Manifesti futuristi 9788858647493, 8858647491

Avevano trent'anni i più anziani fra loro: furono la più grande ed esplosiva avanguardia italiana. Animarono una ri

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Manifesti futuristi
 9788858647493, 8858647491

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Table of contents :
Frontespizio
Copyright
Introduzione
Nota del curatore
Fondazione e Manifesto del Futurismo
Uccidiamo il Chiaro di Luna!
Contro Venezia passatista
Manifesto dei pittori futuristi
La pittura futurista
La scultura futurista
La pittura dei suoni, rumori e odori
Ricostruzione futurista dell’Universo
L’architettura futurista
Manifesto tecnico della letteratura futurista
Distruzione della sintassi Immaginazione senza fili Parole in libertà
Lo splendore geometrico e meccanico e la sensibilità numerica
Il controdolore
La voluttà d’esser fischiati
Il Teatro di Varietà
Il teatro futurista sintetico
Manifesto dei musicisti futuristi
La musica futurista
L’arte dei Rumori
Manifesto della danza futurista
La fotografia futurista
La cinematografia futurista
La radia
Manifesto della cucina futurista

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MANIFESTI FUTURISTI a cura di GUIDO DAVICO BONINO

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Proprietà letteraria riservata © 2009 RCS Rizzoli Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-58-64749-3 Prima edizione digitale 2013 da edizione pillole BUR 2009 Copertina di Mucca Design Per conoscere il mondo BUR visita il sito www.bur.eu Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.

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INTRODUZIONE

Uno dei più autorevoli storici dell’arte del nostro tempo, Maurizio Calvesi, ha scritto: «Il Futurismo è stata la matrice – assolutamente prioritaria – di un’idea di avanguardia “globale”, e non solo “interdisciplinare” (fino alla musica, al teatro, al cinema), ma che s’irradiasse, come in parte s’è irradiata, nel costume, nel gusto o nel modo di vivere di un’intera società: interpretando con la chiave dell’arte, addirittura, con provocante anticipo, una nuova filosofia dell’essere nel mondo, con i suoi nuovi valori, o negazioni di valori, dis-valori e non valori». Osiamo sperare che la nostra scelta, di necessità essenziale, dai numerosi manifesti del futurismo riesca a far da adeguato supporto a una definizione di questo movimento tanto esatta quanta impegnativa. Essa prende le mosse, com’è giusto, da alcuni dei cosiddetti manifesti fondativi, primo fra tutti quello del 1909: il quale, se apparve su «Le Figaro» di Parigi in data 20 febbraio, era stato preceduto – come Giovanni Lista, il più infaticabile indagatore in tutta Europa del movimento, ebbe a precisare sin dal 1976 – da un volantino stampato con inchiostro azzurro a metà gennaio 1909, spedito a vari intellettuali e scrittori quale invito a un’immediata adesione, tant’è vero che esso venne pubblicato, tra gli altri, da «La Gazzetta dell’Emilia» del 5 febbraio. La stesura di tale manifesto rimonta quasi certamente alla fine del 1908: la sua diffusione fu ritardata dal lutto nazionale proclamato a seguito del 5

terremoto di Messina (28 dicembre 1908). Ciò che Marinetti vi aggiunse, attendendovi in una camera del Gran Hôtel nei pressi dell’Opéra di Parigi, è il prologo, quale noi oggi leggiamo: ma il grosso del manifesto era già noto non solo in Italia, ma anche in Germania, Inghilterra, Spagna, Russia, Romania, Polonia, e persino in Sudamerica, giacché Marinetti, che aveva fondato nel 1904 a Milano con Sem Benelli e Vitaliano Ponti la rivista «Poesia» e dal 1906 aveva preso a dirigerla da solo, intratteneva da almeno quattro anni (l’esordio della testata è del febbraio 1905) rapporti fitti e continui con il meglio delle élites letterarie dei paesi citati. Fatte queste doverose precisazioni, resta da dire qualcosa sullo spirito informatore di questo scritto cruciale. Intanto sulla scelta della testata, che – al di là della sua indubbia autorevolezza e diffusione in tutta l’Europa colta – è pur sempre quella che ospitò, a non dire d’altri scritti programmatici, nel 1886 il manifesto del simbolismo, firmato anche per i propri coetanei dal poeta Jean Moréas (18561910). È quella simbolista la temperie in cui il giovane Marinetti s’è formato (è stato amico, tra gli altri, di Catulle Mendès e i suoi versi respirano il clima di Maeterlinck e Rodenbach): ma il confronto tra i due manifesti la dice lunga sulle sue intenzioni. Alla compostezza lievemente professorale di Moréas il milanese d’Egitto contrappone una febbrile smania evocativo-lirica: è tutto il cosiddetto prologo iniziale con l’agitata notte milanese, tra i compagni, nella casa di via Senato e con l’incidente albale dell’automobile e del pilota finiti ambedue nel canale. Ma la melma, da cui vengono estratti, ha qualcosa di battesimale: è il battesimo della Novità e della Diversità, che anima l’ampia sezione programmatica successiva. La quale – come spesso accadrà nei manifesti anche «minori» – è articolata sotto l’impulso di due forze autentiche, l’affermazione e la negazione, la costruzione e la 6

distruzione. Affermare e costruire vuol dire esaltare con inconsueto vigore l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità, il coraggio, l’audacia, la ribellione, la bellezza della velocità, la lotta, il violento assalto contro le forze ignote, la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari. C’è solo da rammaricarsi che quanto v’è da negare e da distruggere sia un obiettivo piuttosto limitato e financo risaputo: i museicimiteri, i musei-dormitori, i musei-macelli, le biblioteche e le accademie, luoghi deputati della vacua erudizione di professori, archeologhi, ciceroni, antiquari e financo rigattieri. A loro – ci sarebbe da obiettare – avevano già pensato nella propria non diversa intolleranza gli scapigliati milanesi e piemontesi, i Boito, Tarchetti, Praga, Faldella e compagni. Ma al loro funereo spleen, caro alle sale anatomiche e agli obitori, il baldanzoso Filippo Tommaso ha buon gioco a contrapporre – dopo aver bruciato (a costo di carbonizzarsi le dita), inondato e demolito – un universo tematico di ben altra vitalità: quello delle grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa (tre opzioni etiche in netta antitesi), le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni, il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri, le stazioni, le officine, i ponti, i piroscafi, le locomotive e gli aeroplani. Meno felice di questo esaltato catalogo la soluzione finale del manifesto: quella di un ricambio generazionale tra i più giovani e i più validi e i futuristi d’oggi, che – se non hanno ancora trent’anni – soggetti come ogni mortale alla fuga del tempo, si faranno adulti anch’essi: eppure, accoccolati accanto ai loro aeroplani, sapranno pur sempre sfoggiare il loro superbo, instancabile ardire… Un epilogo non privo di contraddizioni proprio nel suo incerto proporsi, nonostante il messianismo conclusivo, degno di un Caspar David Friedrich e dei suoi proverbiali viaggiatori sopra il mare di nebbia: «Ritti sulla cima del 7

mondo, noi scagliamo, una volta ancora, la nostra sfida alle stelle…» Dal chiuso di musei-biblioteche all’aperto delle capitali moderne, dunque. L’altro grande scritto fondativo, il giustamente celebre Uccidiamo il Chiaro di Luna! dell’aprile 1909, ha dalla sua non solo l’inconsueta ampiezza, scandita in quattro larghe campiture, ma anche la radicalizzazione dell’asse Positività-Negatività, risolta tuttavia in un lirismo visionario, che detta alcune delle migliori pagine del Marinetti scrittore esoterico, Da una parte le donne, i sedentari, gl’invalidi, gli ammalati e tutti i consiglieri prudenti, dalla vita vacillante, rotta da lugubri agonie, da sonni tremebondi e da incubi grevi, tutto un popolo fradicio di saggezza e moribondo nei suoi immondi giacigli; e, sul versante opposto, gli incendiari futuristi, ambiziosi e pazzi, nel loro eroismo metodico e quotidiano, nel loro gusto della disperazione, nell’abitudine all’entusiasmo, nell’abbandono alla vertigine. Elettrizzati da un orgoglio temerario, i futuristi si chinano sui vasti tappeti verdi della guerra, protesi contro quel eterno nemico che si dovrebbe inventare se non esistesse. Abbiamo parafrasato appena la prima campitura, ma le tre restanti non sono meno fascinose. La seconda nella sua gioiosa visionarietà, sullo sfondo di un cosmo trascolorante (la linfa della notte, l’entusiasmo dell’aurora), riesce a rendere accettabile la rivolta dei pazzi gesticolanti e delle pazze scarmigliate ed il genocidio dei Podagrosi grazie alla spontanea collaborazione del reame di leoni, tigri, pantere liberato dalle sue gabbie. La terza è quella che contiene la climax del racconto-apologo, il vero e proprio selenecidio ad opera di trecento lune elettriche, armate di raggi abbaglianti di gesso: il tutto nel grembo della lucida notte, su un altipiano persiano all’improvviso cosparso da una favolosa foresta dagli arcuati fogliami. Nella quarta, ultima e più ampia campitura, scavalcato il Gange, Marinetti, con la sua mandria di belve 8

inforcate dai pazzi, ci induce ad assistere alla riscossa dell’oceano possente, come una balena immensa, sino alle falde dell’Himalaya. Nell’apoteosi finale non può mancare l’aeroplano – per la precisione un biplano multicellulare, non senza minuscola mitragliatrice – con cui Marinetti tesse l’azzurro serico del cielo, mentre l’oceano obbediente atterra a una a una le città venerate, e i pazzi proseguono infaticabili il loro massacro, galoppando sulle groppe dei leoni fraterni, di Podagrosi e Paralitici… Ancora la città – la sua utopia futura (futurista) e la sua realtà passata (passatista) – domina il volantino (8 luglio) + discorso alla Fenice (1° agosto), che costituiscono la prima e seconda parte del manifesto Contro Venezia passatista (il testo del volantino era stato redatto sin dal 27 aprile). Ma, nel caso specifico, non c’è modernolatria (il neologismo pare fosse di mano di Boccioni) che tenga. Rispetto alla Venezia che dovrà un giorno (?) essere solcata da lampade elettriche dalle mille punte di luce, alla Venezia trasformata in grande porto mercantile grazie ai suoi canali finalmente colmati, percorsi da treni e tramvai stracolmi di mercanzie, sulla pagina di Marinetti e dei tre pittori cofirmatari vive per noi con ben altra evidenza, a dispetto delle rispettabili intenzioni dei quattro, l’antica Venezia estenuata e sfatta, la magnifica piaga del passato: e non è un caso che gli autori ammettano tra i denti di averla amata e di provarne ancora nostalgia. Sono lo svolto crepuscolare dei suoi canali, la pesante mantiglia dei suoi mosaici, le sontuose penombre del suo Canal Grande a imprimersi nell’immaginazione di chi legge: e l’imperioso richiamo alla malcapitata isola di File inghiottita alle acque limacciose del Nilo, imbrigliate a sua volta dall’immensa diga di Assuan, che il genio futurista (sic) dell’Inghilterra realizzò (sia detto per la precisione) sessant’anni dopo, non vale a distoglierla. «Milano! Genova! Ecco, tuttavia, la nuova Italia rinascente! 9

Ecco le città che noi amiamo! ecco a quali città s’ispira il nostro orgoglio d’Italiani!»: così Marinetti in Uccidiamo il Chiaro di Luna. Quando nel febbraio 1909 egli aveva incontrato Boccioni, Carrà e Russolo insieme ad altri loro colleghi, il tema della città doveva essere stato al centro delle loro prime, appassionate conversazioni. Non a caso, quando Boccioni, Carrà, Russolo, Balla e Severini siglano, l’11 febbraio dell’anno seguente, il Manifesto dei pittori futuristi, fra i tangibili miracoli della vita contemporanea la frenetica attività delle grandi capitali ha un posto di rilievo. Volendo – come si legge – esaltare ogni forma di originalità, anche se temeraria, anche se violentissima, i cinque firmatari decidono – nell’ottavo e ultimo punto del loro programma – di magnificare la vita odierna, incessantemente e tumultuosamente trasformata dalla scienza vittoriosa: la vita che si esprime nella rete di velocità nei transatlantici, nei voli che solcano i cieli o le profondità marine grazie agli audaci e tenebrosi navigatori subacquei. Dopo aver dato pubblica lettura del manifesto a Torino (8 marzo), i cinque sottoscrivono l’11 aprile il Manifesto tecnico della pittura futurista, il cui principio ispiratore è la sensazione dinamica, espressione costante e a tutti i livelli percettivi del dinamismo universale: giacché tutto è in movimento, tutto è in corsa, tutto nella società odierna si traduce in rapidità al punto da moltiplicare gli oggetti, da deformarli, da tradurli in incessanti vibrazioni nello spazio. I cinque firmatari ambiscono a essere – come si legge al quarto punto del loro proclama – i futuri distruttori della materialità dei corpi a favore del moto e della luce. Sarà Umberto Boccioni due anni dopo, esattamente l’11 aprile, a rendere pubblico in un ampio manifesto i nuovi presupposti della Scultura futurista. Una scultura che dovrà rendere plastico il prolungamento degli oggetti nello spazio in cui vivono, che ricercherà attraverso una nuova costruzione dei piani lo stile del movimento, che 10

saprà servirsi di materie altre rispetto al marmo e al bronzo per ricreare la scultura d’ambiente sino a modellare l’atmosfera che circonda le cose, sino a stabilire un nesso di continuità e di coerenza tra l’infinito plastico esteriore e l’infinito plastico interiore. Stavolta l’11 agosto del ’13, ospite della fiorentina «Lacerba» che la diffonderà nel numero del 1° settembre, Carlo Carrà proporrà un suo manifesto intitolato La pittura dei suoni, rumori e odori. Ritorna nell’ampio scritto propositivo la città delle stazioni ferroviarie, dei porti, dei garage, delle cliniche, delle officine, ma anche quella ludica del teatro, del music-hall, del cinematografo, del postribolo. È questo universo della socialità che la nuova pittura – arabesco di forme e di colori, dinamico e vibratile – si propone di ricreare, risuscitando volumi inconsueti come la sfera, l’ellissi, la spirale, il cono rovesciato o obliquo o giustapposto per il suo apice ad altro cono sino alla costruzione di puri insieme plastici, a una pittura – stato d’animo plastico dell’universale. Le ambizioni teoriche degli artisti (e grandi artisti, per la verità) del movimento futurista sono, come si può dedurre, assai estese. Ne fa fede il volantino che la direzione del movimento diffonde in data 11 marzo 1915, a firma Giacomo Balla e Fortunato Depero (il ventisettenne artista di Rovereto è un acquisto recente del gruppo, a cui si è aggregato a Roma nel 1914), dal titolo Ricostruzione futurista dell’Universo. Lo scritto, al di là dell’altisonante insegna, ha in realtà intenzione riepilogative, mirando semmai a proporre una sintesi delle ricerche pittoriche, plastiche, letterarie e musicali sin qui svolte sotto forma dei primi complessi plastici dinamici. Il complesso plastico rotante su uno o più perni, che si scompone, parla, rumoreggia, suona simultaneamente, che può apparire e scomparire è l’espressione di una sensualità fortemente ludica (in cui l’artista torinese e il trentino si ritrovavano con felice spontaneità d’intenti), capace di progettare il giocattolo futurista o il paesaggio artificiale o 11

l’animale metallico con lo stesso slancio immaginativo e la stessa agilità sensitiva. Quando Balla e Depero ipotizzano per queste loro opere un fruitore adulto, ma festante, istintivo e intuitivo, in realtà riflettono in lui la loro personalità e le loro intenzioni. A una casa e a una città spiritualmente e materialmente contemporanee a chi vive (e scrive) si richiama anche il manifesto L’architettura futurista, che reca la data dell’11 luglio 1914 e la firma di quel autentico ragazzo prodigio che fu Antonio Sant’Elia. È, ancora una volta, la città dal caleidoscopico apparire e riapparire di forme, in cui si moltiplicano le macchine, in cui ogni giorno si accrescono i bisogni dei cittadini, dettati dall’agglomeramento degli uomini, dall’igiene e da cento altri fenomeni della vita moderna. Alle condizioni speciali della medesima pensa Sant’Elia, indicando nuove forme, nuove linee, una nuova armonia di profili e di volumi. Ispirandosi a un’estetica del leggero, del pratico, dell’effimero, Sant’Elia vagheggia una città futurista come un immenso cantiere e la casa futurista come una macchina gigantesca, lungo le cui facciate s’inerpicano gli ascensori: una casa di cemento-vetro-ferro, ricca solo della bellezza congenita alle sue linee e ai suoi rilievi, con strade interrate per più piani ad accogliere il traffico, congiunti tra loro da passerelle e tapis roulants. Nemico di un’architettura semplicemente utile, Sant’Elia ipotizza una sintesi estetica del calcolo – cioè dell’esperienza scientifica e tecnica – e dall’audacia temeraria; è propenso all’intrinseca dinamica delle linee oblique ed ellittiche, a una decoratività che si affidi o alla nudità o al violento cromatismo del materiale greggio; ed è disposto ad accettare l’inevitabile transitorietà dei progetti architettonici a favore di un costante rinnovamento dell’ambiente, dal momento che ogni generazione avrà il diritto-dovere di fabbricarsi la propria città. In un suo scritto del 1985, Roberto Gabetti, 12

insigne storico dell’architettura, allacciandosi ad altri spunti critici del collega Paolo Portoghesi, sottolineò le innovazioni più autentiche del comasco, scomparso a solo ventott’anni: sono il «tema del movimento in atto (rotazioni rispetto a un asse di figure geometriche e piane; e ancora accostamento di serie aperte e chiuse, verticali discendenti e ascendenti); e poi il tema della piramide, i temi dei volumi obliqui, contrafforti, gradonati, il tema del telaio portante. Di lì parte, contestualmente, l’architettura moderna, italiana, internazionale». Ai manifesti sulle arti visive e plastiche fanno da complemento gli scritti programmatici di Enrico Prampolini relativi alla scenografia futurista e alle sue possibili implicazioni, che il compianto Paolo Fossati ricostruì con fervido impegno nel suo La realtà attrezzata del 1977. Prampolini insiste, sin dall’aprile-maggio 1915, sulla necessità di negare la scenografia come «un ingrandimento fotografico di un rettangolo di realtà», rivendicando all’opposto una scena come «architettura elettromeccanica colorata, potentemente vivificata da emanazioni cromatiche d’una sorgente luminosa, prodotte da riflettori elettrici, con vetri multicolori, disposti, coordinati analogicamente alla psiche di ogni azione scenica». Dieci anni più tardi Prampolini presentò all’Esposizione Internazionale delle Arti Figurative di Parigi tre grandi modelli del suo Teatro Magnetico, con i quali vinse il Prix International du Théâtre. Nei suoi progetti il Teatro Magnetico, che non venne mai realizzato, sarebbe stato il tempio di una scenodinamica, volta a potenziare «l’intensità vitale dell’azione scenica» e a «suscitare nello spettatore delle nuove sensazioni e valenze emotive». Un’ulteriore integrazione alle splendide riuscite dei pittori e scultori del movimento venne dal loro applicarsi con non minore creatività alla progettazione di ambienti, con relativo mobilio e arredi vari, e all’ideazione di vestiti per la moda di 13

quegli anni. «L’ambiente futurista – ha scritto Enrico Crispolti – è anzitutto colorato. Il colore dà il tono dell’implicazione emotivo-immaginativa, caratterizzandone le pareti e il soffitto (in qualche caso le une o soltanto questo)… Le componenti dell’arredo erano radicalmente reinventate in termini di metamorfosi formale fansastica, mirando anch’essi a una provocazione emotiva-immaginativa. E tuttavia risultano srutturate secondo una metodologia costruttiva assai semplice, elementare, al suo estremo disunite dall’artigianato popolare…» Valgano come riferimenti lo splendido Paravento, dipinto da Balla nel 1918 sia sul recto che sul verso; il suo Tavolinetto e il suo Panchetto del 1922, e i suoi due mobili su legno per una Camera per bambini del 1928, tutti oggi appartenenti a collezioni private; mentre al Museo internazionale delle ceramiche di Faenza si possono ammirare le ceramiche di Fillia, Gatti e Tullio d’Albisola. Lo stesso Balla, per citare ancora Crispolti, «è il grande protagonista della “ricostruzione futurista” anche nella moda… Comincia a lavorare alla forma di un vestito nuovo per gli amici Löwenstein di Düsseldorf nel 1912 (un vestito ancora nero), ma già nel 1913 immagina stoffe con motivi di “linee-forza” e di “compenetrazione di maniche”, che applica nei bozzetti di vestiti del 1914, come se ne vedono sul volantino stesso del suo manifesto Il vestito neutrale, diffuso a Milano l’11 settembre di quell’anno. Vestiti futuristi, anche con cravatte costuite con elementi di celluloide e con lampadine elettriche, Balla stesso li ha indossati sia nelle “azioni” nella Galleria Permanente Futurista di Giuseppe Provieri nel 1914, sia nelle manifestazioni interventiste del 1914-15». Da allora sino al 1930 l’intervento del torinese nell’ambito della moda fu costante. Abiti da donna, pigiama di lana, ancora cravatte sia triangolari che lunghe, sciarpe, cappelli da donna, borsette, disegni di stoffe dai colori squillanti, bluse e golf furono il parto della sua sbrigliata 14

inventiva, «cromatica» e «dinamica». La poetica e la stilistica letteraria del futurismo sono promulgate da Marinetti in tre manifesti di fondo, di inusitata ampiezza e puntigliosità analitica, la cui stesura e diffusione è da collocarsi tra la primavera del 1912 e quella del 1914. Il Manifesto tecnico della letteratura futurista esce, non senza un effetto di forzosa sfasatura, quale introduzione all’antologia I poeti futuristi, pubblicata dalle Edizioni di «Poesia» nel 1912. La sfasatura è dovuta al fatto che gli scrittori raccolti e presentati in quella silloge adottano il verso libero, su cui sin dal 1909 la rivista «Poesia» aveva promosso un’inchiesta internazionale quale forma espressiva connaturata a qualunque innovazione lirica: mentre il Manifesto che fa loro da prefazione si spinge molto più innanzi di codesta acquisizione da tempo largamente condivisa da tutto il simbolismo europeo. Dall’abolizione dell’aggettivo, dell’avverbio, della punteggiatura Marinetti trascorre all’imposizione della voce verbale infinitiva: mentre dall’uso del doppio sostantivo si muove verso una rete d’analogie, gradualmente sempre più varia e ricca. Di qui alla soppressione del primo termine analogico per il mantenimento e il potenziamento esclusivo del secondo, a rischio anche di un certo ermetismo, il passo è breve. La soppressione della sintassi, inevitabile se si vuole approdare a questo risultato, è condizione di una nuova stilistica, in cui le parole in libertà si ergono a protagoniste assolute. All’11 maggio 1913 si deve la stesura del manifesto Distruzione della sintassi Immaginazione senza fili Parole in libertà, che appare sulla rivista fiorentina «Lacerba» nei due numeri del 15 giugno e del 15 novembre di quel anno. Dopo un ampio prologo volto a illustre in diciassette scarne ma ficcanti proposizioni l’articolarsi della sensibilità futurista in base alle inattese acquisizioni della vita moderna, Marinetti riprende con rinnovato vigore le formulazioni del 15

protomanifesto succitato: le parole in libertà sono il portato dell’incalzare di sensazioni visive, auditive, olfattive le più disparate e le reti di analogie che esse suscitano sono il frutto naturale di un’immaginazione senza fili conduttori né di sintassi né di punteggiatura. Le parole libere ed essenziali, tuffate – per così dire – nell’acqua della sensibilità, sono in condizione di esprimere financo l’impercettibile e l’invisibile della vita molecolare che ci circonda: e per farlo lo scrittore può ricorrere a un’audace rivalutazione dei suoni onomatopeici, pur di restituire le più sottili vibrazioni che avverte intorno a sè: e al tempo stesso può permettersi di violentare le parole, in preda a una sorta di ebrietà lirica, riplasmandole per deformazione, censura o prolungamento, se ciò può servirgli a meglio esprimersi, a calarsi più a fondo nella mente e nel cuore del lettore. Il terzo manifesto marinettiano di fondo reca come titolo ambizioso Lo spendore geometrico e meccanico della sensibilità numerica, apparso la prima volta su due distinti numeri di «Lacerba», il 15 marzo e il 1° aprile 1914. Dopo le due folgoranti metafore della corazzata monocalibro e della centrale elettrica come esemplari superlativi dello splendore geometrico, Marinetti – oltre a riprendere alcune delle suggestioni già elaborate – ne accatasta, secondo il consueto procedimento accumulativo, altre di nuovo conio: il sostantivo sintesi-moto (o nodo di sostantivi), gli aggettiviatmosfera o aggettivi-tono, le tavole sinottiche di valori lirici. Alcune sequenze del precedente manifesto vengono vistosamente ampliate, come la numero 8, esplicitamente dedicata alle varie tipologie dell’onomatopea: la diretta imitativa elementare realistica, l’indiretta complessa e analogica, l’astratta e l’accordo onomatopeico psichico. Nuovo del tutto è l’inserimento nel contesto narrativo e lirico della numerica, l’uso cioè di cifre e degli stessi segni della matematica, compreso l’x dubitativo, per garantire precisione 16

e brevità allo stile futurista. Un’osservazione a parte merita il palazzeschiano manifesto de Il controdolore. Com’è noto, Palazzeschi – il più grande poeta acquisito per breve tratto al futurismo – fu sodale di Marinetti e dei suoi per poco più di quattro anni, tra le prime serate futuriste del gennaio 1910 e la sua dichiarazione di distacco dell’aprile 1914. Il manifesto a sua firma, apparso su «Lacerba» del 15 gennaio di quel anno (la stesura è del 29 dicembre 1913), è uno scritto (superlativo e di smagliante freschezza) non tanto di retorica e stilistica quanto di poetica. L’invenzione di un Dio di media statura, età e proporzioni che guarda i mortali suoi simili ridendo a crepapelle, d’una risata infinita ed eterna, prelude a quella dei privilegiati, capaci di attraversare il prunaio del dolore umano armati e protetti dal privilegio divino del riso. Privilegiato è chi scorge il riso nelle profondità del dolore, educa al riso i figli, trae la gioia intensa della risata dalle sciagure e financo dalla morte delle persone più care. Le braccia aperte dei futuristi attendono dunque i nuovi eroi, i nuovi geni che sappiano estrarre e sviluppare il ridicolo dai contorcimenti e dai contrasti del dolore, che ne sappiano sfruttare tutto il grottesco con un’assidua rivisitazione degli ospedali, manicomi, funerali, cimiteri, stanze mortuarie e con l’elementare esercizio quotidiano del saper ridere nel vedere un tale che piange. L’11 gennaio 1911 un volantino annuncia la nascita di una nuova drammaturgia, quella futurista: ripreso in Guerra sola igiene del mondo, ha un nuovo periodo introduttivo (le prime 2 righe), che esplicita due anni dopo l’immediata «portata» dell’opera teatrale rispetto ad altre forme comunicative dell’espressione letteraria. Segue, come già nella stesura originaria, l’invito a disprezzare il pubblico borghese, ricco e «digestivo», delle prime, a provare orrore per il successo, ad aborrire i luoghi comuni tematici (amore e adulterio), il 17

patetismo e l’archeologismo pseudostoricizzante. In attesa che applausi e fischi vengano aboliti e che i drammaturghi di domani si liberino dall’ossessione della ricchezza, questo primo manifesto non è molto chiarificatore su come il grande sforzo futurista riuscirà a esaltare l’anima del pubblico in un’atmosfera d’ebbrezza intellettuale, traducendo sulle comunque anguste assi del palcoscenico il dominio della Macchina, e in genere le nuove correnti di idee e le grandi scoperte della Scienza. Nella consueta altalena distruzionecostruzione è – in questo scritto d’esordio – la prima a prevalere. Assai più propositivo è il manifesto, apparso su «Lacerba» due anni più tardi (l’11 ottobre 1913, per l’esattezza) e intitolato a Il Teatro di Varietà, a firma – come nel primo caso – del solo Filippo Tommaso Marinetti. Dopo aver premesso l’assidua frequentazione del music-hall, del cafféconcerto, del circo equestre (nel testo definitivo la triplice precisazione verrà omessa), l’autore sottolinea l’affinità tra varietà e futurismo, ambedue elettrici e veloci, ambedue semplicemente «pratici» nell’eccitare e nello supire. Il meraviglioso futurista, che nasce da codesto stupore, è caricaturale e ridicolo, è spiritosamente ironico, non evita la stupidità, l’imbecillità, la balordaggine. Coltiva la rapidità, il dinamismo e il cromatismo, spinge il pubblico a interagire con attori, cantanti, musici in un pluralismo d’azioni tra palcoscenico, palchi, platea. Quanto – nell’invocare l’antiaccademismo primitivo e ingenuo del teatro di varietà, nel condividerne la volontà distruttiva del sacro e del sublime dell’arte – Marinetti traeva da modelli esistenti? È su tale quesito che hanno lavorato alcuni storici del teatro del primo Novecento, identificando in Ettore Petrolini l’interprete ideale per Marinetti e compagni. Uno dei più fedeli adepti di Marinetti, Emilio Settimelli, aveva salutato in Petrolini «l’attore d’oggi», «il più colorito fra tutti 18

noi», «lo spirito satirico, il felice temperamento esplosivo», «acutamente rappresentativo della nostra vita contemporanea». Petrolini lavora sino al 1912 nel cafféchantant, prima di creare una propria compagnia di varietà e in seguito (1918) trasformarla in compagnia di prosa. Provava un’avversione istintiva per «lo stomachevole e inutile rispetto per l’opera d’arte». Nel 1915, creando la macchietta Fortunello, faceva proprie certe suggestioni del manifesto marinettiano («Sono un tipo estetico-asmatico, sintetico, linfatico, cosmetico…»), senza vietarsi di irriderne certe utopie: «sono un uomo ardito e sano, – sono un aeroplano. – sono un uomo assai terribile, – sono un dirigibile». Nel manifesto del 1913 non mancano accenni al «cumulo di avvenimenti sbrigati in fretta e di personaggi spinti da destra e da sinistra in due minuti», al termine dei quali viene cantato «un couplet, e tutto sparisce…». È quanto viene propugnato ne Il teatro futurista sintetico, maturato tra l’11 gennaio e il 18 febbraio 1915, siglato da Marinetti, il citato Settimelli e Bruno Corra e pubblicato a guisa di prefazione alla raccolta omonima di un’ottantina di «sintesi» a opera dei tre firmatari, di sette colleghi (Giovanni Corradini, Chiti, Buzzi, Govoni, Cangiullo, Folgore, Cinti) oltre a Boccioni e al musicista Balilla Pratella. Dovrà codesto teatro essere «atecnico-dinamico-simultaneo-autonomo-alogico-irreale», a quanto precisa il sottotitolo. Creato per quel 90% di italiani che va a teatro (così fosse oggi!), esso è brevissimo, con atti di pochi istanti, personaggi delineati con pochi tratti, raffiche di frammenti d’azioni combinate tra loro; nasce da intuizioni fulminanti, sorte per lo più a teatro e tese a compenetrare ambienti e tempi diversi; prescinde in totale autonomia espressiva dalla logica della verisimiglianza per attingere all’opposto alla pura astrattezza dell’irrealtà. In chiusura del manifesto si fa cenno – oltre alla compagnia del Berti – proprio a Petrolini, che in effetti scriverà con il napoletano 19

Cangiullo Radioscopia e la metterà in scena nel 1917, mentre porterà in tournée in Brasile nel 1921 Grigio-rosso-arancione, una «sintesi» scritta da Corra e Settimelli. Dopo le prime burrascose «serate futuriste» (il loro avvio data 12 gennaio 1910 al Politeama Rossetti di Trieste), in cui alla declamazione di scritti programmatici s’alternava quella di poesie spesso di Marinetti, le successive si arricchirono d’esposizioni di quadri dipinti dagli artisti del movimento, della presentazione di maschere, costumi e abiti futuristi e dell’esecuzione di brani scritti appositamente da musicisti del gruppo. Balilla Pratella firma e promulga l’11 gennaio 1911 il Manifesto dei musicisti futuristi, di cui tutta la prima parte è una rassegna critica dei novatori europei – rari e non esenti da limitazioni all’interno del loro universo creativo – quali Strauss, Debussy, Elgar, Mussorgski, Glazunov e Sibelius. A salvarsi in Italia, a petto dei rachitismi di Giordano e Puccini, è il solo Mascagni, innovatore anche se non del tutto libero dalle forme tradizionali. In quale direzione debba secondo l’autore del manifesto dispiegarsi la rossa bandiera del futurismo non è perspicuo: la sua musica dovrà ispirarsi – questo almeno è inequivoco – alla natura, attraverso i suoi fenomeni umani ed extraumani. Più analitico e, per così dire, più audacemente compromissorio è il successivo (29 marzo 1911) manifesto tecnico – così nel sottotitolo – La musica futurista. In esso il modo enarmonico è l’obiettivo privilegiato, da ricercare e da realizzare a ogni costo rispetto al cromatico e al diatonico: giacché permette al musicista le più nuove e diverse relazioni di accordi e timbri. Quest’obiettivo verrà raggiunto se nel musicista urge un motivo passionale fortemente generatore, capace di ricreare il vincolo che lo lega alla natura. Dai suoi motivi passionali, nella sua fantasia ampia e libera, il musicista trarrà le linee e le forme del poema sinfonico, che avrà da essere orchestrale e vocale a un tempo. Anche l’opera 20

teatrale dovrà avere forma sinfonica: il musicista dovrà essere l’autore in proprio del poema drammatico (il tradizionale libretto): e il verso libero riuscirà il solo adatto a garantirne gli accenti e i ritmi che l’onda polifonica dell’umana poesia gli impone di esprimere. Assai più accattivante, scritto com’è in una prosa di affettuosa e coinvolgente semplicità (talvolta alle prese con i chimismi dei futuristi se ne sente la nostalgia), è l’Arte dei rumori, manifesto datato 11 marzo 1913 e firmato Luigi Russolo: figura di eclettico pittore-scrittore-musicista, cofirmatario di vari importanti manifesti artistici e politici, uno dei fedeli di Marinetti di più fervido presenzialismo (spiace che varie delle sue opere pittoriche siano andate disperse o rimaste d’ignota collocazione – il loro autore morirà sessantaduenne, nel 1947, a Cerro di Laveno sul lago Maggiore). Nel dedicare generosamente le sue riflessioni programmatiche all’amico Balilla Pratella, Russolo sottolinea l’irruzione nella natura silenziosa dei più svariati ma concorrenti rumori, dovuti all’irrompere della civiltà delle macchine non solo nel fragore delle grandi città, ma anche nelle remote campagne. I giovani musicisti futuristi, stanati da quegli ospedali di suoni anemici che sono le sale di concerti, hanno dinnanzi a sé il quasi illimitato compito di regolare secondo tono e ritmo il rumore dei motori, delle stazioni e ferrovie sotterranee, delle ferriere, filande, tipografie, centrali elettriche. L’arte dei rumori non dovrà profondersi a imitarli, ma coglierne il timbro e combinarlo secondo la propria fantasia, associandolo al ritmo e al tono, così da produrre nuove e complesse emozioni sonore. Le idee più nuove, i programmi più esplosivi dei futuristi sono racchiusi nei manifesti stilati e divulgati nel primo decennio del movimento. Quelli che si succedono a partire dalla fine della Grande Guerra sino ai primi anni Trenta, pur non abdicando all’iniziale tensione creativa, sembrano ispirati 21

più da propositi «occupazionali» che da sinceri entusiasmi parenetici. Così è per la danza, la fotografia e il cinema, la radio e, last but not least, la cucina: o per le varie appendici alle discipline già esplorate, come il teatro della sorpresa (1921) o il teatro tattile (1924), l’aeropittura (1932) o l’arte sacra futurista (nello stesso anno), il romanzo sintetico (1939), e persino la matematica futurista immaginativa qualitativa (1941). Se abbiamo scelto di includere in questo volume gli scritti relativi alle prime cinque «forme espressive» succitate, lo abbiamo fatto pensando all’interesse perdurante che esse suscitano ancor oggi, soprattutto tra le giovani generazioni. Chi frequenta, per esempio, gli spettacoli di modern dance potrà confrontarsi, alla lettura del Manifesto della danza futurista (8 luglio 1917), con un’utopia di danza disarmonica, sgarbata, antigraziosa, asimmetrica, non così remota da certe polemiche esperienze odierne, piuttosto che con le dettagliatissime «istruzioni per l’uso» della danza dello shrapnel (per chi non lo sapesse, la cartuccia d’una mitragliatrice) o quella dell’aviatrice, francamente imbarazzanti anche per le nostre aspirazioni pacifiste. Il migliore risultato coreutico in ambito futurista avrebbe dovuto nascere dall’utopico «balletto senza danzatori» ideato da Fortunato Depero per Le chant du rossignol di Stravinskij, in cui i sentimenti dell’uomo avrebbero dovuto essere tradotti in colorate astrazioni: ma l’impresa non approdò alla sua realizzazione. Chi ha invece interessi per la ri-creazione fotografica potrà confrontarsi col manifesto La fotografia futurista, che Marinetti e Tato siglano nell’aprile 1930 (ma l’edizione è sulla rivista «Il Futurismo» dell’aprile 1931) con la sua articolazione delle quindici ipotesi di lavoro dietro la «camera» fotografica, alcune delle quali – pensiamo all’isolamento di parti del corpo umano fortemente 22

spettralizzate; la deformazione prospettica di corpi o oggetti, immobili o mobili; la sovrapposizione in trasparenza di persone o cose; la composizione di paesaggi astratti, con finalità spesso fortemente simboliche – non solo hanno agito in profondità su gruppi e singole personalità della fotografia moderna, ma hanno anche contribuito all’azzeramento dei troppo angusti e rigidi confini tra fotografia e pittura. Allo stesso modo i cinefili nel manifesto La cinematografia futurista dell’11 settembre 1916, firmato a dodici mani, riconosceranno – pur nella conclamata assensa di tale cinematografia – sorprendenti anticipazioni, anche se puramente teoriche, del cinema di ricerca in Svizzera e Francia. Ci riferiamo esplicitamente a quello che viene definito per consuetudine il «cinema dei pittori e dei poeti», le cui creazioni squisitamente sperimentali, ma d’intenso e durevole fascino, si situano nell’arco degli anni Venti nei due paesi succitati. Parlare, come fanno Marinetti e compagni, di procedimento analogico con cui immagini naturali o di oggetti vengono filmate per evocare sensazioni angosciose o ilari oppure per «sostituirsi» alla parola stessa; animare gli oggetti per drammatizzare le passioni umane; «ricostruire» irrealmente il corpo umano; sproporzionare con evidenti intenzioni simboliche le misure reali; ricercare equivalenze di linea, forma e colore a pensieri e sentimenti: tutto ciò è quanto faranno lo svedese Viking Ekkeling e il tedesco Hans Richter in Svizzera dal 1921 (il primo con Diagonal Symphonie del 1922-24, il secondo con i Rhytmus del 1921, ’23 e ’25, con Filmstudie del 1926, con il cosiddetto Gioco di cappelli del 1927); Fernand Léger con Le ballet mécanique (1923-24), realizzato con Dudley Murphy; Man Ray con Retour à la raison, girato in una sola notte del 1923; e soprattutto Eutr’acte di René Clair (1924) su uno schematico soggetto di Francis Picabia, che avrebbe dovuto originariamente essere utilizzato come internezzo del balletto 23

Relâche con musiche di Erik Satie. Non sappiamo quanti siano oggi i veri cultori della radiofonia come forma di espressività, al di là della sua indubbia funzionalità di comunicazione (abbiamo l’impressione che i suoi responsabili non abbiano da vari decenni particolari ambizioni in tal senso). All’opposto, anticipando di un buon biennio Marinetti e i suoi, un fine uomo di cultura e di teatro, il milanese trenttottenne Enzo Ferrieri – fondatore sin dal 1920 della rivista «Il convegno» – vi aveva nel 1931 pubblicato il Manifesto della radio come forza creativa, rivendicando i suoi caratteri di produttività culturale e di autonomia d’espressione. Marinetti e il suo Masnata nel settembre 1933 ne sottolineavano soprattutto, nella suggestiva formula di un’arte senza tempo né spazio, la dimensione cosmica: e vi rivendicavano il diritto-dovere di utilizzare non solo l’armonia degli accordi, ma anche la durezza dei rumori e persino l’infinito buio del silenzio, sui quali tuttavia doveva regnare indiscussa la voce, nella sua innegabile verità spirituale, prim’ancora che psicologica. Buon ultima – non quanto alla data di stesura, che risale al 1930 ma nella strategia degli interventi – doveva situarsi la cucina, il cui Manifesto si apre con un’opportuna (?) quanto cruenta citazione da Benito Mussolini. Audacemente temerario il manifesto lo è davvero: riabilitando il vecchio andante profano di un Rabelais e di un Pulci (siamo quel che mangiamo), Marinetti vuole scongiurare l’italiano cubico, nutrendo abilmente quello spiralico, in attesa di quella conflagrazione che di lì a otto anni dovrà vederlo agile e scattante, a maggior gloria del sullodato Benito. Soppressa l’assurda religione della pastasciutta e favorita così l’industria italiana del riso, in attesa delle pillole nutritive che la chimica saprà fornire gratuitamente a ogni italiano con l’inevitabile riduzione del lavoro a due o tre ore al giorno per la quasi (?) totalità dei lavoratori, Marinetti delinea il pranzo perfetto. 24

Tra le sue componenti la meno realizzabile – da parte dell’estensore stesso del manifesto – ci sembra essere l’abolizione dell’eloquenza e della politica a tavola. Quale influenza ebbe e quale ambiva avere il futurismo sul piano del comportamento, e dunque di un nuovo codice della socialità degli italiani? L’opinione di gran parte degli studiosi è che anche in quest’ambito le ambizioni di Marinetti fossero assai estese: ma che, in realtà, non abbiano trovato applicazione al di là della cerchia relativamente ristretta dei suoi fedeli. Abbiamo accennato allo «sconfinamento» degli artisti futuristi nell’ambito dell’arredamento e della moda. Nelle Case d’arte (tra il circolo culturale, la galleria, l’atelier e il negozio) aperte a Roma (tra gli altri, da Balla, Prampolini e Bragaglia), Milano, Rovereto (Depero), Palermo, Bologna – oltre che a produrre e vendere – i futuristi discutevano anche del loro «dover essere» in società. Marinetti aveva messo il piede in fallo nel manifesto fondativo, che nel punto 9 glorificava, insieme al bellicismo, il disprezzo della donna. Provvedendo alla stesura nel maggio 1910 del manifesto L’uomo moltiplicato e il Regno della macchina, lo scrittore non attenua la sua misoginia, anzi l’avvalora. Dopo essersi sbrigato con due esempi letterari (assai mal assortiti tra l’altro, come I lavoratori del mare di Hugo e Salambo di Flaubert) del tedio che ispira in lui il binomio Donna-Bellezza, romanticamente assalito dalla mascolinità lirico-eroica, Marinetti propone l’adorazione da parte del maschio di un’altra incarnazione del Bello, quella meccanica (automobile o locomotiva che ne sia portatrice): ma per realizzarla occorre sminuire in lui il bisogno d’affetto, ridurlo alla bella indifferenza color d’acciaio, dopo averlo liberato dal sentimentalismo e dalla lussuria, nonché dal grande fenomeno morboso della gelosia. E se proprio – come insinuava quel politico perverso del Machiavelli – «le carni tirono», l’amore sia ridotto a una funzione corporale per la 25

semplice conservazione della specie: meglio se con contatti femminili rapidi e disinvolti. Inutilmente da Parigi la «futurista d’adozione» Valentine de Saint-Point, una pronipote del poeta romantico (e sempre innamorato) Alphonse de Lamartine, rivendicava in due distinti scritti successivi – Manifeste de la Femme futuriste (25 marzo 1912) e Manifeste de la Luxure (11 gennaio 1913) – la sublimità dell’istinto, in nome dell’idea che la lussuria è per la donna una forza, è anzi la ricerca carnale dell’Ignoto (li avrà letti a Vienna Sigmund Freud?). Marinetti li farà includere, opportunamente tradotti, nella prima raccolta ufficiale dei Manifesti (1914): ma dimostrerà subito di non aver per questo cambiato idea. In Contro l’amore e il parlamentarismo (manifesto solo di un mese successivo al precedente: siamo nel giugno 1910) egli si scatena contro l’Amore-ostacolo dell’uomo, contro l’Amore-guinzaglio immenso, contro gli innaturali sentimentalismo e lussuria (solo il coito è naturale). Le suffragette potranno collaborare coi futuristi, giacché nel loro infantile entusiasmo per il diritto di voto permetteranno alla donna di accedere al Parlamento, ottenendo così due risultati in uno: di distrarla dalla passione sentimentale e dalla lussuria e d’impoverire ulteriormente un’istituzione ridotta a pollaio rumoroso, a greppia, a fogna. Sotto gli artigli astiosi delle donne il Parlamento potrà così avvicinarsi a un’animalizzazione totale. La donna femminista, la donna politicizzata potrebbe anche distruggere l’istituto famigliare. Se così fosse, i futuristi saprebbero farne a meno: nella loro illimitata energia utopica, essi si sono spinti addirittura a ipotizzare la partenogenesi maschile, che metta al mondo un figlio meccanico, frutto di pura volontà. Come se tanta violenza non bastasse, su «Lacerba» del 15 gennaio 1914 il Nostro diffonde il manifesto Abbasso il tango e Parsifal!, sottointitolandolo Lettera circolare, le cui destinatarie sono alcune amiche cosmopolite, cultrici di quel 26

dondolío epidermico che risponde al nome di tango. Al loro strofinìo (ma nel «grappolo» analogico che le flagella c’è anche un piccolo spazio per voyeurs e invertiti) il futurismo contrappone una sana penetrazione (tra le coscie, con la i) con cui sbottigliare il proprio spasimo: la possessione violenta dei giovani barbari futuristi (salutisti, forzuti, volitivi e virili, per chi non li avesse mai incontrati…) è mille volte migliore non solo della selvaggia felicità della razza argentina, ma anche del misticismo lacrimoso della razza tedesca, che trova in Richard Wagner e nel suo Parsifal una sistematica svalutazione dell’esistenza (Balilla Pratella – sia detto per inciso – è molto miglior musicista di lui, come si legge verso la fine della circolare). Un cambio di rotta sensibile nel Marinetti tanto brutalmente misogino è da segnalare cinque anni più tardi. Il fatto è che, pur non approdando in aula, dal 1878 in poi qualche ardimentoso parlamentare ha proposto ai colleghi i primi timidi abbozzi d’una legge sul divorzio: e i futuristi hanno suggerito al capofila un atteggiamento più condiscendente verso il gentil sesso. Ecco dunque le (calcolate) premesse del manifesto Contro il matrimonio (25 maggio 1919). Grazie a quell’umano delitto che è il sentimento, è sorto il carcere-famiglia: istituzione assurdamente nociva, inferno di tradimenti, capace soltanto di istigare ogni suo membro alla ribellione e alla fuga. La donna vi è entrata per una compravendita dell’anima e del corpo. I futuristi si battono contro la proprietà della donna. Essa potrà amare un uomo e concederglisi per il tempo che vuole. Poi sarà libera di affidare alla società il frutto della sua relazione e sentirsi libera da qualunque legame contrattuale e da qualsiasi giudizio moralistico. Queste «aperture progressiste» sono ribadite di lì a pochi mesi (siamo su «L’Ardito» del 21 settembre 1919) in uno 27

scritto, che sin dal titolo scuote i benpensanti: Orgoglio italiano rivoluzionario. Vi si parla del matrimonio come di un’istituzione barbara, avvilente e depressiva per la donna, per la quale finalmente si auspica il divorzio facile (Marinetti, che morirà nel 1944, non poteva prevedere che gli italiani vi sarebbero approdati solo nel 1970). Potrà stupire qualche lettore della presente antologia che essa raccolga come estrema propaggine alcuni scritti politici, che quanto a datazione dovrebbero godere di una collocazione anticipata. Noi non ci sentiamo di allinearci a quegli storici dell’arte e della letteratura che considerano l’investimento politico dei futuristi come tutto sommato marginale all’interno del loro articolato e vario progetto di «antropologia globale» e le loro compromissioni col nascente fascismo come moralmente veniali. Ma, d’altra parte, riteniamo che sottolineare con troppa evidenza e riprovazione quanto di calcolato (per lo più, di mal calcolato) vi fosse nelle contingenti complicità di Marinetti e compagni verso il regime finisca per riflettersi in una svalutazione, sotto molti aspetti immeritata e ingiusta, del loro movimento. Forse è opportuno attestarci su quella posizione di «illuminata tolleranza» che ha accomunato negli ultimi quarant’anni vari (spesso eccellenti) studiosi di quella destra filosofica e letteraria che vede adunati – certo con motivazioni e accentuazioni molto diverse da individuo a individuo – Jünger e Heidegger, Benn e Hamsun, Céline e Pound, per non dire del nostro D’Annunzio. In Marinetti e i suoi l’approdo a tale arcipelago di riflessioni e esperienze fu molto disordinato e superficiale: disordinato perché non ancorato a un patrimonio ideologico sufficientemente organico e coerente; superficiale perché spesso «distratto» da preoccupazioni immediate di proselitismo e, diciamolo pure, di successo. Ciò spiega, se non giustifica, le iniziali aperture di 28

Marinetti, in particolare, all’anarco-sindacalismo; poi – sulla base di un nazionalismo molto largamente condiviso da una larga maggioranza degli italiani – le esasperate scelte interventistiche; quindi l’esaltazione bellicista, tradotta – non si può negarlo – in un personale e coraggioso impegno sul fronte delle battaglie (un militarismo pagato talvolta con la morte). Di qui, in progressione, ma non senza ripensamenti continui e frequenti contraddizioni, l’adesione a quel regime, che veniva sempre più marcatamente affermandosi, soprattutto nella corriva piccola borghesia, lo strato sociale da cui molti futuristi «maggiori» e «minori» (escluso il borghese agiato Marinetti) provenivano. Mentre Pirandello all’improvviso e per ragioni di opportunità nell’anno dell’assassinio di Matteotti aderiva, con una pubblica missiva a Mussolini, al fascismo, Marinetti non si asteneva dal raccogliere sotto il titolo inequivoco Futurismo e fascismo scritti già largamente utilizzati, che avrebbe potuto lasciar vegetare nelle precedenti sillogi. Nei tre scritti programmatici che abbiamo scelto (il primo dei quali articolato in tre sequenze) sono i primi dieci anni della politicizzazione del futurismo a essere rispecchiati. Nel Movimento politico futurista sono riuniti tre proclami (1909, 1911 e 1913: il secondo è intitolato anche in varie utilizzazioni A Tripoli italiana o L’impero italiano). Nel primo è da notare l’anticlericalismo, una componente della propria visione politica a cui Marinetti non sarà mai dispoto a rinunciare; nel secondo il cosidetto panitalianismo, in base al quale l’italiana è proclamata la razza (?) più geniale e novatrice d’Europa; nel terzo il potenziamento di commercio, industria, agricoltura a sfavore dell’umanesimo, il diritto, la medicina e l’intenzione non solo di educare al patriottismo, ma anche di difendere sul piano economico il proletariato. Questo proposito non deve stupire se nel manifesto fondativo (1908-09) Marinetti aveva inteso «glorificare… il gesto distruttore» dei «libertari». Erano 29

costoro gli anarco-sindacalisti e i sindacalisti rivoluzionari, il cui organo ufficiale «Demolizione» aveva in segno di solidarietà ripubblicato il manifesto in questione. A questo periodico Marinetti aveva affidato nel 16 marzo 1910 l’appello I nostri nemici comuni, volto a unificare «anarchici della realtà e dell’ideale», cioè operai e intellettuali, lavoratori delle braccia e della vita i primi, della realtà e dell’ideale i secondi. Di lì a non molto Marinetti arringa i membri delle Camere del lavoro di Napoli, Parma (città che aveva visto nascere il grande sciopero agrario del 1918) e Milano con una conferenza su Bellezza e necessità della violenza, grazie alla quale il desiderio liberatorio del popolo avrebbe potuto rifondare la giustizia quale baluardo dell’individuo più coraggioso e più disinteressato, cioè l’eroico operaio. Ma già nella prima stesura de La guerra, sola igiene del mondo sino all’inclusione dello scritto nella raccolta omonima del 1915, gli anarchici, nel loro assalto alla politica, al diritto, all’economia borghese, mirano in definitiva alla fusione amichevole dei popoli, al riparo dell’ideale di una pace universale. Quelle giovani anime rosse desiderano con troppa urgenza di privarsi della loro violenza indipendente. Solo nei futuristi permane un sano istinto di avventura, di rischio, di eroismo: e tale istinto non potrà che trovare sfogo nella guerra, sola garanzia di una futura libertà totale. Corrispondente di guerra in Libia nel 1911, testimone della guerra bulgaro-turca nell’ottobre 1913, Marinetti è tra i protagonisti delle dimostrazioni interventiste in piazza del Duomo a Milano nel settembre 1914; arrestato e imprigionato per cinque giorni a San Vittore, lo è nuovamente nel febbraio e nell’aprile 1915 a Roma; nell’ottobre-novembre partecipa con altri futuristi a vari combattimenti al fronte; nel giugno 1917 è ferito in battaglia all’inguine; l’anno seguente, durante le ultime operazioni di Vittorio Veneto, è decorato della sua seconda medaglia d’oro. 30

Il Manifesto del partito futurista del 1918, a cui farà seguito nello stesso anno la fondazione dei primi Fasci politici futuristi a Ferrara, Firenze, Roma e Taranto, i leitmotive sono nazionalismo e bellicismo. Accanto alla lotta contro l’analfabetismo, al suffragio universale diretto esteso a tutti gli uomini e le donne, alla libertà di sciopero, riunione, organizzazione, stampa, al minimo salario a fronte delle otto ore massime di lavoro, all’eguale mercede maschile e femminile, alle leggi eque nei contratti di lavoro, alle pensioni operaie – che sono, a dirla chiara e tutta, il retaggio «positivo» del breve transito nel rivoluzionarismo di sinistra – si staglia, imperiosa e granitica, la necessità di una guerra a oltranza fino allo smembramento dell’impero austro-ungarico (quando si aprirà a Parigi nel gennaio 1919 la conferenza per la pace il computo dei morti salirà a dieci milioni complessivi): ma Marinetti non è tenuto a sapere ancora, nel suo nazionalismo rivoluzionario, che mira a un’Italia libera, forte e unica sovrana, che il suo paese ha perso seicentomila dei suoi giovani nel conflitto immane. Fu il futurismo un fenomeno di portata europea e in quale dei suoi settori esercitò una positiva influenza sulla cultura di altri paesi? La domanda è più che legittima e la si può soddisfare con una sola, inequivoca risposta. Il futurismo che ha non solo resistito al tempo, ma si è imposto – e ha imposto la cultura italiana – in altri paesi è quello pittorico-plastico, il futurismo degli artisti, i Balla, Boccioni, Carrà, Depero, Prampolini, Russolo, Severini. Non importa che uno di loro sia precocemente scomparso, com’è accaduto purtroppo a Boccioni (e, sul fronte della progettazione architettonica, a Sant’Elia); non importa che la più parte degli artisti citati abbia imboccato presto o tardi strade diverse. È un fatto – come ogni grande esposizione in Italia e all’estero puntualmente riafferma – che il cubismo francese e il futurismo italiano siano state, sul fronte delle arti, le due 31

prime e più rilevanti avanguardie storiche, e che i loro rapporti, assai articolati e complessi, talvolta piuttosto intricati, siano stati forieri in ambo le direzioni di reciproche, fruttuose influenze; che la nascita del futurismo, annunciata sulla stampa moscovita sin dall’8 marzo 1909, abbia prodotto immediate reazioni negli ambienti letterari e artistici di Mosca e San Pietroburgo (come sin dal 1968 ha dimostrato lo studioso più autorevole del fenomeno, Vladimir Markov) sino alla nascita – con le debite e spesso marcate varianti di poetica e di tematica – del cubofuturismo dei Majakovskij, dei Burliuk, dei Chlebnikov, e parallelamente del raggismo di Larionov e della Gonˇcarova e del suprematismo di un Maleviˇc. Dall’aprile 1910, data del primo sbarco di Marinetti in Inghilterra (la prima mostra dei nostri artisti a Londra è del marzo 1912), al 20 giugno 1914, data in cui esce la rivista «Blast» («Esplosione»), è entrato in incubazione e infine è nato – pronubo anche un certo Ezra Pound – il «vorticismo» inglese, che col futurismo ha profonde affinità di poetica e di risultati. E, più in generale, non c’è pittore o scultore, narratore o poeta, che non sia – per servirci delle entusiastiche formule marinettiane – o «futurista dichiarato» o «futurista senza saperlo» negli ambienti innovativi e sperimentali dell’Europa e degli Stati Uniti: per dirla più obiettivamente e pacatamente, che non si sia sentito attratto dall’«esplosione» futurista, da Berlino (Schwitters, Richter) a Vienna (Moholy-Nagy), da Praga (Čapek) ai Paesi bassi (Mondrian) agli Stati Uniti (Man Ray). Altro e più riduttivo discorso va fatto per la letteratura futurista: sul fronte della poesia, i poeti davvero di prim’ordine sono stati i precoci transfughi dal movimento, Palazzeschi in testa, seguito da Govoni e Soffici (notevoli, ma a un livello più discreto, un altro transfuga, Cavacchioli, e i fedelissimi Folgore, Farfa, Fillia); sul fronte del romanzo, il solo Palazzeschi del Perelà; per il teatro, solo qualche «sintesi» 32

(tra le più ironiche e meno compromesse con l’attualità politica e di costume) reggerebbe oggi alla prova del palcoscenico. Ma i futuristi sono anche la loro fervida immaginazione progettuale, indipendentemente dai risultati conseguiti, e anche la dedizione (nei più, costante) alla causa, il loro frenetico attivismo, il loro sincero spirito di gruppo: in una parola la loro impeccabile «industriosità culturale», per tradurre con un minimo di fedeltà l’equivalente tedesco di un termine introdotto da T.W. Adorno nella sociologia letteraria. Più d’una trentina d’anni fa (1977) un volenteroso quartetto di ricercatori (Baldazzi, Briganti, Delli Colli, Mariani) offrì ai colleghi italianisti (come chi qui scrive) il frutto delle sue strenue ricerche sotto forma di un volume di 630 pagine, dal titolo volutamente dimesso di Contributo a una bibliografia del futurismo letterario italiano. Dalle loro minuziose indagini in archivi e biblioteche pubbliche e private la pattuglia degli scrittori «compromessi» a vario titolo col futurismo assommava a 175 persone, mentre le riviste futuriste schedate (ciascuna ovviamente con diverse periodicità e durata) risultavano essere 38, senza calcolare le 17 non rinvenute. È sempre molto delicato azzardare paragoni nell’ambito della storia delle idee e dei movimenti culturali: ma ci sembra di poter dire che il solo scrittore in grado di poter rivaleggiare con Marinetti al livello di una calcolata strategia dell’autopromozione nel primo Novecento italiano sia stato D’Annunzio. Ma D’Annunzio esce dalla scena letteraria col suo ultimo romanzo nel 1910 (alludiamo a Forse che sì, forse che no): e dopotutto non aveva mai fatto «industria culturale» se non di se stesso… GUIDO DAVICO BONINO

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NOTA DEL CURATORE

Una proposta, benché succinta ed estremamente selettiva, di studi sul futurismo riuscirebbe comunque discutibile, data l’estrema vastità e varietà di contributi critici (monografie, saggi su rivista, a volte preziosi articoli su quotidiani e periodici) riservati dal secondo dopoguerra a oggi a questo movimento nelle sue diverse sfaccettature e implicazioni. Preferiamo limitarci a suggerire alcune opere con cui gli editori italiani hanno giustamento inteso celebrare il centenario del futurismo affidandosi a studiosi esperti e di prestigio. Il primo posto tra costoro spetta a Giovanni Lista per la lunga, costante fedeltà con cui questo ricercatore (purtroppo da molti anni francese d’adozione) non hai mai cessato d’indagare il complesso fenomeno: suo è Futurismo. La rivolta dell’avanguardia, pubblicato dalla Silvana editrice. Altrettanto ricco di prospettive, soprattutto in ordine alle arti visive e plastiche, è Il Futurismo dello storico dell’arte moderna e contemporanea Fabio Benzi (Motta editore): mentre di lodevole perspicuità e ammirevole snellezza è il Futurismo di Flaminio Gualdoni, che Skira ha giustamente incluso nei suoi Mini Art Books. Interessante per la prospettiva «aperta» la silloge di studi che la milanese Fondazione Mudima ha affidato a più autori. Suggeriamo infine agli appassionati di prendere visione dei preziosi volumi-catalogo delle varie grandi sposizioni, che nel corso di quest’anno si vanno succedendo in varie città europee, grandi e piccole: come Le futurisme à Paris. Une avantgarde explosive, edito per le cure di Didier Ottynger dal 34

Centre Pompidou, e i relativi cataloghi delle mostre di Palazzo Reale e della Fondazione Stelline di Milano, di quella presso il Mart (e la Casa Depero) di Rovereto, e di quella al Museo Correr di Venezia. Da tempo, ormai, alcuni cataloghi sono divenuti delle vere e proprie monografie «scientifiche». GUIDO DAVICO BONINO

Torino, gennaio 2009

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Abbiamo proposto, sulla scorta delle fondamentali indagini di Giovanni Lista, alcune precisazioni per una più corretta datazione della stesura originaria e della prima comparsa di Fondazione e Manifesto del Futurismo. Sulla rivista marinettiana «Poesia», nei numeri 7-8-9 dell’agosto-settembre-ottobre 1909, vide la luce il manifesto Uccidiamo il Chiaro di Luna!, che figurò di lì a poco quale prefazione alla raccolta di Paolo Buzzi, Aeroplani, pubblicata dalle Edizioni di «Poesia» a Milano nello stesso 1909, sotto il titolo di Proclama futurista. Vi figurano quali «fratelli futuristi» l’autore della silloge, Federico De Maria, Enrico Cavacchioli, Corrado Gironi, Libero Altomare. Nel volume omonimo, presso le Edizioni Futuriste di Poesia del 1911, i cinque fratelli sono diventati diciotto: è scomparso il De Maria, ma vi sono entrati Lucini, Palazzeschi, Folgore, Cardile, Boccioni, Carrà, Russolo, Balla, Severini Pratella, D’Alba, Mazza, Carrieri, Frontini. Nella «storica» raccolta dei Manifesti del Futurismo, per le edizioni della rivista «Lacerba», datata 1914, sono scomparsi Lucini (che «ha rotto» con Marinetti), Cardile, Carrieri, Frontini. È in codesta raccolta che possiamo leggere anche Contro Venezia passatista, che Marinetti riprenderà l’anno successivo in Guerra sola igiene del mondo, sotto il titolo di La Battaglia di Venezia e in una stesura stilisticamente diversa. È la stessa sorte che toccherà a Contro la Spagna passatista, che reca come sottotitolo Pubblicato dalla rivista «Prometeo» di Madrid – giugno 1911 e che in Guerra sola igiene del mondo, in una stesura differente, assumerà il titolo di Proclama futurista agli Spagnoli. Chi voglia approfondire lo studio dei testi programmatici di Marinetti, utilizzati a più riprese dall’autore (o coautore) in varie occasioni, singolarmente o insieme ad altri dello stesso periodo o anche di periodi diversi, dovrà abituarsi a queste dislocazioni nel tempo e nello spazio, con varianti da un passaggio all’altro spesso non trascurabili.

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Filippo Tommaso Marinetti

FONDAZIONE E MANIFESTO DEL FUTURISMO Pubblicato dal «Figaro» di Parigi il 20 febbraio 1909

Avevamo vegliato tutta la notte – i miei amici ed io – sotto lampade di moschea dalle cupole di ottone traforato, stellate come le nostre anime, perché come queste irradiate dal chiuso fulgòre di un cuore elettrico. Avevamo lungamente calpestata su opulenti tappeti orientali la nostra atavica accidia, discutendo davanti ai confini estremi della logica ed annerendo molta carta di frenetiche scritture. Un immenso orgoglio gonfiava i nostri petti, poiché ci sentivamo soli, in quell’ora, ad esser desti e ritti, come fari superbi o come sentinelle avanzate, di fronte all’esercito delle stelle nemiche, occhieggianti dai loro celesti accampamenti. Soli coi fuochisti che s’agitano davanti ai forni infernali delle grandi navi, soli coi neri fantasmi che frugano nelle pance arroventate delle locomotive lanciate a pazza corsa, soli cogli ubriachi annaspanti, con un incerto batter d’ali, lungo i muri della città. Sussultammo ad un tratto, all’udire il rumore formidabile degli enormi tramvai a due piani, che passano sobbalzando, risplendenti di luci multicolori, come i villaggi in festa che il Po straripato squassa e sràdica d’improvviso, per trascinarli fino al mare, sulle cascate e attraverso i gorghi di un diluvio. Poi il silenzio divenne più cupo. Ma mentre ascoltavamo l’estenuato borbottio, di preghiere del vecchio canale e lo scricchiolar dell’ossa dei palazzi moribondi sulle loro barbe di umida verdura, noi udimmo subitamente ruggire sotto le 37

finestre gli automobili famelici. – Andiamo, diss’io; andiamo, amici! Partiamo! Finalmente, la mitologia e l’ideale mistico sono superati. Noi stiamo per assistere alla nascita del Centauro e presto vedremo volare i primi Angeli!… Bisognerà scuotere le porte della vita per provarne i cardini e i chiavistelli!… Partiamo! Ecco, sulla terra, la primissima aurora! Non v’è cosa che agguagli lo splendore della rossa spada del sole che schermeggia per la prima volta nelle nostre tenebre millenarie!… Ci avvicinammo alle tre belve sbuffanti, per palparne amorosamente i torridi petti. Io mi stesi sulla mia macchina come un cadavere nella bara, ma subito risuscitai sotto il volante, lama di ghigliottina che minacciava il mio stomaco. La furente scopa della pazzia ci strappò a noi stessi e ci cacciò attraverso le vie, scoscese e profonde come letti di torrenti. Qua e là una lampada malata, dietro i vetri d’una finestra, c’insegnava a disprezzare la fallace matematica dei nostri occhi perituri. Io gridai: – Il fiuto, il fiuto solo, basta alle belve! E noi, come giovani leoni, inseguivamo la Morte, dal pelame nero maculato di pallide croci, che correva via pel vasto cielo violaceo, vivo e palpitante. Eppure non avevamo un’Amante ideale che ergesse fino alle nuvole la sua sublime figura, né una Regina crudele a cui offrire le nostre salme, contorte a guisa di anelli bisantini! Nulla, per voler morire, se non il desiderio di liberarci finalmente dal nostro coraggio troppo pesante! E noi correvamo schiacciando su le soglie delle case i cani da guardia che si arrotondavano, sotto i nostri pneumatici scottanti, come solini sotto il ferro da stirare. La Morte, addomesticata, mi sorpassava ad ogni svolto, per porgermi la zampa con grazia, e a quando a quando si stendeva a terra con un rumore di mascelle stridenti, mandandomi, da ogni 38

pozzanghera, sguardi vellutati e carezzevoli. – Usciamo dalla saggezza come da un orribile guscio, e gettiamoci, come frutti pimentati d’orgoglio, entro la bocca immensa e tôrta del vento!… Diamoci in pasto all’Ignoto, non già per disperazione, ma soltanto per colmare i profondi pozzi dell’Assurdo! Avevo appena pronunziate queste parole, quando girai bruscamente su me stesso, con la stessa ebrietà folle dei cani che voglion mordersi la coda, ed ecco ad un tratto venirmi incontro due ciclisti, che mi diedero torto, titubando davanti a me come due ragionamenti, entrambi persuasivi e nondimeno contradittorii. Il loro stupido dilemma discuteva sul mio terreno… Che noia! Auff!… Tagliai corto, e, pel disgusto, mi scaraventai colle ruote all’aria in un fossato… Oh! materno fossato, quasi pieno di un’acqua fangosa! Bel fossato d’officina! Io gustai avidamente la tua melma fortificante, che mi ricordò la santa mammella nera della mia nutrice sudanese… Quando mi sollevai – cencio sozzo e puzzolente – di sotto la macchina capovolta, io mi sentii attraversare il cuore, deliziosamente, dal ferro arroventato della gioia! Una folla di pescatori armati di lenza e di naturalisti podagrosi tumultuava già intorno al prodigio. Con cura paziente e meticolosa, quella gente dispose alte armature ed enormi reti di ferro per pescare il mio automobile, simile ad un gran pescecane arenato. La macchina emerse lentamente dal fosso, abbandonando nel fondo, come squame, la sua pesante carrozzeria di buon senso e le sue morbide imbottiture di comodità. Credevano che fosse morto, il mio bel pescecane, ma una mia carezza bastò a rianimarlo, ed eccolo risuscitato, eccolo in corsa, di nuovo, sulle sue pinne possenti! Allora, col volto coperto della buona melma delle officine – 39

impasto di scorie metalliche, di sudori inutili, di fuliggini celesti – noi, contusi e fasciate le braccia ma impavidi, dettammo le nostre prime volontà a tutti gli uomini vivi della terra: Manifesto del Futurismo 1. Noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità. 2. Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia. 3. La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno. 4. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo… un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia. 5. Noi vogliamo inneggiare all’uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita. 6. Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sfarzo e munificenza, per aumentare l’entusiastico fervore degli elementi primordiali. 7. Non v’è più bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo. 8. Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!… Perché 40

dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’Impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente. 9. Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna. 10. Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria. 11. Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole pei contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l’orizzonte, le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta. È dall’Italia, che noi lanciamo pel mondo questo nostro manifesto di violenza travolgente e incendiaria, col quale fondiamo oggi il «Futurismo», perché vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologhi, di ciceroni e d’antiquarii. Già per troppo tempo l’Italia è stata un mercato di rigattieri. Noi vogliamo liberarla dagl’innumerevoli musei che la coprono tutta di cimiteri innumerevoli. 41

Musei: cimiteri!… Identici, veramente, per la sinistra promiscuità di tanti corpi che non si conoscono. Musei: dormitori pubblici in cui si riposa per sempre accanto ad esseri odiati o ignoti! Musei: assurdi macelli di pittori e scultori che vanno trucidandosi ferocemente a colpi di colori e di linee, lungo le pareti contese! Che ci si vada in pellegrinaggio, una volta all’anno, come si va al Camposanto nel giorno dei morti… ve lo concedo. Che una volta all’anno sia deposto un omaggio di fiori davanti alla Gioconda, ve lo concedo… Ma non ammetto che si conducano quotidianamente a passeggio per i musei le nostre tristezze, il nostro fragile coraggio, la nostra morbosa inquietudine. Perché volersi avvelenare? Perché volere imputridire? E che mai si può vedere, in un vecchio quadro, se non la faticosa contorsione dell’artista, che si sforzò di infrangere le insuperabili barriere opposte al desiderio di esprimere interamente il suo sogno?… Ammirare un quadro antico equivale a versare la nostra sensibilità in un’urna funeraria, invece di proiettarla lontano, in violenti getti di creazione e di azione. Volete dunque sprecare tutte le vostre forze migliori, in questa eterna ed inutile ammirazione del passato, da cui uscite fatalmente esausti, diminuiti e calpesti? In verità io vi dichiaro che la frequentazione quotidiana dei musei, delle biblioteche e delle accademie (cimiteri di sforzi vani, calvarii di sogni crocifissi, registri di slanci troncati!…) è, per gli artisti, altrettanto dannosa che la tutela prolungata dei parenti per certi giovani ebbri del loro ingegno e della loro volontà ambiziosa. Per i moribondi, per gl’infermi, pei prigionieri, sia pure: – l’ammirabile passato è forse un balsamo ai loro mali, poiché per essi l’avvenire è sbarrato… Ma noi non vogliamo più saperne, del passato, noi, giovani e forti futuristi! 42

E vengano dunque, gli allegri incendiarii dalle dita carbonizzate! Eccoli! Eccoli!… Suvvia! date fuoco agli scaffali delle biblioteche!… Sviate il corso dei canali, per inondare i musei!… Oh, la gioia di veder galleggiare alla deriva, lacere e stinte su quelle acque, le vecchie tele gloriose!… Impugnate i picconi, le scuri, i martelli e demolite, demolite senza pietà le città venerate! I più anziani fra noi, hanno trent’anni: ci rimane dunque almeno un decennio, per compier l’opera nostra. Quando avremo quarant’anni, altri uomini più giovani e più validi di noi, ci gettino pure nel cestino, come manoscritti inutili. – Noi lo desideriamo! Verranno contro di noi, i nostri successori; verranno di lontano, da ogni parte, danzando su la cadenza alata dei loro primi canti, protendendo dita adunche di predatori, e fiutando caninamente, alle porte delle accademie, il buon odore delle nostre menti in putrefazione, già promesse alle catacombe delle biblioteche. Ma noi non saremo là… Essi ci troveranno alfine – una notte d’inverno – in aperta campagna, sotto una triste tettoia tamburellata da una pioggia monotona, e ci vedranno accoccolati accanto ai nostri aeroplani trepidanti e nell’atto di scaldarci le mani al fuocherello meschino che daranno i nostri libri d’oggi fiammeggiando sotto il volo delle nostre immagini. Essi tumultueranno intorno a noi, ansando per angoscia e per dispetto, e tutti, esasperati dal nostro superbo, instancabile ardire, si avventeranno per ucciderci, spinti da un odio tanto più implacabile inquantoché i loro cuori saranno ebbri di amore e di ammirazione per noi. La forte e sana Ingiustizia scoppierà radiosa nei loro occhi. – L’arte, infatti, non può essere che violenza, crudeltà ed ingiustizia. 43

I più anziani fra noi hanno trent’anni: eppure, noi abbiamo già sperperati tesori, mille tesori di forza, di amore, d’audacia, d’astuzia e di rude volontà; li abbiamo gettati via impazientemente, in furia, senza contare, senza mai esitare, senza riposarci mai, a perdifiato… Guardateci! Non siamo ancora spossati! I nostri cuori non sentono alcuna stanchezza, poiché sono nutriti di fuoco, di odio e di velocità!… Ve ne stupite?… È logico, poiché voi non vi ricordate nemmeno di aver vissuto! Ritti sulla cima del mondo, noi scagliamo una volta ancora, la nostra sfida alle stelle! Ci opponete delle obiezioni?… Basta! Basta! Le conosciamo… Abbiamo capito!… La nostra bella e mendace intelligenza ci afferma che noi siamo il riassunto e il prolungamento degli avi nostri. – Forse!… Sia pure!… Ma che importa? Non vogliamo intendere!… Guai a chi ci ripeterà queste parole infami!… Alzate la testa!… Ritti sulla cima del mondo, noi scagliamo, una volta ancora, la nostra sfida alle stelle!…

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Filippo Tommaso Marinetti

UCCIDIAMO IL CHIARO DI LUNA! aprile 1909

1. – Olà! grandi poeti incendiari, fratelli miei futuristi!… Olà! Paolo Buzzi, Palazzeschi, Cavacchioli, Govoni, Altomare, Folgore, Boccioni, Carrà, Russolo, Balla, Severini, Pratella, D’Alba, Mazza! Usciamo da Paralisi, devastiamo Podagra e stendiamo il gran Binario militare sui fianchi del Gorisankar, vetta del mondo! Uscivamo tutti dalla città, con un passo agile preciso, che sembrava volesse danzare cercando ovunque ostacoli da superare. Intorno a noi, e nei nostri cuori, l’immensa ebrietà del vecchio sole europeo, che barcollava tra nuvole color di vino… Quel sole ci sbatté sulla faccia la sua gran torcia di porpora incandescente, poi crepò, vomitandosi tutto all’infinito. Turbini di polvere aggressiva; acciecante fusione di zolfo, di potassa e di silicati per le vetrate dell’Ideale!… Fusione d’un nuovo globo solare che presto vedremo risplendere! – Vigliacchi! – gridai, voltandomi verso gli abitanti di Paralisi, ammucchiati sotto di noi, massa enorme di obici irritati, già pronti per i nostri futuri cannoni. «Vigliacchi! Vigliacchi!… Perché queste vostre strida di gatti scorticati vivi?… Temete forse che appicchiamo il fuoco alle vostre catapecchie?… Non ancora!… Dovremo pur scaldarci nell’inverno prossimo!… Per ora, ci accontentiamo di far saltare in aria tutte le tradizioni, come ponti fradici!… 45

La guerra?… Ebbene, sì: essa è la nostra unica speranza, la nostra ragione di vivere, la nostra sola volontà!… Sì, la guerra! Contro di voi, che morite troppo lentamente, e contro tutti i morti che ingombrano le nostre strade!… «Sì, i nostri nervi esigono la guerra e disprezzano la donna, poiché noi temiamo che braccia supplici s’intreccino alle nostre ginocchia, la mattina della partenza!… Che mai pretendono le donne, i sedentari, gl’invalidi, gli ammalati, e tutti i consiglieri prudenti? Alla loro vita vacillante, rotta da lugubri agonie, da sonni tremebondi e da incubi grevi, noi preferiamo la morte violenta e la glorifichiamo come la sola che sia degna dell’uomo, animale da preda. «Vogliamo che i nostri figliuoli, seguano allegramente il loro capriccio, avversino brutalmente i vecchi e sbeffeggino tutto ciò che è consacrato dal tempo! «Questo v’indigna? Mi fischiate?… Alzate la voce!… Non ho udita l’ingiuria! Più forte! Che cosa? Ambiziosi?… Certamente! Siamo degli ambiziosi, noi, perché non vogliamo strofinarci ai vostri fetidi velli, o gregge puzzolente, color di fango, canalizzato nelle strade antiche della Terra!… Ma “ambiziosi” non è la parola esatta! Noi siamo piuttosto dei giovani artiglieri in baldoria!… E voi dovete, anche a vostro dispetto, abituarvi al frastuono dei nostri cannoni! Che cosa dite?… Siamo pazzi?… Evviva! Ecco finalmente la parola che aspettavo!… Ah! Ah! Bellissima trovata!… Prendete con cautela questa parola d’oro massiccio, e tornatevene presto in processione, per celarla nella più gelosa delle vostre cantine! Con quella parola fra le dita e sulle labbra, potrete vivere ancora venti secoli… Per conto mio, vi annuncio che il mondo è fradicio di saggezza!… «È perciò che noi oggi insegnamo l’eroismo metodico e quotidiano, il gusto della disperazione, per la quale il cuore dà tutto il suo rendimento, l’abitudine all’entusiasmo, l’abbandono alla vertigine… 46

«Noi insegnamo il tuffo nella morte tenebrosa sotto gli occhi bianchi e fissi dell’Ideale… E noi stessi daremo l’esempio, abbandonandoci alla furibonda Sarta delle battaglie, che, dopo averci cucita addosso una bella divisa scarlatta, sgargiante al sole, ungerà di fiamme i nostri capelli spazzolati dai proiettili… Così appunto la calura di una sera estiva spalma i campi d’uno scivolante fulgòre di lucciole. «Bisogna che gli uomini elettrizzino ogni giorno i loro nervi ad un orgoglio temerario!… Bisogna che gli uomini giuochino d’un tratto la loro vita, senza spiare i biscazzieri bari e senza controllare l’equilibrio delle roulettes, stando chini sui vasti tappeti verdi della guerra, covati dalla fortunosa lampada del sole. Bisogna, – capite? – bisogna che l’anima lanci il corpo in fiamme, come un brulotto, contro il nemico, l’eterno nemico che si dovrebbe inventare se non esistesse!… «Guardate laggiù, quelle spiche di grano, allineate in battaglia, a milioni… Quelle spiche, agili soldati dalle baionette aguzze, glorificano la forza del pane, che si trasforma in sangue, per sprizzar dritto, fino allo Zenit. Il sangue sappiatelo, non ha valore né splendore, se non liberato, col ferro o col fuoco, dalla prigione delle arterie! E noi insegneremo a tutti i soldati armati della terra come il sangue debba essere versato… Ma, prima, converrà ripulire la grande Caserma dove voi pullulate, insetti che siete!… Ci vorrà poco… Frattanto, cimici, potete ancora tornare, per questa sera, agl’immondi giacigli tradizionali, su cui noi non vogliamo più dormire!» Mentre volgevo loro le spalle, io sentii, dal dolore della mia schiena, che troppo a lungo avevo trascinato, nella rete immensa e nera della mia parola, quel popolo moribondo, coi suoi ridicoli guizzi di pesce ammucchiato sotto l’ultima ondata di luce che la sera spingeva alle scogliere della mia fronte.

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2. La città di Paralisi, col suo gridìo di pollaio, coi suoi orgogli impotenti di colonne troncate, con le sue cupole tronfie che partoriscono statuette meschine, col capriccio dei suoi fumi di sigaretta sopra bastioni puerili offerti ai buffetti… scomparve alle nostre spalle, danzando al ritmo dei nostri passi veloci. Davanti a me, ancora distante alcuni chilometri, si delineò ad un tratto il Manicomio, alto sulla groppa di una collina elegante, che sembrava trotterellare come un puledro. – Fratelli, – diss’io – riposiamoci per l’ultima volta, prima di muovere alla costruzione del gran Binario futurista! Ci coricammo, tutti fasciati dall’immensa follia della Via Lattea, all’ombra del Palazzo dei vivi, e subito tacque il fracasso dei grandi martelli quadrati dello spazio e del tempo… Ma Paolo Buzzi, non poteva dormire, poiché il suo corpo spossato sussultava ad ogni istante alle punture delle stelle velenose che ci assalivano da ogni parte. – Fratello! – mormorò – scaccia lontano da me codeste api che ronzano sulla rosa porporina della mia volontà! Poi si riaddormentò nell’ombra visionaria del Palazzo ricolmo di fantasia, da cui saliva la melopea cullante ed ampia della eterna gioia. Enrico Cavacchioli sonnecchiava e sognava ad alta voce: – Io sento ringiovanire il mio corpo ventenne!… Io ritorno, d’un passo sempre più infantile, verso la mia culla… Presto, rientrerò nel ventre di mia madre!… Tutto, dunque, mi è lecito!… Voglio preziosi gingilli da rompere… Città da schiacciare, formicai umani da sconvolgere!… Voglio addomesticare i Venti e tenerli a guinzaglio… Voglio una muta di venti, fluidi levrieri, per dar la caccia ai cirri flosci e barbuti. La respirazione dei miei fratelli dormenti fingeva il sonno 48

di un mare possente, su una spiaggia. Ma l’entusiasmo inesauribile dell’aurora traboccava già dalle montagne, tanto copiosamente la notte aveva dovunque versato profumi e linfe eroiche. Paolo Buzzi, bruscamente sollevato da quella marea di delirio, si contorse, come nell’angoscia di un incubo. – Li udite i singhiozzi della Terra?… La Terra agonizza nell’orrore della luce!… Troppi soli si chinarono al suo livido capezzale! Bisogna lasciarla dormire!… Ancora! Sempre!… Datemi delle nuvole, dei mucchi di nuvole, per coprire i suoi occhi e la sua bocca che piange! A queste parole il Sole ci porse dall’estremità dell’orizzonte, il suo tremulo e rosso volante di fuoco. – Alzati, Paolo! – gridai allora. – Afferra quella ruota!… Io ti proclamo guidatore del mondo!… Ma, ahimè, noi non potremo bastare al gran lavoro del Binario futurista! Il nostro cuore è ancora pieno di un ciarpame immondo: code di pavoni, pomposi galli di banderuole, leziosi fazzoletti profumati!… E non abbiamo ancora scacciate dal nostro cervello le lugubri formiche della saggezza… Ci vogliono dei pazzi!… Andiamo a liberarli! Ci avvicinammo alle mura imbevute di gioia solare, costeggiando una sinistra vallata, ove trenta gru metalliche sollevano stridendo, dei vagoncini pieni d’una biancheria fumigante, inutile bucato di quei Puri, lavati già da ogni sozzura di logica. Due alienisti comparvero, categorici, sulla soglia del Palazzo. Io non avevo fra le mani che uno smagliante fanale d’automobile; e fu col suo manico di lucido ottone che inculcai loro la morte. Dalle porte spalancate, pazzi e pazze scamiciati, seminudi, eruppero a migliaia, torrenzialmente, così da ringiovanire e ricolorare il volto rugoso della Terra. Alcuni vollero subito brandire, come bastoni d’avorio, i 49

campanili lucenti; altri si misero a giuocare al cerchio con delle cupole… Le donne pettinavano le loro lontane capigliature di nuvole con le acute punte di una costellazione. – O pazzi, o fratelli nostri amatissimi, seguitemi!… Noi costruiremo il Binario sulle cime di tutte le montagne, fino al mare! Quanti siete?… Tremila?… Non basta! D’altronde la noia e la monotonia troncheranno in breve il vostro bello slancio… Corriamo a domandar consiglio alle belve dei serragli accampati alle porte della Capitale. Sono gli esseri più vivi, i più sradicati, i meno vegetali! Avanti!… A Podagra! A Podagra!… E partimmo, scarica formidabile di una chiusa immane. L’esercito della follia si avventò di pianura in pianura, colò per le valli, ascese rapido alle cime, con lo slancio fatale e facile d’un liquido entro enormi vasi comunicanti, e infine mitragliò di grida, di fronti e di pugni le mura di Podagra che risuonò come una campana. Dopo avere ubbriacati, uccisi o calpestati i guardiani, la gesticolante marea inondò l’immenso corridoio melmoso del serraglio, le cui gabbie, piene di velli danzanti ondeggiavano nel vapore delle urine selvatiche e oscillavano più leggiere che gabbie di canarini fra le braccia dei pazzi. Il regno dei leoni ringiovanì la Capitale. La ribellione delle criniere e il voluminoso sforzo delle groppe inarcate a leva scolpivano le facciate. La loro forza di torrente, scavando il selciato, trasformò le vie in altrettanti tunnel dalle vôlte scoppiate. Tutta la tisica vegetazione degli abitanti di Podagra fu infornata nelle case, le quali, piene di rami urlanti, tremavano sotto la impetuosa grandinata di sgomento che crivellava i tetti. Con bruschi slanci e con lazzi da clown, i pazzi inforcavano i bei leoni indifferenti, che non li sentivano, e quei bizzarri cavalieri esultavano ai tranquilli colpi di coda che ad ogni 50

istante li gettavano a terra… Ad un tratto, le belve si arrestarono, i pazzi tacquero, davanti alle mura che non si muovevano più… – I vecchi son morti!… I giovani sono fuggiti!… Meglio così!… Presto! Siano divelti i parafulmini e le statue!… Saccheggiamo gli scrigni colmi d’oro!… Verghe e monete!… Tutti i metalli preziosi saranno fusi, pel gran Binario militare!… Ci precipitammo fuori, coi pazzi gesticolanti e le pazze scarmigliate, coi leoni, le tigri e le pantere cavalcate a nudo da cavalieri che l’ebbrezza irrigidiva contorceva ed esilarava freneticamente. Podagra non fu più che un immenso tino, pieno di un rosso vino dai gorghi spumosi, che colava veemente dalle porte, i cui ponti levatoi erano imbuti trepidanti e sonori… Attraversammo le rovine dell’Europa ed entrammo nell’Asia, sparpagliando lontano le orde terrorizzate di Podagra e di Paralisi, come i seminatori gettano la semente con un gran gesto circolare. 3. A notte piena, eravamo quasi in cielo, su l’altipiano persiano, sublime altare del mondo, i cui gradini smisurati portano popolose città. Allineati all’infinito lungo il Binario ansavamo su crogiuoli di barite, di alluminio e di manganese, che a quando a quando spaventavano le nuvole con la loro esplosione abbagliante; e ci sorvegliava, in cerchio, la maestosa ronda dei leoni che, erette le code, sparse al vento le criniere, foravano il cielo nero e profondo coi loro ruggiti tondi e bianchi. Ma, a poco a poco, il lucente e caldo sorriso della luna traboccò dalle nuvole squarciate. E, quando ella apparve infine, tutta grondante dell’inebriante latte delle acacie, i pazzi 51

sentirono il loro cuore staccarsi dal petto e salire verso la superficie della liquida notte. Ad un tratto, un grido altissimo lacerò l’aria; un rumore si propagò, tutti accorsero… Era un pazzo giovanissimo, dagli occhi di vergine, rimasto fulminato sul Binario. Il suo cadavere fu subito sollevato. Egli teneva fra le mani un fiore bianco e desioso, il cui pistillo s’agitava come una lingua di donna. Alcuni vollero toccarlo, e fu male, poiché rapidamente, con la facilità di un’aurora che si propaga sul mare, una verdura singhiozzante sorse per prodigio dalla terra increspata di onde inattese. Dal fluttuare azzurro delle praterie, emergevano vaporose chiome d’innumerevoli nuotatrici, che schiudevano sospirando i petali delle loro bocche e dei loro occhi umidi. Allora, nell’inebbriante diluvio dei profumi, vedemmo crescere distesamente intorno a noi una favolosa foresta, i cui fogliami arcuati sembravano spossati da una brezza troppo lenta. Vi ondeggiava una tenerezza amara… Gli usignuoli bevevano l’ombra odorosa con lunghi gorgoglii di piacere, e a quando a quando scoppiavano a ridere nei cantucci giocando a rimpiattino come fanciulli vispi e maliziosi. Un sonno soavissimo vinceva lentamente l’esercito dei pazzi, che si misero a urlare dal terrore. Irruenti, le belve si precipitarono a soccorrerli. Per tre volte, stretti in gomitoli balzanti, e con assalti uncinati di rabbia esplosiva, le tigri caricarono gli invisibili fantasmi di cui ribolliva la profondità di quella foresta di delizie… Finalmente, fu aperto un varco: enorme convulsione di fogliami feriti, i cui lunghi gemiti svegliarono i lontani echi loquaci appiattati nella montagna. Ma, mentre ci accanivamo, tutti, a liberar le nostre gambe e le nostre braccia dalle ultime liane affettuose, sentimmo a un tratto la Luna carnale, la Luna dalle belle coscie calde, abbandonarsi languidamente sulle nostre schiene affrante. 52

Si udì gridare nella solitudine aerea degli altipiani: – Uccidiamo il chiaro di Luna! Alcuni accorsero alle cascate vicine; gigantesche ruote furono inalzate, e le turbine trasformarono la velocità delle acque in magnetici spasimi che s’arrampicarono a dei fili, su per alti pali, fino a dei globi luminosi e ronzanti. Fu così che trecento lune elettriche cancellarono coi loro raggi di gesso abbagliante l’antica regina verde degli amori. E il Binario militare fu costruito. Binario stravagante che seguiva la catena delle montagne più alte e sul quale si slanciarono tosto le nostre veementi locomotive impennacchiate di grida acute, via da una cima all’altra, gettandosi in tutti i precipizi e arrampicandosi dovunque, in cerca di abissi affamati, di svolti assurdi e d’impossibili zigzag… Tutt’intorno, da lontano, l’odio illimitato segnava il nostro orizzonte irto di fuggiaschi… Erano le orde di Podagra e di Paralisi, che noi rovesciammo nell’Indostan. 4. Accanito inseguimento… Ecco scavalcato il Gange! Finalmente il soffio impetuoso dei nostri petti fugò davanti a noi le nuvole striscianti, dagli avvolgimenti ostili, e noi scorgemmo all’orizzonte i sussulti verdastri dell’Oceano Indiano, a cui il sole metteva una fantastica museruola d’oro… Sdraiato nei golfi di Oman e del Bengala, esso preparava perfidamente l’invasione delle terre. All’estremità del promontorio di Cormorin, orlato di una poltiglia di ossami biancastri, ecco l’Asino colossale e scarno la cui groppa di cartapecora grigiastra fu incavata dal peso delizioso della Luna… Ecco l’Asino dotto, dal membro prolisso rammendato di scritture, che raglia da tempo immemorabile il suo rancore asmatico contro le brume dell’orizzonte, dove tre grandi vascelli s’avanzano immobili, 53

con le loro velature simili a colonne vertebrali radiografate. Subito, l’immensa mandra delle belve cavalcate dai pazzi protese sui flutti musi innumerevoli, sotto il turbinio delle criniere che chiamavano l’Oceano alla riscossa. E l’Oceano rispose all’appello, inarcando un dorso enorme e squassando i promontori prima di prender lo slancio. Esso provò lungamente la propria forza, agitando le anche e ripiegando il ventre sonoro fra le sue vaste fondamenta elastiche. Poi, con un gran colpo di reni, l’Oceano poté sollevare la propria massa e sormontò la linea angolosa delle rive… Allora, la formidabile invasione cominciò. Noi marciavamo nell’ampio accerchiamento delle onde scalpitanti, grandi globi di schiuma bianca che rotolavano e crollavano, docciando le schiene dei leoni… Questi, allineati in semicerchio intorno a noi, prolungavano da ogni parte le zanne, la bava sibilante e gli urli delle acque. Talvolta, dall’alto delle colline, guardavamo l’Oceano gonfiare progressivamente il suo profilo mostruoso, come un’immensa balena che si spingesse innanzi su un milione di pinne. E fummo noi che lo guidammo così fino alla catena dell’Imalaia, aprendo, come un ventaglio, il formicolìo delle orde in fuga che volevamo schiacciare contro i fianchi del Gorisankar. – Affrettiamoci, fratelli miei!… Volete dunque che le belve ci sorpassino? Noi dobbiamo rimanere in prima fila malgrado i nostri lenti passi che pompano i succhi della terra… Al diavolo queste mani vischiose e questi piedi che trascinano radici!… Oh! noi non siamo che poveri alberi vagabondi! Vogliamo delle ali!… Facciamoci dunque degli aeroplani. – Saranno azzurri! – gridarono i pazzi – azzurri, per sottrarci meglio agli sguardi del nemico, e per confonderci con l’azzurro del cielo, che, quando c’è vento, garrisce sulle vette come un’immensa bandiera. E i pazzi rapirono mantelli turchini alla gloria dei Budda, 54

nelle antiche pagode, per costruire le loro macchine volanti. Noi ritagliammo i nostri aeroplani futuristi nella tela color d’ocra dei velieri. Alcuni avevano ali equilibranti e portando i loro motori, s’inalzavano come avoltoi insanguinati che sollevassero in cielo vitelli convulsi. Ecco: il mio biplano multicellulare a coda direttiva: 100 HP, 8 cilindri, 80 chilogrammi… Ho fra i piedi una minuscola mitragliatrice, che posso scaricare premendo un bottone d’acciaio… E si parte, nell’ebbrezza di un’agile evoluzione, con un volo vivace, crepitante, leggiero e cadenzato come un canto d’invito a bere e a ballare. – Urrà! Siam degni finalmente di comandare il grande esercito dei pazzi e delle belve scatenate!… Urrà! Noi dominiamo la nostra retroguardia: l’Oceano col suo avviluppamento di schiumanti cavallerie!… Avanti, pazzi, pazze, leoni, tigri, e pantere! Avanti, squadroni di flutti!… I nostri aeroplani saranno per voi, a volta a volta, bandiere di guerra e amanti appassionate! Deliziose amanti che nuotano, aperte le braccia, sull’ondeggiar dei fogliami, o che indugiano mollemente sull’altalena della brezza!… Ma guardate lassù, a destra, quelle spole azzurre… Sono i pazzi, che cullano i loro monoplani sull’amaca del vento del sud!… Io intanto, sto seduto come un tessitore davanti al telaio e vo tessendo l’azzurro serico del cielo!… Oh! quante fresche vallate, quanti monti burberi, sotto di noi!… Quanti greggi di pecore rosee, sparsi sui declivi delle verdi colline che si offrono al tramonto!… Tu le amavi, anima mia!… No! No! Basta! Tu non godrai più, mai più, di simili insipidezze!… Le canne colle quali un tempo facevamo delle zampogne formano l’armatura di questo aeroplano!… Nostalgia! Ebbrezza trionfale!… Presto avremo raggiunti gli abitanti di Podagra e di Paralisi, poiché voliamo rapidi ad onta delle raffiche avverse… Che dice l’anemometro?… Il vento che ci è 55

contrario ha una velocità di cento chilometri all’ora!… Che importa? Io salgo a duemila metri, per sorpassare l’altipiano… Ecco! Ecco le orde!… Là, là, davanti a noi, e già sotto ai nostri piedi!… Guardate, laggiù, a picco, fra gli ammassi di verdura, la tumultuante follia di quel torrente umano che s’accanisce a fuggire!… Questo fracasso?… È lo schianto degli alberi! Ah! Ah! Le orde nemiche sono ormai cacciate contro l’alta muraglia del Gorisankar!… E noi diamo loro battaglia!… Udite? Udite i nostri motori come applaudono?… Olà, grande Oceano Indiano, alla riscossa! L’Oceano ci seguiva solennemente, atterrando le mura delle città venerate e gettando di sella le torri illustri, vecchi cavalieri dall’armatura sonora, crollati giù dagli arcioni marmorei dei templi. – Finalmente! Finalmente! Eccoti dunque davanti a noi, gran popolo formicolante di Podagrosi e di Paralitici, lebbra schifosa che divora i bei fianchi della montagna… Noi voliamo rapidi contro di voi, fiancheggiati dal galoppo dei leoni, nostri fratelli, e abbiamo alle spalle l’amicizia minacciosa dell’Oceano, che ci segue da vicino per impedire che s’indietreggi!… È soltanto una precauzione, poiché non vi temiamo!… Ma voi siete innumerevoli!… E potremmo esaurire le nostre munizioni, invecchiando durante la carneficina!… Io regolerò il tiro!… L’alzo a ottocento metri! Attenti!… Fuoco!… Oh! l’ebbrezza di giocare alle biglie della Morte!… E voi non potrete carpircele!… Indietreggiate ancora? Questo altipiano sarà presto superato!… Il mio aeroplano corre sulle sue ruote, scivola sui pattini e s’alza a volo di nuovo!… Io vado contro il vento!… Bravissimi, i pazzi!… Continuate il massacro!… Guardate! Io tolgo l’accensione e calo giù tranquillamente, a volo librato, con magnifica stabilità, per toccar terra dove più ferve la mischia! «Ecco la furibonda copula della battaglia, vulva gigantesca irritata dalla foia del coraggio, vulva informe che si squarcia 56

per offrirsi meglio al terrifico spasimo della vittoria imminente! È nostra, la vittoria… ne sono sicuro, poiché i pazzi lanciano già al cielo i loro cuori, come bombe!… L’alzo a cento metri!… Attenti!… Fuoco!… Il nostro sangue?… Sì! Tutto il nostro sangue, a fiotti, per ricolorare le aurore ammalate della Terra!… Sì, noi sapremo riscaldarti fra le nostre braccia fumanti, o misero Sole, decrepito e freddoloso, che tremi sulla cima del Gorisankar!…

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Filippo Tommaso Marinetti, Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo

CONTRO VENEZIA PASSATISTA 27 aprile 1910

Noi ripudiamo l’antica Venezia estenuata e sfatta da voluttà secolari, che noi pure amammo e possedemmo in un gran sogno nostalgico. Ripudiamo la Venezia dei forestieri, mercato di antiquari falsificatori, calamita dello snobismo e dell’imbecillità universali, letto sfondato da carovane di amanti, semicupio ingemmato per cortigiane cosmopolite, cloaca massima del passatismo. Noi vogliamo guarire e cicatrizzare questa città putrescente, piaga magnifica del passato. Noi vogliamo rianimare e nobilitare il popolo veneziano, decaduto dalla sua antica grandezza, morfinizzato da una vigliaccheria stomachevole ed avvilito dall’abitudine dei suoi piccoli commerci loschi. Noi vogliamo preparare la nascita di una Venezia industriale e militare che possa dominare il mare Adriatico, gran lago Italiano. Affrettiamoci a colmare i piccoli canali puzzolenti con le macerie dei vecchi palazzi crollanti e lebbrosi. Bruciamo le gondole, poltrone a dondolo per cretini, e innalziamo fino al cielo l’imponente geometria dei ponti metallici e degli opifici chiomati di fumo, per abolire le curve cascanti delle vecchie architetture. Venga finalmente il regno della divina Luce Elettrica, a liberare Venezia dal suo venale chiaro di luna da camera ammobigliata. L’8 luglio 1910, 800000 foglietti contenenti questo manifesto 58

furono lanciati dai poeti e dai pittori futuristi dall’alto della Torre dell’Orologio sulla folla che tornava dal Lido. Così cominciò la campagna che i futuristi sostengono da 3 anni contro Venezia passatista. Il seguente Discorso contro i Veneziani, improvvisato dal poeta Marinetti alla Fenice, suscitò una terribile battaglia. I futuristi furono fischiati, i passatisti furono picchiati. I pittori futuristi Boccioni, Russalo, Carrà punteggiarono questo discorso con schiaffi sonori. I pugni di Armando Mazza, poeta futurista che è anche un atleta restarono memorabili. Discorso futurista di Marinetti ai Veneziani Veneziani! Quando gridammo: «Uccidiamo il chiaro di luna!» noi pensammo a te, vecchia Venezia fradicia di romanticismo! Ma ora la voce nostra si amplifica, e soggiungiamo ad alte note «Liberiamo il mondo dalla tirannia dell’amore! Siamo sazi di avventure erotiche, di lussuria, di sentimentalismo e di nostalgia!» Perché dunque ostinarti Venezia, a offrirci donne velate ad ogni svolto crepuscolare dei tuoi canali? Basta! Basta!… Finiscila di sussurrare osceni inviti a tutti i passanti della terra o Venezia, vecchia ruffiana, che sotto la tua pesante mantiglia di mosaici, ancora ti accanisci ad apprestare estenuanti notti romantiche, querule serenate e paurose imboscate! Io pure amai, o Venezia, la sontuosa penombra del tuo Canal Grande, impregnata di lussurie rare, e il pallore febbrile delle tue belle, che scivolano giù dai balconi per scale intrecciate di lampi, di fili di pioggia e di raggi di luna, fra i tintinni di spade incrociate… 59

Ma basta! Tutta questa roba assurda, abbominevole e irritante ci dà la nausea! E vogliamo ormai che le lampade elettriche dalle mille punte di luce taglino e strappino brutalmente le tue tenebre misteriose, ammalianti e persuasive! Il tuo Canal Grande allargato e scavato, diventerà fatalmente un gran porto mercantile. Treni e tramvai lanciati per le grandi vie costruite sui canali finalmente colmati vi porteranno cataste di mercanzie, tra una folla sagace, ricca e affaccendata d’industriali e di commercianti!… Non urlate contro la pretesa bruttezza delle locomotive dei tramvai degli automobili e delle biciclette in cui noi troviamo le prime linee della grande estetica futurista. Potranno sempre servire a schiacciare qualche lurido e grottesco professore nordico dal cappelluccio tirolese. Ma voi volete prostrarvi davanti a tutti i forestieri, e siete di una servilità ripugnante! Veneziani! Veneziani! Perché voler essere ancora sempre i fedeli schiavi del passato, i lerci custodi del più grande bordello della storia, gl’infermieri del più triste ospedale del mondo, ove languono anime mortalmente corrotte dalla lue del sentimentalismo? Oh! le immagini non mi mancano, se voglio definire la vostra inerzia vanitosa e sciocca come quella di un figlio di grand’uomo o di un marito di cantante celebre! I vostri gondolieri, non potrei forse paragonarli a dei becchini intenti a scavare cadenzatamente delle fosse in un cimitero inondato? Ma nulla può offendervi, poiché la vostra umiltà è smisurata! Si sa, d’altronde, che voi avete la saggia preoccupazione di arricchire la Società dei Grandi Alberghi, e che appunto per questa vi ostinate ad imputridire senza muovervi! Eppure, voi foste un tempo invincibili guerrieri e artisti 60

geniali, navigatori audaci, ingegnosi industriali e commercianti instancabili… E siete divenuti camerieri d’albergo, ciceroni, lenoni, antiquarî, frodatori, fabbricanti di vecchi quadri, pittori plagiari e copisti. Avete dunque dimenticato di essere anzitutto degl’Italiani, e che questa parola, nella lingua della storia, vuol dire: costruttori dell’avvenire? Oh! non vi difendete coll’accusar gli effetti avvilenti dello scirocco! Era ben questo vento torrido e bellicoso, che gonfiava le vele degli eroi di Lepanto! Questo stesso vento africano accelererà ad un tratto, in un meriggio infernale, la sorda opera delle acque corrosive che minano la vostra città venerabile. Oh! come balleremo, quel giorno! Oh! come plaudiremo alle lagune, per incitarle alla distruzione! E che immenso ballo tondo danzeremo in giro all’illustre ruina! Saremo tutti pazzamente allegri, noi, gli ultimi studenti ribelli di questo mondo troppo saggio! Così, o Veneziani, noi cantammo, danzammo e ridemmo davanti all’agonia dell’isola di File, che morì come un sorcio decrepito dietro la diga d’Assuan, immensa trappola dalle botole elettriche, nella quale il genio futurista dell’Inghilterra imprigiona le fuggenti acque sacre del Nilo! Alzate pure le spalle, e gridatemi che sono un barbaro, incapace di gustare la divina poesia che ondeggia sulle vostre isole incantatrici! Via! non avete motivo di esserne molto orgogliosi!… Liberate Torcello, Burano, l’Isola dei Morti, da tutta la letteratura ammalata e da tutta l’immensa fantasticheria romantica di cui le hanno velate i poeti avvelenati dalla febbre di Venezia, e potrete, ridendo con me considerare quelle isole come mucchi di sterco che i mammouth lasciarono cadere qua e là nell’attraversare a guado le vostre preistoriche lagune! 61

Ma voi le contemplate stupidamente, felici di marcire nella vostra acqua sporca, per arricchire senza fine la Società dei Grandi Alberghi, che prepara con cura le notti eleganti di tutti i grandi sulla terra! Certo, non è cosa da poco, l’eccitarli all’amore. Sia pure vostro ospite un Imperatore, bisogna che egli navighi lungamente nel sudiciume di questo immenso acquaio pieno di cocci istoriati, bisogna che i suoi gondolieri zappino coi remi parecchi chilometri di escrementi liquefatti, in un divino odor di latrina passando accanto a barche ricolme di belle immondizie, tra equivoci cartocci galleggianti, per poter giungere da vero Imperatore alla sua mèta, contento di sé e del suo scettro imperiale! Ecco, ecco quale fu la vostra gloria fino ad oggi, o Veneziani! Vergognatevene! Vergognatevene! e gettatevi supini gli uni sugli altri, come sacchi pieni di sabbia per formare il bastione, sul confine, mentre noi prepareremo, una grande e forte Venezia industriale, commerciale e militare sull’Adriatico, gran lago italiano!

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L’11 febbraio 1910 su volantini stampati dalla marinettiana rivista «Poesia» viene diffuso il Manifesto dei pittori futuristi, sottoscritto in questa prima edizione da Giacomo Balla, Umberto Boccioni, Aroldo Bonzagni, Carlo Carrà, Romolo Romani, Luigi Russolo, Gino Severini: in una seconda edizione le firme di Romani e Bonzagni sono assenti. L’8 marzo il Manifesto è letto nel corso di una serata al Politeama Chiarella di Torino, a cui partecipano Boccioni, Bonzagni, Carrà, Mazza, Marinetti, Palazzeschi, Romani e Russolo. L’11 aprile Balla, Boccioni, Carrà, Russolo e Severini sottoscrivono il Manifesto tecnico della pittura futurista. Il 16 luglio, nell’ambito della Mostra d’Estate in Palazzo Pesaro a Venezia, Boccioni espone quarantadue tra dipinti, disegni ed acqueforti e a presentarlo nel catalogo è Marinetti. Il 24 del mese Boccioni, Bonzagni e Carrà espongono nella mostra organizzata dall’Accademia di Brera nella palazzina della Permanente a Milano; dal 24 al 31 dicembre Boccioni, Carrà e Russolo espongono alla Esposizione Intima della Famiglia Artistica di Milano. Il 1911 è l’anno della Mostra d’Arte Libera, aperta il 30 aprile al Padiglione Ricordi di Milano: tra gli espositori Boccioni, Carrà e Russolo. Il 22 giugno Ardengo Soffici su «La Voce» stronca la mostra con l’articolo Arte libera e libera pittura futurista. Marinetti e i suoi scendono al Caffé delle Giubbe Rosse di Firenze per punire lui, Prezzolini, Slataper e Papini: segue una rissa, una «visita» in questura, ma l’accordo è poi raggiunto e la pace presto fatta. Nel 1912 spiccano non solo il manifesto La scultura futurista, che Boccioni sigla e pubblica l’11 aprile, ma anche grandi mostre del gruppo in Europa: alla galleria Bernheim di Parigi espongono Boccioni, Carrà, Russolo e Severini (5-24 febbraio); con gli stessi quadri i quattro artisti sono ospiti della galleria Sackville di Londra (a partire dal 1° marzo), quindi alla galleria della Tiergartenstrasse a Berlino (aprile-maggio), poi alla Salle Giroux a Bruxelles (giugno); di qui passano alla galleria Biesnig dell’Aja (agosto) e alla Audretsch di Amsterdam (settembre). Nel 1913, mentre le mostre all’estero si moltiplicano (all’Accademia di Belle Arti di Chicago il 27 marzo, alla Rotterdamsche Kunstkring di Rotterdam dal 18 maggio al 15 luglio), Carlo Carrà sigla e pubblica l’11 agosto il manifesto La pittura dei suoni, rumori, odori. Nel 1914 – l’anno delle accese prese di posizione interventiste dei futuristi tutti – Boccioni pubblica Scultura pittura futuriste (marzo), mentre l’11 marzo 1915 Giacomo Balla e Fortunato Depero firmano Ricostruzione futurista dell’Universo, cioè il più impegnativo – a nostro avviso – programma delle arti visive e plastiche, al termine del quale non a caso sentono il bisogno di definirsi «astrattisti futuristi».

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Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, Giacomo Balla, Gino Severini

MANIFESTO DEI PITTORI FUTURISTI 11 febbraio 1910

Agli artisti giovani d’Italia! Il grido di ribellione che noi lanciamo, associando i nostri ideali a quelli dei poeti futuristi, non parte già da una chiesuola estetica, ma esprime il violento desiderio che ribolle oggi nelle vene di ogni artista creatore. Noi vogliamo combattere accanitamente la religione fanatica, incosciente e snobistica del passato, alimentata dall’esistenza nefasta dei musei. Ci ribelliamo alla supina ammirazione delle vecchie tele, delle vecchie statue, degli oggetti vecchi e all’entusiasmo per tutto ciò che è tarlato, sudicio, corroso dal tempo, e giudichiamo ingiusto, delittuoso, l’abituale disdegno per tutto ciò che è giovane, nuovo e palpitante di vita. Compagni! Noi vi dichiariamo che il trionfante progresso delle scienze ha determinato nell’umanità mutamenti tanto profondi, da scavare un abisso fra i docili schiavi del passato e noi liberi, noi sicuri della radiosa magnificenza del futuro. Noi siamo nauseati dalla pigrizia vile che dal Cinquecento in poi fa vivere i nostri artisti d’un incessante sfruttamento delle glorie antiche. Per gli altri popoli, l’Italia è ancora una terra di morti, un’immensa Pompei biancheggiante di sepolcri. L’Italia invece rinasce, e al suo risorgimento politico segue il risorgimento intellettuale. Nel paese degli analfabeti vanno moltiplicandosi le scuole: nel paese del dolce far niente ruggono ormai officine innumerevoli: nel paese dell’estetica 64

tradizionale spiccano oggi il volo ispirazioni sfolgoranti di novità. È vitale soltanto quell’arte che trova i propri elementi nell’ambiente che la circonda. Come i nostri antenati trassero materia d’arte dall’atmosfera religiosa che incombeva sulle anime loro, così noi dobbiamo ispirarci ai tangibili miracoli della vita contemporanea, alla ferrea rete di velocità che avvolge la Terra, ai transatlantici, alle Dreadnought, ai voli meravigliosi che solcano i cieli, alle audacie tenebrose dei navigatori subacquei, alla lotta spasmodica per la conquista dell’ignoto. E possiamo noi rimanere insensibili alla frenetica attività delle grandi capitali, alla psicologia nuovissima del nottambulismo, alle figure febbrili del viveur, della cocotte, dell’apache e dell’alcolizzato? Volendo noi pure contribuire al necessario rinnovamento di tutte le espressioni d’arte, dichiariamo guerra, risolutamente, a tutti quegli artisti e a tutte quelle istituzioni che pur camuffandosi d’una veste di falsa modernità, rimangono invischiati nella tradizione, nell’accademismo e soprattutto in una ripugnante pigrizia cerebrale. Noi denunciamo al disprezzo dei giovani tutta quella canaglia incosciente che a Roma applaude a una stomachevole rifioritura di classicismo rammollito; che a Firenze esalta dei nevrotici cultori d’un arcaismo ermafrodito; che a Milano rimunera una pedestre e cieca manualità quarantottesca; che a Torino incensa una pittura da funzionari governativi in pensione; e a Venezia glorifica un farraginoso patinume da alchimisti fossilizzati! Insorgiamo, insomma, contro la superficialità, la banalità e la facilità bottegaia e cialtrona che rendono profondamente spregevole la maggior parte degli artisti rispettati di ogni regione d’Italia. Via, dunque, restauratori prezzolati di vecchie croste! Via, archeologhi affetti di necrofilia cronica! Via, critici, compiacenti lenoni! Via, accademie gottose, professori 65

ubbriaconi e ignoranti! Via! Domandate a questi sacerdoti del vero culto, a questi depositari delle leggi estetiche, dove siano oggi le opere di Giovanni Segantini: domandate loro perché le Commissioni ufficiali non si accorgano dell’esistenza di Gaetano Previati; domandate loro dove sia apprezzata la scultura di Medardo Rosso!… E chi si cura di pensare agli artisti che non hanno ancora vent’anni di lotte e di sofferenze, ma che pur vanno preparando opere destinate ad onorare la patria? Hanno ben altri interessi da difendere, i critici pagati! Le esposizioni, i concorsi, la critica superficiale e non mai disinteressata condannano l’arte italiana all’ignominia di una vera prostituzione! E che diremo degli specialisti? Suvvia! Finiamola, coi Ritrattisti, cogl’Internisti, coi Laghettisti, coi Montagnisti!… Li abbiamo sopportati abbastanza, tutti codesti impotenti pittori da villeggiatura. Finiamola con gli sfregiatori di marmi che ingombrano le piazze e profanano i cimiteri! Finiamola con l’architettura affaristica degli appaltatori di cementi armati! Finiamola coi decoratori da strapazzo, coi falsificatori di ceramiche, coi cartellonisti venduti e cogli illustratori sciatti e balordi. Ed ecco le nostre conclusioni recise: Con questa entusiastica adesione al futurismo, noi vogliamo: 1. Distruggere il culto del passato, l’ossessione dell’antico, il pedantismo e il formalismo accademico. 2. Disprezzare profondamente ogni forma di imitazione. 3. Esaltare ogni forma di originalità, anche se temeraria, anche se violentissima. 4. Trarre coraggio ed orgoglio dalla facile taccia di pazzia con cui si sferzano e s’imbavagliano gl’innovatori. 5. Considerare i critici d’arte come inutili o dannosi. 66

6. Ribellarci contro la tirannia delle parole: armonia e buon gusto, espressioni troppo elastiche, con le quali si potrebbe facilmente demolire l’opera di Rembrandt e quella di Goya. 7. Spazzar via dal campo ideale dell’arte tutti i motivi, tutti i soggetti già sfruttati. 8. Rendere e magnificare la vita odierna, incessantemente e tumultuosamente trasformata dalla scienza vittoriosa. Siano sepolti i morti nelle più profonde viscere della terra! Sia sgombra di mummie la soglia del futuro! Largo ai giovani, ai violenti, ai temerarî!

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Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, Giacomo Balla, Gino Severini

LA PITTURA FUTURISTA Manifesto Tecnico 11 aprile 1910

Nel primo manifesto da noi lanciato l’8 marzo 1910 dalla ribalta del Politeama Chiarella di Torino, esprimemmo le nostre profonde nausee, i nostri fieri disprezzi, le nostre allegre ribellioni contro la volgarità, contro il mediocrismo, contro il culto fanatico e snobistico dell’antico, che soffocano l’Arte nel nostro Paese. Noi ci occupavamo allora delle relazioni che esistono fra noi e la società. Oggi invece, con questo secondo manifesto, ci stacchiamo risolutamente da ogni considerazione relativa e assurgiamo alle più alte espressioni dell’assoluto pittorico. La nostra brama di verità non può più essere appagata dalla Forma né dal Colore tradizionali! Il gesto per noi, non sarà più un momento fermato del dinamismo universale: sarà, decisamente, la sensazione dinamica eternata come tale. Tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido. Una figura non è mai stabile davanti a noi ma appare e scompare incessantemente. Per la persistenza dell’immagine nella retina, le cose in movimento si moltiplicano, si deformano, susseguendosi, come vibrazioni, nello spazio che percorrono. Così un cavallo in corsa non ha quattro gambe: ne ha venti e i loro movimenti sono triangolari. Tutto in arte è convenzione, e le verità di ieri sono oggi, per noi, pure menzogne. Affermiamo ancora una volta che il ritratto, per essere 68

un’opera d’arte, non può né deve assomigliare al suo modello, e che il pittore ha in sé i paesaggi che vuol produrre. Per dipingere una figura non bisogna farla: bisogna farne l’atmosfera. Lo spazio non esiste più: una strada bagnata dalla pioggia e illuminata da globi elettrici s’inabissa fino al centro della terra. Il Sole dista da noi migliaia di chilometri; ma la casa che ci sta davanti non ci appare forse incastonata dal disco solare? Chi può credere ancora all’opacità dei corpi, mentre la nostra acuita e moltiplicata sensibilità ci fa intuire le oscure manifestazioni dei fenomeni medianici? Perché si deve continuare a creare senza tener conto della nostra potenza visiva che può dare risultati analoghi a quelli dei raggi X? Innumerevoli sono gli esempi che dànno una sanzione positiva alle nostre affermazioni. Le sedici persone che avete intorno a voi in un tram che corre sono una, dieci, quattro, tre; stanno ferme e si muovono; vanno e vengono, rimbalzano sulla strada, divorate da una zona di sole, indi tornano a sedersi, simboli persistenti della vibrazione universale. E, talvolta sulla guancia della persona con cui parliamo nella via noi vediamo il cavallo che passa lontano. I nostri corpi entrano nei divani su cui ci sediamo, e i divani entrano in noi, così come il tram che passa entra nelle case, le quali alla loro volta si scaraventano sul tram e con esso si amalgamano. La costruzione dei quadri è stupidamente tradizionale. I pittori ci hanno sempre mostrato cose e persone poste davanti a noi. Noi porremo lo spettatore nel centro del quadro. Come in tutti i campi del pensiero umano alle immobili oscurità del dogma è subentrata la illuminata ricerca individuale, così bisogna che nell’arte nostra sia sostituita alla tradizione accademica una vivificante corrente di libertà individuale. 69

Noi vogliamo rientrare nella vita. La scienza d’oggi, negando il suo passato, risponde ai bisogni materiali del nostro tempo; ugualmente, l’arte, negando il suo passato, deve rispondere ai bisogni intellettuali del nostro tempo. La nostra nuova coscienza non ci fa più considerare l’uomo come centro della vita universale. Il dolore di un uomo è interessante, per noi, quanto quello di una lampada elettrica, che soffre, e spasima, e grida con le più strazianti espressioni di dolore; e la musicalità della linea e delle pieghe di un vestito moderno ha per noi una potenza emotiva e simbolica uguale a quella che il nudo ebbe per gli antichi. Per concepire e comprendere le bellezze nuove di un quadro moderno bisogna che l’anima ridiventi pura; che l’occhio si liberi dal velo di cui l’hanno coperto l’atavismo e la cultura e consideri come solo controllo la Natura, non già il Museo! Allora, tutti si accorgeranno che sotto la nostra epidermide non serpeggia il bruno, ma che vi splende il giallo, che il rosso vi fiammeggia, e che il verde, l’azzurro e il violetto vi danzano, voluttuosi e carezzevoli! Come si può ancora veder roseo un volto umano, mentre la nostra vita si è innegabilmente sdoppiata nel nottambulismo? Il volto umano è giallo, è rosso, è verde, è azzurro, è violetto. Il pallore di una donna che guarda la vetrina di un gioielliere è più iridescente di tutti i prismi dei gioielli che l’affascinano. Le nostre sensazioni pittoriche non possono essere mormorate. Noi le facciamo cantare e urlare nelle nostre tele che squillano fanfare assordanti e trionfali. I vostri occhi abituati alla penombra si apriranno alle più radiose visioni di luce. Le ombre che dipingeremo saranno più luminose delle luci dei nostri predecessori, e i nostri quadri, a confronto di quelli immagazzinati nei musei, saranno il giorno più fulgido contrapposto alla notte più 70

cupa. Questo naturalmente ci porta a concludere che non può sussistere pittura senza divisionismo. Il divisionismo, tuttavia, non è nel nostro concetto un mezzo tecnico che si possa metodicamente imparare ed applicare. Il divisionismo, nel pittore moderno, deve essere un complementarismo congenito, da noi giudicato essenziale e fatale. E in fine respingiamo fin d’ora la facile accusa di barocchismo con la quale ci si vorrà colpire. Le idee che abbiamo esposte qui derivano unicamente dalla nostra sensibilità acuita. Mentre barocchismo significa artificio, virtuosismo maniaco e smidollato, l’Arte, che noi preconizziamo è tutta di spontaneità e di potenza. NOI PROCLAMIAMO: 1. Che il complementarismo congenito è una necessità assoluta nella pittura, come il verso libero nella poesia e come la polifonia nella musica; 2. Che il dinamismo universale deve essere reso come sensazione dinamica; 3. Che nell’interpretazione della natura occorrono sincerità e verginità; 4. Che il moto e la luce distruggono la materialità dei corpi.

NOI COMBATTIAMO: 1. Contro il patinume e la velatura da falsi antichi; 2. Contro l’arcaismo superficiale ed elementare a base di tinte piatte che riduce la pittura ad una impotente sintesi infantile e grottesca; 3. Contro il falso avvenirismo dei secessionisti e degli indipendenti, nuovi accademici d’ogni paese; 4. Contro il nudo in pittura, altrettanto stucchevole ed opprimente quanto l’adulterio nella letteratura.

Voi ci credete pazzi. Noi siamo invece i Primitivi di una nuova sensibilità completamente trasformata. Fuori dall’atmosfera in cui viviamo noi, non sono che tenebre. Noi futuristi ascendiamo verso le vette più eccelse e più radiose, e ci proclamiamo Signori della Luce, poiché già 71

beviamo alle vive fonti del Sole.

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Umberto Boccioni

LA SCULTURA FUTURISTA 11 aprile 1912

La scultura nei monumenti e nelle esposizioni di tutte le città d’Europa offre uno spettacolo così compassionevole di barbarie, di goffaggine e di monotona imitazione, che il mio occhio futurista se ne ritrae con profondo disgusto! Nella scultura d’ogni paese domina l’imitazione cieca e balorda delle formule ereditate dal passato, imitazione che viene incoraggiata dalla doppia vigliaccheria della tradizione e della facilità. Nei paesi latini abbiamo il peso obbrobrioso della Grecia e di Michelangiolo, che è sopportato con qualche serietà d’ingegno in Francia e nel Belgio, con grottesca imbecillaggine in Italia. Nei paesi germanici abbiamo un insulso goticume grecizzante, industrializzato a Berlino o smidollato con cura effeminata dal professorume tedesco a Monaco di Baviera. Nei paesi slavi, invece, un cozzo confuso tra il greco arcaico e i mostri nordici ed orientali. Ammasso informe di influenze che vanno dall’eccesso di particolari astrusi dell’Asia, alla infantile e grottesca ingegnosità dei Lapponi e degli Eschimesi. In tutte queste manifestazioni della scultura ed anche in quelle che hanno maggior soffio di audacia innovatrice si perpetua lo stesso equivoco: l’artista copia il nudo e studia la statua classica con l’ingenua convinzione di poter trovare uno stile che corrisponda alla sensibilità moderna senza uscire dalla tradizionale concezione della forma scultoria. La quale concezione col suo famoso «ideale di bellezza» di cui tutti parlano genuflessi, non si stacca mai dal periodo fidiaco e dalla sua decadenza. 73

Ed è quasi inspiegabile come le migliaia di scultori che continuano di generazione in generazione a costruire fantocci non si siano ancora chiesti perché le sale di scultura siano frequentate con noia ed orrore quando non siano assolutamente deserte, e perché i monumenti si inaugurino sulle piazze di tutto il mondo tra l’incomprensione o l’ilarità generale. Questo non accade per la pittura, a causa del suo rinnovamento continuo, che, per quanto lento, è la più chiara condanna dell’opera plagiaria e sterile di tutti gli scultori della nostra epoca! Bisogna che gli scultori si convincano di questa verità assoluta: costruire ancora e voler creare con gli elementi egizi, greci o michelangioleschi è come voler attingere acqua con una secchia senza fondo in una cisterna disseccata! Non vi può essere rinnovamento alcuno in un’arte se non viene rinnovata l’essenza, cioè la visione e la concezione della linea e delle masse che formano l’arabesco. Non è solo riproducendo gli aspetti esteriori della vita contemporanea che l’arte diventa espressione del proprio tempo, e perciò la scultura come è stata intesa fino ad oggi dagli artisti del secolo passato e del presente è un mostruoso anacronismo! La scultura non ha progredito, a causa della ristrettezza del campo assegnatole dal concetto accademico del nudo. Un’arte che ha bisogno di spogliare interamente un uomo o una donna per cominciare la sua funzione emotiva è un’arte morta! La pittura s’è rinsanguata, approfondita e allargata mediante il paesaggio e l’ambiente fatti simultaneamente agire sulla figura umana o su gli oggetti, giungendo alla nostra futurista compenetrazione dei piani. (Manifesto tecnico della Pittura futurista; 11 Aprile 1910). Così la scultura troverà nuova sorgente di emozione, quindi di stile, estendendo la sua plastica a quello che la nostra rozzezza barbara ci ha fatto sino ad oggi considerare come suddiviso, impalpabile, quindi inesprimibile plasticamente. 74

Noi dobbiamo partire dal nucleo centrale dell’oggetto che si vuol creare, per scoprire le nuove leggi, cioè le nuove forme che lo legano invisibilmente ma matematicamente all’infinito plastico apparente e all’infinito plastico interiore. La nuova plastica sarà dunque la traduzione nel gesso, nel bronzo, nel vetro, nel legno, e in qualsiasi altra materia, dei piani atmosferici che legano e intersecano le cose. Questa visione che io ho chiamato trascendentalismo fisico (Conferenza sulla Pittura futurista al Circolo Artistico di Roma; Maggio 1911) potrà rendere plastiche le simpatie e le affinità misteriose che creano le reciproche influenze formali dei piani degli oggetti. La scultura deve quindi far vivere gli oggetti rendendo sensibile, sistematico e plastico il loro prolungamento nello spazio, poiché nessuno può più dubitare che un oggetto finisca dove un altro comincia e non v’è cosa che circondi il nostro corpo: bottiglia, automobile, casa, albero, strada, che non lo tagli e non lo sezioni con un arabesco di curve rette. Due sono stati i tentativi di rinnovamento moderno della scultura: uno decorativo per lo stile, l’altro prettamente plastico per la materia. Il primo anonimo e disordinato, mancava del genio tecnico coordinatore, e, troppo legato alle necessità economiche dell’edilizia, non produsse che pezzi di scultura tradizionale più o meno decorativamente sintetizzati e inquadrati in motivi o sagome architettoniche o decorative. Tutti i palazzi e le case costruite con un criterio di modernità hanno in loro questi tentativi in marmo, in cemento o in placche metalliche. Il secondo più geniale, disinteressato e poetico, ma troppo isolato e frammentario, mancava di un pensiero sintetico che affermasse una legge. Poiché nell’opera di rinnovamento non basta credere con fervore, ma occorre propugnare e determinare qualche norma che segni una strada. Alludo al genio di Medardo Rosso, a un italiano, al solo grande scultore 75

moderno che abbia tentato di aprire alla scultura un campo più vasto, di rendere con la plastica le influenze d’un ambiente e i legami atmosferici che lo avvincono al soggetto. Degli altri tre grandi scultori contemporanei, Constantin Meunier nulla ha portato di nuovo nella sensibilità scultoria. Le sue statue sono quasi sempre fusioni geniali dell’eroico greco con l’atletica umiltà dello scaricatore, del marinaio, del minatore. La sua concezione plastica e costruttiva della statua e del bassorilievo è ancora quella del Partenone o dell’eroe classico, pur avendo egli per la prima volta tentato di creare e divinizzare soggetti prima di lui disprezzati o lasciati alla bassa riproduzione veristica. La Bourdelle porta nel blocco scultorio una severità quasi rabbiosa di masse astrattamente architettoniche. Temperamento appassionato, torvo, sincero di cercatore, non sa purtroppo liberarsi da una certa influenza arcaica e da quella anonima di tutti i tagliapietra delle cattedrali gotiche. Rodin è di una agilità spirituale più vasta, che gli permette di andare dall’impressionismo del Balzac all’incertezza dei Borghesi di Calais e a tutti gli altri peccati michelangioleschi. Egli porta nella sua scultura un’ispirazione inquieta un impeto lirico grandioso, che sarebbero veramente moderni se Michelangiolo e Donatello non li avessero avuti, con le quasi identiche forme, quattrocento anni or sono, e se servissero invece ad animare una realtà completamente ricreata. Abbiamo quindi nell’opera di questi tre grandi ingegni tre influenze di periodi diversi: greca in Meunier; gotica in La Bourdelle; della rinascenza italiana in Rodin. L’opera di Medardo Rosso è invece rivoluzionaria modernissima, più profonda e necessariamente ristretta. In essa non si agitano eroi né simboli, ma il piano d’una fronte di donna o di bimbo accenna ad una liberazione verso lo spazio, che avrà nella storia dello spirito una importanza ben maggiore di quella che non gli abbia dato il nostro tempo. 76

Purtroppo le necessità impressionistiche del tentativo hanno limitato le ricerche di Medardo Rosso ad una specie di alto o bassorilievo, la qual cosa dimostra che la figura è ancora concepita come mondo a sé, con base tradizionale e scopi episodici. La rivoluzione di Medardo Rosso, per quanto importantissima, parte da un concetto esteriormente pittorico, trascura il problema d’una nuova costruzione dei piani e il tocco sensuale del pollice, che imita la leggerezza della pennellata impressionista, dà un senso di vivace immediatezza, ma obbliga alla esecuzione rapida dal vero e toglie all’opera d’arte il suo carattere di creazione universale. Ha quindi gli stessi pregi e difetti dell’impressionismo pittorico, dalle cui ricerche parte la nostra rivoluzione estetica, la quale, continuandole, se ne allontana fino all’estremo opposto. In scultura come in pittura non si può rinnovare se non cercando lo stile del movimento, cioè rendendo sistematico e definitivo come sintesi quello che l’impressionismo ha dato come frammentario, accidentale, quindi analitico. E questa sistematizzazione delle vibrazioni delle luci e delle compenetrazioni dei piani produrrà la scultura futurista, il cui fondamento sarà architettonico, non soltanto come costruzione di masse, ma in modo che il blocco scultorio abbia in sé gli elementi architettonici dell’ambiente scultorio in cui vive il soggetto. Naturalmente noi daremo una scultura d’ambiente. Una composizione scultoria futurista avrà in sé i meravigliosi elementi matematici e geometrici che compongono gli oggetti del nostro tempo. E questi oggetti non saranno vicino alla statua come attributi esplicativi o elementi decorativi staccati, ma, seguendo le leggi di una nuova concezione dell’armonia, saranno incastrati nelle linee muscolari di un corpo. Così, dall’ascella di un meccanico 77

potrà uscire la ruota d’un congegno, così la linea di un tavolo potrà tagliare la testa di chi legge, e il libro sezionare col suo ventaglio di pagine lo stomaco del lettore. Tradizionalmente la statua si intaglia e si delinea sullo sfondo atmosferico dell’ambiente in cui è esposta: la pittura futurista ha superata questa concezione della continuità ritmica delle linee in una figura e dell’isolamento di essa dal fondo e dallo spazio avviluppante invisibile. «La poesia futurista – secondo il poeta Marinetti – dopo aver distrutta la metrica tradizionale e creato il verso libero distrugge ora la sintassi e il periodo latino. La poesia futurista è una corrente spontanea ininterrotta di analogie, ognuna riassunta intuitivamente nel sostantivo essenziale. Dunque, immaginazione senza fili e parole in libertà.» La musica futurista di Balilla Pratella infrange la tirannia cronometrica del ritmo. Perché la scultura dovrebbe rimanere indietro, legata a leggi che nessuno ha il diritto di imporle? Rovesciamo tutto, dunque, e proclamiamo l’assoluta e completa abolizione della linea finita e della statua chiusa. Spalanchiamo la figura e chiudiamo in essa l’ambiente. Proclamiamo che l’ambiente deve far parte del blocco plastico come un mondo a sé e con leggi proprie; che il marciapiede può salire sulla vostra tavola e che la vostra testa può attraversare la strada mentre tra una casa e l’altra la vostra lampada allaccia la sua ragnatela di raggi di gesso. Proclamiamo che tutto il mondo apparente deve precipitarsi su di noi, amalgamandosi, creando un’armonia colla sola misura dell’intuizione creativa; che una gamba un braccio o un oggetto, non avendo importanza se non come elementi del ritmo plastico, possono essere aboliti, non per imitare un frammento greco o romano, ma per ubbidire all’armonia che l’autore vuol creare. Un insieme scultorio, come un quadro, non può assomigliare che a sé stesso, poiché 78

la figura e le cose devono vivere in arte al di fuori della logica fisionomica. Così una figura può essere vestita in un braccio e nuda nell’altro, e le diverse linee d’un vaso di fiori possono rincorrersi agilmente fra le linee del cappello e quelle del collo. Così dei piani trasparenti, dei vetri, delle lastre di metallo, dei fili, delle luci elettriche esterne o interne potranno indicare i piani, le tendenze, i toni, i semitoni di una nuova realtà. Così una nuova intuitiva colorazione di bianco, di grigio, di nero, può aumentare la forza emotiva dei piani, mentre la nota di un piano colorato accentuerà con violenza il significato astratto del fatto plastico! Ciò che abbiamo detto sulle linee-forze in pittura (Prefazione-manifesto al catalogo della 1a Esposizione futurista di Parigi; Ottobre 1911) può dirsi anche per la scultura, facendo vivere la linea muscolare statica nella linea-forza dinamica. In questa linea muscolare predominerà la linea retta, che è la sola corrispondente alla semplicità interna della sintesi che noi contrapponiamo al barocchismo esterno della analisi. Ma la linea retta non ci condurrà alla imitazione degli egizi, dei primitivi o dei selvaggi, come qualche scultore moderno ha disperatamente tentato per liberarsi dal greco. La nostra linea retta sarà viva e palpitante; si presterà a tutte le necessità delle infinite espressioni della materia, e la sua nuda severità fondamentale sarà il simbolo della severità di acciaio delle linee del macchinario moderno. Possiamo infine affermare che nella scultura l’artista non deve indietreggiare davanti a nessun mezzo pur di ottenere una REALTÀ. Nessuna paura è più stupida di quella che ci fa temere di uscire dall’arte che esercitiamo. Non v’è né pittura, 79

né scultura, né musica, né poesia, non v’è che creazione! Quindi se una composizione sente il bisogno d’un ritmo speciale di movimento che aiuti o contrasti il ritmo fermato dell’INSIEME SCULTORIO (necessità dell’opera d’arte) si potrà applicarvi un qualsiasi congegno che possa dare un movimento ritmico adeguato a dei piani o a delle linee. Non possiamo dimenticare che il tic-tac e le sfere in moto di un orologio, che l’entrata o l’uscita di uno stantuffo in un cilindro, che l’aprirsi e il chiudersi di due ruote dentate con l’apparire e lo scomparire continuo dei loro rettangoletti d’acciaio, che la furia di un volante o il turbine di un’elica, sono tutti elementi plastici e pittorici, di cui un’opera scultoria futurista deve valersi. L’aprirsi e il richiudersi di una valvola crea un ritmo altrettanto bello ma infinitamente più nuovo di quello d’una palpebra animale! CONCLUSIONI: 1. Proclamare che la scultura si prefigge la ricostruzione astratta dei piani e dei volumi che determinano le forme, non il loro valore figurativo. 2. Abolire in scultura come in qualsiasi altra arte il sublime tradizionale dei soggetti. 3. Negare alla scultura qualsiasi scopo di costruzione episodica veristica, ma affermare la necessità assoluta di servirsi di tutte le realtà per tornare agli elementi essenziali della sensibilità plastica. Quindi percependo i corpi e le loro parti come zone plastiche, avremo in una composizione scultoria futurista, piani di legno o di metallo, immobili o meccanicamente mobili, per un oggetto, forme sferiche pelose per i capelli, semicerchi di vetro per un vaso, fili di ferro e reticolati per un piano atmosferico, ecc. 4. Distruggere la nobiltà tutta letteraria e tradizionale del marmo e del bronzo. Negare l’esclusività di una materia per la intera costruzione d’un insieme scultorio. Affermare che 80

anche venti materie diverse possono concorrere in una sola opera allo scopo dell’emozione plastica. Ne enumeriamo alcune: vetro, legno, cartone, ferro, cemento, crine, cuoio, stoffa, specchi, luce elettrica, ecc. ecc. 5. Proclamare che nell’intersecazione dei piani di un libro con gli angoli d’una tavola, nelle rette di un fiammifero, nel telaio di una finestra, v’è più verità che in tutti i grovigli di muscoli, in tutti i seni e in tutte le natiche di eroi o di veneri che ispirano la moderna idiozia scultoria. 6. Che solo una modernissima scelta di soggetti potrà portare alla scoperta di nuove idee plastiche. 7. Che la linea retta è il solo mezzo che possa condurre alla verginità primitiva di una nuova costruzione architettonica delle masse o zone scultorie. 8. Che non vi può essere rinnovamento se non attraverso la scultura d’ambiente, perché con essa la plastica si svilupperà, prolungandosi potrà modellare l’atmosfera che circonda le cose. 9. La cosa che si crea non è che il ponte tra l’infinito plastico esteriore e l’infinito plastico interiore, quindi gli oggetti non finiscono mai e si intersecano con infinite combinazioni di simpatia e urti di avversione. 10. Bisogna distruggere il nudo sistematico, il concetto tradizionale della statua e del monumento! 11. Rifiutare coraggiosamente qualsiasi lavoro, a qualsiasi prezzo, che non abbia in sé una pura costruzione di elementi plastici completamente rinnovati.

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Carlo Carrà

LA PITTURA DEI SUONI, RUMORI E ODORI 11 agosto 1913

Prima del 19° secolo, la pittura fu l’arte del silenzio. I pittori dell’antichità, del Rinascimento, del Seicento e del Settecento non intuirono mai la possibilità di rendere pittoricamente i suoni, i rumori, e gli odori, nemmeno quando scelsero a tema delle loro composizioni fiori, mari in burrasca e cieli in tempesta. Gl’impressionisti, nella loro audace rivoluzione fecero qualche confuso e timido tentativo di suoni, e rumori pittorici. Prima di loro, nulla, assolutamente nulla! Però dichiariamo subito che dal brulichio impressionista alla nostra pittura futurista dei suoni, rumori e odori c’è un’enorme differenza, come fra un brumoso mattino invernale e un torrido e scoppiante meriggio d’estate, o, meglio ancora, come fra i primi accenni della gravidanza e l’uomo nel pieno sviluppo delle sue forze. Nelle loro tele i suoni e i rumori sono espressi in modo così tenue e sbiadito come se fossero stati percepiti dal timpano di un sordo. Non è il caso di fare qui una disamina particolareggiata dei principii e delle ricerche degl’impressionisti. Non è il caso d’indagare minuziosamente tutte le ragioni per le quali i pittori impressionisti non giunsero alla pittura dei suoni, dei rumori e degli odori. Diremo soltanto che essi, per ottenere questo risultato avrebbero dovuto distruggere: 1. Il volgarissimo trompe-l’œil prospettico, giochetto degno tutt’al più di un accademico, tipo Leonardo, o di un balordo scenografo per melodrammi veristi. 82

2. Il concetto dell’armonia coloristica, concetto e difetto caratteristico dei Francesi, che li costringe fatalmente nel grazioso, nel genere Watteau, e perciò nell’abuso del celestino, del verdino, del violettino e del roseo. Abbiamo già detto più volte quanto disprezziamo questa tendenza al femminile, al soave, al tenero. 3. L’idealismo contemplativo, che io ho definito mimetismo sentimentale della natura apparente. Questo idealismo contemplativo contamina le costruzioni pittoriche degl’impressionisti, come contaminava già quelle dei loro predecessori Corot e Delacroix. 4. L’aneddoto e il particolarismo che (pure essendo, come reazione, un antidoto alla falsa costruzione accademica) li trascina quasi sempre nella fotografia. Quanto ai post- e neo-impressionisti, come Matisse, Signac e Seurat, noi constatiamo che, ben lungi dall’intuire il problema e dall’affrontare le difficoltà del suono e del rumore e dell’odore in pittura, essi preferirono rinculare nella statica, pur di ottenere una maggior sintesi di forma e di colore (Matisse) e una sistematica applicazione della luce (Seurat, Signac). Noi futuristi affermiamo dunque che portando nella pittura l’elemento suono, l’elemento rumore e l’elemento odore tracciamo nuove strade. Abbiamo già creato negli artisti l’amore per la vita moderna essenzialmente dinamica, sonora rumorosa e odorante, distruggendo la stupida mania del solenne, del togato, del sereno, dell’ieratico, del mummificato, dell’intellettuale, insomma. L’immaginazione senza fili, le parole in libertà, l’uso sistematico delle onomatopee. La musica antigraziosa senza-quadratura ritmica e l’arte dei rumori sono scaturiti dalla stessa sensibilità che ha generato la pittura dei suoni, dei rumori e degli odori. 83

È indiscutibile che: 1. il silenzio è statico e che i suoni, rumori e odori sono dinamici; 2. suoni, rumori e odori non sono altro che diverse forme e intensità di vibrazione; 3. qualsiasi succedersi di suoni, rumori odori stampa nella mente un arabesco di forme e di colori. Bisogna dunque misurare queste intensità e intuire questo arabesco. La pittura dei suoni, dei rumori e degli odori nega: 1. Tutti i colori in sordina, anche quelli ottenuti direttamente, senza il sussidio trucchistico delle pàtine e delle velature. 2. Il senso tutto banale del velluto, della sete delle carni troppo umane, troppo fini, troppo morbide e dei fiori troppo pallidi e avvizziti. 3. I grigi, i bruni, e tutti i colori fangosi. 4. L’uso dell’orizzontale pura, della verticale pura e di tutte le linee morte. 5. L’angolo retto, che chiamiamo apassionale. 6. Il cubo, la piramide e tutte le forme statiche. 7. L’unità di tempo e di luogo. La pittura dei suoni, dei rumori e degli odori vuole: 1. I rossi, rooooosssssi roooooosssissssimi che griiiiiiidano. 2. I verdi i non mai abbastanza verdi, veeeeeerdiiiiiissssssimi, che striiiiiidono; i gialli non mai abbastanza scoppianti; i gialloni-polenta; i gialli-zafferano; i gialli-ottoni. 3. Tutti i colori della velocità, della gioia, della baldoria, del carnevale più fantastico, dei fuochi di artifizio, dei caféchantants e dei music-halls, tutti i colori in movimento sentiti nel tempo e non nello spazio. 4. L’arabesco dinamico come l’unica realtà creata dall’artista nel fondo della sua sensibilità. 5. L’urto di tutti gli angoli acuti, che già chiamammo gli 84

angoli della volontà; 6. Le linee oblique che cadono sull’animo dell’osservatore come tante saette dal cielo, e le linee di profondità. 7. La sfera, l’ellissi che turbina, il cono rovesciato, la spirale e tutte le forme dinamiche che la potenza infinita del genio dell’artista saprà scoprire. 8. La prospettiva ottenuta non come oggettivismo di distanza ma come compenetrazione soggettiva di forme velate o dure, morbide o taglienti. 9. Come soggetto universale e sola ragione d’essere del quadro, la significazione della sua costruzione dinamica (insieme architetturale polifonico). Quando si parla di architettura si pensa a qualche cosa di statico. Ciò è falso. Noi pensiamo invece a una architettura simile all’architettura dinamica musicale resa dal musicista futurista Pratella. Architettura in movimento delle nuvole, dei fumi nel vento, e delle costruzioni metalliche quando sono sentite in uno stato d’animo violento e caotico. 10. Il cono rovesciato (forma naturale dell’esplosione), il cilindro obliquo e il cono obliquo. 11. L’urto di due coni per gli apici (forma naturale della tromba marina) coni flettili o formati da linee curve (salti di clown, danzatrici); 12. La linea a zig-zag e la linea ondulata. 13. Le curve elissoidi considerate come rette in movimento; 14. Le linee, i volumi e le luci considerati come trascendentalismo plastico, cioè secondo il loro caratteristico grado d’incurvazione o di obliquità, determinato dallo stato d’animo del pittore. 15. Gli echi di linee e volumi in movimento. 16. Il complementarismo plastico (nella forma e nel colore) basato sulla legge dei contrasti equivalenti e sull’urto dei 85

colori più opposti dell’iride. Questo complementarismo è costituito da uno squilibrio di forme (perciò costrette a muoversi). Conseguente distruzione dei pendants di volumi. Bisogna negare questi pendants di volumi, poiché simili a due grucce non permettono che un solo movimento avanti e indietro e non quello totale, chiamato da noi espansione sferica nello spazio. 17. La continuità e la simultaneità delle trascendenze plastiche del regno minerale, del regno vegetale, del regno animale e del regno meccanico. 18. Gl’insiemi plastici astratti, cioè rispondenti non alle visioni ma alle sensazioni nate dai suoni, dai rumori, dagli odori, e da tutte le forze sconosciute che ci avvolgono. Questi insiemi plastici, polifonici e poliritmici astratti risponderanno a necessità di disarmonie interne che noi, pittori futuristi, crediamo indispensabili alla sensibilità pittorica. Questi insiemi plastici sono, per il loro fascino misterioso, più suggestivi di quelli creati dal senso visivo e dal senso tattile, perché più vicini al nostro spirito plastico puro. Noi pittori futuristi affermiamo che i suoni, i rumori e gli odori si incorporano nell’espressione delle linee, dei volumi e dei colori, come le linee, i volumi e i colori s’incorporano nell’architettura di un’opera musicale. Le nostre tele esprimeranno quindi anche le equivalenze plastiche dei suoni, dei rumori e degli odori del Teatro, del MusicHall, del cinematografo, del postribolo, delle stazioni ferroviarie, dei porti, dei garages, delle cliniche, delle officine, ecc. ecc. Dal punto di vista della forma: vi sono suoni, rumori e odori concavi e convessi, triangolari, elissoidali, oblunghi, conici, sferici, spiralici, ecc. Dal punto di vista del colore: vi sono suoni, rumori e odori gialli, rossi, verdi, turchini, azzurri e violetti. Nelle stazioni ferroviarie, nelle officine, in tutto il mondo 86

meccanico e sportivo, i suoni, i rumori e gli odori sono in predominanza rossi; nei ristoranti e nei caffè sono argentei, gialli e viola. Mentre i suoni i rumori e gli odori degli animali sono gialli e blu, quelli della donna sono verdi, azzurri e viola. Non esageriamo affermando che gli odori bastano da soli a determinare nel nostro spirito arabeschi di forme e di colori tali da costituire il motivo e giustificare la necessità di un quadro. Tanto è vero che se noi ci chiudiamo in una camera buia (in modo che il senso della vista non funzioni) con dei fiori, della benzina o con altre materie odorifere, il nostro spirito plastico elimina a poco a poco le sensazioni di ricordo e costruisce degl’insiemi plastici specialissimi e in perfetta rispondenza di qualità, di peso e di movimento con gli odori contenuti nella camera. Questi odori, mediante un processo oscuro, sono diventati forza-ambiente determinando quello stato d’animo che per noi pittori futuristi costituisce un puro insieme plastico. Questo ribollimento e turbine di forme e di luci sonore, rumorose e odoranti è stato reso in parte da me nel Funerale Anarchico e in Sobbalzi di fiacre, da Boccioni negli Stati d’animo e nelle Forze d’una strada, da Russolo nella Rivolta e da Severini nel Pan-Pan, quadri violentemente discussi nella nostra prima esposizione di Parigi (febbraio 1912). Questo ribollimento implica una grande emozione e quasi un delirio nell’artista, il quale per dare un vortice, deve essere un vortice di sensazioni, una forza pittorica, e non un freddo intelletto logico. Sappiatelo dunque! Per ottenere questa pittura totale, che esige la cooperazione attiva di tutti i sensi, pittura-stato d’animo plastico dell’universale, bisogna dipingere, come gli ubbriachi cantano e vomitano, suoni, rumori e odori!

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Giacomo Balla, Fortunato Depero

RICOSTRUZIONE FUTURISTA DELL’UNIVERSO Milano, 11 marzo 1915

Col Manifesto tecnico della Pittura futurista e colla prefazione al Catalogo dell’Esposizione futurista di Parigi (firmati Boccioni, Carrà, Russolo, Balla, Severini), col Manifesto della Scultura futurista (firmato Boccioni), col Manifesto La Pittura dei suoni rumori e odori (firmato Carrà), col volume Pittura e scultura futuriste, di Boccioni, e col volume Guerra-pittura, di Carrà, il futurismo pittorico si è svolto, in 6 anni, quale superamento e solidificazione dell’impressionismo, dinamismo plastico e plasmazione dell’atmosfera, compenetrazione di piani e stati d’animo. La valutazione lirica dell’universo, mediante le Parole in libertà di Marinetti, e l’Arte dei Rumori di Russolo, si fondono col dinamismo plastico per dare l’espressione dinamica, simultanea, plastica, rumoristica della vibrazione universale. Noi futuristi, Balla e Depero, vogliamo realizzare questa fusione totale per ricostruire l’universo rallegrandolo, cioè ricreandolo integralmente. Daremo scheletro e carne all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile, all’impercettibile. Troveremo degli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell’universo, poi li combineremo insieme, secondo i capricci della nostra ispirazione, per formare dei complessi plastici che metteremo in moto. Balla cominciò collo studiare la velocità delle automobili, ne scoprì le leggi e le linee-forze essenziali. Dopo più di 20 quadri sulla medesima ricerca, comprese che il piano unico della tela non permetteva di dare in profondità il volume 88

dinamico della velocità. Balla sentì la necessità di costruire con fili di ferro, piani di cartone, stoffe e carte veline, ecc., il primo complesso plastico dinamico. 1. Astratto. – 2. Dinamico. Moto relativo (cinematografo) + moto assoluto. – 3. Trasparentissimo. Per la velocità e per la volatilità del complesso plastico, che deve apparire e scomparire, leggerissimo e impalpabile. – 4. Coloratissimo e Luminosissimo (mediante lampade interne). – 5. Autonomo, cioè somigliante solo a sé stesso. – 6. Trasformabile. – 7. Drammatico. – 8. Volatile. – 9. Odoroso. – 10. Rumoreggiante. Rumorismo plastico simultaneo coll’espressione plastica. – 11. Scoppiante, apparizione e scomparsa simultanee a scoppî. Il parolibero Marinetti, al quale noi mostrammo i nostri primi complessi plastici ci disse con entusiasmo: «L’arte, prima di noi, fu ricordo, rievocazione angosciosa di un Oggetto perduto (felicità, amore, paesaggio) perciò nostalgia, statica, dolore, lontananza. Col Futurismo invece, l’arte diventa arte-azione, cioè volontà, ottimismo, aggressione, possesso, penetrazione, gioia, realtà brutale nell’arte (Es.: onomatopee. – Es.: intonarumori = motori), splendore geometrico delle forze, proiezione in avanti. Dunque l’arte diventa Presenza, nuovo Oggetto, nuova realtà creata cogli elementi astratti dell’universo. Le mani dell’artista passatista soffrivano per l’Oggetto perduto; le nostre mani spasimavano per un nuovo Oggetto da creare. Ecco perché il nuovo Oggetto (complesso plastico) appare miracolosamente fra le vostre.» LA COSTRUZIONE MATERIALE DEL COMPLESSO PLASTICO Mezzi necessari: Fili metallici, di cotone, lana, seta, d’ogni spessore, colorati. Vetri colorati, carteveline, celluloidi, reti 89

metalliche, trasparenti d’ogni genere, coloratissimi, tessuti, specchi, làmine metalliche, stagnole colorate, e tutte le sostanze sgargiantissime. Congegni meccanici, elettrotecnici; musicali e rumoristi; liquidi chimicamente luminosi di colorazione variabile; molle; leve; tubi, ecc. Con questi mezzi noi costruiamo dei

LA SCOPERTA-INVENZIONE SISTEMATICA INFINITA mediante l’astrattismo complesso costruttivo rumorista, cioè lo stile futurista. Ogni azione che si sviluppa nello spazio, ogni emozione vissuta, sarà per noi intuizione di una scoperta. ESEMPI: Nel veder salire velocemente un aeroplano, mentre una banda suonava in piazza, abbiamo intuito il 90

Concerto plastico-motorumorista nello spazio e il Lancio di concerti aerei al di sopra della città. – La necessità di variare ambiente spessissimo e lo sport ci fanno intuire il Vestito trasformabile (applicazioni meccaniche, sorprese, trucchi, sparizioni d’individui). – La simultaneità di velocità e rumori ci fa intuire la Fontana giroplastica rumorista. – L’aver lacerato e gettato nel cortile un libro, ci fa intuire la Réclame fono-moto-plastica e le Gare pirotecnico-plastico-astratte. – Un giardino primaverile sotto il vento ci fa intuire il Fiore magico trasformabile motorumorista. – Le nuvole volanti nella tempesta ci fanno intuire l’Edificio di stile rumorista trasformabile. IL GIOCATTOLO FUTURISTA Nei giochi e nei giocattoli, come in tutte le manifestazioni passatiste, non c’è che grottesca imitazione, timidezza, (trenini, carrozzini, pupazzi immobili, caricature cretine d’oggetti domestici), antiginnastici o monotoni, solamente atti a istupidire e ad avvilire il bambino. Per mezzo di complessi plastici noi costruiremo dei giocattoli che abitueranno il bambino: 1. a ridere apertissimamente (per effetto di trucchi esageratamente buffi); 2. all’elasticità massima (senza ricorrere a lanci di proiettili, frustate, punture improvvise, ecc.); 3. allo slancio immaginativo (mediante giocattoli fantastici da vedere con lenti; cassettine da aprirsi di notte, da cui scoppieranno meraviglie pirotecniche; congegni in trasformazione, ecc.); 4. a tendere infinitamente e ad agilizzare la sensibilità (nel dominio sconfinato dei rumori, odori, colori, più intensi, più acuti, più eccitanti); 91

5. al coraggio fisico, alla lotta e alla GUERRA (mediante giocattoli enormi che agiranno all’aperto, pericolosi, aggressivi). Il giocattolo futurista sarà utilissimo anche all’adulto, poiché lo manterrà giovane, agile, festante, disinvolto, pronto a tutto, instancabile, istintivo e intuitivo. IL PAESAGGIO ARTIFICIALE Sviluppando la prima sintesi della velocità dell’automobile, Balla è giunto al primo complesso plastico. Questo ci ha rivelato un paesaggio astratto a coni, piramidi, poliedri, spirali di monti, fiumi, luci, ombre. Dunque un’analogia profonda esiste fra le linee-forze essenziali della velocità e le linee-forze essenziali d’un paesaggio. Siamo scesi nell’essenza profonda dell’universo, e padroneggiamo gli elementi. Giungeremo così, a costruire. L’ANIMALE METALLICO Fusione di arte + scienza. Chimica, fisica, pirotecnica continua improvvisa, dell’essere nuovo automaticamente parlante, gridante, danzante. Noi futuristi, Balla e Depero, costruiremo milioni di animali metallici, per la più grande guerra (conflagrazione di tutte le forze creatrici dell’Europa, dell’Asia, dell’Africa e dell’America, che seguirà indubbiamente l’attuale meravigliosa piccola conflagrazione umana). Le invenzioni contenute in questo manifesto sono creazioni assolute, integralmente generate dal Futurismo italiano. Nessun artista di Francia, di Russia, d’Inghilterra o di Germania intuì prima di noi qualche cosa di simile o di analogo. Soltanto il genio italiano, cioè il genio più costruttore e più architetto, poteva intuire il complesso 92

plastico astratto. Con questo, il Futurismo ha determinato il suo Stile, che dominerà inevitabilmente su molti secoli di sensibilità.

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Antonio Sant’Elia nasce a Como il 30 aprile 1888 (il padre Luigi, parrucchiere, è di origine cremonese). A diciott’anni si diploma perito edile-capomastro alla Scuola comasca di Arti e Mestieri nella sezione di costruzioni civili, idrauliche e stradali. A ventun’anni si iscrive nella sezione architettura dell’Accademia di Brera (ne è presidente Camillo Boito); suo maestro prediletto l’architetto Angelo Cttaneo, che ne avverte le audaci intenzioni). Dopo un anno di corso si trasferisce all’Accademia di Belle Arti di Bologna, per conseguirvi il diploma di professore di disegno architettonico. Verrà «premiato» nell’ottobre-novembre 1912 con un punteggio di 242 su 280. L’anno seguente apre uno studio di architettura in via San Raffaele, nei pressi del Duomo, a Milano. Nel marzo 1914 espone alcuni schizzi nella prima mostra promossa dall’Associazione Architetti Lombardi nella sala milanese della Permanente. Dal 20 maggio al 10 giugno di quell’anno partecipa alla mostra del Gruppo Nuove Tendenze, fondato da lui e da nove colleghi nel febbraio: presenta nell’occasione sei tavole della Città Nuova (una stazione con treni e aerei, una casa nuova, tre centrali elettriche e cinque «schizzi d’architettura»). L’11 luglio 1914 esce in volantino il suo Manifesto dell’architettura futurista, che sarà pubblicato il 1° agosto sulla rivista fiorentina «Lacerba» con le sei tavole apparse in mostra. Nello stesso mese Sant’Elia è eletto consigliere comunale socialista nella città natale. Benché neutralista, Sant’Elia viene richiamato al fronte nel giugno 1915: entra nel battaglione lombardo Volontari Ciclisti, dove militerà con Boccioni, Funi, Sironi, Marinetti. Vengono addestrati a Gallarate, trasferiti a Peschiera (agosto-settembre), poi a Malcesine, sulle pendici del monte Altissimo (ottobre). Di qui espugnano a fianco degli alpini il Dosso Casina. Dopo un periodo di licenza a Como, Sant’Elia riparte per il fronte nel maggio 1916, con il grado di sottotenente di fanteria: sul Carso gli italiani respingono a più riprese gli austro-ungarici, e Sant’Elia si distingue più volte per lo sprezzo del pericolo, è ferito alla testa e decorato con medaglia d’argento. Assume nell’agosto il comando di un plotone e a ottobre, nel pomeriggio del 10, nel corso dell’ottava battaglia dell’Isonzo, balza fuori dalla sua trincea senza elmetto e con la sigaretta in bocca: un proiettile di mitragliatrice lo colpisce in fronte sulle pendici dell’Hermada: «Mirava, gli occhi al cielo, immobile! Ma fu un istante; quasi subito cadde riverso…» (così ricorda un commilitone). «Alto, magro, capelli di fiamma, profilo di falco» (sono parole del futurista Paolo Buzzi), Sant’Elia fu invitato a entrare nelle file del futurismo una sera del 1913 nel suo studio di via San Raffaele da Carlo Carrà. Aderì all’invito qualche mese dopo, a condizione «di mantenere una certa libertà di azione». Segue di lì a poco una conversazione di qualche ora con Boccioni, Russolo e Decio Cinti nella «casa rossa» di Marinetti in via Senato. Alcuni giorni dopo Sant’Elia mostrò a Carrà alcuni foglietti: «Da quei foglietti nacque il Manifesto dell’architettura futurista».

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Antonio Sant’Elia

L’ARCHITETTURA FUTURISTA 11 luglio 1914

Dopo il ’700 non è più esistita nessuna architettura. Un balordo miscuglio dei più vari elementi di stile, usato a mascherare lo scheletro della casa moderna, è chiamato architettura moderna. La bellezza nuova del cemento e del ferro vien profanata con la sovrapposizione di carnevalesche incrostazioni decorative, che non sono giustificate né dalle necessità costruttive, né dal nostro gusto, e traggono origine dalle antichità egiziana, indiana o bizantina, e da quello sbalorditivo fiorire di idiozie e di impotenza che prese il nome di neo-classicismo. In Italia si accolgono codeste ruffianerie architettoniche, e si gabella la rapace incapacità straniera per geniale invenzione, per architettura nuovissima. I giovani architetti italiani (quelli che attingono originalità dalla clandestina compulsazione di pubblicazioni d’arte) sfoggiano i loro talenti nei quartieri nuovi delle nostre città, ove una gioconda insalata di colonnine ogivali, di foglione seicentesche, di archiacuti gotici, di pilastri egiziani, di volute rococò, di putti quattrocenteschi, di cariatidi rigonfie, tien luogo, seriamente, di stile, ed arieggia con presunzione al monumentale. Il caleidoscopico apparire e riapparire di forme, il moltiplicarsi delle macchine, l’accrescersi quotidiano dei bisogni imposti dalla rapidità delle comunicazioni, dall’agglomeramento degli uomini, dall’igiene e da cento altri fenomeni della vita moderna, non danno alcuna perplessità a codesti sedicenti rinnovatori dell’architettura. Essi perseverano cocciuti, con le regole di Vitruvio, del Vignola e del Sansovino e con qualche pubblicazioncella di architettura tedesca alla mano, a 95

ristampare l’immagine dell’imbecillità secolare sulle nostre città, che dovrebbero essere l’immediata e fedele proiezione di noi stessi. Così quest’arte espressiva e sintetica è diventata nelle loro mani una vacua esercitazione stilistica, un rimuginamento di formule malamente accozzate a camuffare da edificio moderno il solito bussolotto passatista di mattone e di pietra. Come se noi, accumulatori e generatori di movimento, coi nostri prolungamenti meccanici, col rumore e colla velocità della nostra vita, potessimo vivere nelle stesse case, nelle stesse strade costruite pei loro bisogni dagli uomini di quattro, cinque, sei secoli fa. Questa è la suprema imbecillità dell’architettura moderna che si ripete per la complicità mercantile delle accademie, domicili coatti dell’intelligenza, ove si costringono i giovani all’onanistica ricopiatura di modelli classici, invece di spalancare la loro mente alla ricerca dei limiti e alla soluzione del nuovo e imperioso problema: la casa e la città futuriste. La casa e la città spiritualmente e materialmente nostre, nelle quali il nostro tumulto possa svolgersi senza parere un grottesco anacronismo. Il problema dell’architettura futurista non è un problema di rimaneggiamento lineare. Non si tratta di trovare nuove sagome, nuove marginature di finestre e di porte, di sostituire colonne, pilastri, mensole con cariatidi, mosconi, rane; non si tratta di lasciare la facciata a mattone nudo, o di intonacarla, o di rivestirla di pietra, né di determinare differenze formali tra l’edificio nuovo e quello vecchio; ma di creare di sana pianta la casa futurista, di costruirla con ogni risorsa della scienza e della tecnica, appagando signorilmente ogni esigenza del nostro costume e del nostro spirito, calpestando quanto è grottesco, pesante e antitetico con noi (tradizione, stile, estetica, proporzione), determinando nuove forme, nuove linee, una nuova armonia di profili e di volumi, 96

un’architettura che abbia la sua ragione d’essere solo nelle condizioni speciali della vita moderna, e la sua rispondenza come valore estetico nella nostra sensibilità. Quest’architettura non può essere soggetta a nessuna legge di continuità storica. Deve essere nuova come è nuovo il nostro stato d’animo. L’arte di costruire ha potuto evolversi nel tempo e passare da uno stile all’altro mantenendo inalterati i caratteri generali dell’architettura, perché nella storia sono frequenti i mutamenti di moda e quelli determinati dall’avvicendarsi dei convincimenti religiosi e degli ordinamenti politici; ma sono rarissime quelle cause di profondo mutamento nelle condizioni dell’ambiente, che scardinano e rinnovano, come la scoperta di leggi naturali, il perfezionamento dei mezzi meccanici, l’uso razionale e scientifico del materiale. Nella vita moderna il processo di conseguente svolgimento stilistico nell’architettura si arresta. L’architettura si stacca dalla tradizione. Si ricomincia da capo per forza. Il calcolo sulla resistenza dei materiali, l’uso del cemento armato e del ferro escludono l’«architettura» intesa nel senso classico e tradizionale. I materiali moderni da costruzione e le nostre nozioni scientifiche, non si prestano assolutamente alla disciplina degli stili storici, e sono la causa principale dell’aspetto grottesco delle costruzioni «alla moda» nelle quali si vorrebbe ottenere dalla leggerezza, dalla snellezza superba della poutrelle e dalla fragilità del cemento armato, la curva pesante dell’arco e l’aspetto massiccio del marmo. La formidabile antitesi tra il mondo moderno e quello antico è determinata da tutto quello che prima non c’era. Nella nostra vita sono entrati elementi di cui gli antichi non hanno neppure sospettata la possibilità; si sono determinate contingenze materiali e si sono rilevati atteggiamenti dello spirito che si ripercuotono in mille effetti: primo fra tutti la formazione di un nuovo ideale di bellezza ancora oscuro ed 97

embrionale, ma di cui già sente il fascino anche la folla. Abbiamo perduto il senso del monumentale, del pesante, dello statico, ed abbiamo arricchita la nostra sensibilità del gusto del leggero, del pratico, dell’effimero e del veloce. Sentiamo di non essere più gli uomini delle cattedrali, dei palazzi, degli arengarî; ma dei grandi alberghi, delle stazioni ferroviarie, delle strade immense, dei porti colossali, dei mercati coperti, delle gallerie luminose, dei rettifili, degli sventramenti salutari. Noi dobbiamo inventare e rifabbricare la città futurista simile ad un immenso cantiere tumultuante, agile, mobile, dinamico in ogni sua parte, e la casa futurista simile ad una macchina gigantesca. Gli ascensori non debbono rincantucciarsi come vermi solitari nei vani delle scale; ma le scale, divenute inutili, devono essere abolite e gli ascensori devono inerpicarsi, come serpenti di ferro e di vetro, lungo le facciate. La casa di cemento, di vetro, di ferro, senza pittura e senza scultura, ricca soltanto della bellezza congenita alle sue linee e ai suoi rilievi, straordinariamente brutta nella sua meccanica semplicità, alta e larga quanto più è necessario, e non quanto è prescritto dalla legge municipale, deve sorgere sull’orlo di un abisso tumultuante: la strada, la quale non si stenderà più come un soppedaneo al livello delle portinerie, ma si sprofonderà nella terra per parecchi piani, che accoglieranno il traffico metropolitano e saranno congiunti, per i transiti necessari, da passerelle metalliche e da velocissimi tapis roulants. Bisogna abolire il decorativo. Bisogna risolvere il problema dell’architettura futurista non più rubacchiando da fotografie della Cina, della Persia, e del Giappone, non più imbecillendo sulle regole di Vitruvio, ma a colpi di genio, e armati di una esperienza scientifica e tecnica. Tutto deve essere rivoluzionato. Bisogna sfruttare i tetti, utilizzare i sotterranei, diminuire l’importanza delle facciate, trapiantare i problemi 98

del buon gusto dal campo della sagometta, del capitelluccio, del portoncino, in quello più ampio dei grandi aggruppamenti di masse, della vasta disposizione delle piante. Finiamola coll’architettura monumentale funebre commemorativa. Buttiamo all’aria monumenti, marciapiedi, porticati, gradinate, sprofondiamo le strade e le piazze, innalziamo il livello delle città. IO COMBATTO E DISPREZZO: l. Tutta la pseudo-architettura d’avanguardia, austriaca, ungherese, tedesca e americana; 2. Tutta l’architettura classica, solenne, ieratica, scenografica, decorativa, monumentale, leggiadra, piacevole; 3. L’imbalsamazione, la ricostruzione, la riproduzione dei monumenti e palazzi antichi; 4. Le linee perpendicolari e orizzontali, le forme cubiche e piramidali che sono statiche, gravi, opprimenti ed assolutamente fuori dalla nostra nuovissima sensibilità; 5. L’uso di materiali massicci, voluminosi, duraturi, antiquati, costosi. E PROCLAMO: 1. Che l’architettura futurista è l’architettura del calcolo, dell’audacia temeraria e della semplicità; l’architettura del cemento armato, del ferro, del vetro, del cartone, della fibra tessile e di tutti quei surrogati al legno, alla pietra e al mattone che permettono di ottenere il massimo della elasticità e della leggerezza; 2. Che l’architettura futurista non è per questo un’arida combinazione di praticità e di utilità, ma rimane arte, cioè sintesi, espressione; 3. Che le linee oblique e quelle ellittiche sono dinamiche, per la loro stessa natura hanno una potenza emotiva mille volte superiore a quella delle perpendicolari e delle orizzontali, e che non vi può essere un’architettura 99

dinamicamente integratrice all’infuori di esse; 4. Che la decorazione, come qualche cosa di sovrapposto all’architettura, è un assurdo e che soltanto dall’uso e dalla disposizione originale del materiale greggio o nudo o violentemente colorato dipende il valore decorativo dell’architettura futurista; 5. Che, come gli antichi trassero l’ispirazione dell’arte dagli elementi della natura, noi – materialmente e spiritualmente artificiali – dobbiamo trovare quell’ispirazione negli elementi del novissimo mondo meccanico che abbiamo creato, di cui l’architettura deve essere la più bella espressione, la sintesi più completa, l’integrazione artistica più efficace; 6. L’architettura come arte di disporre le forme degli edifici secondo criteri prestabiliti è finita; 7. Per architettura si deve intendere lo sforzo di armonizzare con libertà e con grande audacia l’ambiente con l’uomo, cioè rendere il mondo delle cose una proiezione diretta del mondo dello spirito; 8. Da un’architettura così concepita non può nascere nessuna abitudine plastica e lineare, perché i caratteri fondamentali dell’architettura futurista saranno la caducità e la transitorietà. Le case dureranno meno di noi. Ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua città. Questo costante rinnovamento dell’ambiente architettonico contribuirà alla vittoria del Futurismo, che già si afferma con le Parole in libertà, il Dinamismo plastico, la Musica senza quadratura e l’Arte dei rumori, e pel quale lottiamo senza tregua contro la vigliaccheria passatista.

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Quando redige e pubblica il Manifesto del futurismo, Filippo Tommaso Marinetti è già attivo da un decennio sul fronte della letteratura: il suo esordio data marzo 1898, con i primi interventi poetici e critici (anche di critica musicale e teatrale) sull’«Anthologie-Revue de France et d’Italie». Ma tra il 1902 e il 1909 escono in volume La conquête des Étoiles (un poème épique pubblicato presso le parigine Éditions de la Plume nel 1902), la prosa lirico-narrativa La momie sanglante (per le edizioni del giornale «Verde e Azzurro», a Milano, nel 1904) i poèmes lyriques di Destruction (per i tipi del libraio-editore Léon Vanier di Parigi, sempre nel 1904), le liriche a struttura poematica di La ville charnelle (presso Sansot & Cie, sempre a Parigi, nel 1908 – dedicato «Ai miei becchini») e il saggio-biografia-autobiografia Les Dieux s’en vont, D’Annunzio reste (dedicato stavolta «alle ombre beffarde di Cagliostro e di Casanova» e pubblicato nello stesso anno sempre da Sansot a Parigi). Sul versante drammaturgico aveva visto la luce per i tipi del Mercure de France il dramma grottesco-satirico Le Roi Bombance del 1905. Valgano queste precisazioni a sottolineare quanto centrale sia in Marinetti l’attenzione alle poetiche e alle problematiche della letteratura: dal manifesto fondativo del 1909 al manifesto Il romanzo sintetico, scritto nel 1939 insieme a Luigi Scrivo e Piero Bellanova, è tutto un susseguirsi di scritti propositivi, di cui quelli raccolti nelle pagine seguenti ci paiono essere i fondamentali. In parallelo Marinetti non cessa di provarsi in proprio nei tre generi «canonici» della poesia, della narrativa, del teatro: ancora in francese usciranno Mafarka le futuriste (1909), La bataille de Tripoli (1912) e Le monoplan du pape (1912), mentre data 1909 il dramma Poupées électriques. Qualche parola a parte merita il manifesto (o scritto propositivo) Il controdolore, opera di uno dei massimi scrittori del nostro Novecento, il fiorentino Aldo Palazzeschi (1885-1974). Esordiente in poesia con I cavalli bianchi (1905, a spese del padre, Alberto Giurlani, agiato commerciante di moda maschile) – cui segue nel 1908 un primo romanzo: Riflessi –, Palazzeschi entra in corrispondenza con Marinetti nel maggio 1909, aderisce al futurismo e nel novembre s’incontra a Milano con lui e gli altri futuristi. Esce nel 1910 la raccolta di liriche L’incendiario, con prefazione di Marinetti, mentre il romanzo Il codice di Perelà (uno dei vertici della prosa novecentesca) vede la luce nel 1911. In corrispondenza con Papini e Soffici dal 1912, Palazzeschi farà da mediatore fra i lacerbiani fiorentini e i futuristi milanesi. Il controdolore è edito nel 1914 (datato 29 dicembre 1913), ma già nell’aprile con una Dichiarazione intenzionalmente ufficiale, pubblicata su «La Voce» da Giuseppe Prezzolini, Palazzeschi si stacca dal futurismo.

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Filippo Tommaso Marinetti

MANIFESTO TECNICO DELLA LETTERATURA FUTURISTA 11 maggio 1912

In aeroplano, seduto sul cilindro della benzina, scaldato il ventre dalla testa dell’aviatore, io sentii l’inanità ridicola della vecchia sintassi ereditata da Omero. Bisogno furioso di liberare le parole, traendole fuori dalla prigione del periodo latino! Questo ha naturalmente, come ogni imbecille, una testa previdente, un ventre, due gambe e due piedi piatti, ma non avrà mai due ali. Appena il necessario per camminare, per correre un momento e fermarsi quasi subito sbuffando! Ecco che cosa mi disse l’elica turbinante, mentre filavo a duecento metri sopra i possenti fumaiuoli di Milano. E l’elica soggiunse: 1. Bisogna distruggere la sintassi disponendo i sostantivi a caso, come nascono. 2. Si deve usare il verbo all’infinito, perché si adatti elasticamente al sostantivo e non lo sottoponga all’io dello scrittore che osserva o immagina. Il verbo all’infinito può, solo, dare il senso della continuità della vita e l’elasticità dell’intuizione che la percepisce. 3. Si deve abolire l’aggettivo, perché il sostantivo nudo conservi il suo colore essenziale. L’aggettivo avendo in sé un carattere di sfumatura, è inconcepibile con la nostra visione dinamica, poiché suppone una sosta, una meditazione. 4. Si deve abolire l’avverbio, vecchia fibbia che tiene unite l’una all’altra le parole. L’avverbio conserva alla frase una fastidiosa unità di tono. 5. Ogni sostantivo deve avere il suo doppio, cioè il 102

sostantivo deve essere seguito, senza congiunzione, dal sostantivo a cui è legato per analogia. Esempio: uomotorpediniera, donna-golfo, folla-risacca, piazza-imbuto, porta-rubinetto. Siccome la velocità aerea ha moltiplicato la nostra conoscenza del mondo, la percezione per analogia diventa sempre più naturale per l’uomo. Bisogna dunque sopprimere il come, il quale, il così, il simile a. Meglio ancora, bisogna fondere direttamente l’oggetto coll’immagine che esso evoca, dando l’immagine in iscorcio mediante una sola parola essenziale. 6. Abolire anche la punteggiatura. Essendo soppressi gli aggettivi, gli avverbi e le congiunzioni, la punteggiatura è naturalmente annullata, nella continuità varia di uno stile vivo che si crea da sé, senza le soste assurde delle virgole e dei punti. Per accentuare certi movimenti e indicare le loro direzioni, s’impiegheranno segni della matematica: + – x : = >