L'Utopia. O la migliore forma di repubblica 8842041963

Un classico, una lettura irrinunciabile, soprattutto oggi, in cui ogni scenario futuro sembra incerto e si sente un fort

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L'Utopia. O la migliore forma di repubblica
 8842041963

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Economica Laterza 5

Tommaso Moro

L’Utopia la migliore forma di repubblica

Editorì Laterza

Traduzione, Introduzione e cura di Tommaso Fiore Prefazione di M argherita Isnardi Parente N ella «Economica Laterza» Prim a edizione 1993 Tredicesima edizione 2005

PREFAZIONE

E d i z io n i precedenti:

«Biblioteca di C ultura M oderna» 1942 «Piccola biblioteca filosofica» 1970 «Universale Laterza» 1981

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stam pare nel febbraio 2005 Poligrafico Dehoniano Stabilim ento di Bari per conto della Gius. Laterza & Figli Spa CL 20-4196-0 ISBN 88-420-4196-3

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale p u r c h é n o n d a n n e g g i l ’a u to re. Q uindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e m inaccia la sopravvivenza di un m odo di trasm ettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi m ette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi com unque favorisce questa pratica com m ette un furto e opera ai danni della cultura.

1. Tommaso Fiore scrisse il suo primo saggio in­ troduttivo alla traduzione di U to p ia nel 1942, lo stesso anno in cui, nella raccolta P r o b le m i s to r ic i e o rie n ta ­ m e n ti sto rio g ra fic i, usciva l’ampia messa a punto di Federico Chabod sul dibattuto problema dei rapporti fra Medioevo e Rinascimento. La cultura europea aveva conosciuto una fase di vivace reazione all’inter­ pretazione burckhardtiana; una reazione intesa a in­ dividuare in seno al Medioevo tratti salienti di quella civiltà e cultura che il Burckhardt aveva caratterizzate come essenzialmente rinascimentali, a sottolineare la continuità sostanziale della storia culturale europea a partire dalla rinascenza carolingia, a demolire l’im­ magine di un Rinascimento paganeggiante e tenden­ zialmente ·immanentistico per sostituire ad essa l’im­ magine di un’età rinascimentale pervasa da profondi fermenti di rinnovamento religioso \ La critica sto-1 1 F. Chabod, I I R in a sc im e n to , in P ro b le m i sto r ic i e o rie n tam e n ti sto rio g ra fic i , a cura di E. R ota, Como 1942, pp. 445-91; ristampato poi in Q u e stio n i d i S t o r ia m o d ern a, a cura dì E. R ota, Milano 1948 e più di recente in F. C habod, S c r itti s u l R in a sc im e n to , Torino 1967. Lo si può trovare riprodotto in I n te r p re ta z io n i d e l R in a sc i­ m en to , testi a cura di A. P randi, Bologna 1971, pp. 29-66; utile raccolta che contiene in traduzione italiana numerosi testi impor­ tanti per la controversia storiografica su Medioevo e Rinascimento e una introduzione con indicazione dei problemi, nonché una biblio­ grafia essenziale. Si rimanda ad essa per quanto qui citato; come saggi significativi della posizione che difende la continuità MedioevoRinascimento, in traduzione italiana, ci si può qui limitare a citare V II

rica italiana era stata troppo profondamente permeata dell’interpretazione dell’umanesimo come portatore di una nuova visione della vita perché non dovesse ora prendere posizione di fronte a questa mutata imma­ gine di esso. Già nel 1933, nella relazione presentata al VII Congresso internazionale di scienze storiche a Varsavia, Chabod aveva preso da tutto questo le sue distanze: una ragionevole affermazione della continuità storica non deve far dimenticare la peculiarità degli atteggiamenti e la novità emergente dei caratteri di una fase culturale. Eugenio Garin già nel 1941, con I l R in a s c im e n to ita lia n o , aveva dato inizio alla sua interpretazione dell’umanesimo come nuova forma di coscienza storica e civile. Sarebbero poi venuti i più maturi studi di Garin e quindi di Baron sull’umanesimo civile, e le sfumate analisi e raffinate periodizzazioni di Cantimori, Fer­ guson, Delumeau; studi, tutti, che avrebbero contri­ buito a togliere alla contrapposizione la sua rigidezza \ Dopo i suoi studi giovanili su Marsilio Ficino, negli anni Cinquanta P. O. Kristeller avrebbe spostato l’asse dell’interpretazione filosofica deH’umanesimo, con ten­ denza a una notevole riduzione, forse talvolta sottoi due saggi di E. G ilson , I l M e d io e v o e il n atu ra lism o a n tic o e F ilo so fia m ed ie v ale e u m a n e sim o , in appendice a E lo is a e A b e la r d o , trad. it. Torino 1950; in particolare il secondo, che rappresenta una comunicazione al congresso dell’Association Guillaume Bude, Nizza 1935. 2 Di E. Garin basti qui citare L 'u m a n e sim o ita lia n o , Bari 1951; M e d io e v o e R in a sc im e n to , Bari 1954; L ’ed u c az io n e in E u r o p a , Bari 1957, per non dire di altri scritti ulteriori. Da ricordarsi, per gli altri autori citati, almeno D. Cantim ori, L a p e rio d iz z az io n e d e ll’età d e l R in asc im e n to , in R e laz io n e d e l X C o n g re sso in te rn az io n a le d i scien ze sto rich e (Roma 1955), Firenze 1955, poi in S tu d i d i sto r ia , Torino 1959, pp. 340-65; W. K. F erguson, T h e R e n a issa n c e in H is t o r ic a l T h o u g h t, Cambridge (Mass.) 1948; J. D elumeau , L a civilis a tio n de la R e n a issa n c e , Paris 1967 (cfr. anche il saggio R e in te r ­ p reta z io n e d e l R in a sc im e n to , uscito in francese in « Il Pensiero Politico », II, 1969, pp. 173-86, poi in In te rp re ta z io n i d e l R in a s c i­ m e n to , cit., pp. 67-81). Fondamentale, di H . Baron, a parte altri studi, resta T h e C r is is o f E a r ly I t a lia n R e n a issa n c e , Princeton 1955 (trad. it. L a c risi d e l p rim o R in a sc im e n to ita lia n o , Firenze 1970). V ili

talutazione, dell’apporto complessivo dell’umanesimo quattrocentesco italiano alla storia del pensiero e la ricca messe di studi su Erasmo, e sui rapporti fra uma­ nesimo e la cosiddetta ‘ preriforma ’ avrebbe poi com­ pletato il quadro della religiosità umanistica4. Chi paragoni l’immagine che dell’! /to p ia diede Tommaso Fiore, sotto sensibile ispirazione della critica ideali­ stica e soprattutto crociana, con il commento fattone oggi da E. Surtz e J. H. Hexter nella serie delle opere complete di Th. More (il cui volume IV è tutto dedi­ cato alla nostra operetta e contiene a suo proposito una introduzione e un commentario, dottissimi en­ trambi) 5, non potrà non notare lo spostamento di an­ golo visuale verificatosi nella critica da alcuni decenni a questa parte: dai due autori il Moro è sostanzial­ mente ricondotto all’umanesimo cristiano, di ispira­ zione teologica, di cui Erasmo si considera il princi­ pale rappresentante: pur prendendo le loro distanze da posizioni estreme, stando alle quali la stessa U to p ia non uscirebbe fuori dal quadro del cristianesimo me­ dievale e della filosofia scolastica, i due commentatori evitano qualsiasi impostazione di tipo razionalistico e tendono a minimizzare o almeno a ridurre sensibil­ mente i rapporti del pensiero del Moro, nella stessa U to p ia , con gli atteggiamenti culturali del Quattrocento italiano. Siamo assai lontani dalle vivaci affermazioni 3 P. O. K risteller , S tu d ie s in R e n a issa n c e T h o u g h t a n d L e tte re , Roma 1956; T h e C la ssic a a n d R e n a issa n c e T h o u g h t, Cambridge (Mass.) 1955 (trad. it. L a trad iz io n e c la ssic a n el p e n sie r o d e l R in a ­ sc im e n to , Firenze 1969). 4 A. R enaudet, P ré re fo rm e et h u m a n ism e à P a r is p e n d an t le s p rem iè re s g u e rre s d I t a l ie , Paris 1916, 1953i2; per la vastissima biblio­ grafia su Erasmo si può rimandare a J. C. M argolin, D o u z e a n n ée s d e h ib lìo g r a p h ie érasm ien n e, 1 9 50-61, Paris 1963, seguito poi da Q u ato rze a n n ée s d e b ib lio g ra p h ie é ra sm ie n n e , 1 9 3 6 -1 9 4 9 , Paris 1969. 5 T h e C o m p le te W o rk s o f S t. T h o m a s M o re , voi. IV, a cura di E. Surtz , S. J . - J . H. H exter , Yale 1965, 1974’ : Introduzione, Parte I (J. H. Hexter), pp. xm-cxxiv; Parte II (E. Surtz), pp. cxxvclxxxi; Parte III (E. Surtz), pp. clxxxiii -cxciv . All’edizione del­ l ’opera, con traduzione a fronte e note filologiche, segue un ampio C o m m en tario (pp. 257-570) più due Appendici (pp. 571-82).

IX

di Tommaso Fiore a proposito dell’atmosfera natura­ listica e razionalistica che si respira in O to p ia , o della preminenza del problema morale su quello stesso reli­ gioso, che investe lo stesso Erasmo almeno in alcune opere (1’E n c h ir id io n m ilitis c h r istia n i ad esempio, ove la suprema virtù si riduce al socratico ‘ conosci te stesso ’ ') o di quella ricerca di « un nuovo terreno di conciliazione fra antico e moderno, nel quale la rive­ lazione è come se non fosse avvenuta » 67 che contrad­ distinguerebbe il pensiero del Moro in fatto di reli­ gione. E si può notare come oggi un interprete acuto e sensibile quale Vittorio Gabrieli, pur operando in pieno nell’ambito della tradizione culturale italiana, abbia temperato alquanto questa impostazione, con cautele critiche: le espressioni di tolleranza religiosa che troviamo n e l l’U to p ia non devono fuorviarci nel­ l’interpretazione del pensiero di Th. More, il quale in realtà anche nei primi anni del secolo, prima cioè della radicalizzazione di problemi portata dalla Riforma, non ebbe l’impostazione razionalistica e libertaria che in base ad alcune espressioni dell’operetta saremmo pur tentati di attribuirgli8. Eppure, per chi creda nella profonda novità por­ tata dall’umanesimo; per chi non sia propenso a spin­ gere la tesi della continuità culturale e religiosa fra tardo Medioevo e primo Rinascimento oltre certi limiti precisi, col rischio di lasciarsi sfuggire un fatto di ordine storico-culturale rilevante come quel pro­ fondo cambiamento di sensibilità e di atteggiamento 6 T. F iore , S a g g io su T o m m a so M o ro , in T. M oro, U t o p ia , Bari 1942, pp. v-cv, in particolare p. x x m sgg. (l’Introduzione riprodotta qui nella presente edizione corrisponde alla redazione ab­ breviata del saggio, comparsa nella prima edizione dell’opera per la « PBFL », 1970, pp. 9-18). Il Fiore si dedicava in quegli anni anche a una traduzione àeT T E lo g io d e lla p azzia di Erasmo, Torino 1943, ristampata nel 1964 con introduzione di D. C antimori. 7 Ivi, p. LXXVII. 8 T h . M ore, T h e H isto ry o f K in g R ic h a rd thè T h ird , testo in­ glese, trad. it., introd. e note a cura di V. G abrieli, Torino 1964, p. XVIII. X

che caratterizzò la prima età umanistica — e la ca­ ratterizzò coscientemente, con affermato e sentito e apertamente vissuto distacco dalle precedenti genera­ zioni — l’interpretazione tendenzialmente razionali­ stica d e l l’U to p ia continua a conservare una inesaurita validità. Luigi Firpo ha scritto di recente che « il rac­ conto del secondo libro d e ll’U to p ia è ispirato da un lucido realismo e tutto animato dalla fede nella bontà naturale dell’uomo e nell’illuminata efficienza dèlia ragione », rifiutandosi di vedere in essa nient’altro che un puro gioco basato su un’ipotesi teologica. L’utopista, afferma ancora il Firpo, in realtà proclama la legittimità di una ricerca della felicità sulla terra, esaltando con ciò l’autonomia della ragione e l’autar­ chia immanentistica del creato: in tal modo « l’istanza del soprannaturale si attenua e la religione tende a ridursi a un vago deismo, ad una sorta di curioso cri­ stianesimo sdogmatizzato, fondato sulla solidarietà, le buone opere, e una tolleranza venata di indifferen­ tismo » ’. Come si vede, nella critica contemporanea c’è ancora posto per una interpretazione ‘ mondana ’ di U to p ia . 2. La prima grande novità d e ll’U to p ia , quella che la distacca dalla lunga serie di trattati teorico­ politici che l’hanno preceduta, è di carattere formale, riguarda cioè la sua struttura piuttosto che il suo con­ tenuto. U to p ia è la descrizione — preceduta da un dialogo, in cui dominante è la parte svolta dal navi­ gatore Raffaele Itlodeo, personaggio chiave di tutta l’opera —■di una società razionale, ben strutturata e 9 T homas M ore, U to p ia , a cura di L. F irpo , Napoli 1979,

rispettivamente pp.

16 e 7 dell’Introduzione (comparsa già in

T homas M ore, U to p ia , Utet, Torino 1971, a cura dello stesso Firpo,

edizione fuori commercio, ov’è riprodotta la versione italiana cinque­ centesca di Ortensio Landò). Sulla validità di un’impostazione razio­ nalistica quale quella del Fiore cfr. la recensione di A. O modeo, oggi in I I sen so d e lla s t o r ia , Torino 1948, 19552, pp. 205-7. XI

parenetico, e la forma dell’ottimo Stato è costantemente ptcsentata, di volta in volta sotto i vari aspetti, come esortazione al politico in vista di ciò che sia da farsi per dare alla città un assetto razionale 10. Patrizi, nonostante il classicismo umanistico di cui è imbevuto, non ha insomma ancora superato la forma che alla trattatistica politica è stata data da una tradizione plu­ risecolare. Nonostante la sua assai limitata conoscenza di Platone (il T im e o , com’è noto, reso accessibile al Medioevo occidentale nella traduzione latina di Cal­ cidio, fu l’opera su cui si basò fondamentalmente il platonismo medievale; limitata ad aree assai ristrette la conoscenza di qualche altro dialogo, come il M e n o n e e il F e d o n e “ ), il Medioevo è pur sempre permeato di platonismo, indirettamente filtrato e variamente assor­ bito. Perché, tuttavia, uno schema paradigmatico quale quello dell'U to p ia potesse affermarsi, occorreva una rinascita autentica di Platone, la conoscenza diretta della R e p u b b lic a , l’umanistico intento di misurarsi col modello. Occorreva il rinascere di una ispirazione al mondo classico di ben altra portata rispetto a quella corrente a partire dal tardo Medioevo: non utilizza­ zione e adattamento di motivi, ma ripresa di forme,

felice, paradigmaticamente contrapposta a un’Europa irrazionalmente governata, viziata di paurose assurdità e ingiustizie, dilacerata dalle più assurde discordie che degenerano in guerre rovinose. È quindi un modello teorico astratto di città perfetta e secondo ragione. L’idea del modello non era stata estranea al Medioevo, e la letteratura politica che va dall’antichità classica al Rinascimento conosce una tradizione ininterrotta di trattatistica esemplare. Ma due aspetti differenziano radicalmente questo tipo di trattatistica dell 'U to p ia . Da un lato, l’esemplarità che caratterizza questa tra­ dizione riguarda la figura del principe piuttosto che la struttura dello Stato: il tipo di trattato che ha mag­ gior fortuna nella tradizione tardo-antica e medievale è quello dello ‘ s p e c u lu m p rin c ip is ’, con il quale si presenta al reggitore politico un modello ideale di comportamento alla cui stregua commisurarsi. Da un altro lato, la forma di questa trattatistica esemplare è parenetica; l’esempio è presentato in forma esortato­ ria, Y o p tim u m da conseguire, o al quale almeno cercar di adeguarsi, è proposto in forma normativa. L ’U to p ia rappresenta una rottura con la tradizione sotto en­ trambi gli aspetti: al modello del principe sostituisce il modello della città; alla parenesi sostituisce il para­ digma allo stato puro, il quadro teorico che rappre­ senta il rovesciamento totale della realtà cui intende contrapporsi. Può essere utile confrontare l ’U to p ia con un’opera che essa stessa, il P r in c ip e , la l n s t i t u t i o p rin c ip is chris tia n i erasmiana contribuirono a far dimenticare, e che ebbe invece una notevole celebrità fra XV e XVI se­ colo, il D e re ip u b lic a e in s titu tio n e del senese Fran­ cesco Patrizi. Quest’opera, che il Moro certo conosceva così come la conosceva Erasmo (per cui la l n s t i t u t i o può peraltro aver avuto ancor maggiore importanza l’altra opera del Patrizi, D e re g n o e t re g is in s titu tio n e ) , è un passo in avanti rispetto allo ‘ sp e c u lu m p rin c ip is ’ e già appare dominata dall’ideale platonico dello Stato ottimo. Ma non ha ancora affatto superato lo schema

ultimi decenni del XV secolo, anche se le prime edizioni sembrano essere le due parigine rispettivamente del 1518 e 1519. L’autore, senese (1412-1492), appartenne alla cerchia di Enea Silvio Piccolomini. Per le questioni relative alla trattatistica politica dello ‘ sp ec u lu m p r in c ip is ’ nel Medioevo rimando a E rasmo da R otterdam, L ’e d u caz io n e d e l p r in c ip e c r istia n o , a cura di M. I snardi P arente , Napoli 1977, Introd., p. 12 sgg. 11 Cfr. un utile panorama d ’insieme in B. F aes de M ottoni, I l P la to n ism o m e d ie v a le , Torino 1979, Introd., pp. 9-10. Le tradu­ zioni latine medievali di Platone sono oggi edite nel C o r p u s P lato n icu m M e d ii A e v i , London (Warburg Institute) - Leiden, a partire dal 1940; cfr. il volume introduttivo di R. K libansky , T h e C on tin u ity o f thè P la to n ic T r a d itio n d u r in g th è M id d le A g e s y London 1939 (rist. 1950). In Italia, da ricordare almeno E. G arin , S tu d i su l p la to n ism o m e d ie v a le , Firenze 1958; T. G regory, P la to n ism o M e d ie v a le , Roma 1958.

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10 F. P atrizi, D e re i p u b lic a e in stitu tio n e lib r i I X e D e regn o et r e g is in stitu tio n e lib r i I X ; libri che circolarono manoscritti negli

schemi e strutture in una feconda imitazione creativa. È per questa via che si arriva alla riscoperta di una struttura teorica dimenticata e le si dà una nuova vita, ricuperandola originalmente. Il ruolo del platonismo nel pensiero del Moro è stato recentemente limitato con l’osservazione che una profonda, sostanziale differenza intercorre fra lo Stato perfetto di Platone, aristocratico, verticistico, milita­ rista, e lo Stato largamente egualitario, democratico e pacifista del Moro. Platone traccia un disegno di edu­ cazione dei filosofi dirigenti e norme direttive per la loro vita comune, dalla quale gli altri cittadini sono in realtà esclusi, e per il loro governo della città, che si esercita sugli altri col loro consenso ma senza loro partecipazione diretta; esalta la funzione e il ruolo dei guerrieri-custodi; limita la cultura a quella categoria di cittadini la cui p h y s is è portata alla conoscenza e nella cui anima prevale sulle altre la parte teoretica, espressamente limitandola a un piccolo numero di persone. Al contrario, Moro disegna uno Stato a base elettiva, in cui notevole è la partecipazione di tutti al governo pur se le supreme funzioni di esso sono riser­ vate ai più dotti; progetta un tipo di vita comune a tutto lo Stato, in cui il regime di comunanza di pro­ prietà è esteso generalmente a tutti i cittadini; si pro­ nuncia contro la guerra e non crea alcuna categoria di gente dedita professionalmente ad essa, considerandola una triste eventualità da affrontarsi solo se sia neces­ sario combattere p rò aris e t fo c is; chiama tutto il popolo alla partecipazione alla cultura, limitando a questo scopo le ore di attività lavorativa. L’ispirazione attinta a Platone sarebbe quindi di tipo abbastanza formale ed estrinseco, limitandosi a una certa analogia d’insieme che non corrisponde poi nella sostanza a nes­ suno dei particolari concreti che tale insieme compon­ gono; la stessa citazione che nel libro I dell 'U to p ia Moro fa di Platone deriva, si è notato, non direttamente dalla R e p u b b lic a o da altre opere di Platone (quelle L e g g i, ad esempio, che sono pur presenti al

pensiero del Moro come lo sono a Erasmo nel com­ porre la I n s titu t io ) , ma da Diogene Laerzio e dal suo riferimento di un episodio relativo a Platone, quando questi si sarebbe rifiutato di andare personalmente a dare una costituzione agli Arcadi perché essi non in­ tendevano iso n é c h e in , avere uguaglianza di beni . Tuttavia due obiezioni si possono muovere a que­ sta interpretazione del rapporto dell 'U to p ia col pen­ siero di Platone. In primo luogo, non si è forse dato il rilievo dovuto all’importanza della struttura del­ l’opera, che non è marginale rispetto al suo contenuto ma ne investe in pieno la sostanza: quando si parla di ‘ radicalismo ’ d e ll’U to p ia , non si tiene forse abba­ stanza conto dello specifico carattere teorico di questa. Già da quanto si è detto sopra appare chiaro che il radicalismo d e l l’U to p ia , ben lungi dall’essere un fatto valutabile puramente su piano politico o su piano psi­ cologico, è un importante fatto di ordine culturale, che va valutato sotto l’aspetto formale 13. Certo, non il solo Platone è presente al pensiero del Moro. Non è un caso che Diodoro Siculo, che tanto ci ha conser­ vato della letteratura utopistica antica, fosse fra gli autori riscoperti e valorizzati dalla cultura occidentale nel corso del secolo XV: la traduzione latina di Pog­ gio Bracciolini aveva reso largamente accessibile al mondo dotto la descrizione delle isole del Sole, for­ tunosamente raggiunte per mare da Iambulo e dai suoi

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12 D iogene L aerzio , V ita e P h ilo so p h o r u m , III, 23. Cfr. in proposito H exter , C o m p ì. W o rk s IV, cit., p. xxxvii ; ma, a parte questo punto specifico, per la ricorrente limitazione del debito di Moro verso Platone e per la puntualizzazione delle differenze del­ l’ideale società di Utopia da quella della R e p u b b lic a cfr. ivi, p a ssim , pp. xliv , cvii sgg., ex ecc. 13 Cfr. H exter , C o m p ì. W o rk s IV, cit., pp. cv-cxxiv, in part. cxxi sgg. Hexter sottovaluta qui come altrove l ’importanza del­ l ’ispirazione classico-umanistica del Moro: tuttavia per l ’idea, che egli sembra considerare squisitamente moderna, del recidere alle radici e ricominciare da zero, può non essere indifferente Platone, R e p u b b lic a , VII, 541 a-b, coerente conclusione dell’instaurazione ideale di uno Stato perfetto, che esigerebbe un taglio radicale col passato.

compagni, e della società felice che in essi viveva la sua vita secondo natura; e che l’interesse per tale tipo di letteratura fosse vivo e condiviso da altri nella so­ cietà inglese lo dice il fatto che già fin dalla fine del Quattrocento Diodoro venisse tradotto da John Skelton in lingua britannica 11. In certo senso e sotto certi aspetti, l ’U to p ia è più vicina a questi saggi di lettera­ tura utopistica ulteriore che non alla stessa R ep u b b lica ·. il quadro geografico in cui la descrizione è inserita, ag­ giornato ai tempi (il viaggio di Amerigo Vespucci) e reso infinitamente più preciso e circostanziato di quello antico, ricorda sensibilmente quello dell’utopia ales­ sandrina piuttosto che quello dell’utopia classica rigo­ rosamente ispirato a cornice cittadina; certo libero e felice naturalismo che in Utopia si respira, come me­ glio vedremo più oltre, fa pensare spesso a Iambulo più che a Platone. Tuttavia Platone resta per gli uma­ nisti il massimo e fondamentale esempio di creatore di città modello; combinata quanto si voglia con altre esperienze, è la R e p u b b lic a di Platone che resta pur sempre costante punto di riferimento. E veniamo con questo al secondo punto, che dalla critica appare curiosamente sottovalutato. Differen­ ziando troppo radicalmente l ’U to p ia del Moro dalla R e p u b b lic a e fondando su questo l’affermazione che il nostro autore dipende in realtà limitatamente da Platone, noi rischiamo di compiere un notevole errore di prospettiva storica: di confrontare cioè l ’U to p ia non con il Platone che il Rinascimento ha conosciuto e amato, e con l’immagine che ha tracciato di esso, ma con l’immagine di Platone uscita dalla critica filo­ logica e dalla storiografia filosofica del XIX secolo.

Col primo Platone, e non quest’ultimo, va confron­ tato Tommaso Moro. L’interpretazione verticistica e aristocratica che noi diamo oggi della R e p u b b lic a è certamente più rigorosa di quella tradizionale, alla luce di un nostro più maturo e critico modo di leggere i testi, ma è interpretazione emersa di recente: la R e p u b b lic a di Platone è stata in realtà intesa da secoli di tradizione culturale come un tipo di utopia sociale interessante largamente tutta la città. Così la interpretava ancora Hegel all’inizio del secolo scorso, nelle sue L e z io n i su lla sto r ia d e lla filo ­ sofia 15; e ancora a fine del secolo, nella sua S to ria d e l c o m u n iS m o e so c ia lism o a n tic o , Robert von Pòhlmann si sforzava, contro i risultati della più rigorosa critica tedesca, di tener fermo all’interpretazione del­ l’ideale platonico come un ideale comunistico genera­ lizzato 16. Sarebbe quindi fuori luogo voler affermare che Moro ha preso coscientemente dall’aristocratismo di Platone le sue distanze, quando la consapevolezza di tale aristocratismo è un fatto tanto più recente nella storia della critica platonica. Gli ‘ a rg u m e n ta ’ o proemi che Marsilio Ficino premetteva alle sue traduzioni dei dialoghi platonici possono essere molto interessanti in proposito. NelΓa r g u m e n tu m al libro III della R e p u b b lic a , ove è contenuto il famoso ‘ mito delle razze ’, Marsilio pun­ tualizza anzitutto che l’educazione alla razionalità, di­ retta contro l’insorgere delle passioni, l’educazione che egli chiama ‘ da soldati ’, è comune a tutto lo Stato 15 V o rle su n g e n iib er d ie G e sc h ic h te d e r P h ilo so p h ie , in S àm tlìc h e W erk e , XVIII (Jubilaeumausgabe, 4a rist.), Stuttgart 1965, pp. 290-91;

14 Di questa traduzione di John Skelton (1469P-1529) rimane oggi un esemplare ms. nella, biblioteca del Corpus Christi College di Cambridge; essa però era già nota in Inghilterra prima della fine del XV secolo. U e d itto p r in c e p s della traduzione di Poggio Brac­ ciolini è del 1472; la traduzione dello Skelton è stata edita solo di recente, T h e B ib lio th e c a H is t o r ic a o f D io d o r u s S ic u lu s , trad. ingl. di J. Skelton, a cura di F. M. Salter - H . L. R. E dwards, London 1956-57.

cfr. trad. it. di E. C odignola - G. Sanna, Firenze 19642, II, pp. 268-69. Per altri punti della sua opera in cui Hegel si esprime ana­ logamente rimando a quanto scritto in « La Cultura », XII, 1974, pp. 414-34. 1R R. v. P òhlmann, G e sc h ic h te d e s a n tik e n S o z ia lism u s u n d K o m m u n ism u s , Miinchen 1893, I, p. 269 sgg.; punto di vista riba­ dito nella successiva rielaborazione dell’opera, G e sc h ic h te d e r so z ia len F ra g e in d er a n tik e n W elt (Storia "della questione sociale nel mondo antico), Miinchen 1912, II, pp. 33 sgg., 99 sgg.

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platonico (« haec autem educatio militaris omnibus fere civibus est aeque communis ») e che essa implica anzitutto la mancanza di possesso privato (« prohibet quoque milites proprium aliquid possidere »). Ma è soprattutto nell’a r g u m e n tu m al libro V che egli si diffonde nel compiere la difesa della comunione dei beni, delle donne e dei figli, con l’esempio di racconti di popoli antichi, di sette filosofiche o religiose come Pitagorici ed Esseni, della stessa utopia di Iambulo narrata da Diodoro che viene qui fatta sostegno della proposta platonica, e infine della comunione apostolica dei beni, l’argomento cristiano che sarà ripreso poi da Erasmo 1718. Marsilio non sospetta una spaccatura verticistica in due della città platonica (il che pure si era già prospettato al testimone più prossimo all’in­ segnamento di Platone stesso, ad Aristotele, che co­ struisce in proposito una aporia nel libro II della P olitica™ )·, anche per lui Platone è portatore di un disegno unitario di città, che può esser realizzato a patto che veri filosofi siano al governo, e che resta peraltro valido come esemplare di assoluta unità e concordia, anche se difficilmente la realtà empirica ne permetterà mai la realizzazione. È comunque innegabile, nonostante questo, che l’atmosfera che si respira n ù Y O to p ia è assai diversa da quella della R e p u b b lic a platonica. A parte la com­ binazione con l’utopia ellenistica di cui si è detto, che introduce un sentire più liberamente naturalistico, 17 Questi A rg u m e n ta introduttivi alle traduzioni dei dialoghi, pubblicati con queste o, col nome di C o m m en tarla in P lato n e m , a sé stanti, con prima edizione nel 1496, sono poi riprodotti nelle edizioni ò ù V O p e ra o m n ia , Basilea 1561, 2a ediz. 1576; per le frasi citate, cfr. in quest’ultima, II, pp. 1400-2, 1404-6. Per Erasmo cfr. A d a g iu m ‘ am ic o ru m c o m m u n ia o m n ia \ in O p e r a , ediz. J. L eclerc , Leiden 1703-1706, II, col. 14 sgg. 18 A ristotele , P o lit ic a , I I , 1264 a, avanza in realtà l ’ipotesi che Platone possa aver prescritto la comunanza di proprietà e famiglia ai soli guerrieri e filosofi, custodi dello Stato, notando che ne risul­ terebbe così una insanabile spaccatura della città in due, contro le stesse intenzioni dell’autore. XVIII

l’ideale umanistico della cultura che qui si esprime è largamente passato attraverso la concezione cicero­ niana di h u m a n ita s , una concezione che rappresenta un più largo, duttile e sfumato ideale educativo, che viene dopo Aristotele, l’ellenismo e la Stoa, e cui non è estraneo l’insegnamento di Isocrate ampiamente ri­ cuperato dall’ellenismo 19: concezione e ideale, questi, che presuppongono l’esistenza di leggi eterne, di ca­ rattere etico-politico, esistenti nell’ordine naturale delle cose, accessibili ad ogni essere umano, alle quali ogni uomo può elevarsi per conoscerle ed attuarle in sé, e non solo quelli cui, come per Platone, una ‘ sorte divina ’, imperscrutabile e inafferrabile, ha accordato natura filosofica. È sul terreno di questa nuova con­ cezione che può innestarsi l’umanesimo cristiano; an­ che se, quasi paradossalmente, precristiano per eccel­ lenza da questi autori — e ciò non va mai dimenti­ cato — è considerato proprio l’aristocratico Platone, quello che alla nostra lettura odierna può sembrare più difficilmente conciliabile con il messaggio etico­ sociale del cristianesimo. 3. La città di Utopia è memore dei progetti di città razionale e funzionale del Rinascimento ita­ liano20: è una città bella, ben strutturata, salubre. In essa le abitazioni sono temporanee e scambievoli, 19 Cfr., per questa importanza della pedagogia di Isocrate in età ellenistica, Η. I. M arrou, H is t o ir e d e V éd u catio n d a n s l ’antiq u ité , Paris 1948, 19502, p. 128 sgg. {trad. it. S t o r ia d e ll’ed u caz io n e n e ll’a n tic h ità , Roma 19662, p. 124 sgg.). 20 F irpo , Introd. a U to p ia , cit., p. 19, circa i rapporti che in­ tercorrono fra il progetto del Moro e i modelli di città razionali del Rinascimento italiano, del Filarete, di Leon Battista Alberti, di Fran­ cesco di Giorgio, di Leonardo ecc. Come ulteriore esempio si veda l ’importanza che il Patrizi aveva dato alla ‘ r a tio a e d ific a n d i ’ nel citato D e r e ip u b lic a e in stitu tio n e , ove si trovano una serie di sug­ gerimenti per rendere bella, razionale e funzionale la città, suggeri­ menti entrati ormai a far parte a pieno diritto della trattatistica politica; una possibile influenza di quest’opera sulV U to p ia è ipo­ tizzata anche da H exter -Surtz , C o m p ì. W o rk s IV, cit., p. 392 sgg. XIX

la proprietà collettiva; è conservato però, in coerenza con l’etica tradizionale cristiana, l’istituto familiare. Lungi dall’abolire la famiglia, Moro fonda la sua città su una sorta di patriarcalismo cui non sono estranei ricordi della primitiva società romana; ma introduce pur sempre un elemento di rottura nella chiusura gerarchica e comunitaria della famiglia proponendo una libera intercomunicazione e uno scambio regolare dei figli che sono in eccedenza, e che andranno a bene­ ficare altre famiglie col lavoro delle loro braccia. Che la proprietà debba essere comune, ideale che risponde all’impostazione radicalistica dell’opera, è critica pro­ fonda ai mali che la proprietà ingenera nella società odierna, avanzata in forma di libero progetto teorico: e ha la sua giustificazione nella descrizione spietata che nel discorso del I libro, scritto almeno in parte dopo il I I 21, il Moro fa della società inglese del tempo. In una lettera a Erasmo scritta nel settembre 1516, Moro svela la serietà di fondo del suo ‘ gioco ’, e il suo intento di dare attraverso esso, indirettamente, anche norme valide per la vita politica e sociale: la sua opera, ch’egli chiama qui « Nusquama », tradu­ cendone il nome dal greco in latino, spera possa pia­ cere non solo agli uomini di lettere « sed etiam his qui sint ab abministranda republica celebrati » 22*. Utopia riposerà dunque su di una struttura econo­ mica di puro consumo e di assoluta eguaglianza, che permetterà a chiunque di godere allo stesso modo dei frutti del lavoro comune, comunemente messi a disposizione; sarà da essa bandita ogni tipo di scambio economico che possa degenerare in forme di lusso e di superfluo. La vita dei cittadini sarà rigorosamente comunitaria, non per disposizione dall’alto, ma per libera scelta, perché Utopia è città di libertà e non 21 Una approfondita analisi dei rapporti cronologici intercorrenti fra i due libri si ha oggi da parte di H exter , in C o m p ì. W o rk s IV, cit., pp. XV-XXIII. 22 Lettera di Moro a Erasmo, circa 20 settembre 1516, in A llen , O p u s e p isto la ru m E r a s m i R o te r o d a m ii, Oxford 1906-1958, II, p. 346. XX

di coazione; sarà basata sullo spirito di solidarietà sociale, in diretta contrapposizione con lo sfrenato individualismo che domina la vita degli Stati europei e delle società vigenti, quelle società ove ognuno per­ segue brutalmente il proprio interesse a scapito del prossimo, salvo poi a punire crudelmente chi soc­ combe alla spietata regola del gioco33. Per rendersi conto esattamente, dal punto di vista storico e teorico, di quale sia il significato di questo ideale di società, può essere opportuno il suo con­ fronto con un altro ideale di società comunitaria che sarà progettato a poco più di un secolo di distanza nella società inglese, il V ia n o d e lla leg g e d ella lib e rtà di Gerrard Winstanley. Ritroviamo, in esso, l’economia di puro consumo, l’avversione al lusso, la proposta dell’abolizione della proprietà e dell’istituzione di grandi magazzini collettivi per la soddisfazione dei bisogni, l’assoluta priorità del lavoro, l’istruzione ge­ neralizzata, la struttura politica elettiva 24. Ma il ca­ rattere di questa nuova utopia — perché pur sempre di utopia si tratta, di un progetto, cioè, di tipo radi­ cale, avulso da circostanze storiche concrete, impli­ cante un rovesciamento assoluto con le regole comuni della società vigente — è profondamente diverso. Se l’utopia del Moro era puramente paradigmatica, un esemplare, un modello teorico puro, volutamente in­ serito in una cornice fantasiosa, indicante nella stessa scelta dei nomi la sua assoluta irrealtà (dal nome di Utopia, ‘ senza luogo ’, ‘ in nessun luogo ’, a quello 23 Si veda, nel libro I, la condanna del diritto penale vigente, che colpisce il furto con severità eccessiva. Analoga critica della legislazione vigente in E rasmo , I n s t it u t io prin c. c h r ist., in E r a sm i O p e r a , IV, 1, Amsterdam 1974, p. 200 sgg. (trad. it. E d u c . princ. c r isi., cit., p. 138 sgg.); tuttavia in un quadro molto diverso, perché qui Erasmo si dimostra inteso a tutelare il diritto di proprietà pri­ vata e personale dei cittadini. 24 Cfr. V. G abrieli, P u r ita n e sim o e lib ertà. D ib a t t it i e lib e lli, Torino 1956, pp. 293-410 per la traduzione dell’opera; notizie sul­ l ’autore e i suoi tentativi net Saggio introduttivo, pp. xvi sgg., i .v ii sgg. XXI

di Amauroto, ‘ la città oscura o di Anidro, ‘ fiume senz’acqua o di Acori, ‘ gente senza territorio ’, o altri ancora), l’utopia del Winstanley è programma­ tica, si pone come un progetto in qualche maniera realizzabile, si propone come base per esperimenti sociali. Se volessimo usare terminologia mannheimiana, si direbbe che stiamo passando dall’ideologia all’uto­ pia, dalla speculazione puramente teorica al progetto del politico che, sia pure al massimo livello di astrat­ tezza, interpreta a suo modo esigenze che si agitano oscuramente nelle masse 25; ma non si saprebbe dire quanto il termine ormai così logorato e screditato di ideologia si attagli al progetto del Moro, o quanto gli schemi della sociologia tedesca del primo XX secolo siano adatti a interpretare compiutamente un feno­ meno come il suo platonismo politico. Tuttavia, quando si parla di modernità de ll’U io p ia sotto l’aspetto economico e sociale, occorre andar cauti e tener fermo a certe distinzioni. La fase del comu­ niSmo o socialismo utopistico così come noi siamo oggi avvezzi a concepirlo non è inaugurata da Tom­ maso Moro; lo è, semmai, da progetti quali quello del Winstanley, che intendono porsi come autentiche proposte. Progetti del genere aprono la strada alle utopie moderne, che si prolungheranno fino a Babeuf e forse più oltre, se pensiamo al carattere in definitiva ancora così astratto e immaginoso di certi progetti di Owen o di Fourier. Ma la stagione aperta d a ll’U to p ia del Moro, e che ha il suo trionfo nell’Italia della Con­ troriforma — età di frustrazione e di evasione, in cui tale genere letterario-politico ha una così rilevante for­ tuna, pur trattato con tutte le cautele ortodosse e pur­ gato (se si eccettua naturalmente l’utopia del Campa­

nella) delle punte più acute del suo radicalismo 26 —, è una stagione ben definita, con caratteristiche incon­ fondibili, che la distaccano da ogni tipo di pensiero e atteggiamento prammatico. Non proposta empirica, non programma proponibile, ma paradigma ideale im­ mobile posto a specchio rovesciato dell’attuale società, serio e pensoso gioco, ma gioco dell’intelligenza, che intende in tal modo criticare radicalmente, ma, ap­ punto in virtù di tal radicalismo, non in modo che possa servire di base a trasformazione e azione con­ creta. Tutto questo può ben chiamarsi ancora plato­ nismo, e va considerato il frutto più maturo del pla­ tonismo umanistico. 4. Si resta perplessi di fronte alla posizione di autorevoli critici recenti27 quando essi sembrano ne­ gare alla religiosità degli Utopiani caratteri di novità e modernità, ricollegandola genericamente a tutta una corrente cristiano-umanistica che è poi vista sostan­ zialmente in chiave di continuità con la religiosità del tardo Medioevo. Certamente non si potrebbe nem­ meno senza errore di prospettiva storica considerare Moro un anticipatore dei temi che saranno cari alla teologia razionale del XVII e del XVIII secolo. Lo schema dell’anticipazione è di per sé erroneo e fuor­ viarne. Né Moro né Erasmo ‘ anticipano ’ tematiche future: essi vivono una stagione in cui si sono andate maturando tematiche che l’esplosione della guerra reli­ giosa e il dilaceramento del mondo cristiano ricacce-

25 K. M annheim , I d e o lo g ie u n d U t o p ie , Bonn 1929, ediz. ingl. London 1953; trad. it., I d e o lo g ia e u to p ia , a cura di A. Santucci, Bologna 1957, in particolare pp. 194 sgg., ove l’autore traccia una distinzione fra ideale irrealizzabile allo stato puro e ideale di rottura con la situazione vigente ma contenente un nucleo di realizzabilità.

26 Per questi sviluppi cfr. soprattutto L. F irpo , L o S ta t o id eale Bari 1957. 27 Mentre dà grande importanza di originalità e novità alla teoria sociale comunistica dell’U to p ia , H exter {C o m p ì. W o rk s IV, cit., pp. lxv sgg., lxxv sgg. e altrove; cfr. per esempio l’affermazione che la modernità di U to p ia non è da vedersi nella religione né nella filosofia degli Utopiani, p. evi) tende a ridurre l’importanza del naturalismo e razionalismo religioso del Moro, con tendenza ad as­ similare del tutto il suo pensiero a quello di Erasmo, che rappre­ senta così tipicamente l’aspetto teologico-cristiano deirumanesimo.

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d e lla C o n tro r ifo rm a ,

ranno temporaneamente indietro, e che torneranno più tardi a proporsi con più sicura coscienza. In altre pa­ role, sia Moro che Erasmo possono, alle soglie della Riforma, sostenere cose che non potranno di lì a pochi anni più sostenersi senza sospetto di eresia, e anche che non si oserà più affermare senza remore più in­ time, una volta fatti consapevoli di una loro possibile portata sovvertitrice e delle conseguenze che possono di fatto derivarne. Due volte, in due diversi contesti, Moro torna sulla religione degli Utopiani. Nel primo dei due luoghi il quadro che ne traccia appare più chiaramente trascen­ dentistico: gli Utopiani credono neH’immortalità del­ l’anima e nella ricompensa del bene e punizione del male al di là dei confini della vita. Vi credono sulla base della ragione: è questa che li porta a sostenere l ’esistenza di un Signore supremo della natura che sia anche giudice del bene e del male, giacché, privi come sono di rivelazione, non possono aver tratto tale con­ vinzione altro che dal lume naturale. Moro inserisce queste considerazioni in un contesto che si richiama a Cicerone e a Seneca, e si riallaccia a dottrine stoiche ed epicuree 28; tuttavia i tratti della sua religione ra­ zionale sono quelli tipici di un deismo a sfondo cri­ stiano, di una sorta di cristianesimo senza dogmatica, mistero o ritualistica. Alquanto diversamente Moro tratteggia la religione o le religioni degli Utopiani al­ trove: essi appaiono, in questa seconda descrizione, dominati da un più schietto naturalismo, giacché, a parte coloro che, con forma di religiosità più ingenua, 28 Sono state notate da più commentatori le dipendenze di questi passi d e ll’U to p ia da opere di Cicerone quali il D e fin ib u s e il D e n atu ra d e o ru m , dalle epistole e dal D e otto di Seneca ecc.; per le notizie sugli Epicurei, la cui concezione del piacere è per gli Utopiani assai importante, ancora il D e fin ib u s , o fonti greche quali D iogene L aerzio , V ite d e i filo so fi, X. Tuttavia non va trascurata la mediazione di Lorenzo Valla; sull’epicureismo nel Rinascimento cfr. E. G arin, L a c u ltu ra filo so fica d e l R in asc im e n to ita lia n o , Firenze 1961, pp. 72 sgg. (già prima in E p ic u r e a in m em o riam H e c to r is B ig n o n e , Genova 1959, pp. 217 sgg.). XXIV

venerano direttamente forze della natura, anche coloro che praticano la religione nella forma piu elevata riten­ gono che il dio supremo, che essi chiamano Mitra, essere sommo, universale e provvidenziale, si identi­ fichi con la natura stessa. Tale naturalismo ha più aperte origini stoiche, ed è in buona parte mediato attraverso la descrizione diodorea della venerazione del Sole da parte degli abitanti delle isole felici sco­ perti da Iambulo. Il tratto più interessante di questa seconda descrizione è la presentazione della tolleranza di Utopo e dei suoi successori, tolleranza limitata sul piano pratico da alcune cautele (l’ateo potrà parlare delle proprie convinzioni di fronte a sacerdoti e uomini dotti, non di fronte al popolo, cui potrebbe esser dan­ noso) ma totale per quel che riguarda la disparità delle credenze. In realtà solo l’ateo è bandito, non l’eretico, ammesso che di eresie possa parlarsi là ove non esiste dogmatica ufficiale; e anche l’ateo è bandito relativamente, in ogni caso non perseguitato, anche se risulta socialmente e civilmente emarginato. Ora, se il Medioevo non ha ignorato il concetto e la pratica della tolleranza religiosa, pur dando di essa una versione sostanzialmente strumentale 29, per la concezione della tolleranza quale appare in Utopia sono certo da ricercarsi antecedenti più prossimi. Sono da cercarsi in seno a quell’umanesimo italiano che alla tolleranza era stato sollecitato da due motivi fondamentali: da un lato la tendenza a superare le contrap­ posizioni teologiche, sia in nome dell’esigenza pratica di una maggiore unione fra le confessioni cristiane che si verificò nel corso del XV secolo, sia in nome di una nuova mentalità culturale ostile a sottili e com­ plicate impalcature concettuali come a qualsiasi spi­ rito di chiusura tecnicistica; dall’altro l’incondizionata esaltazione della perfezione morale e intellettuale rag29 Cosi lo stesso T ommaso d ’A quino , S u m m a T h e o lo g ic a , 2 a 2 ae, q. 10, a. 8; o A ngelo da Chivasso , S u m m a a n g e lic a , s.v. T o lle ran tia, 1499, fol. 429 v (citati entrambi da Hexter-Surtz nelle note di commento). XXV

giunta dal mondo antico, vale a dire dalla ragione umana allo stato puro, prescindente dalla rivelazione. Il riconoscimento della ammissibilità e anche della validità di più confessioni religiose si era maturato nel clima irenistico del concilio di Firenze, e un filo ininterrotto —■ anche se la continuità può apparire spezzata guardando a quella che è la storia dei grandi movimenti religiosi nel corso del XVI secolo — lega questo irenismo alla più matura e tardiva concezione della religione naturale sulla base di una tematica es­ senzialmente cristiana, ma allargata ormai oltre i con­ fini confessionali, nella teologia razionale del secolo X V II3 . Respinta da Riforma e Controriforma, la teoria della tolleranza avente a sua base una conce­ zione della religione autentica — e dello stesso cristia­ nesimo visto quale religione autenticamente secondo natura — come costituita di poche verità essenziali e primarie, antecedente a qualsiasi più complessa ela­ borazione ritualistica e dogmatica, avrebbe continuato la sua vita marginale e clandestina durante il XVI secolo per rinascere e affermarsi una volta esauritasi la violenza delle contrapposizioni religiose e teologi­ che. Così il discorso interrotto del Moro sarebbe stato ripreso in Inghilterra da quello deistico incentrato in­ torno all’ideale del ‘ cristianesimo non misterioso ’ 31, e il discorso sulla tolleranza avrebbe trovato nel Locke una espressione più matura. Certo, lo stesso secolo XVI presenta teorie più audaci di quella di Tommaso Moro, il quale, una volta Sull atmosfera creata dal concilio di Firenze e la * docta religio di Marsilio Ficino cfr. il già citato L ’u m an esim o ita lia n o di E. G arin; oggi un buon orientamento generale sull’idea di tolle­ ranza in Europa si può avere da M. F irpo , I l p ro b le m a d e lla t o l­ le ran z a re lig io sa n e ll’età m o d e rn a , Torino 1978. 31 Notizie in proposito di Toland, Collins e il deismo in C. D entice d ’A ccadia, P re illu m in ism o e d e ism o in I n g h ilte rra , Napoli 1970; M. Sina , L ’av v en to d e lla rag io n e . ' R e a so n ’ e ' a b o v e R e a so n ' d a l r az io n a lism o te o lo g ic o in g le se a l d e ism o , Milano 1976.

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delineata la religione essenziale e semplificata degli Utopiani, si preoccupa di sottolinearne l’accordo col messaggio della rivelazione. A fine del secolo, in un’opera peraltro che l’autore non penso mai di poter dare alle stampe, neanche sotto la protezione del­ l’anonimato — il C o llo q u iu m H e p ta p lo m e r e s — Jean Bodin ravvisava la religione secondo natura non nel nucleo essenziale del messaggio cristiano, ma in quello del giudaismo primitivo, in quella religione biblica pre-mosaica che era stata la religione di Abele e di Noè e dei patriarchi, libera dalle ulteriori superfeta­ zioni ritualistiche e normative. Leibniz, uno dei mag­ giori teorici della religione razionale e dell’unità fra le Chiese, avrebbe cercato invano di far stampare que­ st’opera: troppo sconvolgente per la sua audacia an­ che nell'atmosfera culturale del tardo XVII secolo, essa era destinata a restar manoscritta fino alla metà del secolo scorso 32. Ma per cogliere il carattere razio­ nalistico dell’ideale del Moro è relativamente oppor­ tuno il paragone con opere ulteriori, nate dopo lo sconvolgimento profondo operato dalle guerre di reli­ gione e in seno a una cultura europea sempre più aperta allo studio delle lingue ‘ orientali ’ — l’ebraico, l’aramaico, l’arabo — con un allargamento notevole dell’orizzonte culturale del primo umanesimo, ancora univocamente classicistico e cristiano. Moro desume dal neoplatonismo cristiano i temi della provvidenza di Dio e dell’immortalità dell’anima come dogmi fon­ damentali del suo cristianesimo semplificato e più in generale della religione secondo natura: sono temi cari a Marsilio Ficino, nella sua identificazione della ‘ pia p h ilo s o p h ia ’ degli antichi, di Platone in particolare, 32 J. B odin, C o llo q u iu m H e p ta p lo m e r e s d e reru m arc a n is a b d itis , ed. L. N oack, Schwerin-Mecklenburg

su b lim iu m

1857, rist. anast. Hildesheim 1970; lo stesso Noack, nella prefazione, ricorda il vano tentativo del Leibniz, che fu bloccato dall’intervento del­ l’autorità.

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con la ‘ d o c ta relig io ’, con la religione secondo ra­ gione33. Ma c’è nel suo ideale di religiosità un at­ teggiamento meno univocamente trascendentistico di quello di Marsilio e un naturalismo più accentuato. Gli è presente oltre a Marsilio anche il Valla, col suo sereno e razionale ricupero dei fraintesi valori del1 epicureismo. Opera in lui un fattore non trascurabile, che è il ricupero della filosofia ellenistica compiuto dall’umanesimo, dopo la nuova e più ampia lettura di Cicerone, dopo la riscoperta di Diogene Laerzio e delle sue esposizioni dossografiche della dottrina stoica ed epicurea: fatto culturale importante, da cui l’orizzonte filosofico esce allargato e anche mutato, arricchito di una nuova coscienza di valori immanenti all’universo fisico e alla natura dell’uomo che in esso opera. Così nell’ideale religioso d e ll’U to p ia convivono, ancora non ben fusi né amalgamati, due diversi mo­ tivi: il momento razionale-naturale, di origine classica, richiamante il naturalismo stoico e il razionalismo etico epicureo, e il momento teologico di origine cristiana che cerca la sua conferma nel trascendentismo plato­ nico. Perciò la religione degli Utopiani è da un lato volta alla natura, al mondo, alla vita socialmente at­ tiva, al godimento razionale e misurato del piacere; dall altro fondata sul principio della divinità dell’anima immortale. Domina tuttavia pur sempre il tutto una sensibilità profondamente diversa da quella del tardo Medioevo, tutta umanistica e nuova: fastidio delle disquisizioni logico-teologiche, senso altissimo dell’ec­ cellenza e dignità dell’uomo secondo natura, tendenza a ricercare quel nucleo ragionevole della credenza cri-

stiana che possa imporsi all’intelligenza umana al di là di ogni tecnicismo dogmatico, poiché fatto di verità fondamentali assolutamente semplici. In base a questa loro religione, e non alla ulteriore e sopravvenuta scoperta della religione cristiana, gli Utopiani vivono la loro vita di virtù umana perfetta. Che la ulteriore scoperta della religione cristiana e l’adesione ad essa possa anche produrre effetti degenerativi, è chiaro dalla vicenda del neofita fanatico, disprezzatore di tutte le altre religioni, che indirettamente Moro bolla di condanna: devia dalla retta virtù secondo natura chi ritiene che forme religiose non cristiane siano per ciò stesso condannabili, giacché l’istanza umana che vive in esse è la stessa che vive e opera in seno al cristianesimo, anche se è dato per scontato che solo in questo raggiunga la sua attuazione perfetta.

È tema sviluppato dal Ficino nella T h c o lo g ìa p la to n ic a d s im m o rta lita te anim orum ·. cfr. oggi M. F icin , T b é o lo g ie p la to n ic ie n n e d e l ’im m o rta lité d e s a m e s, Paris (Belles Lettres) 1964-1970, a cura

5. Sono state spesso paragonate la posizione di Erasmo e quella di Tommaso Moro nei confronti della guerra. È, questo, uno dei punti in cui si pone più acutamente il contrasto della sensibilità umani­ stica con quel sentire cristiano tradizionale consacrato dal Medioevo contro il quale Erasmo in particolare, nella I n s titu t io p r in c ip is c h r istia n i, eleva la sua pro­ testa. La posizione di Erasmo può sembrare, ed è sotto certi aspetti, ancora più radicale di quella del Moro. In Utopia si riconosce la dottrina tradizionale del ‘ b e llu m iu s tu m ’, si ammette cioè la liceità della guerra « prò fide aut prò salute » 34, per difendere se stessi o per proteggere gli alleati, e anche per rispon­ dere ai torti subiti ingiustamente; a questo scopo alla guerra ci si esercita collettivamente, tutti, donne com­ prese, in virtù di quella uguaglianza fra i due sessi che Moro attinge alla R e p u b b lic a platonica 35. Si cerca semplicemente, in questi casi, di ridurre e limitare al

di R. M arcel. Ma per lo sviluppo del concetto di ‘ pia philosophia ’ sono molto importanti le E p is t o l a e (« tota priscorum philosophia nihil aliud est quam docta religio », O p e ra, Basileae 1576, I, p. 854). Per il Valla cfr. sopra, nota 25. ’ ’

34 C icerone, D e r e p u b lic a , III, 23, 34; conosciuto dai dotti del Rinascimento tramite A gostino, D e c iv ita te D e i , XXII, 6. 35 P latone, R e p u b b lic a , V, 454 e sgg.

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massimo i danni della guerra; e che, allo scopo di evi­ tarla, Moro riconosca la liceità di mezzi fraudolenti, di inganni e raggiri, non è forse ironia e derisione di costumi vigenti, come a più critici è sembrato, quanto tratto di schietta sensibilità rinascimentale, che tende a giustificare i mezzi col fine e non arretra di fronte a nessun mezzo che sia opera di intelligenza e di in­ gegnosità 3637.Ma Erasmo, nella I n s titu t io almeno ” , va più oltre: Erasmo nega che possa esistere un ‘ b e llu m iu s tu m ’: la rovinosità crudele della guerra supera ogni possibile sua giustificazione. E singolare vedere come Erasmo critichi le posi­ zioni di Agostino nel D e c iv ita te D e i e soprattutto quella di Bernardo di Chiaravalle nel D e la u d e n o v a e m ilitia e , oltre che le opinioni codificate nel diritto canonico — cioè la accettazione e giustificazione della guerra propria della sensibilità cristiana del Medioe­ vo 38 — richiamandosi alle fonti neo testamentarie nella loro purezza; alla tradizione intermedia viene con­ trapposta la validità del messaggio cristiano originario, pur con tutte le cautele che rispondono al carattere sempre mediatorio della posizione erasmiana, avendosi cura cioè di limitare la critica a singole posizioni, di non generalizzarla né radicalizzarla. È anche singolare vedere, di contro, come anche qui Platone sia sentito 36 Così H exter-Surtz , C o m p ì. W o rk s IV, cit., pp. 502-503; F irpo , Introd. a U t o p ia , cit., p. 14. 37 Itis i, p rìn c. c b r is t., in O p e r a , IV, 1, pp. 213 sgg. ( = E d u c . prirtc. c r is i., cit., pp. 156 sgg.). Così anche in altre opere, cronolo­ gicamente vicine alla I n s t it u t io , quali Y A d a g iu m , poi divenuto una operetta a sé stante, D u lc e b e llu m in e x p e rtis, e la Q u ere la p a c is ;

mentre più tardi, di fronte alla necessità di riportare unità nel mondo cristiano dilacerato dalle guerre di religione, la posizione di Erasmo sembra subire qualche attenuazione. Cfr. oggi di tutto questo un ampio panorama in G u e rre e t p a ix d a n s la p e n sée d ’E r a sm e , a cura di J. C. M argolin, Paris 1973. 38 D e c iv ita te D e i , IV, 5; XIX, 7; B ernardo di C hiaravalle, D e lau d e n o v ae m ilitia e , P.L. CLXXXII, col. 924 ( = ed. L eclercqT albot-Rochais , III, pp. 217-18); D e c re tu m G r a tia n i, pars II, causa 23, q.l. Rimando a M. I snardi P arente, Introduzione a L 'e d u ­ ca z io n e d el p rin c ip e c ristia n o , cit., pp. 37 sgg. XXX

come un modello, e come un’interpretazione pacifista sia data a passi che sono oggi per noi significativi di un atteggiamento panellenistico sì, ma non certo uma­ nitaristico: a proposito di un famoso passo platonico { R e p u b b lic a , 470 c sgg.) in cui si nega la liceità della guerra fra Greci, non certo della guerra in generale, Erasmo si pronuncia favorevolmente, indicandolo ai cristiani in lotta reciproca come invito all’amore fra appartenenti a una stessa stirpe ideale 39. L’esempio classico è implicitamente contrapposto, insomma, al biasimo dell’atteggiamento cristiano della tradizione, e visto come più coerente di questo al contenuto ori­ ginario del cristianesimo; né Platone — lo si può an­ cora una volta riaffermare — è visto come il fautore di una é lite di guerrieri, anzi al contrario, come un testimone in favore dell’amore fra fratelli. È in base a questo stesso modo di interpretare Platone che al­ trove lo stesso Erasmo, in un A d a g io famoso, ha po­ tuto, come si è visto, paragonare la comunanza dei beni nello Stato della R e p u b b lic a a quella delle pri­ mitive comunità apostoliche40. La posizione di Tommaso Moro si differenzia dun­ que da quella di Erasmo quanto alle premesse teoriche e al quadro d’insieme. Ma c’è un punto in cui i due pensatori coincidono, ed è della massima importanza: la considerazione e commiserazione del popolo spinto alla guerra contro sua volontà dalla furia dei prìncipi. Moro afferma che in questa condizione si trovano sempre i popoli nemici di Utopia, che perciò gli Utopiani, nonostante tutto, commiserano. Questo significa che il ‘ b e llu m iu s tu m ’ vige solo in Utopia, cioè nella terra di nessuno e nello Stato che non esiste di fatto: la guerra di tutti i popoli che esistono di fatto è in realtà ingiusta, e il 1b e llu m iu s tu m ’ può essere ac­ cettato solo come un’astrazione normativa, essendo in realtà evidente che esso non trova mai riscontro nella 39 I n s t . fr itte , c h r is t., p. 214 ( = 40 Cfr. il già citato A d a g iu m ed. J. L eclerc , I I , col. 14 sgg. XXXI

E d u c . p rin c. c r is i., cit., p. 158). ' a m ic o r u m c o m m u tila o m n ia ’,

pratica. Perciò la condanna di Moro viene a raggiun­ gere la condanna di Erasmo, anche se essa può sem­ brare meno aperta e meno generalizzata a prima vista; lo è altrettanto in effetti, dal momento che solo Uto­ pia ne è esente. Un intenso spirito di umanitarismo percorre l’opera del Moro, una pietà umana che si estende anche al mondo non umano: lo dice la sua condanna della caccia come stupida arte violenta della sopraffazione del debole, arte che gli Utopiani non praticano. E quando egli prende in considerazione il cane che di­ lania la lepre non è la ferocia primitiva che egli con­ sidera e condanna, ma al contrario la violenza nuova e sofisticata creata ad arte nell’animale, che ha appreso docilmente le crudeli arti dell’uomo: non diversamente, n e l l’E lo g io d e lla fo llia , Erasmo compiange e biasima insieme gli animali che si sono assoggettati alle regole della follia umana, perdendo così la primi­ tiva innocenza di cui godono ancora quelli non asser­ viti all’uomo41. Le conseguenze teoriche di questi spunti non potranno esser tratte che più tardi: in Moro come in Erasmo essi non si sviluppano in una teoria filosofica generale, ma sono contenuti nell’am­ bito del messaggio etico contro la violenza: né è certo per questo minore la loro importanza. 6. Ma rimane ancora da affrontare un ultimo problema: chi sono in verità gli Utopiani? Sono uomini rimasti allo stadio di ragione naturale del mondo an­ tico, uomini che di questa ragione naturale hanno saputo raggiungere l’espressione più alta, quella che 1 umanesimo riconosce ai grandi filosofi greci o ro­ mani, a un Socrate, un Platone, un Seneca; oppure sono, pur se la loro esistenza è posta solo a mo’ di ipotesi assolutamente teorica, gli uomini secondo ra­ 41 L a u s s t u ltitia e , p a z z ia , trad. T. F iore ,

ed. L eclerc , IV, coll. 435-436 (E lo g io cit., 1964·’ , pp. 55-56). XX X II

d e lla

gione naturale creati immediatamente da Dio, quali sarebbero stati se il primo uomo non fosse caduto nel peccato? L’esistenza degli Utopiani è un’ipotesi teo­ logica per assurdo, oppure rientra in pieno nell’atmo­ sfera culturale umanistica, sì che Utopia possa dirsi una piccola repubblica platonica data per ipotesi come realizzatasi effettivamente in una lontana isola felice? Che il problema del peccato originale e della sua estensione, e in conseguenza dell’estensione della re­ denzione, a tutti gli uomini, fosse diventato scottante dopo la scoperta delle nuove terre dell’altro emisfero, è cosa troppo scontata e ovvia perché vi si debba in­ sistere 42. Che peraltro la coscienza cristiana dovesse ripugnare immediatamente a qualsiasi ammissione di limitazione del messaggio della redenzione, è altret­ tanto ovvio: la redenzione e la rivelazione sono fatti di ordine universale, interessano tutta l’umanità; nes­ suna parte dell’umanità sfugge quindi all’imputazione del peccato. Sono problemi che ancora un secolo e mezzo più tardi si imporranno anche a un singolare pensatore quale Isaac de la Peyrère, autore della teoria dei ‘ preadamiti ’, assertore cioè di una doppia nascita dell’umanità fondata sul testo biblico, che in effetti parla due volte, nella G e n e s i, di creazione dell’uomo: per cui Adamo sarebbe solo il padre del popolo ebrai­ co, e non dell’umanità intera. Da questa singolare ipo­ tesi dovrebbe scaturire la conseguenza logica che il peccato interessa solo quella parte di umanità che di­ scende da Adamo; ma anche il La Peyrère si sforza di dimostrare l’universalità della redenzione e quindi l’imputabilità del peccato, tramite Adamo, anche alla

42

Per giuste osservazioni sugli intenti di T. Moro cfr. ancora

F irpo , Introd. a U to p ia , cit., p. 16. La letteratura critica sulle di­

scussioni fra i dotti del XVI e XVII secolo relative al problema del poligenismo e alla collocazione dei nuovi popoli scoperti nel quadro della redenzione è assai ampia; cfr. di recente D. P astine , L e o r ig in i d e l p o lig e n ism o e Isa a c L ap e y rè re , in M isc e lla n e a S e ic e n to , I Firenze 1971, pp. 9-234, in particolare pp. 26 sgg. X X X III

porzione di umanità a lui precedente43. Perciò, se Tommaso Moro avesse voluto rappresentare negli Utopiani ipotetici uomini liberi dal peccato originale, la sua raffigurazione di Stato ideale si configurerebbe come un gioco teologico per assurdo, puramente gra­ tuito, basato su un presupposto da rifiutarsi a p rio r i. Se noi guardiamo al modo come l’umanesimo si è raffigurato la sapienza antica nelle sue espressioni più alte, possiamo facilmente constatare come non ci sia bisogno di ricorrere a un’ipotesi così gratuita e im­ possibile per aver la chiave della saggezza e ragione­ volezza degli Utopiani. L ’U to p ia rappresenta tutto ciò che la ragione umana può compiere con le sue forze naturali; ma questo stadio di perfezione è stato in effetti già raggiunto nel corso della storia dell’umanità. E stato raggiunto da singoli, certamente, e non da una città nel suo complesso, perché mai la società umana ne ha conosciuta in effetti una come Utopia; e la no­ vità che il Moro prospetta consiste nelì’immaginare che, in un luogo che ‘ non esiste ’, possa formarsi e costituirsi una città così fatta, in contrapposizione ra­ dicale allo Stato esistente di fatto, vera anti-Inghilterra, vera anti-Europa. Tuttavia Moro non dipinge una ra­ gione umana impossibile: dipinge solo una condizione e una situazione di fatto irrealizzabile, sulla base però della considerazione di ciò che la ragione umana può dare nel suo pieno dispiegamento. E un grande atto di fiducia nelle forze razionali naturali dell’uomo, che porrà di lì a pochi anni l’autore in radicale contrasto con la Riforma, così come di fronte ad essa si porrà Erasmo nella sua difesa del libero arbitrio.

43 L ’opera del L a P eyrère , P r a e a d a m ita e , fu stampata nel 1655 ad Amsterdam, senza indicazione di luogo, dando subito occasione a numerosissime confutazioni e costringendo l’autore, per salvarsi dalla condanna, a una formale ritrattazione dell’opera e all’abiura della fede calvinista. Cfr. ancora P astine , o p . c it ., pp. 175 sgg. per il problema che qui ci interessa in particolare (il tentativo cioè del La Peyrère di salvare l ’universalità della redenzione). XXXIV

Torniamo così, per altra strada, al platonismo di Tommaso Moro, dato questo che non va mai dimen­ ticato. L ’U to p ia ci dà la dimostrazione di quello che possa produrre il principio fondamentale della deon­ tologia platonica — quel principio secondo cui è l’idea che è la vera realtà, mentre ciò che noi consideriamo reale nella vita comune non è in effetti che una devia­ zione dalla norma perfetta, cioè dalla autentica natura razionale delle cose — se innestato in un contesto di polemica etico-sociale quale è quello da cui la consi­ derazione del Moro prende le mosse. Per questa sua intrinseca validità teorica, essa è rimasta singolarmente viva nella storia del pensiero, più viva di altri pro­ getti analoghi che hanno tentato di farsi programmi e, in questo contrasto fra irrealismo intrinseco e ten­ tativo di realizzarsi, hanno scoperto tutta la loro fra­ gilità, la loro ingenuità, talvolta la loro arretratezza di fronte al diverso evolversi delle situazioni storiche. La forza d e ll’U to p ia non è solo nell’essere un ideale radicale e assoluto, ma nel suo porsi come paradigma puro e non come programma di azione. È difficile non riconoscere in questo l’influenza della conclusione di Platone, posta quasi a suggello della costruzione dello Stato ideale: « di questa nostra città l’esemplare sta forse nel cielo, e non è molto importante che esista di fatto in qualche luogo o che mai debba esistere; a quell’esemplare deve mirare chiunque voglia in primo luogo fondarla entro di sé » 44. M

a r g h e r it a

44 P latone, R e p u b b lic a , IX, 591 b. XXXV

I

s n a r d i

P

a r e n t e

INTRODUZIONE

Nessuno è divino che non sia umano, nes­ suno è umanissimo che non sia divino. M arsilio F icino

Appare la prima volta il nome del Moro in bocca a Erasmo, sulla fine del 1499, fra quel gruppo di umanisti che, per purgare le scorie del passato, erano ispirati dal Colet alla religione universale del Ficino '. Non aveva che 21 anni, allorché veniva accolto con ammirazione in una larga cerchia di studiosi, da pa­ dre Grocyn, dal medico Linacre, dal futuro direttore della scuola di S. Paolo, Lily, a tanti altri, il Tilly, il Latimer, Thommaso Wilson, sino all’arcivescovo Fisher e a politici quali Pace, Tunstall, Elyot. Eccolo dunque inserito nella battaglia europea guidata da Erasmo, e poi da Bude e Lefèvre, da Reuchlin, dal Vives; a prò dell’umanesimo, la duplice ren a scen tia delle lettere e del cristianesimo, secondo la nota espres­ sione del Burdach 2. Veramente il Moro, per tradizioni familiari, era stato avviato alla legge e da fanciullo educato in casa del cardinale Morton, gran cancelliere, alla discussione degli affari più gravi. Ecco come nell’umanesimo portò una sua particolare esperienza, di professore di di­ ritto a Furnival’s Inn, deputato, sottosceriffo, cioè difensore dei diritti di Londra, e avvocato. Il 1501 vien pregato dal Grocyn di commentare in S. Lo­ renzo il D e c iv ita te D e i, e lo fa senza sottigliezze teo1 A llen , O p u s e p is to la r u m E r a s m i, Oxford 1906, I n. 118.

1 R ifo r m a , R i n a s c im e n to , PP. 80-1 e 108.

U m a n e s im o ,

XXXIX

trad. it., Firenze 1935

logali, nello spirito storico del Colet. Uomo dei suoi tempi, rivolge però la sua ammirazione al Savonarola e poi al Pico; di quest’ultimo traduce la vita e ne accetta l’indirizzo senza servilismo. Ed ecco nella primavera del 1504 il difensore di Londra intoppare nella prima disavventura col go­ verno: il ministro lo chiama « un ragazzo imberbe » per aver osato di risponder picche a una richiesta di pecunia da parte del re. E il bel risultato fu che dal regale sdegno fu costretto a ritirarsi a vita privata; peggio, suo padre, membro della commissione creata per il sussidio, venne messo in prigione, di dove lo trasse una multa. Nulla di strano che il Moro si sfo­ gasse in epigrammi fra morali e politici. Ce n’è uno, Quis optimus reipublicae status, che svolge la pole­ mica antimonarchica ed è quasi un primo abbozzo dell’Utopia. Non gli mancava certo il buon umore, do­ tato naturalmente com’era di uno spiritaccio mordace e fantasioso, e volentieri levava il pelo a frati e uo­ mini di chiesa mondani e ignoranti. L’avvento di Enrico V ili, marzo 1509, riaprì al Moro la professione e la carriera, e al gruppo uma­ nistico la spinta a osare. In un suo carme al re tro­ viamo quello che sempre chiedono i popoli: fine del regime di terrore con l’annesso spionaggio, dominio della legge, libertà commerciale e conseguente poli­ tica tributaria, indipendenza della magistratura e pro­ movimento della cultura. L’autunno dello stesso anno vien fuori 1’Encomìum Moriae ed è dedicato al Moro: proprio in casa di costui, Erasmo redige il manifesto di quel cristia­ nesimo umanistico che il Voltaire del Cinquecento ve­ niva elaborando, quasi un presentimento dell’illumi­ nismo. Il noto giudizio è del Dilthey3. E non è un caso. L’abate Bremond, che sa tante cose, assicura che non basta parlar di collaborazione da parte del [i IS a n a lis i d e l l ’u o m o e l ’in tu iz io n e d e lla n a tu r a ,

nezia 1927. XL

trad. it., Ve­

Moro: costui « ha voluto tirar qualche colpo a lato del suo amico. Vi sono pubblicazioni di lui che rag­ giungono la Moria ‘ per caustica malizia e spirito ag­ gressivo ’ » \ Ma c’è ben altro! Il Moro si assume la responsabilità di quella spassosa denuncia contro il farisaismo ecclesiastico che è l’Elogio della pazzia, e ne scrive una lunga lettera a un teologo tedesco, il Dorp, che oscillava fra le varie tendenze del tempo 5. È difficile trovare pagine più erasmiane di queste: 10 stesso attacco contro dialettici e teologi, contro il principio di autorità negli studi, la stessa difesa delle lettere classiche e della loro utilità per gli studi civili e sacri, le stesse schernevoli accuse contro la scola­ stica, di assurdità, vaniloquio, immoralità, indifferen­ za ai veri problemi di religione, d’inutilità, d’ingom­ brante onniscienza e cialtroneria... E qui l’aneddoto esilarante del teologo che, a sostegno delle sue tesi, non esita a citar dal Vangelo e dalla Bibbia testi mai esistiti: il teologo « è come un gallo che canta nel suo immondezzaio e fuor di lì non è buono a nulla ». Il re intanto nel 1512 riprende la vecchia politica, la Francia era « suo patrimonio ed eredità »! L’anno seguente il Colet predica in presenza del re, attacca 11 modo brigantesco di far la guerra. Il Moro intanto lavora a una esposizione storica dei suoi tempi, e ber­ saglio è sempre la tirannide, non quella in astratto, della tradizione classica, ma della monarchia inglese, né più né meno. L’eroe è Hastings, stoicamente drap­ peggiato: il nobile va a morte innocente, con orgo­ glioso disprezzo della morte. Anche la druda regale trova grazia presso il nostro, perché ingiustamente perseguitato, e non è la prima volta che egli sente il fascino della bellezza 6. Due anni dopo che la guerra è finita, è difficile, fra Moro ed Erasmo, trovare chi la detesti di più, 4

L e b ie n b e u r e u x T . M o r e ,

Paris 1930.

5 A llen , op. c i t ., IV n. 1044, con la bibliografia, pp. 124-5. * A llen , o p . c it., IV n. 1211, p. 525. XI.I

ne parli con maggiore orrore. Nell’estate del 1515 il primo si trova in missione nei Paesi Bassi, e così potè buttar giù il primo libro dell'Utopia, il paese che secondo il nome non esiste. In quei giorni trovavano grande accoglierla in Inghilterra le Epistolae obscurorum virorum dell’Hutten. Allora Erasmo, anche per suggestione dell’Utopia, manda in giro per l’Europa la sua Querela pacis e mette mano a raccogliere le sue medita2Ìoni politiche nella Institutio principis christiani, dedicandola al giovine signore dei Paesi Bassi, il futuro Carlo V. La precettistica erasmiana risponde ad esigenze morali eterne, anche se noi abbiamo sistemato diver­ samente i rapporti fra morale e politica; è largamente accettata. La monarchia temperata è la forma preferibile di go­ verno. È il consenso che fa il principe. I doveri fra prin­ cipe e popolo sono mutui. Se non puoi difendere il regno senza violar la giustizia, senza versar molto sangue umano e offender la religione, abbandonalo piuttosto e dimet­ titi. Un buon principe non deve assolutamente intra­ prendere una guerra, se non dopo aver cercato tutti i mezzi possibili per evitarla. Poi è quistione di tassare non i poveri ma i pos­ sidenti, non i beni necessari alla vita ma il lusso; di praticare una politica finanziaria onesta, di prevenire il delitto piuttosto che punirlo. Ed ecco, alla fine dello stesso 1516, vien fuori a Lovanio l’Utopia, e la cura Erasmo in persona. La prima cosa che colpisce in questa scoperta di terre ignote è l’interesse per le cose pratiche, parti­ colare del Moro. Chi non guarda con ammirazione, chi non vanta anche oggi le sue sorprendenti divina­ zioni? La condizionalità della pena, le città-giardino, le incubatrici artificiali, i concorsi di giardini, l’euta­ nasia, il lavoro obbligatorio, le sei ore di lavoro, per­ fino la politica coloniale dei mandati, della Società delle nazioni. Questo ed altro ancora. Ma sono con­ XLII

quiste del comuniSmo, dite spiattellatamente il Moro... Inutile scandalizzarsi, inutile attenuarlo o saltarlo, co­ me dentro una sala di nudi procaci. C’è poi chi ri­ guarda l’Utopia come « un sereno gioco dello spiri­ to » 7! Certo, si tratta di un gioco terribilmente serio, bisogna capirlo. In linea con gl’ideali idillici del Rinascimento, che poi sfoceranno in Rousseau e oltre, c’è il sogno di una società perfetta, sotto la guida di un principe filosofo, e l’ha attuata questa volta Utopo, per la felicità umana, per mezzo di una costituzione che è la migliore possibile, veramente repubblicana, da as­ sicurare la pratica delle più alte virtù. Tutti i beni siano posseduti in comune, ha fissato la legge, allo scopo di uccidere la vecchia bestia della superbia. Dunque la proprietà privata, voilà l’ennemi! « Dove c’è la proprietà privata, dovunque si commisura una cosa col danaro, non è possibile che tutto si faccia con giustizia e tutto fiorisca, per lo Stato ». Invece in quella terra felice, tolta di mezzo la povertà, ognu­ no accetta senza difficoltà il lavoro obbligatorio, per sei ore, a servizio dello Stato, « senza però stancarsi, come una bestia da soma ». Non manca l’obiezione aristotelica dell’interesse privato, e la presenta l’amico Pietro Gilles; ma lo scopritore e relatore, Itlodeo in persona assicura che in Utopia si realizza pienamente l’ideale dell’uomo, la virtù, la vita dello spirito, la li­ bertà, la cultura, in breve tutte le cose nelle quali l’umanesimo erasmiano ripone la felicità della vita. Il libro si chiude col noto scherzo delle perle, nonché dell’oro abbandonato ai vasi immondi, e poi ci esi­ lara una fantasia di sapore aristofanesco. Come Bacco nell’inferno, così ambasciatori bardati di oro ven­ gono scambiati per valletti e schiavi, e tutti ne ridono. Continuavano dunque in pieno Rinascimento i dibattiti medievali sulla proprietà privata, come con7 La frase è del Brie , Studien », 1936, p. 71.

Th.

M ore,

XLIII

d e r E ile r e

in « Englichen

traria alla santità? Mai più; ma il Moro, una volta messosi a sanar le piaghe d’Europa offrendole un ideale assoluto, spirito com’era consequenziale all’e­ stremo, non può torcer l’occhio dallo specchio delle origini, il cui fascino stava per riaccendersi vivace­ mente in Europa, e sarebbe stato la vita in comune degli apostoli, dopo il paradiso terrestre e l’età del­ l’oro. Era questo il famoso stato di natura, e si tro­ vava in accordo con la ragione platonica, e cristiano era parso a s. Clemente e a s. Ambrogio. Non era an­ cora scoppiato l’incendio luterano, non ancora Carlo V aveva minacciato quel cesarismo contro cui si sareb­ be coalizzata l’Europa. Era dunque quello il tempo perché l’Utopia bandisse il nuovo verbo, la nuova legge di vita! Più sorprendente è la sistemazione razionalista ed eudemonistica della cultura, che regge il nuovo Stato. A parte la rivelazione cristiana, che è fuor di discus­ sione, qui è già religione far bene al proprio simile, anzi è questa la più alta forma d’umanità; qui lo stu­ dio del vero è di per se stesso come una forma di culto accetta a Dio, e insomma anche i princìpi reli­ giosi si trovano sottoposti alla ragione. Tocca infatti alla ragione unificare le varie credenze e risultato ne è la religione della natura, assai vicina al cristianesi­ mo. Dunque, nel più profondo spirito del Ficino, di Pico e del Colet, si celebra l’uomo, « contemplatore pieno di curiosità e di zelo, solo essere capace di sì gran cosa » qual è il pensiero; per l’uomo Dio ha fatto « questa macchina » del mondo e « l’ha esposta all’osservazione di lui, come fanno gli altri artisti » di loro quadri e statue. Non si tratta però di semplice indagine; la na­ tura, sollevata ormai dalle bassure del peccato, è an­ che regola di vita, n a tu r a m se q u i. E non si perita di aver come fine il piacere, anche quello fisico, salute, bellezza, forza, snellezza. Siamo lungi dalle lascivie del Rabelais! Questa in Utopia è la creazione più alta della ragione, e dà luogo a un culto unificato, XLIV

senza per questo si vietino altre credenze. Qual’è la vera religione? Non lo sappiamo, risponde con [Jtopo Moro stesso, che tiene presenti le grandi dispute del neoplatonismo. La natura del divino è superiore alle capacità dell’intelligenza umana. Costringere con la forza o con le minacce ad una fede piuttosto che al­ l’altra è una cosa mai vista, in so le n s, e sciocca, ineptu m . « Ne sua cuiquam religio fraudi sit », nessuno sia molestato per le sue idee religiose! Per conchiudere, questa coordinazione di ragione, natura, piacere e Dio è, più che altro, una cultura e bisogna guardare al suo insieme come moto di li­ bertà. Perciò non si può sostenere, senza equivoco, che il Moro « stette per l’autorità e la disciplina » 8, come noi intendiamo queste cose. Né poteva riuscire il tentativo dell’Oncken e del Ritter, di trovar il « de­ monico della potenza » n e l l’U to p ia A parte il tra­ scendentismo, che è il segno del tempo, non so chi più del Moro sia stato più parlamentare, antibelli­ cista, egualitario e antiformalista, per osservazioni e indirizzo suo personale, oltre che per ragioni stori­ che. Questa fedeltà del politico alla ragione, al di­ ritto e alla moralità, segna il contributo da lui dato in seno all’umanesimo alla civiltà moderna. Non ebbe il Moro, bisogna rassegnarsi, quella tre­ menda gravità e serietà dei fondatori di Stati, dei po­ litici che il moto della storia chiama a risolvere crisi particolari col necessario ardire; nulla però è più alie­ no dal loro animo quanto il cinismo. Ricorda piut­ tosto quegli onesti reggitori che, in tempi normali, amministrano scrupolosamente la giustizia, aborrono dai torbidi, favoriscono gli studi e l’elevazione socia­ le, predicando con l’esempio e vantandosi magari di * R ebora, S . T o m m a s o M o r o e l ’Ita lia , in C iv iltà ita lia n a e c iv iltà in g le s e , Firenze 1936. • D i e U to p ia d e s T h . M o r u s u n d d a s M a c h t- p r o b le m in d e r S ta a ts le h r e , prefazione dell’Oncken alla trad. del Ritter nei « Klas-

sichen der Politik », 1922, pp. 23 sgg. XLV

non aver mai torto un capello a nessuno, di non aver aumentato un soldo di tasse... E si capisce che, chia­ mato per la propria pratica commerciale il 1518 nel Consiglio privato del re e 2 anni dopo alla segreteria dello Scacchiere, abbia lasciato fama leggendaria di rettitudine, che trapassò nei racconti popolari. I tempi si son fatti grossi e di aderire a Lutero non è neppur il caso di parlarne, né per lui, Moro, né per Erasmo, si sa, e nemmeno per Colet, lontani come sono da un acceso agostinianismo 10I12. E poi si tratta, per essi, di riordinare la Chiesa, non di sov­ vertirla, nei modi tradizionali del concilio. Che vuol dire della ragione, della discussione. Anche nei rap­ porti con la monarchia il Moro non cangia, non è per la guerra contro la Francia, che s’inizia il ’22. Ed è più che mai per la difesa del parlamento. Il re ha bisogno l’anno dopo di 8 mila sterline, non un soldo di meno, e il nuovo speaker, Moro, non è preoccu­ pato che delle libertà parlamentari: « Che ognuno possa liberamente e senza paura sgravar la propria coscienza ed esprimere coraggiosamente il suo avviso in ogni evenienza » “ . Così suona la sua supplica al re, che è di ben altro parere. Lo sa bene il Moro: « Se la mia testa, dice in casa, potesse fargli guada­ gnare un castello in Francia, egli non esiterebbe a farla cadere » ‘L Mi sembra si possa sottoscrivere il giu­ dizio del Chambers, che, perfin nell’epoca elisabet­ tiana, quest’uomo resta « l’ideale inglese, qual è an­ che oggi, più che mai, di uno statista intrepido, b lu ff, onesto, simpatizzante e pieno d’umore ». Sempre, nei momenti di crisi, si son trovati uo­ mini, di eccezionale elevatezza e moderazione, per far da pacieri! Ma già, dopo il sacco di Roma, dopo il convegno di Barcellona, 1528, dove il secondo papa Medici legò le fortune della sua famiglia col Cesare 10 A llen , op . c i t ., V II, n. 1904, p. 8. II Chambers , T b . M o r e , London 1938, pp. 200 sgg. 12 Lettera di Moro al Cromwell, del 1534, in W o r k s , ed. 1557. XLVI

fiammingo, la monarchia inglese si gittò a quella guer­ ra contro la Spagna che, a giudizio comune, avrebbe schiuso al paese la via all’espansione e all’impero. Moro si occupava del divorzio dalla regina spagnuola e il re lo volle allora stesso al cancellierato. La quistione del divorzio, portata dinanzi al papa, fatalmen­ te si trasforma in una lotta d’influenze politiche. Che cosa fare? Il concetto del cancelliere è cristallino. Poiché Sua Altezza — scriveva al re — si è appel­ lata dal papa al concilio, si guardi bene da ogni misura che rovinerebbe non solo l’autorità della sede apostolica, ma anche quella della Chiesa universale. Nel prossimo concilio generale può accadere che il papa presente sia deposto e un altro messo al suo posto, con cui il re possa intendersi meglio. Giacché, sebbene io, per me, ammetta la preminenza del papa, pure non ho mai cre­ duto che questi fosse superiore al concilio generale. Erano idee di un parlamentarista, per usare un termine moderno: si trattava di salvare il principio gelasiano dei due poteri, nel rispetto della M a g n a C h a rta , che garentiva la libertà della Chiesa. E il con­ cilio costituiva la base indiscussa dell’edificio eccle­ siastico, th è g e n e ra i C o u n c il o f C h r is te n d o m , il con­ senso dell’universalità dei fedeli. Quanti spiriti supe­ riori, anche nell’apertura del concilio di Trento, molti anni dopo, lavorarono coscienziosamente, cattolici e protestanti, a salvare insieme l’unità e la libertà della Chiesa! Ma già dal febbraio 1531 il parlamento, su propo­ sta dello stesso arcivescovo Warham, accettava che il re fosse capo della Chiesa. E nel maggio ’35 la mo­ narchia si sostituisce senz’altro al papato nella dire­ zione della Chiesa nazionale: tale è l’Atto di supre­ mazia. L’ironia della storia volle che proprio il più gentile degli umanisti, uno dei più arditi sognatori di libertà, il 6 luglio 1535, testimoniasse col suo sanXLVII

gue di quella libertà che, due secoli dopo, avrebbe impresso di sé il popolo e la nazione d’Inghilterra, avviando l’umanità tutta a destini migliori. Ciò che ieri era Utopia oggi è storia, in gran parte. Thomas Morus grand personnage sur l’échafaud re?ut la mort: sous un tyran, tout homme sage doit attendre le méme sort. T o m m a s o F io r e

N ota. L’edizione critica presa a base della traduzione italiana è quella della D elcourt (Droz, Parigi 1936), alla quale si rinvia per la storia delle edizioni d e l l ’U to p ia . XLVTTI

L’UTOPIA O LA MIGLIORE FORMA DI REPUBBLICA

TOMMASO MORO SALUTA PIETRO GILLES1

Mi vergogno quasi, mio carissimo Pietro, di man­ darti, a distanza di un anno circa, questo libretto sul­ la repubblica di Utopia, che tu certo ti aspettavi en­ tro un mese e mezzo, ben sapendo che in questo lavoro io mi trovavo libero dalla fatica dell’inven­ zione e non dovevo preoccuparmi punto come dar or­ dine alla materia: il mio compito si limitava ad espor­ re ciò che insieme con te sentii ugualmente narrare da Raffaele. Né c’era di che affaticarsi nell’elocuzione, dacché la sua parola non potè uscire con ricercatezza, essendo anzitutto improvvisata alla svelta e poi di uno che non conosceva il latino con la stessa perfe­ zione del greco; senza dimenticare che, quanto più le mie espressioni si accostavano all’abbandono della sua semplicità, tanto più sarebbero state vicine alla verità, della quale unicamente mi preoccupo, com’è mio dovere. Con questo acquisto, caro il mio Pietro, posso confessarti che mi è stato tolto tanto lavoro, che quasi quasi nulla mi è rimasto da fare; altrimenti la ricerca dell’argomento e la disposizione avrebbero imposto a una intelligenza non spregevole e non del tutto incolta non poco tempo e studio. Ché se poi si fosse richiesto che la cosa fosse scritta in stile elo­ quente, non secondo verità soltanto, io non avrei po1 Nato ad Anversa verso il 1486, morì il 1533. Umanista e autore di versi latini, fu amico di Erasmo ed attraverso Erasmo conobbe Tommaso Moro. 3

tuto mai e poi mai compierla, con tutto il tempo e con tutto lo studio. Ma ora che eran levate tutte le preoccupazioni per cui ci sarebbe stato da versar tanto sudore, e non restava che trascrivere, così, alla buona, ciò che avevo udito, era sparita ogni difficoltà. Eppure a condurre a termine questa cosa così facile, una difficoltà c’era, che cioè per le mie fac­ cende il tempo mi era ridotto a men che nulla. Con­ tinuamente in tribunale, ora a trattar cause, ora ad assistervi, ora a comporre liti da conciliatore, ora, come giudice, a pronunziar sentenze; continuamente in visite, ora da uno per dovere, or da un altro per affari; continuamente fuor di casa tutta la giornata a disposizione degli altri o, quel poco che avanza, per i miei; per me, cioè per gli studi, non resta nulla. In realtà, tornato a casa, mi tocca conversar con mia moglie, far la voce grossa coi figli, parlare con chi ci serve; e tutte queste son faccende belle e buone, dac­ ché bisogna pur che tu le faccia, di ciò non c’è dub­ bio, a meno che in casa non voglia trovarti come un forestiero di passaggio. Insomma bisogna pur adoprarsi a rendersi molto amabile con quelli che ti sono compagni della vita, te li abbia forniti la natura, o dati il caso, o scelti tu stesso; purché tu non li guasti con la tua affabilità o, a via di condiscendenza, non ne faccia, di sottoposti, padroni. In mezzo a queste occupazioni che ti vado dicendo, mi scappan via i giorni, i mesi, gli anni. Quando dunque prendo la penna in mano? Già..., non ti ho detto nulla sinora del sonno e nemmeno del vitto, che per molti fa per­ dere non meno tempo del sonno, il quale alla sua volta fa perdere quasi metà della vita. Io invece non di­ spongo, per me, che del tempo che rubo al sonno e al vitto. Troppo poco! Ma è pur qualcosa! Così son riuscito una buona volta, se pur lentamente, a finir l ’U to p ia e te la mando, Pietro carissimo, perché tu la legga e mi faccia sapere se mai mi è sfuggito qual­ cosa. Vero è che da questo lato io sono ben sicuro di me... — oh, se anche per ingegno e cultura io fossi

qualcosa, com’è vero che la memoria non mi ha ab­ bandonato in ogni tempo! — ma non son così sicuro del fatto mio da credere che qualcosa non mi sia po­ tuto sfuggire. Infatti il giovinetto mio, Giovanni Clemens, che, come sai, si trovò presente insieme con noi, — io non permetto che si assenti da conversazioni da cui si pos­ sa ricavar qualche frutto, ché da questo tenero semi­ nato, che già comincia a fiorire in latino e in greco, spero di ricavar quando che sia un eccellente ricol­ to, 2— mi ha cacciato in un gran dubbio. Per quanto ricordo, Itlodeo narrava che il ponte ad Amauroto, che è gettato sull’Anidro, ha 500 passi di lunghezza ma il mio Giovanni mi dice che bisogna toglierne 200: l’ampiezza del fiume a quel punto non abbraccia più di 300 passi. Ti prego ora di cercar di ricordartene. Se tu sei d’accordo con lui, anch’io non ti dico di no e penserò di aver sbagliato; ma se tu stesso non rie­ sci a richiamar la cosa alla memoria, scriverò, come ho fatto, ciò che a me par di ricordare, facendo di tutto acciocché nel libro non vi sia nessun errore e, se qualcosa non è sicuro, potrò dir delle inesattezze senza volerlo, non già mentir di proposito. Preferi­ sco essere un galantuomo, anziché un uomo di mondo. Vero è che sarebbe facile rimediare a questo ma­ le, se a Raffaele stesso ne domandassi o tu in persona, o piuttosto per lettera; e devi pur farlo, anche per un altro scrupolo che mi è venuto, non so se più per colpa mia o tua o di Raffaele. In qual parte del nuòvo mondo si trovi Utopia, né a me è venuto in mente di domandare, né a lui di dire. Darei non so quanto perché la cosa non ci fosse fuggita, ché mi vergogno quasi di ignorare in qual mare sia l’isola di cui ho

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2 II Clemens, discepolo del Lily, fu preso in casa dal Moro, di cui educò i figli; poi coadiutore di Colei e insegnante di greco a Oxford; studiò da ultimo medicina a Lovanio. Venuto in Italia, collaborò alla prima edizione di Galeno, presso Aldo Manuzio, il 1525. Mori in esilio il 1572, nei Paesi Bassi, rimanendo fedele al cattolicesimo.

esposto tante cose! Perché poi ci sono parecchi, ma uno soprattutto, un religiosissimo professore di teo­ logia, che brucia dal desiderio di approdare in Utopia, non per vana passione e curiosità di osservare no­ vità, ma per incoraggiare e propagare la nostra reli­ gione, che vi ha avuto felici inizi \ E per farlo con­ venientemente, ha deciso di adoprarsi per esservi man­ dato dal Papa, anzi di esser creato vescovo di Utopia, senza farsi scrupolo di ottener con suppliche una tale prelatura: santa è, a suo modo di vedere, una tale ambizione, prodotta non da considerazione di onori o di guadagno, ma da riguardo per la religione. Per tali motivi ti prego, mio carissimo Pietro, d’interro­ gare Itlodeo o di persona, se non ti è di disturbo, o per lettera, perché in questa mia opera nulla ci sia di falso, nulla manchi di vero. Non so se non sarebbe meglio mostrargli il libro stesso. Un altro infatti non sarebbe quanto lui capace di correggerlo, se vi sono errori, e lui stesso non potrebbe eseguir ciò meglio che leggendo a comodo ciò che ho scritto. Senza dire che in tal modo potresti capire se accolga con piacere o lo disturbi che io metta per iscritto queste materie. Se infatti ha stabilito lui di affidare alle lettere le sue fatiche, non avrebbe piacere che lo faccia io; e certo non vorrei, divulgando la repubblica di Utopia, ap­ propriarmi io lo splendore e la leggiadria di una sto­ ria così nuova. Sebbene..., a dir vero, nemmeno io ho fissato meco stesso se fare davvero questa pubblicazione. Così va­ rio infatti è il gusto dei mortali, così bisbetica l’in­ dole di alcuni, così sconoscente l’animo e così inetto il giudizio, che verso costoro si trova non poco me­ glio, pare, chi si lascia andar al proprio genio allegro e gioviale, anziché chi si cruccia di pensieri per pub­ blicar qualcosa che riesca di utile o di diletto a uomi-3 3 Che un tal buon uomo sia esistito realmente e che sia stato il colto e pio curato di Croydon (dal 1497 al 1538), chiamato Rowland Phillips, è tradizione raccolta circa un secolo dopo. Vedi l’ed. L upton d e l l ’U to p ia , Oxford 1895, p. 7, η. 1. 6

ni; che invece mostrano nausea e non provano rico­ noscenza. I più non sanno di lettere, molti le disprez­ zano, e il barbaro respinge come durezza tutto ciò che non è barbaro, chi ha un po’ di gusto disprezza come volgare tutto ciò che non brulica di parole in disuso, a taluni piace solamente l’antico, alla mag­ gior parte soltanto il suo. Costui poi è così nero che non ammette scherzi, colui così insipido da non tol­ lerare arguzie. Vi è chi è così camuso che fugge di­ nanzi a ogni naso, come dinanzi all’acqua chi è morso da un cane arrabbiato; altri son così mutevoli che, seduti, son di un parere, in piedi di un altro. Altri ancora se ne stanno per le osterie, fra un bicchiere e l’altro, a dar sentenza sugli ingegni degli scrittori, con­ dannandoli con grande autorità, come meglio piace, ognuno secondo i suoi scritti, e quasi spennacchian­ done la capigliatura, mentre essi se ne stanno al si­ curo e, come si dice, έξω βέλους 4> giacché sono così lisci e ben rasi da non posseder nemmeno un pelo di galantuomo, con cui afferrarli. Vi son poi alcuni così sconoscenti che, pur dilettandosi straordinaria­ mente dell’opera, non per questo ne vogliono più bene all’autore, non dissimili da ospiti sgarbati che, pur accolti signorilmente a un sontuoso banchetto, se ne tornano alfine sazi a casa, senza sentir riconoscenza per chi li ha invitati. Va’ ora a dare un banchetto a gente di palato sì fine, di gusti così diversi, di animo così memore e grato! Tuttavia, Pietro mio caro, fa’ quanto ti ho detto con Itlodeo, pur riserbandoci in seguito di consultarci una seconda volta. Quantunque..., se la cosa si fa col suo piacere, una volta che, finita la fatica di scrivere, vedo al fine di che si tratta, per quel che resta della pubblicazione seguirò il consiglio degli amici e soprat­ tutto il tuo. Addio, dilettissimo Gilles, a te e alla tua ottima consorte, e voglimi bene come al solito, dac­ ché io te ne voglio anche più che al solito. 4 « Fuor di tiro ». Lo dà Erasmo negli (p. 351 a, ed. 1629).

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A d a g ia :

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RELAZIONE DELL’ECCELLENTISSIMO RAFFAELE ITLODEO SULLA MIGLIOR FORMA DI REPUBBLICA 1 PER OPERA DELL’ILLUSTRE TOMMASO MORO CITTADINO E VISCONTE DI LONDRA FAMOSA CITTÀ D’INGHILTERRA 2

1 Vero è che questa repubblica è retta da un re, cioè da un filosofo, come quella di Platone. Ma poi ci dice egli stesso: « D es c r ip s i v o b is q u a m p o t u i v e r is s im e e iu s fo r m a m r e ip u b lic a e , q u a m eg o c erte n o n o p tim a m ta n tu m , s e d s o la m e tia m c e n s e o , q u a e s ib i s u o iu r e p o s s it r e ip u b lic a e v in d ic a r e v o c a b u lu m ». U to p ia , pp. 201-2.

E dunque è Stato libero o repubblica. 2 Questo è il titolo autentico dell’opera: solo nell’edizione del 1565 (L a tin a O p e r a ) il titolo diventa U to p ia s i v e s e r m o , q u e m R a p h a e l, ecc., acquistando dopo Moro la parola * Utopia ’ tale ce­ lebrità, da indicare da sola questo trattato. 9

LIBRO PRIMO

Avendo di recente l’invittissimo re d’Inghilterra Enrico V ili, ornato di tutte le doti di principe ec­ cellente, avuto quistioni di non poca importanza col serenissimo Carlo principe di Castiglia3, m’inviò nel­ le Fiandre come ambasciatore, a trattarle e comporle, e con me, con lo stesso mandato, l’incomparabile Cuthbert Tunstall4, che il re poco fa, con generale sod­ disfazione, ha nominato vicecancelliere \ Nulla dirò dei meriti di costui, non già che io tema poco impar­ ziale la testimonianza dell’amicizia, ma perché la sua virtù, la sua dottrina sono superiori a ogni esaltazione e troppo conosciute e famose, perché ne abbia biso­ gno; a meno che io non voglia, come si dice, far luce al sole con la lucerna. A Bruges, come d’accordo, ci vennero incontro i delegati dal principe a questa faccenda, tutti uomini eccellenti, fra i quali, capo e testa di essi, l’onorevole 3 II futuro Carlo V, allora, per la morte del padre, sotto la tutela del nonno, Ferdinando il Cattolico, per i suoi possedimenti spagnoli. 4 Quest’inglese (1474-1559), che tutti i contemporanei dicono pio e colto, fu della cerchia di Erasmo e di Moro (aveva studiato leggi in Inghilterra e in Italia) e partecipe dei loro sentimenti di libertà. A suo merito si può ricordare che, vescovo di Durham dal 1530, pur cattolico e antiprotestante, non adoprò mai la pena di morte contro gli eretici. 5 S c r in iis p r a e fe c it, in inglese M a s te r o f R o l ls , alta funzione giudiziaria di chi suppliva il cancelliere nelle sue funzioni giurisdi­ zionali, nella High Court Chancery.Il

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governatore della città stessa; ma bocca e cuore ne era Giorgio di Theimsecke, sindaco di Cassel6, fa­ condissimo e per natura e per studio, dottissimo di leggi e straordinariamente abile, sia per innata acutez­ za che per pratica quotidiana, a trattar di affari. Ma poiché, dopo una o due sedute, non ci trovammo d’ac­ cordo su alcuni punti, quelli si licenziarono da noi per un certo tempo, recandosi a Bruxelles a informarsi del buon volere del loro principe, mentre io frattanto, come portavano i miei casi, mi recai ad Anversa. Mentre mi trattenevo ivi, venne spesso a farmi visita, tra gli altri, ma più gradito di tutti, Pietro Gilles, un giovane anversese di gran riputazione e si­ tuazione presso i suoi, degno di ancora maggior gra­ do, per essere non so se più colto o ben costumato. È infatti non solo molto buono ma anche molto istrui­ to, di animo aperto con tutti, ma poi, verso gli amici, di cuore sì gentile e così affettuoso e leale, di senti­ menti così sinceri, che è diffìcile trovar altrove uno o due uomini da metter a paragone con lui, quanto ad amicizia, sotto tutti i punti di vista. Di rara mo­ destia, nessuno più di lui rifugge da ogni belletto, nessuno possiede una semplicità più savia; così gio­ viale inoltre nella conversazione, così faceto senza ve­ leno che la sua dolce compagnia e la sua piacevole favella alleviarono in me in gran parte il desiderio troppo vivo (mancavo ormai da casa da più di quattro mesi7) di rivedere i domestici lari, mia moglie e i miei figli. Or m’awenne un giorno di andare a messa in quella bellissima opera d’arte che è la collegiata di Nostra Signora, cui frequenta una gran folla. Finita la funzione, m’apparecchiavo a tornarmene all’alber­ go, quando scorsi il mio amico a colloquio con un

forastiero, già volto a invecchiare, dalla faccia adu­ sta, dalla barba lunga, che con una certa trascuratezza si lasciava pendere da una spalla il cappotto e al volto e al portamento si dimostrava un padrone di mare. Mi vide appena Pietro, che mi si appressò e salutò e, mentre cercavo di rispondere, mi trasse un po’ in di­ sparte, e — Vedi costui? — mi dice, indicandomi quel­ lo con cui l’avevo visto parlare. — Proprio lui stavo per condurti a casa per la più breve. Mi sarebbe giunto molto gradito — dissi io — per amor tuo. Anzi — rispose — per se stesso l’avresti avuto ca­ ro, se lo conoscevi: non c’è al mondo oggi nessun uomo che ti possa fare relazioni così ampie su uomini e terre conosciute; tutte cose di cui ti so molto ghiotto. Non mi sono sbagliato — diss’io: — a prima vista mi sono accorto che è un padrone di nave. Anzi — replicò — ti sei sbagliato, e non poco: è andato per mare, certo, ma non come Palinuro, sibbene come Ulisse, anzi come Platone. Infatti questo Raffaele, come si chiama, di co­ gnome Itlodeo 8, che non è ignaro di latino e conosce benissimo il greco (ha studiato questo più di quello per essersi dato tutto alla filosofia, onde s’accorse che in latino ben poco esiste di qualche pregio in questo campo, se ne togli qualcosa di Seneca e di Cicerone), lasciato ai fratelli tutto il patrimonio che aveva in patria (egli è del Portogallo), per bramosia di andar osservando il mondo tutto si unì ad Amerigo Vespucci, né più lo lasciò nei tre ultimi viaggi, dei quattro

“ Ora in Francia, nel dipartimento del Nord. Il Theimsecke, nato a Bruges, consigliere nel Gran Consiglio di Malines verso il 1500, ha lasciato una storia dell’Artois. 7 L’ambasciata lasciò l’Inghilterra il 12 maggio 1515, perciò rincontro sarebbe avvenuto nel settembre.

* Da ΰ θ \ ο ξ « ciarla » e S a ie iv « distribuire » (« distributor di ciarle »), o piuttosto « ardere »: d e r g liib e n d e P b a n ta s t , il brillante visionario come intende H. B rockhaus , D ie U to p ia - S c b r ift d e s T h . M o r u s , Leipzig 1929, p. 5. Secondo lui, Itlodeo sarebbe l ’ar­ civescovo di Bari Stefano Gabriele Marino, probabile autore della relazione sul M. Athos al concilio Lateranense, e futuro cardinale e consigliere di Carlo V, che può aver avvicinato Moro e la sua cerchia.

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che fece (e le relazioni sono ormai a mano di tu tti9), salvo che dall’ultimo viaggio non tornò secolui. In­ fatti cercò e ottenne a viva forza dal Vespucci di far parte anch’egli di quei ventiquattro che rimasero lag­ giù, nel castello, all’estremo limite dell’ultimo viag­ gio. Vi rimase dunque, per ubbidire al suo talento, più sollecito di viaggiare che della propria tomba; ché spesso aveva in bocca: « Chi non ha tomba è co­ perto dal cielo » e « Uguale è sempre la via per ar­ rivare in cielo, da qualunque punto si parta » 101. Senonché avrebbe pagato caro questo suo umore, se la Provvidenza non lo avesse benignamente aiutato. Co­ munque, dopo la partenza del Vespucci, con cinque compagni del castello si diè a percorrere molte regioni ed ebbe poi la straordinaria ventura di approdare a Taprobana, donde giunse a Caliquit u , e trovate quivi opportunamente delle navi portoghesi, se ne tornò all’ultimo, contro ogni speranza, in patria. Questo mi raccontò Pietro, onde io molto lo rin­ graziai della cura da lui messa a procurarmi di con­ versar con tal uomo, col quale sperava che mi sa­ rebbe stato gradito parlare. Poi mi rivolsi a Raffaele e, salutatici l’un l’altro e scambiati quei convenevoli soliti fra forastieri in un primo incontro, ci volgem­ mo verso casa mia e ivi, nel giardino, ci ponemmo a conversare su di un mucchio di zolle erbose a mo’ di panca. Ci narrò dunque in qual modo, dopo la par­ tenza del Vespucci, lui e i compagni rimasti al ca­

10 La prima sentenza in Lue., P h a r s ., V II, 819; la seconda è attribuita ad Anassagora: v. Cic., T u s c ., I, 104. Doveva essere un’espressione frequente sulle labbra di Moro stesso, se il genero Roper narra che in carcere, alla moglie corrucciata, rivolse sorri­ dendo la stessa domanda: « Non è questa casa altrettanto vicina al cielo che la mia? » L i f e o f S ir T b . M o r e , London 1882, pp. 82-4. 11 Oggi Calicut, sulla costa del Malabar, dov’era approdato Vasco de Gama il 1498.

stello cominciarono a frequentare la gente di quel paese e a insinuarvisi con lusinghe e così a esserne trattati non solo senza danno ma con dimestichezza, e anche ad uno di quei principi (ora mi sfugge il no­ me suo e del suo paese) riuscirono graditi e cari. La liberalità di costui, aggiunse, a lui e ai suoi cinque compagni aveva fornito viveri e mezzi a sufficienza, oltre ad una fidatissima guida (per acqua viaggiavano su zattere, per terra su carri), per accompagnarli da altri principi, cui si presentavano con le migliori rac­ comandazioni. Così viaggiando per giorni e giorni, trovò castelli e città e interi Stati con popolazioni numerose, le cui costituzioni non erano le peggiori di questo mondo. Sotto l’equatore infatti, per quanto spazio abbraccia di qua e di là l’orbita del sole, giac­ ciono vasti deserti, bruciati sempre dal cielo infocato: ovunque nudità e triste aspetto, tutto vi è orrido e incolto, vi abitano solo belve e serpenti o anche uo­ mini, ma più selvaggi delle belve e non meno nocivi. Ma via via che si esce di là, tutto a poco a poco si addolcisce, il clima si fa meno aspro, il suolo dolce­ mente verdeggiante, la natura delle bestie più mite. Alla fine si scoprono popolazioni, luoghi forti, città, che fanno per terra e per mare continui commerci, non solo fra loro e coi vicini, ma anche con popoli posti a gran distanza. Ebbe così modo di osservare da ogni parte molte terre: non c’era nave che apparecchiasse per qualsiasi viaggio, in cui non prendesser posto, con piacere di tutti, lui e i suoi compagni. Le navi da essi vedute nei primi paesi erano, narrava lui, a fondo piatto e spiegavano vele di papiro cucito o di vimini e altrove di pelli; trovarono poi carene con le chiglie a spina, vele di canapa e tutto insomma come da noi. I noc­ chieri avevano pratica di mare e di cielo. Ma egli di­ ceva di esser entrato straordinariamente nelle loro grazie, insegnando loro l’uso della calamita, che pri­ ma ignoravano affatto, e per questo di solito non si affidavano al mare che d’estate, e con gran paura e

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9 II quarto viaggio del Vespucci ebbe luogo dal maggio 1503 al giugno 1504. La relazione Q u a ttu o r A m e r ic i V e s p u t ì i n a vig a tio n e s fu pubblicata il 4 settembre 1507 a Saint-Dié, dopo la C o sm o g ra p h ia e In tr o d u c ilo .

11 Ho reso alla lettera; ma si tratta della calamita, cioè del­ l ’ago calamitato, conosciuto da gran tempo e cominciato a usare dai naviganti, per la sua popolarità, alla fine del secolo XV. 13 II Moro si ride delle narrazioni di viaggi, che allora si moltiplicavano dopo il V ia g g io d ’o ltr e m a r e (1357-71) di Giovanni di Mandeville, in gran parte favoloso, ma molto letto a quei tempi, dopo le recenti scoperte.

eia errori di qui ed errori di laggiù, non pochi certo in quei luoghi e nei nostri, e poi i più saggi provve­ dimenti adottati sia presso noi che presso loro, dimo­ strando di possedere usi e istituzioni di ciascun po­ polo, come se fosse vissuto sempre in qualunque luo­ go era approdato. Pietro allora, pieno di ammirazione, esclamò: — Mi sorprende, Raffaele mio, che tu non ti ponga al seguito di qualche re: non ne conosco nes­ suno cui tu non riusciresti assai gradito, adatto qual sei, con codesta tua conoscenza e pratica di luoghi e di uomini, non solo a dilettare, ma anche a istruire con esempi e aiutar di consiglio. In tal modo non solo provvederesti benissimo alle tue faccende, ma potresti esser di grande aiuto ad avvantaggiare tutti i tuoi. — Per quel che riguarda i miei, — rispose — non me ne turbo molto, ché mi pare di aver fatto discre­ tamente il mio compito verso di essi. Ho distribuito, ora, mentre sono ancor sano e pieno di salute e per di più giovane, a parenti ed amici, quei beni che gli altri non abbandonano, se non quando son vecchi e malati... Anzi anche allora li abbandonano di mala grazia. Credo perciò che della mia bontà debbano es­ sere contenti e non pretendere o aspettare che, per loro, io mi faccia servo di re. — Piano! piano!— esclamò Pietro. — Io voglio parlare di servigio, non di servitù. — Si tratta di una sola sillaba di differenza! — re­ plicò l’altro. — Chiamala come tu vuoi, — insistè Pietro —· ma per me penso che questa proprio è la via con cui tu potresti non solo avvantaggiare gli altri in pubblico e in privato, ma anche rendere più felice il tuo stato. — E come lo farei più felice, — disse Raffaele — per la via da cui abborre il mio carattere? Ma ora io vivo a mio talento; cosa questa che tocca, credo, a ben pochi avvolti nella porpora cortigianesca! Ce ne sono abbastanza, di uomini che vanno a caccia di

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mai alla leggera in altre stagioni. Ora invece, che han fiducia in quel minerale 112, sfidano il maltempo senza più tremare, anche se non senza pericoli; ché potreb­ be darsi che quanto si credeva sarebbe loro riuscito di gran vantaggio, diventi causa, per loro imprudenza, di grandi sventure. Sarebbe però troppo lungo esporre ogni cosa che diceva d’aver visto in ognuno di quei luoghi, e poi non è compito di quest’opera, e fors’anche sarà in altro luogo da me narrato quanto specialmente torni utile non ignorare, vale a dire, in primo luogo, quei provvedimenti di saggezza e di prudenza che ebbe ad osservare presso popoli raccolti in vita civile. Di tali provvedimenti infatti noi gli facevamo domande infinite, com’egli con più piacere ne ragio­ nava, senza già occuparci di quei mostri, che sono per noi tutt’altro che straordinari13. Non c’è quasi luogo, infatti, sulla terra, dove non si trovino Sedie e Celeni rapaci e Lestrigoni divorapopoli e altrettali orrori prodigiosi; ma non in ogni luogo si possono incontrare cittadini con sani e savi ordinamenti. Del resto, a quel modo che, presso quei popoli da lui sco­ perti, annotò molte leggi piene di sciocchezze, così ne osservò non poche che ben potrebbero fornirci un mo­ dello atto a correggere gli errori di queste nostre città e nazioni, delle regioni e dei regni; ma di ciò, come dicevo, debbo far menzione altrove. Pel momento è mia intenzione di esporre solamente ciò che narrava degli usi e delle istituzioni degli abitanti di Utopia, senza omettere però la conversazione, a mezzo della quale via via si giunse a far menzione di quella repub­ blica. Infatti Raffaele passò in rassegna con gran saga-

amicizie di potenti, perché tu non creda gran danno se manca loro la compagnia di me e di uno o due a me simili. — È evidente, — intervenni io a questo punto — che voi signor Raffaele, non siete bramoso di ricchez­ ze né di potenza; e io certo non provo minor rispetto e reverenza verso un uomo che abbia il vostro animo, che verso chiunque dei più potenti. Ma fareste cosa degna di codesto animo sì generoso e veramente filo­ sofo, se vi disponeste a prestare, sia pure con qual­ che vostro disturbo, il vostro talento e la vostra at­ tività alla cosa pubblica. Né mai potreste farlo con sì gran vantaggio, che se faceste parte del consiglio di qualche gran re e gli consigliaste, come ne son si­ curo, il retto e l’onesto. Dal capo dello Stato infatti, come da sorgiva perenne, sgorga in mezzo al popolo tutto un torrente di ogni sorta di beni e di mali. E voi possedete una scienza così perfetta e sì gran pra­ tica inoltre di affari, che anche con una sola delle due cose potreste rendervi un ottimo consiglierò di qual­ siasi re. — Vi sbagliate, — mi rispose quegli — doppia­ mente vi sbagliate, mio caro Moro, sia quanto a me, sia quanto alla cosa in se stessa. Non ho le qualità che mi attribuite, ma, dato pur che le avessi e a per­ fezione, e se anche facessi guerra alla mia pace, non per questo se ne avvantaggerebbe la cosa pubblica. Anzitutto la maggior parte dei capi di Stato si occu­ pano tutti più volentieri di cose militari che di buone imprese di pace (e io né ho pratica di guerre né ne voglio sapere) e mettono molto più zelo a cercar come acquistare, bene o male, nuovi regni, che a ben reg­ gere quelli acquistati. E poi non c’è nessuno di quelli che fan da consiglieri a re, che delle due l’una, o non sia tanto addottrinato e realmente saggio da non aver bisogno di approvare i consigli altrui, ovvero che tale non si creda per trovar piacere ad approvarli. Salvo che di solito gli uni e gli altri prestano assenso alle proposte più assurde, e in tal modo si rendono sotto­

adulatori14 di quegli adulatori che essi più cercano di conciliarsi con l’adulazione, in vista del favore del principe. E certo, per naturale disposizione, ogni uomo si compiace dei frutti del proprio ingegno: al corvo sor­ ride il proprio corviciattolo, alla scimmia piace il suo scimmiotto. Ché se uno, in quella compagnia di in­ vidiosi dell’altrui o vantatori del proprio, adduce qual­ che fatto dei tempi antichi da lui letto o una cosa vista in altri luoghi, allora gli ascoltatori si compor­ tano come se pericolasse tutta la loro fama di dot­ trina ed essi debbano senz’altro, dopo ciò, passar per imbecilli, a meno che non siano capaci di trovar nelle altrui scoperte qualcosa da apporre a magagna. In mancanza d’altro: ‘ Come noi la pensavano i nostri antenati... ’ è questa la loro scappatoia: ‘ Piacesse a Dio che noi uguagliassimo la loro saggezza! ’ A que­ sti detti si tengono paghi, come se avessero fatto una conclusione straordinaria! Come se il mondo vada alla rovescia, qualora uno si trovi in qualche cosa più colto dei suoi antenati! Ora, quando questi antichi avevano preso degli ottimi provvedimenti, noi siamo lieti di lasciarli in abbandono; se invece a qualche cosa noi si poteva provvedere con più saggezza, ci attacchiamo subito a quel pretesto degli antichi, senza lasciarcelo strappare. In giudizi di tal fatta, orgogliosi, inetti, bisbetici, mi sono imbattuto spesso, e una volta anche in Inghilterra. — Di grazia, siete stato nel mio paese? chiesi io. E lui: — Ci sono stato, anzi ci son rimasto parecchi mesi, non molto dopo quella sconfitta, con cui fu schiacciata la sollevazione degl’inglesi dell’ovest con­ tro il re, miserevolmente uccisi E di molto son de­ bitore, mio caro Pietro (Moro queste cose che sto

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14 Cioè adulatori di secondo grado: s u p p a r a s s ita n tu r , dice il testo, ed è termine plautino ( M ile s G l o r ., II, 3, 77). 15 Si tratta della sconfitta dei ribelli di Cornovaglia il 1497 λ Blackheath.

per dire le conosce bene), a quell’uomo venerando per autorità e ancor più per saggezza e virtù, che fu l’arcivescovo di Canterbury e cardinale Giovanni Morton, che allora era anche cancelliere d’Inghilterra 16. Era di mediocre statura, che però non cedeva all’età, per quanto avanzata; il suo volto ispirava reverenza, non timore; non intrattabile, ad abboccarsi con lui, ma tuttavia serio e grave. Si divertiva certe volte a rivolgere a chi lo supplicava qualche apostrofe un po’ rude, senza danno però, ma solo per provare di che natura, di quale intrepidezza ognuno sapesse far mo­ stra, e di questa virtù si compiaceva, a lui conforme, purché non vi si mescolasse sfacciataggine, e altamente la pregiava come adatta agli affari. Era nel parlare ele­ gante ed efficace, possedeva gran conoscenza del di­ ritto, ingegno senza pari, memoria straordinaria, che aveva del miracolo; qualità che, singolari per natura, accrebbe con lo studio e con l’esercizio. E il re, a quanto pareva, aveva la più gran fiducia nei suoi con­ sigli; egli era un gran sostegno dello Stato, allorquan­ do io mi trovavo lì; poiché, lanciato, sin quasi dalla prima giovinezza, dalla scuola senz’altro in corte, e poi per essersi trovato tutta la vita in mezzo ai più gravi negozi, sbattuto di continuo dalla mutevole ma­ rea della fortuna, aveva acquistato fra molti e grandi pericoli quella conoscenza del mondo, la quale, così appresa, difficilmente si cancella. Or avvenne che un giorno, a caso trovandomi io a tavola da lui, vi si trovasse anche un laico, perito nelle leggi del vostro paese, il quale, cogliendo non so quale occasione, prese a lodare con grande zelo la rigida giustizia allora esercitata contr’ai ladri. Costoro, 16 II Morton (1420-1500), arcivescovo di Canterbury Γ86, Tan­ no dopo L o r d C h a n c e llo r e poi cardinale (la sua punizione ap­ punto volevano i ribelli) era riuscito a metter termine alla guerra delle due rose con la restituzione della corona a Enrico VII. In casa del Morton appunto crebbe il giovine Moro, che conservò di lui sempre un vivo ricordo.

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andava ripetendo, vengono impiccati, a volte, sino a venti a uno stesso patibolo; e perciò, pur sfuggen­ do ben pochi all’estremo supplizio, tanto più si ma­ ravigliava, aggiungeva, per qual tristo destino tanti ladri andavano in giro dovunque. — Niente da maravigliarsi: — intervenni io allora osando parlar liberamente innanzi al cardinale — una tal punizione da una parte è ingiusta, dall’altra non è di alcun vantaggio pubblico: per pimire il furto è troppo crudele, ma è insufficiente a porvi freno. Né poi un semplice furto è sì gran delitto, che si debba colpir nel capo, né esiste pena tanto grande che im­ pedisca di rubare chi non ha altro mezzo per cercarsi da mangiare. In questa faccenda mi pare che non solo noi, ma buona parte del mondo facciamo come quei cattivi maestri, che preferiscono picchiare i ragazzi anziché istruirli. Si stabiliscono infatti, per chi ruba, pene gravi, pene terribili, mentre meglio era provve­ dere a qualche mezzo di sussistenza, acciocché nes-t suno si trovasse nella spietata necessità, prima, di ru­ bare, e poi di andare a morte. — A ciò, — egli soggiunse, — si è provveduto ab­ bastanza: ci sono infatti arti manuali, c’è la lavora­ zione dei campi, con cui ben potrebbero procacciarsi da vivere, se non preferissero esser delinquenti, così per proprio impulso. — Piano, piano! — diss’io. — Mettiamo da parte, anzitutto, quelli che tornano a casa dalle guerre ester­ ne o civili, mutilati; come poco fa, presso voi altri, dalla battaglia di Cornovaglia e, non molto prima, dalla guerra di Francia l7. Costoro sacrificano le loro membra per il re o per lo Stato; ma poi la debolezza impedisce loro di riprendere il mestiere di prima, co­ me l’età di impararne un altro. Lasciamo stare costoro, dico, dacché le guerre vanno e vengono a intervalli 17 Carlo V i l i di Francia acquistò la Bretagna, sposando la duchessa Anna. Per rappresaglia Enrico V II d ’Inghilterra sbarcò a Calais, il 1492, e assali Boulogne, ma presto si ritirò.

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disuguali. E consideriamo invece ciò che non passa giorno che non accada. C’è dunque un sì gran numero di nobili, che non solo vivono in ozio essi, a mo’ di fuchi, delle fatiche altrui, degli affittuari per esempio, e li scorticano a sangue per accrescere le proprie rendite (questa è l’unica economia che conoscono, ma prodighi poi sino a cadere in miseria), ma anche si trascinano attorno un codazzo interminabile di sfaccendati, che non ap­ presero mai l’arte di guadagnarsi il pane. Senonché, se avviene che il padrone se ne va da questo mondo, ovvero se si ammalano essi, vengono immediatamente messi alla porta, che li mantengono più volentieri a non far nulla anziché malati; senza dire che spesso l’erede di chi è morto non è più capace lì per lì di mantenere ancora la servitù del padre. Ma quelli in­ tanto son presi da una fiera fame, se non si danno fieramente a rubare. E che altro potrebbero fare? Quando hanno sciupato, ad andare a zonzo, il ve­ stito e la salute, non osano i nobili tenerli seco, così emaciati dalle malattie e coperti di cenci. Molti nem­ meno potrebbero prenderseli i contadini, ben sapendo che chi è stato allevato mollemente nell’ozio e nelle delicature, avvezzo, con una scimitarra a fianco e con uno scudo, a guardare i vicini con faccia da scioperato e disprezzar tutti a paragone di se stesso non è per nulla adatto a servir fedelmente a un povero, con uno zappone in mano o una marra, per una scarsa mercede e un misero vitto. — Al contrario, — replicò lui — son questi gli uomini che dobbiamo proteggere. In essi infatti con­ sistono le forze e il nerbo degli eserciti, poiché co­ storo, molto più degli operai e dei contadini, hanno animo elevato e generoso, se bisogna far guerra e combattere. — Sicuramente, — diss’io — potete dire d’un sol tratto che per la guerra bisogna proteggere i ladri. Non ne soffrirete mai mancanza, senza dubbio, fin­ 22

ché avrete costoro... Anzi, i briganti pure sono sol­ dati non privi di valore, come i soldati non sono i briganti meno attivi, tanto queste due professioni van d’accordo tra loro. Codesta piaga però, se è frequente tra di voi, non è di voi soli, anzi appartiene all’incirca a tutti i popoli. La Francia poi è infestata da un’al­ tra peste più pestifera: infatti tutto il paese è ripieno di uomini assoldati per la guerra, assediato da uomini pagati anche in pace (se è pace quella), presi con lo stesso criterio con cui voi altri qui avete pensato di mantenere a vostro sostegno dei fanulloni. In ciò è riposta la salvezza dello Stato, come è parso a questi maestri di pazzia 18: se cioè si tien sempre apparec­ chiata una difesa robusta e salda, di veterani in ispecie, ché non si fidano affatto di coscritti senza pra­ tica; con la conseguenza che devono andar in cerca sempre di nuove guerre, per non aver soldati non pra­ tici, o devono ammazzar gratis la gente, perché (co­ me dice argutamente Sallustio 10) durante la pace le mani e l’animo non facciano la ruggine. Quanto però sia dannoso allevare siffatte belve, non solo l’ha ap­ preso, con danno suo, la Francia, ma lo dimostra l ’esempio dei Romani, dei Cartaginesi, degli Assiri e di molti altri popoli, a cui gli eserciti sempre apparec­ chiati han distrutto, secondo che si offrivano le occa­ sioni, non solo gli imperi, ma anche le campagne e sino alle stesse città. Ma che tutto ciò non sia asso­ lutamente inevitabile, è evidente anche dal fatto che nemmeno gli stessi soldati francesi, esercitatissimi nel­ le armi sin dalla prima età, si vantano troppo spesso, messi a paragone coi vostri coscritti, di esserne usciti vincitori, per non dir di più e aver l’aria di volervi adulare. Però neppure i vostri, che siano operai di 18 II testo h a m o r o s o p h i, « sto lta m en te sap ie n ti » o « sapientem e n te s to lti », te rm in e creato d a L ucia n o , A l e x ., 40, e c h e è u n ric h ia m o a ll’E lo g io d e lla P a z z ia erasm iano. 18

C a tti .,

XVI.

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città o rozzi contadini, hanno, pare, gran paura di sfac­ cendate guardie nobilesche, a meno che alle loro forze e al loro coraggio non corrisponda il fisico, o che il loro ardire sia spezzato dalla miseria. Tanto è lon­ tano il pericolo che quelli, il cui fisico forte e robu­ sto (i nobili non si degnano di guastare se non uomi­ ni scelti) langue ora nell’ozio o s’infiacchisce in faccenduole quasi da femmine, si ammolliscano quando, per vivere, abbiano appreso una onesta arte e si eser­ citino in lavori da uomini. Comunque sia, mi pare che non giovi affatto allo Stato, in vista di guerre che non avreste mai, se non quando le vorrete, mantenere una turba senza fine di tal razza, che è una minac­ cia per la pace; cosa, questa, di cui si dovrebbe far tanto maggior conto che della guerra. Ma non è questa la sola cosa che costringe a ru­ bare: ce n’è un’altra, che è, credo, particolare a voi soli. — E qual è mai? — intervenne il cardinale. — Le vostre pecore — diss’io — che di solito son così dolci e si nutrono di così poco, mentre ora, a quanto si riferisce, cominciano a essere così voraci e indomabili da mangiarsi financo gli uomini, da de­ vastare, facendone strage, campi, case e città. In quel­ le parti infatti del reame dove nasce una lana più fine e perciò più preziosa, i nobili e signori e per­ fino alcuni abati, che pur son uomini santi, non pa­ ghi delle rendite e dei prodotti annuali che ai loro antenati e predecessori solevano provenire dai loro poderi, e non soddisfatti di vivere fra ozio e splen­ dori senz’essere di alcun vantaggio al pubblico, quan­ do non siano di danno, cingono ogni terra di stecco­ nate ad uso di pascolo, senza nulla lasciare alla col­ tivazione, e così diroccano case e abbattono borghi, risparmiando le chiese solo perché vi abbiano stalla i maiali; infine, come se non bastasse il terreno da essi rovinato a uso di foreste e parchi, codesti ga­ lantuomini mutano in deserto tutti i luoghi abitati 24

e quanto c’è di coltivato sulla terra20. Quando dun­ que si dà il caso che un solo insaziabile divoratore, peste spietata del proprio paese, aggiungendo campi a campi, chiuda con un solo recinto varie migliaia di iugeri, i coltivatori vengono cacciati via e, irretiti da inganni o sopraffatti dalla violenza, son anche spo­ gliati del proprio, ovvero, sotto l’aculeo di ingiuste vessazioni, son costretti a venderlo. Insomma, in un modo o nell’altro, vanno via quei disgraziati, uomini, donne, mariti, mogli, orfani, vedove, genitori con bam­ bini e con una famiglia più numerosa che ricca, che l’agricoltura richiede molte mani; vanno via, dico, dai loro noti lari abituali, senza trovar dove ricovrarsi, gettando via a vii prezzo, una volta che cacciati bi­ sogna essere, la loro povera roba che, anche a poter aspettare chi la comprasse, non si venderebbe per molto. E una volta che in breve, con l’andar di qua e di là, hanno speso tutto, che altro resta loro se non rubare, per essere di santa ragione, si capisce, im­ piccati, o andar in giro pitoccando? Sebbene... anche in questo secondo caso vengono, come vagabondi, gittati in carcere, perché vanno attorno senza lavorare. Vero è che, per quanto essi si offrano di gran cuore, non c’è nessuno che li prenda a servizio. Dove nulla si semina, nulla c’è da fare pei lavori dei campi, a cui erano stati abituati. Un solo pecoraio o bovaro, se pure, è sufficiente per quella terra serbata a pa­ scolo, mentre per coltivarla, per potervi seminare, oc­ correvano molte mani. È questa la ragione perché in molti luoghi i vi­ veri diventano molto più cari; anzi è cresciuto anche il prezzo delle lane, tanto che non le possono assolu­ tamente acquistare i più poveri tra i vostri artigiani, che se ne solevano far pannilani; e anche per questa 20 Questo dei danni recati all’agricoltura dalla pastorizia non era lamento nuovo a quei tempi, né fini allora, in Inghilterra: dopo le guerre civili, la vita rinasceva con nuovi bisogni e chie­ deva nuovi mezzi. 25

ragione più numerosi sono gli uomini ricacciati dal lavoro nell’ozio. Dopo l’aumento dei pascoli, una quan­ tità innumerevole di pecore fu portata via da un con­ tagio21: come se Dio volesse punire la cupidigia dei padroni, penetrò fra le bestie la peste, che sarebbe stato più giusto scagliare su di essi in persona. Ma se anche dovesse crescere al massimo il numero di tali bestie, non per questo ne diminuisce il prezzo; se non formano monopolio nelle mani di uno solo (non è uno solo a vendere), sono un oligopolio, un accaparra­ mento di pochi, perché generalmente son venute nelle mani d’una oligarchia, e d’una oligarchia di ricchi. Nulla costringe costoro a vendere a forza quando loro non piaccia, e non piace prima di poterlo fare al prez­ zo che vogliono. Anche per le altre bestie, ornai, la stessa causa fa sì che rincariscano allo stesso modo, e ciò anche di più si verifica pel motivo che, distrutte le fattorie e scaduta l’agricoltura, non c’è chi si curi di allevamento: quei ricchi non allevano anche grosso bestiame come allevano le pecore, ma comprano per nulla i vitellini altrove, striminziti, per ingrassarli nei loro pascoli e rivenderli a gran prezzo. Però credo che, per questo motivo, il danno di una tal situazione non si avverte ancora interamente. Sinora infatti sol­ tanto in questi luoghi dove vendono fan salire i prezzi; ma poi, quando una buona volta avranno portato via da ogni dove le bestie più presto che non pos­ sano rinascere, allora sì che diminuiranno a poco a poco le riserve dei luoghi di accaparramento, e per necessità si avrà anche qui a soffrire una straordina­ ria carestia. In tal modo, ciò che rendeva questa vo­ stra isola sommamente fortunata, torna a vostra ro­ vina, per la malvagia avarizia di pochi senza coscien­ za. Questa carestia di viveri è il motivo per cui ognu­ no manda via da casa sua quante più persone è pos­ sibile. E a che, di grazia, se non a mendicare, o, ciò 21 Probabilmente, nella siccità del 1506.

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che è più facile persuadere a spiriti fieri, a fare i bri­ ganti? Senonché a questa povertà, a questa miserevole indigenza si aggiunge un lusso inopportuno. Non solo chi è a servizio di nobili, ma anche operai, ma starei per dire anche gente di campagna, ogni classe infine, ostenta una pompa sfacciata nelle vesti, un lusso ec­ cessivo nel tenor di vita. Ora, bettole, taverne, bor­ delli e, nuovi bordelli, spacci di vino e birrerie, e poi tanti giochi immorali, giochi d’azzardo, carte, bos­ soli, pallone, bocce, disco, non sono uno spreco di danaro? Non manda questo per la più breve chi vi è dedito a rubare in qualche luogo? Allontanate queste varie pesti perniciose da voi, stabilite che le fattorie e i villaggi dei contadini o siano rifatti da chi li distrusse, o sian lasciati a chi vuol rimetterli a posto e rifabbricarli; ponete un fre­ no a codesti accaparramenti da parte dei ricchi, a questa loro licenza, quasi di monopolio. Si tenga meno gente in ozio, si rifaccia l’agricoltura, si rinnovi la lavorazione della lana, ci sia qualche onesta occu­ pazione in cui possa più utilmente esercitarsi codesta turba di sfaccendati. È la miseria che li ha resi ladri sinora, e quelli che intanto son vagabondi o servi in ozio, tra breve saranno evidentemente ladri gli uni e gli altri. Se non mettete rimedio a tali mali, è vano vantar la giustizia esercitata a punir furti, giustizia più appariscente che giusta o utile. Poiché, quando lasciate che costoro siano educati molto male e i loro costumi sin dalla giovinezza si corrompano a poco a poco, si devono punire, è evidente, allorché, fatti uomini, commettono quelle infamie che la loro fan­ ciullezza annunziava... Ma che altro con ciò fate, di grazia, se non crear dei ladri per punirli voi stessi? Ora, sin da quando io parlavo, quell’uomo di leg­ ge, tutto attenzione, si era disposto intanto a tener un discorso e aveva fissato seco di seguire quell’usanza di chi disputa, che più che contraddire ripete con ec­ 27

cessiva intelligenza, tanto buona parte delle lodi che gli danno le ripone nella memoria. — Egregiamente — disse — avete parlato: non c’è dubbio, per esser voi un forastiero, si sa che avre­ te potuto sentir qualcosa di tali faccende, piuttosto che possederne esatta conoscenza: lo farò chiaro io, in breve. Anzitutto ricapitolerò ciò che avete detto, poi mostrerò in quali cose vi siete lasciato infinoc­ chiare dall’ignoranza delle nostre cose, in ultimo de­ molirò, polverizzerò tutti i vostri argomenti. Per co­ minciare dunque dal primo punto che ho promesso, parmi che quattro... — Non più, — interruppe il cardinale: — mi pa­ re che vogliate rispondere per le lunghe, se comin­ ciate così. Pel momento vi dispensiamo dal fastidio di rispondere, rinviando però il vostro compito tale e quale al vostro prossimo incontro, che vorrei venis­ se domani, se nulla impedisce voi o questo Raffaele. Ma intanto sarei molto lieto di sentir da voi, mio caro Raffaele, perché credete che il furto non va pu­ nito con l’estremo supplizio e qual altra pena stabi­ lireste voi, che sia più vantaggiosa al pubblico. Che si debba permetterlo, nemmeno voi lo pensate. Ma se ora, anche attraverso la morte, tanta gente si spin­ ge a rubare, una volta assicurata la vita, come vorre­ ste voi, qual paura potrebbe esser di freno ai mal­ vagi? Certo, dall’addolcimento della pena si crede­ rebbero invitati al male, come da un premio... — Sotto ogni rispetto — risposi io — mi pare, dolcissimo padre, che non sia assolutamente giusto toglier la vita a un uomo perché ha tolto del danaro, se è vero che neppure con tutti i beni della fortuna, pare, si può far nulla che valga la vita di un uomo 11. Se poi dicono che con tal pena si paga non il da-2 22 £ l ’interpretazione di Ralph Robinson, il primo traduttore inglese (1551), citato da J. H. L upton (nell’ed. delle O p e r e del Colet, Cambridge 1867-76, p. 60) e dal G runebaum -Ballin , nella sua edizione (Paris 1935, p. 69). 28

naro, ma l’offesa alla giustizia e la violazione delle leggi, in tal caso io direi con più ragione: s u m m u m iu s, s u m m a in iu ria . Non si deve consentire a dispo­ sizioni di leggi così draconiane che, in ogni piccola disubbidienza in cose di nessun conto, diano mano alla spada, né a massime così stoiche da considerare uguali tutti i peccati, come se non ci fosse differenza alcuna fra uccidere un uomo o involargli del danaro. Fra queste due cose non c’è nessuna somiglianza, nes­ suna parentela, se l’equità ha qualche valore. Dio ha proibito di uccidere, e noi con tanta facilità uccidiamo per la sottrazione di un po’ di danaro? Ché, se si volesse intendere che è vero che per ordine di Dio è stata vietata ogni facoltà di uccidere, salvo però il caso che la legge umana imponga di uccidere, che mai si opporrebbe acciocché allo stesso modo stabi­ lissero gli uomini che bisogna permettere lo stupro, l’adulterio, lo spergiuro? Giacché, avendoci tolto Iddio il diritto di dar morte non solo agli altri ma anche a noi stessi, ammesso il caso che, per un ac­ cordo fra gli uomini, si stabilisca di sgozzarsi a vi­ cenda secondo determinati princìpi, e che ciò abbia tanta forza da sciogliere chi accetta detto accordo dal vincolo di quel precetto divino, in modo da levar di mezzo, senza alcuna eccezione da Dio prevista 23, quel­ li cui la sanzione umana comanda di uccidere, in tal caso non avrebbe il precetto divino forza giuridica solo in quanto lo consente il diritto umano? Così evidentemente accadrà che allo stesso modo, in tutte le cose, saranno gli uomini a stabilire sino a che punto convenga osservare le prescrizioni divine. Da ultimo, 33 « S in e u llo e x e m p lo D e i semble signifier s a n s a u c u n e x e m p le d o n n e p a r D ie u , sens assez peu satisfaisant, car il serait trop aisé d ’alléguer des cas où Dieu chàtie de mort ceux qui ont peché. » M. D elcourt , Ι / U t o p i e o u le t r o t t i d e la m e ille u r fo r m e d e gov e r n e m e n t , Paris 1936, p. 68, n. Nemmeno traducendo: « senza alcuna punizione da parte di Dio » si dice nulla: come se Dio sanzionasse il mal fare degli uomini. La Delcourt propone di in­ tendere « eccezione », da e x im o . 29

la legge mosaica, per quanto ferocemente spietata, per esser stata fatta contro schiavi e schiavi cocciuti, punisce il furto con un’ammenda, non con la morte. Bisogna dunque credere che Dio, nella sua nuova legge di bontà, per cui comanda qual padre a figli, non ci abbia voluto lasciare maggior libertà di infie­ rire gli uni contro gli altri. Son questi i motivi per cui non credo lecito uc­ cidere. Quanto poi sia pazzesco ed anche dannoso allo Stato punire allo stesso modo un ladro e un omicida, non c’è nessuno, credo, che non lo sappia. Quando infatti una malandrino vedesse che, condannato per furto, non corre minor pericolo che se fosse convinto anche di omicidio, da questa sola riflessione si sentirà spinto ad ammazzare colui, che altrimenti avrebbe soltanto svaligiato, e ciò pel fatto che non solo, se è sorpreso, non corre maggior pericolo, ma anche che, a uccidere, c’è maggior sicurezza, maggior speranza di non esser scoperto, una volta levato di mezzo chi poteva denunziarlo. A questo modo, quando cerchia­ mo di atterrire con troppa crudeltà i ladri, li lancia­ mo allo sterminio d.-i galantuomini. Quanto poi alla solita questione, qual pena possa essere più adeguata, è facile, a parer mio, scoprire questa che far peggio di ora. Ma perché non ammet­ tere che il mezzo migliore per punire tali delitti sia quello così a lungo adottato anticamente dai Romani, che pur s’intendevano di reggere Stati? Da costoro i colpevoli di grandi delitti eran condannati, per sicu­ rezza, ai ferri a vita nelle cave di pietra o nelle mi­ niere. Vero è che a me, per quel che riguarda questa materia, nulla più piace della disposizione che, viag­ giando nella Persia, ho visto adottata da quelli che son chiamati comunemente Polileriti24, una popola­ zione non piccola né male ordinata e, tranne che ogni

anno paga un tributo al re dei Persiani, libera e la­ sciata alle proprie leggi. Del resto, pel fatto che si trovano lungi dal mare, avvolti quasi da ogni parte da monti, vivendo paghi dei prodotti della loro terra, che non ne è punto avara, non vanno spesso da altri popoli, né questi da loro, e parimenti, giusta le an­ tiche tradizioni, non cercano nemmeno di slargare i lor confini, salvo però che da ogni offesa nemica li difendono facilmente sia le loro montagne, sia quel tributo che pagano al sovrano di cui son feudatari. In tal modo, liberi del tutto da servizio militare, se la vivono non tanto fra splendidezze quanto comoda­ mente, e più felici che famosi o noti, non essendo ben conosciuti, credo, neppur di nome, se non dai vicini. Orbene, presso costoro, chi è condannato per fur­ to, restituisce il maltolto al padrone, non già al re, come s’usa altrove, il quale, a parer loro, ha tanto diritto alla cosa rubata quanto il ladro stesso. Se que­ sta non si trova, se ne preleva il valsente dai beni del ladro 25, lasciando il resto interamente alla mo­ glie e ai figli, e lui vien condannato ai lavori. Però, a meno che il furto non avvenga con particolare fe­ rocia, non stanno chiusi nell’ergastolo né portano ca­ tene, ma vengono occupati nei lavori pubblici, liberi e a piè sciolto. Se si rifiutano o mostrano fiacca, non li puniscono coi ferri quanto li stimolano a staffilate: se invece lavorano alla svelta, non son maltrattati, ma solo, per la notte, dopo l’appello nominale, ven­ gono chiusi in dormitori, né altro disturbo hanno in vita, se non di lavorare sempre. Infatti son mantenuti senza dure privazioni e a spese dello Stato, visto che servono al pubblico; però dove in un modo, dove nell’altro. In qualche luogo si provvede loro dai pro-

21 Πολύ? e λ^ροϊ, « molto cicaleccio »: forse perché inesistenti fuori da questo discorso.

25 Non vi sono evidentemente, tra i Poliieriti, disgraziati co­ stretti a rubare per fame, come del resto non vi esiste, si vede, vagabondaggio e disoccupazione.

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venti dell’elemosina, mezzo, questo, che, per quanto precario, pure, per essere il popolo compassionevole, non ce n’è uno più copioso; altrove vengono a tale scopo devolute entrate dello Stato e ci son luoghi dove si paga a tal uso un tributo personale. In altri luoghi poi non eseguiscono nessun lavoro pubblico, ma, quando un privato ha bisogno di operai, va a prenderne uno in piazza per quel dì a giornata, con salario fisso, un po’ inferiore a quello che avrebbe pagato per un uomo libero, ed è lecito adoprar la sferza a punire l’infingardaggine dello schiavo. Con questo sistema non si dà mai il caso che manchino di lavoro, anzi, oltre a guadagnarsi il vitto, ognuno apporta qualcosa ogni giorno all’erario. Por­ tano tutti abiti dello stesso colore, riservati per loro, e capelli non rasi, ma tagliati un po’ sopra le orec­ chie, una delle quali vien mozzata un poco. Gli amici possono offrir loro da mangiare e da bere e anche da vestire, sempre però del loro colore, ma il dono di danaro si paga con la vita e da chi lo dà e da chi lo riceve; né minor rischio corrono ad accettar da­ naro da un condannato uomini liberi, per qualsiasi motivo, e ugualmente gli schiavi (così infatti chia­ mano i condannati) a toccare arm i2e. Ogni paese li marca di un segno suo particolare, che è delitto gittar via, come pure lasciarsi vedere fuori del proprio ter­ ritorio o a confabulare con schiavi di altro paese. E progettar la fuga non è meno rischioso della fuga stessa: per chi venga scoperto a parte di tali piani c’è la morte, se schiavo, la schiavitù, se libero; come per l’opposto si premia chi denuncia, con danaro se è li­ bero, con la libertà se schiavo27. Se poi sono stati soltanto a conoscenza della cosa, l’uno e l’altro tro-36 36 « More ne parait pas s’apercevoir que les Polylérites connaissent la peine capitale. Le système entier, qui est clément, ne tieni que si Γοη punit sévèrement ceux qui le compromettent. » D elcourt, o p . c i t p. 72, η. 1. 27 « More ne semble pas voir que ce système encouragerait 32

vano perdono e impunità, e ciò perché non abbia ta­ lora a presentarsi come più sicuro ostinarsi in un mal­ vagio disegno anziché pentirsene. Ecco dunque qual è la legge in tale materia e qual ne è la disposizione, cui accennavo. È facile ve­ dere quanta umanità e quali vantaggi abbia in sé: giacché non colpisce se non per distruggere le colpe, ma salva gl’individui e li tratta in modo da forzarli ad essere buoni e risarcire col resto della vita tutto il male arrecato prima. Non c’è poi alcuna paura che tornino alle antiche loro abitudini: i viaggiatori stessi, volendo recarsi in qualche luogo, con nessun’altra guida si sentono più sicuri che con questi schiavi, che cambiano via via ad ogni regione. Nulla infatti posseggono, in nessun luogo, che possa spingerli a commettere furti: non armi alle mani, il danaro non sarebbe che un segno di colpa, pronta è la punizione per chi è sorpreso e non ci sarebbe speranza alcuna che fuggano in qualche luogo. E come potrebbe mai sfuggire, nascondendo la propria fuga, uno che non veste in nulla come tutti gli altri? A meno che non voglia andar nudo... Ma anche in tal caso lo tradi­ rebbe l’orecchio. Resta alfine il pericolo che s’accor­ dino per congiurare contro lo Stato... Come se po­ tesse un gruppo di vicini alzare il cuore a tanta auda­ cia, senza prima aver saggiato ed eccitato la servitù di molte regioni! Ma essi son lungi le mille miglia dalla possibilità di cospirare, se non è loro lecito neppur d’incontrarsi, di parlarsi, di salutarsi a vicenda; e perché poi si avrebbe da credere che debbano senza paura affidare ai loro un piano, che taciuto può esser di danno, ma se poi è rivelato può recare il maggiore dei beni? Nessuno invece perde mai del tutto la spe­ ranza che con l’obbedienza, con la rassegnazione, col dar buona speranza di una condotta irreprensibile in avvenire, possa riottenere quando che sia la libertà: les délations, les accusations mensongères et la provocation à l ’évasion. » D elcourt, o p . c it., p. 72, n. 3. 33

ogni anno ne liberano un certo numero, per la sottomissione mostrata28. Questo diss’io, aggiungendo che non vedevo il motivo per cui non si potesse anche in Inghilterra impiantare un tal sistema, con molto maggior frutto di quella giustizia tanto esaltata da quel giureconsulto. E allora lui, l’uomo di legge: — Mai — disse — si potrebbe stabilire codesto metodo in Inghilterra, senza trascinare il regno nel più grande pericolo. E ciò dicendo scosse la testa, storse le labbra e così stette zitto; e tutti i presenti approvavano il suo modo di vedere. Allora il cardinale: Non è agevole indovinare, — mi disse — senza prima aver fatto la prova, se la cosa andrebbe a finir bene o male. Tuttavia se, quan­ do è pronunziata una sentenza di morte, il re ne so­ spendesse pel momento l’esecuzione e mettesse a pro­ va questa nuova forma di repressione, abolendo però il diritto di asilo, allora, nel caso che si dimostrasse utile coi fatti, sarebbe giusto adottarla. In caso con­ trario, a eseguire anche con ritardo la condanna a morte già pronunziata, non ci sarebbe minor vantag­ gio per lo Stato né maggior ingiustizia che nell’im­ mediata esecuzione. Che pericolo ne potrebbe nasce­ re, nell’intervallo? Anzi a me pare che non sarebbe male poter usare lo stesso trattamento anche ai va­ gabondi: tante leggi abbiamo sinora emesso contro costoro! Ma il risultato è sempre zero. Quando il cardinale ebbe detto le stesse cose che tutti, finché le dicevo io, avevano accolto con disprez­ zo, non ci fu uno che non cominciasse a portarle a gara alle stelle, soprattutto le sue idee sui vagabondi, che era la parte da lui aggiunta. Ora, quel che venne dopo non so se sarebbe me­ glio passarlo sotto silenzio: si tratta di cose da ri­

dere. Le narrerò tuttavia; non erano da biasimare e in parte entravano nell’argomento 2\ C’era lì un parassita che voleva mostrare di far il buffone e lo faceva sì bene da parere uno scemo vero e proprio, tali essendo le arguzie con cui cer­ cava di suscitar le risa che si rideva più spesso di lui che dei suoi motti. Talora però ne imbroccava qual­ cuna non del tutto senza senso, tanto per non smen­ tire il detto che, qualche volta, a via di colpi tentati, si fa diciotto con tre dadi. Costui dunque, avendo un convitato detto che col mio discorso si era ornai provveduto egregiamente ai ladri, come pure dei va­ gabondi si era preoccupato il cardinale, e non rima­ neva dunque ora se non che lo Stato pensasse a quan­ ti dalle malattie e dalla vecchiaia erano gettati nel­ l’indigenza, incapaci di procurarsi di che vivere col lavoro: — Lasciate fare a me — soggiunse — farò in mo­ do che anche questa faccenda s’aggiusti. Il mio più vivo desiderio è di levarmela dinanzi agli occhi, que­ sta razza di uomini, tanto mi hanno non di rado an­ noiato, chiedendomi danaro coi loro supplichevoli pia­ gnistei. Vero è che con me non strillavano mai così bene da cavarmi il becco d’un quattrino. Delle due luna mi succede sempre, o che non voglio dar nulla, quando ne ho, o non ho da dar nulla, quando vor­ rei30. Ora perciò cominciano a metter giudizio: quan­ do mi vedono passare, per non sprecare il fiato, mi lasciano andare senza aprir bocca; tanto son sicuri che da me non c’è nulla da sperare, né più né meno

28 La riduzione della pena, qui preconizzata, in ricompensa della buona condotta, fu introdotta nel diritto penale inglese il 1853, e poi negli altri Stati.

29 Tutto questo brano però, sul buffone e l ’uomo di chiesa, non fu più creduto lecito dopo la Riforma e fu espurgato nell’edi­ zione delY U to p ia di Colonia, 1629, « ju x t a in d ic e m lib r o r u m e x p u r g a to r u m c a rd in a lis e t a r c h ie p is c o p i T o le ta n i c o r r e d a ». 30 « Q u ip p e s e m p e r a lte r u tn e v e n t i » etc. « F o r e v e r m o r e th è o n e o f th i e s tw o c h a u n c e d »: così, semplicemente, intende il Ro­ binson, citato in L upton , o p . c i t ., p. 74. Ma la D elcourt , p. 76, n. 3 dell’op. c it,, propone di intendere a lte r u m nel significato che ha nel linguaggio augurale, cioè come qualcosa di sfavorevole, come un cattivo presagio; ma così se ne va tutta l ’arguzia.

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che se fossi un prete. Ecco dunque la legge che io farei: che per mio ordine tutti questi mendicanti siano distribuiti e classificati fra i conventi dei benedettini, e vi diventino conversi o laici, come li chiamano; allo stesso modo le femmine vi stiano come mona­ che. Questo è il mio ordine. Sorrise il cardinale, approvando lo scherzo, men­ tre gli altri lodavano la cosa come seria. Ma un mo­ naco teologo, a questo motto contro preti e frati, spianò il viso e cominciò anche lui a scherzare, men­ tre prima, di solito, era grave sino al cipiglio. — Ma a questo modo — intervenne il frate — non ti sbrighi affatto dei mendicanti, se non prov­ vedi prima anche a noi frati. — Ma vi è stato già pensato — rispose il buf­ fone. — Il cardinale infatti ha provveduto egregia­ mente a voi altri, stabilendo che si metta un freno a tutti i vagabondi e siano messi a lavorare; giacché voi altri siete i più gran vagabondi del mondo. A quest’uscita, gli astanti rivolsero gli occhi al cardinale, ma, vedendo che non se ne dava per inteso, cominciarono tutti ad approvare di gran voglia. Non però il frate, che, morso in maniera così pungente, non c’è da meravigliarsi che si sdegnasse e si arrovel­ lasse sino ad abbandonarsi a vituperi, chiamando il nostro uomo furfante, malalingua, cicala, figlio della perdizione, tirando in ballo insieme terribili minacce dalla Sacra Scrittura. Allora il buffone, buffoneggian­ do sul serio, che ornai aveva buon gioco: — Non t’arrabbiare, — disse, — mio caro frate; imperocché è stato scritto: Nella vostra pazienza pos­ sederete le anime vostre31. — Ma questo non è arrabbiarsi, forca, — replicò il frate (ricordo bene le sue precise parole) — o per lo meno non è peccato. Poiché dice il salmista: Adi­ ratevi e non peccate32. 31 32

L u c a , XXI, P s ., IV, 5.

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Il cardinale allora lo avvisò con dolcezza di mo­ derare i suoi trasporti, ma il frate continuava: — Non parlo, monsignore, se non per onesto zelo, com’è mio dovere. Giacché gli uomini santi furono sempre animati da onesto zelo, onde si dice: Lo zelo della tua casa mi divora 33; e in chiesa si canta: Gli schernitori di Eliseo, mentre sale alla casa del Si­ gnore, sentono lo zelo del calvo 34; come forse lo pro­ verà questo beffeggiatore, buffone e ribaldo. — Forse — disse il cardinale — lo fate con buo­ na intenzione; ma a me pare che agireste non so se più santamente, certo più saviamente, a comportarvi in modo da non entrare in una ridicola gara con un uomo stolido e ridicolo. — No, monsignore, — insistè il frate — non farei più saviamente. È stato infatti il sapientissimo Saiomone in persona a dire: Rispondi allo stolto secondo la sua stoltezza 35. E proprio così faccio io ora, facen­ dogli vedere la fossa in cui cadrà, se non istà molto attento. Se infatti molti schernitori di Eliseo, che era un unico calvo, sentirono lo zelo del calvo, quan­ to più non sentirà un unico schernitore lo zelo di molti frati, fra i quali vi sono molti calvi? E abbia33 P s ., LXIX, 9 ( V u lg ., LXVIII, 10). 34 I I R e g ., II, 24. Le parole sono dell’inno di Adamo di S. Vittore, D e R e s u r r e c tio n e D o m in i·. « Ir r is o r e ! H e lis a e i, — d u m c o n s c e n d it d o m u m D e i, — z e lù m c a lv i s e n ti u n t ». Il irate satireg­ giato dice però z e lu s c a lv i, come se fosse neutro, e subito dopo adopera r ib a ld u s che è parola del Medioevo (nel secolo XII i « ri­ baldi » sono soldati, ma poi diventano mascalzoni, allo stesso modo come la tr o presso Plauto è soldato mercenario, ma un secolo dopo è masnadiere, assassino, ladrone). Il curioso si è che, per queste parole, Moro fu accusato di non saper scrivere il latino. « M o r i s o le c is m i ac b a r b a ris m i a liq u o t f o e d is s im i », scriveva il B rixius nel suo A n t im o r u s (Parigi 1519, f. 7, v.). Per tutte le polemiche col francese, v. la lettera di costui a Erasmo, in A llen , o p . c it., IV, n. 1045 e la risposta di Moro, n. 1087; poi n. 1093, n. 1096, n. 1117. 35 P r o v ., XXVI, 5. Vero è che prima, 4, i P r o v e r b i dicono al contrario: « Non rispondere allo stolto secondo la sua stoltezza, per non renderti eguale a lui ». Insomma per Moro quei proverbi non provano niente. 37

mo anche una bolla del papa, in virtù della quale tutti coloro che canzonano noi sono scomunicati. Ma il cardinale, quando vide che la cosa non fi­ niva più, fatto con un cenno allontanare il parassita, cambiò opportunamente discorso e dopo poco si levò da mensa, licenziandoci, per andare a porgere orec­ chio alle faccende dei suoi dipendenti. Ecco, caro signor Moro, con che lungo discorso vi ho importunato: mi sarei però vergognato di ti­ rarla in lungo così senza le vostre appassionate richie­ ste e le vostre dimostrazioni che della nostra conver­ sazione non volevate perdere un’acca. Certo avrei po­ tuto essere più conciso, ma non potevo fare a meno di esporla, perché si giudichi di coloro che quando parlavo io, avevano rigettato le mie idee, ma invece proprio essi le applaudirono tali e quali, appena mo­ strò di non disapprovarle il cardinale. Furono costoro a spingere la loro adulazione sino a lisciare il paras­ sita per quelle sue baggianate che il suo padrone, così per ischerzo, non condannò. Potete ora pensare che conto farebbero i cortigiani di me e dei miei con­ sigli! — Mi avete recato — diss’io — il più straordi­ nario piacere, signor Raffaele mio, ve lo assicuro; tanta è la saggezza e la festevolezza insieme di tutte le vostre parole. Mi è parso inoltre, in questo tempo, di ritrovarmi in patria, non solo, ma, al lieto ricordo del cardinale, nel cui palazzo sono stato allevato da piccolo, di esser tornato fanciullo. Pel fatto poi che voi serbate un culto così vivo per la memoria di tale uomo, non potete credere quanto, ottimo signor Raf­ faele, mi siate diventato, a questo titolo, più caro. E sì che prima mi eravate per altri rispetti assai caro! Non potrei del resto mutare in alcun modo la mia opinione sul vostro conto e non pensare che, se voi vi poteste indurre a non sdegnare le corti dei re, po­ treste coi vostri consigli recar grandissimo bene al­ l’universale. Perciò non incombe dovere maggiore di questo su voi, cioè su ogni galantuomo. Se è vero 38

che afferma il vostro Platone che gli Stati solo allora saranno felici, quando diventeranno re i filosofi ov­ vero i re si daranno alla filosofia36, dove se ne va a finire questa felicità, se i filosofi non si degnano al­ meno di dare ai re il loro avviso? — Non sono di animo così insensibile, — mi ri­ spose— che non lo farebbero volentieri (anzi molti l’han fatto con la pubblicazione di libri), se coloro che detengono l’autorità suprema fossero disposti a dar retta a buoni suggerimenti. Ma non c’è dubbio che Platone previde chiaramente che, a meno che i re non studino filosofia, non si darà mai il caso che ap­ provino del tutto i consigli di chi fa il filosofo, così imbevuti come sono di malvage opinioni e corrotti sin da bambini; Platone stesso ne fece anche lui prova con Dionisio37. Credete voi che, qualora io propo­ nessi a qualche re delle sagge decisioni, sforzandomi di strappar dal suo cuore quei semi perniciosi di mali, non mi caccerà via immediatamente o non mi ren­ derà oggetto di scherni? Orsù, immagina che io mi trovi presso il re di Francia, e stia a sedere nel suo consiglio, in una stanza appartata e segreta, dove il re in persona presiede a una corona di finissimi politici. La quistione trat­ tata con grande impegno e passione è questa: con quali arti, con quali macchinazioni conservare Milano e riprendersi quella Napoli che sempre fugge via, poi com’egli abbatta Venezia e assoggetti l’Italia tu tta38; 36 La citazione dalla R e p u b b lic a , V, 473 è fatta a memoria, e non dal testo, ma dalla traduzione del Ficino. 37 È noto che Dionisio cercò di farlo ammazzare e, in man­ canza di ciò, lo fé’ vendere schiavo in Egina. 38 Si ricordi che V X Jtopia è del 1516, quando, morto da poco Ferdinando il Cattolico, era salito al trono di Spagna il nipote Carlo, il quale solo quattro anni dopo doveva essere imperatore col nome di Carlo V. È questo l ’anno della pace di Noyon (13 agosto); Tanno prima, colla battaglia di Marignano (13-14 set­ tembre), Francesco I si era di nuovo impadronito del milanese; ma il regno di Napoli restava sempre alla Spagna: Luigi XII se l ’era lasciato togliere dal suo alleato, Ferdinando il Cattolico, il 1503. 39

in seguito come riduca in suo potere i Fiamminghi, il Brabante e da ultimo tutti i Borgognoni e altri po­ poli via via, il cui regno ha già invaso da un pezzo il cuor suo. E qui l’uno vuol persuadere che biso­ gna fare alleanza con Venezia, salvo a mantenerla in tempo solo che torni a proprio vantaggio, e che biso­ gna stabilire i piani d’accordo e insieme con essa, anzi lasciarle addirittura una parte della preda, da ripren­ dersi poi a cosa fatta; un altro propone di assoldare Tedeschi, un terzo di adescare con danaro gli Svizzeri, un altro di propiziarsi la divinità nemica dell’Impera­ tore con lo scongiuro dell’oro. Frattanto a uno pare opportuno che cerchi una composizione col re d’Ara­ gona, abbandonandogli come prezzo di pace il regno di Navarra che non gli appartiene 3a; mentre un al­ tro propone di irretire il re di Castiglia con speranze di matrimonio e intanto cercar di trarre al proprio partito alquanti nobili di corte con buone pensioni. Viene intanto il maggiore dei nodi: che fare dell’In­ ghilterra; ma tuttavia con essa bisogna trattar di pace e stringere coi più saldi vincoli quest’unione sempre vacillante. Si chiamano dunque amici gli Inglesi, per poterli meglio guardar con sospetto come nemici. Bi­ sogna perciò tener pronti come posti avanzati gli Scoz­ zesi, che spiino la prima occasione e, se poco poco si muovono gl’inglesi, lanciarli immediatamente con­ tro 3940, e a tale scopo mantenere in segreto qualche no­ bile esule (non si può farlo alla scoperta per via dei trattati), il quale avanzi pretese al trono 41. Si terrà in pugno, con tal mezzo, il re, di cui c’è poco da fi­ darsi. 39 Lo aveva incorporato nel regno di Castiglia Ferdinando il Cattolico il 15 giugno 1515, in seguito a cessione del re di Francia, che non ne era il padrone, come fa notare il Moro. 40 Così precisamente aveva fatto il 1513 il re Giacomo di Scozia, mentre Enrico V ili guerreggiava in Francia. 41 L’ultimo pretendente era stato Perkin Warbeke, sedicente duca di York e figlio di Edoardo IV, assassinato il 1483: fu na­ turalmente sostenuto dal re di Francia, Carlo V ili, e anche dalla vedova di Carlo il Temerario, Margherita di York.

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Ora, mentre si macchinano sì grandi cose, men­ tre tanti grandi politici fanno a gara a presentare i loro piani in vista della guerra, se dovessi levarmi a parlare io, uomo da nulla, che dovrei dire? Ben po­ trei proporre di dare indietro, esponendo l’idea che non c’è da occuparsi dell’Italia, ma è meglio starsene a casa propria, ché già di per sé il solo regno di Fran­ cia è troppo grande per venir governato da uno solo, onde il re non si creda in dovere di pensare ad ag­ giungervi altre terre... E a sostegno potrei sottoporre alla loro attenzione le decisioni degli Acori42, una popolazione che si trova a sud-est dell’isola di Utopia, i quali una volta fecero una guerra per ottenere un altro regno al loro re, che lo pretendeva come dovu­ togli in eredità per via di cognazione43. E ben lo con­ quistarono, ma si accorsero subito che, a conservarlo, avevano fastidi non meno che per conquistarlo, poi­ ché sempre ripullulavano nuovi germi di ribellione all’interno o di invasioni dal di fuori e così bisognava sempre portar le armi fra i nuovi sudditi, o contro o a favore di essi, senza poter mai licenziare l’eser­ cito. Era insomma una spoliazione dei cittadini, il danaro fuggiva all’estero, per un po’ di gloriola altrui si versava il proprio sangue... Né la pace offriva meno pericoli: in paese i costumi corrotti dalla guerra, il brigantaggio un eccesso diffusosi ovunque, l’audacia cresciuta per via dei continui ammazzamenti, e ogni legge in dispregio, ché il re, diviso fra le cure dei due regni, poteva meno badare all’uno o all’altro. Fu allora che gli Acori, vedendo che non c’era altro modo di metter fine a tanti mali, vennero nella de­ liberazione di invitare con molta umanità il re a ser­ bare quale dei due regni volesse, ché più di uno non 49

Cioè « senza paese », inesistenti, né più né meno che l ’Uto­

pia. 43 È stato il diritto vigente in Europa sino alle grandi guerre di successione. Qui si allude alla guerra dei cento anni: Edoar­ do III d ’Inghilterra pretendeva al trono di Francia, per esser nipote di Filippo il Bello.

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avrebbe potuto, essendo essi fin troppi per esser go­ vernati da mezzo re, quando nessuno vorrebbe avere un mulattiere a servizio di due padroni. Così dun­ que quel fior di re fu costretto a lasciare il nuovo re­ gno a un suo amico, che ne fu anche scacciato dopo un po’ di tempo, e a star pago al suo di prima... Ma io potrei anche mostrare al nostro re che tutta quanta la sua passione per le guerre, che dovranno, per amor suo, sconvolgere tanti paesi, quando ben bene abbia svuotato l’erario e disfatto il popolo, c’è il caso che si risolva per la Francia in pura perdita. Ma quando io gli avessi cantato tutto ciò e poi che pensi a ren­ der felice il regno dei suoi avi, lo abbellisca quanto meglio può, lo renda quanto più fiorente è possibile, ami i suoi e si lasci amare da essi, viva insieme con essi e comandi senza asprezza e lasci stare gli Stati altrui, dacché ciò che gli era toccato era grande abba­ stanza e di troppo, con quali orecchie, caro Moro, credete che sarebbe accolta questa mia esortazione? — Non molto favorevoli, certo — risposi io. — Possiamo dunque continuare — rispose. — Facciamo il caso che dei consiglieri discutano con un re qualsiasi, escogitando artifici per ammucchiar te­ sori. C’è uno che propone di elevare il valore della moneta sopra la pari, quando deve pagare, e viceversa abbassarlo al di sotto, quando avrà da raccoglier da­ naro, e ciò allo scopo di poter saldare molto con poco e ricever molto invece di poco 44. Ma c’è un al­ tro che propone di fingere una guerra: con tal prete­ sto si raccoglie un’imposta, per poi, quando piaccia, celebrar la pace coi riti più solenni, per abbagliar gli occhi del popolino, da buon re, che, naturalmente, ha voluto risparmiare il sangue dell’umanità45*. C’è un terzo che gli reca in mente alcune leggi tarlate,

senza più vigore per lungo abbandono, che nessuno rispetta perché nessuno sa della loro esistenza: si fac­ ciano dunque pagare le multe corrispettive 48, ché non ci sono entrate più sicure né più onorevoli di quelle che portano in faccia la maschera della giustizia. Da un altro gli vien consigliato di emanare, con minacce di grandi pene pecuniarie, una gran quantità di di­ vieti, specie di natura tale che il popolo abbia inte­ resse ad abrogarli, e poi in seguito il re s’accordi, per danaro, con quelli i cui interessi la proibizione danneggia. In tal modo non solo attira a sé il favor popolare, ma ricava anche un doppio profitto, sia col­ pendo coloro cui la brama di guadagno ha tratto nella rete, sia che ad altri venda privilegi a prezzo tanto più elevato, si sa, quanto più buono è il re, che, non senza suo rammarico, tollera contro il bene pubblico qualche interesse privato, ma non certo per poco da­ naro. E c’è infine uno che vuol indurlo a legare a sé i giudici del reame, i quali a ogni occasione difen­ dano i diritti della corona. Bisogna perciò chiamarli a palazzo, invitandoli a discutere in sua presenza delle cose sue...: in tal modo non ci sarà causa così evidente­ mente ingiusta che qualcuno di essi, o per mania di contraddizione, o per vergogna di ripetere ciò che altri ha già detto, o per ottenere il favore del mo­ narca, non trovi qualche crepaccio per cui sparare una falsa accusa... In tal modo una cosa per sé evidente si riesce a metterla in discussione per opera di uo­ mini di legge, ognuno dei quali ha la sua opinione, e vien revocata in dubbio la verità, e opportunamente si dà con ciò appiglio al re di interpretar la legge a suo vantaggio. Così nessuno — vergogna o paura che sia — oserebbe più opporsi. In tal modo senza più scrupoli la sentenza vien poi resa nelle dovute forme...

44 Erano i mezzi adoperati da Edoardo IV (1461-83), En­ rico V II (1485-1509) e Enrico V i l i (1509-47). 45 Riguardo a questo si ricorda la breve guerra di Enrico V II in Francia cui si è accennato sopra, pretesto per nuovi contributi.

46 Anche qui gli storici inglesi fanno il nome di Enrico VII e dei suoi ministri Empson e Dudley, nonché dello stesso cardi­ nale Morton, tanto esaltato dal Moro, che non ebbero scrupoli per strappar danaro in ogni modo a vantaggio della Corona. T re velyan , H is to r y o f E n g la ttd , London 1937, pp. 275-6.

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E può mancar pretesto a chi decide in favore del principe? Gli basta che dalla sua stia l’equità, ov­ vero la parola della legge, ovvero il senso alterato della scrittura, o infine, ciò che per giudici timorati di Dio è superiore ad ogni legge, l’indiscussa prero­ gativa reale... Tutti d’accordo accettano il detto di Crasso, che non c’è danaro che basti a un re, cui in­ comba mantenere un esercito47, e che poi il re, an­ che a volerlo a tutta possa, non può far male: tutte le cose infatti son proprietà di lui, anche gli stessi uomini, e ognuno possiede in proprio solo quanto non gli toglie la benignità del re. Anzi che gli altri posseggano il meno possibile è interesse capitale del re, la cui sicurezza poggia sull’esigenza che il popolo non si abbandoni, per via di ricchezze e libertà, a ogni sfrenatezza; queste infatti mal sanno sopportare ordini duri e ingiusti, mentre invece la miseria e il bisogno fiaccano gli animi e li fan rassegnati, toglien­ do agli oppressi ogni generoso spirito di rivolta... A questo punto io mi leverei a sostenere che tutti questi consigli sono per un re ignobili e dan­ nosi. Non solo il suo onore, ma la sua sicurezza si fondano sul benessere del popolo più che sul suo proprio: i popoli si scelgono i re nel loro interesse, non per quello del re 48; vale a dire per poter essi, con le fatiche e con lo zelo di lui, vivere agevolmente, sicuri da offese. Perciò tanto più che della propria tocca al principe occuparsi della salute pubblica, non diversamente da un pastore, il cui dovere è, in quan­ to pecoraio, di mantener le pecore più che se stesso... Quanto poi all’opinione che la miseria del popolo

47 Veramente in P l in io (H i s t . N a t ., XXXIII, 10) è detto: M . C ra ssu s n e g a b a t lo c u p l e t a t i esse, itis i q u i r e d it u a n n u o leg io n e tn tu e r i p o s s e t ». 48 Opportunamente il L u p t o n , o p . c i t ., pp. 92 e 95 ricorda che il Moro è autore di audaci epigrammi politici, come P o p u lu s c o n s e n tie n s r e g n u m d a l e t a u fe r t e Q u id in te r T y r a n n u tn e t P r in c ip e m . «

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vuol dire tranquillità e sicurezza, i fatti stessi dimo­ strano che si sbagliano di grosso... Dove infatti si trovano più risse che fra pezzenti? E chi si augura rivolgimenti con più passione che quelli scontenti dello stato presente? O chi, infine, dimostra più auda­ cia e violenza a tutto sconvolgere, nella speranza di arraffar qualcosa, di cui non ha nulla da perdere? Ché, se qualche re fosse in disprezzo o in odio ai suoi, tanto da non poterli altrimenti tenere a dovere che procedendo fra offese, saccheggi e confische e ridu­ cendoli in miseria, meglio varrebbe per lui abdicare che conservare il regno con tali modi di agire, con cui conserverebbe il trono, ma non la maestà di re. Non è dignità regale esercitare il proprio dominio su straccioni, ma piuttosto su popoli grassi e felici; la qual cosa ben sentì quell’uomo di animo grande, su­ blime, che fu Fabrizio, là dove rispose che preferiva comandare a ricchi anziché esser ricco lu i4B. Diguaz­ zare, soli, fra i piaceri e le delizie, quando tutti gli altri d’intorno gemono lamentandosi, vuol dire, non c’è dubbio, esser custode di un carcere, non di un regno. Infine, un medico che non sappia curare una malattia se non con un’altra malattia, sarebbe un igno­ rante, un guastamestieri...; e così chi non sa raddriz­ zare la vita sociale altrimenti che togliendo gli agi dalla vita, confessi pure che non sa comandare a uo­ mini liberi... Pensi piuttosto ad abbandonare la sua indolenza o piuttosto la sua albagia tirannica, colpe queste che rendono odiosi e contennendi i re ai po­ poli; viva del suo senza mal fare, conguagli le spese all’entrate, ponga freno al male, prevenga, educando bene i suoi, il delitto, anziché lasciarlo diffondere per punirlo in seguito. E non richiami a casaccio leggi ca­ dute in disuso e nulle, soprattutto se, per essere da gran tempo morte, non se n’è mai sentito bisogno; né mai esiga, sotto pretesto di delitto, una penalità 49 Veramente la cosa viene da Valerio Massimo (IV, 5) at­ tribuita a M. Curio Dentato. 45

più elevata, che un giudice non permetterebbe fra privati, come iniqua e cavillosa. E qui potrei additar loro una legge dei Macarii, che anch’essi non stanno troppo lontano da Utopia, il re dei quali nel giorno in cui sale al trono, fatti grandi sacrifìci, si obbliga con giuramento a non serbar nell’erario in ogni momento più di mille libbre di oro, o argento in equivalenza. Questa legge, si dice, fu fatta da un ottimo re, che ebbe più a cuore il bene della patria che le proprie ricchezze, a mo’ di freno e ostacolo a smisurati ammassamenti di danaro da ridurre il popolo in miseria. Una tal riserva d’oro, diceva il re, può bastare sia che il re abbia a lottare contro dei ribelli, sia il regno contro incursioni ne­ miche; senza dire che ha il vantaggio di non suscitare appetito o dar modo di togliere la roba agli altri. E questo fu il vero motivo per cui fu fatta la legge; e inoltre poi egli credette di provveder in tal modo acciocché non mancasse il danaro circolante per gli scambi quotidiani; in terzo luogo, quando il re deve versare ciò che avesse accumulato al di là dei limiti di legge, non cercherà tutti i mezzi per violare il di­ ritto altrui. Un re di tal fatta sarà il terrore dei de­ linquenti e l’amore dei galantuomini... Or dunque, se io gettassi loro sul viso queste e simili riflessioni, mentre essi inclinano appassionatamente dalla parte opposta, non racconterei una favoletta a sordi? Sicuro, — diss’io — sordi come campane; ma non me ne maraviglio, perdiana! A dir vero, non si de­ vono, mi sembra, lanciare proposizioni che si è si­ curi non saranno mai accolte, né dar consigli in tal senso. A che infatti potrebbe giovare un discorso così straordinario, o in che modo insinuarsi nel cuore di gente prevenuta, in cui stanno radicate convinzioni opposte? Fra giovani amici, in conversazioni familiari, non dispiace questa maniera di filosofare da accade­ mie...; ma nei consigli dei prìncipi, dove si trattano con grande autorità affari della più estrema importan­ za, non c’è posto per tali cose...

— Questo è proprio ciò che vi dicevo — replicò lui — che presso i prìncipi non c’è posto per la filo­ sofia. — Anzi, il posto c’è — diss’io — ma non per codesta filosofia accademica, che s’illude che qualsiasi cosa convenga in qualsiasi luogo... Esiste invece un’al­ tra filosofia, più socievole, che conosce bene il pro­ prio palcoscenico e sa adattarvisi e, nel dramma che si dà, fare acconciamente la propria parte con grazia e dignità. Questa dovete adoprare. Facciamo il caso che, mentre si rappresenta una commedia di Plauto, e gli schiavi scambiano motti come ragazzi, vi affac­ ciaste sulla scena vestito da filosofo, per mettervi a declamare quel brano à ù Y O t t a v i a 50, in cui Seneca redarguisce Nerone...: non era meglio fare una parte muta, anziché con quelle stonature produrre un guaz­ zabuglio di tragedia e commedia? Mescolando infatti elementi estranei, anche se ciò che s’introduce è più bello, si guasta e si sconvolge il soggetto. Qualunque sia la commedia che si ha tra mano, la si rappresenti quanto meglio si può, senza scompigliarla tutta pel solo fatto che ce ne viene in mente un’altra più spi­ ritosa. Lo stesso è dello Stato, lo stesso delle consul­ tazioni dei prìncipi. Se non si possono sradicare del tutto i pregiudizi e gli errori, se non si può rime­ diare come si vorrebbe ai vizi correnti e tollerati, non per questo bisogna lasciare il paese nell’imbarazzo, né, pel fatto che non si possono fermare i venti, ab­ bandonar la nave dello Stato in mezzo alla tempesta. E d’altra parte, nemmeno introdurre a forza discorsi insoliti e stravaganti, che si sa non avranno alcun peso presso chi ha idee opposte; ma per vie oblique bi­ sogna adoprarsi in ogni modo a condurre le cose, per quanto uno sa e può, acconciamente, in modo da ren­ der quanto meno dannoso sia possibile ciò che non

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50 Atto II. Si ricordi che il Moro ebbe un vero talento di attore, a detta del genero Roper, e grande piacevolezza sulla scena, negli anni giovanili, R oper , o p . c i t p. 5.

si può cangiare in bene. Che tutto stia bene non si può ottenere, se tutti non sono buoni; e questa è cosa a cui ho rinunziato... per un po’ di anni. — Ma a questo modo — replicò Itlodeo — non si otterrebbe altro che, mentre io cerco di rimediare all’altrui pazzia, diverrei io stesso pazzo furioso in­ sieme con loro. Se voglio dire la verità, è necessario che parli nel modo che ho detto. Del resto, non so se sia da filosofo dire il falso; certo non è mia abitu­ dine. Sebbene... quel mio discorso, ammesso pure che riesca sgradito forse e molesto, non vedo perché deb­ ba sembrare stravagante sino all’incongruenza... Se narrassi ciò che Platone immagina nella sua Repub­ blica, o ciò che fanno nella loro gli abitanti di Uto­ pia, questo sì che, per quanto sia meglio, non c’è da dubitarne, potrebbe sembrare disadatto, perché men­ tre la proprietà, da noi, è privata, dei singoli, lì invece tutto è in comune. D’altra parte che cosa avrebbe in sé il mio di­ scorso di sconveniente o che non debba dirsi in ogni luogo, se non che non può far piacere a quelli che han stabilito fra loro di buttarsi a precipizio per la via opposta, perché li richiama mettendo loro il pe­ ricolo sotto gli occhi? Certo, se si dovesse tacere come stravagante e assurdo tutto il male prodotto dalla curruttela umana, e che par cosa innaturale, bisogne­ rebbe tener occulta la maggior parte degli insegnamenti di Cristo, che questi vietò di nascondere, ordi­ nando anzi di predicar pubblicamente di sui tetti an­ che ciò che lui avesse bisbigliato all’orecchio dei suoi51*. Ora, la maggior parte delle massime cristiane sono in contrasto coi costumi di costoro molto più che non le mie parole. Senonché questi falsi predi­ catori, nella loro astuzia, seguendo, credo, quel vostro consiglio di prudenza, visto che gli uomini mal sop­ portano di adattare i loro costumi alla legge di Cri­ 51 « Q tto d in a u r e m », L u c a , XII, 3.

lo c u ti e stis in

te c tis

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c u b ic u lis , p r a e d ic a b itu r in

sto, han piegato la sua dottrina, come una squadra di piombo, ai costumi di quelli, in modo da accordarvela bene o male, si capisce! Che cosa ci han guada­ gnato? Solo che gli altri possono esser malvagi con più tranquillità di coscienza... E altrettanto ci gua­ dagnerei io, non c’è dubbio, nei consigli dei prìncipi. Poiché delle due l’una: o io non la penso come loro, e sarebbe lo stesso che non pensassi affatto, o la penso come loro, e in tal caso mi farei, come dice Micione in Terenzio, promotore di pazzia 5\ Quelle vie di traverso non vedo a che mirino, se pensate che bisogna batterle per ottenere che, non potendosi fa­ re perfette tutte le cose, almeno si maneggiano con abi­ lità, sì da renderle il meno possibile dannose. Ma non è questo il luogo di dissimulare, e d’altra parte non è lecito farsi conniventi: qui si dovrebbe dare aperta approvazione ai peggiori consigli, si dovrebbe sotto­ scrivere a decisioni quanto mai funeste. Chi poi ap­ provasse a denti stretti inique misure, sarebbe te­ nuto in conto di spia e quasi anche di traditore. E poi non si dà occasione alcuna o modo di po­ ter fare un po’ di bene, a trovarsi in tale compagnia. È più facile che guastino un fior di galantuomo an­ ziché correggersi essi, perché, frequentando questi malvagi, o ci si corrompe, o la propria probità, il proprio disinteresse fa da paravento alla pazza mal­ vagità altrui. Tanto è lontano il caso di potere, per quelle vie traverse, mutar nulla in meglio! Ed è que­ sta la ragione per cui Platone, con una splendida si­ militudine, spiega perché giustamente i filosofi deb­ bono astenersi dal partecipare alla vita pubblica. È come se vedessero, dice, la gente sparsa in una piazza bagnarsi a un acquazzone dietro l’altro, e non riuscis­ sero a persuaderla a lasciar la piazza e rientrare in casa; in tal caso, sapendo che niente otterrebbero a uscire loro se non di inzupparsi insieme con gli altri, se ne stanno chiusi in casa: quando non possono ri53

A d e lp b i,

I, 2, 65. 49

mediare all’altrui pazzia, si devono contentare di star­ sene al sicuro almeno essi53. Sebbene, a dir vero (ma volete che vi si schiuda apertamente, caro signor Moro, ciò che racchiude il mio animo?), io sia convinto che, dove c’è la pro­ prietà privata, dovunque si commisura ogni cosa col danaro, non è possibile che tutto si faccia con giu­ stizia e tutto fiorisca per lo Stato. A meno che non pensiate che si agisca con giustizia là dove le cose migliori vanno nelle mani dei peggiori furfanti, o che lo Stato fiorisca dove tutti i beni son distribuiti fra un esiguo numero di cittadini. Ma nemmeno costoro stanno bene da ogni punto, quando gli altri tutti vi­ vono nella miseria 54... È questo il motivo per cui spesso in cuor mio ripenso alle istituzioni prudentissime e giustissime de­ gli Utopiani, presso i quali lo Stato è regolato così bene e da così poche leggi, che non solo vi è ono­ rato e ricompensato il merito, ma anche l’uguaglian­ za è stabilita in modo che ognuno ha in abbondanza di ogni cosa. E poi alle costumanze di costoro vo’ d’altra parte paragonando tanti altri popoli (che sem­ pre legiferano, senza che ce ne sia mai uno fra tutti con buone leggi), presso i quali ciò che ognuno acqui­ sta è da lui dichiarato proprietà privata; ma le loro leggi, fatte sempre più numerose di giorno in giorno, non riescono a fare che uno possa ottenere o difen­ dere o distinguere a sufficienza dall’altrui ciò che ognuno a sua volta chiama proprietà sua privata: come dimostrano agevolmente quei processi senza fine che sempre rinascono e mai si decidono... Or quando, 53 II filosofo, è detto nella R e p u b b lic a , VI, 496 d-e, « se ne rimane tranquillo ad attendere alle cose sue, come chi, sorpreso da un temporale, si ripara sotto un muricciolo dal polverone e dalla burrasca sollevata dal vento; e vedendo gli altri traboccare di iniquità, è lieto al pensiero che puro da ingiustizia e da opere empie vivrà la sua vita tenera e se ne distaccherà con bella spe­ ranza, sereno e ben disposto » (trad. L. Sartori).

dicevo, vado fra me considerando questi fatti, giu­ stifico Platone, e meno mi sorprende il suo disdegno di dar leggi a popoli che si rifiutavano a spartire per legge tutti i beni fra tutti ugualmente 55. Era facile antivedere a quell’uomo sapientissimo che la sola ed unica via alla salvezza dello Stato è d’imporre l’ugua­ glianza, la quale non so se possa mai mantenersi dove le cose sono proprietà privata dei singoli. Ciascuno in­ fatti, sotto determinati titoli, fa sue quante più cose può e, per quanto grande sia il numero dei beni, pochi son quelli che se li dividono tutti fra loro, lasciando agli altri la miseria. E in generale avviene che ricchi e poveri dovrebbero scambiare la propria sorte fra di loro, poiché i primi sono rapaci, malvagi e disutilacci, mentre i secondi al contrario son uomini di moderazione e di cuor semplice, e con la loro attività quotidiana si dimostrano più benefici allo Stato che a se stessi. Tanto io son pienamente convinto che non è pos­ sibile distribuire i beni in maniera equa e giusta, o che prosperino le cose dei mortali, senza abolire del tutto la proprietà privata! Finché dura questa, du­ rerà sempre, presso una parte dell’umanità che è di gran lunga la migliore e la più numerosa, la preoc­ cupazione dell’indigenza, col peso inevitabile delle sue tribolazioni. È sicuro che far sparire del tutto la miseria non è possibile; ma ben la si potrebbe alle­ viare un pochino, bisogna ammetterlo. Evidentemente si potrebbe stabilire che nessuno possegga al di là di una determinata quantità di terra, e fissare per legge la ricchezza in danaro di ognuno; come si po­ trebbe per legge evitare che un principe sia troppo potente o un popolo troppo insolente, poi che non si aspiri alle magistrature per mezzo di brogli o di danaro, né che si rendano necessarie grandi spese a chi le occupa, giacché diversamente gli si porge occasione

54 « N e c illo s b a b ito s u n d e c u m q u e co m m o d e , c e teris vero p ia n e m iseris. »

55 D iog. Laèrt., D e v itìs P h ilo s ., I l i , 23; A el ., V ar. H is t ., II, 42. Ambedue però parlano di uguaglianza di leggi, non di beni.

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a rifarsi economicamente per mezzo di frodi e rapine, e si sente poi il bisogno di dar quelle cariche a ricchi, mentre dovrebbero esser rivestite dai saggi. Con tali leggi, allo stesso modo come corpi sfigurati da ma­ lattie si ristorano un po’ per mezzo di continui pal­ liativi, si potrebbero addolcire anche questi mali e attenuare; ma di guarirli del tutto, riducendoli in buona complessione, non c’è speranza assolutamente, finché ognuno possiede le cose in proprio. Anzi, men­ tre si cerca di curare un membro del corpo, si irrita la piaga di un altro, e dal rimedio per uno ha origine la malattia di un altro, per la buona ragione che non si può dar qualcosa a uno senza togliere la stessa a un altro. — Ma io — risposi — son del parere opposto, che è impossibile viver bene dove tutto sia in comu­ ne. In che modo infatti ci sarebbe abbondanza di tutto, se ognuno 56 si sottrae al lavoro? Non è di sprone infatti il pensiero del proprio guadagno. Ognu­ no sa di poter contare sul lavoro altrui e ciò lo rende infingardo. Ma poi, quando si fosse incalzati dalla miseria, quando quel poco che si è ottenuto non lo si può conservare come proprio con nessuna legge 87, non si cade di necessità in sconvolgimenti e ucci­ sioni senza fine? Soprattutto quando ai magistrati si è tolta ogni autorità, ogni rispetto... Ma qual posto possono fare a tali sentimenti uomini che non rico­ noscono alcuna differenza fra loro? Io per me non saprei nemmeno immaginarlo. — E di ciò non mi maraviglio — replicò lui: — nessuna visione di uno Stato siffatto conforta il vo­ stro spirito, ovvero ve ne fate un’idea falsa. Ma se voi foste stato meco a Utopia e aveste osservato coi vo­ stri occhi, dimorando ivi, i costumi e le istituzioni di quei popoli, come ho fatto io, che vi son rimasto 58 Q u o lib e t hanno le unoquoque. 57 N e c ... n u lla ... le g e n e c u lla lege.

prime due edizioni; la terza corregge della prima edizione è corretto poi

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più di cinque anni, e non me ne volevo mai tornare, se non fosse stato allo scopo di far conoscere quel nuovo mondo, confessereste allora di non aver mai trovato in nessun luogo un popolo con una buona costituzione politica, tranne che lì. — Ma — intervenne Pietro Gilles — non vi sarà facile persuaderci che in quel nuovo mondo si trovi un popolo con una costituzione migliore che in que­ sto mondo che conosciamo. Poiché qui da noi gl’in­ gegni non sono inferiori e gli Stati credo che siano ben più antichi che laggiù; e poi una pratica secolare ha trovato moltissime comodità per la nostra vita... Per non aggiungere quelle scoperte fatte quasi per caso, nei nostri paesi, alle quali nessun genio poteva bastare da solo... — Per quel che riguarda l’antichità di quegli Sta­ ti — rispose — vi potreste pronunciare con più esat­ tezza, se aveste esaminato le loro storie; alle quali se bisogna prestar fede, ci furono prima città presso di loro che uomini presso di noi. E ciò che sinora o il genio ha trovato o il caso fatto scoprire, può tro­ varsi sia lì che qui. Sono però convinto che, come noi li superiamo in ingegno, così siamo da essi la­ sciati molto indietro per ardore e attività. Prima in­ fatti, narrano i loro annali, che sbarcassimo colà noi, che essi chiamano gli Oltrequinoziali, non avevano mai sentito parlare delle nostre cose, tranne che una volta, mille duecento anni fa 58, una nave fu da una tempesta spinta all’isola di Utopia e vi fece naufra­ gio. E vi sbarcarono dei Romani e degli Egiziani, che poi non se ne allontanarono più. Notate ora che vantaggio seppero con la loro at­ tività ricavare quei popoli di Utopia da quest’unica occasione. Non c’era, nei limiti dell’Impero romano, arte alcuna di qualche vantaggio, che essi non abbia­ no o appreso dagli stranieri approdati, ovvero sco58 Così arriviamo al 315 dopo Cristo, sotto Costantino. Perché Moro abbia scelto questa data non è molto chiaro. 53

perto da sé, accogliendo però da essi i primi germi dell’indagine: di tanto vantaggio riuscì loro quest’uni­ co approdo colà di pochi dei nostri! Ma se, per qual­ che caso analogo, prima di ora qualcuno di essi è mai approdato qui, nel vecchio mondo, la cosa si è interamente cancellata dalla nostra memoria, allo stes­ so modo forse come si sperderà presso i posteri an­ che il ricordo che una volta io sono stato colà. E mentre essi, incontratisi una sola volta appena coi nostri, si appropriarono di tutte le nostre scoperte utili, penso che ci vorrà molto tempo prima che noi accogliamo qualcuna delle loro istituzioni più per­ fette. E questa è la gran causa, credo io, perché, pur non essendo noi inferiori a loro per ingegno e per mezzi, tuttavia il loro Stato è governato più saggia­ mente del nostro e fiorisce più felicemente. — Dunque, caro signor Raffaele, — dissi allora io — descriveteci quest’isola, ve ne preghiamo e scon­ giuriamo. E non siate breve, ma spiegateci a parte a parte campi, fiumi, città, uomini, costumi, istitu­ zioni, leggi, in una parola tutto ciò che credete che vogliamo conoscere. E riflettete: noi vogliamo co­ noscere tutto ciò che non sappiamo ancora. — Non c’è cosa che farei con più piacere — ri­ spose lui. — Ho tutta la materia presente. Ma c’è bi­ sogno d’un po’ di tempo. — In tal caso — diss’io — rientriamo prima in casa, a desinare. Poi prenderemo il tempo che abbi­ sogna, a nostro piacere. — E sia! — disse lui. Così entrammo dentro e facemmo una buona co­ lazione. Dopo il pasto, tornammo al luogo di prima e ci sedemmo sugli stessi seggi. Si dette ordine ai servi che nessuno ci disturbasse, e allora Pietro Gilles e io pregammo Raffaele Itlodeo di ammannirci ciò che aveva promesso. Egli dunque, quando ci vide tutti attenti e bramosi di sentire, raccoltosi per poco in silenzio e meditabondo, incominciò in questi ter­ mini.

L’isola di Utopia nella sua parte di mezzo, dov’è più larga, si stende per 200 miglia e per gran tratto non si stringe molto, ma poi da ambo i lati si va a poco a poco assottigliando verso due capi, che, pie­ gandosi, come tracciati col compasso, per 500 miglia di perimetro, danno all’insieme la forma di una luna nuova. Le due punte separa per 11 miglia, poco più poco meno, un braccio di mare che vi scorre in mezzo, per slargarsi in una immensa distesa, da ogni parte protetta da alture contro i venti e calma più spesso che in furia, a mo’ di gran lago, formando così, di quasi ogni insenatura di quelle terre, un porto pel quale passano navigli in ogni senso, con gran van­ taggio degli abitanti. Non è però senza rischi l’im­ bocco, qua per causa di bassifondi, là di scogliere, salvo che, nel centro all’incirca, una ne emerge, e perciò non è pericolosa, e sopra vi si rizza una torre, occupata da una guarnigione; ma tutte le altre, che restano celate a fior d’acqua, costituiscono un’insi­ dia. Essi soli conoscono i passaggi, perciò non senza ragione un forastiero, soltanto con la guida di un pilota del paese, può penetrare sin dentro all’insena­ tura; anzi a mala pena vi entrerebbero senza rischio gli abitanti stessi, quando non indicano loro la via certi segnali di sul litorale, con lo spostar dei quali si farebbe correre una flotta nemica, per quanto nu­ merosa, verso la propria rovina. Dall’altro lato del­ l’isola i porti non sono rari, ma in nessun luogo si

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LIBRO SECONDO

trovano approdi non rafforzati da natura o da arte, in guisa che un pugno di difensori basterebbe a tener lontane immense forze. Del resto, com’è tradizione e come dimostra da sé l’aspetto del paese, una volta questa terra non tutta era circondata da mare; ma Utopo, che conquistandola dette nome all’isola, chia­ mata prima Abraxa *, e che ne condusse le popola­ zioni rozze e selvagge a quello stato di civiltà e cul­ tura in cui superano ormai quasi tutti gli uomini del mondo, impadronitosene appena, al primo sbarco, con la vittoria, fe’ tagliar la terra per 15 miglia dalla parte dov’era unita al continente e vi trasse il mare all’intorno. Alla quale opera non solo costrinse quelli del luogo, ma vi aggiunse anche tutti i propri sol­ dati, affinché i primi non se l’avessero a offesa, e con l’assegnare i lavori fra tanta gente ottenne che l’impresa fosse compiuta con straordinaria rapidità e che i vicini, i quali da principio ne ridevano come di cosa pazzesca, fossero colpiti insieme da stupore e terrore. L’isola possiede 54 città12 ampie e magnifiche, quasi tutte uguali per lingua, usanze, istituzioni e leggi; identico è anche il piano di tutte e, per quanto consente la posizione, anche l’aspetto; di queste le più vicine stanno a 24 miglia l’una dall’altra, ma nessuna è tanto isolata che in un giorno da essa non si possa arrivare a piedi ad un’altra città. Ogni anno da ciascuna tre cittadini vecchi e sperimentati, per trattar degli affari comuni dell’isola, si radunano ad Amauroto 3, la quale, per esser posta al centro del­ l’isola e trovarsi più comoda pei deputati di tutte le regioni, è la prima città dello Stato e la capitale. Le terre sono state così ben distribuite fra le città che 1 Cioè « su cui non corderebbe con Anidro, o p . c it., p. 118, η. 1. 2 Come l ’Inghilterra 3 Che vuol dire la

piove », parrebbe, άβρεκτο?; ciò che con­ il fiume « senz’acqua »: così il L upton , ha 54 contee. città « oscura », « ignota », da 56

αμα υρός.

ognuna, in qualsiasi punto, misura non meno di 12 miglia di territorio e taluna, in qualche punto, anche molto di più, cioè là dove le città si trovano più lontane fra loro: nessuna desidera accrescere il pro­ prio territorio 4, perché essi, di quel che posseggono, si considerano coltivatori piuttosto che padroni. Hanno in campagna case acconciamente distribuite per tutti i poderi, fornite degli utensili da lavoro, e vi si recano a turno i cittadini ad abitarvi. La fa­ miglia agricola non è fatta di meno di 40 persone, tra uomini e donne, oltre a due servi della gleba, e a capo vi son messi padri e madri di famiglia gravi e attempati; a ogni 30 famiglie poi è preposto un filarco. Da ogni famiglia ogni anno tornano in città 20 di essa, quelli cioè che han finito due anni in cam­ pagna, e al loro posto sottentra dalla città un ugual numero di nuovi venuti, per esservi ammaestrati da quelli che vi son rimasti già un anno e perciò son più esperti di lavori agricoli; l’anno seguente essi fa­ ranno alla lor volta da istruttori agli altri, acciocché, se tutti sono ugualmente novizi e ignari di agricol­ tura, della loro inesperienza non ne risenta il rac­ colto. Ma sebbene ci sia questa pratica di rinnovare i lavoratori di campagna anno per anno, perché nes­ suno sia costretto contro voglia a continuare più a lungo un vita troppo aspra, tuttavia molti, che son presi naturalmente da passione per tutto ciò che è campagna, ottengono di restarvi più di un anno. Gli agricoltori dunque coltivano la terra, nutrono ani­ mali, fanno legna e trasportano tutto in città, per terra o per mare, come più torna comodo, poi allevano polli in numero infinito con un mirabile procedimen­ to: non sono infatti le galline a covar le uova, ma essi, tenendole a una data temperatura costante, dan­ no loro la vita e le fanno schiudere, e i pulcini, ap­ pena rotta la scorza, riconoscono gli uomini invece 4 « A i b in e p r o p e o m n iu m »,

[cioè dalla proprietà privata] b o d ie p e s tis dice qui la nota marginale del Moro. 57

rerum

5 L’idea delle incubatrici si trova in P linio (H i s t . N a t ., X, 54) e nel citato V ia g g io d ’o ltr e n ia r e del Mandeville; ma l ’uso se n ’è diffuso recentemente. 6 Cioè sidro di mele o di pere.

sente la natura del luogo: perciò ne dipingerò una purchessia, non importa quale. Ma che città potrei preferire ad Amauroto? Nessuna ne è più degna, ché le altre ad essa fanno omaggio come a sede del se­ nato, né ce n’è alcuna che io conosca meglio, per esservi vissuto ben cinque anni continui. Amauroto dunque è posta sul dolce declivio di un’altura ed è di forma quasi quadrata: infatti nella sua larghezza, cominciando da poco sotto la cima del colle, si stende per due miglia sino al fiume Anidro, sulla cui sponda si allunga un po’ di più. L’Anidro sorge a 80 miglia sopra Amauroto, da fonte modesta, ma, accresciuto dall’incontro di altri fiumi, tra cui due non mediocri, proprio dinanzi alla città raggiun­ ge l’estensione di 500 passi e, slargandosi subito dopo ancor più, percorre altre 60 miglia ed è accolto dal­ l’Oceano. Per tutto questo tratto che si trova tra città e mare, e anche varie miglia più a monte, con rapida corrente il flusso della marea succede per sei ore continue al riflusso, sicché il mare penetra in den­ tro per ben 30 miglia, occupando con le sue onde l’intero letto dell’Anidro e ricacciandone le acque, le quali s’impregnano, anche un po’ più su, di salse­ dine; poi, a poco a poco, rifatto dolce, il fiume at­ traversa nella sua purezza la città e così schietto e inalterato, alla sua volta, nella bassa marea risospinge l’acqua giù sino alla foce. La città per mezzo di un ponte, non con pilastri di palafitte ma tutto in pie­ tra con splendidi archi, è collegata con la riva op­ posta, nei punto più distante dal mare, fin dove le navi possano senza impaccio arrivare attraverso tutta la lunghezza della città. Hanno poi un altro corso d’acqua, non certo grande, ma straordinariamente tran­ quillo e piacevole, che sorgendo dallo stesso monte ov’è posta la città, nella sua discesa le scorre per mezzo e si mescola con l’Anidro. La sorgente onde ha origine tal fiume, e che sgorga un po’ fuori la città, è stata dagli Amaurotani cinta di difese e con­ giunta con la capitale, acciocché, se le piomba addosso

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delle madri e tengon loro dietro Cavalli invece ne allevano ben pochi e più focosi del solito, non per altro che per esercitare la gioventù a cavalcare. In­ fatti tutte le fatiche della coltivazione o dei trasporti le sopportano i buoi, che, dicono essi, se la cedono ai cavalli in vivacità, tuttavia li vincono in resistenza e non sono esposti, si crede, a tante malattie, poi si mantengono con minor consumo di lavoro e di spesa ed inoltre, quando non posson più lavorare, servono alfine di cibo. Non seminano che ciò che è necessa­ rio per il pane, che per bevanda usano vino d’uva o di mele o pere 56, e non di rado acqua pura; spesso anche vi fan bollire miele o liquirizia, di cui hanno non poca quantità. Sebbene sappiano per esperienza, e lo sanno con assoluta certezza, il consumo di ogni città e di ogni contado, tuttavia seminano molto più grano che non occorra ai loro bisogni e allevano mol­ to più bestiame, per poterne distribuire ai vicini. Per quel che poi sia loro necessario e che non si trova in campagna, vanno a prendere ogni arnese dalla città e senza permuta l’ottengono facilmente dalle auto­ rità cittadine; ogni mese infatti si radunano ivi in gran numero a celebrarvi una festa. Quando si ap­ pressa il giorno di mietere, i filarelli degli agricol­ tori indicano alle autorità qual numero di cittadini devono mandar loro, e tali gruppi di mietitori, arri­ vando sul posto al momento giusto, con una sola giornata di sereno hanno bell’e tagliato quasi tutto il raccolto. D e lle c ittà , e d i A m a u r o to e s p re ss a m e n te

Chi conosce una sola città le conosce tutte, tanto sono interamente simili tra loro, per quel che con­

qualche schiera di nemici, non possa fermarla o de­ viarla e nemmeno inquinarla. Di lì l’acqua è portata in ogni senso per mezzo di tubi di cotto ai quartieri più bassi, e, dove il terreno non lo consente, servono lo stesso vaste cisterne, che raccolgono le acque pio­ vane. Questa piazzaforte è cinta da mura alte e larghe, con numerose torri e rivellini, e le mura sono alla lor volta circondate per tre lati da un fossato asciutto, ma largo e profondo, difeso da siepi spinose; nel quarto il fiume stesso fa da fossa. Le piazze son trac­ ciate in modo acconcio sia pei trasporti che contro i venti, le case in nessun modo misere, e se ne ve­ dono per file lunghe, che si stendono per interi quar­ tieri, con le facciate fronte a fronte, separate da vie larghe 20 piedi. Alle spalle di dette case sono attac­ cati, per tutta la lunghezza dei quartieri, grandi giar­ dini, cui tutto intorno altre case s’addossano, chiu­ dendoli. Non c’è casa che non abbia porta dinanzi, verso la strada, e di dietro verso il giardino, e que­ ste sono a due battenti e s’aprono facilmente a una semplice spinta e si richiudono da sé, ché entra chi vuole, tanto manca in ogni luogo la proprietà privata! Anche le case infatti le mutano ogni 10 anni, tiran­ do a sorte. Di questi giardini poi fanno gran conto; in essi hanno vigne, frutti, erbaggi e fiori, con tanta bellezza e cura che in nessun luogo ho visto nulla di più produttivo o di più appariscente. Nel che la loro passione è tenuta accesa non solo dal loro pro­ prio piacere, ma anche dalle gare fra quartiere e quar­ tiere a chi meglio coltiva il proprio giardino; e certo in tutta quanta la città difficilmente si può trovare occupazione più vantaggiosa, sia quanto al diletto, sia quanto ai bisogni di tutti; laonde di nessuna cosa più che di tali giardini pare che si sia occupato il fonda­ tore dello Stato. È tradizione infatti che detta città l’abbia dise­ gnata in tutta la sua configurazione Utopo in persona, sin dal bel principio, ma abbia lasciato ai suoi discen­

denti la cura di abbellirla e perfezionarla, al che pre­ vide che non sarebbe bastata l’età di un sol uomo. Infatti nei loro annali, che abbracciano 1760 anni di storia sin dall’occupazione dell’isola e vengono re­ datti con gran cura e conservati religiosamente, si trova scritto che le abitazioni in principio erano basse e quasi capanne e tuguri, fatte come vien viene, d’ogni sorta di legno, con pareti spalmate di loto e tetti a punta, coperti di paglia. Ora invece ogni palazzo, di forma mirabile, è a tre piani, con le pareti esterne fatte di pietre, di pietra lavorata o mattoni, mentre nell’interno il vuoto è riempito di rottami; i tetti si stendono orizzontalmente, coperti di un battuto che non costa nulla ed è fatto in modo da essere incom­ bustibile e da superare il piombo nella resistenza alle intemperie. Difendono dal vento le finestre coi ve­ tri, di cui fanno ivi grandissimo uso, a volte anche con un lino sottile, spalmato di olio traslucido o di ambra, ciò che evidentemente ha due vantaggi, per­ ché in tal modo si fa passare più luce e si fa entrare meno vento.

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D e i m a g istr a ti

Ogni 30 famiglie si eleggono ogni anno un ma­ gistrato che chiamano, secondo la loro lingua antica, sifogranto, con la moderna filarco; a ogni 10 sifogranti con le loro famiglie si mette a capo uno, detto una volta traniboro e ora protofilarco. Tutti i sifogranti poi, in numero di 200, dopo aver giurato di eleggere chi giudicano più utile, scelgono con voto segreto un principe, e propriamente uno dei 4 can­ didati che il popolo designa loro: infatti ogni quarta parte della città ne presceglie uno che poi raccoman­ dano al senato. La carica di principe dura ininterrot­ tamente tutta la vita, a meno che non sorga sospetto che aspiri a farsi tiranno. I tranibori vengono scelti anno per anno, però non sono mutati senza buon

C’è un’occupazione comune a tutti indistintamen­ te, uomini e donne, l’agricoltura, e nessuno n’è ec­ cettuato. In questa sono ammaestrati tutti dalla fan­ ciullezza, un po’ imparandone le regole a scuola, un

po’ condotti come per isvago nelle campagne più vi­ cine alle città, dove non stanno a guardare soltanto, ma vi metton mano, ad ogni occasione di esercitare i muscoli. Ma oltre all’agricoltura che, come ho detto, è comune a tutti, ognuno apprende un mestiere, un’ar­ te qualsiasi, come sua particolare: in genere o la la­ vorazione della lana, o si occupano a tessere il lino, o l’arte di muratore, di fabbro, di falegname; non vi sono lì altri lavori che occupino un numero di uomini notevole. Poiché le vesti, la cui forma è unica per tutta l’isola, salvo che si distingue alla foggia il sesso come anche un celibe da un ammogliato, ed è iden­ tica sempre per tutta la vita, ma non manca di grazia a vedersi e segue bene i movimenti del corpo ed è adatta per l’estate e per l’inverno; le vesti, dico, ogni famiglia se le fa da sé. Ma delle altre arti anzidette ognuno ne apprende qualcuna, e non solo gli uomini, ma anche le donne: queste del resto, come più de­ boli, fanno cose più leggere, lavorano in genere la lana e il lino; agli uomini sono affidati gli altri me­ stieri più pesanti. Nella maggior parte dei casi ognuno è educato nell’arte paterna, cui i più sono natural­ mente inclinati; ma se qualcuno per temperamento è portato ad altro, passa per adozione in una fami­ glia che fa il mestiere per cui egli ha passione, e non solo il padre, ma anche i magistrati s’adoprano ac­ ciocché entri a servizio di un padre di famiglia serio e galantuomo. Anzi, se qualcuno, già padrone di un mestiere, ne vuole apprendere in seguito un altro, gli è concesso allo stesso modo: quando avrà conse­ guito l’uno e l’altro, eserciterà quello che più gli piace, a meno che la città non abbia bisognò di uno dei due. La principale e quasi unica occupazione dei sifogranti è di aver cura e badare che nessuno se ne stia senza far nulla, in braccio alla pigrizia, ma attenda ognuno al suo mestiere con sollecitudine, senza però stancarsi, come una bestia da soma, a lavorare ininter­ rottamente dalla mattina per tempo fino a sera tardi,

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motivo, e tutte le altre magistrature sono annuali. Ogni tre giorni i tranibori e talora, se il caso lo richiede, più spesso, si riuniscono nel Consiglio del re, per deliberare di faccende pubbliche e, se vi sono, che ve ne sono proprio poche, risolvono rapidamente quistioni private. Accolgono sempre in senato due tranibori, ma non gli stessi ogni volta, ed è buon provvedimento che nulla si decide, riguardo lo Stato, di cui non si sia discusso in senato tre giorni prima di ogni deliberazione. È delitto capitale decidere di cose pubbliche fuori del senato o dei comizi del po­ polo, e ciò fu stabilito, è tradizione, acciocché non riuscisse facile a una congiura di prìncipi e tranibori di mutare la forma di governo, opprimendo il popolo con la tirannia. Perciò dunque ogni faccenda giudi­ cata importante è deferita all’assemblea dei sifogranti, i quali, dopo averne messo a parte le proprie fa­ miglie, deliberano tra di loro, presentando poi una proposta al senato. A volte invece si ricorre alla con­ sultazione di tutta l’isola. Che anzi il senato ha an­ che l’uso di non discutere, lo stesso giorno che vien fatta, una proposta, ma di rimandarla alla seduta se­ guente, perché nessuno metta fuori a casaccio le scioc­ chezze che gli vengono in bocca e debba poi inge­ gnarsi a difendere le proprie conclusioni anziché gli interessi dello Stato, in tal modo preferendo che ne soffra la comunità anziché la propria riputazione, e ciò per falso pudore fuor di luogo, per non parer cioè di aver poco badato in sul principio, mentre in principio doveva badare a parlar dopo riflessione, an­ ziché presto. A r t i e m e s tie r i

ché sarebbe una pena che nemmeno uno schiavo. Tale però più o meno è la vita degli operai in ogni paese, tranne che in Utopia! Qui dividono il giorno in 24 ore eguali, compresavi la notte, e non danno più che 6 ore al lavoro, 3 prima di mezzodì, dopo le quali vanno a colazione, e quando, dopo tavola, han riposato 2 ore pomeridiane, ne danno ancora 3 altre al lavoro, chiudendo col pasto principale 7. Se­ gnando l’una da mezzogiorno, vanno a letto verso le otto e il sonno richiede 8 ore: tutto il tempo che passa fra il lavoro e il sonno o i pasti è lasciato al piacere di ognuno, non già perché lo sciupi in lascivie 0 nell’infingardaggine, ma perché quanto è libero da lavoro manuale lo spenda bene, secondo i suoi gusti, in qualche occupazione prediletta. Questi intervalli 1 più li impiegano in studi letterari; c’è l’uso infatti di tenere ogni giorno lezioni pubbliche, prima di far giorno, cui sono costretti a intervenire soltanto quelli espressamente prescelti per gli studi; ma vi affluiscono uomini e insieme donne di ogni condizione, in gran folla, ad udire questa e quella lezione, secondo le loro inclinazioni. Tuttavia uno, se preferisce consu­ mare perfino questo tempo nel suo mestiere, come avviene comunemente di molti, il cui animo non si solleva ad alcuna speculazione scientifica, nulla glielo vieta, anzi viene anche lodato, come utile allo Stato. Dopo il secondo pasto passano un’ora a svagarsi, d’estate nei giardini e d’inverno in quelle sale comuni dove mangiano, e quivi fanno musica o si distrag­ gono conversando. I dadi non sono nemmeno cono­ sciuti e così tutti i giochi di tal fatta, insipidi e ri­ schiosi; del resto praticano due giochi, non dissimili 7 E veramente il testo dice che c’è prima il p r a n d iu m , o co­ lazione, e poi la c o en a , cioè il desinare o pranzo del pomeriggio, secondo l’uso dei Latini; i traduttori invece, tutti, rendono ine­ sattamente il primo con desinare, il secondo con cena. Il senso è chiarissimo in base a quanto dice più oltre: « P ra n d ia b r e v iu s c u la s u n t,

cerne

la rg io res;

quod

la b o r

q u ie s e x c ip it ».

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d ia ,

bus som nus

et

n o c tu r n a

dai nostri scacchi: il primo è la battaglia dei numeri, in cui un numero rapisce l’altro, nel secondo le virtù contendono contro i vizi, facendo avanzar le loro truppe. In quest’ultimo bellamente si mostra l’anar­ chia che regna tra i vizi e il loro accordo contro le virtù; ugualmente qual vizio sia opposto a ognuna delle virtù, con quali forze i vizi attacchino allo sco­ perto, con quali macchinazioni assalgano di fianco e con quali scorte le virtù spezzino le forze dei vizi, con quali arti sfuggano ai loro tentativi, infine in qual modo l’una delle due parti s’impadronisca della vit­ toria. Ma a questo punto bisogna esaminar più preci­ samente una quistione, perché non cadiate in errore. Potreste infatti immaginare, pel fatto che stanno al lavoro 6 ore al giorno solamente, che ne debba se­ guire qualche scarsezza delle cose necessarie. Ben lungi da ciò, anzi queste 6 ore sono non solo suffi­ cienti, ma anche di troppo per produrre in abbon­ danza tutto ciò che si richiede, sia pei bisogni che pei comodi dell’esistenza; e anche voi lo compren­ derete, riflettendo fra di voi quale gran quantità di gente viva senza far nulla presso gli altri popoli. Anzitutto quasi tutte le donne, che sono la metà di tutto l’insieme o, se in qualche luogo le donne si danno da fare a lavorare, ivi per lo più gli uomini russano al loro posto. Oltre a ciò, dei sacerdoti e dei cosiddetti religiosi, oh che gran folla! E che sfaccen­ dati! Poniamo ora tutti i ricchi, specie i proprietari di poderi, che chiamano comunemente gentiluomini e nobili; poi mettete nel numero il loro servidorame, cioè tutta quella colluvie di spadaccini e di sciope­ rati; aggiungete infine quei robusti e gagliardi pez­ zenti, che coprono col pretesto di malattie la loro indolenza, e vedrete che molto più pochi che non credevate son coloro dal cui lavoro risultano le cose tutte di cui si servono i mortali. Ponderate ora den­ tro di voi fra questi stessi quanto pochi siano quelli che si occupano di un mestiere indispensabile, se è 65

vero che, dove tutto si misura col denaro, si devono necessariamente esercitar molte arti del tutto senza senso e superflue, a servizio soltanto del lusso e del capriccio. Infatti, se questa stessa quantità di gente che ora lavora venisse distribuita fra un piccol nu­ mero di mestieri, qual è quello richiesto con vantag­ gio dai bisogni naturali, i prezzi evidentemente sa­ rebbero anche troppo bassi perché gli operai se ne potessero assicurare di che vivere... Ma se tutti co­ storo che ora sono distratti in opere inoperose 8, e per di più tutta la gran quantità di uomini infiacchiti dal­ l’ozio e dal dolce far niente, ognuno dei quali dei prodotti del lavoro altrui consuma quanto due lavo­ ratori, venissero tutti quanti assegnati ai lavori, e a lavori utili, comprendete agevolmente quanto poco tempo sarebbe sufficiente e di troppo a provvedere a tutto ciò che giustamente richiedono i bisogni e le comodità della vita e, aggiungete pure, i piaceri, almeno quelli veri e naturali. Ora proprio questo rendono evidente i fatti di per se stessi in Utopia. Quivi infatti, in tutta la ca­ pitale con l’annesso contado, di tutta la popolazione maschile e femminile, appena 500 sono quelli cui, pur in età e forze bastevoli al lavoro, si concede l’esen­ zione. Fra costoro i sifogranti, quantunque liberi per legge da lavoro, tuttavia, per loro conto, non vi si sottraggono, per poter, col loro esempio, più facil­ mente piegar gli altri al lavoro. Godono della stessa esenzione anche quelli cui il popolo, dietro istanza dei sacerdoti e votazione segreta dei sifogranti, con­ cede licenza di attendere per sempre agli studi. Che se qualcuno di essi vien meno alle buone speranze ' « /!.' s i i s t i o m n e s q u o s n u n c in e r te s a rtes d is tr i n g u n t... » Nessun traduttore ha affrontato queste due difficoltà. La D elcourt, o p . c it., p. 116, n. 2, spiega d is tr in g e r e con te n ir o is if. Più vicino mi pare il Grunebaum-Ballin: « p e r d e n t le u r te m p s d a n s d e s m é tie r s d e lu x e ». Ma il giovine filosofo Moro si compiaceva di sottigliezze, quali questo o x y m o r o n , a rtes in e r te s , e tutta l ’U to p ia riscintilla di rarità e preziosità di lingua e di stile, in mezzo ad apparenti abbandoni. 66

che ha dato di sé, è ricacciato fra gli operai e, al con­ trario, non è raro il caso che un manovale dia le sue ore di ozio con tanto impegno alla letteratura e tanto vi progredisca con la sua diligenza che, tolto al suo mestiere, venga promosso nella categoria degli uo­ mini di lettere. Di tra questi studiosi vengono scelti gli ambasciatori, i sacerdoti, i tranibori e da ultimo il principe, che nella loro lingua di prima chiamano barzane, in quella moderna ademo \ E se tutto il resto del popolo, o quasi, non se ne sta in ozio ed è occupato in arti redditizie, è facile computare quale somma producano di lavoro ben fatto in ben poche ore. Ma a tutto questo che son venuto dicendo biso­ gna aggiungere il vantaggio che gli Utopiani, nella maggior parte dei mestieri più indispensabili, han bi­ sogno di minor lavoro degli altri popoli. Infatti an­ zitutto non c’è luogo sulla terra, in cui la costru­ zione o riparazione di fabbricati non richieda l’opera continua di tanti e tanti operai, e ciò per la bella ragione che ogni figlio, con scarso spirito economico, lascia a poco a poco andare in rovina ciò che suo padre ha costruito. Ben potrebbe, quasi senza spesa, mantenerlo...; ma no, è il suo erede che sarà costret­ to, con gran dispendio, a rifar tutto daccapo. Av­ viene anzi non di rado che una casa a uno è costata un occhio, e un altro, nella sua raffinatezza, non ne fa alcun conto e l’abbandona e la lascia andar giù, e così ne costruisce un’altra altrove, con spesa non minore. In Utopia invece, dove tutto è ben disposto e lo Stato è in ordine, ben di rado succede che uno vada in cerca di una nuova area per porvi casa; ivi non solo si provvede rapidamente ai guasti, via via che si presentano, ma si ovvia anche a quelli possi­ bili. Così avviene che con pochissima fatica le costru­ zioni vi durano molto a lungo, e gli operai di tal fatta 9 Ademo è « senza popolo », per la solita antifrasi, come Ani­ dro ecc. 67

a volte non hanno gran che da fare; salvo che intanto non venga loro ordinato di piallar legname in bottega o squadrar pietre e approntarle, acciocché, se capita una fabbrica, possa elevarsi al più presto. Vedete appunto per vestirli quanto poco ci vuole! Anzitutto, quando stanno al lavoro, indossano senza ricercatezza pelli o cuoio, tali che durano sette anni; quando poi vengon fuori in pubblico, per coprire quella rozzezza, metton sopra una clamide, e per tutta l’isola è identica di colore, quello naturale. Pertanto non solo qui di pannilani ne bastano molto meno che dovunque altrove, ma sono anche molto più a buon mercato. Pel lino poi si richiede minor lavoro, e perciò è di uso più frequente, ma come nel lino non si bada che alla sua bianchezza solamente, così nella lana soltanto alla nettezza; la gran finezza di filo non vi è punto apprezzata. Da ciò avviene che in ogni altro paese non bastano a un uomo quattro o cinque toghe all’anno, di lana, di vari colori, e altret­ tante tuniche di seta e, se uno è raffinato, nemmeno dieci; mentre ivi ognuno si contenta di un solo abito, e per due anni, di solito. Non c’è infatti motivo per chiederne di più; ad averli, non sarebbe meglio ri­ parato dal freddo, né parrebbe in nulla più elegante. Dunque, se c’è abbondanza di ogni cosa, perché tutti si esercitano in mestieri utili e vi basta anche minor lavoro, avviene molto naturalmente talvolta che un’immensa moltitudine venga convocata a rifar le strade pubbliche quando son guaste; ma molto spesso anche, quando non c’è bisogno neppure di tal lavoro, viene ordinata ufficialmente una diminuzione di ore lavorative. Le autorità infatti non occupano contro loro voglia i cittadini in lavori superflui, dac­ ché i princìpi di questa repubblica han di mira anzi­ tutto l’ideale di richiamar tutti i cittadini, quanto più tempo è possibile, per quel che consentano le ne­ cessità pubbliche, dalla servitù del corpo alla libertà dello spirito e della cultura. In ciò infatti consiste, secondo loro, la felicità della vita.

Ma è giunto, parmi, il momento di spiegare come i cittadini agiscano gli uni con gli altri, quali ne siano i vicendevoli rapporti e in che modo vengano distri­ buiti i beni fra di essi. Essendo dunque la città com­ posta di famiglie, le famiglie sono per lo più for­ mate secondo vincoli di sangue: le donne infatti, ap­ pena sono in età da marito, sposandosi passano in casa dei mariti, i figli maschi invece e via via i ni­ poti rimangono in casa, ubbidendo al più anziano, tranne che per vecchiaia non sia debole di senno, nel qual caso lo sostituisce chi segue negli anni. Ma per­ ché una città non diventi spopolata o cresca eccessi­ vamente, si provvede acciocché nessuna famiglia (e ogni città ne comprende 6.000, senza il contado) ab­ bia meno di 10 o più di 16 giovani; ché dei ragazzi non si fissa limite. Ed è facile serbar questa misura, col trasferire presso famiglie che ne manchino i gio­ vani in soprannumero di famiglie troppo fornite. E se talora una città nel suo totale sovrabbonda di gio­ vani, vanno questi a riempire i vuoti di altre loro città. Quando poi per tutta l’isola ne è venuta su una gran massa più del giusto, allora da ogni luogo si trascelgonò cittadini cui mandano a fondare una co­ lonia, con le loro stesse leggi, nel continente più vi­ cino, dove ci sia terra di troppo per gl’indigeni e non coltivata, e vi assumono anche, con la terra, gl’indi­ geni, qualora vogliano vivere con loro. Uniti dunque con costoro, quando lo vogliano, in una comunanza di istituzioni e di vivere sociale, facilmente si fon­ dono in uno, e ciò con gran vantaggio d’ambedue i popoli: infatti con le loro disposizioni rendono do­ viziosa quella terra che agli altri poco prima pareva scarsa e ingrata. Quelli poi che non accettano di vi­ vere secondo le leggi loro, li respingono via via dal paese che essi stessi si attribuiscono e, qualora si oppongano, fanno loro guerra: stimano infatti giu­ stissimo motivo di guerra che un popolo abbia una

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D e i r a p p o r ti fra c itta d in i e c itta d in i

terra e non se ne serva, anzi la tenga come vuota ed inutile senza permetterne l’uso ed il possesso ad altri, che pure, secondo i dettati di natura, han biso­ gno di ricavarne il nutrimento. Ché se poi avvenisse per qualche caso che qual­ che città di Utopia scarseggi di abitatori, tanto da non potersene supplire da altre parti dell’isola senza alterare la quantità normale di ognuna (il che si dice sia avvenuto due volte soltanto da che mondo è mon­ do, pel diffondersi di una crudele pestilenza), la si ripopola con cittadini tornati indietro da una colonia: è infatti preferibile, per loro, la perdita delle colonie alla decadenza di qualcuna delle città dell’isola. Ma torniamo alla vita in comune dei cittadini. Come ho già detto, il più anziano è a capo della fa­ miglia e servono le mogli ai mariti e i figli ai geni­ tori e in tutto i minori ai più grandi. Ogni città è divisa in quattro parti eguali, e al centro di ogni parte c’è mercato di tutte le cose; quivi, in determinati lo­ cali si portano i prodotti di lavoro di ogni famiglia e nei magazzini vengono ripartite separatamente le varie specie di prodotti. Da qui attinge qualsiasi pa­ dre di famiglia tutto ciò di cui lui o i suoi abbiso­ gnano e, senza danaro, senza prestazione alcuna, ot­ tiene tutto ciò che chiede. E per qual motivo gli si dovrebbe rifiutare qualcosa, quando c’è abbondanza di tutto non solo, ma non c’è paura che qualcuno chieda più del bisogno? E perché supporre che possa chiedere il superfluo chi è sicuro che non gli man­ cherà mai nulla? È la paura di venir a mancare, evidentemente, che rende bramosi e rapaci, e ciò è dei viventi di ogni sorta, mentre, fra gli uomini, ciò è prodotto soltanto dall’orgoglio tirannico, che mette la propria vanagloria nel superare gli altri ostentando il superfluo. Ma nelle istituzioni degli Utopiani non c’è posto alcuno nemmeno per l’ombra di tale colpa. Ai mercati anzidetti vanno aggiunte altre piazze, dove si portano non solo erbaggi, frutta e pane, ma anche pesci e quanti sono quadrupedi o uccelli da

mangiare, da luoghi adatti della periferia, dove si possono nettare di ogni umore e sozzura alla cor­ rente. Di qui trasportano le bestie uccise e ripulite per mano di schiavi, ché non permettono ai propri cittadini di avvezzarsi a scannare animali: pratica, questa, la quale, essi pensano, spegne nell’uomo la pietà, che è il sentimento più umano della nostra natura. E nemmeno lasciano introdurre in città cosa alcuna sudicia o immonda, dalla cui putrefazione l’aria contaminata potrebbe diffondere la peste. Inoltre ogni rione ha alberghi spaziosi posti a egual distanza fra loro, ognuno riconoscibile dal proprio nome: quivi abitano i sifogranti, e a ogni albergo sono assegnate 30 famiglie, vale a dire 15 per lato, che ci vengano a prendere i pasti. I dispensieri di ciascun albergo a ora fissa vengono al mercato a prendervi i cibi, pel numero delle persone da essi indicato. Ma il primo pensiero è pei malati, che vengono curati in pub­ blici ospedali. Ne hanno quattro, di ospedali, nell’àm­ bito della città, un po’ fuori le mura, cosi vasti da sembrare tante piccole città, sia perché qualsiasi gran numero di malati non vi si trovi troppo stretto e perciò a disagio, sia perché quelli affetti da tal morbo che suol diffondersi da uno a un altro per via di contagio possano esser tenuti isolati ben lungi da ogni compagnia umana. Questi ospedali sono sì ben forniti e ripieni di tutto ciò che possa conferire alla buona salute, e vi si usa un’attenzione così delicata e zelante, e così continua è l’assistenza dei medici più esperti che, se nessuno ci vien mandato contro voglia, nessuno quasi si trova in quella città che, in cattive condizioni di salute, non preferisca restare a letto ivi anziché a casa sua. Quando il dispensiere dell’ospedale ha fatto l’acquisto dei cibi secondo le prescrizioni dei medici, distribuiscono via via quanto c’è di meglio fra i vari alberghi proporzionatamente al numero di quelli che vi abitano; salvo che si ha riguardo al principe, al pontefice, ai tranibori e an­ che agli ambasciatori e a tutti gli stranieri, dato che

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ve ne siano, ché ve ne sono di rado e in piccol nu­ mero, e per costoro, quando arrivano, ci sono anche alloggi preordinati e ben forniti. Negli alberghi anzidetti, a ora fissa, di colazione o di pranzo, se ne dà avviso a suon di tromba e s’aduna tutta quanta la sifograntia, a meno che non si trovino all’ospedale o a casa; per quanto a niuno si vieti, dopo che è stato provveduto per gli alberghi, di acquistare in piazza dei cibi per casa sua. Nessuno infatti, si sa, farebbe ciò senza motivo. A nessuno infatti è vietato di prendere i pasti a casa, ma nes­ suno lo fa con piacere, ché non è ritenuta cosa bella, anzi è una pazzia travagliarsi a preparare un pasto peggiore, quando lo si trova bell’e pronto, fine e son­ tuoso, in un albergo così vicino. In tali alberghi, se vi sono servizi un po’ più penosi e bassi, si addos­ sano agli schiavi, ma al compito di cuocere e pre­ parare i cibi e infine di apparecchiare tutta la tavola adempiono le donne, cioè le madri di famiglia, a turno. Si sta seduti a due o tre tavole, secondo il numero di quelli che desinano, gli uomini posti dalla parte del muro, le donne internamente, acciocché, nel caso che venisse loro qualche disturbo, come capita di so­ lito alle incinte, si possano alzare senza disturbar la fila, o di lì possano recarsi dalle nutrici. Queste stanno in disparte insieme coi lattanti, in una sala da pranzo a ciò destinata, dove non man­ cano mai fuoco e acqua pura e però nemmeno culle per potervi adagiare i piccoli o, volendo, liberati dalle fasce, rinfrancarli presso il fuoco, lasciandoli ai loro giochi. Ogni madre allatta la sua prole, tranne caso di morte o di malattia che lo impedisca; acca­ dendo ciò, le mogli dei sifogranti si danno a cercare una nutrice, ciò che non è difficile: le donne infatti che possono farlo, a nessun compito si offrono con più piacere che a questo, ché tutti lodano assai que­ st’opera di bontà e chi è allevato riconosce per ma­ dre la nutrice. In questa stanza delle nutrici si fer­ 72

mano tutti i fanciulli che non hanno finito il primo lustro; i rimanenti non ancora puberi, nel qual nu­ mero contano quelli che, dell’uno o dell’altro sesso, non sono in età da nozze, porgono in tavola; o quelli che per età non sono ancora in forze, assistono lo stesso e senza aprir mai bocca: ragazzi e ragazze si nutrono soltanto di ciò che vien loro porto da chi siede, senza che abbiano alcun altro tempo separato per desinare. In mezzo alla prima tavola, che è il luogo più elevato e da cui si guarda tutta l’adunanza (poiché si trova di traverso nella parte più alta della sala da pranzo) sta seduto il sifogranto con la moglie, cui si aggiungono due dei più anziani, ché ce ne vanno quattro per ogni tavola. Se in quella sifogran­ tia si trova un tempio, seggono a tavola, per presie­ dere, il sacerdote e la moglie, insieme col sifogranto. Da ambo i lati vengon posti i più giovani, poi di nuovo i vecchi, e così tutta la casa: non solo stanno uniti tra loro i coetanei, ma sono mescolati con quelli da loro diversi, e quest’usanza, dicono, si tramanda acciocché la gravità dei vecchi e la riverenza per essi, visto che a tavola non si può fare o dir nulla senza che da ogni lato se ne accorgano i vicini, freni nei giovani una sconveniente libertà di parola o di ge­ sto. I piatti son serviti non già via via dal primo posto, ma le vivande più delicate si portano ai più anziani prima, che hanno un posto distinto, poi si somministrano a tutti ugualmente. Le ghiottonerie poi, che non son tante da potersene distribuire a suf­ ficienza a tutta la casa, dai vecchi vengon distribuite a loro arbitrio a chi siede vicino: in tal modo, se si continua ad onorare i più grandi di età, il beneficio anche ne viene pur a tutti ugualmente. Cominciano ogni desinare o colazione con qual­ che lettura che torni utile ai costumi, però per breve tempo, perché non annoi; da questa gli anziani in­ troducono nobili discorsi, che non siano però uggiosi e senza spirito. Ma non occupano tutto il desinare 73

con lunghi discorsi10, anzi stanno volentieri a sen­ tire anche i giovani e li stuzzicano a bella posta per mettere a prova l’indole e le capacità di ognuno, le quali si rivelano nella libertà della tavola. Più breve è un po’ la colazione, il desinare più lungo, ché a quella segue il lavoro, a questo il sonno e il riposo notturno, che essi giudicano più vantaggioso alla buo­ na digestione. Nessun desinare passa senza musica e infine non mancano frutta e dolci; bruciano pro­ fumi e spargono odori, insomma nulla trascurano che possa allietare il convito. Sono infatti un po’ proclivi da questo lato, talché pensano che nessun genere di piacere è vietato, se non ne viene alcun male. Così dunque vivono insieme in città, ma in cam­ pagna, dove si sta più isolati gli uni dagli altri, ognu­ no mangia a casa sua; infatti a nessuna famiglia manca nulla pel vitto, ché da esse viene tutto ciò di cui si nutrono i cittadini. I viaggi d e g li O lo p ia n i

Ma se uno è preso dal desiderio di vedere amici che stanno in altra città o anche la città stessa, ne ottiene senza difficoltà il permesso dai sifogranti e dai tranibori, a meno che non l’impedisca qualche necessità. Così viene inviato insieme qualche gruppo, con una lettera del principe attestante la concessione del permesso, dove è fissata anche la data del ritor­ no. Vien dato un carro con uno schiavo dello Stato, per guidare i buoi e occuparsene: del resto, a meno che nella compagnia abbiano donne, il carro vien ri­ mandato, come un peso e un impaccio. Per tutto il viaggio nulla si portano seco, ma nulla manca loro, perché dovunque sono a casa loro; ma se si fermano nello stesso luogo più di un giorno, ognuno vi eser­ 10

L o n g i lo g i,

come in P la u to , 74

M e n a e c h m t,

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cita il proprio mestiere e son trattati con grande umanità dagli operai della stessa arte. Se uno va in giro senza permesso fuori del proprio paese, qualora venga sorpreso senza il rescritto principesco, trat­ tato con disonore, è ricondotto come disertore e se­ veramente punito; se lo tenta di nuovo vien punito di schiavitù. Ma può uno esser preso dalla voglia di andar di qua e di là per le campagne del suo pae­ se, e allora, avendo il permesso del padre di fami­ glia e l’assenso della moglie, nulla glielo vieta. Però in qualunque villa arrivi, non gli vien dato alcun cibo prima che abbia eseguito la sua quantità di lavoro antimeridiano, o quanto si suol compiere ivi prima di desinare: a questa condizione, uno può andare do­ vunque entro il territorio della propria città, ché così sarà utile a questa non meno che se vi restasse dentro. Vedete ornai come in nessun luogo c’è libertà di non lavorare o pretesto a non far nulla, non fiaschet­ terie, non birrerie, non bordelli, non inviti a corrut­ tela, non case di appuntamento e di mal affare: il vivere sotto gli occhi di tutti rende necessario o il consueto lavoro o un riposo onesto. Risultato di tali costumi è di necessità l’abbondanza di tutto, e poi­ ché questa viene equamente nelle mani di tutti, non c’è da maravigliarsi che nessuno sia povero, nessuno mèndichi. Quando nel senato di Amauroto, dove, co­ me ho detto, si adunano ogni anno tre membri da ogni città, s’è appurato che cosa si trova in sovrab­ bondanza in ogni regione e poi in qual luogo il rac­ colto è stato troppo deficiente, la floridezza dell’uno soccorre alla povertà dell’altro, e fanno ciò gratis, senza nulla ricevere in cambio da quelli a cui danno. Ma, come han dato del proprio a una città qualsiasi, senza nulla richiedere, così ricevono quanto loro ab­ bisogna da un’altra, cui non han sacrificato nulla. In questo modo tutta l’isola è come un’unica famiglia. Ma dopo che si è abbastanza provveduto a se stes­ si (il che non reputano di aver fatto prima di essersi dato pensiero di tutto un biennio, a causa dei rischi 75

dell’anno seguente), di quel che resta, grano, miele, lana, legno, cocco, porpora, pelli, cera, sego, cuoio ed anche animali, ne esportano in gran quantità in altre regioni, e di tutto regalano un settimo ai poveri del paese e il resto vendono a prezzo moderato. Da questo commercio riportano in patria non solo le merci di cui abbisognano (che è quasi nulla, se ne to­ gli il ferro), ma in più un’enorme quantità di oro e di argento e, per la lunga pratica di tal cosa, c’è do­ vunque ormai, più che non si possa credere, abbon­ danza di tali ricchezze. Perciò ora fan poco conto se vendere a contanti o a dilazione e aver crediti per una parte di merci straordinariamente grande, ma aprendoli non badano mai, nella stipulazione come d’uso degli strumenti, al credito dei privati, ma a quello dello Stato. La città, quando giunge il giorno della scadenza, esige il credito dai debitori privati e 10 versa nell’erario, godendo dell’usufrutto del da­ naro, sino a che non venga richiesto dagli Utopiani. Questi per la maggior parte non lo richiedono mai, poiché sottrarre ciò che loro non serve a coloro cui serve non reputano giusto. Del resto, se si presenta 11 caso di doverne prestare a un altro popolo, allora sì che lo richiedono, ovvero quando c’è una guerra da fare; ché a tale scopo soltanto conservano tutto quel tesoro che hanno in pace, per una difesa in estremi pericoli o in casi improvvisi, soprattutto per assoldare stranieri con grosse paghe (costoro espon­ gono ai rischi di guerra più volentieri dei propri con­ cittadini), ben sapendo che con gran danaro si pos­ sono per lo più comprare sinanco i nemici, che o a tradimento o anche a bandiere spiegate vengono alle mani tra di loro. Per tal motivo conservano un te­ soro inestimabile, tuttavia non a mo’ di tesoro, ma lo hanno nel modo che mi vergogno proprio di nar­ rare, per paura che il mio discorso non ottenga fede, e tanto più ho motivo di temere, in quanto ho co­ scienza, se non l’avessi visto di persona, con quanta difficoltà sarei stato indotto io stesso a credere all’espo­ 76

sizione di un altro. È inevitabile che quanto una cosa ripugna ai costumi degli ascoltatori, tanto è lungi dall’ottener fede da essi; sebbene un giudice accorto forse sgranerà meno gli occhi, dacché le loro istitu­ zioni sono così a fondo diverse dalle nostre, se an­ che l’oro e l’argento viene adoperato più secondo le loro vedute e le loro usanze che le nostre; giacché, non usando essi moneta, riservano questa per quei casi che ben possono darsi, ma che anche può darsi che non accadano mai. Intanto hanno l’oro e l’argento, donde quella si fa, in conto tale che nessuno li apprezza più che non richieda la natura. E chi non vede quanto per natura sono inferiori al ferro? Tanto che, senza questo, per diana, i mortali non possono vivere, né più né meno che senza fuoco o senz’acqua, mentre intanto all’oro e all’argento nessuna utilità ha concesso la natura, di cui non possiamo agevolmente fare a meno, se non fosse che la follia umana ha dato valore alla rarità; ché anzi, come madre affettuosissima, ha messo al­ l’aperto ciò che ha di meglio, come l’aria, l’acqua e la terra stessa, mentre ha riposto assai lontano le cose vane e di nessun vantaggio. Questi metalli dun­ que non vengono da essi chiusi in qualche torre; se lo facessero, il principe e il senato potrebbero cadere in sospetto, tanta è la stoltezza dello zelo popolare, di ingannar con uno stratagemma il popolo per go­ dere con essi di qualche vantaggio personale. E se ne fabbricassero coppe e altri oggetti di tal genere lavorati da orefici, se venisse mai una circostanza tale da doverli rifondere per dar le paghe ai soldati, com­ prendono che di mal animo se li lascerebbero toglie­ re, una volta che han cominciato a trovarvi gusto. Per ovviare a ciò han trovato un mezzo che ben s’accorda con le altre loro istituzioni, ma da quelle di noi altri, che facciamo sì gran conto dell’oro e lo teniamo chiuso con tanta cura, è lontano le mille miglia e perciò non è credibile se non per chi ne fa esperienza. Poiché, mentre mangiano e bevono in 77

vasi di creta o di vetro, bellissimi senza dubbio, ma di nessun valore, dell’oro e dell’argento, non negli alberghi comuni soltanto, ma anche nelle case pri­ vate, fanno comunemente vasi da notte o destinati agli usi più vili, e inoltre si formano con gli stessi metalli anche catene e grossi ceppi per legare schiavi. In ultimo a quelli resi infami da qualche delitto pen­ dono dagli orecchi cerchietti d’oro, oro cinge le dita, collane d’oro circondano il collo e infine anche il capo è stretto in oro. Così in tutti i modi cercano presso di loro di far avere in ispregio l’oro e l’argento, e in tal modo si ottiene che questi metalli, che gli altri popoli in genere non si lascerebbero strappare con minor dolore delle proprie viscere, se anche, presso gli Utopiani, qualche circostanza richiedesse di por­ targlieli via tutti in una sola volta, a nessuno parrebbe di aver subito la perdita di un soldo solo. Di più col­ gono perle sulle spiagge, anzi su certe rocce anche diamanti e granati11; ma tuttavia non ne vanno in cerca, e solo quando li trovano, li puliscono. E con questi adornano i loro bambini, che, come nei primi anni della puerizia si vantano di tali ornamenti e ne vanno superbi, così, appena appena grandicelli, al­ lorché comprendono che tali inezie servono solo a ragazzi, li abbandonano, senza che di ciò li avvisino i genitori, ma perché se ne vergognano da sé; non di­ versamente dai nostri ragazzi che, cresciuti negli anni, gettano via noci, ciondoli e bambole. Pertanto queste usanze sì diverse dagli altri popoli producono negli animi sentimenti parimente diversi, cosa che non mi divenne mai così evidente come a proposito degli Anemolii12. Vennero costoro ad Amauroto mentre mi ci tro­ vavo io e, poiché venivano a trattare di grandi fac­ cende, li aspettavano al loro arrivo tre cittadini per 11 II testo dice: p y r o p o s , e tutti intendono « pietre preziose », sebbene tal senso sia ignoto agli antichi. In inglese p y r o p e indica una specie di granato e così anche « piropo » in italiano. 12 Cioè i « ventosi », da ανκμος, « vento », cioè i « vanitosi ».

ogni città. Senonché tutti gli ambasciatori dei popoli vicini ivi sbarcati in precedenza ben conoscendo i co­ stumi degli Utopiani, sapevano che presso costoro non sono punto in onore abiti fastosi e la seta vi è di­ sprezzata e l’oro è segno d’infamia, e perciò usavano venire con l’abito più modesto possibile. Gli Ane­ molii invece, che abitavano troppo lontano e di rado avevano relazione con essi, apprendendo che tutti vestivano allo stesso modo e anche rozzamente, nella credenza che in Utopia non si possedesse ciò che non s’adoprava, con più orgoglio che saviezza stabi­ lirono di presentarsi, per magnificenza di apparecchio, come delle divinità, e abbagliare la vista dei miseri isolani con lo splendore dell’abbigliamento. Fecero ingresso dunque tre ambasciatori, con cento del se­ guito, tutti con vesti variopinte e per lo più di seta, ma essi, gli ambasciatori, rivestiti di oro, ché erano nobili nel loro paese; grandi collane, orecchini d’oro, oltre a ciò anelli d’oro alle mani e per di più cate­ nine sospese al berretto, che riscintillavano di perle e pietre preziose; adorni, in breve, di tutte le cose che presso gli Utopiani formavano tormento per schia­ vi, infamia per disonorati, bazzecole per bambini. E valeva proprio la pena di vedere in che modo leva­ vano la cresta quando paragonavano i propri abbi­ gliamenti con gli abiti degli Utopiani, ché il popolo si era riversato per le piazze. E d’altra parte non dava meno piacere considerare quanto si erano quelli in­ gannati nelle loro speranze e nella loro attesa, quanto erano lungi da quel successo che credevano di otte­ nere. Agli occhi di tutti gli abitanti di Utopia, era chiaro, se ne togli ben pochi che per buoni motivi avevano visitati altri popoli, tutto quel lusso di cor­ redi pareva una vergogna, e mentre salutavano i più infimi servitori scambiandoli per padroni, lasciarono invece passare gli ambasciatori stessi inonorati, rite­ nendoli degli schiavi, per via di quelle loro catene d’oro. Avreste anzi visto ragazzi, che ormai avevano gettato via pietre preziose e gemme, a trovarle ora

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attaccate ai berretti degli ambasciatori, rivolgersi alle madri, dando loro di gomito: « Ve’, mamma, che gran poco di buono dev’essere quello lì, che usa an­ cora perle e pietruzze, come un ragazzetto! » E al­ lora la madre rispondere con la maggiore serietà: « Taci, figlio; sarà, credo, qualche buffone dell’am­ basciata ». Trovavano altri da ridire su quelle catene d’oro, come poco pratiche: tanto sottili che uno schia­ vo le spezzerebbe senza difficoltà, tanto lente che se le potrebbe levare quando ne avesse voglia e sciolto e libero fuggir via dove gli piace. Senonché gli ambasciatori, dopo che, trattenen­ dosi ivi uno o due giorni, ebbero visto oro in sì gran quantità tenuto in sì poco pregio, anzi vituperato non meno che presso di loro veniva onorato, e oltre a ciò, per le catene e i ceppi di un unico schiavo fug­ gito, più oro messo insieme che non ne compren­ desse l’abbigliamento intero di loro tre, cadute loro le penne, abbandonarono con vergogna tutta quel­ l’eleganza, di cui si erano così arrogantemente pavo­ neggiati, soprattutto dopo che, parlando con gli Utopiani, ne appresero i costumi e le idee. Costoro si stupiscono che esista qualche mortale cui diletti l’in­ certo splendore di una piccola gemma, di una perla, quando può contemplare qualche stella e anche lo stesso sole, o che ci sia qualcuno sì stolto da cre­ dersi più nobile ai propri occhi per un filo di lana più sottile, se è vero che questa stessa lana, per quan­ to sottile sia il filo che dà, l’ha portata un volta una pecora, che pure con ciò è rimasta sempre pecora. Ugualmente stupiscono che l’oro, di sua natura così inutile, sia ai nostri giorni, su tutta la terra, stimato· tanto che l’uomo, in grazia del quale e a cui vantag­ gio ha ottenuto quel valore, venga stimato molto meno dell’oro stesso: talché un qualsiasi zoticone, che può avere meno intelligenza di un ceppo ed es­ sere disonesto non meno che sciocco, tiene tuttavia in servaggio molti uomini e sapienti e buoni, e ciò pel solo fatto che ha avuto in sorte un buon mon-

ticello di monete d’oro; ma se qualche fortuna, qual­ che mutamento di leggi, il quale non meno della for­ tuna stessa sconvolge le cose, le fa passare da quel padrone nelle mani del servo più spregevole e più buono a nulla di casa, dovrebbe il primo, poco dopo, naturalmente, scendere, come un’appendice e un con­ tentino del danaro, a servire il proprio servo. Del resto molto più stupiscono della detestabile pazzia di quelli che tributano onori poco men che divini a tali cui non son debitori di nulla né sottoposti, non per altro riguardo che sono ricchi, e ciò quando li sanno sì tirati e avari che sono arcisicuri che, finché quelli sono in vita, nemmeno un soldino verrà mai loro da quella’sì gran massa di danaro. Siffatto modo di pensare han tratto parte dall’edu­ cazione, per essere allevati in uno Stato le cui isti­ tuzioni son ben lontane- da tal genere di sciocchezze, e parte dalla cultura scientifico-letteraria. Infatti, per quanto non siano molti di ogni città quelli che, di­ spensati dai lavori, vengono destinati alla sola istru­ zione, quelli cioè in cui sin dalla fanciullezza trova­ rono un’indole egregia, un ingegno straordinario e animo propenso agli studi, tuttavia tutti i ragazzi ap­ prendono le lettere, e buona parte del popolo, ma­ schi e femmine, per tutta la vita, consacrano agli studi letterari tutte quelle ore che, come ho detto, hanno libere dal lavoro. Apprendono il sapere nella loro lingua; non è infatti povera di parole, né aspra al­ l’orecchio, né c’è alcuna che renda meglio il pen­ siero; è la stessa in generale che, un po’ guasta e dove in un modo dove in un altro, si stende per una larga zona in quella parte del mondo. Di tutti i nostri filosofi, i cui nomi van gloriosi in questa parte del mondo, nemmeno la fama di uno purchessia era giunta ivi prima del mio arrivo, e tut­ tavia nel campo della musica e della dialettica, nelle scienze matematiche e in geometria han fatto quasi le stesse scoperte che i nostri antichi. Vero è che, come quasi in tutto sono all’altezza degli antichi, così

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restano molto inferiori alle invenzioni dei dialettici moderni. Infatti nessuna regola hanno scoperta di quelle che nei P a rv a L o g ica lia qui comunemente si apprendono dai ragazzi sulle restrizioni, le amplifi­ cazioni, le supposizioni e altrettali sottilissime escogi­ tazioni. E poi son tanto lungi dall’esser riusciti a pe­ netrare entro l’intenzione seconda, che fra essi nes­ suno c’è che abbia potuto vedere quel cosiddetto uomo in sé ovvero universale, sebbene, come sapete, sia proprio un colosso e più grande di qualsiasi gi­ gante e noi poi ce lo mostriamo a dito 13. Sono però dottissimi quanto al corso degli astri e al moto delle sfere celesti, anzi si sono fabbricati anche strumenti di varia forma, per mezzo dei quali comprendono con maggiore esattezza i movimenti e la posizione del sole e della luna e così degli altri astri, che si veg­ gono sul loro orizzonte. Del resto, non vaneggiano di amicizie e inimicizie di pianeti, in una parola di tutta quell’impostura del profetare il futuro dagli astri. Presagiscono piogge, venti e le altre mutazioni di tempo da certi segni osservati per lunga pratica; ma quanto alle cause di tutti questi fenomeni e al flusso del mare e alla sua salsedine e insomma all’ori­ gine e alla natura del cielo e del mondo, in parte ne parlano nello stesso modo dei nostri antichi filosofi, in parte, come sono in disaccordo quelli, così anch’essi, nelle nuove spiegazioni che presentano, non sono d’accordo con tutti gli antichi e nemmeno tra di loro in nessuna cosa. Nel campo della filosofia riguardante l’etica quei popoli fanno le stesse dispute che noi, sui beni del­ l’anima e del corpo e su quelli esteriori, e poi se il 13

I P a r v a L o g ic a lia formavano l’ultimo capitolo delle S u m di Pietro Ispano, che fu poi Papa Giovanni XXI (m. il 1277), opera che comunque fu il primo tentativo di aggiungere qualcosa, più grammatica che filosofia, all O r g p n o n aristotelico; senonché il Moro ne rideva, nella famosa lettera al Dorp, dicendo che si chiamavano così perché contenevano « poca logica », e con lui ne ridevano Erasmo e Hutten. L 'i n te n tio p r im a è, nella filosofia scolastica, Γapprendimento deiroggetto in sé, la s e c u n d a consiste nel collocarlo nella sua specie. m u la e

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nome di beni convenga a tutti questi ovvero alle sole doti dell’anima. Discutono anche sulla virtù e sul piacere, ma il primo e principale problema per essi è in che cosa la felicità umana consiste e se in una ovvero più cose. Nel che veramente mi pare che pieghino troppo dalla parte che rivendica il piacere, in cui ripongono tutta o la maggior parte della fe­ licità umana. E, per vostra maggior meraviglia, è nella religione che cercano il sostegno a una morale così voluttuosa, e sì che quella è grave e severa e quasi burbera e aspra. Mai infatti disputano di fe­ licità senza unire alcuni princìpi tratti dalla religione con la filosofia che si fonda sulle spiegazioni: senza quelli credono che per la vera ricerca della felicità la ragione di per sé sia manchevole e fiacca. Tali prin­ cìpi sono: l’anima è immortale e nata per bontà di Dio alla felicità; dopo questa vita per le nostre virtù e buone azioni è assegnato il premio, per le nostre colpe il castigo. E sebbene queste credenze siano proprie della religione, pensano tuttavia che è la ra­ gione quella che ci conduce ad ammetterle ed a cre­ derle; se le leviamo di mezzo, nessun uomo sarebbe sì stupido, sostengono essi arditamente, da non cre­ dersi lecita la ricerca del piacere a dritto o a rove­ scio, badando solo che un piacere minore non ne im­ pedisca uno maggiore, o a non cercarne uno che poi a sua volta abbiamo a ripagar col dolore. Sarebbe poi pretta pazzia, essi pensano, seguire una virtù rigida e difficile, non solo rinunziando a ogni dolcezza della vita, ma abbracciando anche spontaneamente il do­ lore, se non se ne dovesse aspettare alcun frutto; e quale può essere il frutto, se dopo morto, dopo aver passato cioè tutta la vita senza alcuna dolcezza, il che vuol dire infelicemente, non se ne ottiene nul­ la? Solo che la felicità, a loro modo di vedere, non è posta in qualsiasi piacere, ma soltanto in quello buono e onesto; alla felicità infatti, come a bene su­ premo, è spinta la natura umana dalla virtù stessa, alla quale soltanto è data in retaggio la felicità, a 83

detta degli avversari stessi. Definiscono infatti virtù vivere secondo natura, giacché a questo noi siamo stati da Dio conformati; e che poi segue la guida della natura colui che nel bramare o fuggir le cose obbedisce a ragione. La ragione infine accende an­ zitutto i mortali ad amare e venerare la maestà di­ vina, cui siamo debitori non solo della nostra esi­ stenza, ma anche di poter ottenere la felicità; in se­ condo luogo ci insegna e ci spinge a vivere quanto meno è possibile in affanno e lietamente nel mas­ simo grado, e ad offrirci a tutti gli altri come colla­ boratori, conforme ai vincoli di natura, per raggiun­ gere lo stesso scopo. Infatti non è mai esistito un seguace della virtù così duro e rigido, uno spregia­ tore del piacere tale che t ’imponga fatiche, veglie e miserie, senza ordinarti insieme di alleviare, per quan­ to un uomo può e deve, le miserie e le sventure altrui, e che in nome dell’umanità non creda som­ mamente lodevole per un uomo esser di salvezza e di sollievo agli altri, visto che è sommamente umano (e non c’è virtù più particolare all’uomo) addolcire le pene altrui e toglier loro ogni amarezza e restituire la vita alla gioia, cioè al piacere. Sarebbe straordi­ nario forse che la natura spingesse qualcuno a rendere lo stesso servigio a se stesso? Giacché o la vita lieta, cioè nei piaceri, non è buona, e in tal caso non solo non devi assistere nessuno per quella, ma ritrarne tutto il meglio che puoi, come da danno mortale; ovvero, se non solo ti è lecito, ma sei in dovere di procurarla agli altri, come buona che è, perché non farlo a te stesso tra i primi, una volta che è conve­ niente che tu sia favorevole a te non meno che agli altri? Infatti, se la natura ti esorta ad esser buono verso gli altri, non per questo ti comanda di essere con te stesso spietato e inflessibile. Dunque la gioia nella vita, dicono gli Utopiani, cioè il piacere, ci viene imposto dalla natura stessa, come fine di tutte le azioni, e vivere secondo i dettati di natura vien de­ finita la virtù. Or quando la natura invita i mortali 84

ad aiutarsi l’un l’altro per una vita più lieta (e ben fa ad agire così, ché non c’è nessuno così al di sopra del destino del genere umano da essere a cuore lui solo alla natura, la quale invece porge il seno ugual­ mente a tutti quelli che abbraccia nella comunanza della stessa forma), evidentemente ti comanda con insistenza di badare a non assecondare il tuo vantag­ gio, in modo da procurar danno agli altri. Bisogna dunque rispettare, così si pensa in Uto­ pia, non solo i patti che si fanno fra privati, ma anche le leggi pubbliche sulla distribuzione dei beni della vita, cioè sulla materia del piacere, promulgate secondo giustizia da un re buono, ovvero sancite con unanime consenso dal popolo, quando non sia op­ presso da tirannia né raggirato dall’astuzia. Cercare il proprio vantaggio, senza violar queste leggi, è sag­ gezza, cercar poi quello di tutti è religione. Ma an­ dare a spezzare il piacere altrui pur di conseguire il proprio è ingiustizia veramente. Invece togliere qual­ cosa a te stesso da dare agli altri, ecco proprio il compito dell’umanità e della bontà, perché ciò non toglie mai tanto quanto dà. Infatti non solo si è ricompensati dal ricambio del bene, ma la stessa co­ scienza d ’aver fatto il bene, col ricordo dell’affetto e della benevolenza dei beneficati, reca più piacere all’animo che non sarebbe stato il piacere fisico cui hai rinunziato. Da ultimo, cosa questa cui la religione agevolmente persuade l’animo umano a, consentir vo­ lentieri, un piccolo e rapido piacere viene da Dio ricompensato con un godimento immenso e che non avrà mai fine. È questa pertanto la ragione per cui, tutto ben esaminato e considerato, le nostre azioni tutte, si pensa in Utopia, e fra queste anche le virtù stesse, hanno alfine di mira il piacere, come loro scopo e felicità. Chiamano piacere ogni moto o stato del corpo o dell’anima, in cui, guidati da natura, sentiamo diletto a trovarci; e a ragione aggiungono che esso è un’in­ clinazione della natura. Infatti tutto ciò che è na­ 85

turalmente lieto e cui ci si volge, ma non per mezzo di ingiustizia, e non ci fa perdere altra gioia maggio­ re, né gli succede affanno, vien cercato non soltanto dal sentimento, ma anche dalla retta ragione: così tutte le cose che fuori della natura con accordo senza fondamento i mortali immaginano dolci, come se fosse in lor potere cambiar le cose con le parole! non solo, pensano gli Utopiani, non apportano nulla alla fe­ licità umana, ma le sono di grandissimo ostacolo, anche pel fatto che, una volta radicate nell’uomo, con questa falsa opinione di piacere, ne guadagnano quasi tutta l’anima, perché non vi sia posto in nes­ sun punto alle gioie vere e schiette. Sono infatti di numero straordinario le cose che, pur non avendo in sé, per propria natura, dolcezza alcuna, anzi, non poche, anche moltissima amarezza, per mala lusinga di malvage passioni, non solo son tenute pei più grandi piaceri, ma anche messe in conto delle ra­ gioni principali della vita. In questo genere spurio di piaceri van messi que­ gli uomini sopra ricordati che da se stessi si credono tanto migliori quanto migliore è il loro vestito. Nel che commettono due errori, e infatti non si sbagliano meno a credere migliore il proprio abito che migliori se stessi. Perché infatti, se guardi all’utilità di un vestito, la lana di filo più sottile sarebbe migliore di quella più grossa? Purtuttavia costoro, come se eccellessero non per un’illusione ma per natura, al­ zano la cresta e credono che ne venga anche a loro non poco pregio, onde come di diritto richiedono, pel loro abito più elegante, quegli omaggi che, con un vestito più modesto, non avrebbero osato sperare, e si stizziscono che si passi loro dinanzi senza troppo curarli. Ma questo stesso preoccuparsi di vane e inu­ tili onoranze non è anch’esso segno della stessa igno­ ranza? Che piacere vero e naturale reca, che uno sco­ pra il capo e pieghi il ginocchio? Forse che questo ti guarirà dei dolori alle gambe o allevierà la frenesia del tuo cervello? In questa specie di piacere imbel86

Iettato è una maraviglia quanto soavemente impaz­ ziscano quelli che, credendosi nobili, si lusingano e si applaudono di esser nati da tali antenati, le cui lunghe generazioni sono state ritenute ricche (ché altro ora non è la nobiltà), specie di poderi, e non si credopo meno nobili di un pelo, anche se i loro antenati non ne hanno lasciato niente o se essi stessi si son mangiata l’eredità. Fra codesti stolidi van con­ tati quelli che, come ho detto, si lasciano prendere da pietre preziose o da perle, e si credono diventati dèi, in certo modo, se riescono ad acquistarne una straordinaria, soprattutto di quelle che più si apprez­ zano ai loro tempi, ché non tutte né in ogni tempo ha valore la stessa specie. Ma non le acquistano se non senza castone e nude, anzi neppure così, a meno che il venditore non abbia giurato e non offra garenzia che la pietra, che la perla è vera: tanto si preoc­ cupano che una falsa, invece di una vera, inganni la loro vista! Ma perché dovrebbe darti meno diletto a guardarla una pietra artificiale, se il tuo occhio non la distingue da una vera? L’una e l’altra dovrebbero per te avere lo stesso valore, né più né meno, per bacco, che ad un cieco! E che dire di quelli che accu­ mulano beni superflui, per dilettarsi non già di far uso dei loro tesori, ma di conservarli? Ne ricevono un piacere verace, o piuttosto si lasciano illudere da un piacere immaginario? O quelli che, per un’altra specie di stortura, nascondono l’oro, in modo da non aver più a servirsene e forse neppure a vederlo, e, per paura di perderlo, lo perdono? Che cos’altro si­ gnifica sottrarlo ai propri bisogni e forse a quelli di tutti i mortali, per affidarlo alla terra? Eppure tu, dopo aver seppellito il tuo tesoro, esulti di gioia, come se ormai non avessi più pensieri! Ma se qual­ cuno te lo ruba, e tu, senza nulla sapere del furto, venga a mancare dieci anni dopo, per tutto quel de­ cennio in cui tu sopravvivesti alla perdita del danaro, che importa che ti fosse stato sottratto o lasciato lì? In un caso o nell’altro te n’è venuto lo stesso van­ 87

taggio, né più né meno. A queste soddisfazioni così sciocche, gli Utopiani aggiungono il gioco dei dadi, la cui follia conoscono per fama, non per pratica, e in aggiunta l’andare a caccia e l’uccellare. Infatti che piacere racchiude gettar dei dadi sul tavoliere? L’hai fatto tante volte che, se anche ci fosse del piacere, a via di ripeterlo frequentemente, non ne poteva sor­ gere sazietà? E che dolcezza ci può essere a sentir latrare e ululare i cani? Non se n’è piuttosto distur­ bati? O perché si ha più senso di piacere quando un cane insegue una lepre, che se un cane insegue un altro un cane? Evidentemente nei due casi è la stessa cosa che si fa: si corre, infatti, se ti diletta la corsa. Ma se ti tiene lì la speranza di un’uccisione, l’attesa di veder sbranare sotto i tuoi occhi, ti dovrebbe piut­ tosto muover pietà guardare una lepricciuola fatta a pezzi da un cane, un essere debole da uno più forte, chi nella sua timidezza fugge da chi è inferocito, un povero innocente alfine da una bestia crudele. Per­ tanto gli Utopiani lasciano ai beccai (alla cui arte at­ tendono, come si è detto sopra, per mezzo di schiavi) tutto quest’esercizio del cacciare, come cosa indegna di uomini liberi: sostengono infatti che la caccia è la parte più bassa della macelleria, mentre gli altri rami di questa sono più utili e meno spregevoli, come quelli che tornano di molto maggior giovamento e ammazzano, sì, gli animali, ma solo per necessità, laddove invece il cacciatore non cerca nell’uccisione e nello squartamento di un misero animaletto che il piacere. Questa indegna voglia di contemplare il san­ gue, anche nelle bestie stesse, sorge, a loro modo di vedere, da disposizione a crudeltà, o alla fin fine nella crudeltà va a sfociare, con l’uso continuo di un pia­ cere così selvaggio. Dunque questi svaghi e quant ’altri vi si assomigliano (e sono infiniti), se pure il volgo dei mortali li ritiene piaceri, tuttavia quelli di Utopia apertamente ritengono che, non contenendo la loro natura nessuna dolcezza, col vero piacere non hanno proprio a far nulla. Infatti, benché comune­ 88

mente colmino di diletto i sensi (nel che pare con­ sista l’effetto del piacere), non perciò cambiano idea quei popoli; non è infatti in causa la natura della cosa stessa, ma la corruttela della vita umana, per la cui colpa succede che si accoglie come dolce l’amaro, non diversamente da donne incinte quando al loro gusto corrotto la pece e il sego dànno di miele più del miele stesso. Eppure il giudizio guasto da ma­ lattia o da abitudine non può cangiar natura alle al­ tre cose, e nemmeno al piacere. Dei piaceri che ammettono come veri formano varie specie, giacché alcuni ne attribuiscono all’anima, altri al corpo. All’anima danno l’intelligenza e la dolcezza che genera la contemplazione del vero; a cui va aggiunto il dolce ricordo della vita ben vis­ suta e la speranza non dubbia di un bene futuro. I piaceri fisici son divisi in due specie: la prima è quella che riempie i sensi di evidente dolcezza, e ciò si verifica a volte col rinvigorire i sensi esauriti dal calore insito in noi (infatti si ridà loro cibo e be­ vanda), a volte allorché si emette quanto il corpo contiene in sovrabbondanza, al che si dà occasione quando liberiamo il corpo dagli escrementi o gene­ riamo o alleviamo il prurito di qualche parte della pelle strofinandoci o grattandoci. A volte poi sorge il piacere senza dover rimettere alcuna cosa manche­ vole alle nostre membra, né toglierne ciò che impac­ cia; ce n’è cioè uno che moke nondimeno i nostri sensi, ma con una forza segreta o in un. modo evi­ dente e li fa vibrare e li attira a sé, com’è quello che nasce dalla musica. Una terza forma di piacere fisico vogliono che sia quello consistente nello stato di quiete e di equilibrio del corpo, che è evidentemente la buona salute per ognuno, senza malattie che di­ sturbino, giacché questa, quando non sia attaccata da alcun dolore, è di per se stessa un godimento, anche se non è influenzata dall’intervento di un pia­ cere dal di fuori. Infatti, sebbene meno si mostri e meno conceda al senso che lo stimolo selvaggio a 89

mangiare e a bere, pure, malgrado ciò, molti la ri­ tengono il più grande dei piaceri, e in generale tutti gli Utopiani mostrano che è grande e come fonda­ mento e base di tutti i piaceri, come quella che sola rende tranquilla e desiderabile la vita umana, e senza di cui non resta in nessun luogo posto alcuno per nessun piacere. Infatti la mancanza assoluta di dolore è da essi chiamata insensibilità, non piacere, a meno che ci sia la buona salute. Non è da oggi che è stata presso di essi condannata la teoria di quelli che ri­ tenevano che una salute stabile e mai turbata (ché anche di questo problema si è discusso con ardore) non debba perciò stimarsi piacere, per la ragione che non se ne può sentir la presenza senza qualche sen­ sazione esteriore 11; ma al contrario ora quasi tutti son d’accordo che la salute riesce di piacere princi­ palissimamente. Giacché infatti, dicono essi, nella ma­ lattia si trova il dolore, inconciliabile nemico del pia­ cere, non meno che la malattia lo è della salute, per­ ché all’opposto non dovrebbe il piacere inerire alla quiete della salute? Non importa nulla per tal quistione raffermare che la malattia è dolore o che alla malattia è inerente il dolore; nell’uno e nell’altro caso infatti il risultato è lo stesso. Giacché, se la buona salute è di per se stessa un piacere o produce di necessità piacere, come il calore è generato dal fuoco, è chiaro che, in un caso e nell’altro, l’effetto si è che a quelli che hanno immutabilmente una buo­ na salute non può mancare il piacere. Inoltre men­ tre ci nutriamo, essi dicono, di che altro si tratta se non che la buona salute, la quale cominciava a in­ debolirsi, combatte a tutt’uomo contro la fame, con l’aiuto del cibo? Or mentre a poco a poco si rià, quello stesso ritorno al solito vigore somministra quel piacere che così ci ristora. La salute dunque, la quale si rallegrava della lotta, non si rallegrerà ora 14 M o tt i q u o p ia m e x tr a r io , legge la D e lco u rt , o p . c it., p. 150; ma il testo del L u pt o n , o p . c i t ., p. 205, ha c o n tra r io , a causa del­ l ’opposizione di cui si parla subito dopo. 90

anche a vittoria conseguita? Ma, dopo aver alfine riottenuto fortunatamente la forza di prima, unico obbietto di tutta la lotta, resterà immediatamente inebetita, senza riconoscere il proprio bene e strin­ gersi ad esso? Si dice che la buona salute non si av­ verte... Ma ciò è lontano le mille miglia dal vero, pen­ sano gli Utopiani. Chi infatti, se è sveglio, non av­ verte di esser sano, se non chi non lo è? Chi si lascia prendere da sì grande insensibilità o letargia da non riconoscere che la salute gli è gradita o dilettevole? E il diletto che altro è se non, con altro nome, il piacere? Abbracciano dunque quelli di Utopia anzitutto i piaceri dell’animo, che giudicano primi primissimi, e parte di questi principalmente credono che muova dall’esercizio delle virtù e dalla coscienza di vivere rettamente. Tra i piaceri che accorda il corpo danno la palma alla salute. Infatti il bere e il mangiare con le loro attrattive, e tutto ciò che produce lo stesso genere di diletto, vanno cercati, a parer loro, ma solo in vista della buona salute; infatti non danno di per sé gioia, ma in quanto si oppongono all’insinuarsi sotto sotto del male. Perciò, per chi ha senno, come bisogna più stornar le malattie che bramar le me­ dicine, più respingere i dolori che accogliere il ri­ medio, così sarebbe meglio non soffrir penuria an­ che di tal sorta di piaceri, anziché provarne la sod­ disfazione 1415. Ché se invece c’è chi si ritiene felice per questo secondo genere di piaceri, dovrebbe di necessità ammettere che toccherà alfine il cielo col dito se gli capita di passar tutta la vita fra una fame continua, fra la sete e il prurito a mangiare, a bere, a grattarsi e a stropicciarsi. Ma chi non vede che sconcezza ciò sarebbe? Non solo, ma anche una mi15 Insomma è meglio non soffrire, rimanendo in equilibrio perfetto di sanità, anziché dover provvedere a ristabilire l ’equi­ librio, giacché uno squilibrio è sempre prodotto di dolore, per esempio la fame, la sete, ecc. Così è « di tal sorta di piaceri », cioè quelli fisici; perciò la sanità è il maggiore di essi. 91

seria. Insomma sono questi i piaceri più bassi di tutti, perché non schietti e puri; non vengono mai, infatti, se non uniti a dolori opposti: col piacere di man­ giare, è evidente, s’accoppia la fame, ma non a con­ dizioni di parità: infatti quanto più è violenta, pro­ duce anche un dolore più lungo, giacché nasce prima del piacere, non solo, ma non si estingue se non quando muore insieme il piacere. Di siffatti piaceri, dunque, in Utopia si pensa che non c’è da far gran conto, se non quanto neces­ sità richiede; ne godono però lo stesso e riconoscono grati la bontà di madre natura che attira anche con dolci attrattive i suoi parti a ciò che si doveva fare sì spesso per necessità. Quanto infatti non sarebbe stata uggiosa la vita se, come le altre infermità che ci tormentano più di rado, dovevamo respingere an­ che questa malattia quotidiana della sete e della fame per mezzo di succhi amari e medicine? Però colti­ vano volentieri la bellezza, la forza, l’agilità, come doni particolari della natura e fonti di gioia; anzi anche quei piaceri che penetrano attraverso le orec­ chie, gli occhi e il naso, e che la natura volle come propri e peculiari dell’uomo (infatti nessun’altra spe­ cie di viventi solleva lo sguardo alla' forma e alla bellezza del mondo, né è sensibile alla leggiadria dei profumi, se non per scegliere i cibi, né distingue fra i diversi suoni armonici o disarmonici), sono, dicevo, ricercati anch’essi come balsami soavi della vita. In tutti però osservano il criterio che il piacere minore non ne impedisce uno maggiore o che generi talora dolore, conseguenza necessaria, pensano essi, se è di­ sonesto. Ma non apprezzare la bellezza nel suo splen­ dore, ma logorar le proprie forze fisiche e mutare l’agilità in abbandono, o estenuare il corpo a via di digiuni o rovinarsi la salute respingendo gli altri allettamenti della natura (tranne il caso che uno tra­ scuri questi suoi vantaggi per procurar più appassio­ natamente il bene altrui o dello Stato e si aspetti da Dio, in luogo di queste sue pene, un piacere mag­ 92

giore), e insomma tribolar se stessi per una vana ombra di virtù, col vantaggio di nessuno, ovvero allo scopo di avvezzarsi a sopportare con più coraggio av­ versità che forse non capiteranno mai, tutto ciò è l’estremo della pazzia, a loro modo di vedere, e se­ gno di animo spietato verso se stessi e del tutto in­ grato verso la natura, ai cui benefizi si rinunzia, come per disdegno eli esserle in nulla debitori ‘\ Tale è il loro modo di vedere sulla virtù e sul piacere, e non se ne può trovare un altro più vero, essi credono, per mezzo della ragione umana; solo una religione mandata dal cielo potrebbe istillare nel­ l’uomo qualcosa di più santo. Ma in ciò se la pensino bene o male, non ci consente il tempo di esaminar con esattezza, e neppure è necessario: il mio com­ pito è di esporre le loro istituzioni, non già anche di difenderle. Del resto, stiano comunque queste dot­ trine, ho la ferma convinzione che non si trova in nessun luogo della terra un popolo più straordinario, né una repubblica più felice. Sono di corpo agile e vigoroso e di più forza che non prometta la loro sta­ tura, che pur non è bassa, e, anche avendo un suolo non dovunque fertile e un clima non del tutto sano, con una vita ben regolata si difendono contro l’aria e con la loro attività risanano la terra, in modo tale che in nessuna parte del mondo c’è un prodotto di messi o di bestiame più abbondante né si vedono corpi di uomini più vigorosi, soggetti a meno malattie. Per­ tanto si può ivi osservare la diligenza con cui rego­ lano le opere che comunemente fanno gli agricoltori, per aiutar con la loro arte e col loro lavoro una terra troppo ingrata per natura, non solo, ma vi si vede strappar in un luogo con le mani un bosco sin dalle radici e ripiantarlo altrove: in ciò il criterio non è quello della produttività, ma del trasporto, affinché la legna si trovi più vicina al mare, ai fiumi o alle

c it.)

16 Questo brano, osserva la D elco u rt (p. 154, η. 1 dell’op. condanna l’ascetismo cristiano o stoico, come fine a se stesso. 93

città stesse, che minore è la fatica di portar lontano per terra delle messi anziché della legna. La gente è alla mano, gentile e attiva; le piace il riposo, ma, quando c’è bisogno, sopporta bene le fatiche; negli altri casi però non ne va affatto in cerca; nelle oc­ cupazioni dell’intelligenza è instancabile. Appena seppero da noi della letteratura e della scienza dei Greci (in quella latina, toltine gli storici e i poeti, pareva che non avrebbero trovato gran che di buono), è mirabile con quanto zelo s’adoprarono ad apprenderle essi stessi, nelle nostre traduzioni. Sul principio dunque facevo delle letture, più per non dar l’impressione di volere scansar fatica che per spe­ ranza di vederne qualche frutto; ma, subito dopo i primi passi, la loro diligenza ci fe’ subito capire che dovevamo adoprar la nostra e non a vuoto. Infatti cominciarono a copiar le lettere nella loro forma con tanta facilità e a pronunciare le parole con tal pron­ tezza e ad impararle a mente così agevolmente e a ripeterle con tanta fedeltà che a noi parve miracolo; senonché la più parte di quelli che, non per proprio culto soltanto, ma per ordine anche del senato, si assunsero tali studi, appartenevano ai letterati ed erano d’ingegno elettissimo e di età matura. Pertanto in meno di un triennio non c’era parola che ignoras­ sero, e leggevano i buoni scrittori senza inciampo, se non intoppavano in errori di stampa. Di tali let­ terature s’impadronirono più facilmente, come posso congetturare, anche per una certa lor parentela con esse. Sospetto infatti che quel popolo discenda dai Greci, perché la loro lingua, sebbene nell’insieme sia persiana, serba non pochi segni del greco nei nomi dei magistrati e delle città. Posseggono ora di mia mano (poiché stando per partire la quarta volta, ca­ ricai sulla nave, per tutta merce, un discreto fardello di libri, ché avevo stabilito meco di non tornarmene mai più, piuttosto che venir via sì presto) la maggior parte cLlle opere di Platone, più di una di Aristotile e ugualmente Teofrasto, D e lle p ia n te , ma mutilo, me

17 È un nome per beffa, ricavato da M arziale (XIV, 1, 7): « s u n t a p in a e tr ic a e q u e e t s iq u id v i l i u s is tis », cioè bazzecole, cose da nulla. In Cicerone però tr ic a e significa « raggiri ». P linio narra { N a t. H i s t . , I l i, 104): « D io tn e d e s i b i [in Apulìa] d e le v it d u a s u r b e s , q u a e in p r o v e r b i lu d ic r u m v e r te r e , A p i n a m e t T r ic a m » . Sic­ ché il nome sarebbe come Trappola di Roccacannuccia. 18 II vero titolo è Τ έ χ ν η Ι α τ ρ ι κ ή , che nel Medioevo era co­ nosciuta sotto il nome di T e g n u m o M ic r o te g n u m (M ic r o te c b n u m ), per distinguerla dal M e g a lo te g n u m , ovvero θ ε ρ α π ε υ τ ικ ή ς μεθό& ον β ι β λ ί α ιδ\

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ne rincresce, in più punti. Il libro infatti l’aveva tro­ vato una scimmia, ché durante il tragitto era tenuto senza cura, e la bestia, saltellando su e giù per gioco, ne strappò e lacerò alcune pagine qua e là. Fra quelli che scrissero di grammatica, posseggono solo il Lascari, ché non avevo portato meco Teodoro né alcun dizionario, tranne Esichio e Dioscoride. Hanno molto cari gli opuscoli di Plutarco e sono innamorati anche dei graziosi scherzi di Luciano. Fra i poeti posseg­ gono Aristofane, Omero ed Euripide, poi Sofocle nell’edizioncina di Aldo Manuzio; fra gli storici Tuci­ dide e Erodoto, senza dire di Erodiano. Anzi, in me­ dicina, il mio buon amico Trizio di Apina 17 aveva portato seco alcuni opuscoletti di Ippocrate e la M ic r o te c h n e di Galeno “ , libri che hanno in gran pre­ gio, perché, per quanto meno di tutti i popoli ab­ biano essi bisogno della medicina, non c’è luogo dove sia più in onore, anche pel fatto stesso che la cono­ scenza di essa mettono tra le parti più belle e più utili del sapere scientifico. Scrutando poi con l’aiuto delle scienze i segreti della natura, par loro di rica­ varne un ammirabile piacere, non solo, ma di ingra­ ziarsi sommamente l’autore e artefice di essa, il qua­ le, facendo, a parer loro, questa macchina del mondo perché la vedesse l’uomo, solo essere capace di sì gran cosa, l’ha esposta all’osservazione di lui, così come fanno gli altri artisti; ragion per cui ha più caro uno che sia contemplatore pieno di curiosità e di zelo e ammiratore dell’opera sua, anziché chi, come una bestia senza intelligenza, dinanzi ad uno spettacolo

Sugli schiavi

così grandioso e mirabile resti senza commuoversi, come uno stupido, e non se ne occupi. L’ingegno pertanto degli Utopiani, esercitandosi in tali studi, mostra attitudini sorprendenti alle sco­ perte tecniche, che promuovano i comodi e l’econo­ mia della vita. Due però ne devono a noi altri, la stampa e la fabbricazione della carta, però non a noi esclusivamente, ma anche a se stessi in buona parte. Mostrando infatti noi a loro i caratteri a stampa in libri del Manuzio fatti di carta e parlando un po’ della materia per fabbricar la carta e della possibilità di imprimere le lettere, senza veramente spiegare, giac­ ché nessuno di noi era molto esperto nell’una o nel­ l’altra arte, afferrarono immediatamente la cosa con grande acume e, mentre prima scrivevano solo su pelli, su corteccia o papiro, immediatamente cercarono di far la carta e stampare e, se sul principio non an­ davano molto avanti, poi, a via di provare e ripro­ vare, riuscirono in poco tempo a tutto, col risultato che, se vi erano manoscritti di scrittori greci, non sarebbero mancati libri a stampa. Ora, non hanno nulla più di quel che ho ricordato, ma ciò che ave­ vano ormai è a stampa e diffuso in migliaia di copie. In Utopia viene accolto a braccia aperte chiun­ que vi arrivi per osservare il paese, se lo raccoman­ dano attitudini speciali d’intelligenza per cui vada famoso, ovvero esperienza di molti paesi in seguito a lunghi viaggi, sotto il qual titolo fu gradito il no­ stro arrivo, ché volentieri stanno a sentire ciò che succede pel vasto mondo. Ma per ragion di commer­ cio non sono molto frequenti gli approdi. Che cosa infatti vi importerebbero se non ferro, ovvero ciò che ognuno preferirebbe portarsi indietro, oro e argento? Anche le cose che si potrebbero esportare dal loro paese, credono più saggio trasportarle fuori essi stessi, piuttosto che vengano a prenderle gli altri, allo scopo di conoscere meglio popoli stranieri d’ogni parte e di non abbandonar nell’obblio la pratica e la cono­ scenza delle cose di mare.

Come schiavi in Utopia non si hanno né i pri­ gionieri di guerra, a meno che non l’abbiano mossa essi, né i figli di schiavi, né infine quanti si possono acquistare fra gli schiavi di altri popoli, ma o quelli la cui scelleraggine finisce in schiavitù o la cui colpa, il caso è molto più frequente, commessa in città stra­ niere destina all’estremo supplizio. Di questi molti se ne chiedono e menano via, a volta per poco prezzo, più spesso anche gratis. Queste varie specie di schiavi sono addetti ai lavori forzati e a vita, ma quelli pae­ sani li trattano più duramente, come gente perduta più degli altri e meritevole di più gravi punizioni perché, pur essendo egregiamente avviati a virtù da una splendida educazione, non poterono tuttavia fre­ narsi dalla colpa. Un’altra categoria di schiavi si ha quando i giornalieri di un altro popolo, laboriosi ma poveri, se ne vengono da loro a servire di propria iniziativa. Li trattano umanamente e quasi con la stessa dolcezza dei cittadini, salvo che s’impone loro un pochino più di lavoro, visto che vi sono avvezzi; se uno poi vuole andarsene via, cosa che non accade spesso, non lo trattengono a forza e non lo riman­ dano a mani vuote. I malati, come dicemmo, li curano con grande affetto e non lasciano proprio nulla che li renda alla buona salute, regolando le medicine e il vitto; anzi alleviano gl’incurabili con l’assisterli, con la conver­ sazione e porgendo loro infine ogni sollievo possibile. Se poi il male non solo è inguaribile, ma dà al pazien­ te di continuo sofferenze atroci, allora sacerdoti e magistrati, visto che è inetto a qualsiasi compito, mo­ lesto agli altri e gravoso a se stesso, sopravvive in­ somma alla propria morte, lo esortano a non porsi in capo di prolungare ancora quella peste funesta, e giac­ ché la sua vita non è che tormento, a non esitare a morire; anzi fiduciosamente si liberi lui stesso da quella vita amara come da prigione o supplizio, ov­

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vero consenta di sua volontà a farsene strappare da­ gli altri: sarebbe questo un atto di saggezza, se con la morte troncherà non gli agi ma un martirio, sa­ rebbe un atto religioso e santo, poiché in tal fac­ cenda si piegherà ai consigli dei sacerdoti, cioè degli interpreti della volontà di Dio. Chi si lascia convin­ cere, mette fine alla vita da sé col digiuno, ovvero si fa addormentare e se ne libera senza accorgersi; ma nessuno vien levato di mezzo contro sua voglia, né allentano l’affetto nel curarlo. Morire a questo modo, quando lo hanno convinto della cosa, è ono­ revole; altrimenti chi si dà morte per motivi non giusti agli occhi dei sacerdoti e del senato, non lo ritengono degno di esser seppellito o cremato, ma viene ignominiosamente gettato senza tomba in qual­ che pantano. La donna non va a nozze prima dei diciott’anni, l’uomo se non ne sono passati più di altri quattro ancora. Se l’uno o l’altra, prima del matrimonio, ven­ gono convinti di segreta lussuria, sono gravemente puniti e si vieta loro il matrimonio per sempre, a meno che la grazia del principe non perdoni loro il fallo; ma il padre di famiglia e la madre, nella cui casa è stato commesso lo sconcio, sono esposti a gran disonore, come per aver poco diligentemente badato al proprio compito. Questa mala azione è punita con tanta severità in previsione che, se non sono di­ ligentemente allontanati dalla Venere vaga, ben po­ chi si unirebbero in matrimonio, nel quale bisogna pur passare tutta la vita, lo veggono, con una sola persona e sopportare in più le molestie che la cosa porta seco. Ma d’altra parte nella scelta delle mogli seguono con rigida severità un’usanza che è, a parer mio, la cosa più sciocca, e ridicola quanto mai. La donna in­ fatti, vergine o vedova che sia, vien mostrata nuda al pretendente da parte di una grave e onesta ma­ trona, e a sua volta un uomo dabbene alla fanciulla presenta nudo il pretendente. Ora, rinfacciando noi

loro un tal costume e deridendolo come una scioc­ chezza, quelli invece facevano le maraviglie della stol­ tezza straordinaria degli altri popoli tutti, i quali, mentre per l’acquisto di un cavalluccio, dove si tratta di pochi soldi, sono così guardinghi da rifiutarsi di comprarlo, anche se generalmente nudo, a meno che non gli si tolga la sella e se ne strappi ogni gual­ drappa, per tema che sotto quelle coperte non si na­ sconda qualche piaga, invece nella scelta della mo­ glie, dalla qual cosa ne seguirà o piacere o disgusto per tutta la vita, si comportino con tanta leggerezza che, stando il resto del corpo tutto avvolto da vesti, giudicano tutta quanta una donna a mala pena dallo spazio di una mano (nulla infatti si può osservare se non il volto), e la leghino a sé, non senza gran rischio di fondersi male, se qualcosa in seguito non piaccia. Non tutti gli uomini infatti sono così saggi da guar­ dare ai soli costumi e, anche nei matrimoni di quegli stessi che sono saggi, alle virtù dell’animo aggiun­ gono pur qualcosa anche le doti fisiche: certo, sotto l’involucro di quei vestiti può star nascosta una sì orribile bruttezza da alienare del tutto dalla moglie l’animo di uno, allorché ormai non può più separarsi corporalmente. Siffatta bruttezza se sopraggiunge per qualche accidente a nozze già fatte, ognuno si deve sopportare la propria sorte; ma prima, bisogna prov­ vedere per legge acciocché nessuno cada in inganno: cosa questa cui si dovè attendere con tanto maggior cura, in quanto i soli Utopiani, fra tutte quelle con­ trade della terra, son paghi di una sola moglie e spesso ivi nulla spezza il matrimonio fuor della morte, a meno che non sia in questione un adulterio o una penosa inadattabilità di temperamento. Naturalmente a chi è offeso, chiunque sia dei due, il senato con­ cede di cambiar coniuge, ma l’altro trascina la vita disonorata e insieme celibe per sempre. Altrimenti, ripudiare la consorte contro sua voglia, pur non avendo essa niuna colpa, pel fatto che le è capitata una disgrazia nel fisico, non è permesso in nessun

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modo: è una crudeltà infatti, a parer loro, abbando­ nare uno allorquando ha bisogno di conforto, e oltre a ciò la vecchiaia, che non solo apporta malattie, ma è una malattia di per se stessa, non starebbe più tranquilla e sicura della parola data. Accade del re­ sto talora che, non accordandosi i caratteri dei due coniugi, questi si trovano altri con cui sperano di vivere più dolcemente e, separatisi di buon accordo, contraggono nuovi matrimoni, non senza però il con­ sentimento del senato, il quale non permette il divor­ zio se non dopo diligente istruttoria, fatta sia dai propri membri, sia a mezzo delle loro mogli. Anzi nemmeno in tal modo lo permette facilmente, per la ragione che sanno che non è affatto utile, a rinsal­ dar l’amore coniugale, far sorgere facilmente spe­ ranze di nuove nozze. Chi profana il matrimonio è colpito dalla più dura schiavitù, ma gli offesi, se erano sposati, possono, volendo, ripudiare ambedue i due adulteri e, o unirsi fra loro in matrimonio, o altri­ menti con chi credono. Ma se l’uno o l’altro, che ha ricevuto il torto, persiste ad amare il proprio coniuge, pur così indegno, non gli vieta la legge di restar unito con lui, purché voglia seguirlo nella condanna all’ergastolo; e così avviene talora che il pentimento dell’uno e le sollecite premure dell’altro muovono a pietà il principe, ottenendo di nuovo la libertà. Ma a chi è recidivo per tale delitto è inflitta la morte. Per le altre colpe la legge non ha prestabilita nes­ suna pena determinata, ma, a seconda che par grave 0 meno, il senato fissa la pena. Le mogli le puniscono 1 mariti, i figli i padri, a meno che non abbiano com­ messo tale enormità che, nell’interesse della vita mo­ rale, debbano esser puniti dallo Stato. In genere i defitti più gravi vengono puniti con la disgrazia della schiavitù, visto che ciò vien considerato non meno penoso per chi delinque e di più vantaggio per lo Stato, anziché correre ad ammazzare i colpevoli e levarseli immediatamente dinanzi, e ciò perché col lavoro giovano più che con la morte, e poi col loro 100

esempio allontanano maggiormente gli altri da simile vergogna. Ché se si ribellano a tal trattamento o recalcitrano, allora alfine fi scannano come bestie sel­ vagge, cui non può frenare né carcere né catena. In­ vece a quelli che accettano la loro pena non vien tolta ogni speranza: domati infatti da lunghi mali, se fanno scorgere di essere pentiti, sì che la colpa di­ spiaccia loro più della punizione, a volte per inter­ vento del principe, a volte per deliberazione del po­ polo, viene mitigata o condonata la servitù. Spingere a fornicazione è motivo di accusa, non meno che fornicare, se è vero che in ogni azione disonorante la volontà precisa e decisa è per essi uguale all’azio­ ne: infatti ciò che all’azione è mancato non deve, a parer loro, tornar di vantaggio a quello, da cui non dipese affatto che mancasse qualcosa. Molto si compiacciono di buffoni e, come è gran disonore usar loro villania, così a nessuno si vieta di prender piacere delle loro scempiaggini: cosa, que­ sta, che si crede di gran vantaggio per i buffoni stessi. Non vanno certo affidati a uno così severo e scontroso, che non c’è atto o motto che lo faccia ridere, e ciò per paura che sian trattati con poca bontà da chi non sa ricavarne né vantaggio né svago; mentre poi l’unica capacità di costoro è questa di svagare gli altri. Beffare uno storpio o un mutilato è tenuta una vergogna, una sconvenienza, e non per chi è deriso, ma per chi beffa, il quale riprende da stolto come un difetto ciò che l’altro non poteva evitare. E come non conservar la bellezza nativa è ritenuto pigrizia e indolenza, così chiedere aiuto al belletto è per essi un’affettatezza disonorante: per pratica infatti sanno quanto raccomandi le mogli ai mariti non tanto la grazia della bellezza quanto la bontà dei costumi e il rispetto. C’è infatti chi si la­ scia adescare dalla sola bellezza, ma nessun uomo resta legato alla donna se non per le virtù e l’obbe­ dienza di questa. Non soltanto allontanano dalle scelleraggini con le punizioni, ma invitano a virtù propo101

nendo anche onoranze. È per questo che in piazza mettono statue a uomini famosi e straordinariamente benemeriti dello Stato, a ricordo di grandi imprese e insieme perché per i posteri la gloria dei propri antenati sia di sprone e incentivo a virtù. Chi si mo­ stra ambizioso di cariche perde ogni speranza di ot­ tenerle. La vita sociale si svolge alla buona, che nes­ sun magistrato è borioso e terribile: padri son chia­ mati e tali si dimostrano, ed è reso loro il dovuto onore solo da chi vuole, non già che lo si imponga anche a chi non vuole. Nemmeno il principe in per­ sona si distingue per veste o diadema, ma da un mazzo di spighe in mano, allo stesso modo come in­ segna del pontefice è un cero, che gli viene portato innanzi. Hanno ben poche leggi, che pochissime sono bastevoli a uomini così organizzati; anzi è questo che rimproverano prima di tutto agli altri popoli, che cioè infiniti volumi di leggi e di esposizioni non ba­ stano. Invece il loro pensiero è che somma ingiu­ stizia è legare uomini con leggi o troppo numerose per esser lette, o troppo oscure per potersi da chiun­ que capire. Oltre a ciò non ammettono assolutamente avvocati, che trattino cause con astuzia, o discutano caviliosamente di legge: pensano infatti che sia utile che ognuno tratti la sua causa da sé e dica al giudice le stesse cose che voleva dire al suo difensore. In tal modo ci saranno meno giri e rigiri e più facil­ mente si caverà di bocca la verità, ché, parlando uno da difensore non ammaestrato a imbellettamenti, il giudice pondera accortamente ogni cosa e, contro i raggiri dei furbi, viene in soccorso delle nature più ingenue: ciò che è difficile eseguire per gli altri po­ poli, in mezzo a sì gran cumulo di leggi intricatis­ sime. Del resto in Utopia ognuno è esperto di legge: sono infatti ben poche, come ho detto, e poi le in­ terpretazioni, quanto più sono semplici, più vi sono ritenute giuste. È chiaro che, essendo tutte le leggi, essi dicono, promulgate solo allo scopo di ricordare

a ognuno il proprio dovere, un’interpretazione troppo sottile serve di avviso a ben pochi, ché pochi sono quelli che la capiscono laddove il senso più sem­ plice e più ovvio è a portata di tutti. Altrimenti, per quel che riguarda la folla, che poi costitui­ sce il maggior numero e più ha bisogno di cor­ rezione, nulla può importare che non si facciano as­ solutamente leggi o che, fattele, si interpretino in senso da non potersi squarciare da alcuno, se non con grande ingegno e attraverso lunghe dispute, da non poter giungere a investigarlo il senno grossolano della folla e non vi possa bastare la sua vita, occu­ pata a procurarsi da mangiare. Indotti da queste virtù, i popoli vicini, quelli al­ meno che sono liberi e dispongono di sé (ché molti già da tempo ne liberarono gli Utopiani dalla tiran­ nia), chiedono loro dei magistrati, alcuni ogni anno, altri per un lustro, e quando lasciano il governo, li riaccompagnano a casa con lodi e onori, e di nuovo ne riportano seco dei nuovi. Tali popoli certo prov­ vedono nel miglior modo alla salvezza dello Stato. Se la salvezza o la rovina di esso dipende dai co­ stumi dei magistrati, chi avrebbero con maggior ac­ corgimento potuto scegliere, se non uomini cui nes­ sun prezzo potrebbe allontanare dal retto (giacché, ritornandosene tra breve, non servirebbe a nulla) e che, per essere sconosciuti ai cittadini, nessuna col­ pevole partigianeria per alcuno, nessuna rivalità può far deviare? Quando questi due mali, i favoritismi e la cupidigia decidono dei giudizi, immediatamente ne è spezzata la giustizia, il nerbo più saldo dello Stato. I popoli che chiedono agli Utopiani chi li go­ verni li chiamano alleati, gli altri, da essi beneficati, amici. Con nessun popolo però stringono trattati, quali gli altri popoli fanno, disfanno e rifanno. A che prò infatti i trattati, dicono essi, come se la natura non unisca abbastanza gli uomini gli uni con gli altri? Se c’è chi non fa nessun conto della natura, si può

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credere che si curerà di parole? A tal modo di ve­ dere sono indotti assaissimo dal fatto che in quelle zone trattati e patti tra prìncipi sono con poco buona fede osservati. In Europa infatti, specialmente nelle regioni dove regnano la fede e la religione di Cristo, è dovunque santa e inviolabile la maestà dei trattati, parte per la stessa giustizia e bontà dei prìncipi, parte per riverenza e timore dei sommi pontefici, i quali, come non c’è cosa cui s’impegnano che non manten­ gano religiosissimamente, così impongono a tutti gli altri prìncipi di immolarsi in ogni modo alle loro pro­ messe, e quelli che tergiversano ve li sospingono con la censura e la severità pastorale. A ragione pensano che parrebbe una grande sconcezza, se mancasse la fede ai trattati di quelli che hanno il nome peculiare di fedeli18. Invece in quel nuovo mondo, che non al­ lontana dal nostro mondo l’equatore, quanto il con­ trasto della vita e dei costumi, non si nutre alcuna fiducia pei trattati: quanto più numerosi, quanto più solenni sono i riti con cui un trattato è avviluppato, tanto più presto è sciolto, col trovarsi un raggiro fra quelle parole che pure stendono con tanta abi­ lità; talché mai essi possono venir obbligati con vin­ coli sì saldi che non vi sfuggano per qualche verso ed eludano insieme il trattato e la fede data. Ora, se una tale scaltrezza, anzi frode e inganno, si veri­ ficasse in contrattazioni private: ‘ è un sacrilegio, una cosa degna della forca ’, griderebbero con severo cipiglio, a tale scoperta, quei medesimi, si sa, che si vantano seco stessi di aver dato quel suggerimento ai prìncipi. Da ciò nasce che tutta quanta la giustizia sembri solo una virtù per plebi, ignobile, accocco­ lata sotto la maestà dei re, a gran distanza; o che 19 Dicono i commentatori che è questa la satira del machia­ vellismo del tempo e soprattutto della politica di papa Giulio II. Il Moro sembra aver dimenticato che nel primo libro ha discorso, senza veli di ironia, della politica del tempo, con appassionato sdegno ben altrimenti efficace; ma, quando scriveva questo secondo libro, non aveva ancora pensato il primo. 104

almeno ve ne siano due, di giustizie, una a piedi, carponi, che conviene al volgo e in nessun luogo può saltar le sbarre e da ogni parte è legata da molte ca­ tene; l’altra, la virtù dei prìncipi, la quale, com’è più augusta di quella del popolo, così è di gran lunga più libera, talché a lei è lecito tutto ciò che le piace. Tali costumi, dicevo, dei prìncipi, che ivi osservano così male i trattati, son forse il motivo per cui gli Utopiani non ne stringono affatto. Cangerebbero pa­ rere, forse, se vivessero qui. Senonché a loro pare che, anche se fossero bene osservati, brutta usanza è stata quella venuta su di consacrare a ogni costo trattati, come se popoli, cui separa per breve spazio una collina soltanto o un ruscello, non fossero l’uno all’altro legati da nessuna alleanza di natura! Da ciò avviene che si reputano tra loro nemici e avversari per nascita e, se non ci sono dei trattati a vietarlo, muovono a ragione gli uni a danno degli altri; anzi, anche quando i trattati son bell’e fatti, non se ne rinsalda l’amicizia, ma resta la libertà di far preda, in quanto inavvertitamente, nella stesura dei testi, nulla è stato incluso, fra le clausole contrattuali, che prudentemente proibisca di predare. Il loro pensiero invece è che non bisogna ritenere avversario nessuno, da cui non sia partita qualche offesa, che la parentela della natura tiene le veci di alleanza, e che meglio e più saldamente si legano fra loro gli uomini con sentimenti amichevoli anziché con trattati, con lo spi­ rito anziché con parole. L a guerra

Il b e llu m , la guerra, come cosa veramente bel­ luina 1920 — sebbene nessuna specie di belve la prati­ chi così di frequente come l’uomo — è profonda­ mente detestata in Utopia, dove, contro l’uso di tutti 20 È l ’etimologia delle

C o rn u c o p ia e

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del Perotti (1513).

i popoli, nulla si reputa così inglorioso quanto la gloria acquistata con le guerre. Perciò, per quanto si addestrino di continuo in esercizi militari, e non gli uomini solo, ma anche, in giorni stabiliti, le donne, per non trovarsi, al bisogno, disadatti alla guerra, non intraprendono questa da sconsiderati, ma o per difendere il proprio territorio, o per ricacciare ne­ mici che abbiano invaso le terre di amici, o per pietà di un popolo oppresso da tirannide, allo scopo di li­ berarlo con le proprie forze (e lo fanno per filantro­ pia) dall’oppressione e dalla schiavitù. Vero è che donano il loro aiuto ad amici, non sempre acciocché questi si possano difendere, ma talora anche per ren­ dere le offese patite e vendicarle. Ciò poi fanno so­ lamente nel caso che siano stati consultati essi, allor­ ché la cosa è impregiudicata e, trovandosi giusto il motivo, chiesto e non ottenuto risarcimento, biso­ gna punire invadendoli i responsabili della violenza. E non si decidono a ciò solo ogni volta che i nemici fan preda a mezzo di scorrerie, ma molto più ostil­ mente quando i loro commercianti, dove che sia, o per colpa di leggi ingiuste o per cavillosa distorsione di leggi buone, son vittima, sotto color di giustizia, di ingiusti raggiri. Né fu altra la causa della guerra che, poco prima del nostro tempo, combatterono gli Utopiani a favore dei Nefelogeti contro gli Alaopoliti21, se non l’offesa arrecata, pretestando un loro diritto (come a loro pareva), presso gli Alaopoliti a mercanti dei Nefelogeti. Certo, o diritto o violazione di diritto, fu punita con una, guerra sì terribile che, aggiungendosi alle fòrze e agli odii particolari di ognuna delle parti anche l’adesione e i mezzi delle nazioni circonvicine, ne rimasero indeboliti popoli fiorentissimi, o fortemente prostrati, sinché al pullu­ lare di sempre nuovi mali pose alfine termine l’as­ 21 Cioè gli « abitatori di nuvole » contro i « cittadini ciechi » o, secondo altri, « senza popolo » ovvero « erranti »: interpreta­ zioni che danno tutte un’arguta antifrasi.

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servimento degli Alaopoliti e la loro resa ai Nefe­ logeti (ché non per sé lottavano gli Utopiani), po­ polo che, quando gli Alaopoliti fiorivano, non era certo da paragonarsi con loro. Gli Utopiani puniscono i torti, anche finanziari, fatti ai loro amici, più aspra­ mente che non i propri; così, se per inganno per­ dono dei beni, sempre che non abbiano subito vio­ lenza né offese nei corpi, spingon gli sdegni solo fino a rompere i rapporti con quel popolo, finché non dia soddisfazione. Non già che curino i cittadini meno degli alleati, ma sopportano più facilmente di per­ dere il danaro proprio che quello di costoro, per la buona ragione che i commercianti loro amici, rimet­ tendoci del proprio, sentono grave la ferita del danno, i propri concittadini invece non perdono se non del tesoro dello Stato e di quanto inoltre era in abbon­ danza e di soverchio in patria, se no, non sarebbero stati costretti a esportarlo. Da ciò avviene che la perdita passa inosservata dai singoli e sarebbe perciò troppa crudeltà, a parer loro, vendicare tal danno con la morte di molti, mentre nessuno da esso ha da temere disturbo nella vita o nel tenor di vita. Del resto se uno di essi, dove che sia, vien reso ina­ bile o ucciso per offesa altrui, sia che ciò avvenga per opera di privati o di uno Stato, assodata la cosa per mezzo di ambasciatori, non accettano altra sod­ disfazione che la consegna dei colpevoli, se non, in­ timano guerra immediatamente. Se son loro conse­ gnati, li puniscono di morte o di schiavitù. Una vittoria sanguinosa suscita tra gli Utopiani rincrescimento non solo, ma anche vergogna: a loro sembra ignoranza pagar troppo caro una merce, per quanto di pregio. Vincendo con arte o inganno i ne­ mici e schiacciandoli, se ne gloriano largamente e ne menano trionfo per ordine dello Stato e rizzano il trofeo, come per una splendida azione: si vantano infatti di aver agito virilmente e valorosamente solo allorquando vincono nella maniera con cui nessun ani­ male potrebbe, eccetto l’uomo, vale a dire con le forze 107

dell’ingegno. Ché con quelle del corpo, essi dicono, lottano gli orsi, i leoni, i cinghiali, i lupi, i cani e le altre bestie, la maggior parte delle quali, se ci vincono in forza e accanimento, son tutte a noi inferiori per l’ingegno e la ragione. In guerra la mira degli Utopiani è di ottenere ciò per cui, se l’avessero ricevuto prima, non avrebbero mosso guerra; ovvero, se la cosa non è possibile, menano sì aspra vendetta dei colpevoli, che la paura li distolga in avvenire dal ri­ tentare. Tali sono gli scopi che si propongono e cer­ cano di raggiungere rapidamente, in modo però da preoccuparsi di evitare i pericoli più che di conse­ guir fama o gloria. Perciò, subito dopo la dichiara­ zione di guerra, fanno appendere segretamente e contemporaneamente nel paese nemico, sui punti più visibili, dei foglietti, cui dà autorità il bollo dello Stato, promettendo grandi premi a chi toglie di mez­ zo il principe avversario, poi fissano premi minori, ma pur rilevanti, per ogni testa di coloro i cui nomi proscrivono in questi stessi affissi, e son di quelli che, dopo il principe stesso, giudicano promotori dei piani coltro di loro. Qualsiasi somma prestabiliscano per l’uccisore, la raddoppiano per chi avrà ricondotto loro vivo qualcuno di quelli che han proscritto, anzi allettano finanche costoro con le stesse ricompense, e l’impunità per giunta, contro i loro compagni. Da ciò avviene in un momento che i nemici prendono in sospetto tutti gli altri uomini e che anche fra loro stessi né si fidano bene né son fedeli e vivono sem­ pre in grandissima paura e fra pericoli non minori, ché ripetutamente è avvenuto, come tutti sanno, che buon numero, e il principe tra i primi, è stato tra­ dito proprio da coloro in cui più avevano riposto speranza. Tanto è facile spingere a qualsivoglia de­ litto con regali! A tali regali gli Utopiani non met­ tono limite: sanno bene a qual rischio spingono gli altri e s’adoprano acciocché alla gravità del pericolo corrisponda la grandezza dei favori; perciò non solo

promettono un’immensa quantità di oro, ma anche assegnano in perpetuo poderi con grandi rendite in località ben sicure, presso amici, e con la fede mag­ giore mantengono le promesse. Di questa maniera di mettere all’incanto i propri nemici e di comprarli, che gli altri condannano come crudeltà di animo igno­ bile, essi se ne fanno gran merito, come saggi che giungono al termine delle più grandi guerre senza alcuna battaglia affatto, o come umani e pietosi che, con la morte di pochi colpevoli, riscattano numerose vite di innocenti, che sarebbero morti in battaglia, parte di tra i loro, parte di tra i nemici. La loro pietà si volge alle folle immense che si assumono le guerre, non però di loro iniziativa, ma vi sono spinte dalle furie dei prìncipi. Qualora la cosa in tal modo non andasse avanti, disseminano e alimentano germi di discordie, col trar­ re il fratello del principe o qualche altro nobile a sperare d’impadronirsi del regno. Nel caso che le fa­ zioni interne siano fiacche, sollevano i popoli che con­ finano coi loro nemici e li aizzano, scavando qualche antico pretesto, quali non ne mancano mai ai re. Quando han promesso aiuti per la guerra, mandano danaro con profusione, ma dei concittadini sono ava­ rissimi, ché li hanno tanto cari e tanto fra di loro si apprezzano, che non darebbero volentieri uno solo dei loro per il principe nemico. Invece l’oro e l’ar­ gento, riposto proprio a tale uso solamente, non di­ spiace loro di cacciarlo: anche a dispensarlo tutto, non vivrebbero meno comodamente 22. Anzi, oltre alle ricchezze di casa, ne posseggono anche fuori un in­ finito tesoro di cui, come ho detto, sono loro debi-

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22 II Moro attinge alla realtà europea del suo tempo (pra­ tica degassassimo e della corruttela), nonché a certe tradizioni inglesi (orgoglio eccessivo, spirito anticaporalesco e commerciale): è la stessa realtà che guarda ed esamina Machiavelli nel P r in c ip e , ma con interessi molto diversi.

23 Che vuol dire « che facilmente .vendono se stessi » o « fa­ cilmente comprati »: è una vivace pittura degli Svizzeri, dopo la battaglia di Marignano (1515).

va in guerra, a favor degli abitanti di Utopia, contro chiunque, ricevendone un soldo quale in nessun altro luogo: giacché quivi si va in cerca sia di gente dab­ bene con cui aver rapporti, come di questi depravati, da portare alla loro rovina. Quando c’è bisogno, li spingono con grandi promesse ad affrontare i mag­ giori pericoli, ma ben pochi di essi per lo più ritor­ nano a chieder che le mantengano; ai superstiti vien pagato lealmente ciò che si è promesso, per accen­ derli a simili prove di ardimento. Non importa niente agli Utopiani di perderne molti; pensano anzi di ren­ dersi sommamente benemeriti del genere umano, se purgano il mondo di tutta quella orribile feccia di scellerati. Dopo costoro, si servono delle milizie di quei popoli pei quali impugnano le armi, e poi di truppe ausiliarie degli altri amici, a cui da ultimo aggiun­ gono i propri concittadini, mettendo uno di questi, di riconosciuto valore, a capo di tutto l’esercito. Sotto costui ne mettono due altri, che però devono restare cittadini privati finché il capo è sano e salvo; se è preso o ucciso, uno dei due gli succede come per ere­ dità, e a costui, secondo il caso, anche il terzo, ac­ ciocché (tanto sono mutevoli le sorti della guerra!) per la mancanza di un capo non si trovi tutto l’eser­ cito a mal partito. Da ogni città si fa leva di quelli che danno liberamente loro nome, ché nessuno è co­ stretto contro voglia al servizio militare fuori del suo paese: è loro convinzione che, se uno per na­ tura è troppo timido, non solo non farà nulla di ani­ moso lui, ma disseminerà anche la paura fra i suoi compagni. Del resto, se qualche guerra minaccia la patria, gl’imbelli di tal fatta, purché fisicamente vi­ gorosi, li imbarcano mescolandoli a quelli migliori, o li dispongono su per le mura qua e là, donde non ci sia luogo a fuggire: in tal modo la vergogna dei loro, la presenza del nemico, il togliersi ogni spe­ ranza di fuga vincono la paura e spesso l’estremo bisogno diventa valore.

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tori moltissimi popoli: così assoldano per la guerra soldati da ogni parte, specialmente dagli Zapoleti 2\ È questo un popolo che sta a 500 miglia da Utopia, verso est, di rozzi e selvaggi campagnoli, i quali pre­ feriscono i boschi e gli aspri monti tra cui sono stati allevati: razza dura, resistente al caldo, al freddo, alle fatiche, che non si occupa di agricoltura e poco pensa ad abitazioni e vestiti, ma solo all’allevamento del bestiame. Vivono in gran parte di cacce e di rapine, nati solamente alla guerra, e vanno in cerca di occa­ sioni per farne e, trovatala, la abbracciano con gran piacere: così, usciti di casa in gran numero, si of­ frono per poco a chiunque faccia incetta di soldati. Non conoscono altr’arte, se non questa con cui si cerca la morte, e sono di chi li assolda e per costui combattono con impegno e con fede incorrotta. Però non si legano per un tempo determinato, ma entrano in ballo a condizione di poter il giorno dopo passare al nemico con una paga più alta, salvo dopodomani per un lieve aumento a tornare un’altra volta indie­ tro. Di rado sorge guerra in cui buona parte di essi non si trovi in ambedue gli eserciti: accade pertanto ogni giorno che uomini legati da vincoli di sangue o che, assoldati dalla stessa parte, erano grandi amici, poco dopo, separati fra schiere avverse, si azzuffano da nemici e, dimentichi di parentela, incuranti di ami­ cizia, si trafiggono fra loro, da nient’altro spinti a mutua strage, se non che sono assoldati da prìncipi avversi, per una monetuzza. Vero è che di questa fanno sì gran conto che, per l’aggiunta di un soldarello alla paga giornaliera, s’inducono facilmente a mutar parte. Tanto rapidamente si sono imbevuti di avarizia! Ma a che cosa serve loro questo? Ciò che cercano col sangue, lo sciupano via via in dissolu­ tezze, che sono pur un’infamia! Or questo popolo

Ma come a una guerra di fuori nessuno di essi è trascinato contro voglia, così non vietano che le donne accompagnino di loro iniziativa i mariti a fare il soldato, anzi ve le esortano e spingono londandole; così, partendosi per la guerra, le schierano ognuna col marito nella stessa fila, poi intorno a ogni uomo si stringono i figli, i consanguinei, i parenti, perché più da vicino si sostengano fra di loro quelli che più la natura spinge a porgersi aiuto insieme. Gran di­ sonore è che il marito torni senza la moglie o che il figlio se ne venga dopo aver perduto il padre: da ciò nasce che, quando, resistendo i nemici, ven­ gono alle mani essi proprio, si battono in lunga e sanguinosa battaglia sino allo sterminio. È chiaro che, se in tutti i modi s’adoprano a non trovarsi nella necessità di combattere in persona, purché facciano la guerra, in loro vece, schiere di assoldati, nel caso che non possano evitare di entrare in battaglia, com­ battono con tanto ardimento quanto prima, potendo, prudentemente vi si rifiutavano. Non è al principio dell’attacco che si accendono, quanto pigliano a poco a poco vigore col tempo e resistendo, e l’animo è saldo a lasciarsi annientare prima di voltar le spalle. Ognuno infatti è senza timore sui mezzi di sussi­ stenza in patria, sparito ogni pensiero tormentoso per i propri di casa: preoccupazioni, queste, che do­ vunque spezzano gli animi più nobili; e ciò sublima il cambattente e lo rende sdegnoso di esser vinto. C’è poi la balda sicurezza che dà il conoscer l’arte della guerra e il valore accresciuto da una retta ma­ niera di pensare, a cui sin dalla fanciullezza sono in­ formati con la cultura e le buone istituzioni: per questo non ispregiano la vita fino a gettarla alla leg­ gera, né la curano all’eccesso, sì che, quando l’onore comandi di esporla, le si aggrappino avidamente e vilmente. Quando arde al massimo la battaglia, una schiera di giovani, accordatisi a morire, muovono in cerca del generale nemico e lo assaltano apertamente e lo

aggrediscono con insidie, a lui mirando sia da presso che da lungi: lo si attacca con una squadra a mo’ di cuneo, lunga e sempre nuova, ché giovani freschi succedono ininterrottamente al posto di quelli stan­ chi, talché è raro il caso che quegli non muoia, se non si salva fuggendo, o non venga vivo nelle mani dei nemici. Se la vittoria sta dalla loro parte, non c’è caso che si lancino a far strage: preferiscono catturare anziché uccidere chi fugge, né si danno mai all’inseguimento senza conservare una sola schiera in fila e ferma; talché se, vinti in ogni parte, han conseguita la vittoria soltanto con le ultime truppe, lasciano piuttosto sfuggire i nemici tutti, anziché in­ seguirli abitualmente mentre fuggono, scompigliando così le proprie file. Ricordano bene che non una sola volta è successo che, vinta e messa in fuga la massa di tutto il proprio esercito, allorquando esultanti per la vittoria i nemici li inseguivano nella loro ritirata qua è là, pochi di essi, che stavano di riserva a spiar l’occasione, aggredendoli all’improvviso, divisi e qua e là sparpagliati e senza pensieri, nella sicurezza d’aver vinto, mutarono le sorti dell’intera battaglia e, strap­ pando dalle loro mani una vittoria così sicura e in­ dubitata, i vinti vinsero alla loro volta i vincitori. Non è facile dire se siano più astuti a preparar insidie o più prudenti ad evitarle: crederesti che si preparino a fuggire; viceversa, quando prendono que­ sta decisione, ti pare che non ci pensino affatto. Se invero si sentono troppo serrati o dal numero o dalla posizione, allora rimuovono il campo di notte, mar­ ciando in silenzio, ovvero sfuggono al nemico con qualche stratagemma, o si ritirano in pieno giorno, ma così lentamente, così bene in fila, che riesce non meno pericoloso assalirli in ritirata che nell’avanzata. Fortificano il campo con la più estrema diligenza, con una trincea molto profonda e larga, rigettando indietro il terreno scavato, né a ciò si servono del­ l’opera di braccianti: sono i soldati stessi che la fanno con le loro mani, e tutto l’esercito sta al lavoro,

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tranne quelli che fan la guardia armati dinanzi alle trincee, per ogni caso improvviso. E così, con lo sforzo di tanti, grandi fortificazioni, che abbracciano un vasto spazio, si compiono più presto che non si creda. Per respingere i colpi, fanno uso di scudi molto saldi, che però non impacciano nei movimenti e nei gesti, tanto che nemmeno nuotando ne pro­ vano disturbo: fra gli altri esercizi militari infatti s’avvezzano a nuotare con tutte le armi. Da lontano usano giavellotti che lanciano gagliardamente e senza sbagliare; da vicino poi non spade, ma scuri morti­ fere pel filo e pel peso, sia che colpiscano di punta che di taglio. Inventano macchine con grande appli­ cazione, ma, una volta fatte, le tengono nascoste assai accuratamente, perché, messe fuori prima del biso­ gno, non siano piuttosto di scherno che di utile, e nel costruirle badano soprattutto che siano facili a trasportare e maneggevoli a volgere in giro. Una volta fatta tregua, la osservano con scru­ polo, sì da non violarla nemmeno assaliti. Le terre di nemici non le devastano, né bruciano le messi, anzi cercano quanto è possibile di non rovinar que­ ste calpestandole con uomini e cavalli, pensando che cresceranno per loro vantaggio. Non fanno male a nessuno che sia senz’armi, se non è una spia, e pro­ teggono le città arresesi, come nemmeno quelle espu­ gnate distruggono, ma fanno morire chi si opponeva alla resa, mettendo in schiavitù gli altri difensori, senza toccare tutta la folla di chi non combatte. Se trovano che qualcuno si è adoprato a persuadere la resa, gli assegnano parte dei beni dei condannati; il resto, venduto all’asta, vien dato agli ausiliari, ché per sé nessuno prende nulla dalla preda. E del resto, al termine della guerra, accollano le spese non agli amici per cui le han fatte, ma ai vinti, e sotto que­ sto titolo si fanno avere in parte danaro, che met­ tono in serbo per tali bisogni di guerra, in parte po­ deri, da tenersi per sempre in quel paese, di non piccola rendita. Entrate di tal fatta posseggono ora

Varie sono le religioni non soltanto attraverso l’isola, ma anche per le singole città, ché alcuni ve­ nerano come dio il sole, altri la luna, altri un’altra delle stelle erranti. C’è chi riverisce non come dio soltanto, ma anche come sommo dio, qualche uomo, la cui virtù o gloria risplendette una volta. Ma una parte, che è la maggiore di gran lunga e insieme molto più saggia, nulla di questo ammette, ma che vi sia una divinità non conoscibile, eterna, immensa, in­ spiegabile, che supera la capacità dell’intelligenza umana, diffusa in tutto questo universo pel suo in­ flusso, non già corporalmente: è questa che chia­ mano padre. A lui attribuiscono l’origine, la crescita, i progressi, le vicende, come le vediamo, e la fine di tutte le cose, e non pongono ad altri onori divini. Anzi, tutti gli altri, sebbene abbiano credenze diverse, pure son d’accordo con costoro a credere nell’esi­ stenza di un unico essere supremo, cui siam debitori

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presso molti popoli, le quali, sorte a poco a poco, per vari motivi, ammontano a più che 700 000 du­ cati, e vi mandano col nome di questori alcuni cit­ tadini a viverci splendidamente, facendovi la parte di magnati: molto però ne resta da metter nell’erario, a meno che non preferiscano prestarlo a quello stesso popolo, e spesso glielo lasciano finché è necessario; è raro il caso che richiedano tutto il danaro. Di tali poderi assegnano parte a quelli che, per loro esor­ tazione, affrontano imprese rischiose, quali son quel­ le che ho mostrato sopra. Se qualche principe prende le armi contro di loro, preparandosi ad invadere la loro giurisdizione, immediatamente gli si fanno in­ contro con grandi forze fuori del paese: non fanno infatti la guerra nelle proprie terre senza buon mo­ tivo, né si danno necessità sì gravi da costringerli a far entrare nella loro isola milizie altrui in aiuto. R e lig io n i d e g li O to p ia n i

della creazione dell’universo e della provvidenza, e tutti nella loro lingua patria lo chiamano in comune Mitra. Il disaccordo sta in ciò, che chi lo dice una cosa e chi un’altra; ognuno però ammette, checché sia per lui l’essere supremo, che è la stessa natura senz’altro, al cui solo potere e alla cui maestà viene attribuito, per consenso universale dei popoli tutti, l’insieme di tutte le cose. Del resto, a poco a poco, tutti si staccano da quella varietà di superstizioni, per fondersi in quell’unica religione che pare superi le altre in ragione, e non c’è dubbio che già da tempo le altre sarebbero sparite se, ad ogni disgrazia toccata per caso a uno allorché si propone di cambiar fede, il timore religioso non l’avesse spiegata come un in­ tervento del cielo, non un avvenimento casuale, come se cioè la divinità, il cui culto si voleva abbandonare, punisse quella decisione come un’empietà contro di essa. Ma quando appresero da noi il nome di Cristo, la sua dottrina, i costumi, i miracoli e la costanza non meno mirabile di tanti martiri, il cui sangue, sparso spontaneamente, attrasse alla propria fede popoli così numerosi per lungo e per largo, non si può credere con quanta inclinazione, con quanta affezione anch’essi vi aderirono, sia che a ciò li ispirasse più in­ timamente Dio, sia che che paresse il Cristianesimo molto vicino alle dottrine prevalenti presso di loro; per quanto io direi che a ciò fu di non lieve spinta l’aver appreso che Cristo approvò la vita in comune dei suoi e che questa ancor si pratica presso associa­ zioni schiettissime di c r i s t i a n i È certo, qual che si sia stato il movente, che non pochi entrarono nella nostra religione e furono purificati dalle sacre acque.21*

q u o d C h r is to c o m m u n e m s u o r u m v ic tu m a u d ie r a n t p ra cu isse, e t a p u d g e r m a n is s im o s c h r is tia n o r u m c o n v e n tu s a d h u c i n u s u e sse ».

Ma poiché fra noi quattro (ché tanti solamente era­ vamo rimasti, essendo due usciti di vita) nessuno, per disgrazia, era sacerdote, gli Utopiani, pur iniziati al resto, non hanno ancora ricevuti i sacramenti, che presso di noi i sacerdoti soltanto amministrano. Si rendono ben conto della cosa e nulla vorrebbero più vivamente; anzi anche di questo discutono a tutta possa tra di loro, se cioè senza licenza del ponte­ fice dei cristiani possa ottenere carattere sacerdotale chi da essi fosse scelto fra i loro. E stavano per de­ legare uno a questo ufficio, ma, allorquando io me ne partii, non l’avevano ancora scelto. Perfino co­ loro che non accettano il cristianesimo, non ne di­ stolgono alcuno, non combattono chi vi si inizia; senonché uno solo tra i nostri seguaci fu in mia pre­ senza punito. Costui, da poco ricevuto il battesimo, malgrado che cercassimo di dissuaderlo, parlava in pubblico sull’adorazione di Cristo con più zelo che prudenza, e così prese a scaldarsi sino a vantare il nostro culto su tutti gli altri non solo, ma a con­ dannarli tutti uno dopo l’altro, schiamazzando che non sono che empietà e chi li pratica è uno scellerato e un sacrilego, da dannare al fuoco eterno. Dunque, mentre da un pezzo si dava a tali manifestazioni, lo arrestano e menano via, accusandolo non già di di­ sprezzo per la loro religione, ma di eccitamento a sedizione, e per condanna lo mandano in esilio, vi­ sto che fra le più antiche disposizioni di Utopia si trova che a nessuno sia di pregiudizio la propria re­ ligione. Utopo infatti, sin dal bel principio, avendo sen­ tito dire che, prima della sua venuta, continuamente gli abitanti erano stati in lotta per motivi religiosi, e compreso che un tal fatto, che cioè ogni partito combatteva per la patria, ma tutti in generale erano in disaccordo, gli aveva fornito l’occasione di vin­ cerli tutti, una volta conseguita la vittoria, sancì an­ zitutto che ognuno potesse seguire la religione che più gli piacesse: chi poi vuol trarre gli altri dalla

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21 Si tratta qui del comuniSmo degli Apostoli e dei veri ordini religiosi; e l ’eco delle dispute dei due secoli precedenti, fra l’altro di Wiclefi e dei Lollardi, non era del tutto spenta. Dice il testo: « q u a n q u a m h o c q u o q u e fu is s e n o n p a u lu m m o m e n t i c r e d id e r im ,

sua, può adoprarsi solo a rinsaldar la propria senza passione, con serene dimostrazioni, non già a distrug­ gere crudelmente le altre, qualora non convinca con la persuasione, e non può adoprar la violenza e deve guardarsi dagl’insulti; chi suscita controversie reli­ giose, senza tolleranze è punito di esilio o di schiavitù. Queste istituzioni fondò Utopo, non mirando solo alla pace, che viene, com’egli vide, profondamente sconvolta dalle continue contese e dagli odii insana­ bili, ma perché pensò che tali princìpi servono gl’in­ teressi della religione stessa, sulla quale egli non osò fissar nulla sconsideratamente, non sapendo se, per ottenere una gran varietà e molteplicità di culti, non sia Dio stesso a ispirare a chi una cosa, a chi l’altra. Certo, pretendere con la violenza e con le minacce che ciò che tu credi vero sembri tale a tutti ugual­ mente, è un eccesso e una sciocchezza. Ché se poi una sola religione è vera più che tutte le altre, e que­ ste sono tutte quante senza fondamento, pur pre­ vide agevolmente che, a condurre la cosa con ragione e moderazione, alfine la forza della verità sarebbe una buona volta venuta fuori da se stessa per domi­ nare 2526; se invece si lottava con armi e sollevazioni, poiché i più tristi sono sempre i più ostinati, la re­ ligione migliore e più santa sarebbe stata schiacciata dalle più vuote superstizioni, come mèssi tra spine e sterpi2δ. Perciò mise da parte tutta questa faccenda, e lasciò libero ognuno di ciò che volesse credere, salvo 25 Dice la D elcourt , o p . c i t . , p. 187, n. 2: «Cela est exactement la position de More lui-mème, qui, en 1515, accordait à chacun une complète liberté de conscience, tant il était convaincu du triomphe certain, automatique du Christianisme. La rupture luthérienne l’a obligé de changer ses méthodes, probablement sans ébranler son optimisme profond ». 26 II testo, « o h v a n iss im a s in te r se s u p e r s titio n e s , u t seg e te s in te r s p in a s e t fr u tic e s » (ediz. D elcourt , p. 188), pare corrotto; il primo in te r par nato da un parallelismo col secondo. Bisogna perciò tradurre come se non ci fosse in te r s e , come fanno il Ro­ binson (L upton , o p . c it . , p. 274), e il G runebaum -Ballin ( o p . c i t . , p. 218). 118

che religiosamente e severamente vietò che nessuno avvilisse la dignità della natura umana fino al punto da credere che l’anima perisca col corpo o che il mondo vada innanzi a caso, toltane di mezzo la prov­ videnza; e questa è la ragione per cui credono che, dopo la vita presente, per le colpe siano fissati dei tormenti e per la virtù stabiliti dei premi, e chi la pensa diversamente non va messo neppure nel numero degli uomini, come colui che abbassa la natura ele­ vatissima dell’anima sua alla viltà del corpiciattolo delle bestie. Tanto son lungi dal porre fra i propri concittadini chi, se la paura glielo consentisse, non farebbe nessun conto di tutte le loro disposizioni e costumanze! Si può infatti dubitare che non cerchi di eludere segretamente e con astuzia le leggi pub­ bliche della patria, o di abbatterle a viva forza, pur d’ubbidire in privato alla propria cupidigia, colui pel quale non c’è altro da temere al di là delle leggi, non c’è più da sperare al di là del corpo? Per tal motivo, se uno ha tale temperamento, non lo si mette a parte di alcun onore, non gli si affida alcuna ma­ gistratura, non vien preposto ad alcuna funzione pub­ blica. Così dunque è messo in non cale, come di na­ tura fiacca e vile. Del resto, non lo condannano ad alcuna pena capitale, ché è loro convinzione che non è in potere di nessuno credere a quello che gli piace; ma neppure lo costringono con minacce a nasconder il proprio animo, e nemmeno ammettono belletti e bugie, che, come vicinissime all’inganno, hanno in odio straordinario. Gli vietano però di sostenere le proprie opinioni, ma soltanto presso il volgo, ché, al­ trimenti, presso sacerdoti e uomini gravi, in disparte, non solo lo consentono, ma ve li spingono pure, fi­ dando che una buona volta quella pazzia ceda alla ragione27. Vi sono poi altri, che non son pochi, e 27 È questa la famosa tolleranza del Moro, affermata, come si vede, molto recisamente, tranne per quel che sono le sue preoc­ cupazioni trascendenti. Ma come si comportò il Moro come can­ celliere? Fu tollerante o intollerante? Il problema, che diventa 119

a cui nessuno mette ostacoli, come quelli che non son privi del tutto di ragione e non sono corrotti, i quali, per un difetto opposto, credono che anche le anime dei bruti sono immortali, sebbene non si pos­ sano paragonare alle nostre per dignità, né siano nate a pari felicità. Insomma tutti in generale gli Utopiani son persuasissimi e sicurissimi che la felicità futura sarà così incommensurabile, che piangono per le ma­ lattie altrui, non già per la morte di alcuno, a meno che non lo vedano in affanno, perché strappato alla vita contro sua voglia. È chiaro che questo è per loro un pessimo augurio, come se l’anima, disperata pei rimorsi, tema, come per un segreto preavviso, il ri­ sultato di una punizione imminente. E inoltre non credono punto gradito al Signore l’arrivo di uno che, chiamato, non accorre volentieri, ma si lascia trasci­ nare contraggenio e contrastando. Quelli dunque che si trovano ad assistere ad un tal genere di morte, ne restano sgomenti e portano il morto a seppellire mesti e in silenzio; poi, dopo aver pregato Dio che, pro­ pizio a quell’anima, perdoni benignamente alla sua insufficienza, ne ricoprono il cadavere di terra. Chi invece si diparte da questa vita allegramente e pieno di buona speranza, nessuno lo piange, ma ne accompagnano cantando il funerale e, raccomandatane sentitamente l’anima al grande Dio, all’ultimo ne cremano la spoglia con più rispetto che dolore, e sul posto rizzano una colonna, incidendovi i meriti del defunto. Tornati poi a casa, ne passano in rassegna i costumi e le azioni, e non c’è parte della sua esi­ stenza che tornino a considerare con piacere e più spesso che la sua lieta fine. Serbar così memoria della probità stimano che formi pei vivi il più effiin tal modo politico, è un nuovo problema, e si sa che il Moro stette per la reazione cattolica con coscienza tranquilla, ma con animo violento contro Lutero e i suoi seguaci. I testi riguardanti tale azione sono molti e vari, e oscillano fra un’estrema indulgenza e u n ’estrema severità.

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cace incitamento a virtù, come credono pei morti il culto più gradito: a tali discorsi sul loro conto, assi­ stono i morti stessi, è questa la loro ferma opinione, sebbene non si possano vedere, per la debolezza della vista dei mortali. Non converrebbe infatti alla loro sorte di beati non godere della libertà di recarsi dove vogliano, e sarebbe da ingrati non serbar desidero di rivedere i loro amici, cui li aveva legati, finché vissero, mutuo amore ed affetto; sentimenti, que­ sti, che, al pari di tutti gli altri beni, s’accrescono anziché diminuire dopo la morte, suppongono essi. Credono dunque che i morti s’aggirano fra i viventi, a osservar le loro parole e le loro azioni, ed è per questo che metton mano a quel che han da fare con più ardire e sicurezza, come sorretti da tali protet­ tori, e la credenza che i loro antenati son lì presenti li distoglie da azioni disonoranti, anche se nascoste. Non si occupano affatto, anzi li canzonano, di au­ guri e divinazioni vane e superstiziose, che sono in gran considerazione presso altri popoli. Ma s’inchi­ nano adorando dinanzi ai miracoli, che si producono senza che la natura ci metta mano, come dinanzi a opere e prove dell’intervento della divinità; e dicono che di tal sorta ivi se ne verificano spesso, e talora, in mezzo alle grandi crisi, per mezzo di suppliche pubbliche, li implorano da Dio con fede sicura e li ottengono. Forma di culto a Dio accetta stimano la contemplazione della natura e la gloria che ne pro­ viene. Vi son però di quelli, e non son pochi certo, che, a ciò indotti dalla religione, trascurano gli studi letterari, non si occupano affatto di cognizioni scien­ tifiche, senza per questo darsi per nulla all’ozio; è loro convinzione che con la sola vita attiva e col prestar cortesemente servigio agli altri si assicurano la futura felicità dopo morte. Alcuni pertanto ser­ vono a malati, altri riparano strade, nettano fossati, rifanno ponti, scavano zolle, sabbia, pietre, abbat­ tono e tagliano alberi, carreggiano legna, mèssi o al­ 121

tro in città, e non soltanto per lo Stato, ma anche pei privati la fanno meno da domestici che da schiavi Qualsiasi lavoro infatti si presenti aspro, difficile, sporco, da cui i più si allontanano per fatica, per uggia, per nausea, se l’assumono essi interamente con piacere e allegrezza; così, mentre procacciano riposo agli altri, essi stanno continuamente in fac­ cenda e travaglio, senza per questo farsene merito, senza schernire la vita altrui, senza esaltar la propria. E quanto più si rendono schiavi degli altri, tanto più son tenuti in onore presso tutti. Tuttavia di costoro vi sono due categorie. L’una è fatta di celibi, che non solo si astengono del tutto dai piaceri dell’amore, ma anche dal mangiar carne, alcuni anche da ogni sorta di animali e, respinti del tutto come nocivi i diletti della vita presente, aspirano solo alla futura, con veglie e sudori, e pur sempre ardenti, sempre vigorosi, per la speranza di ottenerla tra breve. Ma ce n’è un’altra, di uomini che non desiderano meno lavorare, ma preferiscono il matrimonio, i cui con­ forti non disprezzano, e si credono in debito di tale opera alla natura e di figli alla patria. Non hanno ripugnanza per nessun piacere, purché non li allon­ tani dal lavoro, ed amano le carni dei quadrupedi, anche pel motivo che con tale cibo si credono più robusti per qualsiasi fatica. Questi gli Utopiani giu­ dicano più sensati, quelli più santi e, pel fatto che preferiscono il celibato al matrimonio e una vita di travagli a quella tranquilla, fi canzonerebbero se vo­ lessero cercar giustificazioni, ma, ora che confessano di esser guidati da motivi religiosi, li pregiano e ve­ nerano: a nulla infatti badano più attentamente, quanto a non esprimere niente di azzardato su qual­ siasi religione. Tali son dunque coloro che, con nome2 22 Un tal ordine di frati s’era diffuso allora anche in Inghil­ terra: i Fratelli della vita comune, che non mendicavano, ma la­ voravano per vivere. Alla loro scuola passò i primi anni Erasmo, a Deventer. 122

speciale, chiamano butreschi ” nella loro lingua, che si potrebbe tradurre « religiosi ». Ci sono in Utopia sacerdoti di eccezionale san­ tità e perciò proprio pochi; e infatti in ogni città non ne hanno più di tredici, quanto è il numero delle chiese, a meno che non si vada in guerra. In tal caso infatti, partiti sette di essi con l’esercito, altrettanti si sostituiscono per un momento; ma quando ritor­ nano, riottiene ognuno il posto di prima: quelli in soprannumero, sino a che, morti i primi, succedano loro in ordine, restano frattanto al seguito del pon­ tefice, giacché uno è a capo di tutti gli altri. E il popolo che li elegge e, come per gli altri magistrati, con voto segreto, per evitar passioni di parte: una volta scelti, vengono consacrati dai colleghi. Presie­ dono ai riti sacri, si occupano delle credenze e son come censori di costumi, e gran vergogna è ritenuto che uno, come se la sua vita fosse poco lodevole, venga da essi chiamato e rampognato. Del resto il loro compito è proprio di consigliare e ammonire (quello invece del principe e degli altri magistrati è di arrestare e mandare in giudizio gli autori di delitti), salvo che allontanano dalle sacre funzioni coloro che scoprono ostinati nel male, e non c’è pena che su­ sciti più terrore. Infatti non solo vengono colpiti da somma infamia, ma son anche tormentati da segreti terrori religiosi, senza che alla lunga sian sicuri nep­ pure nei loro corpi, giacché, se non fanno vedere ai sacerdoti di esser prontamente pentiti, arrestati, pagano dinanzi al senato la pena della loro empietà. Oltre a ciò i sacerdoti educano i ragazzi e i giovani, e non si può dire che si diano maggior cura delle lettere che dei costumi e delle virtù: s’adoprano in­ fatti, con ogni solerzia, a istillar nell’animo dei pic­ coli, ancor teneri e cedevoli, idee senz’altro giuste e utili per conservar la loro repubblica. E quando 22 Che può dire in greco « molto devoti », da aumentativo, e θ ρ ή σ κ ε νω, « osservo il culto ».

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βον

prefisso

tali idee sian penetrate addentro nei fanciulli, non li abbandonano una volta fatti uomini, per tutta la vita, ed è pur questo un grande aiuto da essi arre­ cato per difendere la stabilità dello Stato! Questo non va in ruina se non con la corruttela, e questa ha origine dalle idee sbagliate! I sacerdoti (a meno che non siano femmine, che nemmeno quel sesso viene escluso, ma più di rado, e non viene scelta se non chi è vedova e avanzata negli anni) prendon moglie tra le più elette del paese. Non c’è infatti magistrato cui si porti maggior ri­ spetto in Utopia, sino al punto che, se anche si mac­ chiano di qualche azione disonorevole, non sono sot­ toposti a giudizio pubblico: solo a Dio vengono ab­ bandonati e alla loro coscienza, non credendosi le­ cito toccar con mano d’uomo colui che, per quanto colpevole, è stato in maniera così singolare consa­ crato a Dio, come un’offerta. Questo costume è più facile per essi seguire, in quanto che i sacerdoti son così pochi e scelti con tanta cura: non avviene fa­ cilmente che chi, per essere ottimo tra i buoni, è stato elevato a sì alta dignità, avuto riguardo soltanto alla sua virtù, precipiti nella corruzione e nel vizio. Ché se anche accadesse senz’altro molto di più, data la instabilità della natura umana, tuttavia, pel loro esi­ guo numero, e non essendo forniti di nessun potere, oltre all’onore, non ci sarebbe da temer da parte loro nulla, certo, che spinga alla rovina lo Stato. Il mo­ tivo perché ne hanno sì scarsi e pochi di numero, si è che, mettendono molti a parte, non ne abbia a scadere la dignità di tutto l’ordine, che ora trattano con tanta reverenza; soprattutto che non è facile, a parer loro, trovar in gran numero preti così buoni da esser degni dell’alto seggio, pel quale non baste­ rebbero virtù mediocri. La considerazione di cui godono in patria non è maggiore di quella di cui godono presso i popoli stra­ nieri, e si vedé agevolmente donde, anche a parer mio, ciò è nàto. Allorquando gli eserciti lottano in

battaglia, essi, in disparte, ma non proprio lontano, stanno in ginocchio vestiti dei sacri arredi e, ten­ dendo le mani al cielo, implorano anzitutto la pace, poi che i loro vincano, ma senza troppo sangue per gli uni e per gli altri; e quando i loro vincono, si lanciano in mezzo all’esercito, impedendo che s’in­ crudelisca contro chi fuggc, c basta vederli e invo­ carne la presenza per aver salva la vita: il solo con­ tatto con le loro vesti svolazzanti difende anche le rimanenti fortune da ogni offesa di guerra30. Per la qual cosa presso tutti i popoli di ogni parte si ha per essi tanta venerazione e di tanto ne è cresciuta la loro verace grandezza che spesso hanno ottenuto pei concittadini da parte dei nemici non minor sal­ vezza che pei nemici da parte dei concittadini: a volte, la cosa è ben nota, piegando l’esercito dei loro, quando più non c’era da sperare e si volgeva in fuga e i nemici si precipitavano a far strage e preda, l’in­ tervento di questi sacerdoti interruppe il massacro e, separati i due eserciti, fu composta la pace, fis­ sando eque condizioni. Infatti non c’è stato mai un popolo sì selvaggio, crudele e barbaro, presso cui il corpo di quelli sia stato tenuto sacrosanto e invio­ labile. Celebrano come giorno di festa il primo e l’ul­ timo del mese e dell’anno allo stesso modo, dividen­ do in mesi, delimitati dal giro della luna, in modo tale che il giro del sole regoli l’anno. I primi del mese chiamano nella loro lingua cinemerni, gli ul­ timi trapemerni31, parole che suonerebbero « primi-

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30 Si cita a questo proposito l 'E s o d o , XVII, I, dove Mosè prega per la vittoria sugli Amaleciti e si tende anche a vedere qui una satira di papa Giulio II, il nuovo Giulio Cesare. 31 È verisimile che la parola richiami volutamente κ ν ν η μ € ρ ιν ό ς , « il giorno mensile del cane », a rigore, la notte fra il vecchio mese e il nuovo, nella quale si metteva del cibo ai crocicchi, e rabbaiare dei cani veniva inteso come segno delTapprossimarsi di Écate. Cfr. T eocr., I d y l l . , II, 35, 36. Del pari τ ρ α π η μ ε ρ ιν ό ς indicherebbe il giorno di passaggio, o l’ultimo giorno del mese. » L upton , o p . c it., p. 289, η. 1.

festi » e « finifesti » nella nostra lingua. Vi si osser­ vano santuari splendidi, come quelli che non solo costarono molta fatica, ma, ciò che era necessario per esser sì pochi, son capaci anche di una folla im­ mensa. Son però tutti un po’ oscuri, per consiglio dei sacerdoti, si dice, perché pensano che troppa luce disperda i pensieri, mentre a una luce più moderata e come incerta gli animi si raccolgono e il sentimento religioso s’intensifica. Ma poiché non tutti hanno la stessa fede e tuttavia le forme di essa, per quanto varie e molteplici, per diversa via s’incontrano tutte nello stesso ed unico fine, cioè nel culto dell’essere divino, per tal motivo nelle chiese nulla si vede o si ode che non combaci manifestamente con tutte quante le fedi in comune. Se vi son riti particolari ad ogni setta, ognuno li osserva nelle pareti dome­ stiche; quelli pubblici vengon fatti con tal disposi­ zione da non togliere assolutamente nulla ad alcuno dei privati. Pertanto nessuna immagine di dèi si vede in chiesa, acciocché ognuno abbia la libertà di con­ cepire come voglia Dio secondo il più alto sentimento religioso; però nessun nome particolare di Dio invo­ cano, ma quello di Mitra soltanto, con la qual parola tutti si accordano in un’unica essenza della maestà divina, qual che si sia. E non si formulano preghiere che non possa pronunziar chiunque senza offesa per la propria setta. S’adunano dunque in chiesa a sera nei giorni « fi­ nifesti », ancora a stomaco vuoto, per ringraziar Dio di aver passato felicemente l’anno o il mese di cui quella festa è l’ultimo giorno; e il giorno seguente, che è « primifesto », affluiscono di mattina in chiesa per invocar insieme fausto e felice successo all’anno o al mese che segue, e a cui danno inizio con quella festa. Ma prima di recarsi in chiesa, i giorni « finife­ sti », in casa, le mogli gettandosi ai piedi dei loro mariti, i figli a quelli dei genitori, si confessano in peccato o di qualche colpa o di aver fatto con poca diligenza il dover loro, e chiedono perdono del mal

fatto: in tal modo, se qualche piccola ombra di av­ versione aveva offuscata la casa, ne vien rimossa con tal riparazione, che tutti intervengono al sacrificio con animo puro e sereno. Poiché di parteciparvi con animo in disordine si fanno scrupolo, e perciò, quando han coscienza di provar odio o ira contro qualcuno, non si presentano al sacrificio se non dopo essersi riconciliati e con sentimenti purificati, per tema di una rapida e terribile vendetta da parte di Dio. Ivi giunti, gli uomini s’adunano dalla destra del­ l’altare, le donne in disparte dalla sinistra; e poi si dispongono in modo che di ogni famiglia i maschi si fermano dinanzi al padre di famiglia e il gruppo delle femmine resta chiuso dalla madre di famiglia. Si mira con ciò a che il portamento di ognuno sia, fuor di casa, sorvegliato da chi li regge ed educa in casa con la sua autorità; ché anzi si bada anche at­ tentamente che ivi i giovani stian frammischiati ai più grandi, acciocché i piccoli, affidati ai piccoli, non passino a distrarsi fanciullescamente quel tempo, in cui più dovrebbero impregnarsi di timor religioso verso i celesti, timore che costituisce il maggiore e quasi unico sprone a virtù. Nessun animale viene sgozzato nel sacrificio, né s’illudono che si rallegri di sangue e di stragi quella divina bontà, che ha lar­ gito la vita agli animali, appunto perché vivano. Bruciano incenso e altri profumi egualmente e por­ tano inoltre ceri in gran numero, non perché igno­ rino che ciò nulla conferisce all’essere divino, come del resto neppure le stesse preghiere degli uomini, ma piace loro questa forma di culto inoffensiva, e poi a questi profumi, a questi lumi ed anche alle altre funzioni gli uomini si sentono, non so come, sollevare e si innalzano con più ardore ad adorare Dio. Di bianchi camici sta velato il popolo in chiesa, i sacerdoti ne indossano di variopinti, splendidi per forma e lavoro, ma non di materia altrettanto pre­ ziosa: non sono infatti ricamati in oro, né smaltati

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di pietre rare, ma lavorati con pelli di uccello scre­ ziate, così abilmente e con tanta arte, che nessuna materia, per quanto preziosa, avrebbe uguagliato il valore del lavoro. Inoltre in quelle penne e piume di volatili, in quella disposizione prestabilita di esse, che si distingue su per le vesti sacerdotali, dicono esser contenuti dei simboli misteriosi, la cui spiega­ zione, tramandata con ogni diligenza per mezzo dei sacrificanti, conoscendosi, richiama alla mente i be­ nefizi di Dio all’uomo, la divozione che in cambio si deve a Dio e i doveri anche fra uomini e uomini. Appena il sacerdote così adorno si presenta fuor del sacro recesso, tutti immediatamente s’inginocchia­ no in segno di reverenza, fra un silenzio così generale e profondo, che questo stesso spettacolo suscita un terrore, come se lì presente ci fosse la divinità; poi, dopo esser rimasti un po’ a terra, si alzano a un segno dato dal sacerdote. Cantano allora le lodi a Dio, cui si mescolano musici strumenti, di forma in gran parte diversa da quelli che si vedono nel no­ stro mondo: la maggior parte superano molto in dolcezza quelli da noi usati, talché alcuni non son nemmeno da paragonarsi ai nostri. Ma in una cosa gli Utopiani ci sono senza dubbio di gran lunga su­ periori, ed è che tutta la loro musica, sia che si suoni con strumenti, sia che la modulino con la voce umana, imita e rende con tanta perfezione le passioni natu­ rali, e il suono si adatta sì bene all’argomento, o che l’orazione sia di uno che supplica, o sia pur lieta, ad­ dolcita, sconvolta, lagrimosa, irosa, e la forma della melodia riproduce sì bene il sentimento di ogni si­ tuazione, che gli animi degli uditori ne restano mi­ rabilmente tocchi, compenetrati ed infiammati. Da ultimo sacerdote e popolo parimenti recitano, con formule fisse, preghiere composte in modo che ognu­ no possa in privato riferire a se stesso le espressioni pronunziate da tutti insieme. Fra l’altro, ognuno ri­ conosce Dio come autore sia della creazione che del governo del mondo e inoltre di tutti gli altri beni;

perciò gli rende grazie di tanti benefizi ricevuti e in particolare di esser capitato in tale repubblica, che è la più felice, e di aver avuto in sorte tal religione, che spera sia di tutte la più vera. Che se in ciò si sbagliasse e se ce n’è un’altra che sia superiore in parte e a Dio più gradita, prega la sua bontà che faccia in modo che lo riconosca anch’egli,