Manuale di ortopedia e traumatologia [2 ed.] 9788821432521

A distanza di cinque anni dalla prima pubblicazione, il Manuale di ortopedia e traumatologia si propone con una seconda

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Manuale di ortopedia e traumatologia [2 ed.]
 9788821432521

Table of contents :
Cover
Manuale di ortopedia e traumatologia
copyright
Autori
Collaboratori
Presentazione
Prefazione alla prima edizione
Prefazione
alla seconda edizione
Indice
Dedica
Capitolo 1 - Cenni di isto-fisiologia dell’osso
Capitolo 2 - Morfologia e sviluppo del sistema scheletrico
Sviluppo delle ossa del cranio
Sviluppo delle ossa lunghe
Capitolo 3 - Esame clinico e diagnostica per immagini
Introduzione
Esame clinico
Anamnesi
Esame fisico
Ispezione
Palpazione
Mobilizzazione
Valutazione neuro-muscolare
Valutazione dei polsi periferici
Manovre semeiologiche specifiche
Diagnostica per immagini
Radiologia convenzionale
Tomografia Computerizzata (TC)
Risonanza Magnetica (RM)
Ecografia
Scintigrafia OSSEA
Capitolo 4 - Malformazionie malattie congenite
Malformazioni congenite
Displasia e lussazione congenita dell’anca
Epidemiologia
Eziopatogenesi
Anatomia patologica
Quadro Clinico
Diagnostica per immagini
Terapia
Piede torto congenito
Eziopatogenesi
Anatomia patologica
Diagnosi
Classificazione
Terapia
Paralisi ostetriche dell’arto superiore
Quadri anatomo-clinici
Terapia
Torcicollo congenito
Eziopatogenesi e anatomia patologica
Quadro clinico e diagnosi differenziale
Terapia
Osteocondrodisplasie genotipiche
Capitolo 5 - Malattie dell’età evolutiva
Osteocondrosi
Eziopatogenesi
Anatomia patologica
Quadro clinico-radiografico
MALATTIA di perthes
Altre osteocondrosi
Malattia di Osgood-Schlatter
Malattia di Haglund o Sever-Blenke
Malattia di Köhler I
Malattia di Köhler II
Malattia di Scheuermann
Osteocondrosi dissecante
Epidemiologia
Eziopatogenesi
Anatomia patologica
Clinica
Diagnostica per immagini
Terapia
Scoliosi
Classificazione
Screening
Anatomia patologica
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Terapia
Cifosi
Classificazione
Generalità
Cifosi posturale
Malattia di Scheuermann
Eziopatogenesi
Quadro clinico
Diagnosi strumentale
Terapia
Altre forme di cifosi
Spondilolisi e spondilolistesi
Classificazione
Epidemiologia e patogenesi
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Terapia
Epifisiolisi dell’anca
Epidemiologia ed eziopatogenesi
Classificazione
Anatomia patologica
Aspetti clinici
Diagnostica per immagini
Terapia
Piede piatto e piede cavo
Piede piatto
Piede piatto valgo idiopatico (PPVI)
Classificazione
Fisiopatologia
Quadro clinico
Prima infanzia (entro i 3 anni di vita)
Seconda infanzia (tra 3 e 6 anni)
Dai 6 anni fino alla pubertà
Dall’adolescenza fino alla maturità scheletrica
Diagnostica per immagini
Terapia
Trattamento conservativo
Trattamento chirurgico
Piede cavo
Capitolo 6 - Patologia infettiva dell’osso e delle articolazioni
Osteomieliti
Classificazione
Quadri Anatomo-ClinicI
Osteomielite acuta
Epidemiologia
Patogenesi
Eziologia
Anatomia patologica
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Terapia
Osteomielite cronica
Tubercolosi osteo-articolare
Spondilite tubercolare (morbo di Pott)
Coxite tubercolare
Gonilite tubercolare
Spondilodisciti non specifiche
Artrite settica
Capitolo 7 - Tumori dello scheletro
Introduzione
Tumori primitivi e lesioni pseudotumorali dell’osso
Classificazione
Esostosi Osteo-Cartilaginea
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Anatomia patologica
Terapia
Condroma
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Anatomia patologica
Terapia
Condroblastoma
Condrosarcoma
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Anatomia patologica
Terapia
Osteoma Osteoide
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Anatomia patologica
Terapia
Osteosarcoma
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Anatomia patologica
Osteosarcomi meno frequenti
Terapia
Tumore Gigantocellulare
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Anatomia patologica
Terapia
Sarcoma Di Ewing
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Anatomia patologica
Terapia
Istiocitoma Fibroso Maligno
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Anatomia patologica
Terapia
Fibroma Istiocitico
Cisti Ossea
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Anatomia patologica
Terapia
Cisti Aneurismatica
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Anatomia patologica
Terapia
Tumori secondari dell’osso
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Anatomia patologica
Principi di terapia
Capitolo 8 - Osteopatie
Osteoporosi
Osteoporosi postmenopausale
Eziopatogenesi
Quadro clinico
Diagnostica strumentale
Terapia
Osteomalacia e rachitismo
Quadro anatomo-clinico e istologico
Diagnostica strumentale
Terapia
Osteopatie endocrine
Iperparatiroidismo primitivo
Quadro clinico
Istologia
Diagnostica strumentale
Terapia
Osteodistrofia renale
Eziopatogenesi
Quadro clinico
Diagnostica strumentale
Terapia
Malattia di Paget
Epidemiologia
Eziopatogenesi
Istologia
Quadro clinico
Diagnostica strumentale
Complicanze
Terapia
Altre osteopatie
Osteopetrosi
Quadro clinico
Diagnostica strumentale
Terapia
Osteogenesi imperfetta
Classificazione
Quadro clinico
Terapia
Osteopatia striata
Diagnostica strumentale
Terapia
Meloreostosi
Terapia
Capitolo 9 - Artropatie
Artrosi
Introduzione
Epidemiologia
Fattori Di Rischio
Età
Sovraccarico Funzionale
Altri Fattori
Classificazione
Eziopatogenesi
Istologia E Istopatologia
Cartilagine Ialina
Quadro Clinico
Coxartrosi
Gonartrosi
Osteoartrosi Delle Mani
Spondilosi
Artrosi Secondaria
Diagnostica Per Immagini
Radiografia Tradizionale
RM
TC
Scintigrafia Ossea
Esami Di Laboratorio
Terapia
Artrite reumatoide
Introduzione
Epidemiologia
Eziopatogenesi
Istopatologia
Quadro Clinico
Diagnosi
Esame Obiettivo
Esami Di Laboratorio
Diagnostica Per Immagini
Prognosi
Terapia
Prevenzione E Terapia Non Farmacologica
Terapia Farmacologica
Trattamento Chirurgico
Altre artropatie
Artropatie Emorragiche
Artropatie Infiammatorie
Artrite Psoriasica
Spondilite Anchilosante
Sindrome Di Reiter
Artrite Gottosa
Artrite Da Deposito Di Pirofosfato Di Calcio (Pseudogotta)
Condropatie
Condropatia Femoro-Rotulea
Epidemiologia
Eziopatogenesi
Anatomia patologica
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Terapia
Deformità acquisite delle articolazioni
Alluce Valgo
Eziologia
Patogenesi
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Terapia
Ginocchio Varo E Valgo
Deviazione assiale del ginocchio e progressione dell’artrosi
Valutazione clinica
Diagnostica strumentale
Terapia
Capitolo 10 - Ernia del discocervicale e lombare
Ernia del disco cervicale
Anatomia patologica e biomeccanica
Quadri clinici
Cervicalgia
Cervicobrachialgia
Mielopatia spondilosica
Sindromi miste neuro-vascolari
Diagnostica strumentale
Terapia
Ernia del disco lombare
Epidemiologia
Anatomia patologica e biomeccanica
Quadri clinici
Diagnostica per immagini
Diagnosi differenziale
Terapia
Capitolo 11 - Patologia miotendinea
Spalla
Sindrome da conflitto subacromiale
Eziopatogenesi
Anatomia patologica
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Terapia
Rotture della cuffia dei rotatori
Eziopatogenesi
Classificazione
Anatomia patologica
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Terapia
Tendinopatie del capo lungo del bicipite
Tendinopatia calcifica della spalla
Quadro anatomo-clinico
Diagnostica per immagini
Terapia
Gomito
Epicondilite
Anatomia patologica
Quadro clinico
Terapia
Epitrocleite
Terapia
Bacino e anca
Pubalgia (Sindrome retto-adduttoria)
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Terapia
Tendinopatia del medio gluteo
Arto inferiore
Tendinopatia rotulea
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Terapia
Tendinopatia quadricipitale
Tendinopatia achillea
Quadri anatomo-clinici
Terapia
Rotture tendinee sottocutanee
Tendine distale del bicipite brachiale
Tendine quadricipitale
Tendine rotuleo
Tendine d’Achille
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Terapia
Lesioni muscolari
Classificazione e aspetti clinici
Capitolo 12 - Argomenti di chirurgia della mano
Malformazioni congenite della mano
Generalità
Classificazione
Difetto di formazione di parti o arresto dello sviluppo
Difetto di differenziazione o separazione di parti
Duplicazione
Ipertrofia
Ipotrofia
Sindrome delle briglie amniotiche
Anomalie ossee generalizzate
Sindromi canalicolari dell’arto superiore
Sindrome del tunnel carpale
Eziologia
Quadro clinico
Diagnostica strumentale
Terapia
Compressione del nervo ulnare al gomito
Eziologia
Quadro clinico
Diagnostica strumentale
Terapia
Compressione del nervo ulnare al canale di guyon
Eziologia
Quadro clinico
Diagnostica strumentale
Terapia
Sindrome del nervo interosseo posteriore
Eziologia
Quadro clinico
Diagnostica strumentale
Terapia
Rizoartrosi del pollice e artrosi deformante delle dita
Rizoartrosi del pollice
Eziopatogenesi e anatomia patologica
Quadro clinico
Diagnostica per Immagini
Terapia
Artrosi deformante delle dita
Interfalangee distali
Interfalangee prossimali
Metacarpo-falangee
Tenosinoviti della mano
Tenosinoviti proliferative
Tenosinoviti stenosanti
Dito a scatto
Malattia di De Quervain
Malattia di Dupuytren
Epidemiologia
Eziopatogenesi
Anatomia patologica
Quadro clinico
Classificazione
Prognosi
Terapia
Patologia infettiva della mano
Eziopatogenesi
Quadro clinico
Terapia
Sindrome dolorosa regionale complessa
Epidemiologia
Quadro clinico
Diagnostica strumentale
Terapia
Sindrome di Volkmann
Eziopatogenesi
Quadro clinico
Terapia
Lesioni traumatiche dei tendini della mano
Lesioni dei tendini flessori
Eziologia e classificazione
Quadro clinico
Diagnostica strumentale
Terapia
Lesioni dei tendini estensori
Eziologia
Classificazione
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Terapia
Complicanze
Capitolo 13 - Principi generali di traumatologia scheletrica
Generalità sulle fratture
Classificazione
Patogenesi
Localizzazione
Anatomia patologica
Processi Riparativi Dell’osso
Guarigione biologica delle fratture
Effetti immediati del trauma
Attivazione del periostio e dell’endostio
Organizzazione dell’ematoma
Metaplasia cartilaginea
Consolidazione meccanica della frattura
Rimodellamento osseo
Guarigione delle fratture dopo osteosintesi
Guarigione primaria della frattura con fissazione rigida e compressione interframmentaria
Guarigione della frattura diafisaria ­con inchiodamento endomidollare
Principi Di Terapia
Terapia non chirurgica
Riduzione
Contenzione
Rieducazione
Terapia chirurgica
Fissazione interna
Fissazione esterna
Complicanze
Disturbi della consolidazione
Ritardo di consolidazione e pseudoartrosi
Viziosa consolidazione
Complicanze associate
Complicanze precoci
Complicanze acute locali
Sindromi compartimentali
Malattia tromboembolica
Embolia grassosa
Complicanze tardive
Artrosi post-traumatica
Necrosi avascolare post-traumatica
Ossificazioni eterotopiche
Algodistrofia
Osteomielite
Distacchi epifisari
Classificazione
Complicanze
Terapia
Il paziente politraumatizzato
Primo soccorso
Ospedalizzazione
Algoritmo terapeutico per le lesioni scheletriche
Capitolo 14 - Fratture dell’arto superiore
Clavicola
Classificazione
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Complicanze
Terapia
Scapola
Classificazione
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Terapia
Omero prossimale
Classificazione
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Complicanze
Terapia
Diafisi omerale
Classificazione
Quadro clinico e radiografico
Complicanze
Terapia
Gomito
Omero distale
Fratture sovracondiloidee
Fratture transcondiloidee e intercondiloidee
Fratture dei condili
Fratture delle superfici articolari
Fratture degli epicondili
Ulna prossimale
Fratture dell’olecrano
Fratture della coronoide
Radio prossimale (Capitello radiale)
Avambraccio
Anatomia dell’avambraccio
Meccanismo di lesione e fisiopatologia
Classificazione
Quadro clinico e radiografico
Complicanze
Terapia
Polso
Classificazione
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Terapia
Ossa del carpo
Generalità
Scafoide
Classificazione
Quadro clinico e radiografico
Terapia
Complicanze
Mano (ossa metacarpali e falangi)
Classificazione e fisiopatologia
Quadro clinico e radiografico
Terapia
Capitolo 15 - Fratture vertebrali
Generalità
Epidemiologia
Approccio al paziente con fratture vertebrali
Fratture del rachide cervicale
Rachide cervicale alto
Rachide cervicale basso
Fratture del rachide toraco-lombare
Fratture vertebrali da osteoporosi
Fratture del rachide pediatrico
Capitolo 16 - Fratture del bacino e dell’acetabolo
Fratture del bacino
Fratture con interruzione del cingolo pelvico
Quadro clinico
Complicanze
Diagnostica per immagini
Terapia
Fratture senza interruzione del cingolo pelvico
Fratture dell’acetabolo
Classificazione
Quadro clinico
Complicanze
Diagnostica per immagini
Terapia
Capitolo 17 - Fratture dell’arto inferiore
Fratture del femore prossimale
Classificazione e fisiopatologia
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Complicanze
Terapia
Fratture parcellari della testa del femore
Terapia
Fratture dei trocanteri
Fratture della diafisi femorale
Classificazione
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Complicanze
Terapia
Fratture del ginocchio
Fratture Del Femore Distale
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Complicanze
Terapia
Fratture Della Rotula
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Complicanze
Terapia
Fratture Del Piatto Tibiale
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Terapia
Fratture della gamba
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Complicanze
Terapia
Fratture della regione tibio-tarsica
Fratture Del Pilone Tibiale
Classificazione
Quadro Clinico
Diagnostica Per Immagini
Complicanze
Terapia
Fratture Dei Malleoli
Classificazioni
Diagnosi
Complicanze
Terapia
Fratture Dell’astragalo
Diagnosi
Complicanze
Trattamento
Fratture del calcagno
Classificazione
Quadro Clinico
Diagnostica Per Immagini
Complicanze
Terapia
Fratture da stress
Localizzazione
Eziopatogenesi
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Terapia
Capitolo 18 - Lesioni traumatiche delle articolazioni
Generalità
Distorsioni
Lussazioni
Caratteristiche cliniche
Principi di terapia
Complicanze
Lussazioni e instabilità della spalla
Lussazioni
Classificazione e quadri anatomo-clinici
Lussazione anteriore
Lussazione inferiore (sottoglenoidea)
Lussazione posteriore
Complicanze
Lesioni neuro-vascolari
Rottura della cuffia dei rotatori
Terapia
Instabilità
Classificazione e quadri anatomo-clinici
Instabilità tubs
Instabilità ambri
Esame clinico
Diagnostica per immagini
Terapia
Lussazioni acromio-claveari
Classificazione
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Terapia
Lussazioni del gomito
Lussazioni posteriori
Lussazioni anteriori
Sublussazione anteriore del capitello radiale
Altre lussazioni del gomito
Lussazioni mediali e laterali
Lussazione divergente
Lussazione del capitello radiale
Lussazioni del polso
Fisiopatologia
Classificazione
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Lesioni associate
Terapia
Lussazioni perilunari dorsali
Lussazioni trans-scafo-perilunari dorsali
Lussazioni inveterate misconosciute
Lussazioni dell’anca
Classificazione
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Complicanze
Terapia
Lussazione della rotula
Eziopatogenesi
Anatomia patologica
QUADRO CLINICO
Diagnostica per immagini
Terapia
Distorsioni e lesioni legamentose del ginocchio. Lesioni meniscali
Epidemiologia
Eziopatogenesi
Anatomia patologica
Quadro clinico
Diagnostica per immagini
Terapia
Distorsioni della tibio-tarsica
Quadri anatomo-clinici
Diagnostica per immagini
Terapia
Capitolo 19 - Principi di riabilitazione e medicina fisica
Introduzione
Kinesiterapia
Allineamento posturale
Mobilizzazione passiva
Esercizi muscolari attivi
Rieducazione funzionale
Terapia fisica
Termoterapia esogena
Termoterapia endogena (marconiterapia)
Crioterapia
Radarterapia
Ultrasuoni
Laserterapia
Ipertermia
Capitolo 20 - Biomateriali e dispositivi biomedici in ortopedia e traumatologia
Biomateriali
Classificazione
Metalli
Leghe di acciaio
Le leghe di cromo cobalto
Le leghe di titanio
Ceramiche
Polimeri
Polimeri non degradabili
Polimetilmetacrilato (PMMA)
Polietilene
Polimeri degradabili
Compositi
Dispositivi biomedici
Indice analitico

Citation preview

Grassi_iniziali::

3-05-2012

13:42

Pagina 1

Manuale di ortopedia e traumatologia

Questa pagina è stata lasciata bianca intenzionalmente.

Grassi_iniziali::

3-05-2012

13:42

Pagina 3

Federico A. Grassi Ugo E. Pazzaglia Giorgio Pilato Giovanni Zatti

Manuale di ortopedia e traumatologia SECONDA EDIZIONE

Grassi_iniziali::

3-05-2012

13:42

Pagina 4

Tutte le copie devono portare il contrassegno della SIAE

Publishing Director: Valeria Brancolini Books & Bespoke Publishing Manager: Tiziano Strambini Acquisition Editor: Costanza Smeraldi Development Editor: Paola Leschiera Operations Director: Antonio Boezio Books Team Manager: Paola Sammaritano Books Project Manager: Chiara Cucinella Creative Director: Giorgio Gandolfo Cover Design: Ergonarte - Milano Redazione: SEP BaMa Srl, Vaprio d’Adda (Mi) © Elsevier Srl Tutti i diritti riservati 2007 – Prima edizione – Elsevier Masson Srl 2009 – Ristampa – Elsevier Masson Srl 2012 – Seconda edizione ISBN 978-88-214-3252-1 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati per tutti i Paesi. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org. L’Editore ha compiuto ogni sforzo per ottenere e citare le fonti esatte delle illustrazioni. Qualora in qualche caso non fosse riuscito a reperire gli aventi diritto è a disposizione per rimediare a eventuali involontarie omissioni o errori nei riferimenti citati. La medicina è una scienza in continua evoluzione. La ricerca e l’esperienza clinica ampliano costantemente le nostre conoscenze, soprattutto in relazione alle modalità terapeutiche e alla farmacologia. Qualora il testo faccia riferimento al dosaggio o alla posologia di farmaci, il lettore può essere certo che autori, curatori ed editore hanno fatto il possibile per garantire che tali riferimenti siano conformi allo stato delle conoscenze al momento della pubblicazione del libro. Tuttavia, si consiglia il lettore di leggere attentamente i foglietti illustrativi dei farmaci per verificare personalmente se i dosaggi raccomandati o le controindicazioni specificate differiscano da quanto indicato nel testo. Ciò è particolarmente importante nel caso di farmaci usati raramente o immessi di recente sul mercato.

Elsevier Srl Via Paleocapa 7, 20121 Milano Tel. 02.88.184.1 www.elsevier.it

Printed in Italy Finito di stampare nel mese di maggio 2012 presso “Printer Trento” Srl, Trento.

Autori Federico A. Grassi Professore Ordinario di Malattie dell’Apparato Locomotore Università degli Studi del Piemonte Orientale “A. Avogadro” Direttore S.C. di Ortopedia e Traumatologia A.O.U. “Maggiore della Carità”, Novara

Giorgio Pilato Professore Ordinario di Malattie dell’Apparato Locomotore Università degli Studi dell’Insubria U.O. di Ortopedia e Traumatologia Ospedale di Circolo e Fondazione Macchi, Varese

Ugo E. Pazzaglia Professore Ordinario di Malattie dell’Apparato Locomotore Università degli Studi di Brescia Direttore U.O. di Ortopedia e Traumatologia II A.O. Spedali Civili, Brescia

Giovanni Zatti Professore Ordinario di Malattie dell’Apparato Locomotore Università degli Studi di Milano-Bicocca Direttore U.O. di Ortopedia e Traumatologia A.O. San Gerardo, Monza

Araldo Causero Professore Ordinario di Malattie dell’Apparato Locomotore Università degli Studi di Udine Direttore Clinica Ortopedica A.O.U. “Santa Maria della Misericordia”, Udine

Francesco Greco Professore Ordinario di Malattie dell’Apparato Locomotore Università Politecnica delle Marche Direttore U.O. Clinica di Ortopedia A.O.U. Ospedali Riuniti, Ancona

Vincenzo Denaro Professore Ordinario di Malattie dell’Apparato Locomotore Università Campus Bio-Medico di Roma Direttore U.O.C. di Ortopedia e Traumatologia Policlinico Universitario Campus Bio-Medico, Roma

Leo Massari Professore Ordinario di Malattie dell’Apparato Locomotore Università degli Studi di Ferrara Direttore U.O. di Ortopedia e Traumatologia A.O.U. “Arcispedale Sant’Anna”, Ferrara

Giovanni Fancellu Professore Associato di Malattie dell’Apparato Locomotore Università degli Studi di Trieste Direttore Clinica Ortopedica e Traumatologica A.O.U. “Ospedali Riuniti”, Trieste

Francesco Sadile Professore Associato di Malattie dell’Apparato Locomotore Università degli Studi “Federico II” Direttore U.O. di Ortopedia II – Ortopedia infantile A.O.U. “Federico II”, Napoli

Giorgio Gasparini Professore Straordinario di Malattie dell’Apparato Locomotore Università degli Studi “Magna Graecia” di Catanzaro Direttore U.O. di Ortopedia e Traumatologia A.O.U. “Mater Domini”, Catanzaro

Paolo Tranquilli Leali Professore Ordinario di Malattie dell’Apparato Locomotore Università degli Studi di Sassari Direttore Clinica Ortopedica A.O.U. di Sassari

Collaboratori Amedeo BINI (Capp. 12, 14, 18) Dirigente medico di I livello U.O. di Ortopedia e Traumatologia Ospedale di Circolo e Fondazione Macchi, Varese

Luca DONNINI (Capp. 12, 14, 18) Dirigente medico di I livello U.O. di Ortopedia e Traumatologia Ospedale di Circolo e Fondazione Macchi, Varese

Gaetano CARUSO (Cap. 9) Dirigente medico di I livello U.O. di Ortopedia e Traumatologia A.O.U. “Arcispedale Sant’Anna”, Ferrara

Olimpio GALASSO (Capp. 5, 9, 18) Ricercatore di Malattie dell’Apparato Locomotore Università degli Studi “Magna Graecia” di Catanzaro

Francesca DE CLEVA (Capp. 4, 5) Specializzanda in Ortopedia e Traumatologia Università degli Studi di Trieste Daniela DIBELLO (Capp. 4, 5) Dirigente medico di I livello S.C. di Ortopedia e Traumatologia Pediatrica I.R.C.C.S. Burlo Garofolo, Trieste Paolo DI BENEDETTO (Cap. 9) Dirigente medico di I livello Clinica Ortopedica A.O.U. “Santa Maria della Misericordia”, Udine Alberto C. DI MARTINO (Cap. 15) Dirigente medico di I livello U.O.C. di Ortopedia e Traumatologia Policlinico Universitario Campus Bio-Medico, Roma

Ambra GALLA (Cap. 4) Dirigente medico di I livello U.O. di Ortopedia e Traumatologia A.O.U. “Arcispedale Sant’Anna”, Ferrara Umile G. LONGO (Cap. 15) Dirigente medico di I livello U.O.C. di Ortopedia e Traumatologia Policlinico Universitario Campus Bio-Medico, Roma Marcellino MARTINO (Cap. 4) Specializzando in Ortopedia e Traumatologia Università degli Studi di Trieste Alessandro STASI (Cap. 4) Specializzando in Ortopedia e Traumatologia Università degli Studi di Trieste Guido ZARATTINI (Capp. 1, 8) Ricercatore di Malattie dell’Apparato Locomotore Università degli Studi di Brescia

Presentazione La progressiva affermazione della Medicina specialistica, conseguenza inevitabile di un sapere sempre più ampio, ha apportato indubbi progressi in campo clinico-terapeutico attraverso la suddivisione della nostra scienza in discipline settoriali. Il medico vive un percorso analogo durante la sua formazione da studente a specialista riducendo il suo campo d’azione in ambiti sempre più ristretti nel corso degli anni. È pertanto indispensabile offrirgli validi strumenti di studio o consultazione per quelle materie che, pur non essendo di sua competenza specifica, devono comunque far parte del suo bagaglio culturale. Questo Manuale di ortopedia e traumatologia nasce dall’esigenza di fornire concetti chiari e aggiornati per l’apprendimento delle patologie dell’apparato locomotore e delle problematiche a esse connesse in un momento “storico” particolare. La nostra specialità si è profondamente trasformata nella seconda metà del secolo scorso: in un tentativo di sintesi estrema possiamo dire che si è passati dal gesso all’intervento chirurgico... Con l’arrivo del nuovo millennio abbiamo guardato con occhio critico alle esperienze passate, distinguendo le reali ed enormi possibilità terapeutiche da inutili o illusori tentativi di cura, in un panorama della sanità pubblica sempre più influenzato da problematiche economiche. Chi si avvicina per la prima volta all’Ortopedia potrà apprezzare la comprensibilità del testo: l’esposizione lineare, i richiami propedeutici e i supporti didattici facilitano la lettura e l’apprendimento di nozioni talvolta ostiche. Chi conosce già la materia potrà invece verificare la completezza e l’attualità della trattazione, traendo spunto per la propria pratica clinica o per ulteriori approfondimenti. Ho condiviso gran parte della mia carriera di medico e professore universitario con i quattro autori, ai quali sono legato non solo da un vincolo di natura professionale, ma anche da sentimenti di stima e amicizia. Insieme abbiamo perseverato nell’aggiornamento scientifico, nell’adeguamento della didattica e nell’avanzamento della ricerca, convinti che l’ambiente accademico sia la sede, naturale e istituzionale, dell’attività formativa. Per questi motivi sono orgoglioso di presentare questo volume, che testimonia non solo la nostra attività clinica, ma anche quella di educatori verso i giovani desiderosi di intraprendere un mestiere tanto bello quanto difficile: il medico. Paolo Cherubino

Prefazione alla prima edizione «L’arte migliore è quella in cui la mano, la testa e il cuore di un uomo procedono in accordo». John Ruskin La prefazione di un manuale è, per lo studente, la parte meno importante dell’opera a cui dovrà “affezionarsi” per qualche mese. Non è invece così per gli autori, che alla fine della loro fatica guardano al lavoro prodotto con occhio attento e critico, valutando se gli obiettivi iniziali sono stati raggiunti. Racchiudere chiarezza, sinteticità e completezza in un testo di Ortopedia e Traumatologia è compito arduo per tutti, se si considera la complessità dell’apparato locomotore e la varietà di patologie che lo colpiscono. Abbiamo cercato di raggiungere un giusto equilibrio sulla base della nostra esperienza di educatori e clinici: la pratica medica non può prescindere dalla conoscenza di sintomi e segni, ma la semeiotica è priva di significato se non poggia su solide basi di anatomia e fisiopatologia. In molti capitoli si è cercato di fornire, con l’ausilio di box di approfondimento, quelle nozioni propedeutiche o integrative che potessero rendere più agevole la comprensione dei quadri morbosi, le loro manifestazioni e il loro riconoscimento. Nell’iconografia sono state privilegiate le immagini radiografiche, perché con esse dobbiamo confrontarci ogni giorno: l’occhio dell’ortopedico deve essere allenato a esaminare i radiogrammi, per identificare gli aspetti salienti per la diagnosi o per la pianificazione di ulteriori accertamenti strumentali. L’aggiunta di un CD-ROM ha permesso di integrare le illustrazioni con tavole anatomiche, per offrire agli studenti la possibilità di rinfrescare nozioni apprese qualche anno prima, ma sempre necessarie. I principi di terapia inclusi nel testo non possono essere considerati esaurienti, ma questo esula dalle finalità dell’opera. La nostra specialità è in continua evoluzione per ciò che riguarda i materiali, le metodiche chirurgiche e le biotecnologie, tanto che spesso anche le monografie dedicate ad argomenti specifici appaiono superate solo qualche anno dopo la loro pubblicazione. Nonostante ciò, questo manuale puntualizza le principali linee guida di trattamento oggi adottate, fornendo un punto di partenza aggiornato per chi vorrà approfondire la materia. La nostra speranza è di fornire un valido strumento di apprendimento e consultazione non solo per gli studenti di Medicina e Chirurgia e per gli specializzandi in Ortopedia e in Fisiatria, ma per tutte le categorie professionali coinvolte nella cura dell’apparato locomotore (medici di base, medici dello sport, fisioterapisti). I test di autovalutazione, adottati sul modello delle scuole anglosassoni, permettono una rapida verifica delle proprie conoscenze e sono di aiuto e di stimolo in un percorso educativo di stampo italiano. Il nostro ringraziamento va a tutti i docenti universitari che hanno collaborato alla stesura del volume e ai colleghi più giovani che con dedizione hanno svolto un lavoro prezioso. Siamo anche grati alla casa editrice Masson-Elsevier per averci fornito l’opportunità di affrontare questa gratificante fatica e in particolare a Costanza Smeraldi e Ornella Ceresa per la paziente opera di organizzazione e redazione del testo. Federico A. Grassi Ugo E. Pazzaglia Giorgio Pilato Giovanni Zatti

Prefazione alla seconda edizione A distanza di cinque anni dalla prima pubblicazione, il Manuale di ortopedia e traumatologia esce in una seconda edizione arricchita dal prezioso contributo di docenti universitari che hanno aderito al nostro progetto editoriale. È motivo di soddisfazione e orgoglio presentare un testo didattico che oggi comprende e collega numerosi atenei su tutto il territorio nazionale, in un lavoro di gruppo che mette in evidenza eccellenze individuali. Il successo della prima edizione ci ha indotto a non modificare la struttura del volume e l’impianto dei singoli capitoli: il riscontro degli studenti è stato positivo e ciò ha rappresentato il nostro principale metro di giudizio nella valutazione critica del lavoro svolto. La revisione del testo è stata volta a migliorarne i contenuti, laddove necessario, per fornire nozioni sempre più chiare ed esaurienti ai lettori. Ci auguriamo che l’apprezzamento per questo Manuale perduri nel tempo e possa sempre trasmettere la passione con cui ogni giorno affrontiamo le problematiche della nostra difficile, faticosa, ma bellissima specialità. Federico A. Grassi Ugo E. Pazzaglia Giorgio Pilato Giovanni Zatti

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Indice Autori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Collaboratori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Presentazione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Prefazione alla prima edizione. . . . . . . . . . . . . . . Prefazione alla seconda edizione. . . . . . . . . . . . .

V VI VII VIII IX

38 40 42

45

Giovanni Fancellu, Giorgio Gasparini, Ugo E. Pazzaglia, Francesco Sadile

Osteocondrosi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 45

Capitolo 1 Cenni di isto-fisiologia dell’osso. . . . . . . . .

3

Ugo E. Pazzaglia

Malattia di Perthes. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 46 Altre osteocondrosi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 48

Osteocondrosi dissecante. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 50 Scoliosi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 52

Capitolo 2 Morfologia e sviluppo del sistema scheletrico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Classificazione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 52

7

Ugo E. Pazzaglia

Sviluppo delle ossa del cranio. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7 Sviluppo delle ossa lunghe. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7

Cifosi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 57 Classificazione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 57 Generalità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 57

Spondilolisi e spondilolistesi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 59 Epifisiolisi dell’anca. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 61 Piede piatto e piede cavo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 65 Piede piatto. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 65 Piede cavo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 70

Capitolo 3 Esame clinico e diagnostica per immagini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

11

Federico A. Grassi

Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11 Esame clinico. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11 Anamnesi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11 Esame fisico. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11

Diagnostica per immagini. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19

19 21 22 23 23

Capitolo 6 Patologia infettiva dell’osso e delle articolazioni. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

73

Federico A. Grassi

Osteomieliti. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 73 Classificazione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 73 Quadri anatomo-clinici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 74

Tubercolosi osteo-articolare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 80 Spondilodisciti non specifiche. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 82 Artrite settica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 83

Capitolo 7 Tumori dello scheletro. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Parte II Ortopedia Capitolo 4 Malformazioni e malattie congenite. . . . .

36

Capitolo 5 Malattie dell’età evolutiva. . . . . . . . . . . . . . . . . .

Parte I Generalità

Radiologia convenzionale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Tomografia computerizzata (TC). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Risonanza magnetica (RM). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ecografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Scintigrafia ossea . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Piede torto congenito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Paralisi ostetriche dell’arto superiore . . . . . . . . . . . . . . . Torcicollo congenito. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Osteocondrodisplasie genotipiche. . . . . . . . . . . . . . . . . .

85

Giovanni Zatti, Federico A. Grassi

27

Ugo E. Pazzaglia, Giovanni Fancellu, Leo Massari

Malformazioni congenite . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27 Displasia e lussazione congenita dell’anca . . . . . . . . . 27

Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 85 Tumori primitivi e lesioni pseudotumorali dell’osso. . . . . . . . . . . . . . . . . . 85 Classificazione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Esostosi osteo-cartilaginea . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Condroma. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Condroblastoma. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Condrosarcoma. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

85 86 88 89 89

xii

Indice

91 92 94 95 96 98 98 100 Tumori secondari dell’osso. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 101 Osteoma osteoide . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Osteosarcoma. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Tumore gigantocellulare. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Sarcoma di Ewing. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Istiocitoma fibroso maligno. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Fibroma istiocitico. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cisti ossea . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cisti aneurismatica. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Capitolo 8 Osteopatie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

105

Osteoporosi postmenopausale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 105

Osteomalacia e rachitismo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 107 Osteopatie endocrine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 109 Iperparatiroidismo primitivo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 109 Osteodistrofia renale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 110

Malattia di Paget . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 111 Altre osteopatie. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 113 113 114 114 115

117

Araldo Causero, Giorgio Gasparini, Leo Massari

Artrite reumatoide. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Epidemiologia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Eziopatogenesi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Istopatologia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Quadro clinico. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Diagnosi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Prognosi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Terapia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

132

Condropatie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 132 Alluce valgo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 135 Ginocchio varo e valgo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 139

Capitolo 10 Ernia del disco cervicale e lombare . . . . . .

117 117 117 118 118 119 120 121 122 122 122 123 124 125 126 127 127 127 127 127 128 128 129 129

145

Francesco Greco, Federico A. Grassi

Ernia del disco cervicale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 146 Ernia del disco lombare. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 152

Capitolo 11 Patologia miotendinea . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

159

Federico A. Grassi

Spalla. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 159 Sindrome da conflitto subacromiale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Rotture della cuffia dei rotatori. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Tendinopatie del capo lungo del bicipite . . . . . . . . . . . . . . . Tendinopatia calcifica della spalla . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Gomito. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Artrosi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 117 Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Epidemiologia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Fattori di rischio. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Classificazione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Eziopatogenesi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Istologia e istopatologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Quadro clinico. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Coxartrosi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Gonartrosi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Osteoartrosi delle mani. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Spondilosi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Artrosi secondaria. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Diagnostica per immagini. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Esami di laboratorio. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Terapia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

130 130 130 131 131 131

Condropatia femoro-rotulea. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 132

Osteoporosi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 105

Capitolo 9 Artropatie. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Artropatie emorragiche. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Artropatie infiammatorie. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Artrite psoriasica. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Spondilite anchilosante . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Sindrome di Reiter . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Artrite gottosa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Artrite da deposito di pirofosfato di calcio (pseudogotta). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Deformità acquisite delle articolazioni. . . . . . . . . . . . . . 135

Ugo E. Pazzaglia

Osteopetrosi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Osteogenesi imperfetta. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Osteopatia striata. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Meloreostosi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Altre artropatie. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 130

Epicondilite . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Epitrocleite. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Bacino e anca. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Pubalgia (sindrome retto-adduttoria). . . . . . . . . . . . . . . . . . Tendinopatia del medio gluteo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Arto inferiore. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Tendinopatia rotulea. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Tendinopatia quadricipitale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Tendinopatia achillea. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

160 163 168 169 171 171 172 172 173 173 173 173 174 174

Rotture tendinee sottocutanee . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 175 176 176 176 176 Lesioni muscolari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 178 Tendine distale del bicipite brachiale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . Tendine quadricipitale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Tendine rotuleo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Tendine d’Achille . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Capitolo 12 Argomenti di chirurgia della mano . . . . . .

179

Giorgio Pilato

Malformazioni congenite della mano . . . . . . . . . . . . . . 179 Generalità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 179 Classificazione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 179

Indice

xiii

Sindromi canalicolari dell’arto superiore. . . . . . . . . . . . 183

Gomito. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 245

189 191

Avambraccio. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 251 Polso. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 255 Ossa del carpo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 259

Sindrome del tunnel carpale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Compressione del nervo ulnare al gomito . . . . . . . . . . . . . . Compressione del nervo ulnare al canale di Guyon. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Sindrome del nervo interosseo posteriore. . . . . . . . . . . . . . .

185 187

Rizoartrosi del pollice e artrosi deformante delle dita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 193

Omero distale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 245 Ulna prossimale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 250 Radio prossimale (capitello radiale). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 250

Rizoartrosi del pollice. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 193 Artrosi deformante delle dita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 195

Generalità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 259 Scafoide. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 259

Tenosinoviti della mano. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 197

Mano (ossa metacarpali e falangi). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 264

Malattia di Dupuytren. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Patologia infettiva della mano. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Sindrome dolorosa regionale complessa. . . . . . . . . . . Sindrome di Volkmann. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Lesioni traumatiche dei tendini della mano. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Capitolo 15 Fratture vertebrali. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Tenosinoviti proliferative. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 198 Tenosinoviti stenosanti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 199

200 203

Vincenzo Denaro

209

Generalità. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 269

212 Lesioni dei tendini flessori. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 212 Lesioni dei tendini estensori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 215

221

Capitolo 16 Fratture del bacino e dell’acetabolo . . . . .

279

Giovanni Zatti

Generalità sulle fratture . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 221 222 224 227 229

Distacchi epifisari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 234 Il paziente politraumatizzato. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 236 Primo soccorso. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 236 Ospedalizzazione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 237 Algoritmo terapeutico per le lesioni scheletriche. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 237

Capitolo 14 Fratture dell’arto superiore. . . . . . . . . . . . . . . . .

Fratture del rachide cervicale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 272 Fratture del rachide toraco-lombare. . . . . . . . . . . . . . . . 274 Fratture vertebrali da osteoporosi . . . . . . . . . . . . . . . . . . 276 Fratture del rachide pediatrico. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 277

Federico A. Grassi, Ugo E. Pazzaglia, Giovanni Zatti

Classificazione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Processi riparativi dell’osso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Principi di terapia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Complicanze. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Epidemiologia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 269 Approccio al paziente con fratture vertebrali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 269 Rachide cervicale alto. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 272 Rachide cervicale basso. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 273

Parte III Traumatologia Capitolo 13 Principi generali di traumatologia scheletrica . . . . . . . . . . . . . . .

269

207

239

Federico A. Grassi, Giorgio Pilato

Clavicola. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 239 Scapola. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 240 Omero prossimale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 241 Diafisi omerale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 244

Fratture del bacino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 279 Fratture con interruzione del cingolo pelvico. . . . . . . . . . . . 279 Fratture senza interruzione del cingolo pelvico. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 280

Fratture dell’acetabolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 281 Classificazione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 281

Capitolo 17 Fratture dell’arto inferiore . . . . . . . . . . . . . . . . . .

285

Federico A. Grassi, Leo Massari

Fratture del femore prossimale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 285 Fratture della diafisi femorale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 290 Fratture del ginocchio. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 291 Fratture del femore distale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 291 Fratture della rotula. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 292 Fratture del piatto tibiale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 293

Fratture della gamba . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 295 Fratture della regione tibio-tarsica. . . . . . . . . . . . . . . . . . 296 Fratture del pilone tibiale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 296 Fratture dei malleoli. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 297 Fratture dell’astragalo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 298

xiv

Indice

Parte IV Appendici

Fratture del calcagno. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 299 Fratture da stress . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 301

Capitolo 18 Lesioni traumatiche delle articolazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

305

Federico A. Grassi, Giorgio Pilato, Giovanni Zatti, Giorgio Gasparini

337

Ugo E. Pazzaglia

Generalità. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 305 Lussazioni e instabilità della spalla . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 307 Lussazioni. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 307 Instabilità. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 310

Lussazioni acromio-claveari. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Lussazioni del gomito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Lussazioni del polso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Lussazioni dell’anca. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Lussazione della rotula . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Distorsioni e lesioni legamentose del ginocchio. Lesioni meniscali. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Distorsioni della tibio-tarsica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Capitolo 19 Principi di riabilitazione e medicina fisica. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

313 315 316 320 321 324 330

Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 337 Kinesiterapia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 338 Terapia fisica. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 341

Capitolo 20 Biomateriali e dispositivi biomedici in ortopedia e traumatologia . . . . . . . . . . . . . .

345

Paolo Tranquilli Leali

Biomateriali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 345 Classificazione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 345

Dispositivi biomedici. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 351

Indice analitico. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

353

Al nostro comune Maestro Prof. Paolo Cherubino

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parte 

I

Generalità

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capitolo

Cenni di isto-fisiologia dell’osso

1

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Ugo E. Pazzaglia

L’osso è il tessuto connettivo dell’organismo dotato di caratteristiche strutturali che lo rendono atto a sostenere e proteggere gli altri organi e apparati. Questa sua peculiarità è dovuta alla matrice intercellulare calcificata del tessuto e delle cellule che lo compongono. Si tratta infatti di un tessuto connettivo sul quale si depositano sali di calcio durante un processo ben equilibrato che vede l’interazione reciproca di due cellule specializzate: gli osteoblasti e gli osteoclasti. Strutturalmente diversi, questi due tipi cellulari adempiono a compiti differenti, che in modo semplicistico possono essere definiti deposizione e riassorbimento della matrice ossea. Sotto l’aspetto citologico, gli osteoblasti sono caratterizzati da un marcato sviluppo del reticolo endoplasmatico e dell’apparato di Golgi, con numerosi ribosomi e mitocondri che permettono di produrre in modo abbondante collageno e altri costituenti della matrice ossea. Gli osteoclasti, più spesso osservati in lacune della superficie ossea in via di riassorbimento (lacune di Howship), presentano un aspetto multinucleato, con una speciale organizzazione della membrana cellulare sul versante a contatto con il tessuto da riassorbire, consistente in una serie di estroflessioni giustapposte dette anche a “orletto a spazzola”. Accanto a questi due tipi di cellule si osservano gli osteociti, ovvero osteoblasti rimasti inglobati all’interno della matrice organica da essi stessi prodotta e la cui attività si è notevolmente ridotta, come dimostra al microscopio elettronico il minore numero di organelli citoplasmatici. La formazione del tessuto osseo prende il nome di osteo­ genesi o anche di ossificazione. L’osteoblasto si forma

da  cellule mesenchimali nel corso dello sviluppo embrionale. Se ciò avviene in un tessuto che ha carattere connettivale fibroso, l’ossificazione viene detta membranosa; se, invece, l’osteoblasto si differenzia nel contesto di un modello cartilagineo, l’ossificazione viene definita di tipo encondrale. La maggior parte dello sviluppo dello scheletro umano avviene attraverso un’ossificazione di tipo encondrale, vale a dire su un modello cartilagineo; fanno eccezione le ossa della volta del cranio e di parte della clavicola che si formano per ossificazione membranosa. Sulla base del grado di maturità strutturale si possono distinguere due tipi di tessuto osseo: ● osso immaturo o primario, caratterizzato da una maggiore densità cellulare, da osteociti di forma rotondeggiante contenuti in lacune osteocitarie più ampie, da una disposizione intrecciata delle fibre collagene della matrice e da una minore densità dei cristalli di idrossiapatite e per questo meno duro; ● osso maturo o lamellare o secondario, che si differenzia per una minore densità cellulare, per lacune osteocitarie di volume minore, per cellule di forma fusata e per fibre collagene con una più ordinata disposizione spaziale; il contenuto minerale è maggiore (Figura 1.1a). Nel corso dello sviluppo l’osso primario è destinato a tramutarsi in osso secondario e quindi ad acquisire un’architettura di tipo lamellare a maggiore contenuto minerale. Alla nascita quasi tutta la struttura scheletrica è strutturata come osso secondario, fanno eccezione le ossa della volta cranica, degli alveoli dentari,

4

Generalità

Figura 1.1   Stadi successivi nella formazione di un osteone secondario (sistema haversiano) durante la trasformazione dell’osso trabecolare in osso compatto maturo (a). Rappresentazione della struttura definitiva di un osteone secondario (sistema haversiano) con sei lamelle concentriche (b).

del labirinto osseo e quello in vicinanza delle inserzioni tendinee (Figura 1.2). Il processo che avviene naturalmente nel periodo di strutturazione embrionale si ripete nella stessa successione nel tessuto riparativo in caso di frattura. Nell’evoluzione del callo osseo, infatti, l’abbondante osso primario prodotto dalle cellule osteogeniche viene sostituito nel tempo da osso definitivo lamellare (processo di rimodellamento osseo). Esistono diverse ipotesi sulla dinamica del processo di riassorbimento dell’osso: secondo la teoria classica la rimozione sia dei cristalli di idrossiapatite (demineraliz­ zazione) sia delle fibre collagene sarebbe attuata dagli osteoclasti attraverso gli enzimi da essi stessi prodotti. Attualmente a questa teoria è stato contrapposto il modello secondo cui il riassorbimento osseo avverrebbe in più fasi, alle quali parteciperebbero diversi tipi cellulari e in cui agli osteoclasti sarebbe assegnata esclusivamente la funzione di rimuovere la parte minerale. Una possibile attività di riassorbimento osseo limitata allo spazio perilacunare è stata ipotizzata anche per gli osteociti ed è conosciuta come teoria della lisi osteocitaria. Sebbene i meccanismi di riassorbimento e apposizione ossea siano tuttora un campo aperto di indagine, è certo che dalla loro attività bilanciata deriva la possibilità di modulare la forma e il volume dell’osso in accrescimento. Al termine dello sviluppo l’osso presenta la sua struttura matura definitiva, di cui la lamella ossea costituisce l’unità fondamentale. Essa risulta dall’apposizione di uno strato di matrice in cui tutte le fibre collagene sono orientate in una stessa direzione e pertanto al microscopio polarizzatore risultano luminose o estinte in rapporto al piano di sezione. Nell’osso compatto le lamelle si organizzano a formare i sistemi osteonici o haversiani, caratterizzati dalla particolare disposizione concentrica e da uno stretto impacchettamento di queste strutture (Figura 1.1b). Il processo che porta alla formazione degli osteoni vede dapprima l’azione di uno o più osteoclasti che scavano un tunnel nel preesistente tessuto osseo con asse parallelo all’asse maggiore dell’osso; a questa fase segue la deposizione, da parte degli osteoblasti provenienti dalla differenziazione dei vasi che seguono la progressione degli osteoclasti, di lamelle ossee concentriche, che restringono progressivamente il tunnel finché al centro di esso rimangono solo i vasi. Poiché nuovi sistemi si formano su quelli preesistenti, lo spazio interosteonico resta occupato da quello che rimane degli osteoni più vecchi (breccia osteonica).

1 - Cenni di isto-fisiologia dell’osso

5

Figura 1.2   Scheletro di neonato a termine, epoca di comparsa dei centri di ossificazione.

Figura 1.3

  Struttura dell’osso trabecolare.

6

Generalità

Nell’osso corticale diafisario, inoltre, sono riconoscibili le lamelle concentriche apposte sulla circonferenza esterna dal periostio (sistema circonferenziale esterno) e su quella interna dell’endostio (sistema circonferenziale interno). L’osso spongioso, a differenza di quello compatto, possiede un’architettura lamellare che si struttura in trabecole, delimitanti spazi in cui è contenuto il midollo osseo (Figura 1.3). Per la sua particolare struttura que-

sto tipo di tessuto osseo è molto adatto a resistere alle forze compressive, una qualità esemplificata al meglio dal corpo vertebrale. L’attività metabolica dell’osso spongioso è quasi otto volte maggiore rispetto a quella dell’osso corticale. Questo dato dimostra che disturbi dell’omeostasi scheletrica (per esempio l’osteoporosi) hanno un effetto più marcato su questo tipo di osso piuttosto che su quello corticale.

capitolo

Morfologia e sviluppo del sistema scheletrico

2

Ugo E. Pazzaglia

Sviluppo delle ossa del cranio

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L’iniziale nucleo di ossificazione, costituito da osso primario e formatosi per ossificazione membranosa, si estende in modo progressivo ed è contemporaneamente sostituito da osso maturo lamellare per effetto del rimodellamento. Inizialmente le ossa piatte sono costituite da un’unica placca ossea tra le cui trabecole è contenuto tessuto mesenchimale; successivamente si demarcano, all’esterno e all’interno, due lamine di osso compatto, che delimitano uno strato intermedio di osso spongioso (diploe). I processi di rimodellamento permettono l’accrescimento e la variazione del raggio di curvatura delle ossa piatte del cranio. La curvatura viene realizzata attraverso il riassorbimento osseo sulla superficie convessa (esterna) e l’apposizione sulla superficie concava (interna). Infatti, se l’apposizione ossea fosse limitata alla zona delle suture, non sarebbe possibile l’aumento del raggio di curvatura dell’osso.

Sviluppo delle ossa lunghe Lo sviluppo della maggior parte delle ossa lunghe avviene su un modello cartilagineo, che riproduce a grandi linee la forma dell’osso definitivo. La cartilagine si differenzia dal tessuto mesenchimale, detto pericondrio, che circonda il modello cartilagineo. Nel pericondrio si distinguono una parte più esterna, da cui si differenziano i fibroblasti e che darà origine al

periostio fibroso, e una parte più interna, a diretto contatto con la cartilagine, in cui rimangono le cellule mesenchimali che daranno origine alla parte germinativa del periostio. L’aumento di volume del modello avviene per accrescimento interstiziale della cartilagine, soprattutto per quanto riguarda il diametro maggiore (lunghezza), mentre negli altri due diametri l’accrescimento avviene per apposizione dal pericondrio. L’ossificazione del modello cartilagineo si realizza attraverso la formazione dei nuclei o centri di ossificazione, dei quali il primo a comparire è quello diafisario. Gli aspetti che caratterizzano la loro comparsa sono: ● l’ipertrofia dei condrociti e la deposizione di sali di calcio nella matrice intercellulare; ● la penetrazione di vasi dal pericondrio (che diverrà il periostio); ● il riassorbimento della matrice calcificata e la contemporanea formazione delle trabecole ossee. Contemporaneamente a questi fenomeni, che si svolgono nella parte centrale o diafisaria del modello cartilagineo, nello strato germinativo del pericondrio si differenziano i primi osteoblasti che iniziano a deporre lamelle concentriche intorno alla diafisi. Nelle fasi successive le trabecole della parte centrale del nucleo diafisario vengono riassorbite e il midollo osseo ne occupa interamente lo spazio, dando origine al canale midollare; le trabecole più periferiche, insieme alle lamelle apposte dagli osteoblasti del periostio, vanno incontro a rimodellamento con formazione dei sistemi osteonici, che caratterizzano la struttura definitiva dell’osso compatto diafisario. In questa fase le

8

Generalità

regioni epifisarie e metafisarie restano cartilaginee. Successivamente e in epoche ben definite per ciascun osso compaiono i nuclei di ossificazione epifisari e accessori; il processo non differisce da quello descritto per il nucleo diafisario tranne per il fatto che in questo caso manca l’apposizione periostale e il nucleo resta completamente circondato da cartilagine. Anche quando tutta l’epifisi è ossificata rimane il rivestimento cartilagineo sulla superficie articolare e uno strato di cartilagine sul versante metafisario: quest’ultima è denominata cartilagine di accrescimento e provvede all’accrescimento in lunghezza dell’osso fino alla maturità scheletrica. Nella cartilagine di accrescimento si distinguono diversi strati o zone, descritte di seguito procedendo dall’epifisi verso la diafisi. ● Strato delle cellule a riposo: i condrociti hanno lo stesso volume e gli stessi caratteri citologici di quelli dell’epifisi cartilaginea. Stimolando sperimentalmente l’accrescimento, per esempio con il STH (SomatoTropic Hormone, ormone somatotropo), la captazione di timidina triziata da parte di questa struttura aumenta. Tra le funzioni di questa zona, è importante quella di immagazzinamento e di produzione della matrice. Le cellule che la compongono, di forma sferica, sono deputate all’accumulo di lipidi e di altri materiali; sono presenti isolate o a coppie, in numero relativamente ridotto e fra loro vi è una quota di matrice extracellulare maggiore che in qualsiasi altra zona. Il citoplasma presenta una colorazione positiva per il glicogeno. Il microscopio elettronico dimostra che queste cellule possiedono un abbondante reticolo endoplasmatico e ciò è un chiaro indice della loro elevata attività di sintesi proteica. La pressione di ossigeno (pO2) è ridotta, il che significa che i vasi sanguiferi che passano attraverso la zona di riserva nei canali cartilaginei in realtà non la vascolarizzano. I condrociti qui rappresentati non vanno incontro a proliferazione, oppure lo fanno sporadicamente. ● Strato proliferativo: i condrociti vanno incontro a mitosi; la proliferazione è orientata secondo una direzione parallela all’asse dell’osso. Le cellule formano dei gruppi isogeni circondati da matrice cartilaginea; il loro volume è ancora dello stesso ordine di grandezza dello strato precedente. Come indica il nome stesso dello strato, è a questo livello che le cellule della cartilagine di accrescimento si moltiplicano e pertanto esso è responsabile della crescita in lunghezza dell’osso.









Le cellule che lo compongono sono appiattite e disposte in colonne longitudinali con asse maggiore perpendicolare all’asse maggiore dell’osso. Possiedono un ricco reticolo endoplasmatico e il citoplasma assume positivamente la colorazione per il glicogeno. Con rare eccezioni i condrociti della zona proliferativa sono le uniche cellule della parte cartilaginea che vanno incontro a divisione. Le cellule poste all’apice di ogni colonna costituiscono le vere cellule “madri” di ogni colonna e l’apice della zona proliferativa rappresenta il vero strato germinativo della cartilagine di accrescimento. In virtù della ricca rete vascolare riscontrabile a livello della parte apicale della zona proliferativa, in questa zona si osserva il più alto valore di pO2. L’elevata pO2, associata alla presenza di glicogeno nei condrociti, indica che si sta verificando un’attività metabolica di tipo aerobico con accumulo di glicogeno (Figura 2.1). Strato ipertrofico: le cellule sono ulteriormente aumentate di volume e ipertrofiche. Nei setti intercolonnari, cioè nella matrice interposta tra le colonne cellulari, si depositano sali di calcio. I condrociti di questa zona divengono sferici e aumentano di volume tanto che possono risultare cinque volte più grandi rispetto a quelli della zona proliferativa. Il citoplasma dei condrociti, nella metà apicale della zona presenta colorazione positiva per il glicogeno, mentre in prossimità della zona di mezzo esso perde di colpo qualsiasi capacità di assumere la colorazione per il glicogeno.

Figura 2.1

accrescimento.

 Regione metaepifisaria nel soggetto in

2 - Morfologia e sviluppo del sistema scheletrico





A causa della quasi assente vascolarizzazione e pertanto della ridotta quantità di pO2 le cellule poste alla base di ogni colonna cellulare si presentano come non vitali, con importante frammentazione della membrana cellulare, involuzione nucleare e perdita completa dei componenti citoplasmatici, fatta eccezione per residui sparsi del reticolo endoplasmatico e pochi mitocondri. I vasi e i capillari metafisari invadono la cartalagine di accrescimento a questo livello. Le cellule ipertrofiche e parte della cartilagine calcificata sono riassorbite dai condroclasti che accompagnano i vasi metafisari (Figura 2.2). Una parte dei setti intercolonnari calcificati sfugge al riassorbimento e su di essi gli osteoblasti metafisari iniziano a deporre matrice ossea, dando origine alle trabecole metafisarie primarie: queste sono infatti caratterizzate istologicamente da un asse cartilagineo e da matrice ossea alla periferia. Nella parte della metafisi più prossima alla diafisi queste stesse trabecole vanno incontro a rimodellamento e si formano le trabecole metafisarie secondarie, nelle quali non è più presente matrice cartilaginea.

In pratica l’accrescimento dell’osso è assicurato dalla continua proliferazione della cartilagine di accrescimento nello strato proliferativo; lo spessore della cartilagine rimane però costante, poiché essa viene riassorbita sul versante metafisario con la stessa velocità. Quando la velocità di proliferazione delle cellule

Figura 2.2

scimento o fisi.

  Struttura a zone della cartilagine di accre-

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cartilaginee si riduce e poi si arresta, all’epoca della fine della crescita (maturità scheletrica), i vasi metafisari raggiungono lo strato cartilagineo più vicino al nucleo epifisario e realizzano la fusione ossea tra metafisi ed epifisi. Contemporaneamente alla crescita in lunghezza, che è l’aspetto più evidente dello sviluppo osseo, procede l’accrescimento nel piano perpendicolare all’asse dell’osso stesso e di quest’ultimo sono responsabili i condrociti della parte più periferica dello strato delle cellule a riposo e di quello proliferativo, che formano una struttura conosciuta come ghiera pericondrale. Alla periferia della cartilagine di accrescimento, a livello degli strati delle colonne seriate e delle cellule ipertrofiche, è presente un manicotto osseo, conosciuto come dentello di ossificazione: sul versante epifisario è in contatto con la ghiera pericondrale, mentre sul versante diafisario tale lamina ossea è riassorbita da numerosi osteoclasti e si fonde con le trabecole metafisarie che a questo livello vengono rimodellate. Poiché il processo di riassorbimento prevale sulla circonferenza esterna, la metafisi assume la forma svasata e progressivamente si restringe fino a continuarsi con il cilindro diafisario. La crescita e lo sviluppo armonico delle singole ossa, che si accompagnano a quello degli altri organi e tessuti (muscoli, tendini e vasi) determinano l’accrescimento somatico. Le proporzioni del corpo cambiano con la crescita, per cui alla nascita la lunghezza del tronco (e della testa)

Figura 2.3

  Modificazione della struttura dell’osso durante la crescita.

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Generalità

prevale rispetto agli arti, mentre negli anni successivi la crescita in lunghezza degli arti è maggiore rispetto a quella dello scheletro assile, per cui il soma assume progressivamente l’aspetto e le proporzioni dell’individuo adulto (Figura 2.3). Ovviamente vi sono variazioni individuali, espressione del patrimonio genetico dell’individuo (genoma) e dell’interazione dei fattori ambientali. Sono in genere distinti tre tipi costituzionali nell’individuo a completo sviluppo: ● ectomorfico o longilineo, caratterizzato da una relativa linearità, una struttura ossea leggera e una massa muscolare piccola rispetto all’altezza; ● endomorfico o brevilineo, caratterizzato da una struttura scheletrica tozza, meno sviluppata in altezza e con relativo aumento delle masse muscolari; ● mesomorfico o normolineo, con caratteristiche intermedie. Il tipo endomorfico in genere raggiunge la maturità scheletrica prima dell’ectomorfico.

È opportuno sottolineare il concetto di maturità scheletrica poiché riveste notevole importanza nel giudizio prognostico di diverse patologie ortopediche. Essa è caratterizzata dall’arresto della crescita del singolo segmento scheletrico, che coincide con la chiusura delle cartilagini di accrescimento. Questo evento nei diversi distretti dello scheletro segue una successione costante, che si ripete in tutti gli individui di una stessa specie, ma presenta variazioni abbastanza ampie rispetto all’età cronologica dell’individuo. Per questo motivo è stato compilato un atlante (atlante di Greunlich e Pyle), che contiene le epoche di comparsa e di fusione dei nuclei epifisari e accessori delle ossa. Esso permette di stabilire l’età scheletrica, che rappresenta un indice attendibile dello stato di crescita attuale e delle potenzialità di crescita del soggetto in esame. Numerosi fattori controllano l’accrescimento somatico in generale e scheletrico in particolare; oltre al fattore genetico e ambientale, già ricordati, è opportuno dunque sottolineare il controllo endocrino attraverso l’ormone somatotropo, gli ormoni tiroidei e gli ormoni steroidei.

capitolo

Esame clinico e diagnostica per immagini

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Federico A. Grassi

Introduzione

Esame clinico

L’esame clinico dei pazienti è uno dei momenti fondamentali della professione medica, non solo per la sua importanza dal punto di vista diagnostico, ma anche per la sua rilevanza come processo comunicativo, in base al quale il medico si garantisce la stima e la fiducia dell’assistito. Le conoscenze teoriche di semeiotica e patologia devono essere supportate da una condotta caratterizzata da umanità, equilibrio e partecipazione, per creare un’atmosfera in cui il paziente si senta libero di confidarsi, evitando pulsioni emotive fuorvianti. La diagnostica strumentale si avvale oggi di metodiche di indagine sempre più numerose e sofisticate, la cui applicazione ha modificato in modo profondo l’approccio terapeutico e la prognosi di molte patologie. L’ampia disponibilità di esami a disposizione del clinico ha tuttavia prodotto due effetti “indesiderati”: da un lato ha sminuito l’importanza della semeiotica fisica, con ripercussioni negative sull’iter diagnostico, dall’altro ha portato a una prescrizione eccessiva e/o inadeguata di indagini strumentali, con un incremento ingiustificato dei costi sanitari. Molti argomenti esposti in questo capitolo sono trattati in modo più approfondito nelle sezioni dedicate alle singole patologie; lo scopo di questa parte introduttiva è fornire alcune nozioni di carattere generale necessarie per adottare una corretta terminologia e comprendere gli algoritmi diagnostici nelle malattie dell’apparato locomotore.

Come per le altre specialità medico-chirurgiche, anche in Ortopedia e Traumatologia l’esame clinico si basa su due momenti fondamentali: l’anamnesi e l’esame fisico.

Anamnesi Per molte patologie l’anamnesi rappresenta l’aspetto più importante dal punto di vista diagnostico: si pensi per esempio all’instabilità della spalla, nella quale l’esame fisico può essere del tutto normale, mentre la storia del paziente (lussazioni recidivanti) è di per sé sufficiente per porre la diagnosi. Un’attenta raccolta anamnestica familiare e personale è comunque sempre indispensabile per guidare i successivi accertamenti nella giusta direzione. Poiché nella patologia dell’apparato locomotore il dolore è il sintomo di gran lunga più frequente, particolare attenzione dovrà essere posta alle caratteristiche della sintomatologia algica: sede ed eventuale irradiazione, comparsa e fattori scatenanti, durata ed evoluzione, intensità, qualità, remissione ecc. Talvolta l’esame fisico non consente di riprodurre o esacerbare il dolore (un esempio paradigmatico è l’osteoma osteoide) e in questi casi la storia del paziente è l’unico elemento utile per la diagnosi clinica.

Esame fisico Una buona conoscenza dell’anatomia e della fisiologia osteo-articolare e neuro-muscolare è il presupposto

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GENERALITÀ

fondamentale per la conduzione di un adeguato esame fisico, il cui svolgimento può essere sintetizzato in sei momenti fondamentali: 1. ispezione; 2. palpazione; 3. mobilizzazione (valutazione del movimento); 4. valutazione neuro-muscolare; 5. valutazione dei polsi periferici; 6. manovre semeiologiche specifiche.

Ispezione L’ispezione consente di apprezzare le alterazioni della normale configurazione muscolo-scheletrica (deformità osteo-articolari, disturbi del trofismo muscolare, tumefazioni, neoformazioni ecc.) o del tegumento (cianosi, pallore, discromie, cicatrici, abrasioni, piaghe da decubito ecc.), asimmetrie, atteggiamenti viziosi di segmenti corporei, disturbi della motricità e qualsiasi altro reperto che si renda evidente a un’attenta osservazione. L’ispezione va condotta a paziente sufficientemente spogliato per evitare grossolani errori di valutazione, non solo nella comparazione degli arti, ma anche nello studio del tronco (si pensi alla scoliosi e ad altre deformità del rachide). Il modo più immediato per rilevare la presenza di un’anomalia è il confronto con il lato opposto del corpo. L’esame inizia nel momento in cui il paziente entra nell’ambulatorio: si deve osservare come cammina, come atteggia il tronco e gli arti nello svolgimento di semplici attività (per esempio nell’atto di sedersi o di spogliarsi) e l’eventuale adozione di movimenti di compenso. La zoppia è uno dei rilievi più caratteristici del paziente affetto da patologie ortopediche agli arti inferiori e assume caratteristiche diverse in relazione

alla causa che la determina. Tra i tipi più comuni vanno ricordate: ● la zoppia antalgica o di fuga, in cui il paziente limita al minimo l’appoggio sull’arto affetto per evitare il dolore; ● la zoppia da caduta, per inclinazione del bacino e del tronco causata da accorciamento dell’arto o da insufficienza dei glutei; ● lo steppage, per caduta della punta del piede con esagerato sollevamento dello stesso per evitare lo sfregamento a terra, causato da una paralisi dei muscoli della loggia anteriore della gamba; ● l’andatura anserina (dal latino anser, “oca”), caratterizzata da movimenti continui di oscillazione del bacino per compensare una limitazione funzionale bilaterale dell’anca; ● le zoppie da alterato impatto (patologie calcaneari) o spinta (patologie dell’avampiede o deficit del tricipite surale e del tendine d’Achille) del piede nelle fasi del passo. Accanto ai disturbi della deambulazione, possono essere presenti movimenti anormali (ipercinesie), che consistono in contrazioni involontarie di uno o più muscoli; tra le più importanti sono da ricordare le fascicolazioni, la mioclonia, i tremori, i crampi e i tic. Nella descrizione delle deformità osteo-articolari, alcuni termini sono di comune impiego in ortopedia e per lo più si riferiscono a possibili deviazioni assiali tra i vari segmenti scheletrici o in uno stesso segmento; la stessa terminologia si applica nello studio radiografico dello scheletro. Tra le più frequenti deformità vanno ricordate (Figura 3.1): ● varo (o varismo): angolazione verso la linea mediana del corpo; ● valgo (o valgismo): deviazione dalla linea mediana (opposto di varo);

Figura 3.1   Deformità del ginocchio: varo (a), valgo (b), recurvato (c).

3 - Esame clinico e diagnostica per immagini





Figura 3.2   Atteggiamento in flessione del ginocchio sinistro in paziente con rottura a manico di secchio del menisco mediale.

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recurvato: angolazione posteriore (nel caso di un’articolazione, in particolare gomito e ginocchio, corrisponde all’iperestensione); procurvato: angolazione anteriore.

L’atteggiamento vizioso di un’articolazione o di un intero arto va distinto dalla deformità in quanto fa riferimento a una posizione fisiologica, seppure assunta e mantenuta in modo più o meno obbligato (Figura 3.2). Il suo carattere è spesso transitorio e correggibile, in particolare quando è espressione di una reazione di difesa

Figura 3.4   La lunghezza degli arti inferiori è determinata misurando la distanza tra la spina iliaca antero-superiore ( ) e il malleolo mediale ( ).

Figura 3.3   Per determinare dove si verifica la differenza di lunghezza tra i due arti inferiori si fa stendere il paziente supino, con le ginocchia flesse a 90° e i piedi appoggiati a piatto sul piano del letto: se i femori hanno lunghezza diversa, un ginocchio si proietta più in avanti rispetto al controlaterale (a); se le tibie hanno lunghezza diversa, un ginocchio appare più alto rispetto al controlaterale (b).

Figura 3.5   Per rilevare una possibile ipotrofia del quadricipite, si misura la circonferenza della coscia dei due arti al medesimo livello, prendendo come riferimento il polo superiore della rotula (o l’emipiatto tibiale mediale) a ginocchio esteso.

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GENERALITÀ

antalgica. L’atteggiamento vizioso viene definito in base alla variazione rispetto alla posizione “neutra” (per esempio: ginocchio atteggiato in flessione di 20°, anca extraruotata di 30° ecc.). Il rilievo di asimmetrie può essere effettuato con la semplice osservazione (Figura 3.3) oppure ricorrendo alla misurazione con nastro metrico: possono essere eseguiti rilievi in senso longitudinale (per esempio, lunghezza dell’arto inferiore mediante determinazione della distanza tra spina iliaca antero-superiore e malleolo mediale) (Figura 3.4) o perimetrale (per esempio confronto della circonferenza degli arti a un livello prestabilito per evidenziare e monitorare ipotrofie muscolari) (Figura 3.5).

Palpazione La palpazione delle diverse regioni corporee deve essere eseguita in modo ordinato e sistematico con i seguenti fini: ● esplorare l’anatomia del distretto esaminato e definire le alterazioni morfologiche e strutturali presenti; ● caratterizzare eventuali neoformazioni in termini di forma, dimensioni, consistenza, mobilità, dolorabilità; ● identificare i punti dolorosi; ● ricercare variazioni della temperatura cutanea; ● apprezzare fenomeni percepibili palpatoriamente (scrosci, crepitii, scatti ecc.). I rilievi palpatori delle strutture osteo-articolari e miotendinee sono tanto più agevoli e definiti quanto più superficiale è la loro localizzazione. Si pensi, per esempio, all’accessibilità del ginocchio rispetto a quella dell’anca: mentre nella prima articolazione molte sue componenti possono essere palpate con relativa facilità, l’articolazione coxo-femorale consente solo una grossolana identificazione delle sue parti. Un versamento, anche di modesta entità, del ginocchio può essere identificato con il ballottamento rotuleo (Figura 3.6), mentre nell’anca è messo in evidenza solo con esami strumentali. Il dolore dell’apparato locomotore è di tipo somatico, per lo più superficiale e ben localizzato: la stimolazione palpatoria permette pertanto di identificarne con buona approssimazione il punto di insorgenza. Bisogna tuttavia tenere presente la possibilità di dolore riferito a distanza, come nelle radiculopatie cervicali (cervicobrachialgia) e lombari (lombocruralgia e lombosciatalgia), o irradiato dalla sede di origine (per esempio nella coxartrosi la sintomatologia dolorosa è avvertita in sede inguinale e lungo la coscia fino al ginocchio).

Figura 3.6   Il ballottamento rotuleo serve per evidenziare la presenza di un versamento nel ginocchio. Circondando e “spremendo” il cavo articolare con le mani (   ), con l’indice si produce una spinta sulla superficie anteriore della rotula in modo da avvicinare il sesamoide alla troclea femorale (). Se è presente liquido in articolazione, questo viene forzato ai lati della rotula; una volta rimossa la pressione dell’indice, il liquido torna nella posizione originaria producendo il sollevamento della rotula con una sensazione di rimbalzo.

Mobilizzazione La mobilizzazione è il momento dell’esame fisico in cui si valutano l’escursione articolare dei diversi segmenti scheletrici e gli eventuali disturbi (dolore, scrosci, scatti ecc.) a essa associati. L’articolarità deve essere saggiata in termini di mobilità sia passiva (movimento prodotto dall’esaminatore) sia attiva (movimento prodotto dall’azione muscolare). Presupposto fondamentale per una corretta valutazione dei rilievi è la conoscenza dei movimenti fisiologici delle diverse articolazioni e la loro ampiezza “normale”. Poiché il range articolare mostra una notevole variabilità individuale ed è influenzato dall’età dei pazienti, è preferibile fare affidamento sulla comparazione con l’arto controlaterale, quando possibile, piuttosto che su valori assoluti. È inoltre importante riconoscere possibili meccanismi compensatori, messi in atto per sopperire alle limitazioni funzionali di un determinato distretto (per esempio elevazione della scapola ed estensione del rachide lombare nel sollevamento del braccio con articolazione scapolo-omerale rigida). I movimenti da analizzare nei più importanti gruppi articolari sono riportati nella Tabella 3.1. Le misurazioni sono effettuate in gradi, utilizzando semplici goniometri (Figura 3.7) e indicando l’arco di movimento compiuto partendo dalla posizione “neutra” (Figura 3.8). L’articolarità può anche essere espressa facendo riferimento a punti di repere anatomici (per esempio nella rotazione interna della spalla) (Figura 3.9) o in termini

3 - Esame clinico e diagnostica per immagini

Tabella 3.1

clinico.

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 Movimenti articolari da valutare nell’esame

ARTO SUPERIORE ● Spalla – Elevazione (sul piano della scapola), flessione (sul piano sagittale), abduzione (sul piano coronale) – Rotazione esterna (a 0° e 90° di abduzione) – Rotazione interna ● Gomito – Flessione, estensione – Supinazione, pronazione (articolazione omero-radiale) ● Polso – Flessione, estensione – Inclinazione radiale e ulnare – Supinazione, pronazione (articolazione radio-ulnare distale) ● Mano Pollice: Articolazione trapezio-metacarpale – opposizione, abduzione palmare, abduzione radiale Articolazione metacarpo-falangea – flessione, estensione Articolazione interfalangea – flessione, estensione Dita lunghe: Articolazione metacarpo-falangea – flessione, estensione, abduzione, adduzione Articolazioni interfalangee – flessione, estensione RACHIDE ● Cervicale – Flessione, estensione – Rotazione destra e sinistra – Inclinazione (o flessione) laterale destra e sinistra ● Lombare – Flessione, estensione – Rotazione destra e sinistra – Inclinazione (o flessione) laterale destra e sinistra ARTO INFERIORE ● Anca – Flessione, estensione – Abduzione, adduzione – Rotazione interna ed esterna (a 0° di flessione in decubito prono, a 90° di flessione in decubito supino) ● Ginocchio – Flessione, estensione – Rotazione interna ed esterna (a 90° di flessione) ● Caviglia – Tibio-tarsica: flessione, estensione – Sottoastragalica: inversione, eversione ● Piede – Avampiede: abduzione, adduzione (N.B.: solo passive) – I articolazione metatarso-falangea: flessione, estensione – Articolazioni interfalangee: flessione, estensione

Figura 3.7   Un tipo di goniometro utilizzato per la misurazione dei movimenti articolari.

di limitazione rispetto al movimento speculare (come nelle rotazioni e inclinazioni del rachide). Un deficit dell’articolarità passiva può essere espressione di una limitazione volontaria della mobilità per difesa antalgica o di una condizione di rigidità più o meno marcata, di origine sia articolare sia extrarticolare; al contrario, un esclusivo deficit del movimento attivo deve orientare verso un disturbo di origine neurologica o mio-tendinea.

Valutazione neuro-muscolare La valutazione neuro-muscolare è orientata verso le patologie di interesse ortopedico, ma deve essere sufficientemente approfondita per potere identificare disturbi meritevoli di studio da parte di altri specialisti. L’esame può essere iniziato valutando la sensibilità superficiale e profonda (Tabella 3.2), al fine di identificare un possibile livello di lesione neurologica qualora ve ne sia il sospetto. I disturbi della sensibilità (o disestesie) comprendono: ● ipoestesia e anestesia: perdita parziale o completa della sensibilità; ● iperestesia: amplificazione della sensibilità; ● parestesie: sensazioni alterate spontanee e soggettive. I più comuni disturbi da valutare sono causati da patologie delle radici nervose o dei tronchi nervosi periferici, dei quali è necessario conoscere i rispettivi territori di innervazione cutanea (Figura 3.10). La distribuzione dei territori radicolari e tronculari è diversa perché le radici nervose, a livello dei plessi, si suddividono e si congiungono per dare origine ai nervi periferici. Le sindromi sensitive midollari si inseriscono in quadri clinici complessi (sindromi di Brown-Sequard, commissurale, del fascio spino-talamico ecc.), per la trattazione dei quali si rimanda a testi specialistici di Neurologia.

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GENERALITÀ

Figura 3.8   Esempi di misurazione dell’articolarità: flessione (in questo caso di 45°) ed estensione (80°) del polso (a); pronazione e supinazione dell’avambraccio, entrambe vicine a 90° (b); estensione (−10°) e flessione (135°) del ginocchio (c).

Tabella 3.2





  Tipi di sensibilità.

Superficiale – Tattile – Termica – Dolorifica Profonda – Vibratoria (pallestesia) – Tattile discriminativa – Stereognosia (ovvero percezione delle forme) – Barognosia (ovvero percezione delle pressioni)   

– Di posizione (batiestesia) sensibilità – Di movimento (chinestesia) propriocettive

Figura 3.9   La rotazione interna della spalla non è misurata in gradi, ma rilevando il livello vertebrale più alto raggiunto dal pollice. Alcuni riferimenti anatomici sono d’aiuto: la cresta iliaca individua L4, mentre l’apice inferiore della scapola corrisponde a D8.

Anche la valutazione della forza muscolare richiede conoscenze precise sulle innervazioni periferiche dei diversi muscoli, al fine di poter distinguere tra lesioni tronculari, radicolari o midollari (Tabella 3.3). Molti movimenti sono eseguiti da più muscoli e gran parte di questi sono innervati da più di un segmento spinale; tuttavia, dal deficit di un determinato movimento è di regola possibile risalire al muscolo e al segmento interessato.

3 - Esame clinico e diagnostica per immagini

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Figura 3.10   Territori cutanei di innervazione delle radici spinali (dermatomeri). I territori di due radici contigue si sovrappongono ampiamente in modo da per­mettere l’embricazione tra le zone di rispettiva competenza.

Il metodo più accurato per valutare la forza consiste nel contrastare i movimenti attivi del paziente, tenendo presente che una modesta debolezza generalizzata ha scarso significato (variabilità in relazione all’età, al lato dominante, alla costituzione ecc.), mentre ha molto più valore un difetto di forza localizzato e/o una marcata asimmetria. La quantificazione precisa del deficit di forza è molto importante e viene eseguita facendo riferimento a una scala in sei gradi (Tabella 3.4). La terminologia in uso per descrivere la diminuzione della forza utilizza numerosi termini, tra cui: ● ipostenia: è sinonimo di debolezza nel movimento; ● paresi: è la perdita quasi completa della capacità di eseguire il movimento; ● paralisi: è l’assenza di attività contrattile del muscolo e quindi del corrispondente movimento volontario. La paralisi può interessare uno o più gruppi muscolari in relazione alla sede e all’entità della lesione, fino a estendersi a uno o più arti: si parla quindi di monoplegia (paralisi di un arto), emiplegia (paralisi di

una metà del corpo), paraplegia (paralisi degli arti inferiori) e tetraplegia (paralisi di tutti e quattro gli arti). Lo studio della forza deve includere anche prove atte a valutare l’affaticabilità o esauribilità dei diversi gruppi muscolari. La valutazione neuro-muscolare è completata dallo studio dei riflessi, ovvero dall’osservazione delle risposte motorie evocate da stimoli sensitivi selettivi. Si distinguono due gruppi principali di riflessi (Tabella 3.5): ● superficiali cutanei (o esterocettivi); ● profondi (detti anche osteo-tendinei o miotatici o da stiramento fasici). A seconda della risposta ottenuta, i riflessi sono classificati come normoeccitabili (o normoevocabili), ipoeccitabili o ipereccitabili. L’assenza di una qualsiasi risposta motoria configura l’areflessia, mentre un riflesso vivace può anche essere policinetico, con contrazioni ripetitive che si susseguono (clono). Nello studio dei riflessi è di fondamentale importanza rilevare asimmetrie nelle risposte tra i due lati del corpo.

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GENERALITÀ

Tabella 3.3

  Azione e innervazione di alcuni gruppi muscolari.

Movimento

Muscolo

Radice prevalente

Nervo

Elevazione della spalla Rotazione esterna della spalla

Deltoide Sottospinoso Piccolo rotondo Tricipite brachiale Brachiale Bicipite brachiale Pronatore rotondo Pronatore quadrato Bicipite brachiale Supinatore Estensori del carpo Flessore radiale del carpo Flessore ulnare del carpo Estensore breve del pollice Estensore lungo del pollice Opponente del pollice Adduttore del pollice Flessore superficiale delle dita Flessore profondo delle dita Estensore comune delle dita

C5 C5 C5 C7 C6 C5-C6 C7 C7 C5-C6 C6 C7 C7 C8 C7 C7 C8 C8-T1 C7 C7-T1 C7

Ascellare Soprascapolare Ascellare Radiale Muscolo-cutaneo, radiale Muscolo-cutaneo Mediano Mediano Muscolo-cutaneo Radiale Radiale Mediano Ulnare Radiale Radiale Mediano Ulnare Mediano Mediano (II-III), ulnare (IV-V) Radiale

Abduttore del V dito Ileo-psoas Adduttori Medio gluteo Quadricipite Ischio-crurali Tibiale anteriore Tricipite surale Peronei Estensore lungo dell’alluce Estensore lungo delle dita

T1 L2-L4 L3-L4 L5-S1 L3-L4 L5-S1 L5 S1 S1 L5 L5

Ulnare Femorale Otturatore Gluteo superiore Femorale Sciatico (rami collaterali) Peroneo profondo Tibiale Peroneo superficiale Peroneo profondo Peroneo profondo

Estensione del gomito Flessione del gomito Pronazione dell’avambraccio Supinazione dell’avambraccio Estensione del polso Flessione del polso Estensione del pollice Opposizione del pollice Adduzione del pollice Flessione delle dita lunghe Estensione delle metacarpofalangee Abduzione del V dito Flessione dell’anca Adduzione dell’anca Abduzione dell’anca Estensione del ginocchio Flessione del ginocchio Flessione dorsale della caviglia Flessione plantare della caviglia Eversione del piede Estensione dell’alluce Estensione delle dita del piede

Tabella 3.4

0 1 2 3 4 5

 Scala di valutazione della forza muscolare.

Nessuna attività contrattile Presenza di attività contrattile, ma senza movimento Movimento possibile, ma non contro gravità Movimento contro gravità, ma non contro resistenza Movimento contro resistenza, ma forza ridotta Forza completa

N.B.: Vi possono essere valori intermedi tra punto e punto, espressi con + o −.

Valutazione dei polsi periferici La valutazione dei polsi periferici si rende indispensabile nel momento in cui si sospetta l’insufficiente perfusione di un distretto periferico, in fase sia acuta sia cronica (per esempio dopo un trauma o nell’inquadramento di una claudicatio). Si saggiano i comuni polsi arteriosi (brachiale,

radiale, femorale, popliteo, tibiale posteriore e pedidio), comparando i reperti tra i due lati del corpo. La valutazione della perfusione capillare del letto ungueale è utile quando si sospettino compressioni vascolari in presenza di apparecchi gessati, dove le dita possono essere le uniche strutture accessibili alla valutazione clinica.

Manovre semeiologiche specifiche L’ultima parte dell’esame obiettivo è dedicata all’esecuzione di manovre semeiologiche specifiche (prove, test, segni) volte al riconoscimento e alla definizione delle patologie che possono interessare i vari distretti dell’apparato locomotore; alcune di queste prove sono elencate nella Tabella 3.6. Si tratta di una sezione molto vasta della valutazione clinica e per la descrizione dettagliata dei singoli test diagnostici si rimanda ai capitoli del testo dedicati alle relative affezioni.

3 - Esame clinico e diagnostica per immagini

Tabella 3.5

  Principali riflessi di interesse ortopedico.

Superficiali ● Addominali: contrazione dei muscoli addominali ottenuta strisciando una punta sulla parete addominale (superiore, media, inferiore) ● Cremasterico: contrazione del muscolo cremasterico, con risalita del testicolo, a seguito di stimolazione della superficie interna della coscia con una punta ● Bulbo-cavernoso: contrazione dello sfintere anale per effetto della pressione delicata sul glande ● Perianale: contrazione dello sfintere anale strisciando con una punta smussa la cute adiacente ● Cutaneo plantare: si provoca strisciando la superficie esterna del piede con una punta; la risposta normale consiste in una flessione dell’alluce e delle dita; in caso di estensione e apertura a ventaglio delle dita il riflesso è patologico e prende il nome di segno di Babinski, espressione di lesione del fascio piramidale (tale risposta è presente anche alla nascita e scompare tra i 6 e i 18 mesi di vita, con la mielinizzazione del fascio piramidale) Profondi (osteo-tendinei) ● Bicipitale: contrazione del muscolo bicipite brachiale (flessione del gomito) dopo percussione del suo tendine distale in regione antecubitale → livello C5 (C6) ● Brachio-radiale: contrazione del muscolo brachio-radiale (flessione del gomito e supinazione dell’avambraccio) dopo percussione della stiloide radiale → livello C6 ● Tricipitale: contrazione del muscolo tricipite brachiale (estensione del gomito) dopo percussione del suo tendine distale in regione sopraolecranica → livello C7 ● Rotuleo: contrazione del quadricipite (estensione del ginocchio) dopo percussione del tendine rotuleo → livello L4 (L2-L3) ● Achilleo: contrazione del tricipite surale (flessione plantare del piede) dopo percussione del tendine d’Achille → livello S1 ● Medioplantare: contrazione del tricipite surale percuotendo il terzo medio della pianta del piede → livello S1

La specificità e la sensibilità di queste manovre sono molto variabili: l’analisi critica di tutti i dati clinici, una corretta tecnica di esecuzione e l’esperienza dell’esaminatore sono fattori che permettono di accrescere la significatività della semeiotica orientata per patologia.

Diagnostica per immagini Nella maggior parte delle patologie a carico dell’apparato locomotore, la diagnostica strumentale si avvale esclusivamente di tecniche di imaging a cui viene dedicata questa parte del capitolo, al fine di comprenderne il razionale di applicazione e di impostare corretti algoritmi diagnostici.

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La diagnostica per immagini può essere suddivisa come segue: ● radiologia convenzionale; ● tomografia computerizzata (TC); ● risonanza magnetica (RM); ● ecografia; ● scintigrafia ossea. Altri esami diagnostici di comune applicazione, ma non classificabili come tecniche di imaging, sono rappresentati dalla elettromiografia e dalle indagini per la valutazione della densità minerale ossea (mineralometria, TC quantitativa ecc.).

Radiologia convenzionale Lo studio radiografico convenzionale ha un ruolo fondamentale e insostituibile per l’inquadramento iniziale delle patologie di interesse ortopedico. La visualizzazione delle strutture scheletriche è molte volte sufficiente a formulare la diagnosi definitiva non solo per le affezioni osteo-articolari, ma anche per quelle che interessano primariamente i tessuti molli. Nell’algoritmo diagnostico di quadri sintomatologici acuti (traumatici o no) e cronici, lo studio dei segmenti ossei può essere omesso solo in pochi casi. Purtroppo è invece una tendenza comune ritenere che l’esame radiografico non offra alcun elemento di giudizio per molte patologie e che la sua esecuzione possa essere trascurata per ricorrere a indagini ritenute più significative. L’esecuzione dello studio radiografico deve essere condotta rispettando alcune regole: ● è necessario eseguire almeno due proiezioni ortogonali dell’intero distretto da esaminare (per le ossa lunghe è necessario includere sia l’articolazione prossimale sia quella distale); questo può risultare difficile nel paziente traumatizzato, dove la mobilizzazione in caso di frattura può evocare vivo dolore o addirittura essere nociva se non viene eseguita con cautela; ● l’esposizione ai raggi deve essere tale da consentire la valutazione delle strutture scheletriche oggetto di studio; un’insufficiente o eccessiva esposizione (radiogrammi troppo “molli” o troppo “duri”) può causare il mancato riconoscimento di particolari importanti; ● la distorsione dell’immagine radiografica deve essere ridotta al minimo attraverso un corretto posizionamento della pellicola (quanto più vicina al distretto da esaminare) e del tubo radiogeno; in alcuni casi l’alterazione della “normale” immagine radiografica può essere richiesta per evidenziare specifiche strutture

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GENERALITÀ

Tabella 3.6

 Manovre semeiologiche di interesse ortopedico.

Distretto

Manovra

Patologia

Spalla

Segni di impingement Test per il sopraspinoso (Jobe) Belly press test Test dell’apprensione Test di Speed (palm up test) Test di Yergason

Conflitto subacromiale; rottura della cuffia dei rotatori

Gomito

Stress in varo-valgo Tinel alla doccia epitrocleo-olecranica

Instabilità di gomito Compressione del nervo ulnare al gomito

Polso

Tinel al polso Segno di Phalen Segno di Finkelstein

Sindrome del tunnel carpale

Mano

Grinding test Test di Froment

Rizoartrosi del pollice Lesione del nervo ulnare o della radice C7

Rachide cervicale

Test della compressione-distrazione Prova di Valsalva Segno di Lhermitte

Radiculopatia e mielopatia cervicale

Rachide lombare

Manovra di Lasegue Manovra di Wasserman Segno di Valleix

Radiculopatia lombo-sacrale

Anca

Manovra di Ortolani Segno di Galeazzi Segno di Thomas Segno di Trendelenburg Segno di Duchenne

Displasia congenita dell’anca

Ballottamento rotuleo Stress in varo-valgo Test di Lachman Segno del cassetto anteriore e posteriore Pivot shift test Test di McMurray Test di Apley Sfregamento (rasping) femoro-rotuleo Test dell’apprensione (Fairbank)

Versamento articolare Lesione dei legamenti collaterali Lesione dei legamenti crociati

Stress in varo-valgo Segno del cassetto anteriore e posteriore

Instabilità della caviglia

Ginocchio

Caviglia



scheletriche (per esempio nelle proiezioni per lo studio delle fratture del bacino), in altri casi è invece inevitabile per atteggiamenti coatti delle articolazioni (per esempio nel caso di rigidità articolari o di immobilizzazione in apparecchi gessati); nel soggetto in accrescimento, soprattutto nei bambini più piccoli con ampie porzioni scheletriche non ancora ossificate, la comparazione con l’arto controlaterale è spesso necessaria.

Anche la radiologia tradizionale si avvale oggi della possibilità di acquisire immagini digitalizzate e di usufruire dei vantaggi correlati all’impiego dei sistemi informativi in questo ambito: esecuzione più rapida degli esami, archiviazione più semplice e funzionale, possibilità di

Instabilità scapolo-omerale Tendinopatie del capo lungo del bicipite brachiale

Malattia di De Quervain

Coxartrosi

Rotture meniscali Condropatie femoro-rotulee Lussazione recidivante della rotula

condivisione e trasferimento delle immagini a distanza. La tecnologia digitale tuttavia porta con sé lo svantaggio della miniaturizzazione dell’immagine, che in campo ortopedico può rappresentare un problema in alcune pianificazioni preoperatorie (si pensi per esempio alle misurazioni eseguite sui radiogrammi per scegliere la dimensione corretta di una protesi articolare) qualora non siano disponibili software dedicati a tali scopi. Nello studio radiografico delle ossa è bene seguire un metodo sistematico di valutazione che tenga conto dei seguenti elementi: 1. configurazione (per esempio, una frattura può alterare in modo marcato la normale forma dell’osso); 2. struttura (per esempio, un tumore o un’infezione può distruggere la normale struttura trabecolare);

3 - Esame clinico e diagnostica per immagini

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3. calcificazione (per esempio, alcune osteopatie modificano il normale tenore calcico, nel senso sia della riduzione sia dell’aumento). Oltre al tessuto osseo, le radiografie consentono lo studio delle articolazioni grazie alla presenza di segni diretti (per esempio, perdita dei rapporti articolari dei capi scheletrici nelle lussazioni, osteofiti e sclerosi subcondrale nell’artrosi ecc.) o indiretti (riduzione di ampiezza della rima articolare, aumento della radiopacità dei tessuti molli ecc.) di danno articolare. Inoltre, è possibile e agevole la valutazione di distretti anatomici sottoposti a sollecitazioni funzionali: si pensi alle radiografie sotto carico delle ginocchia o alle proiezioni dinamiche in flessione ed estensione del rachide cervicale. Semplici radiogrammi sono anche sufficienti per identificare qualsiasi formazione radiopaca al di fuori dello scheletro (ossificazioni e calcificazioni eterotopiche, corpi estranei). Ulteriori tecniche tradizionali di imaging sono: ● la radioscopia, che consente l’osservazione visiva diretta della struttura in esame grazie all’impiego di amplificatori di brillanza ed è diffusamente utilizzata in sala operatoria nel corso di interventi di osteosintesi; ● la tomografia o stratigrafia, che consente di raffigurare singolarmente gli strati del corpo, ma è stata ormai soppiantata da altre metodiche (TC e RM). Gli esami contrastografici si basano sull’impiego di mezzi di contrasto (MDC), sostanze che servono a creare una linea di demarcazione tra strutture di densità uniforme, rendendo visibili formazioni anatomiche altrimenti non distinguibili. I MDC possono avere peso atomico molto alto (per esempio, lo iodio) o molto basso (per esempio, l’aria) ed essere perciò opachi o trasparenti alle radiazioni. L’impiego di MDC non è rimasto confinato alle tecniche radiologiche tradizionali, ma si è esteso alle metodiche panesploranti (TC, RM), oggi sempre più utilizzate. L’artrografia (radiografia dopo iniezione di MDC nel cavo articolare) (Figura 3.11), la mielografia e la saccoradicolografia (radiografie del rachide cervico-dorsale e lombo-sacrale dopo iniezione di MDC nello spazio subaracnoideo) vanno ricordate più sotto l’aspetto storico che non per l’attuale impiego nella pratica clinica.

Tomografia Computerizzata (TC) Il ruolo della TC in ortopedia e traumatologia ha subìto un’evoluzione in questi ultimi anni per due ordini di fattori: da un lato la crescente accessibilità alla RM ha ridotto il suo impiego nello studio di svariate patologie,

Figura 3.11   Artrografia a doppio contrasto (mezzo liquido iodato e aria) di spalla in presenza di rottura completa della cuffia dei rotatori: la diffusione del mezzo di contrasto in sede subacromiale ( ) testimonia la soluzione di continuità a tutto spessore del tessuto tendineo.

dall’altro la disponibilità di apparecchi in grado di eseguire esami in pochi minuti (TC spirale) ha portato a un suo impiego più massiccio in regime d’urgenza, soprattutto in campo traumatologico. La TC non si limita a fornire dettagliate sezioni trasversali del nostro corpo ma, grazie alla disponibilità di hardware e software sempre più perfezionati, consente di ottenere ricostruzioni bi- e tridimensionali dell’apparato osteo-articolare a elevata risoluzione. Questo ha assunto particolare valore in alcune patologie traumatiche (per esempio nelle fratture del bacino, dell’acetabolo, del calcagno o nelle fratture articolari complesse), dove una definizione dettagliata del danno anatomico era di difficile acquisizione (Figura 3.12). Se la caratterizzazione del quadro scheletrico è più immediata e intuitiva rispetto a quanto offerto dalla RM, altrettanto non si può dire per i tessuti molli. La TC, un tempo esame d’elezione per lo studio di comuni patologie (si pensi alle ernie discali o alle rotture meniscali), trova oggi indicazione in caso di impossibilità a eseguire la RM, dotata di un maggiore valore diagnostico e vantaggiosa per il paziente, che non viene esposto a radiazioni ionizzanti. L’esecuzione di queste due metodiche panesploranti in uno stesso paziente può rendersi necessaria in alcuni quadri morbosi, soprattutto in campo oncologico, dove

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GENERALITÀ

Figura 3.12   Frattura talamica del calcagno e possibilità di studio con TC: radiografia in proiezione laterale (a); scansioni TC: assiale (b1), sagittale (b2) e coronale (b3); ricostruzioni tridimensionali TC (c1-c2).

l’integrazione dei dati ottenuti consente una minuziosa pianificazione preoperatoria. Come già accennato in precedenza, la TC può avvalersi dell’iniezione locale di mezzi di contrasto per lo studio di patologie articolari (artro-TC) (Figura 3.13) o extrarticolari (mielo-TC). La TC può anche essere eseguita dopo iniezione endovenosa del MDC, per valutare la vascolarizzazione e, di conseguenza, la possibile natura dell’alterazione che si desidera esaminare.

Figura 3.13   Artro-TC della spalla: la presenza del doppio contrasto (mezzo liquido iodato e aria) permette di delineare il profilo delle strutture intrarticolari. In questo caso si rileva la disinserzione del cercine fibro-cartilagineo dal margine glenoideo anteriore, con interposizione del mezzo iodato tra le due strutture ( ).

Risonanza Magnetica (RM) Inizialmente anche in medicina veniva utilizzato il termine “nucleare” (risonanza magnetica nucleare, RMN), che è stato poi eliminato perché può evocare nei pazienti timori infondati: l’esame è infatti del tutto innocuo. La principale differenza tra la RM e le metodiche d’indagine finora descritte è la modalità con cui le immagini vengono prodotte: mentre la radiografia e la TC si basano sulla trasmissione di radiazioni attraverso il corpo, la RM rileva e analizza l’emissione di segnali dall’organismo, indotti dall’applicazione di un campo magnetico e radiofrequenze. Le immagini di RM hanno una risoluzione intrinseca piuttosto bassa (particolari di 1 mm sono al limite della visibilità), ma i vantaggi di questa metodica risiedono nella possibilità di esaminare le strutture anatomiche virtualmente in ogni piano e di modulare l’intensità dei segnali in base alle esigenze (Figura 3.14). Tali caratteristiche consentono di identificare alterazioni morfologiche e strutturali a carico di tutte le componenti dell’apparato locomotore, definendone la natura nella maggior parte dei casi. I limiti della RM sono rappresentati dai costi, dalle possibili controindicazioni (pacemaker, clip vascolari, schegge metalliche, claustrofobia ecc.), dalla disponibilità delle apparecchiature e dalla presenza di competenze radiologiche specifiche; per questi motivi la

3 - Esame clinico e diagnostica per immagini

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Figura 3.14   Scansioni RM della mano di un paziente affetto da osteonecrosi post-traumatica dello scafoide carpale. Le diverse impostazioni delle sequenze permettono di modificare il segnale emesso dall’osso normale, da quello necrotico ( ) e dai tessuti molli. La scelta delle sequenze RM si effettua sulla base della patologia da studiare, in modo da fornire il maggior numero di informazioni utili per l’iter diagnostico-terapeutico.

RM non può e non deve essere considerata un esame strumentale di primo livello. Il campo d’azione della RM si è progressivamente allargato nel corso degli anni: in una fase iniziale rappresentava l’esame d’elezione per i tessuti molli, mentre oggi riveste un ruolo insostituibile nella diagnostica per immagini di numerose patologie osteocartilaginee, quali la necrosi asettica della testa del femore, i tumori ossei e le lesioni condrali. Anche la RM può essere eseguita dopo iniezione intrarticolare (artro-RM) o endovenosa di un MDC paramagnetico, il gadolinio. A differenza delle indagini che utilizzano radiazioni ionizzanti, la RM può avvalersi del contrasto offerto da un liquido biologico (per esempio un emartro dopo un trauma articolare) per una migliore definizione delle strutture anatomiche.

Ecografia Le immagini ecografiche si producono per effetto della riflessione di ultrasuoni (suoni ad altissima frequenza, compresi tra 1 e 20 MHz) da parte dei tessuti. I principi alla base dell’esame sono gli stessi del radar e del sonar: si sfruttano le variazioni dell’impedenza acustica (ovvero l’opposizione al flusso di energia acustica da parte di un mezzo di trasmissione) per visualizzare i diversi piani tissutali. L’ecografia, oltre che nei servizi di radiologia, è utilizzata in altri reparti medici o chirurgici ed è oggi considerata un esame di base o di filtro rispetto a tecniche di imaging più complesse (TC, RM). Ha il vantaggio di essere del tutto innocua, di rapida esecuzione, facilmente accessibile ed economica; è tuttavia un esame operatore-dipendente, in cui l’esperienza gioca un

ruolo fondamentale per la corretta interpretazione delle immagini. In campo ortopedico l’ecografia trova ampia applicazione nello studio delle malattie miotendinee, selettiva in quello delle affezioni articolari (merita di essere ricordato il suo impiego nello screening della displasia congenita dell’anca), mentre non ha praticamente alcun ruolo nell’imaging dell’osso (tentativi in questo senso sono stati fatti in passato per valutare l’evoluzione del callo osseo nella guarigione delle fratture). Lo studio in condizioni dinamiche (per esempio durante la contrazione muscolare o il movimento articolare) può essere eseguito in modo agevole e inoltre si possono ottenere informazioni sul flusso sanguigno a livello delle strutture esaminate sfruttando l’effetto Doppler (eco-color-doppler). Sotto controllo ecografico possono infine essere eseguite manovre invasive guidate, quali agoaspirazioni di raccolte liquide o biopsie di tessuti molli (Figura 3.15), e procedure terapeutiche (per esempio l’applicazione mirata di onde d’urto). È importante tenere presente che i grandi vantaggi offerti dall’ecografia non sono applicabili in molte patologie dell’apparato locomotore e non bisogna cadere nell’errore di un eccesso di indicazioni, come purtroppo spesso accade.

Scintigrafia OSSEA È una metodica di imaging medico nucleare che sfrutta la caratteristica propria di alcuni radiofarmaci di concentrarsi nel tessuto osseo, consentendo di valutare l’attività metabolica dello scheletro e di riconoscere qualsiasi lesione che provochi un’alterazione distrettuale del rimodellamento dell’osso.

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GENERALITÀ

Figura 3.15   Agobiopsia ecoguidata di neoformazione solida situata al di sotto del piano muscolare (PM): l’ago per il prelievo ( ) viene inserito nel punto desiderato sotto il controllo della sonda ecografia.

Il radiofarmaco più comunemente utilizzato è il tecnezio-99m metilene di fosfonato (99mTc-MDP): il 99mTc è un radionuclide che presenta alcune caratteristiche favorevoli (decadimento radioattivo breve, disponibilità su larga scala), mentre il MDP è la molecola che si fissa al tessuto osseo in modo proporzionale al suo turnover. Le radiazioni g emesse dal nucleo del 99mTc sono captate in una camera a scintillazione (g-camera) per riprodurre un’immagine radiologica istantanea dello

scheletro, in cui sono evidenziate eventuali aree di accumulo del radionuclide. La scintigrafia può essere eseguita su tutto lo scheletro (total-body) così come in singoli distretti. Rispetto a una normale radiografia, la scintigrafia è molto più sensibile ma meno specifica: consente di identificare alterazioni patologiche dell’osso in fase iniziale, ma non fornisce informazioni sulla loro natura. La metodica trova indicazione in un ampio spettro di condizioni cliniche: ricerca di metastasi ossee, identificazione di fratture da stress e di osteonecrosi asettica, sospette mobilizzazioni di protesi articolari (Figura 3.16), osteopatie e altre ancora. Nella patologia infettiva osteo-articolare (osteomieliti, infezioni periprotesiche), la metodica d’elezione per la diagnosi, e il monitoraggio del processo settico, è oggi rappresentata dalla scintigrafia con leucociti marcati. La marcatura con indio-111(111In) o con 99mTc non altera la vitalità e le caratteristiche biologiche dei leucociti, che dopo essere stati iniettati in circolo migrano verso il focolaio infetto con cinetica di progressivo accumulo fino alle immagini tardive, ottenute dopo 24 ore. Nelle osteomieliti acute la sensibilità e la specificità si avvicinano al 100%, mentre nelle forme croniche la sensibilità è del 70% e la specificità dell’80% circa. La scintigrafia con leucociti marcati ha progressivamente soppiantato la scintigrafia con gallio-67 (67Ga) nello studio delle osteomieliti.

Figura 3.16   Mobilizzazione asettica di artroprotesi del ginocchio sinistro. La radiografia evidenzia una linea radiotrasparente all’interfaccia protesi-osso ( ) (a). La scintigrafia mostra l’ipercaptazione del radionuclide (99mTc), più accentuata sul compartimento mediale ( ) espressione del patologico rimodellamento osseo periprotesico. Il ginocchio destro, anch’esso protesizzato, mostra invece rilievi scintigrafici normali (b).

parte 

II

Ortopedia

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capitolo

Malformazioni e malattie congenite

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Ugo E. Pazzaglia, Giovanni Fancellu, Leo Massari

Malformazioni congenite Ugo E. Pazzaglia

© 2012 Elsevier Srl. Tutti i diritti riservati.

Le malformazioni congenite sono alterazioni dello scheletro determinate da un’inibizione o deviazione dello sviluppo degli abbozzi embrionali a causa di fattori intrinseci (genetici, meccanici o metabolici) o estrinseci all’embrione (teratogeni). Spesso non è possibile identificare i fattori eziologici della deformazione, ma è opportuno ricordare quelli conosciuti poiché per questi è possibile praticare un’azione preventiva: tra essi si ricordano l’infezione materna nei primi mesi di gravidanza con il virus della rosolia o della toxoplasmosi, le radiazioni ionizzanti e i farmaci teratogeni. Poiché nell’embrione umano di 8 settimane tutti gli abbozzi cartilaginei dell’apparato scheletrico sono formati, nelle malformazioni che comportano l’assenza di uno o più segmenti è possibile che tali fattori abbiano agito prima di tale periodo. La classificazione è morfologica e topografica (Tabella 4.1).

Pur trattandosi di una patologia nota fin dall’antichità (già nel 400 a.C. Ippocrate descriveva la caratteristica andatura anserina dei pazienti affetti da lussazione congenita bilaterale dell’anca), bisogna aspettare la fine dell’Ottocento per i primi metodi efficaci di riduzione incruenta proposti da Paci e Lorenz. Nel corso del Novecento, anche quale effetto della scoperta dei raggi X, si è assistito a un progressivo affinamento in campo diagnostico e terapeutico della DCA: in particolare, grazie al contributo fondamentale di alcuni autori (Hilgenreiner, Putti), si è riconosciuta la necessità di un precoce riconoscimento e trattamento della condizione. A Ortolani si deve il merito della manovra semeiologica principe nella diagnostica clinica precoce della lussazione congenita dell’anca (LCA). A partire dagli anni Ottanta, sulla spinta degli studi condotti da Graf, l’ecografia dell’anca è stata riconosciuta come indagine strumentale d’elezione per lo screening della DCA, consentendo lo studio morfologico dell’articolazione coxo-femorale già alla nascita. Epidemiologia

Displasia e lussazione congenita dell’anca Giovanni Fancellu Per displasia congenita dell’anca (DCA) si intende un complesso di dismorfismi della cavità cotiloidea, dell’estremità cefalica del femore e dell’apparato capsulo-legamentoso che può portare a una perdita parziale o totale dei rapporti articolari coxo-femorali.

La DCA occupa il primo posto fra le deformità congenite che interessano il sistema osteo-articolare: secondo le varie statistiche avrebbe un tasso di incidenza intorno al 2%. La diffusione dell’affezione risente notevolmente delle influenze razziali: vi sono infatti gruppi etnici a elevata incidenza e altri presso i quali la malattia è pressoché sconosciuta, come la razza africana. Incidenze elevatissime, dell’ordine del 5-10%, sono state rilevate presso alcune tribù indiane dell’America del Nord e presso i Lapponi. Tra le popolazioni di razza gialla si osservano

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Ortopedia

Tabella 4.1

  Malformazioni congenite.

Malformazioni dello scheletro assile ● Anomalie numeriche: agenesia totale di una vertebra, agenesia del sacro, vertebra soprannumeraria, costa soprannumeraria ● Anomalie morfologiche: spina bifida, somatoschisi, spondiloschisi, agenesia del soma, emispondilo, diastematomielia, apofisi spinosa soprannumeraria ● Anomalie della segmentazione: sinostosi vertebrale, segmentazione trasversale del soma, segmentazione basale dell’odontoide, sinostosi costale ● Anomalie della differenziazione regionale ● Anomalie complesse: sindrome di Klippel-Feil Malformazioni degli arti Ectromelie* trasversali ● Amelia: assenza totale degli arti ● Focomelia: assenza o accorciamento del segmento prossimale con segmento distale ben conformato ● Emimelia: assenza del segmento distale Ectromelie* longitudinali ● Aplasia del raggio esterno dell’arto superiore: – assenza del radio o della sua parte distale – assenza di radio, scafoide, trapezio, I metacarpo e I dito ● Aplasia del raggio interno dell’arto superiore: – assenza dell’ulna, della sua parte distale o accorciamento dell’ulna – assenza dell’ulna, del piramidale, del piriforme, dell’uncinato, del III, IV e V metacarpo e del III, IV e V dito ● Mano a pinza con assenza del II, III e IV metacarpo, e delle corrispondenti dita o delle sole dita ● Aplasia del raggio esterno dell’arto inferiore: – assenza totale o parziale del perone – assenza del perone, del IV e V metatarso e delle corrispondenti dita ● Aplasia del raggio interno dell’arto inferiore: – assenza della tibia o della sua parte distale – assenza della tibia, del I e II metatarso e delle corrispondenti dita Anomalie di volume** ● Emipertrofia congenita ● Ipertrofia congenita poliostotica o monostotica Anomalie di segmentazione*** ● Sinostosi omero-radio-ulnare ● Sinostosi omero-radiale ● Sinostosi omero-ulnare ● Sinostosi radio-ulnare (prossimale o distale) ● Sinostosi delle ossa carpali ● Sinostosi delle ossa del bacino ● Sinostosi tibio-peroneale (prossimale o distale) ● Sinostosi delle ossa del tarso *Ectromelia: assenza parziale o totale degli arti per mancato sviluppo di un segmento o della totalità dell’arto. **Aumento di volume a eziologia non vascolare dei segmenti scheletrici o di un emisoma. ***Difetto di segmentazione o fusione degli abbozzi cartilaginei.

differenze marcate: quasi assente presso i cinesi e i coreani, la DCA presenta un’incidenza elevata nei giapponesi (0,5-1%). Nella razza bianca (caucasica) l’incidenza oscilla fra lo 0,7-2,5‰, con focolai di elevata endemia in certe regioni europee, quali alcune aree del bacino mediterraneo

(Spagna) e soprattutto dell’Europa Orientale (Repubbliche Ceca e Slovacca, Polonia). L’incidenza della LCA in Italia è stata valutata intorno all’1-2% ed è diversa da regione a regione; i più alti valori si riscontrano in Emilia, dove l’incidenza della LCA raggiunge il 4-5% ed è particolarmente elevata nel Ferrarese. La LCA ha una predilezione per il sesso femminile: il rapporto tra femmine e maschi affetti è di 6:1 circa. L’affezione si presenta in forma bilaterale nel 30-40% dei pazienti. Eziopatogenesi

L’eziopatogenesi della DCA, un tema dibattuto da molto tempo, allo stato attuale delle conoscenze non ha ancora trovato una precisa risoluzione. Oggi si ritiene che la DCA abbia un’origine multifattoriale, in cui fattori sia genetici sia ambientali possano giocare un ruolo. La trasmissione della DCA è apparsa assai irregolare, pur essendo nota una predisposizione familiare e razziale alla malattia. Alcuni autori propendono per un carattere di tipo recessivo, altri per un carattere dominante incompleto, cioè con variazioni di penetranza e di espressività legati a eventuali geni secondari o fattori esogeni in soggetti eterozigoti. Da un punto di vista patogenetico, due sono le teorie più accreditate: ● Teoria della displasia acetabolare. La cartilagine acetabolare, essendo più soffice e plastica del normale, sarebbe deformata dalle sollecitazioni meccaniche della testa femorale; tale ipotesi è avallata da studi anatomo-patologici, condotti su feti e neonati portatori di DCA, che hanno dimostrato alterazioni di forma dell’acetabolo. Studi istopatologici hanno inoltre evidenziato alterazioni istologiche e istochimiche a carico della cartilagine acetabolare. ● Teoria della lassità caspulo-legamentosa. La tendenza alla lussazione dell’epifisi prossimale del femore sarebbe dovuta a una lassità delle strutture di contenzione passiva dell’articolazione dell’anca. Studi istologici, istochimici e ultrastrutturali hanno dimostrato un aumento delle fibre elastiche e una diminuzione dello spessore delle fibrille collagene nella capsula e nel legamento rotondo di pazienti trattati chirurgicamente per DCA. Molti studi sono stati condotti sulla posizione che il feto mantiene in utero e sulla conseguente evoluzione morfologica dell’articolazione coxo-femorale. Il feto in utero risulta particolarmente vulnerabile alle deformazioni a causa del suo rapido tasso di crescita e della sua relativa plasticità. L’asse del collo del femore e l’asse

4 - Malformazioni e malattie congenite

acetabolare (tracciato perpendicolarmente al punto medio dell’apertura acetabolare) sono coincidenti: ciò significa che nella posizione che il feto mantiene più frequentemente in utero, a gambe incrociate, la testa del femore occupa anatomicamente la corretta posizione funzionale nell’acetabolo. Alcune condizioni intrauterine possono portare a una eccessiva o asimmetrica pressione sull’acetabolo, condizionando un alterato sviluppo della cavità cotiloidea. Secondo la letteratura, i fattori di rischio per l’instaurarsi della DCA sono: ● sesso femminile; ● familiarità, provenienza da zone a elevata incidenza di DCA; ● primogenitura e parto gemellare; ● presentazione podalica (o rivolgimento tardivo); ● oligoidramnios, gestosi materna (o ipertensione in gravidanza). Anatomia patologica

Nello stadio iniziale di displasia, le alterazioni a carico del bordo cotiloideo sono modeste, mentre l’epifisi femorale, pur avendo una normale forma sferica, presenta un certo grado di antiversione. L’epifisi antiversa provoca una pressione eccessiva sul margine posterosuperiore del cotile: come risultato di ciò, il cercine fibrocartilagineo si estroflette. Tuttavia, una piccola parte di tessuto fibrocartilagineo va incontro a ipertrofia e si introflette; è possibile che questa concomitante introflessione possa non essere un fenomeno acuto ma piuttosto una graduale modificazione del tetto del cotile. Sia il deficit di contenimento anteriore sia la pressione provocata dall’antiversione contribuiscono a rallentare il processo di ossificazione del tetto cotiloideo. Le principali alterazioni a carico delle parti molli sono localizzate nelle porzioni anteriore e inferiore della capsula articolare, che risulta retratta. Il quadro istopatologico di una sezione della cartilagine acetabolare rivela condroblasti disposti irregolarmente, molti dei quali con un aspetto simil-fibroblastico. L’evoluzione successiva è verso un quadro di sublussazione dell’anca con perdita della sfericità epifisaria e notevole antiversione del collo femorale. Il cotile, a causa della pressione provocata dall’epifisi, appare più sfuggente e presenta un assottigliamento del margine; inizia a comparire una deformità marginale superiore e posteriore, per lo più rappresentata da una estroflessione del cercine. È in questo stadio che si osserva la comparsa del limbus: frequentemente confuso con il labbro, esso rappresenta una risposta patologica dell’acetabolo a pressioni anormali sull’anca. Con la migrazione superiore della

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testa del femore, il labbro viene gradualmente evertito e del tessuto capsulare si interpone tra questo e la parete esterna dell’acetabolo. La stimolazione meccanica provoca la formazione di tessuto fibroso, che si unisce alla cartilagine ialina sul bordo acetabolare: la struttura che ne risulta, il limbus, può prevenire la riduzione dell’anca. Queste alterazioni si accompagnano a modificazioni ossee: l’acetabolo rallenta la sua ossificazione laterale, producendo un aumento dell’inclinazione nella porzione postero-superiore che contribuisce alla sfuggenza del tetto. In aggiunta all’estroflessione del cercine glenoideo, l’ipertrofia del legamento rotondo e del tessuto fibroadiposo del pulvinar riduce la capacità contenitiva dell’acetabolo a tal punto che, in uno stadio successivo, la testa femorale migra dalla parte centrale del cotile per disporsi in una specie di nicchia scavata fra fondo acetabolare e ciglio cotiloideo, oppure sormonta il limbus per portarsi fuori dall’ambiente articolare, in una depressione dell’ala iliaca, nella quale viene mantenuta con l’interposizione di una plicatura capsulare (Figura 4.1). Con l’inizio della deambulazione, la testa può risalire nella fossa iliaca esterna e occupare la zona anteriore della cresta verticale dove può fissarsi in modo definitivo scavando un neocotile. Il nucleo cefalico femorale, sottoposto a pressioni abnormi, prima sul bordo cotiloideo e poi sulla parete iliaca, si appiattisce e può assumere un aspetto piriforme o a triangolo. L’ossificazione encondrale del nucleo è rallentata o inibita, fenomeno che si traduce nel ritardo di comparsa o nell’ipoplasia del nucleo cefalico.

Figura 4.1  Radiografia di lussazione congenita dell’anca sinistra. Il graduale scivolamento verso l’alto dell’epifisi femorale dà luogo alla formazione della doccia di migrazione ( ) (da Resnick D, Kransdorf MJ, op.cit.).

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Ortopedia

La perdita dei rapporti articolari condiziona profonde modificazioni anche a livello delle strutture capsulolegamentose: ● la capsula articolare, stirata dalla migrazione dell’epifisi, viene deformata “a clessidra”, essendo divisa in due parti da un istmo formato dalla pressione esercitata dal tendine del muscolo ileo-psoas che va a inserirsi sul piccolo trocantere; la parete della camera cefalica può ispessirsi nella parte superiore e opporsi all’abbassamento della testa; la parte inferiore può aderire al cotile vuoto obliterandolo e contribuendo a rendere irriducibile la lussazione; ● il legamento rotondo può apparire allungato e ipertrofico; talvolta è assente. È sempre presente in questo stadio una consistente atrofia della muscolatura periarticolare: ● i muscoli ileo-psoas, adduttori, ischio-crurali (flessori del ginocchio), retto femorale, sartorio, tensore della fascia lata risultano accorciati per la risalita del femore; ● i muscoli piccolo e medio gluteo, le cui fibre sono quasi verticali, tendono a orizzontalizzarsi di pari passo con la risalita del trocantere, diventano insufficienti dal punto di vista funzionale e causano una caratteristica zoppia. Quadro Clinico

Nei primi giorni di vita il test clinico più importante ai fini diagnostici è la manovra di Ortolani, che consiste nel sublussare la testa femorale, facendole scavalcare il limbus, per poi ridurla facendole seguire il percorso inverso (Figura 4.2). Per eseguire la manovra correttamente il neonato deve essere posto su un piano rigido

Tabella 4.2

 Principali ostacoli alla riduzione nella LCA.

Retrazioni muscolo-tendinee ● Adduttori ● Ileo-psoas Capsula articolare ● Strozzamento a clessidra da parte del tendine dell’ileo-psoas ● Interposizione per ripiegamento su se stessa Legamento rotondo allungato e ipertrofico Legamento trasverso dell’acetabolo accorciato e ipertrofico Pulvinar ipertrofico Incongruenze femoro-acetabolari per alterazioni di forma e volume delle componenti osteo-cartilaginee

con le anche e le ginocchia flesse. L’esaminatore pone le mani sulle cosce del neonato e applica, con il dito medio, una leggera pressione in corrispondenza del gran trocantere mentre il pollice appoggia sul piccolo trocantere. Con una delicata abduzione-extrarotazione si ottiene la riduzione della testa femorale, che viene avvertita come una sensazione palpatoria (talvolta anche acustica) di click o “scatto di entrata”. Le manovra di Ortolani, di massima affidabilità nei primi giorni di vita, diviene dopo poche settimane meno attendibile e di più complessa esecuzione, per la difficoltà che si incontra nel ricondurre la testa femorale nella sua sede a seguito della comparsa di ostacoli riduttivi e/o per la contrattura riflessa dei muscoli adduttori della coscia (Tabella 4.2). Complementare al test di Ortolani, e sempre rivolta a valutare la stabilità dell’anca, è la manovra di Barlow: si applica una spinta assiale sul femore e si esegue una

Figura 4.2  Disegno che illustra la manovra di Ortolani e di Barlow (si veda la spiegazione nel testo).

4 - Malformazioni e malattie congenite

delicata adduzione delle anche, praticando anche una leggera pressione con il pollice in corrispondenza del piccolo trocantere. In caso di positività, la testa femorale si sublussa, evento che viene apprezzato con uno “scatto di uscita”. Discreto valore diagnostico assume la limitazione dell’abduzione ad anca flessa, un segno che si manifesta nella maggior parte delle DCA non trattate dopo 1-2 mesi. Segni clinici più tardivi e di minor significato sono: ● l’asimmetria della rima vulvare e della regione perineale; ● l’atteggiamento in extrarotazione dell’arto inferiore (Figura 4.3); ● l’accorciamento dell’arto interessato, evidenziabile con la manovra di Galeazzi: a neonato supino con anche e ginocchia flesse, il test è positivo quando le ginocchia non si trovano allo stesso livello ma una sopravanza l’altra; ● scrosci articolari, asimmetria delle pliche inguinali (Figura 4.4).

Figura 4.4

sinistra.

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 Asimmetria delle pieghe inguinali in DCA

Nelle diagnosi tardive, quando il bambino inizia la deambulazione autonoma, questa appare insicura e avviene secondo uno schema caratteristico:

nella lussazione monolaterale compare il segno di Trendelenburg: quando il bambino carica l’anca affetta, per l’insufficienza relativa del muscolo gluteo medio (abduttore), il bacino cade dalla parte opposta (Figura 4.5);

Figura 4.3  DCA sinistra in stadio di lussazione: l’arto affetto appare accorciato e atteggiato in extrarotazione.

Figura 4.5   Segno di Trendelenburg: in appoggio monopodalico sull’arto sano il bacino resta allineato al suolo (a), mentre in appoggio sull’arto affetto da LCA l’insufficienza del medio gluteo provoca la caduta del bacino verso il lato sano (b).



32



Ortopedia

nella lussazione bilaterale il fenomeno di Trendelenburg si verifica in entrambi i lati e si realizza la cosiddetta andatura anserina (dal latino anser = oca): a ogni passo tutto il corpo subisce un’oscillazione ritmica da un lato all’altro, con carattere dondolante, quale si verifica nelle oche.

Diagnostica per immagini

L’ecografia dell’anca, divulgata da Graf a partire dalla fine degli anni Settanta, è considerato l’esame strumentale elettivo per lo studio morfologico dell’articolazione coxo-femorale nei primi due mesi di vita. In alcuni Paesi lo screening ecografico della DCA viene praticato su tutti i nati, in altri soltanto sui neonati che presentino fattori di rischio. Punti di repere indispensabili al fine di ottenere un’immagine ecografica corretta sono il bordo inferiore

dell’osso iliaco e il labbro acetabolare. Per mezzo di essi viene definito l’unico piano di scansione utile per poter esprimere un giudizio di maturità sull’anca esaminata. La diagnostica ecografica si basa sullo studio morfologico del versante cotilideo dell’articolazione, valutandone alcuni parametri (conformazione ossea e cartilaginea dell’acetabolo, aspetto del ciglio cotiloideo), e viene completata da misurazioni angolari. Per un’analisi quantitativa sull’immagine ecografica vengono tracciate tre linee di riferimento (Figura 4.6): ● la linea di base, che è una continuazione verso il basso del profilo laterale osseo dell’ala iliaca e permette di definire la percentuale di testa femorale contenuta nell’acetabolo osseo; ● la linea del tetto osseo, dall’estremità dell’osso iliaco e tangente al bordo del ciglio osseo;

Figura 4.6  Disegno che illustra le linee di riferimento e gli angoli a e b per lo studio ecografico della DCA secondo Graf: linea di base (1), linea del tetto osseo (2) e linea di esposizione (3) (a). Sono inoltre riprodotte due immagini ecografiche relative a un’anca tipo IA (b) e IIB (c).

4 - Malformazioni e malattie congenite

Tabella 4.3

33

 Classificazione ecografica della DCA secondo Graf

Tipo

Conformazione ossea

Ciglio osseo

Ciglio cartilagineo

Angolo a

Angolo b

Terapia

Anca matura (ogni età) Forma di transizione

buona

A spigolo

≥60˚

≤55˚

Nessuna terapia

buona

smusso

≥60˚

>55˚

Fisiologico ritardo dell’ossificazione (in rapporto all’età) Non fisiologico ritardo dell’ossificazione (fino al 3˚ mese)

sufficiente

arrotondato

Sottile e coprente a base larga e poco coprente a base larga, coprente

50-59˚

>55˚

nessuna terapia; controllo successivo nessuna terapia; controllo successivo

scarsa

arrotondato

a base larga, coprente

50-59˚

>55˚

Cuscino di abduzione; controllo successivo

Ritardo di ossificazione (dopo il 3˚ mese) Anca “critica” (ogni età)

scarsa

arrotondato

a base larga, coprente

50-59˚

>55˚

scarsa

70-77˚

Anca in via di decentratura

molto scarsa

a base larga, ancora coprente spostato in alto

43-49˚

II D

43-49˚

>77˚

III A

Anca decentrata (sublussata)

insufficiente

da arrotondato a piatto da arrotondato a piatto piatto

77˚

III B

Anca decentrata (sublussata)

Insufficiente

Piatto

77°

Ricovero, riduzione e immobilizzazione

IV

Anca lussata

insufficiente

piatto

spostato in alto senza alterazioni strutturali spostato in alto con alterazioni strutturali compresso in basso

divaricatore; controllo successivo immediatamente divaricatore (se non trattata peggiora) immediato sistema sicuro di centratura forzata ricovero, riduzione e immobilizzazione

77˚

ricovero, riduzione e immobilizzazione

IA IB II A+

II A-

II B II C



la linea di esposizione (o linea del tetto cartilagineo), dall’estremità dell’osso iliaco e tangente al labbro acetabolare.

Queste linee delimitano due angoli: ● l’angolo a, formato dalla linea di base e dalla linea del tetto, indicativo della parte ossea dell’acetabolo e del suo sviluppo; ● l’angolo b, formato dalla linea di base e dalla linea di esposizione, indicativo dello sviluppo della parte cartilaginea dell’acetabolo. In base alle caratteristiche ecografiche e ai valori angolari, Graf ha proposto una classificazione in tipi e sottotipi ecografici dell’anca neonatale, alla quale corrispondono precisi comportamenti terapeutici (Tabella 4.3). L’esame radiografico non viene eseguito per lo screening della DCA, ma per il monitoraggio del trattamento in corso. Si deve eseguire una proiezione antero-posteriore di bacino, che includa entrambe le anche. La lettura dei radiogrammi è facilitata dalla composizione

del diagramma di Ombredanne (Figura 4.7), definito da tre linee: ● la linea orizzontale di Hilgenreiner, tracciata attraverso le cartilagini ipsiloniche (o triradiate) del bacino; ● le due linee verticali di Perkins, tracciate dal punto più laterale del tetto acetabolare perpendicolarmente alla linea di Hilgenreiner. Per definire un’anca displasica secondo criteri radiografici devono essere riscontrati alcuni segni che nel complesso costituiscono la triade di Putti: ● sfuggenza e accentuata inclinazione del tetto acetabolare: l’angolo del tetto acetabolare o indice acetabolare (delimitato dalla linea di Hilgenreiner e dalla tangente al tetto) è superiore a 30-35°; ● ipoplasia o assenza del nucleo della testa femorale; ● allontanamento dal fondo dell’acetabolo del nucleo cefalico, che tende a portarsi nel quadrante superoesterno, anziché essere in quello infero-interno del diagramma di Ombredanne.

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Ortopedia

Figura 4.7  Il diagramma di Ombredanne sulla radiografia del bacino è definito dalla linea orizzontale di Hilgenreiner (a) e dalle linee verticali di Perkins (b). Nell’anca sinistra, affetta da DCA, il nucleo epifisario femorale si trova nel quadrante supero-esterno (freccia) anziché in quello infero-interno.

Non tutti gli autori sono concordi sull’importanza da attribuire all’interruzione dell’ogiva di Shenton, cioè di quella linea continua curva che, nel radiogramma normale, segue il profilo del margine inferiore della branca ileo-pubica e del collo femorale, e la cui interruzione sarebbe indicativa di un allontanamento e di una risalita del nucleo epifisario (Figura 4.8). Perché si verifichi tale interruzione è tuttavia sufficiente un minimo errore di proiezione, quale per esempio un posizionamento del bacino non perfettamente parallelo al piano della cassetta radiografica, evenienza abbastanza frequente considerata la difficoltà di mantenere in posizione il bambino. Terapia

La terapia della DCA si avvale di metodiche conservative e chirurgiche. Ciò che bisogna perseguire è il centramento della testa femorale nell’acetabolo, al fine di con-

sentire uno sviluppo quanto più normale possibile dell’articolazione. Questo obiettivo è più facilmente raggiungibile nello stadio di displasia, mentre diviene più difficoltoso quando l’anca è già sublussata o lussata a causa della presenza di ostacoli alla riduzione. È pertanto di primaria importanza diagnosticare la DCA in fase precoce, poiché l’esito del trattamento è strettamente dipendente dall’età in cui viene intrapreso. Una terapia praticata fin dai primi giorni dopo la nascita consente di ottenere ottimi risultati in quasi tutti i casi, ma la percentuale di successo diminuisce con il passare del tempo e dopo i 4-5 anni d’età diviene pressoché impossibile raggiungere risultati anatomo-clinici favorevoli, per lo meno a lungo termine. Nei gradi minori di displasia acetabolare il trattamento va dal semplice monitoraggio ecografico all’utilizzo di tutori ortopedici (Leopardi, Milgram, Pavlick, Lorenz o analoghi) che mantengano le anche in abduzione (Figura 4.9). Nel caso di sublussazione o lussazione dell’anca si può ricorrere alla riduzione incruenta in sedazione (previa trazione dell’arto ed eventuale artrografia) e il confezionamento di apparecchio gessato pelvi-podalico in prima posizione di Paci-Lorenz o in squatting position (Figura 4.10). È bene evitare brusche trazioni per scongiurare disturbi ischemici più o meno gravi della testa femorale; per questo motivo alcuni autori hanno proposto l’applicazione di una trazione a cerotto progressiva. In alternativa alla tecnica incruenta, qualora questa non porti al risultato sperato, si può eseguire la riduzione chirurgica della testa femorale a cielo aperto, un intervento molto delicato che può essere eseguito attraverso la via d’accesso anteriore all’anca di Smith-Petersen o con l’accesso di Ludloff. All’apparecchio gessato in prima posizione segue l’immobilizzazione in tutore in abduzione per almeno 3

Figura 4.8  Radiografia del bacino che mostra l’interruzione dell’ogiva di Shenton in DCA destra (– · –· –); sono pure evidenti l’ipoplasia del nucleo cefalico e la sfuggenza del tetto aceta­ bolare (········).

4 - Malformazioni e malattie congenite

Figura 4.9

35

 Tutore tipo Leopardi (a) e divaricatore tipo Milgram (b) per il trattamento della DCA.

Figura 4.10  Apparecchio pelvi-podalico in prima posizione di Paci-Lorenz: le anche sono mantenute a circa 90° di flessione-abduzione-extrarotazione per mantenere centrata la testa femorale nell’acetabolo.

mesi, rimuovendolo poi gradualmente per consentire l’inizio della deambulazione. Una marcata displasia del tetto cotiloideo può rendere necessaria, attorno ai 2-3 anni di età, l’esecuzione di un’osteotomia acetabolare ricostruttiva (per esempio, Salter o Pemberton), qualora si sia certi che l’acetabolo non abbia più potenzialità di sviluppo. Nei casi di grave valgismo e antiversione femorale si può eseguire un’osteotomia intertrocanterica di centramento della testa. Nelle insufficienze acetabolari presenti al termine dell’accrescimento scheletrico, la copertura della testa femorale può essere migliorata con l’esecuzione di un’osteotomia di Chiari. Questa procedura deve essere considerata un “intervento di salvataggio”, che viene praticato per alleviare il dolore quando è impossibile ripristinare la congruenza delle superfici articolari.

Figura 4.11  Progressiva evoluzione verso la coxartrosi in una paziente di 43 anni con esiti di lussazione congenita dell’anca (a, b, c).

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Ortopedia

Sta recentemente prendendo piede l’osteotomia periacetabolare che consente una più fisiologica ricostruzione in caso di una eventuale artroprotesizzazione dell’anca. La DCA è una condizione che predispone, soprattutto se non trattata in modo adeguato, all’insorgenza precoce di coxartrosi (Figura 4.11). Va tuttavia sottolineato che la degenerazione articolare può manifestarsi anche in articolazioni nelle quali si raggiunge un risultato clinico-radiografico soddisfacente al termine del trattamento. È stato ipotizzato che la displasia della cartilagine acetabolare presente alla nascita possa rappresentare un fattore predisponente all’insorgenza di artrosi.

Piede torto congenito Leo Massari Per piede torto congenito (PTC) si intende una varietà di deformazioni congenite, presenti alla nascita, che colpiscono i piedi. Le forme di PTC sono quattro: il piede equino-varo-supinato-addotto, il piede talo-valgo, il piede reflesso-valgo e il piede metatarso-addotto. La varietà in assoluto più frequente (circa il 75% dei casi) è il piede equino-varo-supinato-addotto, una deformità che ha un’incidenza di 1-3/1000 nati vivi; è più comune nel sesso maschile e può manifestarsi in un solo lato o in entrambi. Si caratterizza per la deviazione del piede verso l’interno, con equinismo e supinazione del calcagno e sublussazione dell’astragalo che diviene sporgente sul lato esterno del piede. Se non trattato, il piede accentua queste caratteristiche che divengono rigide, il soggetto appoggia a terra il lato esterno del piede per il carico e la deambulazione avviene con zoppia. Eziopatogenesi

È tuttora sconosciuta; sono state formulate numerose ipotesi, dettate da un lato dalla constatazione che il PTC può essere espressione di disordini neuromuscolari, displasie muscolo-scheletriche o sindromi polimalformative e, dall’altro, che anche nelle numerose forme cosiddette “idiopatiche” tutti i tipi di trattamento non riescono mai a dare come risultato un’estremità inferiore completamente “normale”, lasciando supporre che si tratti di una forma localizzata di displasia dei tessuti del piede. Fra le numerose teorie formulate ricordiamo le principali, tra cui quella dell’arresto dello sviluppo del piede al periodo embrionario, perché dalla sesta all’ottava settimana di gestazione il piede presenta numerose delle caratteristiche del PTC (equinismo e supinazione del calcagno, adduzione dell’avampiede). Tuttavia tale

ipotesi è confutata dal fatto che in nessuna delle fasi dello sviluppo normale si osservano la deformità a carico del collo dell’astragalo e la sublussazione talo-navicolare caratteristiche del piede torto. Un’altra teoria deriva dall’osservazione della alterata composizione in fibre collagene dei legamenti e tendini del PTC, per cui si è ipotizzata una reazione fibro-sclerotica di tali tessuti a uno stimolo primario. Sono infine da ricordare la teoria di un abnorme abbozzo germinale dell’astragalo, che genererebbe un osso con le tipiche deformità che si osservano nel piede torto, e quella che identifica nello squilibrio neuromuscolare, con difetto dell’azione dei peronei, la causa principale della comparsa della deformità. L’eziopatogenesi è verosimilmente multifattoriale, non potendo essere escluso anche il ruolo di fattori genetici, supportato dal riscontro di familiarità in alcuni casi. Anatomia patologica

Si osservano equinismo e supinazione del calcagno e del piede in toto con inversione del piede e deviazione plantare e mediale di scafoide e cuboide. La deformità principale è rappresentata dalla posizione dell’astragalo, che presenta sublussazione in senso plantare e mediale della testa con fuoriuscita parziale del corpo dalla sua sede nell’articolazione tibio-tarsica. Può associarsi torsione tibiale interna. Oltre all’alterazione dei rapporti articolari e della conformazione del piede si osserva anche la retrazione delle parti molli circostanti (capsule, legamenti, tendini), che concorrono a mantenere e accentuare nel tempo le deformità, rappresentando un ostacolo importante alla correzione. Per tale motivo i metodi di trattamento cosiddetti funzionali, consistenti in manipolazioni progressive, sono tanto più efficaci quanto più precocemente iniziati. Diagnosi

Risulta molto semplice, essendo il PTC evidente alla nascita per l’aspetto caratteristico del piede in adduzione e inversione con equinismo del calcagno e opposizione più o meno rigida ai tentativi di correzione manuale. Deve essere distinto dalle alterazioni posturali a prognosi decisamente migliore come il metatarso addotto, che si distingue facilmente per l’assenza della componente in equinismo. È importante l’esclusione di malformazioni associate, sia scheletriche sia non, come per esempio la lussazione congenita dell’anca o la spina bifida. Da alcuni anni, con l’avvento dell’ecografia in gravidanza, è possibile fare diagnosi prenatale di PTC e pertanto

4 - Malformazioni e malattie congenite

preparare, con un intervento di counseling multidisciplinare, ove possibile, i genitori ad affrontare nel modo migliore la patologia per ottenerne la collaborazione indispensabile al buon risultato del trattamento. Classificazione

Una classificazione utilizzata prevede la distinzione su base morfologica in tre gradi di gravità, a seconda della deviazione del piede osservata alla nascita: ● 1° grado: piede deviato rispetto all’asse della gamba meno di 90°; ● 2° grado: piede che arriva a 90° di deviazione; ● 3° grado: piede con oltre 90° di deviazione. Tale classificazione non si è però dimostrata utile per una previsione prognostica per la quale è invece molto importante la valutazione della rigidità delle deformità, ovvero della loro correggibilità alle manipolazioni. In tal senso, la classificazione più utilizzata a livello mondiale è quella di Diméglio, che attribuisce uno score a 4 punti per ciascuna deformità (equinismo, varismo, supinazione e adduzione) in base alla gravità e alla riducibilità; a questo primo punteggio, che arriva a un massimo di 16, si sommano fino a un massimo di 4 punti supplementari, assegnando rispettivamente 1 punto per ciascuno dei seguenti parametri: plica cutanea posteriore, plica cutanea mediale, cavismo accentuato, scarso trofismo dei muscoli del polpaccio. Il punteggio totale individua 4 tipi di PTC di gravità crescente: ● 1° grado (da 1 a 4 punti): piede benigno (20% dei casi); ● 2° grado (da 5 a 9 punti): piede moderato (33% dei casi); ● 3° grado (da 10 a 14 punti): piede grave (35% dei casi); ● 4° grado (da 15 a 20 punti): piede molto grave (12% dei casi). Terapia

A causa della spiccata tendenza alla recidiva delle deformità, fino al 1990 circa era universalmente auspicato un trattamento che ottenesse una correzione completa il prima possibile. Per questo motivo, tranne che per i casi più lievi, il trattamento chirurgico era indicato nella maggior parte dei PTC, non appena il bambino raggiungeva un’età e un peso che consentissero di eseguire l’anestesia in sicurezza, nella convinzione che la recidiva fosse favorita dall’incompleta correzione della deformità. Fra le numerose tecniche chirurgiche proposte, sono da ricordare lo storico intervento di Codivilla, consistente in un doppio accesso posteriore e mediale attraverso i quali si ottenevano: l’allungamento con tecnica a “Z” del tendine d’Achille; la capsulotomia posteriore dell’articolazione tibio-tarsica e della sottoastragalica;

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l’incisione del legamento peroneo-astragalico e peroneocalcaneare; l’allungamento a “Z” del tendine del tibiale posteriore e del flessore lungo dell’alluce al di sotto del malleolo mediale; la capsulotomia dell’articolazione astragalo-scafoidea mediale con incisione anche del legamento a “Y”. Più conosciuto e utilizzato a livello internazionale è l’intervento di Turco in cui, oltre al release delle parti molli postero-laterali e mediali, si fissa la riduzione dell’articolazione astragalo-scafoidea mediante un filo di Kirschner percutaneo che viene mantenuto durante l’immobilizzazione gessata. Da diverse revisioni di casi eseguite a distanza di anni dagli interventi chirurgici correttivi si è però evidenziata, in aggiunta alle complicanze legate agli interventi chirurgici stessi (quali l’ipercorrezione con formazione di piedi valgo-pronati rigidi e la comparsa di degenerazione articolare tarsale negli anni successivi), una tendenza importante alla recidiva che è stata interpretata come effetto del tessuto cicatriziale formatosi in conseguenza degli atti chirurgici che, sommandosi alla costituzionale fibrosi dei tessuti molli di questi piedi, costituisce un elemento aggravante la naturale propensione al ritorno della deformità iniziale. Contemporaneamente si andavano affermando nuove concezioni terapeutiche “risparmiatrici” dei tessuti, molto meno aggressive del trattamento chirurgico esteso, che raggiungevano però gli stessi risultati di correzione delle deformità. Tali trattamenti sono rappresentati da due scuole principali, sviluppatesi in Europa e in America: quella funzionale francese (Bensahel e Diméglio a Montpellier, Seringe a Parigi) e quella di Ponseti nell’Iowa (USA). Quest’ultima, per la sua semplicità e scarsissima dispendiosità, ha ormai raggiunto la diffusione globale mondiale. Descritta dal suo ideatore, Ignacio Ponseti, negli anni Cinquanta non fu accettata e compresa dalla maggioranza dei colleghi fino alla pubblicazione di una casistica personale, molto ampia e con follow-up lunghissimo, che dimostrava ottimi risultati anche in piedi definiti gravi; da allora tale metodica si è diffusa in tutto il mondo, inclusi i Paesi in via di sviluppo. Il metodo di Ponseti consiste in una tecnica manipolativa da iniziare a pochi giorni dalla nascita con la derotazione del piede, graduale e progressiva, praticando contemporaneamente una lieve pressione sul collo dell’astragalo sublussato dorsalmente e lateralmente per farlo rientrare nella pinza malleolare. Le correzioni progressive ottenute manualmente si devono poi contenere con apparecchi gessati femoro-podalici a ginocchio flesso, una volta la settimana oppure ogni 10 giorni, fino al raggiungimento della massima extrarotazione. A questo punto bisogna valutare se sia possibile ottenere

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Ortopedia

manualmente la correzione anche dell’equinismo, possibile per la verità solo nei casi più lievi, o in caso contrario procedere alla tenotomia achillea, eseguita in modo percutaneo secondo la tecnica originale, al passaggio mio-tendineo. Si confeziona quindi un ultimo apparecchio gessato per tre settimane con il piede a 90° e massima extrarotazione. La correzione completa, una volta raggiunta, deve essere mantenuta utilizzando un tutore di Dennis-Brown, costituito da due scarpine in cuoio unite da una barra metallica che le mantiene alla distanza corrispondente a quella delle spalle. Tale tutore dovrà essere portato dal bambino dapprima a tempo pieno poi, una volta cresciuto, solo durante le ore notturne fino ai 3-4 anni di età per garantire la persistenza della correzione. Per il successo del trattamento è fondamentale la compliance dei genitori, che devono impegnarsi a far portare il tutore ai loro bambini a lungo, finché non sia scongiurato il pericolo della recidiva. Questo è il limite principale di una metodica efficace, relativamente semplice, non invasiva e che non richiede ospedalizzazione del bambino. Il metodo di Ponseti può essere ripetuto in caso di ricomparsa precoce della deformità e non preclude il ricorso a una terapia chirurgia più estensiva in caso di fallimento in piedi particolarmente rigidi e/o con tendenza alla recidiva. Anche il metodo funzionale francese prevede manipolazioni progressive con la stessa sequenza proposta da Ponseti, ma in questo caso devono essere quotidiane, prolungate e seguite dall’esecuzione di un bendaggio elastico contenitivo per mantenere la correzione raggiunta. Al momento della correzione dell’equinismo si può decidere se praticare un allungamento del tendine d’Achille secondo la tecnica di Vulpius (cioè recisione delle fibre aponeurotiche con risparmio di quelle muscolari al passaggio miotendineo) oppure mediante tenotomia. Segue, anche per il metodo funzionale, un lungo periodo di tutoraggio con apparecchi in materiale termoplastico che mantengono i piedi in correzione, pur non essendo legati fra di loro e quindi meglio tollerati dai bambini e più accettati dai genitori. Anche in questo caso la compliance dei genitori è indispensabile per evitare le recidive.

Paralisi ostetriche dell’arto superiore Giovanni Fancellu Le paralisi ostetriche dell’arto superiore sono deficit neurologici di diverso tipo e gravità, causati da lesioni del plesso brachiale che si verificano durante la fase espulsiva del parto.

L’insorgenza di queste lesioni è per lo più legata a trazioni eccessive praticate nel corso di un parto naturale difficile. Diversi fattori possono entrare in gioco: il tipo di presentazione del feto, l’esecuzione di manovre tecnicamente inesatte da parte di coloro che assistono all’espletamento del parto, l’utilizzo di strumenti contundenti, la presenza di una sproporzione tra le dimensioni del feto o di alcune sue parti e i diametri dei canali ossei del parto. Le paralisi ostetriche includono soltanto quelle lesioni che si verificano durante il travaglio del parto, al momento dell’espulsione o dell’estrazione del feto per le vie naturali, mentre non comprendono le lesioni che si verificano durante la vita intrauterina e quelle conseguenti a traumi violenti sulla madre in gravidanza. Le paralisi ostetriche dell’arto superiore sono sempre unilaterali, più frequenti a destra e hanno come fattori predisponenti la macrosomia fetale e il parto distocico. Quadri anatomo-clinici

La lesione nervosa può localizzarsi a diverse altezze del plesso brachiale (Box 4.1), dalla sua origine midollare fino ai tronchi nervosi secondari, anche se le sedi più frequenti sono rappresentate dai forami di coniugazione e dal decorso intrarachideo delle radici. Pertanto nel neonato quasi tutte le paralisi dell’arto superiore sono di tipo radicolare. A prescindere dalla localizzazione topografica, la gravità del quadro clinico è influenzata dal tipo di danno che subiscono le fibre nervose:

Box 4.1 Il plesso brachiale Il plesso brachiale è la struttura da cui originano i nervi che si distribuiscono all’arto superiore (Figura 4.12). È organizzato in tre livelli: ● la porzione sovraclavicolare, formata dalle radici spinali da C5 a T1; ● la porzione infraclavicolare, costituita dai tre tronchi primari superiore (formato dall’unione delle radici C5 e C6), medio (radice C7) e inferiore (radici C8 e T1); ● la porzione sottoclavicolare, costituita dai tronchi secondari (posteriore, laterale e mediale) che originano dall’unione dei rami di divisione (posteriori e anteriori) dei tronchi primari. Dai tronchi secondari originano infine i nervi periferici per l’arto superiore: ● i nervi radiale e ascellare da quello posteriore; ● il nervo muscolocutaneo dal laterale; ● il nervo mediano sia dal tronco laterale sia da quello mediale; ● il nervo ulnare dal tronco secondario mediale.

4 - Malformazioni e malattie congenite

Figura 4.12







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 Disegno che illustra la struttura del plesso brachiale e i principali nervi periferici a cui dà origine.

la neuroaprassia consiste in una semplice distensione della fibra nervosa, con blocco temporaneo dell’impulso nervoso a causa del danno funzionale in assenza di lesioni anatomiche; nell’assonotmesi si ha un’interruzione del cilindrasse, ma la guaina di Schwann rimane integra; in questa evenienza è ancora possibile il recupero funzionale, che tuttavia richiede tempi più lunghi (3-4 mesi) rispetto alla neuroaprassia; nella neurotmesi c’è una rottura completa del cilindrasse e del neurilemma di uno o più tronchi nervosi; in questo caso non vi è possibilità di rigenerazione autonoma delle fibre e un parziale recupero può verificarsi solo attraverso una precoce riparazione microchirurgica dei tronchi nervosi interrotti.

Alla nascita, un neonato affetto da paralisi ostetrica dell’arto superiore presenta un atteggiamento caratteristico dell’arto colpito, che si dispone lungo il tronco con il palmo della mano rivolto verso l’esterno e resta inerte anche se stimolato. In questa fase non ci sono ancora gli elementi semeiologici caratteristici che permettono di discriminare tra i diversi tipi di paralisi. Solo dopo il secondo mese di vita avviene la completa mielinizzazione delle fibre nervose periferiche e si può

quindi fare una diagnosi differenziale tra le varie forme di paralisi, andando a indagare l’azione prevalente dei muscoli indenni su quelli paralizzati (si veda anche la Tabella 3.3). In base alla sede anatomica e all’estensione del danno neurologico si distinguono tre tipi principali di paralisi ostetriche dell’arto superiore. ● Nella paralisi radicolare superiore tipo Erb-Duchenne si ha un danno delle radici C5 e C6 con conseguente interessamento dei muscoli della spalla (deltoide e rotatori esterni) e dei flessori e supinatori dell’avambraccio. In fase iniziale il neonato si presenta con l’arto superiore interessato immobile sul piano del letto, la spalla è addotta e intraruotata, il gomito esteso e l’avambraccio pronato. I movimenti del polso e delle dita della mano sono conservati, mentre è assente il riflesso stilo-radiale. C’è inoltre un quadro di ipermobilità articolare che dà il caratteristico “segno del foulard”: si riesce con estrema facilità a portare la mano del neonato sulla spalla controlaterale fino dietro al collo. Se si associa una lesione della radice C7, il paziente diviene incapace di estendere gomito, polso e dita; l’atteggiamento della mano a polso e dita flesse viene descritto come quello del “cameriere che riceve la mancia” (Figura 4.13).

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Ortopedia

Figura 4.13  Atteggiamento del “cameriere che riceve la mancia” in paralisi ostetrica tipo Erb-Duchenne, con coinvolgimento della radice C7, all’arto superiore sinistro.







La paralisi radicolare inferiore tipo Dejerine-Klumpke interessa le radici C7, C8 e D1; è più rara ma più grave della forma precedente, perché può associarsi un coinvolgimento del complesso simpatico cervicale. Clinicamente si manifesta con la compromissione di tutte le funzioni svolte dai muscoli innervati dai nervi mediano e ulnare, e da una parte di muscoli antibrachiali innervati dal nervo radiale. Il deficit si estende ai muscoli flessori delle dita e alla muscolatura intrinseca (interossei e lombricali), con conseguente deficit della flessione e dell’abduzione delle dita della mano; la funzionalità della spalla e del gomito è conservata. Inoltre può essere presente una concomitante sindrome di Claude-Bernard-Horner, caratterizzata da un restringimento della rima palpebrale per una ptosi della palpebra, miosi ed enoftalmo per retrazione del bulbo oculare dovuta al danno del simpatico cervicale. Nella paralisi radicolare totale c’è un danno di tutte le radici del plesso brachiale, da C5 a D1. Il neonato affetto si presenta con l’arto superiore completamente ciondolante, la spalla innalzata per il prevalere dell’azione del trapezio e l’assenza di tutti i riflessi osteotendinei.

patibili con un’ottima funzionalità dell’arto superiore. Hanno prognosi meno favorevole le paralisi totale e inferiore, soprattutto quando si associa una sindrome di Claude-Bernard-Horner. La terapia, che ha lo scopo di prevenire le deformità e favorire il recupero funzionale, è molto importante perché nel neonato la paralisi di un gruppo muscolare favorisce l’inattività anche dei muscoli sani circostanti, con conseguenti alterazioni dello schema motorio. È pertanto fondamentale iniziare in fase precoce la fisiokinesiterapia, con esercizi di mobilizzazione assistita in attesa che si verifichi la reinnervazione spontanea dei gruppi muscolari paralitici. La prevenzione di atteggiamenti articolari viziati può essere attuata con metodiche diverse a seconda del tipo di paralisi: ● in quelle superiori si può ancorare, già dalle prime settimane dopo la nascita, l’arto superiore con uno spillo al cuscino in posizione supina, in modo da mantenere la spalla abdotta ed extraruotata; ● in quelle inferiori è utile l’uso di palmarini che controllino l’atteggiamento del polso e delle dita. Sono utili anche i massaggi e l’elettroterapia. La chirurgia degli esiti sfavorevoli si basa sulle trasposizioni muscolo-tendinee, sulle tenotomie, sulle osteotomie e, in casi estremi, sulle artrodesi.

Torcicollo congenito Giovanni Fancellu Con il termine di torcicollo si indica un atteggiamento coatto del rachide cervicale che appare ruotato e inclinato lateralmente; può essere causato da svariate condizioni morbose. Il torcicollo miogeno congenito è causato da una retrazione fibrotica monolaterale del muscolo sternocleidomastoideo (SCM) e comporta una deformità asimmetrica del viso e del capo, che si presentano inclinati dalla parte della tensione muscolare e ruotati in quella opposta (Figura 4.14). L’affezione è rara (incidenza stimata di circa 1:150.000), con una leggera predilezione per il sesso femminile. Nel 75% dei casi di torcicollo miogeno è interessato il lato destro, con una frequente associazione tra la displasia congenita dell’anca e il torcicollo, spesso omolaterali.

Terapia

Eziopatogenesi e anatomia patologica

La maggior parte delle paralisi ostetriche va incontro a una guarigione totale o con minimi deficit residui, com-

L’esatta eziopatogenesi della fibrosi è tuttora sconosciuta, anche se tradizionalmente si ritiene che essa

4 - Malformazioni e malattie congenite

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Figura 4.15

Figura 4.14

 Torcicollo miogeno a sinistra: il capo appare inclinato dal lato affetto e ruotato in senso opposto.

rappresenti l’esito dell’organizzazione di un ematoma muscolare formatosi per effetto di un trauma durante il parto o di una malposizione uterina. Nei bambini con torcicollo miogeno vi è spesso una storia di parto podalico, distocico o con uso di forcipe. Va sottolineato che la massima parte degli ematomi dell’SCM presenti alla nascita si risolvono spontaneamente ed è per questo che è stata ipotizzata una contemporanea sofferenza ischemica del muscolo (tipo sindrome compartimentale) per spiegare l’evoluzione sfavorevole del processo. Da un punto di vista anatomo-patologico, il muscolo in sezione si presenta macroscopicamente di colore bianco e lucido. L’osservazione microscopica mette in evidenza un tessuto fibroso denso, senza segni di emorragia o presenza di emosiderina; tale tessuto sostituisce le fibre muscolari ed è in continuità con le inserzioni tendinee. Quadro clinico e diagnosi differenziale

La deformità può essere presente alla nascita o palesarsi nelle prime due o tre settimane di vita. La testa è inclinata dalla stessa parte del muscolo retratto e il mento è ruotato dalla parte opposta, con conseguente limitazione nei movimenti di inclinazione verso il lato opposto e di rotazione verso il lato affetto. Nel contesto del muscolo può essere presente una tumefazione fusiforme, abbastanza dura, chiamata comunemente tumor dell’SCM. Questa tumefazione interessa i capi sternale e claveare del muscolo (il capo mastoideo non è quasi mai interessato) e nel giro di quattro settimane tende ad allargarsi, per poi diminuire e scomparire tra il secondo e il sesto mese (Figura 4.15).

 Aspetto clinico della retrazione fibrotica dello SCM ( ) in un bambino di 3 anni.

Se la retrazione non viene trattata, si formano deformità secondarie del viso e della testa. Il viso dalla parte della retrazione si appiattisce e tende a crescere meno: i segni più tipici sono rappresentati da una posizione più bassa del sopracciglio, dell’orecchio e della bocca, e da una minore prominenza della bozza frontale, dello zigomo e della guancia. Il bambino dorme generalmente prono e, per stare più comodo, ruota il collo in modo tale che il lato affetto appoggi sul piano del letto; poiché le ossa craniche del neonato sono ancora elastiche, questo atteggiamento persistente porta a una deformazione della testa, definita plagiocefalia. Le asimmetrie si accentuano con la crescita; compare inoltre una scoliosi cervico-dorsale, con convessità dalla parte opposta del lato colpito. Se la deformità non viene corretta, i tessuti molli vanno incontro a un adattamento in accorciamento: la fascia profonda cervicale si inspessisce e si retrae, i muscoli scaleni anteriore e medio si accorciano e alla palpazione si apprezza un caratteristico cordone muscolare retratto. In presenza di un torcicollo persistente è necessario eseguire uno studio radiografico del rachide cervicale (verso i 12 mesi) per escludere che vi siano malformazioni congenite delle vertebre cervicali, quali gli emispondili o le sinostosi (sindrome di Klippel-Feil). Nella diagnosi differenziale con il torcicollo miogeno vanno considerate patologie di diversa natura: ● traumatiche, quali fratture o la sublussazione di C1 su C2; ● infiammatorie, come la linfadenite acuta (nei bambini più grandi) e l’artrite reumatoide; ● neoplastiche: tumori del midollo spinale o della fossa cerebrale posteriore.

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Ortopedia

Terapia

Il trattamento deve essere intrapreso non appena posta la diagnosi. La ginnastica viene eseguita dai genitori, adeguatamente istruiti, più volte al giorno e consiste in manovre di stretching dell’SCM. Alla madre viene raccomandato di nutrire il bambino in modo da sollecitarlo in un atteggiamento opposto a quello del torcicollo. È sconsigliata la posizione prona durante il sonno, in quanto aggrava le deformità del capo. Se la ginnastica viene eseguita in modo tempestivo e adeguato, la retrazione del muscolo può essere corretta e non si rende necessario il ricorso alla chirurgia; in letteratura viene riportata una percentuale di correzione del 70-80% dei casi con la kinesiterapia. Se, dopo l’anno, la ginnastica correttiva non ha portato a una risoluzione del torcicollo, si deve ricorrere al trattamento chirurgico, che può essere posticipato senza rischi dopo i tre-quattro anni d’età. L’intervento consiste nella sezione a cielo aperto delle inserzioni sternale e claveare del muscolo (miotenotomia), alle quali può essere abbinata la sezione dell’inserzione mastoidea. Dopo l’operazione viene applicato un apparecchio gessato (minerva gessata con diadema) o un tutore adeguatamente premodellato al fine di mantenere il capo in atteggiamento di ipercorrezione per almeno un mese. Alla rimozione dell’apparecchio ortopedico fa seguito un periodo di kinesiterapia attiva e passiva per ulteriori 2-3 mesi. La complicanza più frequente del trattamento chirurgico è la recidiva parziale della retrazione muscolare.

● ● ●

osteodisplasie letali o sub-letali; osteodisplasie con nanismo micromelico; osteodisplasie di epifisi, metafisi e corpi vertebrali.

Le osteodisplasie letali o sub-letali possono condurre ad exitus alla nascita o nei primi mesi di vita. Alcune di esse presentano carattere costantemente letale, quali l’acondrogenesi, il nanismo tanatoforo e la fibrocondrogenesi; altre invece, quali la displasia toracica e la displasia campomelica, sono frequentemente letali (70-80% dei casi in rapporto al grado di malformazione cardiaca presente). Nelle osteodisplasie con nanismo micromelico la brevità degli arti rappresenta l’elemento fondamentale e preponderante, anche se non esclusivo, del difetto di accrescimento scheletrico; questo comporta una sproporzione tra dimensioni del tronco e degli arti. Si distinguono in: ● rizomeliche, in cui l’accorciamento degli arti è prevalente nel segmento prossimale (omero, femore);

Osteocondrodisplasie genotipiche Giovanni Fancellu Le osteocondrodisplasie genotipiche includono un gruppo eterogeneo di patologie su base genetica, caratterizzate da un’anomalia nei processi di morfogenesi e accrescimento dei segmenti scheletrici; le sedi interessate, stante il carattere evolutivo della condizione, presentano alterazioni più o meno accentuate di forma e struttura. Queste malattie rientrano nel più ampio quadro delle displasie scheletriche, che sono state classificate nel tempo in modi diversi. Canepa ha proposto una classificazione nella quale i tre grandi capitoli dei processi displasici (difetti dell’ossificazione encondrale, difetti della densità e del modellamento osseo, difetti da sviluppo tissutale anarchico) sono suddivisi in sottogruppi più specifici. Pertanto si distinguono:

Figura 4.16  Aspetto clinico dell’acondroplasia, l’osteocondrodisplasia genotipica più frequente.

4 - Malformazioni e malattie congenite





di esse fa parte l’acondroplasia, che è la forma più frequente (Figura 4.16); mesomeliche, con prevalente interessamento del segmento intermedio (ossa dell’avambraccio e della gamba); (meso-)acromeliche, con alterazioni maggiori nei segmenti scheletrici distali.

Le osteodisplasie con interessamento isolato o contemporaneo delle epifisi, delle metafisi e dei corpi vertebrali includono un gruppo di malattie in cui l’alterazione dell’ossificazione encondrale si manifesta soprattutto con anomalie di sviluppo a livello del complesso epifisario-metafisario e del rachide.

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A seconda della sede delle lesioni e delle loro varie combinazioni si distinguono: ● displasie epifisarie (displasia poliepifisaria domi­ nante e recessiva, artro-oftalmopatia progressiva ereditaria); ● displasie metafisarie (Jansen, Schmid, McKusick); ● displasie epifiso-metafisarie (pseudocondrodisplasia, pleonosteosi, tibia vara di Blount); ● displasie spondilo-epifisarie (congenita e tardiva, brachiolmia, distrofia osteo-condro-muscolare); ● displasie spondilo-metafisarie (Kozlowski e forme minori); ● displasie spondilo-epifiso-metafisarie (Kniest, nanismo parastremmatico, Dyggve-Melchior-Clausen).

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capitolo

Malattie dell’età evolutiva

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Giovanni Fancellu, Giorgio Gasparini, Ugo E. Pazzaglia, Francesco Sadile

Osteocondrosi Giovanni Fancellu

Tabella 5.1

 Principali osteocondrosi.

● ● ● ● ● ● ●

Epifisi prossimale del femore: Perthes, Legg, Calvé Tuberosità tibiale anteriore: Osgood, Schlatter Apofisi posteriore del calcagno: Haglund, Sever, Blenke Piatti epifisari vertebrali: Scheuermann Semilunare: Kienböck Scafoide tarsale: Köhler I Seconda testa metatarsale: Köhler II, Freiberg Epifisi distale del radio: Madelung Parte postero-mediale dell’epifisi prossimale della tibia: Blount ● Poli della rotula: Sinding-Larsen, Johansson ● Condilo omerale: Panner ● ●

L’osteocondrosi è un processo degenerativo-necrotico che interessa i nuclei di ossificazione epifisari, apofisari e di alcune ossa brevi nel periodo della loro più vivace attività osteogenetica. In passato veniva anche chiamata osteocondrite, termine improprio perché non si tratta di una patologia di natura infiammatoria. L’affezione interessa in modo prevalente il sesso maschile. Tutti i nuclei di ossificazione possono essere interessati anche se alcuni, a causa delle loro caratteristiche anatomo-funzionali, sono maggiormente colpiti. Le principali osteocondrosi sono riportate nella Tabella 5.1.

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Eziopatogenesi

La vera natura di queste affezioni non è stata ancora chiarita, anche se la causa più probabile sembra essere una turba del circolo arterioso con conseguente ischemia e necrosi cellulare, che si manifesta nel periodo di maggiore attività metabolica, cioè durante l’accrescimento, quando l’attività osteogenetica nei nuclei è più intensa (Box 5.1). Non si può tuttavia escludere che vi siano squilibri endocrini predisponenti o che un dismetabolismo cartilagineo transitorio e/o una serie di microtraumatismi possano agire da fattori scatenanti. È certo però che si verifica un danno a carico delle arterie epifisarie, che sono di tipo terminale e penetrano nel nucleo di ossificazione in corrispondenza delle inserzioni della capsula articolare. Questo danno è re-

sponsabile di una necrosi di origine vascolare e, in conseguenza di ciò, il nucleo interessato viene deformato dal carico che normalmente deve sopportare per compressione o per trazione. La malattia ha di solito un decorso benigno e autolimitante: l’ossificazione riprende poi normalmente, anche se in alcuni casi possono permanere deformità. Anatomia patologica

Le alterazioni anatomo-patologiche di questa patologia sono caratteristiche. All’inizio si osserva un processo necrotico a carico delle cellule del tessuto osseo e della cartilagine circostante che formano il nucleo di ossificazione. L’osso diventa più denso per l’accumulo di sali di calcio e per lo schiacciamento delle trabecole ossee: il nucleo di ossificazione assume così un aspetto “metallico” ed è privo di resistenza. In seguito si assiste a un accumulo di cellule del sistema reticolo-endoteliale nel tessuto necrotico, mentre i vasi intraossei vanno

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Ortopedia

Box 5.1 Meccanismi di ossificazione dei nuclei epifisari, apofisari e delle ossa brevi Nelle epifisi delle ossa lunghe (versante articolare) e nelle ossa brevi del carpo e del tarso, il modello cartilagineo presenta tre zone distinte: ● una zona superficiale articolare, che resterà cartilaginea anche nell’adulto, formando la cartilagine articolare vera e propria; ● una porzione intermedia molto spessa soprattutto nelle prime fasi dello sviluppo, che sarà completamente sostituita da osso a termine di accrescimento; ● uno strato più profondo che è quello della cartilagine di accrescimento vera e propria; questa è formata da piccoli grappoli di cellule che non assumono mai la tipica disposizione colonnare delle cartilagini metafisarie delle ossa lunghe, pur andando incontro ai caratteristici processi di maturazione, ipertrofia e degenerazione. Per irrorare il nucleo osseo in accrescimento, i vasi devono attraversare il rivestimento cartilagineo sopra descritto. Del tutto particolare è l’ossificazione encondrale delle apofisi e di alcuni nuclei epifisari, come quelli delle vertebre e della cresta iliaca. I nuclei di ossificazione si formano attorno a piccoli vasi che penetrano nella cartilagine, con un meccanismo che appare quello della trasformazione diretta della cartilagine calcificata in osso. Le trabecole neoformate hanno uno spessore notevole, assumendo spesso una struttura di tipo osteonico, e gli spazi midollari intertrabecolari sono alquanto ristretti. A volte essi si formano a livello dell’inserzione di un legamento o di un tendine, come per la tuberosità tibiale anteriore, e in questo caso l’ossificazione avviene nel contesto della fibrocartilagine giunzionale del tendine.

progressivamente riformandosi e compaiono gli osteoblasti che ricostruiscono la matrice ossea. Si assiste pertanto a un riassorbimento osseo e a una contemporanea rigenerazione ossea da parte degli osteoblasti: in questa fase, il nucleo di ossificazione viene definito “tigrato” o “frammentato”, perché alterna zone radiotrasparenti a zone radiopache. Infine riprende la normale ossificazione. L’intero processo ha una durata variabile tra i 18 e i 24 mesi e l’osso neoformato è simile a quello normale, anche se la forma del nucleo epifisario può risultare modificata a causa degli schiacciamenti subiti. Quadro clinico-radiografico

La sintomatologia è variabile in base alla sede di insorgenza. L’osteocondrosi generalmente si manifesta con dolori saltuari dopo affaticamento e/o limitazione funzionale antalgica, senza chiari segni di obiettività. La palpazione locale evoca dolore e, in caso di localizza-

zione superficiale, può essere presente una tumefazione locale. Le condizioni generali sono buone. A causa del quadro clinico piuttosto aspecifico, la diagnosi si basa sull’indagine radiografica, che mette in evidenza le tipiche alterazioni a carico del nucleo di ossificazione. Si possono distinguere tre differenti fasi nel decorso della malattia: ● una iniziale di addensamento del nucleo (metallizzazione); ● una intermedia in cui il nucleo assume un aspetto “tigrato” (frammentazione); ● una finale di ricostruzione del nucleo di ossificazione con alterazioni morfologiche di grado variabile. La terapia ha lo scopo di limitare il carico e le sollecitazioni funzionali sul nucleo colpito, al fine di favorire la rivascolarizzazione locale e promuovere la guarigione. La terapia chirurgica può trovare indicazione nelle complicanze o negli esiti di alcune osteocondrosi.

MALATTIA di perthes Il morbo o malattia di Perthes è la forma più frequente di osteocondrosi e anche quella con la maggiore rilevanza clinica, dato che interessa il nucleo epifisario prossimale del femore (Box 5.2).

Box 5.2 Sviluppo dell’estremo prossimale del femore I processi di accrescimento dell’epifisi prossimale del femore sono regolati da un equilibrio armonico fra l’ossificazione periostale del collo femorale e l’ossificazione encondrale della cartilagine epifisaria, della cartilagine di accrescimento prossimale del femore e della cartilagine di accrescimento del grande trocantere. Dopo la comparsa del nucleo osseo epifisario, una gran parte dell’epifisi è formata ancora da tessuto cartilagineo (cartilagine epifisaria) che ossifica gradualmente con un meccanismo encondrale. La cartilagine epifisaria ha una struttura differente rispetto alla cartilagine articolare vera e propria che costituisce la parte più esterna della calotta cartilaginea della testa femorale: le due entità anatomiche, che hanno funzione diversa, devono pertanto essere tenute distinte. Nel bambino, il complesso cartilagineo epifisario costituisce una spessa e robusta struttura che circonda il nucleo osseo e si appoggia sul collo femorale già ossificato per mezzo della cartilagine di accrescimento. Tale complesso assicura una notevole resistenza meccanica all’epifisi prossimale del femore tanto che, per avere il collasso del nucleo osseo, si deve anche verificare il cedimento della cupola cartilaginea che lo riveste.

5 - Malattie dell’età evolutiva

Colpisce in prevalenza i bambini di sesso maschile (rapporto maschi-femmine di 5:1) con un picco massimo di incidenza tra i 5 e gli 8 anni; in circa il 10% dei casi la malattia si presenta in forma bilaterale. L’esordio del Perthes è insidioso, con dolori saltuari in regione inguinale e sul versante antero-mediale della coscia dopo affaticamento; in seguito possono comparire zoppia antalgica e limitazione funzionale articolare. La mobilizzazione attiva e passiva dell’anca suscita dolore, in particolare ai movimenti di abduzione e intrarotazione, che sono i primi a essere limitati. L’esame radiografico può mostrare in fase precoce un’ipoplasia del nucleo di ossificazione rispetto al controlaterale; in seguito si manifestano le classiche alterazioni di metallizzazione e frammentazione del nucleo. Catterall e Herring hanno proposto due differenti classificazioni radiografiche per descrivere l’estensione del processo a livello del nucleo epifisario e fornire elementi di giudizio per la prognosi a lungo termine (Tabella 5.2). Nelle forme più gravi la testa del femore si appiattisce, perde la sua congruenza con l’acetabolo e il collo femorale diviene corto e tozzo: questa deformità prende il

Tabella 5.2

di Perthes.

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 Classificazioni radiografiche della malattia

Gruppi di Catterall (Figura 5.1) I Interessamento di una piccola porzione antero-laterale del nucleo epifisario II Interessamento della metà antero-laterale III Interessamento dei due terzi antero-laterali IV Interessamento di tutto il nucleo Gruppi di Herring (Figura 5.2) A Altezza normale della colonna laterale B Riduzione fino al 50% dell’altezza originaria C Riduzione di oltre il 50% dell’altezza originaria

nome di coxa plana osteocondrosica ed è causa di una precoce degenerazione artrosica dell’anca (Figura 5.3). La terapia ha lo scopo di sottrarre la testa del femore dal carico per evitarne la deformazione, favorirne la rivascolarizzazione e accelerare i processi di guarigione senza esiti. Lo scarico viene ottenuto applicando un tutore che mantiene l’arto in abduzione: in tal modo viene anche conseguito il centramento della testa femorale nell’acetabolo, fattore critico per consentire un modellamento reciproco dei due capi articolari.

Figura 5.1   Gruppi radiografici di Catterall (si veda la Tabella 5.2).

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Ortopedia

Figura 5.2  D i s e g n o che illustra i gruppi radiografici di Herring (si veda la Tabella 5.2). (Da Canale ST (Ed). Campbell’s Operative Orthopaedics. Mosby, Philadelphia, 2003.)

più spesso dà una limitazione antalgica all’estensione del ginocchio contro resistenza (Figura 5.4). La malattia ha un decorso di circa due anni e solo in casi eccezionali si può complicare con un distacco della tuberosità: tale evento è provocato dalla diminuita resistenza del nucleo apofisario alla trazione esercitata dal tendine rotuleo. Il decorso autolimitante della malattia rende sufficiente, nella maggior parte dei casi, la temporanea limitazione dell’attività fisica. Talvolta l’intenso dolore può rendere necessario l’utilizzo di un tutore per l’immo-

Figura 5.3   Esiti di malattia di Perthes a destra. Nelle deformità moderate della testa del femore non c’è tendenza all’instaurarsi dell’artrosi (a). Una grave artrosi può invece insorgere precocemente nelle gravi deformità (b).

In alcuni pazienti il centramento deve invece essere perseguito per via chirurgica, eseguendo osteotomie di bacino o femore.

Altre osteocondrosi Malattia di Osgood-Schlatter È l’osteocondrosi della tuberosità tibiale anteriore; interessa soprattutto i maschi tra gli 11 e i 14 anni ed è spesso bilaterale. Si manifesta clinicamente con l’insorgenza di dolore locale e tumefazione, raramente provoca zoppia mentre

Figura 5.4   Malattia di Osgood-Schlatter del ginocchio sinistro: la tumefazione della tuberosità tibiale all’esame clinico, la frammentazione e l’ispessimento del nucleo apofisario sulla radiografia ( ) differiscono dai reperti di normalità del lato destro indenne ( ).

5 - Malattie dell’età evolutiva

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bilizzazione del ginocchio e/o l’impiego di ausili per lo scarico durante la deambulazione. La magnetoterapia, in associazione a questi provvedimenti, ha dimostrato una buona efficacia terapeutica in alcuni casi. In caso di distacco della tuberosità tibiale, si deve ricorrere alla sua reinserzione chirurgica.

Malattia di Haglund o Sever-Blenke Interessa l’apofisi posteriore del calcagno a livello dell’inserzione del tendine d’Achille (Figura 5.5). Si manifesta tra gli 8 e i 13 anni con l’insorgenza di dolore locale, esacerbato dalla digitopressione e dal carico. La sua evoluzione è sempre benigna e guarisce senza lasciare deformità, ma la durata della malattia può essere molto lunga, anche più di due anni. La terapia è volta a limitare il carico (con l’uso di plantari morbidi con scarico calcaneare) e la tensione del tendine d’Achille (mediante scarpe con tacco rialzato), associando la riduzione dell’attività sportiva.

Malattia di Köhler I L’osteocondrosi dello scafoide tarsale insorge tra i 3 e gli 8 anni ed è anch’essa più frequente nel sesso maschile. Può essere asintomatica o manifestarsi con l’insorgenza di dolori locali al carico e con un progressivo appiattimento della volta longitudinale del piede; può essere presente una lieve zoppia antalgica. All’esame radiografico lo scafoide appare appiattito, sclerotico o frammentato (Figura 5.6).

Figura 5.6   Malattia di Köhler I del piede sinistro: lo scafoide tarsale è appiattito e sclerotico ( ) rispetto a quello del piede destro (>). Proiezione dorso-plantare (a). Proiezione laterale del piede destro (b). Proiezione laterale del piede sinistro (c).

Il decorso della malattia è solitamente benigno, ma può talvolta esitare in un piede piatto doloroso. La terapia consiste nel riposo e nell’uso di un plantare di sostegno della volta longitudinale del piede; se il dolore è molto intenso si deve procedere all’immobilizzazione in stivaletto gessato.

Malattia di Köhler II È l’osteocondrosi del II metatarso, l’unica forma che si manifesta in prevalenza nelle donne in età adulta, tra i 18 e i 35 anni. Clinicamente si manifesta con dolore all’appoggio del II metatarso, la cui testa appare deformata, ingrossata e accorciata. La terapia consiste nell’utilizzo di un plantare per lo scarico della II testa metatarsale. Nei casi più gravi si può ricorrere all’intervento chirurgico di resezione della testa necrotica.

Malattia di Scheuermann

Figura 5.5

Sever-Blenke.

  Quadro radiografico della malattia di

Chiamata anche “dorso curvo giovanile”, è l’osteocondrosi dei nuclei epifisari vertebrali, per la cui trattazione si rimanda al paragrafo specifico nella parte Cifosi, a seguire nel presente capitolo.

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Ortopedia

Osteocondrosi dissecante Giorgio Gasparini L’osteocondrosi dissecante (OCD) è un’affezione acquisita, su base ischemica, dell’osso subcondrale, che colpisce in prevalenza il condilo femorale mediale negli adolescenti o nei giovani adulti. Il coinvolgimento della sovrastante cartilagine articolare è secondario al demarcarsi dell’area di osteonecrosi e può nel tempo indurre allo sviluppo di una artrosi secondaria. Nelle fasi evolutive il frammento osteocondrale può liberarsi nel cavo articolare sotto forma di corpo mobile, lasciando un cratere vuoto. Nei soggetti in accrescimento la guarigione spontanea è frequente. La definizione osteocondrite (termine improprio, in quanto non si tratta di un’affezione infiammatoria) dissecante (che descrive la demarcazione del frammento osteocondrale) fu introdotta nel 1887 da König. Epidemiologia

È una patologia rara (2-6 casi su 10.000), ma rappresenta la causa più frequente di corpo mobile endoarticolare negli adolescenti. Si distinguono una forma giovanile (seconda infanzia e adolescenza: fisi attiva) e una dell’adulto (dal periodo postpubere ai 35 anni: fisi chiusa); il picco di incidenza è tra i 10 e i 20 anni di età, con una predominanza del sesso maschile (3:1). Spesso si tratta di soggetti praticanti attività sportiva e nel 20-40% dei casi è presente un trauma pregresso. Nell’ambito del ginocchio, che è l’articolazione più colpita dall’OCD (75% dei casi), il condilo femorale mediale è prediletto (85%), soprattutto nella sua porzione postero-laterale; seguono il condilo laterale (10%), la troclea e la rotula. In un terzo dei casi la lesione è bilaterale. Altre localizzazioni relativamente frequenti sono il capitulum humeri (6%) e l’astragalo (4%).

mento. In caso di demarcazione, non avviene la rivascolarizzazione e il frammento necrotico rimane in situ, trattenuto dalla sovrastante cartilagine che, pur mostrandosi edematosa, mantiene la propria integrità (Figura 5.7a). Successivamente la cartilagine articolare appare malacica e si assiste alla demarcazione prima parziale (Figura 5.7b) e poi circonferenziale (Figura 5.7c) della stessa con permanenza in situ del frammento, che può liberarsi nel cavo articolare a distanza di tempo (Figura 5.7d). A ciò residua un cratere vuoto e il corpo mobile viene riassorbito in modo progressivo (prima la parte ossea e in seguito quella cartilaginea, che rimane vitale più a lungo in quanto nutrita dal liquido sinoviale); parallelamente si possono manifestare alterazioni artrosiche. Clinica

Nella fase di necrosi, la diagnosi può essere ritardata in quanto la sintomatologia è sfumata e intermittente; questa è caratterizzata da dolore evocato o acuito dall’attività fisica, non localizzato e da modica tumefazione articolare. Nella fase di demarcazione si aggiungono idrartro, scrosci e cedimenti articolari; una volta costituitosi il corpo mobile, ulteriori sintomi sono rappresentati dalla riduzione dell’articolarità e da fenomeni di blocco articolare e di scatto. All’esame obiettivo si rilevano atteggiamento in extrarotazione del ginocchio (per ridurre il contatto tra con-

Eziopatogenesi

L’eziologia è ancora dibattuta: sono stati proposti fattori traumatici, microtraumatici, metabolici, endocrini e genetici, a nessuno dei quali è stato possibile riconoscere un ruolo determinante. Attualmente si propende per un’eziologia multifattoriale e per una patogenesi ischemica. Anatomia patologica

Nei casi a evoluzione favorevole la lesione ossea (in assenza di alterazioni della cartilagine) attraversa le fasi di necrosi → rivascolarizzazione → riassorbimento osteoclastico → neoformazione osteoide → rimodella-

Figura 5.7   L’area di osteonecrosi subcondrale è ricoperta da cartilagine articolare integra (a) che successivamente si demarca parzialmente mantenendo in parte la propria integrità (b). Dopo la completa autonomizzazione, il frammento osteocondrale può rimanere in situ (c) o divenire un corpo mobile endoarticolare (d).

5 - Malattie dell’età evolutiva

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dilo femorale mediale e spina tibiale), tumefazione per versamento, ipotonotrofia del quadricipite e deficit di estensione; in alcuni casi è possibile apprezzare il corpo mobile alla palpazione. Diagnostica per immagini

L’esame base è rappresentato dalle radiografie, che devono includere una proiezione per la gola intercondiloidea. In fase iniziale si evidenzia un’area semicircolare di rarefazione ossea subcondrale; tale area si presenterà poi addensata e lievemente depressa rispetto all’osso circostante e successivamente sarà demarcata da una linea di radiotrasparenza perilesionale (Figura 5.8). In caso di formazione di corpo mobile, si rendono evidenti la sede del distacco vuota e il corpo libero in sede ectopica. La RM mostra le stesse alterazioni (Figura 5.9) e in aggiunta consente di valutare la vascolarizzazione dell’osso e l’integrità della cartilagine articolare. Terapia

Premesso che l’OCD ha una prognosi migliore nei soggetti più giovani, le indicazioni al trattamento si differenziano in relazione all’età del paziente e alla stabilità della lesione. Nei soggetti con fisi attiva (a meno che non si sia già formato il corpo mobile) si attua un trattamento conservativo per 3-6 mesi: astensione dall’attività fisica, riduzione del carico (con l’utilizzo di bastoni) e dell’articolarità (mediante l’uso di un tutore). Dopo la scomparsa del dolore si consentirà una graduale ripresa; il ritorno alla normale attività è subordinato all’evidenza radiografica dell’avvenuta guarigione. Nei rari casi di mancata guarigione o di persistenza della sintomatologia è indicato il trattamento chirurgico.

Figura 5.8   Particolare di una radiografia standard del ginocchio che mostra OCD nella fase di demarcazione.

Figura 5.9  RM di OCD in fase di osteonecrosi con integrità della cartilagine.

Negli adulti, se la lesione è stabile il trattamento conservativo va tentato, pur se con scarse probabilità di successo, mentre in caso di lesione instabile o di corpo mobile il trattamento chirurgico è indicato in prima istanza. Sempre in relazione all’età e alla stabilità della lesione possono essere proposti vari interventi: l’accesso sarà artrotomico o artroscopico in relazione alle dimensioni e alla sede della lesione, oltre che alla dimestichezza del chirurgo con le diverse tecniche. Nelle lesioni con cartilagine articolare integra e fisi chiusa, trovano indicazione curettage e borraggio con osso spongioso autologo per via retrograda. In caso di demarcazione parziale si potrà eseguire la stabilizzazione in situ del frammento mediante chiodini riassorbibili o viti senza testa. In alternativa si può asportare temporaneamente il frammento e trattare la lesione, come nel caso di una demarcazione completa, mediante curettage e/o perforazioni del fondo del cratere, innesto osseo spongioso autologo, riposizionamento del frammento mediante chiodini riassorbibili o viti senza testa. Nel caso si sia costituito un corpo mobile, se questo ha conservato la morfologia originale potrà essere reimpiantato mediante la tecnica precedentemente descritta, altrimenti verrà asportato; in questo caso, dopo aver preparato il fondo del cratere mediante curettage e/o perforazioni, si esegue la ricostruzione mediante trapianti osteocartilaginei multipli autologhi, oppure mediante trapianto osteocartilagineo unico da banca, oppure mediante borraggio con osso autologo e impianto di condrociti autologhi. Nel postoperatorio la durata dell’astensione dal carico e il programma di riabilitazione saranno personalizzati in relazione alle dimensioni e alla sede della lesione e al tipo di trattamento.

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Ortopedia

Scoliosi Ugo E. Pazzaglia Nella tradizione ortopedica, la scoliosi è stata sempre definita come una deviazione laterale della colonna maggiore di 10°, misurata secondo il metodo di Cobb in una radiografia in proiezione antero-posteriore. Deviazioni inferiori ai 10° sono definite semplicemente come asimmetrie spinali. Di fatto, la scoliosi è caratterizzata da una rotazione di un segmento di colonna vertebrale che si sviluppa progressivamente nel corso della crescita, sulla base della deformità (anch’essa progressiva) delle singole vertebre interessate. Nella radiografia in proiezione anteroposteriore, l’immagine biplanare della scoliosi si manifesta con una deviazione laterale ma, se considerata nella prospettiva tridimensionale, la deformità si manifesta su tre piani: ● sagittale: con lordosi del segmento scoliotico; ● frontale: con inclinazione laterale; ● coronale: con rotazione vertebrale.

Classificazione Dal punto di vista eziologico si distinguono diversi tipi di curve scoliotiche (Tabella 5.3). La più rappresentata è certamente quella idiopatica che da sola costituisce circa il 70% di tutte le curve. A sua volta è suddivisa in diverse forme a seconda dell’età in cui viene diagnosticata: ● infantile: nei bambini di età inferiore ai 3 anni; si associa a plagiocefalia, ritardo mentale (13%), lussazione congenita dell’anca (3,5%), e cardiopatia congenita (2,5%); ● giovanile: insorge fra i 3 e i 10 anni; ● dell’adolescente: insorge fra i 10 anni e il raggiungimento della maturità scheletrica e rappresenta la maggioranza delle curve che si presentano a una valutazione ortopedica; ● dell’adulto: si manifesta dopo il raggiungimento della maturità scheletrica. Se nelle forme secondarie l’eziologia della scoliosi è di facile interpretazione, per quella idiopatica la causa rimane non definita anche se sono state formulate numerose ipotesi, tra le quali una disfunzione neurologica centrale, anormalità del tessuto connettivo e fattori genetici.

Tabella 5.3

 Classificazione della scoliosi.

Idiopatica Secondaria ● Da deformità congenite: – emispondili – fusioni vertebrali – spina bifida – mielodisplasia – deformità complesse ● Neuromuscolare: – neuropatica – miopatica ● Associata a neurofibromatosi ● Associata a patologie a carico del mesenchima: – congenite (displasia, artrogriposi, sindrome di Marfan ecc.) – acquisite (artrite reumatoide ecc.) – altre ● Post-traumatica ● Secondaria a fenomeni irritativi: – irritazione delle radici nervose – tumori vertebrali – tumori del midollo spinale ● Altre: – metaboliche – nutrizionali – endocrine

La scoliosi deve essere differenziata da quelle curve scoliotiche che vengono definite come non strutturate o atteggiamenti scoliotici. Con tali termini ci si riferisce a curve compensatorie causate da eterometria degli arti inferiori e asimmetrie della cerniera lombo-sacrale, antalgiche da contrattura della muscolatura paravertebrale, posturali e infine isteriche. Sono caratterizzate da due elementi molto importanti: ● scomparsa delle asimmetrie in posizione di bending anteriore; ● assenza del carattere dell’evolutività. L’evolutività della scoliosi è legata a numerosi fattori che bisogna tenere in seria considerazione al momento della diagnosi. In pazienti che non hanno ancora raggiunto la maturità scheletrica, il sesso, la crescita che devono ancora affrontare, l’entità della curva e il tipo di curva sono fattori prognostici di estrema importanza. Il sesso femminile per ragioni non chiare (forse di natura ormonale) rappresenta la maggioranza dei pazienti proni a un carattere di evolutività della curva. Lo sviluppo scheletrico che subirà il paziente è determinato da due indici: ● la scala di Risser (marker scheletrico); ● nelle femmine, il raggiungimento o meno del me­­ narca.

5 - Malattie dell’età evolutiva

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Alcuni autori utilizzano anche il raggiungimento del picco dell’incremento staturale. La scala di Risser è basata sulla misurazione radiografica dell’ossificazione dell’apofisi iliaca su una radiografia antero-posteriore del bacino: inizia dalla porzione più laterale dell’osso iliaco e prosegue medialmente. Dividendo l’apofisi in quattro quadranti simmetrici, la scala di Risser va da un valore di 0 (assenza di ossificazione) a 5 (ossificazione di tutti i quadranti e fusione dell’apofisi all’osso iliaco), valore che indica il raggiungimento della maturità scheletrica (Figura 5.10). Il rischio di progressione è inversamente proporzionale all’indice di Risser. Il raggiungimento del menarca è un indice applicabile ovviamente solo al sesso femminile e determina una diminuzione del rischio di progressione della curva. Anche l’indice di maturità di Tanner può essere d’aiuto. Il picco di incremento staturale è quantificato in 8 cm annui per le femmine e in 9,5 cm annui per i maschi. È solitamente seguito dalla chiusura della cartilagine triradiata o ipsilonica del bacino e dal raggiungimento dello stadio 1 di Risser. Ovviamente l’entità e il tipo di curva sono molto importanti. In linea generale valori che superano i 20°, doppie curve e curve toraciche sono a rischio sostanziale di progressione. Diverse sono, ovviamente, le considerazioni da fare per quanto concerne una deformità scoliotica presente dopo il raggiungimento della maturità scheletrica. In questo caso diviene molto più importante ai fini prognostici l’entità della curva, con concrete possibilità di pro-

gressione che si manifestano solo per valori superiori ai 50-60°.

Figura 5.10   Ossificazione dell’apofisi iliaca su una radiografia antero-posteriore di bacino (scala di Risser). I numeri da 1 a 4 indicano i diversi stadi di assottigliamento della cartilagine. Il punto 5 è lo stadio finale nel quale la componente ossea ha completamente sostituito la cartilagine.

Quadro clinico

Screening

Lo screening per la diagnosi di scoliosi si basa sui numerosi segni clinici con cui essa si manifesta. Comprendono un’asimmetria delle spalle, una diversa prominenza scapolare, un’anca prominente o elevata, un’asimmetria dei triangoli della taglia (delimitati dalla superficie interna degli arti superiori e quella laterale del tronco), il non allineamento della testa e della linea delle spinose e un test in flessione anteriore (Adams forward bending test) positivo. Il test di Adams si effettua osservando il paziente da dietro e facendolo flettere in avanti fino a fare raggiungere la posizione orizzontale alla colonna vertebrale, con le braccia lasciate cadere in avanti e il palmo delle mani uno contro l’altro, e osservando se un lato della schiena appare più alto rispetto al controlaterale. Questo permette di rilevare la rotazione vertebrale: l’entità di tale dislivello, definito gibbo scoliotico, è misurata con una livella in punti simmetrici rispetto alla linea delle spinose. Costituisce il più importante segno clinico per la valutazione di una scoliosi (Figura 5.11). Anatomia patologica

La curva scoliotica è compresa tra due vertebre, definite vertebre limite, che presentano il maggior grado di inclinazione sul piano frontale. L’apice della curva è individuato dalla vertebra neutra, a carico della quale si evidenziano con maggior gravità alterazioni strutturali, dipendenti dall’entità della scoliosi e coinvolgenti sia il soma (deformità a cuneo sul piano frontale con porzione più appiattita volta verso la concavità della curva) sia i peduncoli, le lamine, i processi traversi e spinosi (questi ultimi sempre rivolti verso la concavità della curva). Alterazioni strutturali si evidenziano anche a carico dei dischi intervertebrali, che appaiono assottigliati e degenerati soprattutto sul versante concavo della curva, e della gabbia toracica, che mostra un gibbo posteriore sul lato convesso della curva e uno anteriore sul lato concavo, deformità che compromette la funzionalità respiratoria in misura direttamente proporzionale al grado della deformità, quando la scoliosi supera i 60-70°. Il midollo spinale può essere “stirato” ma raramente si rilevano deficit neurologici.

Solitamente i pazienti si presentano a una valutazione ortopedica per una scoliosi preoccupati da deformità evidenti o supposte, di significato prettamente estetico.

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Ortopedia

Viene innanzitutto valutata la cute per evidenziare segni che possano tradire la presenza di anomalie vertebrali. L’esame prosegue determinando il livello delle creste iliache o delle spine iliache antero-superiori, che deve essere identico, salvo per la presenza di eterometrie degli arti inferiori. Quindi si valutano il livello delle spalle, la simmetria delle scapole e dei triangoli della taglia. Si palpano tutti i processi spinosi valutando così anche eventuali anomalie, rotazioni vertebrali e alterazioni delle curve sagittali fisiologiche. Con un filo a piombo posto a livello della tuberosità occipitale si valuta l’allineamento delle spinose, della testa con il bacino e l’eventuale compenso di curve scoliotiche; il filo deve cadere a livello della piega glutea, e può avere una tolleranza di 1 cm. Si effettua quindi il test in flessione anteriore di Adams secondo le modalità già descritte. Tutti i pazienti devono essere sottoposti a una valutazione neurologica, saggiando i riflessi addominali e quelli degli arti inferiori e la presenza di eventuali deficit sensitivo-motori periferici. Diagnostica per immagini

Figura 5.11   Adams forward bending test per la valutazione della gibbosità.

Anche se non comune, il dolore a carico del rachide si verifica più frequentemente di quanto si pensi, attestandosi a una percentuale intorno al 30% e ponendosi in relazione con la maturità scheletrica e con un’età maggiore di 15 anni. La causa precisa del dolore può essere individuata solo nel 10% dei casi ed è rappresentata solitamente da spondilolisi, spondilolistesi o da malattia di Scheuermann. In rari casi vengono individuate come cause una spina bifida, un’ernia del disco o un tumore. I sintomi respiratori sono poco frequenti e una compromissione cardio-polmonare clinicamente evidente si registra per valori angolari di scoliosi uguali o maggiori a 100°. Anche i deficit neurologici sono rari. L’esame obiettivo viene condotto facendo spogliare il paziente così da poter esaminare tutta la colonna vertebrale, le spalle, il bacino e gli arti inferiori.

La scoliosi viene studiata e quantificata su una radiografia che utilizza una pellicola di 30 × 90 cm così da comprendere tutto il rachide in proiezione antero-posteriore e latero-laterale con il paziente in posizione eretta (Figura 5.12). La prima proiezione permette di valutare il tipo di curva, il tipo di scoliosi (idiopatica o secondaria), il compenso della curva, la maturità scheletrica e l’eventuale presenza di eterometria degli arti inferiori. La seconda consente di evidenziare il contorno della colonna toracica e lombare, la diminuzione della cifosi toracica e la presenza di un’eventuale spondilolisi o spondilolistesi. Altre proiezioni, per esempio in bending laterale, possono essere richieste per fini particolari, per esempio per una valutazione preoperatoria della curva (Figura 5.13). La misurazione dell’entità della curva è effettuata con il metodo di Cobb che tuttavia, a causa della componente tridimensionale, sottostima l’entità della deformità soprattutto nelle scoliosi gravi; tale errore potenziale può essere evitato eseguendo radiografie in proiezione obliqua. Per prima cosa, sulla radiografia antero-posteriore, bisogna individuare le vertebre limite: il piatto vertebrale superiore della vertebra prossimale e quello inferiore della vertebra distale presentano il maggiore grado di inclinazione. Vengono quindi tracciate due linee perpendicolari alla superfici dei piatti vertebrali delle vertebre limite: l’angolo individuato dall’intersezione di tali linee costituisce l’angolo di Cobb (Figura 5.14).

5 - Malattie dell’età evolutiva

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Figura 5.14   Misurazione dell’angolo di Cobb in una curva scoliotica dorso-lombare (si veda la spiegazione nel testo).

Figura 5.12  Rachide in toto in proiezione anteroposteriore (a) e laterale (b).

Figura 5.13

e destro (b).

 Radiografia in bending laterale sinistro (a)

Quando è presente una seconda curva, per esempio al di sotto della curva misurata, la vertebra limite inferiore diviene quella superiore della seconda curva e viene utilizzata la stessa linea precedentemente tracciata. Il metodo di Cobb è utilizzato anche per valutare i valori della cifosi toracica il cui range di normalità varia da un minimo di 20° a un massimo di 45°. La rotazione vertebrale viene invece quantificata con diversi metodi. ● Perdriolle: utilizza un torsiometro trasparente sovrapposto sulla radiografia antero-posteriore; l’entità della torsione è misurata avendo come punto di repere il peduncolo ruotato della vertebra apice. È un metodo accurato per rotazioni inferiori ai 30°. ● Nash-Moe: la relazione tra i peduncoli e il centro del corpo vertebrale della vertebra apice in una radiografia antero-posteriore è divisa in cinque gradi: 0 quando entrambi i peduncoli sono simmetrici; 1, quando il peduncolo del lato convesso si allontana dal margine laterale vertebrale; 2, rappresenta un grado intermedio tra il grado 1 e il grado 3; 3, quando il peduncolo del lato convesso si proietta al centro del corpo vertebrale; 4, quando il peduncolo del lato convesso supera la linea mediana del corpo vertebrale (Figura 5.15). ● Cobb: il grado di rotazione viene determinato in base allo spostamento delle apofisi spinose rispetto alla linea mediana. È diviso in quattro gradi espressi

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Ortopedia

Figura 5.15   Metodo Nash-Moe per la misurazione della rotazione vertebrale.

con un numero crescente di simboli positivi: +, quando la spinosa si proietta sul terzo mediale dell’emisoma concavo della vertebra neutra; ++ quando si proietta sul terzo medio; +++, quando si proietta sul terzo laterale; ++++, quando si proietta oltre il terzo laterale. Le altre metodiche di imaging sono raramente utilizzate: la RM è solitamente richiesta quando la scoliosi presenta caratteri atipici che possono far pensare a una forma secondaria; la TC è invece più spesso utilizzata nel postoperatorio, per verificare la consolidazione delle artrodesi. Terapia

Si possono riconoscere quattro tipi di approccio: ● osservazione; ● terapia ortopedica; ● terapia chirurgica; ● kinesiterapia. Per ciò che concerne l’osservazione ci si astiene da qualsiasi tipo di trattamento, effettuando controlli periodici della curva scoliotica. È un atteggiamento giustificato per tutte le curve inferiori ai 25°, a prescindere dal grado di maturità scheletrica, fattore che tuttavia condizionerà la frequenza dei controlli: saranno tanto più ravvicinati quanto più il paziente è scheletricamente immaturo.

L’astensione può essere adottata anche per quelle curve più gravi, tra i 25° e i 45° che presentano una discreta maturità scheletrica (scala di Risser ≥3). L’approccio ortopedico si basa sull’utilizzo di apparecchi gessati o busti ortopedici (questi ultimi meno efficaci dei primi ma più facilmente accettati) e viene adottato per le curve di entità compresa tra i 25° e i 45° e immaturità scheletrica (scala di Risser ) che diffonde verso la parte posteriore della vertebra sottostante.

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Ortopedia

Le complicanze più gravi sono quelle neurologiche fino alla paraplegia, descritta da Pott come patognomonica di tubercolosi se associata al gibbo e al dolore (triade di Pott). All’esame radiografico, poco significativo nelle fasi iniziali, si possono evidenziare alcuni aspetti caratteristici, quali una distruzione vertebrale interessante due somi contigui con una riduzione dello spazio discale.

Coxite tubercolare Il carico sull’anca influenza negativamente l’evoluzione delle lesioni, che possono interessare primitivamente la sinoviale, l’acetabolo, la testa o il collo del femore. Il quadro clinico è dominato dal dolore spesso riferito al ginocchio, con limitazione funzionale e zoppia. Nelle fasi più avanzate è possibile osservare l’assunzione di atteggiamenti viziati in flessione, adduzione ed extrarotazione dell’anca, un’atrofia glutea e un’importante linfoadenopatia satellite. L’esame radiografico evidenzia un’osteoporosi marcata fino alla distruzione dei capi articolari. La rima articolare, dapprima ampliata per effetto della sinovite e dell’essudato, si riduce progressivamente fino a scomparire.

Gonilite tubercolare Il quadro clinico è caratterizzato da dolore, zoppia e limitazione funzionale, cui si associa una marcata atrofia del muscolo quadricipite che contrasta con la tumefazione del ginocchio (il cosiddetto tumore bianco). Le immagini radiografiche evidenziano i segni della distruzione osteoarticolare e l’opacizzazione del cavo articolare.

Spondilodisciti non specifiche L’osteomielite vertebrale costituisce la più tipica localizzazione delle forme ematogene dell’adulto; può tuttavia conseguire anche a interventi chirurgici o manovre invasive (per esempio la puntura lombare) sul rachide per inoculazione diretta dei microrganismi. La dizione “non specifica” è utilizzata per distinguerla dalla spondilite tubercolare o specifica. In ordine di frequenza sono interessati il tratto lombare e dorsale, più raramente quello cervicale. Anche per l’osteomielite vertebrale ematogena l’agente eziologico più comune è rappresentato dallo Staphylo-

coccus aureus (più del 50% dei casi), seguito da streptococchi, da alcuni batteri Gram-negativi (Escherichia coli, Klebsiella pneumoniae, Salmonella spp., Pseudomonas aeruginosa) e da enterococchi, questi ultimi spesso provenienti da concomitanti infezioni del tratto urinario. Le forme postchirurgiche sono quasi esclusivamente causate da stafilococchi. Un’elevata incidenza di osteomielite vertebrale si osserva, oltre che nei soggetti immunodepressi, nei tossicodipendenti da droghe endovenose e nei pazienti con cateteri venosi centrali a permanenza. Queste condizioni predispongono all’insorgenza di forme fungine, in particolare da Candida, accanto a quelle stafilococciche. La malattia si può manifestare con una sintomatologia acuta (vivo dolore al rachide con febbre elevata, brividi, leucocitosi ecc.), ma più spesso si presenta in forma subacuta o cronica fin dall’esordio, con un quadro clinico sfumato caratterizzato da febbricola, astenia e affaticabilità. Il dolore è il sintomo più importante: è costante, si accentua nella stazione eretta ed è localizzato alle vertebre interessate. All’esordio l’esame radiografico è negativo e sono in genere necessarie un paio di settimane prima che si evidenzino le prime alterazioni scheletriche: per questo è necessario un ulteriore approfondimento diagnostico (TC, RM) a breve termine di fronte a una sintomatologia persistente. La radiografia può mostrare la riduzione di altezza del disco intervertebrale e l’osteolisi dei piatti vertebrali adiacenti, in forma di piccole erosioni che conferiscono un aspetto sfumato al margine del soma (Figura 6.8). La TC e, soprattutto, la RM presentano una maggiore sensibilità nel rilevare le alterazioni scheletriche precoci della spondilodiscite e permettono di stabilire l’estensione del processo infiammatorio. La scintigrafia con leucociti marcati è una metodica affidabile solo nell’identificazione delle forme non ancora trattate con antibiotici. La compressione midollare o radicolare da parte di un ascesso a sviluppo posteriore è divenuta un’evenienza rara da quando è stata introdotta la terapia antibiotica. Proprio per prevenire questa grave complicanza, che rende necessario un intervento chirurgico d’urgenza, è indispensabile impostare un trattamento farmacologico tempestivo, inizialmente ad ampio spettro antibatterico in attesa dei dati forniti dall’antibiogramma. L’identificazione dell’agente eziologico non è facile e a volte impossibile. L’indagine anamnestica può essere utile nell’orientare la diagnosi ricercando infezioni concomitanti o pregresse nello stesso individuo, così come occasioni di contagio a seguito di viaggi in Paesi con particolari endemie (per esempio la salmonellosi). Ripetute emocolture e urinocolture devono essere ese-

6 - Patologia infettiva dell’osso e delle articolazioni

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di rachide interessato: questo ha un effetto sulla sintomatologia dolorosa e permette, entro certi limiti, di prevenire schiacciamenti vertebrali.

Artrite settica

Figura 6.8   Spondilodiscite cronica non specifica di L3L4. La paziente, tossicodipendente, lamentava lombalgia da 8 mesi accompagnata da febbre ricorrente. La radiografia mostra l’erosione delle limitanti somatiche, accompagnata da alterazioni strutturali dell’osso di tipo sia sclerotico ( ) sia litico (>). Lo spazio intersomatico appare molto ridotto in ampiezza, ma non sono presenti osteofiti marginali.

guite anche in assenza di febbre, così come l’intradermoreazione alla Mantoux è indispensabile per escludere una forma tubercolare. Quale ultimo accertamento si può praticare una biopsia per via percutanea sotto guida TC oppure a cielo aperto. La diagnosi differenziale deve essere posta in primo luogo con localizzazioni neoplastiche vertebrali. Il trattamento ortopedico (decubito supino obbligato, busti) ha lo scopo di ridurre le sollecitazioni sul tratto Box 6.2

Spondilodiscite infantile

Accanto alla forma dell’adulto, deve essere ricordata l’infezione dello spazio discale che colpisce i bambini, per lo più al di sotto dei 4 anni di età. Mentre nell’adulto la colonizzazione batterica primitiva è al corpo vertebrale e l’interessamento del disco è secondario, nelle forme infantili si osserva una localizzazione primitiva discale, in virtù della vascolarizzazione di porzioni più o meno estese del disco. Le disciti dell’infanzia, molte delle quali a bassa espressività clinica, hanno un decorso tipicamente benigno, tendendo a risolversi anche in assenza di terapia antibiotica. Gli esiti del processo infettivo possono manifestarsi a distanza, con l’evidenza radiografica di fusioni tra corpi vertebrali adiacenti, alterazioni morfologiche degli stessi, scoliosi o cifosi.

L’artrite settica è l’infezione batterica di un’articolazione e si verifica quando i microrganismi invadono la membrana e il liquido sinoviale, dando luogo a una reazione infiammatoria che può portare alla formazione di essudato purulento nello spazio articolare (piartro). Come per l’osteomielite, la patogenesi più comune è quella per disseminazione ematogena da un focolaio a distanza, non sempre identificabile. Nei primi mesi di vita, l’artrite può rappresentare l’estensione secondaria di un’osteomielite ematogena metafisaria, che si propaga allo spazio articolare grazie alla pervietà dei vasi che attraversano la cartilagine d’accrescimento. La localizzazione dei batteri in un’articolazione può anche derivare da un’inoculazione diretta dall’esterno in seguito a ferite o atti chirurgici e medici, quali interventi sull’articolazione, artrocentesi e iniezioni intrarticolari di farmaci. Più rara è invece la propagazione dell’infezione da focolai extrarticolari contigui. Qualsiasi articolazione può essere colpita dal processo settico; le localizzazioni più frequenti sono però il ginocchio, l’anca e la spalla. Lo Staphylococcus aureus è il più comune agente eziologico delle artriti settiche, sia nelle forme ematogene sia in quelle da inoculazione diretta, seguito dagli streptococchi. Tra i batteri Gram-negativi l’Haemophilus influenzae è il responsabile del maggior numero di forme acute nel bambino fino a 2-3 anni, mentre le artriti gonococciche (Neisseria gonorrhoeae) hanno un’incidenza non trascurabile negli adulti attivi sessualmente, spesso come parte di un’infezione disseminata. L’infezione articolare esordisce con una sinovite acuta il cui decorso è in rapporto alla virulenza dei batteri, alla risposta da parte dell’ospite, alla precocità ed efficacia della terapia. La membrana sinoviale presenta inizialmente fenomeni vasculitici ed edema, con un infiltrato infiammatorio costituito in prevalenza da polimorfonucleati neutrofili. Nella cavità si raccoglie un essudato che distende la capsula e che può avere un aspetto sieroso limpido o torbido o francamente purulento in rapporto al numero di cellule e detriti cellulari in esso contenuti. Gli enzimi proteolitici liberati dai polimorfonucleati del panno sinoviale e dell’essudato purulento possono

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digerire la sostanza fondamentale della cartilagine e determinare estese lesioni che si possono approfondire fino all’osso subcondrale. L’evoluzione passa attraverso l’organizzazione dell’infiltrato infiammatorio, con l’ispessimento della capsula articolare e la formazione di tralci fibrosi intrarticolari che possono compromettere la normale mobilità (anchilosi fibrosa). L’articolazione colpita presenta tutti i segni clinici della flogosi acuta. Il dolore è esacerbato dal movimento e il paziente tende ad assumere l’atteggiamento che determina la minima distensione articolare; l’impotenza funzionale può essere completa. Le articolazioni superficiali (ginocchio, gomito, polso, caviglia) appaiono tumefatte con cute sovrastante calda e arrossata; questi segni sono invece meno evidenti nelle articolazioni profonde come l’anca e la spalla. La febbre può raggiungere i 40 °C. Gli esami di laboratorio mostrano una leucocitosi neutrofila e una VES molto elevata. Il quadro radiografico in fase iniziale evidenzia solo un aumento del volume e dell’opacità dei tessuti molli periarticolari, mentre la radiotrasparenza dei capi articolari, il restringimento dell’interlinea articolare e la presenza di grossolane erosioni fino all’osso subcondrale sono segni tardivi a cui non si dovrebbe mai arrivare (Figura 6.9). Valutazioni morfologiche più accurate possono essere ottenute con la TC e la RM. La diagnosi è confermata dall’isolamento dell’agente eziologico nell’essudato articolare oppure nel sangue. Se non si riesce a isolare alcun germe, la presenza di un numero di cellule (prevalentemente neutrofili) superiore a 20.000-30.000/mm3 nel liquido sinoviale è altamente presuntiva di artrite settica.

Figura 6.9   Artrite settica della spalla, evoluta in una estesa distruzione dei capi articolari. La testa omerale e la glena scapolare appaiono erose e deformate, con sclerosi diffusa del profilo osseo.

Una tempestiva terapia può prevenire l’instaurarsi di lesioni irreversibili. Oltre alla terapia antibiotica, può rendersi necessaria l’evacuazione dell’essudato purulento dal cavo articolare, con lavaggi per via artroscopica e/o applicazione di drenaggi per il lavaggio continuo. Durante la fase acuta, l’articolazione deve essere immobilizzata in posizione funzionale in modo da attenuare il dolore e prevenire la rigidità in posizioni viziate. La rieducazione deve essere iniziata precocemente, non appena i segni di flogosi articolare sono regrediti.

capitolo

Tumori dello scheletro

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Giovanni Zatti, Federico A. Grassi

Introduzione Lo scheletro può essere interessato da neoplasie e lesioni pseudotumorali di diverso tipo che, analogamente a quanto provocato da processi di altra natura, alterano la struttura dell’osso con possibili ripercussioni sulla sua resistenza meccanica. Al di là delle conseguenze sull’apparato locomotore, queste affezioni presentano uno spettro di gravità assai ampio, andando da lesioni del tutto benigne a quadri con prognosi infausta in una larga percentuale di casi. Un attento iter diagnostico è pertanto indispensabile per evitare sopra o sottovalutazioni della patologia in atto (Box 7.1). Non è certamente possibile includere in un unico capitolo tutti i tumori che colpiscono lo scheletro, pertanto

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Box 7.1

Diagnosi dei tumori ossei

La diagnosi dei tumori dello scheletro deve basarsi sull’integrazione dei dati anamnestici, clinici, strumentali e morfologici del tumore. È questo un dato ormai assodato da molti anni e, benché possa essere considerato un luogo comune, non ci si può esimere dal ricordarlo. I parametri da considerare, poiché potenzialmente dirimenti nell’inquadramento diagnostico, includono: ● età del paziente: alcune neoplasie sono rarissime nel bambino (tumore gigantocellulare o condrosarcoma), mentre altre sono tipiche dell’età giovanile (sarcoma di Ewing); ● anamnesi familiare per alcune forme ereditarie (esostosi multiple); ● rapidità di sviluppo, più spesso correlata a una prognosi sfavorevole;

la trattazione sarà qui limitata a quelle patologie che per frequenza e/o gravità sono considerate più rilevanti in ambito ortopedico. Le neoplasie dello scheletro non sono comuni ed è stato stimato che in Italia l’incidenza annuale di nuovi tumori maligni primitivi si aggiri intorno a 500 casi.

Tumori primitivi e lesioni pseudotumorali dell’osso Classificazione La classificazione dei tumori dello scheletro segue un criterio istogenetico, distinguendo le neoplasie in base alla verosimile origine delle cellule che le ●

sintomi e segni clinici: dolore con caratteristiche tipiche (per esempio, osteoma osteoide), febbre (sarcoma di Ewing); ● sede (ossa del tronco o degli arti) e localizzazione (diafisaria, metafisaria o epifisaria, centrale o periferica), caratteristiche per alcuni tumori (per esempio, tumore gigantocellulare nella metaepifisi, soprattutto nel ginocchio o nella tibia distale, dopo scomparsa della cartilagine di accrescimento); ● quadro radiografico, TC, RM e scintigrafia: tali esami permettono di evidenziare l’aggressività delle lesioni e di riconoscere i caratteri distintivi di alcune di esse; ● aspetto macroscopico e istologico: è la fase diagnostica finale e richiede un’esperienza specifica del patologo, a cui spetta il compito di chiarire i dubbi non risolti dall’analisi dei dati clinici e strumentali.

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compongono e in base alle caratteristiche della sostanza intercellulare prodotta dalle cellule neoplastiche. Questa distinzione è semplice nei tumori benigni, dove gli elementi cellulari presentano una notevole differenziazione morfologica e funzionale, mentre può essere meno facile in quelli maligni, a causa dell’estrema atipia e variabilità citologica e istologica. La classificazione dei tumori ossei primitivi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, proposta nel 1972 e tuttora in evoluzione, è riportata nei suoi aspetti fondamentali nella Tabella 7.1. Le lesioni pseudotumorali somigliano ai tumori, creando spesso problemi di diagnosi differenziale con questi ultimi. Si possono distinguere iperplasie, in cui la proliferazione cellulare è regolata da uno stimolo e mostra un’architettura con una discreta organizzazione, e amartomi, derivanti dalla crescita di frammenti tissutali rimasti separati dalla struttura Tabella 7.1

di appartenenza durante lo sviluppo embrionale (amartia). Le lesioni pseudotumorali comprendono diverse neoformazioni, alcune delle quali vengono incluse nella classificazione dei tumori sulla base del criterio istogenetico: la cisti ossea, la cisti aneurismatica, la displasia fibrosa, l’esostosi osteo-cartilaginea, il condroma, il granuloma eosinofilo, la miosite ossificante e altre ancora.

Esostosi Osteo-Cartilaginea L’esostosi osteo-cartilaginea, detta anche osteocondroma, è uno dei tumori benigni più frequenti dell’apparato scheletrico. È un amartoma, che origina da un’isola ectopica sottoperiostea di cartilagine di coniugazione, la quale si ingrandisce durante il periodo di accrescimento e matura secondo la normale ossificazione encondrale.

  Tumori primitivi dello scheletro.

Istogenesi

Benigni

Bassa malignità

Maligni

Fibrosa e istiocitaria

Fibroma istiocitico Istiocitoma fibroso benigno Fibroma desmoide Tumore gigantocellulare

Fibrosarcoma di grado I e II

Fibrosarcoma di grado III e IV Istiocitoma fibroso maligno

Cartilaginea

Esostosi osteo-cartilaginea Condroma Condroblastoma Fibroma condromixoide

Condrosarcoma di grado I e II: ● centrale ● periferico Condrosarcoma a cellule chiare

Condrosarcoma di grado III: ● centrale ● periferico ● periosteo Condrosarcoma mesenchimale Condrosarcoma differenziato

Ossea

Osteoma Osteoma osteoide Osteoblastoma Displasia fibrosa

Osteosarcoma: ● parostale ● periosteo ● centrale a bassa malignità

Osteosarcoma: ● classico ● teleangectasico ● a piccole cellule ● secondario (malattia di Paget, raggi X) Osteosarcomatosi

Emopoietica

Linfoma Mieloma (leucemie, linfoma di Hodgkin)

Vascolare

Emangioma Linfangioma

Nervosa

Neurinoma Neurofibroma

Adiposa

Lipoma

Emangioendotelioma Emangiopericitoma a bassa malignità

Sarcoma di Ewing (tumore neuroectodermico periferico) Liposarcoma

Epiteliale

Adamantinoma

Notocordale

Cordoma

Mista

Angiosarcoma Emangiopericitoma

Mesenchimoma maligno

7 - Tumori dello scheletro

Pur essendo congenita, l’esostosi si manifesta prevalentemente in una fascia di età compresa tra i 10 e i 20 anni, con una predilezione per il sesso maschile. Si localizza quasi sempre nella metafisi di un osso lungo, più spesso in prossimità delle cartilagini di accrescimento più fertili (femore distale, tibia e omero prossimale), tendendo a portarsi in sede diafisaria con il progredire della crescita corporea. La scapola e l’ileo sono le sedi più comuni di esostosi tra le ossa piatte. La presenza di esostosi multiple è una condizione ereditaria nella maggior parte dei pazienti ed è nota come malattia di Ombredanne o malattia delle esostosi multiple. Tale quadro morboso ha un’incidenza circa 10 volte inferiore rispetto all’esostosi solitaria. Quadro clinico

L’esostosi è di regola asintomatica e la diagnosi viene posta per la comparsa di una tumefazione a lento accrescimento. La compressione su strutture circostanti può causare l’insorgenza di dolore su base irritativa. In caso di esostosi peduncolata, è possibile la frattura del peduncolo con comparsa improvvisa di dolore. Obiettivamente si apprezza una massa dura, solidale sul piano osseo e non dolente alla palpazione. Poiché le esostosi riducono il potenziale di crescita delle cartilagini di coniugazione, nelle forme generalizzate più gravi si possono osservare accorciamenti (di solito inferiori a 2 cm) e deformità degli arti (Figura 7.1).

Figura 7.1

  Nella malattia delle esostosi multiple si possono osservare deformità a carico degli arti, in questo caso dell’avambraccio.

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Una vecchia esostosi che riprende a crescere in età adulta e si manifesta con dolore deve essere considerata con molta attenzione; la frequenza di trasformazione sarcomatosa è molto bassa in caso di esostosi solitarie, mentre raggiunge il 25% nelle esostosi multiple. Diagnostica per immagini

Per la diagnosi è sufficiente l’esame radiografico; in rari casi possono essere d’ausilio la TC o la RM per chiarire i rapporti della neoformazione con i tessuti circostanti. Sui radiogrammi è possibile apprezzare la continuità dell’osso corticale e spongioso tra la metafisi e l’esostosi. All’interno della neoformazione possono essere presenti zone iperdiafane o noduli radiopachi; questi ultimi sono dovuti alla calcificazione di porzioni cartilaginee. Anatomia patologica

Macroscopicamente si possono osservare esostosi peduncolate (Figura 7.2), con base d’impianto stretta, oppure sessili, a base larga (Figura 7.3). L’apice dell’esostosi, di dimensioni assai variabili, è formato da tessuto cartilagineo normale, che ha maggiore spessore e presenta le caratteristiche della cartilagine di coniugazione nel bambino, per poi assottigliarsi progressivamente, assumendo in età adulta una struttura più simile a quella della cartilagine articolare. Il periostio della metafisi continua sull’esostosi fino al

Figura 7.2   Esostosi peduncolata del corpo della scapola. La radiografia in proiezione laterale permette di apprezzare il conflitto della neoformazione con la parete toracica posteriore.

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Ortopedia

Figura 7.3

prossimale.

  Voluminosa esostosi sessile dell’omero

margine con il cappuccio cartilagineo; le trabecole ossee contengono normale tessuto midollare. La crescita dell’osteocondroma prosegue fino al raggiungimento della maturità scheletrica per poi arrestarsi. Una ripresa della crescita in età adulta deve fare sospettare la trasformazione sarcomatosa (condrosarcoma periferico) dell’esostosi. Terapia

La terapia delle esostosi sintomatiche o sospette per trasformazione maligna è chirurgica e consiste nella loro asportazione, avendo cura di rimuovere anche la base d’impianto per prevenire possibili recidive.

Condroma Il condroma, detto anche encondroma, è una neoformazione benigna costituita da cartilagine ialina ben differenziata; si ritiene che sia un amartoma, originato da residui di cartilagine embrionale rimasti inclusi nel tessuto osseo. È frequente (rappresenta circa il 10% dei tumori primitivi dell’osso), non presenta predilezione di sesso e si riscontra in tutte le età tra i 10 e i 50 anni. Il condroma può insorgere in tutte le ossa formatesi su un modello cartilagineo (ossificazione encondrale), ma nel 50% dei casi si localizza alle ossa lunghe delle mani, seguite da quelle del piede. È possibile che l’incidenza

Figura 7.4

terzo dito.

  Condroma della falange intermedia del

in altre sedi possa essere sottostimata per l’assenza di espressività clinica. Oltre al condroma solitario, che rappresenta la manifestazione più frequente di questa lesione, esiste anche una forma a localizzazioni multiple, nota come encondromatosi o malattia di Ollier. L’associazione di condromi multipli e di angiomi dei tessuti molli è conosciuta come sindrome di Maffucci. Quadro clinico

Il condroma resta asintomatico a lungo, ma quando arriva a soffiare la corticale può causare tumefazione e deformità del segmento interessato, soprattutto se superficiale. La comparsa di dolore è di solito associata a una frattura patologica, ma può essere indice di una trasformazione sarcomatosa. Diagnostica per immagini

Radiograficamente si apprezza un’area osteolitica centrale, talvolta eccentrica o intracorticale, che può occupare l’intera sezione dell’osso (Figura 7.4). L’osteolisi ha margini arrotondati e ben definiti, contiene al suo interno calcificazioni in forma di opacità granulari e soffia la corticale diafisaria senza interromperla. Anatomia patologica

Macroscopicamente il condroma appare formato da lobuli di cartilagine ialina, all’interno della quale possono essere presenti zone di calcificazione e necrosi. L’aspetto microscopico è simile a quello della cartila-

7 - Tumori dello scheletro

gine normale, con condrociti sparsi o riuniti in gruppi isogeni. Le cellule raramente sono binucleate; i nuclei presentano dimensioni uniformi e di rado sono aumentati di volume. La diagnosi differenziale va posta essenzialmente con il condrosarcoma di grado I, per il quale l’istologia non sempre risulta discriminante, mentre altri tre elementi possono essere d’aiuto: la localizzazione (il condrosarcoma è raro nelle ossa della mano), le dimensioni (un diametro > 4 cm è indicativo di condrosarcoma) e la clinica (il condroma è asintomatico in assenza di fratture). Terapia

La terapia prevede lo svuotamento accurato della cavità e il suo borraggio (ovvero riempimento) con innesto osseo. Le recidive sono possibili per il permanere di isole cartilaginee.

Condroblastoma È un raro tumore benigno di origine cartilaginea, che si manifesta nella maggior parte dei casi in età compresa tra i 10 e i 20 anni, prediligendo il sesso maschile. Ha una spiccata tendenza a localizzarsi in sede epifisaria, sebbene possa superare la cartilagine di accrescimento e interessare la metafisi. Le epifisi più colpite sono quella distale del femore e quella prossimale di tibia e omero. I sintomi sono tardivi e riferiti all’articolazione contigua, con dolenzia, rigidità, tumefazione, ipotrofia muscolare e talvolta versamento. La radiografia mostra un’area osteolitica epifisaria di dimensioni variabili, a contorni netti e con possibili tenui calcificazioni al suo interno, meglio evidenziate dalla TC o dalla RM (Figura 7.5).

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La terapia consiste nell’asportazione della lesione e nel borraggio con innesto osseo, evitando la contaminazione intrarticolare. In alcuni casi (lesioni con caratteristiche di aggressività, recidive) può rendersi necessaria la resezione ossea.

Condrosarcoma Il condrosarcoma è un tumore maligno caratterizzato dalla produzione, da parte delle cellule neoplastiche, di cartilagine ma non di tessuto osseo. È il secondo sarcoma dello scheletro per frequenza dopo l’osteosarcoma; interessa l’età adulta (30-60 anni) ed è più frequente nel sesso maschile. Si localizza con maggiore frequenza al bacino, alla scapola e alle metafisi delle ossa lunghe (femore prossimale e distale, tibia e omero prossimali). I condrosarcomi possono essere distinti: ● a seconda dell’origine, in primitivi e secondari (insorti su preesistenti tumori cartilaginei benigni come esostosi o condromi, soprattutto in caso di malattia di Ombredanne o di Ollier); ● in base alla localizzazione nell’osso, in centrali, periferici e periostei (distinzione che ha un significato pressoché esclusivo nelle ossa lunghe). Le possibili varietà di condrosarcoma sono riportate nella Tabella 7.1, tenendo presente che le forme convenzionali sono considerate quella centrale, periferica e periostea, mentre i rimanenti quadri (a cellule chiare, mesenchimale, sdifferenziato) sono considerati varietà del condrosarcoma. Quadro clinico

La caratteristica dei condrosarcomi è di avere una crescita molto lenta, con sintomi e segni aspecifici

Figura 7.5   Condroblastoma epifisario dell’omero prossimale. La radiografia mostra un’area osteolitica che raggiunge il profilo superiore della testa omerale (a); la RM permette di apprezzare l’estensione del tumore fino alla cartilagine articolare, che appare lievemente infossata in sede superiore ( ) (b).

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Ortopedia

Figura 7.6   Condrosarcoma di grado III della scapola sinistra. La radiografia permette di apprezzare l’alterazione strutturale del collo scapolare con un’apparente frattura del polo superiore della glena ( ). Sono presenti tenui calcificazioni nello spazio subacromiale che appare particolarmente ampio ( ) (a). Sezione assiale TC che consente di apprezzare l’estensione della neoformazione nelle parti molli periscapolari (linea tratteggiata) e l’infiltrazione neoplastica del collo della scapola (b). Corrispondente sezione RM che definisce in maniera più dettagliata l’estensione del tumore nelle parti molli (linea tratteggiata) (c).

(dolenzia, tumefazione a scarsa evolutività) che spesso durano anni prima che il paziente si rivolga al medico per eseguire degli accertamenti. Diagnostica per immagini

Radiograficamente il condrosarcoma centrale è caratterizzato da un’area osteolitica policiclica, con limiti mal definiti verso gli spazi midollari; la corticale appare erosa o interrotta, con scarsa reazione periostale. Il condrosarcoma periferico origina solitamente da un’esostosi che si espande nelle parti molli (è importante il dato clinico di “riattivazione” dell’osteocondroma): può essere scarsamente visibile (delineato solo da piccole aree calcificate) (Figura 7.6) o al contrario essere estesamente radiopaco con aspetto “a cavolfiore” (Figura 7.7). Nel condrosarcoma periosteo, tipicamente radiotrasparente e a sviluppo nelle parti molli, si può osservare una reazione periostale che circonda la base del tumore. Le metastasi (polmonari) sono piuttosto rare e tardive; la loro comparsa è correlata al grado istologico del tumore. Anatomia patologica

Il condrosarcoma centrale si presenta sotto forma di noduli, biancastri o grigiastri, che invadono il

Figura 7.7   Condrosarcoma periferico ( ) che origina dalla testa e dal collo femorale.

canale midollare ed erodono la corticale fino a superarla. Quello periferico si sviluppa sulla superficie dell’osso e si espande direttamente nelle parti molli; la sede corticale di impianto è di regola normale. Il

7 - Tumori dello scheletro

condrosarcoma periosteo (o iuxtacorticale) è costituito da una massa di origine periostea che può causare un’erosione “a scodella” della corticale con cui è a contatto. L’aspetto microscopico varia da tipo a tipo, con la caratteristica comune della produzione di matrice condroide; possono essere presenti aree di calcificazione, emorragiche e necrotiche più o meno estese all’interno della massa neoplastica. La gradazione istologica del condrosarcoma convenzionale si basa sul livello di differenziazione cellulare, sull’entità delle anomalie nucleari e sull’aspetto della sostanza intercellulare. È correlata con il decorso e la prognosi della neoplasia e consente di distinguere: ● condrosarcomi ben differenziati, di grado I; ● condrosarcomi differenziati, di grado II; ● condrosarcomi scarsamente differenziati, di grado III. Oltre alla cosiddetta “progressione di malignità”, talvolta può verificarsi la comparsa, su un preesistente condrosarcoma centrale di grado I o II, di un tumore più aggressivo (in genere fibrosarcoma, istiocitoma fibroso maligno oppure osteosarcoma). In questo caso si parla di condrosarcoma sdifferenziato. Il condrosarcoma mesenchimale è caratterizzato dalla presenza di aree molto indifferenziate, mentre quello a cellule chiare, rarissimo e a prognosi più favorevole, si localizza in sede epifisaria. Terapia

La terapia è chirurgica e prevede la resezione ampia della lesione. Lo svuotamento non è indicato perché non ha quasi mai successo, qualunque sia il grado di malignità istologica. Anche la radioterapia e la chemioterapia sono controindicate. Le recidive locali si osservano più spesso nelle localizzazioni al tronco piuttosto che agli arti; inoltre la loro comparsa è quasi certa in caso di trattamento chirurgico inadeguato. Pertanto la prognosi quoad vitam è influenzata dalla sede del tumore, dal grado istologico e dal trattamento iniziale.

Osteoma Osteoide È un tumore benigno relativamente frequente (3% di tutti i tumori ossei primitivi), il terzo per ordine di incidenza dopo l’esostosi e il fibroma istiocitico. È tipico dell’età giovanile e si osserva solo in modo sporadico prima dei 5 anni e dopo i 30; predilige il sesso maschile.

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La sua localizzazione caratteristica è la diafisi o metadiafisi delle ossa lunghe degli arti (nell’ordine, femore, tibia e omero), dove si sviluppa all’interno della corticale o nella spongiosa in posizione eccentrica. Oltre alle sedi sopracitate, tra le quali va ricordato in particolare il femore prossimale, questo tumore può essere osservato nelle ossa della mano e del piede e nell’arco posteriore delle vertebre. Quadro clinico

Caratteristica clinica peculiare dell’osteoma osteoide è la precoce e intensa sintomatologia dolorosa, che invece è di regola tardiva nelle altre neoplasie scheletriche. Il dolore è indipendente dall’attività, si accentua durante il riposo notturno e dopo assunzione di sostanze vasodilatatrici, come l’alcol; l’assunzione di salicilati o di altri farmaci antinfiammatori non steroidei fa recedere la sintomatologia. La localizzazione vertebrale può simulare un’irritazione radicolare, con scoliosi antalgica e rigidità. Diagnostica per immagini

L’immagine radiografica tipica è quella di una piccola area osteolitica rotondeggiante (1-2 cm di diametro) circondata da un orletto sclerotico, il cosiddetto nidus, all’interno del quale si possono osservare calcificazioni puntiformi. In sede diafisaria il nidus si accompagna a una reazione periostale anche intensa (Figura 7.8a), che tuttavia non è presente nelle lesioni intracapsulari, come per esempio nel collo del femore. La sclerosi periferica può essere tale da mascherare il nidus e rendere necessario il ricorso alla TC (Figura 7.8b). In casi di difficile localizzazione (rachide) la scintigrafia ossea evidenzia un’intensa ipercaptazione. Problemi di diagnosi differenziale possono nascere nei confronti di alcune osteomieliti croniche (ascesso di Brodie). Anatomia patologica

L’osteoma osteoide si presenta come un piccola neoformazione rotondeggiante e iperemica, più soffice rispetto all’osso che la circonda e stridente al taglio. Istologicamente il tessuto tumorale è formato da trabecole di osso immaturo fittamente stipate, tra le quali si sviluppa una rete di capillari dilatati. Sono presenti numerosi osteoblasti e osteoclasti, secondo il normale quadro del rimodellamento osseo, accanto a fibroblasti e fibre nervose. Il tessuto osteoide è più maturo al centro, la parte più vecchia del tumore, dove le trabecole confluiscono in ammassi più compatti, più calcificati e più poveri di cellule.

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Ortopedia

terizzato dalla produzione di sostanza osteoide e/o ossea da parte delle cellule neoplastiche. Se ne distinguono diverse varietà (si veda la Tabella 7.1), con aspetti anatomo-clinici e prognostico-terapeutici specifici. L’osteosarcoma classico rappresenta circa l’80% di tutti i casi. La neoplasia insorge di regola in ossa non colpite da precedenti lesioni, tuttavia si possono osservare osteosarcomi secondari a malattia di Paget (la forma più comune in età avanzata), a osteomielite cronica e a terapia radiante. Inoltre un osteosarcoma può insorgere, per progressione di malignità, da un condrosarcoma centrale (condrosarcoma sdifferenziato). L’incidenza assoluta dell’osteosarcoma è bassa − 2 casi per milione di abitanti per anno (circa 100 casi all’anno in Italia) − rappresentando lo 0,2% di tutte le neoplasie maligne. Colpisce in modo prevalente (75%) soggetti tra i 10 e i 30 anni di età, con una predilezione per il sesso maschile (2:1). Pur potendosi sviluppare in qualsiasi distretto scheletrico, la localizzazione più tipica è quella metafisaria delle ossa lunghe: il 70% dei casi è osservato a livello del ginocchio (femore distale e tibia prossimale) e della spalla (omero prossimale). Quadro clinico

Figura 7.8   Osteoma osteoide della diafisi femorale. La radiografia mostra l’intensa reazione periostale che maschera la presenza del nidus (a). La TC (sezione assiale e ricostruzione coronale) permette di apprezzare l’osteolisi centrale, circondata dall’osso sclerotico (b).

Il dolore è il più frequente sintomo d’esordio, anche se tardivo. Talvolta riferito a un trauma, si manifesta anche a riposo e tende ad aggravarsi abbastanza rapidamente, con la comparsa di una tumefazione locale (tanto più precoce quanto più superficiale è la localizzazione del tumore) (Figura 7.9a). L’arrossamento della cute sovrastante, il termotatto positivo e l’eventuale limitazione articolare con versamento sono segni tardivi. Le fratture patologiche sono rare e si osservano nelle forme osteolitiche, aggravandone la prognosi.

Terapia

La terapia classica in passato consisteva nell’asportazione in blocco del nidus e dell’orletto sclerotico circostante, un intervento che spesso comportava esposizioni chirurgiche ampie per raggiungere la lesione. Oggi l’ablazione con radiofrequenze TC guidata viene considerata la terapia di prima scelta per la cura dell’osteoma osteoide.

Osteosarcoma Dopo il plasmocitoma, l’osteosarcoma è il tumore maligno primitivo dello scheletro più frequente, carat-

Diagnostica per immagini

Gli esami di laboratorio mostrano un’elevazione della fosfatasi alcalina in circa la metà dei pazienti. Il quadro radiografico è spesso diagnostico o comunque fortemente indicativo di osteosarcoma. Nella zona colpita si osserva la sovrapposizione di tre aspetti: ● la distruzione del preesistente osso corticale e spongioso, con invasione dei tessuti molli; ● la calcificazione e la neoproduzione ossea; ● la reazione periostale. Quest’ultima può assumere i caratteristici aspetti a bulbo di cipolla (ripetute formazioni di strati ossei separati da aree non calcificate, un aspetto considerato tipico del sarcoma di Ewing)

7 - Tumori dello scheletro

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Figura 7.9   Osteosarcoma del femore distale sinistro. Marcata tumefazione del ginocchio per la progressione avanzata della neoplasia (a). Quadro radiografico che mostra la neoformazione ossea nei tessuti molli perischeletrici, con aspetti localizzati “a sole radiante” ( ) (b). Sezione longitudinale del pezzo operatorio dopo amputazione: la massa neoplastica appare polimorfa per la presenza di zone con caratteristiche istologiche diverse, alternate ad aree emorragiche e necrotiche (c).

e a sole radiante (per formazione di spicule ossee perpendicolari alla corticale) (Figura 7.9b). Si può inoltre osservare il cosiddetto “triangolo di Codman” (area di distacco del periostio dalla corticale metafisaria, dovuta alla formazione di osso neoplastico a forma di cuneo al di sotto di essa) (Figura 7.10).

sono spesso presenti aree emorragiche, necrotiche o cistiche (Figura 7.9c). La consistenza è variabile: dura nelle zone osteogeniche, più molle in quelle dove predomina la componente fibroblastica, cartilaginea o mixoide.

Questi quadri possono combinarsi tra loro in modo vario e ogni singolo caso può presentare immagini particolari (prevalenza di osteosclerosi o di osteolisi, assenza di reazione periostale). La TC può fornire ulteriori informazioni sui caratteri dell’osteolisi e della neoformazione ossea, mentre la RM sull’invasione delle parti molli, sulla vascolarizzazione e sulla presenza di metastasi a distanza nel canale midollare (“skip” metastases). La scintigrafia evidenzia una franca ipercaptazione in sede tumorale, mentre l’arteriografia permette di approfondire il tipo di vascolarizzazione nel planning preoperatorio. L’osteosarcoma classico ha in genere un decorso rapido: metastatizza per via ematica, di regola ai polmoni. Le metastasi allo scheletro sono rare e ancor più rare sono quelle linfonodali. Anatomia patologica

Nella maggior parte dei casi l’osteosarcoma si presenta come un tumore voluminoso, a limiti mal definiti, che invade la cavità midollare e il rivestimento corticale, infiltrando i tessuti molli adiacenti. Il colore della massa neoplastica è bianco-grigiastro e al suo interno

Figura 7.10   Quadro RM di osteosarcoma della tibia prossimale che mostra la disomogeneità strutturale del tumore e la distruzione della corticale metaepifisaria con infiltrazione dei tessuti molli. Sul versante opposto si rileva un’iniziale reazione periostale ( ) e l’elevazione del periostio (←), che può portare alla formazione del cosiddetto “triangolo di Codman”.

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Ortopedia

Il quadro microscopico può essere anch’esso molto vario in relazione al tipo cellulare più rappresentato. Circa il 50% degli osteosarcomi classici presenta aspetti predominanti di osteogenesi (forme osteoblastiche), mentre i rimanenti mostrano una prevalente differenziazione in senso condroide (forme condroblastiche) o una predominanza fibroblastica o fibro-istiocitica (forme fibroblastiche). Tali aspetti possono rendere l’osteosarcoma quasi indistinguibile dal condrosarcoma, dal fibrosarcoma o dall’istiocitoma fibroso maligno. L’aspetto istologico è in ogni caso caratterizzato dalla presenza di un parenchima mesenchimale anaplastico, con produzione di matrice osteoide e/o osso (in maggiore o minore misura) da parte della cellule neoplastiche. Su questa caratteristica, che deve essere ricercata nell’osservazione microscopica di tutta la massa tumorale, si basa la diagnosi di osteosarcoma. La diagnosi differenziale deve prendere in considerazione altre neoplasie maligne dello scheletro come il sarcoma di Ewing, il condrosarcoma o alcune forme metastatiche.

Osteosarcomi meno frequenti L’osteosarcoma parostale origina dalla superficie dell’osso, con un’abbondante produzione di osso denso e un basso grado di anaplasia. È considerato un osteosarcoma a bassa malignità, pur potendo progredire verso una franca aggressività. Si localizza quasi esclusivamente alle metafisi delle ossa lunghe (nel 60% dei casi sul versante posteriore del femore distale); colpisce soprattutto soggetti di 20-50 anni di sesso femminile. Raramente insorge prima del termine della crescita. L’osteosarcoma periosteo è un osteosarcoma a bassa malignità e a predominanza condroblastica. Origina dal periostio delle ossa lunghe (femore, tibia) in sede diafisaria. Ha una crescita lenta, come la forma parostale, e si sviluppa in superficie senza invadere il canale midollare, aspetto ben evidente con la TC o la RM. L’osteosarcoma teleangectasico (o emorragico) rappresenta circa il 5% di tutti gli osteosarcomi È una forma totalmente osteolitica, caratterizzata da una struttura simil-spongiosa con ampie lacune emorragiche e una scarsa e immatura osteogenesi. Le aree necrotico-emorragiche possono essere così estese da rendere difficile il riscontro di cellule vitali per valutarne il grado di anaplasia. Le fratture patologiche sono frequenti e la prognosi è sovrapponibile a quella dell’osteosarcoma classico.

Terapia

Il trattamento dell’osteosarcoma è multidisciplinare: è infatti necessaria una stretta collaborazione tra il chirurgo ortopedico e l’oncologo, poiché alla tradizionale terapia chirurgica deve essere associata la chemioterapia pre- e postoperatoria. La terapia antiblastica ad alte dosi prima dell’intervento ha lo scopo di indurre la necrosi delle cellule tumorali, ridurre il volume della massa neoplastica e favorirne una migliore definizione dei margini. Questa condotta terapeutica ha consentito di ridurre il ricorso a interventi demolitivi (amputazioni), ottenendo nel contempo un significativo aumento delle percentuali di sopravvivenza. Inoltre, la prognosi funzionale di un arto sottoposto ad ampia resezione ossea è oggi migliorata dalla disponibilità di trapianti ossei massivi e protesi da ampia resezione.

Tumore Gigantocellulare Il tumore gigantocellulare (TGC), chiamato anche osteoclastoma, è una neoplasia endomidollare costituita da cellule mononucleate e da cellule giganti multinucleate simil-osteoclastiche, con un potenziale di crescita variabile e imprevedibile. È considerato una neoplasia benigna, quantunque in rari casi possa produrre metastasi polmonari, che peraltro conservano caratteristiche citologiche di benignità. Il TGC è frequente (20% di tutti i tumori benigni dell’osso) e colpisce soprattutto giovani adulti, con circa 2/3 dei casi tra i 20 e i 40 anni; l’incidenza nei due sessi è equivalente. Si localizza tipicamente nelle metaepifisi delle ossa lunghe, in tre sedi preferenziali: femore distale, tibia prossimale e radio distale. Se l’insorgenza della neoplasia precede la chiusura della fisi, si può osservare la rara localizzazione metafisaria pura. Quadro clinico

I sintomi (dolore, limitazione funzionale) sono aspecifici e spesso attribuiti all’articolazione limitrofa, sebbene un versamento articolare sia un’evenienza rara. In fase più avanzata si rileva una tumefazione dovuta alla deformazione dell’osso, a cui si può associare un’accentuazione del reticolo venoso superficiale con cute tesa e termotatto positivo. Diagnostica per immagini

L’esame radiografico dimostra una lesione osteolitica uni- o pluricamerata, a limiti sfumati. La corticale ap-

7 - Tumori dello scheletro

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pare soffiata e assottigliata, talvolta interrotta, senza evidenza di reazione periostale. L’osteolisi si estende fino all’osso subcondrale, risparmiando la cartilagine articolare. In base alle caratteristiche radiografiche, il TGC è stato distinto in tre varianti con importanti risvolti dal punto di vista prognostico e terapeutico: ● calma: corticale integra o poco assottigliata, osteolisi a limiti netti senza estensione all’osso subcondrale; ● attiva: corticale erosa, senza estensione del tumore ai tessuti molli; ● aggressiva: interruzione della corticale con estensione del TGC ai tessuti molli, l’osteolisi raggiunge la cartilagine articolare (Figura 7.11). Anatomia patologica

Il TGC si presenta come una massa di consistenza molle e di colore rosso bruno con aree necrotiche ed emorragiche, a limiti netti, ma non delimitati da una capsula. Istologicamente è costituito da cellule mononucleate stromali di forma ovale o fusata, che rappresentano l’elemento neoplastico e appaiono in fase mitotica, frammiste a cellule giganti multinucleate (osteoclasti). La classificazione in gradi istologici, proposta in passato, viene oggi ritenuta priva di valore per un giudizio prognostico. L’unica distinzione importante dal punto di vista istologico è quella tra TGC benigno e sarcoma gigantocellulare. Quest’ultimo, come forma maligna ab initio, dimostra peraltro di appartenere più spesso alle categorie degli osteosarcomi, dei fibrosarcomi o degli istiocitomi fibrosi maligni. È invece possibile una trasformazione sarcomatosa del TGC benigno, soprattutto dopo terapia radiante. La diagnosi differenziale del TGC va posta con diverse neoplasie, ma in particolare con la cisti aneurismatica.

Figura 7.11   Tumore gigantocellulare della tibia distale (variante aggressiva). La Rx dimostra l’estensione dell’osteolisi fino all’osso subcondrale; non si rileva alcuna reazione periostale (a). Quadro TC che mostra l’interruzione della corticale tibiale esterna ( ) con sviluppo extrascheletrico del TGC (b).

Terapia

La terapia del TGC va modulata sulla base della classificazione radiografica. Nella variante calma e in alcune forme attive è sufficiente lo svuotamento accurato della lesione, il trattamento delle pareti della cavità con adiuvanti (bisturi elettrico, fenolo) per eradicare il focolaio neoplastico e il borraggio con innesto osseo. L’incidenza di recidiva con questo protocollo si aggira intorno al 10%. Nelle forme più aggressive si deve ricorrere alla resezione ossea segmentaria, seguita da procedure ricostruttive osteo-articolari.

Sarcoma Di Ewing Il sarcoma di Ewing (SE) è la seconda neoplasia maligna per frequenza nei bambini e giovani adulti. La sua origine è rimasta sconosciuta per lungo tempo, ma oggi è classificato tra i tumori periferici primitivi neuroectodermici (PNET), un gruppo di neoplasie che si ritiene derivi da elementi cellulari della cresta neurale. È tre volte meno frequente dell’osteosarcoma, con una netta predilezione per la seconda decade di vita: circa il 90% dei casi si manifesta in soggetti tra i 5 e i 25 anni.

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Ortopedia

L’incidenza è lievemente maggiore nel sesso maschile, come gran parte dei tumori ossei primitivi. Nessun distretto corporeo è immune dal SE, che si localizza in uguale misura nelle ossa piatte (bacino, scapola, coste), corte (vertebre) e lunghe (femore, tibia, omero ecc.). In queste ultime tende a svilupparsi in sede diafisaria, ma talvolta la crescita può essere così estesa da interessare l’intero segmento scheletrico. Più rara è la localizzazione al cranio, alle mani e ai piedi. Quadro clinico

Il SE si caratterizza, rispetto agli altri tumori scheletrici, per la presenza di una sintomatologia generale (febbre intermittente) con alterazione degli esami di laboratorio (leucocitosi, anemia, VES elevata) in circa la metà dei casi. Questi reperti si accompagnano a dolore e tumefazione locale, simulando un’osteomielite. Diagnostica per immagini

L’esame radiografico mostra piccole chiazze osteolitiche centrali, sfumate, che tendono a confluire conferendo all’osso un aspetto tarlato; la corticale viene quindi erosa, interrotta e superata dalla massa neoplastica (Figura 7.12). Solo di rado il tumore resta endomidollare per lungo tempo o mostra un’aumentata densità dell’osso. La reazione periostale nei pazienti più giovani è comune, ma le classiche immagini “a bulbo di cipolla” o “a dente di pettine” sono oggi osservate sempre più

raramente, verosimilmente per la maggiore precocità della diagnosi. Se non trattata, la neoplasia è a rapida evoluzione con metastasi precoci polmonari, scheletriche, linfonodali e cerebrali. Anatomia patologica

L’aspetto macroscopico è quello di un tessuto grigiastro, encefaloide, con zone emorragiche e necrotiche. Queste ultime possono dare origine a materiale colliquato, che può simulare un processo suppurativo osteo-midollare. Istologicamente il tumore è costituito da un tappeto uniforme di piccole cellule rotonde, fittamente stipate, senza alcuna matrice intercellulare. Le cellule hanno un nucleo rotondo e voluminoso, mentre il citoplasma è scarso e mal definito. La positività alla colorazione PAS, soprattutto dopo fissazione in alcol, è caratteristica del SE ed è indicativa della presenza di abbondante glicogeno citoplasmatico. Tale reazione costituisce un elemento utile per la diagnosi differenziale con il linfoma maligno dell’osso e con le metastasi da neuroblastoma. Queste ultime si differenziano anche per la presenza di vere rosette (al contrario del SE dove si osserva una disposizione a pseudorosetta delle cellule intorno a capillari o elementi cellulari necrotici) e per l’elevazione dei cataboliti delle catecolamine (acido omovanilico e vanilmandelico) nelle urine. Alcune indagini immunoistochimiche e ultrastrutturali permettono oggi una maggiore caratterizzazione del SE. Terapia

Il SE è particolarmente sensibile alla radioterapia e alla chemioterapia, ma anche la chirurgia gioca un ruolo fondamentale nel trattamento di questa neoplasia. Pertanto il trattamento si basa sulla combinazione di queste tre modalità terapeutiche: chemioterapia (sempre), chirurgia (quando praticabile) e radioterapia (in alternativa all’intervento o associato a esso in caso di resezione non radicale del tumore). Analogamente a quanto praticato per l’osteosarcoma, la chemioterapia è eseguita sia prima sia dopo la chirurgia, sia essa conservativa o demolitiva.

Istiocitoma Fibroso Maligno Figura 7.12

  Sarcoma di Ewing del terzo distale della diafisi femorale.

L’istiocitoma fibroso maligno (IFM) è un tumore maligno di origine istiocitaria, costituito da cellule di aspetto simil-fibroblastico e simil-istiocitario; può originare sia

7 - Tumori dello scheletro

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Figura 7.13   Istiocitoma fibroso maligno dei tessuti molli ( ), infiltrante le strutture miofasciali mediali della coscia destra.

dallo scheletro sia dai tessuti molli (Figura 7.13) e in passato è stato accomunato al fibrosarcoma. È relativamente frequente (5% di tutte le neoplasie maligne ossee primitive), interessando in maggiore misura l’età media e avanzata (80% dei casi nei soggetti di 40-70 anni) con una lieve predilezione per il sesso maschile. La localizzazione preferenziale è rappresentata dalla metafisi delle ossa lunghe, soprattutto quelle in prossimità del ginocchio. L’IFM può essere primitivo oppure secondario a lesioni preesistenti (anziani), in particolare a malattia di Paget, infarti ossei e terapia radiante. Quadro clinico

mitosi atipiche. Si possono anche osservare cellule giganti multinucleate di significato reattivo. La componente fibroblastica è rappresentata da elementi fusati, disposti in maniera “storiforme”, con abbondante produzione di collageno. Alla periferia è presente un infiltrato infiammatorio, costituito per lo più da linfociti. Terapia

Il trattamento si avvale, come per altri sarcomi, della chirurgia (resezione ampia) e della chemioterapia adiuvante pre- e postoperatoria. Con questi protocolli terapeutici le percentuali di sopravvivenza sono simili a quelle raggiunte nell’osteosarcoma (intorno al 60-70% dei casi).

La sintomatologia è aspecifica, con dolore e tumefazione a comparsa più o meno precoce. Le fratture patologiche sono frequenti (circa 3/4 dei casi nell’evoluzione della malattia). Diagnostica per immagini

Il quadro radiografico è quello di un’osteolisi pura, irregolare, a limiti sfumati, localizzata in sede centrale o periferica all’interno del canale midollare (Figura 7.14). La massa neoplastica provoca l’erosione e l’interruzione della corticale, mentre la reazione periostale è scarsa. L’area osteolitica tende a espandersi in tempi brevi verso la diafisi e l’epifisi. Le metastasi ossee e polmonari sono frequenti. Anatomia patologica

L’IFM si presenta come una massa di colore biancastro, con zone giallastre o brune a causa di fenomeni necrotici ed emorragici, e di consistenza soffice, parenchimatosa. L’istologia mostra due popolazioni cellulari, fibroblastica e istiocitaria, espressione del medesimo clone neoplastico. Il contingente istiocitario è costituito da cellule grandi, globose, con abbondante citoplasma eosinofilo; il polimorfismo è frequente con cellule e

Figura 7.14   Istiocitoma fibroso maligno della metafisi prossimale della tibia: la corticale non appare ancora erosa e non si osserva alcuna reazione periostale.

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Ortopedia

Figura 7.15   Fibroma istiocitico alla diafisi prossimale di tibia in un ragazzo di 17 anni. Il semplice esame radiografico in proiezione antero-posteriore (a) e laterale (b) permette di porre la diagnosi in virtù dell’aspetto caratteristico della lesione (si veda il testo).

Fibroma Istiocitico Il fibroma istiocitico, o non ossificante, è un tumore benigno molto frequente, probabilmente presente in circa 1/3 dei bambini tra i 4 e i 10 anni, anche se la sua reale incidenza non è valutabile per la completa asintomaticità. È un amartoma metafisario composto da istio-fibroblasti, raramente osservabile dopo i 20 anni in virtù della tendenza a una regressione spontanea, soprattutto se di piccole dimensioni. La grande maggioranza dei fibromi istiocitici si localizza in prossimità del ginocchio. L’aspetto radiografico è così caratteristico che la diagnosi non necessita di nessun altro accertamento. La lesione si presenta come un piccolo difetto osteolitico, metafisario, eccentrico e superficiale. Ha il maggiore asse orientato secondo la lunghezza dell’osso e forma policiclica, sempre circondato da un orletto sottile di osteosclerosi (Figura 7.15). Non è necessaria alcuna terapia, poiché il fibroma istiocitico arresta la sua crescita con la pubertà tendendo poi a ossificare.

gina in sede metafisaria ed evolve nel corso dell’accrescimento. Si osserva nei bambini sopra i 5 anni e nei giovani sotto i 20, con una prevalenza del sesso maschile (2-3:1). La localizzazione più frequente è la metafisi prossimale dell’omero, seguita da quella prossimale del femore; durante la crescita la lesione può espandersi in

Cisti Ossea È una lesione cistica pseudotumorale, frequente (seconda solo al fibroma istiocitico e all’esostosi), che ori-

Figura 7.16

  Voluminosa cisti ossea dell’omero.

7 - Tumori dello scheletro

sede diafisaria (Figura 7.16). Cisti ossee possono essere osservate non di rado nel calcagno. La patogenesi non è chiara, ma probabilmente è legata ad alterazioni del circolo sanguigno metafisario, che provocano riassorbimento osseo e accumulo di trasudato in sede midollare. Quadro clinico

La cisti ossea è asintomatica e la diagnosi viene posta sulla base di radiogrammi occasionali o per il verificarsi di una frattura patologica, evento non raro in questa patologia. Diagnostica per immagini

L’esame radiografico dimostra un’area osteolitica centrale, in sede metadiafisaria e adiacente alla cartilagine di accrescimento, che assottiglia e rigonfia la corticale in tutto il suo perimetro; quest’ultima non è tuttavia interrotta se non è intervenuta una frattura patologica. La cavità osteolitica ha limiti netti, ma non è circondata da un orletto di sclerosi reattiva; è di regola unicamerata, pur essendo percorsa al suo interno da sottili creste ossee parietali. In base alla tendenza evolutiva si distinguono: ● cisti attive: si osservano in soggetti di età inferiore ai 12 anni, sono adiacenti alla cartilagine di coniugazione, presentano un’unica cavità con corticale



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molto assottigliata e pressione intracistica alta (> 30 cmH2O); cisti inattive, con caratteri opposti: età superiore ai 12 anni, osteolisi lontana dalla fisi, cavità multiloculate con parete ossea più spessa, pressione intracistica più bassa (in genere < 6-10 cmH2O).

La distinzione di queste due varietà consente un giudizio prognostico: infatti l’espansione delle cisti attive può ripercuotersi sull’attività della cartilagine di coniugazione, determinando disturbi della crescita metafisaria. L’attività delle cisti ossee si spegne gradualmente con la maturazione scheletrica, forse in conseguenza delle mutate condizioni circolatorie locali: le pareti si ispessiscono e il contenuto va incontro a metaplasia fibrosa per poi ossificare (Figura 7.17). Le fratture patologiche consolidano senza problemi e talvolta favoriscono la guarigione spontanea delle cisti. Anatomia patologica

Il periostio è integro e la corticale può essere sottile e fragile come un guscio d’uovo. La cavità cistica contiene un liquido sieroso, che diviene ematico con coaguli a seguito di una frattura. La parete ossea è rivestita da una membrana di connettivo lasso, sottile e facilmente staccabile dall’osso, in cui si osservano elementi connettivali appiattiti, di aspetto simil-endoteliale.

Figura 7.17   Cisti ossea dell’omero prossimale (a) in un ragazzo di 16 anni, andata incontro a ossificazione, come evidenziato dal radiogramma eseguito a distanza di 3 anni (b).

100 Ortopedia

La diagnosi differenziale va posta con la cisti aneurismatica, che è di solito eccentrica e a contenuto francamente ematico. Terapia

L’indicazione terapeutica nasce principalmente dall’indebolimento dell’osso, che lo espone al rischio di fratture patologiche. Nell’età dell’accrescimento, la terapia prevede ripetute punture della cisti con un grosso ago (3/4 da osso) al fine di confermare il contenuto sieroematico e decomprimere la cavità. A tale procedura si può associare l’infiltrazione endocavitaria con cortisone, anche se forse è sufficiente il riempimento spontaneo da parte del sangue per favorire il processo riparativo. In alcuni casi, soprattutto per l’arto inferiore, è stato proposto l’uso di mezzi di sintesi endomidollari per armare il segmento scheletrico e drenare il contenuto liquido, impedendo l’aumento della pressione intracistica.

Cisti Aneurismatica La cisti aneurismatica (CA) è una neoformazione pseudotumorale dello scheletro, relativamente rara, di natura iperplastica e iperemico-emorragica. Più frequente nel sesso femminile, si osserva con la massima frequenza tra i 10 e i 20 anni. Le CA possono insorgere in qualsiasi punto dello scheletro, ma mostrano una netta predilezione per la metafisi delle ossa lunghe (soprattutto tibia prossimale) e per il rachide; in sede vertebrale possono interessare il soma o l’arco posteriore. Quadro clinico

Il dolore può essere il sintomo d’esordio, ma talvolta è preceduto dalla comparsa di una tumefazione dell’osso interessato. Nelle localizzazioni vertebrali possono manifestarsi segni di compressione mielo-radicolare. La frattura patologica è un evento raro, al contrario di quanto accade nella cisti ossea. Diagnostica per immagini

L’aspetto radiografico caratteristico è quello di un’area osteolitica eccentrica. Se diagnosticata in fase precoce nella metafisi delle ossa lunghe, la CA appare come un’erosione sottoperiostea della corticale. Il sollevamento e la scarsa reazione osteogenetica del periostio producono quindi un’immagine di soffiatura dell’osso, che appare delimitato da un sottile guscio radiopaco.

Figura 7.18

del radio.

  Cisti aneurismatica della metaepifisi distale

La successiva espansione della lesione verso l’interno può coinvolgere l’intero perimetro osseo, rigonfiandolo (Figura 7.18). Le dimensioni cospicue, i limiti sfumati e la possibile interruzione della corticale possono dare l’impressione di una neoplasia maligna. Nella colonna vertebrale, la CA può espandere il corpo o l’arco posteriore, esponendo al rischio di crolli patologici. L’angiografia consente di evidenziare la vascolarizzazione della lesione e il suo peduncolo vascolare, che può essere embolizzato. La RM con contrasto paramagnetico dimostra il contenuto fluido con i caratteristici livelli liquido-liquido. La scintigrafia rivela un’ipercaptazione con una possibile area centrale “fredda”. Il decorso è molto variabile: in alcuni casi l’accrescimento è rapido e la neoformazione raggiunge dimensioni notevoli, in altri lo sviluppo è lento ed è possibile l’attivazione di un’ossificazione intralesionale che conduce alla guarigione spontanea. Anatomia patologica

L’aspetto macroscopico della CA è quello di un tessuto pigmentato e spugnoso, permeato di sangue fluido e coagulato. Le cavità, di dimensioni assai variabili, possono anche contenere liquido sieroso e non hanno un rivestimento endoteliale. Le pareti e i sepimenti divisori delle lacune ematiche sono costituiti da tessuto mesenchimale ricco di istiofibroblasti, sottili capillari e cellule giganti multinucleate sparse. In esso si possono anche osservare sottili trabecole osteoidi. Il periostio non viene mai superato dal tessuto patologico.

7 - Tumori dello scheletro 101

La diagnosi di CA non è semplice sia dal punto di vista radiografico sia istologico: nella diagnosi differenziale devono essere considerate la cisti ossea, l’osteoblastoma (localizzazione vertebrale), il tumore gigantocellulare e l’osteosarcoma teleangectasico. Terapia

La terapia classica consiste nello svuotamento della cavità con curettage accurato delle pareti e borraggio con innesto osseo. Di recente, soprattutto in zone difficilmente aggredibili chirurgicamente (vertebre, bacino), è stata proposta l’embolizzazione selettiva o l’infiltrazione con sostanze sclerosanti, come alternativa alla terapia radiante diffusamente praticata in passato.

Tumori secondari dell’osso I tumori secondari dell’osso sono rappresentati in massima parte da metastasi da carcinomi, mentre quelle da sarcomi sono estremamente rare. Queste lesioni costituiscono spesso un problema diagnostico, in quanto si manifestano prima del tumore primitivo, e terapeutico. Le metastasi carcinomatose rappresentano la neoplasia maligna più frequente dello scheletro; si ritiene che una percentuale variabile dal 15 al 30% di tutti i carcinomi dia metastasi ossee, anche se non sempre clinicamente manifeste. In ordine di frequenza le sedi primitive di origine della metastasi sono la mammella, la prostata, il polmone e il rene, mentre più raramente esse originano da neoplasie tiroidee, gastriche, intestinali e pancreatiche. La distribuzione per sesso e per età è ovviamente quella del tumore primitivo; si può comunque affermare che la massima incidenza di metastasi ossee si riscontra intorno alla sesta decade di vita nel sesso femminile (carcinoma mammario). Le lesioni metastatiche prediligono in modo netto lo scheletro del tronco e le radici degli arti: in primo luogo il rachide nel suo tratto dorso-lombare, seguito da bacino, cranio, estremità prossimale del femore e dell’omero, coste. Va tuttavia tenuto presente che possono localizzarsi in qualsiasi distretto scheletrico. A seconda del carcinoma originario è descritta un’approssimativa predilezione per sede: il carcinoma della mammella e quello della tiroide prediligono il tronco e il cranio, quello polmonare gli arti fino alle estremità, quello prostatico e quello uterino la colonna lombare, il sacro e il bacino. In sede vertebrale è di regola interessato il corpo, con invasione tardiva dei peduncoli e

dell’arco posteriore. Nel bacino è preferito l’ileo, nelle ossa lunghe la regione metafisaria o diafisaria (meno spesso epifisaria), nel cranio colpiscono la teca. Per loro natura le metastasi tendono a essere polidistrettuali, ma il secondarismo osseo può essere l’unico rilevabile in fase iniziale; successivamente ne possono comparire altri, scheletrici ed extrascheletrici. Alcune forme neoplastiche, soprattutto prostatiche e mammarie, mostrano una spiccata propensione alla disseminazione generalizzata. Quadro clinico

Le metastasi possono causare riassorbimento o neoformazione ossea; vi sono inoltre forme miste (per esempio quelle che colpiscono la mammella). Nelle forme osteolitiche la sintomatologia dolorosa è precoce e può precedere l’evidenza radiografica; negli altri casi il dolore è tardivo o addirittura assente. Persistenti dolori dorso-lombari o crurali debbono far sospettare una metastasi in un paziente con anamnesi significativa per patologie neoplastiche. La frattura spontanea o per trauma banale del corpo vertebrale o del collo femorale può essere causata da una localizzazione metastatica. Accanto al dolore, si può osservare impotenza funzionale e tumefazione, soprattutto se in presenza di fratture patologiche; nel rachide può insorgere una sintomatologia da compressione mielo-radicolare. Le metastasi, quando estese e caratterizzate da una prevalente attività osteolitica, possono essere accompagnate da un aumento anche marcato della calcemia e della calciuria. Nelle metastasi osteoaddensanti può aumentare la fosfatasi alcalina, mentre la fosfatasi acida si eleva in modo incostante con le metastasi prostatiche. Altri dosaggi permettono di affermare o per lo meno sospettare la natura del tumore primitivo: un aumento dei cataboliti urinari delle catecolamine nel bambino indirizza verso un neuroblastoma, così come l’incremento della calcitonina ematica è indice di sospetto per carcinoma midollare della tiroide. L’immunoelettroforesi è utile per la diagnosi differenziale con il plasmocitoma. Diagnostica per immagini

All’esame radiografico le metastasi possono presentarsi come lesioni osteolitiche (carcinoma renale, polmonare, tiroideo o gastro-intestinale), osteoaddensanti (carcinoma della prostata) o miste (carcinoma mammario). Quando localizzate nel tessuto spongioso, le metastasi possono non essere riconoscibili fino a una fase avanzata del loro sviluppo, perché il tessuto neoplastico può infiltrare gli spazi midollari senza distruggere

102 Ortopedia

Figura 7.19

  Metastasi da carcinoma renale a livello della metaepifisi prossimale dell’omero: si rileva un’estesa osteolisi senza alcuna risposta reattiva da parte dell’osso.

le trabecole ossee. Metastasi osteoaddensanti multiple possono simulare la malattia di Paget. La metastasi mostra i caratteri radiografici della lesione aggressiva maligna: limiti sfumati, contorno irregolare, erosione della corticale con possibile reazione periostale (Figura 7.19). A livello vertebrale, la prima manifestazione è spesso rappresentata dal crollo somatico (Figura 7.20), ma per estensione all’arco posteriore si può osservare la scomparsa dell’immagine ovale del peduncolo in proiezione antero-posteriore. In caso di frattura patologica del collo del femore, la metastasi non è sempre evidente: nei casi dubbi è indispensabile l’esame istologico della testa femorale o di un campione bioptico prelevati al momento dell’intervento chirurgico (osteosintesi o protesizzazione). La TC mostra con buona definizione la rarefazione spongiosa, l’erosione della corticale o la neoapposizione ossea. La RM evidenzia l’alterato segnale midollare e permette di definire l’estensione della massa tumorale nelle parti molli.

Figura 7.20   Metastasi vertebrali multiple di carcinoma mammario nella stessa paziente. A livello dorsale è presente il crollo somatico di D8 ( ), con estensione della neoplasia alla parte posteriore del corpo di D7 (quest’ultimo aspetto evidenziato dalla TC) ( ) (a). Osteolisi eccentrica di L2 ( ) con interruzione della limitante somatica superiore (sezioni coronale e sagittale della TC) ( ) (b).

7 - Tumori dello scheletro 103

Figura 7.21   Scintigrafia ossea che rivela un’imponente diffusione metastatica di un carcinoma prostatico.

nettivale fibrotica e un’infiltrazione infiammatoria leucocitaria circondano spesso la lesione metastatica epiteliale. Le metastasi ossee avvengono per via ematica, essendo la presenza di vasi linfatici nell’osso dubbia e comunque scarsa. Il carcinoma del polmone metastatizza direttamente (attraverso le vene polmonari e il cuore sinistro), mentre gli altri possono saltare il filtro polmonare ed epatico grazie alle anastomosi esistenti tra la rete cavale e i plessi venosi paravertebrali. Questa via venosa “diretta” spiega la predilezione delle localizzazioni secondarie allo scheletro del tronco. La diagnosi rappresenta un problema soprattutto quando la metastasi costituisce la prima manifestazione della patologia; in questi casi la biopsia si impone come prima procedura diagnostica. In generale, più l’età del paziente è avanzata e più va presa in considerazione l’ipotesi che una lesione scheletrica con caratteri di malignità possa essere una localizzazione secondaria. Le metastasi ossee possono presentarsi anche ad anni di distanza dal trattamento del tumore primitivo (fino a 10-15 anni nel caso del carcinoma mammario). Principi di terapia

Grazie al riscontro di zone di ipercaptazione, la scintigrafia ossea è utile per la precoce identificazione delle metastasi e per la definizione della diffusione della neoplasia, aspetto di primaria importanza nella pianificazione terapeutica (Figura 7.21). L’arteriografia evidenzia la vascolarizzazione della lesione secondaria, che può essere molto sviluppata come nel caso di metastasi da carcinoma renale. Anatomia patologica

L’aspetto macroscopico di una metastasi è molto variabile. La consistenza può essere encefaloide, fibrosa o eburnea; il colore varia dal biancastro al grigio fino al nero, come nelle metastasi da melanoma. L’aspetto può essere modificato dalla presenza di aree necrotiche ed emorragiche. La diagnosi istologica di metastasi è solitamente semplice: il quadro è quello del carcinoma di origine, talvolta più anaplastico o lievemente modificato dalla reazione del connettivo midollare e osseo. In pochi casi l’organizzazione e la forma delle cellule neoplastiche possono assumere caratteristiche peculiari all’interno dell’osso, rendendo più difficile la distinzione rispetto a sarcomi primitivi dello scheletro. Una reazione con-

Il trattamento delle metastasi ossee richiede un approccio multidisciplinare. La radioterapia rappresenta la più frequente scelta terapeutica, soprattutto nelle localizzazioni al tronco e nei pazienti più anziani: con essa è possibile ridurre la massa tumorale e attenuare o risolvere la sintomatologia dolorosa. È però causa di ulteriore indebolimento dell’osso, aumentando il rischio di fratture patologiche; va quindi spesso associata a interventi di armatura del segmento scheletrico con mezzi di osteosintesi oppure all’impiego di tutori (busti). In alcuni casi particolari si impiegano isotopi radioattivi (I131 nei carcinomi tiroidei). La terapia farmacologica si avvale di ormoni, per esempio nelle metastasi da carcinoma della mammella e della prostata, e di antiblastici. La terapia chirurgica ha un ruolo essenzialmente palliativo: ● osteosintesi, soprattutto con chiodi endomidollari, in caso di fratture patologiche o per la loro prevenzione; ● decompressione con eventuali stabilizzazioni segmentali, in caso di localizzazioni vertebrali con sintomatologia neurologica;

104 Ortopedia





interventi di resezione, con successivo impianto di protesi articolari particolari, in caso di localizzazioni che lo consentano (metaepifisarie); svuotamento intralesionale e borraggio con cemento acrilico.

Interventi radicali (ampie resezioni, amputazioni) per metastasi uniche di alcune neoplasie, associati all’asportazione del tumore primitivo (per esempio

ipernefroma o carcinomi ben differenziati della tiroide), hanno consentito ai pazienti una lunga sopravvivenza. La prognosi è tuttavia infausta a breve termine (1-2 anni al massimo e anche meno in caso di localizzazioni scheletriche multiple) nella quasi totalità dei casi. Un ruolo importante è ricoperto dalla terapia del dolore, volta ad alleviare le sofferenze del paziente con metastasi ossee.

capitolo

Osteopatie

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Ugo E. Pazzaglia

Il tessuto osseo ha una funzione meccanica di sostegno, ma è anche metabolicamente attivo e va incontro per tutta la durata della vita a un processo di rimodellamento; in condizioni normali il riassorbimento e l’apposizione di osso mantengono un sostanziale equilibrio. Quando, per svariati motivi, questo equilibrio viene a mancare, si osserva l’insorgenza di quadri anatomoclinici di differente gravità.

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Osteoporosi L’osteoporosi è una malattia sistemica caratterizzata da un aumento della fragilità scheletrica e del rischio di fratture, conseguenti a una patologica riduzione della massa ossea normalmente mineralizzata. L’osteoporosi postmenopausale è quella con la più alta incidenza (fino al 30% delle donne dopo la menopausa) e la più studiata sotto il profilo biochimico e farmacologico; nella trattazione di questo capitolo si farà riferimento soprattutto a essa. Nella Tabella 8.1 sono riportate le diverse condizioni che possono portare a un quadro di osteoporosi.

Osteoporosi postmenopausale Eziopatogenesi

In condizioni fisiologiche la massa ossea aumenta per tutto il periodo della crescita, rimane costante nel periodo della maturità e tende a ridursi con la vecchiaia. L’instaurarsi di una condizione di osteoporosi dipende perciò da due fattori:

Tabella 8.1

  Cause di osteoporosi.

Menopausa Senilità Endocrinopatie ● Iperparatiroidismo ● Ipertiroidismo ● Malattia di Cushing ● Ipogonadismo ● Acromegalia ● Diabete Stati carenziali Insufficienza epatica cronica Insufficienza renale cronica Alcolismo Emopatie Mieloma multiplo Osteogenesi imperfetta





la massa ossea caratteristica dell’individuo alla maturità, geneticamente determinata; la velocità con cui si verifica la perdita di massa ossea nell’età avanzata.

Dopo la maturità scheletrica, in entrambi i sessi, ma più precocemente nella donna, si assiste a una graduale perdita della massa ossea determinata da uno squilibrio del turnover tissutale, per cui il riassorbimento prevale sulla neoformazione. La velocità di questo processo è più accentuata nell’osso trabecolare, metabolicamente più attivo rispetto all’osso corticale. Gli ormoni steroidei anabolizzanti giocano un ruolo chiave in questo processo: la caduta degli estrogeni in menopausa,

106 Ortopedia

attraverso complessi meccanismi citochino-mediati non ancora completamente noti, porta ad alcune modificazioni: ● aumentata produzione di citochine favorenti osteoclastogenesi e riassorbimento osseo; ● alterata secrezione di paratormone (PTH, ParaThyroid Hormone); ● aumento della sensibilità ossea al PTH; ● alterazione del rapporto tra il fattore di differenziazione degli osteoclasti (Osteoclast Differentation Factor, ODF e il suo inibitore, l’osteoprotegerina OsteoProteGerin, OPG); ● alterazione del sistema GH/IGF (Growth Hormone, ormone della crescita/Insuline-like Growth Factor, fattore di crescita insulino-simile); ● alterazione della sensibilità a stimoli meccanici. Con l’avanzare dell’età si sommano poi altre problematiche connesse al metabolismo dell’osso, poiché nel paziente anziano tutte le funzioni metaboliche risultano meno efficaci. L’assorbimento di calcio a livello intestinale diviene sempre meno attivo, così come meno efficiente è il rene a idrossilare e quindi ad attivare la 25-idrossivitamina D a 1,25(OH)2D. Inoltre, con l’aumentare dell’età, diminuiscono gli enzimi in grado di digerire il lattosio e di conseguenza la dieta risulta sempre più povera in latticini, che rappresentano la principale fonte di calcio alimentare. L’esposizione ai raggi solari diviene meno frequente, riducendo anche in questo caso la quota di vitamina D attiva. Quadro clinico

L’osteoporosi è di per sé asintomatica; spesso la diagnosi viene fatta occasionalmente su radiogrammi eseguiti per altri motivi. La diagnosi segue la comparsa di un dolore dorsale e/o lombare subacuto, che consegue a microfratture del corpo vertebrale, la cui struttura trabecolare è indebolita dalla perdita di massa ossea e non è in grado di sostenere sollecitazioni meccaniche anche fisiologiche. Con il tempo, più vertebre vanno incontro al collasso fino a provocare la formazione di un’ipercifosi dorsale molto marcata, associata a iperlordosi lombare (Figura 8.1). In altri casi il cedimento del corpo vertebrale è improvviso e le manifestazioni cliniche sono analoghe a quelle di una frattura traumatica. Gli arti sono il secondo distretto osseo a essere coinvolto da fratture patologiche da osteoporosi: questo si traduce in un’elevata frequenza, nell’età avanzata, di fratture prossimali di femore e omero, e distali di radio.

Figura 8.1  Deformità progressive della colonna vertebrale e diminuzione della statura nell’osteoporosi.

Diagnostica strumentale

Diverse sono le tecniche diagnostiche proposte per identificare l’osteoporosi. ● La radiografia standard per la valutazione diretta della densità minerale è poco attendibile, perché influenzata da diversi parametri: l’intensità dei raggi X, il tempo di esposizione, lo spessore dei tessuti molli ecc. L’alterazione radiografica più evidente è l’ipertrasparenza del tessuto trabecolare. L’esame resta comunque una metodica poco sensibile nelle fasi iniziali dell’osteoporosi, perché è necessaria una perdita di circa il 30% del contenuto minerale osseo affinché possa essere rilevata (Figura 8.2). ● La mineralometria ossea, e in particolare l’assorbimetria a doppio raggio X (DEXA, Dual Energy X-ray Absorptiometry), è oggi considerata dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) la procedura più affidabile per identificare i soggetti con osteoporosi. Con la DEXA le misure densitometriche possono essere effettuate a livello del rachide lombare e del collo femorale, dove il rapido turnover dell’osso trabecolare rende queste sedi ottimali per il monitoraggio della massa ossea. ● La tomografia computerizzata quantitativa (QCT, Quantitative Computerized Tomography) permette la misurazione della mineralizzazione di tessuto osseo trabecolare della colonna vertebrale. Con questa metodica è possibile tenere conto della terza dimensione, cioè dello spessore dell’osso in analisi: la DEXA misura la densità dell’osso in g/cm2, la QCT in g/cm3. La QCT è in grado di distinguere tra

8 - Osteopatie 107

Figura 8.2

osteoporosi.



  Vertebra toracica cuneizzata in un caso di

la corticale e la spongiosa consentendo quindi una misurazione separata dell’osso compatto e di quello spongioso. La QCT ha pertanto una maggiore precisione della DEXA, a fronte però di un costo maggiore e di una radioesposizione più elevata. L’osteosonografia è sicuramente l’esame più recente nel campo della diagnostica dell’osteoporosi; è anche il meno caro, il meno invasivo e quello di più facile applicazione. Si basa sulla capacità dell’onda ultrasonora di essere trasmessa attraverso un tessuto, con una velocità che dipende dalle caratteristiche del tessuto stesso. Nel caso specifico dell’osso, lo stato di mineralizzazione della matrice influenza la velocità di trasmissione dell’onda. Attraverso dei trasduttori di segnale, l’osteosonografia fornisce una precisa e accurata stima di predizione del rischio di frattura del paziente in base alla qualità dell’osso. Si tratta di una metodica ancora in via di sperimentazione, ma che ha già dato risultati incoraggianti.

Gli esami di laboratorio non hanno un ruolo chiave nella diagnostica dell’osteoporosi primaria o postmenopausale. Marcatori biochimici come la calcemia, la fosforemia, la calciuria, la fosfaturia, l’idrossiprolinuria e i livelli di fosfatasi alcalina sono utilizzati prevalentemente per la diagnostica differenziale. Terapia

Fino a oggi la perdita di massa ossea postmenopausale è stata considerata un processo irreversibile. Da anni sono infatti disponibili farmaci che permettono di ini-

bire il riassorbimento osteoclastico, mentre la possibilità di stimolazione farmacologica della neoapposizione ossea è attualmente ancora dubbia. Al momento l’osteoporosi può essere più efficacemente prevenuta che curata. Una terapia vera e propria è attuabile solo per quanto riguarda le fratture avvenute come complicanza della malattia. La terapia preventiva si avvale di diversi farmaci: ● steroidi gonadici: rappresentano la terapia sostitutiva dell’insufficienza ovarica con estro-progestinici; alcuni studi riportano un aumentato rischio di sviluppo di carcinomi dell’endometrio e della mammella e il loro impiego non può essere protratto per più di 5-6 anni; ● calcitonina: è un ormone che diminuisce l’attività osteoclastica e possiede un’attività analgesica molto spiccata; ● difosfonati: anch’essi agiscono per inibizione dell’attività osteoclastica; ● vitamina D: viene utilizzata per migliorare l’assorbimento intestinale di calcio; di solito è somministrata in associazione al calcio e ad altri farmaci; ● altri farmaci di recente introduzione, quali il raloxifene (utilizzato dopo la sospensione della terapia ormonale sostitutiva) e la frazione del PTH.

Osteomalacia e rachitismo L’osteomalacia è un’osteopatia caratterizzata da una massa ossea quantitativamente normale, ma con difetto di mineralizzazione (Tabella 8.2). I termini osteomalacia e rachitismo sono stati usati in passato per indicare gli effetti sullo scheletro della carenza di vitamina D, rispettivamente nell’adulto e nel bambino, quando queste malattie erano molto diffuse. Con il miglioramento delle condizioni socio-economiche della maggior parte della popolazione mondiale, le carenze dietetiche sono divenute rare e gli stessi termini sono oggi utilizzati con significato più esteso, per indicare un’ampia gamma di condizioni, a eziopatogenesi diversa, che si manifestano con caratteristiche anatomo-cliniche analoghe a quelle osservate negli stati carenziali (Tabella 8.3). Il difetto di base consiste in una deficienza di calcio o di fosfato, o di entrambi, che ostacola il normale processo di mineralizzazione e di crescita dello scheletro nel bambino (rachitismo), o conduce ad alterazioni della struttura ossea nell’adulto (osteomalacia).

108 Ortopedia

Tabella 8.2

  Confronto tra osteoporosi e osteomalacia. Osteoporosi

Osteomalacia

Definizione

Età di esordio

Generalmente avanzata (postmenopausale)

Qualsiasi età

Sintomatologia

Dolore riferito alla sede di frattura

Dolore osseo generalizzato

Normale Normale Ca++ × Pi > 30

Diminuito o normale (elevato nell’ipofosfatasia) Diminuito o normale Ca++ × Pi > 30 se l’albumina è normale (elevato nell’osteodistrofia renale) Elevata, tranne che nell’ipofosfatasia Normale o diminuito (elevato nell’ipofosfatasia) Marcatura con tetraciclina anormale

Alterazioni radiografiche

Esami di laboratorio ++ sierico ● Ca ● P sierico i

● ● ●

Fosfatasi alcalina Ca++ urinario Biopsia ossea

Normale Elevato o normale Marcatura con tetraciclina normale

Quadro anatomo-clinico e istologico

Nel rachitismo dell’infanzia, la crescita è scarsa, i bambini sono apatici e irritabili. A livello osseo si possono osservare nei primi 4 mesi di età alterazioni a livello del cranio con abnorme elasticità delle ossa craniche (cranio-tabe), aumento di volume della testa, difetti di chiusura delle fontanelle,

deformità facciali e ritardo con disturbi nella dentizione. Dopo i 4 mesi di età si osservano anche deformità a livello dello scheletro assiale che consistono in tumefazione delle cartilagini condro-costali con il tipico segno del rosario rachitico, deformità a imbuto del torace, tumefazione della regione metafisaria delle ossa lunghe

8 - Osteopatie 109

Tabella 8.3

 Eziopatogenesi dell’osteomalacia.

Deficienza vitaminica ● Carenza dietetica ● Bassa esposizione ai raggi UV ● Rachitismo neonatale Malassorbimento di vitamina D ● Malattia celiaca ● Malattie pancreatiche ● Interventi di resezione gastrica e dell’intestino tenue Disturbi del metabolismo della vitamina D ● Inibizione della 25-idrossilazione epatica ● Inibizione della 1-idrossilazione renale Carenze di fosfati, ipofosfatemia, malattie interessanti i tubuli renali ● Complicanze dell’iperparatiroidismo o delle carenze di vitamina D ● Bilancio del fosforo negativo (malassorbimento, emodialisi) ● Ipofosfatemia familiare ● Sindrome di Toni-Fanconi-Debré ● Cistinosi Inibizione della mineralizzazione ● Difosfonati ● Floruro di sodio ● Alluminio

con incurvamento delle stesse in particolare a livello degli arti inferiori, cifosi, coxa vara rachitica con possibilità di fratture spontanee. Nell’osteomalacia dell’adulto la clinica appare più sfumata: i pazienti lamentano debolezza, facile faticabilità, malessere e dolore alle ossa, quest’ultimo è espressione di pseudofratture spontanee coinvolgenti in genere la sola corticale dell’osso. L’esame istologico nel rachitismo si caratterizza per un aumento della matrice ossea non mineralizzata, con crescita in altezza della cartilagine di accrescimento e cellule disposte in maniera caotica, senza la classica disposizione colonnare. Nell’osteomalacia si osserva un’eccessiva quantità di matrice ossea non mineralizzata. Diagnostica strumentale

L’aspetto radiografico nel rachitismo è tipico ed è caratterizzato da un’ipertrasparenza di tutto lo scheletro, con ritardo nella comparsa dei nuclei di ossificazione epifisari. Le cartilagini di accrescimento sono più spesse e più larghe del normale, con un margine metafisario che presenta una dentellatura molto irregolare. A causa dell’inibizione del rimodellamento

metafisario, manca la caratteristica svasatura e la metafisi tende ad assumere una forma cilindrica. La diafisi delle ossa lunghe può presentare diversi gradi di deformità (incurvamento) e nei casi più gravi anche fratture sottoperiostee. Nell’osteomalacia dell’adulto, il quadro radiografico è aspecifico, molto simile a quello visibile nel caso dell’osteoporosi con ipertrasparenza dello scheletro. Talvolta si repertano delle fratture incomplete, dette strie di LooserMilkman, a livello del lato concavo di un osso lungo, sul versante mediale del collo femorale e sui rami dell’ischio e del pube. Nel rachitismo e nell’osteomalacia carenziali la calcemia risulta in genere normale, mentre è costantemente presente ipofosforemia con aumento della fosfatasi alcalina. I parametri ematochimici presentano le alterazioni tipiche delle patologie di base. Terapia

Il rachitismo e l’osteomalacia da carenza di vitamina D sono corretti dalla semplice somministrazione della vitamina. Nel bambino l’efficacia della terapia può essere documentata radiograficamente: compaiono strie opache metafisarie, che corrispondono alla ripresa della calcificazione nella zona delle cellule ipertrofiche della cartilagine di accrescimento, mentre la morfologia delle metafisi si normalizza più lentamente. Nelle altre forme di rachitismo e di osteomalacia la terapia è specifica per ogni tipo di difetto o di malattia che ne è alla base.

Osteopatie endocrine Il metabolismo dell’osso è controllato da ormoni, che possono agire direttamente sull’attività delle cellule ossee oppure indirettamente attraverso variazione dei livelli di calcio e dei fosfati, i quali a loro volta possono influire sull’attività delle cellule.

Iperparatiroidismo primitivo Il PTH è un ormone ipercalcemizzante prodotto dalle ghiandole paratiroidi, attraverso il quale le ghiandole stesse regolano il livello di calcio nel liquido extracellulare. Il PTH adempie a questo compito attraverso i seguenti meccanismi: ● attivazione degli osteoclasti; ● aumento dell’assorbimento intestinale di calcio; ● aumento del riassorbimento tubulare renale di calcio; ● inibizione del riassorbimento tubulare renale del fosforo.

110 Ortopedia

L’iperparatiroidismo primitivo può essere causato da: ● adenomi PTH secernenti (85% dei casi); ● eccessiva produzione di PTH da parte di paratiroidi ipertrofiche (10-15% dei casi); ● carcinoma delle paratiroidi (raramente). Quadro clinico

Il quadro clinico e bioumorale è caratterizzato da tre condizioni: ● iperimaneggiamento osseo; ● manifestazioni extraossee; ● ipercalcemia e ipofosforemia. La maggior parte dei pazienti o è asintomatica o presenta sintomi di lieve entità. L’iperimaneggiamento osseo si manifesta con dolori ossei diffusi ed è espressione della prevalenza dei processi di riassorbimento su quelli di apposizione. Raramente si possono avere fratture patologiche (per esempio, crolli vertebrali), talvolta tumori ossei duri delle ossa del cranio e della mano, deformità progressive delle ossa lunghe, coxa vara e protrusio acetaboli. Le lesioni extrascheletriche possono interessare: ● i reni, con un quadro di poliuria, litiasi renale e nefrocalcinosi fino all’insufficienza renale; ● l’apparato digerente, con presenza di anoressia, nausea, pancreatite, ulcera gastrica e duodenale; ● il sistema nervoso, con astenia, sonnolenza e ipotonia; ● gli occhi, con depositi ai margini mediale e laterale della cornea (cheratopatia a bande). Istologia

L’esame istologico dell’osso mostra aree di riassorbimento, con deposizione di tessuto osseo neoformato e formazioni cistiche; si possono anche evidenziare i cosiddetti tumori bruni, costituiti dalla proliferazione di cellule giganti e cellule fusate, con deposizione di osteoide, aree di emorragia e depositi di emosiderina, che conferiscono il colorito brunastro alla neoformazione. Diagnostica strumentale

Il quadro radiografico assume caratteristiche specifiche solo nei casi più gravi della malattia. È presente una rarefazione delle trabecole dell’osso spongioso, con una conseguente maggiore trasparenza dello scheletro in toto. Talvolta, nelle forme più severe, la radiografia del cranio evidenzia tipiche decalcificazioni a chiazze e cisti ossee con riassorbimento sottoperiostale. In alcuni casi il riassorbimento osseo è localizzato e si manifesta con aree osteolitiche di aspetto tumorale sia dell’osso corticale sia di quello spugnoso. La radiografia dell’addome può evidenziare una nefro-

calcinosi. Tipiche sono anche le calcificazioni della cartilagine articolare con aspetto simil-gottoso. L’alterazione ematochimica tipica dell’iperparatiroidismo primitivo è l’ipercalcemia associata a elevati livelli di PTH. Terapia

Il trattamento di elezione dell’iperparatiroidismo primitivo è chirurgico e prevede interventi di paratiroidectomia selettiva o totale a seconda dei casi.

Osteodistrofia renale L’insufficienza renale cronica è causa di numerose anomalie metaboliche che interessano la totalità dei meccanismi omeostatici dell’organismo. Le lesioni causate dall’insufficienza renale cronica a carico dei tessuti connettivali sono particolarmente evidenti a livello dell’osso. Eziopatogenesi

I meccanismi patogenetici che conducono alle alterazioni ossee proprie dell’osteodistrofia renale sono complessi. La lesione principale consiste nel danno renale, che è causa non solo di insufficienza della filtrazione glomerulare, responsabile dell’iperazotemia e dell’iperfosfatemia, ma consiste anche nella quasi costante riduzione della massa renale e quindi della massa tubulare. Anche quando l’assunzione di vitamina D è normale o aumentata, l’alta concentrazione di fosfati e la diminuzione della funzione tubulare riducono notevolmente la sintesi di 1,25(OH)2D. L’aumento della fosfatemia e la notevole diminuzione di 1,25(OH)2D provocano un marcato decremento dell’assorbimento di calcio dal tratto gastro-intestinale e una grave ipocalcemia. In conseguenza di questo si ha iperparatiroidismo secondario, volto a riportare i valori della calcemia nella norma. Quadro clinico

Nell’individuo in accrescimento il quadro clinico si caratterizza per le alterazioni di tipo rachitico a carico delle cartilagini di accrescimento, sovrapponibili a quelle dei pazienti con altre forme di rachitismo. Per ragioni non note, l’epifisiolisi dell’anca si verifica con maggiore frequenza nei pazienti con osteodistrofia renale rispetto a quelli con rachitismo carenziale. Nell’adulto le manifestazioni sono simili a quelle dell’osteomalacia. Diagnostica strumentale

L’esame radiografico rivela tutte le caratteristiche dell’osteomalacia e i quadri di osteite fibro-cistica sono tipici dell’iperparatiroidismo secondario.

8 - Osteopatie 111

Frequenti sono le calcificazioni ectopiche presenti in numerose sedi. Terapia

Gli indici di laboratorio e la terapia sono gli stessi dell’insufficienza renale cronica.

Malattia di Paget La malattia di Paget dell’osso è stata descritta per la prima volta nel 1876 da Sir James Paget, che presentò alla Royal Society of Medicine a Londra un paziente i cui arti inferiori si erano progressivamente incurvati mentre il cranio aumentava di volume tanto che, essendo questi un poliziotto, doveva periodicamente cambiare l’elmetto dell’uniforme perché gliene serviva uno di misura superiore. La malattia era stata definita osteite deformante. Si tratta di una malattia focale dello scheletro, con interessamento mono- o poliostotico, frutto di un rimodellamento osseo caotico, svincolato dai fisiologici meccanismi di regolazione. L’alterazione primaria sembra risiedere in un eccessivo riassorbimento osseo da parte degli osteoclasti: a causa del processo di accoppiamento, l’aumentato riassorbimento determina un incremento compensatorio dell’apposizione di nuovo osso. Il turnover accelerato e incontrollato porta alla formazione prevalente di osso altamente immaturo, eccessivamente vascolarizzato, che è spesso strutturalmente debole e incline alle deformità e alle fratture patologiche. Epidemiologia

La malattia giunge all’osservazione clinica quasi sempre oltre i 40 anni di età, con frequenza crescente con l’avanzare degli anni e lieve prevalenza del sesso maschile. Vi è ampia variabilità geografica: in Europa, nei soggetti di ambo i sessi di età superiore ai 50 anni, si passa da una prevalenza dello 0,5% dell’area mediterranea (Grecia) al 5% dell’Inghilterra; in Italia le forme sintomatiche interessano circa l’1% della popolazione in età medio-avanzata. Data l’elevata percentuale di forme asintomatiche, è verosimile che i dati epidemiologici attuali sottostimino la prevalenza dell’affezione. Solitamente compare sporadicamente, raramente in forme familiari. Eziopatogenesi

L’eziologia della malattia è sconosciuta. Alcuni studi hanno dimostrato la presenza di inclusioni intranucle-

ari negli osteoclasti pagetici che assomigliano ai nucleocapsidi della famiglia dei paramixovirus, suggerendo così l’ipotesi di un importante ruolo eziologico sostenuto dalle infezioni virali. Recentemente, l’utilizzo delle moderne tecniche di biologia molecolare ha permesso di identificare alcuni geni coinvolti nella patogenesi della malattia di Paget. Era noto da tempo che esistevano delle famiglie con trasmissione autosomica dominante della malattia e lo studio di alcune di esse ha permesso di identificare due geni responsabili, che codificano per proteine essenziali nella formazione degli osteoclasti. Dal punto di vista patogenetico avremo pertanto degli osteoclasti alterati che sfuggono al normale controllo, portando a un accelerato rimodellamento osseo. Istologia

L’esame istologico mostra un caratteristico aspetto a mosaico, patognomonico dell’osso pagetico, dove le trabecole appaiono irregolarmente disposte con numerosissime linee cementanti basofile interposte. Sia le dimensioni sia il numero degli osteoclasti attivi sono aumentati come numero di nuclei per cellula. L’aspetto dell’osso non è omogeneo in quanto, in alcune aree prevale il riassorbimento mentre in altre prevale l’apposizione; in altre ancora, pur essendo evidenti i segni dell’intenso rimodellamento, le superfici delle trabecole non presentano aspetti di attività cellulare. Questo reperto testimonia che nella malattia si alternano fasi di attività e fasi di quiescenza. Quadro clinico

La malattia di Paget dell’osso è il più delle volte asintomatica e viene diagnosticata nella maggior parte dei pazienti in modo casuale, evincendola da radiografie eseguite per svariate esigenze cliniche. Nelle forme sintomatiche, il disturbo più comune è un dolore profondo dell’osso. Se sono interessati gli arti inferiori e la colonna vertebrale, il carico spesso aggrava il dolore. Il caratteristico allargamento macroscopico dell’osso può interessare il canale vertebrale e le ossa craniche, provocando rispettivamente mieloradiculopatie e compressione dei nervi cranici, in particolare il I, II, V, VII e VIII. L’aumento del flusso sanguigno nelle aree altamente vascolarizzate dell’osso pagetico porta all’instaurarsi di sindromi da furto ematico alle strutture nervose, causando un ulteriore aggravamento dei segni neurologici. Un segno patognomonico della malattia è la deformità ossea: il cranio aumenta di volume, le ossa lunghe degli arti inferiori si incurvano e sulla tibia è apprezzabile l’ipertrofia del margine anteriore.

112 Ortopedia

In aree di elevata sollecitazione, particolarmente nelle ossa degli arti inferiori, la malattia può essere complicata da fratture patologiche. Diagnostica strumentale

Le alterazioni radiografiche sono molto caratteristiche e consistono in aree radiopache a contorni sfumati, alternate a zone ipertrasparenti, in cui si evidenzia una trama fibrillare o filamentosa dell’osso (Figure 8.3 e 8.4). Nelle ossa lunghe la corticale è ispessita, con zone sclerotiche a margini sfumati; un aspetto caratteristico delle corticali così alterate è la presenza di fissurazioni trasversali sul margine convesso, che corrispondono a fratture parziali e sono una conseguenza della deformazione plastica dell’osso sotto le sollecitazioni meccaniche. I corpi vertebrali mostrano un’accentuazione del disegno trabecolare periferico che tende a evolvere verso una diffusa osteosclerosi. Il soma può apparire deformato, con un incremento del diametro orizzontale a seguito di cedimenti strutturali dell’osso pagetico. A livello del cranio si possono osservare in fase iniziale una o più aree radiotrasparenti con scomparsa del tavolato esterno (la cosiddetta osteoporosi circoscritta); queste aree tendono a confluire mentre compaiono zone dense a margini sfumati che conferiscono il caratteristico aspetto “a fiocco di cotone” (Figura 8.5); la struttura diploica non è più riconoscibile e lo spessore di queste ossa piatte è notevolmente aumentato. Nel

Figura 8.4  Reperti radiografici caratteristici dello stadio misto della malattia di Paget a livello dell’ulna prossimale.

cranio non si osservano mai gli aspetti fibrillari caratteristici delle altre localizzazioni. Gli indici bioumorali del metabolismo fosfo-calcico sono influenzati dall’evoluzione della malattia, caratterizzata dall’alternanza di fasi attive, dove si ha l’iniziale iperattività degli osteoclasti seguita dall’intensa attività compensatoria degli osteoblasti, e fasi spente, in cui tutte le cellule ritornano a un metabolismo normale, ma residuano le deformità instauratesi in precedenza. Così, in fase attiva si hanno elevati livelli di fosfatasi alcalina e di idrossiprolinuria, che tenderanno a normalizzarsi nella fase spenta. Tali parametri sono utili per misurare la risposta alla terapia e possono essere integrati ai reperti della scintigrafia ossea, altro valido strumento per indagare l’attività e l’estensione della malattia. Complicanze

Nella malattia di Paget, oltre alle fratture e alle fissurazioni già considerate, si possono manifestare artropatie degenerative per effetto di alterazioni della cartilagine

Figura 8.3

  Stadio misto della malattia di Paget. Ampie aree litiche, principalmente nella testa omerale.

Figura 8.5   Stadio sclerotico della malattia di Paget a livello del cranio (“a fiocco di cotone”).

8 - Osteopatie 113

Ne esistono due diversi tipi: una forma congenita, conosciuta come osteopetrosi maligna, e una tarda, conosciuta come osteopetrosi benigna. Dal punto di vista genetico, la forma maligna è dovuta a una mutazione a carico del cromosoma 11 trasmessa per via autosomica recessiva, mentre quella tarda, trasmessa per via autosomica dominante, è dovuta a una mutazione a carico del cromosoma 1. Il tessuto osseo contiene un aumentato numero di osteoclasti, inattivi dal punto di vista funzionale, mentre l’apposizione di tessuto osseo prosegue normalmente. L’inibizione dei processi di rimodellamento non permette la formazione di osso lamellare e delle cavità midollari che contengono le cellule emopoietiche. Figura 8.6   Manifestazioni sclerotiche della malattia di Paget a livello del bacino, con grave artropatia pagetica.

articolare secondarie alla lesione pagetica dell’osso subcondrale. L’articolazione maggiormente interessata da questo processo è l’anca (coxopatia pagetica) (Figura 8.6), mentre al ginocchio è più frequente l’artrosi secondaria alla deviazione assiale dell’arto inferiore. Altre complicanze sono rappresentate dallo scompenso cardiaco, dovuto a un imponente incremento del pool ematico per la maggiore richiesta da parte dello scheletro, e dalla trasformazione sarcomatosa dell’osso pagetico, che si verifica nel 2% circa dei pazienti, con possibile insorgenza di osteosarcomi o fibrosarcomi a elevato grado di malignità. Terapia

La terapia della malattia di Paget è indicata in presenza di lesioni attive ed è essenzialmente farmacologica, con la somministrazione di difosfonati. L’obiettivo è normalizzare il turnover osseo ed evitare l’insorgenza di complicanze.

Altre osteopatie Osteopetrosi Conosciuta anche come malattia di Albers-Schonberg, l’osteopetrosi è una patologia rara dovuta a un difetto del riassorbimento osseo, provocato da un’insufficienza funzionale degli osteoclasti. A causa di tale insufficienza permangono sia le cartilagini calcificate sia il tessuto osseo primitivo, con conseguente osteosclerosi: le ossa sono quindi più dense, ma meno resistenti alle sollecitazioni meccaniche.

Quadro clinico

Le manifestazioni cliniche dell’osteopetrosi maligna sono presenti già alla nascita. A causa dell’insufficienza midollare si sviluppa pancitopenia, con diatesi emorragica, anemia e infezioni ricorrenti; è presente epato-splenomegalia. Si possono verificare fratture patologiche e paralisi dei nervi cranici (con cecità e sordità) secondarie al loro strozzamento nei canali intracranici. La malattia ha un decorso rapidamente progressivo con morte precoce in assenza di trapianto di midollo osseo. La forma tarda è clinicamente varia, asintomatica nel 40% dei casi. L’aspettativa di vita è normale e si possono apprezzare lieve anemia, fratture patologiche e precoce osteoartrosi. Diagnostica strumentale

Dal punto di vista radiologico si osserva un’aumentata radiopacità dell’osso senza distinzione apprezzabile tra osso corticale e spongioso (Figura 8.7). A livello delle ossa lunghe si possono apprezzare striature trasversali correlate con l’attività della malattia. Il fenomeno dell’osso nell’osso, simile alla presenza di ossa miniaturizzate all’interno delle corticali delle ossa tubulari, è patognomonico dell’osteopetrosi. Le metafisi appaiono lievemente allargate, mentre gli spazi midollari vengono progressivamente obliterati da bande dense di tessuto immaturo. La colonna vertebrale presenta un aspetto a bande ispessite trasversali a livello dei piatti. Gli esami di laboratorio mostrano livelli elevati di fosfatasi acida e alcalina. In caso di fratture il callo si forma normalmente, seppure in tempi più lunghi, e non va incontro a rimodellamento. Terapia

Il trattamento è volto alla cura della pancitopenia e delle altre possibili complicanze. La forma maligna si

114 Ortopedia

pali da Sillence (Tabella 8.4), mentre studi più recenti ne individuano addirittura sette entità distinte. Tuttavia, per un così ampio spettro di variabilità molecolare e di espressività clinica, qualsiasi tentativo di classificazione risulta ancora incompleto o impreciso. Quadro clinico

Figura 8.7   Osteopetrosi, manifestazioni precoci (tipo congenito) in un bambino di 3 mesi. Densità ossea marcatamente aumentata, ampie bande metafisarie di diminuita densità.

giova del trapianto di midollo osseo, mentre la terapia farmacologica (prednisone, calcitriolo, ormone tiroideo e interferone-g) non porta alla guarigione, pur migliorando il quadro clinico. Le fratture sono trattate secondo i metodi convenzionali, ma guariscono con difficoltà a causa del difetto del rimodellamento osseo.

Osteogenesi imperfetta L’osteogenesi imperfetta (OI) comprende un gruppo eterogeneo di disordini ereditari del tessuto connettivo, caratterizzato da fragilità ossea e altri elementi di disfunzione connettivale. I pazienti affetti sono soggetti a fratture in seguito a traumi di minima entità. Gli altri principali segni clinici sono rappresentati da osteopenia, ipostaturalità, progressive deformità scheletriche, sclere blu, dentinogenesi imperfetta, lassità legamentosa e sordità. È una malattia rara con una prevalenza stimata in 0,5-1 caso ogni 10.000 nati.

Presenta un’ampia eterogeneità anatomo-clinica, che va da forme letali in epoca perinatale (caratterizzate da una statura estremamente bassa e importanti deformità ossee) a quadri in cui è presente solo una fragilità scheletrica con diminuzione della massa ossea, a forme molto lievi che possono eludere l’individuazione clinica. Quasi tutti i casi di OI sono causati da una condizione di eterozigosi di mutazioni dominanti a carico di uno dei due geni localizzati sui cromosomi 17 e 7, codificanti rispettivamente per le catene pro-a1 e pro-a2, elementi costitutivi del collagene di tipo I. Questo rappresenta la principale proteina strutturale del tessuto connettivo, in particolare della matrice extracellulare dell’osso, della cute, dei tendini e dei denti. Alcune mutazioni danno luogo alla formazione di un collagene di tipo I qualitativamente alterato, evenienza in relazione con i casi più gravi di OI; altre invece non modificano la struttura del collagene di tipo I, ma ne riducono la sintesi, dando luogo a un difetto di tipo quantitativo. Terapia

Il trattamento per le forme lievi mira a educare il paziente ad assumere abitudini che gli garantiscano una qualità di vita normale, mentre per le forme più gravi vengono praticati interventi chirurgici con infibuli endomidollari (tradizionali, telescopici o elastici) per ridurre il rischio di frattura e consentire una normale vita di relazione.

Osteopatia striata Trasmessa con modalità autosomica dominante, questa malattia è caratterizzata da striature delle regioni metafisarie dell’osso spongioso, con sclerosi della base e della volta cranica. Le alterazioni craniche portano ad anomalie del volto e a ritardo mentale, mentre le lesioni delle ossa lunghe sono asintomatiche.

Classificazione

Diagnostica strumentale

Questa malattia è stata classificata in base ad aspetti clinici, radiologici e genetici in quattro sottotipi princi-

Radiograficamente le striature, radiopache e parallele all’asse maggiore del segmento scheletrico, interessano

8 - Osteopatie 115

Tabella 8.4

  Classificazione di Sillence dell’osteogenesi imperfetta.

Tipo

Forma

Eredità

Caratteristiche cliniche

I

Lieve

AD

Sclere blu, facile formazione di lividi, lieve fragilità ossea prepuberale con piccole o nulle deformità, statura lievemente bassa, perdita dell’udito in circa il 50% degli individui, dentinogenesi imperfetta assente (tipo IA) o presente (tipo IB)

II

Perinatale letale

AD letale

Letale nel periodo perinatale. Estrema fragilità del tessuto connettivo, fratture in utero, minima mineralizzazione del cranio, micromelia, marcate deformità delle ossa lunghe, femori accorciati, coste a corona di rosario, platispondilia

III

Progressiva deformante

AD AR (rara)

Severa fragilità ossea, fratture multiple alla nascita, deformità ossee progressive, osteoporosi severa, macrocefalia relativa con facies triangolare e appiattita, orbite poco profonde, possibile impressione basilare, scoliosi, deformità sternali, statura estremamente bassa, sclere normali, dentinogenesi imperfetta, frequente perdita dell’udito, deambulazione domestica possibile con la chirurgia e la riabilitazione fisica

IV

Moderatamente severa

AD

Solitamente fratture che si verificano prima della deambulazione, deformità ad arco delle ossa lunghe da lievi a moderate, fragilità moderata, possibile impressione basilare, sclere normali, bassa statura di entità variabile, perdita dell’udito in alcuni casi, dentinogenesi imperfetta assente (tipo IVA) o presente (tipo IVB)

AD = autosomica dominante; AR = autosomica recessiva.

preferenzialmente le estremità delle ossa lunghe in rapida crescita; esse non variano con l’età. Patognomonica della malattia è la sclerosi della base cranica. Terapia

Dal punto di vista ortopedico non necessita di alcun trattamento.

Meloreostosi È una patologia caratterizzata da iperostosi della corticale, asimmetrica, che coinvolge solo un lato dell’osso colpito secondo uno schema sclerotomico. Si può osservare un ispessimento endostale delle trabecole

ossee con progressiva obliterazione delle cavità midollari, che comincia all’estremità prossimale dell’osso colpito e prosegue distalmente. L’aspetto radiografico “a colata” è stato paragonato a quello della cera di una candela. Ossificazioni eterotopiche possono formarsi nei tessuti molli perischeletrici con possibili ripercussioni sulla funzionalità delle articolazioni contigue. A volte vi è una concomitante fibrosi della cute e del tessuto sottocutaneo della zona colpita, che si associa al dolore osseo. Terapia

Il trattamento è volto al controllo sintomatico del dolore e alla chirurgia delle rigidità resistenti alla terapia conservativa.

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capitolo

Artropatie

9

Araldo Causero, Giorgio Gasparini, Leo Massari

Artrosi Araldo Causero

Introduzione L’artrosi, definita anche osteoartrosi (OA) o degenerative joint disease (DJD), è una malattia articolare cronica caratterizzata da degenerazione e usura progressiva della cartilagine articolare, con formazione reattiva di tessuto osseo a livello subcondrale e dei margini articolari. Può colpire qualsiasi articolazione, ma interessa soprattutto rachide, anca, ginocchio, mano e piede. La sintomatologia è caratterizzata da dolore, compromissione funzionale e deformazione articolare. Un tempo veniva considerata come una normale conseguenza dell’invecchiamento, ma in realtà la sua insorgenza è causata dall’interazione tra diversi fattori costituzionali e acquisiti.

Alcuni studi hanno evidenziato come il 10% della popolazione sopra i 55 anni soffra di gonalgia e come il 25% di questi lamenti un’importante limitazione funzionale. Un altro dato epidemiologico importante riguarda il sesso. Infatti, si è notata una maggior prevalenza dell’OA nelle donne in termini sia di espressività clinica sia di quadro radiografico.

Fattori Di Rischio L’artrosi è associata a uno o più fattori di rischio come l’età, il sesso, l’allineamento e la stabilità dell’articolazione, l’obesità (Tabella 9.1). Un altro fattore eziologico di particolare rilevanza è rappresentato dai traumi articolari importanti e dai microtraumi ripetuti nel tempo, associati ad attività lavorative o sportive logoranti per le articolazioni.

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Tabella 9.1

Epidemiologia

● ●

L’artrosi è l’artropatia cronica più frequente. Diversi studi autoptici e radiografici hanno dimostrato un incremento dell’OA direttamente proporzionale all’età a partire dai 30 anni. Inoltre, nell’80% dei soggetti oltre i 65 anni di età si riscontrano alterazioni radiografiche proprie dell’artrosi, nonostante siano sintomatiche solo in un quarto dei casi. Le sedi più frequentemente colpite da alterazioni degenerative sono il rachide, le articolazioni coxo-femorali, le ginocchia e le piccole articolazioni di mani e piedi.

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  Fattori di rischio associati all’osteoartrosi.

Età Sesso femminile Obesità Osteoporosi Attività lavorativa Attività sportiva Infortuni Debolezza muscolare Deficit propriocettivo Determinanti genetici Acromegalia Condrocalcinosi

118 Ortopedia

Età

L’età avanzata è uno dei fattori di rischio più fortemente associato con l’artrosi. La prevalenza della patologia varia dallo 0,1% tra i 25 e i 34 anni, all’80% nei pazienti con più di 55 anni. Sovraccarico Funzionale

I fattori meccanici giocano un ruolo fondamentale nella patogenesi dell’artrosi: infatti le alterazioni istopatologiche si manifestano quando il tessuto cartilagineo non è più in grado di resistere agli stress meccanici. Questo si può verificare per eccessive sollecitazioni nella cartilagine sana o per sollecitazioni fisiologiche nella cartilagine danneggiata o patologica. Fattori di rischio “biomeccanici”, potenzialmente correggibili, comprendono l’obesità, il malallineamento degli arti inferiori e i microtraumi ripetuti, che possono condizionare la localizzazione e la severità del quadro clinico. Altri Fattori

La probabilità di sviluppare l’artrosi sembra essere legata alla razza. Infatti, mentre la gonartrosi ha una prevalenza uniforme in tutte le etnie, la coxartrosi e l’artrosi alle mani sembra essere predominante nella razza caucasica. Nonostante alcuni studi su gemelli abbiano evidenziato un’ereditarietà dell’OA fino al 65% per la forma idiopatica di mani e ginocchia, suggerendo quindi una predisposizione genetica, non sono ancora stati individuati geni specifici responsabili dell’artrosi. Per diversi tipi di displasie ossee e cartilaginee sono state identificate svariate mutazioni nei geni codificanti il collagene, ma nessuna mutazione è stata invece rilevata nei geni che codificano le proteine strutturali della matrice cartilaginea: tale aspetto potrebbe essere fondamentale per determinare la suscettibilità all’artrosi idiopatica. Solo di recente sono stati identificati dei polimorfismi nei geni che codificano le proteine di segnale coinvolte nel processo di sviluppo e mantenimento della cartilagine articolare, che sembrano associati all’artrosi dell’anca in alcuni gruppi etnici.

Classificazione L’artrosi viene suddivisa, in base all’eziologia, in due forme: idiopatica (o primitiva) e secondaria. L’artrosi idiopatica può essere ulteriormente suddivisa in forme localizzate e diffuse, queste ultime coinvolgenti almeno tre articolazioni differenti. Le forme localizzate colpiscono più spesso il ginocchio, l’anca, la mano, il piede o il rachide.

Figura 9.1  Radiografia del bacino che mostra un quadro di coxartrosi sinistra, secondaria a displasia congenita dell’anca: si può notare la risalita della testa femorale, che non risulta centrata nella cavità acetabolare.

L’artrosi secondaria riconosce diverse condizioni che possono causare, predisporre o aumentare il rischio di sviluppare la patologia. Tra queste ricordiamo: ● traumi (fratture articolari, lesioni legamentose); ● patologie congenite o dell’accrescimento (displasie o deviazioni assiali) (Figura 9.1); ● artropatie da deposito di cristalli; ● altre affezioni dell’osso e della cartilagine come osteonecrosi, morbo di Paget ecc.; ● alcune patologie sistemiche come diabete mellito, obesità, acromegalia ecc.

Eziopatogenesi La matrice extracellulare cartilaginea e i condrociti modificano le loro funzioni durante tutto l’arco della vita ed è per questo che l’età viene considerata il più importante fattore di rischio nello sviluppo e nella progressione dell’artrosi primitiva. Con l’invecchiamento si osserva una progressiva riduzione della cellularità della cartilagine articolare per svariate cause (danno ossidativo, ridotta risposta ai fattori di crescita, alterata funzione dei mitocondri e apoptosi finale) e poiché l’omeostasi tissutale è assicurata dai condrociti, la perdita di cellule si traduce in una ridotta capacità di rimodellamento della matrice extracellulare con danno strutturale irreversibile. L’artrosi è una patologia che interessa non solo la cartilagine ialina, ma tutti i tessuti articolari (osso subcondrale, capsula articolare e legamenti, membrana sinoviale) anche se in misura variabile.

9 - Artropatie 119

Può essere definita come un processo dinamico caratterizzato dal rimodellamento della normale anatomia articolare con neoformazione di osso, tessuto similcartilagineo e tessuto connettivo sotto forma di osteofiti oltre, naturalmente, alla degenerazione cartilaginea. Tuttavia, mentre in alcuni casi questo processo raggiunge uno stato di equilibrio senza progressione delle lesioni, in altri si riscontra un danno articolare sintomatico caratterizzato da progressivi fenomeni degenerativi con fibrillazione, fissurazione e lesioni focali della cartilagine fino alla completa esposizione dell’osso subcondrale. Con il carico anche il tessuto osseo adiacente alla lesione cartilaginea viene danneggiato fino alla sclerosi subcondrale e alla formazione di cisti ossee, che prendono il nome di geodi. L’osso subcondrale possiede peculiari caratteristiche biomeccaniche che lo rendono adatto ad assorbire le sollecitazioni dovute al carico e quindi in grado di proteggere la cartilagine da carichi eccessivi. Questo suggerisce che nella patogenesi dell’artrosi un’alterazione dell’osso subcondrale dovuta a microtraumi potrebbe in alcuni casi precedere il danno cartilagineo. Infatti, la sclerosi dell’osso subcondrale e la conseguente perdita di elasticità dell’osso espongono gli strati superficiali della cartilagine a eccessive sollecitazioni meccaniche.

Istologia E Istopatologia Cartilagine Ialina

La cartilagine articolare è un tessuto privo di vascolarizzazione e innervazione. Riceve le sostanze nutritive dal liquido sinoviale e dall’osso subcondrale sottostante. La cartilagine è costituita da un solo tipo cellulare, i condrociti, e dalla matrice extracellulare. I condrociti rappresentano circa il 5% (dall’1 al 10%) del volume della cartilagine: hanno forma ovoidale o sferica e presentano un diametro di circa 30-40 mm. La matrice extracellulare è costituita per la maggior parte da acqua (65-80% del peso) e per il restante 2035% da macromolecole (proteine e glicosamminoglicani). Le fibre collagene di tipo II, caratteristiche ma non specifiche della cartilagine, rappresentano il 25% del peso a secco della cartilagine ialina. Si possono distinguere due tipi di glicosamminoglicani (o proteoglicani) presenti nella cartilagine articolare in base alla loro capacità di legare l’acido ialuronico: i macroproteoglicani, ad alto peso molecolare, maggiormente rappresentati dall’aggrecano, e i proteoglicani, a basso peso molecolare tra cui ricordiamo le decorine, i biglicani e la fibromodulina.

La cartilagine ialina dell’adulto ha una superficie bianca, translucida, liscia e brillante. Lo spessore del tessuto cartilagineo, in media 5 mm, varia a seconda dell’articolazione: lo spessore maggiore (6-7 mm) si trova a livello dell’articolazione femoro-rotulea. Da un punto di vista istologico presenta cinque strati: ● lamina splendens: è lo strato acellulare che ricopre lo strato superficiale; riveste un ruolo importante perché permette l’ancoraggio delle macromolecole presenti nel liquido sinoviale e che costituiscono lo strato protettivo della cartilagine ialina (acido ialuronico, fosfolipidi, lubricina); ● strato superficiale o tangenziale: i condrociti si presentano piccoli e appiattiti, le fibre collagene sono disposte parallelamente alla superficie articolare. Questo strato è ricco di fibronectina e relativamente povero di proteoglicani. Queste caratteristiche conferiscono allo strato superficiale la capacità di resistere alle forze di tensione; ● strato intermedio o di transizione (40-45% dello spessore): i condrociti sono grossi e sferici, la disposizione delle fibre collagene non riconosce una distribuzione ordinata. Ha caratteristiche biomeccaniche miste (è in grado di tollerare sia forze di tensione sia di carico); ● strato profondo o radiale (40-45% dello spessore): i condrociti sono disposti in colonne e le fibre collagene sono disposte perpendicolarmente rispetto alla superficie articolare. La concentrazione di proteoglicani è elevata. Queste caratteristiche conferiscono allo strato profondo la capacità di resistere alle forze di carico; ● strato calcifico (5-10% dello spessore): si trova in contatto con la lamina ossea subcondrale. Le fibre collagene hanno una disposizione radiale, ma non presentano continuità con le fibre collagene dell’osso subcondrale. È una zona povera di proteoglicani e molto ricca di calcio. Lo strato calcifico è separato dallo strato profondo da una linea di demarcazione chiamata tidemark, che costituisce la barriera dalla penetrazione dei vasi provenienti dall’osso subcondrale, permettendo però il passaggio delle sostanze nutritive. Nell’artrosi, la sequenza delle alterazioni istologiche e biochimiche a carico della cartilagine articolare segue un pattern caratteristico: edema, fibrillazione, fissurazione, lesione focale fino all’esposizione dell’osso subcondrale e alla sclerosi dello stesso (Figura 9.2). Nelle fasi iniziali, si riscontra un aumento della matrice idratata e dello spessore della cartilagine seguito dall’interruzione della rete di fibre collagene e incremento dei proteoglicani ad alto peso molecolare come l’aggrecano.

120 Ortopedia

Figura 9.2  Immagini artroscopiche del ginocchio che mettono in evidenza alterazioni della cartilagine articolare di gravità diversa. Edema: alla palpazione con uncino la cartilagine appare soffice (a); fibrillazione e iniziale ulcerazione (b); lesione focale a margini irregolari (c); ulcerazione a tutto spessore con esposizione dell’osso subcondrale (d).

La membrana sinoviale appare ipertrofica (Figura 9.3) e presenta un infiltrato cellulare costituito soprattutto da elementi mononucleati. La sinoviale può in alcuni casi presentare aree di metaplasia condroide e zone calcifiche. Le strutture caspulo-legamentose si presentano fibrotiche, ispessite e possono essere retratte. Da un punto di vista citologico si osserva, nelle fasi iniziali, una risposta condrocitaria ovvero l’attivazione dei condrociti con successiva proliferazione degli stessi, associata a una risposta di tipo anabolico (sintesi di proteoglicani e matrice extracellulare); negli stadi avanzati si osserva invece una risposta di tipo catabolico. Numerosi mediatori chimici (fattori di crescita, citochine, enzimi litici come le metalloproteasi, inibitori enzi-

Figura 9.3   Visione artroscopica che evidenzia l’ipertrofia della membrana sinoviale sotto forma di villi iperemici; è anche presente un corpo libero endoarticolare ( ).

matici ecc.) sono coinvolti nei complessi fenomeni, anabolici e catabolici, che regolano l’omeostasi cartilaginea e un’alterazione dei loro meccanismi regolatori svolge un ruolo centrale nella patogenesi della degenerazione articolare.

Quadro Clinico L’artrosi è una malattia cronica con lesioni osteocartilaginee articolari irreversibili e sintomatologia dolorosa a decorso lento e progressivo. A volte si può assistere a un’evoluzione “a poussès”, con periodi di recrudescenza intervallati da periodi di quiescenza. La sintomatologia può non essere strettamente correlata al quadro radiografico e, sebbene la diagnosi di osteoartrosi si debba basare su criteri clinici e strumentali, la scelta del trattamento è per lo più guidata dalla clinica. La prognosi dipende molto dall’articolazione colpita, dall’attività del paziente e dall’eventuale possibilità di correggere la causa predisponente. I segni e i sintomi dell’artrosi compaiono in genere in persone di età superiore a 40 anni. Il dolore è il sintomo di esordio nella maggior parte dei pazienti ed è il motivo principale per cui il paziente si rivolge al medico. L’artrosi può coinvolgere diverse articolazioni, più frequentemente quelle sottoposte a carico (arti inferiori e rachide); nelle persone più giovani, che hanno avuto traumi o presentano malformazioni congenite, è più spesso interessata una sola articolazione. Nelle prime fasi il dolore, localizzato all’articolazione coinvolta, è intermittente; peggiora con l’attività fisica e migliora con il riposo. Con il progredire della patologia, il dolore tende a essere presente anche a riposo e durante la notte, disturbando il sonno. Un altro sintomo è la rigidità articolare, che si manifesta al risveglio o dopo riposo prolungato, tendendo a mi-

9 - Artropatie 121

Tabella 9.2  Principali differenze tra artropatie infiammatorie e artrosi.

Artropatie infiammatorie

Artropatia degenerativa

Infiammatorio, persistente, notturno, non cessa con il riposo

DOLORE

Meccanico, all’inizio del movimento, serale, breve. Migliora con il riposo

Specie al mattino, protratta

RIGIDITÀ

All’inizio del movimento, di breve durata

Cute arrossata, calda, tumefazione presente e persistente

OBIETTIVITÀ

Cute normale, tumefazione assente ed episodica

gliorare con il movimento: in questo si differenzia dalla rigidità caratteristica dell’artrite reumatoide e delle altre artropatie infiammatorie (Tabella 9.2). Un importante elemento di disabilità, riferito dal paziente anche in assenza di dolore, è la limitazione funzionale intesa come perdita di mobilità (o articola­rità), in particolare a livello di anca, ginocchio e mano. Tale perdita può essere secondaria sia alle alterazioni a carico dei tessuti molli (per esempio, fibrosi della capsula articolare) sia alla presenza di osteofiti (ostacolo meccanico) (Figura 9.4). All’esame obiettivo si possono inoltre rilevare deformità ossee palpabili, dolorabilità pressoria a livello sia della rima sia delle superfici articolari, presenza di ver-

samento articolare, lassità legamentosa, ipotono e ipotrofismo muscolare, scrosci articolari.

Coxartrosi L’artrosi primitiva dell’anca rappresenta circa il 40-50% di tutte le patologie articolari in questa sede. Alcuni autori hanno riscontrato che nella patogenesi della coxartrosi primitiva entrano in gioco lievi alterazioni morfologiche come il conflitto femoro-acetabolare, che causano con il passare del tempo lesioni cartilaginee (Box 9.1). Il sintomo iniziale è rappresentato da dolore inguinale che compare alla mobilizzazione attiva e passiva (soprattutto nella rotazione interna eseguita ad anca flessa a 90°), con possibile irradiazione a livello gluteo e lungo la faccia anteriore della coscia fino al ginocchio. Con il progredire della patologia la sintomatologia algica si manifesta non solo durante il movimento, ma anche a riposo e si associa a limitazione funzionale con rigidità articolare. Negli stadi più avanzati, il dolore disturba il riposo notturno e i pazienti spesso presentano una contrattura in flessione dell’anca. Tale compromissione clinico-funzionale può rendere difficile l’esecuzione di semplici gesti quotidiani come indossare le calze o accosciarsi. Nella deambulazione può essere presente una zoppia “coxalgica” (con caduta del bacino verso il lato sano), secondaria al tentativo del paziente di alleggerire il carico sui muscoli abduttori al fine di ridurre la joint reaction force, che può raggiungere il triplo del peso corporeo in stazione monopodalica. In caso di importante danno osseo, si potrà notare una dismetria degli arti inferiori.

Figura 9.4   Artrosi del­ l’anca (coxartrosi). Quadro radiografico che mostra la scomparsa della rima articolare coxo-femorale e la presenza di osteofiti (a); visione macroscopica delle lesioni degenerative della testa femorale dopo resezione della stessa durante impianto di artroprotesi (b).

122 Ortopedia

Box 9.1 Conflitto femoro-acetabolare Il conflitto femoro-acetabolare o FAI (femoral-acetabular impingement) è una condizione caratterizzata da un anomalo contatto tra la testa femorale e il bordo acetabolare. I continui microtraumi, nel tempo, producono un deterioramento del tessuto cartilagineo e lesioni del labbro acetabolare: la progressione di queste lesioni porta alla coxartrosi. Si distinguono tre diversi meccanismi di conflitto: 1. tipo cam (retroversione femorale, coxa vara): questa condizione comporta una riduzione dell’offset del passaggio testa-collo del femore. La prominenza ossea che si viene a creare, definita dagli autori anglosassoni “bump”, determina un contatto anomalo con il labbro acetabolare e la cartilagine di transizione con evoluzio­ne verso un’artrosi del versante antero­superiore; 2. tipo pincer (coxa profunda, protrusio acetabuli, retroversione acetabolare, prominenza della parete posterio­ re): questa condizione è caratterizzata da un’eccessiva copertura dell’acetabolo sulla testa del femore. Il con­ tatto anomalo tra collo femorale e acetabolo comporta inizialmente solo un danno del labbro acetabolare e solo tardivamente della cartilagine articolare; in questo caso l’artrosi interessa il versante postero-superiore o centrale; 3. tipo misto, cam e pincer (si veda la Figura 9.7) Delle tre forme, la più frequente è la forma mista. Il tipo cam è più frequente nel sesso maschile e si rende evidente soprattutto in sportivi che presentano coxalgia durante l’attività fisica, mentre il tipo pincer è più frequente nel sesso femminile. La sintomatologia, che all’inizio può essere molto sfumata, si presenta nel giovane-adulto con dolore inguinale e in regione trocanterica associato all’attività fisica, in assenza di una storia di trauma. Il trattamento deve essere rivolto all’eliminazione della causa meccanica del conflitto; in base all’alterazione anatomica presente si può ricorrere alla correzione chirurgica. Le opzioni terapeutiche sono molteplici, potendosi eseguire interventi in artroscopia o in artrotomia; in ogni caso l’indicazione chirurgica va valutata e scelta con molta attenzione.

dei compartimenti interessati: la sintomatologia è accentuata dal carico, dalla deambulazione e dalla salita e discesa delle scale. La deambulazione è di tipo antalgico, con zoppia di fuga, e l’articolarità può essere più o meno limitata e dolorosa; in fase avanzata si può osservare la comparsa di una contrattura in flessione. L’interessamento monolaterale del ginocchio, soprattutto nell’uomo, si riscontra spesso in seguito a una meniscectomia o a un precedente trauma.

Osteoartrosi Delle Mani Si può presentare in forma nodulare o erosiva. In entrambi i casi si presenta come un’artrosi generalizzata, con una forte componente genetica. È più frequentemente riscontrabile nel sesso femminile e colpisce le articolazioni interfalangee delle dita e le articolazioni carpo-metacarpali, in particolare la trapezio-metacarpale (rizoartrosi del pollice). Nonostante siano coinvolte diverse articolazioni di entrambe le mani, la comparsa dei sintomi è episodica e può interessare una o più articolazioni. La sintomatologia è caratterizzata da dolore, al movimento e alla pressione, e da tumefazione dei tessuti periarticolari. Nella forma nodulare, sono più frequenti i noduli di Heberden, che interessano l’articolazione interfalangea distale, rispetto ai noduli di Bouchard, che interessano l’interfalangea prossimale. Nei casi a esordio acuto, meno frequenti, la clinica è caratterizzata dalla comparsa di noduli caldi, con importante componente infiammatoria, ed eventuale formazione di cisti a contenuto sinoviale. La forma erosiva è più rara e si caratterizza per la presenza di erosioni destruenti a carico dell’osso subcondrale. La sintomatologia è sovrapponibile a quella della forma nodulare, eccetto che per una maggior instabilità e più frequente sublussazione delle articolazioni interfalangee prossimali e distali.

Gonartrosi

Spondilosi

Interessa più frequentemente il compartimento femoro-tibiale mediale e quello femoro-rotuleo, ma può coinvolgere tutti e tre i compartimenti del ginocchio. In presenza di un interessamento del compartimento mediale, si potrà notare una deviazione in varo del ginocchio; la deformità in valgo, più rara, si associa invece alla degenerazione laterale (Figura 9.5). I pazienti affetti da gonartrosi lamentano dolore a livello

Le alterazioni degenerative del rachide interessano gran parte della popolazione sopra i 45-50 anni, ma l’espressività clinica della patologia è molto variabile e diviene rilevante solo in una piccola percentuale di casi. Nello sviluppo della spondilosi il principale fattore di rischio è l’ereditarietà, anche se, come per le altre localizzazioni, i fattori costituzionali e l’attività lavorativa hanno un ruolo importante.

9 - Artropatie 123

Figura 9.5  Deviazione in varo (a) e in valgo (b) delle ginocchia in pazienti affetti da gonartrosi.

Il rachide cervicale, il tratto lombare e il passaggio lombo-sacrale sono le localizzazioni più frequenti; i pazienti lamentano dolore e limitazione funzionale a livello del tratto interessato e della muscolatura limitrofa, che appare contratta. All’esame obiettivo si riscon-

tra dolorabilità pressoria in corrispondenza dei processi spinosi e delle docce paravertebrali; può essere presente un’iperlordosi lombare di tipo antalgico. La presentazione clinica varia in base alle principali alterazioni fisiopatologiche. Quando si osserva una fusione segmentaria di tipo funzionale con riduzione degli spazi intervertebrali, calcificazione dei legamenti e osteofitosi a ponte (Figura 9.6), la sintomatologia dolorosa è scarsa e accompagnata da una maggior rigidità. Qualora invece sia presente instabilità tra i corpi vertebrali, la sintomatologia dolorosa, accentuata dal movimento, può essere molto intensa anche in assenza di alterazioni degenerative importanti. In seguito al restringimento dei forami intervertebrali, alla riduzione dello spessore del disco intervertebrale, alla presenza di osteofiti o deviazioni secondarie del rachide, si possono manifestare disturbi legati all’irritazione o compressione delle radici nervose e del midollo spinale. In questi casi la sintomatologia dolorosa locale si associa a irradiazione del dolore lungo gli arti e parestesie, mentre è raro un deficit di tipo motorio; l’obiettività clinica è sovrapponibile a quella dell’ernia discale.

Artrosi Secondaria

Figura 9.6

  Quadro radiografico di spondilosi lombare con evidenti osteofiti a ponte ( ).

Nei pazienti di età inferiore a 40 anni che manifestino segni e sintomi propri dell’artrosi o in pazienti che presentino l’interessamento di un sola articolazione o di una tra le articolazioni meno comunemente colpite, è

124 Ortopedia

necessario ricercare fattori o patologie predisponenti. Un’anamnesi positiva per una frattura articolare o per pregressi infortuni, con conseguente incongruenza articolare, è un tipico presupposto allo sviluppo di artrosi secondaria (post-traumatica): questa condizione può essere osservata di frequente nella caviglia, quale esito di fratture malleolari trattate in modo inadeguato. Un disturbo della biomeccanica articolare può anche derivare da lesioni o interventi su strutture accessorie: per esempio vi è ormai una consolidata evidenza scientifica che una meniscectomia artrotomica predispone nel corso degli anni allo sviluppo di gonartrosi in una larga percentuale di pazienti. Per questo le moderne tecniche chirurgiche sono indirizzate a una chirurgia meniscale quanto più riparativa o conservativa possibile, soprattutto nei soggetti giovani.

Diagnostica Per Immagini Radiografia Tradizionale

È l’esame di scelta e di primo livello per la diagnosi di artrosi. Negli stadi precoci della malattia può risultare negativa e in fasi più tardive non strettamente correlata alla gravità del quadro sintomatologico (Figura 9.7 e Tabella 9.3). I segni radiografici caratteristici dell’artrosi sono: ● la riduzione della rima articolare (segno indiretto di assottigliamento e danno cartilagineo); ● la sclerosi dell’osso subcondrale; ● la presenza di osteofiti e cisti ossee (geodi); ● talvolta la presenza di corpi mobili calcifici e di condrocalcinosi.

Figura 9.7  Disegno che illustra il conflitto femoro-acetabolare (FAI). Quadro normale (a); FAI tipo pincer (b); FAI tipo cam (c); FAI misto (d). La radiografia mostra un quadro di cam impingement.

Tabella 9.3

 Classificazione radiografica dell’artrosi. STADIO 0

I

II

III

IV

Interlinea articolare Osteofitosi Sclerosi

-

Lieve riduzione

Riduzione

Scomparsa

-

-

Geodi Deformazione dei capi ossei

-

-

Presente Lieve subcondrale -

Marcata riduzione Presente Marcata subcondrale Presenti -

Grossolana Ossea Presenti Presente

9 - Artropatie 125

RM

Scintigrafia Ossea

Consente di identificare lesioni a carico della cartilagine articolare in fase iniziale. Non è da considerare come indagine di primo livello nella diagnosi di artrosi, ma è indicata per lo studio di lesioni intra-articolari (lesioni meniscali e osteocondrali) (Figura 9.8), per la ricerca e la definizione di osteonecrosi o nella valutazione di pazienti con spondilosi che presentino segni di interessamento radicolare.

Non è un’indagine indicata nel percorso diagnostico della malattia artrosica, ma può essere utilizzata nel sospetto di osteonecrosi.

TC

Può essere indicata in presenza di sintomi mieloradicolari in pazienti con spondilosi (in particolare se la RM è controindicata) o nella pianificazione preoperatoria per distretti articolari che all’esame radiografico presentino importanti alterazioni ossee.

Esami Di Laboratorio Gli esami ematochimici non sono utili per la diagnosi e per il monitoraggio della malattia artrosica, ma sono praticati per escludere patologie infiammatorie o metaboliche che possano simulare la malattia degenerativa articolare. Anche l’analisi del liquido sinoviale prelevato mediante artrocentesi non presenta caratteristiche peculiari, per lo meno nelle valutazioni di routine: si pre­ senta limpido e viscoso con una bassa conta cellulare.

Figura 9.8   Classificazione radiografica dell’artrosi in base alla gravità delle alterazioni (si veda la Tabella 9.3): stadio I (a); stadio II (b); stadio III (c); stadio IV (d).

126 Ortopedia

Il prelievo può essere utile per la diagnosi differenziale con l’artrite settica o con forme infiammatorie nei casi dubbi.

Terapia Vi sono tre obiettivi nel trattamento dell’artrosi: controllo del dolore, miglioramento o mantenimento della funzionalità articolare e riduzione della disabilità. La scelta del trattamento è condizionata, oltre che dalla gravità del quadro anatomo-clinico, dalle aspettative del paziente, dal suo grado di attività e dalle sedi coinvolte. I pazienti devono innanzitutto essere educati a uno stile di vita non sedentario e, quando necessario, persuasi a raggiungere un adeguato peso corporeo per ridurre il carico sulle articolazioni coinvolte. La kinesiterapia di mobilizzazione articolare e di tonificazione muscolare è in grado di alleviare i sintomi e migliorare il quadro funzionale nelle prime fasi della malattia, mentre in fase avanzata non consente di ottenere risultati soddisfacenti. Non bisogna tuttavia eccedere nei carichi di lavoro, perché qualsiasi sovraccarico articolare o muscolare risulta dannoso. Terapie fisiche (come la termoterapia, il laser, gli ultrasuoni o forme diverse di elettroterapia quali correnti diadinamiche e TENS) possono essere utili. A oggi non è a disposizione una terapia farmacologica in grado di arrestare o prevenire la progressione del danno articolare dovuto all’artrosi e la terapia antalgica risulta essere il trattamento di scelta nei pazienti con artrosi sintomatica. Si può ricorrere ad analgesici puri o a FANS, in particolare agli inibitori selettivi delle COX-2. Nella terapia infiltrativa intrarticolare, praticata in particolare per la gonartrosi, si può ricorrere all’uso di acido ialuronico (in particolare nelle fasi iniziali della malattia) o di corticosteroidi (soprattutto durante le poussès infiammatorie). La terapia chirurgica è riservata ai pazienti che non hanno ottenuto un beneficio dai trattamenti conservativi eseguiti correttamente e per un tempo adeguato. Il debridement artroscopico del ginocchio, oggi meno praticato che in passato, ha solo uno scopo palliativo, non garantendo buoni risultati a medio e lungo termine. Trova indicazione in casi selezionati, con lo scopo di eliminare eventuali irritanti meccanici presenti all’interno dell’articolazione (detriti o lembi cartilaginei) e le citochine proinfiammatorie contenute nel liquido sinoviale.

Il trattamento delle lesioni cartilaginee con tecniche di tipo riparativo e ricostruttivo è indicato solo in presenza di un danno focale circoscritto delle superfici articolari (Box 9.2). In pazienti giovani, con artrosi secondaria, trovano indicazione gli interventi di osteotomia. Esistono, a seconda dell’articolazione interessata e dell’alterazione dell’asse meccanico, diversi tipi di procedure chirurgiche. Per l’anca vanno ricordate le osteotomie intertrocanteriche, sottotrocanteriche e periacetabolari; nel ginocchio, al fine di correggere una deviazione in varo o valgo, possono invece essere eseguite le osteotomie in addizione e in sottrazione (si veda il paragrafo “Ginocchio varo e valgo”). Il trattamento chirurgico di scelta, soprattutto negli stadi più avanzati della patologia, è la sostituzione protesica: gli impianti oggi disponibili per l’anca e per il ginocchio sono numerosi, sia per quanto riguarda i modelli sia per i materiali impiegati. Nella spondilosi, la terapia chirurgica si basa su interventi di decompressione delle strutture nervose ed eventuali stabilizzazioni segmentarie della colonna.

Box 9.2 Trattamento delle lesioni cartilaginee La cartilagine articolare è un tessuto dotato di scarsa capacità rigenerativa, per la ridotta vascolarizzazione e la limitata disponibilità di cellule indifferenziate. A una lesione condrale traumatica o degenerativa può seguire un tentativo spontaneo di riparazione con tessuto fibrocartilagineo o l’evoluzione più o meno graduale verso l’artrosi. Per il trattamento di queste lesioni sono state proposte varie procedure di tipo sia riparativo sia ricostruttivo. Tra le prime troviamo le perforazioni multiple, la condroplastica per abrasione e le microfratture dell’osso subcondrale. Queste ultime hanno lo scopo di favorire il sanguinamento dall’osso subcondrale e il conseguente arrivo di precursori della cartilagine dal midollo osseo al sito di lesione. Il tessuto di riparazione che si forma è un tessuto fibrocartilagineo, che pertanto non presenta le stesse caratteristiche biomeccaniche della cartilagine ialina. Le procedure ricostruttive possono invece essere di tipo autologo come la mosaicoplastica e il trapianto di condrociti autologhi (Figura 9.9) o omologhe, con l’utilizzo di trapianti osteocondrali. Queste tecniche permettono di riparare la lesione cartilaginea con tessuto cartilagineo ialino o simil-ialino. Recentemente sono state introdotte tecniche di trattamento con membrane o scaffold a cui possono essere associate le tecniche di stimolazione midollare (microfratture o aggiunta di concentrato di aspirato midollare).

9 - Artropatie 127

Tabella 9.4   Antigeni scatenanti la reazione immunitaria nell’artride reumatoide.

Endogeni Esogeni

Collagene Proteoglicani IgG Batteri Virus

Superantigeni

Streptococchi Micobatteri Escherichia coli HBV Parvovirus HTLV EBV Prodotti da agenti esogeni

Eziopatogenesi Figura 9.9

  Fotografia intraoperatoria che mostra una lesione focale cartilaginea di un condilo femorale, trattata con un trapianto di condrociti eseguito con l’impiego di uno scaffold in forma di membrana.

Artrite reumatoide Araldo Causero

Introduzione L’artrite reumatoide (AR) è una patologia infiammatoria cronica a carattere progressivo con manifestazioni articolari ed extrarticolari. Il coinvolgimento articolare è solitamente simmetrico, ad andamento remittente, ma caratterizzato da una progressiva distruzione del tessuto osseo e cartilagineo, con conseguente deformazione dei capi articolari.

Epidemiologia L’AR ha una prevalenza nella popolazione mondiale di circa l’1%, ma si riscontrano differenze marcate rispetto a questo valore (fino al 6-7%) in relazione alla razza e alla latitudine. Colpisce più spesso il sesso femminile in un’età compresa tra i 40 e i 70 anni. Esiste un alto tasso di concordanza tra i gemelli monozigoti dovuto alla predisposizione familiare.

L’eziopatogenesi, data la sua complessità, non è tuttora completamente compresa. Si tratta di una malattia autoimmune, il cui evento iniziale è l’attivazione antigene-dipendente dei linfociti T CD4+, in soggetti geneticamente predisposti. Il fattore scatenante non è stato ancora identificato anche se sono diversi gli antigeni endogeni ed esogeni potenzialmente coinvolti (Tabella 9.4). Da questo deriva una cascata di reazioni tra cui l’attivazione e la proliferazione della sinoviale e delle cellule endoteliali con la formazione del panno sinoviale, l’attivazione di ulteriori cellule infiammatorie, la produzione di autoanticorpi e la secrezione di citochine e proteasi da parte dei macrofagi. La progressiva crescita del panno determina la distruzione della cartilagine e l’erosione dell’osso subcondrale.

Istopatologia Le lesioni caratteristiche dell’AR vengono riscontrate a livello articolare. Macroscopicamente la sinoviale appare iperemica, edematosa e ispessita, con la superficie ricoperta di villi ipertrofici. Microscopicamente il panno sinoviale è costituito da cellule infiammatorie (linfociti B, linfociti T CD4+, plasmacellule, macrofagi e neutrofili), tessuto di granulazione e fibroblasti, con aumento della vascolarizzazione per vasodilatazione e neoangiogenesi. Nelle fasi avanzate della malattia si riscontrano erosioni marginali dell’osso subcondrale a “morso di topo”, che determinano le caratteristiche deformità articolari. I tessuti periarticolari sono interessati da un quadro infiammatorio diffuso.

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Nel 25% dei pazienti si repertano i noduli reumatoidi, localizzati solitamente in regioni della cute sottoposte a pressione. Si tratta di lesioni dure, tondeggianti o ovalari, a livello sottocutaneo, caratterizzate da una zona centrale di necrosi circondata da istiociti, linfociti e plasmacellule.

Quadro Clinico L’AR si manifesta più spesso come una poliartrite simmetrica, a insorgenza insidiosa e progressiva, con andamento remittente o migrante. Inizialmente vengono coinvolte le articolazioni più distali e in seguito quelle prossimali. L’esordio monoarticolare non esclude comunque la diagnosi di AR, ma può rappresentarne il primo sintomo. Il quadro più tipico si caratterizza per l’insorgenza di dolore, tumefazione articolare diffusa e rigidità mattutina o dopo prolungata immobilità. Spesso le articolazioni coinvolte nelle fasi precoci sono le metacarpofalangee (MC-F), le interfalangee prossimali (IFP), l’interfalangea (IF) del pollice e il polso. È presente una

tenosinovite a livello dei polsi con occasionale rottura dei tendini, in particolare dell’estensore lungo del pollice. Il coinvolgimento dei piedi è caratterizzato dal frequente riscontro della sublussazione plantare delle teste metatarsali, dell’erosione delle cartilagini articolari e della borsite retrocalcaneare. Lo scheletro assiale viene colpito soprattutto a livello delle vertebre cervicali e si può determinare instabilità con sublussazione vertebrale e compressioni mieloradicolari. All’esordio, la poliartrite si può associare fino a un terzo dei casi con sintomi sistemici quali mialgie, affaticamento, febbricola, perdita di peso e depressione. Si evidenzia inoltre una progressiva osteopenia (con conseguente aumento del rischio di fratture), causata sia dalla ridotta mobilità del paziente sia dall’azione combinata di prostaglandine e citochine in associazione con il paratormone. Inoltre il frequente utilizzo prolungato di cortisone in terapia contribuisce a peggiorare il quadro, stimolando il riassorbimento osseo. La progressione della malattia può determinare caratteristiche deformazioni articolari a carico delle mani, quali la deviazione radiale del polso con sublussazione dell’ulna, il “pollice a zeta” (iperflessione della MC-F e iperestensione dell’IF), la deviazione ulnare delle dita a “colpo di vento” (Figura 9.10) o il loro atteggiamento a “collo di cigno” (iperestensione della IFP e iperflessione dell’IFD) o ad “asola” (iperflessione della IFP e iperestensione della IFD). Il coinvolgimento extrarticolare è piuttosto variabile e può determinare anemia normocitica e ipocromica, neutropenia, noduli sottocutanei, vasculiti, neuropatie, nonché alterazioni a carico di numerosi organi (cuore, polmoni, reni, occhi ecc.) per la cui trattazione si rimanda ai testi di medicina interna. Il coinvolgimento sistemico può essere primitivo oppure legato agli effetti collaterali della terapia farmacologica. Esiste una forma giovanile di AR che compare prima dei 16 anni d’età. Alcune caratteristiche cliniche (coinvolgimento oligoarticolare delle grandi articolazioni, esordio sistemico, frequente assenza dei noduli reumatoidi) e laboratoristiche (frequente negatività del fattore reumatoide e positività per gli anticorpi antinucleari) la distinguono dalla forma dell’adulto.

Diagnosi Figura 9.10

 Deformità articolari di mani e piedi in AR. La deviazione ulnare delle dita delle mani a “colpo di vento”, indicata dalla direzione delle frecce, è causata da alterazioni a livello delle articolazioni MC-F.

Non esiste un singolo segno clinico, radiografico o test sierologico in grado di diagnosticare con certezza l’AR; vengono tuttavia indicati alcuni criteri diagnostici, riportati nella Tabella 9.5.

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Tabella 9.5







● ● ●



 Criteri diagnostici dell’artrite reumatoide.

Rigidità mattutina per almeno un’ora per almeno 6 settimane Tumefazione di tre o più articolazioni per almeno 6 settimane Tumefazione del polso o delle articolazioni MC-F e IFP per almeno 6 settimane Tumefazione articolare simmetrica Noduli reumatoidi sottocutanei Alterazioni radiografiche tipiche a livello delle mani Positività del fattore reumatoide e degli anticorpi anticitrullina

N.B: Si pone diagnosi di AR se vengono soddisfatti non meno di 4 dei 7 criteri esposti. Figura 9.11  Radiografia delle mani in paziente affetta da AR: si notano le caratteristiche erosioni marginali a “morso di topo” (frecce).

Esame Obiettivo

È possibile rilevare tumefazione articolare con dolorabilità alla palpazione e alla mobilizzazione. La tumefazione può derivare dal versamento articolare o dall’ipertrofia sinoviale. Le articolazioni sono spesso calde, arrossate e limitate nel movimento. È inoltre importante riconoscere le caratteristiche deformità che compaiono però nelle fasi più avanzate della malattia. Esami Di Laboratorio

Gli esami ematochimici possono evidenziare in particolare un aumento di VES e PCR e la presenza del fattore reumatoide e degli anticorpi anticitrullina. Il fattore reumatoide è presente circa nel 75% dei casi, ma non è patognomonico di AR: si tratta di un anticorpo IgM che reagisce con la porzione Fc delle IgG. Il liquido sinoviale può presentare una conta dei leucociti compresa tra i 1500 e i 25.000 per mm3 (con predominanza di polimorfonucleati neutrofili), una riduzione del glucosio, bassi livelli dei fattori del complemento e proteine paragonabili a quelle del siero. Diagnostica Per Immagini

La radiografia standard può essere sufficiente per mettere in evidenza la riduzione dello spazio articolare, le erosioni dei capi articolari (Figura 9.11) e l’osteopenia juxta-articolare, presente soprattutto con il progredire della malattia. Negli stadi iniziali la RM e l’ecografia si sono dimostrate più sensibili nel riconoscere i segni precoci dell’AR. La RM consente di riconoscere l’edema midollare, predittivo di una progressione verso l’erosione articolare, mentre l’ecografia fornisce una stima del grado d’infiammazione e del­l’ipertrofia sinoviale.

Prognosi Si tratta di una patologia progressiva la cui storia naturale conduce a una graduale disabilità per le deformità articolari e a complicanze sistemiche per il coinvolgimento extrarticolare. Il decorso è solitamente fluttuante, con periodi di attività della durata di alcune settimane o mesi. La remissione completa spontanea è estremamente rara in assenza di un’adeguata terapia. Durante la gravidanza si assiste solitamente a un miglioramento o a una remissione completa ma temporanea della malattia. L’aspettativa di vita è in genere ridotta di 3-7 anni rispetto alla popolazione media e i decessi sopraggiungono soprattutto per le complicanze sistemiche della malattia e della terapia.

Terapia L’approccio terapeutico comprende diversi aspetti: non esiste una terapia assoluta per l’AR, ma una combinazione di diversi provvedimenti, da personalizzare in base al paziente, alle sue manifestazioni di malattia e alle sue comorbilità. Prevenzione E Terapia Non Farmacologica

Comprendono l’educazione del paziente, il riposo, l’esercizio fisico, la dieta e le misure generali per preservare le strutture articolari. Terapia Farmacologica

È possibile distinguere una terapia sintomatica, finalizzata al controllo delle manifestazioni cliniche della

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patologia, e una terapia biologica, in grado di modificare la storia naturale della malattia (disease-modifying therapy). L’obiettivo dei farmaci è indurre la remissione della fase acuta e prevenire nuovi episodi. Nella terapia sintomatica, ai farmaci ad azione analgesica e agli antiinfiammatori non steroidei è possibile associare i glucocorticoidi, come il prednisone e il prednisolone. Tra i farmaci disease modifying si trovano alcune tradizionali molecole non biologiche “sintetiche” (idrossiclorochina, sulfasalazina, metotrexato ecc.), ma soprattutto i più recenti farmaci “biologici” (quali l’etanercept, l’infliximab e il rituximab), che agiscono contro specifiche citochine, i loro recettori o altre molecole di superficie coinvolte nella patogenesi della malattia. Tra questi ricordiamo l’etanercept e l’infliximab, che sono inibitori del TNF-a e il rituximab, che è un anticorpo monoclonale attivo contro i linfociti B. Si tratta di terapie impegnative, gravate da numerosi effetti collaterali, che richiedono pertanto un attento monitoraggio di alcuni parametri quali l’emocromo, la funzionalità renale ed epatica e una valutazione oftalmologica. Trattamento Chirurgico

Trova indicazione nelle fasi avanzate di compromissione articolare, caratterizzata da dolore intrattabile e da severa disabilità. È difficile stabilire il corretto timing chirurgico, in quanto un’attesa prolungata inadeguata può determinare un peggioramento irreversibile delle condizioni locali, ma un’eccessiva precocità espone potenzialmente il paziente al rischio di nuovi interventi, considerando anche l’aumentato rischio infettivo associato alla patologia di base. La chirurgia comprende interventi sui tessuti molli (tenorrafie, sinoviectomie, artrolisi, capsulotomie) e sulle strutture osteo-cartilaginee (osteotomie, protesi articolari).

Altre artropatie Araldo Causero Vengono generalmente suddivise in artropatie emorragiche, infiammatorie e infettive (queste ultime già trattate nel Capitolo 6).

Artropatie Emorragiche Le artropatie emorragiche sono causate dall’instaurarsi di versamenti ematici (emartri) recidivanti in pazienti con disturbi della coagulazione. L’interessamento è

di regola monoarticolare e la sede più frequentemente colpita è il ginocchio. Nell’eziopatogenesi entrano in gioco un fattore predisponente (deficit dell’emostasi) e uno scatenante (di regola traumi, anche di modesta entità); al momento dell’instaurarsi dell’emartro il rapido e abbondante accumulo di sangue nell’articolazione provoca una marcata tensione della capsula e dolore. Le coagulopatie complicate da artropatia possono essere acquisite (pazienti in terapia farmacologica con anticoagulanti orali), ma sono più spesso congenite (come alcune malattie ereditarie con carenza dei fattori della cascata coagulativa). Tra queste ultime, particolare importanza rivestono l’emofilia A e B; in queste patologie i versamenti emorragici compaiono fin dalla prima infanzia ed evolvono in tre stadi: ● l’emartro: dopo un evento traumatico o anche a insorgenza spontanea; ● la sinovite: ovvero l’alterazione della membrana sinoviale dovuta ai depositi ripetuti di emosiderina; ● l’artropatia conclamata: caratterizzata dalla distruzione della cartilagine, lesioni osteolitiche di tipo cistico e deformità progressive dei capi articolari fino all’anchilosi dell’articolazione coinvolta.

Artropatie Infiammatorie Sono artropatie croniche dovute a patologie reumatologiche e dismetaboliche che possono colpire sia i bambini sia gli adulti, causando disabilità e soprattutto dolore di tipo infiammatorio (presente anche durante le ore notturne). Le spondiloartriti sieronegative sono un insieme di patologie aventi caratteristiche comuni, quali la presenza di manifestazioni cutanee, mucose e oculari in un quadro di artrite infiammatoria periferica. Si distinguono dall’artrite reumatoide per l’assenza del fattore reumatoide e di noduli nel tessuto sottocutaneo. Le artriti da microcristalli sono causate dalla deposizione di cristalli, quali urato monosodico e pirofosfato di calcio diidrato, nell’ambiente articolare.

Artrite Psoriasica Si manifesta tra il 4 e il 30% dei pazienti affetti da psoriasi; colpisce uomini e donne in egual misura. L’eziopatogenesi non è del tutto nota, ma un ruolo importante sembra essere svolto dalla predisposizione genetica.

9 - Artropatie 131

Tabella 9.6

psoriasica.

 Criteri diagnostici CASPAR per l’artrite

Presenza di infiammazione muscolo-scheletrica (artrite infiammatoria, entesite, dolore lombare) in associazione ad almeno 3 dei seguenti criteri: ● Psoriasi cutanea o familiarità ● Lesioni ungueali (onicosi, pitting) ● Dattilite ● Negatività per fattore reumatoide ● Evidenza radiografica di eccessiva formazione ossea iuxta-articolare

Il quadro clinico è quello di un’oligoartrite asimmetrica, ovvero un’artrite infiammatoria che coinvolge soprattutto le articolazioni MC-F e le IF di mani e piedi, manifestandosi con dolore e rigidità a livello delle sedi coinvolte. A essa si associano spesso dattilite (“dito a salsicciotto”), dovuta all’edema infiammatorio dei tendini flessori delle dita, e onicopatie (alterazioni ungueali). Il quadro radiografico è caratterizzato da immagini di erosioni e apposizione ossea, con formazioni esuberanti riparative in sede iuxta-articolare. Per la diagnosi si può fare riferimento ai criteri CASPAR, riportati in Tabella 9.6. La terapia si basa sull’utilizzo di FANS, farmaci steroidei e antimalarici di sintesi (idrossiclorochina).

Spondilite Anchilosante È un’artrite infiammatoria cronica che colpisce lo scheletro assiale. Si manifesta con dolore lombosacrale, progressiva rigidità e cifosi della colonna. Colpisce generalmente maschi giovani-adulti di età compresa tra i 20 e i 30 anni. La patogenesi è ignota anche se è stata dimostrata una stretta associazione con l’antigene leucocitario HLA-B27. La patologia evolve con processi di ossificazione dei legamenti paravertebrali e formazione di sindesmofiti (sottili prolungamenti verticali del margine antero-laterale dei corpi vertebrali), limitanti la motilità del rachide, e con impegno cardiaco e nefrologico nelle fasi avanzate. La diagnosi viene posta sulla base del quadro clinico tipico, supportata dalle radiografie del rachide (Tabella 9.7). La spondilite anchilosante ha lenta progressione e buona prognosi.

Tabella 9.7  Criteri diagnostici per la spondilite anchilosante (1984, Modified New York Criteria).

Parametri clinici ● Rigidità e dolore lombare, che recede con il riposo, per almeno 3 mesi ● Motilità del rachide lombare limitata sul piano frontale e sagittale ● Espansione toracica limitata rispetto ai valori normali per età e sesso Parametri radiografici ● Sacro-ileite bilaterale di grado ≥ a 2 ● Sacro-ileite monolaterale di grado 3 o 4

La terapia si basa sull’utilizzo di FANS e sulla terapia infiltrativa locale con cortisonici.

Sindrome Di Reiter Appartiene alle artriti reattive; è caratterizzata dalla comparsa di una triade costituita da artrite, uretrite e congiuntivite, a circa 1-3 settimane da un’infezione a localizzazione generalmente genitourinaria o enterica. È una patologia a bassa incidenza e con stretta associazione con l’antigene HLA-B27; tipicamente coinvolge giovani adulti. L’ipotesi patogenetica attualmente prevalente è quella di un’anomala risposta immunitaria a un’infezione causata da batteri in soggetti geneticamente predisposti. La diagnosi è clinica e la prognosi benigna. La maggior parte dei pazienti ottiene una remissione completa entro 6 mesi dall’inizio della malattia. La terapia è sintomatica (FANS, iniezioni intrarticolari di corticosteroidi), anche con l’uso di farmaci biologici (anti-TNF) nei casi più severi.

Artrite Gottosa È caratterizzata dalla deposizione a livello articolare di cristalli di urato monosodico in soggetti iperuricemici (>7 mg/dL), con particolare predilezione per la prima metatarso-falangea (podagra). Tipicamente i sintomi sono costituiti da dolore intenso a livello dell’articolazione coinvolta, con rossore e tumefazione della cute sovrastante, che raggiungono la massima intensità in 12-24 ore dall’esordio per poi regredire nell’arco di circa 1 settimana. La gotta cronica è contraddistinta dalla poliartrite, dai tofi e dall’impegno vascolare.

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La diagnosi si basa sulla sintomatologia tipica, sull’evidenza dell’iperuricemia e sulla dimostrazione al microscopio dei cristalli di urato nel campione di tessuto prelevato dall’articolazione. La terapia dell’attacco acuto si basa sull’utilizzo della colchicina mentre successivamente si mira alla correzione dell’iperuricemia con farmaci uricosurici (probenecid) e uricoinibitori (allopurinolo).

interessano circa un terzo dei soggetti al di sotto dei 20 anni, con un progressivo aumento nelle fasce di età successive, fino alla totalità degli ultracinqantenni. Nei casi sintomatici, la condropatia femoro-rotulea predilige gli adolescenti e i giovani adulti con un rapporto femmine/maschi di 2:1 e rappresenta la causa più frequente di dolore anteriore cronico del ginocchio.

Eziopatogenesi

Artrite Da Deposito Di Pirofosfato Di Calcio (Pseudogotta) La deposizione di pirofosfato di calcio a livello della cartilagine articolare è una patologia tipica dell’età avanzata ed è stata dimostrata l’associazione con altre malattie quali l’iperparatiroidismo e l’emocromatosi. Il danno articolare, più spesso a carico del ginocchio, della mano e del polso, determina una sintomatologia simile all’attacco acuto di gotta (pseudogotta), seppure più sfumata. La diagnosi è formulata sulla base dell’esame del liquido sinoviale e dal rilievo radiografico di calcificazioni a livello delle cartilagini articolari. La terapia si basa sui FANS e sulle infiltrazioni intrarticolari di cortisonico.

Condropatie Giorgio Gasparini

Condropatia Femoro-Rotulea Il termine “condropatia” descrive in modo generico alterazioni degenerative localizzate della cartilagine articolare, di gravità diversa e non necessariamente destinate a evolvere verso un quadro di artrosi conclamata. In età giovanile queste alterazioni interessano con particolare frequenza la rotula e la troclea femorale, nel corso di differenti affezioni accomunate da dolore riferito alla regione anteriore del ginocchio.

Epidemiologia Le alterazioni regressive della cartilagine rotulea rappresentano un reperto frequente: studi autoptici su soggetti con anamnesi negativa hanno evidenziato che

Molteplici patologie possono indurre un danno della cartilagine rotulea (Box 9.3): ● pregressi traumi (contusione, lussazione); ● il sovraccarico funzionale (per intensa attività sportiva o lavorativa); ● la rotula alta (Figura 9.13b); ● il malallineamento, che è legato al valgismo del ginocchio o all’antiversione del collo del femore (Figure 9.12 e 9.15); ● la displasia femoro-rotulea (si veda anche il Capitolo 18), a causa dell’alterata morfologia e del malallineamento.

Box 9.3 L’articolazione femoro-rotulea e il suo studio radiografico La rotula è un osso sesamoide sospeso dinanzi alla troclea femorale; il suo equilibrio statico-dinamico è determinato da quattro vettori (Figura 9.12). L’angolo Q, spesso utilizzato, ha scarsa correlazione con la clinica; il limite di norma è 15° nel maschio e 20° nella femmina. L’altezza della rotula è normale per un indice di InsallSalvati tra 0,8 e 1,2 (Figura 9.13). La congruenza dell’articolazione si valuta mediante (Figura 9.14): ● l’angolo del solco, il cui valore normale è 125-150°; ● l’angolo di congruenza, il cui valore è compreso tra -17° (repere rotuleo mediale alla bisettrice dell’an­ golo del solco) e 5° (repere rotuleo laterale); ● l’angolo femoro-rotuleo, che è normale quando è aperto lateralmente; ● la lateralizzazione della rotula, il cui valore normale non supera 1 mm in senso laterale. L’area di contatto femoro-rotulea è maggiore nei maschi. La pressione di contatto (che è maggiore nelle femmine) è pari, rispetto al peso corporeo, al 50% durante la deambulazione, a 3-4 volte nell’ascesa e discesa della scale, a 7-8 volte in posizione accovacciata e a 25 volte nel sollevare un peso con ginocchia flesse.

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Figura 9.12   La posizione della rotula sul piano frontale è la risultante di quattro vettori (a): i due diretti all’esterno e all’interno coincidono rispettivamente con il legamento alare esterno (LAE) e con il legamento alare interno (LAI); quello diretto alla spina iliaca anterosuperiore (SIAS), che coincide con il quadricipite, e quello diretto alla tuberosità tibiale (TT), che coincide con il tendine rotuleo, determinano l’angolo Q (b). Un aumento patologico di tale angolo si può evidenziare per aumentato valgismo del femore e/o della torsione tibiale esterna (c).

Figura 9.13   La posizione della rotula sul piano sagittale, valutata con il metodo di Insall-Salvati su radiografie in proiezione laterale, si esprime come rapporto tra lunghezza del tendine rotuleo e lunghezza della rotula (a). Valori superiori a 1,2 individuano una rotula alta (b).

La morfologia rotulea di per sé non ha relazione con la condropatia (Figura 9.16). I difetti morfologici o di allineamento sono frequentemente bilaterali. Tanto l’aumento laterale quanto la riduzione mediale delle forze di contatto determinano una sofferenza metabolica dei condrociti con conseguente alterata biosintesi della matrice.

Figura 9.14   La posizione della rotula sul piano coronale può essere valutata su radiografie assiali o su sezioni TC o RMN coronali: l’angolo del solco (a) si determina tra le due rette che intersecano il punto più basso della troclea (S) e i due punti più prominenti dei condili femorali mediale (M) e laterale (L); l’angolo di congruenza (b) è definito dalla bisettrice dell’angolo del solco (B-S) e dalla retta congiungente il punto più basso della rotula con il punto più basso della troclea (A-S); l’inclinazione rotulea è definita dall’angolo femoro-rotuleo (c), individuato dalla tangente alla faccetta rotulea laterale e dalla tangente ai due punti più prominenti dei condili femorali; la lateralizzazione (d) è espressa come distanza tra due rette perpendicolari alla tangente ai due punti più prominenti dei condili femorali e tangenti rispettivamente il punto più mediale della rotula e il punto più prominente del condilo femorale mediale.

Figura 9.15  Il malallineamento determina una prevalenza di forze lateralizzanti che possono agire inclinando la rotula (a), traslandola (b) o inclinandola e traslandola (c) L = laterale, M = mediale.

Anatomia patologica Le alterazioni elementari sono sovrapponibili a quelle dell’artrosi iniziale. Nelle fasi precoci la cartilagine rotulea appare edematosa e opaca; alla palpazione se ne apprezza il rammollimento (condromalacia). Successivamente l’aspetto diviene giallastro, striato e fissurato. In

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vivo dolore. Anche la digitopressione e la lateralizzazione della rotula risultano dolorose.

Diagnostica per immagini

Figura 9.16   Le tre varianti morfologiche della rotula descritte da Wiberg nel 1941: due faccette concave di dimensione pressoché uguale (a); due faccette concave di cui la laterale (L) più ampia (b); faccetta laterale concava e faccetta mediale (M) più piccola e convessa (c).

fase più avanzata il confluire e l’approfondirsi delle fissurazioni superficiali determina il distacco di lembi via via più grandi di tessuto dalla superficie e poi dagli strati più profondi, fino all’esposizione dell’osso subcondrale. Tali alterazioni progrediscono eccentricamente a partire dalla porzione infero-centrale della faccetta mediale, per estendersi poi a quella laterale. Il coinvolgimento della contrapposta superficie della troclea femorale (lesione “a specchio” o kissing lesion) è tardivo. Il quadro biochimico e ultrastrutturale evolve in parallelo: vari gradi di sofferenza metabolica dei condrociti determinano una progressiva riduzione quantitativa e di peso molecolare dei proteoglicani, accompagnata da rarefazione, assottigliamento, frammentazione e disorganizzazione delle fibre collagene.

Quadro clinico La sintomatologia è cronica ed è caratterizzata da dolore sordo riferito alla regione anteriore del ginocchio ed esacerbato dalla flessione, specie se prolungata (“segno del cinema”) o forzata. Viene spesso riferita la sensazione di crepitio, meno frequentemente il cedimento o il blocco articolare. All’esame obiettivo si osservano ipotonia e ipotrofia di grado variabile del quadricipite; infrequenti e di modica entità sono la tumefazione e il versamento endoarticolare. Nei casi di malallineamento si possono evidenziare l’aumento dell’angolo Q (si veda la Figura 9.12) o lo strabismo rotuleo. La mobilizzazione passiva della rotula a ginocchio esteso evidenzia crepitio e attrito durante lo scorrimento sulla troclea (“segno della raspa”), oltre a evocare

Trattandosi di una patologia esclusivamente condrale, le radiografie standard sono negative; gli unici rilievi patologici possono riguardare l’asse dell’arto e l’altezza della rotula (si vedano le Figure 9.12 e 9.13). Le radiografie assiali (o tangenziali) e le sezioni coronali di TC ed RM consentono di valutare la congruenza articolare (si vedano le Figure 9.14 e 9.15). La TC è inoltre indicata per lo studio torsionale dell’arto. La RM può consentire di valutare la morfologia e il trofismo della cartilagine, ma la sensibilità è bassa per le lesioni di minor entità e non elevatissima per quelle più avanzate.

Terapia Nei casi in cui sia individuabile una causa anatomica di squilibrio dell’articolazione femoro-rotulea questa andrà corretta. Gli interventi tra cui scegliere caso per caso sono la lisi artroscopica del legamento alare esterno, il riallineamento rotuleo prossimale, distale o combinato, le osteotomie femorali correttive dell’asse o del vizio di torsione. Nella maggior parte dei casi (in assenza di evidenti difetti morfologici o di allineamento), il trattamento di scelta è incruento: riposo funzionale, crioterapia, farmaci antinfiammatori, terapia fisica, riabilitazione (potenziamento del quadricipite in toto e selettivamente del vasto interno, stretching dei flessori), iniezioni endoarticolari di acido ialuronico, applicazione di tutori o di bendaggi a cerotto. Il trattamento conservativo comporta risultati soddisfacenti superiori al 70%. L’attendibilità prognostica di un risultato positivo a distanza è stata dimostrata con significatività statistica per alcuni elementi: maggiore forza del quadricipite, negatività del test del dolore evocato, assenza di crepitio, monolateralità, basso peso corporeo, età inferiore a 20 anni. Il trattamento chirurgico della lesione condrale andrà riservato ai casi in cui, fallito il trattamento incruento, si reperti una lesione isolata di grado avanzato del rivestimento cartilagineo. Varie tecniche sono disponibili e nuove frontiere si propongono in questo ambito: microfratture, innesti osteocondrali autologhi multipli e omologhi massivi, innesto di condrociti autologhi su varie tipologie di matrice (scaffold).

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Deformità acquisite delle articolazioni Leo Massari, Aldo Causero

Alluce Valgo L’alluce valgo è l’affezione più frequente del piede e la malformazione acquisita più frequente dell’uomo. Consiste in una deformazione complessa e progressiva del primo raggio che può portare a significative modificazioni patologiche della prima articolazione metatarsofalangea, delle parti molli di supporto e del meccanismo sesamoideo, che rende questa articolazione la più specializzata di quelle dell’avampiede. Tale deformità comprende la deviazione in varo (mediale) del primo metatarso, che determina un allargamento dell’avampiede e la deviazione in valgo (laterale) della falange prossimale dell’alluce, con o senza pronazione. L’incongruenza progressiva della prima metatarso-falangea e la sua degenerazione artrosica secondaria sono aspetti frequenti dell’alluce valgo, mentre la sovrapposizione delle dita minori del piede può causare deformità a martello con sublussazione delle rispettive articolazioni metatarso-falangee (Figura 9.17).

Eziologia L’utilizzo di scarpe strette e con tacco alto sembra essere il fattore estrinseco più importante nello sviluppo dell’alluce valgo. Tuttavia l’elevata incidenza di questa patologia, anche in individui che non utilizzano calzature con queste caratteristiche, implica che qualche fattore intrinseco predisponga all’insorgenza e alla progressione della deformità. Diversi fattori costituzionali sono stati chiamati in causa senza mai chiarire il loro reale ruolo eziologico. In alcuni casi è stata individuata una predisposizione familiare, trasmessa come carattere autosomico dominante con penetranza variabile e una marcata preponderanza per il sesso femminile con un rapporto F:M di 9:1. Il controverso rapporto tra piede piatto e alluce valgo sembra risolversi maggiormente a favore del ruolo che la pronazione avrebbe nel determinare una rapida progressione della deformità piuttosto che esserne essa stessa la causa principale. La relazione tra la lunghezza del metatarso e lo sviluppo di un alluce valgo sembra essere casuale, senza alcun fattore eziologico diretto.

Figura 9.17   Aspetto clinico di valgismo dell’alluce e sublussazione dorsale del secondo dito: si nota la borsite mediale alla testa del primo metatarso (punta di freccia) e la callosità dorsale della interfalangea prossimale del secondo dito (freccia).

Patogenesi La prima articolazione metatarso-falangea svolge un ruolo fondamentale nel trasferimento del carico all’alluce durante la locomozione e la sua stabilità dipende da legamenti collaterali, da muscoli intrinseci, che si inseriscono sulla base della falange prossimale, e da muscoli estrinseci (Figura 9.18). Varie condizioni acquisite o iatrogene possono ridurre la capacità della prima articolazione metatarso-falangea e dell’alluce di agire da strutture portanti, con conseguente trasferimento del carico al versante laterale del piede, sovraccaricando la seconda e la terza testa metatarsale e destabilizzando l’alluce che tenderà a sublussarsi lateralmente. I muscoli, che in precedenza agivano per stabilizzare l’articolazione, diventano una forza deformante, poiché la loro trazione è laterale rispetto all’asse longitudinale della metatarso-falangea: ● il tendine dell’estensore lungo e del flessore lungo dell’alluce sono trascinati lateralmente con

136 Ortopedia

Figura 9.18   Anatomia delle strutture che circondano la prima articolazione metatarso-falangea: abduttore dell’alluce (AbA), flessore breve dell’alluce (FBA), adduttore dell’alluce (AdA), estensore lungo dell’alluce (ELA), estensore breve dell’alluce (EBA), capsula laterale (CL), legamento trasverso (LT), sesamoide laterale (SL), flessore lungo dell’alluce (FLA), sesamoide mediale (SM). (Modificata da: Robinson, J.B.J.S. (Br) 87:1038-45, 2005).



la falange e, agendo come la corda di un arco, divengono abduttori accentuando la deviazione; anche l’abduttore dell’alluce e il capo laterale del flessore breve dell’alluce contribuiscono, con la loro trazione, a questo meccanismo e con il tempo si contraggono.

L’assottigliamento delle parti molli sul versante mediale si associa alla deviazione consensuale della testa del primo metatarso: in questo modo il sesamoide mediale viene a trovarsi sotto la cresta erosa del metatarso e il sesamoide laterale viene ad articolarsi con la parte laterale della testa nel primo spazio intermetatarsale (Figura 9.19). Quando la glena sesamoidea scivola al di sotto della testa metatarsale, l’alluce tende a pronare ruotando la faccia plantare verso l’esterno e l’unghia verso l’interno. Con la progressione della deformità, la deviazione mediale della testa del primo metatarso diviene sintoma-

tica a causa della pressione contro la scarpa, e la comparsa di una borsa inspessita o infiammata (borsite) può aggravare il quadro clinico. In rari casi, solitamente in pazienti anziani, la cute sovrastante l’eminenza mediale può ulcerarsi, con formazione di una fistola secernente. L’avampiede assume un aspetto “spianato” con la testa del primo metatarso deviata medialmente e quella del quinto metatarso, meno stabile dei metatarsi intermedi, deviata lateralmente. Ne deriva una progressiva riduzione della pressione plantare operata dal primo raggio che diviene insufficiente e sovraccarica i raggi minori a partire dal secondo. Mentre l’alluce devia in valgo, il secondo dito è sottoposto a una pressione crescente: se la seconda metatarso-falangea rimane stabile l’alluce può portarvisi al di sotto o, occasionalmente, al di sopra, mentre se si destabilizza può sublussarsi progressivamente fino a lussarsi del tutto.

9 - Artropatie 137

Quadro clinico I pazienti presentano frequentemente difficoltà e restrizioni nell’utilizzo delle calzature, dolore e spesso ipercheratosi o borsite in corrispondenza dell’eminenza mediale della testa del primo metatarso, ipercheratosi intrattabile e sintomatica al di sotto della seconda e/o della terza testa metatarsale, secondaria al sovraccarico funzionale delle stesse. Il dolore può anche essere riferito al territorio di innervazione del nervo cutaneo dorsale causato dalla sua compressione. Frequenti possono essere le deformità delle dita, a partire dal secondo (deformità a martello), conseguenti all’insufficienza del primo raggio, con formazione di callosità dolenti dorsali a livello delle articolazioni interfalangee. L’esame obiettivo prevede l’osservazione del paziente in stazione eretta e durante la deambulazione, e la valutazione dell’avampiede e del retropiede, per la valutazione di un’eccessiva pronazione del retropiede stesso. Si quantifica l’escursione articolare della prima metatarso-falangea che viene palpata per evidenziare un’eventuale sinovite e il dolore. Si valutano, sulla superfice plantare del piede, eventuali callosità al di sotto delle teste metatarsali (lesioni da trasferimento del carico).

Diagnostica per immagini Uno studio radiografico del piede, eseguito con il paziente sotto carico nelle proiezioni antero-posteriore, laterale e obliqua, è sufficiente per valutare la deformità e pianificare il trattamento chirurgico. Le misurazioni che di regola vengono effettuate includono l’angolo di valgismo dell’alluce, l’angolo inter-metatarsale e l’angolo articolare metatarsale distale (Figura 9.20).

Terapia

Figura 9.19  Disegni che illustrano la sublussazione progressiva dei sesamoidi nell’alluce valgo. (Modificata da: Coughlin, J.B.J.S. (Am) 78:932-966, 1995).

Il trattamento conservativo prevede l’utilizzo di scarpe comode per evitare la pressione sulla sporgenza mediale della testa metatarsale. Per quanto riguarda l’uso di ortesi, non vi è nessuna evidenza che possano prevenire la progressione della deformità. In caso di eccessiva pronazione del retropiede può essere indicata un’ortesi plantare per ridurre tale atteggiamento.

138 Ortopedia

L’indicazione alla chirurgia – in letteratura sono descritti oltre 130 diversi interventi – è rappresentata dal dolore non controllato dalle misure conservative. La correzione della deformità dell’avampiede avviene attraverso una delle seguenti procedure in base alla severità del quadro anatomo-clinico o una combinazione delle stesse: ● Resezione dell’osteofita mediale della testa metatarsale. ● Riduzione dell’angolo intermetatarsale mediante: – osteotomia distale di spostamento del primo metatarso; – osteotomia prossimale (basale) del primo metatarso; – osteotomia longitudinale a Z della diafisi metatarsale. ● Intervento sulle parti molli distali: – release delle strutture laterali retratte (abduttore dell’alluce, capsula articolare laterale, legamento metatarsale trasverso) e riposizionamento dei sesamoidi; – plastica a cappotto della capsula mediale.

Figura 9.20   Valutazione radiografica dell’alluce valgo: AVA = angolo di valgismo dell’alluce, formato dagli assi diafisari del primo metatarso e della falange prossimale (valori normali ) (b).

dei legamenti gialli. Con questo esame è possibile non solo documentare la presenza dell’ernia nella quasi totalità dei casi, ma anche differenziarla dalla semplice protrusione discale e definirne livello, sede (mediana, postero-laterale ecc.), dimensioni e morfologia con sufficiente precisione (Figura 10.15). La RM appare tuttavia un esame più completo per alcuni ulteriori vantaggi: possibilità di fornire un’ampia visione panoramica del tratto lombare nelle scansioni sagittali; migliore definizione delle alterazioni degenerative dei dischi; studio più accurato dei tessuti molli; innocuità per l’assenza di esposizione a radiazioni ionizzanti (Figura 10.16). Figura 10.16   Studio RM di ernia del disco L5-S1 ( ) in un paziente di 32 anni. Scansioni sul piano sagittale. Le immagini in T2 consentono di apprezzare un segnale iperintenso nei dischi sovrastanti (L1-L5) a quello erniato, indice di una normale idratazione degli stessi; la riduzione progressiva del segnale (black disk) è il segno della disidratazione e quindi della degenerazione del disco, che si accompagna a una progressiva riduzione della sua altezza (a). Scansioni assiali a livello L5-S1: la voluminosa ernia (>) è localizzata in sede paramediana destra e appare molto sporgente rispetto al muro posteriore del soma di L5 (linea tratteggiata), andando a comprimere la radice omolaterale (b).

10 - Ernia del disco cervicale e lombare 157

Il limite sia della TC sia della RM nella valutazione delle compressioni radicolari è dato dal fatto di essere entrambe eseguite a paziente supino, fuori carico. Nei rarissimi casi in cui si voglia ottenere uno studio in condizioni funzionali simili a quelle reali, si può ricorrere alla saccoradicolografia (esame ormai in disuso) con paziente in ortostatismo. L’esecuzione dell’elettromiografia è giustificata per confermare la sofferenza radicolare in casi dubbi (per esempio in pazienti diabetici con sospetta neuropatia periferica) o definire la funzionalità residua della radice in fase deficitaria, dato importante ai fini prognostici. Diagnosi differenziale

Numerosi processi morbosi possono causare l’insorgenza di quadri clinici con caratteristiche simili a quelli descritti per l’ernia del disco lombare. È importante conoscere le malattie nelle quali la sintomatologia dolorosa simula una lombo-crurosciatalgia di origine discale, al fine di indirizzare gli accertamenti strumentali nella giusta direzione. Le principali patologie che pongono problemi di diagnosi differenziale con l’ernia discale includono: ● tumori vertebrali ossei primitivi o metastatici; ● tumori del tessuto nervoso intradurali e peridurali; ● neoformazioni endocanalari non neoplastiche (cisti radicolari); ● malattie infettive (spondilodiscite, meningite); ● processi espansivi retroperitoneali (tumori di pancreas e rene); ● neuropatie periferiche (sindrome del piriforme, meralgia parestesica, sindrome del tunnel tarsale); ● coxartrosi, borsite trocanterica, tendinopatia inserzionale del medio gluteo; ● nefrolitiasi; claudicatio intermittens. Terapia

L’approccio terapeutico dell’ernia del disco lombare ricalca le linee guida già descritte per il rachide cervicale: il quadro clinico è il parametro di valutazione principale nella scelta del trattamento. Le sindromi radicolari in fase di esordio acuto doloroso vengono trattate con misure conservative: regime di riposo (senza allettamento), terapia farmacologica con cortisonici, miorilassanti e analgesici. L’indica-

zione all’uso di un busto semirigido per la tutela del rachide lombare è rara, anche perché spesso mal tollerato dai pazienti. L’esito di questo regime terapeutico deve essere valutato con controlli clinici ripetuti nell’arco di qualche settimana, al fine di evitare la comparsa di deficit neurologici in presenza di ernie particolarmente voluminose dimostrate da TC o RM. La mancata risposta al trattamento conservativo (con persistenza di sintomi irritativi per più di 2-3 mesi) e/o l’evolutività del quadro neurologico rappresentano indicazioni al trattamento chirurgico, che consiste nell’asportazione dell’ernia e del materiale nucleare residuo. L’intervento può essere praticato con modalità diverse: ● discectomia aperta: intervento classico in cui il canale vertebrale è esposto per via posteriore, dopo emiflavectomia (asportazione del legamento giallo) ed emilaminectomia estesa per quanto necessario a visualizzare la radice; ● microdiscectomia aperta: la procedura è eseguita con l’ausilio di sistemi di ingrandimento (fino al microscopio) per limitare la dissezione muscolare e ridurre il dolore postoperatorio; ● discectomia percutanea: consiste nell’asportazione dell’ernia attraverso uno strumento-cannula che frammenta e aspira, sotto controllo radioscopico, il materiale discale erniato. L’esperienza con questa procedura, pur con il vantaggio della mininvasività, non ha mostrato negli anni i risultati sperati. L’asportazione del disco può comportare l’insorgenza di una condizione di instabilità del segmento trattato, con comparsa di lombalgie croniche di difficile risoluzione (failed-back syndrome). Per questo motivo è sempre indispensabile eseguire uno studio preoperatorio clinico e strumentale accurato, al fine di valutare l’opportunità di ricorrere a interventi di stabilizzazione contestualmente alla discectomia. Altre complicanze della terapia chirurgica includono la recidiva dell’ernia (per incompleta asportazione del materiale nucleare), la formazione di aderenze cicatriziali periradicolari, le lacerazioni della dura madre, il danno iatrogeno delle radici nervose, la spondilodiscite e le lesioni vascolari (vena cava inferiore, aorta addominale, vena e arteria iliaca comune).

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capitolo

Patologia miotendinea

11

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Federico A. Grassi

I tendini sono le strutture anatomiche che collegano i muscoli ai segmenti scheletrici. La loro funzione è quella di trasmettere l’energia cinetica prodotta dalla contrazione muscolare in modo da produrre il movimento. In base alla forma, si distinguono tendini lunghi (nastriformi, cilindrici), brevi e piatti. Il tessuto tendineo è costituito da una componente cellulare di natura fibroblastica (tenociti) e dalla matrice intercellulare, in cui sono presenti fibre collagene ed elastiche, proteoglicani e setti connettivali con scarsi vasi sanguigni e terminazioni nervose. Alcune strutture accessorie facilitano lo scorrimento dei tendini rispetto ai piani tissutali adiacenti: guaine peritendinee, guaine sinoviali, puleggie di riflessione. In base al quadro anatomo-patologico, le lesioni tendinee possono essere distinte in tendinopatie inserzionali, peritendiniti, tendinosi, tenosinoviti e rotture sottocutanee. In alcuni casi le alterazioni a carico dei tendini assumono caratteristiche peculiari, dal punto di vista sia morfologico sia clinico, e il quadro morboso non è riconducibile a una delle categorie sopracitate (per esempio, nelle tendinopatie della spalla). La trattazione seguirà prevalentemente un criterio topografico, riferendosi alla sede anatomica interessata da queste patologie; le tenosinoviti della mano sono trattate nel Capitolo 12.

Spalla La funzionalità della spalla dipende dall’azione coordinata di diversi gruppi miotendinei (Box 11.1), la cui integrità anatomica può essere compromessa, oltre che

dall’invecchiamento, da diverse condizioni patologiche. In passato, il termine periartrite è stato utilizzato per includere la quasi totalità della patologia miotendinea a carico della spalla. Tale dizione non appare più accettabile, in virtù della definizione di quadri morbosi

Box 11.1

Muscoli e tendini della spalla

Il deltoide è il principale muscolo motore dell’articolazione gleno-omerale e garantisce la forza nell’elevazione del braccio. La sua efficienza dipende dalla presenza di una struttura miotendinea, denominata cuffia dei rotatori, che avvolge la testa omerale e la mantiene centrata sulla glena scapolare durante il movimento. In tal modo viene fornito un fulcro valido per l’azione del deltoide, altrimenti destinato a perdere gran parte della sua funzionalità. La cuffia dei rotatori è costituita da quattro tendini: ● sottoscapolare, anteriormente (con funzione di rotatore interno); ● sopraspinoso, superiormente (con funzione di abduttore); ● sottospinoso e piccolo rotondo, posteriormente (con funzione di rotatori esterni). Pur essendo una struttura anatomica distinta, il tendine del capo lungo del bicipite brachiale (CLB) contrae stretti rapporti con la cuffia dei rotatori ed è coinvolto in diversi quadri patologici interessanti questa struttura. Nella biomeccanica della spalla, grande importanza hanno anche i muscoli stabilizzatori della scapola, i più importanti dei quali sono il trapezio e il grande dentato. Essi consentono la sincronizzazione del movimento della scapola con l’omero (ritmo scapolo-omerale) nell’elevazione del braccio, fornendo nello stesso tempo stabilità all’intero cingolo scapolare.

160 Ortopedia

con caratteristiche anatomo-cliniche ben definite. Sebbene la terminologia sia divenuta più complessa, essa consente un migliore approccio terapeutico nei confronti di malattie a evolutività e prognosi differenti.

Sindrome da conflitto subacromiale Con il termine di sindrome da conflitto subacromiale (SCS) non si identifica una precisa condizione morbosa della spalla, ma una varietà di disturbi, per lo più dolorosi, caratterizzati da manifestazioni infiammatoriodegenerative a carico dei tessuti molli subacromiali (cuffia dei rotatori, borsa subacromiale, tendine CLB), a eziopatogenesi ed evoluzione variabili. La progressione delle alterazioni anatomo-patologiche causate dalla SCS può portare, come esito finale, alla rottura della cuffia dei rotatori. Il concetto di conflitto (l’impingement degli autori di lingua anglosassone) subacromiale è stato divulgato da Charles Neer all’inizio degli anni Settanta per indicare un attrito patologico fra i tessuti molli subacromiali e la superficie inferiore dell’acromion e del legamento coraco-acromiale. Eziopatogenesi

Si possono identificare tre categorie principali di fattori eziopatogenetici della SCS : ● tendinopatie primitive della cuffia dei rotatori; ● alterazioni strutturali dello spazio subacromiale; ● fattori funzionali. Nelle tendinopatie primitive della cuffia, la sofferenza di uno o più tendini che la costituiscono porta a un’insufficiente depressione della testa omerale, con conseguente risalita della stessa, riduzione dello spazio subacromiale e creazione di attrito sui tessuti molli. Le alterazioni strutturali dello spazio subacromiale possono produrre una riduzione dello spazio di scorrimento dei tessuti molli, con conseguente danno secondario a carico della borsa subacromiale e/o dei tendini della cuffia e del tendine CLB. Per capire i rapporti critici tra le diverse strutture anatomiche è necessario introdurre e descrivere il concetto di outlet (sbocco). Con questo termine si identifica lo spazio di fuoriuscita del tendine sopraspinoso dall’omonima fossa scapolare per raggiungere la sua inserzione sulla grande tuberosità (o trochite) omerale. Tale spazio è delimitato superiormente dalla porzione antero-inferiore dell’acromion, dal legamento coracoacromiale e dalla coracoide; più medialmente dal ver-

FIGURA 11.1   Visione laterale della spalla che illustra l’outlet del sopraspinoso (area grigia) e le strutture che lo delimitano.

sante inferiore dell’articolazione acromio-claveare (Figura 11.1). Nel conflitto causato da alterazioni strutturali, la morfologia dell’outlet può apparire modificata dalle seguenti condizioni: ● sperone acromiale anteriore: prominenza ossea della porzione antero-inferiore dell’acromion, per lo più dovuta a fenomeni di ossificazione del legamento coraco-acromiale (Figura 11.2); ● forma dell’acromion. Sono state descritte tre morfologie acromiali: piatto, curvo e uncinato; a quest’ultimo sono più frequentemente associate lesioni a carico della cuffia dei rotatori; ● inclinazione dell’acromion: un angolo più acuto con la spina scapolare influenza un restringimento dell’outlet e può predisporre a fenomeni di conflitto; ● prominenza inferiore dell’articolazione acromioclaveare, causata dalla sporgenza di osteofiti in caso di artrosi.

11 - Patologia miotendinea 161

Anatomia patologica

Ai fini didattici, è utile distinguere tre stadi anatomopatologici nella SCS. La progressione verso i quadri più avanzati è di regola lenta, impiegando diversi anni, ma si possono osservare forme a rapida evolutività per effetto di eventi traumatici intercorrenti. ● Stadio I: fenomeni infiammatori acuti, del tutto reversibili, prevalentemente a carico della borsa subacromiale (edema, microemorragie). ● Stadio II: flogosi cronica della borsa (fibrosi) e tendinite della cuffia e del CLB, alterazioni ancora reversibili. ● Stadio III: tendinopatia degenerativa della cuffia fino alla rottura della stessa, alterazioni osteoarticolari per progressiva migrazione superiore della testa omerale fino al quadro di “artropatia da rottura della cuffia” con grave sovvertimento della normale architettura articolare (potenzialità evolutiva peraltro rara). FIGURA 11.2   Proiezione radiografica laterale della spalla per la visualizzazione dell’outlet del sopraspinoso. Le punte di freccia (>) indicano uno sperone acromiale, ossificazione che si protende oltre i normali limiti anatomici del processo osseo favorendo fenomeni di conflitto.









Vi sono tuttavia altre alterazioni strutturali in grado di causare conflitto, anche in assenza di modificazioni dell’outlet. Tra esse si possono ricordare: la prominenza superiore del trochite omerale, per viziosa consolidazione di fratture scomposte; l’ispessimento della borsa subacromiale (per borsite cronica); l’acromion bipartito (per mancata fusione dei nuclei di ossificazione).

Tra i fattori funzionali in grado di causare conflitto subacromiale sono incluse condizioni di alterata biomeccanica articolare e di sovraccarico funzionale. Tra le prime si possono ricordare i disturbi del ritmo scapolo-omerale causati da disfunzioni muscolari (in particolare a carico del trapezio per possibili patologie cervicali concomitanti) e un’eccessiva lassità capsulolegamentosa. Il sovraccarico funzionale può verificarsi sia nelle normali attività quotidiane, per eccessivi carichi di lavoro, sia in alcune attività sportive, tipicamente quelle che richiedono gesti ripetitivi di lancio (giavellotto, pallanuoto, pallavolo, baseball ecc.). Negli atleti il conflitto può assumere caratteristiche peculiari, venendosi spesso a creare non tanto con l’acromion, quanto con la porzione postero-superiore della glena (conflitto interno).

Quadro clinico

Il quadro clinico della SCS è dominato dal dolore, un sintomo che tende a manifestarsi con maggiore intensità durante il riposo notturno o dopo uno sforzo. Viene tipicamente riferito in regione deltoidea o lungo il decorso del tendine bicipitale: questo rappresenta un importante criterio distintivo rispetto al dolore di origine cervicale, localizzato a livello della porzione superiore del trapezio o in sede interscapolare. L’articolarità può essere compromessa qualora il paziente tenda a immobilizzare la spalla per periodi prolungati in un atteggiamento, controproducente, di difesa antalgica. In assenza di rigidità, il movimento risulta doloroso in un arco compreso tra i 60° e i 120° di elevazione. Uno scroscio in sede subacromiale può accompagnare la mobilizzazione della spalla nei diversi piani dello spazio. Se la cuffia dei rotatori non presenta rotture ampie, la forza è conservata. La presenza del dolore può tuttavia rendere difficoltosa la valutazione dell’efficienza muscolare: in questo caso è possibile ricorrere all’infiltrazione dello spazio subacromiale con 5-10 cc di anestetico al fine di eliminare la componente algica che accompagna la contrazione e il movimento (impingement test). Alcune manovre provocative, eseguite dall’esaminatore, sono in grado di evocare il dolore lamentato dal paziente (Figura 11.3): ● manovra di Neer (segno di impingement I); ● manovra di Hawkins (segno di impingement II); ● manovra di Yochum (segno di impingement III).

162 Ortopedia

FIGURA 11.3   Le tre manovre per la ricerca del conflitto subacromiale. Manovra di Neer (segno di impingement I): il braccio viene elevato mantenendo la spalla in rotazione interna e la scapola depressa (a). Manovra di Hawkins (segno di impingement II): rotazione interna della spalla flessa a 90˚ (b). Manovra di Yochum (segno di impingement III): rotazione interna della spalla abdotta a 90˚ (c).

La sofferenza del tendine CLB può essere ricercata con la manovra di Speed (o palm-up test) (Figura 11.4). Nella SCS la palpazione del trochite, del legamento coraco-acromiale e della doccia bicipitale risulta dolorosa. Diagnostica per immagini

L’esame radiografico tradizionale deve sempre essere eseguito come primo accertamento strumentale, poiché consente di escludere la presenza di alterazioni morfostrutturali scheletriche o di calcificazioni patologiche in grado di simulare una SCS. Oltre ai radiogrammi standard (antero-posteriore e ascellare), due particolari

proiezioni dovrebbero essere eseguite per valutare la morfologia dell’acromion e identificare l’eventuale presenza di uno sperone acromiale anteriore: ● la proiezione per l’outlet: si esegue come una proiezione laterale della scapola inclinando il raggio di 10° in senso cranio-caudale (si veda la Figura 11.2); ● la proiezione antero-posteriore con raggio inclinato di 30° in senso cranio-caudale (Figura 11.5). Per una valutazione più approfondita dei tessuti molli, in particolare della cuffia e del tendine CLB, è indispensabile ricorrere all’ecografia e alla RM. L’ecografia è una metodica economica e non invasiva, la cui affidabilità dipende tuttavia dall’esperienza dell’operatore. La RM si sta affermando come gold standard per lo studio della patologia da conflitto, consentendo uno studio della spalla nei diversi piani dello spazio e una chiara definizione delle lesioni a carico della borsa e dei tendini. Terapia

Figura 11.4   Manovra di Speed: l’esaminatore contrasta il tentativo del paziente di elevare la spalla mentre il gomito è esteso e il palmo della mano rivolto verso l’alto. La presenza di dolore è indicativa di una sofferenza del tendine CLB.

Come principio generale, si può affermare che il ricorso alla terapia chirurgica è giustificato dalla presenza di alterazioni strutturali in grado di favorire l’evoluzione della malattia verso stadi anatomopatologici di maggiore gravità. Al contrario, un disturbo strettamente funzionale e/o la sofferenza primitiva dei tendini della cuffia si gioveranno maggiormente di misure conservative quali la terapia farmacologica, fisica o kinesiologica. Il trattamento chirurgico più comune è costituito dalla cosiddetta acromioplastica. Questo intervento prevede la resezione dello sperone acromiale e del legamento coraco-acromiale, in modo da ampliare lo spazio subacromiale e correggere la condizione di conflitto.

11 - Patologia miotendinea 163

Rotture della cuffia dei rotatori Le rotture della cuffia dei rotatori hanno un’incidenza elevata nella popolazione, con un andamento crescente con il progredire dell’età. Molto rare al di sotto dei 40 anni, interessano più della metà dei soggetti al di sopra dei 70 anni. Queste lesioni restano asintomatiche nella maggior parte dei casi, ma spesso sono dolorose e possono causare un grave deficit funzionale della spalla. Sono state formulate diverse teorie per spiegare la compromissione dell’integrità strutturale della cuffia dei rotatori e oggi si ritiene che diversi fattori favoriscano l’insorgenza e la progressione di queste rotture tendinee. Eziopatogenesi

Si possono identificare tre principali fattori eziologici: ● la degenerazione tendinea; ● l’attrito; ● i traumi.

FIGURA 11.5   Confronto tra la normale proiezione antero-posteriore della spalla (a) e la proiezione antero-posteriore con raggio inclinato di 30º in senso cranio-caudale (b). Lo sperone acromiale, evidenziato dalle punte di freccia (>), è riconoscibile solo nel secondo radiogramma: in condizioni normali, il margine anteriore dell’acromion non dovrebbe superare il prolungamento ideale del margine anteriore della clavicola (linea bianca orizzontale).

Inizialmente praticata a cielo aperto, l’acromioplastica è oggi eseguita per via artroscopica nella maggior parte dei casi. Questa tecnica, oltre a essere meno invasiva, consente di eseguire una valutazione accurata dell’articolazione gleno-omerale e dello spazio subacromiale, facilitando l’identificazione di lesioni di difficile riconoscimento e/o misconosciute nell’iter diagnostico.

I fenomeni degenerativi a carico del tessuto tendineo sono rilevabili con l’invecchiamento, giustificando l’alta prevalenza di questa patologia in età avanzata. Già nei primi decenni del Novecento un chirurgo americano, Ernest Codman, aveva ipotizzato una sofferenza su base ischemica della cuffia, in particolare nella zona d’inserzione del tendine sopraspinoso (definita come “zona critica”). La precaria vascolarizzazione, associata alle ripetute sollecitazioni in questa sede, è responsabile di un progressivo indebolimento del tendine fino al suo cedimento. Il secondo fattore eziologico è strettamente correlato alla sindrome da conflitto subacromiale: il continuo attrito prodotto sulla cuffia dalle strutture adiacenti (acromion, legamento coraco-acromiale) provoca un danno tendineo su base meccanica. Sebbene in passato sia stata data molta importanza a questo meccanismo lesivo, il suo ruolo è stato ridimensionato dall’osservazione che la massima parte delle rotture della cuffia origina sul versante articolare e non su quello subacromiale sottoposto all’attrito. Traumi di intensità diversa possono intervenire nel determinare rotture della cuffia. L’azione lesiva è tuttavia influenzata dalle condizioni pregresse dei tendini: la comparsa o l’aggravamento di una lesione sarà tanto più probabile quanto più l’integrità strutturale del tendine è compromessa da fenomeni degenerativi. Classificazione

Pur potendosi distinguere in base all’eziologia (degenerative, traumatiche) o all’epoca di comparsa (acute, croniche), le rotture della cuffia sono più spesso classificate

164 Ortopedia

seguendo criteri anatomici. Si possono innanzitutto riconoscere lesioni parziali o complete, a seconda del loro spessore. Le rotture parziali, in cui non si osserva una discontinuità del tendine a tutto spessore, sono a loro volta distinte in articolari, bursali e intratendinee, in base alla sede in cui è presente l’interruzione delle fibre tendinee (Figura 11.6). Un’ulteriore distinzione in tre gradi riguarda la profondità della lesione (Tabella 11.1). Le rotture complete, a tutto spessore, possono essere piccole, medie, ampie o massive in relazione alla loro estensione. Vi sono due possibili criteri classificativi: il diametro della lesione e il numero di tendini interessati (Tabella 11.2). La misurazione del diametro ha il limite della variabilità dimensionale dei pazienti, per i quali una stessa lunghezza può avere valenza diversa

FIGURA 11.6

Tabella 11.1

cuffia.

 Classificazione delle rotture parziali della

Sede

Profondità della lesione

Articolari Bursali Intratendinee

Grado I  6 mm o > 50%

(si pensi a un soggetto molto alto in contrasto con uno minuto). D’altro canto, il numero di tendini interessati è talvolta un criterio troppo approssimativo per valutare l’estensione di una rottura in più direzioni. Infine, una lesione evoluta verso uno stadio di gravità tale da non permetterne la riparazione chirurgica è definita irreparabile.

  I tre tipi di rottura parziale della cuffia dei rotatori: subacromiale (a); intratendinea (b); articolare (c).

11 - Patologia miotendinea 165

Tabella 11.2

cuffia.

 Classificazione delle rotture complete della

Tipo di rottura

Diametro

Tendini interessati

Piccola Media Ampia Massiva

< 1 cm 1-3 cm 3-5 cm > 5 cm

2

Anatomia patologica

Una volta interrotta, la cuffia dei rotatori tende a non riparare in modo spontaneo e la rottura può mostrare un progressivo ampliamento sia nell’ambito di uno stesso tendine sia verso altre componenti. L’estensione della lesione tendinea non è prevedibile: forme a rapida evoluzione si contrappongono a quadri stazionari per molti anni. L’interruzione delle fibre tendinee inizia in sede inserzionale (il cosiddetto footprint) e il tendine sopraspinoso è quello più frequentemente interessato. In ordine di frequenza sono poi coinvolti il tendine sottospinoso, in caso di estensione posteriore della rottura, e/o il tendine sottoscapolare, a seguito di sviluppo anteriore. La tendenza alla retrazione delle unità miotendinee della cuffia e il pattern di interruzione del tessuto tendineo danno luogo a configurazioni diverse delle rotture, paragonabili alla forma delle lettere U, V e L. La compromissione dell’ancoraggio tendineo all’osso si ripercuote sulla condizione del muscolo corrispettivo, che va gradualmente incontro a fenomeni di involuzione adiposa con compromissione irreversibile della sua elasticità e attività contrattile (Figura 11.7). Tale aspetto deve essere valutato con attenzione nell’approccio terapeutico delle rotture della cuffia, poiché questa eventualità rende illusoria ogni aspettativa di recupero funzionale a seguito di riparazione chirurgica. Nelle rotture massive della cuffia si osserva una progressiva migrazione verso l’alto della testa omerale, che si porta verso la superficie inferiore dell’acromion non essendo più trattenuta dai tendini nella sua sede naturale (Figura 11.8). In questa fase si possono instaurare alterazioni degenerative articolari e anche fenomeni distruttivi a carico del tessuto osseo gleno-omerale: tale quadro configura la cosiddetta artropatia da rottura della cuffia. Quadro clinico

L’ampio spettro dei quadri morfologici si ripercuote sulle manifestazioni cliniche, anch’esse assai variabili: forme pressoché asintomatiche si affiancano a quadri di grave compromissione funzionale della spalla.

FIGURA 11.7   Quadro RM (scansione sul piano coronale) che mostra la degenerazione adiposa del muscolo sopraspinoso ( ; ) a seguito di rottura completa inveterata del tendine corrispettivo. Si noti il contrasto di segnale rispetto al normale tessuto muscolare del deltoide (*) e sottoscapolare (#).

All’ispezione, nelle rotture tendinee di vecchia data, si può rilevare l’ipotrofia muscolare a livello della fossa sopra- e sottospinosa. I pazienti possono riferire episodi traumatici più o meno recenti, talvolta banali, che hanno causato un aggravamento di disturbi precedenti. I sintomi principali sono il dolore e la perdita di forza. La sintomatologia dolorosa non è costante ed è del tutto analoga a quella riscontrabile nella sindrome da conflitto subacromiale; l’esame clinico include le stesse manovre della patologia da attrito.

FigURA 11.8  Radiografia della spalla destra in presenza di lesione massiva inveterata della cuffia dei rotatori: la testa omerale appare risalita e si trova a contatto con la superficie inferiore dell’acromion. La forma dell’epifisi appare alterata, non essendo più riconoscibile il profilo delle tuberosità: questo aspetto è detto femoralizzazione.

166 Ortopedia

I segni più caratteristici sono relativi al deficit di forza, conseguente alla compromissione delle diverse unità miotendinee. Un’ipostenia in abduzione (preferibilmente saggiata con la spalla in rotazione interna a gomito esteso, il cosiddetto test per il sopraspinoso) è associata alla rottura del tendine sopraspinoso: in questo caso il paziente tende a compensare il movimento di allontanamento del braccio dal tronco con l’elevazione della scapola (compenso scapolo-toracico). La debolezza in rotazione esterna indica un coinvolgimento del tendine sottospinoso ed è di regola espressione di lesioni ampie della cuffia dei rotatori. Un deficit di forza in rotazione interna è invece eccezionale, poiché l’azione del sottoscapolare può essere vicariata dai muscoli adduttori (grande pettorale, grande dorsale, grande rotondo). Le lesioni di questo tendine devono

essere ricercate con due manovre specifiche: il belly press test (o test di Napoleone) e il lift-off test (Figura 11.9). Con l’estendersi della lesione, la compromissione della funzionalità articolare tende ad aggravarsi in modo progressivo. Si può così osservare il segno del suonatore di corno, espressione dell’incapacità di extraruotare la spalla in elevazione, con impossibilità di eseguire comuni attività quotidiane come per esempio pettinarsi. Ai gradi estremi si giunge al quadro di spalla pseudoparalitica, in cui il deltoide, pur contraendosi, non riesce più a mobilizzare l’articolazione gleno-omerale a causa della perdita di un fulcro valido per la propria azione: in questa condizione il movimento della spalla è del tutto dipendente dall’azione dell’articolazione scapolo-toracica (Figura 11.10). Diagnostica per immagini

In caso di rottura di piccole dimensioni, l’esame radiografico non mostra alterazioni scheletriche significative. Lesioni tendinee di maggiori dimensioni si associano invece a un progressivo restringimento dello spazio subacromiale, per migrazione superiore della testa omerale, e ad alterazioni distrofiche del trochite. Nei casi più gravi, l’epifisi omerale entra in contatto con la superficie inferiore dell’acromion, dando origine a un nuovo piano di scorrimento (acromion-omerale)

FigURA 11.9   Manovre per ricercare lesioni del tendine sottoscapolare. Belly press test (o test di Napoleone): al paziente viene chiesto di esercitare con la mano una pressione sull’addome ( ) mantenendo il gomito protratto in avanti ( ); l’incapacità di assumere questa posizione o mantenerla contro resistenza è indicativa di lesione del sottoscapolare (a). Lift-off test: il paziente deve riuscire a produrre una spinta posteriore con la mano ( ), messa a contatto del rachide lombare; il deficit di questa azione si associa spesso alla rottura tendinea (b).

FigURA 11.10

  Spalla pseudoparalitica: impossibilità ad allontanare la spalla dal tronco, per perdita del fulcro gleno-omerale, in presenza di rottura massiva della cuffia. Il muscolo deltoide, pur mantenendo l’attività contrattile, non produce alcun movimento del braccio. L’elevazione residua dipende esclusivamente dall’azione della scapolo-toracica.

11 - Patologia miotendinea 167

(si veda la Figura 11.8): questo segno radiografico è patognomonico di rottura massiva della cuffia. L’ecografia può essere utile per identificare le lesioni tendinee, ma la migliore definizione morfologica delle stesse si ottiene con la RM. Oltre a caratterizzare le rotture della cuffia in termini di sede ed estensione, la RM consente un’accurata valutazione dei ventri muscolari (per ricercare concomitanti fenomeni di involuzione adiposa) e delle strutture scheletriche nei diversi piani (evidenza di sperone acromiale, artrosi acromio-claveare ecc.) (Figura 11.11). La sensibilità e la specificità della RM nelle rotture di piccole dimensioni possono essere aumentate dall’iniezione intrarticolare di un mezzo di contrasto liquido (artro-RM). In presenza di importanti ipotrofie muscolari, l’elettromiografia consente la diagnosi differenziale con patologie primitive neurologiche, prime fra tutte la sofferenza del nervo soprascapolare all’incisura della scapola (con interessamento contemporaneo di soprae sottospinoso) o all’incisura spino-glenoidea (con ipotrofia esclusiva del sottospinoso). Terapia

L’approccio terapeutico è fortemente influenzato dalla fase evolutiva della malattia e dall’età del paziente. Le rotture parziali e quelle massive inveterate, nonché le rotture tendinee in soggetti di età avanzata (>70 anni) si avvarranno di misure conservative, quali la terapia medica antinfiammatoria e la fisiokinesiterapia. Lo scopo del trattamento è quello di risolvere la sintomatologia dolorosa, recuperando una funzionalità articolare adeguata alle singole esigenze. La terapia infiltrativa con cortisone, una volta diffusamente praticata, ha il solo scopo di controllare i fenomeni infiammatori associati e deve essere evitato il suo abuso. Nei soggetti giovani e attivi, è più indicato il ricorso alla terapia chirurgica, soprattutto per prevenire l’estensione della lesione nel tempo. Le procedure praticate sono volte alla riparazione della rottura tendinea con interventi a cielo aperto o, come oggi avviene sempre più di frequente, per via artroscopica. I tendini interrotti devono essere saldamente reinseriti all’osso, evitando un’eccessiva trazione sugli stessi per scongiurare il rischio di rigidità postoperatorie dolorose. La presenza di un’estesa infiltrazione adiposa muscolare rende inutile il tentativo di riparazione chirurgica a causa dell’irreversibilità del danno anatomo-funzionale. In presenza di una spalla pseudoparalitica, il recupero dell’elevazione attiva può essere ottenuto con l’impianto di una protesi articolare inversa, così denominata perché costituita da una superficie articolare sferica a livello della

Figura 11.11   Immagini RM di lesioni della cuffia di differente gravità. Rottura ampia con retrazione del lembo tendineo del sopraspinoso al di sopra della porzione mediale della testa omerale ( ) (a). Rottura massiva con retrazione del lembo tendineo in sede sopraglenoidea ( ). La risalita della testa omerale ha causato l’erosione della capsula inferiore acromio-claveare, consentendo il passaggio di liquido sinoviale in questa sede e la formazione di una voluminosa formazione cistica superficiale (*). Tale reperto è denominato segno del geyser (b).

scapola e concava in sede omerale (Figura 11.12). Tale protesi consente di creare condizioni biomeccaniche favorevoli per la ripresa funzionale del deltoide, ma il suo impiego dovrebbe essere limitato ai pazienti anziani, per il rischio di fenomeni di usura dopo pochi anni e l’assenza di valide alternative terapeutiche in caso di fallimento.

168 Ortopedia

Figura 11.12  Radiografia del paziente con spalla pseudoparalitica presentato nella Figura 11.10. Si nota la presenza di una vite-ancora, impiantata in occasione di un tentativo infruttuoso di riparazione della cuffia. Il quadro radiografico è indicativo di una rottura massiva irreparabile (a). Quadro postoperatorio dopo impianto di artroprotesi inversa della spalla (b). Recupero dell’elevazione attiva con la protesi inversa. Il deltoide ha recuperato la sua azione motrice e il movimento non appare più dipendente dalla sola articolazione scapolo-toracica (si confronti con la Figura 11.10) (c).

Tendinopatie del capo lungo del bicipite Come già accennato nei precedenti paragrafi, il tendine CLB è spesso coinvolto nei processi patologici a carico della cuffia dei rotatori, in considerazione della stretta vicinanza anatomica fra queste strutture. Vi sono tuttavia alcune tendinopatie del CLB che possono manifestarsi in modo isolato. La peculiarità anatomica di questo tendine risiede nel decorso intrarticolare della sua porzione superiore, compresa tra la doccia bicipitale e il polo superiore della glena, dove si inserisce contraendo stretti rapporti con il cercine. Il CLB occupa, assieme al legamento coraco-omerale, lo spazio compreso fra i tendini sottoscapolare e sopraspinoso, definito intervallo dei rotatori. A livello della doccia bicipitale, esso è rivestito da un’estroflessione della membrana sinoviale glenoomerale: in questo modo il tendine viene mantenuto come una struttura extrasinoviale fino al suo ingresso in articolazione. Si possono distinguere tre gruppi principali di patologie a carico del tendine CLB, descritti di seguito. ● Tendinopatie infiammatorie (tenosinoviti). Queste forme si caratterizzano per alterazioni flogistiche (versamento, iperemia e ipertrofia) a carico della guaina sinoviale che riveste il CLB. Possono presentarsi come patologia isolata, con dolorabilità





esclusiva lungo il decorso del tendine, oppure accompagnare il quadro clinico di una sindrome da conflitto subacromiale o di una rottura della cuffia dei rotatori. L’evolutività di queste tendinopatie è variabile: accanto a forme transitorie, del tutto reversibili a seguito di una semplice terapia antinfiammatoria, si possono osservare forme evolventi verso la cronicizzazione e la degenerazione secondaria del tendine (tendinosi). Instabilità. Lo spettro dell’instabilità del tendine CLB varia da un’eccessiva mobilità all’interno della doccia bicipitale fino alla sua completa fuoriuscita (lussazione). La predisposizione a tali patologie deriva dall’angolazione di 30-40° che il tendine assume nel suo decorso dalla spalla verso il braccio, con una tendenza alla dislocazione mediale nei movimenti di rotazione esterna. La rottura delle strutture che mantengono in sede il tendine, evento comune nella patologia della cuffia dei rotatori, conduce all’instabilità. Clinicamente si può apprezzare una sensazione palpatoria di scatto in alcuni movimenti della spalla e la dislocazione del tendine è evidenziata dall’ecografia o dalla RM (Figura 11.13). La lussazione mediale del CLB deve sempre far sospettare una rottura del tendine sottoscapolare. Lesioni traumatiche. Questo gruppo di patologie include le rotture sottocutanee e le lesioni SLAP (Superior Labrum Anterior Posterior).

11 - Patologia miotendinea 169

Figura 11.13

  Scansione assiale di RM che mostra la sublussazione del tendine CLB ( ) rispetto alla doccia intertuberositaria ( ), dove è normalmente contenuto.









Le rotture sottocutanee del CLB solo in casi eccezionali sono di natura puramente traumatica, essendo di regola correlate ad alterazioni degenerative preesistenti del tendine. Il più delle volte, infatti, il trauma è di minore entità (per esempio, uno sforzo in fase di sollevamento), l’anamnesi rivela una storia pregressa di dolore ricorrente alla spalla e le indagini clinico-strumentali dimostrano una concomitante tendinopatia della cuffia. Il segno più caratteristico di questa lesione è la comparsa di una tumefazione anteriore nella parte distale del braccio, causata dalla retrazione distale del ventre muscolare (Figura 11.14). La rottura sottocutanea del CLB comporta disturbi funzionali di minima entità e solo in pochi casi si ricorre alla terapia chirurgica. Le lesioni SLAP sono state riconosciute e classificate di recente, con l’avvento dell’artroscopia della spalla. Distinte in quattro tipi, includono le lesioni dell’inserzione del tendine CLB sul tubercolo sopraglenoideo, con coinvolgimento della porzione superiore del cercine a estensione anteriore e/o posteriore. Il quadro doloroso causato da questa patologia era in passato confuso con quello delle più frequenti tenosinoviti del CLB, ma oggi ha assunto una precisa connotazione anatomo-patologica. Le lesioni SLAP sono di difficile identificazione e solo con esami contrastografici (artro-TC o artroRM) possono essere riconosciute prima di un intervento per via artroscopica.

Figura 11.14  Rottura sottocutanea del tendine CLB. La deformità caratteristica è causata dalla retrazione distale del rispettivo ventre muscolare ( ), mentre il capo breve conserva il suo normale profilo ( ).

Tendinopatia calcifica della spalla La tendinopatia calcifica della spalla è una malattia a eziologia sconosciuta, caratterizzata dalla deposizione di sali di calcio nei tendini della cuffia dei rotatori. La maggiore incidenza della malattia si osserva tra i 30 e i 40 anni, con una leggera prevalenza nel sesso femminile; l’interessamento di entrambe le spalle è frequente. Quadro anatomo-clinico

Il tendine maggiormente colpito è il sopraspinoso e le calcificazioni tendono a localizzarsi in prossimità della zona di inserzione sul trochite. La storia naturale della tendinopatia calcifica può essere distinta in tre stadi: precalcifico, calcifico e postcalcifico. ● Stadio precalcifico. Questa fase, asintomatica, è caratterizzata istologicamente dalla metaplasia condrocitaria dei tenociti con un incremento nella sintesi di proteoglicani. Le cause responsabili del processo sono ignote: è stato ipotizzato un possibile ruolo dell’ipossia con modificazioni locali del pH, di microtraumi e di fattori ormonali. Gli iniziali depositi di calcio sono contenuti in vescicole all’interno dei condrociti. ● Stadio calcifico. Le microcalcificazioni tendono a unirsi dando luogo a depositi di dimensioni variabili. I depositi di calcio presentano un aspetto radiografico denso e omogeneo, con una netta definizione del loro contorno (Figura 11.15a).

170 Ortopedia













Il quadro clinico può essere del tutto silente oppure simulare una sindrome da conflitto subacromiale, con dolore e difficoltà da parte del paziente a eseguire movimenti in elevazione della spalla. Lo stadio calcifico ha una durata assai variabile, potendo risolversi anche dopo molti anni. La proliferazione di vasi alla periferia della calcificazione dà inizio alla fase di riassorbimento, promuovendo l’infiltrazione cellulare (macrofagi, cellule giganti mononucleate, fibroblasti) all’interno del deposito di calcio. Queste cellule mediano un processo infiammatorio che induce una progressiva disgregazione della calcificazione, edema intratendineo e passaggio del materiale calcareo dalla cuffia nella borsa subacromiale. All’esame radiografico le calcificazioni appaiono poco dense, disomogenee e nebulose, con una scarsa definizione dei loro margini (Figura 11.15b). La presenza di materiale radiopaco al di sotto del muscolo deltoide indica il passaggio dei sali di calcio nella borsa subacromiale. Nella fase di riassorbimento il dolore è intensissimo e l’impotenza funzionale della spalla pressoché completa. La sintomatologia, che può perdurare diversi giorni, deve essere controllata da una terapia analgesica adeguata, accompagnata da esercizi di mobilizzazione per prevenire una rigidità articolare secondaria. Stadio post-calcifico. La progressiva invasione di fibroblasti all’interno della cavità, creatasi con il riassorbimento della calcificazione, porta a una progressiva ricostituzione del tessuto tendineo. Il tendine recupera una struttura pressoché normale e non vi è alcuna evidenza che esso sia predisposto a successive rotture su base degenerativa. Una volta superata la fase di riassorbimento, la sintomatologia tende a regredire con il tempo.

Diagnostica per immagini

Nella tendinopatia calcifica, l’unico esame strumentale necessario è quello radiografico che consente di identificare le calcificazioni e definire il loro stadio evolutivo. Spesso un esame radiografico eseguito per altri motivi (per esempio una radiografia al torace) mette in evidenza una tendinopatia calcifica del tutto asintomatica. I radiogrammi della spalla devono essere eseguiti nelle seguenti proiezioni: ● antero-posteriore in rotazione esterna e interna, al fine di identificare calcificazioni nei tendini sopra- e sottospinoso;

Figura 11.15  Tendinopatia calcifica della spalla. (a) In fase di stato la calcificazione, localizzata nel tendine sopraspinoso, appare densa e omogenea. (b) Nella fase di riassorbimento il deposito di calcio assume un aspetto nebuloso e disomogeneo; il paziente lamenta una sintomatologia dolorosa molto intensa.



ascellare, per evidenziare depositi di calcio nel sottoscapolare.

Terapia

La terapia è per lo più conservativa (farmaci analgesici, kinesiterapia); particolare attenzione deve essere posta nella prevenzione della rigidità articolare a seguito di fasi dolorose acute (Box 11.2).

11 - Patologia miotendinea 171

Box 11.2 Capsulite adesiva Accanto alle tendinopatie, la più importante causa di dolore alla spalla è rappresentata dalla rigidità dell’articolazione scapolo-omerale, definita capsulite adesiva. Questa condizione è causata da una retrazione patologica della capsula e dei legamenti, con una limitazione dell’articolarità passiva su tutti i piani e viva dolorabilità ai tentativi di mobilizzazione forzata della spalla. In base alla patogenesi si distinguono: ● rigidità articolare primitiva o idiopatica (capsulite adesiva propriamente detta): in questa forma non è riconoscibile alcuna altra patologia responsabile della limitazione del movimento. La sua incidenza è elevata nei pazienti affetti da diabete mellito; ● rigidità articolare secondaria: l’insorgenza di questa forma è conseguente a condizioni dolorose di varia natura (SCS, tendinopatia calcifica, traumi ecc.), che inducono i pazienti ad adottare una progressiva limitazione del movimento in un atteggiamento, controproducente, di difesa antalgica. La rigidità articolare, spesso identificata con il termine di “spalla congelata” (frozen shoulder), può essere risolta con opportuni protocolli di riabilitazione.

È utile spiegare al paziente la storia naturale della malattia, sottolineando la sua prognosi favorevole. Calcificazioni voluminose, sintomatiche da lungo tempo (almeno 1 anno) e senza tendenza alla risoluzione spontanea possono richiedere l’adozione di misure terapeutiche più invasive, quali le onde d’urto (per frammentare i depositi e favorirne il riassorbimento) o l’asportazione chirurgica per via artroscopica.

Gomito La patologia tendinea del gomito è rappresentata in massima parte da tendinopatie inserzionali secondarie al sovraccarico funzionale. Alcune attività sportive predispongono all’insorgenza di tali lesioni, che tuttavia sono di comune riscontro anche nelle persone che non praticano alcuno sport. È importante ricordare che il tendine, ad accrescimento ultimato, possiede limitate capacità di adattamento agli stimoli funzionali, al contrario di quanto avviene per i muscoli. Si può pertanto creare uno squilibrio tra la muscolatura ipertrofica e i tendini, che vengono sottoposti a carichi di lavoro potenzialmente lesivi.

Epicondilite Definita anche “gomito del tennista”, per l’elevata incidenza in questo sport, l’epicondilite è la più frequente tendinopatia del gomito. Si tratta di una tendinopatia dell’inserzione prossimale dei muscoli epicondiloidei (così denominati per l’origine dall’epicondilo omerale) che coinvolge: ● in primo luogo l’estensore radiale breve del carpo; ● meno frequentemente l’estensore comune delle dita e l’estensore radiale lungo del carpo; ● raramente l’estensore ulnare del carpo. L’età più caratteristica d’insorgenza è tra i 30 e i 50 anni, con un’uguale distribuzione tra maschi e femmine. Nell’eziopatogenesi dell’epicondilite, oltre al sovraccarico funzionale, possono entrare in gioco eventi traumatici e fattori costituzionali. Anatomia patologica

Macroscopicamente il tendine presenta un colorito grigiastro e appare di aspetto omogeneo (degenerazione ialina) ed edematoso, simile a tessuto cicatriziale. L’esame istologico rivela una disorganizzazione della struttura fibrillare dovuta all’invasione di fibroblasti e vasi: questo quadro configura la cosiddetta iperplasia angiofibroblastica. Fenomeni flogistici acuti possono essere presenti all’esordio della malattia, mentre in fase cronica il riscontro di infiltrati cellulari infiammatori è eccezionale. Calcificazioni possono formarsi in prossimità della giunzione osteo-tendinea, soprattutto nelle forme di origine traumatica. Quadro clinico

Il quadro clinico è dominato dal dolore, localizzato all’epicondilo omerale con tendenza a irradiarsi lungo il margine radiale dell’avambraccio. L’intensità della sintomatologia è variabile, in alcuni casi è così accentuata da impedire normali movimenti di presa con la mano o di torsione dell’avambraccio. Il dolore è evocato dalla palpazione diretta dell’epicondilo e dai movimenti in estensione del polso contro resistenza. L’esame radiografico deve essere eseguito per escludere patologie osteo-articolari, mentre l’esecuzione dell’elettromiografia è indicata nel sospetto di una compressione del nervo interosseo posteriore all’arcata di Frohse. Un quadro clinico del tutto analogo a quello dell’epicondilite può essere prodotto da patologie

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dell’articolazione omero-radiale, in particolare da sinoviti e/o pliche sinoviali localizzate tra il condilo omerale e il capitello radiale. La diagnosi differenziale è problematica e talvolta solo i reperti intraoperatori sono dirimenti. Terapia

Il decorso dell’epicondilite è imprevedibile: a volte la sintomatologia regredisce in tempi brevi e spontaneamente, in altri casi perdura per mesi e si mostra resistente a qualsiasi trattamento. La prima misura terapeutica consiste nella correzione del sovraccarico funzionale, con l’astensione dall’attività sportiva, la modificazione delle metodiche d’allenamento, delle attrezzature (per esempio, della racchetta da tennis) o del gesto atletico. Una terapia antinfiammatoria sistemica o locale può essere utile per controllare il dolore acuto e, nelle forme ribelli, può essere indicato il completo riposo funzionale in docce gessate per periodi brevi, al fine di evitare ipotrofie muscolari e rigidità del gomito. Tutori ortopedici (bracciali, gomitiere) possono essere prescritti per limitare le sollecitazioni ai tendini epicondiloidei alla ripresa delle normali attività. La terapia fisica (ultrasuoni, laserterapia o elettroanalgesia) viene comunemente associata ad altre misure terapeutiche, così come lo stretching dei muscoli estensori radiali del carpo, da intraprendere una volta superata la fase dolorosa acuta. Un breve ciclo di infiltrazioni locali con cortisone può essere praticato una volta verificato il fallimento delle misure terapeutiche sopracitate. Le iniezioni devono essere eseguite nello spazio peritendineo, ma non in sede troppo superficiale perché possono indurre l’atrofia del tessuto sottocutaneo. Solo pochi pazienti necessitano della terapia chirurgica, che si avvale di diversi interventi. Le procedure più comunemente utilizzate prevedono l’asportazione del tessuto patologico (con eventuale disinserzione dell’aponeurosi comune degli estensori), l’ispezione dell’articolazione omero-radiale, la scarificazione dei tendini e la cruentazione, mediante decorticazione o perforazioni multiple, della superficie ossea dell’epicondilo.

senta caratteristiche epidemiologiche, patogenetiche e anatomo-patologiche analoghe a quelle dell’epicondilite, ma è meno frequente rispetto a quest’ultima. La sintomatologia è caratterizzata dalla presenza di dolore sul versante mediale del gomito con irradiazione distale alla faccia volare dell’avambraccio. La palpazione dell’epitroclea evoca dolore, così come i movimenti in pronazione dell’avambraccio e flessione del polso contro resistenza. La diagnosi differenziale deve tenere conto di alcune condizioni morbose: ● instabilità mediale del gomito, per insufficienza del legamento collaterale ulnare; in anamnesi è utile ricercare eventi traumatici con sollecitazioni in valgo del gomito o condizioni di sovraccarico negli atleti lanciatori; ● sofferenza (neuroaprassia) del nervo ulnare al gomito: parestesie dolorose intermittenti possono irradiarsi al margine ulnare della mano, soprattutto in concomitanza di attività pesanti con l’arto superiore; ● patologie intrarticolari: sinoviti, artropatie infiammatorio-degenerative in fase iniziale.

Terapia

L’approccio terapeutico ripercorre le diverse fasi descritte per l’epicondilite: iniziali misure conservative (riposo funzionale, terapia antinfiammatoria, ortopedica e fisica) possono essere seguite da due o tre infiltrazioni con cortisone fino a giungere alla terapia chirurgica nei casi più gravi. Gli interventi chirurgici prevedono l’asportazione elettiva del tessuto patologico e la cruentazione della superficie ossea, avendo cura di rispettare la continuità dell’origine comune dei flessori poiché costituisce un’importante struttura stabilizzatrice del gomito. L’incidenza di insuccessi della terapia chirurgica dell’epitrocleite è superiore a quella dell’epicondilite: tale osservazione è stata posta in relazione a una maggiore frequenza di errori diagnostici nell’inquadramento del dolore mediale al gomito.

Epitrocleite

Bacino e anca

È la tendinopatia inserzionale dei muscoli pronatoriflessori (in particolare pronatore rotondo e flessore radiale del carpo), che originano dall’epitroclea omerale. Talvolta denominata “gomito del golfista”, pre-

In questa sede si possono osservare due frequenti tendinopatie inserzionali: la pubalgia e la tendinopatia del medio gluteo.

11 - Patologia miotendinea 173

Pubalgia (Sindrome retto-adduttoria) La pubalgia è la tendinopatia dell’inserzione pubica dei muscoli adduttori e/o del retto addominale; interessa in modo pressoché esclusivo gli atleti e in particolare i calciatori. Nel calcio, infatti, sono molti i gesti atletici che possono favorirne l’insorgenza: salti, scatti, contrasti di gioco, tiri e così via. L’esordio può essere acuto, con dolore improvviso e violento nel corso di un cambio di direzione della corsa, oppure subacuto, dopo una partita o un allenamento. La lesione anatomo-patologica caratteristica è una distrazione miotendinea degli adduttori (soprattutto dell’adduttore lungo) in prossimità della sua inserzione sul pube, con possibile coinvolgimento della porzione inserzionale del retto addominale e alterazioni scheletriche secondarie a livello della sinfisi. Quadro clinico

Il dolore, sintomo caratteristico della condizione, è di intensità varia: può manifestarsi solo in concomitanza con l’attività sportiva oppure essere così intenso e costante da limitare la normale deambulazione. Si localizza in regione inguinale, con irradiazione in regione adduttoria e a livello pubico. Può essere provocato dalla palpazione locale o da alcune manovre, quali l’adduzione dell’arto esteso contro resistenza, l’abduzione passiva dell’anca e la flessione del tronco contro resistenza. Il dolore in regione pubica e inguinale riconosce anche altre cause ed è necessario escludere alcune condizioni morbose che possono simulare una pubalgia: ernie inguinali, osteoartropatie primitive delle ossa pubiche e rare sindromi nervose da intrappolamento. L’infiltrazione locale con anestetico è un utile test diagnostico per chiarire la sede di origine del dolore. Diagnostica per immagini

L’esame radiografico può mettere in evidenza irregolarità del margine inferiore del pube, con aree di sclerosi ossea o microcalcificazioni parostali. L’ecografia, la TC e la RM possono essere completamente negative, come avviene anche per le altre tendinopatie inserzionali. Terapia

La terapia della sindrome retto-adduttoria si basa sul riposo, con astensione dall’attività sportiva fino all’attenuazione del dolore. Un programma di kinesiterapia dovrà essere intrapreso precocemente con esercizi di mobilizzazione articolare, tonificazione muscolare isometrica e rieducazione posturale lombo-pelvica.

È tuttavia auspicabile prevenire l’insorgenza della malattia nei soggetti a rischio con protocolli di allenamento, ormai largamente acquisiti, nei quali trova largo spazio lo stretching dei muscoli adduttori, ischiocrurali e addominali. Il ricorso alla terapia chirurgica per la pubalgia è un’evenienza più unica che rara.

Tendinopatia del medio gluteo Il muscolo medio gluteo è il principale muscolo abduttore dell’anca e la sofferenza inserzionale del suo tendine sul grande trocantere è spesso identificata con il termine generico di trocanterite o periartrite dell’anca. Tale tendinopatia, a carattere prevalentemente degenerativo, colpisce soprattutto le donne tra i 40 e i 70 anni d’età e si caratterizza per il dolore avvertito in regione trocanterica. Il dolore è esacerbato dalla palpazione locale e tende a irradiarsi distalmente alla coscia. La funzionalità dell’anca appare normale, ma l’abduzione attiva contro resistenza e l’adduzione passiva forzata risultano dolorose. L’esame radiografico può evidenziare piccole calcificazioni sopra l’apice del trocantere, ma nella maggior parte dei casi è del tutto negativo. La diagnosi differenziale deve essere posta con le seguenti condizioni morbose: ● borsite trocanterica, in cui il dolore è più intenso sul versante laterale che non all’apice del trocantere; ● meralgia parestesica: sofferenza del nervo cutaneo laterale della coscia, con parestesie dolorose in regione antero-laterale della coscia; ● cruralgia o sciatalgia da radiculopatia lombo-sacrale. La terapia si basa sulla somministrazione di farmaci antinfiammatori, associata a cicli di terapia fisica (ultrasuoni, laser); non è raro il ricorso a infiltrazioni locali con cortisonici.

Arto inferiore Tendinopatia rotulea È la più frequente tendinopatia del ginocchio. La sofferenza del tendine rotuleo può verificarsi a livello dell’inserzione prossimale (polo inferiore della rotula) o distale (tuberosità tibiale anteriore), così come lungo il suo decorso. In quest’ultima eventualità il processo morboso può assumere le caratteristiche di peritendinite (con aderenze delle guaine peritendinee ai tessuti

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adiacenti) a cui possono associarsi alterazioni tendinosiche, quali la degenerazione ialina e microcalcificazioni. È una patologia tipica degli atleti che sottopongono l’apparato estensore del ginocchio a sollecitazioni ripetute e di forte intensità (saltatori in lungo e in alto, pallavolisti, calciatori ecc.), tanto che l’affezione è anche nota con il termine di “ginocchio del saltatore” (jumper’s knee). Quadro clinico

La sintomatologia dolorosa è riferita sul versante anteriore del ginocchio; nelle fasi iniziali il dolore compare dopo l’attività sportiva, divenendo continuo con l’aggravarsi della tendinopatia. La palpazione evoca dolore nella sede di sofferenza del tendine e può permettere di apprezzarne un ispessimento. L’estensione attiva contro resistenza e la flessione passiva forzata del ginocchio risultano dolorose. Problemi di diagnosi differenziale possono sorgere con la condromalacia rotulea e la borsite prerotulea non essudativa (senza tumefazione locale). Diagnostica per immagini

Una volta escluse alterazioni radiografiche, l’ecografia (comparativa con il tendine controlaterale) e la RM sono gli esami indicati per evidenziare alterazioni strutturali del tendine, pur potendo essere del tutto negative nelle forme inserzionali. Terapia

Il trattamento conservativo si avvale dei consueti presidi (riposo, terapie fisiche, farmaci antinfiammatori) e dell’utilizzo di tutori ortopedici che, come nel caso dell’epicondilite, hanno lo scopo di detendere l’inserzione tendinea. Il ricorso alla terapia chirurgica è raro, con interventi che prevedono l’asportazione o la scarificazione del tessuto patologico, la lisi delle aderenze ed eventuali perforazioni ossee in sede inserzionale.

Tendinopatia quadricipitale La diagnosi di tendinopatia quadricipitale è più rara rispetto a quella di tendinopatia rotulea, per la minore espressività clinica delle lesioni a questo livello. Si tratta per lo più di forme degenerative che predispongono a rotture sottocutanee del tendine, relativamente frequenti nelle persone di età medio-avanzata. I quadri sintomatici sono caratterizzati dal dolore localizzato in sede soprarotulea o al polo superiore della rotula.

Tendinopatia achillea Il tendine d’Achille, uno dei più robusti tendini del nostro organismo, è frequentemente colpito da processi morbosi con caratteristiche anatomo-patologiche diverse: peritendinite, peritendinite con tendinosi, tendinosi pura, tendinopatia inserzionale. Pur potendosi osservare a ogni età e in entrambi i sessi, la tendinopatia achillea colpisce in modo prevalente uomini di mezza età e atleti con specifico impegno funzionale del tricipite surale durante l’attività sportiva (velocisti, saltatori, calciatori ecc.). A questo proposito si ritiene che le reiterate sollecitazioni a cui è sottoposto il tendine possano provocare una riduzione dell’afflusso sanguigno, specie al terzo distale, con danno cellulare ed extracellualre su base ischemica. Quadri anatomo-clinici

Il quadro clinico è caratterizzato da dolore, variabile per insorgenza e intensità in relazione al quadro anatomopatologico, e da possibili modificazioni delle caratteristiche fisiche del tendine (forma, dimensione, consistenza). ● Peritendinite: coinvolge il peritenonio, foglietto di rivestimento del tendine, e il paratenonio, tessuto areolare adiposo situato fra il tendine e le sue guaine. Si distingue una forma acuta e una cronica. La prima si caratterizza per l’ingrossamento fusiforme del tendine, il crepitio nei movimenti di flesso-estensione della caviglia, l’arrossamento della cute e il dolore intenso. All’esame ecografico si apprezza una falda liquida ipoecogena che circonda il tendine. La forma cronica può originare da un quadro acuto oppure esordire in modo subdolo. Il processo flogistico delle guaine tende ad assumere un carattere stenosante e il dolore è intermittente: presente ai primi passi del mattino, tende a scomparire con l’attività per poi ripresentarsi dopo uno sforzo. La peritendinite può essere accompagnata da fenomeni degenerativi a carico del tessuto tendineo (peritendinite con tendinosi). ● Tendinosi: un processo degenerativo del tendine può avere luogo anche in assenza di flogosi peritendinea e si caratterizza per la presenza di aree di disorganizzazione tissutale, con alterazioni della struttura fibrillare fino all’evidenza di zone più o meno estese di necrosi mucoide e/o di calcificazioni (Figura 11.16). La sintomatologia è più sfumata rispetto alla peritendinite: il dolore può essere del tutto assente, con una possibile evoluzione verso la rottura sottocutanea senza alcun prodromo. Alla palpazione si può talvolta apprezzare l’irregolarità del profilo tendineo per la presenza di rigonfiamenti focali. L’ecografia compa-

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Figura 11.17  Radiografia in proiezione laterale del calcagno che mostra la prominenza del margine superiore della tuberosità calcaneare, denominata deformità di Haglund.

Figura 11.16   La grave tendinosi achillea di questo paziente è già evidente all’esame radiografico, nel quale si osservano estesi tratti calcificati ( ). Tale quadro è un’evenienza rara; di regola le alterazioni tendinee vengono evidenziate dall’ecografia o dalla RM.



rativa consente di valutare l’estensione e le caratteristiche della tendinosi, oltre che monitorare nel tempo l’evoluzione delle alterazioni morfologiche. Tendinopatia inserzionale: in questa evenienza il dolore si localizza al calcagno, in corrispondenza dell’inserzione tendinea, spesso solo sul versante mediale o laterale. La sintomatologia dolorosa può essere intensa, causando zoppia e limitazioni anche nelle normali attività quotidiane. Tumefazione e arrossamento locali sono presenti in caso di concomitante borsite preachillea (o retrocalcaneare): tale condizione è favorita dalla prominenza del margine superiore della tuberosità calcaneare, la cosiddetta deformità di Haglund, facilmente evidenziata con una radiografia del calcagno in proiezione laterale (Figura 11.17).

Terapia

La terapia delle tendinopatie achillee comporta nell’a­ tleta la sospensione dell’attività sportiva con iniziali terapie antinfiammatorie e fisiche (ghiaccio, ultrasuoni, laser, elettroanalgesia). Adeguati programmi di riscaldamento, incrementi graduali dei carichi di lavoro, esercizi di allungamento e modificazioni dell’equipaggiamento (calzature con rialzi del tallone oppure ortesi per ridurre la pronazione) sono misure da adottare alla ripresa degli allenamenti. L’infiltrazione con cortisone è controindicata per un possibile danno iatrogeno del tendine.

Il successo delle misure conservative è influenzato dalla durata dei sintomi: se questi perdurano per più di 3-4 mesi, il ricorso alla terapia chirurgica può rendersi necessario. L’intervento deve essere guidato dal quadro anatomo-patologico: ● escissione del peritenonio e lisi delle aderenze nelle peritendiniti; ● scarificazioni tendinee in presenza di tendinosi; ● resezione della prominenza ossea nella deformità di Haglund.

Rotture tendinee sottocutanee Le rotture tendinee sottocutanee non rappresentano un gruppo di patologie distinto rispetto alle tendinopatie in quanto sono la conseguenza più grave delle alterazioni degenerative che interessano i tendini, riducendone la resistenza meccanica. L’esigenza di una trattazione separata di questi quadri morbosi deriva dalle loro peculiarità cliniche, il cui riconoscimento tempestivo è necessario per adottare misure terapeutiche adeguate. Tutti i tendini possono andare incontro a rottura sottocutanea, ma le sedi più frequentemente interessate da questa patologia sono: ● cuffia dei rotatori e tendine CLB (trattate nel paragrafo relativo alle tendinopatie della spalla); ● tendine distale del bicipite brachiale; ● tendine quadricipitale; ● tendine rotuleo; ● tendine d’Achille.

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Tendine distale del bicipite brachiale La rottura sottocutanea del tendine distale comune del bicipite brachiale è molto più rara rispetto a quella (prossimale) del capo lungo. Si osserva soprattutto negli uomini di mezza età (40-60 anni), dediti ad attività lavorative pesanti. Il meccanismo di lesione è quasi sempre rappresentato da un movimento in flessione del gomito contro una forte resistenza. La sensazione di strappo doloroso è immediata ed è avvertita in regione antecubitale. Un deficit di forza (flessione del gomito e supinazione dell’avambraccio) è sempre presente, ma con il passare del tempo diviene meno evidente. La presenza di un ematoma sottocutaneo non è costante così come la retrazione prossimale del ventre muscolare del bicipite. La rottura si verifica tipicamente nella zona di inserzione del tendine sulla tuberosità radiale, suggerendo un processo degenerativo a questo livello, mentre il lacerto fibroso (espansione aponeurotica mediale del bicipite) tende a essere risparmiato. La terapia d’elezione è chirurgica e consiste nella reinserzione del tendine al radio. Il trattamento conservativo (riposo, tutela in tasca reggibraccio) deve essere riservato ai pazienti con scarse richieste funzionali.

Figura 11.18  RM del ginocchio (sezione sagittale) che mostra la rottura completa del tendine quadricipitale ( ) con emartro, abbassamento della rotula e detensionamento del tendine rotuleo ( ).

La rottura del tendine quadricipitale necessita di una riparazione chirurgica tempestiva, al fine di evitare la progressiva retrazione muscolare che rende più difficoltoso l’intervento ricostruttivo nelle lesioni inveterate.

Tendine quadricipitale

Tendine rotuleo

Tra le rotture sottocutanee miotendinee dell’apparato estensore del ginocchio, quella del tendine quadricipitale è la più frequente. Colpisce in modo elettivo gli uomini di età medio-avanzata; nei giovani l’assenza di tendinosi rende più comuni le rotture muscolari o le avulsioni alle giunzioni osteo-tendinee del rotuleo. La lesione può verificarsi per un trauma chiuso diretto oppure a seguito di una violenta contrazione del quadricipite a ginocchio flesso, con improvvisa incapacità a sostenere il peso del corpo sull’arto colpito. Oltre al dolore e all’ecchimosi in regione soprarotulea, l’esame fisico rivela la presenza di un solco trasversale nella sede del tendine quadricipitale e versamento (emartro) nel ginocchio. Il grado di impotenza funzionale è correlato all’estensione della lesione: il deficit di estensione attiva del ginocchio è parziale se la rottura è limitata ai tendini del retto e vasto intermedio, completo in caso di coinvolgimento delle aponeurosi del vasto mediale e laterale (Figura 11.18).

Più rara rispetto alla rottura sottocutanea del tendine quadricipitale, la rottura del tendine rotuleo interessa tipicamente i giovani e tende ad assumere le caratteristiche di avulsione osteo-tendinea prossimale (al polo inferiore della rotula) o distale (alla tuberosità tibiale anteriore). Il meccanismo di lesione è di regola una sollecitazione indiretta, cui fa seguito il grave deficit funzionale nel carico e nella deambulazione. Il segno caratteristico è rappresentato dalla risalita verso l’alto della rotula, evidente nella radiografia in proiezione laterale, per effetto della trazione esercitata dal quadricipite. Il trattamento è chirurgico.

Tendine d’Achille Le rotture sottocutanee del tendine d’Achille sono le più comuni dell’arto inferiore. Sebbene possano essere osservate in una vasta fascia della popolazione, il

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picco di incidenza si osserva fra i 30 e i 50 anni, con una netta predilezione per il sesso maschile. Le cause indirette di rottura (scatto improvviso, contrazione del tricipite surale accoppiata a dorsiflessione della caviglia in una caduta dall’alto ecc.) rappresentano il principale meccanismo di lesione e sono l’esito di una combinazione di stress meccanici con una degenerazione intratendinea. L’estensione della tendinosi al momento della rottura è variabile: un’improvvisa ed elevata richiesta funzionale può provocare una rottura in un tendine non eccessivamente degenerato. Sono stati riportati alcuni fattori predisponenti: le infiltrazioni locali con cortisone, la somministrazione di fluorochinoloni (classe di antibiotici) per periodi prolungati, l’uso di steroidi anabolizzanti, la familiarità. La sede di rottura più frequente è la porzione intermedia del tendine (circa 70% dei casi), seguita dalla porzione distale e dalla giunzione miotendinea. I lembi tendinei possono mostrare uno sfilacciamento più o meno marcato, assumendo in alcuni casi un aspetto a “criniera di cavallo” (Figura 11.19). Nel sito di rottura è presente un ematoma che tende a espandersi al di sotto del peritenonio. Quadro clinico

Il paziente, spesso coinvolto in attività sportive, riferisce una sensazione di schiocco udibile o di frustata al polpaccio, seguita dalla comparsa di dolore e difficoltà nella deambulazione. L’esame obiettivo rivela una discontinuità palpabile del tendine e un deficit di forza nella flessione plantare della caviglia, segni patognomonici della lesione. Con il passare delle ore, l’alterazione del profilo tendineo è resa meno evidente dalla

Figura 11.20   Test di Thompson: con il piede sporgente dal piano d’appoggio (a), la compressione del polpaccio ne determina la flessione plantare (b). Tale movimento non si osserva in caso di rottura completa del tendine d’Achille (test di Thompson positivo).

tumefazione dei tessuti molli per l’ecchimosi e l’edema. In questa fase può essere utile eseguire il test di Thompson (Figura 11.20). Con la rottura del tendine d’Achille, il paziente è tipicamente incapace di rimanere in punta di piedi, ma una forza residua in flessione plantare può essere presente grazie all’integrità del muscolo plantare gracile, all’azione vicariante di altri muscoli (peronei, tibiale posteriore), a possibili rotture incomplete del tendine stesso. Segni clinici fuorvianti (assenza di dolore o di evidenti discontinuità, persistenza della flessione plantare attiva) possono fare misconoscere la diagnosi in una percentuale non trascurabile di pazienti. Diagnostica per immagini

L’ecografia ha un’elevata sensibilità e specificità nell’identificare la lesione tendinea nei casi dubbi e la sua esecuzione in tempi brevi è comunque consigliata. Terapia

Figura 11.19   Fotografia intraoperatoria di rottura sottocutanea del tendine d’Achille al terzo medio: l’irregolarità strutturale e l’aspetto sfrangiato dei lembi tendinei sono espressione di alterazioni degenerative preesistenti.

La terapia chirurgica si rende necessaria per evitare una guarigione del tendine in elongazione, con conseguente perdita di efficienza del tricipite surale. Si esegue una tenorrafia termino-terminale, eventualmente associata a plastica di rinforzo con il tendine plantare gracile o con altre strutture fasciali o tendinee. Nel postoperatorio l’arto viene immobilizzato in un tutore per 1 mese, quindi viene intrapresa la rieducazione funzionale per il recupero dell’articolarità e della deambulazione. In alcuni pazienti il trattamento chirurgico può essere controindicato e si ricorre alla terapia conservativa, basata sull’immobilizzazione del piede in equinismo per favorire l’affrontamento dei capi di rottura del tendine.

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Lesioni muscolari I muscoli scheletrici sono le strutture anatomiche deputate alla produzione dell’energia cinetica necessaria per eseguire i movimenti e controllare la postura del capo, del tronco e degli arti. Questa funzione è resa possibile dalla contrattilità e dall’eccitabilità delle fibre muscolari, ovvero dalla capacità di tali cellule di modificare la propria lunghezza sotto l’azione di impulsi nervosi. Il dolore muscolare (mialgia) può essere un sintomo aspecifico di alcune malattie sistemiche, come per esempio nelle sindromi influenzali, ma può anche essere espressione di disturbi funzionali (contrattura) oppure organici a carico di uno o più muscoli. In caso di lesione traumatica, l’abbondante vascolarizzazione del muscolo provoca la fuoriuscita di una certa quantità di sangue, che può raccogliersi all’interno del ventre muscolare o mostrare una tendenza a superficializzarsi distendendo la fascia. Per limitare l’emorragia, è utile applicare una borsa di ghiaccio nelle prime 24 ore, evitando qualsiasi forma di massaggio o manipolazione. Le fibre muscolari interrotte hanno scarso potere di rigenerazione e il processo di riparazione avviene con formazione di tessuto fibroso cicatriziale, le cui proprietà contrattili ed elastiche sono inferiori a quelle del muscolo. Per effetto di stimoli osteoinduttivi in sede di lesione, si può anche assistere alla metaplasia ossea di porzioni più o meno estese di tessuto muscolare, con formazione di ossificazioni eterotopiche. Classificazione e aspetti clinici

Al contrario di quanto avviene per le lesioni tendinee, dove le alterazioni degenerative sono alla base di una riduzione della loro resistenza meccanica, le lesioni muscolari si verificano per lo più nel tessuto sano. Il meccanismo di lesione può essere diretto, dovuto a trauma esterno, o indiretto, per effetto di sollecitazioni in trazione sulle fibre muscolari, spesso in condizioni di affaticamento. Le sedi più frequentemente colpite sono il tricipite surale (gemello mediale), i muscoli ischio-crurali (bicipite femorale) e il quadricipite; più raro è l’interessamento del bicipite e del tricipite brachiale, della muscolatura addominale e di quella dorsale. Le lesioni dirette sono le più banali e frequenti, e si identificano nelle contusioni. La loro gravità è in relazione al danno anatomico prodotto, che può andare dalla

semplice infiltrazione emorragica interstiziale fino a quadri di rottura con necrosi tissutale. Anche le lesioni indirette, talvolta indicate con svariati termini (elongazione, stiramento, distrazione, strappo) sono classificate in base a un criterio anatomo-patologico in tre gradi. ● Lesione di I grado: il danno anatomico è minimo, con interruzione di poche fibre muscolari. Il dolore tende a manifestarsi dopo l’attività sportiva, è pressoché assente a riposo ed è accentuato dalla contrazione attiva e dallo stiramento passivo del muscolo. La terapia si basa sul riposo (1-2 settimane), sull’eventuale somministrazione di farmaci antinfiammatori e miorilassanti e sulla ripresa graduale dell’attività sportiva. ● Lesione di II grado: la lesione interessa un maggior numero di fibre muscolari senza un concomitante danno dello stroma connettivale di supporto. Il dolore è più acuto, insorge in concomitanza di uno sforzo muscolare e persiste anche a riposo. Il periodo di astensione dall’attività sportiva è più lungo (2-4 settimane) rispetto alle lesioni di I grado ed è richiesta una più accurata rieducazione funzionale. ● Lesione di III grado: l’elevato numero di fibre lesionate e il coinvolgimento dello stroma connettivale caratterizza una lacerazione parziale o totale del muscolo, che viene percepita alla palpazione come una discontinuità del ventre muscolare. Il dolore è violento e causa impotenza funzionale completa. L’ematoma si rende evidente in tempi diversi a seconda della profondità della lesione. La terapia si basa su un prolungato periodo di riposo (1-2 mesi); nelle fasi iniziali può rendersi necessaria l’immobilizzazione, l’astensione dal carico e l’uso di bendaggi o calze elastiche. In rari casi, per rotture complete di un muscolo, si deve ricorrere alla riparazione chirurgica. La ripresa dell’attività sportiva deve essere cauta, con programmi di allenamento che prevedano incrementi graduali dei carichi di lavoro e una cura particolare dello stretching. La diagnostica per immagini si avvale dell’ecografia e della RM, quest’ultima specificatamente indicata per lo studio delle lesioni più gravi e profonde. Alcune complicanze possono influire in modo negativo sulla prognosi funzionale: la retrazione fibrosa della cicatrice, le ossificazioni eterotopiche, le pseudocisti muscolari (per ematomi saccati non riassorbiti) e le ernie muscolari (per rotture circoscritte della fascia).

capitolo

Argomenti di chirurgia della mano

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Giorgio Pilato

Malformazioni congenite della mano

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Generalità Nello sviluppo dell’embrione, l’abbozzo dell’arto superiore compare durante la quarta settimana di vita intrauterina e la morfogenesi si può considerare compiuta alla decima settimana. I meccanismi responsabili delle malformazioni sono diversi. Il più precoce consiste nell’errore di programmazione della morfogenesi dell’arto. È determinato geneticamente e produce malformazioni bilaterali spesso associate ad altre malformazioni nell’ambito di sindromi cliniche note. Altri meccanismi consistono nell’inibizione delle fasi successive dell’embriogenesi o della morfogenesi da parte di agenti esogeni (teratogeni). Questi sono rappresentati dalle infezioni contratte nei primi mesi di gravidanza (toxoplasmosi, rosolia, influenza), dalle radiazioni ionizzanti e da alcuni farmaci (talidomide). Infine può verificarsi un danno secondario, di possibile origine vascolare, a carico di un arto normalmente sviluppato come si osserva nella sindrome delle briglie amniotiche. La frequenza delle malformazioni congenite dell’arto superiore è variabile nei diversi studi, ma oscilla tra 1 caso ogni 600-900 neonati; va però considerato che alcune anomalie, come la camptodattilia, si manifestano clinicamente dopo la nascita. Le forme più frequenti sono le sindattilie e le polidattilie.

Classificazione Vi sono molte proposte di classificazione, la più diffusa è quella di Swanson, ripresa e modificata dalla Federazione Internazionale delle Società di Chirurgia della Mano (IFSSH) nel 1985, che prevede sette gruppi (Tabella 12.1). Prima di considerare le malformazioni singolarmente è opportuno richiamare alcuni principi generali di diagnosi e trattamento. Va innanzitutto specificato che una mano malformata non potrà mai, se non nelle deformità più lievi come alcune sindattilie o polidattilie semplici, avere un aspetto del tutto normale. È essenziale informare i genitori che ciò non impedirà comunque al bambino di sviluppare al massimo le proprie possibilità funzionali

Tabella 12.1   Classificazione delle malformazioni ­congenite della IFSSH.

Gruppo I

II III IV V VI VII

Malformazione Difetto di formazione di parti (arresto di sviluppo) ● Arresto di sviluppo trasversale (amputazione congenita) ● Arresto di sviluppo longitudinale Difetto di differenziazione di parti Duplicazione Ipertrofia Ipotrofia Sindrome delle briglie amniotiche Anomalie ossee generalizzate

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riuscendo nella maggior parte dei casi a svolgere tutte le attività della vita quotidiana. La diagnosi clinica deve valutare lo sviluppo psicomotorio del bambino, escludere malformazioni di altri distretti e analizzare la funzione della prensione, considerando che all’età di 3 anni la capacità di eseguire la pinza tra il pollice e le altre dita è perfettamente sviluppata e gli schemi corticali acquisiti sono difficili da correggere. Le indagini genetiche ricercano un’eventuale eziologia e analizzano il rischio di malformazioni in caso di ulteriori gravidanze. Le radiografie oltre a consentire la diagnosi permettono di determinare l’età scheletrica dell’arto. Lo scopo dell’intervento chirurgico deve essere quello di migliorare l’estetica dell’arto e se possibile la sua funzione, senza causare disturbi della crescita. L’indicazione al trattamento chirurgico deve essere valutata in maniera individuale; per esempio la correzione di una mano torta radiale, che è in genere necessaria, in un piccolo con rigidità del gomito potrebbe impedirgli di portare la mano alla bocca e pertanto non sarà indicata. Anche la scelta dell’intervento deve tenere conto del contesto. In una malformazione unilaterale a carico della mano non dominante sarà privilegiato il problema estetico; in un caso bilaterale l’intervento deve mirare al recupero funzionale.

Difetto di formazione di parti o arresto dello sviluppo L’arresto dello sviluppo può essere di tipo trasversale o longitudinale (Tabella 12.2). La prima evenienza determina un’amputazione congenita dell’arto: può essere di gravità variabile, andando dall’assenza completa di un arto (amelia) per arresto di sviluppo alla spalla, fino alla semplice aplasia di una falange. Fra le amputazioni congenite le più comuni hanno sede a livello del terzo prossimale dell’avambraccio. Seguono quelle a livello del carpo, che interessano la filiera prossimale e consentono i movimenti di rotazione dell’avambraccio. Gli arresti di sviluppo longitudinali includono tutti i difetti di formazione in cui non esiste un’amputazione.

Il difetto può interessare tutto l’arto come nella focomelia o solo uno dei suoi versanti (si veda la Tabella 12.2). L’aplasia dei raggi radiali può interessare il radio, il pollice o entrambi. L’aplasia del radio è rara, ma circa dieci volte più frequente dell’aplasia dell’ulna; si tratta nel 90% dei casi di un’anomalia sporadica. È associata con relativa frequenza ad altre malformazioni a carico degli organi interni, sporadiche o inquadrabili in una sindrome (anemia di Fanconi, sindrome TAR, sindrome di Holt-Oram, sindrome VACTERL). Ciò rende imperativo un accurato e completo approfondimento diagnostico in tali pazienti. L’aplasia completa dell’osso è la forma più comune, seguita dall’aplasia dei suoi due terzi distali e dalla semplice ipoplasia del radio. Nelle prime due forme il polso presenta una progressiva deviazione radiale (mano torta radiale). Si tratta di malformazioni complesse che coinvolgono anche la muscolatura dell’arto superiore (bicipite, epicondiloidei) e le ossa del versante radiale del carpo (scafoide, trapezio) che sono spesso assenti. L’ulna si presenta incurvata e accorciata. L’aplasia del pollice, associata o meno all’aplasia del radio, può essere completa o parziale ed è stata classificata da Blauth in cinque stadi (Tabella 12.3). L’aplasia dei raggi ulnari è molto più rara. Interessa in grado variabile l’ulna e può associarsi all’assenza delle ossa del versante ulnare del carpo, del IV e del V dito. La forma più comune consiste nell’aplasia parziale dell’ulna con conservazione del suo terzo prossimale, che è connesso al versante ulnare del carpo da un abbozzo fibro-cartilagineo. La trazione di questo abbozzo può determinare la deviazione ulnare del polso (mano torta ulnare) associata all’incurvamento della diafisi del radio e alla lussazione del capitello radiale.

Tabella 12.3

del pollice. Stadio 1 2 3

Tabella 12.2

● ● ● ●

 Arresto di sviluppo longitudinale

Aplasia dei raggi radiali (preassiale) Aplasia dei raggi ulnari (postassiale) Aplasia dei raggi centrali Aplasia intersegmentaria (focomelia)

4 5

  Classificazione di Blauth dell’aplasia

Caratteristiche dell’aplasia Il pollice è ipoplasico ma sia il primo osso metacarpale sia i muscoli tenari sono presenti Il primo metacarpale è presente ma sono assenti i muscoli tenari Aplasia della porzione prossimale del primo metacarpale e dei muscoli tenari con assenza di ogni movimento attivo del primo raggio “Pollice ballante” che conserva solo un peduncolo cutaneo contenente vasi e nervi Aplasia completa del pollice

12 - Argomenti di chirurgia della mano 181

Figura 12.1   Aplasia dei raggi centrali della mano (forma tipica).

L’aplasia dei raggi centrali della mano interessa le dita, il metacarpo e talora la parte centrale del carpo. Barsky ha distinto due varianti: la forma tipica (Figura 12.1) è caratterizzata dall’assenza del III raggio, sostituito da una scissura a forma di V. È una malformazione ereditaria, spesso bilaterale e associata a una deformità simile dei piedi; spesso esiste una sindattilia I-II dito e IV-V dito. La forma atipica è in genere unilaterale e sporadica: è stata definita da Blauth simbrachidattilia ed è inquadrata attualmente nell’ambito delle ipotrofie.

Difetto di differenziazione o separazione di parti In queste malformazioni le parti dello scheletro sono sviluppate ma presentano una forma anormale; possono interessare i tessuti molli o le componenti scheletriche. Fra le prime va ricordata l’artrogriposi. È una sindrome malformativa di origine incerta che interessa in prevalenza gli arti. È congenita e testimonia un danno embrionario o fetale precoce del quale si osservano gli esiti alla nascita. Le rigidità sono provocate dal difetto di sviluppo della muscolatura striata, con retrazione secondaria di legamenti, sottocute e cute. L’arto superiore è coinvolto nella metà dei casi con flessione e intrarotazione della spalla, flessione del gomito e pronazione dell’avambraccio, flessione e deviazione ulnare del polso, pollice addotto e deviazione ulnare delle dita lunghe con flessione delle articolazioni interfalangee prossimali (IFP). Le sindattilie rappresentano il più comune dei difetti di differenziazione e consistono nell’unione di due o più dita a livello della loro superficie laterale. ● Le sindattilie semplici presentano un ponte cutaneo che unisce due dita vicine, con estensione variabile dalla sola falange prossimale a tutta la lunghezza delle dita: la sede più frequente è rap-





presentata dalla terza commissura. Sono considerate nella maggioranza dei casi di origine genetica e si ipotizza che l’anomalia sia legata al cromosoma Y, il che spiegherebbe la predominanza nel sesso maschile. Le sindattilie complesse si caratterizzano per la fusione di elementi ossei, che interessa più spesso le falangi distali. Accentua la tendenza al progressivo incurvamento verso il dito più corto già presente nelle forme semplici complete. Nel loro insieme queste sindattilie sono definite come embrionarie per distinguerle dalle sindattilie amniotiche di cui si parla di seguito. Le acrosindattilie sono tipiche della sindrome delle briglie amniotiche. Sono caratterizzate dalla fusione della parte terminale delle dita, con presenza di una separazione prossimale posta in genere in sede distale rispetto alla sede normale della commissura. Ciò dimostra che si tratta di una fusione secondaria delle dita e non di una sindattilia embrionaria.

La sindattilia può comparire nell’ambito di sindromi complesse, come la sindrome di Apert che consiste nell’associazione di acrocefalia e ipertelorismo, con una sindattilia complessa bilaterale (Figura 12.2). Spesso le dita centrali condividono un’unica unghia, mentre il pollice è coinvolto nella sindattilia in 1/3 dei casi, ma si presenta più spesso isolato con una tipica clinodattilia radiale. La camptodattilia è una malformazione autosomica dominante con espressività variabile. Consiste in una deformità in flessione delle IFP che interessa in prevalenza il V dito e il sesso femminile. Può essere presente alla nascita o comparire intorno ai 10-12 anni. La deformazione della testa della prima falange ne determina la progressiva irriducibilità. È dovuta allo squilibrio tra flessori ed estensori a livello digitale, secondario a vari fattori tra i quali appare rilevante l’inserzione anomala a livello distale del lombricale.

182 Ortopedia

Figura 12.2   Sindrome di Apert: acrocefalia e ipertelorismo (a); sindattilia complessa e clinodattilia radiale del pollice (b).

Il pollice è tenuto dal neonato flesso e addotto nel palmo, ma quando tale atteggiamento perdura oltre i 4 mesi bisogna considerare un’agenesia dell’apparato estensore. Il pollice a scatto congenito si differenzia dalla condizione precedente perché la flessione è limitata all’interfalangea (IF) del pollice. Inoltre l’estensione della IF, possibile dapprima con una sensazione di scatto, diviene in seguito impossibile con blocco in flessione. La causa è il conflitto tra un nodulo del tendine flessore lungo del pollice e la puleggia della guaina digitale. L’intervento è necessario e consiste, come nelle forme acquisite, nell’apertura longitudinale della puleggia a livello della metacarpo-falangea (MF) del pollice. Tra i difetti di differenziazione a interessamento scheletrico vanno ricordate le sinostosi che possono localizzarsi all’avambraccio, al carpo o alla mano. La sinostosi radio-ulnare deriva dalla mancata separazione degli abbozzi cartilaginei delle due ossa dell’avambraccio e impedisce ogni movimento di prono-­ supinazione. Il sinfalangismo consiste nella fusione delle falangi che formano la IFP ed è in genere una malformazione ereditaria autosomica dominante. La clinodattilia consiste nella deviazione radiale o ulnare di un dito, dovuta all’alterazione di una falange che assume forma trapezoidale o triangolare. La forma triangolare è tipica della falange ∆, in cui la cartilagine di accrescimento ha la forma di una C o parentesi che avvolge un angolo della base della falange. Essa impedisce la normale crescita longitudinale dell’osso. L’indicazione chirurgica a un’osteotomia correttiva dipende dalla gravità della deformità.

Figura 12.3   Mano a specchio. Aspetto clinico: duplicazione delle dita ulnari e assenza del pollice (a). Quadro radiografico che evidenzia anche la duplicazione dell’ulna (b).

La duplicazione del pollice (Figura 12.4) è di grande importanza perché è altamente inestetica e ha ripercussioni funzionali sul movimento di opposizione. Può realizzarsi a qualunque livello andando dalla duplicazione completa del I osso metacarpale e delle falangi fino alla semplice deformità a Y della falange

Duplicazione Può colpire ogni segmento dell’arto, ma la forma più frequente è la polidattilia. L’interessamento prossimale è molto raro e si presenta in genere con duplicazione dell’ulna e assenza del radio, mentre la mano è formata da due parti uguali (mirror hand) (Figura 12.3).

Figura 12.4

 Duplicazione del pollice.

12 - Argomenti di chirurgia della mano 183

La sindrome di Poland associa l’agenesia del capo sternale del gran pettorale a una simbrachidattilia omolaterale. Questa è caratterizzata da riduzione del numero o accorciamento delle falangi associata a sindattilia. La sindrome è sempre unilaterale; le deformità delle dita sono di gravità molto variabile e risparmiano in genere il pollice.

Figura 12.5

  Macrodattilia del III raggio e in misura minore del II e del IV.

distale; talora uno dei pollici presenta 3 falangi. L’intervento è sempre necessario. La duplicazione del V dito nella sua forma più lieve (dito ballante) è una delle malformazioni più comuni e viene spesso trattata alla nascita con la semplice legatura, che non è priva di complicanze e alla quale andrebbe sempre preferita l’escissione chirurgica nei primi mesi di vita.

Ipertrofia Può interessare un intero arto, ma la sede più comune è la mano sotto forma di macrodattilia (Figura 12.5). Può colpire uno o più dita e non presenta familiarità. Il dito affetto presenta falangi più lunghe e più larghe, articolazioni rigide e conseguente scarsa funzionalità. Dal punto di vista anatomo-patologico il dito mostra una proliferazione adiposa del sottocute e un notevole aumento di volume dei nervi collaterali e talora del nervo mediano che appaiono infiltrati dal grasso (amartoma lipo-fibromatoso del nervo).

Sindrome delle briglie amniotiche Questo quadro clinico non riconosce fattori genetici, ma è secondario ad agenti esogeni che alterano lo sviluppo intrauterino del feto. La presenza di strutture anatomiche quasi normali fino al livello delle lesioni conferma che queste compaiono tardivamente quando l’estremità è già ben formata. L’elemento clinico tipico è rappresentato dalle briglie. Queste possono essere superficiali e formare un solco cutaneo attorno alla circonferenza di un dito o di un segmento prossimale dell’arto. Talora sono più profonde e provocano un ostacolo al ritorno venoso e un linfedema che possono mettere a rischio la vitalità del segmento distalmente alla lesione. La lesione più grave è costituita dalle amputazioni distali. L’acrosindattilia è una manifestazione tipica della sindrome delle briglie amniotiche, ed è stata già ricordata nell’ambito delle sindattilie.

Anomalie ossee generalizzate Malformazioni della mano possono essere osservate nel quadro della meloreostosi o dell’osteogenesi imperfetta. Talora sono associate ad alterazioni della cartilagine di accrescimento (malattia di Morquio, malattia delle esostosi multiple).

Ipotrofia Questo gruppo comprende le aplasie centrali atipiche o brachisindattilie, già ricordate nell’ambito degli arresti dello sviluppo longitudinali. Le dita centrali presentano l’aplasia delle falangi e talora sono sostituite da piccoli monconi, mentre i metacarpali centrali sono in genere conservati. La brachimetacarpia è più comune a carico del IV raggio; compare talora nell’ambito di una sindrome complessa (sindrome di Turner, pseudoipoparatiroidismo) e non richiede in genere alcun trattamento. La brachidattilia interessa in prevalenza le falangi intermedie e si manifesta in numerose sindromi malformative (sindrome di Holt-Oram, sindrome di Cornelia de Lange).

Sindromi canalicolari dell’arto superiore La sindrome canalicolare identifica come causa della sofferenza di un nervo periferico la compressione del nervo stesso a livello del suo passaggio attraverso un canale inestensibile delimitato da pareti fibrose oppure osteo-fibrose. Tra la colonna cervicale e il polso vi sono sedi specifiche a livello delle quali è frequente una compressione nervosa, e ciò dà luogo a sindromi cliniche ben definite che saranno trattate singolarmente. Dal punto di vista eziologico le sindromi canalicolari possono essere secondarie a fattori noti o idiopatiche: in

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quest’ultimo caso fattori sistemici come il diabete, l’alcolismo, l’ipotiroidismo o l’esposizione a solventi possono contribuire ad alterare la funzione dei nervi periferici predisponendo alla manifestazione di una sindrome compressiva. Il meccanismo patogenetico delle sindromi canalicolari riconosce vari fattori, fra i quali molto importanti sono i fattori meccanici, che agiscono come compressione diretta o attraverso l’ischemia secondaria determinata dalla compressione. Una pressione intracanalicolare di 30  mmHg, presente normalmente in flessione o in estensione del polso, è infatti già in grado di ridurre il flusso all’interno dei vasi dell’epinervio, mentre valori di poco superiori possono ostacolare il normale flusso assonale di molecole e organuli dal corpo cellulare verso la periferia. Un secondo fattore è rappresentato dalla trazione: la compressione può infatti ridurre la mobilità fisiologica che un nervo presenta durante i movimenti, quindi il movimento delle articolazioni vicine può causare lo stiramento del nervo, in grado da solo di causare un blocco della conduzione del nervo stesso. Infine, l’alterazione della cinetica del trasporto assonale dovuta alla compressione di un nervo periferico può rendere gli assoni più vulnerabili agli insulti meccanici, favorendo la comparsa di una sindrome compressiva in una sede diversa lungo il decorso del nervo stesso (double crush syndrome). Le compressioni estrinseche dei nervi periferici evolvono attraverso una prima fase irritativa, caratterizzata da dolore e parestesie; questa fase può mancare nel caso di compressione di un nervo motore ed è reversibile. In caso di persistenza della compressione compaiono deficit della sensibilità e della forza muscolare che possono giungere alla paralisi; in queste compressioni inveterate l’edema perdurante induce una progressiva fibrosi sia dell’epinervio sia dell’endonervio compreso tra i singoli fascicoli e anche il trattamento chirurgico può non consentire la remissione completa dei sintomi. Il dolore da compressione nervosa può essere localizzato alla sede della compressione, ma è in genere irradiato sia in direzione prossimale sia distale. L’irradiazione distale agevola la diagnosi in quanto il dolore è riferito al territorio di distribuzione di un nervo (Figura 12.6), mentre l’irradiazione prossimale è di più difficile interpretazione. Le parestesie consistono nella sensazione di formicolio, torpore o gonfiore nel territorio di distribuzione di un nervo. Una distribuzione diversa deve indurre alla cautela nella diagnosi e può essere determinata dalla compressione di più nervi, da una compressione più

Figura 12.6  Distribuzione dell’innervazione sensitiva alla mano in sede dorsale e palmare.

prossimale (per esempio a livello radicolare) o da varianti anatomiche, che sono peraltro rare nell’innervazione sensitiva della mano. Le parestesie, che sono all’inizio saltuarie, possono divenire costanti. L’alterazione della sensibilità può causare impaccio nei movimenti fini della mano se è coinvolto il nervo mediano. Essa non dà luogo a una vera anestesia, ma piuttosto il paziente afferma che “sente toccare diversamente” rispetto alle aree indenni, e tale disturbo è definito disestesia. Il segno di Tinel viene evocato percotendo il decorso del nervo con la punta di un dito; se è presente una compressione il paziente avverte una sensazione di “scossa” irradiata nel territorio di distribuzione del nervo. Il deficit della forza muscolare presenta talora una progressione subdola, non percepita immediatamente dal paziente come anche la progressiva ipotrofia muscolare che l’accompagna. Talora il paziente se ne rende conto per l’impaccio nell’eseguire un particolare gesto o per la comparsa di un atteggiamento anormale delle dita. Dal punto di vista diagnostico hanno grande importanza lo studio della conduzione nervosa e l’elettromiografia (EMG). Si tratta peraltro di indagini operatoredipendenti e l’interpretazione dei risultati può essere condizionata da fattori come l’età, la temperatura e l’obesità che influenzano la velocità di conduzione. Esami ripetuti possono comunque fornire indicazioni sull’aggravamento o sulla risoluzione di una neuropatia; inoltre, gli studi sulla conduzione nervosa forniscono talora l’unica prova obiettiva dell’esistenza di una sindrome canalicolare. Va sottolineato che una compressione intermittente di tipo funzionale si associa a valori della velocità di conduzione normali;

12 - Argomenti di chirurgia della mano 185

pertanto, se reperti anormali confermano il sospetto diagnostico, il riscontro di valori normali non esclude una sindrome canalicolare.

Sindrome del tunnel carpale Il tunnel carpale (Box 12.1) rappresenta la sede più frequente di compressione nervosa a livello dell’arto superiore. La sindrome del tunnel carpale (STC) colpisce infatti 5 abitanti su 1000 negli Stati Uniti. È nettamente più frequente nelle donne (rapporto 3:1), più comune intorno all’età di 50 anni ed è bilaterale in 1/3 dei casi. Eziologia

La STC è nella maggior parte dei casi idiopatica in quanto non è attribuibile a una causa definita. Le forme secondarie possono essere attribuite a una molteplicità di cause che agiscono aumentando il volume delle strutture contenute all’interno del tunnel o riducendo il volume del tunnel stesso. ● Ipertrofia sinoviale dei tendini flessori (è la causa più frequente). ● Cause anatomiche: persistenza dell’arteria mediana, ventre muscolare anomalo di un flessore superficiale o di un lombricale, muscoli anomali (palmare profondo). ● Cause traumatiche: lussazioni del carpo o carpometacarpali, esiti di fratture dell’estremità distale del radio, traumi da schiacciamento della mano, edema da ustioni. ● Cause microtraumatiche: utilizzo di strumenti vibranti.

Figura 12.7   Sezione trasversale del tunnel carpale. Nervo mediano (A). Tendini del flessore superficiale delle dita (B). Tendini del flessore profondo delle dita (C). Tendine del flessore lungo del pollice (D). Tendine del flessore radiale del carpo (E).

Box 12.1 Il tunnel carpale Il tunnel carpale è costituito dallo spazio che mette in comunicazione la loggia anteriore dell’avambraccio con la regione palmare. È delimitato da tre pareti ossee e da una parete fibrosa rappresentata dal legamento trasverso del carpo che ne costituisce il limite verso la superficie. Il pavimento è formato dalle otto ossa del carpo; la parete laterale dal tubercolo dello scafoide e dal tubercolo del trapezio, e la parete mediale dal pisiforme e dall’uncino dell’uncinato. Le quattro strutture ossee che delimitano il tunnel ai due lati offrono inserzione al legamento trasverso del carpo che ne costituisce il tetto. Il tunnel contiene i nove tendini dei flessori lunghi delle dita avvolti dalla propria guaina sinoviale (i flessori profondi e superficiali delle quattro dita lunghe e il flessore lungo del pollice) e il nervo mediano che è posto superficialmente, subito al di sotto del legamento trasverso (Figura 12.7). Un setto fibroso verticale disposto lateralmente rispetto ai tendini citati separa il tunnel carpale propriamente detto dallo spazio attraversato dal tendine del flessore radiale del carpo.



● ●

Cause tumorali: cisti, lipomi, amartomi lipofibromatosi (associati alla macrodattilia). Cause infiammatorie: artrite reumatoide, gotta. Cause metaboliche: ipotiroidismo, gravidanza, diabete, assunzione di contraccettivi estroprogestinici, amiloidosi (frequente nei pazienti sottoposti a dialisi per lunghi periodi).

Quadro clinico

L’esordio della malattia avviene con la fase irritativa, nella quale il disturbo più frequente è il torpore a livello delle dita innervate dal nervo mediano, che è dapprima intermittente. Questa parestesia viene tipicamente avvertita nelle prime ore del mattino, e ciò è determinato dall’assunzione di una posizione di flessione protratta del polso durante il sonno e dalla vasodilatazione indotta dalla prevalenza dell’attività parasimpatica nelle ore notturne. Talora l’esordio può manifestarsi in seguito all’esecuzione di un’attività manuale che comporti movimenti ripetitivi di flessione del polso. Il dolore è frequente e può irradiarsi in senso prossimale fino alla spalla. Nella fase deficitaria può comparire impaccio nell’uso della mano, per la comparsa di disestesia o di ipotrofia dell’eminenza tenar. L’ispezione evidenzia in fase deficitaria l’ipotrofia dell’eminenza tenar che può essere valutata osservando entrambe le mani di profilo (Figura 12.8); è dovuta al danno a carico delle fibre motorie dell’abduttore breve del pollice.

186 Ortopedia

Figura 12.8

 Ipotrofia dell’eminenza tenar.

La sensibilità viene valutata toccando leggermente la cute dell’area innervata dal mediano, che corrisponde alla superficie volare delle prime tre dita e alla metà radiale del IV dito. La disestesia deve essere confrontata con la sensibilità presente nelle aree innervate dall’ulnare. Solo dopo l’esame della sensibilità vanno eseguiti i test provocativi, che hanno lo scopo di riprodurre la sintomatologia riferita dal paziente. Fra questi il più importante e accurato è il test di Phalen (Figura 12.9): si esegue facendo porre al paziente le mani una contro l’altra a livello del dorso con le dita rivolte in basso, i polsi flessi ad angolo retto e gli avambracci orizzontali: la flessione acuta del polso aumenta la pressione sul nervo mediano all’interno del tunnel provocando la comparsa di parestesie in presenza di STC. Il test è positivo se i disturbi compaiono entro un minuto dall’assunzione della posizione di flessione del polso. Il test di Durkan consiste nella compressione manuale a livello del tunnel carpale, in grado di riprodurre i sintomi della malattia entro un minuto.

Figura 12.9

testo).

 Test di Phalen (si veda la spiegazione nel

Figura 12.10   Segno di Tinel sul decorso del nervo mediano al polso.

Il segno di Tinel è positivo nelle fasi avanzate della malattia e si esegue percotendo il decorso del nervo mediano in sede appena prossimale rispetto all’entrata del tunnel carpale (Figura 12.10). Esso produce una sensazione di scossa irradiata verso il territorio di distribuzione del nervo. L’esame obiettivo è completato dall’esame muscolare dell’abduttore breve del pollice, unico muscolo innervato costantemente dal nervo mediano. Il paziente deve eseguire un’abduzione palmare del pollice, ovvero allontanare il dito dal palmo contro la resistenza esercitata dall’esaminatore. Diagnostica strumentale

La STC viene in genere diagnosticata con sicurezza con l’esame clinico, ma nei casi dubbi e quando si voglia acquisire un dato strumentale è indicato lo studio della conduzione nervosa. Questa è considerata anormale in presenza di allungamento della latenza distale motoria oltre 4,5 msec. Dato che questi valori sono stati osservati all’incirca in 2/3 dei pazienti poi operati con conferma della diagnosi, un dato normale non esclude la diagnosi di STC. Un altro reperto di sofferenza del nervo mediano è rappresentato dall’allungamento della latenza distale sensitiva oltre 3,5 msec: quest’alterazione compare precocemente ed è pertanto un indice più sensibile di STC. Lo studio elettromiografico dei muscoli dell’eminenza tenar può consentire di quantificare la gravità della compressione del nervo mediano. Gli esami radiografici sono di scarso ausilio e pertanto non indicati nella routine diagnostica.

12 - Argomenti di chirurgia della mano 187

Terapia

La storia naturale della STC può evolvere verso la remissione spontanea (osservata fino al 34% dei pazienti in alcune casistiche). Nei pazienti con sintomatologia intermittente è indicato un approccio conservativo, consistente nella terapia medica con antinfiammatori e neurotrofici associata all’uso di tutori notturni che mantengano il polso in posizione neutra, impedendogli di assumere quelle posizioni di flessione o estensione che, aumentando la pressione endocanalicolare, scatenano la sintomatologia irritativa. Le infiltrazioni di cortisone all’interno del tunnel hanno un’efficacia temporanea. È stata dimostrata una remissione dei sintomi nell’80% dei pazienti trattati, ma questa perdura a distanza di un anno solo nel 22% dei casi. Questa terapia può costituire un’alternativa al trattamento chirurgico nella popolazione più anziana. Il trattamento chirurgico è indicato in caso di fallimento della terapia conservativa oppure come scelta immediata in caso di presenza di parestesie costanti, deficit della sensibilità o della forza muscolare, o segni elettromiografici di danno assonale. La decompressione del tunnel carpale può essere eseguita “a cielo aperto” con una piccola incisione posta pochi millimetri medialmente alla plica tenare o con tecnica endoscopica. La tecnica “a cielo aperto” si è dimostrata nel tempo efficace e sicura. I vantaggi asseriti dai sostenitori della tecnica endoscopica in termini di un più precoce recupero dell’attività sono ancora controversi. La tecnica endoscopica è comunque controindicata nel trattamento delle STC acute, in quelle associate a tenosinovite dei flessori o a neoformazioni endocanalicolari, in caso di ipotrofia dell’eminenza tenar e nelle recidive.

Box 12.2 Il tunnel cubitale Il nervo ulnare decorre nella porzione distale del braccio nella loggia posteriore, tra il setto intermuscolare mediale e il capo mediale del tricipite brachiale, passa posteriormente intorno all’epitroclea per poi penetrare nel tunnel cubitale. Quest’ultimo è delimitato da un pavimento osseo costituito dalla doccia epitrocleo-olecranica e da una parete superficiale formata in sede prossimale dal legamento epitrocleo-olecranico e più distalmente dall’arcata fibrosa tesa tra i due capi (omerale e ulnare) del flessore ulnare del carpo (Figura 12.11). Attraverso questo canale il nervo raggiunge l’avambraccio, dove decorre in sede prossimale al di sotto del flessore ulnare del carpo.

altra sindrome canalicolare, e ciò influenza la scelta del trattamento chirurgico di questa patologia. La compressione del nervo ulnare al gomito può essere frequentemente idiopatica; esistono comunque numerose cause in grado di determinare la comparsa di questa sindrome. ● Cause anatomiche: abnorme tensione dell’aponevrosi tesa tra i due capi del flessore ulnare del carpo; presenza di un muscolo anomalo epitrocleoanconeo nella sede del legamento epitrocleo-­ olecranico. ● Cause traumatiche: un trauma diretto sulla faccia mediale del gomito flesso può causare una contusione del nervo, che a sua volta può determinare, se di intensità adeguata, una fibrosi perineurale con compressione cronica. Più spesso, il meccanismo è

Compressione del nervo ulnare al gomito La compressione del nervo ulnare al gomito a livello del tunnel cubitale (Box 12.2) è stata la prima sindrome canalicolare a essere descritta grazie a Panas nel 1878. Eziologia

La riflessione che il nervo ulnare compie intorno all’epitroclea fa sì che nella posizione di flessione del gomito, che è quella più frequentemente assunta dall’articolazione nelle attività della vita quotidiana, il nervo stesso sia sottoposto a stiramento. Pertanto si ritiene che, pur riconoscendo il ruolo patogenetico prevalente della compressione del nervo, la trazione e l’attrito giochino un ruolo maggiore in questa sede rispetto a qualunque

Figura 12.11  Tunnel cubitale. Nervo ulnare (A); legamento epitrocleo-olecranico (B); capo omerale del flessore ulnare del carpo (C); capo ulnare del flessore ulnare del carpo (D).

188 Ortopedia







indiretto e consegue alla deformità secondaria a una frattura o lussazione del gomito. In particolare una frattura del condilo laterale dell’omero, sovracondiloidea, o una lussazione inveterata del capitello radiale produce un gomito valgo che aumenta la trazione cui è sottoposto il nervo ulnare. Una frattura del condilo mediale può produrre un’irregolarità della doccia che forma il pavimento del tunnel cubitale e causare un conflitto con il nervo. Cause tumorali: tumori dei tessuti molli, cisti artrogene del gomito. Cause infiammatorio-degenerative: l’artrite reumatoide può produrre una tumefazione sinoviale in grado di comprimere il nervo che decorre a stretto contatto con la capsula articolare; l’artrosi del gomito può produrre osteofiti omero-ulnari o calcificazioni in sede mediale. Sublussazione recidivante del nervo: il nervo ulnare può scivolare sul davanti dell’epitroclea nei movimenti di flessione del gomito (segno di Childress). Il ripetersi di questo movimento può causare la sofferenza del nervo stesso.

Quadro clinico

Il quadro clinico è caratterizzato in fase irritativa da dolore al gomito in sede mediale, irradiato lungo la faccia mediale dell’avambraccio verso il polso. È associato a parestesie riferite alle due dita ulnari. Queste parestesie tendono, rispetto alla STC, a un’evoluzione progressiva e divengono precocemente continue. Nella fase deficitaria compare debolezza muscolare della mano, della quale il paziente si rende conto soprattutto nell’esecuzione della pinza tra il pollice e l’indice, per l’interessamento dell’adduttore del pollice e del I interosseo dorsale. L’ispezione evidenzia in fase deficitaria l’ipotrofia della muscolatura intrinseca della mano innervata dall’ulnare: essa è particolarmente evidente a carico dell’eminenza ipotenar e del I interosseo dorsale, ove si manifesta con un aspetto incavato della prima commissura sul lato dorsale. Può essere presente un atteggiamento “ad artiglio” del IV e V dito, che consiste nell’estensione della MF con flessione delle IF ed è causato dallo squilibrio tra l’azione dei muscoli estrinseci e la paralisi degli intrinseci che agiscono normalmente flettendo la MF ed estendendo le IF. Il II e III dito non presentano questo atteggiamento grazie all’attività del I e II lombricale innervati dal nervo mediano. A volte il V dito è atteggiato in abduzione rispetto al IV (segno di Wartenberg) per il deficit del III interosseo palmare che ha la funzione di addurre il V dito. L’esame deve proseguire indagando la sensibilità: nella fase deficitaria è presente una disestesia localiz-

Figura 12.12

re al gomito.

  Segno di Tinel sul decorso del nervo ulna-

zata in sede volare al V dito e alla metà ulnare del IV dito, all’eminenza ipotenar e alla metà ulnare del dorso della mano. Dopo l’esame della sensibilità va eseguito il test provocativo che consiste nel far mantenere al paziente il gomito in flessione con polso in posizione neutra (elbow flexion test) con lo scopo di evocare dolore e parestesie nel territorio del nervo ulnare. Il test è positivo se i disturbi compaiono entro un minuto dall’assunzione della posizione descritta. Il segno di Tinel è costantemente positivo a livello del decorso del nervo ulnare nel tunnel cubitale (Figura 12.12) e produce una sensazione di scossa irradiata verso il IV e V dito. L’esame obiettivo è completato dall’esame muscolare che deve indagare la forza del flessore ulnare del carpo (flessione del polso), del flessore profondo del IV e V dito (flessione dell’interfalangea distale, IFD) e di tutti i muscoli intrinseci innervati dal nervo ulnare. Gli interossei dorsali e palmari si possono valutare chiedendo al paziente di eseguire rispettivamente l’abduzione e l’adduzione delle dita (Figura 12.13). L’adduttore del pollice viene studiato con il test di Froment che si esegue chiedendo al paziente di tenere un foglio di carta tra pollice e indice: il test è positivo se il paziente non è in grado di trattenere il foglio che l’esaminatore tenta di sfilare. In questo caso, infatti, il paziente tende a flettere con forza la IF del pollice per compensare il deficit dell’adduzione (Figura 12.14). Va notato che anche nelle fasi avanzate di questa sindrome canalicolare il flessore profondo delle dita e il flessore ulnare del carpo non presentano, se non raramente, un vero quadro di paralisi, verosimilmente

12 - Argomenti di chirurgia della mano 189

elettromiografico di un rallentamento della conduzione del nervo in corrispondenza del tunnel cubitale. È necessario lo studio radiografico del gomito nelle due proiezioni ortogonali standard che può evidenziare patologie come l’artrosi (con osteofitosi della doccia epitrocleo-olecranica), calcificazioni periarticolari o condromatosi. Sono condizioni che influenzano la scelta della corretta indicazione chirurgica. Terapia

Figura 12.13   Valutazione della forza di abduzione e adduzione delle dita contro resistenza.

perché i fascicoli nervosi a essi diretti sono situati sulla superficie profonda del nervo ulnare all’interno del tunnel cubitale. Diagnostica strumentale

La diagnosi di una compressione del nervo ulnare al gomito impone una diagnosi differenziale a volte difficile con le radicolopatie cervicali inferiori (C8 e T1), in quanto queste rappresentano la causa più frequente di parestesie riferite alla parte mediale della mano. L’indicazione all’intervento chirurgico è data dal reperto

Nei pazienti con sintomatologia irritativa può essere indicato un approccio conservativo, consistente nella terapia medica con antinfiammatori e neurotrofici associata all’uso di un tutore che immobilizzi il gomito in lieve flessione per eliminare la trazione sul nervo durante la flessione e la frizione sull’epitroclea. Deve essere portato continuamente fino a una settimana dopo la remissione dei sintomi. Il trattamento chirurgico è indicato in caso di fallimento della terapia conservativa oppure come scelta immediata in caso di deficit neurologico o di segni elettromiografici di danno assonale. Nelle forme idiopatiche la semplice decompressione del nervo con apertura dell’aponevrosi fibrosa tra i due capi del flessore ulnare del carpo rimuove la causa della compressione e consente buoni risultati. In alcune condizioni è necessario associare alla decompressione la trasposizione anteriore del nervo per spostarlo da un “letto” patologico a un’area ben vascolarizzata: ciò è opportuno in caso di artrosi del gomito con osteofitosi e calcificazioni periarticolari, condromatosi, fibrosi perineurale in esiti di traumi contusivi diretti ed ematomi, viziosa consolidazione di fratture dell’omero. Esistono diverse tecniche di trasposizione anteriore tra le quali sono più utilizzate la trasposizione sottocutanea e quella sottomuscolare. La trasposizione è indicata anche in caso di gomito valgo, di lussazione del nervo ulnare davanti all’epitroclea osservata intraoperatoriamente, oltre che nelle recidive dopo semplice decompressione.

Compressione del nervo ulnare al canale di guyon

Figura 12.14

nel testo).

 Test di Froment (si veda la spiegazione

Questa sindrome canalicolare è causata dalla compressione del nervo ulnare nella regione ipotenare del polso a livello della loggia descritta da Guyon nel 1861, attraverso la quale il nervo e l’arteria ulnare passano nel palmo (Box 12.3). Si può manifestare con sintomatologia motoria, sensitiva o mista in base alla sede precisa della compressione, in quanto il nervo ulnare si divide all’interno del canale nel ramo superficiale sensitivo e nel ramo profondo motorio.

190 Ortopedia

Box 12.3 Il canale di Guyon Ha una lunghezza di circa 4 cm dal margine prossimale del legamento volare del carpo all’arcata fibrosa dei muscoli ipotenari. È diviso in tre zone corrispondenti alle diverse porzioni del nervo ulnare (Figura 12.15). ● La zona 1 è prossimale alla biforcazione del nervo ed è delimitata in superficie dal legamento volare del carpo, una lamina connettivale molto meno spessa rispetto al legamento trasverso del carpo che delimita il canale in profondità; la parete mediale è costituita dall’osso pisiforme. Una compressione in zona 1 produce un danno combinato sensitivo e motorio. ● La zona 2 segue distalmente in posizione laterale e comprende il ramo motore del nervo ulnare. È

delimitata in superficie dai muscoli ipotenari, in profondità dall’articolazione tra piramidale e uncinato e lateralmente dall’uncino dell’uncinato. Termina con lo iato piso-uncinato, delimitato dall’arcata fibrosa tesa tra i due capi del muscolo flessore breve del V dito. Attraverso lo iato il ramo profondo penetra nel palmo piegando in profondità e lateralmente intorno all’uncino dell’uncinato. La compressione in zona 2 produce un danno puramente motorio. ● La zona 3 è situata medialmente alla zona 2 e comprende il ramo sensitivo del nervo ulnare che decorre sotto il palmare breve e l’arteria ulnare al di sopra della fascia che riveste i muscoli ipotenari. Una compressione in zona 3 produce un danno puramente sensitivo.

Eziologia

Le cause della compressione possono essere traumatiche o non traumatiche. ● Cause traumatiche: fratture dell’uncino dell’uncinato, fratture dell’estremità distale del radio con importante scomposizione dorsale, traumi da schiacciamento, edema da ustioni, pseudoaneurismi dell’arteria ulnare. ● Cause microtraumatiche: trombosi dell’arteria ulnare (soprattutto in zona 3). ● Cause tumorali: tumori dei tessuti molli, cisti dell’articolazione tra piramidale e uncinato. ● Cause anatomiche: muscoli anomali (varianti del palmare lungo, origine anomala dei muscoli ipote-



nari nell’avambraccio, duplicazione dei muscoli ipotenari). Cause infiammatorie: artro-sinovite del polso.

Quadro clinico

Il quadro clinico è caratterizzato in fase irritativa da dolore al polso che può essere irradiato sia alla mano sia all’avambraccio sul versante ulnare. In seguito possono comparire varie combinazioni di deficit in base alla zona del canale dove si verifica la compressione e alle varianti nell’origine dei rami muscolari per l’eminenza ipotenar: ● deficit sensitivo isolato; ● deficit motorio isolato con interessamento: – di tutti i muscoli intrinseci innervati dall’ulnare

Figura 12.15  Disegno che illustra l’anatomia del canale di Guyon. Biforcazione del nervo ulnare all’interno del canale (a). Rappresentazione schematica delle tre zone (b). P = osso pisiforme; U = uncino dell’osso uncinato.

12 - Argomenti di chirurgia della mano 191



– dei muscoli suddetti con esclusione dell’eminenza ipotenar; deficit combinato sensitivo e motorio con interessamento: – di tutti i muscoli intrinseci innervati dall’ulnare – dei muscoli suddetti con esclusione dell’eminenza ipotenar.

L’ispezione evidenzia in fase deficitaria l’ipotrofia della muscolatura intrinseca innervata dall’ulnare. Rispetto alla compressione al gomito l’eminenza ipotenar può essere risparmiata per le considerazioni esposte sopra. L’atteggiamento “ad artiglio” del IV e V dito è in genere molto evidente perché il flessore profondo delle due dita ulnari presenta una forza normale (Figura 12.16). L’esame della sensibilità mostra una disestesia nel territorio di distribuzione del nervo ulnare con la differenza, rispetto alla compressione al gomito, che la metà ulnare del dorso della mano presenta sensibilità normale in quanto innervata dal ramo cutaneo dorsale che emerge dal nervo ulnare prossimalmente al canale di Guyon. L’esame neurologico è completato dall’esame del trofismo e della forza dei muscoli intrinseci innervati dal

nervo ulnare, per il quale si rimanda a quanto detto a proposito della compressione del nervo ulnare al gomito. Va sottolineato che la distribuzione del deficit motorio dipende dalla zona del canale in cui si realizza la compressione. Il test di Allen deve completare l’esame clinico nel sospetto di una patologia a carico dell’arteria ulnare. Consiste nel comprimere l’arteria radiale e ulnare al polso interrompendo l’irrorazione della mano dopo che la cute del palmo è stata resa ischemica dalla flessione ripetuta delle dita; rilasciando alternativamente la compressione su uno dei due vasi mentre l’altro rimane occluso, si può verificare la pronta rivascolarizzazione della mano che indica la pervietà dell’arteria esaminata. Diagnostica strumentale

Lo studio della velocità di conduzione può evidenziare un rallentamento dal polso al I interosseo dorsale. Nelle forme con deficit motorio lo studio elettromiografico può mostrare alterazioni a carico dell’abduttore del V dito e del I interosseo dorsale, permettendo una diagnosi precisa sulla sede della compressione. È indicato uno studio radiografico del polso per escludere una frattura dell’uncino dell’uncinato. Questo deve includere la proiezione per il tunnel carpale, che può rendere superflua l’esecuzione di una TAC. L’ecografia del polso può evidenziare la presenza di masse occupanti spazio all’interno del canale di Guyon. Un eco-color-Doppler dell’arteria ulnare può escludere il sospetto di una trombosi o di uno pseudoaneurisma. Terapia

Il trattamento è chirurgico sia perché la sindrome è in genere accompagnata da un precoce deficit motorio, sia perché è spesso possibile diagnosticare una patologia responsabile della compressione. Il trattamento chirurgico consiste nell’esplorazione del nervo ulnare a partire dalla porzione più distale dell’avambraccio, liberando il nervo stesso e i suoi rami terminali per tutto il loro decorso all’interno delle tre zone del canale di Guyon. Il pavimento del tunnel deve essere esplorato alla ricerca di neoformazioni, muscoli anomali, fratture o di qualunque altra possibile causa di compressione.

Sindrome del nervo interosseo posteriore

Figura 12.16   Atteggiamento “ad artiglio” del IV e V dito: l’estensione delle articolazioni metacarpo-falangee si associa alla flessione delle interfalangee.

Il nervo interosseo posteriore rappresenta il ramo motore del nervo radiale e può risultare compresso a livello del gomito dando luogo alla sindrome omonima. La compressione può verificarsi in diverse sedi lungo il

192 Ortopedia

Box 12.4 Il nervo radiale Il nervo radiale decorre nella loggia posteriore del braccio addossato all’omero lungo la doccia di torsione e raggiunge la loggia anteriore perforando il setto intermuscolare laterale circa 12 cm al di sopra dell’epicondilo laterale dell’omero, per proseguire distalmente tra i muscoli brachiale e bicipite medialmente, e brachio-radiale ed estensori radiali del carpo lateralmente. Passa poi davanti all’articolazione tra omero e radio e a questo livello si divide nei rami terminali: radiale superficiale sensitivo e interosseo posteriore motorio. Il primo decorre sulla faccia profonda del muscolo brachio-radiale mentre il secondo si porta lateralmente e in direzione posteriore giungendo a contatto con tre strutture che possono essere causa di compressione: il margine mediale fibroso dell’estensore radiale breve del carpo, i vasi radiali ricorrenti e l’arcata di Fröhse. Quest’ultima è costituita dal margine prossimale fibroso del capo superficiale del muscolo supinatore, al di sotto del quale il nervo si impegna per entrare nel canale compreso tra i due capi del muscolo supinatore e avvolgere la diafisi del radio raggiungendo la loggia posteriore dell’avambraccio per innervare tutti i muscoli estensori (Figura 12.17).

decorso del nervo (Box 12.4), anche se la sede più frequente è rappresentata dal passaggio del nervo al di sotto dell’arcata di Fröhse. Eziologia

Le cause di compressione del nervo interosseo posteriore sono molteplici. ● Cause anatomiche: margine fibroso dell’estensore radiale breve del carpo, arteria ricorrente radiale con le sue vene satelliti, arcata di Fröhse, margine distale del muscolo supinatore. Sono spesso causa di una compressione funzionale favorita da occupazioni che impongono movimenti ripetuti di supinazione dell’avambraccio ed estensione del polso contro resistenza. ● Cause traumatiche: lesione di Monteggia. ● Cause tumorali: cisti artrogene e lipomi.

Figura 12.17   Fotografia intraoperatoria della regione antecubitale del gomito sinistro che mostra la divisione del nervo radiale nei suoi rami terminali: ramo superficiale (+); ramo motore (interosseo posteriore) (§); arcata di Fröhse (*).



Cause infiammatorie: artrosinovite del gomito nell’artrite reumatoide, flogosi della borsa bicipitale.

Quadro clinico

Il quadro clinico all’esordio è caratterizzato da dolore che viene riferito al decorso dei muscoli epicondiloidei e si irradia al polso in sede dorsale. Dopo un breve periodo compare un deficit motorio sotto forma di debolezza dell’estensione del polso e paralisi dell’estensione delle dita. Non è mai presente alcun disturbo della sensibilità in quanto il nervo radiale superficiale è risparmiato dalla compressione. L’atteggiamento della mano non è significativamente alterato perché il polso è comunque in grado di estendersi e non si osserva il quadro della “mano cascante” tipico delle paralisi alte del nervo radiale. L’esame della motricità evidenzia come l’estensione del polso avvenga tuttavia in deviazione radiale, per la prevalenza dell’estensore radiale lungo del carpo (Figura 12.18a). Il tentativo di estendere le dita comporta l’estensione completa delle IF che è dovuta all’attività dei muscoli intrinseci, mentre le MF non possono essere estese per la paralisi degli estensori delle dita (Figura 12.18b). Un discorso analogo vale per il pollice,

Figura 12.18   Quadro clinico nella sindrome del nervo interosseo posteriore: estensione del polso con deviazione radiale della mano (a); deficit di estensione delle metacarpo-­ falangee (b).

12 - Argomenti di chirurgia della mano 193

a livello del quale va ricercato anche il deficit dell’abduzione radiale, secondario alla paralisi dell’abduttore lungo del pollice. L’esame della sensibilità nel territorio autonomo del nervo radiale, che corrisponde alla superficie dorsale del pollice e della prima commissura, è del tutto normale. La presenza di disestesie orienta verso una lesione più prossimale del nervo. Diagnostica strumentale

Nei pazienti con paralisi muscolare l’EMG rivela segni di denervazione e lo studio della velocità di conduzione mostra l’aumento della latenza motoria distale del nervo radiale. Lo studio radiografico del gomito è indicato per escludere che la sindrome sia secondaria a una lussazione del capitello radiale o a un’artrite. L’ecografia può mostrare una tumefazione delle parti molli in grado di comprimere il nervo interosseo posteriore. Terapia

Se la sindrome è secondaria alla compressione del nervo da parte di una neoformazione o di una proliferazione sinoviale, oltre che nei casi di lunga durata, è indicato l’intervento chirurgico di neurolisi. Il trattamento conservativo va riservato a pazienti giunti all’osservazione subito dopo l’insorgenza dei sintomi e consiste nel riposo, nell’utilizzo di un tutore dinamico che consenta l’estensione passiva delle dita, e nell’astensione da ogni attività che comporti movimenti ripetitivi di rotazione dell’avambraccio contro resistenza. L’osservazione va protratta per un periodo massimo compreso tra 4 e 12 settimane e va comunque interrotta con l’indicazione a un intervento immediato nel caso di progressione dei sintomi.

Rizoartrosi del pollice e artrosi deformante delle dita Rizoartrosi del pollice Con il termine rizoartrosi (dal greco ρía, “radice”) del pollice si indica la degenerazione artrosica dell’articolazione trapezio-metacarpale (TM). È una patologia molto diffusa e rappresenta da sola il 10% di tutte le localizzazioni artrosiche dell’organismo. Può presentarsi in forma isolata o associarsi all’artrosi delle piccole articolazioni della mano, in particolare delle interfalangee.

La malattia colpisce in modo prevalente il sesso femminile, nella fascia di età compresa tra i 50 e i 70 anni. L’articolazione TM, grazie alla sua estrema mobilità, dona alla mano dell’uomo capacità funzionali uniche tra tutti gli esseri viventi (Box 12.5). Pertanto ogni danno a carico di questa articolazione può essere molto invalidante non solo per il pollice, ma per la mano nel suo complesso. Box 12.5 Anatomia funzionale

dell’articolazione trapezio-metacarpale La trapezio-metacarpale è un’articolazione “a sella”, costituita dall’affrontamento delle superfici articolari del trapezio e della base del I osso metacarpale (I MTC). La sua normale funzionalità dipende dall’integrità di diverse strutture legamentose e miotendinee. I legamenti che intervengono come stabilizzatori sono identificati in base alla localizzazione anatomica: dorsoradiale, dorso-ulnare, intermetacarpale e palmare obliquo. I muscoli del pollice sono distinti in intrinseci (con origine e inserzione sulle strutture osteo-legamentose della mano) ed estrinseci. I primi sono adibiti prevalentemente ai movimenti della TM; i secondi pur essendo sinergici ai precedenti, presiedono in primo luogo ai movimenti delle articolazioni digitali. I muscoli intrinseci formano l’eminenza tenar e sono disposti su tre piani differenti: ● nel piano superficiale si trova, sul lato radiale, l’abduttore breve; ● nel piano medio, l’opponente all’esterno e il flessore breve all’interno; ● nel piano profondo vi è il solo muscolo adduttore con i suoi due ventri muscolari. I muscoli estrinseci del pollice hanno la loro origine nell’avambraccio: ● il flessore lungo termina alla base della falange distale sul versante volare; ● l’abduttore lungo si inserisce sul tubercolo esterno della base del I MTC; ● l’estensore breve si inserisce alla base della falange prossimale dorsalmente; ● l’estensore lungo si inserisce alla base della falange distale sempre sul versante dorsale. I movimenti del pollice si distinguono in: ● movimenti angolari semplici (non rotazionali): flessione, estensione, abduzione radiale, adduzione ulnare; ● movimenti angolari simultanei (rotazionali): opposizione e retroposizione. A differenza dei movimenti angolari semplici, i movimenti angolari simultanei si svolgono contemporaneamente lungo più assi di rotazione.

194 Ortopedia

Eziopatogenesi e anatomia patologica

Vi sono diverse ipotesi eziopatogenetiche sulla rizoartrosi del pollice. Considerando a parte la possibile usura primitiva della cartilagine ialina, le ipotesi formulate sono tutte riconducibili a un’incongruenza articolare primitiva o secondaria a lassità, con sovraccarico abnorme delle superfici articolari. La degenerazione delle superfici avviene in modo progressivo e si possono riconoscere diversi stadi evolutivi della malattia. Inizialmente il sovraccarico, l’iperlassità legamentosa e/o movimenti ripetitivi possono predisporre all’insorgenza di sinovite con versamento intrarticolare. Successivamente, le zone sottoposte a forze di taglio vanno incontro ad alterazioni anatomo-patologiche comuni ai processi degenerativi della cartilagine nell’artrosi. La rima articolare si riduce e compaiono osteofiti sul bordo ulnare del trapezio e della base del I MTC, oltre alle calcificazioni periarticolari. Con la progressione della malattia la base del I MTC si sublussa in direzione dorso-radiale. Questa evoluzione modifica l’equilibrio delle forze agenti sul I MTC: l’abduttore lungo del pollice perde la sua azione abduttoria, l’azione del muscolo adduttore prevale e si osserva la riduzione del I spazio intermetacarpale. La posizione sfavorevole del pollice in adduzione determina una sollecitazione delle articolazioni distali del I raggio con iperestensione della falange prossimale. Negli stadi avanzati il quadro finale è caratterizzato da un’anchilosi della TM in sublussazione dorso-radiale, retrazione del I spazio intermetacarpale e iperestensione della metacarpo-falangea (pollice “a zeta”). Quadro clinico

Il primo sintomo a comparire è il dolore: a insorgenza insidiosa, compare in fase iniziale nell’esecuzione di attività manuali che utilizzano il pollice per una presa di forza, come aprire un barattolo o strizzare un panno, o per eseguire la pinza tra I e II dito, come nell’atto di girare una chiave. Localizzato alla base del pollice e irradiato al polso in direzione dorso-radiale, il dolore con il passare del tempo persiste anche a riposo e si intensifica fino a rendere difficile lo svolgimento delle normali attività quotidiane. Negli stadi più avanzati può attenuarsi con il sopraggiungere dell’anchilosi della TM. Meno comunemente il dolore può manifestarsi in soggetti giovani senza segni clinico-radiografici di artrosi. Questa sintomatologia è da ricondurre a una sinovite secondaria a lassità legamentosa che, se lasciata a se stessa, porterà allo sviluppo di rizoartrosi in tempi relativamente brevi. L’articolarità del I raggio è inizialmente completa, mentre negli stadi avanzati può essere notevolmente

ridotta. La progressiva sublussazione dorso-radiale del I metacarpale e la conseguente retrazione del I spazio intermetacarpale determinano, per compenso, l’iperestensione della MF del pollice: la deformità “a zeta” è tipica dei quadri con anchilosi dell’articolazione TM. La diagnosi differenziale, in fase iniziale, va posta soprattutto nei confronti della malattia di De Quervain: il dolore alla pressione diretta sulla TM e alla compressione assiale, nonché la negatività del segno di Finkelstein permettono di porre con buone probabilità diagnosi di rizoartrosi. Diagnostica per Immagini

Nel sospetto di rizoartrosi, è necessario eseguire un esame radiografico. Le proiezioni standard sono di per sé sufficienti a identificare la malattia, ma uno studio approfondito delle articolazioni peritrapeziali può giovarsi delle proiezioni di Kapandji. Le radiografie mettono in evidenza, negli stadi iniziali, la sclerosi dei capi articolari e l’eventuale presenza di piccoli osteofiti marginali sul lato ulnare (Figura 12.19a). Negli stadi avanzati si osservano la scomparsa dello spazio articolare, l’aumento degli osteofiti, la sublussazione dorso-radiale del I osso metacarpale e la possibile iperestensione della metacarpo-falangea del pollice (Figura 12.19b). È necessario precisare che a quadri radiografici gravi non corrispondono necessariamente quadri clinici altrettanto gravi: in presenza di anchilosi della TM, con scomparsa dello spazio articolare, il dolore può anche essere assente. Le immagini radiografiche permettono di classificare lo stadio della malattia. La classificazione di Dell, introdotta nel 1986, distingue quattro diversi stadi che sono identificati in base all’entità del processo degenerativo (Tabella 12.4). Tale classificazione non è tuttavia particolarmente utile ai fini della scelta terapeutica, proprio per la mancanza di una stretta correlazione tra quadro radiografico e quadro clinico. Terapia

La terapia della rizoartrosi del pollice è per lo più conservativa. L’impiego di tutori (rizosplint) per l’immobilizzazione, i farmaci antinfiammatori non steroidei e la terapia fisica (ionoforesi) rappresentano il più comune trattamento iniziale. L’ortesi, da indossare durante le ore notturne o nei lavori manuali a rischio (presa di forza, pinza tra I e II dito), ristabilisce la congruenza tra i due capi articolari della TM con un duplice scopo: mettere a riposo l’articolazione e, soprattutto, fare in modo che i carichi siano trasmessi il più possibile lungo l’asse longitudinale del I raggio. Qualora tale terapia non sia più efficace, si può procedere

12 - Argomenti di chirurgia della mano 195

Figura 12.19   Quadri radiografici di rizoartrosi del pollice di differente gravità in base alla classificazione di Dell (si veda la descrizione nella Tabella 12.4). Stadio I (a). Stadio IV (b).

Tabella 12.4

Stadio I

II III

IV

  Classificazione di Dell.

Caratteristiche del processo degenerativo Dolore dopo sforzi intensi; grinding test positivo Assottigliamento della rima articolare e sclerosi subcondrale Dolore dopo l’uso normale; crepitio Osteofita ulnare e sublussazione inferiore a 1/3 Pollice atteggiato in adduzione; iperestensione della MF Possibile artrosi pantrapeziale e sublussazione superiore a 1/3 Rigidità Scomparsa della rima articolare e degenerazioni cistiche

con l’iniezione intrarticolare di farmaci steroidei, anche se la terapia chirurgica rappresenta l’unica soluzione definitiva per il controllo del dolore. Gli interventi chirurgici proposti sono molteplici, ma si possono schematicamente dividere in: ● plastica in sospensione con o senza interposizione biologica; ● asportazione del trapezio con o senza interposizione biologica; ● artrodesi della TM; ● protesi articolari. La scelta dell’intervento più idoneo avviene in funzione del quadro clinico-radiografico, delle richieste funzionali del paziente, dell’età e del sesso. Le plastiche in sospensione consentono non solo di eliminare il dolore nell’esecuzione di attività manuali leggere, ma di mantenere anche una buona mobilità del I raggio

a fronte di una lieve perdita di forza. Per tali motivi il candidato a questi trattamenti è di sesso femminile, in età postmenopausale, con richieste funzionali limitate. Le artroplastiche in sospensione si basano sull’asportazione del trapezio, causa di dolore, e sulla ricostruzione dei principali legamenti stabilizzatori del I metacarpale: il legamento palmare obliquo e il legamento trasverso intermetacarpale. Questa ricostruzione avviene mediante l’utilizzo di tendini che passano nelle immediate vicinanze dell’articolazione (per esempio il flessore radiale del carpo) (Figura 12.20). L’artrodesi della TM, uno dei primi trattamenti proposti, trova ancora oggi spazio per la sua applicazione in pazienti giovani, soprattutto di sesso maschile, con richieste funzionali elevate. Le protesi, al momento attuale, non garantiscono risultati superiori né in termini di funzione né in termini di durata nel tempo, rispetto agli altri interventi.

Artrosi deformante delle dita In base alla localizzazione, l’artrosi deformante delle dita può essere distinta in: ● artrosi delle interfalangee distali (IFD); ● artrosi delle interfalangee prossimali (IFP); ● artrosi delle metacarpo-falangee (MCF).

Interfalangee distali L’artrosi delle IFD è la localizzazione più frequente, con una netta predilezione per il sesso femminile. Rara prima dei quarant’anni, si manifesta nel periodo postmenopausale, con il riscontro di nodosità periarticolari a

196 Ortopedia

Figura 12.20   Opzioni chirurgiche per il trattamento della rizoartrosi del pollice. Interposizione dell’emitendine del flessore radiale del carpo (FRC) nello spazio lasciato libero dalla trapeziectomia (a). Interposizione dell’emitendine del FRC con avvolgimento intorno all’abduttore lungo del pollice (ALP) (b). Interposizione dell’emitendine del FRC dopo passaggio in tunnel transosseo alla base del I osso metacarpale (c). Interposizione di “acciuga” del palmare lungo (PL) e sutura su se stesso del FRC dopo passaggio nel tunnel transosseo (d).

carico di una o più dita: i noduli di Heberden. Questi tendono più spesso a comparire alle IFD del secondo e terzo dito, ma con il passare degli anni vengono coinvolte anche le altre dita; di rado è colpito anche il pollice. La genesi di questa patologia è per lo più ereditaria, a carattere dominante nelle donne e recessivo negli uomini. Il coinvolgimento di un solo dito, soprattutto a carico della mano dominante in un soggetto maschile, fa invece sospettare una genesi meccanica. Una sintomatologia dolorosa, peraltro incostante, può essere presente nelle fasi iniziali della malattia, ma tende alla remissione spontanea; il dolore, quando presente, è modesto come del resto modesta è la compromissione funzionale, tanto è vero che il paziente si rivolge al medico preoccupato più per le deformità che per la sintomatologia. All’esame obiettivo i noduli appaiono come rigonfiamenti dell’articolazione di consistenza duro-lignea, associati a deviazioni dell’articolazione interessata (Figura 12.21a). Negli stadi iniziali essi possono essere preceduti dalla comparsa di piccole tumefazioni di consistenza teso-elastica: si tratta di piccole cisti artrogene (cisti mucoidi) che possono ulcerarsi con fuoriuscita del loro contenuto gelatinoso. Le radiografie mostrano tutti i segni di artrosi quali assottigliamento della rima articolare, osteofitosi marginale e osteosclerosi subcondrale. In fase avanzata le articolazioni IFD possono apparire sublussate. La diagnosi differenziale è abbastanza agevole. I tofi gottosi hanno una netta prevalenza nel sesso maschile con

Figura 12.21   Artrosi deformante delle dita. Nodulo di Bouchard alla IFP ( ) e deformità della IFD ( ) (a). Nodulo di Heberden alla IFD (b).

storia di crisi acute soprattutto a carico dei piedi; inoltre i noduli, di consistenza più morbida, lasciano trasparire il loro caratteristico contenuto giallastro. La distinzione fra i noduli di Heberden e l’artrite psoriasica è generalmente agevole per la presenza, in varia combinazione, delle tipiche manifestazioni ipercheratosiche, dell’onicopatia e delle espressioni cliniche della flogosi articolare. Occorre però precisare che la coesistenza di noduli di Heberden con altre artropatie non è infrequente.

Interfalangee prossimali L’artrosi delle IFP è più rara rispetto alla precedente, a cui si associa il più delle volte, condividendone gli aspetti patogenetici, fisiopatologici e clinici. Le nodo-

12 - Argomenti di chirurgia della mano 197

sità articolari delle IFP prendono il nome di noduli di Bouchard: anch’essi di consistenza dura interessano l’intera articolazione dando origine a deformità irregolari e disassamenti (Figura 12.21b). La funzione articolare viene compromessa solo negli stadi avanzati e la rigidità è per lo più in estensione. Alle radiografie si nota, nelle fasi avanzate del processo degenerativo, una rigogliosa osteofitosi marginale. La diagnosi differenziale è la medesima dei noduli di Heberden.

Metacarpo-falangee La localizzazione dell’artrosi alle MF è rara. La genesi, a differenza delle localizzazioni precedenti, è per lo più meccanica. Si osserva infatti in soggetti di sesso maschile dediti a lavori manuali pesanti, che comportano sovraccarico funzionale intenso o prolungato della mano. Il II e il III raggio sono i più colpiti. Il dolore si associa a una limitazione dell’escursione articolare. Il quadro radiografico è quello tipico dell’artrosi. La diagnosi differenziale va posta soprattutto nei confronti dell’artrite reumatoide, ma gli esami di laboratorio e le caratteristiche deformità di quest’ultima permettono di porre diagnosi abbastanza agevolmente.

Tenosinoviti della mano Si definisce tenosinovite l’infiammazione della membrana sinoviale che riveste la guaina di un tendine. Si possono riconoscere in quest’ambito due patologie distinte: le tenosinoviti proliferative e le tenosinoviti stenosanti. Le tenosinoviti proliferative sono meno frequenti, hanno evoluzione erosiva e possono portare alla rottura dei tendini affetti: un esempio tipico è rappresentato dalle tenosinoviti osservate in corso di artrite reumatoide. In questo gruppo rientrano anche le forme settiche, affrontate più avanti, nel paragrafo sulle infezioni della mano. Le tenosinoviti stenosanti sono molto più frequenti e non sono caratterizzate da un’ipertrofia sinoviale, bensì da alterazioni degenerative e ispessimento dei tendini o della guaina fibrosa che li contiene a livello dei canali osteo-fibrosi del polso o delle dita (Box 12.6). Questi canali mantengono i tendini ancorati alle articolazioni da essi controllate garantendo la massima efficacia biomeccanica in rapporto al movimento dei tendini. Le alterazioni ricordate sono secondarie all’attrito fra ten-

Box 12.6

Guaine fibrose dei tendini della mano

Le guaine fibrose del polso e delle dita rappresentano un apparato di contenzione dei tendini, associato all’apparato di scivolamento, quest’ultimo costituito dai due foglietti della membrana sinoviale che rivestono l’interno della guaina (foglietto parietale) e la superficie del tendine (foglietto viscerale). I tendini estensori presentano un apparato di contenzione a livello della superficie dorsale del polso, costituito da 6 canali osteo-fibrosi delimitati in superficie dal retinacolo degli estensori. A partire dal lato radiale, i 6 compartimenti contengono i seguenti tendini (Figura 12.22): ● I: abduttore lungo del pollice (ALP) ed estensore breve del pollice (EBP); ● II: estensori radiali (breve e lungo) del carpo (ERBC e ERLC); ● III: estensore lungo del pollice (ELP); ● IV: estensore comune delle dita ed estensore proprio dell’indice (ECD e EPI); ● V: estensore proprio del V dito (EPM); ● VI: estensore ulnare del carpo (EUC). I compartimenti più spesso sede di tenosinovite stenosante sono il I e il VI. I tendini flessori delle dita presentano un primo apparato di contenzione a livello del tunnel carpale, costituito dal legamento trasverso del carpo. Un secondo apparato è costituito dalla guaina fibrosa digitale che nelle dita lunghe è formata dall’alternanza di pulegge anulari e crociate, così definite per il decorso delle loro fibre. Nel pollice essa è formata da 2 pulegge anulari e 1 puleggia obliqua intermedia (Figura 12.23).

dini e guaine durante il movimento. Il continuo movimento dei tendini attraverso questi spazi ristretti può infatti determinarne dapprima infiammazione e tumefazione, ponendo un ostacolo allo scorrimento che può giungere alla comparsa di uno scatto al passaggio da un lato all’altro della guaina. Esempi di queste patologie sono costituiti dal cosiddetto “dito a scatto” e dalla malattia di De Quervain.

Figura 12.22  Tunnel degli estensori (si veda la descrizione nel testo). U = ulna; R = radio.

198 Ortopedia

Figura 12.23   Pulegge delle dita della mano: dita lunghe (a); pollice (b). MTC = osso metacarpale; F1 = I falange; F2 = II falange; F3 = III falange; A = pulegge anulari; C = pulegge crociate.

Tenosinoviti proliferative Una tenosinovite proliferativa della mano o del polso può comparire in una percentuale molto elevata (fino al 95%) dei pazienti affetti da artrite reumatoide. L’aspetto macroscopico è caratterizzato dalla proliferazione della sinoviale che appare arrossata e adesa alla superficie del tendine che può in parte infiltrare; possono essere presenti depositi di fibrina definiti “granuli orizoidei”. Dal punto di vista istologico le cellule sinoviali appaiono ipertrofiche e iperplasiche, con infiltrato linfo-plasmocitario ed essudato di fibrina. Dal punto di vista clinico la malattia si manifesta con una tumefazione scarsamente dolente lungo il decorso di una guaina sinoviale, particolarmente evidente a livello dei recessi sinoviali posti alle estremità di ogni guaina fibrosa. Sulla superficie dorsale del polso, la tumefazione è chiaramente visibile distalmente al margine distale del retinacolo degli estensori. Colpisce con maggiore frequenza i compartimenti ulnari (IV, V e VI). È agevolmente distinguibile da una massa tumorale o cistica in quanto appare mobile con i movimenti dei tendini estensori. In particolare l’estensione attiva delle dita comprime il versamento all’interno del recesso distale della guaina sinoviale aumentando la tensione al suo interno e rendendo la tumefazione più evidente. Per quanto riguarda i tendini flessori, al polso essi decorrono in profondità all’interno del tunnel carpale e il primo segno di una tenosinovite è rappresentato dall’insorgenza di una sindrome del tunnel carpale. Una tenosinovite proliferativa della guaina digitale si manifesta invece con una tumefazione fusiforme lungo l’intera guaina, particolarmente evidente sul palmo alla base del dito affetto.

Figura 12.24  Rottura spontanea sottocutanea del tendine estensore comune del IV dito, estensore comune ed estensore proprio del V dito.

La complicanza più temibile della tenosinovite è la rottura spontanea dei tendini, nettamente più comune a carico degli estensori (Figura 12.24). La rottura è stata attribuita a varie cause tra le quali l’attrito su prominenze ossee, come la testa dell’ulna sublussata dorsalmente per i tendini ECD ed EPM o il tubercolo di Lister per il tendine ELP, l’infiltrazione sinoviale del tendine o la compromissione vascolare del tendine stesso. Il trattamento deve mirare alla prevenzione delle rotture tendinee grazie alla terapia medica di fondo dell’artrite reumatoide, associata occasionalmente a infiltrazioni locali di cortisone che non vanno ripetute per il rischio di accelerare la rottura dei tendini. In caso di persistente attività del processo infiammatorio, dopo 6 mesi di terapia, esiste l’indicazione a eseguire una sinovialectomia chirurgica. Tra le cause rare di tenosinovite proliferativa vanno ricordate le patologie da deposizione di microcristalli (gotta, pseudogotta, tendinite calcifica), le malattie da

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accumulo come l’amiloidosi (osservata nel 15-20% dei pazienti sottoposti a emodialisi) e l’ocronosi. Infine la sarcoidosi può produrre una tenosinovite dei flessori sia a livello delle dita sia del tunnel carpale.

Tenosinoviti stenosanti Queste forme sono caratterizzate dalla scarsità di reperti infiammatori a livello della sinoviale dei tendini, mentre predomina l’ispessimento fibroso delle guaine. Sono state descritte forme stenosanti a carico di tutti i tendini della mano, ma le forme più frequenti sono rappresentate dal dito a scatto e dalla malattia di De Quervain.

Dito a scatto La tenosinovite stenosante dei flessori delle dita e del pollice è una condizione estremamente frequente, definita anche come “dito a scatto” in quanto causa uno scatto dei tendini flessori quando il paziente flette o estende le dita. Talora il dito può bloccarsi in flessione e per riportarlo in estensione il paziente deve ricorrere a una cauta manipolazione passiva. Il prolungarsi di questa condizione con l’assunzione di un atteggiamento antalgico di semiflessione del dito affetto può favorire il progressivo instaurarsi di una retrazione in flessione dell’articolazione IFP. L’incidenza di questa patologia presenta un picco tra i 50 e i 60 anni, ed è molto maggiore (fino a 6 volte) nel sesso femminile. Le dita più colpite sono in ordine decrescente il pollice, l’anulare, il medio, il mignolo e l’indice. Il fenomeno dello scatto è dovuto all’incongruenza tra le dimensioni dei tendini flessori e della guaina fibrosa digitale a livello della puleggia A1 in corrispondenza dell’articolazione MF. Si ritiene che durante le prese di forza l’attrito contro la puleggia favorisca uno scompaginamento delle fibre dei tendini analogo a quanto può accadere quando un filo viene tirato attraverso la cruna di un ago. Ciò determina la formazione di un nodulo reattivo nel contesto del tendine. Dal punto di vista istologico la puleggia presenta alterazioni degenerative che possono dare luogo anche alla formazione di cisti, mentre il suo strato più profondo a contatto con il tendine presenta una metaplasia fibro-cartilaginea dovuta alle sollecitazioni ripetitive in compressione alle quali la puleggia stessa è sottoposta. Wolfe ha proposto una classificazione del dito a scatto in base all’evoluzione clinica secondo lo schema seguente: ● Grado I: il paziente riferisce dolore e scatto; l’esame obiettivo non evidenzia lo scatto ma solo dolorabilità elettiva a livello della puleggia A1.







Grado II: presenza di scatto; l’estensione attiva è possibile. Grado III: presenza di scatto con estensione possibile solo passivamente (grado III A) o impossibilità di flessione attiva (grado III B). Grado IV: retrazione irriducibile in flessione della IFP.

Il trattamento prevede l’esecuzione di un’infiltrazione di cortisone e anestetico locale nella guaina tendinea. Questa terapia ha un’elevata percentuale di successo; fattori prognostici sfavorevoli sono rappresentati da localizzazioni multiple alle dita, durata superiore a 6 mesi e associazione con patologie come il diabete e l’artrite reumatoide. In caso di insuccesso dopo infiltrazione, o come trattamento immediato nelle forme più avanzate, è indicato il ricorso all’intervento chirurgico. Questo consiste nella sezione longitudinale della puleggia A1 attraverso un’incisione volare trasversale che sottende il limite prossimale della guaina fibrosa digitale. A livello del IV e V raggio esso corrisponde per esempio alla plica palmare distale.

Malattia di De Quervain La malattia di De Quervain è una tenosinovite stenosante che colpisce il primo compartimento dorsale del polso, attraverso cui decorrono i tendini ALP ed EBP. Questi tendini formano il margine anteriore della tabacchiera anatomica. La fascia di età più colpita coincide con la quarta e quinta decade, e il sesso femminile è interessato con una frequenza fino a 6 volte superiore. L’eziologia riconosce attività caratterizzate da movimenti ripetitivi di abduzione radiale del pollice, con inclinazione ulnare simultanea del polso. La tensione sostenuta dei tendini determina attrito contro il retinacolo, con ispessimento del retinacolo stesso e progressiva stenosi del tunnel osteo-fibroso. Un ruolo importante è stato attribuito anche alle varianti anatomiche dei tendini ALP ed EBP e delle rispettive guaine (Box 12.7). Il quadro clinico è caratterizzato da dolore della durata di settimane o mesi localizzato sulla superficie radiale del polso, esacerbato dai movimenti del pollice. È presente dolorabilità elettiva con tumefazione 1-2  cm prossimalmente alla stiloide del radio. Il test di Finkelstein si esegue chiedendo al paziente di addurre il pollice nel palmo con le dita lunghe flesse su di esso, e sollecitando il polso in inclinazione ulnare: la comparsa di dolore lancinante irradiato lungo il

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Box 12.7 Varianti anatomiche

dei tendini del primo compartimento dorsale Il primo compartimento dorsale del polso presenta il maggior numero di varianti anatomiche fra i tendini dell’intero arto superiore. L’ALP è abitualmente diviso in due o tre tendini che prendono inserzione variabile alla base del I MTC, al trapezio o ai muscoli dell’eminenza tenar. L’EBP ha dimensioni nettamente minori ed è assente nel 5% circa degli individui. L’anatomia normale prevede che entrambi i tendini decorrano all’interno di un unico tunnel osteo-fibroso; in realtà circa 1/3 dei preparati anatomici mostra la presenza di un setto osteo-fibroso che divide il compartimento in un tunnel ulnare per l’EBP e uno radiale per l’ALP. Questa variante è stata osservata in percentuali fino al 90% dei pazienti operati, e ciò fa pensare che rappresenti un fattore predisponente per lo sviluppo della malattia. Il mancato riconoscimento di queste varianti può determinare una liberazione incompleta al momento dell’intervento chirurgico e causare pertanto il fallimento del trattamento con persistenza dei sintomi.

decorso dei tendini ALP ed EBP caratterizza la malattia di De Quervain (Figura 12.25). La diagnosi differenziale si pone con la tenosinovite stenosante del II compartimento dorsale (tendini estensori radiali del carpo), con la rizoartrosi del pollice e con l’artrosi delle articolazioni tra radio e scafoide o tra scafoide, trapezio e trapezoide. Anche nelle forme di artrosi citate il test di Finkelstein può evocare dolore; la diagnosi differenziale si basa sulla localizzazione precisa della sede del dolore e sull’esecuzione di radiografie del polso, che sono dirimenti. Il trattamento conservativo della malattia si avvale delle infiltrazioni di cortisone, che consentono la risoluzione dei sintomi in una percentuale dei casi compresa tra il 50% e l’80%. Il trattamento chirurgico consiste nella liberazione dei tendini mediante l’apertura longitudinale del retinacolo del primo compartimento. È essenziale ricercare un eventuale tunnel

Box 12.8 L’aponevrosi palmare media L’aponevrosi palmare media (Figura 12.26) è situata nella loggia palmare centrale della mano. È costituita da: ● uno strato superficiale di fibre a decorso longitudinale, che rappresentano un’espansione del tendine del muscolo palmare lungo; ● uno strato più profondo, costituito da fibre intrinseche che hanno un decorso trasversale e che sono in continuità con le fasce della mano ai lati e prossimalmente con il legamento trasverso del carpo. Distalmente l’aponevrosi si divide in espansioni dirette verso ciascun dito. Alcuni contingenti fibrosi si inseriscono direttamente alla cute delle pliche palmari. Il contingente principale di fibre si divide in una porzione centrale e una marginale: ● il contingente centrale si porta alle dita e si inserisce in superficie alla cute in corrispondenza delle pliche flessorie interdigitali e in profondità alla guaina fibrosa di ciascun dito; ● il contingente marginale di fibre si porta in profondità sulla capsula delle articolazioni MF, sul legamento trasverso intermetacarpale profondo e sulle falangi prossimali (si veda la Figura 12.26).

separato per l’EBP, in quanto la sua mancata apertura determina la persistenza dei sintomi.

Malattia di Dupuytren La malattia o morbo di Dupuytren, descritta nel 1832, è un processo proliferativo a carico dell’aponevrosi palmare media e delle sue espansioni digitali (Box 12.8). Si caratterizza clinicamente per le retrazioni nodulari del palmo e la flessione progressiva delle dita dovuta alla retrazione delle espansioni digitali dell’aponevrosi. Epidemiologia

La patologia è diffusa nella razza bianca caucasica e nella celtica; colpisce l’1-2% della popolazione. È più

Figura 12.25  T e s t d i Finkelstein: posizione della mano con le dita flesse sul pollice addotto (a); la sollecitazione in inclinazione ulnare provoca dolore lungo il decorso di ALP ed EBP (b).

12 - Argomenti di chirurgia della mano 201

Figura 12.26   Anatomia del piano superficiale palmare della mano: nervi digitali palmari del ramo superficiale del nervo ulnare (A); bandellette pretendinee dell’aponevrosi palmare (B); arterie e nervi digitali palmari (C); legamento trasverso intermetacarpale superficiale (D).

comune nell’uomo che nella donna con un rapporto che varia da 2:1 a 10:1. L’esordio nell’uomo avviene in una fascia di età più precoce: 48 ± 15 anni rispetto a 58  ±  12 anni. Il 10% dei pazienti ha una familiarità positiva. Molte e comuni associazioni con fattori di rischio e patologie vengono segnalate in letteratura: malattie croniche polmonari, alcolismo, epilessia, diabete, iperlipidemia, ischemia miocardica. Eziopatogenesi

Storicamente è stata accreditata un’ipotesi eziologica legata ai traumi, in particolare a microtraumi ripetuti, evenienza possibile nel lavoro manuale pesante. Tale ipotesi, avanzata da Skoog nel 1948 e da Robert nel 1981, è oggi condivisa solo come concausa nell’evoluzione della malattia. Nel 1991 McFarlane dimostrò che anche un singolo trauma acuto, quale una frattura della mano o del polso, una ferita, un’ustione, potesse avere un ruolo, ma solo in persone geneticamente predisposte.

Una causa metabolica è annoverata da diversi autori che fanno riferimento all’associazione, frequente in questi pazienti, con patologie dismetaboliche quali il diabete e l’iperlipidemia. L’ipotesi di una patogenesi neuro-vascolare, che trovò ampio credito dagli anni Sessanta del Novecento ma che fu proposta da Abbe nel 1889, prevede che gli stimoli dolorosi siano amplificati sul palmo della mano dei soggetti affetti da questa malattia, in quanto dotati di corpuscoli di Pacini di dimensioni maggiori. Tali recettori sarebbero in grado di indurre alterazioni del tono vasomotore, con conseguente aumento della vasco­ larizzazione; quest’ultima provocherebbe un’iperplasia delle cellule miofibroblastiche, con aumento della produzione di collagene e matrice intercellulare, e formazione dei noduli. Attualmente è riconosciuta fra le cause una trasmissione genetica autosomica dominante, con penetranza variabile, che aumenta in proporzione con l’età. Tubiana e Hueston nel 1966 hanno ipotizzato due meccanismi per spiegare la fisiopatologia della retrazione dell’aponevrosi: il primo prevede che il tessuto aponevrotico vada incontro ad alterazioni intrinseche che conducono alla formazione di noduli ipercellulari e di corde ipertrofiche; il secondo meccanismo, o estrinseco, prevede che l’aponevrosi si retragga per la formazione di bande fibrose superficiali a contatto con il derma, che si formano per reazione alle tensioni cui viene sottoposta l’aponevrosi. Anatomia patologica

Una descrizione anatomo-patologica ampiamente accreditata è quella di Nezelof del 1990, che descrive una classificazione delle lesioni in tre fasi, basata sulle modificazioni riscontrate nelle popolazioni cellulari dei noduli e sulla durata di malattia. 1. Fase proliferativa: dura circa 4 anni ed è caratterizzata dalla produzione di miofibroblasti e di fibroblasti in eccesso che producono fibre collagene. 2. Fase involutiva: dura circa 6 anni. Le cellule sono più piccole e si dispongono sulle linee di tensione che si esercitano sui noduli, i quali si trasformano in corde fibrose; il rapporto cellule-collagene si sposta verso un aumento del collagene. 3. Fase residua: dura circa 7 anni. Il nodulo tende a diminuire di dimensioni per il progressivo impoverimento cellulare e il contemporaneo aumento delle fibre collagene, mentre compare il processo della retrazione. Quadro clinico

Solitamente la patologia fa il suo esordio con la comparsa di uno o più noduli al palmo della mano,

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caratterizzati da ombelicature perinodulari della cute; tali lesioni non sono quasi mai dolorose. L’esordio avviene più spesso in corrispondenza del IV raggio (43% dei casi) e del V raggio (34%), mentre è rara la localizzazione al pollice. La cute può essere assottigliata e distrofica a causa della progressiva infiltrazione da parte della lesione. Con il progredire della patologia, quando le espansioni digitali vengono coinvolte, l’espressione clinica della lesione anatomo-patologica è rappresentata dalla progressiva flessione delle articolazioni digitali MF e IF, con conseguente retrazione fissa in flessione. Classificazione

La malattia è stata descritta e classificata da diversi autori. La classificazione universalmente accettata e allo stesso tempo di semplice uso è quella di Tubiana (1966), basata sulla diffusione delle lesioni al palmo e sulla gravità delle lesioni delle dita (Figura 12.27). Essa prevede cinque stadi. ● Stadio 0: noduli, ombelicature, corde palmari. ● Stadio 1: flessione della catena digitale con contrattura in flessione delle MF e delle IFP per valori compresi fra 0° e 45° complessivi delle due articolazioni. ● Stadio 2: flessione della catena digitale fra 45° e 90°. ● Stadio 3: flessione della catena digitale fra 90° e 135°. ● Stadio 4: flessione della catena digitale oltre 135°. La definizione numerica dello stadio è associata a una lettera che indica la topografia delle corde: la lettera P indica una lesione palmare, la lettera D esprime un

interessamento digitale, infine la lettera H indica l’iperestensione dell’articolazione IFD. In alcuni casi si riscontrano noduli dorsali dell’articolazione IFP, definiti “cuscinetti fibrosi dorsali”, dovuti a ispessimento del tessuto connettivo peritendineo. L’escursione in flessione della catena digitale è conservata mentre risulta impossibile l’estensione anche passiva. Nella diagnosi differenziale vanno considerate le patologie con presentazione clinica similare, quali: la camptodattilia, i postumi delle ferite cutanee, le lesioni tendinee, le ustioni, le rigidità articolari delle dita in flessione. La malattia di Dupuytren può essere associata ad altre lesioni caratterizzate da fibrosi: il morbo di La Peyronye, che coinvolge i corpi cavernosi del pene, e il morbo di Ledderhose, ovvero la fibromatosi della fascia plantare del piede. Prognosi

L’evoluzione della patologia è variabile, anche se l’insorgenza in giovane età è associata a progressione digitale retraente di tipo aggressivo. La prognosi peggiore è nell’uomo, mentre nella donna l’evoluzione è più lenta anche perché l’insorgenza è più tardiva. Anche la sede è considerata predittiva dell’evoluzione: il lato radiale è solitamente a evoluzione lenta. L’insorgenza di lesioni in sede palmare non è necessariamente seguita dall’estensione della patologia alle dita. La perdurante flessione delle articolazioni IF determina la retrazione della capsula e dei legamenti: se non trattata, la deformità in flessione diviene irriducibile

Figura 12.27   Classificazione di Tubiana della malattia di Dupuytren (si veda la spiegazione nel testo): stadio 2 P (a); stadio 2 D (b); stadio 4 P D (c); stadio 4 P D (H) (d).

12 - Argomenti di chirurgia della mano 203

negli stadi avanzati. Tale retrazione non compare mai a livello metacarpo-falangeo. Terapia

L’unica terapia efficace per il morbo di Dupuytren è quella chirurgica. L’indicazione non viene data nei casi con noduli palmari senza dolore, mentre trova consenso in presenza di retrazioni delle dita. Le procedure chirurgiche adottate in letteratura sono: ● l’aponevrectomia sottocutanea; ● l’aponevrectomia selettiva; ● l’aponevrectomia totale; ● l’aponevrectomia con innesto di cute; ● l’amputazione digitale. L’amputazione di un dito viene riservata a pazienti molto anziani nei casi più gravi, con retrazione in flessione completa con dito a contatto del palmo; si tratta di pazienti in cui, in caso di ottenimento dell’estensione del dito, è preventivabile come complicanza post-chirurgica un’ischemia del dito causata dallo stiramento dei vasi digitali. L’aponevrectomia è la metodica più comunemente adottata. La tecnica selettiva è preferita alla radicale, in virtù di un minore rischio di complicanze a parità di efficacia; essa è definita come “escissione della sola fascia ispessita”. Il punto fondamentale per il chirurgo è l’incisione della cute, che deve tenere conto del tipo di lesione palmare e digitale sia per l’estensione sia per la gravità. L’incisione deve essere sufficientemente ampia da permettere una visione completa della lesione, ma soprattutto dei fasci vascolo-nervosi: è infatti molto pericoloso asportare la lesione in presenza di corde fibrose spirali, che possono dislocare un fascio vascolo-nervoso in sede centrale e superficiale a livello digitale (Figura 12.28). L’incisione deve consentire di scolpire lembi vitali e deve evitare cicatrici retraenti. Nella chirurgia del morbo di Dupuytren, la sutura della cute è un passaggio fondamentale dell’intervento. Una volta asportata la lesione e ottenuta l’estensione delle dita, la chiusura della ferita può essere ostacolata da tessuto cutaneo insufficiente: questa evenienza può essere ovviata da lembi locali già in essere con l’incisione a Z multiple o con l’estensione di tali lembi con incisioni V-Y. Nei casi più gravi si deve ricorrere a innesti liberi di cute o all’epitelizzazione secondaria, che richiede almeno 35-40 giorni per coprire l’intervallo di cute mancante. Le complicanze della chirurgia possono essere precoci o tardive. Tra le prime vengono descritti gli ematomi, le infezioni, le ischemie e le necrosi cutanee con percen-

Figura 12.28   Foto intraoperatoria durante intervento di aponevrectomia palmare selettiva della mano destra. Nervo digitale ( nel riquadro) con decorso a spirale attorno alla corda digito-palmare (a). Aspetto dopo asportazione della porzione di aponeurosi interessata dalla malattia (b).

tuali che variano dallo 0,7% all’8%; inoltre sono riportate lesioni delle arterie digitali, dei nervi digitali e necrosi delle dita per valori fra lo 0,7% e l’1,5% dei casi. Le complicanze tardive comprendono le algodistrofie e le rigidità articolari. Sono poi ampiamente riportate recidive ed estensioni del­ ­la malattia, con una frequenza fra il 26% e l’80% dei casi in rapporto alla durata del follow-up dopo l’intervento.

Patologia infettiva della mano In era preantibiotica, le infezioni della mano erano causa di gravissime invalidità con rigidità, retrazioni e anche amputazioni. Oggi tali complicanze, benché siano rare, sono sempre possibili in caso di trattamento inadeguato o tardivo. Ciò sottolinea l’importanza della conoscenza dei principi generali di diagnosi e terapia di queste patologie. Le infezioni della mano sono generalmente secondarie a traumi che producono soluzioni di continuo della cute, anche di minima entità, attraverso le quali i germi

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Figura 12.29  Tenosinovite tubercolare dei flessori. Aspetto clinico (a). Quadro intraoperatorio: il processo infettivo appare esteso dal V al I raggio (b). Abbondante presenza di granuli orizoidei all’esplorazione chirurgica (c).

penetrano in profondità. Vi sono anche forme secondarie alla diffusione di un foruncolo e forme ematogene di osservazione infrequente, quali la tenosinovite tubercolare dei flessori (Figura 12.29) e l’artrite da gonococco. Le infezioni localizzate sulla superficie volare della mano e delle dita o nei tessuti che circondano la falange distale si sviluppano all’interno di compartimenti anatomici (Box 12.9) che ne limitano la diffusione e ne determinano le caratteristiche cliniche peculiari. Il dorso della mano e delle dita non presenta compartimenti anatomici e ciò favorisce la rapida propagazione dell’infezione ai tessuti contigui sotto forma di cellulite. Gli ascessi possono formarsi nei tessuti della mano a tre livelli di profondità: cutanei, sottocutanei o sottofasciali qualora si sviluppino al di sotto dell’aponevrosi palmare. Eziopatogenesi

L’agente eziologico più frequente delle infezioni della mano è lo stafilococco (circa 60% dei casi). Più raramente sono responsabili altri germi come streptococchi, Proteus, colibacilli, piocianei, Erysipelothrix e micobatteri. Lo sviluppo dell’infezione nei compartimenti sopra descritti provoca iperpressione locale con trombosi dei capillari e necrosi centrale colliquativa. Il focolaio è caratterizzato da un infiltrato di leucociti polimorfonucleati con reazione fibroblastica periferica che però raramente impedisce l’estensione del processo flogistico. Un discorso a parte merita la fascite necrotizzante, affezione rara e gravissima, causata da batteri definiti nella letteratura anglosassone flesh-eating bacteria. L’infezione è sostenuta da germi aerobi (in genere streptococco b-emolitico di gruppo A, raramente Escherichia coli, Pseudomonas spp. e Klebsiella spp.) o anaerobi (Clostridium spp.). Il rilascio delle tossine batteriche determina un’estesa necrosi colliquativa che interessa il sottocute e la fascia diffondendosi tra i piani dei tessuti molli, ma può estendersi anche al tessuto muscolare. Nelle infezioni da anaerobi compare il fenomeno della gangrena gassosa con dissezione dei tessuti per accumulo di anidride carbonica e solfuro di idrogeno.

Box 12.9

Compartimenti anatomici della mano

Eponichio: è la plica cutanea che ricopre la matrice ungueale. È delimitata in sede distale dal proprio margine libero e prossimalmente dai setti fibrosi che congiungono la cute alla base della falange ungueale appena distalmente all’inserzione dell’apparato estensore; lateralmente è delimitata dal margine dell’unghia. Spazi apicali: la cute dell’apice del dito è congiunta all’apice della falange distale da numerosi setti fibrosi che trasformano i tessuti molli immediatamente sottostanti all’unghia in un insieme di compartimenti. Polpastrello: la plica flessoria dell’articolazione interfalangea distale unisce la cute alla puleggia crociata della guaina fibrosa digitale, pertanto il polpastrello rappresenta un compartimento chiuso. Considerazioni analoghe valgono per le superfici volari delle altre falangi. Spazi commissurali: compresi tra due dita, sono delimitati sui lati dalle inserzioni dell’aponevrosi palmare alle guaine digitali e si estendono verso il dorso della mano al di là del pavimento formato dal legamento intermetacarpale profondo. Loggia palmare profonda: è delimitata in superficie dall’aponevrosi palmare che, essendo inestensibile e resistente alla penetrazione da parte dell’infezione, determina la notevole tensione di una raccolta purulenta in questo spazio. Canale digitale: la guaina dei tendini flessori si estende dall’articolazione metacarpo-falangea fino all’inserzione del flessore profondo alla falange distale. La guaina del flessore lungo del pollice comunica con la guaina sinoviale radiale del polso, mentre a livello delle dita lunghe solo la guaina dei flessori del V dito comunica con la guaina sinoviale ulnare del polso nell’80% dei casi. Questa comunicazione rende possibile una rapida diffusione delle infezioni dei tendini di queste due dita al polso e all’avambraccio o addirittura l’estensione del processo infiammatorio all’altro dito con l’aspetto dell’ascesso “a ferro di cavallo”.

Quadro clinico

Il paziente spesso riferisce una lesione apparentemente banale che ha preceduto l’esordio dell’infezione di un periodo di tempo variabile: di 12-24 ore per le forme diffuse di cellulite, 48 ore per le tenosinoviti, fino a

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4-5 giorni per le infezioni commissurali e della loggia palmare profonda, i paterecci del polpastrello e la paronichia, e infine fino a 2 settimane per le artriti settiche. La sede della lesione è importante per formulare una diagnosi corretta. I segni dell’infiammazione costantemente presenti sono il dolore e l’impotenza funzionale, massima nelle tenosinoviti dei flessori nelle quali è abolito qualsiasi movimento del dito affetto che è atteggiato in flessione irriducibile. Arrossamento, tumefazione e aumento del termotatto sono evidenti nelle infezioni superficiali, mentre nelle infezioni profonde i segni cutanei possono essere sfumati o assenti e la tumefazione è diffusa. La presenza di dolore pulsante che causa la perdita del sonno segnala la formazione di una raccolta purulenta all’interno di un compartimento. La dolorabilità alla palpazione dell’arto superiore, presente talora fino all’ascella, è un segno di linfangite e si osserva soprattutto nelle celluliti; è associata in genere alle infezioni da streptococco. La linfangite è spesso accompagnata da segni sistemici come febbre e malessere generale. I segni obiettivi delle infezioni della mano dipendono dalla specifica localizzazione del processo flogistico. La paronichia è un’infezione localizzata in genere in uno degli angoli alla base dell’eponichio; se si estende tutto intorno all’unghia prende il nome di giradito. L’infezione può espandersi in profondità intorno al margine prossimale del letto ungueale con accumulo del pus al di sotto dell’unghia. Il processo può cronicizzarsi con secrezione continua di una modica quantità di pus dall’eponichio che appare indurito, arrossato e tumefatto. Le infezioni degli spazi apicali sono caratterizzate da dolorabilità elettiva localizzata in un’area molto piccola al di sotto del margine dell’unghia. La raccolta di pus può farsi strada sotto la lamina ungueale fino a sollevarla completamente. L’infezione del polpastrello viene definita patereccio. La comparsa di fluttuazione è abbastanza tardiva ed è dovuta alla distruzione dei setti fibrosi che uniscono la cute al periostio della falange distale; in questa fase si associa spesso l’osteite della falange. Le infezioni degli spazi commissurali originano in sede palmare, ma sono più evidenti sulla superficie dorsale, dove la lassità del sottocute consente all’edema di espandersi. La raccolta di pus produce la divaricazione delle dita che è patognomonica di questa localizzazione. Le infezioni della loggia palmare profonda determinano dolore molto intenso, con riduzione della normale concavità del palmo e marcata tumefazione da edema del dorso della mano. L’edema periarticolare delle MF

ne provoca un atteggiamento di estensione, che ha anche significato antalgico; le articolazioni IF possono invece essere cautamente mobilizzate e ciò rappresenta un criterio di diagnosi differenziale nei confronti delle tenosinoviti dei flessori. Gli ascessi profondi possono, in seguito alla necrosi dei tessuti soprastanti, comunicare con gli strati più superficiali. In questo modo si formano gli ascessi “a bottone di camicia”, nei quali due raccolte di pus comunicano attraverso un tramite fistoloso. È possibile che si formino anche ascessi con tre raccolte: una sottofasciale, una sottocutanea e una immediatamente al di sotto dell’epidermide. Ne deriva il rischio che il drenaggio della sola raccolta superficiale, se quella profonda rimane misconosciuta, determini il persistere dell’infezione. Le tenosinoviti purulente dei flessori fanno seguito più spesso a lesioni in corrispondenza delle pliche flessorie delle dita. In tale sede la cute è aderente alla porzione più sottile della guaina fibrosa che corrisponde alla puleggia crociata. Queste infezioni presentano i classici 4 segni di Kanavel: ● atteggiamento di lieve flessione del dito affetto; ● tumefazione e arrossamento del dito; ● dolorabilità sulla superficie volare del dito, limitata al decorso della guaina digitale; ● dolore vivo ai tentativi di estensione passiva del dito, più intenso a livello dell’estremità prossimale della guaina digitale. Fra tutte le infezioni della mano, queste presentano la prognosi più severa, perché il processo settico può distruggere l’apparato di scorrimento del tendine creando rapidamente aderenze che limitano notevolmente il movimento del dito affetto. Nelle forme più gravi viene distrutto l’apporto ematico con necrosi del tessuto e conseguente rottura tendinea. Le artriti settiche della mano sono spesso secondarie a ferite della superficie dorsale delle dita. La causa più frequente è rappresentata dal morso umano, ovvero dalla ferita subita sferrando un pugno contro un dente. I sintomi di un’artrite settica sono una tumefazione che appare sproporzionata rispetto agli sfumati segni di infiammazione della cute circostante la ferita del dorso, la limitazione articolare, l’instabilità ed eventuale fistolizzazione. I segni radiografici consistono in tumefazione dei tessuti molli in sede dorsale, osteoporosi iuxtarticolare, riduzione dell’interlinea ed erosioni dei capi articolari. Le celluliti dei tessuti della mano presentano un’evoluzione molto rapida associata a linfangite dell’avambraccio e a segni di compromissione dello stato generale. Può essere presente una linfoadenopatia ascellare.

206 Ortopedia

Figura 12.30   Fascite necrotizzante a partenza dall’apice del II dito, insorta a seguito di ferita con scheggia di legno.

La fascite necrotizzante si manifesta inizialmente con un quadro clinico simile a una cellulite, ma si rende presto manifesta in tutta la sua gravità. L’edema è precoce e in alcuni casi massivo, potendo estendersi in poche ore a un intero arto. Il dolore è intenso e ingravescente, spesso sproporzionato all’aspetto della ferita. Questa è dapprima circondata da cute edematosa di colorito purpureo; in seguito compaiono un’area di necrosi intorno alla ferita e flittene emorragiche caratteristiche della patologia (Figura 12.30). La palpazione dell’area è molto dolorosa e può rivelare, nelle infezioni da Clostridium, un crepitio dovuto alla gangrena gassosa. La compromissione dello stato generale è precoce, caratterizzata da malessere generale, febbre, astenia, tachicardia e disorientamento del paziente; si può associare un eritema diffuso. La malattia può evolvere verso l’exitus in seguito a shock settico in una percentuale di casi variabile tra il 20% e il 50%, se non viene instaurato immediatamente un trattamento adeguato. Terapia

Le infezioni superficiali della mano non richiedono il trattamento antibiotico solo nel caso delle infezioni periungueali (paronichia); la terapia medica è invece essenziale in ogni infezione profonda. La terapia antibiotica sistemica è in grado di risolvere da sola un’infezione della mano solo in situazioni particolari. Il trattamento deve essere istituito entro 24-48 ore dall’esordio dei sintomi e associato a un’opportuna immobilizzazione del segmento interessato. Al di là di tale periodo, lo sviluppo delle infezioni della mano in compartimenti chiusi, associato alla trombosi dei capillari, impedisce la diffusione degli antibiotici a livello della raccolta ascessuale. La scelta della terapia avviene su base empirica, considerando il fatto che la maggior parte di tali infezioni sono dovute allo Staphylococcus aureus. È stato consigliato l’utilizzo di nafcillina alla dose di 1,5 g ev ogni

6 ore. Nel sospetto di un’infezione da streptococco o germi anaerobi è indicata la somministrazione di 1,5 milioni UI di penicillina G ev ogni 3 ore. L’esecuzione di un esame colturale consente l’isolamento del germe patogeno e l’antibiogramma permette di istituire una terapia antibiotica mirata passando alla somministrazione per via orale dopo 2-3 giorni. Se non è presente un’osteomielite la terapia può essere sospesa dopo 7-10 giorni. Le infezioni hanno inizio come celluliti, e in questa fase non sono mai indicati l’incisione e il drenaggio. In caso di ricorso tardivo del paziente alle cure mediche o di inefficacia del trattamento antibiotico iniziale, avviene la formazione di raccolte purulente che vanno sempre drenate, seguendo alcune regole fondamentali: ● non attendere la formazione di una tumefazione fluttuante; ● anche quando il pus non è visibile, esso è sempre presente se: – il dolore è pulsante – il paziente non riesce a dormire per il dolore; ● se il pus non è visibile attraverso la cute, bisogna sempre incidere nel punto di maggiore dolorabilità, che va ricercato accuratamente con una punta smussa; ● l’incisione deve poter essere prolungata in ogni direzione se l’infezione è più estesa di quanto previsto, rispettando le regole ricordate al punto successivo; ● l’incisione non deve mai attraversare una plica cutanea con angolo superiore ai 45°, deve evitare il decorso di tendini, vasi e nervi e non deve compromettere l’apporto sanguigno alle aree limitrofe. Dopo il drenaggio del pus e l’escissione del tessuto necrotico la ferita va in genere lasciata aperta e guarisce per seconda intenzione; in alternativa, si può praticare una sutura lasciando in sede drenaggi che vengono utilizzati per il lavaggio della ferita. Per quanto riguarda il trattamento della fascite necrotizzante, esistono indicazioni specifiche al trattamento chirurgico: ● assenza di miglioramento di una sospetta cellulite dopo 24-48 ore di terapia antibiotica per via parenterale; ● disturbi sistemici presenti dall’esordio dell’infezione sotto forma di malessere generale, dolori diffusi, astenia e perdita di concentrazione; ● necrosi dei tessuti a livello della ferita o presenza di gas all’esame obiettivo o sulle radiografie; ● minaccia di una sindrome compartimentale causata dall’edema. Il trattamento consiste in questi casi nella completa asportazione del tessuto necrotico, lasciando la ferita

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aperta. Nei casi più gravi con danno esteso dei tessuti molli circostanti, la chiusura della ferita potrà essere ottenuta mediante un innesto di cute secondario. Nelle forme da anaerobi la prognosi quoad vitam è stata migliorata dall’utilizzo dell’ossigenoterapia iperbarica.

Sindrome dolorosa regionale complessa La recente definizione di sindrome dolorosa regionale complessa (Complex Regional Pain Syndrome, CRPS) cerca di fare ordine fra i numerosi appellativi (malattia di Sudeck, sindrome algodistrofica, distrofia simpaticoriflessa) che fino al 1994 erano utilizzati nel descrivere questo particolare corredo di sintomi. La nuova denominazione sottolinea l’estrema variabilità delle manifestazioni cliniche (complex), la presenza di dolore (pain) come unico sintomo imprescindibile e la localizzazione senza distribuzione metamerica a un arto o parte di esso (regional), a carattere persistente. La distinzione tra la CRPS di tipo I e di tipo II, quest’ultima secondaria alla lesione nota di un ramo nervoso (causalgia), completa la definizione. Con una finalità meramente pratica si riporta la definizione più antica, ma forse la più adeguata, a descrivere il quadro clinico della patologia, che rende conto sia della vecchia denominazione di sindrome algodistrofica sia di quella più attuale di CRPS di tipo I: «un’affezione dolorosa regionale a topografia non metamerica che, nel suo decorso, può associarsi a una serie di manifestazioni locali quali edema, alterazioni vasomotorie e sudomotorie, rigidità articolare e osteoporosi, con un possibile esito verso manifestazioni distrofiche e atrofiche».

Quadro clinico

Le manifestazioni cliniche sono più che mai varie. Il dolore viene descritto come urente, pulsante, trafittivo, comunque sproporzionato rispetto alla lesione. Può riguardare la zona lesionata o tutto l’arto. Caratteristiche sono l’allodinia, cioè la sensazione dolorosa indotta da stimoli innocui, e l’iperpatia, ovvero un dolore che compare in ritardo e permane anche quando non vi è più lo stimolo; queste caratteristiche sono espressione del coinvolgimento del sistema nervoso simpatico. L’alterata sensibilità al caldo e al freddo è un’altra manifestazione tipica del quadro sindromico. Al sintomo dolore si associano anche disturbi trofici. Frequentemente è possibile notare eritema, cute sudata e lucida, atrofia pilifera, edema, rigidità articolare, tutti sintomi precoci che si manifestano nel 30% dei casi già nei primi 10 giorni dal trauma (Figura 12.31). Il quadro classico, con arto dolente, tumefatto e rigidità articolare, è di rara presentazione. Il più delle volte l’esame clinico mostra solo lievi segni e sintomi che solo all’analisi retrospettiva risultano indicativi di una sindrome algodistrofica. A scopo didattico sono stati descritti tre stadi evolutivi, la distinzione dei quali è spesso resa problematica dalla sovrapposizione dei sintomi. ● Stadio I (fase acuta): – dolore urente, trafittivo, continuo, esacerbato dal movimento, spesso notturno; – allodinia, iperpatia; – sensibilità tattile e termica ridotta; – efficacia modesta di analgesici e FANS;

Epidemiologia

La CRPS di tipo I può manifestarsi in tutte le età, compresa quella pediatrica e soprattutto nella prima adolescenza, sebbene studi epidemiologici abbiano messo in evidenza un picco di incidenza tra i 40 e i 60 anni. Il sesso femminile è maggiormente colpito, con un rapporto di 2:1 o 4:1 a seconda delle casistiche. In circa la metà dei casi si riconosce quale evento scatenante un trauma di gravità diversa (frattura, distorsione, intervento chirurgico, microtrauma ripetuto), che può interessare strutture scheletriche, articolari o semplicemente i tessuti molli. Va tuttavia segnalato che in una percentuale variabile di pazienti (dal 10% al 25%), la comparsa di una CRPS di tipo I non consente di identificare alcun evento morboso a essa correlabile.

Figura 12.31   Quadro clinico di CRPS interessante il V dito della mano sinistra: sono presenti cute sudata e lucida, atrofia pilifera, edema.

208 Ortopedia





– tumefazione da modesta a pseudoflemmonosa; – disturbi vasomotori (pallore, eritema, subcianosi); – alterazioni cutanee, distrofia ungueale e degli annessi piliferi. Stadio II (fase distrofica). Compare dopo un intervallo variabile (3-6 mesi), in rapporto alla sede della malattia: – cute fredda e lucida, con perdita di elasticità; – deficit funzionale articolare da ispessimento e retrazione delle guaine tendinee e delle capsule articolari; – ipotrofia e contrattura muscolare; – ispessimento e retrazione della fascia palmare/ plantare. Stadio III (fase atrofica): – dolore che può essere diffuso; – deficit funzionale dell’arto interessato; – atrofia di cute e sottocute, retrazioni fasciali, muscolari e capsulari progressive e irreversibili.

Al di là della suddivisione della malattia in possibili stadi successivi, nella pratica clinica è di frequente riscontro una fluttuazione delle manifestazioni cliniche tra il primo e il secondo stadio, con un progressivo e graduale passaggio verso la fase dell’atrofia e delle contratture, nella quale raramente si osserva un reale beneficio terapeutico, qualunque sia il trattamento attuato.

Tabella 12.5

 Aspetti clinico-diagnostici della CRPS I.

Criteri diagnostici ● Presenza di un evento predisponente o scatenante ● Dolore continuo, allodinia e/o iperalgesia, con una sintomatologia dolorosa non proporzionata all’evento scatenante ● Evidenza in qualche momento nel corso della malattia di edema, turbe circolatorie e/o un’anomala attività sudomotoria nella regione interessata ● La diagnosi si può porre previa esclusione di altre possibili condizioni che possono essere responsabili della sintomatologia dolorosa e delle altre manifestazioni Segni e sintomi ● Dolore urente ● Iperestesia ● Differenze di temperatura rispetto al segmento controlaterale ● Alterazioni del colorito cutaneo ● Alterazioni della sudorazione ● Edema ● Alterazioni ungueali ● Alterazioni cutanee ● Ipostenia ● Tremori ● Distonia ● Ridotta escursione articolare ● Iperpatia ● Allodinia

Diagnostica strumentale

Le forme classiche non pongono particolari problemi di diagnosi: per riconoscere la condizione è di regola sufficiente il quadro clinico, soprattutto quando è riconducibile a un evento traumatico e/o a una patologia predisponente (Tabella 12.5). Diverso è il caso per le forme incomplete di CRPS, nelle quali un aiuto fondamentale per la diagnosi può venire dalle indagini strumentali. Gli esami di laboratorio non offrono informazioni utili, poiché i parametri bioumorali appaiono costantemente nella norma. Le indagini radiografiche, al contrario, possono essere dirimenti. Il quadro tipico è costituito da un’osteoporosi “maculata” interessante la zona epifisaria, espressione di riassorbimento osseo disomogeneo coinvolgente l’osso subcondrale. Nelle forme più eclatanti risulta visibile anche il coinvolgimento dell’osso corticale diafisario, che appare più sottile del normale. Il quadro radiografico però non è patognomonico di CRPS, in quanto questi aspetti sono visibili anche nelle forme da disuso secondarie a immobilizzazione o a emiplegia. La scintigrafia trifasica con tecnezio costituisce la metodica diagnostica più affidabile: secondo alcuni studi, la

sensibilità e la specificità superano il 95%. L’ipercaptazione in tutte e tre le fasi è caratteristica di CRPS. La RMN mostra modificazioni molto precoci (in questo è paragonabile alla scintigrafia), che si identificano nell’edema midollare dell’osso; sono però manifestazioni aspecifiche. Nella diagnosi differenziale sono da considerare tutte quelle affezioni capaci di determinare imponenti stati flogistici locali o alterazioni vasomotorie simili alla CRPS (per esempio forme artritiche, soprattutto a genesi infettiva o microcristallina). Terapia

A tutt’oggi non esiste un protocollo terapeutico universalmente condiviso. L’estrema variabilità delle manifestazioni cliniche, così come la loro durata e gravità, spesso determina confusione nella diagnosi e di conseguenza nella terapia. L’unica certezza è la necessità di adottare una prevenzione tempestiva, basata sulla rapida mobilizzazione e su un’efficace terapia antinfiammatoria e analgesica, in situazioni cliniche predisponenti.

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Il trattamento con corticosteroidi per via sistemica può essere di beneficio solo nella fase acuta, ma non sono rare le recidive segnalate alla sospensione della terapia. Tra i farmaci che di recente hanno dimostrato una buona efficacia terapeutica nella CRPS sono da ricordare i bifosfonati (in particolare clodronato, pamidronato e alendronato). Il loro meccanismo d’azione non è noto; è stata ipotizzata un’interferenza con la sintesi locale di alcuni mediatori (IL-6, TNFa, prostaglandina ecc.), che ridurrebbe il disturbo del microcircolo, l’acidosi locale e l’aumento della pressione intramidollare causato dall’edema, determinando un’inibizione dello stimolo nocicettivo e dei meccanocettori a bassa soglia, con un effetto analgesico a breve termine.

Sindrome di Volkmann La sindrome di Volkmann è una sindrome compartimentale, ovvero una condizione in cui l’aumento della pressione all’interno di un compartimento anatomico compromette la circolazione e la funzione dei tessuti all’interno del compartimento stesso. Descritta da Volkmann nel 1881, è dovuta alla necrosi ischemica delle strutture della loggia anteriore dell’avambraccio (Box 12.10), generalmente secondaria a gravi traumatismi del gomito o dell’avambraccio. È caratterizzata da deformità del polso e delle dita secondarie alla retrazione ischemica dei muscoli colpiti dalla necrosi e associate a deficit neurologici di entità variabile. Per estensione questa definizione viene spesso ap­­ plicata a sindromi compartimentali che interessano altre sedi, come per esempio la loggia anteriore della gamba. Box 12.10 La loggia anteriore

dell’avambraccio La loggia anteriore dell’avambraccio è uno spazio inestensibile il cui pavimento è formato dalle due ossa dell’avambraccio con la membrana interossea interposta, mentre il limite in superficie è formato dalla fascia antibrachiale. All’interno si trovano i muscoli anteriori disposti su quattro piani, che dalla superficie in profondità sono: I strato: pronatore rotondo, flessore radiale del carpo, palmare lungo, flessore ulnare del carpo; ● II strato: flessore superficiale delle dita; ● III strato: flessore profondo delle dita, flessore lungo del pollice; ● IV strato: pronatore quadrato. ●

Eziopatogenesi

La causa prima della sindrome è rappresentata da un evento in grado di ridurre la perfusione dei tessuti a livello della loggia anteriore dell’avambraccio. Fra le cause traumatiche un primo esempio è rappresentato dalla lesione di un tronco arterioso dell’arto superiore in sede prossimale rispetto all’avambraccio. Ciò si verifica più spesso in seguito a una frattura sovracondiloidea dell’omero, e consiste nel danno dell’arteria omerale prodotto dalla dislocazione anteriore del frammento prossimale della frattura (Figura 12.32). Può trattarsi di una vera e propria lacerazione, ma più spesso si tratta di una trombosi secondaria a un danno intimale prodotto dalla contusione del vaso o di uno spasmo secondario alla violenta trazione subita dalla tonaca media dell’arteria. Questa complicanza interessa soprattutto bambini di età inferiore a 10 anni, che presentano le forme più gravi della sindrome. Un secondo gruppo di cause riduce la perfusione aumentando la pressione all’interno del compartimento anteriore dell’avambraccio, che rappresenta uno spazio inestensibile. Ciò può realizzarsi a causa dell’ematoma prodotto da una frattura biossea dell’avambraccio, dell’edema che consegue alle ustioni e ai traumi da schiacciamento o della compressione prolungata che si realizza quando un arto rimane a lungo schiacciato al di sotto del capo o del tronco di un paziente in stato di incoscienza, come per esempio durante un’overdose da stupefacenti. Quale che sia la causa della ridotta perfusione all’interno della loggia anteriore dell’avambraccio, essa produce un’ischemia dei tessuti e un danno anossico a carico dell’endotelio dei vasi. Ciò determina a sua volta l’aumento della permeabilità vasale con fuoriuscita di liquidi e proteine e aumento dell’edema. L’aumento L’arteria omerale penetra nella loggia insieme al nervo mediano passando al di sotto del lacerto fibroso del bicipite brachiale. In questa sede può essere danneggiata in caso di frattura sovracondiloidea dell’omero quando il margine aguzzo del frammento prossimale della frattura la comprime violentemente contro il lacerto. Distalmente l’arteria si divide nell’arteria radiale, che decorre in superficie, e nell’arteria ulnare, che passa sotto il pronatore rotondo ed emette l’arteria interossea che con i rami anteriore e posteriore fornisce la principale irrorazione dei muscoli dell’avambraccio. In particolare l’arteria interossea anteriore, che decorre sulla membrana interossea, fornisce l’unico contributo all’irrorazione dei muscoli flessore profondo delle dita e flessore lungo del pollice. La precarietà di tale irrorazione è sottolineata dall’osservazione che il ricco circolo collaterale esistente a livello del gomito non ha alcuna comunicazione con i vasi all’interno della loggia anteriore.

210 Ortopedia

Figura 12.32   Patogenesi della sindrome di Volkmann. Radiografia di frattura sovracondiloidea dell’omero nella sua più comune variante “da estensione” (a). Disegno che illustra l’azione lesiva sull’arteria omerale prodotta dalla dislocazione anteriore del frammento prossimale della frattura (b).

della pressione intracompartimentale che ne consegue determina l’occlusione dei vasi a cominciare dall’estremità venosa della rete capillare e uno spasmo arteriolare riflesso che interessa i rami dell’arteria interossea; questi fenomeni aggravano l’ischemia dando luogo a un circolo vizioso edema-compressione-ischemia che può essere interrotto solo con l’apertura del compartimento. Il persistere dell’ischemia e dell’edema produce la necrosi delle fibre muscolari, seguita da una sostituzione fibrosa o da una rigenerazione del muscolo di entità variabile. Il risultato è una deformità conseguente alla retrazione fibrosa dei muscoli affetti. Il danno neurologico concomitante può essere secondario all’ischemia o essere dovuto alla compressione che il nervo mediano subisce nel passaggio tra i due capi del pronatore rotondo o al di sotto dell’arcata fibrosa tesa tra i due capi del flessore superficiale delle dita.

ipodisestesia nel territorio di distribuzione dei nervi periferici coinvolti, che sono più spesso il nervo mediano e meno frequentemente l’ulnare. La flessione attiva delle dita è debole e può giungere fino alla paralisi anche per l’eventuale danno neurologico sovrapposto; in quest’ultima evenienza la paralisi si estende anche ai muscoli intrinseci della mano. A scopo mnemonico nella letteratura anglosassone la sintomatologia della fase di esordio è riassunta con cinque “P” che variano se l’eziologia è da ricondurre alla compressione da ematoma o alla lesione di un’arteria (Figura 12.33). Nel primo caso il polso è presente e la cute ha colorito roseo; nel secondo caso il polso radiale è assente e la cute è pallida. In entrambi i casi sono presenti dolore, paralisi e parestesie. Dopo pochi giorni dall’esordio, il dolore e la tumefazione lasciano il posto a un indurimento palpabile

Quadro clinico

L’esordio dei sintomi può verificarsi in ogni momento nei 3 giorni, o talora nei 6 giorni, successivi a un trauma di entità adeguata. Il sintomo più frequente consiste in un dolore severo riferito alla faccia volare dell’avambraccio, che appare tesa, arrossata e dolorabile alla palpazione. Le dita sono atteggiate in flessione e il tentativo di estenderle provoca la riesacerbazione del dolore. I polsi periferici possono essere presenti, ma tendono a divenire progressivamente più deboli fino a scomparire. L’interessamento neurologico si manifesta con

Figura 12.33   Le cinque “P” della sintomatologia della sindrome di Volkamann (traduzione nel testo).

12 - Argomenti di chirurgia della mano 211

della muscolatura della loggia anteriore dell’avambraccio, che si associa alla comparsa di una deformità progressiva. Tale deformità è dapprima reversibile in seguito all’instaurazione di un’adeguata fisioterapia, ma dopo un periodo di 3-4 mesi appare stabilizzata. La gravità della deformità dipende dall’estensione della retrazione ischemica ed è definita dalla classificazione di Tsuge. ● Tipo I: consiste in una forma lieve che colpisce solo il flessore profondo delle dita e determina la retrazione in flessione di uno o più delle dita lunghe, in genere il III e IV dito; la flessione del polso consente l’estensione delle dita retratte. ● Tipo II: consiste in una forma di gravità moderata che colpisce i flessori profondi e superficiali delle dita e il flessore lungo del pollice (Figura 12.34). Tutte le dita presentano un atteggiamento in flessione accentuato dall’iperestensione del polso. In questi casi vi è quasi sempre una sofferenza del nervo mediano, che decorre tra i piani muscolari coinvolti dalla retrazione ischemica. Essa si manifesta con un deficit sensitivo nel territorio di distribuzione del nervo stesso, associato a paralisi dei muscoli laterali dell’eminenza tenar. ● Tipo III: consiste nella forma più severa della malattia, con interessamento di tutti i flessori delle dita e del polso, dei pronatori e talora anche dei muscoli della loggia posteriore dell’avambraccio. Il danno neurologico è costantemente presente. Va sottolineata la particolare gravità delle forme che colpiscono i bambini, in quanto la crescita si associa all’aggravarsi della retrazione e può determinare anche una progressiva deformità dello scheletro. Le forme lievi dell’infanzia possono viceversa passare inizialmente misconosciute e manifestarsi solo per la progressiva deformità che accompagna la crescita scheletrica.

Figura 12.34   Quadro clinico di deformità stabilizzata (tipo II secondo Tsuge).

Terapia

La sindrome di Volkmann in fase acuta rappresenta una vera emergenza e richiede dapprima la rimozione immediata di ogni causa in grado di aumentare la pressione intracompartimentale, come per esempio ogni contenzione dell’avambraccio (gessi o bendaggi). Se un monitoraggio frequente e regolare non rivela la remissione completa dei sintomi è necessario procedere alla decompressione chirurgica del compartimento. Nei pazienti scarsamente collaboranti in cui l’esame clinico è reso difficile dalla presenza di altre lesioni, dallo stato di incoscienza o dalla giovane età, è utile procedere alla misurazione diretta della pressione intracompartimentale. Se la pressione tissutale è superiore ai 40 mmHg è indicata la decompressione chirurgica immediata. Nei casi dubbi è opportuno dare indicazione all’intervento senza attendere la manifestazione completa del classico corteo di sintomi sopra ricordato. In particolare, non bisogna aspettare la scomparsa dei polsi periferici, che esprime un pericolo ormai imminente di necrosi muscolare estesa e irreversibile. La decompressione è ottenuta mediante fasciotomia, che consiste nell’apertura con un’incisione molto ampia di tutta la loggia anteriore dal gomito fino al tunnel carpale. La fasciotomia va completata con la decompressione dei singoli ventri muscolari, con particolare riferimento ai muscoli del piano profondo come il flessore profondo delle dita, che sono i più vulnerabili alla necrosi muscolare. Se i polsi periferici non ricompaiono, l’esplorazione va estesa all’arteria brachiale procedendo alla riparazione di un’eventuale lesione. L’incisione va lasciata aperta fino alla risoluzione dell’edema, quando la chiusura sarà ottenuta mediante una sutura diretta o un innesto cutaneo. Se il paziente giunge all’osservazione nelle settimane o nei mesi immediatamente successivi all’esordio, durante i quali la deformità è ancora reversibile, la terapia consiste nella mobilizzazione associata all’uso di splint per correggere la deformità. Nella fase degli esiti la deformità è stabilizzata e l’indicazione al trattamento chirurgico è definita sulla base della classificazione di Tsuge. Nel tipo I è in genere sufficiente, per ottenere la correzione della deformità, l’escissione del tessuto muscolare fibrotico. Nel tipo II è necessario associare all’escissione del tessuto fibrotico la disinserzione dei muscoli anteriori dell’avambraccio sia dall’epitroclea sia dalle ossa dell’avambraccio e dalla membrana interossea, secondo la tecnica descritta da Scaglietti. L’estensione passiva delle dita durante l’intervento consente di misurare l’ottenimento di una sufficiente liberazione. Essendo

212 Ortopedia

costante in questi casi un interessamento neurologico, va sempre eseguita anche la neurolisi per liberare i nervi mediano e ulnare in tutte le possibili sedi di compressione. Nel tipo III la necrosi è talmente estesa che la correzione della deformità non consente comunque un recupero funzionale per la perdita della funzione contrattile. Se esistono estensori validi disponibili per una trasposizione tendinea sul flessore lungo del pollice e sul flessore profondo delle dita, ciò può consentire un recupero della funzione di presa; in alternativa è descritto il trapianto dall’arto inferiore del muscolo gracile vascolarizzato e innervato, per il recupero della flessione delle dita.

Lesioni traumatiche dei tendini della mano Lesioni dei tendini flessori Le lesioni dei tendini flessori sono dovute solitamente a ferite da taglio e lacero-contuse, oppure dovute a traumi da schiacciamento. Sono tra le lesioni tendinee più frequenti nel corpo umano sia in ambito lavorativo sia domestico. Il loro trattamento chirurgico presenta diverse difficoltà tecniche relative alla complessità dell’anatomia dei tendini flessori e delle strutture vascolo-nervose adiacenti (Box 12.11).

Box 12.11 I tendini flessori I tendini flessori sono costituiti da fasci paralleli di fibre collagene disposti con decorso longitudinale. Questi fasci sono avvolti dall’endotenonio, costituito da tessuto connettivo in cui è presente un’importante vascolarizzazione con vasi a decorso longitudinale. Tutti i fasci insieme sono poi circondati dall’epitenonio, ovvero da un tessuto connettivo denso posto direttamente a contatto con le strutture di scivolamento del tendine, distinte in due tipi: ● paratenonio: è un insieme di strati sovrapposti di connettivo lasso che scivolando tra di loro consentono lo scorrimento del tendine nelle zone con scheletro stabile (avambraccio, palmo della mano); ● guaine sinoviali all’interno di canali osteofibrosi. I canali osteofibrosi sono strutture localizzate nelle zone a scheletro mobile (polso, dita) e sono formati dalle ossa corrispondenti e da strutture fibrose quali il legamento trasverso del carpo e le guaine fibrose

Eziologia e classificazione

La rottura del tendine è riferibile a un’azione diretta da taglio con lame, vetri o a lesioni da penetrazione di punte, anche se si è in presenza di lesioni cutanee molto ridotte. Le lesioni dei tendini flessori sono state oggetto di svariati tentativi di classificazione, al fine di fornire al chirurgo uno strumento che fosse utile per la valutazione del tipo di lesione, della sua gravità e della prognosi, guidando nel contempo la scelta della riparazione chirurgica. Attualmente è in uso la classificazione della IFSSH, che divide la mano in 5 zone topografiche per le dita lunghe e 3 per il pollice (Figura 12.36a). Per le dita lunghe si distinguono le seguenti zone. ● Zona 1: dall’inserzione distale del flessore superficiale a quella del flessore profondo; è presente un solo tendine, il profondo. ● Zona 2: dalla plica palmare distale all’inserzione del flessore superficiale; sono presenti entrambi i tendini. Il superficiale si divide in due bandellette, che si portano dorsalmente al profondo formando il chiasma di Camper, e si inseriscono alla base della seconda falange, mentre il profondo, passando attraverso il chiasma, assume una posizione superficiale. ● Zona 3: dal legamento trasverso del carpo alla plica palmare distale; in tale sede si trovano anche i muscoli lombricali. ● Zona 4: è quella del canale del carpo; con i tendini decorre il nervo mediano. ● Zona 5: è la zona prossimale al canale del carpo. Una caratteristica peculiare è la disposizione dei

digitali. Queste ultime sono rinforzate da pulegge, che sono bandellette di tessuto fibroso distinte in 5 anulari e 3 cruciformi per le dita lunghe, e 2 anulari e 1 obliqua per il pollice. All’interno di tali canali lo scivolamento è reso possibile da una guaina sinoviale il cui foglietto parietale è aderente alla parete del canale, mentre il foglietto viscerale ricopre direttamente l’epitenonio. La vascolarizzazione del tendine è assicurata da vasi che decorrono nel mesotenonio, una struttura connettivale lassa che unisce il tendine allo scheletro permettendone il movimento. Al polso e al palmo tale struttura si estende ampiamente intorno ai vasi che irrorano il tendine con distribuzione segmentaria. Alle dita invece si dispone intorno ai pochi vasi che si concentrano solo in alcuni segmenti costituendo i vincula, mentre il nutrimento nelle zone intercalate è affidato alla sola diffusione di sostanze nutritive dal liquido sinoviale contenuto nella guaina (Figura 12.35).

12 - Argomenti di chirurgia della mano 213

Figura 12.35   Anatomia dell’apparato estensore e flessore delle dita.

flessori: procedendo dalla superficie alla profondità si trovano i tendini flessori superficiali del III e IV dito, poi quelli del II e V, infine i tendini profondi e il flessore lungo del pollice. Per il pollice si distinguono: ● zona T1: dalla puleggia A2 all’inserzione sulla seconda falange del flessore lungo del pollice; ● zona T2: dal collo del I MTC alla parte distale della puleggia obliqua; ● zona T3: è la zona dell’eminenza tenar. Quadro clinico

Il quadro clinico può essere eclatante in caso di ferite molto ampie in regione volare al polso, al palmo della

mano o alla superficie volare delle dita, nelle quali l’anatomia tendinea, vascolo-nervosa e ossea può essere letteralmente a vista. Si osservano peraltro casi con minima ferita cutanea, ma con importanti lesioni tendinee e vascolo-nervose. In tali casi si rende necessario un accurato esame clinico che inizia con l’ispezione della mano. L’esaminatore in primo luogo deve tenere conto della naturale cascata digitale, in virtù della quale le dita in posizione di riposo presentano una flessione progressivamente maggiore dal II al V dito; il riscontro di un’interruzione di tale cascata è indicativo di una lesione tendinea (Figura 12.37). L’esame clinico procede con la valutazione dei singoli tendini. Si deve tenere presente che l’articolazione MF

Figura 12.36   Suddivisione in zone delle lesioni tendinee della mano della IFSSH (si veda la descrizione nel testo): superficie volare (flessori) (a); superficie dorsale (estensori) (b).

214 Ortopedia

Figura 12.37  Interruzione della cascata digitale per lesione da taglio dei tendini flessori del II dito.

è flessa dall’azione dei muscoli intrinseci e che pertanto può essere flessa anche in presenza di una lesione di entrambi i flessori. ● Il tendine flessore superficiale è valutato mantenendo bloccata in estensione la MF del dito leso e tutte le articolazioni delle altre dita; in caso di lesione, la flessione della IFP risulta impossibile. ● Per esaminare il tendine flessore profondo si mantengono la MF e la IFP in posizione estesa lasciando libere le altre dita; in caso di lesione non risulta possibile la flessione attiva della IFD. ● Per lo studio del flessore lungo del pollice bisogna mantenere bloccata la MF per escludere movimenti vicarianti degli intrinseci. L’esame obiettivo va completato ricercando lesioni nervose associate, possibili per la contiguità di tali strutture. Diagnostica strumentale

All’esame clinico fa seguito nella maggior parte dei casi un esame radiografico standard per escludere fratture o la permanenza del corpo estraneo responsabile della lesione. Va ricordato che in presenza di una ferita della mano è sempre indicata un’esplorazione chirurgica; lesioni parziali dei tendini potrebbero altrimenti rimanere misconosciute con possibili rotture secondarie. Terapia

Il trattamento chirurgico deve essere eseguito in urgenza, poiché la tempestività dell’intervento è correlata a migliori risultati funzionali con un minor rischio di aderenze cicatriziali. Il tipo di riparazione chirurgica dipende dalla sede topografica e dal tipo della lesione. Nelle lesioni in prossimità (< 1,5  cm) dell’inserzione distale del flessore profondo è indicata la reinserzione

del tendine all’osso, mentre nelle altre sedi è indicata la sutura termino-terminale. La reinserzione del tendine all’osso prevede l’affrontamento del tendine al moncone residuo mediante punti staccati con lo scopo di stabilire una continuità dell’anatomia. Tale sutura non avrebbe nessuna tenuta a causa dell’esiguità del moncone distale, pertanto deve essere associata a un pull-out, nel quale il filo passato in tunnel transossei nella falange distale è annodato sulla superficie dell’unghia. La sutura è definita pull-out in quanto viene rimossa a cicatrizzazione avvenuta. Le suture termino-terminali prevedono una sutura centrale interna al tendine (core suture), che assicura la tenuta necessaria e un sopraggitto intorno ai monconi tendinei affrontati. Quest’ultimo ha lo scopo di ricostruire l’integrità anatomica del tendine e di isolare l’ambiente interno, in cui si verificano processi riparativi cicatriziali, dall’ambiente peritendineo, in modo da evitare disturbi della cicatrizzazione e prevenire la formazione di aderenze. Diverse sono le tecniche di esecuzione delle suture centrali (Figura 12.38). Vi sono innanzitutto suture pull-out nelle quali il filo viene ancorato con una sorta di cappio al moncone prossimale del tendine e annodato su un bottone al di sopra del polpastrello, per poi essere rimosso a guarigione avvenuta. Le suture perdute non vengono invece rimosse e tra queste si possono ricordare: ● la sutura di Kleinert, che prevede un tragitto incrociato del filo sulle due estremità; ● la sutura secondo Kessler modificata, caratterizzata dall’esecuzione di un nodo a doppio angolo retto; ● la sutura di Tsuge, che utilizza un filo “ad ansa” e si affida all’esecuzione di un nodo con tragitto assiale del filo; ● la sutura intrecciata di Pulvertaft, che merita un discorso a parte. Questa tecnica è utile per le suture fra tendini con dimensioni diverse, come in caso di innesto tendineo nelle lesioni con perdita di sostanza. Prevede il passaggio del tendine più piccolo all’interno del più grande, fissandolo con suture a ogni passaggio. La sede della lesione condiziona la scelta del trattamento chirurgico. Se la lesione avviene in zona 1 e T1, si procede alla reinserzione all’osso mediante tecnica pull-out, mentre nelle restanti zone si procede a tenorrafia ovvero a sutura termino-terminale con una delle metodiche descritte. Le particolari condizioni anatomiche della zona 2 rendono problematiche le riparazioni tendinee per la simultanea presenza del flessore profondo e del superficiale.

12 - Argomenti di chirurgia della mano 215

Figura 12.38  Tecniche di sutura tendinea: Kessler modificata (a 2 suture) (a); Bunnell modificata (b); Savage (c); Strickland (d).

Quando possibile è preferibile la riparazione di entrambi i tendini flessori; in caso di eccessivo ingombro delle suture a livello del chiasma del tendine superficiale o della puleggia A2 si procede alla riparazione del solo tendine profondo resecando il flessore superficiale. A fronte di una modesta perdita di forza, ciò consente di ridurre il rischio di aderenze con conseguente rigidità articolare e limitazione del movimento. Se risultano lese le pulegge A2 e A4, se ne deve sempre praticare la ricostruzione in quanto in loro assenza si genera il fenomeno della “corda d’arco” dei flessori durante la presa. La presenza di lesioni vascolo-nervose richiede di regola la loro riparazione contestuale con tecniche microchirurgiche. Nel periodo postoperatorio la riparazione deve essere protetta con docce gessate o tutori, ma è indispensabile iniziare precocemente la mobilizzazione per prevenire o comunque ridurre lo sviluppo di aderenze cicatriziali. Alcune tecniche riabilitative prevedono la flessione attiva precoce, mentre altre (per esempio la tecnica di Kleinert) si avvalgono dell’uso di tutori che consentono la flessione solo passiva (Figura 12.39a). Le complicanze più frequenti includono le rigidità articolari in flessione delle articolazioni digitali a causa dello sviluppo di aderenze, associate a perdita di forza nel movimento di flessione, e le rotture secondarie per cedimento delle suture nel periodo di trattamento postoperatorio. La prognosi in riferimento al recupero dell’articolarità e della forza è influenzata innanzitutto dalla sede della lesione. Gli insuccessi sono più frequenti nelle lesioni in zona 2, sia per la presenza di due tendini all’interno del canale digitale, con il rischio che si formino ade-

Figura 12.39  Esempi di tutori utilizzati nelle lesioni tendinee della mano: Kleinert (a); Stack (b); Bunnell (c).

renze tra di essi, sia per la presenza della guaina fibrosa digitale. Questa favorisce la formazione di una cicatrice che può contrarre aderenze tenaci con i tendini lesi. Il risultato è inoltre influenzato dal tipo di lesione ed è pertanto migliore nelle lesioni a margini netti e non contaminate rispetto alle ferite lacere e contaminate.

Lesioni dei tendini estensori Le lesioni dei tendini estensori sono più frequenti rispetto a quelle dei flessori a causa della loro posizione superficiale sul dorso della mano, che li espone

216 Ortopedia

sia ai traumi indiretti, con possibili rotture sottocutanee, sia diretti, in genere conseguenti a ferite da taglio. Si tratta di lesioni che interessano soprattutto adulti giovani di sesso maschile, un dato da mettere in relazione alla maggiore esposizione ai traumi lavorativi. Il trattamento chirurgico può comportare alcune difficoltà a livello delle dita, come conseguenza della complessità anatomica dell’apparato estensore (Box 12.12). Eziologia

Le cause tipiche delle lesioni sono distinguibili in: ● dirette, come nelle ferite da taglio, punta, schiacciamento, morso; ● indirette, come nei casi di violente sollecitazioni in flessione di un dito atteggiato in estensione, con rottura sottocutanea del tendine. Quest’ultima evenBox 12.12  L’apparato estensore delle dita L’apparato estensore delle dita è costituito dall’insieme dei tendini estensori delle dita, dei muscoli lombricali e dei muscoli interossei, uniti fra loro da strutture fibrose. Si tratta di una vera e propria unità anatomo-funzionale complessa, dal cui equilibrio dipende la mobilità della MF e delle IF di ciascun dito (si veda la Figura 12.35). Il tendine del muscolo estensore comune a livello della MF distacca dalla sua faccia profonda una linguetta tendinea che con decorso obliquo aderisce alla parte distale della capsula articolare e si inserisce sulla superficie dorsale della I falange. A questo livello il tendine si integra con un’espansione fibrosa dei muscoli interossei, nota come cuffia degli interossei o cappuccio dorsale, che coadiuva le bandellette sagittali nel garantire l’allineamento del tendine sulla MF. Superata la MF il tendine estensore comune si divide in tre bandellette: ● la bandelletta mediana, dopo avere ricevuto un contingente di fibre spirali proveniente dai tendini intrinseci di ciascun lato, prende il nome di tendine estensore centrale, decorre sulla IFP e aderisce intimamente alla capsula articolare inserendosi su una cresta ossea subito al di sopra della linea articolare della base della II falange; ● le due bandellette laterali decorrono sui lati della I falange unitamente alle espansioni tendinee degli interossei e dei lombricali. In corrispondenza della IFP, dove si realizza l’unione con queste strutture, prendono il nome di tendini estensori comuni laterali, che decorrono dorso-lateralmente alla IFP. I due tendini estensori laterali convergono sulla faccia dorsale della II falange e unendosi danno origine al tendine estensore terminale, che contrae stretti rapporti con il versante dorsale della capsula della IFD per poi inserirsi sulla superficie osteo-periostea della base della III falange.

tualità si osserva più spesso nelle dita lunghe alla IFD o, meno frequentemente, alla IFP. Sollecitazioni microtraumatiche sono capaci di provocare nel tempo un danno tendineo su base ischemica, come avviene nel pollice durante reiterate sollecitazioni contro resistenza, predisponendo alla rottura. Classificazione

In analogia a quanto riportato per le lesioni dei tendini flessori, la classificazione oggi più in uso è quella proposta dalla IFSSH, che prevede la suddivisione dell’apparato estensore in 8 zone topografiche, con 5 zone specifiche per il pollice (si veda la Figura 12.36b). ● Zona 1: è quella della IFD, caratterizzata dall’inserzione del tendine estensore terminale sulla base della III falange.

Così come a livello della MF esiste un sistema di allineamento dell’apparato estensore, anche a livello delle IF si trovano due strutture fibrose preposte a tale funzione: ● a livello della IFP si trova il legamento retinacolare trasverso, che origina dalla guaina dei tendini flessori e si va a inserire sul margine dei due tendini estensori laterali. Possiede una duplice funzione: la prima è impedire lo scivolamento dorso-mediale dei tendini estensori laterali durante l’estensione; la seconda è di ammortizzare la tensione che si sviluppa sui tendini estensori laterali durante la flessione, trazionandoli volarmente; ● a livello della IFD il sistema di allineamento è affidato alla lamina triangolare, formazione fibrosa che occupa lo spazio esistente fra i due tendini estensori laterali sulla faccia dorsale della II falange. La sua funzione è impedire durante la flessione delle IF l’eccessivo scivolamento volare dei tendini estensori laterali. A livello della IFP esiste una seconda struttura fibrosa, il legamento retinacolare obliquo, che con decorso volaredorsale si porta in parte sui tendini estensori laterali e in parte sulla faccia dorsale della III falange. Esso connette meccanicamente la IFP alla IFD realizzando una coordinazione di movimenti fra le due articolazioni, che diventano così un unico elemento funzionale. Nel pollice l’apparato estensore è costituito dai tendini estensore breve e lungo del pollice. Distalmente alle MF i tendini estensori si integrano con un’espansione fibrosa dei tendini abduttore breve e adduttore del pollice, nota come cuffia dei muscoli tenari, che riproduce la funzione della già citata cuffia degli interossei. L’estensore breve si inserisce sulla faccia dorsale della base della falange prossimale, mentre l’estensore lungo prende inserzione alla base della falange distale.

12 - Argomenti di chirurgia della mano 217















Zona 2: corrisponde alla diafisi della II falange, in cui è presente il solo tendine estensore terminale. Zona 3: è quella della IFP, caratterizzata dall’inserzione del tendine estensore centrale sulla base della II falange. Zona 4: corrisponde alla diafisi della I falange, in cui sono presenti sia il tendine estensore centrale sia le bandellette laterali. Zona 5: è quella della MF, caratterizzata dalla presenza della cuffia degli interossei. Zona 6: corrisponde al dorso della mano e si caratterizza per la presenza delle giunzioni intertendinee, che connettono i tendini fra di loro. Zona 7: corrisponde al dorso della radio-carpica, dove si trovano i tunnel osteofibrosi dorsali. Zona 8: è il dorso dell’avambraccio con le giunzioni mio-tendinee.

Le zone del pollice sono: ● zona T1: è quella della IF e dell’inserzione del tendine estensore lungo sulla base della II falange; ● zona T2: corrisponde alla diafisi della falange prossimale, in cui è presente il solo tendine estensore lungo; ● zona T3: è la zona della MF, dove sono presenti entrambi i tendini estensori (breve e lungo) e la cuffia dei muscoli tenari; ● zona T4: è la zona metacarpale, dove si trovano i due estensori del pollice; ● zona T5: è quella della TM, dove sono presenti gli estensori e l’abduttore lungo del pollice. Quadro clinico

La diagnosi clinica è semplice nelle ferite con esposizione dei monconi tendinei o nelle rotture sottocutanee complete. Il dito lesionato può mostrare aspetti caratteristici: ● atteggiamento di dito a martello, con caduta in flessione della IFD, in caso di rottura all’inserzione del tendine estensore terminale sulla III falange; ● deformità en boutonnière (flessione della IFP e iperestensione della IFD) per la lesione del tendine estensore centrale alla IFP; la deformità è causata dalla retrazione del tendine estensore terminale e dallo scivolamento delle bandellette laterali sui due lati della IFP. L’esame clinico si basa sull’esecuzione dell’estensione attiva del polso e delle dita, anche contro resistenza. Si deve però prestare attenzione ad alcune peculiarità per non misconoscere la lesione. Per esempio l’azione dell’estensore lungo del pollice può essere vicariata

dai muscoli intrinseci e la sua azione sulla IF deve essere indagata con la mano a piatto sul piano d’appoggio. Allo stesso modo la funzione degli estensori propri del II e V dito va sempre ricercata in modo autonomo, chiedendo al paziente di fare il “segno delle corna”. Si deve infine ricordare la funzione vicariante degli estensori più vicini a quello leso, per effetto delle giunzioni intertendinee. Diagnostica per immagini

Lo studio radiografico in due proiezioni è sempre indicato per escludere fratture associate. Nelle lesioni alla IFD, il riscontro di fratture da strappamento del margine dorsale (lesione di Segond-Bush) o di vere e proprie fratture articolari della base della III falange è frequente. Le radiografie permettono anche di escludere la presenza di corpi estranei. Il ricorso all’ecografia è utile per il riconoscimento di rotture sottocutanee con deficit estensori dubbi. Nelle ferite dorsali della mano o delle dita l’esplorazione chirurgica, con eventuale estensione della breccia cutanea, è necessaria qualora sussista un sospetto diagnostico di lesione tendinea. Terapia

La scelta del trattamento si basa sulla sede della lesione (classificazione IFSSH) così come sul tipo della stessa (chiusa o aperta). Le lesioni chiuse (rotture sottocutanee) possono essere trattate mediante utilizzo di ortesi, ma anche ricorrendo al trattamento chirurgico. Tali lesioni si osservano più spesso nelle zone 1 e 3. In zona 1 la rottura sottocutanea del tendine estensore terminale può essere trattata con uno splint statico di Stack (si veda la Figura 12.39b) per 6 settimane se la deformità a martello della IFD è di 20° gradi circa, altrimenti per valori fra 40 e 70° è utile stabilizzare la IFD in iperestensione mediante transfissione articolare di un filo di Kirschner. La lesione di Segond-Bush impone la riduzione e la fissazione del frammento osseo dorsale della III falange mediante procedure a cielo chiuso con fili di Kirschner o mediante la riduzione cruenta con fili o microviti se le dimensioni del frammento lo consentono. Se la rottura avviene in zona 3, si deve immobilizzare la IFP in iperestensione e la IFD in flessione per 4 settimane con un tutore statico, sostituito poi da un tutore dinamico tipo Bunnell per altre 4 settimane. Questa ortesi estende la IFP con una forza dinamica (elastico), consentendo il movimento articolare attivo in flessione (si veda la Figura 12.39c).

218 Ortopedia

Meno frequenti sono le rotture sottocutanee dell’apparato estensore in zona 5: esse riguardano la cuffia degli interossei, con conseguente lussazione del tendine estensore fra le teste metacarpali durante la flessione. Tale lesione va riparata chirurgicamente. Per quanto riguarda il pollice la rottura sottocutanea dell’estensore lungo può avvenire alla IF (zona T1) come per le dita lunghe e il trattamento è analogo. Più frequentemente, con una patogenesi microtraumatica, la lesione si verifica in zona 7 nel III tunnel dorsale; il trattamento è sempre chirurgico. A seguito della rottura il tendine, che in tali zone non ha vincoli o connessioni, si retrae nell’avambraccio e non risulta quasi mai riparabile per la presenza di marcati fenomeni degenerativi preesistenti alla rottura. Si procede pertanto in genere a un intervento di trasposizione del tendine estensore proprio dell’indice, che viene sezionato al cappuccio degli estensori sulla MF del II dito e diretto sottocute verso il moncone distale del tendine estensore lungo del pollice, al quale è suturato con la tecnica di Pulvertaft (si veda sopra il paragrafo sui tendini flessori). Quando le lesioni sono dovute a ferite è indicato l’approccio chirurgico, anche in considerazione del valore diagnostico dell’esplorazione. Il trattamento prevede una riparazione con tecnica pull-out (si veda sopra) oppure con suture termino-terminali che, a differenza delle metodiche descritte per i flessori, sono eseguite

con punti a U staccati, in quanto i tendini sono molto più piatti rispetto ai flessori delle dita e rendono difficile una sutura intratendinea. Il pull-out è destinato alle zone 1 e T1, mentre le suture termino-terminali a tutte le altre zone. Qualora vi sia perdita di sostanza tendinea a livello digitale, si procede con un innesto di tendine prelevato dal palmare lungo. Al dorso della mano è possibile ovviare a tale necessità ricorrendo a suture terminolaterali di tendini contigui o, come nel caso del pollice, trasponendo l’estensore proprio dell’indice sull’estensore lungo del pollice. Complicanze

Le complicanze più frequenti sono rappresentate dalle aderenze fra tendine e cute e fra tendine e piano osseo; la loro formazione è favorita da lesioni concomitanti di altre strutture, spesso presenti nella patologia traumatica delle dita. Particolare rilievo hanno tali complicanze nel trattamento delle lesioni in zona 7, ove i tendini decorrono all’interno delle guaine osteo-fibrose dei compartimenti dorsali del polso. Infine, vanno ricordate le problematiche di “allungamento tendineo”, con deficit parziale di estensione, per la tendenza degli estensori rispetto ai flessori di evolvere verso una cicatrizzazione valida dal punto di vista meccanico, ma in elongazione.

parte 

III

Traumatologia

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capitolo

Principi generali di traumatologia scheletrica

13

Federico A. Grassi, Ugo E. Pazzaglia, Giovanni Zatti

Generalità sulle fratture

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Federico A. Grassi, Ugo E. Pazzaglia Con il termine di frattura si indica l’interruzione della continuità di un osso, che si verifica quando una sollecitazione meccanica ne supera i limiti di deformabilità. Due variabili entrano in gioco nella determinazione di una frattura: l’entità della forza lesiva (fattore estrinseco) e la resistenza dell’osso (fattore intrinseco). Un indebolimento del tessuto osseo di qualsiasi natura rende lo scheletro più suscettibile agli effetti di un trauma. La maggior parte delle fratture derivano dall’applicazione istantanea di una forza abbastanza potente da lesionare un osso strutturalmente normale. Tuttavia ciò non si verifica in due tipi di fratture. ● Fratture patologiche: si osservano in regioni scheletriche indebolite da una preesistente patologia e possono essere causate da sollecitazioni di lieve entità, del tutto innocue per l’osso normale. Le condizioni tipicamente responsabili di fratture patologiche sono le lesioni osteolitiche di natura neoplastica (benigna o maligna, primitiva o secondaria) (Figura 13.1), più raramente malattie con una spiccata fragilità scheletrica (osteogenesi imperfetta, osteopetrosi ecc.). Le fratture su base osteoporotica non sono invece classificate come patologiche. ● Fratture da stress o da durata: come avviene per altri materiali, anche l’osso può rompersi per fatica, a seguito di sollecitazioni reiterate, di bassa intensità e diluite nel tempo. Le fratture da stress si osservano

Figura 13.1   Frattura patologica della diafisi omerale: l’interruzione della continuità dell’osso si è verificata in corrispondenza di una voluminosa cisti ossea.

per lo più nell’arto inferiore, in distretti scheletrici sottoposti a elevati carichi di lavoro da parte di alcuni soggetti, soprattutto atleti: tibia e perone (corsa, danza), ossa metatarsali (marcia, danza), scafoide tarsale (corsa, salto). I fattori predisponenti sono rappresentati da aumenti incongrui, per intensità e/o durata, dell’attività, dall’uso di equipaggiamenti inadeguati (calzature), da modificazioni delle superfici su cui si pratica lo sport. La diagnosi di queste fratture può essere difficile per la sintomatologia sfumata e la scarsa evidenza radiografica.

222 Traumatologia

Classificazione Le fratture possono essere classificate in base a criteri diversi, quali il meccanismo patogenetico, la localizzazione e le caratteristiche anatomo-patologiche. Seppure non esaustive per ogni singolo distretto, queste definizioni costituiscono la base per un linguaggio corretto e comune in ambito traumatologico, in particolare per le fratture delle ossa lunghe. Patogenesi

In base al meccanismo patogenetico si riconoscono i tipi di fratture elencati di seguito. ● Fratture per trauma diretto, quando l’osso si frattura nel punto di applicazione della forza lesiva. Nell’ambito di questo gruppo si possono ulteriormente distinguere: – fratture da urto, che si verificano per contatto violento su una piccola area e si caratterizzano per la rima trasversa di frattura; nell’avambraccio e nella gamba può essere coinvolto un solo osso; – fratture da schiacciamento, che si accompagnano a un danno esteso dei tessuti molli circostanti e sono per lo più comminute; – fratture penetranti, denominate anche fratture da arma da fuoco, che sono prodotte da proiettili a bassa o alta velocità, questi ultimi assai più lesivi sull’osso e i tessuti molli. ● Fratture per trauma indiretto, quando la forza lesiva agisce a distanza dal focolaio di frattura. In questo secondo gruppo si possono osservare (Figura 13.2): – fratture per flessione: essendo l’osso più resistente in compressione che in trazione, il tessuto sul versante convesso cede per primo, generando una rima di frattura trasversa con o senza un terzo frammento sul versante concavo; – fratture per torsione: questo meccanismo produce una rima di frattura spiroide; – fratture per compressione: l’effetto più tipico è a livello dell’osso spongioso (per esempio dei corpi vertebrali), dove si produce una compattazione delle trabecole; – fratture per trazione: la sede di inserzione di un muscolo può essere avulsa da una violenta contrazione, con distacco di porzioni più o meno estese di osso; – fratture per azione combinata (flessione, compressione, torsione). Anche la violenza dell’evento traumatico è correlata alla patogenesi, e in relazione a essa possono essere differenziate fratture a bassa energia (come quelle risultanti da una caduta accidentale) e fratture ad alta ener­ gia (per esempio a seguito di un incidente stradale).

Figura 13.2  I meccanismi di frattura per trauma indiretto. Per flessione: i frammenti di frattura appaiono angolati ed è presente un terzo frammento sul lato concavo (a); per torsione: le rime di frattura al terzo distale della tibia e al terzo prossimale del perone presentano un andamento spiroide (b); per compressione: il corpo vertebrale appare schiacciato per frammentazione e compattazione della struttura trabecolare (c); per trazione: la tuberosità tibiale è stata strappata dalla violenta contrazione del quadricipite (d).

Localizzazione

Nelle ossa lunghe, in base al livello di lesione, le fratture possono essere: ● diafisarie (al terzo prossimale, medio o distale); ● metafisarie (prossimali o distali); ● epifisarie (prossimali o distali); ● se estese a più livelli, si distinguono fratture meta­ epifisarie e metadiafisarie; ● in alcuni casi il livello di lesione è identificato da reperi anatomici specifici: fratture sottotrocanteriche di femore, fratture sovracondiloidee di omero e femore ecc. Se la rima di frattura si estende alla superficie articolare cartilaginea di un segmento scheletrico, la frattura è definita articolare. Nel trattamento di queste lesioni il

13 - Principi generali di traumatologia scheletrica 223



Figura 13.3   Frattura “a legno verde” della clavicola sinistra ( ) in un bambino di 3 anni: i frammenti di frattura appaiono angolati, ma ancora contenuti dal robusto periostio presente a questa età.

ripristino di un piano cartilagineo normale è auspicabile per prevenire patologie articolari secondarie (artrosi post-traumatica). Anatomia patologica

L’entità del danno scheletrico consente di differenziare: ● fratture incomplete, denominate anche infrazioni, in cui l’interruzione della continuità dell’osso è parziale. Un tipo particolare è rappresentato dalle frat­ ture “a legno verde” dei bambini, dove il robusto periostio non si interrompe e viene così preservato il manicotto connettivale che riveste il cilindro osseo diafisario (Figura 13.3);

fratture complete, a loro volta suddivise in: – composte, quando i frammenti di frattura conservano rapporti tali da non modificare la normale configurazione dell’osso; – scomposte, quando la forma del segmento scheletrico appare alterata dallo spostamento o dalla compenetrazione dei frammenti.

Per la diafisi delle ossa lunghe si descrivono classicamente quattro tipi di scomposizione, spesso combinati tra loro (Figura 13.4): ● ad latus, per spostamento trasversale dei frammenti; ● ad longitudinem, con accorciamento dell’osso per sovrapposizione dei frammenti; ● ad axim, per angolazione dei frammenti; ● ad peripheriam, per rotazione di un frammento sul suo asse longitudinale. In rapporto alla configurazione della rima di frattura le fratture sono denominate (Figura 13.5): ● trasverse; ● oblique; ● spiroidi; ● pluriframmentarie; ● comminute. In base al numero dei focolai osservabili in un singolo osso lungo si distinguono fratture: ● unifocali, di gran lunga le più frequenti; ● bifocali, osservate soprattutto nel femore e nella tibia (Figura 13.6); ● trifocali o plurifocali, di riscontro eccezionale.

Figura 13.4   Classificazione delle fratture scomposte in relazione allo spostamento dei frammenti: trasversale (ad latus) (a); longitudinale (ad longitudinem) (b); angolare (ad axim) (c); rotatorio (ad peripheriam), in questo caso associato a spostamento angolare (d).

224 Traumatologia

Figura 13.5  Le diverse configurazioni della rima di frattura: trasversa (a); obliqua (b); spiroide (c); pluriframmentaria (d); comminuta (e).

Un ultimo, ma non per importanza, criterio classificativo riguarda l’integrità del rivestimento cutaneo: ● nelle fratture chiuse la cute non presenta interruzioni della sua continuità; ● nelle fratture esposte la cute è lesionata e il focolaio di frattura è in comunicazione con l’ambiente esterno;

Figura 13.6

  Frattura bifocale del femore destro.

il danno dei tessuti molli perischeletrici è variabile e sono stati distinti tre gradi di gravità dell’esposizione per guidare le scelte terapeutiche.

Processi Riparativi Dell’osso Una lesione traumatica che interrompe la continuità di un tessuto o di un organo innesca un processo riparativo che conduce alla formazione di una cicatrice: la perdita di sostanza viene colmata da tessuto connettivo che ristabilisce la continuità del tessuto lesionato. Nell’osso la continuità deve essere ripristinata da tessuto osseo, indispensabile per il mantenimento delle funzioni scheletriche. Quando il processo di riparazione non va a buon fine, tra i frammenti di frattura si interpone tessuto connettivo cicatriziale, situazione patologica conosciuta con il termine di pseudoartrosi. Il processo di riparazione di una frattura è un fenomeno complesso in cui sono coinvolti diversi tipi di cellule e durante il quale si formano differenti tessuti, dove l’apposizione e il riassorbimento di osso coesistono (rimodellamento osseo). Con il termine callo osseo è generalmente indicato l’insieme di tessuti presenti nel focolaio di frattura e nello spazio circostante durante le varie fasi del ­processo

13 - Principi generali di traumatologia scheletrica 225

Box 13.1

Quadro clinico delle fratture

La diagnosi clinica di una frattura può essere più o meno difficoltosa in relazione alla sede e alle caratteristiche della lesione. I sintomi e segni da valutare nel sospetto di una frattura includono: • il dolore, sempre presente anche se talvolta di bassa intensità; è accentuato dalla palpazione e dalla mobilizzazione del segmento interessato; • l’atteggiamento di difesa antalgico (per esempio, nelle fratture di clavicola, il sostegno dell’arto superiore e l’inclinazione del capo verso la lesione); • l’impotenza funzionale, con limitazione anche completa della mobilità; • la deformità, che può essere causata dallo spostamento dei frammenti (angolazione, rotazione) e/o dalla tumefazione prodotta dall’emorragia; • la mobilità preternaturale e la crepitazione, per discontinuità e attrito tra le superfici di frattura. Sono segni di certezza e devono essere valutati con estrema cautela al fine di evitare un possibile aggravamento della lesione (scomposizione della frattura, lesioni vascolo-nervose). La diagnosi di frattura è confermata dall’esame radiografico, che deve essere condotto con tecnica rigorosa (almeno due proiezioni ortogonali includendo le articolazioni a entrambe le estremità dell’osso traumatizzato). Alcune fratture possono essere di difficile riconoscimento e si deve ricorrere alla TC per dirimere il dubbio diagnostico.

riparativo. Esso assume aspetti diversi se la frattura interessa l’osso spongioso epifisario e metafisario, oppure l’osso compatto corticale della diafisi, in quanto sono diverse le condizioni locali di vascolarizzazione e la disponibilità di cellule differenziate per un’attività di sintesi di tipo osteoblastico. Numerosi fattori possono influire sull’evoluzione del processo riparativo di una frattura e tra questi hanno primaria importanza le sollecitazioni meccaniche e la terapia adottata. Quando una frattura viene trattata con un apparecchio gessato, si verifica una successione di eventi che caratterizzano il processo di guarigione biologica, ben evidente nella diafisi delle ossa lunghe. È tuttavia necessario premettere che nella situazione reale vi è una considerevole sovrapposizione dei fenomeni descritti: in particolare l’apposizione e il riassorbimento osseo procedono simultaneamente nello sviluppo del callo osseo, con prevalenza del primo nelle fasi precoci, del secondo in quelle più avanzate.

Guarigione biologica delle fratture Effetti immediati del trauma

La frattura di un osso lungo determina l’interruzione del cilindro diafisario e si accompagna a lesioni del periostio, dell’endostio e dei fasci muscolari più vicini alla frattura. Se l’energia traumatica è alta, la dislocazione dei frammenti della frattura può essere tale da lacerare tutto lo strato muscolare, la fascia, il sottocute e perfino la cute. La lacerazione dei vasi, presenti nell’osso e in tutti gli altri tessuti, ha un duplice effetto: da un lato determina la formazione di un ematoma nel focolaio di frattura, dall’altro la necrosi dei tessuti irrorati dai vasi lesi. Per le caratteristiche proprie dell’irrorazione dell’osso corticale, la zona di necrosi è più estesa nella corticale che nel periostio e nell’endostio: in una frattura centrodiafisaria la zona di necrosi corticale può estendersi su ciascun frammento per 0,5-1 cm. Il distacco di piccoli frammenti di corticale, che non mantengono una connessione con il periostio, determina la necrosi di questi ultimi. Attivazione del periostio e dell’endostio

Il periostio e l’endostio sono caratterizzati da uno strato germinativo a contatto con l’osso corticale che sovrintende in condizioni normali alla crescita dell’osso o al fisiologico rimodellamento dello stesso. Entrambi i processi sono caratterizzati dalla deposizione di osso lamellare (osso secondario) in cui le fibre collagene della matrice presentano un’ordinata disposizione spaziale, evidenziata dall’osservazione in luce polarizzata delle sezioni di osso corticale della diafisi. In caso di frattura queste stesse cellule dimostrano un’attività sintetica più tumultuosa, ma con caratteri diversi: l’osso apposto da queste cellule ha i caratteri dell’osso primario e assume l’aspetto a fibre collagene intrecciate con lacune osteocitarie più grandi e globose, e densità minerale minore rispetto all’osso secondario. L’attivazione degli osteoblasti è evidente dopo 24 ore dal trauma e rappresenta la conseguenza di una catena di reazioni che coinvolge numerosi mediatori biochimici sulla tipologia della risposta infiammatoria nei tessuti. Organizzazione dell’ematoma

L’ematoma del focolaio di frattura mostra la classica evoluzione del processo cicatriziale, con invasione di capillari dal tessuto sano circostante, fibrillogenesi, riassorbimento dell’emosiderina e dei resti del coagulo

226 Traumatologia

da parte dei macrofagi; tuttavia in questo stesso tessuto cellule mesenchimali midollari si differenziano in osteoblasti, che iniziano a produrre matrice ossea. A differenza degli osteoblasti del periostio, che sono cellule già differenziate e in stato di riposo, queste sono cellule mesenchimali indifferenziate, che vengono orientate verso un’attività di tipo osteogenico da agenti induttori liberatisi nel focolaio di frattura. L’osso primario prodotto da queste cellule è detto anche callo osseo indotto.

Il rimodellamento di una frattura diafisaria richiede tempi lunghi: nei bambini, in cui il processo è più rapido, non si completa prima di 6 mesi o 1 anno. Il ripristino della normale morfologia scheletrica va valutato attraverso il monitoraggio radiografico della frattura.

Metaplasia cartilaginea

Con il termine di osteosintesi (dal greco οστε9 ον = osso e σντι9umι = mettere insieme) si indica qualsiasi intervento chirurgico volto ad affrontare e/o stabilizzare i frammenti di una frattura attraverso l’impianto di svariati dispositivi (placche, viti, chiodi, fili ecc.). Alcune di queste modalità terapeutiche modificano il naturale processo di riparazione delle fratture, così come è stato descritto in precedenza.

Un altro tessuto sempre presente nelle fratture sperimentali, ma che probabilmente si forma anche nell’uomo, è la cartilagine, prodotta dalle stesse cellule osteogeniche del periostio, in genere nella parte più periferica del callo osseo periostale. Si pensa che le condizioni locali possano determinare il tipo di produzione osteoblastica o condroblastica delle cellule: tra queste sono state indicate la bassa tensione di ossigeno oppure la presenza di movimento a livello della frattura. Nell’evoluzione successiva le cellule cartilaginee vanno incontro a ipertrofia e sulla matrice intercellulare si depositano sali di calcio, con una progressiva formazione di tessuto osseo. Quantunque in modo più disordinato, si riproducono gli aspetti dell’ossificazione encondrale, caratteristici delle cartilagini di accrescimento. Consolidazione meccanica della frattura

Quando in un osso neoformato, sia esso periostale, endostale o indotto, uno dei capi della frattura si unisce con quello del lato opposto, si realizza un ponte osseo. A questo punto la frattura è virtualmente consolidata, in quanto il ponte osseo, rigido, non permette movimenti tra i due capi di frattura. Questo non corrisponde tuttavia al concetto di guarigione clinica, in quanto non necessariamente il ponte osseo possiede una resistenza sufficiente a tollerare le sollecitazioni meccaniche funzionali, soprattutto quelle degli arti inferiori. Nella pratica clinica la guarigione, considerata come liberazione dell’arto fratturato da ogni tutela esterna e libertà di carico, si basa sulla valutazione radiografica della consistenza e dell’estensione del callo osseo. Rimodellamento osseo

L’osso primario prodotto dalle cellule osteogeniche del callo osseo va incontro a un processo di rimodellamento (viene cioè riassorbito dagli osteoclasti e nuovo osso lamellare viene apposto dagli osteoblasti) per ricostituire i sistemi osteonici della corticale diafisaria.

Guarigione delle fratture dopo osteosintesi

Guarigione primaria della frattura con fissazione rigida e compressione interframmentaria

Questo metodo richiede l’esposizione del focolaio di frattura e la riduzione anatomica dei frammenti. I capi ossei sono fissati con un mezzo di sintesi rigido, una placca avvitata, che neutralizza le sollecitazioni di taglio, torsione e flessione sul focolaio. Le estremità dei frammenti devono essere perfettamente affrontate e poste in compressione, in modo che non residui alcuno spazio vuoto tra di esse. Nelle fratture così trattate non si osserva alcuna reazione periostale, ma la consolidazione è affidata alla formazione di nuovi osteoni a ponte tra i frammenti. Gli osteoclasti, infatti, dalla zona di osso vitale scavano dei tunnel in direzione longitudinale, che attraversano l’osso devitalizzato e penetrano nell’altro frammento di frattura. Dai vasi che seguono gli osteoclasti si differenziano gli osteoblasti, i quali depongono lamelle concentriche sulla parete dei tunnel, dando origine a un nuovo osteone (Figura 13.7). In pratica, la consolidazione della frattura è affidata al normale processo di rimodellamento osseo. La guarigione primaria è più lenta rispetto a quella biologica e, all’esame radiografico, l’evidenza di callo osseo può essere scarsa o assente, rendendo più difficile la valutazione del grado di consolidazione. Guarigione della frattura diafisaria ­con inchiodamento endomidollare

I chiodi endomidollari sono distinti in alesati e non alesati a seconda che si proceda, prima del loro impianto, all’alesaggio (o alesatura) del canale midollare, ovvero al

13 - Principi generali di traumatologia scheletrica 227

Figura 13.7   Guarigione primaria di una frattura a seguito di osteosintesi in compressione con placca e viti.

suo ingrandimento mediante fresatura fino al diametro necessario per inserire l’infibulo. Questa procedura presenta come inevitabile conseguenza la distruzione della rete vascolare endomidollare: non si ha perciò la formazione di callo osseo endostale e la formazione di un ponte osseo è affidata esclusivamente al callo periostale e indotto. Rispetto alle placche, i chiodi endomidollari realizzano una sintesi più elastica (non neutralizzando del tutto le sollecitazioni meccaniche a livello del focolaio di frattura) e rispettano maggiormente il processo di guarigione biologica (non esponendo il focolaio di frattura).

Principi Di Terapia La terapia delle fratture si propone come obiettivo il recupero funzionale completo del segmento fratturato senza deformità residue. Questo risultato presuppone la consolidazione della frattura senza alterazioni significative della morfologia scheletrica e il recupero della funzione articolare e muscolare. La gravità di alcune lesioni non consente tuttavia di ottenere in

tutti i pazienti lo stato clinico-funzionale preesistente all’evento traumatico. Per favorire la consolidazione della frattura è necessario stabilizzarla, cioè evitare movimenti tra i capi di frattura. Questo principio è sempre valido, anche se in tempi recenti è stata valorizzata l’utilità di sollecitazioni meccaniche controllate sull’evoluzione del processo di riparazione. Il metodo di trattamento ideale dovrebbe garantire una completa immobilità dei capi di frattura e contemporaneamente permettere la trasmissione attraverso di essi delle sollecitazioni meccaniche fisiologiche. È ovviamente difficile da realizzare nella pratica, per cui una condotta prudente consiglia di stabilizzare la frattura nel più breve tempo possibile e concedere sollecitazioni funzionali in rapporto alla solidità della sintesi e al grado di evoluzione dei processi riparativi della frattura. La scelta di una specifica terapia, conservativa oppure chirurgica, è basata sulla valutazione di alcuni fattori: ● età e condizioni del paziente; ● tipo di frattura; ● disponibilità delle tecnologie e organizzazione della struttura sanitaria in cui viene curato il paziente.

228 Traumatologia

Per alcuni tipi di frattura la scelta è obbligata; per altre è possibile optare tra diversi tipi di trattamento, che presentano uguali percentuali di risultati favorevoli.

Terapia non chirurgica Schematicamente il trattamento della frattura può essere suddiviso in tre fasi: 1. riduzione; 2. contenzione; 3. rieducazione.

come avverrebbe se non fosse teso. Per le fratture del rachide cervicale si applica una trazione che utilizza delle punte che attraversano il tavolato esterno e la diploe e si appoggiano sul tavolato interno delle ossa piatte del cranio, parietale e frontale (Halo traction e trazione di Crutchfield). Contenzione

Questa distinzione è utile a scopo didattico, tuttavia è opportuno sottolineare che, in rapporto alle modalità di trattamento prescelte, vi può essere sovrapposizione fra le tre fasi.

La contenzione ha lo scopo di neutralizzare le sollecitazioni meccaniche sul focolaio di frattura e di mantenere la riduzione. Il grado di neutralizzazione varia in rapporto al tipo di contenzione: è minimo nella trazione continua, che può essere mantenuta anche dopo aver ottenuto la riduzione, fino alla consolidazione della frattura; è invece maggiore con l’utilizzo degli apparecchi gessati, che devono essere però eseguiti in modo corretto e ben aderenti alla cute.

Riduzione

Rieducazione

La riduzione consiste nel correggere la dislocazione dei frammenti di frattura, riportandoli nella posizione che essi avevano prima della lesione (riduzione anatomica) o comunque nella posizione più favorevole possibile. La riduzione è detta manuale quando è ottenuta con una manovra attuata dalle mani dell’operatore, stru­ mentale se ottenuta con l’ausilio di appositi strumenti, pratica quest’ultima caduta ormai in disuso. Può essere inoltre estemporanea, se eseguita al momento, oppure progressiva, se ottenuta esercitando una trazione continua della frattura. Nel primo caso un trattamento anestetico o la narcosi facilitano la manovra neutralizzando la contrazione muscolare e la reazione di difesa del paziente, che ostacolano sempre la riduzione. Nel secondo caso la contrazione muscolare viene vinta da una progressiva trazione sul capo distale, che permette il riallineamento dei frammenti di frattura. La trazione può essere applicata con un bendaggio adesivo (trazione a cerotto), che non permette però di superare pesi di 4-5 kg, oppure con un filo transcheletrico, che trasmette la tensione direttamente all’osso: in questo caso si possono raggiungere pesi di 14-15 kg. L’applicazione del filo transcheletrico richiede il rispetto di tutte le regole dell’asepsi. Le sedi classiche sono il calcagno per le fratture della gamba, la tuberosità tibiale o la zona sovracondiloidea del femore per le fratture del femore, l’olecrano per le fratture dell’omero. Il filo transcheletrico viene mantenuto in tensione da una staffa, in modo che la tensione sia distribuita su tutta l’area che attraversa e non solo sulle due corticali,

La rieducazione per il recupero della funzione articolare e muscolare è successiva alla rimozione dell’apparecchio gessato nel trattamento conservativo classico, mentre può essere iniziata già durante la fase di contenzione se si utilizza la trazione continua.

Terapia chirurgica Se viene attuata una terapia chirurgica che comporta l’esposizione del focolaio di frattura, la riduzione viene eseguita a cielo aperto; in altri casi si può praticare la riduzione manuale o la trazione. Per la contenzione della frattura si possono utilizzare diversi sistemi, distinguibili in due grandi categorie: fissazione interna e fissazione esterna. Fissazione interna

La fissazione interna può essere realizzata con una sintesi rigida, in cui si utilizzano svariati mezzi di osteosintesi costituiti da fili, viti libere di diverso passo (da osso corticale oppure spongioso), placche e viti. Le modalità di applicazione di questi dispositivi sono state codificate in modo dettagliato e nell’esecuzione dell’intervento chirurgico bisogna seguire queste regole (Figura 13.8). Un altro tipo di fissazione interna è rappresentato dall’inchiodamento endomidollare. Anche in questo caso esistono svariati tipi di infibuli endomidollari, con caratteristiche strutturali peculiari (configurazione, elasticità ecc.) per adattarsi alle diverse necessità terapeutiche. Alcuni di essi sono illustrati nella Figura 13.9.

13 - Principi generali di traumatologia scheletrica 229

Figura 13.8  Mezzi di osteosintesi per la fissazione interna. Fili e cerchiaggio metallici (a); viti da spongiosa (b); placche e viti da corticale (c); sistemi vite-placca o lamaplacca (d).

Fissazione esterna

La fissazione esterna è caratterizzata da fili o fiches che penetrano nell’osso a distanza dal focolaio di frattura e sono stabilizzati tra loro da un sistema di connessione esterna. Essendo le fiches solidali ai frammenti di frattura, il sistema di connessione esterno non solo solidarizza queste ultime, ma anche i frammenti. Con questi apparati è possibile diastasare, comprimere, traslare o ruotare i frammenti di frattura agendo sul sistema esterno, per cui il fissatore può essere utilizzato per la riduzione. Il recente sviluppo e perfezionamento di questi dispositivi permette oggi al chirurgo ortopedico di disporre di una grande variabilità di soluzioni tecniche. La rieducazione per il recupero della funzione articolare e muscolare con la fissazione interna o esterna è contemporanea alla fase di contenzione.

Complicanze Il decorso clinico di una frattura può essere complicato da due gruppi principali di eventi avversi: ● disturbi della consolidazione; ● complicanze associate (regionali o sistemiche).

Disturbi della consolidazione L’obiettivo del trattamento di ogni frattura è la guarigione dei frammenti ossei in una posizione tale da garantire una completa ripresa funzionale in assenza di dolore. I disturbi della consolidazione sono complicanze del processo riparativo che quasi sempre si associano a un risultato clinico sfavorevole, richiedendo ulteriori terapie per la loro cura.

230 Traumatologia

Figura 13.9   Tipi diversi di chiodi per la stabilizzazione endomidollare delle fratture. Chiodo di Küntscher (a); chiodo bloccato (b); chiodi elastici di Ender (c); chiodo a fascio di Marchetti-Vicenzi (d).

Ritardo di consolidazione e pseudoartrosi

Il tempo necessario per ottenere la consolidazione di una frattura varia in rapporto alla sede e al tipo di lesione, all’età del paziente e alla metodica di trattamento. Sulla base dell’esperienza clinica e tenendo conto dei fattori sopracitati, è possibile prevedere per ogni singola frattura, in un certo gruppo di età e dopo uno specifico trattamento, un tempo indicativo necessario per la consolidazione. È opportuno sottolineare che questo periodo è approssimativo e che anche il giudizio sulla consolidazione di una frattura si presta a una certa discrezionalità. La consolidazione dovrebbe comportare una strutturazione del callo osseo, valutata in termini di estensione e mineralizzazione sui radiogrammi, sufficiente a sopportare le normali sollecitazioni funzionali del segmento osseo interessato. Da una definizione di questo tipo ne consegue che per considerare guarita una frattura degli arti inferiori è necessario un grado di strutturazione e di resistenza meccanica del callo osseo molto maggiore rispetto a una frattura dell’arto superiore, dove le sollecitazioni meccaniche sull’osso sono di minore entità. Una volta trascorso il tempo di guarigione presunto per una specifica frattura, l’assenza di elementi comprovanti la riparazione della lesione configura il cosiddetto ritardo di consolidazione. In questa situazione è

possibile che, seppure in un tempo più lungo, si giunga infine alla consolidazione, talvolta attuando provvedimenti terapeutici incruenti (sollecitazioni funzionali controllate, terapie fisiche) per raggiungere lo scopo. I fattori locali che sembrano avere un ruolo determinante nell’inibire il processo di consolidazione sono: ● l’ampia diastasi dei frammenti di frattura; ● il movimento tra i frammenti; ● l’interposizione di tessuti molli; ● la lesione estesa del periostio; ● l’infezione del focolaio. Se il processo di guarigione della frattura è compromesso in modo completo e irreversibile, si ha la pseudoartrosi, definita non solo dal fattore temporale, ma anche da aspetti morfologici. Dal punto di vista anatomo-patologico la pseudoartrosi si caratterizza per l’interposizione di tessuto fibroso e fibro-cartilagineo tra i frammenti di frattura: questo tessuto può andare incontro a degenerazione fibrinoide e dare origine a una pseudocavità articolare tra i frammenti. L’attività osteogenica periostale ed endostale si esaurisce in una neoproduzione ossea che oblitera il canale midollare, talvolta formando una mensola alla periferia della diafisi. Lo spessore e l’elasticità del tessuto fibroso influenzano il grado di motilità preternaturale, che differenzia la pseudoartrosi lassa da quella serrata.

13 - Principi generali di traumatologia scheletrica 231

Figura 13.10  Evoluzione in pseudoartrosi di una frattura pluriframmentaria diafisaria della tibia destra. Quadro radiografico dopo osteosintesi con vite e cerchiaggio (in sede di frattura), associata a fissazione esterna (a). A distanza di 4 mesi la frattura non appare ancora consolidata. Nonostante la reazione periostale, la rima di frattura è ancora evidente e la vite appare rotta; la tibia mostra inoltre un’angolazione in varismo (b). Controllo a 1 anno dal trauma che mostra pseudoartrosi ipertrofica. Le estremità dei frammenti appaiono slargate dal tentativo di riparazione periostale, il canale midollare è obliterato e l’angolazione in varo della tibia si è ulteriormente accentuata. Il paziente lamenta persistente dolore al carico (c).

Figura 13.11   Pseudoartrosi atrofica a seguito di osteosintesi di frattura comminuta esposta del femore distale. In questo caso non è presente alcuna reazione periostale e l’intervallo tra i frammenti ossei appare ampio. Il mezzo di sintesi mostra segni di mobilizzazione, con aree di riassorbimento osseo intorno alla lama ( ) e alle viti (>).

Radiograficamente i frammenti ossei possono apparire ravvicinati e slargati alle loro estremità oppure distanti e riassorbiti: tali aspetti, che rispecchiano modalità patogenetiche diverse del disturbo di consolidazione, permettono di distinguere la pseudoartrosi in ipertro­ fica (Figura 13.10), atrofica (Figura 13.11) e oligotrofica (quest’ultima con caratteristiche intermedie rispetto alle precedenti) (Figura 13.12). La mancata guarigione della frattura comporta la perdita della normale resistenza meccanica del segmento scheletrico e si traduce in quadri clinici di diversa gravità in base alla sede interessata. La motilità preternaturale, più o meno accentuata in base alle caratteristiche della pseudoartrosi, si accompagna di solito a dolore e impotenza funzionale. La terapia è chirurgica ed è guidata dai seguenti principi: ● rimuovere il tessuto fibroso, fibro-cartilagineo e necrotico interposto tra i frammenti ossei; ● favorire la rivascolarizzazione, ripristinando la pervietà del canale midollare; ● portare a contatto i capi di frattura e realizzare una fissazione stabile degli stessi;

232 Traumatologia

fino a coinvolgere l’organismo in toto (complicanze siste­ miche). Da un punto di vista didattico si distinguono complicanze precoci e tardive. Complicanze precoci

In questa categoria rientrano tutte quelle condizioni che si presentano al momento del trauma o nei giorni immediatamente successivi a esso. Comprendono: ● le lesioni locali cutanee, capsulo-legamentose, vascolari e nervose; ● le sindromi compartimentali; ● patologie sistemiche, quali la malattia tromboembolica, l’embolia grassosa, l’insufficienza respiratoria acuta (ARDS), la disfunzione multiorgano (MODS), lo shock emorragico, il tetano e la gangrena gassosa. Complicanze acute locali  Le Figura 13.12   Pseudoartrosi oligotrofica del terzo distale della diafisi tibiale, in esito a frattura esposta.





colmare la perdita di sostanza ossea con materiale biologico a componente cellulare osteogenica (­autotrapianto osseo, cellule mesenchimali) oppure con materiale biologico e sostanze osteoinducenti (allotrapianto, Bone Morphogenetic Protein o BMP); se si utilizzano fissatori esterni, stimolare una ripresa dell’attività osteogenica con la distrazione/compressione meccanica della pseudoartrosi.

Viziosa consolidazione

Questo disturbo della consolidazione si verifica quando i frammenti di frattura guariscono in posizione non corretta, esitando in deformità con rilevanza clinico-funzionale e/o estetica. Le viziose consolidazioni possono causare l’angolazione (in valgo, varo, recurvato o procurvato), l’allungamento, l’accorciamento o la rotazione dell’osso fratturato. La terapia chirurgica è giustificata dalla presenza di disturbi clinicamente rilevanti e si basa sull’esecuzione di osteotomie correttive. In questi interventi, volti a ripristinare una normale morfologia scheletrica, si pratica una frattura chirurgica dell’osso malconsolidato con appositi strumenti, quindi si stabilizzano i frammenti nella posizione desiderata con mezzi di osteosintesi diversi.

Complicanze associate Come conseguenza di una frattura si possono osservare diverse lesioni associate, che coinvolgono strutture adiacenti all’osso fratturato (complicanze regionali),

complicanze acute locali (cutanee, capsulo-legamentose, vascolari e nervose) vanno sempre ricercate durante la visita iniziale per escludere lesioni iatrogene causate da una non corretta esecuzione delle manovre di riduzione o delle procedure chirurgiche, e sono specifiche del distretto corporeo coinvolto. Esempi sono la lesione del nervo radiale in una frattura diafisaria dell’omero oppure lesioni dell’arteria poplitea per fratture-lussazioni del ginocchio. Sindromi compartimentali  Le sindromi compartimen-

tali sono entità cliniche caratterizzate dalla sofferenza ischemica dei tessuti contenuti in alcuni compartimenti anatomici a pareti inestensibili, per effetto di un’elevazione della pressione tissutale al loro interno. Tale fenomeno può essere causato da un aumento del contenuto (emorragia, edema, infiammazione ecc.) o da una compressione esterna (bendaggi stretti). La sindrome di Volkmann è la sindrome compartimentale che colpisce le strutture contenute nella loggia anteriore dell’avambraccio; per la sua trattazione dettagliata si rimanda al Capitolo 12. La diagnosi di sindrome compartimentale può essere difficile e deve essere tempestiva, al fine di evitare danni anatomici irreversibili. Il sospetto deve insorgere in tutti i casi di tumefazione, dolore sproporzionato e tensione cutanea, soprattutto se associati a iperestesie nel territorio di distribuzione dei nervi. Il trattamento è essenzialmente legato alla decompressione, rimuovendo eventuali compressioni esterne e/o eseguendo in urgenza una fasciotomia. Malattia tromboembolica  La

tromboembolia è una delle complicanze più frequenti in ambito ortopedico: soprattutto la trombosi venosa profonda (TVP)

13 - Principi generali di traumatologia scheletrica 233

prossimale degli arti inferiori espone a un rischio elevato di embolia polmonare. Questa condizione è legata sia al trauma (lesione endoteliale nella triade di Virchow) sia all’immobilità (stasi) e può essere favorita da una predisposizione individuale (ipercoagulabilità). Clinicamente la TVP può essere del tutto silente e deve essere ricercata con il classico segno di Homans (flessione dorsale del piede ad arto esteso) e valutando la dolorabilità alla palpazione locale. L’embolia polmonare si rende evidente con “fame d’aria”, dispnea, tosse, tachipnea, tachicardia, fino ai casi più eclatanti di collasso cardio-polmonare. La diagnosi strumentale della TVP si avvale dell’ecocolor-Doppler; l’embolia, sospettata in presenza di alterazioni dell’emogasanalisi (abbassamento di pO2 arteriosa) ed elettrocardiografiche (tachicardia e inversione delle onde T nelle derivazioni anteriori), può essere identificata con una scintigrafia polmonare ventilatoria e perfusoria o con un’angio-TC. Per la specifica terapia si rimanda ai testi di Medicina Interna, ricordando però la necessità di effettuare sempre la prevenzione con eparine a basso peso molecolare in alcune fratture (rachide, bacino, arti inferiori), sempre che non vi sia un elevato rischio emorragico. Embolia grassosa  L’embolia

grassosa (o adiposa) è una complicanza meno frequente, più spesso conseguente a traumi pelvici, fratture di ossa lunghe (diafisi femorale) e alesaggio endomidollare (procedura eseguita per l’inserimento di chiodi nel canale diafisario durante l’osteosintesi di fratture). È dovuta al passaggio in circolo di globuli di grasso che vanno a ostruire arteriole e capillari di polmoni, cervello, reni e cute. La sintomatologia varia in base alla sede: spesso si presenta con dispnea, cianosi, confusione, vertigini, eruzioni petecchiali fino al coma. Anche in questo caso è fondamentale la prevenzione con trattamento precoce e appropriato della frattura (riducendo al minimo la mobilità dei frammenti), mantenimento dei liquidi, monitoraggio dell’equilibrio elettrolitico e ossigenazione sanguigna. Il trattamento è di competenza rianimatoria, volto al sostegno delle funzioni vitali fino alla risoluzione della fase acuta. Complicanze tardive

Le possibili complicanze a comparsa tardiva includono l’artrosi post-traumatica, la necrosi avascolare, le ossificazioni eterotopiche, l’algodistrofia, l’osteomielite e tutte le possibili complicanze legate al mezzo di sintesi ­utilizzato (rottura, mobilizzazione ecc.) e all’allettamento

­ rolungato (piaghe da decubito, infezioni polmonari e p urinarie, malattia tromboembolica). Artrosi post-traumatica  È dovuta alle incongruenze

post-traumatiche delle superfici articolari, alla presenza di frammenti liberi intrarticolari e al lungo periodo di immobilizzazione. Per questo motivo le fratture articolari, quelle in cui la rima si estende fino alla superficie cartilaginea, sono le più difficili da trattare. Necrosi avascolare post-traumatica  Va sospettata

in tutti quei casi in cui il dolore e l’invalidità si protraggono più del dovuto durante il periodo di convalescenza, cioè tra le 8 settimane e i 2 anni. Alcune sedi scheletriche sono predisposte in modo particolare a questa complicanza post-traumatica, per la presenza di una vascolarizzazione di tipo terminale: testa del femore, testa dell’omero, scafoide carpale e astragalo. Se le misure adottate per prevenire la necrosi tissutale risultano inefficaci, l’evoluzione verso l’artrosi post-traumatica è pressoché inevitabile e il trattamento sarà rivolto alla correzione degli esiti (protesi articolari, artrodesi ecc.) Ossificazioni eterotopiche  Si

tratta di formazioni ossee che si vengono a formare nei tessuti posti in prossimità di fratture, più spesso di gomito, anca e spalla. La loro incidenza è maggiore in caso di riduzione cruenta e fissazione interna delle fratture. Altre condizioni favorenti sono rappresentate dal ritardo nell’intervento, da concomitanti lesioni del sistema nervoso centrale (traumi cranici) e dal sesso maschile. Le misure preventive nelle fratture a rischio includono l’utilizzo di FANS (indometacina) o la terapia radiante a basse dosi; ossificazioni eterotopiche responsabili di limitazioni funzionali richiedono l’escissione chirurgica. Algodistrofia  Rappresenta

una sindrome clinica caratterizzata dall’associazione di sintomatologia dolorosa e impotenza funzionale di una porzione dell’arto con disturbi vasomotori e trofici dei tessuti molli e dello scheletro. Il termine atrofia o morbo di Sudek è utilizzato per indicare la localizzazione all’arto inferiore (piede e gamba). Il processo algodistrofico, oggi denominato sindrome dolorosa regionale complessa, coinvolge perciò tutti i tessuti di un determinato segmento e ciò dà ragione del suo polimorfismo sia sul piano clinico sia sul piano radiografico (si veda il Capitolo 12). Il trattamento è in genere fisioterapico, supportato dalla terapia medica a base di FANS, benzodiazepine e difosfonati.

234 Traumatologia

Figura 13.13

  Classificazione di Salter-Harris dei distacchi epifisari in cinque tipi.

Osteomielite  Un

processo suppurativo del midollo osseo con coinvolgimento secondario del tessuto scheletrico rappresenta un’evenienza frequente nelle fratture esposte. La patogenesi dell’infezione è legata all’inoculazione diretta di microrganismi dall’ambiente esterno. L’osteomielite può anche derivare dalla contaminazione del campo operatorio al momento dell’intervento di osteosintesi. La presenza di mezzi di sintesi interni rende particolarmente difficile l’eradicazione dell’infezione scheletrica.

Si possono distinguere: ● distacchi puri, nei quali la rima di frattura interessa esclusivamente la fisi; ● distacchi misti, nei quali la soluzione di continuo si estende al tessuto osseo contiguo. Le sedi scheletriche più frequentemente interessate sono l’epifisi distale del radio (prima in assoluto), quella prossimale dell’omero, il condilo omerale esterno e l’epifisi distale della tibia. Classificazione

Distacchi epifisari Federico A. Grassi, Ugo E. Pazzaglia I distacchi epifisari sono fratture la cui rima passa, del tutto o in parte, attraverso la cartilagine di accrescimento (o fisi). Questa struttura rappresenta un punto di minore resistenza alle sollecitazioni traumatiche che possono agire sullo scheletro del bambino e dell’adolescente. Il distacco può coinvolgere un nucleo di accrescimento epifisario (alle estremità delle ossa lunghe) o apofisario (per esempio epitroclea omerale, tuberosità tibiale ecc.).

La classificazione di Salter-Harris prevede la distinzione dei distacchi epifisari in cinque tipi, in rapporto al decorso della rima di frattura a livello metaepifisario (Figura 13.13) Tale classificazione ha importanti risvolti dal punto di vista terapeutico e prognostico. Per la descrizione delle caratteristiche istologiche della fisi, si rimanda al Capitolo 2, dedicato allo sviluppo dello scheletro. ● Tipo I. I distacchi epifisari di questo tipo sono lesioni pure della cartilagine di accrescimento, men­ tre le componenti ossee epifisarie e metafisarie non sono attraversate dalla rima di frattura (Figura 13.14).

13 - Principi generali di traumatologia scheletrica 235





dell’interessamento dello strato cartilagineo proliferativo, situato sul versante epifisario della fisi, e al possibile attraversamento di vasi sanguigni. Tipo IV. La rima di frattura attraversa la superficie articolare, l’epifisi, la cartilagine di accrescimento e la metafisi. Le sedi preferenziali sono rappresentate dal condilo laterale dell’omero (con rischio di sviluppo di deformità in valgismo del gomito se non trattato in modo adeguato) e dal malleolo tibiale. Tipo V. Costituisce la lesione meno facilmente identificabile e nello stesso tempo quella con la prognosi più sfavorevole. Il distacco epifisario di tipo V si verifica per schiacciamento della fisi, con conseguente danno anatomo-funzionale irreversibile della porzione di cartilagine interessata; spesso tale lesione viene individuata solo nel momento in cui si manifesta il disturbo della crescita.

Complicanze Figura 13.14

  Quadro radiografico di distacco epifisario distale di tipo I della tibia destra; il perone appare fratturato in una sede superiore rispetto alla cartilagine di accrescimento ( ).







Tali lesioni possono presentarsi con diversi gradi di scomposizione e vanno ridotte tempestivamente per evitare il ricorso alla riduzione a cielo aperto; il periodo di contenzione è compreso fra le 3 e le 4 settimane. La prognosi è di regola favorevole, poiché la rima di frattura tende a non interessare lo strato proliferativo della fisi, localizzandosi nello strato degenerativo e calcifico, e non vi è invasione di vasi sanguigni al suo interno. Tipo II. In questo caso oltre alla lesione della cartilagine, si osserva il distacco di un frammento osseo metafisario. Rappresenta il tipo più comune di distacco epifisario e, in presenza di grossi frammenti e ampie superfici coinvolte, è preferibile ricorrere al trattamento chirurgico per evitare disturbi della crescita in sede di lesione. Come per il tipo I, la prognosi è in genere favorevole. Tipo III. Questo tipo di lesione interessa più spesso cartilagini di accrescimento in via di chiusura, con sede preferenziale a livello della tibia distale. La rima di frattura si porta dalla cartilagine di accrescimento all’epifisi, raggiungendo il cavo articolare. Pur eseguendo una riduzione ottimale, indispensabile nelle fratture articolari, la lesione ha una prognosi più sfavorevole rispetto ai tipi precedenti (in caso di cartilagine ancora fertile) a causa

La più tipica complicanza dei distacchi epifisari è l’epifisiodesi, ovvero la formazione di un ponte osseo transfisario che determina la chiusura parziale o totale della cartilagine di accrescimento. Questo evento sfavorevole si può tradurre in due diversi disturbi della crescita scheletrica: ● arresto simmetrico, con ridotta lunghezza dell’arto, in caso di fusione metaepifisaria totale o centrale; ● arresto asimmetrico, con deviazione angolare dell’arto, in caso di fusione metaepifisaria periferica di un osso o in caso di fusione di un singolo osso a livello di avambraccio e gamba. Terapia

L’esito del trattamento è influenzato da tre fattori: ● tipo di lesione (prognosi peggiore nei tipi III, IV e V); ● tempestività della diagnosi; ● adeguatezza della terapia. Il riconoscimento e l’inquadramento della lesione sono ottenuti con l’esecuzione di uno studio radiografico preciso, includendo talvolta radiogrammi comparativi dell’arto controlaterale o ricorrendo a metodiche panesploranti (TC o RM). Una terapia corretta non può prescindere dalla riduzione anatomica della fisi, che può essere poi contenuta con apparecchi gessati o stabilizzata con mezzi di sintesi poco invasivi (fili di Kirschner) per evitare un danno iatrogeno della cartilagine di accrescimento. Tentativi di riduzione ritardata rischiano di peggiorare il quadro anatomo-clinico, in virtù della rapidità con cui inizia il processo di consolidazione.

236 Traumatologia

Il paziente politraumatizzato Giovanni Zatti Il trauma rappresenta la più frequente causa di morte al di sotto dei 40 anni. Si definisce politraumatizzato un paziente che, a seguito di lesioni multiple di natura traumatica, si trova in condizioni tali da richiedere una terapia intensiva. Un corretto approccio terapeutico al paziente politraumatizzato, soprattutto in fase iniziale, è l’elemento critico per ridurne la mortalità, che si aggira intorno al 20%. L’intervento deve essere quanto più tempestivo possibile e articolato in due fasi, tra loro strettamente coordinate: ● primo soccorso sul luogo dell’incidente e durante il trasporto; ● inquadramento diagnostico-terapeutico dopo l’ospedalizzazione. La prima ora dopo il trauma (golden hour) è considerata il periodo più importante per la prognosi di questi pazienti.

Primo soccorso Dopo avere protetto il luogo in cui avviene l’intervento di pronto soccorso (aspetto di primaria importanza negli incidenti stradali), il traumatizzato viene posto nella posizione più idonea per eseguire il primo intervento terapeutico. In caso di mobilizzazione, per esempio prima dell’estrazione da un veicolo, è opportuno tutelare il rachide cervicale con un collare (Figura 13.15) o, in sua assenza, mantenerlo in posizione ferma e in asse con il tronco.

Figura 13.15   Nel trasporto del paziente politraumatizzato, l’applicazione di un collare è utile per evitare la mobilizzazione del rachide cervicale.

La posizione da preferire è quella denominata laterale di sicurezza, con il paziente adagiato sul fianco, il collo esteso e ruotato lateralmente in modo che, in caso di vomito, il materiale rigurgitato non occluda l’albero respiratorio. In caso di incoscienza va assicurata la pervietà delle vie aeree superiori, rimuovendo l’eventuale materiale estraneo che possa ostruirle, la mandibola va anteposta per impedire la caduta della lingua (se disponibile, a tal fine si può utilizzare la cannula orofaringea). Se il paziente non respira spontaneamente va ventilato mediante respirazione artificiale, meglio con maschera e pallone AMBU; se vi è assenza dei polsi periferici (carotideo) è necessario il massaggio cardiaco. Nel caso di emorragie esterne bisogna eseguire un’emostasi temporanea, mediante compressione o con l’applicazione di lacci alla radice degli arti. Se si instaura una forte ipotensione fino allo shock ipovolemico (Box 13.2), dovuto spesso a emorragie interne non diagnosticate sul luogo dell’incidente, il paziente va posto in posizione supina con gli arti inferiori sollevati (posizione di Trendelenburg), per favorire il ritorno venoso, e va coperto, per prevenire l’ipotermia. Se possibile, è opportuno incannulare una vena per somministrare plasma expanders ed emoderivati. Evidenti fratture delle ossa lunghe vanno allineate e stabilizzate provvisoriamente con ferule o tutori di fortuna.

Box 13.2 Shock traumatico Il termine shock identifica una particolare sindrome a eziologia assai varia (traumatica, cardiaca, allergica, infettiva ecc.), che si caratterizza per la comparsa di un’insufficienza circolatoria periferica acuta, alla quale fa seguito un’ipoperfusione multiorgano, con insufficiente apporto di ossigeno e ridotta eliminazione di cataboliti. In assenza di terapia, lo shock mostra una tendenza evolutiva verso l’aggravamento, attraverso meccanismi emodinamici e bioumorali “a cascata”. Lo shock traumatico mostra una particolare complessità, poiché tre fattori compartecipano alla sua determinazione: • fattore neurogeno: entra in gioco nelle fasi iniziali (reazione simpatico-adrenergica) e svolge un ruolo nella patogenesi di alcune lesioni organiche (per esempio le ulcere da stress); • fattore ipovolemico: sostenuto dalle emorragie, sia esterne sia interne; • fattore tossico: dipendente dalle lesioni tissutali, con l’immissione in circolo di mediatori chimici (sostanze vasoattive, enzimi, potassio ecc.) che contribuiscono al disturbo circolatorio e alle sofferenze d’organo.

13 - Principi generali di traumatologia scheletrica 237

Figura 13.16  Esempio di barella spinale per il trasporto dei politraumatizzati in posizione protetta: modulare (a), rigida (b) e con cinghie multiple (c).

Una volta stabilizzate a sufficienza le condizioni generali, il politraumatizzato va posto con le opportune manovre su una barella, meglio se modulare e rigida (Figura 13.16), e trasportato sul veicolo con il quale verrà trasferito nell’ospedale più vicino, dotato delle attrezzature e competenze necessarie per far fronte alle patologie presenti.

intracranica (PIC). È quindi essenziale un accurato esame neurologico; la presenza di otorragia e/o liquorrea è fortemente suggestiva per una lesione del sistema nervoso centrale.

Ospedalizzazione

Le lesioni scheletriche vanno diagnosticate, valutate e trattate secondo alcune priorità. Alcune fratture, prima del loro trattamento, richiedono uno studio più approfondito, ma non per questo ritardato, con TC. ● Le fratture complesse del bacino vanno stabilizzate in urgenza, preferibilmente con un fissatore esterno, al fine di contribuire alla stabilizzazione del quadro emodinamico. ● Le lussazioni (anca, spalla, gomito) vanno ridotte per limitare il rischio di complicanze (necrosi asettica, lesione di tronchi nervosi e vascolari periferici). ● Le fratture vertebrali instabili o mieliche possono richiedere un intervento in urgenza di decompressione sulle strutture nervose e stabilizzazione. ● Le fratture o le lesioni esposte vanno accuratamente deterse, con rimozione dei tessuti necrotici e contaminati, e sintetizzate in urgenza (fissatori esterni); l’esposizione può essere lasciata aperta per successivi lavaggi oppure coperta immediatamente con interventi di chirurgia ricostruttiva, il tutto per ridurre l’incidenza di infezioni. ● Le fratture diafisarie della ossa lunghe degli arti inferiori vanno sintetizzate il prima possibile (chiodi endomidollari) a paziente stabilizzato, oppure in situazioni emodinamicamente instabili con fissatori

Dopo l’arrivo in ospedale vanno monitorate la funzionalità cardio-respiratoria, la diuresi (catetere vescicale), i parametri ematochimici e i valori emogasanalitici. Si procede a incannulare due vene di grosso calibro o meglio una vena centrale per la somministrazione di farmaci e il controllo della pressione venosa centrale (PVC). Nella diagnostica per immagini, la sequenza degli accertamenti sarà in parte dettata dal quadro clinico. Si dovranno eseguire: ● Rx del torace (il drenaggio di pneumo- o emotorace deve essere tempestivo); ● Rx del rachide e del bacino; ● Rx dei segmenti scheletrici con sospette fratture; ● ecografia dell’addome (milza) con eventuale integrazione di TC spirale. Le lesioni vascolari gravi vanno riconosciute (talvolta con il ricorso all’angiografia) e trattate, se possibile, con approccio percutaneo (embolizzazioni, stent intraluminali). In caso di trauma cranico deve essere eseguita una TC dell’encefalo e l’eventuale trattamento neurochirurgico d’urgenza con successivo monitoraggio della pressione

Algoritmo terapeutico per le lesioni scheletriche

238 Traumatologia



esterni secondo i principi del “Damage Control” per ridurre il rischio di complicanze (embolia grassosa, sindrome da insufficienza respiratoria acuta); nell’impossibilità di eseguire un intervento in tempi brevi, è preferibile porre l’arto in trazione transcheletrica. Le fratture articolari (ginocchio, acetabolo), quelle vertebrali amieliche e stabili, e quelle degli arti superiori possono essere trattate in un secondo momento, dopo stabilizzazione definitiva del paziente.

Durante queste fasi il paziente va monitorato e le funzioni vitali (respirazione, circolazione, funzionalità epatica e renale) controllate e sostenute; va inoltre impostata un’idonea profilassi antibiotica e antitromboembolica. Una volta eseguite le terapie indifferibili e stabilizzate le condizioni generali del paziente, si può programmare il trattamento di eventuali altre lesioni e riprendere i trattamenti provvisori trasformandoli in definitivi. Il concetto è quello di non aggiungere al trauma acuto (FIRST HIT) un ulteriore danno con trattamenti

eccessivamente invasivi (SECOND HIT), con conseguenze potenzialmente negative. Da cui il diffuso uso in urgenza di fissatori esterni temporanei secondo i principi del “DAMAGE CONTROL”, che rappresenta un’evoluzione rispetto al precedente concetto della “EARLY TOTAL CARE”, trattamento immediato definitivo di tutte le lesioni, da proporre solo in caso di pazienti emodinamicamente stabili in situazioni ideali. La terapia precoce delle fratture permette di iniziare in tempi brevi la fase riabilitativa e la mobilizzazione del paziente, riducendo il rischio di complicanze generali (polmoniti, malattia tromboembolica, ulcere da decubito) e locali (rigidità articolari, atrofie muscolari, retrazioni). L’approccio multidisciplinare integrato, unito al miglioramento delle conoscenze e delle tecniche di rianimazione anche extraospedaliere, con un’aggressività chirurgica precoce, modulata però su un oculato bilancio tra costi e benefici (Damage Control), ha permesso di ridurre la mortalità dei politraumatizzati, ma anche l’entità delle invalidità croniche.

capitolo

Fratture dell’arto superiore

14

Federico A. Grassi, Giorgio Pilato

Clavicola

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Federico A. Grassi Le fratture della clavicola sono tra le più frequenti in assoluto e si osservano in tutte le età, con un’incidenza particolarmente elevata nei bambini e nei ­giovani adulti. Inoltre, sono una delle più comuni lesioni rilevate alla nascita, per traumatismi legati al parto. La clavicola, struttura scheletrica di collegamento tra il cingolo scapolare e lo scheletro assiale, mostra una spiccata tendenza alla guarigione spontanea: si ritiene che tali capacità riparative siano correlate sia alle caratteristiche ontogenetiche della clavicola (formazione attraverso un processo di ossificazione membranosa) sia alle condizioni anatomiche locali (numerose inserzioni muscolari con ricca vascolarizzazione). Il meccanismo di lesione può essere diretto, soprattutto per le fratture delle estremità, ma è più frequentemente indiretto. La caduta sulla spalla determina una trasmissione mediale di forze che, producendo sollecitazioni tangenziali e angolari sulla curvatura a S della clavicola, ne provoca la frattura. Classificazione

Il criterio classificativo si basa sulla sede del focolaio di frattura e distingue: ● fratture del terzo medio (circa l’80% dei casi); ● fratture del terzo laterale (circa il 15%); ● fratture del terzo mediale (meno del 5%). Le fratture del terzo laterale sono a loro volta differenziate in due tipi principali a seconda dell’entità della

scomposizione, condizionata dall’inserzione (sul frammento mediale o laterale) e dall’integrità dei legamenti coraco-claveari. Quadro clinico

La diagnosi clinica delle fratture scomposte della clavicola non pone particolari problemi in virtù della posizione superficiale dell’osso. Nelle più comuni fratture al terzo medio, il frammento mediale appare dislocato superiormente ed è palpabile agevolmente al di sotto della cute tesa, mentre il frammento laterale tende a spostarsi verso il basso e medialmente (per effetto del peso del braccio e della trazione da parte del grande pettorale). L’atteggiamento di difesa del paziente è caratterizzato dal sostegno dell’arto leso con la mano controlaterale e dall’inclinazione del capo verso la lesione, al fine di detendere lo sternocleidomastoideo. Tali segni sono spesso assenti nel bambino, nel quale le fratture sottoperiostee “a legno verde” mantengono una normale configurazione dell’osso (si veda la Figura 13.3). L’indagine anamnestica e la palpazione locale possono indirizzare la diagnosi, che dovrà essere confermata dall’esame radiografico. Diagnostica per immagini

Una semplice proiezione antero-posteriore è di regola sufficiente per definire la rima di frattura (trasversa, pluriframmentaria ecc.) e la scomposizione dei frammenti sul piano frontale, ma molto spesso non permette di apprezzare lo spostamento dei frammenti sul

240 Traumatologia

piano orizzontale. Per questo motivo è consigliata l’esecuzione di radiogrammi con un’inclinazione del raggio di 45° in senso cranio-caudale e viceversa. Complicanze

Le complicanze immediate sono rare, ma potenzialmente molto gravi: ● lesioni pleuro-polmonari, con pneumotorace o emotorace, in associazione a fratture costali; ● lesioni vascolari, in particolare a carico della vena succlavia; ● lesioni del plesso brachiale, quasi costantemente associate a lesione della vena succlavia. Le complicanze tardive possono essere causa di insoddisfazione dei pazienti, sebbene le conseguenze funzionali siano trascurabili: ● pseudoartrosi, più spesso osservate nei fumatori; ● viziosa consolidazione, con presenza di un callo osseo esuberante che è responsabile di un inestetismo (Figura 14.1). Terapia

Nei neonati non è necessario alcun trattamento: la frattura guarisce in pochi giorni e si assiste al rimodellamento dell’osso in pochi mesi. Anche nei bambini non vi sono particolari problematiche terapeutiche grazie alla spiccata tendenza alla guarigione spontanea della clavicola: un periodo di riposo funzionale per 2-3 settimane con tutela in tasca reggibraccio è di regola sufficiente a garantire la guarigione. Negli adulti il più comune trattamento resta quello conservativo, con l’impiego di tutori per l’arto superiore o l’applicazione di bendaggi a 8 in trazione, nel tentativo di ripristinare l’allineamento dei frammenti e la lunghezza dell’osso.

Figura 14.1   Viziosa consolidazione di frattura della clavicola destra trattata in modo conservativo. Sono apprezzabili il callo osseo esuberante, la prominenza sottocutanea del frammento mediale ( ) e l’accorciamento dell’osso per accavallamento dei frammenti.

Il ricorso alla terapia chirurgica si rende necessario quando la scomposizione dei frammenti è grave (con scarse possibilità di consolidazione), in caso di esposizione della frattura e in presenza di complicanze. Una volta eseguita la riduzione a cielo aperto, l’osteosintesi può essere praticata: ● con infibulo metallico endomidollare ● con placca e viti (Figura 14.2).

Scapola Federico A. Grassi La particolare mobilità della scapola e la protezione offerta dalle masse muscolari che la circondano rendono ragione della bassa frequenza di fratture in questa sede scheletrica, fatta eccezione per quelle che interessano il margine glenoideo in occasione di lussazioni della spalla. L’elevata incidenza di lesioni associate (traumi vertebrali, fratture costali e contusioni polmonari, lesioni del plesso brachiale ecc.) è correlata alla violenza dei traumatismi necessari per produrre fratture scapolari. Classificazione

Le fratture della scapola sono suddivise in base a un criterio anatomico. ● Fratture della glena (articolari): porzioni più o meno ampie del margine glenoideo anteriore possono distaccarsi a seguito di lussazione traumatica della spalla, condizionando l’insorgenza di un quadro di

Figura 14.2   Frattura scomposta pluriframmentaria della clavicola sinistra (a) e quadro radiografico dopo intervento di riduzione e osteosintesi con placca e viti (b).

14 - Fratture dell’arto superiore 241

Figura 14.3   Frattura della porzione anteriore della glena ( ) con sublussazione anteriore della testa omerale. Proiezione antero-posteriore sul piano della scapola (a). Proiezione ascellare (b).







sublussazione statica o di instabilità se non trattate chirurgicamente (Figura 14.3). Si possono anche osservare fratture articolari della glena in assenza di lussazione, con interessamento di porzioni più centrali della superficie articolare: in questo caso il ricorso alla terapia chirurgica è raro. Fratture del collo: le fratture extrarticolari, seppure scomposte, sono di solito trattate in modo conservativo. In caso di concomitante frattura della clavicola si può osservare una particolare instabilità del collo scapolare (floating shoulder) che rende necessaria la terapia chirurgica. Fratture del corpo: sono quelle con la maggiore incidenza di lesioni associate. Possono presentare un alto grado di scomposizione e comminuzione, ma solo la presenza di frammenti che interferiscono con il normale movimento scapolo-toracico può rappresentare un’indicazione per il trattamento chirurgico. Fratture delle apofisi (acromion e coracoide): sono rare e possono verificarsi in particolari condizioni. Per l’acromion, con le caratteristiche di fratture da stress, in associazione a rotture massive della cuffia dei rotatori di vecchia data per persistente contatto e attrito con la testa omerale risalita. Per la coracoide, come lesioni da strappamento per contrazioni violente del bicipite brachiale o per lussazioni acromioclaveari senza rottura dei legamenti coraco-claveari.

Diagnostica per immagini

L’esame radiografico include diverse proiezioni (anteroposteriore, antero-posteriore sul piano della scapola, ascellare, laterale della scapola) per valutare le differenti porzioni scapolari. Il ricorso alla TC è quasi sempre necessario per meglio definire le fratture di glena e collo. Terapia

Il trattamento è più spesso conservativo, con tutela dell’arto superiore in tasca reggibraccio. La riabilitazione deve essere intrapresa precocemente, a circa 2 settimane dal trauma e, una volta ottenuta l’attenuazione del dolore, con una graduale mobilizzazione della spalla al fine di prevenire l’insorgenza di rigidità articolare. Le fratture del margine glenoideo anteriore associate a lussazione della spalla richiedono invece l’osteosintesi del frammento distaccato con viti, per evitare la comparsa di gravi quadri di instabilità o sublussazione statica. Una complicanza tardiva delle fratture articolari della scapola è rappresentata dall’artrosi post-traumatica della spalla: questa tende a manifestarsi in tempi più lunghi rispetto a quanto avviene, per lesioni analoghe, nelle articolazioni sottoposte al carico (anca, ginocchio, caviglia).

Omero prossimale Federico A. Grassi

Quadro clinico

Il quadro clinico è aspecifico, con dolore e impotenza funzionale della spalla, che appare atteggiata in adduzione e rotazione interna per difesa antalgica. In caso di traumatismo violento, l’esame deve essere rivolto alla ricerca di eventuali lesioni associate.

Le fratture dell’estremo prossimale dell’omero includono le lesioni scheletriche localizzate al di sopra della zona di inserzione del muscolo grande pettorale. Come nelle altre ossa lunghe, la metaepifisi omerale è quasi del tutto costituita da tessuto osseo spongioso, capace di garantire

242 Traumatologia

una rapida consolidazione dei frammenti in caso di reciproco contatto. Questo aspetto le distingue in modo netto dalle lesioni localizzate al di sotto del collo chirurgico, nelle quali viene interrotto l’osso corticale diafisario. La maggiore incidenza di queste fratture si osserva in età avanzata, a seguito di traumi a bassa energia (meccanismo indiretto per cadute accidentali), poiché l’osteoporosi ne rappresenta il principale fattore predisponente. Lesioni causate da traumatismi ad alta energia tendono ad assumere caratteristiche peculiari, quali una maggiore scomposizione, comminuzione e/o l’estensione in sede diafisaria. Classificazione

Tra le classificazioni proposte, lo schema a 4 frammenti, ideato da Codman negli anni Trenta e perfezionato da Neer negli anni Settanta, è ancora oggi quello più diffusamente utilizzato. Esso si basa su due concetti fondamentali: ● il limite di scomposizione della frattura, consistente in una diastasi tra i frammenti superiore a 1 cm o in una loro angolazione superiore a 45°; ● la presenza di 4 frammenti principali: la testa omerale, le due tuberosità (trochite e trochine) e la diafisi a livello del collo chirurgico. In base a tali criteri, la maggior parte delle fratture dell’omero prossimale sono classificate come composte,

mentre le lesioni scomposte assumono configurazioni diverse a seconda del numero e della localizzazione delle rime di frattura. Ai possibili quadri di fratture a 2, 3 e 4 frammenti (Figura 14.4), si aggiungono le fratturelussazioni e le fratture articolari da compressione o da separazione (split) della testa omerale. La lesione di più frequente osservazione è la frattura del collo chirurgico, seguita da quella del trochite (spesso associata a lussazione della spalla). La scomposizione dei frammenti è influenzata, oltre che dalle forze agenti al momento del trauma, anche dall’azione delle strutture miotendinee che si inseriscono a livello dell’omero prossimale. Quadro clinico

Dolore, tumefazione (evidente nei soggetti magri) e crepitazione ossea alla cauta mobilizzazione della spalla sono i segni da rilevare nel sospetto di frattura dell’omero prossimale; l’esame clinico deve includere un’attenta valutazione dello stato neurologico e vascolare. Nelle 24-48 ore successive al trauma si rende evidente un vasto ematoma sottocutaneo lungo l’arto superiore e talvolta anche in regione p ­ ettorale. Diagnostica per immagini

Se il riconoscimento della lesione all’esame radiografico non pone particolari problemi, altrettanto non si può dire per il suo corretto inquadramento classificativo,

Figura 14.4   Quadro radiografico di fratture scomposte dell’omero prossimale (i numeri identificano i frammenti): frattura del collo chirurgico (a); frattura del trochite (b); frattura a 3 parti impattata in valgo (c); frattura a 3 parti con diastasi dei frammenti (d); frattura a 4 parti (e).

14 - Fratture dell’arto superiore 243

Figura 14.5   Complicanze tardive delle fratture dell’omero prossimale. Viziosa consolidazione con varismo e rotazione posteriore della testa omerale (a). Pseudoartrosi del collo chirurgico (b).

aspetto fondamentale per un adeguato approccio terapeutico. È necessario sottolineare l’importanza di eseguire radiogrammi in proiezioni diverse, tenendo in considerazione che la spalla offre la possibilità di essere esaminata su tre piani ortogonali: antero-posteriore, ascellare e laterale (la cosiddetta trauma series). L’esecuzione di queste proiezioni richiede la mobilizzazione della spalla, che tuttavia non risulta problematica se eseguita con la dovuta cautela. Eventuali difficoltà nella conduzione dello studio radiografico possono essere ovviate con il ricorso alla TC, che consente una buona definizione dei rapporti tra i diversi frammenti omerali grazie alle ricostruzioni tridimensionali. Complicanze

Le lesioni vascolo-nervose rappresentano le rare complicanze immediate. Le strutture maggiormente a rischio sono: ● l’arteria ascellare, in genere lesionata nel punto di emergenza della circonflessa anteriore; ● il nervo ascellare, soprattutto nel caso di fratturelussazioni. Le complicanze tardive, ben più frequenti, includono: ● rigidità articolare, spesso conseguente a immobilizzazioni prolungate e/o a programmi riabilitativi inadeguati; ● viziosa consolidazione, con sovvertimento della normale anatomia della spalla e compromissione funzionale più o meno dolorosa (Figura 14.5a);





pseudoartrosi, infrequenti e localizzate al collo chirurgico; sono invalidanti per la perdita della mobilità attiva della spalla (Figura 14.5b); necrosi asettica della testa omerale, pressoché inevitabile nelle fratture a 4 parti.

Terapia

Il trattamento delle fratture composte, anche se pluriframmentarie, non pone particolari problemi in considerazione dei tempi rapidi di consolidazione. La terapia di queste lesioni consiste nell’immobilizzazione in tutore per 2-3 settimane, seguita da un precoce programma riabilitativo volto al recupero dell’articolarità della spalla. Nelle fratture scomposte, il ricorso al trattamento chirurgico si rende necessario quando la dislocazione dei frammenti è tale da fare presagire uno scarso risultato clinico-funzionale. Nelle fratture a 2 e 3 parti, la riduzione e l’osteosintesi possono essere praticate con tecniche diverse, talvolta di difficile esecuzione: ● riduzione a cielo chiuso e fissazione percutanea con fili di Kirschner o inchiodamento endomidollare con tecnica mininvasiva (Figura 14.6a): queste metodiche non comportano l’esposizione del focolaio di frattura e pertanto non interferiscono sul processo di guarigione biologica, favorendo una rapida consolidazione dei frammenti; ● riduzione a cielo aperto e osteosintesi con placca e viti: con questa tecnica, pur allungando il tempo di consolidazione della frattura, si mira a una migliore riduzione dei frammenti. Viene adottata in prevalenza nei soggetti giovani, in cui la buona qualità

244 Traumatologia

Figura 14.6   Esempi di trattamento chirurgico di fratture dell’omero prossimale. Frattura a 2 parti (collo chirurgico) trattata con chiodo endomidollare bloccato (a) e frattura a 4 parti trattata con l’impianto di una protesi parziale di spalla (b).

dell’osso offre un solido ancoraggio ai mezzi di sintesi e una fissazione stabile. Le fratture a 4 parti, comportando un elevato rischio di necrosi della testa omerale, sono preferibilmente trattate con l’impianto di una protesi parziale di spalla (Figura 14.6b) o con una protesi inversa nei pazienti sopra i 75 anni (si veda la Figura 11.12b). Un tentativo di riduzione e osteosintesi è giustificato nei pazienti al di sotto dei 50 anni.

Diafisi omerale Federico A. Grassi Le fratture della diafisi omerale conseguono spesso a traumi ad alta energia (incidenti stradali, urti violenti ecc.) e la loro incidenza è più elevata negli individui adulti. Il meccanismo di lesione condiziona la configurazione della rima di frattura: ● trasversa, obliqua o comminuta nei traumi diretti;

14 - Fratture dell’arto superiore 245



obliqua o spiroide nei traumi indiretti, rispettivamente per sollecitazioni in flessione e torsione.

Classificazione

Queste lesioni sono classificate in base ai criteri comuni a tutte le fratture diafisarie: ● livello di lesione (terzo prossimale, medio o distale); ● entità del danno scheletrico (completa o incompleta) ed eventuale scomposizione; ● configurazione della rima di frattura (trasversa, obliqua, comminuta ecc.); ● numero dei focolai (unifocale, bifocale); ● integrità del rivestimento cutaneo (chiusa o esposta). Quadro clinico e radiografico

Se la frattura è scomposta, la diagnosi clinica è agevole: il braccio, tumefatto e dolente, è accorciato e/o deviato, con mobilità preternaturale e crepitazione alla mobilizzazione (da eseguire in maniera estremamente cauta!). L’esame radiografico, in due proiezioni ortogonali includendo anche la spalla e il gomito, consente di caratterizzare il tipo di frattura. Complicanze

La più temibile complicanza delle fratture diafisarie dell’omero è la lesione del nervo radiale, che decorre addossato alla superficie posteriore dell’osso a livello della doccia di torsione. Questa complicanza si osserva nel 5-10% dei casi ed è più frequentemente associata a fratture spiroidi del terzo distale. Nella maggior parte dei pazienti il nervo è solo stirato o contuso (neuroapras­ sia o assonotmesi) dai frammenti di frattura, ma può anche trovarsi interposto tra questi ultimi o essere lacerato (neurotmesi); in alcuni casi la lesione si verifica più tardivamente per inglobamento o distensione da parte del callo osseo. La paralisi del radiale si manifesta con un deficit nell’estensione delle articolazioni metacarpofalangee e del polso (“mano cadente”), e ipoestesia o anestesia sul dorso del lato radiale della mano e del I e II dito. Il recupero funzionale può richiedere mesi e deve essere monitorato con studi della conduzione nervosa ed elettromiografici. L’esplorazione chirurgica è giustificata in caso di deficit persistente a 4-6 mesi dal trauma. Altre possibili complicanze sono rappresentate dalla lesione dell’arteria brachiale (immediata) e dalla pseudoartrosi (tardiva). Terapia

Le fratture diafisarie dell’omero possono essere trattate sia con metodi conservativi sia chirurgici, con un ampio margine di discrezionalità individuale. La terapia ortopedica può essere praticata immobilizzando l’intero arto superiore con un semplice bendaggio

alla Desault o con apparecchio gessato toraco-metacarpale (dopo eventuale riduzione mediante trazione transolecranica). Si può anche ricorrere all’impiego di un gesso funzionale pendente, senza immobilizzazione della spalla, in cui l’allineamento dei frammenti è ottenuto sfruttando il peso dell’arto e la contenzione è affidata alla compressione esercitata sui muscoli del braccio. Tale tecnica richiede tuttavia un elevato grado di collaborazione da parte del paziente. L’osteosintesi può essere praticata con chiodo endomidollare (Figura 14.7), con placca e viti, o anche con l’impiego di un fissatore esterno.

Gomito Federico A. Grassi Le fratture del gomito includono le fratture dell’estremità distale dell’omero e quelle dell’estremità prossimale di ulna e radio. Sebbene le caratteristiche epidemiologiche e le problematiche cliniche di queste lesioni siano diverse, esse sono accomunate dalle possibili ripercussioni sulla funzionalità del gomito. Questa articolazione è particolarmente soggetta a fenomeni di rigidità e la necessità di una tempestiva riabilitazione costituisce un denominatore terapeutico comune per le lesioni traumatiche che la interessano.

Omero distale Le fratture dell’omero distale (Box 14.1) includono: ● fratture sovracondiloidee; ● fratture transcondiloidee e intercondiloidee; ● fratture isolate dei condili (laterale e mediale); ● fratture delle superfici articolari (capitulum humeri e troclea); ● fratture degli epicondili.

Fratture sovracondiloidee Sono per definizione fratture extrarticolari che si osservano in massima parte nei bambini tra i 5 e i 10 anni, per divenire rare dopo i 15. Si ritiene che fattori anatomici peculiari di questa fascia d’età, quali la lassità legamentosa (con possibilità di iperestensione del gomito) e la struttura ossea in rimodellamento, predispongano alla lesione. La classificazione segue un criterio patogenetico e distingue:

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Figura 14.7   Frattura trasversa scomposta del terzo medio diafisario dell’omero sinistro, trattata mediante osteosintesi endomidollare con chiodo bloccato. Scarsa evidenza della scomposizione in proiezione antero-posteriore obliqua (a). In proiezione laterale è evidente lo spostamento anteriore del frammento prossimale (b). Quadro radiografico dopo impianto del mezzo di osteosintesi (c).

Box 14.1 Anatomia ossea



dell’omero distale Nell’anatomia dell’omero distale si possono riconoscere due colonne – una laterale e una mediale - che supportano i rispettivi condili: ciascuna colonna consta di una porzione articolare e una extrarticolare (epi­ condilo). La superficie articolare del condilo laterale è emisferica (capitulum humeri) e si articola con il capitello radiale. La superficie articolare del condilo mediale è la troclea omerale, a forma di puleggia con un solco centrale delimitato da due creste, che entra in rapporto con la grande incisura sigmoidea dell’ulna. I condili presentano un’angolazione anteriore di 30° e una laterale, in valgismo, di 6-8° rispetto all’asse diafisario dell’omero. In sede prossimale rispetto alla troclea si trovano: ● la fossetta coronoidea, anteriormente, destinata ad accogliere la coronoide in flessione; ● la fossetta olecranica, posteriormente, che riceve l’apice dell’olecrano in estensione. ● L’osso interposto tra le due fossette è una lamina molto sottile e costituisce la parte centrale della cosiddetta “paletta omerale”.



fratture da estensione (> 95% dei casi): il meccanismo traumatico è indiretto, per caduta sulla mano a gomito esteso. Il frammento distale si disloca posteriormente e viene trazionato verso l’alto dalla contrazione del tricipite (Figura 14.8a); fratture da flessione (rare): il meccanismo traumatico è diretto, per urto violento posteriore a gomito flesso, e produce una dislocazione anteriore del frammento distale (Figura 14.8b).

In base all’entità dello spostamento tra i frammenti, le fratture da estensione sono ulteriormente distinte in tre tipi: ● tipo I: composte; ● tipo II: scomposte con contatto corticale; ● tipo III: scomposte senza contatto; in queste fratture lo spostamento dei frammenti è variabile con possibili associazioni tra traslazioni (mediale o laterale), angolazioni (varo o valgo), rotazioni e accorciamenti (Figura 14.9). Il quadro clinico varia a seconda della gravità della frattura e si caratterizza per l’atteggiamento antalgico del gomito in semiflessione, l’impotenza funzionale in

14 - Fratture dell’arto superiore 247

Figura 14.8  I due tipi di frattura sovracondiloidea: da estensione, con spostamento posteriore del frammento distale (a); da flessione, più rara, con dislocazione dei frammenti in direzione opposta (b).

Figura 14.9   Frattura sovracondiloidea scomposta dell’omero destro, senza contatto corticale tra i frammenti (tipo III). Radiografie in proiezione anteroposteriore (a) e laterale (b).

flesso-estensione e la deformità in caso di scomposizione. La distinzione rispetto a una lussazione di gomito può essere possibile soltanto prima della comparsa della tumefazione locale, quando i reperi ossei sono ancora apprezzabili. L’esame radiografico dirime il dubbio diagnostico e permette di caratterizzare la lesione. Le complicanze vascolo-nervose non sono rare e la loro prevenzione è in larga parte influenzata dal trattamento tempestivo delle fratture scomposte. Le strutture più frequentemente interessate sono:







il nervo radiale, con la dislocazione antero-laterale del frammento prossimale; l’arteria omerale e il nervo mediano, in caso di scomposizione antero-mediale; il nervo ulnare nelle rare fratture da flessione.

La sindrome ischemica di Volkmann (per la cui trattazione si rimanda al Capitolo 12) è da considerare la complicanza più temibile delle fratture sovracondiloidee dell’omero.

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Altre possibili complicanze sono correlate a residue alterazioni della normale configurazione dell’omero distale e includono la limitazione del movimento (talvolta per ossificazioni eterotopiche) e le deviazioni angolari, soprattutto il gomito varo, che tuttavia rappresentano più un problema estetico che funzionale. La terapia può essere sia conservativa (riduzione e contenzione in apparecchio gessato brachio-metacarpale a gomito flesso e pronato) sia chirurgica (per lo più fissazione percutanea con fili di Kirschner), quest’ultima necessaria nelle fratture scomposte e instabili.

Fratture transcondiloidee e intercondiloidee Sono fratture articolari che interessano in modo prevalente i soggetti anziani. Le rare fratture transcondiloidee tendono a essere accomunate a quelle sovracondiloidee, da cui si differenziano per la sede intracapsulare della rima di frattura: questa decorre lungo le superfici articolari dei condili, interessando anche le fossette coronoidea e olecranica. Nelle fratture intercondiloidee, più frequenti, si osserva la separazione dei condili l’uno dall’altro e dalla diafisi, con configurazioni a T o Y della rima di frattura (Figura 14.10). Per un corretto inquadramento della lesione, allo studio radiografico standard va associata l’esecuzione di una TC del gomito.

Il trattamento è per lo più chirurgico, con interventi di osteosintesi, di estrema difficoltà nelle lesioni più complesse, o con la sostituzione protesica del gomito.

Fratture dei condili Tra queste lesioni merita di essere ricordata la frattura del condilo laterale che si osserva nei bambini. Si tratta di un distacco epifisario in cui la rima di frattura, a decorso obliquo in senso latero-mediale, può interessare il nucleo di ossificazione del condilo laterale o estendersi più medialmente verso la troclea femorale. La classificazione in due tipi secondo Milch si basa appunto su questo criterio (Figura 14.11). Il meccanismo di lesione più comune è rappresentato dalla sollecitazione forzata in varo del gomito. La diagnosi radiografica può non essere agevole, soprattutto nei bambini più piccoli dove il condilo è poco ossificato, e un trattamento inadeguato si traduce in un’importante compromissione funzionale del gomito.

Fratture delle superfici articolari Sono fratture rare, la più comune delle quali è quella del capitulum humeri. Il frammento osteo-cartilagineo è distaccato da una forza tangenziale trasmessa dal capitello radiale, per esempio a seguito di caduta sul gomito flesso (Figura 14.12). Talvolta la grandezza del frammento è sottovalutata all’esame radiografico, perché costituito in larga parte da cartilagine. L’esecuzione di una TC

Figura 14.10   Frattura intercondiloidea dell’omero sinistro con configurazione a T delle rime di frattura: proiezione antero-posteriore (a); proiezione laterale (b).

14 - Fratture dell’arto superiore 249

Figura 14.11   Classifi­ cazione di Milch delle fratture del condilo omerale laterale e radiografia (gomito destro) di frattura di tipo II in un bambino di 5 anni. La presenza di ampie aree scheletriche non ancora ossificate può rendere difficile il riconoscimento e la definizione delle fratture nel bambino piccolo.

Figura 14.12   Frattura pluriframmentaria scomposta del capitulum humeri (gomito sinistro): è evidente la rotazione verso l’esterno e verso l’alto della superficie articolare.

o di una RM del gomito permette di chiarire l’effettiva entità del danno anatomico. Come tutte le fratture articolari, il rischio di esiti funzionali sfavorevoli è elevato.

Fratture degli epicondili La frattura dell’epitroclea (epicondilo mediale) è un evento relativamente frequente fino alla fusione del suo centro di ossificazione con la diafisi omerale, feno-

meno che si verifica a 20 anni circa. Il picco di incidenza si osserva intorno ai 12 anni e, come tutte le lesioni traumatiche del gomito, il sesso maschile è quello più colpito. Il meccanismo traumatico è indiretto, per trazione esercitata dalle strutture muscolari (flessori e pronatore rotondo) e legamentose (legamento collaterale ulnare) che lì s’inseriscono: tale patogenesi è confermata dalla frequente associazione con la lussazione del gomito. Il fram-

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mento epitrocleare può dislocarsi all’interno dell’articolazione e causare un blocco articolare, comportando il ricorso al trattamento chirurgico. La frattura può anche essere complicata da una sofferenza del nervo ulnare, che decorre nella doccia epitrocleo-olecranica.

Ulna prossimale A carico dell’estremità prossimale dell’ulna si possono osservare le fratture dell’olecrano e quelle della coronoide.

Fratture dell’olecrano Sono fratture articolari frequenti in età adulta e avanzata, nella cui patogenesi si riconoscono tre differenti meccanismi traumatici: ● diretto, per urto violento, con produzione di una frattura comminuta; ● indiretto, per caduta sulla mano a gomito flesso con contrazione simultanea del tricipite: in questo caso la rima di frattura è trasversa oppure obliqua; ● combinato, diretto-indiretto. Traumi di estrema violenza possono causare una dislocazione anteriore del frammento ulnare distale (con o senza frattura della coronoide) e del capitello radiale, configurando il quadro di frattura-lussazione (Figura 14.13). La frattura provoca il distacco di un frammento più o meno grande dell’olecrano (fratture dell’apice, della base) con gradi diversi di scomposizione per effetto della trazione esercitata dal tricipite. Clinicamente si può apprezzare la soluzione di continuità dell’olecrano, in caso di diastasi tra i frammenti, e la tumefazione causata dall’emorragia extra- e intrarticolare (emartro). L’esame radiografico deve consentire, oltre a una chiara definizione della frattura olecranica in proiezione laterale vera, uno studio adeguato degli altri capi articolari. La terapia è sempre chirurgica, con riduzione a cielo aperto e fissazione con mezzi di sintesi diversi (fili di Kirschner e cerchiaggio metallico, viti, placca e viti). Possibili complicanze a distanza sono rappresentate dalla rigidità post-traumatica, dall’artrosi e dalla pseudoartrosi.

Fratture della coronoide Si osservano quasi esclusivamente in associazione alla lussazione posteriore del gomito. La frattura isolata, per trazione da parte del muscolo brachiale, è rara.

Figura 14.13   Frattura-lussazione anteriore del gomito conseguente a trauma ad alta energia. La radiografia in proiezione laterale permette di apprezzare la comminuzione della frattura ulnare prossimale, interessante sia l’olecrano ( ) sia la coronoide ( ), e la dislocazione anteriore del capitello radiale (>).

Il frammento, se scomposto e relativamente grande, può interferire con la normale mobilità del gomito, ma soprattutto può essere responsabile dell’insorgenza di un quadro di instabilità posteriore. In questa eventualità è necessario ricorrere al trattamento chirurgico di riduzione e osteosintesi, un intervento non agevole in relazione alla sede della frattura.

Radio prossimale (Capitello radiale) Le fratture del capitello radiale, di comune osservazione negli adulti di entrambi i sessi, sono causate da una forza in compressione, trasmessa longitudinalmente dalla mano al gomito in occasione di cadute o altri impatti violenti. Tale meccanismo indiretto produce anche una sollecitazione in valgo, che può lesionare le strutture legamentose mediali del gomito. La classificazione più utilizzata è quella di Mason, in cui si distinguono i seguenti tipi di lesioni (Figura 14.14): ● tipo I: fissurazione o frattura marginale composta; ● tipo II: frattura marginale scomposta; ● tipo III: frattura comminuta dell’intera epifisi. A questi si aggiunge un tipo IV, in cui si associa la lussazione di gomito.

14 - Fratture dell’arto superiore 251

Figura 14.14  La classifi­ cazione di Mason per le fratture del capitello radiale: Tipo I: fissurazione (tratteggiata) (a). Tipo II: marginale scomposta (b). Tipo III: comminuta (c).

Anche la membrana interossea dell’avambraccio e l’articolazione radio-ulnare distale possono essere lesionate in concomitanza di fratture del capitello radiale: questo quadro configura la lesione di Essex-Lopresti. All’esame clinico il dolore da frattura del capitello radiale è rilevato in sede laterale e la prono-supinazione dell’avambraccio può risultare più compromessa rispetto alla flesso-estensione del gomito. Nella lesione di Essex-Lopresti la palpazione dell’articolazione radio-ulnare distale evoca vivo dolore. La terapia è influenzata dalla gravità del quadro anatomo-patologico: immobilizzazione in gesso per pochi giorni nelle fratture composte, riduzione e osteosintesi in quelle marginali scomposte, resezione o sostituzione protesica del capitello radiale nelle lesioni comminute. La resezione non deve essere praticata nella lesione di EssexLopresti al fine di evitare la migrazione prossimale del radio e la comparsa di dolore e impotenza funzionale del polso per effetto di un impingement ulno-carpale. Nel bambino le fratture dell’estremità prossimale del radio assumono caratteristiche diverse: si localizzano a livello del collo come distacchi epifisari, interessando solo raramente la superficie articolare.

Avambraccio Giorgio Pilato Le fratture diafisarie di una o di entrambe le ossa dell’avambraccio colpiscono soprattutto due gruppi di individui: gli uomini di età compresa tra 15 e 45 anni e le donne di età superiore ai 60 anni, seppure con incidenza 5 volte inferiore nel secondo caso. Queste fratture possono compromettere la funzione dell’arto superiore con perdita della capacità di posizionare la mano nello spazio, a causa dell’alterazione

dei movimenti di prono-supinazione. La rotazione dell’avambraccio richiede l’integrità di numerose strutture anatomiche, sia ossee sia articolari, legamentose e muscolari. Per tale motivo la prognosi finale delle fratture è condizionata dallo stato dei tessuti molli contigui più nell’avambraccio che in qualunque altro segmento scheletrico. A ciò va aggiunto che la complessità dell’anatomia dell’avambraccio determina specifiche problematiche terapeutiche, che non hanno riscontro in nessun’altra frattura diafisaria. Anatomia dell’avambraccio

Lo scheletro dell’avambraccio è costituito da due ossa lunghe, il radio in sede laterale e l’ulna in sede mediale; il rapporto tra le due ossa varia in funzione dello stato di rotazione. In posizione di supinazione, con il palmo della mano rivolto verso l’alto, le due ossa sono parallele e delimitano uno spazio interosseo (Figura 14.15a). Nella pronazione il palmo della mano guarda verso il basso in quanto il radio incrocia sul davanti l’ulna fino a entrare in contatto con essa, obliterando lo spazio interosseo (Figura 14.15b). Una condizione anatomica essenziale per consentire l’avvolgimento del radio attorno all’ulna nella pronazione è rappresentata dalla curvatura della diafisi radiale sia sul piano frontale, a concavità mediale, sia sul piano sagittale, a concavità anteriore. I movimenti di prono-supinazione (Box 14.2) sono resi possibili da due articolazioni: ● la radio-ulnare prossimale, che fa parte del gomito ed è formata dal capitello radiale e dall’incisura sigmoidea dell’ulna. È un’articolazione trocoide in quanto costituita da due superfici cilindriche incastrate tra loro. Possiede un unico grado di libertà, ovvero la rotazione attorno all’asse dei due cilindri, che si realizza con la rotazione del radio attorno all’asse del capitello;

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Figura 14.15   Avambraccio destro in supinazione (a) e in pronazione (b).



la radio-ulnare distale, che fa parte del polso ed è formata dalla testa dell’ulna e dall’incisura sigmoidea del radio. È anch’essa un’articolazione trocoide che permette la rotazione del radio attorno all’asse della testa ulnare.

La stabilità di questo vero e proprio quadrato osteo-­ legamentoso, formato dal radio e dall’ulna, è assicurata, oltre che dai legamenti intrinseci delle due articolazioni Box 14.2 Biomeccanica

della prono-supinazione Per spiegare la biomeccanica della prono-supinazione bisogna considerare la forma del radio. Quest’osso presenta 3 segmenti, che nel loro insieme ricordano la forma di una manovella: ● superiore: è formato dal collo ed è obliquo in direzione distale e mediale; ● intermedio: corrisponde alla parte media della diafisi ed è obliquo in direzione distale e laterale; ● inferiore: è formato dalla parte distale della diafisi ed è obliquo in direzione distale e mediale. I segmenti superiore e intermedio formano un angolo ottuso aperto all’esterno il cui vertice è formato dalla tuberosità su cui si inserisce il tendine del bicipite brachiale: nel loro insieme formano la curva supinatoria del radio. I segmenti intermedio e distale formano un angolo ottuso aperto all’interno il cui vertice corrisponde all’inserzione del pronatore rotondo: nel loro insieme formano la curva pronatoria del radio.

radio-ulnari, dalla membrana interossea. Quest’ultima è formata da fibre disposte su due piani incrociati: un piano anteriore principale obliquo in basso e all’interno, e un piano posteriore accessorio, obliquo in alto e all’interno. La porzione intermedia del piano anteriore, della larghezza di circa 3,5 cm, è la più spessa e forma un vero e proprio legamento interosseo, fondamentale per la stabilità longitudinale delle due ossa dell’avambraccio. Ciò vale sia in condizioni fisiologiche sia, soprattutto, in

L’asse di rotazione dell’avambraccio passa per le articolazioni radio-ulnari prossimale e distale e ciò fa sì che gli apici delle due curve del radio si trovino in posizione eccentrica rispetto all’asse stesso. Ci sono due modi per muovere questa manovella: svolgere un tirante avvolto su uno dei segmenti o esercitare una trazione alla sommità di una delle due curve. Entrambe queste modalità entrano in gioco nella rotazione dell’avambraccio. La supinazione è prodotta da due muscoli: ● il supinatore, che è avvolto intorno al collo del radio e agisce per “svolgimento”; ● il bicipite brachiale, che è inserito sulla tuberosità alla sommità della curva supinatoria e agisce per “trazione”. La pronazione è anch’essa prodotta da due muscoli: ● il pronatore quadrato, che è avvolto intorno all’estremità distale dell’ulna e agisce per “svolgimento”; ● il pronatore rotondo, che è inserito sulla diafisi del radio alla sommità della curva pronatoria e agisce per “trazione”.

14 - Fratture dell’arto superiore 253

condizioni patologiche, come dopo la resezione del capitello radiale, quando essa si oppone alla risalita della diafisi del radio. Meccanismo di lesione e fisiopatologia

Il meccanismo di lesione può essere diretto o indiretto. Un trauma diretto si realizza quando un corpo contundente colpisce l’avambraccio agendo perpendicolarmente al suo asse longitudinale e causando in genere una lesione limitata all’osso. Se invece il trauma è determinato da una violenta sollecitazione assiale come accade nel caso di caduta sul polso, si possono associare lesioni delle articolazioni radio-ulnari e della membrana interossea. La scomposizione rotatoria dei frammenti del radio varia in base alla sede della frattura e dipende dall’azione dei muscoli dell’avambraccio. ● Le fratture del radio al terzo superiore della diafisi determinano la massima scomposizione in quanto sul frammento prossimale vengono ad agire i due muscoli supinatori, e sul frammento distale i due muscoli pronatori. Pertanto il frammento prossimale sarà in massima supinazione e il frammento distale in massima pronazione (Figura 14.16a). ● Nelle fratture che interessano la diafisi del radio al terzo medio, distalmente all’inserzione del pronatore rotondo, la supinazione del frammento prossimale sarà limitata dall’azione del pronatore rotondo, mentre la pronazione del frammento distale sarà parziale in quanto dovuta all’azione del solo pronatore quadrato (Figura 14.16b). Nel complesso la deformità rotatoria del radio sarà all’incirca dimezzata in confronto al caso precedente. Classificazione

La classificazione più utilizzata per le fratture diafisarie dell’avambraccio è quella proposta dall’AO (Arbeitsgemeinschaft für Osteosynthesefragen, Gruppo di lavoro per i problemi dell’osteosintesi), che individua tre grandi categorie (Figura 14.17). Le fratture del tipo A presentano rime di frattura semplici e dal decorso variabile (trasversa, obliqua, spiroide) e comprendono i gruppi: ● A1: frattura semplice isolata dell’ulna; ● A2: frattura semplice isolata del radio; ● A3: frattura semplice biossea. Le fratture del tipo B sono pluriframmentarie per la presenza di un terzo frammento “a cuneo” e comprendono i gruppi: ● B1: frattura pluriframmentaria isolata dell’ulna; ● B2: frattura pluriframmentaria isolata del radio; ● B3: frattura biossea con terzo frammento sul radio e/o sull’ulna.

Figura 14.16  Meccanismi di scomposizione del radio nelle fratture di avambraccio (si veda la spiegazione nel testo). Frattura del terzo prossimale (a). Frattura del terzo medio (b). BB = bicipite brachiale; S = supinatore; PR = pronatore rotondo; PQ = pronatore quadrato.

Le fratture del tipo C sono considerate complesse in quanto bifocali o comminute e comprendono i gruppi: ● C1: fratture complesse dell’ulna (indipendentemente dall’integrità o meno del radio); ● C2: fratture complesse del radio (indipendentemente dall’integrità o meno dell’ulna); ● C3: fratture complesse del radio e dell’ulna. Vi sono inoltre due fratture dell’avambraccio di ­particolare importanza clinica in quanto coinvolgono rispettivamente le articolazioni del polso e del gomito: ● la lesione di Galeazzi è caratterizzata dall’associazione di una frattura isolata del radio al terzo distale con la lussazione della testa dell’ulna al polso; ● la lesione di Monteggia consiste nell’associazione di una frattura diafisaria dell’ulna con la lussazione del capitello radiale al gomito. La classificazione più utilizzata è quella di Bado che riconosce 4 tipi in base alla lesione del radio (Figura 14.18): – tipo 1: lussazione anteriore del capitello radiale; – tipo 2: lussazione posteriore del capitello radiale;

254 Traumatologia

Figura 14.17

 La classificazione delle fratture dell’avambraccio redatta dall’AO (si veda la descrizione nel testo).

Complicanze

Figura 14.18  La classificazione di Bado della lesione di Monteggia (si veda la descrizione nel testo).

– tipo 3: lussazione antero-laterale del capitello radiale; – tipo 4: lussazione del capitello radiale associata a frattura della diafisi. Quadro clinico e radiografico

Dal punto di vista clinico le fratture biossee dell’avambraccio associano un’evidente deformità dell’arto al dolore e all’impotenza funzionale che si osservano anche nelle fratture isolate di un osso. Lo studio radiografico deve essere eseguito secondo le due proiezioni ortogonali e deve includere imperativamente sia il gomito sia il polso per escludere una lesione associata a carico delle articolazioni radio-ulnari. In particolare va ricordata la frequenza con cui sono misconosciute le lussazioni del capitello radiale nelle lesioni di Monteggia.

Tra le complicanze immediate va ricordata l’esposizione che può fare seguito ai traumi ad alta energia, nei quali si possono associare lesioni nervose e vascolari. In questi casi esiste un aumento del rischio di infezione e i tempi di consolidazione sono aumentati per via dello scollamento dei tessuti molli con devascolarizzazione dei frammenti della frattura. Un’importante complicanza precoce è rappresentata dalla sindrome di Volkmann (si veda il Capitolo 12), che consegue soprattutto a fratture biossee, a gravi schiacciamenti, a traumi da arma da fuoco o ad alta energia. Le paralisi secondarie interessano soprattutto il nervo interosseo posteriore e possono essere dovute alla compressione da edema o ematoma al passaggio attraverso il muscolo supinatore. Le lesioni iatrogene sono dovute più spesso a una divaricazione energica durante interventi di osteosintesi delle fratture del terzo prossimale del radio, ma sono riportati casi di sezione del nervo o di schiacciamento da parte di una placca posizionata sopra il suo decorso. In caso di neuroaprassia la funzione viene recuperata nell’arco di qualche settimana; l’assenza di recupero dopo 3 mesi impone l’esplorazione chirurgica. Tra le complicanze tardive sono da ricordare i ritardi di consolidazione e le pseudoartrosi. Tali evenienze sono più frequenti nelle fratture pluriframmentarie o complesse, soprattutto in caso di esposizione, e in caso di osteosintesi inadeguata. I disturbi di consolidazione interessano, inoltre, in modo particolare le fratture del terzo medio dell’ulna, scarsamente vascolarizzato. Le viziose consolidazioni si manifestano con una deformità angolare o rotatoria delle ossa dell’avambraccio. Le forme più gravi possono comportare una limitazione importante del movimento di prono-supinazione. Fra le complicanze più rare vanno citate le sinostosi radio-ulnari che consistono nella formazione di un ponte osseo a livello della membrana interossea che blocca ogni movimento di rotazione.

14 - Fratture dell’arto superiore 255

Le fratture dell’EDR sono molto frequenti e rappresentano fino a 1/6 circa del totale delle fratture. L’incidenza è maggiore nel sesso maschile fino a 30 anni, equivalente nei due sessi fra 30 e 50 anni, mentre dopo i 50 anni si osserva un netto incremento nel sesso femminile, affetto fino a 7 volte di più secondo alcune casistiche. Tali fratture derivano in prevalenza da traumi a bassa energia come le cadute al suolo sull’arto superiore, ma nei giovani sono spesso conseguenza di incidenti stradali o traumi da precipitazione. Classificazione Figura 14.19

  Frattura biossea scomposta dell’avambraccio destro. Radiografie preoperatorie (a). Controllo radiografico dopo riduzione e osteosintesi con placche e viti (b). Terapia

Il trattamento delle fratture diafisarie dell’avambraccio deve mirare alla riduzione anatomica, con particolare attenzione al ripristino della curvatura fisiologica del radio. Questa è la premessa per il recupero di un’ampiezza adeguata del movimento di prono-supinazione dell’avambraccio. In considerazione del fatto che tutte queste fratture sono instabili, a eccezione di alcune fratture semplici isolate dell’ulna, il trattamento ortopedico incruento trova rare indicazioni. Esso è causa di pseudoartrosi o viziosa consolidazione in una percentuale di casi vicina al 30%. Inoltre, l’immobilizzazione per almeno 3 mesi, necessaria alla consolidazione, comporta un rischio elevato di rigidità secondarie. Il trattamento d’elezione consiste nella riduzione cruenta e osteosintesi mediante placche a compressione dinamica con viti bicorticali (Figura 14.19). Queste devono essere almeno 3 da una parte e 3 dall’altra del focolaio di frattura. Nelle fratture complesse con dubbia vitalità dei frammenti può essere indicata l’esecuzione immediata di un innesto osseo autologo. ­L’inchiodamento endomidollare può essere praticato in casi particolari, come alcune fratture bifocali, patologiche o le fratture associate a ustioni o lesioni massive dei tessuti molli dell’avambraccio.

Le fratture dell’EDR sono state classificate con eponimi di ampia diffusione e longevità, come le fratture di Pouteau-Colles, per quanto riguarda quelle con scomposizione dorsale del frammento distale, e di SmithGoyrand per le fratture con scomposizione volare. Questi eponimi hanno grande importanza perché attestano la rilevanza storica degli autori che le hanno descritte e ricordano che l’avanzamento della scienza è dovuto al contributo di molte culture. Esse non consentono tuttavia di interpretare compiutamente il meccanismo della lesione con tutte le sue possibili conseguenze, né forniscono elementi precisi per orientare il trattamento e formulare la prognosi. Tra le classificazioni moderne, la più completa è certamente quella dell’AO, che si basa sulle caratteristiche radiografiche della frattura e definisce tre grandi categorie: fratture extrarticolari (tipo A), fratture articolari parziali (tipo B) e fratture articolari complete (tipo C). Ciascun tipo si divide in tre gruppi (Figura 14.20). Le fratture del tipo A non coinvolgono la superficie articolare della radio-carpica né della radio-ulnare distale, e comprendono i gruppi: ● A1: frattura extrarticolare dell’ulna con radio integro; ● A2: frattura extrarticolare semplice del radio; ● A3: frattura extrarticolare pluriframmentaria del radio.

Giorgio Pilato

Le fratture del tipo B interessano una parte soltanto della superficie articolare, mentre la porzione restante rimane continua con la diafisi. Comprendono i gruppi: ● B1: frattura sagittale del radio (stiloide); ● B2: frattura del margine dorsale del radio (Barton); ● B3: frattura del margine volare del radio (Barton inversa).

Con il termine di fratture di polso si definiscono le fratture della porzione distale delle due ossa dell’avambraccio. Consistono essenzialmente nelle fratture dell’estremità distale del radio (EDR), essendo le fratture dell’ulna meno frequenti e di minor rilievo clinico.

Nelle fratture del tipo C la superficie articolare è interrotta e completamente separata dalla diafisi. Comprendono i gruppi: ● C1: fratture del radio articolari semplici e metafisarie semplici;

Polso

256 Traumatologia

Figura 14.20   Classificazione delle fratture del polso redatta dall’AO (si veda la descrizione nel testo).





C2: fratture del radio articolari semplici e metafisarie complesse; C3: fratture del radio articolari pluriframmentarie.

Fernandez ha elaborato una classificazione basata sul meccanismo di lesione più che sulle caratteristiche radiografiche della frattura, ritenendo che la forza e la direzione dell’agente traumatico siano in relazione con le lesioni associate come le lesioni dei legamenti del polso e le sublussazioni o lussazioni delle ossa carpali. La comprensione del meccanismo delle fratture dell’EDR riveste pertanto grande importanza per un corretto approccio terapeutico globale. La classificazione di Fernandez riconosce cinque gruppi principali (Figura 14.21): ● tipo I: fratture da flessione; ● tipo II: fratture da taglio della superficie articolare; ● tipo III: fratture da compressione della superficie articolare;

● ●

tipo IV: fratture da avulsione; tipo V: fratture combinate.

Le fratture da flessione si verificano quando una caduta sul palmo della mano trasmette a livello di una delle corticali della metafisi del radio una violenta tensione che ne provoca il cedimento, mentre sul lato opposto si realizza una compressione in grado di produrre, oltre all’interruzione della corticale, una comminuzione di grado variabile. Se la caduta avviene ad avambraccio pronato, la compressione agisce sulla corticale dorsale e si realizza una frattura di Colles; se la caduta avviene all’indietro con avambraccio supinato e gomito esteso, la compressione interessa la corticale volare e si realizza una frattura di Goyrand. Le fratture da taglio si realizzano in genere in pazienti giovani quando un meccanismo simile a quello descritto per la frattura di Goyrand determina il distacco del margine anteriore della superficie arti-

14 - Fratture dell’arto superiore 257

Figura 14.21   Classificazione di Fernandez. Frattura da flessione (a). Frattura da taglio (b). Frattura da compressione (c). Frattura da avulsione (d). Frattura combinata (e).

colare del radio provocando una frattura di Barton inversa. Le fratture da compressione conseguono in genere a traumi ad alta energia, che trasmettono violente sollecitazioni assiali sulla superficie articolare del radio, provocando fratture articolari complete con grado di comminuzione proporzionale alla forza applicata. Le fratture da avulsione derivano dalla trazione esercitata dai legamenti a livello delle inserzioni al radio e possono associarsi a lussazioni perilunari del carpo o radio-carpiche. Esse consistono in fratture articolari parziali (Barton, stiloide). Quadro clinico

Le fratture di Colles si manifestano con un’alterazione del profilo del polso che presenta sul piano sagittale una deformità “a dorso di forchetta” e sul piano frontale una deformità “a baionetta”, dovute allo spostamento in direzione rispettivamente dorsale e radiale del frammento dell’epifisi (Figura 14.22). Le fratture di Goyrand presentano sul piano sagittale una deformità opposta, dovuta allo spostamento volare del frammento distale che appare anche pronato rispetto alla diafisi. L’esame della motricità e della sensibilità della mano è importante per escludere lesioni associate a carico dei tendini e del nervo mediano, che può risultare compresso dall’ematoma o dai frammenti della frattura.

Figura 14.22   Presentazione clinica di frattura di Colles del polso sinistro: sono evidenti le deformità “a baionetta” sul piano frontale (a) e “a dorso di forchetta” sul piano sagittale (b).



Diagnostica per immagini

Lo studio radiografico richiede l’esecuzione di proiezioni standard nelle pose dorso-volare e laterale. Nei casi con importante scomposizione solo la ripetizione dell’esame dopo la riduzione estemporanea della frattura può consentire una corretta interpretazione e classificazione della lesione. La semeiotica radiografica di queste lesioni prevede la misurazione di alcuni parametri essenziali per porre una diagnosi precisa e per orientare il trattamento (Figura 14.23).





L’angolo di inclinazione ulnare della superficie articolare del radio si misura sulla proiezione dorsovolare, è compreso fra la tangente alla glena del radio e la perpendicolare al suo asse longitudinale ed è in media di 22°. L’angolo di inclinazione volare della superficie articolare del radio (“tilt volare”) si misura sulla proiezione laterale con un criterio analogo ed è in media di 11°. L’indice radio-ulnare distale misura sulla proiezione dorso-volare la lunghezza relativa delle ossa dell’avambraccio ed è in media di –1 mm, essendo il valore negativo espressione della lunghezza minore

258 Traumatologia

Figura 14.23  Misurazioni radiografiche del polso. Angolo di inclinazione ulnare della superficie articolare del radio (proiezione dorso-volare) (a). Angolo di inclinazione volare della superficie articolare del radio (proiezione laterale) (b). Indice radio-ulnare distale (proiezione dorsovolare) (c).

dell’ulna rispetto al radio. Assume un valore positivo di entità variabile in caso di accorciamento del radio dopo la frattura.

Tabella 14.1

● ●

La TC è utilizzata nelle fratture articolari complesse per studiare il numero preciso e la scomposizione dei frammenti.

● ● ●

  Criteri di instabilità delle fratture dell’EDR

Angolazione dorsale > 20° Comminuzione della corticale metafisaria Presenza di una rima di frattura intrarticolare Accorciamento del radio > 4 mm Frattura della testa o del collo dell’ulna

Terapia

Le fratture composte possono essere trattate con apparecchio gessato antibrachio-metacarpale per 30 giorni. Nelle fratture scomposte l’indicazione al trattamento dipende dalla riducibilità e dalla stabilità della frattura. Il trattamento conservativo è indicato nelle fratture riducibili con manovre esterne e stabili dopo la riduzione. L’apparecchio gessato deve essere brachiometacarpale e può essere rimosso dopo 40 giorni. Il trattamento in gesso di una frattura instabile dell’EDR va evitato perché costringe a bloccare il polso in una posizione estrema di flessione e inclinazione ulnare per impedire la scomposizione secondaria della frattura. Ciò può determinare decubiti, compressioni nervose o favorire l’insorgenza di una sindrome algodistrofica. Esiste inoltre l’eventualità di una scomposi-

zione secondaria, per cui è necessario controllare ripetutamente con radiografie in gesso (dopo 2, 7, 15 giorni) il mantenimento della riduzione. Per tutti questi motivi è necessario individuare le fratture instabili, definite in base ai criteri della letteratura (Tabella 14.1), e procedere in questi casi all’osteosintesi per stabilizzare la frattura dopo la riduzione. L’osteosintesi si avvale di fili di Kirschner percutanei nelle fratture instabili che possono essere ridotte con manovre esterne; la contenzione può essere ottenuta con un apparecchio gessato. Nei casi con comminuzione della metafisi esiste il rischio di un accorciamento secondario in gesso che può essere prevenuto applicando un fissatore esterno di tipo monoassiale “a ponte” sull’articolazione (Figura 14.24). In queste circostanze è sempre

Figura 14.24   Frattura dell’EDR (tipo A3 della classificazione dell’AO). Quadro radiografico preoperatorio (a). Controllo postoperatorio dopo riduzione e osteosintesi con fili di Kirschner e fissatore esterno (b).

14 - Fratture dell’arto superiore 259

Figura 14.25  Osteosintesi con placche “a stabilità angolare” di frattura pluriframmentaria dell’EDR.

più frequente il ricorso alla riduzione cruenta della frattura seguita dall’osteosintesi mediante placca “a stabilità angolare”, in cui le viti sono avvitate alla placca stessa, conferendo al montaggio grande stabilità anche in casi con comminuzione e riducendo i tempi di immobilizzazione (Figura 14.25). L’applicazione di un innesto osseo autologo nella sede della comminuzione consente in questi casi di accelerare il processo di consolidazione. Se la frattura presenta frammenti non riducibili in modo incruento, è necessario procedere alla riduzione chirurgica con accesso dorsale o volare in base alla scomposizione dei frammenti. Per la fissazione vengono utilizzate placche “a stabilità angolare” che riproducono l’anatomia del radio e vengono in genere posizionate in sede volare. Le fratture marginali volari (gruppo B3 dell’AO) sono altamente instabili e c’è sempre l’indicazione all’osteosintesi mediante placca volare.

Ossa del carpo Giorgio Pilato

Generalità Le fratture del carpo interessano in prevalenza lo scafoide, che sarà oggetto di trattazione specifica, e in misura minore il piramidale, mentre le fratture delle altre ossa sono rare. La diagnosi è difficile, perché spesso queste fratture sono misconosciute e quindi vengono trattate con ritardo. Le cause sono diverse: si tratta di ossa di piccole dimensioni e le fratture sono per lo più composte o minimamente scomposte; la remissione dei sintomi è spesso spontanea e si verifica in un breve arco di tempo; infine, sono spesso associate ad altre

fratture dell’arto superiore con manifestazioni più eclatanti. La mancata diagnosi può favorire l’insorgenza di complicanze a distanza, con conseguente danno funzionale della mano. Queste fratture impongono una riduzione perfetta perché, essendo le ossa del carpo ricoperte in massima parte di cartilagine, presentano un decorso intrarticolare che può determinare un’incongruenza della superficie articolare con evoluzione verso l’artrosi. Per lo stesso motivo il processo di riparazione è di tipo endostale e il contatto dei frammenti è essenziale per ottenere la consolidazione. La diagnosi richiede l’esecuzione di radiografie standard del polso in proiezione dorso-volare e laterale, ed eventualmente oblique a 45° in semipronazione per lo studio della colonna laterale (scafoide e trapezio) e in semisupinazione per lo studio della colonna mediale (piramidale e uncinato) (Figura 14.26). La TC può fornire dati essenziali ed essere dirimente per la diagnosi nei casi dubbi. Il trattamento delle fratture composte consiste nell’immobilizzazione, mentre le fratture scomposte richiedono un trattamento chirurgico con osteosintesi mediante fili di Kirschner o viti; queste ultime sono di impiego più difficile, ma consentono sintesi stabili con mobilizzazione precoce.

Scafoide Le fratture dello scafoide rappresentano circa il 75% di tutte le fratture delle ossa carpali. Il motivo di tale vulnerabilità va ricercato nella posizione dell’osso “a cavallo” delle due filiere delle ossa carpali. Lo scafoide è infatti saldamente connesso al semilunare in sede prossimale e al trapezio in sede distale ed è pertanto il più importante stabilizzatore del polso. Un’iperestensione del polso, come avviene nelle cadute sul palmo della mano, produce una violenta sollecitazione sull’osso, perché il polo distale viene spinto in direzione dorsale mentre il polo prossimale rimane bloccato tra la superficie articolare del radio e i legamenti volari tesi tra il radio e le ossa della prima filiera. Perché si realizzi questo meccanismo si ritiene che il polso si debba trovare in inclinazione radiale o in posizione neutra sul piano frontale. Classificazione

La classificazione più utilizzata per le fratture dello scafoide è quella di Herbert, che le divide in stabili (tipo A) e instabili (tipo B) (Figura 14.27). Le fratture di tipo A comprendono: ● fratture del tubercolo dello scafoide (A1); ● fratture incomplete (A2).

260 Traumatologia

Figura 14.26   Proiezioni per un corretto studio radiografico del polso: dorso­­ volare (a); laterale vera (b); semipronazione a 45° (c); semisupinazione a 45° (d).

Le fratture di tipo B includono: ● fratture orizzontali oblique (B1); ● fratture trasverse del terzo medio (B2); ● fratture del terzo prossimale (B3); ● fratture associate a lussazione perilunare del carpo (B4). L’instabilità può rendersi evidente al momento della frattura, con scomposizione dei frammenti, o manifestarsi durante un trattamento di tipo conservativo; per tale motivo appare più corretto definire le fratture complete non scomposte come potenzialmente instabili. La causa di quest’instabilità va ricercata nella biomeccanica del polso (Box 14.3). Quadro clinico e radiografico

Figura 14.27   Classificazione di Herbert delle fratture dello scafoide (si veda la descrizione nel testo).

La sintomatologia di una frattura dello scafoide è nella maggior parte dei casi molto discreta e consiste in dolore al polso, che talora regredisce del tutto con l’applicazione di ghiaccio, e un breve periodo di riposo. Molte fratture dello scafoide sono misconosciute in quanto il paziente non ricorre alla visita di un medico. Qualora il paziente giunga all’osservazione, l’esame clinico rivela una modesta tumefazione associata a dolorabilità alla palpazione a livello della tabacchiera anatomica. In queste circostanze il sospetto di una frattura dello scafoide deve essere sempre avanzato e vanno eseguite le radiografie del polso in 4 proiezioni (dorso-volare, laterale vera, obliqua a 45° e dorso-volare con inclinazione ulnare del polso, la quale consente al raggio di incidere quasi

14 - Fratture dell’arto superiore 261

Box 14.3 Biomeccanica applicata

del polso Il polso è una catena biarticolare costituita da tre segmenti che a livello della colonna centrale sono rappresentati da radio (segmento prossimale), semilunare (segmento intercalato) e capitato (segmento distale). Essendo il segmento intercalato privo di inserzioni tendinee, la catena è intrinsecamente instabile in compressione in quanto tenderebbe a deformarsi a zig-zag se non esistesse un sistema di stabilizzazione, costituito dallo scafoide. Questo è infatti connesso dai legamenti intrinseci al semilunare in sede prossimale (legamento interosseo scafo-lunato) e al trapezio in sede distale (legamenti scafo-trapeziali volari). Questa architettura impedisce il collasso del carpo se è conservata l’integrità dello scafoide e dei legamenti. In presenza di una frattura completa dello scafoide (Figura 14.28a): ● il frammento prossimale rimane solidale con il semilunare e tenderà a ruotare con esso in estensione, in quanto il semilunare possiede un momento estensorio dovuto sia alla propria morfologia (ridotto spessore dell’osso nella parte dorsale rispetto a quella volare) sia al fatto che il piramidale cui è tenacemente connesso tende anch’esso a ruotare in dorsiflessione impegnandosi nella superficie articolare elicoidale dell’uncinato; ● il frammento distale dello scafoide tende invece a ruotare in flessione per l’azione delle sollecitazioni assiali trasmesse dal trapezio che è posto in posizione volare rispetto all’asse del polso.

Figura 14.28   Disegno che illustra il tipico spostamento dei frammenti di frattura dello scafoide e la conseguente deformità in DISI (Dorsal Intercalated Segment Instability) (a). Radiografia in proiezione laterale di pseudoartrosi di scafoide con deformità in DISI (b).

Il risultato dell’interazione di queste forze consiste nella deformazione dello scafoide con angolazione dei frammenti a vertice dorsale (deformità che nella letteratura anglosassone viene chiamata humpback, cioè gobba), che nelle lesioni inveterate produce il progressivo riassorbimento della corticale volare dell’osso (Figura 14.28b).

perpendicolarmente all’asse maggiore dell’osso) (Figura 14.29). Nelle fratture composte le radiografie possono risultare negative. In caso di fondato sospetto clinico è necessario immobilizzare temporaneamente con una doccia gessata il polso e ripetere l’esame dopo 2-3 settimane, quando il riassorbimento intorno alla rima di frattura potrà renderla visibile consentendo la diagnosi. TC o RM possono dirimere il dubbio diagnostico. Terapia

Le fratture composte stabili possono essere trattate con un apparecchio gessato antibrachio-metacarpale con pollice incluso per un periodo minimo di 6 settimane. Le fratture scomposte devono essere ridotte con l’intervento chirurgico e fissate con una vite a compressione che garantisca una sintesi stabile dei frammenti,

Figura 14.29  Radiografia della mano che mostra la frattura dello scafoide tipo B2 ( ).

in modo da permettere l’inizio degli esercizi di recupero articolare dopo poche settimane dall’intervento, a guarigione dei tessuti molli avvenuta. In relazione al tipo di frattura, la vite può essere inserita per via dorsale o volare (Figura 14.30).

262 Traumatologia

Figura 14.30   Trattamento chirurgico di una frattura dello scafoide con vite a compressione. Osteosintesi eseguita per via dorsale (a). Impianto della vite per via volare (b).

Negli ultimi anni si è andato affermando il ricorso al trattamento chirurgico delle fratture instabili con minima scomposizione o potenzialmente instabili, soprattutto in individui che richiedono un recupero funzionale rapido, come gli sportivi e gli artigiani. L’osteosintesi permette di evitare la prolungata immobilizzazione necessaria alla consolidazione di una frattura dello scafoide (6-8 settimane per una frattura del terzo medio, 8-10 settimane per una frattura del polo prossimale), prevenendo la rigidità del polso e accelerando la ripresa dell’attività lavorativa e sportiva. Non vanno ignorati i possibili rischi del trattamento chirurgico (instabilità da sezione dei legamenti volari, sofferenza ischemica dello scafoide da devascolarizzazione). Per ridurre questi rischi, nelle fratture composte o minimamente scomposte, è possibile eseguire la sintesi percutanea della frattura sotto controllo ampliscopico, con un’incisione di pochi millimetri della cute.

Box 14.4 Vascolarizzazione

dello scafoide La vascolarizzazione dello scafoide presenta un sistema arterioso dominante formato dai rami dell’arteria radiale che penetrano nell’osso in corrispondenza delle aree di inserzione della capsula, a livello del tubercolo e soprattutto lungo la cresta dorsale. Quasi tutti i fori nutritizi si trovano nella metà distale dell’osso e pertanto il polo prossimale presenta un’irrorazione retrograda di tipo terminale (Figura 14.31). Ciò è dovuto al fatto che il polo prossimale è intrarticolare, rivestito in massima parte da cartilagine ialina, e riceve solo un ridotto apporto ematico attraverso i vasi che lo raggiungono lungo il legamento radio-scafo-lunato profondo. Questa disposizione dei vasi fa sì che una frattura dello scafoide possa provocare l’ischemia del polo prossimale, tanto più probabile quanto più prossimale è la frattura. La conseguenza di ciò è un ridotto potenziale riparativo delle fratture del terzo prossimale, con maggiore rischio di evoluzione verso una pseudoartrosi e l’osteonecrosi.

Complicanze

Le complicanze delle fratture dello scafoide consistono nella necrosi ischemica e nei disturbi della consolidazione (pseudoartrosi). Sono favorite da due condizioni anatomiche: la peculiare vascolarizzazione dell’osso (Box 14.4) e la tendenza all’instabilità di tali fratture. Esistono poi fattori legati al trattamento, ovvero la mancata diagnosi o un trattamento inadeguato, costituito spesso da un’immobilizzazione in apparecchio gessato protratta per un periodo insufficiente. La necrosi ischemica del frammento prossimale dello scafoide è variamente apprezzata nelle diverse casistiche e ciò dipende dai diversi criteri utilizzati per la diagnosi. Il metodo più accurato è oggi rappresentato dalla RM, che mostra una riduzione dell’inten-

Figura 14.31

  Disegno che mostra la vascolarizzazione di tipo terminale del polo prossimale dello scafoide.

14 - Fratture dell’arto superiore 263

mento prossimale; se, viceversa, la frattura non consolida, la necrosi del polo prossimale evolve in maniera irreversibile verso la progressiva sostituzione fibrosa del tessuto osseo e la sua frammentazione. Queste considerazioni sottolineano la necessità di un’osteosintesi stabile nel trattamento delle fratture del terzo prossimale. La pseudoartrosi (PSA) è una complicanza osservata nel 10-15% delle fratture dello scafoide trattate con apparecchio gessato; la netta maggioranza è peraltro conseguenza di fratture misconosciute. È stata classificata da Herbert in base alla deformità dell’osso e al trofismo del frammento prossimale in 4 tipi (Figura 14.33): ● PSA lineare stabile “serrata” senza deformità (D1); ● PSA con iniziale deformità (D2); ● PSA con deformità marcata e sclerosi dei frammenti (D3); ● PSA con necrosi del polo prossimale (D4).

Figura 14.32   Necrosi del frammento prossimale dello scafoide ( ) evidente alla RM.

sità del segnale sia in T1 sia in T2 (Fi­­gura 14.32). L’evoluzione dell’ischemia è variabile. È inizialmente reversibile e se la frattura è stabile può avvenire la consolidazione seguita dalla riabitazione del fram-

La tipologia della deformità riproduce quella delle fratture instabili con angolazione dei frammenti ad apice dorsale. Il frammento prossimale è ruotato in estensione con il semilunare, visibile in proiezione laterale con l’aspetto della DISI, così definita per l’orientamento in dorsiflessione del semilunare (segmento intercalato) (si veda la Figura 14.28a). La sintomatologia è variabile e va sottolineato come molti pazienti con PSA dello scafoide non presentino sintomi fino al verificarsi di un nuovo trauma, il che suggerisce che una PSA serrata possa essere del tutto asintomatica. L’evoluzione a lungo termine è comunque verso un’artrosi del polso. Il trattamento della PSA è indicato in tutti i casi nelle forme sintomatiche e nei pazienti asintomatici di età inferiore a 45 anni al fine di prevenire l’evoluzione artrosica. Nei casi senza deformità esso mira a ottenere la consolidazione mediante osteosintesi con vite o fili e innesto di osso spongioso. In presenza di deformità questa deve venire corretta mediante un innesto

Figura 14.33   Classifi­ cazione di Herbert delle pseudoartrosi dello scafoide (si veda la descrizione nel testo).

264 Traumatologia

Figura 14.34   Correzione chirurgica della deformità dello scafoide mediante innesto corticospongioso. Allineamento normale del polso (a). Deformità hump­ back dello scafoide e DISI del polso (b). Ripristino dell’allineamento dei frammenti dello scafoide (c). Posizionamento dell’innesto (d).

cortico-spongioso prelevato dall’ala iliaca o dal radio e inserito sul lato volare dell’osso a colmare la perdita di sostanza; la sintesi si può praticare con vite o fili (Figura 14.34).

Mano (ossa metacarpali e falangi) Le fratture delle ossa metacarpali e delle falangi presentano un’estrema varietà dal punto di vista anatomico e anche le indicazioni al trattamento variano molto in considerazione del diverso ruolo di ciascun segmento scheletrico nell’ambito della funzione della mano. Ciascun raggio della mano è costituito da una catena poliarticolare formata da un osso metacarpale e dalle falangi che formano lo scheletro del dito: tre a livello delle dita lunghe (prossimale o F1, intermedia o F2, distale o F3) e due (prossimale e distale) a livello del pollice. In questa struttura si possono riconoscere elementi fissi e mobili. Mentre le falangi rappresentano tutte elementi mobili, il metacarpo presenta due strutture fisse che sono il II e III osso metacarpale, i quali si articolano con le ossa della filiera carpale distale formando un pilastro rigido. Al contrario le ossa metacarpali esterne (I, IV e V) sono, seppure in misura molto diversa tra loro, elementi mobili che consentono la funzione della presa. Le teste metacarpali descrivono pertanto un arco trasversale (Box 14.5) che contribuisce al fenomeno della convergenza delle dita lunghe verso la base dell’eminenza tenar nel movimento di flessione. Classificazione e fisiopatologia

Le fratture delle ossa lunghe della mano possono essere distinte secondo un classico criterio anatomico nei tipi seguenti (Figura 14.35):

Box 14.5 Archi della mano La mano rappresenta, dal punto di vista strutturale, un sistema interconnesso di segmenti ossei organizzati tra loro in una serie di archi integrati la cui concavità è rivolta verso il palmo. L’arco trasverso prossimale è costituito dalle ossa del carpo e presenta una forma fissa. L’arco trasverso distale è formato dalle teste metacarpali ed è mobile grazie al movimento del I metacarpale sul lato radiale e del IV e V metacarpale sul lato ulnare; tale movimento è controllato dalle connessioni dei metacarpali esterni al pilastro centrale rigido formato dai metacarpali fissi (II e III). Infine gli archi longitudinali sono costituiti dai singoli raggi digitali formati da ciascun osso metacarpale con le rispettive falangi. La mobilità dell’arco trasverso distale consente al palmo di adattare la propria forma a oggetti di diverse dimensioni, mentre la grande mobilità degli archi longitudinali consente a ciascun raggio digitale di adattare la propria forma alle necessità della funzione di presa.

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diafisarie: trasverse, oblique corte e lunghe, spiroidi; metafisarie: prossimali e distali, o fratture del collo; epifisarie: da forze di taglio o da avulsione da parte di tendini o legamenti; comminute: da schiacciamento a livello diafisario o epifisario.

La scomposizione avviene in maniera tipica per alcune di queste fratture, a opera delle forze muscolari che agiscono sui frammenti. Le fratture diafisarie e metafisarie delle ossa metacarpali sono sottoposte all’azione dei muscoli intrinseci e presentano sul piano sagittale una deformità angolare a vertice dorsale, più evidente nelle fratture trasverse e oblique corte (Figura 14.36a). Lo stesso tipo di frattura a carico di una falange prossimale produce invece una

14 - Fratture dell’arto superiore 265

Figura 14.35   Esempi di fratture della mano: frattura spiroide diafisaria del IV osso metacarpale (a); frattura metafisaria del collo del V osso metacarpale (b); frattura epifisaria distale comminuta della testa del V osso metacarpale (c).

Figura 14.36   Disegno che illustra il meccanismo di scomposizione delle fratture metafisarie e diafisarie a livello delle ossa metacarpali (a) e delle falangi prossimali (b).

deformità angolare con vertice volare, per l’azione degli stessi muscoli intrinseci i cui tendini decorrono in posizione dorsale rispetto al focolaio della frattura (Figura 14.36b). Uno stesso tipo di frattura è in genere più instabile a livello di una falange che dell’osso metacarpale corrispondente; fanno eccezione le fratture trasverse delle ossa del pollice, più instabili a livello metacarpale che falangeo. Nelle fratture oblique lunghe e spiroidi la scomposizione è caratterizzata in prevalenza dall’accorciamento dell’osso. Le frattura articolare della base del I metacarpale (frattura o frattura-lussazione di Bennett) è molto instabile per l’azione del potente muscolo abduttore lungo del pollice che, inserendosi sulla base, tende a lussare il frammento diafisario in direzione radiale (Figura 14.37). Lo stesso discorso vale per la frattura articolare della base

Figura 14.37   Frattura di Bennett (a); schema che illustra la scomposizione dovuta alla trazione esercitata dall’abduttore lungo del pollice (ALP) sul frammento distale (b).

266 Traumatologia

del V metacarpale dove un’azione analoga è svolta dall’estensore ulnare del carpo che determina la scomposizione dorsale della diafisi del V metacarpale. Quadro clinico e radiografico

Il quadro clinico delle fratture della mano è caratterizzato dalla presenza di dolore e tumefazione locale, a cui si può associare una deformità più o meno evidente, in particolare a livello falangeo. Come in tutte le fratture, la diagnosi è essenzialmente radiografica e deve utilizzare proiezioni ortogonali rispetto al segmento esaminato; la mancata esecuzione di tali proiezioni può causare gravi errori diagnostici (Figura 14.38). A livello del metacarpo le ossa sono sovrapposte nella proiezione laterale, che pertanto è di scarsa utilità e può essere sostituita dalle due proiezioni oblique. Nelle fratture esposte, che a livello della mano sono frequenti, è importante l’esplorazione della ferita per identificare e trattare ogni lesione associata di tendini, nervi o arterie. Terapia

Queste fratture possono avere conseguenze gravi dal punto di vista funzionale, sia in caso di viziosa consolidazione sia in caso di rigidità articolare, favorita

dall’edema e dalle aderenze dei tendini al periostio a livello del focolaio di frattura. Pertanto il trattamento è mirato non solo alla consolidazione in posizione anatomica, ma anche al recupero articolare più precoce possibile. Per quanto riguarda la riduzione, essa deve essere anatomica nelle fratture articolari per ridurre il rischio di evoluzione artrosica. Nelle fratture extrarticolari una deformità residua sul piano sagittale può essere ben tollerata sul piano funzionale in alcune sedi; è necessario considerare la possibile scomposizione angolare, longitudinale (Figura 14.39a) e rotatoria. ● Nel I osso metacarpale un’angolazione palmare fino a 20° è compensata dall’ampia mobilità a livello trapezio-metacarpale; anche nel IV e V metacarpale è tollerata un’angolazione rispettivamente di 20° e 30°. Al contrario, nei metacarpali fissi anche un’angolazione volare di pochi gradi può essere mal sopportata. Per quanto riguarda le falangi, il limite tollerato per l’angolazione sul piano sagittale è minimo in quanto può provocare uno squilibrio tendineo con ripercussioni sulla funzione della catena digitale. ● L’accorciamento a livello metacarpale è tollerabile dal punto di vista funzionale se contenuto entro 4-5 mm;

Figura 14.38   Frattura misconosciuta della base di F2 del IV dito. Radiografie eseguite al momento del trauma e refertate negative (a). Proiezioni mirate eseguite dopo 2 mesi per il persistere della sintomatologia: è evidente una frattura-lussazione con avanzati fenomeni riparativi ( ) (b).

14 - Fratture dell’arto superiore 267

Figura 14.39   Frattura diafisaria spiroide del IV osso metacarpale. Radiografia preoperatoria che mostra l’accorciamento del IV raggio (a); controllo dopo riduzione e osteosintesi con viti: la lunghezza del segmento appare ripristinata (b).



ciò provoca peraltro un’alterazione dell’aspetto della mano per l’arretramento della testa metacarpale. La deformità rotatoria di queste fratture deve essere sempre corretta. Infatti, essa altera l’asse di rotazione delle articolazioni a valle, quindi una rotazione di soli 5° di una frattura metacarpale determina un accavallamento delle dita in flessione pari a 1,5 cm a livello dell’apice delle dita.

Va precisato che le considerazioni sui limiti di tollerabilità della scomposizione di queste fratture devono essere adattate al singolo paziente. Le richieste funzionali della mano sono estremamente diverse da caso a caso e un accorciamento di pochi millimetri può essere per esempio invalidante per un musicista o per uno sportivo professionista. Inoltre, le richieste dei pazienti tengono sempre più spesso in attenta considerazione il risultato estetico e ciò può influenzare la scelta del trattamento. La maggior parte di tali fratture può essere trattata con la terapia conservativa.

L’immobilizzazione deve avvenire con il polso esteso di 30°, le articolazioni metacarpo-falangee flesse di 70° e le interfalangee estese, immobilizzando anche il raggio adiacente alla frattura. La mobilizzazione deve essere iniziata precocemente senza attendere l’evidenza radiografica della consolidazione, ma confidando nella stabilità che il callo fornisce già nel corso della terza settimana di trattamento. Le indicazioni chirurgiche includono le fratture articolari, le fratture nelle quali è impossibile ottenere una riduzione accettabile, le fratture instabili dopo riduzione incruenta, le fratture esposte, con lesioni associate dei tessuti molli o perdita di sostanza ossea, le fratture multiple e quelle in pazienti politraumatizzati. Le metodiche chirurgiche sono molteplici e presentano indicazioni diverse in funzione dell’estrema varietà anatomica di queste fratture. Per l’osteosintesi possono essere utilizzati fili di Kirschner, viti libere (Figura 14.39b), placche e fissatori esterni.

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capitolo

Fratture vertebrali

15

Vincenzo Denaro

Generalità Le lesioni che il rachide subisce in seguito a eventi traumatici possono essere le più varie, in ragione delle differenti sedi interessate e dei diversi meccanismi lesivi. Le fratture vertebrali costituiscono uno dei capitoli più complessi della Traumatologia scheletrica sia per le peculiarità strutturali del rachide sia per l’ampio spettro di quadri anatomo-clinici osservabili.

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Epidemiologia Sebbene i tratti di colonna vertebrale dotati di maggiore motilità (rachide cervicale e lombare) siano quelli più esposti alle lesioni traumatiche, dal punto di vista epidemiologico le fratture vertebrali più frequenti si verificano a livello della zona di passaggio tra colonna toracica e lombare. Fratture, lussazioni e fratture-lussazioni del rachide hanno subìto un aumento di incidenza correlato ai traumatismi ad alta energia in corso di incidenti stradali. Parallelamente, l’aumento della vita media e delle comorbidità espone a un maggior rischio di fratture vertebrali da osteoporosi o patologiche in corso di neoplasia. Il meccanismo di lesione è di regola indiretto; fanno eccezione i traumi penetranti.

Approccio al paziente con fratture vertebrali La gravità di una frattura vertebrale è per larga parte influenzata dagli stretti rapporti che il rachide contrae con il midollo spinale e le radici nervose. Tutti i pazienti

con lesioni vertebrali dovrebbero essere considerati come portatori di lesioni mielo-radicolari fino a prova contraria. L’approccio al paziente con fratture vertebrali implica una valutazione in termini di stabilità, presenza di deficit neurologici e caratteristiche radiologiche della lesione (Box 15.1). Al fine di un corretto inquadramento della frattura, premessa indispensabile per l’impostazione di una terapia adeguata, è opportuno chiedersi se la frattura sia stabile o instabile. La determinazione della stabilità del segmento spinale affetto da una frattura è importante in quanto la presenza di instabilità condiziona fortemente il trattamento definitivo del paziente: le lesioni instabili necessitano di trattamento chirurgico, mentre quelle stabili spesso guariscono mediante trattamento conservativo. Sono stati descritti diversi sistemi di classificazione per valutare la stabilità segmentaria del rachide, con alcune rilevanti distinzioni tra il rachide cervicale e quello dorso-lombare. Secondo Boni e Denaro (1979), la stabilità della colonna cervicale risulta dall’integrità delle strutture anatomiche che costituiscono il sistema osteo-legamentoso occipito-atlo-epistrofico a livello del rachide cervicale alto e del segmento mobile rachideo per il rachide cervicale inferiore. Le lesioni prevalentemente ossee possono generare un’instabilità, ma dopo riduzione e immobilizzazione adeguate vanno incontro a consolidazione e quindi si stabilizzano. Le lesioni legamentose o osteo-legamentose possono invece generare un’instabilità irreversibile.

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Box 15.1 Diagnostica per immagini delle fratture vertebrali ●

Esame radiografico: ha funzione di screening iniziale in pazienti con sospetta frattura vertebrale. Nelle proiezioni “dinamiche” (massima flessione e massima estensione) aiuta a stabilire la stabilità segmentaria. Associare sempre la proiezione transorale per la valutazione del complesso C1-C2. ● TC spirale multistrato: ha un ruolo fondamentale nella valutazione del paziente politraumatizzato, grazie alla possibilità di ricostruzione delle immagini sui piani sagittale e coronale. Permette di studiare con attenzione l’anatomia del canale spinale e la posizione di eventuali frammenti ossei che entrino in conflitto con le strutture mielo-radicolari. La limitazione più importante della metodica è l’incapacità di permettere uno screening delle lesioni legamentose e del midollo spinale. ● RM: permette lo studio delle lesioni dei tessuti molli (legamenti e dischi intervertebrali) e delle strutture mielo-radicolari (emorragia intramidollare, edema, concussione e sezione del midollo spinale, compressione estrinseca da parte di un frammento osseo o da ernia discale post-traumatica). Ogni paziente con sospetta lesione del midollo spinale dovrebbe effettuare una RM di valutazione non appena possibile, soprattutto in caso di lesioni neurologiche incomplete, in cui un intervento chirurgico potrebbe prevenire un ulteriore peggioramento.

A livello del rachide cervicale alto (cerniera atlo-­ epistrofica), non ci possono essere dislocazioni se il legamento trasverso è integro. Se il legamento trasverso è rotto, ma sono integri i legamenti alari, la dislocazione dell’atlante rispetto al dente dell’epistrofeo nei radiogrammi dinamici in flessoestensione va da 3 a 5 mm. Se sia i legamenti alari sia il legamento trasverso sono lesionati, la dislocazione sarà maggiore di 5 mm. Il segmento mobile rachideo del rachide cervicale inferiore è composto da: legamento longitudinale anteriore (LLA), disco intervertebrale, legamento longitudinale posteriore (LLP), articolazioni interapofisarie, legamenti gialli e interspinosi. La struttura maggiormente stabilizzante è il complesso LLP-disco intervertebrale: nelle lesioni legamentose, se questo sistema è integro, l’unità funzionale è stabile. Per il rachide dorso-lombare, una delle classificazioni concettualmente più semplici è quella di Denis (1983), che si basa sull’identificazione di tre colonne anatomo-funzionali a livello del rachide dorso-lombare (Figura 15.1):

Figura 15.1   Schema di Denis delle tre colonne per la classificazione delle fratture instabili dorso-lombari (spiegazione nel testo).







la colonna anteriore comprende il LLA, la metà anteriore del corpo vertebrale e la porzione corrispettiva del disco intervertebrale con il suo anulus fibroso; la colonna media contiene il LLP con la porzione di disco intervertebrale corrispondente e il suo anulus; la colonna posteriore contiene gli elementi posteriori dell’arco neurale, assieme ai legamenti corrispondenti (gialli, interspinosi e sopraspinoso) e alla capsula delle articolazioni interapofisarie.

Secondo questa classificazione, lesioni di due o più colonne producono una lesione potenzialmente instabile. Bisogna inoltre chiedersi se sia presente un deficit neurologico. L’esame neurologico di un paziente con sospetta o accertata frattura vertebrale deve valutare la funzione del midollo spinale e delle radici nervose. Le indicazioni al trattamento delle fratture vertebrali sono differenti a seconda che si tratti di fratture mieliche o amieliche. Infatti, mentre le lesioni mieliche sono lesioni gravi, instabili e necessitano di trattamento chirurgico quando possibile, quelle amieliche vanno definite e differenziate in relazione alla presenza di stabilità o instabilità segmentaria (Box 15.2). L’inquadramento del paziente con fratture vertebrali inizia dall’anamnesi e da un accurato esame obiettivo. Il dolore, sintomo guida, è esacerbato dalla stazione eretta e dal movimento, così come dalla palpazione diretta del segmento affetto. È presente una contrattura dei muscoli paravertebrali e, a livello del collo e del dorso, possono rendersi evidenti deformità, ecchimosi o ematomi.

15 - Fratture vertebrali 271

Box 15.2 Linee guida generali per il trattamento delle fratture vertebrali

Tabella 15.1  Classificazione delle lesioni midollari secondo Frankel. ●

Nel porre l’indicazione conservativa o chirurgica per il trattamento delle fratture vertebrali, bisogna considerare la stabilità segmentaria, la presenza di deficit neurologici e lo stato generale del paziente. ● In generale, nelle lesioni amieliche con stabilità segmentaria, il trattamento è conservativo con riduzione (se necessaria) e uso di ortesi. Nel caso di lesioni instabili, si pone indicazione chirurgica all’intervento di riduzione e stabilizzazione. ● I pazienti con lesioni mieliche si considerano come portatori di lesioni instabili. Si effettua una riduzione della deformità seguita da una decompressione e stabilizzazione per permettere al paziente di iniziare la riabilitazione e migliorare il nursing. Nelle lesioni neurologiche incomplete, il gesto chirurgico è finalizzato alla decompressione precoce per massimizzare le possibilità di recupero neurologico. ● La precocità dell’intervento dipende dallo stato generale del paziente e dalla sua stabilità emodinamica. I pazienti con lesione midollare dovrebbero essere mantenuti a valori di pressione elevati per migliorare la perfusione del midollo spinale danneggiato. Diversi studi documentano un migliore recupero neurologico se la decompressione viene eseguita entro le 24 ore dal trauma nei pazienti in grado di sostenere l’intervento chirurgico sotto l’aspetto emodinamico.









A) Lesione completa Assenza di funzione sensitiva e motoria B) Risparmio sensitivo Assenza di funzione motoria, preservazione della sensibilità C) Risparmio motorio non efficace Presenza di una certa funzione motoria, ma non efficace D) Risparmio motorio efficace Presenza di funzione motoria efficace (deambulazione possibile) E) Integrità Funzione motoria e sensitiva normale

La valutazione neurologica deve essere quanto più appropriata e meticolosa. È importante ricordare che il midollo spinale nell’adulto termina a livello del bordo inferiore di L1, estendendosi raramente fino a L2; al di sotto di questo livello è presente la cauda equina, costituita dall’insieme delle radici nervose che originano dal cono midollare. In funzione del quadro clinico, si possono distinguere: ● lesioni a livello radicolare, caratterizzate da un pattern di parestesie/anestesia, deficit di forza muscolare e iporeflessia al corrispondente dermatomero; ● lesioni con pattern meno definito di distribuzione dei deficit neurologici, che possono indicare una lesione della cauda equina, del cono midollare o del midollo spinale.

Le lesioni del midollo spinale possono essere complete (senza funzione neurologica al di sotto del livello lesionale) o incomplete. Nel caso di lesioni complete, ci si può aspettare un recupero di un livello radicolare in circa l’80% dei pazienti e di due livelli nel restante 20% (cosiddetti automatismi midollari sottolesionali). Le lesioni incomplete si differenziano a seconda dell’area del midollo coinvolta dalla lesione: ● la sindrome del midollo centrale è la più frequente e si verifica solitamente in pazienti con precedente stenosi del canale vertebrale: la lesione in questo caso coinvolge la sostanza grigia centrale e si traduce in un deficit motorio prevalente agli arti superiori rispetto agli arti inferiori, con conservazione variabile della sensibilità; ● la seconda sindrome più frequente è la sindrome delle corna anteriori, dove si ha una lesione dei due terzi anteriori del midollo, con risparmio delle colonne posteriori che trasportano la propriocezione e la pallestesia, e deficit motorio prevalente agli arti inferiori; ● la sindrome di Brown-Sequard consiste in una lesione di una metà del midollo con deficit ipsilaterale motorio e di sensibilità propriocettiva e pallestesica e perdita controlaterale della sensibilità termica e dolorifica.

La quantificazione della lesione midollare gioca un ruolo preminente sulla scelta terapeutica e sul giudizio prognostico. I sistemi più utilizzati sono il sistema di Frankel (Tabella 15.1) e il sistema sviluppato dall’American Spinal Injury Association (ASIA).

La presenza di tono rettale e della sensibilità perianale in un paziente con deficit neurologici è un reperto fondamentale in quanto suggerisce l’integrità di almeno una parte delle fibre nervose attraverso il livello della lesione, con indubbio miglioramento della prognosi.

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A oggi, anche se con efficacia incerta, la maggior parte dei pazienti portatori di lesioni acute del midollo spinale riceve una dose elevata di corticosteroidi allo scopo di facilitare il recupero neurologico. La ricerca nel campo delle lesioni del midollo spinale è in continua evoluzione: di recente sono stati riportati interessanti risultati sperimentali sull’utilizzo di nuove molecole come i Rho-antagonisti (cetrina) e agenti neuroprotettivi come il riluzolo (attualmente utilizzato nella SLA) e la minociclina. Questi e altri farmaci, insieme a una migliore comprensione della fisiopatologia delle lesioni midollari, rappresentano una delle prospettive future per migliorare le possibilità di recupero dei pazienti mielolesi.

Fratture del rachide cervicale



Rachide cervicale alto In base al livello interessato e alla tipologia della lesione, è possibile distinguere diversi tipi di frattura del rachide cervicale alto. ● Dissociazione o instabilità occipito-cervicale. La mortalità da lussazione della testa sul collo è molto elevata e i pochi sopravvissuti è probabile che abbiano deficit di nervi cranici, midollo allungato, giunzione spino-midollare e midollo spinale cervicale superiore; durante la lussazione si può anche verificare la lesione delle arterie vertebrali. Il meccanismo proposto è da forza in estensione-rotazione. Pazienti con insufficienza vertebrale a questo livello possono presentare associazioni con deficit dei nervi cranici (V, IX, X e XI), sindrome di Horner ipsilaterale, perdita controlaterale della sensibilità dolorifica e termica, atassia cerebellare, e paralisi crociata da lesione al livello della decussazione. Il trattamento è di immobilizzazione, riduzione e fissazione esterna urgenti in Halo, e successiva artrodesi occipito-cervicale ● Frattura dei condili occipitali. Si verifica per compressione assiale, solitamente questa lesione viene diagnosticata alla TC. In caso di lesioni stabili, il trattamento è conservativo con riduzione e applicazione di Halo, mentre in caso di lesioni instabili si effettua una artrodesi occipito-cervicale. ● Fratture dell’atlante. Le fratture dell’atlante si verificano più spesso in occasione di incidenti stradali, a seguito di sollecitazioni assiali sul rachide cervi-



cale; per questo è frequente la loro associazione ai traumi cranici nei pazienti politraumatizzati. Inoltre, vi è un’elevata associazione con fratture del complesso C1-C2 (comprese le fratture del dente dell’epistrofeo, la frattura dell’impiccato e altre fratture di C2) e/o con fratture di altri segmenti della colonna cervicale. Si distinguono le fratture isolate dell’arco posteriore, le fratture delle masse laterali e la frattura di Jefferson vera e propria (con interessamento contemporaneo dell’arco anteriore e di quello posteriore dell’atlante). La TC spirale con ricostruzioni longitudinali permette di determinare con precisione la tipologia della frattura. In generale, il trattamento conservativo con Halo permette di ottenere la consolidazione della frattura, mentre la chirurgia viene riservata ai pazienti con lesioni instabili o dopo fallimento del trattamento conservativo. Fratture del dente dell’epistrofeo. Rappresentano circa il 20% di tutte le fratture cervicali e vengono di solito distinte, secondo la classificazione di Anderson e D’Alonzo, in base al livello anatomico della frattura: le fratture di tipo I consistono in lesioni dell’apice del dente, quelle di tipo II si verificano alla giunzione del dente con il corpo dell’epistrofeo e quelle di tipo III si estendono nel contesto del corpo. Le fratture di tipo I si trattano di regola con l’immobilizzazione in Halo, che è il trattamento di scelta anche per le fratture composte di tipo II. Recentemente è stata proposta l’osteosintesi con vite anteriore nel dente dell’epistrofeo, che però può essere effettuata solo in caso di fratture a rima trasversale, non comminute e riducibili. Se il paziente ha una frattura con diastasi o angolazione dei frammenti, l’artrodesi C1-C2 per via posteriore (Figura 15.2) può essere indicata. Il trattamento per le fratture di tipo III è solitamente conservativo (ortesico) e porta alla guarigione nella maggior parte dei pazienti. Frattura dell’impiccato (hangman’s fracture). È la frattura dell’arco neurale posteriore dell’epistrofeo, con tendenza a diastasi tra i frammenti (Figura 15.3). Una piccola percentuale di queste fratture può essere associata ad angolazione del corpo vertebrale di C2, a lussazione unilaterale o bilaterale delle faccette articolari di C2 su C3, a interruzione del LLA o LLP e del disco intervertebrale C2-C3, il che determina un’instabilità segmentaria. Il trattamento pertanto è conservativo in Halo nelle lesioni stabili e chirurgico di artrodesi C2-C3 nelle lesioni instabili.

15 - Fratture vertebrali 273

Figura 15.2  Rx in proiezione laterale che mostra ( ) una frattura del dente dell’epistrofeo di tipo II, al di sopra di una stabilizzazione vertebrale C3-C7 (a); immagine TC che mostra il decorso della rima di frattura ( ) e la scomposizione dei frammenti (b); Rx dopo intervento di riduzione, artrodesi e cerchiaggio con fili metallici per via posteriore (c).

Rachide cervicale basso Sulla base del meccanismo lesionale, si distinguono quattro tipologie di fratture. ● Fratture in flessione-compressione. Comprendono lesioni che vanno da piccole compressioni di un piatto vertebrale fino a compromissioni severe del corpo vertebrale e danno delle strutture legamentose posteriori, con eventuale presenza di frammenti che possono dislocarsi posteriormente nel canale cervicale. Queste fratture sono causate da



applicazione di carico assiale sul rachide cervicale in flessione, più comunemente ai livelli C4-C5 e C5-C6. Mentre i pazienti con lesioni minori possono essere trattati conservativamente, pazienti con lesioni instabili (presenza di deficit neurologici, angolazione >11° o perdita di altezza del corpo vertebrale >25%) necessitano di decompressione e stabilizzazione. Fratture da scoppio. Sono causate da un grave carico assiale in compressione; i livelli più comunemente colpiti sono da C4 a C7. Queste fratture possono

Figura 15.3   Spondilolistesi traumatica dell’epistrofeo (hangman’s fracture). Rx che mostra la frattura a livello dei peduncoli dell’epistrofeo e lo scivolamento anteriore del corpo di C2 (a); TC che mostra la localizzazione delle fratture a livello dei peduncoli (b); dopo il trattamento conservativo in Halo, si apprezza la guarigione della frattura e la stabilità del segmento alle radiografie dinamiche in flessione (c) ed estensione (d).

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Figura 15.4   Frattura-lussazione dei massicci laterali a livello C5-C6. Rx in antero-posteriore che mostra il disallineamento dei processi spinosi (a); Rx in laterale che mostra il modesto scivolamento del corpo vertebrale di C5 rispetto a C6 ( ) (b); scansione TC assiale che conferma la frattura del massiccio articolare di destra ( ) (c); scansione RMN sagittale che mostra l’erniazione del disco intervertebrale corrispondente (d); Rx dopo l’intervento di decompressione, riduzione e artrodesi C5-C6 con placca e viti per via anteriore (e).





essere associate a lesioni del midollo spinale sia complete sia incomplete da retropulsione di frammenti ossei all’interno del canale spinale. Il trattamento delle fratture cervicali da scoppio è condizionato dallo stato neurologico e dal tipo di frattura. I pazienti con deficit neurologico sono trattati mediante artrodesi (associata a eventuale corpectomia). In caso di instabilità severe con interruzione degli elementi posteriori, può rendersi necessaria un’artrodesi combinata anteriore e posteriore. Fratture-lussazioni dei massicci articolari. Rappresentano un ampio spettro di patologie che vanno dalla lussazione pura alla frattura delle faccette o dei massicci laterali, con un grado variabile di lesione delle strutture legamentose posteriori. La faccetta articolare può essere fratturata, sub-lussata o lussata, uni- o bilateralmente. La TC permette di definire l’anatomia della lesione scheletrica; la MRI va effettuata per valutare la presenza di ernie del disco e lesioni del midollo spinale. Il trattamento definitivo comprende il tentativo di riduzione della lussazione (da effettuare a paziente vigile e collaborante), la decompressione delle strutture nervose e la stabilizzazione (Figura 15.4). Fratture in iperestensione. Sono particolarmente frequenti nella popolazione anziana e possono associarsi a lesioni midollari per conflitto con il canale spinale stenotico.

Fratture del rachide toraco-lombare Analogamente al rachide cervicale, si identificano diversi pattern di frattura. ● Fratture in compressione. Coinvolgono la colonna anteriore con risparmio di quella media; la maggior parte di queste lesioni si verifica fra D11 e L2, in quanto la cerniera dorso-lombare rappresenta il punto di passaggio fra un tratto di rachide piuttosto rigido e cifotico (colonna dorsale) e uno flessibile e lordotico (colonna lombare). Questo tipo di frattura è prevalente nella popolazione anziana e di solito è stabile grazie all’integrità del complesso osteo-legamentoso posteriore. La radiografia in laterale mostra una vertebra trapezoide con preservazione dell’altezza del muro vertebrale posteriore. Se è presente una lesione delle strutture legamentose posteriori si può avere un collasso della colonna anteriore con peggioramento della cifosi segmentaria. La maggior parte dei pazienti è trattata con successo tramite tecniche conservative ortesiche. La stabilizzazione chirurgica, sebbene raramente necessaria, può essere utile nei pazienti con perdita d’altezza del corpo vertebrale oltre il 50% o con cifosi maggiore di 20-30° secondaria a interruzione legamentosa posteriore.

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Fratture da scoppio. Si verificano per un’applicazione assiale delle forze che porta a un crollo delle colonne anteriore e media con rottura del piatto vertebrale e penetrazione di materiale discale nel corpo vertebrale. Anche queste fratture si localizzano elettivamente al passaggio dorso-lombare. Spesso si osserva una dislocazione posteriore di un frammento osseo. La radiografia può mostrare perdita di altezza del corpo vertebrale, cifosi segmentaria e un aumento della distanza tra i peduncoli in proiezione antero-posteriore. La TC permette di caratterizzare la stenosi del canale vertebrale. Indici di instabilità per queste fratture sono: deficit neurologico progressivo, cifosi evolutiva, interessamento della colonna posteriore e perdita di altezza >50% con cifosi segmentaria (Figura 15.5). Il trattamento appropriato è guidato da una valutazione dell’angolazione della cifosi al sito di frattura, dal grado di stenosi del canale per frammenti ossei retropulsi e dallo stato neurologico del paziente. Le fratture da scoppio con evidenza di interruzione legamentosa posteriore e cifosi segmentaria maggiore di 20-30°, una



sublussazione delle faccette apofisarie posteriori, l’aumento della distanza tra i processi interspinosi, o una perdita di più del 50% dell’altezza del corpo vertebrale anteriormente spesso traggono beneficio dal trattamento chirurgico di decompressione e stabilizzazione segmentaria. Fratture in flessione-distrazione. Si hanno per deficit delle colonna posteriore e media per distrazione segmentaria, mentre la colonna anteriore viene lesionata o in distrazione o in compressione. Le lesioni in flessione-distrazione possono presentare rime di frattura attraverso l’osso, i tessuti molli o una combinazione di questi, che determinano l’indicazione e l’estensione dell’intervento chirurgico. Quando queste lesioni si estendono interamente attraverso gli elementi ossei posteriori e nel corpo vertebrale (frattura Chance), senza coinvolgimento del disco, la prognosi per la guarigione ossea è buona con un trattamento conservativo. Si associano spesso lesioni addominali e deficit neurologici da studiare prima di considerare il trattamento chirurgico.

Figura 15.5   Frattura da scoppio di L3. Rx che mostra la riduzione di altezza e la frammentazione del corpo vertebrale di L3 con separazione dei frammenti (a); la TC in assiale mostra un frammento di osseo retropulso nel canale vertebrale ( ) che comprime le radici nervose (b); Rx dopo intervento di decompressione e stabilizzazione L2-L4 con barre e viti per via posteriore (c-d).

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Fratture-lussazioni. Sono il risultato di severe forze di taglio secondarie a traumi ad alta energia applicati al rachide. Queste lesioni sono per definizione estremamente instabili, perché coinvolgono tutte e tre le colonne spinali e sono associate a un’elevata incidenza di deficit neurologici. L’intervento chirurgico di riallineamento spinale, decompressione segmentaria e artrodesi è di regola raccomandato in questo tipo di fratture.

Fratture vertebrali da osteoporosi L’incidenza delle fratture vertebrali da osteoporosi incrementa progressivamente con l’aumentare dell’età: nella popolazione europea con età superiore ai 75 anni, si registrano ogni anno 25 casi per 1000 soggetti nelle donne e 15 casi per 1000 soggetti negli uomini. Nel paziente affetto da osteoporosi complicata da una frattura vertebrale, l’insorgenza del dolore e la deformità del rachide causano un’importante disabilità con limitazione delle normali attività se non addirittura la completa inattività. Tali fattori determinano una spirale patologica caratterizzata da un’ulteriore riduzione della densità ossea con conseguente incremento del rischio di nuove fratture vertebrali (circa 4 volte) e aumentata mortalità (circa il 15%). In caso di fratture vertebrali multiple a livello del tratto dorsale, il paziente può sviluppare un quadro di grave cifosi che determina l’insorgere di una patologia polmonare di tipo restrittivo. In tali pazienti, la mortalità associata a cause polmonari è aumentata di circa tre volte. In considerazione delle caratteristiche morfologiche della frattura del corpo vertebrale, si possono di­­ stinguere: ● frattura con avvallamento di un solo piatto vertebrale; ● frattura con avvallamento di entrambi i piatti (vertebra biconcava); ● frattura con crollo della porzione anteriore del corpo vertebrale (deformità a cuneo); ● frattura con crollo strutturale totale del corpo vertebrale. Il trattamento delle fratture vertebrali può essere conservativo o chirurgico, in base al quadro clinico e anatomo-patologico. In particolare, si distinguono tre opzioni terapeutiche: il trattamento conservativo, le procedure percutanee di cementoplastica (vertebroplastica e cifoplastica) e il trattamento chirurgico.

Il trattamento conservativo è indicato in caso di avvallamento di uno dei due piatti vertebrali. Tale approccio prevede il riposo a letto per 3-4 settimane con ortesi toraco-lombare a tre punti in iperestensione, allo scopo di prevenire o correggere la deformità in cifosi; in

Box 15.3 Procedure di cementoplastica La vertebroplastica consiste nell’iniezione, per via solitamente transpeduncolare (mono- o bilaterale) sotto guida fluoroscopia o TC, di cemento acrilico nel corpo vertebrale. La cifoplastica può essere eseguita per via transpeduncolare o extrapeduncolare e si differenzia per l’insufflazione di un palloncino all’interno del corpo vertebrale prima dell’iniezione di cemento. L’azione del palloncino permette di compattare l’osso spongioso del soma, formando una cavità che possa essere riempita con il cemento. Tale tecnica dovrebbe garantire il ripristino dell’altezza vertebrale e la correzione della cifosi. ● Le indicazioni per le procedure di cementoplastica sono: collasso del corpo vertebrale con perdita di almeno il 15% dell’altezza del soma, frattura vertebrale stabile e recente. In aggiunta all’esame radiografico, la RM permette di valutare lo stadio evolutivo della frattura, per mezzo dell’identificazione dell’edema osseo intraspongioso, oltre alla valutazione dell’estensione e della stabilità della frattura. La TC può essere eseguita in alternativa o in aggiunta alla RM. Nel sospetto di una frattura patologica può essere associata l’esecuzione di una biopsia. ● Le controindicazioni includono: presenza di più di tre fratture recenti, frattura con collasso somatico maggiore del 90%, frattura con interessamento del muro posteriore, frattura pluriframmentaria, frammento osseo retropulso nel canale vertebrale, fratture dei peduncoli, infezioni locali o sistemiche della colonna (osteomieliti o spondilodisciti). ● Le procedure di cementoplastica possono associarsi a complicanze di gravità clinica differente. Le complicanze più frequenti sono l’insorgenza di nuove fratture vertebrali (dovute al differente modulo di elasticità del cemento rispetto all’osso circostante) e lo stravaso del cemento. Tale evento può determinare quadri clinici severi per compressione radicolare (con conseguente radiculopatia sintomatica), stenosi del canale, oppure danno del midollo o della cauda equina (con conseguente sindrome della cauda: paraparesi/paraplegia e claudicatio neurogena). Inoltre, se lo stravaso avviene solo nel disco intervertebrale, pur non essendo associato a sintomatologia neurologica, il processo di polimerizzazione del cemento può indurre una degenerazione del disco. Complicanze più rare sono rappresentate da processi infettivi ed ematomi, a livello locale, e da infarto del miocardio ed embolia polmonare, a livello sistemico.

15 - Fratture vertebrali 277

seguito il paziente può deambulare esclusivamente con busto ortopedico mono o bivalva tipo Cheneau. La terapia medica associata, di regola protratta per 2-3 mesi, consiste nella somministrazione di farmaci per il controllo del dolore, per la prevenzione della malattia tromboembolica e per il trattamento dell’osteoporosi. Gli svantaggi del trattamento conservativo comprendono la guarigione lenta, il rischio di patologie correlate all’immobilità (trombosi venose, infezioni delle vie respiratorie o urinarie, piaghe da decubito) e l’eventuale deformità residua. In considerazione di queste possibili complicanze, tale trattamento non è raccomandato in pazienti anziani affetti da malattie cardio-respiratorie e in scarse condizioni generali: per questi soggetti è preferibile considerare le procedure di cementoplastica. Le tecniche di cementoplastica (Box 15.3) – vertebroplastica e cifoplastica – sono indicate nel trattamento di fratture vertebrali sintomatiche, senza compromissione neurologica, in cui il trattamento conservativo classico in ortesi non sia indicato o possibile. La cifoplastica rappresenta inoltre un’alternativa al trattamento conservativo (con letto di reclinazione e tutela ortopedica) in caso di crollo della porzione anteriore del soma vertebrale, con deformità a cuneo e cifosi segmentaria, in cui è necessario ripristinare la morfologia vertebrale e correggere la deformità del rachide. L’impiego delle tecniche di cementoplastica deve essere preceduto da un’attenta valutazione clinica e strumentale, con esami di imaging accurati (TC e RM), al fine di eseguire una corretta selezione dei pazienti.

In caso di frattura vertebrale pluriframmentaria con crollo strutturale totale del corpo, associata a danno neurologico, è indicato il trattamento chirurgico di decompressione delle strutture mielo-radicolari, stabilizzazione del segmento e artrodesi.

Fratture del rachide pediatrico Nel rachide pediatrico bisogna considerare l’aumentato potere di guarigione delle strutture osteo-legamentose rispetto alla popolazione adulta, condizione che suggerisce l’utilizzo di trattamenti conservativi anche in lesioni che nella popolazione adulta richiederebbero un intervento chirurgico. Inoltre, il rachide pediatrico è molto flessibile e pertanto è meno suscettibile a fratture o lussazioni: tale flessibilità espone viceversa al rischio di lesioni del midollo spinale senza anomalie radiografiche (in inglese SCIWORA: Spinal Cord Injury Without Radiologic Abnormality), evidenziabili solo con la RM. Un’ulteriore lesione caratteristica del rachide pediatrico è la lussazione rotatoria dell’atlante rispetto all’epistrofeo, che a volte può manifestarsi in associazione a sindrome di Down o con un’infezione faringea (sindrome di Griesel). Tale condizione è una delle cause di torcicollo del bambino, ed è di frequente autolimitantesi; nei casi resistenti va effettuata una trazione e riduzione, ma in caso di irriducibilità è necessario un intervento di artrodesi C1-C2 per via posteriore.

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capitolo

Fratture del bacino e dell’acetabolo

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Giovanni Zatti

Fratture del bacino Le fratture del bacino riguardano le ossa che compongono il cingolo pelvico (ileo, ischio, pube, sacro e coccige) e sono distinte in due gruppi principali: ● fratture con interruzione del cingolo pelvico; ● fratture senza interruzione del cingolo pelvico (parcellari). Le prime conseguono solitamente a gravi traumatismi (incidenti stradali o sul lavoro, cadute dall’alto) e sono spesso associate ad altre fratture o a lesioni viscerali (toraciche, addominali, craniche).

Quadro clinico

L’arto inferiore del lato affetto viene mantenuto immobile, perché il dolore è di regola molto intenso. È possibile osservare un’asimmetria delle spine o delle creste iliache e un’apparente differenza di lunghezza degli arti inferiori. L’esame obiettivo deve comprendere una valutazione neurologica e vascolare periferica (sensibilità, motilità e polsi). Una frattura del bacino che interrompe il cingolo pelvico è in grado di causare un’imponente per­ dita ematica, tanto maggiore quanto più grave è la sua dislocazione e instabilità, fino a compromettere il quadro emodinamico del paziente (shock ipovolemico). Complicanze

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Fratture con interruzione del cingolo pelvico La forza d’urto che provoca la frattura può agire in senso antero-posteriore aprendo il bacino (open book), oppure in compressione laterale o verticale; una combinazione di queste forze è frequente. L’anello può essere interrotto anteriormente da una lussazione della sinfisi pubica o da una frattura delle branche ileo- e ischio-pubica, posteriormente da una lussazione dell’articolazione sacro-iliaca o da una fr­ attura dell’ala iliaca o del sacro attraverso i suoi fori (Figura 16.1). L’instabilità di queste fratture è condizionata dalla concomitante lesione dei robusti legamenti che collegano le ossa pelviche: sacro-spinoso, sacro-tuberoso, sacro-iliaci anteriori e posteriori.

Una complicanza frequente è la lesione della vescica o dell’uretra: nel primo caso vi può essere una peritonite, nel secondo ritenzione urinaria con globo vescicale e importante stimolo alla minzione. Molto raramente queste fratture possono essere esposte; quando ciò avviene, a causa della perdita ematica e delle frequenti complicanze settiche, la mortalità è elevata. Diagnostica per immagini

Una radiografia in proiezione antero-posteriore del bacino è in genere sufficiente per porre la diagnosi. Radiogrammi antero-posteriori con inclinazione del raggio di 45° in senso cranio-caudale (outlet) e caudocraniale (inlet) consentono una migliore definizione delle lesioni. Informazioni ulteriori possono essere ottenute da uno studio TC con eventuale ricostruzione tridimensionale.

280 Traumatologia

A tale scopo trovano sempre maggiore indicazione i fissatori esterni, eventualmente associati a trazione transcheletrica, applicati bilateralmente sull’ileo anche di urgenza in pronto soccorso (Figura 16.2). Qualora persista l’instabilità emodinamica è indicata un’angiografia con eventuale embolizzazione. Un trattamento alternativo o utilizzato in seconda istanza è la riduzione aperta e la sintesi con placche e viti: questa metodica permette una riduzione anatomica e un’ottima stabilità, ma richiede un’ampia esposizione chirurgica con tutti i rischi connessi (perdite ematiche ulteriori, infezioni e ossificazioni eterotopiche).

Fratture senza interruzione del cingolo pelvico Questo gruppo comprende diversi tipi di lesione. ● Fratture trasversali di sacro e coccige o dell’ala iliaca: conseguono più spesso a traumi diretti e solo di

Figura 16.1   Fratture del bacino con interruzione dell’anello pelvico: di Malgaigne (a), di Vollemier (b), quadrupla verticale (c).

Terapia

Le fratture composte con minima dislocazione (diastasi della sinfisi pubica inferiore ai 3 cm) possono essere trattate in modo conservativo, con riposo a letto di 1 mese con o senza tutela gessata. Le fratture con significativa dislocazione e instabilità vanno precocemente ridotte e stabilizzate anche al fine di contribuire al ripristino del normale quadro emodinamico del paziente.

Figura 16.2   Frattura complessa del bacino. Quadro radiografico preoperatorio che mostra diastasi della sinfisi pubica, frattura delle branche ileo- e ischio-pubica, lussazione della sacro-iliaca all’emibacino sinistro (a). Controllo dopo riduzione e stabilizzazione con fissatore esterno (b).

16 - Fratture del bacino e dell’acetabolo 281





rado sono così dislocate da richiedere interventi di riduzione e sintesi. Nelle fratture del sacro vanno ricercati eventuali deficit neurologici: in queste vi può essere un interessamento della cauda equina. Fratture isolate delle branche ileo- e ischio-pubica: conseguono solitamente a traumi a bassa energia in pazienti osteoporotici. Il riposo a letto o in poltrona, seguito da una precoce ripresa del carico alla risoluzione dei sintomi è la terapia di scelta. Avulsioni delle tuberosità (spina iliaca antero-superiore o inferiore, tuberosità ischiatica): si tratta di lesioni da strappamento che conseguono a brusche contrazioni muscolari; sono frequenti nei soggetti in accrescimento. Solo in caso di ampia diastasi dei frammenti può essere necessario un intervento di riduzione e sintesi, ma più spesso il semplice riposo con detensione dei muscoli interessati (flessione dell’anca) fino alla risoluzione della sintomatologia dolorosa è sufficiente come terapia.

Fratture dell’acetabolo Le fratture dell’acetabolo sono generalmente causate da traumi ad alta energia che agiscono sul femore distale o sul trocantere: la forza d’urto, trasmessa

Figura 16.3

dalla testa del femore, agisce sull’acetabolo fratturandolo. Conseguono più spesso a traumi da incidenti stradali o sul lavoro (cadute dall’alto), più raramente a traumi sportivi, e possono essere accompagnate da altre fratture o lesioni. In una percentuale limitata di casi, in pazienti anziani osteoporotici, il meccanismo causale è un trauma lieve (per esempio una caduta in casa).

Classificazione A seconda della direzione della forza d’urto la frattura può interessare porzioni diverse dell’acetabolo. Dal punto di vista anatomico (Figura 16.3) si distinguono i seguenti tipi di fratture: ● Fratture dell’arco posteriore: del ciglio posteriore; della parete posteriore; della colonna posteriore. ● Fratture trasversali: trasversa semplice; trasversa +  parete posteriore; frattura a T. ● Fratture dell’arco anteriore: del ciglio anteriore; della parete anteriore; della colonna anteriore. ● Fratture delle due colonne e complesse. Nelle fratture dell’arco posteriore il frammento sarà tanto più posteriore quanto più flessa era l’anca al

 Alcuni tipi di frattura dell’acetabolo. Parete posteriore (a), colonna posteriore (b), parete e colonna posteriore (c), trasversa e parete posteriore (d), trasversa semplice (e), frattura a T (f), colonna anteriore (g), frattura delle due colonne (h).

282 Traumatologia

Figura 16.4   Fratturalussazione posteriore dell’anca destra. Radiografia iniziale con lussazione della testa femorale e frattura del ciglio postero-superiore dell’acetabolo ( ) (a). Quadro radiografico dopo riduzione della lussazione: è ancora evidente il frammento osseo acetabolare ( ) (b). Scansione assiale TC che consente di apprezzare la grandezza del frammento osseo ( ) (c). Controllo dopo riduzione a cielo aperto e osteosintesi con due viti libere (d).

momento del trauma; in un’elevata percentuale di casi, tali fratture si associano a una lussazione posteriore della testa del femore (frattura-lussazione) (Figura 16.4). In caso di fratture trasverse può concomitare una lussazione centrale (intrapelvica) della testa femorale (Figura 16.5). Quadro clinico

Il dolore è intenso e l’impotenza funzionale pressoché completa. L’atteggiamento dell’arto può variare a seconda della posizione assunta dalla testa femorale: nel caso di lussazione posteriore l’anca si presenta flessa e intraruotata con accorciamento apparente dell’arto. Nei pazienti politraumatizzati vi può essere un quadro di shock traumatico.

Figura 16.5

 Radiografia del bacino che mostra una lussazione centrale dell’anca sinistra ( ) con sfondamento dell’acetabolo e dislocazione intrapelvica della testa femorale.

Complicanze

Le possibili complicanze immediate, da ricercare all’esame obiettivo, includono: ● lesioni del nervo sciatico nelle fratture-lussazioni posteriori (frequenti); ● lesioni del nervo e/o vasi femorali in quelle anteriori (rare). Complicanze tardive includono invece la necrosi asettica della testa del femore (fratture-lussazioni), che si manifesta a distanza di mesi o anche di anni dall’evento traumatico, e l’artrosi post-traumatica, quest’ultima influenzata dalla qualità della riduzione dei frammenti articolari. Diagnostica per immagini

Le proiezioni radiografiche necessarie per studiare una frattura dell’acetabolo sono l’antero-posteriore del bacino e due oblique: quella otturatoria (obliqua esterna), eseguita con il bacino inclinato di 45° verso il lato sano, e quella iliaca (obliqua interna), con bacino inclinato di 45° verso il lato della frattura. Le tre proiezioni permettono di osservare lo stato delle pareti e delle colonne, e i rapporti articolari tra testa del femore e acetabolo, al fine di escludere lussazioni. La TC, soprattutto con la possibilità di ricostruzione tridimensionale, offre la possibilità di uno studio più accurato per la definizione precisa della frattura. Terapia

In presenza di fratture composte o con minima scomposizione, solitamente osservate per traumi lievi in

16 - Fratture del bacino e dell’acetabolo 283

pazienti anziani osteoporotici, il semplice riposo a letto fino alla risoluzione dei sintomi è sufficiente. In caso di associata lussazione della testa del femore questa va ridotta in urgenza: è infatti dimostrato che l’incidenza di necrosi asettica dopo una lussazione è direttamente proporzionale al tempo trascorso tra la lussazione e la riduzione. Una frattura parcellare del ciglio, una volta saggiata la stabilità della riduzione, può non richiedere alcun trattamento chirurgico. Una frattura dell’acetabolo che necessiti di una terapia chirurgica va invece trattata in un secondo momento (entro 10-15 giorni), una volta stabilizzate le condizioni generali del paziente. Le fratture posteriori richiedono un’aggressione per via posteriore: dopo avere verificato l’integrità della testa femorale e la sua corretta posizione, la frattura va

ridotta e sintetizzata con viti libere ed eventualmente con placche e viti (si veda la Figura 16.4). Le fratture anteriori vanno aggredite per via anteriore intrapelvica, ridotte e sintetizzate con placche e viti. Le fratture a T o delle due colonne richiedono una via di aggressione allargata o doppia (anteriore e posteriore) iniziando dal versante dove è presente la maggiore dislocazione. La frattura va ridotta anatomicamente in quanto anche lievi incongruenze articolari portano allo sviluppo di un’artrosi precoce. Complicanze legate all’intervento sono le lesioni vascolo-nervose (più frequenti sono le lesioni del nervo sciatico e dell’arteria glutea superiore), le infezioni e le calcificazioni eterotopiche (percentualmente correlate all’ampiezza dell’esposizione chirurgica).

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capitolo

Fratture dell’arto inferiore

17

Federico A. Grassi, Leo Massari

Fratture del femore prossimale Federico A. Grassi

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Le fratture del femore prossimale interessano la porzione di osso compresa fra la testa e la regione sottotrocanterica (fino a 2 cm al di sotto del piccolo trocantere); un sotto­ gruppo particolare è costituito dalle fratture parcellari della testa e da quelle isolate dei trocanteri. Le fratture del femore prossimale sono estremamente comuni e riguardano in modo caratteristico due tipi di individui: ● con maggior frequenza, l’anziano per traumi a bassa energia; ● più raramente, l’adulto per traumi ad alta energia (dovuti a incidenti stradali o sul lavoro o dello sport) e in questo caso si associano spesso ad altre fratture. Il soggetto anziano, soprattutto se di sesso femminile, è predisposto a questo tipo di lesioni a causa dell’osteo­ porosi, che indebolisce il tessuto osseo riducendone la massa, in particolare a livello del collo femorale e della regione trocanterica. Nella maggior parte dei casi l’evento traumatico è una ca­ duta accidentale, a cui questi pazienti sono maggiormen­ te predisposti per la minore reattività neuro-muscolare e/o per altre patologie che possono renderne più precario l’equilibrio.

Figura 17.1   Le fratture del femore prossimale: sottocapitata (a), mesocervicale (b), basicervicale (c), pertrocanterica (d), sottotrocanterica (e). La linea tratteggiata indica la zona d’inserzione della capsula articolare, in base alla quale si distinguono fratture mediali e laterali.

Classificazione e fisiopatologia

Si distinguono fratture mediali e fratture laterali rispetto all’inserzione della capsula articolare, che si trova alla base del collo (Figura 17.1).



Fratture mediali. Si dividono in fratture sottocapitate (appena sotto la testa femorale) e fratture mesocervicali (a metà del collo femorale).

286 Traumatologia

Figura 17.2   Classificazione di Garden delle fratture mediali del femore prossimale: tipo I, ingranata in valgo (a); tipo II, composta (b); tipo III, parzialmente scomposta, ingranata in varo (c); tipo IV, scomposta (d).







Le fratture mediali possono essere classificate anche sulla base della scomposizione secondo Garden in (Figura 17.2): – fratture scomposte ingranate in valgo (tipo I); – fratture composte (tipo II); – fratture scomposte ingranate in varo (tipo III); – fratture scomposte (tipo IV). I primi due tipi sono da considerarsi come fratture stabili o stabilizzabili direttamente con mezzi di osteosintesi (viti); i tipi III e IV sono considerate frat­ ture instabili e stabilizzabili solo dopo riduzione. Fratture laterali. Si dividono in: – fratture basicervicali (alla base del collo); – fratture pertrocanteriche (tra un trocantere e l’altro con linea di frattura variabile); – fratture sottotrocanteriche (al di sotto del piccolo trocantere).

Le fratture laterali, sulla base del numero dei frammenti e dell’obliquità della rima di frattura, sono distinte in fratture stabili e instabili (comminute) (Figura 17.3). La testa del femore nell’adulto è vascolarizzata da rami terminali intracapsulari delle arterie circonflesse ante­ riori e posteriori del femore, da vasi intraossei all’in­ terno del collo femorale e dall’arteria del legamento rotondo, che nell’anziano tende a obliterarsi. Una frat­ tura mediale interrompe i vasi intraossei e può inter­ rompere, o comunque comprimere per la pressione dell’ematoma, i vasi intracapsulari. Da ciò deriva un elevato rischio di necrosi asettica della testa femorale nelle fratture mediali, soprattutto se scomposte. Inoltre queste fratture, in particolare le mesocervicali, avvengono in una zona di tessuto osseo corticale con ridotte potenzialità riparative, con conseguente rischio aggiuntivo di ritardo di consolidazione e pseudoartrosi.

17 - Fratture dell’arto inferiore 287

Figura 17.3   Fratture pertrocanteriche: stabile (a); instabile: pluriframmentaria con interruzione del muro mediale ( ) (b).

Quadro clinico

Il paziente riferisce una caduta accidentale più o meno violenta, lamenta dolore in regione inguinale irradiato alla coscia con impotenza funzionale e impossibilità alla deambulazione. L’arto si presenta atteggiato in rotazione esterna (il margine laterale del piede appare appoggiato al piano del letto), addotto e accorciato (Figura 17.4). La mobi­ lizzazione dell’anca suscita vivo dolore.

In casi non rari (fratture ingranate o stabili) la sintoma­ tologia può essere minima o assente, e l’esame fisico poco significativo; la frattura può manifestarsi in un secondo tempo, quando si scompone, con cedimento improvviso dell’arto. Diagnostica per immagini

La radiografia standard dell’anca in due proiezioni è di regola sufficiente per riconoscere e classificare la frattura, indirizzando la terapia. In alcuni casi di frat­ ture composte la radiografia può essere non significa­ tiva o dubbia; in questa eventualità, sulla base del quadro clinico, può essere indicata l’esecuzione di una TC. Questo esame riduce al minimo la possibilità che una frattura possa essere misconosciuta, per manife­ starsi solo in un secondo tempo con la scomposizione. Complicanze

Figura 17.4   Atteggiamento in rotazione esterna e adduzione dell’arto inferiore destro in paziente con frattura scomposta del femore prossimale; si noti anche l’accorciamento rispetto all’arto controlaterale.

Complicanze postoperatorie possono essere l’anemiz­ zazione, la trombosi venosa profonda con embolia polmonare e l’infezione chirurgica; i vizi di consolida­ zione, la pseudoartrosi o la necrosi asettica della testa femorale possono verificarsi in caso di osteosintesi, men­ tre a seguito di sostituzione protesica si possono osser­ vare la lussazione o la mobilizzazione dell’impianto. In epoca prechirurgica la mortalità del soggetto molto anziano affetto da frattura del collo di femore, a un anno dall’evento, era intorno al 60% a causa del trauma e delle complicanze legate al prolungato allettamento. L’approccio chirurgico, permesso anche dal migliora­ mento delle tecniche anestesiologiche, ha circa dimez­ zato questa percentuale; eseguendo l’intervento in

288 Traumatologia

tempi brevi (entro 48 ore dal trauma) la mortalità subi­ sce un’ulteriore lieve riduzione. In alcuni casi possono però essere necessari pochi giorni di ricovero per un inquadramento clinico più preciso e la correzione di condizioni patologiche concomitanti. La frattura del collo del femore rimane comunque una delle principali cause di progressivo decadimento nell’an­ ziano. Terapia

L’obiettivo del trattamento è diverso a seconda che si tratti di pazienti anziani (evenienza di gran lunga più comune) o adulti. Nel primo caso la terapia è volta a ottenere la verticalizzazione e la ripresa della deambula­ zione nel minore tempo possibile, al fine di prevenire le complicanze correlate all’immobilità. Nei pazienti più giovani si cerca invece di restituire una forma il più pos­ sibile anatomica al femore prossimale, per recuperare una funzione ottimale, anche a costo di una prolungata astensione dal carico. L’allettamento di un paziente anziano è, infatti, causa di insorgenza di varie complicanze (sindrome da allettamento): piaghe da decubito, infezioni urinarie, polmoniti ipostatiche, malattia tromboembolica, disidratazione. Le fratture mediali richiedono un approccio terapeu­ tico diverso rispetto alle laterali. Le fratture mediali composte o stabili (Garden I o II), indipendentemente dall’età del paziente, vengono prefe­ ribilmente trattate mediante osteosintesi con viti multiple o con vite-placca a scivolamento con vite supplementare antirotatoria (Figura 17.5). Il rischio di una pseudoartrosi o di una necrosi asettica della testa del femore, tipiche

complicanze delle fratture mediali, è contenuto, seppure la sofferenza ischemica sia possibile. Il carico può essere concesso in tempi brevi nei pazienti anziani, mentre nei più giovani è preferibile ritardarlo di qualche settimana. Il semplice riposo a letto, seguito da una precoce ripresa del carico compatibilmente con il dolore, è una scelta terapeutica adottabile nei pazienti con rischio operatorio elevato o in caso di diagnosi tardiva, ma è necessario considerare il rischio di una possibile scom­ posizione secondaria. Nelle fratture mediali scomposte (Garden III o IV) l’approccio terapeutico varia a seconda dell’età e delle condizioni generali del paziente. Nel paziente giovane (al di sotto dei 60 anni) si preferi­ sce tentare la riduzione della frattura (con manovre esterne di trazione e rotazione, ma anche a cielo aperto se necessario) e l’osteosintesi con viti multiple, al fine di salvare l’articolazione naturale. Il paziente va infor­ mato dell’elevata probabilità di complicanze (necrosi asettica e pseudoartrosi), che potranno richiedere un intervento di sostituzione protesica. Nel paziente anziano (sopra i 75 anni o con limitate richieste funzionali o elevato rischio operatorio) l’in­ tervento di scelta è l’impianto di un’endoprotesi o protesi parziale d’anca, con cui si sostituisce solo la testa del femore fratturata e non l’acetabolo, la cui cartila­ gine è in buone condizioni (Figura 17.6). Rispetto alla protesi totale d’anca, l’intervento di endoprotesi è più semplice, più veloce e meno traumatizzante per il soggetto anziano; inoltre richiede minori precauzioni nella mobilizzazione nel periodo postoperatorio.

Figura 17.5   Frattura sottocapitata del femore destro (classificazione di Garden I), trattata mediante osteosintesi con tre viti libere (a); a distanza di 18 mesi si osserva la necrosi della testa femorale, che appare deformata, con collasso della struttura trabecolare e sclerosi (b); la paziente, di 63 anni, è stata infine trattata con l’impianto di un’artroprotesi d’anca (c).

17 - Fratture dell’arto inferiore 289

Figura 17.6   Frattura sottocapitata del femore sinistro (a), trattata con impianto di un’endoprotesi (o protesi parziale) d’anca. In questo tipo di impianto viene sostituita soltanto la testa femorale, mentre l’acetabolo non viene protesizzato (b).

Nel paziente di età intermedia (60-75 anni o con elevate richieste funzionali e buone condizioni generali), l’inter­ vento indicato è la protesizzazione totale dell’anca che, seb­ bene più complesso, offre migliori risultati a distanza poiché previene il rischio di usura dell’acetabolo naturale. Le fratture laterali sono extracapsulari e localizzate in una zona di osso spongioso con elevate capacità riparative: la

necrosi asettica e la mancata consolidazione sono quindi molto rare. Per questi motivi vengono trattate con la ridu­ zione e l’osteosintesi, oggi eseguita con chiodi cefalomidollari nella massima parte dei casi. Le viti-placche a scivolamento, principale mezzo di sintesi del passato, tro­ vano ancora indicazione nelle fratture stabili (basicervicali o pertrocanteriche a due frammenti) (Figura 17.7).

Figura 17.7   Esempi di osteosintesi per il trattamento di fratture pertrocanteriche: viteplacca a scivolamento, utilizzata in una frattura stabile (si veda la Figura 17.3a) (a); chiodo cefalo-midollare, utilizzato in una frattura instabile (si veda la Figura 17.3b) (b).

290 Traumatologia

Scopo del trattamento è quello di permettere l’imme­ diata verticalizzazione del paziente.

Fratture parcellari della testa del femore Le fratture parcellari della testa femorale sono rare e conseguono a un trauma ad alta energia, simile a quelli che provocano le fratture dell’acetabolo o le lussazioni dell’anca, alle quali sono frequentemente associate, con ritenzione del frammento libero in sede acetabolare. Il quadro clinico è quello di una lussazione posteriore (anca flessa, intrarotata, addotta e arto accorciato), così come le complicanze (lesione del nervo sciatico, necrosi asettica della testa, coxartrosi). La diagnosi richiede un’attenta valutazione delle radiografie per apprezzare l’alterazione del profilo della testa e il frammento rimasto in sede; il dubbio diagnostico è chiarito dalla TC. Terapia

La lussazione della testa femorale richiede una ridu­ zione urgente, al fine di ridurre i rischi di necrosi aset­ tica della testa. Il frammento cefalico, quando di piccole dimensioni (al di sotto della fovea capitis), può essere asportato e l’anca progressivamente mobilizzata. In caso di frammenti maggiori (al di sopra della fovea) il frammento va ridotto e sintetizzato chirurgicamente.

Fratture dei trocanteri Le fratture isolate dei trocanteri possono essere da avulsione (piccolo trocantere) o da trauma diretto (grande trocantere, da caduta sul fianco nel paziente osteoporotico). In genere il riposo a letto fino alla risoluzione dei sin­ tomi e la ripresa precoce della deambulazione sono la terapia di scelta. In alcuni casi (pazienti giovani e scomposizione elevata) può essere opportuna una riduzione e la sintesi chirurgica del grande trocantere.

Fratture della diafisi femorale

Classificazione

Come per le fratture diafisarie delle altre ossa lunghe (omero, tibia ecc.), i criteri classificativi si basano sul livello di lesione (terzo prossimale, medio o distale), il numero dei focolai (unifocale, bifocale), l’integrità del rivestimento cutaneo (chiusa o esposta), ma soprattutto sulla configu­ razione della rima di frattura, che può essere trasversale, obliqua, spiroide, pluriframmentaria o comminuta. Le prime conseguono a traumi diretti, le ultime a traumi ad alta energia, mentre le spiroidi a traumi torsionali. Quadro clinico

Queste fratture sono caratterizzate da intenso dolore, impotenza funzionale e deformità della coscia con tumefazione, eventuale angolazione e/o accorciamento, e motilità preternaturale. La perdita ematica in seguito a frattura della diafisi femorale è imponente (almeno 1-1,5 L) e può causare l’insorgenza di uno shock ipovolemico. L’esposizione della frattura non è rara e aggrava le perdite ematiche, oltre ad aumentare i rischi di infe­ zione. Le lesioni vascolari (arteria femorale) sono infre­ quenti ma possibili; rare le lesioni nervose. Diagnostica per immagini

L’esame radiografico in due proiezioni permette di apprezzare la morfologia della frattura; i radiogrammi devono comprendere l’intero segmento scheletrico (dalla testa ai condili), in quanto non è rara l’associa­ zione di più focolai (per esempio collo e diafisi). Complicanze

Oltre alle lesioni vascolo-nervose e all’esposizione della frattura, l’anemizzazione acuta è una complicanza da temere in fase precoce. Le fratture diafisarie delle ossa lunghe dell’arto inferiore, soprattutto se non stabiliz­ zate, sono inoltre a rischio di sviluppare embolie grassose con insufficienza respiratoria acuta (ARDS). Complicanze tardive includono ritardi di consolida­ zione, pseudoartrosi e viziose consolidazioni, con pos­ sibile degenerazione artrosica delle articolazioni vicine per alterazione dell’asse di carico.

Federico A. Grassi

Terapia

Si tratta di fratture localizzate da 2 cm al di sotto del grande trocantere fino a 5 cm al di sopra dell’interlinea articolare del ginocchio. Colpiscono prevalentemente una popolazione giovaneadulta in seguito a gravi traumatismi (conseguenti a incidenti stradali, sul lavoro, sportivi) e possono essere associate ad altre fratture o lesioni (politraumi).

Nel bambino è ancora indicato il trattamento ortope­ dico con trazione e confezione precoce di un apparec­ chio gessato pelvi-podalico. Nell’adolescente o in presenza di traumi associati l’approccio chirurgico, con riduzione e sintesi con fissatori esterni o inchioda­ mento endomidollare, è più frequente. Nell’adulto la terapia è ormai esclusivamente chirur­ gica: l’intervento di riduzione-osteosintesi va eseguito

17 - Fratture dell’arto inferiore 291

Fratture del ginocchio Federico A. Grassi Sono distinte in fratture dell’estremità distale del femore, fratture della rotula e fratture del piatto tibiale. Si tratta di un gruppo eterogeneo di lesioni quanto a caratteristiche epidemiologiche e problematiche cli­ nico-terapeutiche, accomunate tuttavia dalle possibili ripercussioni sulla funzionalità del ginocchio.

Fratture Del Femore Distale

Figura 17.8   Frattura bifocale del femore destro (a), trattata con chiodo endomidollare bloccato (b). La presenza di callo osseo ( ; ) testimonia la guarigione delle fratture.

d’urgenza non appena stabilizzate le condizioni gene­ rali del paziente. Solo in casi particolari (pazienti inope­ rabili, priorità di trattamento di altre lesioni) l’intervento può essere procrastinato, ma l’arto va posto in trazione transcheletrica e sintetizzato il prima possibile. Attualmente il trattamento di prima scelta consiste nell’inchiodamento endomidollare, metodica che con­ sente di ridurre e stabilizzare la frattura a cielo chiuso, senza esporre il focolaio, conservando così l’ematoma e riducendo i rischi di infezione chirurgica. L’utilizzo di viti trasversali (chiodi bloccati) permette di esten­ dere le indicazioni anche alle fratture metafisarie, a quelle spiroidi e a quelle pluriframmentarie. I chiodi endomidollari permettono inoltre la mobilizzazione e la ripresa del carico in fase precoce (Figura 17.8). In alcuni casi (fratture gravemente esposte e contami­ nate, necessità di contenere i tempi chirurgici, perdite ematiche) possono essere indicati come mezzi di sin­ tesi temporanei o definitivi i fissatori esterni. L’utilizzo di fissatori esterni richiede un’attenta e assidua sorve­ glianza postoperatoria al fine di scongiurare disloca­ zioni secondarie e infezioni dei tramiti dei fili e delle viti percutanee. L’utilizzo di placche e viti, una volta molto diffuso, trova oggi indicazioni in rari casi.

Sulla base di un criterio anatomico si distinguono: ● fratture sovracondiloidee: sono fratture extrartico­ lari, in cui il frammento diafisario si disloca ante­ riormente e può perforare la cute esponendo il focolaio, mentre il frammento epifisario tende a estendersi (recurvare) per l’azione dei muscoli gemelli; ● fratture intercondiloidee: con rima a Y, T o V, sono articolari e conseguono a traumi ad alta energia (Figura 17.9); ● fratture unicondiloidee: interessano solo un condilo, sono articolari e conseguono a un trauma con solle­ citazione in valgismo o varismo del ginocchio; ● fratture osteocondrali: lesioni da impatto con com­ penetrazione della spongiosa e interruzione della

Figura 17.9

  Frattura intercondiloidea a V del femore distale.

292 Traumatologia

cartilagine articolare; possono essere di difficile riconoscimento, talvolta evidenziate dalla sola RM. Quadro clinico

È caratterizzato da dolore e impotenza funzionale, defor­ mità del segmento scheletrico con accorciamento e deviazione in varo o valgo, motilità preternaturale. Nelle fratture articolari è presente emartro: all’artrocentesi si riscontrano le caratteristiche gocciole lipidiche, di prove­ nienza midollare, sospese nel versamento ematico. Diagnostica per immagini

L’esame radiografico in due proiezioni è sufficiente per porre la diagnosi e la TC può fornire informazioni più dettagliate sulla frattura. In caso di sospette lesioni osteocondrali, la RM mostra le condizioni della cartila­ gine articolare e del midollo osseo sottostante. Complicanze

Le complicanze immediate sono rappresentate da lesioni vascolo-nervose (in sede poplitea) e dall’esposizione. La rigidità articolare è la più temibile complicanza tardiva: è pertanto essenziale praticare un’ostesintesi stabile che permetta una precoce mobilizzazione del ginocchio. Il rischio di degenerazione artrosica è tanto maggiore quanto minore è stata l’accuratezza della riduzione. Terapia

È quasi esclusivamente chirurgica. Trattandosi di fratture articolari o molto prossime all’articolazio­

ne, la riduzione dei frammenti e il ripristino dell’as­ se di carico devono essere anatomici. È quindi ne­ cessario ricorrere alla riduzione cruenta; inoltre la sintesi deve essere stabile per permettere una preco­ ce mobilizzazione del ginocchio. Questo risultato può essere ottenuto con l’impiego di placche periar­ ticolari o di chiodi endomidollari retrogradi (ovve­ ro inseriti dal ginocchio in direzione prossimale) (Figura 17.10). In caso di fratture gravemente esposte trovano indica­ zione come trattamento temporaneo o definitivo i fis­ satori esterni, eventualmente in configurazione ibrida (monoassiali in sede diafisaria e circolari in prossimità dell’articolazione). Solo in caso di fratture composte e nel bambino può essere indicato un trattamento incruento.

Fratture Della Rotula Le fratture della rotula conseguono solitamente a un trauma diretto sulla superficie anteriore del ginocchio: i meccanismi più comuni sono la caduta accidentale e l’impatto sul cruscotto dell’automobile in seguito a un incidente. Hanno solitamente una rima trasversale completa, con interruzione dell’apparato estensore del ginocchio (Figura 17.11), ma possono avere rime multiple fino a essere comminute.

Figura 17.10   Frattura sovracondiloidea del femore sinistro (a), trattata con chiodo retrogrado bloccato (b). Tale mezzo di sintesi viene inserito nel canale diafisario in senso disto-prossimale.

17 - Fratture dell’arto inferiore 293

Figura 17.11   Frattura della rotula sinistra: la separazione dei frammenti ossei è ben evidente in proiezione laterale (punta di freccia) (a). Controllo a 2 mesi dall’intervento di osteosintesi con fili e cerchiaggio metallici (b).

Il frammento prossimale è dislocato superiormente per azione del quadricipite. Rari i distacchi parcellari del polo superiore o inferiore da avulsione rispettiva­ mente del tendine quadricipitale e rotuleo. Quadro clinico

Sono presenti dolore e impotenza funzionale, con deficit dell’estensione attiva del ginocchio. L’articola­ zione è tumefatta per emartro, con presenza di goc­ ciole lipidiche provenienti dagli spazi midollari. Diagnostica per immagini

La diagnosi è posta mediante l’esame radiografico in due proiezioni; la frattura è più visibile in proiezione laterale. Va ricordata la relativa frequenza di rotule congenitamente bipartite, più spesso con frammento supero-esterno; nei casi dubbi è utile la radiografia comparativa del ginocchio controlaterale. La proie­ zione tangenziale di rotula si rende necessaria nei rari casi di frattura verticale o di distacchi parcellari laterali da avulsione dei legamenti alari, associati a lussazione di rotula. Complicanze

L’artrosi dell’articolazione femoro-rotulea è una com­ plicanza possibile, soprattutto in caso di fratture com­ minute e di riduzione imperfetta. Terapia

La terapia è chirurgica, fatta eccezione per le fratture composte, peraltro non frequenti. Trattandosi di frat­ ture articolari, la riduzione deve essere anatomica e la sintesi, ottenuta con fili e cerchiaggi metallici a 8 o cir­ conferenziali, la più stabile possibile per permettere la mobilizzazione precoce.

Fratture Del Piatto Tibiale Si tratta di fratture articolari dell’epifisi prossimale della tibia. Possono essere causate da cadute dall’alto, con interessamento di entrambi gli emipiatti (interno ed esterno), oppure da sollecitazioni in varismo o in valgismo (per esempio il pedone investito e colpito dal paraurti dell’auto), con frattura di un solo emipiatto e possibile associazione a lesioni legamentose. Un sottocapitolo a parte è costituito dalla frattura da avulsione delle spine tibiali, che conseguono a traumi simili a quelli che provocano la lesione dei legamenti crociati. Le fratture del piatto tibiale possono essere classificate in base alla localizzazione: ● emipiatto mediale (sollecitazione in varo); ● emipiatto laterale (sollecitazione in valgo); ● entrambi (caduta dall’alto), con eventuale estensione diafisaria. Un’ulteriore classificazione, utile sul piano della stra­ tegia terapeutica, distingue: ● fratture per separazione, con interruzione più o meno complessa della continuità scheletrica e distacco di uno o più frammenti; ● fratture con affossamento, con lesione della superficie articolare per affossamento del frammento e com­ penetrazione della spongiosa sottostante; ● fratture miste per separazione/affossamento. Quadro clinico

È quello caratteristico delle fratture articolari, con tumefazione del ginocchio per emartro (con gocciole lipidiche in sospensione). È presente dolore e impotenza funzionale, con possibile deformità assiale dell’arto e instabilità del ginocchio.

294 Traumatologia

Le eventuali lesioni capsulo-legamentose associate sono difficili da valutare in fase acuta, mentre vanno subito escluse lesioni vascolo-nervose, in particolare quelle del nervo sciatico popliteo esterno alla testa del perone per contusione diretta o stiramento. Diagnostica per immagini

Le radiografie standard in due proiezioni vanno osser­ vate attentamente e permettono di identificare la frat­ tura nella maggior parte dei casi. La TC consente di definire le caratteristiche della frattura: dimensioni e localizzazione dei frammenti, entità dell’affossa­ mento. Le fratture del piatto tibiale generalmente consolidano, ma i vizi di consolidazione sono mal tollerati. L’insuffi­ ciente riduzione di un affossamento o di una separazione porta a una deviazione assiale del ginocchio in varo o in valgo; l’imperfetto ripristino della superficie cartilaginea si traduce in un’incongruenza articolare. Entrambe que­ ste situazioni, soprattutto se è stato rimosso il menisco, portano allo sviluppo di un’artrosi precoce. Terapia

Come per le altre fratture articolari, il trattamento è chirurgico nella quasi totalità dei casi; fanno eccezione le fratture composte. L’obiettivo dell’intervento è di ottenere una riduzione anatomica con una sintesi sta­ bile che permetta una mobilizzazione precoce, al fine di prevenire rigidità post-traumatiche (Figura 17.12). In caso di separazione è sufficiente ridurre i frammenti e sintetizzarli con viti libere o con placche e viti. Nelle

forme miste o negli affossamenti puri le superfici arti­ colari vanno sollevate per via retrograda con appositi battitori; ne residua una perdita di spongiosa ossea che va colmata con innesto osseo o sostituti ossei e il tutto va poi stabilizzato con mezzi di sintesi. L’intervento può essere eseguito sotto il controllo di un amplificatore di brillanza, sotto controllo visivo diretto previa artrotomia o sotto controllo artroscopico se la frattura non è eccessivamente scomposta. L’artroscopia permette di valutare accuratamente la localizza­ zione e l’entità di un affossamento, aiuta nella riduzione e visualizza eventuali lesioni intrarticolari associate. È evenienza comune che il menisco venga leso e si frap­ ponga tra i frammenti di frattura: è essenziale, al fine di migliorare la prognosi, la reinserzione del menisco con apposite tecniche. Anche le lesioni dei legamenti colla­ terali possono essere riparate contestualmente, mentre la ricostruzione dei legamenti crociati va posticipata in un secondo tempo. In caso di fratture di entrambi gli emipiatti, esposte o gravemente comminute, con sofferenza delle parti molli, può essere indicato un trattamento con fissatori esterni, eventualmente dopo sintesi a minima dei fram­ menti articolari con viti libere. In ogni caso la sintesi deve essere sufficientemente sta­ bile da permettere una mobilizzazione precoce, anche utilizzando apparecchi per la mobilizzazione passiva continua, al fine di prevenire rigidità articolari. Il carico va invece ritardato fino a consolidazione della frattura (in genere 3 mesi), soprattutto in caso di affossamenti trattati con innesto osseo.

Figura 17.12   Frattura dell’emipiatto tibiale esterno destro con separazione del frammento articolare. All’esame radiografico la frattura appare ben evidente in proiezione antero-posteriore (freccia), mentre è di più difficile identificazione in proiezione laterale (a).Controllo a 3 mesi da intervento di osteosintesi con placca e viti (b); si noti il quadro di osteoporosi conseguente alla prolungata astensione dal carico.

17 - Fratture dell’arto inferiore 295

Le fratture da avulsione delle spine tibiali possono essere trattate con tecniche artroscopiche mediante riduzione e sintesi con cerchiaggi o viti libere.

Fratture della gamba Federico A. Grassi Le fratture della gamba possono essere distinte in frat­ ture isolate della tibia, isolate del perone e biossee (le vere e proprie fratture della gamba). Sono più spesso causate da traumi ad alta energia, sia diretti sia indiretti, ma nel paziente anziano possono essere la conseguenza di cadute banali. La loro classificazione (localizzazione, configurazione della rima di frattura ecc.) ricalca quella già esposta per le fratture diafisarie di altre ossa (omero, femore). Quadro clinico

Il quadro clinico è dominato dal dolore e dall’impo­ tenza funzionale. La gamba appare più o meno tume­ fatta e deformata, con angolazione e/o rotazione e mobilità preternaturale. L’esame fisico deve valutare eventuali lesioni vascolo-nervose e lo stato delle parti molli. Le perdite ematiche nelle fratture chiuse sono inferiori rispetto alle fratture diafisarie del femore. Diagnostica per immagini

Le radiografie standard in due proiezioni permettono di diagnosticare e classificare la frattura; è essenziale che lo studio radiografico comprenda l’intero segmen­ to scheletrico per evitare di misconoscere eventuali fratture associate.

Complicanze

Tra le complicanze vanno ricordate: ● l’esposizione della frattura: è un’evenienza frequente, in considerazione della posizione sottocutanea della tibia; in questi casi è necessario praticare in urgenza un trattamento che includa la stabilizzazione della frattura, l’asportazione dei tessuti inquinati o necro­ tici, il lavaggio profuso e la disinfezione della ferita; la zona interessata da perdita di sostanza cutanea può essere coperta con lembi oppure lasciata aperta e chiusa in un secondo tempo; una terapia antibiotica ad ampio spettro deve essere impostata subito e pro­ lungata nel tempo per evitare l’insorgenza di un’oste­ omielite; ● la sindrome compartimentale: è tanto più frequente quanto maggiore è l’energia del trauma; può insor­ gere in una o più delle quattro logge muscolari della gamba (due anteriori e due posteriori) per aumento della pressione intracompartimentale. In caso di incombente sindrome compartimentale è necessario un intervento di fasciotomia in ur­ genza; ● l’embolia grassosa: va prevenuta con una stabilizza­ zione precoce della frattura o perlomeno ponendo l’arto in trazione transcalcaneare; ● la malattia trombo-embolica: il rischio di trombosi venose profonde e di embolia polmonare è sempre presente nelle fratture dell’arto inferiore; la profi­ lassi viene eseguita con eparine a basso peso mole­ colare; ● le pseudoartrosi: sono le più frequenti complicanze tardive, insieme alle viziose consolidazioni, che pos­ sono portare nel tempo alla degenerazione artrosica delle articolazioni limitrofe.

Figura 17.13   Esempio di terapia chirurgica sequenziale in caso di frattura pluriframmentaria biossea esposta della gamba destra. Quadro radiografico al momento del trauma (a). Controllo dopo applicazione di fissatore esterno ibrido in urgenza (b). A distanza di 6 mesi, una volta escluso il rischio di infezione, rimozione del fissatore esterno e osteosintesi di tibia con chiodo endomidollare bloccato. Viene anche eseguita l’osteotomia del perone al fine di favorire il contatto dei frammenti di frattura tibiali (c). Quadro finale a 18 mesi dal trauma, dopo rimozione del chiodo: la frattura appare consolidata (d).

296 Traumatologia

Terapia

La tradizionale terapia ortopedica con apparecchio gessato femoro-podalico è ormai riservata solo ai bam­ bini, alle rare fratture composte o alle fratture isolate del perone. La frattura della tibia va ridotta e stabilizzata il più rapidamente possibile in quanto è a rischio di produrre embolie grassose. Il mezzo di osteosintesi attualmente preferito è il chiodo endomidollare bloccato; in caso di fratture esposte o con grave compromissione delle parti molli trovano indicazione, almeno in fase iniziale, i fissatori esterni (Figura 17.13) con l’eventuale associa­ zione di lembi per la copertura cutanea. L’approccio chirurgico permette, oltre alla stabilizza­ zione immediata del focolaio di frattura, la mobilizza­ zione precoce di ginocchio e caviglia, e una rapida ripresa del carico. I tempi di consolidazione sono comunque lunghi (almeno 3 mesi).

Fratture della regione tibio-tarsica Leo Massari Comprendono le fratture del pilone tibiale, le fratture malleolari e le fratture dell’astragalo.

Fratture Del Pilone Tibiale La metafisi e l’epifisi distale della tibia costituiscono il pilone tibiale, che comprende circa il 75% della super­ ficie articolare prossimale della tibio-tarsica (o tibioperoneo-astragalica). Le fratture del pilone tibiale di solito conseguono a traumi ad alta energia, quali cadute dall’alto o incidenti stradali con componenti traumatiche di compressione e torsione. Nella maggioranza dei casi alle fratture del pilone tibiale è associata anche la frattura del perone e/o del malleolo peroneale. L’interessamento della cartilagine articolare rende ragione della prognosi infelice di queste fratture, soprattutto quando prevale la componente traumatica in compressione, con evoluzione precoce e rapida verso la artrosi post-traumatica della caviglia. Classificazione

Le fratture del pilone tibiale possono essere classificate in parziali e complete: ● le fratture parziali possono interessare il margine tibiale anteriore o quello posteriore, con maggiore o minore scomposizione e affondamento;



le fratture complete vengono distinte, sulla base della classificazione proposta dall’AO (Arbeitsgemeinschaft für Osteosynthesefragen, Gruppo di lavoro per i pro­ blemi dell’osteosintesi – si veda il Capitolo 14), in tre tipi (A, B o C) a seconda della localizzazione e del grado di scomposizione, di frammentazione e di affondamento della superficie articolare.

Quadro Clinico

L’anamnesi traumatica, il dolore, il gonfiore e l’edema post-traumatico, nonchè l’impotenza funzionale, sono gli aspetti clinici caratteristici anche di queste fratture. L’esame obiettivo deve considerare la presenza di deviazioni dell’asse della tibio-tarsica. Il coinvolgi­ mento delle parti molli è tanto più importante quanto maggiore è l’energia traumatica e ciò porta alla forma­ zione di zone di sofferenza cutanea e sottocutanea con comparsa di flittene, ecchimosi o vere e proprie aree di necrosi. Diagnostica Per Immagini

La diagnosi di sede e tipo di frattura è posta con le radiografie standard in due proiezioni (antero-poste­ riore e laterale); a volte può essere utile eseguire una proiezione obliqua per la sindesmosi tibio-peroneale distale e/o una TC per meglio caratterizzare le lesioni ossee in termini di numero di frammenti, affonda­ mento della superficie articolare e scomposizione della frattura. Complicanze

L’esposizione della frattura è un evento abbastanza fre­ quente, vista la scarsa presenza di strutture muscolari nella zona antero-mediale. Sono invece rare le compli­ canze vascolo-nervose, nonostante la vicinanza con strutture vascolari e nervose (fascio tibiale anteriore e fascio tibiale posteriore). Una complicanza precoce par­ ticolarmente temibile e da valutare con attenzione, an­ che nell’ot­tica di un trattamento cruento, è rappresen­ tata dalle sofferenze cutanee e sottocutanee, che possono portare alla formazione di escare necrotiche e/o alla deiscenza delle ferite chirurgiche con infezione ossea ed esposizione di eventuali mezzi di sintesi. L’artrosi post-traumatica è una complicanza locale tardiva pur­ troppo molto frequente, a causa della sofferenza della cartilagine articolare e della componente di compres­ sione dell’evento traumatico. Terapia

Trattandosi di fratture articolari, il trattamento migliore deve porsi come obiettivo la riduzione anatomica e la stabilizzazione dei frammenti, seguite da una precoce

17 - Fratture dell’arto inferiore 297

malleolari), ambedue contemporaneamente (fratture bimalleolari) oppure anche il margine posteriore del pilone tibiale, cosiddetto terzo malleolo (fratture trimalleolari). Conseguono a traumi di tipo distorsivo della tibio-tarsica con una componente di carico non ecces­ siva e, sempre più spesso, in soggetti di età avanzata con ossa porotiche. Lo stesso meccanismo traumatico può causare, anziché una frattura malleolare, una lesione del legamento o dei legamenti che si inseri­ scono sul malleolo stesso, come il legamento deltoideo per il malleolo mediale o il legamento peroneo-astraga­ lico anteriore per il malleolo peroneale. Classificazioni

Figura 17.14   Frattura del pilone tibiale (tipo C) e del malleolo peroneale. Radiografie preoperatorie (a). Controllo dopo intervento di riduzione a cielo aperto e osteosintesi con placca conformata alla tibia e placca al perone (b).

rieducazione articolare. Questo è di regola perseguito con un trattamento chirurgico di riduzione e osteosintesi a cielo aperto, utilizzando placche dedicate e viti di vario tipo. Un intervento di osteosintesi è anche indi­ cato per il trattamento di una concomitante frattura del perone (Figura 17.14). Solamente nelle fratture complete tipo A, nelle quali non vi è scomposizione né grossolana frammenta­ zione, può trovare indicazione un trattamento conser­ vativo con apparecchio gessato femoro-podalico. Il trattamento chirurgico non va attuato in urgenza, tranne nei casi nei quali vi sia una contemporanea lus­ sazione dell’astragalo, ma va programmato monito­ rando attentamente lo stato di cute e sottocute, eventualmente dopo un periodo di trazione transche­ letrica al calcagno, per evitare di incorrere nelle perico­ lose deiscenze delle ferite chirurgiche. Nel caso di fratture esposte o di gravi frammentazioni è indicata l’applicazione di fissatori esterni tibio-astragalocalcaneari, associati a tecniche di osteosintesi a minima con fili di Kirschner o viti isolate, per ridurre quanto più possibile l’invasività della procedura chirurgica.

Le classificazioni delle fratture dei malleoli sono diverse e possono essere di tipo descrittivo o eziologico. La classificazione di Danis-Weber prende in conside­ razione la posizione della frattura del malleolo perone­ ale rispetto alla sindesmosi tibio-peroneale distale e distingue: ● frattura sottosindesmosica (tipo A); ● frattura transindesmosica (tipo B); ● frattura sovrasindesmosica (tipo C); e questo indipendentemente dalla presenza o meno di frattura del malleolo tibiale. Nell’ambito delle fratture bimalleolari si differenziano i seguenti tipi: ● frattura di Dupuytren bassa: frattura del malleolo peroneale e del malleolo tibiale; ● frattura di Dupuytren alta: frattura del terzo medio del perone e del malleolo tibiale; ● frattura di Maisonneuve: frattura del perone prossi­ male, frattura del malleolo tibiale e lacerazione della membrana interossea. La classificazione di Lauge-Hansen è invece eziolo­ gica e prende in considerazione la posizione del piede al momento del trauma e il tipo e la direzione dell’agente traumatico: ● fratture in supinazione-extrarotazione; ● fratture in supinazione-adduzione; ● fratture in pronazione-extrarotazione; ● fratture in pronazione-abduzione; ● fratture in dorsiflessione e carico verticale. Diagnosi

Fratture Dei Malleoli Le fratture malleolari possono interessare in modo iso­ lato il malleolo peroneale o quello tibiale (fratture mono-

La diagnosi di frattura malleolare viene posta, oltre che sull’anamnesi e sull’esame obiettivo, sulla base dell’in­ dagine radiografica: due proiezioni standard (anteroposteriore e laterale) sono di norma sufficienti per descriverne la sede e il tipo. In alcuni casi può essere

298 Traumatologia

Figura 17.15   Frattura bimalleolare (tipo B secondo Danis-Weber, pronazione-abduzione secondo Lauge-Hansen). Radiografie preoperatorie (a). Controllo dopo intervento di osteosintesi con placca e viti del perone, con in più vite transindesmosica e due viti libere al malleolo tibiale (b).

utile una proiezione obliqua a 20° per meglio evidenziare la sindesmosi tibio-peroneale distale; è inoltre buona regola includere nello studio la parte prossimale della gamba per riconoscere eventuali fratture di Maison­ neuve. La TC può essere dirimente nei casi dubbi e nei casi di contemporaneo interessamento dell’astragalo. Complicanze

Rare le complicanze immediate a carico del fascio vascolo-nervoso mediale. Le complicanze più frequenti sono: ● lesioni capsulo-legamentose associate (lesione del lega­ mento deltoideo mediale associato a frattura del malleolo peroneale, lesione dei legamenti della sin­ desmosi tibio-peroneale distale); ● lesioni osteo-condrali del corpo dell’astragalo (valutabili di solito con RMN a distanza da trauma); ● artrosi post-traumatica della tibio-tarsica (fratture arti­ colari). Terapia

Anche le fratture dei malleoli sono da considerare frat­ ture articolari e, in quanto tali, il loro trattamento deve prevedere la riduzione anatomica e la stabilizzazione meccanica ottimale per una rieducazione articolare precoce. Il trattamento conservativo con apparecchi gessati è riservato esclusivamente alle fratture composte.

Nelle fratture scomposte, anche di poco, si esegue la riduzione e l’osteosintesi a cielo aperto e l’eventuale ricostruzione, peraltro poco frequente, dei legamenti lesionati. Se è presente una lesione della sindesmosi tibio-pero­ neale distale, si procede alla stabilizzazione della stessa con una vite che deve essere rimossa precocemente (entro 35-40 giorni) per consentire la mobilizzazione dell’articolazione tibio-tarsica (Figura 17.15). L’intervento chirurgico deve essere praticato nelle prime ore dopo il trauma per evitare la comparsa di edema post-traumatico e flittene cutanee. Nei rari casi di fratture esposte il trattamento deve essere effettuato in urgenza con lavaggi abbondanti delle lesioni cutanee, terapia antibiotica per via siste­ mica e osteosintesi con l’utilizzo di mezzi di sintesi a minima invasività (fili di Kirschner).

Fratture Dell’astragalo L’astragalo è l’osso che si articola con il mortaio tibioperoneale a formare l’articolazione tibio-tarsica, con il calcagno a formare l’articolazione sottoastragalica e con lo scafoide tarsale a formare parte dell’articolazione di Chopart (mediopiede). L’astragalo non ha inserzioni tendinee ma solamente capsulo-legamentose e ha una vascolarizzazione di tipo terminale.

17 - Fratture dell’arto inferiore 299

Le fratture dell’astragalo sono conseguenza, di solito, di cadute dall’alto con dorsiflessione del piede sulla tibia ovvero di traumi complessi con componenti di carico e torsione. Dal punto di vista classificativo si distinguono: ● fratture marginali delle apofisi (tubercolo posteriore o os trigonum); ● fratture del corpo, associate o meno a lussazione; ● fratture del collo, le più frequenti e pericolose, in quanto a elevato rischio di necrosi post-traumatica del corpo a causa della vascolarizzazione di tipo terminale. Diagnosi

La diagnosi di frattura dell’astragalo non sempre è agevole, anche perché spesso è associata a lesioni diverse nell’ambito di un politrauma. Nei casi di frat­ ture scomposte il dolore, la tumefazione e l’impotenza funzionale dominano il quadro clinico. Le radiografie standard permettono, nei casi più gravi, di fare diagnosi. Nei casi dubbi la TC è quasi sempre dirimente e diagnostica. Complicanze

La complicanza più temuta è la necrosi del corpo dell’astragalo secondaria alla frattura del collo. La

necrosi è frequente nelle fratture scomposte e porta a un’invalidante artrosi secondaria della tibio-tarsica. L’artrosi post-traumatica è una complicanza caratteri­ stica delle fratture scomposte del corpo dell’astragalo. Trattamento

Nelle fratture composte l’immobilizzazione con gam­ baletto gessato è sufficiente per portare a guarigione senza reliquati particolari; è tuttavia necessario osser­ vare un periodo di astensione dal carico per 3-4 mesi. Nelle fratture scomposte il trattamento chirurgico di osteosintesi a cielo aperto (con viti e/o fili di Kirsch­ ner) è quello più indicato per ridurre e stabilizzare la lesione, riducendo al minimo il rischio di complicanze (Figura 17.16).

Fratture del calcagno Leo Massari Il calcagno è l’osso sul quale gravita la maggior parte del carico corporeo durante il cammino e la stazione eretta e sul quale si inserisce il tendine d’Achille, il più grosso e potente dell’uomo. Il calcagno è costitu­ ito per il 70% da osso spongioso e per il 30% da osso corticale. Le fratture del calcagno sono conseguenza di traumi in compressione, come le cadute dall’alto, e avvengono spesso con un meccanismo di scoppio. Classificazione

La classificazione delle fratture del calcagno è di tipo descrittivo anatomico e distingue: ● fratture talamiche (che interessano la superficie arti­ colare sottoastragalica): – con separazione – con infossamento – comminute ● fratture delle apofisi: – grande tuberosità posteriore – substentaculum tali – apofisi anteriore. Quadro Clinico

Figura 17.16  Osteosintesi con vite tipo Herbert di frattura del collo dell’astragalo.

Il quadro clinico delle fratture del calcagno è variabile, dipendendo dall’energia traumatica: il dolore e l’im­ potenza funzionale possono essere lievi oppure invali­ danti a seconda del tipo di lesione e del grado di scomposizione. Nelle fratture più gravi la tumefazione post-traumatica è imponente e può causare una soffe­ renza cutanea importante con presenza di flittene ed ecchimosi nel retropiede.

300 Traumatologia

Figura 17.17   L’angolo di Böhler è originato dall’intersezione della linea che unisce il bordo superiore della tuberosità posteriore e il punto più alto del talamo (a) con la linea che unisce questo punto e l’apice dell’apofisi anteriore (b).

Nei casi di gravi cadute dall’alto (precipitazioni) biso­ gna sempre ricercare lesioni scheletriche (colonna ver­ tebrale, bacino) e/o viscerali associate. Diagnostica Per Immagini

L’esame radiografico è di solito sufficiente per fare diagnosi di frattura del calcagno, ma nelle fratture talamiche deve essere associato alla TC per meglio valutare il grado di interessamento articolare e di

scomposizione. Sui radiogrammi si possono effet­ tuare misurazioni angolari (angolo di Böhler) che con­ sentono di evidenziare la deformità post-traumatica (Figura 17.17). Utilizzando le proiezioni coronali della TC si possono differenziare le fratture talamiche in quattro tipi secondo la classificazione di Sanders, che si basa sul numero e sulla localizzazione dei frammenti articolari sottoastragalici (Figura 17.18).

Figura 17.18   Classificazione delle fratture talamiche del calcagno secondo Sanders. M = mediale, C = centrale, L= laterale.

17 - Fratture dell’arto inferiore 301

Figura 17.19   Frattura talamica con infossamento della superficie articolare sotto-astragalica (a); controllo dopo riduzione a cielo aperto e stabilizzazione con placca multifori (b).

Complicanze

Le principali complicanze delle fratture del calcagno includono l’artrosi post-traumatica della sottoastragalica nelle fratture talamiche e la tendinopatia dei tendini pero­ nei, lungo e breve, conseguente al conflitto tra questi e la parete laterale fratturata e mal consolidata del calcagno. Terapia

Nelle fratture composte o con lieve scomposizione si può effettuare un trattamento conservativo in appa­ recchio gessato (stivaletto) e astensione dal carico per 6-8 settimane. Nelle fratture parcellari, in particolare della grande tuberosità posteriore, si deve eseguire la riduzione, a cielo chiuso o aperto, seguita dall’osteosintesi con fili di Kirschner o viti libere. Le fratture talamiche scomposte, essendo fratture arti­ colari, vanno trattate chirurgicamente con interventi di osteosintesi a cielo aperto: la riduzione deve essere la più anatomica possibile, la sintesi effettuata mediante fili di Kirschner o placche dedicate, e l’angolo di Böhler deve essere ripristinato (Figura 17.19). La perdita di sostanza ossea dovuta alla compenetrazione delle tra­ becole può talvolta richiedere il riempimento del difetto con innesto osseo. Per evitare complicanze legate alla sofferenza e all’even­ tuale deiscenza della ferita chirurgica, l’intervento deve essere praticato entro le prime 24 ore oppure dopo alcuni giorni di trattamento farmacologico e scarico per ridurre l’ecchimosi e l’edema post-traumatico.

Fratture da stress

stante tessuto osseo spongioso. Sono lesioni tipiche dello sportivo. Per definizione sono fratture incomplete; tuttavia, se il meccanismo lesivo che le provoca si perpetua, pos­ sono dare luogo a fratture complete del segmento interessato. La comparsa di una frattura da stress è da porre in relazione a carichi di lavoro eccessivi, ripetitivi e ciclici sullo scheletro per un lungo periodo di tempo. L’entità dei carichi di lavoro è a sua volta influenzata da alcuni parametri: intensità, frequenza, direzione, modalità di applicazione, tempi di recupero. La risposta fisiologica dell’osso alle sollecitazioni si manifesta con un processo di rimodellamento, con apposizione ossea nelle zone sollecitate e riassorbimento nelle zone non sollecitate. In questo senso la frattura da stress può essere considerata il risultato di uno squilibrio temporaneo tra apposizione e riassorbi­ mento: la lesione si verificherebbe per eccesso di rias­ sorbimento. Localizzazione

Le fratture da stress interessano quasi esclusivamente i segmenti scheletrici degli arti inferiori. In ordine di frequenza si osservano a livello di: ● tibia (45-50%); ● perone (12-15%); ● metatarsi (15-20%): la frattura della base del V meta­ tarso, anche denominata frattura di Jones, è una lesione tipica del marciatore; ● femore (5-8%); ● calcagno e scafoide tarsale (rare); ● bacino e tetto acetabolare (rare); ● osso sacro e vertebre (rare).

Federico A. Grassi Le fratture da stress, altrimenti dette fratture da fatica o da durata, sono soluzioni di continuo dell’osso che inte­ ressano la corticale, con possibile estensione al sotto­

La localizzazione all’arto superiore (omero, ulna) è eccezionale. Fratture da stress bilaterali si riscontrano nel 25% dei casi, mentre nel 10% circa si osservano localizzazioni multiple.

302 Traumatologia

Eziopatogenesi

Sono state proposte due teorie per spiegare le cause delle fratture da stress. ● Teoria del sovraccarico: si basa sul fatto che alcuni gruppi muscolari si contraggono in maniera tale (ripetitiva, intensa e prolungata) da causare la fles­ sione dell’osso sul quale si inseriscono. Per esempio la contrazione dei muscoli del polpaccio nel marcia­ tore può determinare la flessione anteriore della tibia come un arco: dopo ripetute contrazioni, viene oltrepassata la resistenza intrinseca della tibia che va incontro a lesione sulla corticale anteriore. ● Teoria della fatica: presuppone l’esauribilità dell’effi­ cienza muscolare a seguito di sforzi ripetuti e pro­ tratti. I muscoli, stimolati oltre le loro capacità di resistenza, non sono più in grado di sostenere l’im­ patto al suolo del segmento scheletrico interessato;



il carico viene quindi trasferito direttamente allo scheletro, con superamento della sua soglia di tolle­ ranza e cedimento strutturale. Alcuni fattori predisponenti favoriscono l’insor­ genza di fratture da stress, quali dimorfismi schele­ trici (tibia vara, piede piatto o cavo ecc.), eterometrie degli arti inferiori, disturbi alimentari, calzature incongrue, qualità del terreno e, naturalmente, il tipo di attività sportiva (maratona, marcia, salto ecc.).

Quadro clinico

Il dolore è il sintomo caratteristico: può comparire in modo insidioso e graduale, così come in maniera acuta. L’anamnesi è tuttavia negativa per episodi macrotrau­ matici. Il dolore è ben localizzato, tende a comparire all’inizio del carico o dopo attività, migliorando solo

Figura 17.20   Frattura da stress della corticale anteriore della diafisi tibiale. La radiografia in proiezione laterale mostra un ispessimento e una sclerosi localizzata della corticale, in cui è apprezzabile una fissurazione del tessuto osseo (riquadro) (a). La sezione sagittale TC permette di apprezzare le caratteristiche della lesione in modo più definito (b).

17 - Fratture dell’arto inferiore 303

con il riposo. Spesso è persistente ed è avvertito anche di notte. L’impotenza funzionale è variabile secondo il tipo, la sede e lo stadio della malattia. A livello dell’area col­ pita si possono rilevare edema e tumefazione dolorosa alla palpazione. Diagnostica per immagini

Per la diagnosi delle fratture da stress, le radiografie standard dimostrano alta specificità, ma bassa sensi­ bilità (Figura 17.20a). Sono relativamente frequenti i pazienti con anamnesi e quadro clinico indicativi di frattura da fatica, ma con quadro radiografico assolu­ tamente negativo, almeno per le prime 2-3 settimane dalla comparsa dei sintomi. Solamente nel 40-50% dei casi la radiografia è in grado di mostrare le altera­ zioni scheletriche in fase iniziale; è quindi importante eseguire un secondo controllo radiografico nel tempo se il primo è risultato negativo e se persiste la sinto­ matologia dolorosa. Quando la radiografia è positiva, non vi è la necessità di ricorrere a ulteriori esami strumentali. L’esecuzione della TC o della RM può essere utile sia per la stadiazione delle lesioni sia per porre la diagnosi differenziale (tumori, infezioni) nei casi con quadro radiografico negativo o dubbio (Figura 17.20b). La scintigrafia ossea con tecnezio si rende necessaria qualora esista il forte sospetto di una frattura da stress con radiogrammi negativi. Questo esame possiede alta sensibilità (100%) e bassa specificità. L’ipercaptazione

del tracciante in sede di frattura si manifesta assai pre­ cocemente, 48-72 ore dopo la comparsa dei sintomi. Terapia

La terapia delle fratture da stress si basa sul riposo, di durata variabile in rapporto alla sede e al tipo di lesione, ma comunque sufficiente a garantire la ristrut­ turazione dell’osso. In genere è necessario un periodo da 4 a 12 settimane per ottenere la risoluzione della sintomatologia e la guarigione radiografica. In fase iniziale può rendersi necessario il ricorso ad apparecchi gessati o tutori di immobilizzazione (2-4 settimane), all’uso di bastoni canadesi e di ortesi per la ripresa del carico. Per il controllo del dolore ci si avvale di farmaci anal­ gesici-antinfiammatori. La terapia fisica (magnetoterapia) è spesso utilizzata come adiuvante per indurre la guarigione; alcuni autori hanno riportato buoni risultati con le onde d’urto. Il trattamento chirurgico (inchiodamento nelle fratture da stress di tibia e femore, osteosintesi con vite nella frattura di Jones) viene preso in considerazione solo in seconda istanza, una volta verificato il fallimento della terapia conservativa. Nella prevenzione delle fratture da stress è necessario porre particolare attenzione su aspetti di tipo anatomofunzionale (per esempio impiego di ortesi in caso di piede piatto o cavo, calzature idonee), ambientale (ter­ reni di allenamento) e comportamentale (programmi adeguati di allenamento).

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capitolo

Lesioni traumatiche delle articolazioni

18

Federico A. Grassi, Giorgio Pilato, Giovanni Zatti, Giorgio Gasparini

Generalità

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Federico A. Grassi Le articolazioni sono le strutture di congiunzione delle ossa: oltre a permettere il movimento reciproco tra i diversi segmenti scheletrici, sono un elemento essenziale per garantire la stabilità del corpo in condizioni statiche e dinamiche (Box 18.1). Lesioni traumatiche a loro carico si possono tradurre in quadri di compromissione clinico-funzionale invalidanti, non solo in ambito sportivo, ma anche per la normale vita di relazione. Sollecitazioni traumatiche di diversa entità possono produrre un danno sulle strutture articolari così come modificare i rapporti spaziali tra i capi articolari. Le caratteristiche anatomo-funzionali delle singole articolazioni condizionano gli effetti prodotti dal trauma, predisponendo alcune sedi a una maggiore incidenza di lesioni. I quadri traumatici articolari includono le distorsioni e le lussazioni.









Grado 0: consiste nella “distorsione” propriamente detta, in cui non si osserva alcun danno anatomico. Grado 1: si osserva una distrazione delle strutture capsulo-legamentose, senza interruzione della loro continuità. Grado 2: la rottura capsulo-legamentosa è parziale e si assiste a una reazione articolare per interessamento della membrana sinoviale. Grado 3: è caratterizzato da una lacerazione completa della struttura capsulo-legamentosa, che può essere interrotta nella sua porzione intermedia o disinserita a livello prossimale o distale; si associa a emartro.

Un trauma distorsivo può produrre lesioni di altro tipo rispetto a quelle capsulo-legamentose: per esempio nei bambini è più facilmente causa di distacchi epifisari o fratture, e nel ginocchio può determinare una rottura meniscale in assenza di un danno legamentoso significativo. Si comprende pertanto come la distorsione debba essere considerata un meccanismo traumatico piuttosto che un quadro patologico, quest’ultimo più propriamente definito in base a criteri anatomici.

Distorsioni

Lussazioni

La distorsione è un trauma che sollecita l’articolazione oltre il limite normale o secondo piani diversi da quelli del movimento fisiologico, con possibile perdita temporanea e parziale dei rapporti articolari. Gli effetti di una distorsione sono assai variabili e, in base al danno prodotto sulle strutture capsulo-legamentose, si possono distinguere quattro gradi di gravità.

La lussazione è la perdita completa e permanente dei rapporti tra due capi articolari. Si differenzia dalla sublussazione, in cui è conservato un contatto parziale tra le superfici articolari. La direzione della lussazione è determinata dallo spostamento del capo articolare distale: così, per esempio, nella lussazione anteriore del ginocchio è la tibia a dislocarsi anteriormente (Figura 18.1).

306 Traumatologia

Box 18.1

Classificazione delle articolazioni

Le articolazioni possono essere ricondotte a due tipi fondamentali: le sinartrosi (o articolazioni per continuità) e le diartrosi (o articolazioni per contiguità). ● Sinartrosi: includono la sutura, la gonfosi, la sincondrosi, la sinostosi e l’anfiartrosi. Non permettono alcun movimento, a eccezione dell’anfiartrosi (per esempio, articolazioni intersomatiche vertebrali, sinfisi pubica) che consente spostamenti limitati. ● Diartrosi: sono le articolazioni che, per la loro costituzione, garantiscono una certa indipendenza alle ossa che le costituiscono. In base alla conformazione dei capi articolari si distinguono i seguenti tipi: – artrodia, con superfici articolari piane (per esempio, l’articolazione acromio-claveare): permette movimenti di scivolamento; – articolazione trocoide (o ginglimo laterale), con un segmento di cilindro che si adatta a una superficie concava (per esempio, le articolazioni radioulnari): permette il solo movimento di rotazione; – articolazione trocleare (o ginglimo angolare), con un segmento di cilindro a forma di puleggia e una superficie concava percorsa da una cresta (per esempio, l’articolazione omero-ulnare): permette il movimento in flesso-estensione; – articolazione condiloidea, con una superficie convessa ellissoide (condilo) e l’altra concava in modo corrispondente (per esempio, l’articolazione radiocarpica): permette movimenti in flesso-estensione, abduzione-adduzione, circumduzione; – articolazione a sella, in cui ciascuna delle superfici articolari è convessa in un senso e concava nell’altro, con un incastro reciproco (per esempio articolazione trapezio-metacarpale): permette gli stessi movimenti dell’articolazione condiloidea; – enartrosi, con un segmento di sfera che si adatta a una superficie più o meno concava (per esempio, spalla, anca): permette movimenti in tutte le direzioni.

Le lussazioni traumatiche possono verificarsi se la forza lesiva vince la resistenza offerta dalle strutture di contenzione (capsula, legamenti, cercini articolari, superfici articolari ecc.), producendo un danno su di esse così come avviene nelle distorsioni gravi. In alcuni casi il traumatismo causa una concomitante frattura a carico di uno o entrambi i capi articolari, dando origine a una frattura-lussazione. I principi che guidano la terapia delle lussazioni in fase acuta sono semplici: è necessario eseguire la riduzione, ovvero ristabilire i normali rapporti articolari, nel più breve tempo possibile e immobilizzare l’articolazione in una posizione di stabilità.

Figura 18.1   Quadro radiografico di una rara lussazione antero-mediale di ginocchio (destro): la direzione della lussazione è determinata dallo spostamento del capo articolare distale, in questo caso la tibia. Proiezione antero-­ posteriore (a); proiezione laterale (b).

Il trattamento successivo sarà influenzato dal quadro anatomo-patologico e dalle caratteristiche del singolo paziente. Caratteristiche cliniche

Un’articolazione che ha subìto una distorsione moderata o grave dà origine a un quadro sintomatologico caratterizzato da: ● dolore, evocabile con la palpazione nella sede di lesione capsulo-legamentosa; ● tumefazione, per versamento intrarticolare (idrartro o emartro, quest’ultimo a comparsa più precoce) o stravaso emorragico extrarticolare; ● eventuale lassità articolare, in caso di lacerazione completa di un uno o più compartimenti legamentosi; questo segno può essere di difficile valutazione in fase acuta a causa del dolore. I segni clinici di una lussazione sono più evidenti: ● il dolore è accompagnato da un atteggiamento di difesa con impossibilità pressoché completa a eseguire movimenti attivi e passivi; ● in caso di articolazioni a localizzazione superficiale, è apprezzabile l’alterazione del normale profilo anatomico (Figura 18.2). L’esame radiografico deve sempre essere eseguito per escludere concomitanti lesioni scheletriche e, nel caso delle lussazioni, per verificare il ripristino dei normali rapporti articolari dopo la manovra di riduzione. Principi di terapia

Le distorsioni non devono essere sottovalutate, come avviene di frequente. Lo scopo della terapia è quello

18 - Lesioni traumatiche delle articolazioni 307

Box 18.2 Articolazione scapolo-omerale

Figura 18.2   La tipica alterazione del profilo anatomico che si osserva nel soggetto magro con lussazione anteriore della spalla: l’acromion ( ) appare prominente per appiattimento della regione deltoidea (linea continua), normalmente arrotondata. La testa omerale è palpabile nella sede di dislocazione (linea tratteggiata).

di favorire la guarigione delle strutture capsulolegamentose lesionate in modo da recuperarne l’efficienza funzionale. Questo può essere conseguito con l’immobilizzazione in tutori o apparecchi gessati per un periodo variabile tra le 2 e le 4 settimane a seconda della sede. In alcuni casi il danno anatomo-patologico è tale da richiedere la terapia chirurgica, con interventi riparativi o ricostruttivi da eseguire in fase acuta o una volta recuperata la funzione articolare.

L’articolazione scapolo-omerale (o gleno-omerale) è un’enartrosi caratterizzata da una marcata sproporzione tra le dimensioni dei capi articolari. La testa omerale ha infatti un’area circa 3 volte superiore a quella della cavità glenoidea, la cui superficie è peraltro quasi piatta. Tale configurazione condiziona un’instabilità “intrinseca” della spalla, necessaria a garantirne la più ampia mobilità nei diversi piani dello spazio. Il mantenimento dei normali rapporti scapolo-omerali dipende da diversi meccanismi, che entrano in gioco a stadi successivi. Sollecitazioni minime, come quelle prodotte dal peso dell’arto superiore per effetto della gravità, sono contrastate da meccanismi passivi quali la pressione intrarticolare negativa e il fenomeno di adesione-coesione tra i capi articolari. A forze dislocanti di maggiore intensità, esercitate dall’azione di potenti gruppi muscolari che agiscono sulla spalla (deltoide, grande pettorale, grande dorsale), viene invece a opporsi l’azione dinamica dei muscoli della cuffia dei rotatori, che mantengono depressa la testa omerale sulla glenoide. Infine, la resistenza agli stress massimali, come la violenta sollecitazione in abduzione-extrarotazione-estensione a cui la spalla può essere sottoposta in occasione di una caduta, è affidata all’apparato capsulo-legamentoso e non può prescindere da una normale configurazione dei capi ossei.

Complicanze

Complicanze immediate includono le lesioni vascolonervose e miotendinee osservabili in associazione ad alcune lussazioni (per esempio la lesione del nervo sciatico nelle lussazioni posteriori dell’anca e la rottura della cuffia dei rotatori nelle lussazioni della spalla in età non giovanile). Le più frequenti complicanze tardive sono: ● la rigidità articolare, conseguente a periodi di immobilizzazione troppo prolungati; ● l’instabilità, ovvero la tendenza cronica alla perdita dei rapporti articolari, per un danno capsulolegamentoso permanente.

Lussazioni e instabilità della spalla Federico A. Grassi La spalla è l’articolazione in cui la perdita dei rapporti articolari si verifica con maggiore frequenza (Box 18.2). La

lussazione (o la sublussazione) scapolo-omerale può rappresentare un evento isolato, ma in genere tende a riprodursi nel tempo, configurando un quadro di instabilità. L’instabilità della spalla è una condizione che comprende quadri anatomo-clinici diversi, tutti caratterizzati da un’insufficiente contenzione della testa omerale nella cavità glenoidea della scapola.

Lussazioni La lussazione della spalla può essere causata da traumi a bassa energia (per esempio le cadute accidentali) e ad alta energia (per esempio gli incidenti motociclistici). Si tratta comunque di sollecitazioni che agiscono con un meccanismo indiretto sull’articolazione, essendo trasmesse da impatti su porzioni più distali dell’arto superiore. La testa omerale è forzata all’esterno per effetto di un’azione di leva o per il superamento delle resistenze capsulo-legamentose ai massimi gradi del movimento.

308 Traumatologia

Figura 18.3   Lussazione gleno-omerale anteriore: la testa omerale è dislocata al di sotto della coracoide (a). Lussazione gleno-omerale antero-inferiore: in questo caso l’epifisi prossimale dell’omero entra in contatto con il margine glenoideo antero-inferiore; non è presente un atteggiamento coatto in abduzione della spalla come avviene nella lussazione erecta (si veda la Figura 18.5) (b).

Classificazione e quadri anatomo-clinici

In base alla direzione della fuoriuscita della testa omerale dalla cavità glenoidea, la lussazione della spalla può essere anteriore, inferiore o posteriore. Lussazione anteriore  È

il tipo di gran lunga più frequente, nella quale la testa omerale si disloca di regola al di sotto della coracoide (Figura 18.3) a seguito di una sollecitazione in abduzione, rotazione esterna e estensione di grado variabile (si veda la Figura 18.7). Oltre al dolore e all’impotenza funzionale dell’arto, il quadro clinico è caratterizzato dall’alterazione del profilo anatomico, con appiattimento della regione deltoidea e prominenza dell’acromion (segno della spallina) (si veda la Figura 18.2). Alla palpazione, l’estremità prossimale dell’omero può essere apprezzata in sede mediale, soprattutto ese-

guendo una cauta mobilizzazione. L’esame radiografico, oltre a dirimere i dubbi diagnostici, consente di identificare eventuali fratture associate: nelle lussazioni anteriori queste includono il distacco del trochite, la frattura da compressione postero-laterale della testa omerale, la cosiddetta lesione di Hill-Sachs (Figura 18.4), e la frattura di una porzione più o meno estesa del margine anteriore della glena scapolare. Per una migliore definizione delle lesioni scheletriche è preferibile eseguire anche una TC della spalla. Lussazione inferiore (sottoglenoidea)  Il

meccanismo patogenetico è analogo a quello della lussazione anteriore, con una maggiore spinta della testa omerale in senso inferiore. Può caratterizzarsi per un atteggiamento in abduzione irriducibile della spalla, e in questo caso è anche definita erecta (Figura 18.5).

Figura 18.4  Meccanismo patogenetico della lesione di Hill-Sachs nella lussazione anteriore di spalla. Il margine glenoideo anteriore determina un’infossatura del versante postero-laterale della testa omerale (a). La lussazione anteriore prosegue: aumenta l’ampiezza del difetto della testa omerale (b). La persistenza dell’infossatura dopo la riduzione è causa di instabilità e predispone alla recidiva della lussazione (c).

18 - Lesioni traumatiche delle articolazioni 309

riore, mentre è di facile identificazione con una visione ascellare e/o laterale della scapola (Figura 18.6). Complicanze

Le complicanze delle lussazioni di spalla includono le lesioni neuro-vascolari e la rottura della cuffia dei rotatori. Lesioni neuro-vascolari  Il nervo ascellare (o circon-

Figura 18.5   Lussazione inferiore della spalla destra con blocco in abduzione del braccio (lussazione erecta): la testa omerale (*) appare dislocata al di sotto della glenoide (>).

Lussazione posteriore  Soprattutto

se conseguente a traumi di una certa intensità, è più spesso associata a fratture da compressione della porzione antero-mediale della testa omerale (lesione di Hill-Sachs inversa). La testa omerale viene forzata in direzione posteriore a spalla atteggiata in flessione e adduzione. Un segno clinico patognomonico è rappresentato dal blocco della rotazione esterna della spalla, un reperto che non si associa ad altre lussazioni o fratture, e che deve essere sempre ricercato. Lo studio radiografico richiede particolare attenzione: infatti la lussazione posteriore è spesso misconosciuta con una singola proiezione antero-poste-

flesso) è la struttura più frequentemente interessata. Un possibile danno a suo carico deve essere ricercato in maniera sistematica mediante la valutazione dell’attività contrattile del muscolo deltoide e della sensibilità cutanea nella zona sovrastante. La paralisi posttraumatica del nervo ascellare è fortunatamente transitoria nella massima parte dei casi e la ripresa di una normale attività neuro-muscolare deve essere verificata mediante l’esecuzione di ripetuti esami elettromiografici. Il nervo radiale e quello muscolo-cutaneo vengono lesionati con minore frequenza rispetto al nervo ascellare. La lesione dell’arteria circonflessa anteriore si verifica per strappamento dalla sua origine dall’arteria ascellare. In alcuni casi può essere richiesto un trattamento chirurgico d’urgenza per tamponare la conseguente emorragia. Rottura della cuffia dei rotatori  Questa

complicanza interessa i soggetti oltre i 40 anni d’età, poiché l’indebolimento su base degenerativa di questi tendini agisce come fattore predisponente. La lussazione rappresenta spesso il fattore responsabile dell’aggravamento di una rottura preesistente della cuffia. Il danno tendineo deve essere ricercato con l’esame clinico e confermato con un’ecografia o, preferibilmente, con una RM della spalla eseguita in tempi brevi.

Figura 18.6   Lussazione posteriore della spalla destra. Rx in proiezione antero-posteriore: la perdita dei rapporti articolari è di difficile riconoscimento a causa della sovrapposizione dei capi articolari (a). Rx in proiezione ascellare; la testa omerale appare incastrata al margine glenoideo posteriore. Questa situazione rende impossibile il movimento in rotazione esterna della spalla (b). * = testa omerale; < = glenoide; = processo coracoideo.

310 Traumatologia

Terapia

La riduzione di una lussazione gleno-omerale può verificarsi in modo spontaneo subito dopo il trauma ma, se questo non si verifica, deve essere eseguita nel più breve tempo possibile. Le manovre necessarie per ripristinare i normali rapporti articolari possono essere tentate a paziente sveglio, ma sono praticate in modo più agevole e meno traumatico dopo sedazione. La riduzione può essere realizzata con la trazione dell’arto, la rotazione della spalla e la spinta diretta sulla testa omerale, praticate e combinate in modo diverso a seconda dei casi. Una volta ridotta, la spalla deve essere immobilizzata per un periodo di tempo variabile in relazione al numero di lussazioni pregresse e all’età del paziente. Nel caso di primo episodio traumatico in un soggetto giovane, è preferibile protrarre la tutela dell’arto superiore per 3 settimane al fine di favorire la guarigione delle strutture capsulo-legamentose lesionate. Il periodo di immobilizzazione può essere ridotto in caso di lussazioni recidivanti e deve essere comunque ridotto nei pazienti oltre i 50 anni, per evitare l’insorgenza di rigidità articolari di difficile risoluzione. È necessario un programma di riabilitazione in due fasi (mobilizzazione e potenziamento muscolare) per il recupero di una normale funzionalità della spalla.

Instabilità L’instabilità di spalla è un’affezione cronica, caratterizzata dalla tendenza alla perdita dei rapporti articolari scapolo-omerali. Classificazione e quadri anatomo-clinici

Tra le varie classificazioni proposte, quella che meglio si adatta alla pratica clinica si basa sulla patogenesi della condizione e prevede una distinzione in forme post-traumatiche e forme atraumatiche. Questa dicotomia è in realtà una semplificazione, poiché la patologia da instabilità è rappresentata da uno spettro di quadri morbosi, in cui un fattore acquisito (trauma o microtraumi ripetuti) può agire su un fattore costituzionale (lassità capsulo-legamentosa) nel causare l’insorgenza della sintomatologia. Per riassumere il quadro anatomo-clinico delle principali forme di instabilità, sono stati proposti dagli autori di lingua anglosassone due acronimi, TUBS e AMBRI (Tabelle 18.1 e 18.2). Instabilità tubs  È anteriore nel 95% dei casi. La diagnosi viene di regola posta con facilità, anche in base alla semplice raccolta anamnestica. La valutazione del primo episodio di lussazione riveste particolare importanza per identificare la natura traumatica della condi-

Tabella 18.1

 Instabilità TUBS.

T = T raumatic: lussazione o sublussazione traumatica in anamnesi U=U  nilateral: la testa omerale si disloca in un’unica direzione B = Bankart: presenza di una lesione di Bankart S = Surgery: necessità di terapia chirurgica

Tabella 18.2

 Instabilità AMBRI.

A=A  traumatic: insorta senza alcun episodio traumatico M=M  ultidirectional: la testa omerale si disloca in più direzioni B=B  ilateral: tende a manifestarsi in entrambe le spalle R=R  ehabilitation: la terapia iniziale consiste nella fisio-kinesiterapia I = Inferior capsule: in caso di terapia chirurgica è necessario intervenire sulla porzione inferiore della capsula

zione: una sollecitazione violenta, la difficoltà nella riduzione e un dolore persistente per qualche giorno sono tutti elementi che aiutano a individuare la patogenesi della condizione. Con il ripetersi degli episodi di dislocazione scapoloomerale, la perdita dei rapporti articolari tende a verificarsi con maggiore facilità e frequenza. I pazienti sono più spesso asintomatici nei periodi compresi tra una lussazione e l’altra, ma alcuni possono lamentare dolore ogni volta che pongono il braccio in una posizione “a rischio”. Nell’instabilità anteriore, questa è rappresentata da una combinazione di abduzione, rotazione esterna ed estensione (Figura 18.7); in quella posteriore dall’adduzione a spalla flessa con una spinta in senso antero-posteriore. Anche la contrazione di alcuni gruppi muscolari, primi tra tutti gli adduttori (grande pettorale e grande dorsale), possono favorire la fuoriuscita della testa omerale dalla cavità glenoidea. Instabilità ambri  In questo tipo di instabilità un ruolo

patogenetico di primaria importanza è svolto da un fattore costituzionale: l’eccessiva lassità capsulolegamentosa, che può essere localizzata alla sola spalla oppure generalizzata. Su questa condizione predisponente possono agire traumi di diversa entità o microtraumi ripetuti (per esempio in atleti con reiterate sollecitazioni alle spalle, come nel nuoto, nella pallavolo ecc.) che possono scatenare o aggravare la sintomatologia. La spalla tende a dislocarsi in una direzione prevalente, ma mostra un’eccessiva mobilità in tutte le direzioni.

18 - Lesioni traumatiche delle articolazioni 311

Figura 18.7   Test  dell’apprensione per l’instabilità anteriore: la spalla è forzata in abduzione (A), rotazione esterna (B) ed estensione (C).

Alcuni pazienti sono in grado di lussare o sublussare la spalla in modo volontario, rendendo vano qualsiasi intervento terapeutico in assenza di una rieducazione comportamentale. Esame clinico

Oltre a una valutazione globale della funzionalità articolare, l’esame clinico della spalla instabile include manovre semeiologiche che possono essere distinte in due gruppi principali. ● Test provocativi o di apprensione, volti a riprodurre il meccanismo di dislocazione provocando una reazione di difesa o disagio da parte del paziente. La manovra più tipica è rappresentata dalla sollecitazione combinata in abduzione/extrarotazione/estensione per l’instabilità anteriore (si veda la Figura 18.7). ● Test di valutazione della lassità capsulo-legamentosa, volti a evidenziare un’eventuale condizione di instabilità multidirezionale. Tra queste sono da ricordare: – segno del solco: comparsa di una depressione in sede subacromiale a seguito della trazione esercitata verso il basso su braccio addotto; – cassetto anteriore/posteriore: eccessiva traslazione della testa omerale sotto la spinta diretta in avanti e indietro da parte dell’esaminatore; – valutazione dei quattro parametri indicativi di lassità legamentosa generalizzata: iperestensione dell’indice, iperabduzione del pollice a polso flesso, recurvato (iperestensione) del gomito e del ginocchio (Figura 18.8). Diagnostica per immagini

Nella diagnostica per immagini dell’instabilità, lo studio radiografico tradizionale è indispensabile per l’inquadramento iniziale del problema. Alcune proie-

Figura 18.8   Segni di lassità legamentosa generalizzata. Iperestensione dell’indice (a). Iperabduzione del pollice a polso flesso (b).

312 Traumatologia

Figura 18.9   Lesione di Hill-Sachs ( ): è la frattura da compressione della porzione postero-laterale della testa omerale, che si verifica a seguito di una lussazione anteriore della spalla.

zioni permettono di evidenziare alterazioni scheletriche indicative per una patogenesi traumatica della condizione: ● proiezione antero-posteriore con la spalla in intrarotazione per la lesione di Hill-Sachs (Figura 18.9); ● proiezione ascellare o proiezione di West-Point per la frattura del margine glenoideo anteriore e inferiore. Mentre l’ecografia non trova alcuna indicazione nell’instabilità, l’artro-TC e/o l’artro-RM sono indispensabili per definire le lesioni a carico dei tessuti molli articolari (apparato capsulo-legamentoso, cercine glenoideo) e impostare di conseguenza il programma terapeutico (Figure 18.10 e 18.11). Terapia

La terapia dell’instabilità di spalla è fortemente influenzata dal quadro anatomo-clinico che si deve trattare. In termini generali si può dire che l’instabilità TUBS necessita di trattamento chirurgico, mentre l’instabilità AMBRI, almeno in fase iniziale, necessita di un approccio riabilitativo. Gli interventi chirurgici descritti per la stabilizzazione della spalla sono moltissimi, ma possono essere distinti in due grandi gruppi in considerazione della modalità con cui si corregge la condizione: ● procedure che prevedono la riparazione o la correzione delle alterazioni anatomiche alla base del quadro morboso (approccio “eziologico”); di questa categoria fa parte l’intervento di Bankart, in cui si esegue la riparazione del cercine glenoideo a cielo aperto o in artroscopia (Box 18.3);

Figura 18.10   Quadri artro-TC nell’instabilità anteriore di spalla. Lesione di Bankart: il cercine glenoideo non è più riconoscibile al margine glenoideo anteriore ( ), mentre invece è ancora ben definito in sede posteriore (>). Il mezzo di contrasto liquido che si spande sul collo della scapola testimonia la disinserzione della capsula dall’osso ( ) (a). Frattura parcellare del margine anteriore della glenoide, cosiddetta lesione di Bankart ossea (bony Bankart). Il piccolo frammento libero è dislocato di pochi millimetri ( ) con alterazione del normale profilo della glena (b). Quadro di lassità capsulo-legamentosa senza evidenti lesioni traumatiche. Il cercine è ancora ben definito in sede anteriore ( ) e la capsula articolare, seppure distesa per lassità, non appare disinserita dal collo della scapola ( ) (c).

18 - Lesioni traumatiche delle articolazioni 313

Figura 18.11  Instabilità anteriore post-traumatica della spalla destra. Artro-RM che mostra la disinserzione del legamento gleno-omerale medio ( ) e della capsula dal margine glenoideo e dal collo scapolare (*) (a). Quadro intraoperatorio dello stesso paziente durante l’intervento chirurgico di stabilizzazione: la superficie ossea del collo scapolare (*) non appare ricoperta dall’apparato capsulo-legamentoso che è divaricato medialmente ( ). La superficie articolare della glena presenta un aspetto normale (>), mentre la testa omerale non è visibile perché ricoperta dal divaricatore all’esterno (§) (b).



procedure volte alla creazione di meccanismi stabilizzatori che sostituiscono quelli normalmente preposti al controllo dei rapporti articolari (approccio “sintomatico”); di questo gruppo fa parte l’intervento di Bristow-Latarjet, in cui il processo coracoideo della scapola viene sezionato e trasposto sul margine glenoideo anteriore.

Box 18.3

Lesione di Bankart

Il labbro o cercine glenoideo è un anello fibro-cartilagineo che si inserisce sul bordo della glena lungo tutta la sua circonferenza. Oltre ad aumentare la profondità e l’area della superficie articolare, questa struttura rappresenta il punto di ancoraggio per la capsula e i legamenti gleno-omerali sulla scapola. La lesione di Bankart consiste nello strappamento del labbro glenoideo dalla sua inserzione a seguito di una lussazione traumatica della spalla. La perdita di ancoraggio del cercine, in sede anteriore e inferiore, compromette la normale funzionalità dell’apparato capsulo-legamentoso, dando origine a un quadro di instabilità. Lo strappamento del labbro può associarsi a una frattura del margine glenoideo: in questo caso si parla dilesione di Bankart ossea (bony Bankart). La lesione di Bankart deve essere studiata con esami contrastografici (artro-TC o artro-RM), tecniche di imaging che prevedono l’iniezione in articolazione di liquidi e/o di aria per meglio delineare il profilo delle strutture articolari (si vedano le Figure 18.10 e 18.11).

Il trattamento riabilitativo prevede invece il potenziamento di alcuni gruppi muscolari (cuffia dei rotatori) e il miglioramento della biomeccanica del cingolo scapolare per compensare l’insufficiente stabilizzazione della spalla offerta dall’apparato capsulo-legamentoso. Questo tipo di approccio è preferibile nei casi in cui non sia possibile riconoscere alterazioni di natura traumatica alla base dell’instabilità.

Lussazioni acromio-claveari Federico A. Grassi Le lesioni traumatiche dell’articolazione acromioclaveare sono frequenti; interessano in modo prevalente i giovani adulti (seconda-quarta decade di vita) con una predilezione per il sesso maschile. Il meccanismo di lesione è diretto: per caduta sulla spalla atteggiata in adduzione, l’impatto produce una sollecitazione che tende a dislocare l’acromion verso il basso. Classificazione

La classificazione delle lesioni acromio-claveari si basa sul grado di dislocazione dei capi articolari e sul danno legamentoso (Box 18.4) (Figura 18.12). ● Tipo I: i rapporti articolari sono normali, con semplice distrazione dei legamenti acromio-claveari.

314 Traumatologia

Box 18.4

Legamenti dell’articolazione acromio-claveare

L’articolazione acromio-claveare è un’artrodia, la cui stabilità dipende dall’integrità di due gruppi di legamenti: ● legamenti articolari o acromio-claveari (superiore e inferiore): rinforzano la capsula e stabilizzano i capi articolari sul piano orizzontale; ● legamenti extrarticolari o coraco-claveari (trapezoide e conoide): originano dalla coracoide e si inseriscono sulla superficie inferiore del quarto laterale della clavicola, stabilizzando l’articolazione sul piano frontale.





Tipo II: sublussazione acromio-claveare, con rottura dei legamenti acromio-claveari e integrità (o rottura parziale) di quelli coraco-claveari. Tipo III: lussazione franca, con interruzione completa sia dei legamenti articolari sia di quelli extraarticolari.

Quadro clinico

Il quadro clinico delle lussazioni è di facile identificazione, per la deformità del profilo anatomico causato dalla prominenza sottocutanea dell’estremità laterale della clavicola. La pressione su quest’ultima (segno del tasto di pianoforte) e la spinta dal gomito verso l’alto possono ridurre la lussazione, che tuttavia tende a ripresentarsi non appena si lascia l’arto libero. Le lesioni di tipo I e II sono meno evidenti e possono essere sospettate per la presenza di dolore in sede acromio-claveare, esacerbato dalla palpazione. Diagnostica per immagini

L’esame radiografico permette di differenziare queste lesioni dalle fratture dell’estremità laterale della clavicola. L’esecuzione di una proiezione ascellare è necessaria per valutare l’entità dello spostamento della clavicola sul piano orizzontale. L’integrità dei legamenti coraco-claveari, nei casi dubbi, può essere valutata con una radiografia antero-posteriore comparativa sotto stress: applicando dei pesi (5-10 kg) ai polsi del paziente, si valuta lo spostamento tra coracoide e clavicola a livello del lato leso e di quello controlaterale, registrandone la differenza. Terapia

La terapia delle lesioni acromio-claveari è per lo più conservativa, con tutela dell’arto in tasca reggibraccio fino alla risoluzione del dolore (2-3 settimane). Le lussazioni più gravi, soprattutto in soggetti con elevate richieste funzionali, richiedono il trattamento chirurgico (Figura 18.13).

Figura 18.12  Classificazione delle lesioni acromio-claveari: la violenza del trauma condiziona l’entità dello spostamento dei capi articolari e del danno legamentoso. Lesione di tipo I: distrazione dei legamenti acromio-claveari (a). Lesione di tipo II: sublussazione con rottura dei legamenti acromio-claveari e integrità, totale o parziale, dei legamenti coraco-claveari (b). Lesione di tipo III: lussazione con rottura di tutte le strutture legamentose stabilizzanti (c).

18 - Lesioni traumatiche delle articolazioni 315

Figura 18.13   Trattamento chirurgico di lussazione acromio-claveare. Quadro radiografico della lesione (a). Radiografia postoperatoria: la riduzione e la stabilizzazione dell’articolazione acromio-claveare sono ottenute con l’impianto di una vite coracoclaveare (b).

Indipendentemente dalla terapia praticata, la formazione di ossificazioni eterotopiche nello spazio coraco-claveare è frequente, ma non comporta alcuna conseguenza clinico-funzionale.

Lussazioni del gomito Federico A. Grassi Sebbene il gomito sia dotato di un’elevata stabilità intrinseca, le lussazioni di questa articolazione sono frequenti. Queste lesioni hanno la loro massima incidenza in età giovanile per traumi sportivi, ma possono anche essere osservate nella popolazione anziana a seguito di cadute. L’associazione con fratture dei capi articolari è frequente.

caso di associazione della lussazione con entrambe queste fratture si parla anche di triade terribile del gomito. Il dolore, la deformità, la tumefazione e l’impotenza funzionale caratterizzano il quadro clinico, ma la conferma diagnostica si ha con l’esame radiografico, mediante il quale è anche possibile evidenziare o sospettare lesioni scheletriche associate. Per quanto riguarda il trattamento, prima di procedere alla riduzione della lussazione è di primaria importanza valutare lo stato vascolo-nervoso dell’arto. Le strutture più vulnerabili sono rappresentate dall’arteria brachiale (bisogna valutare i polsi radiale e ulnare, oltre che la perfusione della mano), dai nervi mediano e ulnare. Il grado di facilità della riduzione, oltre che dal quadro anatomo-patologico, è influenzato dal tempo intercorso dal trauma. Una volta ridotto, il gomito viene immobi-

Lussazioni posteriori Sono le più frequenti e si verificano per caduta sulla mano a gomito esteso (analogamente a quanto avviene nelle fratture sovracondiloidee di omero), con generazione di spinte e leve che forzano l’olecrano al di fuori della troclea. Di regola si osserva la lussazione combinata di ulna e radio, ma non è eccezionale la lussazione isolata dell’ulna. In associazione si possono riscontrare: ● lesioni del legamento collaterale ulnare (o frattura dell’epitroclea nei bambini), che testimoniano una concomitante sollecitazione traumatica in valgo del gomito; ● fratture della coronoide e del capitello radiale, che possono rendere la lussazione particolarmente instabile, con spiccata tendenza alla perdita dei rapporti articolari nell’estensione del gomito (Figura 18.14). In

Figura 18.14   Frattura-lussazione posteriore del gomito. La freccia indica un voluminoso frammento della coronoide, responsabile di una marcata instabilità articolare.

316 Traumatologia

lizzato in flessione per un periodo breve, in genere non superiore alle 2 settimane, per evitare una rigidità posttraumatica. Lesioni instabili e/o associate a fratture possono richiedere il trattamento chirurgico, previo approfondimento diagnostico con TC. La formazione di calcificazioni o di ossificazioni eterotopiche in sede anteriore (muscolo brachiale) e mediale (legamento collaterale ulnare) non è infrequente, ma solo in pochi pazienti assume rilevanza clinica.

presenta un aspetto slargato e all’esame radiografico la grande incisura sigmoidea dell’ulna non appare centrata sulla troclea omerale, con spostamento consensuale del capitello radiale. Lussazione divergente

In questa rara lesione, il radio e l’ulna si dislocano in direzioni opposte. Sono state descritte due varianti: una antero-posteriore e una medio-laterale. Lussazione del capitello radiale

Lussazioni anteriori Sono rare e conseguono a traumi diretti sul versante posteriore dell’avambraccio prossimale, associandosi più spesso a fratture dell’olecrano come fratture-lussazioni (si veda il Capitolo 14, “Fratture dell’ulna prossimale”). L’esame clinico richiede un’attenta valutazione dello stato vascolo-nervoso anche in queste lesioni. In presenza di frattura, è necessario ricorrere all’osteosintesi chirurgica dell’olecrano.

Sublussazione anteriore del capitello radiale È una lesione tipica dei bambini piccoli (la massima incidenza è a 2-3 anni), descritta anche con il termine di pronazione dolorosa. La sublussazione si verifica a seguito di una sollecitazione in trazione longitudinale sull’arto superiore, per esempio trattenendo o sostenendo il bambino per la mano in modo vigoroso. Il trauma determina una lesione parziale del legamento anulare, che scivola verso l’alto nell’articolazione omero-radiale, dislocando anteriormente il capitello. Oltre all’indagine anamnestica, i segni clinici da ricercare sono: l’atteggiamento in pronazione dell’avambraccio, l’esclusione funzionale dell’arto e il dolore provocato dai tentativi di mobilizzazione in supinazione. L’esame radiografico spesso non offre alcun elemento utile ai fini diagnostici. La riduzione della sublussazione può essere eseguita mediante una manovra di supinazione e flessione del gomito, con una sensazione palpatoria di scatto al ripristino dei normali rapporti articolari.

Altre lussazioni del gomito Lussazioni mediali e laterali

Si caratterizzano per la traslazione mediale o laterale di ulna e radio rispetto all’omero distale, senza dislocazione in senso antero-posteriore. Clinicamente il gomito

In presenza di questa lesione deve essere sempre ricercata una concomitante frattura dell’ulna per escludere la presenza di una lesione di Monteggia, molto più frequente rispetto alla lussazione isolata del radio (si veda il Capitolo 14, “Fratture dell’avambraccio”).

Lussazioni del polso Giorgio Pilato Le lussazioni del polso sono costituite per la quasi totalità dalle lussazioni e fratture-lussazioni perilunari del carpo. Si tratta di lesioni relativamente rare, caratterizzate dalla completa perdita di contatto tra la testa del capitato e la superficie articolare distale del semilunare. Si possono distinguere tre gruppi di lesioni: ● lussazioni perilunari dorsali; ● fratture-lussazioni perilunari dorsali; ● lussazioni perilunari volari. Rappresentano nel complesso circa il 5% delle lesioni traumatiche del carpo e consistono nella maggioranza dei casi in fratture-lussazioni. In più della metà dei casi è presente una frattura scomposta dello scafoide localizzata al terzo medio dell’osso con decorso trasversale. Le lussazioni perilunari volari sono lesioni molto rare e costituiscono meno del 3% del totale delle lussazioni del polso. Le lussazioni perilunari colpiscono in prevalenza adulti giovani di sesso maschile; sono causate da traumi ad alta energia, quali incidenti motociclistici o precipitazioni dall’alto. Riconoscono un meccanismo di lesione indiretto, che consiste per le lussazioni dorsali in un’iperestensione del polso associata a una contemporanea sollecitazione in deviazione ulnare e supinazione. Le lussazioni perilunari sono così definite in quanto localizzate in un’area relativamente vulnerabile intorno al semilunare (Box 18.5), che comprende anche la porzione prossimale dello scafoide, del capitato e del piramidale.

18 - Lesioni traumatiche delle articolazioni 317

Box 18.5 Anatomia legamentosa del polso Il fatto che le lussazioni del carpo si localizzino in genere in sede perilunare dipende dall’anatomia dei legamenti del polso. Il legamento radio-lunato breve, che fa parte dei legamenti estrinseci radio-carpici profondi, origina dal margine antero-mediale della superficie articolare del radio e va a inserirsi sulla faccia volare del semilunare insieme al legamento ulno-lunato; stabilizza tenacemente il semilunare impedendogli di lussarsi dorsalmente nei traumi da iperestensione del polso. Al contrario, lo spazio di Poirier, compreso tra il semilunare e il capitato, rappresenta un’area di minore resistenza ed è in tale sede che si realizzano le lussazioni perilunari. Si tratta di uno spazio triangolare delimitato prossimalmente dal margine distale del legamento radio-lunato lungo che si inserisce sul semilunare, e distalmente dalla porzione terminale dei legamenti radio-capitato e ulno-capitato che convergono verso la superficie volare del grande osso, formando il cosiddetto “legamento a V” distale (Figura 18.16a).

Le lesioni legamentose pure sono definite anche lesioni dell’arco minore, e quelle associate a fratture delle ossa carpali lesioni dell’arco maggiore (Figura 18.15). Fisiopatologia

Le lussazioni perilunari si realizzano secondo un meccanismo comune a tutte le lesioni legamentose del polso, definito instabilità perilunare progressiva, che evolve in quattro stadi (Figura 18.17). ● Stadio I: dissociazione scafo-lunata o frattura dello scafoide. La violenta iperestensione del polso è trasmessa allo scafoide dai legamenti intercarpici volari; il semilunare è invece trattenuto dai legamenti radio-lunati (lungo e breve), cosicché il legamento

Figura 18.15   Arco maggiore e arco minore.

Figura 18.16   Legamenti volari del polso. In grigio sono evidenziati: i legamenti radio- e ulno-capitato (a); il legamento intercarpico teso tra uncinato, piramidale e capitato e i legamenti radio-lunato breve e ulno-lunato (b). * = legamento a V distale; § = radio-lunato lungo.

Figura 18.17  Instabilità perilunare progressiva (si veda la spiegazione nel testo).

318 Traumatologia







interosseo scafo-lunato, sottoposto a una violenta torsione, può essere lacerato o avulso a partire dalla sua porzione volare fino alla completa dissociazione scafo-lunata. Se il polso si trova in inclinazione radiale al momento del trauma, anche il polo prossimale dello scafoide risulta tenacemente trattenuto dai legamenti radio-carpici, e il meccanismo dell’instabilità perilunare progressiva può in tali casi prendere il via con la frattura dello scafoide. Stadio II: lussazione luno-capitata. La prosecuzione dell’azione lesiva può determinare la traslazione dorsale della filiera distale con lussazione del capitato rispetto al semilunare, per lacerazione della capsula volare in corrispondenza dello spazio di Poirier. Stadio III: dissociazione luno-piramidale o frattura del piramidale. La traslazione dorsale del capitato produce la violenta tensione del legamento intercarpico teso tra uncinato, piramidale e capitato (porzione ulnare del legamento arcuato) (si veda la Figura 18.16b), che produce la traslazione dorsale del piramidale stesso. Ciò può determinare la rottura del legamento interosseo luno-piramidale o la frattura del piramidale. Stadio IV: lussazione del semilunare. Non è un’entità a sé, bensì lo stadio finale di una lussazione perilunare e si verifica nel 16% dei casi. La riduzione spontanea della lussazione può provocare una traslazione volare del semilunare stesso, che ruota sul legamento radio-lunato integro ma, se anche questo si lacera, il semilunare può venire enucleato all’interno del tunnel carpale.

Classificazione

Witvoet e Allieu hanno proposto una classificazione in tre tipi che considera lo stato dei legamenti radiocarpici che stabilizzano il semilunare e ne consentono l’irrorazione sanguigna. Ha il vantaggio di considerare le alterazioni vascolari che influenzano l’evoluzione del semilunare lussato. ● Tipo I. I legamenti dorsali e volari sono intatti e il semilunare conserva rapporti normali con il radio; l’apporto vascolare è conservato e non esiste rischio di necrosi. La maggior parte delle fratture-lussazioni rientra in questo tipo. ● Tipo II. I legamenti dorsali sono lesi e il semilunare, con fulcro sui legamenti volari intatti, può ruotare sull’asse trasversale. Il fenomeno è evidente sul piano sagittale, e fa sì che sulle radiografie in proiezione laterale le due filiere appaiano “a cavallo” sul radio. La rotazione anteriore della superficie articolare distale del semilunare può andare da pochi gradi fino a 270°; i legamenti volari sono indenni anche nei casi con maggiore scomposizione se sulle radiografie in proiezione laterale il corno anteriore dell’osso rimane adiacente al margine volare del radio. La necrosi del semilunare rimane poco frequente. ● Tipo III. Entrambi i legamenti sono lesi, il semilunare è enucleato e destinato alla necrosi. Herzberg ha proposto una classificazione radiografica che considera (Figura 18.18): ● il decorso della lesione sulla radiografia dorso-volare, distinguendo lussazioni e fratture-lussazioni perilunari (con scafoide integro o transcafoidee);

Figura 18.18

 Classificazione di Herzberg.

18 - Lesioni traumatiche delle articolazioni 319



la dislocazione del capitato sulla radiografia laterale, distinguendo uno stadio I con semilunare in sede e capitato lussato (dorsale o volare), e uno stadio II con lussazione del semilunare (volare o dorsale).

Quadro clinico

L’anamnesi rivela in genere una trauma violento; spesso il paziente è un politraumatizzato e l’attenzione sul polso può essere distolta dalla gravità delle condizioni generali e/o dallo stato di incoscienza. Se a ciò si aggiunge il fatto che spesso non c’è un’evidente deformità del polso, ma piuttosto una tumefazione con dolorabilità diffusa, si comprende come queste lesioni possano rimanere non di rado misconosciute. L’esame obiettivo deve comprendere, oltre alla ricerca di aree elettive di dolorabilità alla palpazione e alla misurazione dell’escursione articolare del polso, un attento esame neurologico: una sofferenza del nervo mediano o ulnare può essere dovuta a una contusione al momento del trauma o a una successiva compressione da parte di strutture ossee lussate o dell’ematoma raccolto all’interno del tunnel carpale. Diagnostica per immagini

L’esame radiografico in urgenza deve includere due proiezioni ortogonali del polso: dorso-volare e laterale vera. In condizioni normali, nella proiezione dorsovolare si osservano 3 linee parallele corrispondenti al margine prossimale e distale della filiera prossimale e al margine prossimale della filiera distale, definite archi di Gilula. Lo scompaginamento di tali archi, con sovrapposizione dei profili del capitato e del semilunare, esprime un’alterazione dei rapporti reciproci tra le due filiere. In caso di lussazione perilunare dorsale, il semilunare assume una forma triangolare con apice distale, espressione della rotazione dell’osso in flessione che proietta distalmente il suo corno dorsale. La proiezione laterale consente una pronta diagnosi, mostrando lo spostamento del capitato rispetto al semilunare e l’orizzontalizzazione dello scafoide. Due ulteriori proiezioni oblique costituiscono un completamento essenziale delle indagini dopo una lesione acuta del polso: sono utili per evidenziare eventuali lesioni associate delle ossa carpali. La TC del polso può essere utile nell’interpretare la dislocazione dei capi articolari e la scomposizione di eventuali frammenti di frattura, al fine di pianificare il trattamento chirurgico in caso di lesione complessa.

Le lesioni del nervo mediano si osservano soprattutto nelle lussazioni inveterate e interessano quasi 1/3 dei casi; ne è causa il restringimento del tunnel carpale occupato dal semilunare spinto in avanti dal capitato. I sintomi di tipo irritativo o deficitario sono talora motivo della diagnosi di una lussazione inizialmente misconosciuta. Terapia Lussazioni perilunari dorsali  Un

tentativo di riduzione incruenta con immobilizzazione in apparecchio gessato è sempre indicato in fase acuta. La manovra di riduzione deve essere preceduta da una trazione continua di circa 10 minuti; al termine di tale periodo, mantenendo la trazione longitudinale, si estende il polso con una mano mentre il pollice dell’altra mano appoggiato sulla superficie volare del polso mantiene il semilunare ridotto rispetto al radio; una graduale flessione del polso consente al capitato di scavalcare il margine dorsale del semilunare ottenendo così il ripristino dei normali rapporti articolari. Dopo tale manovra, difetti di riduzione al controllo radiografico sono quasi la regola. Se nella proiezione dorso-volare la distanza tra scafoide e semilunare supera i 3 mm, o nella proiezione laterale l’angolo scafolunato supera gli 80°, ciò indica la persistenza di una sublussazione rotatoria dello scafoide, la cui mancata correzione si associa a un cattivo risultato. La dimostrazione che anche gli spostamenti secondari sono molto frequenti e si associano costantemente a cattivi risultati a distanza, ha favorito il ricorso sempre più frequente al trattamento chirurgico. Se le condizioni generali del paziente controindicano un trattamento chirurgico entro 1 o 2 settimane dal trauma, per ottenere e mantenere la riduzione possono essere utilizzati fili di Kirschner percutanei (Figura 18.19). Il trattamento chirurgico consente di valutare con maggiore precisione il danno anatomico, con la possibilità di diagnosticare e trattare eventuali lesioni condrali associate, di ridurre più accuratamente le ossa carpali e di eseguire la sutura diretta dei legamenti e della capsula. Dopo l’intervento è necessario un periodo di immobilizzazione variabile tra 4 e 8 settimane. In presenza di segni clinici di compressione del nervo mediano, nelle lesioni recenti la semplice riduzione della lussazione ne consente in genere la risoluzione immediata. L’apertura del tunnel carpale al momento dell’intervento non appare influenzare il recupero del nervo e pertanto questo gesto chirurgico non si impone in urgenza.

Lesioni associate

È frequente l’associazione con fratture da avulsione della stiloide radiale o ulnare.

Lussazioni trans-scafo-perilunari dorsali  L’indica-

zione al trattamento chirurgico è assoluta. La frattura dello

320 Traumatologia

Figura 18.19   Lussazione perilunare pura: quadro radiografico preoperatorio (a); controllo intraoperatorio dopo riduzione e stabilizzazione con fili di Kirschner percutanei (b).

scafoide è infatti altamente instabile e deve essere trattata chirurgicamente. Il trattamento incruento è gravato da un’incidenza altissima di pseudoartrosi dello scafoide. L’accesso dorsale consente l’ampia esposizione delle ossa della prima filiera e la riduzione della frattura dello scafoide, asportando eventuali tessuti molli interposti tra i frammenti. La frattura viene sintetizzata con una vite o con fili di Kirschner; la procedura è completata dalla stabilizzazione con filo di Kirschner luno-piramidale (Figura 18.20). L’immobilizzazione postoperatoria è simile a quella già descritta per le lussazioni pure, ma è prolungata fino a 8-12 settimane in caso di sintesi dello scafoide con fili.

Il punto cruciale è il limite di tempo entro il quale la riduzione cruenta della lussazione è ancora possibile: si ritiene che sia di 3 mesi. L’esperienza mostra che il ritardo nel trattamento è un fattore importante di deterioramento dei risultati. Nel caso di irriducibilità della lussazione o del riscontro intraoperatorio di alterazioni degenerative delle ossa carpali, è preferibile ricorrere a interventi palliativi, come la resezione della prima filiera o l’artrodesi del polso.

Lussazioni dell’anca Giovanni Zatti

Lussazioni inveterate misconosciute  Un discorso a

parte merita il trattamento di queste lussazioni, il cui numero è molto elevato, rappresentando una percentuale compresa tra il 16% e il 60%. Si considerano inveterate dopo 3 settimane dal trauma, e sono diagnosticate spesso dopo circa 2 mesi dal trauma per il persistere di dolore alla mobilizzazione del polso, rigidità del polso e delle dita e sintomi di compressione del nervo mediano all’interno del tunnel carpale.

L’anca è un’articolazione intrinsecamente stabile; per determinarne la lussazione è necessario un trauma ad alta energia (da incidente stradale, sul lavoro o dello sport) in pazienti adulti. Le lussazioni dell’anca possono essere associate a fratture dell’acetabolo o, meno frequentemente, a fratture della diafisi femorale o ad altre fratture nei pazienti politraumatizzati.

Figura 18.20   Frattura-lussazione trans-scafoidea: quadro radiografico preoperatorio (a); radiografie postoperatorie dopo trattamento con fili di Kirschner e vite in compressione per l’osteosintesi dello scafoide (b).

18 - Lesioni traumatiche delle articolazioni 321

La lussazione provoca la lacerazione del legamento rotondo, della capsula e dei vasi intracapsulari, alla quale si possono associare lesioni da impatto della cartilagine articolare.

In caso di sospette fratture associate (ciglio o parete acetabolare) o di riduzione incompleta (per possibile interposizione di frammenti) è indicata l’esecuzione di una TC.

Classificazione

Complicanze

La classificazione delle lussazioni dell’anca si basa sulla direzione e sulla posizione assunta dalla testa femorale. Si distinguono: ● lussazioni posteriori: iliaca e ischiatica; ● lussazioni anteriori: pubica e otturatoria.

Possibili complicanze immediate locali sono rappresentate da lesioni e compressioni vascolo-nervose, in particolare a carico di: ● nervo sciatico nelle lussazioni posteriori; ● nervo femorale o vasi iliaci nelle lussazioni anteriori.

Quadro clinico

La sofferenza vascolo-nervosa va ricercata durante l’esame obiettivo e descritta; nel caso si sviluppasse dopo la riduzione è da sospettare un’incarcerazione, con necessità di ricorrere alla liberazione chirurgica. Un eventuale deficit neurologico può impiegare fino a 6-12 mesi per la risoluzione spontanea. Una complicanza generale e precoce può essere lo shock traumatico, soprattutto in caso di politraumatismo, mentre le complicanze locali tardive includono: ● la necrosi asettica della testa del femore, che è tanto più frequente quanto maggiore è il tempo trascorso tra la lussazione e la riduzione; si manifesta in genere entro il primo anno, ma è stata riscontrata, sebbene raramente, anche a 10-20 anni di distanza dall’evento traumatico; ● la coxartrosi post-traumatica.

È dominato dal dolore e dall’impotenza funzionale, con limitazione pressoché completa dell’articolarità, anche passiva. L’atteggiamento assunto dall’arto traumatizzato è influenzato dalla direzione della lussazione (Figura 18.21): ● nelle lussazioni posteriori l’anca si presenta più (ischiatica) o meno (iliaca) flessa, intrarotata e addotta; ● nelle lussazioni anteriori l’anca è extrarotata e abdotta. In entrambi i casi l’arto appare accorciato rispetto al controlaterale. La testa del femore può essere palpabile posteriormente o anteriormente in fossa iliaca. Diagnostica per immagini

Una radiografia del bacino, eventualmente associata a una proiezione assiale dell’anca, è in genere sufficiente a formulare la diagnosi. La riduzione ottenuta va documentata con un ulteriore controllo radiografico.

Terapia

La lussazione dell’anca va ridotta d’urgenza, in quanto è dimostrato che l’incidenza della necrosi asettica della testa del femore aumenta con l’aumentare del tempo trascorso tra la lussazione e la riduzione. Il paziente va sottoposto ad anestesia generale e, con opportune manovre progressive e senza strappi, alla testa del femore va fatta ripercorre la stessa strada attraverso cui si è lussata fino ad avvertire lo scatto di riduzione. In virtù dell’ottima stabilità intrinseca dell’anca non sono necessarie tutele post-riduzione; l’instabilità cronica è eccezionale. In rari casi, l’anca appare irriducibile e richiede quindi una riduzione chirurgica.

Lussazione della rotula Giorgio Gasparini Figura 18.21   Atteggiamento dell’arto inferiore nella lussazione dell’anca: nella lussazione anteriore (destra) appare abdotto ed extraruotato (a); nella lussazione posteriore (sinistra) è flesso, addotto e intraruotato (b).

La femoro-rotulea, come altre articolazioni, può subire una lussazione acuta a causa di un trauma efficiente, più frequentemente diretto; la lussazione è sempre laterale

322 Traumatologia

e in più del 10% dei casi residua una instabilità secondaria che determina nuovi episodi di lussazione. L’instabilità primitiva della femoro-rotulea rappresenta una ben più frequente entità nosologica, sulla base di una predisposizione anatomica; ha andamento evolutivo e, nella forma conclamata, è caratterizzata da lussazioni esterne recidivanti che, dopo un primo episodio (determinato da un trauma, quasi sempre distorsivo e di modesta entità), si manifestano in più dell’80% dei casi. Di norma il primo episodio di lussazione si manifesta nell’adolescenza; tra gli sportivi predilige i maschi, nella popolazione generale le femmine. Sono frequenti la familiarità e, ancor di più, la bilateralità. Eziopatogenesi

Pur se raramente, un trauma efficiente può determinare la lussazione di una femoro-rotulea normale; più spesso è un trauma modesto a provocare la lussazione di una rotula già instabile. Nella maggior parte dei casi il meccanismo traumatico è indiretto e consiste in una distorsione in valgismo ed extrarotazione con arto in carico. Varie sono le concause di instabilità: la displasia della troclea femorale (la più frequente), la displasia della rotula, la rotula alta, il malallineamento dell’apparato estensore (per valgismo o difetti torsionali del femore), lo sbilanciamento dei legamenti alari, l’insufficienza del vasto interno e l’iperlassità generalizzata (Box 18.6).

Box 18.6

L’articolazione femoro-rotulea

L’articolazione femoro-rotulea è intrinsecamente instabile nonostante la presenza di stabilizzatori passivi (morfologia ossea, capsula mediale, legamento alare interno e legamento femoro-rotuleo interno) e attivi (muscolo vasto interno, che con la sua obliquità di 50-60° esercita un’azione medializzante sulla rotula). La normale morfologia della troclea femorale (Figura 18.22a) consente lo scorrimento guidato della rotula contrastando le forze lateralizzanti fisiologiche o patologiche (aumento dell’angolo Q, del valgismo o dell’antiversione del femore). La faccetta trocleare laterale è più ampia in senso prossimale e più prominente in sede anteriore; essa si confronta con la faccetta rotulea laterale, anch’essa più ampia. La porzione intermedia della troclea è la più profonda ed accoglie la cresta rotulea. Lungo l’arco di movimento 0-30°, il vasto interno e il compartimento capsulo-legamentoso interno garantiscono la stabilità della rotula che è lievemente lateralizzata (per effetto dell’angolo Q). Oltre i 30°, di flessione la rotula si impegna nella troclea che ne guida lo scorrimento: il contatto diretto con il condilo laterale mantiene la rotula centrata.

Anatomia patologica

Dopo una lussazione acuta, la capsula articolare mediale, il legamento alare interno e il legamento femororotuleo interno sono lacerati; a questo si può associare la disinserzione del tendine del vasto interno dalla rotula. Nei casi cronici, i tessuti molli mediali sono allungati e allentati, mentre quelli laterali sono retratti. In caso di displasia, la troclea può presentare una ridotta profondità o un appiattimento fino ad assumere un profilo convesso con associata ipoplasia del condilo laterale. Anche la rotula può essere normale o, in vario grado, displasica: oltre all’ipoplasia, si evidenzia la riduzione della cresta fino alla scomparsa della stessa (Figura 18.22). In oltre il 50% dei casi si repertano lesioni osteocondrali e condropatia; tali rilievi sono tanto meno frequenti quanto maggiore è la displasia. QUADRO CLINICO

Si distinguono diversi quadri: ● l’instabilità, caratterizzata da vago dolore anteriore e da una mal definita sensazione di cedimento riferiti al ginocchio; ● la sublussazione, in cui gli stessi sintomi, accompagnati dalla sensazione di instabilità, sono più chiaramente riferiti alla rotula; ● la lussazione acuta, determinata per lo più da una distorsione in valgismo-extrarotazione, si presenta con vivo dolore anteriore, ematoma mediale e marcata limitazione funzionale; ● la lussazione recidivante, la più comune, caratterizzata da episodi di lussazione che si ripetono a distanza di mesi o settimane per sollecitazioni sempre meno intense in flessione, valgismo ed extrarotazione;

Figura 18.22  Rispetto alla normale morfologia (a), vengono schematicamente rappresentati vari gradi di displasia femoro-rotulea: ridotta profondità della troclea e ipoplasia della rotula (b), appiattimento della troclea e riduzione della cresta rotulea (c), troclea convessa, ipoplasia del condilo laterale e scomparsa della cresta rotulea (d). La congruenza e la stabilità dell’articolazione sono proporzionalmente inverse al grado di displasia. L = laterale, M = mediale.

18 - Lesioni traumatiche delle articolazioni 323

Figura 18.23   A 30° di flessione, la rotula può di norma essere lateralizzata di uno (a) o due (b) quarti rispetto alla propria larghezza. In caso di instabilità si raggiungono i tre (c) o quattro (d) quarti evocando frequentemente il segno dell’apprensione, una vivace reazione di difesa da parte del paziente che percepisce l’imminente lussazione.





Figura 18.24  Disegni che riproducono radiografie del ginocchio in proiezione laterale con perfetta sovrapposizione dei condili femorali. Il fondo della troclea ( ) si trova in sede posteriore rispetto al profilo anteriore dei condili ( ) (a) e appare in continuità con la corticale anteriore del femore ( ), il cui prolungamento interseca il profilo dei condili (b). In caso di displasia della troclea il profilo anteriore dei condili è più arretrato e, nelle forme più gravi, si sovrappone a quello della troclea (c).

la lussazione abituale, contraddistinta da una maggiore frequenza di episodi, fino alla costante lussazione a ogni flessione, anche fuori carico (lussazione volontaria); la lussazione permanente, in cui è impossibile la riduzione.

L’esame obiettivo deve essere sempre bilaterale. Con il paziente in ortostatismo si valutano l’allineamento dell’arto, l’angolo Q (si veda la Figura 9.12b) e il trofismo del quadricipite. A paziente supino, dopo aver saggiato il tono del quadricipite, si ricercano dinamicamente le cause di instabilità rotulea valutando: ● lo scorrimento rotuleo da 0° alla flessione completa; ● la lateralizzazione e l’inclinazione della rotula in estensione e a 30° di flessione (Figura 18.23); ● la presenza del segno dell’apprensione (tipica reazione di difesa alla lateralizzazione); ● la presenza di lassità legamentosa generalizzata. Diagnostica per immagini

L’esame strumentale di prima istanza è costituito dalla radiografia in due proiezioni e in proiezione assiale a 45°. Il radiogramma in laterale, oltre a valutare l’altezza della rotula (si veda la Figura 9.13), evidenzia il fondo della troclea e il suo rapporto con il profilo anteriore dei condili (Figura 18.24). La proiezione assiale, oltre a documentare fratture marginali parcellari della rotula o del condilo esterno, consente la misurazione di vari parametri: l’angolo del solco, l’angolo di congruenza, l’angolo femoro-rotuleo, la lateralizzazione della rotula (si veda la Figura 9.14).

Figura 18.25  Disegni che riproducono scansioni assiali di TC o RM. L’inclinazione laterale della troclea si determina come angolo tra la tangente al margine posteriore dei condili e la tangente al profilo della faccetta laterale della troclea (a); un valore 7 mm. Nella proiezione antero-posteriore si eseguono due radiogrammi, uno sollecitando l’articolazione in inversione e l’altro in eversione: l’inclinazione dell’astragalo è assente nelle lesioni di primo grado, è modesta in quelle di secondo grado ed è marcata in quelle di terzo grado. La comparazione con la caviglia controlaterale è utile per escludere e/o identificare condizioni di lassità capsulo-legamentosa su base costituzionale.

Terapia

In caso di lesione acuta di primo grado il riposo, la crioterapia, la terapia medica (FANS ed antiedemigeni), l’uso di un tutore bivalve (che consente la flessoestensione limitando l’inversione-eversione) e una precoce riabilitazione propriocettiva, consentono il recupero in 3-4 settimane. Per le lesioni di secondo grado si attua lo stesso trattamento vietando il carico per 1 settimana e dilazionando i tempi di recupero. Nelle lesioni di terzo grado l’articolazione viene immobilizzata per 3-4 settimane, applicando inizialmente una valva gessata o un bendaggio all’ossido di zinco. Dopo 4-6 giorni di scarico completo, FANS, antiedemigeni e crioterapia, se la tumefazione è regredita, si può procedere all’immobilizzazione definitiva mediante un apparecchio gessato chiuso con cui iniziare il carico dopo 2-3 giorni. Alla rimozione del gesso andrà effettuato un prolungato trattamento fisioterapico per il recupero dell’articolarità e della propriocezione. Il ritorno alla pratica sportiva

18 - Lesioni traumatiche delle articolazioni 333

può essere anticipato proteggendo la cicatrice in fase di maturazione mediante un tutore bivalve. Nelle distorsioni trattate con l’immobilizzazione e/o l’astensione dal carico, va adottata una profilassi antitromboembolica con eparina a basso peso molecolare. Nella fase cronica, il trattamento conservativo può dare buoni risultati nella prevenzione delle recidive, a patto che il paziente utilizzi calzature idonee (tacco basso e largo, forti alti e rigidi) per le attività quotidiane e un tutore bivalve o un bendaggio a cerotto (taping) per la

pratica di sport a basso rischio, evitando le attività sportive ad alto rischio. Il trattamento chirurgico viene riservato a lesioni acute gravi e ai casi di instabilità di alto grado in soggetti giovani con richieste funzionali elevate, solitamente sportivi di alto livello. In fase acuta si realizza la sutura diretta o la reinserzione all’osso dei legamenti lesi, mentre per l’instabilità cronica sono stati descritti interventi ricostruttivi che prevedono trasposizioni tendinee, innesti tendinei liberi o l’impiego di legamenti di banca o artificiali.

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parte 

IV

Appendici

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capitolo

Principi di riabilitazione e medicina fisica

19

Ugo E. Pazzaglia

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Introduzione In ambito ortopedico-traumatologico e reumatologico la riabilitazione rappresenta una fase terapeutica di primaria importanza, da cui dipende in larga parte il risultato finale di un intervento medico o chirurgico. Il fine del trattamento riabilitativo è il recupero della massima capacità fisica, psichica ed economicosociale del paziente, compatibile con l’entità del deficit residuo. La terapia fisica, nella varia e ampia gamma di metodiche disponibili, trova indicazione nella patologia ortopedica degenerativa; tuttavia è necessario identificare nel decorso della malattia i momenti evolutivi nei quali il trattamento può produrre l’effetto terapeutico desiderato. Poiché l’energia erogata con le varie forme di terapia fisica ha sempre come effetto finale un aumento della temperatura locale, in una situazione di infiammazione acuta esse possono determinare un’accentuazione dei fenomeni flogistici e un peggioramento della situazione clinica; al contrario l’iperemia locale può favorire il metabolismo cellulare dei tessuti e svolgere un effetto analgesico nelle fasi di quiescenza. In queste malattie pertanto la terapia fisica può rappresentare un’utile integrazione della terapia farmacologica. Nella patologia reumatica il dolore e l’infiammazione acuta o cronica sono segni costanti, che determinano inevitabilmente una riduzione dell’attività motoria: inizialmente la riduzione del movimento rappresenta una reazione di difesa al dolore, ma se l’immobilità persiste si ha fibrosi e retrazione dei tessuti molli (strutture capsulo-legamentose e miotendinee), che rappresen-

tano un ostacolo meccanico al movimento. In questo contesto la kinesiterapia ha un duplice ruolo: ● prevenire la rigidità articolare e l’ipotrofia muscolare in quelle malattie che sono caratterizzate da questa tendenza evolutiva; ● recuperare la funzione articolare quando le lesioni si sono ormai instaurate; quest’ultimo aspetto viene realizzato tramite una fase di mobilizzazione passiva, seguita da esercizi per la tonificazione dei muscoli motori, e completato infine con la rieducazione posturale e il riadattamento alla funzione. La kinesiterapia da sola non è in grado di arrestare l’evoluzione verso la retrazione e la deformità articolare che caratterizzano le artropatie infiammatorie e degenerative; tuttavia, quando è integrata in un programma terapeutico adeguato, permette di rallentare l’evoluzione della malattia e conservare per un tempo più o meno lungo la funzione articolare. Nelle fratture, affinché il processo di riparazione possa avere una normale evoluzione, è necessaria l’assenza di movimento a livello del focolaio di frattura (stabilizzazione). Quest’ultima può essere ottenuta con interventi chirurgici (osteosintesi) o con l’immobilizzazione in apparecchi gessati o tutori. Il requisito fondamentale delle diverse tecniche di fissazione chirurgica è la solidità dell’osteosintesi, condizione che permette di non bloccare le articolazioni contigue alla frattura: in tal modo si possono iniziare in fase precoce la mobilizzazione attiva e gli esercizi muscolari per prevenire la rigidità articolare e l’ipotrofia da non uso. Soprattutto nelle fratture degli arti inferiori è possibile che la solidità della sintesi non sia tale da consentire una sollecitazione

338 Appendici

funzionale completa sull’arto fratturato (questo dipende in misura rilevante dalla sede e dal tipo di frattura, oltre che dal trattamento praticato): si dovrà così evitare l’appoggio diretto del peso sul lato affetto tramite l’uso di bastoni o di altri ausili, ma questo non impedirà l’esecuzione di un programma di mobilizzazione e tonificazione muscolare fuori carico. La ripresa funzionale completa, per esempio la ripresa del carico completo durante la deambulazione nelle fratture dell’arto inferiore, deve essere decisa per ogni singolo paziente sulla base degli elementi clinici e radiografici. Poiché chi si prende cura della riabilitazione del paziente fratturato di regola non è lo stesso che ha trattato il paziente in fase acuta, è indispensabile la collaborazione e lo scambio di informazioni tra le diverse figure professionali che intervengono nel programma terapeutico. Sotto questo aspetto è importante sottolineare che solo il chirurgo ortopedico ha la consapevolezza della solidità della sintesi che ha eseguito ed è lui che dovrebbe guidare, almeno in fase iniziale, la ripresa funzionale dell’arto operato. L’orientamento della moderna Traumatologia è quello di limitare al massimo l’immobilizzazione e l’allettamento. In casi particolari può però avvenire che si debba ricorrere all’applicazione di un apparecchio gessato o al montaggio di un fissatore esterno, con blocco o limitazione del movimento di una o più articolazioni: questa evenienza porta quasi inevitabilmente alla comparsa di rigidità articolari e ipotrofia muscolare. Tali evenienze, talvolta vere e proprie complicanze, hanno un rapporto di relazione diretta con il tempo per cui viene mantenuta l’immobilizzazione; alcune articolazioni (per esempio il gomito) mostrano una particolare predisposizione alla rigidità. La limitazione del movimento è inizialmente reversibile; tuttavia, se l’immobilizzazione viene mantenuta molto a lungo si instaurano retrazioni e aderenze fibrose dell’apparato capsulo-legamentoso articolare che non possono più essere risolte dalla sola kinesiterapia. Nelle lesioni traumatiche delle parti molli (lesioni capsulo-legamentose con o senza lussazione, lacerazioni muscolari, rotture tendinee), dopo la riparazione o ricostruzione chirurgica della struttura anatomica lesa, è indispensabile mantenere per un tempo più o meno prolungato l’immobilizzazione dell’arto per “proteggere” il processo di cicatrizzazione; infatti le suture non sono in grado di resistere alle normali sollecitazioni funzionali. Anche in questo caso la riabilitazione deve affrontare il problema della rigidità articolare e dell’ipotrofia da non uso. Nella chirurgia protesica la kinesiterapia è alla base del successo dell’intervento e non può prescindere da

una stretta collaborazione tra chirurgo e terapista della riabilitazione, anche per prevenire potenziali complicanze conseguenti a un programma riabilitativo inadeguato. Il chirurgo è infatti consapevole della stabilità dell’impianto, testata al momento dell’intervento, e può pertanto guidare le tempistiche per il recupero della funzionalità articolare. Nella chirurgia della mano, in particolare nella chirurgia riparativa dei tendini flessori, uno tra i problemi più grandi è quello di tutelare la tenorrafia con l’immobilizzazione, evitando nello stesso tempo la rigidità. A tale scopo sono state create ortesi particolari, come quella di Kleinert, che attraverso un sistema di elastici o molle calibrate per ogni tendine consentono una kinesiterapia caratterizzata da un’estensione attiva del dito lesionato seguita da una flessione passiva che il dito effettua grazie alla forza esercitata dai tiranti.

Kinesiterapia La kinesiterapia comprende tutte le metodiche che utilizzano il movimento e l’esercizio muscolare a scopo terapeutico; alcune utilizzano solo forze esterne (kinesiterapia passiva), altre sfruttano l’azione muscolare del paziente stesso (kinesiterapia attiva). Le metodiche passive includono l’allineamento posturale passivo e la mobilizzazione passiva, mentre quelle attive comprendono gli esercizi muscolari attivi e la rieducazione funzionale.

Allineamento posturale Consiste nel mantenere in atteggiamento corretto un segmento o l’intero corpo, e ha come fine la prevenzione di posture viziate che si possono instaurare come conseguenza degli squilibri muscolari secondari alle lesioni motorie. Ci si avvale di provvedimenti come il piano rigido del letto, i sacchetti di sabbia per mantenere la posizione del piede, l’archetto per tenere sollevate le coperte del letto (Figura 19.1), infine le docce gessate e i tutori ortopedici modellati nella posizione desiderata.

Mobilizzazione passiva Comprende quei movimenti che non sono eseguiti direttamente dalla muscolatura agonista del paziente, ma da una forza esterna prodotta dal terapista o con altri mezzi. Solo in caso di denervazione completa l’esercizio è integralmente passivo.

19 - Principi di riabilitazione e medicina fisica 339

Figura 19.1   L’archetto e i sostegni ai lati del piede consentono rispettivamente di tenere sollevate le coperte e di controllare la rotazione dell’arto inferiore nel paziente allettato.

La mobilizzazione passiva può essere eseguita in rilasciamento, cioè nell’ambito dell’escursione libera dell’articolazione senza tentare di vincere eventuali resistenze al movimento e dopo aver ottenuto il massimo grado di decontrazione volontaria del paziente. Questo esercizio ha la funzione di mantenere la fisiologica articolarità e favorire la circolazione attraverso l’alternato stiramento e rilasciamento muscolare. Inoltre ha un ruolo importante per conservare o ricostruire gli schemi motori centrali che corrispondono all’immagine del movimento segmentario. La mobilizzazione passiva può anche essere eseguita applicando una forza che tende a vincere la resistenza al movimento in modo da migliorare l’articolarità; la manovra può essere eseguita in modo brusco ed energico (manipolazione) oppure esercitando uno stiramento prolungato (trazione, allungamento o stretching) (Figura 19.2). Quando si esercita una sollecitazione forzata si evoca dolore e il paziente tende a reagire con una contrattura muscolare di difesa: è perciò nella sensibilità del terapista dosare e graduare nel tempo l’energia dell’azione in modo da ottenere il massimo risultato. Oltre che l’azione muscolare del terapista, per esercitare una mobilizzazione passiva più prolungata nel tempo, può essere usata la forza di gravità attraverso pesi posizionati in modo opportuno, molle ed elastici applicati a tutori ortopedici articolati, oppure apparecchiature dedicate (Figura 19.3).

Esercizi muscolari attivi Questi esercizi utilizzano la contrazione muscolare del paziente e sono eseguiti con i seguenti scopi:

Figura 19.2  Esempio di mobilizzazione passiva assistita del gomito: il terapista esercita una sollecitazione controllata in estensione per ottenere il recupero completo dell’articolarità. (Da Brotzman SB, Wilk KE. Clinical Orthopaedic Rehabilitation. Elsevier, 2004.)

● ● ● ● ●

prevenire l’ipotrofia muscolare da non uso; aumentare la forza e la resistenza al lavoro; favorire la circolazione locale; apprendere schemi motori corretti; migliorare la coordinazione del movimento.

Questi obiettivi possono essere ottenuti con esercizi differenti: per aumentare la forza si usano esercizi con massima resistenza e poche ripetizioni, per la capacità di lavoro resistenze medie e numerose ripetizioni, per la coordinazione resistenze minime e ripetizioni molto numerose. Nella kinesiterapia medica è utilizzato soprattutto l’esercizio attivo segmentario, metodica che comprende diversi tipi di contrazione muscolare: ● la contrazione concentrica prevede l’accorciamento del muscolo con il movimento dei capi articolari (per esempio il bicipite brachiale si contrae in modo concentrico per flettere il gomito contro una forza esterna) (Figura 19.4a);

Figura 19.3   Apparecchio per la mobilizzazione passiva continua (Continuous Passive Motion, CPM) del ginocchio. (Da Brotzman SB, Wilk KE. Clinical Orthopaedic Rehabilitation. Elsevier, 2004.)

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Figura 19.4  Contrazioni concentrica (a) ed eccentrica (b) del muscolo bicipite brachiale, eseguite con l’impiego di un elastico.









la contrazione eccentrica consiste nell’opposizione del muscolo alla sua distensione (per esempio il bicipite brachiale si contrae in modo eccentrico per controllare l’estensione del gomito prodotta da una forza esterna) (Figura 19.4b); la contrazione isometrica avviene senza accorciamento del muscolo, perciò senza movimento articolare; questi esercizi sono utilizzati quando il muscolo è troppo debole per eseguire una contrazione isotonica, oppure quando il segmento è immobilizzato in un apparecchio gessato, o ancora nell’immediato postoperatorio, quando l’escursione articolare risulta dolorosa e si vuole iniziare un precoce recupero muscolare; la contrazione è detta isotonica quando il muscolo modifica la sua lunghezza sviluppando una tensione pressoché costante nell’arco di movimento (nella pratica clinica si identifica spesso con la contrazione concentrica o eccentrica) (Figura 19.5); si parla infine di contrazione isocinetica quando l’attività muscolare è compiuta a una velocità angolare costante durante tutto l’arco di movimento.

Figura 19.5  Contrazione isotonica del muscolo quadricipite ( ) in un paziente con stivaletto gessato; il ginocchio viene mantenuto in una posizione fissa.

Nell’esercizio concentrico convenzionale la resistenza applicata alla leva scheletrica rimane costante, ma per il variare del sistema di leve lungo l’arco di movimento, il carico applicato è massimo solo nel punto di minore vantaggio meccanico del muscolo, cioè all’estremità dell’escursione articolare. Nell’esercizio isocinetico, invece, l’impiego di particolari dinamometri (apparecchiature isocinetiche) fa sì che il lavoro sviluppato sia massimo istante per istante, mentre il carico varia nel tempo in modo tale da mantenere costante la velocità angolare del segmento scheletrico (Figura 19.6).

Rieducazione funzionale Non esiste una separazione netta tra la rieducazione funzionale e gli esercizi precedentemente descritti, in quanto tutti sono finalizzati al recupero della funzione motoria. Alcuni aspetti tuttavia rappresentano in un certo senso una sintesi della terapia e come tali vengono avvertiti dal paziente: la stazione eretta, la deambulazione e le attività della vita quotidiana. La rieducazione alla stazione eretta è un problema costante in ambito ortopedico-traumatologico, pur essendo comune a tutte le malattie che comportano un protratto allettamento del paziente, ed è propedeutica alla ripresa della deambulazione. In genere si procede per tappe, preparando il paziente alla posizione seduta, per poi passare alla verticalizzazione. Anche nella rieducazione alla deambulazione il paziente viene fatto esercitare nell’esecuzione del singolo passo, scomposto nei suoi elementi, per poi integrare il movimento nel trasferimento del peso da un arto all’altro e nella successione dei passi. È necessario che il paziente abbia una buona base di equilibrio statico, per cui sono utilizzati nella progressione della rieducazione dei sostegni, rappresentati in successione dalle parallele, dal girello, dal deambulatore e dai bastoni

19 - Principi di riabilitazione e medicina fisica 341

Figura 19.6   Apparecchiatura (a) ed esercizio (b) isocinetico per i muscoli estensori e flessori del ginocchio destro.

canadesi (Figura 19.7). Attraverso questi sostegni si trasferisce agli arti superiori quella funzione di appoggio e di equilibrio, che in fase iniziale gli arti inferiori non riescono ad assolvere. Ottenuta la ripresa del cammino sul piano è necessario imparare a superare i dislivelli, per cui la fase successiva della riabilitazione consiste nell’insegnare a salire e scendere i gradini. Anche in questo caso si utilizzano inizialmente le parallele e gradini di altezza progressivamente crescente, con esercizi ed espedienti specifici per superare le diverse difficoltà. Per la rieducazione alle attività della vita quotidiana è necessario stabilire quali esercizi siano utili per correggere il deficit funzionale; in alcuni casi, per la compromissione irreversibile di alcuni movimenti, il fine della riabilitazione può essere raggiunto con una radicale trasformazione del gesto (movimenti di compenso) oppure adattando gli utensili alla capacità motoria del paziente.

Figura 19.7

Terapia fisica Comprende svariate metodiche terapeutiche caratterizzate dall’applicazione di agenti fisici all’organismo o a parti di esso. In termini generali si può dire che con queste metodiche, attraverso il calore, la corrente elettrica, le radiazioni o le vibrazioni ultrasonore, si applica una certa quantità di energia ai tessuti biologici per ottenere un effetto terapeutico.

Termoterapia esogena In questo tipo di terapia l’apporto o la sottrazione di energia termica avviene dall’esterno, per cui gli scambi termici si svolgono necessariamente attraverso il rivestimento cutaneo. L’organismo umano ha una temperatura interna di 37 ˚C e attraverso la termoregolazione tende a mantenere questa temperatura costante. In un

  Ausili per la ripresa della deambulazione: parallele (a); girello (b); deambulatore (c); bastoni canadesi (d).

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ambiente freddo quindi l’organismo tende a ridurre la dispersione di calore tramite la vasocostrizione cutanea e nello stesso tempo aumenta la produzione interna di calore con l’attività muscolare volontaria o involontaria (ipertono, brivido e tremore); in un ambiente caldo invece aumenta la dispersione di calore tramite la vasodilatazione cutanea, la sudorazione e la ventilazione. Per la termoterapia esogena interessano tuttavia le risposte locali alle variazioni di calore piuttosto che quelle sistemiche, poiché l’applicazione terapeutica avviene su parti limitate del corpo. La trasmissione del calore può avvenire per conduzione, per convezione e per irraggiamento; nella termoterapia esogena il calore è trasmesso quasi sempre per conduzione. Alcune modalità molto semplici e di uso casalingo sono l’utilizzo della borsa dell’acqua calda o del mattone caldo e il termoforo elettrico; l’applicazione di paraffina calda e il forno ad aria calda (forno Bier) sono invece rimedi più professionali. Nell’applicazione di raggi infrarossi il calore è trasmesso invece per irraggiamento. Gli effetti locali sono una vasodilatazione arteriolare nel sottocutaneo con aumento del flusso ematico, per disperdere il calore assunto, e aumento della sudorazione: nel complesso questo determina un aumento del metabolismo cellulare locale. È presente anche una diminuzione del tono basale della muscolatura striata con effetto miorilassante. Questa terapia è indicata nelle mialgie con contrattura muscolare; è invece controindicata se esiste una situazione di infiammazione acuta.

Termoterapia endogena (marconiterapia) Il passaggio attraverso i tessuti di una corrente alternata ad altissima frequenza oppure di microonde provoca liberazione di calore per effetto Joule; gli effetti terapeutici di questa metodica sono perciò dovuti all’ipertermia in profondità. I generatori di corrente ad altissima frequenza per terapia medica (marconiterapia) utilizzano frequenza tra 10 e 50 MHz, che corrispondono a una lunghezza d’onda di 6-30 m, con una potenza media di entrata di circa 500 W. Sulla parte da trattare è necessario applicare due elettrodi condensatori che possono avere varie forme. Gli elettrodi in questione sono isolati da uno strato di gomma o di bachelite: non devono essere interposti tra l’elettrodo e la cute oggetti metallici oppure indumenti bagnati o resi umidi dal sudore poiché in corrispondenza di essi potrebbe aversi una concentrazione di linee di forza della corrente con pericolo di ustioni.

Le indicazioni per questa terapia sono le sindromi algiche, le nevralgie, le artropatie degenerative, le mialgie con contrattura muscolare, le miositi e le tendiniti; le controindicazioni sono rappresentate dai mezzi di sintesi metallici, dalle emorragie in atto, dalle arteriopatie e dai processi flogistici acuti.

Crioterapia Consiste nell’applicazione locale del freddo (sottrazione di calore) a scopo terapeutico; in pratica viene utilizzata la borsa del ghiaccio, appoggiata sulla cute ma isolata da uno strato di materiale coibente (di solito lana). Essa determina vasocostrizione, con una serie di effetti secondari: ● favorisce l’emostasi; ● riduce l’edema interstiziale o il versamento articolare in caso di infiammazione; ● ha effetto analgesico. È utilizzata soprattutto nelle ore immediatamente successive a traumi o interventi chirurgici, ma è controindicata quando vi è sofferenza cutanea a rischio di necrosi.

Radarterapia Le microonde utilizzate per terapia medica hanno lunghezza d’onda di 12,4 cm. La loro penetrazione nei tessuti organici dipende dalla lunghezza d’onda e dalla costante dielettrica del tessuto stesso; pertanto i tessuti a basso contenuto di acqua (tessuto sottocutaneo e tessuto adiposo) hanno scarsa conducibilità elettrica, mentre quelli con elevato contenuto idrico (per esempio il muscolo) hanno costante dielettrica elevata e un assorbimento percentuale dell’energia radiante più elevato. Le indicazioni e le controindicazioni sono le stesse della marconiterapia.

Ultrasuoni Gli ultrasuoni sono vibrazioni che si estendono oltre la zona di percezione dell’orecchio umano. Anch’essi, come gli agenti fisici descritti sopra, cedono energia ai tessuti che attraversano determinando un’ipertermia locale. Sono stati anche dimostrati un effetto battericida, un effetto litico sui piccoli protozoi e un’azione sulle cellule dei tessuti: tuttavia queste osservazioni si riferiscono all’ambito sperimentale e non alla dosimetria

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utilizzata nelle applicazioni cliniche. I generatori per uso medico sfruttano le caratteristiche piezoelettriche dei cristalli di quarzo con erogazione di potenza variabile da 1 a 5 W/cm2 attraverso una testa vibrante o transduttore. Quest’ultimo deve essere mosso con perfetta aderenza alla cute, poiché anche la più piccola interposizione di aria arresta la penetrazione delle onde; per questo motivo la cute nella parte da trattare viene spalmata con glicerina, creme o altre paste grasse. Il trattamento diretto viene eseguito mediante un lento movimento del transduttore mantenuto perpendicolare al piano cutaneo (Figura 19.8). Un’altra modalità di applicazione è il trattamento indiretto subacqueo, infatti le onde sonore vengono uniformemente trasmesse dal mezzo liquido; in questo caso la parte da trattare viene immersa in un recipiente d’acqua. In Ortopedia gli ultrasuoni trovano indicazione nelle tendinopatie (spalla, gomito ecc.), nelle nevralgie e come terapia sintomatica nelle artropatie degenerative. Le controindicazioni sono rappresentate dalle affezioni cardiache (è sconsigliata l’applicazione nell’area cardiaca anche nei soggetti sani), dalle trombosi e tromboflebiti, dai tumori.

Figura 19.8

 Impiego degli ultrasuoni sulla spalla.

Laserterapia La laserterapia è una terapia fisica che ricorre a un tipo particolare di radiazioni luminose (LASER è l’acronimo di Light Amplification by Stimulated Emission of Radiation). La luce laser è caratterizzata dall’essere monocroma, di forte intensità e focalizzata. La capacità di penetrazione del raggio nei tessuti biologici dipende dalla lunghezza d’onda del raggio stesso e in genere la profondità raggiunta è di circa 20-30 mm. Esistono diversi tipi di laser a scopo terapeutico (CO2, He-Ne, As-Ga): sostanzialmente producono tutti un effetto antalgico (grazie all’innalzamento della soglia del dolore) e stimolante (grazie all’aumento dell’energia intracellulare che favorisce la formazione di adenosina trifosfato). Le principali indicazioni sono le tendinopatie, le infiammazioni dei tessuti molli e le algie articolari superficiali; la laserterapia è invece controindicata in gravidanza e nelle neoplasie.

Ipertermia L’ipertermia è una metodica terapeutica recente e innovativa che ha come caratteristica principale quella di imporre a una determinata parte del corpo un ciclo termico specifico e accurato per quella parte e per quel tipo di patologia. Garantisce una localizzazione precisa sul punto dove viene applicata l’energia, diminuendo la dispersione di calore che si ha in genere con altre terapie nell’attraversamento dei tessuti prima di raggiungere il bersaglio. La frequenza di lavoro varia dai 2500 MHz ai 500 MHz, in modo da aumentare la capacità di penetrazione; inoltre, grazie a un sensore termico, è possibile avere un costante controllo della temperatura. Le principali indicazioni sono rappresentate da tendinopatie, rachialgie, traumi sportivi (contusioni, distorsioni, ematomi, contratture e stiramenti muscolari) e artrosi dei diversi distretti. È controindicata in caso di gravi cardiopatie, metastasi tumorali, affezioni dermatologiche acute, oltre che nei portatori di pacemaker e in gravidanza.

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Biomateriali e dispositivi biomedici in ortopedia e traumatologia

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Paolo Tranquilli Leali

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Biomateriali Il termine biomateriale compare nella letteratura internazionale intorno agli anni Sessanta, ma la prima definizione scientifica risale alla Consensus Conference organizzata dalla Società europea dei biomateriali a Chester (UK) nel 1986: «A nonviable material used in a medical device, intended to interact with biological systems»*. Sempre a Chester, nella seconda Consensus Conference del 1992, se ne ampliò ulteriormente la definizione: «A material intended to interface with biological systems to evaluate, treat, augment, or replace any tissue, organ, or function of the body»**. Risulta evidente come si sia passati da una definizione di tipo statico a una più dinamica, che vede il materiale interagire con i tessuti viventi al fine di modificare, condizionare o influenzare la risposta biologica dei tessuti ospiti. Negli anni, l’impiego dei biomateriali è diventato sempre più diffuso: basti pensare che ogni anno nel mondo vengono impiantati più di 75 milioni di lenti a contatto, 1.200.000 protesi d’anca e ginocchio, 300 milioni di cateteri, più di 2 milioni di stent cardiovascolari, 300.000 impianti mammari e tante altre applicazioni. Tale settore genera un fatturato superiore ai 100 miliardi di dollari e richiede continui e cospicui investimenti per la ricerca e lo sviluppo di nuovi materiali e nuove applicazioni cliniche. * Un materiale non vitale, impiegato in un dispositivo biomedico, progettato per interagire con i sistemi biologici. ** Un materiale progettato per interagire con sistemi biologici al fine di valutare, curare, potenziare o sostituire qualsivoglia tessuto, organo o funzione del corpo.

Classificazione Volendo classificare i biomateriali si possono distinguere quattro grandi categorie: metalli, ceramiche, polimeri e compositi. Poiché questi materiali vengono impiegati in dispositivi sottoposti a sollecitazioni meccaniche, ne deriva che tendono a deformarsi. Tale deformazione è conseguente allo spostamento, a livello microscopico, degli atomi dalla loro posizione di equilibrio; questo genera una forza uguale e opposta che tende a opporsi alla deformazione e a riportare il solido alla forma originale nel momento stesso in cui la forza non viene più applicata, a meno che non sia sopravvenuta la rottura o la deformazione permanente del materiale. La deformazione che si produrrà potrà essere: ● elastica, che sarà reversibile; ● plastica, che sarà permanente; ● viscoelastica, che dipenderà dal tempo di applicazione della forza e dalle caratteristiche fisiche del materiale. Il comportamento del materiale è ben definito dal diagramma forza-deformazione. Questa relazione, nota anche come legge di Hooke, fu descritta nel 1678  da Sir Robert Hooke, il quale dimostrò che applicando una sollecitazione a un solido si ottiene una deformazione che è lineare sino a un punto P. Da quel punto in poi il materiale abbandona il dominio elastico ed entra in quello plastico: in pratica alla cessazione della sollecitazione (σ) non vi è più il recupero totale della deformazione (ε) e il materiale non ritorna più alla sua forma geometrica iniziale. La retta OP, definendo una relazione

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Figura 20.1  Diagramma forzadeformazione (stress-strain).

lineare fra la forza applicata e la conseguente elongazione, indica una costante di proporzionalità che è detta modulo di elasticità o modulo di Young e dipende dalla pendenza della curva stress-deformazione. Come si può vedere nella Figura 20.1, il diagramma è in grado di definire il modulo elastico, il limite elastico E, il punto di snervamento Y, il punto ultimo di resistenza U e il punto di rottura R. La pendenza e la forma della retta e delle curve sono proprie di ciascun materiale, a parità di sollecitazione e geometria del provino utilizzato per testarlo: più la pendenza della retta OP sarà verticale più il materiale avrà un modulo elastico elevato e un comportamento fragile, mentre quanto minore sarà la pendenza della retta OP tanto più il materiale avrà un comportamento plastico e si deformerà in modo permanente. Alla prima condizione appartengono materiali come l’allumina (un materiale ceramico) e le leghe di cromo-cobalto, mentre alla seconda condizione il titanio e il rame. In pratica la legge di Hooke ci dice che l’intensità dello sforzo sigma è uguale al prodotto della deformazione per la pendenza della curva: quanto minore sarà la pendenza tanto minore sarà lo sforzo necessario per generare una deformazione maggiore, e viceversa. Ovviamente questo diagramma può essere costruito in condizioni meccaniche diverse, applicando deformazioni in compressione, trazione, taglio e torsione a provini di materiali differenti.

Metalli I metalli di più comune impiego in chirurgia ortopedica sono gli acciai inossidabili, le leghe di cromo cobalto e le leghe di titanio. Leghe di acciaio

Le leghe di acciaio, i cosiddetti acciai inossidabili, contengono percentuali variabili di cromo, nichel, molibdeno e ferro a equilibrio percentuale. Si chiamano inossidabili perché in realtà sono preossidati con miscele acide a caldo, che favoriscono lo sviluppo di un film di passivazione sulla superficie del metallo. Sebbene questo film di ossidi lo protegga dalla corrosione anche in un ambiente ricco in cloro come il corpo umano, l’acciaio ha pur sempre una bassa resistenza alla fatica e ad alcuni tipi di corrosione galvanica, soprattutto quando si sviluppano differenze di potenziale su zone diverse del materiale o zone di accoppiamento (come l’accoppiamento foro-vite in una placca); inoltre ha una bassa durezza superficiale. Pertanto gli acciai non sono indicati per impianti a lungo termine sottoposti a forti sollecitazioni meccaniche, come le protesi articolari, ma trovano applicazione soprattutto nei mezzi di osteosintesi utilizzati per la stabilizzazione delle fratture (Figura 20.2a). Questi impianti sono destinati a un impiego limitato nel tempo,

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Figura 20.2  Esempi di mezzi di osteosintesi. Chiodo cefalo-midollare per l’osteosintesi delle fratture del femore prossimale (a); viti in materiale biodegradabile (b); placca per fratture dell’omero prossimale (c); fissatore esterno per fratture di polso (d).

nell’attesa che la guarigione della frattura ricostituisca la capacità meccanica dell’osso. A loro vantaggio vanno il costo relativamente basso e la facile lavorabilità, anche in officine con basso livello di specializzazione. La lega più utilizzata in campo medico è l’acciaio 316 LN. Le leghe di cromo cobalto

Le leghe di cromo cobalto hanno come principale costituente il cobalto, con aggiunte variabili di cromo, nichel e molibdeno; hanno un modulo di elasticità almeno doppio rispetto alle leghe in acciaio e un’eccellente resistenza alla corrosione. Sono però di più difficile lavorazione, in quanto devono essere lavorate prevalentemente per fusione, e hanno un comportamento meccanico di fatto più fragile. Se tuttavia sono progettate in modo adeguato, da un punto di vista dimensionale sono estremamente indicate per impianti a lungo termine, quali alcune componenti delle protesi articolari (steli femorali cementati, testine femorali, protesi di ginocchio) (Figura 20.3d). Le leghe di titanio

Le leghe in titanio sono arrivate solo dopo la Seconda guerra mondiale negli impieghi biomedici, soprattutto perché di difficilissima lavorazione. Il titanio è infatti un materiale che reagisce vivacemente in ambiente d’ossigeno e si passiva spontaneamente anche in ambiente a basso tenore di ossigeno e ricco di cloro. Ha un modulo elastico che è circa la metà delle leghe in acciaio, il che lo rende relativamente più duttile e più

vicino al comportamento meccanico dell’osso corticale. La sua ottima resistenza alla corrosione e alla fatica, anche in ambiente aggressivo, lo rende adatto all’impiego non solo nei mezzi di sintesi ma anche nelle protesi articolari. La sua reattività superficiale consente anche trattamenti sulla sua superficie, al fine di modificarne le caratteristiche meccaniche e/o biologiche con la deposizione di sostanze bioattive o osteoconduttive. Dal punto di vista della biocompatibilità, tutti i materiali metallici garantiscono un’adeguata resistenza meccanica; tuttavia all’interfaccia metallo-osso non si riesce ad avere mai una perfetta integrazione del biomateriale, perché permane sempre uno strato, più o meno spesso, di tessuto fibroso interposto. Tale strato è più sottile quando si impiegano leghe di titanio, ma è pur sempre presente. Pertanto è stata sviluppata una varietà di tecniche di rivestimento superficiale con materiali biomimetici in grado di ingannare le cellule ossee nascondendo loro il metallo: tra questi rivestimenti l’idrossiapatite è il materiale biomimetico più largamente impiegato. L’aumento della superficie di contatto si può ottenere anche utilizzando metalli con una struttura porosa; in questa maniera si ottiene una maggiore interferenza meccanica, che da un lato fornisce un’ottima stabilità primaria e dall’altro favorisce una stabilità secondaria più duratura attraverso la crescita dell’osso nei pori. Di questa categoria di metalli fanno parte il tantalio e il tritanio (si veda la Figura 20.3c). Il tantalio è una struttura composita che nasce con una porosità superiore all’80% su una struttura reticolare

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Figura 20.3  Esempi di materiali utilizzati nelle protesi articolari. Artroprotesi d’anca non cementata: stelo femorale con rivestimento in idrossiapatite, testa e inserto acetabolare in ceramica (allumina), cupola acetabolare (metal back) in lega di titanio rivestita di idrossiapatite (a); inserto acetabolare in polietilene (da impiantare con metal back) (b); metal back in tritanio con porosità 72% (c); artroprotesi di ginocchio in lega di cromo cobalto e polietilene (d).

in carbonio, a cui viene fatto aderire del tantalio puro con una tecnica di deposizione/infiltrazione. Il tritanio è invece una struttura porosa al 72%, realizzata da una matrice di titanio puro. Al confine tra metalli e ceramiche si trova l’oxinium, una lega al 97,5% di zirconio e 2,5% di niobio, sulla cui superficie, grazie a un processo di diffusione termica, si fa sviluppare uno strato di circa 5 m di zirconia, un ossido ceramico. In tale modo si ottiene una superficie molto più dura di una lega metallica e con eccellenti proprietà tribologiche.

Ceramiche Le ceramiche inerti e bioattive sono largamente impiegate in chirurgia ortopedica. Le ceramiche inerti come l’allumina (Al2O3) sono usate da molti anni come teste femorali nelle protesi d’anca, grazie alla loro resistenza all’usura e alle caratteristiche tribologiche favorevoli (si veda la Figura 20.3a). Le ceramiche bioattive sono impiegate soprattutto come rivestimenti per migliorare l’osteoconduzione e la stabilità dell’impianto. La scoperta che gli osteoblasti possono crescere sulle superfici di idrossiapatite artificiale, non soltanto sul materiale compatto ma anche sui rivestimenti plasma spray (ovvero ottenuti proiettando ad altissima velocità sul substrato le particelle

fuse della sostanza di rivestimento) ha diffuso notevolmente queste tecniche. Di fatto l’idrossiapatite, mascherando il metallo sottostante, promuove una risposta favorevole del tessuto osseo circostante nei confronti dell’impianto (si veda la Figura 20.3a). Variando poi la cristallinità del rivestimento di idrossiapatite se ne possono modificare la resistenza meccanica e la velocità di degradazione all’interno del corpo umano: le idrossi a patiti meno cristalline e più amorfe sono usate prevalentemente come riempitivi di cavità o cunei, poiché vengono sostituite da osso neoformato man mano che degradano. I biovetri sono i principali rappresentanti delle ceramiche bioattive e sono stati scoperti negli anni Settanta da Larry Hench, che individuò una particolare composizione vetrosa in grado di stimolare la crescita delle cellule ossee e chiamò questa categoria di vetri Bioglasses. Il biovetro può essere reso più o meno degradabile ed essere utilizzato non solo come riempitivo, ma anche come rivestimento superficiale di impianti e mezzi di sintesi. La caratteristica principale del biovetro è che la sua degradazione passa attraverso una serie di reazioni superficiali che portano, previa formazione di un gel amorfo ricco in silicio, allo sviluppo di uno strato di idrossicarbonato di apatite sulla superficie del vetro; in questo gel vengono attratti osteoblasti e fattori di crescita, che stimolano la formazione di tessuto osseo.

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Polimeri I polimeri si dividono in due grandi categorie: non degradabili e degradabili. Polimeri non degradabili

I principali rappresentanti di questa categoria sono il polimetilmetacrilato e il polietilene. Polimetilmetacrilato (PMMA)  È

più comunemente conosciuto come cemento osseo e con il nome commerciale di plexiglass o perspex. Questo materiale, inizialmente utilizzato per produrre vetri di sicurezza, fu impiegato come biomateriale negli anni Trenta per le otturazioni dentali, ma le sue scarse caratteristiche meccaniche ne determinarono l’insuccesso. Nel 1941, dopo la battaglia d’Inghilterra, i medici della RAF notarono che i frammenti di plexiglass (gli spitfire inglesi furono tra i primi aerei ad adottare nelle cabine il parabrezza in questo materiale), inclusi nelle ferite al volto dei piloti, non inducevano granulomi, a differenza di quelli in vetro. Da questa osservazione nacquero le lenti intraoculari, ancora oggi realizzate in PMMA, partì una serie di tentativi d’uso clinico (quali ricostruzioni della teca cranica, sostituzione protesica della testa del femore ecc.). Tuttavia, le applicazioni erano limitate da due motivi principali: il primo era che la lavorazione poteva essere effettuata soltanto sotto vuoto intorno ai 100 ° C, il secondo che la scarsa resistenza del materiale all’usura comportava una liberazione massiva di particelle di PMMA, che causavano reazioni granulomatose tanto importanti da essere definite acrilosi. La scoperta della polimerizzazione a freddo, grazie all’impiego di ammine terziarie e di acceleratori, ne rese possibile l’impiego estemporaneo anche in sala operatoria. Negli anni Cinquanta numerosi autori ne compresero le potenzialità come “cemento”, finché John Charnley ne standardizzò l’impiego nella chirurgia protesica dell’anca. Dopo quelle esperienze pionieristiche si cercarono di migliorare i risultati clinici delle protesi articolari perfezionando le tecniche di cementazione. Gli sforzi furono incentrati su due aspetti principali: il miglioramento della penetrazione del cemento nell’osso spongioso, al fine di migliorare l’interferenza meccanica e di conseguenza la stabilità primaria dell’impianto, e l’ottimizzazione delle caratteristiche meccaniche e strutturali del PMMA. I progressi più significativi hanno riguardato la tecnica di miscelazione, la pressurizzazione della mescola e la preparazione dell’interfaccia ossea.

La tecnica di miscelazione è uno dei fattori che più influenzano le proprietà meccaniche del cemento, poiché la preparazione di una miscela omogenea si traduce in una scarsa presenza di bolle d’aria al suo interno. Questo accorgimento riduce l’effetto di concentrazione degli stress legati alla presenza di pori, che possono rappresentare il punto d’inizio di microfratture responsabili di un precoce cedimento del materiale. La miscelazione viene oggi effettuata sottovuoto, utilizzando apposite pistole per l’introduzione nell’osso del cemento, che viene anche sottoposto a una pre-pressurizzazione. La preparazione della superficie ossea con lavaggi pulsati minimizza infine la presenza di sangue all’interfaccia osso-PMMA, migliorandone la qualità. Il PMMA è stato utilizzato anche come sistema per il rilascio locale di antibiotici al fine di eradicare, in associazione con un’accurata pulizia chirurgica, osteomieliti e infezioni periprotesiche resistenti alla sola terapia antibatterica sistemica. Al cemento sono stati anche miscelati chemioterapici per il trattamento locale di tumori ossei. La vertebroplastica e la cifoplastica sono le applicazioni più recenti del PMMA come filler di fratture vertebrali da fragilità o patologiche (Figura 20.4): l’introduzione della miscela riempie e stabilizza il corpo vertebrale fratturato, consentendo un controllo immediato del dolore. Polietilene  Un

altro polimero non degradabile di largo impiego in chirurgia ortopedica è il polietilene. È opportuno ricordare che lo sviluppo del polietilene ad alta densità, realizzato a temperature e pressioni relativamente basse, fu possibile grazie alla scoperta di appositi catalizzatori da parte di Ziegler e Natta, che per questa scoperta furono insigniti del premio Nobel per la chimica nel 1963. In campo ortopedico si utilizza il polietilene a elevatissimo peso molecolare, detto anche UHMWPE (acronimo inglese di Ultra High Molecular Weight Polyethylene). Questo viene prodotto a partire da polveri per uso biomedico dalle quali, per compressione o per estrusione, si possono ottenere manufatti di diversa forma e dimensione atti a realizzare alcune componenti articolari delle protesi (si veda la Figura 20.3b,d). Il polietilene è un materiale che non interagisce in maniera positiva con i tessuti circostanti, ma al massimo ha un comportamento “inerte”, perché l’organismo tende a confinarlo. Se tuttavia viene sottoposto ad attrito volvente, come in un’articolazione protesica, tende a usurarsi e a cedere particelle: se si verifica un consumo lineare di 0,2 mm/anno, si rischia una riduzione del 75% della durata della protesi per osteolisi periprotesica, provocata da una massiva reazione granulomatosa ai detriti di polietilene.

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Figura 20.4  Radiografia del rachide lombare che mostra la presenza di fratture vertebrali somatiche con tipica deformazione a farfalla (a); dopo introduzione del PMMA si osserva il riempimento dei due corpi vertebrali con parziale recupero della normale morfologia (b).

La soluzione di questo problema è stata ricercata con due approcci diversi, ma complementari. Il primo è consistito nel migliorare le caratteristiche tribologiche dell’accoppiamento tra polietilene e testina femorale grazie all’impiego di metal back sulla cupola (questo ha reso più omogenea la sollecitazione evitando aree di sovraccarico) e nel miglioramento della finitura superficiale nelle componenti cefaliche metalliche. Queste sono state anche sostituite con testine in ceramica (allumina), tribologicamente migliori sia per la finitura superficiale sia per la bagnabilità della superficie. L’accoppiamento UHMWPE con metal back e testa in ceramica è in grado di ridurre l’usura del polietilene di ben un ordine di grandezza. Il secondo approccio si è dedicato allo sviluppo di polietilene con migliori caratteristiche meccaniche e comportamento tribologico migliore. Questi obiettivi sono stati ottenuti riducendo la presenza di radicali liberi all’interno del polietilene sia attraverso differenti tecniche di reticolazione (cross linking) sia con l’addizione di sostanze, come la vitamina E, in grado di intrappolare i radicali liberi responsabili nel tempo dell’ossidazione e della conseguente compromissione fisico-meccanica del materiale.

per poi degradare ed essere riassorbiti all’interno del corpo umano senza necessità di un ulteriore intervento chirurgico per la loro rimozione (si veda la Figura 20.2b). I materiali che sono stati sviluppati, sin dagli anni Novanta, per queste finalità sono soprattutto miscele di acido poli-lattico. Le principali problematiche ancora irrisolte consistono nel mettere in fase la degradazione – e quindi la perdita delle caratteristiche meccaniche del manufatto – con la formazione di un callo osseo meccanicamente valido.Inoltre i tempi di degradazione non corrispondono ai tempi di riassorbimento, cioè al tempo necessario alle cellule ospiti per rimuovere i detriti della degradazione, per cui sono possibili reazioni infiammatorie anche a distanza di mesi dalla guarigione della frattura. In applicazioni cliniche meno impegnative dal punto di vista meccanico, come le viti a interferenza utilizzate nella chirurgia del legamento crociato o le sutureancore in chirurgia della spalla o i chiodini nella chirurgia della mano, questi materiali sono correntemente utilizzati.

Compositi

Polimeri degradabili

Il motivo principale per cui sono stati realizzati i materiali biodegradabili in Ortopedia è stato il desiderio di sviluppare sistemi di osteosintesi in grado di stabilizzare la frattura per il tempo necessario alla sua guarigione,

L’impiego di materiali compositi, realizzati incorporando fibre di carbonio in una matrice di resine epossidiche, si è sviluppato soprattutto nell’ingegneria aerospaziale. Il vantaggio ottenuto è stato quello di sostituire le leghe

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metalliche con un materiale più leggero ma, grazie a un direzionamento opportuno delle fibre di carbonio, con uguale o addirittura superiore resistenza meccanica nello specifico impiego. Questi materiali, utilizzati per sostituire chiodi e placche da osteosintesi in metallo, si sono rivelati inadatti all’impiego all’interno del corpo umano perché, per fenomeni di usura superficiale, possono liberare frammenti di fibre di carbonio con potenziali effetti fibrogenici e, secondo alcuni autori, anche cancerogeni. Si sono pertanto cercati materiali alternativi, utilizzando ceramiche, polimeri degradabili, idrossiapatiti e polietilene. Alcune di queste applicazioni sono utilizzate nella chirurgia dei piccoli frammenti e in Otoiatria.

Dispositivi biomedici Considerando solo le principali applicazioni, si distinguono dispositivi per: ● osteosintesi; ● ricostruzione articolare; ● ricostruzione ossea.

I dispositivi per l’osteosintesi sono principalmente utilizzati per il trattamento delle fratture: in questa categoria rientrano viti, placche, chiodi, fissatori esterni ecc. (si veda la Figura 20.2). I dispositivi per la ricostruzione articolare comprendono, invece, tutte le protesi articolari parziali o totali utilizzabili nelle nostre articolazioni (si veda la Figura 20.3). I dispositivi per la ricostruzione ossea comprendono una larghissima varietà di materiali e forme utilizzati come riempitivi o cunei di addizione. Possono essere di natura sintetica o naturale e anche compositi: si pensi ai granuli di idrossiapatite additivati di fattori di crescita e cellule staminali autologhe. Materiali biomimetici in grado di interagire direttamente con i tessuti circostanti: è questa la frontiera più interessante della ricerca clinica che ci farà capire, come detto da Williams, «how man-made becomes man-like».

Si ringrazia la Stryker Italia per la gentile concessione delle immagini dei dispositivi medici presentati all’interno del capitolo.

Questa pagina è stata lasciata bianca intenzionalmente.

Indice analitico I numeri di pagina seguiti da “f” o “t” indicano rispettivamente una figura o una tabella.

A Acetabolo, 29f ——fratture, 281, 282 ——insufficienza, 35 Acondroplasia, 42 Acromion, 160 Acrosindattilie, 181 Adams, test, 53, 54f Akin, intervento, 138 Ala iliaca, fratture trasversali, 280 Albers-Schonberg, malattia, 113 Algodistrofia, 233 Alluce valgo, 135, 138f, 139f Amartoma, 86 Anca, 172, 173 ——artroprotesi, 121f ——displasia e lussazione congenita, 27, 29f, 118f ——epifisiolisi, 61 ——frattura-lussazione, 282f ——lussazioni, 282f, 320, 321f ——morbo di Perthes, 48f ——periartrite, 173 ——protesi, 126 —— — totale, 289 Anchilosi, 83, 130 Anulus fibrosus, 145, 146f, 153f Apert, sindrome, 181, 182f Aplasia/e, 180, 181f ——centrali atipiche, 183 Apley, test, 327 Apofisi ——ossificazione, 46, 53f ——posteriore, osteocondrosi, 49 Aponevrosi palmare media, 200 Archi ——mano, 264 ——piede, 66f Articolazione/i ——acromio-claveare, 313 ——classificazione, 306 ——deformità acquisite, 135 ——femoro-rotulea, 132, 133f, 322 ——interfalangee, 128, 195, 196 ——intersomatiche, 145 ——lesioni traumatiche, 305 ——metacarpofalangee, 128, 197 ——metatarsofalangea dell’alluce, 135, 136f ——movimenti, 15t ——protesi, materiali, 348f

——scapolo-omerale, 307 ——tibio-tarsica, 298, 330, 331f —— — traumi, 332f ——trapezio-metacarpale, 193 ——unco-vertebrali, 146 Arto/i ——inferiore, assi, 142 ——malformazioni, 28t ——superiore, paralisi ostetriche, 38, 40f Artrite ——da deposito di pirofosfato di calcio, 132 ——da microcristalli, 130 ——gottosa, 131 —— — podagra, 131 ——psoriasica, 130, 131t ——reumatoide, 127 —— — diagnosi, 128, 129t —— — terapia, 129 ——settica, 75, 83, 84f, 205 Artrogriposi, 181 Artropatia/e, 117 ——classificazione, 130 ——emorragiche, 130 —— — stadi dei versamenti emorragici, 130 ——infiammatorie, 130 —— — artriti da microcristalli, 130 —— — spondiloartriti sieronegative, 130 ——pagetica, 113f ——rottura della cuffia dei rotatori, 165 Artrosi, 117, 121f ——classificazione radiografica, 124t, 125f ——deformante delle dita, 195, 196f ——deviazione assiale del ginocchio, 140 ——idiopatica, 118 ——post-traumatica, 233 ——radiografia tradizionale, 124 ——RM, 125 ——scintigrafia ossea, 125 ——secondaria, 118, 123 ——TC, 125 ——terapia, 126 Ascessi ——“a bottone di camicia”, 205 ——ossifluenti, 80, 81 ——profondi, 205 Assi, arto inferiore, 142

Astragalo ——fratture, 298, 299f ——piede torto congenito, 36 Atlante, fratture, 272 Austin-Chevron, osteotomia, 138 Avambraccio, 252f ——anatomia, 251 ——fratture, 251, 253–255 Avampiede ——“spianato”, alluce valgo, 136 ——sovraccarico funzionale, 71 Avulsioni della tuberosità ischiatica, 281 B Bacino, 172, 173 ——fratture, 279, 280f ——manifestazioni sclerotiche della malattia di Paget, 113f ——shock ipovolemico, 279 Bado, classificazione, 254f Ballottamento rotuleo, segno, 14f Bankart, lesione, 312f, 313 Barlow, manovra, 30 Barra disco-osteofitaria, 147 Bennet, frattura, 265f Biomateriali, 345 ——classificazione, 345 ——mezzi di osteosintesi, 347f Blauth, classificazione, 180t Blount, malattia, 140 Böhler, angolo, 300 Borsite, 136 ——mediale alla testa del primo metatarso, 135f, 137 ——retrocalcaneare, 128 ——trocanterica, 173 Bouchard, noduli, 122, 196f Brachidattilia, 183 Brachimetacarpia, 183 Brachisindattilie, 183 Branche ileo- e ischio-pubica, fratture isolate, 281 Briglie amniotiche, sindrome, 183 C Calcagno ——fratture, 22f, 299, 301f ——malattia di Sever-Blenke, 49 ——prominenza del margine superiore della tuberosità, 175f ——sovraccarico funzionale, 71

354 Indice analitico

Callo osseo, 224, 225 Camper, chiasma, 212 Camptodattilia, 179, 181 Canale ——Guyon, 190 ——vertebrale, stenosi, 150f Capitello radiale, fratture, 250 Capitulum humeri, frattura, 249f Capo lungo del bicipite brachiale, 159 ——sublussazione, 169f ——tendinopatie, 168 Capsulite adesiva, 171 Carpo, fratture, 259, 265f Cartilagine, 226 ——acetabolare, 29f ——articolare (ialina), 119, 120f ——di accrescimento, 7, 9f ——rotulea, fissurazione, 133 Catterall, gruppi radiografici, 47, 48f Cauda equina, sindrome, 60, 156 Caviglia ——distorsioni della tibio-tarsica, 330 ——legamenti, 330, 331f Cavismo idiopatico, 71 Cementoplastica, procedure, 276 Cervicalgia, 148 Cervicobrachialgia, 148, 149t, 151 Cierny-Mader, classificazione, 73, 74 Cifosi, 57 ——posturale, 57 ——toracica, 55 Cingolo pelvico ——fratture con interruzione, 279, 280f ——fratture senza interruzione, 280 Cisti ——aneurismatica, 100 ——mucoidi, 196 ——ossea, 98 Classificazione ——AO, 253–256 ——aplasia del pollice, 180t ——Bado, 254f ——biomateriali, 345 ——Blauth, 180t ——Catterall, 47 ——Cierny-Mader, 73, 74 ——Danis-Weber, 297, 298f ——Dell, 194, 195t ——distacchi epifisari, 234, 235 ——ecografica della displasia congenita dell’anca secondo Graf, 32f, 33t ——epifisiolisi dell’anca, 62 ——Fernandez, 256, 257f ——Frankel, 271t ——fratture, 222 ——Garden, 286 ——Herbert, 259, 260f, 263f ——Herring, 47, 48f

——Herzberg, 318f ——Lauge-Hansen, 297, 298f ——lesioni tendinee della mano, 212, 213f, 216, 217 ——lussazioni acromio-claveari, 313, 314f ——malattia di Dupuytren, 202 ——malformazioni congenite della mano, 179t ——Mason, 251f ——Milch, 249f ——osteogenesi imperfetta, 114, 115t ——osteomieliti, 73, 74t ——piede cavo, 70, 71f ——piede piatto, 66 ——radiografica dell’artrosi, 124t, 125f ——rotture della cuffia dei rotatori, 163–165 ——Salter-Harris, 234, 235 ——Sanders, 300 ——scoliosi, 52 ——Sillence, 114, 115t ——Swanson, 179 ——Tsuge, 210 ——Tubiana, 202 ——tumori ossei primitivi, 86t ——Witse, 59 ——Wolfe, 199 ClaudeBernard-Horner, sindrome, 40 Clavicola, fratture, 223f, 239, 240f Clinodattilia, 182 Cobb ——angolo, 54, 55f ——metodo, 52, 54, 55 Coccige, fratture trasversali, 280 Codman, triangolo, 92 Colles, frattura, 257 Colonna vertebrale ——deformità progressive nell’osteoporosi, 106f ——fratture. Vedi Vertebre Complex regional pain syndrome (CRPS), 207 ——tipo I, 208t Condili, 248 ——occipitali, 272 Condroblastoma, 89 Condrociti autologhi, impianto, 51 Condrolisi, 64, 65f Condroma, 88 Condromalacia, 133 Condropatia, 132 ——femoro-rotulea, 132 Condrosarcoma, 89 Conflitto ——femoro-acetabolare, 122, 124f ——subacromiale, sindrome, 160 Contusioni, 178 Coronoide, fratture, 250 Coxa plana osteocondrosica, 47 Coxartrosi, 35f, 36, 118f, 121 Coxite tubercolare, 82 Coxopatia pagetica, 112

CRPS. Vedi Complex regional pain syndrome (CRPS) Cruralgia, 173 Cuffia dei rotatori, 159 ——lesioni, 167f ——rottura, 163 Cuscinetti fibrosi dorsali, 202 D Danis-Weber, classificazione, 297, 298f Dattilite, 131 De Quervain, malattia, 194, 197, 199 Debridement, 126 Deformità ——“a colpo di vento” della mano, 128 ——acquisite delle articolazioni, 135 ——DISI, 261f ——en boutonnière, 217 ——Haglund, 175 ——ossee, 111 ——scafoide, 264f ——sindrome di Volkmann, 210, 211f Dejerine-Klumpke, paralisi, 40 Delitala, segno, 155 Dell, classificazione, 194, 195t Denis, schema delle tre colonne, 270 Dente dell’epistrofeo, fratture, 272, 273f Dermatomeri, 17f Diafisi ——femorale, fratture, 290 ——omerale, fratture, 244, 246f Dischi intervertebrali, 146f ——anatomia, 145 ——ernia, 145 ——sollecitazioni meccaniche, 153f Disciti dell’infanzia, 83 Discopatia degenerativa cervicale, 147f Displasia/e ——anca, 118f ——congenita dell’anca, 27, 30–35 Dispositivi biomedici, 351 Distacchi epifisari, 234, 235f Distorsioni, 305 ——articolazione tibio-tarsica, 330 ——ginocchio, 324 Dito/a ——“a colpo di vento”, 128 ——“a collo di cigno”, 128 ——“a martello”, 137, 217 ——“a scatto”, 197, 199 ——“ad artiglio”, 191 ——“ad asola” (en boutonnière), 128, 217 ——apparati estensore e flessore, 213f, 216 ——artrosi deformante, 195 ——ballante, 183 Double crush syndrome, 184

Indice analitico 355

Duplicazione ——pollice, 182 ——quinto dito, 183 Dupuytren ——frattura, 297 ——malattia, 200 Durkan, test, 186 E Ectomelie, 28t Emartro, 130, 176 Ematoma, organizzazione, 225 Embolia grassosa, 233 Eminenza tenar, ipotrofia, 186f Encondroma, 88 Encondromatosi, 88 Endostio, attivazione, 225 Epicondili, fratture, 249 Epicondilite, 171 Epifisi, ossificazione, 46 Epifisiolisi dell’anca, 61 Epistrofeo, dente, 273f Epitrocleite, 172 Equinismo, 36 Erb-Duchenne, paralisi, 39 Ernia del disco, 156f ——cervicale, 146 ——dura, 145, 147, 148f ——lombare, 152 ——molle, 145, 148, 153f ——Schmorl, 58, 154 ——sede e morfologia, 154f Esostosi osteo-cartilaginea, 86 Ewing, sarcoma, 95 F Failed-back syndrome, 157 Fajersztajn, segno, 155 Fasciotomia, 211 Fascite necrotizzante, 204, 206 Femoralizzazione, 165f Femore ——condrosarcoma, 90f ——fratture, 224f, 231f, 285, 287–290 ——lussazione della testa, 282f ——necrosi della testa, 63 ——osteoma osteoide, 92f ——osteomielite, 76f ——osteosarcoma, 93f ——sarcoma di Ewing, 95, 96f ——sviluppo dell’estremo prossimale, 46 Fernandez, classificazione, 256, 257f Fibroma ——istiocitico, 98 Finkelstein, test, 199, 200f Floating shoulder, 241 Frankel, classificazione, 271t Frattura/e, 221 ——“a legno verde”, 223f, 239 ——a quattro parti, 244f ——acetabolo, 281, 282f

——astragalo, 298, 299f ——atlante, 272 ——avambraccio, 251, 253–255 ——bacino, 279 ——Bennet, 265f ——bimalleolari, 297 ——calcagno, 22f, 299, 301f ——capitello radiale, 250 ——carpo, 259, 265f ——classificazione, 222 ——clavicola, 239, 240f ——Colles, 257 ——condili, 248 —— — occipitali, 272 ——consolidazione, 226, 230 ——contenzione, 228 ——coronoide, 250 ——da scoppio, 273, 275 ——da stress (da fatica o da durata), 221, 301, 302f ——dell’impiccato, 272 ——dente dell’epistrofeo, 272, 273f ——Dupuytren, 297 ——epicondili, 249 ——femore, 224f, 231f, 285, 287–290 ——fissazione, 228, 229 ——gamba, 295, 297f ——ginocchio, 291 ——gomito, 245 ——Goyrand, 257 ——guarigione, 225 ——isolate delle branche ileo- e ischio-pubica, 281 ——Jefferson, 272 ——Jones, 301 ——-lussazione, 274f, 282f ——Maisonneuve, 297 ——Malgaigne, 280f ——malleoli, 297f, 298f ——mano, 264–267 ——olecrano, 250 ——omero, 78f, 210f, 221f, 241–244 ——per trauma diretto, 222 ——per trauma indiretto, 222 ——piatto tibiale, 293, 294f ——polso, 255 ——quadrupla verticale, 280f ——rachide —— — cervicale, 272, 273 —— — pediatrico, 277 —— — toraco-lombare, 274 ——radio, 250, 258f ——regione tibio-tarsica, 296 ——riduzione, 228 ——rotula, 292, 293f ——scafoide, 259, 260f ——scapola, 240, 241f ——scomposte, 223f ——sovracondiloidee, 245, 247f ——stabilizzazione, 227, 230f ——tibia (pilone tibiale), 296, 297f ——transcondiloidee e intercondiloidee, 248

——ulna, 250 ——vertebrali, 269–271 —— — con deformazione a farfalla, 350f —— — da osteoporosi, 276 ——Vollemier, 280f Froment, test, 188, 189f Frozen shoulder, 171 G Galeazzi ——lesione, 253 ——manovra, 31 Gamba, fratture, 295, 297f Garden, fratture, 286 Geodi, 119 Gibbo angolare (spondilotico), 81 Ginocchio ——deformità, 12f ——deviazione assiale, 140 ——distorsioni, 324 ——fratture, 291 ——lesioni legamentose, 324 ——lussazione, 306f ——mobilizzazione asettica di artroprotesi, 42f ——procurvato, 13 ——protesi, 126 ——recurvato, 12f, 13 ——sostituzione protesica, 126 ——tendinopatia, 173 ——valgo, 12, 139–141 ——varo, 12, 123f, 139, 141 ——versamento, 14f Gomito, 171 ——compressione del nervo ulnare, 187 ——frattura-lussazione, 250f ——fratture, 245 ——lussazioni, 315 Gonartrosi, 122, 123f Gonilite tubercolare, 82 Goyrand, frattura, 257 Graf, classificazione ecografica della displasia congenita dell’anca, 32f, 33t Guaine fibrose dei tendini della mano, 197 Guyon ——canale, 190 ——loggia, 189 H Haglund ——deformità, 175 ——malattia. Vedi Sever-Blenke, malattia Hawkins, manovra, 161, 162f Heberden, noduli, 122, 195, 196 Herbert, classificazione, 259, 260f, 263f Herring, gruppi radiografici, 47 Herzberg, classificazione, 318f

356 Indice analitico

Hill-Sachs, lesione, 308, 312f Homans, segno, 233 I Idrartro, 327 Impingement, 160, 161 Infezioni ——articolari, 83 ——mano, 203 ——protesi articolari, 79 Insall-Salvati, indice, 132 Instabilità ——AMBRI, 310t ——articolazione tibio-tarsica, 330 ——frattura vertebrale, 269 ——mediale del gomito, 172 ——segmentaria, 146 ——spalla, 310 ——tendine del capo lungo del bicipite brachiale, 168 ——TUBS, 310t Iperparatiroidismo primitivo, 109 Iperplasia angiofibroblastica, 171 Istiocitoma fibroso maligno, 96 J Jefferson, frattura, 272 Jerk test, 328 Joint reaction force, 121 Jones, frattura, 301 Jumper’s knee, 174 K Kanavel, segni, 205 Kinesiterapia, 56, 126, 338 Klippel-Feil, sindrome, 41 Köhler, malattia, 49 L La Peyronye, morbo, 202 Lachman, test, 328 Lasègue, manovra, 155 Lauenstein, proiezione, 62, 64f Lauge-Hansen, classificazione, 297, 298f Ledderhose, morbo, 202 Legamenti ——articolazione acromioclaveare, 314 ——caviglia, 330, 331f ——ginocchio, distorsioni e lesioni, 324 ——longitudinale posteriore, 145, 146f ——polso, 317 Lesione/i ——“a specchio”, 133 ——Bankart, 312f, 313 ——cartilaginee, 126, 127f ——endoteliale, 232 ——Hill-Sachs, 308, 312f ——meniscali, 324–326 ——midollari, 271 ——muscolari, 178 ——nervo e vasi femorali, 282

——nervo sciatico, 282 ——ossea, osteocondrosi dissecante, 50 ——pseudotumorali, 86 ——radicolare, 271 ——scheletriche, algoritmo terapeutico, 237 ——Segond-Bush, 217 ——SLAP, 168, 169 Lhermitte, segno, 149 Lift-off test, 166 Lombocruralgia, 154, 155t Lombosciatalgia, 154, 155t Looser-Milkman, strie, 109 Lussazione/i, 305 ——acromio-claveari, 313, 314f ——anca, 320, 321f ——congenita dell’anca, 27, 29f, 30t, 35f ——ginocchio, 306f ——gomito, 315 ——rotula, 321–323 ——spalla, 307 M Macrodattilia, 183 Maffucci, sindrome, 88 Maisonneuve, frattura, 297 Malattia/e ——Albers-Schonberg, 113 ——De Quervain, 194, 197, 199 ——Dupuytren, 200 ——Köhler, 49 ——Ollier, 88 ——Ombredanne, 87 ——Osgood-Schlatter, 48 ——Paget, 111 ——Perthes, 46–48 ——Scheuermann, 49, 57, 58f ——Sever-Blenke, 49 ——tromboembolica, 232 Malformazioni congenite, 27, 28t Malgaigne, frattura, 280f Malleoli, fratture, 297f, 298f Mano ——“a colpo di vento”, 128 ——a specchio, 182f ——aplasia dei raggi centrali, 181 ——archi, 264 ——arresto di sviluppo, 180 ——classificazione IFSSH delle lesioni tendinee, 212, 213f ——compartimenti anatomici, 204 ——erosioni “a morso di topo”, 129f ——fratture, 264–267 ——innervazione sensitiva, 184f ——malformazioni congenite, 179 ——patologia infettiva, 203 ——piano superficiale palmare, 201f ——pulegge delle dita, 198f ——tenosinoviti, 197 ——torta, 180

Manovra ——di Barlow, 30 ——di Galeazzi, 31 ——di Ortolani, 30 Mason, classificazione, 251f Mc Murray, test, 327 Meloreostosi, 115 Membrana sinoviale, 120 Menisco, 325f, 329f ——lesioni, 324–326 Metallizzazione, 46, 47 Metastasi carcinomatose, 101 Meyerding, tecnica, 60 Mielopatia spondilosica, 149 Milch, classificazione, 249f Milwaukee, corsetto, 58 Mitchell, osteotomia, 138 Monteggia, lesione, 253, 254f Muscolo/i ——adduttori, distrazione miotendinea, 173 ——azione e innervazione, 18t ——bicipite brachiale. Vedi Capo lungo del bicipite brachiale ——deltoide, 159 ——grande dentato, 159 ——lesioni, 178 ——medio gluteo, tendinopatia, 173 ——quadricipite, 13f, 174 ——sopraspinoso, 160f, 161f, 165f ——sternocleidomastoideo, 40–42 ——trapezio, 159 N Napoleone, test, 166 Nash-Moe, metodo, 55, 56f Necrosi ——avascolare post-traumatica, 233 ——della testa del femore, 63 Neer, manovra, 161, 162f Neri-Barrè-Lieu, sindrome, 149 Nervo ——interosseo posteriore, 191, 192f ——mediano, 185, 186 ——radiale, 192, 245 ——seno-vertebrale di Luschka, 148 ——ulnare, 172, 187 Noduli ——Bouchard, 122, 196f ——Heberden, 122, 195, 196 ——reumatoidi, 128 Nucleo/i ——di ossificazione, 7, 46 ——polposo, 145 O Olecrano, fratture, 250 Ollier, malattia, 88 Ombredanne, malattia, 87 Omero ——cisti ossea, 98f ——condroblastoma, 89f

Indice analitico 357

——esostosi, 88f ——fratture, 78f, 210f, 221f, 241–244 ——malattia di Paget, 112f ——metastasi da carcinoma renale, 102f ——osteomielite acuta, 77f Onicopatie, 131 Ortolani, manovra, 30 Osgood-Schlatter, malattia, 48 Ossificazione, 3 ——centri, 5f, 7 ——encondrale delle apofisi, 46 ——eterotopica, 233 ——nuclei apofisari, 46 ——nuclei epifisari, 46 ——ossa brevi, 46 Osso/a, 1 ——brevi, meccanismi di ossificazione, 46 ——cisti, 98 ——compatto, 4 ——cranio, 7 ——immaturo (primario), 3 ——lunghe, 7 ——maturo (lamellare o secondario), 3 ——modificazione della struttura durante la crescita, 9f ——processi riparativi, 224 ——resistenza, 221 ——spongioso, 6 ——trabecolare, 5f ——tumori, 85 Osteite deformante, 111 Osteoartrite, 75 Osteoartrosi, 117. Vedi anche Artrosi ——fattori di rischio, 117t ——mani, 122 Osteoclastoma, 94 Osteocondrodisplasie genotipiche, 42 Osteocondroma, 86 Osteocondrosi, 45 ——dissecante, 50, 51f —— — fisi attiva e chiusa, 50 Osteodisplasie ——con nanismo micromelico, 42 —— — acondroplasia, 42 ——di epifisi, metafisi e corpi vertebrali, 43 ——letali o sub-letali, 42 Osteodistrofia renale, 110 Osteofiti, 119, 148f ——a ponte, 123f ——marginali, 147f, 194 ——unco-vertebrali, 150f Osteogenesi imperfetta, 114 Osteoma osteoide, 91 Osteomalacia, 107, 108t Osteomielite/i, 73, 82, 234 Osteonecrosi post-traumatica dello scafoide carpale, 23f Osteopatia/e, 105, 113 ——endocrine, 109

——striata, 114 Osteopetrosi, 113, 114f Osteoporosi, 105, 108t, 208, 276 Osteosarcoma, 92 Osteosintesi, mezzi, 347f Osteotomia ——alluce valgo —— — Austin-Chevron (a delta), 138 —— — Mitchel, 138 —— — scarf, 138 ——artrosi secondaria, 126 ——ginocchio varo e valgo, 141 ——triplanare, 64 Outlet del sopraspinoso, 160, 161f P Paget, malattia, 111 Palm-up test, 162 Pangonogramma dell’arto inferiore, 141 Panno sinoviale, 127 Paralisi, 17 ——Dejerine-Klumpke, 40 ——Erb-Duchenne, 39, 40f ——ostetriche dell’arto superiore, 38, 40f ——radicolare totale, 40 Paratormone, 109, 110 Patereccio, 205 Perdriolle, metodo, 55 Periartrite dell’anca, 173 Pericondrio, 7 Periostio, attivazione, 225 Peritendiniti, 159, 174 Perthes, malattia, 46–48 Phalen, test, 186 Phalen-Dickson, segno, 60 Piartro, 83 Piattismo, 68f Piatto tibiale, fratture, 293, 294f Piede ——anatomia funzionale e sviluppo, 66 ——archi, 66f ——cavo, 70 ——esame radiografico sotto carico, 68f ——piatto, 65, 66t, 69 —— — valgo idiopatico, 65 ——torto congenito, 36, 37 —— — forme, 36 Plesso brachiale, 38, 39f Podagra, 131 Poland, sindrome, 183 Polidattilia, 179, 182 Pollice ——“a zeta”, 128, 194 ——a scatto congenito, 182 ——aplasia, 180 ——apparato estensore, 216 ——duplicazione, 182 ——movimenti, 193 ——muscoli, 193

——rizoartrosi, 193 ——zone tendinee, 213, 217 Polso ——biomeccanica applicata, 261 ——fratture, 255 ——legamenti, 317 ——lussazioni, 316 ——misurazioni radiografiche, 258f ——posizioni per studio radiografico, 260f ——pseudoartrosi, 262, 263 Ponseti, tecnica, 37 Pott, morbo, 81 Protesi ——anca, 121f, 288 ——articolari, 79, 348f ——ginocchio, 141–143 ——spalla, 167 Protrusio acetaboli, 110 Protrusione discale, 153 Pseudoartrosi, 230, 262 Pseudogotta. Vedi Artrite, da deposito di pirofosfati di calcio Pubalgia, 173 Putti, triade, 33 R Rachide ——cervicale, 151f, 152f —— — alto, fratture, 272 —— — basso, fratture, 273 ——lombare, 350f ——pediatrico, fratture, 277 ——toraco-lombare, fratture, 274 Rachitismo, 107 Radici ——lombo-sacrali, 154 ——spinali, territori d’innervazione, 17f Radiculopatia, 154f Radio ——cisti aneurismatica, 100f ——fratture, 250, 258f ——scomposizione rotatoria dei frammenti, 253 Radiologia, 19 Reiter, sindrome, 131 Rigidità articolare, 120, 123, 128, 171 Rima di frattura, configurazioni, 223, 224f Rimodellamento osseo, 4, 224, 226, 301 Risser, scala, 53 Rizoartrosi del pollice, 122, 193, 195f, 196f Rosario rachitico, 108 Rotture ——cuffia dei rotatori, 163 ——tendinee sottocutanee, 169, 175, 177f, 198f Rotula, 132–134 ——fratture, 292, 293f ——lussazione, 321–323

358 Indice analitico

S Sacro, fratture trasversali, 280 Salter-Harris, classificazione, 234, 235 Sanders, classificazione, 300 Sarcoma ——Ewing, 95 ——gigantocellulare, 95 Scafoide carpale ——fratture, 259, 260f ——necrosi del frammento prossimale, 263f ——vascolarizzazione, 262 ——correzione chirurgica della deformità, 264f ——osteonecrosi post-traumatica, 23f Scafoide tarsale, osteocondrosi, 49 Scapola ——condrosarcoma, 90f ——esostosi, 87f ——fratture, 240, 241f Scheletro ——assiale, malformazioni, 28t ——tumori primitivi, 86t Scheuermann, malattia, 49, 57, 58f Schmorl, ernia, 58, 154 Sciatalgia, 173 Sciatica paralitica, 156 Scoliosi, 52, 55f Segno ——del cinema, 134 ——della raspa, 134 ——Phalen-Dickson, 60 ——Tinel, 184, 186 ——Trendelenburg, 31 ——Wartenberg, 188 Segond-Bush, lesione, 217 Sequestri ossei, 75, 76 Sever-Blenke, malattia, 49 Shock ipovolemico, 279 Sillence, classificazione, 114, 115t Simbrachidattilia, 181 Sindattilia/e, 179, 181 Sindesmofiti, 131, 147f Sindrome/i ——Apert, 181, 182f ——briglie amniotiche, 183 ——canalicolari dell’arto superiore, 183 ——cauda equina, 60, 156 ——ClaudeBernard-Horner, 40 ——compartimentali, 232 ——conflitto subacromiale, 160 ——dolorosa regionale complessa, 207, 233 ——Klippel-Feil, 41 ——Maffucci, 88 ——miste neuro-vascolari, 149 ——Neri-Barré-Lieu, 149 ——nervo interosseo posteriore, 191, 192f ——Poland, 183 ——Reiter, 131

——retto-adduttoria, 173 ——tunnel carpale, 185 ——Volkmann, 209, 210f, 232, 247 Sinfalangismo, 182 Sinostosi, 69, 70f, 182 Sinovite, 130 Southwick, metodo, 63, 64f Spalla, 159, 160 ——artro-TC, 22f ——congelata, 171 ——instabilità, 310 ——lussazione, 307 ——misurazione della rotazione interna, 16f ——muscoli e tendini, 159 ——proiezioni, 163f ——pseudoparalitica, 166f, 168f ——tendinopatia calcifica, 169, 170f Speed, manovra, 162 Sperone acromiale, 160, 162, 163f Spina iliaca, avulsione, 281 Spondilite ——anchilosante, 131 ——tubercolare, 81 Spondiloartriti sieronegative, 130 Spondilodisciti non specifiche, 82, 83f Spondilolisi, 59, 60f Spondilolistesi, 59, 60f, 273f Spondiloptosi, 60 Spondilosi, 122, 123f Staphylococcus aureus, 206 ——artrite settica, 83 ——osteomielite, 75, 79, 82 Steinman, test, 327 Stress ——fratture da, 301, 302f ——varo-valgo, manovra, 141 Strie di Looser-Milkman, 109 Sublussazione, anca, 29 Sudek, morbo, 233 Swanson, classificazione, 179 T Taillard, metodo, 60 Tendine/i, 159 ——Achille, 69, 70f, 174, 175 ——capo lungo del bicipite brachiale, 159, 168, 169, 176 ——estensori, 198f, 215 ——flessori, 212 ——mano, 197, 212 ——primo compartimento dorsale del polso, 200 ——quadricipitale, 176 ——rotture sottocutanee, 159 ——rotuleo, 173, 174, 176 ——sopraspinoso, 170f Tendinopatia/e ——achillea, 174 ——calcifica della spalla, 169, 170f ——capo lungo del bicipite brachiale, 168 ——infiammatorie, 168

——inserzionali, 159, 174, 175 ——medio gluteo, 173 ——primitive della cuffia, 160 ——quadricipitale, 174 ——rotulea, 173 Tendinosi, 159, 174, 175 ——achillea, 175f Tenosinovite/i, 159, 168 ——proliferative, 197, 198 ——purulente, 205 ——stenosanti, 197, 199 ——tubercolare, 204f Terapia fisica, 341 Testa del femore ——fratture, 290 ——lussazione, 282f ——necrosi, 63 Thomas, manovra, 62 Thompson, test, 177 Tibia ——distacco epifisario, 235f ——fratture, 78f, 231f —— — pilone tibiale, 296, 297f ——istiocitoma fibroso maligno, 97f ——malattia di Osgood-Schlatter, 48 ——osteomielite cronica post-traumatica, 78f ——osteosarcoma, 93f ——tumore gigantocellulare, 95f ——vara congenita, 140 Tinel, segno, 184, 186, 188 Torcicollo ——congenito, 40 ——miogeno congenito, 40, 41f Trendelenburg ——posizione, 236 ——segno, 31 Trocanteri, fratture, 290 Trocanterite, 173 Trombosi venosa profonda, 232 Tsuge, classificazione, 210 Tubercolosi osteo-articolare, 80 Tuberosità ——calcaneare, prominenza del margine superiore, 175f ——ischiatica, avulsione, 281 ——tibiale anteriore, osteocondrosi, 48 Tubiana, classificazione, 202 Tumore/i ——bruni, 110 ——gigantocellulare, 94 ——ossei, diagnosi, 85 ——periferici primitivi neuroectodermici (PNET), 95 ——primitivi dello scheletro, 86t Tunnel ——carpale, 185 ——cubitale, 187 ——estensori, 197f U Ulna, fratture, 250

Indice analitico 359

V Valgismo, 12 ——ginocchio, 139f, 140 Valleix, segno, 155 Varismo, 12 ——ginocchio, 139, 140t Vertebra/e ——fratture, 269–271 —— — da osteoporosi, 276 ——limite, 53 ——metastasi multiple di carcinoma mammario, 102f

——stabilizzazione, 56 ——toracica cuneizzata, 107f Volkmann, sindrome, 209, 210f, 232, 247 Vollemier, frattura, 280f W Wartenberg, segno, 188 Wassermann, manovra, 155 Wiberg, varianti, 134f Witse, classificazione, 59 Wolfe, classificazione, 199

Y Yochum, manovra, 161, 162f Z Zoppia, 121 ——antalgica (di fuga), 12, 47, 122 ——coxalgica, 121 ——da alterato impatto, 12 ——da caduta, 12