L’oro e la spada : capitale, guerre e potere nella formazione degli stati europei 990-1990

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L’oro e la spada : capitale, guerre e potere nella formazione degli stati europei 990-1990

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Charles Tilly

L’ORO E LA SPADA Capitale, guerra e potere nella formazione degli stati europei 990-1990

PONTE ALLE GRAZIE

Violenza ed economia nella formazione degli stati europei: mille anni di trasformazioni politiche, di sfide economiche, di cambiamenti sociali so­ no osservati e analizzati attraverso un’ottica non convenzionale e in una narrazione avvincente da uno dei più grandi studiosi dei fatti sociali del mondo contemporaneo. Capitale e potere coat­ tivo nelle loro combinazioni, nella loro interdi­ pendenza e nel loro timing costituiscono altret­ tante variabiii per la spiegazione di guerre, rela­ zioni internazionali, formazione di città e di stati. Le domande che Tilly ci pone sono i grandi in­ terrogativi sulle strutture delle società in cui vi- viamo: come spiegare un modello di formazione degli stati europei approssimativamente concen­ trico, che vede alla periferia stati di grandi dimen­ sioni ma tenuti insieme da legami deboli, come l’impero ottomano e la Moscovia; una fascia in­ termedia stati più piccoli governati con più effi­ cienza e infine un nucleo centrale di città-stato che si unificarono in stati più grandi solo dopo il 1790? Perché il potere politico e commerciale passò col tempo dalle mani delle città-stato e delie città-impero del Mediterraneo ai grandi stati e alle città relativamente sottomesse dell’Atlantico? Perché la guerra si trasformò da lotta tra poteri rivali per l’accaparramento di tributi a prolungate battaglie fra eserciti e flotte? Seguendo una strada segnata dalle presenze di Barrington Moore jr., di Stein Rokkan e di Le­ wis Mumford, Charles Tilly si propone l’ambi­ zioso obbiettivo di spiegare i meccanismi deila formazione degii stati europei muovendosi con destrezza nel difficile equilibrio fra possibilità esplicative contrapposte: «Da una parte la liscia parete del caso, dove ogni storia sembra sui ge­ neris, un re o una battaglia dopo l’altra; dall’al­ tra i crepacci della teleologia in cui il risultato — la formazione degli stati — sembra spiegare l ’in­ tero percorso».

Uniforme nelle componenti — concentrazione dei mezzi di coercizione come eserciti, flotte, armi; esercizio del potere e sua efficacia; preparazione della guerra e prelievo delle risorse necessarie; co­ stellazione delle principali classi sociali — l’ana­ lisi di Tilly cerca di spiegare non solo il modello del cambiamento, ma anche le differenze tra le forme di stato e il variare del successo delle stra­ tegie messe in opera dai governanti fino al mo­ mento nel quale il sistema, una volta europeo, ha rivendicato il controllo dell’intera Terra. Ma questo sistema non è sempre esistito e non durerà per sempre. I segni del tramonto di un’e­ poca delia storia universale sono davanti ai no­ stri occhi. Per questo dobbiamo riflettere sui mo­ nito di Tilly: «Distruggete lo stato e creerete il Li­ bano; rafforzatelo e creerete la Corea. Finché al­ tre forme non sostituiranno lo stato nazionale, non vi sono alternative». Charles Tilly dirige il Center for Studies of Social Change del­

la New School for Social Research di New York. I suoi studi di storia e di sociologia, i suoi libri sull’Europa moderna e con­ temporanea, sui conflitti sociali e sui metodi delle scienze so­

ciali sono letti e studiati in tutto il mondo.

AS 2405 Distribuzione PDff Lire 35.000 (i.i.)

Charles Tilly

L’oro e la spada Capitale, guerre e potere nella formazione degli stati europei 990-1990

C à d PONTE ALLE GRAZIE

Titolo dell’opera originale: Coercion, Capital and European States, AD 990-1990. Copyright © Charles Tilly 1990

Editing e impaginazione Ediprint Service srl - Città di Castello (PG) Edizione italiana © Copyright 1991

Ponte alle Grazie Editori srl - Firenze

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Sommario

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Prefazione Capìtolo primo Città e stati nella storia mondiale Capitolo secondo La città e gli stati europei Capitolo terzo Come la guerra produsse gli stati e viceversa

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Capitolo quarto Gli stati ed i loro cittadini

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Capìtolo quinto Genealogia degli stati

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Capìtolo sesto II sistema degli stati europei

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Capitolo settimo Soldati e stati nel 1990

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Bibliografia

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Prefazione

Nevrosi creativa; chiamo così l’arte di incanalare i propri desideri e i propri timori verso risultati positivi. Questo libro può essere considerato il prodotto di una tale nevrosi creativa. In questo caso, il mio desiderio di scoprire e in­ ventare spiegazioni semplici e rapporti regolari relativi a eventi complessi si è legato a un altro forte desiderio, quello di sfuggire a una responsabilità di­ ventata troppo pesante assumendo un compito ragionevole e non scoraggiante. Qualsiasi lettore si accorgerà di questo mio desiderio di raggiungere una visio­ ne ordinata e semplice. Ma la seconda spinta richiede una qualche spiegazione. Già molte altre volte mi sono trovato nel bel mezzo di un lavoro difficile per evitarne uno ancora più difficile. Questa volta, dopo aver intrapreso insieme a Wim Blockmans la raccolta di una serie di saggi sui rapporti reciproci fra città e Stati in Europa, mi sono messo a lavorare a un libro estremamente am­ bizioso che intendeva esaminare l’articolarsi di questi rapporti in diverse parti d ’Europa dall’anno Mille in poi. Era mia convinzione che questo libro potesse rispondere adeguatamente alla grande sfida di Perry Anderson: «Oggi che la storia dal basso è diventata una parola d ’ordine tanto negli ambienti marxisti che in quelli di diverso orien­ tamento teorico e ha prodotto importanti risultati positivi per la nostra com­ prensione del passato, è tuttavia necessario richiamare uno degli assiomi fon­ damentali del materialismo storico: il fatto, cioè, che la secolare lotta fra le classi viene alla fine risolta al livello politico della società e non a quello econo­ mico o culturale. In altre parole, è la costruzione e distruzione degli Stati che sanziona i mutamenti fondamentali nei rapporti di produzione, finché esiste­ ranno le classi» (Anderson 1974, p. 11). Questo libro, cercherà di rispondere, almeno lo spero, a tre delle preoccupazioni che hanno accompagnato la mia lunga carriera di studioso: la storia e la dinamica dell’azione collettiva, il pro­ cesso di urbanizzazione e la formazione degli stati nazionali. Un tale libro, come era nelle mie intenzioni, richiedeva la padronanza di fonti e lingue non consuete, per non parlare della preparazione di grandi sche­ dari e della predisposizione di lunghe serie statistiche che ci farebbero solo af­ fogare in una gran massa di dati. Ho cominciato a scrivere, ma ben presto mi sono trovato a esplorare terreni sconosciuti e a mettere alla prova la mia capa­ cità di imparare nuove lingue o di richiamarne alla memoria altre già conosciu­ te. La Cornell University mi ha dato la possibilità di tenere conferenze e af­ frontare discussioni i cui temi dovevano comporre l’argomento del nuovo libro 7

Prefazione

durante le Messenger Lectures del 1987; sebbene le discussioni svoltesi a Ythaca mostrassero quanto imprecise e non ben definite fossero le mie idee, mi fecero tuttavia convincere che l’argomento era importante e degno del lungo sforzo che avrebbe richiesto. Mentre lavoravo al libro, nel febbraio e marzo 1988, ho tenuto una serie di conferenze all’Institut d ’Etudes Politiques di Parigi. (Sono grato a Alain Lancelot e Pierre Birnaum per aver preparato questo appuntamento e a Clements Heller per l’aiuto della Maison des Sciences de l'Homme durante la mia visita a Parigi). Il mio programma era quello di svolgere ricerche negli archivi parigi­ ni fra una conferenza e l’altra. Ma, fin dalle prime conferenze, parlai della cit­ tà e degli stati europei. Riflettendo sulle vivaci discussioni che l’esposizione delle mie idee avevano provocato, capii subito che avevo la possibilità di scri­ vere un altro libro: un libro più schematico, sintetico, conciso e fattibile di quello che avevo cominciato. Scrivere questo libro mi avrebbe permesso di trovare un’onorevole, anche se temporanea, via d ’uscita dal mio ambizioso e terribile progetto. Invece di rovistare negli archivi, potevo starmene davanti alla tastie­ ra e battere febbrilmente il mio nuovo libro. Versioni riviste e rielaborate delle conferenze tenute alla Cornell e all’Institut si adattavano bene all’esecuzione di questo progetto e così, quando sono tornato a New York alla fine di marzo, ho buttato giù la maggior parte del testo. Trascurando altri progetti per i quali la Russell Sage Foundation avrebbe finanziato un anno di aspettativa, mi sono precipitato al computer (in quel mo­ mento, Pauline Rubinstein e i suoi assistenti alla Russell Sage mi hanno forni­ to un indispensabile e intelligente aiuto per le fonti scritte, Camilla Yezzi ha facilitato il lavoro quotidiano, Eric W anner e Peter de Janosi mi hanno offerto un geniale sostegno, mentre Robert Marten e Viviana Zelizer hanno incorag­ giato i miei tentativi di studiare le grandi strutture, di esaminare i processi di ampia portata, di fare comparazioni storiche su scale spaziali e temporali enor­ mi). Nel luglio 1988 una bozza completa, anche se non ancora ben strutturata, era già in circolazione. Questa bozza, e le successive, fecero il giro degli addet­ ti ai lavori con il titolo di States, Coercion and Capital. Silver, Sword and Scepter e quello meno sofisticato di Coercion, Capital and European States (la presente versione del libro ha inglobato, rielaborandoli, gli studi precedentemente pub­ blicati come «The Geography o f European Statemaking and Capìtalism since 1500», nel volume a cura di Eugene Genovese e Léonard Hochberg, Geographic Perspectives in History (Oxford, Blackwell 1989), «Warmakers and Cìtizens in thè Contemporary World» (CSSC [Center for Studies of Social Change, New School for Social Research] Working Paper 41, 1987), How WarMade States and Vice Versa» (CSSC Working Paper 42, 1987), «States, Coercion, and Capital» (CSCC (Working Paper 75, 1988) e State and Counter revolution in Trance, («Social Re­ search», 56 [1989], 71-98). Durante i mesi seguenti molti amici e colleghi lessero o ascoltarono varie parti del libro; il mio forte desiderio di parlarne e di rivederlo continuamente li tenne molto occupati. Janet Abu-Lugnod, Wim Blockmans, Bruce Carothers, Samuel Clark, Brian Downing, Cormenza Gallo, Thorvald Gran, Marjolein ’t Hart, Peter Katzenstein, Andrew Kirby, John Lynn, Perry Mars, Maarten Prak, 8

Prefazione

Sidney Tarrow, Wayne Te Brake e Bin Wong mi hanno fatto un dono di ine­ stimabile valore: hanno letto con grande attenzione la prima bozza del mano­ scritto e vi hanno apportato rilievi e osservazioni; Richard Bensel, Robert Jer­ vis, Jo Husbands e David Laitin hanno fatto acuti commenti ad alcuni paragra­ fi del libro. Sono in debito verso Adele Rotman per i suggerimenti fornitimi per rendere più comprensibile il mio pensiero. Louise Tilly stava completando i suoi libri, mentre io ero impegnato a scrivere questo; nonostante i suoi impe­ gni, mi ha dedicato molto tempo per lei prezioso ed è stata prodiga di consigli di grandissima importanza. Chi ha partecipato alle mie lezioni e conferenze alle università di Bergen, California-Irvine, Chicago, Ginevra, Leyda e W estern Ontario, alla università di New York, alla Columbia University e alla Harvard University e infine al­ l’Accademia estense delle Scienze, ha rivolto domande puntuali su parti della mia analisi. Il pre-seminario della New School sulla formazione dello Stato e l’azione collettiva mi ha più volte aiutato nel formulare gli argomenti del libro. Devo moltissimo a Harrison W hite e ai suoi collaboratori al Columbia University’s Center for thè Social Sciences (soprattutto Lisa Anderson, David Cannadine, M artin Gargiulo, Denise Jaokson, Gerald Marwell, Salvatore Pitruzzello, Kate Roberts, Hector Schamis, Kamal Shehadi, Jack Snyder, Claire Ullman e Roman Von Rossem) per un delizioso seminario organizzato per esami­ nare alcuni capitoli, ancora allo stato di bozza, di questo libro. Nessuno di que­ sti critici ha mai visto una versione integrale, sempre allo stato di bozza, del libro e nessuno potrà, perciò, avere la responsabilità dei miei errori. In questo libro esistono sicuramente degli errori. Studiando per sommi capi un arco di tempo così vasto, sicuramente non ho tenuto conto delle idee più importanti, ho scartato o falsato avvenimenti cruciali, ho ignorato contrad­ dizioni rilevanti, ho spiegato in maniera non corretta alcuni processi di cam­ biamento. Spero solo che i lettori mi segnaleranno gli errori e le omissioni e spero anche che essi vorranno riflettere su quanto i miei errori pesino sugli ar­ gomenti principali e sulla tesi generale del libro prima di stigmatizzarli. Vorrei sperare, ottimisticamente, che questo libro continuerà l’opera cominciata dal compianto Stein Rokkan, che esso si appoggerà sui punti di forza e correggerà per altri versi gli errori di un’opera alla quale Rokkan e io abbiamo collabora­ to, The Tormation o f National States in 'Western Europe, che costituirà una sorta di modello del programma di ricerche storiche sui grandi processi di cambia­ mento che ho sostenuto nei miei primi libri come Big Structures, Large Processes, Huge Comparìson e As Sociology meets History e che contribuirà allo sforzo di elaborare teori'e della contingenza storica esemplificate dagli scritti di An­ thony Giddens, Allan Pred, Arthur Stinchcombe e Harrison White. Se sarà così, i miei desideri e le mie fobie ancora una volta avranno dato un modesto contributo alla conoscenza. Ora, naturalmente, si presenta un problema: il gran­ de libro mi aspetta ancora.

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Capitolo primo Città e stati nella storia mondiale

Gli stati nella storia All’incirca 3800 anni fa, il signore di una piccola città-stato della Mesopotamia conquistò tutte le altre città-stato della regione e le assoggettò a Marduk, dio della propria città. Hammurabi, signore di Babilonia, divenne così il più gran­ de re della Mesopotamia. Le conquiste fatte gli dettero il diritto e gli imposero di stabilire leggi per tutti i popoli. Nell’introduzione alle sue famose leggi, Ham­ murabi si rivolgeva agli dei Anu e Enlil per averne insegnamenti: «Anu e Enlil mi chiamarono perché procurassi prosperità al popolo, chiamarono me, Ham­ murabi, l’obbediente, il principe timoroso degli dei, perché facessi sì che la giu­ stizia regnasse sulla terra, che il malvagio e il perverso fossero distrutti, che il forte non recasse offesa al debole, e che io come il sole, sopra gli uomini dalle nere chiome, sorgessi per illuminare la terra» (Frankfurt 1946, p. 193). Completamente preso da questa divina chiamata, egli poteva con grande sicurezza definire quanti si opponevano al suo dominio «malvagi» e «perversi». Diffamare le vittime, atterrire gli alleati e radere al suolo le città rivali: tutto questo sarebbe stata espressione della volontà divina che agiva per sua mano. Ma Hammurabi costruiva il potere della sua città e fondava uno stato; i suoi dei e la loro visione della giustizia dovevano prevalere. Gli stati hanno rappresentato le più grandi e potenti organizzazioni al mon­ do per cinquemila anni. Definiamo stati le organizzazioni che esercitano il potere coattivo e che 1) si distinguono dalle famiglie e dai gruppi parentali e 2) hanno una ben visibi­ le preminenza in determinati àmbiti su tutte le altre organizzazioni esistenti all’interno di territori estesi. Il termine, perciò, comprende città-stato, imperi, teocrazie e molte altre forme di governo, ma esclude tribù, lignaggi, aziende e Chiese. Una definizione come questa è, purtroppo, controversa; mentre alcu­ ni studiosi di scienze politiche usano il termine in questa accezione, altri lo estendono fino a comprendere qualsiasi struttura di potere esistente all’inter­ no di una popolazione abbastanza numerosa, e altri ancora lo restringono alle organizzazioni dotate di sovranità, relativamente potenti, centralizzate e in­ ternamente articolate, grosso modo a ciò che chiamerò uno stato nazionale. Inol­ tre sarò costretto in corso d ’opera a rivedere la definizione appena data, inclu­ dendo in essa entità come Monaco e San Marino, malgrado la scarsità del loro territorio, per il fatto che altri stati, sulla cui natura non c’è alcun dubbio, li 11

Capitolo primo

considerano alla loro stessa stregua. Per il momento, atteniamoci alla definizione di stato precedentemente data. Facendo riferimento a questo modello di organizzazione statale, si può dire che i resti archeologici mostrano i primi segni dell’esistenza di stati a partire dal 6000 a.C. e che la documentazione scritta o iconografica testimonia la loro pre­ senza due millenni più tardi. Negli ultimi otto millenni gli stati hanno occupa­ to solo una piccola parte dello spazio abitato della terra, ma con il passar del tempo il loro dominio si è esteso. Le città hanno avuto origine nello stesso periodo. In un arco di tempo compreso tra l’8000 e il 7600 a.C. Finsediamento più tardi chiamato Gerico comprendeva un tempio e case di pietra; nei successivi mille anni esso conobbe la costruzione di una solida cinta muraria e di edifici che rispondevano a esi­ genze diverse. In quel tempo, si potrebbe, a ragione, chiamare Gerico città co­ sì come altri insediamenti medio-orientali che cominciarono ad acquistare ca­ ratteri urbani. In Anatolia, i resti di £atal Hùyùk comprendono dimore son­ tuose, templi e opere d ’arte che risalgono a ben prima del 6000 a.C. Realtà compiutamente urbane e stati veri e propri fanno la loro comparsa nello stesso periodo, un periodo di grande sviluppo delle capacità creatrici e distruttive del­ l’uomo. Per qualche millennio, in realtà, gli stati di cui stiamo parlando furono soprattutto città-stato che spesso consistevano in una capitale governata da sa­ cerdoti e circondata da un hinterland tributario. Tuttavia, nel 2500 a.C., alcu­ ne città della Mesopotamia, fra cui Ur e Lagash, costruirono imperi governati da guerrieri e tenuti insieme dalla forza e dai tributi; l’unificazione, realizzata da Hammurabi, della Mesopotamia meridionale avvenne sette secoli dopo la costruzione dei primi imperi in questa regione. Da quel momento in poi, la coesistenza di grandi stati e di numerose città ha caratterizzato le grandi civil­ tà, dalla Mesopotamia all’Egitto e dalla Cina all’Europa. Negli otto-dieci millenni trascorsi da quando queste forme di organizza­ zione fecero per la prima volta la loro comparsa, città e stati hanno oscillato nei loro rapporti fra amore e odio. Spesso conquistatori armati hanno distrutto città e ne hanno massacrato gli abitanti solo per far sorgere al loro posto nuove capitali. Gli abitanti delle città hanno difeso la loro indipendenza e inveito contro l’ingerenza dei re negli affari interni per poi ricercarne la protezione contro banditi, pirati e gruppi rivali di mercanti. Nel lungo volgere delle vicende sto­ riche, città e stati hanno finito per prendere coscienza di quanto fosse necessa­ rio avere rapporti reciproci. Storicamente gli stati nazionali — stati che gover­ nano regioni geograficamente contigue e le loro città per mezzo di strutture centralizzate, articolate per funzioni ed autonome — sono comparsi solo di ra­ do. La maggior parte di queste entità non hanno assunto il carattere di stati nazionali, ma di imperi, città-stato e altre cose ancora. Il termine stato nazio­ nale, purtroppo, non significa necessariamente stato-nazione, ovvero uno sta­ to il cui popolo abbia in comune una forte identità linguistica, religiosa e sim­ bolica. Sebbene stati come la Svezia e l’Irlanda si avvicinino oggi a questo mo­ dello, sono ben pochi gli stati nazionali che in Europa abbiano assunto i carat­ teri di stato-nazione. Gran Bretagna, Germania e Francia — gli stati nazionali per eccellenza — certamente non hanno mai corrisposto a questo modello. Do­ 12

Città e stati nella storia mondiale

vendo fare i conti con movimenti nazionali militanti in Estonia, Armenia e in numerose altre regioni, l’Unione Sovietica vive quotidianamente le difficol­ tà legate alla presenza di popoli diversi entro i suoi confini. La Cina, con un’e­ sperienza di circa tremila anni alle spalle di stati nazionali (ma che, data la mol­ teplicità di lingue e etnie, mai, neppure per un anno, sono diventati statinazione), costituisce una straordinaria eccezione. Solo negli ultimi secoli gli stati nazionali hanno sempre più occupato la scena mondiale; solo a partire dalla seconda guerra mondiale quasi tutta la superficie terrestre è stata occupata da stati formalmente indipendenti che, più o meno, riconoscono il reciproco dirit­ to ad esistere. Man mano che questa suddivisione del mondo in stati veri e propri è an­ data avanti, hanno cominciato a farsi sentire due importanti controtendenze. La prima è rappresentata dalle popolazioni che non sono organizzate in stati autonomi e che, quindi, rivendicano il diritto all’indipendenza; non solo gli abitanti di vecchie colonie, ma anche minoranze all’interno dei vecchi e conso­ lidati stati occidentali hanno con sorprendente frequenza avanzato la richiesta di un proprio stato. Mentre sto scrivendo, gruppi di Armeni, Baschi, Eritrei, Curdi, Palestinesi, Sikh, Tamil, Tibetani, Sahariani occidentali e molte altre etnie prive di stato rivendicano il loro diritto ad avere uno stato autonomo; migliaia di uomini sono morti per reclamare questo diritto. All’interno di una Unione Sovietica che per lungo tempo è apparsa un monolito incrollabile, Li­ tuani, Estoni, Azeri, Ucraini, Armeni, Ebrei e numerose altre «nazionalità» stanno premendo per ottenere forme diverse di autonomia e, talvolta, anche l’indipendenza. In un passato recente, Bretoni, Fiamminghi, Franco-Canadesi, Montene­ grini, Scozzesi, Gallesi, hanno cercato di conquistare una propria autonomia, sia operando per linee interne agli stati che governano i loro territori sia riven­ dicando l’indipendenza. Queste minoranze hanno molto spesso ricevuto bene­ vola udienza da parte di altri paesi, non potendola invero ottenere dagli stati di cui fanno parte. Se tutti i popoli che hanno rivendicato il proprio diritto a costituire stati indipendenti dovessero realmente acquistare la sovranità sui propri territori, il mondo si frantumerebbe in migliaia di entità statali — oggi abbiamo poco più di 160 stati —, la maggior parte delle quali avrebbero un’e­ stensione territoriale assai ridotta e non sarebbero in grado di sopravvivere eco­ nomicamente. La seconda controtendenza opera con grande efficacia: potenti rivali de­ gli stati nazionali — blocchi di stati come la N ato, la Comunità Economica Europea o il Patto di Varsavia, reti internazionali di trafficanti di merci illegali e preziose come droga o armi, organizzazioni finanziarie come le grandi com­ pagnie petrolifere — sono comparsi sulla scena mondiale per sfidare la loro so­ vranità. Nel 1992 i membri della C ee aboliranno le barriere economiche in una maniera tale da limitare sensibilmente la capacità degli stati nazionali di perse­ guire politiche autonome in materia di moneta, prezzi e occupazione. Questi segni mostrano che gli stati come noi li conosciamo non dureranno per sempre e che in tempi brevi potranno perdere la loro notevole egemonia. In una delle sue paradossali «leggi» del comportamento organizzativo, C. 13

Capitolo primo

Northcote Parkinson mostrò che «la compiuta realizzazione di un progetto è opera soltanto di istituzioni giunte al punto di crisi» (Parkinson 1957, p. 60). Come esempi di questa «legge» si possono citare la Basilica di San Pietro e il palazzo Vaticano (completati durante il XVI e XVII secolo, dopo che i papi avevano perduto parte del loro potere temporale), il Palazzo delle Nazioni, sim­ bolo di pace (completato nel 1937, proprio alla vigilia della seconda guerra mon­ diale), la pianificazione urbanistica della Delhi coloniale (a «ogni fase del ritiro britannico corrispondeva in maniera puntuale la realizzazione di un altro trionfo nel compimento del disegno urbano») (Parkinson 1957, p. 68). Forse anche nel nostro caso si può applicare un principio simile. Gli stati possono seguire la vecchia regola per la quale un’istituzione va in rovina proprio quando essa si realizza compiutamente. Nonostante ciò, il potere degli stati rimane così saldo che quanti sognano un mondo senza stati appaiono come visionari. Gli stati formano complessi sistemi di reciproche interazioni in misura ta­ le che ne risulta condizionato il destino di ogni loro parte. Dal momento che gli stati scaturiscono da competizioni per il controllo del territorio e della po­ polazione, essi appaiono sulla scena mondiale sempre a gruppi e di solito for­ mano sistemi. Il sistema di stati che oggi prevale quasi ovunque sulla Terra prese forma in Europa dopo il 990 per poi estendere la sua capacità di dominio ben al di là del continente cinque secoli più tardi. Questo sistema assorbì, eclissò e pose fine a tutte le forme rivali, compresi i sistemi di stati che un tempo ave­ vano i loro centri focali in Cina, India, Persia e Turchia. Al volgere del millen­ nio, tuttavia, l’Europa, in quanto tale, non aveva una struttura definita; era costituita dai territori a nord del Mediterraneo una volta occupati dallTmpero romano e da un’ampia frontiera nord-orientale mai conquistata da Roma, ma ora in larga misura percorsa dai missionari delle Chiese cristiane, un lascito questo di un Impero in disfacimento. Nello stesso periodo gli imperi musulma­ ni dominavano una parte consistente dell’Europa meridionale. Il continente che conosciamo oggi aveva già allora potenziali basi di uni­ tà. Un’irregolare rete di città mercantili formava un tessuto connettivo in buo­ na parte d ’Europa e serviva a collegare i più prosperi sistemi di produzione e commercio che si estendevano dal Mediterraneo all’Asia orientale. La popo­ lazione di questa parte del mondo era costituita soprattutto da contadini e non da cacciatori, pastori o abitanti di città mercantili. Anche nelle regioni dove esisteva una certa concentrazione urbana, come l’Italia settentrionale, i pro­ prietari terrieri dominavano la maggior parte della popolazione e l’agricoltura rappresentava l’attività economica prevalente. La religione, la lingua e i retag­ gi dell’occupazione romana resero la popolazione europea più omogenea dal pun­ to di vista culturale di ogni altra area mondiale paragonabile all’Europa, salvo la Cina. All’interno dell’area precedentemente conquistata da Roma rimane­ vano, pur in presenza di una forte disgregazione del potere sovrano, tracce del­ la legislazione e dell’organizzazione politica romana. Queste peculiarità dovevano avere un impatto importante sulla storia eu­ ropea. Prendiamo il 990 come un punto di riferimento arbitrario. Sul palcosce­ nico mondiale l’Europa di un migliaio di anni fa non era una realtà ben defini­ ta, unitaria, indipendente. Per questa ragione chi cerca di spiegare le successi­ 14

Città e stati nella stona mondiale

ve trasformazioni del continente usando come argomento l’esistenza di un par­ ticolare ethos o di una particolare struttura sociale corre il rischio di ragionare in termini anacronistici. E ancora: singoli paesi come la Germania, la Russia e la Spagna non esistevano come entità ben definite; essi acquisirono una fisio­ nomia determinata nei secoli successivi grazie a processi storici che questo li­ bro descrive sommariamente. Argomentazioni che fanno riferimento a caratte­ ri permanenti e a qualità specifiche della «Germania» e della «Russia» falsano la storia degli stati europei che è storia movimentata, mutevole, non predeter­ minata. Lo sviluppo di stati nazionali, il formarsi di eserciti nell’ambito di questi stati, la lunga egemonia europea, appaiono, in verità, così naturali e scontati che di rado gli studiosi si chiedono perché non hanno prevalso in Europa plau­ sibili alternative a queste forme storiche come gli Imperi regionali dalle deboli articolazioni interne che fiorirono in Asia, Africa e nelle Americhe dopo il 990. Sicuramente una parte della risposta si trova nella dialettica fra città e stati che si sviluppò nell’arco di poche centinaia di anni dopo il 990. Infatti, il coin­ cidere di una fitta e diseguale rete di città con la suddivisione del territorio in numerosi, ben definiti, più o meno indipendenti stati contraddistinse l’Eu­ ropa dal resto del mondo. A muovere e a definire la geografia delle città e degli stati stavano la dinamica del capitale (il cui privilegiato ambito d ’azione erano le città) e la dinamica del potere coattivo (che si cristallizzò soprattutto negli stati). Una sorprendente gamma di combinazioni di capitale e potere coattivo si manifestò in questo o quel momento della storia europea. Imperi, città-stato, federazioni di città, gruppi di signori fondiari, Chiese, ordini religiosi, leghe di pirati, bande di guerrieri e molte altre forme di autorità prevalsero in deter­ minate parti d ’Europa e in epoche diverse negli ultimi mille anni. La maggior parte di queste forme presentavano i caratteri di un qualche tipo di stato. Era­ no organizzazioni che controllavano e concentravano nelle loro mani i più im­ portanti mezzi di coercizione in territori delimitati e che esercitavano in deter­ minati àmbiti il predominio su tutte le altre organizzazioni esistenti in quei territori. Solo tardi e attraverso un processo lento lo stato nazionale divenne la forma predominante. Da queste considerazioni scaturiscono due problemi: quali,furono le ragioni della grande mutevolezza nel tempo e nello spazio delle for­ me di stati che sono esìstiti in Europa dal 990 in poi e perché gli stati europei fini­ rono per assumere ì caratteri di questa o quella variante di stato nazionale? Perché le direzioni del cambiamento furono così simili e i percorsi così differenti? Il libro tenta di chiarire questi problemi, se non di risolverli interamente.

Risposte possìbili Le spiegazioni tradizionali dei grandi problemi sollevati lasciano insoddisfatti gli studiosi di storia europea seri. Le spiegazioni, fra loro alternative, oggi pos­ sibili divergono su due punti: 1) in quale misura la formazione degli stati di­ pende dalle forme assunte dai mutamenti economici? La gamma delle risposte 15

Capitolo primo

oscilla da un deciso determinismo economico all’affermazione di una completa autonomia della politica; 2) quanto forte può essere l’influenza di fattori ester­ ni a un determinato stato sulle sue trasformazioni? Le risposte in questo caso variano dalla sottolineatura forte dei fattori e dei processi interni al peso schiac­ ciante dato al sistema internazionale. Pur senza che vi sia alcuna coincidenza, le teorie sulla guerra e sulle relazioni internazionali presentano le stesse oscilla­ zioni: da quelle che si rifanno al determinismo economico a quelle fondate su un determinismo politico, da quelle che puntano sulle cause interne a quelle che sottolineano l’importanza delle cause internazionali. Sebbene pochissimi autori scelgano le posizioni più radicali delle possibili alternative — far scaturire, ad esempio, lo stato e le sue trasformazioni intera­ mente dall’economia — le differenze fra i diversi approcci rimangono molto grandi. Potremmo schematizzare le risposte possibili ai due problemi sollevati sopra in questo modo (figura 1.1): in te r n a

MODO DI PRODUZIONE

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