuna ce la faccio: mi sono rimasti pochi dinari, dopo l’imprevista tripla gabella al confine giordano e oggi pensavo di pernottare in Israele. Mi metto d’accordo col ragazzo per una cena lì vicino (credo sia l’abitazione del proprietario dell’albergo) e quindi riesco anche a ristorarmi. Copro la moto, tranquillamente parcheggiata nel cortile. Domani sarà la volta buona, domani Israele! Sperando che la moto parta, dopo una notte fuori e i problemi di questa sera. 13.3.2010 – sabato – 13 Pella (HKJ) (7.32) – Betlemme (PS) (21.00) km 474, viaggio h 13.28, guida h 7.17 La dogana apre alle 8 e dista appena 8 km da qui, quindi posso partire con comodo. Scendo alla moto e… parte al primo colpo.

Certo che è strano; se fosse la batteria, non avrebbe senso un problema come quello di ieri, dopo ore di marcia e una sola di sosta, quando invece questa notte è rimasta ferma per quasi 10 ore! Boh, forse una dispersione, problema non completamente risolto dal meccanico di Aqaba. Comunque si va avanti! Alle 8… meno 2 minuti, sono davanti alla sbarra d’ingresso al confine. La barra si alza dopo 5 minuti: ricomincia la trafila! I doganieri mi riconoscono e mi salutano, ma questa volta i controlli non sono veloci come ieri sera. Forse perché ieri era quasi l’ora di chiusura e quindi avevano fretta di chiudere e tornare a casa; oggi invece sono all’inizio della giornata e hanno davanti tante ore a disposizione. Il che conferma la mia teoria che l’ora migliore per passare era quella di ieri sera, se solo fossi arrivato un po’ prima al confine israeliano. Comunque il tutto mi sembra un po’ ridicolo; mi hanno già controllato ieri sera, sono le stesse persone di ieri, è passata solo una notte, nella quale è difficile che la situazione sia cambiata: che mi ricontrollano a fare? Pago per la terza volta il balzello di 20 euro e continuo con le procedure di frontiera. Solo alle 8.48 esco dalla dogana e imbocco, per la terza volta in 12 ore, il ponte sul fiume Giordano. E adesso sotto con gli israeliani!

6. Israele e Territori Palestinesi Il soldato di guardia è lo stesso di ieri sera: lo saluto; ricambia. Solita trafila: la ragazza però è diversa, anche questa bionda e molto giovane. Sorride un po’ di più. Parcheggio la moto al solito posto, consegno il solito foglietto trilingue con la richiesta di non timbrare il mio passaporto e aspetto. Dopo un po’ arriva un militare, un ragazzo (vent’anni o meno anche lui), col solito mitra a tracolla, e comincia a interrogarmi: perché vieni in Israele, qualcuno ti ha consegnato qualcosa da portare, hai armi? Mi ricordo del pugnale acquistato in Giordania: qui non c’è da scherzare; anche se è ben imballato e nascosto sul fondo di un baule, con la quasi certa attenta perquisizione che avverrà, è probabile che lo trovino ed è meglio non rischiare complicazioni. Avviso quindi che ho un “souvenir of Jordan” e glielo mostro; il militare capisce, lo prende in consegna e mi avvisa che me lo restituirà all’uscita dalla dogana. Dopo il primo controllo, mi chiedono di spostare la moto in un’altra zona della dogana. Non c’è molta gente di passaggio; qualche arabo, giordani presumo. Non vedo nessun occidentale. Qui cominciano i controlli più approfonditi; parcheggio la moto e scarico tutti i bagagli: ogni oggetto è controllato al metal detector. Qualche altra domanda e poi consegno tutti i documenti, personali e della moto. C’è una comoda sala d’attesa, mi siedo e attendo, altro non posso fare. I militari che vedo sono tutti giovani; c’è un’altra ragazza (militare) nella sala d’attesa; ogni tanto parla con i colleghi col walkie talkie che tutti portano alla cintura; altri militari sono nell’ufficio accanto. Dopo un po’ mi chiedono di spostare la moto: devo consegnarla ad un militare che la porterà in un locale vicino, presumo per una ispezione approfondita. Sono perplesso; mai in vita mia ho dovuto consegnare la moto a un doganiere. D’altra parte mi rendo conto che qui i controlli sono una cosa seria, non una semplice formalità, abbinata ad una gran perdita di tempo e qualche balzello da pagare, come in tanti paesi, anche di questo viaggio. Come scritto prima, anche da questi controlli dipende la sopravvivenza dello Stato di Israele, stretto d’assedio da paesi arabi, in parte ostili, e

continuamente minacciato da un terrorismo ostinato, imprevedibile e barbaro. Quando tento di avviare il motore, però, la moto non parte: ci risiamo! Ancora il problema elettrico! Prendo i cavi e chiedo a un militare israeliano di portarmi un’auto, ma non è necessario: arriva subito con una batteria specifica per questi tipi di intervento. La colleghiamo alla moto, che parte subito; avverto del problema il soldato. Ma non è un militare qualsiasi; anche lui è un motociclista; di più, anche lui è un winger (ha una Gold Wing come la mia, un 1500). Sono un po’ sollevato nell’affidargli la mia moto, cosa che non ho mai fatto con nessuno (tranne i miei meccanici); la moto è in buone mani, penso, mentre la vedo allontanarsi nel vasto piazzale, diretta verso un hangar vicino. Nell’attesa, vado all’ufficio cambi e mi procuro un po’ di valuta locale; ne approfitto anche per fare colazione e ho la conferma che i prezzi, qui in Israele, sono allineati all’occidente, ben diversi da quelli dei vicini arabi: in Giordania la colazione mi sarebbe costata molto meno, ma stamattina ho trovato tutto chiuso. Torno nella sala d’attesa. L’esame dei documenti continua. I militari tra di loro parlano in ebraico, ma tutti si rivolgono verso di me in perfetto inglese. Li osservo; probabilmente hanno diverse origini: la popolazione di Israele è molto composita. Gli ebrei d’Israele sono tradizionalmente divisi a seconda della loro provenienza: - gli ashkenaziti sono i discendenti degli ebrei che vivevano nell’Europa centrale e orientale (e in America, Sudafrica e Australia) ; - i sefarditi sono i discendenti degli ebrei cacciati da Spagna e Portogallo nel XV secolo; - i mizrahi sono gli ebrei originari del Medio Oriente e del Nordafrica; - i Beta Israel (o falasha, che però ha un senso dispregiativo) provengono dall’Etiopia; è l’unico gruppo di cui riesco a individuare un elemento, poiché un militare nero è difficile non notarlo in Israele. È importante tenere presente che, in base alla cosiddetta Legge del Ritorno (del 1950), qualunque ebreo ha diritto alla cittadinanza israeliana. È in base a questa Legge che tanti ebrei nati all’estero sono diventati cittadini israeliani negli ultimi decenni.

Poi ci sono altri gruppi etnici, non ebrei, che però prestano il servizio militare obbligatorio (limitatamente agli uomini): - i drusi vivono nel nord di Israele; è una setta di origine islamica, ma con elementi ebraici, cristiani e induisti: - i circassi, originari della Russia caucasica, abitano nel Golan e sono musulmani. Ci sono poi gli arabi (il 24% degli israeliani), prevalentemente musulmani, ma anche cristiani, che non sono tenuti al servizio militare. Tra gli arabi particolare il caso dei beduini (che vivono nel Negev e in Galilea) che, pur non essendo obbligati, prestano servizio nelle forze armate israeliane (Lonely Planet, Israele e i Territori Palestinesi, 2007). Un militare mi distoglie dalle mie riflessioni sulla composizione etnica della popolazione israeliana; è il winger di prima, cui avevo affidato, con qualche preoccupazione, la mia moto. Mi dice che i controlli alla moto sono finiti, è tutto a posto; ma mi informa anche che la moto, per un’altra volta, non è ripartita e ha dovuto riavviarla con i cavi. Speriamo bene: temo che do vrò convivere con questo problema fino al mio ritorno in Italia. Affronto quindi le ultime formalità. Fin dall’inizio ho presentato ai militari israeliani (come ho fatto ieri) il famoso foglietto trilingue con la richiesta di non timbrare il mio passaporto; questo documento però è ancora nelle loro mani, per gli ultimi controlli. Un militare mi chiama e mi comunica che, per motivi di polizia, deve apporre un timbro sul mio passaporto, che riporti i dati della moto, altrimenti sarei non in regola per la polizia israeliana; in ogni caso, o accetto il timbro o non entro in Israele. Sono sorpreso e preoccupato; chiedo al militare se può apporre il timbro su un foglietto a parte, come sta facendo per il timbro “principale” che attesta il mio ingresso in Israele. Ma è irremovibile: il timbro deve essere sul passaporto, altrimenti la moto non può entrare. Ho un attimo di incertezza; le informazioni che avevo erano parzialmente diverse, ma mi rendo conto che, se non accetto, davvero salta tutto e in Israele non posso entrare. Il timbro, comunque, come mi mostra il militare, è anonimo, in inglese, senza segni che lo possano collegare ad Israele. A guardarlo così, in effetti, sembra non pericoloso, ma non posso

sapere il grado di conoscenza della “situazione” da parte dei siriani; lo noteranno? E, se lo noteranno, avranno dei sospetti? Lo collegheranno, comunque, ad Israele, visto che non è riconducibile a nessun altro paese? E poi riporta la data di oggi, il che potrebbe essere pericoloso per i controlli siriani. Accetto: “metti pure il timbro, se è necessario”. Speriamo bene! Sono le 11.19: due ore e mezzo di controlli; ho il via libera, posso andare. Raggiungo la strada principale, distante pochi chilometri, e mi dirigo verso nord, verso il lago di Tiberiade, risalendo la valle del Giordano, alla mia destra. Supero il Giordano, nell’unico tratto interamente in territorio israeliano a valle del lago di Tiberiade; sono ancora sotto il livello del mare, nonostante la strada continui a salire: anche qui il fiume è poco più di un ruscello, dalle rive abbondantemente cementificate. E infine eccolo, il lago di Tiberiade, detto anche Mare di Galilea, scenario di tanti episodi della vita di Gesù: Sul finire della notte, Gesù andò verso i suoi discepoli camminando sul lago. Quando essi lo videro camminare sull’acqua si spaventarono. Dicevano: “È un fantasma!” e gridavano di paura. Ma subito Gesù parlò: “Coraggio, sono io! Non abbiate paura!”. (Matteo 14,25-27). Il lago di Tiberiade è la principale riserva idrica israeliana; a differenza del più grande, ma inospitale, Mar Morto, è di acqua dolce, poiché, pur essendo ben al di sotto del livello del mare (m -207), il fiume Giordano, oltre ad entrarci (da nord), vi esce (verso sud e, appunto, il Mar Morto). È molto pescoso. Oggi è sabato, giornata festiva per gli ebrei; è la seconda consecutiva nel mio viaggio, dopo il venerdì islamico di ieri. Questa del lago di Tiberiade è una zona turistica: vedo quindi numerose famiglie israeliane in auto in giro per il finesettimana. Le condizioni stradali sono, finalmente, su standard occidentali e il traffico scorre ordinato. Ma ho un problema: con tutto quello che è successo ieri sera, ho consumato più benzina del previsto. Inoltre, avendo viaggiato di sera e di giorno festivo (venerdì islamico), non ho potuto fare rifornimento

di benzina; nemmeno stamattina ho trovato distributori e quindi, mio malgrado (qui in Israele immagino che la benzina sia più cara dei paesi arabi), devo rifornirmi di carburante. Mi fermo al primo distributore, ma oggi è sabato, quindi sono attive solo le colonnine automatiche. Mi avvicino a guardare e… ci capisco poco. Chiedo aiuto a un israeliano e così, in due… ci capiamo ancora poco. Entriamo nel negozio, ma i cassieri sembrano impegnati e non ci danno retta. Credo che una cosa del genere sarebbe inconcepibile in un paese arabo come quelli appena visitati, non tanto perché, comunque, loro le colonnine automatiche non ce l’hanno (mai vista una), ma perché, di fronte ad uno straniero che chiede aiuto, un arabo avrebbe interrotto qualunque attività per aiutare. Guardo la colonnina; riesco a capire che si aspetta che io inserisca una tessera, presumo la carta di credito. La inserisco, ma mi chiede un numero; quale? Il codice della carta di credito? No, troppo semplice. L’israeliano cui mi ero rivolto suggerisce il numero di codice fiscale, ma non va nemmeno quello; ma allora quale? Comincio a innervosirmi; sono fermo in un distributore israeliano, a sprecare preziose ore di luce, con solo due giorni programmati per visitare Israele: non ho tempo da perdere. È meglio che questi israeliani si diano una mossa; vendere benzina è il loro lavoro, non il mio: se non si decidono ad aiutarmi, mi piazzo davanti alla colonnina e blocco i rifornimenti fino a che non riesco a farlo anch’io. Alla fine qualcuno si muove e mi suggeriscono di provare col numero del passaporto; incredibile, è quello che ci vuole: il prezioso liquido sgorga finalmente nel serbatoio della mia moto. Ma ho un altro problema; mentre torno alla moto noto che sto perdendo qualcosa: la targa! La targa si sta staccando; ormai è rimasta appesa alla moto solo con uno dei due bulloni, per di più molto allentato. Forse l’altro bullone ha ceduto quando ho staccato la targa egiziana, facendo forza sull’adesivo che la fissava alla targa italiana. Cerco di sistemarla, ma (ad alzare notevolmente la media di gentilezza degli israeliani riscontrata fino a qui) viene subito in mio aiuto un signore che qui vicino sta facendo rifornimento al suo camper, con la sua famiglia di moglie e tre bambini. Ha un’efficiente attrezzatura, sia di attrezzi che bulloneria varia, e in pochi minuti mi

sistema la targa, fissandola saldamente con due nuovi bulloni. Bene: serbatoio pieno, targa a posto, adesso a nord, verso il Golan. Ci sono anche altri due problemi alla moto. Si è rotto uno dei due ganci metallici del coperchio della borsa destra: finché regge l’altro, non è grave. Inoltre per le vibrazioni si è spezzata l’antenna del cb (questo è successo in Egitto): poco male, tanto qui non mi serve. Non vale la pena perdere tempo per questi problemi; li sistemerò in Italia, qui il tempo è troppo prezioso: meglio viaggiare. Percorro la costa orientale del lago di Tiberiade, esattamente la sottile striscia di territorio israeliano, stretta tra il lago e il confine con la Siria; o meglio, il vecchio confine con la Siria, perché il Golan fu conquistato da Israele nella guerra dei Sei Giorni del 1967; brevemente ripreso dai siriani nella guerra dello Yom Kippur del 1973, Israele lo riconquistò subito, respingendo i Siriani ben oltre l’attuale confine. Fu poi annesso da Israele nel 1981 (come Gerusalemme Est, annessa l’anno prima) e quindi adesso è ufficialmente territorio israeliano, checchè ne dicano gli arabi. La temperatura sale dai 20° di inizio giornata fino a 30. Dopo pochi chilometri (qui le distanze sono minime), supero il vecchio confine ed entro nel Golan occupato. Il Golan e la Galilea settentrionale sono la zona più verde di Israele. Numerosi parchi naturali, laghetti e ruscelli (soprattutto in questa stagione di fine inverno/inizio primavera); è quindi meta di molti escursionisti israeliani. Lascio la litoranea e imbocco la strada che sale, decisa, verso l’altopiano. Il Golan infatti è a una quota ben maggiore rispetto al lago di Tiberiade (che è a -207 m), culminando a 2.224 m presso il monte Hermon (limite della zona occupata da Israele; la cima del monte Hermon, al confine tra Siria e Libano, è a 2.814 m). La strada presenta un paio di tornanti; dopo il primo sono già tornato al livello del mare e dopo 10 km, a quota 370, raggiungo la strada che costeggia la linea di confine. Quella che è a breve distanza (da 4 km a 100 m) alla mia destra è, in effetti, la linea di cessate il fuoco israeliana del 1974. Oltre questa linea c’è una sottile zona cuscinetto, presidiata da un migliaio di soldati delle Nazioni Unite (UNDOF), e quindi la linea di cessate il fuoco siriana.

Percorro l’altopiano, battuto dal vento. Ogni tanto incontro resti di fortificazioni e fabbricati diroccati, segnati dai bombardamenti, qualche carro armato abbandonato dall’ultima guerra, intorno al quale pascola tranquillo il bestiame. Tutte le strade e i sentieri che si dirigono verso destra (est e la Siria) sono chiaramente segnalati come zona inaccessibile senza speciale permesso… e non mi arrischio certo a percorrerli. Vedo in lontananza un cumulo di pietre: strano, sembra essere proprio sulla strada; è molto alto. Avvicinandomi, noto che i cumuli sono due e la strada ci passa proprio in mezzo! Ma cosa sono? La strada punta dritta sul secondo cumulo, sfiorando il primo; alti oltre due metri, la via compie una stretta curva a destra e subito dopo una a sinistra, passando tra i due cumuli, molto ravvicinati. Credo siano dei rallentatori militari, postazioni dalle quali è facile bloccare, in caso di bisogno, la strada. Un altro segno delle tensioni della zona e della delicatezza di quest’area. La zona è molto tranquilla e bella, con dolci colline e molto verde. Provo a immaginarla nel corso delle violente battaglie delle ultime guerre. Arrivo al punto panoramico di Quneitra. Da qui posso vedere distintamente la zona demilitarizzata controllata dalle truppe dell’ONU. All’interno di tale zona, osservo la città di Quneitra, distrutta dall’esercito israeliano durante la guerra dei Sei Giorni del 1967; era la principale città del Golan. Dopo la fine della guerra dello Yom Kippur del 1973, il valico è rimasto chiuso, attraversato solo dalle donne siriane andate in sposa a uomini drusi (o viceversa) e da studenti drusi che andavano a studiare a Damasco (Lonely Planet, Israele e i Territori Palestinesi, 2007). Riesco a distinguere le bianche camionette dell’ONU e gli edifici delle forze di interposizione; oltre le barriere che indicano la fine della zona smilitarizzata, sono presenti le forze armate siriane: una bandiera siriana sventola al vento, a ribadire la presenza siriana e la loro ostinazione a non considerare perduto definitivamente questo territorio. Questo è un punto simbolico, luogo di cruente battaglie alcuni anni fa; ma, come spesso accade, il turismo e l’economia hanno la meglio e il posto, visto il costante afflusso di turisti e curiosi, attratti dal panorama sulla “nemica” Siria, è diventato sede di numerosi

venditori ambulanti. Si tratta soprattutto di drusi, la comunità religiosa presente in questi territori, divisa tra Golan israeliano, Siria e Libano. Vendono soprattutto frutta e altri prodotti di questa terra; noto degli invitanti barattoli di miele, prodotti in loco. Buona occasione per uno spuntino e per portare a casa qualcosa di tipico che sarà sicuramente apprezzato da mia moglie. Il venditore druso è gentilissimo e molto simpatico; taglia subito un pezzo di mela e mi invita ad assaggiare il miele; è dolcissimo e lo spuntino è molto gradito. Penso a questa comunità; vissuta in questa zona da secoli, divisa dalla politica e dalla guerra fra tre Stati, di cui due in guerra tra loro, obbligati a prestare servizio militare in due eserciti tra loro contrapposti, col rischio (per niente teorico) di dover puntare le armi sui propri correligionari d’oltre confine. Una comunità così piccola (circa 350.000 in tutto), eppure così divisa. Osservo il druso: piccolo copricapo bianco, lunghi e folti baffi, pelle abbronzata dal sole, coltello in mano per tagliare la frutta ai clienti, sguardo all’apparenza sereno. Non guarda mai verso il confine, verso la Siria, dove probabilmente risiedono alcuni suoi parenti; non guarda, ma è difficile che non ci pensi. Riparto dal punto panoramico, continuando verso nord, e incrocio un gruppo di moto, prevalentemente grosse Harley. Non vedo la loro targa, ma ho pochi dubbi che si tratti di israeliani in gita (oggi è sabato): è molto difficile, infatti, che siano moto straniere, visto che le possibilità che un arabo faccia un giro in moto in Israele sono praticamente zero e anche di occidentali come me che arrivino fino a qui in moto credo che ce ne siano molto pochi. Rispondono prontamente al mio saluto, ma mi avrebbe fatto piacere fermarmi a chiacchierare con loro; vorrei capire cosa significhi vivere isolati nel proprio paese, non potere in pratica uscire con la propria moto per girare libero negli Stati vicini e nel resto del mondo; una condizione che mi farebbe soffrire molto, mi farebbe sentire “in gabbia”. Credo comunque che gli israeliani siano abituati a sentirsi sotto assedio, anche se, immagino, questa condizioni pesi anche a loro. Insisto nel saluto e rallento, sperando che accennino a fermarsi, ma le Harley continuano nella direzione opposta alla mia; sarà per un’altra volta.

Ogni tanto incontro degli strani cartelli, che non riesco a decifrare, nonostante siano anche in inglese. Hanno un simbolo tipo caduta massi, ma non sono quelli. Continuo a interrogarmi sul loro significato, finché, alla prima occasione, chiedo a un israeliano. Lui sorride e mi spiega che si tratta dei cartelli che indicano quali sono i punti esposti (o meno) al lancio di missili; infatti in questa zona del nord di Israele, così vicina alla frontiera col Libano (sede di gruppi terroristici come gli Hezbollah), ogni tanto “cadono” missili. I cartelli quindi indicano semplicemente i punti in cui, a causa della conformazione del terreno, si è al riparo o no da quei missili. Questo fatto mi colpisce molto, ed è sintomatico della “ordinaria eccezionalità” in cui è costretto a vivere questo popolo, sotto assedio non solo di alcuni dei suoi vicini (adesso solo alcuni, prima di batterli ripetutamente in guerra, tutti), ma anche di certi gruppi terroristici che dovrebbero semplicemente essere cancellati dalla faccia della Terra. Ma quello che più mi colpisce è la tranquillità con cui l’israeliano dà la spiegazione: come se stesse davvero illustrando il significato di un semplice cartello di “caduta massi”; ci si abitua a tutto, anche a vivere sotto la costante minaccia di essere bombardati. Proseguo verso nord; incontro altri motociclisti israeliani e ho modo di verificare che, contrariamente ai loro vicini arabi, usano tutti il casco, nonostante la giornata calda, e spesso anche altro abbigliamento tecnico. Arrivo a Majdal Shams, una delle due città druse della regione, posta a 1.100 m. Al centro di una piazza svetta possente la statua di un gruppo di uomini a cavallo: è dedicata al sultano El-Atrash, il druso che nel 1925 guidò una rivolta antifrancese (la Siria era sotto amministrazione francese). Diverse targhe con numerosi nomi incisi sono alla base del monumento, presumo i nomi dei caduti (le scritte sono solo in arabo e l’unica cosa che riesco a decifrare è la data). Vorrei vedere anche la Shouting Hill, ma non riesco a individuare la strada; rinvio pertanto la visita al ritorno, tanto da qui dovrò ripassare, non essendoci altra strada per tornare verso sud. Mi dirigo quindi verso il monte Hermon. La strada sale decisa; finalmente anche un po’ di bel guidare. È quasi deserta: in questa stagione credo che gli sciatori non siano più presenti; già, perché

questo è l’unico punto di Israele in cui si può sciare, almeno d’inverno. Sullo sfondo vedo ancora neve e i classici pali a bordo strada mi fanno capire che qui, in pieno inverno, la neve può essere anche molto alta. Supero quella che sembra una stazione di pedaggio; è deserta: immagino che ormai, finita la stagione invernale, non si paghi più. Arrivo al piazzale terminale della strada (1.700 m); i bianchi mezzi spazzaneve sono ordinatamente parcheggiati, inattivi. Gli impianti di risalita sono ormai fermi, per mancanza di neve: dei pupazzi sono stati messi sulla seggiovia, come se fosse ancora attiva. Da qui si può continuare solo a piedi, non per molto, comunque, poiché sono molto vicino al confine, come mi ricorda l’onnipresenza dei soldati israeliani, che bloccano l’accesso alla stradina laterale che, da me individuata in precedenza sulla carta, speravo di poter percorrere, per avvicinarmi ancora al confine. Questo è il punto più a nord (raggiungibile) di Israele: non mi resta che tornare indietro. Lungo la discesa noto qualche cartello scritto solo in ebraico, di cui, quindi, non comprendo il significato. Ritorno a Majdal Shams e, mentre mi aggiro per la cittadina alla ricerca della Shouting Hill, avvisto un motociclista. Questo non me lo faccio scappare e richiamo la sua attenzione. Lui torna indietro e gli chiedo dove si trova la Shouting Hill; mi fa strada e mi ci porta. La Shouting Hill (Collina delle grida) è un luogo particolare, forse unico. È una strada senza uscita di Majdal Shams, che termina proprio di fronte al muro di confine, che delimita la zona smilitarizzata controllata dall’ONU; subito oltre tale zona (qui molto stretta) c’è la Siria. Torrette di avvistamento e filo spinato lungo entrambi i lati del confine. La particolarità del luogo è che proprio qui, ogni venerdì, molti drusi comunicano con i familiari d’oltre frontiera (dai quali sono stati separati dalla guerra), gridando. Luogo simbolo di una guerra che spezza anche le famiglie; uno dei muri rimasti nel mondo, costruito più dall’odio e dall’intolleranza che dal cemento. Chiacchiero qualche minuto col motociclista israeliano. Lui è sorridente nella foto che ci scattiamo in questo posto, accanto alla sua moto supersportiva: chissà se anche lui è un druso, se anche lui ha dei familiari che abitano pochi metri più in là, da cui è diviso dalla guerra e che ormai difficilmente può rivedere. Tutto intorno palazzine

in costruzione, alcune ormai cadenti; iniziate prima della guerra, forse non saranno mai completate, trovandosi ormai in zona militare. Una piccola, multicolore, bandiera della pace è legata tra i ferri di un pilastro di un edificio; chissà quando potrà rappresentare qualcosa di più di una semplice speranza, in questo posto. Ringrazio il motociclista israeliano e proseguo. In una piazza di Majdal Shams vedo un altro monumento, raffigurante un gruppo di drusi, uno dei quali alza fiero una spada; la cosa più interessante è che sulla spada è orgogliosamente appesa una bandiera siriana, a sottolineare che i drusi di Israele continuano a sentirsi siriani, pur non essendo ostili allo Stato di Israele (in cui, ricordo, gli uomini prestano il servizio militare obbligatorio). Mi dirigo verso ovest, verso il vecchio confine di Israele; su un colle avvisto il castello di Nimrod, un’antica fortificazione crociata. Il castello è già chiuso (sono le 15.42) e quindi mi limito a vederlo dall’esterno. Supero il vecchio confine: nessun segno lo ricorda, come a ribadire, da parte israeliana, che è Israele sia al di qua che al di là di questa linea immaginaria, per sempre. Questo giro nel Golan è stato molto interessante; breve come chilometri, intenso come emozioni, come simboli incontrati. Fa comprendere, nel luogo teatro dei combattimenti forse più cruenti delle guerre arabo-israeliane, quanto conti il possesso della terra, per entrambe le parti. Se devo giudicare da quello che ho visto, credo che Israele non abbandonerà mai queste terre; troppo importanti strategicamente, soprattutto per il controllo delle sue vitali risorse idriche. Nulla, nel Golan, fa pensare ad una occupazione temporanea. Arrivo a Qiryat Shemona, tristemente nota alle cronache perché, essendo la città più settentrionale d’Israele (escluso il vicino Golan) e la più vicina in assoluto al confine libanese, ogni tanto è bersaglio di razzi lanciati da oltre confine da gruppi islamici stanziati in Libano. La cittadina mi accoglie tutta piena di bandiere israeliane: non mi risulta che oggi sia una festa nazionale (è semplicemente sabato); immagino quindi che sia la normalità, la normalità di una città sempre “sotto tiro”. Da Qiryat Shemona la strada punta decisamente verso sud, lungo la bucolica valle di Hula. Si tratta di una zona umida di grande

interesse, luogo di sosta per migliaia di uccelli migratori. È anche un’importante zona agricola, ma per fortuna si è posto un limite alla bonifica delle terre (preziose in Israele), con l’istituzione di una riserva naturale. Praterie e vigneti mi accompagnano fino al lago di Tiberiade, presso Tabgha, vicino al monte delle Beatitudini: Vedendo che c’era tanta gente Gesù salì verso il monte. Si sedette, i suoi discepoli si avvicinarono a lui ed egli cominciò ad istruirli con queste parole: “Beati quelli che sono poveri di fronte a Dio: Dio darà loro il suo regno. Beati quelli che sono nella tristezza: Dio li consolerà. Beati quelli che non sono violenti: Dio darà loro la terra promessa... ”. (Matteo 5,1-11). Poco più avanti, vicino al lago, il santuario della moltiplicazione dei pani e dei pesci: I discepoli gli dissero: Come potremo qui, in un luogo deserto, trovare tanto pane per una folla così grande? E Gesù domandò: Quanti pani avete? Risposero: Sette e pochi pesciolini. E Gesù ordinò alla folla di sedersi per terra. Prese i sette pani e i pesci, fece la preghiera di ringraziamento, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla. Tutti mangiarono e ne ebbero abbastanza. Quando poi si raccolsero gli avanzi, se ne riempirono sette ceste. Quelli che avevano mangiato erano quattromila uomini, senza contare le donne e i bambini. Dopo aver rimandato a casa la folla Gesù salì in barca e andò nel territorio di Magadan. (Matteo 15,32-39). Proseguo verso sud, costeggiando il lago, verso Tiberiade. La città si annuncia da lontano, alta sulle colline che sovrastano lo specchio d’acqua. Infatti si estende su un notevole dislivello e quindi, partendo dai quartieri sul lago (a -207 m), quando arrivo alla sua periferia occidentale sono ben oltre il livello del mare (100 m). Dirigo verso Nazaret, anche se ormai il sole è basso e temo di non fare in tempo a raggiungerla prima del tramonto. Sono le 17.40 quando parcheggio la moto proprio di fronte alla Basilica

dell’Annunciazione (costruita nel 1955 dai francescani, su rovine precedenti), appena 3 minuti prima del tramonto: gli ultimi raggi di sole la illuminano, mentre la ammiro. Molto bello l’interno del tetto. Nazaret è la più grande città araba di Israele, con una forte presenza cristiana; è il principale centro abitato della Galilea (64.000 ab.), nota soprattutto per essere la città di Maria e Giuseppe, dove Gesù trascorse l’infanzia. Giuseppe si alzò, prese con sé il bambino e sua madre e ritornò nella terra d’Israele…partì allora verso la Galilea e andò ad abitare in un villaggio che si chiamava Nazaret. Così si realizzò quel che Dio aveva detto per mezzo dei profeti:” Egli sarà chiamato Nazareno”. (Matteo 2,21-23). Sono ormai quasi le 17, sta per fare buio. Questo mi aiuta a prendere la decisione su quale strada percorrere per arrivare a Betlemme. Nella preparazione del viaggio, infatti, questo era un punto rimasto incerto. Ho previsto due itinerari: uno attraverso i Territori Palestinesi (da Nablus e Ramallah), più breve, e uno dalle comode autostrade israeliane, più veloce. Vista la situazione, non esito: troppo rischioso affrontare le strade palestinesi col buio; meglio affidarsi alle presumibilmente più sicure autostrade israeliane. Esco rapidamente da Nazaret e in un quarto d’ora raggiungo l’autostrada 10 km a sud. Da qui è una veloce corsa nella notte: le autostrade israeliane dimostrano uno standard decisamente occidentale, certo più sicure delle vicine arabe, dal traffico piuttosto “promiscuo”. L’unico momento di incertezza è poco dopo Tel Aviv, quando non mi accorgo dell’uscita verso Gerusalemme e mi ritrovo diretto verso sud; continuando così, dopo 40 km arriverei a Gaza: meglio evitare. Continuo un po’, fino a trovare un’uscita, verso Ashdod; vado qualche chilometro in direzione di quella città portuale e poi, alla prima rotonda, torno indietro, trovandomi finalmente sulla strada per Gerusalemme e poi sull’autostrada. Le luci della Città Santa rischiarano la notte, ma la mia meta oggi è la vicina Betlemme, pochi chilometri a sud. Ho deciso infatti di

pernottare lì; immagino di trovare più facilmente una sistemazione non cara nella cittadina della Palestina che nella capitale d’Israele. Non è però possibile raggiungere Betlemme senza passare da Gerusalemme, quindi devo affrontare il traffico della grande città. Le indicazioni sono piuttosto carenti; forse anch’io non sono molto attento; credo però che, se un utente medio (e io ritengo di non essere sotto la media) sbaglia a imboccare lo svincolo giusto, è probabile che sia la segnaletica ad essere insufficiente. Comunque sia, commetto l’errore di uscire troppo presto dall’autostrada, dirigendomi verso sud; la direzione è giusta, ma in mezzo c’è… il fitto e poco ordinato tessuto urbano di Gerusalemme. A complicare le cose c’è un fatto curioso, quasi sconcertante (almeno per me): perso nel traffico di Gerusalemme, tra gli abitanti a passeggio il sabato sera, tra cui molti ebrei ortodossi dall’abito riconoscibile a decine di metri di distanza, chiedo ripetutamente indicazioni sulla strada per Betlemme. Lo faccio nel modo più semplice e “internazionale” possibile: ripetendo lentamente “Betlemme?” e indicando col dito una direzione; di fronte alle incertezze dei miei interlocutori, ripeto la domanda in inglese: “What is the way to Bethlehem?” Niente da fare, non capiscono. Ma come è possibile! In Israele quasi tutti parlano inglese! Chiedo a gente di ogni tipo, passanti, giovani, adulti, anziani, ebrei ortodossi con i loro strani vestiti e ancor più strane acconciature. Niente, nessuno capisce. Mi rendo infine conto che il problema non è l’inglese, ma proprio la parola Betlemme! È incredibile, sono nella capitale di Israele, chiedo indicazioni per una città posta ad appena 10 km e nessuno capisce! Me ne rendo conto dopo parecchi tentativi: la mia pronuncia di Betlemme, la pronuncia per indicare il nome della città che ha dato i natali a Gesù, non è compresa qui a Gerusalemme! Sforzandomi di modificare la pronuncia con tutte le possibili varianti, alla fine imbrocco quella giusta, che è qualcosa del tipo “Bayt Lahm”, cioè il nome arabo della città. Mah! Mai come in questo momento Israele e i Territori Palestinesi mi sembrano due mondi distanti. Ormai comunque, a parte le (tardive) indicazioni dei locali, ho trovato la strada da solo, dirigendomi verso sud. Esco quindi da

Gerusalemme e arrivo al confine. E, prima ancora di arrivarci, lo vedo: il muro. Il muro che tante polemiche ha creato, che separa i Territori Palestinesi da Israele; è il segno tangibile di quanto siano distanti questi due mondi; il segno dell’ostilità, delle incomprensioni, del fallimento di tanti sforzi fatti per trovare un accordo o almeno una convivenza pacifica. È brutto vedere che ancora ci sono dei muri; che addirittura di nuovi se ne costruiscono. D’altra parte, non ci si deve fermare di fronte all’“estetica” di un muro, certo sgradevole, anche per quello che rappresenta. Il muro è il segno che, probabilmente, al momento non c’è un’altra soluzione per garantire un minimo di sicurezza ad Israele, continuamente minacciato da infiltrazioni terroristiche. Certo, qui coincide con i confini internazionalmente riconosciuti per la Cisgiordania, ma spesso Israele ha “approfittato” della costruzione del muro per “arrotondare” i confini e inserire pezzi di territorio palestinese all’interno del muro: ovviamente non ha mai fatto il contrario. Non nascondo (e chi ha letto fino a qui se ne sarà ormai reso conto) che, nel lungo confitto tra arabi e israeliani, ho le mie idee su chi abbia ragione e chi torto (almeno sulle cose fondamentali); ma certo mi pare scorretto questo modo di comportarsi di Israele, questo operare un’“annessione strisciante” di pezzi sempre più ampi di territori, prima con gli insediamenti dei coloni, poi con la costruzione del muro, un’opera talmente imponente e costosa, che difficilmente potrà poi essere rettificata, restituendo ai palestinesi territori che, di fatto, ora annette. Sarebbe certo più lineare, da parte di Israele, annettersi semplicemente tutta la Cisgiordania; e, dopo tutte le guerre di aggressione subite, ne avrebbe anche un certo diritto. Ma probabilmente nemmeno Israele, diviso al suo interno su quale strada seguire, avrebbe il coraggio, di fronte alla comunità internazionale, di fare una cosa del genere. Il secco richiamo del soldato israeliano, col solito mitra al braccio, mi distoglie dalle mie riflessioni, richiamandomi alla realtà; stavo per sbagliare strada: il varco è qui, da qui devo passare per i controlli di confine. Un confine strano, per la verità, perché è sorvegliato solo da una delle due “entità” (Israele e Autorità Nazionale Palestinese): gli

israeliani. Solo militari israeliani infatti sono presenti e solo loro controllano i miei documenti. Gli accordi tra Israele e ANP hanno infatti concesso una limitata autonomia interna ai palestinesi, ma i confini sono competenza esclusiva di Israele, che comunque, quando gli va, si intromette abbondantemente anche in altro senza chiedere il permesso a nessuno. I controlli sono abbastanza veloci e in breve passo dall’altra parte. Sono già a Betlemme, poiché il muro ne lambisce la periferia. Da questo lato la muraglia sembra ancora più opprimente, perché spesso passa vicino alle case, tagliando le strade. Dirigo verso la Basilica della Natività, presso la quale so che c’è una struttura di accoglienza, gestita da religiosi; i gentili poliziotti palestinesi mi indicano la strada; purtroppo la struttura è piena. Ormai è tardi (quasi le 21) e devo sbrigarmi a trovare un alloggio; ho un secondo indirizzo e mi dirigo subito lì, tanto è vicino. Il responsabile della struttura però mi comunica che è pieno anche qui: “no, per favore, mi trovi un posto, la prego, un posto qualunque! Solo per una notte”. Insisto e prego e alla fine un posto si trova. È piuttosto caro: i prezzi qui nei Territori Palestinesi sembrano allineati più a quelli di Israele (e quindi all’occidente) che ai paesi arabi. Parcheggio la moto di fronte all’albergo. Parcheggio custodito chiuso non se ne trova: vorrà dire che il solito telo dovrà bastare. Nell’attesa che sia disponibile la camera, chiacchiero con i due figli del titolare dell’albergo. Sono palestinesi cristiani, circa 20 anni; non approfondiamo troppo, ma è evidente il loro disagio di vivere in un territorio, la loro patria, senza molte prospettive; sempre soggetto ad una potenza straniera occupante. D’altra parte, io penso, i palestinesi una patria l’avevano: l’hanno persa tanti anni fa soprattutto per l’insipienza dei loro capi, ostinatamente protesi a distruggere Israele, cosa che ancora molti di loro vogliono. Se si fossero accontentati della metà della Palestina che era stata loro offerta nel 1948, non sarebbero adesso senza una patria. È stata una giornata intensa: pochi chilometri, ma due confini difficili; terre martoriate e molto “calde”; luoghi simbolo e territori densi di ricordi storici e religiosi importanti. Domani mi aspetta Gerusalemme e il resto della mia breve permanenza in questa terra.

14.3.2010 – domenica – giorno 14 Betlemme (PS) (7.22) – Pella (HKJ) (19.04) km 203, viaggio h 11.42, guida h 3.51 Il Signore dice: “Betlemme-Efrata, tu sei una delle più piccole città della regione di Giuda. Ma da te uscirà colui che deve guidare il popolo di Israele a nome mio…”. (Michea 5,1) La Basilica della Natività è a pochi metri, ma preferisco raggiungerla in moto, in modo da averla sempre (o quasi) sottocchio; e poi, comunque, uso la moto sempre fino a che posso. La Basilica è posta in una piazza dal nome evocativo: piazza della Mangiatoia. Sul lato opposto è presente una moschea, col suo minareto svettante che ricorda come questa sia una città in cui convivono una comunità cristiana e una musulmana. Su un altro lato della piazza, il “Bethlehem Peace Center”. Già, pace. Un luogo del genere la meriterebbe, ma è inutile illuderci: non ci sono in Palestina luoghi che, per la loro natura, garantiscano la pace; nemmeno luoghi santi come questo, tanto importanti per i cristiani (e non solo). Guardo la Basilica e penso che, pochi anni fa, lei stessa è stata violata da uomini in armi. Il 2 aprile 2002, durante l’operazione “Muraglia di difesa”, condotta dall’esercito israeliano per colpire le basi terroristiche palestinesi in Cisgiordania, 200 palestinesi (di cui 50 armati) si rifugiarono nella chiesa, per 39 giorni, per sfuggire agli israeliani. L’esercito israeliano assediò quindi la basilica, per stanare i palestinesi; durante l’assedio scoppiò un incendio nella chiesa. Episodio certo triste, ma ciò che mi scandalizza e mi rattrista in questa vicenda non è il comportamento degli israeliani, ma quello dei palestinesi; sono stati loro a “violare” la chiesa, cercandovi rifugio ed entrandovi in armi, facendosi scudo della santità della chiesa, per sfuggire agli israeliani. Del resto cos’altro ci si può aspettare da una parte che ha usato bambini e ospedali come scudi umani a Gaza, nel conflitto contro Israele? La chiesa è la più antica del mondo ancora in attività, voluta dall’imperatore Costantino nel 326. Entro con emozione attraverso la piccola porta, costruita in queste ridotte dimensioni probabilmente per impedire ai soldati di entrare a cavallo.

Dopo la visita della chiesa, scendo nella Grotta della Natività, al piano inferiore della basilica. È un ambiente molto piccolo, affollato di fedeli e sacerdoti che, a turno, recitano preghiere, credo continuativamente. Riesco ad avvicinarmi solo per pochi secondi alla Cappella della Mangiatoia, che rappresenta la scena della natività. Anche oggi è un giorno festivo, il terzo consecutivo per me, singolare coincidenza dovuta al susseguirsi del venerdì islamico, il sabato ebraico e la domenica cristiana, religione alcuni decenni fa prevalente in questa città (ora sono il 20%). Torno nella piazza, dove noto la presenza di poliziotti palestinesi; militari israeliani qui non se ne vedono, almeno adesso. Ripresa la moto, mi avvio nuovamente verso il confine, per tornare in Israele. Visto di giorno e dal lato palestinese, il muro è ancora più opprimente; provo a immaginare cosa significhi vivere qui, per un palestinese, con questa ingombrante presenza; per non parlare del resto. Il muro è alto circa 4 metri, col filo spinato in cima; è ricoperto (dal lato palestinese) da manifesti e scritte, in arabo e in inglese. Il rientro in Israele non richiede molto tempo; mi sembra che tutti i veicoli abbiano la targa israeliana; forse alle auto palestinesi non è consentito entrare in Israele. Sono l’unico straniero. Arrivare oggi a Gerusalemme è meno complesso che trovare Betlemme ieri. Dirigo verso nord e punto dritto al centro della città. Cerco di raggiungere il Muro del Pianto, ma non è semplice. Dopo un po’ mi ritrovo negli stretti vicoli della città vecchia, un labirinto che pare inestricabile; pazienza, approfittiamo per gustare un po’ l’atmosfera di questa antica città. Sono nel quartiere ebraico; il centro storico di Gerusalemme è diviso tradizionalmente in 4 quartieri: musulmano, cristiano, armeno, ebraico. Credo che la divisione non sia solo una questione storica, ma reale; comunque qui, nel quartiere ebraico, mi sembra di vedere in giro solo ebrei. Continuo per un po’ a girare; il gps può poco, aiuta comunque ad aver chiara la direzione; anche chiedere in giro non serve molto, poiché il tessuto urbano è talmente complesso che girare con un veicolo motorizzato è veramente difficile, per chi non è del luogo. Comunque, alla fine ne esco e mi ritrovo in una grande piazza, adibita prevalentemente a parcheggio; chiedo e sembra che il Muro del Pianto sia qui vicino: mi consigliano di parcheggiare qui

(gratuitamente, pare che la mia moto non pa ghi) e di continuare a piedi. Un gruppo di ragazzi ebrei si avvici na subito, curioso, alla moto; sono vestiti tutti in modo uguale: pantaloni neri, camicia a maniche lunghe bianca, la kippah in testa. Sono molto interessati alla moto e allo straniero, come tutti i ragazzi del mondo, a tutte le latitudini e di tutte le religioni. Mi avvio quindi a piedi lungo una discesa e dopo un po’ vedo l’inconfondibile sagoma della Cupola della Roccia. Noto però che la strada è aperta al traffico, quindi torno indietro e rifaccio il percorso con la moto. È una questione di principio: se posso arrivare in moto ad un posto, in moto ci arrivo: se non posso… almeno ci provo. La via è abbastanza stretta e ripida (in discesa); rallento, ma, più che per motivi di sicurezza, per gustare al meglio il momento in cui mi appare davanti il Monte degli Ulivi e, subito dopo, la dorata Cupola della Roccia e la cupola della moschea di Al-Aqsa. La strada passa vicino all’ingresso nella piazza del Muro del Pianto. Oltre ovviamente non posso andare in moto, ma noto, sul marciapiede, alcune moto parcheggiate: si tratta di piccoli scooter, ma, formalmente, sono pur sempre moto come la mia; per scrupolo chiedo a un militare di guardia, che mi conferma che non c’è problema: posso lasciare la moto lì. Salgo sul marciapiede, passando (appena) tra i blocchi di cemento che impediscono il passaggio a veicoli più larghi di un metro, e parcheggio: sotto i mitra spianati dei soldati israeliani, dubito che corra rischi… a parte l’esplosione di una bomba. Il Primo Tempio fu eretto dal re ebreo Salomone circa nel 1000 a.C., come sede dell’Arca dell’Alleanza; distrutto da Nabucodonosor II, re di Babilonia, nel 586, fu ricostruito (il Secondo Tempio) nel 515 a.C.; nel 70 d.C. fu distrutto dai romani, dopo una rivolta ebraica. Il Muro del Pianto non è altro che il muro occidentale della spianata del Monte del Tempio; infatti il re Erode (regnò dal 37 al 4 a.C.) fece costruire un muro intorno al monte e riempire di detriti lo spazio tra il muro e la montagna. In questo modo, in cima, si creò l’attuale grande spianata del Monte del Tempio. Dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme ad opera dei romani, questo muro è diventato un simbolo per gli ebrei, in quanto il luogo più vicino alla sede originaria del Tempio. Infatti, in seguito alla

sua demolizione, gli ebrei furono mandati in esilio e quindi persero la cognizione del punto esatto in cui si trovava il Tempio; tornati a Gerusalemme, gli ebrei evitarono l’area della spianata, per timore di calpestare l’area più sacra del Tempio, l’ambiente in cui era posta l’Arca dell’Alleanza, dove potevano accedere solo i Grandi Sacerdoti. Cominciarono quindi a raccogliersi in preghiera presso questo muro esterno, detto anche Muro Occidentale (Lonely Planet, Israele e i Territori Palestinesi, 2007). Sulla grande spianata occupata prima dal Tempio, sorgono adesso la Moschea di Al-Aqsa e la Cupola della Roccia, contenente la lastra di pietra (sacra all’ebraismo e all’islam) sulla quale Abramo stava per sacrificare il figlio Isacco e da dove Maometto (secondo l’islam) ascese al cielo. Entro nella piazza, dopo gli inevitabili controlli: è un luogo molto sorvegliato, forse il luogo più simbolico di Israele. Noto alcune moto parcheggiate appena oltre l’ingresso (presumibilmente dei militari israeliani di guardia: dubito che altri possano farlo). La piazza è affollata: turisti di tutto il mondo, ebrei, soldati. Mi guardo intorno: numerose bandiere israeliane, sugli edifici circostanti, ricordano orgogliosamente che questa è terra d’Israele, da quando, durante la guerra dei 6 giorni del 1967, fu liberata dai paracadutisti israeliani e poi annessa nel 1980. Come si può pensare che Israele rinunci a un luogo simile, così importante per la sua storia? Un gruppo di soldati israeliani si avvicina al Muro del Pianto, con l’inseparabile mitra a tracolla (abbassato, in questa circostanza); passa accanto a un gruppo di ebrei ortodossi, facilmente riconoscibili per il loro abbigliamento. Prima di giungere al muro, tutti gli uomini prendono una kippah da un apposito contenitore, per coprirsi il capo (le donne accedono al muro in un altro settore, separato da un divisorio). Ogni metro, lungo il muro, c’è un ebreo che prega: giovani, anziani, ultraortodossi, soldati. Tutti assorti nella preghiera, alcuni con testi sacri davanti, la maggior parte in piedi, altri seduti; diversi col tallet, il tradizionale mantello frangiato che copre loro le spalle; alcuni coi caratteristici filatteri, le custodie cubiche di cuoio contenenti piccoli rotoli di pergamena con scritti alcuni passi della Torah, fissate con cinghie alla fronte. Lunghe litanie, preghiere,

ritmici movimenti del capo e delle spalle; alcuni poggiano la testa al muro; quasi ogni cavità della parete è piena di bigliettini di preghiera. Ma non solo il muro è luogo di preghiera; in diversi ambienti tutto intorno, soprattutto sul lato settentrionale della piazza, ci sono ebrei che pregano, con testi religiosi davanti. Mi avvicino all’entrata (l’unica aperta ai non musulmani) da dove è possibile salire sulla spianata del Tempio e quindi accedere alla Moschea di Al-Aqsa e alla Cupola della Roccia; ma i militari israeliani di guardia mi comunicano che non è possibile passare, per motivi di sicurezza. Infatti spesso è chiusa, per possibili disordini. Sulla lunga passerella coperta che, superando il dislivello, porta dalla piazza alla sommità del monte, vedo solo militari israeliani. Cerco gli altri ingressi, ma non sono accessibili nemmeno quelli. Torno alla moto, obiettivo la Porta di Damasco. Costeggio un lungo tratto delle mura di Gerusalemme; è il modo più semplice per raggiungere la porta, nella complessa struttura urbana della città: se la porta è attraverso le mura, allora seguendole non potrò non trovarla. La Porta di Damasco è il principale accesso alla città vecchia di Gerusalemme; è posta a un livello inferiore rispetto alla strada. Parcheggio la moto in quello che sembra un parcheggio per moto, sul marciapiede. Tutto intorno militari israeliani; agli incroci, sui marciapiedi, nelle aiuole, tutti in assetto di combattimento; è una situazione di “normale eccezionalità”, come uno stato di guerra permanente; e tutto intorno la vita che scorre normale, almeno fino a quando non succede qualcosa di grave. La porta dà accesso al quartiere musulmano; superato il passaggio, si è nella tipica strada araba, affollata di venditori che espongono merce di vario genere sotto pensiline e tende per riparare dal sole, acquirenti che contrattano la merce, carretti che corrono di qua e di là; spiccano in particolare i dolci multicolori, ben in mostra su diversi banconi. Dopo poche centinaia di metri (le distanze nella città vecchia sono limitate), svolto verso il quartiere cristiano, sempre nel Souq Khan as Zeit. Una targa trilingue (ebraico, arabo e… latino?) indica la storica “Via Dolorosa”. Lungo questa stretta via si snodano diverse stazioni della Passione di Gesù; me lo ricordano alcune targhe in inglese (“8th station – Via Dolorosa”) e il passaggio di pellegrini in

processione. Immagino che qui, tra poche settimane, nel periodo della Pasqua, ci sarà ancora più gente. Arrivo al Santo Sepolcro. Questa chiesa fu edificata nel luogo del Calvario (o Golgota), dove Gesù è stato crocifisso, è morto ed è risorto; a quei tempi questo luogo era al di fuori delle mura cittadine. L’edificio fu costruito su iniziativa della madre dell’imperatore Costantino, Elena, tra il 326 e il 335. Ci sono state contese (e ancora ogni tanto ci sono) per il controllo di questa chiesa tra le diverse comunità cristiane. Nel 1852 il sultano turco che allora governava Gerusalemme emanò un decreto che sanciva lo Status Quo, cioè il mantenimento della situazione stabilita nel 1767, che assegnava ai greci ortodossi la maggior parte della Basilica del Santo Sepolcro; ancora oggi vige lo Status Quo. Per evitare contrasti tra i diversi cristiani, le chiavi della chiesa sono affidate a una famiglia musulmana del luogo, che ogni mattina apre le porte e le richiude la sera. Credo sia impossibile arrivare in certi luoghi di Gerusalemme e non trovare gente; ma la folla non sminuisce l’unicità di questi posti, così carichi di storia e religiosità. Mi fermo un po’ nella piazzetta da dove si accede alla chiesa. Il Santo Sepolcro l’ho già visitato, in un precedente viaggio (non in moto). Arrivo al punto più sacro, l’edicola della tomba di Gesù: c’è molta gente ed è quasi difficile muoversi. Purtroppo sembra che sia appena terminata una funzione all’interno dell’edicola, che quindi è ancora chiusa: osservo i preparativi necessari prima che la stessa sia riaperta al pubblico. Noto rappresentanti di diversi ordini religiosi, di varie confessioni cristiane, che fanno “la guardia” all’edicola, immagino ognuno attento alle proprie prerogative. All’ingresso dell’edicola, le immagini dei 12 apostoli; tutto intorno candelabri e candele a profusione. Purtroppo mi accorgo solo quando l’edicola è finalmente riaperta al pubblico che la fila per accedervi comincia dalla parte opposta dove sono io, ed è molto lunga; lascio perdere, tanto ci sono già stato e comunque l’interno lo vedo (parzialmente) anche da qui: non posso perdere tanto tempo. Una preghiera e via. La mia visita a Gerusalemme è finita; torno a piedi alla Porta di Damasco, dove riprendo la moto, e mi dirigo verso il Mar Morto.

Uscendo da Gerusalemme verso est, mi aspetto di trovare un confine con i Territori Palestinesi; ma il confine qui è “sfumato”. Innanzitutto il muro non c’è o almeno non è completato, tant’è che arrivo a Gerico senza alcun posto di blocco israeliano. Inoltre questo è proprio uno dei punti più “caldi” per la definizione dei confini e uno degli esempi più eclatanti del comportamento di Israele riguardo gli insediamenti; comportamento che mi pare quanto meno “scorretto”. Sono ormai fuori da Gerusalemme o, per essere più precisi, da Gerusalemme Est, il territorio occupato da Israele dopo la (vittoriosa, come tutte) guerra dei 6 giorni del 1967 (e annesso nel 1980). Ma, alto sulle colline, vedo il contestatissimo insediamento di Maale Adummim. È il più grande insediamento ebraico della Cisgiordania; costruito nel 1976, si estende su 50 km² e ha 30.000 abitanti, che attingono alle limitate risorse idriche della Cisgiordania per creare un ambiente lussureggiante. In diverse occasioni il governo israeliano ha manifestato l’intenzione di ampliare i confini di Gerusalemme fino a comprendere questo insediamento, che è ben più a est della tradizionale area della città. Basta guardare una cartina della Cisgiordania o anche solo per me riflettere su quanti chilometri ho percorso dal centro della città e quanti pochi ormai ne manchino al Mar Morto, per comprendere che questo progetto quasi taglia in due la Cisgiordania, con Nablus e Ramallah e la maggior parte del territorio a nord, ed Hebron e Betlemme a sud. Un colpo quasi mortale alle possibilità di un futuro Stato Palestinese, con un territorio “decente”. Mi pare proprio, da parte israeliana, una mancanza di visione del futuro, un tarpare le ali alla speranza di un popolo (il palestinese), un bruciare le (non molte) possibilità di pace, fondate (ormai anche molti israeliani dovrebbero averlo capito) sulla concreta ipotesi di uno Stato palestinese, sia pure limitato nei confini, anche senza Gerusalemme, proclamata capitale unica e indivisibile di Israele, ma almeno con un territorio, appunto “decente”, non a macchia di leopardo, ferito e “umiliato” dagli insediamenti israeliani. È un atteggiamento proprio indisponente e che fa rabbia; e se fa rabbia a me, che riconosco la fondamentale ragione di Israele nel suo lungo conflitto con gli arabi, a me che in questo territorio passo appena due giorni, quanta rabbia fa a un giovane palestinese che

qui è nato e ci vive? Non può esserci pace senza una prospettiva concreta. Supero Maale Adummim: la discesa si fa ripida verso il Mar Morto e l’ambiente ancora più arido. Mi vengono in mente le pagine evangeliche: Un uomo scendeva da Gerusalemme verso Gerico, quando incontrò i briganti. Gli portarono via tutto, lo presero a bastonate e poi se ne andarono lasciandolo mezzo morto. Per caso passò di là un sacerdote; vide l’uomo ferito, passò dall’altra parte della strada e proseguì. Anche un levita del tempio passò per quella strada; anche lui lo vide, lo scansò e proseguì. Invece un uomo della Samaria, che era in viaggio, gli passò accanto, lo vide e ne ebbe compassione. Gli andò vicino, versò olio e vino sulle sue ferite e gliele fasciò. Poi lo caricò sul suo asino e lo portò a una locanda e fece tutto il possibile per aiutarlo. (Luca 10,30-34). Chi mi assisterà se dovessi avere di nuovo dei problemi alla moto in questo deserto? Arrivo ad un punto in cui una grande scritta, incisa sulla roccia, segnala la quota 0: “SEA LEVEL” è scritto in inglese e (presumo) in ebraico e arabo. Si ritorna sotto il livello del mare. Il caldo e l’afa aumentano; la temperatura arriva a 32°, ma è l’afa quella più fastidiosa: come una cappa si stende sulla valle del Giordano. Non ce la faccio più e mi tolgo il giubbotto. Da anni, ormai anche d’estate, uso sempre un giubbotto, con delle protezioni (morbide, ma meglio che niente); in questo viaggio, dovendo affrontare condizioni climatiche molto varie (qualche grado sottozero in Turchia e oltre 30° qui e in Egitto), ho scelto (invece del solito traforato estivo) il giubbotto di pelle, che ha certo degli svantaggi (caldo d’estate e freddo d’inverno), ma è il miglior compromesso (per me) per affrontare grandi variazioni di temperatura. Adesso, però, vinto soprattutto dall’afa, decido di toglierlo; il rischio di viaggiare “esposto” lo considero inferiore a quello di perdere la concentrazione nella guida per l’afa e il conseguente fastidio acuito dalla pesantezza del giubbotto. Arrivo a Gerico. È considerata la città più antica del

mondo ancora abitata (risale a 10.000 anni fa), oltre che quella posta alla minore altitudine (-250 m). Noto alcuni grandi alberghi (sembrano di lusso) sul viale di accesso alla città. La città non offre granché; il sito archeologico è fuori dall’attuale centro abitato, che mi dà l’impressione di estendersi in modo caotico, senza un piano regolatore; una grande superficie occupata soprattutto da basse abitazioni, con una rete viaria talmente poco chiara che giro per chilometri senza trovarne l’uscita. Cerco infatti di uscire da Gerico verso est, verso il vicino Giordano, o verso nord (la via più breve), ma mi ritrovo sempre “respinto” verso sud, dalla sua inestricabile rete viaria; ho anche il dubbio che l’unica via di accesso alla città sia quella che ho percorso per entrarvi, forse per motivi di sicurezza imposti dagli israeliani o magari dagli stessi palestinesi. Gerico è infatti una città importante per l’Autorità Nazionale Palestinese (nata in seguito agli accordi del 1993 tra Israele e OLP); è una delle poche città che non è stata coinvolta dalla rivolta dell’intifada; anche per questo motivo è stata scelta dall’ANP come propria sede. Passo davanti a quello che immagino sia uno dei Ministeri dell’ANP, forse sede delle sue forze armate. Alti muri di cemento, ancora in costruzione; militari armati di guardia. È possibile che proprio quello davanti al quale sto passando sia il quartier generale delle forze di sicurezza, attaccato nel 2006 dall’esercito israeliano con carri armati ed elicotteri, per catturare alcuni prigionieri palestinesi ricercati. Noto diverse sedi istituzionali sparse nella città, un po’ come capita nelle normali capitali; certo che questa è una situazione anomala e tali edifici spiccano tra le basse case della città. Ricordo che uno dei problemi dell’ANP è la diffusa corruzione, unita ad un apparato burocratico elefantiaco; anche questo ha alimentato la protesta di una parte rilevante dell’elettorato palestinese, che nelle ultime elezioni ha preferito Hamas alla tradizionale Fatah. Poi come è finita con Hamas lo sappiamo tutti, ma questo è un altro discorso. Ad un certo punto, nel mio ormai ostinato girovagare (se mi metto in testa di percorrere una certa strada, insisto anche oltre il ragionevole, pure a costo di percorrerne molta di più), mi trovo in una via chiusa, che termina nel deserto, accanto ad uno strano

edificio che pare una grande caserma, fortemente presidiata da uomini in armi. Il militare di guardia, mitra in spalla (solo qui a Gerico ho visto palestinesi tanto armati), mi fa cenno bruscamente di allontanarmi, intimandomi di non fotografare; gli faccio capire che me ne vado subito (mi sono perso) e platealmente gli faccio segno che sto solo fotografando il deserto, dalla parte opposta alla caserma. Dietrofront, mi rassegno: da qui non si passa, torno indietro, a sud, da dove sono entrato a Gerico. Rientro quindi sulla via principale, che è quella che collega Gerusalemme ad Amman, e percorro la strada che passa intorno a Gerico. Alla mia destra si va verso il Giordano, attraverso due valichi che però io non posso percorrere: uno non è aperto agli stranieri e l’altro non è percorribile con veicoli privati. Noto i posti di blocco, gestiti dagli israeliani; loro infatti hanno l’esclusivo controllo delle frontiere. Percorro la valle del Giordano verso nord, verso lo stesso valico di frontiera dal quale sono entrato in Israele. Il terreno sale, ma molto lentamente e resto quindi ampiamente sotto il livello del mare; il caldo è opprimente e soprattutto l’afa non molla. Sono vicino al fiume, ma non riesco a vederlo; più che altro, ne intuisco la presenza, poiché (sia pure attraverso la foschia) vedo le alture della Giordania oltre il fiume e soprattutto una lunga, ininterrotta sequenza di filo spinato e torrette di controllo: tutto il fiume è inavvicinabile, per motivi militari. Arrivo al confine tra Territori Palestinesi e Israele: anche questo, come gli altri, è presidiato solo dagli israeliani. I controlli non sono molto lunghi e, dopo pochi chilometri, giungo al punto da dove sono passato ieri mattina: l’incrocio che conduce al vicino posto di confine. Stanno per terminare i miei due giorni in Israele (e Territori Palestinesi); un tempo breve, ma intenso, un concentrato di emozioni per 661 km. Sono al confine. Uscire da Israele è più semplice che entrarci; i controlli sono severi comunque, ma un po’ più rapido lo è, come è logico che sia: il pericolo maggiore, per questo Stato sotto assedio, viene da quello che entra nel suo territorio, non da ciò che vi esce. Anche questa volta chiedo agli israeliani di non timbrare il mio passaporto: nessun problema.

Tecnicamente, la parte che segue dovrebbe essere in un capitolo a parte “Giordania”, ma, essendo poche pagine (e chilometri), la lascio come conclusione del capitolo attuale. All’ingresso della Giordania pago per la quarta volta in 2 giorni il “famoso” balzello di 20 dinari (oltre ai due passaggi di confine ad Aqaba e i due tra Giordania e Siria; per un totale quindi, se non ricordo male, di 160 dinari per 8 passaggi); una tassa piccola (se per una volta sola), ma un po’ troppo frequente. Chiedo al doganiere se fanno abbonamenti per i clienti abituali, ma lui forse non coglie l’ironia. A mia richiesta, nessun timbro sul passaporto anche stavolta. L’altro ieri, dopo l’infruttuoso primo tentativo di entrare in Israele, ho memorizzato la posizione dell’albergo, quindi oggi non ho problemi a trovare alloggio e dirigo senza esitazione verso l’hotel di Pella. Il ragazzo dell’albergo mi riconosce e mi dà la stessa stanza; questa è l’unica volta nel viaggio che dormo due notti nello stesso posto. Nel cortile dell’albergo sono parcheggiate 3 grosse moto, con targa greca. I proprietari forse sono a cena; spero di incontrarli domani. 15.3.2010 – lunedì – giorno 15 Pella (HKJ) (6.42) – Beirut (RL) (18.43) km 302, viaggio h 12.01, guida h 5.34 Infatti la mattina incontro i tre greci. Guidano due BMW GS 1150 e una Yamaha FJR 1300. Sono di Edessa, una città della Macedonia greca; ci tengono a dirmi, orgogliosi, che Pella è stata fondata dai greci. Spero che il loro “orgoglio greco” non abbia nulla da ridire sulla bandiera macedone che, con altrettanto orgoglio, ho visto sventolare nel mio viaggio in Macedonia (quella indipendente) e ora è attaccata (con altre 60) sulla mia moto: non la copro certo per loro e per l’ostinazione greca sul nome “Macedonia”. Affronterò ben presto un problema ben più serio (la Siria, riguardo Israele) e i greci non hanno il potere di impormi nulla. Sono diretti in Egitto; mi chiedono qualche consiglio sulla strada, che do loro volentieri; li metto in guardia dalla burocrazia doganale egiziana.

Ora però una bandiera devo coprirla sul serio: quella israeliana; infatti tra pochi chilometri entrerò in Siria e nulla dovrà far sospettare ai siriani il mio passaggio in Israele, altrimenti saranno guai. Applico sulla bandiera israeliana l’adesivo nero che mi sono portato apposta dall’Italia e rimuovo l’adesivo (riportante l’itinerario in Israele) sul percorso del viaggio. Ripercorro i pochi chilometri fino all’incrocio con la strada che porta al confine con Israele e continuo verso nord, lungo la valle del Giordano. Svolto infine a est e la strada sale più decisa, riportandomi in breve a quota 0; è l’ultima volta nel corso del viaggio che oltrepasso il livello del mare: d’ora in poi mai più “sottozero” (come quota, come temperatura temo di no). Attraverso la città di Irbid; un poliziotto mi saluta gentile, indicandomi la strada per uscire dalla città; è in piedi accanto alla sua moto, di cui non riesco a decifrare la marca: vagamente custom, forse una vecchia Yamaha. Quindi a nord verso il temuto confine siriano; è un valico diverso dall’andata (che era sull’autostrada), pochi chilometri a ovest: quello di Ar Ramtha/Deraa. I controlli giordani non creano problemi: la solita perdita di tempo, ma non eccessiva (20 minuti); stavolta il timbro lo faccio mettere eccome: devo infatti dimostrare ai siriani che sono regolarmente entrato in Giordania (6 giorni fa ad Aqaba) e ne sto uscendo adesso, senza passaggi intermedi in altri Stati (cosa che invece è avvenuta nei due giorni in Israele).

7. Siria e Libano Affrontiamo quindi la dogana siriana. Mentalmente faccio un controllo per verificare di aver preparato tutto: – il passaporto è a posto, “pulito”, tranne quel timbro anonimo, israeliano ma in inglese; – i foglietti dove gli israeliani hanno apposto i loro timbri sono ben nascosti (farei meglio a distruggerli, ma li voglio tenere per ricordo); – la bandiera adesiva di Israele è coperta; – la cartina del viaggio è senza la parte di passaggio in Israele; – la guida di Israele è coperta da una finta copertina della Giordania; – la carta di Israele ha la copertina sostituita con quella della Turchia (anche in questo caso, sarebbe più sicuro liberarmene, ma voglio tenerla per ricordo e non voglio affidarla ad altri per mandarla in Italia; voglio fare tutto da solo); – la banconota di Israele (conservo sempre una banconota degli Stati attraversati) è ben nascosta; – i pochi acquisti fatti in Israele sono piccoli e ben occultati nella moto. Sono le 9. Iniziano i controlli. Più o meno mi ricordo la sequenza delle operazioni, ma non mi sembra di procedere più velocemente, anzi. Forse perché questa dogana è meno importante di quella attraversata all’andata, che era sull’autostrada e quindi sul percorso principale tra le due capitali, Damasco e Amman. Arrivo nel posto di polizia, dove avviene il controllo del passaporto. Il poliziotto siriano prende il mio passaporto e comincia a sfogliarlo. Guarda tutte le pagine, nessuna esclusa. Quelle con i timbri e quelle bianche. E, su ognuna di quelle timbrate, si ferma e osserva. Comincio a sudare, ma non è il caldo. Arriva alla pagina del timbro israeliano: si ferma. Guarda con attenzione: ruota il passaporto, per guardare il timbro nella giusta direzione. L’ho imparato a memoria quel timbro: so perfettamente com’è fatto, con quelle poche anonime parole inglesi, quella data di ieri e quei numeri apparentemente senza senso. È la pagina 26 del mio passaporto di 48 pagine. Il poliziotto prosegue e controlla il resto del passaporto, con la solita accuratezza. Ma non sono tranquillo,

temo che non sia finita. Infatti, finita la “prima lettura”, il poliziotto sfoglia di nuovo il passaporto dall’inizio e si ferma a quella pagina, osservando di nuovo attentamente quel timbro. Ostento tranquillità; evito di incrociare lo sguardo del siriano; guardo le mie carte, con finto interesse, e ogni tanto getto l’occhio lì, pochi centimetri oltre il bancone, dove si sta decidendo la continuazione del mio viaggio in Medio Oriente. La situazione precipita: il poliziotto è sempre fermo sulla pagina 26 e chiama un collega, evidentemente per consultarsi sul problema. I due guardano il passaporto, si scambiano poche parole a bassa voce, poi il collega si allontana. Da quello che ho capito, il più alto in grado è il primo, è lui quindi che dovrà decidere il mio destino; il tempo passa e il poliziotto ha sempre in mano il mio passaporto, aperto su quella pagina, e fissa il timbro. Cerco di immaginare cosa sta passando per la sua mente, in modo da essere pronto. Ha guardato con attenzione tutti i timbri del mio passaporto (che è nuovo, quindi contiene solo timbri di questo viaggio) e ognuno è riuscito ad “abbinarlo” ad uno Stato; ha quindi ricostruito il mio percorso dall’Italia a qui. Gli è rimasto solo un timbro, di cui non riesce a comprendere la provenienza, quello di Israele. Ecco, è il momento; il poliziotto volge il passaporto verso di me e mi chiede, in inglese, cosa è quel timbro: “what is?”. “E che ne so!”, rispondo (sempre in inglese), dopo un attimo di finta esitazione, come se non mi aspettassi quella domanda; allargo le mani e stringo le spalle, come a dire: li mettono in dogana quei timbri, io non li controllo; chissà quale frontiera l’ha messo! Intanto, però, penso che la data di quel timbro è molto “compromettente”; quel giorno (il 13 marzo), appena due giorni fa, io dovevo essere in Giordania (dalla quale non sono mai “ufficialmente” uscito), quindi come posso giustificare un timbro con quella data?! Il poliziotto annuisce, ma continua a guardare quella pagina del mio passaporto. Passa un altro, lunghissimo minuto e mi fa la domanda decisiva (sempre in inglese): “Tu sei stato in Palestina?”. “Pale… what?”, rispondo, con simulata sorpresa. E poi, dopo una breve pausa, come se ne avessi bisogno per comprendere il senso di una domanda che invece comprendo benissimo: “Palestina?! No, io? No. Non si può andare in Palestina! Vedi [e intanto tiro fuori da

una tasca la cartina che avevo preparato per l’occasione, dove il mio percorso è falsamente riportato evitando accuratamente di segnare il passaggio in Israele, di cui ho anche cancellato il nome, per evitare di creare ogni problema], io non sono passato dalla Palestina. Sono sbarcato ad Aqaba, dall’Egitto [e gli indico sul passaporto il timbro egiziano di uscita e quello giordano di entrata] e poi ho visitato il Wadi Rum, Petra, Amman [cosa non vera, perché dalla capitale giordana non sono nemmeno passato] e Pella, dove ho dormito stanotte [le bugie migliori sono quelle che contengono elementi di verità]. Adesso entro in Siria perché voglio visitare il magnifico teatro romano di Bosra [una località qui vicino, quindi il poliziotto probabilmente la conosce bene] e la vostra bellissima capitale Damasco. Poi passo in Libano per quindi tornare in Siria (Palmyra) e infine Turchia e casa”. Il poliziotto esita; ha sempre il mio passaporto in mano, aperto su quella pagina, ma non completamente; ora è semichiuso. Forse ce la faccio. Gli sorrido, non troppo come se gli stessi chiedendo un favore (non deve credere che ho qualcosa da nascondere), ma abbastanza per fargli capire che sono tranquillo, che non ho nulla da occultare. Distolgo lo sguardo dal suo, con naturalezza, frugando tra le mie carte (che invece conosco a memoria), come se volessi mostrargli qualcosa; devo lasciarlo tranquillo, per qualche secondo, per i secondi decisivi. Mi fa un cenno: “puoi andare”. È fatta! Torno alla moto, ma, mentre sto per rimettere a posto i documenti, mi accorgo che l’adesivo nero che copriva la bandiera di Israele è caduto! Un brivido mi percorre la schiena, rendendomi conto del rischio che ho corso, con la moto parcheggiata proprio di fronte al posto di polizia dove si stava decidendo il mio destino per il resto del viaggio, con la bandiera di Israele in bella evidenza, attaccata sul bauletto destro! È anche vero che di bandiere ce ne sono altre 60, ma, se qualcuno si mette a guardarle tutte, quella di Israele (soprattutto qui in Medio Oriente) la riconosce subito. Con noncuranza mi abbasso vicino alla bandiera e, in un attimo, la stacco dalla moto, mettendomela in tasca. Riflettendo su quello che può essere successo, immagino che, avendo usato un adesivo diverso dal solito, questo (di qualità diversa) non ha aderito bene alla

superficie plastificata della bandiera e quindi si è staccato, proprio dentro la dogana siriana! Alle 10 sono fuori dalla frontiera. L’ora più lunga della mia vita. Attraverso la vicina città di Deraa e raggiungo l’autostrada AmmanDamasco; il programma originario era di proseguire per Bosra e vedere il suo teatro romano, ma decido di tagliare questa parte, in modo da arrivare stasera a Beirut; in questo modo recupererò il ritardo causato dal guasto ad Aqaba e manterrò il viaggio nei previsti 22 giorni. Un viaggio è un compromesso tra tempo a disposizione e voglia di esplorare; a meno di non avere tempo infinito, dobbiamo porci dei limiti. Certo, ci deve essere un po’ di flessibilità; non avrei mai tagliato la visita a Gerusalemme, anche se questo avesse comportato un ritardo di un giorno; ma preferisco tagliare Bosra e rientrare a casa, dalla mia famiglia, dopo 22 giorni, piuttosto che vedere un posto in più e tardare un giorno. L’autostrada (la stessa percorsa, in senso inverso, all’andata) è abbastanza monotona, vivacizzata solo dall’osservazione dei siriani in moto: piccole moto (soprattutto 125 cc), generalmente di fabbricazione cinese, abbondanti protezioni metalliche, bauletti costruiti artigianalmente (spesso cassette di plastica o legno), abbigliamento normalmente costituito da ciabatte, pantaloni e camicia; capelli al vento, a volte coperti dal tipico copricapo arabo. Sarà forse la monotonia della strada o la tensione accumulata poco fa nel difficile passaggio di frontiera, forse la stanchezza di tutti questi giorni di viaggio, il caldo ancora presente (anche oggi stiamo arrivando a 30°), ma sento che sta per venirmi un colpo di sonno; mi fermo quindi alle porte di Damasco per riposare un po’. Fermatevi sempre quando avete sonno: non c’è tabella di marcia che tenga! E ora, Damasco! All’andata non sono passato dal centro, ma oggi è necessario, poiché ho intenzione di visitarla, sia pure, come al solito, a modo mio: poche ore e via. Mi piace questo modo di viaggiare: un modo che fa inorridire tanti viaggiatori; come si fa, mi chiedono, a dedicare solo poche ore a città come Damasco (o Samarcanda o Mosca, Istanbul o Sofia, per citare alcune località di viaggi precedenti)? Semplice; credo che, per certe città, non basterebbero nemmeno diversi giorni; io stesso, pur

vivendo a Lecce dalla nascita, probabilmente non conosco alcuni angoli della mia bella città; e allora perché ostinarsi a volere per forza vedere tutto? Mi sembra (almeno in alcuni casi) una sindrome da horror vacui, un timore di saltare qualcosa. Io non ho l’assillo di passare da un luogo, vederne tutti i posti interessanti e solo dopo continuare il viaggio. Seleziono i luoghi da vedere e quelli dove fermarmi in base a quello che, in quel momento, mi pare più interessante; il resto, pazienza: sia io che il mondo vivremo bene anche se non ci conosceremo completamente a vicenda. Preferisco vedere un poco di tutto che tutto di poco. E poi mi piace viaggiare, mi piace il movimento. Ho deciso di visitare la grande moschea degli Omayyadi, che si trova al centro di Damasco. Punto quindi deciso verso il centro, dirigendomi verso il punto indicato dal gps, che però non ha segnate con precisione le strade, quindi ovviamente le scelgo “a vista”, in base a quella che mi sembra la direzione migliore. Chiedo ad alcuni poliziotti in moto, che gentilmente mi indicano la strada: “sempre dritto, di là” (lo capisco dai loro gesti, perché in arabo…). Chissà se sarebbero così gentili se sapessero che, appena ieri, ero nel nemico Israele e gironzolavo tranquillo nel Golan, conquistato da Israele proprio alla Siria, nel corso di una delle tante guerre perse dagli arabi contro gli israeliani; regione sempre rivendicata dalla Siria, che subordina alla sua restituzione qualsiasi avvio di negoziati di pace con Israele. Provo un sottile piacere a sorridere a questi siriani, dopo tutte le peripezie e le preoccupazioni che mi hanno procurato, dalla preparazione del viaggio al recente pericoloso e incerto passaggio di confine; sorridere sapendo cose del mio viaggio che, se le sapessero loro, toglierebbero qualsiasi sorriso dalla loro faccia. Indipendentemente dalla ragione e dai torti nel merito, trovo che, comunque, un paese che nega l’ingresso a un turista nel proprio territorio solo perché quella persona ha prima visitato un paese “non gradito”, abbia torto; è una manifestazione di debolezza, non di forza; di stupidità, non di intelligenza; che aliena simpatie, invece di acquisirle. Proseguo quindi sempre dritto, come consigliato; sì, facile a dirsi; il centro storico di Damasco, una delle più antiche città del mondo (ha circa 5.000 anni), può essere definito labirintico; aggiungiamoci il

traffico, il “fantasioso” stile di guida locale e abbiamo una situazione non proprio ottimale per raggiungere un luogo. Comunque, avanzo più o meno diritto, chiedendo ogni tanto; tutti mi dicono di continuare ancora nella stessa direzione e, in effetti, il gps mi conferma che sto andando verso est, proprio dov’è la moschea. Spinto dalle indicazioni della gente e della stessa polizia, mi faccio strada nel traffico, percorro qualche tratto contromano (la strada era bloccata) e poi mi trovo davanti a qualcosa che sembra una strada pedonale, ma non è chiaro. Mi dicono di continuare, quindi passo con la moto da uno stretto passaggio e mi trovo… nel bel mezzo del Souq AlHamidiyya, il lungo mercato coperto della città! I 5 minuti che seguono sono una delle esperienze più strane (e belle) della mia vita; sono dentro un suq orientale, nel cuore di Damasco, con la mia moto. Quando mi rendo conto della situazione, mi fermo e accenno a tornare indietro. Ma chiedo di nuovo dov’è la moschea degli Omayyadi e tutti mi indicano di andare avanti; addirittura la gente si sposta per farmi passare! Cerco di farmi piccolo (una parola, con mezza tonnellata di moto!) e, chiedendo ripetutamente scusa, proseguo, in mezzo all’affollatissimo suq. Continuo però senza nessun problema; la gente, quando mi sente arrivare (non sempre, poiché la Gold Wing è molto silenziosa), si scosta subito, sorride e mi saluta. Infine, vedo la luce: non è un modo di dire, è proprio che il suq è interamente coperto e, in fondo, vedo l’uscita, con la luce che vi penetra. Esco dal suq e, è magnifico, sono proprio di fronte alla moschea Omayyadi! Parcheggio la moto sotto le colonne corinzie del propileo dell’antico Tempio di Giove (di epoca romana), che sorgeva qui prima della moschea. Il luogo è molto affollato; venditori di ogni tipo, passanti, fedeli diretti alla moschea. Ma il punto più affollato della piazza diventa ben presto la mia moto. Probabilmente mai, nel corso dei miei viaggi, ho visto tanta gente intorno ad essa; sono corretti, non toccano nulla, ma sono davvero tanti, troppi. La ressa è notevole, per cercare di conquistare un posto in prima fila e vedere meglio; temo che, nella calca, qualcuno possa essere spinto sulla moto e danneggiarla. Finché resto qui, posso tenere la situazione sotto controllo, ma voglio visitare la mo schea, quindi mi assenterò per circa due ore, lasciando la moto incustodita. Decido pertanto di coprirla: acquistata

una granita dal vicino venditore, gli chiedo di dare un’occhiata alla moto e lo informo che intendo coprirla; immediatamente il siriano si precipita con dei teli, ma, ringraziandolo, gli spiego che non serve, ho il mio telo su misura, che la copre perfettamente e completamente. La moto, coperta, dà meno nell’occhio; almeno non c’è la ressa intorno, ma solo qualche curioso. Tranquillizzato, entro nella moschea. La moschea degli Omayyadi è uno dei più maestosi monumenti islamici; citato fin dal Libro dei Re dell’Antico Testamento come luogo di culto già 3000 anni fa, i romani lo ampliarono e dedicarono a Giove. L’assetto attuale risale al periodo della dinastia degli Omayyadi, sotto i quali (dopo la conquista musulmana del 636) Damasco diventò la capitale del mondo islamico (Lonely Planet, Siria e Libano, 2008). La guida scrive che l’entrata è sul lato nord, vicino al Mausoleo di Saladino, ma vedo un’entrata davanti a me, proprio dove ho parcheggiato la moto, e quindi accedo di qua. Poi mi viene in mente che forse questa è l’entrata dei fedeli e per questo quindi non ho pagato il biglietto (previsto invece dalla guida). Comunque ormai sono dentro e proseguo. Da qui si entra in un ampio cortile, completamente lastricato di lucida pietra calcarea bianca. È splendido, circondato da tre lati da un porticato a due piani; il quarto lato è la sala di preghiera. Noto degli addetti che puliscono in continuazione il pavimento con dei grandi spazzoloni. Non vedo turisti, solo fedeli. Entro nella sala di preghiera, che occupa tutta la parte meridionale della moschea. Due alti colonnati la dividono in tre ambienti, col sinistro riservato alle donne; posso fotografare ovunque, tranne nel settore riservato alle donne. È tutto riccamente decorato, ma immagino quanto lo fosse ancora di più prima della conquista mongola, che la saccheggiarono, e dei terremoti e incendi che la distrussero. Numerosi lampadari dorati pendono dagli alti soffitti, il pavimento (come solito nelle moschee) è completamente ricoperto di tappeti. C’è anche una bella edicola, interamente in marmo, contenente la tomba di San Giovanni Battista (il profeta Yehia per i musulmani): la testa del Battista fu trovata durante la costruzione, sotto il pavimento della vecchia basilica; questo è comunque solo uno dei tanti luoghi che ne rivendicano il

possesso. Noto alcune persone che pregano anche davanti a questa tomba; quante cose hanno in comune cristianesimo e islam. All’interno della tomba, vedo diverse offerte in denaro sul pavimento. Uscito, vado verso l’attiguo Mausoleo di Saladino; qui si paga per entrare e, in effetti, sarebbe questo l’ingresso della moschea per i turisti. La tomba del famoso condottiero (Salah Aldin Al-Ayoubi) è semplicemente in legno, in linea col suo stile di vita austero, mentre accanto è una tomba in marmo, dono dell’imperatore di Germania Guglielmo II, nel corso della sua visita a Damasco del 1898. Non posso però partire da Damasco senza almeno un giro nel suo suq centrale, che si estende subito a sud della moschea. Una interessante caratteristica è che il suq è diviso in diverse zone, ognuna delle quali specializzata in un settore merceologico; cammino quindi attraverso il suq dei gioielli, quello delle spezie; e poi la zona dei vestiti, dei giocattoli, della cancelleria, degli articoli della casa… Ma è l’atmosfera generale, i colori, la gente, che è quello che colpisce di più del suq; è interessante girare, così, senza meta, semplicemente a guardare. Ne approfitto comunque per comprare i regali per moglie e figlia: ottimi prezzi. La maggior parte delle donne sono velate (anche se normalmente senza il volto coperto), ma non tutte. Sono passate quasi due ore quando riavvio la moto: torna subito la folla nei pochi minuti in cui la scopro, prima di ripartire. È ora di andare a Beirut. Esco da Damasco abbastanza facilmente (normalmente è più facile uscire da una città che entrarci, perché basta andare in una direzione e, prima o poi… si esce). Sulla via per Beirut una rarità: un casco su una moto, peccato che sia sul portapacchi e non sulla testa di uno dei due occupanti il veicolo. La strada sale sulle montagne dell’Antilibano e comincia a rinfrescare, rispetto ai 31° toccati a Damasco. Il valico è a oltre 1.300 m. Un’ultima gigantografia del presidente Assad (l’attuale, il figlio) e arrivo al confine: 27’ per uscire dalla Siria (in uscita nessuno fa caso al mio timbro “israeliano”); poi però percorro quasi 8 km di “terra di nessuno”, prima di arrivare al controllo libanese, preannunciato dalla solita fila di TIR. Ma per me non c’è fila e comincio subito con le formalità doganali.

Il Libano è l’unico paese asiatico del viaggio in cui non pago assolutamente nulla; con una certa sorpresa, anche il visto è gratis. Oltre l’arabo, molti parlano il francese, meno l’inglese; non ci sono però problemi di comunicazione: tutti sono gentili. Attendo un po’ di tempo, comodamente seduto in una saletta della dogana, con l’ufficiale che mi offre da bere, in compagnia di un ricco arabo del golfo, che si sta recando a Beirut per divertirsi. Anche in entrata in Libano, nessuno sfoglia il mio passaporto controllando tutti i visti, come avevano fatto i siriani in entrata stamattina; si limitano a trovare una pagina libera, dove mettono il visto libanese. Eppure anche il Libano è uno degli Stati che non riconosce Israele e non accetta sul suo territorio persone che sono prima passate da Israele. Strana la situazione del Libano: confina con due Stati (Israele e Siria), oltre al mare, ma, poiché il confine con Israele è chiuso, l’unico modo per entrarci è dalla Siria; lo stesso paese che non ha mai rinunciato alle sue ambizioni sul Libano, che considera parte del suo territorio, della Grande Siria; e che, per tanti anni, si è comportato da potenza occupante in Libano (oltre che sospettato di omicidi politici anche recenti, contro politici libanesi “ostili”). Dopo 50’ sono fuori dal confine e mi dirigo verso la capitale libanese. Sono ormai le 17, ho appena 44’ prima del tramonto. Sto attraversando la valle della Bekaa, nota sede di campi di addestramento di numerosi gruppi paramilitari islamici, fino a pochi anni fa occupata dalla Siria. Superate le montagne dell’Antilibano, tocca affrontare le montagne della catena costiera del Libano. La salita però non è nulla rispetto alla discesa, che ricorderò sempre. Comincia a piovere e ormai il sole è basso. Scollino con l’ultima luce, ma la discesa si presenta davvero ripida; il traffico inoltre è intenso, anche di camion. A ciò si aggiunge la sciagurata abitudine (che trovo in tutto il mondo) di “rigare” la strade con solchi longitudinali (che sono pericolosissimi per le moto), invece dei più sicuri, ma più scomodi da fare, trasversali; solchi che però non rendono la strada meno scivolosa (forse anche a causa delle “perdite” dei camion). Gli stretti tornanti della ripida discesa verso il mare diventano quindi un incubo. Ormai è buio; affronto con

prudenza i tornanti, leggo il gps che mi dà ancora una quota incredibilmente elevata in rapporto alla ormai brevissima distanza (in linea d’aria) dal mare e cerco di non cadere. Arrivo infine alla periferia di Beirut. La strada continua a scendere, ancora piuttosto ripida, ma per fortuna ha smesso di piovere. Tiro fuori la guida, cercando di orientarmi con la cartina della città, ma non è semplice, in una grande città come Beirut, dal traffico caotico (e guidano veloci!), al buio. Faccio una stima approssimativa del quartiere in cui dovrei essere e di dove dovrei andare per trovare l’albergo che avevo scelto. Individuo il quartiere di destinazione, almeno per semplificare la ricerca, e comincio a chiedere. A forza di indicazioni, mi avvicino alla meta, ma non riesco a trovare l’albergo; alla fine, noto una pizzeria che consegna a domicilio e penso di ordinare una pizza… da consegnare nell’albergo dove sono diretto: in questo modo mi basterà seguire il motorino della consegna e arriverò a destinazione. Ma non è necessario (evito di mangiare pizza all’estero: normalmente è una delusione) e il motorino delle consegne si offre gentilmente di accompagnarmi all’albergo. La ricerca però non è semplice e lo stesso pilota del motorino, pur essendo della città, ha difficoltà a trovare l’albergo, nonostante io abbia il nome della via (è però una via molto lunga e non ho il numero civico). Alla fine, chiedendo ripetutamente a gente della strada, troviamo l’albergo, il cui accesso in effetti è in una stradina laterale della via indicata. L’albergo non ha garage, ma non ho certo voglia, a quest’ora piuttosto tarda, di cercarne un altro. Il gestore dell’albergo mi dice che posso mettere la moto nell’androne d’ingresso (l’hotel è al secondo piano), ma non si è reso conto delle dimensioni della mia moto! Con un po’ di equilibrismo, passo con la moto larga un metro attraverso un portone largo… un po’ meno. La parcheggio infine, infilandola tra le scale, salendo un gradino e mettendo sotto il cavalletto laterale una pietra per compensare il dislivello. L’albergo è piuttosto caro rispetto al resto del Medio Oriente, ma è il Libano ad essere caro, non il mio hotel in particolare. Sistemata la questione alloggio, faccio un giro in città; Beirut si conferma una città piena di vita notturna, con ristoranti e bar all’aperto, sia nei quartieri cristiani che in quelli musulmani, un tempo divisi dalla linea verde,

vera linea del fronte. I segni della lunga guerra civile sono ancora evidenti su alcuni palazzi, ma sembra che la gente abbia una gran voglia di riprendersi da quel lungo periodo buio e la vitalità della città ne è un segno. Mi fermo in un locale (non uno di quelli più cari, altrimenti spenderei più che di albergo) e assaggio una specialità del posto. Seduto al semplice tavolino all’aperto, prendo un po’ di fresco, probabilmente il primo del viaggio di ritorno: ora la temperatura è scesa a 14°. Credo di essere ormai fuori dal caldo e quindi, dopo un breve periodo intermedio, tra un po’ il problema sarà l’opposto. 16.3.2010 – martedì – giorno 16 Beirut (RL) (7.20) – Palmyra (SYR) (17.58) km 385, viaggio h 10.38, guida h 5.44 La mattina faccio un giro in moto per Beirut, percorrendo tutto il bel lungomare. Il cielo è nuvoloso, ma non piove; la temperatura è piacevolmente fresca, sui 20°, e un forte vento agita il mare, che si infrange con violenza sulla scarpata, a pochi metri dalla strada. Passo vicino al porto, che sembra in piena attività; chiese e moschee si alternano, anche se generalmente in quartieri distinti. La gente fa jogging sul lungomare, dove sfrecciano auto lussuose, di fronte ad hotel altrettanto lussuosi ed esclusivi marina con barche da sogno ormeggiate. Noto una notevole attività edilizia, con diversi grattacieli in costruzione. Il traffico è notevole. La Corniche (il lungomare) è molto bella, ricca di palme e con bei panorami sul Mediter raneo, soprattutto nel lato occidentale, dove sono presenti gli scogli del Piccione. A sud della città si estendono lunghe spiagge. Mi allontano dal mare e torno verso il centro della città, che attraverso per puntare verso nord. Al passaggio della linea verde, noto vecchi palazzi crivellati di proiettili, segno della guerra. Accanto alle superstrade cittadine, grandi cartelloni pubblicitari, che nel nostro occidente ormai non notiamo più, ma che qui, in un paese arabo e (almeno per la metà) musulmano, colpiscono un po’, non avendo mai visto in altri paesi arabi foto di donne in costume da bagno e addirittura in biancheria intima. Segno anche questo che probabilmente il Libano è il paese arabo più occidentale del Medio Oriente, nonostante le sue divisioni.

Il traffico di Beirut però comincia a darmi fastidio e finalmente riesco a uscire dalla città, percorrendo la litoranea verso nord. C’è ancora comunque abbastanza traffico; ogni tanto qualche bel panorama sulla costa. Arrivo a Tripoli e continuo verso nord. Improvvisamente mi accorgo che sto marciando con la borsa sinistra aperta! Mi fermo e controllo; nell’ultima sosta avevo dimenticato di chiuderla, limitandomi ad accostare il coperchio che, alla fine, con le vibrazioni della strada, si è aperto; per fortuna non ho perso nulla. Devo stare più attento. La strada continua presso la costa, seguendo una lunga serie di spiagge; poi se ne allontana e dopo pochi chilometri arrivo al confine siriano. Le solite code di TIR annunciano il confine. 35’ per uscire dal Libano, altrettanti per rientrare in Siria, uno Stato del mio viaggio (insieme a Giordania e Israele) il cui confine attraverserò ben 6 volte (questa è la quinta). Durante i controlli libanesi mi chiedono dove ho dormito: fornisco loro il nome dell’albergo; non pago nulla nemmeno per uscire, ma verifico (da una tabella appesa in dogana) che, per soggiorni di più giorni, è dovuta una piccola tassa, da pagare all’uscita dal paese. Questo rientro in Siria avviene senza problemi di timbri israeliani: evidentemente il provenire dal Libano fa apparire scontato ai doganieri che il controllo è stato già fatto da un posto di frontiera siriano, poiché è impossibile entrare in Libano via terra se non dalla Siria. Dirigo verso il Krak des Chevaliers (in arabo Qala’at al-Hosn). Qualche difficoltà a individuarlo (i cartelli indicano generalmente Al Hosn Citadel). La strada sale dai circa 300 m del fondovalle, ai quasi 700 del castello. Fa piuttosto freddo e soffia un vento molto forte, ma la visione che appare è magnifica. Il castello è lì, davanti a me, praticamente intatto, immutabile al trascorrere del tempo; sembra che da un momento all’altro debbano uscirne uomini a cavallo in armi o altri uomini armati stiano per attaccare i suoi possenti bastioni, che paiono inespugnabili. È semplicemente, per dirla con le parole di T. E. Lawrence, il “più bel castello del mondo”. Il Krak des Chevaliers sorge nella depressione esistente tra il Jebel Ansariyya e i monti dell’Antilibano, controllando quindi il traffico dai porti sul Mediterraneo all’interno

della Siria. La prima fortificazione fu costruita dall’emiro di Homs nel 1031, poi conquistata dai Crociati nel 1099 e nel 1110. Verso il 1150 i Cavalieri Ospitalieri si installarono nel castello e lo ampliarono fino a fargli assumere la forma attuale; il castello non fu mai espugnato. Nel 1271 fu conquistato da un sultano mamelucco, ma ormai i crociati si stavano ritirando dalla Terra Santa: la guarnigione era ridotta ad appena 200 soldati (sui 2.000 per i quali era stato costruito). Dopo un mese di assedio, i crociati accettarono di abbandonare il castello in cambio della garanzia dell’incolumità e di poter raggiungere il porto di Tripoli (Lonely Planet, Siria e Libano, 2008). Parcheggio la moto sotto le mura del castello. All’ingresso sono avvicinato da una guida locale (Mahmud, autorizzata, con tanto di tesserino, come ci tiene a precisare), che mi offre una visita guidata, personale. Normalmente preferisco visitare da solo i monumenti, con la guida (il libro) in mano, ma in questo caso ritengo che la guida (la persona), che tra l’altro si presenta simpatico e professionale, mi sia utile, permettendo di vedere più velocemente, a colpo sicuro, i vari ambienti del castello; devo infatti tenere presente che, se voglio arrivare stasera a Palmyra, in pieno deserto (200 km ad est), non posso tardare. Accetto la guida, fissando il prezzo e soprattutto la durata della visita. Sono le 12.45 quando entro nel castello: chiedo a Mahmud di finire per le 13.45; dopo girerò un po’ da solo e poi partirò subito per Palmyra. Il castello, oltre che bello da fuori, è impressionante e imponente da dentro, per l’accuratezza della distribuzione degli spazi, le opere di fortificazione, gli ampi ambienti che dovevano ospitare in modo adeguato 2.000 persone e numerosi cavalli, anche durante lunghi assedi. Entro da un ingresso fortificato, quindi attraverso un lungo corridoio coperto, con i gradini in pendenza tanto larghi da permettere il passaggio di due cavalli affiancati; e poi i depositi di pietre usate per le catapulte, la torre di connessione tra la cinta muraria esterna e quella interna, le porte di accesso col sistema di chiusura a scorrimento (dall’alto), il fossato pieno d’acqua tra le due cinte murarie, i passaggi segreti verso l’esterno, i bagni (con acqua

fredda e calda), le due grandi scuderie per i cavalli (dalla capacità di 200 cavalli ognuna), i cortili, i magazzini, la sala riunioni, la stanza fredda per conservare il cibo (con un ingegnoso sistema a vento), il grande forno per il pane, l’ampio camino, le grandi cucine, la sala conferenze, la chiesa (poi trasformata in moschea), l’ospedale. Una curiosità; alcuni ambienti del castello sono arredati (temporaneamente) in stile egizio. Mahmud mi spiega che stanno girando un film su Cleopatra: “produzione siriana”, precisa orgoglioso. Salgo fino in cima, al secondo piano del castello, dove saluto Mahmud. La visita è stata molto interessante, con la guida che dava spiegazioni in ogni ambiente, in inglese (comunque comprensibile). Dalla Torre del Guardiano (la torre di comando, quartier generale del Gran Maestro dei Cavalieri Ospedalieri), sulla sommità del castello, ammiro un magnifico panorama, con la vista che spazia per i monti e le colline circostanti. Penso a quei tempi di battaglie; provo a immaginare cosa poteva pensare, qui, rinchiuso nel castello, un combattente crociato, con gli ostili guerrieri musulmani tutto intorno, soprattutto negli ultimi anni, quando ormai la Terra Santa era perduta e questa era una delle ultime fortificazioni crociate. Il vento è molto forte e fa decisamente freddo. Sono le 14.05 quando torno alla moto, guardata a vista sotto il castello da un simpatico anziano arabo del posto, insieme alla nipotina. I tempi sono stati rispettati. Adesso dritto a Palmyra, senza soste; se ho fatto bene i miei conti, arriverò giusto in tempo per il tramonto, che, a quanto ho letto di quel luogo, dovrebbe essere molto interessante. Scendo dal colle del castello e mi rimetto sulla strada per Homs. La supero con la circonvallazione e quindi mi immetto sulla via per Palmyra. La strada punta dritta verso est; il terreno è sempre più arido: passo gradatamente dalle fertili terre coltivate della Siria occidentale all’arido deserto orientale. Supero qualche installazione militare. Il vento è molto forte, spesso laterale, costringendomi a guidare inclinato. La mia ombra mi precede, in questa lunga corsa verso est, verso il cuore del deserto. Il lungo nastro d’asfalto presenta piccole ondulazioni, ma scorre generalmente ad un’altitudine costante,

scendendo gradatamente dai 700 m iniziali ai meno di 500 di Palmyra. Incrocio una moto con due arabi, il cui unico copricapo è il classico kaffiyeh: caschi ovviamente niente. Ormai sono in pieno deserto; alcune aride colline fiancheggiano la strada. È tardi, manca poco al tramonto, ma non posso fare a meno di fermarmi per alcune foto. Dopo 100 km di deserto, il cartello “Iraq” mi ricorda che sono molto a est e da qui parte la strada che porta in breve in quel martoriato paese (circa 250 km). Sono a pochi chilometri da Palmyra; le ombre sempre più lunghe mi rammentano che, se voglio arrivare prima del tramonto, devo sbrigarmi; un rapida occhiata al gps mi conferma che ho pochi minuti. Ed ecco che, improvviso ma atteso, appare il castello; svetta, solitario, su una collina. Gli ultimi raggi del sole lo illuminano con una luce magnifica e mostra le sue rossastre pareti, dal colore simile al deserto che lo circonda. Sono le 17.10; risalgo i fianchi della collina quasi alla stessa velocità dell’ombra che, inesorabile, risale anch’essa, sempre più velocemente. Il castello Qala’at ibn Maan, fu costruito nell’VIII secolo d.C., durante il regno musulmano degli Omayyadi (Lonely Planet, Siria e Libano, 2008). Ma gli occhi non possono essere solo per il castello; a metà della salita, infatti, appare il sito archeologico di Palmyra. Non potevo arrivare in un momento migliore: i raggi del sole al tramonto lo illuminano con una luce magnifica; vedo ai miei piedi distendersi tutta l’antica città, dal grande Tempio di Bel, al tempio funebre all’estremità occidentale, e in mezzo il lungo e spettacolare Grande Colonnato; e poi la Valle delle Tombe. Da restare senza fiato, una visione indimenticabile. Continuo a salire; parcheggio la moto alla fine della strada e percorro gli ultimi metri a piedi: sono in cima, di fronte al castello. Appostati sulle rocce, c’è già un piccolo gruppo di turisti, armati di macchina fotografica; infatti lo spettacolo cui sto per assistere è di quelli da non perdere. Il sole ormai sfiora la cresta delle colline che circondano Palmyra; pochi minuti e vedo il cielo accendersi di un rosso sempre più vivo, poi scuro, profondo, quasi a rivaleggiare col rosso del deserto e delle mura del castello. Raramente nella mia vita ho visto un tramonto del genere, reso unico per di più dal sito in cui

avviene, col deserto e le antiche rovine che, poco a poco, passano dalla luce del giorno al buio della notte. Il sole è tramontato: sono le 17.33. La temperatura, già fresca prima di arrivare, è ormai scesa a 13° (in tutta la giornata è arrivata al massimo a 21°). Adesso è ora di scendere dal castello e trovare alloggio. Giungo nella nuova Palmyra, il paese che sorge accanto al sito archeologico; appena mi fermo per cercare un albergo, gruppi di bambini si fanno avanti, ognuno cercando di portarmi verso il “suo” hotel. Ero a conoscenza di questa pratica: la concorrenza a Palmyra è molto forte e i locali sono soliti accaparrarsi i non molti turisti. Ho già un indirizzo dove andare, quindi trovo l’albergo da solo. Non riesco a inviare il solito sms di aggiornamento della posizione (credo problemi di roaming); per fortuna l’albergo ha la connessione internet wireless gratuita, quindi rimedio in questo modo. Dopo cena, breve giro in città, dove sono presenti anche alcuni negozietti interessanti. Stavolta me la posso prendere comoda, perché il sito apre alle 9; quindi domani niente sveglia all’alba. 17.3.2010 – mercoledì – giorno 17 Palmyra (SYR) (8.21) – Apamea (SYR) (17.54) km 284, viaggio h 9.33, guida h 4.07 Mi sveglio con comodo, faccio colazione e carico la moto… ma per percorrere solo pochi metri. Infatti il Tempio di Bel (da dove intendo iniziare la visita) è a breve distanza dall’albergo. Nell’attesa che apra, giro con la moto intorno al sito archeologico, “prendendo le misure” dell’antica città. Palmyra (Tadmor) era un importante stazione di sosta per le carovane che viaggiavano tra il Mediterraneo, l’Arabia e la Mesopotamia, oltre che punto di passaggio dell’antica Via della Seta. Prosperava quindi grazie ai tributi che imponeva alle carovane. Conquistata dai romani, si ribellò a loro, guidata dalla regina Zenobia; fu infine sconfitta dai romani nel 271 d.C. Il castello, già ammirato ieri sera, fa da sfondo alla grande quantità di colonne presenti nel sito. In lontananza vedo la Valle delle Tombe; presso la zona archeologica, la verde oasi, racchiusa nei caratteristici muretti. Parcheggio la moto presso la biglietteria e,

nell’attesa che apra, chiacchiero un po’ con un uomo del posto, guida “ufficiale” (sue parole) del Tempio di Bel. Ma non ho bisogno della guida e così, acquistato il biglietto, comincio a visitare il sito da solo, immagino con un po’ di disappunto del siriano. Il Tempio di Bel è enorme; già quello che resta della facciata è imponente, con le alte e massicce mura. Un bel modellino, proprio all’ingresso, raffigura l’originaria struttura del santuario, con un grande recinto esterno, che delimita un ampio spazio vuoto, al cui interno è presente il tempio vero e proprio, la cella. Attraverso l’ampia spianata e giungo alla cella, mentre comincia ad arrivare qualche piccolo gruppo di turisti. Anche se danneggiata dal tempo, trasmette ancora l’imponenza della costruzione originaria; girando per il piazzale, è proprio questo senso di imponenza, di enormità delle dimensioni, che colpisce per primo. Noto la guida seduta tranquillamente all’ombra di una delle tante colonne, in attesa di clienti. È ora di dedicarmi alla città. Uscito dal tempio, percorro con la moto i pochi metri fino all’inizio orientale della famosa Via Colonnata e la parcheggio di fronte all’Arco Trionfale, scenografico ingresso di questa magnifica strada. Un paio di beduini si avvicinano alla moto, incuriositi; li saluto. Con loro si avvicina anche un cammello, che si dimostra però meno interessato, guardando l’altro mezzo di trasporto con la sua tipica aria indifferente. La Via Colonnata è forse l’elemento più famoso di Palmyra. Due file ininterrotte di colonne ai suoi lati (da cui il nome), per una lunghezza di quasi 1 km. Percorro (a piedi, qui la moto devo necessariamente lasciarla fuori) l’antica strada; ai suoi lati si affacciano quasi tutti i principali edifici della città: templi, teatro (molto bello e ben conservato, anche se un po’ ricostruito, soprattutto nelle gradinate), il curioso Tetrapilo (4 gruppi di 4 colonne), l’Agorà. Alcuni beduini con i loro cammelli attraversano il sito; non numerosi i turisti, nonostante siano ormai passate le 10. Percorsa tutta la Via Colonnata, torno all’Arco Trionfale e riprendo la moto, per raggiungere la Valle delle Tombe. È un luogo molto suggestivo: a breve distanza dall’antica città (dall’una è possibile vedere l’altra), una piccola valle cosparsa di strani edifici, alte torri che altro non

sono, appunto, che tombe. Alcune isolate, altre in piccoli gruppi, sul fondo della valle o sul fianco delle colline; alcune in buono stato, altre visibilmente segnate dal tempo, altre ancora in rovina. Percorro con la moto, con qualche difficoltà, il sentiero che si snoda tra le tombe, assaporando il silenzio; infatti una delle cose che sto apprezzando di Palmyra è la scarsità di turisti (almeno in questa stagione e a quest’ora), dovuta probabilmente al calo del turismo in queste zone dopo gli attentati dell’11 settembre. Giungo alla Torre di Elahbel, una delle tombe meglio conservate (e una delle poche visitabili); alcuni bambini, un piccolo gruppo di venditori e pochi turisti sono presso la torre. I bambini (come in tutto il mondo) si avvicinano curiosi, i venditori cercano di vendermi le solite collanine e braccialetti (alcuni per la verità interessanti) e i turisti aspettano che arrivi il custode per aprire la tomba. Nell’attesa (dopo aver controllato che i locali si limitino a fotografare la moto, con gli immancabili telefonini, ormai diffusi in tutto il mondo), faccio un giro intorno alla torre; ho quindi modo di verificare che l’apparente buono stato e pulizia della parte davanti è “compensato” dal degrado e dalla sporcizia del retro e del sotterraneo, che avrebbero bisogno di una bella ripulita. Arriva infine il guardiano, guidando una moto, con un ragazzino seduto dietro e preceduto da… due cammelli (madre e figlio). Mi aggrego a un gruppo di francesi per la visita dell’interno della tomba. Interessante, con le sue decorazioni, i bassorilievi e i numerosi loculi sistemati ordinatamente sulle pareti. La tomba si sviluppa su tre livelli e dal piano superiore ammiro un bel panorama sulla valle. Tornato giù, dopo aver osservato le solite motorette locali, agghindate con drappeggi vari sulle selle e borse artigianali, lascio Palmyra, dopo un’ultima occhiata all’antica città dalla strada che esce dalla Valle delle Tombe. Un cartello mi ricorda che sono a metà strada tra Damasco e l’Irak (circa 230 km). Ripercorro quindi i 150 km fino ad Homs, lungo la stessa strada di ieri pomeriggio. Fortunatamen te stamattina il vento è inferiore e, pure oggi, godo del vantaggio del sole alle spalle (ieri pomeriggio andavo a est, questa mattina a ovest). Superata Homs senza attraversarla, giungo ad Hama. Hama è la quarta città della Siria (500.000 abitanti) ed ha una recente storia

tragica. Nel 1982 il movimento islamico dei Fratelli Musulmani proclamò Hama “città liberata”, dopo aver allontanato i funzionari governativi e del partito Ba’ath (al potere in Siria dal 1963) dai loro posti; dopo pochi giorni, il governo siriano annunciò che chiunque fosse rimasto in città sarebbe stato considerato un ribelle e bombardò a tappeto Hama. Nell’attacco governativo morirono circa 20.000 persone. Questa brutale repressione fu l’episodio più sanguinario degli ultimi anni di potere del Presidente Assad (il padre dell’attuale). A questo penso mentre entro ad Hama, dopo aver superato l’ennesima statua del Presidente Assad (padre), seguita dalla solita gigantografia del Presidente Assad (figlio), in perfetto stile nepotistico. Dirigo subito verso il centro e la zona delle grandi norie. Il cuore del centro storico di Hama, che era straordinariamente intatto, purtroppo è stato raso al suolo nel corso della repressione, ma per fortuna almeno restano le norie. Le norie sono delle grandi ruote idrauliche di legno, poste sul fiume Oronte, che hanno la funzione di prelevare l’acqua del fiume, per irrigazione, superando il dislivello esistente tra la superficie del corso d’acqua e le sue rive. Costruite interamente in legno, sono imponenti, arrivando fino a 20 m di diametro. Purtroppo, a causa della siccità, il livello del fiume è molto basso in questi giorni e quindi non posso vederle in funzione né sentire il caratteristico forte rumore che generano col loro movimento, con tutto il legno di cui sono composte che scricchiola. Parcheggio presso il bel lungo fiume; la gente passeggia numerosa nella vasta area pedonale. Su indicazione di alcuni passanti, mi sposto poi in un’altra zona, dove è presente la noria più grande: Al-Mohammediyya, dal diametro di 20 m. Uscendo da Hama, non prendo la strada principale, che porta verso nord e la Turchia. Ho infatti previsto una deviazione verso Apamea. Dopo qualche chilometro, arrivo nella fertile piana di Al Ghab, ricca di ortaggi e altri prodotti agricoli, irrigata grazie al fiume Oronte che l’attraversa. Ogni tanto incrocio greggi che tornano all’ovile.

Eccomi ad Apamea. Attraverso la nuova cittadina e vedo il villaggio medioevale, alto sulla collina. Il sito archeologico non è molto ben segnalato, ma dopo un po’ lo trovo, con qualche incomprensione con la popolazione locale, perché il nome locale è “Afamia”. Apamea, fondata nel III secolo a.C. da Seleuco, un ex generale di Alessandro Magno, era un importante centro commerciale. Conquistata dai romani, arrivò a contare 500.000 abitanti. Prosperò anche sotto i bizantini, declinò con la conquista islamica (Lonely Planet, Siria e Libano, 2008). Il sole è ormai basso e mi affretto per arrivare al sito prima del tramonto. Risalgo la collina ed ecco che appaiono le numerose colonne del sito archeologico; costeggio le mura dell’antica città. Entrambe sono illuminate in pieno dalla bellissima luce del tramonto. Faccio appena in tempo ad arrivare al punto di accesso all’antica Apamea, proprio all’incrocio tra il cardo e il decumano, ma il sole ormai sta scomparendo dietro le montagne. Segno il punto col gps, in modo da ritrovarlo con facilità domani; ormai è troppo tardi per la visita, anche se sono molto contento di essere riuscito ad ammirarla alla luce del tramonto: tornerò qui domattina. Intanto, per guadagnare tempo, acquisto il biglietto d’ingresso al sito. Ora però ho un altro problema: è sera e non ho un posto per dormire. La guida non riporta alcun albergo qui ad Apamea, né ho alcuna intenzione di tornare indietro ad Hama (dove ne troverei sicuramente, essendo una grande città). Nel mio modo di viaggiare, mi dà molto fastidio ripercorrere la strada già fatta: quando arrivo in un posto, è lì che voglio dormire; né mi va di andare avanti, al buio, per poi tornare qui domattina a visitare il sito. Gli indigeni mi confermano che alberghi non ce ne sono, cosa in effetti piuttosto strana: un simile sito archeologico, che può attirare tanti visitatori, potrebbe essere una buona fonte di reddito per un albergo; ma Apamea non è famosa come la Palmyra di stamattina. Alla peggio ho sempre la mia fida tenda, posso sistemarmi da qualche parte per dormire; ma considero questa l’ultima spiaggia, soprattutto in certi paesi. Chiedendo, però, sembra che un abitante del villaggio possa ospitarmi a casa sua; parlano un po’ tra di loro, poi si fa avanti un siriano (Mustafà) che mi offre la sua ospitalità, per pochi euro. Ho di

che cucinarmi il pasto, ma sembra che l’offerta (se ho capito bene, visto che lui non parla inglese e io non comprendo l’arabo) includa anche la cena. Mustafà mi fa cenno di seguirlo ed avvia il suo motorino, dal quale non è mai sceso durante il colloquio. Parte quindi a razzo, attraversando velocemente le strade del paese, tanto velocemente che a volte ho qualche difficoltà a stargli dietro; noto anche il suo strano modo di sedere in sella, di fianco (all’amazzone): mi sembra un comportamento incosciente, per i rischi che correrebbe in caso di perdita d’equilibrio. Arriviamo infine alla sua casa, scende dal motorino e qui scopro il motivo del suo strano modo di guidare: Mustafà cammina solo con le stampelle, la sua gamba destra è deforme, abnormemente piccola rispetto alla sinistra, praticamente inutile per la deambulazione. Mi rammarico di aver giudicato incosciente il suo modo di sedere in sella, quando invece è semplicemente l’unica possibilità, per lui, di guidare; tanto abile sul motore, tanto impacciato una volta sceso a terra: la moto come mezzo di libertà. La casa di Mustafà è molto semplice: una grande stanza, senza alcuna pittura e nemmeno intonaco. Accanto una stanza simile (la casa del fratello) e un altro locale che serve da cucina. Il bagno è un piccolo stanzino, quasi all’aperto. All’interno della stanza, i tappeti coprono pressocché completamente il pavimento. Mobilia quasi assente, salvo un televisore, collegato alla presa di corrente con dei fili volanti (al posto della spina), e una bassa credenza. Tolte le scarpe (come tutti), entro e mi sistemo su uno dei materassi presenti sul pavimento lungo le pareti. Ben presto arrivano i bambini, già richiamati e molto incuriositi dall’arrivo della moto, che ho parcheggiato proprio davanti alla porta. Difficile contarli; come mi informa Mustafà, circa metà sono suoi, l’altra metà del fratello. Sono dolcissimi, in particolare le bambine che mi guardano quasi come un extraterrestre, in silenzio, ripetendo solo (se interrogate) il loro nome; un po’ più vivaci i maschietti. Non mi mollano e siedono accanto a me, incuriositi da ogni cosa. È un piacevole diversivo questa serata a casa di un siriano, che mi fa comprendere come viva tanta parte della popolazione. Fa anche una fugace (e molto discreta) apparizione la moglie di Mustafà, che però torna subito in cucina, immagino per preparare la cena.

La televisione, l’unico bene “di lusso”, è quasi sempre accesa, trasmettendo programmi di intrattenimento locali, che, in tutta sincerità, non mi pare si discostino molto dagli stessi insulsi nostri, che evito con piacere in Italia. Interessante, però, quando trasmettono alcuni balli: Mohammed, il più vivace dei bambini, si mette subito a ballare, improvvisando una danza molto gradita, sia dal padre, che dai fratelli, oltre che dall’ospite. Chiacchieriamo un po’, cercando di superare le complesse barriere linguistiche; mostro ai bambini qualche oggetto del bagaglio, che aumenta ancora di più la loro curiosità. Arriva l’ora della cena e quindi osservo il comportamento del capofamiglia, per adeguarmi. I vassoi col cibo sono posti direttamente per terra, sui tappeti; non ci sono piatti, né posate. Unica “salvezza”, il tipico pane arabo, che, oltre ad essere ottimo, si presta molto bene a surrogare i piatti, le posate e anche i tovaglioli, con la sua ampia superficie e l’essere così sottile e morbido. Mustafà allunga una mano e prende il primo boccone; lo seguo. Osservo intanto i bambini, che guardano in silenzio, senza avvicinarsi al cibo. Sono un po’ sorpreso, ma immagino che abbiano già mangiato; forse la madre ha già provveduto a loro e i “grandi” cenano dopo. Continuiamo quindi a mangiare solo noi due (io e Mustafà); la moglie, una volta portato il cibo, torna in cucina e non si fa più vedere. La cena è costituita soprattutto di frittata (saporita), qualche verdura (non le riconosco, ma comunque buone, ricordo che questa è una zona agricola piuttosto ricca), intingoli vari, yogurt (che non tocco, poiché è un cibo che non mi piace) e il già citato pane. Mustafà sembra aver preso l’ultimo boccone e si ritrae; mi fermo quindi anch’io. Il cibo è avanzato, mi sembrava infatti eccessivo per due persone. A questo punto, l’imprevisto: i bambini cominciano a mangiare! Sono sorpreso. I bambini non hanno toccato cibo fino a che non hanno terminato gli adulti! Inconcepibile per la nostra mentalità, in cui, se mai, si dà la precedenza ai bambini. E non credo proprio che questo comportamento sia dovuto alla mia presenza; infatti Mustafà non ha dovuto dare nessun segnale, né prima per fermarli, né dopo per indicare loro di cominciare a mangiare; si vede che sono abituati così.

In pochi minuti i bambini spazzolano praticamente tutto. Finita la cena, sempre senza che Mustafà faccia alcun segno, i bambini, dopo il cibo, spazzolano anche… per terra, togliendo i residui di cibo dai tappeti. Arriva poi la moglie che completa l’opera di pulizia e riprende i vassoi. Usi locali. La moglie dopo un po’ porta via i bambini, per prepararli per la notte. Torna quindi per portare alcune coperte; nella stanza resto solo io, Mustafà e il figlio maschio più grande; gli altri dormono altrove. Mi sistemo su un materasso, con una coperta … col mio giubbotto per cuscino. Dico a Mustafà che domani voglio partire molto presto, all’alba; ho infatti parecchia strada per giungere in Cappadocia, in Turchia, e prima voglio visitare Apamea. 18.3.2010 – giovedì – giorno 18 Apamea (SYR) (6.00) – Goreme (TR) (18.09) km 612, viaggio h 12.09, guida h 7.13 La mia sveglia suona prima dell’alba, ma sono già desto: so che oggi sarà una giornata lunga e non posso perdere tempo; dopo la visita di Apamea, avrò circa 600 km per arrivare in Cappadocia. Un po’ insonnoliti, si alzano anche Mustafà e il figlio maggiore; probabilmente si sarebbero volentieri risparmiata questa levataccia, ma l’ospite deve partire, quindi… Dico a Mustafà che non è necessario che mi accompagni al sito archeologico; l’ho memorizzato sul gps e non avrò problemi a ritrovarlo. Lo ringrazio e in pochi minuti arrivo all’ingresso dell’antica Apamea. Il sole è appena sorto, non c’è nessuno, il sito archeologico è tutto per me. Non ci sono nemmeno i custodi, ma non c’è problema: il sito non è recintato e io ho già fatto il biglietto ieri sera. C’è una casetta vicino all’ingresso, adibita anche a piccolo barristorante; ne approfitto per parcheggiare la moto nel loro cortile, dando loro appuntamento a dopo la visita per la colazione. Fa piuttosto fresco: 9°. L’ingresso è nel punto in cui si incrociano le due vie principali di epoca romana: il cardo e il decumano. La parte a sud del de cumano comprende il tratto più corto del cardo, quello meno conservato, mentre lo stesso decumano presenta pochi motivi di interesse, che sono invece quasi tutti concentrati lungo il cardo. Procedo quindi verso nord, lungo la via principale, il cardo.

La Via Colonnata di Apamea è perfino più lunga di quella di Palmyra, visitata stamattina: ben 2 km, anche se non dovunque ben conservata. Pur se non c’è il fascino del sito nel deserto, apprezzo però la bellezza di visitarla completamente da solo, senza nessun turista che possa alterare l’atmosfera di questo sito unico. Sulle pietre che pavimentano la via principale sono ben visibili i segni delle ruote dei carri, che, passando per secoli da questo luogo, hanno scavato profondi solchi. Una fila ininterrotta di colonne affianca la via dai due lati (salvo dove sono crollate). Su alcuni grandi blocchi di pietra, poggiati a terra, vedo una numerazione recente, segno probabile di una futura risistemazione al loro posto. Al di fuori della suggestiva Via Colonnata, i resti degli edifici sono piuttosto scarsi; sono però interessanti i resti delle facciate dei negozi (su due piani) che sono disposti, ininterrotti, dietro la fila delle colonne, ai due lati della strada. Arrivo alla fine del cardo, delimitato dalla porta di Antiochia: solo un’esile fila di pietre è rimasta a segnare l’arco dell’antica porta, ma resiste, ancora, dopo quasi due millenni. Credo che questa sia l’antica via colonnata più lunga che abbia mai visto in vita mia e, probabilmente, la più lunga al mondo. Dal sito archeologico sono belle le vedute sulla vicina antica acropoli, ora occupata dalla cittadella medioevale di Qala’at al-Mudiq (del XIII secolo). Apamea è davvero un sito molto interessante, forse poco considerata dai turisti che si recano in Siria, “distratti” da Palmyra. Ritorno alla moto, circondata da un gregge di pecore, e faccio la programmata colazione. Risulta proprio abbondante: la signora non smette di portare cibo e devo dirle di fermarsi; si vede che questa è una zona ricca dal punto di vista agricolo. Adesso è ora di ripartire, dritto verso la Cappadocia, senza soste intermedie, con in mezzo la frontiera turca da attraversare. Percorro tutta la fertile piana di Al Ghab, fino all’estremità settentrionale, quindi a est fino a Idlib, che è la prima città siriana dove mi sono fermato, all’andata, esattamente 2 settimane fa. Arrivo quindi alla frontiera turca, la stessa dell’andata. Nessun problema particolare in frontiera (22’ per uscire dalla Siria, 48’ per entrare in Turchia), anche perché i siriani controllano i documenti (riguardo al “problema” Israele) molto più all’entrata che all’uscita: infatti, mentre

all’entrata possono impedire l’ingresso, all’uscita più che espellerti non possono.

8. Turchia Entrato in Turchia, scopro la bandiera di Israele: d’ora in poi non dovrò più nascondere il mio itinerario. Pochi chilometri dopo la frontiera, sbaglio strada; vedo la via principale vicinissima, ma non trovo il passaggio per tornarci; un po’ di fuoristrada seguendo una piccola moto locale e ritrovo la giusta via. Torno a rivedere il Mediterraneo presso Iskenderun e da qui riprendo le comode autostrade turche. La temperatura è salita a 14° e presso Adana arriva fino a 20°, ma so che durerà poco: mi aspettano le montagne della Cappadocia. Risalgo con la bella autostrada (la stessa dell’andata) verso l’interno della Turchia; c’è il sole, non fa né caldo né freddo; è un piacere guidare in queste condizioni, con la moto che, aprendo il gas, sale di quota, potente, senza sforzo, fino a circa 1.400 m, superando agevolmente tutti gli altri veicoli, sul filo dei 130 km/h. Adesso gli ampi spazi dell’altopiano dell’Anatolia, a 1.200 m di quota, si aprono dinanzi a me. La temperatura cala sensibilmente. Lascio l’autostrada (percorsa anche all’andata) e punto a nord-est, verso la Cappadocia. La temperatura cala ulteriormente, fino a -1°. Tiro fuori dalla moto tutti i vestiti pesanti che ho; ormai i 30° di Egitto e Giordania sono un lontano ricordo! Il giubbotto di pelle, però, svolge bene il suo compito: caldo d’estate, freddo d’inverno, ma sopportabile quasi sempre; un buon compromesso. È la visione della Cappadocia, però, che mi riscalda di più. La solita corsa per arrivare entro il tramonto anche questa volta ha successo; sono ormai a pochi chilometri da Goreme, dove ho previsto di fermarmi, e improvvisamente mi appaiono davanti le caratteristiche formazioni rocciose della Cappadocia, con le guglie di roccia che si ergono verso il cielo, bucherellate da numerose abitazioni scavate nella viva pietra. La neve è abbondante ai lati della strada e sul terreno circostante, la temperatura resta sullo 0, il sole al tramonto illumina magnificamente le rocce di fronte a me; una visione stupenda. Gli ultimi turisti se ne sono andati, i negozietti di souvenir hanno chiuso: la Cappadocia è tutta per me. Ancora pochi chilometri e giungo a Goreme, scendendo nella conca dai 1.300 m ai 1.100. Goreme è bellissima, ma rimando la

visita a domattina; ormai il sole è tramontato da qualche minuto e sto congelando. La priorità è trovare un tetto e un pasto caldo. Trovo un albergo aperto (non è certo questa l’alta stagione qui), economico e abbastanza centrale; siamo solo due clienti, quindi non c’è problema di posto. Il ragazzo americano che porta avanti l’albergo (gestito da una signora scozzese) mi prepara la cena. 19.3.2010 – venerdì – giorno 19 Goreme (TR) (8.20) – Duzce (TR) (17.40) km 528, viaggio h 9.20, guida h 5.19 Al risveglio, il freddo cielo della Cappadocia mi regala una bella sorpresa; apro la finestra della mia stanza e vedo un gruppo di colorate mongolfiere che si stanno levando in cielo. Magnifico spettacolo, anche se, probabilmente, lo spettacolo migliore se lo stanno godendo in questo momento i passeggeri di quelle mongolfiere, guardando la Cappadocia dall’alto. Ma non li invidio; in un viaggio non si può vedere tutto, non si può sperimentare tutto: ci vorrebbe moltissimo tempo e forse nemmeno basterebbe; e rischieremmo di restare sempre insoddisfatti. La Cappadocia mi basta vederla da terra: è già abbastanza bella e il mio viaggio, in moto, mi piace già tanto così. In sella alla moto, l’occhio va subito al termometro: -2°! Non deve essere stata una notte facile per lei, qui fuori, con l’unico sottile riparo del suo telo. Partirà? L’impianto elettrico, rabberciato ad Aqaba, mi darà problemi? La batteria araba, di marca e provenienza sconosciuta, riuscirà a farla partire? Sono alcuni secondi di incertezza quelli che passano prima della pressione del pulsante di accensione; ma la moto parte al primo colpo, senza esitazione. E io continuo a chiedermi perché mai, giorni fa, in condizioni certo più favorevoli (caldo e centinaia di chilometri appena fatti nella stessa giornata), ha avuto tanti problemi; indagherò a fondo in Italia. Raggiungo il centro di Goreme, ancora semideserto, data l’ora mattutina. Mi fermo al primo bar-ristorante, in posizione panoramica al primo piano, e faccio colazione. O meglio, ci provo: il ragazzo infatti non sembra capire molto bene e, dopo un’attesa piuttosto lunga che comincia a spazientirmi (il tempo in viaggio è prezioso e, scattate alcune foto dalla terrazza del bar, non è che mi resti molto

da fare), se ne viene con… quasi niente. Gli do 5 minuti per portare una colazione decente (altrimenti vado da un’altra parte) e finalmente sono accontentato. Goreme è splendida; il centro storico della città è costruito dentro e intorno le caratteristiche formazioni rocciose della Cappadocia, che ho già ammirato ieri al tramonto qui vicino. Un paesaggio fiabesco, quasi irreale. Le rocce bucherellate, le guglie che si alzano al cielo, spruzzate di neve qua e là. Noto diversi noleggi di moto e quad. Proprio di fronte al ristorante, un cartello indica il “Museo all’Aperto” (a 1 km). Lo raggiungo con la moto, attraversando un paesaggio fantastico di formazioni rocciose, dopo un paio di stretti tornanti, col fondo stradale in pietra, quindi da affrontare con prudenza, anche per la presenza di neve a bordo strada. Il Museo all’Aperto di Goreme è stato dichiarato Patrimonio dell’Umanità; è un insieme di chiese, cappelle e monasteri bizantini, scavati nella roccia. L’ingresso è a pagamento e a pagamento è anche l’ingresso a una delle chiese al suo interno; ma vale assolutamente la pena, poiché si tratta davvero di un ambiente unico. Parcheggio la moto di fronte e comincio la visita. La prima cosa che colpisce è l’ambiente naturale, un insieme di formazioni rocciose di forma conica, con pinnacoli di varie altezze. Quello che però lo rende ancora più speciale è l’intervento umano, in questo ambiente naturale a sua volta unico: le rocce (di morbido tufo) sono state scavate in molti punti per ricavare cappelle, chiese e monasteri, risalenti all’epoca bizantina. Tutte le cappelle sono ben segnalate, con cartelli plurilingue (turco, inglese e francese). Visito le diverse chiese e monasteri: cappella di San Basilio, cappella di Santa Barbara, chiesa di Sant’Onofrio… Internamente le pareti sono ricoperte di disegni, realizzati soprattutto con ocra rossa; molti sono geometrici, spesso sono raffigurate anche scene di vita religiosa ed episodi biblici. Molti volti, però, sono cancellati, in ossequio alla regola (imperante per un certo periodo) che vietava raffigurazioni umane. Sono immagini molto suggestive, in buono stato di conservazione, anche per il relativo buio presente nelle cappelle. Per preservare i dipinti, è vietato fotografare col flash; riesco comunque a fotografare con la

poca luce presente, utilizzando i momenti in cui non entrano visitatori: infatti spesso l’entrata è l’unica fonte di luce e quindi le persone ne ostruiscono il passaggio. Continuo la visita; interessante il refettorio di un monastero, con la lunga tavola e le panche scavate nella viva roccia. Arrivo infine alla Karanlik Kilise (Chiesa Buia), detta così poiché la luce riesce ad entrarci solo in piccola quantità; questo ha permesso un’ottima conservazione dei dipinti murali, che infatti sono i più belli del Museo all’Aperto. Per accedere a questa chiesa, recentemente restaurata, è necessario pagare un biglietto supplementare. I dipinti sono splendidi, con i colori vivi; purtroppo anche questi hanno i volti cancellati, per rispettare la regola prima indicata. Vedo però una bella raffigurazione del Cristo, col volto visibile, forse sfuggito alla furia iconoclasta. Questa chiesa è magnifica, con le pareti interamente ricoperte di pitture; vale davvero il biglietto supplementare. E poi la cappella di Santa Caterina, con le tombe scavate direttamente nel pavimento, e la chiesa dei Sandali, con un interessante pannello raffigurante la scena dei monaci seduti al tavolo del pasto. La mia visita è finita e mi rendo conto che anche il mio viaggio è terminato; questa infatti era l’ultima sosta “turistica” programmata; ora l’obiettivo è tornare a casa, a quasi 3.500 km… sperando che la moto regga. Ma c’è ancora qualcosa che mi manca e cui tengo. Non ho visto i “Camini delle fate”, le particolari formazioni rocciose immortalate in tante foto turistiche della Cappadocia; ne parla anche la guida, ma è un po’ evasiva sulla loro esatta localizzazione, accenna a gite organizzate con agenzie turistiche, cosa incompatibile con i miei tempi. Indugio, quindi, presso la moto, guardando la cartina (dovrebbero essere qui vicino) e consultando la guida. Si avvicina un turco; si presenta come Sinan, proprietario di un albergo qui in città (parla discretamente italiano); lo ringrazio, ma ho già pernottato a Goreme e sono in partenza, di ritorno in Italia. Chiacchieriamo un po’ e salta fuori che conosce diversi motociclisti italiani e proprio un gruppo di loro ha ospitato pochi mesi fa nel suo albergo, di passaggio durante

un viaggio in Egitto; incuriosito, faccio qualche domanda, e scopro che si tratta proprio del gruppo di motociclisti che conosco, alcuni dei quali avevo contattato per ricevere informazioni prima del mio viaggio; in particolare Sinan conosce molto bene l’organizzatore di quel gruppo, che è anche mio amico. Sinan è felice dell’incontro, mi dà il suo biglietto da visita e mi chiede di salutare l’amico comune italiano; si offre anche di accompagnarmi a vedere i Camini delle Fate; accetto con piacere. La strada da fare non è asfaltata e Sinan mi avvisa che è molto malridotta, oltre che piena d’acqua per il disgelo della neve. Quindi mi rassegno a lasciare la moto nel parcheggio e vado in auto con lui. Nel breve percorso noto che in effetti la strada, fangosa e dissestata, non sarebbe stata praticabile con la mia moto. Durante il tragitto c’è anche il tempo per un veloce (e prudente) scambio di opinioni sull’attuale situazione politica turca: sono recenti le notizie di arresti ordinati dalla magistratura nei confronti di alti ufficiali militari, accusati di complotto contro le istituzioni per bloccare l’ascesa al potere dell’attuale partito di governo, islamico e inviso ai militari, tradizionalmente custodi della laicità dello Stato. Sinan sorride, ma si vede che anche lui è preoccupato, non so quanto per intime convinzioni personali, quanto per le inevitabili ripercussioni sul turismo che avrebbe una instabilità politica del suo paese. Arriviamo al luogo. È stupendo: decine di formazioni rocciose, come lunghi camini, si innalzano al cielo, con una roccia sulla cima. Sono il prodotto dall’erosione, che ha scavato il morbido materiale tutto intorno al “camino”, lasciando solo la parte presente sotto la roccia di materiale più duro, creando quindi queste fantastiche costruzioni naturali. Sono estasiato, come anche i (pochi, per fortuna) turisti che vedo lì vicino. Sono presenti anche alcune piccionaie. Ringrazio Sinan: il mio viaggio non poteva avere una conclusione migliore. Tornato alla moto, riparto verso nord-ovest. L’obiettivo è superare Ankara e poi fermarmi… da qualche parte lungo la strada, il più a ovest possibile, evitando Istanbul; sono ormai le 11, credo quindi che mi fermerò prima di quella città. Appena fuori Goreme, vedo un deposito di quelle mongolfiere che hanno salutato l’inizio della mia giornata.

La strada per Ankara è buona; le classiche superstrade turche, ampie (a 4 corsie), per fortuna senza i temibili lavori in corso che talvolta le rendono quasi impraticabili. Il cielo è quasi sereno, ma fa piuttosto freddo: la temperatura non supera i 12° in tutta la giornata, ma ben presto scende fino a raggiungere di nuovo lo 0. Oltrepassata Ankara, saluto quindi con gioia l’inizio della discesa dall’altopiano anatolico, aspettandomi un innalzamento della temperatura, che però resta prossima allo 0. Prima del tramonto esco dall’autostrada, presso Duzce, dove mi fermo al primo albergo (non ho voglia di girare: ho freddo e sono stanco). È un po’ caro, ma niente di eccessivo; comunque ci pensa la cena (molto economica, ma saporita), in un locale vicino, a riequilibrare la spesa media della giornata. 20.3.2010 – sabato – giorno 20 Duzce (TR) (6.59) – Pirot (SRB) (17.14) km 884, viaggio h 11.15, guida h 9.05 Alla partenza il termometro della moto mi conferma che quello che mi fa rabbrividire non è solo una mia impressione: -3°! Speriamo che l’aria si scaldi con l’alzarsi del sole, visto che adesso l’alba è passata da meno di un’ora. Raggiungo Istanbul e, attraversando il solito ponte Ataturk, rientro in Europa: torno nel mio continente, alla fine di questo viaggio che ne ha attraversati tre: Europa, Asia ed Africa. La dogana turca mi fa perdere un po’ di tempo (non molto in verità, visti i precedenti: 15’; poi 8’ per entrare in Bulgaria).

9. Rientro a casa Attraverso abbastanza velocemente la Bulgaria; stavolta, arrivato al tratto di autostrada ancora in costruzione, seguo scrupolosamente i segnali, evitando quindi di trovarmi “fuori strada”, come avvenuto all’andata. Giunto a Sofia, ho di nuovo il dubbio se attraversarla da sud (come all’andata) o da nord. Per cambiare, provo da nord, ma il risultato non muta: strada dissestata, buche ovunque, traffico pesante pericoloso. Mi riprometto che la prossima volta passerò dal centro, pur di non percorrere questo disastro. Per fortuna, però, oggi c’è il sole (non la pioggia dell’andata): questo attenua i disagi della strada. La temperatura sale fino a 20°; ormai le temperature prossime allo 0 della Turchia dovrebbero essere solo un ricordo. Comincio a incontrare qualche moto “normale”, dopo le piccole cilindrate locali viste in Medio Oriente. Arrivo al confine con la Serbia: strano, ma ci metto più a uscire dalla Bulgaria (13’) che ad entrare in Serbia (5’). Guadagno un’ora, tornando a quella italiana; ma, qualunque sia l’ora legale, il sole ormai si sta abbassando: è il caso di trovare da dormire. Resto un po’ incerto se superare Pirot: è ancora piuttosto presto e potrei fare altri chilometri prima del tramonto. Ma decido di non rischiare e mi fermo, sulla circonvallazione di Pirot, ad un comodo motel (la sistemazione ideale in un viaggio veloce come questo), con ristorante annesso. Interessante chiacchierata a cena con un paio di serbi. Oggi ho fatto parecchia strada; stimo quindi che rientrerò in Italia domani e a casa dopodomani, dopo 22 giorni di viaggio, perfettamente nei tempi previsti. Avviso gli amici, al di qua e al di là del confine Slovenia-Italia, per un breve saluto sulla strada. 21.3.2010 – domenica – giorno 21 Pirot (SRB) (6.48) – Rimini (I) (21.32) km 1.338, viaggio h 14.44, guida h 11.57 Nuvoloso, ma non piove: ammiro l’alba sulle montagne della Serbia meridionale dalla finestra della mia camera; bene, non perdiamo tempo e partiamo. 5°: non male per essere il primo giorno di primavera! La strada mi accoglie col suo tratto migliore, scorrendo

sinuosa, accanto al letto del fiume, in una stretta valle, con numerose gallerie scavate nella viva roccia. A Nis ritrovo la comoda autostrada balcanica, percorsa ormai tante volte nei miei viaggi, che mi permette di risalire velocemente verso nord-ovest. Belgrado, il ponte sulla Sava, la pianura pannonica, le montagne della Bosnia che sfilano vicine alla mia sinistra; ogni strada, ogni tappa, presenta spunti interessanti. Non esiste, almeno in moto, una tappa di puro “trasferimento”; in moto nessun percorso ha come unico fine quello di spostarsi da un punto all’altro. Perfino questi (come, all’inverso, le corrispondenti tappe dell’andata), in cui il fine preminente è guadagnare chilometri verso casa, sono qualcosa in più di semplici trasferimenti; anche i tratti in autostrada fanno parte del viaggio, danno un senso al viaggio come lo dà una tappa nel Sinai o nel deserto giordano, o al cospetto delle piramidi o attraverso le delicate e complesse frontiere mediorientali; è un contributo diverso, forse “minore”, ma comunque importante e che, almeno per me, dà un senso di compiutezza al viaggio: tutto via terra, tutto in moto, da casa mia a casa mia. Il cielo si mantiene nuvoloso, ma per fortuna anche oggi niente pioggia; la temperatura sale fino a 21°. Anche il confine serbo-croato è veloce (5’ + 7’); penso a quando, appena 15 anni fa, queste terre erano insanguinate dal conflitto tra serbi e croati, il cui ultimo atto fu appunto la battaglia per la conquista di questa regione, la Slavonia orientale. Una sorpresa però il confine serbo-croato me la riserva; mi sono rimaste alcune banconote serbe (le ho cambiate non per effettiva necessità, ma per il gusto di conservarne una per ricordo, come faccio per tutti gli Stati attraversati) e quindi, appena passato il confine, cerco di cambiarle con le equivalenti croate. Niente da fare: l’ufficio cambi della frontiera accetta solo euro o altre monete, ma non i dinari serbi. Trovo molto strano questa “chiusura” tra due Stati confinanti (nei miei viaggi non ho mai avuto difficoltà a cambiare valute in queste situazioni): forse retaggio della guerra? Supero Zagabria e punto verso il mare; tra me e il mio Adriatico ci sono solo le Alpi Dinariche, ormai. Ma le sorprese non sono finite. La strada comincia a salire e, già a 500 m, comincio a vedere la neve; e non sulle montagne intorno, ma proprio a bordo strada; neve

ovunque, come sull’altopiano anatolico, ma qui proprio inaspettata, a pochi chilometri dall’Italia e proprio il primo giorno di primavera! La strada continua a salire e la situazione non migliora, anzi. Passato il valico (il colle di Vrata, 900 m), appena mi affaccio sul versante occidentale, che dà verso il mare, alla neve, sempre abbondante, si aggiunge la nebbia. Forse è l’umidità che sale dal vicino mare (appena 41 km a Rijeka, dice il cartello), ma la situazione diventa davvero preoccupante e pericolosa. La visibilità cala drasticamente, la neve è sempre presente a bordo strada e rivoli d’acqua gelata scendono dai cumuli di neve che in parte si sciolgono; ho l’impressione che in alcuni punti ci siano lastre di ghiaccio, anche se la temperatura non scende sottozero. Ormai mancano pochi chilometri al mare, ma sono ancora piuttosto in quota, data la particolare conformazione di questo territorio, per la presenza di altopiani fino a pochissima distanza dal mare; riduco ulteriormente la velocità, ma, in certi punti, non mi sento per niente sicuro e ho paura di finire fuori strada, magari in uno degli alti viadotti poco prima di Rijeka (almeno credo siano dei viadotti: ci vedo talmente poco…). Finalmente arrivo al mare e torno ad avere una buona visibilità, oltre a scomparire la neve. Me la sono vista davvero brutta, probabilmente il punto peggiore del viaggio; anzi no, riflettendoci, mentre mi avvio ormai tranquillo verso il confine sloveno, peggiore non è la parola giusta; direi meglio più difficile. Anche i momenti difficili, infatti, in moto, non me la sento di definirli brutti; ma solo, eventualmente, difficili, impegnativi. E sempre belli da ricordare. Supero il confine con la Slovenia: 1’ per uscire dalla Croazia, pochi secondi (il tempo di mostrare il mio passaporto italiano) per entrare in Slovenia; i tempi mediorientali sono ormai un ricordo. Arrivo in breve a casa di Tomaz: lo avevo infatti avvertito del mio passaggio, come pure il mio amico Giannipiuma; avevo anche avvisato del ritardo, dovuto alla neve e alla nebbia sulle Alpi Dinariche. Manca poco al tramonto, ma ormai sono vicino all’autostrada e quindi ho programmato un po’ di guida serale, nelle condizioni di sicurezza autostradali. Anche se questi sono minuti preziosi per il viaggio, visto il buio imminente, ci tengo molto a salutare i miei due amici. Ormai sta diventando una tradizione: la

prima volta durante il mio giro nei Balcani, poi all’andata del mio viaggio in Mongolia. È con piacere che rivedo Giannipiuma e Tomaz: con Tomaz sono rimasto in contatto dai tempi del nostro viaggio in Islanda, uno dei miei pochi non in solitaria; Giannipiuma l’ho conosciuto su un forum di mototurismo, ma poi ho avuto alcune occasioni di incontrarlo personalmente. Racconto loro dei problemi avuti nelle ultime ore, con l’attraversamento delle Alpi innevate e la nebbia che mi ha messo in difficoltà. Riferisco anche le prime impressioni del viaggio; parlerei per ore, ma ovviamente non posso: la strada mi chiama e il buio è imminente. Voglio arrivare in autostrada ancora con la luce e poi sarà qualche ora di tranquilla strada da percorrere di notte. Nonostante i pochi minuti a disposizione, credo però che le mie parole manifestino l’entusiasmo per il viaggio appena compiuto; cerco di rispondere al meglio alle loro domande, rinviando per i dettagli… a questo libro. Saluto i miei amici. In breve sono alla frontiera con l’Italia, attraversata in compagnia di Giannipiuma, che torna alla sua Monfalcone: la sua bella custom mi precede sull’altopiano del Carso, accompagnandomi per qualche chilometro. L’attraversamento della frontiera (la 24a in 21 giorni), l’unica in questo viaggio tra due Stati UE, non richiede nemmeno un rallentamento. Come programmato, adesso solo autostrada, di notte, finché ne avrò voglia. Anche se questo non comporterà un guadagno di un giorno di viaggio, ho voglia di farlo; ho voglia, tornato su ottime strade, di viaggiare senza il vincolo della luce, fino a che mi sento di continuare. Secondo i miei rapidi calcoli, dovrei arrivare fino a Rimini. Proseguo verso sud: supero Venezia, con qualche timore iniziale per il traffico, ma per fortuna nemmeno l’ora serale di un giorno festivo comporta problemi, essendo una semplice domenica di marzo. Un po’ di pioggia, ma niente di realmente fastidioso, soprattutto perché sono in autostrada. Oltrepasso Padova e poi Bologna; quindi lungo l’autostrada adriatica, già percorsa innumerevoli volte, poiché segna quasi sempre l’inizio e la fine dei miei viaggi. Decido infine di fermarmi a Rimini: l’ora è giusta (le 21.30, non troppo tardi per cenare, né troppo presto per fermarmi) e il luogo mi offre molta

scelta di alberghi a buon prezzo (vista la stagione). Ne scelgo uno dal gps, già memorizzato (e utilizzato) durante un precedente viaggio. Riconosco il gestore e anche lui me (o forse la moto, piuttosto facile da ricordare), per quanto siano passati alcuni anni. Parcheggio la moto nel cortile e vado a cena in una pizzeria vicina, a piedi; a tavola osservo alcuni motociclisti che parlano di progetti di viaggi per la prossima estate. Non ho la moto, ma il mio abbigliamento è da motociclista, con stivali e giubbotto di pelle; scambiamo alcune parole. Ascolto i loro progetti e poi mi chiedono dove intendo andare questa estate; rispondo che me ne starò tranquillo al mare, per quest’anno il viaggio in moto l’ho già fatto: torno adesso dall’Egitto. 22.3.2010 – lunedì – giorno 22 Rimini (I) (7.05) – Lecce (I) (14.10) km 718, viaggio h 7.05, guida h 6.10 È l’ultimo giorno, l’ultima tappa. Una volata verso casa, attraverso una grigia giornata di inizio primavera. Penso alla grande varietà di climi, di strade, di paesaggi, di gente incontrati in questo viaggio. I chilometri scorrono regolari sotto le ruote della mia moto, che avanza senza esitazione, nonostante i problemi elettrici che, ne sono sicuro, da qualche parte si nascondono nel suo impianto e possono colpirmi in qualunque momento, senza preavviso. Ma non accade nessun inconveniente e arrivo a casa; qualche ora prima telefono a mia moglie: stavolta può apparecchiare per tre, sarò presente per pranzo. Il viaggio è finito.

10. Conclusioni Ho cominciato questo libro chiedendomi “il senso di un viaggio”. Adesso, alla sua conclusione, mi chiedo, come ad ogni ritorno, cosa mi resta di tale viaggio. Gli aspetti sono diversi, in ogni viaggio; certi sono comuni a tutti i miei giri, altri specifici di alcuni; comunque, ognuno ha delle caratteristiche uniche. In questo viaggio tali aspetti posso individuarli in questo modo. L’aspetto dei divieti. Ho viaggiato attraverso alcuni dei territori più densi di conflitti del mondo, luoghi in cui, da decenni, si confrontano arabi e israeliani (e, da millenni, ebrei contro i vicini). Secondo le regole che alcuni di questi Stati impongono agli stranieri (e ai lori cittadini), questo viaggio non avrei potuto nemmeno farlo: la Libia che aveva bloccato la concessione dei visti a diversi Stati europei, impedendomi quindi di raggiungere il Medio Oriente da ovest; la Siria che non permette l’ingresso a chi è stato in Israele. Ma non mi sono fermato alle regole, ai divieti; non li ho accettati e ho trovato il modo per superarli, anche per violarli. Ho aggirato la Libia, con un allungamento del percorso di 1.500 km; sono entrato in Israele senza (quasi) lasciare tracce sul mio passaporto e dopo sono entrato anche in Siria, in barba ai loro assurdi divieti, sia pure rischiando un po’, per il timbro israeliano in inglese che mi ha fatto preoccupare non poco durante i controlli di frontiera siriani. Anche il Libano non accetta sul suo territorio persone che sono state in Israele, ma entrare in quel paese è stato più semplice, poiché l’ho fatto dalla Siria e non dal suo confine, impenetrabile, con Israele. Ho percorso le strade della biblica “Terra Promessa”, che io però ho visto, almeno in parte, come “Terra Proibita”, a causa dei conflitti e dei divieti che hanno cercato di impedirmi tale viaggio. Credo che il viaggiatore, normalmente, debba essere rispettoso delle norme dei paesi che attraversa; ma quando queste norme, questi divieti, sono incompatibili con le mie profonde convinzioni, io non ho dubbi e sono queste ultime quelle che seguo. Pronto a pagarne le conseguenze, se scoperto, ma convinto di essere nel giusto e determinato ad usare tutti i mezzi a mia disposizione per

raggiungere il mio fine, che è quello di viaggiare, libero, per il mondo, andando dove voglio, con la mia moto. L’aspetto storico. Ho viaggiato attraverso terre nelle quali affondano le radici della nostra civiltà, della nostra cultura, della nostra religione. Israele (la “Terra Promessa” degli ebrei), pieno di riferimenti biblici, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento; l’Egitto dei faraoni e delle maestose piramidi; il biblico Sinai, col suo deserto, luogo dell’esodo degli ebrei, e il monte dove Dio ha dato agli uomini i 10 Comandamenti; i deserti della Giordania e della Siria, con le loro millenarie civiltà; le antiche città di Petra e Palmyra; la magica Cappadocia, con le sue chiese rupestri. Viaggiando in quelle terre, avevo proprio la sensazione di viaggiare nella storia, per la grande densità di siti importanti sotto questo aspetto. Ed è stato emozionante vedere dal vivo e attraversare luoghi che avevo prima letto tante volte sui libri. Anche sotto questo aspetto, quindi, il Medio Oriente è uno dei luoghi più ricchi della Terra. L’aspetto paesaggistico. Sono posti bellissimi, affascinanti. I deserti, soprattutto: dall’Egitto alla Giordania e alla Siria. Deserti che non sono semplicemente il “vuoto”, anzi sono ricchissimi; di storia, come detto prima, ma anche sotto altri aspetti: ricchi di paesaggi, che sorprendono; ricchi di vita nascosta, ricchi per la gente che, tenacemente, vi abita. Tra i deserti ricordo in particolare il Wadi Rum, con le sue stupefacenti formazioni rocciose. E poi le montagne: la Turchia, con i suoi monti innevati, il suo freddo pungente di marzo, la fiabesca Cappadocia; i monti della Siria e della Giordania (quest’ultima ricca di varietà di paesaggi, nonostante le dimensioni limitate); il piccolo Libano, stretto tra monti e mare; il Sinai, stupendo. E i monti e le colline contese del Golan, in Israele; un’oasi di pace che rende difficile immaginare la durezza delle battaglie che lo hanno avuto per scenario. E poi il mare, col Mar Rosso, che non conosce il freddo inverno, e il sorprendente Mar Morto, talmente salato e denso, da permettere il bagno e la nuotata più stupefacente della mia vita. L’aspetto tecnico. Da questo punto di vista, molto importante è stato per me il viaggio dello scorso anno in Mongolia, che mi ha insegnato a non avere paura di trovarmi in difficoltà in luoghi sperduti. Anche in questo viaggio ho avuto problemi tecnici, che però ho superato con

gli scarsi mezzi locali. Non nascondo che, trovarmi di notte alla periferia di una cittadina mediorientale, con la moto muta, mi ha fatto preoccupare parecchio e ho temuto seriamente per la continuazione del viaggio. Ma non bisogna disperare e anche la moto più complessa può essere riparata (almeno spesso), pure con attrezzature rudimentali, conoscenze tecniche piuttosto approssimative e certo non aggiornate, ricambi scarsi e di provenienza “incerta”; ricordo ancora la domanda del meccanico di Aqaba, che girava intorno alla mia moto da riparare come farebbe un abitante di questa Terra con un disco volante guasto: “dov’è la dinamo?”. Continuare il viaggio con le luci spente (per non sovraccaricare l’impianto elettrico riparato alla meno peggio) mi ha sì creato qualche preoccupazione, ma è stato comunque interessante; e i cavi elettrici da attaccare in caso di necessità alla mia batteria “araba” sono diventati una parte importante del bagaglio. Nell’aspetto tecnico considero anche l’esperienza, per me non usuale, di un viaggio così lungo “fuori stagione”, nel passaggio tra inverno e primavera, a marzo; con le giornate ancora corte che mi obbligavano a partire all’alba per sfruttare al massimo la luce del giorno; e le temperature molto variabili, tra i -3° delle montagne della Turchia e gli oltre 30° di Egitto e Giordania. Temperature che mi hanno obbligato ad un abbigliamento “intermedio”, che si è dimostrato (quasi sempre) sopportabile sia col caldo che col freddo. L’aspetto umano. Come spesso accade nei miei viaggi, è l’aspetto forse più interessante. Ho potuto confrontare stili di vita diversi; e questa diversità è stata accentuata proprio dalla velocità del mio viaggio, in cui in pochi giorni passavo dagli islamici paesi arabi, all’ebraico Israele, alla Turchia dell’islam “laico”. Interessante e curiosa è stata l’esperienza del fine settimana “lungo”, quando, tra Giordania e Israele, ho vissuto tre giorni consecutivi festivi: il venerdì islamico in Giordania, il sabato ebraico in Israele e la domenica cristiana nella Palestina cristiana/musulmana. Oltre la velocità del viaggio, la percezione di tale diversità era accentuata dalle brevi distanze: in pochi chilometri passavo dalla Giordania ad Israele e poi la Siria e il Libano. Culture, religioni che si incontrano, si confrontano, a volte si scontrano; tutto in un fazzoletto di terra.

E poi la gente, le persone incontrate. Il meccanico di Aqaba che si è affannato intorno alla mia moto fino a mezzanotte, chiedendo poi solo un piccolo compenso; il successivo meccanico che, provando e riprovando, è riuscito comunque a farmi completare il viaggio; i bambini, sempre entusiasti ad ogni incontro; i beduini del deserto, che mi accoglievano con simpatia e stupore; il motociclista siriano che si è dato da fare per trovarmi la benzina che mi serviva; gli abitanti delle città e dei villaggi, sempre ben disposti nei miei confronti; i poliziotti arabi, che bloccavano il traffico per farmi passare; il siriano che mi ha ospitato a casa sua; l’albergatore turco che, senza alcun vantaggio personale, mi ha accompagnato con la sua auto fino ai Camini delle Fate, che altrimenti con la mia moto probabilmente non avrei mai trovato; anche i militari israeliani che, sia pure non espansivi come i loro colleghi arabi, mi apparivano felici di vedere uno straniero che rompeva, con un veicolo così insolito, l’isolamento cui li costringe l’ostilità degli arabi. Ed è proprio questa grande “ricchezza umana” che rende ancora più tragica la situazione di quella regione, con una terra contesa da due popoli, arabi ed israeliani. Due popoli che, nonostante i progressi, lenti e parziali, degli ultimi decenni, ancora non riescono a trovare un modo per convivere in pace. È un viaggio che resta impresso in maniera indelebile; un viaggio che arricchisce e costringe a pensare.

11. Consigli utili Moto Ho usato la mia solita Honda Gold Wing 1500, del 1998, con quasi 630.000 km alla fine del viaggio. Le strade incontrate non hanno messo in difficoltà la moto, anche se lo stato di manutenzione di alcune avrebbe reso meno impegnativa la guida con una moto più leggera e dall’escursione delle sospensioni più ampia. Ma questa è la mia moto e io viaggio solo con questa. Inoltre solo questa moto mi permette di tenere medie giornaliere che mi hanno consentito di raggiungere Aqaba (quasi 5.000 km) in 5 giorni e di completare il viaggio in 22. Le moto che si incontrano in questi posti sono normalmente di piccola cilindrata e i meccanici… adeguati alle moto. Ma, in caso di necessità, i meccanici hanno tanta pazienza e voglia di riparare il guasto, quindi è possibile cavarsela. Magari non sempre. Stato delle strade Non male. Ottime fino alla Turchia (con l’eccezione della circonvallazione di Sofia), ottime anche in Turchia (tranne qualche tratto in rifacimento), discrete in Siria e Giordania (se si resta sulle vie principali, a volte superstrade), anche in Egitto, se non fosse per il caos del traffico. Quello del traffico “promiscuo” è un problema comune nel Medio Oriente e non è raro anche in superstrada incontrare un carretto trainato da un animale o un’auto contromano. Fa eccezione Israele, dove gli standard delle strade sono occidentali, con ottime autostrade (gratuite) e ottima viabilità secondaria. Molto traffico in Libano. Le autostrade sono a pagamento solo fino in Turchia. Pochi tratti a pagamento in Egitto (ma costano poco). Clima Il viaggio è avvenuto a marzo, tra fine inverno e inizio primavera. Quindi l’escursione termica è stata notevole: dai -3° delle montagne della Turchia agli oltre 30° di Egitto e Giordania. Neve in Turchia e Croazia, sole che spaccava le pietre dopo 172 11. Consigli utili la Siria, dove potrete fare il bagno nel Mar Rosso o nel Mar Morto. Il caldo però, trattandosi prevalentemente di zone desertiche, è secco,

quindi sopportabile; fa eccezione la valle del Mar Morto, veramente afosa, a 400 m sotto il livello del mare. Un po’ di pioggia all’andata nell’attraversamento dei Balcani, per il resto le precipitazioni in quelle zone sono rare, tranne d’inverno. Consiglio di non andarci d’estate, perché fa veramente troppo caldo, visto che già a marzo c’erano oltre 30°; meglio soffrire un po’ il freddo nell’avvicinamento a quelle zone. D’altra parte, in pieno inverno può fare molto freddo fino in Giordania, con zone anche desertiche come Petra soggette ad allagamenti improvvisi; credo che il periodo migliore sia quello da me scelto. L’alternativa è l’autunno, p.e. ottobre, che però ha meno ore di luce. Ora locale Dalla Bulgaria all’Egitto è un’ora avanti all’Italia. Visti e patente Il passaporto è necessario per la maggior parte degli Stati attraversati, ma in molti non basta. Serve il visto in Siria, Giordania ed Egitto. In Egitto è possibile farlo in frontiera, per Siria e Giordania meglio farlo in Italia. Anche in Libano serve il visto, ma ho fatto tutto in frontiera, senza pagare nulla. Alcuni degli Stati attraversati richiedono la patente internazionale, ma nessuno me l’ha mai chiesta. Israele Come già spiegato in precedenza, non è possibile entrare in Siria e in Libano (e in alcuni Stati arabi) se sul passaporto c’è il segno di un passaggio in Israele. Quindi nel vostro viaggio Israele deve essere l’ultimo Stato attraversato. Poiché questo non è possibile in un viaggio in moto (non ci sono traghetti regolari da Israele verso l’Europa e trasportare la moto in aereo è troppo costoso), non resta che chiedere ai giordani e agli israeliani del valico di confine Giordania-Israele di non apporre alcun timbro sul passaporto. Nel mio caso un piccolo timbro “anonimo” gli israeliani lo hanno apposto, ma mi è andata bene. Non sperate che i siriani non si accorgano di un timbro di Israele sul passaporto: lo controllano con attenzione. È anche possibile entrare in Israele dall’Egitto, ma le procedure

doganali egiziane sono più complesse; inoltre l’Egitto richiede il Carnet, che deve necessariamente essere timbrato, quindi i siriani se ne accorgerebbero guardandolo. Dopo il mio viaggio, è stato istituito un traghetto tra Venezia e Alessandria d’Egitto (e la Siria); questo permette di entrare in Israele dopo essere passati dalla Siria e poi, arrivati in Egitto, tornare in Italia col traghetto, invece che via terra, senza problemi di timbri “scomodi”. Certo, perdete il “gusto” di farlo tutto via terra, ma sono scelte personali. Valute e carte di credito Quasi ogni Stato ha la sua valuta; non ci sono problemi a trovare cambiavalute: sono anche presenti appositi uffici in frontiera. Bancomat ne ho visti pochissimi e comunque non ne ho cercati, poiché in certi posti non faccio affidamento sulla loro presenza. In certe frontiere (Siria) chiedono dollari per pagare alcune tasse di ingresso, ma generalmente questi importi si regolano in valuta locale, anche in Egitto, dove invece avevo avuto informazioni diverse. Il traghetto Aqaba-Nuweiba si paga solo in dollari. In ogni caso, meglio avere un po’ di dollari, anche in banconote da piccolo taglio, anche per eventuali mance, non necessarie, ma a volte utili. Meno graditi gli euro, ma comunque a volte accettano anche quelli. L’uso della carta di credito è raro; in pratica solo i grandi alberghi. Anche per fare benzina (l’operazione più comune e la principale fonte di spesa per chi viaggia in moto), quasi sempre (dopo la Turchia) si deve usare il contante. Carnet di passaggio in dogana e assicurazione veicolo Il carnet è necessario in Egitto. Anche in Siria formalmente è necessario, ma è possibile comunque passare, pagando una tassa supplementare. In Giordania e Libano ve lo chiederanno per semplificare le operazioni doganali, ma anche qui se non lo avete riuscirete a passare comunque. In Italia lo rilascia l’ACI, previa presentazione di una fideiussione sul valore del veicolo (fino al triplo, se ha più di 10 anni). Riguardo l’assicurazione della moto, per gli Stati in cui non vale la Carta Verde i doganieri vi faranno stipulare un’assicurazione

temporanea, per il periodo presunto di permanenza; piuttosto cara in Egitto. Benzina Costa ovunque meno che in Italia (vedi tabella capitolo successivo), tranne in Turchia. Il numero di ottano a volte non è nemmeno indicato e credo che in certi Stati (p.e. Egitto) sia inferiore a 90 e spesso col piombo. Non ho avuto comunque mai problemi con la mia moto, che però, essendo l’ultima Gold Wing a carburatori (e non catalizzata), beve di tutto. Non ho mai dovuto usare additivi. Pernottamenti Normalmente costano poco; la situazione è comunque varia, perché nelle località turistiche esistono anche grandi alberghi dal costo più elevato, comunque generalmente più basso che in Europa. Sulla costa del Mar Rosso il costo del pernottamento nel mio caso ha oscillato da un minimo di 3 euro (bungalow sulla spiaggia, ottima posizione e confortevole, anche se senza bagno) a un massimo di 47 euro (grande albergo, con tutto). Negli alberghi più economici, controllate che ci sia il bagno, cosa non scontata. Campeggi quasi nessuno, tranne in Israele, dove sono una valida alternativa agli alberghi, cari come in Europa. È possible campeggiare nel Wadi Rum (Giordania), sia con tenda propria (costo zero) che negli accampamenti dei beduini (a pagamento; qui spesso sono forniti anche la colazione e il pranzo). Se non trovate nulla, potete anche considerare la possibilità di essere ospitati presso qualche abitazione privata, come ho fatto ad Apamea (Siria), dando una piccola somma al padrone di casa. Cartografia Come cartografia elettronica specifica in pratica nulla, ma il World Map (strade principali) caricato sul mio gps si è dimostrato sufficiente per orientarmi, anche se non molto aggiornato e senza l’autorouting. L’area è comunque in gran parte coperta anche dalla normale cartografia europea, con autorouting, anche se non dettagliata. Importanti delle buone carte… di carta. Le ho trovate tutte presso la VEL - Libreria del Viaggiatore, a Sondrio, e si sono dimostrate

precise. Guide Ho usato le guide della Lonely Planet. Ottime: formato comodo, robuste, molte informazioni utili, razionali nello schema e quindi di facile consultazione per trovare quello che serve. Spesso non aggiornate nei prezzi degli alberghi. Cibo Il cibo è economico quasi ovunque; in Turchia kebab, che si trova, nelle diverse varianti, anche oltre; te (chay) quasi ovunque (spesso te lo offrono anche le stazioni di servizio); ortaggi in abbondanza nelle fertili valli della Siria (Apamea); qualche specialità locale. In genere comunque non do molta importanza al cibo: mi basta nutrirmi. Ricordo l’usuale raccomandazione di bere acqua solo se sigillata in bottiglia; le condizioni igieniche lasciano spesso a desiderare e, anche se potreste sopravvivere perfino bevendo l’acqua del Nilo al Cairo, meglio non rischiare. Ed è preferibile nutrirsi di cibi cotti. Abbigliamento Data la varietà di clima, consiglio di vestirsi a strati. Io ho usato sempre magliette a manica corta sintetiche traspiranti, molto pratiche perché non restano bagnate di sudore, si lavano facilmente e si asciugano velocemente (appese la sera in camera, la mattina sono asciutte)… se uno ha voglia di lavarle, naturalmente; per viaggi brevi come questo generalmente non perdo nemmeno tempo a lavarle; basta portare un paio di magliette in più. Poiché era ancora abbastanza freddo (almeno fino alla Turchia), in questo viaggio ho usato il mio fido giubbotto di pelle; buono col freddo (rinforzato eventualmente da un pile sotto), piuttosto caldo dopo la Siria, quando i 30° egiziani e giordani lo hanno messo in difficoltà; nell’afosa valle del Giordano non ho resistito e mi sono tolto per qualche ora il giubbotto, restando a guidare in maniche corte; il rischio era inferiore a quello di svenire per il caldo. Ho usato il solito casco jet con visiera lunga, jeans, stivali (in pelle e goretex), guanti (li ho utilizzati tutti, vista l’escursione termica: estivi traforati, in pelle da mezza stagione, invernali). I jeans, lo ammetto,

non sono abbastanza protettivi (in caso di caduta la loro resistenza all’abrasione è bassissima), ma non ho ancora trovato un altro tipo di pantaloni che riesca a sopportare quando fa caldo. Quando piove indosso sopra i jeans un antipioggia traspirante; sopra il giubbotto non serve nulla perché l’acqua non passa e, anche se la pelle si impregna d’acqua, dopo un po’ si asciuga. È importante indossare sempre anche i guanti e gli stivali (oltre ovviamente al casco), anche se fa caldo: in caso di caduta, mani e piedi sono i più esposti. Acquisti Cerco di ridurli al minimo, sia per me che per chi resta a casa. Interessanti i pugnali beduini (Palmyra) e altri oggetti di artigianato locale (Wadi Rum), il grande mercato di Damasco (dove si trova di tutto); presso le piramidi sarete assillati dai venditori: non date loro spago o non ve li toglierete più di dosso. Sicurezza Non mi sono mai sentito in pericolo. Ovviamente valgono le normali misure di sicurezza (un posto sicuro per la notte, evitare di guidare al buio, non esibire denaro o gioielli), ma l’impressione che ho avuto è di luoghi con un tasso di criminalità inferiore al nostro e dove lo straniero è rispettato. Nessun abuso da parte della polizia, nessuna richiesta di mance sulla strada. Qualche mancia per sveltire qualche pratica doganale, ma non richieste assillanti né esose.

12. Tabelle Tabella di marcia

Riepilogo e consumi benzina Il consumo di benzina è stato pari al consumo medio della mia moto, cioè circa 14 km/l (oscillando tra 11 e 20). In autostrada ho tenuto i 130 km/h (o i 127, il massimo raggiunto dal cruise control della moto); sulle extraurbane, velocità entro i 90 km/h. Prezzi bassi: € 0,249 al litro in Egitto (la benzina più economica trovata nei miei viaggi); molto bassi anche in Giordania, Siria e Libano; solo in Turchia (€ 1,781) più cari che in Italia (€ 1,375).

Pernottamenti: punti gps Ecco le coordinate dei pernottamenti. Tutti alberghi, tranne un bivacco nel porto di Aqaba, un campeggio nel Wadi Rum e un’abitazione privata ad Apamea.

Valute locali Queste sono le valute degli Stati attraversati. Il valore (al 24.2.2010) è quello ufficiale poco prima della partenza. Al primo rigo ho inserito il valore del dollaro, usato in alcune occasioni.

Spese Questo è il riepilogo delle spese. Alcune spese sono state effettuate prima del viaggio (visti, Carnet, carte stradali, guide), altre

durante. Non ho inserito il costo della manutenzione della moto, perché è difficile stabilire se un pezzo si è usurato in seguito al viaggio o lo era (magari parzialmente) già da prima. La manutenzione della moto, in base alla mia esperienza (12 anni e 630.000 km con questa moto), avendo sempre segnato tutte le spese, posso calcolare che mi costa mediamente quasi 10 centesimi per ogni chilometro; quindi i 12.528 km del viaggio dovrebbero essermi costati circa € 1.250. Non ho inserito nemmeno il costo del Carnet, perché lo avevo già dal viaggio precedente, né la riparazione della moto ad Aqaba, perché non legata strettamente al viaggio. Non sono inserite le spese per i souvenir, né per documenti non legati esclusivamente al viaggio (passaporto, patente internazionale).

Cartine e guide

Nel viaggio ho utilizzato 7 carte stradali e 5 guide (la Turchia l’avevo già).

SMS quotidiani Questo viaggio è stato seguito “in diretta” da molti motociclisti, attraverso il forum di Mototurismo (e altri forum). Ho utilizzato un servizio (gratuito) presente su internet (youposition.it), che permette, inviando semplicemente un sms con un cellulare dotato di gps, di comunicare la propria posizione e dare notizie sul viaggio. Considero gli sms che ho inviato durante il viaggio una documentazione preziosa, perché “in diretta”, senza nessuna mediazione o ripensamento. Riporto qui di seguito (in ordine cronologico) tutti i miei sms, indicando per ognuno giorno e ora. 1, h 6.49

Partito alle 6.25.

1, h 16.58

Ho incontrato il mio grande amico motociclista Giannipiuma (e Piumadaquila) con cui sto percorrendo 45 km fino in Slovenia. 1, h 20.27

Arrivato al motel a est di Zagabria, km 1389. Temperatura da 15 a 3 gradi, tempo variabile, da sole a poca pioggia in Italia. Domani dovrei arrivare in Turchia. 2, h 13.44

Sosta pranzo presso Nis, fatti 590 km, altri 470 per la Turchia entro stasera. 2, h 18.21

Mi sono fermato per la notte in un motel presso Plovdin. Dopo 900 km. Preferisco non fare oggi i 170 km programmati che mancano fino alla frontiera turca, per la pioggia che ora rende pericolosa la strada col buio. Da adesso sono un’ora avanti. Fron tiere passate veloci, senza nemmeno scendere dalla moto. Molta pioggia, ma non sempre. Temp. 5/13. 3, h 12.36

Sono in Asia! Sosta pranzo tra Istanbul e Ankara, fatti 500 km, prevedo altri 500 entro stasera. 3, h 17.18 Fermato in hotel poco a sud di Ankara, sul lago; non ho proseguito per il buio imminente, poiché qui l’autostrada sperata ancora non è aperta. Oggi 923 km in 11 ore, Finalmente niente pioggia, anzi

spesso sole, ma 2 sottozero sull’altopiano anatolico a nord di Ankara, m 1550. Domani partenza all’alba verso la Siria. 4, h 12.50 Sono presso Adana, sud Turchia: finalmente 20 gradi, stamattina erano 0 sull’altopiano dell’Anatolia. Fatti 445 km, adesso circa 300 per la Siria entro stasera. 4, h 17.48 Albergo a Idlim, la prima città entrato in Siria. Oggi 720 km, spesso sole, temp. da 0 a 20. Dogana abbastanza veloce, tasse 38 dollari. Siriani molto gentili, nessuna perquisizione. Domani spero di ar rivare ad Aqaba, oggi ho recuperato parte del ritardo, ma mi sono fermato poiché il sole era tramontato. 5, h 13 Sono in Giordania, fatti 450 km, ancora 400 per Aqaba, spero. Nuvoloso, spesso sole. 184 12. Tabelle 5, h 19.24 Sono ad Aqaba! 864 km in 13 ore, partito alle 6 arrivato alle 19; temp. da 10 a 30. Ma la nave non parte il sabato, cioè domani! Allora ho fatto il biglietto per la nave che parte questa mezzanotte, la nave lenta (3 ore). Sono un po’ stanco, ora mangio qualcosa. 6, h 6.13 Sono ancora ad Aqaba, perché la nave di mezzanotte è arrivata in ritardo. Spero che l’imbarco cominci tra poco. È vero che la Libia ha riaperto le frontiere l’altro ieri? 6, h 15.12 Arrivato a Nuweiba alle 14.50, ho quasi finito col girone dantesco della burocrazia egiziana. Ora vado verso il nord Sinai e, domani, le piramidi. 6, h 18.02 Sono in un albergo-residence con bungalow sul Mar Rosso tra Nuweiba e Taba (Taba troppo cara), domani piramidi, costa bella ma troppo turistica. Temp. 25/29, sole. Oggi solo 100 km. 7, h 10.13 Ho superato il canale di Suez, dirigo verso le piramidi. Temp. 30 gradi. 7, h 16.21 Visitate le piramidi di Giza e Saqqara, inizia il ritorno a casa.

7, h 18.38 Arrivato in un albergo su una spiaggia del Mar Rosso, 40 km a sud di Suez. Temp 17/35, sole sempre. Domani monte Sinai. 8, h 11.31 Sosta gelato. Attraversato il canale di Suez, dirigo verso sud lungo la costa, per poi raggiungere il monte Sinai e il mon. di S. Caterina. 33 gradi e sole negli occhi, soffro il caldo. 8, h 15.45 Visitato monastero Santa Caterina sul Sinai, ora vado a Nuweiba. 8, h 18.58 Arrivato a Nuweiba, prese informazioni per il traghetto per domani per Aqaba. Dormo qui a Nuweiba in un bel campeggio di bungalow sulla spiaggia alla stratosferica cifra di… 3 euro. Domani Giordania. Temp. 19/35. 9, h 13.22 Finalmente sto per imbarcarmi. Dogana egiziana allucinante. Arrivo previsto ad Aqaba alle 16 (circa). Dirigerò subito sul Wadi Rum. 185 SMS quotidiani 10, h 0.15 Sono ad Aqaba, in albergo. La moto ha problemi elettrici. Già sulla nave avevo notato che a volte non si spegnevano le luci posteriori. Allo sbarco dalla nave, la moto non partiva (tutto spento e nessun segno di vita). Partito con i cavi della batteria, per qualche km andava, ma poi la batteria andava giù e si spegneva in corsa. Diagnosi del meccanico di Aqaba: alternatore (che però ha solo un mese). Domattina vediamo con questo meccanico. 10, h 11.53 Giro dei meccanici di Aqaba, ognuno dei quali dimostra di saperne meno del precedente. L’alternati va sembra essere tra portare la moto con un camion fino ad Amman, dove forse possono aggiustarla, o in aereo in Italia. Comincio a non sopportare più questo posto, anche col suo caldo asfissiante. 10, h 17.59 Le stelle del Wadi Rum illuminano la mia tenda, ac campato nel deserto. È bellissimo! Il viaggio continua! Riparato moto (spero) con un pezzo cinese del motorino di avviamento, una nuova batteria di

mar ca sconosciuta, 2 fili nastrati che facevano contatto; sono fiducioso che reggerà. Oggi 80 km, partito da Aqaba alle 17. 11, h 12.06 Visitato il Wadi Rum in fuoristrada: bellissimo. Adesso dirigo su Petra. Temp. 30-33. 11, h 16.27 Finita adesso la visita di Petra; stanco, ma ne è valsa certo la pena. Sono davanti al “Tesoro”, mi resta 1 km a piedi per uscire. 11, h 18.07 Che giornata: il Wadi Rum stamattina, Petra il pomeriggio. Petra, a piedi, mi ha stancato, ma entrambi sono bellissimi. Hotel a Petra, domani solita partenza all’alba, alle 6. 12, h 14.08 Sono nel punto più basso della Terra, 400 m sotto il livello del mare: il Mar Morto. Ho appena fatto il bagno dentro il lago: è una sensazione stranissima e divertentissima! Un galleggiamento incredibile! Ora continuo verso nord, ma prima una doccia è necessaria. I soliti 30 gradi. 12, h 19.14 Ho superato il confine giordano, ora sono ai controlli israeliani. Per ora tutto bene. 186 12. Tabelle 12, h 22.03 Fine giornata assurda! Dopo aver passato i controlli giordani, mi sono presentato, alle 20 in punto, ai controlli di Israele. Dopo i primi controlli, mi hanno rispedito indietro perché oggi loro chiudono appunto alle 20. Ho protestato, ma è stato inutile e sono tornato in Giordania, dove la moto (forse nervosa anche lei, oppure perché l’avevo lasciata un po’ con le luci accese) è dovuta ripartire con i cavi batteria. Ennesima beffa, i giordani mi hanno fatto pagare altri 20 dinari (22 euro) perché l’hanno considerata una nuova entrata. Per questa nuova tassa mi sono arrabbiato molto, ma alla fine ho pagato e ho trovato, con gli ultimi dinari, un albergo a pochi km. Do mani la frontiera apre alle 8 e, potete giurarci, sarò il primo. Km 470, temp. 17-32. 13, h 11.38 Sono sul lago di Tiberiade; dirigo verso il Golan. 13, h 20.45

Hotel in Betlemme. Visitato il Golan e Nazaret. 20- 30 gradi. Molto traffico a Gerusalemme, che visiterò domani, con Betlemme. Più tardi mi collego a internet. Km 475. 14, h 11.17 Visitata la chiesa della Natività a Betlemme, e il muro del pianto e il Santo Sepolcro a Gerusalemme. Dirigo verso Gerico e la valle del Giordano, per poi tornare in Giordania. 30 gradi. La moto per ora funziona. 14, h 18.39 Arrivato allo stesso albergo dell’altro ieri, pochi km dopo essere entrato in Giordania (avevo memorizzato la posizione e questa volta ho sfruttato il buio per le formalità di confine). Temp. 23-32. Afosa la valle del Giordano, dove per qualche km ho tolto il giubbotto. Km 202. Domani Siria. Sarei in perfetto programma se non avessi avuto il guasto ad Aqaba. Forse taglio un paio di cose minori in Siria. 15, h 10.16 Entrato in Siria, con qualche timore, perché il doganiere si era accorto del timbro anonimo israeliano sul mio passaporto. A domanda specifica ho negato di essere stato in Palestina. Ora colpo di sonno alle porte di Damasco, mi fermo un po’ e poi visito la città e poi vado a Beirut. 30 gradi. 187 SMS quotidiani 15, h 19.32 Hotel a Beirut, km 300, 2 frontiere, 3 Stati. Un incubo la discesa dalle montagne libanesi verso la capitale, con strada in pendenza ripida e tortuosa, pioggia e asfalto “rigato”. Temp. 14-31. A Damasco sono arrivato con la moto fino alla grande e bellissima moschea degli Omayyadi, percorrendo in moto la lunga strada del suq, unico veicolo a motore: bellissimo. 16, h 10.42 Sono entrato in Siria. I soliti controlli, ma stavolta senza problemi. 20 gradi in Libano, fatto giro in Beirut. 17, h 6.33 Inserito via internet, poiché non riesco a inviare sms: Arrivato in hotel a Palmira. Magnifico l’arrivo a Palmira, dopo 160 km di deserto, con fortissimo vento, a volte laterale, poco prima del tramonto, che ho ammirato dall’alto del castello. Stavolta me la prendo comoda e

l’alba me la perdo, ma solo perché il sito apre alle 8. Solo 13 gradi. Max 21. Km 300 17, h 15.30 Viste le grandi norie (ruote idrauliche) di Hamah, dirigo sull’antica Apamea. 18, h 10.38 Entrato in Turchia, punto su Goreme: se ci riesco, ho recuperato il giorno perso per il guasto Aqaba. Bellissima Apamea, quasi pari a Palmira. Stanotte ho dormito a casa di un siriano. Temp. da 9 a 14. Il telefono funziona. 18, h 17.44 Arrivato in una pensione a Goreme, in Cappadocia (Turchia): magnifica, sono arrivato, come al solito, al tramonto e ho ammirato (semicongelato) le formazioni rocciose alla luce del tramonto. Km 613, temp. -1/20. 19, h 11.43 Visitata Goreme e la Cappadocia, ci ho perso 3 ore ma ne valeva la pena: bellissima! Diretto ad Ankara e Istanbul. Arrivo a casa lunedì 22. 19, h 17.32 Hotel a 175 km da Istanbul. Temp. oggi da -2 a 12, sereno. Confermo arrivo a casa lunedì 22 sera e probabilmente a Materija (Slovenia) dom. sera. Oggi km 526. Sono a 3.000 km esatti da casa. 188 12. Tabelle 20, h 8.58 Rientrato in Europa. 0 gradi alla partenza, ora finalmente il sole scalda un po’. Spero di fare molta strada oggi. 20, h 18.07 Motel in Serbia, oggi km 885, temp. 0/20, sole. Mancano 2050 km a casa, confermo arrivo lunedì pom. sera. Sono a 900 km da Trieste, quindi domani credo che dormirò in Italia, avviserò con sms prima di arrivare in Italia. 21, h 13.02 Prevedo di rientrare in Italia (valico Rijeka-Trieste) verso le 16.30; foto e poi verso sud, probabile notte presso Rimini. 21, h 18.31 Proseguo ancora un po’.

21, h 22.03 Oggi 1340 km dalla Serbia meridionale a Rimini, temp. 5/21, nuvoloso, un po’ di pioggia in Italia, neve e nebbia fitta sulle montagne croate. Domani pranzo a casa. 22, h 15.06 Arrivato a casa, km 719, il viaggio è finito. Totale 12.500 km, 12 Stati, 24 confini, 2900 foto, 7 ore + 8 di filmati, in 22 giorni.

13. Foto e cartina

1 marzo - Lecce: partenza da casa.

5 marzo - Aqaba, attesa al porto di imbarco del traghetto: scarico i dati del percorso sul pc.

6 marzo - Costa del Sinai a sud di Taba: isola del Faraone.

7 marzo - Sinai, golfo di Aqaba: risveglio all’alba a Bir el Suweir (tra Nuweiba e Taba).

7 marzo - Tra le montagne del Sinai.

7 marzo - Deserto del Sinai: beduino sulla sua moto.

7 marzo - Il Cairo: incontro con un poliziotto motociclista egiziano.

7 marzo - Piramide di Cheope.

7 marzo - Sfinge e piramide di Chefren.

7 marzo - Piramide a gradoni di Saqqara.

8 marzo - Alba sull’albergo sul Mar Rosso a sud di Suez.

8 marzo - Sinai: monastero di Santa Caterina (m 1600).

9 marzo - Residence sulla spiaggia di Nuweiba: la mia moto davanti al mio bungalow.

11 marzo - Wadi Rum: sì, non era proprio il caso di proseguire con la mia moto!

11 marzo - Wadi Rum: canyon di Khazali.

11 marzo - Wadi Rum: le dune di sabbia di Al-Hasany.

11 marzo - Wadi Rum: moto e tenda nel deserto.

11 marzo - Wadi Rum: i Sette Pilastri della Saggezza.

11 marzo - Wadi Rum: il ponte di roccia di Burdah (a sinistra). Petra: il “Tesoro” (a destra).

11 marzo - Petra: le Tombe Reali e cammelli in attesa di passeggeri.

12 marzo - Giordania: il Wadi Mujib (lato nord).

14 marzo - Betlemme: il muro che divide i Territori Palestinesi da Israele.

14 marzo - Gerusalemme: quartiere ebraico.

14 marzo - Gerusalemme: Muro Occidentale (Muro del Pianto).

15 marzo - Damasco: interno della Moschea degli Omayyadi.

15 marzo - Damasco: l’uscita del Souq Al-Hamidiyya e l’antica porta del Tempio di Giove.

16 marzo - Siria: il Krak dei Cavalieri.

16 marzo - Palmyra vista dal castello.

16 marzo - Tramonto dal castello di Palmyra.

17 marzo - Palmyra: mezzi di trasporto.

17 marzo - Palmyra: l’arco trionfale all’inizio (est) della via colonnata.

18 marzo - Apamea: 2 km di via colonnata.

19 marzo - Goreme: i Camini delle Fate.

Petra, il Siq: si intravede il “Tesoro”.