María Zambrano 9788858837474

«Ci sono parole mai dette e molte scritte che si perdono perché non trovano voce. Si perdono realmente? No, vanno a fini

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María Zambrano
 9788858837474

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Indice......Page 2
Frontespizio......Page 3
Abbreviazioni dei testi di María Zambrano......Page 5
Introduzione. Con fedeltà......Page 6
1. La qualità dell’esserci......Page 18
2. Passi necessari alla trascendenza......Page 39
3. Cercare il metodo del vivere......Page 56
4. Coltivare una ragione per la vita......Page 80
5. Rendere forte il cuore......Page 105

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Indice Abbreviazioni dei testi di María Zambrano Introduzione Con fedeltà 1. La qualità dell’esserci 2. Passi necessari alla trascendenza 3. Cercare il metodo del vivere 4. Coltivare una ragione per la vita 5. Rendere forte il cuore

Luigina Mortari María Zambrano Respirare la vita

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione digitale 2019 da prima edizione in “Eredi” ottobre 2019 Ebook ISBN: 9788858837474 In copertina: illustrazione di Umberto Mischi. Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

Abbreviazioni dei testi di María Zambrano A: Dell’aurora, Marietti, Genova 2000 (ed. or. De la aurora, Ediciones Turner, Madrid 1986). AL: Per l’amore e per la libertà, Marietti, Genova-Milano 2008 (ed. or. Filosofía y Educación. Manuscritos, Fundación María Zambrano, Málaga 2007).B: I beati, Feltrinelli, Milano 1992 (ed. or. Los bienaventurados, Ediciones Siruela, Madrid 1990). CB: Chiari del bosco, Bruno Mondadori, Milano 2004 (ed. or. Claros del bosque, Editorial Seix Barral, Barcelona 1977). CGL: La confessione come genere letterario, Bruno Mondadori, Milano 1997 (ed. or. La Confesión: Género literario, Fundación María Zambrano, 1943 – Ediciones Siruela, Madrid 1995). DD: Delirio e destino, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000 (ed. or. Delirio y destino, Mondadori España, Madrid 1989). FP: Filosofia e poesia, Edizioni Pendragon, Bologna 1998 (ed. or. Filosofía y poesía, Fondo de Cultura Económica, México, D.F. 1996). LE: Lettera sull’esilio, in “aut aut”, 279, 1997, pp. 5-13. MFTFV: Il metodo in filosofia o le tre forme di visione, in “aut aut”, 279, 1997, pp. 70-78 (ed. or. Del método en filosofía o de las tres formas de visión, in “Río Piedras. Revista de la Facultad de Humanidades”, San Juan de Puerto Rico 1972). NM: Note di un metodo, Filema, Napoli 2003 (ed. or. Notas de un método, Mondadori España, Madrid 1989). PD: Persona e democrazia, Bruno Mondadori, Milano 2000 (ed. or. Persona y democracia. La historia sacrificial, Fundación María Zambrano, 1958 – Ediciones Siruela, Madrid 1996). PPVS: Pensiero e poesia nella vita spagnola, Bulzoni Editore, Roma 2005 (ed. or. Pensamiento y poesía en la vida española, Fundación María Zambrano, 1987 – Edición de M. Gómez Blesa, Madrid 2004. PR: Le parole del ritorno, Città Aperta, Troina 2003 (ed. or. Las palabras del regreso, Fundación María Zambrano, 1995). QA: Quasi un’autobiografia, in “aut aut”, 279, 1997, pp. 125-134. RS: La razón en la sombra. Antologia critica, Ediciones Siruela, Madrid 2003. S: Seneca, Bruno Mondadori, Milano 1998 (ed. or. El pensamiento vivo de Séneca, Fundación María Zambrano, 1944 – Ediciones Siruela, Madrid 1994). SA: Verso un sapere dell’anima, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996 (ed. or. Hacia un saber sobre el alma, Losada, Buenos Aires 1950). SC: Il sogno creatore, Mondadori, Milano 2002 (ed. or. El sueño creador, Ediciones Turner, Madrid 1986). SP: Per una storia della pietà, in “aut aut”, 279, 1997, pp. 63-69 (ed. or. Para una historia de la piedad, in “Lyceum”, 17, La Habana 1949). SPPC: Spagna. Pensiero, poesia e una città, Città Aperta, Troina 2004. ST: I sogni e il tempo, Edizioni Pendragon, Bologna 2004 (ed. or. Los sueños y el tiempo, Ediciones Siruela, Madrid 1992). TA: La tomba di Antigone, SE, Milano 2014 (ed. or. La tumba de Antígona, in Senderos, Anthropos, Barcelona 1986). UD: L’uomo e il divino, Edizioni Lavoro, Roma 2001 (ed. or. El hombre y lo divino, FCE, México 1973 – Ediciones Siruela, Madrid 1992).

Introduzione

Con fedeltà Quando si lavora a presentare il pensiero di un autore si rischia di ingessarlo. Quello che María Zambrano insegna è di “disegnare il pensiero vivo” dell’altro (S: 22). Non è facile muoversi nella filosofia di Zambrano. È un pensiero magmatico, raffinatamente primordiale. Sembra nascondere un logos sotterraneo (B: 28), che si materializza in punti di luce, in espressioni che hanno la forma di visioni e, in certi casi, di “barlumi di visioni” (B: 2), che si nutrono di metafore originali. Un sapere a tratti enigmatico, che alterna a chiarori improvvisi zone oscure, in cui sembra condensarsi tutto il nostro non-sapere della vita, quel non-sapere diradare il mistero che è al fondo dell’esserci. Zambrano elabora frammenti concettuali potentissimi, perché in poche parole addensano un significato generativo di nuovi spazi del pensare: entrare nella realtà, fessure di silenzio, ragione materna, passività attiva… Disegna visioni sfidanti in quel loro aprirsi ad altro e allo stesso tempo mantenersi all’oscuro come quel “qualcosa che è più vivente del vivo” (ST: 28). Questi semi concettuali risaltano dentro il fluire di un linguaggio poetico, densamente metaforico, che procede per allusioni. Il suo pensiero risponde al principio di essere operante come logos spermatikós (A: 85), un concetto questo che appartiene alla filosofia stoica e che indica il soffio divino che contiene le ragioni seminali di ogni cosa. Quella di Zambrano vuole essere una ragione generativa, che in analogia al logos spermatikós dissemina di pensieri vitali lo spazio della parola. Se in poche parole si dovesse tratteggiare la qualità dei suoi scritti, si potrebbe ricorrere a quanto lei stessa dice a commento del suo libro Il sogno creatore: “Le pagine del presente volume sono come certi pezzi di minerale venuti alla luce da oscure gallerie di una miniera, che l’autore vorrebbe, forse per l’amenità del luogo, continuare ancora a percorrere, prima di offrire il materiale già estratto e quello che potrebbe ancora emergere” (SC: 4-5). Non si tratta comunque di libri inconclusi perché, anche se si potesse continuare a riscriverli, il sapere avrà sempre la forma di “barlumi di orizzonti qui soltanto abbozzati” (SC: 5). Zambrano cerca un discorso che fluisce senza alcuna pretesa di arrivare a

una conclusione e tanto meno a una dottrina (NM: 29). È un compito arduo rimanere fedeli a questa tensione, nel momento in cui si assume il compito di dire l’essenza della sua filosofia: mostrare la sostanza di un pensiero mantenendosi nella inconcludenza e nella incompiutezza che l’autrice aveva assunto come principi metodologici (ibidem), e salvaguardando quella “melodia” che vuole essere la qualità specifica della sua parola. Un pensiero che non vuole essere asserzione, ma rivelazione (NM: 30), nel senso del trovare la via per lasciare alle cose il modo di manifestarsi a partire da sé. Scrive Zambrano: “Una conclusione genera conclusioni; tutto dev’essere in ordine e ben scritto” (A: 12). Invece quello che lei cerca, e che invita a cercare, è un pensiero che semplicemente risuoni, un pensiero quasi iniziatico, che sia un respiro capace di generare altri orizzonti di pensiero. Bisogna scansare la tensione a un discorso sistematico, quello che mira a dire tutto, a diradare ogni ombra, a formulare certezze che non lascino questioni irrisolte. Accettare il frammento, la frase che semplicemente evoca, quasi una poesia. Un pensiero che dice tutto, che svela l’essenza delle cose e risponde a ogni questione non può che essere un pensiero divino; ma se vuole arrivare a un sapere vivo, “un mortale deve cercare pensieri mortali, non immortali un mortale” (Epicarmo, fr. 20). È la stessa Zambrano a dirci la qualità del suo discorso in una pagina di L’uomo e il divino, svelando la sua preferenza per il pensiero pitagorico in luogo di quello aristotelico: I pensatori di ispirazione pitagorica, del logos del numero – del tempo – non si sentono obbligati a fornire un metodo, un percorso di ragioni; coniano aforismi, frasi musicali, equivalenti a melodie o cadenze perfette che penetrano nella memoria o la svegliano … il metodo che offrono non è una cosa della mente ma della vita, tutta la vita è un cammino di saggezza, la vita stessa (UD: 77).

Come la filosofia pitagorica e quella eraclitea, anche quella di Zambrano ha la forma di un “pensare ispirato, più che ragionato” (UD: 79). A guidarmi nel dialogo con la sua filosofia è stata l’intenzione di prendere respiro dai suoi pensieri per tracciare fili di parole che ambiscono solo ad aprire radure discorsive da cui ricominciare a pensare l’esperienza. Cercare con la filosofia di Zambrano un colloquio pensoso, ma tale da arrivare a rendersi superfluo, perché i ragionamenti che la mente costruisce per interpretare il pensiero dell’altro, per tenerlo insieme in un ordine, devono poi quasi scomparire, come condizione per lasciare all’altro la sua intima originalità. Pensare per la vita Il primo ed essenziale atto di fedeltà all’essenza del pensare di Zambrano

consiste nel dire il senso da lei attribuito al fare filosofia: un pensare che “non pretende di conoscere per conoscere, ma per saper vivere e morire” (S: 24). Un sapere che aiuta a vivere, a trovare la giusta misura di abitare il proprio tempo. Un pensiero che cerca la verità dell’esistere, prima ancora che le verità delle scienze. “Come realtà l’uomo, al pari di ogni creatura vivente, ha bisogno di alimentarsi” (PR: 26), alimentarsi di ciò che l’anima sente necessario per vivere la vita. Quello che lei trova nel pensiero di Ortega y Gasset1: Leggerlo metteva voglia di vivere. Il suo pensiero era speranza in esercizio, carità intellettuale. E ciascuno e tutti sentivamo di avere pensato attraverso di lui le cose che più gli stavano a cuore: quello che avrebbe voluto pensare, quello che si formava nell’anima senza potere prendere forma … il leggerlo dava voglia di vivere. … E per quanto fosse amaro quello che diceva in alcune occasioni … non abbandonava la gioia né la fiducia (DD: 90).

Quando il pensiero sa dire quello che va detto, senza sconti e senza riserve, ma senza mai perdere la speranza in altro e la gioia di aprirsi all’ulteriore, nelle parole si incarna la ragione materna, quella che dà voce al “meglio della nostra anima” (ibidem). Una scrittura ha senso se può, anche di poco, rispondere al bisogno di nutrimento della mente e del cuore. Noi viviamo di discorsi. Siamo di casa, infatti, non in un mondo di cose, ma in un mondo interpretato. Per questo il divino nel Vangelo è il logos, il logos che porta luce, perché di luce ha bisogno l’esserci quando cerca la sua via. Concependola come sapere per la vita, Zambrano si pone in continuità con il modo spagnolo di pensare la filosofia, cioè come un discorso che ha a che fare con la problematicità dell’esistenza, perché “in un mondo felice non ci sarebbe bisogno di essere filosofo” (PPVS: 62). Ma per quell’essere che si sente opaco a se stesso e con l’anelito a trovare radure di chiaro il pensare filosofico diventa l’alimento della vita dell’anima. Nella cultura spagnola la filosofia non risponde all’ansia di sapere, ma al bisogno inaggirabile di trovare un modo giusto e buono per affrontare le vicissitudini della vita, per sostenere il nostro esserci destinalmente arrischiato. La filosofia è concepita come un pensiero pratico, che cerca giorno per giorno una verità viva e trasformativa, capace di dare ordine all’esserci. È la risposta pura al bisogno di pensiero. Da evitare è quella filosofia aspra e senza vita che si serra dentro il linguaggio artificioso e oscuro di molti discorsi accademici, per concepire invece il lavoro filosofico come la ricerca della parola che sappia dare voce a quell’anelito dell’anima

che tutti sentono. Quell’anima che altro non è che un frammento del cosmo che in noi dimora (SA: 21). Sapere pratico è la filosofia, anche quando apparentemente sembra lontana dal quotidiano, situazione che si verifica quando Zambrano le attribuisce il compito di trasformare il sacro in divino. Trasformare il sacro in divino significa dare parola a quanto è viscerale, opaco e persino oscuro, portandolo nella luce del pensiero. Il sacro è nella vita, nelle cose che incontriamo, nei fenomeni che ci accadono. Ma il sacro è senza parole per dirsi; il sacro sta nei luoghi e nelle cose ma non si dice, lancia dei segnali. Compito della filosofia è dare parola al sacro aprendo lo spazio del divino. Coltivare la filosofia per rispondere al nostro intimo bisogno di trasparenza è cosa intensamente umana e questo lavoro diventa vitale nella misura in cui si ha fiducia “nella luce del pensiero più che in qualsiasi altra luce” (QA: 131). Zambrano considera il “male dei nostri tempi” l’interpretazione dell’intellettuale come di uno studioso chiuso in una cultura ermetica, che non si assume l’impegno di aver cura della vita cercando un sapere che sappia essere di aiuto per tutti (S: 35). Dedicarsi al lavoro del pensare è un privilegio che chiede a chi lo esercita l’impegno a cercare un sapere che sappia dire le cose come sono e che sia di aiuto al vivere, sentendo tutta la responsabilità di non lasciare il proprio tempo all’oscurità e il cuore al gelo. Rimanendo fedele a questa visione, andrò alla ricerca dei fili di sapienza per la vita che si intrecciano nelle opere di María Zambrano.2 Non tradire il suo linguaggio poetico e visionario è certamente una sfida non facile, quando si sa di avere ricevuto una formazione intellettuale tesa a cercare discorsi che mettono le parole tutte in fila per costruire ragionamenti rigorosi, a perseguire una “raziocinante ragione”, una “ragione sistematica” che bandisce ogni fessura di silenzio (A: 13). La scommessa non facile consiste nel disattivare questo dispositivo cognitivo e cercare un’altra retorica, che non pretenda di rischiarare e sistematizzare tutto, ma sappia tenersi anche nel discorso incompiuto quando si avvertono ombre che non si è in grado di diradare e sappia stare nel silenzio quando la parola fedele al dato non si trova, e soprattutto cercare la parola essenziale e nulla di più. Perché la “vita molteplice, dispersa, aggrovigliata in se stessa” (A: 14) ha necessità di un dire che lasci apparire la sua irriducibile complessità, spesso non comprimibile nella tessitura del nostro ragionare. Conservare il silenzio nel mezzo del discorso significa tenersi fedeli alla qualità del reale, perché la

realtà eccede la capacità ermeneutica della ragione umana. Un pensiero rigoroso è quello che sa obbedire alla realtà, come la fettuccia che può misurare la circonferenza di una colonna scanalata perché si adatta al variare della sua forma. Come tale accetta il vuoto di parola. Sa obbedire all’imperativo del silenzio quando il mistero del divenire resta oscuro. I vuoti del pensiero devono rivelarsi, non nascondersi o mimetizzarsi, rivelarsi nelle “fessure di silenzio” (A: 13). Così, seguendo il suggerimento di Zambrano, in questo studio cercherò di sottrarmi a ogni tensione alla sistematicità, di evitare ogni tentativo di cercare argomenti definitivi. Se si arriverà a una geometria del discorso, questa altro non dovrebbe essere che l’evidenza dei fili che intercorrono tra i nuclei di pensiero di Zambrano. La sfida è questa: evitare di parlare di Zambrano per fare parlare le sue opere dentro un disegno che presenti un ordine leggero e frammentario, ma sufficiente perché il dire trovi le sue ragioni, senza però che tale disegno divenga recinto dove a prevalere è lo sguardo di chi sta studiando il pensiero dell’autrice. In un passaggio di Chiari del bosco è Zambrano stessa a enunciare il suo modo di usare le parole: “Risaltano diafane, promessa di un ordine senza sintassi, di un’unità senza sintesi, abolendo ogni forma di relazione, rompendo a volte la concatenazione. Sospese, fattrici di pienezza, fosse pure in un respiro” (CB: 89). Anziché avere la precisione martellante della parola scientifica, appaiono diafane, accenni inconclusi di verità, arrischiano solo un accenno di sintassi, sottraendosi alla tensione a imporre un ordine sul divenire eccedente delle cose; parole sospese, che evitano i riempimenti e lasciano silenzi per conservare la possibilità del respiro al nuovo, all’inedito. Il senso può condensarsi nel frammento. Scrivere in fedeltà alla qualità del reale significa accettare un dire che procede per frammenti lasciando all’altro di trovare il suo principio di ordine nella composizione del senso. Come quando il vento dispone tante foglie gialle, rosse o ancora verdi sul prato in autunno, ognuna con la sua forma e il suo colore, e chi passa può cogliere quelle che rispondono al suo desiderio e poi disporle secondo il suo disegno. L’invito che viene dalla scrittura di Zambrano a trovare il filo dei pensieri è quanto di più appassionante ma anche di più difficile, perché invita a partecipare alla costruzione di un senso, con il vantaggio di istituire un vero dialogo con le sue parole, ma anche con il rischio di sovrabordarle. Un rischio che ho avvertito in ogni momento, soprattutto quando la lettura si

faceva intensamente appassionata, cosa questa che accadeva quando trovavo nella sua scrittura le parole perdute, o meglio le parole che non avevo mai saputo trovare. Proprio della ragione è cercare di comprendere la qualità dell’esperienza per aprire orizzonti di interpretazione alla luce dei quali muoversi con sapienza fra le cose del mondo. Ma quando rispetto alle cose della vita la ragione diventa troppo sistematica, senza avvertire che l’eccesso di architettura finisce per appiattire tutto, il respiro che sarebbe proprio del logos viene meno. Le radici del metodo del cercare il sapere vero delle cose suggerito da Zambrano richiamano quel passo importante del Vangelo di Giovanni dove si dice che per riuscire a entrare nei cieli è necessario “nascere dall’acqua e dal soffio” (3,5): l’acqua evoca il movimento, il continuo cambiare della forma per adattarsi al luogo in cui scorre, il soffio evoca la leggerezza, qualcosa di imprendibile. Così dovrebbe essere il pensare che sta in cerca della verità. Un discorso dalla sostanza liquida che si adatta alla qualità del reale, che non scansa il mistero e le ombre; una parola precisa ma allo stesso tempo leggera, perché lascia respirare la cosa di altri possibili significati. La qualità del discorso che si va cercando è chiaramente enunciata da Zambrano: non è scienza, ma solo uno schizzo, il disegno di una guida; ma una guida particolare, che non predefinisce il luogo verso cui incamminarsi, ma solo gli strumenti di cui è possibile attrezzarsi per cercare il proprio o i propri sentieri che si possono percorrere (A: 36). È un pensare che cerca di tenere aperto l’orizzonte, salvaguardando una certa “devozione per i labirinti della realtà nascente” (ibidem). Stare alla ricerca di un pensiero aurorale, non imprigionato nei dispositivi di una ragione che ha pretese architettoniche (A: 13). Per spiegare la direzione di senso presa da queste riflessioni è utile riprendere la valutazione che Zambrano formula del pensiero di Ortega y Gasset, che per lei è stato un filosofo capace di portare il pensiero filosofico europeo nella cultura spagnola senza però tradire il realismo e la cura per un discorso non troppo sistematico, perché l’astrattezza e la sistematicità razionalizzante tengono le persone lontane dai testi di filosofia. Della scrittura filosofica di Ortega, pur alimentata di neokantismo e di fenomenologia, apprezza il rivelarsi “scorrevole, trasparente, agile, fragrante, caritatevole” (PPVS: 44). Un pensiero alla mano, che fluisce senza

cristallizzarsi in ardite costruzioni retoriche; non per questo è meno scientifico, ma è di una scientificità diversa, perché cerca innanzitutto di circolare, di essere materia viva per la mente. È essenziale dunque obbedire al principio epistemico di evitare forzature architettoniche per tessere una scrittura che si offre nella forma di un cesto di pensieri germinali, che il lettore può coltivare e far fiorire in altri terreni senza sottostare a forme e formule già date; allo stesso tempo va scansata anche la forma indicativa della guida che pretende di indicare direzioni per invece semplicemente aprire possibilità: Ci devono essere molte vie, ce ne devono essere varie per ogni persona, perché vari sono i tempi; e non mi riferisco solamente alle circostanze, ma al modo di vivere il tempo e al modo di patirlo (PR: 27).

Muoversi fra i pensieri di Zambrano non è semplice. Va per frammenti, storie, metafore, impressioni, accenni visionari alle cose. In questo mondo magmatico e vitale risulta difficile trovare un filo sufficiente a non perdersi senza diventare tessitura eccessivamente architettonica: trovare un filo che sia un’interpretazione fedele e allo stesso tempo che renda conto di uno sguardo altro che lo legge. Si tratta di trovare il punto di equilibrio tra il frammento visionario e la necessità di una pur minima tessitura del discorso. In una mia nota di lavoro datata 12 luglio 2014 ho letto: “Mi ritrovo nel pensiero di Zambrano, che va per frammenti, storie, metafore, impressioni, accenni visionari alle cose. Ma in questo materiale differenziato, che a ogni sguardo sembra cambiare forma e posizione, accade di perdermi e di non trovare il filo che connette”. Alla fine del lavoro di studio resta un senso di incompiutezza, come se fosse un cammino mai concluso. Perché il pensiero che Zambrano va elaborando nei suoi molti testi si struttura nella forma di molteplici tessiture rispetto alle quali sembra di avere potuto scorgere e seguire solo una delle molte possibili. Il suo dire è inafferrabile, come inafferrabile è il fluire della vita. Forse il filo si è evidenziato quando, prendendo una pausa da una lettura completamente immersa, ho cercato uno sguardo da fuori. Studiando ormai per l’ennesima volta i testi di Zambrano, ho pensato alla filosofia di Plotino, così sono andata a rileggerla e nelle Enneadi ho trovato un passaggio in cui sembra condensarsi l’idea di filosofia di Zambrano: “L’anima è intelligente e l’atto di intelligenza è la sua parte migliore; esso ha luogo quando l’anima pensa e quando l’intelligenza agisce la sua energia su di noi” (Enneadi, I, 1,

13, 6-7). L’atto del pensare migliore è quello capace di un’energia che trasforma la vita, trasformando l’anima stessa che lo pensa. In Zambrano il concetto di anima occupa un ruolo centrale e per lei il filosofare ha senso se trasforma la vita nutrendo l’anima. La filosofia, per continuare a essere parola necessaria alla vita, deve restare fedele alla necessità da cui ha avuto origine: necessità che la vita umana ha di trasparenza, come trasparente è l’anima. Ho riletto gli scritti di Zambrano affascinata dal nucleo che penso rappresenti il cuore intimo del suo pensare: la sua poeticità e la sua preferenza per una filosofia pratica, che ha avuto la sua massima esemplarità in Socrate (UD: 84). Ma la fedeltà al pensiero di Zambrano è anche questione di stile, uno stile che chiede di dare ai pensieri il tempo di maturare. I pensieri nuovi, sul punto di nascere, non vanno strappati dalle loro radici, ma va dato loro tempo e nutrimento. Il tempo della riflessione continuata e il nutrimento che viene dal confronto continuo con l’esperienza. Occorre “che la luce debba farsi anch’essa ogni giorno di nuovo” (A: 28), perché la vita a sua volta giorno per giorno possa prendere forma. Una filosofia pratica e poetica Il pensiero di Socrate ha rappresentato un orientamento essenziale per Zambrano, perché per lui “la filosofia fu esercizio vitale del conoscere; più che fare filosofia visse e si consumò in essa” (UD: 84). Socrate aveva a cuore non tanto la filosofia in sé, ma la filosofia come strumento per prendersi a cuore l’anima. Le filosofie contemporanee sono diventate discorsi fra gli altri, hanno perso l’identità propria del filosofare, che non consiste nell’occuparsi di discorsi che altri hanno già scritto, ma nell’esercitare quella forma del pensare che ha cura della vita. Quando la filosofia manca di tenersi fedele alla sua ragione diventa un vuoto parlottare tra accademiche comari. Zambrano è molto severa sulla qualità della produzione filosofica, dice infatti che l’attitudine filosofica si è manifestata solo “poche volte” (B: 88), le rare volte in cui ha saputo essere pensiero per la vita. Socrate insegna a cercare la conoscenza non per la conoscenza in sé, ma per salvare l’anima, “salvare l’anima mediante la conoscenza” (UD: 85). Cercare la sapienza delle cose umane costituisce la direzione di senso del lavoro filosofico – come dichiara Socrate nell’Apologia –, e in tale direzione va letta l’opera intera di Zambrano, che aspira a tratteggiare nella sua

riflessione una sapienza filosofica che sia quel “sapere cosa fare della propria vita, il sapere più umano di tutti, la ‘ragione pratica’” (UD: 108). La declinazione pragmatica del pensiero, per trovare orizzonti capaci di nutrire una buona qualità della vita, è cosa realmente praticata da Zambrano, che, vissuta in un tempo di vivace mobilitazione culturale in Spagna e uscita dalla condizione appartata “nell’angolo dei filosofi” (DD: 38), aveva partecipato attivamente alla vita culturale anche attraverso l’impegno per l’alfabetizzazione dei cittadini, in primo luogo quelli che stavano nelle zone contadine: un impegno che lei definisce del “portare pane e presenza” (DD: 39). “Occorre essere presenti,” scrive Zambrano nella sua autobiografia, “è una questione di etica, di rinnovamento della convivenza e della società” (ibidem). Proprio per la perdita nella nostra cultura di una consistenza pragmatica da parte del pensiero, quello che si muove nelle pieghe di senso della vita, assistiamo a una preoccupante “estinzione della filosofia” (UD: 92). Sentendo viva questa preoccupazione, in osservanza al principio di fedeltà sopra enunciato, cercherò nelle parole di Zambrano i semi della sua filosofia pratica limitandomi a portarli all’evidenza, affinché possano continuare a essere matrice germinale della ricerca di un sapere vivo e vitale. Come se Zambrano chiedesse a chi studia il suo pensiero di farsi guidare dalle stesse domande che orientarono la sua lettura di Seneca: scoprire di una filosofia dove ci porta veramente e che cosa in essa vogliamo cercare (S: 4). Perché un pensiero autorevole del passato, lontano o vicino, diventa verità vivente quando non ci limitiamo a spiegarlo, ma cerchiamo una nuova interpretazione a partire dalle domande vissute nell’esperienza presente, domande che di fatto sono ricorrenti nella storia, ma che mai trovano una risposta definitiva e pertanto si ripresentano allo sguardo della coscienza. Capita, mentre leggo Zambrano, di trovare punti che fanno resistenza; il suo pensiero non lascia indifferenti, insensibili. Non è un pensiero che chiede solo di essere compreso, ma essendo un pensiero appassionato chiama a prendere posizione, a trovare il proprio posto rispetto a esso. In questo senso è un pensiero che fa pensare. Un pensiero vero. Si può dire che Zambrano abbia messo in pratica il principio di un pensiero che si nutre allo stesso tempo di filosofia e di poesia. Da una parte lo stoicismo con uno sguardo specifico a Seneca, i filosofi spagnoli come Ortega y Gasset e Unamuno, la mistica spagnola di san Giovanni della Croce

e De Molinos, dall’altra la poesia, da quella prerinascimentale castigliana a quella contemporanea di Machado, e poi la narrativa. Certo Zambrano aveva una profonda conoscenza della filosofia occidentale, di cui sembra prediligere il Socrate di Platone, Plotino, Agostino, Spinoza, Scheler e per certi versi Husserl (anche se, rispetto a quest’ultimo, per prenderne le distanze), ma la sua riflessione è immersa nella cultura spagnola: a guidarla è l’intenzione di portare a espressione l’essenza del pensiero spagnolo per farne quasi un canone, quello che lei stessa incarna nel suo filosofare. Si può dire che il suo lavoro filosofico si è fatto guidare dal principio di incarnare al meglio la ragione spagnola (PPVS: 78), e questa pratica le ha consentito di essere in Spagna mentre era in esilio. Non è stato facile lavorare sul pensiero di Zambrano perché mi era impossibile tenerlo in una posizione di adeguata oggettività, dove si dà distanza fra l’oggetto e il processo di comprensione. Il suo pensiero non sta nella posizione di oggetto ma interpella, parla al cuore, forse anche alle viscere, e smuove la ragione. La smuove dai presupposti, dalle credenze, dalle teorie e dai metodi cui ci si affida per illudersi di contare su un luogo sicuro da cui pensare e la conduce lungo percorsi inediti, dove si aprono radure impreviste capaci di fecondare ragionamenti non consueti. La condizione per stare con la mente in questa radura è di dismettere gli usi abitudinari della parola: la tendenza a tenere separati i linguaggi, come la logica e la poesia, superare il timore di avventurarsi là dove le visioni si mescolano alle teorie e azzardare di coltivare quell’intuizione che si esprime in accenni e immagini senza lasciare prevalere il pensare modellato sul ragionamento scientifico. Ma soprattutto non è facile trovare il luogo da dove dialogare con una parola che parla al cuore, nel senso che tocca i nuclei vitali della vita della mente, dove la coscienza subisce le domande della vita, quelle che custodiscono il seme della tensione all’ulteriore. Sono domande che tendono a restare nello spazio della riflessione silenziosa, terreno non frequentato dalla filosofia sistematica, quello che, lontano dalla vita, basta a se stesso. Quando il pensiero dell’altro non è là, fisso e immobile, ma ti interpella nel vivo, e ti lasci prendere dalla passione del pensare, mentre senti il piacere della mente che si nutre d’altro, patisci il timore di confonderti e di confondere, di perdere i confini fra te e l’altro, e per questo di mancare del rispetto e del riguardo dovutogli. Costante è stata la preoccupazione di

trovare la giusta misura tra il dovere alla fedeltà più pura al suo pensiero e al suo stile e il piacere di trovare fessure, e qualche volta radure, dove trovare nutrimento per quei pensieri germinali che solo la parola straniante e generatrice di Zambrano può fecondare. Proprio perché il pensiero di Zambrano non resta altro, non è un oggetto da processare logicamente, ma tocca il cuore, e sollecita quel pensare che è vivere, non si può rimanere indifferenti, situandosi in quella zona di oggettività fittizia che può trasformarsi in un non luogo. Il suo pensiero invita a esplorare vie nuove del pensare e del dire, a pensare non il pensiero già dato, ma la vita. Mentre il dialogo con il suo pensiero prendeva corpo, il mio quaderno di studio si faceva di giorno in giorno pieno di note, note di campo, di quel campo di ricerca che è la vita, i frammenti del mio pensare. Queste note erano il seguito del dialogo con il pensiero che andavo studiando. Poi però al momento di scrivere questo libro ho ridotto al minimo le mie note di campo, perché avrebbero tolto spazio vivo al pensiero di Zambrano. Togliere via sé, disobbedendo alle tentazioni dell’io, non è adeguarsi al falso miraggio dell’oggettività ma avere riguardo e rispetto per l’altro. Virtù essenziale del ricercatore. Il sottrarsi non è sottrazione di senso, ma possibilità di un senso altro: quella leggerezza di cui si fa esperienza quando si rinuncia alla presenza ingombrante del sé. Note di lavoro Nel libro molti saranno i riferimenti diretti alle parole di Zambrano, perché il principio del “in vivo code”, cioè di parlare con le parole dell’altro, è il primo ed essenziale gesto di fedeltà e rispetto. Ho preferito evitare di inserire i riferimenti bibliografici nelle note a piè di pagina, adottando una notazione interna che riporta le abbreviazioni dei titoli dei libri, sciolte a inizio volume. Incerta fra il bisogno di completezza di rendere evidenti i riferimenti culturali che sono alla radice della filosofia di Zambrano e il timore di appesantire il testo in obbedienza a un certo uso accademico, ho optato per mettere in nota solo qualche riferimento agli autori che hanno costituito passaggi essenziali al suo cammino filosofico. Tali riferimenti non intendono affatto essere esaustivi, ma solo rispondono al bisogno di rendere conto della specificità del lavoro filosofico di Zambrano attraverso l’indicazione di alcune delle sue fonti primarie. Sentivo di non potere dare parola al pensiero di Zambrano senza risalire alle sue fonti, ma questo viaggio è stato un patire

la presa di coscienza della mia povertà di pensiero rispetto ai paesaggi filosofici frequentati da María, e questa consapevolezza ha rallentato il tempo della scrittura per il bisogno di un continuo girare intorno al suo pensiero, nel timore di non riuscire a trovare il numero sacro di giri necessari a rendere il vivo del suo pensiero, quello che si rivela con chiarori improvvisi nel mezzo del mistero.

1.

La qualità dell’esserci Come ci sentiamo “È doveroso,” scrive Zambrano, “esaminare da vicino tutto ciò che è misterioso: con coraggio e rispetto” (PPVS: 59); questo principio di etica del pensare è dalla filosofa applicato in primo luogo alla comprensione dell’essenza della condizione umana. Qualcosa che in certi momenti ci sembra di conoscere bene, poiché la vita la viviamo patendola, ma che in realtà resta un mistero e come tale richiede sia il coraggio dell’avvicinarci a ciò che immediatamente non ci è dato di capire sia il rispetto per tutto quanto resiste nel mistero. Il primo e fondamentale mistero da indagare è il nostro esserci, perché innanzitutto abbiamo necessità di comprendere che cosa significa vivere una vita umana. È necessario acquisire una conoscenza di noi stessi per potere tracciare una figura del nostro esserci. Poche parole, e dal tono intensamente poetico, bastano a Zambrano per dire l’essenza della condizione umana: “La vita, un soffio, un alito, un nonnulla. Ma non il nulla, mai il nulla” (ST: 10). Poca cosa è la vita umana nel suo mancare di sovranità sull’esperienza, ma è abbastanza da fare sentire all’anima tutto l’incombere della responsabilità dell’esserci. È un soffio per questo nostro essere affidati al tempo, ma non è mai leggera come il soffio, perché in nessun momento la coscienza può sgravarsi del compito di dare senso al tempo; ne consegue la penosa consapevolezza che non ci è data la possibilità di “attualizzare interamente quello che siamo, in quanto oppressi e schiacciati sotto qualcosa di assoluto” (ibidem). Sentiamo tutta l’inconsistenza della vita, ma si tratta di un’inconsistenza densa, appesantita dall’essere noi problemi a noi stessi. Mentre alla pianta, che non dorme e non veglia, che non si sposta dal luogo dove si trova, basta quel che viene dalla terra e dall’aria, noi sottostiamo alla necessità di trovare un luogo e di fare un mondo. In Zambrano la condizione umana risulta in tutta la sua problematicità: “Ogni vita è, nel suo fondo, problema; vita e problematicismo vanno sempre insieme” (PPVS: 48), siamo isole di un logos che a noi resta sconosciuto. La vita è passività, nel senso del trovarsi sottoposti ad azioni che vengono da altro e da altri. Vivere è sentirsi continuamente sospesi, “fluttuanti, a volte prossimi al naufragio”, oggetti di una forza sconosciuta che ci muove (UD:

95). Vivere è “sentire l’istante che passa goccia a goccia, sentire in maniera inappellabile il trascorrere che è la vita” (UD: 179). Questa visione drammatica si fonda sulla percezione di enigmaticità e precarietà come qualità essenziali della condizione umana. Enigmaticità Nascere nel mondo è trovarsi esposti a “quell’originario sentirsi guardati, allo scoperto, senza che si sappia da chi, chi è colui che ci guarda” (UD: 144). A segnare l’aurora della coscienza è la presa d’atto dell’enigmaticità della nostra condizione; da questa consapevolezza scaturisce il dolore ontologico di non conoscere la propria essenza: “L’uomo soffre per non avere assistito alla sua stessa creazione” (CB: 71) e insieme perché non ha conoscenza della matrice originaria della vita. E tutto ciò che non si conosce si patisce e si teme. Zambrano individua in questa radicale ignoranza ontologica, in questo scoprirsi nascosti a se stessi, la radice del bisogno di sapere (UD: 154): La sua ossessione di conoscere non sembra avere altra origine che questa ossessione di non avere assistito all’intera creazione a partire dalla luce originaria (CB: 71).

A partire invece dalla distinzione fra conoscere e pensare è possibile ipotizzare una tesi differente da quella di Zambrano. È ipotizzabile che il bisogno di conoscere nasca dalla sensazione della propria vulnerabilità, dalla necessità di acquisire un certo grado di padronanza degli eventi, poiché solo questa padronanza consente di trovare un po’ di riparo dalla loro imprevedibilità, dal nostro essere vulnerabili perché condizionati dai fenomeni con cui entriamo in relazione. Dallo sgomento originario di non sapere se stessi scaturisce invece il pensare metafisico. Il bisogno di pensare nasce dalla coscienza della nostra fragilità conseguente al fatto che non abbiamo partecipato all’atto della nostra creazione, della nostra nascita: da qui la metafisica. Mentre il conoscere risponde alla necessità di trovare una spiegazione ai fenomeni per potere agire su di essi, il pensare nasce da questo senso di mancanza, di vuoto, e si muove alla ricerca di senso per il nostro esserci. Dal pensare nasce la filosofia e nascono le arti. Siamo enigma a noi stessi perché patiamo la mancanza di conoscenza della fonte originaria della vita, di quel “fondo permanente oscuro” di cui Zambrano parla nei termini del “Dio sconosciuto” (UD: 124). Non c’è pensiero che rischiari l’imperscrutabile, nessuna definizione funziona e nessuna spiegazione soddisfa. Altro non resta che patire le tenebre

dell’essere. Qualsiasi idea di questo fondo originario, qualsiasi idea di Dio, è destinata a rimanere inadeguata. L’accenno di pensiero di questo fondo originario è quello che lo concepisce come una “informe energia vitale” (UD: 50), un’energia che trova espressione nel suo potere concepire forme di vita. Tanto più affiniamo il ragionamento logico, tanto più il fondo si oscura, e tanto più il divino si sottrae. Il ragionamento, così come sa dispiegarlo la mente umana, non serve per accedere alle cose ultime, forse perché, come dice Plotino, “lassù non c’è alcun ragionamento” (Enneadi, VI, 7, 1, 25-30). Il ragionamento formula argomenti e li connette l’uno con l’altro, e per questa costruzione occorre tempo e ritmo; ma dove la cosa è unica e semplice, e contiene in sé l’inizio e la fine senza distinzioni e senza successioni temporali, il modo ordinario di pensare non è adatto. Servirebbe un pensare che non è un pensare, ma questo pensare che non pensa è solo dell’essere primo, che viene prima dell’intelligenza stessa (Plotino, Enneadi, VI, 8, 18, 20-25). Pur non avendo conoscenza di tale fondo, la mente può concepire la sua esistenza poiché l’essenza della matrice della vita resta nell’anima al momento della nascita, che poi la avverte nel ricordo. Per Zambrano – che ragiona in termini paolini e agostiniani – tale fonte non può essere che l’amore originario che tutto muove; al principio di tutto non è un’intelligenza anaffettiva, che pensa se stessa e solo pensando crea, ma un’intelligenza amorosa o meglio un amore intelligente. Essendo l’amore matrice originaria di ogni cosa, resta depositato nell’anima quando questa viene a essere nel tempo e così l’anima conserva nel ricordo la sua origine e il ricordo si esprime nell’anelito mai sopito all’amore. Quando c’è intelligenza tutto si salva (QA: 127), ma questa intelligenza è amore per la vita. L’angoscia che accompagna la vita non è angoscia per il non sapere dove si va e che ne sarà di noi quando il tempo si sarà concluso, ma è angoscia per l’assenza dell’amore (SA: 34). Da qui la tensione primaria che ci muove nel mondo alla ricerca di segni che possano dirci che noi siamo amati e che possiamo amare. L’angoscia che viene dal patire la mancanza dell’amore originario è fradicia di nostalgia, nostalgia di un tempo anteriore a ogni tempo (SA: 35), un tempo che è istante duraturo dove niente si consuma e ogni forma prende la sua forma in un pensiero amoroso che non conosce fessure. Intensamente orfica e platonica è Zambrano quando concepisce la vita

dell’anima secondo il modo del ricordare; ma se per Platone e poi per Aristotele ciò cui tende l’anima a partire dal ricordo è il bene, lei invece evoca Dante: quell’“amor che move il sole e l’altre stelle” (Paradiso, XXXIII, 145). Il poeta prima di concludere con questa tesi metafisica il suo viaggio ha trovato parole per dire quanto debole è il nostro pensare e inadeguata la nostra parola quando cerchiamo di dare voce alla percezione che l’anima avverte di fronte alle cose prime e ultime: “quanto è corto il dire e come fioco / al mio concetto” (Paradiso, XXXIII, 121), quanto limitata è la parola e debole la capacità di concettualizzare, che solo poco sa dire di quanto ha visto. Solo l’amore originario vede compiutamente il reale che da esso si genera, mentre le ali del poeta non sono sufficienti a dare volo al pensiero.3 Non sapere da dove si viene e dove si va, non avere sovranità sul tempo della vita è alla radice di quell’invincibile tremore che non abbandona mai l’essere umano quando si ferma a pensare. La consapevolezza della enigmaticità dell’origine si esprime in uno sgomento, in un “congenito tremore” (A: 84) che mai lascia la mente. Quel tremore che scuote il pensare quando ci si scopre subire la vita, poiché si sente di stare avvolti in essa senza possederla mai per intero, anzi, correndo costantemente il rischio di essere posseduti dalla vita. La vita è pervasiva, colonizza ogni aspetto dell’esserci, avvolge ogni spazio e porta con sé il tempo, e a noi che aspiriamo a durare, a sottrarci al consumo del tempo, la vita sembra divorare ogni cosa, annullando ogni sforzo umano di dare forma a qualcosa che resti. Dinanzi al fatto di essere vivo può sentire stupore, entusiasmo o timore. Può sentire la vita come una cosa che gli sopraggiunge, gli si sovrappone e addirittura lo separa, come se la vita fosse una corsa che lo allontana da qualcosa verso cui spontaneamente si dirige. E sebbene inizialmente le vada incontro, accade che la vita è uno strano percorso che devia, si curva obbedendo a una strana forza, o alla propria legge, seguendo così una direzione che bisogna raddrizzare, un involucro che s’ha da disfare. La lotta per la vita è anzitutto una lotta con la vita, e il farla significa dover un po’ disfarla (ST: 36).

In certi punti della sua riflessione Zambrano ipotizza che il sentimento fondamentale non sia lo sgomento ma il risentimento, quel risentimento fondamentale che l’essere umano patisce nel cuore “come radice di tutti i risentimenti che lo affollano, per non avere assistito, necessariamente poi in qualità di unico testimone, all’atto creatore” (CB: 71). Un sentimento di cui non si sarebbe tenuto conto adeguatamente, forse per la paura di pensare che il cuore possa coltivare questo tipo di sentire. Ma è vero che accade spesso

all’animo umano di patire forme di risentimento, per qualcosa che pensiamo ci fosse dovuto o per qualcosa che pensiamo non dovesse esserci fatto. Come quando Giobbe invoca una spiegazione per quello che sta patendo e che sente ingiusto. Il risentimento consuma l’anima perché la tiene bloccata sul negativo. Zambrano concepisce la vita come un’esperienza drammatica, quella “tragedia che è vivere umanamente” (UD: 24), perché si vive senza partecipare al momento della propria creazione. Tanto drammatico è il vivere che il sentimento originario per l’essere umano sarebbe il risentimento per esserci così come noi ci troviamo a essere: “Il nascente entrerà nel giorno con un risentimento incomprensibile e apparentemente senza origine; irriducibile, errante” (A: 52). Si può ipotizzare una sequenza temporale fra due sentimenti: all’inizio l’essere umano non può non avvertire sgomento al pensiero della sua debolezza ontologica, quel suo mancare del sapere da dove viene, della decisione – se di decisione si può parlare – che lo ha generato e del non sapere dove andrà. Poi questo sgomento può prendere altre forme, delle quali il risentimento è però solo una delle possibili. C’è anche l’accettazione di quello che si è, sapendo che solo lo stare alla necessità del reale ci pone in una condizione di verità. La vita è una situazione che si subisce. Ed è dalla consapevolezza della nostra dipendenza da un disegno di cui all’inizio non abbiamo partecipato e che solo tangenzialmente ci vede attori nel tempo della vita che appaiono gli dei, una “necessità abissale” (UD: 27) per trovare un riferimento, seppure ipotetico, rispetto al divenire in cui siamo immersi e da cui ci sentiamo travolti. Si vive sapendo che c’è un fondo ultimo della realtà da cui emana tutto ciò che è reale, ma rispetto a questa realtà gli esseri umani possono solo immaginare, avere una visione. La realtà ultima, e la realtà che da essa promana, è il sacro, e il sacro mantiene il suo mistero. Neppure la scienza può sciogliere il mistero della vita. La teoria evoluzionista non riesce, infatti, a spiegare quel salto che è rappresentato dall’aurora della parola (A: 88). Si può pensare che tutta la materia sia attraversata dal logos, ma non c’è continuità tra il logos endiathetos, il pensare intimo che attraversa la materia vivente, e il logos prophorikós (distinzione che si trova nel pensatore greco Filone), il discorso pronunciato, quello che non solo viene espresso dall’essere, ma dice la

coscienza dell’esserci. Quando la ragione umana si confronta con la realtà patisce tutta la coscienza della sua impenetrabilità. Vivere è fare i conti ogni giorno con il mistero. Resistere all’urto del reale che condiziona l’esserci e sostenere la consapevolezza del mistero insondabile che avvolge la vita, “accettare il vuoto e il silenzio intorno a sé” (UD: 29). Precarietà “Dal nascere al morire / quel che chiamiamo vivere / è venire perdendo la vita” (Antonio Machado, cit. in PPVS: 86). In queste parole è sintetizzato il pessimismo più radicale, tipico degli spagnoli e in particolare degli andalusi, pessimismo che Zambrano assorbe nel suo pensiero. Chiaro dai suoi scritti emerge il senso della precarietà della vita. Questa visione nitida nelle sue parole evoca il pensiero senechiano che lei ben conosceva4: Ogni bene nell’uomo è provvisorio perché è un prestito: il nostro essere non è altro che un prestito, l’uomo è un incontro di elementi che un giorno o l’altro dovrà restituire da buon debitore, ringraziando per il tempo in cui ne è stato proprietario (S: 42).

Evidente il riferimento di questa riflessione di Zambrano a Consolazione a Polibio, dove il filosofo di origine ispanica sottolinea la tendenza dell’essere umano a non tenere presente la sua condizione e il fatto che solo eventi duri lo riportano dinnanzi a se stesso: L’avidità dell’animo umano dimentica troppo spesso quale sia la reale natura delle cose, e si rammenta della propria sorte solamente quando riceve un richiamo (Seneca, Consolazione a Polibio, 10, 5).

Le parole di Seneca risultano avere avuto per la filosofa una forza plasmante: Gettati su questo mare profondo e irrequieto, in un continuo fluttuare di marosi che ora ci sollevano a inattese altezze, ora ci buttano addosso e ci infliggono perdite superiori al guadagno, continuamente sballottati, non abbiamo mai dove fermarci: siamo sospesi e fluttuanti, sbattiamo l’uno contro l’altro, una volta o l’altra facciamo naufragio, sempre siamo in apprensione. Questo mare, così tempestoso e aperto a tutte le bufere, nel quale navighiamo, non ha altro porto che la morte (Consolazione a Polibio, 9, 6).

Sinteticamente Zambrano coglie l’essenza della vita quando la definisce “molteplice, dispersa, aggrovigliata in se stessa” (A: 14). Tutti i suoi testi sono attraversati da riflessioni ontologiche che mettono in evidenza la fragilità e la vulnerabilità dell’uomo. Per sottolineare la drammaticità del vivere, parla di “fallimento insito nella condizione umana. A ben guardare, infatti, ogni vita umana deve fare i conti con il fallimento” (PPVS: 22). Appartiene alla struttura essenziale della vita il vedersi insufficiente, il trovarsi incompleta, l’essere sempre in deficit. Se così non fosse, non si farebbe e non si sarebbe mai fatto nulla. Ci sono molti modi per occultare questo fallimento, a cominciare da quello ingenuo e frettoloso che pretende di riempire un simile vuoto con “cose”, con risultati, come se si trattasse di colmare un abisso. E nel

frattempo l’abisso inghiotte tutto quello che vi si getta ed è sempre lì con la sua bocca aperta, avido e insaziabile (PPVS: 22-23).

In questa situazione di radicale debolezza ontologica, dove sente la fragilità dell’esserci e la limitatezza della ragione, l’essere umano spera in un “po’ di attenzione e di cura” (UD: 29). Quando accenna al tema della cura Zambrano cita il mito di Crono (UD: 43-44): in questo mito si dice che gli esseri umani sono abbandonati dal dio alla cura di sé da se stessi. Nascono sentendo da subito la mancanza di cura e con essa dell’amore originario, perché la cura è un atto di amore per la vita. Da lì il bisogno di attenzione e di cura. La cura è l’atto fondamentale dell’esserci, la sua cifra primaria. Zambrano considera la cura il problema dell’esserci, poiché parla del “perdersi” dell’essere umano “a causa della cura richiesta dalla condizione umana” in quanto la cura rischia di divorare la vita (CB: 79). È evidente in questa concezione il peso dell’interpretazione latina e specificatamente senechiana della cura come gravame che assorbe le energie dell’essere, come preoccupazione dell’esserci di conservarsi nell’essere attraverso il procurarsi cose; quel procurare che rischia di fare soccombere l’anima sotto la logica dell’appropriazione, che spinge a stare sempre fuori da sé per colonizzare la realtà come garanzia per poter esistere veramente. Per Zambrano a salvare da questo perdersi consumando il tempo nell’accumulare cose è il sapere obbedire alla tensione a raccogliersi presso di sé (CB: 78). Il raccogliersi a pensare il proprio esserci, inteso come pratica essenziale della cura di sé, della cura delle proprie debolezze, quelle debolezze del sentire che possono lasciarci nella condizione di patire l’angoscia, è concetto senechiano, che Zambrano riprende senza però limitarsi a interpretare la cura come pratica che riguarda solo il sé, poiché accenna, seppure in maniera germinale e non sviluppata, alla cura degli altri e del mondo, “per donare agli altri e contemporaneamente ricevere dono” (DD: 98). María nutre l’idea del vivere come cura, che lei declina come “servire a qualcosa” (ibidem), una responsabilità che può essere assunta solo dopo avere affrontato la cura di sé. Perché per lei il dialogo silenzioso dell’anima con se stessa appare come la via redentrice, come azione primaria. Questo seme di pensiero che ha per tema la cura potrebbe ulteriormente essere sviluppato attraverso il dialogo con la tesi di Ortega y Gasset, tesi cara a Zambrano, secondo cui vivere è convivere. Sempre viviamo con gli altri.

Non c’è vita se non si viene a esserci nello sguardo di altri. Se dunque il vivere è sempre vivere con altri e se il vivere è innanzitutto cura del nostro esserci, allora non può non esserci cura per gli altri. A essere fonte di “vita vivificante” non è solo la cura di sé che si realizza nel socratico conoscere se stessi, ma anche la pratica della cura per gli altri, sperimentando con l’agire quei gesti dell’essere da cui può scaturire qualche istante di letizia dell’anima. Se vivere è convivere, e se per convivere con gli altri è necessario dare forma a un mondo in cui tutti si sente di potere trovare consistenza, allora è necessario portare nel “tra” qualcosa di sé coltivato intensamente con la mente e con il cuore. Di quale materia siamo Qualunque pensiero che cerchi la comprensione dell’essenza dell’esserci resta incompleto se non si occupa della materia della vita: il tempo. Perché “il tempo è la nostra vita e nostro unico affanno / le pose disperate in cui per aspettare / ci atteggiamo” (A. Machado, Solitudini, La strada, XXXV).5 Il tempo, questo ci è dato. Quando pensiamo alla condizione umana la pensiamo consegnata a uno spazio e a un tempo. Zambrano, che pensa in modo senechiano, dedica molte delle sue riflessioni al tempo, indicando nella temporalità l’ambiente del soggetto umano (ST: 10-11). Il tempo è la materia della vita, è “il datore dell’essere” (A: 29). Scoprire il tempo significa fare esperienza dell’esserci. Non è possibile comprendere l’esserci indipendentemente dal tempo. Invece l’epoché praticata da Parmenide nei confronti del tempo ha condizionato pesantemente l’ontologia dell’Occidente, persistendo poi in tutta la metafisica occidentale (UD: 96). Il tempo è qualcosa che “non ci lascia. Ci sostiene, ci avvolge” (UD: 7). Quando Zambrano dice che “ci sostiene” intende che ci eleva sopra la morte. Siamo consegnati al tempo, vincolati alle condizioni poste da tutto ciò con cui entriamo in relazione, sapendo che il morire ci coglierà di sorpresa. Forse nessuna esperienza è capace di evidenziare la qualità della condizione umana come la scoperta del tempo. Scoprire il tempo è tutt’uno con lo scoprire la propria finitezza, poiché il tempo è dispersione di istanti che scivolano uno dopo l’altro portandosi via istante dopo istante le possibilità dell’esserci; in questo senso “della morte il tempo possiede e porta qualcosa … Il tempo è l’orizzonte che presenta la morte perdendosi in essa” (ibidem). Noi viviamo nel tempo, ma il tempo non ci appartiene. Il tempo ci è offerto nel presente, nell’istante, e il nostro esserci può qualcosa solo nel

presente. Noi viviamo nell’istante, ma l’istante non è il tempo; come dice Plotino, il tempo resta al di là dell’istante presente (Enneadi, I, 5, 7, 14). Ci scopriamo così radicalmente deboli, perché il nostro essere è un divenire di istanti che si sgranano uno dopo l’altro senza che ci sia data sovranità sul ritmo del loro accadere. Sul passato nulla possiamo, e nemmeno sul futuro. Viviamo prorogati di istante in istante, ma l’istante è un tempo in cui il tempo si è annullato. Viviamo nell’istante, e quando interrompiamo l’agire per fermarci a comprendere il senso che siamo riusciti a tratteggiare l’istante vissuto è già passato, non ci appartiene più. Lo strappo dell’anima è la coscienza di questo mancare sempre la presa. Ogni istante si porta via una goccia di vita. Goccia a goccia la possibilità di esserci si dilegua. Sentire il gocciare via del tempo dell’esserci toglie il respiro. Viviamo nel tempo e subiamo il tempo perché il passato è quella parte della vita che non ci appartiene più, che non si può disfare, non si può ricomporre. Per questo la coscienza del passato è drammatica. È coscienza dell’irrimediabilità del passato. Il passato è ciò che passa senza potere mai passare completamente. E molto del lavoro della mente è inevitabilmente destinato a cercare di riconciliarsi con il passato. Il tempo costituisce l’essenza della vita umana. Tuttavia la verità fondamentale della nostra essenza temporale non ci è immediatamente evidente, perché molto del tempo si limita a passare precipitando in un abisso, “nell’abisso del non vissuto del tutto” (ST: 19). Ci sono però momenti in cui avvertiamo il suo scorrere, ma presi dentro il fluire del tempo, costretti a occuparci di noi e del mondo, ben presto lo dimentichiamo e torniamo a immergerci nell’oceano del tempo. Ma quando prendiamo coscienza del tempo prendiamo anche coscienza di non viverlo interamente. Molto di questo passa senza essere vissuto per intero, senza essere assaporato dalla coscienza o patito nella sua intensità. Non è il tempo ad appartenere a noi ma siamo noi ad appartenere al tempo. Della nostra sostanza temporale prendiamo coscienza nelle pause, quando s’interrompe il vissuto. Dal momento che il tempo è un continuo fluire, si tende a dare per scontato che solo nel suo fluire il tempo si renda manifesto; invece la coscienza del tempo prende forma quando si avverte “una pausa, un vuoto, l’arrestarsi di un processo” (A: 14). Zambrano narra che cominciò a pensare al tempo quando fece l’esperienza di quella pausa dalla vita rappresentata dalla malattia, che interrompeva il ritmo consueto del sonno e

della veglia. Costretta all’insonnia, che nessun farmaco riusciva a curare, si trovava a pensare nelle ore oscure e misteriose della notte (DD: 88), patendo così l’inversione di sonno e di veglia.6 La vita ha bisogno di ritmo. Il tempo ci sottopone al ritmo binario del sonno e della veglia. Un ritmo che si apprende dalla nascita, per quel bisogno intimo della vita di apprendere a subire l’alternarsi di opposti: luce e ombra, asciutto e bagnato, pieno e vuoto, presenza e assenza. Il ritmo del lasciarsi addormentare e del tenersi desti si inscrive nell’intimo generando il bisogno di ordine; quell’ordine che solo dà respiro, perché nel ritmo del sonno e della veglia si stabilisce l’ordine necessario del ritmo fra l’essere passivi e l’essere attivi. Perché solo se si trova il giusto ritmo è possibile sostenere il peso del vivere. La malattia fa fare esperienza a María della rottura del ritmo fra sonno e veglia. Nel tempo riservato al sonno, quando l’oscurità avvolge le cose, con lo sguardo annegato nel buio che interrompe il suo naturale seguire il divenire delle cose, la coscienza deve fare i conti con il mistero. Altre domande si affacciano al pensiero, diverse da quelle suggerite dalla luce, domande eccessive perché portano il pensiero nell’universo del mistero. Sono domande destinate a rimanere aperte, e gli accenni di risposta devono restare sospesi, come interrotti, perché la mente sente di non potere andare oltre. In quei momenti il cuore patisce un’ansia e un tremore metafisici, che solo l’alba diluisce: “Il primo raggio di sole era il segnale che poteva addormentarsi” (ibidem). La verità di essere posti nel tempo, che diventa evidente non appena ci fermiamo a meditare sulla vita in cui siamo, subito scompare non appena ci reimmergiamo nella vita. E questo scomparire del senso del tempo è una necessità per la coscienza, poiché rende tollerabile il vivere: se la coscienza della finitezza del nostro essere, del non poter disfare quello che si è fatto, dell’aver perso nel passato possibilità non più recuperabili, costituisse una evidenza senza soluzioni di continuità, la mente sarebbe sottoposta a una fatica insostenibile, senza respiro. Vivere immersi nel tempo, per lo più in una condizione di irriflessività, costituisce una essenziale economia del pensiero. Rispetto a questo perdersi del vissuto che si inabissa nell’oblio, il sogno funziona come ripescaggio di quanto si è perduto che riappare in un differente ordine del senso. I sogni, anziché essere pensati come effetto di

inibizioni morali (ST: 22), non sarebbero che il sintomo del perdersi del vissuto, del nullificarsi di ciò che ci accade perché la mente non può sopportare troppa realtà. La mente ha necessità di abbandonare, di lasciare andare. Il sogno riporta all’evidenza il perduto e così ci rammenta che molto di quello che siamo neppure lo sappiamo. I sogni sono spesso percepiti come disturbanti proprio perché ripropongono allo sguardo della coscienza quello che la mente desta aveva voluto lasciare andare. Che la nostra vita sia tempo, è una cosa che si avverte in certi attimi di maturità, quando da un lato ci rimane ormai poco tempo, e dall’altro abbiamo sfiorato qualche estremo, quasi atemporale, della nostra anima (S: 38).

Che l’essenza della vita sia il tempo è verità che si disvela in precise occasioni, quando qualcosa ha cessato di essere, quando qualcuno ci ha abbandonato. Il tempo si rende evidente quando vengono meno le cose importanti, le cose cui siamo legati, non prima. Se si sapesse prima la nostra finitezza, il nostro dipendere dagli altri, il dolore che viene dalla rottura di un legame vitale, a poterlo decidere forse nemmeno si entrerebbe nella vita. Ma la vita è fatta in modo che venire al mondo significa legarsi ad altri, legarsi a ciò di cui abbiamo una necessità vitale. È questo il supremo inganno della condizione umana: divenire cosciente del valore essenziale e inevitabile di ciò che ci viene dagli altri cui ci leghiamo quando i legami sono già stretti, quando non più è possibile tornare indietro, quando il tempo passato non si può ripercorrere secondo altre direzioni. Per questa ragione, la scoperta del tempo non può avvenire che in un momento negativo della nostra vita, un momento in cui abbiamo perso qualcosa che la riempiva; il tempo è l’essenza della nostra vita e proprio per questo le sta al di sotto, come fondo permanente di tutto ciò che viviamo. Scoprire questo fondo assomiglia quasi a una caduta, che può avvenire solamente in un particolare stato di angoscia, delusione o vuoto. Scoprire il tempo significa scoprire l’inganno della vita, il suo tranello ultimo (ibidem).

La coscienza scopre il tempo quando un evento rivela crudamente la vacuità dei nostri sforzi, la fugacità dei nostri artefatti. Acquisire coscienza del tempo è dunque acquisire consapevolezza della qualità della condizione umana. Nei momenti pieni della vita, quando l’essere umano è nel vivo della costruzione del suo progetto, della sua figura, la coscienza del tempo è solo coscienza di uno strumento organizzativo, che in certi casi si prefigura come possibilità e in altri casi come limite. È coscienza che appartiene alla ragione strumentale. Ma quando qualcosa che accade ci rivela la qualità del nostro essere, allora il tempo diventa categoria esistenziale, coscienza del cuore, poiché si carica del sentire: “La fede radicale e ultima ci porterà qualcosa di

simile a una sicurezza atemporale che ci curerà in anticipo della malattia del tempo” (S: 39). La fede nella possibilità di una dimensione atemporale, che si situa oltre il frammento temporale della vita umana, è ciò che mette la coscienza al riparo dalla “malinconia del tempo” (ibidem), al riparo dal timore del non senso di tutta la nostra fatica di riempire il tempo di atti di costruzione del senso. Questa fede diventa medicinale quando feconda un’azione che non agisce: la contemplazione. Questa azione che non agisce è l’unica azione che consente di sottrarre la mente al patire del consumo del tempo. Per Zambrano la contemplazione è capacità di trattenere il tempo (S: 40); ma può sembrare piuttosto il contrario: capacità di sottrarsi al tempo, lasciarsi cadere in un istante che dura, dove la mente non avverte il fluire in cui è immersa, ma si sente in contatto con qualcosa che è oltre il tempo. Sicuramente per dire l’essenza della contemplazione è necessario farne esperienza. Per chi non ha avuto esperienze di vera contemplazione, quelle che superano la durata dello smarrimento in altro, il contemplare diventa possibile se la mente sa immaginare una realtà altra e a essa sa dare fiducia di realtà vera, al punto da esercitare la forza di assorbire il nostro sguardo e tenere il cuore oltre il suo ritmo naturale, in una situazione tanto anomala da fare vivere una esperienza che non trova parola. Proprio perché la vita è fatta di tempo, del tempo è necessario avere cura. Zambrano cita l’esordio delle Lettere a Lucilio: Fai così, caro Lucilio: raccogli e custodisci il tempo che fino a ora ti veniva tolto, o rubato, o andava perduto, … perché la perdita più vergognosa è quella che avviene per nostra incuria (Seneca, Lettere a Lucilio, I, 1, 1).

Seneca, a differenza dei platonici e con essi di Plotino, non indica come salvezza dalla debolezza della condizione umana la via della contemplazione, la via dell’anima che sale in alto, lontano dalle cose transeunti del mondo, ma invita ad aver cura del tempo agendo con senso. Raccomanda di immergersi nell’azione per non trovarsi morti nel mezzo della vita, per non vivere da morti (S: 42). Essere capaci di vivere patendo fino in fondo il dramma della nostra sostanza temporale. Apparteniamo al tempo, al tempo siamo consegnati, ma il tempo lo subiamo, come esiliati da un altrove. E questo altrove si fa sentire nell’aspirazione che l’anima avverte, più o meno frequentemente e più o meno intensamente, di sottrarsi al tempo per durare eternamente. La natura

atemporale dell’anima si esprime nell’anelito “di vivere sempre, di essere eternamente. Un anelito che giace, spesso inavvertito, nel più profondo di ogni persona, offrendo con ciò stesso una resistenza inesplicabile a qualsiasi realizzazione” (B: 111). Più si pensa a questo nostro fluire nel tempo, più si sente risvegliarsi nell’intimo l’ansia di durare oltre la vita. Quando quest’ansia dilaga nell’anima e s’impossessa del pensare, quello che si rischia è di consumare bulimicamente ogni istante, smarrendo la capacità di tenere nella giusta considerazione il tempo: ogni giorno e del giorno ogni istante. Perché se è vero che ogni istante si muore un po’, è anche vero che in ogni istante può germogliare un seme di senso. Verso dove tendiamo Tendere alla trascendenza La vita è cosa che si subisce. A essere subìto non sono solo le circostanze, che si succedono secondo un ordine che in nulla da noi dipende, ma anche il nostro essere chiamati ad agire. Siamo chiamati a subire la nostra passività agendo. Siamo passività attiva, ineluttabilmente sobbarcati del compito di trovare una forma al fluire della vita, a disegnare di senso il tempo rispondendo alla chiamata alla trascendenza. Proprio della condizione umana è “il conato a essere” (UD: 58). Tutto ciò che viene a essere nel mondo “è promesso a una forma. È il significato primordialmente nuziale della vita” (B: 12). L’essere umano subisce la trascendenza nel senso che sente la tensione ad andare oltre la situazione in cui è, oltre la forma in cui si trova a essere, per individuare quella forma in cui ultimare se stesso nel modo più completo possibile. Cercare una forma di vita, una figura dell’esserci in cui trovare la propria consistenza, è il compito del vivere. La cosa più umiliante per un essere umano è sentire di non poter dare forma alla propria vita e sentirsi portato e trascinato da altro, tenuto a stare dentro decisioni che altri hanno preso. Può accadere perché la sorte ci ha posti nella condizione di sottostare a quella violenza che impedisce di essere ciò che si vorrebbe, ma può accadere anche perché non abbiamo riferimenti, non abbiamo orizzonti alla luce dei quali cercare la nostra forma di vita. Obbedire alla tensione alla trascendenza significa rispondere alla chiamata a dare forma al proprio possibile. La vita spersa e aggrovigliata in cui ci troviamo a essere non è qualcosa da subire adesivamente così come è, ma una materia cui dare senso: “È una dispersione che ha bisogno di unità e una confusione che vuole essere

chiarita” (S: 21). Non si viene al mondo per limitarsi a stare dove si è, ma per divenire altro, perché l’essere umano nasce “in quel non-essere che non può rinunciare a essere, né può rimanere così semplicemente” (DD: 94). Da qui la domanda essenziale con la quale e alla quale si apre la coscienza: “Che fare?”. Con queste parole Ortega y Gasset dà conto dell’essenza problematica del vivere. Questo lavoro dell’esistere cui siamo chiamati è dovuto al dato ontologico che l’essere umano è “la creatura che non si limita a stare come sta né a essere come è in una certa situazione” (ST: 22), ma si apre all’ulteriore, con tutto il difficile che questo comporta. È in queste poche parole l’essenza della tesi ontologica di Zambrano, dove la realtà della condizione umana appare in tutta la sua drammaticità, ma senza che questa consapevolezza faccia smarrire la speranza e la fiducia nella possibilità di fare un po’ di chiaro e trovare sentieri di senso. Noi siamo qualcosa di strano nel mondo della vita: “Ogni altra creatura è fedele alla propria realtà e vive sprofondata in essa” (CGL: 52); tutte le creature sono tutt’uno con la natura, eccetto l’essere umano. Noi “ci sentiamo come esseri separati, nati a metà e per metà inseriti in una realtà presagita che cerchiamo” (ibidem). In un passaggio di Note di un metodo Zambrano, riprendendo un concetto che Max Scheler sviluppa in La posizione dell’uomo nel cosmo, radicalizza la sua tesi affermando che di fatto per l’essere umano non c’è posto alcuno nel mondo in cui viene a trovarsi, con la conseguenza che attualizzare in modo compiuto il proprio essere diventa cosa impossibile (NM: 40). Pur essendo noi immersi nel divenire (UD: 15), siamo diversi dal resto del vivente. Solo nell’amore ci è dato di vivere la perduta unità con l’essere. Noi siamo separati da tutti gli altri viventi, “piante e animali, che per semplice nascita rispondono alla chiamata del sole, alla bianchezza della luce solare, all’aurora, e all’occaso; alle figure delle costellazioni, tanto da apparire come appartenenti all’ordine del firmamento e insieme terrestri, senza disgiunzione alcuna” (CB: 163). Loro che non subiscono disgiunzione alcuna con il fondo dell’essere, noi invece a patire una scissura persistente; e però in questa scissura ci è dato di respirare un aroma di altro. L’essere umano si percepisce parte di quel grande organismo che è il cosmo (PPVS: 67), che però non contempla per lui uno spazio adeguato per rendere attuali tutte le sue potenzialità spirituali, che sente come la sua cifra

essenziale. Sente che il cosmo non può accoglierlo tutto, si sente separato, mancante di quel principio di ordine che agli altri esseri è dato senza che nulla debbano cercare. Si porta dentro quel vuoto che viene dall’essere privato del logos che da sé dà forma alla vita e con il compito invece di costruirsi un logos incarnato nelle pieghe dell’essere, quello che lo tenga il più prossimo possibile al logos della physis. Questo spiega perché la massima virtù per gli antichi consisteva nel riuscire a essere secondo natura, cioè trovare un modo di esserci che abbia lo stesso ritmo di quello che regge tutte le cose. La pianta vive senza lamento; il suo fiorire come il suo morire è un accadere immerso nel silenzio. L’essere umano, invece, al momento in cui la coscienza prende vita, vedendo il suo stato mancante e necessitante sempre di altro, di ciò che solo un altro gli può dare, è da subito un anelare. “Vivere è anelare senza fine” (A: 26). La vita è un tendere continuo a una forma. Il nascere è tutt’uno con l’essere chiamati ad altro, e tutta la vita è uno sforzo dell’anima a mettere le ali. Perché all’essere umano non basta stare nel tempo, ma sente l’urgenza insaziabile di senso, di comporre di senso il tempo: “Nell’uomo l’essere è presente come esigenza, come assoluta esigenza; è un essere che ha necessità di realizzarsi” (B: 111). La mancanza di senso è nientificazione dell’esserci. All’essere umano non basta stare immerso nel tempo così come accade, “egli vive per davvero solo il tempo in cui vive una storia, individuale o collettiva, che mostri di avere un senso” (B: 112). Ci sentiamo esseri mancanti di un luogo preciso: separati dalla natura ma della natura, con lo sguardo verso una realtà che solo presagiamo e che tuttavia sentiamo ancora più reale della materia in cui siamo avvolti. Le religioni sono le parole che rispondono al bisogno di una rivelazione di questa realtà altra. Per tutto il tempo della vita all’anima non basterà il mondo in cui viene a trovarsi, sentirà sempre il bisogno di un’altra realtà (CGL: 52). “Possiamo sentirci vuoti di realtà e persino suoi nemici” (ibidem). Ci sentiamo vuoti di realtà, di essere, e allo stesso tempo appesantiti di una realtà che resta a noi opaca, e in questo dramma del vivere, in questo sentirsi sempre incompiuti, mai finiti, si annida la tensione ad altro, la tensione alla trascendenza. Perché la qualità dell’essere umano è di subire la propria trascendenza (ST: 8). In quanto soggetto che non è semplicemente un sostegno, un punto fisso, una cosa o un essere

compiuto e fissato, ormai completo, ma come un nucleo vivente che va oltre il luogo in cui si trova, che tende a essere oltre quel che è, che si oltrepassa (ST: 13).

La trascendenza è qualcosa che noi subiamo perché siamo inaggirabilmente chiamati all’ulteriore, ma allo stesso tempo anche perché ogni tentativo di compiere un’operazione trascendente, anche quando fallisce, finisce per essere efficace sulla messa in forma del nostro esserci. Sulla condizione umana pesa “l’ombra di una mancanza originale” (UD: 6). Si nasce per un atto di separazione dal tessuto del mondo, e si vive sotto il peso di questo strappo sentendo l’ombra di una mancanza radicale perché si situa all’origine del nostro esserci. Quando l’avvertiamo, quando prendiamo coscienza, non possiamo tornare indietro, ogni attimo del tempo della vita deve fare i conti con questo sapere, il sapere di venire da non si sa dove e di andare dove non ci è dato sapere. La sete di sapere diventa aspirazione a pensare da dentro l’anima del cosmo. Solo riuscendo a pensare da dentro di sé, dal fondo originario da dove si viene, sarebbe possibile placare almeno un po’ l’angoscia del sapere la propria fragilità ontologica. Accadrebbe allora che il tempo cui siamo consegnati non sarebbe più un susseguirsi di istanti inquieti, ciascuno dei quali chiede l’intera energia di una vita, ma un fluire quieto. Zambrano capovolge la via per arrivare alla verità. In Platone l’anima deve abbandonare la caverna oscura e ascendere al mondo sovrasensibile; più tardi Plotino dirà che l’uomo, essere sensibile e incarnato, può attingere alla verità solo guardando verso il mondo intelligibile, il mondo che è lassù, in un cielo senza materia (Enneadi, VI, 7, 12, 5-14); dunque la conoscenza delle cose prime e ultime è un movimento ascensionale che porta in alto, al di là del mondo vissuto. Per Zambrano, invece, il pensiero deve sprofondare nella materia vivente, nel fondo dell’anima, nella caverna oscura della vita, dove albergano radici profonde (SA: 22) che arrivano al cuore dell’essere. Possono essere le radici della natura che, se pensata pensante, tiene l’anima immersa nell’energia vitale che fluisce nel mondo. Possono essere le radici del trascendente, che fanno fluire nell’anima il ricordo dell’ulteriorità da cui proviene. Pensare come il logos originario sarebbe come pensare da dentro il pensare del mondo. Ma a noi, che veniamo a essere nel mondo ma non siamo completamente del mondo, è impossibile pensare dal di dentro del tessuto della vita. Non ci è dato di respirare quel logos endiathetos disposto

internamente alla natura, con cui le cose pensano. A noi è dato solo il sentire la materia pensante da cui veniamo, ma senza che la ragione abbia la capacità di pensarla chiaramente. Il pensiero è vita quando, rinunciando a essere di sorvolo sulla superficie dell’essere, sa stare in presenza del mistero. Il lavoro dell’umano consiste nel dare forma a quel pensare che ci fa entrare nella realtà e allo stesso tempo ci mette in relazione con l’ineffabile, con ciò che nel tempo della vita non ci è dato di conoscere. Questa è la filosofia pratica, quella che ci aiuta a entrare nella realtà materiale respirando tutto quanto ci è possibile della vita spirituale. Da qui l’importanza per Zambrano di una filosofia della pratica, che prende la forma di un materialismo spirituale. Proprio perché siamo estranei al logos intimo delle cose, la realtà va cercata. Non è lì a portata di mano; a portata di mano ci sono le cose, ma la fonte originaria della vita che tutte le cose tiene insieme non ci è evidente. Nella realtà bisogna entrare. La realtà ci circonda, ma per potere essere nella realtà occorre cercarla, trovare il cammino per accedere al logos intimo delle cose, quello da cui noi stessi proveniamo. Ci sentiamo separati dalla realtà in cui ci troviamo, non in un reale contatto con le cose del mondo visibile, poiché non viviamo sprofondati in essa come gli animali, e allo stesso tempo sentiamo che c’è un’altra realtà che solo presagiamo e cui aneliamo, una realtà invisibile. Ci troviamo in un doppio enigma a noi stessi. Con la realtà visibile, rispetto alla quale ci sentiamo estranei, in qualche modo troviamo un contatto attraverso la fatica del conoscere: studiare i fenomeni del mondo e noi stessi nel mondo ci fa trovare l’intima comunanza con le cose: materia nella materia, energia che si nutre dell’energia dell’aria, dell’acqua e del sole. Ma per quanto possiamo guadagnare la consapevolezza del nostro intimo appartenere alla physis, resta una scissura con qualcosa di non immediatamente visibile che la conoscenza del mondo visibile non colma. Sentiamo la piena realtà dell’invisibile, e anche se ipotizziamo un mondo soprasensibile che si può raggiungere quando l’anima mette le ali o quando diamo a questo invisibile il nome di “anima del mondo” (Plotino, Enneadi, I, 2, 1, 7-8) e ipotizziamo che il nostro esserci singolare altro non sia che un suo epifenomeno, nessuna di queste costruzioni immaginative basta a saturare il senso vivo della mancanza di verità sull’esistenza. L’anima è qualcosa della vita, ma non è come il resto delle cose, ha un profumo diverso da quello dei fiori e delle foglie, un suono differente dall’acqua e dal

vento: la si sente venire da una realtà altra e a questa realtà tende, quella realtà da cui attinge quella energia che sola è capace di fare mettere le ali. Da qui il bisogno di un pensare che non sia un pensare, un pensare che, libero dai legami con i dispositivi logici che costruiamo esercitandoci sul mondo visibile, quello di cui abbiamo esperienza nella carne, si muove secondo una logica differente. Non un pensiero che cerca ossessivamente, non un pensiero incalzante di ansiose domande, ma un pensiero che ascolta e riceve; non una teoria costruita, ma una sapienza che ci arriva nella forma di una rivelazione. Un pensiero che diventa passivo per ricevere la verità che sta al cuore del reale: contemplando le idee vere che stanno nella sfera dell’invisibile (il pensare filosofico), ascoltando la voce dell’Essere che si rivela (il pensare religioso), sentendo la materia opaca vibrare di luce chiara (il pensare poetico). Con l’esercizio del conoscere scientifico a partire dall’età moderna tanti sono stati i successi in termini di guadagno di sapere, al punto da mettere in ombra la regione del non saputo che restava ermetica, perché estranea alla logica del conoscere. I successi della scienza e della tecnologia hanno insuperbito la ragione umana, che però per coltivare una visione potente del pensiero ha messo tra parentesi tutto ciò che rimane impermeabile al ragionamento. Questa messa tra parentesi, che dava l’illusione di potenza, ha comportato una perdita di umanità; infatti, “difficilmente c’è mai stato un essere umano più inibito di quello che ha saputo impadronirsi di così grandi mezzi ed esercita tanto dominio” (CGL: 54). Tenere il pensiero legato solo ai dati evidenti immiserisce la vita della mente. Stare nella condizione umana significa ascoltare l’anima, ascoltare e accettare la sua tensione a non stare in sé, “perché sta nella vita l’uscire da sé, il non bastare a se stessa, l’essere trascendente” (CGL: 55). Seguire la direzione cui è rivolta l’anima, la sua sete di senso, è condizione inevitabile per entrare nella realtà e vivere umanamente. Ma questa decisione va presa sapendo dismettere l’illusione che i guadagni che possono arrivare da questo lavoro spirituale siano sufficienti a dissetare l’anima e le consentano di gustare la quiete che dà il sapere la verità, perché l’ansia di trascendenza, di accedere alla realtà vivente che muove il reale, è destinata a rimanere mai placata (ibidem). Anelare ad altro Proprio perché mancante, la coscienza si rende conto di non poter fare da

sé, di non avere sovranità sul suo progetto. Così l’anelare diventa anche invocazione ad altro. Quando si scopre mancante, l’anima tende a interpretare la relazione con il divino come invocazione, come richiesta. “Chiedendo mostra l’insufficienza in cui si trova, la mancanza di qualcosa o la semplice privazione” (UD: 140). Da questo sentire originario, che coglie il proprio essere incompiuto e dunque la necessità di altro, nasce la coscienza. È l’esigenza d’altro che fa nascere il pensiero. Quando l’essere umano comincia a pensare smette di essere quello che sono tutte le altre creature, che stanno dentro l’ordine necessario delle cose senza sporgersi oltre. Pensare è trarsi fuori dal già dato e aspirare ad altro, aspirare non solo a comprendere, ma anche a incarnare il senso dell’essere. “Pensare è esigere” (UD: 141), esigere senso. Perché la vita stessa esorta a cercare il senso dell’esserci: o si arriva a disegnare orizzonti di senso o la vita è nulla. All’uomo non è concesso penetrare la realtà che lo circonda. Tuttavia la conosce interiormente. Interiormente e non soggettivamente, come se fosse immerso nel cuore della realtà. E al tempo stesso estraneo a essa (ST: 14).

Spiega Zambrano che per l’ontologia soggettivistica non c’è alcuna estraneità dell’essere umano rispetto alla realtà, alcuna differenza tra sé e il reale. Perseguendo questa visione ontologica, che pensa l’essere umano fissato al cuore del reale e con il reale in perfetta continuità, si perverrebbe alla tesi dell’accessibilità di un sapere assoluto, della completa visibilità del reale. A un essere fissato nel cuore delle cose e tutt’uno con esse il reale sarebbe presente nel suo intero (ibidem). Invece all’essere umano, che pure è parte della realtà, la realtà non si mostra per intero; quella invisibile resta tale, ma anche quella visibile gli appare in modo parziale: discontinuo, frammentario, altalenante. E più la realtà oppone resistenza allo sguardo della mente, più l’essere umano si sente estraneo, non di casa in questo mondo. Come sempre Zambrano riesce, in poche parole poeticamente appassionate, a sintetizzare una tesi ontologica quando dice che l’essere umano sta “dentro la realtà e da essa divorziato, da essa circondato e tentato inesorabilmente di trascenderla” (ibidem). La visione di Zambrano evoca in me quella ontologia ecologica più recente secondo la quale l’essere umano è incarnato nella natura, ma da questa contemporaneamente separato per una scissura ontologica che lo rende al contempo parte del mondo e da esso scisso. Ma Zambrano va oltre questa visione. Parla di un vuoto che la realtà aprirebbe nel fondo più intimo

dell’essere umano, un vuoto che indica un luogo non ancora occupato, un vuoto dove nulla di ciò che può essere è ancora. Il sentire nell’intimo dell’esserci questo vuoto porta a interpretare la trascendenza come un movimento che ha da compiersi da dentro l’immanenza del reale. È entrando nella realtà che si compie la trascendenza. La visione della vita che trova il suo modello nella filosofia ascensionistica di Platone concepisce la ricerca della verità, da cui solo può scaturire il senso dell’esserci, come un percorso di slegamento dal mondo sensibile della materia vivente che sta nel tempo, per giungere al mondo immateriale e senza tempo del pensiero puro che riluce nelle idee. La poesia invece insegna un’altra via: cercare la verità interpretando la vita come un cammino che si addentra nella realtà. Non si tratta di abbandonare la realtà per entrare nella ragione, ma di sciogliere la mente dalla presa di pensieri già pensati per entrare nella realtà. Si entra nella realtà stando fra le cose e raccogliendosi presso di sé. Quando l’anima si lascia guidare dalla passione per il reale può fare esperienza di quel sentire originario che fa percepire il mistero che sta nel fondo dell’essere. E mentre fa esperienza di quel pieno di essere che viene dal contatto con il vivente, si apre contemporaneamente la coscienza di un vuoto d’essere che immerge la mente e il cuore in un sentire metafisico. Solo obbedendo alla chiamata alla trascendenza da dentro il reale l’essere umano può trovare se stesso, nella propria essenza più intima. Essere quello che si è chiamati a essere significa “stare dentro la realtà, da essa circondato” e allo stesso tempo accettare fino in fondo l’esigenza di attraversarla dentro il varco che si apre per guadagnare altri strati di realtà (ST: 15). Se l’uomo fosse circondato d’essere, senza essere a sua volta, subirebbe solo come in sogno, senza mai svegliarsi. Sarebbe, per definizione, l’inferno. Se l’uomo fosse circondato d’essere, essendo a sua volta, con-essendo, non vi sarebbe alcun subire. Pura attualità, monade, una e diversa, nel centro dell’essere, sebbene senza esserne il centro. E la raggiunta trascendenza non sarebbe più un trascendere. Il tempo sarebbe l’eterno istante in cui qualcosa si attualizza, il solo, unico istante. Non l’immobilità ma il puro movimento senza tappe (ibidem).

Un’ontologia poetica, questa di Zambrano, da dove la condizione umana emerge nella sua densa complessità. L’essere umano non è dentro l’essere in modo adesivo e continuo, perché se così fosse non sarebbe quello che sente di essere: parte del reale, ma da questo separato e con la capacità di sentire un vuoto che lascia presagire altro. È posto nella realtà, ma con una frattura che lo apre su quel vuoto indeterminato che lo chiama alla trascendenza.

Della condizione umana è dunque cifra essenziale la passività, dal momento che si trova a subire la qualità del suo essere. “Forse la differenza essenziale tra animale ed essere umano è questa rivelazione della propria passività; se all’animale fosse presente, cesserebbe d’essere tale, o dovremmo modificare il concetto che ne abbiamo” (ibidem). Ma questa passività non è solo subire, ma anche agire, poiché non significa una resa senza azione al reale, ma accettazione del proprio essere obbligati a esserci e dunque ad agire a partire dal trovarsi passivamente chiamati a dare forma al tempo.

2.

Passi necessari alla trascendenza Rispondere al bisogno inaggirabile di trascendenza richiede un sapere: il sapere dell’anima. Di un sapere suo proprio l’anima ha necessità, per sopportare quell’indicibile patire che essa avverte quando, trovandosi sola con se stessa, pensa alla vita. Quel sapere che consente di individuare “quale delle voci è quella dell’autentico destino” (B: 115). Questo sapere, quello che ci permette di capire chi siamo e cosa possiamo essere, è quello essenziale alla vita, ma anche quello più audace e più trascurato (PPVS: 56). Audace perché chiamato a misurarsi con questioni eccessive per la ragione umana; trascurato perché atopico in un mondo che privilegia il pensare strumentale all’affermazione di sé. L’anima è quel respiro del cosmo che ha sete di verità sulle questioni prime e ultime; è dunque destinata a patire per tutto il tempo in cui rimarrà immersa nel tempo, perché la verità cui aspira solo a tratti e parzialmente si renderà evidente in barlumi di visioni, lasciando intatta nella sua profondità l’oscurità dell’essenza delle cose. Forse proprio per questo suo evocare il fondo ultimo e oscuro della vita il concetto dell’anima era stato messo da parte dalla filosofia con l’apparire dell’io cartesiano; al posto dell’anima furono introdotti i concetti di “fatti psichici” e di “atti di coscienza” (CGL: 103-104); ma questo psicologismo non ha potuto annullare il pensiero dell’anima come della cosa che identifica l’essenza dell’umano. Quando introduce il concetto di “sapere dell’anima” (SA: 13), definendolo “ordine della nostra interiorità”, Zambrano fa riferimento al concetto di “ordo amoris” di Max Scheler, quell’ordine del cuore che per lei è ordine dell’anima. Non meno importante considera il pensiero di Spinoza, seppure incluso tra i filosofi geometrici, perché ugualmente impegnato a fondare un ordine del sentire cercando la via per addentrarsi nella realtà profonda dell’anima (SA: 17-18). Un sapere speciale quello dell’anima. Meglio chiamarlo sapienza, perché non ha nulla a che fare con il sapere sistematizzato nei libri. È fatto di azioni dell’esserci, di movimenti spirituali, di orientamenti del pensare e del sentire. Accettare la realtà Per Zambrano, che legge con attenzione il lamento di Giobbe, la vita deve

fare i conti con tre orrori: “l’orrore della nascita, la vergogna di essere nato; la paura di morire; lo stupore per l’ingiustizia umana” (CGL: 48). Sarebbe possibile porre rimedio a questi orrori con tre azioni dell’anima: arrivare ad accettare la nascita, non temere la morte, riconoscersi uguali agli altri uomini. “Senza queste tre conversioni la vita umana è un incubo” (ibidem). Affinché la verità venga assimilata dalla vita deve verificarsi una conversione che la porti ad accettare la sua nascita, a non provare timore di fronte alla morte e a rimanere tranquilla nell’ingiustizia (ibidem).

La conversione alla vita si realizza nel saper accettare la realtà così come è data. Saper accettare il fatto irrimediabile che non si può trovare un tempo libero dalla preoccupazione di vivere la vita con ritmo e figura, che non ci può essere un tempo “senza l’angustia del presente” (CGL: 50). Zambrano sviluppa questo concetto a partire dalla filosofia senechiana. Seneca, però, non parla di accettazione ma di resa; ha insegnato a rassegnarsi, a ritirarsi quando non è il momento. Di fronte a un mondo sottoposto a un potere che ha smarrito la giustizia, la ragione senechiana suggerisce la rassegnazione. Zambrano definisce Seneca il filosofo che ha insegnato “la resa perfetta, la rassegnazione a tutto quello che può capitare” (S: 42), un modo di essere che nella cultura spagnola trova la sua espressione in un pessimismo radicale, evidente nella convinzione diffusa che “bisogna aspettarsi sempre il peggio” (ibidem). Un modo di affrontare la vita definibile come “pessimismo strategico”, poiché aspettarsi il peggio significa non farsi trovare impreparati. Ma “la rassegnazione è un movimento regressivo” (S: 17), poiché chi si rassegna ha perso la speranza, anche se non cede alla disperazione. Accettare la realtà così com’è non è rassegnarsi, perché accettando non si perde la speranza, non si cade negli abissi della disperazione, non si rinuncia ad agire, ma si lavora a cercare l’azione mediatrice, quella che sa stare nelle cose così come sono per trasformarle. Il sapere accettare concilia il concetto di resa alla vita con il sentimento della speranza per il possibile. Il cammino del vivere trova il suo ritmo quando sa trovare l’equilibrio fra l’accettare la realtà così come è data e la speranza in altro, perché non c’è cammino se viene meno la speranza che la vita trovi la sua realizzazione. Il ruolo della speranza nel pensiero di Seneca è essenziale poiché a questo sentimento ontologico il filosofo attribuisce la capacità di rendere umana,

accettabile la vita; il senso di resa senza la speranza porterebbe facilmente alla disperazione. Seneca è interprete dello stoicismo, che costituisce un riferimento essenziale nella tessitura del pensiero di Zambrano7; ma lo stoicismo senechiano è profondamente umano, medicinale. Pur attento alla complessità della vita, a quel suo essere fatta non solo di pensiero ma anche di sentire, pur impegnato a farsi filosofia medicinale per la vita, lo stoicismo non rinuncia a porsi un obiettivo elevato, quasi fuori dall’ordine della vita, analogo seppur diverso da quello platonico: controllare la vita affettiva fino ad anestetizzarla. È inarrivabile per l’anima umana la sapienza dell’essenza ultima delle cose che Platone pone come obiettivo della sapienza umana, ma non meno arduo è l’obiettivo individuato dallo stoicismo: raggiungere la atarassia, l’imperturbabilità, il non lasciarsi muovere da nulla, “l’impassibilità nei confronti degli stimoli esterni” (PPVS: 67). Capita di trovare che il termine greco atarassia, che significa appunto imperturbabilità, venga tradotto con “serenità” (ibidem); in realtà non si tratta di serenità, perché l’anima serena è ancora un’anima sensibile alla vita, agli stimoli esterni; la serenità è uno stato positivo dell’anima che ha il suo contrario nell’inquietudine, dove l’anima patisce e non riesce a rendersi libera dalle eccessive preoccupazioni. Essere sereni significa sentirsi bene; l’imperturbabilità è lo stato dell’anima oltre ogni sentire, ormai estraneo a ogni passione. Costituisce per gli stoici la virtù perfetta, poiché consentirebbe di sentirsi in pace con il cosmo. Secondo la visione stoica la vita dovrebbe essere come un raggio di luce che attraversa il cristallo lasciando intatta la sua trasparenza, senza subire questo transitare attraverso il mondo e senza lasciare segni (PPVS: 68). Ma se l’essere umano è nella sua essenza pensare e sentire, la condizione di imperturbabilità, che rende l’anima invulnerabile a ogni passione, non è umana ma divina, come vivere fuori dalle condizioni vincolanti della vita. Dunque anche lo stoicismo impone un disegno estraneo all’ordine possibile delle cose e finisce per non poter essere pienamente una filosofia medicinale. Quando lo stoico non riesce a raggiungere la virtù massima, cioè lo stato di imperturbabilità, proprio perché ha rinunciato alla speranza, non gli resta altra soluzione che la morte. Lo stoicismo rifiuta la speranza perché non c’è niente di concreto su cui fondarla. Seneca, invece, non la rifiuta, perché ha preso le distanze dal mito proprio della filosofia classica che aveva contagiato

anche gli stoici, che consisteva nello stabilire obiettivi altissimi per la vita, irraggiungibili: per Platone il mondo delle idee pure, per Aristotele la virtù perfetta, per gli stoici l’imperturbabilità. Seneca, profondamente umano, sente la speranza come una necessità per potere stare umanamente nella vita. In questa attenzione senechiana alla speranza e alla consolazione Zambrano vede una ragione addolcita, che avvicina l’altro con tenerezza, preoccupata, ancora prima di raggiungere le vette dello spirito, di occuparsi dell’altro, di prendersi a cuore la vita. Accettare non significa lasciarsi andare a una resa incondizionata. Sarebbe rinunciare a vivere. Il saper accettare è atto pienamente umano quando non abbandona mai la speranza di dare senso al tempo. È evitare di percorrere illusioni che portano a uscire da sé, e stare dove si è accettando tutta l’angoscia che viene dalla consapevolezza della propria debole sostanza ontologica. Vivere fino in fondo il bisogno di verità, ma sapendo accettare che alla ragione umana non è data, poiché la verità è accessibile solo in quella realtà che è oltre il divenire in cui siamo immersi. L’essere umano si percepisce come un ente incompleto, “un abbozzo e niente più … un frammento” (CGL: 50). Si sente oscuro e incompleto. Comincia il suo percorso di umanità quando accoglie e dà voce alla speranza di potere raggiungere l’integrità che sente mancare, di dare forma completa alla sua figura. Indizio che l’anima sta iniziando il percorso che le è proprio di dare ritmo e figura al tempo della vita è quando il sentire comincia a nutrirsi del sentimento ontologico della speranza, “la speranza che ciò che non si è venga alla luce” (ibidem). Sapiente lettrice di Seneca, Zambrano rileva nelle sue Consolationes la presenza di un filo di speranza sapientemente intrecciata al suo senso di rassegnazione; il filosofo sa che non vi è nulla di evidente, di concreto, su cui fondarla, tuttavia non rinuncia a essa perché sa che senza speranza non c’è esistenza. Ciò che in particolare Zambrano apprezza in Seneca è la sua preoccupazione per l’essere umano, per la sua anima, che non vorrebbe sentire abbandonata al senso del nulla cui porta la resa senza speranza. È in questo che Seneca si fa “guaritore”, cioè maestro nella filosofia come arte medicinale. In questo preoccuparsi prima dell’essere umano che della filosofia Zambrano ravvisa lo stile materno del pensare (PPVS: 71): prima l’altro in carne e ossa, poiché il pensare prende senso solo quando è a servizio della vita. Prima di essere conoscenza, la filosofia è per Seneca non solo

consolazione, ma guida dell’esistere. Di recuperare questo modo di interpretare la filosofia oggi la realtà ha un immenso bisogno. Sembra una contraddizione pensare alla filosofia come medicina dell’anima, dal momento che questa forma del sapere non promette nulla a quell’essere che noi siamo (UD: 156), gravato dal timore del dolore e dalla ricerca senza fine del bene. Infatti, compito della filosofia è di ispirare un rigore ascetico. Ma il dono di questo sapere consiste proprio nel mostrare la necessità di stare alla realtà, di saper accettare la qualità del reale, di agire la resa di fronte all’ineluttabilità della natura (Seneca, Consolazione a Polibio, 1, 3). Arrendersi di fronte al divenire che non risponde alle nostre speranze è l’insegnamento di Seneca, il quale segnala come molta della sofferenza venga dalla “corruzione della mente umana che è mai sazia di nulla” (Consolazione a Polibio, 11, 1), perché non sa accettare l’ordine con cui si muove la realtà: pretende l’impossibile e non sa ringraziare del buono che ha ricevuto in sorte. La mente non è mai sazia, perché l’avidità è propria della psiche. Una tensione che può essere, e spesso lo è, agitazione, qualcosa di più basso ancora della orexis aristotelica. Perché nella orexis l’avidità è già penetrata nella coscienza. La orexis, il desiderio, è la passività ascesa a un certo grado di attività: per questo è già movimento (ST: 16). È cifra dell’essere umano vedersi insufficiente e incompleto. Se non ci fosse questa coscienza neppure il mondo umano ci sarebbe. Ma ci sono modi differenti per fare fronte a questa coscienza di insufficienza, “a cominciare da quello ingenuo e frettoloso che pretende di riempire un simile vuoto con ‘cose’, con risultati, come se si trattasse di colmare un abisso. E nel frattempo, l’abisso inghiotte tutto quello che vi si getta ed è sempre lì con la sua bocca aperta, avido e insaziabile” (PPVS: 23). La bulimia esistenziale è una malattia che si guarisce solo imparando a saper stare nella semplicità essenziale, ad accettare il vuoto stando in attesa d’altro, ma senza nulla cercare. Accettare significa imparare la pazienza infinita che è inscritta nell’ordine intimo della vita. Se non si impara ad accettare l’accadere così come è non ci saranno mai lacrime sufficienti di fronte agli eventi che ci toccano in sorte (Seneca, Consolazione a Polibio, 4, 1). Innanzitutto da apprendere è il saper accettare di non essere dentro l’essere, accettare di sporgere al di fuori del già dato e di dovere trovare la propria forma. Accettare l’assenza di quiete e di

stare nella tensione a divenire il proprio potere essere; e poi accettare l’irrevocabile distanza dal divino, dalla vita perfetta. Sapere accettare significa anche saper stare nella infelicità, come Seneca suggeriva alla madre Elvia (Consolazione a Elvia, 3, 2); quando il dolore erompe nell’anima, affrettarsi a cercare immediatamente un rimedio non fa che accentuarlo. Imparare ad accettarlo significa lasciargli il tempo di fiaccarsi da sé, e una volta fattosi più debole poterlo avvicinare con i pensieri e contenerlo (Consolazione a Elvia, 1, 2). La passività è l’attività più difficile. L’essere umano fa parte della trama dell’essere, ma in quel modo che è il non essere ancora e il potere divenire il proprio essere, un divenire che può riuscire o anche continuamente mancare il senso. Per questo nostro mancare sempre di qualcosa la condizione umana è quella di essere mendicanti. “La mendicità deriva dal fatto che l’uomo sente dentro di sé il non-essere” (UD: 141-142), per questo la sua vita è innanzitutto avidità. Un’avidità drammatica perché non si può soddisfare con qualcosa che c’è già, che è a portata di mano, ma con qualcosa che innanzitutto si deve sognare, per poi aver cura di fare del sogno una realtà vissuta. Il difficile da sopportare è che il sogno non si realizza mai, non c’è un momento di compimento in cui si possa sentire di avere realizzato tutto il possibile. Qualcosa manca sempre. E sempre qualcosa di ciò che sembrava realizzato si perde. Siamo mendicanti. Ma proprio l’indigenza, o meglio il sapere di essere indigenti e il sapere patire questa indigenza, è fonte della possibilità dell’eccellenza umana, perché chi avverte la propria indigenza può desiderare altro, può sentire e poi rispondere al bisogno di trascendenza. “Dalla mendicità scaturisce l’impeto ascensionale” (UD: 142) che porta verso l’ulteriore. Non c’è un momento in cui l’essere umano possa cancellare del tutto la sua condizione di mendicità, perché mai si trova nella condizione di non chiedere niente ad altri. Zambrano, invece, ritiene che l’essere umano possa liberarsi dalla condizione di mendicità quando viene a trovarsi nella situazione “di potere dare, concedere ogni favore, dispensare e comandare. Solo quando comanda, l’uomo si sente redento dalla sua sostanziale condizione di dover mendicare ciò di cui ha bisogno” (UD: 143). In realtà anche quando si trova nella condizione di poter dare, sempre l’essere umano ha bisogno dell’altro, non solo perché per poter dare ci deve essere un altro disposto a ricevere, ma anche perché solo l’altro può restituire a chi agisce il

senso del suo agire. Trovarsi poi nella condizione di comando può comportare il rischio di dimenticare la propria reale condizione ontologica, alimentando la pericolosa illusione di poter non essere più mendicanti di senso. È capitato nella storia della nostra cultura, e capita nella vita di ogni giorno, di costruire idee non vere della condizione umana, che non permettono di vedere il funzionamento reale della vita, come se si fosse mossi da una “ripugnanza” (RS: 84) verso la condizione creaturale. Questo sentimento di avversione porta alla costruzione di false immagini con cui l’essere umano evita se stesso e che in quanto tali finiscono per generare un modo scorretto di pensare (ibidem), di interpretare l’esperienza. Come l’adolescente che, quando si scontra con la ricchezza contraddittoria della vita, si rifugia in altri mondi. Quando il rifiuto di vedere la nostra estrema vulnerabilità e fragilità persiste si viene a creare una “adolescenza permanente” (ibidem). Quando allo sviluppo del pensiero si interpone una falsa idea si innalza un muro nella mente, che impedisce di fare una reale esperienza della realtà, immiserendo il vivere in un tempo mai realmente vissuto perché non accettato nella sua reale qualità; un tempo in cui, anziché fare germinare spazi di possibilità dell’esserci, il pensare avvizzisce e sfiorisce (ibidem). “Si sedimentano sogni, desideri oscuri, disillusioni non formulate, richieste disattese” che finiscono per impadronirsi della mente, e rispetto a tale condizione sembra che non ci sia altra soluzione che la psicoanalisi per impedire di inabissarsi in questa sorta di mondo sottomarino (RS: 85). Invece, per Zambrano da cercare è quel pensare che insegna a stare nella realtà, quel filosofare medicinale che insegna allo stesso tempo ad accettare e a trasformare la vita. Per avere un’esperienza reale della vita, per “vivere integralmente” e non rinunciare alla realtà occorre disattivare quel sentimento di “inimicizia verso la vita” (ibidem) che viene dal non sapere accettare la propria condizione. Dal non sapere accettare vengono quel “rancore e risentimento”8 verso la realtà in cui siamo che rendono impossibile coltivare la postura cognitiva e affettiva insieme che è vitale per fare fiorire l’esperienza: “il rispetto e la devozione” per la vita (RS: 86). Stare nella realtà Per rispondere con la giusta visione e con il giusto ritmo del cuore al richiamo della trascendenza è necessario stare nella realtà secondo la misura

che ci è data, sapere patire – nel senso di sottostare e accettare – la qualità della vita umana. Se non apprendiamo ad accettare l’estrema vulnerabilità della nostra condizione “l’immensità non appare” (B: 30): non si aprono spazi di trascendenza, dove fare esperienza di inedite possibilità dell’esserci. Sentire e stare nella vulnerabilità estrema costituisce la condizione per stare con misura nel desiderio di trascendenza, sapendo accettare la inaggirabile fragilità di ogni progetto di esperienza. Senza arrivare a comprendere la vulnerabilità del proprio esserci non si fa esperienza della vera qualità del reale. Si può ipotizzare che María arrivi a questa asserzione radicale a seguito della malattia che la tenne lontano per un tempo lungo dalla vita quotidiana, dallo studio, dal guardare le rondini in cielo, dal vedere fiorire il lillà. Fu questa situazione che la portò non solo a comprendere, ma anche a toccare e patire la vulnerabilità estrema (B: 39). Nascere al mondo, rispondendo alla chiamata alla trascendenza, significa cercare il proprio posto nel movimento della vita. In questo uscire dalla sostanza indifferenziata dell’essere per situarsi come sporgenza individuale, singolare, cioè come esser-ci, è facile farsi prendere dalla “tentazione dell’esistenza” (B: 40), cioè dalla tentazione di interpretare la tensione alla individuazione come un ergersi fuori dal tessuto vitale, lontano dalla matrice originaria, per trovare una forma propria a spese del rimanere in contatto con la matrice generativa della vita, l’ordine del sacro destinato a restare per noi nell’oscurità. Quando l’io si installa nella sua agognata separatezza, allora l’infinità da cui si viene si riduce a niente più che a un concetto desertico; ma smarrire la coscienza delle radici ontologiche impedisce di trovare il vero movimento dell’esserci. Non resta che la “pseudoazione” conseguente a una “pseudolibertà” (ibidem). Allora emerge l’Io, sostituendosi alla mediazione, prendendo l’immensità come campo a disposizione della sua unicità. È l’unico e tutto può essere di sua proprietà. L’immensità resta ridotta… (ibidem).

La tentazione dell’esistenza è tentazione a interpretare la vita come qualcosa che appartiene al singolo, come progetto a disposizione, nella dimenticanza delle origini. Posseduti solo dall’immagine dell’io si scivola in una solitudine radicale. Smarrita la percezione del tessuto sacro della vita di cui il singolo non è che un’onda insieme a tante altre, si diventa un’unità in opposizione alle altre unità, con la conseguenza di venirsi a trovare in una distanza incolmabile tra sé e gli altri. La solitudine, cui ogni esserci è

destinato per trovare la sua forma, diventa allora distanza dal resto e dagli altri. Persa la capacità di stare in contatto con la matrice della vita e incapaci di accettare nella sua radicalità il nostro essere niente più che un istante del tempo, la nostra vita smarrisce la luce della verità ontologica; si fa ombra, e nell’ombra viene meno la possibilità di un incontro vero con gli altri. Solo l’amore può interrompere la tentazione all’esistenza. La vita vera comincia nel punto di abbandono di ogni pretesa di esistenza singolare. Solo allora “una sconosciuta fiducia” (B: 41) dilaga nell’anima facendo ritrovare il ritmo vero del respiro nel tempo. Tenere viva la coscienza dell’immensità da cui si viene, di quella distanza infinita di cui al momento del nascere manteniamo solo una scintilla di visione, non è uscire dalla realtà del divenire in cui ci troviamo a essere, ma stare nella qualità propria della condizione umana, che si rivela un chiedere di stare nell’immanenza con la tensione alla trascendenza. All’anima è fatta necessità di tenersi in contatto con questa infinita immensità per trovare l’energia vitale di cui ha bisogno. Conoscere se stessi Non c’è possibilità di trascendenza se non c’è conoscenza di se stessi. “Senza nozione di sé l’uomo non può vivere: per quel suo intimo bisogno di trasparenza deve sapere chi è e ciò che è” (S: 14). Dedicare il lavoro del pensare a cercare la migliore conoscenza possibile della propria essenza ontologica e della propria essenza esistenziale costituisce condizione necessaria per vivere una vita umana. Solo conoscendosi ci si muove realmente nel mondo (NM: 43). Ma la pratica del conoscere se stessi richiede un metodo diverso da quello della scienza. La scienza cerca un sapere generale, dice cosa è l’uomo, quando il punto è di arrivare a una conoscenza personale, singolare: conoscere se stessi, nel nascosto del proprio essere (CB: 31). Per trovare il significato che Zambrano assegna al principio del conoscere se stessi è legittimo attingere a Platone, poiché costituisce una delle sue fonti primarie. Nel Fedro Platone parla del conoscere la vera natura dell’anima, osservando “le azioni patite e le azioni agite” (Fedro, 245a). Indicazione questa che si adatta alla visione di Zambrano, poiché per lei la vita innanzitutto è qualcosa che si subisce. Conoscere se stessi significa fare un esame continuo “dei propri errori e dei propri miraggi” (PR: 24). Significa sostare e pensare a quello che è stato vissuto attivando la capacità del ricordo,

perché “di certi viaggi si comincia a sapere solo al ritorno” (ibidem). Pensare al passato non significa trascinarlo nel presente, ma neppure dimenticarlo. Significa tenere insieme i movimenti della vita. Nel lungo periodo della malattia María esercita la disciplina del conoscere se stessa, che però diventa più raffinata quando si intreccia alla ricerca della conoscenza dell’altro, ricerca che lei mostra di avere sviluppato, perché dalla sua autobiografia emerge una chiara conoscenza delle pieghe dell’anima degli amici che si recavano a casa sua per portarle un po’ del mondo esterno. Parlando di uno di loro individua nel suo modo di essere “una sottile e costante sofferenza, che deriva dall’eccesso di sensibilità, dal possedere un’anima delicata che non riesce a esprimersi, per pudore o per mancanza di quella profonda lacerazione che spinge all’espressione” (DD: 101). C’è in questa descrizione una tesi sull’animo umano: si arriva alla capacità di espressione quando si patisce dentro una profonda lacerazione, una lacerazione che obbliga al silenzio, da cui solo può nascere una parola parlante. Tesi che non è difficile approvare. Si può ipotizzare che Zambrano arrivi a formulare questa tesi poiché nel lungo periodo di inattività cui era stata costretta dalla malattia aveva fatto esperienza del silenzio, un silenzio nel quale ha saputo coltivare la passione per la parola viva, quella che sa dire la realtà delle cose e la realtà dell’altro così come appare. La vita richiede una certa attitudine dell’essere umano rispetto al proprio esserci, l’attitudine alla conoscenza di sé, quella conoscenza che accompagna all’incontro con il proprio essere. Non cercare la conoscenza di sé significa intrappolarsi in una forma di immobilità, e “l’immobilità nell’essere umano significa intrascendenza. Conoscersi è trascendersi. Fluire nell’interiorità dell’essere” (A: 30). Da tenere presente alla coscienza è però la limitatezza della possibilità della conoscenza di sé. Non solo perché molto di quello che accade si inabissa nel vuoto che resta opaco alla coscienza, ma anche perché nel nostro essere c’è di più di quello che noi siamo da noi stessi: nell’anima sono depositati sedimenti culturali che vengono da lontano e “le radici sono più estese dei rami che vengono alla luce” (PR: 25). Non sappiamo da dove veniamo e dove andiamo: possiamo dire soltanto che veniamo da un là e andiamo verso un là. “Nel mio principio è la mia fine,” scrive T.S. Eliot (Quattro quartetti, East Coker, I, p. 37). Impossibile è la perfetta trasparenza a sé.

Forse il conoscere se stessi comincia con la ricerca della solitudine, che non è il semplice farsi da parte, ma lo spogliarsi di qualsiasi proprietà. Perché solo spogliati delle cose che si cercano per riempire quel vuoto che si sente dentro si può arrivare a stare soli con se stessi (CB: 78). Cessare di esercitare la logica dell’appropriazione, della colonizzazione, che obbliga a una presenza indaffarata in cui si rischia di dimenticare sé e l’esigenza di coltivare l’anima e di ascoltare il cuore. Per vivere con tutto il proprio esserci e trovare il sentiero del proprio attualizzarsi, la pratica del conoscere se stessi non deve rimanere prigioniera di una visione intellettualistica, che la interpreta solo come conoscenza dei propri pensieri, ma declinarsi anche come conoscenza della vita del cuore, della vita affettiva. “Non potrà essere libero [il cuore] senza conoscersi … Sarà questa la vera riflessione, il dialogo silenzioso della luce con chi l’accoglie e la soffre … Guscio il cuore, quando si conosce, che contiene e protegge l’embrione di luce” (CB: 83). Solo quando il cuore arriva a conoscersi può farsi guscio che raccoglie la vita; solo allora gli istanti dell’essere da sparpagliati trovano un filo che li connette e la vita può assumere un suo proprio disegno. La pratica del conoscere se stessi, rispetto alla sua originaria formulazione socratica, assume in Zambrano una declinazione più intera, se così si può dire, perché il conoscere se stessi non implica solo l’analisi della vita della mente nella sua parte chiara – i pensieri che la coscienza coglie nel loro accadere, i sentimenti che siamo consapevoli di sentire – ma anche la zona opaca, quella onirica. Perché i sogni costituiscono parte essenziale della nostra realtà, non solo il sogno che noi facciamo di noi stessi, ma i sogni notturni che accadono quando la coscienza si astiene dall’esserci. Nel sogno si manifesta la vita nella sua forma più spontanea ed estranea. La condizione del sogno costituisce lo stato iniziale della nostra vita e vivere significa uscire dal sogno ed entrare nella veglia; per questo statuto ontologico del sogno, conoscere se stessi implica anche pensare la dimensione onirica, pensando noi stessi fatti anche dei sogni che sogniamo. “Progenie d’un giorno! Che cosa noi siamo? Che cosa non siamo? È sogno di ombra il mortale” (Pindaro, Pitica VIII). Quando il pensare riflessivo si addentra nella vita della mente, oltre a scoprire la zona opaca del sogno, avverte anche un fondo che tende a rimanere sconosciuto, una realtà oscura che sente nella radice del suo essere,

quella realtà che la religione cristiana concepisce come Ens realissimum, anche se resta sconosciuto alla mente umana (ST: 30). Avvertire che c’è dell’altro oltre al mondo delle cose, oltre alla materia di cui siamo parte, e che questo altro resta sconosciuto fa patire alla mente una forma di sgomento. Nasciamo da una decisione di altri e soggiorniamo sulla terra per un tempo che non ci è dato sapere, e in questo cammino, durante il quale dobbiamo fare i conti con la responsabilità di costruire un mondo di significati che poi avrà fine con il finire della nostra vita, ci resta sconosciuta la sua radice ultima, la fonte generativa di ogni cosa. Pensare sulle orme di Zambrano fa avvertire la voragine che si apre nell’anima quando la mente pensa l’esserci. Da questo sgomento si può trovare riparo solo se l’anima sente speranza e fiducia nella vita, e in primis se impara ad accettare di camminare nel tempo senza una luce piena, in zone opache e oscure, nell’attesa dell’aurora. Per Zambrano la figura dell’aurora, cui dedica un intero libro, è essenziale per interpretare l’esperienza umana. L’aurora è luce acquosa che apre una fessura fra il buio della notte e lo scuro in cui è la terra, è luce che appare senza imporsi, quella che “fa sì che l’oscurità, pur senza essere sconfitta, cessi di regnare e si ritragga impercettibilmente” (A: 45). Quando Zambrano parla dell’aurora sembra dire l’essenza della vita: come l’aurora è compresenza di luce e di buio, del resistere delle tenebre e del rischiarare, così la vita è compresenza di opposti. Non c’è mai solo gioia, ma sempre anche una sofferenza incombente; non c’è solo dolore, perché se così fosse sarebbe come morire, ma sempre c’è anche speranza di altro. È la vita stessa che ha bisogno di opposti; il tempo non si produrrebbe se ci fossero solo luce o solo tenebre, ma si dà nel divenire degli opposti. Se alla coscienza fosse accessibile una luminosità piena, il soggetto annegherebbe nella luce e non potrebbe più vedere nulla. La luminosità senza ombre è sostenibile solo da un soggetto assoluto, che si pensa pensare e che pensando pensa tutto l’intero senza fessure e senza ombre. La condizione umana è invece radicalmente lontana da questo stato di pienezza; è sempre costitutivamente mancante di qualcosa. Sempre con i suoi “senza”. Quel “senza”, quel “mancare” sempre qualcosa costituisce la nostra cifra essenziale. Ciò che di più la coscienza sente mancare è la possibilità di una comprensione continua e intensa del vissuto, perché dei vissuti della ragione e del cuore è possibile cogliere solo qualche frammento estratto “dall’oscuro

fondo che forma la continuità del vivere” (ST: 35) e che resiste allo sguardo analitico della mente. Proprio in ragione dell’occultamento del fondo della vita, di cui cogliamo solo quello che alla mente risulta uno zampillare discontinuo, l’anima anela, con sofferta speranza, al chiaro, alla luce. La filosofia di Zambrano è immersa in una metafisica della luce, quella stessa che ispira la poesia di Dante, che lei conosce bene.9 La terza cantica si apre con immagini piene di luci. Non è casuale che al Paradiso Dante acceda nella stagione dell’equinozio di primavera, e precisamente nell’ora del mezzogiorno, quella più luminosa, e tanta è la luce che lo sguardo umano non può sostenere la vista del sole a lungo. Quando “di subito parve giorno a giorno / essere aggiunto” (Paradiso, I, 61-62) Dante non può sostenere tanta luce e si affida allo sguardo di Beatrice. La ragione ha necessità di luce, ma in una misura umana, una misura che non è del mezzogiorno, ma dell’aurora. Il lavoro dell’anima è cercare di fare chiaro, ma un chiaro che mantiene memoria dell’ombra in cui la vita scorre. La metafisica della luce costituisce l’orizzonte di molte filosofie, perché “la luce, altrettanto o ancor più dello spazio e del tempo, è sicuramente un ‘a priori’ dell’essere umano o dell’essere di tutte le creature!” (CB: 32). Ciò spiega perché “i movimenti più reconditi ed essenziali dell’essere umano … si producono in funzione della luce” (ibidem). Fin dal mito della caverna l’anima realizza la sua tensione alla trascendenza uscendo dalla caverna buia per ascendere al cielo chiaro. Tutto quanto resta oscuro e opaco genera tremore e timore. Nascere è venire nella luce. Dare forma all’esistenza è trovare zone chiare che rischiarano il cammino. Dalla parte della luce, si vorrebbe stare. La filosofia di Zambrano è un anelito alla luce, di cui è fenomeno emblematico l’amore, “quell’immensità di un parto di luce” (A: 92); quell’istante di luce liquida in cui la mente può bagnarsi lasciando andare il peso dei giorni senza per questo perdersi. La luce che cerca Zambrano non è però quella irradiante e abbagliante del mezzogiorno, ma la luce morbida e acquosa dell’aurora. Una luce che tocca le cose con delicatezza, non con la violenza della luce piena che rende impossibile vedere (UD: 39). Una luce che lentamente disfa l’oscurità senza alcuna violenza, “una luce che non vede, una luce che non tocca” (CB: 32). La luce dell’aurora ricorda il luminare acquoso della luna, una luce ricevuta da altrove e che per questo non abbaglia. Una luce che dirada il buio, lo rende

abitabile, ma dalla quale non si è toccati. C’è, ma lontana, e pur nella lontananza rende abitabile il luogo oscuro di quel mistero che è la vita. La ragione occidentale si è pensata come attività che fa luce, ma il cercare la verità non può essere concepito come un rischiarare abbagliante, quello della luce densa, quasi corporea, che fa sentire il suo peso fino a umiliare le cose (UD: 40-41). La ragione che apre la strada alla comprensione della realtà è come luce liquida e alata, che accarezza le cose assistendo così alla loro nascita; una luce che non pesa e non si condensa, che passa accanto alle cose, senza investirle, e quasi attraversandole fino a farle diventare trasparenti come lei. Una luce molto diversa da quella cui tende l’anima platonica: quella è la luce piena del bene cui l’anima accede con uno sforzo violento, quello che consente di rompere le catene che la tengono inchiodata al mondo delle ombre. Invece la luce per María è qualcosa che va desiderato ma non cercato con insistenza, alla luce dell’aurora si giunge “senza sforzo e senza protezione” (CB: 43), con una intelligenza senza decisione, ricevente più che agente. Una luce che va attesa, non cercata. Come la grazia. Alle cose del massimo valore per il senso dell’esserci non si giunge per volontà, ma si possono solo ricevere: è questa la lezione immediata della mistica. Cercare la verità Quando si persegue con disciplinata continuità la ricerca della conoscenza di sé non si può non trovare nel fondo dell’anima la tensione alla ricerca della verità. Intendendo per verità non un costrutto logico, ma un sapere che viene dall’accettare, comprendere e affrontare la necessità. La tensione propriamente umana, quella che ci tiene nella vita come soggetti pensanti, è la ricerca della verità, anche se tale tensione non sarà mai soddisfatta. Raggiungere la verità delle cose prime e ultime significherebbe nascere completamente. Invece il venire a esserci non si attualizza mai nella sua pienezza; non c’è un momento in cui si superi la condizione di essere soggetti mancanti; si è destinati a uscire dal mondo ancora incompiuti. L’anima avverte il bisogno che ha la vita di trasparenza, quella che solo la verità può dare, seppure mai completamente; quando la vita non si converte alla ricerca appassionata della verità non può che procedere confusa e incerta (CGL: 38). L’essenza della verità non è però qualcosa di logico, ma consiste nella capacità di trasformare la vita, perché la verità – quando è tale, cioè verità

vitale e non meramente logica – non è un oggetto di cui la mente si impadronisce, ma è un modo di agire che trasforma l’esperienza. La domanda fondamentale che pone Zambrano è “come fare in modo che vita e verità s’intendano, la vita lasciando lo spazio per la verità e la verità entrando nella vita, trasformandola fin dove è necessario senza umiliarla” (CGL: 38). Forse trovando un metodo che tenga insieme il bisogno di vivere la vita nel suo immediato accadere e il tenersi alla ricerca della verità, una postura dell’esserci che chiede di sospendere l’adesività al vissuto e di cercare il luogo quieto, anche se faticoso, del pensare. Noi che abbiamo la storia dietro di noi, se da una parte siamo appesantiti da costruzioni culturali, dall’altra possiamo rinvenire in esse sentieri che ci mettono sulle tracce della verità della vita. Zambrano trova un aiuto nella ricerca della verità di cui la vita ha necessità in quel tipo di genere letterario definito “confessioni”, che si caratterizza per l’intenzione di mostrare il cammino attraverso cui la vita cerca la sua verità (CGL: 39). Un genere inaugurato con splendore da Agostino. Una confessione non si scrive per esigenze letterarie, ma risponde a una necessità della vita. In questo senso la confessione è una scrittura sapienziale, perché essenziale è scrivere per rispondere a una urgenza della vita e non a un mero artificio del pensiero. Il bisogno della confessione come scrittura nasce in momenti di estrema confusione e di disordinante dispersione. Quando la coscienza avverte dell’esistenza solo il peso e sembra perdere il respiro vivo del tempo, si sente l’estrema necessità di comprendere quanto accade e trovare la strada per la verità dell’esserci. Chi scrive una confessione è una persona che soffre e che avverte il rischio di perdersi. La confessione viene da un vissuto di disperazione (CGL: 46). Però una disperazione accompagnata dalla speranza di un altro possibile. La disperazione senza la speranza blocca ogni movimento. L’antenato della confessione è Giobbe, che lamenta il suo non sapere il senso di quello che sta vivendo (CGL: 41). Nella sua confessione Giobbe dice tutto il dramma del non sapere il senso del suo esserci, il suo sentirsi senza pace, senza calma, senza riposo, continuamente con il cuore terremotato dall’agitazione per non sapere trovare la verità dell’accadere delle cose. In un testo che ha la forma di una confessione l’autore mette in parola i suoi “sforzi d’essere” (CGL: 43). Nessun compiacimento, ma una ricerca sofferta della strada da percorrere, del ritmo da trovare. La scrittura

della confessione aiuta a diradare qualche ombra e a trovare qualche frammento di risposta in cui il cuore può trovare istanti di quiete. Da evitare, però, è ogni forma di compiacimento interiore, che è un giocare con la morte (CGL: 44). Per Zambrano, che considera un rischio grave della scrittura il ripiegamento narcisistico, è essenziale evitare l’esibizione di sé e fare invece della scrittura un cammino. La scrittura da cercare, quella che aiuta a trovare la verità, ha la forma di un percorso che attraversa ombre e sta in attesa di radure. Bandisce ogni compiacimento. Parla dell’esperienza, di quello che accade, ma solo per cercare altro, cercare un altro tempo, altri ritmi del respiro. Si può trovare la strada di sé solo mettendo tra parentesi il sé, solo cercando l’ulteriore. La confessione parte dal proprio modo di stare nel tempo per cercare un altro tempo, un altro modo: “È un’azione sul tempo nella realtà” (ibidem). La scrittura della confessione è una scrittura di verità se dice qualcosa che non riguarda solo chi scrive, ma indica qualcosa di possibile per chi legge. Cercare la verità è essenziale perché è l’alimento indispensabile della vita, senza la quale il tempo vissuto resta opaco, e nell’opacità si finisce per patire la notte del senso. Ma quando si va in cerca della verità, tanto più è la dedizione appassionata che nutre tale ricerca, tanto più dilaga nell’anima la consapevolezza del difficile di questa ricerca, un difficile che spesso assume i tratti dell’impossibilità. A sostenere questa attesa appassionata e patita allo stesso tempo è solo la speranza. Solo se la speranza alberga nell’anima il tempo lungo della ricerca della verità diventa sopportabile. Sapere che stare alla ricerca della verità è l’essenziale della vita “ci conforta e ci aiuta a sopportare l’angoscia” (CB: 12). Per dire l’essenzialità del pensiero che si tiene alla ricerca della verità, Zambrano ricorre a una metafora: È indispensabile che un fiume abbia il letto, altrimenti non si avrebbe un fiume ma un pantano. Potendo sfuggire, l’acqua avrebbe l’illusione momentanea di aver ottenuto la libertà, di avere riacquistato la sua potenza. Ma la potenza si esaurisce in assenza di argini (ibidem).

La vita è un fiume che senza la ricerca della verità mancherebbe di argini; mancherebbe di ciò che la tiene insieme, di ciò che la invera. È una passione che sa di religione quella che Zambrano sente per la verità, perché sostenuta dalla fiducia/fede che la verità salvi la vita dal rischio continuo di perdersi nelle onde del tempo, di consumarsi senza respiro nelle pieghe dell’essere, generando il sollievo di sentire la gioia di essere in

cammino. Figura quest’ultima filosoficamente socratica e religiosamente evangelica. Tutto il percorso filosofico di Zambrano è la ricerca della verità del vivere, di quella che lei chiama “un pensiero ultimo, rivelatore” (CB: 13). Quel pensiero che dà ordine al cammino, indica un paesaggio dove sostare e trovare la direzione da seguire. Per comprendere l’essenza della filosofia sapienziale di Zambrano è di aiuto risalire alle sue fonti: la mistica, che senza perdere il radicamento dell’immanenza apre all’ulteriorità di cui ha sete l’anima; la filosofia che cerca di farsi medicina dell’anima, in particolare lo stoicismo; e poi la poesia, che sa trovare le parole per il vero di quello che è; non da ultimo, la parola evangelica, che traspare nei punti di più intensa tensione alla trascendenza.

3.

Cercare il metodo del vivere È generando la verità che si fabbrica la vita. Ma questo lavoro di fabbricazione richiede una tecnica, un metodo. Il lavoro del vivere come trascendenza richiede un metodo per abitare con senso il tempo. La vita è tempo e il tempo è cosa che ci troviamo a patire. Siamo esseri destinati a patire il tempo. È vero che il tempo non è cosa che si affronta con il pensiero, il tempo va vissuto nella forma dello stare assoggettati a esso, ma è proprio con il pensiero che è possibile il patire il tempo nella sua piena verità. “Patire il tempo significa percorrerlo senza evitare alcun abisso” (UD: 97) e questo percorso è cosa del pensare che con metodo interroga l’esperienza vissuta. Per stare nel tempo è dunque necessario un metodo del pensare. Abbiamo necessità di un metodo che sappia fornire una mappa per orientarci in questa realtà che chiede una forma senza dirci come cercarla; un metodo per comprendere la realtà umana, che può disorientare quando si presenta come una “danza delle possibilità” che gira intorno alla mente (B: 37). Non però il metodo inteso come procedura già disponibile, ma un sapere poetico; “un metodo del vivere poetico, … un metodo cioè più che della coscienza della creatura, dell’essere della creatura che si avventura a svegliarsi abbagliata e intirizzita a un tempo” (CB: 17). Il problema essenziale per Zambrano è trovare un metodo che ci metta in contatto con la fonte della vita: il metodo dell’anima. Un metodo che consenta di stare nella vita così come essa è, con i suoi luoghi e i suoi tempi di oscurità, con i suoi inferni, senza nulla nascondersi, senza nulla evitare. Stare nella realtà è stare non solo fra le cose evidenti del mondo esterno, ma anche stare in presenza delle cose oscure del fondo della vita di cui ha esperienza l’anima. Nella sua autobiografia María accenna alla possibilità di scrivere un nuovo Discorso sul metodo, per tratteggiare un metodo che sappia orientare a vivere la vita, viverla interamente e chiaramente (DD: 109). L’essenza emergenziale del metodo Il sapere dell’anima si profila come guida per il cammino della vita. La vita è cammino, in greco il termine che indica il cammino è odós. Per trovare la direzione di questo cammino, e non smarrirsi nella dispersione vanificante e nella frammentazione dei saperi che oggi invadono il mondo della vita,

occorre un metodo: meth-odos, cioè un pensare sopra (metá) il camminare (odós). C’è un vivere la vita così come accade, subendo del tutto le circostanze, e un vivere che cerca la sua direzione di senso, quella in cui il tempo vissuto si fa esperienza. L’esperienza è la vita saputa, compresa: è il tempo patito e agito. L’esperienza prende forma quando il vissuto diventa oggetto della coscienza. È come se l’esperienza fosse vita di secondo grado. Ma non c’è possibilità di esperienza se non con l’intervento di un metodo (NM: 35). È attraverso il metodo che il tempo vissuto diventa esperienza. Cercare un metodo è dunque questione essenziale non solo per la ricerca della conoscenza, ma per la vita intera. È una necessità dell’esserci.10 Zambrano rileva come il metodo cartesiano sia sottoposto a un’interpretazione semplicistica e schematica; viene, infatti, convertito in una forma mentis, che consiste nell’interpretare la vita della mente come funzionale a cercare i modi per oggettivizzare la natura e il mondo come condizione per esercitare il controllo sulla realtà: sulla natura, sugli altri, fino ad arrivare al controllo sulla vita interiore. Questo assoggettamento del metodo a una visione imperialistica poggia sul presupposto che fonte di scienza è solo ciò che si rende traducibile nel linguaggio logico ed elaborabile algebricamente. Seguendo questa interpretazione semplicistica e riduttiva del metodo non si può che arrivare a un immiserimento del soggetto della conoscenza, poiché solo certe facoltà cognitive vengono considerate fonte di sapere. Quando si fa prevalere una sola concezione del metodo si provoca una ermetizzazione dell’oggetto, poiché solo alcune qualità, quelle matematizzabili, vengono elaborate (NM: 41). Cercare un metodo significa cercare il modo di fare chiaro nel mondo della vita. Ma l’interpretazione razionalistica che Zambrano, e poi il pensiero post-moderno, attribuiscono alla scienza moderna persegue la chiarezza solo attraverso quella semplificazione dell’esperienza che consiste nell’evitare i luoghi opachi, le zone che restano a noi misteriose, quelle che lei chiama le viscere della vita. La vita umana si presenta però fatta di lati oscuri, di zone stagnanti dove il pensiero immancabilmente s’impantana. Un metodo della vita non può non confrontarsi con l’opaco, con ciò che fa resistenza al pensiero. Evitare queste zone ha come conseguenza di lasciare senza luce i passaggi più intensi e problematici della vita, finendo così per arrivare a una chiarezza che non rischiara poiché “respinge le tenebre senza penetrare in

esse, senza disfarle in penombra, senza aprire squarci di luce” (NM: 42); di questa chiarezza la vita non sa che farsene perché non aiuta a vivere. Né è di aiuto un metodo che si presenta come qualcosa di sicuro e di certo, perché in quanto tale impedisce di fare esperienza autentica delle cose del mondo, la cui qualità essenziale è di essere imprevedibili. Non è dunque questo il metodo che si va cercando. Con l’affermarsi della scienza moderna il metodo è stato concepito come un insieme ordinato di procedure codificate con precisione per garantirne l’applicabilità oggettiva. Per Zambrano, invece, il metodo non va inteso come cosa oggettivamente disponibile, strutturato entro procedure predefinite; il metodo è una guida che mai si finisce di tracciare, mantenendosi in una relazione di continua riflessione con ciò che accade nel luogo in cui si agisce. Per il sapere della vita non c’è un metodo definibile in anticipo, poiché niente nella vita è ripetibile; tutto accade una sola volta, anche se in analogia con altri eventi. Per questa ragione il metodo non è qualcosa che può essere disponibile prima di iniziare un’esperienza, ma nasce dalla vita e con questa continuamente si misura; in quanto tale è destinato a essere continuamente ridisegnato, perché dalla vita si generano senza soluzione di continuità nuove forme di esperienza. Invece, l’ansia di certezze che il cuore sente fa cadere nell’errore di cercare un metodo a priori, che è quello che finisce per “ricadere sulla vita stessa e sul nascere dell’esperienza, come un difetto originario” (NM: 35), perché impedisce l’avventura del camminare nel tempo. Un metodo a priori pretende di imporsi sulla vita, di darle forma, ma proprio per questa sua imposizione violenta sul vissuto la vita si sottrae e, anziché farsi chiara sotto l’azione del pensiero, scorre opaca. Il metodo a priori depotenzia la stessa possibilità di fare esperienza, perché pretende di predeterminare anticipatamente l’orizzonte dell’esserci contravvenendo all’essenza del divenire, che è costitutivamente apertura all’inedito. È quindi incapace di vivificare il tempo della vita. C’è necessità di un metodo che nasca dalla vita e che al divenire imprevedibile della vita resti legato. “Si potrebbe dire che l’esperienza è ‘a priori’ e il metodo è ‘a posteriori’ ” (ibidem). Ma anche questa è una semplificazione, che si limita a invertire la direzione della relazione sequenziale fra metodo ed esperienza, stabilendo la precedenza dell’esperienza sul metodo. Affermare la necessità di riportare al centro

l’esperienza va inteso solo come un’indicazione, dal momento che non c’è esperienza se non c’è un metodo. Zambrano istituisce una circolarità emergenziale fra metodo ed esperienza: non c’è esperienza se non c’è un metodo che lavora pensosamente sul vissuto e un metodo non può che prendere forma nel bel mezzo del vissuto trasformandolo in esperienza. Per guadagnare intelligenza sul reale è necessario un pensiero contestuale, che non è un pensiero smarrito nel particolare, ma un pensiero che cerca semi di sapere capaci di un valore rischiarante che possa distendersi oltre il campo fenomenico a partire dal quale si è generato, senza per questo svuotarsi del suo necessario attaccamento all’evento. È un pensiero che sa tenersi immerso nell’evento così com’è vissuto. Un pensiero che “salva le circostanze” e le illumina (B: 62-63). Un metodo per la vita non può che essere attento alle circostanze concrete nella loro singolarità e, senza perdere di vista la ricerca di un sapere che vada oltre il particolare, restare continuamente in dialogo con la vita. Da pensare è sempre il fatto concreto singolare, ogni evento va pensato nel suo pulsare originale prima di assimilarlo in un concetto che dell’evento smarrisce la specificità. Il metodo è innanzitutto apertura, passaggio ad altro, al non conosciuto e, quindi, a ciò che non può essere anticipato prima che il cammino abbia inizio. Per trovare un metodo non ci possono dunque essere regole predefinite cui affidarsi. Non ci sono piste già tracciate, ma solo stretti sentieri da trovare nel mezzo del cammino. “Un metodo è un cammino da percorrersi una o più volte … È un luogo di arrivo più che di partenza” (NM: 37). Proprio perché la conoscenza vera si nutre di un pensare che sta immerso nell’accadere, la mente arriva a delineare un metodo adeguato se apprende a smarrirsi nell’esperienza, a naufragare nel territorio che si attraversa. Occorre sapersi perdere nel tempo, cosa che implica una disposizione all’avventura, all’erranza, che si attualizza nell’attraversare luoghi e tempi stando immersi in quello che accade ma senza alcun attaccamento. Per rendere questo concetto Zambrano ricorre alla metafora del naufragio (NM: 38). Di fronte all’opacità dell’esperienza, di fronte alla consapevolezza che il senso della vita ci sfugge, la mente tende a lasciarsi prendere dalla tentazione di attivare un modo del pensare che si declina come un afferrare la realtà dentro un’architettura di concetti. Invece, per sapere stare nella realtà così come si dà, è necessario lasciarsi naufragare fra le cose. Il naufrago è colui che arriva su una terra sconosciuta privo di tutto, non avendo nulla con

sé degli strumenti abituali; per vivere deve costruire quegli strumenti che il posto suggerisce essere adeguati ad abitarlo. Nascere è trovarsi nell’oceano della vita; come il naufrago l’essere umano si trova a dovere cercare la direzione del suo viaggio senza disporre di mappe già tracciate e dispositivi predefiniti. Deve osservare e ascoltare le cose e i fenomeni per muoversi con essi. La postura del vivere con metodo può essere pensata per analogia con quella del naufrago, che si trova a orientarsi sotto un cielo sconosciuto senza mappe già date. In quella terra sconosciuta in cui viene a trovarsi, il naufrago disegna la sua mappa mentre esplora, osservando le stelle per trovare i sentieri sulla terra. In questo senso l’essenza del metodo del vivere, quello necessario a cercare il sapere dell’anima che rischiari il cammino, è di essere a-metodico. È a-metodico non solo perché non fornisce regole, ma anche perché scaturisce da un processo generativo che non segue procedure formalizzate predefinite. Non si viene strutturando attraverso un processo lineare e sequenziale, ma si costruisce secondo una logica circolare in un rapporto dialettico con l’esperienza. Il metodo che cerca Zambrano non è quello della scienza, che si struttura inanellando ragioni su ragioni, ma il metodo di concezione pitagorica, quello che “non è una cosa della mente ma della vita, tutta la vita è un cammino di saggezza, la vita stessa” (UD: 77). Un metodo del vivere che consenta una conversione della vita si attualizza non in regole e procedure, ma in gestualità ontologiche: ridurre al minimo, non cercare, prestare un’attenzione ricettiva alla realtà. Ridurre al minimo Dalla mistica Zambrano apprende la pratica del cercare, da parte del soggetto, la minore consistenza possibile in quanto condizione necessaria per entrare in contatto con la realtà: Non essere nulla. Essere soltanto ciò che non si può lasciare né perdere. … Avere smesso di essere tutto per continuare a mantenersi nel punto privo di qualsiasi appoggio (B: 36).

L’imperativo di “non essere” nulla non ha il significato di “cercare” di non essere nulla, poiché questa interpretazione nega la qualità reale della condizione creaturale, quella di essere chiamati a cercare una forma, a realizzare un mondo abitabile; piuttosto chiede di non legarsi a nulla di ciò che si fa. Evitare ogni attaccamento. Obbedire all’imperativo di essere fedeli alla propria qualità ontologica, fragile e precaria, che non ammette illusioni di

durata oltre l’istante in cui un atomo di essere si realizza. Non essere null’altro se non l’essenziale che consente di rinascere gemmando spazi di verità dell’esserci. Non si tratta di fare “voto di rinuncia a tutto” (DD: 100), perché sarebbe questo un sentiero inaccessibile, dal momento che sempre qualcosa noi si deve essere e sempre qualcosa portare con sé; piuttosto si tratta di sapere stare in una povertà essenziale. Non è miseria, bensì essenzialità. In questo percorso aiuta il principio del fare vuoto, perché il vuoto, anche quello che si sente dentro di sé, non è qualcosa da temere, in quanto un essere, e propriamente la sua anima, trova se stesso “quanto più ampio e qualificato è il vuoto che contiene” (CB: 68). Per interpretare questo imperativo etico, di fondamentale importanza è la lezione della mistica che insegna a procedere “di sradicamento in sradicamento … spossessandosi, sradicandosi” (B: 38). La via della mistica non è altro dalla vita. C’è una mistica del quotidiano che si pratica nella disciplina dello spossessarsi e nel perseguire un annichilimento progressivo di tutto quanto impedisce di stare in contatto con la matrice sacra della vita. Sradicarsi significa tirarsi via dagli spazi di significato logori, da visioni consumate, da teorie accomodanti, per ritrovare lo slancio che chiede il rinascere. Perché per riprendere ogni giorno il cammino è necessario essere leggeri. Alleggerirsi di ogni ingombro cognitivo è l’insegnamento che Zambrano apprende da Husserl quando dichiara la necessità di “iniziare da un’assoluta povertà di conoscenze” (E. Husserl, Meditazioni cartesiane, Bompiani, Milano 1989, p. 38), un imperativo questo dall’intenso sapore mistico. È un voto di povertà, perché la povertà di cose già date è condizione per la fecondità del pensare. L’ascetismo non è rinuncia ma apertura ad altro; è fare della mente una sostanza trasparente che lascia passare l’essenza del reale. In lei il principio del pensare con povertà di sapere è interpretato in modo radicale come uno “strapparsi da tutto ciò che si è ricevuto” (B: 88); abbandonare tutto e rimanere “senza niente altro che la domanda” (B: 89). Tenersi leggeri dalle cose, dagli attaccamenti, dai manufatti del pensiero e dalle cristallizzazioni del sentire, per avere cura essenzialmente della forza vitale che ci fa essere e ci consente di cercare il vero sapere dell’anima. Si dovrebbe pensare solo quando l’amore originario risuona in noi rendendo possibile la parola autenticamente generativa di spazi veri dell’esserci. Perché

solo l’amore, per María profondamente fedele alle origini della filosofia e insieme al pensiero cristiano di Paolo, invera la parola. Per rinascere occorre spogliarsi, “rimanere senza baldacchino, e persino senza tetto … senza protezione, senza appoggio, senza punto di riferimento” (CB: 48). Questa pratica di spoliazione della mente, quando si fa disciplina quotidiana dell’esserci, realizza il principio della povertà di spirito. Spogliarsi di tutti i rivestimenti con cui ci addobbiamo per renderci presentabili agli altri, così da sapere stare nell’essenzialità, nella nuda verità dei modi propri del nostro esserci. Essere nella verità nuda di rivestimenti non va inteso come autorizzazione all’esserci così come capita, ma a esserci solo nei modi che dicono qualcosa della nostra verità. Cercare la povertà di spirito non significa aspirare al vuoto assoluto, poiché, oltre che impossibile, senza strumenti cognitivi non ci sarebbe neppure possibilità di conoscenza; ma è spoliazione degli orpelli per rendere possibile la coltivazione solo dell’essenziale. Una mente che coltiva l’essenziale è una mente sgombra, che consente di fare posto alle qualità impreviste e inaudite della realtà. Aiuta in questa pratica dell’ascetismo il gesto dell’epoché. Fare epoché è chiedere alla mente di acquisire una sostanzialità diafana, liquida, che si fa attraversare dall’essere delle cose senza modificarle. Per riuscire a fare chiaro, a ottenere una conoscenza limpida, la mente deve farsi chiara essa stessa. La ricerca del sapere dell’anima esige una sorta di purificazione della mente, “tacendo e occultandosi come individui, perdendo il loro nome o non dandosi a conoscere” (B: 55). Zambrano, che critica la fenomenologia come positivismo radicale, sembra però fare proprio il significato della pratica dell’epoché, che si ritrova nella sua filosofia spiritualmente materialistica, dove la ricerca della povertà di conoscenza, del mettere da parte il già saputo, è la condizione per accedere alle cose, per stare dentro nella realtà. Il sapere vero, oggettivo, chiede una mente diafana, potente nelle mosse epistemiche ma leggera di contenuti. Chi va in cerca della verità “deve cancellare la sua presenza al tempo stesso conservandola per corroborare ciò che dice … Transiterà anonimamente” fra le cose (ibidem). Questa presenza-assenza è la condizione perché le cose appaiano nel loro essere proprio, nella loro oggettività. Si tratta di entrare in relazione con la realtà spogliandosi della propria affermazione, così da permettere a ciò che sta intorno di mostrarsi. Non cercare

Ci sono momenti in cui “non bisogna cercare. È la lezione immediata dei chiari del bosco: non bisogna andare a cercarli e nemmeno cercare nulla di loro. Nulla di determinato, di prefigurato, di risaputo” (CB: 11). Ci sono momenti in cui all’azione umana è necessario saper rinunciare, momenti di pura passività. È questa la condizione per sentire la vera qualità del reale. Essenziale per comprendere il principio mistico del non cercare è il pensiero di san Giovanni della Croce11: Per poter gustare il tutto, non cercare il gusto in nulla. Per poter possedere il tutto, non voler possedere nulla. Per poter essere tutto, non voler essere nulla. Per poter conoscere il tutto, non voler sapere nulla. Per raggiungere ciò che ora non godi, devi passare per dove non godi. Per arrivare a ciò che non sai, devi passare per dove non sai. Per arrivare al possesso di ciò che non hai, devi passare per dove non hai. Per giungere a ciò che non sei, devi passare per dove non sei (Salita al Monte Carmelo, I, XIII).

Il non cercare si realizza in un atteggiamento verso la realtà che si declina come ricettività, come disponibilità pura e intera, senza ombra di avidità. Il linguaggio epistemologico è denso di parole che evocano un approccio imperialistico, quasi bellico alla conoscenza: dominare l’oggetto, catturare la verità, penetrare la realtà. Invece Zambrano preferisce declinare la conoscenza come resa al reale, che evita l’inganno di pensarla come una caccia.12 In questo imperativo risuona il principio stoico che chiede “nec spe nec metu”, chiede di non attendere e di non temere nulla (A: 63), per sapere cercare la misura dell’esserci nella ricettività pura risolta da ogni tensionalità acquisitiva. La conoscenza vera è qualcosa che non si conquista con la violenza, non è “verità forzata”, ma “rivelazione gratuita” (PPVS: 56), qualcosa che si riceve. Simile a ciò che accade nell’ordine della grazia. Il non cercare ha la forma del lasciare essere le cose e per lasciare che le cose si mostrino da sé evita di ingabbiare lo sguardo in concetti già dati, nella “tirannia del concetto” (A: 41). La ragione che si chiude nei suoi concetti come in una fortezza finisce sempre per trovare una risposta alle domande che pone, perché dopo avere formulato la domanda non si sta in ascolto della realtà ma ci si muove dentro il recinto disegnato dai concetti già dati. La conoscenza vera si dà quando, con la mente che si tiene libera dal ricorso a concettualizzazioni predate, “lo sguardo e il visibile si aprono all’unisono” (A: 31). È in questo incontro che si apre lo spazio dell’istante, il momento privilegiato della conoscenza. Non cercare significa rinunciare all’illusione di sapere già cosa cercare. Certamente il fatto che la realtà sia visibile, che appaia allo sguardo, o che si

faccia sentire, come si fanno sentire i moti dell’anima, fa pensare che la realtà possa essere còlta. Ma dietro il visibile c’è sempre dell’altro, che rimane per la ragione umana indefinibile; può solo essere intuito dalla coscienza quando, libera dalla tensione a captare e disponibile a cogliere quello che della realtà si offre, percepisce che c’è anche una realtà altra, che circonda la coscienza (UD: 173). Prestare una attenzione ricettiva Per stare tra le cose, vivere nel pieno il tempo nello spirito e nella materia, nella possibilità di un raccoglimento interiore, capace di portare nella prossimità della fonte della vita dove sentire risuonare le questioni essenziali, e insieme di accendere una feconda convivialità, è irrinunciabile sapere prestare attenzione. Cercare la verità implica “quella prima forma della coscienza, ancora religiosa, che è l’attenzione” (UD: 48). Prestare attenzione significa tenere lo sguardo sostenuto sull’esperienza. Lo sguardo di chi cerca il sapere sapiente si fa niente altro che una “attenzione appassionata e sostenuta” (A: 31). La possibilità di essere realmente presenti al nostro accadere scaturisce anche da un’attenzione che si delinea come sguardo continuativamente concentrato sulle cose. L’attenzione che giunge a esercitarsi come ragione poetica è analoga al bordo della luce, quel bordo in cui la luce stessa trema anche quando riesce a depositarsi sulla terra (ibidem). In questa concezione sostenuta e appassionata dell’attenzione risuonano le parole con cui Dante dice il suo guardare ammirato: Così la mente mia, tutta sospesa, mirava fissa, immobile e attenta, e sempre di mirar facíesi accesa (Paradiso, XXXIII, 97-99).

La concezione che Zambrano ha dell’attenzione è prossima alla sfera del divino, poiché dovrebbe essere illimitata, senza cedimenti alla divagazione, audace, ostinata, senza paura. Lo sguardo a noi possibile, invece, per quanto nutrito da un desiderio di presenza massimamente viva, è destinato a essere intermittente, a risuonare del tremore che prende la mente quando sta in una presenza onesta di fronte al reale, esposta alla sua irriducibile complessità. Così com’è il nostro esserci, finito, fragile, vulnerabile, precario, debole, così è anche l’attenzione. Noi che ci troviamo a essere prorogati di istante in istante, continuamente esposti all’urto delle cose, sentiamo tutta la fatica del cercare di tenere un’attenzione continua sui movimenti del reale. È cosa massimamente difficile prestare l’attenzione così intesa, poiché la

qualità propria della mente umana è di essere mutevole e irrequieta. È discontinua e fluttuante, vagabonda da un oggetto all’altro e, incapace di quiete, trova la sua più grande gioia in tutto ciò che è novità. Ma l’attenzione che sostiene la ricerca della verità quasi non si muove, è un’attenzione che non cerca, che sa attendere per ricevere; uno sguardo capace di una “disponibilità pura e intera, senza ombra di avidità. Non va a caccia, non è preda dell’inganno che ha origine nell’ansia di captare” (A: 41). Per essere uno sguardo che riceve il dirsi delle cose la mente deve farsi vuota, perché solo così il pensare incontra il reale, solo quando lo sguardo si apre in una passività massimamente attenta il reale si apre e si produce l’aurora del pensiero (ibidem). Unicamente quando lo sguardo coglie la cosa per com’è si apre quella conoscenza vera che sola aiuta a vivere. Quando accade è cosa di un istante, ma un istante duraturo. L’istante che si fa germoglio di una conoscenza vera, anche se in quanto istante è inafferrabile, diventa duraturo per il tipo di rapporto che riesce a generare con la realtà. Il prestare attenzione, quando sa farsi disciplina della mente, diventa contemplazione e la capacità di contemplare, cioè di concentrarsi sull’altro in assoluta quiete, senza nulla desiderare se non che la realtà si disveli nella sua verità, diventa respiro dell’anima: “È il tempo della contemplazione che dà respiro, libertà” (CB: 153). Praticare la disciplina del tenere lo sguardo concentrato sulla cosa, sottraendosi alla logica dell’istante, che è la logica del consumo, significa sviluppare una disposizione contemplativa, che consiste nell’essere votati a prolungare lo sguardo. Per prestare un’attenzione autentica è necessario sapere fare silenzio nella mente. La vita di per sé è rumore: il ronzio dell’ape o il canto della cinciallegra ne sono la quintessenza (A: 23). Quando si raggiunge uno stato di quiete e si sta in ascolto della vita della mente, praticando la disciplina della riflessione sul flusso di coscienza, si può sentire l’inevitabile rumore dei pensieri e delle emozioni. Se la mente non fosse vita che fluisce continuamente, neppure sarebbe possibile la conoscenza, ma il conoscere autentico, quello che incontra la cosa per quello che essa è, richiede un certo grado di silenzio, dove i dispositivi della ragione si disattivano quel tanto necessario affinché la cosa si mostri da sé e in sé. L’attenzione è essenziale non solo sul piano epistemico per la ricerca della verità, ma per l’esserci: l’attenzione è un bisogno ontologico. L’essere umano ha una necessità insaziabile di guardare e di essere tenuto nello

sguardo da un altro. Noi abitiamo allo stesso tempo il luogo della luminosità e quello dell’ombra; ma lo specifico degli enti che sono nel mondo è di apparire, comparire all’altro. “Comparire è esserci come essere” (ST: 26). In un’affermazione dove è evidente la cultura della fenomenologia, Zambrano afferma che la posizione che sembra essenziale della condizione umana è quella di “essere non solo chi sta vivendo qui, ma chi compare” (ST: 25). Chi non compare all’altro cessa di essere visibile, e poiché proprio delle cose del mondo è di venire ad apparire, di fatto cessa di essere. La possibilità di esserci nella sua pienezza è data all’essere umano quando viene a trovarsi dinnanzi all’altro. L’essere dinnanzi all’altro è la condizione che gli consente di essere dinnanzi a se stesso, così come viceversa lo stare con la coscienza dinnanzi a se stesso è la condizione per potere esserci veramente con l’altro. Il prestare attenzione si esprime anche nel sapere ascoltare. Il sapere dell’ascolto María lo aveva appreso da suo padre, non solo perché esplicitamente le veniva richiesto di ascoltare, ma anche, se non soprattutto, perché il padre sapeva testimoniare l’esserci con ascolto. Ascoltare significa far sentire all’altro il valore delle sue parole. Parlare a chi ci ascolta consente non solo di trovare le parole per dire quello che ci sta a cuore, ma anche per ritrovare noi stessi, perché “chi sa ascoltare fa da coscienza all’altro” (DD: 106). Sentirsi ascoltati fa sentire di avere un luogo, un luogo dove dare voce anche al proprio sentire più intimo, ai propri timori e alle proprie angosce, ai desideri e agli aneliti. Entrare nella realtà Dalla realtà noi siamo circondati, ma fino a quando non la cerchiamo, ne siamo separati. Solo gli altri esseri viventi vivono sprofondati in essa, stanno nell’aperto; noi l’accesso alla realtà dobbiamo cercarlo. Entrare nella realtà (SA: 99) significa inoltrarsi nel fitto bosco della vita lasciandosi guidare dall’anelito che spinge ad andare incontro alle cose. Il metodo che consente di entrare nella realtà è quello che rende possibile “un modo pieno di vedere le circostanze” (B: 63). Entrare nella realtà è essenziale per pervenire a una verità vivente, capace di rischiarare la vita. La verità di cui ha necessità la vita non può essere il prodotto di una ragione che ha rescisso il suo rapporto con le cose, non può essere il frutto di un pensiero astratto che ha idealizzato un’idea di purezza attingibile attraverso lo slegamento dalla vita sensoriale, né di un pensiero che disdegna il suo essere attratto dalle cose e cerca la verità ripiegandosi in

se stesso. Mancare di un contatto vivente con la realtà significa privare la mente del necessario nutrimento che solo la realtà concretamente vissuta può fornire. È il contatto con le cose a fecondare l’intuizione. L’atteggiamento cognitivo proprio di una ragione vitale è quello di un soggetto che si pone in relazione con la realtà come se fosse un ospite che si accosta alla materia vivente con riguardo e attenzione, interpretando il conoscere come un seguire l’accadere dei fenomeni accogliendo quello che i fenomeni dicono di sé. Stare col pensiero presso le cose è mossa essenziale non solo per il pensare, ma anche per l’essere, dal momento che essere e pensare sono la stessa cosa. Stare fra le cose, tenere la mente in contatto con la materia vivente, là dove c’è la sorgente della vita, portare lo sguardo sull’esperienza che tiene fra gli altri nel mondo aiuta a trovare la strada per accedere a una verità che possa essere respiro vivo per l’anima. Tenersi in un contatto vivo con le cose nel loro divenire costituisce però la direzione contraria a quella presa da molta filosofia. Il metodo concepito alle origini della tradizione filosofica occidentale poggia su un atto violento: trarsi fuori dal mondo nel quale per nascita veniamo a trovarci e spostare lo sguardo verso il mondo immateriale delle idee. Ma l’anima non trova aiuto in una ragione che non sta in cerca della realtà così come essa è, una ragione che non sa innamorarsi della realtà, ma anzi la disdegna cercando un ordine altro (CGL: 37). Anziché “entrare nella realtà”, la filosofia “entra nella ragione” (SA: 99). È la ragione che costruisce sistemi di idee e ritiene che fare di questi l’oggetto del pensare consenta di acquisire conoscenza della realtà; invece la realtà rimane estranea. La decisione di distogliere lo sguardo dal mondo concreto in cui per nascita veniamo a trovarci si fonda sul principio ontologico secondo cui l’apparire delle cose non è il loro essere, vale a dire che le cose mancano di sostanza e di consistenza (NM: 105); proprio perché le cose passano noi cessiamo di attribuire loro il privilegio di essere, ed esse diventano niente. Da qui lo svanire della percezione della sacralità del tessuto della vita. Delle cose ridotte a niente si può fare ciò che si vuole, e innanzitutto si può pensare che possano essere sottoposte a un pensiero chiaro e distinto che annulla ogni forma di opacità. Questo modo di pensare asservito all’economia liberista ha trasformato il reale da qualcosa di multiplo, di ambiguo, di opaco, destinato a trascendere le capacità di comprensione della ragione umana per quella scintilla di divino che le cose si portano appresso,

in un ammasso di materia manipolabile dalla tecnica cognitiva e dalla tecnologia. Per Zambrano, invece, il cui pensiero può essere definito spiritualmente materialistico, le cose del mondo sono enti sfavillanti di essere. La conoscenza vera, quella che sa rischiarare la vita, non può non essere cercata se non stando in relazione con le cose. Fare dell’immediato, di ciò che viene alla presenza interpellandoci direttamente, il campo nel quale praticare la ricerca del sapere diventa il principio primo della ragione materna. A essere problematico è che proprio questo mondo, nella sua materialità e molteplicità di enti uguali e differenti allo stesso tempo, è stato trascurato da molta filosofia, che ha creduto che la verità debba essere cercata altrove rispetto al mondo degli enti concreti. Nella concezione platonica, a lungo persistente, il vero filosofo è quello che prende commiato dal mondo dato ai sensi per accedere a quella regione immateriale dell’essere dove sarebbe possibile contemplare le idee, e da queste idee, che non conoscono l’usura del tempo e il legame riduttivo con uno spazio definito, disvelare la verità del mondo ordinario. La condizione umana è, invece, quella per cui noi siamo del mondo e non provvisoriamente posti in esso. Il pensiero di Zambrano incarna quel realismo che prende le distanze da tutte le operazioni che comportano una perdita del mondo e dà voce all’amore per le cose, al rispetto e alla considerazione per la molteplicità degli enti. L’entrare nella realtà avviene quando ci si riappropria consapevolmente della propria dimensione corporea, perché la vita umana accade in un corpo (ST: 24). Invece la filosofia occidentale a lungo ha messo tra parentesi il corpo, pretendendo che il pensare possa accadere nella sua forma migliore a costo della negazione dei sensi che ci tengono in una relazione intima con le cose. Una certa filosofia pretende di dimenticare che siamo innanzitutto un soggetto biologico. Con il corpo si entra in contatto con la materia. La vita dei sensi è fonte di conoscenza. L’essere umano, nella sua mescolanza di materia e spirito, ha accesso alla realtà quando, anziché annullare una parte di sé, la dimensione corporea, la attiva in una sintesi dinamica con l’altra, la parte spirituale. Entrare nella realtà, però, non è semplice, perché la realtà non è soltanto quella che il pensiero riesce a cogliere e definire, ma è anche quel fondo opaco che resta impercettibile e indefinibile. Affidarsi alla ragione cartesiana significa perdere la realtà “oscura e molteplice” (UD: 174), che non si lascia

catturare dai dispositivi razionalistici. Affidare la conoscenza alla ragione cartesiana significa smarrire il contatto con il sacro delle cose. Rimane “la coscienza nella sua chiarezza lunare, isolata perfino dal proprio corpo” (ibidem). Il fare affidamento solo sulla conoscenza razionale produce un “inaridimento della realtà” (ibidem). La realtà rimane estranea, irriducibile ai modi della ragione cartesiana, incapace di accedere al “fondo ultimo del vivere umano rappresentato dalle viscere, le quali sono la sede del patire” (UD: 179). Un pensiero che produce parole di verità è solo quello che sa parlare della vita nel suo fondo ultimo, che sa dire l’eterogeneità del reale e il suo multiforme divenire. La mistica di san Giovanni della Croce indica il percorso per entrare nella realtà: liberarsi di ogni involucro, psichico e morale, e fare la mente vuota, perché solo in questo vuoto si dà l’accesso alle cose per quelle che sono. “Le montagne, le valli solitarie e boscose, le isole strane, i fiumi sonori, il soffio delle auree amorose. La quieta notte aperta al levarsi dell’aurora, la musica taciuta, la solitudine sonora” (CGL: 118-119): tutto è presente in sé e per sé e da questa presenza delle cose noi siamo distanti, separati. Per entrare nella realtà è necessario “convertire l’anima in un cristallo di rocca, altrettanto invulnerabile e trasparente” (CGL: 124). Ma fare il vuoto non sarebbe fecondo di conoscenza se non ci si lasciasse guidare dall’amore per il reale; solo l’unità di amore e conoscenza ci mette in contatto vero con la realtà; quel contatto che è definito oggettività (CGL: 119). L’amore prima di tutto. Se il problema è rappresentato dal disamore per il mondo e dall’inganno di cercare una verità astratta incapace di far innamorare la vita, allora a fondare un metodo che sappia attingere a un sapere per la vita è quel modo di essere che consiste nel lasciare che la mente si innamori delle cose sfavillanti di essere, perché solo dove c’è una ragione capace di uno sguardo innamorato c’è la possibilità di una conoscenza vera. La tensione epistemica ha origine da un innamoramento per la realtà nella sua contingenza, perché solo quando è innamorata la mente è capace di trovare il metodo per entrare in contatto con le cose. Riconoscere qualcosa come oggetto significa fermarsi di fronte a esso, rimanerne affascinati, catturati, dargli credito, in un certo modo innamorarsene. Non ci potrebbe essere realtà consolidata in oggetto, con quella specie di invulnerabilità trasparente che hanno gli oggetti, se non ci fosse una sorta di amore verso la realtà (SA: 94).

Quando l’intelligenza diventa solo ragionamento situandosi lontano dalla fonte originaria della vita, lontano dall’amore che preesiste al reale nel suo divenire e dunque anche alla nostra stessa vita, perde la capacità di una comprensione autentica. Nessun atto cognitivo vero e vitale potrebbe accadere senza che la mente sia capace di un certo innamoramento. In questa centralità dell’amore come motore della conoscenza echeggia il sapere dell’antichità: Platone, Plotino e Agostino, ma anche Dante e poi Scheler. Zambrano riattiva la relazione tra amore e conoscenza inaugurata da Platone, ma allo stesso tempo la rivisita in modo originale, perché se in Platone l’amore era rivolto alle idee, enti immateriali, per Zambrano lo sguardo appassionato si volge alle cose, quelle concrete del mondo che abitiamo e quelle fuggevoli e incerte che fluiscono nella vita interiore. Ed è dall’amore per le cose che si genera il metodo; è l’amore che quando entra in gioco fa trovare la direzione della conoscenza. L’amore è il sentire generativo della vita, che si dà nella forma di una “morbida accoglienza” (CB: 25), quella che rende la mente ricettiva rispetto al modo in cui la realtà viene alla presenza. Plotino parla di una “intelligenza che ama”, la quale si esplicherebbe in una “intuizione ricettiva” dell’essenza dell’oggetto (Enneadi, VI, 6, 7, 24). È oscura ma intensa l’osservazione che questa intelligenza “possiede sempre il pensare, ma anche il non pensare” (Enneadi, VI, 6, 7, 30), cioè un pensare che non segue le regole dell’intelligenza ordinaria. Per il modo in cui Plotino descrive questa intelligenza, sembra anticipare il pensiero dei mistici, poiché ipotizza la possibilità di una fusionalità contemplativa con l’oggetto. Agostino afferma che l’amore per qualcosa è atto primario e fondativo della conoscenza, non solo perché l’interesse per una cosa precede l’attenzione che è postura cognitiva essenziale alla ricerca della conoscenza, ma anche nel senso che l’amore per le cose intensifica la forza del pensiero. Solo quando si attiva un amoroso sguardo si apre la possibilità di trovare le parole con le quali le cose, gli altri, vorrebbero dirsi. Lasciare germinare nella mente un’amorosa disposizione verso le cose è necessario per la ricerca della verità, perché solo l’amore salva le cose dall’ipertrofia del soggetto conoscente. L’amore non distrugge mai l’oggetto, si accosta a esso con discrezione e lo salvaguarda nella sua trascendenza, a differenza del desiderio che, invece, mira a possedere l’oggetto fino ad annullarlo. Per Agostino l’amore per la cosa impedisce qualsiasi azione di

possesso: il desiderio consuma l’altro, l’amore ha riguardo e devozione. Il desiderio include l’altro nella sua sfera, lo assimila all’idea che orienta il desiderio, l’amore lascia l’altro nella sua trascendenza. L’amore per le cose consente di considerare la realtà “non come un’estranea che bisogna assimilare, né come una schiava che bisogna liberare, né come potestà da possedere” (CB: 55). Le due virtù che María mostra di apprezzare, audacia e umiltà, diventano generative di un sapere vivo quando fecondate dall’amore, solo allora l’audacia trova una misura di rispetto per l’altro e l’umiltà diventa non semplice riduzione di sé ma un mettere il pensiero al servizio del reale. Quando il pensare e il conoscere hanno la loro radice nell’amore per la realtà è come se le cose si aprissero al nostro sguardo. Come nella filosofia cristiana solo gli occhi di quelli che amano vedono la verità, così in Zambrano solo chi è capace di amore per le cose è capace di entrare nella realtà, che è la condizione per una conoscenza vera. Essere fedeli alle cose Quando l’anima arriva a sentire amore per il mondo, il principio metodico fondamentale da applicare consiste nell’“essere fedeli alle cose”, cioè prestare attenzione alle qualità e ai modi di essere in cui le cose si rivelano e poi trovare quelle parole che fedelmente dicano le qualità del loro essere, parole fedeli perché è come se a esse le cose nominate dessero il loro assenso (B: 82). Se si assume che il linguaggio è la casa dell’essere, allora il conoscere fedele alla cosa è quello che si attualizza in una parola che della cosa nomina fedelmente le qualità essenziali, i modi del suo apparire e il ritmo con cui si muove nel tessuto dell’essere. Quando spiega il principio di fedeltà Zambrano usa un linguaggio densamente fenomenologico, poiché lo spiega nei termini di un modo di avvicinarsi alle cose che lascia a loro il modo di presentarsi da sé, “nel loro phainomenon” (B: 84). Si tratta di concedere alle cose di disegnare nelle nostre parole i loro profili, limpidamente e fedelmente. Per guadagnare questo accesso al reale è necessario rendere la mente trasparente, quella trasparenza “che permette l’oggettività” (CGL: 126). Il pensare fedele alla cosa è come l’aria castigliana, che nella sua limpidezza attraversata da una luce morbida e acquosa concede alle cose di disegnare da sé i loro profili nella sostanza trasparente e liquida della mente (ibidem). Il modo di conoscere ispirato al principio di fedeltà è quello che si adatta

al profilo dell’ente come il guanto si adatta alla mano, consentendo all’ente di apparire nel suo essere proprio. L’unicità di ogni ente è un valore e, dal momento che l’etica si fonda sul rispetto del valore dell’altro, allora proprio perché il pensare fedele è mosso dal principio del rispetto per il valore unico e singolare dell’altro si rivela essere un pensare dalla tonalità etica. Adattare i movimenti della mente al profilo con cui gli enti si rivelano significa mettere l’oggetto della conoscenza al riparo dall’imperialismo del soggetto. Solo così, rispetto al soggetto invadente della ragione cartesiana, è possibile riscattare la realtà (B: 82). Attivare il principio di fedeltà significa lavorare su misura dell’essere dell’altro adattando le mosse cognitive ai contorni del suo apparire. È questo lavorare su misura delle cose che la mente occidentale ha perso, perché costringe le cose dentro i suoi dispositivi epistemici. “L’uomo ha perduto da tempo incommensurabile la plasticità” (NM: 47), quella dell’animale, che quando occorre sa prendere la forma della roccia e del ramo. Riconquistare questa plasticità della mente che si adatta al profilo dell’altro è questione di una paziente formazione della mente, attraverso la quale si dovrebbe apprendere una precisa tecnica: saper girare intorno all’oggetto della conoscenza. Così insegna Platone: quando nel Fedro parla dell’anima che contempla le idee, il conoscere si realizza attraverso quell’azione con cui la mente gira intorno alle cose per vederle da ogni lato. “Girare intorno a qualcosa è un movimento sacro” (B: 84), perché è quel modo dello sguardo che manifesta rispetto per le cose. Girare intorno significa mettere le cose e l’altro al centro del pensare, dal momento che girando intorno a qualcosa si fa di esso il centro e il conoscere diventa una forma di corteggiamento. Così le cose non vengono ridotte a semplici strumenti di affermazione delle retoriche linguistiche e delle tecniche epistemiche, ma diventano quel centro cui il soggetto dedica il suo pensare. Il pensare che gira intorno è una forma di corteggiamento opposta all’esercizio del dominio, che invece caratterizza un certo modo di interpretare l’azione. Nella concezione baconiana la natura doveva essere soggiogata e dominata; nella epistemologia classica della conoscenza il soggetto manipola l’oggetto sottoponendolo a un esperimento o operazionalizzandolo dentro i suoi algoritmi. Nel girare intorno, invece, è il

soggetto che si muove e si trasforma per consentire all’oggetto, che resta al centro, di essere colto così come appare. Nella mossa cognitiva del girare intorno è evidente la rivisitazione del metodo d’indagine enunciato da Ortega, il quale parla di un approssimarsi all’oggetto “per giri concentrici, di raggio ogni volta più corto e intenso, trascorrendo, in spirale, da una pura esteriorità di aspetto astratto, freddo e indifferente, verso un centro di pregnante intimità” (José Ortega y Gasset, Che cos’è filosofia?, Marietti, Genova 1994, p. 4). Ma il filosofo intende questo girare intorno non come uno stare decentrati rispetto all’oggetto che in una certa misura spossessa il soggetto della sua centralità, ma secondo una metafora bellica, che interpreta il conoscere come un assedio all’oggetto. Il girare intorno di Zambrano, che evoca la postura contemplativa, è, invece, un muoversi del soggetto sempre tenendosi con riguardo a distanza dall’oggetto. Se quello di Ortega è un girare intorno che per cerchi concentrici sempre più stretti arriva a catturare l’oggetto, il girare intorno di Zambrano è un muoversi sempre sulla circonferenza esterna, che pur consentendo la prossimità all’oggetto mantiene sempre la distanza necessaria a salvaguardare la trascendenza dell’altro. Tenersi sulla circonferenza esterna evita l’incursione violenta verso l’altro. Del girare intorno ci sarebbe un numero sacro di giri da rispettare (B: 84), ossia quel numero finito che indica le volte necessarie e sufficienti per una conoscenza adeguata. Rispetto a quella indagine superficiale che si accontenta di accostarsi una sola volta all’oggetto d’indagine, il girare intorno richiede un lavoro ripetuto di avvicinamento all’oggetto, ma l’idea che di questo ritornare ci sia un numero sacro, ossia un numero finito di giri, salva dall’ossessione di un continuo indagare che se per certi versi rivela la consapevolezza dei limiti della ragione, per altri rischia una forma di accanimento sull’oggetto. Il numero sacro indica la giusta misura dell’agire e in esso si condenserebbe l’essenza quantitativa del metodo. Il principio di fedeltà alle cose richiede un atteggiamento del pensiero che è opposto a quello caratteristico della cultura del sospetto, segnata dalla diffidenza radicale rispetto a ciò che si offre all’attenzione. Il principio di fedeltà poggia sul presupposto che ogni cosa abbia valore nella sua datità offerente. Alla cultura del sospetto e della diffidenza, che mette in dubbio la capacità delle cose di guidare la mente verso una conoscenza vera, il metodo di Zambrano sostituisce la cultura del rispetto amoroso delle cose percepite

nel loro valore. Nel realismo gnoseologico di Zambrano applicare il principio di fedeltà significa avere rispetto del modo originale, quello suo proprio, in cui l’oggetto viene alla presenza tramutandosi quasi in soggetto. Anziché imporre una griglia epistemica che costringe l’altro dentro i dispositivi della nostra mente, che lo incernierano dentro un apparire predefinito, tanto che alla fine del percorso epistemico la ragione non trova altro che se stessa, il principio di fedeltà chiede alla mente di farsi ricettiva della realtà dell’altro. Il metodo di Zambrano incarna dunque l’etica dell’accogliere la realtà, anziché del penetrare in essa. Il conoscere è un movimento delicato, non violento; uno stare dove l’altro si vuole mostrare. A consentire di entrare nella realtà attivando uno sguardo fedele alle cose è quel modo del pensare che si declina come meditazione (SA: 79). Meditare significa fermarsi a pensare quel che si sta vivendo. Socraticamente, Zambrano sottolinea che vivere la vita senza accompagnarla con il pensiero meditante significa perderla, perdere la possibilità del senso. Nei momenti di crisi il bisogno di meditare si avverte più acutamente poiché più intensa si fa l’inquietudine. Sempre la vita scorre inquieta, “nessuna vita, mentre la si vive, è calma e tranquilla, per quanto lo si desideri” (SA: 80), ma nei momenti difficili l’inquietudine può diventare ansia e l’ansia consuma la vita della mente impedendole di seguire il divenire delle cose secondo il loro ritmo. Per entrare nella realtà e seguirla nel suo divenire il pensare deve trovare il ritmo stesso delle cose; meditare significa cercare di accordarsi a questo ritmo. Cercare la semplicità essenziale È difficile attivare un modo del conoscere che sia fedele alle cose, poiché tendiamo a stare in un mondo anticipato, nel senso che incontriamo le cose attraverso filtri come sono le reti di categorie, i costrutti linguistici, le assunzioni derivate dal senso comune, le intenzioni e le aspettative, che producono una metabolizzazione del reale dentro gli strumenti della ragione. Tale è l’ingombro dei vissuti della mente da risultare impossibile che i fenomeni siano accolti da una mente pulita, chiara, priva di incrostazioni, priva di ombre (DD: 21). Il problema è che quando si sta in un mondo anticipato l’altro scompare nella sua originalità, perché viene assimilato nei nostri schemi. E venendo meno l’alterità dell’altro viene meno la stessa possibilità di conoscere, di pensare, e dunque della verità. Non c’è possibilità di una conoscenza autentica se la mente resta recintata nelle sue credenze epistemiche e non

azzarda l’audacia di spossessarsi da queste per lasciarsi orientare dall’oggetto. La pratica epistemica del cercare una conoscenza fedele al profilo delle cose per entrare nella realtà e stare con le cose e con l’altro, “uscire con l’altro” (NM: 73), chiede di spossessarsi quanto più possibile delle conoscenze pre-date. Si tratta di un voto di povertà, che Zambrano definisce “feconda” (SA: 187), perché tiene la mente aperta all’accoglienza della cosa. Indica un cammino stretto e aspro di rinuncia mentale, ma proprio per questo luminoso (SA: 188). È questo cammino stretto quello percorso da Zambrano, la cui originalità consiste nel radicalizzare l’audace lezione husserliana che lei intende come un pensare a partire dal reale e non da pensieri già dati (SA: 187). Il voto di povertà in materia di conoscenza chiede che il metodo sia un non cercare, un naufragare della mente fra le cose, un affidarsi essenzialmente a un’attenzione che è passiva ricettività rispetto al reale, così che le cose possano accomodarsi nello sguardo secondo il loro essere. Il metodo è, per lei, essenzialmente la pratica cognitiva dello svuotarsi, dello spossessare l’io, del fare vuoto dentro di sé per fare posto al mondo. Si fa ricerca della conoscenza guidati dalla capacità di fare domande, ma il domandare può diventare eccessivo, e sotto l’incalzare di un troppo domandare il reale si sottrae. Riuscire a incontrare la realtà a partire da una povertà di presenza quanto più radicale possibile dovrebbe consentire di accedere alle cose senza alcuna immagine ingombrante, neppure di se stessi. Il principio epistemico husserliano evoca il principio proprio della mistica di fare vuoto. Il pensiero del vuoto produce sgomento, ma fare vuoto non è perdersi e perdere il reale, è piuttosto fare spazio nella mente alla possibilità di rinascere a un modo nuovo, inedito di stare fra le cose. Quando non è subìto ma cercato, nel vuoto c’è un potere vitale. È il vuoto che consente al metodo di essere un incipit vita nova. “Gli istanti di vuoto nella coscienza sono quelli che permettono che la coscienza risorga più acuta e quelli che addentro, più nel profondo dell’essere, spengono il tumulto, sedimentano” (B: 87). Sapere stare nel vuoto è espressione della capacità di stare passivi, di stare senza nulla: fare esperienza di un istante di povertà assoluta. Solo quando si è capaci di fare vuoto si diventa “servitori della oggettività” (CGL: 59). Per ricevere l’essere delle cose la mente deve essere capace della cortesia del farsi vuota. Citando san Giovanni della Croce, Zambrano parla della “fecondità

dell’avvicinarsi al nulla … che avviene solo nella via dell’amore” (NM: 34). L’avvicinarsi al nulla è quella pratica ascetica di un pensare che anziché sottostare alla logica dell’accumulo risponde alla logica dello spossessarsi per arrivare a un sapere che sia poco, quasi un soffio, come soffio è la vita umana. Zambrano rivela un’audacia metodologica innovativa poiché per concepire la pratica dell’inizio puro del pensare si spinge oltre i terreni consueti dell’epistemologia compiendo il gesto coraggioso di attingere alla mistica. La mistica insegna che l’anima deve diventare materia trasparente, un vaso vuoto, diventare una lacuna d’essere che, proprio in quanto mancante di ciò con cui ordinariamente tende a riempirsi, lascia passare l’altro (SA: 22). Per trovare l’inizio primo del pensare occorre cercare “la povertà di spirito, la purezza di cuore” (B: 13). La povertà di spirito è di coloro che sanno disfarsi delle certezze concettuali e metodologiche per cercare un metodo che sappia autenticamente fare posto all’altro. Accettando di spogliarsi degli artefatti cognitivi sui quali tende a fare affidamento, la mente si dispone ad accogliere il reale nella sua datità originaria, libera di guadagnare quella trasparenza che sola permette l’oggettività. Alla purezza di cuore si attinge quando da nessun altro sentimento ci si lascia muovere se non dall’amore per le cose. Proprio perché attinge alla mistica, il voto di povertà di Zambrano è radicalmente altro da quello formulato da Husserl: di mezzo c’è il suo amore per la realtà, per le cose realissime del mondo, e dunque anche per le viscere dell’anima. Guadagnare la povertà di spirito non significa conquistare un luogo invulnerabile che consentirebbe di fondare una sapienza certa, incontrovertibile, della vita, ma semmai togliere di mezzo ogni abitudine confortevole del pensiero e arrischiare lo spodestamento quanto più possibile radicale del proprio modo di stare fra le cose e con gli altri, per consentire alla mente di farsi ricettacolo del mostrarsi delle cose e lasciarsi toccare dal mistero dell’esperienza dell’esserci. Certamente il fare vuoto costituisce un’idea limite. Se si raggiungesse il vuoto non ci sarebbe più nulla a insidiare l’accesso alla verità, perché il vuoto evoca uno stato di purezza. È quello che insegna il mistico quietista Miguel De Molinos (UD: 160). Ma il nulla non è accessibile all’essere umano poiché l’esserci non può che essere sempre qualcosa. La condizione che più si avvicina al vuoto, al nulla, ma che di questo mantiene qualcosa di simile alla

purezza, è la semplicità. È il principio della massima semplicità. Zambrano parla di “amore per la semplicità” (DD: 48): incontrare le cose senza un programma di azioni già definite, cercare l’ascetismo dell’immaginazione. La semplicità è un principio non solo del conoscere, ma anche del vivere. La realtà si dà alla mente non come presenza, ma come resistenza, e sentendo questa resistenza la mente reagisce attivando tutta la potenza possibile dei suoi dispositivi epistemici. In questo modo il pensare può diventare cosa grave, che rende l’aria irrespirabile (DD: 49). Il metodo che porta il cuore e la mente incontro alle cose deve farsi battito, respiro leggero. Solo il principio di semplicità orienta a trovare la giusta misura del rapporto con le cose, la giusta proporzione per una conoscenza amorosa del reale. La conquista della semplicità è l’atto fondamentale del pensare che sa entrare nella realtà. L’accesso alle cose non richiede di seguire procedure e applicare regole, ma consiste nel cercare la semplicità essenziale perché è il semplice a fare luce (UD: 158). Stare nel luogo dell’inizio puro, nella semplicità essenziale, significa spossessarsi non solo delle conoscenze già acquisite, ma anche di ogni desiderio, di ogni presunzione della ragione, di tutte quelle forme del cercare che non rispondono ad altro che a una tensione di affermazione della ragione. Essere capaci di avere nulla e nulla desiderare, così che non ci siano resistenze ai movimenti dell’essere: solo così si dischiude la possibilità di attingere a una verità trasformativa, quella che non si limita a essere constatativa, ma penetra nei tessuti della mente provocando reali movimenti di trascendenza. Stare nella semplicità essenziale, quella che chiede di ridurre al minimo la nostra presenza, è di fatto non mancare di nulla, perché è la condizione per entrare in un contatto vivo con le cose. Amare e fare vuoto è il modo in cui María interpreta il principio evangelico a lei caro del cercare “povertà di spirito e purezza di cuore”. Il voto di povertà è per Zambrano non solo via per entrare nella realtà, ma principio orientativo dell’essere, perché stare nella semplicità è la condizione per entrare nella vita. Entrare nella vita non è una questione epistemologica ma etica, intendendo per etica la ricerca di un modo felice di muoversi nel tempo. È la responsabilità che ci troviamo addosso al momento della nascita. Per entrare nella vita non basta attraversare i giorni, è necessario attivare un contatto con quanto ci circonda, aderire all’essere che fluisce all’intorno. Affinché questa comunione con l’altro si realizzi occorre acconsentire alla

sete di trascendenza, ossia alla tensione all’ulteriore che noi, in quanto esseri mancanti, inevitabilmente sentiamo per necessità di realtà. Lasciarsi muovere dalla sete di trascendenza per entrare in comunione con l’altro e condividere il tempo è un compito difficile perché chiede di guadagnare un’intima semplicità, quella povertà essenziale che si realizza quando ci si spoglia di tutti gli involucri di essere che impediscono di aderire ad altro, di sentire come dal di dentro i movimenti del reale. Stare in povertà significa anche sottrarsi alla tendenza a definirsi, a fissare il proprio divenire in un’immagine circoscritta: tenersi liberi da ogni definizione, quelle che delimitano, che innalzano recinti al divenire del possibile, perché fintanto che si rimane attaccati a qualcosa non si rinasce al nuovo. Ci è richiesto di cercare una consistenza trasparente del nostro esserci, perché solo sgravati del troppo pieno che tendiamo a portarci appresso possiamo condividere il tempo con altri, possiamo entrare in relazione con le cose, possiamo sentire la vita. Entrare nella vita è cosa necessaria, perché noi mancanti d’essere abbiamo necessità della realtà (SA: 85), necessità di realizzarci. E questo entrare è reso possibile dalla semplicità, perché solo quando la mente fa voto di povertà e il cuore di purezza possiamo scoprire la vera misura dell’esserci, quella che María definisce “misura non generata” (SA: 92). Lo sguardo positivo che María nutre nei confronti della vita prende corpo in intuizioni come questa, che ipotizza che nel fondo di ciascuno ci sarebbe “qualcosa di incorruttibile … che non può mai essere ingannato” (ibidem). Questa misura non generata e incorruttibile ha la sua radice nell’energia generatrice della realtà, quella che è al fondo di ogni anima. Perché nel suo punto più intimo l’anima è in contatto con la fonte della vita. Quando noi ci lasciamo prendere da un eccesso di tensione all’affermazione di sé, che diventa consumo del tempo per nascondere la paura del vuoto, del nulla, questa misura resta invisibile, non udita. Solo praticando il principio della semplicità essenziale che tende al vuoto, inteso come quel modo dell’essere che sta in una passività attivamente in ascolto del reale, la misura non generata e incorruttibile torna a essere accessibile. Per entrare nella realtà è necessario praticare la disciplina dell’assoluta semplicità, che impone di liberarsi dai molti rivestimenti del tempo, dai sedimenti che si producono nella mente, dai resti dei vissuti che ingombrano l’anima così da guadagnare un’intima povertà. Quella povertà della vita della

mente in cui c’è posto solo per “l’ansia di verità e giustizia” (DD: 24). Cercare la semplicità essenziale significa “non pretendere che qualcosa ci copra di splendore, né apparire in un determinato modo davanti a chicchessia, apprezzare solo il necessario senza dargli importanza” (DD: 23). Questa è la lezione della mistica, che così interpretata non è una via per pochi che si tolgono dal reale, ma si mostra essere una concreta e viva filosofia del quotidiano.

4.

Coltivare una ragione per la vita Un metodo del vivere che aiuti a trovare la strada del sapere dell’anima ha bisogno di un pensare adeguato. Non quel pensare che, messe le ali, si tiene solo in alto, lontano dalle cose; neppure un pensiero che sta nel mezzo della realtà senza cercare uno sguardo da altrove capace di mettere ordine; un pensare, ci vorrebbe, simile a quel passero di cui parla san Giovanni della Croce, che prima di alzarsi in volo si immerge nella pozzanghera per pulire le ali, e così quando prende il volo porta con sé un po’ del peso e dell’odore della terra. La ragione sistematica La ragione così come la conosciamo non è adeguata a sostenere l’impegno di costruire un metodo del vivere. La ragione a lungo ha dimenticato di coltivare una filosofia medicinale, per investire invece la maggior parte delle energie nell’elaborazione di una filosofia metafisica, che anziché occuparsi dei labirinti stretti e opachi del reale, così come lo viviamo, ha cercato un’altra realtà “sicura, ideale, stabile e fatta su misura dell’intelletto umano” (PPVS: 17). Si tratta della tradizione filosofica, che va da Parmenide a Hegel, che ha spostato l’attenzione dal mondo vissuto a un “oltremondo ideale” per cercare la nascosta architettura dell’essere. Con l’ambizione di catturare l’intimo ordine della vita ha costruito un pensiero logico, sistematico e architettonico che ha costituito la base del pensiero scientifico moderno. Molto ha reso possibile il pensiero della modernità, ma evidenti sono anche i suoi limiti. Il limite che impedisce a questo tipo di pensiero di sostenere la ricerca del metodo del vivere è il suo razionalismo (PPVS: 18). Il razionalismo si è andato costruendo su quell’oggetto del pensiero costituito dalla realtà prima, la realtà metafisica posta oltre le apparenze molteplici e variabili del mondo sensibile. Ma proprio il mondo concreto delle cose che divengono è la realtà che noi abitiamo, quella con la quale quotidianamente dobbiamo fare i conti. Il razionalismo, che cerca l’essenza dell’essere, le leggi universali ed eterne, le spiegazioni causali dei fenomeni, la matematizzazione di ogni accadimento, ha messo da parte altre forme del pensiero che non erano considerate adeguate al mondo della conoscenza: la poesia e la tragedia piene di passione, il pensiero metaforico troppo

impreciso, la narrazione troppo prossima all’esperienza, il sapere che procede per aforismi come quello di Eraclito troppo oracolare, la scrittura delle pratiche spirituali troppo esoterica. Il razionalismo, il cui merito indiscutibile è di avere prodotto molto sapere utile a trasformare concretamente le condizioni del vivere, ha finito per escludere dal campo del pensare tutte le questioni che non risultano comprimibili in un algoritmo, le infinite qualità dei fenomeni che non consentono di formulare leggi universali, i sentimenti che animano il tempo dell’esperienza e le passioni che lacerano l’anima: tutto questo resta fuori (PPVS: 20). La ragione raziocinante (A: 13), che si materializza in teorie, in procedure, in protocolli di indagine, quella che sta lì a disposizione per gli usi più differenti, non è adatta alla ricerca di un sapere della vita anche per il suo essere una ragione anaffettiva. La cultura moderna ha perseguito una ragione svincolata dal sentire. Decisiva per Zambrano la svolta operata da Leibniz, da Hume e Locke, e poi da Kant, dove la ragione è tale se obbedisce alla logica ferrea degli imperativi categorici, senza nulla concedere al respiro affettivo dei pensieri. La vita affettiva finisce per restare oggetto di indagine della psicologia scientifica, che riduce i sentimenti a qualcosa da cui estrarre dati da processare, se non addirittura interpretazioni causali della vita della mente. La cultura romantica, che evidenzia allo stesso tempo la non riducibilità della natura alle formule matematiche e l’estraneità della vita affettiva alle spiegazioni scientifiche, riporta al centro la vita del cuore, che però resta scissa dalla vita della ragione: questa pertiene alla scienza e l’altra alla poesia. Ma quando la mente discorsiva agisce separata dal cuore non riesce a rischiarare, si limita a mettere ordine, e la realtà nella sua essenza vitale rimane occultata. La ragione sistematica, che si affida alla purezza asettica della logica, non ha accesso alla vita. Può funzionare con cristallina trasparenza solo sui territori già semplificati rispetto alla complessità incomprimibile del reale. Ma così “resta esclusa la vita con i suoi deliri, i suoi incubi incancellabili e la sua ombra; e tutto ciò è resistenza invincibile per la ragione” (UD: 130). A restare esclusa dal pensare è la vita così come noi la viviamo. Anche la ragione sistematica, come quella medicinale, risponde al bisogno di rendere abitabile il mondo, ma poi finisce per dimenticare la sua origine e si chiude dentro sistemi di pensiero che non sanno essere di nutrimento per l’anima.

Da superare con decisione è dunque la credenza che la vita abbia necessità solo della ragione sistematica, quella che interpreta la verità nella forma di un ordine da imprimere alla realtà, imprigionandola dentro concetti che delimitano, e finiscono per omogeneizzare, il reale. La ragione sistematica diffida della visione (B: 9), cerca solo evidenze, intendendo con questo termine una tipologia di dati operazionalizzabili entro regole logiche e algoritmi. È una ragione che, mossa da un’ansia di controllo e di difesa da ciò che non è riducibile a un preciso ideale di conoscenza, diffida del sentire e della carica di sensualità che si porta appresso (B: 10). Questo paradigma del sospetto e del controllo sarebbe evidente nella filosofia kantiana, ossessionata dal rigore dell’imperativo, e ancora di più nel positivismo e nella fenomenologia, che Zambrano considera espressione della visione positivistica. La ragione sistematica, che arriva alle cose fornita di tutti i suoi dispositivi euristici e armata di concetti, impone una “architettura che appiattisce tutto” (A: 33): “sopprime ogni piega, ogni nascondiglio, ogni grondaia, così che la rondine e soprattutto la colomba non trovano luogo” (ibidem). È quella di Zambrano una locuzione metaforica per dire che un eccesso di logica sistematizzante finisce per lasciare fuori una parte di realtà, quella che non si modella sulle procedure razionalizzanti. Non solo le architetture murarie possono soffocare il respiro, ma anche quelle discorsive quando si fanno troppo pretenziose, quando, anziché rispondere a un bisogno vitale, si fanno “pura rappresentazione” che finisce per essere del tutto indiscreta (A: 85).13 La sua passione per ciò che evita la sistematizzazione è dichiarata anche nella sua autobiografia dove, quando parla del gruppo di studenti di cui era parte, li definisce come un gruppo libero non solo perché non aveva un programma, ma anche perché “evitavano di averlo” (DD: 48). Si delinea evidente, non solo sul piano del filosofare ma anche nella vita, il timore per tutto quanto pretende una forma definita, come fosse una gabbia che impedisce di nascere con autenticità nel mondo. Certi discorsi pretenziosamente sistematici non fanno altro che cercare una colla che tenga insieme brandelli di ragioni che, per quanto dimostrino di saper obbedire con rigore ai criteri stringenti della logica, non riescono a dar conto del senso del reale. In particolare, sotto il potere del logos sistematico, la physis diventa materia privata di qualsiasi connotazione vitale; materia a

disposizione delle formule messe a punto dalla logica. Così della physis va perso il senso della sacralità, si smarrisce il mistero che sta nell’intimo dei processi naturali. “Di fronte all’insuperbirsi” della ragione, che trova la sua massima espressione nel razionalismo hegeliano, “la vita si ribella” (PPVS: 26). Al razionalismo è mancata l’umiltà, virtù essenziale di chi va in cerca della verità, sia essa la verità della physis o la verità dell’esistenza. Il razionalismo si appoggia alla deduzione. La deduzione “parte da un giudizio universale per giungere a uno singolare”; va dall’astratto al concreto, dal generale al particolare, da ciò che si presenta come verità di ragione alla realtà viva del concreto (CB: 45). Così il concreto rimane sottomesso in un involucro astratto che lo comprime, quasi impedendogli di respirare. La ragione sistematica arriva nel reale armata di concetti, come se il vivente da solo non potesse indicare un metodo del conoscere. Così facendo si cancella la sua singolarità e la sua unicità. Si preferisce la forza omogeneizzante della logica alla eterogeneità differenziata del concreto. Zambrano parla degli “inferi della logica” (CB: 46).14 L’intelligenza razionalizzante da sola non può offrire la verità di cui il vivere ha necessità (RS: 87). Un “progetto di umanità” costruito solo dalla ragione deduttiva non è fecondo, è sterile. La logica è inadeguata; per Zambrano a far cogliere il progetto del vivere è l’intuizione, quella capacità della mente che si nutre stando in ascolto delle risonanze del reale. Per chi è prigioniero di una certa cultura positivistica, che estremizza le ragioni pur giuste da cui emerge questa espressione culturale, per chi crede solo nella forma del ragionamento scientifico, affidarsi alla intuizione sembra debole. Forse il pensiero che sa cogliere la qualità essenziale del reale non è né il ragionamento sistematico né l’intuizione che si muove completamente fuori dalla logica: ma è un ragionamento semplice che si nutre di risonanze. È quello che nutre la saggezza pratica, il buon senso che fa trovare la strada anche quando la complessità della situazione sembra restare oscura a ogni sforzo della ragione. La ragione sistematica, quella che va in cerca di un sapere dal valore generale, che non conosce i limiti imposti dal tempo e dallo spazio, persegue il sogno di rimanere al riparo da ogni contingenza (UD: 147); il sogno di uscire dai limiti della condizione umana. L’idealismo mette in scena il sogno di un sapere assoluto, che ha eliminato ogni enigma e ogni mistero (UD: 149), dove la funzione del rischiarare propria del pensiero diventa

illuminazione intera dell’oggetto, che non lascia ombre e zone opache. Quando il sogno dimentica i limiti della condizione umana diventa delirio. La ragione sistematica è quella che cerca un’organizzazione rigorosa del discorso, dove il rigore è inteso come il mettere le parole in fila l’una con l’altra in modo da costruire una catena argomentativa stringente e inflessibile. È una ragione che intende il sapere come un continuo fare e costruire, dove non c’è spazio per la passività del pensare, per ricevere quello di cui la realtà ci fa dono (A: 12). Le parole devono essere svuotate di ogni possibile significato latente, debordate da ogni possibile oscurità. Il discorso cristallino, senza ombre argomentative, sembra appagare la coscienza, che però in questo caso dimentica tutta l’opacità che accompagna il vivere e che la verità vera, quella che sa parlare delle cose così come sono, si porta sempre appresso. La ragione sistematica fa patire all’anima una sorta di cecità spirituale. Quando ci si rende conto di cosa significhi ragionare per generalità e perdere il concreto, nella mente si apre la coscienza dell’inadeguatezza di un certo modo di interpretare la logica del conoscere e si comincia ad andare in cerca di altro. Si avverte la necessità di una ragione che recuperi il “suo intimo respiro” (A: 34), una ragione capace di una “intelligenza poetica” (A: 74). La comprensione della realtà nelle sue differenti singolarità, nel suo continuo variare, richiede un indugiare del pensiero presso la cosa, la singola cosa vivente (CB: 45). È necessario prestare “un ascolto più fino” alla realtà, che si realizza “affinando i sensi interiori” per seguire le indicazioni che la cosa rivela per essere conosciuta (CB: 46). C’è sempre un imprevisto e c’è un incalcolabile; cercare la verità significa preparare la mente a quanto la ragione, fino a quel momento, non è riuscita a cogliere. La ragione poetica Il metodo del vivere, che porta a entrare nella realtà per cercare una verità generativa di nuove rinascite, chiede uno stile particolare del pensare, che sappia tenersi lontano dal fascino della ragione sistematica, una ragione vuota di vita e piena di se stessa. La ricerca di quella verità della vita di cui ha necessità l’anima esige di andare oltre la ragione scientifica per coltivare una ragione poetica.15 A Zambrano poco interessa la ragione sistematica e logicizzante. A farla decidere per una vita filosofica è l’idea che la filosofia possa essere medicina per l’anima, come lo stoicismo e l’epicureismo (S: 12). Per nulla interessati a

creare sistemi, stoici ed epicurei andavano in cerca di pensieri che aiutano il lavoro del vivere (ibidem). Una ragione che si nutre di “problemi viventi, non delimitazioni teoriche” (PPVS: 50). Non ci può essere aurora del pensiero quando si opta per una “ragione raziocinante, che pretende di sistemare tutto il reale in un’architettura compatta, senza fessure.16 Zambrano invita a pensare alla ragione come all’“atto primordiale della vita, che andrebbe contemplato e ricevuto come l’elemento più sacro, il meno maneggevole, forse il più inafferrabile” (A: 17). La conoscenza che qui invochiamo, che sospiriamo, questa conoscenza postula e richiede che la ragione si faccia poetica senza rinunciare a essere ragione, che accolga il sentire originario, senza coazione, liberamente, naturalmente quasi, come una physis restituita alla sua condizione originaria (A: 35).

La ragione che sostiene un metodo capace di generare spazi inediti di vita e che ha cura del tempo del vivere è una ragione materna, incarnata, narrativa, appassionata. Materna La verità della vita non è qualcosa di già disponibile che la mente deve sapere cogliere, ma è un sapere da generare giorno per giorno. María definisce materna la ragione capace di interpretare nel modo giusto, cioè obbediente a ciò che la realtà chiede, la ricerca di questa verità. La ragione materna è quella che anche di fronte alla realtà più oscura sa amare la vita, “con fede, speranza e gioia” (DD: 90); è una ragione generativa (S: 35),17 fecondante (CB: 112), una ragione che nutre la vita, che fa vivere il pensare. Fare vivere significa coltivare la passione del cercare la verità in uno spirito di libertà da ogni costrizione che limita l’esplorazione delle possibilità di senso. È una ragione dolce, María parla di “dolcezza della ragione” (PPVS: 87). Va annotato che proprio immediatamente prima di esplicitare il suo concetto di “ragione materna” Zambrano cita dalla Lettera ai Galati di Paolo quella che lei definisce la pratica del “generare anime”, cioè del facilitare il nascere dell’anima nello spirito, che laicamente è il nascere nella verità. Il soggetto che va in cerca della verità è la ragione e quella di Paolo è una ragione mite, che quando giudica lo fa “in spirito di mitezza” (Lettera ai Galati, 6,1); concetto che in Zambrano diventa il pensare misericordioso, cioè capace di compassione per l’altro, quindi un pensare mai duro, un pensare che evoca l’anima “tenera” di cui parla Platone nel Fedro. La ragione materna, infatti, non è una ragione anaffettiva, ma una ragione

tenera e sensibile (S: 8), cioè una ragione che non persegue il rigore coercitivo della logica, ma si nutre del sentire per entrare in contatto con la realtà. Una ragione delicata offre visioni, offre idee, abbozza orizzonti senza costringere a nulla (ibidem). Si tratta di una ragione medicinale, che cerca non di costruire sistemi ma di aprire sentieri di accesso alle cose; per questo evita il rigore della logica, ma per cercare un altro rigore: quello imposto dal cercare risposte attendibili alle questioni faticose e spesso dolorose del vivere, quelle domande che chiedono speranza e consolazione.18 La ragione materna rifugge dalle teorie intellettualistiche, che nulla sanno dire alla vita; sempre rimane ancorata a qualcosa di vissuto, a qualcosa di concreto (S: 34). La sua parola non è astratta, ma è una parola lieve e piegata alla complessità del reale. È una ragione “divinamente materialista” (ibidem), intendendo per materialismo “l’attaccamento materno al concreto, all’uomo reale, la rinuncia all’astrazione per non separarsi dalle viscere19 umane” (ibidem). Proprio l’attaccamento al concreto, alla vita così come si dà impedisce alla ragione materna di andare in cerca di costruzioni ideali, per perseguire invece una saggezza “meticolosa e sottile”, che nasce dall’attenzione al particolare. Se la ragione sta immersa nel divenire concreto delle cose non può non sottostare alla necessità di prestare attenzione al minimo dettaglio che la realtà impone di considerare e questa attenzione rende evidente l’impossibilità e dunque l’illogicità di imprigionare il pensiero in impalcature architettoniche. Rinunciare alle architetture trionfanti della ragione sistematica per tenere il pensiero legato al particolare non significa smarrirsi ma stare nella realtà così come essa è. L’attenzione al particolare non elimina l’ostacolo degli indiscernibili (di cui parla Leibniz e prima ancora gli stoici), cioè di quelle qualità che lo sguardo non riesce a percepire; tuttavia quando la ragione innamorata delle cose presta un’attenzione concentrata e ricettiva, il più possibile libera da filtri, anche quei dati che tendono a non essere colti possono presentarsi allo sguardo. Gli indiscernibili sono tali, e tali restano, a causa dell’orizzonte ristretto di una ragione più stabilita che vissuta, di una matematica frettolosa e perciò stesso inevitabilmente abbreviata, come se non avesse spazio per esseri così infimi. Esseri che, se li supponiamo capaci di desiderio e di speranza, sospireranno per uno sguardo che solo pochi concedono loro, per uno sguardo solo, che dia modo di essere amati e di amare (A: 36).

In questa tesi quasi animista di Zambrano, dove le cose hanno la capacità di farsi presenti alla mente, sentiamo l’eco del realismo husserliano che

attribuiva alle cose una forza affettiva tale da esercitare sull’io uno stimolo a volgersi verso di loro. Se ogni dato ha la forza di risaltare rispetto a una pluralità di dati, allora significa che l’indiscernibilità non è un elemento oggettivo, costitutivo della cosa, ma un limite dello sguardo della mente. La ragione innamorata delle cose è per Zambrano quella che assume una postura quanto più possibile attenta e ricettiva, quella che consente di ridurre i margini di indiscernibilità del reale. Il pensare filosofico nasce dal bisogno di chiaro che la vita sente; ma poi molta della filosofia accademica anziché fare chiaro ingombra la vita di sistemi, di architetture, di argomenti stringenti. Il pensiero che sa rischiarare il cammino ed entrare nell’orizzonte della verità è quello che scaturisce da “una ragione sottomessa alla vita” (CGL: 36), piegata ad ascoltarla, a non cercare mai rifugi immaginari, pronta a portare il peso degli eventi. È questo il modo di una ragione materna che nutre devozione anche per i labirinti della realtà nascente e sta in questa ricerca “con gioia e allegria” (A: 36). La vita non trova accordo con la ragione “quando questa non s’è degnata di fare conto su di essa, quando non è discesa fino a essa e non ha saputo nemmeno innamorarla per farla ascendere” (CGL: 37). La ragione materna è una ragione innamorata delle cose, appassionata del vivente, impegnata a cercare il meglio per ogni essere umano nel suo qui e ora. Ciò di cui si cura la ragione materna è un sapere dell’anima, che in certi casi dice con estrema durezza la verità delle cose e in altri pratica la pietà del coprire con la menzogna la verità non sostenibile. Quando riesce a trovare espressione perfetta, la ragione materna porta consolazione senza anestetizzare, e sa addolcire la mente evitando quelle asperità che impediscono di stare in armonia con la realtà (S: 35). Umile La ragione materna non è una ragione altisonante, ma una ragione umile e sparsa fra le cose di tutti i giorni. È una ragione che non ha fretta di conquistare alcunché, che non fa passi avanti per arrivare prima, ma accompagna il ritmo del generarsi delle forme della vita. Procede lenta e a lungo resta raccolta “in un grano di luce” (A: 18). E quando avverte che il compito della ricerca della verità è, in quel momento e per quella questione, troppo arduo si ferma e non teme di mostrarsi nel vuoto di sapere che patisce. Per questo è una ragione umile. Una ragione che sopporta l’oscuro, il mistero, che sa arrestarsi laddove la parola umana anziché rischiarare porta solo

chiacchiera. È la virtù dell’umiltà che consente alla ragione un modo di fare chiaro simile al barlumare dell’aurora, quel momento del giorno che fa respirare nella luce e “respirare la sua luce” (A: 20). La ragione sistematica vorrebbe eliminare ogni ombra e fare un chiaro assoluto sulle cose, come la luce del mezzogiorno; la ragione umile sa tenersi in presenza degli opposti, fra l’oscurità della notte e il chiaro del giorno. Una ragione che sa entrare nella realtà è quella che si fa attenta a ogni dettaglio che sente essenziale, e spesso accade che l’essenziale sia fra le cose che ci sono più vicine e più familiari e a cui per questo tendiamo a non prestare adeguata attenzione. La ragione umile non sta lontana dalla vita quotidiana, non cerca spiegazioni ultime, non è ossessionata dai successi della logica, ma è sempre discendente20 verso le cose di ogni giorno, verso il sentire che sommerge l’anima, e si lascia cadere nel cuore tormentato dall’angoscia. Questo stile del pensare lo si può chiamare ragione anche se funziona come la carità, come l’amicizia, come la misericordia (PPVS: 78). La ragione della filosofia sistematica cerca ardite costruzioni concettuali che diano l’illusione di abbracciare il cosmo, di penetrare nel suo intimo, cogliendone le leggi. La ragione umile è una “modesta ragione” (PPVS: 71), perché alle grandi costruzioni preferisce le questioni quotidiane e rispetto a esse cerca un sapere che possa essere di immediato valore per l’essere umano. Finché il logos si occupava di raggiungere altezze inaccessibili, per cogliere l’essenza prima, generale e universale delle cose su cui fondare un sapere certo e indubitabile, soddisfaceva il suo intimo bisogno di trascendenza, la sua tensione ad azzardare oltre ciò che è già dato misurandosi con altezze vertiginose, perseguendo cammini ascensionistici che avrebbero portato l’anima lontano dal mondo sensibile verso il mondo rarefatto e disincarnato delle idee pure; ma da questo sapere non traeva aiuto per uscire dalle tempeste di passioni che agitano il mare della vita. La ragione umile, che sta fra le cose quotidiane, cerca un sapere medicinale che aiuti il camminare lungo i sentieri della quotidianità, fra pozzanghere di piovaschi e tempeste improvvise, senza smarrirsi a cercare sentieri che portino lontano dal cammino proprio degli esseri umani. La ragione che va in cerca della conoscenza scientifica incarna la tensione ad aspirare a una luminosità senza ombre, quella che fa pensare alla mente pura di Platone, sradicata dal mondo corporeo immerso nell’ombra. La ragione umile accetta invece di stare nelle zone oscure che sa non avere il

potere di rischiarare. Sono le zone del sacro, del mistero. Una ragione umile sa la nostra insuperabile ignoranza. La pratica intensamente vissuta della virtù dell’umiltà sa arrestare la ragione di fronte ai luoghi inviolabili rispetto all’umano pensare (A: 27). Quando ha percezione di essere in presenza di questi luoghi, la ragione rallenta il suo ritmo e cerca pensieri lenti, pacatamente meditati, senza farsi irretire dal bisogno di controllo e dall’aspirazione al potere sulle cose. Solo una ragione umile è capace di sostenere la ricerca del sapere dell’anima, poiché l’anima va trattata con delicatezza. A causa del dominio della ragione razionalista, “raramente si è verificato quel miracolo di agilità della mente che le permette di trattare adeguatamente l’anima” (SA: 18); è invece ormai tempo di rinunciare al mito di un sapere che cattura l’oggetto per adottare un metodo che intenda il conoscere come un avere cura della vita dell’anima. L’anima, infatti, ha bisogno di un pensiero che tratti con delicatezza il nucleo vivente dell’umano, quello che non cerca di dominare l’oggetto, ma lo avvicina con cura, non pretende un dire esaustivo che non appartiene alle possibilità della ragione umana, ma sa stare nei limiti di un sapere che in certi casi procede per accenni, quasi un balbettio, tessuto di parole evocanti. L’umiltà non è rinuncia, poiché non c’è conoscenza senza audacia. Le virtù di chi con onestà va in cerca del sapere sono state e restano tuttora essenzialmente queste due: l’audacia e l’umiltà; l’audacia di osare territori e metodi nuovi, inesplorati, ma insieme con la consapevolezza dei limiti della ragione umana. L’unica vera fecondità del pensare è quella regolata da questi due principi che, procedendo all’unisono, tengono aperto l’orizzonte della ricerca in tutta la sua ampiezza, da percorrere però con passo lento e misurato, con arresti che non sono rinunce ma prudenza etica. La ragione umile è nella sua essenza una ragione conviviale, quella che si nutre e nutre il rapporto con gli altri. Perché se vivere è convivere, pensare è innanzitutto pensare con gli altri. Tale è il valore del pensare insieme che l’intelligenza vera, quella che sa trasformare la realtà, non si esprime mai nella singola persona, ma in un insieme. Raccontando della sua esperienza con un gruppo di studenti María scrive: Nessuno esibiva una propria intelligenza, ma si trattava di qualcosa di ancor più meraviglioso: l’intelligenza circolava tra loro, in ogni gesto, in ogni azione, nella comunità che li univa, fatta d’intimità e distanza, la distanza che l’essere persona richiede (DD: 102).

Il pensiero non appartiene a uno solo, è sempre un pensiero di tutti. Nasce dal dialogo, dalla condivisione, dal sentire insieme il bisogno d’altro e seguirlo. Narrativa La ragione che aiuta il lavoro del vivere non può che essere una ragione narrativa, che entra nelle pieghe del tempo e pensa il passato. Perché la vita per vivere ha necessità di riconciliarsi con il passato, e per riconciliarsi deve pensarlo e metterlo in parola; solo così la mente può liberarsi dal suo peso e, alleggerita, nascere al nuovo. Tanto è il bisogno di Zambrano di stabilire un’azione chiarificatrice rispetto al passato che tradisce il principio di reverenza per ciò che è oscuro, tradisce la sua diffidenza per la ragione che pretende di illuminare tutto diradando ogni ombra, arrivando a scrivere: “Non lasciamo alcun residuo di opacità … È con il conoscerlo che il nostro passato sarà veramente nostro, sarà vivificato, pienamente presente in quest’istante, in ogni istante della vita” (PPVS: 27). In piena sintonia con la tendenza della filosofia occidentale a pensare la verità come il chiaro assoluto, Zambrano afferma che l’azione di riconciliazione con il passato implica il diradare ogni ombra, il cancellare ogni zona opaca. Forse questa sorta di tradimento rispetto al principio di umiltà si spiega con il fatto che il passato è frutto dell’azione umana, mentre la reverenza per ciò che resta opaco e misterioso si deve al fondo della vita, alla sua matrice originaria e sacra, che porta il pensiero là dove da solo non può arrivare. E il pensiero corre a Dante, poeta amato da Zambrano, quando nell’apertura del primo canto del Paradiso parla della limitatezza del pensiero umano: “E vidi cose che ridire / né sa né può chi di là sù discende” (I, 5-6). Invece il passato chiede di essere analizzato e compreso, poiché non è possibile procedere nella vita cercando un ordine di senso se non si comprende quello che già è accaduto. La conoscenza del passato non costituisce una semplice curiosità o un lusso per la coscienza, quanto invece “un’estrema necessità” (PPVS: 28). Una ragione narrativa che prende in esame il passato è una necessità sia sul piano politico sia nella vita personale, perché per rinascere a nuove e inedite possibilità di esistenza è necessario riconciliarsi con esso. Incarnata La ragione poetica sa nutrirsi dei “semplici sentire” (A: 27); quando non

si cura dei sensi la ragione rinuncia invece alla possibilità di esprimersi nella sua pienezza (A: 32). Contrariamente all’immagine platonica che parla del corpo e con esso della vita sensoriale come del carcere dell’anima (Platone, Fedone), per Zambrano la mente si incarcera quando si priva dei sensi (A: 32), restringendo qualitativamente e quantitativamente la terra del pensare. C’è un sapere racchiuso nei sensi che va smarrito quando la ragione concepisce la via della verità come un percorso massimamente astratto, slegato dalle informazioni che vengono dai sensi. Affidandosi all’esperienza sensoriale si può sviluppare una conoscenza estetica del mondo altrimenti non rinvenibile, che rende palpabile alla mente l’ordine vivente delle cose: L’aria era leggera, il sole era chiaro e stimolante, spuntavano le foglie, come se un’intelligenza circolasse dappertutto, c’erano insetti, si udivano di nuovo gli uccelli. Gli elementi e anche le loro creature formavano un sistema, al cui interno circolava una unità, un’intelligenza vivente presente in tutto, ben oltre i limiti che sembrano tenere separati gli esseri in altri momenti; un ritmo comune che abbraccia tutto, dal movimento degli astri all’erba che spunta tra le fessure delle pietre, che fa girare nello stesso circolo le remote costellazioni di diamanti e il sisimbrio dorato fiorito sulla grondaia del tetto vicino (DD: 98).

La ragione occidentale, dopo essersi privata dell’attività sensoriale come fonte di conoscenza, si è affidata a una “matematica abbreviata” (A: 32), che evoca quella misterica del pitagorismo, con l’effetto di non rendere evidente il rapporto con la realtà, la quale diventa per la mente più un problema che una risorsa. Zambrano parla della matematica come di un linguaggio che è tornato a essere segreto, iniziatico, fedele alla sua origine di linguaggio del sacro, dunque un linguaggio per pochi (A: 32-33), quello stesso linguaggio da cui poi si deducono le tecniche necessarie alle strategie per vivere. È così che l’ermetismo e l’inaccessibilità della matematica, facendola comprensibile a pochi, diventano un problema culturale. Dal momento in cui la scienza rinuncia ad affidarsi ai sensi la natura diventa semplice materia estesa di una conoscenza priva di forza vitale. Nel greco antico la parola per indicare la natura era physis; questo termine, che apparteneva al linguaggio dei misteri, indicava non un insieme di cose, né solo una dinamica sistemica di fenomeni, ma la cosa più sacra, la materia viva che genera continuamente forme di vita. Solo una ragione che recupera la vita sensoriale, che si fa pensiero sensibile, può essere capace di un autentico pensare ecologico. Solo quando il pensare saprà tornare a essere brezza, respiro che si nutre del contatto sensoriale e sensuale con le cose, la

natura potrà essere percepita nuovamente, come “physis: vita e ragione unite” (A: 34). La ragione sistematica è una ragione senza corpo, diventato l’oggetto di un sacrificio muto, semplice materia che trattiene il passo e il pensiero (A: 15). Ma la ragione è per il corpo come l’aurora per il cielo: il cielo è sfondo necessario all’apparire dell’aurora, non ci sarebbe l’aurora se prima non ci fosse il buio della notte, così la ragione non potrebbe manifestarsi se non attraverso tutto ciò che la vita corporea le rende accessibile. Un mandato epistemico che ha avuto grande risonanza a partire dall’età moderna ha imposto di liberare la ragione dai sensi (A: 28). La ragione poetica recupera l’attività sensoriale perché questa non è solo fonte di un sapere che diventa poi oggetto del pensare, ma è propriamente un modo dell’essere, un “sentirsi pensare” (A: 31). Appassionata La cultura moderna ha perseguito una ragione anaffettiva. Per difendersi da quella che considerava la dimensione irrazionale della mente, si è affidata a una ragione che obbedisce alla logica ferrea degli imperativi categorici, senza nulla concedere al respiro affettivo dei pensieri. La vita affettiva ha finito così per restare oggetto di indagine della psicologia scientifica che riduce i sentimenti a qualcosa da cui estrarre dati da processare, se non addirittura interpretazioni causali della vita della mente. La cultura romantica, che riscopre allo stesso tempo la non riducibilità della natura alle formule matematiche e l’estraneità della vita quotidiana alle spiegazioni scientifiche, riporta al centro la vita affettiva, ma questa resta separata dalla ragione scientifica e diventa oggetto solo della vita poetica e letteraria. Quando la ragione si separa dal sentire, quando si separa dal cuore, allora diventa uno strumento storto, sghembo anche per la vita etica della persona, perché “la morale si riduce a unghiatura, cardine cigolante fra le cieche reazioni del corpo, astratto, desolidarizzato dal suo sentire” (A: 12). L’impassibilità affettiva non protegge la coscienza, al contrario senza il sentire non c’è autentica vita etica. La ragione di Zambrano è una ragione integrativa (RS: 55), che tiene insieme le cose, superando ogni tendenza a cercare la conoscenza procedendo per separazioni e disgiunzioni, una ragione che supera le frammentazioni tra i saperi tenendo insieme “filosofia, poesia e religione” (RS: 51). Al fondo del suo pensare c’è un “senso circolare” (ibidem), quello necessario a non

lasciare il cuore abbandonato con le sue passioni e la ragione devitalizzata da una logica che ha smarrito i sensi e il sentire. La ragione poetica non solo si nutre dei sensi, ma si affida al sentire. Sa cucire il pensare con il sentire, sa trovare la sua dimora in quella zona oscura che è il cuore, centro vitale che muove l’intero vivente. Tanto è il valore che Zambrano attribuisce al sentire nel processo della conoscenza che parla di una ragione che di fronte al cuore depone le armi (A: 23). Non ci può essere sapienza se non con la passione, perché quando il pensare elimina il sentire allora non ci può essere una conoscenza vera delle cose. Il pensiero senza passione non ha vita piena; la passione quando non illuminata dal pensiero divora se stessa e mette in fuga la verità (CB: 11). Solo quando la ragione e la passione vanno unite c’è possibilità di accedere alla verità: nella passione si esprime la forza dell’anima e nel pensiero il darsi misura dell’essere. La ragione poetica tiene insieme i sentimenti con i pensieri, è fatta di “ragioni della ragione fatte per il cuore” (PPVS: 78); è quella che comprende il sentire senza annullarlo dentro la rete della logica, “senza cessare di sentirlo” (DD: 96). Un’intelligenza capace di operare con quella parte della mente che sembra esserle più lontana. Quando María comincia a studiare filosofia, avverte una passione intensa e profonda per il lavoro del pensiero; al momento dell’esame, quando deve presentare l’esito del suo studio, vorrebbe parlare del suo sentire appassionato al suo maestro Ortega y Gasset, vorrebbe dirgli che non basta elaborare uno schema del corso, così come le era stato chiesto di fare, perché uno schema da solo non basta, il prodotto del pensare deve restituire la vita del cuore che è alla radice di ogni pensare. La vita del cuore si esprime in una pluralità di emozioni e sentimenti, di passioni e di tonalità, ma ciò che più la caratterizza è l’amore, perché l’amore è l’energia generativa da cui tutto viene. Fedele alla sapienza antica, oltre che al pensiero cristiano, Zambrano assegna all’amore la primarietà nella vita insieme alla materia che dall’azione amorosa prende forma. Nel Simposio di Platone si dice che Eros è un dio grande e ammirato anche in ragione della sua nascita, poiché è il solo dio a non essere stato generato, esistendo da sempre. Esiodo narra che per primo ci fu Caos, e poi Terra e Amore (Platone, Simposio, 178b). È dall’amore dunque che viene tutto il resto, insieme a quella materia che è la terra. Perché nulla si fa se non c’è la materia e se

manca quella energia buona in cui consiste l’amore: “L’amore è causa per noi dei beni più grandi” (Platone, Simposio, 178c). Dall’amore si genera la realtà e “l’amore … continua a impregnare tutto, ad avvolgere tutto in un aroma a volte lieve ma indelebile” (A: 23). Per questa ragione un pensare che sia svincolato dall’amore non è un pensare vero, non è un pensare efficace poiché si è separato dall’energia da cui tutto scaturisce. Per Zambrano essenziale al pensare è l’amore: “Dire conoscenza è dire anche amore” (ST: 42). Con il pensiero aristotelico, prima grande espressione della ragione sistematica, la salvezza si raggiunge con la vita contemplativa, intellettuale, una vita depurata da ogni passione, dunque innanzitutto dall’eros. A partire da Aristotele “l’amore non sarebbe stato più necessario” (UD: 104) alla vita della mente. La filosofia aristotelica aveva abbandonato la visione del fondo oscuro del sacro, che si trova in Eraclito, per concepire un pensiero dell’essere tanto limpido da essere anaffettivo (UD: 106). Ma senza il sentire appassionato, e soprattutto senza l’amore, si perde il contatto con l’energia originaria della vita, e da questa perdita non può venire nessuna conoscenza vitale. L’amore è “quel qualcosa che muove e genera la conoscenza” (A: 32). Capace di fecondare la vita è solo la ragione che si fa muovere dal cuore, cioè dall’organo che il senso comune considera depositario della capacità di amare. In questa devozione intellettuale all’amore sembra risuonare in modo particolare il pensiero di Dante che María studiò analiticamente. Quando, infatti, si leggono le sue riflessioni sulla primarietà ontologica dell’amore non si può non pensare a quell’“amor che ’l ciel governi” che apre l’ultima cantica (Paradiso, I, 74) e al più conosciuto “amor che move il sole e l’altre stelle” (XXXIII, 145). Il principio che governa la vita è l’amore e dall’amore secondo Dante discende l’armonia che regola l’universo (I, 78). Non meno importante è stato per María lo studio della Vita nova, dove troviamo scritto che “lo spirito della vita dimora nella secretissima camera del cuore” (Vita nova, 1, 4), perché il cuore trova la sua signoria nell’amore (21, 1-4). In Dante l’amore non è irrazionale, non è altro dall’intelligenza, ma “comanda secondo il consiglio della ragione” (2, 4). È l’esperienza a rivelare che la ragione è intrinseca all’amore, poiché quando si sta sotto l’energia dell’amore, per effetto della nobiltà di questo sentimento, si fa esperienza di una vita “dolce e soave” (2, 17). Tale è la beatitudine che viene dall’amore da

far dire a Dante essere questa “insostenibile” per eccesso di dolcezza di cui fa esperienza il cuore (5, 6). Una concezione questa radicalmente opposta a quella stoica, che individua la possibilità di una vita beata nella condizione di imperturbabilità. Perfettamente in linea con il sommo poeta, Zambrano sostiene che senza amore si perde il contatto con l’energia originaria della vita, perché l’amore in quanto principio che governa la realtà è “quel qualcosa che muove e genera la conoscenza” (A: 32). Ma conoscere a partire dall’amore è cosa difficile, se non tremenda, poiché, come spiega Dante, il pensiero che si nutre del più nobile dei sentimenti si trova di fronte a esperienze discordanti: cercare la signoria attraverso la ragione, fuggire dalla ragione, sentire tutta la dolcezza dell’amore o patire il dolore che si porta appresso (Vita nova, 6, 89). L’incertezza del cammino intrapreso coltivando un pensare appassionato è resa da Zambrano con la figura della “scala pericolosa” (A: 32), ma una scala da percorrere fino alla fine se si vuole arrivare a plasmare una ragione vitale. Non esiste la ragione distinta dal cuore capace di amore; alla ragione è possibile intraprendere la strada per pervenire alla verità, quantunque sempre parziale, quando sa essere innamorata delle cose. In questo innamoramento per il reale bisogna saperci stare fino in fondo se si vuole entrare nella realtà, che è la condizione per raggiungere il sapere vero. Solo quando si lascia fecondare dall’amore “la ragione trova la nuova misura” (PPVS: 27), cioè un principio non razionalistico ma amorevole di ordinare la realtà. Fecondo il nuovo sapere lo sarà soltanto se scaturisce da viscere innamorate. Solo così esso sarà tutto ciò che il sapere deve essere: pacificazione e anelito, soddisfazione, fiducia e comunicazione effettiva di una verità che ci renda di nuovo vicini, partecipi (ibidem).

La ragione razionalistica si era affidata a un metodo intellettualistico, che concepisce l’oggettività, cioè il sapere che dice con precisone l’essenza delle cose, raggiungibile solo attraverso una misura logica e matematica dei fenomeni. La ragione che si nutre dell’amore, quella innamorata delle cose, dovrebbe essere capace di una oggettività diversa: una “oggettività viva”, quella che consente di “appianare differenze, sciogliere nodi, suggerire come orientarsi nel groviglio della realtà” (ibidem). Essere innamorata delle cose significa per la ragione mettersi al servizio della realtà. La condizione epistemica fondamentale è dunque quella della passività: “servire senza cessare di essere” (A: 32). La ragione pretenziosamente razionalistica, che rinuncia al sentire, è una ragione “ormai

senza dei” (A: 31), una ragione di una intelligenza arida anche perché ha rinunciato alla passione per stare in cerca di una impossibile e devitalizzante imperturbabilità affettiva. Già prima della scienza moderna si deve allo stoicismo la ricerca di una “ostinata apatheia” (ibidem); proprio quello stoicismo che costituisce il riferimento filosofico fondamentale per Zambrano. Per lo stoico a rappresentare una vita beata è la condizione di atarassia, cioè di imperturbabilità, quella condizione dell’anima propria di chi ha raggiunto il dominio delle passioni. L’atarassia è quello stato dell’anima che la rende insensibile alla qualità degli eventi, capace di accettare tutto perché sommamente indifferente a tutto. Obiettivo dell’educazione dell’anima era per gli stoici l’apprendimento della capacità di controllo totale delle passioni per conseguire una condizione di intangibilità. Invece per Zambrano l’imperturbabilità è non vita, perché la vita ha la sua fonte nell’amore. A generare e a nutrire di energia vitale l’atto del conoscere non è altro che l’amore (A: 32). Solo l’amore è capace di aprire la ragione al rinascere, di renderla capace di obbedire all’imperativo dantesco “incipit vita nova”. E la primarietà dell’amore nell’esperienza è evidente per il fatto che l’essere umano altro non è che un’espressione del logos dell’universo, poiché tutte le cose che l’universo squaderna, e che a un occhio superficiale sembrano separate le une dalle altre, sono ordinate intimamente in un volume compatto dall’amore (Paradiso, XXXIII, 85-87). Pensare poeticamente Quando si acquisisce consapevolezza che la realtà, nella sua sostanza prima e nel suo movimento vitale, “è incomprensibile e al di sopra di ogni intelligenza” (M. De Molinos, Guida spirituale), non può che avvenire una conversione: una sorta di periagoghé platonica, in questo caso non dal mondo sensibile al mondo delle idee, ma dal pensiero discorsivo e sistematico che informa la quotidianità a un pensiero differente, un pensare – direbbe Plotino – che non è un pensare. Quello proprio della poesia. La poesia, linguaggio povero perché ridotto all’essenziale, “parola interrotta e trepidante” (A. Machado, Solitudini, La strada, XXIII), sa dire con densità l’etica e l’estetica che imprime ordine al mondo vivente. La ragione poetica è quella che sa dire le cose “con un canto così puro / come sul marmo bianco l’acqua limpida” (A. Machado, Solitudini, Gallerie, LXVII), con una parola così trasparente che sembra che le cose parlino da sé. La

ragione, materna e umile, conviviale, antipolemica è per Zambrano la ragione poetica. La poesia rappresenta per lei il paradigma di un nuovo modo di pensare, quello che riconcilia la mente con il cuore. La ragione poetica si attualizza in un pensiero che nasce dal sentire “e non se ne libera” (A: 107). La filosofia sistematica, quella che voleva essere scientifica secondo il modello del positivismo, aveva nettamente preso le distanze dalla poesia: “Come Ulisse davanti alle sirene, la filosofia deve tapparsi le orecchie per non ascoltare la sua musica, perché se la ascoltasse non ne ascolterebbe più nessun’altra” (PPVS: 21). Tale operazione è esplicita in Platone, che tuttavia nei passaggi essenziali del suo pensiero ricorre al mito. In seguito neppure più si porrà il problema del rapporto con la poesia ormai privata di ogni valore, in quanto collocata nei linguaggi non scientifici. Il pensiero filosofico tornerà a riconciliarsi con la vita quando saprà nutrirsi del pensiero poetico, perché ha necessità del modo in cui il poeta guarda al mondo, di uno sguardo innamorato delle cose: della natura e del cosmo, della materia vivente e dell’energia spirituale. Tale è la fiducia che Zambrano ripone nell’atteggiamento poetico da farle dire che soltanto recuperando la poesia il mondo diverrà abitabile. Perché la ragione poetica è una ragione innamorata delle cose, anche di quelle che sfioriscono e in breve tempo sono ridotte in polvere, annichilite dal soffio del tempo. È un innamorarsi impregnato di malinconia, poiché non può mettere tra parentesi la coscienza che il perire è la misura comune a tutte le cose. La ragione materna e poetica non deve inventarsi dal nulla poiché già è presente nella cultura spagnola, in essa ha la sua fonte, specificatamente nel realismo e nel materialismo spagnolo. Del realismo spagnolo è propria la tensione a “stare piantati nell’esistenza” (PPVS: 38). Non arditi sistemi concettuali, non un parlare su discorsi già pronunciati, ma il tenersi nella realtà, a contatto con le cose che interrogano il cuore e la mente insieme. Il realismo attraversa ogni espressione culturale: dalla poesia al romanzo, fino alla mistica (PPVS: 39). Evitando di codificarlo in una formula, perché le definizioni non si addicono alla liquidità della cultura spagnola, Zambrano identifica il tratto distintivo del realismo in un’adesione all’immediato. Il realismo spagnolo è uno stile particolare di stare fra le cose, è una maniera di guardare il mondo sentendosi innamorati di ciò che appare, un essere affascinati al punto non solo da non sapere staccare lo sguardo, ma da sentire quel rispetto per le cose che impedisce di ridurle a nulla. Questa è la maniera

di comportarsi dell’innamorato (PPVS: 41), che guarda con ammirazione l’altro e nulla fa se non accogliere il suo essere. L’amore per le cose, proprio del realismo, ispira la mistica spagnola, che esprime la tensione dell’anima a salire verso il trascendente attraverso l’amore per le creature con le quali si sente accomunata. Il mistico spagnolo non cerca di separarsi dalla realtà della materia vivente, perché la natura e tutte le creature che la abitano sono sacre in quanto hanno la loro origine nell’azione divina. La mistica spagnola tiene insieme la realtà, pratica la ragione integrativa di cui parla Zambrano e che per lei costituisce un essenziale canone di pensiero: tenere insieme la ragione e il cuore, la ricerca della vita spirituale con l’amore per la materia vivente. In questo pensiero che tiene insieme cose che generalmente vengono identificate come incompossibili si può arrivare a parlare di materialismo spirituale o di spiritualità materialistica. Il materialismo è una forma estrema del realismo spagnolo; viene definito da Zambrano una sorta di metafisica della materia: “La consacrazione della materia, la sua esaltazione, la sua apoteosi; è un fanatismo del materiale, del tattile e soprattutto del visivo” (PPVS: 45). La materia non è quella inerte della scienza, ma è materia vivente, sacra, impregnata dell’energia creatrice, quella materia senza la quale neppure la vita così come la conosciamo ci sarebbe. Una ragione realista e materialista, a differenza di quella che ispira la filosofia idealista, non può sopportare sistemi, ragionamenti astratti, ma va necessariamente in cerca di una parola fedele alla materialità del reale. È entrando in contatto con la materia vivente che la persona entra nella luce (PPVS: 46), perché la luce è energia, è materia trasformata in energia.21 Il materialismo che esalta il mondo sensibile e considera la contemplazione del vivente un atto fondamentale per trovare la verità dell’esistenza ha qualche somiglianza con la mistica sensualistica dell’islam, con la sua poesia dove la materia si supera continuamente nella sua energia (ibidem). Il materialismo spagnolo è espressione di un’intensa passione per la realtà nella sua concretezza: per le cose e per la natura (PPVS: 47). Nessun panteismo e nessun animismo, ma l’amore per la realtà, dove le cose e la natura bastano a se stesse. In questo attaccamento appassionato per la materia vivente non può trovare spazio nessun idealismo e nessun razionalismo, come invece accade nel resto della cultura europea. Il distillato di questo materialismo si trova nelle poesie di Pessoa:

Io non possiedo filosofie: ho i sensi. Se parlo della Natura non è perché so che cosa essa è, ma perché la amo, e la amo per questo… (Il pastore di greggi, II). Chi sta al sole e chiude gli occhi comincia a non sapere cos’è il sole e a pensare molte cose piene di calore. Ma apre gli occhi e vede il sole, e non può pensare più a niente, perché la luce del sole vale più dei pensieri di tutti i filosofi e di tutti i poeti (Il pastore di greggi, V).

Il materialismo metafisico, che è attenzione appassionata per le cose, dà voce alla “magnificenza delle cose più umili” (PPVS: 47): è contemplazione mistica degli ulivi e delle querce, delle piante di limone e delle ginestre, dell’aria e della luce. Questa mistica materiale per le cose ha un suo specifico sentire nella malinconia. Il materialismo metafisico, che è atteggiamento di un modo di vivere che sa stare tra le cose nella loro cangiante molteplicità, genera quel sentimento proprio del vivere umano che è la malinconia (PPVS: 48). Stare immersi fra le cose, con lo sguardo che accompagna il manifestarsi dei fenomeni, mette di fronte al divenire continuo della realtà creaturale, facendo sprofondare la mente nella coscienza del tempo. La malinconia è il sentimento dell’anima che patisce il tempo, patisce la coscienza della finitezza della vita creaturale. Pur essendo un sentire che ha la forma del patire, la malinconia non è un sentimento che fa problema, che chiede una soluzione, perché è un modo di sentire la vita, sentirla come tempo irreversibile: un sentire la vita come un succedersi di istanti che fuggono verso la loro fine. Ma proprio perché il materialismo è “anelito amoroso” verso le cose, la malinconia, “lungi dall’appannare i minuti contati della nostra vita, li fa ardere con più sfolgorio e più luce, fa sì che li si sgrani uno a uno e li si conti appassionatamente e avidamente” (PPVS: 48-49). A salvare la coscienza del finire del tempo dal diventare disperazione è proprio il modo materialmente spiritualistico di sentire la vita, che fa stare in una relazione appassionata con le cose, perché tenere lo sguardo immerso nella realtà salva da quella emigrazione interiore che, diventando isolamento, porta facilmente a un sentire disperato. La contemplazione dei momenti lungo i quali una pianta gemma le foglie, mentre evidenzia il tempo che passa

inesorabilmente, dona allo sguardo il mistero del fiorire dell’essere e del suo continuo tornare a fiorire. E noi ci troviamo a sentirci niente più di queste foglie, il cui senso vitale si consuma in una stagione; noi duriamo la nostra sola stagione, una delle tante della natura di cui siamo parte. La malinconia è dunque un sentimento metafisico che accompagna il nostro pensare dicendo la verità di quello che siamo. Avere cura delle parole Ci sono parole e parole: parole che dicono all’altro il nostro riconoscimento del suo valore, parole che lo denudano della sua dignità, parole che sanno dire la qualità delle cose con una precisione geometrica e parole che confondono le cose del mondo come la nebbia quando cala sulla campagna in autunno. Ci sono parole che dicono la nostra disponibilità a ricevere l’altro nella sua alterità e ci sono parole che comunicano un “desiderio irrefrenabile di altro, e per questo condannate a non trovare, forse mai, il proprio nido” (A: 81). Ci sono parole che opacizzano la realtà. Molto spesso pronunciamo parole che rendono opaco anziché portare chiaro. Maestra della parola viva, parlante, è la poesia, perché “arriva a dire ciò che non può essere detto” (A: 88). La parola poetica dice come stanno le cose, senza reticenza e senza pudore. Delle cose dice la verità. La “verità è vita, vita nell’amore” (ibidem); soltanto l’amore per la verità fa trovare la parola giusta. Inderogabile dedicare uno spazio alla riflessione sulla parola per l’importanza assegnata da Zambrano alla cura della parola. “La vita ha bisogno della parola; se fosse sufficiente vivere non si penserebbe, se si pensa è perché la vita ha bisogno della parola” (QA: 125); una parola che dica le cose come sono, che rischiari le ombre, che dica il senso che si rivela e i fallimenti che si patiscono. Il pensiero è tutt’uno con la parola; dunque coltivare un’intelligenza poetica significa avere cura delle parole, perché è il linguaggio a istituire la realtà. La parola è “forma dell’essere” (A: 85); non si può vivere allo stesso modo dentro visioni che definiscono la realtà in modi diversi.22 Non ci sarebbe un mondo umano senza la parola, né ci sarebbe la storia. La parola è materia essenziale del mondo, in quanto è “il luogo dove tutto tende a dire e a dirsi” (A: 87). La parola ha la sua radice generativa nelle tensionalità alla trasparenza proprie dell’umano, la tensione a trovare un contatto con gli altri, a dire quei

frammenti del senso di cui la vita va continuamente in cerca. L’essere umano cerca la trasparenza; la realtà mai è indifferente, sempre lo interroga e interrogandolo si mostra in tutta la sua opacità al pensiero. La ricerca della parola costituisce la risposta a questa vocazione alla trasparenza. Per i limiti del pensiero umano questa vocazione è destinata a non trovare mai compimento, con la conseguenza che il lavoro sulla parola non potrà mai trovare conclusione. Impossibile arrivare a una visione chiara e trasparente di tutto il cammino dell’esperienza, poiché include momenti di oscurità in cui non siamo presenti a noi stessi. Per questa ragione è cosa impossibile scrivere un’autobiografia che sia specchio fedele dell’esperienza vissuta. La parola viene pronunciata anche per il bisogno di relazione, per il bisogno proprio di quell’ente fragile e vulnerabile che è l’essere umano di entrare in comunione con l’altro e con l’altro disegnare spazi di senso dove l’anima possa abitare. Ma ci sono parole che tradiscono questo bisogno originario, sono parole che diventano recinti, che chiudono il pensare e impediscono di respirare altro, diventano mura fortificate che immiseriscono quanto di vitale dimora nel cuore dell’essere umano e nel cuore del mondo (A: 90). L’anima ha fame di un’altra parola, di un logos generativo che sappia aprire radure di pensiero ed evocare la qualità propria del sentire originario. La parola capace di generare relazioni viene da una ragione essenzialmente antipolemica, umile e misericordiosa (RS: 91). Ad accomunarci al mondo vivente è il linguaggio; ma la parola è cosa diversa, non è semplicemente naturale (A: 93). La parola ha la sua radice generativa nella tensione alla trascendenza ed è perciò fedele alla sua ragione quando di questa tensione trattiene e rivela tutta la sua fatica e sofferenza, le sue sconfitte e le sue aurore. Può evocare il buio del deserto del senso o “essere gonfia della luce” che viene dalla ricerca della verità. Non solo nella stagione di Zambrano (ibidem), ma anche nel tempo attuale prevale il linguaggio e poco spazio trova la parola. Da questo degrado, che finisce per essere un degrado dell’esserci, ci si può salvare solo decidendosi per un’etica amorosa della parola. Se i concetti, seppure elevati a idee, potessero rendere conto dell’ordine della vita e della realtà del mondo, dei non ne sarebbero mai esistiti, e il divino, nel caso si fosse affacciato su questo pianeta, sarebbe passato inavvertito (A: 77).

Il bisogno degli dei nasce dalla consapevolezza che il nostro linguaggio, la parola umana, non è mai adeguato alla complessità della vita, che nel suo

fondo ultimo resta un mistero. Sempre rimane qualcosa di inafferrabile per ogni concetto. Tenere a mente in ogni momento la pochezza delle parole così come le usiamo salva se stessi dalla hybris sempre incombente e dispone la mente alla ricerca di una parola irradiante (ibidem). La parola “è un puro dono” e come tale va trattata (A: 78). Quando manca la parola radiante manca il luogo dove albergare la vita. È quindi necessario dare all’anima il tempo per cercare parole di luce, che sappiano farla respirare; parole che siano “soffio vivificante … e luce dell’intelligenza” (CB: 104). Cercare la parola che non si limita a ripetere un concetto già saputo, quel concetto che ci tiene nello spazio del già detto, ma la parola che concepisce, che apre all’inedito. Proprio per il suo istituire la realtà la parola chiede reverenza, sia da chi la proferisce sia da chi la riceve. Quando Zambrano parla della potenza della parola evidente è il richiamo alla visione cristiana, dove il logos è parola capace di trasformare la realtà, perché la parola fa il miracolo dei pani e dei pesci, e quello della conversione dell’acqua in vino (A: 90). È la parola di verità che affascina Zambrano, non la verità della logica, ma quella che agisce nel reale diventando lievito di vita nuova. Ci sono parole e parole. Parole dette senza attenzione e parole pronunciate per comunicare qualcosa di essenziale. Nel secondo caso ci si aspetta che qualcuno ascolti; perciò l’ascoltare è un atto di riguardo per l’altro, di riconoscimento del suo esserci. Ci sono anche parole che si portano appresso una dose di violenza. Persino la poesia può essere contaminata da questo tipo di parola (PPVS: 55), quella che oscura le cose, separa gli esseri, inquina la vita spirituale, rovina la vita affettiva. Ma in questo caso tradisce se stessa. Difficile sempre trovare quelle parole che sono fedeli alle cose. Ma in certi casi sembra addirittura impossibile trovare la “parola interiore” (CB: 98), che pare diventata inaccessibile. Questo sentirsi abbandonati dalla parola accade non solo quando si avverte un deserto dentro l’anima, come se nulla restasse da pensare e da dire, ma anche quando l’esperienza vissuta si sente intensa, ma si è arrivati al punto che nessuna parola riesce a dire quello che si percepisce accadere nell’anima. Questo venire a mancare della parola accade con certi vissuti di dolore prolungato nel tempo, rispetto ai quali sembra inaccessibile qualsiasi possibilità di comprendere il senso. Trovare la parola giusta diventa aspramente difficile nei confronti del dolore, sia il proprio sia

quello altrui. Sembra “inevitabile che la veemenza di un dolore smisurato ci sottragga la capacità di scegliere le parole, dato che spesso ci tronca anche la voce” (Seneca, Consolazione a Elvia, 2, 3). Una consolazione efficace richiede parole nuove, non parole usurate, parole meticolosamente adatte a quel preciso vissuto. Forse ci deve essere stato un momento per Giobbe di sofferto silenzio interiore prima di trovare la forza del lamento, è il momento in cui la realtà che ha preso forma risulta talmente opaca che nessuna parola può essere proferita, perché il pensiero sembra destinato al fallimento. Per quell’ente che Aristotele definisce come l’“essere che ha il linguaggio” trovarsi senza la capacità di accedere alla parola significa avvertirsi come non esistente. Quando manca la parola per dire le cose condivise con altri non è la stessa esperienza del trovarsi senza la parola interiore, perché la vita interiore è quella che caratterizza la propria singolarità e non potersi dire è come non potersi individuare. Come non trovarsi più. “Quando il soggetto, immergendosi sempre più nella sua condizione passiva, continua a sentirsi e a vedersi come un luogo precluso alla parola, nulla ormai lo assiste più. Nulla” (CB: 99). Non resta allora che farsi passivi. Accettare il silenzio vuoto di tutto, sperimentando quell’abissale patire dell’esserci che è il sentirsi assenti da sé. Come se si finisse di perdere anche il respiro. Solo accettando di stare nella passività più radicale si apre la possibilità della germinazione di un senso nuovo. Il silenzio allora diventa come “una vita più alta e il deserto della parola un pieno più denso” (ibidem). Quando si ha da dire il nuovo, l’inedito, ricorrere a parole già consumate, il cui senso si è pietrificato nel tempo, equivale a non dire, a tradire l’esperienza che chiede senso. Secondo il realismo di Zambrano la parola viva va concepita in modo che sappia dire fedelmente quello che l’anima sente germinare. Solo nell’arrivare a essere specchio fedele delle cose la parola risulta capace di concepire il senso, fecondando una sorta di “respirazione interiore, una respirazione dell’essere” (CB: 106). C’è la respirazione del vivere, quella biologica, e c’è la respirazione dell’esserci, quella spirituale; in genere siamo consapevoli solo della prima e non ci curiamo della respirazione di cui ha necessità l’anima per tenersi in vita. Zambrano interpreta quella spirituale come la respirazione della persona verso il suo centro interiore, concetto questo che chiede una riflessione. Ogni parola si porta appresso stratificazioni di significato: parlare di una

respirazione che porta verso il dentro fa pensare a una azione intimistica, a un ripiegarsi dell’esserci nello spazio chiuso della sua interiorità. Ma per Zambrano il dentro dell’esserci è quanto di più aperto alla realtà, perché immergersi nel mondo interiore significa entrare in contatto con il fondo originario della vita. Dare voce al respiro interiore è tutt’uno con il dare voce al respiro del reale. Solo la ragione materna assiste l’anima in questo viaggio, perché accedere al fondo interno significa trovarsi di fronte alle domande prime e ultime, quelle che impongono di sapere sopportare il vuoto. La ragione materna accompagna il pensare nella ricerca di parole che siano fedeli all’esperienza e si facciano servizio alla vita.

5.

Rendere forte il cuore Il razionalismo che caratterizza il pensiero occidentale ha portato a concepire l’essere umano come soggetto pensante, dimenticando la sua sostanza affettiva. Sempre, invece, ci troviamo avvolti (ST: 38) in un sentire. Non c’è un momento in cui si possa dire di non sentire. L’essere umano innanzitutto si sente, prima ancora di pensarsi (NM: 38). Nell’ombra, non conosciuto mai abbastanza, si annida il sentire, che poi è un “sentirsi” (ST: 27). Quel sentirsi che è rivelazione della nostra realtà ontologica, che è camminare nel mondo portando il peso del nostro esserci; ciò che fa dire a Machado che la vita è un “amaro camminare, perché il cammino / pesa sul cuore” (Solitudini, Gallerie, LXXIX). Al centro delle riflessioni sul sentire c’è il cuore, da Zambrano definito “quel luogo che muove l’intero vivente … il centro stesso della vita e dell’essere uniti” (A: 18). Non è solo la ragione a fare chiaro sul cammino, ma anche il cuore, perché ha una sua luce che solo nel suo cavo si accende (TA: 13). Zambrano realizza una fenomenologia della vita del cuore, non però una fenomenologia discorsiva, poiché parla di ciò di cui fa esperienza con una parola visionaria che annuncia più che descrivere, lascia immaginare più che indicare. Così parla di un cuore che può perdersi nel suo abisso interiore, smarrirsi nell’intricato fluire di emozioni e sentimenti quando la ragione non lo soccorre aiutandolo a fare chiaro, ma può perdersi anche nell’abisso del niente che percepisce nell’intorno. E il niente che percepisce il cuore non è “il niente puro e semplice” (CB: 76), il niente della matematica, della logica, ma è un vuoto che inghiotte e sgomenta. Rispetto a questo sentirsi annientato dal niente il cuore non può nulla, non può fare appello alla volontà. Sgomenta questa visione e lascia la mente a interrogarsi per capire come può il cuore sopportare tale condizione e poi tornare a essere soffio, nutrendo l’essere del suo potere vivificante. Forse a soccorrerlo è la ragione materna, poetica, quella che è mossa dall’intenzione di avere cura della vita e trasformarla. Il cuore è organo della vita. Coltivare il cuore è gesto essenziale del metodo del vivere. Si tratta di “rendere forte il cuore”, espressione questa che

fa risuonare i versi di Archiloco: “Gli dei, amici, hanno stabilito come cura degli eventi funesti la fermezza dell’animo” (Archiloco, fr. 5). La disciplina affettiva era un canone degli stoici, e anche di Seneca, dal quale Zambrano molto attinge. Fortificare il cuore per gli stoici significa preparare la ragione a comprendere la vita affettiva per raggiungere una situazione di adeguata padronanza su di essa. Avere cura delle emozioni significa capire da dove vengono e dove portano e questa comprensione consente di non soccombere: “La disgrazia è gravosa a quelli cui giunge inattesa, ma la sostiene facilmente colui che l’ha sempre aspettata” (Seneca, Consolazione a Elvia, 5, 3). La filosofia medicinale è quella che esercita a coltivare una sperimentata fermezza dell’anima, quella che rafforza il cuore, perché “il cuore, quello, bisogna tenerlo in alto, bisogna innalzarlo perché non sprofondi, perché non venga meno; e per non andare, noi stessi, in pezzi” (PR: 23). La necessità inderogabile di rendere forte il cuore si fa sentire quando veniamo invasi da emozioni negative, in particolare dal dolore estremo e dall’angoscia, dal terrore e dalla disperazione, perché in questi momenti ci si sente smarriti, finanche perduti. Ma poi Zambrano non dice con precisione come rendere forte il cuore, fedele al principio di cercare un metodo del vivere che non si oggettivizzi in regole e procedure. Tutta la sua filosofia, però, costituisce la fonte cui attingere l’arte di rendere forte il cuore, e soprattutto il suo stile materno e poetico di trattare le cose. In un tempo come il nostro invaso dai tecnicismi, che considerano la vita del cuore alla stregua di altri più semplici fenomeni, un tempo dove le sofferenze possono diventare merce in un mercato di affaristi incompetenti e pericolosi, lo stile di Zambrano diventa una guida essenziale, per quel suo insistere sulla necessità di portare l’attenzione sulla vita del cuore, dedicare a essa il massimo di pensiero per fare un po’ di chiaro, individuare i sentimenti che danno respiro alla vita e quelli che aumentano l’affanno del vivere. Il cuore va sostenuto, tenuto lontano dal rischio di diventare fosco. Un cuore fosco non aiuta la conoscenza e neppure l’azione. L’azione vera può scaturire solo da un cuore limpido. Prestare attenzione alla vita affettiva per comprenderla è mossa essenziale del vivere, perché il cuore cerca ascolto. Anche se nulla è più difficile che descrivere i sentimenti in quanto ribelli a ogni definizione (SP: 64-65), è questa l’azione inevitabile da azzardare per potere accendere qualche barlume di visione sulla vita del cuore. Immergersi

nella vita affettiva e mettere in parola il sentire nelle sue espressioni più vitali è un’essenziale azione personale e culturale, poiché consente di scardinare quell’ermetismo in cui il razionalismo ha confinato i sentimenti. Speranza e fiducia Quando l’essere umano si inoltra con il pensiero nella vita per comprenderla, inevitabilmente si confronta con la enigmaticità e precarietà della condizione umana: il sentire diventa sentire del nulla. Un sentire che se dilaga nell’anima senza trovare altro fa sprofondare la coscienza nell’abisso del nulla. Quel nulla che “consiste nell’assorbire il tempo, ridurlo al semplice passare che passa” (UD: 165). Avvertire la qualità del nostro essere è tutt’uno con il sentire l’angoscia. Quando l’essere umano scopre se stesso si trova in una realtà immensa e misteriosa; una realtà indecifrata che si offre come enigma e proprio perché l’essere umano è quell’ente che per natura cerca la conoscenza, da subito patisce con angoscia il mistero. Questa angoscia originaria, primordiale, è destinata a non trovare mai soluzione. La ragione filosofica inventerà teorie e teorie, ma queste risultano solo un surrogato momentaneo della vera sapienza, e quando l’effetto placebo prodotto da questi discorsi svanisce l’angoscia riemerge intatta e sommerge la coscienza. Segno questo che l’angoscia non va combattuta ma accettata, perché si tratta di un “sentire sacro” (UD: 190), in quanto ci rivela delle qualità della condizione umana. L’essere umano, pur costretto a patire la sua mancanza d’essere e l’angoscia che da questa coscienza viene, non è nato per solo subire la sua condizione, ma per cercare una forma al di là del nulla. A sostenere questo compito, a dare forza all’anima sono la speranza e la fiducia. Il lavoro del vivere come trascendenza è sostenuto dal cuore, dal sentire vitale: la speranza e la fiducia. Due sentimenti ontologici vitali. La fiducia è “fiducia in tutto e niente, fiducia pura” (SA: 86). Questa fiducia è un sentimento originario perché secondo Zambrano “nasce con noi”, un “tesoro divino” (SA: 87) che si deposita nell’anima al momento della nascita e accompagna la vita intera. Senza questa fiducia in tutto e in niente non ci potrebbe essere una risposta positiva alla chiamata alla trascendenza. Il sentire fiducia nella realtà rappresenta la condizione affinché la realtà si riveli. Tanto più ampia è la fiducia, tanto più ampio e intenso è l’accesso al reale. La speranza è desiderio di divenire la propria forma, di attualizzare ciò

che portiamo dentro in modo solo abbozzato, per questo si può dire che “la speranza è la sostanza della nostra vita” (SA: 90). “Speranza di una rivelazione della vita, speranza che si dissolvano i tre orrori, speranza che la vita, scoprendo qualcosa più in là di essa, trovi alla fine la sua figura e cessi di essere un incubo” (CGL: 48). La speranza è ciò che sostiene la fatica di realizzare il sogno che noi sogniamo della nostra vita. Per comprendere il sentimento della speranza occorre affidarci alla ragione circolare di Zambrano, dove tutto porta all’inizio e dall’inizio si torna alla fine; infatti, se il primo atto del vivere consiste nel saper accettare e se per sapere accettare è necessaria la speranza, poi la speranza per dispiegarsi del tutto ha necessità del sapere accettare la realtà. Accettare la realtà, invocare il bene, offrire la parte migliore di sé, in cui si compie il trascendere: queste sono le azioni dell’esserci senza le quali “la speranza non si dispiegherebbe per intero” (B: 114). Solo chi percorre i sentieri della mistica concepisce il nulla come parte essenziale dell’esperienza umana. Nella mistica quietista di Miguel De Molinos il nulla porta a Dio, perché “Dio non è la fonte di una promessa, né una minaccia di condanna: è il tutto senza frontiere che include il nulla; il nulla dell’anima, attraverso l’amore” (UD: 161); fare esperienza del nulla non è perdersi irrimediabilmente, ma patire quella condizione che sola porta alla contemplazione del divino. Ma anche il percorso del mistico ha necessità del sentire umano: il sentire della speranza e della fiducia. Della speranza che nella vita sia possibile l’accesso ad altro che non sia il perdersi e della fiducia che ci sia un camminare umano che porta oltre la realtà ordinaria. La speranza e la fiducia non servono però ad annullare il timore del nulla e a interpretare l’esserci come sporgenza individualistica dal tessuto della vita, ma a sostenere il senso del nulla accettandolo fino in fondo. Imparare a cercare la migliore forma del vivere stando in quell’effimero baluginare dell’essere che noi siamo. Chi pretende di vivere una vita assolutamente piena finisce per sentirsi nulla di fronte a una realtà che resiste impenetrabile. “Quanto più l’opera umana sboccia vicino al nulla, tanto più sarà autentica creazione” (UD: 161-162). L’azione che fabbrica il mondo è necessaria per arginare il nulla, perché il nulla circonda l’essere e gli basta poco per penetrare nell’anima, “assomiglia al possibile, all’ombra, al silenzio” (UD: 162). La sua funzione è quella di disfare, di ridurre: ridurre a nulla le opere, soprattutto i progetti. Per non soccombere al nulla, quello che

può annientare l’esserci, abbiamo a disposizione l’agire che costruisce le cose del mondo per abitare la terra sotto il cielo. Ma questo fare diventa possibilità autentica di senso dell’esserci se vissuto a partire non dalla resistenza al nulla ma dalla sua accettazione, accettazione di essere poco e da lì agire. Agire con speranza e fiducia. Non c’è possibilità di esistenza se non c’è speranza nell’ulteriore. La speranza è, infatti, l’epifenomeno del movimento di trascendenza (PR: 13). La speranza ha una sua verità, che ha la forza di generare “il gesto insperato che un giorno affronta tutto” (DD: 97). La vita è questo dovere trascendere che si rivela come speranza, la cui prima manifestazione, fenomeno, è la speranza. L’uomo è l’essere la cui prima manifestazione è la speranza (ST: 13).

Zambrano assegna alla speranza il ruolo di sentimento fondamentale del vivere, e sulla base di questa sua fiducia in questo sentimento ontologico, tanto vitale quanto arrischiante, ritiene che non si possa giudicare in modo negativo quel filosofare che parla di “estrarre una speranza – seppure irrealizzabile qui – dal terrore originario” (CB: 122). L’importante è non confondere la speranza con l’illusione, tenendola libera dall’ansia che quel che si spera accada. Tenerla aperta, svincolata da pensieri prefiguranti. Riguardo alla speranza contrastanti sono le visioni culturali. Dando voce alla visione che considera la speranza un anestetico del pensare che sa stare al reale, nell’opera Elegia alla morte del padre Jorge Manrique, poeta espressione della poesia prerinascimentale castigliana, definisce “assopita” l’anima imbevuta di speranza (PPVS: 79), assopita quando però è speranza dell’impossibile, quando è speranza di perdurare, speranza di realizzare interamente il sogno del bene. La speranza buona è quella che si tiene vincolata alla consapevolezza dei limiti inaggirabili della vita umana: che sa stare nel tempo che finisce, nelle possibilità che non riescono a fiorire. C’è bisogno di speranza e di fiducia perché la vita inevitabilmente fa fare esperienza di sentimenti negativi, perturbanti, come il rancore e il risentimento. Se è vero che gli esseri umani non possono sopportare troppa realtà, tuttavia è condizione del vivere integralmente accettare la realtà così com’è: “Il rancore è una delle forze primarie della vita” (S: 31). La filosofia come medicina dell’anima risponde all’intenzione di indicare strade per smorzare il rancore e riconciliarsi con la vita, in altre parole assume “la missione caritatevole di dissipare il rancore, quello che ogni uomo ha, anche se non lo sa, per il solo fatto di essere nato uomo” (S: 31-32).

Un sentimento così intensamente negativo come il rancore impedisce alla mente di stare nella realtà così come essa è, impedisce di vivere a fondo e integralmente un’esperienza perché produce l’effetto di togliere respiro all’anima. Il vero e unico rimedio per Zambrano è la fiducia nella vita (RS: 87). Quando alla mente la realtà risulta inaccessibile, immensa e oscura, troppo estranea e distante, solo la fiducia nell’aprirsi della possibilità inedita e impensabile del vivere sostiene la fatica dell’esserci. Ciascuno deve fare i conti con la responsabilità ontogenetica di avere cura di sé da se stessi, e la prima forma di cura consiste in un “atto di fede” nella vita, “perché vivere è innanzitutto un atto di fede, un abbandono alla fiducia sotto cui si nasconde la speranza” (S: 18). È la fiducia nella vita che consente di rispondere alla tensione propriamente umana alla trascendenza, cioè a divenire il proprio essere possibile. Proprio perché Zambrano pensa anche in modo religioso, ed evidenti in certi passaggi sono i riferimenti al pensiero di Paolo, non è azzardato completare questa diade di sentimenti ontologici con l’amore, l’amore per la realtà, sentimento che María considera alla radice della vita in tutte le sue forme. Lei stessa dice che la fiducia è amore (SA: 86). È possibile accettare il lavoro del vivere, cioè di stare nella realtà come esseri incompiuti sobbarcati del compito di pensare e agire per realizzare una forma di vita, se si ha fiducia nell’essere, speranza nel possibile, amore per la realtà. Solitudine A rendere forte il cuore non è solo il coltivare i sentimenti ontologici fondamentali, ma anche metterlo in grado di sostenere il sentire difficile, quello che fa scalare le montagne del cuore. Ci sono momenti in cui il vivere si fa così difficile che il cuore arriva a ritirarsi, si fa silenzioso, come se non sentisse più, lasciando il campo alle sole operazioni della mente che così, senza il sostegno del sentire, perde la sua stessa forza. Quando il cuore soffre, la mente non può non sospendere il fare e prestare ascolto affinché il cuore non giunga a quel punto spesso impercettibile in cui si sente sommerso e comincia a perdersi. E c’è un perdersi che è un inabissarsi (CB: 75). Un sentimento non sempre facile da vivere è la solitudine. Ciascuno di noi viene al mondo solo e, poiché è mancante, per tutto il tempo della vita cerca l’altro. Cerca di superare la solitudine stringendo relazioni. Ma anche la relazione più bella, quella che sa essere fonte di gioia, non annulla la nostra intima solitudine. Siamo irrimediabilmente soli poiché a nessuno è possibile

condividere il suo esistere con l’altro; a noi non è possibile integrare il nostro essere con l’altro. Anche nell’amore più completo l’altro resta irrimediabilmente altro e io irrimediabilmente sola nella responsabilità del mio esserci. Rendere forte il cuore è necessario per affrontare quella solitudine che è consustanziale all’esserci. La solitudine ontologica. C’è una solitudine pura, quella non intaccata dall’ansia, quella che non spinge alla ricerca di riempimenti e consente di sopportare il dolore di sentirsi isolati, “la solitudine accettata nell’abbandono” (CB: 137). Fare esperienza di questa solitudine radicale è possibile solo a chi ha saputo accettare la realtà senza più resistenze. Una posizione questa che forse ci è data solo nella durata di pochi istanti, poiché è un sentimento non terreno, non creaturale. Forse è la solitudine della mente del mistico, che sa abbandonarsi nel trascendente, annullato ogni rumore dell’io, ogni movimento della psiche, ogni parola di ciò che distrae dalla ricerca dell’essenziale. Quella parola che è espressione della curiositas ben descritta da Agostino. Accettare la solitudine significa sapere stare nel silenzio; non il silenzio esterno, quello che subiamo come negazione della comunicazione con l’altro, ma il silenzio interno che “fa tacere il rumore interno della psiche e il continuo parlare di quel personaggio che ci portiamo dentro” (ibidem); un personaggio costruito a immagine di quello esteriore. È un imperativo dell’esserci con senso quello di sapersi liberare da quei comportamenti che inquinano la bellezza della vita. Ci sono comportamenti che mai portano del buono: essere “banale, cavilloso, contestatore; quello che non si stanca mai di avere ragione, … che non può restare zitto” (ibidem). La vita perde le sue possibilità quando il tempo del convivere si lascia inquinare da questi comportamenti, e si ammala nell’intimo quando si radicano nell’anima, quando il pensare diventa banale, cavilloso, puntiglioso. Non bisogna cadere nell’errore di pensare che l’esterno resti fuori, perché il nostro esserci non è in due modi separati, siamo tutt’uno e l’esterno diventa interiore e l’interiore traluce nell’esterno. Pietà Ci sono sentimenti essenziali che nel clima razionalistico della nostra cultura faticano a trovare spazio. È il caso della pietà, “forse il sentimento originario, il più ampio e profondo” (SP: 65). Zambrano considera la pietà come l’espressione più viva di quelli che definisce “sentimenti amorosi o positivi” (ibidem).

Socrate fu condannato proprio perché voleva portare alla luce questioni che si tende a lasciare inesplorate, come accade quando nell’Eutifrone interroga sulla pietà. E non è un caso che Eutifrone si sottragga al dialogo, perché è troppo difficile trovare le parole per dire le cose essenziali della vita. Il discorso chiaro e distinto è applicabile solo a certi oggetti, ma quando ci si inoltra nelle cose prime della vita il dire risulta inadeguato, imperfetto, quasi balbettante. Attingendo al pensiero socratico, che individua l’essenza della pietà nel trattare il giusto e l’ingiusto, Zambrano la definisce come la capacità di trattare adeguatamente l’altro (UD: 185). Per poter trattare in modo adeguato l’altro, le altre cose e le altre persone, è condizione necessaria conoscere in modo adeguato. Una conoscenza è tale quando è fedele all’altro, quando non lo schematizza anticipatamente in un concetto. Quando innanzitutto si fa ascolto non prefigurato, aperto. Poiché i sentimenti sono un materiale così difficile da cogliere con le parole, al punto che non sopportano le definizioni, María suggerisce di seguire la strada che i teologi definiscono come “via negativa”, cioè dire innanzitutto quello che una cosa non è. La pietà, scrive María, “non è filantropia, né compassione per animali e piante. È qualcosa di più” (SP: 67). La pietà è quel modo del sentire che ci posiziona in modo adeguato con ogni espressione della vita; “è sapere trattare con il diverso, con quello che è radicalmente diverso da noi” (ibidem). Per un bisogno di sicurezza ciascuno va in cerca nell’altro di uno specchio che gli restituisca la sua immagine, confortato dal trovarsi in presenza di uguali. Siamo incapaci di stare con chi è diverso da noi. Per imparare a stare con chi è diverso da noi abbiamo inventato la parola “tolleranza”, che ha un significato relazionale e politico negativo, poiché tollerare significa sopportare tenendo a distanza. Ma la vita è vivere con gli altri. Non di tolleranza dunque c’è bisogno, ma di un modo di pensare e di sentire che guidi a trovare il sentiero per incontrare l’altro nella sua diversità: senza ridurlo ai miei concetti (imperialismo), senza lasciarlo nella sua solitudine (tolleranza). Essere capaci di pietà significa sentire le diversità in cui si esprime la realtà, sentire l’altro nella sua alterità e trovare i modi per entrare in relazione con ogni forma di alterità, con ognuno dei modi in cui la realtà si esprime. Mentre ho considerato la speranza, la fiducia e la solitudine sentimenti ontologici, poiché ci fanno sentire la qualità del nostro esserci, la pietà appare

sentimento relazionale politico, perché indica quel modo di sentire l’altro che consente di stare con lui. La filosofia di Zambrano spazia sui paesaggi dell’anima, apre all’immensità del cosmo, addolcisce il discorso con parole di poesia, e per queste sue qualità può sembrare una filosofia dell’intimo. Ma così non è: è filosofia per la vita, non solo per la vita intima dell’anima ma per la vita con gli altri, per quella vita che è convivere. E la pietà è indice di questa sua sensibilità per il nucleo intimo della politica, che consiste nel saper comprendere l’altro, il diverso, e trattare con lui per costruire insieme una città ispirata da una politica materna, conviviale, antipolemica, poetica. Potrebbe essere riduttivo definire la pietà come un sentimento politico, poiché María scrive che la pietà è “sapere trattare con il mistero” (SP: 69). Ma il mistero non è solo ciò che resta al di là della realtà vissuta, e dunque al di là della sfera politica del convivere, il mistero è per noi il cuore dell’essere: è mistero il cielo che alle nostre indagini diventa sempre più profondo, è mistero il passero che ritrova il suo nido, è mistero l’addolcirsi imprevisto dello sguardo dell’altro, è mistero il dispiegarsi improvviso di gesti di densa umanità che rendono respirabile il tempo. Se ha gradito la lettura di questo libro la preghiamo di venire a trovarci su: marapcana.today clicchi su questo testo e troverà la biblioteca completamente gratuita più fornita ed aggiornata del web! La aspettiamo!

Note 1

Per Zambrano la filosofia di Ortega costituisce “una limpida lezione di vita” (DD: 40). Dal suo pensiero rigoroso, ma non sistematico, più simile a una sorgente, lei assume alcuni concetti che diventeranno fili essenziali dell’ordito del suo pensiero; primo fra tutti l’idea che vivere sia convivere, e poi quella di una ragione vitale, feconda. Ma in particolare ne assorbe la passione, evidente in un pensiero che “arrivava così dritto al cuore di tutti, di tante persone differenti per cultura, classe, ruolo e condizione, un pensiero che poteva a pieno titolo dirsi di tutti” (DD: 90). Ortega è il docente sensibile, che accoglie e rispetta la passione con cui l’allieva vive il lavoro del pensiero, ed è questa sensibilità che fa di lui il maestro: “I veri maestri sono così; considerano uno meglio di quanto egli stesso si consideri, lo ascoltano ritenendolo migliore di quanto sia” (DD: 95). Dal padre María aveva appreso a considerare l’insegnamento non una professione qualunque ma una forma di signoria, perché maestro non può essere colui che conosce solo la materia oggetto del suo insegnamento, ma chi sa trattare adeguatamente l’altro. Ortega può essere ritenuto un maestro perché incarna il principio che María aveva appreso da suo padre: “Trattare tutti, chiunque, meglio di quanto si meriti” (ibidem). Il modo di esserci si esprime anche nei criteri che ispirano gli atti valutativi, e quelli di Zambrano rivelano una profonda etica del rispetto e del riguardo per l’altro. È questo il modo di pensare in cui si esprime l’etica della cura. 2 In questo dialogo con il pensiero magmatico di Zambrano è inevitabile operare delle scelte, perché molti sono i temi da lei sviluppati, e la pretesa di esaminarli tutti in un unico studio imporrebbe, per evitare il rischio della dispersione tematica, di dare forma a un’architettura sistematica che però entra in contrasto con la qualità magmatica del suo filosofare. Ho preferito cercare fili di senso che legassero i temi che più rendono conto della sua visione di un sapere dell’anima. Questa scelta ha implicato lasciare sullo sfondo, ad esempio, le considerazioni storiche sulla vita spagnola, le riflessioni sul sogno, che chiederebbero un testo a sé, i pensieri sulla storia, le acute analisi della letteratura spagnola. 3 Quando Zambrano parla della fonte originaria della vita, del fondo primo e ultimo, del vuoto che si apre quando la mente si cala nel vivente, non si può non pensare alla terza delle Enneadi di Plotino, nella cui lettura si era immersa, probabilmente affascinata da quel ragionare sulle cose prime. Ma se andiamo a leggere Plotino, troviamo che ad accomunare i due filosofi è solo la domanda che dà origine al pensare; poi Plotino ragiona per presupposti metafisici, costruendo ragioni su ragioni dei concetti che va configurando, mentre Zambrano si affida a un pensare che è un sentire. Un sentire originario che evita ogni concettualizzazione stringente per stare in ascolto di quello che l’anima percepisce, mentre la parola si fa visione, immagine, metafora. Non il dare ragione di ragioni, ma ascoltare quello che si sente tenendosi nella posizione passiva del contemplare ciò che già è. Non un pensiero attivo, ma passivo, che si avverte prendere la forma dello stare ricettivamente in ascolto di quello che sente (UD: 93). Sapere tenere l’attenzione su quella “esigenza radicale che precede il pensiero” (UD: 96): è questo il lavoro dell’anima, che diventa la fonte di quel suo “indicibile patire” per non potere conoscere l’essenza delle cose. Il difficile consiste nello stare con attenzione intensa e aperta sulle questioni prime e ultime per trovare la giusta misura tra un pensare che sente il bisogno di dare ragione di quello che sente, evitando il rischio di immiserire il pensiero in razionalizzazioni esasperate, e un pensare che rinuncia quasi a se stesso perché sente la sua debolezza, cadendo nell’inconsistenza di un pensiero che non pensa, perché subisce senza trovare parola alcuna per dire il difficile dell’interrogare le questioni fondamentali. Un pensiero che sente e pensa nella forma del sentire. 4 L’insegnamento di Seneca è considerato da Zambrano un’arte sottile penetrata nelle pieghe più intime della cultura spagnola (PPVS: 70), perché di questa cultura sa incarnare l’essenza (S: 3). La sua filosofia ha dato vita a un sapere vivo, la cui vitalità è attestata dal suo continuo ripresentarsi nel corso della storia. Seneca, e insieme a lui lo stoicismo, è tra le fonti da cui Zambrano ha appreso la passione

per la ragione (S: 44). Ma è una ragione addolcita (ibidem), che non cerca formulazioni che ingabbiano la realtà per essere invece ascolto della misura e dell’armonia che regge il mondo. È così che il pensare filosofico anziché scienza è arte, l’arte del cercare la sintonia con il ritmo che regge il divenire del reale. È un pensare “flessibile, zoppicante” (S: 45). Seguire la ragione è “vivere e morire con misura” (S: 46). 5 Il concetto di tempo svolge un ruolo fondamentale nell’elaborazione del pensiero di Zambrano, che esplicita come suo riferimento fondamentale Seneca, al quale attribuisce “la scoperta del tempo quale essenza della vita” (S: 36). La tesi della filosofa è che questa scoperta si inscriva nella qualità della vita spagnola, così come l’accettazione anticipata del fallimento, la lotta con la certezza della sconfitta, la carità senza fede, che è sinonimo di potere. Implicita in questa tesi è l’idea che sapiente sia colui che sa portare all’evidenza e sa trovare le parole giuste per dire qualcosa che è come la linfa che scorre in una cultura. Ma quando si porta all’evidenza qualcosa di essenziale di una cultura, di fatto si trova qualcosa che va oltre i confini di un preciso ambito culturale, tesi questa che si evince dalla connessione che Zambrano stabilisce fra Seneca ed Eraclito, che nel pensiero greco aveva dato voce alla malinconia che viene dalla coscienza del perenne fluire delle cose. Fu Eraclito, infatti, a mettere la coscienza di fronte allo scorrere incessante delle cose, arrivando a germinare la prima ontologia temporale. 6 A partire dalla considerazione della vita come alternanza di sonno e veglia, di stato desto e di sogno, Zambrano dedica molte delle sue riflessioni al sogno. Oltre a due testi specifici (I sogni e il tempo, Il sogno creatore), molte sono le riflessioni sparse. È un tema importante della sua filosofia, che richiede uno studio dedicato, tale da consentire di comprendere anche la sua posizione critica nei confronti del sapere psicoanalitico del suo tempo (si veda, ad esempio, ST: 18). Importante tuttavia è annotare la sua riflessione: abitiamo nella veglia e viviamo solo a partire da essa; della vita in ombra non ci occupiamo (ST: 17). Forse proprio perché la coscienza non ne tiene memoria. “Dei sogni non si ha memoria, sebbene se ne ricordino alcuni: rimangono allora fissi come isole” (ibidem). La vita onirica cade nell’oblio, così come cade nell’oblio “la fiumana quotidiana della vita” (ibidem); solo qualcosa resta nella coscienza. Del tempo del sonno resta solo qualche sogno, e incompleto; del tempo della veglia vengono trattenuti dalla coscienza solo frammenti. Noi siamo tutto quello che accade, ma ci identifichiamo con quello che resta. Da qui la domanda che preme: che cos’è quello che resta? Resta l’essenziale o resta solo quello che ci appare degno di ricordare? Che cos’è allora la vita se la maggior parte del vissuto scivola nell’oblio? Anche questo oblio segnala la nostra debolezza ontologica: del vissuto teniamo nella mente solo una parte. Non abitiamo la vita per intero, ma solo frammenti. Il tempo, che è la materia della nostra vita, è come un continuum rispetto al quale la coscienza trattiene, e non sempre per un tempo adeguato alla comprensione, solo qualche frammento che tesse insieme per cercare una stabilità dentro quel flusso in cui siamo trascinati. E così la vita intera è come un sogno di cui resta solo qualche immagine (ST: 18). 7 La filosofia stoica svolge un ruolo importante nella costruzione del pensiero di Zambrano e in particolare nell’elaborazione della sua ontologia. Allo stoicismo María dedica molte pagine. Nonostante la sua radicale diffidenza per certa filosofia, a rendere ragione del suo riferimento allo stoicismo, seppure in quel suo per certi aspetti superamento che è il pensiero senechiano, è il fatto che questo non nasce dalla filosofia accademica, quella che ambisce a farsi sistema, ma costituisce una risposta al bisogno della vita di un orizzonte di senso (PPVS: 74). Nasce non dal bisogno di conoscenza scientifica sul mondo o di rigore logico, ma dalla necessità di canoni esistenziali. Per Zambrano lo stoicismo risorge nel corso del tempo più volte perché risponde al bisogno intimo dell’essere umano di andare in cerca di una filosofia per la vita di cui l’anima ha sete per tutto il tempo dell’esserci. I grandi filosofi, come Platone e Aristotele, non rinunciano mai a cercare il sapere dell’anima, che persiste, a volte non immediatamente visibile, anche quando il pensiero si struttura in dialoghi logicamente stringenti o nella costruzione di ragionamenti che rispondono al bisogno di

ordinare il reale (SA: 21). Ma a restare più vicino al bisogno di verità dell’anima, al suo sentire originario, è per Zambrano lo stoicismo, che non a caso ricorre più volte nel tempo per quel suo rispondere a un bisogno irriducibile dell’essere umano. “Lo stoicismo è l’abbigliamento minimo dell’uomo colto in qualsiasi tempo, la tunica essenziale, l’alimento sobrio a cui egli si trova ridotto quando ogni lusso è venuto meno” (PPVS: 75). La filosofia stoica costituirebbe a suo parere il denominatore comune dell’intera filosofia greca, poiché sintetizza di essa tutto quanto serve per affrontare il compito di vivere, e in quanto tale si prefigura come il “pane quotidiano” (PPVS: 65) per ciascuna persona impegnata nell’arte di esistere, poiché mette a disposizione pensieri che rendono sostenibile il lavoro del vivere: aiutano la persona a regolare le sue abitudini e a trovare il suo stile, a capire come interpretare la vita e come prepararsi alla morte. Di un certo interesse è la tesi secondo la quale lo stoicismo sarebbe la cifra del pensiero e del modo di esserci che identifica il popolo spagnolo (PPVS: 60-89), tanto radicato da poter identificare non solo lo stoicismo “dotto” consapevolmente meditato dagli studiosi, ma anche uno stoicismo diffuso quasi irriflessivamente nella gente (PPVS: 61). Lo stoicismo avrebbe offerto un canone etico che si sarebbe radicato nel fondo più intimo della vita spagnola. Insieme al platonismo esso costituirebbe l’alimento filosofico più diffuso nella cultura: ma mentre il platonismo si è intrecciato con la costruzione del pensiero religioso, lo stoicismo avrebbe costituito la fonte privilegiata del pensiero laico (ibidem). Uno stoicismo in certi casi mescolato a un certo cinismo, a un modo distante di guardare alla vita, poiché gli eventi sono considerati non sostanziali, ma un “andirivieni di ombre e inganni” (PPVS: 63) che lascerebbe intatto ciò che ciascuno è. In Spagna la filosofia ha senso se aiuta a rendere tollerabile la vita nella sua problematicità, ed è questo il compito che Zambrano attribuisce al suo filosofare: trovare il modo per camminare nel tempo intessendo gli istanti in fili di senso. Perché l’anima sente il bisogno di un canone di vita. Quando l’essere umano sente profondamente la sua vacuità e quando i sistemi di organizzazione culturale non offrono alcun riparo, la visione della vita offerta dallo stoicismo appare come il solo ancoraggio possibile. Zambrano individua nello stoicismo l’espressione del pensiero maggiormente estraneo alla filosofia sistematica e capace di nutrire la vita in quanto risponde al suo intimo bisogno di senso e di consolazione. 8 È evidente l’influenza che ha avuto sulla visione ontologica di Zambrano il pensiero di Max Scheler dove parla del risentimento come moto affettivo che inquina la morale, una influenza visibile soprattutto negli scritti che vanno dal 1940 al 1946 e in particolare nel testo L’agonia dell’Europa (1945). 9 María Zambrano condusse studi filologicamente raffinati sul pensiero di Dante, che attestano un dialogo continuo con l’opera dantesca; in particolare approfondì la questione dell’influenza del pensiero islamico sul grande poeta. La sua intenzione, dichiarata nelle lettere a Elena Croce, sarebbe stata quella di scrivere un saggio su Dante, progetto che però non fu portato a termine. Dagli appunti ritrovati emerge un Dante differente dalle interpretazioni canoniche: viene ridimensionato il ruolo dell’aristotelismo portando alla luce altri influssi come il pitagorismo, la tradizione ermetica, il neoplatonismo, la metafisica della luce propria del neoplatonismo zoroastriano diffusa nella cultura medioevale dalla filosofia di Avicenna e il pensiero islamico di cui la cultura medioevale era satura (cfr. E. Laurenzi, La sete naturale, in M. Zambrano, Dante specchio umano, Città Aperta Edizioni, Troina 2007: 21). Importante sembra essere stato in Zambrano l’influsso dell’idea che aveva Dante della filosofia come “amoroso uso di Sapienza” (Convivio, 3, XII, 12), che indica nella filosofia un cammino al servizio della ricerca di senso nella vita e dunque qualcosa di radicalmente differente dalle concezioni sistematiche che Zambrano mette in questione. Dall’opera di Dante Zambrano sembra avere mutuato anche una concezione della divinità come “mistero di luce e di amore”, che si costituisce come fonte generativa dell’essere e si propaga in tutta la creazione, manifestandosi nell’essere umano nella forma dell’intelligenza, e di conseguenza una concezione dell’essere umano come “divino animale”, in quanto partecipe dell’intelligenza divina (cfr. E. Laurenzi, La sete naturale, cit.: 22). La metafisica

della luce è presente in tutta la produzione di Zambrano e fa pensare alla “divina luce” che “raggia” nella mente umana rendendola prossima al divino (Convivio, 3, II, 14, 19). 10 Al tema del metodo Zambrano dedica, oltre a molte riflessioni sparse, un testo specifico, Note di un metodo. Quando parla di metodo il suo riferimento è innanzitutto, dopo Cartesio, Husserl, che considera pensatore esemplare e geniale, testimone infaticabile delle due virtù di chi va in cerca di un sapere vero: umiltà e audacia (SA: 185). Virtù che lei incarna, dando forma a una filosofia che ha l’audacia di spingersi oltre le zone confortevoli dei modi di pensare accreditati e di portare all’estremo ciò che già è audace nella fenomenologia, come il principio del conoscere a partire da un’assoluta povertà di conoscenze. Pur ritenendo la fenomenologia espressione di quel positivismo che con il suo pensiero lei supera radicalmente, Zambrano utilizza elementi essenziali del metodo fenomenologico. Che la fenomenologia abbia avuto una parte importante nella forma presa dal pensiero di Zambrano è attestato dai frequenti riferimenti che nei suoi testi si trovano ai tratti costitutivi del metodo fenomenologico. In I sogni e il tempo non solo discute sulla opportunità o meno di applicare l’epoché a quel fenomeno inusuale che sono i sogni, ma dimostra una competenza raffinata nel metodo fenomenologico. Parla, infatti, del cercare una via di accesso al fenomeno che sia “il meno imperativa possibile, [che] deve lasciar vedere, lasciar apparire”, principio metodico questo in cui echeggia il primo Heidegger. Inoltre precisa che la natura del metodo fenomenologico non consiste nello spiegare, ma nel decifrare (ST: 10), e proprio il descrivere è tratto identificativo della fenomenologia. In un altro testo parla anche di “fenomenologia del sogno” (SC: 9), e anche se precisa che parlare di fenomenologia non obbliga all’uso del metodo fenomenologico, tuttavia la lezione della fenomenologia di attenersi al fenomeno così come appare costituisce parte essenziale del metodo di indagine di Zambrano. Ciò risulta evidente quando critica la ragione sistematica, che si costruisce formulando ragioni di ragioni che finiscono per allontanare il pensiero dalle cose e chiuderlo dentro architetture claustrofobiche. Zambrano mostra tratti essenziali del metodo fenomenologico, ad esempio, nel suo evitare spiegazioni e preferire l’intuizione. Si può dire che l’audacia di Zambrano consiste nell’innervare il positivismo che lei attribuisce alla fenomenologia di forme del pensare che escono dalla logica canonica e risuonano di ascetismo quasi religioso. L’intuizione evoca un pensare passivo, che riceve la cosa, emergenza di una mente che anziché formulare e agire sulle cose si fa trasparente per lasciare che la cosa si mostri per quello che è. L’intuizione è l’espressione di quel pensare passivo che solo consente di essere fedeli alle cose, perché la mente che si fa passiva e si affida alla visione, alla intuizione, interpreta il conoscere come un ricevere quello che le cose mostrano di sé e il parlare come un trovare quel linguaggio cui le cose nominate danno il loro consenso (B: 82). 11 Zambrano si nutre di pensiero mistico e specificatamente di quello di san Giovanni della Croce e di Miguel De Molinos, il cui linguaggio è alleggerito dal gergo della teologia per essere contrassegnato invece da un uso abbondante di immagini della vita, e di queste immagini è pregna la filosofa spagnola. Anche per la risonanza con il pensiero mistico la filosofia di Zambrano chiede di essere maneggiata con cautela. Di mistica si nutre il pensiero di Zambrano per la rilevanza che assegna alla contemplazione, alla postura ricettiva dell’anima, alla pratica spirituale del fare vuoto; ma la sua è una spiritualità materialistica, in cui si incarna il sentire proprio della cultura spagnola. San Giovanni auspica un’anima che sappia prendere distanza dalle cose del mondo, un’anima che agisca dopo avere eliminato ogni attività dei sensi e con essa ogni conoscenza intellettiva naturale, mentre l’anima di Zambrano resta nella realtà, innamorata delle cose. L’anima mistica deve imparare a vedere e a sentire come se non vedesse e non sentisse, mentre per Zambrano l’anima che si muove mossa dalla tensione alla trascendenza deve continuare a nutrirsi dei sensi, poiché è anima non divina ma della creatura. La mistica è un attraversamento della notte oscura per arrivare al divino; per Zambrano l’anima deve saper arrivare e stare in presenza dell’oscuro, quella matrice originaria della vita che è il sacro.

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È vero che in certi passaggi, quando parla del movimento della ragione verso la verità, Zambrano utilizza un linguaggio bellico, che evoca quello del suo maestro Ortega; María parla di una ragione che sorprende la preda e coltiva la verità. Ma in lei questo linguaggio, del resto usato raramente, non fa pensare a una gestualità violenta del pensiero, ma alla forza di cui necessita il pensiero per accedere alla verità. Perché nel suo realismo la verità è qualcosa di oggettivo, qualcosa che c’è già prima dell’altro conosciuto, una meta da raggiungere piuttosto che il frutto di un’azione, il frutto di un impasto che richiede tempo, dove il pensiero lavora con passione la realtà vissuta per dare a essa la forma giusta, quella che illumina il tempo. Cita infatti: “Il tempo passa e la parola del Signore resta” (SA: 12), perché per Zambrano la verità non è quella umana, ma la verità divina, qualcosa che c’è già indipendentemente dal tempo che noi siamo. “Una verità che ci si rivela” (CB: 13); quella “impossibile da tradurre in idee” (ibidem) perché sta stretta dentro la parola umana. 13 Interessanti sono le riflessioni che Zambrano sviluppa sulla tradizione filosofica spagnola, che definisce estranea alla logica sistematica. Molte sono le cattedrali che sono state costruite sul territorio spagnolo, ma non ci sono cattedrali di concetti. Lo spirito spagnolo non ha sentito il bisogno di esercitarsi a progettare costruzioni architettoniche in cui sistemare il sapere della vita. Ha preferito la scrittura di guide spirituali, di commenti, e poi soprattutto di opere letterarie e poetiche, espressioni di un pensiero “sciolto, disperso, dilatato” (PPVS: 34). Zambrano considera positivo questo fenomeno, poiché ritiene che la filosofia intesa in senso sistematico esprima una forma di violenza sulla realtà. Se la filosofia scaturisse solo dallo stupore, come sosteneva Platone, non si chiuderebbe nei sistemi, ma quando si fa sistema il filosofare esercita violenza sulle cose (PPVS: 31) attraverso quella che viene definita “tirannia del concetto”. Lo stile spagnolo è quello di tenersi sciolto, slegato, ametodico (PPVS: 38). 14 Quello di Zambrano sul concetto del vero appare un giudizio negativo, ma che allo stesso tempo va accolto con cautela. Come anche Lévinas annota, il concetto può esercitare violenza sulle cose perché chiude il fluire della vita dentro i confini di un’idea, ma il bisogno di ordine cui risponde il pensare architettonico non sempre diventa violento; può accadere che più semplicemente risulti povero, perché capace di accogliere solo un certo tipo di datità, per l’incapacità di tenere insieme i fili incompossibili che intrecciano le esperienze umane. Da evitare sono gli eccessi e le visioni unilaterali: gli eccessi che si manifestano in forme di bulimia concettuale della ragione logicizzante per difendersi dalla visione della complessità incomprimibile del reale e l’unilateralità di ritenere che possa esserci un unico metodo del conoscere, quando invece la complessità del reale si presta a sentieri epistemici multipli. La ricerca del sapere non può affidarsi a un solo canone epistemico, che impoverisce la vita della mente. Ci sono qualità e ritmi del mondo che solo una mente capace di stare in una presenza libera con la realtà può cogliere. 15 È importante precisare che quando parla della “ragione poetica” Zambrano non sta disegnando un ideale, ma mette in parola lo spirito culturale spagnolo. Definisce il pensiero spagnolo non sistematico, ametodico, intimamente poetico, estraneo all’astrazione e alla ragione pura, un pensiero che si nutre di realismo e materialismo, quello che è proprio del pensare poetico (PPVS: 53). 16 Della difficoltà a liberarsi della ragione architettonica al momento della scrittura di un libro parla Zambrano nell’introduzione a Dell’aurora. Scrivere un libro necessita di ordine, l’ordine implica delle conclusioni, e una conclusione tende a inanellarsi in altre conclusioni “in una continuità senza cedimenti” (A: 11). Quando si sta nella ragione architettonica si cerca di dare forma a un pensare chiaro e uniforme. Ma l’uniformità rigorosa non si addice a una parola che cerca di enunciare i frammenti di quella sapienza della vita che si va cercando. La scrittura di Zambrano nasce con l’intenzione di evitare la prigione di questo tipo di scrittura cercando una parola non affermativa ma evocativa, capace di liberarsi dall’ansia di aggrapparsi a un’architettura (A: 13). È così che nessuna delle impostazioni che la ragione ha ricevuto nel tempo è considerata un riferimento completo per la sua scrittura (A: 17). 17 L’idea di una ragione “generativa” fa pensare alle “ragioni seminali” di cui avevano già parlato

gli stoici, espressione questa che chiede di essere meditata per fare venire alla luce il senso dimenticato sotto le coltri della nostra ragione razionalista. L’espressione “ragioni seminali” traduce il greco logoi spermatikoi, espressione coniata da Cleante di Asso per indicare i principi vitali delle cose, poiché ogni essere è pensato provenire nella sua individualità da una precisa ragione seminale. Filone di Alessandria definì poi il logos la sostanza spermatica degli esseri. Nel neoplatonismo le ragioni seminali diventano il principio di individuazione dell’essere. Il concetto di “ragioni seminali” (rationes seminales in latino) viene poi sviluppato da Agostino per spiegare come si possa conciliare il prendere forma dei singoli esseri con la creazione in principio di tutti gli esseri; egli concepisce la creazione non come un atto definitivo accaduto in un preciso momento, ma come un accadere continuo reso possibile dal fatto che Dio avrebbe immesso nella realtà i semi di tutte le cose possibili che prenderanno poi forma nel tempo. 18 Quando Zambrano scrive queste riflessioni sta commentando la filosofia di Seneca, che considera una filosofia medicinale, come è ogni espressione della filosofia stoica. Una filosofia che aiuta la ricerca della propria forma di vita proprio perché rifiuta di chiudersi in un sistema e si fa colloquiale, dialogica. Seneca non persegue l’obiettivo di scrivere trattati che sistematizzino il sapere, ma, trovato il luogo di un pensare che ha la forma del meditare le questioni che la vita pone ogni giorno, ci offre una filosofia che si fa mediatrice tra la vita e il pensiero (S: 8). Zambrano nutre diffidenza per quella che definisce una filosofia “pura”, poiché il concetto di purezza dice la tensione a un pensare depurato dalla vita, dalla pesantezza dell’esperienza in tutta la sua durezza e opacità. La filosofia di cui la vita ha necessità è una filosofia medicinale, quella impegnata a enunciare pensieri che aiutino il lavoro quotidiano del vivere. Seneca è definito “un guaritore”, un “guaritore di anime” (PPVS: 71), perché con le sue riflessioni guida l’essere umano a trovare un cammino pacificante con la vita attraverso l’apprendimento della rassegnazione, che consente di sopportare la vita e di prepararsi all’inevitabilità della morte. È la filosofia di chi si fa mediatore. E medicinale è quel pensiero che assume come principio la pietà (S: 11), cioè il saper trattare ogni cosa con cura, nel modo che le è dovuto. 19 Il termine “viscere” occupa un ruolo essenziale nel linguaggio di Zambrano e sta a indicare “l’originario, il sentire irriducibile, primario dell’uomo nella sua vita, la sua condizione di vivente” (UD: 159). Tale termine è considerato capace di cogliere “con più fedeltà e ampiezza” la sfera dell’esserci indicata dal moderno termine psicologico “subcoscienza” (ibidem). 20 Poco dopo avere definito discendente il movimento della ragione, cioè una ragione che va nella direzione opposta a quella ascendente platonica, Zambrano fa riferimento al logos cristiano che discende e si fa carne (PPVS: 78). È evidente anche da questo riferimento il rilievo che il pensiero cristiano, di cui è profondamente intessuta la cultura spagnola, ha nella sua filosofia. Il logos che si incarna fa pensare alla ragione materna, perché la madre che ha cura della vita è quella capace di un pensare spiritualmente materialistico, che si immerge nelle fatiche di ogni giorno senza perdere il respiro della tensione all’ulteriore. 21 A ragione si può parlare oggi di metafisica della materia, poiché la fisica delle particelle, specificatamente l’elettromeccanica quantistica, dichiara che è possibile creare la materia da un fascio di luce. Questo risultato è stato ottenuto da un processo di laboratorio chiamato “photon-photon collider” (collisione di fotoni) e lo studio è stato pubblicato su “Nature Photonics”. Certe direzioni della fisica teorica dimostrano come la metafisica, che è ricerca curiosity driven, precede, anche se poi i tempi sono lunghi, applicazioni sperimentali. Le forme più audaci e più libere del pensare si incontrano in un orizzonte che è al di là del prevedibile della logica. 22 Anche la filosofia dovrebbe cercare una parola adeguata, e le qualità della parola filosofica Zambrano le trova già evidenti nella scrittura di Ortega y Gasset; commentando la sua opera giovanile Meditazioni del Chisciotte María dice che qui si trova una parola scorrevole, trasparente, agile, fragrante e caritatevole (PPVS: 44).