Marx e il conflitto. Critica politica e pensiero della rivoluzione
 8865483199, 9788865483190

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© 2020 DeriveApprodi P.zza Regina Margherita 27, 00198 Roma tel 06 85358977 fax 06 97251992 [email protected] www.deriveapprodi.org ISBN 978-88-6548-319-0

Questo libro è il frutto di un seminario sul pensiero di Marx svolto nella primavera del 2019 a Bologna presso la Mediateca «Gateway». Ringrazio quanti hanno partecipato al seminario, animandolo fin dal primo momento e contribuendo, con il loro interesse, alla sua riu­ scita. Grazie alle compagne e ai compagni di «Gateway» per la pas­ sione con cui lo hanno organizzato e per aver reso possibile la realiz­ zazione di questo lavoro. Grazie alla mia famiglia, per la sua vicinanza, e grazie a Lea, fonte inesauribile di gioia. Grazie a Francesco e Marina, per questi lunghi anni di lavoro e di lotta. E grazie ad Alberto, per i suoi consigli che mi hanno consentito di migliorare il testo e per tutto quello che mi ha insegnato su Marx.

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Questo libro è dedicato agli esseri umani sfruttati e diseredati che combattono per la propria libertà.

LA DIFFERENZA MARXIANA

Più di duecento anni dopo la nascita di Marx, il suo pensiero ha conosciuto un destino beffardo. Se nel Novecento interpre­ tazioni e ricerche sul suo conto sono fiorite copiose, la rovino­ sa caduta del «socialismo reale» ha finito per trascinare con sé anche il Moro di Treviri, sul quale l'anatema dei vincitori si è scagliato vendicativo. Dapprima osannato e ovunque citato, Marx è stato poi dileggiato, spesso proprio da chi ne aveva fatto in precedenza il proprio mentore- non perdendo l'occa­ sione di accodarsi ai suoi nemici quando la sconfitta del movi­ mento operaio e delle repubbliche democratiche che in suo nome avevano eretto il socialismo di Stato era conclamata-, poi lentamente dimenticato e quindi consegnato agli archivi di un mondo ormai trascorso. Se non che è accaduto che dagli abissi e dalle tenebre alle quali era stato consegnato Marx è risorto negli anni della re­ cente crisi, quando il neoliberismo trionfante ha mostrato, dopo gli inizi ruggenti della globalizzazione che divorava l'in­ tero globo (oramai privo di limiti, barriere e contropoteri effet­ tivi all'egemonia del capitale), la natura predatoria, violenta e irrazionale dell'accumulazione capitalistica. La caduta del blocco dei Paesi che attorno all'URSS avevano tentato di co­ struire un'alternativa di sistema, in effetti, non consegnava all'umanità ciò che i cantori del nuovo ordine avevano pro­ messo: al posto della libertà si facevano largo nuove forme di 7

sfruttamento; la povertà e la condizione di subalternità di lar­ ghe fette della popolazione mondiale si radicavano sempre più massicciamente; nuove guerre insanguinavano il Medio Oriente, infiammando intere regioni del globo e alimentando il fenomeno del terrorismo; infine, la crisi finanziaria (ed eco­ nomica) investiva direttamente il centro dell'Occidente capi­ talistico, mostrando chiaramente la sua fragilità, rendendo an­ cora più violenti i meccanismi di subordinazione dei lavorato­ ri e gettando anche vasti settori del ceto medio in condizioni di sempre più inquietante pauperizzazione. È parso insomma che di fronte alla crisi del sistema capita­ listico occorresse rispolverare proprio il suo più radicale criti­ co, che con occhio accorto aveva diagnosticato ampiamente i processi di autodistruzione cui il capitale è destinato nello sviluppo della propria valorizzazione e che aveva offerto chiavi di lettura e strumenti interpretativi decisivi per la com­ prensione delle sue dinamiche (e delle sue crisi). Ma il destino di questa riscoperta è, come dicevamo, beffardo. Se resta vero che il pensiero di Marx ha vissuto una rinascita, testimoniata dagli studi e anche dai riconoscimenti più o meno formali che ha raccolto nel mondo accademico e non; se è altrettanto in­ discutibile che questa rinascita ha portato con sé un quasi unanime giudizio lusinghiero sul valore interpretativo della critica marxiana, da più parti valutata come irrinunciabile per capire anche il mondo odierno; resta tuttavia che questa ri­ scoperta è stata spesso accompagnata da semplificazioni, ad­ domesticamenti, esibizioni del pensiero di Marx che sciente­ mente hanno tentato in tutti i modi di tacitarne la complessità. Si sono succedute interpretazioni che hanno voluto leggere Marx di volta in volta come strumento, autore eclettico e asi­ stematico, «classico» depotenziato e privato della sua carica 8

disturbante, inquietante, imbarazzante. In una parola, è stato riscoperto molto volentieri il Marx analista del modo di pro­ duzione capitalistico, quasi mai il Marx «politico», ovvero l'autore che si pone di fronte al capitale per provare a solleci­ tarne l'abbattimento. Questo Marx pacificato, depotenziato e privato del suo «pen­ siero della rivoluzione», è stato mostrato come tale proprio da quanti hanno preteso riscoprirlo. Mettendo in evidenza ogni volta questo o quel «merito» dell'analisi marxiana, questa o quella intuizione, essi hanno finito per occultare il senso com­ plessivo di un'impresa teorica, che resta animata dalla voca­ zione alla trasformazione radicale dell'esistente, ovvero al­ l'abolizione del sistema della proprietà capitalistica. Così l'obiettivo di questo libro è quello di provare a contribuire a «salvare» Marx, se è lecito usare un'espressione un po' enfati­ ca e forse altrettanto pretenziosa, da quel senso comune che ne fa uno dei tanti autori da inserire nel calderone del rina­ scente pensiero critico alla moda. Significativa ci pare, da questo punto di vista, proprio la re­ lazione tra Marx e la critica. Siamo convinti che per restituire Marx all'orizzonte che compete al suo pensiero sia necessario riconsegnarlo alla sua radicalità e alla sua politicità. Ci pare necessario anzitutto sgombrare il campo da sovrapposizioni ed eclettiche «fusioni», cioè sottolineare la specifica configu­ razione rivoluzionaria del pensiero di Marx, e la sua incompa­ tibilità strutturale con quelle forme di pensiero «critico» dalla filosofia della differenza al post-strutturalismo, dal filan­ tropismo umanista alle teorie della decrescita, dalle rinnovate forme di mutualismo alle teorie sulla democrazia radicale che hanno inteso o intavolare con la prospettiva marxiana 9

connessioni di qualche natura, con la sola conseguenza di an­ nacquarne la dirompenza e tacitarne gli esiti esplosivi, oppurl:? addirittura porsi come le espressioni più avanzate dell'opposi­ zione al dominio capitalistico. Lo scopo di questo libro, dunque, non è soltanto quello di fare emergere la politicità del pensiero marxiano (operazione che ci pare sacrosanta, anche se non scontata, contro le risco­ perte «neutrali» del Marx classico del pensiero), ma anche di descriverne l'autonomia e di individuare la sua cifra peculiare, per intendere a pieno la sua diversità dalle-vorremmo dire: la sua inconciliabilità con le -prospettive sedicenti critiche che si impongono nello scenario odierno, le quali spesso non sono altro che riattualizzazioni o riprese di quelle concezioni teori­ che (di ordine filosofico, sociale e politico) che Marx a suo tempo bollò come superate. Si è tentato dunque di tracciare al­ cune linee fondamentali che connotano la specificità del pen­ siero di Marx, ricavandola «per differenza», per «sottrazione», dal pensiero «critico» del suo tempo, e dichiarandola inconci­ liabile con l'orizzonte culturale, con il senso comune, con la visione del mondo che da esso-e dalle sue più svariate riprese odierne - deriva. La comprensione di ogni pensiero radicale, capace di pro­ durre novità e di affacciarsi sul corso della storia con tutto il potere della sua dirompenza -cosa che fu, ne siamo convinti, il pensiero di Marx-, necessita della scoperta, e della messa in evidenza-della messa in rilievo-della sua insopprimibile dif­ ferenza. Spesso il pensiero di Marx è stato letto a partire da ce­ sure 1 . La cesura con la filosofia; la cesura con l'umanismo; la cesura con Hegel; la cesura con Feuerbach, che segna invece 1/ L. Althusser, Per Marx, Editori Riuniti, Roma 1970. 10

un ritorno a Hegel. Tutto ciò è senz'altro rilevante, e ha conse­ gnato alla riflessione su Marx pagine ineludibili. Ma ciò che qui si vuol provare a mettere in evidenza è altro: e cioè il fatto che il suo pensiero opera una costante e sempre rinnovata rot­ tura con le teorie del suo tempo che venivano percepite (tal­ volta perché così si rappresentavano) come critiche. Ci appare significativo il fatto che la prospettiva del mondo intellettuale della sinistra democratica e socialista del suo tempo sia stato il modello negativo da cui Marx partì per elaborare la propria posizione, il sistema di nozioni e concezioni da superare, pena la possibilità stessa di pensare (e agire) criticamente. E questa frenetica negazione non fu- questo ci sembra de­ cisivo - il vezzo di un giovane radicale, che nella polemica sferzante della sua penna intendeva rovesciare una disfida cul­ turale o esistenziale. Il fatto è che agli occhi di Marx l'incom­ patibilità definitiva e totale con il sistema capitalistico, la sua messa in crisi, implicava necessariamente anche la critica delle forme della sua riproduzione materiale e immateriale; dunque anche l'inconciliabilità con quelle forme e quelle atti­ tudini della cultura (della filosofia, in particolare) e della poli­ tica (il riformismo e l'utopismo socialista) che, con buona pace dei propri esponenti, non facevano altro che riproporre la le­ gittimazione di quel sistema che pretendevano di combattere. Proprio il tema della critica diventa, in questo scenario, centrale, e ineludibile, lo snodo decisivo che ci aiuta a scopri­ re la differenza marxiana. Essa è, in ultima analisi, l'esercizio della rottura - una rottura simbolica e materiale - che pone una sfida radicale all'esistente, al dato, al positivo. Se è davve­ ro tale, la critica non può intrattenere con esso alcuna media­ zione ricompositiva, mirando piuttosto alla sua distruzione o­ come nelle forme con le quali Marx impara a familiarizzare11

alla sua Aufhebung, al suo superamento. È questo elemento a determinare la qualità della critica, e a sanzionare la sua effot­ tività: quali che siano le intenzioni, critico è il pensiero che rie­ sce a essere davvero radicale, cioè che riesce, per usare una fe1 ice espressione di Marx, a «cogliere le cose alla loro radice» 2• Non è, dunque, l'autoproclamata criticità di una teoria a esse­ re garanzia della sua potenza, né tantomeno può una pura rap­ presentazione di alterità assicurarne il valore; si tratta, piutto­ sto, della capacità di cogliere l'essenza dei processi e di svela­ re il meccanismo che ne fonda la riproduzione, e di non concentrarsi invece su fattori esogeni, o secondari, o derivati. Cogliere le cose alla radice: scegliere il punto sul quale esercitare la riflessione del pensiero. Intesa dal punto di vista di una pura prospettiva terminologica, in effetti, la critica è precisamente, anzitutto, una scelta. La scelta di separare, divi­ dere, sciogliere un problema per individuarne i punti nodali, i momenti fondativi, e ricomporre la sua complessità nell'eser­ cizio della sua comprensione. È per questo che il rapporto della critica con la crisi non è casuale: solo una critica così concepita conduce alla rottura, alla crisi, la quale a sua volta la genera e con la quale è in rapporto tanto armonioso quanto ineludibile3• Proprio come la teoria lo è con la prassi. In buona sostanza Marx pretese, per sé e per il suo pensiero, la patente della critica, poiché mirava alla trasformazione 2/ K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione (1844], in K. Marx - F. Engels, Opere complete, 50 voli., Editori Riuniti/La Città del Sole, Roma/Napoli 1972 segg. [da ora: MEOC], voi. lii, pp. 190-204, qui p. 197. 3/ R. Koselleck, Crisi. Per un lessico della modernità, ombre corte, Verona 2012. 12

dell'esistente. Ma in cosa, allora, esso è davvero diverso da quello (altrettanto critico, almeno nella sua autorappresenta­ zione) dal quale pretende di separarsi, e del quale pretende di denunciare l'incapacità di cogliere alla radice l'essenziale? Po­ tremmo forse rispondere con una formula che si tratterà di spie­ gare nel corso di questo testo: Marx imputa al pensiero critico (o presunto tale) del suo tempo, al dunque, l'incapacità di pro­ durre, rispetto all'esistente che si pretende di criticare, un con­ flitto decisivo con le strutture che presiedono alla sua riprodu­ zione. Ciò che questo pensiero sedicente critico non riesce a comprendere è che le contraddizioni che innervano il mondo moderno non possono essere ricomposte e armonizzate sul piano discorsivo, che nessuna soluzione è possibile restando nell'alveo dell'organizzazione sociale data e che nessuna dia­ lettica della coscienza può effettivamente trasformare (modifi­ candole) le condizioni che hanno generato la sua alienazione. Non si tratta però, agli occhi di Marx, di una mancanza mo­ rale, o soltanto prognostica. Alla base di questa attitudine è in­ fatti, a suo giudizio, un difetto analitico: l'incapacità di coglie­ re che il mondo storico è di per sé segnato e pervaso dal con­ flitto materiale per la riproduzione della specie, con le conseguenti costellazioni che derivano dalla divisione sociale del lavoro e dalla gerarchizzazione dei rapporti sociali. Inol­ tre, che la stessa società moderna è il prodotto storico della se­ dimentazione di conflitti, e nello specifico della contraddizio­ ne per eccellenza che innerva la riproduzione del genere umano: la lotta tra le classi, quella che gli uomini che lavorano intraprendono contro quelli che detengono i mezzi di produ­ zione per liberarsi dalla loro condizione di subalternità, e quella che questi ultimi conducono per conservare (a scapito dei primi) la loro primazia. 13

Se, dunque, il conflitto - talora latente, talora silente, ma sempre operante nella storia degli uomini - è il motore delle trasformazioni, solo ponendosi all'altezza della sua cruda ma­ terialità è possibile «fare la storia», produrre cioè modificazio­ ni reali dell'esistente. Non si tratta, allora, di edulcorare le contraddizioni nel teatro dello spirito, né di annacquarle nelle forme della mediazione politica, ma di interpretarle, struttu­ rarle e incanalarle nelle forme di un conflitto organizzato. Si misura qui, dunque, lo specifico della critica marxiana, che si differenzia da quella che egli bolla come «critica critica»4, la quale rappresenta per Marx tutto ciò che il suo pensiero non è e non deve essere, tutto ciò che si tratta di rifuggire, che si pre­ senta come il momento originario sul quale edificarsi, sempre, per differenza assoluta, quel modello negativo dal quale esse­ re sempre pronti a separarsi, pena il rifluire nell'alveo dell'ac­ cettazione del positivo. La nostra insistenza sulla «differenza» marxiana, natural­ mente, non pretende di obi iterare la complessità storica della formazione di Marx, la persistenza delle fonti, gli elementi di continuità che lo legano alla filosofia hegeliana e, in generale, alla tradizione precedente5 • Non ci poniamo l'obiettivo-che sarebbe davvero impossibile raggiungere nello spazio che de­ dichiamo a Marx con questo piccolo libro-di tracciare una ri­ costruzione esaustiva del suo pensiero, una discussione dello sviluppo delle sue fasi e delle sue evoluzioni interne. Non siamo neanche in grado, in questa sede, di offrire una soddi­ sfacente rappresentazione della complessità del tessuto teori4/ K. Marx, La sacra famiglia. Critica della critica critica. Contro Bruno Bauer e soci (1844], in MEOC, voi. IV, pp. 3-234. 51 Cfr. in proposito A. Burgio, Strutture e catastrofi. Kant Hege/ Marx, Editori

Riuniti, Roma 2000. 14

co della visione di Marx, che come noto investe la concezione materialistica della storia da un lato e la critica dell'economia politica dall'altro, i due elementi costitutivi, le gambe sulle quali tutto l'apparato teorico marxiano muove6 • E non inten­ diamo tantomeno discutere la filosofia della storia di Marx e i suoi presupposti 7. Si tratterà, piuttosto, di prendere in conside­ razione alcuni snodi ritenuti particolarmente significativi e im­ portanti-senza la pretesa che essi siano esaustivi-e di seguir­ li nella loro impostazione teorica e nel loro sviluppo per pro­ vare a delineare gli elementi fondamenti che connotano la specificità del pensiero di Marx. Partiremo, in questo viaggio, dalla critica marxiana della poli­ tica, che sarà filtrata dalla polemica che il giovane Marx muove contro l'analisi di Bruno Bauer sulla questione ebrai­ ca8 . Per un verso Marx dà forma e contenuto al tema hegeliano della scissione del mondo moderno, ricondotta alla separazio­ ne delle sfere della vita pubblica -la società civile e lo Stato propria dello spirito del tempo. Proprio il rilievo che soltanto in ragione dell'affermazione della statualità si dia, nel suo seno, la società borghese dei liberi proprietari, conduce Marx a sanzionare l'irrilevanza del politico, la sua dimensione eva­ nescente, vuota, secondaria. Siamo alla genesi della conce­ zione materialistica della storia-siamo, se vogliamo, nell'atti­ mo incandescente in cui scocca la scintilla destinata a infiam6/ Per una prima introduzione si veda S. Petrucciani, a cura di, Il pensiero di Karl Marx: filosofia, politica, economia, Carocci, Roma 2018. 7I In proposito A. Burgio, // sogno di una cosa. Per Marx, DeriveApprodi, Roma 2018; C. Galli, Marx eretico, il Mulino, Bologna 2018; É. Balibar, La filosofia di Marx, manifestolibri, Roma 1994. 8/ K. Marx, Sulla questione ebraica [18441, in MEOC, voi. lii, pp. 158-189. 15

mare tutto il successivo pensiero di Marx-, ovvero all'idea che la società civile sia il luogo che determina le dinamiche del mondo storico, e che lo Stato non faccia altro che riprodurne (celandole e cristallizzandole) le contraddizioni. l'attribuzione alla società civile del ruolo di fonte e incuba­ trice di ogni ulteriore sedimentazione istituzionale delle forme di vita diventa in effetti, da quel momento, il tratto distintivo della prospettiva storica marxiana, che lo condurrà a separarsi definitivamente da Bauer, il cui limite - un limite, si badi, che depotenzia in nuce tutta la presunta carica critica del suo pen­ siero, e che questi condivide con buona parte della tradizione politica moderna - è quello di avere obliterato questa priorità e di avere, conseguentemente, scelto la dimensione politica come lo spazio deputato a costruire l'universalità. È chiaro che qui la critica marxiana si separa definitivamente e senza possi­ bilità di riconciliazione con ogni prospettiva che si ponga nel solco dell'autonomia del politico: la quale non è altro, dal punto di vista di Marx (come peraltro ribadì il suo più significa­ tivo esponente novecentesco), che mera teologia politica, tra­ sferimento sul piano storico della gerarchizzazione dottrinaria tra cielo e terra9 • Se larga parte del pensiero critico post-marxista ha recupe­ rato questa istanza teologico-politica, ciò che la lettura del testo marxiano sulla questione ebraica ci restituisce in manie­ ra indubitabile è l'inconciliabilità tra tale prospettiva e quella di Marx. Da questo punto di vista l'insistenza marxiana sulla centralità della società civile ha conseguenze notevoli, che 9/Si vedano, di C. Schmitt, sia Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità [1922] sia// concetto di «politico». Testo del 1932 con una pre­ messa e tre corollari, entrambi in Id., Le categorie del «politico», il Mulino, Bo­ logna 1972, pp. 26-86 e 89-208. 16

solo in apparenza possono apparire ricomponibili nel quadro di una differente sensibilità culturale: in gioco è il fatto che ogni prospettiva politicistica, giuridico-centrica o culturalista viene da Marx inesorabilmente liquidata come inconsistente e, nel migliore dei casi, limitata. Il pensiero che parte da queste dimensioni per attingere l'universalità è, agli occhi di Marx, in­ capace di stare, suo malgrado, dentro lo spazio della critica. Il superamento della prospettiva politico-centrica come momento costitutivo dell' autoconsapevolezza marxiana (come momento genetico della sua prospettiva storico-mate­ rialistica), però, implica un movimento teorico complementa­ re a questo e, in certo senso, logicamente precedente. Se com­ mette l'errore di invertire, teologicamente, i rapporti tra il cielo della politica e la terra della società civile, quantomeno Bauer pensa nel segno della dinamica storica. Almeno concepisce, embrionalmente, il rapporto tra critica e crisi, tra teoria e pras­ si. Ma la filosofia? Essa è, dal punto di vista di Marx, attardata a uno stadio ancora precedente, poiché ingabbiata nel giogo di una teoresi fine a se stessa e autocentrata, che pretende di spie­ gare la propria genesi da sé e dunque di risolvere al proprio in­ terno ogni scissione. È il tema dell'Introduzione del 1844, ma è il tema, ancor più significativamente, dell'Ideologia tedesca e delle Tesi su Feuerbach 10 • Agi i occhi di Marx i I difetto di Feuerbach, dal quale occorre emanciparsi, è quello di concepire la teoria nel suo isolamen­ to dalla prassi, poiché i I pensiero - apparentemente ricondotto da Feuerbach alla sensibilità - è l'alfa e l'omega di tutto, 1 O/ K. Marx, Tesi su Feuerbach [1845] e K. Marx - F. Engels, L'ideologia tede­ sca. Critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuer­ bach, B. Bauer e Stirner e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti [1845461, in MEOC, voi. V, pp. 3-5 e 7-564.

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l'unica cosa davvero degna dell'essere umano, e di contro l'es­ sere sociale è frainteso come mero e immodificabile dato og­ gettivo. Intellettualisticamente, Feuerbach non vede la realtà sociale- il suo rimosso di borghese emancipato dal lavoro- e disprezza con ciò l'uomo che lavora. Alla base di questo corto­ circuito è il fatto che Feuerbach non vede che la realtà è il frut­ to della capacità degli esseri umani di oggettivarsi, di produrre, di creare il mondo nel quale essi vivono e si riproducono. Nella prospettiva di Feuerbach è condensato tutto il limite e tutta l'inconsistenza della «critica critica»: essa è un costrutto irrilevante perché non spiega né l'origine del mondo né quella del pensiero pensante, misticamente elevato a principio di sé. Una filosofia della conservazione, che non vede la storia, che non vede la trasformazione perché non vede le forme concrete dell'oggettivazione umana. Che non vede il lavoro perché lo disprezza, considerando davvero degno dell'umano solo il pensare. Che, infine e conseguentemente, immagina di poter risolvere- intellettualisticamente- le contraddizioni a partire dai moti dell'autocoscienza, non vedendo che le scissioni degli uomini alienati non si possono risolvere con dosi inietta­ te di buona coscienza, ma soltanto con la risoluzione delle contraddizioni sociali che le fondano. Ecco che Marx, tra critica della filosofia e critica della poli­ tica, giunge al punto archimedeo della sua posizione: la sco­ perta del concetto di produzione, ovvero il raggiungimento della consapevolezza che l'essere diviene (principio cardine della dialettica, ereditato proprio da quel pensatore, Hegel, che la «critica critica» pretendeva di avere liquidato), e la sua concretizzazione, cioè la scoperta che produttivo non è il pen­ siero, né tantomeno lo sono la cultura, il diritto, la morale o lo Stato. Produttivo è, anzitutto, l'uomo che lavora, energia pri18

mordiate dal quale ogni cosa deriva. È chiaro che già qui vi è abbastanza per individuare, per differenza, tutte le attitudini del pensiero cosiddetto critico (largamente imperanti anche oggi, spesso proprio in chi alla tradizione marxiana si richia­ ma) che Marx liquida inesorabilmente. La scoperta del concetto di produzione non resta senza ulte­ riori conseguenze sul piano della teoria politica, della critica economica e della teoria dell'organizzazione, che sono altret­ tanti momenti in cui il paradigma marxiano si definisce. Quanto al primo punto, l'indagine che viene compiendo sul funzionamento della formazione sociale capitalistica condu­ ce Marx a individuare il suo cuore nella proprietà privata dei mezzi di produzione. Di conseguenza, è nella loro socializza­ zione che Marx individua la pars construens della sua propo­ sta politica. Ne deriveranno polemiche violentissime contro tutte le prospettive socialiste egemoni del tempo, che Marx li­ quida ogni volta come reazionarie, utopiste o conservatrici 1 1 • Ma la polemica che più di ogni altra appare significativa da questo punto di vista è senz'altro quella contro Pierre-Joseph Proudhon e l'apparente radicalità della sua proposta. Alle spalle della quale vi è, per Marx, niente altro che l'implicita accettazione del sistema capitalistico, la sua funzionale ripro­ duzione e addirittura una estensione (oltre che una legittima­ zione) della proprietà, mascherata da inconsistenti mediazio­ ni mutualistiche e santificata come unica forma possibile anche se ipoteticamente estesa a ciascun individuo - dell'or­ ganizzazione sociale moderna. Con ciò, Proudhon non mette 11/ K. Marx-E Engels, Manifesto del partito comunista (1848], in MEOC, voi. VI, pp. 483-518. 19

in discussione l'esistenza della proprietà, e dunque non esige la fine dello sfruttamento 12• Non è un caso che queste critiche - che pongono al loro centro la scoperta della specifica configurazione della pro­ prietà nella società capitalistica - si edifichino precisamente avendo al centro il concetto di sfruttamento, che Marx elabora a partire dalla sua critica dell'economia politica. Questa disci­ plina condivide con la filosofia e con la scienza politica l'insu­ perabile limite del naturalismo, cioè dell'accettazione del dato positivo. Così la proprietà è assunta a fatto naturale, la di­ mensione dello scambio - apparentemente il cuore stesso della vita economica, in verità sfera secondaria e dipendente dalle logiche della produzione, che la concezione materiali­ stica della storia ha individuato come costituenti - assunta come il luogo nel quale si generano la ricchezza sociale e il va­ lore delle merci. Ne consegue un occultamento delle dinami­ che dello sfruttamento e la loro cristallizzazione. Ma la pro­ prietà non è, come le ingenue (o complici) ricostruzioni del­ l'economia politica suggeriscono, qualcosa di naturale: essa è un dato storico, prodotto determinato dei conflitti sociali di cui è la risultante 13 • Lungo questa direttrice, Marx riapre - non avendola, in ve­ rità, mai chiusa - la sua riflessione sulla politica, che giunge a concepire una specifica concezione della rivoluzione. Questa non è da intendersi come il gesto eclatante - e al dunque alea­ torio - della rottura teatrale, che essa sia materialmente posta 12/ K. Marx, Miseria della filosofia. Risposta alla «Filosofia della miseria» di (1847], ivi, pp. 105-225.

Proudhon

13/ K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in MEOC, voi. lii, pp. 249-376; Id., li Capitale. Critica dell'economia politica. Libro primo: li proces­ so di produzione del capitale, in MEOC, voi. XXXl/1, pp. 787-839. 20

in violente eruzioni momentanee o depositata in un frasario iperbolicamente minaccioso. E non è neanche, all'opposto, l'esclusiva ricerca di punti di appoggio irrilevanti ai fini della trasformazione effettiva della realtà: non si trova dunque nel formalismo democratico, nello sviluppo progressivo dei dirit­ ti politici, nell'inglobamento di fette di popolazione nei mec­ canismi della rappresentanza borghese. Rivoluzionario è quel pensiero che si colloca all'altezza dei risultati della criti­ ca dell'economia politica - che individua cioè nel supera­ mento della proprietà privata dei mezzi di produzione la leva decisiva della trasformazione-e rivoluzionaria è la prassi che struttura il caotico conflitto che abita il mondo storico nelle forme dell'organizzazione finalizzata all'esproprio e alla col­ lettivizzazione (coatta, dittatoriale) dei mezzi di produzione. Solo mediante essa la politica potrà raggiungere il suo vero fine: l'emancipazione umana, la libertà dei singoli di realiz­ zare se stessi 14• Rilevante in questo posizionamento non è lo scontro-esi­ ziale - tra attitudini massimaliste e riformiste: la radicalità della rivoluzione non sta, come detto, nella virulenza della sua eruzione, né nella breve durata della sua esplosione, ma nella capacità della transizione - sulla necessità della lunga durata della quale Marx diventerà via via sempre più consape­ vole-di mordere i gangli vitali del processo storico. Emblema­ tica è, da questo punto di vista, l'insistenza di Marx sulla batta­ glia per la riduzione della giornata lavorativa (per la liberazio­ ne del tempo di lavoro) e per il salario: la lunga via della trasformazione è costellata anche di transizioni lente e di 14/ K. Marx, Critica del programma di Gotha (1875], Edizioni in Lingue Estere, Mosca 1947. 21

posizionamenti graduali, inesorabilmente condizionati dai rapporti di forza 15• Tutto ciò implica, in parte, un ripensamento-o, se si prefe­ risce, una precisazione -dei compiti della politica: se è vero che è illusorio pensare la prassi politica nella sua separatezza dalla materialità della dimensione sociale, è altrettanto vero che la trasformazione rivoluzionaria dell'esistente implica sempre una connessione tra sfera politica e sfera sociale anche nel senso inverso: altrettanto inconcludente del politicismo è il corporativismo sindacale, momento necessario ma non suf­ ficiente delle forme organizzative dei soggetti rivoluzionari. Il pensiero marxiano della rivoluzione, così, si colloca lungo la scia di una precisa teoria del conflitto (la lotta, non la pace è la condizione normale dello sviluppo storico) e di una rinnovata critica della politica, intesa adesso come forma dell'organiz­ zazione della lotta operaia16• Che il pensiero della rivoluzione di Marx e i tentativi stori­ camente determinati di praticarlo siano andati spesso a vuoto, e abbiano prodotto più di una tragedia e più di un fallimento, non significa che sia impedito, oggi, continuare a pensare in questa direzione. Ciò che, in ultima analisi, questo pensiero ci consegna ancora, è la possibilità di non arrendersi all'idea che le uniche prospettive alle quali il pensiero critico debba conse­ gnarsi oggi siano quelle che tutto mettono in discussione fuor­ ché l'essenziale: l'odierna organizzazione dei meccanismi della produzione. Solo nella loro trasformazione e in quella dei rapporti di proprietà, non in altri luoghi che le odierne e 15/ K. Marx, Salario, prezzo e profitto [18651, in MEOC, voi. XX, pp. 99-150. 16/ K. Marx, Indirizzo inaugurale dell'Associazione internazionale degli ope­ rai [1864], in MEOC, voi. XX, pp. 5-13. 22

svariate forme della «critica critica» pretendono di consegnar­ ci (confondendoci), si trovano le possibilità ultime dell'eman­ cipazione degli uomini di tutto il mondo.

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I. CRITICA DELLA POLITICA

Marx a Berlino Fin da subito gli interessi di Marx, studente universitario a Ber­ lino, incrociano la filosofia. Di fronte alle domande e ai pro­ blemi suscitati da quella disciplina, e in particolare dal ferven­ te dibattito che infiammava la scuola hegeliana nel mezzo degli anni Trenta dell'Ottocento, lo studio della giurispruden­ za, intrapreso del resto più per assecondare le volontà paterne che per profonda convinzione interiore e radicato interesse, non poteva che rivelarsi, per i I giovane Karl, arido e privo di sti­ moli, e soprattutto incapace di dare risposta alle sue più sentite esigenze intellettuali. «Capii che senza filosofia non si poteva venire a capo di nulla», scrive al padre per giustificare il man­ cato completamento di un' «infelice opera» di filosofia del di­ ritto che aveva cominciato a comporre: e fu così che il percor­ so intrapreso anni prima nel cuore della provincia renana, a Bonn, si concluse nel giro di poco tempo, nonostante il trasfe­ rimento a Berlino fosse stato programmato proprio per dare nuova linfa e vigore allo studio delle discipline giuridiche, rap­ presentate nella capitale prussiana dai nomi illustri di Eduard Gans e di Friedrich Cari van Savigny 17• 17/ K. Marx, Lettera al padre, 10-11 novembre 183 7, in MEOC, voi. I, pp. 817, qui p. 11. Sugli anni di Berlino cfr. F. Mehring, Vita di Marx 119181, Editori Riuniti, Roma 1966, pp. 12 segg. 24

Al cospetto di questi mostri sacri del diritto, però, Marx non si impressionò; fu piuttosto la lettura delle opere di Hegel, e in particolare della sua Filosofia del diritto, a scuoterlo e riempire di rinnovati entusiasmi il suo studio. Sarà una scoperta feconda, decisiva, destinata a perdurare e a produrre effetti notevoli nella costruzione della sua prospettiva e nell'edificazione del suo pensiero. Quando approda, nel 1836, sulle rive della Spree, la­ sciandosi alle spalle la sua vita di Bonn, dove si era iscritto alla facoltà di giurisprudenza l'anno precedente, Marx è catapulta­ to in un mondo del tutto nuovo, che apre i suoi orizzonti e li orienta in una direzione del tutto inedita. Decisivo fu, come detto, l'incontro con (la lettura di) Hegel. Ma altrettanto impor­ tante fu l'impatto con quanto dello spirito del filosofo di Stoc­ carda ancora viveva nelle aule e nei caffè di Berlino, sedimenta­ to nell'aspra polemica per la corretta interpretazione del pen­ siero del grande maestro. L'incontro di Marx con la filosofia è l'incontro con il pensiero critico, cioè con la sinistra hegeliana. La consorteria giovane-hegeliana in quegli anni è, assieme, molte cose. In generale, l'idea che unisce i suoi rappresentanti è quella di dare al pensiero di Hegel una configurazione non reattiva, in opposizione alle pretese della destra hegeliana di rinchiudere il sistema in una vuota riedizione in forma secola­ rizzata della teologia. Singolare è tuttavia il fatto- un fatto che risulterà decisivo per gli sviluppi successivi del pensiero di Marx - che i giovani hegeliani, nel tentativo di liberare la filo­ sofia dalla teologia, e di separarsi così dagli esiti cui l'hegeli­ smo era consegnato dalle interpretazioni della destra, finirono per condividere con quest'ultima precisamente l'interpreta­ zione del pensiero hegeliano, che nelle mani di Feuerbach viene equiparato proprio alla teologia 18• Così se Bauer, il gio18/ K. Lowith, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del 25

vane hegeliano al quale in questi primi anni berlinesi Marx sarà legato da grande vicinanza, ancora rivendicava, nel 1841, l'immagine di uno Hegel «ateo» e «anticristo», nelle sue Tesi del 1843 Feuerbach addebitava invece a Hegel proprio la colpa di aver offerto alla teologia l'ultimo rifugio filosofico 19 • Al di là delle diverse interpretazioni del pensiero hegeliano, però, ciò che anima la sinistra hegeliana -e che Marx condivi­ de, a questa altezza, con i suoi esponenti -è il fatto di conside­ rare la filosofia come un'arma da brandire contro la teologia e con la quale rompere la gabbia del pensiero mistico, oltre che per contrastare le derive reazionarie del pensiero politico-giu­ ridico volte a santificare e legittimare la struttura statuale della Prussia antiliberale. La filosofia consegna, agli occhi di questi giovani pensato­ ri, l'impegno della critica, che come una scure deve abbattersi tanto contro i dogmi della religione quanto contro l'illiberalità dello Stato, per dare anche al popolo tedesco quel progresso morale e civile che l'Illuminismo nel secolo precedente aveva dispensato ai vicini francesi. L'incontro di Marx con questi pensatori è la fiamma che accende la sua vocazione al pensie­ ro della trasformazione, ancora non atteggiato in senso comu­ nista o rivoluzionario, ma già indissolubilmente animato dall'esigenza di dare respiro pratico al pensiero e forma filoso­ fica alla critica politica. Non c'è prassi politica senza pensiero filosofico; ma la filosofia (e la critica) sono funzionali alla pro­ duzione di processi di trasformazione radicale dello Stato e secolo XIX

[1941], Einaudi, Torino 1949, pp. 89 segg.

La tromba dell'ultimo giudizio contro Hegel ateo ed anticristo. Un ultimatum [1841], Edizioni Immanenza, Napoli 2014; L. Feuerbach, Tesi provvisorie per una riforma della filosofia [1843), in Id., Principi della filosofia dell'avvenire, Einaudi, Torino 1979.

19/ B. Bauer,

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della società: questo è il programma che anima i giovani hege­ liani e che anche Marx condivide pienamente. Prometeici furori Da un lato, centrale è la polemica ideologica. Di essa, la criti­ ca della religione è l'emblema per eccellenza. Così se David Friedrich Strauss aveva dato avvio alla battaglia per la storiciz­ zazione del cristianesimo, consegnando la figura di Gesù alla sua dimensione carnale e immanente e interpretando le scrit­ ture come miti, e se Bauer si era spinto oltre, negando ai van­ geli qualunque verità storica, Feuerbach farà della battaglia contro l'alienazione religiosa il fulcro della sua opera20• L'idea che lega queste critiche è quella di un ribaltamento di senso dello schema logico della teologia, funzionale a rimet­ tere le cose al loro posto. Il ruolo del pensiero è quello di un principio ordinatore: esso è lo strumento che conferisce nuo­ vamente senso alle gerarchie e alle successioni, capovolte dalla teologia con la finalità di condurre gli esseri umani in posizione di funzionale subalternità. Squarciare le tenebre della mistica teologica, conferire al pensiero la sua logica stringente, smascherare i giochi di prestigio dell'ideologia: è questo il senso primario che viene attribuito alla filosofia da questo pensiero critico. Si tratta di una filosofia della verità e per la verità, una verità da guadagnare non soltanto perché essa è dotata di un valore intrinseco, ma anche perché solo possedendola è possibile 20/ D.F. Strauss, Vita di Gesù (1835], Rubbettino, Soveria Mannelli 2009; B. Bauer, Kritik der evangelischen Ceschichte der Synoptiker, Wigand, leipzig 1841; L. Feuerbach, L'essenza del cristianesimo (1841 ], laterza, Roma-Bari 2012.

inscenare una pratica della liberazione. L'emancipazione dell'umanità dalle gabbie dell'oppressione è intanto possibile se essa pratica una concreta autoliberazione dagli idoli. Nel solco di questo rinnovato razionalismo umanista e illuminista, i giovani hegeliani individuano nella religione e nei suoi dogmi, dunque, non soltanto una forma di falsificazione (e in­ versione) dei rapporti tra storia e teoria, coscienza e oggettivi­ tà, soggetto e predicato, ma anche la più efficace forma di de­ trimento e mortificazione della soggettività umana per opera di costrutti irrazionali, la cui funzione è quella di tenere in vita forme sempre nuove di subalternità e di rinnovare così la con­ dizione di minorità cui l'umanità è consegnata dalla fede. È dalla capacità dell'autocoscienza di sciogliere i nodi che an­ cora tengono legata la verità che dipende la possibilità del­ l'umanità di consegnare le sue sorti a un destino di progresso e liberazione21• Alla filosofia come sapere critico è dunque attribuito anzi­ tutto il compito della ricerca della verità, che destituisce di fondamento le pretese della teologia e riconsegna all'autoco­ scienza umana il suo ruolo fondativo e costituente la libertà. È questa potente connessione tra verità e liberazione che Marx acquisisce con forza dalla filosofia giovane hegeliana e che puntella tutto il suo percorso degli anni berlinesi, significativa­ mente esibita, in note pagine della sua dissertazione di laurea (che Marx presenterà nel 1841 a Jena, essendosi nel frattempo convinto che a Berlino sarebbe stata accolta con ostilità dai rappresentanti della cultura ufficiale), nella forma di una atavi­ ca potenza prometeica. 21 I Cfr. Helmuth Reinalter, a cura di, Die /unghegelianer: Aufklarung, Literatur, Religionskritik und politisches Denken, Lang, Frankfurt am Main 201 O.

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La filosofia, finché una goccia di sangue pulserà ancora nel suo cuore assolutamente libero, dominatore del mondo, griderà sempre ai suoi avversari, insieme a Epicuro: «empio non è chi nega gli dei del volgo, ma chi le opinioni del volgo applica agli dei». La filosofia non fa miste­ ro di ciò. La dichiarazione di Prometeo: «detto francamente, io odio tutti gli dei» è la sua propria dichiarazione, la sua propria sentenza contro tutti gli dei celesti e terreni che non riconoscono come suprema divinità l'autocoscienza umana. [ ...) Quanto poi alle tristi lepri mar­ zoline, che gioiscono per !'apparentemente peggiorata condizione ci­ vile della filosofia, essa torna a rispondere loro ciò che Prometeo ri­ spondeva al servo degli dei Ermes: «La mia sventura con la tua servitù io, sappilo, non la cambierei. Preferibile infatti mi sembra esser schia­ vo di questa rupe, che fungere da fedele nunzio del padre Zeus». Pro­ meteo è il più grande santo e martire del calendario filosofica22 •

Dall'altro lato, accanto a questa lotta filosofica un posto di ri­ lievo assume la battaglia politica. La polemica della critica per la liberazione dagli idoli è legata senza soluzione di continuità all'intervento militante per la riforma dello Stato prussiano. Si tratta di un intervento la cui urgenza i giovani hegeliani berli­ nesi comprenderanno progressivamente, anche a causa del rinsaldato e feroce attacco ricevuto dalla repressione. Ed è un impegno che Marx matura anche grazie a un altro incontro de­ cisivo: quello con Arnold Ruge. Più anziano di Marx di tre lustri, Ruge aveva già scontato sei anni di galera per la sua militanza politica. Tornato in liber­ tà e stabilitosi nella cittadina di Halle, aveva fondato, nel 1838, gli «Annali di Halle» (in collaborazione con Theodor Echtermeyer), una rivista che ben presto accolse i contributi di 22/ K. Marx, Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epi­ curo [1841 ], in MEOC, voi. I, pp. 19-103, qui pp. 24-25. 29

molti intellettuali giovani hegeliani. Vi scrivono Strauss, Bauer, ma anche Michail Bakunin e Max Stirner, oltre a Marx ed En­ gels. In poco tempo le pagine degli «Annali» attirano le atten­ zioni della censura prussiana, che nel 1841 ne vieta la stampa, costringendo Ruge a trasferire la pubblicazione dei ribattezza­ ti «Annali tedeschi» nella vicina Sassonia, a Dresda. Anche qui, tuttavia, la censura ben presto stende i suoi tentacoli, e gli «Annali» sono costretti a chiudere nel 1843. Ruge emigrerà a Parigi e l'anno dopo fonderà là con Marx gli «Annali franco-te­ deschi», che però vedranno l'uscita di un solo (ancorché fon­ damentale) numero. La critica politica diventa così un'esigenza fondamentale dei giovani hegeliani (e di Marx), l'altra gamba sulla quale il pensiero critico cammina per compiere il suo percorso di veri­ tà e liberazione. Essa è complementare alla critica della reli­ gione, sua naturale prosecuzione. Critica dell'ideologia e criti­ ca della politica diventano, agli occhi di Marx - e dei critici della sinistra-, i grimaldelli da impiegare per aprire le fortezze del potere (pastorale e politico) e affrancare - nel segno del­ I'eredità prometeica- gli uomini dalla pestilenziale diffusione della menzogna teologico-politica, perpetrata ovunque dai suoi servili rappresentanti. Un binomio che il giovane Marx ha limpidamente scolpito nella mente, e che resterà la sua stella cometa per gli anni a venire, se ancora nel 1843, ancorché di­ silluso sulle possibilità del mondo tedesco di giungere al rin­ novamento e oramai pronto a lasciare la Germania per recarsi a Parigi, consegna a Ruge queste (ormai celebri) parole: Come la religione è l'indice delle battaglie teoretiche degli uomini, lo Stato politico lo è delle loro lotte pratiche [... ). Il critico dunque non soltanto può, ma deve affrontare queste questioni poiitiche. [ ... ) Il no30

stro motto sarà: riforma della coscienza, non mediante dogmi, bensì mediante l'analisi della coscienza mistica oscura a sé stessa, sia che si presenti in modo religioso, sia in modo politico. Si vedrà allora come da tempo il mondo possieda il sogno di una cosa, di cui non ha che da possedere la coscienza, per possederla realmente2 3 • Ritorno sul Reno

Dopo aver conseguito la laurea a Jena, Marx si tuffa a tempo pieno nella polemica politico-giornalistica, che lo conduce nuovamente in Renania, dapprima a Bonn e poi a Colonia, quando diventa collaboratore prima e redattore capo poi della «Gazzetta renana», giornale di orientamento democratico-li­ berale che raccoglie in breve tempo attorno a sé le posizioni di opposizione della borghesia regionale all'autoritarismo gover­ nativo. In effetti il ritorno a Ovest dopo gli anni di Berlino era dovuto a un progressivo inferocirsi della censura, che aveva lentamente indotto Marx a desistere dai suoi propositi di car­ riera accademica, a maggior ragione dopo la radiazione dall'Università di Bauer, dapprima allontanato da Berlino e poi respinto anche dall'Ateneo di Bonn. Del resto, la vecchia e salda amicizia che lo legava al grup­ po dei berlinesi cominciò presto a vacillare. Questi andavano radicalizzando, almeno a parole, le loro posizioni antiliberali, trasformandosi in una associazione di «Liberi», capitanati da Bauer ed Eduard Meyen, la cui attività si risolse in una este­ nuante e feroce polemica contro l'opposizione liberale, rea ai loro occhi di non perseguire in maniera sufficientemente radi­ cale la lotta alla monarchia. Dal canto suo Marx fu indotto dal mutato contesto nel quale si trovò a maturare un'attitudine alla 23/ K. Marx, Lettera a Ruge, settembre 1843, in MEOC, voi. lii, pp. 153-57. 31

battaglia politica meno astratta, più attenta a misurare con rea­ lismo le condizioni materiali e il quadro di riferimento. L'op­ posizione radicale e, al dunque, aleatoria alla monarchia prus­ siana praticata dai giovani berlinesi, del tutto indifferenti al problema dell'efficacia e della concretezza della lotta, comin­ ciò ad apparire a Marx irricevibile e in ultima analisi dannosa. Alle prese con la pubblicazione della «Gazzetta», in effetti, Marx si ritrovò a dover fare i conti con un controllo poliziesco asfissiante e liberticida, rispetto al quale si rendeva necessario, ai suoi occhi, procedere con cautela, abbandonare i toni più irriverenti della critica, accontentarsi delle piccole concessio­ ni alla libertà di stampa, sfruttare, senza metterli in pericolo con inutili bravate, gli spazi di agibilità concessi dal potere. A partire dal 1842, così, Marx si fa interprete delle rivendicazio­ ni politiche moderate dei borghesi renani, i quali, anche in ra­ gione della felice condizione economica della regione, non chiedevano a Berlino che riforme in senso liberale e ulteriori spinte alla modernizzazione capitalistica. La rottura con i «Liberi» si consumò definitivamente nel 1842, quando Marx si trovò a respingere alcuni articoli che quelli avevano inviato alla «Gazzetta», non esitando a definirli, in una lettera a Ruge, «mucchi di porcherie». Ciò che Marx contesta a quegli scritti è il fatto di essere pieni di parole «prive di pensiero, scritte in stile sciatto, mescolate con un po' di atei­ smo e di comunismo (che i signori non hanno mai studiato)», frutto di una presunta «libertà che si sforza soprattutto "di esse­ re I ibera da ogni pensiero"». Non si sentiva la necessità, proprio mentre bisognava «sopportare da mattina a sera le più tremen­ de angherie della censura» e «le note ministeriali», dei «ragio­ namenti vaghi», delle «frasi altisonanti» e delle «autocontem­ plazioni compiaciute» dei «Liberi»: occorreva invece «tenere il 32

posto in una lotta che non appare in modo visibile al pubblico, ma che non per questo è meno accanita e doverosa», esibire «maggiore determinatezza, maggiore penetrazione nelle situa­ zioni concrete, maggiore conoscenza dei fatti»24 • L'attività del giornale renano, in effetti, subiva attacchi insi­ stenti da parte del potere, a dimostrazione del fatto che molto fondate erano le preoccupazioni di Marx di non fornire alla re­ pressione ulteriori alibi. Se i collaboratori della «Gazzetta» erano sottoposti a sempre più significative restrizioni e più in­ soddisfacenti compromessi, lo stesso Marx, che certo non aveva ancora maturato posizioni rivoluzionarie, fu costretto a una pubblica abiura del comunismo, quando la rivista ricevet­ te il marchio di giornale rosso da parte della concorrente «Gazzetta d'Augusta» a causa di alcuni articoli a sfondo socia­ le che vi erano apparsi. La Rheinische Zeitung, che non può concedere alle idee comuniste, nella loro forma odierna, neppure attualità teoretica, e quindi ancor meno desiderare o ritenere possibile la loro realizzazione pratica, sot­ toporrà queste idee a una critica approfondita. Ma se la «Gazzetta d'Augusta» pretendesse qualcosa più che frasi brillanti, comprende­ rebbe che scritti come quelli di Leroux, Considerant e soprattutto la penetrante opera di Proudhon, non possono essere criticati con estemporanee trovate superficiali, ma solo dopo uno studio lungo, as­ siduo e molto approfondito25 •

A leggere con attenzione queste righe, del resto, emerge in 24/ K. Marx, Lettera a Ruge, 30 novembre 1842, in MEOC, voi. I, pp. 413-415. 25/ K. Marx,// comunismo e la Allgemeine Zeitung di Augusta, «Rheinische Zeitung», 16 ottobre 1842, in MEOC, voi. I, pp. 215-219, qui p. 218. 33

ogni caso la resistenza di Marx a operare una liquidazione de­ finitiva e complessiva delle idee socialiste. L'esigenza del!a critica di farsi pensiero della trasformazione induce già a que­ sta altezza Marx, che come noto più avanti sarà severo e in­ transigente critico delle posizioni proudhoniane, a prestare attenzione, almeno in termini di principio, a quelle dottrine che insistevano sulla necessità della trasformazione della so­ cietà, piuttosto che della riforma dello Stato. Come vedremo, questo è un punto decisivo, che allude a un vero e proprio cambio prospettico della visione marxiana, dal quale derive­ rà una vera e propria rivoluzione copernicana nella definizio­ ne dei rapporti tra riforma politica e rivoluzione sociale e che riordinerà in un nuovo quadro il rapporto tra critica e filosofia. Intanto, le restrizioni continuavano ad abbattersi senza posa sulla «Gazzetta», che verrà chiusa nel marzo del 1843. Marx, oramai frustrato dalla condizione nella quale la sua at­ tività era costretta («per me l'atmosfera era divenuta oppri­ mente. È brutto fare lavori servili, anche se si fanno per la li­ bertà, e combattere con spilli invece che con mazze») e stan­ co dell'infruttuosa lotta di posizione condotta a prezzi troppo alti («mi sono stancato dell'ipocrisia, della stupidità, dell'au­ torità brutale, e nel nostro sottometterci, piegarci, ritirarci, e cavillare sulle parole»), finì per vivere come una liberazione quella conclusione («vedo qui solo una conseguenza, vedo nella soppressione della Rheinische Zeitung un progresso della coscienza politica e perciò mi rassegno») e per ricono­ scere all'asfissiante opera di controllo e sanzione dello Stato prussiano quantomeno il merito di «averlo rimesso in libertà» e avergli con ciò indicato la via da intraprendere: lasciare la Renania («in Germania non posso cominciare più niente. Qui si falsifica se stessi»), abbandonare le mezze misure con34

cesse all'esercizio della libertà nello spazio angusto della monarchia prussiana e raggiungere Ruge a Parigi con l'amata Jenny van Westphalen, la compagna di una vita che Marx avrebbe intanto sposato a Kreuznach nel giugno del 1843 26 • Fu così che dalle sponde del Reno Marx si spinse nel cuore dell'Europa in fermento, per dare vita al progetto degli «Annali franco-tedeschi», ai suoi occhi «un principio, un av­ venimento ricco di conseguenze, un'impresa per cui ci si può entusiasmare»27 • Anche questo progetto, tuttavia, non conob­ be che una scintilla iniziale destinata presto a spegnersi, se è vero - come è vero - che dei nuovi «Annali» venne stampato un solo numero, quello del 1844, sul quale Marx pubblicò la sua Introduzione a Per la critica della filosofia del diritto di Hegel e il suo testo Sulla questione ebraica. Un solo numero, certo: ma di radicale importanza, perché gli scritti consegnati da Marx a quelle pagine contengono la sua prima - forse la più significativa e rivelatrice - svolta. È qui che Marx, per la prima volta, mostra la sua insoddisfazione per quel mondo della critica filosofico-politica che fino ad allora aveva rap­ presentato, seppur con importanti distinzioni, il suo stesso mondo. È qui che si compie la prima cesura teorica, che si tratta ora di mettere a fuoco. Il concetto di politica Il testo al quale ci riferiamo dapprincipio è quello sulla que­ stione ebraica, il quale contiene, come noto, la risposta pole­ mica di Marx a Bauer, che nel 1843 aveva pubblicato due 26

K. Marx, Lettera a Ruge, 25 gennaio 1843, ivi, pp. 416-17.

" K. Marx, Lettera a Ruge, 13 marzo 1843, ivi, pp. 418-420, qui p. 418. 35

testi sull'argomento28• Questa risposta polemica è di enorme importanza non solo e non tanto perché stabilisce in che ter­ mini vada intesa la posizione di Marx - e quella di Bauer - su uno specifico problema (la questione dell'emancipazione ebraica e della sua integrazione nella società tedesca), ma perché dalla sua impostazione emerge un problema teorico più generale e ben più consistente: la concezione marxiana del politico. Procediamo con ordine. Qual è la tesi di Bauer? Sostenito­ re di una ipotesi progressiva e volta a garantire l'integrazione degli ebrei nel seno della società tedesca, Bauer argomenta che l'emancipazione ebraica debba attuarsi grazie all'inter­ vento statale: allo Stato compete, in altri termini, il compito di garantire agli ebrei assoluta libertà di culto (esattamente come questa libertà è garantita ai cristiani). Solo questa libertà reli­ giosa consentirà agli ebrei di diventare a tutti gli effetti cittadi­ ni. Qual è, agli occhi di Marx, il limite di questa posizione? Il fatto che il tipo di emancipazione prospettata da Bauer sareb­ be una emancipazione solo politica, ovvero una liberazione che agirebbe all'interno della sfera della cittadinanza, senza tuttavia incidere sulle condizioni sociali che rendono effettiva la subalternità degli ebrei (e degli altri cittadini) sul terreno delle loro condizioni materiali29• Dobbiamo a questo punto chiederci: come mai Marx, che sinora ha considerato la battaglia politica una gamba - insie­ me a quella della critica dell'ideologia - sulla quale lasciar 28/ Si tratta de La questione ebraica (1842] e La capacità di diventare liberi degli ebrei e dei cristiani di oggi (18431, entrambi ora in B. Bauer- K. Marx, La questione ebraica, manifestolibri, Roma 2004, pp. 41-172. 29/ Sul punto M. Tomba, La Questione ebraica: il problema dell'universalismo politico, in B. Bauer- K. Marx, La questione ebraica, cit., pp. 9-39. 36

Nella sua realtà più immediata, nella società civile, l'uomo è un esse­ re profano. Qui, dove per sé e per gli altri vale come individuo reale, egli è un fenomeno non vero. Viceversa, nello Stato, dove l'uomo vale come ente generico IGattungswesen], egli è il membro immaginario di una sovranità immaginaria, è spogliato della sua reale vita indivi­ duale e riempito di una universalità irreale31 •

La vera emancipazione, allora, non può essere so/o politica: deve essere, anzitutto, sociale, pena la sua capacità di essere reale, concreta, effettiva. Se limitata al piano politico, infatti, la produzione dell'universale lascia sussistere fuori di sé il parti­ colarismo che pretendeva di abolire. Lo Stato politico perfetto è per sua essenza la vita generica IGattungs­ leben] dell'uomo, in opposizione alla sua vita materiale. Tutti i pre­ supposti di questa vita egoistica continuano a sussistere a/ di fuori della sfera dello Stato, nella società civi/e32•

Il punto decisivo è quello dell'universalismo, cioè del conse­ guimento della vita generica. Ci si può anche illudere - con Bauer - che questo si attui sul terreno del politico. Ma un uni­ versalismo così concepito è soltanto astratto- irreale, metafisi­ co - poiché realizzato solo nella dimensione, al dunque ines­ senziale, della cittadinanza. Rilevante è invece quanto accade nella sfera sociale: solo in quella sede può essere raggiunto un universalismo effettivamente tale, cioè concreto. Diversamen­ te, i conflitti illusoriamente risolti nella sfera politica continua­ no a sussistere, in tutta la loro violenza, nella società civile. 31 lvi, pp. 166-67. 32

38

lvi, p. 166.

La contraddizione nella quale si trova l'uomo religioso con l'uomo politico è la medesima contraddizione nella quale si trova il bour· geois con il citoyen, nella quale si trova il membro della società civile con la sua pelle di leone politica. Questo conflitto mondano, al quale infine si riduce la questione ebraica [ ....), la scissione tra lo Stato po· litico e la società civile, questi contrasti mondani Bauer li lascia sussi­ stere, mentre polemizza contro la loro espressione religiosa33 •

Eteronomia del politico

Nell'evidenziare l'inconsistenza di una critica ancorata al­ l'idea che la trasformazione politica sia tutto, Marx mostra che il difetto più rilevante di questa impostazione, la sua assunzio­ ne tacita - che ne inficia dapprincipio l'analisi - è il fatto di non vedere che l'elemento decisivo che investe il mondo mo­ derno è la separazione tra la sfera sociale e quella politica, cioè la loro reciproca autonomizzazione, che impedisce di re­ stare attardati nella vetusta illusione (che fu, in effetti, anche di Hegel) che la dimensione politica contenga in sé, risolvendo­ la, quella sociale, cioè che essa sia la dimensione per eccel­ lenza della trasformazione storica. Si tratta di una illusione che proprio Hegel ha eternato in forma logica nella sua Filosofia del diritto, e dalla quale gli stes­ si critici della sinistra non paiono liberarsi, non esimendosi dall'errore di riproporne il presupposto. Ma si tratta, a ben guardare, di un errore che coinvolge in generale ogni prospet­ tiva politico-centrica, dunque anche quella dei progetti di ri­ forma liberale e anche le prospettive democratiche rivoluzio­ narie (persino quelle di Rousseau e di Robespierre), tutte 33

lvi, p. 167. 39

accomunate dalla considerazione, di certo ereditata dal pas­ sato, della centralità (ed esaustività) della dimensione politica. Ma c'è di più. Non si tratta soltanto del fatto-pur rilevante­ che la modernità è l'epoca in cui sussistono, separate, due sfere. Il fatto è che questa scissione mostra chiaramente, sul terreno ontologico, una gerarchia. Il sociale si autonomizza dal politi­ co, e la società civile moderna, la società borghese, sorgendo (e facendosi autonoma dal politico), a sua volta lo rende a essa su­ balterno. Ecco la rivoluzione copernicana di Marx: non è lo Stato- hegelianamente-che fa la società. È la società che fa il politico, che ne determina, in ultima analisi, la forma. In effetti, Marx qui non parla ancora in termini espliciti della determina­ zione sociale del politico. E tuttavia emblematiche e rilevatrici sono le metafore impiegate per descrivere questo rapporto: come visto, l'individuo che lavora è l'uomo vero (l'uomo «reale»), il cittadino è il vero uomo (l'uomo ideale, I' «ente gene­ rico» che corrisponde, astrattamente, ai canoni che il pensiero universalistico attribuisce all'umanità: il concetto dell'uomo, non la carne degli uomini). E ancora: la società è la terra, laddo­ ve la politica è soltanto il cielo astratto che la sovrasta. Alla società civile lo Stato politico si rapporta nel modo spiritualistico in cui il cielo si rapporta alla terra. Rispetto ad essa si trova nel mede­ simo contrasto, e la vince nel medesimo modo in cui la religione vince la limitatezza del mondo profano, cioè dovendo insieme rico­ noscerla, restaurarla e lasciarsi da essa dominare34 •

Il sociale fonda il politico, e lo domina. Questa gerarchia è es­ senziale. Solo questa dicotomia svela infine, in tutta la sua 34/ K. Marx, Sulla questione ebraica, cit., p. 166. 40

portata, l'errore che accomuna i critici della sinistra hegeliana a Hegel, ma anche larga parte della critica politica del secolo precedente: ritenere che la dimensione politica sia la sfera es­ senziale della vita pubblica, perché o non si coglie la separa­ zione di questa dalla sfera sociale oppure non si vede che, in quanto riflesso secondario della dimensione sociale, il politi­ co non può aspirare a risolvere i conflitti limitandosi a rimuo­ vere le differenze nella sfera della cittadinanza e lasciando in­ tatte le determinazioni della società civile. È qui contenuta, in nuce, la scoperta che la società civile è «il teatro di ogni storia» 35 , terreno ontologicamente primo, au­ tonomo, costitutivamente autofondato, laddove il politico è sempre a essa subordinato e da essa dipendente, anche quan­ do si illude-con Hegel e con la critica politica della sinistra di essere autonomo. Si pone qui, dicevamo, la prima impor­ tante cesura nel percorso di Marx, che segna la differenza spe­ cifica della sua posizione rispetto ai giovani hegeliani, con i quali fino a questo momento aveva condiviso prospettive e concezioni. Si potrebbe dire che questa specificità riposa, in negativo, nella critica - dalla quale Marx non recederà mai, neanche negli sviluppi successivi del suo pensiero-dell'auto­ nomia del politico, la fede nella quale è, ai suoi occhi, effetto diretto del ribaltamento (teologico-politico) tra mondo reale e mondo della rappresentazione. E si fonda invece, in positivo, sulla scoperta dell'autonomia del sociale, del suo ruolo costi­ tuente e primario rispetto a ogni altra successiva determinazio­ ne di carattere politico.

35/ K. Marx, Ideologia tedesca, cit., p. 35. 41

Le illusioni della teologia politica Tutta la riflessione sulla questione politica operata da Marx nasce dalla considerazione, indotta dalla sua critica a Bauer, che la trasformazione politica senza la trasformazione sociale è inefficace. A monte di questa considerazione sta evidente­ mente il fatto che l'organizzazione politica è, tutto sommato, incapace di trasformare a fondo la vita pubblica se la sfera so­ ciale mantiene inalterati i suoi rapporti interni. A conferma di questa tesi, Marx argomenta che se anche la trasformazione dei rapporti sociali fosse indotta politicamente - se la prassi politica, cioè, si ponesse come obiettivo quello di una modifi­ cazione dei rapporti che sussistono esternamente alla sua sfera, e segnatamente in quella sociale-, la dinamicità e l'au­ tonomia della sfera sociale continuerebbero a sussistere. Le contraddizioni immanenti alla sfera sociale, in altri termini, non possono essere, di colpo, annullate artificiosamente da un intervento politico. Esso può modificarle temporaneamente, ma quelle, presto o tardi, sono destinate a riesplodere, fin quando non avranno svolto da sé il loro interno sviluppo. In epoche in cui lo Stato politico in quanto Stato politico viene gene­ rato con violenza dalla società civile, in cui l'auto-liberazione umana tende a compiersi sotto la forma dell'auto-liberazione politica, lo Stato può e deve procedere fino alla soppressione della religione, fino all'annientamento della religione, ma solo così come procede alla soppressione della proprietà privata, ad imporre un massimo, alla confisca, all'imposta progressiva, come procede alla soppressione della vita con la ghigliottina. Nei momenti in cui prevale il suo senti­ mento di sé, la vita politica cerca di soffocare il suo presupposto, la società civile e i suoi elementi, e di costituirsi come la reale e non 42

contraddittoria vita dell'uomo come genere. Essa può questo, nondi­ meno, solo attraverso una violenta contraddizione con le sue proprie condizioni di vita, solo dichiarando permanente la rivoluzione, e il dramma politico finisce perciò altrettanto necessariamente con la re­ staurazione della religione, della proprietà privata, di tutti gli elemen­ ti della società civile, così come la guerra finisce con la pace36 • Ovunque sia trasformata e modificata a partire dal cielo della politica, la terra della società civile persiste, rideterminandosi ogni volta sulla base dei suoi propri elementi. Illusorio è dun­ que pensare non solo che la rivoluzione politica sia dotata di efficacia se dimentica la trasformazione sociale; parimenti il­ lusorio è ritenere altresì che la sfera politica possa, se direzio­ na nei confronti della società civile le sue decisioni sovrane, governarla pienamente e senza alcun residuo. Questo significa almeno due cose. Da un lato Marx pervie­ ne alla conferma rafforzativa della tesi secondo la quale solo le illusioni coltivate dalla teologia politica possono indurre al fraintendimento che la decisione politica possa effettivamente determinare la dimensione reale, materiale, della vita produtti­ va, e finalmente risolverla del tutto, fino a indurne la soppressio­ ne. Quest'ultima resta infatti, in ogni caso, il presupposto della vita politica, la sua base. Le rinnovate versioni novecentesche della teologia politica e dell'autonomia del politico sono, in questo senso, il coerente rovesciamento politico della conce­ zione materialistica della storia, anche quando esse si autorap­ presentano come interne o coerenti con la prospettiva di Marx. Dall'altro lato, però, tutto ciò non vuol dire che dal punto di vista di Marx la sfera politica sia mera parvenza, illusione 36/ K. Marx, Sulla questione ebraica, cit., pp. 168-69. 43

priva di esistenza. È vero, piuttosto, il contrario. Il dato realisti­ co e non idealistico, la potenza viva e operante della politica che riposa nella sua connessione con i I terreno sociale-è ade­ guatamente preso in considerazione, e non solo declamato, proprio quando si prende atto della sua secondarietà e della sua connessione con il suo presupposto. Del resto, è lo stesso Marx a riconoscere che la rivoluzione «solo» politica, in ragio­ ne della quale si è data la configurazione dello Stato moderno, lungi dall'avere rappresentato un mero e irrilevante orpello nel cammino che l'umanità ha compiuto per la sua liberazione, ha in verità rappresentato un orizzonte di trasformazione con­ cretissimo. «L'emancipazione politica è certamente un grande passo in avanti», anche se «non è la forma ultima dell'emanci­ pazione umana in generale»37 • Come va inteso, allora, il passaggio poc'anzi citato? Proba­ bilmente qui Marx sta facendo i conti, per la prima volta, con lo spinoso problema della transizione. Mentre la rivoluzione politica si connota per essere un evento più o meno immedia­ to, le trasformazioni sociali sono processi, dotati di una pro­ pria temporalità. Ciò che Marx pare mettere in evidenza non è l'irrilevanza delle trasformazioni politiche, ma il fatto che que­ ste, per essere efficaci, devono da un lato investire il terreno sociale e, dall'altro, governarne - in maniera permanente, cioè sul lungo periodo-i processi, assecondandone i tempi, e non illudersi che le modificazioni possano diventare operative a colpi di decreti legislativi. Non basta abolire la proprietà per legge; essa prima o poi risorgerebbe, se ci si limitasse a questo: necessario è piuttosto assecondare il processo che conduce al suo effettivo superamento. 37/ lvi, p. 168. 44

Sarà questo, come vedremo nell'ultimo capitolo, un punto dirimente, che condurrà progressivamente Marx a tematizzare esplicitamente il rapporto tra rivoluzione e transizione. Ciò che qui resta da sottolineare è che Marx non intende minima­ mente sostenere l'irrilevanza della politica: alla critica delle il­ lusioni della teologia politica deve corrispondere, infatti, una altrettanto radicale critica di quelle posizioni immediatistiche e corporative che pretendono di risolvere il problema della tra­ sformazione (della rivoluzione) con la liquidazione di ogni forma di organizzazione politica. Se il conflitto resta costituti­ vamente sociale, per essere effettivo deve aspirare, come ve­ dremo, a farsi politico. Ma può farsi politico proprio se e quan­ do il cominciamento della politica è configurato a partire dalla divisione sociale del lavoro (dagli interessi di classe), non inve­ ce dal problema astratto e nebuloso della cittadinanza.

4.5

Il. MISERIE DELLA FILOSOFIA

Critica della filosofia Se Marx matura un ripensamento della centralità della politi­ ca, che negli anni berlinesi era stata invece eletta a momento fondamentale della sua prospettiva, sorte migliore non tocche­ rà alla critica della religione. Anche in questo caso la rottura si consuma sugli «Annali franco-tedeschi», segnatamente nel testo che Marx pubblica insieme a quello sulla questione ebraica, ovvero l'Introduzione a Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Al centro di questo scritto è la polemica contro la filosofia, rea, a giudizio di Marx, di commettere un errore speculare a quello della critica politica: ritenere di potere ri­ solvere nel concetto le scissioni dell'autocoscienza, liberan­ dola così dal giogo della religione e dell'ideologia - proprio come la politica pensava di risolvere nello Stato i conflitti della società. Ma come le contraddizioni sociali continuano a sussi­ stere al di fuori della sfera politica, così le contraddizioni reali continuano a sussistere anche laddove il pensiero ritiene di avere rimosso, nella coscienza, la loro efficacia. Se l'emancipazione solo politica non basta a produrre l'universale, a maggior ragione esso non può essere attinto in sede concettuale. La teoria fine a se stessa non basta. Essa non può risolvere lo stato di alienazione al quale l'individuo mo­ derno è consegnato: questa condizione è materiale, e dunque va risolta sul piano materiale, mediante la prassi. 46

L'arma della critica non può certamente sostituire la critica delle armi, la forza materiale dev'essere abbattuta dalla forza materiale38 •

Se la critica ha avuto il merito di smascherare i meccanismi mediante i quali la religione rende l'uomo subalterno, si tratta ora di liberare concretamente (e non solo teoricamente) le sue energie vitali. Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigerne la felicità reale. L'esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l'esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni. [ ... ) La critica ha strappato dalla catena i fiori im­ maginari, non perché l'uomo porti la catena spoglia e sconfortante, ma affinché egli getti via la catena e colga i fiori vivi39 •

In tal senso non basta, per produrre l'emancipazione tanto cara alla filosofia giovane-hegeliana, denunciare le illusioni della rei igione; queste- e le loro nefaste conseguenze- posso­ no sparire soltanto quando verranno rimosse le condizioni materiali della subalternità. Se, infatti, «la miseria religiosa è insieme l'espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale», il «sospiro della creatura oppressa, il sentimen­ to di un mondo senza cuore», quell' «oppio del popolo» rima­ sto oramai «senza spirito», ne segue che la religione potrà sus­ sistere come «sole illusorio che si muove intorno all'uomo» solo «fino a che questi non si muove intorno a se stesso»40 • 38/ K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hege/. Introduzione, cit.,

p. 197.

39/ lvi, p. 191. 40/ lvi, pp. 190-191. 47

La radicalità della critica deve condurre alla posizione della prassi come unica soluzione per l'emancipazione umana. Essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice. Ma la radice, per l'uomo, è l'uomo stesso. La prova evidente del radicalismo della teoria tedesca, dunque della sua energia pratica, è il suo partire dal deciso superamento positivo della religione. La critica della religio­ ne finisce con la dottrina per cui l'uomo è per l'uomo l'essenza su­ prema, dunque con l'imperativo categorico di rovesciare tutti i rap­ porti nei quali l'uomo è un essere degradato, assoggettato, abbando­ nato, spregevole41 •

Ecco che il risultato conseguente della critica filosofica deve essere il suo superamento, l'abbandono della prospettiva teo­ rica in favore di una risoluta azione pratica. È compito della filosofia, la quale sta al servizio della storia, una volta smascherata la figura sacra dell'autoestraneazione umana, smasche­ rare l'autoestraneazione nelle sue figure profane. La critica del cielo si trasforma così nella critica della terra, la critica della religione nella critica del diritto, la critica della teologia nella critica della politica42 •

Questa critica filosofica di Marx va di fatto intesa, sul piano lo­ gico, come il presupposto della critica della politica presa in considerazione nel capitolo precedente. Dapprima occorre li­ berarsi della pretesa della filosofia di risolvere le contraddizio­ ni materiali nel pensiero. È, questo, il tema portante dell' Intro­ duzione. In secondo luogo, maturata la prospettiva pratica, 41/lvi, pp. 197-8. 42/lvi, p. 191. 48

occorre tuttavia specificarla. Agire solo politicamente sareb­ be, infatti, come limitarsi alla critica, poiché non si opererebbe sul terreno effettivo sul quale l'emancipazione si gioca: quello sociale. Occorre dunque liberare la prassi dalle pastoie della filosofia e, soprattutto, pensare l'emancipazione a partire dalla dimensione sociale. È questo, in buona sostanza, il tema della Questione ebraica. Proprio nell'Introduzione Marx conferisce ulteriore sostan­

za e specificità al tema della critica sociale, dapprima solo ab­ bozzata, in termini teorici di fondo, nel testo anti-baueriano. Alla ricerca dell'effettiva configurazione di una prassi di libe­ razione, infatti, Marx argomenta che la «possibilità positiva dell'emancipazione tedesca» risiede «nella formazione di una classe con catene radicali» che si trovi «in contrasto universale contro tutte le premesse del sistema politico tedesco» e che pertanto «non può emancipare se stessa senza emanciparsi da tutte le rimanenti sfere della società e con ciò stesso emancipa­ re tutte le rimanenti sfere della società»: si tratta della classe dove si consuma «la perdita completa dell'uomo», che «può guadagnare nuovamente se stessa soltanto attraverso il com­ pleto recupero dell'uomo. Questa dissoluzione della società in quanto ceto particolare è il proletariato» 43• Filosofi e proletari

Siamo qui in presenza della prima chiara formulazione da parte di Marx di una teoria della trasformazione connotata anzitutto in termini di critica sociale, prima che politica, oltre che alla esplicita individuazione del proletariato quale sog­ getto della trasformazione. Rilevante è il nesso istituito da 43/ lvi, pp. 202-3. 49

Marx tra l'una e l'altro: il proletariato può trasformare la realtà soltanto perché la moderna costituzione della società civ.ile ne fa il soggetto sociale che non può liberare se stesso senza trasformare alla radice tutti gli assetti della società stessa, pena la sua stessa possibilità di pervenire a quella liberazione totale, quella emancipazione umana (e non solo politica) di cui Marx è alla ricerca. Perché dunque il proletariato, e non altri soggetti sociali? Il proletariato è destinato a essere la classe della trasformazione perché, rivendicando la propria liberazione, non rivendica alcun «diritto particolare», bensì l'emancipazione umana in quanto tale. Esso infatti non subisce una «ingiustizia particola­ re», poiché su di esso viene piuttosto esercitata la «ingiustizia senz'altro»44 • Solo emancipando se stesso il proletariato emanciperà l'intera società, proprio perché solo emancipando l'intera società dai suoi rapporti di dominio il proletariato potrà emancipare se stesso. La liberazione voluta dalla filoso­ fia, dunque, può essere realizzata solo da quella classe sociale che possiede tutti i requisiti materiali per poterla condurre. Se il proletariato resta in vita, manifesta e inequivocabile resterà la plastica incarnazione della negazione di tutto ciò che la filo­ sofia della sinistra hegeliana predica. Ecco il punto: solo la soppressione del proletariato- in quanto negazione dell'uma­ no -potrà davvero realizzare la filosofia. La Germania radicale non può fare la rivoluzione senza compierla dalle radici. !!emancipazione del tedesco è l'emancipazione dell'uo­ mo. La testa di questa emancipazione è la filosofia, il suo cuore è il proletariato. La filosofia non può realizzarsi senza la soppressione del 44/ lvi, p. 202. 50

proletariato, il proletariato non può sopprimersi senza la realizzazio­ ne della filosofia45 •

In considerazione di ciò, la critica marxiana della filosofia non scade in una derisione della valenza pratica, oltre che teorica, di quest'ultima. Non si tratta, cioè, di opporre una pura prassi a una pura teoria, come se il problema fosse la teoria in quanto tale. Se da un lato si rivolge contro le pretese dei teorici puri di risolvere le contraddizioni pratiche nei concetti, infatti, dal­ l'altro lato Marx punta il dito contro l'astrattismo dei pragmati­ sti senza teoria. A ragione, il partito politico pratico in Germania esige la negazione della filosofia. Il suo torto non consiste in tale esigenza, ma nel fermarsi ad essa senza seriamente soddisfarla né poterla soddisfare. Esso crede di compiere quella negazione voltando le spalle alla filosofia e, col capo rivolto altrove, mormorando con disapprovazione contro di essa qualche frase ingiuriosa e banale. [ ... ]Voi pretendete che ci si riallacci a germi reali di vita, ma dimenticate che il reale germe di vita del popo­ lo tedesco fino ad oggi ha germogliato soltanto dentro il suo cervello. In una parola: voi non potete sopprimere la filosofia senza realizzarla46•

L'alternativa teoria-prassi non si risolve, per Marx, in un'infan­ tile condanna della teoria in quanto tale e in una generica esal­ tazione della prassi tout court. Intanto, perché la teoria stessa ha un valore pratico. Se è vero che l'arma della critica non può sostituire la critica delle armi, è altrettanto vero che anche «la teoria diviene una forza materiale non appena si impadronisce 45/ lvi, p. 204. 46/ lvi, p. 196. 51

delle masse». Ed essa si impadronisce delle masse quando smette di essere pura astrazione e si fa concreta, cioè «non.ap­ pena diviene radicale»47 • Qui valgono, per la critica della filosofia, le stesse conside­ razioni prima svolte a proposito della critica della politica. Se la destituzione delle pretese della teologia politica di attribuire centralità assoluta al politico non equivale alla completa rimo­ zione di quest'ultimo, lo stesso discorso vale per la filosofia e, più in generale, per la teoria: la teoria (e la filosofia come pecu­ liare espressione teorica) è di certo, proprio come la politica, incapace di risolvere nel suo ambito le contraddizioni che ren­ dono l'uomo asservito. Cionondimeno, essa è una forza agen­ te della storia, dotata cioè di un valore pratico, proprio laddo­ ve sembrerebbe che essa sia mera apparenza, mero flatus vocis. Proprio come la politica può determinare un significati­ vo passaggio in avanti nel processo di emancipazione (che non può non svolgersi anche politicamente), così la teoria è fondamentale, poiché è essa che fornisce la comprensione della realtà utile alla sua trasformazione. In buona sostanza, mediante l'alleanza tra filosofia e prole­ tariato Marx pensa precisamente alla necessità di un'unione tra teoria e prassi che è indispensabile per realizzare la filosofia (dare corpo all'universale, concretizzandolo) ed estinguere il proletariato. È questo il senso, in ultima analisi, della celebre undicesima tesi su Feuerbach. «I filosofi hanno finora soltanto interpretato il mondo. Si tratta ora di trasformarlo»48 : si tratta di realizzare la filosofia sopprimendo il proletariato e di sopprime­ re (realizzandola) la filosofia conseguendo l'emancipazione 47/ lvi, p. 197. 48/ K. Marx, Tesi su Feuerbach, cit. p. 5.

52

proletaria, e non invece, per richiamare le parole di Marx, «vol­ tare le spalle alla filosofia e, col capo rivolto altrove, mormorare con disapprovazione contro di essa qualche frase ingiuriosa e banale». La «critica critica» Se l'incontro parigino con Ruge è fondamentale per la prima, grande svolta del pensiero di Marx - per il primo movimento che lo separerà irrimediabilmente dal pensiero «critico» del suo tempo-, ben presto Marx si dedica allo studio dell'econo­ mia politica. A Parigi, intanto, un'altra figura si affaccia sulla vita del giovane Karl: quella di Friedrich Engels, al quale sarà legato da una intensa, duratura e profondissima amicizia. Fu proprio Engels, nel momento in cui Marx già delineava il suo interesse per la società civile, a introdurlo allo studio dell'eco­ nomia politica. Sugli «Annali» di Ruge, infatti, Engels aveva pubblicato, sempre nel 1844, i Lineamenti di una critica del­ l'economia politica, in seguito da Marx definiti il «geniale schizzo» che lo aveva indotto allo studio di quella disciplina49 • In effetti Engels, figlio di un ricco industriale, aveva avuto modo di osservare da vicino le forme che veniva assumendo l'organizzazione della fabbrica moderna, e già nel 1844, quando si incontra con Marx a Parigi - scoprendo di avere ma­ turato posizioni straordinariamente simili alle sue su tutti i ter­ reni teorici fondamentali (critica della filosofia, critica della

49/ F. Engels, Lineamenti di una critica dell'economia politica [1844], in MEOC, voi. lii, pp. 454-481. La citazione di Marx è nella Prefazione del 1859 a Per la critica dell'economia politica, in MEOC, voi. XXX, pp. 297-301, qui p. 299. 53

politica, critica sociale)-, aveva trascorso un lungo periodo in Inghilterra, a Manchester, dove aveva potuto studiare da v.ici­ no l'industria inglese50• Nei giorni parigini Marx e Engels, che in seguito, a partire dagli inizi del 1845, dopo l'espulsione di Marx dalla Francia, si ritroveranno a Bruxelles, dove l'evoluzione teorica di Marx conoscerà un'altra grande, produttiva stagione, decidono di dare avvio alla loro collaborazione, che da quel momento non cesserà mai più, lavorando a La sacra famiglia, un testo nel quale i due fanno i conti, definitivamente, con la filosofia gio­ vane-hegeliana. Obiettivo polemico sono gli articoli che i gio­ vani hegeliani pubblicano a partire dal 1843 su un nuovo pe­ riodico, la «Allgemeine Literatur-Zeitung». Il punto di vista marx-engelsiano è quello con il quale abbiamo imparato a fa­ miliarizzare: la critica che si limita alla critica non è davvero tale, poiché solo nella realtà della prassi è contenuta la forza vivente capace di trasformare le cose. In generale, le idee non possono attuare niente. Per l'attuazione delle idee c'è bisogno degli uomini, i quali impiegano una forza pratica51 •

Rivolgendosi a Feuerbach a proposito dei giovani hegeliani, Marx scrive che il carattere di questa Literatur-Zeitung può ridursi a questo: la «criti­ ca» viene trasformata in un'essenza trascendente. Quei berlinesi non ritengono di essere degli uomini che criticano, ma dei critici che, 50/ Frutto di questo studio è, tra l'altro, il lavoro su le condizioni della classe operaia in Inghilterra [1845], in MEOC, voi. IV, pp. 235-514. 51/ K. Marx - F. Engels, la sacra famiglia, cit., p. 133. 54

oltre ad essere dei critici, hanno la sfortuna di essere degli uomini 1... ). Questa critica finisce 1... ) col tramutarsi in uno spiritualismo squalli­ do e pretenzioso. La coscienza o autocoscienza viene considerata come l'unica qualità umana 1 ... ). Questa critica si reputa quindi l'uni­ co elemento attivo della storia. Di fronte ad essa sta l'intera umanità come massa, come massa inerte che ha valore solo nella contrappo­ sizione allo spirito 52 •

Sono qui da notare due cose. La prima è che Marx chiarisce la sua alterità rispetto alla «critica» filosofica. Non si tratta soltan­ to del fatto che la «critica critica» pretende di essere l'alfa e l'omega della realtà, cioè di autorappresentarsi come princi­ pio primo dal quale il mondo dipende. Significativi, infatti, sono anche i presupposti e le conseguenze di questa imposta­ zione. La conseguenza più significativa è il disprezzo per le masse. Tipico è il tic che i teorici della sinistra filosofica mo­ strano a corollario della loro intima convinzione che l'autoco­ scienza è tutto: la massa che non pensa, la massa che non filo­ sofa, è guardata dall'alto con distanza e intesa nella sua esi­ stenza solo in quanto negazione dello spirito. Ne deriva che solo chi pensa è degno di essere uomo, laddove la massa è, in quanto priva di spirito, priva di umanità. Il presupposto di tutto questo è il fatto di non avere mai del tutto digerito la prospetti­ va hegeliana che si pretendeva di avere superato: in effetti, la «critica critica» parte, più o meno consapevolmente, dall'idea che solo l'autocoscienza sia l'espressione della vera realtà, proprio mentre pretendeva di separarsi dall'idealismo. La seconda cosa da notare è che ironicamente Marx sotto­ pone a questo tipo di critica «Bauer e soci» con Feuerbach, 52/ K. Marx, Lettera a Feuerbach, 11 agosto 1844, in MEOC, voi. lii, pp. 38487, qui p. 386. 55

presumendo dunque la filosofia di quest'ultimo del tutto estranea a questi cortocircuiti della «critica critica». Un'iro­ nia del destino, dato che da lì a poco lo stesso Feuerbach esaltato del resto anche nei coevi Manoscritti economico-filo­ sofici come il promotore di una «reale rivoluzione teoretica»53 - dovrà passare per le forche caudine della critica marxiana. Autocoscienze filosofiche

Se a Parigi matura la prima, rivelatrice svolta di Marx, la sua separazione decisiva e irrimediabile dalla sinistra hegeliana, il soggiorno belga è forse ancor più significativo perché qui Marx maturerà definitivamente i germi contenuti nelle sue in­ tuizioni del 1844 e potrà compiere l'ultimo, decisivo passag­ gio che lo emanciperà dalla filosofia «critica»: il distacco da Feuerbach. Per un verso questo distacco non matura sulla base di significativi elementi di novità rispetto a quanto Marx ha già teorizzato, ma solo dalla presa d'atto che neppure Feu­ erbach è immune dalle aporie proprie dei «critici critici»54 • Proprio come Bauer, Feuerbach sarà accusato di astrattismo, di incapacità di concepire il ruolo costitutivo della prassi e di disprezzo per la massa: proprio quel Feuerbach fino a poco prima osannato come liberatore dell'umanità. Ma non è tutto. Se, da un lato, estende a Feuerbach le critiche già riservate agli altri hegeliani di sinistra, dall'altro lato Marx procederà anche su un terreno inedito e finora inesplorato: la critica teo­ rica del materialismo filosofico, che gli consente di scoprire la 53/ K. Marx, Manoscritti economico-filosofici, cit., p. 252. 54/ S. Della"i, Marx, critique de Feuerbach, L'Harmattan, Paris 2011. 56

centralità del lavoro e di forgiare la propria concezione stori­ ca55. Ma procediamo con ordine. La separazione da Feuerbach avviene, a Bruxelles, anzitut­ to in coincidenza con la scoperta che anche per lui vale quan­ to detto a proposito degli altri hegeliani circa la vacuità della loro critica della religione, che pretende una liberazione solo teorica, che non incide sulle cause materiali che determinano l'autoestraniazione. Già nel 1844 Marx aveva scritto: Per la Germania, la critica della religione nell'essenziale è compiuta, e la critica della religione è il presupposto di ogni critica. [ ... ) Il fonda­ mento della critica irreligiosa è: l'uomo fa la religione, e non la reli­ gione l'uomo. Infatti, la religione è la coscienza di sé e il sentimento di sé dell'uomo che non ha ancora conquistato o ha già perduto di nuovo se stesso. Ma l'uomo non è un'entità astratta posta fuori dal mondo. L'uomo è il mondo dell'uomo, lo Stato, la società. Questo Stato, questa società producono la religione, una coscienza capovol­ ta del mondo, poiché essi sono un mondo capovolto56 •

Non esiste un uomo separato dal mondo: l'autoestraniazione religiosa è frutto dei rapporti nei quali l'uomo è costretto. Ciò che i«critici critici» e anche Feuerbach non vedono è che« I'es­ senza umana non possiede una realtà vera», cioè non è qualco­ sa di in sé dato e sostanziale che si alieni in ragione di meccani­ smi autoriferiti (e interni alla coscienza): l'alienazione religiosa è piuttosto conseguente alla concreta mortificazione degli 55/W. Schuffenhauer, Feuerbach und der junge Marx. Zur Entstehungsgeschi­ chte der Marxistischen Weltanschauung, Deutscher Verlag der Wissenschaf­ ten, Berlin 1972. 56/ K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, cit., p.190. 57

individui umani, e dunque «la lotta contro la religione è, me­ diatamente, la lotta contro quel mondo del quale la religione è l'aroma spirituale»57 • Così Feuerbach prende le mosse dall'autoestraneazione religiosa, dalla duplicazione del mondo in un mondo religioso e in un mondo terreno. Il suo lavoro consiste nel risolvere il mondo religioso nella sua base mondana. Ma il fatto che la base mondana si distacchi da se stessa e si costruisca nelle nuvole come un regno fisso e indipendente si può spiegare solo con I' autodissociazione e con I'autocontraddizione di questa base monda­ na. Questa deve pertanto essere tanto compresa nella sua contraddizio­ ne quanto rivoluzionata praticamente. Così, per esempio, dopo che si è scoperto che la famiglia terrena è il segreto della sacra famiglia, è pro­ prio la prima che deve essere dissolta teoricamente e praticamente58 • Feuerbach giudica il mondo teorico il cuore della realtà, e dunque addebita l'alienazione rei igiosa all'errore del I'autoco­ scienza, laddove per Marx, invece, è solo la realtà materiale­ il cuore della vita sociale- che può spiegare il fenomeno reli­ gioso. «La vita sociale», infatti, «è essenzialmente pratica», non teorica. Ne deriva che «tutti i misteri che sviano la teoria verso il misticismo trovano la loro soluzione razionale nell'at­ tività pratica umana e nella comprensione di questa prassi»: ciò spiega anche il misticismo della «critica critica», che fini­ sce per condividere con la teologia che intenderebbe liquida­ re l'incomprensione della prassi, misurandosi sempre e co­ munque unicamente sul terreno del confronto tra teorie59• 57/lvi, p. 190. 58/ K. Marx, Tesi su Feuerbach, cit., p. 4. 59/lvi, p. 5. 58

Il presupposto di questo equivoco è tutto filosofico: scio­ gliendo i nodi che avviluppano la coscienza, liberandola dalle sue false credenze, si accederà immediatamente alla sua libe­ razione. Ecco perché il materialismo di Feuerbach, al dunque, è anch'esso incapace di risolvere il problema radicato del­ l'alienazione proletaria: ciò che esso predica è una aleatoria lotta contro gli idola, incapace di colpire al cuore, sul terreno pratico, l'organizzazione della società borghese. A questo ve­ tusto materialismo, il cui«punto di vista» è«la società borghe­ se», del tutto compatibile con essa e di natura intellettualistica, occorrerà sostituirne uno nuovo, di natura pratica, il cui punto di vista sarà«la società umana, o l'umanità sociale»60• È pur vero che dal punto di vista materialistico di Feuer­ bach non si dà solo il pensiero, ma esistono anche le cose a esso esterne, le cose naturali e oggettive: «Feuerbach vuole og­ getti sensibili realmente distinti dagli oggetti del pensiero». E tuttavia questa oggettività resta, ideai isticamente, del tutto se­ parata dal soggetto e dalla sua purezza, sua evidente negazio­ ne, momento che il soggetto deve superare inglobandolo in sé. Il punto è che l'attività soggettiva è, appunto, tale, e mai può diventare altro dal pensiero che conosce. Feuerbach, in altri termini, «non concepisce l'attività umana stessa come attività oggettiva». Ecco perché nell'Essenza del cristianesimo egli considera come schiettamente umano solo i I modo di procedere teorico, mentre la prassi è concepi­ ta e fissata da lui soltanto nella sua raffigurazione sordidamente giu­ daica. Pertanto, egli non comprende l'importanza dell'attività «rivo­ luzionaria», dell'attività pratico-critica 61 • 60!/bidem.

61/lvi, p. 3. 59

La scoperta del lavoro

Sinora, nulla di nuovo rispetto alla presa di distanza di Marx dalla «critica critica». Dicevamo tuttavia che, nel suo confron­ to con Feuerbach, Marx va oltre il livello di guardia raggiunto nel periodo parigino, per mettere a fuoco una nuova significa­ tiva svolta nel suo pensiero. Essa è visibile se si risponde a que­ sta domanda: perché Feuerbach disprezza la prassi? Da cosa deriva questa atavica disistima dei filosofi per tutto ciò che è pratico-critico? Come mai essi paiono fideisticamente guidati dal presupposto secondo cui solo dalla trasformazione del1'autocoscienza - solo dal fatto del pensiero - possano deriva­ re i processi di liberazione? Potremmo in prima battuta rispondere con una formulazio­ ne un po' lapidaria: Feuerbach disprezza la prassi perché di­ sprezza il lavoro; e disprezza il lavoro perché non lo vede, avendo sempre e solo pensato. Secondo «la dottrina materiali­ stica» di Feuerbach gli uomini sono prodotti «delle circostan­ ze e dall'educazione»; ciò è senz'altro vero, ma questa dottri­ na dimentica di vedere che quelle circostanze che contribui­ scono a modificare e strutturare gli uomini in un determinato modo non sono date in natura: sono esse stesse prodotte dal­ l'uomo. Il materialismo cioè «dimentica che sono proprio gli uomini che modificano le circostanze e che l'educatore stesso deve essere educato» 62• La realtà sociale, di cui l'uomo è pro­ dotto, è a sua volta prodotto, creazione del lavoro umano. Perché Feuerbach non se ne avvede? Da cosa deriva questa incomprensione? I materialisti, in quanto filosofi, non vedono l'altra metà del cielo perché separano «la società in due parti, 62/ lvi, p. 4. 60

una delle quali sta al di sopra dell'altra» 63 : sono cioè esponenti di quella parte della società che pensa, ma non lavora, e dun­ que è convinta-sulla base dell'assolutizzazione della propria condizione -che esiste un mondo dato (chi e come lo abbia prodotto, non compete al pensiero «critico» scoprirlo!) che determina il nostro pensiero. Da questa svista-che dipende, a conferma dell'assunto secondo il quale il pensiero ha origine pratica, da una specifica condizione sociale - deriva tutto il resto: la sufficienza per l'attività che, invece, produce il mondo dal quale nasce il pensiero, l'anatema scagliato contro la prassi e la volgarità della massa che non pensa, la pretesa della primazia del pensiero, l'intellettualistico disprezzo per la società che lavora. Questo nasce insomma dall'incomprensione di un mondo che non si conosce, dall'ignoranza del principio che tutto anima e tutto produce: il lavoro. Siamo al punto nodale. È qui l'origine di tutta l'inconsistenza del materialismo (cioè della fi­ losofia «critica» della sinistra): si tratta del naturalismo che non si rende conto che il mondo, nel quale siamo immersi ogni giorno, che tutti i giorni sta sotto la nostra intuizione sensibile, non è dato per natura o, come vorrebbe una assunzione incon­ sapevole, ancorché mascherata, pseudo-teologica, prodotto da una creazione trascendente, dono che ci viene consegnato già bell'e fatto. Da dove deriva il mondo sul quale pensiamo e che critichiamo? Da dove vengono le cose sulle quali eserci­ tiamo il nostro acume intellettuale? Questo la «critica» -pre­ sunta tale-non vede: che il mondo è anzitutto prodotto dal la­ voro umano, e che senza quel lavoro non esisterebbe.

63/fbidem. 61

Il difetto principale di ogni materialismo fino ad oggi, compreso quello di Feuerbach, è che l'oggetto [Gegenstand), il reale, il sens.ibi­ le è concepito solo sotto la forma dell'obietto [Objekt] o dell'intui­ zione; ma non come attività umana sensibile, come prassi, non sog­ gettivamente64 . li materialismo resta indietro, su questo punto, persino al­

l'idealismo hegeliano, che quantomeno ha concepito l'attività umana come prassi (anche se solo astrattamente, cioè come pensiero produttore e non ancora come lavoro) 65• li mondo, l'oggetto, non è un dato di natura: è il prodotto del lavoro dell'umana specie. Questo Feuerbach non vede. Da questa originaria incomprensione derivano i vizi del suo astrattismo. La critica marxiana della filosofia, a questo punto, si ricon­ figura, assumendo una nuova, significativa veste: non si tratta solo e non si tratta tanto di criticare la teoria che non si traduce in prassi; non siamo di fronte, cioè, a una contrapposizione tra chi pensa e chi fa. li punto rilevante è piuttosto: come si pensa e cosa si fa. La presa di distanza dalla filosofia è, a tutti gli effet­ ti, una critica dell'intellettualismo, cioè di una teoria che men­ tre ambisce a spiegare come funziona il mondo manca di ve­ dere il suo dato costitutivo, che non parte cioè, nella sua (pre­ sunta) critica dell'esistente dal punto di vista del lavoro, che assolutizza la sua libertà dal lavoro pensando che quella sia la condizione umana. Si può pensare bene, e agire male. Nel primo caso, una teoria giusta è più concreta di una prassi sba­ gliata. Nel secondo, una prassi inconsistente e aleatoria è più astratta di una teoria che parte da corretti presupposti. 64/lvi, p. 3. 65/ R. Fineschi, Marx e Hegel. Contributi a una rilettura, Carocci, Roma 2006. 62

L'arcano della produzione

Indagando più da vicino le condizioni materiali, il mondo ca­ povolto che induce l'essere umano a riprodurre fuori di sé la sua propria oggettivata alienazione, si scopre peraltro che ogni volta differenti e sempre mutanti sono i contesti nei quali gli uomini in carne e ossa, gli individui concreti producono la loro alienazione. Non si dà, insomma, un presunto «uomo astratto», non esiste una essenza umana che resta immutata nel corso della storia e che sempre allo stesso modo si discon­ nette da se stessa nella religione: esistono ogni volta individui concreti che si alienano nella religione in specifiche condizio­ ni storicamente determinate e in conseguenza di precisi mec­ canismi che strutturano la loro estraniazione materiale. Feuerbach risolve l'essenza religiosa nell'essenza umana. Ma l'es­ senza umana non è un'astrazione immanente all'individuo singolo. Nella sua realtà, essa è l'insieme dei rapporti sociali. Feuerbach, che non s'addentra nella critica di questa essenza reale, è perciò costret­ to: 1) a fare astrazione dal corso della storia, a fissare il sentimento rei igioso per sé e a presupporre un individuo umano astratto, isolato; 2) per lui, perciò, l'essenza umana può essere concepita solo come genere, come universalità interna, muta, che leghi molti individui natura/mente66 •

Così Feuerbach non si rende conto che il cosiddetto «senti­ mento religioso» è anch'esso un «prodotto sociale» e che «l'individuo astratto, che egli analizza, in realtà appartiene a una determinata forma sociale»67 • Il vizio significativo del ma66/ lvi,

pp. 4-5.

67/ lvi,

p. 5. 63

terialismo che non vede il lavoro è, per contro, quello di non vedere la trasformazione: se, in effetti, tutto ciò che circonda l'uomo che pensa è mera oggettività, ciò che resta incompreso a questa prospettiva è la storia68• Feuerbach non si rende conto che «il mondo sensibile che lo circonda non è una cosa data immediatamente dall'eternità», ma «il prodotto dell'industria e delle condizioni sociali», e non si avvede che «anche gli og­ getti della più semplice "certezza sensibile"» sono dati «dal­ l'industria e dalle relazioni commerciali»69 • Così fin tanto che Feuerbach è materialista, per lui la storia non appare, e fin tanto che prende in considerazione la storia, non è un materiali­ sta70 .

L'indifferenza per la storia è, così, l'ultimo santo sull'altare della filosofia «critica» da profanare, l'ultimo baluardo da ab­ battere per erigere il vero pensiero della trasformazione, quel materialismo «nuovo», perché «storico», che finalmente si colloca all'altezza del punto di vista dell' «umanità sociale». Eccoci, dunque, al traguardo decisivo degli anni di Bruxel­ les: la formulazione della concezione materialistica della sto­ ria, che Marx consegnerà alle pagine dell'Ideologia tedesca 71 • Centrale è il modo in cui gli uomini producono e, così facen68/H.H. Holz, Natura e storia in Marx, in G.M. Cazzaniga-D. Losurdo- L. Si­ chirollo, a cura di, Marx e i suoi critici, QuattroVenti, Urbino 1987, pp. 19S217; C. Luporini, //concetto di storia in Marx, in N. Merker, a cura di, Marx. Un secolo, Editori Riuniti, Roma 1983. 69/ K. Marx, Ideologia tedesca, cit., pp. 24-5. 70/lvi, p. 27. 71/M. Tomba, Strati di tempo. Kart Marx materialista storico, Jaca Book, Mila­ no 2011. 64

do, riproducono se stessi. In questa riproduzione sociale si estrinseca la natura stessa degli uomini e ciò che essi sono. Le varie «forze produttive [Produktivkrafte] », motore materiale di questo processo, sviluppandosi sempre maggiormente gene­ rano stadi sempre successivi della divisione sociale del lavoro. Esse si danno in specifici «rapporti di produzione [Produktion­ sverha/tnissen] », che sono il modo della loro organizzazione, nella misura in cui «corrispondono a un determinato stadio di sviluppo delle loro forze produttive materiali» 72• La concreta organizzazione delle forze produttive in determinati rapporti di produzione definisce uno specifico «modo di produzione [Produktionsweise]». A un punto determinato dell'evoluzione sociale «le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione sussistenti», che da «forme di sviluppo delle forze produttive» si trasformano «in loro catene». Si produce allora «un'epoca di rivoluzione sociale» e di trasformazione 73 • La base produttiva della società si trasforma e con essa i vecchi rapporti di produzione sono spazzati via. Ne subentra­ no nuovi, adeguati allo sviluppo attuale delle nuove forze pro­ duttive. È precisamente questa collisione tra forze produttive e rapporti di produzione il motore dello sviluppo storico: «Se­ condo la nostra concezione, tutte le collisioni della storia hanno pertanto la loro origine nella contraddizione tra le forze di produzione e la forma di relazione» 74• La storia umana va ri­ costruita a partire dall'evoluzione dei modi di produzione e dalla loro successione. Tutto ciò che costituisce la vita politica 72/ K. Marx, Prefazione a Per la critica dell'economia politica, cit., p. 298. 73/ lvi, pp. 289-289. 7 4/ K. Marx - F. Engels, Ideologia tedesca, cit., p. 61. 65

delle nazioni non è indipendente da tale base materiale: va piuttosto compreso a partire da essa. La mia ricerca arrivò alla conclusione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi né per se stessi, né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell'esisten­ za il cui complesso viene abbracciato da Hegel, seguendo l'esempio degli inglesi e dei francesi del secolo XVIII, sotto il termine di «socie­ tà civile» 75 •

La società civile non è solo il fondamento della vita politica e giuridica dello Stato, è anche la base materiale della «produ­ zione delle idee, rappresentazioni, della coscienza», la quale non è mai separata, ma «immediatamente intrecciata nell'atti­ vità materiale e nei rapporti materiali tra gli uomini, linguaggio della vita reale»76 • È la base materiale il vero fondamento della produzione della coscienza, non il contrario. «Non è la co­ scienza che determina la vita, ma la vita che determina la co­ scienza»77 . Allo stesso modo, lo Stato non possiede una pro­ pria indipendenza, ma è lo specchio dei rapporti produttivi della struttura economica, è la forma politica in cui «si riassu­ me l'intera società civile di un'epoca» 78 • La società civile, che Marx definisce come «la forma di relazioni determinata dalle forze produttive esistenti in tutti gli stadi storici finora succedu­ tisi, e che a sua volta le determina», ovvero come l'ambito che 75/ K. Marx, Prefazione a Per la critica de/l'economia politica, cit., p. 298. 76/ K. Marx - F. Engels, Ideologia tedesca, cit., p. 21. 77/ lvi, p. 22. 78/ lvi, p. 76. 66

comprende «la totalità delle relazioni materiali tra gli indivi­ dui all'interno di un determinato stadio di sviluppo delle forze produttive» 79, assume dunque il ruolo della «base reale» che determina ogni sfera della vita sociale, culturale, politica. Miserie della «critica» Proviamo a tirare le somme di quanto visto sinora. L'incontro di Marx con la filosofia è l'incontro di Marx con la sinistra (hege­ liana). Come matura Marx la sua differenza dal mondo che, ori­ ginariamente, fu anche il suo? Per un verso scoprendo la socie­ tà civile, dunque il luogo della produzione, come il fondamen­ to della vita collettiva. Ne deriva una critica della politica, cioè il rifiuto dell'elevazione della cittadinanza a sfera privilegiata della prassi per l'emancipazione. Per altro verso, Marx scopre appunto la prassi, intesa come la modalità di trasformazione dell'esistente, che supera la «critica critica» e la filosofia, ree di interpretare astrattamente il mondo. Il punto non è opporre la prassi (quale che sia) alla teoria (quale che sia). li punto è oppor­ re una teoria esatta a una prassi sbagliata: una prassi errata è ugualmente fuorviante che una teoria pura. Ma le miserie della filosofia vanno oltre questi equivoci, poiché svelano, al dunque, la compatibilità dei vari sistemi post-hegeliani con il mondo che pretenderebbero di trasforma­ re. La miseria di queste filosofie è la loro incomprensione della prassi, il loro disprezzo (piccolo-borghese) per chi lavora, la presunzione della superiorità di chi pensa (retaggio atavico, questo, di una divisione sociale del lavoro che ha dispensato padroni e dominatori dal lavoro, gettandolo integralmente 79

lvi, pp. 35, 74-5.

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sull'altra parte della società). E sono miserie, queste, da cui, come vedremo, neanche le migliori menti operaie e socialiste del tempo - su tutti: Proudhon - sono immuni. Tutte le aporie del pensiero della sinistra filosofica finiranno per ritrovarsi, anche se edificate su altri presupposti e prospettate in altri am­ biti, nel pensiero della sinistra politica, segnatamente negli esponenti delle varie correnti socialiste, con i quali Marx, dopo essere venuto a contatto con loro nel periodo parigino, intende presto fare i conti. Prima di prendere in considerazione questo ulteriore, deci­ sivo capitolo della vicenda teorica marxiana, sarà utile, per il momento, mettere in evidenza tre cose, che più di altre ci pa­ iono utili per focalizzare l'importanza di quanto guadagnato fino a questo momento. In primo luogçi, la mai troppo decla­ mata centralità del momento della produzione. Questa cen­ tralità è strategica, e non si riferisce soltanto alla scolastica ri­ proposizione di una dialettica tra struttura e sovrastruttura, che, come Marx spesso ammonisce a fare- e come speriamo sia stato ampiamente chiarito- non va intesa in termini unidi­ rezionali e meccanici. Davvero importante, in questa prospet­ tiva, non è solo il nesso che Marx istituisce tra società e politi­ ca, società e cultura, società e sapere; decisivo è, più in gene­ rale, il nesso istituito tra produzione e riproduzione sociale, ovvero la gerarchia ontologica che Marx scopre in seno alla stessa formazione sociale borghese. Nella riproduzione della vita, lo scambio è sempre momento successivo e secondario, mai determinante, la vita sociale, malgrado le apparenze di una società nella quale costituente e dotato di valore è invece i I momento riproduttivo e quello del consumo delle merci. Ciò che Marx ci insegna a vedere è che quanto avviene nel mo­ mento dello scambio (nel momento in cui consumiamo il 68

mondo che abbiamo prodotto e, dunque, ci riproduciamo) di­ pende anzitutto dal fatto che il mondo è stato prodotto e, in se­ condo luogo, da come lo è stato. Sarà, questa, un'acquisizione sviluppata in maniera organica solo nella critica dell'econo­ mia politica, ma che sul piano teorico trova già qui la sua fon­ dazione. Autonoma è la produzione: ciò vuol dire, come ve­ dremo, che è in essa che si nasconde l'arcano della creazione del valore del mondo. Successivo è, a dispetto delle apparen­ ze, lo scambio: in esso si consuma solo la distribuzione di quanto è prodotto dalla forza lavoro umana80 • In secondo luogo, Marx scopre che esiste una divisione so­ ciale del lavoro sulla base della quale una parte della società può esercitare la teoria perché è dispensata dalla fatica mate­ riale. L'intellettualismo (il disprezzo per la massa e per la pras­ si) è la conseguente assunzione che il sapere (e più in generale i processi dell'autocoscienza) siano la chiave fondamentale per agire le trasformazioni: nessuna idea più retriva, agli occhi di Marx, e intrisa di presupposti classisti. Ugualmente errata è la visione di quanti assumono la centralità del politico. Si trat­ ta, per Marx, di un errore strategico, che conduce inevitabil­ mente il pensiero critico (o presunto tale) nei vicoli ciechi della riedizione in forme nuove del politicismo81 • Infine: il conflitto è la legge che presiede lo sviluppo stori­ co. Nessun progresso senza crisi, nessun passo in avanti senza lotta. Solo una malintesa «critica critica» può illudersi, agli occhi di Marx, che lo sviluppo dialogico e il confronto teorico 80/ Cfr. F.-J. Albers, Zum Begriff des Produzierens im Denken von Karl Marx, Hain, Meisenheim am Gian 1975. 81/ Si veda in proposito C. Galli, Marx e il pensiero politico. lineamenti di un inquadramento categoriale, in F. Cerrato - G. lmbriano, a cura di, Marxl00, Mucchi, Modena 2018, pp. 181-201. 69

tra le posizioni possano determinare armoniche progressioni: è nel conflitto tra le classi, nel violento e immancabilmente sanguinoso confronto millenario tra sfruttati e sfruttatori, tra chi lavora e produce la ricchezza del mondo e chi ne gode - e sulla base della capacità di ognuna delle parti in causa di orga­ nizzarsi - che si giocano i destini della storia. Questi elementi non ci segnalano soltanto la differenza marxiana rispetto al pensiero «critico» del suo tempo, ma anche la sua alterità rispetto alle forme più o meno mutate nelle quali quel pensiero si reincarna oggi. Se l'opposizione al dominio del capitale diventa mera politica della cittadinanza (inconsapevole della centralità della sfera sociale), lotta redi­ stributiva (affascinata dall'idea che il momento dello scambio sia costituente e che produttive siano le sue figure sociali di ri­ ferimento), battaglia culturale per l'affermazione delle idee che si atteggia in superiore distacco dalla massa (presunta) in­ consapevole, pratica del dialogo tra interessi inconciliabili (che elimina l'organizzazione del conflitto dal suo orizzonte), esso si pone definitivamente al di fuori del riferimento marxia­ no, e dunque si rende incapace di diventare vera alternativa.

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lii. CONTRO IL SOCIALISMO

Marx e il socialismo

Nel periodo parigino, proprio mentre consuma la sua separa­ zione dalla filosofia giovane-hegeliana e conosce Engels, Marx per la prima volta ha la possibilità di dare corso a quel progetto al quale la sua risposta all'accusa di comunismo mossa nel 1842 alla «Gazzetta renana» faceva cenno: studiare con profondità e serietà le dottrine socialiste, che in Francia e a Parigi in particolare - pullulavano. Erano attivi non solo i seguaci di Henri de Saint-Simon, quelli Charles Fourier (in par­ ticolare Vietar Considerant), ma anche la folta schiera di socia­ listi repubblicani e rivoluzionari (i vari Étienne Cabet, Louis Blanc e Auguste Blanqui), oltre a Pierre Leroux e Proudhon. Già in questo periodo, dunque, Marx si dà allo studio di quelle posizioni che avrebbe poi criticato negli anni seguenti. La conoscenza delle teorie socia I iste, del resto, Marx co­ minciò a maturarla, negli anni di Bruxelles, anche sul campo, dal momento che le ricerche effettuate fino a quel momento avevano oramai gettato i presupposti teorici per spingerlo alla prima vera esperienza di militante politico comunista. Se nei primi due anni di permanenza belga si era dedicato soprattutto allo studio e alla scrittura, a partire dal 1847 Marx cominciò ufficialmente la sua militanza nella «Lega dei Giusti», che 71

cambiò nome, con il suo ingresso e quello di Engels, in «Lega dei Comunisti». L'impegno di Marx al suo interno fu totale; con la sua attività tentò di contribuire alla nascita e allo svilup­ po di altre associazioni operaie, oltre alla Lega, e cominciò a tessere rapporti per consolidare il legame tra le varie organiz­ zazioni sparse per l'Europa continentale e l'Inghilterra, le quali gli affidarono l'incarico di riassumere in un testo propa­ gandistico, che sarebbe poi diventato il Manifesto del partito comunista, i principi fondamentali che le univano. Marx fu instancabile agitatore e anche educatore, soprat­ tutto presso I' «Associazione operaia tedesca» di Bruxelles, dove tenne diverse conferenze sul rapporto tra lavoro salariato e capitale e il famoso Discorso sulla questione del libero scam­ bio, testo emblematico non solo perché là veniva trattato un nodo essenziale della teoria marxiana (la posizione da assu­ mere rispetto al liberoscambismo), ma soprattutto perché que­ sto tema era il pretesto per Marx per mostrare con chiarezza il metodo con il quale occorreva trattare politicamente un pro­ blema teorico: tutto ciò che è favorevole alla rivoluzione so­ ciale e ne accelera i tempi, anche se è intenzionalmente prati­ cato per l'interesse borghese (in questo caso, il libero scambio e la lotta al protezionismo), va favorito e sostenuto, anche se solo strumentalmente82• Sarà proprio questa attitudine a guidarlo nell'impostazione della critica che svolge nei confronti delle teorie socia Iiste, che discende direttamente dal modo in cui queste ultime tematiz­ zano la modernizzazione capitalistica: la quale è per Marx da intendere, sul piano politico, come quel complesso - e ambi­ valente - processo le cui dinamiche espansive devono essere 82/ K. Marx, Discorso sulla questione del libero scambio (18481, in MEOC, voi. VI, pp. 469-482.

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accelerate al fine di contribuire il più velocemente possibile al superamento delle ultime parvenze del vecchio mondo pre­ moderno e instradarsi verso una nuova epoca della storia dell'umanità, nella quale il proletariato possa ereditare lo spi­ rito rivoluzionario della borghesia e completare l'opera da quella cominciata83 • Lo sfondo del ragionamento di Marx sul socialismo è la teoria della modernità: per essere politicamente efficaci -per evitare, cioè, gli opposti estremismi dell'utopismo e della rea­ zione nostalgica -occorre comprendere dapprima la natura ambivalente del moderno. Portatrice, per un verso, di dinami­ che progressive e di liberazione, la modernizzazione capitali­ stica è tuttavia, a un tempo, foriera di nuove pratiche dello sfruttamento. Occorre allora comprendere la rivoluzione bor­ ghese in tutta la sua complessità: non basta osannarla come progressiva tout court, non serve disporsi in maniera liquidato­ ria di fronte a essa. li limite teorico più grave-insuperabile, agli occhi di Marx -del socialismo è proprio questo: non comprendere e non sa­ pere maneggiare adeguatamente tale complessità e, quindi, fi­ nire ogni volta per produrre discorsi «critici» ampiamente de­ ficitari, o perché non in grado di scorgere le dinamiche di af­ francamento immanenti al processo storico (dal che deriva l'inesorabile scivolamento nel rimpianto per un passato idea­ lizzato) o perché, al contrario, infantilmente protratti verso un futuro utopisticamente connotato. Si tratta in ogni caso di teo­ rie subalterne al dominio del capitale, di cui finiscono per le­ gittimare l'egemonia, o perché vi si oppongono in maniera del 83/ G.M. Cazzaniga, Funzione e conflitto. Forme e classi nella teoria marxiana dello sviluppo, L iguori, Napo I i 1981 . 73

tutto inefficace o perché pretendono illusoriamente di poter ri­ portare indietro l'orologio della storia84 • li «vero» socialismo

Sulla base di questi assunti, nel Manifesto Marx distingue tre forme di socialismo, ciascuna delle quali viene ritenuta in­ soddisfacente proprio in ragione della sua specifica posizio­ ne rispetto alla modernità. La prima di queste forme è quella del socialismo che Marx definisce «reazionario», proprio per il fatto che la critica del capitalismo che presenta si fonda su presupposti di carattere antimoderno85 • Così ad esempio gli esponenti del «socialismo feudale» rimpiangono l'ordine precapitalistico poiché questo avrebbe prodotto «il proleta­ riato rivoluzionario», creando una classe di ipersfruttati che con la sua organizzazione avrebbe destituito l'ordine bor­ ghese per generare una società anarchica e priva di gerarchie sociali86• Il capitalismo, dunque, avrebbe soltanto accelerato la de­ composizione della società: è questa la colpa vera che questi aristocratici gli imputano, sicché la loro critica è unicamente dovuta al fatto che la rivoluzione moderna ha spazzato via i privilegi di casta della nobiltà agraria. «L'aristocrazia doveva fingere di perdere i propri interessi e formulare il suo atto d'ac­ cusa contro la borghesia unicamente nell'interesse della clas­ se operaia sfruttata», ma faceva ciò al solo scopo di «crearsi 84/ A. Burgio, Modernità del conflitto. Saggio sulla critica marxiana del sociali­ smo, DeriveApprodi, Roma 1999. 85/ K. Marx - F. Engels, Manifesto del partito comunista, cit., pp. 507-8. 86/ lvi, p. 508.

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delle simpatie», cioè «per tirarsi dietro il popolo»8 7• E se in questo modo si atteggiavano i presunti critici del capitalismo borghese- al dunque pronti a scendere a patti con esso pur di mantenere, o recuperare, parte dei privilegi perduti a scapito del proletariato- allo stesso modo si comportavano i socialisti cristiani, che predicavano «anche contro la proprietà privata», opponendovi «beneficenza» e «mendicità», «celibato» e «mortificazione della carne»: ma questo «socialismo sacro» è, agli occhi di Marx, solo «l'acqua santa con la quale il prete be­ nedice il dispetto degli aristocratici»88• Accanto al socialismo feudale - ugualmente reattivo - è per gli estensori del Manifesto il socialismo «piccolo-borghe­ se», il cui rappresentante eminente è Sismondi. In questo caso la critica al capitalismo è mossa a partire dal punto di vista di quelle classi medie - artigiani, piccoli contadini possidenti costantemente «ricacciate nel proletariato per effetto della concorrenza» dallo «sviluppo stesso della grande industria», cioè impoverite e minacciate dallo sviluppo del mercato. In ef­ fetti la critica di Sismondi è, agli occhi di Marx ed Engels, so­ prattutto difesa degli interessi dell'economia patriarcale delle campagne, rappresentata dal «piccolo borghese» e dal «pic­ colo possidente contadino», che vedono «le proprie condizio­ ni di vita paralizzarsi e morire nella moderna società borghe­ se»: «le corporazioni nella manifattura e l'economia patriarca­ le nella agricoltura, queste sono le sue ultime parole»89• Fa parte di questa cordata retrograda anche il cosiddetto «"vero" socialismo», quella congerie di teorie e di concezioni 87/lvi, p. 507. 88/lvi, p. 508. 89/lvi, pp. 508-509. 75

(perlopiù di derivazione filosofica) operanti soprattutto nel mondo tedesco. Marx ha in mente qui, evidentemente, i gio­ vani hegeliani che operano per la traduzione pratica della filo­ sofia, in particolare Moses Hess e Karl Grun («filosofi, semifi­ losofi e begli spiriti tedeschi»), ai quali Marx muove una dop­ pia accusa: da un lato i "veri" socialisti peccano di astrattismo, poiché ritraducono in gergo filosofico quanto i socialisti fran­ cesi avevano prodotto in linguaggio politico («scrissero le loro assurdità filosofiche sotto all'originale francese. Per esempio, sotto la critica francese dei rapporti monetari scrissero "aliena­ zione dell'essenza umana"»)90• Dall'altro, la loro critica della borghesia e del capitalismo in un luogo - la Germania - che non aveva ancora conosciuto un moderno sviluppo dei nuovi rapporti di produzione si poneva in oggettiva posizione reatti­ va, favorendo, contro i liberali, la reazione prussiana: esso «servì ai governi tedeschi assoluti [ ... ]come utile spauracchio contro la borghesia che si levava minacciosa», poiché nella sua critica contro la borghesia il "vero" socialismo dimenticò che «la critica francese, di cui essa non era se non un'eco me­ schina, presupponeva la moderna società borghese con le cor­ rispondenti condizioni materiali di vita e la corrispondente co­ stituzione politica», premesse, queste, «che in Germania biso­ gnava ancora conquistare»91 • li socialismo utopista All'estremo opposto rispetto alla posizione del «vero» sociali­ smo Marx colloca il socialismo utopista proveniente dalle scuole di Fourier, Saint-Simon e Robert Owen. A essi Marx, in 90/lvi, p. 51O. 91/lvi, p. 511. 76

prima battuta, riconosce però un merito importante: quello di avere proposto una riforma della società, fondata sulla denun­ cia delle diseguaglianze e delle storture dello sviluppo capita­ listico. I testi di questi scrittori socialisti sono ricchi di «ele­ menti critici», perché «attaccano tutte le basi della società esi­ stente», oltre a svincolarsi da qualunque nostalgia regressiva, alla quale sostituiscono l'immaginazione di un futuro edifica­ to su basi sociali del tutto nuove. Quanto essi affermano sulla «società futura», ad esempio «l'abolizione del contrasto fra città e campagna, della famiglia, del guadagno privato, del la­ voro salariato, l'annuncio dell'armonia sociale, la trasforma­ zione dello Stato in una semplice amministrazione della pro­ duzione», è salutato positivamente da Marx come insieme di spunti che «hanno fornito elementi di grandissimo valore per illuminare gli operai» 92 • Queste proposte socialiste, tuttavia, appaiono a Marx ugualmente gravate da costitutivi limiti teorici e politici, dettati dal fatto che quando esse si sviluppano il contrasto tra borghe­ sia e proletariato è ancora poco sviluppato. Pur «coscienti di patrocinare nei loro progetti principalmente gli interessi della classe operaia», per loro «il proletariato esiste soltanto sotto l'aspetto di classe che soffre più di tutte», ma non come quella che può agire la trasformazione93 • «Siccome gli antagonismi di classe si sviluppano di pari passo con lo sviluppo dell'industria, gli autori di questi sistemi non trovano neppure le condizioni materiali per l'emancipazione del proletariato e vanno in cerca, per crearle, di una scienza sociale e di leggi sociali»94• 92/lvi, p. 515. 93/Jbidem.

94/lvi, p. 514. 77

sente critica di Marx sia nel Manifesto sia nella quasi coeva Miseria della filosofia.

Proudhon fu personalità eminente e influente del suo tempo, socialista di grande fama. Possedeva una formazione fi­ losofica, oltre che economica, e conosceva anche la filosofia tedesca. Nel suo girovagare per l'Europa, tra Parigi e Bruxelles venne a contatto con Marx, col il quale ebbe, almeno in una prima fase, rapporti altalenanti, ma non del tutto negativi. Dap­ prima severo critico della proprietà, in un secondo momento Proudhon ritiene inaccettabile l'ipotesi di una sua totale estin­ zione attuata mediante una socializzazione- cioè una appro­ priazione da parte dello Stato - di tutti i mezzi di produzione. Non è necessario giungere a questo esito per attuare la giustizia sociale, la quale invece può essere perseguita, dal suo punto di vista, mediante una specifica teoria dello scambio: si tratta di ri­ formare la vita sociale regolando gli scambi in modo da attri­ buire in essi un valore alle singole merci che sia equivalente al valore del lavoro impiegato a produrle, mandando così fuori corso lo sfruttamento, il profitto e il ruolo del denaro96 • Occorre dunque trasformare la proprietà in possesso (che non produce rendita) e ancorarla al lavoro, insistendo sul­ l'identità tra lavoro e valore ed eliminando qualunque riferi­ mento a un sovrappiù finalizzato al profitto. Per Proudhon, in buona sostanza, non è la proprietà in sé a essere causa di mise­ ria e sfruttamento, ma il processo di espropriazione introdotto nello scambio. Così se il comunismo è osteggiato in quanto privazione della libertà del possesso e negazione della libera associazione dei liberi produttori, vengono invece celebrate quelle forme di autogoverno dei produttori che possono favo­ rire la progressiva estinzione del denaro mediante lo scambio 96/ P.-J. Proudhon, Filosofia della miseria [1846], OET, Roma 1946.

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diretto dei beni e introdurre forme di collaborazione e soste­ gno reciproco tra i produttori: si tratta della teoria del mutuali­ smo, espressione di quel ceto di piccoli proprietari contadini e artigiani indipendenti favorevoli alla difesa e al consolidamen­ to della piccola proprietà. Ciò che, nello specifico, Marx contesta al socialismo prou­ dhoniano è di essere una legittimazione mascherata della pro­ prietà: non si può a un tempo salvare la proprietà, legittiman­ done l'istituzione, e pretendere che lo sfruttamento scompaia. Non c'è proprietà senza sfruttamento, questo è il punto: se esi­ ste la proprietà - anche nelle forme minimali proposte da Proudhon - vi sarà sempre, perché essa possa mantenersi in vita, un lavoro che quella proprietà dovrà sfruttare per potersi riprodurre. Proudhon vuole «la borghesia senza il proletaria­ to»: ma ciò è impossibile97• Se vi è uno scambio egualitario tra prodotti, infatti, ciò non implica affatto che non vi sia stato sfruttamento ed espropriazione al momento della produzione. Dire che da questo scambio di prodotti misurati in base al tempo de­ riva conseguentemente la retribuzione egualitaria di tutti i produttori, significa supporre che un'eguale partecipazione al prodotto abbia preceduto lo scambio98 •

Ma questa è, appunto, solo una presupposizione, assunta acri­ ticamente e non spiegata da Proudhon, il quale non vede che a monte di uno scambio vi è sempre una specifica modalità della produzione, la quale, nella società capitalistica, è orga­ nizzata secondo una specifica modalità dello sfruttamento 97/ K. Marx- F. Engels, Manifesto del partito comunista, cit., p. 513. 98/ K. Marx, Miseria della filosofia, cit., p. 126. 80

della forza lavoro. Così la legittimazione della proprietà a fron­ te di uno scambio dei prodotti sulla base del tempo di lavoro in essi contenuto non ha alcun profilo riformatore: è soltanto la fotografia -e la legittimazione -dei meccanismi di funziona­ mento della società capitalistica. La determinazione del valore in base al tempo del lavoro, cioè la for­ mula che il signor Proudhon ci dà quale rigeneratrice dell'awenire, non è che l'espressione scientifica dei rapporti economici della so­ cietà attuale come Ricardo ha già chiaramente e nettamente dimo­ strato assai prima del signor Proudhon99 •

Delle due l'una: o si accetta la proprietà, e allora si legittima lo sfruttamento; oppure si rifiuta lo sfruttamento, e allora occorre destituire la proprietà. Questo è tanto più vero, agli occhi di Marx, se si prende in considerazione la configurazione pro­ duttiva della società industriale. Anzitutto, Proudhon non pro­ blematizza la genesi della proprietà, assumendola come un dato di natura, laddove essa è il prodotto-storicamente deter­ minato-di processi di estraniazione e di sfruttamento. Inoltre, del tutto irrealistica è la possibilità di realizzazione del propo­ sito mutualistico proudhoniano nelle condizioni di sviluppo della società attuale: essa si muove tendenzialmente in dire­ zione della concentrazione del capitale, dei mezzi di produ­ zione e delle forze produttive nei grandi centri industriali, mo­ tivo per il quale la possibilità di realizzare lo scambio di merci tra piccoli produttori è di fatto impedita dalle condizioni di svi­ luppo date. Ancora una volta, delle due l'una: difendendo la sua idea mutualistica, o Proudhon legittima, in ultima analisi, 99/ lvi, p. 139.

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la proprietà privata della grande industria (e dunque la forma più significativa di sfruttamento della forza lavoro), oppure si riferisce, idealizzandola, a una forma di possesso del passato, proponendo di fatto, come i «veri» socialisti, di ritornare alle condizioni di produzione preindustriali. Di due cose, l'una: o volete le giuste proporzioni dei secoli passati, con i mezzi di produzione della nostra epoca, e allora siete al con­ tempo reazionari e utopisti. O volete il progresso senza l'anarchia; e allora, per conservare le forze produttive dovete abbandonare gli scambi individuali 100 •

Tali«scambi individuali», infatti, «non sono conciliabili se non con la piccola industria dei secoli passati», e solo allora potrà esservi anche«i I suo coro I lario di "giusta proporzione"», oppu­ re «anche con la grande industria, ma in questo caso con tutto il suo seguito di miseria e di anarchia»101• Non considerando la produzione come la sfera essenziale della vita storica e limitan­ dosi a proporre uno scambio egualitario tra prodotti, Proudhon finisce per equivocare - e sopravvalutare - le stesse modalità dello scambio. Il mondo si consegna al suo sguardo quando è già bell'e fatto: ma di come questo venga prodotto, Proudhon non sembra interessarsi, poiché pensa di poter obliterare, nella sua critica, il momento decisivo della sua generazione. Così Proudhon può idillicamente immaginare una società di liberi produttori, ignorando che essi sono anche compratori di forza lavoro (cioè sfruttatori), e presupporre una inesistente armonia sociale fondata sull'esistenza di una proprietà nel cui seno non alberga lo sfruttamento. 100/ Ibidem.

101/lbidem.

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Alla radice, non si ha scambio dei prodotti, ma scambio dei lavori che concorrono alla produzione. � dal modo di scambio delle forze pro­ duttrici che dipende il modo di scambio dei prodotti. In generale, la forma dello scambio dei prodotti corrisponde alla forma della produ­ zione. Mutate quest'ultima, e di conseguenza muterà la prima. Così, possiamo riscontrare che, nella storia della società, il modo di scam­ biare i prodotti viene regolato dal modo di produrli. Lo scambio indi­ viduale corrisponde pertanto a un determinato sistema di produzio­ ne, il quale a sua volta riflette l'antagonismo delle classi. Non può esi­ stere perciò scambio individuale senza l'antagonismo delle classi. Ma le oneste coscienze borghesi si rifiutano di accettare questa evi­ denza. Finché si è borghesi, non si può fare a meno di vedere in que­ sto rapporto antagonistico un rapporto di armonia e di giustizia eter­ na, che non permette ad alcuno di farsi valere a spese altrui. Per il bor­ ghese lo scambio individuale può sussistere senza l'antagonismo delle classi; per lui si tratta di due cose del tutto disparate. Lo scambio individuale, come se lo figura il borghese, è lungi dal somigliare allo scambio individuale quale esso è effettivamente 102 • li conflitto e la storia

Con la pubblicazione della critica a Proudhon e del Manifesto, il percorso di «emancipazione» di Marx dalle idee della sini­ stra del suo tempo può considerarsi finalmente concluso. Sono stati, quelli compresi tra il 1842 e il 1848, anni decisivi e ricchissimi, nei quali le letture, le amicizie, i viaggi, gli sposta­ menti e la militanza hanno consentito a Marx di maturare una posizione propria, che si edifica mediante vari passaggi, il primo dei quali è la presa di consapevolezza dei limiti intrinse­ ci della prospettiva giovane-hegeliana, fondata sull'intreccio 102/lvi, pp. 146-7. 83

di critica filosofica e critica politica. Della prima Marx scopre l'inefficacia quando questa pretende di restare sul piano della pura teoria, configurandosi come critica della rei igione e delle forme ideologiche da essa prodotte. li limite di questa prospet­ tiva consiste, al dunque, nella pretesa (una pretesa socialmen­ te determinata dall'appartenenza corporativa) di considerare come unico terreno decisivo ai fini dell'emancipazione umana quello dell'autocoscienza e del suo sviluppo. Della se­ conda, invece, Marx contesta il tentativo di superare i limiti della teoria proponendo una prassi orientata solo in senso po­ litico, ovvero attenta unicamente a intervenire sul terreno della cittadinanza, laddove è invece il terreno della società ci­ vile a essere dirimente. Approdato, per questa via, alla critica di Feuerbach, Marx scopre-è questo il secondo, decisivo passaggio-che il limite della filosofia materialistica si fonda sulla totale incompren­ sione del lavoro umano e, dunque, della storia. La concezione materialistica della storia è così il modo in cui Marx, anche sul terreno filosofico, si emancipa dal materialismo classico, cor­ rispettivo filosofico del socialismo e dottrina inconsistente sul piano teorico e pratico, in ultima analisi legittimazione del­ l'eternarsi dei rapporti di sfruttamento, poiché incapace di ri­ conoscere dignità al lavoro, del quale occulta il ruolo genetico e costituente la realtà, e conseguentemente incapace di vede­ re la storia, terreno dinamico nel quale le diverse formazioni socia I i si svolgono. E siamo così - è questo il terzo, decisivo passaggio -alla critica politica del socialismo. Se il lavoro è, in effetti, il princi­ pio che tutto produce, le dottrine socialiste hanno il consisten­ te limite di non rappresentarne gli interessi e di non rivendicar­ ne il valore originario: o perché santificano la proprietà, an84

nacquando la sua critica in prospettive mutualistiche, che di fatto non ne ostacolano il radicamento (Proudhon); o perché propongono fughe in avanti del tutto inconsistenti e, in ogni caso, incapaci di combatterne diffusamente il proliferare, ma al massimo destinate a costruire qua e là oasi «esterne» al mondo (utopisti); o, peggio, perché propugnano il ritorno di un passato precapitalistico dove il mondo della comunità coincideva con la legalità dello sfruttamento più brutale (so­ cialisti reazionari). In questa critica del socialismo, paradigmatica è la figura di Proudhon, poiché apparentemente più complesso è svelarne la funzione conservatrice. Questa si muove lungo due direttri­ ci fondamentali. La prima è il rovesciamento della scoperta della concezione materialistica della storia (scoperta che sarà approfondita, come vedremo, dalla critica dell'economia po­ litica), secondo cui il mondo della produzione determina quanto avviene nella sfera della distribuzione e dello scambio. La seconda è quella della rimozione del conflitto: nella pre­ supposizione di una armonia naturale che si tratta semplice­ mente di lasciar essere nell'idillico mondo dello scambio, si tratta di adeguarsi al rispetto equilibrato della legge naturale secondo cui gli scambi sono regolati (senza alcun conflitto) sulla base del tempo di lavoro. L'unico socialismo che Marx propugna è, al contrario, il comunismo che «abolisce lo stato di cose presente» 103, che scopre nel proletariato la nuova clas­ se sociale destinata a distruggere lo sfruttamento borghese, che concepisce come suo obiettivo strategico non già la rifor­ ma della proprietà o la mitigazione dello scambio ineguale, ma la loro abolizione. 103/ K. Marx - F. Engels, Ideologia tedesca, cit., p. 34. 85

Marx ha guadagnato la sua isola, e in lui non resta oramai più niente del suo passato di teorico della sinistra filosofica he­ geliana e della sinistra politica socialista. Marx ha definito la sua differenza, e scagliato i suoi anatemi: contro l'intellettuali­ smo umanista che disprezza i I lavoro e le masse, contro i teorici dell'autocoscienza, contro la «critica critica», contro l'autono­ mia del politico, contro la teologia politica, contro il pragmati­ smo disancorato da saldi presupposti scientifici, contro il socia­ lismo dei buoni sentimenti, contro quello mutualistico amico della proprietà e contro gli utopismi dei riformatori sociali. Alle spalle di ciò, soprattutto, è l'idea che a muovere la sto­ ria non vi siano dialettiche razionalistiche, progressi trascen­ dentali mossi dallo spirito, idillici sviluppi morali o intellettua­ li inscritti originariamente nella perfettibilità umana. A muove­ re la storia è il conflitto. È questa, forse, l'idea centrale di tutta questa impresa teorica, quella che più di ogni altra manifesta la radicalità (anzitutto analitica) del pensiero marxiano. È solo il conflitto quella forza primigenia che produce anche i pro­ gressi e gli sviluppi - materiali e spirituali - delle società umane. Nello specifico, il conflitto sociale, la lotta di classe, la guerra per la vita e per la morte tra sfruttati e sfruttatori. Nello stesso momento in cui sorge la civiltà, la produzione comincia a fondarsi sull'antagonismo degli ordinamenti, degli stati, delle clas­ si, infine sull'antagonismo del lavoro accumulato col lavoro imme­ diato. Senza antagonismo non vi è progresso. Questa è la legge che fino ai nostri giorni la civiltà ha seguito104•

Proprio per questo la prassi che intenda prendere sul serio il 104/ K. Marx, Miseria della filosofia, cit., p. 133.

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compito della trasformazione deve collocarsi all'altezza di questo conflitto radicale. Non è possibile modificare la vita storica illudendosi di restare sul piano del dissidio dialogico, della rappresentazione politica o ideologica della lotta, ma solo stando nella durezza del conflitto in tutta la sua cruda e bruta materialità. Ma cosa vuol dire, al dunque, porsi all'altez­ za del conflitto? Come detto, la prassi per l'emancipazione deve essere organizzazione della lotta sociale: ma questa or­ ganizzazione deve essere politica, pena la sua inconsistenza, l'impossibilità, per essa, di farsi concreta. Non si dica che il movimento sociale esclude il movimento politico. Non vi è mai movimento politico che non sia sociale nello stesso tempo. È solo in un ordine di cose in cui non vi saranno più classi né antagonismo di classi, che le evoluzioni sociali cesseranno di essere rivoluzioni politiche. Sino ad allora, alla vigilia di ciascuna trasforma­ zione generale della società, l'ultima parola della scienza sociale sarà sempre: «Il combattimento o la morte; la lotta sanguinosa o il nulla. Così, inesorabilmente, è posto il problema» (George Sand) 105 •

Organizzare politicamente la rivoluzione sociale, dunque. Marx dedicherà la sua vita a questo scopo, affinando sempre di più, nel corso degli anni e grazie alla sua militanza pratica e al suo ardore teorico, gli strumenti politico-organizzativi fina­ lizzati a questo scopo. Ci resta, ora, da prendere in considera­ zione proprio questo: a quale precipitato ultimo giunge il pen­ siero marxiano della rivoluzione (quale prospettiva politico­ organizzativa deve darsi la classe operaria per essere efficacemente rivoluzionaria). Prima ancora, però, resta da 105/ lvi, p. 225. 87

fare qualche cenno al modo in cui Marx definisce la sua posi­ zione in merito alla proprietà capitalistica, allo sfruttamento e alla valorizzazione del capitale nell'ambito della sua critica dell'economia politica.

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IV. IL SEGRETO DELLO SFRUTTAMENTO

La critica dell'economia politica L'importanza della critica dell'economia politica risiede nel fatto che con essa Marx darà effettivo compimento alla sua cri­ tica della politica, della filosofia e del socialismo. In questa sede non possiamo, per evidenti ragioni di spazio, riassumere in maniera soddisfacente tutti i nessi teorici che la animano 1°6• Ciò che piuttosto vale la pena di fare è di mettere in evidenza la sua genesi, il suo motivo sostanziale e la scoperta principale che Marx da essa ricava, sì da poter procedere anche su questo piano a mostrare in cosa consiste la «differenza» marxiana. La quale, in una battuta, è questa: la priorità assegnata al momen­ to della produzione su quello dello scambio, dal che deriva che il mondo della circolazione delle merci-che al senso co­ mune appare la base primaria che regola la riproduzione so­ ciale, terreno concretissimo sul quale tutto quanto riguarda le merci (il loro valore di mercato, cioè il loro prezzo) viene de­ terminato-è per Marx un mondo fenomenico, dietro il quale si nasconde il momento prioritario che lo determina. Esso è il momento della produzione, nel quale si crea, per effetto del lavoro umano, il valore delle merci1°7• 106/ Si veda per una prima introduzione in proposito M.Ch . Howard J.E. King, L'economia politica di Marx, Liguori, Napoli 1980. 107/ I.I. Rubin, Saggi sulla teoria del valore di Marx, Feltrinelli, Milano 1976. 89

Ma come essi siano diventati produttori; da dove derivi, sul piano storico, la legittimità della loro proprietà; quale genea­ logia abbia la complessa organizzazione della produzione ca­ pitalistica: tutto ciò resta, ai suoi occhi, non problematico. Cosa dà per scontato, al dunque, Proudhon? Qual è il pre­ supposto - neanche tanto implicito - di tutta la sua trama teo­ rica, che in quanto tale resta acriticamente assunto e dunque non spiegato? Si tratta della proprietà. È un problema che, però, riguarda anche gli altri economisti. Già nel 1844, quan­ do metteva mano ai Manoscritti economico-filosofici, Marx ri­ fletteva su questo insuperabile limite della disciplina. L'econo­ mia politica, spiega Marx, condivide lo stesso vizio logico della filosofia, perché «presuppone quello che deve spiegare». La proprietà privata, infatti, viene assunta come un fatto natu­ rale, laddove è invece un prodotto storico: in questo modo la sua genesi resta inspiegata. L'economista presuppone in forma di fatto, di accadimento, ciò che deve dedurre, cioè il rapporto necessario tra due fatti, per esempio tra la divisione del lavoro e lo scambio. Allo stesso modo la teologia spiega l'origine del male col peccato originale, cioè presuppone come un fatto, in forma storica, ciò che deve spiegare 108•

Occorre sottoporre a critica tale naturalismo, indagando da una prospettiva rigorosamente storica la proprietà e la sua ge­ nesi. «Noi partiamo da un fatto dell'economia politica, da un fatto presente», scrive Marx109• Questo fatto è il seguente: quanto più l'operaio produce, quanto maggiori sono la sua 108/ K. Marx, Manoscritti economico-filosofici, cit., p. 297. 109/ lvi, p. 298. 91

forza e la sua capacità produttiva, quanto più estesa e quanti­ tativamente rilevante è la sua oggettivazione, tanto più radica­ le risulterà la sua pauperizzazione: tutto ciò che l'operaio pro­ duce, infatti, non gli appartiene, gli è sottratto, gli si pone di fronte come un ente estraneo. Non è di sua proprietà, ma di proprietà di quella forza oggettiva, il capitale, che è la stessa che lo sottomette e gli sottrae gli oggetti della sua produzione. Quanto più l'operaio produce, quindi, tanto più accresce la potenza del suo sfruttatore. L'oggetto che il lavoro produce, il prodotto del lavoro, si contrappone ad esso come un essere estraneo, come una potenza indipendente da colui che lo produce. Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, è diventato una cosa, è l'oggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione. Questa realizzazio­ ne del lavoro appare nello stadio dell'economia politica come un an­ nullamento dell'operaio, l'oggettivazione appare come perdita e as­ servimento dell'oggetto, l'appropriazione come estraniazione [Ent­ fremdung), come alienazione [EntauBerung] 110•

È precisamente dall'espropriazione della produzione operaia che nasce la proprietà capitalistica: essa non cade dal cielo. Non vi è alcun «mitico stato originario» nel quale la proprietà capitalistica è naturalmente data. «Un tale stato originario non spiega nulla. Non fa che rinviare il problema in una lontanan­ za grigia e nebulosa» 111 • Non c'è idillio nella genesi storica del capitalismo: v'è il fatto bruto della sottrazione, il fondamento violento dello sfruttamento, la causa materiale del lavoro espropriato. Con ciò è fatta giustizia dell'inversione operata 110/ Ibidem. 111/ lvi, p. 297. 92

dall'economia politica: è il lavoro alienato a generare la pro­ prietà privata. Partendo dal concetto di proprietà privata, con un'analisi di questo concetto si mostra che, anche se la proprietà privata appare come il fondamento, la causa del lavoro alienato, essa ne è piuttosto la conseguenza, proprio come originariamente gli dei non sono la causa, ma l'effetto dell'umano vaneggiamento. [ ...] Solo al vertice del suo svolgimento, la proprietà privata rivela il suo segre­ to, vale a dire che essa è il prodotto del lavoro alienato112 •

L'economia politica chiude gli occhi sulla vera genesi della proprietà. L'economia politica nasconde l'estraniazione insita ne/l'essenza stes­ sa del lavoro per il fatto che non considera il rapporto immediato esi­ stente tra l'operaio (il lavoro) e la produzione113•

L'accumulazione originaria In queste pagine-al di là del fatto, che non abbiamo mancato di sottolineare, che la filosofia marxiana là esposta, ancora de­ bitrice a Feuerbach, conoscerà mediante la critica a quest'ulti­ mo un significativo aggiornamento - è contenuta, in germe, un'intuizione che resterà viva in tutta la riflessione di Marx, anche quella più tarda: la genesi violenta della proprietà capi­ talistica e gli sforzi dell'economia politica - dell'ideologia economico-politica, dovremmo dire-di occultarla. Passeran­ no infatti dal 1844 ben ventitré anni quando Marx, nel primo libro de// capitale, sulla scia di queste pagine dei Manoscritti 112/ lvi, pp. 306-307. 113/ lvi, p. 300. 93

non esiterà a definire «storielle per bambini» le narrazioni na­ turalistiche dell'economia politica su una presunta «accumu­ lazione originaria»11 4• Queste storielle spacciate dagli economisti classici descri­ vono la vicenda della genesi storica del capitalismo e della modernità allo stesso modo con cui la teologia racconta la sto­ ria del peccato originale; ma se quest'ultima è funzionale a dare una spiegazione mitica del perché l'uomo sia stato co­ stretto, a causa del suo originario peccato di disobbedienza a dio, alla fatica del lavoro, «la storia del peccato originale eco­ nomico ci mostra invece come mai esistano delle persone che non hanno assolutamente una tale necessità»115 • li loro essere liberi dal lavoro, cioè il loro possesso dei mezzi di produzione, mediante cui essi possono vivere del lavoro altrui, sarebbe de­ terminato, a voler dar credito a queste narrazioni, dal fatto che i proprietari appartengono ad «una "élite" intelligente e so­ prattutto risparmiatrice», alla quale si oppongono «quei di­ sgraziati che nell'ozio dissipavano tutte le loro sostanze e anche di più»116 • La favola dell'accumulazione originaria da parte di questa parte responsabile della società, a fronte di un'altra parta dis­ soluta e oziosa, fornisce una spiegazione del perché nella mo­ dernità si trovino di fronte «/a povertà della grande massa che, malgrado tutto il suo lavoro, non ha mai altro da vendere che se stessa, e /a ricchezza dei pochi, che cresce in continuazio­ ne, sebbene da un pezzo essi abbiano smesso di lavorare». Benché «nella pacifica economia politica s'è vissuto sempre 114/ K. Marx, // capitale. Libro primo, cit., p. 788. 115/ lvi, p. 787. 116/ Ibidem. 94

in un clima idilliaco » , però, Marx rileva che «nella storia effet­ tiva, come ben si sa, la conquista, la tirannia, l'assassinio, il de­ predamento rappresentano sempre la parte più importante » 1 1 7• li capitalismo nasce infatti anzitutto da una scissione forzata, cioè dall'allontanamento coatto dei produttori dai loro mezzi di produzione: « l'espropriazione dei produttori agricoli, dei contadini, e i/ loro allontanamento dalle terre costituisce la base dell'intero processo » 118 • In epoca medievale, infatti, benché il lavoro della terra fosse sottoposto al vincolo della proprietà feudale, gli agricol­ tori possedevano una parte del prodotto del lavoro e il control­ lo diretto dei mezzi di produzione. Oltre a ciò, godevano del libero utilizzo delle «terre comuni» non sottoposte a proprietà privata, su cui chiunque aveva il diritto di «pascolare il proprio bestiame » e raccogliere liberamente «materiale da ardere, legna, torba, ecc. » . La cosiddetta accumulazione originaria consiste storicamente nel processo mediante il quale «una massa di proletari messi al bando venne gettata sul mercato del lavoro dal dissolversi dei legami feudali» 119• Così nasce il capitalismo: con la sottrazione e l'appropria­ zione violenta, che genera da un lato una massa di proletari scacciati dalla propria terra e costretti a vendere la propria forza lavoro e, dall'altro, i proprietari. Tutto ciò è occultato dal­ l'economia politica e dalle sue narrazioni mitiche, che dei processi di modernizzazione capitalistica celebra soltanto i lati progressivi. Ora, è certamente vero che «i I movimento sto­ rico che trasforma i produttori in operai salariati appare da un 117/ lvi, p. 788. 118/ lvi, p. 790. 119/ lvi, pp. 791, 792. 95

Marx scrive che ai proprietari «di denaro e di mezzi di pro­ duzione e di sussistenza, ai quali importa di valorizzare me­ diante l'acquisto di forza lavoro altrui la somma di valori pos­ seduta», stanno di fronte «operai liberi, venditori della propria forza lavoro e quindi venditori di lavoro»: tali lavoratori sono liberi in un duplice senso, in quanto né fanno parte direttamente dei mezzi di produzione come gli schia­ vi, i servi della gleba ecc., né tantomeno i mezzi di produzione appar­ tengono ad essi, come al contadino coltivatore diretto ecc., anzi ne sono liberi, privi123 •

Questa maturazione di nuovi rapporti di proprietà, nei quali un libero possessore di denaro si oppone a un libero venditore della forza lavoro, può avvenire dunque solo quando si sia prodotta una «separazione» fra produttore e mezzi di produ­ zione. Da un lato dell'opposizione sta dunque la forza lavoro, che è la capacità del lavoro di esplicarsi, cioè di produrre og­ getti, cose di cui gli uomini hanno bisogno. Per forza lavorativa o capacità di lavoro noi intendiamo la somma delle attitudini fisiche e intellettuali esistenti nella corporeità, cioè nella concreta personalità d'un uomo, che egli fa agire ogni qual volta produce valori d'uso di qualunque specie 1 24•

Nella società capitalistica la forza lavoro è, per Marx, anzitutto una merce: come tale, infatti, essa può essere venduta, cioè scambiata sul mercato del lavoro in cambio di denaro. Ne 123/ K. Marx, // capitale. Libro primo, cit., p. 788. 124/ lvi, p. 184.

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deriva allora che, come tutte le merci, essa possiede un valore d'uso e un valore di scambio. Ogni merce è infatti in pr.imo luogo dotata di un «valore d'uso», ovvero di una sua determi­ nata «utilità», che è stabilita dall'utilizzo che di essa si può fare, e deriva unicamente dalla merce. Essa, tuttavia, non è solo valore d'uso, pena la sua stessa natura di merce: in quanto tale, essa possiede anche un valore di scambio. Questo «si mo­ stra dapprima come il rapporto quantitativo, come la propor­ zione nella quale valori d'uso differenti si scambiano con valo­ ri d'uso d'altro tipo» 125• Ora, il valore d'uso della merce forza lavoro è quello di «essere fonte di valore» 126, nella misura in cui la sua eventuale oggettivazione diventa «creazione di valore». Il valore di scambio di una merce, infatti, è prodotto secondo Marx dal tempo di lavoro impiegato per produrla. Un valore d'uso o bene ha valore solo in quanto viene oggettivato, o materializzato, in esso astratto lavoro umano. Come misurare allora la grandezza del suo valore? Per mezzo della quantità della sostanza che crea valore, cioè del lavoro, che è contenuta in esso. La quantità del lavoro si misura a sua volta con la sua durata nel tempo127•

Questo tempo di lavoro, che è da Marx considerato misura quantitativa del lavoro astratto, a sua volta misura del valore delle merci, è determinato come «tempo di lavoro necessario in media, cioè socialmente necessario», il quale dipende dalle condizioni materiali nelle quali la produzione avviene. 125/ lvi, p. 46. 126/ lvi, p. 184. 127/ lvi, p. 49.

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«Tempo di lavoro socialmente necessario è il tempo di lavoro che occorre per rappresentare un qualunque valore d'uso nelle attuali condizioni di produzione socialmente normali». Così, «solo la quantità di lavoro socialmente necessario, cioè il

tempo di lavoro socialmente necessario a produrre un valore d'uso, ne determina la grandezza di valore», motivo per il quale «merci che possano essere prodotte nel medesimo tempo di lavoro, hanno di conseguenza la medesima grandez­ za di valore» 128• Lo sfruttamento

Dall'altro lato della scissione operata dall'accumulazione ori­ ginaria sta il capitale. La forza lavoro è una merce acquistabile nella misura in cui è dotata di un valore d'uso (produce valore) e di un valore di scambio, perché si vende in cambio di un sa­ lario, il cui valore corrisponde precisamente al valore di tutto ciò di cui la forza lavoro deve poter disporre per riprodursi. Ne deriva che il valore della forza lavoro è corrispondente al tempo di lavoro socialmente necessario a produrre i beni per la propria riproduzione. «li valore della forza lavorativa, come quello di tutte le altre merci, è determinato dal tempo di lavoro che occorre per produrre, e perciò anche riprodurre, questo specifico articolo» 129• La forza lavoro è acquistata in quanto tale, ovvero come ca­ pacità generale di lavoro. li capitalista, in cambio del salario, non acquista mai un lavoro determinato, ma solo lavoro astrat­ to, tempo di lavoro, ovvero acquista, per un certo numero di 128/lvi, pp. 49-50. 129/lvi,p.197. 99

ore, «per un tempo stabilito» 130, la capacità della forza lavoro di produrre merci: acquista, cioè, la capacità da parte della forza lavoro di produrre valore. Qui è l'arcano dello sfrutta­ mento capitalistico. Lo scambio tra capitale e forza lavoro, in­ fatti, non è mai tale che il valore del salario è uguale al valore delle merci prodotte dal lavoro vivo durante la giornata lavora­ tiva. Uno scambio siffatto sarebbe per il capitalista assoluta­ mente inconcludente: il denaro anticipato non sarebbe trasfor­ mato in capitale. Perché ciò avvenga, la forza lavoro deve pro­ durre un plus di valore, cioè una quantità totale di merci il cui valore sia superiore al valore del salario. Ma questo è possibile solo in ragione del fatto che l'operaio produce un pluslavoro, ovvero un lavoro non pagato, eccedente il lavoro socialmente necessario a riprodursi. L'operaio, infatti, lavora per una certa quantità di tempo che serve per produrre merci il cui valore è uguale al suo sala­ rio: «l'operaio durante una sezione del processo lavorativo produce soltanto il valore della propria forza lavorativa, ossia il valore dei mezzi di sussistenza che gli necessitano» 131• Que­ sta parte di tempo è chiamata da Marx «tempo di lavoro neces­ sario», e il lavoro impiegato in questa sezione di tempo «lavoro necessario» 132• Fintantoché il lavoro giunge fino a questo punto, v'è creazione di valore, che corrisponde appunto al la­ voro astratto contenuto nella merce prodotta, ma esso è perfet­ tamente uguale al valore del salario. Si produce cioè valore, ma non ancora plusvalore. «Qualora il processo di creazione di valore duri solo fino al punto in cui il valore della forza 130/lvi, p. 184. 131/lvi, p. 235. 132/lvi, pp. 235-256. 100

lavorativa pagato dal capitale è sostituito da un nuovo equiva­ lente, è puro e semplice processo di creazione di valore»; solo ove questo processo dovesse protrarsi «oltre questo punto», diventerebbe «processo di valorizzazione» 133• In ciò consiste la differenza tra denaro e capitale: il denaro diviene capitale solo quando il mero «processo di creazione di valore» si trasforma in «processo di valorizzazione», cioè in produzione di eccedenza di valore. Ma questo è possibile solo se il lavoro oltrepassa il tempo di lavoro necessario, ovvero se il tempo complessivo di lavoro è composto non solo dal tempo di lavoro necessario, ma da una seconda parte che Marx chia­ ma «tempo di lavoro superfluo», nella quale è svolto un «plu­ s/avaro» 134• Solo da esso si genera valorizzazione, cioè plusva­ lore, che è ovviamente tanto più grande quanto maggiore è il tempo di lavoro non pagato, cioè il tempo di lavoro superfluo. Alla fine del processo, da un lato v'è il valore del salario, dal­ l'altro il valore finale della merce prodotta, che sarà a esso su­ periore in virtù dello scarto tra il tempo di lavoro complessivo (la giornata lavorativa) e il tempo di lavoro necessario. La mi­ sura quantitativa del tempo di lavoro superfluo determina anche la grandezza del plusvalore. Su queste basi Marx fonda la sua teoria dello sfruttamento, che nel corso della sua analisi approfondirà sempre di più, se­ condo percorsi che qui non abbiamo modo di seguire. Basti dire che a partire da qui Marx giungerà a individuare nel pro­ cesso di automazione (cioè nel tentativo di ridurre il tempo di lavoro socialmente necessario) lo strumento mediante il quale il capitale tendenzialmente genera il plusvalore nella sua fase 133/ lvi, p. 215. 134/ lvi, p. 236. 101

avanzata (nel passaggio dalla manifattura alla grande indu­ stria) 135 e, proprio in virtù di ciò, a ipotizzare come leggi imma­ nenti allo sviluppo capitalistico il progressivo crollo della legge del valore 136 e la tendenziale caduta del saggio del profitto 137 • Ciò che però va segnalato è il fatto che con questa teoria dello sfruttamento Marx può fare definitivamente piazza pulita delle illusioni naturalistiche dell'economia politica secondo cui lo scambio è fonte di valore. Questo equivoco è generato dal fatto che ci si trova spesso di fronte a uno scarto tra valore della merce e prezzo di costo. Tuttavia, quando una merce viene venduta al di sopra o al di sotto del suo valo­ re si ha solo una differente ripartizione del plusvalore e tale differente ripartizione, ossia il diverso rapporto in cui varie persone si spartisco­ no tra loro il plusvalore, non cambia affatto né la grandezza né la na­ tura del plusvalore 138 •

Così Marx può affermare che «la legge generale è che tutti i 135 K. Marx, li capitale. Libro primo. Capitolo sesto inedito. Risultati del proces­ so di produzione immediato [1864], in MEOC, voi. XXXI/li, pp. 989-990. Si veda sul punto V. Giacché, Valore e plusvalore (assoluto e relativo), in P. Gra­ nata - R. Pierri, a cura di, Leggere Marx oggi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012, pp. 93-98. 136 K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell'economia politica [185758], 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 1970, in particolare voi. 2, pp. 400 segg. Sul punto A. Negri, Marx oltre Marx. Quaderno di lavoro sui Grundrisse, Feltri­ nelli, Milano 1979. 137 K. Marx, li capitale. Libro terzo: li processo complessivo della produzione capitalistica [1894], Editori Riuniti, Roma 1970, pp. 259 segg. Sul punto V. Giacché, Karl Marx e le crisi del ventunesimo secolo, in K. Marx, li capitalismo e la crisi. Scritti scelti, DeriveApprodi, Roma 2009, pp. 7-53. 138 K. Marx, Il capitale. Libro terzo, cit., p. 69.

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costi di circolazione dovuti unicamente a un cambiamento for­ male della merce non aggiungono a questa alcun valore. Sono

meri costi per la realizzazione del valore o per la sua trasfor­ mazione da una forma all'altra» 139: luogo decisivo per la valo­ rizzazione del capitale - dunque luogo deputato allo sfrutta­ mento della forza lavoro- resta quello della produzione140 • Smascherare l'inganno

È così svelato da Marx il segreto della valorizzazione e dello sfruttamento: non si tratta soltanto di smascherare la pretesa secondo la quale il valore delle merci sarebbe naturalistica­ mente determinato dal mercato, in sede di scambio; si tratta anche di mostrare che la produzione di merci è sfruttamento della forza lavoro, cioè autovalorizzazione del capitale. Tutto ciò è occultato dall'economia politica, che non riesce a pene­ trare questo segreto. Dobbiamo a questo punto chiederci: per­ ché? Come mai la «critica» resta al di qua del suo compito? Non si tratta soltanto del fatto che essa opera semplificazio­ ni e ideologizzazioni. La difficoltà di penetrare il mistero dello sfruttamento pertiene, a giudizio di Marx, alla cosa stessa. Seb­ bene, a prima vista, la merce appaia una «cosa normale, trivia­ le»141 , essa è invece cosa complicatissima da districare. Fino a quando è considerata dal lato del suo valore d'uso, «in essa non c'è niente di misterioso», in quanto è il semplice prodotto del lavoro umano {concreto); ma quando viene in chiaro il suo 139/K. Marx, Il capitale. Libro secondo: Il processo di circolazione del capita­ le [1885], Editori Riuniti, Roma 1970, p. 153. 140/ P. Garegnani, Marx e gli economisti classici: valore e distribuzione nelle teorie del sovrappiù, Einaudi, Torino 1981. 141/K. Marx, I/capitale. Libro primo, cit., p. 82. 103

secondo lato, ovvero il valore di scambio, «si trasforma in un oggetto sensibilmente soprasensibile» 142, ovvero in un oggetto che, seppur concreto, sensibile, è prodotto da una sostanza astratta, soprasensibile, ovvero dal lavoro astratto da ogni sua determinazione concreta. Così quando un tavolo viene considerato solo in quanto va­ lore d'uso, non mostra alcuna determinazione extrasensibile, ma ove considerato in quanto valore di scambio, «non solo poggia coi piedi per terra, ma di fronte a tutte le altre merci si mette con la testa in giù, e tira fuori dalla sua testa di legno dei grilli molto più meravigliosi che se iniziasse a ballare da solo» 143• Questo deriva appunto dal fatto che quello che deter­ mina la merce in quanto tale non è il lavoro concreto, qualitati­ vamente determinato e visibile, ma il lavoro astratto, invisibile. L'enigma della merce è alla base dei fraintendimenti del­ l'economia politica, che non vede e, pertanto, occulta la sua natura duplice. Nella misura in cui gli economisti non colgono la realtà del lavoro astratto, finiscono per risolvere la peculiare natura della merce in una sua propria caratteristica naturale, at­ tribuendole, feticisticamente, il suo valore di scambio, come se questo fosse immanente alla sua natura. «Al contrario la forma di merce e il rapporto di valore dei prodotti di lavoro in cui essa è rappresentata non ha proprio niente a che fare con la loro na­ tura fisica e con le relazioni tra cose che ne seguono» 144• Accade così che un rapporto sociale, quale è la merce, cioè un prodotto del lavoro umano astratto, che, in quanto tale, le conferisce valore, appare invece una cosa, cioè una caratteri142//bidem. 143/ Ibidem. 144/lvi, p. 83.

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stica propria della merce: sembra, in altri termini, che la merce sia dotata di un valore proprio, indipendente dal lavoro e dalle relazioni sociali che lo hanno determinato. Il segreto della forma di una merce sta dunque solo nel fatto che tale forma ridà agli uomini come uno specchio l'immagine delle caratte­ ristiche sociali del loro proprio lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose, e perciò ridà anche l'immagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo sembrare come un rap­ porto sociale tra oggetti che esiste al di fuori di loro 145•

Si verifica così la stessa dinamica che troviamo «nelle nebulo­ se regioni del mondo religioso», dove i prodotti dell'immagi­ nazione umana sembrano d'improvviso «essere dotati di una propria vita, figure indipendenti che sono in rapporto tra loro e con gli uomini». Così accade anche «per i prodotti della mano umana nel mondo delle merci»: sebbene queste siano il pro­ dotto del lavoro umano, sembra che siano dotate di propria vita. «Quello che prende per gli uomini la forma fantasmagori­ ca di un rapporto tra cose è solamente il determinato rapporto sociale che esiste tra gli stessi uomini» 146• Ciò che è socialmen­ te determinato, quindi, appare naturalisticamente dato. «Que­ sto è quello che io chiamo feticismo, che si attacca ai prodotti del lavoro quando vengono prodotti come merci, e che perciò è indistinguibile dalla produzione delle merci» 147• Se è vero che il rapporto sociale è sempre rapporto tra per­ sone, esso appare, dunque, come rapporto tra cose. Il fatto è 145/ Ibidem. 1461 /bidem. 147/lvi, p. 84. 105

che «il valore non porta scritto evidente quello che è» 148 , e rende così il prodotto del lavoro, cioè la merce, un vero «gero­ glifico sociale». Gli uomini tentano di «scoprire il significato del geroglifico», ovvero di sciogliere la complessa trama delle relazioni sociali che stanno dietro l'apparente naturalità di una cosa. Tuttavia, anche giunti alla scoperta della teoria del valore lavoro, ovvero alla consapevolezza del fatto che «i pro­ dotti del lavoro, in quanto valori, sono solo espressioni in forma di oggetti del lavoro umano occorso a produrli», non viene di certo meno, sulla base di questa scoperta, «la creden­ za che il carattere sociale del lavoro appartenga alle cose». Così «la determinazione della grandezza di valore tramite il tempo di lavoro è un segreto», il quale tuttavia «non fa sparire per niente la loro forma di cose» 149• È qui che si colloca il ruolo - e il compito - della vera critica: svelare l'arcano che trasfor­ ma i rapporti tra persone in rapporti tra cose, e che reifica i rap­ porti sociali per celare lo scandalo dello sfruttamento.

148/ lvi, p. 85. 1491 Ibidem. 106

V. PENSIERO DELLA RIVOLUZIONE

cc Maledetto sia giugno!»

Dopo la pubblicazione del Manifesto, Marx sarà alle prese con gli eventi rivoluzionari del biennio 1848-49, che seguirà con vivo interesse e partecipazione. Proprio mentre il Manife­ sto veniva dato alle stampe, nel febbraio del 1848, Parigi insor­ geva e con la fuga di Luigi Filippo veniva proclamata la Repub­ blica. li fuoco rivoluzionario divampò in tutta Europa, raggiun­ gendo in breve tempo la vicina Germania 150• Marx ne fu entusiasta, e dapprincipio distinse immediatamente le rivendi­ cazioni borghesi dagli interessi operai, pur salutando con fa­ vore la diffusione delle istanze liberali perché giudicate fun­ zionali all'approfondimento sociale della rivoluzione. In effetti, il proletariato faceva il suo ingresso sulla scena politica europea, mostrandosi come forza attiva che aveva contribuito a rovesciare la monarchia - almeno nel caso di Pa­ rigi ciò era accaduto in maniera evidente - e agito con intenti politici unitari. Espulso dal Belgio, Marx giungerà nel marzo del '48 proprio in Francia, dove potrà essere spettatore privile­ giato dei mesi concitati che avrebbero condotto alla rivoluzio­ ne di giugno, salutata da Marx come il primo episodio della 150/D. Dowe-H.-G. Haupt-D. Langewiesche-J. Sperber, a cura di, Europe Berghahn Books, NewYork-Oxford 2000.

in 1848: Revolution and Reform,

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storia europea nel quale il conflitto operaio veniva finalmente organizzato e direzionato contro il nemico mortale e veniva messo in atto il primo, eroico tentativo di rivoluzione sociale. Marx individuò nel 1848 la prima cesura significativa dell'epoca moderna. La sconfitta operaia e la brutale repres­ sione contro gli insorti furono ai suoi occhi la plastica rappre­ sentazione che una fase dello sviluppo moderno era oramai terminata; che si era conchiusa la fase progressiva della mo­ dernità, che la borghesia aveva cessato - anche simbolica­ mente - di essere la classe sociale rivoluzionaria che egli aveva celebrato nel Manifesto. Le strade insanguinate di Parigi mostravano inequivocabilmente che lo scontro decisivo tra borghesia e proletariato era cominciato, e l'esecrabile massa­ cro perpetrato dai vincitori non era che l'inizio della fine di un dominio: «gli operai parigini sono stati schiacciati dalle forze preponderanti, non ne sono stati sopraffatti. Sono battuti ma i loro avversari sono vinti» 151• Proprio quando il dominio bor­ ghese veniva sancito nelle sue forme più brutali, smascherava la sua natura e mostrava la sua debolezza. Il trionfo momentaneo della forza brutale è pagato con la distruzione di tutte le illusioni e chimere della rivoluzione di febbraio, con la dis­ soluzione di tutto il vecchio partito repubblicano, con la scissione della nazione francese in due nazioni, la nazione dei possidenti e la nazione degli operai. La repubblica tricolore porta ormai un solo co­ lore, il colore dei battuti, il colore del sangue, è diventata la repubbli­ ca rossa 152• 151/K. Marx, La rivoluzione di giugno, «Neue Rheinische Zeitung», 29 giugno 1848, ora in MEOC, voi. VII, pp. 143-49, qui p. 143. 152/ Ibidem. 108

Lo scontro di giugno aveva dissipato per sempre l'idea che l'in­ teresse del proletariato e quello della borghesia potessero mar­ ciare uniti. Fu così per la prima volta e in maniera indubitabile chiaro che la società moderna era fondata sul conflitto tra capi­ tale e lavoro, e che la lotta politica che le classi medie avevano ingaggiato contro la corona mirava a una trasformazione costi­ tuzionale ma non sociale. Il bagno di sangue di giugno, pertan­ to, consegna quantomeno l'amara consolazione che il proleta­ riato ha scoperto sulla sua pelle quale sia il suo vero nemico. Perché sparisse l'ultima illusione del popolo, perché si rompesse del tutto con il passato bisognava che l'abituale ingrediente poetico della sommossa francese, l'entusiasta gioventù borghese, gli allievi del­ l'Ecole Polytechnique, i cappelli a tricorno stessero dalla parte degli oppressori. Bisognava che gli allievi della facoltà di medicina rifiutas­ sero l'aiuto della scienza ai plebei feriti. La scienza non esiste per il plebeo che ha commesso l'indicibile 153 •

E ancora: La fraternité, la fratellanza delle classi opposte di cui una sfrutta l'altra, questa fraternité proclamata in febbraio, scritta in lettere maiuscole sulla fronte di Parigi, su ogni prigione, su ogni caserma, ha la sua vera espressione autentica, prosaica, nella guerra civile: la guerra civile nella sua forma più spaventosa, la guerra del lavoro contro il capitale. Questa fratellanza fiammeggiava davanti a tutte le finestre di Parigi la sera del 25 giugno, quando la Parigi della borghesia si illuminò, men­ tre la Parigi del proletariato bruciava, sanguinava, rantolava 154• 153/ Ibidem. 154/ lvi, p. 146. 109

La rivoluzione di febbraio era stata solo politica; in essa la questione sociale non fu affrontata. Ma già allora l'alleanza tattica con la borghesia doveva risultare indigesta alle classi popolari. Ciò che il popolo «d'istinto odiava in Luigi Filippo», infatti, non era il re in quanto tale, «ma il dominio coronato di una classe, il capitale sul trono». E se «credette di aver distrutto il suo nemico, dopo aver rovesciato il nemico dei suoi nemici, il nemico comune», ben presto dovette scoprire che si ingan­ nava 155. Fin quando era servito a cacciare il re, il popolo fu ac­ colto, almeno nominalmente e formalmente, nell'alveo della fratellanza repubblicana. Ma quando osò svelare la vera natu­ ra del conflitto e ribellarsi allo sfruttamento, doveva ricevere una esemplare punizione. La rivoluzione di febbraio era la rivoluzione bella, la rivoluzione della simpatia generale, perché gli antagonismi che scoppiarono in essa contro la monarchia non erano ancora sviluppati e sonnecchiavano, uniti, uno accanto all'altro, perché la lotta sociale che formava il suo sfondo aveva raggiunto solo un'esistenza eterea, l'esistenza della frase, della parola. La rivoluzione di giugno è la rivoluzione brutta, la rivoluzione ripugnante, perché al posto della frase è subentrata la cosa, perché la repubblica ha denudato la testa del mostro, strappan­ dogli la corona che la proteggeva e la nascondeva 156•

Il popolo di giugno sulle barricate aveva svelato che la rivolu­ zione di febbraio non era stata una vera rivoluzione, poiché aveva lasciato sussistere «il dominio di classe, la schiavitù degli operai, l'ordine borghese, per quanto spesso cambiasse 155/ Ibidem. 156/ lvi, p. 147.

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la forma politica di questo dominio»: se giugno ha «intaccato quest'ordine», per gli sfruttatori «maledetto sia giugno!» 157• Marx consegnava queste riflessioni fiammeggianti alle pa­ gine della «Nuova gazzetta renana», da lui fondata a Colonia e diretta fino alla sua chiusura, che avvenne per decreto gover­ nativo nel maggio dell'anno successivo. Intanto, per la sua in­ cessante attività Marx fu bandito anche dalla Francia, costretto a scegliere tra l'alternativa dell'esilio e quella di lasciare Parigi per trasferirsi nell'inospitale provincia del Morbihan. Comin­ ciò così l'esilio londinese. Nella capitale inglese Marx restò tutta la restante parte della sua vita, interrompendo il suo sog­ giorno solo per brevi viaggi momentanei. Marx a Londra

La sconfitta del movimento operaio del 1848 fu per Marx un duro colpo. L'impatto fu così sconfortante che questi -come del resto fece pure Engels-decise di ritirarsi in una vita di stu­ dio e di riflessioni. La rivoluzione gli appariva oramai impossi­ bile, almeno nella fase che si era aperta con la sconfitta del giugno operaio. Tanto valeva la pena di sfruttare il soggiorno londinese per immergersi nelle letture del British Museum, dove Marx poteva venire a contatto con una grande quantità di testi fondamentali dell'economia politica, la scienza verso la quale cominciò a dirottare i suoi interessi scientifici e alla quale dedicò i più significativi sforzi teorici e conoscitivi a par­ tire dai primi anni Cinquanta. Furono anni di intensi studi, che produssero i primi significativi risultati verso la fine del decen­ nio, con l'importante redazione dei volumi dedicati ai Linea157/ Ibidem. 111

menti fondamentali di critica dell'economia politica (185758), nonché dei testi metodologici a essi legati (l'Introduzione del 1857 e la Prefazione del 1859), e che continuarono anche

nei decenni successivi, con la pubblicazione del primo libro del Capitale (1867) e con la lavorazione dei manoscritti prepa­ ratori al secondo e terzo libro, ai quali Marx consacrò tutta la restante parte della sua vita e che saranno poi pubblicati po­ stumi da Engels. Furono anni molto duri, pieni di guai finanziari e di dram­ mi familiari. Marx visse a partire da quel momento enormi ri­ strettezze economiche, che fiaccarono a lungo andare il suo fisico e quello della sua fedele moglie Jenny, oltre che quello della prole, che in parte perì nel corso di quei travagliati anni di sofferenze e, spesso, di miseria materiale. Una miseria ma­ teriale alla quale si accompagnò la penosa presenza della ma­ lattia, e dalla quale Marx poté sollevarsi solo in alcuni, isolati frangenti, grazie agli articoli pubblicati per il New York Tribune e ancor di più grazie all'aiuto generoso del fraterno amico En­ gels, intanto riparato a Manchester per tentare fortuna nel­ l'azienda di famiglia. Il ritiro di Marx alla vita di studio e all'inattività politica dopo il 1848 non fu, a ben guardare, solo una vicenda perso­ nale, ma rifletteva più in generale una situazione alla quale i ri­ voluzionari erano in qualche misura condannati dalle condi­ zioni oggettive che si erano venute a creare in quegli anni. La modernità europea andava conoscendo una grande trasforma­ zione, che nei decenni successivi - almeno negli anni Cin­ quanta e Sessanta dell'Ottocento- si mostrò in tutta la sua evi­ denza. Se fino al 1848 la società europea - e in particolare i settori più avanzati della borghesia urbana con tendenze libe­ rali - era stato un luogo di effervescenza politica, recitando un

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ruolo di primo piano nel tentativo di determinare trasforma­ zioni politiche e costituzionali, dopo la sconfitta del 1848 questa tendenza aveva lentamente ceduto il passo a un sostan­ ziale immobilismo. Gli Stati ne erano usciti rafforzati, e a mag­ gior ragione dopo il colpo di Stato di Luigi Napoleone in Fran­ cia lentamente le rivoluzioni sociali lasciavano il passo alle guerre dinastiche 158• Le spinte sociali, così, si ritiravano, e furono sempre di più le guerre tra Stati (non invece i movimenti sociali) a determina­ re quelle trasformazioni costituzionali - si pensi ai processi di annessione territoriale perpetrati da Prussia e Regno di Sarde­ gna ai danni degli altri Stati del mondo tedesco e di quello ita­ liano - che nella prima metà del secolo erano state il sogno della borghesia rivoluzionaria. Se fino al 1848 «le guerre civili e le rivoluzioni interesseranno singolarmente tutte le nazioni e gli Stati dell'Europa centrale lungo la quasi totalità del loro ter­ ritorio», dal 1848 in avanti «senza guerra nessuna rivoluzio­ ne», per usare una celebre formula di Reinhart Koselleck: in­ fatti le rivoluzioni furono presto «estinte» con «i mezzi tradi­ zionali della diplomazia o della conduzione della guerra», sicché «dalla rivoluzione europea del 1848 gli Stati si sono consolidati [ ...]al punto che trasformazioni costituzionali vio­ lente, guerre civili e rivoluzioni poterono essere risolte soltan­ to in conseguenza e nella scia di guerre statali» 159• Neanche la crisi del 1857, dalla quale Marx e Engels molto si aspettavano (giacché già nel 1850 scrivevano che «una 158/ A.J.P. Taylor, L'Europa delle grandi potenze. Da Metternich a Lenin, Later­ za, Roma-Bari 1961. 159/ R. Koselleck, Wie europaisch war die Revolution von 1848/49?, in Id., Europaische Umrisse deutscher Geschichte. Zwei Essays, Manutius, Heidel­ berg 1999, pp. 9-36, qui pp. 30-32. 113

nuova rivoluzione è possibile solamente in conseguenza di una nuova crisi. L'una però è altrettanto sicura quanto l'altra» 160 ) e per la quale molto si entusiasmarono («Questa schifezza borghese degli ultimi sette anni mi si era in certo qual modo attaccata addosso, ora mi sento lavato, e torno ad essere un altro uomo. Fisicamente la crisi mi farà bene quanto un bagno di mare, me ne accorgo sin d'ora» 1 61 ), poté cambiare queste tendenze del corso storico. E fu così che le guerre dina­ stiche presero la scena ai movimenti sociali, che non vissero che brevi sussulti e una fase di ripensamento delle loro struttu­ re politiche. Non per questo, però, Marx fu del tutto insensibile al ri­ chiamo della riorganizzazione della lotta operaia, alla quale tentò di contribuire tessendo rapporti con le associazioni in­ glesi-e in particolare con la galassia tradeunionista-e conti­ nentale, in particolare con i gruppi del mondo operaio tede­ sco (dove già era all'opera la spaccatura tra la fazione di Fer­ dinand Lassalle, sul cui conto Marx nutriva più di una riserva, in particolare per le sue tendenze filo-bismarckiane e prusso­ centriche, e quella di Wilhelm Liebknecht e August Bebel) e francese (dove però assai significativa era l'egemonia dei proudhoniani).

160/ K. Marx - F. Engels, Rassegna maggio-ottobre 1850, in MEOC, voi. X, p. 522. 161/ F. Engels, Lettera a Marx, 15 novembre 1857, in MEOC, voi. 40, p. 223. Cfr. M. Heinrich, Cibt es eine Marxsche Krisentheorie? Die Entwicklung der

Semantik von «Krise» in den verschiedenen Entwiirfen zu einer Kritik der poli­ tischen Okonomie, «Beitrage zur Marx-Engels-Forschung. Neue Folge», 1995, pp. 130-50. 114

«Il grande dovere della classe operaia»

Lo sviluppo capitalistico in Europa, intanto, era in significativa espansione. Dopo le grandi innovazioni prodotte dalla rivolu­ zione industriale, che avevano sconvolto il quadro strutturale e ridisegnato il volto del continente, l'Europa era destinata a nuovi, inediti scenari. Ben presto infatti conobbe una nuova ondata trasformatrice, nella quale sempre più massicciamente la produzione economica fu organizzata attorno al nucleo della grande fabbrica, nella quale la concentrazione di capitai i e la sempre più possente macchinizzazione contribuirono alla diffusione e alla cristallizzazione di una sempre più massiccia classe operaia, che diventò a tutti gli effetti un soggetto sociale caratterizzante i centri urbani dei maggiori Paesi europei 162• Questa classe operaia aveva oramai maturato esperienze significative nel corso dei decenni precedenti, e andava sem­ pre più strutturandosi in organizzazioni -politiche e sindacali -finalizzate al coordinamento delle lotte per l'emancipazione e alla creazione di reti di solidarietà tra i lavoratori. E se la rivo­ luzione industriale si radicava e si diffondeva, ancorché con caratteristiche e peculiarità nazionali {se non addirittura loca­ li), su tutto il continente europeo, anche le organizzazioni so­ ciali e politiche del proletariato compresero che era arrivato il tempo di un coordinamento sovranazionale tra le varie sigle che ne popolavano la galassia. È in questo contesto che nell'autunno del 1864, a Londra, ebbe luogo una riunione di associazioni operaie di diversa provenienza nazionale, che sarebbe stato l'incunabolo 162/ D. Landes, Prometeo liberato. Trasformazioni tecnologiche e sviluppo in­ dustriale nell'Europa occidentale dal 1750 ai giorni nostri, Einaudi, Torino

2000.

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dell' «Associazione Internazionale dei Lavoratori», che da lì a due anni avrebbe celebrato il suo primo congresso. L'Inter.na­ zionale fu sin dall'inizio segnata da una grandissima e straor­ dinaria vitalità, che ridiede linfa al movimento operaio e rior­ ganizzò-sotto il profilo teorico e pratico- la prassi delle orga­ nizzazioni proletarie, contribuendo in maniera significativa non solo alla diffusione delle lotte, al loro coordinamento, alla reciproca conoscenza dei lavoratori di diversa provenienza nazionale, oltre che alla propaganda delle idee socialiste, ma anche alla definizione di un programma sociale e politico sempre più preciso e unitario. Ebbe tuttavia alterne fortune, se è vero che, contempora­ neamente, fu segnata anche da notevoli differenze interne, do­ vute principalmente al fatto che si presentava come organizza­ zione che aspirava a tenere nel suo seno gruppi informati dalle più diverse tendenze e prospettive, da quelle marxiste a quelle proudhoniane e democratiche, sino a quelle bakuniniste 163 • Fu certo anche l'insanabile divergenza tra Marx e Bakunin a decretarne, nel 1872, la scissione, e a sancire la lenta agonia che portò alla sua fine nel 1878, anche se probabilmente un ruolo decisivo giocò la grave sconfitta del secondo grande epi­ sodio di lotta rivoluzionaria che aveva avuto come protagoni­ sta il proletariato europeo, che proprio come il primo ebbe per teatro Parigi e che proprio come il primo terminò in un bagno di sangue- persino più orrendo di quello del 1848. La fondazione dell'Internazionale, in ogni caso, fu per Marx l'occasione per uscire dal lungo letargo (non certo teorico, ma quantomeno pratico) nel quale i suoi studi lo avevano condotto e di tornare alla politica attiva. Seguire tutte le fasi che caratte163/ G.M. Bravo, La Prima Internazionale: storia documentaria, Editori riuniti, Roma 1978. 116

rizzarono il suo nuovo impegno nelle fila delle organizzazioni operaie è impossibile in questa sede. Ci interessa piuttosto indi­ viduare, sul piano teorico, gli snodi cruciali che definiscono la sua teoria dell'organizzazione e la sua concezione della rivolu­ zione. Ancora una volta, si tratta anche su questo terreno di in­ dividuare in cosa consiste la differenza marxiana, la sua pro­ pria prospettiva specifica. Stavolta si tratta di seguirla non più sul piano della critica alla filosofia, alla teologia politica, al so­ cialismo o all'economia politica, ma di inoltrarci più diretta­ mente sul terreno della teoria dell'organizzazione. È su questo terreno che, in ultima analisi, la teoria del conflitto di Marx trova il suo ultimo e più cogente punto di caduta. Per farlo, ci serviremo in prima battura di un testo di grande rilevanza che Marx scrive proprio per la fondazione dell'Inter­ nazionale, il suo Indirizzo inaugurale del 1864. In esso si cri­ stallizzano-anche se non per la prima volta-alcune intuizio­ ni che definiscono in maniera limpida la rielaborazione che Marx viene facendo sulle forme che il pensiero e la prassi della rivoluzione devono assumere per acquisire una forma concre­ ta. Occorre partire, dice Marx, dalla consapevolezza di una sconfitta epocale. «Dopo l'insuccesso della rivoluzione del '48, tutte le organizzazioni di partito, tutti i giornali del partito delle classi lavoratrici sono stati spezzati sul continente dalla ferrea mano della forza bruta» 164• Questa sconfitta ha signifi­ cato un arretramento della classe operaia e delle sue organiz­ zazioni, e un significativo avanzamento dei «signori della terra e del denaro». Tuttavia, il conflitto latente non si è mai del tutto interrotto, reso possibile dal fatto stesso che la classe operaia 164/ K. Marx, Indirizzo inaugurale dell'Associazione internazionale degli ope­ rai, cit. p. 1 O. 117

possiede dalla sua un elemento strutturale: «il numero» 165, ov­ vero dal fatto che il capitale, per ingrandirsi, non può che con­ tinuare a produrre nel suo seno il suo nemico interno. Si tratta allora di riorganizzare la lotta operaia imparando dagli errori del passato, collocandosi all'altezza dei risultati che la critica dell'economia politica ha prodotto e che l'esperienza trascor­ sa ha consegnato. Anzitutto, decisiva per Marx è la battaglia per la riduzione della giornata lavorativa. Non a caso l'ottenimento della legge «sulle dieci ore» viene celebrata come una grande vittoria della «più ammirevole perseveranza» da parte della «classe operaia inglese» 1 66 • Se la valorizzazione capitalistica passa per il furto del tempo operaio, «la legge sulle dieci ore non è stato soltanto un successo pratico», perché «rappresentò la vittoria di un principio»: «per la prima volta», infatti, «l'economia politica della classe media risultò completamente soccombente di fronte all'economia della classe operaia» 167• Ma di decisiva im­ portanza è, agli occhi di Marx, anche lo sviluppo del «movi­ mento cooperativo», al quale viene riconosciuto il merito di avere mostrato che «la produzione su larga scala e in accordo con le esigenze della scienza moderna può venire esercitata senza l'esistenza di una classe di padroni che impieghi quella dei manovali» 168 • Proprio dove consegue i suoi più significativi risultati, però, il movimento cooperativo mostra anche il suo limite struttura­ le: esso, in effetti, può aspirare al massimo a produrre qualche 165/lvi, p. 12. 166/lvi, p. 1 O. 167/lvi, p. 11. 166/ Ibidem. 118

goccia isolata nell'oceano dello sfruttamento, ritagliare qual­ che oasi felice, ma non può, di per sé, «arrestare il progresso geometrico del monopolio, non è in grado di emancipare le masse e neppure è capace di alleviare in modo sensibile il far­ dello della loro miseria» 169• Non è un caso, a giudizio di Marx, che proprio «i declamatori filantropi della classe media, gli economisti arditi in tutti i casi si sono volti all'improvviso con complimenti nauseabondi al sistema del lavoro cooperativo»: essi ne conoscono l'intima compatibilità con il sistema dello sfruttamento, ove il suo sviluppo resti limitato. Ecco, allora, il punto: «il lavoro cooperativo, per salvare le masse operaie, deve essere sviluppato in dimensioni naziona­ li, e conseguentemente sostenuto su scala nazionale» 170• Que­ sto passo di qualità, tuttavia- l'estensione su base nazionale di un sistema produttivo non più basato sullo sfruttamento-, im­ plicherebbe la fine della proprietà privata dei mezzi di produ­ zione. Come realizzare questo proposito, se non attraverso il mezzo che la classe operaia parigina del 1848 non riuscì a rag­ giungere? La conquista del potere politico è diventato il grande dovere della classe operaia171•

È, questo, il compito decisivo, che connota la teoria marxiana della rivoluzione. Questa può essere effettiva solo se trasforma gli assetti produttivi. Ma tale trasformazione può darsi soltanto mediante la conquista del potere politico e la sua gestione. E la 169/lvi, p. 12. 170/ Ibidem. 1711 lbidem. 119

conquista del potere politico, infine, può darsi soltanto se la classe operaia, che possiede il vantaggio del «numero», lo mette a valore fornendosi di una sua propria organizzazione in grado di dare forma al conflitto: «il numero non pesa sulla bi­ lancia se non quando è unito in collettività ed è guidato dalla conoscenza». È questo il compito dell'Internazionale. L'esperienza ha sufficientemente dimostrato quale vergognoso di­ sprezzo la disfatta comune dei loro sforzi incoerenti infliggerà a que­ sto legame di fraternità, che deve esistere tra gli operai dei differenti Paesi e deve incitarli a stringersi con fermezza gli uni agli altri in tutte le loro lotte per l'emancipazione. Questa idea ispirò gli operai di dif­ ferenti Paesi, riunti il 28 settembre 1864 in assemblea pubblica nel St. Martin's Hall, a fondare l'Associazione internazionale 172.

«Marciare su Versailles» Nel 1871 Bismarck, che aveva già battuto cinque anni prima gli Austriaci a Sadowa e che aveva posto con ciò le basi militari per dare corso al suo progetto di unificazione grande-tedesco a spese degli Asburgo, conduceva fino alle sue estreme conse­ guenze la guerra contro Napoleone lii, umiliando la Francia con l'assedio di Parigi e imponendole la concessione dell'Al­ sazia-Lorena al nascente Reich guglielmino. Dopo la cattura di Napoleone lii, a Parigi si era insediato il governo di Adolphe Thiers, il cui tentativo nel marzo del 1871 di disarmare la mili­ zia popolare che aveva difeso Parigi dall'assedio prussiano e di ristabilire con ciò l'ordine fu la scintilla che fece esplodere la rabbia popolare e l'inizio della Comune. Fu il cominciamento 172/ lvi, pp. 12-3. 120

di quasi due mesi di governo operaio della città, che si conclu­ se presto, nel maggio 1871, con una dolorosa sconfitta. I fatti della Comune impressionarono notevolmente i con­ temporanei. Marx fu tra questi, e seguì quegli eventi con pas­ sione e straordinaria compartecipazione, scrivendo sulle gior­ nate parigine pagine di grande afflato e trasporto rivoluziona­ rio. Quella del proletariato parigino è «l'azione più gloriosa del nostro partito dopo l'insurrezione di giugno», scriveva Marx a Ludwig Kugelmann già nell'aprile del 1871 173 • «Quale duttilità, quale iniziativa storica, quale capacità di sacrificio in questi parigini!» 174 • E pochi giorni dopo aggiungeva che, qua­ lunque sarebbe stato l'esito dell'esperienza della Comune, grazie alla sua lotta «un nuovo punto di partenza di importan­ za storica universale è conquistato» 175• Riprendendo un motivo già adoperato a proposito del giu­ gno 1848, Marx spiega, nelle sue celebri pagine su La guerra civile in Francia, pubblicate a pochi giorni dalla capitolazione di Parigi, che la classe operaia in armi doveva servire alla bor­ ghesia soltanto fino a quando sarebbe stata utile al suo interes­ se (in questo caso, alla difesa di Parigi contro Bismarck). Ma una volta esaurito questo compito, andava disarmata. «Parigi in armi era l'unico serio ostacolo sulla via del complotto con­ trorivoluzionario. Parigi doveva perciò essere disarmata» 176• La risposta degli operai armati fu per questo, per la prima volta 173/ K. Marx, Lettera a Kugelmann, 12 aprile 1871, in MEOC, voi. XLIV, pp. 198-9, qui p. 199. 174/ lvi, p. 198. 175/ K. Marx, Lettera a Kugelmann, 17 aprile 1871, ivi, p. 202. 176/ K. Marx, La guerra civile in Francia. Indirizzo del Consiglio generale de/­ l'Associazione internazionale dei lavoratori [1871 I, in MEOC, voi. XXII, pp. 275-324, qui p. 285. 121

dopo il giugno 1848, l'atto di guerra più acuto contro il domi­ nio borghese. La Comune non era soltanto il rifiuto della «forma monarchica di dominio di classe, ma dello stesso do­ minio di classe» 177, ovvero «un governo della classe operaia, il prodotto della lotta della classe dei produttori contro la classe sfruttatrice, la forma politica infine scoperta con cui compiere l'emancipazione economica del lavoro» 178• Mettendo a nudo l'intento dei suoi nemici di perpetrare lo sfruttamento, la Comune ha senza infingimenti mirato ad «abolire la proprietà di classe che fa del lavoro di molti la ric­ chezza di pochi», cioè «all'espropriazione degli espropriato­ ri» 179, osando innalzare la pretesa degli oppressi di liberarsi dall'oppressione dei signori «naturali». Quando la Comune di Parigi ha preso la conduzione della rivoluzio­ ne nelle proprie mani; quando semplici operai, per la prima volta, hanno osato violare il privilegio governativo dei loro «superiori natu­ rali» [ ...), il vecchio mondo si è dibattuto in convulsioni di rabbia alla vista della bandiera rossa, simbolo della repubblica del lavoro, sven­ tolante sull'Hotel de Ville 180•

Proprio come era accaduto nel giugno 1848, la Comune mo­ stra, agli occhi di Marx, che l'unità di intenti tra borghesia e proletariato è «mero imbroglio di governo, volto a differire la lotta delle classi, accantonato non appena questa lotta di clas-

177/ lvi, p. 296. 178/ lvi, p. 299. 179/ lvi, p. 300. 180/ lvi, p. 301. 122

se divampa in guerra civile»181, e che perciò stesso la sconfitta del 1871 è solo un episodio lungo la via dell'emancipazione. Ciò che conta, ora, è avere svelato l'inganno, motivo per il quale «la classe operaia francese è soltanto l'avanguardia del moderno proletariato»182• La partecipazione e la complicità che Marx, da rivoluzio­ nario, mostrò inevitabilmente nei confronti della Comune, che a differenza del 1848 aveva condotto a una -seppur mo­ mentanea-vittoria, non lo dispensò dal riflettere sui limiti che l'organizzazione operaia aveva mostrato in quella circostan­ za. Decisivo qui è, agli occhi di Marx, precisamente il caratte­ re aleatorio di quella vittoria. A cosa andava ricondotto? Se Marx aveva proposto, già nel Manifesto, ma sempre più diffusamente anche in seguito (si pensi all'Indirizzo del 1864), l'idea che compito della classe operaia fosse la presa del pote­ re politico, e che essa avrebbe dovuto corrispondere alla so­ cializzazione dei mezzi di produzione, i fatti della Comune avevano mostrato che in quella circostanza la via seguita era stata un'altra. Lungi dallo sferrare l'attacco decisivo su Versail­ les, dove si era rifugiato il governo Thiers, gli operai avevano innalzato su Parigi il vessillo della Comune, dichiarato una simbolica distruzione dello Stato, e non dato corso, quindi, al tentativo effettivo della sua conquista. Mostrando chiaramente di non condividere questa scelta, nelle stesse pagine in cui esalta lo spirito rivoluzionario dei comunardi Marx scrive anche che «il comitato centrale» che guidava la Comune «si è reso colpevole di un errore decisivo non marciando aperta­ mente su Versailles», dove il governo controrivoluzionario di 181/lvi, p. 319. 1821 lbidem. 123

Thiers aveva stabilito la sua sede 183 • Una decisione che, di fatto, a giudizio di Marx tiene in vita il potere politico del 11e­ mico, consentendogli di riorganizzarsi militarmente e di con­ tinuare a gestire le leve del potere statale fuori Parigi. Con ciò, i mezzi di produzione non erano stati socializzati, perché l'estinzione dello Stato (evidentemente solo proclama­ ta) era venuta ancor prima della sua conquista, dato che i de­ creti di esproprio erano validi solo per la città di Parigi. In apri­ le Marx scriveva a Liebknecht: «sembra che i parigini stiano soccombendo. È colpa loro, ma è una colpa che, di fatto, deri­ va da una honnété troppo grande», perché, non attaccando Versailles, «per non destare l'apparenza di usurpare il potere, perdono momenti preziosi (bisognava muovere subito su Ver­ sailles)» 184• Una settimana dopo ribadisce queste idee a Kugel­ mann: «Se soccomberanno, la colpa sarà soltanto della loro "indulgenza". Occorreva marciare subito su Versailles» 185• Non si tratta, secondo Marx, di un mero errore di valutazio­ ne o di tattica militare: collegata a questa incertezza, infatti, è proprio la scelta di non condurre la lotta fino al centro del po­ tere, al luogo dove la vecchia società si teneva, materialmente e simbolicamente, in vita. Che a giudizio di Marx l'errore dei comunardi sia di ordine strategico, e non solo tattico, pare confermato da un altro accenno che questi, nella stessa lettera che invia a Kugelmann, fa quando scrive: «secondo errore: il comitato centrale ha deposto il suo potere troppo presto, per cedere il posto alla Comune» 186• Preso il potere politico, la 183/ lvi, p. 290. 184/ K. Marx, lettera a liebknecht, 6 aprile 1871, in MEOC, voi. XLIV, p. 193. 185/ K. Marx, lettera a Kugelmann, 12 aprile 1871, cit., p. 198. 186/lvi, p. 199. 124

classe operaia che si era messa all'avanguardia del processo ri­ voluzionario lo aveva subito «restituito» al popolo parigino, senza che l'attacco per la sua conquista venisse esteso al luogo nel quale esso, evidentemente, ancora veniva esercitato (poli­ ticamente, simbolicamente e militarmente): Versailles. Era mancato, dunque, il momento della transizione: prima di abo­ lire il potere, esso andava davvero conquistato e tenuto saldo nelle mani per operare la socializzazione dei mezzi di produ­ zione. Con ciò la Comune si era condannata alla sconfitta. La dittatura del proletariato

Nonostante questi errori, che pertengono al terreno dell'orga­ nizzazione del conflitto, agli occhi di Marx la Comune si sta­ glia come un punto luminosissimo sulla strada dell'emancipa­ zione. La Parigi operaia, con la sua Comune, sarà celebrata per sempre come la gloriosa messaggera di una nuova società. I suoi martiri hanno per urna il grande cuore della classe operaia. I suoi sterminato­ ri, la storia li ha già inchiodati a quella gogna eterna, dalla quale non riusciranno a riscattarli tutte le preghiere dei loro preti187 •

li riconoscimento che Marx tributa alla Comune, unitamente agli errori che le imputa, mostrano, se non l'apertura di una crepa, quantomeno il riconoscimento, nel ragionamento mar­ xiano, di una significativa complessità. Da un lato Marx sem­ bra imputare alla Comune l'errore di aver rinunciato alla presa del potere, per come essa era stata teorizzata nel Manifesto e 187/ K. Marx, la guerra civile in Francia, cit., p. 320. 125

nell'Indirizzo del 1864. Dall'altro lato, però, nel nuovo Indiriz­ zo del 1871 non sono solo presenti omaggi di facciata e una compartecipazione emotiva; v'è di più: emergono infatti, forse determinati dall'impressione del momento, alcune significati­ ve differenze rispetto alla teoria precedente. Scrive infatti Marx: La classe operaia non può semplicemente impadronirsi della mac­ china statale così com'è, e manovrarla per i propri fini 1 88 •

Sembra che in queste righe l'idea che il compito della classe operaia sia quello della conquista del potere e della sua gestio­ ne subisca, in parte, una revisione. A conferma di ciò, nella let­ tera del 12 aprile 1871 inviata a Kugelmann Marx scrive: Se rileggi l'ultimo capitolo del mio 18 brumaio, troverai che io affermo che il prossimo tentativo della rivoluzione francese non consisterà nel trasferire da una mano all'altra la macchina militare e burocratica, com'è avvenuto finora, ma nello spezzarla, e che tale è la condizione preliminare di ogni reale rivoluzione popolare sul continente. In que­ sto consiste pure il tentativo dei nostri eroici compagni parigini1 89 •

Parrebbe dunque che Marx, sotto l'impressione degli eventi della Comune, si trovasse quantomeno in una posizione di in­ decisione, o di riflessione. Per un verso afferma che l'errore de­ cisivo dei comunardi fu quello, politico-militare, di non mar­ ciare su Versailles, dunque di non completare la presa del po­ tere, rendendo effettivo il governo operaio instaurato a Parigi.

188/ lvi, p. 293. 189/ K. Marx, Lettera a Kugelmann, 12 aprile 1871, cit., p. 198. 126

Dall'altro, tuttavia, vi è più di un accenno, nel testo dell'Indi­ rizzo del 1871 e nelle coeve lettere, al fatto che non si tratta più di prendere il potere per come esso è, ma di spezzarlo. Siamo di fronte, evidentemente, a due opzioni del tutto diverse: nell'un caso la presa del potere è funzionale al suo esercizio, alla gestione delle sue leve per produrre la socializzazione dei mezzi di produzione, nell'altro caso si tratta invece di rinun­ ciare al suo esercizio e di distruggerlo. L'occasione per una sistematizzazione della sua prospetti­ va teorica sull'organizzazione politica, che evidentemente aveva subito qualche scossa dai fatti della Comune, venne data a Marx dal Congresso di fondazione della socialdemocra­ zia tedesca, svoltosi a Gotha nel 1875. L' «Associazione Gene­ rale degli Operai Tedeschi» di Lassalle e il «Partito Socialde­ mocratico dei Lavoratori di Germania» di Liebknecht e Bebel, infatti, decisero di unirsi in una unica formazione, dando vita al «Partito Socialista dei Lavoratori di Germania» e redigendo un comune programma fondativo. Marx ed Engels non furono felici di quel programma. Lo consideravano molto arretrato, e il compromesso tra la fazione socialista di Liebknecht e Bebel e quella di Lassalle venne rite­ nuto troppo spinto in favore di quest'ultima. Giudicando i las­ salliani meno avanzati sul piano teorico rispetto ai socialisti di Liebknecht, Marx ed Engels ritenevano che nonostante ciò quelli fossero riusciti a ottenere, in virtù della loro maggiore «scaltrezza politica», che il programma di unificazione fosse infarcito della loro visione e dei loro principi e a «gabbare» l'al­ tra fazione 190 • Marx inviò allora una nota critica - pubblicata 190/ F. Engels, Lettera a Bebel, 28 marzo 1875, in K. Marx, Critica del program­ ma di Gotha, cit., pp. 47-57, qui p. 48. 127

da Engels solo dopo la sua morte, nel 1891 -a Bebel, Liebk­ necht e altri esponenti della loro area. Non è possibile seguire qui tutto il filo della critica di Marx, ampiamente determinata dalla sua opposizione a Lassalle, che da sempre gli era inviso per la sua vicinanza a Bismarck, che Marx non giudicava frutto di un sincero interesse per la causa nazionale del proletariato tedesco, ma solo l'espressio­ ne di una deviazione nazionalistica e prusso-centrica. Ci inte­ ressa piuttosto individuare gli elementi costitutivi che defini­ scono la teoria marxiana della transizione, elaborata probabi I­ mente proprio in conseguenza dell'ancora bruciante ricordo dei fatti della Comune. Marx giunge (ritorna) alla conclusione che la presa del po­ tere implica la conquista dello Stato. Se il fine è la sua abolizio­ ne, questa non può essere immediata - Parigi docet. Qualora lo fosse, in effetti, lo sarebbe soltanto in maniera del tutto estemporanea e aleatoria. Lo sviluppo capitalistico è giunto a un punto tale che occorre utilizzare la leva del potere statale per procedere alla socializzazione dei mezzi di produzione, e avviare con ciò una-più o meno lunga-fase di transizione. La presa del potere politico, infatti, può determinare nel­ l'immediato, al massimo, «una società comunista» non «come essa si è sviluppata sulla sua propria base», ma solo «come sorge dalla società capitalistica»191 • Tale società «porta quindi ancora sotto ogni rapporto, economico, morale, spirituale, le impronte materne della vecchia società dal cui seno essa è uscita»192 • Se questo è vero, illusorio è per Marx ritenere che alla presa del potere possa seguire, immediatamente, la 191/ K. Marx, Critica del programma di Gotha, cit., p. 23. 192/ Ibidem. 128

sua abolizione ( «spezzare» la catena dello Stato, per dirla con le parole della lettera a Kugelmann). Nella «prima fase della società comunista, quale è uscita dopo i lunghi travagli del parto dalla società capitalistica», sono infatti immaginabili «inconvenienti» nella gestione della produzione e nella allo­ cazione delle risorse 193 • Soltanto nella «fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione servile degli individui alla divisione del lavoro», si potrà aspi­ rare a una completa realizzazione della rivoluzione. Ciò che Marx concettualizza, dunque, è una fase di passaggio, una transizione, nella quale il processo rivoluzionario possa lentamente produrre i risultati ai quali aspira. In questo perio­ do lo Stato resta, per Marx, l'unica leva attraverso cui il prole­ tariato può compiere la sua opera di trasformazione. Tra la società capitalistica e la società comunista vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell'una nell'altra. Ad esso corrispon­ de anche un periodo politico transitorio, il cui Stato non può essere altro che la dittatura del proletariato194 • La dittatura del proletariato, in altri termini, è il concetto me­ diante il quale Marx dà forma alla sua teoria della rivoluzione, opponendo plasticamente la fase della transizione alla fase compiutamente comunista. Se nella prima è necessario lo Stato- lo strumento che consente al proletariato di dominare i suoi nemici e imporre la socializzazione dei mezzi di produ­ zione -, nella seconda esso sarà estinto, e la società umana

193/ lvi, p. 25. 194/ lvi, p. 37. 129

realizzata 195• Solo in essa dello Stato non ne sarà più niente, e al suo posto subentrerà quel Gemeinwesen, quella «comuni_­ tà» di cui già il giovane Marx aveva parlato nella Questione ebraica. Il punto viene esemplarmente illustrato da Engels con queste parole rivolte a Bebel: Sarebbe ora di farla finita con tutte queste chiacchiere sullo Stato, specialmente dopo la Comune, che non era più uno Stato nel senso proprio della parola. Gli anarchici ci hanno abbastanza rinfacciato lo «Stato popolare», benché già il libro di Marx contro Proudhon e in se­ guito il Manifesto dicano espressamente che con l'istaurazione del regime sociale socialista lo Stato si dissolve da sé e scompare. Non es­ sendo lo Stato altro che un'istituzione temporanea di cui ci si deve servire nella lotta, nella rivoluzione, per schiacciare con la forza i propri nemici, parlare di uno «Stato popolare libero» è pura assurdità: finché il proletariato ha ancora bisogno dello Stato, ne ha bisogno non nell'interesse della libertà, ma nell'interesse dello schiacciamen­ to dei suoi avversari, e quando diventa possibile parlare di libertà, al­ lora lo Stato come tale cessa di esistere. Noi proporremmo quindi di mettere ovunque invece della parola «Stato», la parola «comunità [Gemeinwesen)», una vecchia eccellente parola tedesca, che corri­ sponde alla parola francese Commune 196 •

Se interpretiamo bene le parole di Marx e quelle di Engels, sembra che l'entusiastico fervore per l'azione dei comunardi che «spezzano» il potere venga ora ricondotto nell'alveo di una più complessa valutazione. Spezzare questo potere, in195/V. Giacché, La fine della produzione mercantile nella Critica al Program­ ma di Gotha di Marx. Vicende novecentesche di una teoria, in F. Cerrato - G. lmbriano, Marx200, cit., pp. 203-21. 196/ F. Engels, Lettera a Bebel, 28 marzo 1875, cit., pp. 53-4. 130

staurare la Comune, il Gemeinwesen, è certo l'obiettivo rivo­ luzionario: ma ciò non può essere fatto nell'immediato, pena la sua inconsistenza. Prima, è necessaria la transizione: occor­ re marciare su Versailles, prendere il potere politico, schiac­ ciare i propri nemici, imporre la socializzazione dei mezzi di produzione e tenere in vita la dittatura proletaria fino a quando il tempo della transizione non sarà concluso 197• La rivoluzione

Dopo la Critica al Programma di Gotha, Marx vivrà ancora otto anni, segnati anch'essi da dolori personali molto acuti - la morte della moglie Jenny e della omonima figlia-e guai fisici. Il tema della transizione sarà al centro delle riflessioni di que­ sta ultima fase. Esso riguarda non solo il modo (come avviene la transizione e con quali strumenti), che Marx aveva tematiz­ zato nella Critica del 1875, ma anche il dove (quale è il luogo privilegiato in cui la transizione può avvenire). Così lo stesso Marx, che nei decenni precedenti aveva fornito più di un ele­ mento che aveva indotto a interpretare la sua concezione della storia in termini stadiali (il suo entusiasmo per le cosiddette ri­ voluzioni borghesi, in fondo, era il segno della convinzione che solo dopo lo sviluppo della società capitalistica fosse pos­ sibile la transizione al socialismo) rivede, almeno in parte, questo assunto. Grazie allo studio di diversi contesti extra-eu­ ropei si avvede cioè che la transizione al comunismo può av­ venire, in presenza di particolari condizioni, anche in luoghi dove la formazione sociale capitalistica non è sviluppata. 197/ I. Mészaros, Una crisi strutturale impone trasformazioni strutturali, in F. Cerrato- G. lmbriano, Marx200, cit., pp. 181-201. Si veda anche J. Texier, Ré­ volution et démocratie chez Marx et Engels, Puf, Paris 1998. 131

sofica, spesso esibita strumentalmente proprio da presunti ri­ scopritori di Marx animati in realtà soltanto dal desiderio di di­ sinnescarne la potenza 199• Quanto rileva sottolineare in questa sede è solo il fatto che qui Marx non sta ripensando la sua teo­ ria della rivoluzione, ma solo precisando che, ovunque tenta­ ta, la transizione dovrà dotarsi dello strumento dell'organizza­ zione orientata alla conquista del potere politico e alla gestio­ ne, per mezzo dello Stato, della transizione in direzione della società comunista, e ogni volta pensata sulla base delle speci­ fiche condizioni materiali del contesto di riferimento. In ogni caso, ciò che sempre più chiaramente matura nella prospettiva marxiana è la convinzione del carattere proces­ suale della rivoluzione. La sua lunga durata. La rivoluzione è un processo, non un evento. Contemporaneamente, Marx guadagna la convinzione che luoghi diversi possano essere in ragione delle loro proprie precise condizioni produttive - i punti nei quali la scintilla rivoluzionaria può scoccare. Resta a questo punto solo una domanda finale. In cosa con­ siste, per Marx, la rivoluzione? Quali sono le sue vere, ultime finalità? È chiaro che la socializzazione dei mezzi di produzio­ ne e la conquista del potere politico sono, al dunque, dei mezzi. Ma impiegati per raggiungere quale fine? Nel risponde­ re a questa domanda ultima, forse la più rilevante, Marx resta completamente fedele al suo credo giovanile, a quella antica formazione filosofica e all'antico motto della necessità della realizzazione pratica della filosofia: compito della rivoluzione è realizzare la filosofia, cioè emancipare l'umanità, liberare i soggetti e consentire alle autocoscienze di formarsi libere nel grembo di una nuova società. 199/ Esaustivo sul punto è A. Burgio, Strutture e catastrofi, cit., pp. 201 segg. 133

È ancora la Critica del 1875 che ci consegna una parola de­ cisiva su questo punto. Marx aveva parlato di una prima fase della società comunista, immancabilmente caratterizzata dagli inconvenienti che derivavano dal fatto che essa, sorgendo in seno alla formazione sociale capitalistica, ne avrebbe inesora­ bilmente conservato le scorie. Esse non concernono soltanto la presenza dello Stato, ma anche le forme effettive dell'organiz­ zazione produttiva e dello scambio. Perché in questa prima fase la nuova società porta in sé ancora «le impronte materne» della vecchia? Perché in essa «il produttore singolo riceve [ ... ] esattamente ciò che dà»: quanto è il suo lavoro speso per la so­ cietà, tanto sarà il suo compenso in termini di merci il cui valo­ re corrisponde a quello del lavoro erogato200 • In uno scambio siffatto la valorizzazione capitalistica-lo sfruttamento-è abo­ lita. Cionondimeno, vige un principio che aveva informato già la società capitalistica: «si scambia una quantità di lavoro in una forma contro una uguale in un'altra»201 • li problema di uno scambio siffatto è che la forma mercan­ tile non è del tutto scomparsa, anche se lo sfruttamento è supe­ rato: pur essendo di fronte a un «uguale diritto», questo «è ancor sempre contenuto entro un limite borghese», poiché «il diritto dei produttori è proporzionale alle loro prestazioni di lavoro». Ciò implica che chi sarà in grado -per ragioni fisiche -di lavorare di più e meglio, avrà di più. Questo diritto uguale è un diritto disuguale, per lavoro disuguale. Esso non riconosce nessuna distinzione di classe, perché ognuno è soltanto operaio come tutti gli altri, ma riconosce tacitamente l'ine­ guale attitudine individuale e quindi la capacità di rendimento come 200/ K. Marx, Critica del programma di Gotha, cit., p. 23.

2011 lvi, p. 24. 134

privilegi naturali. Esso è perciò, per il suo contenuto, un diritto della

disuguaglianza, come ogni diritto202 •

Questo residuo del vecchio mondo, la regolazione dello scambio delle merci sulla base dell'eguaglianza del lavoro im­ piegato a produrle, resta «nell'angusto orizzonte giuridico borghese», e dovrà essere superato nella fase compiutamente comunista della società, quando, accanto all'estinzione dello Stato, saranno «cresciute le forze produttive e tutte le sorgenti delle ricchezze sociali» potranno «scorrere in tutta la loro pie­ nezza»203. Solo allora la rivoluzione avrà fatto il suo corso. Ciascuno non avrà secondo quanto avrà prodotto: motto dell'umanità sociale sarà «a ciascuno secondo i suoi bisogni, ciascuno secondo le sue possibilità»204 .

202/ lvi, pp. 24-5. 203/ lvi, pp. 25-6. 204/ lvi, p. 26. 135

PERCORSI E LETTURE

La pubblicazione dell'edizione critica delle opere di Marx è tutt'ora in corso (K. Marx- F. Engels, Cesamtausgabe, 114 voll., Dietz/Akade­ mieVerlag/de Gruyter, Berlin 1975 segg). I testi non ancora editi nella MEGA sono consultabili nei Werke (K. Marx - F. Engels, Werke, 43 voll., Dietz, Berlin 1956 segg.). Non ancora terminata è anche l'edi­ zione italiana delle Opere complete (K. Marx - F. Engels, Opere com­ plete, Editori Riuniti/La Città del Sole, Roma/Napoli 1972 segg.). Gli scritti di Marx sono citati dai volumi dell'edizione italiana di rife­ rimento (K. Marx - F. Engels, Opere complete, Editori Riuniti/La Città del Sole, Roma/Napoli 1972 segg.). Per i testi ancora non disponibili in quella sede si è fatto riferimento a edizioni di singole opere. Talvol­ ta la traduzione è modificata, senza ulteriore avviso. Per una introduzione generale al pensiero di Marx e alle sue proble­ matiche teoriche e filosofiche si vedano S. Petrucciani, a cura di, // pensiero di Kart Marx: filosofia, politica, economia, Carocci, Roma 2018; A. Burgio, Il sogno di una cosa. Per Marx, DeriveApprodi, Roma 2018; C. Galli, Marx eretico, il Mulino, Bologna 2018; É. Bali­ bar, La filosofia di Marx, manifestolibri, Roma 1994; L. Althusser, Per Marx, Editori Riuniti, Roma 1970. Uno studio classico che ripercorre la vita di Marx, utile anche se datato, è quello di F. Mehring, Vita di Marx, Editori Riuniti, Roma 1966.

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A proposito della filosofia della sinistra hegeliana si rimanda a K. Lo­ with, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX, Einaudi, Torino 1949, pp. 89 segg. e a H. Reinalter, a cura di, Die Junghegelianer: Aufklarung, Literatur, Religionskritik und poli­ tisches Denken, Lang, Frankfurt am Main 201O. Sul rapporto Marx­ Bauer puntuale è M. Tomba, La Questione ebraica: il problema del­ l'universalismo politico, in B. Bauer - K. Marx, La questione ebraica, manifestolibri, Roma 2004, pp. 9-39. Per quel che riguarda invece la relazione Marx-Feuerbach si vedano S. Della'i, Marx, critique de Feu­ erbach, L'Harmattan, Paris 2011 eW. Schuffenhauer, Feuerbach und der junge Marx. Zur Entstehungsgeschichte der Marxistischen Weltan­ schauung, DeutscherVerlag derWissenschaften, Berlin 1972. Per una prima introduzione allo studio dell'eredità hegeliana in Marx si vedano almeno R. Fineschi, Marx e Hegel. Contributi a una rilettu­ ra, Carocci, Roma 2006 e A. Burgio, Strutture e catastrofi. Kant Hegel Marx, Editori Riuniti, Roma 2000. Sulla concezione materialistica della storia utili sono H.H. Holz, Natura e storia in Marx, in G.M. Caz­ zaniga - D. Losurdo - L. Sichirollo, a cura di, Marx e i suoi critici, QuattroVenti, Urbino 1987, pp. 195-217; C. Luporini, // concetto di storia in Marx, in N. Merker, a cura di, Marx. Un secolo, Editori Riuni­ ti, Roma 1983; M. Tomba, Strati di tempo. Karl Marx materialista stori­ co, Jaca Book, Milano 2011. Sul concetto di marxiano di produzione F.-J. Albers, Zum Begriff des Produzierens im Denken von Karl Marx, Hain, Meisenheim am Gian 1975 e A. Mazzone, Was hei, t «Produzieren»? Oberlegungen zum Klassenbegriff im Kapital, «Beitrage zur Marx-Engels Forschung, Neue Folge 2001 », Berlin-Hamburg 2002. Una discussione sulla concezione marxiana del conflitto è in G.M. Cazzaniga, Funzione e conflitto. Forme e classi nella teoria marxiana dello sviluppo, Liguori, 138

Napoli 1981. Problematizza la critica marxiana del socialismo e la sua attualità A. Burgio, Modernità del conflitto. Saggio sulla critica marxiana del socialismo, DeriveApprodi, Roma 1999. Per un inquadramento generale della critica dell'economia politica si vedano M.Ch. Howard - J.E. King, L'economia politica di Marx, Li­ guori, Napoli 1980; I.I. Rubin, Saggi sulla teoria del valore di Marx, Feltrinelli, Milano 1976; P. Garegnani, Marx e gli economisti classici: valore e distribuzione nelle teorie del sovrappiù, Einaudi, Torino 1981. Sul rapporto tra tempo di lavoro e dominio utile è M. Pastone, lime, Labor, and Socia/ Domination. A Criticai Reinterpretation of Marx's Critica/Theory, Cambridge University Press, Cambridge 1996. A proposito del passaggio da sussunzione formale a sussunzione reale del lavoro al capitale e delle sue conseguenze si vedano V. Giac­ ché, Valore e plusvalore (assoluto e relativo), in P. Granata- R. Pierri, a cura di, Leggere Marx oggi, Saveria Manne I li, Rubbettino, 2012, pp. 93-98 e A. Negri, Marx oltre Marx. Quaderno di lavoro sui Grundris­ se, Feltrinelli, Milano 1979. Una disamina della teoria politica di Marx è in C. Galli, Marx e il pen­ siero politico. Lineamenti di un inquadramento categoriale, in F. Cer­ rato - G. lmbriano, a cura di, Marx200, Mucchi, Modena 2018, pp.

181-201. A proposito della teoria della transizione si veda V. Giac­ ché, La fine della produzione mercantile nella Critica al Programma di Gotha di Marx. Vicende novecentesche di una teoria, in F. Cerrato G. lmbriano, Marx200, Mucchi, Modena 2018, pp. 203-21. Sulla tra­ sformazione rivoluzionaria e i suoi esiti I. Mészaros, Una crisi struttu­ ra/e impone trasformazioni strutturali, in F. Cerrato - G. lmbriano, Marx200, Mucchi, Modena 2018, pp. 181-201 e J. Texier, Révolution et démocratie chez Marx et Engels, Puf, Paris 1998.

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INDICE DEI NOMI

Albers, Franz-Josef 69n,138 Althusser, louis 10n,137 Bakunin,Michail 30,116 Balibar, Étienne 137 Bauer, Bruno 15,16,17,25,26n, 27,27n,30,31,35,36,36n,38, 39,42,55,56,138 Bebel,August 114,127,128,130 Bismarck, Otto von 120,121,128 Blanc, louis 71 Blanqui,Auguste 71 Bravo,Gian Mario 116n Burgio,Alberto 14n,15n,74n, 133n,137,138,139 Cabet, Étienne 71 Cazzaniga, Gian Mario 64n,73n, 138 Cerrato, Francesco 69n,130n, 131n,139 Considerant,Victor 33,71 Della'i, 5ameh 56n,138 Dowe, Dieter 107n Echtermeyer,Theodor 29 Engels, Friedrich 12n,17n,19n,30, 53,53n, 54,54n,65n,66n,71,72, 140

74n,75,80n,85n,111,112,113, 114n,127,127n,128,130,130n, 132n,137 Epicuro di Samo 29 Ermes 29 Feuerbach, Ludwig 1 O,17,18,25, 26,26n,27,27n,52,54,55,56, 57,58,59,60,62,63,64,84,93, 138 Fineschi, Roberto 62n,138 Fourier,Charles 71,76 Galli,Carlo 15n,69n,137,139 Gans, Eduard 24 Garegnani, Pierangelo 103n,139 Gesù di Nazareth 27 Giacché,Vladimiro 102n,130n, 139 Granata, Paolo 102n,139 Griin, Karl 76 Haupt, Heinz-Gerhard 107n Hegel, Georg Wilhelm Friedrich 1O, 11,18,25,26,39,41,66 Heinrich,Michael 114n, Hess, Moses 76 Holz, Hans Heinz 64n,138 Howard, Michael Charles 89n,139

lmbriano,Gennaro 69n,130n, 131n,139 King,John Edward 89n,139 Koselleck, Reinhart 12n,113,113n Kugelmann, Ludwig 121,124,126, 129 Landes, David S. 115n Langewiesche, Dieter 107n Lassalle, Ferdinand 114,127,128 Leroux, Pierre 33,71 Liebknecht,Wilhelm 114,124, 127,128 Losurdo, Domenico 64n,138 Lowith, Karl 25n,138 Luigi Filippo d'Orleans 107,11O Luporini,Cesare 64n,138 Marx,Jenny 131 Mazzone,Alessandro 138 Mehring, Franz 24n,137 Merker, Nicolao 64n,138 Mészaros,lstvàn 131n,139 Meyen, Eduard 31 Napoleone lii,re dei francesi 113, 120 Negri,Antonio 102n,139 Owen, Robert 76 Petrucciani, Stefano 15n,137 Pierri, Roberto 102n, 139 Plechanov, Georgij Valentinovič 132 Postone,Moishe 96n,139

Prometeo 29 Proudhon, Pierre-Joseph 19,33,68, 71,78,79,79n,80,81,82,83,85, 90,91,130,143 Reinalter,Helmuth 28n,138 Ricardo, David 81 Robespierre,Maximilien 39 Rousseau,Jean Jacques 39 Rubin, lsaak I. 89n,139 Ruge,Arnold 29,30,32,35,53 Saint-Simon,Claude-Henri de Rou­ vroy conte di 71,76 Sand,George 87 Savigny, Friedrich Cari von 24 Schmidt,Johann Caspar (Max Stir­ ner) 30 Schmitt,Cari 16n Schuffenhauer,Werner 57n,138 Sichirollo, Livio 64n,138 Sismondi,Jean Charles Léonard Si­ monde de 75 Sperber,Jonathan 107n Strauss,David Friedrich 27,27n,30 Taylor,Alan John Percival 113n Texier,Jacques 131n,139 Thiers,Adolphe 120,123,124 Tomba,Massimiliano 36n,64n, 138 Westphalen,Jenny von 35,112, 131 Zasulič, Vera lvanovna 132 Zeus,29 141

INDICE

La differenza marxiana, p. 7 I. Critica della politica Marx a Berlino, p. 24- Prometeici furori, p. 27- Ritorno sul Reno, p. 31Il concetto di politica, p. 35 - Eteronomia del politico, p. 39 - Le illusioni della teologia politica, p. 42 Il. Miserie della filosofia Critica della filosofia, p. 46- Filosofi e proletari, p. 49- La «critica critica•, p. 53 - Autocoscienze filosofiche, p. 56- La scoperta del lavoro, p. 60L'arcano della produzione, p. 63 - Miserie della «critica», p. 67 lii. Contro il socialismo Marx e il socialismo, p. 71 - Il «vero» socialismo, p. 74 - Il socialismo uto­ pista, p. 76 - La critica a Proudhon, p. 78- Il conflitto e la storia, p. 83 IV. Il segreto dello sfruttamento La critica dell'economia politica, p. 89 - L'origine della proprietà, p. 90L'accumulazione originaria, p. 93- Il rapporto capitalistico, p. 96 - Lo sfruttamento, p. 99- Smascherare l'inganno, p. 103 V. Pensiero della rivoluzione «Maledetto sia giugno!», p. 107 - Marx a Londra, p. 111- «Il grande do­ vere della classe operaia», p. 115 - «Marciare su Versailles», p. 120- La dittatura del proletariato, p. 125- La rivoluzione, p. 131 Percorsi e letture, p. 137 Indice dei nomi, p. 140