Manifesto del partito comunista

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Manifesto del partito comunista

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Economica Laterza 184

Karl Marx Friedrich Engels

Manifesto del partito comunista Traduzione e Introduzione di Domenico Losurdo

Editori Laterza

© 1999, Gius. Laterza & Figli Traduzione di Domenico Losurdo in collaborazione con Erdmute Brielmayer Prima edizione 1999 Quinta edizione 2005

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nell’ottobre 2005 Poligrafico Dehoniano Stabilimento di Bari per conto della Gius. Laterza & Figli Spa CL 20-5894-4 ISBN 88-420-5894-7

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Introduzione

1. Schiavitù antica e schiavitù moderna, natura e storia Nel rileggere il Manifesto del partito comunista a oltre centocinquant’anni dalla sua pubblicazione, proviamo a interrogarci sulle fondamentali novità teoriche e politiche apportate dal testo di Marx e Engels. Esse non risiedono tanto nella presa di coscienza dell’asprezza del conflitto sociale tra proletariato e borghesia, e neppure nell’affermazione che tale conflitto è stato storicamente preceduto dalla lotta di classe tra schiavi e proprietari di schiavi e tra servi della gleba e feudatari. Alcuni anni prima, nel corso del suo viaggio in Inghilterra, Tocqueville è così colpito dallo stridente contrasto tra la spaventosa miseria di massa e l’opulenza di pochi da lasciarsi sfuggire un’esclamazione assai significativa: «Di qui lo schiavo, di là il padrone, di là la ricchezza di alcuni, di qui la miseria del più gran numero»1. In altra occasione, il liberale francese mette persino in guardia contro il pericolo delle «guerre servili»2, cioè di sollevazioni di schiavi analoghe a quelle verificatesi nell’antichità classica. Lo «spettro del comunismo» evocato dal Manifesto sembra assumere in Tocqueville le sembianze terrifiche di una sorta di Spartaco proletario e moderno.

1 2

Tocqueville 1951b, pp. 80-82. Tocqueville 1951d, p. 727.

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La condizione operaia del tempo viene così paragonata alla schiavitù: prima ancora che in Marx e Engels, questo motivo attraversa in profondità, in modo consapevole o inconsapevole, la tradizione liberale. Locke non ha difficoltà a constatare che «la maggior parte dell’umanità» è «resa schiava» (enslaved) dalle condizioni oggettive di vita e di lavoro. Mandeville non ha dubbi sul fatto che la «parte più meschina e povera della nazione» è destinata per sempre a svolgere un «lavoro sporco e simile a quello dello schiavo» (dirty slavish Work)3; essa è impegnata, per dirla questa volta con Burke, in occupazioni non solo «mercenarie» ma anche «servili» (servil), cioè – come subito chiarisce la versione del traduttore tedesco – «proprie dello schiavo» (sklavisch)4. Ma tutto ciò non incrina la buona coscienza delle classi dominanti e della borghesia liberale del tempo, la quale si libera del problema rinviandolo a una sfera extra-politica. «L’Inghilterra – osserva Marx nel 1844 – trova il fondamento della miseria nella legge naturale, per la quale la popolazione deve costantemente superare i mezzi di sussistenza» e spiega il «pauperismo» con la «cattiva volontà dei poveri», incapaci di resistere all’incontinenza sessuale5. Il riferimento polemico è a Malthus, il quale, a sancire la restrizione della sfera politica, chiama paradossalmente l’economia politica. Una volta che essa sia divenuta «un oggetto di popolare insegnamento», i poveri comprenderanno che devono attribuire alla natura matrigna o alla loro individuale debolezza o imprevidenza la causa delle privazioni che soffrono; «l’economia politica è la sola scienza di cui possa dirsi che dall’ignorarla sono a temersi non solo privazioni, ma mali positivi e gravissimi»6. Losurdo 1993, pp. 39-45. Burke 1826b, pp. 105-106; cfr. Burke 1967, pp. 91-92. 5 Marx 1955e, p. 401. 6 Malthus 1965, pp. 501-502, nota. 3 4

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Questa è anche l’opinione di Tocqueville, il quale ritiene necessario diffondere tra le classi operaie […] qualche nozione, tra le più elementari e più certe, dell’economia politica, che faccia loro comprendere, ad esempio, ciò che di permanente e necessario vi è nelle leggi economiche che reggono il tasso dei salari; perché tali leggi, essendo in qualche modo di diritto divino, in quanto scaturiscono dalla natura dell’uomo e dalla struttura stessa della società, sono collocate al di fuori della portata delle rivoluzioni7.

I poveri – incalza più tardi John Stuart Mill – devono essere dissuasi dal contrarre matrimonio e rientra tra i «poteri legittimi dello Stato» imporre un vero e proprio divieto8. I Manoscritti economico-filosofici del 1844 ironizzano sull’economia politica così intesa: questa «scienza della mirabile industria» e della «ricchezza» si rivela come una «scienza di ascesi» e di «rinuncia»; il suo ideale è «lo schiavo ascetico ma produttivo»9. Duro è il giudizio espresso su siffatti «economisti» anche dal Manifesto (infra, p. 42). Ma ora assistiamo a un ulteriore sviluppo della critica. La pretesa di mettere sul conto della natura matrigna la permanente miseria di massa ignora del tutto le crisi di sovrapproduzione che caratterizzano e investono il capitalismo. Su di esse conviene invece concentrare l’attenzione: Durante le crisi commerciali viene regolarmente distrutta una gran parte non solo dei prodotti finiti, ma persino delle forze produttive già create. Durante le crisi scoppia un’epidemia sociale che in ogni altra epoca sarebbe apparsa un’assurdità: l’epidemia della sovrapproduzione. La società si trova improvvisamente ricacciata in uno stato di moTocqueville 1951f, p. 241. Mill, 1981, p. 145. 9 Marx 1955c, p. 549 (= Marx 1963, p. 238). 7 8

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mentanea barbarie; una carestia, una guerra generalizzata di annientamento sembrano averle sottratto tutti i mezzi di sussistenza; l’industria, il commercio sembrano distrutti, e perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio (infra, pp. 13-14).

Se in Smith la celebrazione della «ricchezza delle nazioni» annuncia la fine dell’antico regime, nel Manifesto l’inno sciolto all’impetuoso sviluppo delle forze produttive stimolato dalla borghesia è anche e soprattutto un epitaffio per un ordinamento che, proprio grazie agli straordinari successi da esso conseguiti, fa apparire politicamente e moralmente inammissibile la miseria e l’insicurezza di massa su cui, nonostante tutto, esso continua a fondarsi. Siamo in presenza non di una costrizione naturale, ma di un problema politico; e il problema politico risiede non già nella penuria ormai sconfitta, bensì in una «ricchezza delle nazioni» che non riesce a divenire reale ricchezza sociale. Una sorta di oggettiva polemica a distanza sembra istituirsi tra gli autori del Manifesto da un lato e Tocqueville (e la tradizione politica di cui egli è eminente rappresentante) dall’altro. Nel fare il bilancio degli sconvolgimenti e della catastrofe del ’48, il liberale francese li mette sul conto del socialismo, cioè delle «teorie economiche e politiche» le quali vorrebbero far «credere che le miserie umane siano opera delle leggi e non della provvidenza, e che si potrebbe sopprimere la povertà cambiando l’ordinamento sociale»10. È per l’appunto la tesi sostenuta, alla vigilia della rivoluzione, dal Manifesto, il quale intende in primo luogo chiamare i «proletari» a prendere consapevolezza della dimensione eminentemente politica del loro dramma. Ma voler intervenire in questa sfera significa per Tocqueville intaccare l’ordinamento naturale della «società», facendo 10 Tocqueville 1951g, pp. 92-94 e p. 84 (= Tocqueville 1968, pp. 35960 e 352).

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«a pezzi le basi su cui essa riposa»11. In realtà, replicano Marx e Engels: Voi condividete con tutte le classi dominanti tramontate la concezione interessata in base alla quale trasformate i vostri rapporti di produzione e di proprietà, da rapporti storici quali essi sono, che appaiono e scompaiono nel corso della produzione, in leggi eterne della natura e della ragione. Ciò che voi comprendete riguardo alla proprietà antica, ciò che voi comprendete riguardo alla proprietà feudale, non riuscite più a comprenderlo riguardo alla proprietà borghese (infra, p. 31).

L’anno prima, così, Miseria della filosofia aveva criticato gli «economisti»: per essi «c’è stata storia, ma ormai non ce n’è più»12. Agli occhi di Tocqueville, è proprio l’illusione che ci sia un politico «rimedio contro questo male ereditario e incurabile della povertà e del lavoro» a provocare gli «esperimenti» e le «rovine» che caratterizzano l’incessante ciclo rivoluzionario francese sfociato nel socialismo. Siamo in presenza di un’ideologia visionaria, di un «errore funesto» che bisogna assolutamente liquidare13. Per il Manifesto, il socialismo non è l’elaborazione, folle o geniale che sia, di un intellettuale o gruppo di intellettuali, bensì l’espressione teorica di bisogni e possibilità reali: «Le posizioni teoriche dei comunisti non poggiano affatto su idee, su princìpi inventati o scoperti da qualche apostolo salvatore del mondo. Esse sono soltanto espressioni generali dei rapporti effettivi di una lotta di classe già in atto, di un movimento storico che si sta svolgendo sotto i nostri occhi» (infra, p. 26). Faticosamente, tra tentativi ed errori, i proletari prendono coscienza del fatto che le «catene» che gravano su di loro, Tocqueville 1951e, p. 750 (= Tocqueville 1968, p. 273). Marx 1955g, p. 139. 13 Tocqueville 1951f, p. 240. 11 12

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la «schiavitù» (infra, pp. 57 e 22) che essi subiscono, rinviano a un ordinamento politico-sociale storicamente determinato che si tratta ora di mettere in discussione. 2. Estensione della sfera politica e «condizioni sociali e politiche» Se non alla limitatezza delle risorse disponibili e alla dabbenaggine o imprevidenza dell’individuo, il quale, lasciandosi trascinare dai sensi, non tiene conto del «principio di popolazione» caro a Malthus, la miseria di massa rinvia comunque a una sfera che è da considerare privata. Dopo tutto – argomenta l’ideologia dominante – il livello dei salari e le condizioni di lavoro rinviano a un contratto liberamente pattuito tra le parti. È dunque un rapporto tra privati. La società borghese – osserva Engels già nel 1845 – così replica all’operaio che si lamenta e recrimina: Voi eravate libero di decidere, nessuno vi costringeva a stipulare quel contratto se non ne avevate voglia; ma ora che vi siete spontaneamente impegnato con quel contratto, dovete rispettarlo14.

In conclusione – osserva a sua volta Marx nel 1843 – le cause della miseria di massa vengono cercate «parte nella natura, che è indipendente dagli uomini, parte nella vita privata, che è indipendente dall’amministrazione, parte in casi accidentali, che non dipendono da nessuno»15. Abbiamo a che fare o con la responsabilità del singolo membro della società civile, ovvero con la natura o la Provvidenza; ci troviamo di fronte o una libertà che non può e non deve essere conculcata, ovvero un destino che sarebbe ridicolo e persino sacrilego voler modificare 14 15

Engels 1955a, p. 399. Marx 1955b, p. 186.

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mediante l’intervento dell’uomo. E dunque, se anche vediamo la maggioranza della popolazione esposta «a molta abbietta fatica, a grande miseria, a tutte le apparenze della servitù» (exterior of servitude), dobbiamo tener conto che si tratta per l’appunto di una parvenza, che non intacca sostanzialmente la realtà della libertà come «benedizione comune», dalla quale non è escluso neppure il più miserabile16. La precisazione appena vista di Burke è la precisazione sottoscritta dalla tradizione liberale nel suo complesso. Essa evoca la moderna schiavitù operaia per farla immediatamente dileguare in una sfera considerata priva di qualsiasi rilevanza politica. Per dirla col giovane Marx, nella sua forma più sviluppata lo Stato borghese si limita «a chiudere gli occhi e a dichiarare che certe opposizioni reali non hanno carattere politico, che esse non gli danno noia»17; la società e la teoria politica borghese partono dal presupposto secondo cui i rapporti sociali, le «differenze sociali» hanno «soltanto un significato privato, nessun significato politico»18. Ma ecco che il Manifesto del partito comunista mette invece in causa le esistenti «condizioni sociali e politiche» (infra, p. 56). «Condizioni sociali e politiche»: conviene riflettere su questa espressione, che ritorna in modo ripetuto e insistente; oggi ci appare ovvia, ma non lo è certo nel momento in cui essa irrompe al tempo stesso nel dibattito scientifico e nella lotta politica. Intervenendo anche lui all’immediata vigilia della rivoluzione del ’48, Tocqueville osserva con preoccupazione il comportamento delle «classi operaie»: esse appaiono tranquille, non più «tormentate dalle passioni politiche»; disgraziatamente, «le loro passioni da politiche sono divenute sociali»; più che sulle istituzioni politiche, sembrano concentrare la loro attenBurke 1826a, p. 54 (= Burke 1963, p. 91). Marx-Engels 1955a, p. 101. 18 Marx 1955a, p. 284 (= Marx 1963, p. 94). 16 17

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zione sulle condizioni materiali di vita, sui rapporti di proprietà19. A giudicare da questa analisi, una barriera separa il sociale dal politico. Come risulta confermato, in modo illuminante, dal quadro che Tocqueville traccia dell’America. Qui, i poveri finiscono in prigione anche per debiti insignificanti: in Pennsylvania, il numero degli individui annualmente incarcerati per debiti ammonta a 7.000; se a questa cifra si aggiunge quella dei condannati per delitti più gravi, risulta che su 144 abitanti ve ne è pressappoco uno all’anno a finire in prigione. E non è tutto: tale è la condizione dei poveri che, persino in qualità di testimoni, vengono rinchiusi in prigione sino alla conclusione del procedimento giudiziario. Si assiste a uno scandaloso paradosso: «nello stesso paese in cui il querelante è messo in prigione, il ladro resta in libertà, se può versare una cauzione». Si direbbe che severa e senza appello suoni la condanna pronunciata da Tocqueville: «Queste leggi hanno tutto previsto per la comodità del ricco e pressoché nulla per la garanzia del povero», della cui libertà «fanno man bassa». Epperò, il liberale francese così prosegue: «Tra tutti i popoli moderni, gli inglesi sono coloro che hanno infuso la maggiore libertà nelle loro leggi politiche e fatto l’uso più frequente della prigione nelle loro leggi civili»; gli americani, a loro volta, pur avendo modificato, talvolta in modo radicale, le «leggi politiche», hanno «conservato la maggior parte delle leggi civili» dell’Inghilterra20. Con tale distinzione siamo giunti al cuore del problema: Tocqueville formula il giudizio, largamente positivo, sui paesi da lui visitati, facendo totale astrazione dalle lois civiles, nel cui ambito fa rientrare non solo i rapporti sociali e di proprietà ma persino la detenzione che certi testimoni sono costretti a subire a causa solo della loro povertà. Da una parte il «sociale» e il «civile», dall’altra il 19 20

Tocqueville 1951e, p. 750 (= Tocqueville 1968, p. 273). Tocqueville 1951a, pp. 323-26.

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«politico»: politicamente irrilevanti e come volatilizzate risultano le tracce di servitù che pure la stessa tradizione liberale è costretta a constatare nell’ambito della società borghese del tempo. Questa restrizione del politico viene spazzata via dal Manifesto. Ora, nell’espressione «condizioni sociali e politiche» i due aggettivi costituiscono un’endiadi, stanno a designare un intreccio indissolubile. 3. «Comitato» per gli «affari comuni» della borghesia e lotta per il suffragio La rivoluzione epistemologica così operata è il presupposto dell’auspicata rivoluzione politico-sociale. Come non si spiega con la natura, così la miseria di massa non rinvia a una sfera privata. Un radicale mutamento è possibile e s’impone. Ma come realizzarlo? A promuoverlo non può certo essere il regime politico subentrato all’antico regime. Scalzata l’aristocrazia feudale, «la borghesia si è conquistato il potere politico esclusivo nel moderno Stato rappresentativo». Sì – incalza il Manifesto – «il potere politico moderno non è altro che un comitato, il quale amministra gli affari comuni della classe borghese nel suo complesso» (infra, p. 8). Questa analisi, a prima vista estremistica e semplicistica, può essere tranquillamente accostata a quella sviluppata da un classico della tradizione liberale qual è Constant: «I poveri fanno da sé i loro affari: i ricchi assumono degli intendenti»; e li assumono anche al momento della costituzione del governo politico. «A meno di essere insensati» – prosegue il Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni – «i ricchi che hanno degli intendenti esaminano con attenzione e severità se gli intendenti fanno il loro dovere». La ricchezza è e deve essere l’arbitro del potere politico e proprio in ciò risiede l’essenza della libertà moderna: «Il credito non aveva la stessa influenza pres-

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so gli antichi; i loro governi erano più forti dei privati; i privati sono più forti dei poteri politici della nostra epoca; la ricchezza è una potenza più disponibile ad ogni istante, più applicabile a ogni interesse, e quindi assai più reale e meglio obbedita»21. Come per il Manifesto del partito comunista, anche per Constant lo Stato che ha preso il posto dell’antico regime continua ad avere una precisa connotazione di classe; esso segna l’avvento al potere della borghesia. Diversi e contrapposti sono il giudizio di valore e le conseguenze politiche che ne vengono dedotte. A garanzia del corretto funzionamento delle istituzioni, Constant e i liberali del tempo continuano a battersi, con maggiore o minore radicalismo, per il mantenimento della discriminazione censitaria. Essa è assolutamente insuperabile agli occhi di Guizot, il quale, ancora nel 1847, sentenzia: «Non sorgerà mai l’alba del suffragio universale, non si leverà il giorno in cui tutte le creature umane, senza distinzione, possano essere chiamate a esercitare i diritti politici». Sì, osserva Thiers, è vero: «32 milioni di uomini sono governati dal voto di 240.000. Ci sono 240.000 uomini che comandano e 32 milioni che obbediscono». Può sembrare, e forse «è una sproporzione spaventosa», ma in realtà, nella concessione dei diritti politici, si è già andati troppo in là, anzi troppo in basso, dato che «si è già discesi a una classe che non ha sufficiente tempo libero, cultura e proprietà per prendere interesse alle questioni politiche»22. Dopo aver ironicamente accostato Guizot a Metternich, il cancelliere austriaco protagonista e artefice della Restaurazione, il Manifesto dichiara il suo appoggio ai «cartisti» inglesi (infra, p. 55), in prima fila nella lotta contro la restrizione censitaria del suffragio. Bisogna però subito precisare che la rivendicazione del suffragio universale non ha un carattere socialista. Già alcuni anni prima del Manifesto, Marx aveva chiarito 21 22

Constant 1970b, pp. 235-36. In Losurdo 1993, p. 51.

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che l’immediata rilevanza politica della proprietà è destinata a dileguare nel mondo scaturito dalle rivoluzioni americana e francese. Un volta condotto a termine il superamento dell’antico regime, «il censo» non è più «condizione di elettorato attivo e passivo»; «il nullatenente è diventato legislatore del possidente». Giunto alla sua maturità, lo Stato politico borghese dichiara «differenze prive di significato politico, nascita, ceto, educazione, professione, chiamando a partecipare egualmente alla sovranità popolare qualunque membro del popolo senza riguardo a queste differenze»23. Lo dimostra l’esempio degli Stati Uniti, dove è stata in pratica cancellata (all’interno della comunità bianca) la discriminazione censitaria: in questo senso la repubblica nord-americana appare come il «paese dell’emancipazione politica compiuta», ovvero come «l’esempio più perfetto di Stato moderno»24. Epperò, l’altra faccia della cancellazione della discriminazione censitaria è la dichiarazione dell’assoluta irrilevanza politica delle condizioni materiali di vita, di quei rapporti sociali che sanciscono l’asservimento del proletariato. Dunque, per giusta e necessaria che sia, la lotta per il suffragio universale non basta certo a produrre l’auspicato mutamento. 4. «Dispotismo» di fabbrica, libertà negativa e libertà positiva È necessario intervenire nei rapporti rimossi in una sfera meramente privata dall’ideologia e dalla società borghese; bisogna investire innanzitutto il luogo dove in modo più netto e più evidente si manifesta la schiavitù moderna. Il Manifesto del partito comunista richiama l’attenzione sulla realtà della fab23 24

Marx 1955d, p. 354. Marx 1955d, p. 352; Marx-Engels 1955b, p. 62.

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brica capitalistica. Qui possiamo toccare con mano il «dispotismo» che grava sugli operai: «organizzati a guisa di soldati», «come soldati semplici dell’industria vengono sottoposti alla sorveglianza di un’intera gerarchia di sottoufficiali e di ufficiali» (infra, p. 15). Nonostante che il governo sia l’espressione politica in ultima analisi della classe dominante, esso può e deve essere incalzato perché intervenga a limitare questo «dispotismo» o a colpire i suoi aspetti più odiosi; nel lottare per questo obiettivo, il movimento operaio può far tesoro delle molteplici contraddizioni che attraversano la borghesia e il blocco di potere. Ben si comprende allora che il Manifesto saluti «la legge delle 10 ore di lavoro in Inghilterra» strappata dalla lotta operaia (infra, p. 19). Di nuovo può essere istruttivo il confronto con Tocqueville, il quale pronuncia invece una condanna senza appello della regolamentazione legislativa che in Francia si propone di limitare a 12 ore la giornata di lavoro. Dal punto di vista di Marx e Engels, oltre che al miglioramento della qualità della vita degli operai, la lotta per la riduzione dell’orario del lavoro mira a una restrizione del «dispotismo» vigente in fabbrica. È dunque anche una lotta per la libertà. Rimossi il «dispotismo» di fabbrica e i rapporti di lavoro e le condizioni materiali di vita in una sfera privata, Tocqueville non ha difficoltà a condannare quali attentati alla libertà l’intervento del potere politico in un ambito che è solo «sociale» e «civile» e le «dottrine socialiste», che questo intervento sollecitano e impongono25. Come si vede, del tutto insostenibile è la consueta configurazione del contrasto tra Marx e Engels da un lato e tradizione liberale dall’altro, come se i primi riservassero la loro attenzione esclusivamente ai diritti politici e alle condizioni materiali di vita (alla «libertà positiva») disinteressandosi della cosiddetta 25

Tocqueville 1951h, p. 38.

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«libertà negativa» (la possibilità per l’individuo di pensare, agire e vivere senza coazioni esterne). Al contrario, la lotta contro un’organizzazione fondamentalmente militare e dispotica qual è la fabbrica capitalistica, cui un’intera classe sociale non può sfuggire, a meno di non voler ricercare l’alternativa a ciò nella morte per inedia, la lotta operaia invocata dal Manifesto mira per l’appunto a universalizzare e rendere concreta la stessa libertà negativa. La tradizione liberale, che tanto insiste sulla necessità della limitazione del potere, perde di vista l’obiettivo così solennemente proclamato appena varcata la soglia della fabbrica: indisturbato deve poter continuare ad agire quel «legislatore assoluto» che agli occhi di Engels è il padrone capitalistico26. Tocqueville riconosce il fatto che l’industria capitalistica «s’organizza ogni giorno di più sotto una forma aristocratica» e che al suo interno il lavoratore salariato viene a trovarsi «in una stretta dipendenza» rispetto al datore di lavoro27. È una costrizione – aggiunge Constant – che si manifesta prima ancora dell’ingresso in fabbrica: il lavoratore salariato è privo del «reddito necessario per vivere indipendente da ogni volontà altrui»; «i proprietari sono padroni della sua esistenza perché possono negargli il lavoro»28. Per dirla con Sieyès, la «schiavitù del bisogno» costringe la «moltitudine senza istruzione» a sottomettersi a un lavoro «forzato» e dunque a una condizione «priva di libertà»29. Ma abbiamo pur sempre a che fare con rapporti sociali privi di rilevanza politica; e dunque folle e liberticida è per Tocqueville la pretesa di mettere «la preveggenza e la saggezza dello Stato al posto della preveggenza e della saggezza individuali»; «non vi è nulla che autorizzi lo Stato ad intromettersi nell’industria»30. Engels 1955a, p. 399. Tocqueville 1951c, pp. 105-106. 28 Constant 1970a, p. 102. 29 Sieyès 1985, pp. 76 e 236. 30 Tocqueville 1864-67, pp. 551-52. 26 27

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Per il Manifesto, invece, vuota e ipocrita suona una celebrazione della libertà che non comporti la messa in discussione da un lato del «dispotismo» padronale, dall’altro di rapporti sociali che vedono gli «operai» degradati a «merce». Matura ormai è la consapevolezza per cui un incisivo «cambiamento politico» implica il «cambiamento delle condizioni materiali di vita, dei rapporti economici» (infra, p. 48). Ma sia chiaro: il materiale non coincide affatto con l’economico, non si riduce in alcun modo al livello del salario e del tenore di vita. Materiale è qui tutto ciò che fuoriesce dalla «vita aerea», dall’«eterea regione», dal «cielo dello Stato politico», così come viene delimitato e circoscritto dalla teoria e dalla società borghese moderna; si tratta di porre fine a una situazione per cui gli individui sono liberi e uguali «nel cielo del loro mondo politico», mentre continuano a subire illibertà e disuguaglianza «nell’esistenza terrestre della società»31. Ecco, il materiale è l’esistenza terrestre della società, il concreto mondo della vita, espunto dalla sfera politica a opera della teoria e della società borghese, ma che ora, inserito a pieno titolo nell’ambito delle «condizioni sociali e politiche», dev’essere finalmente liberato del suo carico di miseria e oppressione. 5. Movimento dal basso e iniziativa dall’alto nel processo di emancipazione Mentre cercano di imporre allo stesso governo borghese un intervento dall’alto, gli operai promuovono un movimento autonomo di trasformazione dal basso: «cominciano a formare coalizioni contro i borghesi e si uniscono per difendere il loro salario» (infra, p. 18). Le «coalizioni» e il nascente movimento sindacale salutati dal Manifesto hanno alle spalle una lunga storia di denunce e di persecuzioni. Agli inizi del Settecento, Mande31

Marx 1955a, pp. 283 e 303 (= Marx 1963, pp. 93 e 111).

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ville esprime tutto il suo stupore per un fenomeno nuovo e inquietante: Sono informato da persone degne di fede che alcuni di questi lacché sono arrivati a un tal punto di insolenza da riunirsi in società ed hanno fatto leggi secondo le quali si fanno obbligo di non prestare servizio per una somma inferiore a quella che hanno stabilito tra loro, di non portare carichi o fagotti o pacchi che superino un certo peso, fissato a due o tre libbre, e si sono imposti una serie di altre regole direttamente opposte all’interesse di quelli cui prestano servizio, e al tempo stesso contrarie allo scopo per il quale sono stati assunti32.

Nell’ambito di questa sfera «privata» che è costituita dai rapporti economico-sociali, ai proletari non è lecito avvalersi né dell’appoggio che essi rivendicano dal potere politico né dell’organizzazione collettiva che essi cercano di costruire. Realmente libero è solo il contratto stipulato al di fuori di qualsiasi forma di organizzazione dal basso, di qualsiasi «combination or collusion»33: questa l’opinione espressa alla fine del Settecento da Burke, con allusione trasparente e compiaciuta alle Combination Laws che vietavano e punivano le coalizioni operaie. Particolarmente interessante è la posizione di Smith. Questi riconosce che per gli operai formare coalizioni è un’esigenza vitale, è una vera e propria questione di vita o di morte: siamo in presenza di «uomini disperati che devono morire di fame oppure costringere i loro padroni ad accogliere le loro richieste»34. D’altro canto, sul versante opposto, le coalizioni sono un dato di fatto: «I padroni sono sempre e ovunque in una specie di tacita ma non per questo meno costante e uniforme coalizione volta a impedire il rialzo dei salari al di sopra del loro livello attuale», o volta «ad abbassare ulteriormente il livello dei salaMandeville 1974, p. 110. Burke 1826c, p. 380. 34 Smith 1977, p. 68 (Libro I, cap. VIII). 32 33

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ri»35. Tutto ciò non impedisce al grande economista di raccomandare al governo di colpire con rigore ogni tentativo di aggregazione operaia. Crudele o spietato appare tale atteggiamento, ma bisogna comprendere la logica che lo ispira. Smith insiste su un punto essenziale: è necessario «consentire a ciascuno di perseguire autonomamente il suo proprio interesse personale su un piano liberale di uguaglianza, di libertà e di giustizia»36; «conformemente al sistema della libertà naturale», ogni uomo deve poter portare e mettere in concorrenza «il suo lavoro o il suo capitale», senza ostacoli di sorta37. Dati questi presupposti, anche le coalizioni operaie finiscono col configurarsi come una «violazione della libertà naturale e della giustizia»38. In modo analogo argomenta la Francia liberale della monarchia di Luglio. Agli operai che protestano contro il cottimo, le autorità intimano: «Se gli operai di Parigi intendono esporre dei reclami fondati, questi devono essere presentati alle autorità individualmente e in una forma regolare», e comunque senza intaccare «il principio della libertà dell’industria» e della «libertà di lavoro». Nella seconda metà dell’Ottocento, John Stuart Mill tuona contro quella «polizia morale, che talvolta diventa fisica», esercitata dal movimento sindacale: «gli operai inefficienti, che in molti rami dell’industria costituiscono la maggioranza», tentano di bloccare il «cottimo» e così «opprimono pesantemente» gli operai più «abili e operosi», i quali cercano di guadagnare di più. Eppure, le conseguenze del cottimo erano state così descritte da Smith alcuni decenni prima: gli operai che a esso si sottomettono «tendono a eccedere nel lavoro e a rovinarsi la salute e l’organismo in pochi anni»: se desSmith 1977, p. 67 (Libro I, cap. VIII). Smith 1977, p. 656 (Libro IV, cap. IX); per questo brano, come per altri che seguono, la trad. it. di Smith è stata leggermente modificata. 37 Smith 1977, p. 681 (Libro IV, cap. IX). 38 Smith 1977, p. 521 (Libro IV, cap. V). 35 36

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sero ascolto ai «dettami della ragione e dell’umanità», dovrebbero essere gli stessi padroni a limitare questo tipo di retribuzione. Ma una cosa è l’intervento filantropico dall’alto, altra e ben diversa è l’intervento organizzato dal basso in quelle che anche Mill continua a considerare «questioni private»39. Ancora ai giorni nostri, Hayek mette in stato d’accusa i sindacati per il fatto di eliminare la «determinazione concorrenziale dei prezzi» della forza-lavoro, minando così alle radici il sistema liberale. Non si può rimanere passivi dinanzi a tale scempio: è «un chiaro dovere morale del governo non solo l’evitare d’interferire nel gioco [del mercato], ma anche l’impedire che lo faccia un qualunque altro gruppo organizzato»40. Nella sfera, da essa sovranamente dichiarata «privata», la borghesia liberale non tollera non solo l’intervento del potere politico ma neppure quello proveniente dal seno della società civile. Dal punto di vista della tradizione liberale, perché non violi il mercato, il contratto dev’essere individuale; se l’ordinato funzionamento della fabbrica esige l’irreggimentazione degli occupati, l’ordinato funzionamento del mercato della forza-lavoro esige la frantumazione più radicale possibile di coloro che sono chiamati a erogarla e a venderla. Per dirla col Manifesto del partito comunista, «il lavoro salariato si fonda esclusivamente sulla concorrenza degli operai tra di loro» (infra, p. 23). Apparentemente, è il trionfo della libertà: il singolo operaio è ora indipendente sia dallo Stato sia dai suoi compagni di lavoro. In realtà, proprio adesso è possibile toccare con mano la sua riduzione a merce, a cosa: «costretti a vendersi al minuto», gli operai «sono una merce come ogni altro articolo di commercio, e proprio per questo sono esposti a tutte le vicissitudini della concorrenza, a tutte le oscillazioni del mercato» (infra, p. 15). Mill 1981, p. 121; Smith 1977, pp. 81-82 (Libro I, cap. VIII); per quanto riguarda la monarchia di Luglio, cfr. Losurdo 1993, pp. 154-55. 40 Hayek 1988, p. 163 e Hayek 1986, pp. 516-17. 39

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Dal punto di vista della tradizione liberale, a essere sinonimo di dispotismo è il tentativo di superare la frantumazione della classe operaia intervenendo in una sfera definita come «privata», in contrapposizione allo Stato politico, e costruita e decostruita (anche con la forza, mediante interventi legislativi, in questo caso auspicati e rivendicati) come un semplice insieme di singoli individui, con la conseguente condanna, più o meno esplicita e più o meno rigorosa, di ogni tentativo di organizzazione delle classi subalterne. Dal punto di vista di Marx e Engels, la frantumazione consacra il trionfo del «dispotismo» padronale e rende insuperabile la «schiavitù del bisogno» e il «lavoro forzato» degli operai, di cui abbiamo visto parlare Sieyès. Si può ora comprendere meglio il significato pregnante della chiusa del Manifesto: «Proletari di tutti i paesi, unitevi!». Non si tratta di un appello retorico. Sono gli anni in cui Carlyle, per fare solo un esempio, dopo aver giustificato la schiavitù degli afroamericani al di là dell’Atlantico, bolla come «neri» gli irlandesi che in Gran Bretagna tendono a occupare i segmenti inferiori del mercato del lavoro41. La lotta contro la frantumazione della classe operaia è al tempo stesso la lotta contro il pregiudizio nazionale o razziale. 6. Lotta per il potere politico e trasformazione della società Ma le riforme realizzate mediante il movimento dal basso e gli interventi dall’alto saranno sempre ben poca cosa fino a quando «il potere politico» continuerà a essere il «comitato» d’affari della borghesia. Quelle stesse limitate riforme possono essere annullate dalla classe dominante, favorita dal fatto che l’organizzazione chiamata a promuovere la resistenza contro il «dispotismo» padronale «viene ad ogni istante spezzata dalla con41

Carlyle 1983, pp. 463-65.

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correnza fra gli stessi operai» (infra, p. 18). Un mutamento radicale e irreversibile delle «condizioni sociali e politiche» presuppone – sottolinea Marx già nel 1844 – una «rivoluzione politica con un’anima sociale»42. L’«organizzazione dei proletari in classe, e quindi in partito politico» (infra, p. 18) deve mirare – chiarisce il Manifesto – alla conquista del potere politico. È il momento in cui mutamento dal basso e mutamento dall’alto s’incontrano in un processo di radicale trasformazione della società. La «questione della proprietà», che la borghesia liberale vorrebbe espungere dall’ambito politico, si configura ora in modo chiaro ed esplicito come la «questione fondamentale del movimento» operaio (infra, p. 57) e della nuova società da costruire; si tratta di agire «con interventi dispotici nel diritto di proprietà e nei rapporti borghesi di produzione» (infra, p. 36). Oltre a un ampio programma di nazionalizzazione dei mezzi di produzione, tra gli «interventi dispotici» qui presi in considerazione è anche l’«imposta fortemente progressiva» (infra, p. 36). È una misura apparentemente modesta. Su di essa conviene concentrare l’attenzione, al fine di comprendere la grande influenza dispiegata dal Manifesto anche sulla società e la storia dell’Occidente. Assai significativa è la lettura che di questa misura fa il giovane Engels: In fondo, il principio della tassazione è puramente comunista […] Infatti o la proprietà privata è sacra e allora non c’è proprietà statale e lo Stato non ha il diritto di imporre tasse; oppure lo Stato ha tale diritto, ma allora la proprietà privata non è sacra; infatti la proprietà statale è al di sopra di quella privata e lo Stato è il vero proprietario.

A dimostrare l’insostenibilità del principio dell’assoluta inviolabilità della proprietà privata viene qui chiamato il sistema 42

Marx 1955e, p. 409.

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fiscale o, più precisamente, l’imposta progressiva, la quale comporta una redistribuzione del reddito a favore delle classi più povere. Ciò spiega l’ostilità degli autori liberali. A dire il vero, per Montesquieu conforme ai principi di libertà è solo la tassazione indiretta: «l’imposta pro capite è più connaturale alla schiavitù; l’imposta sulle merci è più connaturale alla libertà, perché si riferisce in maniera meno diretta alla persona»; l’imposta sul reddito della persona comporta invece «inchieste continue in casa sua» e «nulla è più contrario di ciò alla libertà». La tradizione liberale concentra però il fuoco soprattutto sull’imposta progressiva. Agli occhi di Benjamin Constant, un trattamento fiscale di favore a vantaggio dei poveri non solo penalizza l’«agiatezza» ma finisce col «trattare la povertà come un privilegio» e persino col creare «una casta privilegiata». È una tesi singolare, se non altro perché cade in un momento in cui l’effetto congiunto di carestia e inflazione riduce, secondo la testimonianza della stessa Madame de Staël, amica di Constant, «l’ultima classe della società allo stato più miserabile» infliggendole dei «mali inauditi», sino all’inedia. Ma conosciamo già la logica che bolla come attentato alla libertà qualsiasi intervento nella sfera privata. A lenire la miseria di massa può semmai provvedere la spontanea beneficenza individuale. La «beneficenza di Stato» (il prelievo fiscale a carico dei ricchi) viene da Spencer paragonata alla «Chiesa di Stato» cara all’assolutismo monarchico: l’una e l’altra, soffocando la spontaneità, impediscono il dispiegarsi dell’autentica carità e religiosità. Questa condanna così netta dell’imposta progressiva è motivata solo dall’amore della libertà? A prendere decisa posizione per le imposte indirette e a sostenere la tesi secondo cui solo le tasse sui consumi garantiscono l’uguaglianza di trattamento dinanzi al fisco è già Hobbes: Per quale ragione colui il quale lavora molto, e, risparmiando i frutti del suo lavoro, consuma poco, dovrebb’essere più caricato di colui,

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il quale, vivendo neghittoso, guadagna poco e spende tutto quanto guadagna, considerando che l’uno non ha maggior protezione che l’altro dallo Stato?

Questa obiezione del Leviatano avrebbe potuto farla propria anche Montesquieu. Paradossalmente, nella diffidenza o ostilità per l’imposta sul reddito, e tanto più per l’imposta progressiva sul reddito, la tradizione liberale finisce con l’incontrarsi con un teorico dell’assolutismo. È alla luce di questo secolare dibattito sulla tassazione43 che dev’essere letta la decisa presa di posizione del Manifesto: la necessaria redistribuzione del reddito non può essere affidata alla beneficenza individuale; ben lungi dal potersi limitare ad agire sull’intimità delle coscienze, il reale mutamento implica l’intervento sulle «condizioni sociali e politiche», nel cui ambito rientra anche il sistema fiscale. 7. Il proletariato da «strumento di lavoro» a soggetto politico storico-universale Una classe che in fabbrica subisce il «dispotismo» non solo del padrone ma anche della «macchina» (infra, p. 16) è chiamata a essere protagonista di una grande rivoluzione politica e sociale. Conviene soffermarsi un attimo su quella che forse è la novità più radicale del Manifesto. Non è difficile sorprendere nell’ambito della tradizione liberale descrizioni lucide degli effetti di ottundimento prodotti dalla fabbrica capitalistica. Costretto alla ripetizione ossessiva di «poche semplicissime operazioni, spesso una o due», l’operaio – osserva Smith – finisce col diventare «tanto stupido e ignorante quanto può esserlo una creatura umana»; egli non riesce a formarsi «un giudizio corretto 43

Su ciò cfr. Losurdo 1992, pp. 247-52 e 306.

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persino su molti dei comuni doveri della vita privata», per non parlare delle questioni politiche. Se c’è un rimedio a questa situazione, esso può essere apportato solo dall’alto e dall’esterno, da una borghesia illuminata o filantropa. Per il Manifesto, invece, l’ottundimento è solo un aspetto; per un altro verso, proprio la dura esperienza, quotidiana e collettiva, dello sfruttamento e del «dispotismo» in fabbrica può costituire il presupposto perché la classe operaia si configuri come il soggetto centrale della trasformazione. In Smith, l’operaio sembra persino smarrire le sue caratteristiche più propriamente umane: diventa «non solo incapace di prendere gusto o parte a una qualsiasi conversazione razionale, ma anche di concepire un qualsiasi sentimento generoso, nobile e tenero»; per Marx il proletariato è il «cuore» stesso dell’emancipazione umana44. È una novità radicale che ancora oggi stenta a essere compresa. Si pensi a Hannah Arendt, la quale al lavoro produttivo e alla lotta operaia e popolare per migliori condizioni di vita contrappone la «felicità pubblica» che scaturisce dall’azione e dalla comunicazione politica fine a se stessa. Una dimensione questa che, secondo l’autrice, sarebbe rimasta del tutto estranea a Marx e al materialismo storico. In realtà alla Arendt sfugge il fatto che, proprio nel corso della lotta contro l’oppressione materiale di cui è vittima, un’intera classe sociale sta trovando e provando il gusto e la passione per l’azione politica. «Di tanto in tanto» – osserva il Manifesto – «gli operai vincono, ma solo temporaneamente. Il vero risultato delle loro lotte non è il successo immediato, ma la loro unione, che sempre più si diffonde» (infra, p. 18). L’unione degli operai non è solo il mezzo per il conseguimento di un fine ulteriore. Nello spezzare, mediante l’azione sindacale e politica, l’isolamento cui vorrebbe costringerla la borghesia, un’intera classe sociale conquista la sua dignità an44

Smith 1977, p. 770 (Libro V, cap. I, art. II); Marx 1955f, p. 391.

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cor prima di conseguire risultati concreti. È quello che colpisce Engels nel corso del suo viaggio in Inghilterra; rivolgendosi agli operai, il giovane rivoluzionario esprime la sua felicità per il fatto di «discorrere con voi sul vostro stato e sui vostri tormenti, essere testimone delle vostre lotte contro il potere politico e sociale dei vostri oppressori»45. Rimanendo ferma al punto di vista di Smith, la Arendt ignora la reale efficacia storica che si dispiega a partire dalla teoria di Marx e Engels, che avvicina alla politica masse sterminate di uomini, de-umanizzati dall’ordinamento sociale e dall’ideologia sino a quel momento dominanti. Burke sussume il bracciante o lavoratore salariato sotto la categoria di instrumentum vocale e dunque, seguendo una ripartizione classica, lo colloca tra gli strumenti di lavoro assieme al bue (l’instrumentum semivocale) e all’aratro (l’instrumentum mutum). Sieyès parla della «maggior parte degli uomini come macchine da lavoro» ovvero come «strumenti umani della produzione» o «strumenti bipedi». Nella migliore delle ipotesi, siamo in presenza di una «moltitudine sempre bambina». E questo è il punto di vista anche di Constant, il quale assimila i proletari a «fanciulli» che, costretti a lavorare giorno e notte, rimangono in una situazione di «eterna dipendenza»46; in qualche modo si tratta di uomini, ma con la singolare caratteristica per cui non diventano, e non possono mai diventare, maggiorenni. Ed ecco che questi «strumenti» di lavoro, queste «macchine bipedi», ovvero questi eterni «fanciulli» rifiutano la condizione sino a quel momento subita come una calamità naturale. A essere messa in discussione è la degradazione umana e politica prima ancora che lo sfruttamento economico. Alla lettura economicistica che la Arendt fa di Marx e Engels si può contrapporre il fatto che proprio il Manifesto critica con durezza coloro che 45 46

Engels 1955a, p. 229. Losurdo 1993, pp. 39-45.

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vorrebbero «far perdere alla classe operaia il gusto» della politica e del «cambiamento politico»: stando alle loro prediche, essa dovrebbe accontentarsi di qualche piccolo «cambiamento delle condizioni materiali di vita, dei rapporti economici», rinunciando non solo a ogni progetto rivoluzionario ma anche all’azione politica in quanto tale, accantonando quindi anche la lotta per la cancellazione della discriminazione censitaria del suffragio. Val la pena di notare che prediche analoghe vengono rivolte in questo stesso periodo di tempo ai neri «liberi» del Nord degli Stati Uniti e, più tardi, anche del Sud: essi vengono invitati a rinunciare, nel loro stesso interesse, alla rivendicazione dell’uguaglianza politica e della piena dignità umana, per concentrarsi invece esclusivamente sul salario e sugli altri aspetti della vita quotidiana e materiale. Nei confronti di un tale atteggiamento Marx e Engels nutrono solo disprezzo. Intesa correttamente, la lotta per migliori condizioni di vita e di lavoro è una lotta anche per il riconoscimento. Nel rivendicare il riconoscimento dalla classe dominante e sfruttatrice, i proletari cominciano intanto a riconoscersi tra di loro. È un processo descritto con accenti commossi dai Manoscritti economico-filosofici: Quando operai comunisti si riuniscono, loro scopo è innanzi tutto la dottrina, la propaganda ecc. Ma con ciò stesso acquistano un nuovo bisogno, il bisogno della società, e quel che appare un mezzo diventa uno scopo. Questo movimento pratico lo si vede nei suoi risultati più splendidi quando si osservano degli ouvriers socialisti francesi riuniti. Fumare, bere, mangiare ecc., non sono più qui mezzi di unione o associativi: la società, l’unione, la conversazione, che la loro società ha per scopo, bastano loro, la fraternità umana non è una frase, ma la verità presso di loro, e la nobiltà dell’umanità ci splende incontro da quelle figure indurite dal lavoro47.

47

Marx 1955c, pp. 553-54 (= Marx 1963, pp. 242-43).

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Questo brano potrebbe essere contrapposto a quello in cui Smith raccomanda al governo di liquidare tempestivamente le coalizioni dei lavoratori salariati, intervenendo contro ogni possibile forma di aggregazione operaia, anche se purtroppo «è difficile che persone dello stesso mestiere si incontrino per far festa e per divertirsi, senza che la conversazione finisca in una cospirazione contro lo Stato o in un qualche espediente per elevare i prezzi» (della forza-lavoro)48. E di nuovo può essere utile il confronto con Marx. La legge Le Chapelier, la quale, nella Francia del 1791, vieta le «coalizioni», viene bollata dal Capitale come una sorta di «colpo di Stato borghese» con cui la nuova classe dominante strappa agli operai «il diritto di associazione appena conquistato»49. In conclusione. Per Marx e Engels, al di là delle sue pur sacrosante rivendicazioni economiche e politiche, il movimento operaio ha un obiettivo ben più ambizioso. I Manoscritti lo descrivono con linguaggio filosofico: la società borghese costringe il proletario a una penosa mutilazione, ingabbiandolo e isolandolo nell’«esistenza astratta dell’uomo come un mero uomoda-fatica (Arbeitsmensch), che giornalmente può precipitare dal suo niente di contenuto nell’assoluto niente, nella sua inesistenza sociale e perciò effettiva»50; è a questa situazione che bisogna porre fine. Più direttamente politico è il linguaggio del Manifesto: a essere messi in stato d’accusa sono rapporti economico-sociali che comportano la «trasformazione in macchina» (infra, p. 30) dei proletari, degradati a «strumenti di lavoro» (infra, p. 32), ad «accessorio della macchina» (infra, p. 15), ad appendice «dipendente e impersonale» del capitale «indipendente e personale» (infra, p. 28).

Smith 1977, p. 128 (Libro I, cap. X, 2). Marx 1955h, pp. 767-70. 50 Marx 1955c, pp. 524-25 (= Marx 1963, p. 210). 48 49

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8. Città e campagna, proletariato e popoli coloniali Non solo il proletariato può progettare e costruire un sistema sociale diverso da quello dominante ma, all’interno stesso del capitalismo, può divenire la forza decisiva per il rovesciamento dell’antico regime e la realizzazione della democrazia politica: in tal caso è chiamato a collegare la lotta per la democrazia politica alla lotta per il superamento della società capitalistica. In determinate circostanze – sottolinea il Manifesto – tali compiti possono intrecciarsi in una indissolubile unità: Alla Germania i comunisti rivolgono principalmente la loro attenzione, perché la Germania si trova alla vigilia di una rivoluzione borghese, e perché essa attua tale sconvolgimento in condizioni di civiltà europea più progredite e con un proletariato di gran lunga più sviluppato rispetto all’Inghilterra del secolo XVII e alla Francia del XVIII; per cui la rivoluzione borghese tedesca non può che essere l’immediato preludio di una rivoluzione proletaria (infra, p. 56).

Con lo sguardo rivolto a un paese ancora relativamente arretrato sul piano economico e politico, viene qui evocata la possibilità di una rivoluzione socialista che si sviluppa sull’onda di una rivoluzione antifeudale egemonizzata dal proletariato. A essersi rivelata storicamente efficace è questa teoria della rivoluzione, non quella consegnata alla celeberrima pagina del Capitale che vede la rivoluzione socialista come conseguenza immediata e automatica del compiersi del processo di accumulazione capitalistica, cioè come «espropriazione» (da parte del proletariato) degli «espropriatori» (borghesi). Sì, nel Novecento rivoluzioni di orientamento socialista si sono sviluppate in paesi ancora al di qua della maturità capitalistica. Ma al di fuori del quadro geografico preso in considerazione dal Manifesto. Per i suoi autori, l’Europa è sinonimo di civiltà e l’Oriente di barbarie. Non che Marx e Engels si appiattiscano totalmente sulla tradizione liberale, in questi anni im-

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pegnata, con Tocqueville e Mill, a celebrare liricamente persino le guerre dell’oppio. Il Manifesto è più problematico: quella imposta dall’Occidente è la «cosiddetta civiltà» (infra, p. 11), cioè i rapporti «borghesi». Ben più incisivamente si esprime un articolo di Marx di alcuni anni dopo che, nel denunciare l’orrore dell’espansione coloniale, osserva come esso getti luce al tempo stesso sulla vera natura della metropoli capitalistica: «La profonda ipocrisia, l’intrinseca barbarie della civiltà borghese ci stanno dinanzi senza veli, non appena dalle grandi metropoli, dove esse prendono forme rispettabili, volgiamo gli occhi alle colonie, dove vanno in giro ignude». Nelle colonie la violenza del dominio si manifesta senza mediazioni e senza infingimenti: «I popoli moderni non hanno saputo fare altro che mascherare la schiavitù nel loro proprio paese e l’hanno imposta senza maschera al nuovo mondo». E, tuttavia, nonostante i crimini orrendi di cui si macchia, la conquista inglese dell’India appare a Marx come «l’unica rivoluzione sociale che l’Asia abbia mai conosciuto». Se del tutto estranea a Smith è l’idea della soggettività rivoluzionaria della classe operaia, Marx e Engels solo eccezionalmente hanno saputo cogliere la soggettività rivoluzionaria dei popoli coloniali. Perché ciò avvenga, bisogna attendere, in una situazione diversa e oggettivamente più avanzata, l’intervento di Lenin. Con lui giunge a compimento un ulteriore processo. Locke celebra la libertà ma considera ovvia e pacifica la schiavitù dei neri nelle colonie; Mill condanna il dispotismo, ma ne celebra l’efficacia pedagogica con lo sguardo rivolto alle «razze» da lui considerate «minorenni». Pesanti clausole di esclusione accompagnano la celebrazione della libertà nell’ambito della tradizione liberale. Tocqueville descrive in modo lucido e commosso il terribile trattamento in America riservato a indios e neri, e tuttavia gli Stati Uniti continuano a essere ai suoi occhi il paese della «democrazia, viva, attiva, trionfante». In tutti questi tre casi, la de-

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mocrazia viene definita indipendentemente dalla sorte degli esclusi. Tracce di tale atteggiamento possono essere sorprese anche in Marx e Engels, i quali, come sappiamo, considerano gli Stati Uniti come il «paese dell’emancipazione politica compiuta», ovvero come «l’esempio più perfetto di Stato moderno», il quale assicura il dominio della borghesia senza escludere a priori alcuna classe sociale dal godimento dei diritti politici. In realtà, contrariamente a quello che pensavano Tocqueville, Marx e Engels, ben lungi dall’essere scomparsa, la discriminazione censitaria si esprimeva al di là dell’Atlantico attraverso la discriminazione etnica e razziale e, in tale forma, si rivelerà ben più tenace che in Europa. Di un altro motivo ben presente nell’opera di Marx e Engels («non può essere libero un popolo che ne opprime un altro») fa invece tesoro Lenin, il quale opera la definitiva resa dei conti con le clausole d’esclusione della tradizione liberale, con ogni visione della democrazia che pretenda di definire questo regime indipendentemente dalla sorte degli esclusi. E questo motivo agisce potentemente nella rivoluzione d’ottobre, la quale imprime così una svolta radicale al dispiegarsi della soggettività rivoluzionaria dei popoli coloniali ed ex coloniali51. 9. Globalizzazione e «guerra industriale di annientamento fra le nazioni» È in regioni ai margini dell’Occidente sviluppato che sono scoppiate le rivoluzioni evocate dal Manifesto. In genere i suoi autori vengono accusati di aver avuto una visione catastrofista dello sviluppo storico. In realtà, almeno per quanto riguarda la poli51 Sulla questione coloniale in Marx e Engels e nella tradizione liberale, cfr. Losurdo 1997, pp. 21-35.

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tica internazionale, essi non si sono spinti sino in fondo nella demistificazione dell’ideologia armonicistica della borghesia del tempo, la quale celebra la sua espansione planetaria come la marcia trionfale della civiltà e della pace. Sono gli anni in cui Constant profetizza la scomparsa o il deperire del fenomeno della guerra in seguito all’espansione del commercio52. Più tardi Spencer vede la figura dell’industriale-commerciante soppiantare la figura del guerriero, proprio nel momento in cui l’espansione industriale e commerciale della metropoli europea avviene all’insegna non solo di guerre sanguinose nelle colonie, ma anche di una crescente rivalità fra le stesse potenze industriali-commerciali, rivalità che poi influirà non poco sullo scoppio della prima guerra mondiale. Questa visione armonicistica fa talvolta capolino anche nel Manifesto del partito comunista. Nella metropoli sembra avanzare un processo di generale pacificazione: «Gli isolamenti e gli antagonismi nazionali dei popoli vanno via via scomparendo già con lo sviluppo della borghesia, con la libertà di commercio, col mercato mondiale, con l’uniformità della produzione industriale e delle condizioni di vita ad essa corrispondenti». Sembra di assistere a un deperimento del fenomeno della guerra già nella società borghese sviluppata, senza che ci sia bisogno di attendere il comunismo, allorché, «con la scomparsa dell’antagonismo fra le classi, all’interno della nazione, scompare l’ostilità fra le nazioni stesse» (infra, p. 33). Per un altro verso, è lo stesso Manifesto ad attribuire a Sismondi il merito di aver denunciato la realtà della «guerra industriale di annientamento tra le nazioni» (infra, p. 43). Solo pochi mesi dopo, la «Neue Rheinische Zeitung» ironizza su Ruge: questi non ha compreso che il fenomeno della guerra non scompare con il regime feudale e che i paesi nei quali domina la borghesia non costituiscono per nulla 52

Constant 1970b, p. 223.

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degli «alleati naturali», separati come sono da una concorrenza spietata il cui esito può essere appunto anche la guerra53. Appena evocata dal Manifesto, la «guerra industriale di annientamento fra le nazioni» ha contribuito in modo essenziale al successo delle rivoluzioni da esso auspicate. A partire dalla lotta contro la carneficina iniziata nel 1914, un paese e, successivamente, un «campo socialista» sono emersi in condizioni di doppia «barbarie» (per usare il linguaggio del Manifesto): e cioè la pesante arretratezza dell’Oriente e, soprattutto, l’orrore dei due conflitti mondiali e della guerra totale. Va da sé, Marx e Engels non hanno in alcun modo previsto un siffatto tentativo di costruzione di una società post-capitalistica. Ma dopo il crollo del «campo socialista», ecco verificarsi una situazione che di nuovo ci rinvia al Manifesto. In un testo che pure è apparso 150 anni fa è possibile leggere un’analisi di sorprendente attualità: Le più antiche industrie nazionali sono state e sono tuttora quotidianamente distrutte. Esse vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa una questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più materie prime locali, bensì materie prime provenienti dalle regioni più remote, e i cui prodotti diventano oggetto di consumo non solo all’interno del paese, ma in tutte le parti del mondo. Ai vecchi bisogni, soddisfatti con i prodotti nazionali, subentrano nuovi bisogni, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All’antica autosufficienza e all’antico isolamento locali e nazionali subentra un commercio universale, una interdipendenza universale fra le nazioni. Ciò vale sia per la produzione materiale che per quella spirituale (infra, pp. 10-11).

Non potrebbe essere descritta meglio la globalizzazione di cui oggi tutti parlano. Questa omologazione investe tendenzialmente anche quel che resta del «campo socialista». Di nuovo 53

Engels 1955b, pp. 359-63.

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suona profetico un testo pur di veneranda età. Inarrestabile appare l’espansione della borghesia: I bassi prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con cui essa abbatte tutte le muraglie cinesi e con cui costringe alla capitolazione la più ostinata xenofobia dei barbari. Essa costringe tutte le nazioni ad adottare il sistema di produzione della borghesia, se non vogliono andare in rovina, le costringe a introdurre nei loro paesi la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi. In una parola, essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza (infra, p. 11).

Nel dispiegare la sua azione omologatrice a livello planetario, la borghesia fa in realtà valere non solo la sua potenza economica e ideologica, come asserisce il brano appena visto, ma anche quella politica e militare, come è rivelato da tutta una serie di misure che si collocano tra la pace e il conflitto armato vero e proprio: embargo, guerra economica e minaccia di guerra economica, intimidazioni militari, campagne ideologiche internazionali che possono avvalersi di un’impressionante potenza di fuoco multimediale. D’altro canto, sia pure in modo incerto e contraddittorio, già il Manifesto prende coscienza del fatto che l’«interdipendenza universale» prodotta dal capitalismo non è in contraddizione col fenomeno della «guerra industriale di annientamento» o con altri conflitti più o meno catastrofici. 10. Dalla teoria della dittatura del proletariato al gulag? La doppia «barbarie», che ha caratterizzato il contesto storico delle rivoluzioni evocate dal Manifesto, è sfociata nel gulag. Dobbiamo considerarne corresponsabili i suoi autori? La domanda è mal formulata. Essa sembra presupporre che la storia della fortuna politica di quel testo conduca solo in direzione del «socialismo reale». Ma le cose non stanno così. Abbiamo due testimonianze insospettabili. Popper crede di poter dimostrare

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l’irrimediabile obsolescenza della teoria di Marx in base al fatto che le «democrazie moderne» avrebbero messo in pratica «la maggior parte» delle rivendicazioni programmatiche del Manifesto del partito comunista, a cominciare dall’«imposta sul reddito fortemente progressiva o proporzionale»54. Per la verità, assai imprecisa e singolare è la formulazione qui usata, che assimila e unifica due tipi di tassazione alquanto diversi! Dato che fa riferimento al Manifesto del partito comunista, è presumibile, comunque, che il teorico della «società aperta» intenda in realtà la «starke Progressivsteuer», «l’imposta fortemente progressiva», di cui abbiamo già parlato. Resta il fatto che, argomentando in tal modo, Popper dimostra il debito che le «democrazie moderne» hanno contratto nei confronti di Marx e Engels, non già l’obsolescenza delle loro teorie. Il tipo di tassazione in questione è più che mai al centro del dibattito politico, ed è duramente contestato per esempio da Hayek, il quale fa riferimento proprio all’«imposizione fiscale progressiva come mezzo per conseguire una redistribuzione del reddito a favore delle classi più povere» per denunciare l’intollerabile contaminazione socialista subita dalla stessa società occidentale55. E così, assieme a Popper, nonostante il diverso e contrapposto giudizio di valore, anche il patriarca del neoliberismo finisce col riconoscere l’influenza da Marx e Engels esercitata sulla occidentale «democrazia reale». Ciò non vale soltanto per l’imposta progressiva (e lo Stato sociale). La stessa configurazione delle istituzioni politiche, fondate sul principio «una testa, un voto», presenta somiglianze molto maggiori col programma rivendicato dal Manifesto del partito comunista che non con le enunciazioni dei teorici liberali del tempo, più o meno affezionati al principio della discriminazione censitaria e quanto mai lontani anche solo dal pensiero 54 55

Popper 1974, vol. II, p. 186. Hayek 1988, p. 158.

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dell’abolizione di una Camera alta (costituita a partire dal privilegio della nascita più ancora che della ricchezza). E se oggi, nella realtà politica e nella società civile, il lavoratore salariato non può più essere immediatamente identificato con l’instrumentum vocale, la «macchina bipede» e l’eterno «fanciullo» di cui parla la tradizione liberale, lo si deve in primo luogo al Manifesto del partito comunista e alla vicenda storica con esso iniziata. Sorvola su tutto ciò la tesi che, prendendo le mosse dalla teorizzazione in Marx e Engels di una fase transitoria di dittatura rivoluzionaria, pretende di costruire una linea di continuità sino al gulag. In realtà, in modo analogo agli autori messi in stato d’accusa argomentano personalità a essi contemporanee ma collocate su posizioni assai diverse. Si pensi alla teorizzazione, nella mazziniana «Giovine Italia» del 1833, di «un Potere dittatoriale, fortemente accentrato», che procede alla «sospensione» della carta dei diritti e che esaurisce il suo compito solo con la vittoria finale della rivoluzione nazionale56. O si pensi a Tocqueville che, pressappoco in questo stesso periodo di tempo, dopo aver descritto la tragedia del popolo irlandese, falcidiato dalla miseria e oppresso e tiranneggiato da un’aristocrazia straniera, si chiede se «una dittatura temporanea, esercitata in modo fermo e illuminato, come quella di Bonaparte dopo il 18 Brumaio, non sarebbe il solo mezzo per salvare l’Irlanda»57. Appena accennata è invece nel Manifesto la tesi della fase transitoria della dittatura del proletariato: la si può in qualche modo sorprendere nel discorso sugli «interventi dispotici» che il proletariato costituito come «classe dominante» è chiamato a effettuare sui rapporti di proprietà esistenti (infra, p. 36). E comunque il testo di Marx e Engels è di circa un quindicennio più tardo dell’invocazione di una dittatura rivoluzionaria o riformatrice vista in Mazzini e Tocqueville. Ovviamente, nell’ambi56 57

Riportato in Mazzini 1986, p. 179. Tocqueville 1951b, p. 131.

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to della tradizione liberale (europea e americana), ancora più diffusa è la teorizzazione della dittatura in senso conservatore per lo stato d’eccezione. Anzi, è difficile trovare una celebrazione più magniloquente dell’«ammirevole istituzione» che fu la dittatura romana di quella che si può leggere in Montesquieu e nello Spirito delle leggi 58. È privo di senso denunciare gli effetti catastrofici del discorso di giustificazione della dittatura prendendo le mosse da Marx e Engels, alle cui spalle chiaramente agisce una lunga tradizione. Infine, la considerazione forse più importante. È lecito e anzi doveroso interrogarsi sulle responsabilità di Marx e Engels, a partire dalla storia della fortuna reale della teoria da essi elaborata e rifiutando il mito dell’innocenza della teoria. Ma in modo analogo bisogna allora procedere per tutti i grandi intellettuali, anche per coloro che si collocano nell’ambito di una tradizione di pensiero diversa e contrapposta. Si prenda Locke. C’è un rapporto tra il suo rifiuto, da un lato, di estendere la tolleranza e persino la «compassione» ai «papisti» e dall’altro le stragi subite in Irlanda dai cattolici?59 E che legame sussiste tra la sua teorizzazione della schiavitù nelle colonie e la tratta e la tragedia dei neri, quella che gli odierni militanti afroamericani amano definire il Black Holocaust? È un problema che tanto più s’impone per il fatto che, alla fine del Seicento, sui corpi di non pochi schiavi neri veniva impresso il marchio RAC, le lettere iniziali della Royal African Company, di cui Locke era azionista60. Il meno che si possa dire è che Marx e Engels non hanno beneficiato del lavoro coatto che, a distanza di decenni dalla loro morte, caratterizzerà il gulag. Oppure, per far riferimento al tempo storico del Manifesto, si prenda Tocqueville. Questi celebra i coloni approdati nel Losurdo 1993, pp. 99-102. Locke 1977, pp. 111-12. 60 Thomas 1997, p. 14; cfr. Losurdo 1992, p. 355. 58 59

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Nordamerica per la loro lotta «contro il deserto e la barbarie», contro «selvaggi» irrimediabilmente estranei alla «civiltà», e configura il territorio precedente l’arrivo dei coloni come «la culla vuota di una grande nazione»61: c’è un rapporto tra tutto ciò e le successive deportazioni subite dai pellerossa sino alla consumazione di quello che gli odierni discendenti dei nativi chiamano l’American Holocaust? E c’è un rapporto, per quanto riguarda John Stuart Mill, tra la teorizzazione del «dispotismo», che l’Occidente è chiamato a esercitare sulle razze «minorenni» (a loro volta tenute a una «obbedienza assoluta»), e il terrore (e le stragi) che accompagnano l’espansione coloniale? Anche a voler fare astrazione dalle colonie e dalle popolazioni di origine coloniale, bisogna pur interrogarsi sul nesso che può sussistere tra celebrazione del laissez faire e del libero mercato e le tragedie (sino all’inedia) che, per riconoscimento degli stessi autori liberali (Smith, Constant, Madame de Staël), infieriscono sulle masse popolari. Di poco anteriore al Manifesto è la strage che falcidia la popolazione irlandese, condannata a morte sì dalla malattia che distrugge il raccolto di patate ma anche da una spietata ortodossia, la quale condanna come inammissibile dispotismo qualsiasi intervento del potere politico in una sfera che deve continuare a essere «privata»62. È l’ideologia messa in discussione o in stato d’accusa da Marx e Engels. 11. Dialettica rivoluzionaria e messianismo Una volta liberato dalle unilateralità e dallo strumentalismo con cui viene generalmente formulato, il problema del rapporto tra teoria ed efficacia storica da essa dispiegata va tenuto ben presente anche per quanto riguarda Marx e Engels. Già nel Mani61 62

Losurdo 1996, pp. 209 e 213. Losurdo 1996, pp. 236-37.

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festo comincia a delinearsi l’utopia acritica di una società, nell’ambito della quale «il potere pubblico perderà il suo carattere politico» (infra, p. 37), in ultima analisi di una società non solo senza classi ma anche senza Stato e senza confini nazionali, senza mercato, senza religioni, senza più conflitti di alcun genere. Questa visione esaltata della società post-capitalistica ha certamente giocato un ruolo funesto nei tentativi di edificarla. Per fare solo un esempio: che senso aveva affannarsi nella costruzione di uno Stato socialista democratico se lo Stato era poi destinato a estinguersi? Dagli elementi messianici indubbiamente presenti già nel Manifesto prendono le mosse coloro che vorrebbero liquidare in blocco il pensiero dei suoi autori come una forma di escatologia superficialmente laicizzata. Non rinvia chiaramente ai sogni e alle certezze dogmatiche delle religioni la pretesa, formulata nei Manoscritti 63, di indicare nel comunismo la soluzione addirittura dell’«enigma della storia»? In realtà, l’affermazione famigerata è una citazione da un autore a Marx assai caro. Nel denunciare nel Cristianesimo la «dannazione (Verdammnis) della carne» e il «rifiuto di tutti i beni mondani», Heine celebra il «comunismo» come «conseguenza naturale» di una nuova «concezione del mondo»: «le masse non sopportano più con pazienza cristiana la loro miseria terrena, vogliono invece la felicità su questa terra». A questo punto, la sorte del Cristianesimo è segnata, «giacché ogni epoca è una sfinge che scompare nell’abisso non appena il suo enigma sia stato risolto»64. Anche per Marx il comunismo è la soluzione dell’enigma della storia, in quanto esso supera sul piano teorico e pratico l’ascetismo raccomandato e imposto alle masse non solo dalla religione ma anche da una società che continua a reggersi sulla negazione del63 64

Marx 1955c, pp. 536 (= Marx 1963, p. 226). Heine 1969-78a, p. 362 e Heine 1969-78b, p. 197.

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la felicità terrena e del senso stesso della vita per la maggioranza della popolazione planetaria. Questo programma e questa speranza trovano espressione in un pensiero non privo di elementi di messianismo, ma è proprio il Manifesto a metterci sulle tracce della comprensione della loro genesi e del loro significato: la «descrizione fantastica della società futura corrisponde al suo primo impulso, carico di presentimenti, verso una trasformazione generale della società» (infra, p. 51). Certo, questa tesi viene enunciata in polemica contro il socialismo utopistico, ma ciò non impedisce di applicarla agli stessi autori del Manifesto. È la dialettica oggettiva di ogni processo rivoluzionario, in altra occasione brillantemente spiegata in particolare da Engels. Sull’onda della lotta contro una situazione vissuta come intollerabile e nello sforzo di suscitare l’entusiasmo necessario al superamento dei terribili ostacoli che si frappongono al rovesciamento del regime esistente, ogni processo rivoluzionario tende a vedere in termini in qualche modo esaltati il futuro che si propone di costruire, tende a rappresentarselo come una sorta di fine della storia65. Feconda nella fase della distruzione, funesta si rivela questa esaltazione nella fase successiva: il tentativo di costruzione di una società post-capitalistica ha oscillato tra i due poli dello stato d’eccezione permanente (i due conflitti mondiali e la guerra fredda) e di un’utopia esaltata, la quale a sua volta ha finito col prolungare e inasprire ulteriormente lo stato d’eccezione. 12. Attualità e inattualità di un «classico» Se priva di dignità storica e teorica è la pretesa di liquidare Marx e Engels, appiattendoli sul gulag, assai discutibile è il tentativo di neutralizzarli politicamente innalzandoli alla dignità dei «classi65

Losurdo 1989, pp. 906-907.

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ci». Questa definizione coglie nel segno se intende evidenziare il fatto che la loro lezione travalica di molto i confini del movimento comunista. Attraverso una serie di categorie ormai ineludibili («condizioni politiche e sociali», classe sociale, modo di produzione, ideologia ecc.), l’opera degli autori del Manifesto ha arricchito e reinterpretato il lessico, ha riformulato la grammatica e la sintassi del discorso politico e storico. Ma una considerazione analoga vale anche per ogni grande autore, il quale comunque non viene con ciò messo al riparo dal conflitto politico. «Classici» sono senza dubbio Platone e Hegel, i quali restano pur sempre, secondo Popper, i grandi e funesti ispiratori del totalitarismo! In modo altrettanto indubbio, «classici» sono Locke e Tocqueville, i quali però possono essere chiamati in causa anche loro, come abbiamo visto, per tragedie che continuano ancora ad alimentare il dibattito culturale e politico dei giorni nostri. Se vano è il tentativo di sottrarre un grande autore alle lacerazioni e alle passioni del conflitto politico innalzandolo al di sopra della mischia, nell’empireo dei classici, ingenuo è l’approccio di chi si accosta a questo classico interrogandosi immediatamente, e semplicisticamente, sulla sua attualità o inattualità. Decisamente inattuali ci appaiono non poche pagine di diversi esponenti della tradizione liberale, non solo quelle che documentano l’atteggiamento da essi assunto nei confronti dei popoli coloniali o dei lavoratori salariati nella metropoli capitalistica, ma anche, come abbiamo visto, quelle che più direttamente fanno riferimento alla costituzione e al funzionamento degli organismi rappresentativi. E tuttavia ciò non significa chiudere i conti con quegli autori, come se nulla da essi ci fosse da apprendere per la comprensione (e l’organizzazione o la trasformazione) del mondo in cui viviamo. In modo analogo ci si deve accostare a Marx e Engels. Anzi, in questo caso, un discorso che pretendesse di proclamare in modo immediato la loro attualità risulterebbe autocontraddittorio. Siamo infatti in presenza di autori i quali hanno ripetutamente

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affermato che la loro teoria si è sviluppata attraverso il confronto col movimento storico reale. Voler considerare immediatamente attuale il Manifesto del partito comunista, liquidando come irrilevanti sul piano dello sviluppo teorico oltre 150 anni di storia straordinariamente ricca e tragica, significa di fatto ignorare o respingere l’approccio teorico su cui si fonda quel testo. C’è da aggiungere un’ulteriore considerazione. Marx e Engels per un verso si propongono di rispecchiare correttamente la realtà, per un altro verso sono impegnati a modificarla in modo radicale. La constatazione che nella società capitalistica gli operai sono degradati a semplici strumenti di lavoro è al tempo stesso un appello rivolto a questi strumenti a mettere in discussione la loro condizione, a prendere coscienza di sé, a conquistare soggettività politica e persino soggettività politica rivoluzionaria. «I proletari non hanno nulla da perdere se non le loro catene»: di nuovo una denuncia appassionata stimola un gigantesco processo e movimento planetario che, modificando profondamente la situazione di partenza, incide sulle stesse catene, le quali risultano così allentate se non propriamente spezzate. D’altro canto, il Manifesto rivela una lucida consapevolezza del fatto che la società borghese è ben diversa dalle società che l’hanno preceduta. Continua a essere caratterizzata dal dominio di classe, ma tale dominio non è affatto sinonimo di staticità e neppure di stabilità. È una società che rivoluziona incessantemente se stessa (infra, p. 9). E questa sorta di borghese rivoluzione permanente rinvia per un verso a una dialettica interna (l’aspra concorrenza tra capitalisti), per un altro verso a una sfida che proviene dall’esterno dell’ambito borghese propriamente detto. Alla lotta operaia per la riduzione dell’orario di lavoro corrisponde l’iniziativa borghese per un’ulteriore meccanizzazione del processo di produzione, per la sostituzione della macchina all’operaio, per una dislocazione delle fabbriche cadenzata dalla ricerca della forza-lavoro più a buon mercato e più docile oltre che dalla utilizzazione più vantaggiosa delle materie prime.

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Accennata nel Manifesto, questa dialettica di sfida e risposta viene sviluppata ulteriormente nel Capitale e nei Lineamenti di economia politica. Essa rivela anche un aspetto più immediatamente politico. All’inquietudine e agitazione operaia rispondono in Gran Bretagna e in Germania le riforme politiche e sociali di Disraeli e Bismarck, le quali allargano la cittadinanza e introducono alcuni primi elementi di protezione sociale. In conclusione, la borghesia si rivela capace di dominio e di governo nella misura in cui e sino a quando è in grado di prevenire la minaccia di una rivoluzione dal basso con una rivoluzione dall’alto. Data questa dialettica di sfida e risposta, ne consegue allora che al venir meno o all’indebolirsi della prima corrisponde il venir meno o l’indebolirsi della seconda. La globalizzazione in atto sembra comportare la riduzione della popolazione dell’intero pianeta a «strumenti di lavoro, il cui costo varia a seconda dell’età e del sesso» (infra, p. 16), ridotti a merce nell’ambito di un mercato sempre più tumultuoso. Ecco dunque al di fuori e al di sotto della «vita aerea», dell’«eterea regione», del «cielo dello Stato politico», caratterizzato dalla libertà e dall’uguaglianza dei cittadini, emergere «condizioni sociali e politiche», una vita terrena, i cui estremi sono rappresentati da un lato dal «dispotismo» di fabbrica (che nel Terzo Mondo si manifesta senza infingimenti e senza veli) e dall’altro dalla crescente precarietà e area di disoccupazione proprie di un mercato del lavoro sempre più planetario. L’analisi impietosa della condizione operaia contenuta nel Manifesto riacquista «attualità». Senonché, questa rinnovata «attualità» costituisce sì la conferma della validità di una teoria ma è anche il sintomo di una sconfitta, la sconfitta del «movimento storico» di cui intendeva essere espressione cosciente e matura il testo di Marx e Engels e che essi si proponevano di portare al compimento e alla vittoria. E tale sconfitta rinvia a sua volta a debolezze politiche e teoriche, ai limiti di messianismo già accennati.

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Nec tecum possum vivere nec sine te! Questo motto potrebbe valere per il nostro rapporto con Marx e Engels, come per il rapporto con ogni altro grande autore, da noi separato da una notevole distanza temporale e, soprattutto, da colossali sconvolgimenti storici, che hanno cambiato radicalmente la faccia del mondo. È allora a un livello diverso che bisogna cercare di distinguere tra i diversi autori. Non si tratta di separare ciò che è vivo da ciò che è morto e di calcolare quantitativamente l’aspetto da considerare principale. È soprattutto importante vedere in primo luogo in che misura un autore ha contribuito proprio con la sua teoria a rendere remoto il mondo da essa attivamente rispecchiato; in secondo luogo in che misura la teoria di quell’autore è ancora capace di spiegare il mondo nuovo. Varrebbe la pena di confrontare il Manifesto del partito comunista con quelli che potremmo definire due manifesti del partito liberale, l’uno della prima metà dell’Ottocento (il Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni di Constant) e l’altro della seconda metà del secolo (il Saggio sulla libertà di Mill). La lettura comparata di questi tre testi, alla luce dei criteri sopra enunciati, potrebbe costituire un esperimento intellettuale assai istruttivo e fecondo. Riferimenti bibliografici Edmund Burke 1826a Speech on Moving his Resolutions for Conciliation with America (1775), in The Works. A new Edition, Rivington, London, vol. III. 1826b Reflections on the Revolution in France (1790), in The Works [cfr. Burke 1826a], vol. V. 1826c Thoughts and Details on Scarcity (1795), in The Works [cfr. Burke 1826a], vol. VII. 1963 Scritti politici, a cura di A. Martelloni, Utet, Torino. 1967 Betrachtungen über die französische Revolution, trad. ted. a

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opera di Friedrich Gentz (1793; 1794, II ed.), di Burke 1826b; ristampa a cura di L. Iser, Suhrkamp, Frankfurt a.M. Thomas Carlyle 1983 Latter-Day Pamphlets (1850), a cura di M.K. Goldberg e J.P. Seigel, Canadian Federation for the Humanities, s.l. Benjamin Constant 1970a Principes de politique (1815), trad. it. a cura di U. Cerroni, in Princìpi di politica, Editori Riuniti, Roma, II ed. 1970b De la liberté des anciens comparée à celle des modernes (1819) [trad. it. in Constant, 1970a]. Friedrich Engels 1955a Die Lage der Arbeiterklasse in England (1845), in MEW [cfr. Marx-Engels, 1955a], vol. II. 1955b Die Polendebatte in Frankreich (1848), in MEW [cfr. MarxEngels, 1955a], vol. V. Friedrich A. von Hayek 1986 Law, Legislation and Liberty (1982; le tre parti costitutive del volume sono rispettivamente del 1973, 1976 e 1979), trad. it. a cura di A. Petroni e S. Monti Bragadin, Legge, legislazione e libertà, Il Saggiatore, Milano. 1988 New Studies in Philosophy, Politics and the History of Ideas (1978), trad. it. di G. Minotti, a cura di E. Coccia, Nuovi studi di filosofia, politica, economia e storia delle idee, Armando, Roma. Heinrich Heine 1969-78a Die romantische Schule (1836), in Sämtliche Schriften, a cura di K. Briegleb in collaborazione con G. Häntzschel e K. Pörnbacher, Hanser, München (= SS), vol. III. 1969-78b Briefe über Deutschland (1844), in SS [cfr. Heine 1969-78a], vol. V. John Locke 1977 An Essay Concerning Toleration (1667), trad. it. in Scritti sulla tolleranza, a cura di D. Marconi, Utet, Torino. Domenico Losurdo 1989 Vincenzo Cuoco, la rivoluzione napoletana del 1799 e la com-

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1992 1993 1996 1997

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paratistica delle rivoluzioni, in «Società e storia», n. 46, pp. 895-921. Hegel e la libertà dei moderni, Editori Riuniti, Roma. Democrazia o bonapartismo. Trionfo e decadenza del suffragio universale, Bollati Boringhieri, Torino. Il revisionismo storico. Problemi e miti, Laterza, Roma-Bari. Civiltà, barbarie e storia mondiale: rileggendo Lenin, in R. Giacomini, D. Losurdo (a cura di), Lenin e il Novecento, La Città del Sole-Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli.

Thomas Robert Malthus 1965 An Essay on the Principles of Population (1826, VI ed.), trad. it., Saggio sul principio di popolazione, intr. di G. Prato, Utet, Torino. Bernard de Mandeville 1974 An Essay on Charity and Charity Schools (1723), trad. it. a cura di M.E. Scribano, Saggio sulla carità e sulle Scuole di Carità, Laterza, Roma-Bari. Karl Marx 1955a Kritik des Hegelschen Staatsrechts(1843), in MEW [cfr. Marx-Engels 1955a], vol. I. 1955b Rechtfertigung des ††† Korrespondenten von der Mosel (1843), in MEW [cfr. Marx-Engels 1955a], vol. I. 1955c Ökonomisch-philosophische Manuskripte (1844), in MEW [cfr. Marx-Engels 1955a], Erg. Bd. I. 1955d Zur Judenfrage (1844), in MEW [cfr. Marx-Engels 1955a], vol. I. 1955e Kritische Randglossen zu dem Artikel eines Preußen (1844), in MEW [cfr. Marx-Engels 1955a], vol. I. 1955f Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie. Einleitung, (1844), in MEW [cfr. Marx-Engels 1955a], vol. I. 1955g Misère de la philosophie (1847) trad. ted., in MEW [cfr. Marx-Engels 1955a], vol. IV. 1955h Das Kapital (1867-1894), in MEW [cfr. Marx-Engels 1955a], vol. XXIII. 1963 Opere filosofiche giovanili, a cura di G. della Volpe, Editori Riuniti, Roma.

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Karl Marx, Friedrich Engels 1955a Die heilige Familie (1845), in Karl Marx, Friedrich Engels, Werke, Dietz, Berlin 1955 sgg. (MEW), vol. II. 1955b Die deutsche Ideologie (1845-46), in MEW [cfr. Marx-Engels 1955a], vol. III. (per quanto riguarda la trad. it. di Marx e Engels si sono tenute liberamente presenti sia quella già indicata in Marx 1963 sia quella contenuta nelle Opere complete in corso di pubblicazione presso gli Editori Riuniti, Roma). Giuseppe Mazzini 1986 Note autobiografiche (1861-66), a cura di R. Pertici, Rizzoli, Milano. John Stuart Mill 1981 On Liberty (1858), trad. it. di S. Magistretti, Saggio sulla libertà, Il Saggiatore, Milano. Karl R. Popper 1974 The Open Society and its Enemies (1943; 1966, V ed.), trad. it. di R. Pavetto, a cura di D. Antiseri, La società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma. Emmanuel-Joseph Sieyès 1985 Ecrits politiques, a cura di R. Zapperi, Editions des archives contemporaines, Paris. Adam Smith 1977 An Inquiry into the Nature and the Causes of the Wealth of Nations (1775-76; 1783, III ed.), trad. it. di F. Bartoli, C. Camporesi, S. Caruso, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Mondadori, Milano. Hugh Thomas 1997 The Slave Trade. The Story of the Atlantic Slave Trade, Simon & Schuster, New York. Alexis de Tocqueville 1864-67 Discorso all’Assemblea costituente del 12 settembre 1848, in Oeuvres complètes, a cura della vedova Tocqueville e di G. de Beaumont, Michel Lévy Frères, Paris, vol. IX. 1951a Le système pénitentiaire aux Etas-Unis et son application en

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France (1833), in Oeuvres complètes, a cura di J.P. Mayer, Gallimard, Paris 1951 sgg. (= OC), vol. IV, 1. Voyages en Angleterre, Irlande, Suisse et Algerie, in OC [cfr. Tocqueville 1951a], vol. V, 2. Lettres sur la situation intérieure de la France (1843), in OC [cfr. Tocqueville 1951a], vol. III, 2. [Notes] (presumibilmente 1847), in OC [cfr. Tocqueville 1951a], vol. III, 2. Discorso alla Camera dei deputati del 27 gennaio 1848, in OC [cfr. Tocqueville 1951a], vol. III, 2. Discorso del 3 aprile 1852 all’Académie des Sciences Morales et Politiques, in OC [cfr. Tocqueville 1951a], vol. XVI. Souvenirs (1850-51), in OC [cfr. Tocqueville 1951a], vol. XII. Lettera a Gustave de Beaumont del 3 settembre 1848, in OC [cfr. Tocqueville 1951a], vol. VIII, 2. Scritti politici, a cura di N. Matteucci, vol. I. La rivoluzione democratica in Francia, Utet, Torino (la trad. it. qui contenuta è stata talvolta lievemente modificata).

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Karl Marx A segnare l’evoluzione del giovane Marx è l’incontro con la filosofia di Hegel. Disponiamo a questo proposito di una testimonianza assai significativa, la lettera inviata nell’autunno del 1837 al padre (un agiato avvocato ebreo, battezzato, sposato con un’ebrea olandese). In questo momento, il futuro grande filosofo e rivoluzionario è solo un giovane non ancora ventenne (è nato a Treviri il 5 maggio 1818), che cerca faticosamente la sua strada. È imbevuto di un romanticismo esaltato, consegnato anche ad alcune poesie, assai mediocri o decisamente brutte. Ma ecco l’incontro con una filosofia al cui centro campeggia la tesi secondo cui «ciò che è razionale è reale, ciò che è reale è razionale». Ne scaturisce un effetto liberatorio che traspare già con chiarezza dalla lunga lettera-confessione al padre. Caratteristica delle sue precedenti fantasticherie – osserva il giovane studente dell’Università di Berlino – era stata «la totale contrapposizione fra ciò che è e ciò che deve essere»; di qui scaturivano l’esuberanza compiaciuta del sentimento e della soggettività e le «riflessioni retoriche» a esse connesse: «Un aldilà altrettanto lontano del mio amore divenne il mio cielo, la mia arte». Si tratta ora di prendere coscienza del fatto che è possibile superare «l’opposizione di reale e ideale», propria dell’idealismo di stampo kantiano e fichtiano; bisogna «cercare l’idea nel-

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la realtà stessa». Se «prima gli dèi avevano abitato sopra la terra, ora erano diventati il suo centro». È una visione ribadita quattro anni dopo: un «empireo arde nel cuore del mondo», che dunque, contrariamente a quanto ritengono romantici inclini all’evasione da un lato e filistei e cinici dall’altro, non è irrimediabilmente opaco agli ideali e ai valori. A esprimersi in tal modo è la dissertazione (sulla filosofia di Democrito e Epicuro) con cui, nel 1841, Marx consegue il dottorato a Jena. Più esattamente, così possiamo leggere nella dedica a Ludwig von Westfalen, con cui la dissertazione si apre. Si tratta del padre di Jenny, una ragazza di non comune bellezza che, rinunciando a un avvenire brillante e comunque agli agi riservati alla figlia di un funzionario d’alto rango, sposa nel 1843 quello che è ormai un giovane rivoluzionario, seguendolo poi fedelmente in tutte le peregrinazioni e vicissitudini della vita. Le peregrinazioni iniziano presto, già nell’autunno dello stesso anno. Karl Marx si reca a Parigi per pubblicarvi, insieme con Arnold Ruge, una rivista che si propone di criticare radicalmente le condizioni tedesche, guardando alla Francia della rivoluzione e preconizzando così una sorta di alleanza intellettuale franco-tedesca. Si tratta degli «Annali franco-tedeschi», i quali peraltro hanno una vita breve. Esce un solo fascicolo, che vede la collaborazione anche di Engels: Marx l’incontra a Parigi nel 1844, dopo averlo appena incrociato due anni prima in Germania; ora l’incontro fugace cede il posto alla profonda amicizia di tutt’una vita e a una stretta e feconda collaborazione filosofica e politica. Siamo nel Vormärz, gli anni che precedono il marzo 1848, allorché la stessa Prussia sarà investita dagli sconvolgimenti che dilagano in tutta l’Europa continentale. Assai diffusa, tra le nuove generazioni, è l’inquietudine rivoluzionaria, ma ciò che accomuna Marx e Engels è un tratto peculiare. Entrambi hanno alle spalle, assieme all’interesse appassionato e critico per la filosofia e per la filosofia hegeliana in particolare, l’attenzione

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riservata al mondo storico e ai rapporti economici e sociali. Per quanto riguarda Marx, egli si è già impegnato, nel 1843, in una Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico. Pur incompiuto, il lavoro presenta uno spunto geniale: la critica della teoria politica hegeliana è al tempo stesso la critica della rivoluzione francese e del mondo da essa scaturito, la società borghese che ha preso o sta prendendo il posto dell’antico regime. Il medesimo approccio metodologico, ulteriormente arricchito dagli studi sull’economia politica, presiede al lavoro parigino del 1844, i Manoscritti economico-filosofici (anch’essi pubblicati solo dopo la morte del loro autore). Ben si comprende allora l’incontro con Engels, approdato allo studio dell’economia politica già prima di Marx. I due pubblicano assieme, nel 1845, La sacra famiglia, che a partire dal titolo prende ironicamente di mira i «giovani hegeliani», in particolare i fratelli Bauer. Questi credono di svolgere una funzione sommamente rivoluzionaria limitandosi a proclamare una filosofia esaltata dell’autocoscienza, la quale nega sovranamente e con ostentato disprezzo non solo l’ordinamento esistente, ma anche il mondo comune agli uomini comuni, l’oggettività in quanto tale: «Oggetto! Spaventoso! Non c’è niente di più riprovevole, di più profano, di più massiccio di un oggetto; à bas l’oggetto»; da esso non può non ritrarsi inorridita «la soggettività pura, l’actus purus», l’autocoscienza del filosofo ribelle e presunto creatore dal nulla. La sacra famiglia vede la luce a Bruxelles, dove nel frattempo Marx è stato costretto a stabilirsi, espulso dalla Francia su richiesta del governo prussiano. E sempre nella capitale belga, tra la fine dell’estate del 1845 e l’autunno del 1846, Marx e Engels scrivono, senza consegnarla alle stampe, L’ideologia tedesca. Rivoluzionari dell’immaginazione, i giovani hegeliani vengono paragonati, già nella Prefazione, a quel «valentuomo», il quale «si immaginò che gli uomini annegassero nell’acqua perché ossessionati dal pensiero della gravità», per cui, «se si fossero tolti di

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mente questa idea […] si sarebbero liberati dal pericolo di annegare». Ma questa polemica, che già conosciamo, s’inquadra ora in un più organico contesto teorico. I giovani ribelli, che credono di produrre il nuovo elaborando una teoria rivoluzionaria dopo l’altra, sono chiamati a «ricercare il nesso esistente tra la filosofia tedesca e la realtà tedesca, il nesso tra la loro critica e il loro ambiente materiale». Il materialismo storico, qui teorizzato, è anche questa capacità di autoriflessione, senza la quale si resta rinchiusi in una sfera meramente ideologica e non si riesce ad attingere l’oggettività materiale dei rapporti e delle contraddizioni sociali: frasi vuote diventano allora le proclamazioni rivoluzionarie. È quello che avviene, disgraziatamente, anche per Proudhon: alla sua Filosofia della miseria Marx risponde con una graffiante Miseria della filosofia. Un’impietosa Premessa bolla l’autore francese in quanto dilettante sia di filosofia che di economia. Attraverso tali polemiche sta maturando un’importante presa di coscienza: è necessario collegare strettamente lo studio della filosofia a quello della storia e dell’economia politica. È un modo nuovo di costruire il discorso filosofico, anche se alle spalle agisce pur sempre la lezione di Hegel, la tesi secondo cui «la filosofia è il proprio tempo appreso nel concetto». Ora però, l’interpretazione del mondo storico, con le sue contraddizioni e il suo carico di miseria e negatività, è al tempo stesso l’impegno nel trasformarlo, in modo da conferire realtà al razionale e far venire alla luce la razionalità di cui il reale è capace. «I filosofi hanno solo diversamente interpretato il mondo; si tratta di cambiarlo» – così suona la più celebre (e quella conclusiva) delle undici Tesi su Feuerbach, scritte nel 1845, durante il soggiorno nella capitale belga. Miseria della filosofia porta invece la data: Bruxelles, 15 giugno 1847. Entrato a far parte, assieme a Engels, della Lega dei comunisti ed espulso dal Belgio alla vigilia della rivoluzione, Marx continua nelle sue peregrinazioni, e con lui Jenny e la fa-

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miglia che comincia a crescere: siamo di nuovo a Parigi, allorché a Londra vede la luce il Manifesto del partito comunista (1848). Pochi giorni dopo è la rivoluzione. Questa volta non la repressione, ma l’impegno nella lotta politica stimola una nuova tappa di una vita avventurosa. Assieme a Engels, Marx è a Colonia per dirigervi la «Nuova gazzetta renana», che svolge un ruolo importante nella rivoluzione, sino alla sua sconfitta e alla cessazione delle pubblicazioni (maggio 1849). Ora è la volta dell’Inghilterra. Nell’agosto 1849, Marx si stabilisce con la famiglia a Londra dove rimarrà, eccettuati brevi viaggi in Francia, Germania e Austria, fino alla sua morte. La capitale del paese in quel momento alla testa dello sviluppo capitalistico, e con la forte presenza di un proletariato industriale, è la sede ideale per studiare la società borghese e le sue contraddizioni. Ma, intanto, si tratta di analizzare le ragioni della sconfitta della rivoluzione e della vittoria della controrivoluzione, persino nella sua forma brutale, la dittatura bonapartistica. Alla sconfitta politico-morale si aggiunge la disillusione. Il fenomeno risulta particolarmente evidente in Germania: «Il filisteo tedesco, notoriamente un’anima bella per natura, fu gravemente deluso nelle sue più dolci speranze dai duri colpi del 1849 […] Una nostalgica spossatezza illanguidì tutti i cuori»: così suona il duro giudizio espresso, con particolare riferimento a Arnold Ruge, in uno scritto a quattro mani del 1852 (I grandi uomini dell’esilio), pubblicato solo dopo la morte dei due autori. Reagendo al diffuso clima di scoramento e di riflusso nel privato, Marx insiste sulla necessità di misurarsi con la realtà. Vedono così la luce, nel 1850, le Lotte di classe in Francia 1848-50 e, due anni dopo, Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte. Si tratta intanto di analizzare il concreto funzionamento dello Stato moderno, che ha preso il posto dell’antico regime: nei momenti di crisi, con l’insorgere di uno stato d’eccezione, il dominio di classe della borghesia si esprime in tutta la sua brutalità, come «violenza senza frase», una violenza che rinuncia al consueto or-

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pello ideologico, per fondarsi direttamente sulla «spada». È quello che si verifica a partire dal giugno 1848: spietata è la repressione che si abbatte sugli operai, insorti per sfuggire alla morte per inedia loro inflitta dalla crisi ma anche dalla politica economica della borghesia liberale. Sull’onda di questa repressione, si sviluppa un’inesorabile dialettica. L’apparato militare sviluppato dalla borghesia in funzione antioperaia finisce con l’inghiottire la società nel suo complesso e la stessa classe dominante: con la repressione della rivolta operaia di giugno, il generale Cavaignac (caro alla borghesia liberale) esercita «la dittatura della borghesia mediante la spada», la quale però finisce col trasformarsi nella «dittatura della spada sulla società civile». La conclusione cui perviene l’analisi delle lotte di classe in Francia costituisce il punto di partenza per l’indagine relativa alla dittatura bonapartistica, al centro del secondo dei due scritti citati. Siamo in presenza di un regime nuovo e inquietante. Al fine di assicurarne la vittoria e la durata, alla violenza legale dall’alto promossa dall’apparato statale propriamente detto si affianca la violenza extra-legale dal basso, della quale sono protagoniste bande apparentemente private, impegnate a «esibire l’entusiasmo pubblico» per il nuovo regime e a «insultare e picchiare i repubblicani, naturalmente sotto la protezione della polizia». Come in rapporto allo sviluppo delle forze produttive e delle crisi di sovrapproduzione, così in rapporto alla repressione antioperaia e alla successiva, onnipervasiva (e totalitaria) dittatura bonapartistica, la borghesia finisce con l’apparire come un apprendista stregone: evoca un regime che finisce con l’inghiottire la società borghese nel suo complesso. Si comprende che contro la situazione venutasi a creare con la vittoria della reazione è impegnato a lottare Marx, il quale, nel 1850, sembra scrutare l’orizzonte alla ricerca di nubi rivoluzionarie. Nell’ambito del ciclo economico capitalistico, la recessione ha ceduto il posto a una nuova fase di espansione: «Da-

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ta questa prosperità universale, in cui le forze produttive della società borghese si sviluppano con quella sovrabbondanza che è, in generale, possibile nelle condizioni borghesi, non si può parlare di una vera rivoluzione […]. Una nuova rivoluzione non è possibile se non in seguito a una nuova crisi. L’una però è altrettanto sicura quanto l’altra». Per intanto regna la stabilità. Se anche delude il rivoluzionario, ciò giova però all’approfondimento dell’analisi della società capitalistica cui Marx si dedica in questi anni, soprattutto dopo lo scioglimento della Lega dei comunisti, nel 1853. Economia, politica, storia; Europa, America, mondo coloniale: la curiosità e l’indagine scientifica sembrano non conoscere confini né disciplinari né geografici. Un articolo sulla Russia pubblicato su un giornale americano (il «New York Daily Tribune» del 17 gennaio 1859) contiene una straordinaria profezia: se la nobiltà continuerà a opporsi all’emancipazione dei contadini, si verificherà una grande rivoluzione, col risultato dell’emergere di un «regime di terrore dei semi-asiatici servi della gleba senza precedenti nella storia». Dopo aver analizzato la dialettica a fondamento del bonapartismo, ora Marx, non poche volte bollato come autore di una sorta di giustificazione a priori del gulag, sembra in realtà procedere a una sorta di critica anticipata di tale orrore. Conformemente all’approccio materialistico, la sua genesi viene però individuata in primo luogo nell’oggettività e nell’asprezza delle contraddizioni che in Russia si vanno addensando, a causa sia del grave ritardo accumulato e della tradizione storica che pesa alle sua spalle, sia della cieca ostinazione delle classi dominanti. Sempre nel 1859, Marx pubblica Per la critica dell’economia politica e nel 1867 il primo libro del Capitale. Possiamo avere un’idea della sua ricchezza dando uno sguardo a due capitoli che trattano temi apparentemente assai diversi, «la cosiddetta accumulazione originaria» il primo e «macchine e grande industria» il secondo. Scoperta-conquista dell’America, inizi del

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mercato mondiale, «annientamento, schiavizzazione e seppellimento degli indigeni nelle miniere», trasformazione dell’Africa in una «riserva di caccia per i mercanti di pellenera», chiamati a prendere il posto dei pellerossa è l’«aurora» del capitalismo, che si prolunga nelle guerre dell’oppio e nelle devastazioni che l’espansione coloniale produce in Cina e in India. Ora il nuovo modo di produzione può pienamente dispiegarsi ed esibire la sua opulenza nei paesi protagonisti della conquista nella metropoli. Ma cosa avviene nella stessa metropoli, nelle aree sulle quali incombono la crisi, la miseria, le malattie, il pericolo dell’inedia? Si diffonde paurosamente il consumo di oppio, che talvolta diviene lo strumento di un «infanticidio dissimulato»: i lattanti «si accartocciano come piccoli vecchietti e raggrinziscono come scimmiette». Riprendendo questi particolari raccapriccianti dagli stessi rapporti ufficiali, Marx commenta: «Ecco la vendetta dell’India e della Cina contro l’Inghilterra». Possiamo avere un’idea del modo di procedere del Capitale: un frammento di vita quotidiana può riflettere e concentrare in sé un tragico capitolo di storia universale. L’indagine scientifica si sforza di abbracciare in una sintesi poderosa economia e sociologia, filosofia e storia. Conseguita la dimensione della lunga durata e della visione planetaria, la storia del capitalismo è anche il controcanto alla marcia trionfale intonata dai suoi apologeti. Raggiunge qui la sua maturità il modo nuovo di costruire il discorso filosofico, già delineatosi negli scritti giovanili. L’approfondimento storico e teorico continua a intrecciarsi con la lotta politica. Nel settembre del 1864 viene fondata a Londra la prima Associazione internazionale degli operai; al di là dell’Atlantico, divampa la guerra di Secessione. Questa, bloccando le importazioni di cotone dal Sud degli Stati Uniti, provoca una grave crisi dell’industria tessile inglese. Ciò rafforza in alcuni settori della classe dominante la tentazione di intervenire a favore degli stati secessionisti, o per lo meno di spezzare il blocco navale con cui l’Unione li assedia economicamente, ren-

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dendo impossibile la tradizionale e lucrosa esportazione del cotone prodotto dal lavoro degli schiavi neri. A soffrire del blocco delle importazioni è in primo luogo la classe operaia, che paga duramente in termini di occupazione; ma proprio questa classe oppressa dal bisogno, lungi dal rinchiudersi nell’orizzonte ristretto delle sue necessità vitali, diventa la protagonista di una grande lotta di libertà. Questa, almeno, è l’opinione che Marx esprime in una lettera a Lassalle del 28 aprile 1862: a coprirsi di vergogna sono aristocrazia e borghesia, mentre la classe operaia inglese, che pure «maggiormente soffre per il bellum civile», dà prova di generosità e lungimiranza e resiste alle lusinghe di chi vorrebbe spingerla, sotto lo stimolo della fame, a manifestare contro l’Unione americana e contro Lincoln, e quindi, indirettamente, a sostegno degli Stati secessionisti e schiavisti. È una visione fatta propria dalla prima Internazionale nel suo Indirizzo inaugurale: «Non la saggezza della classe dominante, ma l’eroica resistenza della classe operaia inglese alla sua delittuosa follia, fu ciò che salvò l’Europa occidentale dall’essere gettata nell’avventura di un’infame crociata per eternare e propagare la schiavitù sull’opposta riva dell’Oceano». In un messaggio a Lincoln, Marx e l’Internazionale ribadiscono questa tesi ed esprimono il loro appoggio alla lotta contro i ribelli, definiti la «nobiltà della confederazione»: la secessione viene così letta come una sorta di riedizione della Vandea controrivoluzionaria, sia pur nell’ambito di una lotta che ormai vede come fatto nuovo l’intervento attivo e organizzato della classe operaia. Intanto, l’Internazionale comincia già a essere lacerata da una serie di lotte; al suo interno si agitano sì i gruppi influenzati da Marx e Engels, ma anche correnti che si ispirano a Proudhon, Lassalle, Mazzini, Bakunin ecc. Assieme ai ribelli secessionisti negli Stati Uniti e ai loro complici o simpatizzanti nel vecchio continente, il già citato Indirizzo inaugurale condanna l’«indifferenza idiota» con cui le classi dominanti europee guar-

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dano alla repressione zarista del movimento polacco per l’indipendenza nazionale. Gli operai devono intervenire sulle questioni politiche, e persino di politica internazionale, o devono invece limitarsi a perseguire le loro rivendicazioni economiche? È quest’ultimo l’orientamento di Proudhon, ironico o sprezzante nei confronti delle aspirazioni nazionali dei polacchi (come degli ungheresi o degli italiani). Sdegnata è la reazione di Marx che, in una lettera a Schweitzer del 24 gennaio 1865, denuncia il «cinismo da cretino» dell’autore francese, apparentemente disincantato ma in realtà pronto a civettare con la Russia zarista e gli altri Imperi. Per il conseguimento di certi obiettivi economici e sociali, Proudhon spera nella comprensione di Napoleone III così come Lassalle in quella di Bismarck. E di nuovo dura è la reazione di Marx, il quale intende collegare strettamente la lotta economica alla lotta per la liquidazione della dittatura bonapartista in Francia e dell’antico regime in Germania. Proprio per questo, ancora più aspro risulta, in seno all’Internazionale, lo scontro con Bakunin, impegnato a predicare l’astensionismo elettorale e a condannare in blocco, e in modo indifferenziato, tutte le istituzioni politiche, senza prendere in considerazione la possibilità di condizionarle mediante l’agitazione e la pressione dal basso. Redatto, come sappiamo, da Marx, l’Indirizzo inaugurale saluta il fatto che il movimento operaio, approfittando delle divisioni interne alla classe dominante, riesca a costringere lo stesso Parlamento borghese a varare la legge per la limitazione dell’orario di lavoro e a farla applicare su scala sempre più ampia. È la riprova dei risultati anche immediatamente economici che può conseguire la lotta politica quotidiana della classe operaia, la quale, peraltro, rende in tal modo sempre più credibile la sua candidatura alla conquista e alla gestione del potere politico in quanto tale. Due avvenimenti decisivi provvedono a mettere definitivamente in crisi l’Internazionale. Il primo è costituito dalla guer-

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ra franco-prussiana. Scimmiottando in modo grottesco la politica espansionistica del suo grande zio, Napoleone III non cessa di avanzare rivendicazioni verso la riva sinistra del Reno (i presunti «confini naturali») e di pretendere di svolgere la funzione di arbitro in terra tedesca, perpetuandone la divisione. La soluzione della questione nazionale in Germania passa attraverso la sconfitta dei sogni imperiali del regime bonapartista. Questo almeno il convincimento di Marx, il quale però con tutte le sue forze si oppone, assieme all’Internazionale, all’annessione dell’Alsazia e della Lorena, foriera solo di nuovi e più gravi disastri. Già oltre un decennio prima, in un articolo pubblicato sul «New York Daily Tribune» del 31 marzo 1859, Marx aveva messo in guardia contro un fenomeno allarmante: in Germania cominciava a prender piede una visione secondo cui «il crollo incombe su ogni razza in Europa, ad eccezione dei Tedeschi», sicché alla Germania, «cuore della civilizzazione umana», spetterebbe il compito di contrastare «il veleno contaminatore della decadenza morale, frivolezza e smania di gloria proprie dei Francesi». Al fine di spezzare il frazionamento feudale e conseguire l’unità nazionale, la Germania è costretta a scontrarsi contro la Francia; disgraziatamente, essa interpreta e celebra lo scontro come lotta contro le idee del 1789 e il mondo scaturito dal ciclo rivoluzionario francese. È, questo, un ciclo che si conclude nel 1871 con una nuova fiammata, che divampa proprio nel corso della guerra francoprussiana. Gli operai della capitale francese, ancora assediata, insorgono, conquistando per breve tempo il potere. È la Comune di Parigi, influenzata dalla tradizione giacobina ma che, per un altro verso, sembra indicare il futuro socialista. Questa, comunque, è l’opinione di Marx, il quale segue con passione gli avvenimenti e con indignazione morale la spietata repressione che si abbatte sugli insorti e che continua a infierire anche dopo il ristabilimento dell’ordine. Ne scaturisce, a caldo, La guerra civile in Francia.

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L’ultimo grande saggio storico di Marx è anche il canto del cigno della Prima Internazionale, ormai dilaniata da insormontabili contraddizioni. Non per questo cessa l’impegno nella lotta politica. È del 1875 la Critica al programma di Gotha, che, a partire forse dal bilancio della spietata repressione abbattutasi sui comunardi, riprende e radicalizza l’idea di estinzione dello Stato come approdo finale del comunismo. Ma ormai l’accento torna di nuovo a spostarsi sull’approfondimento teorico. Bisogna rituffarsi negli studi, per portare a termine l’opera di tutta una vita. Il 1873 vede la riedizione, o il rifacimento, del I Libro del Capitale. Ma bisogna procedere oltre! Da decenni Marx è impegnato a raccogliere una massa enorme di materiale, che non cessa di crescere ma che ora si tratta di sistemare definitivamente. È una corsa contro il tempo, resa più affannosa dalla salute declinante e dai colpi della sorte: il 1881 vede la morte della moglie e della figlia prediletta, che porta il nome della madre, Jenny. Duramente provato, Karl Marx si addormenta placidamente sulla poltrona, e per sempre, il 14 marzo 1883. Provvederà Engels a sistemare i manoscritti che hanno poi costituito il Libro II e III del Capitale. Gli studi del 1862-63 sulla storia del pensiero economico, destinati inizialmente a costituire il IV Libro, vengono pubblicati nel 1905 a cura di Kautsky col titolo di Teorie del plusvalore; oltre trent’anni dopo vedono la luce a Mosca gli studi risalenti soprattutto al 1857-58, i Lineamenti di critica dell’economia politica (i Grundrisse). Migliaia di pagine non pubblicate e non definitivamente sistemate, ma che rivelano una straordinaria ricchezza di analisi. Particolarmente fascinoso è un frammento contenuto nell’ultima opera citata. È il cosiddetto Frammento sulle macchine: stimolato dalla scienza e dalla creatività dell’uomo, si mette in moto un tale sviluppo delle forze produttive da rendere obsoleto e superfluo, prima ancora che intollerabile, il «furto del tempo di lavoro altrui» su cui, secondo Marx, si fonda il capitalismo.

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Friedrich Engels Come Marx, sul piano filosofico anche Friedrich Engels inizia quale hegeliano affascinato dalla tesi della razionalità del reale, da lui letta e vissuta come la liberazione dalla maledizione del peccato originale e dell’irrimediabile valle di lacrime che ne sarebbe la conseguenza. È un giovane di 22 anni (è nato a Barmen il 28 novembre 1820) e parla con l’enfasi propria di quella età allorché si abbandona a questa gioiosa confessione: «Un nuovo mattino si è alzato, un mattino d’importanza storica universale […] Ci siamo risvegliati da un lungo sonno, l’incubo che ci pesava sul petto è svanito, ci sfreghiamo gli occhi e ci guardiamo intorno sorpresi. Tutto è cambiato. Il mondo che ci era così estraneo, la natura, le cui forze nascoste ci atterrivano come spettri, come ci è ora affine e familiare! Il mondo che ci appariva come una prigione si mostra ora nella sua vera figura, come una magnifica reggia in cui tutti entriamo e usciamo, poveri e ricchi, nobili e umili. La natura ci si dischiude dinanzi e ci grida: non fuggite davanti a me, io non sono ripudiata, non sono decaduta dalla verità; venite e vedete la vostra essenza più intima e più propria che dà pienezza di vita e bellezza giovanile anche a me! Il cielo è sceso sulla terra». Crollata la diga ideologica che tentava di bloccare l’aspirazione dell’uomo alla felicità terrena e i movimenti di emancipazione reale, ora «la battaglia dei popoli si avvicina e la vittoria sarà necessariamente nostra!». Sono le pagine finali di una dura polemica contro Schelling, il filosofo che era stato chiamato a Berlino da Federico Guglielmo IV per dichiarare guerra «alla sementa di denti di drago del panteismo hegeliano», ovvero alla «scuola del vuoto concetto», ma che ora diventa il bersaglio, già nel titolo, di un opuscolo da Engels pubblicato a Lipsia nel 1842: Schelling e la rivelazione. Critica del più recente tentativo di reazione contro la filosofia libera. Fin qui sono evidenti le analogie con Marx, e con tutta una generazione, la quale da Hegel apprende il senso della monda-

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nità e politicità dell’uomo. E, tuttavia, emerge subito una differenza. La filosofia è solo una dimensione, sia pure essenziale, dell’esistenza del giovane Engels. Figlio di un ricco industriale tessile, deve presto avviarsi all’attività commerciale che, in quello stesso 1842, lo conduce, sulle orme della proprietà paterna, in Inghilterra, a Manchester. Qui, la valle di lacrime è una tragica realtà: basta dare uno sguardo alle fabbriche e ai quartieri operai. L’impatto di tale esperienza, su un giovane nutrito delle idee e delle speranze seminate in lui dalla filosofia «libera», stimola subito un approfondito confronto con l’economia politica e con la teoria e la realtà della società capitalistica. Ne scaturiscono due testi (gli Schizzi di una critica dell’economia politica del 1844 e La situazione della classe operaia in Inghilterra dell’anno successivo), i quali influenzano profondamente Marx. Questi, solo ora, a partire dalla dialettica interna della sua cultura filosofica, comincia ad avvertire il bisogno del confronto con l’economia politica e con il mondo che in essa si esprime, il mondo che Engels già da un pezzo tocca con mano grazie alla sua professione, al suo soggiorno nel paese alla testa dello sviluppo capitalistico, nonché al profondo legame simpatetico e all’amicizia che ormai lo stringono ai militanti del movimento operaio inglese. Su questa base si stabilisce, tra i due giovani autori tedeschi, un rapporto di collaborazione che dà vita ad alcuni testi fondamentali della storia dell’Ottocento e del nostro tempo: La sacra famiglia, L’ideologia tedesca, il Manifesto del partito comunista. Nell’ambito di questo sodalizio umano e intellettuale, Engels sottolinea, costantemente e con grande modestia, il ruolo preminente dell’amico-maestro, il quale, in effetti, si distingue per la genialità e per l’ambizione e la portata universalistica della sua cultura. Non bisogna perdere di vista il debito di Marx nei confronti di Engels: i suoi due scritti giovanili continueranno, ancora a distanza di tempo, a essere citati dal Capitale che, non a caso, riprende nel sottotitolo il titolo degli Schizzi: Critica

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dell’economia politica. Indiscutibile è comunque il debito di Marx sul piano economico e pratico: senza l’aiuto dell’affezionato amico-discepolo, non avrebbe potuto dedicarsi a tempo pieno alla ricerca scientifica e alla militanza politica. Dopo la sconfitta della rivoluzione del ’48, se Marx si trasferisce a Londra, Engels fa ritorno a Barmen e all’azienda paterna. Non per questo s’interrompe la collaborazione, testimoniata da una fittissima corrispondenza, la quale alimenta una sorta di simbiosi intellettuale e politica. Anche Engels fronteggia la vittoria della reazione tuffandosi negli studi storici. Piuttosto che sulla Francia, la sua attenzione si concentra però sulla Germania. Ecco allora un serie di articoli scritti tra il 1851 e il 1852 per il giornale americano «New York Tribune», successivamente raccolti in un libro dal titolo Rivoluzione e controrivoluzione in Germania. Ma se in Francia consolida la società borghese, in Germania la sconfitta della rivoluzione segna la vittoria di un antico regime ancora vivo e vegeto. Si tratta allora di spiegare le ragioni di questo ritardo storico. Per comprenderle bisogna risalire a uno scontro verificatosi circa tre secoli prima. È la tesi illustrata nella Guerra tedesca dei contadini, da Engels pubblicata nel 1850. Vi campeggia la figura di Thomas Müntzer, protagonista della prima grande rivolta antifeudale, sfortunato campione di una modernità che in Germania stenta ancora ad affermarsi. E, tuttavia, non c’è motivo per abbandonarsi allo scoramento. Conviene fare attenzione all’aggettivo presente nel titolo. Il suo significato pregnante viene immediatamente chiarito ad apertura del libro: «Anche il popolo tedesco ha una tradizione rivoluzionaria. C’è stato un tempo in cui la Germania ha prodotto personalità che potrebbero figurare fianco a fianco dei migliori esponenti delle rivoluzioni di altri paesi». Come si vede, all’interesse scientifico s’intreccia quello dichiaratamente politico. Si tratta di evitare che una sconfitta si trasformi in irreparabile disfatta; il ricordo di una tradizione nazionale rivoluzionaria, glo-

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riosa e gravida di futuro, può essere d’aiuto nel difficile compito di riorganizzazione delle fila del movimento democratico e operaio e di fronteggiamento delle tentazioni e delle manovre disfattiste. A partire da questo momento, si può comprendere la divisione del lavoro intellettuale che si stabilisce tra Marx e Engels. Oltre che nell’elaborazione e approfondimento della teoria, il primo è impegnato nelle grandi questioni di principio del nascente movimento operaio; il secondo dedica le sue energie anche all’organizzazione pratica del movimento, e in questo ambito rientra la diffusione più larga possibile della teoria elaborata in primo luogo dall’amico-maestro, alla quale si tratta talvolta di conferire una formulazione opportunamente pedagogica. Al di là degli interventi sullo sviluppo del movimento rivoluzionario nei diversi paesi, sono da segnalare tre testi di diversa mole ma di analoga importanza: nel 1878 l’Anti-Dühring, la cui ultima parte viene pubblicata come opuscolo autonomo (L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza), nel 1884 l’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, nel 1888 Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca. Sono testi che dispiegano una grande influenza nell’ambito della socialdemocrazia tedesca e del movimento socialista internazionale; su di essi si formano militanti e quadri, non poche volte di origine assai umile, i quali scoprono allo stesso tempo il gusto della militanza politica e della cultura. E ad essi dedica particolare attenzione Engels. Egli tesse l’elogio degli operai socialdemocratici che «si sono esercitati a leggere più copiosamente e più metodicamente i giornali»: così nella prefazione all’edizione tedesca, del 1882, dell’Evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza. La lotta contro lo sfruttamento capitalistico non ha affatto una dimensione meramente economica o solo immediatamente politica; essa sarebbe destinata alla disfatta se smarrisse il «senso teorico». Il Ludwig Feuerbach si

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conclude con una rivendicazione orgogliosa, la quale costituisce al tempo stesso un appello allo studio rivolto ai proletari: «Il movimento operaio è l’erede della filosofia classica tedesca». Engels continua a concentrare la sua attenzione e le sue speranze sulla Germania. Ma dal 1870 egli ha fatto ritorno a Manchester. Il lavoro non gli impedisce di essere presente in casa Marx con lettere quasi quotidiane. All’amico-maestro, o alla sua memoria, egli continua a dedicarsi ancora oltre il 1883. Dopo la morte dell’autore del Capitale, Engels si assegna come compito prioritario quello del completamento della grande opera col riordino dei manoscritti e con la pubblicazione del II e III Libro (1885 e 1894). Non per questo bisogna sottovalutare l’originalità di alcuni suoi contributi. Non solo in virtù della sua maggiore longevità, ma anche grazie all’attenzione da lui riservata alle questioni militari, Engels coglie con lucidità le contraddizioni e il clima che di lì a qualche decennio avrebbero condotto alla prima guerra mondiale. Una serie di articoli sul «Vorwärts» del 1893, successivamente raccolti in volume (L’Europa può disarmare?), mette in evidenza la divisione in due campi contrapposti, l’uno e l’altro impegnati in una febbrile corsa al riarmo: si profila «una guerra devastatrice quale il mondo non ha mai conosciuta». Pur condannando il delirio militarista di entrambi i contendenti («lo sciovinismo francese è idiota esattamente quanto quello tedesco»), Engels sembra prevedere la disfatta dell’arrogante Impero di Guglielmo II e persino le modalità con cui essa si verificherà: «Non dimentichiamolo: nella prossima guerra, chi deciderà sarà l’Inghilterra […] E sui mari l’Inghilterra domina in modo incondizionato. Se essa pone la sua flotta a disposizione di una parte, l’altra verrà a trovarsi semplicemente presa per fame, perché tagliata fuori dai rifornimenti di grano». Ma la lucidità dell’analisi va ancora oltre: assieme alla «lotta di classe», fronteggiata dalla borghesia con la dilatazione dell’apparato repressivo, «la concorrenza nelle conquiste ha portato il

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potere pubblico a un’altezza da cui minaccia di inghiottire l’intera società e perfino lo Stato». Già evocato dall’analisi marxiana del bonapartismo, lo spettro del totalitarismo sembra ora assumere contorni più precisi: a dargli corpo e vita, oltre all’asprezza del conflitto sociale, provvede la guerra totale. Contenuta nell’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, nel capitolo finale dal titolo assai emblematico Barbarie e civiltà, l’osservazione di Engels del 1888 sembra anticipare, nella sua critica, i tratti essenziali del totalitarismo (il regime politico corrispondente alla guerra totale), che avrebbe fatto la sua apparizione a partire dalla catastrofe del primo conflitto mondiale. D’altro canto, l’attenzione da lui prestata all’organizzazione anche pratica del movimento popolare e rivoluzionario consente a Engels di tracciare una diagnosi precoce e lucida di un’altra orribile catastrofe del Novecento. Già nel fare il bilancio su Rivoluzione e controrivoluzione in Germania, anzi, ad apertura stessa di questo bilancio, Engels aveva ironizzato nei confronti di coloro che, invece di far riferimento a oggettive contraddizioni sociali, pretendevano di ricondurre «la rivoluzione alla malvagità di un pugno di agitatori». Ma, nel 1851, quella «superstizione» era stata ottimisticamente considerata come un semplice residuo del passato. Ed ecco che, a quattro decenni di distanza, essa si rivela più che mai vitale: i generici «agitatori» di un tempo sembrano ora aver assunto sembianze più definite, quelle degli ebrei. In una lunga lettera a un interlocutore viennese del 19 aprile 1890, Engels prende decisamente posizione contro la piaga dell’antisemitismo, da lui considerato espressione di una «cultura arretrata»: è «una reazione di ceti sociali medievali votati alla rovina dall’avanzare della società moderna, che si compone essenzialmente di capitalisti e operai». Puntando il dito in particolare contro la nobiltà e ricordando di essere stato anche lui bollato, in quanto rivoluzionario, come ebreo, Engels chiude con un gesto di sfida: «Meglio ebreo che “Herr von”», meglio ebreo che signorotto feudale. L’analisi dell’anti-

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semitismo è ancora improntata a eccessivo ottimismo. Resta il fatto che Engels mette in guardia contro questo flagello e chiama alla vigilanza e alla lotta anche il movimento operaio: «Noi dobbiamo troppo agli ebrei. Senza parlare di Heine e di Börne, Marx era un ebreo puro sangue. Lassalle era ebreo. Un gran numero dei nostri migliori compagni sono ebrei», e alla testa di scioperi e agitazioni popolari sono talvolta, in Inghilterra e negli Usa, «operai ebrei tra i più miserabili e i più sfruttati». È chiaro. Engels è ormai divenuto il rispettato maestro del movimento operaio internazionale, e in tale veste interviene, festosamente e affettuosamente accolto, al congresso di Zurigo della Seconda Internazionale (1893). Sino all’ultimo continua a lottare contro la catastrofe che si profila all’orizzonte. A prevenirla potrebbe essere la vittoria, in Germania, del movimento operaio che continua ad avanzare di successo in successo e che forse potrebbe conquistare il potere per via pacifica. È l’auspicio espresso in occasione della ripubblicazione delle Lotte di classe in Francia, il testo in cui Marx aveva analizzato le rivoluzioni del 1848 e la terribile repressione che a giugno si era abbattuta sul proletariato. L’introduzione di Engels porta la data del 6 marzo 1895. Muore pochi mesi dopo, il 5 agosto 1895, a Londra, nella stessa città in cui dodici anni prima si era spento il suo amico-maestro.

Karl Marx Friedrich Engels

Manifesto del partito comunista

Nota al testo Redatto tra il dicembre 1847 e il gennaio dell’anno successivo, il Manifesto del partito comunista appare per la prima volta a Londra nel febbraio 1848, proprio alla vigilia degli sconvolgimenti rivoluzionari sul continente europeo. Conosce successive edizioni nel 1872 e, dopo la morte di Marx, nel 1888 e nel 1890. La presente traduzione si basa sul testo della versione originale del 1848. Sono state anche tradotte le note esplicative apposte da Engels all’edizione inglese del 1888 e a quella tedesca del 1890.

Uno spettro si aggira per l’Europa – lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchia Europa, il papa e lo zar, Metternich e Guizot, i radicali francesi e i poliziotti tedeschi, si sono unite in una crociata e in una caccia spietata contro questo spettro. Qual è il partito d’opposizione che non sia stato tacciato di comunismo dai suoi avversari al governo? E qual è il partito che, a sua volta, non abbia rilanciato l’infamante accusa di comunismo contro le personalità più avanzate dell’opposizione o contro i suoi avversari reazionari? Due sono le conseguenze di questo fatto. Il comunismo è ormai riconosciuto come potenza da tutte le potenze europee. È ora che i comunisti espongano apertamente a tutto il mondo il loro modo di vedere, i loro scopi, le loro tendenze, e che contrappongano alle favole sullo spettro del comunismo un manifesto del partito. A tal fine, i comunisti delle nazionalità più diverse si sono riuniti a Londra e hanno redatto il seguente manifesto che viene pubblicato in lingua inglese, francese, tedesca, italiana, fiamminga e danese.

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Borghesi e proletari *

La storia di ogni società sinora esistita** è la storia delle lotte di classe. Libero e schiavo, patrizio e plebeo, barone e servo della gleba, mastro artigiano e garzone, in breve oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte latente a volte * Per borghesia si intende la classe dei capitalisti moderni, che sono proprietari dei mezzi di produzione sociali e impiegano lavoro salariato. Per proletariato s’intende la classe dei moderni lavoratori salariati, i quali, non possedendo alcun mezzo di produzione, sono costretti a vendere la loro forza-lavoro per poter vivere [Nota di Engels all’edizione inglese del 1888]. ** Vale a dire, per esattezza, la storia tramandata per iscritto. Nel 1847, la preistoria della società, l’organizzazione sociale anteriore a ogni storia scritta, era pressoché sconosciuta. Dopo di allora Haxthausen ha scoperto la proprietà comune della terra in Russia. Maurer ha dimostrato che essa era la base sociale da cui mossero storicamente tutte le stirpi tedesche, e si è scoperto a poco a poco che dall’India all’Irlanda le comunità di villaggio con il possesso comune della terra rappresentavano la forma originaria della società. Infine, per grande merito di Morgan, che ha scoperto la vera natura della gens e della sua posizione nella tribù, è venuta alla luce l’organizzazione interna di questa società comunista primitiva. Con la dissoluzione di queste comunità originarie comincia la divisione della società in classi distinte, che diventano poi antagoniste. Ho cercato di ricostruire questo processo di dissoluzione nell’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, II ed., Stuttgart 1886 [Nota di Engels all’edizione inglese del 1888].

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aperta; una lotta che è sempre finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta. Nelle epoche passate della storia troviamo quasi dappertutto una completa divisione della società in vari ordini, una complessa gerarchia delle posizioni sociali. Nell’antica Roma abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi; nel Medioevo signori feudali, vassalli, mastri artigiani, garzoni, servi della gleba, e per di più, in ciascuna di queste classi, ulteriori speciali gerarchie. Sorta dal tramonto della società feudale, la società borghese moderna non ha eliminato i conflitti di classe. Alle antiche essa si è limitata a sostituire nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta. La nostra epoca, l’epoca della borghesia, si distingue però dalle altre per aver semplificato i conflitti di classe. L’intera società si va sempre più scindendo in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente contrapposte l’una all’altra: borghesia e proletariato. Dai servi della gleba sono discesi i primi abitanti delle prime città; a partire da questo nucleo urbano si sono sviluppati i primi elementi della borghesia. La scoperta dell’America e la circumnavigazione dell’Africa fornirono nuovi territori alla nascente borghesia. Il mercato delle Indie orientali e della Cina, la colonizzazione dell’America, lo scambio con le colonie, l’accrescimento dei mezzi di scambio e delle merci in generale, diedero un impulso prima d’allora sconosciuto al commercio, alla navigazione, all’industria, e con ciò favorirono il rapi-

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do sviluppo dell’elemento rivoluzionario in seno alla società feudale in via di disgregazione. L’assetto dell’industria, sino a quel momento feudale o corporativo, non bastò più a soddisfare la domanda di merci che cresceva di pari passo con i nuovi mercati. Subentrò la manifattura. Il ceto medio industriale soppiantò i mastri artigiani; la divisione del lavoro tra le diverse corporazioni scomparve dinanzi alla divisione del lavoro interna al singolo opificio. Ma i mercati continuavano a crescere, così come continuava a crescere la domanda di merci. Neppure la manifattura bastava più. Ed ecco il vapore e le macchine a rivoluzionare la produzione industriale. Alla manifattura subentrò la grande industria moderna; al ceto medio industriale subentrarono gli industriali miliardari, i capi di interi eserciti industriali, i borghesi moderni. La grande industria ha prodotto il mercato mondiale, già avviato dalla scoperta dell’America. Il mercato mondiale ha dato uno sviluppo immenso al commercio, alla navigazione, alle comunicazioni su terraferma. Questo sviluppo ha contribuito a sua volta all’espansione dell’industria, e, nella stessa misura in cui si estendevano l’industria, il commercio, la navigazione, le ferrovie, anche la borghesia si è sviluppata, ha accresciuto i suoi capitali e ha risospinto in secondo piano tutte le classi tramandate dal Medioevo. Vediamo dunque come la stessa borghesia moderna sia il prodotto di un lungo processo di sviluppo, di una serie di sconvolgimenti nei modi della produzione e del traffico.

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Ognuno di questi stadi di sviluppo della borghesia fu accompagnato da un corrispondente progresso politico. Ceto oppresso sotto il dominio dei signori feudali, corpo sociale armato e fornito di autogoverno nel Comune*, qui repubblica cittadina indipendente, là terzo stato tributario della monarchia, poi, all’epoca della manifattura, contrappeso alla nobiltà nella monarchia articolata in ordini ovvero in quella assoluta, base fondamentale delle grandi monarchie in genere, col costituirsi della grande industria e del mercato mondiale, la borghesia si è conquistato il dominio politico esclusivo nel moderno Stato rappresentativo. Il potere politico moderno non è altro che un comitato, il quale amministra gli affari comuni della classe borghese nel suo complesso. La borghesia ha giocato nella storia un ruolo altamente rivoluzionario. Dove è giunta al potere, la borghesia ha distrutto tutti i rapporti feudali, patriarcali, idilliaci. Essa ha lacerato spietatamente tutti i variopinti legami feudali che stringevano l’uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato tra uomo e uomo altro legame che il nudo interesse, il freddo «pagamento in contanti». Ha annegato nell’acqua gelida * Si chiamavano «Comuni» le città che sorgevano in Francia ancor prima che, in quanto «terzo stato», fossero riuscite a strappare l’autogoverno locale e i diritti politici ai loro padroni e signori feudali. Parlando in generale, abbiamo qui fatto riferimento all’Inghilterra come paese tipico per lo sviluppo economico della borghesia, alla Francia per il suo sviluppo politico [Nota di Engels all’edizione inglese del 1888]. Così in Italia e in Francia gli abitanti delle città chiamarono le loro comunità cittadine, dopo aver strappato o comprato dai loro signori feudali i primi diritti di autogoverno locale [Nota di Engels all’edizione tedesca del 1890].

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del calcolo egoistico i santi fremiti dell’esaltazione religiosa, dell’entusiasmo cavalleresco, della malinconica ristrettezza provinciale. Ha dissolto la dignità personale nel valore di scambio; e in luogo delle innumerevoli libertà faticosamente conquistate oppure accordate, ha posto come unica libertà quella di un commercio privo di scrupoli. In una parola, in luogo dello sfruttamento velato da illusioni religiose e politiche, ha introdotto lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido. La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte le attività fino ad allora guardate con rispetto e pia soggezione. Ha trasformato il medico, il giurista, il prete, il poeta, lo scienziato in suoi operai salariati. La borghesia ha strappato il tenero velo sentimentale ai rapporti familiari, riducendoli a un semplice rapporto di denaro. La borghesia ha messo in chiaro come il brutale spettacolo di forza, tanto ammirato dalla reazione nel Medioevo, trovasse il suo appropriato completamento nella più fiacca poltroneria. Per la prima volta essa ha mostrato di cosa è capace l’attività dell’uomo. Ha realizzato ben altre meraviglie che le piramidi egizie, gli acquedotti romani e le cattedrali gotiche; ha compiuto ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le Crociate. La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutata conservazione del vec-

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chio sistema di produzione. Il continuo sconvolgimento della produzione, l’ininterrotta messa in discussione di tutte le condizioni sociali, l’insicurezza e il movimento perpetui distinguono l’epoca borghese da tutte quelle precedenti. Vengono dissolti tutti i rapporti stabili e irrigiditi con il loro seguito di modi di vedere e di concezioni venerate e di veneranda età, e i rapporti nuovi invecchiano prima ancora di potersi consolidare. Si volatilizzano le immobili gerarchie sociali, viene profanato tutto ciò che vi è di sacro, e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con sguardo disincantato la propria posizione nella vita e i propri reciproci rapporti. Il bisogno di sbocchi sempre più estesi per i suoi prodotti spinge la borghesia su tutto il globo terrestre. Ovunque essa deve insediarsi, ovunque stabilirsi, ovunque allacciare collegamenti. Con lo sfruttamento del mercato mondiale, la borghesia ha dato un’impronta cosmopolita alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Con grande rammarico dei reazionari ha privato l’industria della sua base nazionale. Le più antiche industrie nazionali sono state e sono tuttora quotidianamente distrutte. Esse vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa una questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più materie prime locali, bensì materie prime provenienti dalle regioni più remote, e i cui prodotti diventano oggetto di consumo non solo all’interno del paese, ma in tutte le parti del mondo. Ai vecchi bisogni, soddisfatti con i prodotti nazionali, subentrano nuovi bi-

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sogni, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All’antica autosufficienza e all’antico isolamento locali e nazionali subentra un commercio universale, una interdipendenza universale fra le nazioni. Ciò vale sia per la produzione materiale che per quella spirituale. I prodotti spirituali delle singole nazioni diventano bene comune. L’unilateralità e ristrettezza nazionali diventano sempre più impraticabili, e dalle molte letterature nazionali e locali si sviluppa una letteratura mondiale. Col rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni rese infinitamente più agevoli, la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare. I bassi prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con cui essa abbatte tutte le muraglie cinesi e con cui costringe alla capitolazione la più ostinata xenofobia dei barbari. Essa costringe tutte le nazioni ad adottare il sistema di produzione della borghesia, se non vogliono andare in rovina, le costringe a introdurre nei loro paesi la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi. In una parola, essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza. La borghesia ha assoggettato la campagna al dominio della città. Ha costruito città enormi, ha accresciuto grandemente la popolazione urbana rispetto a quella rurale, strappando in tal modo una parte notevole della popolazione all’idiotismo della vita rurale. Come ha assoggettato la campagna alla città, così ha reso dipendenti i paesi bar-

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bari e semibarbari da quelli civili, i popoli contadini dai popoli borghesi, l’Oriente dall’Occidente. La borghesia supera sempre più il frazionamento dei mezzi di produzione, della proprietà e della popolazione. Essa ha ammassato la popolazione, ha centralizzato i mezzi di produzione e concentrato la proprietà in poche mani. Ne è scaturita, come conseguenza necessaria, la centralizzazione politica. Province indipendenti, a malapena collegate tra loro, con interessi, leggi, governi e sistemi doganali diversi, sono state spinte a unirsi in una sola nazione, con un solo governo, una sola legge, un solo interesse nazionale di classe, un solo confine doganale. Nel suo dominio di classe, che dura appena da un secolo, la borghesia ha creato forze produttive più ingenti e più colossali di quanto abbiano fatto insieme tutte le generazioni passate. Assoggettamento delle forze naturali, macchine, applicazione della chimica all’industria e all’agricoltura, navigazione a vapore, ferrovie, telegrafi elettrici, dissodamento di interi continenti, fiumi resi navigabili, intere popolazioni come create dal nulla – quale dei secoli passati avrebbe mai immaginato che tali forze produttive sonnecchiassero nel grembo del lavoro sociale? Abbiamo visto che i mezzi di produzione e di scambio sulla cui base si è formata la borghesia furono prodotti nella società feudale. A un certo stadio di sviluppo di questi mezzi di produzione e di scambio, i rapporti all’interno dei quali la società feudale produceva e scambiava, vale a dire l’organizzazione feudale dell’agricoltura e di manifattura, in una parola i rapporti feudali di proprietà, non cor-

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risposero più alle forze produttive ormai sviluppatesi. Inceppavano la produzione invece di promuoverla. Si erano trasformati in altrettante catene. Esse dovevano essere spezzate e furono spezzate. Al loro posto subentrò la libera concorrenza con la costituzione politica e sociale ad essa confacente, con il dominio economico e politico della classe borghese. Sotto i nostri occhi si sta svolgendo un processo analogo. I rapporti borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la società borghese moderna, che ha suscitato come per incanto così potenti mezzi di produzione e di scambio, rassomiglia allo stregone che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate. Sono decenni ormai che la storia dell’industria e del commercio è soltanto la storia della ribellione delle moderne forze produttive contro i moderni rapporti di produzione, contro i rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di vita della borghesia e del suo dominio. Basti ricordare le crisi commerciali, che col loro periodico ripresentarsi sempre più minacciosamente mettono in discussione l’esistenza di tutta la società borghese. Durante le crisi commerciali viene regolarmente distrutta una gran parte non solo dei prodotti finiti, ma persino delle forze produttive già create. Durante le crisi scoppia un’epidemia sociale che in ogni altra epoca sarebbe apparsa un’assurdità: l’epidemia della sovrapproduzione. La società si trova improvvisamente ricacciata in uno stato di momentanea barbarie; una carestia, una guerra generalizzata di annientamento sembrano averle sottratto tutti i

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mezzi di sussistenza; l’industria, il commercio sembrano distrutti, e perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive a sua disposizione non servono più a promuovere la civiltà borghese e i rapporti borghesi di proprietà; al contrario, esse sono divenute troppo potenti per tali rapporti e vengono da questi inceppate; e non appena superano tale impedimento, esse gettano lo scompiglio in tutta la società borghese, mettono in pericolo l’esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono diventati troppo angusti per poter contenere la ricchezza creata dalle forze produttive. Con quale mezzo la borghesia supera le crisi? Per un verso imponendo la distruzione di una grande quantità di forze produttive; per un altro verso, conquistando nuovi mercati e sfruttando più intensamente quelli già disponibili. Con quale mezzo dunque? Spianando la strada a crisi sempre più vaste e più violente e riducendo i mezzi per prevenirle. Le armi con cui la borghesia ha abbattuto il feudalesimo si rivolgono ora contro la stessa borghesia. Ma la borghesia non ha soltanto forgiato le armi che le arrecheranno la morte, ha anche generato gli uomini che impugneranno quelle armi – gli operai moderni, i proletari. Nella stessa misura in cui si sviluppa la borghesia, cioè il capitale, si sviluppa anche il proletariato, la classe degli operai moderni, i quali vivono solo fin quando trovano lavoro, e trovano lavoro solo fin quando il loro lavoro ac-

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cresce il capitale. Questi operai, che sono costretti a vendersi al minuto, sono una merce come ogni altro articolo di commercio, e proprio per questo sono esposti a tutte le vicissitudini della concorrenza, a tutte le oscillazioni del mercato. Con la diffusione delle macchine e con la divisione del lavoro, il lavoro dei proletari ha perduto ogni carattere autonomo e quindi ogni attrattiva per l’operaio. Egli diventa un semplice accessorio della macchina, al quale si richiede soltanto un’operazione manuale estremamente semplice, monotona, facilissima da imparare. I costi che l’operaio comporta si limitano perciò quasi esclusivamente ai mezzi di sussistenza necessari per il suo mantenimento e per la riproduzione della sua specie. Ma il prezzo di una merce, e quindi anche del lavoro, è uguale ai suoi costi di produzione. Quanto più ripugnante si fa il lavoro, tanto più si abbassa il salario. Più ancora: a misura che si diffondono le macchine e la divisione del lavoro, cresce anche la quantità del lavoro, sia per l’aumento delle ore di lavoro, sia per l’aumento del lavoro richiesto in una certa unità di tempo (a causa dell’accresciuta celerità delle macchine ecc.). L’industria moderna ha trasformato la piccola officina dell’artigiano patriarcale nella grande fabbrica del capitalista industriale. Gli operai vengono concentrati in massa nelle fabbriche e organizzati a guisa di soldati. Come soldati semplici dell’industria vengono sottoposti alla sorveglianza di un’intera gerarchia di sottoufficiali e di ufficiali. Non sono soltanto servi della classe borghese, dello Sta-

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to borghese, ma vengono ogni giorno e ogni ora asserviti anche dalla macchina, dal sorvegliante, e soprattutto dal singolo borghese padrone di fabbrica. Tale dispotismo è tanto più meschino, odioso, esasperante, quanto più apertamente esso proclama il guadagno come suo unico scopo. Quanto meno il lavoro manuale esige abilità e sforzo fisico, cioè quanto più si sviluppa l’industria moderna, tanto più il lavoro degli uomini viene rimpiazzato da quello delle donne e dei bambini. Le differenze di sesso e di età non hanno più alcun valore sociale per la classe operaia. Ormai ci sono soltanto strumenti di lavoro, il cui costo varia a seconda dell’età e del sesso. Non appena l’operaio ha finito di essere sfruttato dal padrone di fabbrica e ha riscosso il salario in contanti, ecco che si avventano su di lui gli altri membri della borghesia, il padrone di casa, il bottegaio, il prestatore a pegno e così via. I tradizionali ceti medi, i piccoli industriali e negozianti e coloro che vivono di piccola rendita, gli artigiani e i coltivatori diretti, tutte queste classi sprofondano nel proletariato, in parte perché il loro esiguo capitale non basta per l’esercizio della grande industria e soccombe alla concorrenza dei capitalisti più potenti, in parte perché la loro qualificazione perde valore coi nuovi modi di produzione. Così il proletariato recluta i suoi membri a partire da tutte le classi della popolazione. Il proletariato attraversa diversi stadi di sviluppo. La sua lotta contro la borghesia comincia con la sua esistenza.

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Dapprima lottano i singoli operai, poi gli operai di una fabbrica e quindi gli operai di un dato ramo produttivo in un dato luogo, contro il singolo borghese che li sfrutta direttamente. Prendono di mira non soltanto i rapporti borghesi di produzione, ma anche gli stessi strumenti di produzione; distruggono le merci straniere che fanno loro concorrenza, fanno a pezzi i macchinari, danno fuoco alle fabbriche, cercano di riconquistare la tramontata posizione dell’operaio medievale. In questo stadio, gli operai formano una massa dispersa per tutto il paese e frantumata dalla concorrenza. Lo stringersi in massa degli operai non è ancora la conseguenza della loro propria unione, ma dell’unione della borghesia, che, per raggiungere i suoi scopi politici, deve mettere in movimento tutto il proletariato, e per il momento è ancora in grado di farlo. In questo stadio i proletari non combattono dunque i loro nemici, ma i nemici dei loro nemici, i residui della monarchia assoluta, i proprietari terrieri, i borghesi non industriali, i piccoli borghesi. Tutto il movimento storico è perciò concentrato nelle mani della borghesia; ogni vittoria così ottenuta è una vittoria della borghesia. Ma con lo sviluppo dell’industria il proletariato non cresce soltanto di numero; esso viene concentrato in masse via via più imponenti, la sua forza cresce ed esso la avverte sempre di più. All’interno del proletariato, gli interessi, le condizioni di vita si uniformano man mano che le macchine cancellano le differenze del lavoro e deprimono il salario quasi dappertutto a un livello uniformemente

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basso. La crescente, reciproca concorrenza dei borghesi e le crisi commerciali che ne derivano rendono sempre più oscillante il salario degli operai; l’incessante e sempre più rapido perfezionamento delle macchine rende sempre più precaria la loro esistenza nel suo complesso; i conflitti fra il singolo operaio e il singolo borghese assumono sempre più il carattere di conflitti fra due classi. È così che gli operai cominciano a formare coalizioni contro i borghesi e si uniscono per difendere il loro salario. Fondano persino associazioni permanenti, al fine di accumulare viveri in vista di eventuali sollevazioni. Qua e là la lotta si trasforma in sommossa. Di tanto in tanto gli operai vincono, ma solo temporaneamente. Il vero risultato delle loro lotte non è il successo immediato ma la loro unione, che sempre più si diffonde. Essa viene agevolata dai mezzi di comunicazione in continua espansione, che sono prodotti dalla grande industria e che mettono in collegamento gli operai delle diverse località. Ma basta questo semplice collegamento perché le molte lotte locali, aventi ovunque le stesse caratteristiche, si centralizzino in una lotta nazionale, in una lotta di classe. Ma ogni lotta di classe è una lotta politica. E se ai cittadini del Medioevo con le loro strade di campagna occorsero dei secoli per realizzare l’unione, i proletari moderni, utilizzando le ferrovie, la raggiungono in pochi anni. Questa organizzazione dei proletari in classe, e quindi in partito politico, viene ad ogni istante spezzata dalla concorrenza fra gli stessi operai, ma finisce sempre col risorgere, più forte, più salda, più potente. Approfittando del-

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le divisioni all’interno della borghesia, la costringe al riconoscimento legale dei singoli interessi degli operai. Così fu per la legge delle 10 ore di lavoro in Inghilterra. Di per sé, i conflitti in seno alla vecchia società favoriscono in vario modo il processo di sviluppo del proletariato. La borghesia è sempre in lotta: dapprima contro l’aristocrazia, poi contro quelle parti della borghesia stessa i cui interessi sono in contraddizione col progresso dell’industria, e sempre contro la borghesia di tutti i paesi stranieri. In tutte queste lotte essa si vede costretta a fare appello al proletariato, a valersi del suo aiuto, trascinandolo così nel movimento politico. Essa stessa dunque fornisce al proletariato gli elementi della propria educazione, cioè le armi contro se stessa. Inoltre, come abbiamo visto, il progresso dell’industria fa sprofondare nel proletariato interi settori della classe dominante, o per lo meno ne minaccia le condizioni di vita. Anch’essi procurano al proletariato una grande quantità di elementi di educazione. Infine, nei periodi in cui la lotta di classe si avvicina al momento decisivo, il processo di dissoluzione all’interno della classe dominante, all’interno della vecchia società nel suo complesso, assume un carattere così impetuoso, così aspro, che una piccola parte della classe dominante si stacca da essa per unirsi alla classe rivoluzionaria, a quella classe che ha l’avvenire nelle sue mani. Quindi, come prima una parte della nobiltà passò alla borghesia, così ora passa al proletariato una parte della borghesia, in particolare una parte degli ideologi borghesi, quelli che sono

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giunti a comprendere teoricamente il movimento storico nel suo insieme. Di tutte le classi che oggi stanno di fronte alla borghesia, solo il proletariato è una classe veramente rivoluzionaria. Le altri classi decadono e tramontano con la grande industria; il proletariato invece è il suo prodotto più autentico. I ceti medi, il piccolo industriale, il piccolo commerciante, l’artigiano, il coltivatore diretto, combattono tutti la borghesia per preservare dal tramonto la loro esistenza di ceti medi. Quindi non sono rivoluzionari ma conservatori. Anzi, sono reazionari, poiché cercano di riportare indietro la ruota della storia. Se sono rivoluzionari, lo sono in vista del loro imminente passaggio al proletariato; cioè non difendono i loro interessi presenti, ma quelli futuri, abbandonano il proprio punto di vista per adottare quello del proletariato. Quanto al sottoproletariato, questa putrefazione passiva degli strati più bassi della vecchia società, esso viene in certi momenti trascinato nel movimento dalla rivoluzione proletaria; ma, data la sua collocazione sociale, sarà più incline a farsi comprare per manovre reazionarie. Le condizioni di vita della vecchia società sono già distrutte nelle condizioni di vita del proletariato. Il proletario è senza proprietà; il suo rapporto con moglie e figli non ha più nulla in comune con i rapporti familiari borghesi; il lavoro industriale moderno, il soggiogamento moderno al capitale, identico in Inghilterra come in Francia, in America come in Germania, lo ha spogliato di ogni carattere

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nazionale. Le leggi, la morale, la religione, sono per lui altrettanti pregiudizi borghesi, dietro ai quali si nascondono altrettanti interessi borghesi. Tutte le classi che si sono finora impadronite del potere hanno cercato di salvaguardare la posizione conquistata già in precedenza, assoggettando l’intera società alle condizioni che rendono possibile la loro ricchezza. I proletari, invece, possono impadronirsi delle forze produttive sociali solo abolendo il modo in cui attualmente di esse ci si appropria, e dunque abolendo l’odierno sistema di proprietà nel suo complesso. I proletari non hanno nulla di proprio da salvaguardare; essi hanno soltanto da distruggere tutte le sicurezze private e tutte le private società di assicurazione finora esistite. Sino ad ora, tutti i movimenti sono stati movimenti di minoranze, o nell’interesse di minoranze. Il movimento proletario è il movimento autonomo della stragrande maggioranza nell’interesse della stragrande maggioranza. Il proletariato, lo strato più basso della società odierna, non può sollevarsi, non può ergersi in piedi, senza far saltare in aria l’intera sovrastruttura degli strati che costituiscono la società ufficiale. Sebbene non sia tale per il contenuto, la lotta del proletariato contro la borghesia è all’inizio, nella sua forma, una lotta nazionale. Il proletariato di ogni paese deve naturalmente procedere alla resa dei conti in primo luogo con la propria borghesia. Delineando le fasi principali dello sviluppo del proletariato, abbiamo seguito la guerra civile più o meno latente

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all’interno della società attuale fino al momento in cui essa esplode in una rivoluzione aperta e il proletariato, col rovesciamento violento della borghesia, fonda il suo dominio. Ogni società finora esistita si è basata, come abbiamo già visto, sul contrasto fra classi di oppressori e classi di oppressi. Ma per poter opprimere una classe, bisogna assicurarle almeno quelle condizioni che le permettano di condurre la sua misera vita servile. Il servo della gleba ha potuto, continuando a esser tale, elevarsi a membro del Comune, così come il piccolo-borghese, pur sotto il giogo dell’assolutismo feudale, ha potuto elevarsi a borghese. Ma l’operaio moderno, invece di elevarsi col progresso dell’industria, cade sempre più in basso, al di sotto delle condizioni della sua propria classe. L’operaio diventa il povero, e il pauperismo si sviluppa ancora più rapidamente della popolazione e della ricchezza. Di qui appare chiaramente che la borghesia non è più in grado di restare la classe dominante della società e di imporre a quest’ultima le condizioni di vita della propria classe come legge regolatrice. Non è in grado di dominare, perché non è in grado di garantire la vita al proprio schiavo neppure entro i limiti della sua schiavitù, perché è costretta a farlo sprofondare in condizioni tali da doverlo poi nutrire anziché essere nutrita da lui. La società non può più vivere sotto il suo dominio; cioè l’esistenza della borghesia non è più compatibile con la società. Condizione essenziale dell’esistenza e del dominio della classe borghese è l’accumulazione della ricchezza nelle

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mani di privati, la formazione e l’accrescimento del capitale; condizione del capitale è il lavoro salariato. Il lavoro salariato si fonda esclusivamente sulla concorrenza degli operai tra di loro. Il progresso dell’industria, del quale la borghesia è veicolo involontario e passivo, sostituisce all’isolamento degli operai, risultante dalla concorrenza, la loro unione rivoluzionaria mediante l’associazione. Lo sviluppo della grande industria toglie quindi da sotto i piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce i prodotti e se ne appropria. Essa produce anzitutto i propri becchini. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono egualmente inevitabili.

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Proletari e comunisti

In quale rapporto i comunisti stanno con i proletari in genere? I comunisti non sono un partito particolare rispetto agli altri partiti operai. Non hanno interessi diversi dagli interessi del proletariato nel suo insieme. Non stabiliscono princìpi particolari in base ai quali plasmare il movimento proletario. I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari solamente perché: da un lato, nelle varie lotte nazionali dei proletari, mettono in rilievo e fanno valere gli interessi comuni del proletariato, quelli indipendenti dalla nazionalità; dall’altro lato, nei diversi stadi di sviluppo della lotta tra proletariato e borghesia, rappresentano sempre l’interesse del movimento complessivo. In pratica, dunque, i comunisti costituiscono la parte più risoluta, la forza propulsiva dei partiti operai di tutti i paesi; e quanto alla teoria, essi hanno il vantaggio sulla restante massa del proletariato di conoscere le condizioni, l’andamento e i risultati generali del movimento proletario.

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Lo scopo immediato dei comunisti è lo stesso di tutti gli altri partiti proletari: formazione del proletariato in classe, rovesciamento del dominio borghese, conquista del potere politico da parte del proletariato. Le posizioni teoriche dei comunisti non poggiano affatto su idee, su princìpi inventati o scoperti da qualche apostolo salvatore del mondo. Esse sono soltanto espressioni generali dei rapporti effettivi di una lotta di classe già in atto, di un movimento storico che si sta svolgendo sotto i nostri occhi. L’abolizione dei rapporti di proprietà esistenti non è cosa che caratterizzi in modo peculiare il comunismo. Tutti i rapporti di proprietà sono stati soggetti a un continuo mutamento storico, a una continua trasformazione storica. La rivoluzione francese, ad esempio, abolì la proprietà feudale a favore di quella borghese. Ciò che contraddistingue il comunismo non è l’abolizione della proprietà in generale, bensì l’abolizione della proprietà borghese. Ma la moderna proprietà privata borghese è l’ultima e la più perfetta espressione della produzione e dell’appropriazione dei prodotti che poggia sugli antagonismi di classe, sullo sfruttamento degli uni da parte degli altri. In questo senso i comunisti possono riassumere la loro teoria in quest’unica espressione: abolizione della proprietà privata. Noi comunisti siamo stati accusati di voler abolire la proprietà acquisita col lavoro, frutto della propria fatica,

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quella proprietà che costituirebbe il fondamento di ogni personale libertà, attività e indipendenza. Proprietà acquisita col lavoro, con la propria fatica, col proprio guadagno! State forse parlando della proprietà del piccolo-borghese o del piccolo contadino che ha preceduto la proprietà borghese? Non abbiamo bisogno di abolirla; l’ha già abolita e continua ad abolirla giorno dopo giorno lo sviluppo dell’industria. Oppure state parlando della moderna proprietà privata borghese? Ma il lavoro salariato, il lavoro del proletario procura forse a quest’ultimo una proprietà? Assolutamente no. Esso produce il capitale, cioè quella proprietà che sfrutta il lavoro salariato e che può moltiplicarsi solo a condizione di creare nuovo lavoro salariato, destinato a sua volta a essere sfruttato. La proprietà nella sua forma attuale si fonda sull’antagonismo fra capitale e lavoro salariato. Esaminiamo i due termini di questo antagonismo. Essere capitalista vuol dire occupare nella produzione una posizione non puramente personale ma sociale. Il capitale è un prodotto comune e può essere messo in movimento solo con un’attività comune di molti membri della società, anzi, in ultima istanza, solo con l’attività comune di tutti i membri della società. Quindi, il capitale non è una potenza personale; è una potenza sociale. Quando dunque il capitale viene trasformato in proprietà comune, appartenente a tutti i membri della società, non si procede alla trasformazione in proprietà sociale di

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una proprietà [realmente] personale. Si trasforma soltanto il carattere sociale della proprietà, che perde il suo carattere di classe. Veniamo al lavoro salariato. Il prezzo medio del lavoro salariato è il minimo del salario, ossia la somma dei mezzi di sussistenza necessari a mantenere in vita l’operaio in quanto operaio. Ciò di cui, dunque, l’operaio salariato si appropria grazie alla sua attività gli basta soltanto per riprodurre la sua nuda esistenza. Noi non vogliamo affatto abolire questa appropriazione personale dei prodotti del lavoro necessari per la riproduzione della vita immediata, appropriazione che non lascia alcun profitto netto in grado di conferire potere sul lavoro altrui. Vogliamo soltanto superare il carattere miserabile di questa appropriazione, per cui l’operaio vive soltanto per accrescere il capitale e vive quel tanto che è richiesto dall’interesse della classe dominante. Nella società borghese il lavoro vivo è soltanto un mezzo per incrementare il lavoro accumulato. Nella società comunista il lavoro accumulato è soltanto un mezzo per allargare gli orizzonti della vita degli operai, rendendola più ricca e più agevole. Nella società borghese, dunque, il passato domina sul presente, nella società comunista il presente sul passato. Nella società borghese il capitale è indipendente e personale, mentre l’individuo attivo è dipendente e impersonale. La borghesia chiama abolizione della personalità e della libertà l’abolizione di questo rapporto! E ha ragione.

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Perché si tratta effettivamente di abolire la personalità, l’indipendenza e la libertà del borghese. Per libertà s’intende, entro gli attuali rapporti borghesi di produzione, il libero commercio, la libera compravendita. Ma scomparso il mondo dei trafficanti, scompare anche il mondo dei liberi trafficanti. Le frasi sulla libertà di trafficare, così come tutte le altre trovate sulla libertà in bocca ai nostri borghesi, hanno senso soltanto rispetto al mondo di trafficanti tenuti a freno, di cittadini asserviti, del Medioevo; ma non hanno senso alcuno rispetto all’abolizione comunista del mondo dei trafficanti, dei rapporti borghesi di produzione e della borghesia stessa. Voi inorridite all’idea che noi vogliamo abolire la proprietà privata. Ma nella vostra società la proprietà privata è soppressa per nove decimi dei suoi membri; anzi, essa esiste proprio per il fatto che per i nove decimi non esiste. Voi ci rimproverate dunque di voler abolire una proprietà che ha per condizione necessaria la mancanza di proprietà per la stragrande maggioranza della società. In una parola, voi ci rimproverate di voler abolire la vostra proprietà. È vero: è quello che vogliamo. Dal momento in cui il lavoro non può più essere trasformato in capitale, denaro, rendita fondiaria, insomma, in una potenza sociale monopolizzabile, dal momento cioè in cui la proprietà personale non può più tradursi in proprietà borghese, da quel momento, voi dite, è soppressa la persona. Voi ammettete, dunque, che per persona non intende-

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te altro che il borghese, il proprietario borghese. Ebbene, questa persona deve effettivamente essere abolita. Il comunismo non toglie a nessuno il potere di appropriarsi di prodotti sociali; toglie soltanto il potere di soggiogare il lavoro altrui mediante questa appropriazione. È stato obiettato che, con la soppressione della proprietà privata, cesserà ogni attività e si diffonderà una pigrizia generale. Se così fosse, la società borghese sarebbe da molto tempo andata in rovina a causa dell’indolenza, poiché in essa chi lavora non guadagna e chi guadagna non lavora. Tutta la vostra preoccupazione equivale alla seguente tautologia: non c’è più lavoro salariato quando non c’è più capitale. Tutte le obiezioni che vengono mosse al sistema comunista di appropriazione e produzione dei beni materiali sono state estese anche all’appropriazione e produzione dei prodotti spirituali. Per il borghese, come la cessazione della proprietà di classe significa cessazione della produzione stessa, così la cessazione della cultura di classe significa cessazione della cultura in quanto tale. La formazione culturale, di cui egli deplora la perdita, è per la stragrande maggioranza degli uomini il processo di trasformazione in macchina. Ma evitate di polemizzare con noi giudicando l’abolizione della proprietà borghese a partire dalle vostre concezioni borghesi della libertà, della cultura, del diritto ecc. Le vostre idee sono anch’esse un prodotto dei rapporti borghesi di produzione e di proprietà, così come il vostro

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diritto è soltanto la volontà della vostra classe innalzata a legge, e il contenuto della vostra volontà è determinato dalle condizioni materiali di vita della vostra classe. Voi condividete con tutte le classi dominanti tramontate la concezione interessata in base alla quale trasformate i vostri rapporti di produzione e di proprietà, da rapporti storici quali essi sono, che appaiono e scompaiono nel corso della produzione, in leggi eterne della natura e della ragione. Ciò che voi comprendete riguardo alla proprietà antica, ciò che voi comprendete riguardo alla proprietà feudale, non riuscite più a comprenderlo riguardo alla proprietà borghese. Soppressione della famiglia! Anche i più radicali si scandalizzano di questa ignobile intenzione dei comunisti. Su che cosa riposa la famiglia odierna, la famiglia borghese? Sul capitale, sul guadagno privato. Nella sua forma compiuta la famiglia esiste soltanto per la borghesia; ma essa trova il suo completamento nella forzata mancanza di famiglia dei proletari e nella prostituzione pubblica. La famiglia del borghese viene naturalmente meno col venir meno di questo suo complemento, e l’una e l’altro scompariranno con la scomparsa del capitale. Ci rimproverate di voler abolire lo sfruttamento dei figli da parte dei genitori? Noi questo delitto lo confessiamo. Ma voi dite che, sostituendo l’educazione sociale a quella familiare, noi sopprimiamo i rapporti più intimi. Ma non è anche la vostra educazione determinata dalla società, dai rapporti sociali entro i quali voi educate, dall’intromissione più o meno diretta o indiretta della so-

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cietà per mezzo della scuola ecc.? Non sono i comunisti che inventano l’influenza della società sull’educazione; si limitano a cambiarne il carattere, strappano l’educazione all’influenza della classe dominante. I bei discorsi borghesi sulla famiglia e sull’educazione, sul rapporto intimo fra genitori e figli, diventano tanto più nauseanti quanto più, in conseguenza della grande industria, viene spezzato per i proletari ogni legame di famiglia, e i figli vengono trasformati in semplici articoli di commercio e strumenti di lavoro. Ma voi comunisti volete la comunanza delle donne – ci urla in coro tutta la borghesia. Il borghese vede nella propria moglie un semplice strumento di produzione. Sente dire che gli strumenti di produzione debbono essere sfruttati in comune e, naturalmente, non può fare a meno di pensare che la sorte della comunanza colpirà anche le donne. Egli non s’immagina neppure che si tratta per l’appunto di abolire la posizione delle donne come semplici strumenti di produzione. Del resto, nulla è più ridicolo dello sdegno, traboccante di morale, dei nostri borghesi per la pretesa comunanza ufficiale delle donne nel comunismo. I comunisti non hanno bisogno d’introdurre la comunanza delle donne, essa è quasi sempre esistita. I nostri borghesi, non contenti di avere a loro disposizione le mogli e le figlie dei loro proletari, per non parlare della prostituzione ufficiale, trovano uno dei loro principali diletti nel sedursi a vicenda le mogli.

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Il matrimonio borghese è, in realtà, la comunanza delle mogli. Tutt’al più si potrebbe rimproverare ai comunisti di voler sostituire alla comunanza delle donne, ipocritamente occultata, una comunanza ufficiale e dichiarata. Del resto, è ovvio che con il superamento degli attuali rapporti di produzione scompare anche la comunanza delle donne che ne deriva, cioè la prostituzione ufficiale e non. Si è rimproverato inoltre ai comunisti di voler abolire la patria, la nazionalità. Gli operai non hanno patria. Non si può togliere loro ciò che non hanno. Ma poiché il proletariato deve conquistarsi prima il potere politico, elevarsi a classe nazionale, costituirsi come nazione, è anch’esso nazionale, benché certo non nel senso della borghesia. Gli isolamenti e gli antagonismi nazionali dei popoli vanno via via scomparendo già con lo sviluppo della borghesia, con la libertà di commercio, col mercato mondiale, con l’uniformità della produzione industriale e delle condizioni di vita ad essa corrispondenti. Scompariranno ancora di più col dominio del proletariato. L’unità d’azione almeno dei paesi civili è una delle prime condizioni della sua emancipazione. Nella misura in cui viene abolito lo sfruttamento di un individuo da parte di un altro, viene abolito lo sfruttamento di una nazione da parte di un’altra. Con la scomparsa dell’antagonismo fra le classi, all’interno della nazione, scompare l’ostilità fra le nazioni stesse. Non meritano d’essere esaminate più ampiamente le

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accuse che vengono rivolte al comunismo da punti di vista religiosi, filosofici e ideologici in genere. Ci vuole forse una particolare perspicacia per comprendere che, cambiando le condizioni di vita degli uomini, i loro rapporti sociali e la loro esistenza sociale, cambiano anche le loro concezioni, i loro modi di vedere e le loro idee, in una parola anche la loro coscienza? Che cos’altro dimostra la storia delle idee, se non il fatto che la produzione spirituale si trasforma insieme a quella materiale? Le idee dominanti di un’epoca sono sempre state soltanto le idee della classe dominante. Si parla di idee che rivoluzionano un’intera società; con ciò si esprime soltanto il fatto che in seno alla vecchia società si sono formati gli elementi di una nuova, che con la dissoluzione delle vecchie condizioni di vita procede di pari passo la dissoluzione delle vecchie idee. Quando il mondo antico stava per tramontare, le vecchie religioni furono vinte dalla religione cristiana. Quando, nel secolo XVIII, le idee cristiane vennero sopraffatte dalle idee dell’illuminismo, la società feudale agonizzante stava affrontando la sua ultima lotta con la borghesia allora rivoluzionaria. Le idee di libertà di coscienza e di religione furono soltanto l’espressione del dominio della libera concorrenza nel campo della coscienza. «Ma» – si dirà – «non c’è dubbio che le idee religiose, morali, filosofiche, politiche, giuridiche ecc. si sono modificate nel corso dell’evoluzione storica; però la religione, la morale, la filosofia, la politica, il diritto si sono sempre conservati attraverso tutti questi mutamenti.

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Per di più, ci sono delle verità eterne, come la libertà, la giustizia ecc., che sono comuni a tutti gli ordinamenti sociali. Il comunismo, invece, abolisce le verità eterne, abolisce la religione, la morale, invece di trasformarle e con ciò entra in contraddizione con tutta l’evoluzione storica precedente». A cosa si riduce questa accusa? La storia di tutta la società si è svolta sinora attraverso antagonismi di classe, che nelle diverse epoche hanno assunto forme diverse. Ma qualunque forma abbiano assunto tali antagonismi, lo sfruttamento d’una parte della società per opera dell’altra è un dato di fatto comune a tutti i secoli passati. Nessuna meraviglia, allora, che la coscienza sociale di tutti i secoli, pur nella sua molteplicità e diversità, si muova in certe forme comuni, in forme di coscienza che si dissolvono completamente soltanto con la definitiva scomparsa dell’antagonismo di classe. La rivoluzione comunista è la più radicale rottura con i rapporti di proprietà tradizionali; nessuna meraviglia, quindi, se nel corso del suo sviluppo avviene la rottura più radicale con le idee tradizionali. Ma ora basta con le obiezioni della borghesia contro il comunismo. Abbiamo già visto come il primo passo nella rivoluzione operaia sia l’elevarsi del proletariato a classe dominante, la conquista della democrazia. Il proletariato si servirà del suo potere politico per strappare alla borghesia a poco a poco tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani

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dello Stato, cioè del proletariato organizzato come classe dominante, e per accrescere, con la più grande rapidità possibile, la massa delle forze produttive. Naturalmente, ciò può avvenire, in un primo momento, solo con interventi dispotici nel diritto di proprietà e nei rapporti borghesi di produzione; cioè mediante misure che appaiono di scarsa portata e grande precarietà in termini economici e che, però, nel corso del movimento, spingono al di là di se stesse e risultano inevitabili come mezzi per rivoluzionare l’intero sistema di produzione. Queste misure saranno naturalmente diverse a seconda dei diversi paesi. Per i paesi più progrediti potranno tuttavia essere applicate, in linea di massima, le seguenti misure: 1. Espropriazione della proprietà terriera e impiego della rendita fondiaria per le spese dello Stato. 2. Imposta fortemente progressiva. 3. Abolizione del diritto di successione. 4. Confisca della proprietà di tutti gli emigrati politici e ribelli. 5. Accentramento del credito nelle mani dello Stato per mezzo di una banca nazionale a capitale di Stato e con monopolio esclusivo. 6. Accentramento dei mezzi di trasporto nelle mani dello Stato. 7. Aumento del numero delle fabbriche nazionalizzate e degli strumenti di produzione [nazionalizzati], dissodamento e miglioramento dei terreni secondo un piano collettivo.

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8. Uguale obbligo di lavoro per tutti, istituzione di eserciti industriali, specialmente per l’agricoltura. 9. Unificazione dell’attività dell’agricoltura e dell’industria, misure atte a eliminare gradualmente l’antagonismo tra città e campagna. 10. Istruzione pubblica e gratuita per tutti i bambini. Abolizione del lavoro infantile nelle fabbriche nella sua forma attuale. Unificazione fra istruzione e produzione materiale ecc. Quando, nel corso dell’evoluzione, le differenze di classe saranno scomparse e tutta la produzione sarà concentrata nelle mani degli individui associati, il potere pubblico perderà il suo carattere politico. Il potere politico, nel senso vero e proprio della parola, è il potere organizzato di una classe per opprimere un’altra. Allorché il proletariato, nel corso della lotta contro la borghesia, si costituisce necessariamente in classe, grazie a una rivoluzione diviene classe dominante e, come tale, sopprime con la forza i vecchi rapporti di produzione; assieme a quei rapporti di produzione, esso sopprime anche le condizioni d’esistenza dell’antagonismo di classe e le classi in generale, e quindi anche il suo proprio dominio di classe. Al posto della vecchia società borghese, con le sue classi e i suoi antagonismi di classe, subentra un’associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti.

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1. Il socialismo reazionario a) Il socialismo feudale Per il suo posto nella storia, l’aristocrazia francese e inglese era chiamata a scrivere libelli contro la moderna società borghese. Nella rivoluzione francese del luglio 1830 e nel movimento per la riforma elettorale in Inghilterra, l’aristocrazia ha avuto ancora una volta la peggio nei confronti dell’odiato parvenu. Non si poteva più parlare di una seria lotta politica. Le rimaneva soltanto la lotta letteraria. Ma anche nel campo della letteratura le vecchie frasi dell’età della Restaurazione* erano diventate prive di qualsiasi plausibilità. Per suscitare qualche simpatia, l’aristocrazia doveva fingere di mettere da parte i propri interessi e formulare il suo atto d’accusa contro la borghesia unicamente nell’interesse della classe operaia sfruttata. Si procurava così la soddisfazione di poter intonare motivi ingiuriosi contro il suo nuovo padrone e di potergli sussurrare all’orecchio profezie più o meno funeste. * Si allude non alla Restaurazione inglese del 1660-89, ma all’età della Restaurazione francese del 1814-30 [Nota di Engels all’edizione inglese del 1888].

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In questo modo nacque il socialismo feudale, mezzo geremiade e mezzo pasquinata, per metà riecheggiamento del passato, per metà incubo del futuro, talora capace di colpire al cuore la borghesia con giudizi amari, spiritosi e sarcastici, ma sempre di effetto comico a causa della sua totale incapacità di comprendere il corso della storia moderna. Per farsi seguire dal popolo, questi aristocratici sventolavano come una bandiera la bisaccia da mendicante del proletariato. Ma ogni qualvolta li seguì, il popolo vide impressi sulle loro chiappe i vecchi blasoni feudali e si tirò in disparte scoppiando in rumorose e irriverenti risate. Una parte dei legittimisti francesi e la Giovane Inghilterra offrirono questo genere di spettacolo. Quando i signori feudali dimostrano che il loro modo di sfruttamento era diverso dallo sfruttamento borghese, dimenticano soltanto che essi esercitavano il loro sfruttamento in circostanze e condizioni totalmente diverse e ora superate. Quando dimostrano che sotto il loro dominio non esisteva il proletariato moderno, dimenticano soltanto che proprio la moderna borghesia fu il rampollo necessario del loro ordinamento sociale. Del resto, essi nascondono così poco il carattere reazionario della loro critica che la loro principale accusa contro la borghesia è proprio quella che sotto il suo regime si sta sviluppando una classe che farà saltare in aria tutto il vecchio ordinamento sociale. Rimproverano alla borghesia non tanto di produrre un proletariato in generale, quanto di produrre un proletariato rivoluzionario.

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Nella prassi politica essi perciò prendono parte, ogni volta, alla repressione violenta della classe operaia, e nella vita di tutti i giorni sono ben lieti, malgrado le loro frasi magniloquenti, di accumulare oro, barattando fedeltà, amore e onore con lana, barbabietole e acquavite*. Come il prete andò sempre d’accordo coi signori feudali, così il socialismo clericale va d’accordo col socialismo feudale. Nulla di più facile che dare all’ascetismo cristiano una mano di vernice socialista. Il cristianesimo non ha forse inveito contro la proprietà privata, contro il matrimonio, contro lo Stato? Non ha forse predicato in loro sostituzione la beneficenza e la mendicità, il celibato e la mortificazione della carne, la vita claustrale e la Chiesa? Il socialismo sacro è soltanto l’acqua santa con cui il prete benedice il risentimento degli aristocratici. b) Il socialismo piccolo-borghese L’aristocrazia feudale non è la sola classe che sia stata rovesciata dalla borghesia o che abbia visto le proprie condizioni di vita avvizzire e deperire nella società borghese moderna. Il popolo minuto medievale e il piccolo ceto contadino furono i precursori della borghesia moderna. Nei paesi in cui il commer* Si fa riferimento in particolare alla Germania, dove la nobiltà terriera e gli Junker, mediante l’impiego di fattori, sfruttano in proprio gran parte dei loro beni e al tempo stesso sono anche grandi produttori di barbabietole da zucchero e di acquavite distillata da patate. Più ricchi, gli aristocratici inglesi non si sono ancora abbassati a tanto; ma anche loro sanno compensare la diminuzione della rendita fondiaria prestando il proprio nome a fondatori più o meno dubbi di società per azioni [Nota di Engels all’edizione inglese del 1888].

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cio e l’industria sono meno sviluppati, queste classi vegetano ancora accanto alla nascente borghesia. Nei paesi in cui si è sviluppata la civiltà moderna si è formato un nuovo ceto piccolo-borghese, sospeso fra il proletariato e la borghesia, che si forma sempre di nuovo quale parte integrante della società borghese; i suoi membri, però, vengono costantemente scaraventati nel proletariato a causa della concorrenza e anzi, a causa dello sviluppo della grande industria, vedono avvicinarsi il momento in cui scompariranno del tutto come parte autonoma della società moderna e verranno rimpiazzati, nel commercio, nella manifattura e nell’agricoltura, da sorveglianti e servi. In paesi come la Francia, dove la classe dei coltivatori diretti costituisce molto più della metà della popolazione, era naturale che gli scrittori schierati a fianco del proletariato contro la borghesia impiegassero nella loro critica del regime borghese il metro del piccolo-borghese e del piccolo coltivatore diretto e che prendessero le difese degli operai dal punto di vista della piccola borghesia. Si formò così il socialismo piccolo-borghese. Sismondi è l’esponente di punta di questa letteratura, non soltanto per la Francia ma anche per l’Inghilterra. Questo socialismo dissezionò con estrema acutezza le contraddizioni insite nei moderni rapporti di produzione. Esso mise a nudo le ipocrite trasfigurazioni degli economisti. Dimostrò in modo inconfutabile gli effetti devastanti dell’introduzione delle macchine e della divisione del lavoro, la concentrazione dei capitali e della proprietà terriera, la sovrapproduzione, le crisi, la rovina inevitabile

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dei piccoli borghesi e dei piccoli contadini, la miseria del proletariato, l’anarchia della produzione, le stridenti sperequazioni nella distribuzione della ricchezza, la guerra industriale di annientamento tra le nazioni, la dissoluzione degli antichi costumi, degli antichi rapporti familiari, delle antiche nazionalità. Quanto al suo contenuto positivo, invece, questo socialismo o vuole ristabilire i vecchi mezzi di produzione e di scambio e con essi i vecchi rapporti di proprietà e la vecchia società, oppure vuole nuovamente ingabbiare i moderni mezzi di produzione e di scambio nel quadro dei vecchi rapporti di proprietà, che essi hanno spezzato e che non potevano non spezzare. In entrambi i casi, esso è reazionario e utopistico al tempo stesso. Ordinamento corporativo nella manifattura ed economia patriarcale nell’agricoltura: queste sono le sue fondamentali parole d’ordine. Nel suo ulteriore sviluppo, questa corrente sfocia in un vile, piagnucoloso disincanto. c) Il socialismo tedesco, ossia il «vero» socialismo La letteratura socialista e comunista della Francia, nata sotto la pressione di una borghesia dominante ed espressione letteraria della lotta contro questo dominio, è stata importata in Germania nel periodo di tempo in cui la borghesia ha appena iniziato la sua lotta contro l’assolutismo feudale. Filosofi, mezzi filosofi e anime belle si sono impadroniti avidamente di questa letteratura, trascurando un piccolo particolare: le condizioni di vita francesi non hanno seguito gli scritti francesi nella loro migrazione in Germania.

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In rapporto alle condizioni tedesche la letteratura francese ha perso ogni significato immediatamente pratico, assumendo un aspetto puramente letterario. Essa non può che apparire come un’oziosa speculazione sulla vera società, sulla realizzazione dell’essenza umana. Allo stesso modo, per i filosofi tedeschi del secolo XVIII le rivendicazioni della prima rivoluzione francese avevano avuto solo il significato di rivendicazioni della «ragion pratica» in generale, e le manifestazioni della volontà della borghesia francese rivoluzionaria erano diventate ai loro occhi le leggi della volontà pura, della volontà quale deve essere, dell’autentica volontà umana. Il lavoro dei letterati tedeschi è consistito esclusivamente nell’accordare le nuove idee francesi alla loro vecchia coscienza filosofica, o meglio nell’appropriarsi delle idee francesi a partire dal loro punto di vista filosofico. Tale appropriazione si è compiuta nello stesso modo in cui ci si appropria in generale di una lingua straniera: traducendo. È noto come i monaci ricoprissero di insipide storie cattoliche di santi i manoscritti contenenti le opere classiche dell’antico mondo pagano. Con la letteratura francese profana i letterati tedeschi hanno adoperato il procedimento inverso. Hanno appiccicato i loro filosofici nonsensi sull’originale francese. Per esempio, sulla critica francese dei rapporti monetari hanno appiccicato «alienazione dell’essenza umana», sulla critica francese dello Stato borghese hanno appiccicato «superamento del dominio dell’universale astratto» ecc.

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Questa interpolazione di frasi filosofiche alle tendenze sviluppatesi in Francia è stata da loro battezzata «filosofia dell’azione», «vero socialismo», «scienza tedesca del socialismo», «fondazione filosofica del socialismo» ecc. Così la letteratura francese socialista-comunista è stata letteralmente evirata. E poiché essa in mano ai tedeschi ha cessato di esprimere la lotta di una classe contro un’altra, il tedesco si è convinto d’aver superato l’«unilateralità francese», di essersi fatto interprete, piuttosto che di bisogni veri, del bisogno della verità, e piuttosto che degli interessi del proletariato, degli interessi dell’essere umano, dell’uomo in quanto tale, dell’uomo che non appartiene a nessuna classe, anzi che non appartiene neppure alla realtà, ma solo al cielo nebuloso della fantasia filosofica. Prendendo così solennemente sul serio i suoi goffi esercizi scolastici e strombazzandoli sul mercato, questo socialismo tedesco ha finito col perdere la sua ostinata verginità. La lotta della borghesia tedesca, soprattutto di quella prussiana, contro i signori feudali e la monarchia assoluta, in una parola il movimento liberale, si è fatta più seria. Al «vero» socialismo si è così presentata l’agognata occasione di contrapporre le rivendicazioni socialiste al movimento politico, di lanciare i tradizionali anatemi contro il liberalismo, contro lo Stato rappresentativo, contro la concorrenza borghese, contro la libertà di stampa borghese, il diritto borghese, la libertà e l’eguaglianza borghesi, e di predicare alle masse popolari come esse non avessero nulla da guadagnare da questo movimento borghese, ma tutto da perdere. Il socialismo tedesco ha op-

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portunamente dimenticato che la critica francese, di cui esso è l’insulsa eco, presuppone la società borghese moderna con le corrispondenti condizioni materiali di vita e la costituzione politica ad esse adeguata, tutte premesse che in Germania bisogna ancora conquistare. Il socialismo tedesco è servito ai governi assoluti tedeschi, col loro seguito di preti, maestri di scuola, ottusi nobilotti di campagna e burocrati, come un ben accetto spauracchio contro la borghesia che avanza minacciosa. Esso ha costituito lo zuccherino per addolcire le amare sferzate e fucilate con cui quei governi hanno accolto le sommosse degli operai tedeschi. Se in tal modo il «vero» socialismo è divenuto un’arma nelle mani dei governi contro la borghesia tedesca, esso ha rappresentato, in modo anche immediato, un interesse reazionario, l’interesse della piccola borghesia tedesca. Formatasi a partire dal secolo XVI e da allora sempre di nuovo riemergente in forme diverse, la piccola borghesia costituisce in Germania l’autentica base sociale della situazione attuale. La sua conservazione è la conservazione della presente situazione tedesca. Dal dominio industriale e politico borghese questa piccola borghesia si attende, angosciata, la sicura rovina, da un lato per la concentrazione del capitale, dall’altro per l’avvento di un proletariato rivoluzionario. Il «vero» socialismo le è parso un ottimo espediente per prendere due piccioni con una fava. Ed esso si è diffuso come un’epidemia. La veste ordita di ragnatela speculativa, ricamata di fiori retorici per anime belle, impregnata della rugiada senti-

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mentale distillata da un amore soffocante, questa veste sovraccarica, nelle cui pieghe i socialisti tedeschi hanno avvolto le loro quattro stecchite «verità eterne», è servita solo per meglio smerciare il loro prodotto presso il pubblico piccolo-borghese. Dal canto suo, il socialismo tedesco ha riconosciuto sempre meglio la sua missione: essere il rappresentante pomposo di questa piccola borghesia. Esso ha proclamato la nazione tedesca come la nazione normale e il filisteo tedesco come l’uomo normale. A ogni bassezza di costui ha conferito un significato nascosto, più profondo, socialista, in modo che apparisse il contrario di quello che era. Conseguente fino all’ultimo, ha preso direttamente posizione contro la tendenza «rozzamente distruttiva» del comunismo, e ha proclamato la sua imparziale superiorità rispetto a ogni lotta di classe. Salvo pochissime eccezioni, tutti i sedicenti scritti socialisti e comunisti che circolano in Germania rientrano nell’ambito di questa letteratura sudicia e debilitante*. 2. Il socialismo conservatore o borghese Una parte della borghesia desidera porre rimedio alle ingiustizie sociali per assicurare l’esistenza della società borghese. * La bufera rivoluzionaria del 1848 ha spazzato via tutta questa miserevole corrente e ha tolto la voglia a tutti i suoi rappresentanti di continuare a fare del socialismo. Il rappresentante principale e il tipo classico di questa corrente è il signor Karl Grün [Nota di Engels all’edizione tedesca del 1890].

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Rientrano in questo gruppo gli economisti, i filantropi, gli umanitari, gli apostoli del miglioramento delle condizioni delle classi lavoratrici, gli organizzatori delle società di beneficenza, le associazioni contro il maltrattamento degli animali, i fondatori di società contro l’alcolismo e tutta la variopinta schiera dei dettaglianti delle riforme. Sono stati elaborati persino dei veri e propri sistemi di questo socialismo borghese. Citiamo come esempio la Philosophie de la misère di Proudhon. I socialisti borghesi vogliono le condizioni di vita della società moderna senza le lotte e i pericoli che necessariamente ne derivano. Vogliono la società attuale senza gli elementi che la rivoluzionano e la dissolvono. Vogliono la borghesia senza proletariato. Naturalmente la borghesia si rappresenta il mondo in cui domina come il migliore dei mondi. A partire da questa consolante rappresentazione, il socialismo borghese elabora un mezzo sistema o anche un sistema completo. Ma quando esorta il proletariato a mettere in pratica tali sistemi al fine di entrare nella nuova Gerusalemme, gli chiede, in fondo, soltanto di restare nella società attuale, rinunciando però alle odiose rappresentazioni che di essa si è fatto. Una seconda forma di questo socialismo, meno sistematica ma più pratica, ha cercato di far perdere alla classe operaia il gusto per ogni movimento rivoluzionario, dimostrando che ciò che le può giovare non è questo o quel cambiamento politico, ma solo un cambiamento delle condizioni materiali di vita, dei rapporti economici. Per cambiamento delle condizioni materiali di vita, però, que-

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sto socialismo non intende affatto l’abolizione dei rapporti borghesi di produzione, possibile solo per via rivoluzionaria, bensì miglioramenti amministrativi che vengono realizzati sul terreno di questi rapporti di produzione, che dunque non cambiano nulla nel rapporto tra capitale e lavoro salariato e che anzi, nel migliore dei casi, diminuiscono a vantaggio della borghesia i costi del suo dominio e semplificano il suo bilancio statale. Il socialismo borghese raggiunge la sua più adeguata espressione solo quando diventa semplice figura retorica. Libero commercio! nell’interesse della classe operaia; dazi protettivi! nell’interesse della classe operaia; carceri divise in celle! nell’interesse della classe operaia: ecco l’ultima parola d’ordine, l’unica seria parola d’ordine del socialismo borghese. È un socialismo che consiste per l’appunto nell’affermare che i borghesi sono borghesi – nell’interesse della classe operaia. 3. Il socialismo e il comunismo critico-utopistico Qui non parliamo della letteratura che, nel corso di tutte le grandi rivoluzioni moderne, ha espresso le rivendicazioni del proletariato (scritti di Babeuf ecc.). I primi tentativi del proletariato di far valere direttamente il suo interesse di classe in un periodo di fermento generale, nel periodo del rovesciamento della società feudale, dovevano fallire necessariamente, sia perché la figura del proletariato non si era ancora sviluppata, sia perché

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mancavano le condizioni materiali della sua emancipazione, che sono appunto il prodotto dell’epoca borghese. La letteratura rivoluzionaria che accompagnò questi primi moti del proletariato è, per il suo contenuto, necessariamente reazionaria; insegna un ascetismo universale e un rozzo egualitarismo. I sistemi socialisti e comunisti propriamente detti, i sistemi di Saint-Simon, di Fourier, di Owen ecc., fanno la loro apparizione nel primo periodo di lotta, non ancora sviluppata, fra proletariato e borghesia, di cui abbiamo precedentemente parlato (vedi Borghesi e proletari). È vero che gli inventori di questi sistemi individuano l’antagonismo fra le classi e l’azione di elementi di disgregazione nella stessa società dominante; ma dalla parte del proletariato non scorgono alcuna attività storica autonoma, alcun movimento politico che gli sia proprio. Poiché gli antagonismi di classe si sviluppano di pari passo con l’industria, gli autori di questi sistemi non trovano dinanzi a sé neppure le condizioni materiali per l’emancipazione del proletariato, e vanno allora in cerca di una scienza sociale, di leggi sociali, al fine di creare tali condizioni. In luogo dell’attività sociale deve subentrare la loro personale azione inventiva; in luogo delle condizioni storiche dell’emancipazione, condizioni immaginarie; e in luogo dell’organizzazione graduale del proletariato in classe, un’organizzazione della società escogitata per l’occasione. La futura storia universale si risolve nella propaganda e nella esecuzione pratica dei loro piani sociali.

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È vero che essi sono ben consapevoli di rappresentare nei loro progetti soprattutto gli interessi della classe operaia, come quella che più soffre. Ma per loro il proletariato esiste solo in questa veste, in quanto classe che soffre più crudelmente di tutte le altre. La forma non ancora sviluppata della lotta di classe e la loro situazione personale hanno però come conseguenza il fatto che essi si credono di gran lunga superiori a quell’antagonismo di classe. Vogliono migliorare le condizioni di vita di tutti i membri della società, anche dei più agiati. Perciò fanno continuamente appello a tutta la società senza distinzioni, anzi, di preferenza alla classe dominante. Secondo loro, è sufficiente comprendere il loro sistema per riconoscerlo come il miglior progetto possibile della miglior società possibile. Essi respingono quindi ogni azione politica e specialmente ogni azione rivoluzionaria; vogliono raggiungere il loro scopo per via pacifica, e tentano di aprire la strada al nuovo vangelo sociale con piccoli esperimenti che naturalmente falliscono, con la forza dell’esempio. In un periodo in cui il proletariato è ancora assai poco sviluppato e comprende la propria posizione ancora solo in termini fantastici, tale descrizione fantastica della società futura corrisponde al suo primo impulso, carico di presentimenti, verso una trasformazione generale della società. Gli scritti socialisti e comunisti contengono però anche elementi di critica. Essi attaccano tutte le fondamenta della società esistente. Perciò hanno fornito materiale prezio-

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sissimo per illuminare gli operai. Le loro affermazioni positive sulla società futura, per esempio sul superamento del contrasto fra città e campagna, della famiglia, del guadagno privato, del lavoro salariato, il loro annuncio dell’armonia sociale, della trasformazione dello Stato in una semplice amministrazione della produzione – tutte queste affermazioni esprimono soltanto la scomparsa dell’antagonismo di classe, che proprio in quel momento comincia a svilupparsi e che essi conoscono solo nella sua prima informe indeterminatezza. Perciò queste stesse affermazioni hanno ancora un senso meramente utopistico. L’importanza del socialismo e del comunismo criticoutopistico sta in rapporto inverso con lo sviluppo storico. Nella misura in cui si sviluppa e prende forma la lotta di classe, ecco che questo immaginario elevarsi al di sopra di essa, questa lotta immaginaria contro di essa perde ogni valore pratico, ogni giustificazione teorica. Quindi, anche se gli autori di questi sistemi erano per molti aspetti rivoluzionari, i loro discepoli formano sempre delle sette reazionarie. Tengon fermo alle vecchie concezioni dei maestri in contrapposizione all’ulteriore sviluppo storico del proletariato. Perciò cercano accanitamente di smussare di nuovo la lotta di classe e di conciliare i conflitti. Continuano a sognare la realizzazione delle loro utopie sociali, sperimentando qua e là: formazione di singoli falansteri, fondazione di colonie in patria, edificazione di una piccola Icaria* – edizione in dodicesimo della Nuova Gerusa* Falansterio era la denominazione delle colonie socialiste progettate da Charles Fourier; Icaria era il nome dato da Cabet alla sua utopia e più

III. Letteratura socialista e comunista

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lemme –, e per la costruzione di tutti questi strani castelli in aria si appellano alla filantropia dei cuori e dei borsellini borghesi. A poco a poco finiscono per cadere nella categoria dei socialisti reazionari o conservatori precedentemente analizzata, e si distinguono da questi soltanto per una pedanteria più sistematica, per la fede fanatica e superstiziosa nelle virtù miracolose della loro scienza sociale. Si oppongono quindi aspramente a ogni movimento politico degli operai, che secondo loro può scaturire soltanto da cieca miscredenza nel nuovo vangelo. In Inghilterra gli owenisti si scagliano contro i cartisti, in Francia i fourieristi contro i riformisti.

tardi alla sua colonia comunista in America [Nota di Engels all’edizione inglese del 1888]. Home-Colonies (Colonie in patria) chiama Owen le sue società-modello comuniste. Falansterio era il nome dei palazzi sociali progettati da Fourier. Icaria si chiamava il fantastico paese utopistico, le cui istituzioni comuniste furono descritte da Cabet [Nota di Engels all’edizione tedesca del 1890].

IV

La posizione dei comunisti rispetto ai diversi partiti d’opposizione

Da quanto si è detto nel II capitolo appare ovvio quale sia il rapporto dei comunisti con i partiti operai già costituiti, cioè il loro rapporto coi cartisti in Inghilterra e con i riformatori agrari del Nordamerica. I comunisti lottano per il conseguimento degli obiettivi e degli interessi immediati della classe operaia, ma al tempo stesso rappresentano nel movimento attuale l’avvenire del movimento stesso. In Francia i comunisti si uniscono al partito socialista democratico* contro la borghesia conservatrice e radicale, senza per questo rinunciare al diritto di un atteggiamento critico verso le frasi fatte e le illusioni derivanti dalla tradizione rivoluzionaria. In Svizzera sostengono i radicali, senza disconoscere che questo partito è composto di elementi contraddittori, * Partito che era allora rappresentato in Parlamento da Ledru-Rollin, nella letteratura da Louis Blanc, e nella stampa quotidiana da «La Réforme». Il termine «socialdemocrazia» stava a indicare, per questi suoi inventori, una sezione del partito democratico o repubblicano con una sfumatura più o meno socialista [Nota di Engels all’edizione inglese del 1888]. Il partito che in Francia si chiamava allora socialista-democratico aveva in Ledru-Rollin il suo rappresentante politico e in Louis Blanc quello letterario. Era dunque quanto mai lontano dall’attuale socialdemocrazia tedesca [Nota di Engels all’edizione tedesca del 1890].

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e cioè in parte di socialisti democratici nel senso francese del termine, in parte di borghesi radicali. Fra i polacchi i comunisti appoggiano quel partito che pone come condizione della liberazione nazionale una rivoluzione agraria; lo stesso partito che ha promosso l’insurrezione di Cracovia del 1846. In Germania, non appena la borghesia prende una posizione rivoluzionaria, il partito comunista lotta insieme alla borghesia contro la monarchia assoluta, contro la proprietà terriera feudale e contro la piccola borghesia reazionaria. Il partito comunista non cessa però, neanche per un istante, di sviluppare fra gli operai una coscienza quanto più chiara possibile dell’ostilità e dell’antagonismo fra borghesia e proletariato, affinché gli operai tedeschi possano subito rivolgere, come altrettante armi contro la borghesia, le condizioni sociali e politiche che la borghesia deve introdurre con il suo dominio, e affinché, subito dopo la caduta delle classi reazionarie, in Germania cominci la lotta contro la borghesia stessa. Alla Germania i comunisti rivolgono principalmente la loro attenzione, perché la Germania si trova alla vigilia di una rivoluzione borghese, e perché essa attua tale sconvolgimento in condizioni di civiltà europea più progredite e con un proletariato di gran lunga più sviluppato rispetto all’Inghilterra del secolo XVII e alla Francia del XVIII; per cui la rivoluzione borghese tedesca non può che essere l’immediato preludio di una rivoluzione proletaria.

IV. La posizione dei comunisti rispetto ai diversi partiti d’opposizione

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In una parola, i comunisti appoggiano ovunque ogni movimento rivoluzionario contro le condizioni sociali e politiche esistenti. In tutti questi movimenti essi mettono in risalto, come questione fondamentale del movimento, la questione della proprietà, più o meno sviluppata che sia la forma da essa raggiunta. I comunisti, infine, lavorano ovunque all’unione e all’intesa dei partiti democratici di tutti i paesi. I comunisti disdegnano di nascondere le loro opinioni e intenzioni. Essi dichiarano apertamente che i loro obiettivi possono essere raggiunti soltanto con il rovesciamento violento di tutto l’ordinamento sociale finora esistente. Tremino pure le classi dominanti davanti a una rivoluzione comunista. I proletari non hanno nulla da perdervi fuorché le loro catene. E hanno un mondo da guadagnare. Proletari di tutti i paesi, unitevi!

Indice

Introduzione di Domenico Losurdo

VII

1. Schiavitù antica e schiavitù moderna, natura e storia, p. VII - 2. Estensione della sfera politica e «condizioni sociali e politiche», p. XII - 3. «Comitato» per gli «affari comuni» della borghesia e lotta per il suffragio, p. XV - 4. «Dispotismo» di fabbrica, libertà negativa e libertà positiva, p. XVII - 5. Movimento dal basso e iniziativa dall’alto nel processo di emancipazione, p. XX 6. Lotta per il potere politico e trasformazione della società, p. XXIV - 7. Il proletariato da «strumento di lavoro» a soggetto politico storico-universale, p. XXVII 8. Città e campagna, proletariato e popoli coloniali, p. XXXII - 9. Globalizzazione e «guerra industriale di annientamento fra le nazioni», p. XXXIV - 10. Dalla teoria della dittatura del proletariato al gulag?, p. XXXVII 11. Dialettica rivoluzionaria e messianismo, p. XLI 12. Attualità e inattualità di un «classico», p. XLIII Riferimenti bibliografici, p. XLVII

Nota biografica

LV

Karl Marx, p. LV - Friedrich Engels, p. LXVII

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I.

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Borghesi e proletari

II. Proletari e comunisti

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Indice

III. Letteratura socialista e comunista

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1. Il socialismo reazionario, p. 39 - 2. Il socialismo conservatore o borghese, p. 47 - 3. Il socialismo e il comunismo critico-utopistico, p. 49

IV. La posizione dei comunisti rispetto ai diversi partiti d’opposizione

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