Luciano di Samosata, La nave o Le preghiere: Introduzione, Traduzione E Commento [Annotated] 3110653141, 9783110653144

The volume provides readers with an extensive introduction, a new translation, and a full literary and philological upda

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Luciano di Samosata, La nave o Le preghiere: Introduzione, Traduzione E Commento [Annotated]
 3110653141, 9783110653144

Table of contents :
Premessa
Indice
I. Introduzione
II. Testo e traduzione
III. Commento
IV. Illustrazioni
V. Bibliografia
VI. Indici

Citation preview

Gianluigi Tomassi Luciano di Samosata, La nave o Le preghiere

TEXTE UND KOMMENTARE Eine altertumswissenschaftliche Reihe

Herausgegeben von

Michael Dewar, Karla Pollmann, Ruth Scodel, Alexander Sens Band 61

De Gruyter

Luciano di Samosata, La nave o Le preghiere Introduzione, traduzione e commento

di

Gianluigi Tomassi

De Gruyter

ISBN 978-3-11-065314-4 e-ISBN (PDF) 978-3-11-065969-6 e-ISBN (EPUB) 978-3-11-065870-5 ISSN 0563-3087 Library of Congress Control Number: 2019946159 Bibliografische Information der Deutschen Nationalbibliothek Die Deutsche Nationalbibliothek verzeichnet diese Publikation in der Deutschen Nationalbibliografie; detaillierte bibliografische Daten sind im Internet über http://dnb.dnb.de abrufbar.

© 2020 Walter de Gruyter GmbH, Berlin/Boston Satz: Michael Peschke, Berlin Druck und Bindung: CPI books GmbH, Leck www.degruyter.com

A mia moglie Stefania e a mio figlio Davide

“Dobbiamo procurare di far sì – dice Seneca – che le follie e i vizi della massa degli uomini non ci appaiano odiosi, bensì risibili; e in ciò faremo bene a prendere a modello Democrito piuttosto che Eraclito. Questi, quando praticava gli uomini era uso piangere, quello soleva ridere: questo vedeva in tutte le nostre azioni nient’altro che affanno e miseria, quello vi trovava soltanto futilità e fanciullaggine. Ma è certo più generoso ridere della vita umana piuttosto che considerarla con spregio; e si può dire che colui il quale deride la specie umana le giova di più di colui che la deplora. Ché infatti quello ci lascia ancor sempre un poco di speranza”. Ch.M. Wieland, La storia degli Abderiti, Torino 1982, p. 88 (tit. orig. Geschichte der Abderiten, Leipzig 1781)

“L’uomo moderno, universale, è l’uomo indaffarato, che non ha tempo, che è prigioniero delle necessità, che non comprende come una cosa possa non essere utile; che non comprende neppure come, in realtà, proprio l’utile possa essere un peso inutile, opprimente. Se non si comprende l’utilità dell’inutile, l’inutilità dell’utile, non si comprende l’arte; e un paese dove non si comprende l’arte è un paese di schiavi o di robots, un paese di persone infelici, di persone che non ridono né sorridono, un paese senza spirito; dove non c’è umorismo, non c’è il riso, c’è la collera e l’odio”. E. Ionesco, Note e contronote. Scritti sul teatro, Torino 1965, p. 143 (tit. orig. Notes et contre-notes, Paris 1962)

Premessa Questo lavoro ha avuto una gestazione faticosa. Una prima versione, più ridotta, era stata approntata diversi anni fa dietro suggerimento dell’amico Paolo Giacomo Scaglietti, che ringrazio vivamente per avermi incoraggiato a intraprendere tale piacevole fatica. Svariati motivi mi hanno poi distolto dal portare a compimento il volume, che solo adesso riesco a dare alle stampe. Nel presentarlo, mi fa piacere ricordare quanti hanno avuto cura di seguirne la preparazione mettendomi a disposizione le loro competenze e il loro tempo. La mia riconoscenza più sincera va ad Antonio Stramaglia e a Giuseppe Russo, che hanno vagliato il mio lavoro con fine acribia, permettendomi di sciogliere numerosi nodi esegetici, e, soprattutto, non mi hanno mai fatto mancare il loro appoggio e la loro amicizia. Ringrazio Francesco De Martino e Stefano Medas, per la pazienza e la disponibilità con cui hanno letto alcune parti del mio commento, fornendomi preziosi suggerimenti e permettendomi di apportare opportune correzioni, e Alessia Fassone, curatrice del Dipartimento Collezione e ricerca della Fondazione Museo delle Antichità Egizie di Torino, per le sue utili osservazioni su alcuni punti del mio commento relativi alla storia dell’Egitto greco-romano. Mi è gradito ricordare ancora Elisabetta Matelli, Alberto Camerotto e Filippo Maria Pontani per la loro discreta, ma affettuosa presenza nella mia vita e nei miei studi. Dedico il mio lavoro a mia moglie Stefania, la parte migliore di me, e a mio figlio Davide, nella cui dolce attesa ho dato alle stampe questo libro. G. T. Milano, giugno 2019

https://doi.org/10.1515/9783110659696-201

Indice I

Introduzione....................................................................................... 1 1.1 Contenuto e struttura del dialogo ............................................... 1 1.2 Datazione del dialogo ................................................................ 5 1.3 Il Bis accusatus e la poetica di Luciano ..................................... 8 1.4 La nave e la tradizione letteraria ................................................ 20 1.4.1 La commedia ................................................................... 20 1.4.2 La satira ........................................................................... 21 1.4.3 Platone ............................................................................. 24 1.4.4 La ‘Popularphilosophie’ e la diatriba .............................. 25 1.4.5 Teofrasto .......................................................................... 28 1.4.6 L’epos .............................................................................. 29 1.4.7 La tragedia ....................................................................... 30 1.4.8 La storia ........................................................................... 30 1.5 La nave e la realtà contemporanea ............................................. 31 1.5.1 Dal Pireo alle mura di Atene ........................................... 31 1.5.2 L’Iside e il suo viaggio .................................................... 33 1.5.3 Riferimenti diversi .......................................................... 39 1.6 I protagonisti del dialogo ........................................................... 40 1.6.1 Adimanto ......................................................................... 42 1.6.2 Licino .............................................................................. 45 1.6.3 Samippo ........................................................................... 48 1.6.4 Timolao ........................................................................... 54 1.7 Esecuzione, stile e lingua del dialogo ........................................ 58 1.7.1 La tecnica drammatica di Luciano .................................. 58 1.7.2 Stile del dialogo ............................................................... 61 1.7.3 Lingua del dialogo ........................................................... 66 1.8 Nota testuale ............................................................................... 67

II Testo e traduzione ............................................................................. 71 III Commento ....................................................................................... 103 IV Illustrazioni ....................................................................................... 299 V Bibliografia ....................................................................................... 319 VI Indici ................................................................................................ 349

I Introduzione 1.1  Contenuto e struttura del dialogo Nell’Atene di epoca romana quattro amici, Timolao, Samippo, Licino e Adimanto, si recano al Pireo per ammirare l’Iside, una mastodontica nave oneraria partita dall’Egitto alla volta dell’Italia e costretta, a causa di una tempesta, a compiere una sosta forzata presso il porto ateniese. Grande è il numero di curiosi accorsi a contemplarla, poiché l’arrivo di una simile imbarcazione ad Atene rappresenta un fatto eccezionale. I quattro protagonisti sono colpiti dalle dimensioni gigantesche del bastimento e si domandano quale vita potrebbero condurre se godessero dei guadagni derivanti dal commercio con un’imbarcazione simile. Così, pungolati dalle loro fantasie, sulla strada del ritorno decidono di innalzare, a turno, una preghiera agli dèi, nella speranza che esaudiscano i loro desideri: Adimanto brama il possesso di favolose ricchezze; Samippo desidera diventare un sovrano potentissimo; Timolao sogna una collezione di anelli magici che gli forniscano incredibili poteri. A ciascuno dei tre desideri fanno da contrappunto le critiche di Licino, che ha il compito di evidenziare e deridere la vacuità delle ambizioni dei suoi amici, facendosi forte della superiorità del saggio. E alla fine, pur pressato dai suoi compagni, Licino non solo li deluderà esimendosi dal formulare una sua preghiera, ma ne sancirà irrimediabilmente le futili aspirazioni con un’ultima, sonora risata ai loro danni. Questo è il contenuto della Nave di Luciano di Samosata, che possiamo suddividere in due macrosezioni (Nav. 1–17, 18–46), ciascuna delle quali è ulteriormente divisibile in tre e in quattro parti rispettivamente. §§ 1–17

§§ 18–46

§§ 1–4: presentazione dei personaggi e dell’ambientazione del dialogo. §§ 5–9: ekphrasis dell’Iside e descrizione del suo viaggio in mare. §§ 10–17: ricongiungimento dei quattro amici e inizio del gioco dei desideri. §§ 18–27: desiderio di Adimanto e critiche di Licino. §§ 28–40: desiderio di Samippo e critiche di Licino. §§ 41–45: desiderio di Timolao e critiche di Licino. § 46: critica finale ai sogni umani di Licino.

L’incipit dell’opera (§§ 1–9) sfrutta una struttura compositiva bipartita tipica dei Dialoghi, che prevede la presentazione dei caratteri dei protagonisti https://doi.org/10.1515/9783110659696-001

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I Introduzione

e dell’ambientazione (§§ 1–4) e, successivamente, una ekphrasis (§§ 5–9)1. Tutta la prima macrosezione (§§ 1–17) si basa, poi, su un altro schema bipartito, comune ai dialoghi lucianei di ispirazione platonica, che prevede una sezione introduttiva (§§ 1–9) e una seconda sezione esplicativa, atta a presentare il nucleo tematica dell’opera e a far entrare la narrazione nel vivo (§§ 10–17)2. Nella seconda macrosezione (§§ 18–46) le tre preghiere di Adimanto, Samippo e Timolao (§§ 18–27, 28–40, 41–45) si rifanno all’antichissimo e suggestivo motivo dei tre desideri, tipico dei racconti popolari e delle fiabe e, presumibilmente, al similare modello letterario elaborato dalle scuole di retorica, fondato sull’esposizione di una triplice – e irrealizzabile – fantasia da parte di un personaggio e sulla sua pronta demolizione per opera di un saggio antagonista3. Di tale modello possediamo due ottime attestazioni, la prima delle quali ricorre in Seneca Padre: “Cestio, pavoneggiandosi come al solito, diceva: «se fossi un trace, sarei Fusio; se fossi un pantomimo, sarei Batillo; se fossi un cavallo, Melissione». Non riuscii a trattenere la rabbia ed esclamai: «se fossi una cloaca, saresti la Massima!»”4.

La seconda testimonianza si ritrova in uno degli aneddoti contenuti nella Vita di Demonatte dello stesso Luciano. Il vanaglorioso Sidonio esprime un quadruplice desiderio, costituito da un triplice omaggio alla dialettica e da un ossequio finale all’iniziazione filosofica, e viene prontamente mortificato da una pungente risposta del filosofo Demonatte, abile a ritorcere contro il neosofista la quarta e ultima parte della sua dichiarazione: 1

Questo schema si ritrova anche in Tox., Fug., Icar., Nec., Bis acc., Symp., Cat., Pisc., Nigr. ed e contrario in Tim. e J.tr.: Anderson 1976, p. 163, n. 39. 2 Anderson 1976, p. 155 s.: oltre che nella Nave lo schema si ripete anche in Philops. (§§ 1–5/6–10), Symp. (§§ 1–4/5–10) e Anach. (§§ 1–16/17–19). 3 Anderson 1982, p. 90 s.; Id. 1994b, p. 16 s. Per Graham Anderson, la sequenza di desideri della Nave riprodurrebbbe la climax della Repubblica platonica (7–9) in cui le tre imperfette forme di governo si oppongono a quella perfetta dei filosofi, così che Adimanto rappresenterebbe un filantropo in una democrazia, Samippo un condottiero e un despota orientale, Timolao il fondatore di una teocrazia: Anderson 1977, p. 363 s. Tale con­gettura appare forzata, per la pretesa di cercare a ogni costo un ipotesto letterario sotteso all’intero dialogo. Si deve ritenere, più semplicemente, che Luciano nel dialogo si di­verta a ma­­­ni­polare, come d’abitudine, materiali pertinenti a mondi letterari eterogenei e a criticare, con la creatività che gli è propria, i tre peggiori vizi umani, su cui la filosofia morale e la satira appuntavano le loro critiche: basti considerare la satira in cui Orazio si rivolge a quanti smaniano per ambitio, luxuria o superstitio (Sat. 2, 3 17–20: audire atque togam iubeo componere, quisquis / ambitione mala aut argenti pallet amore, / quisquis luxuria tristive superstitione / aut alio mentis morbo calet), o il passo in cui Persio ritiene elementi importanti del recte vivere il rifiuto dell’avaritia e della luxuria, dell’ambitio e della superstitio (Sat. 5, 132–188). 4 Sen. Contr. 3 praef. 16: Cestius ex consuetudine sua miratus dicebat: “si Thraex essem, Fusius essem; si pantomimus essem, Bathyllus essem; si equus, Melissio”. Non continui bilem et exclamavi: “si cloaca esses, Maxima esses!”.



1.1  Contenuto e struttura del dialogo

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“una volta stava godendo in Atene della sua buona fama il sofista Sidonio, che si arrogava il vanto di aver fatto esperienza di ogni filosofia – ma sarà meglio riferire letteralmente ciò che disse: «Poniamo che mi chiami Aristotele al Liceo, io lo seguo; che mi chiami Platone all’Accademia, ci arrivo; o mi chiami Zenone, mi intrattengo nel Portico Dipinto; o Pitagora, taccio». Alzatosi tra la folla degli ascoltatori, Demonatte interloquì: «Ehi, tu – e lo apostrofò per nome –, ti chiama Pitagora»”5.

Come sottolinea Graham Anderson, La nave rappresenta «a delightful and characteristically sophistic fantasy», in grado di illustrare splendidamente la capacità di un sofista di rappresentare «the cultural thought-world of the Second Sophistic in fairly short compass»6. Il nucleo tematico del dialogo è rappresentato dal luogo comune della stoltezza delle preghiere umane, che presuppongono una concezione degradata e svilente della divinità e, di conseguenza, la oltraggiano. Si tratta di un motivo caro alla commedia, alla letteratura di ispirazione socratica e alla satira, che in antico dà origine a una sfilza di motivi proverbiali, fra cui “costruire in aria senza fondamenta” (equivalente all’italiano “fare castelli in aria”), “il tesoro si è rivelato carbone” (citato in Nav. 26) e “molte speranze e discorsi ingannano i mortali”7. È uno dei motivi favoriti da Luciano, che lo sfrutta elaborandolo sia sinteticamente (si vedano Sat. 1, J. conf. 1 e Nigr. 4) sia in maniera estesa, come nella Nave.

5 Luc. Demon. 14: τοῦ δὲ Σιδωνίου ποτὲ σοφιστοῦ Ἀθήνησιν εὐδοκιμοῦντος καὶ λέγοντος ὑπὲρ αὑτοῦ ἔπαινόν τινα τοιοῦτον, ὅτι πάσης φιλοσοφίας πεπείραται — οὐ χεῖρον δὲ αὐτὰ εἰπεῖν ἃ ἔλεγεν· Ἐὰν Ἀριστοτέλης με καλῇ ἐπὶ τὸ Λύκειον, ἕψομαι· ἂν Πλάτων ἐπὶ τὴν Ἀκαδημίαν, ἀφίξομαι· ἂν Ζήνων, ἐπὶ τῇ Ποικίλῃ διατρίψω· ἂν Πυθαγόρας καλῇ, σιωπήσομαι. Ἀναστὰς οὖν ἐκ μέσων τῶν ἀκροωμένων, Οὗτος, ἔφη προσειπὼν τὸ ὄνομα, καλεῖ σε Πυθαγόρας. Dove non diversamente specificato, le traduzioni di Luciano sono quelle di Vincenzo Longo (Longo 1976–1993). 6 Anderson 1993, p. 220; cfr. Macleod 1991, p. 10 s.; Halliwell 2008, p. 436. La nave mette in evidenza la padronanza lucianea della tecnica di esprimersi efficacemente sia con lunghi discorsi (macrologia) sia molto brevemente (brachilogia) su ogni argomento, tipica delle scuole di retorica e ancora oggi alla base delle pratiche comunicative, che può farsi risalire a Protagora: Plat. Prot. 329b = Protag. 80 A 7 D.-K. 7 Tosi 1991, pp. 409–413, nnº 870–878. Innumerevoli sarebbero le fonti da citare basate su tale motivo: basti ricordare Senofonte (Mem. 1, 3, 2 [Socrate]: ηὔχετο … πρὸς τοὺς θεοὺς ἁπλῶς τἀγαθὰ διδόναι, ὡς τοὺς θεοὺς κάλλιστα εἰδότας ὁποῖα ἀγαθά ἐστι; cfr. 4, 2, 34–35), Valerio Massimo (7, 2, ext. 1; cfr. Xen. Mem. 1, 3, 2), Persio (Sat. 2), Seneca (Epist. 4, 31, 2–3: si esse vis felix, deos ora ne quid tibi ex his quae optantur eveniat; 4, 32, 4–5), Marziale (1, 103), Orazio (Sat. 1, 1; 2, 3, 6–15), Massimo Tirio (Or. 5, 8 Trapp: Socrate pregava gli dèi, ma cercava in sé beni come la virtù), Diogene Laerzio (6, 42: ἐνεκάλει τοῖς ἀνθρώποις περὶ τῆς εὐχῆς, αἰτεῖσθαι λέγων αὐτοὺς ἀγαθὰ τὰ αὐτοῖς δοκοῦντα καὶ οὐ τὰ κατ᾽ ἀλήθειαν). Celebre è l’illustrazione del tema nella Satira decima di Giovenale, che demolisce cinque tipici desideri umani: successo politico (vv. 56–113), facoltà oratorie (vv. 114–132), carriera militare (vv. 133–187), lunga vita (vv. 188–288), bellezza (vv. 289–345).

4

I Introduzione

A questo topos se ne intreccia un secondo, l’equiparazione fra ciò che è impossibile a realizzarsi o a credersi e il sogno, che Luciano ugualmente ama riproporre, secondo i dettami della precettistica retorica, a volte en passant (come in Tim. 20, 41; Somn. 17; D. mort. 5 [15], 2; 25 [30], 2; Nec. 12; Harm. 4; Icar. 1, 2), a volte concedendogli maggior risalto (Herm. 71–76), fino a farlo diventare chiave di volta di interi dialoghi, come avviene nel Gallo e nella Nave8. La logica dei sogni sottesa all’intera composizione è esplicitamente dichiarata da Timolao prima che inizi il gioco dei desideri (§ 16: οὕτω γὰρ ἂν ἡμᾶς ὅ τε κάματος λάθοι καὶ ἅμα εὐφρανούμεθα ... εἰ καὶ τῇ φύσει ἀπίθανα ἔσται). A questa fa da contraltare la logica altra di Licino, a fondamento della sua natura di personaggio satirico, che per ben tre volte denuncia la stoltezza della prospettiva adottata dai suoi tre amici (§ 35: ἐγὼ δὲ νήφειν ᾤμην καὶ ὕπαρ ἀποφανεῖσθαι τὴν γνώμην; § 39: ἀπόλαυσις μέν γε οὐδὲ ὄναρ τῶν ἡδέων; § 46: ὥσπερ ἐξ ἡδίστου ὀνείρατος ἀνεγρόμενοι ἀνόμοια τὰ ἐπὶ τῆς οἰκίας εὑρίσκητε) frantumandone le illusioni9. All’interno della produzione lucianea, La nave rappresenta una delle opere in cui più compiutamente Luciano riflette sul complicato rapporto esistente fra realtà e apparenza: è una problematica su cui lo scrittore si interroga per tutto il corso della sua vita, cercando di spiegarsi perché agli uomini la menzogna piaccia così tanto10. Così, nell’incipit del Philopseudes (§§ 1–4), Luciano arriva a stilare una personale lista delle possibilità in cui è lecito mentire che rappresenta un eccellente manifesto del suo modo di interpretare l’intricato legame fra verità e bugia. Il primo caso riguarda quanti devono mentire “per necessità” (τῆς χρείας ἕνεκα) e sono costretti a farlo in vista di un’innegabile utilità, “come quelli che ingannarono i nemici o si valsero di tale rimedio per salvarsi nei momenti difficili” (Philops. 1: ὁπόσοι ἢ πολεμίους ἐξηπάτησαν ἢ ἐπὶ σωτηρίᾳ τῷ τοιούτῳ φαρμάκῳ ἐχρήσαντο ἐν τοῖς δεινοῖς). Il secondo, più difficile da giustificare, ma ugualmente lecito perché capace di affascinare “molte persone assennate e per il resto d’intelligenza ammirevole” (πολλούς … συνετοὺς τἄλλα καὶ τὴν γνώμην θαυμαστούς), interessa i grandi scrittori come “Erodoto, Ctesia di Cnido e, prima di loro, i poeti e lo stesso Omero, uomini celebrati che hanno messo per iscritto la menzogna, di maniera che non solo ingannarono quelli che li ascoltavano allora, ma tramandarono il falso sino a noi, custodito in versi e metri bellissimi” (Philops. 2)11. Il terzo e ultimo caso contempla un differen  8 Helm 1902, p. 363; Camerotto 2014, pp. 70–72 (logica del sogno in Gall.); vd. ancora infra comm. ad § 35: ἐγὼ δὲ νήφειν ᾤμην καὶ ὕπαρ ἀποφανεῖσθαι τὴν γνώμην.   9 Sulle visioni stranianti dell’eroe satirico lucianeo vd. da ultimo Camerotto 2014, pp. 218–223. 10 Brandão 1998. 11 Philops. 2: τὸν Ἡρόδοτον καὶ Κτησίαν τὸν Κνίδιον καὶ πρὸ τούτων τοὺς ποιητὰς καὶ τὸν Ὅμηρον αὐτόν, ἀοιδίμους ἄνδρας, ἐγγράφῳ τῷ ψεύσματι κεχρημένους, ὡς μὴ



1.2  Datazione del dialogo

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te tipo di menzogna, quello relativo alle storie inventate da città e nazioni intere, come la nascita di Erittonio dal suolo di Atene o dei Tebani dai denti di un serpente (Philops. 3): ma anche per questo, i poeti e le città possono mettere in campo una giustificazione, perché gli uni “infondono nei loro scritti, col suo grande potere di attrazione, quel diletto derivante dal mito, di cui hanno molto bisogno per i loro ascoltatori”, mentre le altre (come Atene e Tebe) “nobilitano la loro patria con tali mezzi” (Philops. 4)12. Per Luciano, dunque, all’infuori di queste tre categorie l’esistenza della menzogna non solo non è giustificabile, ma è riprovevole e deve essere contrastata con una critica lucida e inesorabile, capace di ammaestrare l’uomo col sorriso. Da tale convinzione nasce La nave, che rappresenta uno degli attacchi satirici più suggestivi dell’antichità contro le bugie, le falsità e le ipocrisie di cui si nutre l’uomo comune.

1.2  Datazione del dialogo I dati relativi alla vita di Luciano a nostra disposizione sono in massima parte autobiografici, ma sono comunque sufficienti a ricostruirne in modo soddisfacente gli eventi più importanti. Luciano nasce fra il 115 e il 125 d.C., fra la fine del regno di Traiano e l’inizio della luminosa età degli ‘imperatori filosofi’ Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio. Sua patria è Samosata sull’Eufrate, antica capitale del piccolo regno di Commagene, passata nel 72 d.C. sotto la dominazione romana, la cui popolazione è in massima parte semitica e parla un dialetto aramaico più tardi noto come siriaco. Dal Sogno ovvero La vita di Luciano, una sorta di autobiografia in cui realtà e letteratura sono strettamente connesse l’una con l’altra, sappiamo che inizialmente lo scrittore è destinato a una carriera di scultore, a cui rinuncia per intraprendere la più remunerativa e rinomata carriera di sofista13. μόνους ἐξαπατᾶν τοὺς τότε ἀκούοντας σφῶν, ἀλλὰ καί μέχρις ἡμῶν διικνεῖσθαι τὸ ψεῦδος ἐκ διαδοχῆς ἐν καλλίστοις ἔπεσι καὶ μέτροις φυλαττόμενον. 12 Philops. 4: [οἱ ποιηταί] καὶ αἱ πόλεις δὲ συγγνώμης εἰκότως τυγχάνοιεν ἄν, οἱ μὲν τὸ ἐκ τοῦ μύθου τερπνὸν ἐπαγωγότατον ὂν ἐγκαταμιγνύντες τῇ γραφῇ, οὗπερ μάλιστα δέονται πρὸς τοὺς ἀκροατάς, Ἀθηναῖοι δὲ καὶ Θηβαῖοι καὶ εἴ τινες ἄλλοι σεμνοτέρας ἀποφαίνοντες τὰς πατρίδας ἐκ τῶν τοιούτων. 13 L’unico riferimento a Samosata è in Hist. conscr. 24. L’autore si qualifica come Siro in Pisc. 19, Bis acc. 14 e 25 e Ind. 19; come Assiro in Bis acc. 27 e Syr. d. 1; come “barbaro nella lingua” (βάρβαρον … τὴν φωνήν) in Bis acc. 27, formula che per Jones 1986, p. 7 «denotes accent or vocabulary rather than language». Oltre che nel Sogno, Luciano concede veste letteraria alla propria esperienza di vita – quella di un barbaro che assimila il greco a fini pedagogico-letterari – in altri tre dialoghi, Lo scita, Tossari e Anacarsi, in cui il mondo greco è contrapposto a quello barbaro: Whitmarsh 2001, pp. 122–129; Visa-Ondarçuhu 2008. Sul nome proprio di Luciano

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I Introduzione

Fra i punti fermi della biografia lucianea ci sono: il soggiorno in Gallia (prima del 157 d.C.); la permanenza ad Atene, interrotta da brevi viaggi in Macedonia (fra il 157 e il 161); la partenza per Antiochia al seguito della corte di Lucio Vero impegnato nelle guerre partiche (nel 163); l’attraversamento della Cappadocia, il soggiorno ad Abonuteichos, in Paflagonia, e l’incontro con il falso profeta Alessandro; la quinta partecipazione ai giochi olimpici (nel 165); il lungo soggiorno finale ad Atene, intervallato da nuovi viaggi in Macedonia, a Olimpia, in Siria, e da un’esperienza in Egitto nell’amministrazione romana14. Incerta è la data della morte, che va collocata sicuramente dopo quella di Marco Aurelio (180 d.C.), perché nell’Alessandro l’imperatore è ricordato con l’appellativo di “divino” (θεός) spettante ai sovrani defunti divinizzati (Alex. 48)15. All’interno della ricca produzione lucianea, La nave o Le preghiere appartiene alla maturità dello scrittore e rappresenta una delle sue creazioni migliori e più famose, come dimostra la sua imitazione da parte di Alcifrone (3, 29), contemporaneo di poco più giovane di Luciano16. Rispetto ad alJones 1986, p. 8 annota: «his name is derived from the Latin “Lucius” and he usually hellenizes it to “Lycinos”. It may show the cultural influence of Romans implanted in Samosata, but his circumstances seem too modest for him to have been born a Roman citizen». 14 Nell’ultima fase della sua vita, quando ha già “quasi un piede nella navicella” di Caronte (Apol. 1: μονονουχὶ τὸν ἕτερον πόδα ἐν τῷ πορθμείῳ ἔχοντα) e ha raggiunto il successo grazie alla brillante carriera di oratore e scrittore (Alex. 55; Apol. 3; Bacch. 5–8; Herc. 7–8; Prom. es), Luciano in Egitto ricopre la causa di archistator praefecti, “assistente capo del prefetto”, o di eisagogeus, “introduttore di cause”: Pflaum 1959; Martin 2010, p. 194 s.; Fuentes González 2005, p. 143. 15 Sulla vita e le opere di Luciano vd. Croiset 1882, pp. 1–40; Helm 1927; Schwartz 1965; Baldwin 1973, pp. 7–20; Strohmaier 1976; Jones 1986, pp. 6–23; Bompaire 1993, pp. XII–XV (ottima sintesi); Fuentes González 2005 (con bibliografia per aree tematiche). Coi suoi alias (‘Luciano’, Tichiade, Parresiade, il Siro, Licino, Menippo) Luciano fa di tutto «um Referenzen auf seine Biographie kaleidoskopartig in viele Perspektiven zu brechen und als historische Person in einem bunten Maskenspiel aufzugehen» (p. 17), mescolando realtà e finzione anche negli scritti in cui parla in prima persona (Somn., Sol., Peregr., Nigr.) e recitando di volta in volta una parte diversa, a seconda dei momenti e del bisogno, senza mai lasciare totalmente spazio alla sua vera personalità: Baumbach - von Möllendorff 2017, praes. pp. 13–57. 16 Schwartz 1965, pp. 43 e 46, n. 2; Reardon 1971, p. 173; Jones 1986, pp. 167–169; Ureña Bracero 1995, p. 73. Per la tradizione manoscritta di Luciano vd. l’introduzione all’edizione dell’opera omnia lucianea curata da Jacques Bompaire per Les Belles Lettres: Bompaire 1993, pp. XLI–CLVI. Per La nave vd. Talbot 1857, pp. 336–354 (trad. in francese con note); Settembrini 1861–1862, III, pp. 154–170 (trad. in italiano); Dindorf 1884, pp. 651–665 (trad. in latino); Chambry 1934, pp. 210–234 (trad. in francese con note); Kilburn 1959, pp. 430–487 (trad. in inglese con note critiche); Husson 1970 (intr., testo, trad. in francese e comm.); Longo 1976–1993, III, pp. 436–473 (trad. in italiano con note); Macleod 1987, pp. 96–122 (edizione critica con trad.); Magueijo 2013, pp. 89–121 (trad. in portoghese con note).



1.2  Datazione del dialogo

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tre opere lucianee, la datazione del dialogo è abbastanza sicura ed è unanimemente fissata dalla critica intorno alla metà degli anni ’60 del II secolo (Bolderman, Jones) e, più in particolare, al 164 (Gallavotti), al 165 (Helm, Husson, Hall e Schwartz) o, al massimo, al 166 d.C. o poco dopo (Sinko), grazie a determinati indizi cronologici disseminati all’interno del tessuto narrativo, fra cui l’allusione ai giochi olimpici (Nav. 44), da intendersi come un riferimento al concorso del 165 d.C., a cui Luciano partecipa (Peregr. 2), e la menzione di Armeni e Parti (Nav. 33), di Ctesifonte e Seleucia (Nav. 34), con cui si allude alla seconda guerra partica combattuta da Lucio Vero e conclusasi vittoriosamente per i Romani nel 165 d.C. (cfr. infra ad § 1.5.3)17. Per Maurice Croiset, che inquadra la cronologia dei Dialoghi in una rigida ripartizione in blocchi (a cui corrisponderebbero altrettanti momenti di ispirazione di Luciano), La nave si inserirebbe in quel gruppo di opere (comprendente anche Viaggio agli inferi, Gallo, Caronte, Prometeo, Assemblea degli dèi, Zeus tragedo, Vendita di vite all’incanto, Pescatore, Bis accusatus, La morte di Peregrino, Gli schiavi fuggitivi e Timone) in cui Luciano padroneggia con maestria la propria arte letteraria e riesce a fondere perfettamente il dialogo platonico con l’imitazione della commedia attica18. Rudolf Helm e Jennifer Hall preferiscono accostare La nave, invece, ai dialoghi lucianei cosiddetti ‘menippei’, in cui più forte è l’influenza dell’opera di Menippo di Gadara (Viaggio agli inferi, Dialoghi dei morti, Caronte, Icaromenippo, Menippo, Zeus tragedo, Zeus confutato, Assemblea degli dèi, Simposio, Gallo, Vendita di vite all’incanto, Pescatore, Fuggitivi, Bis accusatus, Saturnali), pur non giudicando tale dialogo ‘menippeo’ in senso stretto19. A un’attenta analisi intertestuale notevoli somiglianze a livello sia linguistico sia tematico si possono rilevare, in particolare, fra La nave e Il gallo e Timone, ma vistosi sono anche i paralleli con Ermotimo, Philopseudes e Icaromenippo20.

17 Bolderman 1893, pp. 132–135; Helm 1906, pp. 337–340; Sinko 1908, p. 148; Gallavotti 1932, pp. 105–107; Schwartz 1965, pp. 16 s., 132–135 e 137–148; Husson 1970, I, p. 2 s.; Hall 1981, p. 44, n. 66; Jones 1986, p. 168 s. 18 Croiset 1882, pp. 41–86, praes. 64–75: «il y a dans les Souhaits une fantaisie tout aussi libre, tout aussi inventive que nulle part ailleurs; et […] une morale dont la sagesse semble avoir dépouillé presque entièrement ses tendances agressives. […] Il n’y a plus rien là de Ménippe, ni même d’Aristophane; Lucien apaisé nous fait songer à Horace au temps des Ëpitres». 19 Helm 1906, pp. 337–340; Hall 1981, p. 467. 20 Per tali paralleli si veda l’indice dei loci notevoli in fondo al volume.

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I Introduzione

1.3 Il Bis accusatus e la poetica di Luciano L’opera di Luciano si inserisce nella produzione della Seconda sofistica, felicemente definita da Luigi Enrico Rossi come «una letteratura di intellettuali che fanno spettacolo» e ancora prima da André Boulanger come «littérature d’auditeurs bien plus que de lecteurs, faite pour les succès éphémères et bruyants du théâtre et des salles de conférences, et condamnée à la recherche perpétuelle de l’effet»21. La Seconda sofistica è un fenomeno straordinario, che interessa tutta la parte orientale grecofona dell’Impero romano e, in minor misura, la parte occidentale di lingua latina nei primi tre secoli dell’era cristiana, nel periodo che va da Nerone (54–68 d.C.) ad Alessandro Severo (222–235 d.C.). In quest’epoca, la retorica pervade tutta la produzione letteraria greca e romana; le scuole di retorica iniziano a moltiplicarsi in tutte le regioni dell’Impero; nelle principali città dell’Occidente e dell’Oriente romano, a intervalli regolari, le folle si riuniscono per ammirare esibirsi nella recitazione di discorsi i sofisti, veri professionisti della parola, che radunano attorno a loro una massa adorante di allievi, ammiratori, eruditi o semplici curiosi nei luoghi tradizionalmente riservati alle rappresentazioni drammatiche. Punta di diamante della loro arte è la declamazione, discorso fittizio che non ha lo scopo di persuadere una giuria o un’assemblea reali, come accadeva nella Grecia classica, ma è realizzato per sollecitare il piacere, l’ammirazione e l’empatia del pubblico. L’abilità del sofista consiste nel calarsi in toto nei panni del personaggio evocato dalla performance declamatoria, in tutto e per tutto come un attore, e nel costruire su di lui un discorso plausibile, non di rado improvvisato22. L’esibizione sofistica, parte importante delle festività cittadine di numerose città del mondo greco, è un evento che coinvolge tanto le orecchie quanto gli occhi: come una vera e propria star moderna, il sofista cura fin nei dettagli la sua entrata in scena, la sua voce, i suoi gesti 21 Rossi 1995, p. 747; Boulanger 1923, p. 42; vd. da ultimo sulla Seconda sofistica almeno Sirago 1989; Whitmarsh 2005 e 2013; Schmidt - Fleury 2011. Grazie alle Vite dei sofisti di Filostrato abbiamo un’idea abbastanza precisa di chi fosse un sofista, di quale ruolo occupasse nella società e di come si sviluppasse la sua attività: Civiletti 2002. 22 Reardon 1971; Sirago 1989; Whitmarsh 2005; Schmidt - Fleury 2011. Se le declamazioni prevedono determinati elementi tipici del teatro e i loro stessi protagonisti sono tipi assai simili ai personaggi della tragedia e della commedia, i sofisti nelle loro performances sono chiamati a ‘prestare la voce’ ai loro personaggi assumendone il linguaggio, le idee, il tono, la postura persino, sino ad annullare se stessi: Lentano 2013–2014; Nocchi 2013; Ead. 2015. Il rischio di esagerare è sempre dietro l’angolo, così che i maestri mettono in guardia gli allievi dal trasformare un pezzo declamatorio in un’esibizione teatrale, pena il ridicolo, come esplicitamente sostiene Quintiliano (Inst. 2, 10, 7–8): Gastaldi 1995, p. 81 s.



1.3 Il Bis accusatus e la poetica di Luciano

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e le sue movenze per la massima spettacolarizzazione possibile della sua prestazione23. Fino all’età di quarant’anni, Luciano intraprende con un certo successo la carriera di sofista itinerante, ma poi decide di distaccarsi dal mondo delle declamazioni per dare vita a una forma letteraria nuova, il dialogo seriocomico, uno dei prodotti più eclettici della cultura greca24. Nella forma del dialogo trova la sua migliore espressione la maniera satirica lucianea, a cui si rivelano perfettamente congeniali il movimento continuo fornito all’azione dalla conversazione, le interruzioni brusche, l’attacco pungente o la risposta giocosa25. Vero e proprio ‘manifesto programmatico’ della svolta lucianea è il Bis accusatus (§§ 26–34), in cui lo scrittore, sotto le spoglie del retore Siro, spiega come ha deciso di scegliere una forma di comunicazione antica, il dialogo, e di rivestirla di un aspetto nuovo, per dar vita al dialogo seriocomico. Luciano immagina, dunque, che Siro debba difendersi dalla duplice accusa mossagli da Retorica e da Dialogo (Bis acc. 26–34)26. Attraverso il primo procedimento giudiziario Luciano ripercorre in maniera giocosa gli inizi della sua carriera e ci fornisce un esempio concreto della connessione fra cultura e possibilità di avanzamento sociale esistente ai suoi tempi. Retorica sostiene di aver educato il siro quando era ancora un ragazzo, parlava una lingua barbara e vestiva il kandys alla maniera orientale (βάρβαρον ἔτι τὴν φωνὴν καὶ μονονουχὶ κάνδυν ἐνδεδυκότα εἰς τὸν Ἀσσύριον τρόπον), di avergli concesso eleganza e notorietà (κλεινὸν αὐτὸν καὶ ἀοίδιμον ἐποίουν κατακοσμοῦσα καὶ περιστέλλουσα) e permesso di girare il mondo e, successivamente, di esser stata abbandonata da quell’ingrato, che una volta raggiunta la notorietà e una posizione stabile (ἐπεὶ δὲ ἱκανῶς ἐπεσιτίσατο καὶ τὰ πρὸς εὐδοξίαν εὖ ἔχειν αὐτῷ ὑπέλαβεν) ha assunto un piglio superbo e arrogante (τὰς ὀφρῦς ἐπάρας καὶ μέγαλοφρονήσας) e le ha preferito Dialogo (Bis acc. 26–29). A questo punto, Siro si difende (Bis acc. 30–32) spiegando che per lui l’abbandono dell’attività oratoria non ha comportato un distacco dalla retorica tout court, ma solo dalle aberrazioni della 23 Vd. ad es. Sirago 1989, pp. 38–43 e 48–64; Anderson 1989, pp. 89–104. 24 Andrieu 1954, pp. 308–311. 25 Croiset 1882, pp. 325–364. Alla scelta della forma dialogica Luciano potrebbe esser spinto anche dalle tante polemiche intellettualistiche (come il dibattito sull’arcaismo o la critica ai vizi personali dei sofisti) così vivaci alla sua epoca: Baldwin 1973, p. 20. 26 Per un’esegesi dettagliata del brano si rimanda a Braun 1994 ad loc. (pp. 307–358); cfr. Allinson 1927, pp. 121–187; McCarthy 1934, pp. 7–12; Ureña Bracero 1995, pp. 65–83; Camerotto 1998, pp. 107–116; vd. anche Montanari 1996, Mestre Gómez 2001 e Raina 2006 sul bagaglio culturale lucianeo, la sua esibizione, i suoi usi; Baumbach - von Möllendorff 2017, pp. 171–216 sulle caratteristiche e le funzioni del dialogo seriocomico lucianeo.

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I Introduzione

sofistica contemporanea, distante dallo spirito di quella antica e tutta tesa a soddisfare le esigenze del pubblico con vuoti artifici e inutili esagerazioni, come una prostituta azzimata, ma ben pettinata e truccata (κοσμουμένην … καὶ τὰς τρίχας εὐθετίζουσαν εἰς τὸ ἑταιρικὸν καὶ φυκίον ἐντριβομένην καὶ τὠφθαλμὼ ὑπογραφομένην). Di conseguenza, il suo obiettivo è quello di utilizzare le tecniche dell’arte retorica in una veste totalmente nuova, quella del dialogo di matrice filosofica, curandone la composizione senza sentire il bisogno di lodi e applausi (τῶν ἐπαίνων καὶ κρότων οὐ δεομένους)27. E che Luciano non abbandoni l’arte dei discorsi non solo è reso evidente dalla sua produzione dialogica, in cui sfrutta gli strumenti espressivi, i temi, le idee e i modelli di cui si è nutrito durante il suo apprendistato scolastico, ma addirittura dal titolo stesso dell’opera in cui esprime la sua dichiarazione di estetica – La doppia accusa o Le giurie – e dalla serie di discorsi giudiziari (λόγοι δικανικοί) che ne costituiscono la parte fondamentale, culminante proprio con il doppio processo al retore Siro. Se l’abbandono della carriera oratoria dirotta Luciano verso una nuova forma letteraria, vale a dire il dialogo, stupisce che la seconda accusa lanciata contro il retore Siro sia proprio quella del Dialogo personificato (Bis acc. 33)28. Questi si lamenta di esser stato offeso e trattato con violenza (ἠδίκημαι καὶ περιύβρισμαι) e di aver dovuto rinunciare all’antica gravità, consona alla serietà delle riflessioni erudite che un tempo doveva propagan27 Piot 1914a, p. 8: se pure Luciano «a délaissé le domaine conventionnel et les thèmes ordinaires de la sophistique courante […] il restait un rhéteur […] il changeait de matière, il n’a pas complètement changé de manière»; Billault 1997: l’influenza della retorica su Luciano è pervasiva e lo scrittore è così legato all’uso della parola tanto da criticare sempre il suo cattivo utilizzo e proporre una personale ‘estetica del discorso’ (in particolare nelle prolaliai); Villani 2000: in alcune prolaliai Luciano si muove fra serio e faceto per criticare l’oratoria contemporanea; Gassino 2017: Luciano ibrida il logos dikanikos in Bis acc. e Pisc. ai fini della satira. 28 Luc. Bis acc. 33: ἃ δὲ ἠδίκημαι καὶ περιύβρισμαι πρὸς τούτου, ταῦτά ἐστιν, ὅτι με σεμνὸν τέως ὄντα καὶ θεῶν τε πέρι καὶ φύσεως καὶ τῆς τῶν ὅλων περιόδου σκοπούμενον, ὑψηλὸν ἄνω που τῶν νεφῶν ἀεροβατοῦντα, ἔνθα ὁ μέγας ἐν οὐρανῷ Ζεὺς πτηνὸν ἅρμα ἐλαύνων φέρεται, κατασπάσας αὐτὸς ἤδη κατὰ τὴν ἁψῖδα πετάμενον καὶ ἀναβαίνοντα ὑπὲρ τὰ νῶτα τοῦ οὐρανοῦ καὶ τὰ πτερὰ συντρίψας ἰσοδίαιτον τοῖς πολλοῖς ἐποίησεν, καὶ τὸ μὲν τραγικὸν ἐκεῖνο καὶ σωφρονικὸν προσωπεῖον ἀφεῖλέ μου, κωμικὸν δὲ καὶ σατυρικὸν ἄλλο ἐπέθηκέ μοι καὶ μικροῦ δεῖν γελοῖον. Εἶτά μοι εἰς τὸ αὐτὸ φέρων συγκαθεῖρξεν τὸ σκῶμμα καὶ τὸν ἴαμβον καὶ κυνισμὸν καὶ τὸν Εὔπολιν καὶ τὸν Ἀριστοφάνη, δεινοὺς ἄνδρας ἐπικερτομῆσαι τὰ σεμνὰ καὶ χλευάσαι τὰ ὀρθῶς ἔχοντα. Τελευταῖον δὲ καὶ Μένιππόν τινα τῶν παλαιῶν κυνῶν μάλα ὑλακτικὸν ὡς δοκεῖ καὶ κάρχαρον ἀνορύξας, καὶ τοῦτον ἐπεισήγαγεν μοι φοβερόν τινα ὡς ἀληθῶς κύνα καὶ τὸ δῆγμα λαθραῖον, ὅσῳ καὶ γελῶν ἅμα ἔδακνεν. Πῶς οὖν οὐ δεινὰ ὕβρισμαι μηκέτ᾽ ἐπὶ τοῦ οἰκείου διακείμενος, ἀλλὰ κωμῳδῶν καὶ γελωτοποιῶν καὶ ὑποθέσεις ἀλλοκότους ὑποκρινόμενος αὐτῷ; Τὸ γὰρ πάντων ἀτοπώτατον, κρᾶσίν τινα παράδοξον κέκραμαι καὶ οὔτε πεζός εἰμι οὔτε ἐπὶ τῶν μέτρων βέβηκα, ἀλλὰ ἱπποκενταύρου δίκην σύνθετόν τι καὶ ξένον φάσμα τοῖς ἀκούουσι δοκῶ.



1.3 Il Bis accusatus e la poetica di Luciano

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dare, per far ridere e per diffondere messaggi che gli erano totalmente ignoti, così da perdere la propria identità, fissata nel tempo dalle regole del genere. Dialogo è stato snaturato e costretto ad abbassarsi dalla nobile sfera della serietà (σεμνόν) della ricerca filosofica in cui l’aveva proiettato Platone, che gli aveva fatto raggiungere una dimensione extraumana con l’indagine del divino e del cosmo (θεῶν τε πέρι καὶ φύσεως καὶ τῆς τῶν ὅλων περιόδου σκοπούμενον), alla sfera del comico (γελοῖον), che l’ha ricondotto sulla terra, le ali frantumate (τὰ πτερὰ συντρίψας), ad affrontare argomenti meno elevati, pur se più prossimi e più utili alla pratiche esigenze della vita quotidiana, “facendo il comico e il buffone e recitando copioni stranissimi” (κωμῳδῶν καὶ γελωτοποιῶν καὶ ὑποθέσεις ἀλλοκότους ὑποκρινόμενος)29. In tal modo, il dialogo lucianeo finisce per presentarsi come uno strano prodotto in cui alla serietà dell’argomentazione filosofica si mescolano la semplicità e la schiettezza dei poeti della tradizione giambica, comica, scommatica e satirica, un ibrido capace di incidere sulla morale comune con l’impiego del patrimonio del cinismo e dell’umorismo dissacrante della menippea. La dichiarazione programmatica con cui Luciano manifesta, attraverso il rimprovero di Dialogo, la qualità della sua proposta letteraria affonda le radici nel rapporto fra letterato e letteratura tipico della Seconda sofistica, al cui interno l’istanza fondamentale del richiamo a un comune repertorio si fonde con l’apporto personale dello scrittore alla rivitalizzazione di tale repertorio30. Nel monstrum letterario creato da Luciano – simile, per chi assista alla sua recita, a un essere prodigioso e fatto di parti diverse, come un ippocentauro (ἱπποκενταύρου δίκην σύνθετόν τι καὶ ξένον φάσμα τοῖς ἀκούουσι δοκῶ) –, si mescolano, dunque, generi pertinenti a due sfere opposte, quella del comico e quella del serio, a rappresentare i quali sono evocati quegli autori che costituiscono, per un erudito del II secolo d.C., la più scrupolosa ortodossia in materia di tradizione letteraria31.

29 Come si nota dalla terminologia utilizzata, in cui spiccano i termini tecnici ὑποθέσεις (Ernesti 1795 s.v. ὑπόθεσις, p. 363 s.; Russell 1983, p. 141) e ὑποκρινόμενος (Ernesti 1795 s.v. ὑπόκρισις, p. 364 s.), il dialogo lucianeo resta legato a filo doppio al mondo della retorica e delle performances sofistiche. 30 Anderson 1989, p. 110 s.: fra i sofisti, «everyone will have his Homer and a handful of ‘sophistic set texts’, reinforced by the progymnasmata; some sophists will specialise according to temperament in particular areas of the repertoire, for example Plato or Tragedy; they will also make excursions for their own interest, or for a particular occasion, into technical or non-canonical literature. And they will also know at least some of the circulated compositions of teachers, contemporaries and rivals». 31 Già Platone nell’Eutifrone (§ 11c) paragonava la sua opera a qualcosa di sfuggente e instabile, simile alle opere di Dedalo. Una dichiarazione di poetica simile a quella lucianea si ritrova nelle Satire di Orazio (2, 3, 11–12: quorsum pertinuit stipare Platona Menandro? / Eupolin, Archilocum, comites educere tantos). Sul canone degli autori classici imitato e prediletto da Luciano vd. le analisi di Householder 1941,

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I Introduzione

Alla prima sfera appartengono le invenzioni della commedia, a cui tengono dietro quelle della tradizione satirica. Nonostante la preferenza accordata in epoca romana alla commedia nuova e a Menandro, Luciano chiama a rappresentare la produzione comica attica Eupoli e Aristofane, “uomini abili a sbeffeggiare ciò che è serio e a ridere di ciò che è onesto” (δεινοὺς ἄνδρας ἐπικερτομῆσαι τὰ σεμνὰ καὶ χλευάσαι τὰ ὀρθῶς ἔχοντα)32. Il motivo di questa scelta è chiaro: lo scrittore ammira l’abilità dei due commediografi nello stravolgere la realtà e volgerla in scherzo (ἐπικερτομῆσαι) e in oggetto di derisione (χλευάσαι), il tipo di procedimento comico che più diverte il pubblico e garantisce maggiori garanzie di successo, come lui stesso afferma nel Pescatore, dove ricompare la coppia Eupoli-Aristofane e il bersaglio della critica dei due commediografi si concretizza nella figura di Socrate (Pisc. 25)33. Della commedia attica Luciano riprende sia l’aspetto aggressivo e mordace, nella forma della λοιδορία (che accomuna i commediografi attici ai giambografi e ai primi cinici), sia l’attenzione nell’evitare gli insulti più aspri e le battute troppo volgari (attitudine che troverà la più matura manifestazione nello σπουδαιγέλοιον cinico e menippeo)34. Accanto all’elemento comico, fondamentale nei Dialoghi risulta la componente satirica (σατυρικόν), che si manifesta nell’incessante propaganda della verità alla maniera di Socrate, del cinismo, della diatriba e della commedia attraverso la critica dei modelli di comportamento umani, dei valori condivisi (come ricchezza, fama e potere), dei costumi, delle religioni, del sapere su cui si fonda l’educazione di ogni nazione e, in definitiva, di tutto ciò che sembra contraddire la ragione35. pp. 1–41 e Bompaire 1958, pp. 143–154 e le revisioni critiche di Anderson 1976c e 1978. 32 Luc. Bis Acc. 33 = Ar. test. 71 K.-A. = Eup. test. 30 K.-A. Ancora utile è l’opera di Lederberger 1905 sui debiti di Luciano verso l’archaia. Sull’importanza di Menandro nell’educazione scolastica antica e sul favore incontrato dal commediografo presso i contemporanei di Luciano vd. Cribiore 2001, pp. 199–201. 33 Luc. Pisc. 25 = Ar. test. 41 K.-A. = Eup. test. 31 K.-A. La coppia Aristofane-Eupoli, pietra miliare della letteratura satirica e modello imprescindibile per gli autori satirici posteriori (cfr. Pers. Sat. 1, 123–125), ricorre di nuovo in Luc. Ind. 27 = Ar. test. 70 K.-A. = Eup. test. 29 K.-A. 34 Ureña Bracero 1995, pp. 68–70; cfr. Beltrametti 1994, p. 295; Trédé 1994 (mimesi e comicità in Luciano); Russo 1994–1995 (Luciano trae dai comici i procedimenti per parodiare i tragici); Brusuelas 2008; Rosen 2016 (rispetto alla maggior parte dei contemporanei, Luciano mostra una conoscenza approfondita della commedia attica). Sulla parentela fra commedia e giambo vd. almeno Degani 1993 e Zanetto 2001. 35 Per un attento esame dei modi, dei modelli e dei bersagli della satira lucianea rimando a Camerotto 2014. Parlando di σατυρικόν, Luciano non indica il dramma satiresco come modello ipotestuale dei Dialoghi, come pure vuole Bompaire 1958, pp. 567– 569 (contra Anderson 1976b, p. 102), né tantomeno denuncia il suo legame con Socrate (equiparato da Alcibiade a un satiro o a un sileno: Plat. Symp. 215a–217a) o



1.3 Il Bis accusatus e la poetica di Luciano

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Di seguito penetrano nel dialogo rinnovato da Luciano anche la beffa, il giambo, il cinismo (εἶτά μοι εἰς τὸ αὐτὸ φέρων συγκαθεῖρξεν τὸ σκῶμμα καὶ τὸν ἴαμβον καὶ κυνισμόν)36. I tre termini vanno a formare una climax che materializza tre diverse forme di comicità, passando dall’ironia giocosa della beffa all’invettiva aggressiva del giambo, fino all’attaco mordace e violento, con intenti moralistici, del cinismo. La beffa (σκῶμμα) è associata al giambo e al cinismo perché è a questi connaturata per via della sua portata dirompente e della sua carica dissacrante. Aristotele la definisce una specie di offesa che sarebbe bene proibire (EN 4, 1128a: τὸ γὰρ σκῶμμα λοιδόρημά τι ἐστίν, οἱ δὲ νομοθέται ἔνια λοιδορεῖν κωλύουσιν· ἔδει δ᾽ ἴσως καὶ σκώπτειν). Plutarco (che si rifà a Teofrasto) la ritiene peggiore di un’offesa (λοιδορία), perché non nasce involontariamente da un moto d’ira, come quest’ultima, ma è frutto premeditato di tracotanza e di malignità (τοῖς δὲ σκώμμασιν ἔστιν ὅτε μᾶλλον ἢ ταῖς λοιδορίαις ἐκκινούμεθα, τὸ μὲν ὑπ᾽ ὀργῆς πολλάκις ἀβουλήτως ὁρῶντες γιγνόμενον, τὸ δ᾽ ὡς οὐκ ἀναγκαῖον ἀλλ᾽ ἔργον ὕβρεως καὶ κακοηθείας προβαλλόμενοι) e, inoltre, ferisce di più, perché la sua azione dura più a lungo e contagia i presenti, che si divertono e partecipano all’offesa (μᾶλλον οὖν τὰ σκώμματα δάκνει … καὶ λυπεῖ τοὺς σκωφθέντας ἡ τέρψις τῇ κομψότητι καὶ ἡδύνει τοὺς παρόντας) aumentando lo scorno dell’oltraggiato (Quaest. conv. 631c–f). Anche Macrobio cerca di stabilire la differenza fra offesa e motteggio, differenziando la prima, diretta e realizzata attraverso l’insulto (Sat. 7, 3: nisi forte dicas loedoriam exprobationem esse ac directam contumeliam), dal secondo, beffardo e nascosto (scomma enim paene dixerim morsum figuratum)37. La tradizione giambica (ἴαμβος) è incarnata tradizionalmente da Archiloco, che Luciano apprezza come modello di libertà e franchezza e per la sua mancanza di esitazione nel biasimare l’avversario esponendolo alla sua rabbia (Pseudol. 1–2: Ἀρχίλοχον, Πάριον τὸ γένος, ἄνδρα κομιδῇ ἐλεύθερον καὶ παρρησίᾳ συνόντα, μηδὲν ὀκνοῦντα ὀνειδίζειν)38. Tipica della poesia giambica è, infatti, la protesta nella forma del violento attacco verbale con la figura del γελωτοποιός, il buffone professionista (affine allo scurra o al mimus latini) che allietava i banchetti (si veda il Σατυρίων di Symp. 18–19), come crede Ureña Bracero 1995, pp. 74–83. 36 Braun 1994 ad Luc. Bis acc. 33 (p. 325 s.) nota che lo scomma, il giambo e il cinismo «gehören gleichsam zur “Standardausrüstung” des Satirikers». 37 In Pisc. 26 lo σκῶμμα è presentato da Diogene come ingrediente fondamentale della commedia. 38 Braun 1994 ad loc. (p. 327); Segoloni 1994, p. 216; Nesselrath 2007: esistevano molteplici interpretazioni della figura di Archiloco, che Luciano somma insieme in Pseudol. 1–2 per presentare il giambografo come modello di arte poetica, implacabile fustigatore dei vizi umani tramite la λοιδορία ed esempio di ἐλευθερία e παρρησία (sorta di cinico ante litteram); cfr. Gómez 2012–2013.

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I Introduzione

(ψόγος), un elemento già presente nel dialogo platonico. Oltre ad Archiloco e ai rappresentanti del giambo arcaico, Luciano può trarre ispirazione dai cinici e dai continuatori ellenistici del genere, come Fenice di Colofone39. Il cinismo (κυνισμός) in età imperiale gode di straordinaria fortuna, come testimonia l’ampia circolazione delle opere dei suoi capostipiti, Antistene, Diogene e Cratete, e di una ricca tradizione biografica, aneddotica e dossografica relativa ai principali esponenti del suo pensiero40. Nella tradizione cinica Luciano trova una miscela dirompente, e a lui perfettamente congeniale, di franchezza irriverente, serietà nella critica della realtà, non di rado condotta fino ai limiti dell’aggressione, e gusto dello scherzo e della battuta dissacrante. Ammiratore di Diogene e dei suoi immediati successori, lo scrittore ne accoglie gli insegnamenti, pur senza aderire totalmente alla loro proposta filosofica (o a quella di qualsiasi altra scuola di filosofia) e biasimandone aspramente la degenerazione da parte dei cinici contemporanei (a cui dedica un impietoso ritratto nei Fuggitivi)41. Alla tradizione cinica è legata a filo doppio la produzione di Menippo, esplicitamente definito nel Bis accusatus “uno di quei cani antichi” (τινα τῶν παλαιῶν κυνῶν), la cui fortuna è testimoniata dall’influenza esercitata, oltre che su Luciano, anche su personalità quali Varrone, Petronio, Apuleio, fino a Marziano Capella e a Boezio42. Nel dichiarare di avere ‘disseppellito’ il cinico Menippo (Μένιππον … ἀνορύξας) come un tesoro, Luciano non vuol vantare la riscoperta di un autore ben conosciuto in età imperiale, ma piuttosto arrogarsi il diritto di aver rivitalizzato la satira menippea con una intelligente opera di imitazione e anche, forse, di aver introdotto inusitatamente Menippo come protagonista di molti dei suoi dialoghi, in particolare Icaromenippo e Menippo43. Lo scrittore ha cura di sottolineare la duplice natura della produzione menippea, fatta di riso giocoso e di reale mordente cinico (τοῦτον ἐπεισήγαγεν μοι φοβερόν τινα ὡς ἀληθῶς κύνα καὶ τὸ δῆγμα λαθραῖον, ὅσῳ καὶ γελῶν

39 Si diceva che Gorgia lodasse Platone nell’arte di comporre giambi, dopo aver letto il dialogo cha da lui prendeva nome (Ath. 11, 505d = fr. 82 A 15a D.-K.), e che paragonasse il filosofo ad Archiloco (Ath. 11, 505e = Hermipp. fr. 63 Wehrli). 40 SSR III, pp. 492–494 (con bibliografia); cfr. SSR IV, pp. 475–484 (Diogene), 572– 579 (Cratete); Goulet-Cazé 1990, pp. 2724–2727 (tradizione letteraria cinica); Ead. 1992 (composizione e fonti del VI libro delle Vite di Diogene Laerzio sui principali filosofi cinici). 41 Vd. da ultimo Bosman 2012 (con bibliografia). 42 Courtney 1962; Alfano 2015, pp. 46–48. 43 McCarthy 1934, pp. 3–14 (vd. p. 11 e n. 34 per altre testimonianze relative); Jones 1986, p. 152. Su Luciano e Menippo vd. la monografia di Helm 1906 e la sua revisione critica da parte di McCarthy 1934; cfr. Pisacane 1942; Bompaire 1993, p. XX s.; Nesselrath 1998.



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ἅμα ἔδακνεν), in cui trova la sua espressione più felice quel seriocomico (σπουδαιογέλοιον) su cui fonda la sua estetica44. L’altra componente fondamentale del dialogo lucianeo, simboleggiata dalla maschera tragica che Dialogo si vede strappare via (τραγικὸν ἐκεῖνο καὶ σωφρονικὸν προσωπεῖον), riunisce in sé la serietà della filosofia, della storia, della tragedia e dell’epos. Quando si parla dell’influenza della filosofia sui Dialoghi, il discorso si concentra su Platone, che condiziona Luciano fin dall’adozione della forma dialogica come mezzo di comunicazione letteraria. Platone rappresenta un auctor imprescindibile per Luciano, che nell’eleggerlo a modello segue le sue inclinazioni personali e, insieme, si lascia condizionare dalla temperie culturale della sua epoca, che manifesta una reverenza per il filosofo tale da far correre a Omero il rischio di essere spodestato dall’indiscusso ruolo di guida culturale dei Greci45. È la stessa opera platonica a fornire a Luciano gli stimoli necessari per dar vita a un genere fondato sulla mixis del dialogo filosofico con elementi pertinenti alla commedia, alla satira, all’invettiva giambica: la critica moderna ha opportunamente messo in evidenza, infatti, come sia possibile valutare già il dialogo platonico come una splendida fusione di tragedia e di commedia, di serio e di comico46. In seconda battuta, determinante nella formazione lucianea è la conoscenza delle linee di pensiero delle altre grandi scuole filosofiche greche, oltre a quella platonica, e del patrimonio morale della diatriba e della filosofia popolare, comune a più scuole filosofiche e volgarizzato dagli intellettuali, che risponde ai gusti di un pubblico colto e i sofisti condividono attingendolo dalle scuole di retorica, da conoscenze dirette e da relazioni di familiarità coi contemporanei47.

44 Ureña Bracero 1995, pp. 70–73; cfr. Dem. Eloc. 259–262 sulla ‘maniera cinica’ e sul suo uso da parte dei retori. 45 Anderson 1989, pp. 118–123; Id.1994, pp. 41–45, 62 s.; cfr. Anderson 1977, p. 363 s. 46 Segoloni 1994, praes. pp. 197–227; sul comico nel dialogo di Platone vd. Mader 1977. Scegliendo di impiegare la forma della composizione dialogica per i suoi scritti, Platone ne fissa al tempo stesso le regole; l’evoluzione posteriore del genere porta questa forma a rinnovarsi, come nel caso dei due dialoghi ‘drammatici’ di Plutarco, il De genio Socratis e l’Erotikos: Barigazzi 1988; Zanetto 2000. Per molti versi affine a quello plutarcheo, il dialogo lucianeo se ne differenzia per molti altri, a cominciare dalla grande importanza concessa al momentum comicum: Korus 1984; Bracht Branham 1989; cfr. Celentano 1995. 47 Piot 1914b, pp. 151–163. Già Croiset 1882, pp. 144–174 segnala l’alto grado di affinità esistente nel pensiero dei moralisti imperiali. Le idee della filosofia popolare sono comuni a più scuole filosofiche, che le adattano per diffonderle presso un pubblico colto capace di apprezzarle, ma si ritrovano anche in altri ambiti quali la sofistica, la poesia, la commedia: Fuentes González 1998, pp. 44–56 e 71 s.

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I Introduzione

Anche nell’imitazione degli storici, come in svariati altri campi della cultura, Luciano si presenta in bilico tra tradizione e modernità, e se è rigoroso nel mostrare il suo favore per gli storiografi più imitati e ammirati alla sua epoca, vale a dire Erodoto, Tucidide e Senofonte, non si esime dal rendere omaggio ai contemporanei, come Arriano (vd. oltre)48. Il rapporto che lega Luciano alla poesia rispecchia lo spirito dell’età imperiale. Lo scrittore si lascia coinvolgere nel dibattito contemporaneo intorno al corretto uso di leggere i poeti, ma non si preoccupa tanto di fornire personali precetti per la loro interpretazione, quanto di mettere al bando la loro opera come fonte di menzogna, pur se la sua condanna è morale, non artistica, e colpisce la distorta interpretazione della poesia, che chiunque può realizzare arbitrariamente, non la creazione in sé49. L’ammirazione di Luciano per la bellezza della parola poetica resta sincera, e giustamente Alberto Camerotto osserva che la sua disposizione nei confronti di Omero (e così della poesia) «non è univoca, ma assume di volta in volta sfumature diverse e complesse, che toccano tutta la gamma delle possibilità, dall’attacco critico e stravolgente all’omaggio, e che spesso sono intenzionalmente ambigue, perché anche nella deformazione comica può esservi una valenza celebrativa dell’ipotesto»50. Così l’epos nei Dialoghi è rappresentato principalmente da Omero ed Esiodo, che nell’ambito della Seconda sofistica costituiscono, in assoluto, la più frequente fonte di citazioni o allusioni più o meno esplicite e una costante fonte di ispirazione51: il primo, in particolare, rappresenta il classico dei classici, il pilastro dell’istruzione scolastica, il padre della retorica (Plat. Prot. 316d; Philostr. VS 2, 27, 10) e addirittura, come ci rivelano i papiri egizi, un autore divino con i cui testi si può prevedere il futuro tramite la casuale scelta di un verso52. 48 Householder 1941, pp. 41–45, 60 s.: in età imperiale, per frequenza di citazioni e allusioni Erodoto segue Omero, Platone ed Euripide e precede Esiodo, Demostene (Saïd 1994) e Tucidide; Anderson 1993, p. 70; Cribiore 2001, p. 144: di Tucidide ed Erodoto gli studenti analizzano e imitano stile e vocabolario. 49 Una nutrita lista di brani in cui Luciano critica i poeti è fornita da Größlein 1998, p. 16 s., n. 77; per il rapporto fra Luciano e la poesia: Camerotto 1998, pp. 175–190 (su Luciano ed Omero); Tomassi 2011, pp. 190–192 (con bibliografia). Il pensiero che i poeti mentano è proverbiale: Tosi 1992, p. 90 s., n° 201. 50 Camerotto 1998, pp. 175–190, praes. 176 (da cui si cita); sul rapporto fra Luciano e Omero resta fondamentale Bouquiaux-Simon 1968; vd. anche Briand 2005; Kim 2010b, pp. 140–174. 51 Householder 1941, praes. pp. 41–45 e 57; Cribiore 2001, pp. 194–198; Fornaro 2003 (Omero è fonte imprescindibile di educazione per il re). Nei Dialoghi si menziona spesso la coppia Omero-Esiodo (Nec. 3; Sacr. 8; Salt. 61; J. conf. 1; Astr. 22; Luct. 2; Sat. 5; Anach. 21) e, pur se l’opera esiodea trova minor risonanza rispetto a quella omerica (Raina 2006, pp. 203–207), a Esiodo Luciano dedica un’operetta (Hes.). 52 Marrou 1950, pp. 34–36, Reardon 1971, p. 8 (Omero nell’educazione antica); Kindstrand 1973 (Omero e la Seconda sofistica); Gastaldi 1995, p. 66 s. (rapporto



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Per la tragedia, Luciano predilige la produzione del V sec. a.C. (Euripide in particolare, come i suoi contemporanei), che per lui rappresenta un patrimonio culturale dal valore tanto intellettuale quanto educativo da rispettare e preservare: per questo non si stanca di criticare le rappresentazioni tragiche dei suoi tempi, trovandole assai ridicole per i costumi troppo sfarzosi, la gestualità innaturale e la dizione manierata degli attori, interessati a mettere in risalto più se stessi che la bellezza dei testi messi in scena53. L’influenza del teatro sulla produzione lucianea è talmente pervasiva che l’imitazione dei testi non ne rappresenta che un aspetto: alcune opere lucianee, infatti, sono eminentemente teatrali, sia nella forma sia nei contenuti (J. tr., Gall., Cat., Pisc., Nav., Tim.), e molte di loro ritraggono la realtà come un’unica, gigantesca tragicommedia i cui insuperabili interpreti sono gli esseri umani, con l’assurdità dei loro comportamenti e delle loro vite perennemente in bilico fra essere e apparire54. All’accusa di Dialogo, quindi, Siro ribatte sostenendo la bontà della sua operazione letteraria (Bis acc. 34): il dialogo filosofico non era affatto piacevole né caro al grosso pubblico (οὐ πάντῃ … ἡδὺν οὐδὲ τοῖς πλήθεσι κεχαρισμένον), pur essendo degno del massimo rispetto (αἰδέσιμον), perché ciò che propagandava si fondava su ricerche talmente rigorose ed estenuanti (σκυθρωπὸν ἔτι τοῖς πολλοῖς δοκοῦντα καὶ ὑπὸ τῶν συνεχῶν ἐρωτήσεων κατεσκληκότα) e su questioni talmente sottili e cavillose (τὰ γλίσχρα ἐκεῖνα καὶ λεπτά) da spaventare gli altri. Una volta resi i suoi contenuti più aderenti alla vita quotidiana e alle esigenze dell’uomo comune (πρῶτον … αὐτὸν ἐπὶ γῆς βαίνειν εἴθισα εἰς τὸν ἀνθρώπινον τοῦτον τρόπον), il dialogo è diventato più piacevole e più simpatico (ἡδίω τοῖς ὁρῶσι παρεσκεύασα), in particolar modo da quando ha accolto in sé le invenzioni dei comici (ἐπὶ πᾶσι δὲ τὴν κωμῳδίαν αὐτῷ παρέζευξα, καὶ κατὰ τοῦτο πολλήν οἱ μηχανώμενος τὴν εὔνοιαν παρὰ τῶν ἀκουόντων), mentre prima la gente lo evitava, come quelli che si guardano bene dal prendere in mano un riccio (οἳ τέως τὰς ἀκάνθας τὰς ἐν αὐτῷ δεδιότες ὥσπερ τὸν ἐχῖνον εἰς τὰς χεῖρας λαβεῖν αὐτὸν ἐφυλάττοντο)55. fra Omero e la retorica); Cribiore 2001, pp. 194–198 (i lettori antichi preferiscono all’Odissea l’Iliade, di cui mostrano di favorire i primi dodici libri); Zeitlin 2001; Pallucci 2003, pp. 4–12; Parsons 2014, p. 237 (Omero nei papiri egizi). 53 Seeck 1990; Castelli 2000; Cribiore 2001, p. 198 s.; Karavas 2005. Per Luciano il poeta è incolpevole delle storpiature subite dal testo che è messo in scena da cattivi attori: Nigr. 8–9. 54 Matteuzzi 1998, praes. pp. 219–221: della ‘drammaticità’ dell’opera lucianea si avvedono già i filologi bizantini e, più tardi, gli umanisti; Trédé 2002; Tosello 2013. 55 Luc. Bis. acc. 34: πάντα γοῦν μᾶλλον ἂν ἤλπισα ἢ τὸν Διάλογον τοιαῦτα ἐρεῖν περὶ ἐμοῦ, ὃν παραλαβὼν ἐγὼ σκυθρωπὸν ἔτι τοῖς πολλοῖς δοκοῦντα καὶ ὑπὸ τῶν συνεχῶν ἐρωτήσεων κατεσκληκότα, καὶ διὰ τοῦτο αἰδέσιμον μὲν εἶναι δοκοῦντα, οὐ πάντῃ δὲ ἡδὺν οὐδὲ τοῖς πλήθεσι κεχαρισμένον, πρῶτον μὲν αὐτὸν ἐπὶ γῆς βαίνειν εἴθισα εἰς τὸν ἀνθρώπινον τοῦτον τρόπον, μετὰ δὲ τὸν αὐχμὸν τὸν πολὺν ἀποπλύνας καὶ μειδιᾶν καταναγκάσας ἡδίω τοῖς ὁρῶσι παρεσκεύασα, ἐπὶ πᾶσι δὲ τὴν κωμῳδίαν

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I Introduzione

In definitiva, il cambiamento impresso da Luciano a una forma letteraria così illustre come il dialogo filosofico ha uno scopo ben preciso: quello di sfruttare un veicolo letterario che risulti il più possibile congeniale al suo spirito vivo e agile, alla sua immaginazione e all’esigenza di diffondere semplici concetti di morale pratica divertendo e, al tempo stesso, educando il pubblico. In età imperiale è questa una preoccupazione di molti: si possono ricordare ancora Plutarco, che insiste sulla necessità di insegnare ai giovani ad attingere dai poeti non solo ciò che suscita piacere, ma anche ciò che nutre l’anima (Quomodo adol. 14d–f), e Massimo Tirio, che ribadisce l’importanza di comporre discorsi che siano utili e, insieme, piacevoli (or. 25, 7 Trapp). Del resto, già nelle Menippee di Varrone, affini per molti versi ai dialoghi lucianei, «l’intenzione di fondo dell’opera […] era di divulgazione filosofica», pur trattandosi di «una divulgazione piacevole, divertente, che rendesse accessibile la filosofia ai minus docti […]: una novità importante, che apre la strada al forte rilievo del momento propriamente filosofico nelle satire e, specialmente, nelle epistole orazione e alla sua preminenza in Persio»56. Luciano vuol essere moralista facendo sorridere il suo pubblico, in un’epoca in cui la morale è proposta «en discours, en lettres, en conseils intimes, en satires, selon le goût de chacun» e rappresenta, con la retorica, la più grande passione di una società che gode «à entendre gourmander le vice et recommander la vertu» come passatempo che dà «l’illusion agréable d’un bon emploi de la vie»57. In questa scelta meditata e consapevole lo scrittore non è di certo condizionato da quella presunta ‘conversione alla filosofia’ di cui si è parlato (a torto) fino alla metà del secolo scorso – in particolare a causa di un’errata lettura del Nigrino –, e che ha continuato a deformare la biografia lucianea fino in tempi recenti58. Nell’Apologia, peraltro, è lo αὐτῷ παρέζευξα, καὶ κατὰ τοῦτο πολλήν οἱ μηχανώμενος τὴν εὔνοιαν παρὰ τῶν ἀκουόντων, οἳ τέως τὰς ἀκάνθας τὰς ἐν αὐτῷ δεδιότες ὥσπερ τὸν ἐχῖνον εἰς τὰς χεῖρας λαβεῖν αὐτὸν ἐφυλάττοντο. Ἀλλ᾽ ἐγὼ οἶδ᾽ ὅπερ μάλιστα λυπεῖ αὐτόν, ὅτι μὴ τὰ γλίσχρα ἐκεῖνα καὶ λεπτὰ κάθημαι πρὸς αὐτὸν σμικρολογούμενος … Χαίρει γὰρ οὐκ οἶδ᾽ ὅπως τὰ τοιαῦτα λεπτολογῶν καθάπερ οἱ τὴν ψώραν ἡδέως κνώμενοι. 56 Citroni 1991, p. 149 s. 57 Croiset 1882, p. 115 (sulle opinioni morali di Luciano e sulla sua opera di volgarizzazione della morale filosofica tradizionale vd. pp. 144–174). 58 L’idea di una ‘conversione’ alla filosofia di Luciano è accolta da una parte della critica ancora fino alla metà del secolo scorso: Fumarola 1951; Quacquarelli 1956, p. 49: il Luciano del Nigrino è «un platonico a metà», cioè «un platonico immanentista che […] del platonismo segue l’etica e non la metafisica»; Longo 1964: l’Ermotimo illustra il particolare scetticismo filosofico lucianeo. La maggior parte dei critici ha rigettato però tale supposizione, a partire da Croiset 1882, pp. 87–114, 144–174, secondo cui Luciano non è l’esponente di una setta filosofica, ma il predicatore di una ‘filosofia del buon senso’; cfr. Allinson 1927, pp. 47–64, praes. 58: «it is difficult, in fact, to identify Lucian with any school»; Schwartz 1964: Lucia-



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stesso Luciano a dichiarare la sua scarsa rilevanza nella storia del pensiero filosofico antico (Apol. 15). Se dunque lo scrittore si propone essenzialmente l’obiettivo di fornire insegnamenti morali in una forma diversa da quella tradizionale (Prom. es 7), i risultati di questa scelta stilistica non sempre corrispondono alle sue aspettative, tanto da lamentarsi per il comportamento del suo pubblico, alla ricerca del divertimento puro e avulso da ogni riflessione troppo seria e faticosa, che rimprovera di non apprezzare gli intenti artistici e le finalità vere della sua prosa (Bacch. 5). Se poi Luciano abbia voluto esprimere una lamentela reale, parlando delle sue frustrate aspettative di scrittore, o abbia piuttosto inteso scherzare ancora una volta col suo pubblico, invitandolo a riflettere con maggior attenzione sulla qualità della sua arte, non possiamo dirlo con certezza. Ciò che è certo è che la grandezza dell’opera lucianea risiede nella sua capacità di raggiungere una platea estremamente variegata attraverso la potente arma del seriocomico. D’altronde, il diritto del pubblico di fruire in modo diverso, ma pur sempre legittimo, un’opera letteraria è una conquista dell’antica Grecia che trova la sua prima attestazione proprio nella commedia attica, modello imprescindibile del dialogo lucianeo, e in particolare nelle Donne all’assemblea di Aristofane (vv. 1154–1157): “Ma voglio dare un piccolo consiglio ai gudici. I saggi si ricordino delle mie sagge parole, e votino me; quelli che ridono volentieri, per le risate che hanno fatto votino me; e dunque lo dico a quasi tutti, che votino me” (trad. Vetta - Del Corno 2000).

no utilizza il dialogo platonico e si interessa all’Accademia (Nigr.), simpatizza per l’epicureismo (Alex., Peregr.), è influenzato dal cinismo (Gall., D. mort.), apprezza la filosofia delle origini e rinnega le degenerazioni di quella contemporanea (Fug., Pisc., Vit. auct.: cfr. Bruns 1888), ma resta un retore; Clay 1992, pp. 3420–3425: il Nigrino non è un elogio della filosofia platonica né la descrizione della conversione alla filosofia dell’autore, ma una parodia delle tante conversioni filosofiche di età imperiale; Schouler 1994, p. 107: «l’essentiel du message lucianesque est de transcender les dires de la philosophie»; Dolcetti 1996: Luciano è ostile verso gli stoici, benevolo verso gli epicurei (di cui pure critica il dogmatismo) e verso gli scettici (pur rifiutandone la pretesa di paralizzare la vita umana per non fornire scelte). Una parte della critica moderna continua a collegare Luciano a una peculiare dottrina filosofica, come il platonismo e l’aristotelismo (Michel 1994, p. 93) o lo scetticismo (Bonazzi 2010), anche se da alcuni, più sensatamente, l’approccio dello scrittore alla filosofia è paragonato a quello del contemporaneo Demonatte, intellettuale eclettico dalle eccezionali qualità fisiche e morali che, se da un lato venera Socrate, dall’altro ammira Diogene e Aristippo ed è contrario a ogni forma di dogmatismo: Fuentes González 2005, pp. 153–155; Id. 2009; cfr. Bompaire 1993, pp. XXXIII–XXXV: «l’appartenance philosophique de Lucien et a fortiori l’évolution de ses idées philosophiques sont de faux problèmes. Sa philosophie est essentiellement pratique […]; réaliste, il propose un art de vivre»; Mestre 2012–2013.

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I Introduzione

1.4  La nave e la tradizione letteraria La mixis di generi letterari nei Dialoghi si fonda su una complessa operazione intellettuale, «che da un lato va inserita nel quadro della Seconda sofistica e nella sua particolare prospettiva retorica di recupero della tradizione letteraria classica, dall’altro può essere connessa con la prassi di contaminazione dei generi propria dei cinici»59. Luciano mescola toni, situazioni e motivi provenienti da ipotesti diversi e li rielabora al fine della creazione di un ipertesto che, se da un lato tradisce i propri debiti con la tradizione letteraria, dall’altro vi si pone di fronte come un prodotto nuovo e diverso60. L’associazione di comico e di serio si dimostra del tutto congeniale allo scrittore, i cui modelli sono rappresentati essenzialmente da Omero, Platone e Aristofane, con un deciso sbilanciamento, sul piano della selezione di temi e motivi, a favore di quest’ultimo61. Di certo Luciano non è un innovatore né un audace inventore di nuove teorie: ciò che lo contraddistinge è la maestria con cui sa rielaborare i materiali a sua disposizione per dare vita a creazioni originali, destinate a essere lette e ammirate dall’antichità fino ai giorni nostri62. 1.4.1  La commedia L’influenza della commedia si avverte nella Nave fin dalla forma assunta dalla narrazione, quella del ‘dialogo in cammino’ tipica del repertorio comico (oltre che del dialogo filosofico di matrice platonica: vd. infra). A livello lessicale, Luciano impiega alcuni predicati ed espressioni tipici della commedia (ἀποσοβεῖν: § 4; προκύπτειν: § 22; ἀποπνίγεσθαι [nel senso di ‘soffocare d’invidia’]: § 22; παρακεκινηκὼς τὴν γνώμην: § 45)63, e alle invenzioni onomastiche della commedia si ispira per creare particolari ‘nomi parlanti’ (§ 22: Cleeneto e Democrate). 59 Camerotto 1998, p. 106 s. Carattere programmatico hanno molte opere in cui Luciano difende la sua arte, come Pisc., Pseudol., Bis acc., Zeux., Bacch.; cfr. Bracht Branham 1989, pp. 38–46, praes. 29: nelle prolaliai «a remarkable picture emerges of Lucian at work on his audience persuasively defining the conceptions of comedy and novelty that inform his dialogues»; Nesselrath 1990. 60 Non di rado Luciano paragona ironicamente sé stesso a uno dei suoi modelli, come Archiloco (Pseudol. 2) o Erodoto (Herod. 6): Anderson 1982, pp. 74–78. 61 Anderson 1982, pp. 63–69; Bracht Branham 1989, pp. 46–63. 62 Croiset 1882, pp. 286–324. Il modo in cui nasce l’arte dei Dialoghi è descritto in Pisc. 5–6: come l’ape sceglie i fiori più belli, e l’uomo fa lo stesso per comporre un mazzolino, così Luciano fa coi filosofi dell’antichità, scegliendo e acconciando nel modo più adatto i ‘fiori’ delle loro creazioni, per formare un insieme splendido di cui l’erudito riconosce e apprezza con piacere le componenti. 63 Alla lista si può forse aggiungere πτέρωσις (§ 46), che compare per la prima volta in Ar. Av. 94.



1.4  La nave e la tradizione letteraria

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A livello stilistico, sono impiegate svariate fonti di humour tipiche del linguaggio comico, fra cui: l’uso dei diminutivi (§ 2: μειρακίσκος; § 6: ἀνθρωπίσκος; § 15: σκαφίδιον; 26: ψυχίδιον); la polisemia dei vocaboli (§ 11: δᾴς; § 16: ἐπικλύσας; § 44: γῆρας); i giochi di parole (§ 21: οὐ σκύφον, ἀλλὰ Σισύφειόν τι βάρος); l’accumulazione di epiteti enfatici contro un avversario a scopo di humour (§ 14: ὦ γενναῖε ... ὦ ναυκλήρων ἄριστε ... ὦ βέλτιστε)64; gli appelli rivolti al pubblico (§ 31: ὅτῳ δοκεῖ, ὦ ἱππεῖς, Ἀδείμαντον ἱππαρχεῖν, ἀνατεινάτω τὴν χεῖρα); l’uso di invocazioni agli dèi per suscitare riso (§ 15: πρὸς τῆς Ἴσιδος) o di esclamazioni tipicamente teatrali (§ 29: παπαῖ); i procedimenti per aprosdoketon (§ 17: ὅς γε δὴ ἐν τῇ νηῒ τὸν ἕτερον πόδα ἔχει). A livello tematico, pertengono al teatro comico alcuni specifici motivi: il fortuito ritrovamento di un tesoro (§ 20); le liste di prelibatezze gastronomiche (§ 23); le immagini dello ‘sciame di persone’ (§ 35) e dell’uomo che si libera dal fardello della vecchiaia (§ 44); la caratterizzazione della terza età come realtà degradante e ridicola (§ 45: Timolao è il tipico senex libidinosus della commedia attica e della satira). Secondo Graham Anderson, l’incipit della Nave, con l’arrivo in porto di un’imbarcazione di grandi dimensioni e l’accorrere di una folla di curiosi ad ammirarla, potrebbe ispirarsi a un perduto modello comico, la cui eco si avvertirebbe sia in Alcifrone (che in epist. 3, 29 descrive l’arrivo ad Atene dell’imbarcazione di un ricco mercante dalle mani bucate) sia nel Mercator di Plauto65. I punti di contatto fra i tre testi sembrano troppo labili per avvalorare tale ipotesi e, d’altro canto, si potrebbero ipotizzare altre, più probabili fonti di ispirazione lucianee, fra cui l’incipit del Fedone di Platone (vd. oltre ad § 1.4.3) e un motivo tradizionale che ritroviamo nei Caratteri di Teofrasto (per cui vd. oltre ad § 1.4.5) e nella storia dell’ateniese Trasillo (Ael. VH 4, 25)66. 1.4.2  La satira Al repertorio della satira pertengono numerose immagini, come quella del cadavere in balia degli avvoltoi (§ 1), e svariati temi, fra cui: il motivo della stoltezza dei sogni a occhi aperti degli uomini (vd. supra); l’inutilità di perseguire ricchezze, potere e fortuna; il conflitto fra i due opposti concetti di πιθανότης e ἀπιθανότης (§ 20); il motivo del ritrovamento fortuito del te64 Per questa particolarità Luciano è debitore sia della commedia sia di Platone: vd. Tim. 4 e Tomassi 2011 ad loc. (p. 219 s.). 65 Anderson 1997, p. 2195 s. 66 Trasillo immaginava di possedere tutte le navi ancorate al Pireo e ne teneva addirittura un registro personale, così che suo fratello decise di portarlo da un medico: l’uomo guarì così dalla sua follia, pur se da quel momento rimpianse amaramente per tutta la vita le gioie concessegli dalla sua fantasia.

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I Introduzione

soro (§ 20), ampiamente diffuso anche in commedia, così come il tema della visione dall’alto (§§ 42, 44); la connessione fra morbo e ricchezza (§ 27); la denuncia dell’assoluta inutilità dell’indagine razionalistica della natura (§ 44); l’idea (esemplificata dalla figura di Icaro) che tutte le convinzioni con cui l’uomo comune scioccamente si esalta sono destinate a infrangersi quando è costretto a tornare con i piedi per terra dalla dura realtà (§ 46); la critica contro gli intellettuali (§ 46). Caratteristiche della satira sono anche alcune maschere, come quelle del ricco incapace di gestire le sue ricchezze e del senex libidinosus, i cui tratti ritroviamo rispettivamente in Adimanto e in Timolao: il primo si fa notare per la passione per gli schiavi giovani e belli (§ 18), l’ostentazione del lusso più sfrenato (§ 22) e il desiderio di prelibatezze gastronomiche (§ 23); il secondo ricorda prepontemente la figura del vecchio preda di adulatori, cortigiane e cacciatori di testamenti (§ 45). Particolarmente riuscito è il ritratto di Adimanto, il tipico neoricco rozzo e volgare. Si tratta di un personaggio che riceve una prima caratterizzazione nella commedia attica antica (che conosce ‘arricchiti illustri’ come Cleone, Agirrio, Eucrate, Teagene) e viene portato in scena con successo dal mimo (come ricorda Luciano in Nigr. 20), per ricevere una definitiva consacrazione a opera della tradizione oratoria e della predicazione filosofica. Quest’ultima è destinata a influenzare la tradizione satirica, a noi nota specialmente nella sua forma latina, ciò che potrebbe spiegare le somiglianze fra i parvenu lucianei e il Nasidieno di Orazio, il Diodoro o lo Zoilo di Marziale, Trimalcione e il Ventidio Basso della poesia popolare67. Fino a non molto tempo fa si tendeva a escludere l’influenza della produzione latina, in particolare nelle forme della satira, su Luciano, per il pregiudizio che molti scrittori greci non padroneggiassero il latino o disprezzassero la letteratura romana come inferiore rispetto a quella greca o, comunque, che disponessero di una ricchissima e variegata tradizione letteraria greca da cui attingere68. Oggi i tempi sembrano maturi per un significativo cambio 67 Sulla figura del parvenu l’opera di riferimento è ancora quella di Meyer 1913 (pp. 71–76 su Luciano); sui rapporti fra la satira latina e Luciano nella caratterizzazione del tipo vd. Bompaire 1958, pp. 210–213; sul contributo del mimo vd. Bompaire 1958, p. 211, n. 3; sull’apporto della tradizione oratoria e della filosofia vd. Dover 1983, pp. 92–97. 68 Dopo un periodo in cui si è negato un rapporto diretto fra il mondo letterario romano e Luciano, per il falso pregiudizio che questi non leggesse le opere latine per motivi di superiorità ideologica (Caster 1937, p. 369 s.), di opposizione politica (Peretti 1946) o di scarsa padronanza della lingua, la critica più recente ha ritenuto tale opinione infondata, pur restando incerta sull’atteggiamento dello scrittore verso Roma (Bompaire 1958, pp. 500–502; Baldwin 1961 [con revisione in Baldwin 1973, pp. 22–25]; Dubuisson 1984–1986; Jones 1986, pp. 83 s. e 87 s.), che in ogni caso risulta impossibile da interpretare in maniera univoca (Whitmarsh 2001, pp. 247–294, praes. 250–253). Molti critici hanno rilevato consonanze fra Luciano



1.4  La nave e la tradizione letteraria

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di prospettiva che permetta di apprezzare gli scambi esistenti fra il mondo letterario latino e quello greco. Particolarmente interessanti sembrano i punti di contatto fra La nave e il Satyricon petroniano. Numerosi sono i paralleli fra le due opere, in particolare per ciò che riguarda i ritratti di Trimalcione e di Adimanto. È soprattutto la lunga tirata autobiografica a cui Trimalcione si lascia andare al termine della sua celeberrima cena (Petron. 75, 10–77, 7) a offrire numerosi paralleli con i sogni di Adimanto. a) Trimalcione racconta di aver fatto costruire cinque navi che, naufragando al primo viaggio, gli fecero perdere ben 30 milioni di sesterzi e, in seguito, di aver fatto costruire una seconda flotta che gli aveva fatto recuperare il denaro perduto (Petron. 76, 1–8); dopo aver riportato Adimanto coi piedi per terra, infrangendo il suo sogno di possedere una nave mercantile e arricchirsi (§ 13), Licino lo rende padrone di una flotta di ben cinque navi, più grandi, più belle e inaffondabili (§ 14: πέντε γάρ, εἰ βούλει, καλλίω καὶ μείζω … οὐδὲ καταδῦναι δυνάμενα). b) Il neoricco Trimalcione desidera come prima cosa possedere una casa lussuosissima, poi servi e vestiti, carri e cavalli (Petron. 76, 8: aedifico domum, venalicio coemo, iumenta), così come Adimanto (§ 13: οἰκίαν ᾠκοδομησάμην … καὶ οἰκέτας ὠνούμην καὶ ἐσθῆτας καὶ ζεύγη καὶ ἵππους). c) Trimalcione desidera congiungere le sue terre con la Puglia (Petron. 77, 3), visto che i suoi possedimenti sono tanto estesi da correre da una parte all’altra dell’Italia e giungere fino in Africa, comprendendo anche il Mediterraneo (Petron. 48, 2–3), laddove i terreni di Adimanto vanno da una parte all’altra della Grecia (§ 20). d) Trimalcione riconosce Hermes come suo protettore, perché le origini della sua fortuna riposano nel commercio (Petron. 77, 4; cfr. ancora 29, 5; 67, 7), Adimanto lo invoca a protezione dei traffici commerciali con cui sogna di arricchirsi (§ 18), immagina di disseppellire un gigantesco tesoro proprio sotto l’Hermes di pietra eretto nel suo giardino (§ 20) e, al termine della sua preghiera, supplica il dio di far avverare il suo desiderio (§ 25). e) Le suppellettili di Trimalcione sono ricchissime e sono originali ‘corinzie’, perché Corinto è il nome dell’artigiano che le fabbrica (Petron. 50), le coppe di Adimanto sono tanto grandi da costituire “un peso degno di Sisifo” (§ 21: Σισύφειόν τι βάρος). f) La vita lussuosa che Adimanto sogna per sé (§ 22) e le distribuzioni che desidera elargire alla popolazione ateniese (§ 24) richiamano alla mente le e i satirici romani nella critica dei costumi, in particolare nel ritratto di ‘tipi’ come il parvenu e l’intellettuale greco prezzolato, ma se alcuni le limitano (Bompaire 1958, pp. 499–512) o vi alludono senza prendere una posizione sicura (Robinson 1979, p. 56 s.; Dubuisson 1984–1986, pp. 196–198), altri, pur con prudenza, invitano a non sottovalutarle (Husson 1970, II, ad Nav. 22 [p. 53 s.]; Courtney 1980, pp. 624– 629; Jones 1986, pp. 78–89; Tomassi 2011, pp. 319–322; Manzella 2016; vd. anche Anderson 1998).

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grandiose elargizioni di Trimalcione e il suo monumento funebre (Petron. 71, 9–10), su cui dovrà comparire una sua immagine sfolgorante, seduto in tribuna con indosso la toga pretesta e cinque anelli d’oro alle dita (Petron. 71, 9). g) Il motivo del banchetto pantagruelico e grottesco, sublimato nella celeberrima ‘Cena di Trimalcione’, è riprodotto da Luciano con felice arte miniaturistica nella Nave (Nav. 23), così che i cibi che compaiono qua e là nel testo petroniano sono accorpati nel banchetto sognato da Adimanto: pesci (Petron. 36, 3); vino italiano (Petron. 28, 3, 34, 6–7 e 55, 4: Falerno); miele attico (Petron. 38, 3; 56, 9); ogni tipo di manicaretti, maiali e lepri (Petron. 36, 2; per i soli maiali vd. ancora 40, 4; 47, 8; 49; 56, 9; 66, 2; 70, 1–2) e tutti i tipi di volatili (Petron. 36, 2; 40, 5–6; 65, 2; 69, 6), fra cui il fagiano, il pavone (Petron. 33, 4) e il gallo numidico; focacce (Petron. 56, 9; 60, 4; 66, 3) e salse (Petron. 36, 2). Da quel che sembra, le significative consonanze fra il Trimalcione petroniano e l’Adimanto lucianeo potrebbero costituire la prova della dipendenza dei due personaggi da una tradizione comune, ma rivelare anche, pur soltanto in minima parte, una consapevole opera di imitazione del romanzo di Petronio da parte di Luciano. 1.4.3 Platone Luciano spesso paga il suo tributo alla tradizione attraverso una sapiente opera di imitazione e, di frequente, si spinge fino a dedicare un’intera opera a un autore: Esiodo è così celebrato nel Dialogo con Esiodo, Erodoto nella Dea siria, Menippo e i fondatori del cinismo nel Menippo e nei Dialoghi dei morti, Aristofane nel Timone, Teocrito e Omero rispettivamente nel primo e nel secondo dei Dialoghi marini, e così via. L’eredità di Platone sostanzia il Parassita e l’Ermotimo e inflenza in misura consistente anche La nave69. Numerosi elementi strutturali del nostro dialogo sono ispirati all’opera di Platone, a partire dalla presentazione dell’ambientazione del dialogo e dei suoi protagonisti: la scena in cui avviene l’azione è chiaramente definita (lo spazio urbano fra il Pireo e la città di Atene); un dialogo introduttivo (§§ 1–9) precede la narrazione degli avvenimenti in forma di dialogo narra69 Anderson 1977, p. 363 s.: «[Lucian] tends to organise individual dialogues as ‘tri­ butes’ to particular authors […]. In Navigium Plato is uppermost once more»; cfr. Bompaire 1958, p. 308; Anderson 1977, p. 363 s.; Id. 1991, p. 8; Id. 1993, p. 222; Deriu 2017. Robinson 1979, p. 10 s. nota che certi dialoghi sono costruiti sul modello platonico (Herm., Anach. Nav., Par.) e per La nave, in particolare, che «the focus is on the entertaining quality ot the stories told, representing as they do a satire on the folly of human wishes. There is no parading of reductive logic. The Platonic element lies, again, in the setting – like the Republic, it opens with a visit to the Piraeus – and the use of the talk-as-you-walk theme».



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to; i personaggi parlano mentre camminano, secondo la modalità del ‘dialogue-promenade’, e ognuno di loro è caratterizzato da ciò che viene detto; come il Socrate platonico, Licino ha il compito di guidare i suoi compagni verso la verità attraverso le fondamentali armi dell’ironia e dell’indagine razionale, anche se, rispetto a Platone, Luciano non ha il bisogno né le motivazioni per riprodurre il metodo socratico di indagine. Dai dialoghi platonici, in particolare dalla Repubblica e dal Simposio, Luciano sembra riprendere: il nome e il demo di Adimanto (§§ 1, 10/ Resp. 327c: Ἀδείμαντος ὁ τοῦ Γλαύκωνος ἀδελφός; Symp. 176d: Φαῖδρον τὸν Μυρρινούσιον); il motivo della passeggiata al Pireo (§ 1/Resp. 327a–b); la scelta di un motivo occasionale che dà avvio al dialogo e, in particolare, l’arrivo di una nave straordinaria nel porto ateniese e l’accorrere di una folla di curiosi ad ammirarla (§§ 1–6/Phaed. 59e)70; l’appello al rispetto dell’amicizia (§ 4: ὁρᾶτε μὴ σκαιὸν ᾖ φίλον ἀπολιπόντας αὐτοὺς ἀπιέναι/Phaedr. 228a–c, 236b–e); il tema della ricerca e del ritrovamento dell’amico smarritosi (§§ 10–11/Symp. 174d; Resp. 327a–b); la ripartizione del tempo fra i protagonisti della narrazione per la formulazione dei loro discorsi (§ 17 ss./ Symp. 177d); il motivo della sosta durante il cammino (§ 35/Leg. 625a–c; Phaedr. 229a–230d); l’allusione all’ingresso di Platone nella palestra di Taurea dopo la battaglia di Potidea (§ 37/Charm. 153a); la sfilza di sventure che possono colpire il tiranno (§ 39/Resp. 577c–580c); una reminiscenza del mito di Gige (§ 42/Resp. 359c–360d, 612b)71. A livello lessicale e stilistico, hanno una matrice platonica alcune forme di invocazione (§ 12: ὦ θαυμάσιε; § 14: ὦ γενναῖε … ὦ ἄριστε ... ὦ βέλτιστε; § 15: ὦγαθέ; § 35: ὦ μακάριε), alcune formule della lingua parlata (§ 2: εἰ τοίνυν ἐγὼ Ἀδείμαντον οἶδα/Phaedr. 228 a: εἰ ἐγὼ Φαῖδρον ἀγνοῶ; 17: πρῶτος ἄρξεται/Symp. 177d, 178a) e determinati termini (§ 1: φιλοθεάμων; § 30: ἄφιππός, θυμοειδής). 1.4.4  La ‘Popularphilosophie’ e la diatriba Un buon numero di motivi presenti nel dialogo appartengono alla tradizione della diatriba e della cosiddetta ‘Popularphilosophie’72. Luciano riunisce 70 Similmente una festa in onore della dea Bendis al Pireo apre La repubblica o una conversazione fra Socrate e Fedro continuata presso l’Ilisso avvia il Fedro: Moricca 1914, pp. 322–324. 71 Per una parte della critica, le stesse preghiere rivolte dai tre amici agli dèi (§§ 18–46) potrebbero essere modellate sulla scelta offerta alle anime dopo la morte ricordata da Platone (Phaedr. 249b; Resp. 617e): Helm 1906, p. 337 s.; Anderson 1977, p. 363; cfr. Houston 1987, p. 446. 72 Sulla diatriba e la sua volgarizzazione vd. Heinze 1889; Oltramare 1926; Jagu 1979; Fuentes González 1998; sulla ‘Popularphilosophie’ vd. Moreschini 1994, pp. 5103–

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nelle preghiere di Adimanto, Samippo e Timolao una piccola collezione di desideri umani, collegati alle tre grandi categorie di ricchezza (Adimanto), dominio sul mondo (Samippo) e potere assoluto (Timolao), su cui si appuntavano le critiche della filosofia morale. Dallo scontro fra l’esposizione di tali desideri e l’azione critica di Licino si producono tre dibattiti (§§ 18–27, 28–40 e 41–45) a cui fanno da epilogo le considerazioni finali dello stesso Licino (§ 46), che hanno lo scopo di esaltare la vita dell’uomo semplice, capace di trovare la sua strada senza ricorrere a un peculiare credo filosofico o religioso, di orientarsi a seconda della situazione contingente, di rimanere moderato nelle sue scelte73. Ecco dunque che La nave fornisce una piccola summa dei principali temi diatribici sfruttati da Luciano e dagli intellettuali di età imperiale per criticare la realtà circostante e i mille vizi e difetti degli esseri umani. • Gli uomini avidi sono infelici (§ 21: καὶ πλουτῶν ἄθλιος ἀπόλῃ λιμῷ διαφθαρεὶς πολυτελεῖ). • Il possesso di suppellettili e oggetti lussuosi è inutile (§ 21: Ἢ σὺ δέξῃ παρ᾽ αὐτοῦ ἀμογητὶ οὐ σκύφον, ἀλλὰ Σισύφειόν τι βάρος ἀναδιδόντος;). • La ricchezza non fa che aumentare i bisogni a dismisura e rende schiavi delle passioni (§ 21: Ὅρα μόνον μὴ ὥσπερ τῷ Μίδᾳ καὶ ὁ ἄρτος σοι … χρυσὸς γένηται). • I ricchi in realtà sono poveri e gli avidi sono infelici (§ 21: καὶ πλουτῶν ἄθλιος ἀπόλῃ λιμῷ διαφθαρεὶς πολυτελεῖ). • L’acquisto di vestiti e gioielli lussuosi è inutile e dannoso (§ 22: Ἐσθὴς ἐπὶ τούτοις ἁλουργὶς καὶ ὁ βίος οἷος ἁβρότατος). • Bisogna evitare il possesso di schiavi e servitori in quanto pratica contro natura (§ 22: θυρωροὶ ἑπτὰ ἐφεστῶτες, εὐμεγέθεις βάρβαροι). • L’avaro accumula beni per il solo piacere di contarli (§ 25: μεδίμνους ἐπισήμου χρυσίου παραμετρῆσαι). 5105: si tratta di un patrimonio di nozioni filosofiche «prima apprese alla scuola del rhetor, poi divulgate nelle conferenze e nei discorsi epidittici, non quelle che si insegnavano nelle scuole filosofiche», con cui si produceva «una piu ampia diffusione della filosofia, ma anche una sua semplificazione e una volgarizzazione». Sulla relazione fra i Dialoghi e il pensiero filosofico è interessante la puntualizzazione di König - Whitmarsh 2007, p. 14: «Lucian’s satire offers a different – and by implication ‘loftier’ – epistemological order to philosophy […]. Lucian’s negative epistemology […] is itself parasitical upon philosophy. […]. Lucian constructs satire […] as metaphilosophy. It is centrally preoccupied with philosophical questions of truth and knowledge; but at the same time, it exists above and beyond the mundane, interdogmatic squabbles of the philosophical sects». 73 È ciò che accade anche nella parte centrale del Timone (§§ 11–40): Anderson 1976, p. 156 s. Uno splendido manifesto della morale lucianea è il Menippo, in cui si condannano l’ignoranza e l’incertezza (τὴν ἄγνοιαν καὶ τὴν ἀπορίαν) di ogni dottrina filosofica e si esalta la vita degli uomini comuni (τὸν τῶν ἰδιοτῶν βίον), una vita aurea fatta di scelte libere e consapevoli (Men. 4).



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• Bisogna fuggire il lusso (§ 26: Ὅτι … ἄδηλον ὁπόσον χρόνον βιώσει πλουτῶν). • La ricchezza non è un bene e gli avidi non sanno godere di quel che hanno (§ 26: τοὺς μὲν αὐτίκα πρὶν ἀπολαῦσαι τοῦ πλούτου ἀποθανόντας). • I doni della fortuna sono indifferenti (§ 26: ἐνίους δὲ καὶ ζῶντας … ὑπό τινος βασκάνου πρὸς τὰ τοιαῦτα δαίμονος;). • Bisogna astenersi dal consumo di cibi ricercati (§ 27: Ἢ οὐχ ὁρᾷς πολλοὺς τῶν πλουσίων … ὑπὸ τῶν ἀλγηδόνων). • La ricchezza scatena crimini e mali di ogni sorta (§ 27: ὅσας ἐπιβουλὰς μετὰ τοῦ πλούτου … καὶ μῖσος παρὰ τῶν πολλῶν). • Il potere non è un bene (§ 39: Παρὰ πολύ … ἐπιπονώτερα καὶ βιαιότερα τῶν Ἀδειμάντου … καὶ ἐφρόντιζες νύκτωρ καὶ μεθ᾽ ἡμέραν; ἀλλὰ δόξα μόνη … καὶ δορυφόροι προϊόντες). • L’amicizia e l’amore veri sono appannaggio dei saggi, i soli a evitare adu­ latori e parassiti (§ 39: φίλος δὲ οὐδεὶς ἀληθής, ἀλλὰ … πρὸς τὴν ἐλπίδα εὖνοι δοκοῦντες εἶναι). • La gloria non è un bene (§ 39: ἀλλὰ δόξα μόνη … καὶ δορυφόροι προϊόντες). • La potenza non è un bene e il saggio non si occupa di guerre e di affari pubblici (§ 39: τὰ δ᾽ ἄλλα κάματος ἀφόρητος … ἢ ἐπελαύνουσί τινες τῶν ἔξω τῆς ἀρχῆς). • La virtù porta alla felicità ed è l’unico obiettivo del saggio (§ 39: Δεδιέναι οὖν δεῖ πάντα … ἢ ὑπο σεαυτοῦ εὐδαιμονίζεσθαι). • Onori, templi e oggetti di culto sono inutili e non meritano alcun rispetto (§ 40: Εἰκόνες δὲ ἐκεῖναι καὶ νεῴ … καὶ τὸ μέγα ὄνομα). • Bisogna abbandonare la vita senza paure e senza rimpianti (§ 40: πάντα κατ᾽ ὀλίγον ὑπορρεῖ καὶ ἄπεισιν ἀμελούμενα). • Bisogna rinunciare allo studio dei fenomeni fisici (§ 44: Ἔτι δὲ καὶ ἀστέρων φύσιν … ἔγνων ἂν ἀπαθὴς ὢν τῷ πυρί). • La forza fisica non è un bene (§ 45: ἐπὶ δακτυλίου μικροῦ ὀχούμενον, ὄρη ὅλα κινεῖν … δυνάμενον). • Gli uomini sono per lo più folli (§ 45: ἑνὸς τοῦ ἀναγκαιοτάτου προσδεῖ, ὃς περιθέμενόν σε παύσει μωραίνοντα). • Bisogna sovvertire tutti i valori fissati dalla tradizione e, come i saggi, soddisfare i nostri bisogni nel modo più semplice possibile e ricercare come vero bene la virtù (§ 46: οὐ δέομαι εὐχῆς ἐγώ). • Gli uomini devono adattarsi alle circostanze della vita come gli attori si adattano ai diversi ruoli che interpretano (§ 46: ὥσπερ οἱ τοὺς βασιλεῖς ὑποκρινόμενοι … λιμώττοντες οἱ πολλοί)74.

74 Per un’analisi più dettagliata si rimanda al commento ad loc. dei singoli loci citati.

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Su suggestione della diatriba, Luciano ama anche utilizzare, a fini pedagogici, paragoni che equiparano l’insensatezza dell’uomo volgare a stati o età dell’uomo considerati imperfetti o degenerati (§ 11: οὕτω γὰρ μειρακιῶδες ὑμῖν δόξει τὸ φρόντισμα), gli stolti che non usano la ragione a celebri peccatori del mito e della storia (§ 21: Adimanto è simile a Sisifo e a Mida), i parassiti e gli adulatori ad animali feroci e spietati come lupi e avvoltoi (§ 26: ἄπει γυψὶ καὶ κόραξι πάντα ἐκεῖνα καταλιπών). 1.4.5 Teofrasto La presenza di Teofrasto nei Dialoghi è negata dalla maggior parte degli studiosi con l’argomentazione che le opere filosofiche teofrastee non sarebbero state fra le letture scolastiche di Luciano. D’altro canto, ritengono vero il contrario alcuni critici e, fra tutti, Jacques Bompaire, secondo cui il fatto che nei Dialoghi ricorrano quattro proverbi reperibili anche nei Caratteri (fra cui κοινὸς Ἑρμῆς [Nav. 12/Char. 30, 9] e ἐς τὸν κόλπον οὐ πτύεις [Nav. 15/Char. 16, 14]) indurrebbe a ritenere che, nella scelta dei proverbi, Luciano sia condizionato dalle sue letture piuttosto che dalla sua esperienza personale75. Tale idea non ha, però, un solido fondamento, perché parliamo di espressioni tradizionali, comunissime nella lingua parlata, che uno scrittore non ha bisogno di recuperare da una particolare fonte, ma può inserire automaticamente nel testo per conferire maggior vivacità e naturalezza al suo dettato. In ogni caso, alcuni comportamenti dei protagonisti del dialogo riproducono quelli di alcuni tipi descritti nei Caratteri e, pur se non si può dimostrare un’influenza diretta di questi ultimi su Luciano, è interessante notarli76. Così Adimanto condivide tratti dello spaccone (ἀλαζών), che “ritto sul molo, narra ai forestieri che egli ha in mare grossi capitali, e spiega di che fatta siano i suoi affari di mutuo, e quanto egli ci abbia guadagnato e rimesso” (Char. 23, 2/Nav. 13), si vanta di possedere coppe preziose (Char. 23, 3/ Nav. 20) e spende e dona ai suoi concittadini denaro che non ha (Char. 23, 5–6/Nav. 24–25); marginalmente, ricorda anche i tipi dello spilorcio,

75 Bompaire 1958, p. 413 e n. 1; vd. ancora Householder 1941, p. 64 s.: Teofrasto non va incluso nell’elenco degli autori rielaborati da Luciano, che può averlo letto senza approfondirne lo studio; Macleod 1974: Luciano conosceva il Περὶ Ἱστορίας teofrasteo (come prova Hist.conscr.) e, forse, i Caratteri, che presumibilmente non ha sfruttato per la loro scarsa conoscenza fra il pubblico; Baldwin 1977: Luciano in più punti della sua opera sembra parodiare Teofrasto, autore ben conosciuto e apprezzato dai Greci e dai Romani; Anderson 1982, p. 89 s.; Martina 2002, pp. 223–239 (con bibliografia). 76 Le traduzioni dei Caratteri di Teofrasto citate sono quelle di Pasquali 2000.



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del gretto, dell’avido (Char. 10, 22, 30/Nav. 15, 25)77. Con la sua audace vanagloria, anche Samippo può essere accostato allo spaccone teofrasteo, capace “di prendersi gioco di un compagno di viaggio, narrandogli che ha preso parte alla spedizione di Alessandro e come se la diceva con lui”, e di dire “che gli sono già arrivate da Antipatro tre lettere che lo invitano ad andare in Macedonia” (Char. 23, 3–4/Nav. 28–38)78; a un tempo, questa figura somiglia al contafrottole (λογοποιός), che sotto i portici ateniesi vince battaglie per terra e per mare, e mentre a parole espugna città, viene frodato del pranzo (Char. 8, 12–13/Nav. 35 e 39). Licino ha qualcosa del codardo (δειλός), che teme i viaggi per mare e, ancor di più, la guerra, trovando ogni scusa pur di non combattere (Char. 25/Nav. 14, 19, 30–33, 37). 1.4.6 L’epos La presenza della tradizione epica nel dialogo è garantita da alcune reminiscenze desunte dall’opera omerica ed esiodea. In almeno un paio di occasioni Luciano parodia il testo omerico con la libertà che lo contraddistingue (§ 29: καὶ διακόσμει τό τε ἱππικὸν καὶ τοὺς ἀνέρας τοὺς ἀσπιδιώτας/Il. 2, 554: κοσμῆσαι ἵππους τε καὶ ἀνέρας ἀσπιδιώτας; § 46: οἴχηται ἀποπτάμενος/Il. 2, 71: ᾤχετ’ ἀποπτάμενος) e, almeno una volta, attinge direttamente dal lessico di Omero (§ 40: ἀγέλη, “gregge”, è di ascendenza omerica). A livello tematico, i servi d’oro desiderati da Adimanto (§ 21) sembrano affini alle ancelle auree che nell’Iliade aiutano Efesto (Il. 18, 417–418), mentre il desiderio di Timolao di osservare una battaglia dall’alto e poterne volgere le sorti a proprio piacimento, come un dio (§ 44), si ispira al modello omerico della divinità che dall’alto supervisiona ogni cosa e dirige le sorti degli uomini79. Il desiderio di Adimanto di possedere per prima cosa una casa (§ 20: εὐθὺς οὖν κατὰ τὸν Ἡσίοδον οἶκος τὸ πρῶτον) è sancito dal dotto riferimento alle Opere e i giorni di Esiodo (v. 405: οἶκον μὲν πρώτιστα γυναῖκά τε βοῦν τ᾽ ἀροτῆρα), la cui autorità è evocata dal giovane a garanzia della probità dei suoi sogni80. 77 In Nav. 28 Samippo critica la spilorceria di Adimanto sostenendo che non si sarebbe comportato da taccagno (οὐδὲ μικρολογήσομαι) come lui chiedendo agli dèi un tesoro e oro misurato. 78 Anderson 1982, p. 89: «the juxtaposition of these items in both authors is important in itself, all the more so when Lucian seems to have cross-fertilized his material with distinctive details from several other portraits». 79 Vd. comm. ad § 44: τὸ πάντων ἥδιστον… ἀριστήσαντα… ἐν Συρίᾳ δειπνῆσαι ἐν Ἰταλίᾳ. 80 Bompaire 1958, p. 537: all’opera di Luciano «la masse des allusions ou des em­ prunts […] donne substance et ampleur»; Pinto 1974, p. 989 s.: pur se «la predile-

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1.4.7  La tragedia Alla tragedia possono essere ricondotti solo pochi elementi. A livello lessicale, sono da segnalare l’uso dell’aggettivo σκαιός (§ 4), tipico del linguaggio tragico, e di particolari esclamazioni come παπαῖ (§ 29). Dello stile alto è anche il paragone fra uomini e serpenti (§ 44: ἀεὶ ἀποδυόμενον τὸ γῆρας ὥσπερ οἱ ὄφεις). 1.4.8  La storia Tucidide è evocato come autorevole testimone della moda delle cicale d’oro che un tempo abbellivano le acconciature degli ateniesi (§ 3). Il riferimento è al celebre proemio delle Storie tucididee, parte fondamentale del bagaglio selezionato di conoscenze scolastiche condivise fra l’autore e il suo pubblico, e si basa sulle modalità di ripresa tradizionalmente impiegate nei Dialoghi per le opere in prosa, per cui «non c’è citazione diretta, ma spesso un riassunto, talvolta con menzione dell’opera a cui si sta attingendo, talvolta invece più generico»81. Nella proposta di Samippo di chiedere a un immaginario squadrone di cavalieri di votare per l’elezione di Adimanto a loro comandante, e nella successiva replica di quest’ultimo (§ 31), è da vedere una parodia dell’Anabasi di Senofonte (7, 3, 6) e, probabilmente, anche dell’Anabasi di Alessandro di Arriano (2, 8, 11). Lo stesso può dirsi per la descrizione del costume persiano che prevedeva il re al centro dello schieramento in battaglia (§ 31/Xen. An. 1, 8, 21; Arr. An. 2, 8, 11). La critica non sembra essersi accorta finora che anche la descrizione dello scontro finale fra Samippo e il Gran re potrebbe riecheggiare in alcuni punti l’opera arrianea (§ 34: παρασκευάζεται ἱππέας τε ὅτι πλείστους μεταπεμπόμενος καὶ τοξότας καὶ σφενδονήτας/An. 2, 7, 8: οὐδὲ ὅση ἄλλη σφίσιν ἵππος ξυντέτακται, οὐδὲ τοξοτῶν ἢ σφενδονητῶν; § 36: ἀλαλάξαντες καὶ τὰ δόρατα κρούσαντες πρὸς τὰς ἀσπίδας/Arr. An. 1, 6, 4: ἐπαλαλάξαι ἐκέλευσε τοὺς Μακεδόνας καὶ τοῖς δόρασι δουπῆσαι πρὸς τὰς ἀσπίδας). zione per le citazioni è caratteristica di tutti gli autori antichi, […] la frequenza, nelle opere di Luciano, di citazioni che provengono dalle più varie fonti della poesia e della prosa greca sta a testimoniare la straordinaria ricettività di questo scrittore e la sua singolare attitudine a farsi eco di tutte le voci della vita»; sull’uso della tradizione poetica da parte di Luciano restano fondamentali gli studi di Ziegeler 1872, Schulze 1883, Ledergerber 1905. Per la mentalità greca i giudizi dei poeti costituivano un vademecum utile in ogni ambito della vita, come illustra la risoluzione della contesa fra Megara e Atene per il possesso di Salamina da parte degli Spartani, arbitri della lite, tramite la citazione di un passo omerico: Plut. Sol. 10. 81 Raina 2006, p. 207 s.



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1.5  La nave e la realtà contemporanea 1.5.1  Dal Pireo alle mura di Atene L’arte di un sofista aveva come scopo precipuo quello di rinnovare ed esaltare le glorie della Grecia, infondendo nell’ascoltatore un senso di nostalgia mista a patriottico orgoglio, e si fondava per questo su un nutrito repertorio di figure, eventi, luoghi mitici o storici celeberrimi, simbolo di un’epoca passata e degna di venerazione82. Non a caso La nave è ambientata in alcuni dei luoghi più caratteristici della storia di Atene: il Pireo (§ 1); la passeggiata di quaranta stadi dal mare fino in città, caratterizzata dalla presenza di maestosi alberi di ulivo (§§ 16–17, 35); la monumentale porta del Dipylon, punto di accesso al centro urbano ateniese (§§ 17 e 46); l’isola di Egina, nel golfo Saronico (§ 15); il monte Parnete (§ 19); la piana di Eleusi (§ 20). Il dialogo si apre avendo come sfondo il Pireo, la principale e più famosa area portuale ateniese, fatto attrezzare da Temistocle sotto il suo arcontato (493/492 a.C.) con una delle più complesse opere di fortificazione di tutta la Grecia classica tramite l’allestimento a porto di tutte e tre le baie che si aprivano nella zona: quelle del Kantharos, di Zea e di Munichia83. Tali strutture, distrutte dagli Spartani nel 403 a.C. e ricostruite da Conone alla fine della guerra del Peloponneso, furono successivamente potenziate da Licurgo, che promosse la costruzione dell’imponente arsenale di Filone, più tardi compromesso e semidistrutto dall’assedio di Silla (86 a.C.)84. Fino all’inizio delle indagini archeologiche nell’area si riteneva che la distruzione operata da Silla avesse inferto al Pireo un colpo mortale e, di conseguenza, che all’epoca degli Antonini quello che era stato il maggiore porto di Atene fosse ormai in una penosa condizione di decadenza; rafforzava quest’ipotesi il resoconto di Strabone, che in età augustea descriveva il drastico ridimensionamento del Pireo, ridotto a un piccolo villaggio stretto intorno al santuario di Zeus Soter85. Oggi sappiamo, invece, che in 82 Tale atteggiamento è ciò che Bompaire 1994, p. 70 definisce «un atticisme intellectuel, reflet de la culture des sophistes, qui est au départ de l’école»; sulla rappresentazione di Atene in Luciano vd. Delz 1950; Anderson 1994, praes. p. 1426 s.: in Luciano «much of his treatment of the contemporary world is plausible or quasi-realistic without being ‘true’ or necessarily so»; Bompaire 1994, pp. 72–74; Follet 1994; Oudot-Lutz 1994; Bompaire 2000, p. 291; Nesselrath 2009. 83 Paus. 1, 1, 2; Frazer 1923, pp. 182–196; Beschi - Musti 1982 ad Paus. 1, 1, 2 (pp. 251–254). I riferimenti di Luciano all’esistenza di strutture portuali ad Atene fin dall’inizio del VI sec. a.C. (Anach. 20; Scyth. 3) vanno interpretati come anacronismi. Per le strutture del Pireo vd. almeno von Eickstedt 1991. 84 Paus. 1, 29, 16. 85 Plut. Sull. 14; App. Mith. 40–41; Strab. 9, 1, 15.

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età antonina la ricostruzione dei ricoveri per le navi doveva esser stata di sicuro parzialmente completata e che l’area doveva essere ancora un punto vitale di Atene, come attestano, oltre alle prove archeologiche, le testimonianze di Pausania (1, 1, 3) e Filostrato (V. Apoll. 4, 17) e i numerosi riferimenti di Luciano, che presenta il Pireo come un luogo in cui fervevano le attività religiose (J. tr. 15) e commerciali (D. meretr. 4, 2; 6, 1; Pisc. 47) e dove i ricchi desideravano abitare (D. mort. 27 [22], 7)86. Licino e i suoi compagni giungono al porto dalla parte bassa della città di Atene, denominata tradizionalmente ἄστυ (§ 1). La via Atene-Pireo, più importante di quella Atene-Falero e più celebre nelle fonti letterarie antiche, è ricordata spesso da Luciano (J. tr. 15; D. meretr. 4, 2; Scyth. 3), che nella Nave vi fa più volte allusione (§§ 16, 35, 39). Anticamente le strade che collegavano il Pireo ad Atene erano due: la prima correva all’interno delle Lunghe mura (ed era utilizzata prevalentemente in tempo di guerra), la seconda all’esterno. È quest’ultima che Licino e i suoi tre amici percorrono tornando a casa, fermandosi a riposare lungo il cammino su una stele abbattuta nei pressi di un oliveto (§ 35)87. I quattro non fanno alcun accenno alle Lunghe Mura, che in antico si innalzavano imponenti lungo la campagna ateniese, giacché nel II secolo d.C. non ne restavano che pochi resti, scarse vestigia di un passato glorioso e di una potenza perduta88. La strada che partiva dal Pireo conduceva al settore occidentale della città: qui la cinta muraria era ancora perfettamente efficiente in età romana e vi si aprivano una serie di porte, fra cui quella del Dipylon, ricordata come termine del cammino dei quattro amici (Nav. 17), era la più imponente e maestosa. Dal Dipylon partivano tre strade, tutte ugualmente importanti per Atene. La prima si dirigeva verso sud-ovest ed era quella che collegava la città con il Pireo. La seconda (menzionata in Nav. 20), che andava verso ovest arrivando fino a Eleusi, era un’arteria stradale importantissima: era detta anche Via Sacra perché vi venivano condotte numerose processioni solenni, fra cui quella delle Panatenee (a cui si fa riferimento in Nav. 24), che iniziava dal santuario eleusino di Demetra e 86 In età imperiale il centro cultuale principale del Pireo era il grande santuario di Zeus e Atena: Paus. 1, 1, 3; Beschi - Musti 1982 ad loc. (p. 254). Nell’area del porto si trovavano altri importanti luoghi di culto dedicati a Cibele e a Iside, qui venerate fin dal IV sec. a.C.: Dunand 1998, pp. 366–375. Il Pireo era un luogo di residenza per i ricchi, a cui era concesso costruire case di un certo lusso solo lontano dalla parte alta della città, dove si trovavano gli edifici pubblici: Pesando 1987, pp. 15–67. 87 Xen. Hell. 2, 4, 10; Plat. Resp. 4, 439e; Pol. 16, 25. 88 Paus. 1, 2, 2. L‘unico riferimento di Luciano alle Lunghe Mura è in Hist. conscr. 15, ma è solo un accenno inserito nella discussione del brano tucidideo sull‘assembramento dei contadini attici lungo il Pelasgikón e le Lunghe Mura durante la peste di Atene (Thuc. 2, 17).



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raggiungeva attraverso l’agora l’acropoli ateniese. La terza via, infine, volgeva a nord-ovest verso l’Accademia ed era fiancheggiata da numerose tombe, poiché fin dal Medio Elladico (fine del III-inizi del II millennio a.C.) gli Ateniesi avevano utilizzato per scopi funerari l’area del Ceramico esterno (Scyth. 1–2)89. 1.5.2  L’Iside e il suo viaggio Con la descrizione dell’Iside e del suo viaggio (§§ 5–9) Luciano realizza un’affascinante creazione sofistica, costantemente in bilico fra tradizione letteraria e realtà contemporanea, la cui ambiguità ha generato un ampio dibattito fra gli studiosi moderni, divisi fra il considerarla aderente al piano del reale, in tutto o almeno in parte, o il ritenerla un semplice prodotto della fantasia lucianea90. Svariati elementi tematici e linguistici presenti nel dialogo sono ispirati all’opera di Platone, primo fra tutti il motivo occasionale che dà avvio al dialogo: l’arrivo di una nave straordinaria nel porto ateniese e l’accorrere di una folla di curiosi ad ammirarla (cfr. supra ad § 1.4.3). Palesemente fittizi sono alcuni particolari quali l’incredibile numero di marinai dell’Iside (§ 6) e la smisurata quantità del suo carico (§ 6). Frutto della fantasia lucianea si mostra, soprattutto, il resoconto del travagliato viaggio dell’Iside dall’Egitto all’Italia (vd. tav. 15) e del suo fortunoso approdo ad Atene (§§ 7–9), intessuto di svariati motivi tipici dei racconti marinareschi dei romanzi: la tempesta spaventosa che sorprende in mare i naviganti (§ 7); la pericolosità della navigazione al largo delle Chelidonie (§ 7); la portata gigantesca delle onde marine (§ 8); il provvidenziale aiuto divino offerto all’imbarcazione in difficoltà dai Dioscuri (§ 9); il doppiaggio del capo Malea (§ 9)91. Identico scenario si ritrova nell’incipit dell’Intorno ai dotti che convivono per mercede, in cui Luciano denuncia espressamente l’inverosimiglianza delle storie di mare, create per i creduloni e per gli amanti del meraviglioso, parago89 Travlos 1971, pp. 299–301, figg. 391–424; Beschi 1994, p. 504 s. 90 Propendono più o meno decisamente per la reale esistenza dell’Iside: Radermacher 1911, p. 224; Moricca 1914, p. 317 (Luciano può aver visto l’Iside, ma può averne esagerato la grandezza e immaginato alcuni dettagli); Husson I, 1970, pp. 12–14; Casson 1950, pp. 44–51 (tale ricostruzione è criticata da Isserlin 1955 e nuovamente difesa da Casson 1956); Id. 1971, p. 186; Jones 1986, p. 158 (nella Nave ricorrono numerosi echi della Repubblica platonica, ma né l’Iside né il suo viaggio possono riecheggiare Platone); Janni 1996, pp. 403–413; contra Bompaire, 1958, p. 535; Anderson 1976, p. 39 s.; Id. 1977; Id. 1993, pp. 220–223; Id. 1994, p. 1439 s.; Id. 1997, p. 2196; Robinson 1979, p. 16; Houston 1987. 91 A rafforzare l’atmosfera di meraviglia che caratterizza la prima parte del dialogo è anche l’impiego di termini come gli attributi θαυμάσιος (§§ 5, 6, 9, 11) e παράδοξος (§ 1) e il predicato θαυμάζω (§ 4).

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nandole a finzioni drammatiche (τραγῳδίαι) ed equiparando gli intellettuali greci al soldo dei ricchi Romani a naufraghi, la cui esperienza è destinata a concludersi in maniera felice o sventurata a seconda che riescano o meno a liberarsi dalla dipendenza dai loro patroni: “con interesse, dunque, e con attenzione li ascoltavo, come se raccontassero un loro naufragio e il salvataggio inaspettato, simili a quelli che siedono all’ingresso dei templi col capo rasato e in molti insieme raccontano di terze ondate, di uragani, di promontorii, di gettate del carico, di spezzature dell’albero maestro, di stroncature di timoni e, soprattutto, dell’apparizione dei Dioscuri – che in un dramma di questo genere sono di casa – e di qualche altro deus ex machina seduto sulla coffa o in piedi davanti al timone, intento a dirigere la nave verso una spiaggia soffice, dove essa, una volta giunta, ha avuto tutto il tempo di sfasciarsi piano piano e loro sono sbarcati senza pericolo per grazia e benevolenza del dio. Costoro dunque fanno in stile tragico questi molti racconti per il bisogno del momento, per prendere da più persone avendo l’aria di essere non solo sventurati, ma anche cari agli dèi. Quelli invece che descrivevano le burrasche scoppiate nelle case, le terze ondate e, per Zeus, se si potesse dire, le quinte e le decime, e narravano come dapprima salparono col mare calmo, quante difficoltà dovettero affrontare durante tutta la navigazione soffrendo la sete o il mal di mare o sommersi dall’acqua imbarcata e come, alla fine, fracassata la povera navicella contro una roccia subacquea o i dirupi di una scogliera, sciaguratamente degni di compassione scamparono a nuoto nudi e bisognosi di tutto, ebbene mi sembrava che nel racconto di queste disavventure per vergogna ne celassero e volontariamente dimenticassero la maggior parte”92.

Ricorrono in questa duplice fantasia marinaresca, dall’intento dichiaratamente cri­tico, tutti i dettagli che ritroviamo nell’avventuroso racconto del viaggio dell’Iside attraverso il Mediterraneo. Ciò non fa che confermare l’idea che nella Nave Luciano si diverta a parodiare la tradizione dei racconti di mare 92 Merc. cond. 1–2: οὐ παρέργως οὖν οὐδὲ ἀμελῶς ἐπήκουον αὐτῶν καθάπερ ναυαγίαν τινὰ καὶ σωτηρίαν αὑτῶν παράλογον διηγουμένων, οἷοί εἰσιν οἱ πρὸς τοῖς ἱεροῖς ἐξυρημένοι τὰς κεφαλὰς συνάμα πολλοὶ τὰς τρικυμίας καὶ ζάλας καὶ ἀκρωτήρια καὶ ἐκβολὰς καὶ ἱστοῦ κλάσεις καὶ πηδαλίων ἀποκαυλίσεις διεξιόντες, ἐπὶ πᾶσι δὲ τοὺς Διοσκούρους ἐπιφαινομένους — οἰκεῖοι γὰρ τῆς τοιαύτης τραγῳδίας οὗτοί γε — ἢ τιν᾽ ἄλλον ἐκ μηχανῆς θεὸν ἐπὶ τῷ καρχησίῳ καθεζόμενον ἢ πρὸς τοῖς πηδαλίοις ἑστῶτα καὶ πρός τινα ᾐόνα μαλακὴν ἀπευθύνοντα τὴν ναῦν, οἷ προσενεχθεῖσα ἔμελλεν αὐτὴ μὲν ἠρέμα καὶ κατὰ σχολὴν διαλυθήσεσθαι, αὐτοὶ δὲ ἀσφαλῶς ἀποβήσεσθαι χάριτι καὶ εὐμενείᾳ τοῦ θεοῦ. Ἐκεῖνοι μὲν οὖν τὰ πολλὰ ταῦτα πρὸς τὴν χρείαν τὴν παραυτίκα ἐπιτραγῳδοῦσιν ὡς παρὰ πλειόνων λαμβάνοιεν, οὐ δυστυχεῖς μόνον ἀλλὰ καὶ θεοφιλεῖς τινες εἶναι δοκοῦντες· οἱ δὲ τοὺς ἐν ταῖς οἰκίαις χειμῶνας καὶ τὰς τρικυμίας καὶ νὴ Δία πεντακυμίας τε καὶ δεκακυμίας, εἰ οἷόν τε εἰπεῖν, διηγούμενοι, καὶ ὡς τὸ πρῶτον εἰσέπλευσαν, γαληνοῦ ὑποφαινομένου τοῦ πελάγους, καὶ ὅσα πράγματα παρὰ τὸν πλοῦν ὅλον ὑπέμειναν ἢ διψῶντες ἢ ναυτιῶντες ἢ ὑπεραντλούμενοι τῇ ἅλμῃ, καὶ τέλος ὡς πρὸς πέτραν τινὰ ὕφαλον ἢ σκόπελον ἀπόκρημνον περιρρήξαντες τὸ δύστηνον σκαφίδιον ἄθλιοι κακῶς ἐξενήξαντο γυμνοὶ καὶ πάντων ἐνδεεῖς τῶν ἀναγκαίων — ἐν δὴ τούτοις καὶ τῇ τούτων διηγήσει ἐδόκουν μοι τὰ πολλὰ οὗτοι ὑπ᾽ αἰσχύνης ἐπικρύπτεσθαι, καὶ ἑκόντες εἶναι ἐπιλανθάνεσθαι αὐτῶν.



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e, a un tempo, a prendere in giro quanti alla sua epoca continuavano a inventarne di nuovi e a diffonderli per le vie dell’Impero, vuoi gli scrittori di romanzi vuoi quei ciarlatani “che siedono all’ingresso dei templi col capo rasato” nominati nell’Intorno ai dotti che convivono per mercede. Fra l’altro, che Luciano ami manipolare materiale letterario pertinente al mondo nautico lo confermano ancora svariati altri indizi all’interno della sua produzione, come la ricorrente descrizione di Caronte come esperto marinaio (Cont. 1–3; D. mort. 4 [14], 1), la ripresa della tradizionale raffigurazione del mondo come una nave (parodia della filosofia stoica: J. tr. 47–48) e, soprattutto, la narrazione del naufragio, ricca di spunti omerici, della Storia vera93. Non a caso il nostro dialogo, a tratti, sembra tradire le stesse ambizioni letterarie del poema epigrafico di Giuliano di Laodicea, contemporaneo di Luciano, in cui un armatore vanta i suoi traffici commerciali fra Oriente e Occidente94. Oltre alla tradizione letteraria, lo scrittore naturalmente può anche essersi lasciato ispirare, in non poche occasioni, dall’esperienza diretta del viaggio, com’è per alcuni altri loci che sembrano modellati su una visione concreta della realtà (Philops. 39; Bis acc. 27; vd anche ps.-Luc. Amor. 7). Il motivo del viaggio è, del resto, uno dei più diffusi all’interno del corpus lucianeum, in quanto offre allo scrittore possibilità immense per esplorare tutte le possibili sfaccettature dialettiche esistenti fra realtà e finzione, come dimostra l’esempio della Storia vera95. Ciò premesso, cruciale resta la descrizione dell’Iside, che occorre analizzare dettagliatamente per capire in che misura sia debitrice della tradizione o della realtà contemporanea96. Le dimensioni della nave sono riferite da Samippo in maniera soltanto parziale (§ 5): da qui principalmente è derivata «la solita discordia nei tentativi fatti dagli studiosi di valutare la portata (non la stazza) della grande nave granaria. Una diligente rassegna nella vecchia bibliografia mostra un’oscillazione delle stime da 1.100 a 3.500 tonnellate»97. Di contro, i numerosi particolari dell’Iside elencati subito dopo (§ 5), pur rientrando nella sfera delle competenze nautiche di un sofista, sono tutti realistici98. È lo stesso Samippo a ricordarli. Dopo aver menzionato i componenti dell’alberatura, vale a dire l’albero maestro (ἱστός), l’antenna a cui si issava la vela (κεραία) e lo 93 Betz 1961, p. 174; Anderson 1976, p. 39 s.; Andreani 1998, praes. p. 134 s. 94 Anderson 1994, p. 1439 s.; Id. 1997, p. 2196. 95 Espelosín 2010, praes. pp. 173 s., 181 s.; cfr. Carsana 2008, p. 178 sul motivo ricorrente in Luciano del viaggio in mondi altri rispetto a quello dell’oikoumene conosciuta, come lo spostamento dalla terra alla luna (Icar.), dall’Ade alla terra (Cont.) e dalla terra all’Ade (Men.). 96 Per un’analisi dettagliata dei singoli particolari della descrizione rinvio al commento ad loc. 97 Janni 1996, p. 407 (con bibliografia). 98 Per ciascuno di questi rimando al commento ad loc.

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straglio (πρότονος) che serviva ad assicurare la stabilità dell’albero, passa alla parte posteriore, la poppa (πρύμνα), di cui ricorda la vistosa curvatura verso l’alto, tipica delle navi dell’epoca e, ancora, l’ochetta d’oro (χρυσοῦν χηνίσκον) che l’abbelliva. Descrive poi la parte anteriore, la prua (πρῷρα), dominata da entrambi i lati dalla raffigurazione di Iside, la dea che dà il nome alla nave (τὴν ἐπώνυμον τῆς νεὼς θεὸν ἔχουσα τὴν Ἶσιν ἑκατέρωθεν) e ne rappresenta l’emblema portafortuna. Continua con la menzione delle pitture (αἱ γραφαί), una normale decorazione delle navi mercantili nell’antichità, e del “parrocchetto rosso come il fuoco” (τοῦ ἱστίου τὸ παράσειον πυραυγές), probabilmente una sorta di bandiera di segnalazione. Per finire, cita alcuni accessori come le ancore (αἱ ἄγκυραι), gli argani (στροφεῖα) e i verricelli (περιαγωγεῖς), poi torna a descrivere la poppa ricordando le cabine qui collocate (αἱ κατὰ τὴν πρύμναν οἰκήσεις), destinate a ospitare il personale della nave o personaggi di riguardo. Lionel Casson, che ha dedicato grande attenzione all’Iside, ha pensato di metterla a confronto con un’altra imbarcazione dalle dimensioni simili, di cui si possa essere in possesso di tutte le misure. La sua scelta è caduta su una di quelle grosse navi mercantili romane, raffigurate in numerosi rilievi di epoca imperiale, pressoché identiche a una delle navi che componevano nel Cinquecento la flotta della Repubblica di Venezia e di cui conosciamo tutti i dettagli grazie ai numerosi documenti e alle pitture dell’epoca99. In base al confronto fra i due vascelli e grazie a un particolare calcolo empirico, lo studioso ha ovviato al problema della mancanza della lunghezza della chiglia nella descrizione lucianea arrivando a proporre per l’Iside un tonnellaggio di poco più di 1200 tonnellate100. A suo dire, dopo la caduta dell’impero romano navi di questo tipo non apparvero più fino alla fine del XVIII secolo, quando la Compagnia delle Indie Orientali iniziò a usare imbarcazioni dal tonnellaggio oscillante fra le 800 e le 1200 tonnellate. Jean Rougé, pur stimando per l’Iside una capacità di poco più di 3200 tonnellate, si dimostra scettico sulla sua esistenza, sia perché risulta spesso difficile giungere a conclusioni certe nel campo della navigazione nell’antichità, data l’esiguità delle testimonianze materiali a disposizione e la frequente difficoltà di interpretarle correttamente, sia a causa delle evidenti esagerazioni e dei particolari romanzeschi inseriti nel racconto lucianeo101.

 99 Casson 1950, pp. 51–56; Id. 1971, pp. 183–190, praes. 186–188, e 224–258. 100 Riguardo alla fondatezza del metodo comparativo di Casson si segnala la ricostruzione di una nave da guerra italica tentata a Novilara (PS) e fondata su una stele di VI sec. a.C., rinvenuta in situ, recante incisa la rappresentazione di una battaglia navale: Luni 2001. 101 Rougé 1966, pp. 69–71; Id. 1975, pp. 83–87.



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Allo stato attuale delle ricerche, non possiamo escludere che l’ipotesi di Casson, ben accetta da una parte della critica, sia plausibile102. Se è vero, infatti, che le grosse navi da trasporto romane avevano ordinariamente un tonnellaggio che si aggirava fra le 340 e le 650 tonnellate (misura dettata soprattutto da motivi di ordine pratico, come la manovrabilità dello scafo e la manutenzione generale della nave), è pur vero che l’ingegneria navale romana già nel I sec. d.C. era arrivata alla costruzione di imbarcazioni enormi. Lo testimoniano le due mastodontiche e lussuosissime navi di Caligola, estratte dal lago di Nemi fra il 1928 e il 1932 e sfortunatamente andate distrutte in un incendio nel 1944, le cui misure erano di molto superiori a quelle dell’Iside (71,30 x 20 metri per la prima nave, 73 x 23,50 per la seconda) e che rappresentano due eccellenti esempi dell’alto grado di specializzazione raggiunto dai cantieri navali romani, pur non essendo state costruite per la navigazione103. L’antichità ci ha tramandato, inoltre, le descrizioni di almeno altre due navi da carico eccezionali: la prima è la Syrakosía-Alexandrís costruita nel III secolo a.C. da Ierone II per il trasporto del grano in Egitto per Tolemeo III (Ath. 5, 206c–209b), la seconda è quella fatta realizzare nel I secolo d.C. da Caligola per il trasporto a Roma dell’obelisco del Vaticano e del suo piedistallo (Plin. NH 16, 76). Per la prima nave Casson propone un tonnellaggio di poco meno di 2000 tonnellate, per la seconda uno più o meno simile a quello dell’Iside104. 102 Husson 1970, II, ad Luc. Nav. 5 (pp. 12–14): una nave come l’Iside avrebbe potuto esser costruita, come evidenzia il confronto fra questa imbarcazione e una delle prime scoperte dell’archeologia subacquea, la nave di Mahdia (I sec. a.C.), che superava i 40 metri di lunghezza e ne misurava circa 12 di larghezza (contra Houston 1987, p. 450, n. 20: lo scafo sarebbe lungo 30 metri piuttosto che 40); Pomey 1982 e Gianfrotta - Nieto – Pomey - Tchernia 1997, pp. 88 s., 178–180: sembra che 40 metri di lunghezza per 9 di larghezza, con un tonnellaggio di circa 500 tonnellate, misurasse il relitto trovato in località La Madrague de Giens (I sec. a.C.), lungo le coste della Provenza; Rickman 2008, p. 8 s. 103 Ucelli 1950; Singer - Holmyard - Hall - Williams 1962, p. 581, n. 1; Pomey - Tchernia 1978; Casson 1994, pp. 137–140; Janni 1996, pp. 439–446; Bonino 2003. 104 Casson 1971, pp. 184–186, 188 s., 191–199; cfr. Janni 1996, pp. 447 s. Per la seconda nave il tonnellaggio si ricava facilmente: l’obelisco trasportato aveva un peso totale (piedistallo compreso) di 500 tonnellate, la zavorra era costituita da 800 tonnellate di lenticchie. Si trattava di uno di quei battelli costruiti per il trasporto del marmo di cui si servì anche Costantino per trasportare a Roma l’obelisco del Laterano, il maggiore degli obelischi esistenti, del peso di 450 tonnellate escluso il piedistallo (come ricorda Ammiano in 17, 4, 13–14). A testimoniare l’alto livello di specializzazione raggiunto dai cantieri navali fin dall’età ellenistica non sembra possibile invocare, invece, la mostruosa tessarakontéres di 280 cubiti di lunghezza e 38 di larghezza fatta costruire da Tolemeo IV d’Egitto ad Alessandria alla fine del III secolo (Janni 1996, pp. 425–439), che Lionel Casson, in base alla testimonianza di Ateneo (5, 203e–204b), interpreta come una sorta di gigantesco catamarano (Casson

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È tornato sulla questione, da ultimo, Wilfried Stecher, secondo il quale Luciano non costituisce una fonte di informazioni affidabile riguardo alla conformazione e alle modalità di viaggio delle antiche navi da carico romane105. Lo studioso parte dagli studi di Casson e ne confuta le conclusioni con una nutrita serie di considerazioni, prima fra tutte quella, inoppugnabile, secondo cui finora non sono stati rinvenuti i resti di nessuna nave delle dimensioni dell’Iside: le celebri e gigantesche navi di Nemi non costituiscono un termine di paragone utile, dal momento che, pur testimoniando la maestria dei cantieri navali romani, erano piattaforme galleggianti piuttosto che imbarcazioni vere e proprie; anche il confronto con la Madrague de Giens non è probante, perché questa imbarcazione, nonostante la sua imponenza, risulta di dimensioni inferiori rispetto all’Iside. In secondo luogo, il porto del Pireo presso cui l’Iside attracca doveva possedere un bacino simile a quello odierno ed essere profondo dai 6, 5 ai 7, 2 metri: tale profondità probabilmente non sarebbe stata sufficiente per una nave delle dimensioni dell’Iside. Inoltre, Luciano non riferisce in modo completo le dimensioni dell’Iside, ciò che non permette di calcolarne con precisione il tonnellaggio, e pur se Casson ne propone uno di portata lorda di circa 1288 tonnellate, probabilmente si deve correggere questo dato e proporre una cifra oscillante fra le 1850 e le 1900 tonnellate106: in tal modo la nave risulterebbe assai lenta e, inoltre, comporterebbe spese straordinarie di manutenzione e gestione, che un oculato armatore romano non avrebbe mai voluto sostenere. Per continuare, con un’estensione di circa 11 metri esistente fra il ponte della nave e la chiglia, dove si raggiunge la profondità maggiore all’interno della stiva, l’Iside non solo avrebbe dovuto esser dotata di alberi relativamente corti, ma anche l’estensione totale delle sue vele, da comprendersi fra i 600 e i 650 metri quadrati, sarebbe risultata insufficiente. Infine, un altro elemento poco veritiero all’interno della descrizione lucianea sono le connessure delle vele fatte di cuoio, un materiale inadatto a tale scopo107. 1994, pp. 86–88), ma che, più che una nave reale, è forse «un temutissimo spauracchio che si aggira nelle pagine di tutte le trattazioni» (Janni 1996, p. 433). 105 Stecher 2005. 106 Il tonnellaggio di portata lorda è la massa massima in tonnellate metriche di tutto il carico mobile che la nave può trasportare in condizioni di sicurezza e a pieno carico, nulla escluso, comprendendo combustibile, acqua, viveri, equipaggio, passeggeri, dotazioni di consumo, zavorra, merci varie, pezzi di ricambio e così via. 107 A conferma della sua tesi, lo studioso giudica non realistici anche determinati elementi della narrazione della cui natura letteraria, come detto in precedenza, non sembrano effettivamente esserci dubbi: lo straordinario divario fra le mostruose dimensioni del timone dell’Iside e la corporatura estremamente esile e debole del nocchiero; il romanzesco viaggio della nave, con tanto di allusione alla pericolosità delle Chelidonie; la durata totale della sua navigazione, palesemente esagerata.



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Risulta assai difficoltoso e azzardato, dunque, esprimere un giudizio definitivo sulla possibile esistenza di una nave come l’Iside. Si può auspicare, in ogni caso, che futuri ritrovamenti archeologici subacquei possano fornire ulteriori informazioni e permettere di esprimere un giudizio più sicuro su quella che, in ogni caso, resta una delle migliori e più affascinanti ekphraseis lucianee108. 1.5.3  Riferimenti diversi La nave è ricca di riferimenti alla realtà contemporanea che non si esauriscono nella descrizione dell’Iside o di alcuni specifici dettagli della topografia ateniese. In età imperiale, Atene resta indiscutibilmente la capitale culturale della Grecia, ma non ha un’importanza economica rilevante ed è tagliata fuori dalle grandi rotte commerciali: per questo una massa di persone accorre a vedere l’arrivo dell’Iside, incuriosita da uno spettacolo assolutamente fuori del comune per la città (§ 1). Oltre ad Atene, altre città greche dal passato glorioso, come Corinto (§ 1) e Sicione (§ 20), continuano ad avere importanza. La Stoa poikile è ancora uno dei punti focali di Atene ed è il cuore di uno dei quartieri più chic della città, in cui i ricchi desiderano abitare (§ 13). Nella parte extramuranea ateniese spicca la zona residenziale dell’Ilisso (§ 13). Tipico dell’Attica è il suolo brullo e sassoso, in cui cresce spontaneo e abbondante il timo (§ 20). Sul paesaggio svettano i monti Parnete (§ 19) e Imetto, dalle cui pendici si ricava un miele prelibato (§ 23). All’interno dell’amministrazione della città, lo στρατηγός ἐπὶ τῶν ὅπλων è la principale magistratura civica con specifiche competenze poliziesche e giudiziarie: fra le sue prerogative c’è la facoltà di giudicare chi impedisce o danneggia i trasporti marittimi (§ 14). Nella società di epoca romana l’opposizione fra ricchi e poveri è notevole. Adimanto sogna di ottenere 12 talenti dai suoi traffici commerciali (§ 12), mentre sono sufficienti quattro oboli per un vaggio in mare (§ 15). Gli uomini facoltosi sfruttano i piaceri forniti da giovani schiavi, tanto più desiderabili quanto più esotica è la loro provenienza, in special modo se il loro paese d’origine è l’Egitto (§ 2); hanno possedimenti terrieri sconfinati (§ 20); godono di un lusso sfrenato, di cibi prelibati e di ogni onore (§§ 20–23), che amano ostentare, anche per provocare invidia negli al108 Beresford 2013, p. 129: «archaeological evidence in support of Lucian’s description is, however, presently lacking and until a wreck of one of the great grain freighters is discovered we should be wary of trusting too readily to a set of dimensions obtained from what is, after all, a piece of satirical literature».

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tri (§ 24); con le loro incredibili elargizioni beneficano i loro concittadini (§§ 24–25) e sostentano i più poveri, che dipendono da loro e sono loro subordinati (§ 22). La ricchezza e il potere possono dare alla testa e volgari beghe di confine fra ricchi possidenti possono continuamente turbare una regione (§ 38). Larghi strati della popolazione hanno una profonda venerazione per la magia e il mistero e vivono alla perenne ricerca di scoperte sensazionali ed eventi incredibili, costituendo una facile preda per ciarlatani e truffatori senza scrupoli (§§ 41–44). La guerra è un aspetto fondamentale della vita quotidiana (§§ 28–41) e, fra i grandi del passato, il nome di Alessandro turba ancora il cuore di molti (§ 28), che sognano di ripeterne le imprese. All’epoca di Marco Aurelio e Lucio Vero, le guerre partiche rappresentano uno degli eventi bellici più importanti a cui gli Antonini partecipano (§§ 33–34).

1.6  I protagonisti del dialogo L’interesse nutrito nei confronti dei suoi simili spinge Luciano ad analizzare l’uomo per metterne in luce le piccole mancanze, i difetti, i vizi più risibili. Non a caso, nel Caronte o gli osservatori Hermes guida Caronte in un’osservazione attenta e meticolosa delle vite dei viventi. L’esperienza si rivela fruttuosa per il nocchiero infernale, come lui stesso afferma al termine del viaggio (Cont. 24), giacché lo porta alla scoperta della stoltezza degli esseri umani e lo conduce a una rivelazione che lo stesso Hermes preconizza nel corso del viaggio: a ben vedere, sarebbe pressoché impossibile esprimere a parole fino a che punto le vicende umane siano ridicole (Cont. 17: καὶ μὴν οὐδ᾽ εἰπεῖν ἔχοις ἂν κατὰ τὴν ἀξίαν ὅπως ἐστὶ καταγέλαστα, ὦ Χάρων). Se nel Caronte, dunque, sono messi alla berlina alcuni dei difetti più perversi dell’umanità, nella Nave si punta a deplorare il gusto per le chimere insito nell’animo di ogni uomo. Se Luciano avesse voluto semplicemente dimostrare la superiorità del buon senso su ogni vuota illusione umana, però, il pubblico avrebbe trovato superflua qualsiasi argomentazione e stucchevoli le critiche di Licino ai sogni dei suoi tre amici. Il suo vero intento non è quello di dimostrare ciò che è di per sé palese, ossia la vanità di tutti i sogni, ma che i sogni di ciascuno ne rivelano la natura nascosta109. È per questo che La nave ammette una sorta di ‘doppia lettura’ dei caratteri dei protagonisti: la prima ce li presenta come tipi comuni e universali, quali il parvenu (Adimanto), il potente vanaglorioso (Samippo), l’appassionato di mirabilia

109 Affholder 1959, p. 335 s.



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(Timolao), la seconda come soggetti determinati, dotati di peculiari differenze caratteriali110. Adimanto, Samippo e Timolao mostrano così personalità ben caratterizzate e spiccati tratti individuali, ma possiedono anche particolarità che li fanno partecipi della natura dell’uomo comune e fanno sì che chiunque possa – almeno in parte – riconoscersi in loro. Tutti e tre si lasciano irretire dalla chimera dei sogni a occhi aperti. Tutti e tre sognano di arricchirsi enormemente, non solo Adimanto, giacché Timolao desidera possedere tutti i beni altrui (§ 44) e Samippo, pur dichiarando di non voler importunare gli dèi per chiedere un tesoro (§ 28), desidera conquistare un territorio immenso, spingendosi fino a Babilonia, e naturalmente diventare padrone di tutto ciò che i suoi domini conterranno. Come Adimanto (§ 22), anche Samippo (§ 38) e Timolao (§ 44) covano desideri di vendetta. Tutti e tre hanno aspirazioni dispotiche e, a un tempo, evergetiche: Adimanto sogna di umiliare i più grandi ricchi e, al tempo stesso, abbellire la sua città con splendidi monumenti (§§ 22–24), Samippo vuol fondare sue città e radere al suolo quelle ribelli (§ 38), Timolao desidera versare oro sui suoi amici mentre dormono e, di contro, distruggere gli spacconi e i tiranni che oltraggiano l’umanità (§ 44). Anche una certa dose di cinismo caratterizza i tre: Adimanto vuol sbattere la porta in faccia ai ricchi che si affolleranno alla sua porta (§ 22), Samippo decapitare il cadavere del re suo nemico e strappargli il diadema (§ 37), Timolao spaccare il cranio ai suoi nemici approfittando dei suoi poteri incredibili (§ 44). Così questi tre personaggi non solo contribuiscono alla narrazione, ma rappresentano parte attiva nelle riflessioni morali dell’opera: dando libero sfogo alle loro passioni e alle loro aspirazioni, forniscono di se stessi e dell’umanità in generale un autoritratto ironico e impietoso, che pre-

110 Affholder 1959, pp. 338–340. Il dialogo, come la lettera, ha lo scopo precipuo di esaltare i caratteri delle persone, come ricordano espressamente i manualisti (Dem. Eloc. 227). Pur se le personae lucianee presentano costantemente tratti comuni e stereotipati, queste non sono mai uguali l’una con l’altra: Luciano ritrae ogni personaggio sfruttando di volta in volta solo alcuni tratti specifici di un tipo, che contamina con quelli di altri tipi umani, e inoltre impiega un vocabolario ricchissimo in ciascuna situazione, così da dare al pubblico l’illusione di trovarsi di fronte a un’immensa sfilata di soggetti ed evitare l’impressione di monotonia. Lo scrittore così sfrutta un’incredibile schiera di personaggi mitici, storici e fantastici (più di 170, senza contare i 60 solo menzionati), ma utilizza sovente le stesse qualità e gli stessi tratti per caratterizzare figure diverse ma complementari, per cui non si fa scrupoli nel presentare in maniera similare Timone misantropo, i cinici Diogene, Menippo, Cratete e Antistene (e, in minor misura, Peregrino e Teagene), il barbaro Anacarsi, Licino e i narratori dell’Alessandro e della Morte di Peregrino: Piot 1914b, pp. 233– 242; Bellinger 1928, pp. 8–11; Bompaire 1958, pp. 182–185; Robinson 1979, p. 19; Bracht Branham 1989, p. 13, n. 7, e pp. 83–85.

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sta inevitabilmente il fianco alle critiche di Licino, porteparole di Luciano e sua voce satirica111. Infine, la sorprendente varietà dei personaggi lucianei risiede anche nel fatto che alcuni di loro si configurano come alter ego letterari di reali autorità dell’epoca. Luciano ama riprendere determinati particolari biografici di celebrità del suo tempo e innestarli nella rappresentazione dei suoi eroi per donare loro una seconda personalità, che il pubblico ha il piacevole compito di individuare man mano che la narrazione avanza e i dettagli si sommano. In tal modo Adimanto presenta tratti che evocano la biografia di Erode Attico, Samippo ricorda in non pochi punti l’imperatore Lucio Vero, Licino presumibilmente somma in sé alcune peculiarità di Luciano stesso (vd. infra). Se dunque Luciano assegna ai suoi personaggi caratteristiche generali tipiche dell’uomo comune, è anche pronto a rispettarne l’individualità, che a un’analisi attenta si rivela assai ricca di sfaccettature e intessuta sia di reminiscenze letterarie sia di allusioni e riferimenti alla realtà contemporanea. 1.6.1 Adimanto Adimanto è un debole che si lascia vincere facilmente dalla passione amorosa, in particolar modo per i bei ragazzi, come dimostra il fatto che, quando il suo sguardo si posa su un giovane passeggero egizio dell’Iside, si stacca prontamente dai suoi amici per tenergli dietro (§ 2). È per questo che, pur menzionato più volte all’inizio del dialogo dai suoi amici (§§ 1–2, 4), che ne ricordano esplicitamente la debolezza e il pianto facile nelle questioni d’amore (§ 2), partecipa attivamente alla narrazione solo quando si riunisce a loro (§ 10). Si tratta di un tipo assai suggestionabile: non è un caso che sia lui a proporre l’idea del gioco dei sogni a occhi aperti (§§ 11–15), e anche quando i suoi amici cercano di riportarlo con i piedi sulla terra, si rituffa stizzito nelle sue fantasticherie (§ 15) e stimola i suoi compagni a fare altrettanto (§§ 16–18), fino al punto di vivere in un solo momento sia il suo sogno sia quello dell’amico Samippo (§ 31: ἐγώ σοι, ὦ Σάμιππε, ἡγήσομαι τῶν ἱππέων, Λυκῖνος δὲ τὸ δεξιὸν κέρας ἐχέτω). Non è solo un uomo avido, che ama contare la propria ricchezza (§ 25: μεδίμνους ἐπισήμου χρυσίου παραμετρῆσαι), ma anche un indolente, che vuole acquisire grandi possedimenti con il minimo sforzo (§§ 13, 20), come sottolinea criticamente anche l’amico Samippo (§ 29). Si rivela anche un vanitoso e un altezzoso (§§ 21–24), che sogna una feroce vendetta sulla povertà e su tutti coloro che in precedenza l’hanno umiliato non aiutandolo nel momento del bisogno, tanto che nella foga del desiderio più volte esprime la speranza di vedere 111 Robinson 1979, p. 28 s.



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i più ricchi inchinarsi davanti a lui ed essere da lui umiliati (§§ 22, 24)112. È poi estremamente aggressivo e permaloso: più volte protesta contro le burle e le risate di Licino e di Timolao ai suoi danni (§§ 15, 19), dimostrando un comportamento infantile (§ 15: Ὥστε ἐπιστὰς μικρόν, ἔστ᾽ ἂν ὑμεῖς προχωρήσητε, ἀποπλευσοῦμαι πάλιν ἐπὶ τῆς νεώς), e risponde stizzito alle provocazioni dei suoi amici (§§ 19, 21, 27). Infine, pur mostrando un animo apparentemente generoso verso i bisognosi (§ 22) e la cittadinanza tutta, a cui promette la realizzazione di grandi opere pubbliche (§ 24), punta solo alla parvenza esteriore e al prestigio personale: per questo non tralascia di osservare, con non poca malizia, che vuole umiliare i ricchi che si accalcheranno alla sua porta, facendo sbattere loro la porta in faccia (§ 22), e concede solo una minima parte delle sue immense ricchezze agli amici, rivelandosi assai egoista soprattutto con Licino che gli si è mostrato insolente (§ 25). Come si vede, Adimanto assomma in sé caratteristiche che lo accomunano tanto al nouveau riche della tradizione diatribica e satirica (vd. supra ad § 1.4.2) quanto al tipico benefattore e filantropo di una città dell’Impero romano del II secolo: attraverso la sua figura, Luciano punta a stigmatizzare l’uso distorto che gli uomini fanno della ricchezza quando se ne servono per ostentare ciò che possiedono o per garantirsi successo e potere all’interno della società113. Questo personaggio ricorda da vicino, fra l’altro, i neoricchi Micillo (in sogno) e Simone (nella realtà) del Gallo (§§ 12–14) e lo scaltro schiavo del Timone (§§ 20–30), pur se non è identico a loro. Come ogni parvenu che si rispetti, infatti, sogna di arricchirsi e desidera una casa splendida in cui consumare pasti sontuosi, un ricchissimo abbigliamento, un numero imprecisato di servitori, carri e cavalli, suppellettili pregiate (§ 20); vuol essere ammirato da tutti per il suo lusso e le sue elargizioni, esser trattato con ossequio e reverenziale timore da molti, pavoneggiarsi fino a far schiattar d’invidia i vicini (§§ 22–24); non è però di origine servile, non vuole arricchirsi con mezzi disonesti, non è volgare e non si mostra ignorante o desideroso di sfoggiare una cultura che non possiede, come altri parvenu. Come la critica ha notato da tempo, Adimanto si configura anche come doppio letterario di Erode Attico, celebre sofista e uomo politico del II secolo, la cui personalità fuori dagli schemi Luciano bersaglia in più punti

112 Cfr. Moricca 1914, p. 334. 113 Le riflessioni sull’uso corretto dei beni materiali sono centrali nella produzione della Seconda sofistica, che si inscrive in un’epoca in cui il divario fra ricchi e poveri è quanto mai evidente e squilibrato. Un ottimo prospetto delle antiche riflessioni sulla ricchezza è nell’introduzione al Περὶ φιλοπλουτίας plutarcheo di Capriglione - Torraca 1996 (pp. 14–112); cfr. almeno D’Agostino 1957 (ricchezza e povertà nel mondo latino); Betz 1961, pp. 194–199 (la figura del ricco in Luciano); Dover 1983, pp. 207–212 (ricchezza e povertà nella mentalità del greco comune), 296–311 (teorie di età classica sull’arricchirsi e sullo spendere).

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della sua produzione con attacchi satirici salaci, ma prudenti114. Come Erode, anche Adimanto inizia le sue fortune dal commercio, e con le ricchezze accumulate acquista una splendida casa in un prestigioso quartiere centrale di Atene, lasciando quella paterna lungo l’Ilisso (§ 13)115. Il fortuito ritrovamento di un gigantesco tesoro ne accresce a dismisura le ricchezze, così che può acquistare estesi latifondi in tutta la Grecia, compresa la zona dell’Istmo, e può vivere una vita meravigliosa, ostentando ogni tipo di lusso, fra cui un vasellame d’oro preziosissimo (§ 20)116. Straordinarie sono le sue elarginazioni, private e pubbliche (§ 24)117. Un particolare non ancora notato dalla critica, a quanto sembra, è che la passione per i bei giovani e l’estrema sensibilità di Adimanto, che lo inducono a crisi di pianto improvvise (§ 2), riproducono un altro tratto distintivo della biografia di Erode, famoso per l’instabilità emotiva e, in particolare, per le iperboliche manifestazioni di cordoglio a cui si abbandona alla scomparsa di uno dei suoi cari118. Secondo alcuni critici, inoltre, certi tratti caratterizzerebbero Adimanto come adepto di una setta filosofica: l’andare in giro scalzo (§ 1), come i cinici; il cranio rasato (§ 10), come l’allegoria della Stoa del Bis accusatus (§ 20); il desiderio di costruirsi una sontuosa dimora presso la Stoa poikile (§ 13), simbolo dello stoicismo119. Tali particolari sembrano tanto generici, però, da non permettere di definire questo personaggio come un vero e proprio filosofo; per di più, nella caratterizzazione dei personaggi lucianei l’aspetto psicologico è molto più importante di quello fisico, e per tutto il corso della narrazione niente di quel che dicono o fanno invita a credere che i protagonisti del nostro dialogo aderiscano a una specifica corrente filosofica. È vero, comunque, che Luciano sparge nel corso della narrazione labili indizi atti a suggerire che i suoi protagonisti hanno a cuore la filosofia, come la descrizione di Adimanto che ricorda vagamente uno stoico (§§ 10–11) oppure l’amore per i giovani amanti di Timolao e dello stesso Adimanto (§§ 2 e 44), che rappresenta «un trait conventionnel appliqué aux philosophes dans l’oeuvre de Lucien»120. Siccome un tipico vezzo dei neosofisti è quello di farsi definire filosofi, come pretendono ad esempio Dione di Prusa, Ermocrate di Focea e Favorino di Arelate, non è improbabile che Luciano voglia parodiare tale moda nel deridere quanti vivono “lodando la filosofia” 114 Schwartz 1965, pp. 32 s. e 133–134; Husson 1970, II, ad Nav. 12 (pp. 29–31), 13 (p. 31), 20 (p. 50 s.); Anderson 1993, p. 221; Tomassi 2007, pp. 170–172. 115 Vd. i relativi commenti ad loc. 116 Vd. i relativi commenti ad loc. 117 Vd. il relativo commento ad loc. 118 Vd. il relativo commento ad loc. 119 Schissel von Fleschenberg 1912, p. 22, n. 1; Moricca 1914, p. 463; Caster 1937, p. 17; Husson 1970, I, p. 6 s. (con molto scetticismo); Dolcetti 1996, p. 70 s., nn. 2 e 4. 120 Husson 1970, II, ad loc. (p. 97).



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(§ 46: φιλοσοφίαν ἐπαινοῦντες), ovvero facendo della filosofia una ragione di vita121. Di sicuro, La nave vuole stigmatizzare la dicotomia fra l’essere e l’apparire presente nella vita della maggior parte degli uomini e, al tempo stesso, ribadire l’imperativo categorico della necessità di una stretta corrispondenza fra logoi ed erga, alla base di ogni corrente filosofica, che si configura come il leitmotiv dell’intera classe intellettuale di età imperiale122. 1.6.2 Licino Λυκῖνος è un nome poco frequente, ma comunque attestato nelle iscrizioni e presso gli oratori attici, e vanta altresì un buon pedigree letterario, comparendo già negli Acarnesi di Aristofane (v. 50)123. La sua scelta non è casuale. Licino ha un nome greco assai simile a quello romano di Luciano, di cui è chiamato a costituire l’alter ego letterario per eccellenza e, a un tempo, il ‘doppio’ ateniese. Si tratta di un intermediario attraverso cui lo scrittore si garantisce l’appartenenza a un mondo di cui condivide cultura, tradizioni e ideali, per via della sua educazione e del suo naturale temperamento. Questo personaggio è «en général ‘implicitement’ Athénien»124, poiché il suo ritratto è speculare a quello degli Ateniesi nei Dialoghi: è iniziato ai Misteri di Eleusi (§ 11); si caratterizza per l’abilità nel parlare e la franchezza, che può degenerare in logorrea (§ 25: λάλος ἐστí); ha una sincera passione per il riso (§§ 15, 46), la burla (§§ 15, 19, 25 [ἐπισκώπτει μου τὴν εὐχήν]), il gioco (§ 16: Ἅλις παιδιᾶς, ὦ Λυκῖνε), l’ironia (vd. oltre), per le espressioni popolari e proverbiali, che accentuano la piacevolezza (χάρις) e l’arguzia dei suoi interventi (§ 9: θαυμάσιόν τινα φὴς κυβερνήτην τὸν ῞Ηρωνα ἢ τοῦ Νηρέως ἡλικιώτην; § 12: κοινὸς Ἑρμᾶς φασι; § 26: ἀπὸ λεπτῆς κρόκης ὁ πᾶς οὑτοσὶ πλοῦτος ἀπήρτηται; ἄνθρακές … ὁ θησαυρὸς ἔσται; § 45: γέροντα … ἄνδρα … παρακεκινηκότα τὴν γνώμην; ὄρη ὅλα κινεῖν ἄκρῳ τῷ δακτύλῳ δυνάμενον; τὴν πολλὴν ταύτην κόρυζαν ἀποξύσας; ὁ ἑλλέβορος ἱκανὸς ποιῆσαι ζωρότερος ποθείς). Inoltre, si segnala per la sua cortesia e per una buona dose di sensibilità, che mostra quando indugia a rientrare ad Atene senza aspettare Adimanto (§ 4). Luciano, poi, non si trattiene dall’assegnargli un tratto comico, una certa goffaggine, che si palesa nella sua difficoltà di salire a bordo dell’Iside e nella necessità di essere aiutato in tale operazione da Adimanto (§ 1)125. 121 Amato 2004, p. 137, n. 28. 122 Vd. comm. ad § 46: καὶ ταῦτα φιλοσοφίαν ἐπαινοῦντες. 123 Dubel 1994, p. 24. 124 Dubel 1994, p. 24, n. 27. 125 Come protagonista e narratore il personaggio di Licino si ritrova in un’ampia serie di dialoghi (Hes., Herm., Eun., Im., Pro im., Lex., Symp., Salt.), e in alcune opere pseudolucianee (Cyn., Amor.). Pare impossibile identificare completamente Licino

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Nella Nave, Licino non ha la posizione privilegiata che ricopre in altri dialoghi come L’eunuco e Il simposio, in cui rievoca e commenta un evento già compiuto, ma è uno dei personaggi della narrazione che viene riferita nel suo svolgimento, per cui il pubblico è maggiormente libero di criticare o rifiutare le sue posizioni. In ogni caso, ha un ruolo fondamentale, perché ha il compito di criticare razionalmente la vita degli uomini e i valori condivisi da tutti, primi fra tutti la ricchezza, la gloria e il potere126. Le armi che sostanziano la sua satira sono quelle tradizionalmente sfruttate da illustri rappresentanti del cinismo come Diogene e Menippo127: il riso (γέλως), la beffa (σκῶμμα), il gioco (παιδιά), talvolta la verifica razionale, non di rado supportata dalla proiezione paradossale (§§ 19, 21, 22, 35) e, soprattutto, l’ironia, la più complessa delle maniere satiriche, che può essere palese (sfociando nel sarcasmo) o nascosta. Adimanto inizialmente esita a rivelare la natura dei suoi desideri, giacchè sa bene che Licino, presto o tardi, li volgerà in riso e in burla per prenderlo in giro (§ 15). Timolao deve intimare a Licino di smettere di giocare, perché sta sommergendo la favolosa imbarcazione di Adimanto di risate (§ 16), ma poi il riso dell’amico si fa talmente contagioso che anche lui inizia a burlarsi di Adimanto, che lo rimprovera per questo (§ 19). I motteggi di Licino sono così irritanti che Adimanto, per ripicca, promette che gli lascerà solo le briciole della sua ricchezza (§ 25). Il riso non è solo un piacere, ma è anche una

con Luciano: Whitmarsh 2001, p. 253; Ní Mheallaigh 2010, pp. 128–131. Lo stesso dicasi per altri alter ego letterari lucianei come Tichiade (Par., Philops.), l’oratore Siro (Bis acc.) e Parresiade (Pisc.): Dubel 1994 passim; cfr. Anderson 1976, p. 158; Robinson 1979, pp. 31–33; Nesselrath 1985, p. 248 s.; Ureña Bracero 1995, p. 178 s.; Whitmarsh 2004; Ogden 2007, p. 18 s.; Camerotto 2014 passim (praes. pp. 45– 63 sugli alter ego satirici lucianei). Per Oudot-Lutz 1994, p. 146 s., Luciano opera una selezione negli attributi tradizionalmente assegnati agli Ateniesi per scomporre e ricomporre la loro immagine a suo piacimento e per i suoi scopi letterari. 126 Già Umberto Moricca rileva (sulla scorta di Schissel von Fleschenberg 1912, pp. 22–38) come «Licino eserciti una superiorità e una prevalenza straordinaria sui tre interlocutori» e, in particolare, come il significato della Nave non si presenti «tanto racchiuso nella rappresentazione del desiderio umano nelle sue forme più esorbitanti, quanto nell’asprezza dell’ironia di Licino, che grava su tutti i personaggi indistintamente» (Moricca 1914, pp. 327–329, 461–463); cfr. Robinson 1979, pp. 31–33: nel dialogo «the satirical interest cannot derive from the novelty of the subjects, but is dependent on the comic skill with which the wishes are built up and deflated»; Hall 1981, p. 219. Marcel Caster 1937, p. 328, fraintendendo la natura del riso di Licino e giudicandolo inferiore ad altri portavoce satirici lucianei, lo ritiene (ingiustamente) «un personnage déplaisant», che vomita la sua ironia contro tutto e tutti ed è un inguaribile pessimista. 127 Cfr. ad §§ 15 e 46; sul riso dell’eroe satirico lucianeo e i suoi effetti vd. da ultimo l’attenta e lucida analisi di Camerotto 2014, pp. 285–323.



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vera e propria ragione di vita per questo personaggio, che lo antepone e lo preferisce a ogni tesoro o possedimento terreno (§ 46)128. Pur ridimensionando il peso dei suoi attacchi satirici sfruttando l’arma dell’autoironia (§§ 30, 33), Licino è sempre pronto a rovinare le illusioni dei suoi amici (§ 21), a contraddirli (§ 27) e a denunciarne i comportamenti (§ 46) per liberarli dalla follia delle loro vane passioni e delle ambizioni futili. La sua ironia si esercita nella prima parte del dialogo per lo più in forma indiretta e scanzonata (§§ 1–17), andando a denunciare spiritosamente la passione di Timolao per il meraviglioso fin dalla prima battuta del dialogo (§ 1: οὐκ ἐγὼ ’λε­γον κτλ.), i canoni di bellezza di Adimanto (§ 2: οὐ πάνυ καλός, ὦ Σάμιππε, ὁ μειρακίσκος ἔδοξέ μοι) o la sua puerile fantasia (§ 14: ἄπαγε πρὸς τὸν στρατηγὸν ὥς τινα πειρατὴν ἢ καταποντιστήν, ὃς κτλ.) e, addirittura, la discutibile abilità dell’attempato nocchiero dell’Iside (§ 9: θαυμάσιόν τινα φὴς κυβερνήτην τὸν ῞Ηρωνα ἢ τοῦ Νηρέως ἡλικιώτην, ὃς τοσοῦτον ἀπεσφάλη τῆς ὁδοῦ). Si fa poi via via più insistente e pungente: la sua vittima preferita è Adimanto (§§ 14, 21, 27), con cui imbastisce anche un gustoso siparietto (§ 15) e un irriverente scambio di battute, aiutato anche da Timolao (§§ 19–20). Anche Samippo viene più volte deriso, in maniera sempre più consistente (§ 29: τοιοῦτον ἡμῖν ἡ Μαντίνεια θαυμαστὸν βασιλέα καὶ στρατηγὸν ἐλελήθει ἀνατρέφουσα; §§ 30, 33, 37). Il solo Timoalo è apparentemente risparmiato, per essere fatto oggetto, nel finale, dell’attacco più consistente e annichilente (§ 45). Nonostante tutto, l’importanza del suo ruolo e della sua critica sono immancabilmente riconosciuti a Licino (§ § 41: εἰκότως διέβαλες), che pare godere di una notevole considerazione nel contesto in cui è immerso (a differenza di ogni altro alias lucianeo), dal momento che, pur se le sue rampogne non sono sempre ben accette, i suoi amici lo sollecitano a esprimere un giudizio personale sulle loro ambizioni (§ 39: Τί δ᾽ οὖν, ὦ Λυκῖνε; Оἷά σοι ᾐτῆσθαι δοκῶ; § 45: Τί ἂν αἰτιάσαιο, ὦ Λυκῖνε, τῆς εὐχῆς;). Fra l’altro, è lui stesso a indicare l’ordine con cui i desideri saranno espressi (§ 17: πλουτῶμεν, εἰ τοῦτο ἄμεινον … Σύ, ὦ Ἀδείμαντε, εἶτα μετὰ σὲ οὑτοσὶ Σάμιππος, εἶτα Τιμόλαος, ἐγὼ κτλ.). Grazie al suo prestigio e sfruttando il metodo maieutico socratico, Licino finge di assecondare i suoi amici e, anzi, li invita a esporre i loro desideri (§ 11: μὴ γὰρ ὀκνήσῃς εἰπεῖν; § 12: ἐς μέσον κατατίθει φέρων τὸν πλοῦτον; § 17: πλουτῶμεν, εἰ τοῦτο ἄμεινον, μὴ καὶ βασκαίνειν ἐν ταῖς κοιναῖς εὐτυχίαις δοκῶ; § 27: σὺ ἤδη ὁ Σάμιππος εὔχου; § 41: ἤδη σὸν αἰτεῖν, ὦ 128 Il riso è un piacere fin da Omero, e per l’eroe satirico costitutisce un elemento non solo piacevole, ma indispensabile, giacché «rappresenta il culmine dell’azione personale e coincide con il successo dell’impresa satirica – come dell’opera e della performance dell’autore –, proprio mentre produce e dichiara la débâcle di chi viene attaccato»: Camerotto 2014, p. 316 s.

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Τιμόλαε, κτλ.), per lasciarli liberi di esprimere le loro passioni e investirli poi più vigorosamente con la forza della sua censura satirica. Le sue critiche ripropongono temi tipici della morale filosofica di età imperiale (cfr. supra ad § 1.4.4) e lo rendono una sorta di portavoce della morale cinico-diatribica, come il gallo, reincarnazione di Cratete di Tebe e di Pitagora, che nel Gallo distoglie il calzolaio Micillo dai suoi sogni di ricchezza, o come Caronte ed Hermes, che nel Caronte deridono le vane speranze e le superstizioni degli uomini129. A tal riguardo particolarmente interessante è il finale (§ 46), in cui Licino, con un colpo di scena, ride di gusto dei desideri dei suoi amici e li giudica più degni di biasimo degli altri, poiché affermano di onorare la filosofia e, come tali, dovrebbero onorare la virtù piuttosto che essere asserviti alle passioni degli uomini comuni (cfr. supra ad § 1.6.1). È con una sonora risata, dunque, che La nave si conclude. La satira lucianea non prevede controfferte alle illusioni umane, non propone soluzioni. In questo possiamo notare la profonda diversità esistente fra Luciano e un altro maestro della satira come Giovenale. Al termine della Satira decima, imperniata, come La nave, sul tema delle irrazionali preghiere che gli uomini rivolgono agli dèi per ottenere beni che in realtà sono mali, il satirico romano dichiara quali devono essere le richieste da fare alla divinità: bisogna pregarla di ottenere la virtù, il cui conseguimento resta, comunque, nelle mani dell’uomo, che deve essere capace di raggiungere l’indipendenza interiore e diventare più forte della Fortuna (Juv. 10, 363–366: semita certe / tranquillae per virtutem patet unica vitae. / Nullum numen habes, si sit prudentia: nos te, / nos facimus, Fortuna, deam caeloque locamus). La satira di Giovenale non è solo una critica della società umana – e degli intellettuali in primis –, «implacabile svalutazione di quei miti, che falsi e rovinosi gli uomini si propongono», com’è per La nave lucianea, ma presenta una controfferta positiva, configurandosi a tutti gli effetti «come un invito a filosofare, come un “protreptico”» rivolto a chi sa intendere il messaggio del poeta130. Luciano al contrario non ha nulla da offrire agli uomini, se non una filosofia del buon senso, che consiste nell’evitare gli eccessi e vivere in maniera semplice e dignitosa, lontano dalle lusinghe e dagli inganni della ricchezza, del potere e del successo. 1.6.3 Samippo Samippo è un uomo d’azione, ambizioso e volitivo, ed è l’esatta antitesi di Adimanto: tanto questi è egoista, vanitoso, debole, poco avvezzo alla fatica, tanto lui è generoso, coraggioso e orgoglioso, scrupoloso nel pianificare la 129 Così già Nesselrath 1998, p. 134 s. 130 Viansino 1990, p. 371.



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sua carriera e i suoi successi, fondati non sulla fortuna, ma sulla sua virtù (§ 28)131. Non c’è da stupirsi, dunque, se nel formulare il suo desiderio preferisca le vere soddisfazioni ai piaceri illusori e, a differenza di Adimanto, disdegni la semplice ricchezza per scegliere la potenza (§§ 28–37). Fra i quattro amici è lui a salire per primo a bordo dell’Iside (§ 1), a mostrarsi impaziente di fronte all’assenza di Adimanto, smarritosi sulla nave, tanto da voler tornare indietro a cercarlo (§ 4: τί δ᾽ οὖν χρὴ ποιεῖν ἡμᾶς; ᾽Ενταῦθα καραδοκεῖν αὐτόν, ἢ ἐθέλεις ἐγὼ αὖθις ἐπάνειμι ἐς τὸ πλοῖον;), per poi dimostrarsi smanioso di tornare in città senza aspettare l’amico, dietro suggerimento di Timolao e di Licino, per trovare la palestra ancora aperta (§ 4: καὶ μάλα δοκεῖ, ἤν πως ἀνεῳγυῖαν ἔτι τὴν παλαίστραν καταλάβωμεν). È sempre lui a fornirci, con gran precisione e mostrandosi un ottimo osservatore, tutti i dettagli che ci permettono di conoscere l’aspetto dell’Iside (§§ 5–6). Arcade di Mantinea (§ 28), non ama le ricchezze guadagnate senza fatica e vuole crearsi da solo la sua fortuna (§§ 28–29), a differenza di personaggi celebri come Alessandro Magno, a cui pure s’ispira (§ 28: Ἀἰτῶ δὴ βασιλεὺς γενέσθαι οὐχ οἷος Ἀλέξανδρος ὁ Φιλίππου ἢ Πτολεμαῖος ἢ Μιθριδάτης ἢ εἴ τις ἄλλος ἐκδεξάμενος τὴν βασιλείαν παρὰ πατρὸς ἦρξεν, κτλ.). Contrariamente a quanto fanno Adimanto o Timolao, fa partecipare attivamente i suoi amici alle sue fantasticherie, pur riservando a se stesso, com’è naturale, la posizione più prestigiosa all’interno dei propri sogni di conquista (§§ 30– 37). Il nome (Σάμιππος) ne condiziona a tal punto i desideri che, durante le sue fantasticherie, sia lui sia i suoi amici per un bel pezzo non fanno che parlare di cavalli e di tutto ciò che può esservi collegato (§§ 30–31)132: si tratta di un dettaglio importante, su cui si avrà modo di ritornare. Nel sogno di Samippo modelli epici, comicità, tradizione retorica, parodia e satira si uniscono e si intrecciano fondendosi in un tutto unico. La comicità è naturalmente insita nelle incredibili aspirazioni dell’uomo, che vorrebbe emulare Alessandro, ma si configura più come un miles gloriosus alla maniera del Polemone dei Dialoghi delle meretrici (D. meretr. 9), la cui caratterizzazione è profondamente debitrice delle invenzioni della commedia attica133. Ricca di comica vivacità è soprattutto la scena di battaglia dei §§ 33–38, che si inserisce nell’ampia gamma di ‘battaglie immaginarie’ di 131 Moricca 1914, p. 330; Caster 1937, p. 315: Samippo «rêve d’une royauté immense fondée sur le mérite personnel. […] Il se lance dans une sorte de Cyropédie, de roman épique». 132 Ureña Bracero 1995, p. 174 s.: Luciano ha cura di scegliere i nomi dei suoi personaggi per caratterizzarne la psicologia e, spesso, per suscitare humour attraverso particolari giochi di parole fra la loro onomastica e alcune loro caratteristiche comportamentali. 133 Anderson 1977, p. 368. Esisteva una ricca tradizione comica, a cui Luciano poteva ispirarsi (e di cui lui stesso è testimone: D. mort. 12 [25], 13 [13], 14 [12]), in cui Alessandro era oggetto di scherno per la passione per i banchetti, la promiscua ses-

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cui i Dialoghi abbondano e che è debitrice tanto dell’epica omerica e della commedia quanto della precettistica retorica134. Alla tradizione retorica può ricondursi la scelta di far gareggiare Samippo con Alessandro Magno, personaggio onnipresente all’interno delle scuole. La storia del condottiero era uno dei temi favoriti dai retori, tanto che i poveri maestri dovevano sopportare la riproposizione dei suoi episodi più celebri un po’ in tutte le salse, come il celebre Arellius Fuscus, costretto a riportare coi piedi sulla terra un suo allievo rapito da una suasoria avente per protagonista proprio il Macedone (Sen. Suas. 4, 5)135. Luciano stesso evoca il condottiero macedone numerose volte, sia celebrandolo sotto la spinta della tradizione retorica (Hist. conscr. 12, 40; Pro im. 9) sia biasimandone i sogni di conquista alla maniera dei cinici e degli stoici, che vedono in lui il campione del τῦφος e della φιλοδοξία (D. mort. 13 [13]; 14 [12]; Cal. 19)136. Samippo, dunque, è un uomo dell’entroterra, come Alessandro, e desidera non solo emulare le imprese del suo illustre predecessore, ma superarle (§ 28). Dopo essersi messo per acclamazione alla testa di un esercito di 50.000 fanti (§ 29/ Plut. Alex. 15, 1; De Alex. fort. I, 327d–e) e aver sottomesso facilmente la Grecia (Alex. 11–13; De Alex. fort. II, 342d), imbarca a Corinto i suoi uomini e raggiunge la Ionia, dove sacrifica ad Artemide (§ 32/Arr. An. 1, 18, 2). Attraversa poi l’Asia Minore e, man mano che fa conquiste e arriva all’Eufrate (§ 32), che ha il problema di guadare (De Alex. fort. II, 340f), lascia dei governatori a controllare il territorio (De Alex. fort. I, 328d–e). Dopo aver minacciato di tagliare la testa ai disertori, prende la Fenicia, la Palestina, l’Egitto (§ 33) e, giunto in Mesopotamia, i cui abitanti gli si consegnano spontaneamente (Alex. 35, 1), entra in Babilonia senza colpo ferire (§ 34/De Alex. fort. II, 339a). Ingaggia una lotta col re dei Persiani e col suo esercito composto da un milione di soldati (§ 36), e dopo avere deciso di battersi col sovrano in singolar tenzone, lo sconfigge, non senza venire ferito (§ 37/De Alex. fort. I, 327a–b; II, 340a–c; 344c–345b). Alla fine, il suo impero è immenso (tav. 20). È venerato come un dio dai barbari, acclamato dai greci come stratega unico, e può distruggere o fondare città a suo piacisualità, la lussuria, l’intemperanza e la pretesa discendenza dagli dèi (un trattamento subito anche da altre ‘celebrità’ come Eracle e Ulisse): Anderson 1993, p. 182 s. 134 Tale scena assomma in sé svariati topoi bellici altrove sfruttati separatamente da Luciano, per cui cfr. comm. ad § 36: Ἤδη γάρ που καὶ οἱ πολέμιοι ἐπιλαμβάνουσιν…. ἐπείγεσθε συμμῖξαι τοῖς ἐναντίοις. 135 Anderson 1982, p. 90 s.; Russell 1983, pp. 106–128, praes. 107: dei circa 350 temi storici impiegati dai declamatori, alcuni sono mitologici, 43 riguardano le guerre persiane, 90 la guerra peloponnesiaca, 125 il periodo demostenico, 25 quello di Alessandro, pochissimi l’età ellenistico-romana. 136 Bompaire 1958, pp. 163–165; Müller-Kiel 2013, pp. 181–188; sull’ambivalenza della figura di Alessandro nell’antichità vd. almeno Squillace 2004 (con bibliografia).



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mento (§ 38/De Alex. fort. I, 328d–e). Al termine della sua impresa, non può comunque abbassare la guardia, perché ribellioni e invasioni minacciano continuamente i suoi domini (§ 39/De Alex. fort. I, 327c–d; II, 341e–f)137. Samippo ripercorre le gesta di Alessandro proponendo (suo malgrado) una personale, grottesca versione del Romanzo di Alessandro138. Una parte della critica ha voluto così vedere dietro le fantasmagoriche imprese di questo personaggio una velata parodia di una determinata opera letteraria e ha pensato agli scritti di Arriano, autore di un’Anabasi di Alessandro – una delle più autorevoli fonti sulla vita del Macedone – e di una Vita di Tillorobo, celebre predone dell’antichità (che nei Dialoghi è ricordato in Alex. 2)139. Luciano mostra, in effetti, una buona conoscenza dell’opera di Arriano (Hist. conscr. passim; Nav. 31/An. 2, 8, 11; Nav. 34/An. 2, 7, 8; Nav. 36/Arr. An. 1, 6, 4; Alex. 2/An. 1, 12, 4–6), che ammira come discepolo di Epitteto e uomo di cultura insigne fra i Romani (Alex. 2). Per questo sarebbe preferibile ritenere gli echi arrianei percepibili nella Nave un divertito omaggio all’opera dello storico, verso cui Luciano mostrerebbe la stessa attitudine adottata con Omero, da lui celebrato nei Dialoghi come l’autorità per eccellenza e, al tempo stesso, ampiamente sfruttato come inesauribile fonte di humour e di parodia (vd. supra ad § 1.4). Se si volessero comunque leggere 137 Una parte della critica (Anderson 1976, p. 38 s.; Id. 1976b, p. 117; Reardon 1994, p. 12) ritiene che, se pure Luciano ha la capacità e la possibilità di scrivere un proprio romanzo sfruttando la tradizione romanzesca relativa ad Alessandro, per una sorta di ‘inibizione’ o di ‘conservatorismo culturale’ (che lo accomuna a Plutarco), non si avventura nel comporre un’opera al modo di Caritone o Longo. Tale idea non tiene conto, però, della poliedrica personalità di Luciano, a cui non difettavano certo né la creatività né lo spirito del romanziere (non a caso è da molti considerato l’autore di uno dei più celebri romanzi dell’antichità, Lucio o l’asino: Debidour 1994; Laplace 1994 passim; Whitmarsh 2010). Oltre a questo, sembra alquanto astruso cercare di spiegare perché uno scrittore non abbia composto un’opera. 138 Bompaire 1958, p. 620 s.; Husson 1970, II, ad Nav. 28–38 (pp. 69–84); Anderson 1982, p. 88: il desiderio di confrontarsi con Alessandro Magno è elemento fondante lo Zeitgeist sofistico; Stoneman – Gargiulo 2007–2012 (sul Romanzo di Alessandro). Per Jacques Schwartz, i sogni di conquista di Samippo possono ricordare tanto la spedizione di Alessandro in Asia quanto quella dei Diecimila di Senofonte o i progetti di Pirro di conquistare il Mediterraneo (Schwartz 1965, p. 134), ma troppo numerosi paiono i riferimenti alla biografia del Macedone per non ritenere che Luciano voglia parodiarne le gesta nella Nave. 139 Radermacher 1911, pp. 224–230: nella Nave Luciano fonde ‘Alexanderromantik’ e ‘Räuberromantik’ e sfrutta gli scritti arrianei; Wirth 1964: Luciano ammira Arriano e lo prende bonariamente di mira in Hist. conscr.; Anderson 1976, p. 38 s. e 1980: Luciano è critico verso Arriano; Macleod 1987: Luciano mostra una buona conoscenza dell’opera arrianea, che parodia non a scopo di critica, ma di omaggio; Müller-Kiel 2013, p. 187 s.: Luciano non critica con Samippo le imprese di Alessandro, ma il modo in cui gli storiografi (come Arriano) ne riferivano le gesta; cfr. Moricca 1914, praes. pp. 318–321, 460 s.: Luciano non propone una parodia letteraria, ma una satira morale; Caster 1937, p. 333, n. 56.

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le imprese di Samippo come una denigratoria caricatura della storiografia contemporanea, sarebbe preferibile interpretarle come una satira ai danni delle narrazioni di tanti, mediocri storiografi di età imperiale, che Luciano mette effettivamente alla berlina nella Storia vera e, soprattutto, nel Come si deve scrivere la storia, spietata critica di quanti si gettarono a capofitto nella descrizione delle guerre partiche in preda a una ‘febbre’ per la cultura simile a quella che, secondo tradizione, prese gli abitanti di Abdera dopo una lettura di poesia tragica (Hist. conscr. 1–7)140. Nella fattispecie, il discorso di Samippo si configura come una sapida parodia delle allocuzioni alle truppe (παρακλητικοὶ λόγοι), tipiche delle storiografia antica, che non si limitano a contenere argomenti di incoraggiamento (§ 36), ma danno al lettore informazioni sul carattere del generale (§§ 28–29, 37–38), indicano i motivi che hanno portato allo scontro (§ 28) e delineano le ragioni della sconfitta o della vittoria di un esercito (§§ 31–35), andando di certo a riferire molto più di quel che doveva essere realmente detto da un generale sul campo di battaglia141. È evidente, in più, che nel ritrarre Samippo quale emulo di Alessandro Luciano punta a criticare, con la sua satira giocosa e pungente, una delle più sfrenate ambizioni dell’uomo, la smodata brama di potere e competizione, che, in ogni epoca, miete vittime e produce comportamenti palesemene assurdi se sottoposti al vaglio della ragione. E il modello del Macedone non è scelto a caso, perché con la sua incredibile biografia è capace di eccitare il pubblico come nessun altro e, soprattutto, per tutta l’antichità è paradigma del comandante ideale e oggetto dell’emulazione di tanti autocrati142. È per questo che Cesare piange davanti alla sua statua, perché alla sua stessa età ha 140 Bompaire 1958, p. 621: «de quoi Lucien est-il parti? Encore de la tradition la plus élémentaire, à travers laquelle il a su retrouver la vie par un mélange de parodie et de fantaisie où domine le second élément»; Georgiadou - Larmour 1994; Milazzo 2002, p. 36: all’epoca di Luciano «si diffonde presso gli intellettuali l’esigenza di sceverare la verità dalla finzione negli eventi sociali, storici e letterari, dal Discorso vero di Celso alla Storia vera lucianea»; Kemezis 2010. La ‘febbre’ che contagia gli intellettuali mediocri costringedoli a scrivere è un leitmotiv della satira (cfr. Hor. Sat. 2, 1, 13–15: neque enim quivis horrentia pilis / agmina, nec fracta pereuntis cuspide Gallos / aut labentis equo describit volnera Parthi). 141 Abbamonte - Miletti - Buongiovanni 2009 (con ottima bibliografia). 142 Zecchini 1984; Stoneman 1996. La figura di Alessandro è destinata a riecheggiare nei secoli nelle civiltà del Mediterraneo e dell’Asia fino a raggiungere terre lontane come la Mongolia e l’Etiopia. Per Liborio et alii 1997, p. XXI s., «il fascino che Alessandro esercitava sull’Occidente medievale dipendeva dalla coesistenza di due sentimenti, e allo stesso tempo dalla tensione fra di essi. Da una parte la sua vita realizzava tanti dei desideri dell’uomo. Alessandro appariva come l’unico essere umano che era stato prossimo a raggiungere un’esistenza senza limiti […]. D’altra parte, alle storie di inebrianti fantasie e di aspirazioni realizzate venivano continuamente contrapposti i racconti d’ammonimento, gli exempla, gli avvertimenti: Alessandro era piccolo, spesso debole, spaventato, dal carattere pieno di difetti, a volte persino



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già realizzato imprese straordinarie; Augusto sigilla lettere, rescritti e diplomi prima con l’immagine di Alessandro, poi con la sua; Nerone vuol marciare contro gli Albani con una legione di reclute alte almeno 6 piedi (1,77 m) detta ‘Falange di Alessandro’; Traiano, in lotta contro i Parti, si duole di non avere più l’età per ricalcare le orme del grande condottiero; Alessandro Severo arriva a farsi celebrare come novello Alessandro, approfittando dell’omoninia col Macedone (di cui sfrutta abilmente l’omen contenuto nel nome), ma non gli è da meno il suo acerrimo nemico, il sasanide Ardashir I, che cambia il suo nome in quello altisonante di Serse (o Artaserse)143. Se consideriamo nello specifico gli anni in cui Luciano compone La nave, non potremo non vedere nei desideri di conquiste orientali di Samippo una gustosa satira delle gesta di uno dei più improbabili emuli di Alessandro, il vanaglorioso Lucio Vero, le cui guerre partiche rappresentano un evento che ha ampia risonanza nella società contemporaneà144. Le tappe dell’immaginario viaggio di conquista di Samippo attraverso l’Oriente paiono riprodurre proprio quelle di Lucio Vero come descritte nell’Historia Augusta (Nav. 32/HA V.Veri 6.9). L’attraversamento dell’Eufrate è un momento decisivo della campagna militare di Samippo così come per l’Impero romano nel II secolo d.C. (Nav. 33). La menzione di Armeni e Parti quali formidabili combattenti pare alludere al fatto che i Romani stavano ancora combattendo contro questi popoli quando Luciano si accingeva a comporre il dialogo. La citazione di Ctesifonte e di Seleucia al Tigri, capitali del regno partico, serve ad evocare la presa delle due città (e la crudele distruzione della seconda) a opera dell’esercito romano nell’avanzata sul regno dei Parti (Nav. 33–34). Il riferimento alla pena di morte per decapitazione inflitta ai disertori, con cui Samippo minaccia Licino, è un probabile richiamo alla disciplina dei Romani, nel cui esercito la diserzione era punita in questo modo (Nav. 33), mentre l’utilizzo di fionde in battaglia rimanda a un tipo di espediente bellico ben in uso nelle armate romane di età imperiale (Nav. 34). Anche l’anonimo ‘re pusillanime. E anche questo aspetto era benvenuto, perché era rassicurante, perché faceva apparire l’eroe non essenzialmente diverso da noi». 143 Zecchini 1984, p. 195 (Cesare); Suet. Aug. 50; Nero 19; Brizzi 2002, pp. 167–169, praes. 169 (Traiano; cfr. Fornaro 2003: nel secondo discorso Sulla regalità di Dione in Filippo è adombrato Nerva, in Alessandro Traiano, in Aristotele Dione stesso); Lentano 2018, p. 55 s. (di Alessandro Severo si dice sia nato in un tempio dedicato ad Alessandro, nello stesso giorno della morte di lui, e abbia avuto una nutrice e un educatore chiamati Olimpiade e Filippo, omonimi della coppia da cui il Macedone fu generato). 144 Per i riferimenti alle guerre partiche nei Dialoghi vd. Baldwin 1973, p. 80 s. e n. 29; Id. 1990, p. 58 s.: col confronto fra Annibale e Alessandro di D. mort. 12 [25] Luciano confezionerebbe un malizioso paragone fra le campagne occidentali di Marco Aurelio e quelle orientali di Lucio Vero a vantaggio del primo; vd. ancora Robert 1980, pp. 422–426; Jones 1986, pp. 59–77, 87 s.; Georgiadou - Larmour 1994, pp. 1450–1478; Kemezis 2010.

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persiano’ con cui Samippo si scontra (§ 36: Πέρσαι γάρ εἰσι καὶ ὁ βασιλεὺς ἐν αὐτοῖς) non può non richiamare alla mente di un contemporaneo un sovrano della dinastia partica degli Arsacidi, la cui ambizione più grande era quella di emulare la grandezza dei persiani Achemenidi145. Infine, una frecciata rivolta espressamente a Lucio Vero si può considerare la descrizione della mania di Samippo per i cavalli (§§ 30–31), che probabilmente ammicca alla morbosa passione di molti contemporanei per le corse di cavalli e, più in particolare, allude spiritosamente alla nota passione per questi animali di Vero, prossima al fanatismo146. Si deve ricordare, infine, che una parte della critica ha visto in Samippo l’adepto di una setta filosofica147, ma tale ipotesi non è plausibile per le stesse argomentazioni con cui la si è respinta per la figura di Adimanto (vd. supra ad § 1.6.1). 1.6.4 Timolao Timolao si differenzia tanto da Adimanto quanto da Samippo. Se pure vuol sottrarsi alle ristrettezze di una vita ordinaria, come i suoi due amici, non coltiva i desideri dei comuni esseri umani, ma aspira a ottenere poteri sovrumani grazie al possesso di anelli magici che gli donino una forza incredibile, l’invisibilità, la capacità di volare, l’invulnerabilità, il dono dell’ubiquità, una vita pressoché eterna e l’abilità di manipolare gli uomini (§§ 42–43). Se Adimanto vuole essere ricco e Samippo vuole farsi re, dunque, lui vuole diventare pari a un dio. Prima che la sua preghiera inizi, Licino lo invita a non ripetere i folli desideri dei suoi amici (§ 41), giacché pare un uomo dotato di giudizio e in grado di ponderare bene la realtà delle cose, ciò che lo stesso Timolao sembra voler mantenere riassumendo con disprezzo le richieste di Adimanto e Samippo (§ 41). Le aspettative del pubblico in un ravvedimento di Timolao saranno, però, puntualmente disattese quando questi compilerà la lunga lista di anelli dai poteri magici che desidera in regalo da Hermes 145 Tac. Ann. 6, 31: [Artabanus] veteres Persarum ac Macedonum terminos seque invasurum possessa Cyro et post Alexandro per vaniloquentiam ac minas iaciebat; Wolski 1976. Elio Aristide, nel dittico Ai Tebani sull’alleanza, sfrutta l’immagine codificata da Demostene dell’antico nemico dei Greci, Filippo II, per alludere al contemporaneo nemico dei Romani, i Parti; in tal modo celebra direttamente il glorioso passato greco e, indirettamente, il presente, in cui la civiltà di Roma contrasta la barbarie incarnata dai Parti: Quet 2002; Israelowich 2007, pp. 97–105; Asirvatham 2008, p. 215 s.; Harris - Holmes 2008; Pernot 2011. 146 Desideri 1978, pp. 68–75 (praes. 69), 123: la smodata passione per le esibizioni musicali e per le corse equestri degli Alessandrini è biasimata da Dione di Prusa; Tomassi 2017, p. 334 s. 147 Schissel von Fleschenberg 1912, p. 22, n. 1: Samippo dovrebbe ricordare uno stoico o, più probabilmente, un cinico; Husson 1970, I, p. 7 s.



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(§§ 42–44) e, per tutta risposta, sarà criticato con estrema severità da Licino (§ 45)148. Timolao è un gran curiosone, ma soprattutto un appassionato amante del meraviglioso e del fantastico, come dichiara Licino all’inizio del dialogo (§ 1): lo dimostra nel narrare le incredibili traversie affrontate in mare dall’Iside (§§ 6–9), nel dare il la al gioco delle richieste agli dèi (§ 16) e nel compilare l’elenco dei regali che desidera ricevere da loro (§§ 42–44). È anche assai presuntuoso nel correggere i suoi amici (§ 3) e nel prenderne in giro i sogni, ritenendosi migliore di loro (§§ 19–20, 41), giacché dà avvio alla gara di desideri e poi se ne sta quasi in disparte durante le preghiere di Adimanto (con due soli interventi ai §§ 19–20) e Samippo (con un’unica replica al § 35), ‘spuntando fuori’ solo quando arriva il momento di esprimere il suo desiderio (§§ 41–45). Quest’ultimo si presenta come «un véritable délire», «un mélange de curiosité puerile, de sensualité vulgaire et d’amusements despotiques»149 con cui Luciano dà libero sfogo alla sua creatività per mostrare come sia facile criticare i folli comportamenti degli uomini, quali la mania di esotismo (nella menzione degli Iperborei e degli Indi) e la credulità (con la citazione di alcune particolarità scientifico-naturalistiche come la fenice, le sorgenti del Nilo e gli antipodi). Il desiderio di Timolao si configura, dunque, come un eccezionale pastiche che fonde mirabilmente motivi favolosi – presentati altrove separatamente da Luciano – e fonti letterarie diverse, in particolare la storia di Gige e le fantasie esotiche proprie del Romanzo di Alessandro150. Fondamentale è il motivo degli anelli magici, che rientra nel comune repertorio di elementi di magia condiviso da Luciano coi romanzieri greci (Philops. 17, 24, 38/ Hld. 8, 11), che comprende anche invocazioni a Ecate (Philops. 14, 22, 24/ Ach. Tat. 3, 18), oracoli che si contrastano a vicenda (Peregr. 29 ss./Hld. 8, 11), apparizioni di fantasmi (Philops. 22, 31/Xen. Eph. 5, 7, 8)151. Il modello omerico della visione degli dèi dal cielo è imprescindibile per il desiderio di Timolao come per le altre fantasie lucianee in cui uno o più personaggi contemplano la terra da altezze elevatissime (Somn. 15; Icar. 16; Bis acc.

148 Luciano è un amante dell’effetto-sorpresa: lo si nota bene nel modo in cui illude il suo pubblico circa la psicologia di Timolao. Per Vincenzo Longo, in nessuno scritto più chiaramente che nella Nave «sono apparse distinte le due anime di Luciano, quella orientale, in Timolao, ricca di fantasia e di intuizioni anticipatrici, e quella greca, in Licino, rigorosamente razionalistica, che si prende gioco, definendoli prodotti d’insipienza e di pazzia, dei “folli voli” dell’altra»: Longo 1976–1993, III, p. 435. 149 Caster 1937, p. 315; cfr. anche le considerazioni di Moricca 1914, p. 329 s. 150 Bompaire 1958, p. 457, n. 2; Anderson 1976, pp. 13, 30 s.; Id. 1993, p. 221 s.; Ogden 2007, p. 165. 151 Anderson 1976b, p. 84 s.; cfr. Stramaglia 1999.

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8; Fug. 25; Cont. 3; ecc.) . Attraverso il ‘viaggio assurdo’ vagheggiato da Timolao si offre al pubblico, avvezzo ad apprezzare i classici e a esigere testi ben costruiti secondo le regole dell’arte, ma anche sempre più attratto dal meraviglioso, una fantastica sequenza di immagini fondata sul soprannaturale e sull’incredibile153. Si deve notare, inoltre, che Luciano non solo si compiace di manipolare e di fondere le sue fonti, ma si diverte a creare un personaggio assolutamente comico e grottesco a un tempo, giacché Timolao non desidera un unico anello, ma una moltitudine di anelli, che ne palesano la follia, e non è presentato come un bel giovane, come Gige o Alessandro, ma come un vecchio. Per la ricchezza del suo desiderio, quindi, Timolao somma in sé più tipi umani. È prima di tutto l’uomo comune, con le sue piccole manie e le sue debolezze e, soprattutto, la sua passione per la menzogna, un vero e proprio “amore innato” (ἔμφυτος ὁ ἔρως), che, per Luciano, seduce la maggior parte degli uomini, anche quelli migliori, che “prescindendo dall’utile, antepongono di gran lunga la menzogna in sé e per sé alla verità compiacendosene e persistendo in essa senza la giustificazione di una benché minima necessità” (Philops. 1–2). Timolao è pure il tipico indagatore di fenomeni celesti (τὰ μετέωρα φροντιστής), la cui iconica caricatura è nel celebre ritratto del Socrate aristofaneo che, nel suo pensatoio, se ne sta sospeso in aria in una cesta a osservare il cielo (Ar. Nub. 218–232)154. Si tratta di un’immagine talmente potente e radicata nell’immaginario popolare che Luciano la riecheggia nei comportamenti e nelle fattezze stesse di Timolao, che è anche calvo e col naso camuso, come Socrate (§ 45), pur se del suo celeberrimo predecessore non possiede né la saggezza né la conoscenza. È anche nella realtà che l’incredibile fantasia visionaria lucianea può trovare una ricca fonte di ispirazione. L’età in cui vive lo scrittore è tutta tesa verso il magico e il prodigioso, mentre superstizione e credulità trovano spazio anche nelle classi elevate e nella stessa famiglia imperiale (HA V. M.Ant. 13); una ricca produzione paradossografica (in particolare zoologica) serve a compiacere gli spiriti più 152

152 L’insistenza con cui Luciano ripropone nella sua opera immagini della terra vista dall’alto permette di ipotizzare che l’autore fosse suggestionato e affascinato dalle visioni panoramiche. 153 Il ‘viaggio assurdo’ rappresenta uno degli strumenti principali di humour e divagazione fantastica dei Dialoghi: cfr. VH; Herm. 71; Bompaire 1958, p. 696 s.; Anderson 1976, p. 121; Andreani 1998, p. 136. 154 Plat. Apol. 18b–c: ἐκεῖνοι δεινότεροι, ὦ ἄνδρες, οἳ ὑμῶν τοὺς πολλοὺς ἐκ παίδων παραλαμβάνοντες ἔπειθόν τε καὶ κατηγόρουν ἐμοῦ μᾶλλον οὐδὲν ἀληθές, ὡς ἔστιν τις Σωκράτης σοφὸς ἀνήρ, τά τε μετέωρα φροντιστὴς καὶ τὰ ὑπὸ γῆς πάντα ἀνεζητηκὼς καὶ τὸν ἥττω λόγον κρείττω ποιῶν; Xen. Symp. 6, 6–7. La critica ha da tempo notato che Timolao ricorda, per certi aspetti, una caricatura di Socrate: Schissel von Fleschenberg 1912, p. 22, n. 1.



1.6  I protagonisti del dialogo

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curiosi (l’Elogio della mosca lucianeo si adatta perfettamente a questo scopo); non è raro, in particolare, che “straordinario” (παράδοξος), come Licino nell’incipit del dialogo definisce il passeggero dell’Iside che fa perdere la testa a Timolao (§ 1: θέαμά τι τῶν παραδόξων), sia definito un artista o un atleta155. La reazione dell’uomo a tutto ciò che possa etichettare come “strano” in quanto diverso dal solito (ἀλλόκοτον), “prodigioso” (θαυμαστόν) o “straordinario” (παράδοξον) diventa necessariamente un motivo topico della satira di Luciano, la cui vena polemica «si ritrova sicuramente controcorrente rispetto alle tendenze in voga o che si stanno affermando» e, inevitabilmente, si dimostra inclemente nel condannare la dabbenaggine, le paure e le speranze dell’uomo comune di cui si nutrono ambigui e astuti personaggi, come il profeta Alessandro o il cinico Peregrino156. Nell’ampia galleria di personaggi lucianei, il nostro eroe si configura anche come il doppio negativo del Menippo protagonista dell’Icaromenippo. Entrambi partono dal rifiuto dei beni più ambiti dagli uomini; devono incontrare Hermes che gli fornisca i mezzi per il volo con cui ammirare dall’alto ogni meraviglia sulla terra; i loro obiettivi sono l’esplorazione del cielo e la soddisfazione delle curiosità scientifiche della terra; la loro impresa li rende simili a Icaro; criticano i tiranni e osservano la guerra da un luogo sicuro; hanno il desiderio di apparire come dèi, pur se il loro progetto pare quello di un folle (Nav. 42, 44, 45, 46/Icar. 3, 6–9, 11–12, 15–16, 18, 20)157. Entrambi poi possiedono caratteristiche che li accomunano al Trigeo della Pace o vengono decantate negli Uccelli aristofanei, in cui si dice, in particolare, che nulla è meglio del possedere delle ali (Ar. Av. 785), per andare a mangiare a casa quando lo si desideri (Av. 788–789) o commettere liberamente adulterio (Av. 793–797). Luciano può dunque lasciarsi ispirare dal teatro aristofaneo per dare la vita a due eroi complementari, ma dalla natura opposta: Menippo è un personaggio satirico che sfrutta le qualità dell’eroe comico per una missione importante e utile, la critica del reale e lo smascheramento di tutti gli errori e gli inganni in cui incappano gli uomini; Timolao all’opposto è uno dei classici destinatari della satira e, in particolare, è un paradigma dell’ignoranza che l’uomo dovrebbe combattere158. In ultima analisi, questo personaggio si configura come una rappresentazione caricaturale del volto deforme della vecchiaia, giacché gli sono affibbiati numerosi tratti tipici di una visione denigratoria della terza età tipici della commedia e della diatriba cinico-menippea. Timolao, infatti, non accetta di morire e vorrebbe spogliarsi della vecchiaia (§ 44); è sfrenato sessualmente (l’anello che gli concederà di essere amato da chiunque voglia è 155 Pernot 1993, II, p. 536. 156 Betz 1961, p. 159; Camerotto 2014, pp. 28–35. 157 Così Anderson 1977, p. 368. 158 Deriu 2017, pp. 161–164.

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“il più gradito”: § 43); è calvo e ha il naso camuso, due elementi tipici della ricca casistica approntata dai comici sul decadimento senile (§ 45); è toccato di mente, insipiente e si mostra pieno di ubbie, tanto che Licino vorrebbe curarlo con l’elleboro (§ 45).

1.7  Esecuzione, stile e lingua del dialogo 1.7.1  La tecnica drammatica di Luciano A differenza degli autori di teatro, Luciano non può disporre né di costumi né di accorgimenti scenici con cui caratterizzare i suoi personaggi, ma è in grado di ovviare al problema facendo sì che i suoi dialoghi siano totalmente autosufficienti nella recitazione orale e che il pubblico, come durante una vera rappresentazione drammatica, sia sempre informato sia sull’identità dei protagonisti sia sullo spazio e sul tempo della narrazione159. In tal modo, le opere lucianee si relazionano coi nuovi generi drammatici apprezzati dal pubblico di età imperiale, il mimo e il pantomimo, alternativa più popolare e meno elitaria alla declamazione pubblica, e riscontrano un notevole successo160. L’incipit della Nave dimostra bene come Luciano riesca a fornire tutte le informazioni necessarie alla comprensione del plot in pochi passaggi. I quattro protagonisti del dialogo sono rapidamente presentati all’inizio del dialogo nel breve scambio di battute fra Licino e Timolao, che fornisce anche le circostanze e i luoghi in cui l’azione ha inizio (§ 1)161. Il primo a parlare è Licino, la cui battuta iniziale svolge una triplice funzione: introduce Timolao nella narrazione, ne delinea la personalità come quella di un gran curiosone (in quanto φιλοθεάμων) e carica di aspettative il pubblico accennando all’evento straordinario (θέαμά τι τῶν παραδόξων) da cui La nave prende avvio. Anche la replica di Timolao ha un triplice scopo: presentare Lici159 Sulla tecnica drammatica di Luciano vd. Bellinger 1928; Ureña Bracero 1995; Mestre 2014 (con ulteriore bibliografia a p. 332, n. 4); cfr. Baumbach - von Möllendorff 2017, pp. 171–233: Luciano potrebbe aver pianificato la diffusione delle sue opere e averne curato la circolazione in forma scritta e orale, concependole tanto per una ristretta cerchia di pepaideumenoi quanto per il grande pubblico e, presumibilmente, partecipando alla recitazione in prima persona e, occasionalmente, con altri lettori. 160 Mestre 2014, p. 332. Sfortunatamente non abbiamo indicazioni sul modo in cui era effettuata la lettura dei dialoghi e, soprattutto, non sappiamo se fossero letti in publico e da chi, pur se la critica pensa all’intervento di un unico lettore professionista, probabilmente non lo stesso Luciano: Mestre 2014. 161 Vd. comm. ad § 1: oὐκ ἐγὼ ’λεγον; Bellinger 1928, p. 8: «in general the dialogues of Lucian need very little exposition […]. All that is necessary is to know the names of the characters and, occasionally, the scene».



1.7  Esecuzione, stile e lingua del dialogo

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no (ὦ Λυκῖνε), menzionare il terzo protagonista della narrazione, Samippo (Σάμιππον τουτονί), e svelare il motivo della discesa al Pireo dei quattro amici (l’inaspettato arrivo nel porto ateniese di una gigantesca nave oneraria egiziana). Infine, la nuova battuta di Licino rivela sia il nome dell’ultimo dei quattro amici, Adimanto (Ἀδείμαντος ὁ Μυρρινούσιος εἵπετο μεθ᾽ ἡμῶν), sia il fatto che questi si è smarrito fra la folla del Pireo, abbondonando i suoi compagni, e palesa specifiche qualità dei singoli protagonisti: l’intraprendenza di Samippo (che sale a bordo per primo), la gentilezza di Adimanto (che guida Licino tenendolo per mano) e la goffaggine di Licino (che senza l’amico Adimanto correrebbe il rischio di scivolare salendo a bordo dell’Iside). Il luogo esatto da cui inizia la narrazione resta a lungo indeterminato: solo più tardi sappiamo che i quattro protagonisti stanno rientrando in città lungo la via che conduce da Atene al Pireo, ripartita da Licino in quattro parti (§ 16), che vogliono ricordare, forse, la distanza di circa quaranta stadi che separava il porto dalla città (§ 35). Ulteriori abbellimenti della scena sono dati dal riferimento alla stele abbattuta su cui Adimanto, Licino, Samippo e Timolao si fermano a riposare lungo il cammino, dopo aver percorso buona parte della strada (circa trenta stadi su quaranta) dal Pireo in città (§ 35) e, infine, dalla menzione della porta del Dypilon, di fronte alla quale hanno termine le fantasticherie dei quattro amici (§ 46). Adimanto, che non partecipa fin dall’inizio all’azione scenica, ma si aggrega solo più tardi ai suoi tre amici, viene introdotto con un espediente tipico del teatro, vale a dire l’annuncio del suo arrivo da parte di un personaggio già presente sulla scena (§ 10): a questo compito adempiono prima Licino (ἀλλὰ τί τοῦτο; οὐκ Ἀδείμαντος ἐκεῖνός ἐστι; πάνυ μὲν οὖν, Ἀδείμαντος αὐτός) e, subito dopo, Timolao (Ἐμβοήσωμεν οὖν. Ἀδείμαντε, σέ φημι τὸν Μυρρινούσιον τὸν Στρομβίχου)162. Il ritratto di un personaggio può essere brevemente abbozzato durante il corso della narazione, come accade per Timolao, di cui, nel finale, sappiamo che presenta una vistosa calvizie e il naso camuso (§ 45). Naturalmente il maggior interesse di Luciano è nella caratterizzazione psicologica dei personaggi, che si arricchisce per tutto il corso del dialogo durante i loro scambi di battute: questo vale per tutti e quattro i protagonisti del dialogo (vd. supra ad § 1.6.1–4), pur se Licino, che fa parte della galleria di maschere lucianee familiari al pubblico, non ha bisogno di presentazione (lo stesso accade altrove per divinità come Zeus e Hermes o uomini come Diogene e Menippo). Naturalmente questo non basta a rendere il dialogo completamente autosufficiente al momento della sua recitazione. Luciano deve affrontare numerosi altri problemi, fra cui, ad esempio, quello totalmente sconosciuto agli autori di teatro di rendere al suo pubblico costantemente nota l’identità 162 Bellinger 1928, pp. 21–24.

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del personaggio che sta parlando. Per questo lo scrittore impiega soluzioni diverse, semplici ma efficaci, talvolta variamente combinate fra di loro163. Con l’uso di un vocativo la persona che parla invoca il suo interlocutore e, di conseguenza, identifica se stesso come soggetto parlante in rapporto all’altro: ciò avviene, ad esempio, nel fitto scambio di battute dei §§ 2–4, marcato da un vocativo a ogni cambio di soggetto parlante (οἶσθα οὖν, ὦ Λυκῖνε […] Καὶ μὴν οὐ πάνυ καλός, ὦ Σάμιππε […] Τοῦτο μὲν εὐγενείας, ὦ Λυκῖνε […] Εὖ γε, ὦ Τιμόλαε […] ᾿Ατάρ, ὦ Σάμιππε). L’utilizzo di predicati alla seconda persona segnala che il parlante è cambiato. A essere usati a tale scopo sono in particolare: ὁράω (ὁρᾶτε: § 4; ὁρᾷς;: § 15; ὅρα: § 21); οἶδα (οἶσθα οὖν: §§ 2, 26)164; λέγω (εὖ λέγεις: §§ 4, 20, 35, 37; πῶς λέγεις: § 26); μιμνήσκω e composti (εὖ γε ὑπέμνησας: § 35; cfr. § 3: εὖ γε, ὦ Τιμόλαε, ὅτι ἡμᾶς ἀναμιμνήσκεις; § 4: ἀτάρ, ὦ Σάμιππε, νῦν ἀνεμνήσθην); λανθάνω (λέληθας σεαυτὸν ἔχων ἐν τῇ νηΐ: § 18); φράζω (ἐγώ σοι φράσω: § 35); A volte a marcare il cambio della persona loquens è sufficiente una forma di comando o di esortazione (§ 10: ἐμβοήσωμεν οὖν [a marcare il rientro in città dal Pireo]; § 17: πλουτῶμεν; § 19: μὴ φθόνει, ὦ Λυκῖνε; θάρρει, ὦ Λυκῖνε; § 30: ἄκουε, ὦ Λυκῖνε; § 31: αὐτοὺς ἐρώμεθα, ὦ Ἀδείμαντε, τοὺς ἱππέας; § 36: πρόσιμεν δή; § 39: πέπαυσο ἤδη, ὦ Σάμιππε; 41: σκόπει γοῦν, ὦ Λυκῖνε). Altre volte viene sfruttata una semplice richiesta, a cui segue la replica del diretto interessato: al § 4, ad esempio, prima Timolao, su istigazione di Samippo, invita i suoi amici a non aspettare il ritardatario Adimanto e a proseguire (μηδαμῶς, ἀλλὰ προΐωμεν), poi alla battuta finale di Licino (βαδίζωμεν δ᾽ ὅμως, εἰ καὶ Σαμίππῳ τοῦτο δοκεῖ) segue l’immediata replica che non può essere se non di Samippo (καὶ μάλα δοκεῖ, ἤν πως ἀνεῳγυῖαν ἔτι τὴν παλαίστραν καταλάβωμεν); al § 35, ancora, alla domanda di Samippo a Licino (Σὺ δὲ τί, ὦ Λυκῖνε, δοκιμάζεις;) segue la pronta risposta di quest’ultimo (Ἐγώ σοι φράσω). Per marcare l’identità del soggetto parlante Luciano può sfruttare, infine, una semplice esclamazione tipica delle scene teatrali (παπαῖ: § 29; ὢ τῆς τύχης: § 37); una domanda introdotta dal pronome interrogativo τίς (§ 1: τί γὰρ ἔδει καὶ ποιεῖν; § 11: τίς αὕτη;; § 17: τίς γοῦν πρῶτος ἄρξεται;; § 19: τί τοῦτο, ὦ Ἀδείμαντε;; § 39: τί δ᾽ οὖν, ὦ Λυκῖνε;); particolari ‘marcatori verbali’ (εὖ γε … ὅτι: § 3; μηδαμῶς: §§ 4, 37; οὔκ: § 7; οὐδέν: §§ 11 [οὐδέν … χαλεπόν; οὐδέν … τοιοῦτον], 45; οὐκοῦν: §§ 12, 14, 18; ἀλλά: §§ 15, 17, 30, 31, 35, 46 [ἀλλὰ πάντως, ὦ Λυκῖνε … ἀλλ᾽ οὐ δέομαι εὐχῆς ἐγώ]; καλῶς:

163 Bellinger 1928, pp. 24–35. 164 Nav. 1–2: οὐκ οἶδ᾽ ὅποι νῦν ἐκεῖνός ἐστιν (Licino su Adimanto); οἶσθα οὖν, ὦ Λυκῖνε, ὅπου ἡμᾶς ἀπέλιπεν; (risposta di Samippo). L’incertezza di uno dei parlanti (οὐκ οἶδ᾽ ὅποι) è sfruttata per produrre la pronta replica dell’interlocutore (οἶσθα οὖν).



1.7  Esecuzione, stile e lingua del dialogo

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§ 17); esclamazioni agli dei (come νὴ Δία, “per Zeus”, che ricorre per ben tre volte per segnalare la presa della parola da parte di Licino: §§ 1, 9, 37). 1.7.2  Stile del dialogo Luciano ama fondare la sua tecnica drammatica sull’impiego di particolari proposizioni che si configurano come marca caratteristica dei Dialoghi. Ciò è evidente fin dall’incipit del dialogo, introdotto dall’espressione οὐκ ἐγὼ ’λεγον, “non lo dicevo io”, che dà un avvio vivace e brioso alla narrazione (§ 1)165. Altre formule standardizzate sono quelle che ricorrono quando un interlocutore è reticente nel parlare (§ 11: οὐδέν, ὦ Λυκῖνε, χα­λε­πόν) e deve essere invitato a farlo (Τίς αὕτη; Μὴ γὰρ ὀκνήσῃς εἰπεῖν), quando qualcuno scopre un aspetto sconosciuto della personalità del suo interlocutore (§ 29: τοιοῦτον ἡμῖν ἡ Μαντίνεια θαυμαστὸν βασιλέα καὶ στρατηγὸν ἐλελήθει ἀνατρέφουσα) o si complimenta con lui per avergli ricordato qualcosa al momento opportuno (§ 35: εὖ γε ὑπέμνησας). L’impiego di tali formule, insieme alla stereotipizzazione dei personaggi, è una caratteristica fondamentale dei Dialoghi, giacché questi due particolari elementi garantiscono al pubblico una costante e ottimale comprensione della produzione di Luciano. Con buon acume critico Francesca Mestre definisce la ripetizione, all’interno dell’opera lucianea, non come una carenza della capacità creativa dello scrittore, quanto piuttosto «la estrategia principal, fundamental, de la puesta en escena pública de sus diálogos», come si trattasse di «una especie de código que se establece entre el autor y su público, del mismo modo, por ejemplo, que unos determinados gestos del bailarín identifican personajes, historias, situaciones, en el pantomimo»166. La scrittura lucianea mira a dare, in ogni caso, un’impressione di spontaneità. Ad arricchire il dialogo con una patina di vivace colloquialità contribuiscono le numerose formulazioni proverbiali distribuite nella narrazione167: l’immagine del cadavere in balia degli avvoltoi, con cui sono ritratti i prodighi alla mercé degli scrocconi (§ 1); le comparazioni proverbiali giocate sull’an165 Si tratta di un motivo formulare che Luciano ama impiegare per marcare con forza un particolare momento della narrazione: nel Timone, ad esempio, la formula segna l’inizio della scoppiettante sequenza finale in cui Timone celebra il suo tragicomico trionfo sui nemici (Tim. 46). 166 Mestre 2014, p. 351 s. 167 Il proverbio è espressamente consigliato dai manualisti come fonte di grazia e di piacevolezza: Dem. Eloc. 156. Sul proverbio in Luciano l’opera di riferimento resta quella di Rein 1894, da integrare con le utili precisazioni di Strömberg 1954, pp. 55– 58 e con la sintesi di Bompaire 1958, pp. 405–424; cfr. Schmid 1887, pp. 411–414; in generale sul proverbio nell’antichità vd. almeno Lelli 2006 e 2007 (con bibliografia).

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tonomasia, basate sui nomi di Proteo (§ 6) e di Nereo (§ 9), o le allusioni a figure quali Sisifo (§ 21) e Mida (§ 21); particolari espressioni come “guardare fisso” (§ 11) o “con la punta del dito” (§ 45); formule paremiografiche come “Hermes è comune” (§ 12), “promettere montagne d’oro” (§ 19), “essere appeso a un filo” (§ 26), “il tesoro si è rivelato carbone” (§ 26), “aver bisogno di elleboro” e “essere pieno di moccio” (§ 45); le allusioni ai modi di dire “avere un piede nella tomba” (§ 17) e “possedere l’anello di Gige” (§ 42)168. A mantenere costante l’interazione fra il lettore del dialogo (l’ἀναγνώστης) e il pubblico contribuiscono ancora: l’uso dei deittici (§ 1: Σάμιππον τουτονί; 14: ἑνὸς πλοίου τουτουὶ δεσπότης; § 17: οὑτοσὶ Σάμιππος; § 33: οὑτοσὶ Τιμόλαος; § 46: ὁ βέλτιστος οὑτοσὶ Σάμιππος); l’inserimento di termini relativi alla recitazione pubblica di un dialogo, utili a stabilire un contatto diretto fra il lettore e il pubblico (§ 16: ἐπίδειξις; § 28: ἐπιδείξασθαι); le allocuzioni dirette al pubblico in forma allusiva (§ 31: Καὶ αὐτοὺς ἐρώμεθα τοὺς ἱππέας… Ὅτῳ δοκεῖ, ὦ ἱππεῖς, Ἀδείμαντον ἱππαρχεῖν, ἀνατεινάτω τὴν χεῖρα). La lingua lucianea resta, comunque, altamente letteraria e costruita con un abbondante uso di figure retoriche, di cui La nave contiene un ricco campionario, in cui sono presenti: • l’adynaton (§ 1: ὅτι θᾶττον … Τιμόλαον διαλάθοι); • l’asindeto (§ 18: ὁ φόρτος οἱ ἔμποροι αἱ γυναῖκες οἱ ναῦται) e il polisindeto (§ 20); • il chiasmo (§ 6: θαυμάσιος τὴν τέχνην … καὶ τὰ θαλάττια σοφός; § 21: πλουτῶν ἄθλιος ἀπόλῃ λιμῷ διαφθαρεὶς πολυτελεῖ; § 32: ἐπιβάντες επὶ τὰς τριήρεις καὶ τοὺς ἵππους εἰς τὰς ἱππαγωγοὺς ἐμβιβάσαντες; § 42: χαλωμένου τοῦ κλείθρου καὶ τοῦ μοχλοῦ ἀφαιρουμένου); • l’ellissi (§ 17: Σύ, ὦ Ἀδείμαντε, εἶτα μετὰ σὲ οὑτοσὶ Σάμιππος, εἶτα Τιμόλαος; § 20: Ὁ χρυσὸς δὲ κοῖλος ἡμῖν ἐμφαγεῖν, τὰ δὲ ἐκπώματα οὐ κοῦφα ὡς τὰ Ἐχεκράτους); • la figura etimologica (§ 13: βίον ἐπεβίωσα; § 15: σιτα­γω­γεί­τω σιταγωγίαν; § 20: οἶκος τὸ πρῶτον, ὡς ἂν ἐπισημότατα οἰκοίην; § 23: ὁ ἐκπιὼν

168 A una formula paremiografica pare alludere anche καταδύσεταί σοι τὸ πλοῖον (§ 19). Per Bompaire 1958, p. 399 s., pur se Luciano modifica sovente il testo delle citazioni, sfrutta il ricco patrimonio paremiografico a sua disposizione, al contrario, in maniera alquanto stereotipata, giacché i proverbi «sont faits pour s’appliquer exactement au cas particulier, sans quoi ils ne seraient pas des proverbes». A dispetto del giudizio di Bompaire, però, si deve rilevare che una certa libertà nell’uso del proverbio non è estranea all’autore (cfr. comm. ad § 17: ὅς γε δὴ ἐν τῇ νηῒ τὸν ἕτερον πόδα ἔχει; Tomassi 2011b, pp. 115–118), anche perché l’essere manipolato, modificato e variamente impiegato a seconda del contesto rientra nella stessa natura del proverbio, «forma di sapienza che proviene da un mondo arcaico nel quale l’univocità della definizione e del concetto non erano un valore come per noi»: Lapucci 2006, p. XXV s.



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1.7  Esecuzione, stile e lingua del dialogo

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ἀποφερέτω καὶ τὸ ἔκπωμα; § 25: βιῶναι τὸν βίον; § 28: τριάκοντα … τριακόσιοι … μύριοι … πέντε μυριάδας … πεντακισχιλίους); la litote (§ 11: οὐ μικρὸν οὐδὲ εὐκαταφρόνητον πρᾶγμα); l’omoteleuto (§ 28: τριακόσιοι … χίλιοι … μύριοι); la paronomasia (§ 45: παρακεκινηκότα τὴν γνώμην … ὄρη ὅλα κινεῖν … δυνάμενον); il poliptoto (§ 44: νέον ἐκ νέου); la preterizione (§ 27: Ἵνα δέ σοι καὶ τούτους ἀφῶ … Ἐῶ λέγειν; § 45: πλὴν ἀλλὰ ἐκεῖνο ἐρήσομαί σε κτλ.).

Luciano si serve anche di una ricca gamma di espedienti umoristici, fra cui troviamo: • diminutivi comici (§ 2: μειρακίσκος; § 6: ἀνθρωπίσκος; § 15: σκαφίδιον; § 26: ψυχίδιον); • giochi di parole (§ 21: οὐ σκύφον, ἀλλὰ Σισύφειόν τι βάρος; § 40: εἰκόνες δὲ ἐκεῖναι καὶ νεῴ), fra i quali sono notevoli in particolare quelli che collegano i nomi dei protagonisti a loro specificità caratteriali (§ 4: οἶδε τὴν ὁδὸν Ἀδείμαντος, καὶ δέος οὐδέν μὴ ἀπολειφθεὶς ἡμῶν ἀποβουκοληθῇ; § 35: Ἀποδειλιᾷς καὶ σύ, ὦ Ἀδείμαντε); • invocazioni comiche (§ 14: ὦ γενναῖε ... ὦ ναυκλήρων ἄριστε … ὦ βέλτιστε; § 39: ὦ θαυμασιώτατε βασιλέων); • l’uso dell’iperbole, ottenuto con vari espedienti: termini composti con prefissi come ὑπερ- (§ 1: ὑπερμεγέθη ναῦν); cifre spropositate (§ 6: i marinai dell’Iside sono un esercito, il suo carico di grano è tanto grande che sarebbe sufficiente a sfamare tutti gli abitanti dell’Attica per un anno intero; § 22: sette giganteschi portinai barbari; § 44: Timolao vuol vivere per 1000 anni); efficaci comparazioni (§§ 6, 9: Erone sembra ‘un coetaneo di Nereo’ ed è ‘più sapiente di Proteo’); alcune affermazioni magniloquenti e paradossali (§ 1: Timolao andrebbe di corsa a Corinto pur di vedere uno spettacolo fuori del comune; § 15: Licino invita Adimanto a portargli, dall’Egitto, una delle piramidi; §§ 20–22, 37, 42–44: i sogni di Adimanto, Samippo e Timolao contengono desideri assolutamente al di là del reale); • l’inserzione di ‘plurali enfatici’ (§ 24: Ἶροι); • la parodia, con l’imitazione della Ciropedia e dell’Anabasi di Senofonte nel racconto della spedizione di Samippo (§§ 28–38)169; • i nomi ‘parlanti’ (§ 20: Echecrate; § 22: Cleeneto e Democrate; § 24: Dionico; § 27: Fanomaco; § 38: Cidia).

169 Sui principali strumenti di humour lucianei vd. Cunningham Robertson 1913; Ureña Bracero 1995 (con bibliografia); sui procedimenti parodici lucianei vd. Camerotto 1998 (con bibliografia).

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I Introduzione

Variegato è il campionario di figure, care al pubblico, che Luciano mette in campo. Fra gli exempla mitologici troviamo Proteo (§ 6) e Nereo (§ 9), Arione e Melicerte (§ 19: κιθαρῳδὸν μέν τινα … καὶ νεκρόν τι ἄλλο παιδίον), Iro (§ 24), Giacinto, Ila e Faone (§ 43), Agamennone e Creonte, Icaro (§ 46). Pochi gli exempla storici: Mida (§ 21), Creso e Policrate (§ 26), Alessandro Magno, Tolomeo e Mitridate (§ 28). Fra i temi tipici dei Dialoghi presenti nella Nave troviamo: • la contrapposizione fra povertà e ricchezza, uno dei nuclei tematici del dialogo, al cui interno i sogni di ricchezza di Adimanto, Samippo e Timolao si oppongono alla saggia moderazione di Licino (vd. supra)170; • la vacuità dei sogni ad occhi aperti degli uomini (altro nucleo tematico del dialogo: vd. supra); • il viaggio rocambolesco (§§ 7–9) • il motivo della scoperta di un favoloso tesoro (§ 20)171; • le meraviglie esotiche dell’Egitto (§ 15, 44) e dei paesi oltre i confini dell’Impero (§ 44) • l’arroganza del parvenu, che saluta con deferenza i postulanti intorno a lui (§ 22); • la denuncia del cattivo gusto e della mania di protagonismo dei ricchi carichi di addobbi di porpora e di pesanti anelli (§ 22); • l’abuso del potere da parte di chi comanda (§§ 28–38); • l’immagine della stele consunta dal tempo, che i quattro protagonisti del racconto incontrano nel loro cammino dal Pireo ad Atene (§ 35); • la descrizione di una ‘battaglia immaginaria’ (§§ 36–38 ); • la passione per la magia degli uomini (nei sogni di Timolao). Un discorso a parte merita la sintassi del dialogo, che Luciano impiega abilmente come importante elemento di caratterizzazione dei personaggi. Quando il gioco dei desideri deve ancora iniziare, Adimanto si augura che gli dèi lo assistano nei suoi sogni di ricchezza, ma resta con i piedi per terra, e usa un periodo ipotetico misto in cui alla protasi della possibilità, relativa all’intervento divino, segue una apodosi dell’irrealtà, in cui enumera ciò che vorrebbe avere (§ 13: εἴ τις θεῶν τὴν ναῦν ἄφνω ἐμὴν ποιήσειεν εἶναι, οἷον ἄν, ὡς εὐδαίμονα βίον ἐβίωσα … οἰκίαν τε ἤδη ᾠκοδομησάμην ... καὶ οἰκέτας ὠνούμην κτλ.). In seguito, una volta che la gara dei desideri inizia, l’uomo sprofonda nella sua fantasia, e immagina di acquistare in men che non si dica un favoloso tesoro (§ 20: ἀνορωρύχθω θησαυρὸς ὑπὸ τὸν Ἑρμῆν τὸν λίθινον κτλ.) e, addirittura, di possedere già tutto ciò che desidera (§ 20: τὰ περὶ τὸ ἄστυ πάντα ὠνησάμην ἤδη); nella concitazione del desiderio, 170 Lo stesso tema costituisce il nucleo tematico del Timone ed è fondamentale per il Menippo e i Saturnalia: Anderson 1976, p. 152. 171 Anderson 1976, p. 11, n. 81; Id. 1976b, p. 93 e n. 107.



1.7  Esecuzione, stile e lingua del dialogo

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accumula beni (§ 22: ἐσθὴς ἐπὶ τούτοις ἁλουργὶς καὶ ὁ βίος οἷος ἁβρότατος, κτλ.); vagheggia sul futuro (οἱ μὲν ἕωθεν πρὸς ταῖς θύραις ἄνω καὶ κάτω περιπατήσουσιν, κτλ.) e costruisce i suoi pensieri come se tutto ciò che si finge nella mente possa accadere a breve (§ 22: εἰ δέ τις πένης, οἷος ἦν ἐγὼ πρὸ τοῦ θησαυροῦ, φιλοφρονήσομαι τοῦτον κτλ.). Ritorna all’improvviso sulla terra, denunciando con le sue parole l’irrealtà di ciò che sta dicendo (§§ 24–25: τῇ πόλει δὲ ταῦτα ἐξαίρετα παρ᾽ ἐμοῦ ὑπῆρξεν ἄν ... Τοῖς φίλοις δὲ ὑμῖν, Σαμίππῳ μὲν εἴκοσι μεδίμνους ἐπισήμου χρυσίου παραμετρῆσαι τὸν οἰκονόμον ἐκέλευσα ἄν, κτλ.). Samippo fin dall’inizio del suo desiderio si caratterizza per la sua energia e la sua volitività: senza giri di parole, chiede di diventare re (§ 28: αἰτῶ δὴ βασιλεὺς γενέσθαι κτλ.), e, come Adimanto, vede materializzarsi con un suo comando i suoi compagni di avventura, che poi diventeranno sempre più numerosi fino a formare un esercito (§ 28: ἑταῖροι καὶ συνωμόται ὅσον τριάκοντα, πιστοὶ μάλα καὶ πρόθυμοι, γενέσθωσαν, εἶτα κατ᾽ ὀλίγον τριακόσιοι προσιόντες ἡμῖν ἄλλοι ἐπ᾽ ἄλλοις, εἶτα κτλ). Anche lui, come Adimanto, costruisce frasi veloci e prive del verbo principale (§ 29: Ἐγὼ δὲ χειροτονητὸς ὑφ᾽ ἁπάντων προκριθεὶς ἄρχων, κτλ.). Man mano che prosegue nel suo sogno, Samippo tende a usare prevalentemente il futuro e, soprattutto, l’imperativo, e a dare ordini, come un vero generale (§ 31: αὐτοὺς ἐρώμεθα, ὦ Ἀδείμαντε, τοὺς ἱππέας ... σὺ μὲν ἄρχε τῆς ἵππου, Λυκῖνος δὲ ἐχέτω τὸ δεξιόν. Οὑτοσὶ δὲ Τιμόλαος ἐπὶ τοῦ εὐωνύμου τετάξεται. Ἐγὼ δὲ κατὰ μέσον κτλ.; § 32: προΐωμεν ... διαβάλωμεν τὸν Αἰγαῖον ἐς τὴν Ἰωνίαν). A un certo punto, l’uso del presente sancisce il fatto che il gioco dei desideri è sprofondato totalmente nella fantasia, che ha preso il posto della realtà (§ 33: κατὰ τὸν Εὐφράτην ἤδη ἐσμέν), e Licino non può non rimarcarlo con la consueta ironia (§ 35: ἐγὼ δὲ νήφειν ᾤμην καὶ σοὶ ὕπαρ ἀποφανεῖσθαι τὴν γνώμην). Rispetto ad Adimanto, non ci sono incertezze nella volontà di Samippo, non c’è alcuna distinzione fra la realtà e la fantasia: tutto si configura come se lui e i suoi amici stessero vivendo al momento ciò che lui vagheggia. Dei tre desideri, quello di Timolao si presenta come un vero e proprio delirio, come dimostra il modo in cui lo esprime. Si inizia con un semplice indicativo presente (§ 42: Ἐγὼ δὲ βούλομαι τὸν Ἑρμῆν ἐντυχόντα μοι δοῦναι δακτυλίους κτλ.). Poi, man mano che si procede, il discorso diventa un complicato e contorto intrico di pensieri in cui l’irrealtà si mescola alla possibilità. Si prenda in considerazione, in particolare, il § 44, in cui troviamo un periodo ipotetico dell’irrealtà con cui Timolao denuncia apertamente l’irrealizzabilità dei suoi desideri (πάντα γὰρ ἐμὰ ἦν ἂν τὰ τῶν ἄλλων, ἐς ὅσον ἀνοίγειν τε τὰς θύρας ἐδυνάμην καὶ κοιμίζειν τοὺς φύλακας καὶ ἀθέατος εἶναι εἰσιών). A questo tengono dietro tutta una serie di proposizioni con indicativi irreali (§ 44: ἀπέλαυον … ἑώρων ἄν … ἂν ἠπιστάμην … ἔγνων

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I Introduzione

ἄν … ἀφῆκα … ἂν ἐξῆν … ἄν ... παρεῖχον … ἐποι­ού­­μην ἄν ... πάντα ἐμὰ ἦν) che, in alcuni casi, vengono collegate a proposizioni ipotetiche atte a esprimere possibilità (§ 44: εἴ τις ὑπερόπτης εἴη ... ἀφῆκα κτλ.; εἰ δόξειέ μοι ... παρεῖχον). E alla fine, a suggellare il sogno è una proposizione all’indicativo (§ 44: Τοῦτο ἡ ἄκρα εὐδαιμονία ἐστὶν κτλ.) che sorprende e lascia spiazzati! Come si nota, l’uso sapiente della sintassi serve a contraddistinguere sapientemente i protagonisti del dialogo e a stigmatizzare, con sottile precisione, il folle comportamento degli uomini comuni che, pur essendo consapevoli dei loro limiti, desiderano spesso più di quanto possano sperare di ottenere se non, addirittura, l’impossibile. 1.7.3  Lingua del dialogo È peculiare dello stile di Luciano un uso originalissimo del lessico. Nel riprendere le statistiche di Chabert distinguiamo all’interno del vocabolario lucianeo (capace di più di 10.400 parole, contro le 9.900 di Platone e le 7.700 di Polibio) tre categorie di termini172. Alla prima appartegono i termini propri dell’epoca classica, i più numerosi nell’insieme dei sostantivi impiegati dallo scrittore, 8.200 su 10.400, cioè all’incirca i 4/5: da qui emerge «la prédilection bien connue de Lucien pour l’époque attique, son respect pour l’éducation classique au sens le plus précis du mot»173. Alla seconda categoria sono pertinenti i termini entrati in uso a partire dall’età ellenistica. Le parole formatesi in epoca posteriore a quella classica sono anch’esse presenti in gran numero nell’opera lucianea: 1.230 su 10.400, cioè circa 1 su 8. Tali parole costituiscono «le groupe le plus important du vocabulaire non attique de notre auteur»174. Si tratta, in particolare, di parole composte di due o più elementi, prefissi e suffissi, la cui complessità è sufficiente a rivelarne l’età. Spesso a una parola semplice dell’epoca attica è collegato un prefisso o un suffisso al fine di formare una parola nuova. In Luciano più della metà di queste parole rappresentano degli hapax legomena. Alla terza sezione pertengono i termini ‘propri’ del vocabolario di Luciano. Questa categoria può comprendere parole attiche cadute in disuso, parole di conio lucianeo o, infine, termini già conosciuti e usuali che lo scrittore sfrutta con un significato particolare. Particolarmente interessanti in questo gruppo sono i vocaboli che, in base a quanto ci è pervenuto della tradizione 172 Chabert 1897, pp. 117–147 (vd. in generale pp. 117–159 per il vocabolario di Luciano); cfr. almeno Bompaire 1994; Kim 2010 (sull’impiego dell’attico nella Seconda sofistica). 173 Chabert 1897, p. 119 s. 174 Chabert 1897, p. 122.



1.8  Nota testuale

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letteraria greca, sembrano figurare soltanto, o per la prima volta, nei Dialoghi175. Di questi, inoltre, 6 su 7 non hanno che un’unica occorrenza nel corpus lucianeum176. Fra gli hapax attestati nella letteratura greca unicamente nella Nave troviamo composti con preposizioni (§ 2: παραδακρύειν; § 3: συναποικίζειν; § 39: ἑκστάδιος), aggettivi (§ 2: ταχύδακρυς) o sostantivi (§ 4: κεροίαξ da κέρας). A questi possiamo aggiungere il termine ἁλουργίς (§ 22), che prima di Luciano non risulta impiegato come aggettivo, ma solo come sostantivo proprio. Numerosi sono anche i casi in cui Luciano mostra un uso assolutamente disinvolto e inusitato del vocabolario (ciò che avvicina molti termini sfruttati dallo scrittore a veri e propri neologismi)177: al § 2 θαλάμη, “tana”, “nascondiglio” oppure “antro”, è usato col significato di “stiva” (dell’Iside), mentre ἐπισύρομαι, “traggo in lungo”, vale “parlo strascicando le parole”; al § 10 περίπατος, “passeggiata”, vale “passo”, “modo di incedere”; al § 11 ἀνακυκλέω significa “giro e rigiro nella mente”; al § 13 μισθοφορία, “compenso” (per una prestazione di lavoro), è impiegato in maniera eccezionale con il senso di “rendita” (di un affare); al § 20 ἐνεσθίω, “mangio in fretta”, “trangugio”, vale “mangio sopra” o “mangio dentro”; al § 34 ἀρχή sembrerebbe sfruttato col significato di “capitale”.

1.8  Nota testuale I testi greci lucianei presentati sono generalmente quelli editi da Matthew Donald Macleod per la collana Oxford Classical Texts (Macleod 1972– 1987). Per varianti testuali e proposte di correzione non accolte nel testo rimando all’apparato critico di Macleod. Elenco di seguito i casi in cui il testo della Nave da me pubblicato si discosta da quello edito da Macleod (IV, pp. 96–122): ogni caso è discusso per esteso nel commento178.

175 Cfr. Ureña Bracero 1995, p. 126. 176 Chabert 1897, p. 142; per i processi di creazione e manipolazione verbale in Luciano vd. almeno Baldwin 1973, pp. 50–53 e Casevitz 1994. 177 Chabert 1897, p. 136. 178 Per lo stemma codicum della tradizione lucianea rimando a Macleod 1972–1987, I, pp. XII–XXI. Queste sono le principali edizioni critiche utilizzate (fra parentesi inserisco l’indicazione precisa del volume, quando occorre, e delle pagine in cui compare La nave): Lehmann 1822–1831 (VIII, pp. 149–191), Jacobitz 1836–1841 (III, pp. 346–373), Bekker 1853 (I, pp. 338–353), Fritzsche 1860–1882 (II.2, pp. 3–49), Husson 1970 (I, pp. 26–73). Sono stati presi in considerazione anche i testi pubblicati da Dindorf 1884 (pp. 651–665), Kilburn 1959 (pp. 430–487) e Longo 1976– 1993 (III, pp. 25 s. [nota critica], 436–473) e le annotazioni critiche di Sommerbrodt 1886–1899 (III, pp. 301–306) e Nesselrath 1990b.

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I Introduzione

§ 1 ἐγὼ ’λεγον codd., Lehmann, Jacobitz, Fritzsche, Husson; ἐγὼ ἔλεγον Bekker, Dindorf, Kilburn, Macleod § 2 ἐλεύθερόν φησιν Bekker, Fritzsche, Dindorf, Kilburn, Husson; ἐλευθέριόν φησιν codd., Lehmann, Jacobitz, Macleod § 3 Τοῦτο μὲν εὐγενείας, ὦ Λυκῖνε, σημεῖόν ἐστιν Αἰγυπτίοις ἡ κόμη ... αὐτὴν οἱ ἐλεύθεροι παῖδες ἀναπλέκονται codd. recc., Fritzsche, Kilburn, Husson; Αἰγυπτίας ... αὐτοῖς Lehmann; Αἰγυπτίας ... αὐτήν Bekker; Αἰγυπτίας ... αὐτῆς Macleod, codd. vett. συναπῴκισαν Jacobitz, Fritzsche, Kilburn, Husson; συναπῳκίσθησαν Lehmann; συναπῴκησαν Bekker, Macleod § 7 κατήγαγε τὸ πλοῖον codd. recc., Lehmann, Jacobitz, Bekker, Fritzsche, Dindorf, Kilburn, Husson, Longo; κατήγαγον τὸ πλοῖον codd. vett., Macleod § 9 τινα λαμπρὸν ἀστέρα, Διοσκούρων τὸν ἕτερον, ἐπικαθίσαι Lehmann, Bekker, Fritzsche, Dindorf; τινα λαμπρὸν ἀστέρα Διοσκούρων τὸν ἕτερον ἐπικαθίσαι Husson, Macleod § 11 κενή τις ἔννοια codd. recc., Jacobitz, Bekker, Fritzsche, Dindorf, Kilburn, Husson; καινή τις ἔννοια Lehmann, Macleod § 14 σιταγωγείτωσαν σιταγωγίαν codd. recc., Jacobitz, Bekker, Fritzsche, Dindorf, Kilburn; σιταγωγείτω codd. vett., Lehmann, Husson; σιταγωγείτων Macleod, Longo εἰ καί Lehmann, Jacobitz, Dindorf, Kilburn, Husson, Longo; καίτοι Bekker, Fritzsche; καί codd., Macleod καθεδούμεθα τοὺς ἐξ Αἰγύπτου ... καταπλέοντας ἀνακρίνοντες Bekker (καθεδούμεθα, τοὺς ἐξ Αἰγύπτου), Fritzsche, Dindorf, Kilburn, Husson, Longo; καθεδούμεθα καὶ τοὺς ἐξ Αἰγύπτου codd., Lehmann, Jacobitz, Macleod § 15 Νειλῷα Lehmann, Jacobitz, Bekker, Fritzsche, Kilburn, Husson, Longo; Νειλαῖα Macleod ἐδύνατο Lehmann, Jacobitz, Bekker, Fritzsche, Kilburn, Husson, Longo; ἠδύνατο Macleod



1.8  Nota testuale

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§ 16 κατὰ τοὺς ἐπιβάλλοντας ἑκάστῳ σταδίους αἰτῶμεν Fritzsche, Kilburn, Husson; ἕκαστος codd., Lehmann, Jacobitz, Bekker, Dindorf, Macleod, Longo § 18 καὶ τὰ ἐν αὐτῷ πάντα ἐμὰ ὁ φόρτος Fritzsche; καὶ τὰ ἐν αὐτῷ πάντα ἐμὰ καὶ ὁ φόρτος κτλ. codd., edd., Macleod § 19 θέλεις codd. recc., Jacobitz, Bekker, Fritzsche, Dindorf, Kilburn, Husson; θέλοις codd. vet., Lehmann, Macleod, Longo § 21 καὶ τὰς τραπέζας ὅλας χρυσᾶς ... καὶ τὰς κλίνας χρυσᾶς Fritzsche, Dindorf, Kilburn, Husson, Longo (); καὶ τραπέζας codd., Lehmann, Bekker, Macleod § 24 ὑπῆρξεν ἄν codd. recc., Lehmann, Jacobitz, Bekker, Fritzsche, Husson, Longo; ὑπῆρχεν ἄν Macleod § 28 ναῦν μὲν οὐκ αἰτήσω μοι γενέσθαι Bekker, Fritzsche, Kilburn, Husson; ναῦν μὲν οὐκ αἰτήσομαι γενέσθαι codd., Jacobitz, Dindorf, Macleod, Longo ὁ νόμος τῆς εὐχῆς ὃν Τιμόλαος ἔθηκεν φήσας μηδὲν ὀκνεῖν αἰτεῖν codd., edd.; φησί Fritzsche § 29 Ὡς τοῦτό γε αὐτὸ ἤδη μεῖζον εἶναι τῶν ἄλλων βασιλέων, τὸ ἀρετῇ ... ἄρχειν Nesselrath; ἅτε ἀρετῇ ... ἄρχειν codd., Lehmann, Jacobitz, Bekker, Longo, Macleod; ὡς τοῦτό γε αὐτὸ ἡδύ, μείζω ... ἅτε Fritzsche, Sommerbrodt, Kilburn § 31 συμπαρῶσι codd. recc., Jacobitz, Bekker (συμπαρῶσιν), Fritzsche, Dinford, Kilburn, Husson, Longo; συμπαρ codd. vett., Macleod § 32 διαβάλωμεν Bekker, Fritzsche, Kilburn, Longo, Husson; διαβάλλωμεν Lehmann, Jacobitz, Dindorf; διαλάβωμεν codd., Macleod § 37 ἀφείς, ... ὑφ᾽ ἁπάντων; Jacobitz, Dindorf, Kilburn, Husson; ἀφείς; ... ὑφ᾽ ἁπάντων. Lehmann, Bekker, Fritzsche, Macleod, Longo

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I Introduzione

§ 38 ὅσας (sc. πόλεις) ... καθαιρήσω ... αἳ ἂν ὑβρίσωσί τι ἐς τὴν ἀρχήν codd., Lehmann, Jacobitz, Bekker, Fritzsche, Dindorf, Kilburn, Husson, Longo; οἵ codd., Sommerbrodt, Macleod § 43 μηδένα εἶναι ἀνέραστον καὶ ὅτῳ μὴ ποθεινότατος ἐγώ ed. princeps, edd.; εἴ τῳ μή codd., Macleod § 44 οὐδὲν γὰρ ἐνδεήσει μοι ταῦτα ἔχοντι Sommerbrodt; οὐδὲν γὰρ ἐνδεήσει ταῦτα ἔχοντι Fritzsche; οὐδὲν γὰρ δεήσει ταῦτα ἔχοντα codd., Bekker; οὐδὲν γὰρ δεήσει με ταῦτα ἔχοντα codd., Lehmann, Jacobitz ([με]), Dindorf, Kilburn, Macleod, Husson

II  Testo e traduzione

https://doi.org/10.1515/9783110659696-002

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ΠΛΟΙΟΝ Η ΕΥΧΑΙ

ΠΛΟΙΟΝ Η ΕΥΧΑΙ Λυκινος. [1] Οὐκ ἐγὼ ’λεγον ὅτι θᾶττον τοὺς γῦπας ἕωλος νεκρὸς ἐν φανερῷ κείμενος ἢ θέαμά τι τῶν παραδόξων Τιμόλαον διαλάθοι, κἂν εἰς Κόρινθον δέοι ἀπνευστὶ θέοντα ἀπιέναι διὰ τοῦτο; Οὕτω φιλοθεάμων σύ γε καὶ ἄοκνος τὰ τοιαῦτα. Τιμολαος. Τί γὰρ ἔδει ποιεῖν, ὦ Λυκῖνε, σχολὴν ἄγοντα πυθόμενον οὕτως ὑπερμεγέθη ναῦν καὶ πέρα τοῦ μέτρου ἐς τὸν Πειραιᾶ καταπεπλευκέναι μίαν τῶν ἀπ᾽ Αἰγύπτου ἐς Ἰταλίαν σιταγωγῶν; Οἶμαι δὲ καὶ σφώ, σέ τε καὶ Σάμιππον τουτονί, μὴ κατ᾽ ἄλλο τι ἐξ ἄστεως ἥκειν ἢ ὀψομένους τὸ πλοῖον. Λυκ. Νὴ Δία, καὶ Ἀδείμαντος ὁ Μυρρινούσιος εἵπετο μεθ᾽ ἡμῶν, ἀλλ᾽ οὐκ οἶδ᾽ ὅποι νῦν ἐκεῖνός ἐστιν ἀποπλανηθεὶς ἐν τῷ πλήθει τῶν θεατῶν. ῎Αχρι μὲν γὰρ τῆς νεὼς ἅμα ἤλθομεν καὶ ἀνιόντες ἐς αὐτήν, σὺ μέν, οἶμαι, Σάμιππε, προῄεις, μετὰ σὲ δὲ ὁ Ἀδείμαντος ἦν, εἶτ᾽ ἐγὼ μετ᾽ ἐκεῖνον ἐχόμενος αὐτοῦ ἀμφοτέραις, καί με διὰ τῆς ἀποβάθρας ὅλης παρέπεμψε χειραγωγῶν ὑποδεδεμένον ἀνυπόδητος αὐτὸς ὤν, τὸ ἀπὸ τούτου δὲ οὐκέτι αὐτὸν εἶδον οὔτε ἔνδον οὔτε ἐπεὶ κατεληλύθαμεν. Σαμιππος. [2] Οἶσθα οὖν, ὦ Λυκῖνε, ὅπου ἡμᾶς ἀπέλιπεν; ῾Οπότε, οἶμαι, τὸ ὡραῖον ἐκεῖνο μειράκιον ἐκ τῆς θαλάμης προῆλθε τὸ τὴν καθαρὰν ὀθόνην ἐνδεδυκός, ἀναδεδεμένον ἐς τοὐπίσω τὴν κόμην ἐπ᾽ ἀμφότερα τοῦ μετώπου ἀπηγμένην. Εἰ τοίνυν ἐγὼ Ἀδείμαντον οἶδα, οἶμαι, γλαφυρὸν οὕτω θέαμα ἐκεῖνος ἰδὼν μακρὰ χαίρειν φράσας τῷ Αἰγυπτίῳ ναυπηγῷ περιηγουμένῳ τὸ πλοῖον παρέστηκε δακρύων, ὥσπερ εἴωθεν. Ταχύδακρυς γὰρ ὁ ἀνὴρ ἐς τὰ ἐρωτικά. Λυκ. Καὶ μὴν οὐ πάνυ καλός, ὦ Σάμιππε, ὁ μειρακίσκος ἔδοξέ μοι, ὡς ἂν καὶ Ἀδείμαντον ἐκπλῆξαι, ᾧ τοσοῦτοι Ἀθήνησι καλοὶ ἕπονται, πάντες ἐλεύθεροι, στωμύλοι τὸ φθέγμα, παλαίστρας ἀποπνέοντες, οἷς καὶ παραδακρῦσαι οὐκ ἀγεννές. Οὗτος δὲ πρὸς τῷ μελάγχρους εἶναι καὶ πρόχειλός ἐστι καὶ λεπτὸς ἄγαν τοῖν σκελοῖν, καὶ ἐφθέγγετο ἐπισεσυρμένον τι καὶ συνεχὲς καὶ ἐπίτροχον, Ἑλληνιστὶ μέν, ἐς τὸ πάτριον δὲ τῷ ψόφῳ καὶ τῷ τῆς φωνῆς τόνῳ, ἡ κόμη δὲ καὶ ἐς τοὐπίσω ὁ πλόκαμος συνεσπειραμένος οὐκ ἐλεύθερόν φησιν αὐτὸν εἶναι. Τιμ. [3] Τοῦτο μὲν εὐγενείας, ὦ Λυκῖνε, σημεῖόν ἐστιν Αἰγυπτίοις ἡ κόμη. ῞Απαντες γὰρ αὐτὴν οἱ ἐλεύθεροι παῖδες ἀναπλέκονται ἔστε πρὸς τὸ ἐφηβικόν, ἔμπαλιν ἢ οἱ πρόγονοι ἡμῶν, οἷς ἐδόκει καλὸν εἶναι κομᾶν τοὺς γέροντας ἀναδουμένους κρωβύλον ὑπὸ τέττιγι χρυσῷ ἀνειλημμένον. Σαμ. Εὖ γε, ὦ Τιμόλαε, ὅτι ἡμᾶς ἀναμιμνήσκεις τῶν Θουκυδίδου συγγραμμάτων, ἃ ἐν τῷ προοιμίῳ περὶ τῆς ἀρχαίας ἡμῶν τρυφῆς εἶπεν ἐν τοῖς Ἴωσιν, ὁπότε οἱ τότε συναπῴκισαν.



La nave o Le preghiere

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La nave o Le preghiere [1] Licino. Non lo dicevo io che sfuggirebbe più facilmente agli avvoltoi un cadavere stantio in bella vista che uno spettacolo straordinario a Timolao, dovesse pure arrivare fino a Corinto correndo a perdifiato per questo? Fino a questo punto sei amante degli spettacoli e solerte in tal genere di faccende! Timolao. E cosa avrebbe dovuto fare, Licino, uno che non aveva impegni, dopo aver saputo che era approdata al Pireo un’imbarcazione enorme, smisurata, una di quelle che trasportano grano dall’Egitto in Italia? Immagino che anche voi due, tu e quest’altro qui, Samippo, non siate venuti dalla città per nessun altro motivo che per vedere la nave. Lic. Sì, certo, per Zeus! E dietro di noi veniva anche Adimanto di Mirrinunte, ma non so dove sia ora: forse si è perso fra la folla degli spettatori. Alla nave, infatti, siamo arrivati insieme e quando siamo saliti a bordo tu, mi sembra, ci precedevi, Samippo; dopo di te c’era Adimanto, poi c’ero io dietro di lui e gli stavo aggrappato con entrambe le mani: mi ha guidato per tutta la passerella tenendomi per mano, anche se io avevo le scarpe, mentre lui era scalzo. Da allora non l’ho più visto, né a bordo né quando siamo scesi. [2] Samippo. Lo sai, Licino, quando ci ha lasciati? Credo quando è uscito dalla stiva quel bel ragazzo vestito di lino immacolato, i capelli legati e tirati all’indietro su entrambi i lati della fronte. Se conosco bene Adimanto, ho idea che dopo aver adocchiato una così graziosa visione abbia deciso di dire addio al carpentiere egiziano che faceva visitare la nave e sia rimasto lì a piangere, come al solito: il nostro amico ha la lacrima facile in amore Lic. A me però il ragazzino non è parso una così gran bellezza, Samippo, da colpire addirittura Adimanto, a cui tanti begli Ateniesi vanno dietro, tutti liberi, sciolti di lingua, che profumano di palestra, accanto ai quali non è una vergogna neppure piangere. Questo, invece, oltre ad avere la pelle scura, e anche le labbra sporgenti e le gambe secche secche, parlava in modo trascurato, disarticolato e frettoloso: in greco, certo, ma col tono squillante e la cadenza del suo paese d’origine; e poi i capelli e quella treccia raccolta all’indietro dicono che non è libero di nascita. [3] Tim. Anzi, è segno di nobiltà fra gli Egiziani, Licino, quel modo di acconciarsi. Tutti i giovani liberi, infatti, si fanno la treccia fino all’adolescenza, contrariamente ai nostri antenati, a cui pareva bello fossero i vecchi a portare i capelli lunghi legandoli con un nodo fissato da una cicala d’oro. Sam. Fai bene, Timolao, a farci tornare alla mente ciò che disse Tucidide nel proemio della sua opera a proposito dell’antico lusso dei nostri antenati in Ionia, all’epoca in cui partirono per fondare delle colonie.

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ΠΛΟΙΟΝ Η ΕΥΧΑΙ

Λυκ. [4] ᾿Ατάρ, ὦ Σάμιππε, νῦν ἀνεμνήσθην, ὁπόθεν ἡμῶν ἀπελείφθη Ἀδείμαντος, ὅτε παρὰ τὸν ἱστὸν ἐπὶ πολὺ ἔστημεν ἀναβλέποντες, ἀριθμοῦντες τῶν βυρσῶν τὰς ἐπιβολὰς καὶ θαυμάζοντες ἀνιόντα τὸν ναύτην διὰ τῶν κάλων, εἶτα ἐπὶ τῆς κεραίας ἄνω ἀσφαλῶς διαθέοντα τῶν κεροιάκων ἐπειλημμένον. Σαμ. Εὖ λέγεις. Τί δ᾽ οὖν χρὴ ποιεῖν ἡμᾶς; ᾽Ενταῦθα καραδοκεῖν αὐτόν, ἢ ἐθέλεις ἐγὼ αὖθις ἐπάνειμι εἰς τὸ πλοῖον; Τιμ. Μηδαμῶς, ἀλλὰ προΐωμεν. Εἰκὸς γὰρ ἤδη παρεληλυθέναι ἐκεῖνον ἀποσοβοῦντα ἐς τὸ ἄστυ, ἐπεὶ μηκέθ᾽ ἡμᾶς εὑρεῖν ἐδύνατο. Εἰ δὲ μή, ἀλλ᾽ οἶδε τὴν ὁδὸν Ἀδείμαντος, καὶ δέος οὐδὲν μὴ ἀπολειφθεὶς ἡμῶν ἀποβουκοληθῇ. Λυκ. ῾Ορᾶτε μὴ σκαιὸν ᾖ φίλον ἀπολιπόντας αὐτοὺς ἀπιέναι. Βαδίζωμεν δ᾽ ὅμως, εἰ καὶ Σαμίππῳ τοῦτο δοκεῖ. Σαμ. Καὶ μάλα δοκεῖ, ἤν πως ἀνεῳγυῖαν ἔτι τὴν παλαίστραν καταλάβωμεν. [5] ᾿Αλλὰ μεταξὺ λόγων, ἡλίκη ναῦς, εἴκοσι καὶ ἑκατὸν πήχεων ἔλεγεν ὁ ναυπηγὸς τὸ μῆκος, εὖρος δὲ ὑπὲρ τὸ τέταρτον μάλιστα τούτου, καὶ ἀπὸ τοῦ καταστρώματος ἐς τὸν πυθμένα, ᾗ βαθύτατον κατὰ τὸν ἄντλον, ἐννέα πρὸς τοῖς εἴκοσι. Τὰ δ᾽ ἄλλα ἡλίκος μὲν ὁ ἱστός, ὅσην δὲ ἀνέχει τὴν κεραίαν, οἵῳ δὲ προτόνῳ συνέχεται, ὡς δὲ ἡ πρύμνα μὲν ἐπανέστηκεν ἠρέμα καμπύλη χρυσοῦν χηνίσκον ἐπικειμένη, καταντικρὺ δὲ ἀνάλογον ἡ πρῷρα ὑπερβέβηκεν ἐς τὸ πρόσω ἀπομηκυνομένη, τὴν ἐπώνυμον τῆς νεὼς θεὸν ἔχουσα τὴν Ἶσιν ἑκατέρωθεν. ῾Ο μὲν γὰρ ἄλλος κόσμος, αἱ γραφαὶ καὶ τοῦ ἱστίου τὸ παράσειον πυραυγές, πρὸ τούτων αἱ ἄγκυραι καὶ στροφεῖα καὶ περιαγωγεῖς καὶ αἱ κατὰ τὴν πρύμνην οἰκήσεις θαυμάσια πάντα μοι ἔδοξεν. [6] Καὶ τὸ τῶν ναυτῶν πλῆθος στρατοπέδῳ ἄν τις εἰκάσειεν. ᾽Ελέγετο δὲ καὶ τοσοῦτον ἄγειν σῖτον, ὡς ἱκανὸν εἶναι πᾶσι τοῖς ἐν τῇ Ἀττικῇ ἐνιαύσιον πρὸς τροφήν. Κἀκεῖνα πάντα μικρός τις ἀνθρωπίσκος γέρων ἤδη ἐσῴζεν ὑπὸ λεπτῇ κάμακι τὰ τηλικαῦτα πηδάλια περιστρέφων· ἐδείχθη γάρ μοι ἀναφαλαντίας τις, οὖλος, Ἥρων, οἶμαι, τοὔνομα. Τιμ. Θαυμάσιος τὴν τέχνην, ὡς ἔφασκον οἱ ἐμπλέοντες, καὶ τὰ θαλάττια σοφὸς ὑπὲρ τὸν Πρωτέα. [7] ᾽Ηκούσατε δὲ ὅπως δεῦρο κατήγαγε τὸ πλοῖον, οἷα ἔπαθον πλέοντες ἢ ὡς ὁ ἀστὴρ αὐτοὺς ἔσωσεν; Λυκ. Оὔκ, ὦ Τιμόλαε, ἀλλὰ νῦν ἡδέως ἂν ἀκούσαιμεν.



La nave o Le preghiere

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[4] Lic. Ecco, Samippo, ora mi è venuto in mente a che punto Adimanto si è separato da noi! È stato quando siamo rimasti per un bel pezzo vicino all’albero a guardare col naso all’insù, a contare le connessure di cuoio delle vele e ammirare il marinaio che si arrampicava sulle funi, poi correva sicuro in alto, sull’antenna, tenendosi alle sartie. Sam. È vero. Allora, che dobbiamo fare? Lo aspettiamo qui oppure vuoi che risalga di nuovo a bordo della nave? Tim. Ma no, andiamo! È probabile che ci abbia preceduto e si sia incamminato di buon passo verso la città, visto che non riusciva più a trovarci. Altrimenti, Adimanto conosce la strada e non c’è pericolo che si perda se resta dietro di noi. Lic. Badate bene, però, che non sia scortese lasciare un amico ed andarsene via. Mettiamoci in cammino, comunque, se anche Samippo è d’accordo. Sam. Ma sì che sono d’accordo: forse troveremo la palestra ancora aperta! Ma, a proposito, che nave, eh! In lunghezza centoventi cubiti, diceva il carpentiere, in larghezza più di un quarto circa di questa prima misura, e dal ponte della nave fino alla chiglia, dove si raggiunge la massima profondità nella stiva, ventinove cubiti! Quanto al resto, che albero maestro! Che antenna sostiene e da che straglio è tenuta! Come si rialza e curva dolcemente la poppa, sormontata da un’ochetta d’oro, mentre dalla parte opposta la prua si solleva alla stessa maniera, protendendosi in avanti e portando su entrambi i lati la dea che dà il nome alla nave, Iside! E gli altri ornamenti, le pitture, lo stendardo rosso fiammante dell’albero maestro e, soprattutto, le ancore e gli argani e i verricelli e gli appartamenti di poppa: tutto mi è sembrato una meraviglia! [6] E quanto al numero dei marinai, li si potrebbe paragonare a un esercito! Si diceva anche che trasporta un carico di grano tanto grande che sarebbe sufficiente a sfamare tutti gli abitanti dell’Attica per un anno intero! E di tutto questo apparato aveva cura un piccolo ometto, già vecchio, che faceva girare un così gran timone con una barra piccola piccola. Mi hanno additato, infatti, un tipo dalla fronte calva, dai capelli crespi: Erone, mi sembra, si chiami. Tim. Ammirevole nella sua arte, come dicevano i marinai, ed esperto di marineria più di Proteo. [7] Avete sentito come ha guidato fin qui la nave, che traversie hanno dovuto affrontare durante la navigazione e come li ha salvati la stella? Lic. No, Timolao, ma ci piacerebbe ascoltarlo adesso.

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ΠΛΟΙΟΝ Η ΕΥΧΑΙ

Τιμ. ῾О ναύκληρος αὐτὸς διηγεῖτό μοι, χρηστὸς ἀνὴρ καὶ προσομιλῆσαι δεξιός. ῎Εφη δὲ ἀπὸ τῆς Φάρου ἀπάραντας οὐ πάνυ βιαίῳ πνεύματι ἑβδομαίους ἰδεῖν τὸν Ἀκάμαντα, εἶτα ζεφύρου ἀντιπνεύσαντος ἀπενεχθῆναι πλαγίους ἄχρι Σιδῶνος, ἐκεῖθεν δὲ χειμῶνι μεγάλῳ δεκάτῃ ἐπὶ Χελιδονέας διὰ τοῦ Αὐλῶνος ἐλθεῖν, ἔνθα δὴ παρὰ μικρὸν ὑποβρυχίους δῦναι ἅπαντας. [8] Οἶδα δέ ποτε παραπλεύσας καὶ αὐτὸς Χελιδονέας ἡλίκον ἐν τῷ τόπῳ ἀνίσταται τὸ κῦμα, καὶ μάλιστα περὶ τὸν λίβα, ὁπόταν ἐπιλάβῃ καὶ τοῦ νότου· κατ᾽ ἐκεῖνο γὰρ δὴ συμβαίνει μερίζεσθαι τὸ Παμφύλιον ἀπὸ τῆς Λυκιακῆς θαλάττης, καὶ ὁ κλύδων ἅτε ἀπὸ πολλῶν ῥευμάτων περὶ τῷ ἀκρωτηρίῳ σχιζόμενος — ἀπόξυροι δέ εἰσιν πέτραι καὶ ὀξεῖαι παραθηγόμεναι τῷ κλύσματι — καὶ φοβερωτάτην ποιεῖ τὴν κυματωγὴν καὶ τὸν ἦχον μέγαν, καὶ τὸ κῦμα πολλάκις αὐτῷ ἰσομέγεθες τῷ σκοπέλῳ. [9] Τοιαῦτα καὶ σφᾶς καταλαβεῖν ἔφασκεν ὁ ναύκληρος ἔτι καὶ νυκτὸς οὔσης καὶ ζόφου ἀκριβοῦς. ᾿Αλλὰ πρὸς τὴν οἰμωγὴν αὐτῶν ἐπικλασθέντας τοὺς θεοὺς πῦρ τε ἀναδεῖξαι ἀπὸ τῆς Λυκίας, ὡς γνωρίσαι τὸν τόπον ἐκεῖνον, καί τινα λαμπρὸν ἀστέρα, Διοσκούρων τὸν ἕτερον, ἐπικαθίσαι τῷ καρχησίῳ καὶ κατευθῦναι τὴν ναῦν ἐπὶ τὰ λαιὰ ἐς τὸ πέλαγος ἤδη τῷ κρημνῷ προσφερομένην. Τοὐντεῦθεν δὲ ἅπαξ τῆς ὀρθῆς ἐκπεσόντας διὰ τοῦ Αἰγαίου πλεύσαντας ἑβδομηκοστῇ ἀπ᾽ Αἰγύπτου ἡμέρᾳ πρὸς ἀντίους τοὺς ἐτησίας πλαγιάζοντας ἐς Πειραιᾶ χθὲς καθορμίσασθαι τοσοῦτον ἀποσυρέντας ἐς τὸ κάτω, οὓς ἔδει τὴν Κρήτην δεξιὰν λαβόντας ὑπὲρ τὴν Μαλέαν πλεύσαντας ἤδη εἶναι ἐν Ἰταλίᾳ. Λυκ. Νὴ Δία, θαυμάσιόν τινα φῂς κυβερνήτην τὸν ῞Ηρωνα ἢ τοῦ Νηρέως ἡλικιώτην, ὃς τοσοῦτον ἀπεσφάλη τῆς ὁδοῦ. [10] ᾽Αλλὰ τί τοῦτο; Οὐκ Ἀδείμαντος ἐκεῖνός ἐστιν; Τιμ. Πάνυ μὲν οὖν, Ἀδείμαντος αὐτός. Ἐκβοήσωμεν οὖν. Ἀδείμαντε, σέ φημι τὸν Μυρρινούσιον τὸν Στρομβίχου. Λυκ. Δυεῖν θάτερον, ἢ δυσχεραίνει καθ᾽ ἡμῶν ἢ ἐκκεκώφωται. Ἀδείμαντος γάρ, οὐκ ἄλλος τίς ἐστι. Πάνυ ἤδη σαφῶς ὁρῶ, καὶ θοἰμάτιον αὐτοῦ καὶ τὸ βάδισμα ἐκείνου, καὶ ἐν χρῷ ἡ κουρά. ᾽Επιτείνωμεν δὲ ὅμως τὸν περίπατον, ὡς καταλάβωμεν αὐτόν. [11] ῍Ην μὴ τοῦ ἱματίου λαβόμενοί σε ἐπιστρέψωμεν, ὦ Ἀδείμαντε, οὐχ ὑπακούσεις ἡμῖν βοῶσιν, ἀλλὰ καὶ φροντίζοντι ἔοικας ἐπὶ συννοίας τινὸς οὐ μικρὸν οὐδὲ εὐκαταφρόνητον πρᾶγμα, ὡς δοκεῖς, ἀνακυκλῶν. Αδειμαντος. Οὐδέν, ὦ Λυκῖνε, χαλεπόν, ἀλλά με κενή τις ἔννοια μεταξὺ βαδίζοντα ὑπελθοῦσα παρακοῦσαι ὑμῶν ἐποίησεν ἀτενὲς πρὸς αὐτὴν ἅπαντι τῷ λογισμῷ ἀποβλέποντα. Λυκ. Τίς αὕτη; Μὴ γὰρ ὀκνήσῃς εἰπεῖν, εἰ μή τίς ἐστι τῶν πάνυ ἀπορρήτων. Καίτοι ἐτελέσθημεν, ὡς οἶσθα, καὶ σιγᾶν μεμαθήκαμεν.



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Tim. Mi ha raccontato tutto l’armatore in persona, un brav’uomo, ben disposto a far quattro chiacchiere. Mi ha detto che, dopo essere salpati da Faro spinti da un vento non molto forte, avvistarono l’Acamante sette giorni dopo; poi, dopo che lo zefiro si mise a soffiare in direzione contraria alla loro rotta, furono spinti di traverso fino a Sidone; da lì, incappati in una gran tempesta, al decimo giorno attraverso l’Aulone giunsero alle Chelidonie e lì per un pelo non finirono tutti annegati. [8] E so, visto che ho costeggiato anch’io una volta le Chelidonie, che altezza può raggiungere un’onda in quel posto, specialmente sotto l’azione del libeccio quando si scontra col noto. È proprio in quel punto, infatti, che il mare di Panfilia si separa da quello di Licia e il moto ondoso, spinto da numerose correnti a infrangersi intorno al promontorio – dove si trovano rocce tagliate a picco e rese ancor più aguzze dal maroso –, rende spaventosa la riva e grande il rimbombo e l’onda alta spesso quanto gli stessi scogli. [9] Ecco che condizioni li sorpresero, raccontava l’armatore, quando era ancora notte e fitta l’oscurità. Ma gli dèi, impietositi dai loro lamenti, gli mostrarono un fuoco dalla Licia, così che potessero riconoscere quella regione, e una stella splendente, uno dei due Dioscuri, si posò sulla cima dell’albero e volse a sinistra, verso il largo, la nave che correva già contro la scogliera. Da allora, dopo esser stati costretti a deviare dalla rotta ordinaria e aver navigato per l’Egeo, con gli etesii che li spingevano di traverso, solo ieri sono approdati al Pireo, settanta giorni dopo essere partiti dall’Egitto: sono stati spinti così tanto a sud, mentre avrebbe dovuto lasciarsi a destra Creta, doppiare il Malea e trovarsi già in Italia. Lic. Per Zeus, parli di questo Erone come di un ammirevole pilota o addirittura di un compagno di Nereo, lui che tanto ha deviato dalla sua rotta! [10] Ma che?! Non è Adimanto quello? Ma certo, è proprio Adimanto! Tim. Chiamiamolo allora! Adimanto! Ehi, dico a te, del demo di Mirrinunte, figlio di Strombico! Due sono le cose: o è arrabbiato con noi oppure è diventato sordo. Perché è Adimanto, non può essere che lui. Lic. Adesso vedo chiaramente il suo mantello, la sua andatura, la testa completamente rasata. Allunghiamo il passo, così lo raggiungeremo. [11] Se non ti acchiappiamo per il mantello e ti facciamo girare, Adimanto, non ci dai retta, anche se gridiamo! Hai l’aria di uno che è immerso nei suoi pensieri e che gira e rigira nella mente, da quel che sembra, un affare né piccolo né trascurabile. Adi. Niente di che, Licino: è un’idea sciocca, che mi è venuta così, mentre camminavo, e ha fatto in modo che non vi sentissi, perché i miei pensieri erano tutti concentrati su di lei. Lic. Di che si tratta? Diccelo, dai, se non è un segreto che non si può rivelare. E comunque noi siamo stati iniziati, come sai, e abbiamo imparato a stare zitti.

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ΠΛΟΙΟΝ Η ΕΥΧΑΙ

Αδειμ. ᾽Αλλ᾽ αἰσχύνομαι ἔγωγε εἰπεῖν πρὸς ὑμᾶς. Οὕτω γὰρ μειρακιῶδες ὑμῖν δόξει τὸ φρόντισμα. Λυκ. Μῶν ἐρωτικόν τί ἐστιν; Οὐδὲ γὰρ οὐδὲ τοῦτο ἀμυήτοις ἡμῖν ἐξαγορεύσεις, ἀλλὰ ὑπὸ λαμπρᾷ τῇ δᾳδὶ καὶ αὐτοῖς τετελεσμένοις. Αδειμ. [12] Οὐδέν, ὦ θαυμάσιε, τοιοῦτον, ἀλλα τινα πλοῦτον ἐμαυτῷ ἀνεπλαττόμην, ἣν κενὴν μακαρίαν οἱ πολλοὶ καλοῦσιν, καί μοι ἐν ἀκμῇ τῆς περιουσίας καὶ τρυφῆς ἐπέστητε. Λυκ. Οὐκοῦν τὸ προχειρότατον τοῦτο, κοινὸς Ἑρμᾶς φασι, καὶ ἐς μέσον κατατίθει φέρων τὸν πλοῦτον. ῎Αξιον γὰρ ἀπολαῦσαι τὸ μέρος φίλους ὄντας τῆς Ἀδειμάντου τρυφῆς. Αδειμ. ᾽Απελείφθην μὲν ὑμῶν εὐθὺς ἐν τῇ πρώτῃ ἐς τὴν ναῦν ἐπιβάσει, ἐπεὶ σέ, ὦ Λυκῖνε, κατέστησα ἐς τὸ ἀσφαλές. Περιμετροῦντος γάρ μου τῆς ἀγκύρας τὸ πάχος οὐκ οἶδ᾽ ὅπου ὑμεῖς ἀπέστητε. [13] ’Ιδὼν δὲ ὅμως τὰ πάντα ἠρόμην τινὰ τῶν ναυτῶν, ὁπόσην ἀποφέρει ἡ ναῦς τῷ δεσπότῃ ὡς ἐπὶ τὸ πολὺ κατ᾽ ἔτος ἕκαστον τὴν μισθοφορίαν. ҅Ο δέ μοι, Δώδεκα, ἔφη, Ἀττικὰ τάλαντα, εἰ πρὸς τοὐλάχιστόν τις λογίζοιτο. Τοὐντεῦθεν οὖν ἐπανιὼν ἐλογιζόμην, εἴ τις θεῶν τὴν ναῦν ἄφνω ἐμὴν ποιήσειεν εἶναι, οἷον ἄν, ὡς εὐδαίμονα βίον ἐβίωσα εὖ ποιῶν τοὺς φίλους καὶ ἐπιπλέων ἐνίοτε μὲν αὐτός, ἐνίοτε δὲ οἰκέτας ἐκπέμπων. Εἶτα ἐκ τῶν δώδεκα ἐκείνων ταλάντων οἰκίαν τε ἤδη ᾠκοδομησάμην ἐν ἐπικαίρῳ μικρὸν ὑπὲρ τὴν Ποικίλην, τὴν παρὰ τὸν Ἰλισσὸν ἐκείνην τὴν πατρῴαν ἀφείς, καὶ οἰκέτας ὠνούμην καὶ ἐσθῆτας καὶ ζεύγη καὶ ἵππους. Νυνὶ δὲ ἤδη καὶ ἔπλεον ὑφ᾽ ἁπάντων εὐδαιμονιζόμενος τῶν ἐπιβατῶν, φοβερὸς τοῖς ναύταις καὶ μονονουχὶ βασιλεὺς νομιζόμενος. Ἔτι δέ μοι τὰ κατὰ τὴν ναῦν εὐθετίζοντι καὶ ἐς λιμένα πόρρωθεν ἀποβλέποντι ἐπιστάς, ὦ Λυκῖνε, κατέδυσας τὸν πλοῦτον καὶ ἀνέτρεψας εὖ φερόμενον τὸ σκάφος οὐρίῳ τῆς εὐχῆς πνεύματι. Λυκ. [14] Οὐκοῦν, ὦ γενναῖε, λαβόμενός μου ἄπαγε πρὸς τὸν στρατηγὸν ὥς τινα πειρατὴν ἢ καταποντιστήν, ὃς τηλικοῦτον ναυάγιον εἴργασμαι, καὶ ταῦτα ἐν γῇ κατὰ τὴν ἐκ Πειραιῶς ἐς τὸ ἄστυ. Ἀλλὰ ὅρα ὅπως παραμυθήσομαί σου τὸ πταῖσμα· πέντε γάρ, εἰ βούλει, καλλίω καὶ μείζω τοῦ Αἰγυπτίου πλοῖα ἤδη ἔχε, καὶ τὸ μέγιστον οὐδὲ καταδῦναι δυνάμενα, καὶ τάχα σοι πεντάκις ἐξ Αἰγύπτου κατ᾽ ἔτος ἕκαστον σιταγωγείτω σιταγωγίαν, εἰ καί, ὦ ναυκλήρων ἄριστε, δῆλος εἶ ἀφόρητος ἡμῖν τότε γενησόμενος. Ὃς γὰρ ἔτι ἑνὸς πλοίου τουτουὶ δεσπότης ὢν παρήκουες βοώντων, εἰ πέντε κτήσαιο πρὸς τούτῳ τριάρμενα πάντα καὶ ἀνώλεθρα, οὐδὲ ὄψει δηλαδὴ τοὺς φίλους. Σὺ μὲν οὖν εὐπλόει, ὦ βέλτιστε, ἡμεῖς δὲ ἐν Πειραιεῖ καθεδούμεθα τοὺς ἐξ Αἰγύπτου ἢ Ἰταλίας καταπλέοντας ἀνακρίνοντες, εἴ που τὸ μέγα Ἀδειμάντου πλοῖον τὴν Ἶσίν τις εἶδεν.



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Adi. È che io mi vergogno a parlarne con voi: i miei pensieri vi sembreranno proprio infantili. Lic. Forseché è un pensiero d’amore? Neanche in questo caso ti rivolgerai a dei profani, perché anche noi siamo stati iniziati alla luce delle fiaccole. [12] Adi. Niente di tutto questo, esimio: mi stavo immaginando un tipo di ricchezza, che molti chiamano ‘vana felicità’, e mi avete sorpreso proprio quando ero al culmine dell’abbondanza e del lusso. Lic. Allora non c’è soluzione più semplice: “Hermes è comune”, dicono, perciò prendi la tua ricchezza e mettila qui in mezzo! È giusto, infatti, che chi è amico di Adimanto ne condivida il lusso e se lo goda. Adi. Sono rimasto dietro di voi non appena siamo montati a bordo della nave, dopo che ti ci avevo fatto salire in tutta sicurezza, Licino. Mentre misuravo lo spessore di un’ancora, infatti, voi ve ne siete andati chissà dove. [13] Così, una volta visto tutto per bene, domandavo a uno dei marinai che guadagno portasse la nave al suo proprietario ogni anno, più o meno, e quello mi rispondeva: «dodici talenti attici, come minimo». Da quel momento in poi, allora, mentre me ne tornavo indietro continuavo a pensare: se un dio proprio ora facesse mia quella nave, che vita felice vivrei, facendo del bene ai miei amici, a volte andando per mare di persona, a volte spedendoci i miei servi! E con quei dodici talenti mi facevo costruire all’istante una casa in un bel posticino poco sopra il Portico dipinto, lasciata quella ereditata da mio padre lungo l’Ilisso, e compravo servi, vestiti, carri, cavalli. Un minuto dopo ero già in mare, considerato fortunato da tutti i passeggeri, temuto dai marinai, guardato quasi come un re. Stavo ancora mettendo ordine sulla nave e guardavo il porto da lontanto quando tu, Licino, col tuo arrivo hai affondato la mia ricchezza e hai fatto rovesciare la mia barca che già filava sicura al soffio propizio della mia preghiera. [14] Lic. Allora, mio buon amico, prendimi e portami dallo stratego come un pirata o un affondatore, io che ho causato un così gran naufragio, e tutto questo sulla terraferma, sulla strada che va dal Pireo in città! Ma guarda come ti consolerò della perdita: prenditi subito, se vuoi, cinque navi ancor più belle e più grandi di quella egizia e, cosa più importante, inaffondabili, e cinque volte all’anno, più o meno, ti trasportino un carico di grano dall’Egitto, pur se c’è da star sicuri, mio insuperabile armatore, che ci diventerai davvero insopportabile. Se quando eri ancora padrone di quest’unica nave, infatti, non davi retta ai nostri richiami, se ne possedessi altre cinque oltre a questa, tutte a tre alberi, indistruttibili, i tuoi amici non li guarderesti neppure. Ma fa’ pure buon viaggio, carissimo, mentre noi ce ne resteremo al Pireo a chiedere a quelli che arrivano dall’Egitto o dall’Italia se qualcuno, per caso, ha visto l’Iside, la gran nave di Adimanto.

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Αδειμ. [15] ῾Ορᾷς; Διὰ τοῦτο ὤκνουν εἰπεῖν ἃ ἐνενόουν, εἰδὼς ὅτι ἐν γέλωτι καὶ σκώμματι ποιήσεσθέ μου τὴν εὐχήν. Ὥστε ἐπιστὰς μικρόν, ἔστ᾽ ἂν ὑμεῖς προχωρήσητε, ἀποπλευσοῦμαι πάλιν ἐπὶ τῆς νεώς. Πολὺ γὰρ ἄμεινον τοῖς ναύταις προσλαλεῖν ἢ ὑφ᾽ ὑμῶν καταγελᾶσθαι. Λυκ. Μηδαμῶς, ἐπεὶ συνεμβησόμεθά σοι καὶ αὐτοὶ ὑποστάντες. Αδειμ. Ἀλλὰ ὑφαιρήσω τὴν ἀποβάθραν προεισελθών. Λυκ. Οὐκοῦν ἡμεῖς γε προσνηξόμεθα ὑμῖν. Μὴ γὰρ οἴου σοὶ μὲν εἶναι ῥᾴδιον τηλικαῦτα πλοῖα κτᾶσθαι μήτε πριαμένῳ μήτε ναυπηγησαμένῳ, ἡμεῖς δὲ οὐκ αἰτήσομεν παρὰ τῶν θεῶν ἐπὶ πολλοὺς σταδίους ἀκμῆτες δύνασθαι νεῖν; Καίτοι πρῴην καὶ ἐς Αἴγιναν ἐπὶ τὴν τῆς Ἐνοδίας τελετήν, οἶσθα, ἐν ἡλίκῳ σκαφιδίῳ πάντες ἅμα οἱ φίλοι τεττάρων ἕκαστος ὀβολῶν διεπλεύσαμεν, καὶ οὐδὲν ἐδυσχέραινες ἡμᾶς συμπλέοντας, νῦν δὲ ἀγανακτεῖς, εἰ συνεμβησόμεθά σοι, καὶ τὴν ἀποβάθραν προεισελθὼν ἀφαιρεῖς; Ὑπερμαζᾷς γάρ, ὦ Ἀδείμαντε, καὶ ἐς τὸν κόλπον οὐ πτύεις, οὐδὲ οἶσθα ὅστις ὢν ναυκληρεῖς. Οὕτως ἐπῆρέν σε ἡ οἰκία ἐν καλῷ τῆς πόλεως οἰκοδομηθεῖσα καὶ τῶν ἀκολούθων τὸ πλῆθος. Ἀλλ᾽ ὦγαθέ, πρὸς τῆς Ἴσιδος κἂν τὰ Νειλῷα ταῦτα ταρίχη τὰ λεπτὰ μέμνησο ἡμῖν ἄγειν ἀπ᾽ Αἰγύπτου ἢ μύρον ἀπὸ τοῦ Κανώπου ἢ ἶβιν ἐκ Μέμφιδος, εἰ δὲ ἡ ναῦς ἐδύνατο, καὶ τῶν πυραμίδων μίαν. Τιμ. [16] Ἅλις παιδιᾶς, ὦ Λυκῖνε. Ὁρᾷς, ὡς ἐρυθριᾶν Ἀδείμαντον ἐποίησας πολλῷ τῷ γέλωτι ἐπικλύσας τὸ πλοῖον, ὡς ὑπέραντλον εἶναι καὶ μηκέτι ἀντέχειν πρὸς τὸ ἐπιρρέον; Καὶ ἐπείπερ ἔτι πολὺ ἡμῖν τὸ λοιπόν ἐστιν πρὸς τὸ ἄστυ, διελόμενοι τετραχῇ τὴν ὁδὸν κατὰ τοὺς ἐπιβάλλοντας ἑκάστῳ σταδίους αἰτῶμεν ἅπερ ἂν δοκῇ παρὰ τῶν θεῶν. Οὕτω γὰρ ἂν ἡμᾶς ὅ τε κάματος λάθοι καὶ ἅμα εὐφρανούμεθα ὥσπερ ἡδίστῳ ὀνείρατι ἑκουσίῳ περιπεσόντες, ἐφ᾽ ὅσον βουλόμεθα, εὖ ποιήσοντι ἡμᾶς· παρ᾽ αὐτῷ γὰρ ἑκάστῳ τὸ μέτρον τῆς εὐχῆς, καὶ οἱ θεοὶ πάντα ὑποκείσθωσαν παρέξοντες, εἰ καὶ τῇ φύσει ἀπίθανα ἔσται. Τὸ δὲ μέγιστον, ἐπίδειξις ἔσται τὸ πρᾶγμα ὅστις ἂν ἄριστα χρήσεται τῷ πλούτῳ καὶ τῇ εὐχῇ, δηλώσει γὰρ οἷος ἂν καὶ πλουτήσας ἐγένετο. Σαμ. [17] Καλῶς, ὦ Τιμόλαε, καὶ πείθομαί σοι καὶ ὅταν ὁ καιρὸς καλῇ, εὔξομαι ἅπερ ἂν δοκῇ. Εἰ μὲν γὰρ Ἀδείμαντος βούλεται, οὐδὲ ἐρωτᾶν οἶμαι, ὅς γε δὴ ἐν τῇ νηῒ τὸν ἕτερον πόδα ἔχει. Χρὴ δὲ καὶ Λυκίνῳ δοκεῖν.



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[15] Adi. Vedi? Per questo non mi decidevo a dirti ciò pensavo, perché sapevo bene che avresti messo in ridicolo e in burletta la mia preghiera. Così mi fermerò un po’, giusto il tempo che vi allontaniate, poi tornerò a bordo della mia nave. È molto meglio chiacchierare con i marinai piuttosto che essere preso in giro da voi. Lic. Per niente affatto, perché noi resteremo qui e ci imbarcheremo con te! Adi. Ma io salirò prima di voi e poi toglierò la passerella! Lic. E allora noi vi raggiungeremo a nuoto! Non crederai, infatti, che tu puoi facilmente avere navi tanto mastodontiche senza averle prima né comprate né fatte costruire, mentre noi non possiamo chiedere agli dèi di nuotare per molti stadi senza stancarci? Eppure, giusto qualche giorno fa, per andare a Egina in occasione della festa di Enodia, lo sai, abbiamo fatto la traversata tutti insieme, con quella barchettina, da veri amici, per quattro oboli a testa, e non sembravi per niente scontento di viaggiare con noi. Ora, invece, ti arrabbi se vogliamo imbarcarci con te, e sali addirittura a bordo prima di noi e ci togli la passerella! Ti dai troppe arie, Adimanto, e non ti sputi in seno: non sai più chi sei da quando sei diventato un armatore. Tanto ti ha esaltato la casa che ti sei fatto tirar su in un quartiere chic della città e la folla dei servitori. Ebbene, mio buon amico, per Iside, ricordati almeno di portarci dall’Egitto qualche pesciolino in salamoia del Nilo o un unguento da Canopo o un ibis da Menfi, e se la tua nave ne fosse capace, pure una delle piramidi! [16] Tim. Ne abbiamo abbastanza dei tuoi scherzi, Licino! Guarda come hai fatto diventar rosso Adimanto con tutte le risate con cui hai inondato la sua nave, tanto che ormai fa acqua da tutte le parti e non può più resistere alla forza delle onde! E visto che è ancora molto il cammino che ci resta da fare fino in città, dividiamo in quattro parti la strada e ciascuno di noi, nel corso degli stadi che gli toccheranno, chieda pure agli dèi quel che gli pare. Questo non ci farà avvertire la stanchezza e, al tempo stesso, saremo contenti come se fossimo finiti di proposito in un sogno bellissimo, che ci renderà felici per tutto il tempo che vogliamo. Che ognuno sviluppi la sua preghiera a suo piacimento, e che gli dèi siano disposti a concederci qualsiasi cosa, anche se nella realtà fosse impossibile. Quel che più importa, però, è che questo proverà chi saprebbe usar meglio la sua ricchezza e la sua preghiera, perché rivelerà che tipo di uomo sarebbe se fosse ricco. [17] Sam. Bene, Timolao, mi hai convinto, e quando arriverà il mio momento, chiederò ciò che desidero. Non credo che ci sia nemmeno bisogno di domandare ad Adimanto se acconsente, visto che ha già un piede nella nave. Bisogna però che anche Licino sia d’accordo.

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ΠΛΟΙΟΝ Η ΕΥΧΑΙ

Λυκ. Ἀλλὰ πλουτῶμεν, εἰ τοῦτο ἄμεινον, μὴ καὶ βασκαίνειν ἐπὶ ταῖς κοιναῖς εὐτυχίαις δοκῶ. Αδειμ. Τίς οὖν πρῶτος ἄρξεται; Λυκ. Σύ, ὦ Ἀδείμαντε, εἶτα μετὰ σὲ οὑτοσὶ Σάμιππος, εἶτα Τιμόλαος, ἐγὼ δὲ ὀλίγον ὅσον ἡμιστάδιον τὸ πρὸ τοῦ Διπύλου ἐπιλήψομαι τῇ εὐχῇ, καὶ τοῦτο ὡς οἷόν τε παραδραμών. Αδειμ. [18] Οὐκοῦν ἐγὼ μὲν οὐδὲ νῦν ἀποστήσομαι τῆς νεώς, ἀλλ᾽, εἴπερ ἔξεστιν, ἐπιμετρήσω τῇ εὐχῇ. Ὁ δὲ Ἑρμῆς ὁ κερδῷος ἐπινευσάτω ἅπασιν. Ἔστω γὰρ τὸ πλοῖον καὶ τὰ ἐν αὐτῷ πάντα ἐμὰ ὁ φόρτος οἱ ἔμποροι αἱ γυναῖκες οἱ ναῦται. Σαμ. Καὶ ἄλλο ὅτι ἥδιστον κτημάτων ἁπάντων λέληθας σεαυτὸν ἔχων ἐν τῇ νηΐ. Αδειμ. Τὸν παῖδα φῄς, ὦ Σάμιππε, τὸν κομήτην. Κἀκεῖνος οὖν ἔστω ἐμός. Ὁπόσος δὲ ὁ πυρὸς ἔνδον ἐστίν, οὗτος ὁ ἀριθμὸς ἅπας χρυσίον ἐπίσημον γενέσθω, τοσοῦτοι δαρεικοί. Λυκ. [19] Τί τοῦτο, ὦ Ἀδείμαντε; Καταδύσεταί σοι τὸ πλοῖον, οὐ γὰρ ἴσον βάρος πυροῦ καὶ τοῦ ἰσαρίθμου χρυσίου. Αδειμ. Μὴ φθόνει, ὦ Λυκῖνε, ἀλλ᾽ ἐπειδὰν εἰς σὲ παρέλθῃ ἡ εὐχή, τὴν Πάρνηθα ἐκείνην, εἰ θέλεις, ὅλην χρυσῆν ποιήσας ἔχε, κἀγὼ σιωπήσομαί σοι. Λυκ. Ἀλλ᾽ ὑπὲρ ἀσφαλείας τοῦτο ἔγωγε τῆς σῆς ἐποιησάμην, ὡς μὴ ἀπολέσθαι ἅπαντας μετὰ τοῦ χρυσίου. Καὶ τὰ μὲν ὑμέτερα μέτρια, τὸ μειράκιον δὲ τὸ ὡραῖον ἀποπνιγήσεται ἄθλιον νεῖν οὐκ ἐπιστάμενον. Τιμ. Θάρσει, ὦ Λυκῖνε. Οἱ δελφῖνες γὰρ αὐτὸ ὑποδύντες ἐξοίσουσιν ἐπὶ τὴν γῆν. Ἢ νομίζεις κιθαρῳδὸν μέν τινα σωθῆναι παρ᾽ αὐτῶν καὶ ἀπολαβεῖν τὸν μισθὸν ἀντὶ τῆς ᾠδῆς καὶ νεκρόν τι ἄλλο παιδίον ἐς τὸν Ἰσθμὸν ἐπὶ δελφῖνος ὁμοίως προσκομισθῆναι, τὸν δὲ Ἀδειμάντου οἰκέτην τὸν νεώνητον ἀπορήσειν δελφῖνος ἐρωτικοῦ; Αδειμ. Καὶ σὺ γάρ, Τιμόλαε, μιμῇ Λυκῖνον καὶ ἐπιμετρεῖς τῶν σκωμμάτων, καὶ ταῦτα εἰσηγητὴς αὐτὸς γενόμενος; Τιμ. [20] Ἄμεινον γὰρ ἦν πιθανώτερον αὐτὸ ποιεῖν καί τινα θησαυρὸν ὑπὸ τῇ κλίνῃ ἀνευρεῖν, ὡς μὴ πράγματα ἔχοις ἐκ τοῦ πλοίου μετατιθεὶς χρυσίον ἐς τὸ ἄστυ.



La nave o Le preghiere

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Lic. E arricchiamoci pure, se è la cosa migliore per noi! Non mi va di sembrare invidioso nella felicità comune. Adi. Allora, chi comincerà per primo? Lic. Tu, Adimanto, poi dopo di te questo qui, Samippo, poi Timolao; io sfrutterò per la mia preghiera solo il mezzo stadio che c’è prima di arrivare al Dipylon, e lo percorrerò il più velocemente possibile. [18] Adi. Ebbene, ora meno che mai rinuncerò alla mia nave, anzi, visto che posso farlo, amplierò la mia preghiera. Hermes che procura guadagno farà avverare tutti i miei desideri! Sia mia la nave, dunque, e tutto quel che contiene: il carico i mercanti le donne i marinai. Sam. E della proprietà più bella di tutte a bordo della nave ti sei dimenticato! Adi. Ti riferisci al ragazzo dai capelli lunghi, Samippo? E anche quello sia mio! E tutto il grano che c’è nella stiva si trasformi in oro coniato, in altrettanti darici. [19] Lic. Che ti salta in mente, Adimanto? La nave ti affonderà, perché a parità di volume il peso del grano non è uguale a quello dell’oro. Adi. Non fare l’invidioso, Licino, ma quando sarà il tuo turno di esprimere un desiderio, il Parnete, laggiù, se vuoi, fattelo tutto d’oro e prenditelo pure, e io me ne starò zitto. Lic. Ma è per la tua sicurezza che ti ho fatto questa osservazione, per non far andare tutti in malora insieme con l’oro. E poi voi non correrete grandi pericoli, ma il bel ragazzino affogherà, poverino, perché non sa nuotare. Tim. Fatti coraggio, Licino! I delfini se lo metteranno sul dorso e lo porteranno a terra. O credi che un citaredo sia stato salvato da loro e abbia ottenuto la ricompensa per il suo canto, e un altro, un bambino morto, sia stato ugualmente portato da un delfino all’Istmo, mentre il servo appena comprato di Adimanto non troverà un delfino sensibile all’amore? Adi. Anche tu, Timolao, ti comporti come Licino e ci aggiungi la tua dose di beffe, anche se sei stato proprio tu a proporre questo gioco? [20] Tim. Allora sarebbe meglio renderlo più credibile e trovare un tesoro sotto il letto, così da non avere la seccatura di trasportare l’oro dalla nave in città.

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ΠΛΟΙΟΝ Η ΕΥΧΑΙ

Αδειμ. Εὖ λέγεις, καὶ ἀνορωρύχθω θησαυρὸς ὑπὸ τὸν Ἑρμῆν τὸν λίθινον, ὅς ἐστιν ἡμῖν ἐν τῇ αὐλῇ, μέδιμνοι χίλιοι ἐπισήμου χρυσίου. Εὐθὺς οὖν κατὰ τὸν Ἡσίοδον οἶκος τὸ πρῶτον, ὡς ἂν ἐπισημότατα οἰκοίην, καὶ τὰ περὶ τὸ ἄστυ πάντα ὠνησάμην ἤδη πλὴν ὅσα θύμον καὶ λίθοι, καὶ ἐν Ἐλευσῖνι ὅσα ἐπὶ θαλάττῃ καὶ περὶ τὸν Ἰσθμὸν ὀλίγα τῶν ἀγώνων εἵνεκα, εἴ ποτε δὴ τὰ Ἴσθμια ἐπιδημήσαιμι, καὶ τὸ Σικυώνιον πεδίον, καὶ ὅλως εἴ πού τι ἢ συνηρεφὲς ἢ ἔνυδρον ἢ εὔκαρπον ἐν τῇ Ἑλλάδι, πάντα ἐν ὀλίγῳ Ἀδειμάντου ἔσται. Ὁ χρυσὸς δὲ κοῖλος ἡμῖν ἐμφαγεῖν, τὰ δὲ ἐκπώματα οὐ κοῦφα ὡς τὰ Ἐχεκράτους, ἀλλὰ διτάλαντον ἕκαστον τὴν ὁλκήν. Λυκ. [21] Εἶτα πῶς ὁ οἰνοχόος ὀρέξει πλῆρες οὕτω βαρὺ ἔκπωμα; Ἢ σὺ δέξῃ παρ᾽ αὐτοῦ ἀμογητὶ οὐ σκύφον, ἀλλὰ Σισύφειόν τι βάρος ἀναδιδόντος; Αδειμ. Ἄνθρωπε, μή μοι ἀνάλυε τὴν εὐχήν. Ἐγὼ δὲ καὶ τὰς τραπέζας ὅλας χρυσᾶς ποιήσομαι καὶ τὰς κλίνας χρυσᾶς, εἰ δὲ μὴ σιωπήσῃ, καὶ τοὺς διακόνους αὐτούς. Λυκ. Ὅρα μόνον μὴ ὥσπερ τῷ Μίδᾳ καὶ ὁ ἄρτος σοι καὶ τὸ ποτὸν χρυσὸς γένηται καὶ πλουτῶν ἄθλιος ἀπόλῃ λιμῷ διαφθαρεὶς πολυτελεῖ. Αδειμ. Τὰ σὰ ῥυθμιεῖς πιθανώτερον, ὦ Λυκῖνε, μετ᾽ ὀλίγον, ἐπειδὰν αὐτὸς αἰτῇς. [22] Ἐσθὴς ἐπὶ τούτοις ἁλουργὶς καὶ ὁ βίος οἷος ἁβρότατος, ὕπνος ἐφ᾽ ὅσον ἥδιστος, φίλων πρόσοδοι καὶ δεήσεις καὶ τὸ ἅπαντας ὑποπτήσσειν καὶ προσκυνεῖν, καὶ οἱ μὲν ἕωθεν πρὸς ταῖς θύραις ἄνω καὶ κάτω περιπατήσουσιν, ἐν αὐτοῖς δὲ καὶ Κλεαίνετος καὶ Δημοκράτης οἱ πάνυ, καὶ προσελθοῦσίν γε αὐτοῖς καὶ πρὸ τῶν ἄλλων εἰσδεχθῆναι ἀξιοῦσι θυρωροὶ ἑπτὰ ἐφεστῶτες, εὐμεγέθεις βάρβαροι, προσαραξάτωσαν ἐς τὸ μέτωπον εὐθὺ τὴν θύραν, οἷα νῦν αὐτοὶ ποιοῦσιν. Ἐγὼ δέ, ὁπόταν δόξῃ, προκύψας ὥσπερ ὁ ἥλιος ἐκείνων μὲν οὐδ’ ἐπιβλέψομαι ἐνίους, εἰ δέ τις πένης, οἷος ἦν ἐγὼ πρὸ τοῦ θησαυροῦ, φιλοφρονήσομαι τοῦτον καὶ λουσάμενον ἥκειν κελεύσω τὴν ὥραν ἐπὶ τὸ δεῖπνον. Οἱ δὲ ἀποπνιγήσονται οἱ πλούσιοι ὁρῶντες ὀχήματα, ἵππους καὶ παῖδας ὡραίους ὅσον δισχιλίους, ἐξ ἁπάσης ἡλικίας ὅ τι περ τὸ ἀνθηρότατον. [23] Εἶτα δεῖπνα ἐπὶ χρυσοῦ — εὐτελὴς γὰρ ὁ ἄργυρος καὶ οὐ κατ᾽ ἐμέ — τάριχος μὲν ἐξ Ἰβηρίας, οἶνος δὲ ἐξ Ἰταλίας, ἔλαιον δὲ ἐξ Ἰβηρίας καὶ τοῦτο, μέλι δὲ ἡμέτερον τὸ ἄπυρον, καὶ ὄψα πανταχόθεν καὶ σύες καὶ λαγώς, καὶ ὅσα πτηνά, ὄρνις ἐκ Φάσιδος καὶ ταὼς ἐξ Ἰνδίας καὶ ἀλεκτρυὼν Νομαδικός· οἱ δὲ σκευάζοντες ἕκαστα σοφισταί τινες περὶ πέμματα καὶ χυμοὺς ἔχοντες. Εἰ δέ τινι προπίοιμι σκύφον ἢ φιάλην αἰτήσας, ὁ ἐκπιὼν ἀποφερέτω καὶ τὸ ἔκπωμα.



La nave o Le preghiere

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Adi. Dici bene. Allora sia scavato un tesoro ai piedi dell’Hermes di pietra che si trova nel mio atrio, mille medimni di oro battuto in moneta. E subito, come dice Esiodo, “la casa per prima”, così che possa abitarci come un vero signore. E già mi son comprato tutti i terreni che si trovano intorno alla città, all’infuori di quanti son timo e sassi, e i campi di Eleusi di fronte al mare, e un po’ di terra sull’Istmo per i giochi (caso mai volessi fermarmi a vedere i giochi Istmici), e la piana di Sicione: insomma, ogni campo che in Grecia sia coperto da boschi, ricco di acque o fruttifero sarà presto di Adimanto. Avremo oro finemente lavorato in cui mangiare, ma le coppe non saranno leggere come quelle di Echecrate, ma ognuna peserà due talenti. [21] Lic. E come farà il coppiere a porgerti piena una coppa così pesante? O tu prenderai senza alcuno sforzo da lui, quando te la porgerà, non una coppa, ma un peso degno di Sisifo? Adi. Amico, non rovinarmi la preghiera! Io mi farò anche le tavole tutte d’oro e i letti d’oro, se non starai zitto, e pure i servitori. Lic. Fa’ solo in modo che non ti diventino d’oro anche il cibo e le bevande, come a Mida, e tu muoia miserabile fra le ricchezze, fatto secco da una fame preziosissima. Adi. Ti sistemerai gli affari tuoi in modo più credibile, Licino, fra un po’, quando starà a te esprimere il tuo desiderio. [22] Per continuare, una veste di porpora, la vita più piacevole possibile, il sonno più dolce che ci possa essere, visite di amici e richieste di aiuto, la reverenza e l’adorazione di tutti. Alcuni poi passeggeranno su e giù fin dall’alba davanti alle mie porte, compresi i grandi Cleeneto e Democrate; e quando si avvicineranno e crederanno di esser ricevuti prima degli altri, sette portinai ben piantati, dei barbari giganteschi, sbattano subito loro la porta in faccia, come oggi fanno loro. E io, quando mi sembrerà il momento giusto, farò capolino come il sole, e ad alcuni non rivolgerò nemmeno lo sguardo; ma se ci sarà qualche povero, com’ero io prima di aver scoperto il tesoro, lo tratterò con gentilezza e lo inviterò a venire da me, dopo il bagno, all’ora giusta per mangiare. Gli altri invece, i ricchi, schiatteranno d’invidia, vedendo carrozze, cavalli e bei ragazzi, più o meno duemila, il fior fiore di tutta la gioventù. [23] Poi banchetti serviti sull’oro (l’argento, infatti, vale poco e non è degno di me): pesce in salamoia dalla Spagna, vino dall’Italia, olio anche questo dalla Spagna, miele nostro non trattato col fuoco, e specialità provenienti da ogni dove, e maiali, lepri e ogni tipo di volatili, l’uccello del Fasi, il pavone dell’India e il gallo della Numidia. E chi deve preparare ciascun piatto sia esperto nel cucinare focacce e salse. E nel caso in cui chieda una coppa o una tazza per brindare alla salute di qualcuno, che vuoti pure il bicchiere e se lo porti via!

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ΠΛΟΙΟΝ Η ΕΥΧΑΙ

[24] Оἱ δὲ νῦν πλούσιοι πρὸς ἐμὲ Ἶροι καί ... δηλαδὴ ἅπαντες, καὶ οὐκέτι το ἀργυροῦν πινάκιον ἢ τὸν σκύφον ἐπιδείξεται Διόνικος ἐν τῇ πομπῇ, καὶ μάλιστα ἐπειδὰν ὁρᾷ τοὺς οἰκέτας τοὺς ἐμοὺς ἀργύρῳ τοσούτῳ χρωμένους. Τῇ πόλει δὲ ταῦτα ἐξαίρετα παρ᾽ ἐμοῦ ὑπῆρξεν ἄν, αἱ μὲν διανομαὶ κατὰ μῆνα ἕκαστον δραχμαὶ τῷ μὲν ἀστῷ ἑκατόν, τῷ δὲ μετοίκῳ ἥμισυ τούτων, δημοσίᾳ δὲ ἐς κάλλος θέατρα καὶ βαλανεῖα, καὶ τὴν θάλατταν ἄχρι πρὸς τὸ Δίπυλον ἥκειν κἀνταῦθά που λιμένα εἶναι ἐπαχθέντος ὀρύγματι μεγάλῳ τοῦ ὕδατος, ὡς τὸ πλοῖόν μου πλησίον ὁρμεῖν καταφανὲς ὂν ἐκ τοῦ Κεραμεικοῦ. [25] Τοῖς φίλοις δὲ ὑμῖν, Σαμίππῳ μὲν εἴκοσι μεδίμνους ἐπισήμου χρυσίου παραμετρῆσαι τὸν οἰκονόμον ἐκέλευσα ἄν, Τιμολάῳ δὲ πέντε χοίνικας, Λυκίνῳ δὲ χοίνικα, ἀπομεμαγμένην καὶ ταύτην, ὅτι λάλος ἐστὶ καὶ ἐπισκώπτει μου τὴν εὐχήν. Τοῦτον ἐβουλόμην βιῶναι τὸν βίον πλουτῶν ἐς ὑπερβολὴν καὶ τρυφῶν καὶ πάσαις ἡδοναῖς ἀφθόνως χρώμενος. Εἴρηκα, καί μοι ὁ Ἑρμῆς τελεσιουργήσειεν αὐτά. Λυκ. [26] Οἶσθα οὖν, ὦ Ἀδείμαντε, ὡς πάνυ σοι ἀπὸ λεπτῆς κρόκης ὁ πᾶς οὑτοσὶ πλοῦτος ἀπήρτηται, καὶ ἢν ἐκείνη ἀπορραγῇ, πάντα οἴχεται καὶ ἄνθρακές σοι ὁ θησαυρὸς ἔσται; Αδειμ. Πῶς λέγεις, ὦ Λυκῖνε; Λυκ. Ὅτι, ὦ ἄριστε, ἄδηλον ὁπόσον χρόνον βιώσεις πλουτῶν. Τίς γὰρ οἶδεν εἰ ἔτι παρακειμένης σοι τῆς χρυσῆς τραπέζης, πρὶν ἐπιβαλεῖν τὴν χεῖρα καὶ ἀπογεύσασθαι τοῦ ταὼ ἢ τοῦ Νομάδος ἀλεκτρυόνος, ἀποφυσήσας τὸ ψυχίδιον ἄπει γυψὶ καὶ κόραξι πάντα ἐκεῖνα καταλιπών; Ἢ ἐθέλεις καταριθμήσομαί σοι τοὺς μὲν αὐτίκα πρὶν ἀπολαῦσαι τοῦ πλούτου ἀποθανόντας, ἐνίους δὲ καὶ ζῶντας ἀποστερηθέντας ὧν εἶχον ὑπό τινος βασκάνου πρὸς τὰ τοιαῦτα δαίμονος; Ἀκούεις γάρ που τὸν Κροῖσον καὶ τὸν Πολυκράτην πολύ σου πλουσιωτέρους γενομένους ἐκπεσόντας ἐν βραχεῖ τῶν ἀγαθῶν ἁπάντων. [27] Ἵνα δέ σοι καὶ τούτους ἀφῶ, τό γε ὑγιαίνειν ἐχέγγυον οἴει σοι γενήσεσθαι καὶ βέβαιον; Ἢ οὐχ ὁρᾷς πολλοὺς τῶν πλουσίων κακοδαιμόνως διάγοντας ὑπὸ τῶν ἀλγηδόνων, τοὺς μὲν οὐδὲ βαδίζειν δυναμένους, ἐνίους δὲ τυφλοὺς ἢ τῶν ἐντοσθιδίων τι ἀλγοῦντας; Ὅτι μὲν γὰρ οὐκ ἂν ἕλοιο πλουτῶν δὶς τοσοῦτον πλοῦτον ὅμοια πάσχειν Φανομάχῳ τῷ πλουσίῳ καὶ θηλύνεσθαι ὡς ἐκεῖνος εὖ οἶδα, κἂν μὴ εἴπῃς. Ἐῶ λέγειν ὅσας ἐπιβουλὰς μετὰ τοῦ πλούτου ἢ λῃστὰς καὶ φθόνον καὶ μῖσος παρὰ τῶν πολλῶν. Ὁρᾷς οἵων σοι πραγμάτων αἴτιος ὁ θησαυρὸς γίγνεται; Αδειμ. Ἀεὶ σύ μοι, ὦ Λυκῖνε, ὑπεναντίος· ὥστε οὐδὲ τὴν χοινικίδα ἔτι λήψῃ ἐς τέλος μου τῆς εὐχῆς ἐπηρεάζων. Λυκ. Τοῦτο μὲν ἤδη κατὰ τοὺς πολλοὺς τῶν πλουσίων ἀναδύῃ καὶ ἀνακαλεῖς τὴν ὑπόσχεσιν. Ἀλλὰ σὺ ἤδη ὁ Σάμιππος εὔχου.



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[24] I ricchi di oggi al mio confronto sono sicuramente altrettanti Iri, tutti quanti, e Dionico in processione non ostenterà più il suo piattino d’argento o la coppa, soprattutto quando vedrà che anche i miei servi utilizzano un’argenteria simile. Alla città, poi, riserverei queste regalìe: distribuzione di cento dracme al mese per ogni cittadino, ai meteci la metà; per abbellire gli spazi pubblici, teatri e terme; l’arrivo del mare fino al Dipylon e la realizzazione, più o meno in questo punto, di un porto, alimentato d’acqua tramite un grande canale, affinché la mia nave possa gettare le ancore qui vicino, ben visibile dal Ceramico. [25] E per voi amici, ordinerei al mio amministratore di contare venti medimni di monete d’oro per Samippo, cinque chenici per Timolao, e una sola chenice per Licino, per di più rasa, perché è un chiacchierone e prende in giro la mia preghiera. Questa è la vita che vorrei vivere: diventare esageratamente ricco, vivere nel lusso, godere a più non posso di ogni tipo di piacere. Così ho detto, e possa Hermes realizzare i miei desideri! [26] Lic. Sai allora, Adimanto, che tutta questa tua ricchezza è sospesa a un filo sottile, e se si spezza, tutto scomparirà e il tuo tesoro si trasformerà in cenere? Adi. Che vuoi dire, Licino? Lic. Che non si sa, mio caro, quanto tempo vivrai in questa tua ricchezza. Infatti chi sa se tu non esalerai la tua animuccia, con la tavola d’oro ancora piazzata davanti a te, prima di aver steso la mano e gustato il pavone o il gallo di Numidia, e te ne andrai all’altro mondo, lasciando tutta quella roba agli avvoltoi e ai corvi? O vuoi che ti faccia la conta di tutti quelli che sono morti un attimo prima di godersi le loro ricchezze, oppure di quelli che, ancora vivi, furono spogliati di quello che avevano da un demone invidioso della loro fortuna? Non hai sentito forse che Creso e Policrate, che erano anche molto più ricchi di te, persero in un attimo tutte le loro ricchezze? [27] Ma anche senza farti questi esempi, credi forse che la buona salute ti sarà sempre assicurata? Non vedi, forse, che molti ricchi vivono un’esistenza infelice, afflitta dalla sofferenze, e se alcuni non possono camminare, altri sono ciechi o soffrono di qualche dolore intestinale? Sai bene, anche se non lo vuoi ammettere, che non accetteresti mai di sopportare le stesse sciagure del ricco Fanomaco e di essere un effeminato come lui, neanche per il doppio delle sue ricchezze. Non sto qui a ricordarti quante insidie si accompagnano alla ricchezza, e i ladri, e l’invidia, e l’odio della massa. Vedi che razza di problemi procura il tuo tesoro? Adi. Sempre contro di me, Licino! Perciò neppure la chenice ti lascerò, perché maltratti fino alla fine la mia preghiera. Lic. Già ti tiri indietro, come la maggior parte dei ricchi, e ti rimangi la tua promessa. Ma adesso di’ tu ciò che desideri, Samippo.

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Σαμ. [28] Ἐγὼ δέ —ἠπειρώτης γάρ εἰμι, Ἀρκὰς ἐκ Μαντινείας, ὡς ἴστε— ναῦν μὲν οὐκ αἰτήσω μοι γενέσθαι, ἥν γε τοῖς πολίταις ἐπιδείξασθαι ἀδύνατον, οὐδὲ μικρολογήσομαι πρὸς τοὺς θεοὺς θησαυρὸν αἰτῶν καὶ μεμετρημένον χρυσίον. Ἀλλὰ δύνανται γὰρ πάντα οἱ θεοί, καὶ τὰ μέγιστα εἶναι δοκοῦντα, καὶ ὁ νόμος τῆς εὐχῆς ὃν Τιμόλαος ἔθηκεν φησὶ μηδὲν ὀκνεῖν αἰτεῖν, ὡς ἐκείνων πρὸς οὐδὲν ἀνανευόντων. Αἰτῶ δὴ βασιλεὺς γενέσθαι οὐχ οἷος Ἀλέξανδρος ὁ Φιλίππου ἢ Πτολεμαῖος ἢ Μιθριδάτης ἢ εἴ τις ἄλλος ἐκδεξάμενος τὴν βασιλείαν παρὰ πατρὸς ἦρξεν, ἀλλά μοι τὸ πρῶτον ἀπὸ λῃστείας ἀρξαμένῳ ἑταῖροι καὶ συνωμόται ὅσον τριάκοντα, πιστοὶ μάλα καὶ πρόθυμοι, γενέσθωσαν, εἶτα κατ᾽ ὀλίγον τριακόσιοι προσιόντες ἡμῖν ἄλλοι ἐπ᾽ ἄλλοις, εἶτα χίλιοι καὶ μετ᾽ οὐ πολὺ μύριοι, καὶ τὸ πᾶν εἰς πέντε μυριάδας ὁπλιτικόν, ἱππεῖς δὲ ἀμφὶ τοὺς πεντακισχιλίους. [29] Ἐγὼ δὲ χειροτονητὸς ὑφ᾽ ἁπάντων προκριθεὶς ἄρχων, ἄριστος εἶναι δόξας ἀνθρώπων ἡγεῖσθαι καὶ πράγμασι χρῆσθαι. Ὡς τοῦτό γε αὐτὸ ἤδη μεῖζον εἶναι τῶν ἄλλων βασιλέων, τὸ ἀρετῇ προχειρισθέντα ὑπὸ τῆς στρατιᾶς ἄρχειν, οὐ κληρονόμον γενόμενον ἄλλου πονήσαντος ἐς τὴν βασιλείαν· ἐπεὶ τῷ Ἀδειμάντου θησαυρῷ παραπλήσιον τὸ τοιοῦτο, καὶ τὸ πρᾶγμα οὐχ ὅμοιον ἡδύ, ὥσπερ ὅταν εἰδῇ τις αὐτὸς δι᾽ αὑτοῦ κτησάμενος τὴν δυναστείαν. Λυκ. Παπαῖ, ὦ Σάμιππε, οὐδὲν μικρόν, ἀλλὰ τὸ κεφάλαιον αὐτὸ τῶν ἀγαθῶν ἁπάντων σύ γε ᾔτησας, ἄρχειν ἀσπίδος τοσαύτης ἄριστος δὴ προκριθεὶς ὑπὸ τῶν πεντακισμυρίων. Τοιοῦτον ἡμῖν ἡ Μαντίνεια θαυμαστὸν βασιλέα καὶ στρατηγὸν ἐλελήθει ἀνατρέφουσα. Πλὴν ἀλλὰ βασίλευε καὶ ἡγοῦ τῶν στρατιωτῶν καὶ διακόσμει τό τε ἱππικὸν καὶ τοὺς ἀνέρας τοὺς ἀσπιδιώτας· ἐθέλω γὰρ εἰδέναι οἷ βαδιεῖσθε τοσοῦτοι ὄντες ἐξ Ἀρκαδίας ἢ ἐπὶ τίνας ἀθλίους πρώτους ἀφίξεσθε. Σαμ. [30] Ἄκουε, ὦ Λυκῖνε, μᾶλλον δέ, εἴ σοι φίλον, ἀκολούθει μεθ᾽ ἡμῶν. Ἵππαρχον γάρ σε τῶν πεντακισχιλίων ἀποφανῶ. Λυκ. Ἀλλὰ τῆς μὲν τιμῆς, ὦ βασιλεῦ, χάριν οἶδά σοι καὶ ὑποκύψας ἐς τὸ Περσικὸν προσκυνῶ σε περιαγαγὼν εἰς τοὐπίσω τὼ χεῖρε τιμῶν τὴν τιάραν ὀρθὴν οὖσαν καὶ τὸ διάδημα. Σὺ δὲ τῶν ἐρρωμένων τούτων τινὰ ποίησον ἵππαρχον. Ἐγὼ γάρ σοι δεινῶς ἄφιππός εἰμι καὶ οὐδὲ ὅλως ἐπέβην ἵππου ἐν τῷ πρὸ τοῦ χρόνῳ. Δέδια τοίνυν μὴ τοῦ σαλπιγκτοῦ ἐποτρύνοντος καταπεσὼν ἔγωγε συμπατηθῶ ἐν τῇ τύρβῃ ὑπὸ τοσαύταις ὁπλαῖς, ἢ καὶ θυμοειδὴς ὢν ὁ ἵππος ἐξενέγκῃ με τὸν χαλινὸν ἐνδακὼν ἐς μέσους τοὺς πολεμίους, ἢ δεήσει καταδεθῆναί με πρὸς τὸ ἐφίππιον, εἰ μέλλω μενεῖν τε ἄνω καὶ ἕξεσθαι τοῦ χαλινοῦ. Αδειμ. [31] Ἐγώ σοι, ὦ Σάμιππε, ἡγήσομαι τῶν ἱππέων, Λυκῖνος δὲ τὸ δεξιὸν κέρας ἐχέτω. Δίκαιος δ᾽ ἂν εἴην τυχεῖν παρὰ σοῦ τῶν μεγίστων τοσούτοις σε μεδίμνοις δωρησάμενος ἐπισήμου χρυσίου.



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[28] Sam. Io, che sono uomo dell’entroterra, un arcade di Mantinea, come sapete, non chiederò di avere una nave, che mi sarebbe impossibile mostrare agli abitanti del mio paese, né farò richieste meschine agli dèi chiedendo un tesoro e quantità d’oro. Ma possono tutto gli dèi, anche quello che sembra straordinario, e la legge della preghiera che Timolao ha stabilito dice che si può chiedere qualsiasi cosa senza temere che gli dèi ce la rifiutino. Allora chiedo di diventare un re, ma non come Alessandro, figlio di Filippo, o Tolemeo o Mitridate o chiunque altro sia diventato re ereditando il regno dal padre: per quel che mi riguarda, voglio iniziare dalla pirateria, facendo affidamento su una trentina di compagni e complici, fedelissimi e volenterosi; poi un po’ alla volta diventino trecento, unendosi a noi uno dopo l’altro, poi mille, e poco dopo diecimila: alla fine siano in totale cinquantamila fanti e cinquemila cavalieri all’incirca. [29] Ed eccomi eletto da tutti per alzata di mano come comandante in capo, perché a loro sembro io il migliore a guidare uomini e a curare l’amministrazione dello stato. Che proprio in questo consiste la mia maggiore grandezza rispetto agli altri re: essere stato eletto comandante dal mio esercito per il mio valore, non perché sono erede di qualcuno che ha dovuto faticare per arrivare al trono. Questa eredità, infatti, è simile al tesoro di Adimanto, e il piacere che ne deriva non è uguale a quello che si prova quando si sa di aver ottenuto il potere con le proprie forze. Lic. Accidenti Samippo, non è una sciocchezza quel che hai chiesto, ma addirittura il colmo di tutti i beni del mondo: comandare un così grande esercito dopo esser stato considerato il migliore da cinquantamila uomini! Una simile meraviglia di re e di generale allevava Mantinea e noi non lo sapevamo! Ebbene regna pure, guida i soldati, organizza la cavalleria e “gli uomini armati di scudo”: voglio proprio sapere in così gran numero in che direzione marcerete, partendo dall’Arcadia, o quali sfortunati assalirete per primi. [30] Sam. Ascolta, Licino, o meglio, se ti fa piacere, unisciti a noi: ti nominerò comandante dei cinquemila cavalieri. Lic. Ma ti ringrazio di quest’onore, mio re, e mi inchino davanti a te e mi prostro alla maniera persiana, con le mani dietro la schiena, per venerare la tua tiara dritta e il tuo diadema! Tu, però, nomina comandante dei cavalieri uno dei tuoi vigorosi uomini, perché io sono davvero negato per l’ippica e prima d’ora non sono mai nemmeno salito su un cavallo: perciò ho paura che quando la tromba suonerà la carica io cadrò a terra e verrò calpestato nella mischia da tanti zoccoli di cavallo, o che il mio cavallo, se è focoso, morderà il freno e mi porterà in mezzo ai nemici, o che bisognerà legarmi alla sella, se si vuole che resti su e tenga ben saldo il freno. [31] Adi. Io, Samippo, ti comanderò i cavalieri! Che Licino prenda l’ala destra. Sarebbe giusto che tu mi affidassi le mansioni più importanti, visto che ti ho regalato tanti medimni di monete d’oro.

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Σαμ. Καὶ αὐτοὺς ἐρώμεθα, ὦ Ἀδείμαντε, τοὺς ἱππέας, εἰ δέξονται ἄρχοντά σε σφῶν γενέσθαι. Ὅτῳ δοκεῖ, ὦ ἱππεῖς, Ἀδείμαντον ἱππαρχεῖν, ἀνατεινάτω τὴν χεῖρα. Αδειμ. Πάντες, ὡς ὁρᾷς, ὦ Σάμιππε, ἐχειροτόνησαν. Σαμ. Ἀλλὰ σὺ μὲν ἄρχε τῆς ἵππου, Λυκῖνος δὲ ἐχέτω τὸ δεξιόν. Οὑτοσὶ δὲ Τιμόλαος ἐπὶ τοῦ εὐωνύμου τετάξεται. Ἐγὼ δὲ κατὰ μέσον, ὡς νόμος βασιλεῦσι τῶν Περσῶν, ἐπειδὰν αὐτοὶ συμπαρῶσι. [32] Προΐωμεν δὲ ἤδη τὴν ἐπὶ Κορίνθου διὰ τῆς ὀρεινῆς ἐπευξάμενοι τῷ βασιλείῳ Διί· κἀπειδὰν τἀν τῇ Ἑλλάδι πάντα ἤδη χειρωσώμεθα —οὐδεὶς γὰρ ὁ ἐναντιωθησόμενος ἡμῖν τὰ ὅπλα τοσούτοις οὖσιν, ἀλλ᾽ ἀκονιτὶ κρατοῦμεν— ἐπιβάντες επὶ τὰς τριήρεις καὶ τοὺς ἵππους εἰς τὰς ἱππαγωγοὺς ἐμβιβάσαντες —παρεσκεύασται δ᾽ ἐν Κεγχρεαῖς καὶ σῖτος ἱκανὸς καὶ τὰ πλοῖα διαρκῆ καὶ τἆλλα πάντα— διαβάλωμεν τὸν Αἰγαῖον ἐς τὴν Ἰωνίαν, εἶτα ἐκεῖ τῇ Ἀρτέμιδι θύσαντες καὶ τὰς πόλεις ἀτειχίστους λαβόντες ῥᾳδίως ἄρχοντας ἀπολιπόντες προχωρῶμεν ἐπὶ Συρίας διὰ Καρίας, εἶτα Λυκίας καὶ Παμφυλίας καὶ Πισιδῶν καὶ τῆς παραλίου καὶ ὀρεινῆς Κιλικίας, ἄχρις ἂν ἐπὶ τὸν Εὐφράτην ἀφικώμεθα. Λυκ. [33] Ἐμέ, ὦ βασιλεῦ, εἰ δοκεῖ, σατράπην τῆς Ἑλλάδος κατάλιπε. Δειλὸς γάρ εἰμι καὶ τῶν οἴκοι πολὺ ἀπελθεῖν οὐκ ἂν ἡδέως ὑπομείναιμι. Σὺ δὲ ἔοικας ἐπὶ Ἀρμενίους καὶ Παρθυαίους ἐλάσειν μάχιμα φῦλα καὶ τὴν τοξικὴν εὔστοχα. Ὥστε ἄλλῳ παραδοὺς τὸ δεξιὸν ἐμὲ Ἀντίπατρόν τινα ἔασον ἐπὶ τῆς Ἑλλάδος, μή με καὶ διαπείρῃ τις οἰστῷ ἄθλιον βαλὼν ἐς τὰ γυμνὰ περὶ Σοῦσα ἢ Βάκτρα ἡγούμενόν σου τῆς φάλαγγος. Σαμ. Ἀποδιδράσκεις, ὦ Λυκῖνε, τὸν κατάλογον δειλὸς ὤν. Ὁ δὲ νόμος ἀποτετμῆσθαι τὴν κεφαλήν, εἴ τις λιπὼν φαίνοιτο τὴν τάξιν. Ἀλλ᾽ ἐπεὶ κατὰ τὸν Εὐφράτην ἤδη ἐσμὲν καὶ ὁ ποταμὸς ἔζευκται καὶ κατόπιν ὁπόσα διεληλύθαμεν ἀσφαλῶς ἡμῖν ἔχει καὶ πάντα ὕπαρχοι κατέχουσιν ὑπ᾽ ἐμοῦ ἑκάστῳ ἔθνει ἐπεισαχθέντες, οἱ δὲ καὶ ἀπίασι τὴν Φοινίκην ἡμῖν ἐν τούτῳ καὶ τὴν Παλαιστίνην εἶτα καὶ τὴν Αἴγυπτον προσαξόμενοι, σὺ πρῶτος, ὦ Λυκῖνε, διάβαινε τὸ δεξιὸν ἄγων, εἶτα ἐγὼ καὶ μετ᾽ ἐμὲ οὑτοσὶ Τιμόλαος· ἐπὶ πᾶσι δὲ τὸ ἱππικὸν ἄγε σύ, ὦ Ἀδείμαντε.



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Sam. Domandiamolo ai cavalieri stessi, Adimanto, se accettano di riconoscerti come loro comandante. Cavalieri, chi vuole che Adimanto comandi la cavalleria, alzi la mano! Adi. Tutti, come vedi, hanno alzato la mano, Samippo. Sam. E allora guida tu la cavalleria; Licino abbia l’ala destra; il nostro Timolao sia a capo dell’ala sinistra; io al centro, come vuole la regola per i re persiani quando partecipano di persona alla battaglia. [32] E ora avanziamo verso Corinto attraverso le montagne, innalzata prima una preghiera a Zeus protettore dei re. Quando avremo sottomesso tutta la Grecia – perché nessuno leverà le armi contro un esercito tanto grande come il nostro, anzi, vinceremo senza neanche combattere –, imbarchiamoci sulle triremi e carichiamo i cavalli sulle navi adatte al loro trasporto – a Cencree è già pronto grano a sufficienza, un numero sufficiente di navi e tutto ciò di cui abbiamo ancora bisogno –, e attraversiamo l’Egeo verso la Ionia. Lì, compiuto un sacrificio ad Artemide e prese facilmente le città prive di mura, in cui lasceremo dei governatori, avanziamo sulla Siria attraverso la Caria, poi la Licia, la Panfilia, la Pisidia e la Cilicia, la costiera e la montana, finché non arriviamo all’Eufrate. [33] Lic. Per quanto mi riguarda, sire, se a te sta bene, lasciami come satrapo della Grecia. Io sono un pusillanime, infatti, e sopporterei a malincuore di stare a lungo lontano da casa mia, mentre mi sembra che tu voglia spingerti contro gli Armeni e i Parti, popoli guerrieri e abilissimi con l’arco. E dunque affida a un altro l’ala destra e lascia me in Grecia, come un altro Antipatro, perché nessuno mi trapassi con una freccia, me misero, colpendomi in un punto scoperto, mentre ti guido la falange nei dintorni di Susa o di Bactra. Sam. Diserti il richiamo alle armi, Licino, per la tua vigliaccheria! Ma la legge vuole che sia tagliata la testa a chiunque sia scoperto ad abbandonare il proprio posto. Ma visto che siamo già sull’Eufrate, e il fiume è coperto da un ponte, e alle nostre spalle tutte le regioni che abbiamo attraversato sono pacificate, e i luogotenenti che ho messo alla guida di ogni popolo hanno tutto sotto controllo, e altri invece sono in movimento proprio ora per conquistarmi la Fenicia, e poi la Palestina e l’Egitto, tu, Licino, passa per primo sull’altra sponda a capo dell’ala destra, poi io e dietro di me, ecco, Timolao; in retroguardia guida tu la cavalleria, Adimanto.

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[34] Καὶ διὰ μὲν τῆς Μεσοποταμίας οὐδεὶς ἀπήντηκεν ἡμῖν πολέμιος, ἀλλὰ ἑκόντες αὑτούς τε καὶ τὰς ἀκροπόλεις ἅνθρωποι ἐνεχείρισαν, καὶ ἐπὶ Βαβυλῶνα ἐλθόντες ἀπροσδόκητοι παρήλθομεν εἰς τὸ εἴσω τῶν τειχῶν καὶ ἔχομεν τὴν πόλιν. Ὁ βασιλεὺς δὲ περὶ Κτησιφῶντα διατρίβων ἤκουσεν τὴν ἔφοδον, εἶτα εἰς Σελεύκειαν παρελθὼν παρασκευάζεται ἱππέας τε ὅτι πλείστους μεταπεμπόμενος καὶ τοξότας καὶ σφενδονήτας. Ἀπαγγέλλουσι δ᾽ οὖν οἱ σκοποὶ ἀμφὶ τὰς ἑκατὸν ἤδη μυριάδας τοῦ μαχίμου συνειλέχθαι καὶ τούτων εἴκοσιν ἱπποτοξότας, καίτοι οὔπω ὁ Ἀρμένιος [πω] πάρεστιν οὔτε οἱ κατὰ τὴν Κασπίαν θάλατταν οἰκοῦντες οὔτε οἱ ἀπὸ Βάκτρων, ἀλλ᾽ ἐκ τῶν πλησίον καὶ προαστείων τῆς ἀρχῆς· οὕτω ῥᾳδίως τοσαύτας μυριάδας κατέλεξε. Καιρὸς οὖν ἤδη σκοπεῖν ἡμᾶς ὅ τι χρὴ ποιεῖν. Αδειμ. [35] Ἀλλ᾽ ἐγὼ μέν φημι δεῖν ὑμᾶς τὸ πεζὸν ἀπιέναι τὴν ἐπὶ Κτησιφῶντος, ἡμᾶς δὲ τὸ ἱππικὸν αὐτοῦ μένειν τὴν Βαβυλῶνα διαφυλάξοντας. Σαμ. Ἀποδειλιᾷς καὶ σύ, ὦ Ἀδείμαντε, πλησίον τοῦ κινδύνου γενόμενος; Σοὶ δὲ τί δοκεῖ, ὦ Τιμόλαε; Τιμ. Ἁπάσῃ τῇ στρατιᾷ βαδίζειν ἐπὶ τοὺς πολεμίους, μηδὲ περιμένειν ἔστ᾽ ἂν ἄμεινον παρασκευάσωνται πανταχόθεν τῶν συμμάχων προσγενομένων, ἀλλ᾽ ἕως ἔτι καθ᾽ ὁδόν εἰσιν οἱ πολέμιοι, ἐπιχειρῶμεν αὐτοῖς. Σαμ. Εὖ λέγεις. Σὺ δὲ τί, ὦ Λυκῖνε, δοκιμάζεις; Λυκ. Ἐγώ σοι φράσω. Ἐπειδὴ κεκμήκαμεν συντόνως ὁδεύοντες, ὁπότε κατῄειμεν ἕωθεν ἐς τὸν Πειραιᾶ, καὶ νῦν δὲ ἤδη τριάκοντά που σταδίους προκεχωρήκαμεν καὶ ὁ ἥλιος πολύς, κατὰ μεσημβρίαν γὰρ ἤδη μάλιστα, ἐνταῦθά που ὑπὸ τὰς ἐλαίας ἐπὶ τῆς ἀνατετραμμένης στήλης καθίσαντας ἀναπαύσασθαι, εἶτα οὕτως ἀναστάντας ἀνύειν τὸ λοιπὸν ἐς τὸ ἄστυ. Σαμ. Ἔτι γὰρ Ἀθήνησιν, ὦ μακάριε, εἶναι δοκεῖς, ὃς ἀμφὶ Βαβυλῶνα ἐν τῷ πεδίῳ πρὸ τῶν τειχῶν ἐν τοσούτοις στρατιώταις κάθησαι περὶ τοῦ πολέμου διασκοπούμενος; Λυκ. ῾Υπέμνησας· ἐγὼ δὲ νήφειν ᾤμην καὶ σοὶ ὕπαρ ἀποφανεῖσθαι τὴν γνώμην. Σαμ. [36] Πρόσιμεν δή, εἴ σοι δοκεῖ. Καὶ ὅπως ἄνδρες ἀγαθοὶ ἐν τοῖς κινδύνοις ἔσεσθε μηδὲ προδώσετε τὸ πάτριον φρόνημα. Ἤδη γάρ που καὶ οἱ πολέμιοι ἐπιλαμβάνουσιν. Ὥστε τὸ μὲν σύνθημα ἔστω Ἐνυάλιος. ῾Υμεῖς δὲ ἐπειδὰν σημάνῃ ὁ σαλπιγκτής, ἀλαλάξαντες καὶ τὰ δόρατα κρούσαντες πρὸς τὰς ἀσπίδας ἐπείγεσθε συμμῖξαι τοῖς ἐναντίοις καὶ ἐντὸς γενέσθαι τῶν τοξευμάτων, ὡς μηδὲ πληγὰς λαμβάνωμεν ἀκροβολίζεσθαι αὐτοῖς διδόντες. Καὶ ἐπειδὴ ἐς χεῖρας ἤδη συνεληλύθαμεν, τὸ μὲν εὐώνυμον καὶ ὁ Τιμόλαος ἐτρέψαντο τοὺς καθ᾽ αὑτοὺς Μήδους ὄντας, τὸ δὲ κατ᾽ ἐμὲ ἰσόπαλον ἔτι, Πέρσαι γάρ εἰσι καὶ ὁ βασιλεὺς ἐν αὐτοῖς. Ἡ δὲ ἵππος ἅπασα τῶν βαρβάρων ἐπὶ τὸ δεξιὸν ἡμῶν ἐλαύνουσιν, ὥστε, ὦ Λυκῖνε, αὐτός τε ἀνὴρ ἀγαθὸς γίγνου καὶ τοῖς μετὰ σαυτοῦ παρακελεύου δέχεσθαι τὴν ἐπέλασιν.



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[34] Nella marcia attraverso la Mesopotamia nessun nemico si è mosso contro di noi, ma gli abitanti ci hanno consegnato di loro spontanea volontà se stessi e le loro roccaforti, e così siamo arrivati a Babilonia e siamo entrati di sorpresa dentro le mura e ora la città è nostra. Intanto il re, che si trovava a Ctesifonte, ha sentito della nostra invasione, così è corso a Seleucia e si prepara radunando il maggior numero possibile di cavalieri, arcieri e frombolieri. I nostri informatori ci dicono che ha già raccolto più o meno un milione di soldati, di cui duecentomila arcieri a cavallo. Mancano ancora gli Armeni e le genti che abitano sul mar Caspio e a Bactra, eppure fra quanti abitano nei pressi o alla periferia della capitale con che facilità ha radunato tante decine di migliaia di soldati! È dunque arrivato il momento di riflettere sul da farsi. [35] Adi. A parer mio voi della fanteria dovete andare verso Ctesifonte, mentre noi della cavalleria dobbiamo restare qui a difendere Babilonia. Sam. Anche tu fai il vigliacco, Adimanto, quando il pericolo si avvicina? Secondo te che si deve fare, Timolao? Tim. Marciare con tutto l’esercito contro i nemici e non aspettare che siano resi più forti dall’arrivo degli alleati da ogni parte dell’impero: attacchiamo i nostri nemici mentre sono ancora in viaggio! Sam. Ben detto. E qual è il tuo parere, Licino? Lic. Ti dirò: visto che siamo stanchi per la marcia forzata, dal momento che siamo scesi al Pireo all’alba e fino ad ora abbiamo già fatto quasi trenta stadi sotto il sole cocente – sarà mezzogiorno, più o meno –, mettiamoci a sedere sotto quell’olivo, su quella stele rovesciata, e facciamo una pausa; poi ci alzeremo e faremo il tratto di strada che resta fino in città. Sam. Pensi forse di essere ancora ad Atene, benedetto uomo, mentre sei nella piana di Babilonia, di fronte alle mura della città, in mezzo a tanti soldati, occupato a elaborare il piano di battaglia? Lic. Me l’hai fatto ricordare. E io che credevo di essere sobrio e di dover esprimere la mia opinione da sveglio! [36] Sam. Andiamo, allora, se sei d’accordo. E fate in modo di essere valorosi nel pericolo e di non tradire lo spirito di patria: i nemici stanno già piombando su di noi! Che il nostro grido di battaglia sia ‘Enialio’! Quando il trombettiere darà il segnale, levatelo in alto e picchiate le lance contro gli scudi, poi correte a mischiarvi agli avversari e non restate a tiro degli arcieri, così non gli darete la possibilità di tirare da lontano e di ferirci! Ed ecco, siamo già venuti alle mani: l’ala sinistra e Timolao hanno messo in fuga i Medi che li fronteggiavano, mentre dalla mia parte la situazione è ancora incerta, perché ci sono i Persiani e tra di loro c’è il re. Ora tutta la cavalleria dei barbari carica contro la nostra ala destra, perciò devi dimostrarti valoroso, Licino, ed esortare i tuoi uomini a sostenere l’assalto nemico!

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Λυκ. [37] Ὢ τῆς τύχης. Ἐπ᾽ ἐμὲ γὰρ οἱ ἱππεῖς ἅπαντες καὶ μόνος ἐπιτήδειος αὐτοῖς ἔδοξα ἐπελαύνεσθαι. Καί μοι δοκῶ, ἢν βιάζωνται, αὐτομολήσειν προσδραμὼν ἐς τὴν παλαίστραν ἔτι πολεμοῦντας ὑμᾶς καταλιπών. Σαμ. Μηδαμῶς. Κρατεῖς γὰρ αὐτῶν καὶ σὺ ἤδη τὸ μέρος. Ἐγὼ δέ, ὡς ὁρᾷς, καὶ μονομαχήσω πρὸς τὸν βασιλέα· προκαλεῖται γάρ με καὶ ἀναδῦναι πάντως αἰσχρόν. Λυκ. Νὴ Δία καὶ τετρώσῃ αὐτίκα μάλα πρὸς αὐτοῦ. Βασιλικὸν γὰρ καὶ τὸ τρωθῆναι περὶ τῆς ἀρχῆς μαχόμενον. Σαμ. Εὖ λέγεις. Ἐπιπόλαιον μέν μοι τὸ τραῦμα καὶ οὐκ εἰς τὰ φανερὰ τοῦ σώματος, ὡς μηδὲ τὴν οὐλὴν ὕστερον ἄμορφον γενέσθαι. Πλὴν ἀλλὰ ὁρᾷς ὅπως ἐπελάσας μιᾷ πληγῇ αὐτόν τε καὶ τὸν ἵππον διέπειρα τὴν λόγχην ἀφείς, εἶτα τὴν κεφαλὴν ἀποτεμὼν καὶ ἀφελὼν τὸ διάδημα βασιλεὺς ἤδη γέγονα προσκυνούμενος ὑφ᾽ ἁπάντων; [38] Οἱ βάρβαροι προσκυνείτωσαν. ῾Υμῶν κατὰ τὸν Ἑλλήνων νόμον ἄρξω εἷς στρατηγὸς ὀνομαζόμενος. Ἐπὶ τούτοις ἄρα ἐννοεῖτε ὅσας μὲν πόλεις ἐπωνύμους ἐπ᾽ ἐμαυτοῦ οἰκιῶ, ὅσας δὲ καὶ καθαιρήσω ἑλὼν κατὰ κράτος, αἳ ἂν ὑβρίσωσί τι ἐς τὴν ἀρχήν. Ἁπάντων δὲ μάλιστα Κυδίαν τὸν πλούσιον μετελεύσομαι, ὃς ὅμορος ἤδη ὤν μοι ἐξέωσεν τοῦ ἀγροῦ ἐπιβαίνων κατ᾽ ὀλίγον ἐς τὸ εἴσω τῶν ὅρων. Λυκ. [39] Πέπαυσο ἤδη, ὦ Σάμιππε. Καιρὸς γὰρ σὲ ἤδη μὲν νενικηκότα τηλικαύτην μάχην ἐν Βαβυλῶνι εὐωχεῖσθαι τὰ ἐπινίκια —ἑκστάδιος γὰρ οἶμαί σοι ἡ ἀρχή— Τιμόλαον δὲ ἐν τῷ μέρει εὔχεσθαι ὅπερ ἂν ἐθέλῃ. Σαμ. Τί δ᾽ οὖν, ὦ Λυκῖνε; Оἷά σοι ᾐτῆσθαι δοκῶ; Λυκ. Παρὰ πολύ, ὦ θαυμασιώτατε βασιλέων, ἐπιπονώτερα καὶ βιαιότερα τῶν Ἀδειμάντου, παρ᾽ ὅσον ἐκεῖνος μὲν ἐτρύφα διτάλαντα χρύσεα ἐκπώματα προπίνων τοῖς συμπόταις, σὺ δὲ καὶ ἐτιτρώσκου μονομαχῶν καὶ ἐδεδίεις καὶ ἐφρόντιζες νύκτωρ καὶ μεθ᾽ ἡμέραν· οὐ μόνον γάρ σοι τὰ παρὰ τῶν πολεμίων φοβερὰ ἦν, ἀλλὰ καὶ ἐπιβουλαὶ μυρίαι καὶ φθόνος παρὰ τῶν συνόντων καὶ μῖσος καὶ κολακεία, φίλος δὲ οὐδεὶς ἀληθής, ἀλλὰ πρὸς τὸ δέος ἅπαντες ἢ πρὸς τὴν ἐλπίδα εὖνοι δοκοῦντες εἶναι. Ἀπόλαυσις μέν γε οὐδὲ ὄναρ τῶν ἡδέων, ἀλλὰ δόξα μόνον καὶ πορφυρὶς χρυσῷ ποικίλη καὶ ταινία λευκὴ περὶ τῷ μετώπῳ καὶ δορυφόροι προϊόντες, τὰ δ᾽ ἄλλα κάματος ἀφόρητος καὶ ἀηδία πολλή, καὶ ἢ χρηματίζειν δεῖ τοῖς παρὰ τῶν πολεμίων ἥκουσιν ἢ δικάζειν ἢ καταπέμπειν τοῖς ὑπηκόοις ἐπιτάγματα, καὶ ἤτοι ἀφέστηκέν τι ἔθνος ἢ ἐπελαύνουσί τινες τῶν ἔξω τῆς ἀρχῆς. Δεδιέναι οὖν δεῖ πάντα καὶ ὑφορᾶσθαι, καὶ ὅλως ὑπὸ πάντων μᾶλλον ἢ ὑπὸ σεαυτοῦ εὐδαιμονίζεσθαι.



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[37] Lic. Che razza di sfortuna! Tutta la cavalleria contro di me! Hanno pensato che fossi l’unico contro cui potessero lanciarsi! Per quel che mi riguarda, nel caso in cui stiano per sopraffarmi me la svignerò rifugiandomi in palestra e lascerò voi a continuare il combattimento. Sam. Ma no! Anche tu li hai già vinti! Quanto a me, come vedi, sto per affrontare il re a singolar tenzone: mi sfida e sarebbe una vera e propria vergogna se mi tirassi indietro. Lic. Certo, per Zeus, e sarai ferito all’istante da lui, perché è da re anche esser feriti combattendo per la conquista del potere! Sam. Dici bene. Comunque è solo una ferita superficiale e in una parte non visibile del corpo, così che la cicatrice non deturperà per niente il mio aspetto. Ma non vedi come gli sono piombato addosso e con un solo colpo di lancia ho trapassato lui e il suo cavallo, poi gli ho tagliato la testa e tolto il diadema e sono già diventato un re al cui cospetto tutti si prostrano? [38] Che i barbari si prostrino! Su di voi, secondo l’uso greco, comanderò come stratega. E dopo queste imprese pensate quante città farò costruire che porteranno il mio nome, quante altre, invece, prenderò con la forza e poi distruggerò se proveranno a fare offesa alla mia autorità. E mi vendicherò soprattutto del ricco Cidia, che quand’era mio confinante mi cacciò via dal suo campo penetrando un po’ alla volta nei miei confini. [39] Lic. Riposati ora, Samippo. È arrivato per te il momento, dopo aver vinto una simile battaglia, di offrire a Babilonia un banchetto per celebrare il tuo successo: il tuo regno dura già da sei stadi, mi sembra, e ora tocca a Timolao pregare gli dèi per ottenere ciò che desidera. Sam. E allora, Licino? Come ti sembrano le mie richieste? Lic. Di gran lunga più logoranti, mio re dei re, e più perverse di quelle di Adimanto, per il fatto che quello sprofondava nel lusso brindando alla salute dei suoi invitati in coppe d’oro da due talenti, ma tu eri ferito in singolar tenzone, vivevi nella paura ed eri in ansia giorno e notte. Tu dovevi temere non solo gli attacchi nemici, infatti, ma anche insidie a non finire, e l’invidia dei tuoi familiari, e l’odio, e l’adulazione. Nessuna amicizia sincera, ma finta cordialità fondata sulla paura o sulla speranza. Nessun vero piacere, neanche in sogno, ma solo fama, vesti di porpora ricamate d’oro, nastri bianchi intorno alla fronte e guardie del corpo a precederti; per il resto, una fatica insopportabile e tanta noia: e ora bisogna dare udienza agli ambasciatori dei nemici, emettere giudizi o inviare ordini ai sottoposti, ora un popolo si è ribellato oppure una nazione straniera ti attacca. Bisogna aver paura e sospettare di tutto. In definitiva, bisogna che tutto il mondo ti consideri felice, eccetto te.

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[40] Καὶ γὰρ οὖν καὶ τόδε πῶς οὐ ταπεινόν, ὅτι καὶ νοσεῖς τὰ ὅμοια τοῖς ἰδιώταις καὶ ὁ πυρετὸς οὐ διαγιγνώσκει σε βασιλέα ὄντα οὐδ᾽ ὁ θάνατος δέδιε τοὺς δορυφόρους, ἀλλ᾽ ἐπιστάς, ὁπόταν αὐτῷ δοκῇ, ἄγει οἰμώζοντα οὐκ αἰδούμενος τὸ διάδημα; Σὺ δέ, ὁ οὕτως ὑψηλός, καταπεσὼν ἀνάσπαστος ἐκ τοῦ βασιλείου θρόνου τὴν αὐτὴν ὁδὸν ἄπει τοῖς πολλοῖς, ἰσότιμος ἐλαυνόμενος ἐν τῇ ἀγέλῃ τῶν νεκρῶν, χῶμα ὑψηλὸν ὑπὲρ γῆς καὶ στήλην μακρὰν ἢ πυραμίδα εὔγραμμον τὰς γωνίας ἀπολιπών, ἐκπρόθεσμα καὶ ἀνεπαίσθητα φιλοτιμήματα. Εἰκόνες δὲ ἐκεῖναι καὶ νεῴ, οὓς ἀνιστᾶσιν αἱ πόλεις θεραπεύουσαι, καὶ τὸ μέγα ὄνομα πάντα κατ᾽ ὀλίγον ὑπορρεῖ καὶ ἄπεισιν ἀμελούμενα. Ἢν δὲ καὶ ὅτι μάλιστα ἐπὶ πλεῖστον παραμένῃ, τίς ἔτι ἀπόλαυσις ἀναισθήτῳ αὐτῷ γενομένῳ; Ὁρᾷς οἷα μὲν ζῶν ἔτι ἕξεις πράγματα δεδιὼς καὶ φροντίζων καὶ κάμνων, οἷα δὲ καὶ μετὰ τὴν ἀπαλλαγὴν ἔσται; [41] Ἀλλ᾽ ἤδη σὸν αἰτεῖν, ὦ Τιμόλαε, καὶ ὅπως ὑπερβαλῇ τούτους, ὥσπερ εἰκὸς ἄνδρα συνετὸν καὶ πράγμασιν χρῆσθαι εἰδότα. Τιμ. Σκόπει γοῦν, ὦ Λυκῖνε, εἴ τι ἐπιλήψιμον εὔξομαι καὶ ὅ τι ἂν εὐθῦναί τις δυνηθείη. Χρυσὸν μὲν οὖν καὶ θησαυροὺς καὶ μεδίμνους νομίσματος ἢ βασιλείας καὶ πολέμους καὶ δείματα ὑπὲρ τῆς ἀρχῆς εἰκότως διέβαλες· ἀβέβαια γὰρ ταῦτά γε καὶ πολλὰς τὰς ἐπιβουλὰς ἔχοντα καὶ πλέον τοῦ ἡδέος τὸ ἀνιαρὸν ἐν αὐτοῖς ἦν. [42] Ἐγὼ δὲ βούλομαι τὸν Ἑρμῆν ἐντυχόντα μοι δοῦναι δακτυλίους τινὰς τοιούτους τὴν δύναμιν, ἕνα μὲν ὥστε ἀεὶ ἐρρῶσθαι καὶ ὑγιαίνειν τὸ σῶμα καὶ ἄτρωτον εἶναι καὶ ἀπαθῆ, ἕτερον δὲ ὡς μὴ ὁρᾶσθαι τὸν περιθέμενον, οἶος ἦν ὁ τοῦ Γύγου, τὸν δέ τινα ὡς ἰσχύειν ὑπὲρ ἄνδρας μυρίους καὶ ὅ τι ἂν ἄχθος ἅμα μυρίοι κινῆσαι μόλις δύναιντο, τοῦτο ἐμὲ ῥᾳδίως μόνον ἀνατίθεσθαι, ἔτι δὲ καὶ πέτεσθαι πολὺ ἀπὸ τῆς γῆς ἀρθέντα, καὶ πρὸς τοῦτό μοι εἶναί δακτύλιόν τινα. Καὶ μὴν καὶ ἐς ὕπνον κατασπᾶν ὁπόσους ἂν ἐθέλω καὶ ἅπασαν θύραν προσιόντι μοι ἀνοίγεσθαι χαλωμένου τοῦ κλείθρου καὶ τοῦ μοχλοῦ ἀφαιρουμένου, ταῦτα ἀμφότερα εἷς δακτύλιος δυνάσθω. [43] Τὸ δὲ μέγιστον ἄλλος τις ἔστω ἐπὶ πᾶσιν ὁ ἥδιστος, ὡς ἐράσμιον εἶναί με περιθέμενον παισὶ τοῖς ὡραίοις καὶ γυναιξὶ καὶ δήμοις ὅλοις καὶ μηδένα εἶναι ἀνέραστον καὶ ὅτῳ μὴ ποθεινότατος ἐγὼ καὶ ἀνὰ στόμα, ὥστε πολλὰς γυναῖκας οὐ φερούσας τὸν ἔρωτα καὶ ἀναρτᾶν ἑαυτὰς καὶ τὰ μειράκια ἐπιμεμηνέναι μοι καὶ εὐδαίμονα εἶναι δοκεῖν, εἴ τινα καὶ μόνον προσβλέψαιμι αὐτῶν, εἰ δὲ ὑπερορῴην, κἀκεῖνα ὑπὸ λύπης ἀπολλύσθω, καὶ ὅλως ὑπὲρ τὸν Ὑάκινθον ἢ Ὕλαν ἢ Φάωνα τὸν Χῖον εἶναί με.



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[40] E poi, come può non essere umiliante il fatto che ti ammali delle stesse malattie degli uomini comuni e la febbre non capisce che sei un re né la morte teme le tue guardie del corpo, ma si presenta quando le pare e ti porta via tra i lamenti senza avere il minimo rispetto per il tuo diadema? E tu, che eri così in alto, cadi giù, strappato via dal tuo trono regale, e te ne vai all’altro mondo per la stessa strada percorsa da tutti gli altri, spinto avanti, uguale a tutti gli altri, nel gregge dei morti, mentre hai lasciato sulla terra un maestoso tumulo, una grande stele, una piramide dagli angoli ben delineati, onori che arrivano troppo tardi e a cui ormai sei insensibile. E queste statue, e questi templi che le città innalzano per onorarti, e il tuo gran nome, tutto a poco a poco è trascinato via dal tempo e cade nel dimenticatoio. E se anche durasse il più a lungo possibile, quale piacere ne avresti, dal momento che non senti più niente? Vedi che problemi avrai durante la tua vita per paure, preoccupazioni e fatiche, e che cosa ti aspetta dopo la tua dipartita? [41] Ma ora tocca a te, Timolao, esprimere i tuoi desideri: fallo in maniera da surclassare questi due, come si conviene a un uomo intelligente e capace di sapersi adattare alle circostanze. Tim. Allora valuta, Licino, se la mia preghiera avrà qualcosa da biasimare o da correggere. Oro, tesori e medimni di monete o regni, guerre e paure che nascono dal potere giustamente li hai screditati: perché tutto questo è mutevole, nasconde molti tranelli e ha in sé più dolori che gioie. [42] Io desidero, invece, che Hermes si presenti da me e mi regali anelli dotati di questi poteri: uno, per essere sempre forte, in buona salute, invulnerabile e immune al dolore; un altro, per essere invisibile quando lo porto al dito, come quello di Gige; un altro ancora, per diventare più forte di diecimila uomini e poter sollevare facilmente da solo un peso che in diecimila riuscirebbero appena a spostare; e per volare in alto e librarmi sulla terra, anche per questo vorrei un anello; e per far cadere nel sonno tutti quelli che voglio e aprire ogni porta non appena mi ci avvicino, facendo saltar via il chiavistello e rimuovere la sbarra, che un solo anello abbia entrambi questi poteri. [43] E ciò che più conta, ci sia un altro anello, il mio preferito, che una volta messo al dito mi renda desiderato da tutti, bei ragazzi, donne, nazioni intere, e faccia sì che non ci sia nessuno che non si innamori di me e non mi ritenga la sua più grande passione e non mi abbia sulla bocca. Di conseguenza, molte donne, incapaci di tenere a freno il desiderio, potrebbero arrivare a impiccarsi, mentre i ragazzi potrebbero impazzire per me e ritenere felice uno di loro se solo lo guardassi, e che muoiano pure di dolore se li ignorassi: insomma, sarei più bello di Giacinto, Ila o Faone di Chio.

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[44] Καὶ ταῦτα πάντα ἔχειν μὴ ὀλιγοχρόνιον ὄντα μηδὲ κατὰ μέτρον ζῶντα τῆς ἀνθρωπίνης βιοτῆς, ἀλλ᾽ ἔτη χίλια νέον ἐκ νέου γιγνόμενον διαβιῶναι ἀμφὶ τὰ ἑπτακαίδεκα ἔτη ἀεὶ ἀποδυόμενον τὸ γῆρας ὥσπερ οἱ ὄφεις. Οὐδὲν γὰρ ἐνδεήσει μοι ταῦτα ἔχοντι· πάντα γὰρ ἐμὰ ἦν ἂν τὰ τῶν ἄλλων, ἐς ὅσον ἀνοίγειν τε τὰς θύρας ἐδυνάμην καὶ κοιμίζειν τοὺς φύλακας καὶ ἀθέατος εἶναι εἰσιών. Εἰ δέ τι ἐν Ἰνδοῖς ἢ Ὑπερβορέοις θέαμα παράδοξον ἢ κτῆμα τίμιον ἢ ὅσα ἐμφαγεῖν ἢ πιεῖν ἡδέα, οὐ μεταστειλάμενος, ἀλλ᾽ αὐτὸς ἐπιπετόμενος ἀπέλαυον ἁπάντων ἐς κόρον. Καὶ ἐπεὶ γρὺψ ὑπόπτερον θηρίον ἢ φοῖνιξ ὄρνεον ἐν Ἰνδοῖς ἀθέατον τοῖς ἄλλοις, ἐγὼ δὲ καὶ τοῦτο ἑώρων ἄν, καὶ τὰς πηγὰς δὲ τὰς Νείλου μόνος ἂν ἠπιστάμην καὶ ὅσον τῆς γῆς ἀοίκητον, καὶ εἴ τινες ἀντίποδες ἡμῖν οἰκοῦσι τὸ νότιον τῆς γῆς ἡμίτομον ἔχοντες. Ἔτι δὲ καὶ ἀστέρων φύσιν καὶ σελήνης καὶ αὐτοῦ ἡλίου ῥᾳδίως ἔγνων ἂν ἀπαθὴς ὢν τῷ πυρί, καὶ τὸ πάντων ἥδιστον, αὐθημερὸν ἀγγεῖλαι ἐς Βαβυλῶνα, τίς ἐνίκησεν Ὀλύμπια, καὶ ἀριστήσαντα, εἰ τύχοι, ἐν Συρίᾳ δειπνῆσαι ἐν Ἰταλίᾳ. Εἰ δέ τις ἐχθρὸς εἴη, ἀμύνασθαι καὶ τοῦτον ἐκ τοῦ ἀφανοῦς πέτρον ἐμβαλόντα τῇ κεφαλῇ, ὡς ἐπιτετρῖφθαι τὸ κρανίον, τούς τε αὖ φίλους εὖ ποιεῖν ἐπιχέοντα κοιμωμένοις αὐτοῖς τὸ χρυσίον. Καὶ μὴν εἴ τις ὑπερόπτης εἴη ἢ τύραννος πλούσιος ὑβριστής, ἀράμενος αὐτὸν ὅσον ἐπὶ σταδίους εἴκοσιν ἀφῆκα φέρεσθαι κατὰ τῶν κρημνῶν. Τοῖς παιδικοῖς δὲ ὁμιλεῖν ἀκωλύτως ἂν ἐξῆν εἰσιόντα ἀθέατον κοιμίσαντα ἅπαντας ἄνευ ἐκείνων μόνων. Οἷον δὲ κἀκεῖνο ἦν, τοὺς πολεμοῦντας ἐπισκοπεῖν ἔξω βέλους ὑπεραιωρούμενον; Καὶ εἰ δόξειέ μοι, προσθέμενος ἂν τοῖς ἡττημένοις κοιμίσας τοὺς κρατοῦντας νικᾶν παρεῖχον τοῖς φεύγουσιν ἀναστρέψασιν ἀπὸ τῆς τροπῆς. Καὶ τὸ ὅλον, παιδιὰν ἐποιούμην ἂν τὸν τῶν ἀνθρώπων βίον καὶ πάντα ἐμὰ ἦν καὶ θεὸς ἐδόκουν τοῖς ἄλλοις. Τοῦτο ἡ ἄκρα εὐδαιμονία ἐστὶν μήτε ἀπολέσθαι μήτε ἐπιβουλευθῆναι δυναμένη, καὶ μάλιστα μεθ᾽ ὑγείας ἐν μακρῷ τῷ βίῳ. [45] Τί ἂν αἰτιάσαιο, ὦ Λυκῖνε, τῆς εὐχῆς; Λυκ. Оὐδέν, ὦ Τιμόλαε. Оὐδὲ γὰρ ἀσφαλὲς ἐναντιοῦσθαι ἀνδρὶ πτηνῷ καὶ ὑπὲρ μυρίους τὴν ἰσχύν, πλὴν ἀλλὰ ἐκεῖνο ἐρήσομαί σε, εἴ τινα ἄλλον εἶδες ἐν τοσούτοις ἔθνεσιν, ὅσα ὑπερέπτης, γέροντα ἤδη ἄνδρα οὕτω παρακεκινηκότα τὴν γνώμην, ἐπὶ δακτυλίου μικροῦ ὀχούμενον, ὄρη ὅλα κινεῖν ἄκρῳ τῷ δακτύλῳ δυνάμενον, ἐπέραστον πᾶσι, καὶ ταῦτα φαλακρὸν ὄντα καὶ τὴν ῥῖνα σιμόν; Ἀτὰρ εἰπέ μοι καὶ τόδε, τί δή ποτε οὐχ εἷς δακτύλιος ἅπαντα ταῦτα δύναταί σοι, ἀλλὰ τοσούτους περιημμένος βαδιῇ τὴν ἀριστερὰν πεφορτισμένος κατὰ δάκτυλον ἕνα; Μᾶλλον δὲ ὑπερπαίει ὁ ἀριθμός, καὶ δεήσει καὶ τὴν δεξιὰν συνεπιλαβεῖν. Καίτοι ἑνὸς τοῦ ἀναγκαιοτάτου προσδεῖ, ὃς περιθέμενόν σε παύσει μωραίνοντα τὴν πολλὴν ταύτην κόρυζαν ἀπομύξας. Ἢ τοῦτο μὲν καὶ ὁ ἐλλέβορος ἱκανὸς ποιῆσαι ζωρότερος ποθείς;



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[44] E non voglio godere di tutto questo per poco tempo né per quanto dura, più o meno, la vita di un uomo, ma voglio vivere per mille anni una gioventù dopo l’altra, spogliandomi della mia vecchiaia come i serpenti ogni diciassette anni circa. Non mi mancherà proprio niente avendo questi poteri. Tutti i beni altrui, infatti, sarebbero miei, perché potrei aprire le porte, addormentare le guardie ed entrare senza essere visto. Se poi fra gli Indi o gli Iperborei ci fosse uno spettacolo straordinario, un oggetto di grande valore o un qualsiasi tipo squisito di cibo o di bevanda, non manderei nessuno a cercarli per conto mio, ma potrei volarci io stesso e godere di tutto a sazietà. E mentre gli altri non possono vedere né il grifone, bestiaccia alata, o la fenice, uccello degli Indi, io invece li vedrei; e sarei il solo a conoscere le sorgenti del Nilo, e così pure tutti i luoghi disabitati della terra; e saprei anche se ci sono antipodi che ci abitano l’emisfero australe. Inoltre, potrei conoscere facilmente la natura delle stelle e della luna e del sole stesso, perché sarei insensibile al fuoco. E poi la cosa più bella di tutte: nell’arco di una sola giornata potrei annunciare a Babilonia chi ha vinto a Olimpia, e dopo aver pranzato, casomai, in Siria, cenare in Italia. E se avessi qualche nemico, mi vendicherei di lui lanciandogli una pietra sulla testa, sfruttando la mia invisibilità, per spaccargli il cranio, e invece farei del bene ai miei amici riversando sopra di loro dell’oro mentre dormono. E se poi spuntasse uno spaccone, o un tiranno ricco e superbo, lo solleverei a una ventina di stadi di altezza e lo lascerei cadere giù in un precipizio. Potrei frequentare tranquillamente i miei diletti ragazzi, perché entrerei a casa loro senza esser visto e addormenterei tutti all’infuori di loro. E quanto sarebbe bello osservare soldati che combattono dall’alto, fuori dalla portata dei colpi? E se mi andasse, schieratomi dalla parte dei vinti e addormentati i vincitori, offrirei la vittoria all’esercito in rotta facendogli fare dietrofront mentre è in fuga. Insomma, mi prenderei gioco della vita degli uomini, tutto mi apparterrebbe e sembrerei un dio agli altri. Questa è la suprema felicità, che non può essere persa né minacciata, soprattutto associata a una buona salute nel corso di una lunga vita. [45] Che hai da rimproverare alla mia preghiera, Licino? Lic. Niente, Timolao! Perché non sarebbe affatto sicuro mettersi contro un uomo che è capace di volare e ha più forza di diecimila uomini! Ciononostante, ti vorrei comunque chiedere se fra tanti popoli che hai sorvolato hai visto un altro uomo, già vecchio e fuori di senno, che viaggiava con un piccolo anellino, era capace di spostare intere montagne con la sola punta di un dito ed era amato da tutti, malgrado la calvizie e il naso camuso? In più, dimmi anche questo: per quale motivo mai non è capace di darti tutti questi poteri un anello solo, ma dovrai procurartene tanti e andartene in giro con la sinistra carica dito per dito? Ma forse sono troppi e servirà anche l’aiuto della mano destra! Eppure manca ancora un anello, il più necessario: quello che, una volta infilato al dito, ti farà smettere di comportarti come un pazzo e spazzerà via questo mucchio di stupidaggini. O forse per ottenere lo stesso risultato ti basterà bere elleboro puro.

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Τιμ. [46] Ἀλλὰ πάντως, ὦ Λυκῖνε, καὶ αὐτὸς εὔξῃ τι ἤδη ποτέ, ὡς ἂν μάθωμεν οἷα αἰτήσεις ἀνεπίληπτα καὶ ἀνέγκλητα ὁ συκοφαντῶν τοὺς ἄλλους. Λυκ. Ἀλλ᾽ οὐ δέομαι εὐχῆς ἐγώ. Ἥκομεν γὰρ ἤδη πρὸς τὸ Δίπυλον, καὶ ὁ βέλτιστος οὑτοσὶ Σάμιππος ἀμφὶ Βαβυλῶνα μονομαχῶν, καὶ σύ, ὦ Τιμόλαε, ἀριστῶν μὲν ἐν Συρίᾳ, δειπνῶν δὲ ἐν Ἰταλίᾳ καὶ τοῖς ἐμοὶ ἐπιβάλλουσι σταδίοις κατεχρήσασθε καλῶς ποιοῦντες. Ἄλλως τε οὐκ ἂν δεξαίμην πλουτήσας ἐπ᾽ ὀλίγον ὑπηνέμιόν τινα πλοῦτον ἀνιᾶσθαι μετ᾽ ὀλίγον ψιλὴν τὴν μᾶζαν ἐσθίων, οἷα ὑμεῖς πείσεσθε [μετ᾽ ὀλίγον], ἐπειδὰν ἡ εὐδαιμονία μὲν ὑμῖν καὶ ὁ πολὺς πλοῦτος οἴχηται ἀποπτάμενος, αὐτοὶ δὲ καταβάντες ἀπὸ τῶν θησαυρῶν τε καὶ διαδημάτων ὥσπερ ἐξ ἡδίστου ὀνείρατος ἀνεγρόμενοι ἀνόμοια τὰ ἐπὶ τῆς οἰκίας εὑρίσκητε ὥσπερ οἱ τοὺς βασιλεῖς ὑποκρινόμενοι τραγῳδοὶ ἐξελθόντες ἀπὸ τοῦ θεάτρου λιμώττοντες οἱ πολλοί, καὶ ταῦτα πρὸ ὀλίγου Ἀγαμέμνονες ὄντες ἢ Κρέοντες. Λυπήσεσθε οὖν, ὡς τὸ εἰκός, καὶ δυσάρεστοι ἔσεσθε τὰ ἐπὶ τῆς οἰκίας, καὶ μάλιστα σύ, ὦ Τιμόλαε, ὁπόταν δέῃ σε τὸ αὐτὸ παθεῖν τῷ Ἰκάρῳ τῆς πτερώσεως διαλυθείσης καταπεσόντα ἐκ τοῦ οὐρανοῦ χαμαὶ βαδίζειν ἀπολέσαντα τοὺς δακτυλίους ἐκείνους ἅπαντας ἀπορρυέντας τῶν δακτύλων. Ἐμοὶ δὲ καὶ τοῦτο ἱκανὸν ἀντὶ πάντων θησαυρῶν καὶ Βαβυλῶνος ἀυτῆς τὸ γελάσαι μάλα ἡδέως ἐφ᾽ οἷς ὑμεῖς ᾐτήσατε τοιούτοις οὖσιν, καὶ ταῦτα φιλοσοφίαν ἐπαινοῦντες.



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[46] Tim. Comunque, Licino, ora finalmente innalzerai anche tu la tua preghiera, per farci conoscere quali desideri irreprensibili e inappuntabili esprimerai tu, che critichi chiunque altro. Lic. Ma io non ho bisogno di preghiere. Ormai siamo arrivati al Dipylon: il nostro bravo Samippo, combattendo davanti a Babilonia, e tu, Timolao, pranzando in Siria e cenando in Italia, avete consumato gli stadi che mi spettavano, e avete fatto bene. D’altronde io non accetterei una ricchezza effimera, che il vento può portar via, per piombare nello sconforto poco dopo mangiando un’insignificante focaccia: un’esperienza che anche voi fra poco vivrete, quando la vostra felicità e la vostra favolosa ricchezza prenderanno il volo e se ne andranno via, mentre voi, caduti dai vostri tesori e dai vostri diademi, troverete tutt’altre condizioni in casa vostra, come se vi risvegliaste da un sonno dolcissimo, come gli attori tragici che interpretano la parte di re e poi, usciti dal teatro, muoiono quasi tutti di fame, pur essendo stati poco prima Agamennoni o Creonti. Così starete male, naturalmente, e sarete dispiaciuti della realtà che c’è in casa vostra, soprattutto tu, Timolao, quando sarà inevitabile che ti accada ciò che accadde anche a Icaro quando le ali gli si sciolsero: cadere dal cielo e vagare sulla terra dopo aver perso tutti quegli anelli che ti si sfileranno dalle dita. Per quel che mi riguarda, mi basta questo al posto di tutti i tesori del mondo e della stessa Babilonia: ridere a crepapelle delle assurde richieste che avete fatto, proprio voi che lodate la filosofia!

III Commento § 1 Οὐκ ἐγὼ ’λεγον – Con un semplice scambio di battute iniziale fra Licino e Timolao sono presentati i principali elementi utili a far orientare il pubblico nel successivo sviluppo degli eventi (protagonisti, ambientazione, occasione della narrazione), secondo un procedimento teatrale tipico della tecnica dialogica lucianea (vd. l’introduzione al § 1.7.1; cfr. Bellinger 1928, pp. 11–21, praes. 18: «the Ship or the Wishes […] has perhaps the most cleverly wrought of the introductions»; Husson 1970, II, ad loc. [p. 3 s.]: tale introduzione «est l’une des plus habiles des dialogues de Lucien»). La lezione λεγον è quella riportata dalla maggior parte dei manoscritti. Lo scoliaste pensa a una crasi (p. 248, 22–23 Rabe), per cui si dovrebbe scrivere ἐγὤλεγον. Preferisco vedere nel passo un’aferesi e rendere ἐγὼ ’λεγον, in accordo con altri editori (Lehmann, Jacobitz, Fritzsche, Husson), visto che tale lezione: rispetta tutte le regole del fenomeno (Aloni 2003, pp. 43, 65); è tipica del linguaggio colloquiale e non stona nella bocca di un personaggio come Licino (vd. l’introduzione al § 1.6.2); la si ritrova in commedia, fonte di ispirazione primaria per Luciano (cfr. Ar. Pax 64: τοῦτ᾽ ἔστι τουτὶ τὸ κακὸν αὔθ᾽ οὑγὼ ’λεγον). ὅτι θᾶττον … Τιμόλαον διαλάθοι – Il comparativo θᾶττον (ἄν) seguito da un ottativo introduce di norma nei Dialoghi un adynaton, una figura retorica basata su un’iperbole in forma di paradosso atta a sottolineare l’impossibilità che si verifichi ciò che si afferma. Si tratta di un tropo estremamente apprezzato nel mondo antico, in cui è considerato a metà strada fra il proverbio e il paragone e sfruttato in particolare dai comici per sviluppare il ridicolo (Dem. Eloc. 125–127; cfr. Luc. Bis acc. 6; Ind. 23; Tim. 1; Pisc. 37; Im. 1; Tox. 6; Pseudol. 11; Bompaire 1958, p. 424). Ancora oggi è ampiamente usato nelle lingue moderne, come l’italiano, in cui classici adynata sono “non lo dimenticherò, campassi mille anni” oppure “non mi muovo di qui, neanche morto” (Mortara Garavelli 2005, p. 181). τοὺς γῦπας … νεκρὸς ἐν φανερῷ κείμενος – Nel mondo antico, l’avvoltoio è simbolo di insaziabile avidità ed è considerato animale necrofago per eccellenza, tanto da essere l’unico rapace costantemente associato ai cadaveri dai Romani (Thompson 1936, s.v. γύψ, pp. 82–87; Sauvage 1975, p. 177 s.; Arnott 2007, s.v. gyps, p. 60 s.). La rappresentazione della spoglia lasciata in balia degli avvoltoi, che si può considerare proverbiale, rientra fra quelle che i retori impiegano frequentemente per argomentare sui temi prediletti dal pubblico del destino della vita umana e della condizione mortale degli uomini (Croiset 1882, pp. 169–172; Strömberg 1954, p. 56, in base a Diogen. 2, 88: ἅπερ οἱ γῦπες; Tosi 1992, p. 536, n° 1183: “a quale avvoltoio andrà https://doi.org/10.1515/9783110659696-003

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questo cadavere?” [Mart. 6, 62, 4: cuius vulturis hoc erit cadaver?]; cfr. ancora Tosi 1992, pp. 243–254, nn° 512–535 e pp. 283–298, nn° 590–624 sui detti proverbiali antichi e moderni relativi all’ineluttabilità dello scorrere del tempo). In Luciano tale immagine è frequentemente impiegata con finalità satiriche in relazione ai ricchi sprovveduti alla mercé di scrocconi e parassiti (cfr. infra comm. ad § 26: ἄπει γυψὶ καὶ κόραξι πάντα ἐκεῖνα καταλιπών; Tim. 8 e Tomassi 2011 ad loc. [p. 253 s.]). Con la spensierata leggerezza che lo contraddistingue all’interno della produzione letteraria di età imperiale, lo scrittore ama trattare la morte come «the very reverse of a taboo subject» e, in particolare, «a mediator and an object of laughter», visto che a suo avviso è proprio in ciò che maggiormente provoca inutili affanni e preoccupazioni negli uomini che deve appuntarsi la satira (Halliwell 2008, p. 441; cfr. Camerotto 2015). ἕωλος – L’aggettivo indica qualcosa di vecchio, datato, superato, ed è riferito per lo più al cibo col significato di “stantio” (LSJ9 s.v. ἕωλος, 1 [p. 751]). Nell’impiegarlo per qualificare un morto, Luciano sfrutta abilmente la comicità insita in un incongruo accostamento verbale finalizzato a trasformare un cadavere in decomposizione in un ‘passabile’ pasto per gli avvoltoi (cfr. ancora Merc. cond. 28, Cat. 18 e Philops. 13). ἢ θέαμά τι τῶν παραδόξων – Fin dall’inizio della narrazione, la passione per tutto ciò che sia mirabile a vedersi caratterizza Timolao (cfr. l’introduzione al § 1.6.4). Tale caratteristica non solo è messa ancora in risalto poco oltre da Licino, che definisce l’amico “amante degli spettacoli” (φιλοθεάμων) e “solerte” (ἄοκνος) nell’accorrere a contemplare meraviglie, ma è esplicitamente denunciata dallo stesso Timolao durante la formulazione del suo desiderio (§ 44: εἰ δέ τι ἐν Ἰνδοῖς ἢ Ὑπερβορέοις θέαμα παράδοξον … ἀπέλαυον ἁπάντων ἐς κόρον). Nei Dialoghi l’appellativo di “straordinario” in quanto lontano dall’opinione corrente (παράδοξον), è applicato a una svariata sfilza di prodigi, prova tangibile della poliedrica abilità di Luciano nell’uso della parola: una vecchiaia vissuta in maniera meravigliosa fino a 98 anni (D. mort. 9 [19], 1); la comica morte di un cacciatore di testamenti (D. mort. 7 [17], 1); la scomparsa di un fiume per mancanza di acque (Cont. 23); un gallo parlante e filosofo (Gall. 2–3); la capacità di mutare forma di Proteo (D. mar. 4 [4], 3); ciò che accade nei sogni (Somn. 14); la visione panoptica dalla luna (Icar. 19) e la discesa agli Inferi di Menippo (Nec. 1), nuova e paradossale pur se suffragata da un’ancestrale tradizione. κἂν εἰς Κόρινθον δέοι ἀπνευστὶ θέοντα ἀπιέναι διὰ τοῦτο; – Corinto, quasi completamente rasa al suolo nel 146 a.C. dalle legioni del console romano Lucio Mummio, fu rifondata nel 44 a.C. come Colonia Laus Iulia Corinthus per volere di Giulio Cesare: così risorse, prosperando fino alla se-



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conda metà del III secolo, quando iniziò per lei un inarrestabile declino per una serie di disastrosi eventi, inaugurata dal saccheggio degli Eruli nel 267 d.C. (Lafond - Wirbelauer 1999 [con bibliografia]). Il riferimento a Corinto nei Dialoghi è frequente, sia perché rappresenta il luogo in cui trascorsero parte della loro vita Diogene e Menippo, autori prediletti da Luciano, sia perché in età imperiale è uno dei pochi centri fiorenti della Grecia in quanto porto principale per il transito dei passeggeri e delle merci, sfruttato eccezionalmente anche come scalo militare (Rougé 1966, p. 132 s.; Husson 1970, II, ad loc. [p. 2]; Reddé 1986, p. 230 s.). Οὕτω φιλοθεάμων σύ γε καὶ ἄοκνος τὰ τοιαῦτα – L’essere φιλοθεάμων, “appassionato di spettacoli”, caratterizza Timolao come uomo curioso, amante di tutto ciò che sfugge all’ordinario, desideroso di contemplare ciò che non è usuale. L’aggettivo sembra un neologismo coniato da Platone «per assonanza e opposizione a philosophos» e da lui riferito, polemicamente, «a figure di intellettuali legati alla cultura urbana della polis democratica, e proprio per questo rivali dei filosofi nell’aspirazione a una leadership politicoculturale» (Plat. Resp. 5, 475d–476a; Vegetti 2007 ad loc. [p. 722, n. 71]). Nei Dialoghi, φιλοθεάμων perde la sua carica polemica per assumere una più ampia gamma di significati, per cui viene applicato a chi assiste semplicemente a uno spettacolo pubblico, come i giochi olimpici (Herod. 8), ma anche all’eroe satirico (Cont. 5), che «vuole vedere (e sentire) tutto, anche i dettagli minimi e apparentemente trascurabili, per poi tutto raccontare e descrivere» (Camerotto 2014, p. 193 s.). A enfatizzare la portata della curiosità di Timolao concorre ἄοκνος, “solerte”, con cui Luciano definisce la prontezza dell’uomo nell’accorrere ad ammirare tutto ciò che si presenti fuori dell’ordinario (a cui allude τὰ τοιαῦτα). Lo stesso attributo è sfruttato dallo scrittore nella critica alle credenze mitiche tradizionali, per descrivere la solerzia richiesta dagli uomini agli dèi (Bis acc. 1), e nella descrizione dell’abilità con cui un marinaio sale sull’antenna di una nave (J. tr. 48). Τί γὰρ ἔδει ποιεῖν, ὦ Λυκῖνε, σχολὴν ἄγοντα – Il fatto che Timolao goda di tanto tempo libero (σχολή) da poter accorrere a contemplare uno spettacolo fuori del comune (l’arrivo al Pireo dell’Iside) lo caratterizza come un uomo pigro e svogliato, solerte solo verso ciò che desta la sua curiosità e accende la sua fantasia, visto che il pensiero greco esalta la mancanza di riposo e divertimento (ἀσχολία) come positiva manifestazione dell’impegno dell’uomo giusto in attività oneste (Dover 1983, pp. 323–326). Luciano ritiene fondamentale il corretto uso del tempo per un essere effimero come l’uomo e, per questo, riflette in svariate occasioni sui termini antitetici di σχολή e ἀσχολία (Bompaire 1996), utilizzandoli spesso con finalità comico-satiriche in riferimento ai soggetti più disparati. Nei Dialoghi, pertanto, sfruttano sa-

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III Commento

pientemente il loro tempo libero i personaggi satirici impegnati a criticare il reale e a mostrare all’uomo il corretto modo di vivere, come Hermes (Cont. 1), Menippo (Icar. 16; Nec. 6), Cinisco (J. conf. 6) o Diogene, Antistene e Cratete (D. mort. 27 [22]), mentre lo impiegano invariabilmente male quanti si affannano a perseguire inutilmente la verità filosofica (Herm. 1, 11), i falsi intellettuali (Pisc. 40; Pseudol. 25; Icar. 21) o gli stolti uomini comuni, come lo schiavo che festeggia la morte del padrone (Cat. 12) o il nostro Timolao. Di contro, non hanno tempo libero specialmente gli dèi (in base a un antico leitmotiv comico), come Zeus (Tim. 9), Hermes, in perenne affanno per il superlavoro a cui è costretto dagli dèi (D. mort. 18 [5], 1; Prom. 4), o Selene (D. deor. 10 [14], 2). πυθόμενον οὕτως ὑπερμεγέθη ναῦν … ἐς τὸν Πειραιᾶ καταπεπλευκέναι – Si fa menzione dell’arrivo al Pireo dell’Iside, la gigantesca nave oneraria la cui visione dà il là alle fantasticherie dei quattro protagonisti del dialogo. Il nome dell’imbarcazione è per il momento celato e verrà rivelato solo in seguito, indirettamente (§ 5: τὴν ἐπώνυμον τῆς νεὼς θεὸν ἔχουσα τὴν Ἶσιν ἑκατέρωθεν). Il semplice ὑπερμεγέθης, “enorme” è sufficiente a enfatizzare le imponenti dimensioni della nave (cfr. infra ad § 22: θυρωροὶ ἑπτὰ ἐφεστῶτες, εὐμεγέθεις βάρβαροι), ma Luciano lo accosta al pleonastico πέρα τοῦ μέτρου mirando ad accrescere l’atmosfera di meraviglia in cui vuole immergere il suo pubblico (Husson 1970, II, ad loc. [p. 2]). μίαν τῶν ἀπ᾽Αἰγύπτου ἐς Ἰταλίαν σιταγωγῶν; – Le tipologie di imbarcazioni nell’antichità erano estremamente diversificate (tav. 3). L’Iside fa parte della categoria delle navi onerarie, addette al trasporto delle derrate alimentari, il cui servizio (facente parte dell’annona) era vitale per l’approvvigionamento di cibo a Roma (tavv. 1–2, 19), giacché avevano il compito di trasportare, in anfore di varie misure e dimensioni, il grano, alimento essenziale nella dieta della popolazione romana (Casson 1994, pp. 101–109). Nella Capitale, in età imperiale, arrivava via mare dalle province frumentarie di Sicilia, Sardegna, Spagna e Africa una quantità di grano eccezionale, compresa fra le 200.000 e le 500.000 tonnellate all’anno, e il solo Egitto riusciva a fornire a Roma ben un terzo della produzione totale (Janni 1996, p. 408; Parsons 2014, p. 64). L’approvvigionamento di grano era importante per i Romani anche dal punto di vista politico: serviva a prevenire carestie dovute alla mancanza di farina e pane e, conseguentemente, sollevazioni popolari nel cuore dell’Impero (Juv. 10, 80–81: duas tantum res anxius optat, / panem et circenses). Tutta l’organizzazione dei trasporti marittimi romani si realizzava, del resto, in funzione del ruolo politico ed economico della Capitale, verso cui convergevano tutte le grandi rotte (almeno finché Costantino non inaugurò Costantinopoli), ciò che anche Elio Aristide ha cura di mettere in risalto nel suo celebre Elogio di Roma (§§ 11–13, su cui vd. Fontanella 2007



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ad loc. [pp. 86–88], con bibliografia; cfr. Rougé 1966, pp. 81–105, 131; Id. 1975, pp. 178–181, 199–205; Casson 1994, pp. 131–134; sui porti dell’Impero, sui differenti aspetti del commercio romano nel Mediterraneo e sulle navi utilizzate allo scopo vd. almeno André - Baslez 1993, pp. 434–437; Rickman 2008; Rankov 2008). È notevole l’uso del raro σιταγωγέω, che ricorre ancora al § 14 (σιταγωγείτω σιταγωγίαν). Οἶμαι δὲ καὶ σφώ – Uno dei tratti arcaizzanti del lessico lucianeo è l’uso del duale, in particolare nell’impiego di alcune forme (σφώ, νώ) cadute in disuso da tempo (Chabert 1897, p. 180; Kim 2010, p. 470; cfr. D. mort. 3 [10], 1: σφὼ μέντοι, ὦ Τροφώνιε καὶ Ἀμφίλοχε; Prom. 19: σφὼ δέ, ὦ Ἑρμῇ καὶ Ἥφαιστε; ecc.). σέ τε καὶ Σάμιππον τουτονί – Il dimostrativo rafforzato dall’aggiunta di -ί paragogico τουτονί, “questo qui”, contribuisce a materializzare la figura di Samippo nella mente del pubblico durante la recitazione del dialogo (cfr. § 14: ἑνὸς πλοίου τουτουὶ δεσπότης; § 17: εἶτα μετὰ σὲ οὑτοσὶ Σάμιππος; § 46: ὁ βέλτιστος οὑτοσὶ Σάμιππος). La sua lettura doveva essere probabilmente accompagnata da un opportuno gesto del lettore, un elemento metaretorico tipico della pratica declamatoria «che rinvia alla pronuntiatio, nell’ambito della quale i movimenti delle mani svolgevano una parte importante» (Stramaglia 2013 ad ps.-Quint. Decl. Mai. 4, 1, 2 [n. 12, p. 89 s.]). μὴ κατ᾽ ἄλλο τι ἐξ ἄστεως ἥκειν ἢ ὀψομένους τὸ πλοῖον – Con ἄστυ i greci denominavano la parte bassa di una città dominata dall’acropoli (Hdt. 1, 176, 1). Per Atene, in particolare, il termine poteva essere usato a designare il centro urbano in opposizione ai porti del Falero e del Pireo (Plat. Symp. 172a; Dem. adv. Lept. [20], 12; Arist. Pol. 1303b12). Νὴ Δία – Le formule di giuramento rappresentano una presenza costante nei Dialoghi, in cui servono a riproporre le movenze della lingua parlata (cfr. comm. ad § 15: πρὸς τῆς Ἴσιδος). Licino ripropone lo stesso giuramento ai §§ 9 e 37. καὶ Ἀδείμαντος ὁ Μυρρινούσιος εἵπετο μεθ᾽ ἡμῶν – Il quarto protagonista del dialogo, Adimanto, è menzionato fin dalle battute iniziali, ma non si unisce ai suoi tre amici che dopo un certo lasso di tempo, quando questi sono già sulla via del ritorno (§ 10). Potrebbero costituire una reminiscenza platonica sia il nome proprio di Adimanto, ben attestato nell’Atene postclassica così come nell’opera di Platone (Resp. 327c; Symp. 176d), sia il riferimento al suo demo di appartenenza, Mirrinunte, lo stesso di Fedro, protagonista dell’omonimo dialogo platonico, assai noto negli ambienti della Seconda sofistica e molto apprezzato da

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III Commento

Luciano (cfr. Plat. Phaedr. 229a–b e Luc. Dom. 4–5; vd. Helm 1906, p. 337 s.; Delz 1950, p. 9 s.; Anderson 1977, p. 363 s.). ἀλλ᾽ οὐκ οἶδ᾽ ὅποι νῦν ἐκεῖνός ἐστιν ἀποπλανηθεὶς ἐν τῷ πλήθει – L’arrivo dell’Iside al Pireo richiama una massa straordinaria di curiosi, tanto che Adimanto si smarrisce in mezzo alla folla (ἐν τῷ πλήθει) senza che i suoi amici se ne accorgano. A materializzare nella mente del pubblico lucianeo il caos prodotto dalla gran moltitudine di spettatori contribuisce il bisticcio di parole ἀποπλανηθεὶς ἐν τῷ πλήθει. Nel II secolo d.C. il Pireo era escluso dalle grandi vie di navigazione ed era animato prevalentemente da turisti, intellettuali e studenti, attratti dai monumenti e dalle rinomate scuole filosofiche ateniesi (Rougé 1966, p. 132; Id. 1975, p. 27). Di conseguenza, l’arrivo di una nave di imponenti proporzioni non poteva non suscitare la curiosità degli abitanti del luogo, abituati a vedere imbarcazioni dal tonnellaggio molto più modesto (Husson 1970, II, ad loc. [p. 3]). In ogni caso, l’approdo di una nave della flotta annonaria doveva rappresentare anche nei porti più frequentati uno straordinario avvenimento (più o meno equivalente all’attracco, presso alcune banchine, delle moderne navi da crociera), come prova ancora la testimonianza di Seneca, secondo il quale a Pozzuoli l’arrivo delle navi granarie da Alessandria costituiva un evento che attirava al porto tutti gli abitanti del luogo, come si trattasse di una festa (Epist. 9, 77, 1: subito nobis hodie Alexandrinae naves apparuerunt, quae praemitti solent et nuntiare secuturae classis adventum: tabellarias vocant. Gratus illarum Campaniae aspectus est; omnis in pilis Puteolorum turba consistit et ex ipso genere velorum Alexandrinas quamvis in magna turba navium intellegit; cfr. tav. 4). τῶν θεατῶν – L’appellativo di “spettatori” (θεαταί), che nei Dialoghi identifica coloro che assistono a rappresentazioni teatrali, competizioni atletiche o esibizioni di arte varia (Tim. 20; Herod. 1; Pisc. 36; Tyr. 20; Dom. 18; Anach. 11, 36; cfr. Kokolakis 1960b, p. 68), assicura che gli Ateniesi si trovano di fronte a una visione eccezionale, un vero e proprio spettacolo (θέαμα) per gli occhi (cfr. infra ad § 2: γλαφυρὸν οὕτω θέαμα). καὶ ἀνιόντες ἐς αὐτὴν σὺ μέν, οἶμαι, Σάμιππε, προῄεις – Samippo sale per primo a bordo dell’Iside: è un piccolo dettaglio rivelatore del carattere volitivo ed energico di questo personaggio (vd. l’introduzione ad § 1.6.3), che emergerà poi nel corso del suo desiderio (§§ 28–38). μετὰ σὲ δὲ ὁ Ἀδείμαντος ἦν, εἶτ᾽ἐγὼ μετ᾽ ἐκεῖνον … ἀνυπόδητος αὐτὸς ὤν – L’evidente difficoltà con cui Licino sale a bordo dell’Iside serve a evidenziarne uno specifico tratto distintivo, il fare impacciato e goffo (cfr. l’introduzione al § 1.6.2). Il personaggio è così caratterizzato e, al tempo stesso, è reso simpatico al pubblico: l’imbranamento di Licino è, infatti, amabilmente comico, giacché per poter riuscire a imbarcarsi questi, pur in-



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dossando delle calzature (ὑποδεδεμένον), deve servirsi di Adimanto, che è scalzo (ἀνυπόδητος), aggrappandosi a lui con entrambe le mani (ἐχόμενος αὐτοῦ ἀμφοτέραις) e dandogli la mano (χειραγωγῶν) per non scivolare sulla passerella. Luciano ama sfruttare la naturale comicità insita nella goffaggine per imbastire numerose scenette che conferiscono un tocco di umorismo in più ai suoi dialoghi (Hist. conscr. 22: i cattivi storici che usano i vocaboli in modo improprio sono paragonati a un attore tragico con due calzature diverse; Ind. 6: un uomo con entrambi i piedi amputati indossa scarpe preziose con cui a malapena riesce a camminare; Tim. 32: il cieco Pluto deve esser condotto sulla terra da Hermes, che lo tiene per mano affinché non si perda; Anderson 1977, p. 365). Al di là della ripetitività di tale motivo letterario nei Dialoghi, però, questa resta una scena di vivido realismo che presumibilmente deriva dall’esperienza diretta di Luciano nei suoi viaggi per mare (Husson 1970, II, ad loc. [p. 4]). διὰ τῆς ἀποβάθρας ὅλης – Con ἀποβάθρα si intende spesso, in età classica, la passerella utilizzata durante un arrembaggio per passare dalla propria nave a quella nemica (Hdt. 9, 98; Thuc. 4, 12, 1). In Luciano il termine indica, più semplicemente, la passerella utilizzata dai passeggeri per imbarcarsi su una nave (LSJ9 s.v. ἀποβάθρα [p. 192]: «ladder for disembarking, gangway»). Più in là sull’uso di questo oggetto si innescherà un gustoso botta e risposta fra Adimanto e Licino (§ 15), che rappresenta uno dei tanti esempi della capacità di Luciano di sfruttare un piccolo dettaglio per costrui­ re comici quadretti o per fornire un tocco di realismo in più alla narrazione (cfr. D. mort. 10 [20], 1: Hermes deve mettersi a lato della passerella e far imbarcare sulla nave di Caronte solo le anime che hanno lasciato sulla terra ogni bene; stesso incarico ha Cloto in Cat. 5; Tox. 20, 21: una passerella lanciata in mare salva due naufraghi). § 2 ῾Οπότε, οἶμαι, τὸ ὡραῖον ἐκεῖνο μειράκιον – Con μειράκιον il greco indica il giovane adolescente (LSJ9 s.v. μειράκιον [p. 1093]). In Luciano il nesso che unisce μειράκιον a ὡραῖον o καλόν contiene di frequente un’allusione erotica, il che vale anche in questo contesto, come facilmente si evince dalla situazione descritta da Samippo, che allude velatamente alle propensioni omosessuali di Adimanto (Szlagor 2005, p. 98; cfr. ancora infra ad § 19: τὸ μειράκιον ... τὸ ὡραῖον; Peregr. 43; D. deor. 5 [8], 3; Alex. 5, 41; Merc. cond. 16; Ind. 25). Poco oltre, assai più esplicito è Licino quando ironizza sui gusti di Adimanto, che pare preferire un giovane egizio, non tanto bello e simile a uno schiavo nell’aspetto, ai tanti giovani Ateniesi attraenti e liberi che gli corrono dietro (καὶ μὴν οὐ πάνυ καλός, ὦ Σάμιππε, ὁ μειρακίσκος ἔδοξέ μοι κτλ.). Questa scena permette di ricordare che l’amore omosessuale era comunemente praticato nella società greco-romana ed erano usuali sia la prostituzione maschile sia lo sfruttamento sessuale di servi

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e liberti (Garrido-Hory 1998, pp. 141–152; Younger 2005, s.vv. boy-love, male homosexuality, paiderastia, pp. 27, 72 s., 91–93; cfr. ancora Luc. D. mort. 9 [19], 4; Gall. 32; Tim. 22; ecc.). ἐκ τῆς θαλάμης προῆλθε – Il giovane egizio di cui si invaghisce Adimanto è ritratto da Samippo, presumibilmente, nel momento in cui esce dal suo alloggio a bordo dell’Iside, ed è probabilmente un passeggero della nave. Nell’antichità, infatti, imbarcazioni adibite esclusivamente al trasporto umano non esistevano e a questa funzione supplivano, in genere, le navi mercantili, su cui era offerto ai viaggiatori un posto per dormire e acqua da bere, mentre al cibo o ad altri tipi di bevande dovevano pensare loro stessi (Rougé 1984, pp. 223–226; Höckmann 1985, pp. 85–90; André - Baslez 1993, pp. 423–425; Casson 1994, p. 124 s.). Di conseguenza, le navi mercantili erano spesso affollate di passeggeri che, in certi casi, dovevano stare ben stretti nella traversata (Janni 1996, p. 385) per l’eccessivo affollamento, «rimasto caratteristico della marineria mediterranea fino a tempi recentissimi» (Janni 2003, p. 20). Per quanti partivano dall’Italia per il Vicino Oriente o dovevano effettuare il percorso contrario, erano le grandi navi come l’Iside a costituire il mezzo di trasporto più veloce e sicuro (Casson 1994, p. 124). Purtroppo su come si sistemassero a bordo le persone non possediamo notizie esplicite, giacché le prime testimonianze relative allo spazio di cui il passeggero poteva disporre, alla quantità di bagaglio in franchigia, alle regole relative ai cibi e alle bevande si avranno solo nel Medioevo; per l’epoca antica ci si deve accontentare di accenni, disseminati in testi di vario genere, che in ogni caso fanno capire che solo chi poteva permetterselo poteva ottenere una sistemazione più o meno comoda, altrimenti ci si arrangiava come si poteva, viaggiando in condizioni spesso disagevoli o addirittura disumane (Janni 2003, pp. 18–20). Il nesso ἐκ τῆς θαλάμης è variamente reso dai traduttori come «dal camerotto» (Settembrini 1862), «de diaeta» (Dindorf 1884), «di sottocoperta» (Longo 1976–1993), «out of the hold» (Kilburn 1959), «de la cale» (Husson 1970). Dato che il termine θαλάμη designa, in genere, una cavità (come una tana per gli animali o una grotta), qui andrà inteso nel senso di “stiva” piuttosto che di “camera” (cfr. LSJ9 s.v. θαλάμη, II = θάλαμoς, III [p. 781]: «the lowest, darkest part of the ship, the hold»), anche perché Luciano poco più in là menziona veri e propri alloggi per i passeggeri sulla poppa dell’Iside (§ 5: αἱ κατὰ τὴν πρύμναν οἰκήσεις). La sistemazione del giovane era probabilmente sottocoperta. Anticamente i passeggeri di un’imbarcazione non alloggiavano esclusivamente sul ponte e il loro accomodamento variava a seconda di quanto ciascuno era in grado di pagare, così che molti potevano trovare alloggio all’interno della nave in dimore che, forse, erano costrui­ te a imitazione di quelle sopra il ponte (Rougé 1984, pp. 233–236; Janni 1996, p. 382 s.). Lo stesso Luciano fa più volte riferimento a diverse classi



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di posti presenti sulle imbarcazioni e ricorda che i passeggeri di riguardo alloggiavano a poppa, accanto al timoniere, mentre quelli di rango inferiore stavano sul tavolato accanto alla sentina (J. tr. 48; D. mort. 10 [20], 2; cfr. Janni 2003, p. 19, «sulla poppa la letteratura colloca sempre i personaggi eminenti, nell’epos come nella storiografia»; Cic. Att. 1, 19, 4: sentina urbis è la canaglia). τὸ τὴν καθαρὰν ὀθόνην ἐνδεδυκός – La veste (ὀθόνη) indossata dal giovane egizio è l’abito di lino tradizionalmente portato in Egitto, come ricorda già Erodoto (Hdt. 2, 37, 1–3; 2, 81, 1; Lewis 1983, p. 52 s.; la coltura del lino presso gli Egizi era seconda per importanza solo a quella dei cereali, che erano alla base dell’alimentazione: Caminos 2003, pp. 12–15; Parsons 2014, pp. 61, 137 s.). L’abito di lino finisce per rappresentare un tratto caratteristico delle descrizioni degli Egiziani: non a caso nel Philopseudes lucianeo Pancrate, scriba di Menfi, è descritto come un uomo sapiente, ben rasato e, soprattutto, vestito di lino (Philops. 34). Nei Dialoghi il termine ὀθόνη designa, oltre a un indumento (D. meretr. 5, 4; 7, 1; D. mort. 3 [10], 2; Fug. 33), anche un semplice telo di lino (Symp. 36) o un sudario (Tim. 21; Luct. 19), oltre alla vela di una nave (VH I, 6, 9; II, 2; Herm. 47; J. tr. 46; Dom. 12; Cont. 3; Cat. 1). ἀναδεδεμένον ἐς τοὐπίσω τὴν κόμην ἐπ᾽ ἀμφότερα τοῦ μετώπου ἀπηγμένην – Le pettinature degli Egiziani, a quanto si sa dall’evidenza archeologica e dalle allusioni letterarie, si diversificarono a seconda delle epoche e delle condizioni sociali degli individui. Nello specifico, precise testimonianze iconografiche attestano la diffusione in Egitto dell’acconciatura ricordata da Luciano (coi capelli allacciati all’indietro e tirati sui lati della fronte), una delle molte in voga presso la gioventù locale, come mostrano coevi ritratti di giovani nobili caratterizzati da modi di acconciarsi differenti (Husson 1970, II, ad loc. [p. 5]). Εἰ τοίνυν ἐγὼ Ἀδείμαντον οἶδα – Secondo Geneviève Husson, Samippo parodierebbe le parole di Socrate nell’incipit del Fedro platonico (§ 228a: εἰ ἐγὼ Φαῖδρον ἀγνοῶ; Husson 1970, II, ad loc. [p. 5]), ma l’espressione in questione è di largo impiego nella lingua quotidiana (cfr. Scyth. 7: εἰ τοίνυν ἐγὼ Σόλωνα οἶδα) e risulta attestata anche in latino (Hor. Epist. 1, 18, 1: si bene te novi metues, liberrime Lolli), per cui data la sua convenzionalità non deve dover veicolare uno specifico rimando ipotestuale, quanto piuttosto conferire una vivace sfumatura di colloquialità al dialogo. γλαφυρὸν οὕτω θέαμα ἐκεῖνος ἰδών – Γλαφυρός in origine indica un oggetto ben realizzato e ben lavorato (Od. 4, 356: γλαφυρὴ νηῦς), ma comincia a essere impiegato dal V secolo a.C. col significato di “grazioso”, “elegante”, “amabile” (Ar. Av. 1272; Luc. D. deor. 7 [11], 4: [Hermes inventata la cetra] ἐμελῴδει πάνυ γλαφυρόν … καὶ ἐναρμόνιον; 20 [35], 11: [Atena]

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γλαφυρόν τι καὶ προσαγωγὸν ἐμειδίασεν; Taillardat 1965, p. 469, n. 5). Il nesso γλαφυρὸν θέαμα, “graziosa visione”, esprime in maniera enfatica la bellezza del giovane egiziano di cui si invaghisce Adimanto e ci ricorda che, nella società romana di età imperiale, i pueri alexandrini erano assai apprezzati per la loro bellezza e, soprattutto, per la loro lascivia, tanto che il loro possesso rappresentava per i ricchi un motivo di prestigio e di ostentazione (Mart. 4, 42, 3–4: Niliacis primum puer hic nascatur in oris: / nequitias tellus scit dare nulla magis; Petron. 31, 3; 35, 6; 68, 3). Nei Dialoghi si trovano poche informazioni sui popoli antichi influenzate dall’attualità, mentre prevale il ricorso a una nutrita serie di topoi che legano una nazione o un luogo a una qualche ‘specialità locale’, si tratti di un’opera d’arte celeberrima, come il Colosso di Rodi (VH 1, 18; J. tr. 11; Icar. 12), dell’origine di un dio, come la nascita di Pan in Arcadia (Bis acc. 11; Philops. 3; cfr. Hdt. 6, 105), di un rinomato prodotto, come gli oli e i profumi d’Arabia (VH 2, 5; Fug. 1), di un’attività lavorativa ragguardevole, come l’abilità dei Fenici nella navigazione e nei commerci (Icar. 1 e 16, Tox. 4). L’originalità di Luciano in ambito etnografico si fonda, prevalentemente, sul suo interesse per i dati culturali e religiosi dei popoli che menziona e per le critiche a cui li sottopone, soprattutto in riferimento alla superstizione e alle credenze popolari, come provano i ripetuti attacchi alla saggezza dei Babilonesi, dei Caldei e, in particolare, degli Egiziani, nei cui confronti l’autore si pone in netto contrasto con l’attitudine degli uomini comuni, tendenti a provare per tali nazioni curiosità e attrazione miste a un sentimento di reverente soggezione (Gangloff 2007, p. 80 e n. 46). μακρὰ χαίρειν φράσας τῷ Αἰγυπτίῳ ναυπηγῷ περιηγουμένῳ τὸ πλοῖον – Il ναυπηγός che guida i quattro amici sull’Iside è una sorta di carpentiere (in latino detto faber o faber navalis: tav. 5), specializzato nel costruire imbarcazioni o ripararle (cfr. J. conf. 11). La presenza di questo personaggio su una nave era assolutamente necessaria, giacché c’era sempre qualche riparazione da fare, allo scafo o agli alberi; nei casi di tempesta o collisione, in particolare, avere specialisti a bordo era indispensabile per intervenire provvisoriamente sulle avarie più gravi (che potevano compromettere la navigazione), nell’attesa che l’arrivo in un porto permettesse la sistemazione definitiva (Rougé 1966, p. 219; Casson 1971, p. 320). Poco più in là, Samippo riferisce con precisione le dimensioni dell’Iside rifacendosi alle informazioni attinte proprio dal ναυπηγός (§ 5: ἔλεγεν ὁ ναυπηγός): con tale espediente Luciano conferisce maggiore veridicità alla descrizione dell’imponente nave, facendola condurre, sia pure indirettamente, da un esperto in materia, per imbrigliare con più efficacia il suo pubblico nelle maglie della sua fantasia.



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παρέστηκε δακρύων … Ταχύδακρυς γὰρ ὁ ἀνὴρ ἐς τὰ ἐρωτικά – L’eros senza virilità e la mollezza che si fa padrona del corpo sono alcuni dei segni più evidenti, e più bersagliati dai satirici, della decadenza della società romana (Barelli 1998, p. 26 s.). Di questi è campione il nostro Adimanto, un debole che solitamente (ὥσπερ εἴωθεν) si lascia vincere facilmente dall’amore, in particolare da quello per i bei ragazzi, come dimostra la sua improvvisa attrazione per il giovane egiziano visto a bordo dell’Iside. Il fatto che Luciano attribuisca a questo personaggio non solo la passione per i giovani, ma anche la lacrima facile richiama alla mente un tratto tipico della biografia di Erode Attico (a cui la caratterizzazione di Adimanto è fortemente debitrice: vd. l’introduzione al § 1.6.1), vale a dire un’affettività disturbata e una certa instabilità emotiva. Basti ricordare che per l’amato Polluce, il favorito fra i suoi figli adottivi, tenne a lungo, ogni giorno, un cocchio aggiogato, cavalli pronti e una mensa imbandita; per una figlia scomparsa si distese al suolo, battendo la terra e gridando per il dolore; dopo aver pianto la moglie Regilla a lungo e aver fatto scurire le stanze della sua casa con tendaggi, pitture e marmi scuri, in sua memoria decise di allestire ricchissimi banchetti, comporre declamazioni, elevare monumenti prestigiosi come l’Odeion realizzato sul pendio meridionale dell’acropoli di Atene (Luc. Demon. 24–25, 33; Philostr. VS 2, 1, 8–10; Jones 1986, p. 94 s.; Tobin 1997, pp. 105–107; Gleason 2010). Erode fu anche accusato dal popolo di amare i suoi figli adottivi Achille, Polluce e Memnone e le figlie del liberto Alcimedonte molto più che il figlio legittimo e unico erede Bradua, da lui giudicato un inetto e tale da poter ricevere in eredità solo il patrimonio materno, ma non quello paterno (Philostr.VS 2, 1, 10–11; Civiletti 2002 ad loc. [pp. 517–523]; cfr. Papalas 1972). Καὶ μὴν οὐ πάνυ καλός … ὁ μειρακίσκος ἔδοξέ μοι – Licino inizia a mostrare la sua natura di uomo scettico e prammatico ridimensionando drasticamente la portata della bellezza del giovane egizio che ha fatto perdere la testa ad Adimanto: per lui, il bel ragazzo desiderato dal suo amico non appare, infatti, così bello, anzi, non gli sembra che un μειρακίσκος, un “ragazzino”, un appellativo che suona dispregiativo e, in unione col precedente οὐ πάνυ καλός, alquanto comico. Non si può escludere che in questo contesto Luciano si diverta a riecheggiare la tradizionale e antica avversione nei confronti dell’elemento autoctono egiziano propria dei Greci (Theoc. 15, 46–50; Ar. Thesm. 922 e Crat. fr. 406 K.-A.: αἰγυπτιάζω) e, in seguito, dei Romani (Juv. 15). Con μειρακίσκος Luciano indica puntualmente un giovane disprezzabile, sia perché ingenuo e alquanto sciocco (D. mort. 7 [17], 2; D. meretr. 10, 2; Demon. 17) sia perché insopportabile per le sue prestazioni (Merc. cond. 18). Lo scrittore fa buon uso di diminutivi nel dialogo (§ 6: ἀνθρωπίσκος; § 15: σκαφίδιον; 26: ψυχίδιον), così come nel resto della sua produzione, e

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li impiega principalmente come espediente umoristico, secondo il modello della commedia attica (Schulze 1883, p. 22 s.; Ureña Bracero 1995, pp 120–122) e delle scuole di retorica (Arist. Rh. 3, 2, 1406a). Spesso sono gli esseri umani, gli dèi o le allegorie a esser connotati dalla forma diminutiva e, in tal modo, la comicità dell’operazione risulta tanto più notevole quanto più importante è il personaggio sottoposto al ridimensionamento lucianeo (Cont. 3, 4: τὼ μειρακίω … τοῖν βρεφυλλίοιν [Oto ed Efialte]; Deor. conc. 8: μειράκιον [Ganimede]; vd. anche Cont. 1: ἀνθρωπίσκος [Protesilao]; Pisc. 17: τὼ θειραπαινιδίω [Libertà e Franchezza, serve della verità]; Fug. 18: κατὰ τὸν Ἰλιέα ἐκεῖνον νεανίσκον [Paride]; 33: τὼ δύω … τούτω δραπετίσκω [due schiavi fuggitivi] Tim. 53: μιαρὸν ἀνθρώπιον [il parassita Demea]; D. deor. 2 [6], 1: παιδίον γάρ εἰμι καὶ ἔτι ἄφρων [Eros]/σὺ παιδίον ὁ Ἔρως [Zeus]). ὡς ἂν καὶ Ἀδείμαντον ἐκπλῆξαι – Sull’utilizzo ricorrente in Luciano di particolari termini atti a marcare una situazione di stupore o di meraviglia (in questo caso ἐκπλήττειν, “sbalordire”) cfr. supra comm. ad § 1: ἢ θέαμά τι τῶν παραδόξων. ᾧ τοσοῦτοι Ἀθήνησι καλοὶ ἕπονται, πάντες ἐλεύθεροι – I giovani che si affollano attorno al bell’Adimanto presentano le qualità che caratterizzano tradizionalmente i ragazzi ateniesi fin dal V secolo a.C. Secondo Graham Anderson, questo dettaglio è uno dei tanti sparsi nella Nave che non impedisce al pubblico di Luciano di considerare il dialogo ambientato nel presente, pur se «it is clear enough that the present is a timeless Platonic one» (Anderson 1993, p. 220). Sottolineando il fatto che ad Atene Adimanto è corteggiato da molti bei ragazzi e, per giunta, “tutti liberi” (πάντες ἐλεύθεροι), Licino intende sostenere, presumibilmente con fare ironico, che potendo l’amico godere del fior fiore della gioventù ateniese «sarebbe improbabile, o almeno curioso, che si lasciasse irretire da un ragazzo barbaro e di nascita servile (così almeno Licino considera il ragazzo di cui Samippo ipotizza che Adimanto possa essersi invaghito)» (Russo - Stramaglia). στωμύλοι τὸ φθέγμα – L’attributo στωμύλοι, “sciolti nella parola”, riassume la secolare attitudine per la dialettica che contraddistingueva gli Ateniesi, celebri anche per l’arguzia e per la dolcezza della loro parlata, divenute nel tempo proverbiali (Prom. es 1; Merc. cond. 35; Rh. pr. 11; Hist. conscr. 15; Im. 15). Il ricordo di tale qualità deve esercitare una peculiare suggestione nel pubblico lucianeo. Sotto il dominio di Roma, infatti, i Greci devono ridefinire i criteri alla base della loro identità, così che se per Erodoto (8, 144, 2) gli elementi fondanti l’identità greca (τὸ ῾Ελληνικόν) sono l’avere lo stesso sangue (ὅμαιμον), la stessa lingua (ὁμόγλωσσον), santuari e sacrifici comuni (θεῶν ἱδρύματά τε κοινὰ καὶ θυσίαι) e costumi analoghi (ἤθεά τε ὁμότροπα),



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per l’epoca imperiale questi sono rappresentati fondamentalmente dalla padronanza della cultura greca e dall’impiego di un linguaggio puro, insieme all’uso di buone maniere (Saïd 2001; Thomas 2001; Thompson 2001; cfr. Whitmarsh 2001 passim). Se per Luciano, dunque, στωμύλος è Socrate (Vit. auct. 15), anche a un barbaro come lo scita Tossari può esser concesso tale appellativo, una volta imbevutosi ad Atene della cultura greca (Scyth. 3), e così pure a Pantea, la favorita di Lucio Vero nata in una colonia ateniese (Im. 15). E se nei Dialoghi, dunque, στωμύλος e i suoi derivati non sono associati esclusivamente agli abitanti di Atene, ma sono applicati indifferentemente a divinità (Prom. 4; D. deor. 7 [11], 3), filosofi (Symp. 6) e persone comuni (Musc. enc. 10), questi non caratterizzano espressamente nessun altro popolo all’infuori di quello ateniese (Oudot-Lutz 1994, p. 145 s.). Secondo una prospettiva tipica dell’età imperiale, infatti, per Luciano Atene rappresenta il luogo del linguaggio puro ed elegante (Lex. 25), la capitale della retorica e della filosofia (Icar. 21; D. mort. 20 [6], 5–6) e la scuola della Grecia (Scyth.), così come Roma è il centro politico e militare del mondo mediterraneo (Nesselrath 2009, pp. 121, 135; cfr. Most 1997; Gascò 1998; Fuentes González 2009). παλαίστρας ἀποπνέοντες – Non stupisce che i giovani ateniesi si contraddistinguano per il fatto di andare in giro “esalando odore di palestra”, giacché nel II secolo lo sport era una componente fondamentale della società grecoromana, come ricorda più volte lo stesso Luciano, in particolare nell’Anacarsi (Angeli Bernardini 1995). All’interno di una città il ginnasio era il luogo deputato all’attività sportiva, oltre che uno dei centri della vita sociale (Förtsch 1998, pp. 411, 418–424; cfr. Kyle 1993, pp. 64–92; König 2005). La sua architettura era diventata nel tempo molto complessa e comprendeva piste coperte, per esercitarsi nella corsa, e piste all’aria aperta, portici, luoghi in cui poter conversare e insegnare o ascoltare dibattiti e conferenze e, infine, bagni in cui lavarsi o rilassarsi, pur se il cuore del complesso restava la palestra, dove i lottatori si allenavano nel combattimento (πάλη, da cui παλαίστρα: Golden 2004, s.v. palaestra, p. 122 s.; cfr. Luc. Anach. 1–5; Paus. 5, 15, 5; 6, 21, 2; 23, 3). οἷς καὶ παραδακρῦσαι οὐκ ἀγεννές – Sulla debolezza in amore di Adimanto cfr. supra comm. ad § 2 (παρέστηκε δακρύων … Ταχύδακρυς γὰρ ὁ ἀνὴρ ἐς τὰ ἐρωτικά) e infra ad § 3 (῞Απαντες γὰρ αὐτὴν οἱ ἐλεύθεροι παῖδες ἀναπλέκονται ἔστε πρὸς τὸ ἐφηβικόν). Secondo Michel Casevitz, παραδακρύω è un tipico neologismo lucianeo, come il παρανέω del Lessifane (Lex. 5), che rientra nelle neoformazioni del pedante Lessifane, protagonista del dialogo, denotanti una precisione maniacale nel definire una determinata l’azione (Casevitz 1994, p. 80). In questo caso, l’aggiunta del prefisso παρά al semplice δακρύω conferisce una

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particolare sfumatura al predicato che si viene a formare e che serve a veicolare l’immagine tragicomica dell’amante che piange e si dispera di fronte all’amato insensibile al suo amore. Οὗτος δὲ πρὸς τῷ μελάγχρους εἶναι … καὶ λεπτὸς ἄγαν τοῖν σκελοῖν – Non stupisce trovare nell’opera lucianea innumerevoli riferimenti alla vita religiosa, sociale o culturale degli Egiziani, giacché l’Egitto ha sempre emanato un indiscutibile fascino sugli altri popoli mediterranei, essendo considerato terra del mistero e della magia per eccellenza a partire almeno dall’Odissea (4, 219–239; Brashear 1995, p. 3390). Luciano ebbe modo di conoscere bene il paese, peraltro, poiché qui visse per un periodo della sua vita ricoprendo una carica amministrativa per l’amministrazione romana. Se, dunque, alcune descrizioni lucianee relative all’Egitto sono convenzionali e fondate su clichés letterari, in altri casi esse forniscono dati reali sulla vita quotidiana degli abitanti di questa terra, la cui veridicità è corroborata dalle testimonianze archeologiche e documentarie (Martin 2010). In questo caso, la descrizione del giovane egiziano di cui s’innamora Adimanto è fondata su precisi stereotipi della tradizione letteraria greco-romana (Husson 1970, II, ad loc. [p. 6 s.]; Ogden 2007, p. 252 s.; Gangloff 2007, p. 80 e n. 46), come prova il confronto con i similari ritratti del Pancrate lucianeo, scriba di Menfi, che appare “sempre mondo di barba, vestito di lino, sempre meditabondo, parlante un greco non puro, alto, col naso camuso, le labbra sporgenti, le gambe sottili” (Philops. 34: ἐξυρημένον ἀεί, ἐν ὀθονίοις, νοήμονα, οὐ καθαρῶς ἐλληνίζοντα, ἐπιμήκη, σιμόν, προχειλῆ, ὑπόλεπτον τὰ σκέλη), e della schiava di colore del Moretum dell’Appendix vergiliana (vv. 31–35: erat unica custos /Afra genus, tota patriam testante figura / torta comam, labroque tumens et fusca colore / pectore lata, iacens mammis, compressior alvo, / cruribus exilis, spatiosa prodiga planta). Avere la pelle nera (μελάγχρους) è la caratteristica degli Egizi che gli scrittori greci più amavano ricordare (Aesch. Suppl. 745; Hdt. 2, 57, 2 e 104, 2). Nell’immaginario collettivo tale peculiarità finirà per accomunare gli abitanti dell’Egitto a un generico tipo umano caratterizzato dalla pelle scura: ciò è evidente nella produzione artistica antica, che traduce nella materia un’immagine tradizionale e crea un tipo fisso di uomo di colore «dal color nero della pelle, dai capelli lanosi, dal naso corto largo e schiacciato, dalle labbra grosse ed everse […]. La mancanza di conoscenze esatte del continente africano determinava questa generalizzazione del tipo negro» (Becatti 1963, p. 393). καὶ ἐφθέγγετο ἐπισεσυρμένον τι καὶ συνεχὲς καὶ ἐπίτροχον, Ἑλληνιστὶ μέν, ἐς τὸ πάτριον δὲ τῷ ψόφῳ καὶ τῷ τῆς φωνῆς τόνῳ – Luciano concentra la propria attenzione sulla pronuncia del greco da parte del giovane egiziano, come fa anche nel ritratto del colto scriba egizio del Philopseudes



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(Philops. 34). Lo scrittore mostra un vivo interesse verso l’uso corretto della lingua e le insidie della pronuncia, in particolar modo in riferimento ai popoli barbari, tanto che se nella sua opera «les traits qui permettent de définir la qualité de barbare sont traditionnels [...], le critère qui revient le plus souvent est […] celui de la langue» (Gangloff 2007, p. 76 s.; cfr. Bompaire 1958, pp. 147–154; Baldwin 1973, pp. 41–48; Gassino 2009; Bartley 2009b; Mestre - Vintró 2010). Il mondo della Seconda sofistica tende a venerare il bilinguismo e a considerare la perfetta padronanza del latino e del greco come una virtù, mentre nella difettosa conoscenza di queste lingue generalmente vede un segno di barbarie da biasimare o una curiosità di cui ridere (Philostr. VS 1, 8, 3). In base a tale presupposto, la critica in passato ha ritenuto che Luciano abbia voluto prendersi gioco del mondo egiziano puntando il dito sulla difettosa pronuncia del giovane egizio della Nave (Bompaire 1958, p. 151; Husson 1970, II, ad loc. [p. 8]). Di recente, tale opinione è stata confutata in maniera abbastanza convincente da Bruno Rochette (Rochette 2010, pp. 225–232), che ha messo in rilievo come Luciano abbia piena consapevolezza del carattere cosmopolita dell’impero romano e, di conseguenza, tenda a rispettare le lingue altrui (in particolare l’egizia, l’aramaica, la celtica, la tracica, la scitica, l’ebraica) e, a un tempo, a considerare il greco non solo un patrimonio da conservare, ma anche da condividere. Di conseguenza, «à travers l’exemple d’un étranger parlant le grec avec la prononciation et l’accent de son pays, Lucien veut faire prende conscience des variétés de grec: loin d’être un bredouillement incompréhensible, le grec parlé par le jeune Égyptien reste du grec» (ivi, p. 226). A differenza di altri intellettuali dell’epoca come Plutarco e Elio Aristide, dunque, Luciano si rivela rispettoso verso le lingue straniere e ritiene che il greco possa far parte del bagaglio culturale di chiunque, mostrandosi un autore assai moderno. A tal riguardo si deve precisare, inoltre, che l’atteggiamento dello scrittore nei confronti del mondo barbaro è ambivalente: siro educato alla cultura greca, Luciano da una parte tende a riproporre i tradizionali stereotipi legati ai barbari, dall’altra li ignora, nei casi in cui la paideia mostrata da un individuo (come lo scita Anacarsi del dialogo omonimo o il siro Parresiade del Pescatore) ne faccia dimenticare il luogo di nascita o il modo di abbigliarsi (Kuin 2017), in base a una mentalità condivisa da molti intellettuali contemporanei (come Dione di Prusa: Desideri 1978, p. 108 s.; Gangloff 2007 passim). L’interazione fra Greci ed Egiziani durante i secoli doveva aver dato origine a una complessa società mono- e bilingue, in cui esistevano differenti livelli di bilinguismo a seconda dell’estrazione sociale, dell’educazione e dei contatti con un’altra lingua dei soggetti (Torallas Tovar 2010). Il greco parlato in Egitto doveva essere pronunciato in una maniera del tutto particolare, non ridicola per chi avesse una conoscenza più o meno approfondita

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del mondo egizio, come Luciano, ma presumibilmente fastidiosa, giacché anche «i Greci in Egitto si avvicinarono agli usi e ai costumi degli indigeni. I meno istruiti (alcuni di certo potevano essere Egiziani, per i quali il greco era una seconda lingua) parlavano con accento egiziano, ed erano incapaci di distinguere l da r, d da t» (Parsons 2014, p. 66). In questo luogo Luciano vuol rievocare, probabilmente, quel sentimento di straniamento misto a divertimento, ma privo di disappunto o riprovazione, che prende l’uomo quando è in presenza di qualcuno che si sforza di parlare la sua lingua, ma non la padroneggia pienamente. I papiri greci mettono in evidenza il fatto che gli Egiziani bilingui dovevano parlare greco in modo del tutto peculiare, con un accento così forte che le sillabe non accentate erano spesso storpiate (dicevano ἄνθραπος per ἄνθρωπος ad esempio) e in modo tale da alterare le consonanti (κείτονες per γείτονες e τραχμάς per δραχμάς) in non pochi casi (Torallas Tovar 2010, p. 261 s.). Sembra proprio ciò che ricorda Luciano nella precisa caratterizzazione del modo di esprimersi in greco dell’egizio. In primo luogo ἐπισεσυρμένον è sfruttato per indicare un modo di pronunciare le parole affrettato e trascurato (cfr. ἐπισυρμός, “negligenza”: LSJ9 s.v. ἐπισυρμός [p. 662]). Nei Dialoghi il predicato è usato ancora, in rapporto alla lingua, per descrivere un mago babilonese che va di fretta mentre parla e per definire uno scritto realizzato in maniera frettolosa e negligente (Nec. 7; D. meretr. 10, 3; si tratta di un uso del predicato peculiare del modus scribendi lucianeo: LSJ9 s.v. ἐπισύρω [p. 662]). Un’altra nota particolare è offerta dal riferimento alla rapidità della parlata del giovane, talmente densa da non ammettere interruzioni (συνεχές; in Thuc. 5, 85 il nesso ῥῆσις συνεχής indica un’orazione continua, di fronte a un’assemblea, che non ammette contraddittorio) o repliche di una controparte (ἐπίτροχος; Luciano usa ancora l’aggettivo per indicare una pronuncia sciolta e sicura [D. deor. 7 [11], 3; D. meretr. 4, 5] o frettolosa [Nec. 7], e anche il canto fitto fitto delle cicale [Bacch. 7]). Da ultimo, Luciano sottolinea il tono squillante di questa parlata, tipica degli Egizi (ἐς τὸ πάτριον), sfruttando un termine (ψόφος) che nella sua opera indica un suono forte, avvertibile anche in lontananza, come lo scalpiccio di gente che si avvicina (Cat. 12), un tonfo (Cont. 16), un rumore notturno (Par. 55), la chiacchiera inutile dei fanfaroni (D. meretr. 15, 3; cfr. Taillardat 1965, p. 288, n° 509) e, soprattutto, la risonanza di un oggetto metallico (Symp. 15; Salt. 68: lo strepito dei cembali; Tim. 30). Conclude il quadro un riferimento alla potenza stentorea della voce del giovane (τῷ τῆς φωνῆς τόνῳ), che presumibilmente doveva riprodurre, ancora una volta, un dato reale del modo di parlare greco degli Egiziani (cfr. Dem. Cor. [18], 280: ἔστι δ᾽ οὐχ ὁ λόγος τοῦ ῥήτορος, Αἰσχίνη, τίμιον, οὐδ᾽ ὁ τόνος τῆς φωνῆς).



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ἡ κόμη … οὐκ ἐλεύθερόν φησιν αὐτὸν εἶναι – I giovani egizi avevano la testa parzialmente rasata e, sul lato destro, una lunga ciocca di capelli raccolti in una treccia che ricadeva sulla spalla, denominata dagli egittologi ‘treccia della giovinezza’, portata fino all’ingresso nell’età puberale (Tassie 2005; Ogden 2007, p. 252). Da quel che sappiamo, questo modo di acconciarsi la chioma non era tipico della popolazione servile egiziana, come invece afferma Licino, che anche oltre tende a gettar discredito sulla nuova conquista di Adimanto per criticarne i gusti (§ 19: τὸ μειράκιον δὲ τὸ ὡραῖον ἀποπνιγήσεται ἄθλιον νεῖν οὐκ ἐπιστάμενον). Risulta del tutto anacronistico, del resto, il fatto che l’acconciatura possa rivelare la condizione servile del giovane egizio, come ipotizza Licino, perché all’epoca della composizione della Nave la schiavitù in Egitto era scomparsa da lunga data. Già intorno al I millennio a.C., infatti, nella documentazione amministrativa si nota «l’assenza di una codificazione formale della schiavitù e la sua menzione unicamente nel contesto palatino o templare», mentre nel V secolo a.C. Erodoto non menziona lo schiavo fra le ‘sette classi di Egiziani’ da lui considerate tipiche della società dell’epoca tarda (2, 164), cioè sacerdoti, guerrieri, allevatori di bestiame, allevatori di maiali, mercanti, traduttori e nocchieri (Loprieno 2003, p. 226). Luciano mostra uno spiccato interesse verso gli usi e i costumi dei popoli e, in particolare, verso le acconciature intese come preciso dettaglio etnografico, tanto che il contrasto fra diverse forme di acconciarsi i capelli costituisce per lui uno strumento per far sfoggio delle sue conoscenze erudite, come provano ancora il successivo accenno di Timolao alle cicale d’oro un tempo utilizzate dagli Ateniesi per legarsi i capelli (§ 3), il riferimento del Tossari alle differenti pettinature degli Alani e degli Sciti (Tox. 51) e l’allusione della Storia vera (VH 1, 23) ai differenti canoni estetici esistenti fra gli abitanti della Luna (Anderson 1976b, p. 4). Seguo una congettura di Moses du Soul (Solanus) accolta da buona parte degli editori (Fritzsche, Dindorf, Kilburn, Husson; così anche Nesselrath 1990b, p. 507) e preferisco leggere ἐλεύθερον al posto del tradito ἐλευθέριον: la discussione verte sulla presunta condizione di libertà o di schiavitù del giovane di cui si è invaghito Adimanto ed ἐλεύθερον è più pregnante di ἐλευθέριον e semanticamente più appropriato di questo nel contesto. § 3 Τοῦτο μὲν εὐγενείας, ὦ Λυκῖνε, σημεῖόν ἐστιν Αἰγυπτίοις … πρὸς τὸ ἐφηβικόν – “Efebo” (ἔφηβος) e il derivato “efebia” (τὸ ἐφηβικόν) ricorrono nei Dialoghi con tre diverse modalità di impiego (Delz 1950, pp. 91–95): talvolta concernono l’istituzione militare ateniese del V–IV sec. a.C. con cui i giovani, dopo un periodo di addestramento militare, diventavano cittadini a tutti gli effetti (Delorme 1960, pp. 253–271; Stockton 1993, pp. 77–95, 117;

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Lycurg. 76; Isoc. 7, 27; Aeschin. 1, 18, 103); altre volte ricordano la forma di efebia affermatasi in età ellenistica, priva della componente militare e limitata a una formazione fisica e mentale (Heer 1979, pp. 33–36); in altri casi, infine, sono usati con il generico significato di “adolescente” e “adolescenza”, come nel caso presente (cfr. ancora Cat. 26; Salt. 12; D. deor. 23 [3], 1; ecc.). Con altri editori (Fritzsche, Kilburn, Husson; cfr. Nesselrath 1990b, p. 507) preferisco qui le lezioni Αἰγυπτίοις e αὐτήν, attestate nei codici recentiores, perché sintatticamente più corrette rispetto ad Αἰγυπτίας e αὐτῆς. ἔμπαλιν ἢ οἱ πρόγονοι ἡμῶν … κρωβύλον ὑπὸ τέττιγι χρυσῷ ἀνειλημμένον – Il riferimento di Licino alla capigliatura del giovane egizio adocchiato da Adimanto (§ 2) innesca la replica di Timolao, che mette a confronto il modo di acconciarsi degli Egizi con quello anticamente in uso ad Atene. Viene così abilmente introdotto nella narrazione il dotto riferimento all’antico costume ateniese di annodare i capelli lunghi sopra la nuca, stringendoli per mezzo di fermagli d’oro a spirale, chiamati “cicale” (τέττιγες), il cui testimone più autorevole è Tucidide (1, 6, 3: χρυσῶν τεττίγων ἐνέρσει κρωβύλον ἀναδούμενοι τῶν ἐν τῇ κεφαλῇ τριχῶν), come rivela Samippo nella successiva replica a Timolao (εὖ γε, ὦ Τιμόλαε, ὅτι ἡμᾶς ἀναμιμνήσκεις τῶν Θουκυδίδου συγγραμμάτων). Si tratta di un’antica acconciatura, adottata dall’aristocrazia ateniese in epoca arcaica e mantenuta in età classica solo negli ambienti più conservatori (Ar. Eq. 1323–1334; Nub. 984–986; Taillardat 1965, p. 51, n° 54). Di tale modo di acconciarsi non si hanno notizie precise: è certo che i capelli fossero raccolti sulla nuca (Thuc. 1, 6, 3) o in una treccia avvolta intorno al capo (Heraclid. Pont. fr. 55 Wehrli = Ath. 12, 512b–c), come si vede in numerose raffigurazioni su ceramica del VI–V sec. a.C. (Husson 1970, II, ad loc. [p. 8–10]). Anche delle cicale d’oro non possediamo testimonianze precise o raffigurazioni, tanto che non è possibile dire se si trattasse di veri e propri fermagli o di semplici ornamenti (Canfora 2001 ad Ath. 12, 512a–d [III, p. 1272]). Luciano cita Tucidide, ma senza riportarne fedelmente il testo: è un esempio della libertà con cui lo scrittore sfrutta i suoi modelli (Bompaire 1958, pp. 382–404). εὖ γε, ὦ Τιμόλαε, ὅτι ἡμᾶς ἀναμιμνήσκεις … ἐν τοῖς Ἴωσιν – Tucidide ricorda che la moda di portare chitoni di lino e di legare il nodo dei capelli inserendovi cicale d’oro nacque ad Atene e poi passò e rimase a lungo tra gli Ioni (Thuc. 1, 6, 3; sulla scorta di Hdt. 5, 87, 3–88, 1, gli studiosi pensano siano stati gli Ateniesi a riprendere tale usanza dagli Ioni, che a loro volta l’avevano derivata dai Cari). L’erudita reminiscenza tucididea rappresenta un significativo omaggio alla passione antiquaria della Seconda sofistica e, al tempo stesso, permette a Luciano di riproporre en passant il tema della



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relatività dei costumi a lui caro (Bompaire 1958, p. 232; Husson 1970, II, ad loc. [p. 9 s.]). περὶ τῆς ἀρχαίας ἡμῶν τρυφῆς – L’amore per il lusso (τρυφή) è un’inclinazione tradizionalmente legata ai popoli orientali quali gli Ioni, i Persiani, i Medi, i Babilonesi, gli Assiri, i Siri e i Lidi. Si tratta di un vizio collegato stabilmente agli asiatici a seguito della diffusione della teoria dei climi, apparsa nel VI sec. a.C. e influenzata, dopo le guerre persiane, da una buona dose di ellenocentrismo, secondo la quale le regioni temperate d’Europa e, in particolare, le zone della Grecia continentale sono il luogo ideale per lo sviluppo delle doti fisiche e intellettuali, mentre ai popoli dell’Asia pertengono una congenita mancanza di coraggio e una passione per i piaceri (Gangloff 2007, p. 67). Nei Dialoghi la condanna dell’inutile e perniciosa ricerca del lusso da parte degli uomini è decisa e implacabile: più in là, a smantellare le aspirazioni a una vita lussuosa di Adimanto (§ 25) penserà Licino, porteparole satirico lucianeo e fautore di una vita degnamente vissuta secondo i principi della filosofia morale (§ 26). È questo uno dei non numerosi loci lucianei in cui il termine τρυφή non compare con connotazioni negative, e lo stesso avviene oltre (§ 12), quando è impiegato in maniera neutrale sia da Adimanto sia da Licino: l’azione demolitrice dei vizi umani attuata da Licino ai danni dei desideri dei suoi tre amici deve ancora iniziare e, per il momento, questi li lascia liberi di esprimere i loro pensieri per spingerli a rivelare le loro debolezze più nascoste e disprezzabili. ὁπότε οἱ τότε συναπῴκισαν – Questa sembra essere l’unica attestazione del predicato συναποικίζειν. In Tucidide troviamo οικίζειν, a indicare l’azione per cui una città installa, in qualità di madrepatria, un gruppo di cittadini in un territorio fondando una nuova città, e i composti ἀποικίζειν (inviare un gruppo di coloni [ἀποικία] fuori dal territorio di una città per fondare una colonia), κατοικίζειν (ristabilire coloni in una colonia priva di abitanti), ξυνκατοικίζειν (svolgere in comune l’azione di κατοικίζειν) e ξυνοικίζειν (fondare una colonia con gruppi provenienti da più centri) (de Wever - van Compernolle 1967). La forma συναπῴκισαν è riportata da un ramo della tradizione (l’altro presenta συναπῳκίσθησαν) e accettata da buona parte della critica (Fritzsche, Kilburn, Husson). Non c’è bisogno di correggerla in συναπῴκησαν (Bekker, Macleod). Luciano ama creare hapax e una forma come συναπῴκισαν, con un doppio prefisso, si adegua perfettamente al suo modus scribendi e al gusto di età imperiale per le forme verbali con più di un prefisso; inoltre, in Tucidide troviamo impiegati nello stesso passo sia ἀποικίζειν sia ξυνοικίζειν (usato assolutamente), subito dopo la fine della celebre ‘Archeologia’ (1, 24,

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2), e non si può escludere che proprio da qui Luciano abbia preso ispirazione per costruire il suo συναποικίζειν. § 4 ᾿Ατάρ, ὦ Σάμιππε, νῦν ἀνεμνήσθην, ὁπόθεν ἡμῶν ἀπελείφθη Ἀδείμαντος – Nei Dialoghi l’improvvisa reminiscenza di un personaggio – segnalata dalla presenza di predicati come ἀναμιμνήσκω – costituisce assai frequentemente un economico ed efficace mezzo per inserire nella narrazione una citazione erudita (cfr. supra ad § 3: εὖ γε, ὦ Τιμόλαε, ὅτι ἡμᾶς ἀναμιμνήσκεις κτλ.; vd. ancora ad es. J. conf. 4: ἀνεμνήσθην ἐκείνων τῶν Ὁμήρου ἐπῶν, ἐν οἷς πεποίησαι αὐτῷ ἐν τῇ ἐκκλησίᾳ τῶν θεῶν δημηγορῶν; Gall. 7) o, come in questo caso, per volgere il discorso in una nuova direzione (Philops. 27; Cont. 3; Gall. 19, 24; vd. anche Pisc. 22). παρὰ τὸν ἱστόν … ἔστημεν … ἀριθμοῦντες τῶν βυρσῶν τὰς ἐπιβολάς – In età greco-romana la vela era il sistema di propulsione per eccellenza delle grandi navi da commercio. Ne esistevano di forme molto diverse, come quella ‘latina’, triangolare, quella a livarda, senza antenna e parallela all’albero, o quella quadrata (in realtà di forma rettangolare o trapezoidale), di gran lunga la più utilizzata, che conobbe un’evoluzione costante dall’epoca egizia fino a quella romana (Rougé 1975, pp. 55–64). La vela principale della nave era costituita da un unico grande telo o da più teli cuciti insieme (ciò che spiegherebbe l’uso del plurale vela o carbasa in latino e ἱστία in greco), in genere di lino (Plin. NH 19, 1–2); talvolta, alla bisogna, poteva essere sfruttata la pelle, mentre poco probabile sembra l’impiego del cotone. A rinforzare le vele c’erano bande orizzontali e verticali, ben attestate nelle antiche raffigurazioni di imbarcazioni, che pare non avessero un nome specifico (Rougé 1966, p. 50 s.; Casson 1971, fig. 144). È a queste ultime che vuol probabilmente riferirsi Luciano parlando di “connessure di cuoio” (τῶν βυρσῶν τὰς ἐπιβολάς) visibili sulla velatura dell’Iside (Husson II, 1970, ad loc. [p. 10]; Casson 1971, p. 233 s. e n. 41). Le vele di una nave oneraria dovevano essere di dimensioni eccezionali e, in quanto tali, erano probabilmente rafforzate da un numero considerevole di tali bande: invitano a crederlo anche le parole di Licino, che ricorda come lui e i suoi compagni siamo rimasti a lungo (ἐπὶ πολύ) a guardare in alto (ἀναβλέποντες), intenti a contare (ἀριθμοῦντες) quelle dell’Iside. καὶ θαυμάζοντες … τὸν ναύτην – Del personale a bordo di una nave, i marinai costituivano tre gruppi: i rematori (ἐρέται o κωπηλάται, lat. remiges), alla base della scala gerarchica; i marinai di grado intermedio (lat. mesonautae), di cui non conosciamo esattamente la funzione e che, forse, lavoravano all’interno della nave e non sul ponte; i marinai veri e propri (ναῦται, lat. nautae), che avevano il compito di manovrare le ancore e le vele e di gestire il ponte (Rougé 1966, pp. 214–218; Id. 1975, p. 192 s.). A capo dell’equipaggio c’erano tre uomini: il capitano (κυβερνήτης, lat. gubernator), chia-



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mato anche nocchiero o timoniere (vd. infra ad § 9); il prodiere o ufficiale di prua (πρῳράτης, lat. proreta), incaricato di scrutare il mare da prua e passare al timoniere le indicazioni necessarie; infine il capo dei rematori (κελευστής, lat. pausarius, hortator o portisculus) (Rougé 1966, p. 220– 227). Altri due uomini importanti per la nave erano il capo dei rematori di bordo (τοίχαρχος), che sembra fosse incaricato dei rapporti coi passeggeri, e una sorta di segretario (lat. diaetarius) con funzioni di archivista e agente contabile, al servizio di coloro che sfruttavano la nave a fini commerciali (Rougé 1966, pp. 217–219). Il reclutamento era diverso da uomo a uomo e alcuni lavoravano per un solo viaggio, altri erano al servizio permanente del proprietario o dell’armatore, ed è anche possibile che alcuni fossero schiavi; talora erano gli stessi passeggeri a esser messi al lavoro, e non solo in casi di necessità, ma ogni volta che ce n’era bisogno (André - Baslez 1993, p. 424; Janni 2003, pp. 21–23). ἀνιόντα … διὰ τῶν κάλων, εἶτα ἐπὶ τῆς κεραίας ἄνω ἀσφαλῶς διαθέοντα τῶν κεροιάκων ἐπειλημμένον – Questa scena ci ricorda che una nave, anche modesta, possedeva una vasta gamma e un incredibile numero di accessori e mantenerla in ordine costituiva un’esigenza fondamentale per la sua efficienza e per la vita dell’equipaggio, a causa del limitato spazio disponibile a bordo e della necessità vitale di governare al meglio nei momenti di difficoltà o di pericolo (Medas 2004, pp. 32–34; Parsons 2014, p. 127 s.). L’abile marinaio dell’Iside prima si arrampica per le funi che servono a tener ferme le vele al pennone (κάλοι, κάλως o κάλωες, lat. rudentes; Casson 1971, p. 259; Rougé 1975, p. 64 s.), poi corre in alto lungo il pennone stesso (κεραία; vd. infra comm. ad § 5: ὅσην δὲ ἀνέχει τὴν κεραίαν) aggrappandosi alle sartie (κεροίακες, κεροῦχοι, lat. ceruchi), cioè alle corde che fissano le estremità del pennone (κέρατα, lat. cornua) alla punta dell’albero (Lucan. 8, 177: instabit summis minor Ursa ceruchis; Husson 1970, II, ad loc. [p. 10 s.]; Casson 1971, p. 263; Rougé 1975, p. 64 s.). Spettacoli di questo tipo dovevano inevitabilmente catturare l’attenzione e imprimersi nella memoria di chi si trovava ad assistervi, compreso Luciano, che ricorda una scena quasi identica nello Zeus tragedo, pur inserendola in un contesto assolutamente differente, la descrizione allegorica della ‘nave del mondo’ realizzata dall’epicureo Damide (§ 48). La terminologia impiegata da Luciano risulta particolarmente ricercata, come nota già Geneviève Husson, secondo la quale «en choisissant des termes techniques rares, tels que κάλως et κεροίαξ, il est possible que Lucien s’amuse et parodie le vocabulaire savant que certains se plaisaient à employer» (Husson 1970, II, ad loc. [p. 11]). Τί δ᾽ οὖν χρὴ ποιεῖν ἡμᾶς; ᾽Ενταῦθα καραδοκεῖν αὐτόν, ἢ ἐθέλεις ἐγὼ αὖθις ἐπάνειμι ἐς τὸ πλοῖον; – Samippo è impaziente e non tollera l’attesa,

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III Commento

così si offre di tornare indietro per vedere che fine abbia fatto Adimanto. A enfatizzare l’irrequietezza del personaggio contribuisce l’impiego del predicato καραδοκεῖν, che esprime un’idea di attesa sollecita, nervosa, come quella che si prova prima di una battaglia oppure di una guerra (cfr. Xen. Mem. 3, 5, 6; Hdt. 7, 163, 168; 8, 67). Si tratta di un altro particolare che rivela il carattere impetuoso ed energico del personaggio. Anche il desiderio di tornare in fretta in città per poter fare esercizio fisico in palestra, da lui espresso qualche istante dopo (καὶ μάλα δοκεῖ, ἤν πως ἀνεῳγυῖαν ἔτι τὴν παλαίστραν καταλάβωμεν), tradisce il suo temperamento forte e risoluto (cfr. l’introduzione al § 1.6.3). Μηδαμῶς, ἀλλὰ προΐωμεν – L’avverbio μηδαμῶς marca con forza il passaggio da un interlocutore a un altro (cfr. ancora ad §§ 15 e 37). Col repentino invito di Timolao ad andare avanti (προΐωμεν) inizia il cammino di ritorno dei quattro amici verso Atene, durante il quale l’azione si sposta dal Pireo in città. Simili marcatori verbali sono tipici delle rappresentazioni teatrali così come dei Dialoghi, nei quali il cambio scenico può avvenire con un semplice ordine categorico impartito da un personaggio a uno o più interlocutori (Bellinger 1928, p. 28 s.; cfr. Tim. 30, 33; Bis acc. 8; D. deor. 20 [35], 3; Fug. 24; D. mar. 6 [8], 2; ecc.). Εἰκὸς γὰρ ἤδη παρεληλυθέναι ἐκεῖνον ἀποσοβοῦντα ἐς τὸ ἄστυ – Ἀποσοβεῖν, “andar via in tutta fretta”, “precipitarsi” (in un luogo), impiegato intransitivamente, è di uso familiare e raro. Ricorre in commedia, in particolare negli Uccelli di Aristofane, dove serve a invitare con poco garbo un seccatore ad andare via alla svelta (Av. 1032, 1258: οὐκ ἀποσοβήσεις; Taillardat 1965, p. 112, n° 221). Luciano lo sfrutta ancora nel descrivere Polistrato mentre si precipita da Pantea per riferirle il discorso di Licino In difesa delle immagini (Pro im. 29). Sul significato del termine ἄστυ cfr. supra comm. ad § 1: μὴ κατ᾽ ἄλλο τι ἐξ ἄστεος ἥκειν ἢ ὀψομένους τὸ πλοῖον. οἶδε τὴν ὁδὸν Ἀδείμαντος, καὶ δέος οὐδὲν μὴ ἀπολειφθεὶς ἡμῶν ἀποβουκοληθῇ – Notevole è il gioco di parole imperniato sul nome proprio di Adimanto (cfr. infra comm. ad § 35 [Ἀποδειλιᾷς καὶ σύ, ὦ Ἀδείμαντε, πλησίον τοῦ κινδύνου γενόμενος;] e l’introduzione al § 1.8.2), enfatizzato dall’allitterazione della consonante δ con le vocali ο ed ε e dall’impiego del raro ἀποβουκολέω. ῾Ορᾶτε μὴ σκαιὸν ᾖ φίλον ἀπολιπόντας αὐτοὺς ἀπιέναι – Luciano riecheggia la scrittura di Platone nei Dialoghi in una caleidoscopica varietà di casi, come è per il frequente ricorso agli appelli all’amicizia di matrice platonica in alcuni prologhi (vd. ad es. Plat. Phaedr. 228a–c, 236b–e; cfr. Icar. 3–4; Nec. 2; Nigr. 6–12; Bompaire 1958, p. 312; Anderson 1976, p. 11 e n. 78). L’aggettivo σκαιός vale “lento”, “maldestro”, “rozzo”, ed è comune



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in certi ambiti, come la tragedia, come antonimo di σοφός, “sapiente”, “saggio” (Dover 1983, pp. 224 e 227). Βαδίζωμεν δ᾽ ὅμως, εἰ καὶ Σαμίππῳ τοῦτο δοκεῖ – Prima di partire senza più aspettare Adimanto, Licino cerca ancora l’approvazione di Samippo: è un particolare che mette in luce la cortesia e la sensibilità di questo personaggio (cfr. l’introduzione al § 1.6.2). Καὶ μάλα δοκεῖ – Da questa replica di Samippo la narrazione procede nella forma del ‘dialogo in cammino’ che è tipica del dialogo platonico (si vedano in particolare Leggi e Fedro) e della commedia attica (come provano la chiacchierata fra Dioniso e Xantia nel viaggio per l’oltretomba in Ra. 164–315 e il vivace dialogo iniziale fra Euelpide e Pisetero in Av. 1–48: Dunbar 1995, p. 133). Questa modalità narrativa è particolarmente apprezzata dagli scrittori di epoca imperiale: Luciano la impiega ancora nell’Anacarsi e in molti altri luoghi della sua opera (Bis acc. 8–9; D. mort. 27 [22], 1–7; Pisc. 19–20; Fug. 24–25; D. deor. 20 [35], 3–5; Cat. 18–21); Plutarco la sfrutta nei suoi ‘dialoghi delfici’ (Il tramonto degli oracoli, La E di Delfi, Gli oracoli della Pizia) e nella conversazione tenuta fra Corinto e il porto del Lecheo dagli ospiti di Periandro che introduce il Banchetto dei sette sapienti (§§ 146c–148b); Aulo Gellio (18, 1) la recupera nella disputa filosofica lungo la spiaggia di Ostia fra uno stoico e un peripatetico con Favorino arbitro (Bompaire 1958, p. 307 s.). ἤν πως ἀνεῳγυῖαν ἔτι τὴν παλαίστραν καταλάβωμεν – La palestra era il cuore di un ginnasio, luogo fondamentale di allenamento e di svago nella società greco-romana (cfr. supra comm. ad § 2: παλαίστρας ἀποπνέοντες). Ad Atene, in età romana, gli antichi ginnasi come l’Accademia, all’esterno delle mura (Travlos 1971, p. 42 s., figg. 52–64; cfr. Luc. Scyth. 2), il Liceo (Travlos 1971, p. 345) e il Cinosarge (Travlos 1971, p. 340), che sorgevano uno accanto all’altro nella valle dell’Ilisso nel suburbio ateniese, avevano dovuto cedere il passo ad altre e più vitali istituzioni quali lo Ptolemaion, il ginnasio donato alla città da Tolomeo VI e realizzato sul lato meridionale dell’agora (Travlos 1971, pp. 233–241), e il Ginnasio di Adriano, che sorgeva, probabilmente, vicino al Cinosarge (Travlos 1971, pp. 340, 439 e 579). Samippo spera di poter rientrare presto in città per recarsi in una palestra, ma purtroppo le sue parole sono troppo generiche per capire a quale specifico ginnasio si voglia riferire. Ἀνεῳγυῖαν è una forma attiva di participio perfetto che, in questo caso, è usata con valore passivo, in maniera contraria all’uso attico. Luciano critica quest’uso di ἀνέῳγε in Sol. 8, pur sfruttandolo più volte nel corso della sua opera (Gall. 6: ἀνεῳγόσι τοῖς ὀφθαλμοῖς; 32: ἀνέῳγε καὶ αὕτη ἡ θύρα; Anach. 29; D. mort. 4 [14], 1; Macleod 1956, praes. p. 104 s.; Schmid 1887, p. 230; Hall 1981, p. 299 s.; cfr. infra ad § 46 anche l’uso dell’accusativo

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βασιλεῖς, criticato in Sol. 8 come scorretto rispetto alla normale terminazione attica [che ricorre al § 31: τοὺς ἱππέας]). § 5 ᾿Αλλὰ μεταξὺ λόγων, ἡλίκη ναῦς – La raffigurazione dell’Iside è giocata su un’aura di meraviglia sapientemente creata da Luciano attraverso la veloce presentazione dei particolari più curiosi e spettacolari della grandiosa nave. La prima cosa che colpisce l’occhio dello spettatore sono le dimensioni imponenti di questo gigante del mare, che Samippo ha cura di enfatizzare con questa esclamazione iniziale (ἡλίκη ναῦς). La descrizione della mastodontica nave annonaria (§§-6 5) e del suo viaggio avventuroso dall’Egitto al Pireo (§§ 7–9) costituisce la seconda sezione del dialogo (cfr. l’introduzione al § 1.1) e rappresenta non solo un prezioso unicum per la storia della navigazione nell’antichità, ma anche uno dei più begli esempi di ekphrasis presenti nei Dialoghi (Andò 1975; Maffei 1994, pp. XV–XLVI; cfr. Philops. 18–20, su cui Ogden 2007 ad loc. [pp. 137–159]). Si tratta di uno snodo fondamentale per la narrazione, in quanto serve a dare il là al gioco dei desideri dei quattro protagonisti (Anderson 1977, p. 367). εἴκοσι καὶ ἑκατὸν πήχεων … τὸ μῆκος, εὖρος δὲ ὑπὲρ τὸ τέταρτον μάλιστα τούτου – Il cubito (πῆχυς) attico corrispondeva a 48, 7 cm (Schulzki 2000). L’Iside ha una lunghezza (μῆκος) di 120 cubiti, ossia più di 58 metri, mentre la sua larghezza (εὖρος) è un quarto di questa prima misura, vale a dire 30 cubiti, cioè più di 14 metri e mezzo. Il rapporto di 1:3 o di 1:4 fra larghezza e lunghezza è la misura standard per le navi da trasporto dell’antichità, rispetto a quello di 1:6 o 1:7 usato comunemente per quelle da guerra. La nave mercantile era più larga e arrotondata per sostenere il peso del carico e compiere traversate più lunghe, mentre quella da guerra, concepita per il combattimento, aveva come caratteristiche principali lunghezza e sottigliezza, che le fornivano notevole velocità, fattore che si rivelava decisivo in caso di scontro o di fuga (Medas 2004, p. 38 s.). ἔλεγε ὁ ναυπηγός – Sulla figura del ναυπηγός vd. supra comm. ad § 2 (μακρὰ χαίρειν φράσας τῷ Αἰγυπτίῳ ναυπηγῷ περιηγουμένῳ τὸ πλοῖον). ἀπὸ τοῦ καταστρώματος ἐς τὸν πυθμένα … ἐννέα πρὸς τοῖς εἴκοσι – Dal ponte (κατάστρωμα; cfr. Cont. 1) alla chiglia (πυθμήν; cfr. Herm. 60; D. mort. 11 [21], 4), fino al punto più profondo nella curvatura della carena all’interno della stiva (ἄντλος; cfr. J. tr. 48; Cat. 1), la profondità dell’Iside è di 29 cubiti, vale a dire 14 metri circa. Le tre dimensioni fornite da Luciano (lunghezza, larghezza e profondità) non sono purtroppo sufficienti a determinare la capacità della nave. Sarebbe necessaria, infatti, un’ulteriore misura, quella della lunghezza della chiglia, cioè l’asse longitudinale della carena costituita da una robusta trave lungo la quale sono inserite le ordina-



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te, le assi curve che formano le costole della carena stessa (per tale problema vd. nell’introduzione al § 1.5.2). Τὰ δ᾽ ἄλλα ἡλίκος μὲν ὁ ἱστός – Le navi da commercio romane avevano generalmente un albero (ἱστός, lat. malus o arbor) o due. Il tipo a due alberi (διάρμενος) era molto diffuso e caratterizzato da un albero di prua fortemente inclinato, su cui si armava una piccola vela quadra; non erano comunque rare le navi a tre alberi (τριάρμενος), come quelle che più in là (§ 14) Licino immagina in possesso di Adimanto (Rougé 1966, p. 49 s.; Casson 1971, pp. 239–243; Gianfrotta - Nieto - Pomey - Tchernia 1997, p. 85 s. [con buona documentazione iconografica]). Si tratta di un elemento fondamentale in un’imbarcazione a vela, che Luciano nomina in diversi frangenti, sfruttandolo per i giochi della sua fantasia (VH 2, 37, 41) o ricordandone alcune peculiarità: un albero poteva spezzarsi a causa di un fortunale (Merc. cond. 1) o di un fulmine (J. conf. 16) e lasciare la nave in balia degli elementi; in caso di necessità poteva esser tolto e nuovamente alzato (Cat. 1: ἱστὸς ὤρθωται); vi si poteva legare un prigioniero (Cat. 13). Impressionante era la taglia degli alberi delle navi da commercio, un particolare a cui in questo luogo si fa solo cenno, mentre è ricordato con enfasi nella Storia vera (1, 11), in cui la fantastica genia degli Ippogigi cavalca giganteschi avvoltoi tricefali dalle ali tanto mostruose che ognuna è più lunga e larga dell’albero maestro di una nave da carico. ὅσην δὲ ἀνέχει τὴν κεραίαν – Il pennone (κεραία, lat. antemna) è la robusta asta in legno, perpendicolare all’albero, destinata a sostenere la vela della nave, che a volte può avere una lunghezza pari all’altezza dell’albero (tav. 14; cfr. supra comm. ad § 4: ἀνιόντα … διὰ τῶν κάλων κτλ.) e si può ammainare in caso di bisogno (Tox. 19: ἀπὸ ψιλῆς τῆς κεραίας πλέοντας). In genere era formato da due pezzi legati insieme: per questo il termine ricorre sia in latino sia in greco in genere al plurale (κεραίαι, antemnae), mentre rarissimo è l’uso del singolare sfruttato in questo contesto (Casson 1971, p. 232, n. 34; Medas 2004, p. 225; De Meo 2005, p. 257). οἵῳ δὲ προτόνῳ συνέχεται – Lo straglio (πρότονος; cfr. J. tr. 47) è una manovra dormiente (cioè fissa) e, nello specifico, ciascuno dei cavi sostenenti longitudinalmente l’albero, presenti a prua e a poppa e utili, se necessario, a variare l’inclinazione dell’albero stesso (Medas 2004, p. 228; cfr. Casson 1971, p. 260: «on the standing rigging, protonos was the Greek for forestay, and epitonos for backstay»; Magueijo 2013 ad loc. [p. 97, n. 269]). ὡς δὲ ἡ πρύμνα μὲν ἐπανέστηκεν … χρυσοῦν χηνίσκον ἐπικειμένη – Varia è la tipologia delle decorazioni delle prue nel corso delle epoche, per cui la storia delle costruzioni navali conosce teste di cavallo, di cinghiale, di drago, di cigno, oppure occhi spalancati a controllare la rotta e a scacciare la sfortuna (Janni 1995, p. 1457). L’ochetta d’oro (χρυσοῦν χηνίσκον) che orna

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la poppa dell’Iside era quasi di rigore nell’antichità sulle navi più grandi, a cui conferiva un aspetto più grandioso e imponente. Si tratta di un dettaglio ben noto dalle raffigurazioni antiche (vd. tavv. 1–2, 11–12; Delz 1950, p. 86 s.; Janni 1996, p. 407; cfr. Casson 1971, p. 347 s.), che Luciano menziona con buona frequenza, ogni volta in maniera originale: se qui lo fa apparire come un dettaglio assolutamente realistico, nella Storia vera (2, 41) gli dona vita per parodiare le molte superstizioni circolanti fra i marinai, mentre nello Zeus tragedo (§ 47) lo impiega nella descrizione della nave dell’universo al cui comando, contrariamente alle aspettative dello stoico Timocle, gli dèi non ci sono e tutto va alla rovescia, tanto che le ancore sono talvolta d’oro, mentre l’ochetta è di piombo (χρυσαῖ μὲν αἱ ἄγκυραι ἐνίοτε, ὁ χηνίσκος δὲ μολυβδοῦς). Di un’ochetta d’oro usata a decorare un’imbarcazione parla anche Apuleio (Met. 11, 16: puppis intorta chenisco, bracteis aureis vestita fulgebat). καταντικρὺ δὲ ἀνάλογον ἡ πρῷρα ὑπερβέβηκεν … ἀπομηκυνομένη – La maggior parte della navi da commercio in epoca romana si distingue per la forma del suo scafo, che può essere tanto simmetrica quanto asimmetrica. Nel primo caso questo si innalza in egual misura sia presso la poppa (πρύμνα) sia presso la prua (πρῷρα), come accade per l’Iside, nel secondo presenta una poppa potente e slanciata verso l’alto che si eleva rispetto alla prua, come ci ricordano sia le fonti letterarie sia quelle iconografiche (tav. 7; cfr. Rougé 1975, pp. 184–189; André - Baslez 1993, pp. 420–422; Casson 1994, p. 109 s.; Gianfrotta - Nieto - Pomey - Tchernia 1997, p. 84 [con documentazione iconografica]). τὴν ἐπώνυμον τῆς νεὼς θεὸν ἔχουσα τὴν Ἶσιν ἑκατέρωθεν – Finalmente è rivelato il nome della nave descritta da Samippo che, com’è consuetudine nel mondo antico, si chiama come la dea che ne rappresenta la divinità protettrice, Iside, la cui immagine (παράσημον, lat. tutela) orna la prua dell’imbarcazione (tavv. 1–2, 10; cfr. Casson 1971, pp. 344–348; Id. 1994, p. 110 s.). Si tratta di un dettaglio caratteristico delle navi antiche che rimanda a uno degli aspetti più notevoli della navigazione nell’antichità, quello della religiosità dei naviganti e delle loro innumerevoli credenze superstiziose atte a propiziare il buon esito di un viaggio e a evitare ogni gesto di cattivo augurio in grado di comprometterlo (Rougé 1975, pp. 206–210; Höckmann 1985, pp. 157–160; Janni 1996, pp. 387–396; Gianfrotta - Nieto - Pomey Tchernia 1997, pp. 111–113; cfr. la parodia di Luciano in VH 2, 41). È con funzione apotropaica, dunque, che ogni nave in genere possiede, a partire dall’età ellenistica, una speciale divinità protettrice cui è intitolata (e consacrata) e che dà nome all’imbarcazione stessa (Casson 1971, p. 359 s.). Fra gli dèi più ‘gettonati’ ci sono Zeus, i Dioscuri (tav. 9), Afrodite (a volte associata a Zeus) e, soprattutto, Iside, la dea protettrice per eccellenza della



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navigazione (Bricault 2006 passim), per il suo legame col mare venerata come Εὔπλοια, Πελαγία/Pelagia, Σώτειρα, Φαρία/Pharia (Bricault 2006, pp. 101–112), e onorata attraverso il Navigium Isidis (Apul. Met. 11, 9–11), la più famosa delle cerimonie che segnavano la riapertura della navigazione (Rougé 1975, pp. 23, 208; Medas 2004, p. 38; Bricault 2006, pp. 134–150). Le prerogative della dea di guaritrice e signora dell’elemento marino riscontrano un favore crescente nel Mediterraneo a partire dal IV sec. a.C., con la diffusione del suo culto fuori d’Egitto, finché in età imperiale diventa popolare in tutta la marineria dell’epoca come S. Nicola di Bari lo sarà in quella moderna (Janni 1996, p. 406; cfr. Rougé 1966, p. 327 s.). Il fatto che Luciano ricordi che la dea occupava la prua “da entrambe le parti” (ἑκατέρωθεν) farebbe pensare a una pittura raffigurante Iside posta su entrambi i lati (Janni 1996, p. 406 s.), un tipo di decorazione usuale sulle navi da trasporto antiche, ben attestata dalle fonti (Hor. Carm. 1, 14, 14–15; Ov. Her. 16, 113–116; Fast. 4, 275–277; Trist. 1, 4, 7–8; 10, 1–2) e assai più comune dell’immagine scolpita, antenata delle moderne polene (tav. 8). ῾Ο μὲν γὰρ ἄλλος κόσμος, αἱ γραφαί – Sono elencati in successione numerosi dettagli che colpiscono lo spettatore dell’Iside e che rappresentano altrettanti particolari reali delle navi da commercio antiche (tav. 6). Il resoconto inizia dalle pitture della nave. Tale elemento decorativo era normalmente applicato alla prua di ogni nave da commercio sotto forma di occhio apotropaico (Aesch. Suppl. 743–744), dell’immagine della divinità protettrice della stessa imbarcazione (cfr. la nota precedente) o di semplice motivo ornamentale (Delz 1950, p. 87, n. 125; Husson 1970, II, ad loc. [p. 16]; Rougé 1975, p. 47; Medas 2010). Luciano si mostra assai incuriosito dall’aspetto delle imbarcazioni, come dimostra la ricca descrizione di una nave che ritroviamo in J. tr. 47–48. καὶ τοῦ ἱστίου τὸ παράσειον πυραυγές – Παράσειον è variamente reso dai traduttori con «pennoncello» (Settembrini 1862), «supparum» (Dindorf 1884), «topsail» (Kilburn 1959, LSJ9 s.v. [p. 1323]), «parrocchetto» (Longo 1976–1993), «voile haute» (Husson 1970) e, impropriamente, «ralingue» (Chambry 1934; cfr. Husson 1970, II, ad loc. [p. 16 s.]). Lo scoliaste (p. 248, 26 Rabe) lo chiosa con καρχήσειον (lat. carchesium), termine improprio, che di norma significa “estremità dell’albero” (Rougé 1975, p. 64 s.; Janni 1996, p. 449, n. 10) e che ricorre, poco più in là (§ 9), a indicare il punto dell’Iside su cui uno dei Dioscuri si posa per condurre la nave fuori dalla spaventosa tempesta in cui è incappata. Preferisco renderlo come “stendardo” per una serie di ragioni. Παράσειον è assai raro: oltre che in Luciano, lo si ritrova solo al termine della descrizione della titanica nave tessarakontères, “a quaranta rematori”, di Tolemeo Filopatore (vd. nell’introduzione al § 1.5.2, n. 104) realizzata dallo storico Callisseno di Rodi (III sec. a.C.)

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e tramandataci da Ateneo (Callix. FGrHist 627, 1 = Ath. 5, 206c: ὁ δὲ ἱστὸς ἦν αὐτῆς ἑβδομήκοντα πηχῶν, βύσσινον ἔχων ἱστίον ἁλουργεῖ παρασείῳ κεκοσμημένον, “c’era un albero di settanta cubiti, con una vela di bisso abbellita da un pennoncello di color porpora”). Geneviève Husson ritiene il παράσειον una piccola vela triangolare, piazzata sopra la vela principale, chiamata dai Romani siparum o supparum (in greco σίφαρος; tav. 1–2; Lucan. Phars. 5, 428–429: summaque pandens / sipara velorum), che solo le navi annonarie della flotta alessandrina avevano il diritto di tenere issata quando entravano in porto, per permettere il loro facile riconoscimento (Sen. Epist. 9, 77, 1: solis enim licet siparum intendere, quod in alto omnes habent naves). Un verso della Medea di Seneca definisce rubicunda tali sipara (vv. 327–328: et alto / rubicunda tremunt sipara velo), così come di colore rosso acceso sia Callisseno (ἁλουργές) sia Luciano (πυραυγές) ricordano il παράσειον (Husson 1970, II, ad loc. [p. 16 s.]). Lionel Casson pensa, invece, che non si trattasse di una parte della velatura, ma di una sorta di bandiera di segnalazione applicata sul pennone («a yardarm pennant»), mentre sull’albero maestro poteva trovarsi l’ἐπισείων, un’altra bandiera di segnalazione e identificazione (Casson 1971, p. 246, n. 86). Poiché Ateneo sostiene che il παράσειον della nave di Tolemeo fosse un elemento che “abbelliva” (κεκοσμημένον) la vela principale, e lo stesso Luciano parla di “stendardo della vela” (τοῦ ἱστίου τὸ παράσειον), è preferibile ritenere l’interpretazione di Casson più soddisfacente e credere che si trattasse di una decorazione della velatura piuttosto che di una vela destinata a svolgere una funzione propulsiva vera e propria. È notevole come Luciano, con rapide pennellate, realizzi una splendida descrizione ecfrastica utilizzando un lessico assai ricercato per offrire al pubblico un duplice piacere: ammirare il modo in cui il sofista gareggia con le arti visive attraverso il sapiente uso della parola e assaporare la ricercatezza dei termini utilizzati per tale scopo. Oltre a παράσειον, infatti, anche πυραυγής è raro e poetico: ricorre nell’Inno omerico ad Ares, per indicare la luce rossiccia emessa dal pianeta Marte (h. Mart. [8], 6–7: πυραυγέα κύκλον ἑλίσσων / αἰθέρος ἑπταπόροις ἐνὶ τείρεσιν) e nell’Antologia palatina, per descrivere due occhi lampeggianti e folgoranti (AP 12, 41: οὐκέτι μοι Θήρων γράφεται καλός, οὐδ᾽ ὁ πυραυγὴς πρίν ποτε, νῦν δ᾽ ἤδη δαλὸς Ἀπολλόδοτος). Luciano lo sfrutta ancora nei Dialoghi delle meretrici a indicare le pietre di una collana (D. meretr. 6, 1: ψήφους τινὰς πυραυγεῖς). καὶ πρὸ τούτων αἱ ἄγκυραι – Le grandi navi nel mondo antico, come quelle del mondo moderno, hanno generalmente più di un’ancora (Janni 1996, p. 339 s.): per questo Samippo parla di “ancore” (ἄγκυραι) dell’Iside. Già nell’antichità l’ancora rappresentava una parte fondamentale dell’attrezzatura di un’imbarcazione (Casson 1994, p. 119 s.; Janni 1996, pp. 334– 340; Gianfrotta - Nieto - Pomey - Tchernia 1997, p. 87 s.), tanto che a questa



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la nautica greca e romana rivolse attenzioni non minori di quella moderna. La sua importanza crebbe costantemente in antico col progredire della tecnica e il fiorire della navigazione, pur se fu legata a un grado di conservativismo tale che oggi, spesso, risulta difficile attribuire a una determinata epoca e a uno specifico popolo molte ancore rinvenute sul fondo del mare (tav. 14; Rougé 1975, pp. 71–75). È pur vero che parlare di ‘ancora’ fino a un certo momento dell’epoca antica è del tutto prematuro: in Omero è definita col curioso nome di εὐνή, “giaciglio”, e consiste in una pietra forata assicurata a una corda, un tipo primitivo che sopravvive a lungo e coesiste con altri molto più avanzati; il perfezionamento fondamentale è dato dalla tridimensionalità, introdotta con l’invenzione del ceppo, un elemento disposto a novanta gradi con la parte destinata a penetrare nel fondo del mare (Janni 1996, p. 336). La dimensione delle ancore di una nave come l’Iside doveva essere imponente: non a caso Adimanto perde di vista i suoi tre amici mentre è intento a calcolare lo spessore di una di queste (§ 12). καὶ στροφεῖα καὶ περιαγωγεῖς – Le ancore erano generalmente assicurate alla nave con funi o canapi della massima robustezza (rare erano le catene) ed erano necessariamente manovrate con apposite attrezzature come gli argani (στροφεῖα) e i verricelli (περιαγωγεῖς) a causa del loro volume e del loro grande peso (due ancore trovate nei mari di St. Tropez e di Malta pesavano 1300 e 1850 chili rispettivamente: Janni 1996, p. 339; cfr. Casson 1971, p. 251 s.; Id. 1994, p. 119). Anche in questo contesto si deve notare la ricercatezza del lessico impiegato da Luciano in questa descrizione: στροφεῖον ricorre nella rara accezione di “argano” (LSJ9 s.v. στροφεῖον [p. 1656]). καὶ αἱ κατὰ τὴν πρύμνην οἰκήσεις θαυμάσια πάντα μοι ἔδοξεν – Gli appartamenti collocati sulla poppa (πρύμνα) rappresentano l’ennesimo tratto realistico della descrizione dell’Iside (Husson 1970, II, ad loc. [p. 17 s.]). A questi alloggi Luciano allude anche in J. tr. 48 (τὰ ἄκρα τῆς νεώς) come metafora di un posto di rilievo all’interno della società, contrapposto a uno misero e disdicevole equivalente alla stiva della nave o alla sentina, il che farebbe ipotizzare almeno due classi previste per il trasporto dei passeggeri sulle navi antiche (Coenen 1977 ad J. tr. 48 [p. 135]; Janni 1996, p. 382 s.). Le cabine sul ponte della nave erano l’equivalente dell’odierna prima classe (con tutti i distinguo del caso) ed erano riservate, probabilmente, al proprietario della nave o a un suo agente, al capitano e a pochi altri passeggeri selezionati; per gli altri c’erano soluzioni meno comode che prevedevano, come nel Medioevo, una sistemazione sul ponte in strutture temporanee o speciali alloggi all’interno della nave (cfr. supra comm. ad § 2: ἐκ τῆς θαλάμης προῆλθε; Casson 1971, p. 180 s.; Janni 2003, p. 11: le fonti non descrivono nel dettaglio il modo in cui doveva arrangiarsi chi intraprendeva

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III Commento

un viaggio in mare nell’antichità probabilmente perché non si racconta quel che è troppo ovvio). § 6 Καὶ τὸ τῶν ναυτῶν πλῆθος στρατοπέδῳ ἄν τις εἰκάσειεν – L’iperbolico paragone fra l’equipaggio dell’Iside e un esercito sfrutta una comparazione tratta dal mondo della guerra, un ambito fondamentale dell’esistenza umana da cui gli scrittori della Seconda sofistica attingono una straordinaria varietà di immagini (Fuhrmann 1964, p. 53). Nei Dialoghi i paragoni e le metafore ispirati all’arte bellica ricorrono in maniera tanto frequente quanto quelli derivati dalla navigazione, altro componente imprescindibile della vita quotidiana dell’uomo greco (Schmidt 1897, pp. 96–100). ᾽Ελέγετο δὲ καὶ τοσοῦτον ἄγειν σῖτον, ὡς ἱκανὸν εἶναι πᾶσι τοῖς ἐν τῇ Ἀττικῇ ἐνιαύσιον πρὸς τροφήν – L’iperbolica allusione alla quantità di grano trasportata dall’Iside, così come il precedente riferimento all’incredibile numero dei suoi marinai, sono evidentemente frutto della fantasia di Luciano e servono a immergere il dialogo in un’atmosfera fantastica per preparare il pubblico ad accogliere le successive rêveries dei quattro protagonisti. Allo stesso scopo sono funzionali le allusioni alla grandezza smisurata della nave (§§ 1, 5) e alla complessità e maestosità del suo apparato (§ 5), oltre naturalmente al racconto, ricco di dettagli romanzeschi, del fortunale in cui l’Iside incappa (§§ 7–9) nel viaggio dall’Egitto all’Italia (Moricca 1914, p. 325). Κἀκεῖνα πάντα μικρός τις ἀνθρωπίσκος γέρων ἤδη ἐσῴζεν … ἐδείχθη γάρ μοι ἀναφαλαντίας τις, οὖλος – Il timoniere dell’Iside è ritratto con pochi e rapidi tratti: si caratterizza per la bassa statura (μικρός … ἀνθρωπίσκος), l’età avanzata (γέρων), la fronte alta (ἀναφαλαντίας τις), i capelli crespi (οὖλος). Si tratta di un modo di descrivere i personaggi, parco di dettagli, ma ben curato dal punto di vista stilistico-lessicale, tipico della maniera letteraria di Luciano, come mostrano ancora, oltre alla successiva descrizione di Adimanto (§ 10), i ritratti di Timone e Filiade nel Timone (Tim. 7, 47), di Menippo nei Dialoghi dei morti (D. mort. 1 [1], 2), del falso profeta Alessandro nell’Alessandro (Alex. 11), di Filosofia nel Pescatore (Pisc. 13). L’accostamento del diminutivo ἀνθρωπίσκος al pleonastico μικρός rende ancora più insignificante la statura del timoniere (cfr. Bacch. 3: σμικρὸν γερόντιον [Sileno]). Questo accentua agli occhi del pubblico la maestria dell’uomo nel manovrare una nave gigantesca come l’Iside e, al tempo stesso, concede alla sua figura una comica parvenza. Ἀνθρωπίσκος è già aristofaneo (Pax 751: οὐκ ἰδιώτας ἀνθρωπίσκους κωμῳδῶν οὐδὲ γυναῖκας) e trova largo impiego in Luciano, che lo sfrutta in una vasta gamma di sfumature che vanno dall’identificazione bonaria e spiritosa (Pisc. 17: Parresiade, alias lucianeo, perseguitato dai filosofi; J. tr. 45: gli uomini che non credono



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agli dèi; Symp. 19: un buffone che si scontra nel pancrazio con un cinico) allo scherno (Alex. 33: i seguaci del falso profeta Alessandro; Par. 50: i filosofi magri, pallidi e capelluti) all’offesa (Cat. 12: il servo maltrattato al morto tiranno Megapente; Merc. cond. 27: un mediocre poeta) condita di disprezzo (Tim. 53, Icar. 29, Nigr. 13: ἀνθρώπιον; sull’uso dei diminutivi a scopo comico in Luciano cfr. supra comm. ad § 2: καὶ μὴν οὐ πάνυ καλός ... ὁ μειρακίσκος ἔδοξέ μοι). Il tratto fisico caratterizzante il timoniere è la parziale calvizie: ἀναφάλαντος, “calvo nella parte anteriore della testa”, ha, infatti, un significato diverso da φαλακρός, “calvo”. Il raro ἀναφαλαντίας ricorre ancora nei Dialoghi nella negativa descrizione di Filiade, adulatore di Timone (Tim. 47), nel realistico ritratto dell’Eracle Ogmio, che pur vecchio incanta con la potenza della parola (Herc. 1), e nell’immagine in odore di caricatura dell’orripilante amante di una prostituta (D. meretr. 14, 4). Luciano sfrutta così la calvizie per connotare con una pennellata di comicità – non di rado mista a scherno – le persone in età avanzata e caratterizzare in modo sottilmente negativo la vecchiaia, secondo una visione di tale età tipica dell’uomo greco (cfr. infra comm. ad § 45: ἐπέραστον πᾶσι, καὶ ταῦτα φαλακρὸν ὄντα καὶ τὴν ῥῖνα σιμόν). Per descrivere la capigliatura di Erone è impiegato anche οὖλος, utilizzato prevalentemente con il significato di “lanoso”, “villoso” in riferimento alla lana, più raramente nel senso di “ricciuto”, “crespo” per descrivere la capigliatura di un uomo (Od. 6, 231). Questo attributo rimanda a una caratteristica tradizionalmente assegnata agli Egizi almeno fin da Erodoto (2, 104, 2: μελάγχροές εἰσι καὶ οὐλότριχες, [gli Egiziani] “hanno carnagione scura e capelli crespi”). Tutta la descrizione di Erone sembra architettata per fornire un effetto di caricatura all’immagine del vecchio nocchiero: anche a un pubblico distratto non doveva sfuggire, infatti, la somiglianza fra il suo ritratto e quello tradizionale di Caronte, il vecchio nocchiero infernale che spinge da solo l’imbarcazione su cui accoglie le anime da traghettare (Cont. 2), calvo sopra la fronte, bianco di capelli (Herc. 2), macilento. Ancora una volta Luciano ammicca al patrimonio mitologico greco piegandolo ai fini della comicità. ὑπὸ λεπτῇ κάμακι τὰ τηλικαῦτα πηδάλια περιστρέφων – Il timone delle navi (πηδάλιον, lat. gubernaculum) fu soggetto a forte evoluzione nel corso dell’antichità. Nella sua forma più progredita, era costituito da due timoni laterali (i πηδάλια ricordati da Luciano), situati da una parte e dall’altra della poppa e manovrati dal timoniere per mezzo di una barra perpendicolare al loro asse (κάμαξ o οἴαξ, lat. clavus), sulla cui conformazione e sulla cui funzione le raffigurazioni antiche e i testi letterari concordano (tavv. 1–2, 7, 10–12; Casson 1971, pp. 224–228; Rougé 1966, pp. 61–65; Id. 1975, pp. 68–71; Janni 1996, p. 90 s.; Gianfrotta - Nieto - Pomey - Tchernia 1997,

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p. 87). Il timone antico, in ragione della sua conformazione, era costruito in maniera tale da ridurre moltissimo lo sforzo del timoniere, una caratteristica che restò a lungo incompresa e che provocò lo stupore di tanti autori antichi, fra cui Luciano stesso, che non a caso ritrae Samippo sorpreso nel vedere un minuscolo vecchietto come Erone guidare il timone di una nave come l’Iside con una sottile barra (Gianfrotta - Nieto - Pomey - Tchernia 1997, p. 87; tav. 10). Questa ‘leggerezza’ dei timoni laterali «era dovuta al fatto che risultavano in qualche modo simili a dei timoni ‘compensati’, sviluppandosi la pala sia dietro che davanti al fusto, dunque aiutando la spinta della parte posteriore con la controspinta di quella anteriore» (Medas; cfr. Mott 1997). Ἥρων, οἶμαι, τοὔνομα – Il nome del timoniere, Erone, assai diffuso nell’Egitto imperiale, appartiene alla lunga sequenza di teonimi tipici dell’onomastica lucianea (Husson 1970, II, ad loc. [p. 20]; Ureña Bracero 1995, p. 178 s.). Luciano è particolarmente attento alle questioni onomastiche e sceglie con cura i nomi dei suoi personaggi perché ne ricordino una particolare caratteristica (vd. infra comm. ad § 22: ἐν αὐτοῖς δὲ καὶ Κλεαίνετος καὶ Δημοκράτης οἱ πάνυ). Non si può escludere, perciò, che anche in questo caso lo scrittore compia una scelta di questo tipo e, nella fattispecie, intenda spiritosamente celebrare l’eccezionale abilità e la grande intelligenza mostrate dal timoniere dell’Iside (vd. oltre) assegnandogli il nome di una delle più brillanti menti dell’antichità, Erone di Alessandria, geniale matematico e ingegnere, inventore dell’eolipila e di tanti altri congegni meccanici (Franco 2006, pp. 72–74, con bibliografia). Θαυμάσιος τὴν τέχνην … καὶ τὰ θαλάττια σοφὸς ὑπὲρ τὸν Πρωτέα – Proteo era una divinità marina, con la capacità di veggente e di mutare forma a proprio piacimento, il cui nome era associato a quello di altri due celebri ‘vecchi del mare’, Nereo (su cui cfr. infra ad § 9) e Forco, a volte presentati nelle fonti come suoi fratelli (Icard-Gianolio 1994). Per Omero, risiedeva abitualmente sull’isola di Faro, di fronte ad Alessandria d’Egitto, a un giorno di distanza dal Nilo (Od. 4, 351–586). Nei Dialoghi, le metamorfosi di cui era capace sono rievocate nel soprannome di Proteo affibbiato all’eclettico filosofo Peregrino (Peregr. 1) e sostanziano il quarto dei Dialoghi marini. Tale figura mitologica è affine ad Erone per numerosi motivi, come il fatto di provenire dall’Egitto (Od. 4, 385) e di vivere a Faro, da cui viene l’Iside (Od. 4, 354–355), di essere un vecchio (Od. 4, 384, 395, 410) e, soprattutto, di avere una profondissima conoscenza dell’elemento marino. Ciononostante, il paragone fra l’anziano nocchiero e Proteo si presenta tanto iperbolico quanto comico, giacché il primo, pur essendo un semplice mortale e apparendo per di più come un misero ometto, non solo rivaleggia col secondo, ma si mostra addirittura ‘più sapiente’ del suo corrispettivo divino nelle cose di mare. Luciano si serve di frequente di questo tipo di paragoni con intento



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umoristico, e proprio nella Nave vi ricorre ancora, poco oltre (§ 9), ai danni dello stesso Erone, che Licino definisce tanto vecchio da sembrare coetaneo di Nereo (per i paragoni fondati sull’antonomasia nei Dialoghi vd. Ureña Bracero 1995, pp. 130–132; cfr. Mortara Garavelli 2005, pp. 178–181; vd. ancora ad es. Icar. 2 [su cui Camerotto 1998, pp. 226–228]; Herm. 20; Peregr. 3 [su cui Schwartz 1951 ad loc., p. 87]; Cont. 7; Rh. pr. 12, 21; Pseudol. 3; Herm. 73; D. mort. 17 [7], 1). ὡς ἔφασκον οἱ ἐμπλέοντες – Che l’abilità del timoniere sia provata dalla verace testimonianza dei passeggeri dell’Iside, oltre che dall’autorevole voce dell’armatore (cfr. infra ad § 7: ὁ ναύκληρος αὐτὸς διηγεῖτό μοι), risulta fondamentale per coinvolgere il pubblico nella finzione lucianea, giacché in tal modo si trasporta sul piano della realtà la descrizione del fantastico viaggio della nave che Timolao si appresta a fare (§§ 7–9). § 7 ᾽Ηκούσατε … ὡς ὁ ἀστὴρ αὐτοὺς ἔσωσεν; – La menzione della stella che ha salvato l’Iside in mare si riferisce al provvidenziale intervento dei Dioscuri narrato poco oltre da Timolao (cfr. infra ad § 9: τινα λαμπρὸν ἀστέρα, Διοσκούρων τὸν ἕτερον, ἐπικαθίσαι τῷ καρχησίῳ). La descrizione delle peripezie dell’Iside, gigantesca nave mercantile alle prese coi rischi tradizionalmente offerti dal mar Mediterraneo, rientra perfettamente nell’immaginario collettivo che il mondo antico ci ha tramandato dell’attività del mercante. È noto, infatti, che «il rischio del mercante che affronta il mare è un topos tra i più comuni e risale agli albori stessi della poesia greca, collegandosi direttamente alla valutazione del mare come infido e pericoloso, il più “giusto” degli elementi, quando nessuna forza lo turba, il meno controllabile quando i venti lo agitano» (Giardina 1989, p. 283). È necessario porre κατάγω al singolare κατήγαγε, attestato dai codici recentiores, piuttosto che al plurale κατήγαγον, presente nei veteres e accolto da Macleod. L’azione espressa dal predicato, che vale “guido”, “conduco”, va riferita evidentemente a Erone, timoniere dell’Iside, che riesce a condurre l’Iside (τὸ πλοῖον) in salvo, piuttosto che all’intero equipaggio. In un unico periodo Luciano presenta, quindi, i tre protagonisti e tre diversi momenti della romanzesca traversata dell’Iside che Timolao si appresta a descrivere: Erone, che con la sua perizia ha portato in salvo la nave (δεῦρο κατήγαγε τὸ πλοῖον); l’equipaggio dell’imbarcazione, che ha rischiato di morire nella tempesta (οἷα ἔπαθον πλέοντες); i Dioscuri, il cui provvidenziale intervento ha impedito il naufragio (ὁ ἀστὴρ αὐτοὺς ἔσωσεν). In questo modo si prepara il pubblico a ciò che sta per ascoltare e si rafforza la chiarezza della narrazione. Оὔκ, ὦ Τιμόλαε, ἀλλὰ νῦν ἡδέως ἂν ἀκούσαιμεν – Lo scambio di battute fra Timolao e Licino accresce le aspettative del pubblico, che si predispone

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ad ascoltare con maggior attenzione le incredibili peripezie superate dall’Iside durante il viaggio dall’Egitto a Roma. ῾О ναύκληρος αὐτὸς διηγεῖτό μοι – L’armatore (ναύκληρος) è colui che si assume la responsabilità finanziaria di un commercio navale senza dover necessariamente svolgere alcun ruolo effettivo sulla nave. Non di rado è anche il timoniere (κυβερνήτης) dell’imbarcazione (ναυκληροκυβερνήτης), e a volte può anche esserne il proprietario (πλοίου δεσπότης: cfr. infra ad §§ 13, 14): in questo secondo caso può commerciare in proprio e imbarcarsi di persona o farsi rimpiazzare, specialmente se è proprietario di molte navi (cfr. infra ad § 13: ἐπιπλέων ἐνίοτε μὲν αὐτός, ἐνίοτε δὲ οἰκέτας ἐκπέμπων; Casson 1971, p. 314 s.; Janni 1996, p. 385 s.; vd. ancora Rougé 1975, pp. 194–199 e Rickman 2008, p. 10: i soggetti del commercio marittimo erano quasi esclusivamente privati cittadini). Si tratta di un’attività assai redditizia, come ricorda altrove lo stesso Luciano, che descrive il ναύκληρος Mnesiteo come un riccone da cui gli dèi si aspettano un grosso sacrificio (J. tr. 15). Precisando che sta riferendo le parole dell’armatore, Timolao vuol convincere i suoi interlocutori che ciò che sta per raccontare è la verità, nonostante molti particolari della traversata dell’Iside ricordino quelli presenti in tanti racconti di viaggio fantastici (gli ἐμπορικὰ διηγήματα tanto cari al mondo antico), che Luciano stesso biasima nell’Intorno ai dotti che convivono per mercede (Merc. cond. 1) e parodia nella Storia vera (Bompaire 1958, p. 453, n. 2; Husson 1970, II, ad loc. [p. 20 s.]). Il pubblico lucianeo, pur predisposto ad ascoltare un determinato tipo di verità, sa già che verrà disatteso nelle sue aspettative e, quando sarà il momento, proverà piacere nel trovare conferma alle sue supposizioni e nell’apprezzare, a un tempo, l’ingegnosa inventiva di Luciano. Lo stesso accadrà più in là per il desiderio di Timolao, che pur dichiarando di non voler commettere gli errori dei suoi predecessori nella gara dei sogni (§ 41), finirà per superarli di molto nell’errore (§§ 42–44). χρηστὸς ἀνὴρ καὶ προσομιλῆσαι δεξιός – Per dare maggior vivacità e realismo alla narrazione, Luciano ama presentare i personaggi che mette in scena ricordandone alcune peculiarità del carattere, come fa anche in questo caso con l’armatore dell’Iside, ritratto come un brav’uomo gentile e disponibile. Se l’aggettivo verbale χρηστός, che vale in origine “utile”, “che si può utilizzare”, veicola un’idea di bontà o di eccellenza (DELG s.v. χρησ-, 3 [p. 1276]), il successivo nesso προσομιλῆσαι δεξιός, che fa riferimento alla bonaria loquacità dell’uomo, rafforza l’idea che questi sia un tipo gioviale, affabile e amante della compagnia. ῎Εφη … ἰδεῖν τὸν Ἀκάμαντα – L’Acamante è un promontorio posto nella parte nord-occidentale dell’isola di Cipro, di cui Strabone ricorda l’abbon-



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dante vegetazione (Strab. 14, 6, 1–2). Prendeva il nome dall’eroe omonimo, eponimo della tribù attica degli Acamantidi (Paus. 1, 5, 2), figlio di Fedra e Teseo e fratello di Demofonte (Diod. Sic. 4, 62, 1), che combatté nella guerra di Troia e fu fra i guerrieri greci che si nascosero nel cavallo di legno (Paus. 1, 23, 8) prima della presa della città (Kearns 1996). Oggi è chiamato capo Arnaoutis. ἀπὸ τῆς Φάρου ἀπάραντας – Faro è l’isolotto di fronte ad Alessandria d’Egitto su cui fu costruita la monumentale torre omonima, utilizzata come strumento di segnalazione luminosa per le navi, che ha dato in seguito il nome a tutti gli edifici con la stessa funzione (tav. 16; Janni 1996, pp. 351–355; Medas 2004, pp. 71–80, praes. 78–80; cfr. Giardina 2011). Il faro alessandrino fu annoverato fra le sette meraviglie del mondo antico per la sua maestosità, a cui Luciano spiritosamente allude nell’Icaromenippo (Icar. 12). Fu costrui­­to da Sostrato di Cnido per volere di Tolomeo II Filadelfo intorno al 285 a.C., come ricorda Luciano stesso riferendo un gustoso aneddoto in cui le vanesie esigenze propagandistiche del re soccombono di fronte alle ambizioni di gloria eterna dell’architetto (Hist. conscr. 62). Qui un dettaglio celeberrimo del paesaggio egiziano è sfruttato per lasciare al pubblico il piacere di decifrare l’allusione al centro da cui inizia il viaggio dell’Iside, Alessandria, una delle più belle e ricche città amministrate da Roma, che Elio Aristide (In Rom. 95) definisce non solo “maestosa e grande” (σεμνὴ καὶ μεγάλη), ma “un ornamento” (ἐγκαλλώπισμα) dell’Impero. ἑβδομαίους – Da Faro il viaggio dell’Iside prosegue tranquillo e senza alcun ostacolo per sette giorni, un lasso di tempo che probabilmente non ha una valenza reale, giacché nei Dialoghi il sette ricorre in una vasta varietà di situazioni in cui, per lo più, è la fantasia a farla da padrona: in un buon numero di indicazioni temporali (cfr. infra ad § 9: ἑβδομηκοστῇ ... ἡμέρᾳ; Hist. conscr. 1; VH 1, 10, 21; 2, 1, 25, Philops. 14, 25, 27; Sat. 22; Syr. d. 7, 20, 52); per quantificare un gruppo di uomini (cfr. infra ad § 22: θυρωροὶ ἑπτὰ ἐφεστῶτες; VH 1, 32), le porte di una città (VH 2, 11), i fiumi di una regione (VH 2, 13), le trasmigrazioni dell’anima di Pitagora (VH 2, 21), le corone d’oro di un improbabile simulacro (Tim. 51), le corde della lira di Orfeo (Astr. 10) o la serie di morti che Parresiade-Luciano merita per aver sbeffeggiato i filosofi (Pisc. 2); nel descrivere gli ingredienti di un incantesimo (D. meretr. 4, 4; Philops. 12) o di una medicina (Trag. 169–170) o la somma di esametri emessi dal Colosso di Memnone per un suo responso (Philops. 33). La prima spia della natura fantastica del viaggio dell’Iside risulta così la presenza nella narrazione del numero sette, «così carico di dottrine e di interpretazioni», che Luciano nella sua opera smitizza impiegandolo frequentemente e per lo più in contesti comici o fantastici, «con una evidente parodia dell’alta frequenza nelle opere ‘impegnate’», come la

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Bibbia (Sciolla 1988, p. 115 ad VH 2, 21; sull’impiego ricorrente di cifre come il tre, il quattro, il cinque, il sette o il dodici nei Dialoghi vd. Betz 1961, p. 127 e n. 3). εἶτα ζεφύρου ἀντιπνεύσαντος – Per la navigazione a vela risulta fondamentale, oltre alla capacità della nave di affrontare il mare e all’abilità di chi la governa (Rougé 1975, pp. 27–30; cfr. Casson 1971, pp. 273–278; Höckmann 1985, pp. 161–165), anche un favorevole regime dei venti, da cui dipende la durata di una traversata (Casson 1971, p. 274, n. 17; Rougé 1975, pp. 23–25; Gianfrotta - Nieto - Pomey - Tchernia 1997, pp. 25–27; Medas 2004, pp. 48–61). La navigazione dell’Iside risulta ostacolata dal soffio dello zefiro (lat. favonius), un vento spirante da ovest e, pertanto, contrario alla rotta della nave, che dovrebbe procedere da Oriente a Occidente. Si tratta di un vento ritenuto fin da Omero violento e piovoso (Od. 5, 295: Ζέφυρος ... δυσαής; 14, 458: Ζέφυρος μέγας … ἔφυδρος) e capace di ingrossare il mare (Luc. D. deor. 14 [16]; D. mar. 7 [11]; 15 [15], 4; Icar. 26), ma più tardi considerato pari a una brezza calda e leggera (Arist. Pr. 943b 21: εὐδιεινὸς καὶ ἥδιστος; Luc. Dom. 7) e messaggero della primavera (così lo descrive anche Luciano in VH 2, 12 e Trag. 42–53 e lo eterna Sandro Botticelli nella celeberrima Nascita di Venere, oggi alla Galleria degli Uffizi di Firenze). Che una nave come l’Iside potesse essere fortemente avversata dai venti contrari risulta a dir poco dubbio, perché «se è vero che le andature portanti (col vento in poppa o al lasco) erano le più favorevoli, quelle più ‘economiche’, le onerarie antiche navigavano tranquillamente, senza alcun problema, anche al traverso; in casi particolari, con maggiori problemi, anche di bolina larga» (Medas; cfr. Medas 2009; Arnaud 2011). Tale dettaglio potrebbe così costituire un altro particolare romanzesco che Luciano dissemina nel fantasioso racconto del viaggio dell’Iside (cfr. supra l’introduzione al § 1.5.2). ἀπενεχθῆναι πλαγίους ἄχρι Σιδῶνος – Sidone (odierna Ṣāīdā) è un’antichissima città del Libano, di fondazione fenicia, fra Berito (oggi Beirut, capitale del paese) e Tiro (oggi Ṣūr). Dopo aver attraversato i secoli e molteplici dominazioni ed essere stata il maggior centro fenicio della regione sotto i Persiani, perde gradualmente importanza, che non riacquista neanche quando Eliogabalo (218–222 d.C.) le concede lo status di colonia (Liwak 2001). È presumibilmente per questo che in questo contesto viene semplicemente nominata e nel resto della produzione lucianea le sue menzioni sono esclusivamente di natura aneddotica (Rh. pr. 5) o mitologica (D. deor. 24 [4], 2; D. mar. 15 [15], 1), laddove anche negli pseudolucianei Amores viene evocata con un’allusione alla sua storia puramente antiquaria (Amor. 26). ἐκεῖθεν δὲ χειμῶνι μεγάλῳ δεκάτῃ … ἐλθεῖν – Quello della tempesta è un tema tipico del romanzo il cui archetipo si trova nel quinto libro dell’Odissea (vv. 291–399). È uno dei motivi favoriti dagli autori di epoca imperiale:



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non a caso l’epistolario di Alcifrone si apre con la descrizione di una burrasca che impedisce ai pescatori di andar per mare (Alciphr. 1, 1) e lo stesso Luciano ne fa abbondante uso (VH 1, 5–6, 9–10, 27–30 e 34; 2, 2, 35–37, 47; Peregr. 43; Zeux. 3; J. tr. 15; Trag. 300–301; vd. Anderson 1976, p. 39 s.; l’index di Schmeling 1996 s.v. shipwreck). Nel mondo antico la maggior parte delle narrazioni di vaggi in mare è caratterizzata dal ricorso a un determinato patrimonio di topoi, non di rado ricorrenti, se non immancabili, e una traversata che meritava di essere raccontata doveva comprendere inevitabilmente una tempesta: si consideri, ad esempio, l’epistolario di Sinesio di Cirene, al cui interno la più lunga di tutte le lettere (epist. 51 Garzya) riferisce un viaggio per mare che di tempeste spaventose ne comprende addirittura due (Janni 2003, pp. 81–91, praes. 81 s., con bibliografia). In questo contesto Luciano vuol presumibilmente prendere in giro la credulità popolare e, al tempo stesso, le esagerazioni di molti narratori e ciarlatani che amavano abbindolare i creduloni con mirabolanti racconti marinareschi palesemente falsi (cfr. Merc. cond. 1–2 e l’introduzione al § 1.5.2). A rafforzare in noi la convinzione che lo scrittore, attraverso il rocambolesco viaggio dell’Iside, voglia parodiare un certo tipo di letteratura è il fatto che, nel variopinto resoconto di Timolao, troviamo pressoché tutti i dettagli dei favolosi resoconti di viaggio biasimati altrove nei Dialoghi. ἐπὶ Χελιδονέας – Le Chelidonie, le “Isole delle rondini”, si trovano lungo le coste della Cilicia e sono disposte a corona di fronte alla punta, chiamata un tempo Sacra (cfr. infra ad § 8: ὁ κλύδων ... περὶ τῷ ἀκρωτηρίῳ σχιζόμενος), che divideva il mare di Licia da quello di Panfilia (cfr. infra ad § 8: κατ᾽ ἐκεῖνο γὰρ δὴ συμβαίνει μερίζεσθαι τὸ Παμφύλιον ἀπὸ τῆς Λυκιακῆς θαλάττης), due regioni situate lungo le coste meridionali della penisola anatolica (Strab. 11, 12, 2; 14, 2, 1 e 3, 8). Godevano di notorietà perché, con la pace di Callia, il re dei Persiani aveva promesso di tenersi lontano dal mare greco per la distanza percorribile da un cavallo in un giorno e di non navigare al di là delle Chelidonie e delle Cianee (Dem. Legat. [19], 273; Plut. Cim. 13, 4; Arist. In Rom. 10; ps.-Luc. Amor. 7). La pericolosità della navigazione al largo di tali isole era ben nota (ps.-Luc. Am. 7; Ath. 7, 298a), come Luciano stesso conferma ricordando che l’Iside aveva rischiato di far naufragio proprio nelle loro vicinanze (Beresford 2013, pp. 86–90: le regioni meridionali e orientali del Mediterraneo registrano la presenza di onde più frequenti e più alte rispetto ad altre zone bagnate dallo stesso mare). διὰ τοῦ Αὐλῶνος – Aulone era chiamato il braccio di mare che separava Cipro dalla Cilicia (Husson 1970, II, ad loc. [p. 22]). ἔνθα δὴ παρὰ μικρὸν ὑποβρυχίους δῦναι ἅπαντας – La navigazione a vela è sempre stata legata alle condizioni del tempo e allo stato del mare e, in passato, il Mediterraneo ha offerto numerose insidie ai naviganti per le sue

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III Commento

tempeste improvvise. È una realtà di cui restano numerose testimonianze nella letteratura greca e latina (Anderson 1976b, pp. 19, 42, 105 e n. 28; André - Baslez 1993, pp. 425–430, 439–444; Gianfrotta - Nieto - Pomey Tchernia 1997, pp. 36–46): basti ricordare il celebre racconto del viaggio di S. Paolo da Cesarea a Roma degli Atti degli Apostoli (27, 1–44; 28, 1–13; Janni 1996, pp. 331–347, praes. pp. 331–334; Gianfrotta - Nieto - Pomey Tchernia 1997, pp. 10–17; Janni 2003, p. 7, n. 3), il rocambolesco viaggio in mare, terminato in naufragio, narrato nel Satyricon (§§ 101–115; Janni 1996, pp. 373–401), o la già citata, burrascosa navigazione da Alessandria a Cirene descritta da Sinesio (Epist. 51 Garzya), «probabilmente la relazione più viva e brillante di un viaggio per mare che l’Antichità ci abbia lasciato» (Janni 2003, p. 7), oltre a un paio di passi di Persio in cui si ricordano quei naufraghi che, perduta in mare ogni sostanza, chiedevano l’elemosina per strada con appeso alle spalle un quadretto raffigurante la scena del naufragio (Sat. 1, 89–91; 6, 27–33). Per limitare i rischi dei viaggi in mare, i marinai nell’antichità distinguevano una stagione propizia alla navigazione, quando le condizioni meteorologiche erano più favorevoli, sia di giorno sia di notte, e un’altra in cui invece era imprudente e rischioso mettersi per mare e, di conseguenza, la navigazione si riduceva al piccolo cabotaggio e ai trasporti indispensabili (Medas 2004, pp. 34 s., 38), svolgendosi dunque sostanzialmente «per motivi di particolare necessità e in quelle zone maggiormente favorite dalle condizioni climatiche e meteo-marine, come nel Mediterraneo orientale e Nord Africa. Non a caso, le fonti su cui si basa la rilettura di una navigazione aperta anche in inverno si riferiscono al Mediterraneo orientale (Tammuz 2005) e ricordano che i viaggi verso l’Egitto si arrestavano comunuqe tra gennaio e febbraio» (Medas; cfr. Beresford 2013). I Greci definivano χείμων la stagione sfavorevole alla navigazione, i Romani mare clausum: la sua durata era variabile e poteva esser breve (dalla metà di novembre fino all’inizio di marzo) o lunga (dalla metà di settembre fino alla fine di maggio), in base non a un’imposizione formale, ma a determinate consuetudini fondate sull’esperienza dei naviganti (Rougé 1975, pp. 22–24; Höckmann 1985, pp. 90–95; Gianfrotta - Nieto - Pomey - Tchernia 1997, pp. 25–27; Medas 2004, pp. 34–40). Una nave mercantile avrebbe potuto compiere il tragitto dall’Egitto all’Italia, dunque, fra l’inizio della primavera e quello dell’autunno. Nella fattispecie, l’Iside deve aver compiuto la sua avventurosa traversata del Mediterraneo nei mesi estivi, visto che poco oltre Timolao ricorda che la nave è stata parzialmente ostacolata durante la navigazione dagli etesii, venti regnanti che spiravano da giugno ad agosto (cfr. infra comm. ad § 9: πρὸς ἀντίους τοὺς ἐτησίας πλαγιάζοντας). § 8 Οἶδα … ἡλίκον ἐν τῷ τόπῳ ἀνίσταται τὸ κῦμα – Timolao continua a insistere sulla pericolosità della navigazione al largo delle Chelidonie (cfr.



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supra comm. ad § 7: ἐπὶ Χελιδονέας) aggiungendo ora a corroborare tale dato la propria esperienza personale (οἶδα), che riferisce in una maniera degna delle pagine di un romanzo. L’altezza spaventosa delle onde marine è uno degli elementi pertinenti all’ekphrasis di una tempesta di cui i romanzieri e i sofisti, per via della sua spettacolarità, amano fare uso (Anderson 1976, p. 39; cfr. Tox. 19–20), e Luciano abilmente lo sfrutta, a quanto sembra, per meglio definire la caratterizzazione di Timolao come di un uomo amante dei mirabilia e sempre pronto all’avventura (vd. nell’introduzione al § 1.6.4). καὶ μάλιστα περὶ τὸν λίβα, ὁπόταν ἐπιλάβῃ καὶ τοῦ νότου – Il libeccio (lat. africus), spirante in direzione sud-ovest, e il noto (o austro, lat. auster), proveniente da sud, sono due venti carichi di umidità e portatori di piogge (da cui il nome νότος, da νοτίς, “umidità”: Medas 2004, p. 49). Come lo zefiro (§ 7), potrebbero ostacolare o favorire la navigazione di una imbarcazione a vela nel Mediterraneo, come Luciano ricorda più volte (Icar. 25 e 26; D. mar. 7 [11] e 15 [15]). Come detto, la possibilità di sfruttare i venti a proprio favore ha da sempre rappresentato un fattore decisivo per la buona riuscita di un viaggio (cfr. supra comm. ad § 7: εἶτα ζεφύρου ἀντιπνεύσαντος). Non a caso ancora oggi le espressioni “col vento in poppa” o “a gonfie vele” sono sinonimo di circostanze favorevoli o del felice esito di qualcosa (Medas 2004, pp. 53, 58 s.; cfr. Tosi 1992, p. 237, n° 500, sull’oraziano dum licet, et spirant flamina, navis eat [Fast. 4, 18] e i suoi paralleli moderni). κατ᾽ ἐκεῖνο γὰρ δὴ συμβαίνει μερίζεσθαι τὸ Παμφύλιον ἀπὸ τῆς Λυκιακῆς θαλάττης – Cfr. supra comm. ad § 7: ἐπὶ Χελιδονέας. καὶ ὁ κλύδων ἅτε ἀπὸ πολλῶν ῥευμάτων περὶ τῷ ἀκρωτηρίῳ σχιμενος – Il pericolo che una nave sbatta contro gli scogli e faccia naufragio è un evento temuto dai naviganti di ogni epoca e non può mancare nel resoconto dell’avventuroso viaggio dell’Iside, che si rifà ai tanti fantasiosi racconti marinareschi di cui è ricca l’epoca antica (cfr. Merc. cond. 1–2 citato supra nell’introduzione al § 1.5.2). Il promontorio (ἀκρωτήριον) a cui si allude è la punta, chiamata Sacra, che separava il mar di Licia dal mar di Panfilia, oggi detta Capo Chelidonio (o ‘Capo delle rondini’). ἀπόξυροι δέ εἰσιν πέτραι … καὶ τὸ κῦμα πολλάκις αὐτῷ ἰσομέγεθες τῷ σκοπέλῳ – Luciano associa a un tipico racconto di marinai una decisa ricercatezza nello stile, come provano parole rare inserite nel testo come ἀπόξυρος, “tagliate a picco” (Peripl. M. Rubr. 40; cfr. VH 2, 30; Rh. pr. 7; Prom. 1), κλῦσμα, “maroso” e ἰσομεγέθης, “della medesima grandezza”, l’erodoteo κυματωγή, “riva”, “spiaggia” e il poetico κλύδων, “moto ondoso”, oltre al particolare effetto fonico, evocante bene il tumulto di una tempesta, di un passaggio come καὶ φοβερωτάτην ποιεῖ τὴν κυματωγὴν καὶ τὸν ἦχον μέγαν. Se in genere nei Dialoghi l’esperienza del mare è resa attraverso

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III Commento

un linguaggio quotidiano e uno stile piano e si discosta dalla ricercata elaborazione letteraria che riesce a toccare in altri luoghi – in particolare per il tema del naufragio –, in questo contesto il ricorso a uno stile ricercato ed elegante risulta strumentale alla creazione immaginaria e tradisce la natura puramente fantastica della narrazione, come nella Storia vera (cfr. Andreani 1998, p. 134 s.). § 9 Τοιαῦτα καὶ σφᾶς καταλαβεῖν ἔφασκεν ὁ ναύκληρος – Il fatto che la tempesta ‘sorprenda’ i marinai dell’Iside e li colga all’improvviso non stupisce, dal momento che nell’universo letterario antico è prassi che il fortunale arrivi rapidamente, con poco o nessun preavviso: «il ‘mare narrativo’ conosce poche vie di mezzo: passa repentinamente dalla placidità ingannevole al furore più terrorizzante, e i naviganti passano altrettanto repentinamente dalla spensieratezza all’angoscia» (Janni 2003, pp. 82–84; cfr. VH 1, 9: una tempesta arriva all’improvviso e sconvolge l’ardito viaggio di Scintaro e dei suoi compagni oltre le Colonne d’Ercole). ἔτι καὶ νυκτὸς οὔσης καὶ ζόφου ἀκριβοῦς – La notte e la totale oscurità sono dettagli tipici della descrizione di una tempesta e contribuiscono a rendere la raffigurazione della furia degli elementi più drammatica e spettacolare a un tempo (cfr. Petr. Sat. 114). πρὸς τὴν οἰμωγὴν αὐτῶν ἐπικλασθέντας τοὺς θεοὺς πῦρ τε ἀναδεῖξαι ἀπὸ τῆς Λυκίας, ὡς γνωρίσαι τὸν τόπον ἐκεῖνον – Il provvidenziale aiuto dei Dioscuri a favore di imbarcazioni in difficoltà è un ingrediente immancabile nelle descrizioni romanzesche di viaggi in mare, come denuncia altrove, parodiando i fantasiosi racconti marinareschi, lo stesso Luciano (Merc. cond. 1–2 citato per esteso supra nell’introduzione al § 1.5.2), che pure non si esime dal riproporlo in svariate occasioni (vd. ancora ad es. D. deor. 26 [25], 1; Anderson 1976b, p. 10: in Luciano «St. Elmo’s fire is part of his nautical repertoire»). L’abusato tema dell’intervento salvifico dei Dioscuri aggiunge un altro elemento spettacolare alla descrizione della rocambolesca traversata dell’Iside e, a un tempo, è manipolato per parodiare le tante descrizioni enfatiche del provvidenziale aiuto recato dagli dèi agli uomini bisognosi, come invita a credere l’inserimento in questo contesto di un termine proprio della poesia ‘alta’ come οἰμωγή, “lamento”, dell’enfatico ἐπικλάω, “muovo a compassione” e della sineddoche con cui πῦρ, “fuoco” vale per ἀστήρ, “stella” (sulla critica lucianea alla provvidenza divina vd. infra comm. ad § 16: παρ᾽ αὐτῷ γὰρ ἑκάστῳ ἔστω τὸ μέτρον τῆς εὐχῆς … εἰ καὶ τῇ φύσει ἀπίθανα ἔσται). τινα λαμπρὸν ἀστέρα, Διοσκούρων τὸν ἕτερον, ἐπικαθίσαι τῷ καρχησίῳ – I Dioscuri, Castore e Polluce, figli gemelli di Zeus e Leda e fratelli di Elena, fino in età classica sono principalmente divinità guerriere e agonistiche



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e vengono rappresentati in genere con una corona di palma oppure di alloro, a cavallo o vicino a cavalli (h. Diosc. 6–16; Eur. Hel. 1495–1511; Paus. 3, 24, 5; 10, 38, 7; Luc. D. deor. 26 [25]; Gall. 20; Alex. 4; sul santuario ateniese dei Dioscuri vd. Paus. 1, 18, 1; Luc. Tim. 10; Pisc. 42; Symp. 32). Col tempo, i due diventano i protettori della navigazione per eccellenza e sono invocati principalmente dai marinai, che spesso pongono un loro simulacro (παράσημον) sulla prua della navi (Floriani Squarciapino 1959; Bianco 1960). La “stella risplendente” (τινα λαμπρὸν ἀστέρα) di cui si fa menzione è uno dei due Dioscuri che si pone sulla cima dell’albero (τῷ καρχησίῳ) dell’Iside squassato dalla tempesta (cfr. Merc. cond. 1: τιν᾽ ἄλλον ἐκ μηχανῆς θεὸν ἐπὶ τῷ καρχησίῳ καθεζόμενον). L’immagine vuol essere allusione ai fuochi di S. Elmo, un fenomeno atmosferico il cui nome, di origine bizantina, deriva da una corruzione di quello di Elena, sorella dei Dioscuri; si tratta di quelle fiamme fosforescenti, causate da fenomeni di elettrizzazione dell’atmosfera, che volteggiano sul mare in tempesta e che i marinai greci interpretavano come improvvisa apparizione di uno dei due dèi, o di entrambi, accorsi a salvare una nave in difficoltà (Eur. Hel. 1495–1505; Theocr. 22, 8–24; Plin. NH 2, 101; Sen. Quaest. nat. 1, 1, 13, su cui Vottero 1989 ad loc. [p. 226 s.], con indicazione di altri passi paralleli; Kussl 1991 ad P. Dubl. C3, rr. 56–60 [p. 125 s.]). Mettono le virgole, interpretando Διοσκούρων τὸν ἕτερον come apposizione di τινα λαμπρὸν ἀστέρα, numerosi editori (Lehmann, Bekker, Dindorf, Fritzsche; così anche Nesselrath 1990b, p. 509). Accolgo questa punteggiatura: pare evidente ritenere la stella che si pone sulla cima dell’albero maestro e guida l’Iside verso la salvezza uno dei due Dioscuri. καὶ κατευθῦναι τὴν ναῦν … ἤδη τῷ κρημνῷ προσφερομένην – Luciano recupera ancora un altro dettaglio tipico dei racconti romanzeschi, per cui il naufragio, quando non avviene, viene sempre evitato di un soffio (Husson 1970, II, ad loc. [p. 24]). È un particolare abusato in ambito letterario che lo scrittore si compiace di riprendere per farne la parodia. Si prenda in considerazione, ad esempio, la gustosa scenetta dello Zeus tragedo in cui Zeus si lamenta del fatto che Mnesiteo, l’armatore, prometteva agli dèi ecatombi intere quando la sua nave filava verso gli scogli del promontorio Cafereo (J. tr. 15: ὁπότε ἡ ναῦς ἤδη προσεφέρετο τῷ σκοπέλῳ) e poi, una volta salva l’imbarcazione e non più bisognoso dell’aiuto divino, se la cavava con una micragnosa offerta. Τοὐντεῦθεν … πλεύσαντας ἑβδομηκοστῇ ἀπ᾽ Αἰγύπτου ἡμέρᾳ – La durata di 69 giorni per il viaggio dell’Iside dall’Egitto al Pireo sembra spropositata (così anche Husson 1970, II, ad loc. [p. 24], con ulteriore bibliografia; contra Rougé 1966, p. 104: «voyage de l’Isis […], type parfait du voyage

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dérouté par suite du mauvais temps»). La menzione di un multiplo di sette in questo calcolo (ἑβδομηκοστῇ … ἡμέρᾳ) fa sospettare, in effetti, che la cifra sia inventata e non corrisponda affatto a un dato reale, perché il sette è un numero ricorrente nei Dialoghi (vd. supra comm. ad § 7: ἑβδομαίους) e, fra l’altro, è più volte associato alla narrazione del viaggio fantastico dei protagonisti della Storia vera (VH 1, 6 e 10). In ogni caso, pur volendo fare affidamento sui dati a nostra disposizione sulla navigazione nell’antichità, non sembra possibile dare un’opinione definitiva sulla questione. Per il mondo antico, infatti, il calcolo della potenziale durata di una traversata è approssimativo e ingannevole, perché le fonti non specificano mai che distanza si poteva coprire in una giornata in mare; in più, per una stessa tratta si potevano impiegare due giorni, se il tempo era favorevole, o dieci, se era sfavorevole; infine, oltre al tempo atmosferico, ci sono tanti altri fattori da considerare, come il tipo di navigazione che si svolgeva, le dimensioni e la tipologia dell’imbarcazione impiegata, le eventuali soste, gli errori di rotta e altri intoppi che le fonti normalmente non rivelano e che sarebbe invece indispensabile conoscere. Per questi motivi non solo non possiamo conoscere la velocità delle navi antiche, ma non possiamo stabilirne con certezza nemmeno la velocità media (Medas 2004, pp. 40–48; Arnaud 2005 passim, con ulteriore bibliografia; cfr. Casson 1971, pp. 281–296, con il calcolo della durata delle principali rotte nel Mediterraneo sia con un regime di venti favorevole sia con uno sfavorevole). πρὸς ἀντίους τοὺς ἐτησίας πλαγιάζοντας – Nell’antichità gli etesii (da ἐτήσιος, “annuale”) erano nel Mediterraneo i più celebri venti regnanti (quelli che soffiano con maggiore regolarità in una determinata regione o in un certo periodo dell’anno). Preannunciati da un breve periodo di venti deboli settentrionali (detti prodromi), spiravano dalla metà di giugno fino alla fine di agosto e, per almeno una quarantina di giorni, potevano favorire le navigazioni dall’Italia e dalla Grecia verso paesi orientali (come l’Egitto) oppure, al contrario, erano in grado di ostacolare all’improvviso e con gran violenza la rotta che le navi come l’Iside seguivano dall’Egitto fino a Roma (Medas 2004, p. 59; cfr. Rougé 1975, p. 200; Gianfrotta - Nieto - Pomey Tchernia 1997, p. 26 s.). ἐς Πειραιᾶ χθὲς καθορμίσασθαι τοσοῦτον ἀποσυρέντας ἐς τὸ κάτω – Gli avverbi temporali πρῴην, “recentemente” e χθές, “ieri” sono impiegati con frequenza da Luciano, soprattutto nei dialoghi di minore estensione (cfr. D. deor., D. mort., D. mar., D. meretr.), per rendere attuali episodi appartenenti a un passato lontanissimo o mitico o per determinare cronologicamente un aneddoto o un racconto (Ureña Bracero 1995, pp. 95–97: tali avverbi «son prácticamente la única marca temporal en el interior de los diálogos»). La



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narrazione acquista così la naturalezza e la spontaneità di una rappresentazione scenica (Anderson 1976, p. 172). οὓς ἔδει τὴν Κρήτην δεξιὰν λαβόντας ὑπὲρ τὴν Μαλέαν πλεύσαντας ἤδη εἶναι ἐν Ἰταλίᾳ – Nell’antichità il capo Malea, punto di passaggio quasi obbligato per chi avesse intenzione di navigare dall’Egeo allo Ionio, era celebre per la violenza dei venti che vi spiravano e, soffiando in direzioni diverse, potevano dare origine a spaventose tempeste, capaci di far perdere la via del ritorno ai marinai o, addirittura, affondare le imbarcazioni. In Omero questo luogo costituisce il punto di svolta dell’intera narrazione odissiaca, in quanto rappresenta la magica porta di passaggio attraverso cui Odisseo entra in un mondo di fiaba: qui, infatti, l’eroe perde la strada per Itaca e il suo viaggio diventa una favolosa peripezia in cui abbondano maghe, mostri e luoghi incantati e terribili (Capra 2008). Con il passare del tempo, la pericolosità estrema del doppiaggio del Malea si trasforma in un motivo topico per la tradizione letteraria antica e diventa altresì proverbiale (Strab. 8, 6, 20: παροιμιάζονται “Μαλέας δὲ κάμψας ἐπιλάθου τῶν οἴκαδε”; Luc. Zeux. 3). Il fatto che l’Iside, per avere una felice navigazione fino in Italia, avrebbe dovuto lasciarsi a destra Creta e doppiare il Malea, punta estrema della più orientale delle tre penisole del Peloponneso, sembra francamente senza senso, se consideriamo la geografia del Mediterraneo. Per questo, nonostante ci sia chi abbia tentato di interpretare tale idea come plausibile (Husson 1970, II, ad loc. [p. 24 s.]), è più probabile ritenere che Luciano qui non voglia assolutamente rispettare la realtà della navigazione nel Mediterraneo ma, più semplicemente, citi un luogo della Grecia celeberrimo e assiduamente frequentato a livello letterario per il puro piacere di riportarlo alla mente del suo pubblico (così anche Bompaire 1958, pp. 534–536; cfr. Anderson 1976b, p. 93, n. 116 sull’utilizzo del topos del doppiaggio del Malea nella Nave di Luciano e nella Vita di Apollonio di Tiana [3, 23] di Filostrato; vd. ancora Alciphr. 1, 10, 3). Νὴ Δία, θαυμάσιόν τινα φὴς κυβερνήτην τὸν ῞Ηρωνα – Erone racchiude in sé le competenze del timoniere (§ 6: ὑπὸ λεπτῇ κάμακι τὰ τηλικαῦτα πηδάλια περιστρέφων) e quelle del pilota (κυβερνήτης, da κυβερνάω, “governo”, “dirigo”, “guido”, in latino gubernator, da guberno, da cui derivano i moderni ‘cibernetica’, ‘governo’ e ‘governare’: Janni 2003, p. 22). Se in greco il timoniere si definisce πηδαλιοῦχος (da πηδάλιον, “timone”), in latino si usa lo stesso termine che identifica il pilota, cioè gubernator (gubernaculum è il timone). Questo testimonia non solo una minore specializzazione tecnica del lessico latino rispetto a quello greco, ma anche un’identificazione tra pilota e timoniere che, non di rado, era reale (Medas 2004, pp. 25–27), come è il caso, appunto, del nostro Erone. Stando alle fonti, si può ritenere che la figura del pilota-timoniere, uomo di esperienza pratica e

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III Commento

di grande intelligenza, fosse usuale nel mondo antico, nel senso che il pilota non era sempre anche timoniere, ma poteva ricoprire questa funzione se chiamato a reggere il timone in alto sulla poppa (Bis acc. 2), nelle manovre più complicate e nei momenti di particolare difficoltà (Gianfrotta - Nieto Pomey - Tchernia 1997, pp. 32–35; Medas 2004, pp. 24–32; cfr. Tosi 1992, p. 722, nº 1621: “tutti sanno fare il timoniere col mare calmo”). Vista l’importanza fondamentale che rivestiva su un’imbarcazione, in special modo nei momenti di pericolo, il timoniere doveva essere scelto con cura in base alla sua abilità e alla sua esperienza (cfr. Luc. Herm. 28). È proprio per le sue qualità professionali e umane che il buon pilota diventa simbolo di rettitudine e di saggezza e figura emblematica dei valori positivi che devono motivare l’agire umano (Plat. Resp. 488a–489c; Plut. Caes. 28, 5; Sen. Epist. 4, 30, 3; 11, 85, 36; 17, 108, 37), come traspare anche nei Dialoghi, in cui si configura come un personaggio importante e di riguardo a bordo delle navi (D. mort. 10 [20], 2; J. tr. 46; Bis acc. 2; VH 1, 5 e 40). Il rovescio della medaglia è che tanti racconti di avventure di mare testimoniano le carenze (quasi incredibili per noi moderni) nell’etica professionale dell’equipaggio, pronto a darsi al vino e all’ozio in tempo di bonaccia o a lasciare i passeggeri al loro destino nel momento del pericolo; dalle fonti sappiamo, inoltre, che fino agli inizi dell’età moderna sulle imbarcazioni c’era la mancanza di un vertice gerarchico ben individuato, e decisioni anche serie, in momenti di emergenza, venivano prese collegialmente (cfr. Luc. Cont. 3), magari dopo lunghe discussioni (Janni 2003, pp. 23–28). ἢ τοῦ Νηρέως ἡλικιώτην, ὃς τοσοῦτον ἀπεσφάλη τῆς ὁδοῦ – Prima Timolao aveva tessuto comiche lodi di Erone paragonandolo a Proteo per la sua conoscenza del mondo marino (§ 6) e predisponendo il pubblico a considerarlo una sorta di caricatura vivente. Ora Licino non solo osserva, con una buona dose di ironia, che è proprio grazie all’abilità di questo “ammirevole” (θαυμάσιος) pilota se la nave ha vistosamente deviato dalla sua rotta, ma intavola anche un paragone spiritoso fra questi e Nereo, primitiva e saggissima divinità marina della mitologia greca, figlio di Ponto e di Gea (Anderson 1976b, p. 42). Si crea così un comicissimo contrasto fra gli innumerevoli anni trascorsi in mare da Erone – materializzati dall’accostamento a Nereo – e la sua perizia nautica considerata tutt’altro che affidabile (cfr. Anderson 1977, p. 366; contra Husson 1970, II, ad loc. [p. 25 s.]). Lo stesso meccanismo è in gioco nello Zeus tragedo, in cui a Timocle, che ritiene Zeus un pilota competente, Damide replica che la situazione è invece del tutto fuori controllo (§§ 46–50). § 10 ᾽Αλλὰ τί τοῦτο; Οὐκ Ἀδείμαντος ἐκεῖνός ἐστι; Πάνυ μὲν οὖν, Ἀδείμαντος αὐτός – Licino, Samippo e Timolao finalmente ritrovano Adimanto lungo la via del ritorno verso Atene. L’ingresso nella narrazione in



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ritardo di questo personaggio potrebbe essere considerata una brillante rivisitazione del celebre motivo simposiaco dell’ospite in ritardo, che Luciano ama sfruttare reimpiegandolo sia in maniera tradizionale (Symp. 12: il cinico Alcidamante irrompe in sala da pranzo per partecipare, non invitato, a un banchetto) sia in forme nuove e inaspettate (D. mort. 12 [25], 7: Scipione fa irruzione all’improvviso nel confronto fra Annibale e Alessandro). La sequenza con cui si segnala la comparsa di Adimanto rappresenta una struttura formulare che viene impiegata da Luciano, di norma, per esprimere stupore o sorpresa ed è formata da due proposizioni interregative (la prima delle quali invariabilmente τί τοῦτο), seguite da una terza proposizione principale (Tim. 20, 46 e 54; Pisc. 1; D. mort. 27 [22], 8–9; ecc.). Ἐκβοήσωμεν οὖν – Col repentino invito di Timolao a chiamare Adimanto l’incipit del dialogo si conclude e, con la riunione dei quattro amici, il gioco dei desideri che li vedrà protagonisti può iniziare. Queste ‘proposizioni di passaggio’, imperniate su un comando, sono tipiche dei testi teatrali e anche caratteristiche della tecnica drammatica di Luciano, nei cui Dialoghi sono funzionali a un cambio di situazione (Bellinger 1928, p. 28 s.). Ἀδείμαντε, σέ φημι τὸν Μυρρινούσιον τὸν Στρομβίχου – Il nome di Adimanto è di probabile ispirazione platonica (cfr. supra comm. ad § 1: καὶ Ἀδείμαντος ὁ Μυρρινούσιος εἵπετο μεθ᾽ ἡμῶν), anche se non totalmente, perché il nome proprio del padre del personaggio (Στρόμβιχος), per quanto ben attestato in attico (cfr. Thuc. 1, 45, 2: Διότιμος ὁ Στρομβίχου; Aesch. 2, 15: Εὐήρατος ὁ Στρομβίχου υἱός), non compare nell’opera platonica. Ancora a Platone si ispira probabilmente Luciano in questo luogo, in particolare alla scena del Simposio in cui Apollodoro è fermato da un conoscente che lo chiama appellandolo con il suo demotico e, in seguito, col suo nome proprio (Symp. 172a: ὦ Φαληρεύς, οὗτος ᾿Απολλόδωρος, οὐ περιμένεις). Nel testo platonico si dice che l’uomo apostrofa Apollodoro “scherzosamente” (παίζων ἅμα τῇ κλήσει), forse perché lo chiama «arieggiando il tipo di formula usato nei tribunali e nei discorsi ufficiali» (Di Benedetto - Ferrari 2013, p. 91 n. 2). Luciano probabilmente riprende da Platone tale motivo giocoso e, nell’imitarlo, accentua lo scherzo facendo invocare Adimanto con il suo nome proprio completo di demotico e patronimico. Δυεῖν θάτερον, ἢ δυσχεραίνει καθ᾽ ἡμῶν ἢ ἐκκεκώφωται. Ἀδείμαντος γάρ, οὐκ ἄλλος τίς ἐστι – Per Rudolf Helm, tutta la scena ha un’eco platonica: Adimanto viene avvistato dai suoi amici sulla via verso Atene e si ricongiunge a loro così come, nell’incipit del Simposio di Platone, Apollodoro viene fermato sulla strada dal Falero ad Atene, con fare spiritoso, da un conoscente (Symp. 172a; Helm 1906, p. 337 s.). Pur se per Geneviève Husson Luciano non ha bisogno di attingere da Platone una scena «si familière et si banale» (Husson 1970, II, ad loc. [p. 27]), tale paralello sembra apprezza-

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bile, data la prossimità fra i due testi di Platone e di Luciano e considerata l’impronta platonica sottesa all’intero incipit della Nave (cfr. l’introduzione al § 1.4.3), soprattutto a questa scena, in cui costituiscono un esplicito omaggio all’opera di Platone sia il nome completo di Adimanto (vd. supra) sia, poco oltre, la graziosa scenetta che suggella la riunione fra Adimanto e i suoi tre amici (§ 11: ῍Ην μὴ τοῦ ἱματίου λαβόμενοι σε ἐπιστρέψωμεν, ὦ Ἀδείμαντε). Inoltre, è interessante osservare in questo contesto anche l’utilizzo del raro ἐκκωφόω, che ricorre nell’incipit del Liside di Platone nella formula ἐκκεκώφωκε τὰ ὦτα (204c–d: ἡμῶν γοῦν, ὦ Σώκρατες, ἐκκεκώφωκε τὰ ὦτα καὶ ἐμπέπληκε Λύσιδος), sfruttata da Luciano nell’irriverente preghiera di Timone in Tim. 1–6 (Tim. 2: τὰ ὦτα ἐκκεκώφησαι καθάπερ οἱ παρηβηκότες [Zeus]). Πάνυ ἤδη σαφῶς ὁρῶ … καὶ ἐν χρῷ ἡ κουρά – I personaggi lucianei sono caratterizzati prevalentemente con pochi e rapidi tratti e spesso, per definirli, è sufficiente un dettaglio dell’abbigliamento o alcuni semplici particolari anatomici, in particolare il colorito della pelle, il modo di incedere o l’acconciatura di barba e capelli. In precedenza, anche per ritrarre Erone (§ 6), il timoniere dell’Iside, si erano rivelati sufficienti una manciata di vocaboli relativi alla costituzione fisica, all’età (μικρός τις ἀνθρωπίσκος γέρων) e alla capigliatura dell’uomo (ἀναφαλαντίας τις). Adimanto è ritratto, dunque, attraverso la menzione del suo mantello, del suo modo di incedere e della sua capigliatura, esattamente come il filosofastro Trasicle del Timone (§ 54), che si distingue per la sua chioma (Θρασυκλῆς … ἔρχεται … ἀνασεσοβημένος τὴν ἐπὶ τῷ μετώπῳ κόμην), per il suo abbigliamento e per la sua camminata (οὗτος ὁ τὸ σχῆμα εὐσταλὴς καὶ κόσμιος τὸ βάδισμα καὶ σωφρονικὸς τὴν ἀναβολήν). Pur servendosi regolarmente di pattern nella caratterizzazione esteriore dei suoi personaggi, Luciano ha cura di evitare che il suo pubblico avverta una sensazione di stucchevole ripetitività attraverso un uso assai studiato del vocabolario, grazie al quale gli attori della sua opera sono sostanzialmente simili e, al tempo stesso, diversi fra di loro. Il mantello (ἱμάτιον; θοἰμάτιον è forma attica) era un capo di abbigliamento tradizionale in Grecia, in lana pesante, che partendo dalla spalla sinistra si avvolgeva intorno alla persona, ricoprendo uno o entrambe le braccia; solitamente di colore bianco con fasce colorate lungo gli orli, era portato sia dagli uomini sia dalle donne sul chitone o sul peplo, anche se non di rado gli uomini preferivano indossarlo da solo, lasciando scoperti una parte del torace, una spalla e un braccio; pur introdotto a Roma (diventando il pallium degli uomini e la palla delle donne), restò associato al mondo greco e alla figura dell’intellettuale, tanto che nella prima arte cristiana costituì la veste tradizionale di Cristo e degli apostoli (Clealand - Davies - Llewellyn-Jones 2007 s.v. himation, p. 92).



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Il modo di incedere (τὸ βάδισμα) caratterizza ciascun uomo: è un dettaglio della natura umana che Luciano ama sfruttare in scene come questa, in cui il protagonista o i protagonisti della narrazione sono chiamati a riconoscere da lontano un individuo che, in questo modo, viene introdotto con estrema naturalezza nella narrazione. L’acconciatura dei capelli (ἐν χρῷ ἡ κουρά) è un particolare che Luciano ha cura di ricordare soprattutto in riferimento a una determinata etnia (cfr. supra comm. ad § 2: ἡ κόμη … οὐκ ἐλεύθερόν φησιν αὐτὸν εἶναι) oppure ai filosofi, per i quali barba e capigliatura rappresentano un vero e proprio tratto distintivo (si veda la presentazione di Trasicle in Tim. 54, su cui Tomassi 2011 ad loc. [pp. 508–514]). ᾽Επιτείνωμεν δὲ ὅμως τὸν περί πατον, ὡς καταλάβωμεν αὐτόν – Περίπατος usato nel senso di “passo”, “modo di incedere” non sembra avere altre attestazioni in questa accezione (cfr. LSJ9 s.v. περίπατος [p. 1382]). § 11 ῍Ην μὴ τοῦ ἱματίου λαβόμενοί σε ἐπιστρέψωμεν, ὦ Ἀδείμαντε – La divertente battuta di Licino sembra parodiare la celebre scena della Repubblica platonica (§ 327a–b) in cui Socrate, rientrando in città dal Pireo, è afferrato per il mantello dal servetto di Polemarco, che lo esorta a fermarsi (Anderson 1976, p. 16). οὐχ ὑπακούσεις ἡμῖν βοῶσιν – Βοάω esprime un innalzamento del tono vocale naturale, a differenza di κράζω, che indica uno sforzo di voce eccessivamente veemente. Nei Dialoghi questo verbo è impiegato, in genere, per descrivere gli attori maldestri che declamano sguaiatamente (Anach. 23; Salt. 27) o per i filosofi sfrontati che vogliono attirare l’attenzione degli altri (Tim. 9; Eun. 2; Herm. 48; Demon. 7; Pisc. 35). ἀλλὰ καὶ φροντίζοντι ἔοικας ἐπὶ συννοίας τινός … ἀνακυκλῶν – L’utilizzo di ἀνακυκλέω per esprimere l’azione di rimuginare fra sé e sé qualcosa è proprio del lessico lucianeo (cfr. Nigr. 6 [soggetto è lo stesso Luciano]: δὶς ἢ τρὶς τῆς ἡμέρας ἀνακυκλῶ πρὸς ἐμαυτὸν τὰ εἰρημένα). L’uso frequente della litote (οὐ μικρὸν οὐδὲ εὐκαταφρόνητον πρᾶγμα) è una peculiarità dello stile di Luciano (Husson 1970, II, ad loc. [p. 28]). Οὐδέν, ὦ Λυκῖνε, χαλεπόν – Si tratta di una tipica frase lucianea destinata a segnalare il cambio di turno fra i parlanti (cfr. D. mort. 28 [9], 2: οὐδὲν χαλεπόν, ὦ Τειρεσία; Pisc. 41: οὐδὲν τόδε χαλεπόν; Vit. auct. 19: χαλεπὸν οὐδέν; 25: οὐ χαλεπόν; vd. anche D. deor. 4 [10], 4: τοῦτο μὲν οὐ χαλεπόν). με κενή τις ἔννοια … παρακοῦσαι ὑμῶν ἐποίησεν – La “vana idea” (κενή ἔννοια) a cui Adimanto accenna senza concretizzarne la natura, per timore di essere preso in giro, viene esplicitata poco oltre, quando l’insistenza di Licino spinge l’amico a rivelare che si tratta di una fantasia di ricchezza

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III Commento

(τινα πλοῦτον ἐμαυτῷ ἀνεπλαττόμην), “che i più definiscono vana felicità” (ἣν κενὴν μακαρίαν οἱ πολλοὶ καλοῦσιν). Il gioco di rimandi all’interno del botta e risposta fra Adimanto e Licino serve a rivelare al meglio i caratteri dei due uomini: il primo è un debole e un sognatore, che cede in breve alle insistenze del secondo, dotato di ascendente sugli altri e scaltro nel portare la conversazione sui binari desiderati. I codici recentiores presentano il nesso κενή τις ἔννοια, i veteres καινή τις ἔννοια. Preferisco il primo sintagma, in accordo con la maggior parte degli editori, perché κενή, “frivola”, “futile”, “vana”, cioè priva di consistenza materiale, connota meglio le fantasie di Adimanto rispetto a καινή, “insolita”, “strana”. Il primo attributo, poi, ben si addice al modo in cui lo stesso Adimanto poco oltre definisce i suoi pensieri, cioè “puerili, “infantili” (μειρακιῶδες ὑμῖν δόξει τὸ φρόντισμα); si confronti, inoltre, il successivo § 12 (κενὴν μακαρίαν) e, ancora, Herm. 71 (κενὴν μακαρίαν) e Gall. 5 (κενὴν εὐδαιμονίαν). ἀτενὲς πρὸς αὐτὴν ἅπαντι τῷ λογισμῷ ἀποβλέποντα – La formula “guardare fisso” (ἀτενὲς ἀποβλέπειν) utilizzata da Adimanto potrebbe essere proverbiale (Rein 1894, p. 33; vd. ancora Bis. acc. 27; Symp. 34; Musc. enc. 1; Herm. 1; Alex. 14; Pisc. 30 e 46; Fug. 10). Τίς αὕτη; Μὴ γὰρ ὀκνήσῃς εἰπεῖν … σιγᾶν μεμαθήκαμεν – Ἀπόρρητος, “coperto da segreto”, indicava tutto ciò che agli iniziati ai Misteri di Eleusi in onore di Demetra e Kore era proibito rivelare ai profani (LSJ9 s.v. ἀπόρρητος, II, 2 [p. 216]: «of sacred things, ineffable, secret»). Il culto eleusino in età imperiale rappresentava uno dei principali culti ateniesi e godeva di grande prestigio, tanto che anche gli Antonini gli erano particolarmente devoti (Graindor 1934, pp. 6–8, 38 s., 119; Clinton 1989, pp. 1516–1534; Antonetti 1995). In Luciano troviamo numerosi riferimenti alla vita religiosa ateniese (Follet 1994, p. 135 s.) e, in particolare, a svariati aspetti dei riti eleusini: l’intimazione preliminare con l’esclusione ufficiale dalle cerimonie sacre dei non iniziati (Demon. 34; Alex. 38; Pseudol. 5); la preclusione dell’iniziazione ai barbari (Scyth. 8); il divieto imposto agli adepti di rivelare ai non iniziati i segreti dei misteri, a cui fa riferimento Licino (ἐτελέσθημεν, ὡς οἶσθα, καὶ σιγᾶν μεμαθήκαμεν; cfr. Pisc. 33; Nec. 2; Demon. 11; Salt. 15); le fiaccole risplendenti a illuminare i riti (Cat. 22); i nomi dei due principali sacerdoti che presiedevano alle funzioni, il tedòforo e lo ierofante (Lex. 10); i giuramenti in onore di Demetra e Kore (D. meretr. 7, 1); le feste cultuali in onore delle due dèe, come le Aloe (D. meretr. 1, 1) o le Tesmoforie (D. meretr. 2, 1, su cui vd. Stallsmith 2008). Luciano, pur fortemente critico nei confronti dei riti religiosi tradizionali, della superstizione e della credulità dell’uomo negli dèi, non ama mettere in ridicolo i Misteri, pur non esimendosi dal ricordarne alcuni particolari aspetti con una certa



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ironia (Cat. 22; Demon. 11; Deor. conc. 11), presumibillmente perché le sue allusioni a tali pratiche hanno lo scopo di creare, «en liaison avec d’autres éléments, l’atmosphère athénienne» (Caster 1937, pp. 303–306), o «un prolongement de son décor favori: Athènes» (Bompaire 1958, pp. 491–499). Se poi lo scrittore fosse iniziato a tali riti, per intima convinzione o più semplicemente perché era la ‘cosa giusta da fare’ per qualsiasi abitante di Atene (Betz 1961, p. 26 e Hall 1981, p. 203), pare un dato difficile da confermare, in special modo per la difficoltà di prendere alla lettera le allusioni di Luciano ai Misteri (Husson 1970, II, ad loc. [p. 28 s.]) e, più in generale, alla sua vita. ᾽Αλλ᾽ αἰσχύνομαι ἔγωγε εἰπεῖν πρὸς ὑμᾶς – Adimanto ha pudore nel rivelare ai suoi compagni i suoi sogni, perché li conosce bene e sa già che sarà bersaglio delle loro critiche (in particolare di quelle di Licino), come lui stesso afferma successivamente (§ 15: ὁρᾷς; Διὰ τοῦτο ὤκνουν εἰπεῖν ἃ ἐνενόουν κτλ.). Οὕτω γὰρ μειρακιῶδες ὑμῖν δόξει τὸ φρόντισμα – Μειρακιώδης, “giovanile”, può essere usato anche in senso dispregiativo, come in questo caso, con il valore di “puerile” (Plat. Resp. 466b; LSJ9 s.v. μειρακιῶδης [p. 1093]). Pur se Adimanto si mostra perfettamente consapevole della puerilità dei suoi sogni, questo non gli impedisce di sprofondarvi senza troppe remore e, mostrando una leggerezza indegna di un uomo adulto, dà un’immagine di sé affatto positiva. I moralisti sono soliti equiparare a fini pedagogici l’incoscienza e l’insensatezza dei comportamenti dell’uomo volgare a particolari categorie umane considerate imperfette o degenerate, come gli adolescenti, le donne, i vecchi e gli ubriachi (Teles fr. 3, p. 24, 3 [οὐκ ἂν ἦσαν βάκηλοι;] e p. 25, 14 Hense [παροινία], su cui Fuentes González 1998 ad loc. [pp. 311 s. e 328]; fr. 7, p. 60, 1 [μαργίτης] e p. 61, 12 Hense [γρᾴδια]); in particolare, amano paragonare l’atteggiamento dissennato di un uomo adulto a quello, naturale, di un bambino (Teles fr. 3, p. 25, 1–2 Hense: οὐκ ἂν παιδαριώδες εἴη; Dio Chr. or. 4, 47–49 = SSR V B 582, 204–220: Diogene paragona Alessandro che vuol deporre il Gran Re a un bambino che gareggia coi coetanei; Epict. 1, 24, 20: l’uomo non deve essere più codardo [δειλός] dei piccoli e deve allontanarsi dalle circostanze sfavorevoli della vita senza lamentarsi; 1, 29, 31: si comporta come un bambino chi non modifica le sue opinioni sbagliate; 4, 7, 22–24: gli uomini avidi di potere e denaro sono come bimbi che arraffano con avidità i fichi; ecc.). Μῶν ἐρωτικόν τί ἐστιν; – Luciano non esita a impiegare di frequente un ricercato atticismo come μῶν, “forseché” (vd. ancora J. tr. 3; Philops. 18; Deor. conc. 6; Scyth. 4; D. deor. 9 [6], 1), pur criticando aspramente l’abuso del vocabolario attico da parte dei pedanti retori contemporanei. Di questi è campione il borioso e fanatico maestro di retorica del Rhetorum praeceptor

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III Commento

– emblema di un’intera categoria professionale –, più impegnato a salvaguardare l’apparenza che la sostanza e a ‘condire’ i suoi discorsi con svariati atticismi come “varii” (ἄττα), “eppoi” (κᾆτα), “forseché” (μῶν), “in qualche modo” (ἀμηγέπη), “ottimo mio” (λῷστε) e simili (Rh. pr. 16; vd. ancora Rh. pr. 18 e 20; Lex. 21). οὐδὲ τοῦτο ἀμυήτοις ἡμῖν ἐξαγορεύσεις … καὶ αὐτοῖς τετελεσμένοις – Uno degli espedienti principali coi quali Luciano suscita il riso nel pubblico consiste nello sfruttare l’ambiguità che può procurare la polisemia di certi termini (Ureña Bracero 1995, pp. 117–119). Qui il sostantivo “fiaccola” (δᾴς) viene usato sia nel senso di strumento utilizzato nei misteri sia di fiamma della passione amorosa e, in base a questo secondo senso, può essere applicato a qualcosa di profano come “un pensiero d’amore” (ἐρωτικόν τί). Così l’espressione “sotto la fiaccola risplendente” (ὑπὸ λαμπρᾷ τῇ δαδὶ) permette di alludere, con un accostamento alquanto comico, a due ambiti antitetici: la sfera religiosa, in cui la fiaccola era un rituale strumento di iniziazione (cfr. Cat. 22), e quella coniugale, al cui interno l’oggetto costituiva un elemento tipico delle cerimonie nuziali (Husson II, 1970, ad loc. [p. 29]). Il doppio senso non ha alcun intento malevolo da parte di Luciano, la cui attitudine nei confronti dei misteri è sostanzialmente positiva (vd. supra comm. ad loc.: τίς αὕτη; Μὴ γὰρ ὀκνήσῃς εἰπεῖν, κτλ.). Del resto, tutti e quattro i protagonisti della Nave sono iniziati ai Misteri (cfr. supra: καίτοι ἐτελέσθημεν, ὡς οἶσθα, καὶ σιγᾶν μεμαθήκαμεν), così che la replica di Licino «n’implique naturellement aucune malveillance» (Caster 1937, p. 304, n. 55). § 12 Οὐδέν … τοιοῦτον, ἀλλα τινα πλοῦτον ἐμαυτῷ ἀνεπλαττόμην – Adimanto è inizialmente reticente a esporre ai suoi amici i suoi sogni di ricchezza, perché consapevole della loro puerilità (§ 11: οὕτω γὰρ μειρακιῶδες ὑμῖν δόξει τὸ φρόντισμα); in seguito cede, per la debolezza del suo carattere (vd. nell’introduzione al § 1.6.1), di fronte alla melliflua insistenza di Licino (§ 12: ἐς μέσον κατατίθει φέρων τὸν πλοῦτον κτλ.), e inizia a spiegare con estrema dovizia di particolari in che cosa consistono i suoi desideri (§ 13). Licino all’inizio favorisce i sogni dell’amico solo per iniziare a criticarli un attimo dopo (§ 14) e mandarli in pezzi al termine della loro presentazione (§§ 26–27). È evidente la similarità della maniera satirica lucianea con il metodo di indagine di Socrate, che esercita un’influenza enorme sui Dialoghi (vd. nell’introduzione al § 1.6.2), al cui interno viene variamente ripreso e opportunamente alterato a seconda delle necessità della narrazione. Così il meccanismo operante nel confronto fra Adimanto e Licino è riproposto in una modalità simile, ma disugualmente svolta nell’incipit del Simposio, dove un reticente Licino prima viene spronato dall’amico Filone a raccontare la rissa fra filosofi scoppiata a casa del filosofo Aristeneto (Symp. 1–4) e un istante dopo, abbandonata ogni remora, si lancia a narrare tutto nei mi-



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nimi dettagli per smascherare l’ignoranza dei falsi sapienti. In questo caso, l’errore dell’uomo comune si rivela solo indirettamente attraverso il resoconto di chi ha assistito alla sua manifestazione, non attraverso un dialogo attivo fra sapiente e ignorante, mentre lo scarto fra l’iniziale reticenza del personaggio narrante e il suo successivo entusiasmo nel raccontare spiazza il pubblico e lo rende imprevedibilmente complice del gioco satirico lucianeo (Bracht Branham 1989, p. 106). ὦ θαυμάσιε – Quest’apostrofe è tipica dei dialoghi di Platone, nei quali ricorre 40 volte al singolare e 3 al plurale (Dickey 1996, p. 280), ed è ben attestata anche nei Dialoghi (Tim. 4; Nigr. 8; J. tr. 30, 39 e 49; Gall. 16; Icar. 8; Ind. 2; Anach. 16 e 28; Tox. 5; Salt. 23; Herm. 64 e 81; D. mort. 19 [27], 3; unico uso al plurale in Pisc. 8, al superlativo in Tim. 39: ὦ θαυμασιώτατε βασιλέων). Pur se θαυμάσιος significa “(am)mirabile”, “straordinario”, non sembrano esserci rilevanti differenze di uso fra θαυμάσιε e φίλε o ἀγαθέ (Dickey 1996, p. 141). ἣν κενὴν μακαρίαν οἱ πολλοὶ καλοῦσιν – Adimanto qualifica i suoi sogni di ricchezza come “beatitudine vana”, come fa anche Licino nell’Ermotimo (Herm. 71), un dialogo che presenta numerose somiglianze con La nave (Schwartz 1965, pp. 90–93). La lingua di Luciano non disdegna simili espressioni popolari, atte a conferire maggiore vivacità e colloquialità al dialogo: in questo caso, la formula οἱ πολλοὶ καλοῦσιν fa presupporre che la iunctura κενὴ μακαρία sia tradizionale e abbia un valore proverbiale. καί μοι ἐν ἀκμῇ τῆς περιουσίας καὶ τρυφῆς ἐπέστητε – Luciano rielabora il topos dell’uomo avulso dalla realtà e riportato sulla terra da un intervento esterno, il cui archetipo è probabilmente offerto dalla scena del Simposio di Platone in cui Socrate, rapito in meditazione, è fatto ritornare alla realtà (Plat. Symp. 174d; cfr. Anderson 1976, pp. 16, 103). “Abbondanza di beni” (περιουσία) e “lusso” (τρυφή) fondano dall’inizio alla fine il sogno del nostro Adimanto (cfr. ad § 25: τοῦτον ἐβουλόμην βιῶναι τὸν βίον πλουτῶν ἐς ὑπερβολὴν καὶ τρυφῶν). Οὐκοῦν τὸ προχειρότατον τοῦτο ... ἐς μέσον κατατίθει φέρων τὸν πλοῦτον – Πρόχειρος, “a portata di mano” è spesso impiegato da Luciano e, non di rado, in contesti comici: può ad esempio servire a qualificare spiritosamente il bastone usato dai cinici per far ‘propaganda’ (Fug. 15), l’arco impugnato da Eracle contro l’insolente Diogene (D. mort. 16 [11], 3) o il fulmine di Zeus, degradato a livello umano e quotidiano tramite l’equiparazione a un qualsiasi oggetto di uso comune (Tim. 1). Anche in questo caso, l’aggettivo serve a connotare impropriamente come reale qualcosa di immaginario e a dare una venatura comica alla battuta di Licino, di cui Adimanto non si avvede assolutamente, perso com’è dietro ai suoi sogni di ricchezza.

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III Commento

Per l’interessata insistenza con cui Licino esorta Adimanto a condivedere con i suoi amici i suoi sogni di ricchezza cfr. supra comm. ad loc.: οὐδέν … τοιοῦτον, ἀλλα τινα πλοῦτον ἐμαυτῷ ἀνεπλαττόμην. κοινὸς Ἑρμᾶς φασι – Il detto “Hermes è comune”, con cui Licino invita Adimanto a dividere la sua insperata fortuna coi suoi amici, è proverbiale, come conferma anche il predicato “dicono” (φασί) a questo associato, che in greco accompagna le formule paremiografiche (Tsirimbas 1936, pp. 78 s., 88). Si tratta di una iunctura nata dal fatto che i Greci associavano Hermes al guadagno e all’acquisto di ricchezze insperate, come più volte si ricorda anche nella Nave (§§ 18, 20, 25, 42). Tale proverbio è molto impiegato nel mondo antico in una molteplice varietà di forme, fra cui, oltre a quella tradizionale ricorrente in questo contesto, ci sono ἕρμαιον (Luc. Somn. 9, Herm. 52, Cont. 12), δῶρον Ἑρμοῦ, ἑρμαία δόσις, κοινὸν ἕρμαιον, κοινὸς ὁ κερδῷος Ἑρμῆς (Diogen. 5, 38; Rein 1894, p. 8 s.; Tsirimbas 1936, p. 5). I manoscritti lo presentano nella forma dorica κοινὸς Ἑρμᾶς al posto della normale forma attica κοινὸς Ἑρμῆς prediletta dagli autori antichi. Non sembra possibile formulare un’ipotesi attendibile riguardo a questa scelta lessicale, se non ipotizzare che Luciano sfrutti il dorico per conferire all’assunto maggior ampiezza e solennità (come espressamente consigliavano i manualisti: Dem. Eloc. 177). Non è da escludersi, inoltre, che lo scrittore voglia riprendere «non genericamente il proverbio, ma il proverbio citato in qualche passo di lirica corale, non esclusa la lirica corale tragica, dove la doricità si limita appunto quasi solo all’alpha dorico. Se così fosse, ci troveremmo di fronte a un frammento non ancora individuato né attribuito di lirica dorica, un frammento di autore incerto. In Nav. 19 si allude ad Arione, ma potrebbe essere chiunque altro abbia menzionato in un pezzo corale il proverbio/gnome. Un poeta molto interessato ai guadagni fu Simonide, ma non fu il solo: Ἑρμᾶς si trova, ad esempio, in Pind. Pyth. 2, 10 (dorismo), ma anche in Corinna, PMG 654, col. i, 1. 24 e col. iii, l. 18 (Ἑρμᾶς a rigore potrebbe essere anche beotico). Il dativo dorico si trova invece in Eur. El. 461» (De Martino). ῎Αξιον γὰρ ἀπολαῦσαι τὸ μέρος φίλους ὄντας τῆς Ἀδειμάντου τρυφῆς – Per il riferimento al lusso (τρυφή) in questo passo cfr. supra comm. ad § 3: περὶ τῆς ἀρχαίας ἡμῶν τρυφῆς. ᾽Απελείφθην μὲν ὑμῶν … ἐπεὶ σέ … κατέστησα ἐς τὸ ἀσφαλές – Adimanto si riferisce al momento in cui i quattro amici sono saliti a bordo dell’Iside e ha dovuto dare una mano a Licino (§ 1). Περιμετροῦντος γάρ μου τῆς ἀγκύρας τὰ πάχος … ὑμεῖς ἀπέστητε – Adimanto ricorda il momento esatto in cui si è separato dai suoi amici: il lasso di tempo in cui si è attardato a calcolare (περιμετρεῖν) lo spessore dell’imponente ancora dell’Iside. È notevole che il raro περιμετρεῖν ricorra ancora



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nell’opera lucianea nella rappresentazione caricaturale dei vanagloriosi filosofi naturalisti dell’Icaromenippo, che si vantano di vedere attraverso i confini del cielo e di misurare la circonferenza del sole (Icar. 6: οὐρανοῦ τε πέρατα διορᾶν ἔφασκον καὶ τὸν ἥλιον περιεμέτρουν) e che, come Adimanto, si immergono nei loro calcoli perdendo il contatto con la realtà. Sulle ancore in uso sulle imbarcazioni antiche vd. supra comm. ad § 5: καὶ πρὸ τούτων αἱ ἄγκυραι. § 13 ’Ιδὼν δὲ ὅμως τὰ πάντα ἠρόμην τινὰ τῶν ναυτῶν – Ancora una volta, la testimonianza reale di un componente dell’equipaggio dell’Iside dà il là alle fantasie di uno dei quattro amici (cfr. supra ad § 7: ὁ ναύκληρος αὐτὸς διηγεῖτό μοι). In questo caso, il dato relativo alla rendita ottenuta dal padrone dell’imbarcazione fornisce ad Adimanto il pretesto per fantasticare intorno al modo di spendere le ricchezze ottenute dai commerci marittimi. ὁπόσην ἀποφέρει ἡ ναῦς … τὴν μισθοφορίαν – Il sostantivo μισθοφορία, “compenso” (per una prestazione di lavoro) è eccezionalmente impiegato da Luciano in questo contesto con il senso di “rendita” (di un affare). τῷ δεσπότῃ – Il δεσπότης τοῦ πλοίου è l’equivalente del dominus navis latino, cioè il padrone effettivo dell’imbarcazione, che si differenzia dal ναύκληρος, l’armatore, la persona che arma una nave e beneficia dei proventi derivati dal suo sfruttamento commerciale indipendentemente dall’esserne o meno proprietario (cfr. supra comm. ad § 7: ὁ ναύκληρος αὐτὸς διηγεῖτό μοι; vd. ancora infra ad § 14: ὃς γὰρ ἔτι ἑνὸς πλοίου τουτουὶ δεσπότης ὢν παρήκουες βοώντων; Rougé 1966, pp. 258–261). ҅Ο δέ μοι, Δώδεκα, ἔφη, Ἀττικὰ τάλαντα, εἰ … τις λογίζοιτο – Un talento è un’antica unità di misura della massa corrispondente a circa 26 kg, nonché un’unità di valore equivalente a un’analoga quantità di argento puro corrispondente a 60 mine e a 6000 dracme (Lenormant 1892b). Dodici talenti di rendita annui (equivalenti a 72.000 dracme) dovevano rappresentare una cifra assolutamente considerevole, viste le ingentissime spese che Adimanto vuole affrontare una volta entratone in possesso, fra cui una casa di lusso, servi, vestiti, carri e cavalli (cfr. infra; vd. ancora ad es. D. meretr. 8, 3: un talento è il compenso pagato dall’usuraio Demofanto per avere in esclusiva per otto mesi l’etera Ampelide). Il presente contesto risulta troppo impreciso, purtroppo, perché si possa utilizzare con profitto tale dato, dal momento che non sappiamo se la cifra menzionata da Adimanto comprenda il solo trasporto delle merci o designi l’intera operazione commerciale (Rougé 1966, p. 375). Fra l’altro, il dodici è un numero che ricorre di frequente nei Dialoghi con valenza più simbolica che reale (Betz 1961, p. 127 e n. 3; cfr. J. tr. 26; D. conc. 15; VH 2, 13; Astr. 6, 7; Sacr. 2; D. mort. 13, 2), così come il sette (cfr. supra comm. ad § 7: ἑβδομαίους). Il dato offerto da Luciano resta

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III Commento

in ogni caso interessante, se comparato alla successiva menzione di una cifra di quattro oboli pagata per un viaggio su una piccola barca in direzione di Egina (§ 15), giacché mostra che in età imperiale «l’opposition entre riches et pauvres est bien sensible à Athènes» (Follet 1994, p. 134 s.). Numerose altre testimonianze antiche provano che i proventi che si ricavavano da una nave da commercio erano elevati (Rougé 1966, pp. 361– 379): nel Satyricon petroniano (76, 1–8), ad esempio, Trimalcione racconta di aver fatto costruire cinque navi che, naufragando al primo viaggio, gli fecero perdere ben 30 milioni di sesterzi e, in seguito, di averne fatte costrui­ re altrettante e di averle fatte caricare di vino, lardo, fave, profumi e schiavi, così da guadagnare, solo con tale carico, la somma di 10 milioni di sesterzi. ἐλογιζόμην, εἴ τις θεῶν τὴν ναῦν ἄφνω ἐμὴν ποιήσειεν εἶναι – Adimanto invoca gli dèi come fautori della sua fortuna, giacché per i Greci e per i Romani era normale pensare che ogni bene o male derivasse da loro, compresi l’acquisto delle ricchezze o la loro repentina perdita (si veda ad es. Sol. fr. 13, 9–15 W.² = 1, 9–15 G.–P.²; Petron. 76, 8: cito fit quod di volunt). È per questo che una delle principali richieste degli uomini agli dèi era proprio quella di arricchire (Ar. Av. 592), come fa Adimanto. Come si è rilevato nell’introduzione, nel dialogo le allusioni a Erode Attico e alla sua famiglia sono inserite a piene mani nella caratterizzazione del personaggio di Adimanto, nel cui sogno di diventar ricco con traffici mercantili, in particolare, si potrà vedere un riferimento alla provenienza di una parte dell’immensa fortuna del sofista dal commercio marittimo (vd. l’introduzione al § 1.6.1; cfr. Schwartz 1965, p. 133; Husson 1970, II, ad loc. [p. 31]). οἷον ἄν ὡς εὐδαίμονα βίον ἐβίωσα εὖ ποιῶν τοὺς φίλους – La figura etimologica (βίον ἐπεβίωσα), consistente nella ripetizione della radice di un vocabolo in parole contigue o vicine per fornire «una sottolineatura semantica, un rinforzo della significazione» (Mortara Garavelli 2005, p. 210 s.), evidenzia la forza del desiderio di Adimanto e la sua eccitazione al pensiero di diventare ricco (cfr. ad es. Gall. 1: θαυμαστὴν εὐδαιμονίαν εὐδαιμονοῦντα). Notevole è la somiglianza fra l’esclamazione di Adimanto e quella di Scevola in Marziale (3, 103, 1–3: ‘si dederint superi decies mihi milia centum’ / dicebas nondum, Scaevola, iustus eques, / ‘qualiter o vivam, quam large quamque beate!’). Nel dialogo si nota un’estrema varieta d’uso nei modi e nei tempi, volta a esprimere, con sfumature differenti, i sogni e le esigenze dei quattro protagonisti (vd. nell’introduzione al § 1.7.2). In questo caso, l’ottativo potenziale della protasi (εἴ τις θεῶν ... ποιήσειεν) si unisce all’aoristo esprimente irrealtà dell’apodosi (ἄν … ἐπεβίωσα), a indicare che Adimanto è ancora titubante sull’effettiva attuabilità dei suoi sogni (cfr. infra ad § 44:



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εἰ δόξειέ μοι, προσθέμενος ἂν τοῖς ἡττημένοις κοιμίσας τοὺς κρατοῦντας νικᾶν παρεῖχον τοῖς φεύγουσιν), pur se la successiva sequenza di semplici imperfetti e aoristi (ᾠκοδομησάμην ... ὠνούμην ... ἔπλεον ... κατέδυσας ... ἀνέτρεψας) rivela che l’immaginazione dell’uomo ha preso a galoppare e a contemplare l’immediata realizzazione di ogni sua fantasia. καὶ ἐπιπλέων ἐνίοτε μὲν αὐτός, ἐνίοτε δὲ οἰκέτας ἐκπέμπων – Adimanto afferma di voler talvolta demandare il controllo delle sue imbarcazioni ai suoi servi giacché, come era abitudine nell’antichità, i ricchi armatori possedevano molte navi (Petron. 76, 3–5: quinque naves aedificavi […] omnes naves naufragarunt […] alteras feci maiores et meliores et feliciores) e, di conseguenza, non potendo soprintendere di persona a tutti i loro viaggi, affidavano l’impresa a incaricati che erano, in genere, degli schiavi (Delz, p. 102 s. e n. 24; Husson 1970, II, ad loc. [p. 32]). Εἶτα ἐκ τῶν δώδεκα ἐκείνων ταλάντων οἰκίαν τε ἤδη ᾠκοδομησάμην – Il desiderio di una splendida casa da parte di Adimanto è in perfetta consonanza col topos letterario secondo cui la prima ambizione di un parvenu è una magnifica abitazione: non a caso l’omologo Trimalcione, arricchitosi grazie al commercio marittimo, per prima cosa si fa costruire una casa proporzionata alla sua ricchezza (Petron. 76, 8: uno cursu centies sestertium corrotundavi. Statim […] aedifico domum, venalicia coemo, iumenta; cfr. Husson 1970, II, ad loc. [p. 33], «le souci du prestige et de l’opinion d’autrui caractèrise Adeimantos, mais c’est aussi l’un des traits permanents de l’humanité que Lucien a su dégager, et que les voeux des autres promeneurs illustreront à leur manière»). ἐν ἐπικαίρῳ μικρὸν ὑπὲρ τὴν Ποικίλην – Il Portico dipinto (Stoa Poikile) era uno degli edifici più importanti eretti nell’agora di Atene dopo le guerre persiane; era chiamato anche Portico di Peisianatte (Stoa Peisianakteios) dal nome del suo committente; per lo splendore delle pitture che lo decoravano, il primo appellativo prevalse quasi subito, anche nei documenti ufficiali, pur se il secondo non fu mai dimenticato, ma considerato col passare del tempo semplicemente l’‘antico nome’ dell’edificio (Diog. Laert. 7, 1, 5; Camp 1986, pp. 68–72; Id. 1990, pp. 101–109, figg. 56–59). Tale monumento rappresentò per la vita di Atene il luogo deputato alla poesia, alla filosofia, alla conversazione; in particolare, com’è noto, il suo nome fu indissolubilmente legato alla figura del filosofo Zenone e alle lezioni che in età ellenistica questi impartiva, passeggiando lungo il portico, ai propri discepoli, detti proprio per questo ‘stoici’, cioè ‘filosofi del portico’ (Moravia 1990, pp. 360–379). Nel II secolo la Stoa poikile era ancora uno dei punti focali di Atene e non solo continuava a rappresentare un luogo ideale per incontrarsi e per chiacchierare, ma costituiva, in particolare, un punto di ritrovo sicuro per filosofi, pensatori o semplici ciarlatani, che attiravano attorno a sé una folla di curiosi

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e nullafacenti, come ricorda in più punti della sua opera lo stesso Luciano (D. meretr. 10, 1; J. tr. 15–16; Icar. 34; in Pisc. 13 Filosofia in persona passeggia nella Poikile: cfr. Jones 1986, p. 25). Questo e pochi altri monumenti e luoghi celebri dell’Attica (come l’Imetto, l’acropoli, l’Areopago, l’Accademia e il Liceo, la torre di Timone) rappresentano a tutti gli effetti «la parure rhétorique d’Athènes chez Lucien» (Bompaire 1958, p. 225 s.). In questo contesto dobbiamo però leggere anche un riferimento preciso alla società ateniese contemporanea, in cui un tipico vezzo dei ricchi è quello di costruirsi una casa nei pressi di questo monumento, in uno dei quartieri più chic di Atene, come fa anche quell’Erode Attico di cui il nostro Adimanto, come si è già detto, costituisce l’omologo letterario (vd. l’introduzione al § 1.6.1; cfr. ad es. D. meretr. 8, 2: il ricco usuraio Demofante abita nel quartiere prospiciente alla Stoa poikile). τὴν παρὰ τὸν Ἰλισσὸν ἐκείνην τὴν πατρῴαν ἀφείς – Come la Stoa poikile, anche l’Ilisso, uno dei principali fiumi ateniesi insieme al Cefiso e all’Eridano, è un elemento dell’ambiente ateniese caro a Luciano (Bompaire 1958, p. 225 s.), anche perché la regione che bagnava era uno dei luoghi più belli di Atene, di cui Platone nel Fedro (§ 229a–b) aveva composto un celebre elogio (a cui Luciano stesso allude in Dom. 4–5). L’immagine dell’Ilisso che emerge nell’opera lucianea è prova evidente del particolare atteggiamento di Luciano nei confronti del passato della Grecia, che se da una parte lo accomuna, dall’altra lo differenzia dalla maggior parte dei contemporanei, come Pausania. Questi, pur dedicando la sua attenzione all’epoca classica greca e alla celebrazione di luoghi, monumenti, simboli portatori di valori ellenici eterni, non esita a riservare una parte della sua descrizione di Atene alla nuova città di Adriano realizzata lungo l’Ilisso (Paus. 1, 18, 6–9). Luciano ama celare, invece, l’immagine dell’Atene imperiale dietro quella dell’Atene classica e, più in particolare, di una mitica, idealizzata e atemporale ‘Atene dello spirito’, così che, pur evocando numerosi luoghi celebri della città (il Pireo, l’acropoli, l’agora classica, la Stoa poikile, il Dypilon e le mura ateniesi, il Ceramico, i grandi ginnasi), evita scrupolosamente di menzionare le grandi realizzazioni architettoniche costruite nelle epoche ellenistica e romana. Ciononostante, coi suoi cenni alla topografia ateniese lo scrittore riesce in non poche occasioni a fornirci interessanti informazioni sulla città contemporanea e sui suoi abitanti. Così il particolare riferimento di Adimanto ai quartieri dell’Ilisso e della Poikile ci dà un’indicazione importante sul differente prestigio di queste due zone di Atene (Follet 1994, p. 133); inoltre, la casa che Adimanto sogna di abbandonare presso le rive dell’Ilisso ricorda, nello specifico, quella che il padre di Erode Attico possedeva nel quartiere di Collito, sulla riva destra del fiume (Schwartz 1965, p. 133) e, probabilmente, vuole ammiccare anche all’attività di evergete di Erode, giacché il quartiere di Atene che questi abbellì con



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l’imponente stadio panatenaico si trovava proprio presso l’Ilisso (Paus. 1, 19, 6; Philostr. VS 2, 1, 5; Tobin 1993; cfr. l’introduzione al § 1.6.1). καὶ οἰκέτας ὠνούμην καὶ ἐσθῆτας καὶ ζεύγη καὶ ἵππους – A completare il sogno di ricchezza di Adimanto troviamo uno di quegli elenchi di beni che si ritrovano in tante descrizioni lucianee delle ricchezze dei parvenus (cfr. ad es. Sat. 1; Gall. 12; 14; Tim. 20). La ripetizione stereotipa di tali liste dimostra che siamo di fronte a un motivo topico, ripreso, probabilmente, dalla tradizione diatribica (Bompaire 1958, pp. 350–361, praes. 357–360). Νυνὶ δὲ ἤδη καὶ ἔπλεον ὑφ᾽ ἁπάντων εὐδαιμονιζόμενος τῶν ἐπιβατῶν – Il termine ἐπιβάτης indica un soldato di stanza in marina (Hdt. 6, 12, 1; 7, 100, 3), ma su una normale nave da commercio designa semplicemente il passeggero (in questo senso il vocabolo è usato nei Dialoghi anche in J. tr. 48; Bis acc. 2; D. mort. 2 [22], 2). Luciano conferma il fatto che nel mondo antico non esistevano navi specializzate per il trasporto dei passeggeri e, di conseguenza, chi aveva bisogno di viaggiare per mare si serviva di navi mercantili (vd. supra comm. ad § 2: ἐκ τῆς θαλάμης προῆλθε). φοβερὸς τοῖς ναύταις καὶ μονονουχὶ βασιλεὺς νομιζόμενος – Una delle tradizionali aspettative del parvenu è quella di essere onorato e quasi temuto da tutti (Tim. 23; Gall. 14); Adimanto rispetta in pieno tale luogo comune, desiderando essere considerato quasi come un re. Questo dettaglio fa apprezzare la progressione dei desideri architettata da Luciano, per cui se in questo momento Adimanto sogna di avere onori regali, Samippo poco più in là desidererà essere un sovrano anche più potente di Alessandro Magno (Husson 1970, II, ad loc. [p. 34]), e Timolao addirittura un dio. Inoltre, la volontà di incutere timore negli altri di Adimanto permette di ricordare come l’elegante civiltà greco-romana non si esimeva dal giungere a punte di assoluta crudeltà, raccogliendo la disapprovazione di quanti, come Giovenale, inorridivano di fronte all’atteggiamento scioccante di certi ricchi, che ostentando inaudita arroganza arrivavano persino a ordinare la crocifissione di uno schiavo per puro capriccio personale (Juv. 6, 219–223). Ἔτι δέ μοι τὰ κατὰ τὴν ναῦν εὐθετίζοντι καί … ἀποβλέποντι – Il sogno di Adimanto lo accomuna sensibilmente all’ἀλαζών di Teofrasto, che, “ritto sul molo, narra ai forestieri che egli ha in mare grossi capitali, e spiega di che fatta siano i suoi affari di mutuo, e quanto egli ci abbia guadagnato e rimesso” (Char. 23, 2; trad. Pasquali 2000). Spicca in questo contesto il raro e poetico εὐθετίζω, “dispongo bene”, “colloco” (cfr. Hes. Th. 541). ἐπιστάς, ὦ Λυκῖνε … ἀνέτρεψας εὖ φερόμενον τὸ σκάφος – Nell’ironico rimprovero di Adimanto a Licino sono abilmente fuse da Luciano due immagini tipiche del suo repertorio: quella della nave che si capovolge e affonda (J. tr. 49) e quella dei sogni infranti ai danni di qualcuno immerso nelle

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sue fantasie (Gall. 12). Come nota Geneviève Husson, «l’ironie qu’exerce ainsi Adeimantos à son propre ègard montre qu’il n’est pas encore tout entier engagé dans son rêve; dans la seconde partie de son voeu, au contraire, il ne laissera jamais la réalité se glisser au milieu de ses chimères, et il ne supportera pas les interruptions railleuses de Lycinos» (Husson 1970, II, ad loc. [p. 34]). οὐρίῳ τῆς εὐχῆς πνεύματι – La formula οὐρίῳ … πνεύματι, “col vento favorevole”, “propizio” è impiegata ingegnosamente sia in senso proprio sia figurato (cfr. Taillardat 1965, p. 110, n° 215: οὔριος e οὐρίζειν sono spesso impiegati in ambito letterario con valore metaforico, in particolare in campo teatrale). § 14 Οὐκοῦν ... λαβόμενός μου ἄπαγε πρὸς τὸν στρατηγόν – Lo stratego al cui cospetto Licino immagina di essere condotto è lo στρατηγός ἐπὶ τῶν ὅπλων, che svolgeva un ruolo di primo piano nell’amministrazione dell’Atene di età imperiale – era la principale magistratura civica, con specifiche competenze poliziesche e giudiziarie – e aveva un’importanza inferiore solo a quella dell’arconte eponimo (Geagan 1967, pp. 18–31). Fra i suoi compiti c’era il reperimento di denaro per l’acquisto e il rifornimento di grano alle città, il controllo del trasporto e dell’immagazzinamento del prodotto, la supervisione della preparazione e della distribuzione della farina, la vigilanza su eventuali frodi perpetrate da mugnai e panettieri (Philostr. VS. 1, 23, 1; 2, 20, 1; cfr. Civiletti 2002 ad Philostr. VS 1, 23, 1 [p. 468]). Dalle allusioni di Luciano sappiamo, in particolare, che aveva il compito di giudicare le cause di empietà intentate contro chi rivelava i nomi dei sacerdoti di Eleusi (Lex. 9–10), di catturare e porre sotto custodia in attesa del processo chi era accusato di omicidio (Tox. 17) e, come apprendiamo da questo passo, di giudicare chi si rendeva responsabile di impedire o danneggiare i trasporti marittimi (Delz 1950, pp. 72–75). ὦ γενναῖε – Questo vocativo, relativamente poco usato da Platone (nella cui opera ricorre 12 volte), è impiegato con buona frequenza da Luciano che, in genere, lo sfrutta anche più volte all’interno di uno stesso dialogo (Anach. 21 e 40; D. mar. 4, 2; D. mort. 9 [19], 2 e 29 [23], 2; Herm. 8, 36, 78 e 84; Merc. cond. 22 e 25; Par. 31, 40, 43 e 45; Pisc. 7, 23 e 45; Salt. 3 e 25; Tox. 8 e 56; Dickey 1996, p. 279). Sia in Platone sia in Luciano questa apostrofe è principalmente sfruttata alla stregua di altre forme di appello positive fondate sull’amicizia, come φίλε, “caro”, pur se è impiegata in ambito letterario in contesti tanto positivi quanto negativi (Dickey 1996, p. 140). L’accumulo a breve distanza di tre vocativi enfatici (ὦ γενναῖε, ὦ ναυκλήρων ἄριστε, ὦ βέλτιστε) caratterizza la replica di Licino come smaccatamente ironica (l’impiego umoristico del vocativo è tipico del mo-



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dus scribendi di Luciano: Ureña Bracero 1995, p. 160 s.; cfr. ancora ad § 39: ὦ θαυμασιώτατε βασιλέων). ὥς τινα πειρατήν – Quella del pirata era un’attività estremamente fiorente nel Mediterraneo nell’antichità ed era diffusa, in particolare, lungo le coste dell’Africa nord-occidentale, della Liguria, della Dalmazia, dell’Asia Minore meridionale, delle isole dell’Egeo e di quelle di Creta, Corsica e Sardegna. I Greci, i Cartaginesi e i Romani combatterono la pirateria, anche se, fra tutti, i Romani la tollerarono a lungo, perché alimentava i mercati di schiavi indispensabili nella loro società. Pur se ridotta di molto nel corso dei primi due secoli dell’era cristiana, fu un flagello così grave per il Mediterraneo che l’immagine del pirata violento, stravagante e fuorilegge, diffusasi dal I sec. a.C., continuò a ricoprire un posto di primo piano nelle scuole di retorica (Lentano 2010) e in ambito letterario, in special modo nel romanzo greco, e diede anche origine a un filone in cui tale mestiere è visto sotto una luce favorevole che va dalla Vita di Tilloboro di Arriano (Luc. Alex. 2) fino alla moderna saga dei Pirati dei Caraibi della Walt Disney Pictures (de Souza 2008; Beresford 2013, pp. 237–257; Mastrorosa 2018). È proprio in base a un’idea avventurosa e positiva della vita del pirata che poco più in là Samippo sogna di voler cominciare le sue gloriose imprese con un piccolo manipolo di compagni di pirateria (§ 28). ἢ καταποντιστήν – L’affondatore, come rivela la parola stessa, è chi domina sulle acque sommergendo navi e affogando uomini ed è una figura tradizionalmente legata alla pirateria (LSJ9 s.v. καταποντιστής [p. 907]: «one who throws into the sea, of pirates»). ὃς τηλικοῦτον ναυάγιον εἴργασμαι – Questo passaggio ricorda da vicino l’incipit del Timone in cui Luciano ripropone in chiave parodica il mito del diluvio universale (Tim. 3: ὥστε τηλικαύτη ἐν ἀκαρεῖ χρόνου ναυαγία ἐπὶ τοῦ Δευκαλίωνος ἐγένετο). καὶ ταῦτα ἐν γῇ κατὰ τὴν ἐκ Πειραιῶς ἐς τὸ ἄστυ – Licino oppone costantemente la lucidità del suo intelletto alla stoltezza dei suoi amici, persi dietro i loro sogni, e puntualmente è costretto a riportarli sulla terra (cfr. ancora infra ad § 35 il botta e risposta fra Samippo e Licino). Ἀλλὰ ὅρα ὅπως παραμυθήσομαί σου τὸ πταῖσμα – Πταῖσμα può essere impiegato, oltre che per indicare un errore, uno sbaglio (Laps. 1) o un danno (Pisc. 33), per descrivere una disgrazia o un evento disastroso (LSJ9 s.v. πταῖσμα, II [p. 1546]). In questo contesto, in cui sancisce la fine dei sogni a occhi aperti di Adimanto, è evidentemente ironico e, presumibilmente, chi leggeva il dialogo doveva enfatizzarne la pronuncia con un tono di voce appropriato.

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πέντε γάρ, εἰ βούλει, καλλίω καὶ μείζω … οὐδὲ καταδῦναι δυνάμενα – Licino entra nella logica del suo amico Adimanto esclusivamente per deriderne i sogni: per questo, dopo aver interrotto le sue fantasticherie, lo rende padrone di una flotta di ben cinque navi, non solo più grandi e più belle di quella che il suo amico sognava di possedere, ma – ciò che è impossibile a realizzarsi – inaffondabili. Adimanto è così trasformato da Licino in un navicularius, un possessore di navi che poteva lavorare tanto al servizio dell’annona romana quanto in proprio e, dall’età degli Antonini in poi, non andava per mare, ma gestiva a terra i suoi affari; questo lo differenziava dal nauclerus (il ναύκληρος menzionato poco oltre e supra ad §§ 7, 9) che, invece, si imbarcava sulle navi e, in principio, non lavorava in proprio, ma dipendeva da altri (Rougé 1966, pp. 239–255, praes. 254 s.). Sia a livello testuale sia tematico si deve notare la notevole prossimità fra le parole di Licino e quelle con cui, nel Satyricon, Trimalcione racconta di aver fatto costruire cinque navi, che naufragando al primo viaggio gli fanno perdere ben 30 milioni di sesterzi e, in seguito, di aver fatto costruire una seconda piccola flotta, che gli permette di recuperare il denaro perduto (Petron. 76, 1–8: quinque naves aedificavi, oneravi vinum […] misi Romam. […] omnes naves naufragarunt. […] Alteras feci maiores et meliores et feliciores […]. Hoc fuit peculii mei fermentum). Come si nota, sono significative le consonanze fra le imprese di Adimanto e quelle di Trimalcione, pur se quelle del primo si realizzano solo sul piano della fantasia, quelle del secondo nel mondo reale: entrambi perdono malauguratamente le loro navi a causa di un naufragio (omnes naves naufragarunt/τηλικοῦτον ναυάγιον εἴργασμαι); se ne procurano altre, cinque per ciascuno, migliori delle precedenti (maiores et meliores et feliciores/ καλλίω καὶ μείζω); possono infine commerciare con Roma e dare il via alle loro fortune. καὶ τάχα σοι πεντάκις … σιταγωγείτω σιταγωγίαν – Che le navi di Adimanto compiano ben cinque volte (πεντάκις) la traversata dall’Egitto all’Italia è una palese esagerazione comica, dal momento che la flotta annonaria romana non salpava che una sola volta all’anno da Alessandria alla volta dell’Italia (Höckmann 1985, p. 78). La figura etimologica (σιταγωγείτω σιταγωγίαν), già impiegata da Adimanto (§ 13: βίον ἐπεβίωσα), enfatizza con la sua concisione e la sua sonorità la smisurata capacità di carico delle navi onerarie materializzate da Licino (cfr. Dem. Eloc. 92 sull’uso dei composti per fornire varietà e grandezza alla composizione senza prolissità). La tradizione presenta due varianti: σιταγωγείτω (nei veteres) e σιταγωγείτωσαν (nei recentiores). Accolgo nel testo la prima basandomi sull’autorevolezza della lezione dei veteres e, inoltre, sul fatto che Luciano viola raramente lo schema atticum (Chabert 1897, p. 180 s.), per cui sarebbe



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logico aspettarsi in questo contesto che al neutro plurale (πλοῖα) seguisse un predicato al singolare (σιταγωγείτω). εἰ καί … δῆλος εἶ ἀφόρητος ἡμῖν τότε γενησόμενος – È un luogo comune del pensiero greco il ritenere che il neoricco insuperbisca, per il suo desiderio di rivalsa nei confronti del mondo, e diventi insopportabile per tutti coloro che abbiano la sfortuna di avere a che fare con lui (cfr. Tim. 23 [lo schiavo arricchitosi da poco è ἀφόρητος, “insopportabile” con chiunque e maltratta i sottoposti] e vd. Tomassi 2011 ad loc. [pp. 340–342]). Εἰ καί è congettura di Moses du Soul (Solanus) che accolgo (come fanno anche la maggior parte degli editori) perché fornisce alla frase seguente una necessaria sfumatura concessiva, a cui risponde il γάρ del periodo successivo. ὦ ναυκλήρων ἄριστε – La seconda, ironica invocazione con cui Licino si rivolge ad Adimanto (cfr. supra: ὦ γενναῖε) si fonda sull’uso di un superlativo (ἄριστος) che ricorre di frequente sia nella poesia epica e tragica, come epiteto enfatico (vd. ad es. Eur. Alc. 235, 324, 442; Hipp. 1242; Tr. 1195), sia nel repertorio paratragico di Aristofane, in cui diventa uno dei tanti esempi di appellativi, tipici dello stile elevato, che il comico mette in bocca ai suoi personaggi «in komischer Magnifikation des Gegenübers» (Rau 1967, pp. 144–148). Quest’apostrofe non è esclusiva della poesia, ma è diffusa anche in prosa ed è propria, in particolare, del lessico di Platone (nella cui produzione ricorre ben 52 volte al singolare e 8 al plurale), che spesso la combina con un nome o con un genitivo plurale quale ἀνδρῶν. Luciano la utilizza con buona frequenza sia per esprimere genuina ammiazione sia in forma ironica, come in questo caso, in cui Licino si prende gioco di Adimanto concedendogli uno status – quello di grande armatore – che questi possiede solo nei suoi sogni (cfr. infra ad § 16: οὐδὲ οἶσθα ὅστις ὢν ναυκληρεῖς; sull’uso di questa invocazione nei Dialoghi cfr. ancora infra ad § 26; Anach. 10; Cat. 23; D. meretr. 13, 4; D. mort. 10 [20], 2; Fug. 29; Im. 11; Pro im. 17; J. tr. 11, 43; Merc. cond. 42; Philops. 1, 10; Pseudol. 4; Sat. 1, 5, 19; Sol. 10; Tox. 56; Prom. es 1; al plurale ricorre solo in Pisc. 5; vd. Dickey 1996, pp. 140 e 278). Ὃς γὰρ ἔτι ἑνὸς πλοίου τουτουὶ δεσπότης ὢν παρήκουες βοώντων κτλ. – Licino continua ad assecondare Adimanto e, al tempo stesso, esprime i suoi dubbi sulla capacità dell’amico di gestire la ricchezza mettendo in campo un’argomentazione retorica inoppugnabile: se lui si è lasciato corrompere dal pensiero di ricchi guadagni (§ 13), nel caso in cui questi dovessero moltiplicarsi si moltiplicherebbero anche i suoi vizi. Le paure di Licino si riveleranno fondate poco oltre, quando Adimanto dichiarerà che, se diventasse ricco, non rivolgerebbe neppure lo sguardo a molti di coloro che si accalcherebbero alla sua porta (§ 22).

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III Commento

Sulla funzione del deittico (ἑνὸς πλοίου τουτουί) nella lettura del dialogo vd. supra comm. ad § 1: σέ τε καὶ Σάμιππον τουτονί. εἰ πέντε κτήσαιο πρὸς τούτῳ … οὐδὲ ὄψει δηλαδὴ τοὺς φίλους – Che i ricchi siano tanto superbi da non degnarsi di gettare nemmeno uno sguardo su quelli che corrono a impetrarne i favori è un motivo tradizionale nell’antichità, assai diffuso nella satira (vd. ad es. Juv. 3, 183–185), che Luciano ama riproporre di frequente (Tim. 26; Merc. cond. 10; Nigr. 21; ecc.). Notevole è l’uso del periodo ipotetico misto, che unisce una protasi della possibilità (εἰ πέντε κτήσαιο) a un’apodosi dell’eventualità (οὐδὲ ὄψει δηλαδὴ τοὺς φίλους), con cui Licino continua a dispiegare la sua ironia ai danni di Adimanto, prima mostrandosi scettico sulla capacità dell’amico di diventare un ricco armatore, poi presentando come necessaria e, quindi, estremamente probabile l’eventualità che insuperbisca diventa arrogante e insolente anche con gli amici (una peculiarità del parvenu: vd. infra comm. ad § 15: ὑπερμαζᾷς γάρ, ὦ Ἀδείμαντε). Poco oltre, Licino spinge ancora sul pedale dell’ironia, che si trasforma apertamente in sarcasmo quando rende reale l’impossibile sogno di Adimanto e afferma di voler andare al Pireo a chiedere se qualche viaggiatore dall’Egitto all’Italia ha notato l’Iside, la gran nave di Adimanto (ἡμεῖς δὲ ἐν Πειραιεῖ καθεδούμεθα κτλ.). Questo giustifica le conseguenti, aperte proteste di quest’ultimo (§ 15: ῾Ορᾷς; Διὰ τοῦτο ὤκνουν εἰπεῖν ἃ ἐνενόουν, εἰδὼς ὅτι ἐν γέλωτι καὶ σκώμματι ποιήσεσθέ μου τὴν εὐχήν). τριάρμενα πάντα καὶ ἀνώλεθρα – Nel mondo antico l’utilizzo di navi a uno oppure a due alberi era la norma, mentre quelle a tre alberi erano molto rare (vd. supra comm. ad § 5: τὰ δ᾽ ἄλλα ἡλίκος μὲν ὁ ἱστός; cfr. tav. 18). Evidentemente, quando Licino pensa a quest’ultimo tipo di imbarcazioni come risarcimento per Adimanto, c’è nelle sue parole una buona dose di ironia, che nasce dall’iperbolica sproporzione fra ciò che Adimanto sogna e quello che l’amico è pronto a offrirgli, una flotta di navi eccezionalmente grandi, a tre alberi (τριάρμενα) e, addirittura, “indistruttibili” (ἀνώλεθρα). Rilevante in tale contesto è il raro τριάρμενος, proprio del greco di età imperiale (cfr. Luc. Pseudol. 27; Lex. 15: ὁλκάδα τριάρμενον; Plut. Marc. 14, 13: ὁλκάδα τριάρμενον τῶν βασιλικῶν πόνῳ μεγάλῳ καὶ χειρὶ πολλῇ νεωλκηθεῖσαν; Philostr. VA 4, 9). Σὺ μὲν οὖν εὐπλόει – “Fa’ buon viaggio” (εὐπλόει) doveva essere il tradizionale augurio rivolto a chi si metteva in mare (Husson 1970, II, ad loc. [p. 35]). ὦ βέλτιστε – Questo è il terzo vocativo con cui Licino si rivolge ad Adimanto (cfr. supra: ὦ γενναῖε ... ὦ ναυκλήρων ἄριστε). Esso è frequente in prosa e, in particolare, in Platone (in cui ricorre 42 volte al singolare e 4 al plurale), rispetto al quale è usato da Luciano con frequenza anche maggiore (Dickey



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1996, p. 278; vd. ancora Cat. 7 e 14; Cont. 14; Deor. conc. 1; D. deor. 4 [10], 2; D. meretr. 9, 4; D. mort. 10 [20], 5; 12 [25], 7; 16 [11], 5; 19 [27], 1; 20 [6], 4; 22 [2], 2 e 3; 24 [29], 2; 27 [22], 9; 28 [9], 3; Fug. 27; Gall. 3, 6 e 26; Herm. 30; Hes. 4; Icar. 13; J. tr. 33; Laps. 12; Merc. cond. 23; Par. 39; Pisc. 48; Pro im. 23; Prom. 6; Pseudol. 14; Sacr. 3; Salt. 66; Vit. auct. 3, 7, 12, 14 e 25; nei Dialoghi ricorre una sola volta al plurale in Pisc. 52). Sia in Luciano sia in Plutarco questo vocativo è utilizzato spesso in direzione di interlocutori sconosciuti e, al di fuori di questi autori e di Platone, è spesso sfruttato in senso ironico o sarcastico (Dickey 1996, p. 139). ἡμεῖς δὲ ἐν Πειραιεῖ καθεδούμεθα … εἴ που τὸ μέγα Ἀδειμάντου πλοῖον τὴν Ἶσίν τις εἶδεν – Adimanto aveva espresso il desiderio di possedere l’Iside (§ 13) e ora Licino non solo fa finta di assecondarlo ritraendolo a tutti gli effetti come suo proprietario (§ 14), ma ironizza sul desiderio dell’amico spingendosi ben al di là delle sue semplici rêveries, poiché immagina sé stesso e i suoi compagni nell’improbabilissima azione di domandare ai frequentatori del Pireo notizie dell’imbarcazione e del suo proprietario. L’ironia di Licino sembra fare leva sull’antico luogo comune per cui “è dolce vedere dalla terraferma il grande affanno altrui”, che, nell’evidenziare «lo stato d’animo di chi, dalla terraferma, osserva tempeste e naufragi, indica tranquillità e sicurezza per antonomasia» (Tosi 1992, p. 721, nº 1618). La iunctura τὸ μέγα πλοῖον ha la duplice funzione di ricordare le grandiose dimensioni dell’Iside (§ 5) e, al tempo stesso, di ironizzare ulteriormente sull’assurdità dei grandiosi sogni di Adimanto. Il καὶ tradito dopo il predicato καθεδούμεθα è ridondante: per questo, in accordo con una parte minoritaria della tradizione e con la maggioranza degli editori moderni, preferisco eliminarlo. § 15 εἰδὼς ὅτι ἐν γέλωτι καὶ σκώμματι ποιήσεσθέ μου τὴν εὐχήν – Il riso (γέλως) e la burla (σκῶμμα) sono armi fondamentali dell’eroe satirico lucianeo (Camerotto 2014, pp. 285–323; cfr. Loiacono 1932; Korus 1984; Angeli Bernardini 1994; Halliwell 2008, pp. 429–470). Come vedremo, Licino deriderà più e più volte i sogni di Adimanto (§§ 14, 15, 19, 21, 26–27), coinvolgendo nel riso anche Timolao (§ 19), e concluderà l’intera narrazione con una gran risata (§ 46). Nei Dialoghi non ridono solo i portavoce di Luciano (Licino, Tichiade, Parresiade) o i suoi personaggi satirici principali (Menippo e Diogene), ma qualsiasi soggetto può essere potenzialmente coinvolto nel riso: divinità (D. deor. 7 [11], 3; 16 [18], 2; Apol. 6; Cont. 6, 13–15, 17), filosofi (D. mort. 1 [1], 1; 10 [20], 9; 13 [13], 2–3; 21 [4], 2; 24 [29], 3; Bis acc. 33; Nec. 17), uomini comuni (Pisc. 34; Cat. 15–16; Symp. 35), allegorie (come Retorica in Bis acc. 31), ombre dei morti nell’Ade (D. mort. 1 [1], 1; 7 [17], 2; Luct. 19), Greci (Bis acc. 10), barbari (come lo scita Anacarsi in Scyth. 1,

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III Commento

9 e 39), donne (D. meretr. 5, 3; 6, 3; 12, 4), bambini (Dom. 31), e così via (Oudot-Lutz 1994, p. 146; Husson 1994). Il riso è uno strumento fondamentale della satira lucianea, perché «ha il potere di demolire la semnotes […] e di smascherare l’apithanotes» (Camerotto 1998, p. 73, n. 198). Se è vero che nella satira lucianea il riso è onnipresente, è altrettanto vero che è raro il riso festivo e giocoso, che tanta parte ha nella commedia, in particolare quando è associato all’eroe e al suo trionfo, perché nella satira «il gelos è un riso critico, che ha l’effetto di trasformare il suo oggetto e lo riduce al geloion e al disprezzo. È strumento principe dell’attacco, che agisce in maniera semplice e potentissima, ed è incontrovertibile, ossia al riso non v’è possibilità di replica. […] Esso produce uno smascheramento e un vero e proprio rovesciamento nella scala dei valori. Le cose più ambite secondo le convenzioni sociali e che sono considerate falsamente serie, importanti, preziose vengono smascherate dall’osservazione satirica e rovesciate nel loro opposto: esse si rivelano piccole, meschine, inconsistenti, insicure» (Camerotto 2009, pp. 42–47, praes. 42–44). A volte gli stessi maestri della sapienza greca a cui Luciano si ispira si uniscono a lui o a uno dei suoi alter ego letterari nel deridere un bersaglio comune: nel Pescatore, ad esempio, se all’inizio i principali fondatori delle scuole ateniesi sono uniti nel contrastare Parresiade (portavoce di Luciano), al termine della narrazione sono con lui nel satireggiare i falsi filosofi contemporanei; nell’Intorno ai sacrifici il narratore inizia affermando che nessuno esiterebbe a ridere della stoltezza di coloro che fanno sacrifici, organizzano feste per le divinità o processioni in loro onore (Sacr. 1), e alla fine ricorda che di tali futilità non c’è bisogno di condanna, ma del biasimo di un Eraclito o del riso di un Democrito. In questo modo, «by interlinking all such figures through the motif of laughter, the boundaries of a satirical community are reinforced. Friendship, for Lucian, is dependent upon the identification of a common enemy» (Whitmarsh 2004, p. 472). Ὥστε ἐπιστὰς μικρόν … ἀποπλευσοῦμαι πάλιν ἐπὶ τῆς νεώς – Adimanto è sempre più immerso nei suoi sogni di ricchezza e non distingue più la fantasia dalla realtà. Ad aggiungere comicità a quella naturalmente insita in questo comportamento contribuiscono le reazioni infantili di questo personaggio, come quella di staccarsi nuovamente dai suoi compagni per potersi rituffare a capofitto e in santa pace nei giochi della sua immaginazione. Πολὺ γὰρ ἄμεινον τοῖς ναύταις προσλαλεῖν ἢ ὑφ᾽ ὑμῶν καταγελᾶσθαι – Adimanto comincia a dimostrarsi sempre più insofferente delle risate del suo amico Licino e sbotta di stizza, con una reazione più che naturale: come ricorda Aristotele, infatti, gli uomini si arrabbiano con quelli che ridono di loro, li scherniscono e li motteggiano, perché sono insolenti (ὀργίζονται … τοῖς τε καταγελῶσι καὶ χλευάζουσιν καὶ σκώπτουσιν [ὑβρίζουσι γάρ]), e se



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la prendono soprattutto con quelli che li colpiscono nei loro affetti più profondi, in particolare con gli amici e con quelli che dovrebbero trattarli con rispetto e onore (Arist. Rh. 2, 2, 1379a–b). Le indicazioni del riso sono frequentissime nell’opera di Luciano e spesso sono segnali per marcare l’ethos satirico. Nei Dialoghi i termini che esprimono l’atto del ridere (come καταγελᾶσθαι impiegato in questo contesto) sono talmente numerosi che è impossibile elencarli tutti (Husson 1994, p. 182) e, come se ciò non bastasse, la risata è spesso enfatizzata da avverbi come ἡδέως (cfr. infra ad § 46: τὸ γελάσαι μάλα ἡδέως), aggettivi come πολύς (Pseudol. 6, 9) o locuzioni avverbiali come ἐς κόρον (J. tr. 51). μηδαμῶς, ἐπεὶ συνεμβησόμεθά σοι καὶ αὐτοὶ ὑποστάντες – Συνεμβαίνειν è un termine ricercato che rientra nel novero di quei predicati composti con più di un prefisso amati dagli scrittori di epoca imperiale. Ἀλλὰ ὑφαιρήσω τὴν ἀποβάθραν προεισελθών – Licino stuzzica l’amico Adimanto per scatenarne la reazione, che non si fa attendere: così alla minaccia di Licino di tenergli dietro sulla sua nave, una minaccia inconsistente tanto quanto l’imbarcazione vagheggiata da Adimanto, questi replica con una sintetica e stizzita affermazione che ne tradisce tutta l’infantilità. È proprio grazie alla differenza comportamentale fra due personaggi e alla differente importanza da loro accordata alle cose che Luciano è capace di costruire divertenti scenette come questa (cfr. infra comm. ad § 25: ἀπομεμαγμένην καὶ ταύτην). Οὐκοῦν ἡμεῖς γε προσνηξόμεθα ὑμῖν – Il divertente botta e risposta fra Adimanto e Licino costituisce un allegro siparietto che mette in risalto la passione di Luciano per la burla (vd. l’introduzione al § 1.6.2). Μὴ γὰρ οἴου σοὶ μὲν εἶναι ῥᾴδιον τηλικαῦτα πλοῖα κτᾶσθαι μήτε πριαμένῳ μήτε ναυπηγησαμένῳ – L’omoteleuto dato dalla coppia di participi fissa l’attenzione sull’assurdità dei sogni di Adimanto, per il quale, contro ogni logica, è facile possedere navi “senza averle prima comprate o fatte costruire” (μήτε πριαμένῳ μήτε ναυπηγησαμένῳ; sulla figura del costruttore di navi [ναυπηγός] cfr. supra comm. ad § 2: μακρὰ χαίρειν φράσας τῷ Αἰγυπτίῳ ναυπηγῷ περιηγουμένῳ τὸ πλοῖον). L’affermazione di Licino parodia la precedente affermazione con cui Adimanto esprimeva il desiderio di entrare in possesso di una nave gigantesca come l’Iside grazie all’aiuto degli dèi (§ 13: εἴ τις θεῶν τὴν ναῦν ἄφνω ἐμὴν ποιήσειεν εἶναι). ἡμεῖς δὲ οὐκ αἰτήσομεν παρὰ τῶν θεῶν … δύνασθαι νεῖν; – Nella burla di Licino ai danni di Adimanto è da vedere una spiritosa frecciata di Luciano alla fede cieca degli uomini nell’intervento degli dèi nel mondo (cfr. infra ad § 16: παρ᾽ αὐτῷ γὰρ ἑκάστῳ … εἰ καὶ τῇ φύσει ἀπίθανα ἔσται).

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III Commento

Καίτοι πρῴην – Per l’uso nei Dialoghi degli avverbi temporali (fra tutti πρῴην e χθές) a fissare cronologicamente un racconto vd. supra comm. ad § 9). καὶ ἐς Αἴγιναν … ἐν ἡλίκῳ σκαφιδίῳ - Egina è l’isola del golfo Saronico, distante dal Pireo poco più di 20 km, su cui sorgeva uno dei principali templi dedicati a Ecate (Paus. 2, 30, 2). Ἐνοδία, “protettrice delle vie”, è uno degli epiteti della dea, signora degli inferi e protettrice dei crocicchi, presso cui i Greci lasciavano offerte, in genere pasti frugali che consumavano i poveri (LSJ9 s.v. ἐνόδιος, II [p. 571]: «epith. of divinities, who had their statues by the way-side or at cross-roads»; cfr. D. mort. 1 [1], 1: Menippo può sfruttare un ‘pasto di Ecate’ per sfamarsi; Philops. 13–14 e 22–23, su cui Schwartz 1951 ad loc. [pp. 43 s., 49]). Il paragone fra la piccola imbarcazione con cui i quattro amici compiono la traversata dal Pireo a Egina e le gigantesche dimensioni dell’Iside, insieme al confronto fra il breve viaggio della prima e la ben più lunga e travagliata navigazione della seconda, introduce una nota comica che accentua il tono sarcastico delle parole di Licino. Non è improbabile che Luciano intenda sollecitare il piacere del pubblico invitandolo a notare un’allusione erudita all’opera di Platone, nel cui Gorgia (511d) il viaggio da Egina al Pireo è opposto, per la sua brevità, proprio a quello verso l’Egitto o il Ponto (Husson 1970, II, ad loc. [p. 36]). Σκαφίδιον, “barchettina” è un diminutivo che ricorre con buona frequenza negli scritti di Luciano, in cui generalmente serve a descrivere in maniera spiritosa la navicella di Caronte (Cont. 8, 14, 23; D. mort. 4 [14], 1 e 10 [20], 1) o ricorre nella parodia dei racconti marinareschi (Merc. cond. 2). Si tratta di uno dei tipici diminutivi comici sfruttati dallo scrittore per dare un tocco di humour leggero alla narrazione (vd. supra comm. ad § 2 [Καὶ μὴν οὐ πάνυ καλός, ὦ Σάμιππε, ὁ μειρακίσκος ἔδοξέ μοι] e l’introduzione al § 1.7.2; cfr. Tim. 3: ἕν τι κιβώτιον). πάντες ἅμα οἱ φίλοι τεττάρων ἕκαστος ὀβολῶν διεπλεύσαμεν – I critici, a parte rare eccezioni (come Mrozek 1971), non hanno ritenuto attendibili le indicazioni di Luciano in materia di circolazione del denaro e di costo della vita e, in particolare, hanno dubitato che all’epoca della composizione della Nave occorresse una cifra di quattro oboli per la traversata dal Pireo a Egina, come afferma Licino. Josef Delz confronta il prezzo di due oboli per il viaggio da Atene a Egina ricordato da Socrate nel Gorgia platonico (511d) alla tariffa menzionata da Licino, ma esprime dubbi su una svalutazione di questa moneta dall’epoca classica a quella imperiale come verrebbe testimoniata da Luciano e, addirittura, sull’effettiva circolazione dell’obolo nel II secolo d.C. (Delz 1950, p. 90). Che la moneta fosse ancora in uso in età imperiale trova però conferma nelle testimonianze antiche: per Cassio



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Dione, ad esempio, l’imperatore Vespasiano impose un tributo personale di sei oboli agli Alessandrini (65, 8, 3–5). Data la complessità della questione, Jacques Bompaire si esime dall’esprimere opinioni e si limita a osservare che «toute conclusion est impossible» (Bompaire 1958, p. 523). Geneviève Husson ritiene che i quattro oboli menzionati da Luciano possano voler parodiare il testo del Gorgia platonico, «modifié par la fantaisie ou par un défaut de mémoire de l’auteur» (Husson 1970, II, ad loc. [p. 36 s.]). A far ritenere la cifra di quattro oboli menzionata nella Nave di fantasia piuttosto che reale concorrerebbe sia il fatto che questa si ricollega a un noto motivo proverbiale, ‘valere quattro oboli’ (Apostol. 16, 35; Tosi 1992, p. 61, n° 135), sia che la stessa somma ricorre spesso, e in contesti diversificati, nell’opera lucianea, andando a rappresentare, di volta in volta, il sogno di un povero (Sat. 21), la paga quotidiana per un bracciante a salario (Tim. 6, 12; cfr. Tomassi 2011 ad Tim. 6 [p. 232 s.]), la paghetta che un ricco avaro dà al figlio (D. mort. 27 [22], 7) o il massimo del compenso per l’intellettuale greco al servizio del ricco romano (Merc. cond. 38). Nonostante lo scetticismo dei critici, non si può escludere a priori che Luciano possa fornire, almeno in alcuni casi, reali indicazioni sul costo della vita alla sua epoca. Un esempio in tal senso potrebbe esser costituito da un passo dei Dialoghi dei morti in cui Caronte è pregato da Hermes di saldargli il debito contratto per l’acquisto di materiale utile per la sua navicella e, di volta in volta, critica o loda il prezzo dei prodotti acquistati: se dunque cinque dracme risultano una cifra eccessiva per un’ancora, due dracme per acquistare cera per otturare le falle della barca, chiodi e corda rappresentano un buon prezzo per il nocchiero infernale (D. mort. 4 [14]). In questo dialogo il Witz dovrebbe risiedere proprio nell’effettività della somma in questione e nella partecipazione del pubblico alla contrattazione, giacché se i prezzi fossero di pura fantasia, di sicuro la scena perderebbe molta della sua comicità. καὶ οὐδὲν ἐδυσχέραινες ἡμᾶς συμπλέοντας, νῦν δὲ ἀγανακτεῖς – Ora che il gioco dei desideri sta entrando nel vivo, Adimanto rivela la sua vera natura di uomo avido e irragionevole: così se un tempo ha realmente viaggiato in barca coi suoi amici in tutta tranquillità, adesso che si vede criticato per l’assurda sproporzione delle sue ambizioni si stizzisce come un bambino e non sopporta neanche nella fantasia che i suoi amici si imbarchino insieme a lui. È una felice trovata di Luciano per dare una pennellata umoristica alla narrazione e mettere in risalto un peculiare aspetto del carattere di uno dei suoi personaggi. εἰ συνεμβησόμεθά σοι, καὶ τὴν ἀποβάθραν προεισελθὼν ἀφαιρεῖς; – Licino ripropone quasi parola per parola il precedente, breve botta e risposta fra lui e Adimanto ([Lic.] συνεμβησόμεθά σοι καὶ αὐτοὶ ἐπιστάντες/[Ad.]

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III Commento

Ἀλλὰ ὑφαιρήσω τὴν ἀποβάθραν προεισελθών), quasi a farne il verso per accentuare la puerilità delle rimostranze dell’amico. I ricercati συνεμβαίνω e προεισέρχομαι sono tipici predicati con più suffissi particolarmente apprezzati dagli scrittori di età imperiale. Per il termine ἀποβάθρα, “passerella” cfr. supra ad § 1. Ὑπερμαζᾷς γάρ, ὦ Ἀδείμαντε – Licino accusa Adimanto di darsi troppe arie utilizzando un predicato raro, ὑπερμαζᾶν, che inizialmente significa “essere ben grasso e pasciuto” per abbondanti gozzoviglie (da μᾶζα) e poi, in senso traslato, “essere gonfio” per la boria e l’arroganza che nascono da un modo di vivere esageratamente lussuoso e voluttuoso (DELG s.v. μᾶζα [p. 657]; Dio Cass. 57, 22: ἐπί τε τῇ ἰσχύι καὶ ἐπὶ τῷ ἀξιώματι ὑπερμαζήσας; Ath. 14, 663b: τὸ τρυφᾶν καθ᾽ ὑπερβολὴν ὑπερμαζᾶν). È un atteggiamento che lo scoliaste definisce tipico di chi ha raggiunto la ricchezza da poco, dopo aver a lungo sofferto la povertà (p. 249, 12–14 Rabe: λέγεται τοῦτο ἐπὶ τῶν ἀπὸ τῆς ἄγαν πενίας ἀρξαμένων πλουτεῖν ἔπειτα σοβαρόν τι τοῖς συνήθεσι τέως ἐνορώντων καὶ ὑπεροπτικῶν). Per un greco, del resto, «il peccato abituale dei ricchi si riteneva fosse la ὕβρις» (Dover 1983, p. 209 s.), un’accusa che, a partire dalla guerra del Peloponneso, gravò soprattutto sul comportamento sregolato dei ‘nuovi ricchi’ (Thuc. 3, 45, 4; Eur. Suppl. 741–744), in particolare dei politici, in direzione dei quali i comici lanciavano attacchi pesanti (Connor 1971, pp. 151–194). È la filosofia a portare a maturazione le riflessioni intorno alla natura dei νεόπλουτοι: per Aristotele, i ricchi soprattutto provano piacere nell’insuperbire, perché credono di risultare superiori facendo male agli altri (Rh. 2, 2, 1378b: αἴτιον δὲ τῆς ἡδονῆς τοῖς ὑβρίζουσιν, ὅτι οἴονται κακῶς δρῶντες αὐτοὶ ὑπερέχειν μᾶλλον), e per natura sono arroganti e insolenti (ὑβρισταί … καὶ ὑπερήφανοι), perché tutto a loro sembra acquistabile per mezzo della ricchezza (διὸ φαίνεται ὤνια ἅπαντα εἶναι αὐτοῦ), in particolar modo ai parvenus, che dei ricchi di lunga data hanno tutti i vizi in misura maggiore e più perversi (μᾶλλον καὶ φαυλότερα) e per ignoranza nella gestione della ricchezza (ἀπαιδευσία πλούτου) non sanno usare correttamente i loro beni (Rh. 2, 16, 1390b–1391a). È la satira a consacrare la superbia come una sorta di ‘marchio di fabbrica’ del parvenu (Juv. 12, 111–130: Pacuvio dopo avere ereditato superbus / incedet victis rivali bus; Luc. Tim. 11: Timone maltrattatava Pluto e ὕβριζεν […] καὶ ἐξεφόρει καὶ ἐς πολλὰ κατεμέριζε; 23: il liberto arricchito insuperbisce [ὑβρίζει] contro i liberi e maltratta gli schiavi, suoi antichi pari). καὶ ἐς τὸν κόλπον οὐ πτύεις – La saliva era ritenuta dagli antichi sostanza purificatrice e salutare, capace di proteggere dagli influssi maligni (Pers. Sat. 2, 31–34). La formula proverbiale “sputarsi in seno”, a cui allude Licino, rimanda a un gesto che serviva proprio a stornare il malocchio e a evitare la vendetta della dea Nemesi, fra le cui prerogative c’era il compito di castiga-



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re gli orgogliosi e i superbi, come Adimanto (cfr. Luc. Apol. 6; Petron. 74, 13: inflat se tamquam rana, et in sinum suum non spuit; Diogen. 4, 82b [εἰς κόλπον οὐ πτύει· ἐπὶ τῶν μεγαλαύχων] e Lelli 2007 ad loc. [n. 380, p. 502 s.]; vd. ancora Betz 1961, p. 150 s.). Lo scoliaste ricorda che la tradizione popolare, per bollare l’arroganza degli altezzosi, che non hanno l’abitudine di ‘sputarsi in seno’, cioè non si rendono conto del loro comportamento tronfio e volgare, arriva a definirli spiritosamente μακροπτύσται, “sputalontano” (p. 249, 16–19 Rabe: ἐπὶ τῶν κούφως φερομένων καὶ ἀλαζόνων, φημὶ τὸ ’μὴ εἰς τον κόλπον πτύειν’, οὓς καὶ διὰ τοῦτο ἡ συνήθεια ‘μακροπτύστας’ σκωπτικῶς ὀνομάζει). οὐδὲ οἶσθα ὅστις ὢν ναυκληρεῖς – Licino ritorna ironicamente a definire Adimanto ‘armatore’ (cfr. supra comm. ad § 14: ὦ ναυκλήρων ἄριστε). Οὕτως ἐπῆρέν σε ἡ οἰκία … καὶ τῶν ἀκολούθων τὸ πλῆθος – Licino ironizza sui desideri dell’amico Adimanto e ridicolizza sia la casa che questi desidera “in un bel posticino della città” (ἐν καλῷ τῆς πόλεως), cioè vicino al Portico dipinto, sia gli altri beni che sogna di possedere, fra i quali “la folla dei servitori” (τῶν ἀκολούθων τὸ πλῆθος) non è che il primo di una lista di possedimenti comprendente servi, vestiti, carri, cavalli (cfr. supra ad § 13: οἰκίαν ᾠκοδομησάμην ἐν ἐπικαίρῳ μικρὸν ὑπὲρ τὴν Ποικίλην … καὶ οἰκέτας ὠνούμην καὶ ἐσθῆτας καὶ ζεύγη καὶ ἵππους). ὦγαθέ – Tale apostrofe è una di quelle più comunemente usate da Platone (Dickey 1996, pp. 139 e 277 s.), così come da Luciano (Tim. 25, 37, 56 e 57; Ind. 25; Anach. 6 e 23; D. mort. 20 [6], 3; Fug. 32; Gall. 4; Herm. 11, 19, 21 e 66; Icar. 1; Nec. 2; Nigr. 6; Rh. pr. 13; Somn. 17; Vit. auct. 21 e 27). πρὸς τῆς Ἴσιδος – Licino giura spiritosamente per Iside, la divinità che dà il nome alla nave oneraria dalla cui visione Adimanto è stato sconvolto, fino a perdersi nei suoi sogni, e da cui prende inizio il gioco dei desideri dei quattro amici. Nei Dialoghi i giuramenti sono impiegati con grande varietà di forme e, assai di frequente, in funzione comica: a tal riguardo, uno dei più tipici giuramenti comici è proprio quello di esseri umani o dèi che giurano in nome di oggetti o personaggi presenti sulla scena, come nel caso presente (Chabert 1897, p. 211; Anderson 1977, p. 366; Ureña Bracero 1995, pp. 162–167, praes. 162 s.: Luciano impiega con gran frequenza le formule di giuramento perché è influenzato dal teatro comico e, forse, per criticare le usanze della sua epoca). κἂν τὰ Νειλῷα ταῦτα ταρίχη … μέμνησο ἡμῖν ἄγειν ἀπ᾽ Αἰγύπτου – Il pesce, seccato o in salamoia, era componente fondamentale della dieta egizia ed era molto apprezzato anche dai Greci e dai Romani (Hdt. 2, 77, 4; Caminos 2003, p. 16; Dalby 2003, s.v. conserving, p. 95 s.). Come provano questo e i successivi riferimenti al mondo egizio, Luciano è solito sfruttare

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III Commento

un certo numero di topoi nel riferirsi a questa o a quella nazione, per cui a ogni popolo si diverte a legare un’opera d’arte, un personaggio celebre del mito o della storia e, anche, una specialità locale (Gangloff 2007, p. 77 s.; cfr. supra comm. ad § 2: γλαφυρὸν οὕτω θέαμα ἐκεῖνος ἰδών; infra ad § 24 il lungo elenco di specialità desiderate da Adimanto). In accordo con la maggioranza degli editori preferisco scrivere Νειλῷα piuttosto che Νειλαῖα, che Macleod ricava da una correzione incerta del testo, anch’esso di difficile lettura, del Vat. gr. 90. ἢ μύρον ἀπὸ τοῦ Κανώπου – L’Egitto ha fornito agli scrittori, dall’antichità fino ai giorni nostri, una ricca serie di elementi curiosi, particolari straordinari e aneddoti favolosi capaci di affascinare il pubblico (Bompaire 1958, p. 233 s.; Anderson 1976b, p. 28 s.; Romm 2008, pp. 117–119). In età imperiale, in particolare, Menfi e Canopo, il famoso sobborgo ellenizzato di Alessandria, rappresentano per gli scrittori elementi imprescindibili del paesaggio egiziano, insieme al Nilo (cfr. infra ad § 44; Alex. 44; Tox. 27; D. deor. 3 [7]; Rh. pr. 6; Philops. 33; Dips. 4), ad Alessandria (Alex. 44; Pseudol. 21), a Faro (cfr. supra ad § 7), alle piramidi (cfr. infra: τῶν πυραμίδων μίαν; Tox. 27), a Pelusio (J. tr. 42) e alla statua di Memnone, che emetteva un suono al sorgere del sole (Tox. 27; Philops. 33, su cui Schwartz 1951 ad loc. [p. 55]). La fama dei profumi di Canopo, a cui Luciano allude in questo contesto, non è nota dalle fonti antiche. È pur vero che questo era un centro prossimo ad Alessandria, in cui avevano sede un’industria e un commercio dei profumi fiorenti, e che fabbricanti e venditori di profumi si trovavano un po’ in tutto l’Egitto, giacché gli Egiziani amavano farne uso, in particolare nelle feste, di cui costituivano un elemento fondamentale insieme alle ghirlande (Parsons 2014, p. 149). La stessa Canopo era famosa per la grandiosità delle sue festività pubbliche e per la bellezza dei suoi edifici (Strab. 17, 1, 17; Amm. Marc. 22, 16, 14), oltre che per la mollezza e l’immoralità dei suoi abitanti, che non mancarono di attirare gli strali di Giovenale (1, 26–29; 6, 82–87; 15, 44–46). Una città con una simile fama poteva ben figurare in Luciano come un centro in cui l’abbondanza e la ricercatezza dei profumi erano rilevanti. ἢ ἶβιν ἐκ Μέμφιδος – L’ibis è un elemento tipico del mondo egizio per i Greci, in quanto uccello caratteristico del paesaggio nilotico – come ricorda il celebre mosaico di Palestrina (Parsons 2014, p. 115) – e animale sacro a Thoth, dio della saggezza, a cui è accostato per l’istinto infallibile nel cercare e nel trovare cibo (Hdt. 2, 75, 3–76, 2, su cui vd. Lloyd 2000 ad loc. [p. 295 s.]; Luc. J. tr. 42 e Im. 11 [critica alle divinità zoomorfe egizie]; Arnott 2007, s.v. ibis, pp. 73–75; Parsons 2014, p. 77: a Ossirinco un quartiere ospitava una sepoltura di ibis sacri). Secondo Jacques Schwartz, la presenza di ibis a Menfi sarebbe un’invenzione letteraria e rientrerebbe nel novero delle tante libertà di carattere geografico che Luciano si concederebbe (Schwartz 1965,



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p. 127, n. 4). In realtà, almeno in questo caso, non sembra si debba dubitare della buona fede dello scrittore, perché l’uccello anticamente viveva a una latitudine più settentrionale rispetto a quella odierna (Strab. 17, 2, 4: gli ibis popolano le strade di Alessandria) e, inoltre, nei pressi di Abusir, vicino al Serapeion di Menfi, sono state rinvenute tombe contenenti mummie di ibis in gran quantità (Husson 1970, II, ad loc. [p. 39 s.]). εἰ δὲ ἡ ναῦς ἐδύνατο, καὶ τῶν πυραμίδων μίαν – Le piramidi, una delle sette meraviglie del mondo antico (l’unica arrivata fino ai giorni nostri), hanno rappresentato attraverso i secoli un elemento imprescindibile del paesaggio dell’Egitto nell’immaginario collettivo e uno spettacolo di cui almeno una volta nella vita sarebbe bene godere, come ricorda altrove Luciano stesso, secondo cui un certo Demetrio del Sunio si imbarcò per l’Egitto appositamente per vedere le piramidi e la statua di Memnone (Tox. 27). È scontato, quindi, che l’elenco di tipicità egizie stilato da Licino preveda almeno un accenno a tali monumenti, anche se la suggestione di trasportarne uno a bordo di una nave come souvenir, con cui viene derisa la megalomania di Adimanto, riesce a conferire una nota di imprevedibile comicità a un dettaglio etnografico altrimenti stereotipato. Nei codici troviamo sia ἐδύνατο (nei veteres) sia ἠδύνατο (nei recentiores). Adotto la prima lezione, scelta anche dalla maggior parte degli editori, perché Luciano usa regolarmente l’aumento attico in ἐ- per βούλομαι e μέλλω e lo preferisce all’aumento analogico in ἠ- per δύναμαι (Deferrari 1916, pp. 9–16, praes. 10–12; cfr. Schmid 1887, p. 229). § 16 Ἅλις παιδιᾶς, ὦ Λυκῖνε – La passione per il gioco contraddistingue il personaggio di Licino nei Dialoghi (cfr. l’introduzione al § 1.6.2). Ὁρᾷς, ὡς ἐρυθριᾶν Ἀδείμαντον ἐποίησας πολλῷ τῷ γέλωτι ἐπικλύσας τὸ πλοῖον – Timolao dà man forte a Licino nel prendersi gioco di Adimanto e immagina che la nave da questi sognata, nient’altro che un miraggio della mente, sia in realtà ben reale e, anzi, faccia acqua da tutte le parti a causa dell’ondata di riso con cui Licino l’ha investita. Poco oltre, Timolao rincara la dose, suscitando stavolta le proteste di Adimanto (§ 19). È notevole in questa battuta la presenta di ἐπικλύζω, “inondo”, sfruttato a fini comici sia in senso letterale sia figurato per ampliare la portata dell’attacco satirico di Licino, capace di smascherare la vuota illusione dei sogni di Adimanto sommergendoli di risate e facendoli colare a picco insieme alla sua nave. Il paragone fra un elemento della vita umana e un liquido è tradizionale nella letteratura greca (vd. ad es. Plat. Symp. 175d–e: la sapienza trasmessa dal maestro al discepolo è simile al liquido che, per la legge della capillarità, passa da una tazza a un’altra; Plut. De prof. in virt. 81b–c: il progresso in filosofia è simile al riempirsi di chicchi delle spighe e dei vasi di liquido; Luc.

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Herm. 60–62: la filosofia è come un vino da gustare fino all’ultima goccia; Nigr. 5: la parola filosofica può invasare ed inebriare). Per stigmatizzare la follia di certi comportamenti dell’uomo, Luciano ama in particolare paragonare ciò che è superfluo o fatto oggetto di spreco a un flusso che scorre via inarrestabile, in grado di distruggere tutto ciò che incontra, si tratti della superbia umana (Tim. 4), della ricchezza (Tim. 18; Gall. 12; cfr. Dio Chr. 4, 104; Plut. De cup. divit. 526b; Philostr. VS 1, 21, 4; 2, 1, 1), della δύναμις degli atleti, che può scolar via durante le fatiche (Anach. 35), del piacere, che invade le strade di Roma come una corrente melmosa perenne (Nigr. 16) o, addirittura, della virtù, che per Diogene può uscire dagli uomini “sfondati dalla mollezza come borse marce” (D. mort. 11 [21], 4). ὡς ὑπέραντλον εἶναι καὶ μηκέτι ἀντέχειν πρὸς τὸ ἐπιρρέον – Luciano sfrutta con buona frequenza ἀντλεῖν e i suoi composti o derivati in senso metaforico per produrre immagini di grande efficacia e vividezza legate alla forza spettacolare dell’acqua in movimento (Schmidt 1897, p. 35). Qui ὑπέραντλος, “che fa acqua da ogni parte”, “che tracima”, detto in genere di una nave, è sfruttato dallo scrittore, in relazione all’imbarcazione desiderata da Adimanto e ‘sommersa’ dalle risate di Licino, con una mirabile sovrapposizione fra linguaggio reale e figurato. Con feconda creatività lo stesso aggettivo è altrove legato all’incredibile accrescersi della superbia umana per l’ignavia degli dèi oppure a una ricchezza smisurata che rischia di sommergere il suo sprovveduto possessore (Tim. 4 e 18; cfr. Tomassi 2011 ad loc. [pp. 227 e 314–316]); vd. ancora Cont. 22–23: Caronte non fa che “versare con abbondante flusso” [ἐπαντλεῖν] versi omerici e indispone Caronte; Gall. 12: nel sogno Micillo desidera “attingere” [ἐξαντλεῖν] con grandi conche oro e argento; Camerotto 1998a, p. 151 s.). Καὶ ἐπείπερ ἔτι πολύ … κατὰ τοὺς ἐπιβάλλοντας ἕκαστος σταδίους – La strada che Timolao e i suoi amici stanno ripercorrendo è quella Pireo-Atene, che copriva una distanza di circa 40 stadi, cioè più o meno sette chilometri (Diog. Laert. 6, 1, 2; vd. l’introduzione al § 1.5.1). Non sappiamo esattamente in quale punto del cammino Timolao formuli la sua proposta e quanta strada i quattro amici abbiano percorso dal momento della loro partenza dal Pireo fino a questo momento. Alcune indicazioni al riguardo sono fornite solo durante la formulazione del desiderio di Samippo, quando Licino sostiene che lui e i suoi compagni hanno già camminato per quasi 30 stadi (§ 35) e che Samippo ha impiegato sei stadi per la sua preghiera (§ 39): questo permette di ipotizzare che il gioco dei desideri ha inizio quando i quattro amici hanno già fatto una buona metà del tragitto. αἰτῶμεν ἅπερ ἂν δοκῇ παρὰ τῶν θεῶν – Come si è ricordato in precedenza, era opinione comune che gli dèi fossero i responsabili delle fortune degli



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uomini (cfr. supra comm. ad § 13: ἐλογιζόμην, εἴ τις θεῶν τὴν ναῦν ἄφνω ἐμὴν ποιήσειεν εἶναι). οὕτω γὰρ ἂν ἡμᾶς ὅ τε κάματος λάθοι καὶ ἅμα εὐφρανούμεθα – Il proposito di Timolao di intervellare la strada verso Atene con un piacevole passatempo che non faccia avvertire la stanchezza durante il cammino, vale a dire una gara di desideri, è all’apparenza innocuo e, anzi, allettante. Ci si renderà presto conto delle conseguenze di questa scelta, perché ciascun desiderio rivelerà gli istinti più sfrenati e irrazionali dell’animo di chi lo formulerà, come Timolao stesso inconsapevolmente preconizza al termine del suo intervento (τὸ δὲ μέγιστον, ἐπίδειξις ἔσται τὸ πρᾶγμα ὅστις ἂν ἄριστα χρήσαιτο τῷ πλούτῳ καὶ τῇ εὐχῇ, δηλώσει γὰρ οἷος ἂν καὶ πλουτήσας ἐγένετο). D’altronde l’iniziale battibecco fra Adimanto e Licino (§§ 14–15) è già funzionale a orientare le attese del pubblico, che si prepara a pregustare, da questo momento in poi, un’originalissima critica dell’irragionevolezza della vita umana alla maniera di Luciano. ὥσπερ ἡδίστῳ ὀνείρατι ἑκουσίῳ περιπεσόντες … εὖ ποιήσοντι ἡμᾶς – Il paragone fra una cosa impossibile a realizzarsi o a credersi e il sogno è proverbiale (Rein 1894, p. 44). Platone concede al motivo eccelsa dignità letteraria nella Repubblica (5, 476c–480a), quando oppone a livello gnoseologico ἐπιστήμη e δόξα e sostiene che solo il filosofo possiede la capacità di vedere il bello in sé (αὐτό … κάλλος) e di arrivare alla verità, mentre tutti gli altri riconoscono semplicemente l’esistenza di cose belle (καλά … πράγματα), come se vivessero nel sogno (ὄναρ) piuttosto che da svegli (ὕπαρ). Il tema del sogno ha, del resto, una ricchissima tradizione, in cui poesia e teatro svolgono un ruolo considerevole, ed è assai frequentato anche da Luciano, che si diverte a manipolarlo per criticare il fatto che la realtà appare un sogno ai nuovi ricchi disabituati a una vita agiata e lussuosa (vd. ad es. Tim. 20 e 41; Bompaire 1958, p. 376, n. 1). La logica dei sogni seguita da Timolao e, insieme a lui, da Samippo e da Adimanto (§ 17), è contrapposta, nel corso della narrazione, a quella razionale di Licino, che in seguito per ben tre volte denuncia esplicitamente la sterile e pericolosa inconsistenza della prospettiva adottata dai suoi amici (§ 35: ἐγὼ δὲ νήφειν ᾤμην καὶ ὕπαρ ἀποφανεῖσθαι τὴν γνώμην; 39: ἀπόλαυσις μέν γε οὐδὲ ὄναρ τῶν ἡδέων; 46: ὥσπερ ἐξ ἡδίστου ὀνείρατος ἀνεγρόμενοι ἀνόμοια τὰ ἐπὶ τῆς οἰκίας εὑρίσκητε; cfr. infra comm. ad § 35: ἐγὼ δὲ νήφειν ᾤμην κτλ.). παρ᾽ αὐτῷ γὰρ ἑκάστῳ τὸ μέτρον τῆς εὐχῆς … εἰ καὶ τῇ φύσει ἀπίθανα ἔσται – Le parole di Timolao esprimono completa fiducia nell’onnipotenza divina, secondo un modo di ragionare tipico della mentalità greca e romana (Tosi 1992, pp. 671–677, nnº 1492–1508). In epoca romana soprattutto l’idea di dio tende a confondersi con quella di Provvidenza, per cui se da una

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III Commento

parte i filosofi (in particolar modo stoici e platonici) mettono in risalto la potenza e l’attività divina nel mondo, dall’altra il bisogno di soccorso e consolazione dell’uomo comune sfocia nel desiderio di sentire la divinità vicina a sé, pietosa e ausiliatrice (Caster 1937, pp. 123–178; Todd 1989; DragonaMonachou 1994; per l’identificazione della divinità con la Provvidenza in Luciano vd. Tim. 1–4; J. conf. 6, 10, 15–17; J. tr. 19–22, 41, 48, 49; Prom. 16; Icar. 32). In generale, Luciano è assai attento alle questioni religiose contemporanee, che sottopone incessantemente a critica per mostrare agli uomini gli errori che possono commettere nel loro rapporto col divino: la sua satira della religione è così motivata da una profonda ricerca intorno a tale soggetto che, tuttavia, non pare comportare l’adesione ad alcuna fede, poiché la sua razionalità sembra avere la meglio su qualsiasi credenza (Karavas 2009). Nel sottoporre a vaglio critico la religione tradizionale, Luciano biasima particolarmente l’atteggiamento utilitaristico dell’uomo nei confronti degli dèi, simile a un vergognoso mercanteggiare. Si tratta di un’implacabile denuncia che conduce, in particolare, nei dialoghi in cui Zeus è protagonista assoluto (J. tr., J. conf., D. conc.; Gazza 1953; Bompaire 1958, p. 497, n. 2; Coenen 1977; Größlein 1998; cfr. Attridge 1978), oppure nei loci in cui ironizza sul corrotto legame fra la divinità e le preghiere degli uomini (Icar. 25–26; Tim. 1–6) o sulla cieca fiducia dell’uomo nell’intervento divino (Philops. 10, su cui Schwartz 1951 ad loc. [p. 40 s.]), la stessa mostrata con ingenuo compiacimento anche da Timolao, Samippo e Adimanto (Caster 1937, pp. 142–175).  I codici riportano la lezione ἕκαστος, ma per motivi sintattici Fritzsche opportunamente corregge in ἑκάστῳ, facendo affidamento anche sul § 46: τοῖς ἐμοὶ ἐπιβάλλουσι σταδίοις. καὶ οἱ θεοὶ πάντα ὑποκείσθωσαν παρέξοντες – Le forme in -τωσαν e in -σθωσαν dell’imperativo aoristo appartengono al greco postclassico e sono preferite in età imperiale a quelle in -ντων e in -σθων (Chabert 1897, p. 109; cfr. infra ad § 22: προσαραξάτωσαν; § 28: γενέσθωσαν; § 38: προσκυνείτωσαν). Τὸ δὲ μέγιστον – Il superlativo mette in evidenza che ciò che Timolao sta per affermare ha una grande importanza e, al tempo stesso, rivela le intenzioni dello stesso Luciano, che istituisce la gara dei desideri per svelare la psicologia dei protagonisti e la loro più intima natura di esseri umani (Husson 1970, II, ad loc. [p. 41]). ἐπίδειξις ἔσται τὸ πρᾶγμα – Ἐπίδειξις, “dimostrazione” pertiene al lessico tecnico delle declamazioni retoriche ed è uno dei numerosi termini allusivi alla lettura o alla rappresentazione di un dialogo (come ἀκροάομαι, ἀκρόασις, ἀκροατής, ἀναγιγνώσκω, ἀνάγνωσμα, ἀκούω, ἐπιδείκνυμι [per cui cfr. infra ad § 28: ἐπιδείξασθαι], θέατρον, θεάομαι, θεάτης [per cui cfr.



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supra ad § 1: ἐν τῷ πλήθει τῶν θεατῶν], μελετάω, μελέτη, ὑπόκρισις) che Luciano impiega per stabilire un legame diretto fra lui e il suo pubblico (Ureña Bracero 1995, p. 54 s.). ὅστις ἂν ἄριστα χρήσεται τῷ πλούτῳ καὶ τῇ εὐχῇ, δηλώσει γὰρ οἷος ἂν καὶ πλουτήσας ἐγένετο – La sequenza τῷ πλούτῳ καὶ τῇ εὐχῇ risulta alquanto sorprendente, perché ci si aspetterebbe che Timolao anteponesse la preghiera alla ricchezza, in quanto, a rigor di logica, è la causa a precedere l’effetto. Visto che all’inizio solo la ricchezza è contemplata dai quattro amici (sulla scorta delle fantasie di Adimanto), è probabile che da principio questa rappresenti il loro solo obiettivo e sia un pensiero talmente totalizzante da confonderli e togliergli la lucidità. § 17 Καλῶς, ὦ Τιμόλαε, καὶ πείθομαί σοι καὶ ὅταν ὁ καιρὸς καλῇ, εὔξομαι ἅπερ ἂν δοκῇ – Luciano vuol forse ammiccare all’apprendistato retorico condiviso da ogni pepaideumenos e suscitare nel pubblico colto il piacere legato alla condivisione di un patrimonio culturale comune con l’accostamento, in questa esclamazione di Samippo, di due termini tecnici fondamentali per la retorica come πείθομαι, “sono persuaso”, “sono convinto”, e καιρός, “momento opportuno”, “occasione favorevole”, che rimandano al fatto che, fin dalle origini, l’arte della parola è considerata ‘artefice di persuasione’ e i suoi adepti ritengono indispensabile esprimerere ogni cosa nel momento più opportuno e nel modo più adeguato a ogni circostanza (cfr. infra comm. ad § 21: τὰ σὰ ῥυθμιεῖς πιθανώτερον κτλ.; Diog. Laert. 9, 52: Protagora introdusse in ambito retorico la nozione di καιρός). Εἰ μὲν γὰρ Ἀδείμαντος βούλεται ... ὅς γε δὴ ἐν τῇ νηῒ τὸν ἕτερον πόδα ἔχει – Luciano fa spesso uso di citazioni di versi o di proverbi per fini comici (Ureña Bracero 1995, p. 129 s.), anche perché il proverbio per sua stessa natura si presta a esser rielaborato con diverse possibilità di detorsio comicoparodica, «un meccanismo importantissimo, per frequenza e valore, nella storia del proverbio in Grecia e a Roma» (Lelli 2006, p. 15). In questo caso, il complemento ἐν τῇ νηΐ, “nella nave” sostituisce il proverbiale ἐν τῇ σορῷ, “nella tomba”, con un gustoso spiazzamento comico realizzato per aprosdoketon (Rein 1894, p. 42 s.; cfr. Luc. Herm. 78: τὸν ἕτερον πόδα, φασίν, ἐν τῇ σορῷ ἔχων; Apol. 1 [soggetto è lo stesso Luciano ormai vecchio]: μονονουχὶ τὸν ἕτερον πόδα ἐν τῷ πορθμείῳ ἔχοντα). Ἀλλὰ πλουτῶμεν … μὴ καὶ βασκαίνειν ἐπὶ ταῖς κοιναῖς εὐτυχίαις δοκῶ – Questa risposta rivela una certa reticenza di Licino ad aderire al gioco dei desideri proposto da Timolao, in particolare se la si confronta con la precedente ed entusiasta replica di Samippo. Questo atteggiamento è confermato nella battuta successiva dall’esigua porzione di strada che il personaggio si riserva per esprimere la sua preghiera (ἐγὼ δὲ ὀλίγον ὅσον ἡμιστάδιον

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III Commento

τὸ πρὸ τοῦ Διπύλου ἐπιλήψομαι τῇ εὐχῇ). Lo scarso entusiasmo di Licino nell’abbandonare il piano della lucida razionalità per quello della vana fantasia ne fa intuire le qualità morali e intellettuali e la superiorità rispetto ai suoi compagni di cammino. Τίς οὖν πρῶτος ἄρξεται; – La formula πρῶτος ἄρχεσθαι è tipica del lessico di Platone, nei cui scritti si ritrova, in particolare, nell’incipit del Simposio (177d, 178a), un dialogo che Luciano sembra aver particolarmente preso in considerazione nella stesura della Nave (vd. l’introduzione al § 1.4.3). Σύ, ὦ Ἀδείμαντε, εἶτα μετὰ σὲ οὑτοσὶ Σάμιππος, εἶτα Τιμόλαος – L’ellissi del verbo concede maggiore forza alle parole di Licino, a cui imprime slancio anche l’uso del deittico (οὑτοσί; cfr. supra comm. ad § 1: σέ τε καὶ Σάμιππον τουτονί). È notevole che Licino, pur mostrandosi reticente a seguire i suoi amici nelle loro fantasie, faccia le parti per tutti e quattro: questo conferma l’autorevolezza di questo personaggio e il suo forte ascendente sui compagni. ἐγὼ δὲ ὀλίγον ὅσον ἡμιστάδιον τὸ πρὸ τοῦ Διπύλου ἐπιλήψομαι τῇ εὐχῇ – Come indica il nome, il Dipylon consisteva in un sistema di doppie porte, con mura di collegamento che formavano all’interno una corte oblunga. Ogni porta aveva due aperture, separate da un grande pilastro. Dopo la costruzione di una prima cinta muraria all’epoca dei Pisistratidi, imponenti mura di fortificazione a protezione di Atene furono fatte erigere da Temistocle a seguito delle vittoriose imprese di Salamina e di Platea (480–479 a.C.); la cinta fu soggetta, nel corso dei secoli, a numerosi rimaneggiamenti e, dopo un ulteriore restauro alla fine del III sec. a.C., fu di nuovo fortificata in alcuni tratti, con materiale di reimpiego, in età romana, in cui il Dipylon costituiva ancora l’ingresso principale al settore occidentale della città e uno dei punti di maggior rilievo dell’urbanistica di Atene (Hill 1953, p. 33 s.; Johannowski 1958, p. 830; Beschi 1994, p. 500). È per questo che rappresenta uno degli elementi del paesaggio ateniese cari a Luciano (Scyth. 2; Nav. 24) che, non a caso, proprio di fronte a tale imponente struttura conclude la narrazione del dialogo (§ 46; cfr. l’introduzione al § 1.5.1). La parola “mezzo stadio” (ἡμιστάδιον) è un tipico composto di Luciano, che nel creare nuovi termini ama impiegare il prefisso ἡμι- (Ureña Bracero 1995, p. 127). καὶ τοῦτο ὡς οἷόν τε παραδραμών – La formula ὡς οἷόν τε è generalmente legata a un superlativo, pur se Luciano la usa collegandola a un aggettivo di grado positivo o (come in questo caso) a un verbo (Chabert 1897, p. 176 s.). Παρατρέχω vale “percorro correndo”, “procedo di corsa”, e indica la maniera sbrigativa con cui Licino formulerà per ultimo, in un breve lasso di tempo, la sua preghiera. Bisogna notare che il predicato ricorre frequentemente in greco, in senso figurato, con il significato di “supero”, “vinco” un



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avversario in un dibattito (Ar. Eq. 1353; Taillardat 1965, p. 337 s., n° 580), per cui non possiamo escludere che Luciano lo impieghi in questo contesto per alludere al modo in cui si concluderà la gara dei desideri fra i quattro amici: Licino mostrerà tutta la sua superiorità morale sui suoi avversari, dopo averne infranto i folli desideri e averli riportati coi piedi per terra, ed eviterà di formulare una propria preghiera (§ 46: οὐ δέομαι εὐχῆς ἐγώ) contrapponendo la propria saggezza all’ignoranza dell’uomo comune. § 18 ἐγὼ μὲν οὐδὲ νῦν ἀποστήσομαι τῆς νεώς … ἐπιμετρήσω τῇ εὐχῇ – La parte centrale del dialogo, comprendente i desideri di Adimanto, Samippo e Timolao scanditi dalle critiche di Licino (§§ 18–46), è strutturata in forma di climax ascendente, al cui interno il sogno di ricchezza di Adimanto si presenta modesto se paragonato a quello di potere di Samippo e questo, a sua volta, è inferiore a quello di Timolao, che vuol ottenere una potenza che lo equipari a un dio assommando ai desideri dei suoi amici i propri (Moricca 1914, p. 327, sulla scorta di Schissel von Fleschenberg 1912, pp. 22–38). Lo stesso meccanismo si ritrova nel Philopseudes, in cui il racconto più assurdo – che combina elementi di tutti gli altri – è l’ultimo (Anderson 1976, p. 157). Il tenace e quasi infantile attaccamento di Adimanto alle proprie fantasie di ricchezza (οὐκοῦν ἐγὼ μὲν οὐδὲ νῦν ἀποστήσομαι τῆς νεώς), unito all’incontinenza nelle passioni (ἀλλ᾽ ἐπείπερ ἔξεστιν, ἐπιμετρήσω τῇ εὐχῇ), non fa che metterne in risalto la debolezza e l’avidità. Adimanto inizia ora la sua lunga preghiera e, come si vedrà, sarà interrotto solo una volta da Samippo (§ 18) e due da Timolao (§§ 19 e 20), ma ben sette da Licino (due volte ciascuna ai §§ 19, 21 e 26, una al § 27). Ciò evidenzia il ruolo fondamentale nella critica dei costumi umani svolto da Licino nel dialogo. Ὁ δὲ Ἑρμῆς ὁ κερδῷος ἐπινευσάτω ἅπασιν – Hermes e Zeus sono gli dèi ‘favoriti’ da Luciano (il primo è protagonista di ben 24 dialoghi, il secondo di 19; seguono da lungi Poseidone con 9 apparizioni, Apollo con 8, Era con 6, Afrodite e Caronte con 5, Eracle con 4, e così via). La coppia divina è quella preferita da Luciano quando si tratta di evocare il mondo dell’Olimpo ed è da lui tanto amata quanto quella Diogene-Menippo, messa in scena, preferibilmente, quando si tratta di criticare le convenzioni della società (Bellinger 1928, p. 9). Nei Dialoghi Hermes riveste in prevalenza il tradizionale incarico di messaggero e araldo degli dèi (D. deor. 3 [7]; 4 [10]; 9 [12]; 10 [14]; 20 [35]; 24 [4]; Cont.; Vit. auct. 1; J. tr. 5–6; Icar. 22 e 34; Bis acc. 4; Deor. conc. 1, 15 e 19; Sacr. 8) o di psicopompo (D. mort. 4 [14]; 5 [15]; 10 [20]; 18 [5]; 22 [2]; 27 [22]; 30 [24]; Cont.; Cat.; Luct. 6; Apol. 3; D. deor. 24 [4]) e, il più delle volte, tale incarico è descritto in chiave comica, in particolar modo nei Dialoghi degli dèi, nei quali Hermes «è rappresentato quasi sempre come un vero e proprio servus currens di commedia», sempre pronto a lagnarsi dell’eccessivo lavoro cui è sottoposto, imbroglione,

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cordardo e ficcanaso, ma anche spalla sicura per gli intrallazzi del padrone (Lanza 2004, p. 194; cfr. Asencio González 2005: Hermes, pur se sovente ridicolizzato da Luciano nella sua satira contro la religione tradizionale, è spesso utilizzato da lui anche come spettatore d’eccezione e critico dei vizi dell’umanità). In un’età in cui a dominare è il culto della parola, Luciano ricorda volentieri, inoltre, che Hermes è protettore dell’arte retorica (Nigr. 10; Herm. 13) e per questo lo equipara ai più famosi retori del suo tempo per la facondia e la destrezza nel parlare (Prom. 4–5; Gall. 45; Pseudol. 24; D. deor. 24 [4]; 26 [25], 2; Bis acc. 8; Herc. 4). Talvolta lo scrittore ama ricordare anche che era custode delle palestre e delle gare ginniche (D. deor. 24 [4], Salt. 78; Amor. 46), oltre che dio del commercio e artefice di guadagni fortuiti e insperati (Tim. 41). Proprio quest’ultima prerogativa, resa popolare dal proverbio κοινὸς Ἑρμῆς, “Hermes è comune”, in precedenza citato da Licino (§ 12), motiva Adimanto, smanioso di arricchire alla svelta e senza sforzo, a invocare Hermes come κερδῷος, “dispensatore di guadagno” (cfr. Tim. 24, 41; Sat. 14: il dio è detto δώτορ, “dispensatore di ricchezza”; vd. anche Hor. Sat. 2, 3, 25–26, 66–68). Nell’antichità era pensiero comune che il dio fosse protettore dei parvenus: Trimalcione riconosce spesso in Hermes il suo patrono (Petron. 29, 5; 67, 7; 77, 4: interim dum Mercurius vigilat, aedificavi hanc domum), mentre il semplice uomo del volgo, smanioso di accumulare un gran capitale, lo onora con ricchi sacrifici per impetrarne i favori (Pers. Sat. 2, 44–45: rem struere exoptas caeso bove Mercuriumque / accersis fibra; cfr. 5, 111–112; 6, 62–63). Così Adimanto si affida totalmente al dio, in un puerile vagheggiamento di ricchezza, e non solo lo invoca a protezione dei traffici commerciali coi quali desidera arricchirsi, ma sogna anche di disseppellire un gigantesco tesoro proprio sotto la sua statua (§ 20) e ancora, al termine della sua preghiera, lo supplica di far avverare il suo desiderio (§ 25), come fa anche Timolao all’inizio del suo sogno di ricchezza e potenza (§ 42). Ἔστω γὰρ τὸ πλοῖον … οἱ ναῦται – L’asindeto che regola la sfilza di beni desiderati da Adimanto (ὁ φόρτος οἱ ἔμποροι αἱ γυναῖκες οἱ ναῦται) ne velocizza la richiesta e amplifica la bramosia di guadagno del giovane. Gli ἔμποροι (lat. empori) menzionati nella sequenza sono commercianti che facevano affari presso un ἐμπόριον, un mercato specializzato in rapporti commerciali con paesi esteri, o in altri paesi dell’Impero diversi da quello in cui risiedevano (Rougé 1966, pp. 272–274, 284). Questo passaggio conferma che alcuni di questi mercanti erano schiavi, cosa a cui aveva già accennato in precedenza lo stesso Adimanto (§ 13: ἐπιπλέων ἐνίοτε μὲν αὐτός, ἐνίοτε δὲ οἰκέτας ἐκπέμπων; cfr. Delz 1950, p. 102 e n. 24). Preferisco espungere, seguendo una congettura di Fritzsche (approvata anche da Nesselrath 1990b, p. 505), il καὶ dopo ἐμά, perché ciò che segue a



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τά ... ἐμά non costituisce che un’esplicazione in forma di apposizione di τὰ ἐν αὐτῷ πάντα. Τὸν παῖδα φῄς … τὸν κομήτην. Κἀκεῖνος οὖν ἔστω ἐμός – Il “giovane dai lunghi capelli” è naturalmente il ragazzo imbarcato sull’Iside per cui Adimanto perde la testa e si allontana, non visto, dai suoi compagni (§ 2). Gli schiavi giovani, belli e chiomati in età imperiale facevano parte del tradizionale entourage dei ricchi, di cui rappresentavano un vero e proprio status symbol (Sen. Ep. 119, 14: nam si pertinere ad te iudicas quam crinitus puer et quam perlucidum tibi poculum porrigat, non sitis; Mart. 2, 57, 5: quem grex togatus sequitur et capillatus; Petron. 27, 1–2: videmus senem calvum, tunica vestitum russea, inter pueros capillatos ludentem pila; 70, 8: pueri capillati attulerunt unguentum in argentea pelve pedesque recumbentium unxerunt; Luc. Sat. 26; cfr. all’opposto Juv. 11, 149–150 [idem habitus cunctis, tonsi rectique capilli / atque hodie tantum propter convivia pexi] e Bracci 2014 ad loc. [p. 170]). La sfrenata passione per il possesso di bei ragazzi mostrata da Adimanto è un tratto tipico del riccone lucianeo preda del vizio, come mostra il confronto coi Dialoghi dei morti, in cui il ricchissimo Polistrato lascia erede dei suoi beni l’adorato, bel giovane frigio acquistato da poco (D. mort. 9 [19], 4). È interessante notare che, mentre all’inizio del dialogo si dice che il giovane egiziano è di condizione libera e, anzi, di origine nobile (§ 3), nel sogno Adimanto lo fa diventare suo schiavo. Il passaggio segna un deciso salto di qualità nelle ambizioni dell’uomo, che inizia a confondere sogno e realtà a tal punto da voler acquistare tutto ciò che sogna. Ὁπόσος δὲ ὁ πυρὸς ἔνδον ἐστίν … τοσοῦτοι δαρεικοί – Il darico era una moneta d’oro persiana equivalente a 20 dracme d’argento creata dal re Dario I (522–486 a.C.), figlio di Istaspe, da cui prese il nome; fra le guerre persiane e il regno di Alessandro era una delle monete maggiormente in circolazione in Grecia e in Asia minore (Lenormant 1892). La menzione di una moneta in circolazione in Oriente quale fondamento della ricchezza di Adimanto instaura un paradossale paragone fra i suoi beni e quelli del re di Persia, considerati nell’antichità favolosi (Ar. Plut. 170; Plut. Alex. 20, 12–13; Luc. Tim. 41–42; Bompaire 1958, p. 233 e n. 4; Husson 1970, II, ad loc. [p. 44]). La comicità della scena è evidente, giacché il paragone non solo relaziona due personalità assolutamente antitetiche e contrapposte, ma anche due elementi impossibili da mettere concretamente in relazione quali il patrimonio reale del re di Persia e quello immaginario di Adimanto. Secondo la mentalità greca, i poveri desiderano la ricchezza per la mancanza dei mezzi necessari per vivere, mentre i ricchi bramano i piaceri superflui per via delle loro possibilità economiche (Arist. Rh. 1, 10, 1369a). Così Adimanto si abbandona alla forza dei suoi desideri senza farsi troppi scrupoli e i suoi sogni si fanno molto più grandiosi di quelli formulati in

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precedenza (§ 13), tanto da sembrar perdere il contatto con la realtà: lo conferma espressamente la sua impossibile ambizione di trasformare il grano in darici d’oro, formulato tramite l’uso di un semplice imperativo (γενέσθω), ciò che riecheggia i poteri incredibili desiderati da Timolao (§ 44) e rafforza l’atmosfera di magica meraviglia che percorre tutta La nave. § 19 Τί τοῦτο … οὐ γὰρ ἴσον βάρος πυροῦ καὶ τοῦ ἰσαρίθμου χρυσίου – L’immediata replica di Licino ai sogni di Adimanto è del tutto spiazzante per la sua pragmatica concretezza, che contrasta con l’atmosfera da rêverie che si è creata fra i quattro amici. L’ironia del personaggio si fonda prevalentemente sull’opposizione fra l’immaginario universo creato dai suoi compagni, in cui tutto è possibile, e le leggi ferree che governano la realtà di cui lui si fa garante (Husson 1970, II, ad loc. [p. 45]). Καταδύσεταί σοι τὸ πλοῖον – Il passo richiama alla mente due noti motivi proverbiali. Il primo, “fare un buco nella nave in cui si naviga”, fa riferimento a un’azione sciocca e autolesionista (Quint. 8, 6, 47: ut etiam navem perforet in qua ipse naviget; Tosi 1992, p. 195 s., n° 425); il secondo, “fai naufragio nel porto” (Plb. 6, 44, 7: ἐν τοῖς λιμέσι καὶ πρὸς τῇ γῇ ναυαγεῖν; Sen. Contr. 2, 6, 4: navem in portu mergis), è utile a stigmatizzare un agire maldestro e si conserva in molte lingue moderne, dove ricorre in forme più o meno simili, come l’italiano ‘annegare in un bicchier d’acqua’ (Tosi 1992, p. 194 s., n° 424). Μὴ φθόνει, ὦ Λυκῖνε – Adimanto ancora una volta replica a Licino come se ciò che desidera si fosse già trasformato in realtà. τὴν Πάρνηθα ἐκείνην … ὅλην χρυσῆν ποιήσας ἔχε – Il Parnete è una catena montuosa che comprende la cima più alta dell’Attica (1413 m) e si erge fra la piana ateniese e la Beozia, contribuendo, insieme al Pentelico e all’Imetto, a incastonare Atene nell’Attica come una pietra preziosa. Si tratta di un elemento geografico che Luciano ama menzionare, insieme a pochi altri, per ricreare nella mente del suo pubblico con rapidi tratti il paesaggio ateniese (cfr. Par. 43; Bis acc. 8; Icar. 11). Oltre a costituire una difesa naturale per la città di Atene, l’Imetto, il Pentelico e il Parnete erano del resto di vitale importanza per gli ateniesi per le ricchezze naturali che offrivano loro (e a cui Luciano non dimentica di alludere): dalle pendici del primo si ricavava un miele celebre per la sua bontà (vd. infra ad § 23; cfr. Strab. 9, 1, 23; Luc. Merc. cond. 35); il secondo forniva con le sue cave un marmo bianco assai pregiato (Thphr. De sensu sign. 3, 43; Plin. NH 4, 24; Strab. 9, 1, 23; cfr. Thphr. Lap. 1, 6; Xen. Vect. 1, 4; Liv. 31, 26), il più usato dagli scultori e dagli architetti greci (Luc. J. tr. 10; Im. 4); il Parnete, infine, era ricoperto di boschi, nei quali vivevano numerosi animali selvatici (Paus. 1, 32, 1), e rappresentava per gli Ateniesi un’ottima riserva di selvaggina a una distanza



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relativamente breve dalla città (a cui Adimanto allude tramite l’impiego del dimostrativo ἐκείνην). L’immagine della montagna d’oro ricorre in letteratura per materializzare qualcosa di inestimabile e smisuratamente opulento, come le ricchezze dei Persiani (Plaut. Stich. 24–25: neque ille sibi mereat Persarum / montis, qui esse aurei perhibentur; Varro Men. fr. 36, 2–3 Astbury [non demunt animis cura ac religiones / Persarum montes], su cui vd. Cèbe 1972–1999 ad loc. [II, pp. 155–162, praes. 161 s.]). A tale rappresentazione va ricollegata la formula proverbiale “promettere montagne d’oro”, che ritorna in forme simili nelle lingue moderne, come nell’italiano ‘promettere mari e monti’ (Ter. Phorm. 68: montis auri pollicens; Otto 1890, p. 227, nº 1132; Tosi 1992, p. 779, n° 1744; Giovini 2010, p. 110), e il motivo favoloso della trasformazione di un monte in oro (per cui nei Dialoghi cfr. ancora Herm. 71). εἰ θέλεις – La tradizione presenta due varianti: l’indicativo θέλεις e l’ottativo θέλοις. Preferisco la prima lezione, in accordo con la maggioranza degli editori (Jacobitz, Bekker, Fritzsche, Dindorf, Kilburn, Husson), perché l’indicativo della realtà si accorda meglio al tono della risposta piccata di Adimanto. Ἀλλ᾽ ὑπὲρ ἀσφαλείας … ὡς μὴ ἀπολέσθαι ἅπαντας μετὰ τοῦ χρυσίου – Ancora una volta, Licino oppone alla concretezza della sua razionalità la vanità delle fantasticherie di Adimanto e così facendo alimenta un insanabile, comicissimo contrasto fra la folle megalomania degli irrealizzabili desideri dell’amico e gli ironici consigli con cui cerca (inutilmente) di attenuarla. Anche in questo caso si può notare una decisa consonanza fra il nostro dialogo e la satira di Petronio: se infatti Licino rimprovera Adimanto di rischiare di perdere in mare tutti i suoi beni e, con questi, anche il ragazzo da lui amato nell’affondamento di una nave tutta d’oro, nel Satyricon Encolpio rivolge un solenne rimprovero al cadavere di Lica, un tempo superbo e prepotente, che ha perso in un naufragio la sua nave, i suoi beni e la sua stessa vita (Petron. 115, 11–16). Καὶ τὰ μὲν ὑμέτερα μέτρια, τὸ μειράκιον … ἀποπνιγήσεται ἄθλιον νεῖν οὐκ ἐπιστάμενον – Quella fantasia di cui Licino critica gli eccessi è da lui stesso sfruttata per produrre salaci battute in cui l’ironia la fa da padrona (Husson 1970, II, ad loc. [p. 45]; cfr. Bompaire 1958, p. 592 s.). Lo scherzo contenuto in questa frecciata sfrutta un’idea che pertiene al repertorio lucianeo e che ricorre di nuovo nei Dialoghi dei morti (10 [20], 1), in cui troviamo un Caronte seriamente preoccupato per i passeggeri che non sanno nuotare, giacché la sua barca è stracarica e rischia di affondare. Il confronto fra la mordace ironia di Licino e la comica apprensione di Caronte permette di apprezzare, ancora una volta, la poliedrica creatività di Luciano, capace

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di impiegare uno stesso motivo in contesti e con finalità diversi senza mai scadere in una banale ripetizione. Geneviève Husson ritiene oscuro il motivo per cui il giovane favorito di Adimanto debba correre il rischio di affogare per l’imperizia nel nuoto e, per risolvere tale aporia, ipotizza che la battuta rappresenti un pretesto per introdurre nella narrazione, nella successiva replica di Timolao, i famosi aneddoti di Arione e Melicerte cari al pubblico (Husson 1970, II, ad loc. [p. 45]). L’ipotesi non pare implausibile, pur se è difficile credere che Luciano abbia pensato di sfruttare una battuta così pesante solo per introdurre degli aneddoti. La stessa studiosa ammette, inoltre, pur con molta cautela, che questa facezia contenga un’allusione alla morte di Antinoo, il favorito di Adriano scomparso nel Nilo in circostanze misteriose, episodio che ebbe vastissima risonanza fra i contemporanei e ispirò un culto e dei giochi, celebrazioni solenni, esercitazioni retoriche e svariate composizioni di poeti cortigiani (Pordomingo 2007, § 6.8, pp. 430–432; Fernández Delgado - Pordomingo 2008, pp. 93–95, 115–127, con bibliografia), tanto che lo stesso Luciano potrebbe effettivamente esserne stato suggestionato in tale contesto. In ogni caso, sottolineando che il giovane amasio di Adimanto non solo è barbaro e schiavo, ma è anche incapace di nuotare (confermando il classico luogo comune dell’incapacità dei barbari e dell’antitetica abilità dei greci nel nuoto: Janni 1996, p. 342), Licino «da un lato vuol far intendere che Adimanto è invaghito di un ragazzo che non vale niente (cfr. § 2: καὶ μὴν οὐ πάνυ καλός, ὦ Σάμιππε, ὁ μειρακίσκος ἔδοξέ μοι), dall’altro ipotizza una conseguenza deplorevole e grottesca dell’avidità di Adimanto stesso (la caduta in mare e l’annegamento del ragazzo)» (Russo - Stramaglia). Θάρσει, ὦ Λυκῖνε – Luciano utilizza di frequente la forma imperativale θάρσει, “fatti forza!”, “abbi coraggio!” (o l’equivalente forma attica θάρρει) nelle situazioni in cui un personaggio deve rincuorare un altro (cfr. Tim. 30). Tale predicato (così come εὐψύχει o εὐθύμει, “sta’ di buon animo”) è frequentemente usato nelle epigrafi sepolcrali come formula di incoraggiamento (Guarducci 1987, p. 387, n. 1). Οἱ δελφῖνες γὰρ αὐτὸ ὑποδύντες ἐξοίσουσιν ἐπὶ τὴν γῆν – Storie di delfini che salvano dai pericoli del mare esseri umani sono tradizionali nel mondo antico e sono ispirate all’atavica amicizia tra questi animali e il genere umano (Plat. Resp. 5, 453d). Per via della loro intelligenza, forza e bellezza, in Grecia i delfini sono considerati intermediari fra gli uomini e gli dèi, che non di rado ne assumono le sembianze per aiutare bisognosi in difficoltà (vd. ad es. h. Hom. 3, 388–519). Fra i tanti racconti antichi che celebrano il legame fra gli uomini e questi animali, il più famoso è indubbiamente quello di Arione, a cui di seguito si allude.



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Ἢ νομίζεις κιθαρῳδόν … ἀπολαβεῖν τὸν μισθὸν ἀντὶ τῆς ᾠδῆς – Il citaredo a cui si allude è il celebre Arione di Metimna dell’isola di Lesbo (cfr. VH 2, 15). Secondo il mito, Arione veleggiava alla volta di Corinto quando fu sorpreso da un gruppo di pirati che lo costrinsero a gettarsi in mare; l’uomo scampò a una morte certa grazie all’intervento di un delfino che, accorso al suono della sua cetra, lo trasportò fino al capo Tenaro portandolo in salvo. La più famosa narrazione di tale racconto mitico è in Erodoto (1, 23–24), che Luciano conosce bene e prende a modello in uno dei Dialoghi marini (D. mar. 8 [5], 2), pur offrendone una personale versione che differisce dal modello non solo a livello linguistico e tematico, ma anche narrativo, giacché si ripercorre il mito dall’inconsueto punto di vista del delfino (Avery 1997, pp. 63–82). Il racconto di Arione era celebre nell’antichità e assai gradito al pubblico, come provano la sua consistente presenza nelle raccolte progimnasmatiche e nei manuali retorici e la sua accanita rielaborazione da parte degli scrittori di età imperiale (vd. ad es. Plut. Conv. Sept. Sap. 160a–162b; Gell. 16, 19; Favorin. Cor. 1–5; cfr. Milazzo 1993; Amato - Ventrella 2009, p. 57 s.). Come d’abitudine, Luciano riprende una celebre storia del patrimonio mitico tradizionale e la ripropone attualizzandola attraverso quel procedimento che Alberto Camerotto felicemente definisce ‘familiarizzazione del testo epico’ e che lo scrittore attiva mettendo in bocca agli dèi e ai personaggi del mito elementi tipici del linguaggio quotidiano. Tale processo di deformazione comica, come l’altro affine della ‘contemporaneizzazione del passato epico assoluto’, permette all’autore d’infrangere la barriera fra mito e realtà trasportando il passato mitico in un contesto quotidiano, che non gli appartiene, al fine di produrre una comicità immediata attraverso lo stridente contrasto fra l’autorevole narrazione di riferimento e la dissacrante, spiritosa attualizzazione operata dalla riscrittura (Camerotto 1996, p. 138 s.). Qui l’inventiva lucianea trasforma l’ultimo canto eseguito da Arione prima di esser gettato in mare dai pirati in una performance citarodica vera e propria, quale un greco contemporaneo di Luciano avrebbe potuto ammirare durante una festa pubblica, e l’azione salvifica dei delfini nel pagamento di tale prestazione (Sirago 1989, p. 16 e n. 110; la stessa spiritosa ripresa del mito è proposta anche nei Dialoghi marini [8 [5], 2]: ἐπαινῶ σε τῆς φιλομουσίας· ἄξιον γὰρ τὸν μισθὸν ἀποδέδωκας αὐτῷ ἀκροάσεως). Ancora una volta, l’uso spregiudicato e inconsueto della lingua si trasforma in supporto insostituibile della creatività comica lucianea. καὶ νεκρόν τι ἄλλο παιδίον … ἐπὶ δελφῖνος ὁμοίως προσκομισθῆναι – Il “bambino morto” a cui si allude è Melicerte. Secondo il mito, il piccolo morì affogato con la madre Ino, gettatasi con lui in mare per sfuggire alla folle ira del marito Atamante, reso pazzo da Era per aver accettato di allevare il piccolo Dioniso, nato dall’unione fra Zeus e Semele e poi affidato dallo

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stesso Zeus a Ino, sorella di Semele; per ordine del padre degli dèi, il corpo del bambino fu poi trasportato da un delfino fino all’istmo di Corinto, dove lo zio Sisifo, re della città, lo seppellì venerandolo come un dio col nome di Polemone e istituendo per lui i giochi istmici (Paus. 1, 44, 7–8; 2, 1, 3). In età romana il mito di Melicerte è ben vivo fra il popolo, come testimoniano le monete della colonia romana di Corinto che ne ricordano sia il suicidio sia il luogo in cui era venerato (Musti - Torelli 2000 ad Paus. 2, 1, 3, p. 208 [con bibliografia]). Luciano menziona il personggio altrove, sia esplicitamente (Salt. 42) sia allusivamente (D. mar. 8 [5], 1; 9 [6], 1), ma solo nella Nave dimostra di conoscere la tradizione secondo cui il bimbo fu trasportato dal delfino ormai senza vita. Per via della loro celebrità, Luciano non nomina esplicitamente né Arione né Melicerte (ricordati di nuovo insieme in D. mar. 8 [5]), ma utilizza due appellativi (“un citaredo” e “un bimbo morto”) per lasciare al pubblico il piacere di associare al dotto riferimento mitologico il nome del protagonista del mito cui allude. Si tratta di un procedimento letterario caro allo scrittore, che ama farne uso, in particolare, nelle descrizioni di opere d’arte: basti considerare quella dell’Apollo Liceo in Anach. 7, in cui il nome di Prassitele è forse taciuto «per coinvolgere maggiormente chi ascolta e invitarlo a risolvere un enigma reso banale dalla nitida lettura dello schema iconografico dell’opera» (Maffei 1994, p. XXIV), oppure l’allusione allo Zeus fidiaco di Olimpia in Tim. 4. τὸν δὲ Ἀδειμάντου οἰκέτην τὸν νεώνητον ἀπορήσειν δελφῖνος ἐρωτικοῦ; – Timolao rincara la sua dose di burle per prendersi gioco di Adimanto e così, dopo aver imbastito un improbabile paragone fra il giovane egizio di cui l’amico si è invaghito e celebri personalità del mito come Arione e Melicerte, adesso definisce ironicamente il ragazzo come “il servo appena acquistato” (τόν οἰκέτην τὸν νεώνητον) di Adimanto, poiché quest’ultimo, nello slancio dei suoi desideri, non aveva esitato a dichiararlo suo possesso personale senza farsi troppi scrupoli (§ 18). Con lo stesso tono fra il divertito e il beffardo Timolao spiritosamente immagina che l’amasio di Adimanto, come il celeberrimo Arione, non mancherà di un delfino ἐρωτικός, “sensibile all’amore”, che prontamente correrà in suo aiuto in mare in caso di bisogno. Il Witz della battuta sta nel fatto che il delfino era effettivamente considerato animale incline alla passione amorosa, probabilmente per la sua sfrenata attività sessuale, che manifestava in particolare nel periodo della riproduzione: non a caso era spesso associato nella mitologia e nell’arte greche ad Afrodite (Reho-Bumbalova 1981; Schneider 1997) e la sua carnalità non mancava di attirare l’attenzione e la curiosità degli scrittori (vd. ad es. Ael. NA 2, 6; 6, 15). I giovani e avvenenti servetti sono una presenza che Luciano tradizionalmente collega ai ricchi viziosi per deridere con leggerezza una tradizionale



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perversione della società romana (vd. supra comm. ad § 2: γλαφυρὸν οὕτω θέαμα ἐκεῖνος ἰδών; cfr. ad es. D. mort. 9 [19], 4: Polistrato lascia come erede dei suoi beni νεώνητόν τινα τῶν μειρακίων τῶν ὡραίων Φρύγα). Καὶ σὺ γάρ, Τιμόλαε, μιμῇ Λυκῖνον – L’uso del vocativo accompagnato da ὦ va drasticamente decadendo a partire dall’età ellenistica e resta impiegato soprattutto per situazioni di particolare enfasi. Nei Dialoghi il vocativo senza ὦ è sfruttato sia per esprimere intensi sentimenti, come rabbia o stupore, sia per manifestare un sentimento di disprezzo per una presupposta condizione di superiorità (Ureña Bracero 1995, p. 159 s.). Per questo, Adimanto rimprovera a Timolao la stessa attitudine al motteggio mostrata da Licino e, irritato e nervoso, lo apostrofa rivolgendosi a lui col semplice vocativo (cfr. infra ad § 21: ἄνθρωπε, μή μοι ἀνάλυε τὴν εὐχήν). καὶ ἐπιμετρεῖς τῶν σκωμμάτων – Timolao non resiste e si unisce a Licino nel motteggiare Adimanto, concretizzando con il suo comportamento uno degli effetti della burla (σκῶμμα) ben noti alle riflessioni antiche, vale a dire la sua capacità di contagiare gli altri. Plutarco, in una lunga disamina sull’opportunità di servirsi della burla per muovere al riso, sostiene che questa può rivelarsi assai pericolosa, perché chi motteggia contagia i presenti con la sua malvagità e, di conseguenza, anche questi si divertono e partecipano dell’attacco (Quaest. conv. 2, 4, 631d–e: διὸ καὶ προσαναπίμπλησι τοὺς παρόντας ὁ σκώπτων παρὰ μέλος κακοηθείας, ὡς ἐφηδομένους καὶ συνυβρίζοντας), tormentando il motteggiato in maniera molto più crudele di quel che non farebbe una semplice offesa. ταῦτα εἰσηγητὴς αὐτὸς γενόμενος; – Εἰσηγητής è un termine tecnico che designa il proponente di una legge (LSJ9 s.v. εἰσηγητής [p. 496]; Luc. Anach. 14). Luciano, che ama impiegare liberamente tecnicismi del lessico legislativo, lo usa in questo contesto in un senso più generale a indicare semplicemente chi propone un’iniziativa (Husson 1970, II, ad loc. [p. 47]). § 20 Ἄμεινον γὰρ ἦν πιθανώτερον αὐτὸ ποιεῖν κτλ. – La proposta fatta da Timolao ad Adimanto di rendere “più credibile” (πιθανώτερον) il suo desiderio, sostituendo alla faticosa incombenza di trasportare un favoloso carico d’oro dal porto in città (§ 19) il ritrovamento di un tesoro sotto il letto (ὑπὸ τῇ κλίνῃ), è chiaramente ironica, perché come il primo anche questo secondo evento è assolutamente incredibile. Ad accentuare l’ironia dell’affermazione di Timolao è l’inserzione del diminutivo χρυσίον, “tesoretto”. Ormai in preda al demone della cupidigia, Adimanto non pone però la minima attenzione al fare burlesco dell’amico e fonda il suo sogno di ricchezza proprio su un avvenimento favoloso, sognando di trovare per caso un tesoro sotto l’Hermes di pietra di casa sua (vd. oltre).

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καὶ ἀνορωρύχθω θησαυρὸς ὑπὸ τὸν Ἑρμῆν τὸν λίθινον … ἐν τῇ αὐλῇ – Le fantasie di Adimanto permettono a Luciano di inserire senza sforzo nella narrazione il celebre topos del ritrovamento fortuito di un tesoro (Thüry 2000). Nell’antichità nascondere un tesoro in casa o in un fondo era un metodo sicuro per proteggere il proprio denaro invece di investirlo (Foraboschi 1993). Così una vicenda che poteva verificarsi nel quotidiano ed era potenzialmente collegata a imprevisti e a vicissitudini varie si trasformò, col tempo, in un motivo letterario destinato a diventare proprio della commedia (Ar. Av. 599–601; Men. Dysk. 811–812; Plaut. Aul. 6–27; Trin. 149–155) e, più tardi, di generi come la satira (Or. Sat. 1, 41–42; 2, 6, 10–13: o si urnam argenti fors quae mihi monstret; Pers. Sat. 2, 10–12: o si / sub rastro crepet argenti mihi seria, dextro / Hercule). Luciano stesso predilige questo tema per la sua potenza imaginifica e lo sfrutta in numerose occasioni (cfr. Gall. 29; Cat. 8; Tim. 30, 40–45). In questo caso, nell’immaginare il tesoro di Adimanto sepolto ai piedi di una statua di Hermes si ripropone, in maniera giocosa, il motivo topico della connessione fra tale divinità e i guadagni fortuiti e insperati a cui si fa cenno più volte nel dialogo (§§ 12: κοινὸς Ἑρμᾶς; § 18: ὁ δὲ Ἑρμῆς ὁ κερδῷος ἐπινευσάτω ἅπασιν; § 25: μοι ὁ Ἑρμῆς τελεσιουργήσειεν αὐτά; § 42: ἐγὼ δὲ βούλομαι τὸν Ἑρμῆν ἐντυχόντα μοι δοῦναι δακτυλίους τινὰς τοιούτους τὴν δύναμιν, κτλ.). In più, Luciano riesce a trasformare la riproposizione di un motivo letterario frequentatissimo in un’occasione per scoccare una delle sue migliori frecciate satiriche ai danni di una celebre personalità contemporanea, alludendo maliziosamente a un ambiguo evento della vita di Erode Attico (Tomassi 2007, pp. 175–179; Id. 2013). Secondo quanto riferisce Filostrato, infatti, la famiglia di Erode cadde in miseria all’epoca della confisca di tutti i beni patita sotto Domiziano dal nonno, Tiberio Claudio Ipparco, “per l’accusa di esercitare un potere tirannico” (Philostr. VS 2, 1, 2: [ὁ] πάππος αὐτοῦ Ἵππαρχος ἐδημεύθη τὴν οὐσίαν ἐπὶ τυραννικαῖς αἰτίαις); più tardi suo figlio Attico, padre di Erode, trovò per caso un tesoro d’indicibile valore in una delle case che possedeva presso il teatro, e l’imperatore di allora, Nerva, lasciò libero Attico di goderne come meglio credeva (Graindor 1930, pp. 12–17; Civiletti 2002 ad Philostr. VS 2, 1, 2, p. 504 s. [con bibliografia]; vd. anche l’introduzione al § 1.6.1). Paul Graindor, pur dando fiducia alla narrazione filostratea, sottolinea l’ingenuità di Filostrato nel ritenere vera la storia del ritrovamento fortuito del tesoro, che pare, invece, architettata e propagandata ad arte dallo stesso Attico: questi doveva di certo sapere, infatti, che il padre Ipparco aveva nascosto in casa una considerevole parte della sua fortuna per evitarne la confisca, visto che i figli dei condannati non potevano trattenere per sé che una parte del patrimonio, il cui valore variava a seconda della decisione degli imperatori. Attico, dunque, attese la morte di Domiziano e, più tardi, giustificò di fronte al più mite Nerva il recupero della sua ricchezza con



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l’espediente del ritrovamento fortuito, per non destare sospetti nelle autorità e, in più, per non pagare i diritti di successione (Graindor 1930, pp. 20–24). μέδιμνοι χίλιοι ἐπισήμου χρυσίου – Il medimno (divisibile in 48 chenici), corrispondeva per gli aridi a poco più di 54 chilogrammi e per i liquidi a circa 52 litri (Stockton 1993, p. 14). Mille medimni di oro coniato rappresentano una quantità d’oro straordinaria, giacché il tesoro di Adimanto peserebbe 540 quintali! Che questo sia il desiderio di una persona facile all’avidità e all’incontinenza è confermato – se pur ce ne fosse bisogno – dal confronto fra il comportamento di Adimanto e quello di Polemone, il vanaglorioso e ingordo mercenario protagonista dei Dialoghi delle meretrici, che come Adimanto non conta la propria ricchezza, frutto di un bottino di guerra, con dei calcoli, ma medimno su medimno (Luc. D. meretr. 9, 2). Εὐθὺς οὖν κατὰ τὸν Ἡσίοδον οἶκος τὸ πρῶτον – L’immaginazione di Adimanto è sfrenata, tanto che all’illusione di possedere un tesoro gigantesco segue immediatamente (εὐθύς) quella dell’acquisto di beni di lusso, fra cui per prima cosa (τὸ πρῶτον) una sontuosa abitazione. Tale desiderio è suggellato dal dotto riferimento alle Opere e i giorni di Esiodo (v. 405: οἶκον μὲν πρώτιστα γυναῖκά τε βοῦν τ᾽ ἀροτῆρα), il cui status di sommo poeta nella Seconda sofistica ne faceva un’autorità sapienziale che, come Omero, poteva essere evocata per esprimere una verità generale e incontestabile (cfr. l’introduzione al § 1.4.6; sui riferimenti a Esiodo nel corpus lucianeum vd. Pinto 1974; Dolcetti 2016). In questo contesto possiamo notare un particolare utilizzo parodico della tradizione, caratteristico dei procedimenti comico-satirici, per cui citazioni di auctores illustri sono messe in bocca a personaggi viziosi che ne involgariscono il messaggio originario e, con la loro incongrua prosopopea, risultano ridicoli e muovono il pubblico al riso (Anderson 1978, p. 99). In questa parodia esiodea, in particolare, si può cogliere «una sottile ironia, che scaturisce […] dal sottinteso contrasto tra l’inconsistente vaneggiare del sognatore e il disincantato realismo del poeta da lui ricordato (Pinto 1974, p. 976). ὡς ἂν ἐπισημότατα οἰκοίην – Nella mania di ostentazione di Adimanto Luciano ripropone un’idea cara al patrimonio della filosofia morale, per cui non è tanto dal possesso che il ricco volgare trae godimento, quanto dall’ostentazione del possesso e dall’umiliazione che infligge nei meno abbienti (cfr. infra ad § 22: ἐγὼ δέ, ὁπόταν δόξῃ, προκύψας ὥσπερ ὁ ἥλιος ἐκείνων μὲν οὐδ’ ἐπιβλέψομαι ἐνίους). È notevole in questo contesto la corrispondenza fra ἐπίσημον, “oro coniato”, e ἐπισημότατα, “con la massima distinzione” (non attestato prima di Luciano con valore avverbiale; cfr. Hist. conscr. 43), a sottolineare come, per Adimanto, il possesso d’oro e la sua esibizione sia­ no tutt’uno.

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III Commento

È la letteratura filosofica a consacrare l’idea che i ricchi abbiano bisogno di ostentare ciò che possiedono per credersi davvero tali, e sono più tardi i retori a sviluppare questo topos con dovizia di particolari: a titolo di esempio basti ricordare che Plutarco insiste sul fatto che la ricchezza che nessuno contempla e guarda con stupore è τυφλός … καὶ ἀφεγγής, “invisibile e priva di luce” (De cup. divit. 528a; cfr. Quaest. conv. 679b, Lyc. 10, 2 e De cup. divit. 527b [ἄπλουτος πλοῦτος]). Perennemente in bilico fra retorica e filosofia, più volte nella sua produzione Luciano biasima l’inutile spreco esibizionistico dei potenti patroni e invita i loro clientes a non ossequiarli più, così che siano i primi a ricercare i secondi, pregandoli “di non lasciare senza testimoni oculari la loro felicità né priva di qualsiasi utilità la bellezza delle mense e la grandezza delle abitazioni” (μὴ ἀθέατον αὐτῶν μηδ᾽ ἀμάρτυρον τὴν εὐδαιμονίαν καταλιπεῖν μηδ᾽ ἀνόνητόν τε καὶ ἄχρηστον τῶν τραπεζῶν τὸ κάλλος καὶ τῶν οἴκων τὸ μέγεθος), giacché il ricco “nessun vantaggio trae da una casa bellissima […], né dall’oro né dall’avorio, se nessuno ammira l’oggetto” (Nigr. 23; cfr. Tim. 28; Sat. 29–30, 33). καὶ τὰ περὶ τὸ ἄστυ πάντα ὠνησάμην ἤδη – Nell’ansia di spendere la sua ricchezza Adimanto finisce per immaginarsi possessore di sterminati latifondi, un vero e proprio status symbol per ogni ricco cittadino romano. Il latifondista è una delle personalità che più prepotentemente concretizza l’assurda mania dell’uomo di accumulare beni e su cui inevitabilmente si appuntano le critiche e le beffe della satira (si confronti ad es. Pers. Sat. 4, 25–32). Al posto di ὠνησάμην come aoristo di ὠνεῖσθαι l’attico preferisce la forma ἐπριάμην, prediletta anche da Luciano (cfr. infra ad § 15: πριαμένῳ; De Ferrari 1916, p. 54). πλὴν ὅσα θύμον καὶ λίθοι – Il timo cresce su terreni poco fertili ed è elemento tipico della flora attica (Ar. Plut. 282) che Luciano ama ricordare (Hist. conscr. 15), in particolare come elemento di una dieta povera e frugale (Tim. 56; Merc. cond. 19; Fug. 14; Sat. 21; cfr. Ar. Plut. 253). “Mangiar timo” in Grecia era, non a caso, sinonimo di una vita povera, ma dignitosa (Aristophon fr. 10, 2–3 K.-A.; Antiph. frr. 166, 8 K.-A. e 225, 7 K.-A.; cfr. Taillardat 1965, p. 316 s., nº 546). I possedimenti terrieri sconfinati che Adimanto desidera in Attica rappresentano l’ennesima allusione alla biografia di Erode Attico, che possedeva vastissime proprietà fuori dalla città di Atene (Philostr. VS 2, 8, 1; Graindor 1930, p. 15 s.; Tobin 1997, p. 16; cfr. l’introduzione al § 1.6.1). La precisazione di Adimanto di desiderare tutti i territori del contado di Atene, “a eccezione di quelli che sono timo e sassi”, è involontariamente comica, poiché la maggior parte del suolo dell’Attica era sterile e brullo, abbellito sporadicamente da macchie di timo. Tale appendice non fa che connotare



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negativamente i latifondi di Erode e denunciarne la sproporzionata e inutile grandezza (un ironico riferimento alla sconfinata vastità dei latifondi del sofista è da vedersi anche in Icar. 18; cfr. Schwartz 1965, p. 32 s.; Camerotto 2014, p. 208). καὶ ἐν Ἐλευσῖνι ὅσα ἐπὶ θαλάττῃ – Come le più importanti e nobili famiglie ateniesi, anche quella di Erode era legata al santuario di Eleusi da una antica tradizione (Tobin 1997, pp. 200–209) e, non a caso, anche il suo alter ego letterario Adimanto desidera avere proprietà in questa zona. καὶ περὶ τὸν Ἰσθμὸν ὀλίγα … εἴ ποτε δὴ τὰ Ἴσθμια ἐπιδημήσαιμι – Come ricorda l’allusione di Adimanto, Corinto era uno dei centri collegati alla tradizionale periodos dei giochi Olimpici, Pitici, Istmici e Nemei, che in età antonina aveva avuto un grande revival (Luc. Anach. 9, 12, su cui Angeli Bernardini 1995 ad loc. [p. 66, n. 23]; Golden 2004, s.v. Isthmian games, p. 88 s., con bibliografia). È da notare la venatura comica del predicato ἐπιδημέω, “sto a casa mia”, “sto tra i miei”, messo in bocca ad Adimanto, la cui indolenza è tale da fargli desiderare il possesso di territori nella zona dell’Istmo per non dover fare neppure la fatica di uscire dai propri confini per ammirare i giochi istmici! La menzione delle terre dell’Istmo rappresenta un altro accenno ironico alla biografia di Erode Attico, in questo caso al progetto (mai realizzato) del taglio dell’Istmo, impresa che Erode considerava indispensabile, stando a quanto riferisce Filostrato, per ottenere fama e immortalità (Philostr. VS 2, 1, 6; Schwartz 1965, p. 134 e n. 1). Nella zona dell’Istmo, a Corinto, Erode fece edificare anche uno splendido Odeion, essendo questa, dopo Atene, la città che amava di più (Graindor 1930, p. 209; Tobin 1997, pp. 296–302). καὶ τὸ Σικυώνιον πεδίον – In prossimità dell’Istmo si trovava la piana di Sicione, una delle zone più fertili della Grecia, assai famosa per i suoi uliveti (Paus. 10, 32, 19) e molto ambita dai ricchi proprietari terrieri (Luc. Icar. 18), fra cui, naturalmente, Adimanto sogna di essere annoverato. καὶ ὅλως εἴ πού τι ἢ συνηρεφὲς ἢ … πάντα ἐν ὀλίγῳ Ἀδειμάντου ἔσται – La triplice aggettivazione legata da polisindeto (ἢ συνηρεφὲς ἢ ἔνυδρον ἢ εὔκαρπον) amplifica le ambizioni di Adimanto e, aumentandone la già eccessiva grandezza, le rende ulteriormente ridicole. Ὁ χρυσὸς δὲ κοῖλος ἡμῖν ἐμφαγεῖν – Nella tradizione letteraria greca fare sogni in cui le più nascoste fantasie di ricchezza si materializzano nell’oro è motivo antico (Theoc. 21, 52–53: ἀνείλκυσα χρύσεον ἰχθύν, / παντᾷ τοι χρυσῷ πεπυκασμένον). Il nostro Adimanto ha desideri talmente sfrenati da vagheggiare un mondo tutto d’oro (cfr. infra ad § 21: ἐγὼ δὲ καὶ τὰς τραπέζας ὅλας χρυσᾶς ποιήσομαι … καὶ τοὺς διακόνους αὐτούς; § 23: εἶτα δεῖπνα ἐπὶ χρυσοῦ), al cui interno è sufficiente evocare questo metallo per

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III Commento

indicare, tramite sineddoche, ciò per cui è impiegato, in questo caso il vasellame in cui mangiare. Notevole in questo contesto è «la successione di cola isolati, senza verbo reggente, che crea una sintassi adatta ad una rêverie» (Russo - Stramaglia). Lo sfarzo di cui i ricchi si circondano e, in particolare, il vasellame pregiatissimo di cui si pavoneggiano è un tema assai amato dalla satira (vd. ad es. Juv. 1, 75–76; 5, 37–42; Bompaire 1958, p. 358 s.), che si diverte così a bersagliare uno degli aspetti più aberranti dell’ostentazione di ricchezza. A livello materiale abbiamo un’idea chiara della meraviglia di corredi come quello fantasticato da Adimanto grazie ai moderni ritrovamenti archeologici, fra cui spicca quello del celebre tesoro di Boscoreale, in Campania, che comprende un migliaio di monete d’oro e un centinaio di pezzi di ottima fattura destinati a comporre uno straordinario servizio da tavola (Baratte 1986; Id. 2016). τὰ δὲ ἐκπώματα οὐ κοῦφα ὡς τὰ Ἐχεκράτους – Ἐχεκράτης è in Luciano un tipico ‘nome parlante’ adatto a un riccone (Ureña Bracero 1995, p. 185). Il desiderio di Adimanto di poter acquistare un vasellame più prezioso di quello di Echecrate ripropone un’altra sfumatura caratteriale tipica del parvenu, vale a dire l’ambizione di superare in sfarzo e ricchezza gli altri (cfr. infra ad § 24: οἱ δὲ νῦν πλούσιοι πρὸς ἐμὲ Ἶροι δηλαδὴ ἅπαντες). Si tratta dell’ennesima allusione allo sfarzo in cui viveva la famiglia di Erode Attico, alter ego di Adimanto (cfr. nell’introduzione al § 1.6.1), il cui padre Attico possedeva suppellettili ricchissime e celebri in tutto l’impero (Juv. 11, 1–2: Atticus eximie si cenat, lautus habetur, / si Rutilus, demens). Luciano si diverte a spargere riferimenti alle vicende del celebre sofista in più punti della sua opera, in un continuo gioco di specchi, e ancora una volta il pubblico lucianeo più scaltrito è chiamato a partecipare a questo gioco. Si consideri ancora, a tal riguardo, il Timone, in cui il personaggio di Echecrate ricopre una simile funzione ambivalente, e se da una parte è chiamato a rappresentare il ricco padre del misantropo Timone, dall’altra, fuori dal piano della finzione, è alter ego letterario del nonno di Erode, il ricchissimo Tiberio Claudio Ipparco (Tomassi 2011, pp. 91–93 e ad Tim. 7 [p. 248]). ἀλλὰ διτάλαντον ἕκαστον τὴν ὁλκήν – La smisurata ambizione dei sogni di Adimanto raggiunge la follia nelle coppe del peso di due talenti l’una, ossia 52 chili circa (cfr. supra comm. ad § 13: ὁ δέ μοι, Δώδεκα, ἔφη, Ἀττικὰ τάλαντα, κτλ.). § 21 Εἶτα πῶς ὁ οἰνοχόος ὀρέξει πλῆρες οὕτω βαρὺ ἔκπωμα; – Licino continua a stuzzicare Adimanto opponendo ai suoi sogni la concretezza della realtà. Il coppiere (οἰνοχόος) addetto a servire da bere è una presenza tradizionale nei banchetti greci e romani che Luciano cita spesso. Si trattava per lo più



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di uno schiavo (indicato genericamente come παῖς, “ragazzo”, indipendentemente dalla sua età: Tim. 54; D. meretr. 12, 1), addetto ad attingere il vino da un grande cratere e a versarlo in coppe da offrire ai banchettanti (Par. 10; D. deor. 24 [4], 1), che potevano disporre di lui anche con la richiesta di prestazioni sessuali (Sat. 22; D. deor. 5 [8], 4). Era anche un fidato servitore (Sat. 32), che all’occorrenza diventava complice degli intrighi del suo proprietario (D. mort. 7 [17]). Ἢ σὺ δέξῃ παρ᾽ αὐτοῦ ἀμογητὶ οὐ σκύφον, ἀλλὰ Σισύφειόν τι βάρος ἀναδιδόντος; – Sisifo, figlio di Eolo e signore di Efira (o Corinto), è famoso per la sua punizione esemplare nell’Ade (Od. 11, 593–600), in cui fu condannato a spingere in eterno, su una cima, un macigno gigantesco, che ogni volta ricadeva giù, per aver osato rivelare ad Asopo il luogo in cui Zeus aveva nascosto la figlia Egina (Apollod. Bibl. 1, 9, 3; Luc. J. conf. 18; Gall. 26; Nec. 14; Philops. 25; Trag. 12; Sourvinou-Inwood 1986). Con Titio e Tantalo è uno dei più celebri dannati degli Inferi della mitologia greca fin dall’epos omerico (Od. 11, 576–600; cfr. Lucr. 3, 980–1002; Luc. Philops. 25: alla vista di Tantalo, Titio e Sisifo Cleodemo è certo di essere giunto nell’Ade; Trag. 11–13; Bompaire 1958, p. 394 s.). Il riferimento alle fatiche di Sisifo diventa proverbiale ed è applicato a quanti devono realizzare un’impresa che pare infinita (Otto 1890, p. 310, n° 1596; cfr. Ter. Eun. 1085: satis diu hoc iam saxum vorso). L’avidità di Adimanto è dunque talmente sfrenata che vagheggia beni straordinariamente grandi (cfr. supra ad § 20: διτάλαντον ἕκαστον τὴν ὁλκήν), la cui mole potrebbe esser paragonabile ai massi spinti da Sisifo. Già nelle Satire di Orazio il nome del celebre dannato è associato a rinomati vasi bronzei, di veneranda antichità e tali da solleticare la cupidigia dei ricchi collezionisti (Sat. 2, 3, 20–21: olim nam quaerere amabam, / quo vafer ille pedes lavisset Sisyphus aere). In questo contesto, al fine di condannare con una risata la follia dell’avaro, che rischia di venire punito per la sua brama smisurata di ricchezza, il nome di Sisifo viene evocato, con un’accezione metaforica eccezionale, per materializzare un lusso spropositato e del tutto inutile (Schmidt 1897, p. 46). Se si interpreta il passo in questa maniera, non si ha difficoltà nel capire perché Adimanto replichi stizzito all’amico, invitandolo a non rovinargli la preghiera con stupidi scherzi (ἄνθρωπε, μή μοι ἀνάλυε τὴν εὐχήν), e si possono evitare ipotesi cervellotiche, come quella di Geneviève Husson, per cui si alluderebbe qui a un tipo di coppa particolarmente ricca e grandiosa, diffusa nell’antichità, il cui nome deriverebbe da Sisifo, celebre per la sua ricchezza (Husson 1970, II, ad loc. [p. 51 s.]). Alla stessa studiosa si deve, però, un’altra, più interessante congettura, secondo cui ci si riferirebbe in tale contesto a un vasellame particolarmente pesante, simile allo σκύφος Νεστόρειος presentato nell’Ermotimo (Herm. 12), che ricorda la coppa di gran peso sollevata a fatica da altri, ma senza sforzo dal

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III Commento

vecchio Nestore in Omero (Il. 11, 632–637). D’altronde che Luciano intenda riecheggiare il passo dell’Iliade in questione pare probabile, dato che non solo ne riprende la simile situazione (come Nestore, solo Adimanto riuscirà a sollevare la sua coppa, essendone il legittimo possessore), ma anche il raro e poetico ἀμογητί (Il. 11, 637). Questa battuta di Licino riecheggia, con spensierata leggerezza, l’antica critica dei moralisti contro l’inutile lusso delle suppellettili e di oggetti preziosi di uso quotidiano (Sen. Epist. 5, 6, 6: qui domum intraverit nos potius miretur quam supellectilem nostram; Oltramare 1926, p. 52, n° 38: «il faut éviter le luxe de la vaisselle»; n° 38a: «il faut se contenter de simples coupes en terre cuite»), della cui spropositata grandezza e ricercatezza amavano effettivamente pavoneggiarsi i ricchi Romani (Luc. Sat. 33: μεταξὺ πίνοντες περισκοπείτωσαν τὸ ἔκπωμα καὶ τὸ βάρος ἴστωσαν αὐτοὶ διαβαστάσαντες καὶ τῆς ἱστορίας τὸ ἀκριβὲς καὶ τὸν χρυσὸν ὅσος, ὃς ἐπανθεῖ τῇ τέχνῃ; cfr. infra comm. ad loc.: ἐγὼ δὲ καὶ τὰς τραπέζας ὅλας χρυσᾶς ποιήσομαι). Il lessico lucianeo si contraddistingue nuovamente per la sua ricercatezza. Σισύφειος è raro: lo si ritrova nel contemporaneo Alcifrone, che probabilmente all’opera di Luciano si ispira (Alciphr. 3, 3, 1: Σισύφειον βούλευμα). Il nesso avversativo οὐ σκύφον, ἀλλὰ Σισύφειόν τι βάρος ricorda che Luciano ama associare a scopo umoristico parole dal suono simile (cfr. infra ad § 40: εἰκόνες δὲ ἐκεῖναι καὶ νεῴ; Somn. 1: πόνον πολλοῦ καὶ χρόνου μακροῦ; Hipp. 8: κοινοῖς καινά; Im. 9: θαῦμα καὶ θέαμα; Fug. 10: ἄποροι καὶ ἄτοποι ἀποκρίσεις; Ureña Bracero 1995, p. 122 s.). È interessante rilevare che un Wortspiel simile a questo si ritrova nel Satyricon, dove Trimalcione si vanta di essere l’unico a possedere originali vasi ‘corinzi’ in quanto l’artigiano Corinto lavora esclusivamente per lui (Petron. 50, 4: “et forsitan, inquit, quaeris quare solus Corinthea vera possideam: quia scilicet aerarius, a quo emo, Corinthus vocatur. Quid est autem Corintheum, nisi quis Corinthum habeat?”). Ἄνθρωπε, μή μοι ἀνάλυε τὴν εὐχήν – Il vocativo ἄνθρωπε è utilizzato in greco non solo per indicare familiarità fra gli interlocutori, ma anche per sottolineare che chi parla si rivolge a un altro con stizza o disprezzo (Dickey 1996, pp. 150–154 e 285; Teles fr. 2, p. 6, 10 Hense = Bion fr. 17 Kindstrand [parla Povertà]: ἄνθρωπε, τί μοι μάχῃ;). Le parole con cui Adimanto si rivolge a Licino veicolano nervosismo e disappunto (come già l’apostrofe di Adimanto a Timolao ad § 19 con l’uso del vocativo non preceduto da ὦ: καὶ σὺ γάρ, Τιμόλαε, μιμῇ Λυκῖνον) e, al tempo stesso, una certa vis comica per la sproporzione fra l’allegra ironia di Licino e l’esagerata serietà dell’amico (cfr. D. mar. 6 [8], 3: ἄνθρωπε, ποῖ συναρπάσας με ἄγεις; [Amimone appena rapita da Poseidone al dio]; D. meretr. 9, 4; Cont. 12; ecc.).



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Ἐγὼ δὲ καὶ τὰς τραπέζας ὅλας χρυσᾶς ποιήσομαι – Le fonti antiche «sono ricche di testimonianza relative alla profusione di metalli preziosi di cui facevano sfoggio le mense dei potenti: tavole cariche di bicchieri d’oro e argento furono viste da Alcibiade nella casa di Anito e da lui fatte parzialmente prelevare (Plut. Alcib. 4, 5); un celebre arricchito, Teocrito di Chio, amava usare stoviglie di oro e argento, mentre in precedenza ne usava solo di terracotta, spesso rotte (Theopomp. FGrHist 115 F 252 ap. Ath. 6, 230f); Dione imbandì un banchetto con coppe d’oro e argento e tavole sontuose (Plut. Dion 23, 4); il governatore Otone (futuro imperatore) aveva sia tavole sia stoviglie d’oro, che donò a Galba (Plut. Galba 20, 2) perché fossero trasformate in monete» (Russo - Stramaglia). L’ostentazione di ricchezza che si spinge al di là dei limiti della fantasia e della stessa ragione non può che costituire un ambito bersaglio della filosofia morale e della satira, che della critica di tali aberranti comportamenti si sostanziano. Descrizioni di oggetti connotanti uno status di ricchezza sono così tradizionali negli scritti dei moralisti, che ne fanno largo uso per denigrare l’inutilità e la vuota apparenza della ricchezza (cfr. il commento supra: Ἢ σὺ δέξῃ παρ᾽ αὐτοῦ ... οὐ σκύφον, ἀλλὰ Σισύφειόν τι βάρος ἀναδιδόντος;), così come in quelli dei satirici: non a caso Trimalcione, il parvenu per eccellenza, vanta l’opulenza del suo vasellame riccamente istoriato con scene mitologiche (Petron. 52, 1–3) e sfoggia tavole d’argento massiccio e calici in terracotta laminati d’oro (Petron. 73, 5). Nei Dialoghi troviamo ricche accumulazioni di beni di lusso, tanto più ampie e accurate quanto più assurda e ridicola è la loro affannata ostentazione da parte dei loro ricchi possessori (Cat. 16: τὸν χρυσὸν καὶ τὰ λιθοκόλλητα ἐκπώματα καὶ τὰς κλίνας τὰς ἀργυρόποδας; Prom. es 4: χρυσῷ πᾶσα ἐκεκόσμητο καὶ ἁλουργίδι ἐπέστρωτο και ὁ χαλινὸς ἦν λιθοκόλλητος; cfr. la splendida serie di stoviglie sulla tavola ‘dai piedi a delfino’ di Lex. 7: ποτήρια δὲ ἔκειτο παντοῖα ἐπὶ τῆς δελφίδος τραπέζης, ὁ κρυψιμέτωπος καὶ τρυήλης Μεντορουργής κτλ.). Accolgo nel testo una congettura di Dindorf, aggiungendo l’articolo davanti al sostantivo τραπέζας, perché in tal modo si garantisce l’equilibrio nella struttura del periodo (τὰς τραπέζας ... τὰς κλίνας ... τοὺς διακόνους). καὶ τοὺς διακόνους αὐτούς – Quello di Adimanto è un sogno di ricchezza a occhi aperti, come quello di Micillo nel Gallo, nobilitato dalla citazione dell’incipit dell’Olimpica prima di Pindaro (§§ 6–7), introdotto parodicamente nel testo «non più come auctoritas, ma come testimone della visione onirica di Micillo, ovvero della creazione fantastica di Luciano» (Camerotto 1998, pp. 161–164, praes. 163). A ben vedere, anche il desiderio di ricchezza di Adimanto sembra impreziosito da un’allusione colta, giacché i servi d’oro desiderati dal giovane sembrano diretti discendenti delle ancelle auree che nell’Iliade aiutano Efesto (Il. 18, 417–418).

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III Commento

Ὅρα μόνον μὴ ὥσπερ τῷ Μίδᾳ καὶ ὁ ἄρτος … χρυσὸς γένηται – Mida era un re di Frigia, figlio di Gordio, vissuto fra l’VIII e il VII sec. a.C. (Högemann 2000), destinato a diventare nella tradizione letteraria greco-romana un proverbiale simbolo di ricchezza (Scherf 2000; Ar. Plut. 287 e Sommerstein 2001 ad loc. [p. 155]). Luciano lo evoca spesso, insieme ad altri personaggi dell’antichità celebri per ricchezza e potere come Creso (vd. infra ad § 26) e Sardanapalo, per illustrare la follia degli uomini che cercano nella gloria, nelle ricchezze e nel potere un’effimera felicità (Tim. 42; Merc. cond. 20; Nec. 18; D. mort. 2 [3], 1 e 20 [6], 2; Gall. 6; vd. Rein 1894, p. 21; Schmidt 1897, p. 53). Qui alla maniera diatribica è criticata la schiavitù a cui gli uomini sono costretti dalla ricchezza e la pericolosità della ricerca del lusso e di oggetti preziosi (Oltramare 1926, p. 47, n° 20c: «la richesse asservit»; n° 20e: «la recherche des métaux précieux est pernicieuse»; p. 51, n° «il faut fuir le luxe, car il augmente nos besoins»). Seguendo la lezione dei moralisti e della menippea, Luciano ama sfruttare paragoni con intento moralistico per rendere con maggior evidenza i danni suscitati dal vizio nell’uomo comune: un altro ottimo esempio di questa peculiarità del modus scribendi lucianeo si trova nel Timone, dove il ricco avaro è ritratto come un novello Tantalo che, pur avendo a disposizione risorse immense, non riesce mai a placare la sua sete di ricchezze (Tim. 18, su cui vd. Tomassi 2011 ad loc. [pp. 312–314]). καὶ πλουτῶν ἄθλιος ἀπόλῃ λιμῷ διαφθαρεὶς πολυτελεῖ – La disposizione chiastica degli elementi è studiata per enfatizzare la critica di Licino: alle estremità del chiasmo troviamo un rimando alla ricchezza di Adimanto, novello Mida (πλουτῶν ... πολυτελεῖ), al centro un riferimento alle sventure procurategli dalla ricchezza stessa (ἄθλιος ἀπόλῃ λιμῷ διαφθαρείς). Il ricco “miserabile” (ἄθλιος) ricorda un verso delle Metamorfosi di Ovidio (11, 127) in cui lo stesso Mida è detto divesque miserque, “ricco e misero” (Husson 1970, II, ad loc. [p. 53]). Tale immagine condensa i tradizionali temi diatribici della povertà spirituale dei ricchi e dell’infelicità degli avidi (Oltramare 1926, p. 63, n° 82: «les riches en proie au désir de l’argent sont des pauvres»; n° 83: «les hommes havides sont malheureux»; cfr. Gall. 1: σὺ δὲ ὅρα ὅπως μὴ ὄναρ πλουτῶν λιμώττῃς ἀνεγρόμενος). Τὰ σὰ ῥυθμιεῖς πιθανώτερον … μετ᾽ ὀλίγον, ἐπειδὰν αὐτὸς αἰτῇς – La πιθανóτης, “credibilità”, “verosimiglianza”, è un termine chiave della stilistica e della retorica nel mondo antico. Aristotele la definisce come l’obiettivo della retorica intesa come “capacità di individuare il possibile mezzo di persuasione (τὸ πιθανóν) intorno a ogni soggetto” (Arist. Rh. 1, 2, 1355b: ἔστω δὴ ἡ ῥητορικὴ δύναμις περὶ ἕκαστον τοῦ θεωρῆσαι τὸ ἐνδεχόμενον πιθανóν; cfr. Quint. 4, 2, 34; Dion. Hal. Lys. 13, 3; Ernesti 1795 s.v. πιθανóν [p. 263]). Per un sofista, ‘verosimile’ è «ciò che accade il più delle volte,



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o ancora ciò che la maggior parte delle persone pensa, e che pertanto ci si propone di ammettere fino a prova contraria. È la “fiducia presunta”» (Reboul 2006 s.v. verosimile, p. 268 s.). Nel corso della sua carriera, Luciano riflette costantemente sui concetti opposti di “credibile” (πιθανóν) e di “incredibile” (ἀπιθανóν) in tutti gli ambiti della vita umana, fino a farli diventare uno dei cardini della sua satira, che ha il compito di verificare e, nel caso, sovvertire ciò che è accettato e abitualmente condiviso da tutti per convenzione e senza indagine razionale (Camerotto 2014, p. 21 s.). Suo bersaglio preferito è il mito, che sottopone a una drastica, spietata opera di ridimensionamento consistente nel rovesciare verità consacrate dalla tradizione e ridurle a ὑπεροπτικά e ἀπίθανα per suscitare il riso nel pubblico (D. deor. 21 [1], 1: ἤκουσας, ὦ Ἑρμῆ, οἷα ἠπείλησεν ἡμῖν ὁ Ζεύς, ὡς ὑπεροπτικά καὶ ἀπίθανα; emblematica è l’operazione parodica condotta dall’autore sull’immagine omerica della seira: D. deor 21 [1], 1; J. conf. 4, 8; J. tr. 14, 45; Herm. 3; Hist. conscr. 8; Camerotto 1996; vd. ancora Tim. 2: ὁ Σαλμωνεύς ἀντιβροντᾶν ἐτόλμα, οὐ πάντῃ ἀπίθανος ὤν; 41: νῦν πείθομαί γε καὶ Δία ποτὲ γενέσθαι χρυσόν). Nella Nave, lo scrittore punta a smascherare la credulità popolare pronta a rovesciare tutto ciò che appartiene alla logica del buon senso e a disprezzare ciò che possiede per anelare a quel che non ha e non può ottenere. Questa mentalità, assurda per il satirico e contraria ai principi della razionalità, è alla base della gara dei desideri del dialogo ed è condivisa tanto da Timolao, che la sponsorizza (§ 16: οἱ θεοὶ πάντα ὑποκείσθωσαν παρέξοντες, εἰ καὶ τῇ φύσει ἀπίθανα ἔσται), quanto da Samippo (§ 17: πείθομαί σοι καὶ ὅταν ὁ καιρὸς καλῇ, εὔξομαι ἅπερ ἂν δοκῇ; § 28: δύνανται γὰρ πάντα οἱ θεοί, καὶ τὰ μέγιστα εἶναι δοκοῦντα) e da Adimanto (§ 20 [Timolao]: Ἄμεινον γὰρ ἦν πιθανώτερον αὐτὸ ποιεῖν καί τινα θησαυρὸν ὑπὸ τῇ κλίνῃ ἀνευρεῖν/[Adimanto]: Εὖ λέγεις). Licino, voce satirica dell’autore, è naturalmente l’unico a non piegarsi a questa logica. § 22 Ἐσθὴς ἐπὶ τούτοις ἁλουργίς – L’enumerazione degli inutili segni esteriori della ricchezza dei parvenus è un elemento tipico della letteratura diatribica e della satira (Bompaire 1958, pp. 209–211 e 499–519; Oltramare 1926, p. 52, n° 39: «il faut éviter le luxe des vêtements»; n° 39a: «il faut èviter le luxe des bijoux»; n° 39b: «il faut éviter tout raffinement de toilette»; cfr. supra ad § 13: οἰκίαν ... ᾠκοδομησάμην ... καὶ οἰκέτας ὠνούμην καὶ ἐσθῆτας καὶ ζεύγη καὶ ἵππους; Gall. 12, su cui Schwartz 1965, p. 134; Tim. 20 e Tomassi 2011 ad loc. [pp. 329–331]; ecc.). Si tratta di uno degli elementi tradizionali nella critica serrata dei moralisti contro il lusso e la ricchezza, considerati come un espediente degli uomini volgari per camuffare nello splendore dell’apparato un’origine ignobile e una spaventosa ignoranza (Bompaire 1958, p. 213, n. 2). Nei Dialoghi sono soprattutto i manufatti tinti di porpora (ἁλουργίς), unitamente agli anelli costosi, a rap-

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presentare una vera e propria ‘insegna’ del ricco o del potente vanaglorioso (Nigr. 21; Nec. 12; Tim. 20, 56; Gall. 12, 14; D. mort. 10 [20], 4; Cat. 22; Sat. 21). Luciano ama sottoporre questi oggetti a un processo di scomposizione straniante, che li riconduce a quel che sono in origine (la porpora è sangue dei molluschi [Cat. 16–17], l’oro un metallo pesante e inutile [Cont. 11]), dimostrandone l’inutilità e denuciando la stoltezza degli uomini che li ricercano (Camerotto 2014, p. 219 s.). La satira lucianea va così a colpire uno degli aspetti più ridicoli della società contemporanea, giacché a Roma la passione per la porpora e lo sfarzo era grande (Mart. 2, 16; 3, 82, 5–7; 8, 48; Juv. 4, 31; 11, 154–155; 14, 187–188; Pers. Sat. 2, 65) e dava vita a ridicoli spettacoli, di cui rappresenta una splendida caricatura la descrizione di Trimalcione che avanza in pompa magna, sfoggiando un assurdo travestimento di porpora e oro, in stridente, ridicolo contrasto col suo corpo brutto e tozzo e la sua mostruosa ignoranza (Petron. 32) e, ancora, la descrizione del suo monumento funebre, su cui sarà ritratto seduto in tribuna con indosso la toga pretesta e cinque anelli d’oro alle dita mentre elargisce denaro al popolo (Petron. 71, 9). Il termine ἁλουργίς in genere è utilizzato come sostantivo, ma qui è insolitamente sfruttato da Luciano come aggettivo. καὶ ὁ βίος οἷος ἁβρότατος, ὕπνος ἐφ᾽ ὅσον ἥδιστος – Adimanto ricorre ancora a un linguaggio fatto di cola isolati, privo di verbo reggente, che ben esprime la sua concitazione nel lasciarsi andare ai suoi sogni e nell’esprimere senza freni le sue ambizioni (cfr. supra ad § 20: ὁ χρυσὸς δὲ κοῖλος ἡμῖν ἐμφαγεῖν). Qui l’ossessiva ripetizione in omoteleuto dei termini in -ος, combinata con l’insistita allitterazione della vocale ο, produce una fastidiosa cacofonia che mette ancor più in evidenza l’eccitazione dell’uomo. Il superlativo all’epoca di Luciano non sembra essere più molto espressivo, per cui è spesso rafforzato con vari elementi quali οἷος (come in questo luogo), πάνυ, δεινῶς, οὕτω (Chabert 1897, p. 176 s.). φίλων πρόσοδοι … καὶ τὸ ἅπαντας ὑποπτήσσειν καὶ προσκυνεῖν – Il servilismo che Adimanto immagina di ispirare negli altri è una forma di totale sottomissione che sfiora il ridicolo, perché a suo dire tutti coloro che si presenteranno a lui non solo si troveranno a “essere atterriti” per la paura della sua potenza (ὑποπτήσσειν equivale a πτήσσειν e significa sia “acquattarsi” sia “essere atterrito”: DELG s.v. πτήσσω [p. 948 s.]), ma saranno addirittura indotti a “inchinarsi” prostandosi ai suoi piedi (προσκυνεῖν, sul cui significato vd. infra comm. ad § 30: ὑποκύψας εἰς τὸ Περσικὸν προσκυνῶ σε). Il fatto che i bisognosi siano soliti umiliarsi prostrandosi di fronte ai ricchi, alla maniera degli orientali di fronte ai potenti, è ricordato da Luciano in maniera invariabilmente critica: il rapporto fra patroni e clientes costringeva molti, infatti, a calpestare la propria dignità pur di sopravvivere e non faceva altro



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che creare rapporti falsati dall’opportunismo e dall’ipocrisia e una società mostruosa in cui «le relazioni sociali erano prive di tenerezza […] [e] i legami di clientela erano grotteschi per la loro ritualizzazione, e umilianti per il protetto» (Veyne 2007, p. 167; cfr. Tim. 5 [stessa iunctura fra ὑποπτήσσειν e προσκυνεῖν]; D. mort. 9 [19] 3; Nigr. 21; Cat. 11; Sat. 29; Gall. 9 e 14). καὶ οἱ μὲν ἕωθεν πρὸς ταῖς θύραις ἄνω καὶ κάτω περιπατήσουσιν – La descrizione della salutatio mattutina di Adimanto riprende il fenomeno, tipicamente romano, della processione di questuanti clientes che si accalcano alle porte del dominus per ricevere qualcosa in cambio, come una sportula. Si tratta di uno di quei temi che legano Luciano ai satirici romani nella critica dei costumi (Juv. 1, 95–134; 3, 122–136; 5, 19–23; Mart. 4, 78; 6, 88; Luc. Nigr. 21–22 [su cui Szlagor 2005, p. 165]; Merc. cond. 10; D. mort. 9 [19], 2–3; Nec. 12). Lo scrittore in questo caso recupera un tema abusato rivitalizzandolo col dettaglio dei clientes che fanno su e giù (ἄνω καὶ κάτω) alle porte dei ricchi nella frenesia di riuscire a ottenere qualcosa. ἐν αὐτοῖς δὲ καὶ Κλεαίνετος καὶ Δημοκράτης οἱ πάνυ – Cleeneto e Democrate sono probabilmente personaggi immaginari, poiché portano due dei tanti ‘nomi parlanti’ con cui Luciano designa persone ricche e potenti, notevoli per fama (κλέος), potere (κράτος), aspetto ammirevole della figura (δεινός), orgoglio (κύδος), distinzione sociale o capacità militare (come è il caso del Fanomaco e del Cidia ricordati ai §§ 27 e 38), e così via (Ureña Bracero 1995, p. 185 s.). L’accostamento fra i magniloquenti nomi di Cleeneto e Democrate e l’epiteto οἱ πάνυ produce un inutile pleonasmo che ha come risultato principale un effetto smaccatamente umoristico: si tratta di un espediente che Luciano sfrutta con buona frequenza ai danni un personaggio estremamente famoso o socialmente rilevante, un eroe del mito o una divinità (Jones 1986, p. 94; Ureña Bracero 1995, p. 195 s.; cfr. Demon. 24 [Erode Attico]; Apol. 5 [Cleopatra]; Herm. 11 e Philops. 5 [il ricco Eucrate]; Vit. auct. 22 [Elettra]; Icar. 2 [Zeus]). καὶ προσελθοῦσίν γε αὐτοῖς καὶ πρὸ τῶν ἄλλων εἰσδεχθῆναι ἀξιοῦσι – Le false speranze sono pane quotidiano per i clientes. È un motivo tradizionale splendidamente illustrato da Luciano nel Nigrino (§ 22) nell’immagine dei poveri che corteggiano i ricchi “alzandosi nel cuore della notte, girando di corsa per tutta la città e, quando sono chiusi fuori dagli schiavi, sopportando di essere chiamati cani, adulatori e cose del genere”, mentre “ricompensa del triste giro è quella volgare cena, causa di molte disavventure”. θυρωροὶ ἑπτὰ ἐφεστῶτες, εὐμεγέθεις βάρβαροι – I portieri di Adimanto, per il loro numero (ἑπτά) e per la loro stazza (εὐμεγέθεις; cfr. supra ad § 1: ὑπερμεγέθη ναῦν καὶ πέρα τοῦ μέτρου), formano una barriera terrificante e, insieme, comica a immaginarsi per la sua esagerata grandezza (sull’impiego

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III Commento

a scopo umoristico nei Dialoghi di particolari cifre come il sette cfr. supra comm. ad § 7: ἑβδομαίους). Attraverso questo particolare aspetto della megalomania di Adimanto, Luciano critica l’uso smodato di servitori e schiavi da parte dei ricchi e riproduce in maniera originale un motivo tipico della filosofia morale (Oltramare 1926, p. 52, n° 40: «il faut se passer de serviteurs»; n° 40a «il est contraire à la nature de posséder des esclaves»). Il portiere è una presenza tipica delle case dei ricchi Romani, che amano farne sfoggio come status symbol: basti ricordare quello di Trimalcione, vestito di verde, con una cintura color ciliegia alla vita (Petron. 28, 8: in aditu autem ipso stabat ostiarius prasinatus, cerasino succinctus cingulo). Luciano, uso a descrivere gli abitanti di ciascuna regione del mondo antico per mezzo di peculiari, tradizionali stereotipi (vd. supra ad § 2 la descrizione dell’egizio di cui Adimanto si innamora e il relativo comm. ad loc.), chiama a ricoprire il ruolo di portieri (o schiavi), in genere, dei Siriani (Merc. cond. 10; Bompaire 1958, p. 231–235; sulla figura del portiere in Luciano vd. ancora D. meretr. 12, 3; Cal. 30). προσαραξάτωσαν ἐς τὸ μέτωπον εὐθὺ τὴν θύραν, οἷα νῦν αὐτοὶ ποιοῦσιν – Il fare sprezzante dei ricchi, spinto fino a non voler gettare nemmeno uno sguardo su coloro che corrono a impetrarne i favori, è motivo tradizionale della satira (cfr. supra comm. ad § 14: εἰ πέντε κτήσαιο πρὸς τούτῳ κτλ.), come il dato di fatto che un povero, non appena riesce a godere delle attenzioni e anche solo dell’occhiata di un potente, sente il suo cuore riempirsi di gioia (vd. infra ad § 43; anche Nigr. 21; D. mort. 9 [19], 2). Luciano arricchisce la presentazione di un motivo stereotipato con una sapiente scelta lessicale: in questo contesto inserisce così προσαράσσω, che non sembra attestato prima dell’età imperiale e generalmente ricorre col significato di “urto”, “sbatto”, a indicare in particolare la nave scaraventata dal mare contro le rocce (LSJ9 s.v. προσαράσσω [p. 1503]; Luc. VH 2, 47: χειμὼν σφοδρὸς ἐπιπεσὼν καὶ προσαράξας τὸ σκάφος τῷ αἰγιαλῷ διέλυσεν), per concretizzare icasticamente l’azione brutale dei portinai che sbattono la porta in faccia ai clientes seccatori (cfr. Luc. D. meretr. 15, 2). Ἐγὼ δέ, ὁπόταν δόξῃ … ἐκείνων μὲν οὐδ’ ἐπιβλέψομαι ἐνίους – La disumana venerazione che i poveri mostrano nei confronti dei ricchi, da cui son costretti a sopportare continue vessazioni e quotidiani maltrattamenti, è un tema caro a Luciano e tipico della satira (questo sostanzia, ad es., l’intera Satira quinta di Giovenale). L’immagine dei postulanti che si accalcano attorno al ricco per impetrarne i favori e la protezione è una delle più caratteristiche dei Dialoghi e la ritroviamo ancora, per esempio, calata in un contesto esotico nel Gallo (Gall. 24) oppure in un vivido affresco dell’età imperiale nell’Alessandro (Alex. 42). Per stigmatizzare queste dinamiche comportamentali inique, ma profondamente radicate nella società, Luciano



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più volte ritorna, con ironia mista a immaginazione fantastica, sull’idea che se gli appartenenti ai ceti inferiori snobbassero quelli dei ceti superiori, questi ultimi non solo smetterebbero di vessarli, ma li pregherebbero addirittura di partecipare ai loro banchetti pur di ottenere testimoni che diano un senso al lusso dei loro beni (Sat. 29–30; Nigr. 23). προκύψας ὥσπερ ὁ ἥλιος – Il gustoso paragone fra l’apparizione del riccone e il sole (Schmidt 1897, p. 127) è imperniato su un verbo, προκύπτειν, accuratamente scelto a fini satirici. Il predicato denota, infatti, l’azione del “far capolino fuori da un’apertura (una porta, una finestra) per vedere” e ricorre, in commedia (nella forma dell’equivalente παρακύπτειν), per le donne svergognate che, di tanto in tanto, si sporgono a far capolino dalla porta di casa e si ritirano subito indietro se uno le vede, ma si affacciano di nuovo quando l’uomo se n’è andato (Ar. Pax 979–985; Thesm. 797–799; cfr. anche Av. 496; Eccl. 884 e 924; Pax 78; Thesm. 790; Taillardat 1965, p. 371, n° 651). Un paragone fra un uomo di prestigio e il sole si ritrova ancora nel Menippo, riferito a un ricco che in pompa magna ‘si leva’ (ἀνατείλας, da ἀνατέλλειν, usato per gli astri) per ricevere i suoi clienti (Nec. 12), nella Morte di Peregrino, in relazione al cinico Peregrino Proteo (Peregr. 4), e nel Viaggio agli Inferi, in riferimento a un tiranno la cui vista è tanto insostenibile agli occhi come quella del sole (Cat. 26). εἰ δέ τις πένης … φιλοφρονήσομαι τοῦτον – Luciano paga il suo debito con il mondo della retorica principalmente riutilizzando quel patrimonio selezionato di temi e modelli che il professionista della parola ha sempre a portata di mano per discutere di importanti problemi di morale o, più semplicemente, per propagandare efficacemente consigli pratici o avvertimenti prudenti. A tal riguardo, fra i soggetti favoriti dai retori e dal pubblico non stupisce trovare l’opposizione fra ricchezza e povertà, data la sua sempre scottante attualità e l’abbondanza di sviluppi possibili del tema (cfr. Philostr. VS 1, inc.: la ‘nuova’ sofistica inaugurata da Eschine introdusse nelle declamazioni soggetti come poveri e ricchi, nobili e tiranni; Cic. Tusc. 3, 34, 81: sunt enim certa quae de paupertate […] dici soleant; Petron. 48, 4–5: pauper et dives inimici erant; Sen. Epist. 108, 11: de contemptu pecuniae multa dicuntur et longissimis orationibus hoc praecipitur; Luc. Salt. 65: i declamatori devono curare l’ὑπόκρισις affinché ciò che dicono non stoni nella bocca di eroi, tirannicidi, poveri, contadini; Lib. decl. 6–8, 31–33; Chor. decl. 5–6; Russell 1983, pp. 96–105). καὶ λουσάμενον ἥκειν κελεύσω τὴν ὥραν ἐπὶ τὸ δεῖπνον – Che il ricco inviti a banchetto il povero dopo il bagno è un altro motivo ricorrente nei Dialoghi e rimanda all’abitudine, tipica del mondo greco-romano, di mettersi a tavola dopo il bagno (Gall. 7; Merc. cond. 14; Sat. 17; Tim. 54; cfr. ad es. Petron. 26–31: Trimalcione attende i suoi ospiti nel suo balneum e poi,

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dopo il bagno, li conduce nel triclinium per la cena; Mart. 11, 52; Plut. Conv. sept. sap. 148c). Οἱ δὲ ἀποπνιγήσονται οἱ πλούσιοι – L’invidia malsana e rovinosa che spinge i ricchi ad accumulare freneticamente beni per surclassare i loro pari si configura, nelle fonti antiche, come uno dei vizi strutturali della società romana (Pers. Sat. 3, 66–76; 6, 12–17). Questa sciocca perversione è inevitabilmente messa alla berlina da Luciano, nei cui Dialoghi il fatto che il parvenu sogni non solo di essere invidiato da tutti gli altri ricchi, ma di godere della loro sofferenza mentre constatano che le loro ricchezze sono inferiori alle sue è un vero e proprio cliché (cfr. infra ad § 24: οὐκέτι το ἀργυροῦν πινάκιον ἢ τὸν σκύφον ἐπιδείξεται Διόνικος ἐν τῇ πομπῇ κτλ.; Tim. 40, 45). Legato a filo doppio a questo è un secondo motivo, consacrato dalla letteratura filosofica e sviluppato dai retori con dovizia di particolari, secondo cui i ricchi hanno bisogno di ostentare ciò che possiedono per ritenersi davvero tali (cfr. supra comm. ad § 20: ὡς ἂν ἐπισημότατα οἰκοίην). Il predicato ἀποπνίγομαι usato nel senso traslato di ‘soffocare di rabbia’ è tipico della commedia aristofanea, in cui la collera afferra spesso i personaggi in scena ed è capace di strangolarli (ἀπάγχειν) o di soffocarli (πνίγειν) senza fatica (Taillardat 1965, p. 212, n° 381; per quest’uso del predicato in Luciano cfr. Bis acc. 27, Gall. 28; Deor. conc. 12). ὁρῶντες ὀχήματα, ἵππους καὶ παῖδας ὡραίους ὅσον δισχιλίους – Il nuovo elenco di beni desiderati da Adimanto (ὀχήματα, ἵππους καὶ παῖδας) riproduce quello da lui precedentemente stilato (§ 13: οἰκέτας … καὶ ζεύγη καὶ ἵππους), in una sorta di comico refrain, la cui comicità è accentuata dall’iperbolica folla di duemila bei ragazzi (παῖδας) da cui il giovane desidera essere circondato, presumibilmente altrettanti servi (οἰκέτας). Nel mondo greco, in effetti, παῖς può designare genericamente il servo, senza alcun riferimento alla sua reale età, per cui «se l’aggettivo andràpodon, uomo-piede, usato per designare lo schiavo, tendeva ad assimilarlo alla condizione dei quadrupedi, tetràpoda, il termine pais, con cui era frequentemente chiamato, sottolineava la perenne condizione di minorità dello schiavo» (Cambiano 1991, p. 90). Del resto, alla passione per i bei ragazzi di Adimanto si fa più volte riferimento durante la narrazione (§§ 2, 18) e, come sappiamo, nel mondo greco-romano i giovani schiavi erano sfruttati abitualmente anche a livello sessuale (Garrido-Hory 1998, pp. 141–152; Younger 2005, s.vv. boylove, male homosexuality, paiderastia, pp. 27, 72 s. e 91–93; Luc. Tim. 22 [il servetto riesce a entrare nel testamento del padrone grazie ai piaceri sessuali coi quali lo ha compiaciuto in vita] e Tomassi 2011 ad loc. [pp. 335–340]). ἐξ ἁπάσης ἡλικίας ὅ τι περ τὸ ἀνθηρότατον – La metafora imperniata su ἄνθος e i termini correlati, sfruttata per indicare “il fiore della giovinezza” (ἥβης ἄνθος), rientra nel gruppo di quelle «métaphores nombreuses, passées



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dans la langue courante», che Luciano apprezza particolarmente (Bompaire 1958, p. 430 e n. 4; cfr. Nigr. 16; Pisc. 6; D. mort. 18 [5], 2 e 20 [6], 4; Dom. 9; Schmidt 1897, p. 119 s.; Taillardat 1965, p. 47, n° 43). § 23 Εἶτα δεῖπνα ἐπὶ χρυσοῦ — εὐτελὴς γὰρ ὁ ἄργυρος καὶ οὐ κατ᾽ ἐμέ – La ripetizione dell’aggettivo χρυσοῦς, “d’oro” fa diventare la passione per l’oro un vero e proprio refrain del discorso di Adimanto, che come un bambino capriccioso manifesta per l’ennesima volta il suo desiderio di avere un prezioso vasellame d’oro su cui mangiare (cfr. supra ad § 20: ὁ χρυσὸς δὲ κοῖλος ἡμῖν ἐμφαγεῖν; § 21: ἐγὼ δὲ καὶ τὰς τραπέζας ὅλας χρυσᾶς ποιήσομαι). Qui, in particolare, con l’ennesima esagerazione che suona ancora una volta comica, l’uomo mostra disprezzo per le pur nobili stoviglie d’argento come di qualcosa eccessivamente a buon mercato (εὐτελής) e non adatta al suo status (οὐ κατ᾽ ἐμέ). τάριχος μὲν ἐξ Ἰβηρίας – Lunghe enumerazioni di specialità culinarie ricorrono spesso nei Dialoghi (Gall. 11–12; Lex. 6; Merc. cond. 26; Tim. 55; Nigr. 33; Symp. 38; Sat. 22–23, 28, 35). Luciano può lasciarsi ispirare sia da alcuni cataloghi tipici della commedia attica (vd. ad es. Ar. Ach. 873–880; Pax 999–1005), da cui costantemente attinge, sia da uno dei principali temi della critica cinica contro la vanità e l’avidità degli esseri umani, quello del «“repas ridicule”, où s’étalent avec intensité le luxe en même temps que la mauvaise éducation du riche» (Bompaire 1958, pp. 357–359; cfr. Moricca 1914, p. 460); il tema gastronomico è altresì tipico della satira, che attraverso la condanna della crapula ha buon gioco nel denunciare l’inutile sperpero di ricchezza e la mancanza di ogni limite nei consumi di molti ricchi gaudenti (si veda ad es. Pers. Sat. 1, 48–62). Il satirico ha cura di attualizzare e rivitalizzare un motivo antico facendo sì che le prelibatezze gastronomiche bramate da Adimanto corrispondano ad alcune delle specialità più apprezzate nel mondo romano, al fine di guidare il pubblico nell’identificazione sicura del bersaglio della sua critica: i pantagruelici banchetti fatti allestire dai ricchi della sua epoca, in primis dagli imperatori, una moda dilagante a Roma, presso cui chiunque sia “amante delle tavole sovraccariche” (φίλος … περιέργων τραπεζῶν) non può che trovare gradito un soggiorno (Nigr. 15). Al primo posto dei desiderata di Adimanto troviamo il pesce in salamoia che, come il garum (la celebre salsa di pesce di cui i Romani andavano ghiotti: Dalby 2003, s.v. garum, p. 156 s.), era prodotto in grande quantità nella Spagna meridionale (Plin. NH 9, 92 e 31, 94; Ath. 3, 118d–e), in particolare a Cadice, la cui importanza per la produzione di questo cibo è celebrata già da Eupoli nel V sec. a.C. (fr. 199 K.-A.: πότερ᾿ ἦν τὸ τάριχος Φρύγιον ἢ Γαδειρικόν; vd. Olson 2016 ad loc. [p. 199 s.]). Lo scoliaste lucianeo ci dà un’indicazione interessante sulla bontà della produzione gaditana ricor-

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dando che i pescatori di Cadice andavano a pesca nell’Oceano Atlantico, dove trovavano pesci che superavano tutti gli altri per grandezza e qualità (pp. 249, 24–250, 3 Rabe). οἶνος δὲ ἐξ Ἰταλίας – Il vino era la bevanda più prestigiosa nelle culture greca e romana e ha costituito, per questo, un tema di notevolissima importanza nella letteratura antica da Omero a Nonno di Panopoli (Pellegrino 1998 ad Metag. fr. 18, K.-A. [p. 337], con ottima bibliografia; Della Bianca - Beta 2002). Delle molte varietà che se ne producevano, i vini italici erano particolarmente apprezzati (Dalby 2003, s.v. wine, pp. 350–352, con bibliografia). Fra questi, il più famoso era il campano Falerno, che nella letteratura romana assurse a simbolo dei piaceri legati al convito (Dalby 2003, s.v. Falernian wine, p. 138 s.; Pers. Sat. 3, 3–4), come provano le lodi di Varrone (R.R. 1, 2, 6) e Orazio (Carm. 1, 20, 10–12) e la sua immancabile presenza fra i ricercatissimi cibi della mensa di Trimalcione (Petron. 28, 3; 34, 6–7), oltre a una pittura in una popina di Pompei che mostra una vinaria in atto di offrire del vino ai suoi clienti, invitandoli a spendere un asse per bere vino, due per del buon vino, quattro per del Falerno (CIL 4, 1679: assibus [singulis] hic bibitur; dupundium si dederis, meliora bibes; qua[rtum] [assem] si dederis, vina Falerna bibes; Casson 1994b, p. 213). In età bizantina, lo scoliaste a Luciano menziona ancora il Falerno come il vino italiano per antonomasia (p. 250, 4 Rabe). ἔλαιον δὲ ἐξ Ἰβηρίας καὶ τοῦτο – Nel mondo antico l’olio era il principale prodotto ricavato dalle olive e, come il pesce in salamoia precedentemente citato da Adimanto, costituiva una tipica e rinomata produzione spagnola (Paus. 10, 32, 19: τὸ ἔλαιον … χρόᾳ δὲ ὑπερβάλλει καὶ ἡδονῇ τὸ Ἰβηρικόν). Si trattava di un elemento indispensabile per la vita quotidiana, perché era utilizzato, oltre che come alimento, anche come combustibile per le lampade, sapone o cosmetico, detergente per i corpi, base per profumi e unguenti, nei riti religiosi e per molto altro ancora (Dalby 2003, s.v. olive oil, p. 239 s.). μέλι δὲ ἡμέτερον τὸ ἄπυρον – Era in Attica che si produceva il migliore miele aromatico, estremamente ricercato ed esportato anche in Italia, dove pure se ne produceva di eccellente qualità (Petron. 38, 3; Mart. 13, 104). Il migliore in assoluto era quello prodotto lungo i pendii dell’Imetto, dal fragrante aroma di timo (Strab. 9, 1, 23; Luc. Merc. cond. 35): Orazio celebra proprio la mescolanza di Falerno e di miele d’Imetto come la bevanda migliore per chi sa apprezzare le semplici gioie della vita (Sat. 2, 2, 15–16: nisi Hymettia mella Falerno / ne biberis diluta; cfr. Dalby 2003, s.v. honey, p. 179 s.: il miele era elemento essenziale della cucina antica, in quanto ne rappresentava il principale dolcificante e, misto al vino o ad altri liquidi, serviva a preparare prelibate bevande, usate sia a scopo alimentare sia terapeutico).



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Il miele dell’Imetto è detto da Adimanto ἄπυρον, “non trattato col fuoco”, perché raccolto senza ricorrere al metodo abituale degli apicultori, consistente nel gettar fumo sugli alveari per stordire le api e prendere il prodotto in tutta tranquillità: grazie a questo particolare sistema di raccolta si pensava che tale miele (chiamato in greco anche ἅκαπνον o ἀκάπνιστον, “non affumicato”) conservasse meglio il suo profumo naturale e avesse anche proprietà medicinali particolari (Plin. NH 23, 82; cfr. Strab. 9, 1, 23). καὶ ὄψα πανταχόθεν – L’elenco dei cibi dell’immaginaria mensa di Adimanto continua all’insegna dell’iperbole, giacché questi, non contento di tutti i prodotti tipici del mondo mediterraneo che finora ha menzionato, desidera nuovi manicaretti che provengano da ogni parte del mondo conosciuto. καὶ σύες καὶ λαγώς – In epoca antica i maiali costituivano la più comune fonte di carne per l’uomo. La carne suina era di diversa qualità e, a volte, poteva anche essere un cibo di lusso (Dalby 2003, s.v. pork, p. 268 s.; cfr. Luc. Tim. 55; Sat. 17, 22, 28 [lepri e maiali]; Ath. 14, 655f–656b). Ugualmente apprezzata era la lepre, in particolare fra i Greci, per i quali rappresentava un cibo molto ricercato, da riservare a banchetti raffinati (Dalby 2003, s.v. hare, p. 172 s.; cfr. Ar. Ach. 1112; Eup. fr. 174 K.-A.; Petron. 36, 2: leporemque in medio pinnis subornatum, ut Pegasus videretur; Mart. 7, 78, 3; 13, 92, 2; Juv. 11, 138). καὶ ὅσα πτηνά – I volatili desiderati da Adimanto al suo banchetto rappresentano eccellenti raffinatezze che impreziosivano le tavole dei ricchi gaudenti in età imperiale. Tutti gli uccelli elencati di seguito appaiono nella satira romana, a cui Luciano può aver attinto (Husson 1970, II, ad loc. [p. 59 s.]; cfr. ad es. Hor. Sat. 2, 2). Non bisogna dimenticare che esisteva anche nell’antichità tutta una produzione ‘deipnologica’, cara alla commedia e alla diatriba greche, che lo scrittore poteva prendere come riferimento (Bompaire 1958, pp. 357–359), così come una serie di leggi romane che proibivano il lusso sfrenato delle tavole e, in particolare, proprio il consumo di fagiani, pavoni e galline faraone. ὄρνις ἐκ Φάσιδος – Il fagiano era già conosciuto in Grecia nel V secolo a.C. come piatto estremamente raffinato (Ar. Nub. 108–109) ed era molto apprezzato anche sulle tavole dei ricchi Romani (Juv. 11, 139; Petron. 93, 1–2; Mart. 13, 45; Luc. Merc. cond. 17), presso cui era allevato, come il pavone, come animale raro in segno di snobismo (Mart. 3, 58, 13 e 16). Questo uccello proveniva, come testimonia il suo nome in greco (φασιανός) e come ricorda anche Adimanto, dalla regione del fiume Fasi (l’odierno Rion o Rioni, in Georgia, che in antico separava la Colchide dall’Armenia), da cui sarebbe stato portato in Occidente, secondo la leggenda, dagli Argonauti (Mart. 13, 72; Dalby 2003, s.v. pheasant, p. 257; Arnott 2007, s.v. phasianos, p. 186 s.). La menzione della regione del Fasi in questo contesto non è ca-

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suale, ma rappresenta un segno supplementare del lusso ricercatissimo a cui aspira Adimanto: il fiume nell’antichità era considerato, infatti, l’estremo confine del mondo (rappresenta uno dei limiti del mondo conosciuto già in Hdt. 4, 45, 2; cfr. Aristid. In Rom. 82 e Fontanella 2007 ad loc. [p. 136 s.]) e il suo nome doveva impressionare molto il pubblico di Luciano (Husson 1970, II, ad loc. [p. 60]). καὶ ταὼς ἐξ Ἰνδίας – Il pavone giunge in Europa dall’India (Ael. NA 5, 21 e 13, 18), come rammenta pure Adimanto, dopo essere passato per la Persia (Ael. NA 5, 21). L’uccello in età imperiale era allevato come animale raro dai ricchi (Juv. 1, 143), talvolta con gradi ritorni economici (Plin. NH. 10, 23, 45), e considerato una prelibatezza sulle tavole dei gaudenti (Hor. Sat. 2, 2, 23–26; Ael. NA 3, 42; 5, 21). Sembra che, prima ancora dei Greci, siano stati i Romani a impiegarlo come cibo (Dalby 2003, s.v. peafowl, p. 252 s.; Arnott 2007, s.v. tahos, pp. 235–238; Plin. NH 10, 23, 45: pavonem cibi gratia Romae primus occidit orator Hortensius aditiali cena sacerdotii). καὶ ἀλεκτρυὼν Νομαδικός – Il gallo numidico è il maschio della nostra gallina faraona (la gallina numidica menzionata in Petron. 55, 6, 4; cfr. 93, 2, 2), allevata già nell’Egitto dei faraoni e giunta dall’Africa a Roma dopo la caduta di Cartagine. L’introduzione in Occidente delle normali galline, più facili da allevare e redditizie, resero quest’uccello una curiosità esotica e, proprio per la sua irreperibilità, un animale molto costoso e adatto alle mense dei ricchi, come ricorda Varrone (R.R. 3, 9, 18: gallinae Africanae … novissimae in triclinium cenantium introierunt e culina propter fastidium hominum. Veneunt propter penuriam magno). Per questo Adimanto lo evoca sulla sua tavola di ricercate e costose specialità (Dalby 2003, s.v. Guinea fowl, p. 169 s.; Arnott 2007, s.v. nomas, p. 149). οἱ δὲ σκευάζοντες ἕκαστα σοφισταί τινες … ἔχοντες – Σοφιστής in origine aveva lo stesso significato di σοφός, “saggio” e poteva designare, «tanto nella prosa quanto nella poesia del quinto e del quarto secolo, genericamente il sapiente […] ovvero l’esperto, la persona dotata cioè di una particolare abilità e provvista di competenze tecniche in una determinata arte, in un mestiere ovvero in una scienza […], insomma ogni τεχνίτης» (Imperio 1998, p. 46 s.; in generale vd. pp. 46–51). Solo a partire dalla seconda metà del V secolo il termine si ricoprì di una patina negativa e fu usato con finalità a volte ironiche, a volte dispregiative, per indicare quella particolare categoria di intellettuali, i sofisti, che fece dell’arte del linguaggio una techne da insegnarsi, dietro compenso, a chiunque lo volesse (Plat. Tim. 19e; Eup. fr. 388 K.-A.; Ar. Nub. 331, 1111, 1309; Eur. fr. 905 N.²). In seguito, σοφιστής passò a indicare ogni manipolatore della parola abile, ma privo di scrupoli nell’utilizzare la propria abilità per profitto personale, come i poeti (Plat. Prt. 316d–e; Cratin. fr. 2 K.-A.), i sapienti e i maestri (Arist. fr. 5 Rose, Isoc.



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15, 135: i Sette Sapienti; Anaxandr. fr. 62 K.-A.), i filosofi (Antiph. fr. 120, 3 K.-A.; Alex. fr. 25, 3; Alex. fr. 27, 1 K.-A., Henioch. fr. 4, 10 K.-A.: i pitagorici; Alex. fr. 37, 4 K.-A.: Aristippo). Nei Dialoghi, σοφιστής conserva la patina di disprezzo ereditata dalla tradizione (Caster 1937, p. 351; Gomez 2003) e può indicare, perciò, passando dall’ironia leggera all’attacco satirico più dissacrante, un cattivo filosofo, un volgare conferenziere o un intellettuale scadente (J. tr. 19, 30; J. conf. 6, 7; Gall. 4, 18: Pitagora; Peregr. 13: Cristo; 32: il cinico Peregrino; Fug. 10: Socrate e i sofisti del V secolo; D. mort. 12 [25], 3: Aristotele; 16 [11], 5: Diogene; Lex. 23: i nuovi sofisti; Demon. 14), pur se talora è usato in senso positivo (Hipp. 2; Pseudol. 5–6, 8–9, 19, 25: cattivi oratori usurpano il nome di sofisti; J. tr. 14; Tox. 35; Demon. 12: Favorino; cfr. Juv. 7, 167; D. Chr. 12, 5) o, più semplicemente, indica una persona esperta in un’arte, come in questo caso (vd. anche Tox. 27). περὶ πέμματα καὶ χυμός – In Grecia e a Roma il pane e le focacce (πέμματα) erano ricavate da farina di cereali. A differenza del pane, il principale companatico, le focacce erano consumate come dessert o nei simposi, insieme a vino e a frutta fresca o secca; ne esistevano di svariati tipi, dai più diversi nomi, e rappresentavano un prodotto gradito e immancabile sulle tavole (Dalby 2003, s.v. cakes, pp. 68–71, praes. 69; cfr. Symp. 11; Nigr. 33; Hist. conscr. 56; Merc. cond. 24; Vit. auct. 12: Aristippo di Cirene, filosofo edonista, è πεμμάτων ἐπιστήμων καὶ ὀψοποιὸς ἐμπειρότατος, “intenditore di prelibatezze e cuoco consumatissimo”). Anche le salse (χυμός), preparate come parte importante di una pietanza, erano una specialità particolarmente apprezzata dai Greci e dai Romani, che ne facevano un uso abbondante e ne conoscevano una grande varietà di tipi: i Romani, in particolare, sembra usassero predisporre una salsa per ciascun piatto da servire (Dalby 2003, s.v. sauce, p. 293 s.; cfr. Hor. Sat. 2, 4, 63–69; Luc. Symp. 11, Nigr. 33). Εἰ δέ τινι προπίοιμι σκύφον ἢ φιάλην αἰτήσας – Il brindisi è un’azione che si carica di una forte valenza simbolica nella tradizione greca e romana. Un gesto comune era quello di bere da una coppa e poi passarla all’amico a cui si intendeva offrire un brindisi: tale atto, detto propinatio dai Romani (Petron. 113, 8), enfatizzava e rendeva manifesto il legame fra due persone (Luc. Sat. 18). Anche il gesto di alzare una coppa piena alla salute dei propri invitati era tradizionale e, per questo, lo ritroviamo spesso nelle descrizioni dei banchetti lucianei (Gall. 12; Sat. 18; Merc. cond. 16). Lo σκύφος in Grecia era uno dei più comuni tipi di coppa per bere, ma poteva essere usato anche per le libagioni religiose (§ 24: καὶ οὐκέτι … τὸν σκύφον ἐπιδείξεται Διόνικος ἐν τῇ πομπῇ). Menzionato fin dall’epica omerica, aveva forma di tronco di cono rovesciato, con base piatta, ed era dotato di due corte anse orizzontali; in epoca imperiale i ricchi usavano σκύφοι di

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metalli preziosi, finemente cesellati e di un certo peso (a cui Luciano spiritosamente allude supra ad § 21: οὐ σκύφον, ἀλλὰ Σισύφειόν τι βάρος), che costituivano parte di preziosi corredi d’argenteria (Pottier 1877). Altro tipo di coppa per bere molto antica e molto diffusa in Grecia era la φιάλη, dai bordi bassi, senza piedi o maniglie (Scheibler 2000); all’epoca di Luciano i ricchi Romani andavano a caccia di quelle greche, cesellate da celebri artisti come Mirone o Policleto (Mart. 8, 50; 14, 93 e 95), incrostate di pietre e arricchite da rilievi (Juv. 5, 37; Mart. 8, 50). ὁ ἐκπιὼν ἀποφερέτω καὶ τὸ ἔκπωμα – Era un’abitudine molto antica quella di donare a un invitato la coppa da cui aveva bevuto (Xen. Cyr. 8, 3, 35; Plut. Alex. 39, 2). La figura etimologica ἐκπιών … ἔκπωμα concorre a rendere più vivida l’atmosfera tipica del convito ricreata da Adimanto. § 24 οἱ δὲ νῦν πλούσιοι πρὸς ἐμὲ Ἶροι ... ἅπαντες – La voglia di diventare ‘più ricco dei più grandi ricchi’ è un tratto tipico della figura del parvenu messo alla berlina dalla satira (vd. ad es. Hor. Sat. 1, 40: nil obstet tibi, dum ne sit te ditior alter; cfr. Luc. Tim. 42: ὦ Μίδα καὶ Κροῖσε καὶ τὰ ἐν Δελφοῖς ἀναθήματα, ὡς οὐδὲν ἄρα ἦτε ὡς πρὸς Τίμωνα καὶ τὸν Τίμωνος πλοῦτον, ᾧ γε οὐδὲ ὁ βασιλεὺς ὁ Περσῶν ἴσος). Adimanto si mostra così sprezzante nei confronti degli altri ricchi da paragonarli paradossalmente a Iro, il mendicante che nell’Odissea attacca briga col finto mendico Odisseo e combatte contro di lui, ma viene abbattuto con un sol colpo e trascinato in cortile perdendo la sua posizione privilegiata presso i Proci (Od. 18, 1–117, 235–242; cfr. Luc. Cont. 22; Herc. 8; Im. 9; Schmidt 1897, p. 49; Bouquiaux-Simon 1968, pp. 301–303). Iro è destinato a diventare il povero mendico per antonomasia (AP 7, 676, 2; 11, 209, 3–4; Mart. 5, 39, 8–9; 6, 77, 1–4; 12, 32, 8–9; Rein 1894, p. 13) e un soggetto espressamente evocato (come Tersite) per suscitare riso (Dem. Eloc. 163). A questo scopo lo menziona Adimanto, che lo equipara ai suoi potenziali antagonisti dando vita a un paragone involontariamente comico per lo stridente contrasto fra i suoi spropositati sogni di ricchezza e l’evidente impossibilità del loro avveramento. Ad accentuare la comicità della dichiarazione di Adimanto concorre l’iperbolico plurale enfatico Ἶροι, che rientra nel novero dei principali strumenti di humour lucianei (Cunningham-Robertson 1913, p. XLVI; cfr. ancora Luct. 3: Κωκυτοὶ γὰρ καὶ Πυριφλεγέθοντες; Icar. 1: ἡλίους καὶ σελήνας; J. conf. 17: Τιτυοὺς καὶ Ταντάλους; Philops. 2: Πηγάσους καὶ Χιμαίρας καὶ Γοργόνας καὶ Κύκλωπας; Herm. 72: Ἱπποκενταύρων καὶ Χιμαιρῶν καὶ Γοργόνων; Tim. 4: Φαέθοντες ἢ Δευκαλίωνες; 23: Κροίσων ἑκκαίδεκα; Apol. 1: Μίδαι καὶ Κροῖσοι καὶ Πακτωλοὶ ὅλοι). καὶ οὐκέτι το ἀργυροῦν πινάκιον … ἐπιδείξεται Διόνικος ἐν τῇ πομπῇ – Dionico è uno dei numerosi teonimi in genere attribuiti ai ricchi nei Dialoghi



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(Ureña Bracero 1995, pp. 178 s., 185 s.; cfr. supra comm. ad § 22: ἐν αὐτοῖς δὲ καὶ Κλεαίνετος καὶ Δημοκράτης οἱ πάνυ). Lo stesso nome identifica un medico protagonista del Simposio lucianeo. Il piattino d’argento (ἀργυροῦν πινάκιον) e la coppa (σκύφος) che il nostro Dionico ostenta quando partecipa a una processione sono oggetti rituali, usati nelle cerimonie per le divinità in occasione delle numerose feste che scandivano l’anno ateniese. Piatti rituali in metalli preziosi dovevano rappresentare un vero e proprio status symbol dei ricchi di età imperiale: uno dei più celebri esempi è la patera di Parabiago conservata presso il Museo Archeologico di Milano. μάλιστα ἐπειδὰν ὁρᾷ τοὺς οἰκέτας … ἀργύρῳ τοσούτῳ χρωμένους – La puerile vanità delle fantasticherie di Adimanto viene confermata dal fatto che, nel giro di pochissimo tempo, ritorna a esprimere il desiderio di volere far morire d’invidia gli altri ricchi, nel caso in cui riesca a raggiungere la ricchezza, per sentirsi veramente appagato (cfr. supra ad § 22: οἱ δὲ ἀποπνιγήσονται οἱ πλούσιοι). Τῇ πόλει δὲ ταῦτα ἐξαίρετα … δραχμαὶ τῷ μὲν ἀστῷ ἑκατόν – Le pubbliche distribuzioni di denaro rappresentano un gesto di evergetismo tradizionalmente appannaggio dei ricchi nella società greco-romana (Petron. 71, 9–10: nel suo testamento Trimalcione decide di eternare le sue elargizioni al popolo sul suo monumento funebre). Luciano critica di frequente questa usanza del ceto dominante come strumento di sottomissione e di corruzione delle masse (Gall. 22; Pisc. 41; Peregr. 15; Phal. I, 3; cfr. J. tr. 13: avere distribuzioni [διανομαί], prima ancora di nettare, ambrosia e ecatombi, è la prima cosa che chiedono gli dèi riuniti in assemblea; vd. anche Delz 1950, p. 124 s., n. 38). Le straordinarie donazioni che Adimanto annuncia agli amici richiamano alla mente quelle concesse da Attico e dal figlio Erode agli ateniesi, su cui Filostrato si compiace di indugiare all’inizio della biografia del sofista (VS 2, 1, 1–6; vd. l’introduzione al § 1.6.1; cfr. Schwartz 1965, p. 133 s.; Tomassi 2013). Le cento dracme che Adimanto vuol regalare ogni mese agli ateniesi rappresentano, infatti, una probabile allusione alle munifiche elargizioni del padre di Erode Attico e, soprattutto, al testamento con cui lasciava a ogni ateniese una mina all’anno, a causa del quale il figlio era più tardi venuto in urto coi suoi concittadini per non aver voluto rispettare le disposizioni testamentarie paterne (Philostr. VS 2, 1, 3–4). Un ulteriore, spiritoso richiamo a questo elemento della biografia di Erode Attico è probabilmente da vedere, poco più in là, alla fine della formulazione del desiderio di Adimanto, quando Licino, escluso dall’amico dalla lista dei suoi beneficiari, lo rimprovera di comportarsi come la maggior parte dei ricchi e di non mantenere le promesse (§ 27: ἤδη κατὰ τοὺς πολλοὺς τῶν πλουσίων ἀναδύῃ καὶ ἀνακαλεῖς

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τὴν ὑπόσχεσιν). Il riferimento a un particolare tanto scomodo della biografia di Erode permette di ipotizzare che, all’epoca di composizione della Nave, i rapporti fra il grande sofista e Luciano non dovessero essere dei migliori. ὑπῆρξεν ἄν – Preferisco scrivere ὑπῆρξεν ἄν piuttosto che ὑπῆρχεν ἄν, entrambe lezioni ben attestate nella tradizione manoscritta, in accordo col successivo ἐκέλευσα ἄν (§ 25), come suggerisce già Fritzsche. τῷ δὲ μετοίκῳ ἥμισυ τούτων – Come d’abitudine, Luciano mescola il passato al presente, così che i beneficiari del testamento di Adimanto non sono solo i cittadini di Atene, ma anche i meteci, nonostante il metecato non esistesse più ad Atene già dal III secolo a.C. e la popolazione si dividesse in età imperiale semplicemente fra stranieri (ξένοι) e cittadini (Delz 1950, pp. 23, 112). δημοσίᾳ δὲ ἐς κάλλος θέατρα καὶ βαλανεῖα – I teatri e le terme che Adimanto promette di costruire ricordano le grandiose manifestazioni di evergetismo con cui Erode Attico lascia a bocca aperta tutta la Grecia. Ad Atene il sofista patrocina, in particolare, l’erezione di opere che possono rivaleggiare con quelle erette dalla casa imperiale, quali l’Odeion alle pendici dell’acropoli (Paus. 7, 20, 6; Philostr. VS 2, 1, 5; Graindor 1930, pp. 182 s., 218–223; Tobin 1997, pp. 161–210) e la ristrutturazione dello stadio panatenaico, capace di contenere addirittura più di cinquantamila spettatori, che Pausania definisce “una meraviglia a vedersi”, Filostrato “un’opera superiore a ogni meraviglia” (Paus. 1, 19, 6: θαῦμα ἰδοῦσι; Philostr. VS 2, 1, 5: ἔργον … ὑπὲρ πάντα τὰ θαύματα; Judeich 1931, pp. 417–419; Graindor 1934, pp. 116, 178–181; Travlos 1971, p. 498, figg. 628–633; Tobin 1993; cfr. Arafat 1996, p. 196 s.: Erode era forse uno dei pochi uomini, oltre all’imperatore, a poter disporre di cave di pietra e di marmo personali). Nonostante vi sia chi ritenga il riferimento in questione estremamente generico per essere interpretato come relativo ad Erode (Anderson 1976, p. 71, n. 38), è la somma delle tante similitudini fra la imprese di Adimanto e quelle del sofista sparse nella Nave (vd. in particolare il passo successivo) a indurci a credere che Luciano abbia intenzione, anche in questo caso, di alludere a tale personaggio. καὶ τὴν θάλατταν ἄχρι πρὸς τὸ Δίπυλον … ἐκ τοῦ Κεραμεικοῦ – Il desiderio di Adimanto di far scivolare un battello, attraverso un grande canale, dal mare fino all’ingresso della città non può essere semplicemente interpretato come «un hommage amusant» reso da Luciano ad Atene (Bompaire 1994, p. 74), ma è una chiara allusione a un’impresa effettivamente realizzata da Erode Attico durante una celebrazione delle Panatenee. In questa occasione, per suo ordine, la nave che trasportava il peplo della dea Atena fu mossa da macchine sotterranee e trasportata dal Ceramico attraverso la città (Philostr. VS 2, 1, 5), un’impresa forse ispirata dal brano di Platone in cui si immagina che le navi d’alto mare potessero raggiungere Atlantide tramite canali



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navigabili (Criti. 115c–116c). Luciano allude ironicamente all’eccezionale impresa di Erode mettendone in risalto la megalomania attraverso i desideri assolutamente spropositati di Adimanto, che vuol costruire addirittura un porto di fronte al Dipylon e scavare un canale per far arrivare il mare fino ad Atene e la propria imbarcazione davanti al Ceramico, solo per il vezzo di far ammirare la sua nave a tutta la cittadinanza ateniese. § 25 Τοῖς φίλοις δὲ ὑμῖν … Λυκίνῳ δὲ χοίνικα – Adimanto sogna di distribuire a Samippo, Timolao e Licino la sua immaginaria ricchezza e fa le parti in base al favore che fino a questo momento i suoi amici hanno accordato alla sua preghiera, misurandole in medimni e in chenici (una chenice equivaleva a 1/48 di medimno e corrispondeva a poco più di un chilo; sul medimno cfr. supra comm. ad § 20: μέδιμνοι χίλιοι χρυσίου ἐπισήμου). A Samippo riserva così la ricompensa più cospicua, venti medimni d’oro, per non aver mai ostacolato i suoi sogni; al secondo posto mette Timolao, a cui assegna solo cinque chenici, facendogli pagare lo scotto per avere ironicamente paragonato ad Arione e a Melicerte il giovane egizio da lui amato (§ 19); per ultimo, dona a Licino solo una chenice, perché questi lo ha preso più volte in giro e ha ostacolato i suoi desideri (§§ 14, 15, 19, 21), pur essendo stato da lui esplicitamente invitato a esporli (§§ 11–12). Che la quantità di una chenice d’oro fosse una briciola dei possedimenti di un ricco è un’idea che ritorna nei Saturnali, dove i poveri pregano Crono di distribuire loro anche solo una chenice dei tanti medimni d’oro posseduti dai ricconi (ἀπὸ μεδίμνων τοσούτων χρυσίου χοίνικά γε ἡμῶν πάντων κατασκεδάσαι), e così pure i loro vestiti dismessi, anche se tarlati (Sat. 21). Nonostante le immense ricchezze sognate da Adimanto, a ben vedere la sua generosità resta, tutto sommato, limitata, e rassomiglia a quella di Simone, il parvenu del Gallo che somma in sé i due tipi del nuovo ricco e dell’avaro (Gall. 14; cfr. Bompaire 1958, pp. 209–213, praes. 213; Husson 1970, II, ad loc. [p. 63 e n. 1]). μεδίμνους ἐπισήμου χρυσίου παραμετρῆσαι – Nell’immaginare Adimanto che incarica il suo amministratore di contare medimni di oro coniato per distribuirli ai suoi amici, Luciano probabilmente allude alla proverbiale espressione “misurare a medimni” (μεδίμνοις ἀπομετρῆσαι) che si riferisce a chi può sfruttare un bene in eccezionale quantità (Rein 1894, p. 56 s.; cfr. D. mort. 12 [25], 2; D. meretr. 9, 2; vd. anche Xen. Hell. 3, 2, 27; Hor. Sat. 1, 1, 95–96: dives / ut metiretur nummos; Petron. 37, 2: nummos modio metitur). La mania di fare e rifare i conti è un capriccio di Adimanto (§ 18: ἐπιμετρήσω τῇ εὐχῇ; § 19: ἐπιμετρεῖς τῶν σκωμμάτων), criticato anche dai suoi amici (§ 28: οὐδὲ μικρολογήσομαι πρὸς τοὺς θεοὺς θησαυρὸν αἰτῶν καὶ μεμετρημένον χρυσίον), che corrisponde a uno dei tanti tic comportamentali che, per tradizione, appartiene alla maschera dell’avaro (Ar. Nub.

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III Commento

18–20; Oltramare 1926, p. 54, n. 3: «l’avare entasse ses biens pour le seul plaisir de se livrer a des calculs»; Varro Men.frr. 21–24 Astbury = 21–24 Cèbe; Dio Chr. 4, 92; Luc. D. mort. 1 [1], 3; Tim. 13). τὸν οἰκονόμον ἐκέλευσα ἄν – L’amministratore citato da Adimanto è un personaggio che compare spesso nei Dialoghi (Merc. cond. 12 e 38; Tim. 14; Par. 12; Sat. 26; Gall. 22; Alex. 39) ed è identificabile, presumibilmente, col dispensator romano, un servo addetto a gestire le entrate e le uscite del padrone (Delz 1950, pp. 102–104; Petron. 30, 2). ἀπομεμαγμένην καὶ ταύτην – La formula χοίνικα ἀπομάττειν, “scolmare una chenice”, indica l’azione del livellare una misura, in genere di grano o di farina, per eliminare la quantità di prodotto che sporge dal contenitore in cui è riversata (cfr. l’espressione μάττειν τέτταρ᾿εἰς τὴν χοίνικα parodiata in Ar. Vesp. 440 e vd. Taillardat 1965, p. 156 s., n° 300). Per Geneviève Husson, tale modo di dire potrebbe voler riecheggiare la formula κενεὰν (χοίνικα) ἀπομάττειν, “livellare una misura vuota” (Theoc. 15, 95: μή μοι κενεὰν ἀπομάξῃς), riferita a quanti perdono tempo (Husson 1970, II, ad loc. [p. 64]), ma in tale contesto un’allusione di questo tipo non sembra avere senso. Si può ritenere, più semplicemente, che Luciano usi un’immagine desunta dalla vita quotidiana per innestarla in una scenetta resa comica dall’infantile puntiglio con cui Adimanto, persa del tutto la pazienza, punisce il suo detrattore Licino concedendogli non solo una ben misera quantità del suo smisurato tesoro, ma addirittura tale che la misura promessa non superi nemmeno di poco il dovuto. Peraltro, la chenice “rasa” è un particolare che lo scoliaste (p. 250, 5 Rabe) segnala come una trovata particolarmente felice di Luciano, annotando accanto al testo σημείωσεαι, “da notare bene”, e ὠραῖον, “bello”. ὅτι λάλος ἐστὶ καὶ ἐπισκώπτει μου τὴν εὐχήν – Secondo Geneviève Husson, con il riferimento alla logorrea di Licino Luciano farebbe autoironia su una propria particolarità caratteriale servendosi di uno dei suoi alter ego letterari (Husson 1970, II, ad loc. [p. 64]), ma tale congettura dà adito a non pochi dubbi, vista l’impossibilità di far coincidere la figura letteraria di Licino con quella reale dello scrittore, come la critica moderna ha più volte notato (Whitmarsh 2001, p. 253; di Ní Mheallaigh 2010, pp. 128–131). La parlantina di Licino ha una precisa valenza letteraria, del resto, perché a questo personaggio è affidato nel dialogo quel ruolo di petulante canzonatore dei vizi umani che, nel corso del tempo, si era assegnato ai satirici e, prima ancora, ai cinici (SSR III, pp. 449–461; cfr. Schwartz 1965, p. 134 s.). Licino rassomiglia, in effetti, al Diogene e al Menippo dei Dialoghi dei morti, il primo dei quali è ritratto come ciarliero e amante dello scherno, il secondo intento a parlare a più non posso sulla barca di Caronte deridendo e sbeffeggiando i passeggeri senza pietà (D. mort. 16 [11], 3; 22 [2], 3; cfr.



§ 25

213

Tim. 7 [Zeus confonde Timone con un filosofo per la sua tracotante logorrea] e Tomassi 2011 ad loc. [pp. 243–248]). Τοῦτον ἐβουλόμην βιῶναι τὸν βίον πλουτῶν ἐς ὑπερβολὴν καὶ τρυφῶν καὶ πάσαις ἡδοναῖς ἀφθόνως χρώμενος – La figura etimologica βιῶναι τὸν βίον era già stata utilizzata in precedenza da Adimanto, proprio all’inizio della formulazione del desiderio di vivere una vita felice nella ricchezza (§ 13: εἴ τις θεῶν τὴν ναῦν ἄφνω ἐμὴν ποιήσειεν εἶναι, οἷον ἄν, ὡς εὐδαίμονα βίον ἐπεβίωσα). Ora lo stesso espediente retorico suggella le fantasticherie dell’uomo che, attraverso il predicato τρυφῶν, ribadisce il suo desiderio di vivere una vita sfarzosa all’insegna del lusso (cfr. supra ad §§ 22–23; sulla condanna del lusso nei Dialoghi cfr. supra comm. ad § 3: περὶ τῆς ἀρχαίας ἡμῶν τρυφῆς; infra comm. ad § 26: ὅτι … ἄδηλον ὁπόσον χρόνον βιώσει πλουτῶν). La condanna del piacere (ἡδονή) fine a se stesso rappresenta un cardine della filosofia cinica (Diog. Laert. 6, 71 = SSR V B 291, 15–18: [per Diogene] οἱ τοὐναντίον ἀσκηθέντες ἥδιον αὐτῶν τῶν ἡδονῶν καταφρονοῦσι) e della diatriba (Teles fr. 2, p. 11, 7–8 Hense [τῆς ἡδονῆς καταφρονοῦντά τινα] su cui vd. Fuentes González 1998 ad loc. [p. 221 s.]; Epict. 4, 9, 3). Rispetto a questa linea di pensiero sono significative, all’epoca di Luciano, le diverse prese di posizione degli intellettuali, per cui se Massimo Tirio non considera il piacere un bene disprezzabile, ma condanna gli eccessi che snaturano i veri piaceri (Max. Tyr. 30–32 Trapp), Plutarco loda Anassagora per il suo totale disinteresse verso i beni esteriori, ma sottolinea che questa vita si addice a un filosofo che decide di ritirarsi dal mondo, non all’uomo coinvolto nell’amministrazione dello stato, per il quale vivere significa avere philoi da trattare con eleutheria (De cohib. ira 463e; De tranq. anim. 474c– d; Per. 16]). Nei Dialoghi ricorre la totale condanna della ricerca del piacere senza limiti (ἀφθόνως), ciò che, in definitiva, brama Adimanto, perfetta incarnazione dell’uomo volgare contro cui Luciano lancia le sue frecciate. Nel desiderio di mostrare agli uomini ciò che costituisce l’essenza autentica della felicità, una vita tranquilla e virtuosa (cfr. infra comm. ad § 46: ἀλλ᾽ οὐ δέομαι εὐχῆς ἐγώ), lo scrittore non si stanca di condannare quella rovinosa “brama del non necessario” (ἡ τῶν οὐκ ἀναγκαίων ἐπιθυμία: Merc. cond. 7) che spinge gli uomini comuni a inseguire il futile piacere dato dall’oro, dall’argento, dalle tavole imbandite e dal lusso (Nigr. 4), e li trasforma in amanti infelici, sempre pronti a pendere dalle labbra dell’amato e a struggersi d’amore fino all’annientamento fisico e psichico (Merc. cond. 7–8). Εἴρηκα, καί μοι ὁ Ἑρμῆς τελεσιουργήσειεν αὐτά – Il sogno di Adimanto si chiude, così com’era iniziato, con l’invocazione a Hermes in quanto dio del guadagno e dei ritrovamenti fortuiti (cfr. supra ad § 18). La formula uti-

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III Commento

lizzata deve corrispondere a una forma tradizionale (cfr. D. deor. 10 [14], 2: ἀλλὰ τελεσιουργείτω … ἀγαθῇ τύχῃ). Il perfetto εἴρηκα è spesso utilizzato da Luciano per marcare la fine di un lungo discorso (Bis acc. 17, 29; D. mort. 12 [25], 6; ecc.). § 26 Οἶσθα οὖν, ὦ Ἀδείμαντε, ὡς … ἄνθρακές σοι ὁ θησαυρὸς ἔσται; – L’associazione di due proverbi in questa battuta di Licino è un ottimo esempio della passione di Luciano per la manipolazione libera e creativa delle espressioni paremiografiche. La prima forma proverbiale, “essere appeso a un filo”, è riferita a chi è in grave pericolo e deriva dal mito delle Parche (Luc. Cont. 16), le dee addette ad assegnare a ognuno il proprio destino, filandone la vita e tagliandone poi il filo al momento stabilito (Zen. 3, 47: ἐκ τριχὸς κρέμαται; Luc. J. tr. 51; Cont. 16, 17; Rein 1894, p. 51; lat. filo pendere: Otto 1890, p. 136, n° 662). La seconda, “carboni al posto del tesoro”, di natura popolare e favolistica, è usata per chi si vede deluso nelle proprie aspettative (Zen. 2, 1: ἄνθρακές ὁ θησαυρὸς πέφηνεν; Diogen. 1, 90; Otto 1890, p. 76, n° 350; Rein 1894, p. 84; Tosi 1992, p. 410, n° 871; Lelli 2008, p. 135; Mordeglia 2010, p. 225 s. su Phaedr. 5, 6, 6 [carbonem … pro thesauro invenimus]: «il carbone simboleggia il disinganno, come dimostrano il motivo popolare dell’oro che si trasforma in carbone (e viceversa) e del carbone portato dalla Befana ai bimbi disubbidienti»). Luciano impiega la seconda formula in maniera originale in svariati contesti: se qui θησαυρός indica un tesoro nel senso proprio del termine (come anche in Tim. 41), altrove designa, ironicamente, la saggezza del filosofo Arignoto (Philops. 32), oppure la filosofia stoica in toto (Herm. 71), o la stessa forma dialogica lucianea (Zeux. 2). Se è corretta la datazione dei dialoghi in cui tale proverbio compare proposta da Jacques Schwartz, sembrerebbe consuetudine di Luciano reimpiegare una stessa formula paremiografica in un lasso ristretto di tempo (Schwartz 1965, p. 93). Ὅτι … ἄδηλον ὁπόσον χρόνον βιώσει πλουτῶν – Dopo aver catturato l’attenzione di Adimanto, Licino inizia a demolirne i desideri e, in particolare, le aspirazioni al lusso (τρυφή) che ne avevano caratterizzato il discorso (cfr. supra ad §§ 12 e 25). Il lusso è la causa prima della scomparsa dei facili mezzi di vita in origine concessi dagli dèi agli uomini già per Socrate (Xen. Mem. 5, 6, 1–15) e, più tardi, per i cinici (Dio Chr. or. 4, 22 e 110 = SSR V B 582, 93–97 e 490–495; Hoïstad 1948, pp. 54–55, 63, 130, 153, 161, 214). A partire dall’età ellenistica, la lotta contro il lusso rappresenta una componente fondamentale della morale greca nel suo complesso (vd. ad es. Arist. Rh. 2, 16, 1391a; Timo Phliasius fr. 3, 3 Di Marco; Plut. De virt. et vit. 101d). Così l’eliminazione del lusso dalla vita dell’uomo rappresenta un imperativo categorico del miglior Luciano moralista (D. mort. 4 [14], 2), che non di rado evoca l’immagine eminente di Diogene (Vit. auct. 9; D.



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mort. 11 [21], 4; 27 [22], 2) o la maschera satirica di Menippo (D. mort. 2 [3], 1) per illustrare in forma piana e in una veste allettante per il pubblico gli effetti funesti della ricerca dello sfarzo, sentito come un disvalore assoluto e contrario a ogni forma di vita virtuosa (valore emblematico ha lo scontro di Lusso e Virtù per il possesso di Aristippo di Cirene in Bis acc. 23: Braun 1994 ad loc. [pp. 212–216]). Lo scrittore non si stanca di ricordare che la ricerca del lusso assilla l’uomo volgare e lo tormenta come una malattia che non gli permette di vivere in tranquillità (Betz 1961, p. 198), secondo un modo di giudicare la realtà che è tipico della satira (si veda ad es. Hor. Sat. 2, 3, 77–78: audire atque togam iubeo conponere, quisquis / ambitione mala aut argenti pallet amore). ὦ ἄριστε – Per l’utilizzo di questo vocativo in Luciano cfr. supra ad § 14. Τίς γὰρ οἶδεν εἰ … ἢ τοῦ Νομάδος ἀλεκτρυόνος – La lunga tirata di Licino sull’inutilità dei segni esteriori della ricchezza sfrutta un motivo comune della morale filosofica, ma grazie al richiamo alla tavola d’oro, al pavone e al gallo di Numidia prima desiderati da Adimanto (§§ 21, 24) viene ricollegato al contesto preciso del dialogo e non sembra affatto riproposto meccanicamente nella narrazione (Husson 1970, II, ad loc. [p. 65 s.]). La ripresa sarcastica di determinati elementi sparsi all’interno di un contesto è un efficace espediente, più volte impiegato da Licino, per ridicolizzare i suoi amici (cfr. ancora ad §§ 39, 45, 46) e rivela la grande abilità di Luciano nell’arte della caricatura. ἀποφυσήσας τὸ ψυχίδιον – La condanna della ghiottoneria in antico è icasticamente rappresentata dal noto detto socratico ‘bisogna mangiare per vivere, non vivere per mangiare’, che gode di straordinaria fortuna fino ai giorni nostri (Tosi 1992, p. 335, n° 711). Da qui deriva quel ritratto del crapulone che, indifferente a ogni ammonimento, continua a rimpinzarsi e muore a banchetto, gonfio e flaccido, che sostanzia, in particolare, il patrimonio della tradizione satirica (vd. ad es. Pers. Sat. 3, 98–105) Attraverso una magistrale scelta lessicale Luciano allestisce con una rapida pennellata la condanna della crapula, che tanti ritratti densi e potenti origina nel repertorio della satira greca e romana. In tale contesto è così notevole che al rarissimo ψυχίδιον, “animuccia” (cfr. Dio. Cass. 8, 36, 5; 78, 16, 6; LSJ9 s.v. ψυχίδιον [p. 2027]), venga associato ἀποφυσάω nell’inusitata accezione di “esalare” (LSJ9 s.v. ἀποφυσάω [p. 227]). Per Geneviève Husson, Luciano alluderebbe qui al poema composto da Adriano poco prima di morire, in cui compare la celebre formula animula vagula blandula (Husson II, 1970, ad loc. [p. 66]; Tosi 1992, p. 661, nº 1464). Dato però che animula è termine tecnico della filosofia stoica, come il corrispondente ψυχάριον in Epitteto e in Marco Aurelio (LSJ9 s.v. ψυχάριον [p. 2026]; Mazzarino 2010, I, p. 260), è preferibile pensare che l’inserimento di tale tecnicismo in un

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III Commento

contesto generico voglia costituire un ironico riferimento all’intera setta filosofica stoica piuttosto che a una sua singola personalità. ἄπει γυψὶ καὶ κόραξι πάντα ἐκεῖνα καταλιπών; – Il gusto per i paragoni basati sulla natura è proprio dell’epoca imperiale (in Plutarco, ad esempio, le immagini ispirate al mondo animale rappresentano la percentuale più elevata, con 190 esempi su circa 3000: Fuhrmann 1964, p. 58 s.). Il quadro del ricco abbandonato alla mercé degli animali è spesso impiegato da Luciano per ricordare la fragilità e la brevità della vita umana (Tim. 8; Luct. 8). Probabilmente l’autore deriva dal repertorio cinico tale immagine cruda e fortemente realistica, imperniata su animali notoriamente necrofagi come l’avvoltoio e il corvo (Thompson 1936, s.vv. γύψ e κόραξ, pp. 82–87, 159 s.; Arnott 2007, s.vv. gyps e korax, pp. 60 s., 109–113; cfr. supra comm. ad § 1: τοὺς γῦπας ... νεκρὸς ἐν φανερῷ κείμενος). Specialmente i filosofi cinici amavano equiparare, in funzione pedagogica, gli adulatori e i parassiti ad animali opportunisti o feroci: Antistene rassomigliava tali tipi umani ai corvi (Stob. 3, 14, 17 = Diog. Laert. 6, 4 = SSR V A 131), Cratete a corvi e a nibbi (Stob. 3, 15, 10 = SSR V H 54) o a lupi intorno a vitelli (Diog. Laert. 6, 92 = SSR V H 54). Anche Luciano ama impiegare il corvo e l’avvoltoio come allegorie dell’adulazione e del parassitismo per la loro forte valenza simbolica (cfr. Tim. 46: ὦ Γναθωνίδη, γυπῶν ἁπάντων βορώτατε καὶ ἀνθρώπων ἐπιτριπτότατε) oppure se ne serve per una divertita satira ai danni della religione olimpica (D. deor. 1 [5], 1; J. conf. 18; Prom. 20) o della vana paura umana della morte e dell’aldilà (D. mort. 10 [20], 13 e 30 [24], 1). In questo contesto, in particolare, i due animali sono evocati, sia nel loro senso proprio (in quanto bestie necrofaghe) sia in quello figurato (come allegoria del parassitismo), per rievocare incisivamente l’idea tradizionale che chi accumula ricchezze lo fa per la gioia di altri, che ne godranno dopo la loro dipartita, tradizionale nel mondo antico e tipica della commedia e della satira (vd. ad es. Hor. Sat. 2, 3, 123–124: filius aut etiam haec libertus ut ebibat heres, / dis inimice senex, custodis? Ne tibi desit?). Ἢ ἐθέλεις καταριθμήσομαί σοι – Porre il futuro al posto del congiuntivo dopo ἐθέλω e βούλομαι è un uso contrario all’attico (Chabert 1897, p. 187; vd. anche supra ad § 4: ἐθέλεις ἐγὼ αὖθις ἐπάνειμι ἐς τὸ πλοῖον). τοὺς μὲν αὐτίκα πρὶν ἀπολαῦσαι τοῦ πλούτου ἀποθανόντας – Licino espone a chiare lettere l’insensatezza di coloro che accumulano ricchezze e continuano a farlo pensando di vivere in eterno. La considerazione che quanti si fanno assoggettare dalle ricchezze non vivono in funzione di questa vita, ma di un’altra che non riusciranno a godere, è un motivo topico del pensiero antico. Già Democrito paragona la massa degli avidi alle api dell’alveare, il cui destino è “quello di accumulare come se vivranno per sempre” (Stob. 3, 16, 17 = 68 B 227 D.-K.), mentre Empedocle depreca il fatto che “gli Agri-



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gentini vivono nel lusso come se dovessero morire domani, ma approntano case come se dovessero vivere in eterno” (Diog. Laert. 8, 63 = T A 1 D.-K.; una sentenza simile a quella empedoclea è attribuita sia a Diogene [Stob. 3, 7, 46 e Tert. Apol. 39, 14 = SSR V B 285] sia a Platone [Ael. VH 12, 29]). La diatriba si impossessa di tale concetto, volgarizzandolo (Oltramare 1926, p. 54, n° 46: «il faut profiter de ce qu’on posséde»; n° 46a: «les avares ne savent pas profiter de ce qu’ ils possédent»; cfr. Antipho soph. fr. 87 B 53 a D.-K. = Stob. 3, 16, 20; Arist. ap. Diog. Laert. 5, 20). Questo è ampiamente presente nei Dialoghi, in particolare nei Dialoghi dei morti, di ispirazione cinica, giacché, com’è noto, dai cinici la ricchezza è considerata un bene effimero e inutile, come la bellezza o il potere (D. mort. 1 [1], 3; 2 [3]; 4 [14]; 5–9 [15–19]; 11 [21]; 10 [20]; 13 [13] e 14 [12]; 15 [26]; 18 [5]; 20 [6]; 23 [28]; 24 [29]; 25 [30]; 27 [22]; cfr. Jouan 1994 passim; Oltramare 1926, p. 46, n° 12: «la possession de ce qu’on peut perdre ne donne pas le bonheur et n’est par conséquent pas un bien»; n° 20: «la richesse n’est pas un bien»). A questo primo motivo è strettamente collegato quello della natura mortale ed effimera degli esseri umani, che Luciano ama riproporre in una variegata gamma di varianti (Tim. 15; D. mort. 27 [22], 7; Gall. 25 e 31; Nec. 15–16; AP 10, 31; Cont. 17). Si tratta di un altro tema tipico della filosofia morale greca e volgarizzato dalla diatriba che i retori di età imperiale sfruttano in relazione agli atavici problemi del destino della vita umana e della morte cari al pubblico (Oltramare 1926, p. 62, n° 79: «il est stupide de pleurer la mort d’un mortel»; Teles fr. 7, p. 59, 8–10 Hense, su cui Fuentes González 1998 ad loc. [p. 520 s.] con una lista di altri esempi del topos; Petron. 42, 4: utres inflati ambulamus. Minoris quam muscae sumus; Luc. Cont. 17; Croiset 1882, pp. 169–172; Betz 1961, p. 195 s. e n. 4). Si tratta di un motivo amato dalla satira di Luciano, che fa proprio il comandamento della morale popolare secondo cui bisogna abbandonare la vita senza rimpianti e senza paura, come mostra il luminoso esempio di Socrate (Oltramare 1926, p. 52, n° 43: «il faut, comme le fit Socrate, abandonner la vie sans regret et sans crainte»). ἐνίους δὲ καὶ ζῶντας … ὑπό τινος βασκάνου πρὸς τὰ τοιαῦτα δαίμονος; – Le parole di Licino traducono in immagine il pensiero tradizionale che la ricchezza possa svanire all’improvviso per il volere imponderabile degli dèi, specialmente se ciò che un uomo ha guadagnato gli è derivato da un evento fortuito e non dalla sua virtù (Eur. Ph. 555–558; Alex. fr. 267 K.-A.; Soph. fr. 646 Radt; Tosi 1992, pp. 391–393, nº 838: “la fortuna è leggera: presto chiede indietro ciò che ha dato”; nº 839: “la fortuna è di vetro: proprio quando riluce si rompe”; nº 840: “la fortuna si muove col veloce giro di una ruota leggera”; Oltramare 1926, p. 46, n° 12a: «les dons de la fortune sont des prêts sans valeur»; n° 12b: «tous les dons de la fortune sont indifférents»; p. 47, n° 20a: «la richesse n’est qu’un prêt de la Fortune»). Tale idea è sviluppata oltre

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III Commento

da Licino nella bella immagine della ricchezza sognata dall’uomo volgare che si dissolve in un attimo mostrandosi ὑπηνέμιος, “ventosa” (§ 46). A questo pensiero è collegato il celebre motivo della gelosia (o invidia) degli dèi (φθόνος τῶν θεῶν), ben attestato a partire dal V secolo in Grecia (Aesch. Pers. 361–362; Agam. 921–922; Eur. Suppl. 347–348), secondo cui una divinità poteva nutrire un sentimento malevolo nei confronti di chi si fosse spinto oltre i limiti consueti della felicità, della gloria o del potere, che per questo poteva essere privato in qualsiasi momento del proprio status privilegiato “da un dio invidioso” (ὑπό τινος βασκάνου… δαίμονος). Ἀκούεις γάρ που τὸν Κροῖσον καὶ τὸν Πολυκράτην πολύ σου πλουσιωτέρους κτλ. – La somiglianza dei destini di Creso, re di Lidia, e Policrate, tiranno di Samo, fondata sulla stessa sequenza bipartita di grandioso innalzamento e rovinosa caduta, era già messa in evidenza da Erodoto (Hdt. 1, 30–33, 43, 71 [Creso]; 3, 39–45, 120–125 [Policrate]). Questa similarità affascina gli intellettuali della Seconda sofistica, pur se nei loro scritti il senso religioso del racconto erodoteo si trasforma nella percezione dell’onnipotenza della Tyche, e Creso e Policrate diventano simboli dell’incapacità umana di accettare consigli di moderazione e di comprendere la mutevolezza della fortuna (Berardi 2004, p. 322). Luciano non accetta di fornire una lettura univoca del destino del ‘potente superbo’, per cui se in alcuni casi (Nec. 16; Cont. 14) l’uso degli exempla storici di Creso e di Policrate «serve da ammonimento ai potenti e appaga anche il sentimento di rivalsa delle classi umili», nella Nave si avverte una carica meno polemica,«in cui pare anzi prevalere l’originaria interpretazione erodotea della vita umana soggetta all’inevitabile alternanza di prosperità e sventura» (Berardi 2004, p. 328; cfr. Avery 1997, pp. 83–106 sulla presenza del racconto erodoteo di Creso e Solone nel Caronte). La presenza ricorrente negli scritti di Luciano, Dione, Massimo Tirio, Eliano, Valerio Massimo di celebri sovrani quali Creso, Policrate, Mida (cfr. supra ad § 21), Gige, Sardanapalo e pochi altri, adatti a simboleggiare l’instabilità del potere e della ricchezza, rappresenta la spia di una stretta dipendenza degli intellettuali di età imperiale da un codificato repertorio retorico (Bompaire 1958, pp. 162–191, praes. 166 e n. 3; cfr. Schmidt 1897, p. 102; Helm 1906, p. 55; su Creso come simbolo di ricchezza vd. Luc. Apol. 1; Merc. cond. 20; D. mort. 2 [3] e 20 [6]; come emblema dell’instabilità della fortuna vd. ancora Gall. 23 e 25; Nec. 16; come paradigma di empietà vd. J. conf. 14; J. tr. 30; spesso Luciano rievoca l’episodio del figlio sordo-muto di Creso: Gall. 25; Vit. auct. 3; Pro im. 20; per Policrate vd. Luc. Cont. 14; Nec. 16; Salt. 54; cfr. Berardi 2004 passim, praes. pp. 325–328). § 27 Ἵνα δέ σοι καὶ τούτους ἀφῶ – Per troncare l’interminabile elenco di casi in cui la sorte può rovesciare il destino degli uomini Luciano usa



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una preterizione, una figura retorica di enunciazione chiamata a presupporre una conoscenza condivisa che può essere sottaciuta, che si rivela un ottimo strumento per comprimere il discorso e, insieme, enfatizzare in poche parole quello che si è voluto sopprimere (Reboul 2006, p. 150 s.; cfr. Mortara Garavelli 2005, p. 253). Allo stesso espediente Licino ricorre ancora poco oltre (ἐῶ λέγειν). τό γε ὑγιαίνειν ἐχέγγυον οἴει σοι γενήσεσθαι καὶ βέβαιον; – Una semplice domanda retorica serve a determinare un cambiamento di intenti nel discorso di Licino, che dall’illustrare come i ricchi non godono delle loro ricchezze passa a elencare i mali provocati dalla ricchezza stessa. Ἢ οὐχ ὁρᾷς πολλοὺς τῶν πλουσίων … ὑπὸ τῶν ἀλγηδόνων – La connessione fra morbo e ricchezza è un luogo comune del pensiero antico, che troviamo ben illustrato nel Pluto di Aristofane, in cui Povertà, argomentando contro Ricchezza, ricorda gli acciacchi che colpiscono chi è dedito a una vita agiata e oziosa immaginando, al seguito del suo avversario, una massa di uomini podagrosi, pingui, con ventri prominenti e gambe tumefatte, mentre celebra il suo ruolo di benefattrice dell’umanità affermando che al suo fianco tutti restano in salute e con dei bei vitini da vespa (Ar. Plut. 559–561). Tale topos è destinato ad affermarsi come caro ai cinici, ai diatribisti e ai satirici (Oltramare 1926, p. 50, n° 31: «il faut satisfaire notre faim aussi simplement que possible»; n° 31a: «l’obesité est un signe de dépravation»; n° 31b: «comme Circé, la gloutonnerie métamorphose les hommes en brutes»; n° 31c: «il faut s’abstenir de mets recherchés et de friandises»; Juv. 1, 142–144: poena tamen praesens, cum tu deponis amictus / turgidus et crudum pavonem in balnea portas: / hinc subitae mortes atque intestata senectus; 13, 91–96; Hor. Sat. 2, 2). In Luciano il ricco è costantemente infelice (Bompaire 1958, p. 209 s.), e un elemento distintivo della sua infelicità è costituito proprio dalle numerose malattie e dai problemi che possono attanagliarlo, come la gotta (Trag.; Gall. 23; Nec. 11; Sat. 28) o l’aspetto cadaverico e le continue afflizioni causate dalla fobia dei ladri (Sat. 28–29; Gall. 29; D. mort. 4 [14], 2; Tim. 13). Che Luciano ritorni continuamente, nella sua opera, a trattare temi come la morte, la fatica e la povertà è un segno dei tempi: questi mali sono diffusi in modo capillare nella società imperiale e un moralista non può far finta di non vederli, anzi, «li considera, armando l’uomo contro le loro atrocità, impartendogli un’educazione che era preparazione al coraggio, mettendolo, cioè, in grado di affrontare l’esistenza quale i tempi offrivano» (Laurenti 1989, p. 2122). τοὺς μὲν οὐδὲ βαδίζειν δυναμένους … ἢ τῶν ἐντοσθιδίων τι ἀλγοῦντας; – Il ricercato ἐντοσθίδια, “intestini” è termine tecnico del lessico medico (Hipp. Alim. 7: δύναμις δὲ τροφῆς ἀφικνεῖται καὶ ἐς ὀστέον καὶ πάντα τὰ

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III Commento

μέρεα αὐτοῦ … καὶ τὰ ἐντοσθίδια καὶ πάντα τὰ μέρεα αὐτῶν; cfr. Ath. 9, 381b). La passione per la medicina è propria della Seconda sofistica (Bompaire 1958, p. 433; Fuhrmann 1964, pp. 41–43). Luciano stesso si riferisce di frequente a tale arte mischiando il serio al faceto: se da una parte rispetta la professione del medico (come nei riferimenti a Ippocrate in Hermot. 1, 63; Bis acc. 1; VH 2, 7; Philops. 21), dall’altra non si fa scrupolo nel prendere in giro chi la pratica malamente (Cat. 6; Trag. 173, 265–311, su cui Tedeschi 1998 ad loc.; Ind. 29); si interessa ampiamente a malattie e malanni, come le ferite (vd. infra al § 37), la rabbia (Nigr. 38; Philops. 40), la tisi, la pleurite, l’idropisia (Sat. 28; Lex. 17), la febbre (Philops. 9; Hist. conscr. 1), la gotta (Trag.), la tosse e il catarro (Gall. 10), il mal di mare (Tox. 19), il blocco mestruale (Lex. 19), ma non perde occasione per assegnare comicamente a particolari categorie umane, come i ricchi gaudenti, i peggiori acciacchi causati da uno stile di vita sregolato (cfr. supra; Sat. 28; Gall. 23; D. mort. 14 [12], 2); inoltre, menziona operazioni chirurgiche (Apol. 2; Ind. 29) e rimedi come l’elleboro (cfr. infra ad § 45), un farmaco per curare la bile (Lex. 20–21), unguenti (Trag. 268–269), colliri (Peregr. 45) e vari medicamenti (Rollestone 1915; Crosby 1923; Bompaire 1958, pp. 433 s.; Anderson 1989, pp. 127–129; Bompaire 2001). Ὅτι μὲν γὰρ οὐκ ἂν ἕλοιο … ὅμοια πάσχειν Φανομάχῳ τῷ πλουσίῳ – Fanomaco è un personaggio sconosciuto, menzionato da Luciano solo qui, e presumibilmente rappresenta uno dei tanti ‘nomi parlanti’ con cui nei Dialoghi è evocata la figura del potente, come è anche per il Cleeneto e il Democrate citati in precedenza da Adimanto come suoi rivali in ricchezza (§ 22; Ureña Bracero 1995, p. 185 s. e n. 73). καὶ θηλύνεσθαι ὡς ἐκεῖνος εὖ οἶδα, κἂν μὴ εἴπῃς – Con θηλύνεσθαι, “essere effeminato”, “comportarsi da femmina” Luciano deve volersi riferire all’apparenza delicata e sessualmente ambigua di certi ricchi (cfr. Salt. 82: i cattivi danzatori, per eccesso di zelo, se devono far vedere qualcosa di delicato, lo effeminano esageramente [εἰ ἁπαλόν, καθ᾿ ὑπερβολὴν θηλυνομένων], spingendo invece ciò che è virile fino al bestiale). La distinzione maschio-femmina, tanto a livello comportamentale quanto estetico, era elemento fondante della società antica e la stigmatizzazione di chi deviasse dalla norma infrangendo la propria identità di genere era all’ordine del giorno. L’effeminatezza in un uomo si manifestava nella cura eccessiva della persona, nel vestirsi e muoversi come una donna, nel frequentare troppo l’altro sesso (Younger 2005, s.v. effeminacy, p. 43 s.). L’accusa di essere effeminato poteva colpire anche un sofista, vero e proprio ‘animale da palcoscenico’ chiamato a stupire con la sua voce, i suoi gesti, il suo vestiario e il suo ricco apparato e tenuto a rispettare un dress code ben preciso per



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riuscire a far interagire al meglio la sua mascolinità, il suo abbigliamento e i tanti espedienti gestuali e vocali su cui si basava la sua performance senza incorrere in dannose critiche (Whitmarsh 2005, pp. 29–32). Con θηλύνεσθαι Luciano vuole presumibilmente anche veicolare un comportamento sessuale disinibito e sfrenato. Utile in questo senso è il confronto coi Dialoghi degli dèi (5 [8], 3), in cui lo stesso predicato, in forma composta, è usato con una sfumatura negativa da Era per muovere critiche all’ultima fiamma di Zeus, Ganimede, “un molle frigio effeminato” (μαλθακῷ τούτῳ Φρυγί οὕτως ἐκτεθηλυμένῳ), a causa del quale il padre degli dèi fa discorsi ‘da pederasta’ (παιδεραστῶν οὗτοι λόγοι). I comportamenti totalmente ‘contro natura’ dei ricchi sono un cliché letterario tradizionale e, in particolare, sono fortemente criticati dai satirici, poiché rappresentano uno dei vizi peggiori di cui si fanno portatori gli uomini volgari che non sanno godere in maniera virtuosa della ricchezza. Giovenale, ad esempio, ricorda che i servi Proculeio e Gillone hanno ciascuno la loro parte di eredità “in base alla misura del loro vigore” (ad mensuram inguinis), mentre tutti sanno che distribuire piaceri sessuali è un sicuro strumento di arricchimento (1, 77–78; 2, 58–60), come sa bene il triste cliens Nevolo, sfruttato e sottopagato perché deve offrire le sue prestazioni sessuali tanto al patronus Virrone quanto a sua moglie (9). Sulla scorta della tradizione satirica e della propria sensibilità, anche Luciano biasima la condotta sessualmente indegna dei ricchi, come nel Gallo (§ 32), in cui Micillo, aperti gli occhi sulla ricchezza, vi vede per lo più καταπυγοσύνην καὶ πασχητιασμόν τινα καὶ ἀσέλγειαν οὐκ ἀνθρωπίνην, “libidine, sodomia e una spudoratezza indegna di un essere umano”. Ἐῶ λέγειν – Tale formula è caratteristica di Luciano (Hist. conscr. 11; D. deor. 16 [18], 2; Bis acc. 1; Tim. 4) e serve a introdurre una nuova preterizione (cfr. supra: ἵνα δέ σοι καὶ τούτους ἀφῶ), che in questo caso accentua tutto quello che sarebbe meglio nascondere ad Adimanto, cioè l’enorme carico di mali che la ricchezza produce. Questo produce la comica reazione dell’uomo, che, stizzito come un bambino, toglie all’improvviso a Licino l’immaginaria regalia che poco prima gli aveva promesso (§ 25). ὅσας ἐπιβουλὰς μετὰ τοῦ πλούτου … καὶ μῖσος παρὰ τῶν πολλῶν – L’enumerazione dei numerosi mali esterni che si accompagnano alla ricchezza è un topos tipico della filosofia morale che Luciano ripropone nella sua opera svariate volte (Gall. 25; Tim. 36; ecc.). Per lo scrittore, il successo, il potere, la ricchezza, la distinzione sociale sono il campo spietato in cui la natura umana maggiormente tende a mostrare la sua bassezza, poiché “dove sempre le speranze sono più grandi, lì anche le invidie sono più violente (οἱ ϕθόνοι χαλεπώτεροι), gli odi più pericolosi (τὰ μίση ἐπισϕαλέστερα), le rivalità più perfide (αἱ ζηλοτυπίαι κακοτενέστεραι)” (Cal. 10).

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III Commento

Il cliché del treno di malanni che nascono in seno alla ricchezza rientra nel comune repertorio di temi diatribici sfruttato dai moralisti di età imperiale. Tale tesoro di ammonimenti, consigli e precetti deriva, in buona parte, dalla predicazione cinica, particolarmente attiva nel condannare le insidie (ἐπιβουλαί) e i crimini (materializzati dai pirati [λῃσταί]) provocati dalla ricchezza (Oltramare 1926, p. 47, n° 20 b: «la richesse provoque les crimes»; p. 63, n° 83: «l’avidité est le plus grand des maux»; Varro Men. fr. 342 Astbury; Tosi 1992, p. 462, n° 989: “anche chi sta molto in alto deve temere chi è in basso”), oltre alle malvagie passioni che questa scatena, come l’odio (μῖσος) e l’invidia (φθόνος) degli altri (Diog. Laert. 6, 93 = SSR V H 31; Xen. Symp. 4, 43 = SSR V A 82; cfr. Arist. Rh. 1, 5, 1362a: τὰ τοιαῦτα τῶν ἀγαθῶν ἐστιν ἀπὸ τύχης ἐφ᾽ οἷς ἐστιν ὁ φθόνος, “dalla sorte derivano quei beni a cui si rivolge l’invidia”; Tosi 1992, p. 460, nº 986: “l’invidia viene immediatamente dopo la gloria”; Lanzi 2004 sul Περὶ φθόνου καὶ μίσους di Plutarco). Ὁρᾷς οἵων σοι πραγμάτων αἴτιος ὁ θησαυρὸς γίγνεται; – L’idea che la ricchezza sia causa di ogni bene e di ogni male è comune nella tradizione greca, in cui riceve la sua consacrazione nel Pluto di Aristofane, di cui costituisce il fulcro concettuale del lungo elogio della ricchezza di Cremilo (vv. 124–197) e uno dei temi portanti (Olson 1990, p. 227 s.; Lévy 1997, p. 208). La contrapposizione fra la ricchezza intesa per l’uomo volgare come fonte di ogni bene e per il saggio come origine di ogni male rappresenta un topos di natura cinico-diatribica che Luciano recupera con particolare maestria nel Gallo (§§ 14–15) e nel Timone (§§ 36–38). Ἀεὶ σύ μοι, ὦ Λυκῖνε, ὑπεναντίος – La critica di Licino giunge al termine di una serie di burle più o meno moleste ai danni del povero Adimanto (§§ 14, 19, 21), che reagisce ancora una volta stizzito e, ancora una volta, dimostra la sua permalosità e il suo infantilismo. ὥστε οὐδὲ τὴν χοίνικίδα ἔτι λήψῃ ἐς τέλος μου τῆς εὐχῆς ἐπηρεάζων – Quando Adimanto aveva diviso coi suoi amici le sue immaginarie ricchezze, aveva assegnato a Licino una ben misera chenice a causa delle sue ironiche critiche ai propri danni (§ 25). Dopo la nuova, lunga rampogna dell’amico la misura è colma e Adimanto, furioso, decide di privare l’amico anche di quel poco di cui l’aveva gratificato, in un comico scoppio d’ira. Τοῦτο μὲν ἤδη … καὶ ἀνακαλεῖς τὴν ὑπόσχεσιν – Il fatto che i ricchi sia­ no per lo più bugiardi e avari e tentino di tenersi strette le loro ricchezze è un motivo tradizionale (cfr. Juv. 7, 36–97 e vd. Stramaglia 2008 ad loc. [pp. 141–165]). Il motivo sembra inserito a bella posta per veicolare un riferimento satirico alla biografia di Erode Attico (cfr. supra comm. ad § 24: τῇ πόλει δὲ ταῦτα ἐξαίρετα παρ᾽ ἐμοῦ ὑπῆρξεν ἄν κτλ.).



§ 28

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§ 28 Ἐγώ …ναῦν μὲν οὐκ αἰτήσω μοι γενέσθαι, ἥν γε τοῖς πολίταις ἐπιδείξασθαι ἀδύνατον – Ha inizio la preghiera di Samippo (§ 28–38), che, come quella di Adimanto, è seguita dalle critiche di Licino (§§ 39–40), ma da questa differisce sia per la maggior portata del desiderio, quello della regalità e della potenza militare, sia per il fatto che gli altri amici partecipano attivamente alle campagne militari immaginate dal loro compagno. L’iniziale critica al sogno di Adimanto, il cui possesso di una straordinaria imbarcazione è ironicamente bollato come “impossibile” (ἀδύνατον), invita il pubblico a credere che il desiderio di Samippo sarà molto più avveduto e saggio del precedente, come avverrà più in là anche per quello di Timolao (§ 41: χρυσὸν μὲν οὖν … καὶ πλέον τοῦ ἡδέος τὸ ἀνιαρὸν ἐν αὐτοῖς ἦν). In entrambi i casi, tuttavia, tale aspettativa sarà presto disillusa, giacché sia Samippo sia Timolao si tufferanno a capofitto nelle loro fantasie e, in tal modo, una volta disattese le aspettative iniziali, le loro richieste agli dèi risulteranno ancora più assurde e risibili. Seguo la congettura di Fritzsche e leggo ναῦν ... οὐκ αἰτήσω μοι γενέσθαι fornendo al contesto quel che sembra un necessario dativo di possesso. — ἠπειρώτης γάρ εἰμι, Ἀρκὰς ἐκ Μαντινείας, ὡς ἴστε — Samippo, originario di Mantinea in Arcadia, è effettivamente “dell’entroterra” (ἠπειρώτης), giacché Mantinea si trovava nel cuore del Peloponneso. L’Arcadia era celebre per essere estremamente selvaggia e inospitale, come lo stesso Luciano ricorda nel Bis accusatus per bocca del dio Pan, per il quale non è possibile che da qui venga fuori un sofista o un filosofo, essendo la regione abitata prevalentemente da pastori e montanari (Bis acc. 11). Il suo territorio probabilmente doveva offrire numerosi ripari ai lestofanti, per cui Samippo non ha problemi a reclutare qui i suoi primi compagni (così Husson 1970, II, ad loc. [p. 69]). οὐδὲ μικρολογήσομαι πρὸς τοὺς θεοὺς θησαυρὸν αἰτῶν καὶ μεμετρημένον χρυσίον – Quando sostiene di non voler chiedere agli dèi cose grette come una nave, un tesoro o dell’oro per non esser tacciato di spilorceria (μικρολογία), Samippo rivolge una frecciata ironica ad Adimanto, che aveva chiesto questo nella sua preghiera (§§ 13, 20) e aveva deciso di distribuire ai suoi compagni solo una piccola parte delle ricchezze sognate (§ 25). Volutamente ironico è anche il riferimento alla passione per i conti (μεμετρημένον χρυσίον) dell’amico (cfr. supra comm. ad § 25: μεδίμνους ἐπισήμου χρυσίου παραμετρῆσαι). δύνανται γὰρ πάντα οἱ θεοί … ὡς ἐκείνων πρὸς οὐδὲν ἀνανευόντων – Samippo celebra l’onnipotenza degli dèi in vista della richiesta iperbolica che sta per fare loro: visto che gli dèi possono tutto, lui vorrebbe diventare un re. Lo stridente contrasto fra il compiacimento con cui lui e i suoi compagni immaginano un intervento degli dèi in loro favore e la severità con cui Lici-

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III Commento

no, alias dell’autore, lo condanna fa emergere «l’atteggiamento derisorio di Luciano nei confronti non solo della provvidenza degli dèi, ma anche della loro onnipotenza» (Russo - Stramaglia), un’attitudine pervasiva nei Dialoghi (cfr. supra comm. ad § 16: παρ᾽ αὐτῷ γὰρ ἑκάστῳ ἔστω τὸ μέτρον τῆς εὐχῆς … εἰ καὶ τῇ φύσει ἀπίθανα ἔσται). L’abilità con cui Luciano è capace di adattare a un contesto specifico una delle idee fondanti la sua visione del mondo è considerevole: in questo caso, la critica alla religione tradizionale si lega cursoriamente a una bonaria stroncatura della fede dell’uomo comune nell’intervento divino sul mondo, a volte talmente cieca da fargli perdere il senso della realtà nel formulare una preghiera. Samippo, infatti, giustifica i suoi desideri di grandezza ricordando la regola, in precedenza fissata da Timolao, di domandare qualsiasi cosa agli dèi, giacché questi possono far avverare tutto, anche l’impossibile (§ 16: εἰ καὶ τῇ φύσει ἀπίθανα ἔσται), ma fa un ulteriore passo avanti rispetto all’amico nel proclamare che gli dèi possono tutto (δύνανται … πάντα οἱ θεοί), anche le cose che sembrano più grandi (τὰ μέγιστα εἶναι δοκοῦντα), di fatto escludendo che esista qualcosa di impossibile per un uomo se è aiutato dal favore di un dio. ὁ νόμος τῆς εὐχῆς ὃν Τιμόλαος ἔθηκεν φησὶ μηδὲν ὀκνεῖν αἰτεῖν – Accolgo la proposta di Fritzsche, avallata anche da Nesselrath 1990b, p. 505, di leggere φησί al posto del φήσας della tradizione, che sembra particolarmente difficile da accettare, giacché impedisce di dare alla proposizione un verbo principale. Del resto, «a rigore, il verbo principale potrebbe essere ancora δύνανται, che avrebbe così per soggetto οἱ θεοί … καὶ ὁ νόμος, ma il senso ne soffrirebbe: si può infatti ben affermare l’onnipotenza degli dèi, ma non certo quella della “legge della preghiera”; semmai, si potrebbe affermare l’onnipotenza della preghiera, ma non sarebbe ciò che dice Luciano» (Russo - Stramaglia ). Αἰτῶ δὴ βασιλεὺς γενέσθαι οὐχ οἷος Ἀλέξανδρος ὁ Φιλίππου – Samippo ricorda celebri figure di sovrani che hanno ottenuto il potere ereditandolo dai padri per proclamarsi a loro superiore, in quanto desidera che il suo potere derivi dalle sue capacità personali e non dalla fortuna. Questa idea è propria dell’etica filosofica antica, per cui ciò che è innato e derivato dalla propria opera è superiore a quanto viene acquisito e dipende dal caso, in quanto più difficile da avere, e per lo stesso motivo le gesta di un uomo sono tanto più grandi e onorevoli quanto più umile è la sua origine e scarsi sono i suoi mezzi iniziali (Arist. Rh. 1, 7, 1365a; 1, 9, 1368a). A questo pensiero si ricollega l’annosa querelle relativa alla superiorità della virtù sulla sorte nella conquista del potere che appassionò non poco gli intellettuali dell’antichità e che viene riproposta da Luciano, in maniera briosa e scanzonata, in questo desiderio (cfr. infra comm. ad § 29: ὡς τοῦτό γε αὐτὸ ἡδύ … οὐ κληρονόμον γενόμενον ἄλλου πονήσαντος ἐς τὴν βασιλείαν).



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Fin da principio il megalomane Samippo non può non mettersi in competizione con il più grande dei condottieri, Alessandro Magno, e per emularlo impronta alle sue gesta alcune delle più grandi imprese che sogna di compiere nelle proprie immaginarie campagne militari (cfr. l’introduzione al § 1.6.3). ἢ Πτολεμαῖος – Un altro celebre esempio di regalità acquisita con la nascita e, come tale, rifiutata da Samippo è costituito da Tolemeo. Il riferimento potrebbe essere a uno qualsiasi dei sovrani della dinastia dei Tolemei che presero il potere in Egitto dopo la morte di Alessandro Magno, a eccezione del primo, Tolemeo detto Soter, il fondatore della dinastia alessandrina, giacché suo padre, Lago, non fu re. I Tolemei sono i protagonisti di numerosi aneddoti raccolti nei Dialoghi e, in tutti i casi in cui sono citati, all’infuori di questo, Luciano ha cura di specificare espressamente di chi si tratta o, comunque, lo fa capire (Gall. 25, Mac. 12, Laps. 10 e Prom. es 4: Tolemeo I; Cal. 2: Tolemeo IV Filopatore; Cat. 16: Tolemeo XII Neo Dioniso). In questo contesto, tuttavia, per Samippo è superfluo specificare a quale dei componenti della dinastia dei Tolemei vuol riferirsi, in quanto non ha intenzione di criticarne uno in particolare, ma piuttosto svalutare in toto la concezione della successione dinastica del potere ed esaltare quella della regalità acquisita per merito a cui lui aspira. ἢ Μιθριδάτης – Per terzo è citato da Samippo un Mitridate che, come vale anche per il sopraccitato Tolemeo, è costretto a restare senza volto, giacché questo fu il nome di numerosi dinasti d’Asia Minore e d’Oriente (del Ponto, dei Parti, di Commagene e del Bosforo), e senza alcun riferimento preciso è impossibile indicare chi sia quello in questione. Perlomeno plausibile sarebbe ritenere, tuttavia, che l’allusione coinvolga il più celebre di loro, Mitridate VI, noto anche come Mitridate il Grande o Eupatore Dioniso (132 a.C.–63 a.C.), re del Ponto dal 120 a.C. fino alla morte, ricordato dagli storici come uno dei più formidabili avversari della repubblica romana, che costrinse a ben tre guerre impegnando tre dei suoi più grandi generali: Silla, Lucullo e Pompeo. ἢ εἴ τις ἄλλος ἐκδεξάμενος τὴν βασιλείαν παρὰ πατρὸς ἦρξεν – Prendendo ora le distanze da qualsiasi sovrano abbia ottenuto la regalità per successione, Samippo sminuisce in toto il valore del potere dinastico e, così facendo, finisce per mettersi assurdamente in competizione con gli stessi imperatori romani! μοι τὸ πρῶτον ἀπὸ λῃστείας ἀρξαμένῳ ἑταῖροι … γενέσθωσαν – «Samippo, pur di costruire il suo potere con i suoi soli meriti partendo dal nulla, accetta, tra il cinico e il grottesco, di iniziare la sua ‘carriera’ come criminale» (Russo - Stramaglia) dedicandosi alla pirateria.

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III Commento

Alcuni critici hanno ritenuto che Luciano in questo contesto intenda parodiare la Vita di Tillorobo di Arriano o, forse, fare la caricatura di un potente signore degli Indi, Sandracotta, che cominciò la sua carriera come predone e divenne poi un temuto dominatore e un ferocissimo nemico dei Macedoni (Radermacher 1911, pp. 224–232), ma tale ipotesi appare cervellotica e sostanzialmente indimostrabile (così già Moricca 1914, pp. 318–320). È più prudente ipotizzare che lo scrittore sia influenzato dal repertorio delle scuole di retorica e riproponga un determinato modello scolastico, anche perché l’inizio della carriera di Samippo è identico a quello di cui si vanta Annibale in uno dei Dialoghi dei morti (D. mort. 12 [25], 2). Luciano potrebbe così aver fuso insieme i materiali sfruttati nella synkrisis fra Annibale e Alessandro dei Dialoghi dei morti (D. mort. 12 [25]), a sua volta debitrice del celebre aneddoto della conversazione fra Annibale e Scipione ad Efeso (Liv. 35, 14, 5–12; Plut. Flam. 21, 3–5; App. Syr. 10, 38–42), di cui è proposta una gustosa parodia nella Storia vera (2, 9; Baldwin 1990, p. 55). Pare probabile, dunque, che lo scrittore intenda manipolare il patrimonio scolastico tradizionale piuttosto che parodiare un preciso resoconto storico e, in tal senso, non appare improbabile che prenda a modello la tradizione cinico-stoica, in cui l’operato di Alessandro (alle cui imprese Samippo si ispira) era giudicato degno di un pirata, un giudizio che, a seconda degli intenti, nell’antichità ci si impegna ad avallare (Sen. Benef. 1, 13; Aristid. In Rom. 27, su cui vd. Fontanella 2007 ad loc. [p. 97]; Aug. Civ. 4, 4) o a confutare (Plut. De Alex. fort. I, 330c–d). ὅσον τριάκοντα ... εἶτα κατ᾽ ὀλίγον τριακόσιοι … εἶτα χίλιοι καὶ μετ᾽ οὐ πολὺ μύριοι – Non stupisce che Samippo sogni la regalità conquistata con la potenza militare, giacché l’uomo greco fu perennemente «avvezzo alla guerra, e anche bellicoso» (Garlan 1991, p. 55). Così la guerra appare nei Dialoghi come una circostanza naturale della vita degli uomini, pur se Luciano ne fa frequente oggetto di burla ai danni della stupidità umana, come illustrano bene le obiezioni di Licino ai sogni di conquista di Samippo (cfr. infra comm. ad § 40: ὁρᾷς οἷα μὲν ἔτι ζῶν ἕξεις πράγματα … καὶ μετὰ τὴν ἀπαλλαγὴν ἔσται). La progressione con cui l’immaginario esercito di Samippo cresce è inarrestabile. A enfatizzare tale dato contribuisce la foga con cui il personaggio modella le sue fantasie, resa manifesta dai vari indicatori temporali con cui scandisce la progressione dei suoi desideri (κατ᾽ ὀλίγον… μετ᾽ οὐ πολύ) e dalla velocità con cui si esprime, per cui i verbi di modo finito atti a strutturare il suo pensiero sono ridotti all’essenziale in periodi di notevole lunghezza. Tutta la seconda parte del periodo in cui Samippo elenca le modalità con cui acquisirà il suo esercito è retta, infatti, unicamente dall’imperativo γενέσθωσαν (di cui si noterà la terminazione postclassica in -σθωσαν prediletta da Luciano: Deferrari 1916, p. 20). Inoltre, la sonorità della sequenza,



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fornita dalla figura etimologica (τριάκοντα … τριακόσιοι … μύριοι … πέντε μυριάδας … πεντακισχιλίους), dall’omoteleuto (τριακόσιοι … χίλιοι … μύριοι) e dall’anafora (εἶτα … εἶτα), amplifica l’effetto della climax formata dalle cifre snocciolate da Samippo. τὸ πᾶν εἰς πέντε μυριάδας ὁπλιτικόν, ἱππεῖς δὲ ἀμφὶ τοὺς πεντακισχιλίους – In breve tempo la compagine di Samippo si ingrandisce fino a raggiungere la consistenza di 50.000 fanti e 5000 cavalieri. Tale numero di uomini rievoca, grosso modo, quello con cui Alessandro Magno mosse contro Dario III (Plut. Alex. 15, 1; cfr. De Alex. fort. I, 327d–e, su cui vd. D’Angelo 1998 ad loc. [p. 171 s.]; Arr. An. 1, 11, 3, su cui vd. Sisti 2001 ad loc. [p. 339 s.]). Che Samippo intenda replicare addirittura i numeri della campagna del Macedone in Oriente risulta evidente dal fatto che, poco più in là, stima in un milione di uomini il numero dei suoi nemici (§ 34), una cifra che la tradizione attribuisce effettivamente al principale avversario di Alessandro Magno, il re persiano Dario, nella battaglia di Gaugamela (Arr. An. 3, 8, 6). La puntigliosa ed esasperante imitazione delle gesta del Macedone non fa che rendere più comiche le fantasie di conquista di Samippo, in particolare se si considera che l’aver realizzato un’incredibile impresa militare con forze misurate era forse il principale motivo della fama di Alessandro. Non a caso, nel celebre confronto fra Annibale e Scipione sulla scelta del più grande condottiero di sempre riferito da Livio (35, 14, 5–12), Annibale concede la palma della vittoria al Macedone per aver sconfitto un esercito nemico con un contingente limitato e per essere arrivato dove nessuno era mai arrivato prima, mettendo al secondo posto Pirro e al terzo se stesso (Brizzi 2002, pp. 55–97, praes. 67, 90 s.; anche nella comica synkrisis fra il Cartaginese e il Macedone – riecheggiante quella liviana – in D. mort. 12 [25], 4, il secondo si ritiene nettamente superiore al primo perché “con pochi uomini” invase l’Asia). Il grande esercito raccolto da Samippo in poco tempo grazie ai frutti della sua attività di pirata è una compagine di mercenari, presumibilmente, giacché nel mondo antico il mercenariato fu un fenomeno ampiamente esteso in tutto il mondo greco fin dalla guerra del Peloponneso, come prova il ruolo essenziale svolto dagli avventurieri sia nella conquista dell’impero persiano da parte dello stesso Alessandro sia nella successiva instaurazione dei regni ellenistici (Garlan 1991, pp. 80–83, praes. 81). § 29 Ἐγὼ δὲ χειροτονητὸς ὑφ᾽ ἁπάντων προκριθεὶς ἄρχων – Nel desiderio di Samippo i sogni si concretizzano immediatamente, tanto che fin da subito il piano della fantasia e quello della realtà vanno a coincidere. È per questo che lui, rispetto ad Adimanto, parla per lo più come se tutto ciò che vuole fosse già realizzato.

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III Commento

ἄριστος εἶναι δόξας ἀνθρώπων ἡγεῖσθαι καὶ πράγμασι χρῆσθαι – Guidare uomini e trattare affari diplomatici sono le principali qualità tradizionalmente richieste a un sovrano. Non a caso è su queste che Samippo fonda il suo prestigio di condottiero ed è contro queste, principalmente, che si attaglieranno le critiche di Licino (cfr. comm. ad § 39: τὰ δ᾽ ἄλλα κάματος ἀφόρητος κτλ.). Ὡς τοῦτό γε αὐτό … οὐ κληρονόμον γενόμενον ἄλλου πονήσαντος ἐς τὴν βασιλείαν – Il riferimento polemico di Samippo al fatto che le sue qualità di comandante si fondano sulla sua virtù (ἀρετῇ) e non sulla fortuna di essere l’erede di qualcuno (κληρονόμον) è evidentemente ad Alessandro Magno (cfr. supra comm. ad § 28: ἀἰτῶ δὴ βασιλεὺς γενέσθαι οὐχ οἷος Ἀλέξανδρος ὁ Φιλίππου). Luciano punta a suscitare il piacere del pubblico erudito alludendo a una querelle tradizionalmente legata alla figura del condottiero e scoppiata, nella seconda meta del I sec. a.C., fra quanti ritenevano che i successi del Macedone fossero meritatamente legati alla sua virtù e quanti, invece, li attribuivano alla sua fortuna (Cammarota 1998, p. 10; cfr. Plut. De Alex. fort.; Luc. D. mort. 12 [25], su cui Baldwin 1990). Tale dibattito andò poi a costituire «un terreno su cui si confrontarono e scontrarono, nel corso dei secoli, le opinioni di storiografi, filosofi e retori al punto che esso divenne ben presto un topos letterario, variamente utilizzato» (D’Angelo 1998, p. 8, con bibliografia). Accolgo in questo contesto la proposta di Nesselrath 1990b, p. 508 di leggere τὸ ἀρετῇ κτλ. al posto di ἅτε ἀρετῇ κτλ. dei recentiores. ἐπεὶ τῷ Ἀδειμάντου θησαυρῷ … δι᾽ αὑτοῦ κτησάμενος τὴν δυναστείαν – Samippo contrappone ora esplicitamente i propri desideri a quelli di Adimanto, mentre in precedenza l’aveva fatto velatamente (§ 28). Risulta evidente che i caratteri dei due amici sono totalmente opposti, giacché il primo è un uomo d’azione che vuole ‘farsi da solo’ (δι᾽ αὑτοῦ κτησάμενος τὴν δυναστείαν), mentre il secondo ama la comodità e non si fa problemi ad acquistare la sua fortuna senza il minimo sforzo. L’insistenza con cui Samippo dichiara di essere l’artefice della propria potenza, in quanto comandante eletto all’unanimità dal proprio esercito piuttosto che erede di un uomo che ha dovuto lottare per il trono, è manifestazione del suo esasperante desiderio di superare in gloria Alessandro, un intento da lui stesso esplicitamente dichiarato in precedenza (§ 28: ἀἰτῶ δὴ βασιλεὺς γενέσθαι οὐχ οἷος Ἀλέξανδρος ὁ Φιλίππου). Παπαῖ, ὦ Σάμιππε – Dopo aver ascoltato il discorso di Samippo, Licino non può fare a meno di prorompere in un’esclamazione di meraviglia, “accidenti” (παπαῖ), ben attestata sia in commedia sia in tragedia (Labiano Ilundain 2000, pp. 275–286) ed impiegata con una certa frequenza da Luciano (Tim. 31 e 55; Cat. 28; Cont. 5 e 23; Pisc. 14; Par. 25; Fug. 27; Salt. 4; Herm.



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5 e 55; Trag. 297). Questa e altre esclamazioni simili (come φεῦ, βαβαί, εἶα, εἶεν) tendono a scomparire in letteratura nel periodo postclassico, per ritornare a essere utilizzate con una certa frequenza in epoca imperiale sia da scrittori pagani, quali Luciano e Filostrato, sia da autori cristiani come Giovanni Crisostomo, Gregorio di Nissa, Gregorio di Nazianzo, Clemente Alessandrino (Labiano Ilundain 2000, pp. 307–311). ἄρχειν ἀσπίδος τοσαύτης ἄριστος δὴ προκριθεὶς ὑπὸ τῶν πεντακισμυρίων – Ἀσπίς può designare in Luciano il semplice scudo oppure, come in questo caso, l’insieme degli uomini armati di scudo, vale a dire l’esercito (Delz 1950, p. 79; nella seconda accezione il termine è già in Hdt. 5, 30, 4). Τοιοῦτον ἡμῖν ἡ Μαντίνεια θαυμαστὸν βασιλέα … ἀνατρέφουσα – Dopo l’iniziale stupore, Licino commenta sarcasticamente i sogni di gloria di Samippo impiegando una formula (imperniata su ἐλελήθει, “mi sfuggiva”) sfruttata spesso nel corpus lucianeum in contesti in cui il parlante commenta ironicamente la scoperta di un lato sconosciuto della personalità o dell’aspetto del suo interlocutore (cfr. Tim. 20; Tox. 8; Gall. 28; Pro im. 15; Nec. 1). Πλὴν ἀλλὰ βασίλευε καί … τοὺς ἀνέρας τοὺς ἀσπιδιώτας – La fila di imperativi sfruttata da Licino parodia le aspirazioni di Samippo alla regalità e al comando imitando il linguaggio militare. I primi due verbi (βασίλευε καὶ ἡγοῦ τῶν στρατιωτῶν) replicano ironicamente la precedente, spiritosa affermazione dello stesso Licino (τοιοῦτον ἡμῖν ἡ Μαντίνεια θαυμαστὸν βασιλέα καὶ στρατηγὸν ἐλελήθει ἀνατρέφουσα). Il terzo, invece, è legato alla ripresa parodica di un verso del secondo libro dell’Iliade (Il. 2, 554: κοσμῆσαι ἵππους τε καὶ ἀνέρας ἀσπιδιώτας) pertinente al celebre ‘Catalogo delle navi’ (Il. 2, 484–785), a cui nei Dialoghi si allude varie volte senza che si giunga mai alla citazione letterale (Bouquiaux-Simon 1968, pp. 98– 104; vd. ancora Cont. 23 [ripresa di Il. 2, 570]; Pisc. 6 [citazione di Il. 2, 594–600]; ecc.). Anche in questo caso Luciano ripropone il verso in forma libera, lasciando al pubblico il piacere di ricordare il modello e valutare la portata del suo intervento di riscrittura: riprende l’omerico κοσμῆσαι nella forma del composto διακόσμει; sostituisce il concreto ἵππους con l’astratto τὸ ἱππικόν; pur conservando la iunctura epica ἀνέρας ἀσπιδιώτας, aggiunge l’articolo ai sostantivi (τό τε ἱππικὸν καὶ τοὺς ἀνέρας τοὺς ἀσπιδιώτας). La parodia omerica assegna un tono burlesco alla descrizione dell’immaginaria armata di Samippo e mostra nuovamente il distacco di Licino dai sogni dei suoi tre amici (Husson 1970, II, ad loc. [p. 73]). § 30 Ἄκουε … Ἵππαρχον γάρ σε τῶν πεντακισχιλίων ἀποφανῶ – Risulta sorprendente il fatto che Samippo scelga come comandante della sua cavalleria proprio Licino, che, fin dall’inizio, era stato il meno disposto ad assecondare i sogni dei suoi tre amici. Tale scelta non ha altra funzione, nei piani

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III Commento

di Luciano, che quella di realizzare più in là un comico siparietto fra l’incosciente audacia del primo e la razionale pavidità del secondo (§§ 30–31). Samippo nomina di persona Licino come comandante, pur se ad Atene l’ipparco era nominato dal popolo, ed è forse proprio per colmare questa incongruenza che, poco più in là, domanda ai suoi fantomatici cavalieri di ratificare l’elezione di Adimanto, che si propone come comandante al posto del suo pavido amico (§ 31). Tale passaggio rappresenta una diretta allusione alle normative ateniesi, pur se Luciano, come suo solito, ne stravolge le regole, perché Adimanto è eletto soltanto dai cavalieri e non da tutta l’assemblea popolare (Delz 1950, p. 83 s.). τῆς … τιμῆς … χάριν οἶδά σοι καὶ ὑποκύψας ἐς τὸ Περσικὸν προσκυνῶ σε – Sia ὑποκύπτω, “mi inchino” sia, soprattutto, προσκυνέω, “mi prostro” evocano la proskynesis di tradizione orientale, una totale sottomissione verso la divinità o un’assoluta forma di devozione che trova la sua esaltazione nell’usanza persiana di prostrarsi ai piedi del re o di un superiore (LSJ9 s.vv. ὑποκύπτω e προσκυνέω, I.1–2; Hdt. 1, 119, 1; 130, 1; cfr. supra ad § 22: προσκυνεῖν; infra ad §§ 37, 38: προσκυνούμενος, προσκυνείτωσαν). La risposta di Licino è chiaramente ironica, perché la pratica della proscinesi era per i Greci il tratto distintivo del dispotismo orientale e barbarico e un atto di sottomissione assolutamente odioso (Hdt. 7, 136). L’ironia si somma alla beffa al pensiero che Samippo vuol emulare le gesta di Alessandro Magno, che proprio per imporre a tutti i suoi sudditi non solo asiatici, ma anche Greci e Macedoni, la proscinesi scatenò una tale ondata di odio contro di lui da alimentare la temibile ‘congiura dei paggi’ (vd. infra comm. ad § 38: οἱ βάρβαροι προσκυνείτωσαν … στρατηγὸς ὀνομαζόμενος). ὦ βασιλεῦ – Βασιλεύς indica il re di una nazione o il titolare di una carica sacra in una città-stato greca ed è usato in riferimento a Spartani, Romani, Persiani, Giudei, Macedoni e molti altri popoli. Fra i titoli utilizzati in forma di invocazione nel mondo greco, βασιλεῦ è di gran lunga il più usato e rappresenta altresì «one of the most frequent of all singular addresses in the works surveyed» (Dickey 1996, p. 90). L’utilizzo di tale apostrofe è raro in relazione a un greco o a un romano (se escludiamo i casi in cui è applicata ai re macedoni o ai successori di Alessandro), perché βασιλεύς veicola sia una netta superiorità del re rispetto ai suoi sudditi sia l’assoluta obbedienza e sottomissione dei secondi nei confronti del primo, per cui è adatto al modo in cui i sovrani persiani erano considerati nel mondo antico, mentre non è adeguato agli omologhi spartani o romani. Per questo motivo, nella maggior parte dei casi in cui in ambito letterario non è direttamente legato al mondo persiano, il termine è indirizzato a qualcuno che immagina di essere un monarca orientale (come il nostro Samippo) oppure a un tiranno (come Policrate di Samo), e nella quasi totalità dei casi il parlante mira a persuade-



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re il suo interlocutore o professa umiltà o esprime paura nei suoi confronti (Dickey 1996, pp. 90–95). La stessa invocazione è impiegata altre due volte da Licino e di nuovo con intento ironico (§§ 33, 39); nel resto del corpus lucianeum ricorre ancora applicata a Zeus (D. mort. 23 [28], 1; D. deor. 4 [10], 2), a un monarca orientale (Tox. 45: Leucanore re del Bosporo; Syr. d. 25) o a monarchi di nazioni diverse (Laps. 8, Rh. pr. 5: Alessandro Magno) (Dickey 1996, p. 271 s.). περιαγαγὼν εἰς τοὐπίσω τὼ χεῖρε – L’inchino alla maniera persiana con le due mani portate indietro, sulla nuca, rientra nel carattere assoluto della monarchia persiana, a cui era attribuito questo onore che in Grecia apparteneva, invece, solo alle divinità. Si tratta di uno di quegli elementi tipici del mondo orientale che fanno parte del bagaglio del retore (Bompaire 1958, pp. 221–235, praes. 233 e n. 4). τιμῶν τὴν τιάραν ὀρθὴν οὖσαν καὶ τὸ διάδημα – La tiara dritta (κίταρις o κίδαρις) e il diadema che Samippo rivendica per sé sono attributi esclusivi del re di Persia: presso i Persiani, infatti, i generali portavano la tiara inclinata e solo il re la portava dritta (Hdt. 1, 132, 1; 7, 61, 1; Ar. Av. 486–487; Xen. An. 2, 5, 23; Cyr. 8, 3, 13; Plut. Art. 26 e 28; Pomp. 42; Them. 29; Arr. An. 3, 25, 3; Clealand - Davies - Llewellyn-Jones 2007, s.v. persian dress, pp. 145–147). Σὺ δὲ τῶν ἐρρωμένων τούτων ... ἐν τῷ πρὸ τοῦ χρόνῳ – Quando Luciano architetta una situazione comica in cui si scontrino due caratteri antitetici tende a svilupparla nella maniera più elaborata possibile. In questo caso, Licino interrompe i sogni di potenza di Samippo con una ricca e divertente disamina sulle sue capacità belliche, così come, nel Caronte, Hermes decide di mettere l’uno sopra l’altro alcuni monti per osservare dall’alto i vizi degli uomini (§§ 1–4) e Caronte osserva che l’opera potrebbe essere instabile e crollare sulle loro teste (§ 5). Ἄφιππος, proprio del lessico di Platone (Prot. 350a; Resp. 1, 335c), esprime icasticamente l’incapacità di qualcuno di andare a cavallo e serve a sottolineare, ancora una volta, la goffaggine di Licino (cfr. supra ad § 1; infra ad § 33). Δέδια τοίνυν μή … ἐν τῇ τύρβῃ ὑπὸ τοσαύταις ὁπλαῖς – Il fatto che i fanti potessero correre il rischio, nella mischia della battaglia (ἐν τῇ τύρβῃ), di essere calpestati dalla cavalleria è un dettaglio bellico realistico, perché al momento dell’attacco i cavalieri potevano essere lanciati contro le linee nemiche e travolgerle (Arr. An. 1, 2, 6: οἱ ἱππεῖς οὐκ ἀκοντισμῷ ἔτι, ἀλλ᾽ αὐτοῖς τοῖς ἵπποις ὠθοῦντες ἄλλῃ καὶ ἄλλῃ προσέπιπτον; 2, 11, 3). Attraverso la verifica razionale con cui Licino denuncia l’incapacità nell’arte della guerra sua (e dei suoi amici), Luciano riesce a piegare ai fini della comicità un elemento tradizionale degli scontri bellici antichi. In più, visto che le im-

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III Commento

prese di Samippo non solo riproducono le gesta di Alessandro Magno contro i Persiani, ma anche quelle contemporanee di Lucio Vero contro i Parti, lo scrittore può forse voler riportare alla mente del pubblico la spaventosa immagine dei celebri, micidiali catafratti partici, cavalieri rivestiti di pesanti corazze e montanti cavalli parimenti dotati di armatura, che si muovevano all’unisono durante la carica, quasi a contatto l’uno con l’altro, producendo un impatto col nemico devastante (Brizzi 2002, p. 152 s.). τοῦ σαλπιγκτοῦ ἐποτρύνοντος – Nel mondo antico il segnale di attaccare battaglia era dato da strumenti musicali come la tromba (cfr. infra ad § 36: ἐπειδὰν σημάνῃ ὁ σαλπιγκτής). Si tratta di un elemento imprescindibile dell’inizio di una battaglia nell’antichità, tanto che nel Gallo al povero Micillo basta ascoltare il suono di una tromba per cercare una direzione in cui scappare e salvarsi (Gall. 21). θυμοειδὴς ὢν ὁ ἵππος ἐξενέγκῃ με … ἐς μέσους τοὺς πολεμίους – Θυμοειδής è proprio del lessico di Platone, nella cui opera ricorre applicato anche al cavallo (Resp. 2, 375a: ἀνδρεῖος δὲ εἶναι ἆρα ἐθελήσει ὁ μὴ θυμοειδὴς εἴτε ἵππος εἴτε κύων ἢ ἄλλο ὁτιοῦν ζῷον; 5, 467e; cfr. Xen. Mem. 4, 1, 3; Delz 1950, p. 95 s., n. 162). ἢ δεήσει καταδεθῆναί με πρὸς τὸ ἐφίππιον … καὶ ἕξεσθαι τοῦ χαλινοῦ – Se Luciano voglia indicare con ἐφίππιον una gualdrappa o una vera e propria sella è incerto. Il termine è raro e ricorre anche nel Come si deve scrivere la storia, in un contesto metaforico in cui non è chiaro se indichi una sorta di gualdrappa o una sella (Luc. Hist. conscr. 45: ἄμεινον οὖν ἐφ᾽ ἵππου ὀχουμένῃ τότε τῇ γνώμῃ τὴν ἑρμηνείαν πεζῇ συμπαραθεῖν, ἐχομένην τοῦ ἐφιππίου, ὡς μὴ ἀπολείποιτο τῆς φορᾶς). Lo scoliaste dà ἐφίππιον come sinonimo di ἀστράβη, una sella comoda, adatta ai muli, con alto schienale, usata in particolare dalle donne e considerata un oggetto di lusso (Dem. C. Mid. [21], 133: ἐπ᾽ ἀστράβης δ᾽ ὀχούμενος ἀργυρᾶς τῆς ἐξ Εὐβοίας, χλανίδας δὲ καὶ κυμβία καὶ κάδους ἔχων; Luc. Lex. 2; Ath. 11, 481e; 13, 582b), ma anche di ἐφεστρίς, che generalmente indica un mantello o una sopravveste (Ath. 3, 98a; 5, 215c; Luc. D. mort. 10 [20], 4; Cont. 14; LSJ9 s.v. ἐφεστρίς [p. 743]), e aggiunge che in epoca bizantina questo oggetto era definito σέλλα (p. 250, ll. 6–7 Rabe: τὴν ἀστράβην φησὶν ἤτοι τὴν ἐφεστρίδα, ἣν νῦν σέλλαν φασί). Il fatto che Licino debba esser legato all’ἐφίππιον per non esser disarcionato farebbe pensare che Luciano intenda parlare di una sella vera e propria (così anche Delz 1950, p. 84; Husson 1970, II, ad loc. [p. 75]). In LSJ9 s.v. ἐφίππιον (p. 745) si traduce il termine con «saddlecloth», “gualdrappa” (Xen. Eq. 7, 5), ma anche con «saddle», “sella”, per questo passo e per Hist. conscr. 45, invitando a confrontare Hor. Epist. 1, 14, 43 (optat ephippia bos piger, optat arare caballus). Che i principali lessici registrino invariabilmente la voce ἐφίππιον come “oggetto per cavalli da



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corsa” (ἀγώνισμα ἐφ’ ἵππων τρεχόντων) non fa che confermare questa interpretazione (Zonar. Ε p. 932, 1 Tittmann; Suid. Ε 3928, 1, p. 488, 3 Adler; Phot. Ε 2451, 1, p. 230, 14 Theodoridis). εἰ μέλλω μενεῖν τε ἄνω καὶ ἕξεσθαι τοῦ χαλινοῦ – Licino continua a prendersi gioco di Samippo trattando come reali le sue fantasie per volgerle in burla. In questo caso, il periodo ipotetico dell’obiettività con cui il primo ricorda direttamente la sua scarsa attitudine alla battaglia e, indirettamente, quella dei suoi compagni smonta i castelli in aria dell’amico ricordandogli che la fantasia non può modificare la realtà delle cose o cambiare la virtù delle persone. § 31 Ἐγώ … ἡγήσομαι τῶν ἱππέων, Λυκῖνος δὲ τὸ δεξιὸν κέρας ἐχέτω – Adimanto è talmente suggestionabile e influenzabile che non solo si butta a capofitto nel gioco dei sogni proposto da Timolao, ma finisce per fare suo anche il sogno di Samippo (vd. nell’introduzione al § 1.6.1). Δίκαιος δ᾽ ἂν εἴην … σε μεδίμνοις δωρησάμενος ἐπισήμου χρυσίου – Adimanto giustifica la sua elezione a capo della cavalleria di Samippo in virtù del dono di venti medimni d’oro coniato fatto in precedenza all’amico (§ 25). Il chiodo fisso della ricchezza caratterizza Adimanto come un uomo avido, mentre l’ottica del do ut des da lui messa in campo in questo frangente ne evidenzia la malcelata generosità e la piccineria. Il gioco dei desideri prende a tal punto la mano dei compagni di Licino che questi non fanno più differenza fra realtà e fantasia e, dunque, Adimanto può vantarsi di qualcosa (la donazione a Samippo) che, in realtà, non è accaduta se non nella sua mente. Καὶ αὐτοὺς ἐρώμεθα … ἀνατεινάτω τὴν χεῖρα – L’apostrofe in direzione del pubblico (tipica della commedia attica) è uno dei procedimenti favoriti da Luciano per coinvolgere il suo uditorio (Ureña Bracero 1995, pp. 50–54). Nei Dialoghi un’apostrofe può essere rivolta genericamente a tutta la razza umana (J. tr. 1; Cont. 20, 22, 24; Nec. 2) o direttamente al pubblico, come in questo caso, in cui l’immaginaria schiera di cavalieri a cui Samippo indirizza il suo invito non è altri che la folla che assiste alla declamazione del dialogo. Samippo chiede, dunque, ai suoi immaginari cavalieri di votare per eleggere Adimanto comandante, e questi replica immediatamente, assecondando la fantasia del suo amico, che hanno alzato la mano (πάντες, ὡς ὁρᾷς, ὦ Σάμιππε, ἐχειροτόνησαν) e sono tutti d’accordo. Lo stesso accade nel Timone, quando l’adulatore bastonato invoca il pubblico a testimone dei maltrattamenti di Timone (Tim. 48), e nello Zeus tragedo, dove all’invito di Timocle agli ascoltatori segue la replica di Damide a non esasperarli contro di lui (J. tr. 36).

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III Commento

Nella lettura di un passaggio come questo doveva giocare un ruolo molto importante il modo in cui il lettore (ἀναγνώστης) aveva cura di enfatizzare la scena, con gesti adeguati e un’intonazione della voce particolare (Ureña Bracero 1995, pp. 45–56). Πάντες, ὡς ὁρᾷς, ὦ Σάμιππε, ἐχειροτόνησαν – La precedente proposta di Samippo di mettere ai voti l’elezione a comandante dei cavalieri di Adimanto e questa replica di Adimanto costituiscono una parodia dell’Anabasi di Senofonte (7, 3, 6: καὶ ὅτῳ γε, ἔφη, ταῦτα δοκεῖ, ἀράτω τὴν χεῖρα. Ἀνέτειναν ἅπαντες; Husson 1970, II, ad loc. [p. 75]). Ἀλλὰ σὺ μὲν ἄρχε τῆς ἵππου … ἐπειδὰν αὐτοὶ συμπαρῶσι – Samippo schiera il suo immaginario esercito come un vero comandante, con quattro proposizioni brevi e incisive, l’ultima delle quali, ellittica del verbo, conferisce maggiore energia all’assunto (cfr. Dem. Eloc. 241: dire molto in un breve spazio rende “più veemente” [δεινότερον] ciò che si dice). Tale sequenza è strutturata su un modello compositivo che ritroviamo nella descrizione dell’improbabile esercito di Dioniso alla conquista dell’India nel Dioniso (Bacch. 4: οἱ μὲν Ἰνδοὶ προτάξαντες τοὺς ἐλέφαντας ἐπῆγον τὴν φάλαγγα, ὁ Διόνυσος δὲ τὸ μέσον μὲν αὐτὸς εἶχε, τοῦ κέρως δὲ αὐτῷ τοῦ δεξιοῦ μὲν ὁ Σιληνός, τοῦ εὐωνύμου δὲ ὁ Πὰν ἡγοῦντο). Samippo ripartisce il suo esercito secondo le regole tradizionali della falange oplitica, il cui modello più eccellente resta la falange macedone creata da Filippo II e potenziata dal figlio Alessandro con l’impiego coordinato della fanteria e della cavalleria pesante e leggera (Brizzi 2002, pp. 9–28, praes. 21–24). A questa Luciano sembra rifarsi al fine di imitare Arriano, che nell’Anabasi di Alessandro si sofferma svariate volte a descrivere nei dettagli lo schieramento delle forze in campo durante le battaglie (An. 1, 14, 1: ταῦτα εἰπὼν Παρμενίωνα μὲν ἐπὶ τὸ εὐώνυμον κέρας πέμπει ἡγησόμενον, αὐτὸς δὲ ἐπὶ τὸ δεξιὸν παρῆγε. προετάχθησαν δὲ αὐτῷ τοῦ μὲν δεξιοῦ Φιλώτας κτλ.; cfr. 3, 11–12). Gli ordini di Samippo non vietano di ricondurre la mente anche allo schieramento della legione romana (simile a quello della falange oplitica, anche perché da questa derivava), con i legionari disposti in tre ranghi (hastati, principes, triarii) e in tre corpi, ala sinistra, centro e ala destra, con la cavalleria schierata accanto alle ali (Brizzi 2002, pp. 29–54; Le Bohec 2015, p. 254). Ἐγὼ δὲ κατὰ μέσον, ὡς νόμος βασιλεῦσι τῶν Περσῶν – Il costume persiano che prevede il re al centro dello schieramento in battaglia è ben noto e documentato dalle fonti (vd. ad es. Xen. An. 1, 8, 21), pur se in questo contesto sembrerebbe essere espressamente presa come modello di riferimento l’Anabasi di Arriano (2, 8, 11: αὐτὸς δὲ Δαρεῖος τὸ μέσον τῆς πάσης τάξεως ἐπεῖχεν, καθάπερ νόμος τοῖς Περσῶν βασιλεῦσι τετάχθαι), uno degli ipotesti



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a cui fa il verso il sogno di Samippo (Husson 1970, II, ad loc. [p. 75]; Macleod 1987, p. 263). § 32 Προΐωμεν δὲ ἤδη τὴν ἐπὶ Κορίνθου διὰ τῆς ὀρεινῆς – Il riferimento a Corinto come punto di partenza della spedizione di Samippo potrebbe essere un’allusione alla prima visita di Alessandro Magno in Grecia, nel 336 a.C., quando i greci si riunirono sull’Istmo e decisero di far guerra ai Persiani alla guida del Macedone (Plut. Alex. 14, 1). ἐπευξάμενοι τῷ βασιλείῳ Διί – Prima di iniziare la sua gloriosa marcia di conquista verso l’Oriente, Samippo innalza una preghiera a Zeus βασίλειος, “protettore dei re”, affinché protegga i suoi sogni di regalità (cfr. Arr. An. 2, 3, 4: a Zeus βασίλειος sacrifica il povero Gordio, il cui figlio Mida è destinato a diventare re). L’appellativo con cui l’uomo si rivolge a Zeus rappresenta solo una delle innumerevoli epiclesi con cui il padre degli dèi poteva essere invocato (Cook 1914–1940): nella religione greca, infatti, qualsiasi concezione della divinità tendeva a essere espressa con una lunga successione di appellativi, sovente sinonimi fra loro, variamente impiegati in base alle epoche e ai luoghi senza che per questo il dio perdesse la sua identità (la prima attestazione del principio della polionimia divina è in Aesch. Pr. 209–210; cfr. Xen. Symp. 8, 9; Arist. Mund. 7, 401 a, su cui vd. Reale 1974, pp. 92–97, 269–277; Luc. Tim. 1 [Ὦ Ζεῦ φίλιε καὶ ξένιε καὶ ἑταιρεῖε … καὶ εἴ τί σε ἄλλο οἱ ἐμβρόντητοι ποιηταὶ καλοῦσι] e Tomassi 2011 ad loc. [pp. 195–197]). κἀπειδὰν τἀν τῇ Ἑλλάδι πάντα … ἀκονιτὶ κρατοῦμεν – L’estrema facilità con cui Samippo riesce a conquistare la Grecia ricorda quella stessa semplicità con cui Alessandro Magno la sottomise, dovendo lottare solo contro Tebe, che fu distrutta (Diod. Sic. 17, 8–14; Plut. Alex. 11–13; Dem. 23; De Alex. fort. I, 327c; II, 342d; Arr. An. 1, 7, 9). ἐπιβάντες … καὶ τοὺς ἵππους εἰς τὰς ἱππαγωγοὺς ἐμβιβάσαντες – Le navi adibite al trasporto dei cavalli sono già ricordate da Erodoto in uso presso i Persiani di Dario (6, 48, 2; 95, 1; vd. ancora Thuc. 2, 56, 2; 4, 42, 1; Dem. Phil. I [IV], 16). Tali imbarcazioni, definite ἱππαγωγοί già in Aristofane (Eq. 599), sono ancora usate in età imperiale (Delz 1950, p. 89 s.; Husson 1970, II, ad loc. [p. 75 s.]). παρεσκεύασται δ᾽ ἐν Κεγχρεαῖς καὶ σῖτος … καὶ τἆλλα πάντα – Situata a 7 km a sud-ovest di Corinto e affacciata sul golfo Saronico, la città di Cencree fu in età classica uno dei più importanti scali commerciali greci: dal suo porto partivano le rotte verso il Mar Egeo, mentre da quello di Lecheo, nel golfo di Corinto, quelle verso le colonie corinzie in Magna Grecia. Dopo la rifondazione di Corinto come colonia romana nel 44 a.C., Cencree conobbe, almeno fino al IV sec., un periodo di rinascita e rinnovato splendore ben attestato dalle recenti scoperte archeologiche (Lafond 1999, con bibliografia).

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III Commento

διαβάλωμεν τὸν Αἰγαῖον ἐς τὴν Ἰωνίαν, εἶτα ἐκεῖ τῇ Ἀρτέμιδι θύσαντες – Nell’antichità, la religione rappresenta una componente importante, quando non fondamentale, della vita di un esercito, tanto in Grecia quanto a Roma. Nella tradizione greca, il muovere guerra «non poteva prescindere dall’osservanza di determinate regole: dichiarazione di guerra in debita forma, esecuzione di sacrifici appropriati, rispetto dei luoghi (sacrari), delle persone (araldi, pellegrini, supplici) e degli atti (giuramento) riguardanti la divinità, autorizzazione ai vinti di raccogliere i propri morti e, fino a un certo punto, astensione da crudeltà gratuite» (Garlan 1991, p. 56). Senza il benestare degli dèi non avrebbero mai iniziato una guerra o un combattimento neanche i Romani, dai quali i culti ufficiali erano praticati uniformemente e osservati da tutti i corpi armati (Cascarino 2008, pp. 236–241). In questo contesto si può scorgere, segnatamente, l’ennesima allusione di Samippo all’impresa orientale di Alessandro Magno, che nella sua spedizione contro i Persiani puntualmente compie sacrifici agli dèi (Plut. Alex. 15, 7–8; 23, 3; 25, 1–2; 29, 1; 31, 11; 34, 1; 50, 7; 63, 14; 66, 2; 75, 1; 75, 3; 76, 2; 76, 6) e ad Efeso, in particolare, si ferma per sacrificare ad Artemide (Arr. An. 1, 18, 2: ἐν Ἐφέσῳ θυσίαν τε ἔθυσε τῇ Ἀρτέμιδι), dopo aver abbattuto il regime oligarchico e restaurato la democrazia (Arr. An. 1, 17, 9–18, 2, su cui vd. Sisti 2011 ad loc. [pp. 368–370]). L’allusione a tale evento permette di richiamare alla mente del pubblico anche il celeberrimo santuario efesino di Artemide, una delle sette meraviglie del mondo antico, che Luciano altrove celebra come uno dei più importanti e venerati templi dell’antichità (Icar. 24). Il tradito διαλάβωμεν sembra corrotto in quanto privo di senso. Accogliendo una congettura di Frizsche seguita da altri editori (Bekker, Kilburn, Husson; Jacobitz e Dindorf rendono διαβάλλωμεν) preferisco scrivere διαβάλωμεν (cfr. Thuc. 6, 30, 1: ἐπὶ ἄκραν Ἰαπυγίαν τὸν Ἰόνιον διαβαλοῦσιν). ἄρχοντας ἀπολιπόντες – Per questo particolare che ricorda, ancora una volta, la spedizione in Asia di Alessandro Magno cfr. infra comm. ad § 33 (καὶ κατόπιν ὁπόσα διεληλύθαμεν ἀσφαλῶς ἔχει κτλ.). προχωρῶμεν ἐπὶ Συρίας διὰ Καρίας, εἶτα Λυκίας καὶ Παμφυλίας καὶ Πισιδῶν κτλ. – Samippo procede a grandi tappe nel suo percorso di conquista ed elenca, da ovest a est, le principali regioni dell’Asia Minore meridionale (Caria, Licia, Panfilia, Pisidia e Cilicia) che deve attraversare prima di raggiungere la Siria e, da lì, la regione solcata dal fiume Eufrate. Che Samippo intenda imitare le gesta del Macedone è, ancora una volta, palese, giacché la sua avanzata riproduce quella che Alessandro stesso compie per impadronirsi della costa mediterranea dell’Anatolia e rendere inutilizzabile la flotta ai nemici (Plut. Alex. 17–18; Arr. An. 1, 24, 3). Al confine fra Cilicia e Siria, in prossimità della città di Isso, inoltre, il Macedone combatté una battaglia campale con Dario (333 a.C.), che si concluse con



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la sconfitta e la fuga del re persiano (Diod. Sic. 17, 33–34; Curt. 3, 9–11; Plut. Alex. 20; De Alex. fort. I, 326f; II, 339a, 341b–c; Arr. An. 2, 7, 11). È da notare, inoltre, che le tappe dell’immaginario viaggio di Samippo alla testa del suo esercito possono rifarsi anche a quelle di Lucio Vero descritte nella Vita Veri dell’Historia Augusta (6, 9: apud Corinthum et Athenas inter symphonias et cantica navigabat et per singulas maritimas civitates Asiae, Pamphyliae Ciliciaeque clariores voluptatibus immorabatur; cfr. Schwartz 1965, p. 134). καὶ τῆς παραλίου καὶ ὀρεινῆς Κιλικίας – Della Cilicia si ricordano due diverse zone perché questa regione era tradizionalmente divisa in due parti, la Cilicia Pediás, pianeggiante (lat. Cilicia campestris), e la Cilicia Tracheía (lat. Cilicia aspera), aspra e montuosa (Schwertheim 1999, col. 455). ἄχρι ἂν ἐπὶ τὸν Εὐφράτην ἀφικώμεθα – Con i 2.760 km del suo corso, l’Eufrate è il corso d’acqua più lungo dell’Asia occidentale e, assieme al Tigri, delimita la regione detta Mesopotamia, culla di antiche civiltà come quella babilonese e quella assira. In antico, il fiume segnava il confine fra la Cilicia e l’Armenia e sul suo corso si affacciavano alcune delle più grandi città dell’epoca (come ricorda già la Bibbia), fra cui Babilonia (Kessler 1998). Non è un caso che Samippo lo citi come importante linea spartiacque fra i territori che immagina di aver conquistato e quelli ancora da conquistare nel corso della sua favolosa impresa: anche nella spedizione di Alessandro Magno, infatti, il fiume segna un confine fondamentale, visto che Dario lo attraversa in tutta fretta, dopo la battaglia di Isso, desideroso di mettere al più presto la maggior distanza possibile fra sé e il Macedone (Arr. An. 2, 13, 1), mentre quest’ultimo, una volta impadronitosi di tutti i territori al di qua del suo corso, può affrontare il Gran re nell’epica battaglia di Gaugamela (Plut. Alex. 31, 1; cfr. Arr. An. 2, 25, 1). Come di consueto, Luciano gioca col suo pubblico tramite l’allusione a un passato che si presenta profondamente attuale, perché anche per la società contemporanea il nome dell’Eufrate si carica di grande significato: dopo la Pax Augusti, infatti, Roma per più di un secolo ha nel fiume un sicuro confine naturale fra il suo territorio e quello dei Parti, ma con il II secolo d.C i rapporti fra l’Impero romano e quello partico si incrinano e, a partire da Traiano, dichiarato emulo di Alessandro Magno, il superamento di tale corso d’acqua quale limite estremo dell’Impero segna una svolta decisiva nella politica romana (Angeli Bertinelli 1976; Ball 2000, pp. 15–17). § 33 Ἐμέ … εἰ δοκεῖ, σατράπην τῆς Ἑλλάδος κατάλιπε – Satrapo era il nome dato ai governatori delle province degli antichi imperi dei Medi e dei Persiani e, più tardi, di quelli dei Seleucidi, dei Parti e dei Sasanidi (Wiesehöfer 2001). Dopo la conquista dell’impero persiano, Alessandro mantenne l’antica organizzazione delle province e il titolo di satrapo per i loro

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III Commento

governatori, creandone di nuovi, anche greci o macedoni, o lasciando al loro posto quelli già esistenti a lui fedeli (Plut. Alex. 39, 9; 60, 15–16; 63, 14; Wiesehöfer 2001, col. 109). Quella di restare in patria come ‘satrapo della Grecia’ è una nuova boutade di Licino ai danni della vanagloria di Samippo. Se questi, infatti, sogna avventure militari straordinarie, eppure verosimili, Licino dal canto suo lo deride apertamente chiedendo di restarne fuori con espedienti del tutto inverosimili: in questo caso la pretesa di rimanere in difesa della Grecia come suo satrapo è assurda e del tutto paradossale, perché storicamente i Greci mai avrebbero accettato, e mai accettarono, di diventare sudditi dei re di Persia, giacché la concezione stessa di sudditanza a un mortale era loro estranea. Il pubblico doveva sorridere a questa ennesima trovata di Luciano e, a un tempo, provare il piacere di ricordare l’epoca gloriosa delle guerre persiane. Lo scarto esistente fra le speranze di Adimanto, Samippo e Timolao di tirar dentro i loro sogni Licino e il sarcastico atteggiamento di questi che, facendo finta di assecondarli, resta saldamente con i piedi per terra e non perde l’occasione per sbeffeggiarli è una delle migliori fonti di comicità della Nave. ὦ βασιλεῦ – Per il significato di tale forma di invocazione in Luciano cfr. supra comm. ad § 30: ὦ βασιλεῦ. Δειλὸς γάρ εἰμι καὶ τῶν οἴκοι πολὺ ἀπελθεῖν οὐκ ἂν ἡδέως ὑπομείναιμι – Il contrasto fra la pusillanimità di Licino, poco propenso ad assecondare Samippo nei suoi sogni di potenza, e l’esagerata serietà di questi, all’opposto inesorabilmente perso nei suoi desideri, è un ingrediente di sicura comicità: mentre il primo, infatti, mostra di avere paura di qualcosa che non esiste e, come tale, non può fare alcun male, il secondo lo richiama prontamente all’ordine presagendogli addirittura, tutto serio, la pena della decapitazione che spetta, nel suo esercito, ai disertori. Luciano ama sfruttare scene di questo tipo, in cui la pavida codardia di un personaggio rischia di distruggere i piani del suo interlocutore, per far divertire il pubblico: un ulteriore esempio di questa sua propensione è dato dal Timone e dai divertenti siparietti fra il coraggioso Hermes, ligio agli ordini di Zeus, e il pusillanime Pluto (Tim. 31, 34). Σὺ δὲ ἔοικας ἐπὶ Ἀρμενίους καὶ Παρθυαίους ἐλάσειν – Finalmente è dichiarato l’obiettivo dell’immaginaria campagna militare di Samippo: Armeni e Parti. Questa rivelazione doveva essere spiazzante per il pubblico, che si aspettava probabilmente di ascoltare il nome dei Persiani, visto che Samippo non solo ricalca passo passo le imprese di Alessandro Magno, ma lo prende esplicitamente a modello per superarlo (§ 28). Così, con un’abile e felice trovata, Luciano ancora una volta fa riecheggiare nella Nave la realtà contemporanea, visto che la menzione congiunta di Armeni e Parti è



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un’evidente allusione alle guerre partiche di Lucio Vero, che si stavano ancora combattendo quando Luciano si accingeva a comporre il dialogo (vd. l’introduzione al § 1.6.3). Il casus belli fu fornito proprio dalla vacazione del trono di Armenia: quando i Romani avevano cercato di installarvi un re filoromano, Soemo, il re dei Parti Vologese inviò in territorio armeno nel 161 il suo esercito, che inflisse una pesante sconfitta ai Romani a Elegia (Luc. Alex. 27; Hist. conscr. 2), costrinse a fuggire Soemo e pose sul trono di Armenia il parto Pacoro. L’anno seguente l’offensiva partica si rivolse contro Siria e Cappadocia, ma i Romani furono in grado di arginarla. Finalmente nel 163 Lucio Vero si pose alla guida della guerra e, in questo stesso anno, Marco Stazio Prisco penetrò in Armenia, sconfisse i Parti e conquistò la capitale armena Artaxata. L’anno successivo i Romani sottomisero l’Armenia, imponendo di nuovo sul trono Soemo e, in un paio d’anni, con una serie di successi militari, ottennero l’occupazione permanente dei territori orientali a est dell’Eufrate, creando la nuova provincia di Mesopotamia (Angeli Bertinelli 1976, pp. 25–30; Mazzarino 2010, I, pp. 272–276). Più in là, Luciano si diverte a intrecciare ancora il passato con il presente e a contaminare la realtà contemporanea con il glorioso passato greco, per cui il nemico di Samippo diventa un generico ‘re’ (§ 34: ὁ βασιλεύς … περὶ Κτησιφῶντα διατρίβων ἤκουσε τὴν ἔφοδον), più tardi identificato come sovrano dei Persiani, pur restando anonimo (§ 36: Πέρσαι γάρ εἰσι καὶ ὁ βασιλεὺς ἐν αὐτοῖς), mentre gli Armeni e i Parti diventano parte del suo esercito (§ 34: καίτοι οὔπω ὁ Ἀρμένιος πάρεστιν οὔτε οἱ κατὰ τὴν Κασπίαν θάλατταν οἰκοῦντες οὔτεοἱ ἀπὸ Βάκτρων) o suoi alleati (§ 35: μηδὲ περιμένειν ἔστ᾽ ἂν ἄμεινον παρασκευάσωνται πανταχόθεν τῶν συμμάχων προσγενομένων). μάχιμα φῦλα καὶ τὴν τοξικὴν εὔστοχα – L’allusione al coraggio dei Parti e degli Armeni e alla loro abilità con le armi da getto è tradizionale (Alex. 27). Nell’opera lucianea, in cui le pecularità caratterizzanti le popolazioni barbariche sono per lo più altamente stereotipate (cfr. supra comm. ad § 2: γλαφυρὸν οὕτω θέαμα ἐκεῖνος ἰδών), il modo di combattere è uno dei principali elementi che distingue un popolo dall’altro (Gangloff 2007, p. 76; cfr. supra ad § 31: ἐγὼ δὲ κατὰ μέσον, ὡς νόμος βασιλεῦσι τῶν Περσῶν; D. mort. 12 [25], 2–3; 27 [22], 4–5). Ὥστε ἄλλῳ παραδοὺς τὸ δεξιὸν ἐμέ … ἔασον ἐπὶ τῆς Ἑλλάδος – Antipatro è il generale a cui Alessandro Magno lasciò il governo della Macedonia e della Grecia prima di partire alla conquista dell’impero persiano, nella primavera del 334 a.C. (Arr. An. 1, 11, 3, su cui Sisti 2001 ad loc. [p. 339], con bibliografia). μή με καὶ διαπείρῃ τις οἰστῷ ἄθλιον βαλὼν ἐς τὰ γυμνά – L’esternazione di Licino ci ricorda che nel mondo antico nessuna armatura era priva di

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III Commento

punti deboli o scoperti (Luc. Cal. 10: οἱ μονομαχοῦντες ἐπιτηροῦσιν εἴ πού τι γυμνωθὲν μέρος θεάσαιντο τοῦ σώματος): per questo, ogni combattente rischiava di ricevere in battaglia una o più ferite, più o meno gravi, pur se dotato di un’adeguata protezione, di cui era consuetudine vantarsi, se si sopravviveva (Arr. An. 1, 16, 5), o farne l’elenco, nel caso si celebrasse la gloria militare di un eroe o di un condottiero, come Alessandro Magno (Plut. De Alex. fort. I, 327a–b; II, 340a–c, 344c–345b). La finta e pusillanime prudenza di Licino non è più che una tattica con cui questi si burla dell’avventata audacia del suo amico Samippo, che perso nei suoi sogni di conquista desidera esser ferito per mostrare a tutti il suo valore in battaglia (cfr. infra ad § 37). περὶ Σοῦσα ἢ Βάκτρα ἡγούμενόν σου τῆς φάλαγγος – Susa e Battra erano due importanti città dell’antico impero persiano: la prima era capitale della satrapia di Susiana e centro amministrativo degli Achemenidi per volontà di Dario, che la preferì a Persepoli (Plut. Alex. 18, 6; 36, 1; 70, 3), la seconda era capitale della satrapia di Battriana, una regione orientale dell’Impero persiano (l’odierno Afghanistan). Attraverso la menzione di questi due centri, Samippo non fa altro che rievocare, ancora una volta, le imprese di Alessandro, che dopo la vittoria a Gaugamela (331 a.C) si diresse verso sud, soggiornando prima a Babilonia, poi a Susa, che conquistò impadronendosi del ricchissimo tesoro imperiale (Diod. Sic. 17, 66, 1; Curt. 5, 2, 11; Plut. Alex. 36, 1; Arr. An. 3, 16, 7) e determinando il subentrare dell’autorità macedone su quella persiana nel dominio del paese (Plut. De Alex. fort. I, 326f, 327d, 329d; II, 344a); in seguito, prese Battra al primo assalto (Arr. An. 3, 29, 1). In uno dei discorsi di Alessandro riferiti da Arriano, i nomi di Babilonia, Battra e Susa compaiono uniti nell’elenco dei beni che il Macedone stila per ricordare ai propri uomini la vastità e la ricchezza delle loro conquiste (Arr. An. 7, 9, 8: καὶ Βαβυλὼν καὶ Βάκτρα καὶ Σοῦσα ὑμέτερα). “Falange” (φάλαγξ) è impiegato nei Dialoghi in diversi contesti e non indica semplicemente la nota formazione macedone (D. meretr. 13, 1), ma può anche essere applicato, in maniera più o meno spregiudicata, a un contingente militare generico, si tratti di una parte dell’immaginario esercito di Samippo o di Galati (Zeux. 8), di Sciti (Tox. 54), di Romani (Apol. 11) o, in forma di caricatura, di un gruppo di battaglieri filosofastri (Bis acc. 6) in cerca di guadagno (Delz 1950, pp. 75–77). Luciano ama effettuare accoppiamenti verbali insoliti per spiazzare il suo pubblico e suscitarne, al tempo stesso, il divertimento. Ἀποδιδράσκεις, ὦ Λυκῖνε, τὸν κατάλογον δειλὸς ὤν – Il κατάλογος a cui si fa riferimento è il catalogo ateniese degli opliti di epoca classica, contenente i nomi dei cittadini suscettibili di chiamata alle armi, che nel II secolo Luciano poteva conoscere solo dalle fonti letterarie. Nei Dialoghi si fa rife-



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rimento a tale registro ancora nel Timone (Tim. 51) e nel Parassita (Par. 40). Per Josef Delz, se nel Timone il vocabolo può essere utilizzato nel significato che aveva ad Atene nel V secolo a.C., nella Nave e nel Parassita invece designa, in senso generico, l’esercito nel suo insieme o il luogo in cui si riunisce (Delz 1950, pp. 61–63). Più opportunamente, Heinz-Günther Nesselrath ritiene che nel Parassita κατάλογος possa intendersi nel senso di “rassegna”, “esame dell’esercito”, in base a un significato attestato per l’età imperiale (Plut. Cam. 39, 3; Coriol. 13, 3; 27, 2) e forse influenzato dal latino delectus (Nesselrath 1985, ad Par. 40 [p. 401 s.]); dato il contesto, si può presumere che il termine sia impiegato con questo stesso valore anche qui. Ὁ δὲ νόμος ἀποτετμῆσθαι τὴν κεφαλήν, εἴ τις λιπὼν φαίνοιτο τὴν τάξιν – La decapitazione nell’antichità era considerata una forma di esecuzione particolarmente crudele (Tox. 50), atta a punire chi si macchiava di reati gravi come la diserzione (VH 1, 29). Non attestata con certezza presso i Greci, era praticata nel mondo persiano (Xen. An. 1, 10, 1; 2, 6, 1; Cyr. 8, 8, 3) e nell’esercito romano, in cui la disciplina era estremamente rigorosa e i comandanti punivano con la morte per decapitazione (decollatio) non solo la diserzione, ma anche l’ammutinamento, l’autolesionismo, l’insubordinazione, l’abbandono delle armi, la fuga davanti al nemico (Joseph. BJ 3, 5, 7; Svet. Aug. 24; Cascarino 2008, p. 72). È probabile, dunque, che Samippo ispiri la sua condotta alla severa disciplina romana, se non all’esempio di Alessandro, nel cui esercito la diserzione poteva essere punita, in tempo di guerra, con la morte (Delz 1950, p. 65 e n. 20). Ἀλλ᾽ ἐπεὶ κατὰ τὸν Εὐφράτην ἤδη ἐσμὲν καὶ ὁ ποταμὸς ἔζευκται – Il ponte che rapidamente copre l’Eufrate e permette all’esercito di attraversarlo rappresenta un notevole risparmio di tempo per la spedizione di Samippo. L’attraversamento di profondi corsi d’acqua infatti costituiva spesso, nel mondo antico, uno dei problemi più gravi da superare – e una considerevole perdita di tempo – per un esercito impegnato in una campagna militare. Data la sua complessità, era un’impresa degna di essere ricordata: Plutarco ne fa più volte riferimento ricordando la spedizione orientale di Alessandro Magno nel De fortuna Alexandri (I, 326e; 327c; II, 340f); Arriano si dilunga nel descrivere le possibili tecniche impiegate dal Macedone per costruire un ponte sull’Indo, mettendole a confronto con quelle dei Romani (An. 5, 7, 1–8, 1); Cesare, in un passo famoso, ha cura di riferire la straordinaria realizzazione da parte del suo esercito di un ponte sul Reno in soli dieci giorni (Bell. Gall. 4, 17–18). πάντα ὕπαρχοι κατέχουσιν ὑπ᾽ ἐμοῦ ἑκάστῳ ἔθνει ἐπεισαχθέντες – I luogotenenti (ὕπαρχοι) posti da Samippo a controllare i suoi nuovi domini ricordano da vicino le ‘magistrature greche’ poste da Alessandro a capo delle

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III Commento

regioni dell’Asia da lui conquistate (Plut. De Alex. fort. I, 328d–e; cfr. supra ad § 32: ἄρχοντας ἀπολιπόντες). οἱ δὲ καὶ ἀπίασι τὴν Φοινίκην … καὶ τὴν Αἴγυπτον προσαξόμενοι – Lasciando ad altri l’incarico di conquistare la Fenicia, la Palestina e l’Egitto, Samippo non segue più le tracce di Alessandro Magno, che aveva di persona occupato questi paesi (Arr. An. 2, 13, 7–20, 3; 25, 4–27, 7) prima di andare in Libia, presso l’oasi di Siwah, dove sorgeva il santuario oracolare di Zeus Ammone, presso cui fu proclamato dai sacerdoti figlio del dio (Arr. An. 3, 3–4, su cui vd. Sisti 2001 ad loc. [pp. 468–473]). σὺ πρῶτος, ὦ Λυκῖνε … ἐπὶ πᾶσι δὲ τὸ ἱππικὸν ἄγε σύ, ὦ Ἀδείμαντε – Gli ordini impartiti da Samippo ai suoi amici duplicano esattamente quelli da lui stesso assegnati pochi minuti prima (§ 31: σὺ μὲν ἄρχε τῆς ἵππου, Λυκῖνος δὲ ἐχέτω τὸ δεξιόν κτλ.). Come si vede, questo personaggio non viene minimamente scalfito dall’atteggiamento beffardo e provocatorio dell’amico Licino, che cerca di annullarne le fantasticherie, con disincantata ironia, chiedendo di essere lasciato in pace e di non essere chiamato a combattere, perché la sua codardia non glielo permette (§ 33). Del resto, Samippo trova man forte in Adimanto e in Timolao, che mostrano di prenderlo ben più sul serio, fino a intavolare con lui, poco più in là, una paradossale discussione sul modo migliore di condurre il suo immaginario esercito (§ 35). L’opposizione fra la lucida saggezza di Licino, portavoce di quella filosofia del buon senso così cara a Luciano, e i suoi tre amici, chiamati a rappresentare gli uomini comuni con le loro debolezze e la loro poco lungimirante visione della vita, non potrebbe essere più marcata. Degna di essere notata è l’elaborata struttura chiastica impiegata da Samippo, con i due pronomi personali di seconda persona alle estremità del periodo, accompagnati da due imperativi reggenti due complementi oggetti che si richiamano tramite omoteleuto (σὺ πρῶτος, ὦ Λυκῖνε, διάβαινε … τὸ ἱππικὸν ἄγε σύ, ὦ Ἀδείμαντε), e due pronomi personali di prima persona al centro (εἶτα ἐγὼ καὶ μετ᾽ ἐμὲ ὁ Τιμόλαος). § 34 Καὶ διὰ μὲν τῆς Μεσοποταμίας … ἅνθρωποι ἐνεχείρισαν – Gli abitanti della Mesopotamia che consegnano a Samippo, di loro spontanea volontà, le loro roccaforti e loro stessi ricordano quelli di Babilonia di fronte ad Alessandro Magno (Plut. Alex. 35, 1), la cui impresa costituì una vera e propria ‘liberazione’ per la popolazione indigena (Arr. An. 3, 16, 3–5). καὶ ἐπὶ Βαβυλῶνα ἐλθόντες ἀπροσδόκητοι … καὶ ἔχομεν τὴν πόλιν – Babilonia era considerata imprendibile per via della doppia cinta fortificata che la circondava, ma Samippo la conquista senza colpo ferire. È una nuova allusione alla spedizione orientale di Alessandro Magno, capace di realizzare l’impresa grazie al tradimento di Mazeo, satrapo di Siria e di Mesopotamia,



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che aprì le porte della città ai Macedoni senza combattere (Arr. An. 3, 16, 2–5; Plut. De Alex. fort. II, 339 a; Alex. 35, 1). Bisogna rilevare in questo contesto lo scarto del testo lucianeo rispetto ai resoconti della conquista di Babilonia da parte di Alessandro, «perché Samippo entra in Babilonia non grazie a un tradimento, ma sfruttando l’effetto sorpresa (come segnala l’attributo ἀπροσδόκητοι), così da compiere un’impresa addirittura superiore a quella del Macedone» (Russo - Stramaglia). L’espediente è abilmente orchestrato da Luciano per fornire al suo pubblico un duplice piacere: riandare con la mente a peculiari reminiscenze scolastiche e, al tempo stesso, sorridere per la grossolana esagerazione dei sogni di gloria di Samippo, all’insegna della più sfrenata ambizione, soprattutto perché in antico Babilonia e l’impero persiano erano simbolo di ricchezze favolose e inimmaginabili (Plaut. Stich. 24; Juv. 14, 328; Luc. Merc. cond. 13, J. tr. 53). Il riferimento alla conquista di Babilonia come impresa grandiosa per antonomasia ritorna nell’Intorno ai dotti che convivono per mercede in una lunga lista di espressioni volta a deridere l’intellettuale greco che, stoltamente, crede una clamorosa vittoria l’ingaggio, simile alla schiavitù, presso un ricco romano (Merc. cond. 13: κεκράτηκας οὖν … καὶ ἔστεψαι τὰ Ὀλύμπια, μᾶλλον δὲ Βαβυλῶνα εἴληφας ἢ τὴν Σάρδεων ἀκρόπολιν καθῄρηκας καὶ ἕξεις τὸ τῆς ᾽Αμαλθείας κέρας καὶ ἀμέλξεις ὀρνίθων γάλα). Una parte della critica ha ritenuto la sequenza formata da altrettanti motivi proverbiali, compresa la iunctura “hai preso Babilonia” (Βαβυλῶνα εἴληφας), ipotizzando che Luciano l’abbia desunta da una raccolta o l’abbia creata da sé conferendo alle sue componenti dignità di proverbi (Bompaire 1958, p. 419 s.; Husson 1970, II, ad loc. [p. 77 s.]). Altri hanno sostenuto, probabilmente a ragione, che simili liste non devono necessariamente contenere formulazioni paremiografiche, ma possono bene essere il frutto dell’abilità creativa di Luciano, capace di manipolare il patrimonio retorico a suo piacimento per creare inaspettate sequenze di antitesi o adynata, come accade ancora nell’Apologia, ad esempio (Apol. 11: εὑρήσεις γὰρ τὸ τῶν μουσικῶν δὴ τοῦτο, δὶς διὰ πασῶν τὸ πρᾶγμα, καὶ τοσοῦτον ἐοικότας ἀλλήλοις τοὺς βίους, ὅσον μόλυβδος ἀργύρῳ καὶ χαλκὸς χρυσῷ καὶ ἀνεμώνη ῥόδῳ καὶ ἀνθρώπῳ πίθηκος; Anderson 1976, p. 123 s.).   Ὁ βασιλεὺς δὲ περὶ Κτησιφῶντα … εἶτα εἰς Σελεύκειαν παρελθών – Luciano si diverte a spiazzare il suo pubblico innestando nelle visionarie fantasie di conquista di Samippo alcune allusioni alle gesta di Lucio Vero nelle guerre partiche. In questo caso, l’anonimo re contro cui Samippo e i suoi amici dovranno combattere, che si muove da Ctesifonte a Seleucia per radunare il suo esercito, non può non richiamare alla mente dei contemporanei il re dei Parti, che aveva nel complesso urbano bipolare di Ctesifonte e Seleucia la capitale del suo impero. Anche la successiva identificazione di questo sovrano come re dei Persiani (§ 36: Πέρσαι γάρ εἰσι καὶ ὁ βασιλεὺς

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III Commento

ἐν αὐτοῖς) può costituire in filigrana un’ulteriore, gustosa allusione ai sovrani Arsacidi, che detenevano il titolo di Re dei Re e rivendicavano il diritto di dirsi eredi dell’impero achemenide (Tac. Ann. 6, 31). Nel momento in cui Luciano si accingeva a comporre La nave, i nomi di Ctesifonte e Seleucia al Tigri dovevano essere sulla bocca di tutti per via delle spaventose devastazioni che le due città avevano subito nel corso delle campagne partiche di Vero, quando Seleucia fu distrutta insieme a Nisibi e il palazzo di Ctesifonte incendiato (Luc. Hist. conscr. 30; Schwartz 1965, p. 134; Astarita 1983, p. 45; Brizzi 2002, p. 165). Delle due città risultarono particolarmente tragiche le vicende della seconda, che dopo aver accolto nel dicembre del 165 i contingenti romani guidati da Avidio Cassio come amici, si ribellò poi a Roma e fu presa con la forza; ne seguì uno spaventoso saccheggio, che rimase famoso e comportò numerose accuse e polemiche sull’operato dell’esercito romano e dello stesso comandante; «tra l’altro, una nota tradizione romana riconduceva al saccheggio di Seleucia l’origine della peste che allora si diffuse dall’Oriente per tutto l’impero» (Mazzarino 2010, I, p. 275 s.). Da quanto detto si capisce quale effetto potessero suscitare i nomi di Ctesifonte e di Seleucia sul pubblico di Luciano, che attraverso la spensierata arroganza con cui Samippo vagheggia conquiste e bottino denuncia, forse anche senza volerlo, l’arroganza del popolo romano. παρασκευάζεται ἱππέας … μεταπεμπόμενος … καὶ σφενδονήτας – Le truppe leggere di lanciatori di giavellotto, di arcieri (τοξόται) e di frombolieri (σφενδονῆται) ebbero un ruolo di scarca efficacia nella falange oplitica fino alla fine del V secolo, per ottenere un’importanza via via crescente dalla guerra del Peloponneso, con la moltiplicazione dei peltasti dotati di giavellotti e di un piccolo scudo (pelta), quando «divenne sempre più evidente che le truppe leggere potevano avere la meglio, talvolta, sugli opliti e che la loro utilizzazione si imponeva in numerose circostanze» (Garlan 1991, p. 72 s.). Luciano ricorda in più punti della sua opera arcieri e frombolieri (Delz 1950, pp. 81–83; cfr. ad es. D. meretr. 9, 5), perché alla sua epoca sono richiestissimi dagli eserciti come mercenari e sono fondamentali per l’esercito romano, in quanto la loro presenza in campo può risultare decisiva per l’esito di una battaglia, e il solo evocarli deve suscitare una notevole impressione sul pubblico: i primi sfruttano un arco di grande potenza, la cui portata è superiore anche a quella dei celebri hippotoxótai partici, mentre i secondi possono colpire il nemico da molto lontano sfruttando armi eccezionali, come il fustibulum (una grande fionda legata a un bastone), e scagliando ghiande-missili di piombo (cfr. Lex. 5: μολυβδαίνας χερμαδίους) dalla capacità offensiva superiore a quella di qualsiasi arco e giavellotto (Fourgères 1896; Brizzi 2002, pp. 171 s., 177 s.). Il passo pare riecheggiare un brano di Arriano in cui si ricorda come Senofonte e i Diecimila, durante l’impresa asiatica, non avessero le stesse trup-



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pe di Alessandro, “né quant’altra cavalleria era schierata con loro, né arcieri o frombolieri” (An. 2, 7, 8: οὐδὲ ὅση ἄλλη σφίσιν ἵππος ξυντέτακται, οὐδὲ τοξοτῶν ἢ σφενδονητῶν; trad. Sisti 2001). Ἀπαγγέλλουσι δ᾽ οὖν οἱ σκοποί – L’invio di truppe in ricognizione è una prassi tradizionale in ambito militare. Arriano ne fa menzione frequentemente nella sua Anabasi di Alessandro (Arr. An. 1, 12, 7; 13, 1–2), ma si tratta di un dettaglio relativo alle tattiche belliche tradizionali talmente banale che Luciano non aveva bisogno di attingerlo necessariamente dallo storico. ἀμφὶ τὰς ἑκατὸν ἤδη μυριάδας τοῦ μαχίμου συνειλέχθαι – Che un milione di uomini rappresenti solo una parte dell’armata avversaria tradisce il desiderio di Samippo non solo di emulare, ma di superare le imprese di Alessandro Magno, che secondo le fonti storiche a Gaugamela mosse contro Dario e un milione di soldati (Husson 1970, II, ad loc. [p. 78]; cfr. supra comm. ad § 28: εἶτα κατ᾽ ὀλίγον τριακόσιοι προσιόντες ἡμῖν ἄλλος ἐπ᾽ ἄλλῳ κτλ.). καὶ τούτων εἴκοσιν ἱπποτοξότας – Gli arcieri a cavallo rappresentano un particolare tipo di combattente che Luciano si diverte a menzionare nella sua opera in maniera eclettica: se qui e nel Tossari (§ 54) concede loro un’importanza eccezionale, ricordandoli come parte preponderante di un esercito, nella Storia vera vi allude in maniera bizzarra nelle fattezze di un incredibile contingente di trentamila ψυλλοτοξόται, “arcieri che saettano dalle pulci” (VH 1, 13; Delz 1950, p. 82). καίτοι οὔπω ὁ Ἀρμένιος [πω] πάρεστιν … οὔτε οἱ ἀπὸ Βάκτρων – Il riferimento è ad alcuni dei popoli che vivevano nel cuore e ai confini dell’antico impero persiano conquistato da Alessandro Magno: Armeni (ὁ Ἀρμένιος), Medi e Parti (οἱ κατὰ τὴν Κασπίαν θάλατταν οἰκοῦντες), Battriani (οἱ ἀπὸ Βάκτρων). Luciano è abile nel rievocare l’imponente vastità dell’impero achemenide con una manciata di etnonimi riferibili a popolazioni distanti migliaia di chilometri le une dalle altre. Il sogno di Samippo è un mélange fantasioso in cui passato e presente si intersecano continuamente: se prima Licino si lamenta perché l’amico vuol spingerlo contro Armeni e Parti (§ 33), in seguito lo stesso Samippo fa capire che il suo nemico è il re dei Persiani (vd. comm. supra: ὁ βασιλεὺς δὲ περὶ Κτησιφῶντα … εἶτα εἰς Σελεύκειαν παρελθών), di cui i popoli qui menzionati sono alleati, come Timolao chiarisce oltre (§ 35: μηδὲ περιμένειν ἔστ᾽ ἂν ἄμεινον παρασκευάσωνται πανταχόθεν τῶν συμμάχων προσγενομένων). ἐκ τῶν πλησίον καὶ προαστείων τῆς ἀρχῆς – Secondo Geneviève Husson, in questo contesto προάστεια non indica i sobborghi di una città oppure un territorio suburbano, come nel greco classico, poiché il complemento τῆς ἀρχῆς fa capire che si tratta «des régions proches de l’Empire perse, de celles qui bordent ses frontières»: così Luciano userebbe προάστειον con un

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III Commento

significato mai attestato in precedenza (Husson 1970, II, ad loc. [p. 78]; cfr. Cic. Verr. 2, 2, 7 [rapporto fra la Sicilia e Roma]: populo Romano iucunda suburbanitas est huiusce provinciae). Interpretando la iunctura come vuole la studiosa, Samippo proporrebbe in questo contesto un’inutile tautologia, riferendosi qui genericamente ai popoli stanziati lungo le frontiere dell’impero persiano, dopo averne nominati esplicitamente alcuni un attimo prima (καίτοι οὔπω ὁ Ἀρμένιος πάρεστιν … οὔτε οἱ ἀπὸ Βάκτρων). È certo, comunque, che il nesso non sia di facile interpretazione e questo spiega anche il disaccordo fra i traduttori. Alcuni rendono ἀρχή con “impero”, interpretando il passo come vuole Geneviève Husson (Dindorf: «de partibus modo vicinis et suburbanis quasi imperii»; Kilburn: «only those from near at hand and the suburbs of the empire»; Husson: «il s’agit seulement d’hommes des environs et des faubourgs de l’empire»; Magueijo: «mas somente os da vizinhança e dos arredores do Império»). Altri invece traducono lo stesso sostantivo come “capitale (dell’impero)” (Talbot: «en ne comptant que les troupes levées dans le voisinage et, pour ainsi dire, dans les fau­­bourgs de la capitale»; Chambry: «il n’a reuni encore que ceux du voisinage et des faubourgs de sa capitale»; Longo: «solo quelle [forze] partite dalle vicinanze e dalla periferia della capitale»). Concordo con questa seconda linea interpretativa, conferendo a προάστεια il senso tradizionalmente attestato di “periferia” e ritenendo, piuttosto, che ad avere un significato inusuale sia il sostantivo ἀρχή, che può essere reso come “capitale”. Da quel che sembra, dunque, con προάστεια τῆς ἀρχῆς Samippo si vuol riferire al suburbio di Ctesifonte, capitale del regno dei Parti, che in precedenza viene citata come sede regale (ὁ βασιλεύς … περὶ Κτησιφῶντα διατρίβων ἤκουσε τὴν ἔφοδον) e viene indicata, poco oltre, come luogo della battaglia campale fra gli eserciti di Samippo e del re di Persia. Infatti, la fanteria di Samippo deve iniziare a muovere in questa direzione (§ 35: ἀλλ᾽ἐγὼ μέν φημι δεῖν ὑμᾶς τὸ πεζὸν ἀπιέναι τὴν ἐπὶ Κτησιφῶντος) e poi, su esortazione di Timolao, anche la cavalleria deve dirigersi verso la città (ἁπάσῃ τῇ στρατιᾷ βαδίζειν ἐπὶ τοὺς πολεμίους). È logico pensare, quindi, che il re persiano inizi a concentrare di fronte alla città gli eserciti provenienti dalle vicinanze e dalla periferia (ἐκ τῶν πλησίον καὶ προαστείων) della stessa, aspettando i rinforzi provenienti dalle regioni più lontane (gli Armeni, i Medi e i Parti, i Battriani citati in precedenza). οὕτω ῥᾳδίως τοσαύτας μυριάδας κατέλεξε – Sull’impressionate numero di truppe contro cui Samippo sogna di scontrarsi, evidente allusione all’impresa di Alessandro Magno, vd. supra comm. ad § 29: εἶτα κατ᾽ ὀλίγον τριακόσιοι προσιόντες ἡμῖν ἄλλος ἐπ᾽ ἄλλῳ κτλ. Καιρὸς οὖν ἤδη σκοπεῖν ἡμᾶς ὅ τι χρὴ ποιεῖν – Il consiglio di guerra voluto da Samippo pare ispirarsi nuovamente alla storia di Alessandro Magno,



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che prima di ogni impresa importante aveva l’abitudine di convocare i suoi consiglieri (Arr. An. 3, 9, 3). § 35 Ἀλλ᾽ ἐγὼ μέν φημι δεῖν ὑμᾶς … τὴν Βαβυλῶνα διαφυλάξοντας – La proposta di Adimanto di restare a custodire Babilonia con la cavalleria e di lasciar andare avanti la fanteria, che suscita la reazione stizzita di Samippo nella successiva replica, è consona al carattere debole e incostante di questo personaggio (vd. nell’introduzione al § 1.6.1). Sul riferimento a Ctesifonte e a Babilonia nei sogni di conquista di Samippo cfr. supra comm. ad § 34 : καὶ διὰ μὲν τῆς Μεσοποταμίας οὐδεὶς ἀπήντηκεν ἡμῖν πολέμιος κτλ. Ἀποδειλιᾷς καὶ σύ, ὦ Ἀδείμαντε, πλησίον τοῦ κινδύνου γενόμενος; – In questo rimprovero di Samippo si nasconde un divertente gioco di parole fra il nome di Adimanto, che dovrebbe connotare una persona intrepida (Ἀδείμαντος deriva dall’unione di α- privativo e δειμαίνω, “ho paura”), e la vigliaccheria da lui dimostrata (ἀποδειλία), che dovrebbe invece essergli estranea. Probabilmente, Luciano gioca con il nome di questo personaggio anche all’inizio del dialogo, quando Timolao invita Licino e Samippo a incamminarsi verso la città, senza aspettare l’amico, poiché “Adimanto conosce la strada e non c’è timore che si perda” (§ 4: οἶδε τὴν ὁδὸν Ἀδείμαντος, καὶ δέος οὐδὲν μὴ ἀπολειφθεὶς ἡμῶν ἀποβουκοληθῇ). Nei Dialoghi simili giochi di parole imperniati su un nome proprio ricorrono con buona frequenza come semplice, ma efficace fonte di comicità (Ureña Bracero 1995, p. 175 s. e n. 22; per altri Wortspiele presenti nel dialogo cfr. l’introduzione al § 1.8.2). Ἁπάσῃ τῇ στρατιᾷ βαδίζειν ἐπὶ τοὺς πολεμίους – Timolao si mostra eccezionalmente battagliero e, più tardi, confermerà questo lato del suo carattere anche nel corso della sua preghiera (§ 44). μηδὲ περιμένειν ἔστ᾽ ἂν ἄμεινον ... ἀλλ᾽ ἕως ἔτι καθ᾽ ὁδόν εἰσιν οἱ πολέμιοι, ἐπιχειρῶμεν αὐτοῖς – Gli alleati in cammino per rinforzare l’esercito nemico devono essere gli Armeni, gli abitanti delle rive del Caspio e i Battriani a cui prima Samippo accenna nel descrivere i contingenti avversari (§ 34). È interessante che si parli di popoli “alleati” (σύμμαχοι) del sovrano nemico di Samippo: se riteniamo che qui si voglia alludere alle guerre romano-partiche, infatti, il termine “alleati” può ben riferirsi agli Armeni, che nella contesa fra Parti e Romani, prima della spedizione di Lucio Vero, erano schierati in favore dei primi (cfr. supra comm. ad § 33: σὺ δὲ ἔοικας ἐπὶ Ἀρμενίους καὶ Παρθυαίους ἐλάσειν); diverso è il discorso per i popoli attestati sulle rive del Caspio e in Battriana, perché in questo caso dobbiamo pensare che l’influenza dei Parti venga estesa da Luciano molto al di là dei loro reali possedimenti. Del resto, per gli stessi Romani i confini dell’impero degli Arsacidi a settentrione e a oriente non erano chiari e, addirittura, resta-

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III Commento

vano ancorati a una realtà legata al passato così da confondersi con quelli dell’antico impero persiano; la Battriana, in particolare, nel II secolo faceva parte dell’immenso impero Kushan, che dal I secolo aveva fatto arretrare considerevolmente l’impero dei Parti sulla frontiera orientale e intratteneva rapporti pacifici con Roma (Lerouge 2007, pp. 215–217, 221–223). Il riferimento etnografico in questione tradisce, dunque, l’influenza della mentalità contemporanea. Tuttavia è plausibile ipotizzare, inoltre, che volendo parodiare l’impresa partica di Lucio Vero attraverso le gesta di Samippo, Luciano ingrandisca i contingenti avversari di quest’ultimo per ridicolizzare i sogni di gloria dei Romani, che dall’epoca di Crasso si lasciavano cullare dalla dolce illusione di duplicare l’impresa di Alessandro e di giungere “fino alla Battriana, all’Indo e al mare Esteriore” (Plut. Crass. 16, 2). L’immagine degli alleati che sopraggiungono da ogni parte a rimpolpare l’esercito nemico di Samippo pare riproporre la scenografica immagine dello ‘sciame di persone’, di derivazione comica (Ledergerber 1905, p. 28; cfr. Tim. 45; Bis acc. 12–13; Vit. auct. 1; J. tr. 7–12, su cui vd. Coenen 1977 ad loc. [p. 53 s.]). Ἐπειδὴ κεκμήκαμεν … ὁπότε κατῄειμεν ἕωθεν ἐς τὸν Πειραιᾶ – La sosta che Licino suggerisce ai suoi tre amici durante il cammino verso Atene riecheggia il noto motivo della ‘sosta in cammino’ tipico dei dialoghi platonici, in particolare delle Leggi (625a–c) e del Fedro (229a–230d). ἤδη τριάκοντά που σταδίους προκεχωρήκαμεν … ἀναπαύσασθαι – Con pochi tratti, quali il sole forte e cocente che colpisce il terreno, un albero di ulivo e una stele abbattuta, Luciano ci descrive uno scorcio dell’Atene extramuranea. Questi piccoli, caratteristici dettagli del paesaggio ateniese sono utili a ricreare il mondo in cui erano immersi gli abitanti di Atene e rendono la narrazione maggiormente verosimile. La scena va inserita nel novero dei numerosi riferimenti alla natura presenti nei Dialoghi, che riguardano tanto le meraviglie dell’universo, come il cielo illuminato di stelle (Dom. 8) o la luce del sole (Hipp. 7; D. mort. 22 [27], 9), quanto le bellezze della terra, ad esempio i fiumi (come il Nilo, citato al § 44), i mari (come il Mediterraneo, in cui si svolgono le peripezie dell’Iside), le masse rocciose e le montagne (come il Parnete, evocato al § 19), i campi coperti da boschi o alberi fruttiferi (come i terreni intorno ad Eleusi, all’Istmo di Corinto o a Sicione sognati da Adimanto al § 20), gli alberi e le piante delle specie più diverse (fra cui ci sono l’olivo, menzionato subito oltre, e l’elleboro, ricordato come pianta medicinale al § 45) (Bompaire 2000). Tali riferimenti non esprimono un vero sentimento della natura da parte di Luciano, se non in pochi dialoghi, come La nave, Lo scita, La sala e l’Ermotimo: nella maggior parte dei casi, al contrario, è «par le biais d’une comparaison ou d’une métaphore ou encore d’une référence livresque, à travers une reconstruction intellectuel-



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le, stylistique, parodique ou fantastique, voire par le simple développement d’un topos classique, que Lucien exprime son attention à l’environnement» (Bompaire 2000, p. 298). L’ulivo in cui s’imbattono i quattro amici è una pianta usuale del paesaggio di Atene. Secondo il mito, fu Atena a donarla agli Ateniesi dopo la vittoria su Poseidone nella contesa per il dominio sull’Attica (Apollod. Bibl. 3, 14, 1). Anche la stele riversa a terra rappresenta un dettaglio tipico del paesaggio ateniese extramuraneo (Bompaire 1958, p. 442 e n. 4; Husson 1970, II, ad loc. [p. 80]), giacché l’area adiacente alle mura era adibita dagli Ateniesi a luogo di sepoltura (Paus. 1, 2, 2, su cui vd. Beschi - Musti 1982 ad loc. [p. 260]). Altrove quello della stele abbattuta dal tempo costituisce un topos letterario che lo scrittore ama impiegare come elemento funzionale alla critica, tipicamente cinica, dell’inutilità di sacrifici e onori resi ai morti (Luct. 22; Cont. 22; Cat. 9), come motivo fantastico o squisitamente ecfrastico asservito alle finalità edonistiche della creazione letteraria (Tox. 42; VH 1, 7 e 32; Scyth. 2; Anderson 1976, pp. 33–35), oppure per visualizzare la solitudine del ricco finito in miseria che perde ogni attrattiva agli occhi altrui e finisce abbandonato da tutti (Tim. 5). εἶτα οὕτως ἀναστάντας ἀνύειν τὸ λοιπὸν ἐς τὸ ἄστυ – Le fantasticherie dei quattro amici sono ormai a un punto avanzato, visto che la via dal Pireo alla città era lunga quaranta stadi (cfr. nell’introduzione ai §§ 1.5 e 1.8.1) e i nostri ne hanno già percorsi circa trenta, come poco prima ha ricordato Licino (καὶ νῦν ἤδη τριάκοντά που σταδίους προκεχωρήκαμεν κτλ.). Ἔτι γὰρ Ἀθήνησιν … περὶ τοῦ πολέμου διασκοπούμενος; – Non solo Samippo non accetta l’invito di Licino di tornare alla realtà, ma crede addirittura di essere veramente a Babilonia e che sia l’amico a essere in difetto nel ricordargli che si trovano ad Atene. È riproposto così il tema dell’uomo che si trova in un luogo e pensa di essere in un altro che Luciano sfrutta altrove (Anderson 1976, p. 121) ai danni di coloro che si affidano ciecamente a una setta filosofica, pensando di raggiungere la felicità (Herm. 27), o dei ciarlatani che inventano fatti storici spacciandoli per una testimonianza oculare (Hist. conscr. 29). ὦ μακάριε – Μακάριε, “beato te”, “fortunato te”, è spesso impiegato in greco in combinazione con altri vocativi, senza assumere un significato particolare, ed è equivalente ad altre forme di invocazione come φίλε o ἀγαθέ. In questo caso troviamo un impiego particolare di tale vocativo, che ricorre quando chi parla commenta la fortuna del suo interlocutore in riferimento a un particolare dato di cui è stato appena informato (Xen. Cyr. 8, 3, 39; Luc. D. mar. 15, 4). Si tratta di un’invocazione tipicamente platonica, che anche Luciano sfrutta con una certa frequenza (Anach. 34, Cont. 21, Eun. 2, Herm.

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III Commento

10, Icar. 19, Im. 10, J. tr. 2, Merc. cond. 13, Nec. 1 e Vit. auct. 26; Dickey 1996, pp. 140 e 278 s.). Ἐγὼ δὲ νήφειν ᾤμην καὶ σοὶ ὕπαρ ἀποφανεῖσθαι τὴν γνώμην – Νήφειν indica l’essere sobri e si contrappone a μεθύειν, che sta a indicare l’eccedere nel bere vino. Con le sue parole Licino mette così a confronto la sua lucidità intellettuale alla stoltezza dei suoi amici e si dichiara sobrio, mentre loro sembrano altrettanti ubriachi, compiaciuti di sprofondare nei loro sogni a occhi aperti (§ 16: ὥσπερ ἡδίστῳ ὀνείρατι ἑκουσίῳ περιπεσόντες … εὖ ποιήσοντι ἡμᾶς). Questo modo di ragionare è tipico del pensiero greco, in cui il sogno è paradigma di inconsistenza fin da Omero, e fin dall’epoca dei pensatori presocratici il sognare a occhi aperti è segno di stoltezza e la condizione di sonno (ὄναρ) è un’alternativa a quella di normalità pertinente alla veglia (ὕπαρ) ed è paragonata proprio a quella di un ubriaco o a quella di un bambino, di un folle o di un superstizioso (Brillante 1991, pp. 19–22, 55–94; cfr. Tosi 1992, p. 345, nº 737: “la cognizione è annebbiata dal vino”). Questa concezione delle cose nell’antichità dà origine a vari motivi proverbiali, come ‘mi racconti sogni’ (Luc. D. mort. 25 [30], 2: ὀνείρατά μοι λέγεις; Tosi 1992, p. 32, n° 74), ‛chi è nato in una capanna, i palazzi non li vede neanche in sogno’ (Petron. 74, 14; Tosi 1992, p. 48, n° 107), ‛dormire da sveglio’ (Plaut. Pseud. 386: qui vigilans dormiat, “che dorma da sveglio”) o ‛dormire in piedi’ (Plaut. Cist. 291: utrum deliras, quaeso, an astans somnias, “forse deliri o, di grazia, sogni stando in piedi?”), e continua nelle lingue europee, come in italiano, che contempla i noti detti ‛dormire in piedi come un asino’ (o ‛come un cavallo’), ‛sognare a occhi aperti’ (Tosi 1992, p. 193, n° 418) e ‛la vita è un sogno’ (Tosi 1992, p. 243, n° 512). Si tratta di un motivo assai frequentato dagli intellettuali di età imperiale: lo ritroviamo, ad esempio, nel primo Tarsico di Dione (or. 33, 32), che biasima gli abitanti di Tarso perché agiscono come in sogno e non si accorgono della realtà, in cui l’elemento greco si sta corrompendo orientalizzandosi per la cattiva influenza della componente indigena (Desideri 1978, pp. 122–129). § 36 Πρόσιμεν δή, εἴ σοι δοκεῖ – Samippo si accinge al resoconto dello scontro immaginario in cui potrà mostrare la sua gloria militare. La rievocazione di episodi bellici irreali è tipica dei Dialoghi, in cui abbondano ‘battaglie immaginarie’ improntate tanto alla tradizione epica quanto al repertorio delle scuole di retorica e, talvolta, influenzate anche dalla commedia (Anderson 1976, pp. 36–39 [con bibliografia], 97 [l’exploit di Samippo è simile a quello descritto in D. meretr. 9, su cui l’influenza della commedia è preponderante]; vd. Bacch. 1–4: imprese di Dioniso alla conquista dell’India; VH 1, 13–21: abitanti della Luna contro abitanti del Sole; 2, 23–24: empi contro eroi; Pisc. 1–10: Parresiade-Luciano contro i filosofi; Zeux. 8–11:



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Antioco contro i Galati; Tox. 44–55: Sciti contro Bosporani; vd. anche in Tim. 50 l’allusione a improbabili imprese belliche di Timone). Καὶ ὅπως ἄνδρες ἀγαθοὶ ἐν τοῖς κινδύνοις ἔσεσθε μηδὲ προδώσετε τὸ πάτριον φρόνημα – Dopo aver rintuzzato i tentativi di Licino (§§ 33, 35) e di Adimanto (§ 35) di rovinargli i piani, accusandoli di vigliaccheria (§§ 33, 35), ed essere riuscito a rendere partecipi i suoi compagni delle sue fantasie, Samippo ora li invita a essere coraggiosi e a non tradire lo spirito di patria, come un vero comandante intento a svolgere un’allocuzione alle sue truppe (paraklesis) prima della battaglia (Pernot 2017, praes. p. 14 s., con bibliografia). La necessità di sacrificarsi per la patria costituisce un leitmotiv radicato nella letteratura patriottica di tutti i tempi e di tutti i paesi, sublimato dal celeberrimo verso oraziano, passato in proverbio, dulce et decorum est pro patria mori (Hor. Carm. 3, 2, 13; Tosi 1992, p. 555 s., n° 1233). La iunctura πάτριον φρόνημα, “spirito patrio” ricorre per la prima volta nel Saggio su Tucidide di Dionigi di Alicarnasso, nel passo in cui lo scrittore commenta l’autodifesa di Pericle tucididea (Dion. Hal. Thuc. 47: καὶ ἔτι τὰ διεγείροντα τὰς ψυχὰς τῶν Ἀθηναίων ἐπὶ τὸ φρόνημα τὸ πάτριον ταυτί κτλ.; cfr. Thuc. 2, 62, 3; Pavano 1958, p. 185). Il nesso ricorre anche in un passaggio del Rodiaco attribuito ad Elio Aristide in cui si celebra la discendenza dei Rodiesi dai Dori (Or. 25, 42: μηδ᾽ ὑμᾶς ἐκεῖνοι παραμυθῶνται πέμποντες, ἀλλ᾽ ὑμεῖς ἐκείνους, τὸ πάτριον τοῖς Δωριεῦσι σώζοντες φρόνημα, ὃ νῦν ἐν ὑμῖν μόνοις ἢ μάλιστά γε ἐδείκνυτο τῶν Ἑλλήνων). È notevole che il nesso si ritrovi in loci relativi alla gloriosa età classica e all’epoca della libertà delle città greche: Samippo si rifà a un passato perduto e le sue parole, inconsapevolmente pronunciate nella foga del desiderio, suonano amaramente ridicole nella sua bocca. Ἤδη γάρ που καὶ οἱ πολέμιοι ἐπιλαμβάνουσιν … ἐπείγεσθε συμμῖξαι τοῖς ἐναντίοις – Nel mondo greco la battaglia era la prova decisiva che attendeva l’oplita. Era accuratamente studiata secondo un piano preordinato, che si tendeva a qualificare agon, proprio come una gara atletica, ed era scandita, allo stesso modo, da sacrifici preliminari, da uno scontro in campo chiuso e da rendimenti di grazie, accompagnati da offerte (corone e tripodi). Il combattimento stesso si svolgeva lealmente, in modo conforme a pratiche ritualizzate, senza ricercare alcun effetto a sorpresa (Garlan 1991, pp. 66– 68). Negli ordini impartiti da Samippo per fronteggiare la carica degli avversari gli ingredienti basilari di un combattimento rituale ci sono tutti. Il primo di questi è il fatto che preliminarmente, dopo aver concordato con il nemico il luogo dell’incontro e aver disposto l’esercito, si cominciava a camminare in direzione dell’avversario, distante qualche centinaio di metri, che avanzava dalla parte opposta (οἱ πολέμιοι ἐπιλαμβάνουσιν); l’ultimo tratto del campo di battaglia non di rado si percorreva a passo di corsa (ἐπείγεσθε

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III Commento

συμμῖξαι τοῖς ἐναντίοις); alcuni, come gli Spartani, compivano tale marcia in un silenzio assoluto, accompagnati solo dal suono del flauto, altri invece preferivano unirvi suoni di trombe (ἐπειδὰν σημάνῃ ὁ σαλπιγκτής), grida (ἀλαλάξαντες), strepito di armi (τὰ δόρατα κρούσαντες πρὸς τὰς ἀσπίδας) e canti di attacco in onore di Ares-Enialio (τὸ μὲν σύνθημα ἔστω Ἐνυάλιος) signore della guerra (Garlan 1991, p. 68). La critica moderna non sembra essersi avveduta della notevole somiglianza fra questa descrizione e un passo dell’Anabasi di Alessandro di Arriano (Arr. An. 1, 6, 4: ἐπαλαλάξαι ἐκέλευσε τοὺς Μακεδόνας καὶ τοῖς δόρασι δουπῆσαι πρὸς τὰς ἀσπίδας; cfr. ancora An. 3, 9, 7–8 sul diverso modo di scendere in battaglia da parte dei soldati). Ὥστε τὸ μὲν σύνθημα ἔστω Ἐνυάλιος – La parola d’ordine (σύνθημα) scelta da Samippo per incitare i suoi alla battaglia è, naturalmente, “Enialio” (Ἐνυάλιος), antica epiclesi di Ares in rapporto con Enio, dea della strage, figlia o sorella di Ares (Il. 18, 309; cfr. Luc. Cal. 10; Hist. conscr. 26; Bacch. 4: ὁ τοῦ Σιληνοῦ ὄνος ἐνυάλιόν τι ὠγκήσατο) o divinità minore appartenente al corteggio di quest’ultimo (Ar. Pax 457). καὶ ἐντὸς γενέσθαι τῶν τοξευμάτων … ἀκροβολίζεσθαι αὐτοῖς διδόντες – Samippo invita il suo esercito ad assaltare con tale violenza e brutalità il nemico da impedirgli di utilizzare le frecce. Il repentino corpo a corpo elimina così la parte preliminare tradizionale di uno scontro militare, detta ἀκροβολισμός, “scaramuccia” (evocata da ἀκροβολίζεσθαι), fase del confronto bellico diversa dal corpo a corpo in cui gli eserciti si disturbavano lanciandosi armi da getto (Thuc. 7, 25, 5; cfr. Luc. Tim. 3, 45). In tal modo, i temibili arcieri e frombolieri prima evocati da Samippo (§ 34) rimarranno inutilizzati. Questo particolare sottolinea l’irruenza di questo personaggio, che pur di concludere al più presto lo scontro ne stravolge lo schema tradizionale bruciando le tappe (Husson 1970, II, ad loc. [p. 80]). τὸ μὲν εὐώνυμον καὶ ὁ Τιμόλαος ἐτρέψαντο τοὺς καθ᾽ αὑτοὺς Μήδους ὄντας, τὸ δὲ κατ᾽ ἐμὲ ἰσόπαλον ἔτι, Πέρσαι γάρ εἰσι καὶ ὁ βασιλεὺς ἐν αὐτοῖς – Viene finalmente dichiarata l’identità del nemico affrontato da Samippo e dai suoi amici: i Persiani. Si tratta di una rivelazione che non deve sorprendere il pubblico, dato che le imprese di Samippo ricalcano chiaramente, fin dall’inizio, le gesta di Alessandro Magno contro l’Impero persiano. Naturalmente i contemporanei di Luciano sapevano bene che dietro la menzione dei Persiani si celava un riferimento ai Parti, gli acerrimini nemici dei Romani che dell’Impero persiano si dichiarano eredi (cfr. supra comm. ad § 34: ὁ βασιλεὺς δὲ περὶ Κτησιφῶντα … εἶτα εἰς Σελεύκειαν παρελθών), per cui non potevano che sorridere nel richiamare alla mente questo accostamento.



§ 37

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È abitudine di Luciano ritrarre i popoli tramite le caratteristiche tradizionalmente loro attribuite (cfr. supra comm. ad § 2: γλαφυρὸν οὕτω θέαμα ἐκεῖνος ἰδών). Così i Medi sono ricordati di frequente nei Dialoghi per la mollezza e la lascivia (D. mort. 27 [22], 5) o per la perversità e la codardia (D. mort. 12 [25], 2) e, insieme ai Persiani, per la passione per la ricchezza e la superbia (Tim. 42; Dom. 6; Icar. 15) fuori del comune (Gangloff 2007, p. 78 s.). In questo contesto, la distinzione fra il valore dei Medi e quello dei Persiani ripropone la tradizionale opposizione fra la mollezza dei primi e la rudezza dei secondi (Plat. Leg. 695a–b; Xen. Cyr. 1, 3, 2; 8, 1, 40–42 e 3, 1–5; Arr. An. 2, 7, 4–5; cfr. ancora D. mort. 12 [25], 3). Ἰσόπαλος, “uguale nella lotta”, sinonimo di ἰσοπαλής del greco classico, è rarissimo e proprio del greco di epoca imperiale (LSJ9 s.v. ἰσόπαλος [p. 838]; cfr. Xen. Ages. 2; Dio Cass. 40, 42, 1; App. BC 3, 5, 37). Ἡ δὲ ἵππος ἅπασα τῶν βαρβάρων … δέχεσθαι τὴν ἐπέλασιν – In una battaglia, l’urto avveniva frontalmente e dava luogo solo a poche manovre laterali, «a parte il fatto che la falange aveva naturalmente la tendenza ad avanzare obliquamente verso destra, per la semplice ragione che ognuno dei suoi membri si spostava impercettibilmente verso il lato opposto allo scudo per stare accostato al suo vicino di linea. Salvo accidentali rotture del fronte era dunque sulle ali che si decideva l’esito della battaglia: la prima ala destra che riusciva a prevalere provocava a poco a poco lo scompaginamento della falange avversa». La battaglia oplitica si concludeva in genere in una mattinata: il vincitore innalzava un peana di vittoria in onore di Dioniso o Apollo, erigeva sul luogo della vittoria un trofeo con le armi del nemico vinto e concedeva a quest’ultimo il permesso di raccogliere i suoi morti; di ritorno a casa, si innalzavano preghiere di ringraziamento agli dèi accompagnate da sacrifici e banchetti (Garlan 1991, p. 67 s.). Ἐπέλασις, “carica”, “assalto” è proprio del greco di età imperiale (LSJ9 s.v. ἐπέλασις [p. 616]). § 37 Ὢ τῆς τύχης – L’esclamazione di Licino è chiaramente ironica (Ureña Bracero 1995, p. 161 s.). Ἐπ᾽ ἐμὲ γὰρ οἱ ἱππεῖς ἅπαντες … ἐπελαύνεσθαι – Licino asseconda le fantasticherie di Samippo solo per deriderlo, ma l’amico è troppo preso dai suoi sogni per accorgersene. Καί μοι δοκῶ … ἔτι πολεμοῦντας ὑμᾶς καταλιπών – L’idea di Licino di trovar rifugio dalla battaglia correndo verso la palestra vuol rappresentare, probabilmente, una spiritosa frecciata alla precedente – e scortese – affermazione di Samippo, che pur di trovare la palestra ancora aperta si era dichiarato ben disposto a tornare in città senza aspettare l’amico Adimanto (§ 4).

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III Commento

La battuta propone probabilmente una curiosa fusione di due celebri episodi della biografia di Socrate: la fuga dalla battaglia di Delio (Plut. De gen. 581d–e; Alc. 7; Ath. 5, 215c–216c; Luc. VH 2, 23) e la puntata alla palestra di Taurea dopo il rientro dalla battaglia di Potidea (Charm. 153a). Si vede bene da simili contesti come Luciano manipoli la storia con la libertà tipica dei sofisti e, a seconda dell’occasione, si diverta a piegare il passato greco ai capricci del suo estro creativo, non facendosi scrupoli nel riutilizzare una fantasia letteraria a lui gradita. Così la coppia di aneddoti spiritosamente parodiata da Licino in questo contesto è riproposta nel Parassita (§ 43) per dimostrare la codardia dei filosofi e dello stesso Socrate, “che ebbe il coraggio di uscire con l’esercito e si trovò alla battaglia di Delio, [ma poi] fuggì di lì concludendo la sua fuga dal Parnete nella palestra di Taurea” (Nesselrath 1985 ad Par. 43 [pp. 421–423]), sulla scia di una corrente denigratoria della figura socratica «qui n’a rien à voir avec celle de l’ancienne Comédie par la nature de ses traits, mais semble être une déviation purement sophistique de la tradition rhétorique» (Bompaire 1958, pp. 185–187) Κρατεῖς γὰρ αὐτῶν καὶ σὺ ἤδη τὸ μέρος – Sempre più immerso nei meandri della sua immaginazione, Samippo non presta più minimamente ascolto alle parole di Licino, che cerca di riportarlo coi piedi per terra con la forza dell’ironia, e replica all’amico, in maniera tanto disincantata da risultare comica, che, anche non sapendolo, ha già vinto i nemici contro cui gli spettava di combattere. μονομαχήσω πρὸς τὸν βασιλέα· προκαλεῖται γάρ με καὶ ἀναδῦναι ... αἰσχρόν – Il desiderio di confrontarsi in singolar tenzone col proprio avversario riprende un elemento tipico dell’epica eroica, in cui è norma che le straordinarie azioni di una monomachia rendano evidente in tutta la sua eccezionalità il valore dell’eroe, «essere solitario, inesorabilmente votato allo scontro individuale, alla singolar tenzone» (Brizzi 2002, p. 11). Tipicamente epico è anche il fatto che l’eroe provochi l’azione di un avversario o sia da questi provocato (προκαλεῖται … με) e che non possa sottrarsi allo scontro, pena il disonore (ἀναδῦναι πάντως αἰσχρόν), perché un vero eroe non conosce paura o fuga (Camerotto 2001). L’incolmabile distanza ontologica che separa l’aristeuon omerico dall’idiotes Samippo e la differente dimensione in cui i due si muovono (il primo quella del mito, il secondo quella del sogno) non può che generare un contrasto tanto forte da garantire a tutta la scena una fortissima comicità. Luciano ama far riferimento al tema della monomachia (D. mort. 12 [25], 5) impiegando μονομαχέω, che può ricorrere nella descrizione di un vero duello in una battaglia (Hist. conscr. 12; J. tr. 40), di uno spettacolo di gladiatori (Tox. 58, 59) oppure di una parodia di combattimento, come in questo caso (e in D. meretr. 13, 2 e 5), o di una logomachia (Tox. 11; Eun. 3). Dato



§ 37

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che Samippo ricalca passo passo le mirabolanti imprese di Alessandro in Asia, è probabile che anche la singolar tenzone in cui vuol cimentarsi si ispiri a queste: viene in mente, in particolare, il leggendario scontro fra l’esercito di Alessandro e quello di Poro, re dell’India, che, a giudizio di Luciano, qualche storico compiacente trasforma malamente in un’epica monomachia (Hist. conscr. 12), o il duello fra Alessandro e Dario sublimato nel celebre mosaico pompeiano oggi al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Νὴ Δία … Βασιλικὸν γὰρ καὶ τὸ τρωθῆναι περὶ τῆς ἀρχῆς μαχόμενον – Licino ironicamente dichiara che in uno scontro corpo a corpo Samippo sarà irrimediabilmente ferito, giacché le ferite rappresentano un indispensabile ‘abbellimento’ per chiunque desideri diventare sovrano, e così facendo inquadra i bellicosi pensieri dell’amico nella prospettiva della satira, per cui l’essere feriti o uccisi in battaglia non è un bene che ci si possa augurare, perché è l’esatto contrario di ciò che potrebbe costituire una vita felice (Camerotto 2015, p. 318). Ancora una volta, l’ironia di Licino è estremamente fine, tanto che Samippo non la percepisce nemmeno, come si nota dalla sua replica (εὖ λέγεις). Ἐπιπόλαιον μέν μοι τὸ τραῦμα … ἄμορφον γενέσθαι – Il desiderio di Samippo di ricevere una ferita superficiale e in una parte non visibile del corpo, in maniera tale da ottenere una cicatrice che non sfiguri la sua bellezza, è scontato, ma può forse rappresentare un particolare aspetto della gara di celebrità che questi ingaggia con Alessandro, la cui tradizione storiografica ne esaltava sia la bellezza sia le numerose ferite riportate in battaglia. Difatti «tutti i rami della tradizione storiografica su Alessandro Magno, da Arriano a Curzio Rufo, riportano un elenco delle ferite del Macedone e registrano i singoli scontri, nel corso dei quali gli furono inferte. Del resto, essendo Achille il paradigma eroico del re macedone, al quale egli direttamente o indirettamente viene confrontato, ne consegue che tutte le battaglie combattute da Alex. implicano una monomachia e che le sue ferite e la sua aristia hanno sempre un particolare risalto» (D’Angelo 1998 ad Plut. De Alex. fort. I, 327a [p. 150 s., n. 21]; cfr. Arr. An. 7, 10, 2: Alessandro pronuncia un discorso in cui enumera, per vantarsene, le proprie ferite; Luc. D. mort. 12 [25], 5; 14 [12], 5). ἐπελάσας μιᾷ πληγῇ αὐτόν τε καὶ τὸν ἵππον … τὴν κεφαλὴν ἀποτεμών – La descrizione del colpo mortale con cui il nemico è trapassato da parte a parte è tradizionale nei resoconti di battaglie (Arr. An. 1, 15, 8) e perfettamente aderente alla realtà della guerra conosciuta dai sudditi di Roma, il cui esercito aveva in dotazioni armi micidiali capaci di simili atrocità, fra cui il pilum pesante, dotato di un’enorme forza di penetrazione e in grado di trapassare le corazze dei soldati o, comunque, di disarcionare un cavaliere con la semplice forza dell’impatto, e di far stramazzare al suolo un cavallo

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III Commento

colpito a morte (Brizzi 2002, p. 175 s.). Luciano decide di volgere in burla la guerra e la folle voglia di sangue degli uomini per esorcizzarne la tragicità e, per questo, fa sì che Samippo vagheggi un impossibile exploit, ridicolo per la sua fantasmagorica portata, in cui trapassa con un unico colpo di lancia cavallo e cavaliere (cfr. D. mort. 27 [22], 3) e, subito dopo, taglia la testa al suo nemico e, togliendogli il diadema, si incorona re. Lo scrittore rielabora con grande creatività motivi tipici delle narrazioni belliche, stereotipati e intercambiabili, per la cui ripresa sarebbe futile cercare di volta in volta una fonte specifica (Anderson 1976, p. 37 s.). Così Samippo non solo combina insieme i due successi del miles gloriosus Leontico, che uccide un cavallo e il suo cavaliere in un sol colpo in una battaglia contro i Galati e taglia la testa del nemico come trofeo (Luc. D. meretr. 13, 1), ma addirittura supera quest’eccezionale trionfo facendo in modo di impossessarsi della regalità a battaglia ancora in corso. ἀφελὼν τὸ διάδημα – L’onore del diadema ricercato da Samippo rappresenta, con buona probabilità, una nuova allusione alla vita di Alessandro Magno, che rifiutò di indossare quanto c’era di stravagante nell’abbigliamento persiano, vale a dire la tiara (τιάρα), il caftan (κάνδυς) e le brache (ἀναξυρίς), ma si cinse di un diadema (διάδημα), indossando una semplice tunica raggiata di bianco con una cintura (Plut. De Alex. fort. I, 329f–330a; 330f–331a; II, 340b–c; Diod. Sic. 17, 77, 5; Luc. D. mort. 12 [25], 3). L’adozione del diadema regale (cioè dell’abbigliamento persiano) e la presunta discendenza da Ammone vantata dal Macedone costituivano motivi di dissenso già tra i suoi fedelissimi e, in seguito, furono tra gli argomenti maggiormente diffusi nelle scuole filosofiche per tracciare un ritratto ‘negativo’ del sovrano (D’Angelo 1998, n. 11, p. 10). βασιλεὺς ἤδη γέγονα προσκυνούμενος ὑφ᾽ ἁπάντων; – Il desiderio di Samippo di essere onorato come un sovrano orientale, al cui cospetto tutti si prostrano, rappresenta un divertente chiodo fisso di questo personaggio. Particolarmente comico è l’ordine impartito da lui subito dopo (οἱ βάρβαροι προσκυνείτωσαν), come se ciò che è solo nella sua immaginazione fosse realtà, come nei giochi dei bambini. Preferisco inserire il punto interrogativo dopo ἁπάντων, come fanno altri editori, piuttosto che prima del precedente ἀφείς, perché un’unica, concitata interrogativa sembra adattarsi meglio alla descrizione del repentino e grandioso exploit di Samippo. § 38 Οἱ βάρβαροι προσκυνείτωσαν … στρατηγὸς ὀνομαζόμενος – La proskynesis persiana era già stata evocata ironicamente da Licino (§ 30) e, poco prima, seriamente da Samippo (§ 37), che ora corregge il tiro ricordando che non esigerà di essere adorato se non dai barbari, mentre comanderà i Greci con il titolo di stratega unico (appellativo che, per Husson 1970, II, ad loc.



§ 38

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[p. 83], «retrouve ici son sens militaire habituel, et ce n’est plus le magistrat de l’èpoque impériale désigné par ce mot», ricordato supra ad § 14). Samippo pare mostrare la viva preoccupazione di non ripetere l’errore del suo illustre predecessore Alessandro Magno, che, dopo alcune remore iniziali (Plut. Alex. 28, 1–2), volle imporre a tutti, non solo agli asiatici, ma anche ai Macedoni e ai Greci, il bacio con la mano, accompagnato da genuflessione davanti all’ossequiato (proscinesi), e per tutta risposta non solo ottenne lo scherno e la derisione dei Macedoni (Plut. Alex. 74, 2–3), ma innescò anche la pericolosa ‘congiura dei paggi’ alimentata da Callistene di Olinto, che si rifiutò di prostrarglisi davanti (Arr. An. 4, 10–12 e 14, su cui Sisti - Zambrini 2004 ad loc. [pp. 401–412, 415–418]; Luc. D. mort. 12 (25), 3). Ἐπὶ τούτοις ἄρα ἐννοεῖτε … αἵ ἂν ὑβρίσωσί τι ἐς τὴν ἀρχήν – La fondazione di nuove città e la distruzione di quelle già esistenti, che gli oppongono resistenza, è un altro desiderio che Samippo attinge presumibilmentre dalla vita di Alessandro, che, com’è noto, fondò moltissime città (addirittura 70, stando a quanto attesta Plutarco in De fort. Alex. I, 328d–e), prima fra tutte Alessandria d’Egitto, e ne distrusse molte altre, come Tebe, Tiro e Parsa (Plut. De Alex. fort. I, 328a–b, 328f–329a: uno dei grandi meriti di Alessandro è quello di civilizzare re barbari e fondare città greche tra popolazioni selvagge). Concordando con la maggior parte degli editori e con un ramo della tradizione manoscritta, preferisco il pronome relativo femminile αἵ, che si accorda col precedente πόλεις, al maschile οἵ, difeso da Sommerbrodt e da Macleod, che lo ritiene riferito non alle città, ma agli abitanti delle stesse. Ἁπάντων δὲ μάλιστα Κυδίαν τὸν πλούσιον μετελεύσομαι – Cidia è personaggio fittizio e uno dei tanti ‘nomi parlanti’ con cui Luciano materializza una caratteristica tipica di un personaggio ricco o potente, in questo caso la sua fama (κῦδος) incredibile (Ureña Bracero 1995, pp. 185–187; cfr. supra ad § 22: Cleeneto e Democrate). ὃς ὅμορος ἤδη ὤν μοι ἐξέωσεν … ἐς τὸ εἴσω τῶν ὅρων – Le liti fra vicini, da sempre un fenomeno tipico delle comunità umane, anche per l’età imperiale rappresentano una realtà ben attestata dalle fonti e assai diffusa a tutti i livelli della società (Desideri 1978, p. 136; Follet 1994, p. 134 s.). Luciano è abile nel riproporre il topos delle dispute territoriali che possono turbare di colpo una regione (Anderson 1976b, p. 17 s. e n. 25; cfr. Tox. 44 e 49; Icar. 18; Cat. 21; VH 1, 35–36; Gall. 14, 28) unendolo a un secondo motivo topico, quello dell’arroganza del parvenu che saggia il suo potere commettendo atti di prepotenza sui più miseri (Gall. 14; Cat. 12; Tim. 23; cfr. Anderson 1976b, pp. 64, 137 s.; Id. 1977b, p. 367). In questo contesto, in particolare, lo stridente contrasto fra le grandiose imprese sognate da Samippo in terre lontanissime e la sua volontà di darsi a volgari scaramucce fra confinanti

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III Commento

per meschine vendette, una volta raggiunto il potere, rappresenta una sicura fonte di comicità. § 39 Πέπαυσο ἤδη, ὦ Σάμιππε – L’uso dell’imperativo perfetto mediopassivo è un ricercato atticismo (Chabert 1897, p. 188). Καιρὸς γὰρ σὲ ἤδη μὲν νενικηκότα … εὐωχεῖσθαι τὰ ἐπινίκια – Fare sacrifici agli dèi e imbandire un banchetto per una vittoria era un’abitudine per i Greci e per i Romani. I due eventi erano collegati, così che con ἐπινίκια si intendevano sia i sacrifici per una vittoria sia i successivi festeggiamenti (LSJ9 s.v. ἐπινίκιος, 2 [p. 648]: «ἐπινίκια (sc. ἱερά), τά, sacrifice for a victory or feast in honour of it»; Plat. Symp. 173a: τὰ ἐπινίκια ἔθυεν αὐτός; Luc. VH 2, 24; Gall. 21; D. deor. 20 [35], 16; per il mondo romano il termine indica la celebrazione del trionfo: Dio Cass. 36, 25, 3–4; 37, 21, 1–2). Non si può escludere che sia questa l’ennesima volta in cui Samippo si ispira alla biografia di Alessandro Magno, di cui le fonti storiche hanno cura di annotare l’impegno e la cura straordinari nell’allestire un banchetto, il fasto dei pranzi (Plut. Alex. 23, 9–10; 38, 1; 50, 7–11; 53, 3–6; 54, 4–6; 70, 1–2, 3; 72, 1) e la passione smodata per i brindisi e i piaceri della gola (Alex. 23, 6–10), tanto da viaggiare banchettando giorno e notte su una piattaforma coi suoi amici (Alex. 67) e, addirittura, da continuare a bere vino, pur malato, tanto da morirne (Alex. 75, 3–6). ἑκστάδιος γὰρ οἶμαί σοι ἡ ἀρχή – Il riferimento è alla ripartizione della strada dal Pireo ad Atene operata dai quattro amici, su suggerimento di Timolao, all’inizio del gioco dei desideri (§ 16). Παρὰ πολύ … ἐπιπονώτερα καὶ βιαιότερα τῶν Ἀδειμάντου … καὶ ἐφρόντιζες νύκτωρ καὶ μεθ᾽ ἡμέραν – Licino recupera meccanicamente alcune delle espressioni più caratteristiche dei desideri dei suoi amici, quasi a farne il verso, e le accosta alla realtà delle cose per mostrarne l’irreale insensatezza (cfr. supra ad §§ 20 [τὰ δὲ ἐκπώματα οὐ κοῦφα ὡς τὰ Ἐχεκράτους, ἀλλὰ διτάλαντον ἕκαστον τὴν ὁλκήν], 25 [τοῦτον ἐβουλόμην βιῶναι τὸν βίον πλουτῶν ἐς ὑπερβολὴν καὶ τρυφῶν] e 37 [μονομαχήσω πρὸς τὸν βασιλέα … Ἐπιπόλαιον μέν μοι τὸ τραῦμα καὶ οὐκ εἰς τὰ φανερὰ τοῦ σώματος]). Qui Samippo è chiamato a considerare l’enormità dei mali che i suoi sogni di conquista e di potere comportano, in particolare la paura che segue chi tradizionalmente occupa un posto di comando nella società. Il topos dei mali che ricchezza, gloria e potere portano è un tema diatribico tradizionale che rappresenta una sorta di ‛marchio di fabbrica’ dei Dialoghi (cfr. supra comm. ad § 27: ἐῶ λέγειν ὅσας ἐπιβουλὰς μετὰ τοῦ πλούτου καὶ λῃστὰς καὶ φθόνον κτλ.; Gall. 29, 31, 32–33; Tim. 13, 28, 36; Sat. 26–27; D. mort. 4 [14], 2; 5 [15]; 6 [16]; 7 [17]; 14 [12]; 27 [22], 7; Cont. 18; ecc.).



§ 39

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ὦ θαυμασιώτατε βασιλέων – Per il significato di tale forma di invocazione e il suo uso in Luciano cfr. supra comm. ad §§ 12 (ὦ θαυμάσιε) e 30 (ὦ βασιλεῦ). οὐ μόνον γάρ σοι τὰ παρὰ τῶν πολεμίων φοβερὰ ἦν, ἀλλά … καὶ μῖσος καὶ κολακεία – Insidie (ἐπιβουλαί), invida (φθόνος) e odio (μῖσος) erano già stati in precedenza ricordati da Licino, nella critica ai sogni di Adimanto, quali mali esteriori che puntualmente colpiscono le persone ricche e potenti (vd. supra ad § 27). Qui Licino aggiunge l’adulazione (κολακεία), che nei Dialoghi è esecrata come male tremendo, come “consanguinea, anzi sorella della calunnia” (Cal. 20: συγγενής, μᾶλλον δὲ ἀδελφή τις οὖσα τῆς διαβολῆς), ed è frequentemente associata ai potenti, ai quali storicamente è legata a filo doppio (vd. la nota successiva; Tim. 23 e 45–58; Cat. 11; Ind. 11; D. mort. 13, 2; Tosi 1992, p. 135, n° 292: ‛l’adulazione procura gli amici, la verità i nemici’). Che il potere veicoli una sequela di problemi e di mali è un dato tradizionale a cui gli intellettuali nell’antichità davano grande peso: Plutarco, nella vita dedicata ad Alessandro, non si esime dal ricordare i complotti (Alex. 19, 5–10; 49; 55, 3–9; 77, 1–5), le invidie (Alex. 33, 10), le critiche e le proteste (Alex. 41, 1–2; 59, 9), le ribellioni (Alex. 64, 1; 68, 3–7), i malumori dei sudditi (Alex. 71), i sospetti e le paure (Alex. 74, 1–3; 75, 1) che travagliarono la sua spedizione in Asia. φίλος δὲ οὐδεὶς ἀληθής, ἀλλά … πρὸς τὴν ἐλπίδα εὖνοι δοκοῦντες εἶναι – Licino ripropone il tradizionale motivo, caro alla filosofia cinica e alla diatriba, secondo cui attorno alle persone potenti non si affollano amici veri, ma adulatori che fingono amicizia pur di ottenere qualcosa in cambio (Oltramare 1926, p. 58, n° 61: «l’amitié et l’amour véritables sont des privilèges du sage»; p. 59, n° 66b: «les flatteurs sont dangereux»). Quella dell’adulatore (κόλαξ) è una presenza tipica della società greca, presso tiranni e personaggi di alto rango, già nelle età arcaica e classica. È poi l’ascesa al trono dei successori di Alessandro Magno a comportare la nascita di schiere di cortigiani per i quali l’adulazione rivolta al sovrano è garanzia di benessere e stabilità sociale (Dover 1983, p. 385). All’epoca di Luciano ormai la proliferazione degli adulatori costituisce una vera e propria ‛piaga sociale’ che appesta Roma e l’impero: basta leggere fra le pagine dei Ricordi di Marco Aurelio per rendersi conto di come tale fenomeno non risparmiasse nessuno (2, 1; 5, 10; 11, 14). Nella letteratura di età imperiale il tema dell’adulazione diventa per questo di casa: Plutarco compone un De adulatore et amico in cui si chiariscono i modi per riconoscere il vero adulatore dal parassita più grossolano e, inoltre, si studiano gli effetti dell’adulazione sull’animo umano (Gallo - Pettine 1988); al problema di come distinguere un adulatore da un amico dedica un intero discorso Massimo Tirio (14 Trapp; Puiggali 1983, pp. 402–416; Volpe Cacciatore 2000); Luciano para-

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III Commento

gona l’arte dell’adulazione a una vera e propria techne componendo, con il Parassita, un paradossale elogio dell’arte della parassitica (Nesselrath 1985, praes. pp. 89–92 sulle intercambiabili figure del parassita e dell’adulatore in Luciano), mentre nel Timone descrive una comica carrellata di adulatori ridotti alla fuga dal misantropo Timone (§§ 45–58) e nel Tossari propone una ricca serie di motivi tradizionali sull’amicizia (Lizcano Rejano 2000). Ἀπόλαυσις μέν γε οὐδὲ ὄναρ τῶν ἡδέων – Dopo aver contrapposto ironicamente la sua lucidità intellettuale alla stoltezza dei suoi amici, persi dietro i loro sogni (§ 35: ἐγὼ δὲ νήφειν ᾤμην καὶ ὕπαρ ἀποφανεῖσθαι τὴν γνώμην), ecco che Licino ora esplicitamente condanna la logica dei sogni sottesa all’intera composizione e denuncia la stoltezza della prospettiva adottata dai suoi compagni all’inizio del gioco dei desideri (§ 16: ὥσπερ ἡδίστῳ ὀνείρατι ἑκουσίῳ περιπεσόντες, ἐφ᾽ ὅσον βουλόμεθα, εὖ ποιήσοντι ἡμᾶς). Ancora una volta si può notare una decisa consonanza stilistica fra La nave e Il gallo, in cui troviamo un’espressione pressoché identica a quella impiegata in questo contesto da Licino (Gall. 25: ὑφ᾽ ὧν οὐδὲ ὄναρ ἀπολαῦσαί τινος ἡδέος ἐγγίνεται). ἀλλὰ δόξα μόνον – La condanna della gloria (δόξα) fine a se stessa è uno dei principali bersagli della filosofia morale, per cui il saggio è superiore alle opinioni occasionali e mutevoli della folla, crede nella sovranità assoluta dello spirito su tutte le manifestazioni esteriori e confida unicamente in se stesso (Plat. Apol. 29d–e; Diog. Laert. 6, 11 = SSR V A 134, 6–7 [Antistene]: τήν τ’ ἀδοξίαν ἀγαθὸν καὶ ἴσον τῷ πόνῳ; SSR III, pp. 465–468 e V B 266–269: la polemica contro le δόξαι e la φιλοδοξία degli uomini è centrale nel pensiero di Diogene, che contro le convenzioni della società propugna un ritorno alla physis e alla vita naturale; Oltramare 1926, p. 46, n° 15: «la gloire n’est pas un bien»; p. 47, n° 15a: «le déshonneur n’est pas un mal»). Nei Dialoghi è centrale il motivo della fama intesa non come facile notorietà legata a vuote apparenze, ma come un successo professionale costruito attraverso lo studio e l’impegno (Raina 2008). Più in particolare, nella satira lucianea il biasimo della doxokopia, la ricerca spasmodica del successo e della gloria da parte degli uomini, ritorna instancabilmente (Gall. 21–23; Nigr. 4; Icar. 4; Par. 52), ed è diretto, in particolare, contro quella spettacolarizzazione della cultura e della filosofia, tipica dell’età imperiale, che troppo stesso mira più alla forma che alla sostanza e fornisce spettacoli grotteschi e mostruosi, come il suicidio di Peregrino Proteo ridicolizzato nella Morte di Peregrino (Camerotto 2014, p. 127 s.). καὶ πορφυρὶς χρυσῷ ποικίλη καὶ ταινία λευκὴ περὶ τῷ μετώπῳ καὶ δορυφόροι προϊόντες – Gli attributi regali che Licino elenca sono tradizionali.



§ 39

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La veste di porpora e la fascia bianca intorno alla fronte in segno di vittoria distinguono, nei Dialoghi, sia dinasti storici, come Alessandro Magno (D. mort. 13 [13], 4), sia potenti monarchi di fantasia, come il tiranno Megapente del Cataplus (fatto spogliare della porpora in Cat. 28) e, in quanto simboli del potere, vengono bollati da Luciano, secondo i dettami della morale cinica, come vuota ed effimera manifestazione di potenza o di vanagloria. Anche le guardie del corpo sono una presenza storicamente ben attestata presso numerosi dinasti dell’antichità (Xen. Cyr. 8, 5, 3) e, in particolare, presso i tiranni (Luc. Cat. 13), tanto che nelle declamazioni sofistiche questi personaggi sono indissolubilmente legati a queste figure (Luc. Tyr. 5, 7, 8, 15, 16; Lib. Loc. 4, 11; Loc. 5, 2 e 4; Chor. Tyr. 8, 14–15; Malosse 2006, p. 168 s.; Tomassi 2015, p. 252). τὰ δ᾽ ἄλλα κάματος ἀφόρητος … ἢ ἐπελαύνουσί τινες τῶν ἔξω τῆς ἀρχῆς – Licino continua a mostrare a Samippo la futile e, insieme, pericolosa natura dei suoi sogni, ricordandogli la fatica insopportabile (κάματος ἀφόρητος) e la gran noia (ἀηδία πολλή) che si accompagnano all’attività di dinasta, la cui tranquillità è continuamente minata da molteplici preoccupazioni, come fare negoziati coi legati dei nemici, emettere giudizi, inviare ordini ai sudditi, sedare ribellioni o invasioni (Plut. De Alex. fort. I, 327c–d, II, 341e–f, 342c–d: Alessandro Magno dovette fronteggiare rivolte, diserzioni, sommosse di popoli e ribellioni di re). Luciano ripropone in questo contesto il tradizionale topos cinico-diatribico delle infinite sventure che si accompagnano a una posizione di prestigio (Oltramare 1926, p. 47, n° 17: «la puissance d’un monarque n’est pas un bien»; p. 60, n° 71: «le sage ne doit pas s’occuper des affaires publiques»; n° 72b: «le sage ne s’occupe pas des guerres»). Questo non rappresenta solo uno dei temi su cui si fondano le critiche di Licino nel nostro dialogo (cfr. supra: οὐ μόνον γάρ σοι τὰ παρὰ τῶν πολεμίων φοβερὰ ἦν, ἀλλὰ καὶ ἐπιβουλαὶ μυρίαι καὶ φθόνος παρὰ τῶν συνόντων καὶ μῖσος καὶ κολακεία), ma è anche uno dei motivi principali della satira lucianea alla società. Si tratta di un motivo così diffuso nella tradizione letteraria che pare inutile e, anzi, rischioso pensare che questo passo sia modellato su uno specifico ipotesto di riferimento (cfr. Husson 1970, II, ad loc. [p. 86]: Luciano si ispira al passo della Repubblica di Platone [577c– 580c] in cui si parla della misera condizione del tiranno). Χρηματίζειν appartiene alla terminologia dell’amministrazione ateniese, in cui indica l’azione di discutere le questioni all’ordine del giorno in assemblea (Arist. Ath. pol. 43, 6; 44, 3): in questo contesto vale ‛dare udienza’ per trattare con dei delegati o nell’amministrare la giustizia (cfr. Tox. 44; Icar. 23; Sat. 25; Pseudol. 12), mentre altrove è spiritosamente applicato al mondo olimpico per definire la capacità degli dèi di esaminare ed esaudire le preghiere (Icar. 26; Pseudol. 8; Sat. 7).

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III Commento

Δεδιέναι οὖν δεῖ πάντα … ἢ ὑπὸ σεαυτοῦ εὐδαιμονίζεσθαι – Se il discorso di Samippo è finalizzato a quell’equiparazione fra ricchezza e felicità che è tipica della mentalità dell’uomo comune, per cui l’esser felice (εὐδαιμονεῖν) è fondato sul possesso di beni materiali, Licino rovescia questo modo di pensare mostrando di disprezzare la ricchezza, il potere e la fama, secondo la concezione morale stoico-cinica condivisa dagli intellettuali della Seconda sofistica. I cinici, in particolare, rifiutano la condizione di felicità vagheggiata dalla morale tradizionale, che implica un buon rapporto con se stessi e sottintende la possibilità di una vita agiata nella ricchezza (Hdt. 1, 133, 1), a patto che questa sia gestita con virtù (Hes. Op. 312–313; Sol. fr. 15 W.² = 6 G.–P.²; Sapph. fr. 148 Lobel-Page; Thgn. 149–150; 465–466; 753–756; Pind. ol. 2, 11–12, 58–60; Aesch. Eu. 526–544; De Heer 1969, pp. 19–67); al contrario, dimostrano di apprezzare un ideale di tranquillità in una vita povera, ma dignitosa, che si inscrive nell’alveo dell’intellettualismo socratico, dove la virtù è il solo e vero motivo della felicità dell’uomo, perché lo libera dalla schiavitù del vizio e delle passioni (Diog. Laert. 6, 11 = SSR V A 134, 3 [Antistene]; Stob. 4, 39, 20 = SSR V B 301; Goulet-Cazè 1986, pp. 38–42 e 71–76). È la morale diatribica a volgarizzare il concetto di felicità (Oltramare 1926, p. 44 s., n° 1: «la morale importe seule au philosophe»; n° 10: «la morale a le bonheur comme fin»; n° 11: «la tranquillité de l’âme donne le bonheur»; Muson. 30, 7–10; 33, 5–6; 90, 13–17) ed è da questa tradizione, in particolare, che discende quell’ideale della laeta paupertas, tipico delle argomentazioni filosofiche antiche (Sen. epist. 2, 6: illa vero non est paupertas, si laeta est: non qui parum habet, sed qui plus cupit, pauper est), che i moralisti dell’epoca di Luciano continuamente propagandano (Dio. Chr. or. 32, 7; Plut. De virt. et vit. 101d; De cup. divit. 523d, su cui CapriglioneTorraca 1996 ad loc. [p. 163 s.]; Max. Tyr. 33 Trapp; Jul. or. 9, 193d–194b: lo scopo e il fine della filosofia cinica, come di tutta quanta la filosofia, è la felicità). § 40 Καὶ γὰρ οὖν καὶ τόδε πῶς οὐ ταπεινόν … σε βασιλέα ὄντα – Licino ripropone il luogo comune della connessione fra morbo e ricchezza prima impiegato per demolire i sogni di Adimanto (§ 27). Se Luciano è bene informato su numerose questioni mediche e ha in gran considerazione coloro che professano seriamente l’arte della medicina (cfr. supra comm. ad § 27: ἢ οὐχ ὁρᾷς πολλοὺς τῶν πλουσίων … ὑπὸ τῶν ἀλγηδόνων), non si esime dallo sfruttare la malattia per fini comici, restando «l’homme du σπουδογέλοιον, qui tempère le sérieux par la dérision. Pour lui la maladie a des vertus para­ doxales mais certaines: devant elle les hommes sont égaux, les rois sont touchés comme les mendiants. Et cela le conduit à une réflexion constante sur la mort qui frappe les hommes quand elle veut. […] Lucien relativise



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ainsi l’importance de la science médicale, en une démarche qui lui est familière dans bien des domaines» (Bompaire 2001, p. 154). οὐδ᾽ ὁ θάνατος δέδιε τοὺς δορυφόρους … οὐκ αἰδούμενος τὸ διάδημα; – Licino continua nella sua opera di demolizione dei sogni di Samippo ricordandogli che, nonostante la sua potenza, è destinato a morire come chiunque altro, perché la morte non risparmia nessuno. In tal modo Luciano ripropone il motivo, caro alla morale filosofica antica, della condizione mortale ed effimera degli esseri umani, che già aveva costituito un elemento fondante della critica ai sogni di Adimanto (§ 26). Grazie al richiamo alle guardie del corpo di cui vorrebbe dotarsi Samippo (§ 39) e al diadema regale da lui desiderato a coronamento delle sue imprese (§ 37), tale motivo è ricollegato al contesto del dialogo senza venir riproposto con un’arida e meccanica ripetizione e, al tempo stesso, è fonte sicura di comicità, data dalla ripresa in chiave negativa e denigratoria di un elemento attinto da un contesto (i sogni di Samippo) in cui, di contro, rappresentava un fattore del tutto positivo. L’inserzione in questo contesto di οἰμώζω, “gemo”, “mi lamento”, permette di ricordare che se pure in Luciano il riso costituisce l’arma principale del personaggio satirico (cfr. l’introduzione al § 1.6.2), anche il pianto e il lamento degli altri diventano strumenti della satira e smascherano gli uomini che vivono una vita senza virtù e alla fine non possono che dolersene: così piangono e si lamentano a più non posso nell’Ade le anime dei morti – ricchi, potenti, filosofi, uomini comuni – rimpiangendo la loro vita terrena (D. mort. 1 [1], 1 e 2; 10 [20], 11; 20 [6], 6; 21 [4], 2; 24 [29], 3; 27 [22], 6; Nec. 18; Cont. 1); geme per le ferite ricevute Alessandro Magno, facendo ridere tutti perché aveva preteso di essere figlio di un dio (D. mort. 14 [12], 5); anche i poveri si lamentano della loro condizione sulla terra, senza pensare che nell’aldilà tutti saranno uguali (D. mort. 1 [1], 4). È da dire che non di rado il pianto ha finalità puramente comiche: Timone desidera far piangere e lamentarsi chiunque gli si pari davanti (Tim. 34, 37, 45, 55, 58) e, agendo come un automa, suscita riso (Tomassi 2011, p. 34 s.); Zeus vuol far piangere chiunque faccia soffrire Ganimede (D. mort. 5 [8], 5); un vecchio riccone invita i suoi adulatori a piangere alla lettura del suo testamento quando scopriranno che non ha lasciato loro niente (D. mort. 9 [19], 3); Eraclito fa impazzire Hermes e chi vuol comprarne la vita con le sue oscure parole, invitando tutti a innalzar lamenti (Vit. auct. 14). Σὺ δέ, ὁ οὕτως ὑψηλός, … τὴν αὐτὴν ὁδὸν ἄπει τοῖς πολλοῖς – La satira di Licino rovescia le credenze comunemente condivise dagli uomini e precipita in basso ciò che più questi elevano in alto (in questo caso la regalità). Tale immagine, vividamente espressa anche più in là (cfr. ad § 46: αὐτοὶ δὲ καταβάντες ἀπὸ τῶν θησαυρῶν τε καὶ διαδημάτων ὥσπερ ἐξ ἡδίστου ὀνείρατος ἀνεγρόμενοι), si ricollega al noto motivo proverbiale “quanto più

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III Commento

in alto un uomo sale, da tanto più in alto cadrà” ben attestato nell’antichità (vd. Juv. 10, 104–107; Sen. Epist. 91, 13; 110, 3; Tosi 1992, p. 461, nº 987). ἰσότιμος ἐλαυνόμενος ἐν τῇ ἀγέλῃ τῶν νεκρῶν – Tutto il discorso di Licino è connotato da uno stile entafico, caratterizzato da frasi lunghe, frequenti domande e termini ricercati come ἀγέλη, “gregge”, che pur se veicola una metafora di uso corrente presso i Greci (Taillardat 1965, p. 379, n° 664), è di ascendenza omerica e ricorre nella poesia alta (Husson 1970, II, ad loc. [p. 87]). Luciano ama rappresentare la vita umana in forma simbolica e ricorre di frequente a immagini per esprimere i suoi concetti e fornire, in forma piana e familiare, importanti insegnamenti morali (D’Agostino 1956): gli uomini sono così da lui variamente paragonati agli abitanti di un alveare, in cui tutti si affannano senza sosta (Cont. 15); alle bolle d’acqua di una cascata, inevitabilmente destinate a scoppiare, quale prima quale dopo (Cont. 19); a un coro confuso in cui ognuno cerca di superare inutilmente l’altro (Icar. 17); alle pecore che procedono in gruppo, indistintamente e senza criterio, come coloro che, per credulità e stupidità, seguono la massa senza porsi troppe domande (Herm. 68, 73; Alex. 15). In questo caso la lunga schiera di morti che, come le pecore, procedono in una fila ordinata in cui nessuno è più importante dell’altro, ma ognuno rispetto al suo prossimo è di pari valore (ἰσότιμος), materializza il tradizionale pensiero cinico – chiave di volta dei Dialoghi dei morti – secondo cui la vita va vissuta saggiamente, senza sprecare tempo dietro ai beni terreni e vivere in funzione di un’esistenza vuota che non si riuscirà a godere, perché la morte arriva all’improvviso, togliendoci tutto (cfr. supra ad § 26: ἐθέλεις καταριθμήσομαί σοι τοὺς μὲν αὐτίκα πρὶν ἀπολαῦσαι τοῦ πλούτου ἀποθανόντας) e portando il livellamento di ognuno nel nulla. χῶμα ὑψηλὸν ὑπὲρ γῆς – Le allusioni agli onori postumi nei Dialoghi sono destinate a mostrare l’inutile vanità di affidare il ricordo di un morto a una pietra tombale, il cui valore è effimero e, pertanto, risibile. In generale, risibili sono per Luciano, erede della tradizione cinica e menippea, le tradizioni religiose e funerarie (Luct.; Cont. 22; Nec. 17; D. mort. 10 [20], 6; Cat. 9, 11; Scyth. 1–2), dato che in tale ambito potevano raggiungersi picchi insuperabili di magnificenza, ostentazione e cattivo gusto, come prova la celebre descrizione del monumento funebre di Trimalcione, che traduce a livello letterario lo spropositato e volgare sfarzo di molte tombe di liberti di età imperiale (Bianchi Bandinelli 1967). È così che il satirico non si stanca di deridere e mettere in ridicolo quanto di sacro non ha nient’altro che il nome, giacché, come ricorda lui stesso, “tumuli, in realtà, piramidi, stele, epigrammi, tutte cose che durano poco tempo, non sono superflue e simili a balocchi?” (Luct. 22: χώματα μὲν γὰρ καὶ πυραμίδες καὶ στῆλαι καὶ ἐπιγράμματα



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πρὸς ὀλίγον διαρκοῦντα πῶς οὐ περιττὰ καὶ παιδιαῖς προσεοικότα). La pungente ironia e lo scetticismo solitamente impiegati da Luciano per stigmatizzare le mode intellettuali, i fanatismi di ogni sorta e i vizi più bassi e volgari dell’uomo servono così a dimostrare agli ascoltatori quanto poco debbano essere valutate le credenze, i riti e le usanze relativi alla morte: «nella critica lucianea il bersaglio è dunque rappresentato da quelle convenzioni comuni e condivise che riguardano tutti, ossia la stoltezza del sentire comune che spinge a conservare gli usi e i costumi al di là della loro irrazionalità: tutti siamo coinvolti in questo che Luciano chiama il νόμος τῆς ἀβελτερίας», “il costume della stupidità” (Camerotto 2015, p. 312). καὶ στήλην μακράν – L’immagine della stele è tradizionale nell’opera lucianea (cfr. supra comm. ad § 34: ἐπὶ τῆς ἀνατετραμμένης στήλης). ἢ πυραμίδα εὔγραμμον τὰς γωνίας ἀπολιπών, ἐκπρόθεσμα καὶ ἀνεπαίσθητα φιλοτιμήματα – Considerevole è la scelta accurata dei vocaboli impiegati in questo contesto, rari e propri del lessico di età imperiale, che comprende: εὔγραμμος (cfr. J. tr. 33, Im. 6), ἐκπρόθεσμος (cfr. Herm. 80, Anac. 39, Sat. 2), ἀνεπαίσθητος (cfr. Sat. 33) e φιλοτίμημα (cfr. Tim. 43). Questa scrupolosa cura lessicale è uno degli espedienti con cui Luciano riesce riproporre in maniera originale materiali stereotipati, in questo caso l’antico motivo polemico dell’inutilità degli onori tributati ai morti. Si deve rimarcare in questo passaggio anche la precisione con cui Luciano, come di consueto, segnala al pubblico i dettagli significativi di un’opera d’arte (si confronti la cura con cui è descritta la perizia compositiva del gruppo dei Tirannicidi di Critio e Nesiote in Rh. pr. 9). Notevole in questo caso è la descrizione della piramide come di un edificio “dagli angoli ben delineati” (εὔγραμμος), che presumibilmente deriva dall’osservazione diretta di un monumento di questo tipo. Εἰκόνες δὲ ἐκεῖναι καὶ νεῴ … καὶ τὸ μέγα ὄνομα – Luciano giudica negativamente la passione della sua epoca di concedere o pretendere onori con estrema facilità, facendosi portavoce di un antico motivo critico che ha grande diffusione nella filosofia popolare di ispirazione cinico-stoica (Oltramare 1926, p. 65, n° 93: «les temples et les objets du culte ne méritent aucun respect particulier»). Le statue (εἰκόνες) sono probabilmente il simbolo più evidente dell’innato desiderio dell’uomo di ottenere riconoscimento sociale: a queste Luciano non risparmia di applicare costantemente la propria critica, specialmente quando vengono assegnate senza meriti reali (Lex. 11; Demon. 58; Nigr. 29; Salt. 14; Peregr. 41; Anach. 17; Tim. 51; Cat. 11; Blümner 1867, p. 51; Geagan 1967, p. 87s.; Camerotto 2014, p. 297 s.). La vena satirica lucianea trova terreno fertile nella società contemporanea, in cui la vuota esibizione del potere arriva a produrre spettacoli ridicoli e grotteschi: basti ricordare

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III Commento

che Dione Crisostomo è costretto a denunciare la stravagante e sconcertante pratica dei Rodiesi di onorare i personaggi più influenti passanti per l’isola, in special modo Romani, con statue onorifiche già esistenti, le cui antiche dediche erano erase per lasciare spazio a nuove iscrizioni dedicatorie (Dio Chr. or. 31; Desideri 1978, pp. 110–116). La menzione dei templi (νεῴ) rafforza la condanna della pretesa di titoli e attributi divini che sovente, nei Dialoghi, colpisce uomini comuni, atleti, filosofi, presunti saggi (Anach. 10–11; Herm. 5; Alex. passim; Peregr. passim; Deor. conc. 12). La traduzione italiana non riesce a rendere il gioco di parole sotteso al nesso εἰκόνες ... ἐκεῖναι καὶ νεῴ, che si basa su uno dei tanti accostamenti fonici tipici del modus scribendi lucianeo (cfr. supra ad § 21: οὐ σκύφον, ἀλλὰ Σισύφειόν τι βάρος). πάντα κατ᾽ ὀλίγον ὑπορρεῖ καὶ ἄπεισιν ἀμελούμενα – La critica di Licino sfrutta ancora una volta l’antico motivo diatribico della caducità e del valore effimero dei beni vagheggiati dall’uomo (cfr. supra comm. ad § 26: τοὺς μὲν αὐτίκα πρὶν ἀπολαῦσαι τοῦ πλούτου ἀποθανόντας). Qui il topos risulta vivificato dalla presenza di ὑπορρεῖ, “scorre via”, che veicola perfettamente l’antica idea secondo cui lo scorrere inesorabile del tempo inghiotte e fa scomparire ogni cosa (cfr. Ar. Nub. 1288–1289: πλέον πλέον τἀργύριον ἀεὶ γίγνεται / ὑπορρέοντος τοῦ χρόνου). Ἢν δὲ καὶ ὅτι μάλιστα ἐπὶ πλεῖστον παραμένῃ, τίς ἔτι ἀπόλαυσις ἀναισθήτῳ αὐτῷ γενομένῳ; – Licino ripropone il topos dell’incapacità dei ricchi di godere di ciò che hanno a causa della consistenza effimera della vita (vd. supra ad § 26: τοὺς μὲν αὐτίκα πρὶν ἀπολαῦσαι τοῦ πλούτου ἀποθανόντας). Come d’abitudine, Luciano recupera un pensiero tradizionale restituendolo in maniera originale, giacché nell’affermare che morendo all’uomo non rimane alcun godimento (ἀπόλαυσις), in quanto privo di sensazioni (ἀναισθήτῳ), lo scrittore propone una gustosa parodia della dottrina di Epicuro, secondo cui l’uomo non deve temere di morire, perché se per l’essere umano ogni bene o male deriva dalle sensazioni, la morte non deve spaventare in quanto è assenza di sensazioni (Epic. Epist. ad Men. 124: συνέθιζε δὲ ἐν τῷ νομίζειν μηδὲν πρὸς ἡμᾶς εἶναι τὸν θάνατον· ἐπεὶ πᾶν ἀγαθὸν καὶ κακὸν ἐν αἰσθήσει· στέρησις δέ ἐστιν αἰσθήσεως ὁ θάνατος. ὅθεν γνῶσις ὀρθὴ τοῦ μηθὲν εἶναι πρὸς ἡμᾶς τὸν θάνατον ἀπολαυστὸν ποιεῖ τὸ τῆς ζωῆς θνητόν, οὐκ ἄπειρον προστιθεῖσα χρόνον, ἀλλὰ τὸν τῆς ἀθανασίας ἀφελομένη πόθον; cfr. Peregr. 42: μηδὲ ἀπολαύειν τῶν ἐπαίνων ἔμελλεν ἀναίσθητος αὐτῶν γενόμενος). Il presente contesto invita a ricordare che il rapporto di Luciano con la filosofia è ambivalente e basato tanto sull’omaggio quanto sul parassitismo letterario, come l’autore prova nei confronti dell’epicureismo, di cui a volte esalta la dottrina, altre volte sfrutta



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i contenuti per alimentare la sua satira in un raffinato gioco di mimesi (Camerotto 2014, pp. 34 s., 282 [Alex.]; 62 s. [Philops.]; 81, 254 s. [J. tr.]). Ὁρᾷς οἷα μὲν ζῶν ἔτι ἕξεις πράγματα … καὶ μετὰ τὴν ἀπαλλαγὴν ἔσται; – Si conclude la critica di Licino al desiderio di Samippo, al cui interno la guerra non viene biasimata in quanto tale, ma solo per tutto il peso che comporta per un condottiero. Quest’atteggiamento è caratteristico di Luciano, a cui il conflitto appare come una circostanza naturale della vita degli uomini, tanto quanto la pace, e in quanto tale da accettare con rassegnazione (Par. 39; Icar. 12) o fare diventare oggetto di burla, per esorcizzarla, come illustrano le comiche obiezioni di Licino a Samippo e numerosi altri loci lucianei (D. meretr. 1, 9, 13, 15; D. mort. 4 [14], 1–2; Eun. 3; Bompaire 1958, p. 205 s.). Similmente nel corpus lucianeum i militari appaiono ben visti solo in un limitato numero di occasioni, mentre nella maggior parte dei casi rappresentano un ottimo bersaglio per attacchi burleschi, per quanto il mondo della guerra non rappresenti un motivo di riso così prolifico come altri (Bravo 1977). Con la triplice serie participiale (δεδιὼς καὶ φροντίζων καὶ κάμνων) Licino condensa tutto il cumulo di mali derivati dal potere che, nel corso della sua critica, ha minuziosamente illustrato all’amico Samippo. Si tratta di una struttura lessicale che Luciano ama impiegare per riassumere un discorso (cfr. Tim. 17 [πρὸς ἐνίων μὲν ἀτίμως λακτιζόμενος καὶ λαφυσσόμενος καὶ ἐξαντλούμενος] e vd. Tomassi 2011 ad loc. [p. 311]). § 41 Ἀλλ᾽ ἤδη σὸν αἰτεῖν, ὦ Τιμόλαε … πράγμασιν χρῆσθαι εἰδότα – Nei sogni di Adimanto, Samippo e Timolao la progressione è tale per cui a quest’ultimo spetta il desiderio meno lungo (§§ 41–44), ma senz’altro più complesso e assurdo dei tre. La brama di Timolao di ottenere poteri che lo faranno diventare simile a un dio rappresenta, infatti, il culmine della climax iniziata con i sogni di ricchezza di Adimanto e proseguita con le ambizioni di potere di Samippo. Di conseguenza, ora che Licino invita caldamente l’amico a non cadere nell’errore dei suoi amici e a formulare una preghiera consona alla sua personalità, il pubblico viene preparato ad ascoltare un desiderio pensato in maniera sapiente e avveduta, ma questa aspettativa è puntualmente ‘disattesa’ da chi dovrebbe mantenerla, così che il contrasto stridente fra i due momenti narrativi genera facile comicità. Licino non interrompe mai Timolao durante il suo delirio e lo critica solo alla fine (§ 45), «perché la vittima prenda da ciò fiducia e coraggio a parlare, e sia poi più acerbamente colpita» (Moricca 1914, p. 330). L’invettiva mordace di Luciano si appunta, in questa sezione del dialogo, sia sull’ignoranza credulona dell’uomo superstizioso, sempre pronto a prestar fede a tutto ciò che sappia di magico e di favoloso, sia sull’impostura di quanti approfittano della credulità della gente per arricchirsi alle sue spalle, come i protagonisti

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III Commento

del Philopseudes, i creduloni e i ciarlatani sbeffeggiati nella Podagra, gli innamorati del fantastico a cui è idealmente rivolta la Storia vera e, soprattutto, il filosofo Peregrino, preso di mira nella Morte di Peregrino, e il falso profeta Alessandro, vera e propria bestia nera di Luciano, ritratto nel caustico pamphlet Alessandro o il falso profeta (Caster 1938; Scharwz 1951; Hall 1981, pp. 207–220, 339–354; Anderson 1982, p. 89; Tedeschi 1998). Che la società dell’epoca imperiale creda fortemente alla magia, a tutti i livelli, è provato dai papiri magici egizi, in cui non solo troviamo rimedi adatti a curare malanni più o meno gravi (come febbre, erisipela, bolle della pelle, tosse, tumori, punture di scorpioni) o a far aumentare la fertilità, ma si trova menzionato anche ciascuno dei poteri che Timolao vuole acquisire e si fa esplicito riferimento ad anelli di ferro protettivi (Parsons 2014, pp. 238–240; cfr. Ogden 2002 [con ottima bibliografia]). Gli stessi imperatori romani sono legati alla superstizione e alla fede nelle pratiche magiche, come Adriano (Dio Cass. 69, 11, 4; 22, 1; HA V. Hadr. 16, 7), il cui liberto Flegonte di Tralle scrisse un Περὶ θαυμασίων, e Marco Aurelio (Luc. Alex. 48; Tomassi 2017, p. 340 s.). Luciano mostra una grande curiosità nei confronti delle arti magiche, come provano le sue frequenti parodie di incanto (ἐπῳδή), così come la menzione frequente nella sua opera di numerosi oggetti ed elementi magici, fra cui, oltre agli anelli (Philops. 17), ci sono ali (Icar. 3, 10), piume (Gall. 28), statue (Philops. 18–21, 33), oggetti animati (Philops. 35–36), incantesimi (Demon. 23; Nec. 7; Philops. 14), monete (Philops. 15), varie parti di animali (Philops. 7, 8), vesti (Nec. 8), una pietra scalpellata dalla stele di una vergine morta (Philops. 11), e così via (Anderson 1976, pp. 31, 52, 64, 106–108, 128; Ureña Bracero 1995, pp. 147–153 [parodia di incantesimi in Luciano]; Felton 2001; Nesselrath 2001; Fuentes González 2005, pp. 155– 157 [prospetto bibliografico sull’attitudine di Luciano verso la religione, la magia e la superstizione]). Σκόπει γοῦν … εἴ τι ἐπιλήψιμον εὔξομαι καὶ ὅ τι ἂν εὐθῦναί τις δυνηθείη – Con la sua ingenua presunzione, Timolao è destinato a strappare una grassa risata a chi si appresta ad ascoltare il suo desiderio, perché pur avendo modo di far tesoro dagli errori di chi l’ha preceduto, la sua preghiera sarà assolutamente più delirante di quelle di Adimanto e di Samippo. Suo malgrado, l’uomo si dimostra incarnazione perfetta di uno dei comportamenti più puerili degli uomini, stigmatizzato nell’antichità da tanti modi di dire, fra cui: “abbiamo davanti agli occhi i vizi degli altri, mentre i nostri ci stanno dietro” (Sen. Ir. 2, 28, 8: aliena uitia in oculis habemus, a tergo nostra sunt), “notate i foruncoli degli alti, mentre voi siete ricoperti di ulcere” (Sen. Vit. beat. 27, 4: papulas obseruatis alienas, obsiti plurimis ulceribus), e simili (Tosi 1922, pp. 578–581, nnº 1288–1291).



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Ἐπιλήψιμος, “biasimevole”, “riprovevole” pertiene al lessico di età imperiale (Philostr. VA 4, 43; Luc. Rh. pr. 22; Max. Tyr. 18, 6 Trapp; Polem. 2, 34). Χρυσὸν μὲν οὖν … καὶ πλέον τοῦ ἡδέος τὸ ἀνιαρὸν ἐν αὐτοῖς ἦν – Timolao punta a sottolineare l’originalità del suo discorso organizzando il pensiero in maniera artificiosa per fare il verso tanto ai desideri di Adimanto e di Samippo quanto alle critiche di Licino (Husson 1970, II, ad loc. [p. 87]). Le preghiere dei due amici, in particolare, sono riassunte con due triplici serie di desiderata, in cui l’ultimo elemento è dato dall’unione di un sostantivo con un complemento (χρυσόν … καὶ θησαυροὺς καὶ μεδίμνους νομίσματος e βασιλείας καὶ πολέμους καὶ δείματα ὑπὲρ τῆς ἀρχῆς), mentre una sequenza tripartita denuncia tali desiderata come instabili (ἀβέβαια), legati a numerose insidie (πολλὰς τὰς ἐπιβουλὰς ἔχοντα) e pieni di dolore (πλέον τοῦ ἡδέος τὸ ἀνιαρὸν ἐν αὐτοῖς ἦν; cfr. Cont. 18: πλείω τῶν ἡδέων τὰ ἀνιαρά), sul modello delle precedenti critiche formulate da Licino. εἰκότως διέβαλες – Dopo διέβαλες nell’editio principes viene aggiunto οὐκ αἰτήσομαι, sulla scorta di un ramo della tradizione in cui si trova οὐ κτήσομαι, per risolvere le difficoltà provocate dal precedente pronome relativo, presente in una parte dei manoscritti (ἅ), che lascia la frase in sospeso: si avrebbe così χρυσὸν μὲν οὖν καὶ θησαυροὺς κτλ. ..., ἃ εἰκότως διέβαλες, οὐκ αἰτήσομαι. Macleod non accoglie tale proposta ed espunge il pronome, frutto presumibilmente di un errore nella tradizione, che può aver poi provocato l’interpolazione del testo tradito con l’aggiunta di οὐ κτήσομαι. § 42 Ἐγὼ δὲ βούλομαι τὸν Ἑρμῆν ἐντυχόντα μοι δοῦναι δακτυλίους τινὰς τοιούτους τὴν δύναμιν – Timolao invoca Hermes in qualità di dispensatore degli anelli magici che desidera, poiché il dio era patrono della magia e di­ spensatore di prodigi, che realizzava grazie alla sua bacchetta dalle magiche virtù (Ogden 2002, nn° 134 e 242, pp. 172 s. e 251–253 [su Apul. Apol. 42–43, 61, 63–64]: figurine di Hermes erano usate nei riti magici; nn° 169, 176–177, 200, pp. 211, 215 s., 229: Hermes è invocato nelle defixiones). Alla forza magica di Hermes Luciano accenna più volte nel corso della sua opera (Cont. 3–7; Gall. 28; D. mort. 23 [28], 3; cfr. Tosi 1992, p. 412, nº 875: “se tutto ciò che riguarda il mangiare e il vivere ci fosse fornito come dalla bacchetta di un dio”; Muñoz Delgado 2001 s.v. Ἑρμῆς [p. 47]). Il potere magico degli anelli costituisce un noto motivo popolare e un tema letterario frequentatissimo fin dall’antichità: basti ricordare la scena del Satyricon in cui Trimalcione passa un anello da una mano a un’altra per scongiurare una sventura preannunciata dal canto fuori tempo di un gallo (Petron. 74, 2). Nei papiri magici greci ricorre di frequente la menzione di anelli magici in grado di assicurare al loro possessore incredibili capacità (Muñoz Delgado 2001 s.v. δακτύλιος [p. 29]) e in uno di questi, in particola-

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III Commento

re, si cita un “anello di Hermes” (Ἑρμοῦ δακτύλιος) e si danno le istruzioni per prepararlo (PGM V, 214–305). Enumerando i diversi anelli con incredibili poteri da lui desiderati, Timolao anticipa tutti i temi che poi riprenderà senza ordine e parecchie volte nel resoconto delle sue immaginarie avventure. Di particolare rilievo è il motivo della ‘visione dall’alto’, a cui Timolao accenna soltanto nella presentazione dei poteri che desidera (§ 42: ἔτι δὲ καὶ πέτεσθαι πολὺ ἀπὸ τῆς γῆς ἀρθέντα, καὶ πρὸς τοῦτο εἶναί μοι δακτύλιόν τινα; vd. comm. ad loc. su tale tema), ma che svilupperà per esteso successivamente (§ 44). ἕνα μὲν ὥστε ἀεὶ ἐρρῶσθαι καὶ ὑγιαίνειν τὸ σῶμα καὶ ἄτρωτον εἶναι καὶ ἀπαθῆ – Desiderando per primo un anello che gli doni forza, salute e invulnerabilità Timolao si assicura di prevenire e smorzare alcune obiezioni mosse in precedenza da Licino sia ad Adimanto (§ 27: ἵνα δέ σοι καὶ τούτους ἀφῶ, τό γε ὑγιαίνειν ἐχέγγυον οἴει σοι γενήσεσθαι καὶ βέβαιον;) sia a Samippo (§ 40: καὶ γὰρ οὖν καὶ τόδε πῶς οὐ ταπεινόν, ὅτι καὶ νοσεῖς τὰ ὅμοια τοῖς ἰδιώταις κτλ.). La pretesa di ottenere protezione e vigore tramite le arti magiche è radicata nell’uomo greco fin dalla più remota antichità e si mantiene salda nel corso del tempo: già nell’Odissea si racconta che una ferita di Ulisse è curata con una fasciatura e un incantesimo (Od. 19, 449–458), mentre nell’Atene di Socrate un amuleto è donato a Pericle affinché guarisca dalla peste (Plut. Per. 38), e in età imperiale formule magiche contenute nei papiri o sugli amuleti offrono tutta una serie di rimedi contro i più svariati mali (Ogden 2002, pp. 265–269, nn° 256–266) e garantiscono forza, immortalità, invincibilità e assenza di sofferenze (Muñoz Delgado 2001 s.vv. δύναμις [p. 47], ἀπαθανατίζω, ἀπαθανατισμός [p. 13], ἀκαταμάχητος [p. 8], ἀπήμαντος [p. 14]) ἕτερον δὲ ὡς μὴ ὁρᾶσθαι τὸν περιθέμενον, οἶος ἦν ὁ τοῦ Γύγου – Timolao desidera un secondo anello che gli doni l’invisibilità, un desiderio che è sviluppato oltre altre due volte (§ 44; sul tema dell’invisibilità nei Dialoghi vd. Bompaire 1958, p. 697). Si tratta di una facoltà tradizionalmente assegnata alle maghe (Petron. 63; Ogden 2002, n° 106, p. 140 s.): ne è padrona già Circe, la prima grande figura di maga della letteratura occidentale (Od. 10, 569–574; Ogden 2002, n° 72, pp. 94–99). In questo caso, nel paragonare l’anello di Timolao a quello di Gige, Luciano vuole espressamente rifarsi al secondo libro della Repubblica (359d–360b), in cui Platone, la più antica fonte relativa al mitico anello magico, immagina il modo in cui si comporterebbe un uomo giusto se possedesse tale gioiello (Ogden 2002, n° 274, p. 272). La storia di Gige è un tema tradizionale in ambito retorico a cui Luciano si rifà spesso (Bis acc. 21, su cui Braun 1994 ad loc. [p. 204, n. 1]; Par. 58; Gall. 28) e di cui riprende molti dei componenti principali nel desiderio di Timolao, come la capacità di rendersi invisibile, la facoltà di ispirare



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l’amore negli altri (§ 43) e la possibilità di conquistarsi una propria fortuna (§ 44) da parte del possessore di un anello. La capacità di diventare invisibili non rappresenta per l’antichità solo un affascinante tema letterario, ma è nella realtà uno dei sogni più reconditi dell’uomo, alla cui effettiva realizzazione per mezzo delle arti magiche la massa ingenua crede: è per questo che nei testi magici antichi troviamo svariati riferimenti alla pratica dell’invisibilità (Muñoz Delgado 2001 s.vv. ἀβλεψία [p. 3], ἀμαυρά, ἀμαυρόω, ἀμαύρωσις, ἀμαυρωτικός [p. 10]) e, in particolare, istruzioni per realizzare un anello di onice (Ogden 2002, n° 276, p. 273) o una lozione (Ogden 2002, n° 277, p. 274) in grado di conferire l’invisibilità. Il pubblico lucianeo doveva trovare particolarmente affascinante la menzione di tale tema per il duplice piacere di ricondurre la mente a un celebre mito e a un desiderio innato nel proprio animo. τὸν δέ τινα ὡς ἰσχύειν ὑπὲρ ἄνδρας μυρίους … μόνον ἀνατίθεσθαι – Il terzo anello sognato da Timolao gli permetterà di ottenere una forza smisurata. Si tratta di un’altra capacità che gli uomini cercavano di ottenere dalla magia: nelle Argonautiche di Apollonio Rodio (3, 1026–1062), Medea la dona a Giasone per permettergli di portare a compimento la sua impresa (Ogden 2002, n° 68, pp. 83–87), mentre nei papiri magici greci la divinità è invocata perché la sua forza passi a chi la chiama a sé (Muñoz Delgado 2001 s.vv. ἱσχύς [p. 61]). Come si vede, man mano che procede nelle sue richieste agli dèi Timolao ne aumenta la portata e, addirittura, perde il controllo fino ad accumulare esagerazione su esagerazione: così ora afferma di voler essere più forte di diecimila uomini (ὑπὲρ ἄνδρας μυρίους), poi non contento amplifica ancora il suo desiderio augurandosi di poter muovere pesi che diecimila persone (μυρίοι) a malapena (μόλις) potrebbero spostare. Licino critica pesantemente questo desiderio nell’arco della sua breve rampogna finale contro Timolao, sostenendo che pur se l’amico avrà più forza di diecimila uomini e potrà spostare intere montagne con la sola punta di un dito, resterà sempre un ometto vecchio, calvo e dal naso camuso (§ 45). ἔτι δὲ καὶ πέτεσθαι πολὺ ἀπὸ τῆς γῆς … μοι εἶναί δακτύλιόν τινα – Il quarto anello deve permettere a Timolao di volare innalzandosi sulla terra. Ci troviamo di fronte, ancora una volta, all’espressione di un desiderio innato nell’animo umano, che si trasforma in un tema assai diffuso nel folklore e nelle saghe e assai frequentato in ambito letterario, fin dall’epoca arcaica, in una multiforme varietà di modi, dato il fascino e la meraviglia che suscita nel pubblico. La capacità di separare l’anima dal corpo e lasciarla volare nell’aria, propria degli sciamani, è attribuita già a Circe da Omero (Od. 10, 569–574; Ogden 2002, n° 72, pp. 94–99). Fin dall’antichità si diffondono tradizioni che attribuiscono il potere di volare a misteriosi personaggi, a metà fra il mago e il filosofo, come Epimenide, Aristea di Proconneso e

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III Commento

Ermotimo di Clazomene (Luc. Philops. 13); si narrano le imprese di maghi e ciarlatani che tentano l’impresa del volo realmente (Juv. 3, 76–80; Suet. Nero 12, 2) o fittiziamente, il più delle volte per interesse personale (HA V. M.Ant. 13); si fanno speculazioni sulla possibilità di un ‘viaggio dell’anima’ e si sfrutta il motivo del viaggio celeste per legittimare verità filosofiche (come nel poema Sulla natura di Parmenide) o religiose (come nel racconto del viaggio in cielo di S. Paolo) o, al contrario, per mostrare (come nell’Icaromenippo lucianeo) i limiti della religione o della filosofia (Jacob 1984, pp. 148–150; Destro - Pesce 2011). Anche nei papiri magici, ricettacolo di ogni più recondito desiderio umano, non mancano riferimenti alla capacità di volare attraverso il cielo (Muñoz Delgado 2001 s.v. ἀεροπετέω) La manipolazione dei temi del volo e del viaggio in posti esotici nei Dialoghi permette di apprezzare la creatività di Luciano nel rielaborare gli stessi materiali in contesti e con finalità differenti (Anderson 1976, p. 13; Halliwell 2008, pp. 429–454; cfr. Nav. 42–44/Bis acc. 2/D. mar. 15/Philops. 3, 13). Nella letteratura greca, il tema dell’osservazione dall’alto è peculiare della commedia e lo ritroviamo, in particolare, negli Uccelli di Aristofane (vv. 785–797), che alcuni ritengono ipotesto di riferimento lucianeo per i desideri di Timolao (Moricca 1914, p. 476; Bompaire 1958, p. 696). Data la diffusione di tale motivo nella letteratura antica e l’estrema libertà con cui Luciano lo rielabora attingendo da fonti diverse, da Omero al mito di Dedalo e Icaro (Jacob 1984, p. 152 s.), pare rischioso cercare di individuare per tale locus una precisa fonte letteraria. Tale topos è caratteristico, peraltro, anche della satira (Juv. 3, 76–80) e, presumibilmente, da qui può aver derivato più di una suggestione Luciano, che ama sfruttare il tema del volo nei procedimenti satirico-parodici, come avviene nell’Icaromenippo e nel Caronte (Jacob 1984; Camerotto 1998, pp. 199–203; Id. 2014, p. 174 s., n. 8). In particolare, il volo di Timolao ha molti punti in contatto con quello dell’Icaromenippo di Menippo, personaggio satirico lucianeo per eccellenza, a cui è sovente affidata l’osservazione critica della vita umana e per cui l’ascesa in cielo è indispensabile all’impresa che è chiamato a compiere (Camerotto 1998, p. 229; Id. 2009, p. 38, n. 102). ἐς ὕπνον κατασπᾶν ὁπόσους ἂν ἐθέλω … εἷς δακτύλιος δυνάσθω – Il dono di stendere nel sonno gli uomini sarà ripreso più in là per ben tre volte da Timolao (§ 44), che immaginerà di avere la capacità di aprire le porte, addormentare le guardie e entrar dentro senza esser visto per impossessarsi dei beni altrui, di intrattenersi coi suoi amati tranquillamente dopo aver addormentato tutti all’infuori di loro e, osservando un campo di battaglia, addormentare l’esercito più forte e mettersi dalla parte dell’esercito più debole offrendogli la vittoria. Il desiderio di entrare senza essere visto nelle abitazioni degli altri e impadronirsi delle loro ricchezze di questo personaggio è identico a quello di Micillo nel Gallo (Gall. 28–29; Helm 1906, p. 338;



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Husson 1970, II, ad loc. [p. 89]), anche perché entrambi sono accomunati dall’avidità, visto che il secondo strappa al gallo due penne, anziché una, mentre il primo desidera sei anelli per fare il lavoro di uno solo (Anderson 1976, p. 137); il tema del «diable boiteux, visite incognito à l’intérieur des maisons», accomuna La nave anche al Caronte (Bompaire 2008, p. 4, n. 2). Ancora una volta si deve registrare anche nei papiri magici greci la presenza di indicazioni che rimandano sia al desiderio di Timolao (Muñoz Delgado 2001 s.v. κατασπάω [p. 67]; cfr. Id. s.v. ὀνειροπομπός [p. 94]) sia al suo contrario, cioè la facoltà di togliere il sonno a qualcuno (Muñoz Delgado 2001 s.v. ἀγρυπνητικός [p. 5]). χαλωμένου τοῦ κλείθρου καὶ τοῦ μοχλοῦ ἀφαιρουμένου – Luciano ripropone nuovamente, nelle visionarie fantasie di Timolao, un desiderio che l’uomo comune del suo tempo effettivamente cercava di realizzare attraverso le arti magiche. La capacità di aprire le porte della casa della persona amata per potervi entrare indisturbato era, infatti, una delle pratiche magiche più desiderabili e richieste, come prova la sua frequente menzione nei papiri magici greci (PGM I, 102–103: θύρας ἀνοίγει, ἀμαυροῖ, ἵνα μηδεὶς [κ]αθόλου σε θεωρήσῃ; Ogden 2002, p. 238 s., n° 220). I dispositivi di sicurezza delle case e delle botteghe romane erano talmente vistosi e diversificati da suscitare la curiosità di chi li osservava e da colpire fortemente la fantasia di Luciano. Così la protezione domestica assicurata da chiavistelli e sbarre è uno dei dettagli su cui lo scrittore ama focalizzare la sua attenzione nel descrivere la vita domestica degli esseri umani (Tim. 13, 14; Gall. 29; Philops. 35; Pseudol. 27) e, addirittura, il mondo ultraterreno degli dèi (J. tr. 33). L’immagine del chiavistello e della sbarra che si tirano da soli per lasciare entrare indisturbato Timolao è costruita sul chiasmo, «destiné à souligner le pouvoir de l’anneau» (Husson 1970, II, ad loc. [p. 90]). § 43 Τὸ δὲ μέγιστον ἄλλος τις ἔστω ἐπὶ πᾶσιν ὁ ἥδιστος … καὶ ὅτῳ μὴ ποθεινότατος ἐγὼ καὶ ἀνὰ στόμα – Mentre finora Timolao aveva solo accennato ai doni degli anelli da lui desiderati (per passare a descriverli più in là), giunto al sesto e ultimo anello decide, al contrario, di chiarirne immediatamente la capacità – quella di rendere irresistibilmente attraente chi lo indossa –, pur se ciò non gli impedisce di menzionarne nuovamente il potere poco oltre (§ 44). Il ritratto di un uomo reso attraente da un anello magico nasce dalla combinazione di diverse fonti tradizionali, fra le quali, in particolare, i racconti popolari, che abbondano di temi relativi all’amore e ai mezzi per suscitarlo (Radermacher 1914, p. 323 s.), e la commedia nuova, nel cui repertorio troviamo, ad esempio, il soldato fanfarone a cui nessuna donna può resistere (Bompaire 1958, p. 205 s.). Il fatto che l’anello più caro (ἥδιστος) a Timolao sia proprio quello che possa donargli l’amore vuole pro-

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III Commento

babilmente richiamare alla mente quella che era, da quanto apprendiamo dai papiri magici greci, la principale aspirazione dell’uomo comune, il dominio della magia erotica (Muñoz Delgado 2001 s.vv. ἀγωγή [p. 5 s.], ἀγώγιμος [p. 6], φίλτρον, φιλτροκατάδεσμος [p. 135], φυσικλείδιον [p. 137]; Ogden 2002, cap. 11, praes. p. 227). Luciano ama affrontare i temi dell’innamoramento e della follia amorosa soprattutto per l’elevato potenziale comico che possiedono e per la loro perpetua attualità, capace di dare sempre nuova linfa alle invenzioni della sua satira (vd. ad es. Tim. 27 e Tomassi 2011 ad loc. [pp. 354–358]: la ricchezza rende belli e attraenti oltre ogni misura; cfr. Hor. Sat. 1, 2). A tal riguardo, come notato già nell’introduzione, Timolao è presentato come il tipico senex libidinosus di casa nella commedia e nella satira greca e latina e vittima per eccellenza degli strali dissacratori di comici e satirici (Conca 1970; Hor. Sat. 2, 3, 274–275: cum balba feris annoso verba palato, / aedificante casas qui sanior). Il pubblico lucianeo lo capirà poco più in là, quando Licino dipingerà Timolao come un turpe vecchio che fa sogni folli e desidera stoltamente stravolgere il normale ciclo della vita umana (§ 45). La lezione καὶ ὅτῳ, stampata nell’editio princeps e seguita dalla maggioranza degli editori e dei critici moderni (Bekker, Jacobitz, Fritzsche, Dindorf, Kilburn, Husson, Longo, Nesselrath 1990b, p. 507), a eccezione di Macleod, sembra preferibile alla lezione dei codici, εἴ τῳ, perché dà senso compiuto alla frase. ὥστε πολλὰς γυναῖκας οὐ φερούσας τὸν ἔρωτα καὶ ἀναρτᾶν ἑαυτάς – Il fatto che colui che ama senza essere ripagato desideri impiccarsi per la delusione è un topos che Luciano ama applicare, in particolare, a quelli che si innamorano dei ricchi per criticare, in scenette ricche di humour, l’ipocrisia dell’uomo comune (Gall. 14; Tim. 45). τὰ μειράκια ἐπιμεμηνέναι μοι … εἴ τινα καὶ μόνον προσβλέψαιμι αὐτῶν – Alla capacità dei ricchi di rendere felici con un solo sguardo gli altri aveva alluso in precedenza Adimanto (§ 22), riproponendo il motivo tradizionale secondo cui il povero, se riesce ad avere su di sé lo sguardo del potente, sente il suo cuore riempirsi di gioia (cfr. supra comm. ad § 22: προσαραξάτωσαν ἐς τὸ μέτωπον εὐθὺ τὴν θύραν κτλ.). La comunanza fra le fantasie di Adimanto e quelle di Timolao dimostra che l’animo dell’essere umano è profondamente diverso da invididuo a individuo, ma, al tempo stesso, è uguale nel lasciarsi corrompere e mostrare la propria debolezza. εἰ δὲ ὑπερορῴην … ὑπὲρ τὸν Ὑάκινθον … ἢ Φάωνα τὸν Χῖον εἶναί με – Quello di esser considerati bellissimi e irresistibili è un desiderio tipico dei ricchi lucianei (cfr. ad § 22). Timolao desidera addirittura che la sua bellezza sia superiore a quella di Giacinto, di Ila e Faone, giovani bellissimi che, secondo la tradizione, ave-



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vano suscitato l’amore, rispettivamente, di Apollo, di Eracle e di Saffo ed erano l’incarnazione di una bellezza destinata a diventare proverbiale (Schmidt 1897, p. 42; per Giacinto cfr. VH 2, 17; Sat. 24; Sacr. 4; Merc. cond. 35; Salt. 45; D. mort. 18 [5], 1; per Ila: VH 2, 17; per Faone: Pro im. 2; D. mort. 9 [19], 2). Sono tipiche della tecnica retorica di Luciano tali comparazioni fondate sull’antonomasia, in cui la qualità peculiare di un individuo è evidenziata iperbolicamente dal paragone con una divinità o un personaggio mitico, che detta qualità possiede in sommo grado. È chiaro come il linguaggio di un satirico come Luciano, che ha nell’iperbole un potente strumento espressivo, tenda a fare ampio uso di queste forme, che hanno come protagonisti assoluti gli dèi e gli eroi consacrati da Omero (nel cui novero non rientrano, tuttavia, i tre campioni di bellezza evocati in questo passo: Tomassi 2011b, pp. 100–102). § 44 Καὶ ταῦτα πάντα ἔχειν … διαβιῶναι ἀμφὶ τὰ ἑπτακαίδεκα ἔτη – La capacità di ringiovanire è una delle tradizionali abilità assegnate alle maghe, come Medea (Ov. Met. 7, 159–351; Ogden 2002, pp. 87–91, n° 69). A questa facoltà si ricollega l’antico motivo letterario del vecchio che vorrebbe sconfiggere la morte, spesso riferito a uomini ricchi e avidi che vorrebbero beffare la morte per non dover abbandonare le loro ricchezze. Per due gu­ stosi esempi basti considerare un epigramma dell’Antologia palatina (AP 7, 607) in cui una vecchia miliardaria decide di nominarsi erede di se stessa, per poter continuare a godere dei propri beni, o un passo del Viaggio agli inferi di Luciano in cui il tiranno Megapente supplica in tutti i modi Cloto di farlo tornare solo per poco tempo in vita, per portare a compimento ciò che non è riuscito a realizzare (Cat. 8–9). ἀεὶ ἀποδυόμενον τὸ γῆρας ὥσπερ οἱ ὄφεις – L’immagine dell’uomo che si libera del fardello della vecchiaia è tradizionale in commedia, e sul doppio senso dell’espressione “spogliarsi della vecchiaia” (ἐκδύειν τὸ γῆρας), dal probabile andamento proverbiale, gioca già Aristofane (Pax 336: γελῶ / μᾶλλον ἢ τὸ γῆρας ἐκδὺς ἐκφυγὼν τὴν ἀσπίδα; Taillardat 1965, p. 51, n° 53; cfr. Luc. D. mort. 5 [15], 2: un ricco vegliardo sopravvive ai cacciatori di eredità ἀποδυσάμενος τὸ γῆρας, “dopo essersi spogliato della vecchiaia”). Qui l’esplicitazione della similitudine fra uomini e serpenti (ὥσπερ οἱ ὄφεις), pertinente al mondo poetico (Aesch. Suppl. 895–902; Ch. 928; cfr. Pseudol. 23; Tim. 29; Schmidt 1897, p. 116 s.), concorre ad attenuare la polisemia di γῆρας (Santini 1995, p. 400 s. e n. 16). Che la decadenza della pelle sia considerata uno dei principali indicatori dell’invecchiamento nel mondo antico è confermato dal fatto che, tanto in greco quanto in latino, lo stesso termine (γῆρας, senectus/senecta) può designare sia la vecchiaia sia la vecchia pelle di cui il serpente si libera dopo

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III Commento

la muta (Arist. HA 5, 17, 549b; Plin. NH 28, 48: cum senecta serpentium et aceto; 30, 44: anguium senectus adalligata lumbis faciliores partus facit). Οὐδὲν γὰρ ἐνδεήσει μοι ταῦτα ἔχοντα – Questa perentoria affermazione di Timolao pare studiata per contrastare quella con cui, poco oltre, Licino vanta il suo modello di vita autarchico (§ 46: ἀλλ᾽ οὐ δέομαι εὐχῆς ἐγώ). I manoscritti riportano οὐδὲν γὰρ δεήσει με ταῦτα ἔχοντα oppure οὐδὲν γὰρ δεήσει ταῦτα ἔχοντα. La maggior parte degli editori propone questa seconda variante. La frase tuttavia sembra sospetta, a motivo dell’insolita costruzione di δεῖ con accusativo della cosa e della persona. Fritzsche propone di correggerla e la riporta nella forma οὐδὲν γὰρ ἐνδεήσει ταῦτα ἔχοντι, sulla scorta di Prom. 12: ἐνδεῖν τι ᾤμην τῷ θείῳ. Sommerbrodt propone οὐδὲν γὰρ ἐνδεήσει μοι ταῦτα ἔχοντι. Seguo quest’ultima congettura, che mi pare la più sensata (cfr. ancora D. mar. 1 [1], 2: εἰ ποιμένι καὶ ἐνδεεῖ τὴν ὄψιν; Tyr. 10: ἐνδεῖν τι τῷ ἔργῳ τῷ ἐμῷ). πάντα γὰρ ἐμὰ ἦν ἂν τὰ τῶν ἄλλων, ἐς ὅσον ἀνοίγειν τε τὰς θύρας ἐδυνάμην καὶ κοιμίζειν τοὺς φύλακας καὶ ἀθέατος εἶναι εἰσιών – Timolao, ormai intrappolato nelle maglie della sua fantasia, ricorda ossessivamente i poteri che desidera acquistare e rievoca quelli garantitigli dal secondo e dal quinto degli anelli magici richiesti a Hermes (cfr. § 42). Nel suo delirio di onnipotenza, diventa preda del demone dell’avidità e, come un volgare ladro, esprime la volontà di impossessarsi impunemente anche delle ricchezze altrui (πάντα γὰρ ἐμὰ ἦν ἂν τὰ τῶν ἄλλων), un’aspirazione che cozza drasticamente col precedente rifiuto di oro, tesori e monete (§ 42: χρυσόν … καὶ θησαυροὺς καὶ μεδίμνους νομίσματος … Ἀβέβαια γὰρ ταῦτά γε καὶ πολλὰς τὰς ἐπιβουλὰς ἔχοντα) e finisce per risultare del tutto ridicola. Qui è notevole l’uso di un periodo ipotetico dell’irrealtà da parte di Timolao, che, nel momento stesso in cui esprime il suo desiderio, si rende conto che è impossibile da realizzare. Il fatto che sia lui stesso a denunciare, sia pur inconsapevolmente, l’assurdità dei suoi desideri non fa che mostrare con più evidenza la puerilità dei suoi sogni (sull’importanza della sintassi nella denuncia della follia dei sogni di Adimanto, Samippo e Timolao vd. supra nell’introduzione al § 1.7.2). Εἰ δέ τι ἐν Ἰνδοῖς – Con la menzione degli Indi e degli Iperborei si materializza compiutamente il miraggio esotico di Timolao, giacché i due popoli erano considerati abitanti di paesi di sogno. Soprattutto le allusioni all’India sono innumerevoli nella letteratura greca e latina (Desideri 1978, p. 130 s.; Romm 2008, pp. 119–124), sia per il fatto che questa terra si configura come culmine delle conquiste di Alessandro Magno e luogo per eccellenza dell’imprevedibile, del pericoloso e dello stupefacente (Liborio et alii 1997, pp. XXVIII–XXXVIII), sia per gli intensi traffici commerciali fra gli Indiani e l’Occidente, ben attestati da molti autori antichi (fra cui Plinio, che critica



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l’importazione dall’India di oggetti inutili e costosi: NH 6, 22 [26], 101; 12, 18 [41], 84), e dai ritrovamenti archeologici, come le numerose monete romane restituite da scavi sulle coste del Dekkan (Janni 1996, p. 460). È vero, altresì, che se al di là dei confini del mondo classico si affollano tutta una serie di popolazioni fantastiche, nell’immaginario antico l’India e l’Etiopia «rappresentano i regni dell’esotico» per eccellenza e «si accaparrano la percentuale maggiore delle popolazioni favolose» e degli esseri mostruosi (Moretti 1991, p. 47 s.; cfr. Gangloff 2007, p. 67 s.; Romm 2008, p. 119), che si riversano poi nel Romanzo di Alessandro, nelle Mille e una notte e nei bestiari medievali e sostanziano, nell’immaginario degli Europei, la visione del mondo esotico per tutto il Medioevo e per buona parte dell’età moderna. Nei Dialoghi, il paese degli Indi è frequentemente citato e, in accordo con la tradizione letteraria, serve a evocare in genere un mondo pieno di meraviglie incredibili, utopico e lontanissimo: può così rappresentare sia l’esotico luogo di origine del ricercato pavone (cfr. supra ad § 23) o della fenice (cfr. oltre; vd. ancora Peregr. 27 e Schwartz 1951 ad loc. [p. 104 s.]), sia fare da sfondo alle mitiche imprese di Dioniso (Nigr. 5; D. deor. 18 [22], 1) o ai sovrumani sogni di conquista di Alessandro (D. mort. 14 [12], 3; 12 [25], 5), fino a rappresentare i confini stessi del mondo, venendo messo in connessione – come in questo caso – col mitico paese degli Iperborei (cfr. Herm. 4, 27). ἢ Ὑπερβορέοις – L’etnonimo ‛Iperborei’ significa “al di là del vento del nord” (Borea) e nell’antichità identificava un popolo fantastico che si credeva abitasse ai bordi o sull’altra riva dell’Oceano, l’immenso fiume che secondo le concezioni dei Greci circondava tutta la terra e oltre il quale era solo l’Erebo, il buio (Corcella - Medaglia 1999 ad Hdt. 4, 32–35 [pp. 258–261 con ricca bibliografia]: il territorio degli Iperborei è stato variamente localizzato e alcuni pensano all’odierna Tracia, altri ai Balcani nord-occidentali; Baslez 2003, praes. pp. 92–94). Fin dai primordi della letteratura greca, il termine ‛iperboreo’ serve a indicare, dunque, qualcosa di lontanissimo nello spazio. In età imperiale è usato quasi esclusivamente da Luciano, che evoca le regioni degli Iperborei per suggerire l’idea della massima lontananza possibile (come qui e in Pseudol. 3), come luogo magico per antonomasia (Philops. 13–15, su cui vd. Schwartz 1951 ad Philops. 13 [p. 43]), o in riferimento alla nota leggenda che legava il popolo iperboreo alla protezione di Apollo (Phal. 2, 8). In questo come in altri loci lucianei si può notare una latente ironia nei confronti delle tante storie fantastiche, circolanti nell’impero, relative a mondi favolosi e a popolazioni inesistenti (Espelosín 2010, p. 176 s.). θέαμα παράδοξον ἢ κτῆμα τίμιον ἢ ὅσα ἐμφαγεῖν ἢ πιεῖν ἡδέα … ἀπέλαυον ἁπάντων ἐς κόρον – Il fatto che Timolao desideri contemplare

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III Commento

una visione fuori dal comune (θέαμα παράδοξον) riporta alla mente l’incipit del dialogo, in cui Licino aveva rimproverato all’amico la sua straordinaria curiosità verso qualsiasi spettacolo straordinario (§ 1: θέαμά τι τῶν παραδόξων), e conferma che la passione per il meraviglioso costituisce uno dei tratti caratteristici di tale personaggio. Come si può notare ancora una volta, Timolao, pur critico nei confronti dei desideri dei suoi amici (§ 41), ora ricerca le stesse cose da loro vagheggiate, in particolare quegli oggetti preziosi e quei cibi pregiati (ἢ κτῆμα τίμιον ἢ ὅσα ἐμφαγεῖν ἢ πιεῖν ἡδέα) che avevano sostanziato i sogni di Adimanto (§§ 22–25). οὐ μεταστειλάμενος, ἀλλ᾽ αὐτὸς ἐπιπετόμενος – La precisazione di Timolao di non volersi far recapitare ciò che desidera, ma di voler andare di persona, volando, a godere di ogni meraviglia, oggetto prezioso o cibo ricercato esistente sulla terra ricorda il potere del quarto anello da lui bramato, quello di permettere al suo possessore di volare (§ 42). Μεταστέλλομαι, “mando a chiamare”, “faccio venire”, è proprio del greco di età imperiale e ricorre con buona frequenza nella produzione lucianea col significato di “far arrivare” qualcosa (cfr. Cont. 12, Luct. 19). ἐπεὶ γρὺψ ὑπόπτερον θηρίον … ἐγὼ δὲ καὶ τοῦτο ἑώρων ἄν – Tanto il grifone quanto la fenice erano considerati nell’antichità animali realmente esistenti, «pensati come prodotto di un ordine naturale che opera diversamente in determinate zone del mondo rispetto a quanto avviene al centro dell’οἰκουμένη» (Baglioni 2013b, p. 29 s.), ed erano in grado di esercitare potentemente l’immaginazione dell’uomo comune (Arnott 2007, s.vv. gryps, p. 59 s., e phoinix, pp. 191–193). Il grifone è una delle creature composite più diffuse nell’arte del Vicino Oriente, in cui è raffigurato con una notevole variabilità morfologica, pur se nella sua forma più diffusa è un ibrido composto dai due animali regali per eccellenza, leone e aquila; nell’antichità presenta una doppia valenza simbolica, apparendo sia come entità guardiana e pacifica sia (in particolare nella letteratura greca) come essere aggressivo e pericoloso (Bellucci 2013). Una buona descrizione dell’animale ci è fornita da Eliano, secondo cui è un quadrupede come il leone, con ali bianche e il collo ricoperto di penne blu, dal becco di aquila e dagli occhi fiammeggianti; è diffuso fra la Battriana e l’Indi, in una zona ricca di miniere d’oro, che utilizza per rinforzare il suo nido e che protegge gelosamente venendo, per questo, in contrasto con gli Indiani avidi di questo metallo (NA 4, 27). Luciano definisce l’essere semplicemente “bestia alata” (ὑπόπτερον θηρίον), ricordando come sua caratteristica fisica precipua le ali e mettendone in risalto l’aspetto ferino, estraneo all’ambiente domestico e, per questo, potenzialmente nocivo (Baglioni 2013b, p. 19).



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ἢ φοῖνιξ ὄρνεον ἐν Ἰνδοῖς – Il mito della fenice è di origine egiziana. Uno dei loci classici che la descrive è contenuto nel secondo libro delle Storie di Erodoto, in cui lo scrittore, all’interno di una lunga digressione sugli animali sacri presso gli Egiziani, la raffigura come un uccello con le piume a metà fra il rosso e il dorato e con le fattezze simili a quelle dell’aquila (Hdt. 2, 73, su cui vd. Lloyd 2000 ad loc. [pp. 292–294]; cfr. Ael. NA 6, 58; Luc. Herm. 53). La leggenda della fenice è più tardi rielaborata in Grecia e, a partire dal V secolo a.C., vi vengono introdotti nuovi e curiosi particolari, quali il ritorno ciclico, il colore vivace, la connessione con l’Arabia, l’uovo di mirra costruito per rinchiudervi il padre morto e dargli una degna sepoltura bruciandolo su un altare del sole e, infine, al posto della morte per vecchiaia (dopo un periodo di vita di 500 anni per alcuni, di 1461 per altri: Tac. Ann. 6, 28), il celebre suicidio nel fuoco (di cui Luciano in Peregr. 27 è il primo testimone: Schwartz 1951 ad loc. [p. 104 s.]). È possibile che buona parte di questi dettagli avesse radici egiziane, ma non possiamo affermarlo con certezza: le aggiunte posteriori alla leggenda includono soprattutto l’idea che l’uccello fosse periodicamente consumato nel fuoco e da questo rinascesse e che fosse eterno (nozione accolta anche dai primi cristiani, che fanno della fenice un simbolo di resurrezione). Da quel che sappiamo dalle fonti antiche, la fenice proveniva, per tradizione, dall’Etiopia, mentre Luciano la riconduce all’ambiente indiano (sia qui sia in Peregr. 27), un errore che deriva, forse, dal fatto che nel mondo antico si faceva confusione fra Etiopi ed Indi (cfr. Schwartz 1951 ad Peregr. 27 [p. 104 s.]). τὰς πηγὰς δὲ τὰς Νείλου … καὶ ὅσον τῆς γῆς ἀοίκητον – Dopo il desiderio di poter studiare da vicino le curiosità zoologiche più rare, Timolao esprime agli dèi la richiesta di indagare antichi misteri geografici, oggetto di forte curiosità da parte dei Greci e dei Romani (André - Baslez 1993, pp. 317–372, praes. 331–333). Fra tali misteri c’era quello del luogo di origine del Nilo, svelato solo alla fine dell’epoca coloniale, come ricorda ancora oggi il volto velato della statua di questo fiume nella celebre Fontana dei quattro fiumi di piazza Navona, realizzata da Gian Lorenzo Bernini alla metà del Seicento (1648–1651). Trovare la foce del Nilo non voleva dire soltanto esplorare una regione sconosciuta, i cui segreti affascinavano gli abitanti dell’Impero (come provano la spedizione in Egitto promossa da Nerone e gli abbondanti e vari riferimenti nella letteratura romanzesca alla regione nilotica), ma anche spiegare il fenomeno delle piene del fiume, su cui il mondo antico si era incessantemente interrogato (Hdt. 2, 19–34; Plat. Tim. 22d; Strab. 15, 1, 25; 17, 1, 5 e 52; Sen. Nat. 4, 2; Romm 2008, pp. 117–119). L’esplorazione di realtà sconosciute è un tema ricorrente in Luciano, instancabile viaggiatore (Roussel 2003), come dimostrano, in particolare, le opere lucianee che mescolano insieme realtà e meraviglioso, come la Sto-

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III Commento

ria vera e l’Icaromenippo, così come le numerose attestazioni del tema del ‛viaggio incredibile’ presenti nei Dialoghi (vd. ad es. Herm. 71; cfr. Anderson 1976, p. 121; Jacob 1984 passim). εἴ τινες ἀντίποδες ἡμῖν οἰκοῦσι τὸ νότιον τῆς γῆς ἡμίτομον ἔχοντες – Il termine ἀντίπους compare per la prima volta in Platone (Tim. 63a), che lo sfrutta per indicare un punto della superficie terrestre diametralmente opposto a un punto prefissato nella spiegazione della relatività dei concetti di ‛su’ e ‛giù’ applicati ai corpi celesti. In seguito con ἀντίποδες si identifica una popolazione posta ai confini del mondo che, nel novero delle nazioni favolose posizionate dall’immaginario antico oltre i fines del mondo classico, rappresenta un caso particolarissimo: tale popolo, infatti, «mentre non è conosciuto per solito in alcun dato né di aspetto fisico, né di società (ed è anzi quasi costantemente dato per inconoscibile), diversamente dagli altri è tuttavia concepito con precisione nella sua distinta e definitiva collocazione geografica», in una parte del mondo completamente separata dalla nostra e, quindi, postulata come irraggiungibile per sempre (Moretti 1991, p. 48). Il fatto che Timolao desideri esplorare addirittura le terre degli antipodi ci dimostra tutta la sua incredibile e temeraria curiosità, poiché è noto che gli antichi avevano paura di giungere in paesi del tutto sconosciuti e fuori dalle terre abitate, come illustra, ad esempio, un ben noto episodio narrato da Dione Cassio (60, 19), secondo cui durante l’impero di Claudio alcune truppe si ammutinarono, adducendo il pretesto di non voler superare il limite delle terre abitate (Janni 1996, pp. 453–470). Anche le altre due allusioni agli antipodi nei Dialoghi sono all’insegna del fantastico e del romanzesco e ci rappresentano questo luogo come sede dell’assoluta alterità: sul continente degli Antipodi fa naufragio l’imbarcazione che trasporta l’equipaggio protagonista della Storia vera (VH 2, 47), mentre nel Demonatte questo luogo è presentato come un mondo complementare, ma esattamente opposto al nostro, simile al riflesso di un’immagine nell’acqua (Demon. 22). Ἔτι δὲ καὶ ἀστέρων φύσιν … ἔγνων ἂν ἀπαθὴς ὢν τῷ πυρί – Il desiderio di Timolao di conoscere i segreti che regolano l’esistenza dell’universo è uno di quelli che Luciano biasima più spesso negli uomini, come fa, in particolare, nell’Icaromenippo, dove Menippo stila un lungo elenco di eventi naturali inspiegabili, che i filosofi naturalisti si ostinano ottusamente a indagare, per mettere alla berlina l’assoluta inutilità dell’indagine razionalistica della natura (Icar. 4, 5–8, 20; cfr. Nec. 21). La polemica contro le indagini dei filosofi fisici ha una lunga tradizione, risalente a Socrate e ai cinici, e si configura, più tardi, come un tema caro alla satira menippea e alla diatriba (Xen. Mem. 1, 1, 11–16; 4, 7, 4–9; Diog. Laert. 6, 28; 39: Diogene attacca un filosofo fisico, che si proclama esperto di fenomeni naturali, chiedendogli da quanto tempo è sceso dal cielo; 101; Oltramare 1926, p. 45, nº 4: «il faut



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renoncer à l’étude des phénomènes physiques»; Sen. Apoc. 8, 3). In età imperiale, il dibattito sulla reale possibilità di indagare la natura è più vivo che mai e Luciano, nel ritrarre le iperboliche e vanagloriose mire conoscitive di Timolao, prende di mira presumibilmente una certa categoria di intellettuali, la stessa da cui nel primo Tarsico prende le distanze Dione di Prusa (§ 4), che punta a non confondersi con quegli «uomini divini, che dicono di sapere tutto», e parlano indistintamente «di uomini, demoni e dèi, della terra, del cielo e del mare, del sole e della luna e degli altri astri [καὶ περὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ τῶν ἄλλων ἄστρων], e di tutto il cosmo, e della distruzione e della generazione, e di mille altre cose» (Desideri 1978, p. 117). τὸ πάντων ἥδιστον … ἀριστήσαντα … ἐν Συρίᾳ δειπνῆσαι ἐν Ἰταλίᾳ – Il desiderio di Timolao di poter volare per andare a mangiare liberamente dovunque voglia può considerarsi ispirato direttamente all’epica omerica, in cui gli dèi si spostano liberi attraverso il cielo e possono raggiungere a loro piacimento, in qualsiasi momento, ogni punto della terra. Che Luciano punti a riproporre, in forma eclettica, questo antico motivo è provato dalla somiglianza fra questo locus e la splendida parodia dell’Olimpo omerico del Bis accusatus, in cui un esausto Zeus si lamenta per il superlavoro a cui lo costringono gli uomini, dovendo nello stesso momento “presenziare a un’ecatombe a Olimpia, sorvegliare i belligeranti a Babilonia, grandinare sui Geti e banchettare con gli Etiopi” (Bis acc. 2: τὸ πάντων ἐπιπονώτατον, ὑφ᾽ ἕνα καιρὸν ἒν τε Ὀλυμπίᾳ τῇ ἑκατόμβῃ παρεῖναι καὶ ἐν Βαβυλῶνι τοὺς πολεμοῦντας ἐπισκοπεῖν καὶ ἐν Γέταις χαλαζᾶν καὶ ἐν Αἰθίοψιν εὐωχεῖσθαι). Non è improbabile che Luciano si lasci suggestionare anche dagli Uccelli di Aristofane, in cui fra i vantaggi del poter volare c’è la possibilità di andare a mangiare a casa quando si vuole (Av. 788–789: ἐκπτόμενος ἂν οὗτος ἠρίστησεν ἐλθὼν οἴκαδε, / κᾆτ᾽ ἂν ἐμπλησθεὶς ἐφ᾽ ἡμᾶς αὖθις αὖ κατέπτετο). La menzione di Olimpia e Babilonia concretizza in maniera iperbolica gli incredibili sogni di potere di Timolao. Molti dialoghi lucianei ricordano i giochi olimpici più o meno esplicitamente (Tim. 4; Icar. 24 e 33, Sacr. 11, Pseudol. 5 e 8, Herm. 39), e in alcuni, come accade in questo luogo, si propone il legame fra Olimpia e Babilonia (Bis acc. 2 e Merc. cond. 13; Schwartz 1965, pp. 16 s. e 91; Anderson 1976, p. 41 s.: Luciano «often makes fun of people who try to be in two places at once or take fantastic shortcuts»). Εἰ δέ τις ἐχθρὸς εἴη – I tre sogni che seguono raccolgono insieme quelli che, nel Tossari, Loncate, Macente e Arsacoma, i protagonisti di una delle cinque storie esemplari di amicizia ivi narrate (Tox. 44–55), raccontano uno dopo l’altro (Anderson 1976b, p. 17): Loncate uccide l’arrogante Leucanore, re del Bosforo, tagliandogli la testa con la scimitarra (Tox. 49–50), mentre Timolao si propone di sbarazzarsi dei suoi nemici, fracassandogli la testa, o eliminare un tiranno oppressore, lasciandolo cadere giù per un diru-

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po; Macente riesce a eludere le guardie e a prendere la figlia di Leucanore, la vergine Mazea (Tox. 51–53), come Timolao ha libero accesso all’amore di giovani amanti, entrando senza essere visto da alcuni di loro; Arsacoma è capace di condizionare gli esiti di una battaglia (Tox. 55), così come Timolao, per suo capriccio personale, rovescia le sorti di un conflitto. ἀμύνασθαι … τούς τε αὖ φίλους εὖ ποιεῖν – La voglia di vendetta accomuna Timolao ad Adimanto (§ 22) e a Samippo (§ 38) e alla mentalità dell’uomo comune, per cui vendicarsi è piacevole (Arist. Rh. 1, 11, 1370b: τὸ τιμωρεῖσθαι ἡδύ). La coppia di desideri ora formulati da Timolao, vale a dire la capacità di annientare i nemici e di aiutare gli amici (riproposti negli stessi termini in D. mort. 12 (25), 5: καὶ τοὺς φίλους εὖ ἐποίησα καὶ τοὺς ἐχθροὺς ἠμυνάμην), è basata su un modo di pensare tipicamente greco, per cui «un greco poteva applicare a ogni situazione o procedimento il criterio seguente: “mi consente di nuocere ai miei nemici e di aiutare i miei amici?” […]; quelli che eccellevano nell’una e nell’altra cosa potevano esser fatti oggetto di grandi elogi» (Dover 1983, pp. 311–318; fra le innumerevoli testimonianze vd. ad es. Ar. Av. 419–421; Soph. Ant. 643–644; OT 269–275; Plat. Resp. 332a–b; Arist. Rh. 1, 9, 1367a; 1, 12, 1373a). ἐπιχέοντα κοιμωμένοις αὐτοῖς τὸ χρυσίον – L’immagine di Timolao che benefica gli amici facendo piovere su di loro una pioggia d’oro è comica, perché richiama alla memoria lo stratagemma con cui Zeus sedusse Danae (cfr. Gall. 13; Tim. 41, su cui vd. Tomassi 2011 ad loc. [p. 434 s.]; J. tr. 2, su cui vd. Coenen 1977 ad loc. [p. 44]). εἴ τις ὑπερόπτης εἴη … ἀφῆκα φέρεσθαι κατὰ τῶν κρημνῶν – Luciano è capace di manipolare temi e modelli scolastici in maniera originalissima a seconda del contesto. Così alla lettura di questo passo il pubblico lucianeo avvezzo alle performances sofistiche non poteva non accostare Timolao, senza trattenere un sorriso, ai coraggiosi tirannicidi protagonisti delle declamazioni (Russell 1983, p. 32 s.; Tomassi 2014). All’opposto, non sembra possibile cogliere una reminiscenza teognidea nelle parole con cui Timolao sostiene che lascerebbe cadere “giù dai dirupi” (κατὰ τῶν κρημνῶν) il tiranno oppressore (Theogn. vv. 175–176: ἣν δὴ χρὴ φεύγοντα, καὶ ἐς βαθυκήτεα πόντον / ῥιπτεῖν καὶ πετρέων, Κύρνε, κατ’ ἠλιβάτων), e neppure in quelle con cui Parresiade è ritratto mentre scaglia i falsi filosofi “giù per le rocce” (Pisc. 50: κατὰ τῶν πετρῶν) dell’acropoli, come vorrebbe Jacques Bompaire (Bompaire 1958, p. 392 e n. 1): entrambi i passi sembrano troppo vaghi perché si possa pensare a una sicura operazione di mimesi (cfr. ancora Tim. 26 e vd. Tomassi 2011 ad loc. [p. 353]). ἢ τύραννος πλούσιος ὑβριστής – La connessione fra ricchezza e potere tirannico, che riproduceva un dato reale delle tirannidi storiche, era ben radicata nella mentalità popolare: basti ricordare che Dione Crisostomo fu



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accusato di aspirare alla tirannide per il suo ambizioso progetto edilizio per Prusa (Dio Chr. or. 47.18), mentre Erode Attico fu incolpato di tiranneggiare su Atene e usare dispoticamente il potere derivatogli dalla sua enorme ricchezza (Philostr. VS 2, 1, 11). Lo stesso Luciano ironizza altrove sui pericoli insiti nel legame fra ricchezza e potere ricordando che, nell’impero romano, l’accusa di avvelenare i pazienti poteva colpire qualunque medico, così come quella di aspirare alla tirannide era sempre pronta ad abbattere un uomo troppo ricco e potente (Cal. 13, Sat. 26). Τοῖς παιδικοῖς δὲ ὁμιλεῖν ἀκωλύτως ἂν ἐξῆν … ἄνευ ἐκείνων μόνων – Con una sola proposizione, Timolao formula un desiderio in cui sfrutta contemporaneamente tre anelli magici, di cui in precedenza aveva illustrato per esteso le capacità, per provocare l’amore di chiunque (§ 43), entrare tranquillamente dappertutto e addormentare a suo piacimento gli altri (§ 42). Si può apprezzare qui, meglio che in altri contesti, la capacità di Luciano di contrarre o espandere a suo piacimento i temi e le immagini fantastiche che ne caratterizzano la scrittura (cfr. Ar. Av. 793–796: uno dei benefici del poter volare è quello di commettere comodamente adulterio). τοὺς πολεμοῦντας ἐπισκοπεῖν ἔξω βέλους ὑπεραιωρούμενον – Ἐπισκοπέω, equivalente di κατασκοπέω, è impiegato frequentemente da Luciano ed è legato, per tradizione, alla figura del cinico nella sua positiva funzione di supervisore (ἐπίσκοπος-κατάσκοπος) della vita, del comportamento e delle passioni umane. A lui si ispira l’eroe satirico lucianeo, che «non può fare a meno di vedere e di sentire, perché […] questo è il suo specifico dovere, la sua stessa ragion d’essere e nel concreto la motivazione delle imprese e dei viaggi inediti e pericolosi che compie. La prima cosa che fa è, dunque, levare lo sguardo verso l’alto per interrogarsi su tutto […]. In funzione della satira, chi se ne assume il compito ha prima di tutto il ruolo di kataskopos, episkopos, e quindi di martys» (Camerotto 2014, pp. 192–199, praes. 194 s.; cfr. Tomassi 2011 ad Tim. 2 [p. 207 s.]; per la ‘visione dall’alto’ nei procedimenti parodici lucianei vd. Camerotto 1998a, pp. 199–203). In Timolao, la passione per l’osservazione e i rischi che questa comporta non ha di certo le nobili finalità del filosofo, né le motivazioni dell’eroe satirico, ma l’individualistico obiettivo di soddisfare i capricci di un ego smisurato: così il nostro personaggio, sospeso in aria (ὑπεραιωρούμενον) come un dio o un eroe mitologico (cfr. D. mar. 14 [14], 3 [Perseo]: ὑπεραιωρηθεὶς ὁ νεανίσκος πρόκωπον ἔχων τὴν ἅρπην τῇ μὲν καθικνεῖται, τῇ δὲ προδεικνὺς τὴν Γοργόνα λίθον ἐποίει αὐτό), dona un’immagine di sé del tutto ridicola per l’incongruenza stridente fra la grandezza dei poteri che vagheggia e le egoistiche finalità per cui vorrebbe utilizzarli. Il nesso ἔξω βέλους ritorna di frequente in Luciano (D. mar. 2 [2], 1; D. deor. 19 [23], 2) e spesso in relazione all’osservazione dall’alto legata al

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III Commento

personaggio satirico (Hist. conscr. 4; Symp. 2; cfr. Camerotto 1998, p. 199 s. e n. 4). προσθέμενος ἂν τοῖς ἡττημένοις … ἀναστρέψασιν ἀπὸ τῆς τροπῆς – Il desiderio di osservare la guerra dall’alto e poter sconvolgere la sorte di una battaglia dando a proprio piacimento la vittoria agli uni o agli altri, rassomigliando così a un dio, è direttamente ispirato all’epica omerica e all’immagine della divinità che dal cielo tutto contempla e regola (cfr. Icar. 11: Menippo raggiunge la luna e assume il ruolo dello Zeus omerico, per passare in rassegna tutti gli aspetti della vita umana e trarne il diletto dell’osservazione satirica; vd. Camerotto 1998, pp. 234–242, praes. 236 e n. 151). Καὶ τὸ ὅλον, παιδιὰν ἐποιούμην ἂν τὸν τῶν ἀνθρώπων βίον … μεθ᾽ ὑγείας ἐν μακρῷ τῷ βίῳ – Al termine della sua preghiera, Timolao riepiloga rapidamente ciò che più desidera, ribadendo che tutto ciò che è stato detto rappresenta la ricetta per la vera felicità ed è inattaccabile da qualsiasi distruzione o insidia o malattia, a differenza dei precedenti desideri di Adimanto e di Samippo. Per Geneviève Husson, in tutta l’ultima parte della preghiera di Timolao si nota una certa trascuratezza nella costruzione della frase e una grande libertà nell’impiego dei modi e dei tempi, a cui si aggiungono numerose ripetizioni relative ai temi già esposti precedentemente (§§ 42–43): tale apparente disordine potrebbe essere indizio di un certo tedio da parte di Luciano, giunto ormai alla fine della composizione e a corto di idee, una supposizione che sembrerebbe confermata dal fatto che Timolao, a differenza dei suoi amici, non viene mai interrotto durante la preghiera e, in più, ha meno tempo rispetto agli altri per formulare il suo desiderio (Husson 1970, II, ad loc. [p. 97 s.]). A ben vedere, di contro, il finale del dialogo presenta un sapiente tentativo di variatio di Luciano, che potrebbe non essersi voluto dilungare nel punzecchiare il sogno più assurdo di tutti per raccogliere le forze al suo termine e criticarlo nella maniera più icastica e aggressiva possibile. Mentre con Adimanto e Samippo, infatti, Licino sfrutta elementi topici tradizionali, che vanno a smascherare la vacuità della ricchezza e i suoi inconvenienti o gli svantaggi derivati dal potere, con Timolao il satirico lascia che l’ironia e la burla cedano il posto all’attacco scommatico, così che in pochi e rapidi tratti si fornisca una sintetica, ma impietosa caricatura del personaggio satirizzato. È da notare, del resto, che Licino, all’inizio della sua risposta a Timolao, «dichiara ironicamente di aver paura di interrompere un uomo dotato dei poteri che Timolao sogna di acquisire (§ 45: οὐδὲ γὰρ ἀσφαλὲς ἐναντιοῦσθαι ἀνδρὶ πτηνῷ καὶ ὑπὲρ μυρίους τὴν ἰσχύν): questa affermazione pare avere una chiara valenza metaletteraria» (Russo - Stramaglia) e denunciare espressamente l’adozione, da parte di Luciano, di una precisa strategia compositiva sottesa all’ultima parte del dialogo.



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§ 45 Τί ἂν αἰτιάσαιο, ὦ Λυκῖνε, τῆς εὐχῆς; – Dopo la formulazione del suo desiderio, Timolao si sente inattaccabile e, con fare baldanzoso, sfrutta una domanda retorica che prevede un responso positivo per chiedere a Licino di esprimere un parere. Questi, inizialmente, non oppone obiezione alcuna, ma, al contrario, asseconda l’amico, per cominciare poi a eroderne le fantasie poco alla volta, con sottile strategia, isolando le caratteristiche più inverosimili della sua preghiera e ponendogliele sotto gli occhi. Così «l’ironie de Lycinos consiste à rencherir sur les prétentions du rêveur en imaginant des faits encore plus fantastiques», come l’assurda possibilità attribuita a Timolao di spostarsi velocissimamente cavalcando uno dei suoi anelli (Husson 1970, II, ad loc. [p. 98]). Attraverso la critica al non più giovane Timolao, Luciano descrive in maniera disincantata le miserie della vecchiaia. Il giudizio del mondo antico su tale età umana è costantemente ambivalente (Tosi 1992, pp. 303–315, nn° 638–665), come prova già il celebre scambio a distanza fra Mimnermo e Solone sul numero di anni che un uomo dovrebbe sperare di vivere e, inoltre, come conferma il fatto che questa rappresenta sia un tema retorico di lode, come nel Cato maior de senectute di Cicerone e nella raccolta di apophthegmata di Catone raccolti da Plutarco (Reg. et imp. apopht. 198d–199f), sia di biasimo, come in Giovenale (6, 143–148, 620–623; 10, 188–288). Così, mentre alcuni autori la valorizzano, altri, come i comici e i satirici, la descrivono, in genere, come un periodo caratterizzato da infermità fisica, scarse o nulle capacità intellettive e pessimo carattere, in un continuo altalenarsi di penoso e di risibile (Luc. Sat. 9; Philops. 20, 23; Laps. 1; D. meretr. 11, 3; 14, 4; D. mort. 6 [16], 2; Luct. 16–17; Cat. 5; Rh. pr. 24; Merc. cond. 39; Tim. 2). Molti protagonisti delle opere lucianee sono vecchi e sono chiamati a rappresentare tutti gli aspetti negativi (Ermotimo, Peregrino, Alessandro) o, meno spesso, positivi della vecchiaia (Demonatte, Timone, i cinici Diogene e Menippo), vista da Luciano come tappa della vita umana e, a un tempo, come strumento per indagare la psicologia dell’essere umano ed esprimere un giudizio etico sull’umanità. Così la critica lucianea non ha «risvolti ideologici, non vuole istituire un contrasto tra le generazioni, come accade nella commedia aristofanea: si limita a sfruttare tutti i luoghi comuni sulla vecchiaia per suscitare il riso. Rimane forte, invece, la componente moralistica, che vede nel vecchio i vizi ingigantiti, e pertanto passibili di una condanna più grave. […] Una pennellata più realistica e quotidiana, vicina alla nostra sensibilità, ci proviene paradossalmente dalla satira religiosa: mettendo gli dèi sullo stesso piano degli uomini, Luciano rinuncia per una volta alla letteratura e ci offre un quadretto bonario del vecchio ‘pensionato’» (Santini 1995, p. 421 s.; cfr. Byl 1978). Оὐδέν, ὦ Τιμόλαε ... καὶ ὑπὲρ μυρίους τὴν ἰσχύν – Rispetto ai sogni di Adimanto e di Samippo, quelli di Timolao si presentano talmente volgari

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III Commento

e strampalati che Licino, all’apparenza, non tenta nemmeno di opporvisi (οὐδέν, ὦ Τιμόλαε). Naturalmente si tratta di una studiata messa in scena, finalizzata a coprire ancor più di ridicolo i desideri astrusi dell’uomo volgare, come mostra tutta la successiva parte della replica di Licino. εἴ τινα ἄλλον εἶδες ἐν τοσούτοις ἔθνεσιν, ὅσα ὑπερέπτης – Licino domanda ironicamente a Timolao se abbia mai incontrato, nelle sue escursioni aeree, un altro uomo simile a lui, capace di muoversi nell’aria e compiere imprese straordinarie. All’udire queste parole, il pubblico di Luciano è probabilmente spinto a ricordare la comica immagine dello stralunato filosofo Empedocle, che Menippo incontra sulla luna e si presenta ancora nero come il carbone per essersi gettato nell’Etna, si nutre di rugiada e passeggia attraverso l’aria (Icar. 13). Il motivo della visione dell’alto è fondamentale nella prospettiva lucianea della satira: dall’alto l’osservatore satirico diventa “aereo” (μετέωρος) e “capace di guardare dal di sopra” (ὑπεροπτικός) e, di conseguenza, arriva a vedere più lontano, scrutando pienamente ciò che avviene sulla terra ed esercitando in maniera piena la sua funzione di fustigatore dei vizi umani (Camerotto 2014, pp. 199–209 sui motivi della specola dall’alto e della panopsia in Luciano). Ecco dunque che, ancora una volta, Luciano spiazza il suo pubblico trasformando un tema ossessivamente sfruttato nei Dialoghi come strumento della satira in un bersaglio della satira stessa. γέροντα ἤδη ἄνδρα οὕτω παρακεκινηκότα τὴν γνώμην – Quello della leggerezza di mente dei vecchi è un motivo tipico della commedia, in cui alcune persone più di altre sono accusate di ῾cianciare a vuoto’ o delirare, come i sofisti, i poeti e, in particolare, le donne e i vecchi, due categorie raramente prese sul serio per ciò che dicono (Beta 2004, pp. 167–171). La stessa espressione “spostato di mente” (παρακεκινηκὼς τὴν γνώμην) è fra quelle comunemente impiegate dai comici per deridere la terza età (Poll. 2, 16; Taillardat 1965, p. 260 s., n° 462). Tale formula è recuperata da Luciano in maniera originale attraverso l’uso della paronomasia (uno dei principali metodi di humour lucianei: Ureña Bracero 1995, p. 119 s.), per cui Licino si diverte a dare dello ‘spostato’ a Timolao con un termine (παρακινεῖν) paronimo di quello utilizzato, poco oltre, per deridere il folle desiderio dell’amico di avere una forza straordinaria, capace di ‘spostare’ intere montagne (ὄρη ὅλα κινεῖν). Luciano non perdona debolezze ed errori alla vecchiaia, soprattutto se questa accampa pretese di sapienza, come è per i filosofi creduloni degli Amanti della menzogna, che si dimostrano niente più che “vecchi presi per il naso” (Philops. 23: γέροντες ἄνδρες ἑλκόμενοι τῆς ῥινός; cfr. Tosi 1992, p. 193, n° 419) o per il nostro Timolao, sbeffeggiato da Licino (Santini 1995, pp. 408–411; cfr. Merc. cond. 33; Herm.; Peregr. 2).



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ἐπὶ δακτυλίου μικροῦ ὀχούμενον, ὄρη ὅλα κινεῖν … δυνάμενον – Tramite la spiritosa presa in giro di Licino ai danni di Timolao, che scioccamente desidera ottenere una forza sovrumana pur essendo, oramai, un uomo avanti con gli anni e tutt’altro che attraente e prestante, Luciano ripropone il tradizionale tema diatribico dell’inutilità della forza fisica (Oltramare 1926, p. 48, nº 21: «la force physique n’est pas un bien, même celle d’un athlète»). L’immagine dell’unus digitulus, sfruttata per indicare il minimo sforzo compiuto per conseguire un grande risultato, è proverbiale (Ter. Eun. 284: uno digitulo fores aperis; Giovini 2010, p. 91 s.). Pure l’espressione “spostare (intere) montagne” (ὄρη [ὅλα] κινεῖν) potrebbe essere proverbiale (Husson 1970, II, ad loc. [p. 98 s.], sulla scorta di Betz 1961, p. 168, che l’associa all’evangelico ὄρη μεθιστάναι: vd. 1 Ep. Cor. 13, 2: κἂν ἔχω πᾶσαν τὴν πίστιν ὥστε ὄρη μεθιστάνειν, ἀγάπην δὲ μὴ ἔχω, οὐθέν εἰμι; Ev. Marc. 11, 23). Alcuni critici ritengono che Luciano inserisca in questo contesto il verbo ὀχοῦμαι (ὀχούμενον) per alludere ironicamente al neoplatonico ὄχημα (Pack 1946, p. 337 s.; Anderson 1976, p. 53 cfr. Di Pasquale Barbanti 1998 passim; vd. ancora Peregr. 6; Musc. enc. 6; Prom. es; Salt. 27). ἄκρῳ τῷ δακτύλῳ – La formula “con la punta del dito” è proverbiale ed è molto amata da Luciano (Zen. 1, 61: ἄκρῳ ἅψασθαι τῷ δακτύλῳ; Apostol.Arsen. 5, 86a; Luc. Hist. conscr. 4; Demon. 4; Bis acc. 8; D. meretr. 6, 3; Rh. pr. 11 [cfr. Juv. 9, 133]; Otto 1890, p. 114, n° 547; Rein 1894, p. 37 s.; Bompaire 1958, p. 409, n. 2). Lo scrittore predilige, per il loro potenziale comico, le espressioni che si riferiscono alla punta di una parte del corpo, come, ad esempio, “a fior di labbra” (Cal. 24) o “sulla punta delle labbra” (Ind. 26; Rh. pr. 22; D. meretr. 7, 3; Apol. 6), “sulla punta della lingua” (Rh. pr. 16), “con la punta del naso” (J. tr. 15), “con la punta dell’unghia” (Herm. 62) e “dalle dita delle mani alla punta dei piedi” (Trag. 17). A questa serie appartiene anche un modo di dire ancora oggi utilizzato come “mostrare a dito” (Anach. 36; Harm. 1; Somn. 11; Herod. 2; Rh. pr. 25; D. meretr. 6, 4; cfr. Apost. 5, 81a, che cita Luciano). ἐπέραστον πᾶσι, καὶ ταῦτα φαλακρὸν ὄντα καὶ τὴν ῥῖνα σιμόν; – Finalmente sono rivelati alcuni particolari dell’aspetto fisico di Timolao, sapientemente introdotti da Luciano sul finire del dialogo per marcare con maggior forza, tramite un procedimento per aprosdokia, il contrasto fra il desiderio insensato di questo personaggio di essere amato da tutti indistintamente (§ 43) e la sua parvenza tutt’altro che gradevole, essendo calvo (φαλακρόν) e dal naso camuso (τὴν ῥῖνα σιμόν). Si tratta di due particolari che Plutarco cita come difetti fisici di cui ci si può prendere gioco senza offendere il diretto interessato (Quaest. conv. 2, 9, 633b–e) e, fra l’altro, sono gli stessi e i soli coi quali Socrate è ritratto nei Dialoghi dei morti (20 [6], 4 [Eaco a Me-

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III Commento

nippo]: ὁρᾷς τὸν φαλακρὸν; … Τὸν σιμόν λέγω), secondo il celebre topos della bruttezza del filosofo che più tardi contamina anche l’immagine del cinico (Camerotto 2009 ad Icar. 2 [p. 100 s.]). Tale somiglianza fra il filosofo e una delle maschere lucianee permette di apprezzare, una volta ancora, il modo in cui Luciano manipola gli stessi elementi letterari per definire i propri personaggi, delle vere e proprie caricature inquadrabili in poche, distinte categorie, dotate di tratti sempre uguali e, al tempo stesso, di intenti e personalità sempre diversi, alla cui inconfondibile presentazione il pubblico doveva affezionarsi. Calvizie e naso schiacciato appartengono alla ricca casistica di indizi del decadimento senile che ritroviamo nella commedia attica, in cui «gli effetti visibili di questo decadimento vengono enfatizzati e portati alla caricatura: debole, curvo, tremante, calvo, sdentato, mezzo cieco e mezzo sordo, col naso rincagnato e la pelle avvizzita [cfr. supra ad § 44], il vecchio assurge a maschera deforme […]. Luciano dedica ampio spazio a questa rappresentazione […]: la sorgente del riso sta nel contrasto tra l’aspetto laido e il comportamento o i desideri del γέρων, bollati come indegni e ridicoli. […] Tutta letteraria, dunque, l’ἔκφρασις del vecchio, anche se Luciano si riserva di capovolgere talvolta i luoghi comuni» (Santini 1995, p. 398 s.), per cui se nel corpus lucianeum, in genere, la calvizie è temuta da uomini e donne come segno inesorabile dell’invecchiamento (D. mort. 1 [1], 2; Luct. 16; D. meretr. 11, 3; 12, 5; Sat. 24; Alex. 59; Pro im. 5; vd. anche Rh. pr. 23), in uno dei mondi alla rovescia della Storia vera, di contro, essa è considerata segno di bellezza (VH 1, 23). Timolao è ritratto come un vero senex libidinosus, di casa nel repertorio della commedia e della satira (Conca 1970), esecrato dalla diatriba (Oltramare 1926, p. 48, n° 24b: «les vieillards ne doivent pas se conduire comme des jeunes gens»), caratteristico dei Dialoghi, al cui interno, non di rado, i vecchi hanno la meglio sui giovani solo perché più ricchi e, per questo, più ricercati da adulatori, cortigiane e cacciatori di dote, come avviene in certi Dialoghi dei morti (Santini 1995, p. 402 s.). Luciano ama impiegare temi legati alla sfera sessuale, prediletti da epistolografi, novellisti e comici, così come il contemporaneo Alcifrone, che non si fa scrupoli nel deformare la biografia di Epicuro trasformandolo in un senex libidinosus follemente geloso di Leonzio, storica amante e corrispondente del filosofo (Alciphr. 4, 17; Conca - Zanetto 2010, p. 18; Tomassi 2012, pp. 234–236). τί δή ποτε οὐχ εἷς δακτύλιος ἅπαντα ταῦτα δύναταί σοι – Volendo attribuire tutti i poteri evocati da Timolao a un solo anello, Licino ironicamente non solo sbeffeggia i sogni a occhi aperti dell’amico, ma deride, probabilmente, anche la mania dei ricchi della sua epoca di aumentare a dismisura i segni esteriori della loro vita lussuosa fino a raggiungere il ridicolo (cfr. supra comm. ad § 22: ἐσθὴς ἐπὶ τούτοις ἁλουργίς).



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τί δή ποτε οὐχ εἷς δακτύλιος ἅπαντα ταῦτα δύναταί σοι, ἀλλὰ τοσούτους περιημμένος βαδιῇ τὴν ἀριστερὰν πεφορτισμένος κατὰ δάκτυλον ἕνα; – Il tradizionale topos del peso smisurato e del numero sproporzionato degli anelli dei ricchi (cfr. Gall. 12) è utilizzato in maniera originale, dal momento che qui si tratta non di semplici gioielli, ma di anelli magici. Da battute come questa affiora l’estremo razionalismo della satira lucianea, che cerca di spiegare e di correggere ogni incongruenza della vita umana, anche la più piccola, alla luce della ragione (Camerotto 2014 passim: vd. l’indice dei nomi e delle cose notevoli s.v. razionalismo). Μᾶλλον δὲ ὑπερπαίει ὁ ἀριθμός, καὶ δεήσει καὶ τὴν δεξιὰν συνεπιλαβεῖν – Licino continua a fare ironia sul desiderio di Timolao contrapponendo agli stravaganti eccessi del suo amico la sua razionalità per suscitare il riso del pubblico. In questo caso, a suo giudizio la mano destra deve venire in soccorso (συνεπιλαβεῖν) a Timolao, perché questi aveva richiesto in precedenza (§§ 42–43) ben sei anelli, e un’unica mano per portarli tutti rischia di non essere sufficiente! (Husson 1970, II, ad loc. [p. 99]). ἑνὸς τοῦ ἀναγκαιοτάτου προσδεῖ, ὃς περιθέμενόν σε παύσει μωραίνοντα – Secondo il pensiero greco, la perdita delle facoltà intellettive è un aspetto caratteristico degli uomini in età avanzata, come Timolao. I comici amano deridere questa peculiarità della terza età, tanto che in commedia ‘vecchio’ (γέρων) non di rado è associato ad aggettivi come ‘folle’ e ‘dissennato’ (ἀνόητος, ἄνους); anche la tragedia talvolta fornisce esempi di questa associazione denigrante (Taillardat 1965, p. 260 s., n° 462). A prima vista, Luciano sfrutta questo motivo a fini puramente comici, associandogli una serie d’immagini che automaticamente suscitano riso (Timolao si comporta da pazzo, sembra un moccioso e avrebbe bisogno di farsi curare con l’elleboro), pur se la sua intenzione ultima è quella di deridere, alla maniera della filosofia morale e della satira, l’uomo comune che in preda al vizio si comporta come un folle (Oltramare 1926, p. 61, n° 76: «la plupart des hommes sont à peu près fous»; n° 77: «les hommes sont malheureux à cause de leur folie»). τὴν πολλὴν ταύτην κόρυζαν ἀπομύξας – La formula ‘essere pieno di moccio’ nel naso è proverbiale: può considerarsi l’equivalente del nostro ‘essere un moccioso’ o ‘comportarsi come un moccioso’ e si riferisce a chi agisce in maniera infantile e, di conseguenza, in modo stupido o sconsiderato (cfr. Ind. 21; D. mort. 20 [6], 4; Peregr. 2; Hist. conscr. 31; Alex. 20; Philops. 8; Rein 1894, p. 34 s., con invito a confrontare Plat. Resp. 1, 343a: σε, ἔφη, κορυζῶντα περιορᾷ καὶ οὐκ ἀπομύττει δεόμενον; Apostol.-Arsen. 7, 54a: ἔξελε τὴν κόρυζαν τῆς ῥίνός· ἐπὶ τῶν ὀργίλων κτλ.). La detorsio comica del patrimonio paremiografico tradizionale, che nei Dialoghi è giocata frequentemente sull’aprosdokia per suscitare un sorriso immediato e spiazzare

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III Commento

il pubblico, si fonda in questo caso sul doppio senso, reale e figurato, di κόρυζα, che vale sia “muco” sia “scempiaggine”, per cui Licino invoca spiritosamente un anello che sia capace di ripulire (ἀποξύσας) Timolao dalla sua ‘malattia’, vale a dire dalle sue assurde e folli ambizioni. Ἢ τοῦτο μὲν καὶ ὁ ἐλλέβορος ἱκανὸς ποιῆσαι ζωρότερος ποθείς; – L’elleboro è una pianta medicinale che in antico cresceva soprattutto sui monti nei pressi di Antìcira, città della Focide sul golfo di Corinto, ed era usata per curare i disturbi psichici: per questo aveva dato origine all’espressione proverbiale “aver bisogno di elleboro” (ἑλλεβόρου δεῖσθαι), che era riferita a chi sembrava pazzo (Hor. Sat. 2, 3, 82–83: Anticira è usato con valore metonimico per indicare l’elleboro; 166: un temerario incurante dei pericoli è meglio “navighi alla volta di Antìcira” [naviget Anticyram]; Pers. Sat. 3, 63–65; 5, 100–101; Otto 1890, p. 27, n° 117; Tosi 1992, p. 64 s., n° 144). Si tratta di una formula proverbiale molto amata dai comici e dai satirici (Ar. Vesp. 1489; Plaut. Men. 950: elleborum potabis faxo; Hor. Sat. 2, 3, 82; nescio an Anticyram ratio illis destinet omnem; Otto 1890, p. 124, n° 595) e prediletta anche da certi esponenti della Seconda sofistica, come Luciano e Plutarco (Rein 1894, p. 80; Bompaire 1958, p. 412; cfr. Luc. D. mort. 13 [13], 6; 17 [7], 2; Vit. auct. 23; Herm. 86; VH 2, 7; Anach. 39). Licino la impiega per deridere i folli desideri di Timolao e, per rincarare la dose aggiungendo ulteriore ironia alle sue rampogne, afferma che l’amico non solo ha bisogno di elleboro, ma dovrebbe berlo anche più concentrato (ζωρότερος) rispetto all’ordinario. Si tratta di una delle poche formule proverbiali pertinenti al mondo vegetale che si ritrovano nei Dialoghi: fra queste troviamo ancora “paragoni una rosa a un anemone”, per chi compara cose fra loro differenti (Apol. 11; Diogen. 8, 1); “non guardare il fiore della rosa, ma esaminare le spine del gambo” (Hist. conscr. 28) o “gettare il frutto e occuparsi della buccia” (Herm. 79), per chi è eccessivamente puntiglioso e pedante; “bere la mandragora”, per chi sonnecchia restando inattivo (Tim. 2; Ind. 22–23; VH 2, 33); “esser di legno di fico” per ciò che è privo di valore (Ind. 6; cfr. Zen. 3, 44; Hor. Sat. 1, 8, 1: olim truncus eram ficulnus, inutile lignum). § 46 Ἀλλὰ πάντως, ὦ Λυκῖνε, καὶ αὐτὸς εὔξῃ τι ἤδη ποτέ … ὁ συκοφαντῶν τοὺς ἄλλους – Timolao, stizzito, invita Licino a formulare la sua preghiera, accusandolo di fare da sicofante nei confronti dei desideri degli altri, cioè di essere un gran bugiardo. Una delle peculiarità del sicofante era, infatti, quella di essere un virtuoso della menzogna e dell’inganno, giacché i sicofanti «campavano accusando i loro concittadini davanti ai tribunali (ricorrendo spesso ad accuse false e cavillose) con l’obiettivo di ricattarli o di ricavare un guadagno da un’eventuale conclusione vittoriosa del processo, dal momento che, se l’imputato risultava colpevole, una parte dei suoi beni finivano nelle



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tasche di chi aveva sporto denuncia» (Beta 2004, pp. 195–199, praes. 199). Il sicofante è figura talmente tipica dei Dialoghi che Luciano gioca un ruolo importante per la fortuna del termine συκοφάντης e dei derivati συκοφαντέω e συκοφαντικός (Delz 1950, p. 133 s.). Ἀλλ᾽ οὐ δέομαι εὐχῆς ἐγώ – Per la formulazione del suo desiderio, Licino si è in precedenza riservato il mezzo stadio finale della strada fra il Pireo e Atene (§ 17): in questo modo si è garantito la partecipazione ai sogni dei suoi amici e ha potuto, in tutta tranquillità, dispiegare la sua critica satirica contro di loro. Terminato il suo compito, ora può restare impassibile alle provocazioni di Timolao e controbattere nell’unico modo a lui congeniale, affermando di non aver affatto bisogno di preghiere: così «sa réponse, brutale et sans ambiguité, οὐ δέομαι εὐχῆς ἐγώ, ètait la seule possible de sa part» (Husson 1970, II, ad loc. [p. 100]). In opposizione ai sogni di ricchezza, fama e potenza dei suoi amici, Licino esprime, dunque, l’ideale di una vita tranquilla, lontana dagli eccessi, condotta da umile e privato cittadino, tipico della filosofia morale di matrice socratica e favorito da Luciano (Nigr. 14; 18; Par. 11 [cfr. Nesselrath 1985 ad loc., p. 314 s.]; Gall. 27; Symp. 35; Sat. 10–12). In questo l’eroe satirico lucianeo ha come modello Socrate, «per Luciano sicuramente un paradigma importante e onnipresente» (Camerotto 2014, p. 83), che disprezza i beni che tutti desiderano e passa la sua vita fra ironia e scherzo, così da porsi come una persona qualsiasi tra la gente comune e fingersi ignorante per burlarsi di tutto e tutti con la sua dialettica (Camerotto 2014, pp. 88–93). In definitiva, Licino ha deciso di rifiutare tutto ciò che la massa considera beni (agatha) e a cui ambisce, vale a dire quella serie formata da πλοῦτος, δόξα, βασιλεία, τιμή (Nigr. 4) che, nell’età di Luciano, rappresentano «four strings on the harp of the contemporary diatribe» (Clay 1992, p. 3412). Il disprezzo di Licino per i beni vagheggiati dall’uomo comune rimanda a una posizione concettuale risalente alla più antica sophia greca, compattamente indifferente nei confronti di denaro, fama e onori (come dimostrano gli esempi di Pittaco di Lesbo, Epimenide cretese, Talete, Eraclito, Senofane: Capriglione - Torraca 1996, pp. 13–21), e, più tardi, ripresa ed elaborata con differenti sviluppi dalle filosofie di età ellenistica, fra cui, com’è noto, quella cinica presenta la posizione più radicale (Diog. Laert. 6, 105 = SSR V A 135: [i Cinici]: πλούτου καὶ δόξης καὶ εὐγενείας καταφρονοῦσιν). Più tardi al tema della scelta di uno stile di vita semplice e frugale da parte del saggio si ricollega, nella filosofia popolare di ispirazione cinico-stoica, quello del rifiuto del ‘superfluo’ e della ricerca della virtù come unico bene (Oltramare 1926, pp. 54–57, nn° 47–54; vd. anche p. 46, n° 13: «il faut renverser toutes les valeurs fixées par les préjugés»; p. 49, n° 28: «il faut restreindre nos besoins autant que nous le pouvons»; n° 30: «nous devons satisfaire nos besoins aussi simplement que possible»; p. 58, n° 58: «le sage est semblable

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aux dieux, puisqu’ il n’a besoin de rien»; cfr. Pohlenz 1967, II, pp. 685–687; vd. anche Tosi 1992, p. 819 s., nº 1839: “tutte le mie sostanze le porto con me”; nº 1840: “la natura si accontenta di poco”; nº 1841: “ha bisogni minori l’uomo che ha minori desideri”). Ἥκομεν γὰρ ἤδη πρὸς τὸ Δίπυλον – Di fronte alla porta del Dipylon (cfr. l’introduzione al § 1.5.1) si conclude la vicenda dei quattro amici protagonisti della Nave, in maniera tale che «the arrival at Athens […] is equivalent here with coming back into normal (and often dreary, but inescapable) reality» (Nesselrath 2009, p. 131). καὶ ὁ βέλτιστος οὑτοσὶ Σάμιππος … καλῶς ποιοῦντες – Licino riprende le parole in precedenza impiegate da Samippo (§ 37: μονομαχήσω πρὸς τὸν βασιλέα) e da Timolao (§ 44: τὸ πάντων ἥδιστον, αὐθημερὸν ἀγγεῖλαι ἐς Βαβυλῶνα, τίς ἐνίκησεν Ὀλύμπια, καὶ ἀριστήσαντα, εἰ τύχοι, ἐν Συρίᾳ δειπνῆσαι ἐν Ἰταλίᾳ) nella formulazione dei loro desideri e le ritorce ironicamente contro loro stessi. In particolare, la menzione di determinate e lontane località geografiche, in cui si consumano le imprese tanto del primo (Babilonia) quanto del secondo (la Siria e l’Italia), serve a sottolineare l’assoluta irrealizzabilità dei desideri dei due personaggi facendone il verso. Di Adimanto non si fa allusione, forse perché si è mostrato, tutto sommato, più sobrio dei suoi amici e la sua immaginazione non l’ha trasportato in contrade lontane. Sulla funzione del deittico (οὑτοσὶ Σάμιππος) nella lettura del dialogo vd. supra comm. ad § 1: σέ τε καὶ Σάμιππον τουτονί. πλουτήσας ἐπ᾽ ὀλίγον ὑπηνέμιόν τινα πλοῦτον – La iunctura che lega l’aggettivo ὑπηνέμιος, “ventoso” alla ricchezza (che ritroviamo in Gall. 12) traduce in immagine il pensiero tradizionale che ciò che si possiede può svanire all’improvviso per il volere imponderabile degli dèi, specialmente se lo si è acquistato senza alcun merito (Eur. Ph. 555–558; Alex. fr. 267 K.A.; Soph. fr. 646 Radt; Luc. Tim. 20 [Pluto è alato quando deve abbandonare gli uomini] e Tomassi 2011 ad loc. [p. 328 s.]; Tosi 1992, p. 390, nº 835 su Curt. Ruf. 7, 8, 25: sine pedibus dicunt esse Fortunam, quae manus et pinnas tantum habet). Tutta la sequenza mette l’accento su tale idea grazie alla frequenza dei complementi temporali esprimenti l’idea del rapido e incalzante scorrere degli eventi nella vita umana (ἐπ᾽ ὀλίγον … μετ᾽ ὀλίγον … μετ᾽ ὀλίγον … πρὸ ὀλίγου). ἀνιᾶσθαι μετ᾽ ὀλίγον ψιλὴν τὴν μᾶζαν ἐσθίων – In Grecia le varietà di focaccia (μᾶζα) erano numerose (almeno otto) e di diversa qualità (Ar. Pax 1–25; Ath. 3, 114f–115f, su cui Canfora 2001 ad loc. [p. 302, n. 3]). Si trattava di un alimento che veniva realizzato facilmente mescolando la farina con ingredienti semplici, come il latte o il miele, e poteva essere consumato (a differenza del pane) senza bisogno di cottura (Amouretti 1986, pp. 113–131,



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praes. 124 s.; Dalby 2003, s.v. meals, p. 212 s.). Questo lo rendeva un cibo di largo consumo presso i Greci, una sorta di ‘alimento nazionale’ (Hes. Op. 590), destinato a diventare un abituale pasto per i poveri e precocemente assurto, presso i moralisti, a simbolo di un regime di vita modesto. È per questo che Licino lo evoca in un contesto in cui vuol riferirsi a uno stile di vita povero (cfr. Max. Tyr. 32, 9 Trapp; Luc. Tim. 56). ἐπειδὰν ἡ εὐδαιμονία μὲν ὑμῖν καὶ ὁ πολὺς πλοῦτος οἴχηται ἀποπτάμενος – L’espressione οἴχηται ἀποπτάμενος, “se ne andrà via volando” è una parodia del secondo libro dell’Iliade – uno dei più conosciuti e studiati nell’antichità (Householder 1941, p. 57) –, al cui interno leggiamo che il Sogno, dopo essere apparso ad Agamennone, “se ne andava volando via” (Il. 2, 71: ᾤχετ’ ἀποπτάμενος). Lo stesso passo omerico è imitato da Luciano nel Caronte, in cui si dice che le speranze “libratesi in volo vanno via”, lasciando a bocca aperta gli uomini proprio quando speravano di afferrarle (Cont. 15: [αἱ] ἐλπίδες … ἀναπτάμεναι οἴχονται). La manipolazione di una citazione e la sua inserzione in un contesto diverso dall’originale al fine di soprendere piacevolmente il pubblico è tipica della letteratura antica e rappresenta un vero e proprio ‘cavallo di battaglia’ lucianeo (Bompaire 1958, pp. 382–404, praes. 390–401). αὐτοὶ δὲ καταβάντες ἀπὸ τῶν θησαυρῶν τε καὶ διαδημάτων – Con le sue parole, Licino demistifica i voli fantastici dei suoi amici per ricondurli sulla terra, in maniera tale che il ritornare alla realtà per loro si configura come una vera e propria caduta dall’alto. Si tratta di uno dei meccanismi di cui si nutre la satira, come ricorda efficacemente Alberto Camerotto, per cui «tutto ciò che nell’opinione comune si eleva più in alto diviene il bersaglio preferito e naturale della satira, e attraverso il riso viene fatto precipitare in basso, perché ritorni in sostanza tra gli uomini, sulla terra o meglio ancora per terra» (Camerotto 2014, pp. 296–299). Tale meccanismo è spiritosamente illustrato nel Caronte, in cui tutta l’umanità è ritratta sospesa in aria, appesa al filo delle Parche, da cui ciascuno precipita alla sua morte provocando un tonfo proporzionato all’altezza raggiunta in vita (Cont. 16). ὥσπερ ἐξ ἡδίστου ὀνείρατος ἀνεγρόμενοι … εὑρίσκητε – Questa è la terza volta che Licino equipara esplicitamente le fantasie dei suoi amici a un sogno, smascherandone l’illusoria e fallace prospettiva adottata all’inizio del gioco dei desideri (cfr. supra comm. ad § 16: ὥσπερ ἡδίστῳ ὀνείρατι ἑκουσίῳ περιπεσόντες … εὖ ποιήσοντι ἡμᾶς). In Luciano l’opposizione fra ricchi e poveri è evidentissima e testimonia, con buona probabilità, un dato reale della vita ateniese: mentre tutto è possibile per alcuni, dunque, per altri non esiste altro modo di fuggire dalla realtà che crearsi castelli in aria e vivere alla giornata (Follet 1994, p. 134 s.; Luc. Sat. 8, 17–18, 25).

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III Commento

ὥσπερ οἱ τοὺς βασιλεῖς ὑποκρινόμενοι … λιμώττοντες οἱ πολλοί – La satira provvede al disvelamento di tutto ciò che presso gli uomini è fonte di bruttezza, debolezza e infelicità e per questo, nei Dialoghi, le vittime degli attacchi satirici lucianei presentano di frequente un apparato esteriore finto e illusorio, per recitare una tragedia che presto o tardi è destinata a finire, come quegli attori di teatro che sono più interessati a mettere in risalto le loro doti e i loro vestiti che la bellezza intrinseca dei testi e, una volta spogliati i panni del personaggio interpretato, rivelano tutti i loro vizi (Camerotto 2014, pp. 307–313). La satira lucianea riecheggia un antico motivo propagandato dalla filosofia morale, secondo cui gli uomini devono essere pronti a ogni avvenimento e devono adattarsi alle circostanze della vita, come i bravi attori si adattano al ruolo che devono interpretare (Oltramare 1926, p. 53, n° 44: «il faut être préparé à tout événement» ; n° 45: «il faut adapter sa conduite aux circonstances»; n° 45a: «il faut s’adapter aux circonstances, comme un acteur s’adapte aux différents rôles qu’il joue»). I paragoni fra la vita e il palcoscenico sono tradizionali nella letteratura antica (Piot 1914b, pp. 215–220; Kokolakis 1960), soprattutto in ambito filosofico (Helm 1906, pp. 44–46) e retorico (Kokolakis 1960b, p. 103; Anderson 1976, pp. 4 s., 18 s.]). Nei Dialoghi è impiegata una notevole quantità di immagini ispirate alle scene teatrali (Kokolakis 1960, pp. 52–58 e 1960b; Schwartz 1965, pp. 25–27; Trédé 2002): il mondo degli uomini è simile a un teatro (Nigr. 18 e 20; Icar. 21); la sorte (Tyche) assegna a ciascuno una parte nella vita (Nec. 16; Tox. 26) e, a volte, accade che gli uomini cadano in rovina, facendo una figura non migliore di quella di certi cattivi attori sulle scene (Gall. 26); gli uomini il più delle volte indossano una maschera, per non rivelare agli altri la loro vera natura (Icar. 29–30; Rh. pr. 12; Merc. cond. 41; Pisc. 31–32; Pro im. 3; Alex. 12, 39 e Peregr. 21, 36). Questi motivi servono a illustrare efficacemente nel corpus lucianeum l’eterno contrasto esistente fra l’essere e l’apparire che condiziona la vita della maggior parte degli uomini, pur se è bene sottolineare che se da un lato Luciano ricorre a un impressionante numero di metafore e immagini teatrali per dare maggior vigore a un’idea o a una scena, dall’altro è la sua stessa visione della vita a fargli interpretare e ritrarre la vita degli uomini, condizionati dai loro assurdi comportamenti e dai loro ipocriti atteggiamenti, come un’unica, gigantesca, grottesca commedia (Matteuzzi 1998) Ὑποκρίνω esprime l’azione di interpretare fisicamente una parte sulla scena e si differenzia da ὑποδύομαι, che indica l’atto di travestirsi e prendere le fattezze di un personaggio, e da μιμοῦμαι, che veicola la più generica idea di calarsi nei panni di un determinato personaggio (Kokolakis 1960b, p. 75). Nei Dialoghi il termine τραγῳδός è quello favorito per designare l’attore di tragedie, mentre τραγῳδεῖν è il verbo principalmente utilizzato per indicare la performance teatrale (Kokolakis 1960b, pp. 83–87).



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καὶ ταῦτα πρὸ ὀλίγου Ἀγαμέμνονες ὄντες ἢ Κρέοντες – Creonte e Agamennone sono spesso ricordati insieme da Luciano come protagonisti assoluti delle scene tragiche la cui solenne parvenza, non di rado, maschera la mediocrità degli attori che li impersonano (Nigr. 11; Nec. 16; Apol. 5). Creonte compare nei Dialoghi quasi esclusivamente nella critica alla vanità umana (unica eccezione è Salt. 42, in cui viene evocato come semplice personaggio del mimo). Più varia è la presentazione di Agamennone, ricordato con una certa frequenza in forma neutra (come semplice personaggio del mimo in Salt. 43; come simbolo di un’eta lontanissima in Demon. 26; come personaggio del mito in Dom. 1; come modello della perfezione della tecnica descrittiva omerica in Pro. im. 25) o presentato in vari contesti dall’intento moralistico o satirico (come simbolo della caducità delle cose umane: D. mort. 20 [6], 1; Nec. 15; Cont. 22; nell’illustrazione dell’insensatezza dei desideri umani: D. mort. 29 [23]; Gall. 25; nella critica della venalità dei sacrifici o dell’uso distorto del mito: Sacr. 3; Vit. auct. 22; Hist. conscr. 8; J. tr. 40; Par. 44, 45). ὁπόταν δέῃ σε … καταπεσόντα ἐκ τοῦ οὐρανοῦ χαμαὶ βαδίζειν – Nella prospettiva della satira, tutto quello che nell’opinione comune si leva troppo in alto finisce irrimediabilmente per cadere in basso e precipitare rovinosamente sulla terra (cfr. supra: αὐτοὶ δὲ καταβάντες ἀπὸ τῶν θησαυρῶν τε καὶ διαδημάτων). τὸ αὐτὸ παθεῖν τῷ Ἰκάρῳ τῆς πτερώσεως διαλυθείσης – La satira lucianea fa frequente uso della coppia oppositiva costituita da Dedalo e Icaro per mostrare come, per gli uomini, il ritornare alla realtà sia assai simile a una caduta dall’alto che li riporta sulla terra, trascinandoli giù, quando si compiacciono eccessivamente di restare con la testa fra le nuvole (Schmidt 1897, p. 53 s.). Malgrado la revisione critica frequentemente condotta contro l’assurdità delle invenzioni mitiche, Luciano ama interpretare il mito allegoricamente e fornirgli una lettura morale, in particolar modo nelle comparazioni, sia obbedendo a una scelta estetica (i teorici antichi consigliavano espressamente l’uso dei miti come ornamento letterario) sia, soprattutto, puntando a sfruttare l’indiscusso valore pedagogico della materia mitica (Jouanno 2008, pp. 198–201). Così nei Dialoghi «il volo di Icaro ha un valore negativo e viene in genere usato per mettere in evidenza, attraverso il paragone, gli aspetti negativi di un personaggio. Al polo opposto sta il volo di Dedalo, segno di equilibrio e assennatezza» (Camerotto 1998, p. 225 e n. 94; Id. 2014, pp. 162 [su Icar. 2–3], 296–299; cfr. Icar. 2–3 e Camerotto 2009, pp. 101– 103; Im. 21; Gall. 23; Astr. 14–16; Salt. 49 [accenno generico al mito]). In questo contesto, Icaro è emblema della stoltezza umana, causa del rovinoso precipitare delle fantasticherie di Adimanto, Samippo e Timolao sulla terra,

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III Commento

che si contrappone all’assennatezza del saggio, capace di elevarsi sopra le miserie umane, incarnato dal personaggio satirico di Licino, novello Dedalo. È da notare il raro πτέρωσις, “piumaggio”, che compare per la prima volta negli Uccelli di Aristofane (vv. 94, 97). ἀπολέσαντα τοὺς δακτυλίους … ἀπορρυέντας τῶν δακτύλων – L’immagine degli anelli che scivolano dalle dita di Timolao sancisce, con un guizzo di felice comicità, la fine del dialogo (Husson 1970, II, ad loc. [p. 102]). Ἐμοὶ δὲ καὶ τοῦτο ἱκανόν … τὸ γελάσαι μάλα ἡδέως ἐφ᾽ οἷς ὑμεῖς ᾐτήσατε τοιούτοις οὖσιν – L’ultima stoccata di Licino è rivolta contro i sogni di ricchezza e di potere di Samippo, che l’hanno portato fino alla conquista di Babilonia e al possesso delle incredibili risorse dell’impero persiano (§ 34). Con una risata si conclude, dunque, l’opera satirica di Licino. E se il riso «costituisce significativamente l’incipit e/o l’explicit di diverse opere lucianee» (Camerotto 1998, p. 73, n. 198; Apol. 1; Bacch. 1; Eun. 1; Nigr. 1; Sacr. 1; Anach. 1; D. mort. 16 [11], 5; 20 [6], 6; Eun. 12; Trag. 332–334), questo non solo «sta al principio delle imprese degli eroi della satira e li accompagna in tutte le loro azioni […] [ma] rappresenta anche il compimento dell’impresa: […] conclude e compie l’azione e la parola della satira, agisce da vero e proprio sigillo» (Camerotto 2014, pp. 294–296; cfr. Icar. 29; Nec. 21; Peregr. 31, 37 e 45; Luct. 24; Sacr. 15; ecc.). Jesús Ureña Bracero ha notato che i finali dei dialoghi lucianei presentano determinati elementi caratteristici che permettono di dividerli in due gruppi (Ureña Bracero 1995, pp. 88–91). Il primo è costituito da «marcas de final» consistenti in: 1) un breve discorso parenetico unito all’azione di uno o più personaggi (come avviene nella Nave e per quasi tutti i dialoghi maggiori); 2) un enunciato di tono sentenzioso (proprio dei Dialoghi dei morti); 3) l’allusione a un altro episodio mitologico distinto da quello trattato nel dialogo (esclusiva dei Dialoghi degli dèi e dei Dialoghi marini). Il secondo elemento è rappresentato da una particolare formula volta a marcare la fine del racconto e costruita su verbi come ὁράω, οἶδα, μιμνήσκω, χαίρω e (meno frequenti) ἐπαίνω e οἰμώζω o, ancora, componenti come ἐπὶ τούτοις e l’aggettivo ἱκανός (che compare in quest’ultima asserzione di Licino). καὶ ταῦτα φιλοσοφίαν ἐπαινοῦντες – Il bersaglio preferito della satira lucianea sono gli intellettuali, la cui critica rappresenta una vera e propria tendenza della cultura di epoca imperiale, come provano, ad esempio, gli attacchi satirici contro la Seconda sofistica del semisconosciuto epigrammatista Ammiano e del ben più celebre Galeno (Jones 1986, p. 115 s.). Nel corpus dei Dialoghi solo due opere, l’Alessandro e la Morte di Peregrino, rappresentano offensive dirette contro personaggi contemporanei, di cui sono fatti esplicitamente i nomi e le cui vicende sono riportate nei dettagli (Schwartz 1951; Hall 1981, pp. 207–220; Jones 1986, pp. 117–148; Anderson 1994,



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pp. 1435–1439). Il più delle volte, al contrario, Luciano punta a colpire personalità coeve in forma allusiva, tanto che raramente si è in grado di stabilire con certezza il bersaglio della sua polemica (ciò vale almeno per Rh. pr., Lex., Sol., Pseudol., Cat., Ind., Eun.: Baldwin 1973, pp. 16, 49–59; Gil 1979–1980, pp. 87–98; Hall 1981, pp. 273–307; Jones 1986, pp. 103–115; Anderson 1994, pp. 1430–1433; Russo 1997; Follet 1994, p. 139; Amato 2004; Tomassi 2007 passim; cfr. Billault 1994b; cfr. ancora AP 11, 274 e 436, su cui vd. Baldwin 1973, p. 26 s.; Id. 1975, pp. 328, 332; Bowie 1989, p. 252 s.). In altre opere Luciano mette alla berlina genericamente chi inopportunamente si fregia del titolo di filosofo o di intellettuale: è il caso dei Fuggitivi, del Pescatore, del Simposio, dell’Adversus indoctum, dell’Intorno ai dotti che convivono per mercede e, come si evince dalle parole conclusive di Licino, anche della Nave, che pur se primariamente deride la vanità dei sogni umani, ha come obiettivo ultimo quello di prendere in giro coloro che onorano la filosofia per poi tradirne il messaggio. Ecco dunque che, con uno splendido fulmen in clausola, nel finale del dialogo troviamo l’ennesima riproposizione di un locus classicus lucianeo, la contrapposizione polemica tra i semnoi, gli intellettuali boriosi e saccenti, e gli indocti, la gente comune, che si risolve costantemente a vantaggio dei secondi (vd. Ind., Symp., Merc. cond., Rh. pr.; cfr. da ultimo Johnson 2010, pp. 157–178). Luciano dichiara spesso che, fra quanti si dichiarano filosofi, solo pochi lo sono veramente (Pisc. 30, 37, 40, 42, 46, 47), o pochissimi (Pisc. 20; Fug. 4, 24), e, addirittura, arriva a dire di non aver mai incontrato nessuno che assolvesse “l’impegno del saggio” (τὴν τοῦ σοφοῦ ὑπόσχεσιν: Apol. 15; cfr. Fuentes González 2009, p. 141 s.), e ama illustrare, in particolare, la discrepanza fra le parole e i fatti dei filosofi (Symp. 36; Par. 43; Icar. 21, 29 e 31; Bis acc. 7; Nec. 5; Apol. 6; Herm. 9; D. mort. 10 [20], 11), in primis degli stoici (Bis acc. 21; Herm. 18) o degli pseudo-filosofi (Pisc. 31, 34, 35; Fug. 4, 18, 24; Tim. 54–58), riproponendo l’amato imperativo categorico della necessità di una stretta corrispondenza fra logoi ed erga. Tale principio, risalente ad Antistene (Diog. Laert. 6, 11 = SSR V A 134), per quanto il contrasto fra teoria e prassi, tipico dell’esistenza del sapiente, sia già proprio della commedia (Ar. Nub; Anaxipp. frr. 1, 38–40 e 4 K.-A.), diventa un luogo comune della diatriba (Teles fr. 1 Hense, su cui Fuentes González 1998 ad loc. [pp. 86–132]) e si configura come un vero e proprio leitmotiv dell’intera classe intellettuale imperiale, che lo ripropone in una infinita modalità di varianti (Aristid. or. 2, 451 Lenz - Behr, su cui cfr. Milazzo 2002, p. 21; Gell. 9, 2 [Erode Attico]; Max. Tyr. 1, 2–3, 8–10 Trapp; 22 e 25 Trapp; Donini 1992, pp. 3487–3489 su Galeno). Stringente risulta, in particolare, il parallelo fra l’explicit della Nave e quello dell’orazione Sull’abrogazione della commedia (29 Keil) in cui Elio Aristide, per criticare il comportamento dei suoi compatrioti di Smirne, ne ricorda la superiorità

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III Commento

intellettuale e la pone in contrasto col loro indecoroso amore per una forma di intrattenimento tanto volgare come la commedia (Arist. 29, 33 Keil: οἶμαι τοίνυν ἐγὼ πᾶσι μὲν ταῦτα συμβουλεύων ὀρθῶς ἂν ποιεῖν, οὐχ ἥκιστα δ’ ὑμῖν. ὅσῳ γὰρ παιδείᾳ καὶ φιλανθρωπίᾳ προέχειν δοκεῖτε, τοσῷδε αἴσχιον ἃ μὴ χρὴ φαίνεσθαι διώκοντας, “credo dunque che farei bene a dare questi consigli a chiunque, ma soprattutto a voi. Quanto più, infatti, sembrate eccellere per cultura e per umanità, tanto più vergognoso è che vi si veda perseguire ciò che non si deve”).

IV Illustrazioni

Tav. 1. Scena che mostra una grande nave da commercio a due alberi che entra nel porto di Ostia sotto la spinta della vela principale e della vela superiore triangolare (siparum). Bassorilievo votivo del Portus Augusti di Ostia, intorno al 200 d.C. Roma, Collezione Torlonia. L’immagine riproduce con precisione numerosi dettagli dello scafo di una nave da commercio, della sua ornamentazione e dei suoi mezzi di governo. Si noterà, in particolare, la forma della prua, col Bacco scolpito, e quella della poppa, con la sua ochetta, l’enorme grandezza del remo del timone, la vela alta triangolare, la vela principale rettangolare, con le bande orizzontali che la rafforzano e le funi che scendono dal pennone attraverso occhielli (da Gianfrotta - Nieto - Pomey - Tchernia 1997, p. 82).

https://doi.org/10.1515/9783110659696-004

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IV Illustrazioni

Tav. 2. Riproduzione grafica di un particolare del bassorilievo votivo della collezione Torlonia (tav. 1) con la nave da commercio che entra nel porto di Ostia (da Köster 1923, p. 175, fig. 42).



IV Illustrazioni

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Tav. 3. Tipi di navi raffigurate su un mosaico di Althiburos in Tunisia, III sec. d.C. (da Höckmann 1985, p. 63, fig. 52).

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IV Illustrazioni

Tav. 4. Porto antico idealizzato (forse Pozzuoli), in una pittura murale da Stabia, I sec. a.C. (da Meda 2004, p. 122).



IV Illustrazioni

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Tav. 5. Stele funeraria del faber navalis P. Longidienus, fine del II sec. d.C. Ravenna, Museo Nazionale. Il defunto si è fatto rappresentare mentre completa la costruzione di una nave tagliando un pezzo di legno destinato a essere inserito nello scafo già assemblato (da Gianfrotta - Nieto - Pomey - Tchernia 1997, p. 96).

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IV Illustrazioni

Tav. 6. I componenti di una nave antica. 1. τρόπις (lat. carina); 2. ζωστήρ; 3. στεῖρα (lat. rostrum); 4. ἀκροστόλιον; 5. ἀρτέμων (lat. artemo); 6. cfr. 11; 7. κεροῦχοι, ἱμάντες (lat. ceruchi, funes); 8. ἀρτέμων? (lat. artemo?); 9. πρότονος; 10. ἱστίον, ἄρμενον (lat. velum); 11. (ἱστο-)κεραία, ἐπίκριον (lat. antemna); 12. σίφαρος (lat. siparum); 13. ἱστός, τράχηλος (lat. arbor, malus); 14. καρχήσιον (lat. carchesium); 15. ἐπίτονος; 16. ὑπέραι (lat. funes?, rudentes?); 17. ἄγκοινα (lat. anquina); 18. – (cime); 19. πούς, πρόπους (lat. pes); 20. δίαιτα, σκηνή, θάλαμος (lat. diaeta); 21. χηνίσκος (lat. cheniscus); 22. περιτόναια; 23. ὁλκαῖον (lat. rostrum?); 24. σκάφη (lat. scafa); 25. πηδάλιον (lat. gubernaculum párodus?); 26. – (rinforzo laterale) (da Höckmann 1985, p. 154, fig. 134).



IV Illustrazioni

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Tav. 7. Nave da commercio romana a vele spiegate. Mosaico della statio n° 15, Ostia, Piazzale delle Corporazioni, fine del II sec. d.C. L’imbarcazione presenta uno scafo simmetrico con prua e poppa della stessa altezza e due alberi a vela quadra. Notevoli sono i due grossi timoni laterali situati sui lati della poppa (da Gianfrotta - Nieto - Pomey Tchernia 1997, p. 5).

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IV Illustrazioni

Tav. 8. Nave da commercio che reca sulla poppa la figura di una divinità protettrice. Rilievo proveniente da Narbonne, III sec. d.C. Musée Lamourguier, Narbonne (da Gianfrotta - Nieto - Pomey - Tchernia 1997, p. 17).



IV Illustrazioni

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Tav. 9. Il grande rostro di bronzo massiccio recentemente ritrovato nelle acque di Atlit, in Israele. Particolare della decorazione a rilievo con la stella e l’elmo, attributi dei Dioscuri (da P. Gianfrotta - L. Fozzati - C. Mocchegiani Carpano - F. Pallarés, Archeologia subacquea [Archeo dossier n. 5], p. 27).

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IV Illustrazioni

Tav. 10. Poppa di una grande nave da commercio in fase di attracco. Dettaglio del bassorilievo votivo del Portus Augusti di Ostia (tav. 1), intorno al 200 d.C. Roma, Collezione Torlonia. Su una sorta di scialuppa, un marinaio fissa uno dei due grandi timoni, divenuto inutile, mentre il timoniere manovra l’altro timone dall’altro lato. La poppa è riccamente decorata con una scena mitologica che andrà riferita alle divinità tutelari della nave (da Gianfrotta - Nieto - Pomey - Tchernia 1997, p. 16).



IV Illustrazioni

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Tav. 11. Mosaico policromo che raffigura la poppa di una grande nave oneraria, con scialuppa e rimorchio, in cui è ben visibile il sistema di governo, III sec. d.C. Roma, Museo del Campidoglio (da Medas 2004, p. 184).

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IV Illustrazioni

Tav. 12. Restituzione grafica del mosaico policromo di Roma, Museo del Campidoglio (da Köster 1923, p. 174, fig. 41).



IV Illustrazioni

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Tav. 13. La vela quadra: 1. braccio; 2. drizza; 3. pennone; 4. amatigli; 5. ralinghe; 6. bugne; 7. scotte; 8. imbrogli; 9. albero; 10. attacco della bolina; 11. ferzi della vela e anelli per gli imbrogli (cuciti sul lato anteriore della vela); 12. trozza (da Medas 2004, p. 189, fig. 77).

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IV Illustrazioni

Tav. 14. Diversi tipi di ancore primitive in pietra. Le ancore in nostro possesso provengono per la maggior parte da santuari marittimi, al cui interno erano deposte come offerte votive (da Gianfrotta - Nieto - Pomey - Tchernia 1997, p. 87).



IV Illustrazioni

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Tav. 15. Il viaggio dell’Iside. Sulla carta vengono indicate la rotta che la nave avrebbe dovuto seguire dall’Egitto in Italia (+ + +) e quella effettivamente percorsa (- - -) a causa della tempesta (elaborazione grafica M. Cataldo).

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IV Illustrazioni

Tav. 16. Ipotesi ricostruttiva del Faro di Alessandria (da Medas 2004, p. 79, fig. 18).



IV Illustrazioni

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Tav. 17. Nelle pitture la figura del pilota-timoniere viene spesso enfatizzata, rappresentandola di dimensione maggiore rispetto a quella degli altri marinai, per indicarne la primaria importanza a bordo di una nave. Pompei, Casa dei Vettii, I sec. d.C. (da Medas 2004, p. 29).

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IV Illustrazioni

Tav. 18. Dettaglio del mosaico dei navicularii di Syllectum in Tunisia. Ostia, Piazzale delle Corporazioni, fine del II sec. d.C. Questa grande nave da commercio è una delle rare rappresentazioni di una imbarcazione antica a tre alberi, a cui i testi antichi fanno spesso riferimento (da Gianfrotta - Nieto - Pomey - Tchernia 1997, p. 103).



IV Illustrazioni

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Tav. 19. La misurazione del grano. Mosaico dell’aula dei mensores, Ostia, fine del II sec. d.C. Al centro della scena, il mensor frumentarius brandisce l’asta che gli serve a livellare la quantità di grano versato in un contenitore; in questa operazione è aiutato da un personaggio (più piccolo) che tiene la contabilità servendosi di un abaco (da Gianfrotta - Nieto - Pomey - Tchernia 1997, p. 118).

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IV Illustrazioni

Tav. 20. Le tappe delle conquiste di Samippo, dalla partenza dal porto di Corinto alla marcia trionfale attraverso l’Asia minore fino alla scontro finale con il sovrano nemico nei pressi di Babilonia (elaborazione grafica M. Cataldo)

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VI Indici Indice dei nomi e delle cose notevoli Abonuteichos: 6 Acamante: 136 s. acconciatura (come elemento caratteriz­zan­te): 111, 119 (degli Egizi); 120 s.; 148 s. (dei personaggi lucianei) Achemenidi: 54, 240 Adriano: 125, 158, 184, 215, 268 adulazione: 216, 259 s. adynaton: 62, 103 Afrodite: 128, 179, 186 Agamennone: 64, 293, 295 Alcibiade: 12, 195 Alessandria d’Egitto: 37, 108, 134, 137, 140, 162, 172 s., 257 Alessandro (profeta): 6, 57, 132, 268 Alessandro Magno: 29, 40, 49, 50– 53, 55 s., 64, 132, 147, 151, 159, 181, 225 ss., 263, 276, 277 Alessandro Severo: 8, 53 alias lucianei: 6 allocuzione alle truppe (παρακλη­­τι­κὸς λόγος): 52, 251 ambitio: 2, 215 Ammone: 242, 256 Anacarsi: 41, 117, 165 s. anagnostes: 62, 107, 234 àncora: 36, 122, 128, 130 s. anelli: 1, 54–56, 267 ss. (datori di poteri ma­gici); 24, 64, 197 s. (simbolo di ric­chez­za) Annibale: 53, 147, 226, 227 annona: 106 s. Anticira: 290 Antinoo: 184 Antiochia: 6 Antipatro: 29, 239 antipodi: 55, 280 Antistene: 14, 41, 106, 297 Antonini: 31, 40, 150, 162 https://doi.org/10.1515/9783110659696-006

antonomasia: 134 s., 275 Apollo: 179, 186 (Apollo Liceo), 253, 275, 277 apostrofe al pubblico: 233 aprosdokia: 21, 177, 287 s., 290 Arabia: 112, 279 Arcadia: 223 Archiloco: 13 s., 20 archistator praefecti: 6 arcieri: 244 s., 252 Ardashir I: 53 Arellius Fuscus: 50 Arione: 64, 184, 185 s., 211 Aristea di Proconneso: 271 s. Aristofane: 12, 19, 20, 24, 45, 56, 57, 124, 132, 163, 202, 272, 281 Aristotele: 3, 13, 53, 166 s., 170, 196, 207 Armeni, Armenia: 7, 53, 205, 237, 238 s., 245, 246, 247 s. Arriano: 16, 30, 51 s., 161, 226, 240, 241, 244 s., 252, 255 Arsacidi: 54, 244, 247 s. Artaserse: 53 Artemide efesia: 50, 236 Assiri: 121 Atene: 1, 3, 5, 6, 21, 24, 30, 31–33, 39 s., 44, 59, 64, 107, 113, 114 s., 120, 124, 125, 146, 147, 151, 157, 158, 159, 160, 168, 174, 175, 178, 182, 190 s., 210, 211, 230, 241, 248 s., 258, 270, 283, 291 Ateniesi: 23 s., 30, 33, 39 s., 45, 46, 108, 109, 114, 115, 119, 124, 150 s., 158, 182, 191, 209, 210, 249, 294 Augusto: 53 austro: vd. noto avari, avarizia: 2, 26, 169, 193, 196, 211, 212, 217, 222

350

VI Indici

avidi, avidità: 26 s., 29, 42, 103, 151, 169, 179, 184, 189, 193, 196, 203, 216, 222, 233, 273, 275, 276 Avidio Cassio: 244 avvoltoio: 21, 28, 61, 103 s., 127, 216 Babilonesi: 112, 118, 121, 237 Babilonia: 41, 50, 237, 240, 242 s., 247, 249, 281, 292, 296 battaglia immaginaria (motivo topico): 49 s., 64, 250 s., Battra, Battriana: 240, 247 s., 278 Battriani: 245, 246, 247 beghe di confine (motivo topico): 40, 257 s. Bradua (figlio di Erode Attico): 113 brindisi (propinatio): 207 s. bugia: vd. menzogna burla (strumento della satira): 13, 45 s., 165 s., 284 Caldei: 112 Caligola: 37 Callia, pace di: 139 Callistene di Olinto: 257 Canopo: 172 Cappadocia: 6, 239 Caria: 236 Caronte: 6, 35, 40, 48, 109, 133, 168, 169, 174, 179, 183 s., 212 s., 231 Cefiso: 158 Cencree: 235 s. Ceramico: 33, 158, 210 s. Cesare: 52 s., 104, 241 Chelidonie: 33, 38, 139, 140 s. chenice: 211, 212, 222 cicale d’oro: 30, 119, 120 Cidia (nome parlante): 63, 199, 257 Cilicia: 139, 236 s. cinismo: 11, 12, 13, 14 s. 19, 20, 24, 41, 44, 46, 48, 50, 54, 57, 153, 203, 212, 213, 214, 216, 217, 219, 222, 226, 249, 259, 261, 262, 264, 265, 280, 284, 285, 288, 291 s. Circe: 219, 270, 271 Cleeneto (nome parlante): 20, 63, 199, 220, 257 clientes: 190, 198–200, 201, 204

Collito: 158 Colosso di Rodi: 112 commedia attica: 3, 7, 8, 11, 12, 13, 15, 17, 19, 20 s., 22, 49, 57 s., 63, 103, 106, 114, 124, 125, 166, 170, 171, 179 s., 188, 201, 202, 203, 205, 216, 222, 228, 223, 248, 250, 272, 273, 274, 275, 285, 286, 288, 289, 297, 298 connessure delle vele: 38, 122 Conone: 31 ‘conversione alla filosofia’ di Luciano: 18 s. coppiere: 192 s. Corinto: 23, 39, 50, 63, 104 s., 125, 185, 186, 191, 193, 194, 235, 248; 18, 191 (giochi istmici) corvo: 216 Costantino: 37, 106 Costantinopoli: 106 Cratete di Tebe: 14, 41, 48, 216 Creonte: 64, 295 Creso: 64, 196, 218 Ctesifonte: 7, 53, 243 s., 246, 247 cubito: 126 darico: 181 Dario, re dei Persiani: 181, 235 (Dario I); 227, 236 s., 240, 245, 255 (Dario III) decapitazione (pena per i disertori): 53, 238, 241 declamazione: 8, 50, 58, 107, 113, 176 s., 201, 261, 282 Dedalo: 11, 272, 295 s. deittico: 62, 164, 178, 292 Democrate (nome parlante): 20, 63, 199, 220, 257 Democrito: 166, 216 Demostene: 16, 50, 54 destino della vita umana (motivo topico): 103 s., 217 diadema (attributo del re dei Persiani): 41, 231, 256, 263 dialogo in cammino (‘dialogueprome­na­de’): 20, 125



Indice dei nomi e delle cose notevoli

diatriba: 12, 15, 25–28, 43, 48, 57 s., 159, 196, 197, 205, 213, 217, 219, 222, 228, 258, 259, 261, 262, 266, 280, 287, 288, 291, 297 diminituvi comici: 21, 63, 113 s., 132 s., 168 Diogene: 13, 14, 19, 41, 46, 59, 105, 106, 151, 153, 165, 174, 179, 207, 212, 213, 214 s., 217, 260, 281, 285 Dione Crisostomo: 44, 53, 54, 117, 218, 250, 265 s., 281, 283 Dionico (nome parlante): 63, 208 s. Dioniso: 125, 185 s., 234, 250, 253, 277 Dioscuri: 33 s., 128, 129, 135, 142 s. Dipylon, porta del: 31, 32, 178 211, 292 diserzione: 240 s. dispensator: vd. οἰκονόμος distribuzioni di denaro: vd. διανομαί doxokopia: 260 duale: 107 Ecate: 168 Echecrate (nome parlante): 63, 192 efebi, efebia: 119 s. Efeso: 226, 236 Egina: 31, 156, 168 Egitto, Egiziani: 1, 6, 33, 37, 39, 50, 63, 64, 106, 111, 112, 116–118, 119, 120, 122, 126, 129, 131, 133, 134, 135, 137, 140, 143, 144, 162, 164, 168, 171, 172 s., 181, 206, 225, 242, 257, 268, 279 eisagogeus: 6 ek­phra­­sis: 1 s., 39, 126, 141 Eleusi: 31, 32, 248 Eliano: 218, 278 Elio Aristide: 54, 106 s., 117, 137, 251, 298 elleboro: 58, 62, 220, 248, 289, 290 Empedocle: 216 s., 286 Epicuro: 19, 123, 266 s, 288 Epimenide di Creta: 271, 291 Era: 179 Eracle: 50, 133, 142, 153, 179, 275

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Eraclito: 166, 263, 291 Eridano: 158 Ermocrate di Focea: 44 Ermotimo di Clazomene: 272 Erode Attico: 42, 43 s., 113, 156, 158 s., 188, 190 s., 192, 199, 209, 210, 211, 222, 283, 298 Erodoto: 4, 16, 20, 24, 111, 114 s., 119, 133, 185 Erone (timoniere dell’Iside): 63, 132–135, 145 s., 148 Erone di Alessandria: 134 Esiodo: 16, 24, 29, 189 etesii (venti): 140, 144 Etiopi, Etiopia: 52, 277, 279, 281, Eufrate: 5, 50, 53, 236, 237, 239, 241 Eupoli: 11, 12, 203 Euripide: 16, 17 fagiano: 24, 205 s. Falerno: 24, 204 Falero: 32, 107, 147 Fanomaco (nome parlante): 63, 199, 220 Faone: 64, 274 s. Faro: 134, 137, 172 fatica (motivo topico): 219 Favorino di Arelate: 44, 125, 207 fenice: 55, 277, 278, 279 Fenice di Colofone: 14 Fenici, Fenicia: 50, 112, 138, 242 ferite: 220, 239 s., 255, 263 figure retoriche: 62 s. Filippo II di Macedonia: 53, 54, 234 Flegonte di Tralle: 268 focaccia: 24, 207, 292 s. frombolieri: 244 s., 252 Gallia: 6 gallo numidico: 24, 206, 215 garum: 203 Gaugamela: 227, 237, 240, 245 Giacinto: 64, 274 s. giambo: 12, 13 giavellotto, lanciatori di: 244 Gige: 25, 55, 56, 62, 218, 270 s. ginnasio: 115; 125, 158 (ginnasi ateniesi)

352

VI Indici

Giuliano di Laodicea: 35 grano: 37, 63, 106, 132, 160, 182, 212 grifone: 278 guerra (motivo topico): 132, 226, 267 guerre partiche: 6, 40, 52, 53 s., 238 s., 243 s. Hermes: 23, 40, 48, 54 s., 57, 59, 62, 106, 109, 154, 169, 179 s., 187, 188, 213 s., 231, 238, 263, 269 s., 275 humour (procedimenti di): 63 ibis: 172 s. Icaro: 22, 57, 64, 272, 295 s. Ierone II: 37 Ila: 64, 274 s. Ilisso: 25, 39, 44, 125, 158 s. Imetto: 39, 158, 182, 204 s. Indi, India: 206, 234, 250, 255, 276 s., 278, 279 intellettuali, satira degli: 22, 33 s., 48, 52, 105, 106, 206 s., 281, 296–298 invidia degli dèi (motivo topico): 218 Iperborei: 55, 276 s. ipparco: 230 ippocentauro: 11 Iro: 208 ironia: 13, 25, 46, 47, 65, 146, 164, 165, 182, 183 s., 189, 194, 201, 207, 212, 230, 242, 254, 255, 265, 277, 284, 289, 290, 291, Iside: 1, 33–39, 63, 67, 106 s., 108, 110, 112, 122, 126 ss., 154, 165, 167, 168 (nave); 32, 128 s., 171 (dea) Isso: 236, 237 Italia: 1, 23, 24, 33, 110, 132, 140, 144, 145, 162, 164, 204, 292 Kantharos: 31 La Madrague de Giens, nave di: 37, 38 laeta paupertas: 262 lepre: 24, 205 libeccio: 141 Licia: 236 Licurgo: 31 Lidi: 121

lingua greca (come fattore identitario): 114 s., 116–118 liti fra vicini: vd. beghe di confine logos dikanikos: 10 Lucio Vero: 6, 7, 40, 41, 53 s., 115, 232, 237, 238, 243 s., 247 s. Lunghe mura: 32 lupo (paradigma di ferocia): 28, 216 Macedoni, Macedonia: 6, 29, 226, 230, 238, 239, 243, 257 magia: 40, 55, 64, 116, 268, 269 ss.; 54, 273 s., 274 s. (amore); 273 (chiavistelli e sbar­­re); 54, 270, 271 (for­za smisurata); 54, 270 s. (invisi­bi­li­tà); 54, 270 (in­vul­ne­ra­ bilità); 54, 55 s., 268 (oggetti magici); 54, 275 s. (rin­gio­va­ni­men­to); 270 (sa­lu­te); 272 s. (sonno); 54 (u­biquità); 54, 271 s. (volo) Mahdia, nave di: 37 maiale: 24, 205 malattia (motivo topico): 219 s., 262 s. Malea, capo: 33, 145 mali della ricchezza, della gloria e del po­te­re (motivo topico): 221 s., 259, 267, 258 s. Mantinea: 49, 223 Marco Aurelio: 5, 6, 40, 53, 215, 259, 267 marinai (tipologie di): 122 s. Massimo di Tiro: 3, 18, 213, 218, 259 Mazeo, satrapo di Siria e Mesopotamia: 242 s. Medi: 237 s., 245, 246, 253 medicina, arte della: 220, 262 medimno: 189, 211, 233, 269, 275 Melicerte: 64, 183, 185 s., 211 Memnone, colosso di: 137, 171, 173 Menandro: 11, 12 Menfi: 111, 116, 172 s. Menippo: 6, 7, 14 s., 24, 41, 46, 57, 59, 104, 105, 106, 132, 165, 168, 179, 212, 215, 272, 280, 284, 285, 286, 288 menzogna: 4 s., 16, 56, 291 mercenariato: 227



Indice dei nomi e delle cose notevoli

Mesopotamia: 50, 237, 239, 242 s. meteci, metecato: 210 Mida: 28, 62, 64, 196, 218, 235 miele: 24, 39, 182, 204 s., 293 miles gloriosus: 49, 256 mimo: 22, 58, 295 Mirone: 208 Mirrinunte: 107 s. Misteri di Eleusi: 45, 150 s., 160, 191 Mitridate: 64, 225 monomachia (motivo topico): 254 s. monte d’oro (motivo topico): 182 s. monumenti funebri (bersaglio della sati­ra): 263–266 morte (motivo topico): 104, 216, 217, 219, 263, 264, 265, 266 s., 275 Munichia: 31 natura, sentimento della: 248 s. natura mortale degli uomini (motivo topico): 217 Nemesi: 170 s. Nemi, lago di: 37 neoricco: vd. parvenu Nereo: 62, 63, 64, 134, 135, 146 Nerone: 8, 53, 279 Nerva: 53, 188 s. Nilo: 55, 134, 172, 184, 248, 279 Nisibi: 244 ‘nomi parlanti’: 20, 199, 220, 257 noto: 141 Novilara, nave di: 36 numeri simbolici: 63, 137 s., 144, 155, 200 (sette); 155 s. (dodici) obolo: 168 s. Odeion di Erode Attico: 113, 210 (Ate­ne); 191 (Corinto) Odisseo: vd. Ulisse oggetti magici: 268 Olimpia: 6, 186, 281 olio: 204 Omero: 4, 15, 16 s., 20, 24, 29, 47, 51, 131, 134, 138, 145, 189, 194, 204, 250, 271, 272, 275 omosessualità: 109 s. onde, pericolosità delle (motivo topico): 33, 139, 140 s.

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oplita: 234, 240 s., 244, 251, 253 oro: 24, 29, 30, 36, 41, 44, 62, 119, 120, 121, 127 s., 137, 181 s., 183, 187, 189, 191 s., 195, 198, 203, 211, 215, 233, 276, 278, 282 ‘ospite in ritardo’ (motivo topico): 147 Palestina: 50, 242 palestra: 49, 115, 124, 125, 180, 253 s. Pan: 112, 223 Panatenee: 32, 210 s. Pancrate (personaggio lucianeo): 111, 116 pane: 106, 160, 207, 293, Panfilia: 139, 141, 236 Pantea: 124, 115 pantomimo: 2, 58, 61 papiri magici: 268 ss. parassita: 260 Parche: 214 Parmenide: 272 Parnete: 31, 39, 182 s., 248, 254 Parresiade: 6, 46, 117, 132, 137, 165, 166, 250, 282 Parsa: 257 Parti: 53, 54, 225, 232, 237, 239, 243 s., 246, 247 s., 252 parvenu: 22–24, 40, 43, 64, 157, 159, 164, 169, 170, 180, 192, 195, 197, 202, 208, 211, 257 passeggeri delle navi: 38, 109, 110 s., 123, 131 s., 146, 159, 183 s. patroni: 34, 190, 198 s. pavone: 24, 206, 215, 219, 277 Pelusio: 172 Pentelico: 182 Peregrino Proteo: 41, 57, 134, 201, 207, 260, 268, 285, 297 Persia, Persiani: 50, 54, 121, 138, 139, 181, 183, 230, 231, 236, 237, 238, 239, 243 s., 245, 252 s. personae lucianee: 41 pesci (come fonte di cibo): 24, 171 s., 203 s. pianto (strumento della satira): 263

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VI Indici

pilum: 255 s. pioggia d’oro (motivo topico): 282 piramidi: 63, 172, 173, 264 s. pirata, pirateria: 161, 185, 222, 225, 226, 227 Pireo: 1, 21, 24, 25, 31–33, 38, 59, 107, 108, 158, 164, 165, 168, 174, 249, 258 Pirro: 51, 227 Pisidia: 236 Pitagora: 3, 48, 137, 207 Pittaco di Lesbo: 291 pitture delle navi: 36, 129 Platone: 3, 11, 14, 15 s., 18 s., 20, 21, 24 s., 33, 66, 105, 107 s., 111, 114, 124 s., 125, 147 s., 149, 151, 153, 158, 160, 163, 164 s., 168 s., 171, 175, 176, 178, 210 s., 217, 231, 232, 248, 249 s., 261, 270, 280, 287 Plutarco: 13, 15, 18, 51, 117, 125, 165, 187, 190, 213, 216, 222, 241, 257, 258, 259, 285, 288, 290 Policleto: 208 Policrate: 64, 218, 230 ponte (come opera di ingegneria militare): 241 Poro, re dell’India: 255 porpora (come segno di ricchezza): 64, 197 s., 261 portiere (come segno di ricchezza): 199 s. Poseidone: 179, 194, 249 povertà (motivo topico): 43, 64, 201, 219 preghiere, stoltezza delle (topos): 3, 25 s., 48, 291 s. proiezione paradossale: 46 prolalia: 10, 20 proskynesis: 230, 256 s. Proteo: 62, 63, 64, 104, 134 s. 146, proverbi: 45, 61 s. Provvidenza, critica alla: 142, 175 s., 223 s. pueri alexandrini: 112 Punta Sacra (Capo Chelidonio): 141

repas ridicule (motivo topico): 203 ss. ricchezza, vacuità della (motivo topico): 216–218 riso (strumento della satira): 14, 21, 45, 46 s., 152, 165 s., 187, 189, 198, 208, 264, 267, 285, 288, 289, 290, 293, 296 Romanzo di Alessandro: 51, 55, 277 Rodi: 251; vd. anche Colosso di Rodi Saffo: 275 salse (per condire i cibi): 203 s., 207 salutatio: 199–202 Sandracotta, signore degli Indi: 226 San Paolo: 140, 272 sarcasmo: 46, 164 Sardanapalo: 196, 218 satrapo: 237 s. sciamani: 271 Scipione: 147, 226, 227 Seconda sofistica: 8 s., 11, 16, 20, 43, 66, 107 s., 117, 120, 132, 189, 218, 220, 262, 290, 296 s. Seleucia al Tigri: 7, 53, 243 s. senex libidinosus: 21, 22, 274, 288 Senofane: 291 Senofonte: 244 s., 3, 16, 30, 51, 63, 234 seriocomico (in Luciano): 9–19 serpente, muta della pelle del (motivo topico): 275 s. Serse: 53 servi: 23, 26, 29, 43, 109 s. 155, 157, 171, 192 s., 195, 200, 202 servus currens: 179 s. Sicione: 39, 191, 248 sicofante: 290 s. Sidone: 138 Silla: 31, 225 Siro (porteparole lucianeo): 5, 6, 9 ss., 46 Siri, Siria: 6, 117, 121, 200, 236, 239, 242, 292 Sisifo: 23, 28, 62, 186, 193 s. Socrate: 3, 12, 19, 25, 47, 56, 111, 115, 149, 152, 153, 168, 207, 214,



Indice dei nomi e delle cose notevoli

215, 217, 250, 254, 262, 270, 280, 288, 291, sofisti: 8, 9, 15, 44, 51, 141, 206, 207, 254, 261, 282, 286 sogno (come paradigma di inconsistenza): 4, 162, 175, 250, 260 Spagna: 106, 203 Spartani: 30, 31, 230, 252 sputarsi in seno (come gesto apotropaico): 170 s. stadio panatenaico: 159, 210 statue (bersaglio della satira): 265 s. stele riversa a terra (motivo topico): 249 Stoa poikile: 3, 39, 44, 157 s., 171 stoici: 19, 44, 50, 157, 176, 297 strada Pireo-Atene: 32, 174 Strombico: 147 superlativo: 176, 178, 198; 153, 163 (co­me strumento di humour) superstizione: 56, 112, 150, 268 Susa: 240 talento (unità di misura): 39, 155 s., 192 Talete: 291 Teagene: 41 teatro (paragone con la vita umana): 294 Tebe: 5, 235, 257 tecnica drammatica (in Luciano): 58–61, 147 tempesta (motivo topico): 138 s. templi (bersaglio della satira): 265 s. Teofrasto: 13, 21, 28 s., 159 Tersite: 208 tesoro, ritrovamento fortuito del (motivo topico): 21, 22, 44, 188 s. tiara: 231 (attributo dei re Persiani), 256 Tiberio Claudio Attico (padre di Erode): 158, 188 s., 192, 209 s. Tiberio Claudio Ipparco (nonno di Ero­de): 188, 192 Tichiade: 6, 46, 165

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Tigri: 237 Tillorobo: 51, 226 timo: 190 s. Timone: 41, 61, 132, 148, 158, 170, 192, 213, 233, 251, 260, 263, 285 tirannicida: 201, 282 Tirannicidi, gruppo dei: 265 tiranno: 25, 41, 57, 133, 201, 218, 230, 259, 261, 275 Tiro: 138, 257 Tolemeo, re d’Egitto: 225; I Soter: 225; III Evergete: 37; IV Filopatore: 37, 129 s., 225; XII Neo Dioniso: 225 Traiano: 5, 53, 237 Trasillo: 21 Trimalcione: 22–24, 156, 157, 162, 180, 194, 195, 198, 200, 201 s., 204, 209 tromba (usata in battaglia): 232, 252 Tucidide: 16, 30, 32, 120–122 Ulisse: 50, 270 ulivo: 31, 248 s. unus digitulus (immagine proverbiale): 287 Valerio Massimo: 3, 218 Vaticano, obelisco del: 37 vecchiaia (motivo di humour): 21, 57 s., 133, 275 s., 285–287 vendetta: 41, 42, 282 Venezia, flotta della Repubblica di: 36 verifica razionale: 46 viaggio assurdo (motivo topico): 56 vino: 204 visione dall’alto (motivo topico): 22, 270, 283 s. vocativo, uso del: 60, 160 s., 164 s., 187, 194, 215, 249 s. Zea: 31 zefiro: 138, 141 Zeus: 31 s., 59, 61, 106, 128, 142, 143, 146, 153, 176, 179, 186, 193, 199, 213, 221, 231, 235, 238, 242, 263, 282, 284

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VI Indici

Indice dei termini greci ἀ­γέ­λη: 29, 264 ἀδύνατον: 223 ἀκροβο­λί­ζομαι: 252 ἀλλόκοτος: 57 ἁ­λουρ­γίς: 67, 197 s. ἀμογητί: 193 s. ἀνακυκλέω: 67, 149 ἀναφαλαντίας, ἀνα­φά­λαντος: 132 s., 148 ἀνεπαίσθητος: 265 ἀνέῳγε: 125 s. ἄνθος: 202 s. ἄνθρωπε: 194 ἀν­­θρω­πί­­σκος: 21, 63, 113 s., 132 s., 148 ἀντίπους: 280 ἀντλέω, ἄντλος: 126, 174 ἄοκνος: 105 ἀπιθα­νó­ν, ἀπιθανότης: 21, 175 s., 196 s. ἀποβάθρα: 167, 169 s. ἀποβουκο­λέω: 124 ἀπόξυρος: 141 s. ἀποπνίγομαι: 20, 202 ἀπόρρητος: 150 s. ἀποσοβέω: 20, 124 ἀποφυσάω: 215 ἄριστος: 21, 25, 63, 160 s., 163 (ὦ ναυ­κλήρων ἄριστε) ἀρχή: 67, 245 s. ἀσπίς: 229 ἀ­στράβη: 232 ἄστυ: 32, 107 ἀ­σχολία: 105 s. ἀτενὲς ἀποβλέπειν: 150 ἄ­φιππος: 25, 231 ἀ­φό­ρη­τος: 163, 261 βάδισμα: 148 s. βα­­σι­λεία: 49, 225, 228, 269, 291 βασίλειος: 235 βασιλεύς: 49, 53 s., 65, 159, 223, 228, 239, 243 s., 245, 252, 256; 230 s., 259 (βασιλεῦ)

βέλτιστος: 21, 25, 63, 160 s., 164 s. (ὦ βέλτιστε) βοάω: 149 γέλως: 165 s., 46 γε­λω­τοποιός: 13 γενναῖος: 160 s. (ὦ γενναῖε) γῆρας: 21, 30, 275 s. γλαφυρός: 111 s. δᾴς: 152 δεσπότης τοῦ πλοί­ου: 155 διανομαί: 209 δόξα: 27, 175, 228, 260, 291 s. εἰσηγητής: 187 ἐκπρόθεσμος: 265 ἑκστάδιος: 67, 258 ἐλευ­θερία: 13 ἔμπο­ρος: 180 ἐνεσθίω: 67 Ἐνοδία: 168 ἐντοσθίδια: 219 s. Ἐνυάλιος: 252 ἐπέλασις: 253 ἐπιβάτης: 159 ἐπιβολαί (τῶν βυρσῶν): 122 ἐπιβουλαί: 222, 259 ἐπίδειξις: 176 s. ἐπιδη­μέω: 191 ἐπι­κλύζω: 21, 173 ἐπιλήψιμος: 268 s. ἐπιμετρέω: 179, 187, 211 s. ἐπίσημος: 189, 211 s. ἐπισκοπέω: 283 s. ἐπισκώπτω: 212 s. ἐπισύρομαι: 67, 118 εὔγραμμος: 265 εὐδαιμονία, εὐδαιμονί­ζομαι: 27, 66, 150, 156, 159, 190. 262, 293 εὐνή: 131 εὐπλόει (formula di augurio): 164 ἐ­φε­­στρί­ς: 232 ἐφηβικόν: 119 s. ἔφηβος: 119 s. ἐφίππιον: 232 s.



Indice dei termini greci

ἕωλος: 104 ἡδονή: 170, 204, 213 ἡμιστά­διον: 177 s. ἠ­πειρώτης: 223 θαλάμη: 110 s. θάρσει (come incoraggiamento): 184 θᾶττον (ἄν): 62, 103 θαυμάζω: 33, 122 θαυμάσιος: 33, 131, 134 s., 145, 146, 268; 25, 63, 153, 259 (ὦ θαυμάσιε) θαυμαστóς: 57, 156, 229 θέαμα: 57, 58, 104, 108, 111 s., 194, 278 θεα­ταί: 108 θηλύνομαι: 220 s. θυ­μοειδής: 25, 232 ἱκανός: 296 ἱμάτιον: 148 ἱππαγωγοί: 235 ἱπ­πο­τοξόται: 245 ἰσομεγέθης: 141 s. ἰσόπαλος: 253 ἱστία: 122 ἱστός: 35, 127, 130 καιρός: 177 κάλως: 123 κάμαξ: 133 s. καραδοκέω: 123 s. καρ­χή­σει­ον: 129 κατάλογος: 240 s. καταποντιστής: 161 κατάστρωμα: 126 s. κεραία: 35, 123, 127 κερδῷος: 154 κεροίαξ: 67, 123 κίδαρις/κίταρις: 231 κλύδων: 141 s. κλῦσμα: 141 s. κολακεία: 259 s., 261 κόρυζα: 289 s. κυβερνήτης: 145 s. κυματωγή: 141 s. λάλος: 45, 212 s. λοιδορία: 12, 14

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μᾶζα: 292 s. μακάριος: 25, 249 s. (ὦ μακάριε) μακροπτύσται: 171 μεδίμνοις ἀπομετρῆσαι: 211 s. μεθύειν: 250 μει­ρά­κιον: 109 s., 183 s., 187, 274 μειρακίσκος: 21, 63, 113 s., 184 μειρακιῶδης: 28, 151 μελάγχρους: 116 μεταστέλλομαι: 278 μηδαμῶς: 60, 124 μι­κρο­λο­γί­α: 29, 223 μιμοῦμαι: 294 μισθο­φο­ρία: 67, 156 μῖσος: 27, 221 s., 259, 261 μονομαχέω: 254 s., 258, 292 μῶν: 151 s. ναυκληροκυβερνήτης: 136 ναύκληρος: 136, 142, 155, 162 ναυπηγός: 112, 126, 167 ναύτης: 122 s. νήφειν: 250 ὀθόνη: 111 οἴαξ: vd. κάμαξ οἰκονόμος: 212 οἰμώζω: 263 οἰνοχόος: 192 s. οὖλος: 132 οὐρίζω/ο­ὔριος: 160 ὀχοῦμαι: 287 παι­διά: 46 παῖς: 202 παπαῖ: 60, 228 s. παραδακρύω: 67, 115 s. παράδοξος: 33, 57, 104, 278 πα­ρα­­κε­κινηκὼς τὴν γνώμην: 20, 286 παρακύπτω: 201 παράσειον: 36, 129 s. παράσημον: 128, 143 παρατρέχω: 178 s. παρ­ρη­σία: 13 πείθομαι: 177 περια­γω­γεύς: 36, 131 πέμ­μα: 207 ­περιουσία: 153

358

VI Indici

πε­ρί­πατος: 67, 149 πηδάλιον: 133 s., 145 πηδα­λιοῦ­χος: 145 s. πῆχυς: 126 πιθανó­ν, πιθανóτης: 21, 196 s. πινάκιον: 202, 208 s. πλοῦτος: 190, 291 s., 293 προάστεια: 245 s. προεισέρχομαι: 169 s. προκύπτω: 20, 201 προσαράσσω: 200 προσ­κυ­νέω: 198 s., 230, 256 s. πρότονος: 36, 127 πρόχειρος: 153 πρῴην: 144 s. πταῖσμα: 161 πτέρωσις: 20, 296 πυθμήν: 126 s. πυραυγής: 129 s. σα­­τυρικόν: 12 σέλλα: 232 (τὴν ῥῖνα) σιμός: 116, 133, 287 s. Σισύφειος: 193 s. σιτα­γω­γέω: 107, 162 σίφαρος: 130 σκαιός: 30, 124 s. σκα­­φίδιον: 21, 63, 113, 168 σκοποί: 245 σκύφος: 193 s., 207 s. σκῶμμα: 13, 46, 165 s., 188 σο­φιστής: 206 s. στρατηγός: 256 s.; 39, 160 (ἐπὶ τῶν ὅ­πλων) στροφεῖον: 131 στωμύλος: 114 s. συκοφαντέω, συκοφαντικός, συ­ κο­φάν­της: 290 s. συναποικίζω: 67, 121 s. συνεμβαίνω: 167, 169 s. συνεχής: 116–118 σύνθημα: 252 σφεν­­­­δο­νῆται: 244 s. σχολή: 105 s.

τάριχος: 203 s. ταχύδακρυς: 67, 113 τιμή: 230, 291 s. τραγῳδεῖν: 294 τραγῳδός: 294 τριάρμενος: 164 τρυφάω, τρυφή: 121, 153, 154, 170, 213, 214 s., 258 τῦ­φος: 50, ὕβρις: 170, 257, 283 ὕπαρχοι: 241 s. ὑπέραντλος: 174 ὑπερ­μα­ζάω: 170 ὑ­περ­μεγέθης: 106 ὑπηνέμιος: 217 s., 292 ὑποδύομαι: 294 ὑποκρίνω, ὑπόκρισις: 11, 27, 177, 201, 294 ὑποκύπτω: 230 ὑπο­πτήσσειν: 198 s. ὑπορρέω: 266 φάλαγξ: 240 φαλακρός: 133 φιάλη: 207 s. φιλοδο­ξία: 50, 260 φιλοθεάμων: φιλοτίμημα: 265 φθό­νος: 221 s., 259, 261 (τὰ μετέω­ρα) φροντιστής: 56, χηνίσκος: 127 s. χθές: 144 s., 168 χοίνικα ἀπομάττειν: 212 χρηματίζω: 261 χρη­­στός: 136 χυμός: 207 χῶμα: 264 s. ψό­γος: 13 s. ψόφος: 116–118 ψυλ­λοτοξόται: 245 ψυχάριον: 215 ψυχίδιον: 21, 63, 113, 215 s. ὦγαθέ: 25, 171



Indice dei loci e delle opere principali citati

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Indice dei loci e delle opere principali citati Achille Tazio 3, 18: 55 Alcifrone 1, 1: 138 s.; 10, 3: 145; 3, 3, 1: 194; 29: 6, 21; 4, 17: 288 Ammiano 17, 4, 13–14: 37 Antologia Palatina 7, 607: 275; 10, 31: 217; 11, 274: 297; 12, 41: 130 Apollonio Rodio Arg. 3, 1026–1062: 271 Appendix vergiliana Mor. 31–35: 116 Appiano Myth. 40–41: 31 Syr. 10, 38–42: 226 Apuleio Met. 11, 9–11: 129; 16: 128 Aristide Ad Rom. 11–13: 106 s. De comoed. 33: 297 s. Rhod. 42: 251 Aristofane Ach. 50: 45; 873–880: 203 Av. 1–48: 125; 94: 20, 296; 97: 296; 785: 57; 785–797: 272; 788–789: 57, 281; 793–797: 57, 283; 1032: 124; 1258: 124 Eccl. 1154–1157: 19 Eq. 1323–1334: 120; 1353: 179 Nub. 18–20: 212; 218–232: 56; 785–797: 272; 984–986: 120; 1288–1289: 266

Pax: 57; 64: 103; 336: 275; 751: 132; 999–1005: 203 Plut.: 222; 124–197: 222; 559– 561: 219 Ra. 164–315: 125 Thesm. 922: 113 Vesp. 440: 212; 1489: 290 test. 41 K.-A.: 12; 70–71 K.-A.: 12 Aristotele EN. 4, 1128a: 13 Rh. 1, 2, 1355b: 196; 7, 1365a: 224; 9, 1368a: 224; 10, 1369a: 181; 11, 1370b: 282; 2, 2, 1378b: 170; 1379a–b: 167; 16, 1390b–1391a: 170 Arriano An.: 51; 1, 2, 6: 231; 6, 4: 30, 51, 252; 7, 9: 235; 8, 21: 234; 11, 3: 227, 239; 12, 4–6: 51; 12, 7: 245; 13, 1–2: 245; 14, 1: 234; 15, 8: 255; 16, 5: 240; 17, 9–18, 2: 236; 18, 2: 50, 236; 24, 3: 236; 2, 3, 4: 235; 7, 4–5: 253; 7, 8: 30, 51, 245; 7, 11: 237; 8, 11: 30, 51, 234 s.; 11, 3: 231; 13, 1: 237; 13, 7–20, 3: 242; 25, 1: 237; 25, 4–27, 7: 242; 3, 3–4: 242; 8, 6: 227; 9, 3: 247; 9, 7–8: 252; 9, 11–12: 234; 16, 2–5: 242, 243; 16, 7: 240; 29, 1: 240; 4, 10–14: 257; 5, 7, 1–8, 1: 241; 7, 9, 8: 240; 10, 2: 255 Ateneo 5, 203e–204b: 37; 206c–209b: 37; 215c–216c: 254 Aulo Gellio 18, 1: 125 Callisseno FGrHist 627, 1 = A­th. 5, 206c: 129 s.

360

VI Indici

Cassio Dione 65, 8, 3–5: 169

Epicuro Epist. ad Men. 124: 266

Cicerone Att. 1, 19, 4: 111 Sen.: 285 Tusc. 3, 34, 81: 201 Verr. 2, 2, 7: 246

Eraclide Pontico fr. 55 Wehrli: 120

Coricio di Gaza decl. 5–6: 201

Erodoto 1, 23–24: 185; 30–33: 218; 43: 218; 71: 218; 2, 73: 279; 104, 2: 133; 164: 119; 3, 39–45: 218; 120–125: 218; 5, 30, 4: 229; 87, 3–88, 1: 120; 6, 105: 112; 7, 136: 230; 8, 144, 2: 114

Cratino fr. 406 K.-A.: 113 Demetrio Eloc. 92: 162; 125–127: 103; 156: 61; 227: 41; 241: 234; 259–262: 15 Democrito fr. 68 B 227 D.-K.: 216 Dione Cassio 60, 19: 280; 69, 11, 4: 268; 22, 1: 268 Dione Crisostomo 4, 92: 212; 31: 266; 32, 7: 262; 33, 4: 281; 32: 250; 47, 18: 283 Dionigi di Alicarnasso Thuc. 47: 251 Eliano NA 2, 6: 186; 4, 27: 278; 6, 15: 186; 58: 279 VH 4, 25: 21 Eliodoro 8, 11: 55 Empedocle T A 1 D.-K.: 216 s.

Ermippo fr. 63 Wehrli: 14

Eschilo Suppl. 743–744: 129 Esiodo Op. 405: 29, 189; 590: 293 Th. 541: 159 Eupoli fr. 199 K.-A.: 203 test. 29–31 K.-A.: 12 Euripide Suppl. 741–744: 170 Filostrato VA 3, 23: 145; 4, 9: 164; 17: 32 VS inc.: 201; 1, 8, 3: 117; 23, 1: 160; 2, 1, 1–6: 209; 2: 188 s.; 5: 210; 6: 191; 8–11: 113; 11: 283; 8, 2: 190; 20, 1: 160; 27, 10: 16 Giovenale 1, 75–76: 192; 77–78: 221; 142– 144: 219; 2, 58–60: 221; 3, 76– 80: 272; 183–185: 164; 5: 200; 37–42: 192; 6, 143–148: 285; 219–223: 159; 620–623: 285; 7, 36–97: 222; 9: 221; 133: 287; 10: 3; 10, 80–81: 106; 104–107:



Indice dei loci e delle opere principali citati

264; 188–288: 285; 363–366: 48; 11, 1–2: 192; 149–150: 181; 12, 111–130: 170; 13, 91–96: 219; 14, 328: 243; 15: 113 Giuliano 9, 193d–194b: 262 Gorgia fr. 82 A 15a D.-K.: 14 Historia Augusta V. Hadr. 16, 7: 269 V. M.Ant. 13: 56 V. Veri 6, 9: 53, 237 Inni Omerici 3, 388–519: 184; 8, 6–7: 130 Libanio decl. 6–8: 201; 31–33: 201 Lucano Phars. 5, 428–429: 130; 8, 177: 123 Luciano Alex.: 19, 266, 268, 296; 2: 51, 161; 5: 109; 11: 132; 15: 264; 20: 289; 27: 239; 33: 133; 41: 109; 42: 200; 48: 6, 268; 55: 6; 59: 288 [Amor.] 7: 35 Anach.: 5, 24, 115, 125; 1: 296; 1–19: 2; 7: 186; 9: 191; 10–11: 266; 12: 191; 14: 187; 17: 265; 20: 31; 21: 16; 29: 125; 35: 174; 36: 287; 39: 290 Apol. 1: 6, 177, 296; 2: 220; 3: 6; 5: 199; 6: 171, 287, 297; 11: 243, 290; 15: 18 s., 297 Astr. 22: 16 Bacch.: 20; 1: 296; 1–4: 250; 3: 132; 4: 234; 5: 19; 5–8: 6 Bis acc.: 2, 10, 20, 46; 1: 105, 220, 221; 2: 146, 272, 281; 6: 103;

361

7: 297; 8: 55 s., 124, 287; 8–9: 125; 11: 112, 223; 12–13: 248; 14: 5; 17: 214; 21: 270, 297; 23: 214; 25: 5; 26–34: 9–19; 27: 2855, 35; 29: 214 Cal. 10: 221, 240; 13: 283; 19: 50; 20: 259; 24: 287; 30: 200 Cat.: 2, 17, 297; 1: 127; 5: 109; 6: 220; 8: 188; 9: 249, 264; 8–9: 275; 11: 199, 259, 264, 265; 12: 133, 257; 13: 127, 261; 16–17: 195, 198; 18: 104; 18–21: 125; 21: 257; 22: 152; 26: 120, 201; 28: 261 Cont.: 35, 48, 218, 272, 273; 1–3: 35; 1–5: 231; 2: 133; 3–7: 269; 3: 56, 122, 146; 5: 105; 7: 135; 11: 198; 12: 153, 194; 14: 218; 15: 264, 293; 16: 214, 293; 17: 40, 214, 217; 18: 269; 19: 264; 20: 233; 22–23: 174, 229, 233, 249, 264; 24: 40, 233 D. deor.: 144; 1 [5], 1: 216; 4 [10], 4: 149; 5 [8], 3: 109, 221; 10 [14], 2: 214; 16 [18], 2: 221; 19 [23], 2: 283; 20 [35], 3: 124; 3–5: 125; 21 [1], 1: 197; 23 [3], 1: 120; 26 [25], 1: 142 D. mar.: 144; 1–2 [1–2]: 24; 2 [2], 1: 283; 4 [4]: 134; 6 [8], 2: 124; 3: 194; 8 [5]: 186; 1: 186; 2: 185; 9 [6], 1: 186; 14 [14], 3: 283; 15 [15]: 272; 4: 249 D. meretr.: 144; 1: 267; 4, 2: 32; 6, 1: 32, 130; 3: 287; 4: 287; 7, 3: 287; 8, 2: 158; 3: 155; 9: 49, 250, 267; 9, 2: 189, 211; 4: 194; 5: 244; 11, 3: 285, 288; 12, 3: 200; 5: 288; 13: 267; 1: 256; 2: 254; 5: 254; 14, 4: 133, 285; 15: 267; 2: 200 D. mort.: 19, 24, 144, 264, 288; 1 [1], 1: 168; 2: 132, 288; 3: 212, 217; 2 [3]: 217; 1: 215; 3 [10], 1: 107; 4 [14]: 169, 217; 1: 35, 125; 2: 214, 219; 1–2: 267;

362

VI Indici

5–9 [15–19]: 217; 5 [15], 2: 4, 275; 6 [16], 2: 285; 9 [19], 2: 200; 3: 199; 4: 110, 181, 187; 10 [20]: 217; 1: 109, 183 s.; 2: 111, 146; 6: 264; 11: 297; 13: 216; 11 [21]: 217; 4: 174, 214 s.; 12 [25]: 49, 228: 2: 211, 226; 2–3: 239, 256, 257; 4: 227; 5: 254, 255, 282; 6: 214; 7: 147; 13 [13]: 49, 50, 217; 2: 259; 4: 261; 6: 290; 14 [12]: 49, 50, 217; 2: 220; 5: 255; 15 [26]: 217; 217; 16 [11], 3: 153, 213; 5: 296; 17 [7], 1: 135; 2: 290; 18 [5]: 217; 2: 203; 20 [6]: 217; 4: 203, 287 s., 289; 5–6: 115; 6: 296; 22 [2], 3: 213; 23 [28]: 217; 3: 269; 24 [29]: 217; 25 [30]: 217; 2: 4, 250; 27 [22]: 217; 1–7: 125; 2: 215; 3: 256; 4–5: 239; 7: 32, 169, 217; 8–9: 147; 28 [9], 2: 149; 30 [24], 1: 216 Demon. 4: 287; 14: 3; 22: 280; 24–25: 113, 199; 33: 113; 58: 265 Deor. conc.: 176; 12: 266 Dom.: 248; 4–5: 107 s., 158 Eun.: 46, 297; 1: 296; 3: 254, 267 Fug.: 2, 14, 297; 1: 112; 4: 297; 10: 194; 15: 153; 18: 297; 24: 124, 297; 25: 56; 24–25: 125 Gall.: 4, 7, 17, 19, 48; 1: 156, 196; 5: 150; 6: 125, 195; 7: 122, 195, 201; 9: 199; 10: 220; 11–12: 203; 12: 292; 12–14: 43, 174; 12: 159 s., 197, 289; 13: 282; 14: 159, 199, 211, 257, 274; 14–15: 222; 19: 122; 21–23: 260; 21: 232; 22: 209; 23: 219, 220; 24: 122, 200; 25: 217, 260; 27: 291; 28: 229, 257, 269, 270; 29: 188, 219, 273; 28–29: 272; 31: 217; 32: 110, 125, 221 Harm. 1: 287; 4: 4 Herc. 1: 133; 2: 133; 7–8: 6

Herm.: 7, 18, 24, 248; 1: 220; 3: 197; 5: 266; 9: 297; 11: 199; 12: 193 s.; 18: 297; 20: 135; 27: 249; 28: 146; 52: 153; 53: 279; 60–62: 173 s; 62: 287; 63: 220; 68: 264; 71: 56, 150, 153, 183, 214, 280; 71–76: 4; 73: 135, 264; 78: 177; 79: 290; 86: 290 Herod. 2: 287; 6: 20; 8: 105 Hes.: 24 Hipp. 8: 194 Hist. conscr.: 28, 51; 1–7: 52; 1: 220; 2: 239; 4: 284, 287; 8: 197; 11: 221; 12: 50, 254, 255; 15: 32, 114; 22: 109; 24: 5; 28: 290; 29: 249; 30: 244; 31: 289; 40: 50; 43: 189; 45: 232; 62: 137 Icar.: 2, 7, 14, 35, 57, 272, 280; 1: 4, 112; 2: 4, 135, 199; 2–3: 295; 3–4: 124, 260, 280; 5–8: 280; 6: 155; 12: 112, 137, 267; 13: 286; 16: 55, 112; 17: 264; 18: 191, 257; 20: 280; 21: 115, 297; 23: 261; 24: 237; 25–26: 176; 26: 261; 29: 133, 296, 297; 31: 297 Im. 1: 103; 9: 194; 11: 172; 15: 114 Ind.: 297; 6: 109, 290; 11: 259; 19: 5; 21: 289; 22–23: 290; 23: 103; 25: 109; 26: 287; 29: 220 J. conf.: 176; 1: 3, 16; 4: 122, 197; 6: 176; 8: 197; 10: 176; 11: 112; 15–17: 176; 16: 127; 18: 216 J. tr.: 2, 17, 176; 1: 233; 2: 282; 7–12: 248; 11: 112; 13: 209; 14: 197; 15: 32, 136, 143, 287; 19–22: 176; 33: 273; 36: 233; 40: 254; 41: 176; 42: 172; 45: 132 s., 197; 46: 146; 46–50: 146; 47–48: 35, 127, 128, 129; 48: 111, 123, 131, 176; 49: 159, 176; 51: 167, 214; 53: 243 Laps. 1: 161, 285 Lex.: 297; 5: 115, 244; 6: 203; 7: 195; 9–10: 160; 11: 265; 15: 164; 17: 220; 19: 220; 20–21: 152, 220; 25: 115



Indice dei loci e delle opere principali citati

Luct.: 264; 2: 16; 8: 216; 16–17: 285, 288; 22: 249, 264; 24: 296 Men.: 14, 24, 35, 64; 4: 26; 16: 109 Merc. cond.: 297; 1–2: 33–35, 127, 136, 139, 141, 142, 143; 7–8: 213; 10: 164, 200; 13: 243; 14: 201; 26: 203; 27: 133; 28: 104; 35: 114, 204; 38: 169; 39: 285 Musc. enc.: 57; 6: 287 Nec.: 2; 1: 229; 2: 124, 233; 3: 16; 5: 297; 11: 219; 12: 4, 201; 15–16: 217; 16: 218; 17: 264; 21: 280, 296 Nigr.: 2, 18 s.; 1: 296; 4: 3, 213, 260, 291; 5: 174; 6: 149; 6–12: 124; 8–9: 17; 13: 133; 14: 291; 15: 203; 16: 174, 203; 18: 291; 20: 22; 21: 199, 200; 22: 199; 23: 190, 201; 29: 265; 33: 203; 38: 220 Par.: 24, 46, 259 s.; 11: 291; 39: 267; 40: 241; 43: 254, 297; 50: 133; 52: 260; 58: 270 Peregr.: 6, 19, 260, 266, 268, 296; 1: 134; 2: 7, 289; 3: 135; 4: 201; 6: 287; 15: 209; 27: 279; 31: 296; 37: 296;41: 265; 42: 266; 43: 109; 45: 220, 296 Phalar. I, 3: 209 Philops.: 7, 4 6, 179, 267 s.; 1–2: 56; 1–4: 4; 1–10: 2; 3: 112, 272; 5: 199; 8: 289; 9: 220; 10: 176; 13: 104, 271 s., 272; 13–14: 168; 18–20: 126; 20: 285; 21: 220; 22–23: 168; 23: 285, 286; 25: 193; 27: 122; 32: 214; 34: 111, 116 s.; 35: 273; 39: 35; 40: 220 Pisc.: 2, 10, 17, 19, 20, 46, 166, 297; 1: 147; 1–10: 250; 5–6: 20, 203, 229; 13: 132; 17: 132; 19: 5; 19–20: 125, 297; 22: 122; 26: 13; 30: 297; 31: 297; 33: 161; 34: 297; 35: 297; 37: 103, 297; 40: 297; 41: 149, 209; 42: 297; 46: 297; 47: 32, 297; 50: 282

363

Pro im. 5: 288; 9: 50; 15: 229; 29: 124 Prom. 19: 107; 20: 216 Prom. es.: 6, 287; 1: 114; 4: 195; 7: 19 Pseudol.: 20, 297; 1–2: 13; 2: 20; 3: 135; 6: 167; 8: 261; 9: 167; 11: 103; 12: 261; 23: 275; 27: 164, 273 Rh. pr. 9: 265, 297; 11: 114, 287; 12: 135; 16: 152, 287; 18: 152; 20: 152; 21: 135; 22: 269, 287; 23: 288; 24: 285; 25: 287 Sacr. 1: 166, 296; 8: 16; 15: 296 Salt. 12: 120; 14: 265; 27: 287; 42: 186; 61: 16; 65: 201; 82: 220 Sat.: 64; 1: 3, 159; 5: 16; 7: 261; 8: 293; 9: 285; 10–12: 291; 14: 180; 17: 201; 17–18: 293; 21: 169; 22–23: 203; 24: 288; 25: 261, 293; 26: 181, 283; 28–29: 203, 219, 220; 29–30: 190, 199, 201; 33: 190, 194; 35: 203 Scyth.: 5, 115, 248; 1–2: 264; 2: 125, 178, 249; 3: 31, 32; 7: 111 Sol.: 6, 297; 8: 125, 126 Somn.: 5 s.; 1: 194; 9: 153; 11: 287; 15: 55; 17: 4 Symp.: 2, 46, 297; 1–2: 33, 284; 1–4: 152; 1–10: 2; 12: 147; 18–19: 13, 133; 35: 291; 36: 297; 38: 203 Syr. d.: 24; 1: 5 Tim.: 2, 7, 17, 24, 64; 1: 103, 153, 235; 1–6: 176; 2: 148, 197, 285, 290; 3: 161, 168; 4: 21, 174, 186, 221; 5: 199, 249; 7: 132, 213; 8: 104, 216; 11: 170; 11–40: 26; 13: 212, 219, 273; 14: 273; 15: 217; 17: 267; 18: 174, 196; 20: 4, 147, 175, 197; 20–30: 43; 20: 229, 292; 22: 110, 202; 23: 159, 163, 170, 257, 259; 24: 180; 26: 164, 282; 28: 190; 29: 275; 30: 124, 188; 31: 238; 32: 109; 33: 124; 34:

364

VI Indici

238; 36–38: 222; 40–45: 188; 40: 202; 41: 4, 175, 180, 214, 282; 42: 208; 45: 202, 248, 274; 45–58: 259, 260; 46: 61, 147, 216; 47: 132, 133; 48: 233; 50: 251; 51: 241, 265; 53: 133; 54: 147, 149, 201; 54–58: 297; 55: 203; 56: 293 Tox.: 2, 5, 260; 4: 112; 6: 103; 8: 229; 11: 254; 17: 160; 19: 127; 19–20: 141, 220; 20–21: 109; 27: 173; 42: 249; 44: 257, 261; 44–55: 251, 281 s.; 49: 257; 50: 241; 51: 119; 54: 245; 58–59: 254 Trag.: 219, 220, 268; 11–13: 193; 17: 287; 173: 220; 265–311: 220; 268–269: 220 Tyr. 5: 261; 7–8: 261; 15–16: 261 VH: 35, 52, 56, 136, 268, 280; 1, 5: 146; 7: 249; 11: 127; 13–21: 250; 18: 112; 19: 142; 23: 119, 288; 29: 241; 32: 249; 35–36: 257; 40: 146; 2, 5: 112; 7: 220, 290; 9: 226; 23–24: 250, 254; 33: 290; 37: 127; 41: 127, 128; 47: 200, 280 Vit. auct.: 19; 1: 248; 9: 214; 19: 149; 22: 199; 23: 290: 25: 149 Zeux.: 20; 3: 145; 8–11: 250 s. Macrobio Sat. 7, 3: 13 Marco Aurelio 2, 1: 259; 5, 10: 259; 11, 14: 259 Marziale 2, 57, 5: 181; 3, 103, 1–3: 156; 4, 42, 3–4; 112; 6, 62, 4: 104; 11, 52: 202 Massimo di Tiro 14 Trapp: 259; 25, 7: 18; 30–32: 213; 32, 9: 293; 33: 262

Nuovo Testamento Act. Ap. 27, 1–44: 140; 28, 1–13: 140 1 Ep. Cor. 13, 2: 287 Ev. Marc. 11: 287; 23: 287 Omero Il. 2, 71: 29, 293; 554: 29, 229; 11, 632–637: 194; 18, 417–418: 29, 195 Od. 4, 219–239: 116; 351–586: 134; 5, 291–399: 138; 6, 231: 133; 10, 569–574: 270, 271; 19, 449–458: 270 Orazio Carm. 1, 14, 14–15: 129; 3, 2, 13: 251 Epist. 1, 14, 43: 232; 18, 1: 111 Sat. 1, 1, 95–96: 211; 1, 40: 208; 2: 274; 8, 1: 290; 2, 1, 13–15: 52; 2: 219; 15–16: 204; 3, 11–12: 11; 17–20: 2; 20–21: 193; 25–26: 180; 66–68: 180; 77–78: 215; 82–83: 290; 123–124: 216; 166: 290; 274–275: 274 Ovidio Her. 16, 113–116: 129 Fast. 4, 275–277: 129 Met. 7, 159–351: 275; 11, 127: 196 Trist. 1, 4, 7–8: 129; 10, 1–2: 129 Pausania 1, 1, 2: 31; 1, 3: 32; 2, 2: 32, 249; 18, 6–9: 158; 29, 16: 31 Persio Sat. 1, 48–62: 203; 89–91: 140; 123–125: 12; 2, 31–34: 170; 44–45: 180; 3, 63–65: 290; 66–76: 202; 4, 25–32: 190; 5, 100–101: 290; 111–112: 180; 132–188: 2; 6, 12–17: 202; 27–33: 140; 62–63: 180



Indice dei loci e delle opere principali citati

Petronio Sat. 26–31: 201 s.; 27, 1–2: 181; 28, 8: 200; 29, 5: 180; 31, 3: 111; 32: 198; 35, 6: 111; 48, 2–3: 23; 4–5: 201; 50: 23; 50, 4: 194; 52, 1–3: 195; 63: 270; 67, 7: 180; 68, 3: 112; 70, 8: 181; 71, 9–10: 23 s., 198; 73, 5: 195; 74, 2: 269; 75, 10–77, 7: 23; 76, 1–8: 156, 157, 162; 77, 4: 180; 101–115: 140; 114: 142; 115, 11–16: 183 Platone Apol. 18b–c: 56 Charm. 153a: 25, 254 Criti. 115c–116c: 211 Eu­thyphr. 11c: 11 Gorg. 511d: 168 Leg.: 125; 625a–c: 248 Lys. 204c–d: 148 Phaed. 59e: 25 Pha­­edr.: 25, 125; 228a–c: 25, 111, 124; 229a–b: 107 s.; 229a–b: 158; 229a–230d: 25, 248; 236b– e: 25, 124; 249b: 25 Prot. 316d: 16; 350a: 231 Re­sp.: 2, 24, 25, 33; 327a–c: 25, 107, 149; 335c: 231; 343a: 289; 359c–360b: 25, 270; 375a: 232; 453d: 184; 467e: 232; 475d–476a: 105; 476c–480a: 175; 577c–580c: 25, 261; 612b: 25; 617e: 25 Symp. 172a: 147; 174d: 153; 175d–e: 173; 176d: 25, 107; 177d: 178; 178a: 178 Tim. 63a: 280 Plauto Cist. 291: 250 Men. 950: 290 Merc.: 21 Pseud. 386: 250 Stich. 24–25: 183, 243

365

Plinio NH 16, 76: 37; 19, 1–2: 122; 23, 82: 205 Plutarco Alc. 4, 5: 195; 7: 254 Alex.: passim 236, 238, 258, 259; 11–13: 50, 235; 14, 1: 235; 15, 1: 50, 227; 17–18: 236; 20: 237; 28, 1–2: 257; 31, 1: 237; 35, 1: 50, 242, 243; 36, 1: 240; 74, 2–3: 257 Amat.: 15 Cam. 39, 3: 241 Crass. 16, 2: 248 Conv. sept. sap. 146c–148b: 125; 148c: 202 Coriol. 13, 3: 241; 27, 2: 241 De adul. et am.: 259 De Alex. fort.: 228; I, 326e: 241; 326f: 237; 327a–b: 50, 240, 255; 327c–e: 50, 51, 227, 235, 241, 261; 328a–b: 257; 328d–e: 50, 51, 242, 257; 328f–329a: 257; 329f–330a: 256; 330c–d: 226; 330f–331a: 256; II, 339a: 50, 237, 243; 340a–c: 50, 240, 256; 340f: 50, 241; 341b–c: 237; 341e–f: 50, 261; 342c–d: 50, 235, 261; 344c–345b: 50, 240 De cohib. ira 463e: 213 De cup. divit. 523d: 262; 527b: 190; 528a: 190 De def. orac.: 125 De E ap. Delph.: 125 De gen.: 15; 581d–e: 254 De prof. in virt. 81b–c: 173 De Pyth. or.: 125 De tranq. anim. 474c–d: 213 De virt. et vit. 101d: 262 Dion 23, 4: 195 Flam. 21, 3–5: 226 Galba 20, 2: 195 Lyc. 10, 2: 190 Marc. 14, 13: 164

366

VI Indici

Per. 16: 213; 38: 270 Quaest. conv. 631 c–f: 13, 187; 633b–e: 287; 679b: 190 Quomodo adol. 14d–f: 18 Reg. et imp. apopht.: 285 Sol. 10: 30 Sull. 14: 31 Polibio 6, 44, 7: 182 Protagora fr. 80 A 7 D.-K.: 3 Quintiliano Inst. 2, 10, 7–8: 8; 8, 6, 47: 182 Seneca Epist. 2, 6: 262; 5, 6, 6: 194; 9, 77, 1: 108, 130; 91, 13: 264; 108, 11; 201; 110, 3: 264; 119, 14: 181 Ir. 2, 28, 8: 268 Med. 327–328: 130 Vit. beat. 27, 4: 268 Seneca retore Contr. 2, 6, 4: 182; 3 praef. 16: 2; Suas. 4, 5: 4, 5 Senofonte An.: 63; 1, 8, 21: 30; 7, 3, 6: 30, 234 Cyr.: 63; 8, 3, 39: 249 Hell. 3, 2, 27: 211 Symp. 6, 6–7: 56 Senofonte Efesio 5, 7, 8: 55 Sinesio Epist. 51 Garzya: 139, 140

Strabone 8, 6, 20: 145; 9, 1, 15: 31; 23: 204, 205; 14, 6, 1–2: 136 s.; 17, 2, 4: 173 Svetonio Aug. 50: 53 Nero 12, 2: 272; 19: 53 Tacito Ann. 6, 28: 279; 31: 54, 244 Teocrito 15, 46–50: 113; 95: 212; 21, 52–53: 191 Teofrasto Char.: 28 s.; 8, 12–13: 29; 10, 22: 29; 10, 30: 29; 16, 14: 28; 23, 2–6: 28, 29, 159; 25: 29; 30, 9: 28 Teognide 175–176: 282 Teopompo FGrHist 115 F 252: 195 Terenzio Eun. 284: 287 Phorm. 68: 183 Tito Livio 35, 14, 5–12: 226, 227 Tucidide 1, 6, 3: 120; 24, 2: 121 s.; 3, 45, 4: 170 Varrone Men.: 18; fr. 21–24 Astbury: 212; 36, 2–3: 183