L’ora di italiano. Scuola e materie umanistiche
 9788842059943

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Economica Laterza 618

Dello stesso autore in altre nostre collane:

Prima lezione di grammatica «Universale Laterza»

Luca Serianni

L’ora d’italiano

Scuola e materie umanistiche

Editori Laterza

© 2010, Gius. Laterza & Figli Nella «Economica Laterza» Prima edizione 2012 Edizioni precedenti: «il nocciolo» 2010 www.laterza.it Progetto grafico di Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel luglio 2012 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-5994-3

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Indice

Premessa

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1. Le due culture 2. Scienze e lettere nella scuola

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3. Il latino sul banco degli imputati

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4. L’ora d’italiano: di tutto, di più

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5. Scrivere, esprimersi, argomentare

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6. La grammatica

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7. L’arricchimento lessicale

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8. La letteratura a scuola: alcuni spunti didattici

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9. Perché insegnare i classici (e come)

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Nota bibliografica

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Indice dei nomi e delle cose notevoli

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Premessa

Il mio mestiere consiste, oltre che nell’occuparmi di storia della lingua italiana, nell’insegnare all’università. Ma se ho deciso di scrivere questo libro, quasi tutto incentrato sulla scuola, è perché non ho mai avvertito grande differenza tra i vari segmenti didattici, almeno tra quelli contigui: al mondo dell’istruzione, in particolare quella superiore, ho sempre guardato anche con interesse professionale. Recenti esperienze di consulente (presso il Ministero dell'Istruzione e l’INVALSI) hanno fatto precipitare – in senso chimico, come si direbbe di una sostanza disciolta in una soluzione che vada a depositarsi sul fondo, diventando visibile a occhio nudo – riflessioni e anche proposte operative maturate attraverso tanti anni di esperienza. Il professore e la professoressa di italiano hanno il compito istituzionale di costruire competenze, trasmettere saperi e sviluppare sensibilità in due àmbiti assai diversi: la letteratura e la lingua. Diversi prima di tutto per statuto pedagogico.

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La letteratura si propone in primis di suscitare il piacere di leggere e, come osserva Guido Armellini in un suo aureo libretto del 2008, si può ben dire a un alunno: «Leggi il tale libro!», ma non intimargli: «Prova il piacere della lettura!», «Desidera di leggere un libro!», «Appassiónati ai Promessi Sposi»: tutte “prescrizioni paradossali”, perché incidono in una sfera, quella del piacere, legata alla spontanea reattività dell’individuo; «e non si può essere spontanei a comando». L’educazione letteraria ha il suo fulcro nell’attività interpretativa, senza la quale (cito ancora Armellini) «la lettura di opere e autori si riduce a una noiosissima ripetizione di cose già dette o a uno sterile esercizio di smontaggio e rimontaggio di testi. Ma come si può valutare un’interpretazione? fino a che punto è sbagliata un’interpretazione sbagliata?». Certo, si potrebbe dire che l’interpretazione libera e soggettiva di un testo, specie non contemporaneo, è discutibile: senza conoscere l’opera da cui è stato estratto un brano antologico, il contesto storico e ideologico in cui si muove l’autore e ovviamente la sua lingua, in varia misura distante da quella di un adolescente del XXI secolo, il fraintendimento o anche soltanto il puro impressionismo è – più che un rischio – una certezza. Ma il discorso di Armellini è chiaro, e anche condivisibile: si tratta di individuare le priorità; l’essenziale è

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che i testi sappiano dire qualcosa a ciascun lettore, solo in un secondo tempo sarà possibile e necessario affrontarli con l’indispensabile distacco critico. Tutt’altro il quadro che si presenta per l’insegnamento della lingua. Intanto, non si fa lingua soltanto parlando di letteratura, ma in tutte le possibili contingenze della vita: da quelle quotidiane a quelle che sollecitano la nostra riflessione intellettuale. La lingua – nel nostro caso l’italiano – è il tramite indispensabile per parlare anche di geologia, di economia o di tecnologie alimentari; e solo l’orientamento idealistico che ha governato tanto a lungo la nostra scuola ha messo in ombra questa esigenza, privilegiando nella prassi didattica le attività che si presumevano creative (a cominciare dal “tema”) rispetto a operazioni ben più utili non solo per l’educazione linguistica ma per la stessa maturazione cognitiva (a cominciare dal riassunto). Mentre la competenza letteraria è difficilmente certificabile sulla base di abilità acquisite, se non a livelli di trito nozionismo (quando è nato Svevo? qual era il suo vero cognome?), la competenza linguistica si presta a essere misurata anche con domande “chiuse”, che ammettono una sola risposta: sia a livello elementare (che rapporto esprime perché col congiuntivo? a. temporale, b. finale, c. concessivo) sia a livello più avanzato, come quando si chiede di leggere

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un testo regolativo o argomentativo e di scegliere in una rosa di affermazioni l’unica che rifletta l’intenzione comunicativa dell’autore (un esempio a p. 52). Ancora. L’insegnamento della lingua materna può giovarsi, specie ma non solo nella scuola primaria, di alcune indicazioni ricavabili dalla glottodidattica in riferimento alla lingua seconda; nel caso della letteratura un’analoga contaminazione di metodi e di esperienze è molto più difficile, anche perché in ogni nazione europea si fa letteratura a scuola in modo diverso, e comunque diverso da quello italiano (e in questo caso non mi pare che l’erba del vicino sia quella più verde). Le polemiche che tanto spesso si levano nei giornali sull’analfabetismo di massa che colpirebbe i nostri studenti sono forse da relativizzare (oltretutto il catastrofismo è un atteggiamento sterile), ma non da sottovalutare. Non sono invenzioni dei giornali le mediocri prestazioni degli studenti italiani nelle rilevazioni internazionali e nei test d’accesso alle facoltà universitarie. In particolare colpisce la scarsa padronanza del lessico astratto (parole come esimere o desumere dovrebbero essere mattoni correnti nella costruzione di un discorso argomentativo) e la regressione del lessico meno usuale, ma non certo obsoleto: non è la stessa cosa dire, poniamo, «Il presidente del Consiglio ama le battute (di spirito)», che è una constatazione non mar-

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cata, o «Il presidente del Consiglio ama le facezie», in cui il sinonimo ricercato, per il suo stesso statuto lessicale, dà alla frase una connotazione critica e ironica. Lingua e letteratura: àmbiti diversi, si diceva; ma si deve aggiungere: non incomunicanti. Occorrerà far interagire con la lettura diretta dei testi – che resta in ogni caso il primo modo di fare letteratura – la prospettiva storico-linguistica. Non lo dico io, imputabile di conflitto d’interessi; lo ha detto, già nel 1997, uno dei massimi intellettuali del Novecento, Edoardo Sanguineti, invocando «la necessità di fare irrompere gloriosamente la storia della lingua nella storia della letteratura perché si esce, oggi, dall’esperienza scolastica della letteratura italiana ignorando fondamentalmente il fatto che esiste una storia della lingua, o è cosa tutta marginale e incidentale, e avventurosa». I libri di testo possono aiutare solo fino a un certo punto il lavoro dell’insegnante, specie se guardiamo a molte delle grammatiche oggi in uso, ipertrofiche e talvolta attardate in un logicismo grammaticale poco utile e teoricamente assai discutibile (ne vedremo qualche esempio nel cap. 6); migliori sono, in generale, i manuali di letteratura, per quanto tendenti anch’essi a un’offerta sovrabbondante di materiali che in certi casi può disorientare il docente e soprattutto il discente.

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Quel che è certo è che il buon maestro non si costruisce a tavolino. Più importanti delle indicazioni ministeriali, dei corsi di aggiornamento, dei libri di testo sono la solida formazione ricevuta negli studi universitari e – soprattutto – un requisito strettamente soggettivo, anzi psicologico: la fiducia nella possibilità d’incidere sulla massa di adolescenti inerti o distratti, valorizzando i talenti dei singoli individui e assicurando loro la necessaria preparazione disciplinare. Ciò vuol dire che l’insegnante deve, più di quel che valga per altre professioni, credere al lavoro che fa e scommettere su sé stesso, proponendosi agli allievi come un esempio positivo, non usurato dalla routine e non rassegnato alle tante cose che non vanno. Come tutte le scommesse, si può vincere o perdere; ma se si vince, ogni docente – dalle elementari in avanti – resterà un riferimento nitido e costante per l’allievo, anche quando il ragazzo sarà diventato adulto, e la sua lezione non andrà dispersa.

L’ora d’italiano Scuola e materie umanistiche

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Le due culture

In Italia l’italiano è un po’ il capofila delle discipline umanistiche, così come avviene, dovunque, per la matematica con quelle scientifiche. Com’è noto, distanze e incomprensioni non dipendono solo dal merito di conoscenze assai diverse, ma anche dalla differente percezione reciproca di umanisti e scienziati. Molto tempo è passato da quando sir Charles P. Snow pronunciò a Cambridge una brillante conferenza sulle “due culture”, ricavandone in quello stesso anno (1959) un libretto, presto divenuto celebre e tradotto in altre lingue (in italiano nel 1964). In realtà – come spesso càpita per le formule troppo fortunate – la deplorazione del conflitto tra umanisti e scienziati e l’immancabile auspicio a superarlo sono diventati un topos che non ha più molto a che vedere col contesto al quale si riferiva il fisico e scrittore inglese. Snow contrapponeva agli scienziati classici – diciamo i cultori di “scienze dure”, a loro agio

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con le rappresentazioni simboliche più che con le parole – i letterati visti come produttori e fruitori di letteratura creativa, insieme pessimisti sulle sorti dell’umanità, ottusamente altezzosi rispetto alle certezze della scienza e irrimediabilmente conservatori (“luddisti” per natura, come recita il titolo di un capitolo delle Due culture). In un’impostazione del genere – che ho semplificato, ma credo non eccessivamente – c’è qualcosa che varrebbe ancora oggi, molto che non valeva nemmeno allora. È sicuramente vero – e in Italia in modo particolare – che la cultura scientifica media continua a essere scarsa e dotata di minore prestigio sociale. Per intenderci: una persona istruita saprebbe dire che le proteine sono sostanze che si trovano soprattutto nella carne, nelle uova, nel latte e che sono indispensabili nella nutrizione umana. Tutto bene, purché si sia consapevoli che una formulazione così sommaria equivale a dire che Alessandro Manzoni è un grande scrittore morto molto tempo fa, e basta. Ci aspettiamo che si debba andare un po’ oltre nel caso dell’autore dei Promessi Sposi, ma non che si sia tenuti a sapere che le proteine sono sequenze di amminoacidi né soprattutto che cosa questo voglia dire. D’altra parte, tra il matematico-fisico e il poeta o aspirante tale come lo rappresenta Snow (una specie di «perdigiorno Che va intorno Dan-

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do il capo ne’ cantoni, E co ’l naso sempre a l’aria Gli occhi svaria Dietro gli angeli e i rondoni», per citare Carducci) esistono molte figure intermedie, irriducibili a questa polarizzazione. Dove collocare l’archeologo che, fornito di una robusta cultura classica, procede a una campagna di scavo in base a precise conoscenze geologiche ma anche zoologiche, botaniche, chimiche e ormai facendo sempre più largamente ricorso alla tecnologia informatica? Davvero si può pensare che gli umanisti si riducano ai “letterati”, sia pure in senso lato? Non dovrebbero forse, necessariamente, includere tutti coloro che studiano ciò che l’uomo ha realizzato e realizza nell’organizzazione della società, dai giuristi agli economisti (figure curiosamente assenti nel panorama di Snow)? L’umanista assennato (sostantivo e attributo possono convivere, anche se non sempre ciò avviene) non ostenta nessun atteggiamento di superiorità nei confronti degli scienziati, anzi. Specialismo per specialismo, sa bene che la nozione di perfettività del verbo indoeuropeo è nonostante tutto meno impervia di quella di nanotecnologia. E sa altresì che la cultura comprende tutte le elaborazioni del pensiero e che spesso le scoperte più importanti avvengono proprio nelle zone di intersezione tra campi diversi. Semmai, c’è da dire che non rende un buon servigio alla causa della scienza chi – lagnandosi

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giustamente per la poca matematica proposta finora a scuola – attribuisce queste lacune all’influsso perverso del «dogmatismo cattolico» e all’incapacità per un giovane di «imparare a pensare razionalmente, se da bambino si appassiona alle imprese fantastiche di Harry Potter o del Signore degli Anelli» (Piergiorgio Odifreddi). Né giova, più in generale, l’oltranza di un certo scientismo, che sembra dimenticare – come ha osservato Roberto Maiocchi – il fatto che «le verità della scienza, in quanto costruzioni dell’uomo, non possono mai essere intese come definitive» e che il connotato specifico della scienza sta proprio nel suo «carattere autocorrettivo», nel «saper riconoscere i propri errori e porvi rimedio». Soprattutto, occorre tenere ben distinti, a differenza di Snow, il creatore di cultura umanistica (il poeta, lo scultore, il musicista...) e lo studioso delle relative manifestazioni e implicazioni. Inutile soffermarsi sullo stereotipo riguardante il primo; ma non si può non notare che il secondo opererà con metodi i quali – per la tecnica di raccolta dei dati da censire, per le procedure di analisi, per la falsificabilità di tutte le fasi del processo – rispondono alle stesse esigenze poste alla base di una ricerca di farmacologia o di statistica demografica. Non vanno però sottovalutate le differenze tra ricerca umanistica e ricerca scientifica latamen-

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te intese; alcune sostanziali (e dunque non componibili), altre relative alla prassi di esecuzione. Indicherò quelle che mi sembrano più notevoli. a) Gli studi umanistici, anche quando sono orientati alla contemporaneità, si svolgono all’insegna della storia; in due sensi. Prima di tutto, nel merito stesso della ricerca. È impossibile affrontare un qualsiasi argomento senza percepirne lo spessore storico: non si può studiare il pensiero di san Tommaso prescindendo da Aristotele, ma nemmeno la pittura di Giovanni Bellini ignorando la raffigurazione dei soggetti sacri tramandata a Venezia dai Bizantini. È invece del tutto abituale imbattersi in un medico, cólto, che sia più a suo agio con i nomi di Mozart o di Tiziano che non con quelli di Mondino de’ Liuzzi, autore del primo vero e proprio trattato medievale d’anatomia, o di William Harvey, scopritore della circolazione del sangue; e in effetti, per conoscere l’anatomia o per diventare un bravo cardiologo, Mondino o Harvey non servono minimamente. Poi, nel ricorso alla bibliografia, che può risalire anche alquanto indietro nel tempo. Ogni filologo romanzo, ad esempio, continua a servirsi del REW = Romanisches etymologisches Wörterbuch (19353) di Wilhelm Meyer Lübke, «tuttora insostituito e fondamentale» (Alberto Varvaro) al punto che la sua impostazione si ritrova nel grandioso e aggiornatissimo Lessico etimo-

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logico italiano che Max Pfister pubblica a Wiesbaden dal 1979 (dal 2002 affiancato da Wolfgang Schweickard). Allo stesso modo un italianista che si occupi di Cinquecento consulterà ancora oggi con profitto la biografia di Trissino apparsa nel 18942 a opera di Bernardo Morsolin. Questa diversa proiezione dei riferimenti bibliografici – che sarebbero ridotti agli ultimi anni o mesi in qualsiasi articolo di biologia o di clinica medica – ha conseguenze nella stessa confezione dei titoli accademici (punto d). b) Nelle scienze è fondamentale la distinzione tra ricerca di base e applicata, anche se il confine non è sempre netto e diventa decisiva come discrimine la predicibilità del tempo entro il quale i risultati di una determinata ricerca possono trovare applicazione nella scienza e nella tecnica. La ricerca di base resta centrale e deve comunque essere sostenuta con erogazioni pubbliche, ove i privati siano sordi, ma quella applicata è altrettanto importante: intere aree di sapere non potrebbero nemmeno essere concepite senza la spinta dell’apparato industriale o, comunque, senza una concreta prospettiva pratica. In area umanistica possiamo dire che la ricerca di base occupi quasi per intero l’orizzonte; solo in aree marginali una ricerca può essere avviata pensando alle sue immediate ricadute operative (è il caso della linguistica computazionale, indispensabile per mettere a punto la tecnologia T9

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a cui ricorriamo scrivendo un sms). L’attività dell’umanista – del clerc di un celebre intervento di Julien Benda – continua a essere, se non necessariamente astratta, certo disinteressata. La messa a fuoco di questo punto influisce sui due punti successivi. c) Se una parte notevole della ricerca in àmbito scientifico è condizionata dalla ricaduta pratica, è evidente che non tutti i temi di ricerca – a parità di dignità teoretica – hanno la stessa importanza. Per la medicina, ad esempio, gli sforzi intellettuali ed economici fatti in ogni parte del mondo per stabilire la patogenesi del morbo di Alzheimer o per affrontare le dislipidemie – eventi gravi o potenzialmente gravi, che interessano decine di milioni di pazienti di paesi ricchi e alimentano un poderoso fatturato nell’industria farmaceutica – non sono comparabili a quelli messi in atto per studiare una patologia rara o, viceversa, banale (e di scarso impatto sociale: non esiste una terapia specifica per il comune raffreddore, però è improbabile un impegno massiccio per debellare i fastidiosi ma innocui virus che lo causano). Di qui il significato dell’impact factor: se molti ricercatori in tutto il mondo si impegnano in temi simili, ha senso sia censire le sedi più rappresentative che ne ospitano i contributi (sottoponendoli a un esame preventivo molto severo) sia valutare la quantità di citazioni presenti nella letteratura scientifica qualificata.

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Nulla del genere in area umanistica. È evidente che uno studioso di letteratura italiana debba conoscere Dante o Pirandello, ma non c’è nulla di strano che tutta la sua carriera di studioso possa svolgersi senza nemmeno sfiorare questi o altri autori o momenti centrali della storiografia letteraria. Quando, nel 1954, il filologo Giovanni Pozzi scrisse una memorabile monografia sullo stile del predicatore secentesco Emmanuele Orchi, quel nome era legittimamente sconosciuto per la comunità scientifica; e in fondo tale è restato. Ma l’importanza del libro sta altrove: nell’indagine minuziosa di un genere letterario fiorente nell’età della Controriforma anche se poi decaduto (l’eloquenza sacra); nell’esame ravvicinato della concreta attività di un predicatore la cui personalità può essere considerata rappresentativa dell’età barocca; nella messa a punto di un modello che può servire per studiare altri momenti dell’oratoria sacra italiana o straniera. Se negli anni immediatamente successivi avessimo applicato il criterio dell’impact factor, verificando quanti avevano citato il nome di Orchi o lo stesso nome del dotto cappuccino di Locarno, il risultato sarebbe stato sconfortante: da un lato, è impensabile che la figura di Orchi alimenti una corrente di studi; dall’altro, le cose scritte da Pozzi – com’è normale nei tempi lunghi dello studio umanistico – hanno atteso qualche anno prima d’impiantarsi

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nella bibliografia delle rispettive, e comunque ben circoscritte, aree di ricerca (prosa del Seicento; predicazione; analisi stilistica). Potremmo chiederci, addirittura, se per un giovane studioso sia più meritorio dedicarsi allo studio di Dante o indagare magari la vita e le opere di Paolo Abriani, uno dei tanti lirici barocchi che attendono ancora il loro Pozzi. Ma è una domanda oziosa: in generale, ogni tema può essere meritevole di studio; importano la sicurezza del metodo, l’originalità dei risultati, la loro applicabilità ad altri contesti. Così, per restare al nostro esempio, la secolare lectura Dantis può avere ancora un senso se è il frutto della riflessione e della sensibilità di un vecchio dantista che vi condensa il portato di tanti studi particolari o se ha il sostegno di una proposta originale, magari frutto di una nuova ispezione delle fonti della cultura dantesca. d) Gli articoli di àmbito umanistico sono mediamente molto più lunghi di quelli scientifici, per ragioni sia intrinseche sia estrinseche. Tra le prime, la necessità di richiamarsi a una bibliografia spesso varia e dispersa, che proprio per questo non può essere data per nota nemmeno al lettore specializzato; il fatto che, accanto al dato, è frequente l’interpretazione – più o meno ampiamente ed efficacemente argomentata – di dati già acquisiti o risultanti da proprie ricerche; la restituzione di documenti che costituiscono og-

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getto di quelle ricerche (edizioni di testi o di epigrafi, corredi iconografici ecc.). Tra le seconde, il gusto della parola e della trattazione retoricamente scaltrita che, nei casi migliori, produce testi ricchi di prospettive anche oltre il tema trattato; in quelli peggiori, appesantisce il discorso con inutile zavorra. e) La ricerca nell’àmbito scientifico ha la caratteristica di essere svolta in cooperazione tra più ricercatori (il “piccolo chimico” che fa gli esperimenti isolato nel suo laboratorio non esiste più nemmeno come giocattolo) e di fondarsi su adeguati finanziamenti, indispensabili non foss’altro che per le apparecchiature utilizzate e per il loro aggiornamento. Quella umanistica lascia tuttora grande spazio all’impegno e all’ideazione del singolo ricercatore e può svolgersi in buona parte anche senza oneri per il contribuente. Così, lo studio di un secentista poco noto – l’Abriani o un altro, c’è solo l’imbarazzo della scelta – può comodamente essere perseguito con le forze di un singolo ricercatore, il quale reperirà una parte consistente delle informazioni preliminari attraverso gli strumenti cartacei di una buona biblioteca, oltre che in Internet, e controllerà gli eventuali manoscritti esistenti o con visite personali negli archivi o attraverso riproduzioni digitali (il tutto con spese incomparabilmente inferiori a quelle assorbite dalle

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grandi attrezzature richieste in àmbito scientifico-tecnologico). Il grosso del lavoro – poniamo l’edizione critica e un commento che risalga alle fonti e alle letture dell’autore – è affidato non alle sovvenzioni dello Stato (che semmai potrebbe intervenire sostenendo le spese di stampa, trattandosi di un’opera di difficile commerciabilità), ma alla capacità, alla diligenza, alla curiosità intellettuale del singolo studioso. Invece la raccolta sistematica di dati di difficile organizzazione che richiedono competenze multiple (per esempio, un’enciclopedia tipologica di alcune migliaia di lingue del mondo che per ciascuna fornisca parametri fonetici, morfosintattici, lessicali elaborati e attendibili, salvandoci dai dilettanti), la repertoriazione di determinati fondi archivistici (gli autografi dei letterati italiani dalle Origini al Cinquecento) o la digitalizzazione di documenti particolarmente significativi e tematicamente coerenti richiedono molte forze in campo: se si ritiene utile individuare e classificare questi materiali per renderne possibile lo studio, è inevitabile finanziare adeguatamente i relativi progetti di ricerca. Purtroppo, nei dipartimenti e nelle facoltà di Lettere si è sempre più diffuso il malvezzo di chiedere finanziamenti anche per ricerche che con ogni evidenza non li richiederebbero: ciò comporta – visto che a decidere la distribuzione degli stanziamenti sono gli stessi colleghi, ma-

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gari a loro volta interessati a un obolo – la dannosissima e ben nota prassi del finanziamento “a pioggia”: poco a tutti, anche ai molti che non ne avrebbero bisogno, con sacrificio dei progetti che realmente non possono essere avviati senza un finanziamento adeguato. E accenno appena al problema dei controlli post factum, superficiali o addirittura virtuali: il beneficiario può avere così la sensazione che il finanziamento sia stato erogato graziosamente, a fondo perduto, e qualche volta non si cura nemmeno di spenderlo o – quel che è peggio –, pur di metter mano al bottino che rischia di essere riassorbito dagli organi centrali, compra l’ennesimo computer. Ho esordito ricordando lo scarso spazio assegnato tradizionalmente in Italia alla cultura scientifica. Ma la situazione sta cambiando, almeno ai piani alti: università e, lo vedremo nel prossimo capitolo, scuola. Nell’università, anzi, si sta superando pericolosamente la soglia del buon senso: recenti indicazioni ministeriali per la valutazione degli atenei e per la classificazione delle pubblicazioni – a quanto pare non definitive, per fortuna – sono ispirate a criteri che valgono per le aree scientifiche ma non sono applicabili, se non con forzature, alla letteratura o al diritto. Quanto ai piani abitati da chi ha come principale affaccio sul mondo i programmi televisivi (non voglio definirli “piani bassi”), il declino

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della cultura tradizionalmente umanistica nell’opinione generale – la cultura scientifica non vi è mai stata di casa – potrebbe essere illustrato da una particolarissima visuale: i quiz televisivi. I programmi di Mike Bongiorno, a partire dal celebre Lascia o raddoppia?, erano il regno del nozionismo, ma facevano leva su un sapere comunque strutturato e a suo modo dignitoso. Al concorrente che si presentava per l’opera lirica, per esempio, si poteva rivolgere una domanda del genere: «Parliamo del Tabarro di Puccini; vogliamo sapere: a) data e luogo della prima rappresentazione; b) nome del librettista; c) nome dell’autore del dramma La Houppelande da cui il soggetto è stato tratto; d) nome del quartiere di Parigi rimpianto da Luigi e Giorgetta; e) ruolo vocale di Frugola; f) nome del gatto di Frugola. Ha un minuto di tempo per rispondere». Diciamo la verità: 9-10 secondi in media per rispondere a ciascuna di queste domande sono sufficienti, non solo per un musicologo ma anche per un melomane [a proposito: le risposte sono queste: a) 1918, New York, b) Giuseppe Adami, c) Didier Gold, d) Belleville, e) mezzosoprano, f) Caporale]. Ma domande – e concorrenti – di questo genere hanno fatto il loro tempo. Tra i quesiti rubricati sotto l’etichetta Storia in un quiz che andava in onda nel febbraio 2010 (L’eredità, Rai 1) ho annotato il seguente esempio, rappresen-

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tativo di un approccio totalmente diverso: «Ordinando al cardinale Ruffo di ammazzare i liberali, Ferdinando IV gli raccomandò: Famme trovare tante... a) botti schiattate, b) casecavalle, c) pummarole, d) babà fraceti». La risposta esatta è b): ma quanti sono i lettori di questo libro che avrebbero saputo rispondere? (mi auguro pochi, per non sentirmi abbandonato alla mia ignoranza). Quel che è certo è che per affrontare un quesito del genere non avrebbe senso “prepararsi”; l’aneddoto è divertente, è fondato sul dialetto (un ingrediente comico assicurato), mette tutti i concorrenti sullo stesso piano (dare la risposta esatta è questione non di studio ma, democraticamente, di fortuna) e tanto basta. Niente di male, figuriamoci; ma inquieta un po’ che la Storia con la esse maiuscola, attraverso un insidioso messaggio subliminale, diventi una storiella, anzi un insieme di storielle aneddotiche e irrelate.

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Scienze e lettere nella scuola

Se è inevitabile una forte differenziazione tra umanisti e scienziati nel mondo della ricerca – nel metodo e nel profilo culturale complessivo, oltre che ovviamente nel merito –, appartiene al semplice buon senso affermare che nella formazione di un adolescente le due componenti devono essere entrambe presenti. Così come è centrale lo sviluppo della lingua materna: non solo nel parlato, già pienamente dominato nel momento in cui il bambino italofono arriva alla scuola elementare, ma nello scritto: sia come competenza attiva (capacità di redigere un testo e di riformularlo gerarchizzando le informazioni salienti) sia come competenza passiva (capacità di comprendere un testo ascoltato e soprattutto scritto, cogliendone il significato complessivo e le implicazioni particolari, a partire dal lessico astratto – e spesso ricercato – in cui abitualmente si esprime la prosa argomentativa). È ben noto che nel liceo italiano la parte del leone è stata da sempre attribuita alle materie uma-

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nistiche. La legge Casati, varata nel 1859 per Piemonte e Lombardia e presto estesa all’Italia unita, consacra il ruolo essenziale del latino e del greco come asse portante della preparazione liceale, vale a dire del percorso obbligato per quasi tutta la classe dirigente dell’epoca. Anche Michele Coppino – promotore della legge che rendeva effettivo l’obbligo della frequenza elementare almeno per il primo biennio (1877) –, pur essendo convinto dell’importanza dell’osservazione sperimentale nella scuola secondaria, era dichiaratamente favorevole a un ginnasio-liceo concentrato sulle lingue classiche, «senza soverchia mischianza di altre discipline e di altri metodi» (1884). È prevedibile la posizione di un latinista come il Pascoli, che nel 1896 lamentava come «gravissimo dei mali che affliggono la scuola classica» – cioè la scuola secondaria in genere, con esclusione di quella tecnica – il fatto che non si credesse «più, non che alla necessità, alla utilità dello studio del latino e del greco». Più significativa è la convergente posizione di uomini di scienza come Francesco Brioschi («l’insegnamento ginnasiale deve essere contenuto interamente o quasi nello studio dell’italiano, del latino, del greco e delle materie che hanno più stretta relazione con queste lingue» 1884) o Guido Baccelli (la scuola classica «deve formare uomini e cittadini, non scienziati» 1894). Solo nel 1913 viene istituito da Luigi Credaro

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un “Liceo moderno”, poi assorbito dal “Liceo scientifico” della riforma Gentile (1923). Il liceo scientifico nasceva come una costola del classico, rispetto al quale si collocava a un rango inferiore: chi si diplomava non poteva accedere alle facoltà più tipicamente umanistiche (Lettere, Magistero, Giurisprudenza), ma anche, curiosamente, ad alcuni corsi scientifici (Chimica generale; era possibile invece iscriversi a Chimica industriale). A parte alcuni aggiustamenti introdotti in séguito, bisognerà aspettare il 1969 per avere una generale liberalizzazione, tale da garantire l’accesso a qualsiasi corso universitario per i maturati di un corso quinquennale. La scarsa attenzione alla cultura scientifica è stata denunciata a più riprese, tra gli altri, da Tullio De Mauro, che ha lamentato non solo il forte sbilanciamento della nozione stessa di “cultura” a favore di quella letteraria, ma anche la freddezza, persino da parte degli scienziati, verso la «dimensione tecnica, tecnologica, operativa delle culture intellettuali». La riforma dei licei varata nel 2010 dal governo Berlusconi non dovrebbe dispiacere a De Mauro, perché va indubbiamente verso un riequilibrio tra discipline umanistiche e scientifico-tecnologiche, reso ancora più evidente dalla complessiva riduzione del monte ore: una riduzione dipendente dalla scelta o dalla necessità di economizzare – impossibile negarlo –, ma sostenibile anche col principio peda-

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gogico di ridurre le ore di presenza degli alunni a scuola, respingendo la correlazione più ore = più profitto scolastico. Inevitabile anche il potenziamento della lingua straniera, ossia, di fatto, dell’inglese. Sono passati i tempi in cui ci si poteva contentare di una competenza solo libresca, magari anche scaltrita come capitò a Elio Vittorini che – divenuto eccellente conoscitore di letteratura nordamericana – non riuscì a comunicare a quattr’occhi con Steinbeck, di cui era il traduttore. Semmai, lascia perplessi la norma di prevedere fin d’ora nell’ultimo anno l’uso della lingua straniera per una disciplina non linguistica (per esempio, la fisica o l’economia aziendale): chi formerà, in poco tempo, docenti che siano da tanto? Forse sarebbe stato più realistico, e più utile, sancire l’obbligo che le lezioni di lingua straniera dovessero svolgersi integralmente, in qualsiasi fase dell’insegnamento, nella lingua oggetto di studio. E c’è anche una possibile obiezione, che sorgerebbe se nella prassi la lingua straniera fosse quella delle ore di materie non umanistiche: come diceva Manzoni, la lingua o è un tutto o non è; ed è bene che tutte le discipline, anche quelle scientifiche più proiettate verso l’inglese veicolare, mantengano integra la capacità di esprimersi anche in italiano: non è pensabile che una lingua rinunci a una parte di sovranità (e in un settore così qualifi-

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cante come l’àmbito delle scienze, per giunta), appaltandola a una lingua straniera. Ma entriamo un po’ più nei particolari della riforma, prescindendo da alcune possibili riserve generali (in particolare l’aumento di alunni per classe) e soffermandoci sulla distribuzione delle materie. Il liceo classico mantiene sostanzialmente il suo profilo: il latino resta la disciplina egemone, superando come monte ore lo stesso italiano, che perde qualcosa (5 ore settimanali di latino nel biennio – che continua a chiamarsi in ossequio alla tradizione “Ginnasio” –, 4 ore nel triennio), si estende la lingua straniera all’intero corso di studi (come del resto già avveniva in moltissimi licei attraverso le cosiddette “sperimentazioni”) e lo stesso vale per le scienze naturali, che ora inglobano parte della geografia (segmenti di geografia antropica sono invece abbinati alla storia). Ben più radicali sono le trasformazioni del liceo scientifico, a partire dalla scelta tra due opzioni: un liceo scientifico diciamo tradizionale, che mantiene il latino (sia pure ridotto a 3 ore settimanali per ciascun anno), ma che rafforza le discipline scientifiche, superando un’antica critica all’impianto preesistente giudicato troppo sbilanciato verso il paradigma umanistico, e una sezione di “Scienze applicate” in cui le ore un tempo riservate al latino sono distribuite tra l’informatica e le scienze naturali; in questa opzione cede anche un’ora settimanale, delle tre che aveva, la filosofia.

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Classico e scientifico restano tuttora i canali privilegiati per l’accesso all’università; almeno sono le scuole che non offrono una formazione immediatamente spendibile sul mercato del lavoro e in cui è più alta la quota dei licenziati che si iscrive a un corso universitario. Ma il prestigio sociale delle due scuole è cambiato nel corso del tempo: non è eccessivo parlare di una sopravvenuta marginalizzazione del liceo classico rispetto al liceo scientifico, che rappresenta ormai la scelta non marcata per uno studente licenziato dalla scuola media orientato a una preparazione generalista per poi continuare gli studi universitari. Ne sono una riprova due indicatori: la femminilizzazione e la meridionalizzazione del classico. Sarà forse inutile precisare che si tratta di indicatori negativi non in sé, ma in rapporto alla percezione che il liceo classico svolge come scuola formativa per le professioni intellettuali; in particolare, per il primo punto, è stato osservato che «la ritirata strategica dei maschi da un territorio formativo “inattuale” ha lasciato» alle ragazze «un percorso privo di efficacia e soprattutto lontano da un mercato di lavoro di pregio»; non solo: «questa ulteriore segregazione delle donne nell’enclave del liceo classico di tipo essenzialmente letterario risponde a profondi pregiudizi sulla “naturale” propensione delle ragazze alle lettere e all’insegnamento, a cui corrisponde – specularmente – l’altro stereotipo, che cioè le

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stesse non sarebbero “portate” per la matematica e le materie scientifiche» (Rosario Drago). Quanto alla diversa distribuzione geografica, basterebbe guardare ai licei classici nel territorio comunale di Roma e Milano: nella capitale ogni quartiere periferico ha il suo bravo liceo classico, che si aggiunge a quelli, storici e blasonati, del centro (Visconti, Tasso, Mamiani e altri); a Milano c’è un solo classico statale in periferia (l’Omero, a Bruzzano) e gli studenti che vogliono studiare latino e greco devono concentrarsi nei prestigiosi licei del centro storico (Beccaria, Berchet, Parini e altri). È verosimile che, con l’attivazione dell’opzione di “Scienze applicate” nei licei scientifici, la quota di studenti che rinuncerà del tutto al latino sia destinata ad aumentare in modo molto significativo, specie nell’Italia settentrionale. Ci sono anche altri fattori che indeboliscono il latino. In particolare: a) la riduzione di prestigio presso le famiglie e il «diffuso disincanto tra gli studenti [...] che diviene totale disaffezione quando il rapporto fra i costi (tempo e impegno richiesti) e i benefici (profitto formativo, ma anche successo scolastico) risulta fallimentare» (Franca Zanetti); b) il confronto con la scuola europea – spesso invocato, in verità non sempre ragionevolmente, per effetto della globalizzazione dei saperi – in cui il latino è da tempo materia opzionale e inte-

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ressa una minoranza di studenti (in Italia invece, grazie all’apporto dei licei scientifico e linguistico, nel 2005 studiava latino il 41% degli studenti della secondaria superiore). Si aggiunga, nelle facoltà di Giurisprudenza fuori d’Italia, la crisi della romanistica fondata sul diritto giustinianeo e la connessa recessione del latino tra le competenze degli esperti di diritto; c) la freddezza o ostilità, al di fuori della cerchia dei latinisti e dei letterati in genere, per le ragioni che militano in favore del mantenimento della cultura classica a scuola. Si tratta di un evidente elemento di debolezza: il latino, da fattore formativo tendenzialmente universale (nel senso della varietà dei profili professionali che ne richiamavano l’importanza), si ritrova confinato nella ridotta degli “addetti ai lavori”: significativa, ad esempio, una dura presa di posizione del fisico Carlo Bernardini nel 2008. Sarebbe sbagliato esorcizzare questi segnali sulla base di un atteggiamento di chiusura, dicendo: o il latino si studia “per davvero” (che poi vuol dire semplicemente “come si è sempre fatto”), oppure è meglio farne a meno. Ciò comporterebbe una fatale involuzione del liceo classico, che diventerebbe sempre più una scuola professionale per formare futuri professori di lettere, e si candiderebbe, inevitabilmente, a sfornare meste schiere di disoccupati intellettuali.

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Il latino sul banco degli imputati

Occorre riconoscere sùbito che gli zelatori del latino a scuola si adagiano troppo spesso su frusti luoghi comuni (parlo degli zelatori ingenui, tra cui purtroppo non mancano insegnanti di scuola secondaria; non degli studiosi di didattica del latino, a cui si devono contributi di prim’ordine). Nel 2008 un fortunato pamphlet promosso dall’Associazione TreeLLLe, dal quale ho già avuto occasione di attingere senza esplicitare la fonte, pone in modo efficacemente drastico la questione dello studio del latino a scuola. Alle pp. 44-45 il dibattito viene condensato, con piglio giornalistico, in una tavola di Giudizi e pregiudizi in pillole: pro e contro. I “pro” sono i seguenti (tra parentesi quadre pongo le mie repliche o controdeduzioni): «Il latino serve a imparare l’italiano» [non necessariamente e comunque non può esser questo il fondamento del suo studio a scuola]; «Il latino serve ad imparare le lingue straniere» [idem]; «Il latino aiuta a capire le parole tecniche» [è vero,

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semmai, per il greco; in ogni caso sarebbe sproporzionato lo studio di una lingua a beneficio dell’acquisizione di poche unità lessicali, che possono essere apprese uti singulae]; «Il latino serve ad educare la mente (a ragionare)» [vale per qualsiasi materia studiata a fondo; semmai, funzionerebbero meglio allo scopo la matematica e la filosofia]; «Il latino serve a formare il carattere» [retorica pura: magari fosse vero!]; «Il latino serve a formare l’uomo» [idem]; «Il latino è parte insostituibile dell’identità italiana ed europea» [questa mi sembra l’unica affermazione che abbia qualche fondamento]; «Il latino rappresenta i valori fondamentali dell’umanità» [retorica pura]. I “contro” sono i seguenti: «Le giustificazioni a favore del latino sono prive di evidenza empirica» [ma la materia del contendere non si presta a verifiche empiriche]; «L’apprendimento del latino aveva un senso quando serviva all’esercizio di alcune professioni, compresa quella del sacerdote» [l’utilità formativa di una materia non si misura necessariamente sul metro delle ricadute utilitaristiche; anche gran parte della matematica superiore non ha immediata applicazione professionale]; «Il latino è uno strumento con cui i ceti dominanti si sono distinti da quelli inferiori» [l’asserzione è obsoleta; a segnare le differenze, semmai, sono oggi altri requisiti: la padronanza di lingue moderne, la ca-

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pacità di dominare gli strumenti telematici ecc.]; «Il primato del latino non si concilia con una società globalizzata e multiculturale» e «In una società evoluta nessuna disciplina può pretendere il primato nella formazione dell’uomo» [non è in gioco il primato del latino, ma la sua attualità, evidentemente accanto ad altri stimoli, nell’orizzonte culturale dell’uomo di oggi]; «L’apprendimento delle lingue moderne è più utile e altrettanto formativo» [l’una cosa non esclude l’altra]; «Il latino è una disciplina specialistica e come tale va insegnata soprattutto all’università» [tutte le discipline ammettono vari tagli di trattazione, dall’introduzione elementare allo specialismo; si discute per l’appunto se lo statuto del latino sia lo stesso di materie che, nella nostra società, possono essere svolte solo a livello specialistico, come l’assiriologia e il diritto della navigazione, oppure no]. Lascio da ultimo l’unico “contro” che a mio avviso pone un problema reale: «La continuità tra il mondo classico e il mondo moderno è un mito privo di fondamento». In realtà, mettendo da parte formulazioni assiomatiche, è vero che il nostro rapporto con il mondo classico è duplice: siamo simili e diversi, e sarebbe arbitrario, e didatticamente sbagliato, puntare soltanto su una faccia della medaglia, dando luogo a «due derive che, seguite in modo indipendente e indicate come alternative l’una all’altra, risultano

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pericolose»: «si deve insegnare che siamo figli dell’antico, con un processo sostanzialmente unitario», oppure «si deve puntare soprattutto su quanto ci separa, per radicali cambiamenti storici, dall’antichità»? (Leopoldo Gamberale). Se le ragioni del latino si fondano sul suo significato storico, allora è giusto considerarlo una componente importante del cittadino europeo occidentale che si voglia considerare cólto; rivendicare il fatto che in Italia, più che altrove, il latino ha agito in modo culturalmente pervasivo nel mondo laico e soprattutto in quello religioso; garantirne una presenza, graduata e differenziata, in vari ordini di scuole: se in un liceo di scienze sociali non si potrà andare oltre la lettura in traduzione di qualche brano dell’Eneide, lumeggiandone il significato nella storia anche medievale e moderna, in un liceo classico diventerà centrale il contatto diretto con i testi originali. Anche il confronto col resto d’Europa non può spingerci a omologare culture e tradizioni se non si conformano ai parametri d’oltralpe (o di alcuni paesi d’oltralpe). Tra l’altro, se il liceo italiano fosse così scadente come alcuni ritengono, non si spiegherebbe il lamentato fenomeno della “fuga dei cervelli”: la sequela di ricercatori di qualità costretti a emigrare è insieme una denuncia dell’università italiana, che offre pochi sbocchi ai migliori, e un riconoscimento

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indiretto alla formazione che si può tutt’oggi ricevere in un buon liceo. Ci sarà piuttosto da riflettere sull’efficacia e sul significato stesso dell’insegnamento del latino nella scuola tradizionale. Che qualcosa non andasse, anche nei licei di cinquant’anni fa – quelli anteriori alla scuola media unica –, lo dice il fatto che otto anni di studio non bastavano allo studente per tradurre all’impronta il brano della maturità (scelto, ricordiamolo, entro una cerchia relativamente ristretta di autori: quei pochi degni di figurare per elocutio nell’olimpo degli autori classici e adatti per temi e per struttura testuale a essere ridotti in brani di versione): la traduzione già allora era affrontata con tanto di vocabolario; pretendeva un tempo esagerato per l’esecuzione; e con tutto ciò non di rado falliva, determinando il rinvio a settembre o la bocciatura del candidato. Nell’insegnamento del latino continua a essere centrale la versione scritta: tutti gli sforzi dello studente sono convogliati in quella direzione e non è ancora del tutto dismessa la pratica della traduzione dall’italiano in latino che un grande filologo come Giorgio Pasquali (1885-1952), dopo averla caldeggiata, aveva consapevolmente accantonato. La centralità della versione così come viene ancora prevalentemente proposta (vale a dire come testo vergine, senza nessuna indicazione del con-

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testo da cui è stata estratta e magari nemmeno dell’autore), oltre a riaffermare il prestigio della disciplina attraverso il doppio canale di valutazione, scritta e orale, è la conseguenza di un’idea di fondo: quella di condurre il discente alla produzione attiva in latino. Ma proprio il compito scritto è responsabile dell’elevata percentuale di insuccessi, documentata in riferimento all’anno 2006-2007 dall’Associazione TreeLLLe: la percentuale degli allievi ammessi all’esame di Stato con “debito” vede in testa, per quell’anno, la matematica (40% al classico e 51% allo scientifico) e immediatamente dopo il latino (39% sia al classico sia allo scientifico). Che una materia non decada necessariamente di rango né abdichi alla sua complessità anche rinunciando agli scritti, si ricava proprio dalla matematica: mi pare significativa la quota di “debiti” presso gli studenti del classico, nonostante il programma ridotto e l’assenza di prove scritte obbligatorie; se non vogliamo pensare che il liceo classico raccolga studenti deprivati quanto a facoltà logiche, dunque negati alla matematica (ma, se così fosse, non ci sarebbe da fare altro se non chiuderlo), ciò vuol dire che anche una disciplina orale e con un limitato numero di ore mantiene intatto il suo potenziale valutativo, ossia la capacità di distinguere il livello delle varie prestazioni, e insomma il suo prestigio. In coda ai debiti formativi, curiosamente, troviamo l’italiano (9% al classi-

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co, 10% allo scientifico): non certo per la brillantezza delle prestazioni medie, ma piuttosto per la tradizionale indulgenza degli insegnanti di lettere nella valutazione dei temi. Ma su questo torneremo. Depotenziare il peso terroristico della versione avrebbe, a mio giudizio, il vantaggio di indirizzare l’attenzione degli studenti verso altri aspetti della latinità, oggi sacrificati sull’altare del compito scritto: la latinità cristiana, per esempio, così importante non solo dal punto di vista culturale ma anche in chiave specificamente linguistica; pensiamo alla riformulazione semantica di tante parole del latino classico (caritas, virtus, sacer, peccare ecc.), o all’indebolimento dell’impalcatura morfo-sintattica, attraverso l’accoglimento di toponimi non adattati («Homo quidam descendebat ab Ierusalem in Ierico», Lc 10, 30) o l’introduzione di calchi semitici, come il costrutto in + ablativo con valore strumentale («si sal evanuerit, in quo salietur?», Mt 5, 13). Che la Vulgata di san Girolamo non sia entrata finora nelle aule del liceo classico statale si deve a due motivazioni: la prima, rispettabile, è la sua tradizione di laicismo, o addirittura l’estrema propaggine della storica contrapposizione tra latinità pagana, letterariamente raffinata, e latinità cristiana, compiaciuta di rispecchiarsi nel sermo piscatorius; la seconda, alquanto gretta, è il timore di corrompere la competenza grammatica-

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le degli alunni, scardinando le regole del libro di sintassi. Il regolismo logicistico fa premio sulla storia; un modello, per quanto alto e rappresentativo, di latinità schiaccia tutti gli altri, fino a obliterare finanche la coscienza che Petrarca scrive la maggior parte delle opere in un latino diverso da quello aureo e che in latino si sono espressi a lungo, pressoché in tutta l’Europa occidentale, il diritto e le scienze. Il brano scritto dovrebbe servire invece, debitamente introdotto e fornito di sobrie annotazioni, a garantire un contatto con gli autori, di là dal ristretto canone che attualmente fornisce brani di versione; e anche per allargare la visuale, senza limitarsi ai sempiterni resoconti di battaglie, spostamenti di truppe, stragi. Significativa l’occupatio che si legge in un manuale: «Molti dei testi latini parlano di guerra e di battaglie e questo non perché i Romani antichi non sapessero parlar d’altro, ma semplicemente perché le opere in prosa pervenuteci sono per la maggior parte opere storiche, che raccontano quindi le vicende del popolo romano e, in particolare, le guerre da esso combattute». Tutto vero: ma si dovrebbe aggiungere che accanto alle prose esiste anche la poesia, declinata in molti generi; inoltre, che la forte presenza di temi militari è stata condizionata dall’antica caratterizzazione del latino – inutile dire quanto obsoleta – come studio tipicamente maschile.

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Che cosa impedisce di offrire come testo da tradurre un epigramma di Marziale (o magari più d’uno), con la sua varietà di temi, la sua comicità, la sua capacità di rappresentare tanti aspetti della Roma del tempo? Oppure di volgersi a un autore come Ausonio, decisamente minore eppure tanto tipico come esempio di poesia elegante e decorosamente atteggiata? Perché un liceale non dovrebbe essere in grado di tradurre, con i pochi ausili che ho posto tra parentesi quadre e un breve “cappello” che introduca l’argomento, i versi in cui il poeta rimprovera un giovane scioperato, Parmenione, che dorme fino al mattino inoltrato (un tema, se vogliamo, ben attinente all’orizzonte esperienziale di un adolescente)? Leggiamone una parte: Mane iam clarum reserat fenestras, iam strepit nidis vigilax hirundo: tu velut primam mediamque noctem Parmeno, dormis. Dormiunt glires hiemem perennem, sed cibo parcunt1: tibi causa somni multa quod2 potas nimiaque caedis mole saginam. [1 cibo parcunt: si astengono dal cibo, non mangiano: essendo in letargo; 2 quod ‘il fatto che’: regge sia potas, sia caedis saginam, con nimia mole ablativo di qualità].

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Per i lettori che non si contentassero di queste note esplicative do la traduzione completa, di Francesco Della Corte: «Ormai il chiaro mattino entra per le finestre, ormai dai nidi strepita la vigile rondine; ma come se fossi all’inizio o a metà della notte, tu, o Parmenione, dormi. Dormono i ghiri durante l’interminabile inverno, ma non si cibano; a te sono causa del sonno il molto bere e il trinciare troppo grandi cumuli di grosse carni». Insomma: il brano di versione, a mio parere, dovrebbe avvicinarsi al brano antologico previsto come lettura orale; e, oltre alla traduzione vera e propria, dovrebbe saggiare la capacità di riconoscere in filigrana le future filiazioni romanze: o attraverso le forme sviluppatesi come parole ereditarie e perlopiù facilmente riconoscibili (MANE domani, stamani, CLARUM - chiaro, FENESTRAS finestre, HIRUNDO - rondine ecc.), o valorizzando le relazioni che si ritrovano in corradicali dotti (POTAS ‘bevi’ - potabile). Con la guida dell’insegnante, in un momento successivo rispetto a quello del canonico “compito in classe”, si potrebbe andare anche oltre, analizzando perennis, composto di per + annus, secondo un’apofonia normale in latino (e notando l’iperbole: l’inverno non è “perenne”, ma sembra tale a chi ne patisce le conseguenze, sospirando la bella stagione); o collegando reserat ‘apre’ a sera ‘sbarra’ (l’immagine originaria è quella di ‘togliere la sbarra’ che chiude una finestra o una porta).

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Tuttavia, lo studio del latino non si giustifica solo con la lingua e nemmeno con la riflessione metalinguistica che coinvolge l’italiano e ne esalta i rapporti genetici e culturali. Accostarsi al mondo classico significa anche prendere coscienza delle affinità e delle divergenze che ci separano da esso per quanto riguarda il modo di vivere e i valori comunemente condivisi. Nel frontone della clinica pediatrica dell’università romana Sapienza, un vecchio edificio tardo-ottocentesco, si legge IN PUERO HOMO: è un latino di facile traduzione, ma qual è il senso della sentenza? È ovvio che nel bambino ci sia, in potenza, l’adulto; ed è anche intuitivo che la patologia dell’infanzia per molti aspetti sia condivisa da quella umana tout court. E allora? Credo che il senso della sentenza consista nell’esortazione rivolta ai medici a non trascurare la cura dei più piccoli; un’esortazione oggi superflua, ma non ovvia in epoche di alta mortalità infantile, in cui ogni famiglia metteva in conto la morte, possibile o probabile, di qualche membro di una numerosa prole. Il giorno successivo alla morte del figlioletto Dante, poi evocato nel celebre Pianto antico (9 novembre 1870) – dunque più o meno negli anni in cui veniva dettata quell’epigrafe –, Giosue Carducci scrive un’accorata lettera al fratello Valfredo, respingendo ogni invito alla rassegnazione e smentendo l’assunto corrivo: «Pare, a sentir cer-

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tuni, che la morte di un bambinetto sia miseria leggera e facilmente comportabile. Non è vero, non è vero». La sentenza è forse di formulazione moderna, ma certo non è aliena dal sentire degli antichi e si presta bene a rappresentare la diversa percezione dell’infanzia in società diverse. Ecco: vorrei una scuola che desse più importanza al rapporto tra lingua e cultura (non necessariamente limitandosi alle testimonianze antiche e suggerendo almeno l’idea del molto di latino antico che vive ancora in noi); e meno importanza, per esempio, alla legge di Reusch, che ho trovato esposta e debitamente indicizzata in un manuale per le scuole: omaggio alla consecutio – o meglio a quella dell’età aurea – forse vista come il centro propulsore della sintassi latina e, chissà, dell’intelletto umano.

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L’ora d’italiano: di tutto, di più

Il docente d’italiano nella scuola secondaria inferiore (la vecchia scuola media, come continuerò a chiamarla qui per brevità) e nella superiore riunisce in sé profili diversi, non tutti pertinenti con gli studi fatti a suo tempo. Deve insegnare la lingua, prima di tutto (curando l’armonico sviluppo di quella orale e assicurando fin dalle fondamenta quella scritta); poi stimolare negli alunni l’interesse per la lettura e avviarli, nel triennio delle superiori, alla conoscenza dei classici italiani. Non solo: deve alimentare discussioni e fissare i termini del problema per una serie di argomenti cosiddetti di attualità, dal disagio giovanile all’inquinamento, dall’immigrazione al rapporto scienza-fede, che sono altrettanti passaggi obbligati, a scuola, come temi delle prove scritte; beninteso, senza valicare i limiti del “politicamente corretto” e cercando di rispettare il più possibile le idées reçues delle famiglie di appartenenza che filtrano, sbiadite e confuse, nell’immaginario degli alunni.

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Ma qual è la preparazione che un insegnante può vantare su temi del genere? Quella, si suppone, di una qualsiasi persona cólta che legga abitualmente i giornali. Forse però non basta per intervenire sui danni dell’ambiente e sul surriscaldamento del clima, andando oltre ciò che si direbbe al bar, in un salotto o negli scompartimenti di un treno (ma ormai, con l’alta velocità, le chiacchiere tra compagni di viaggio sono in declino). Quanti sono gli insegnanti di lettere che, di fronte ad affermazioni para-scientifiche scritte in un tema, sarebbero in grado di intervenire, o avrebbero la pazienza di documentarsi o magari di chiedere al collega di scienze? Ecco un esempio (IV ginnasiale, Roma) in cui il docente interviene adeguatamente nella riformulazione del periodo – cioè in un àmbito di sua specifica competenza – senza commentare l’ingenuità, o meglio la velleitarietà, della proposta formulata dall’alunno (sottolineo gli interventi di correzione; tra parentesi quadre le sostituzioni dell’insegnante; si sta parlando – tanto per cambiare – di inquinamento): «Secondo me si dovrebbe fare [Una delle soluzioni che proporrei è] la macchina ad acqua e ad elettricità per guarire l’ambiente». Invece di sollecitare opinioni che il discente non ha la maturità o la possibilità di formarsi su base scientifica, sarebbe molto meglio sviluppare i meccanismi dell’argomentazione: col van-

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taggio di restare in un settore, quello dell’uso della retorica, che l’insegnante domina bene, perché rientra negli elementi costitutivi della sua formazione. A un ragazzino toscano di terza media è stato assegnato, nel 2009, il tema seguente, di cui trascrivo la traccia con gli errori dello scrivente (bisognerà tornare al dettato?): «Molto spesso il fumo viene considerato un mezzo per imporsi ho [sic] sentirsi adulto, mentre è solo un vizio pericoloso. Rifletti, ed esponi le tue conoscienze [sic] e opinioni in merito». È un tema prototipico; l’unico svolgimento possibile è già tracciato: si tratta di deplorare la pratica del fumo ed è ben difficile che si possano avere «opinioni in merito» diverse da questa. Restando in argomento, sarebbe stato più idoneo qualcosa del genere: «Immagina un dibattito tra due ragazzi, uno dei quali sostiene i vantaggi del fumo mentre un altro ne mette in luce i rischi; e sforzati di costruire, in entrambi i casi, un’argomentazione efficace». Certo il pericolo è che, alla fine, risulti vincitore il sostenitore della sigaretta; ma gli argomenti a favore del fumo possono essere facilmente smontati dall’insegnante in sede di correzione. Il docente di lettere non è, e non dovrebbe neanche apparire, un tuttologo. Dovrebbe mettere in primo piano ciò che gli compete culturalmente, in primo luogo la tecnica dell’espressione corretta ed efficace. Ma questo non avvie-

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ne sempre, per una sorta di profilo professionale fuzzy, rispetto a colleghi di altre materie: per l’italianista la lingua è talvolta solo una componente, perché c’è anche il contenuto (per taluni soprattutto il contenuto, non importa come elaborato e presentato). Di qui, o anche di qui, l’assurda svalutazione che colpisce dalla scuola media in avanti la pratica del riassunto; una pratica salutare, in quanto misura la capacità di capire un testo dato, di coglierne la salienza informativa, di renderlo in forma linguisticamente efficace. Oltre a questo, l’abitudine a riassumere combatte la tendenza degli studenti ad allungare il brodo, nell’erronea persuasione che quanto più l’elaborato è lungo, tanto più è degno di lode: il principio biblico In multiloquio non deerit peccatum andrebbe scritto a caratteri cubitali in ogni aula scolastica. Dunque: lingua, in particolare quando si tratta di gettare le fondamenta, nella scuola media e nel biennio delle superiori. Ma non ci sono soltanto gli apostrofi e i congiuntivi; sono importanti anche la letteratura e, quando è il caso, altre discipline strettamente correlate a questa, come la musica o le arti visive (inutile aggiungere che la storia deve sempre accompagnare il percorso didattico dell’insegnante d’italiano, in qualsiasi fase). Nel triennio liceale, il docente può dilatare i confini della materia e della lezione, valorizzando le correlazioni: magari non tut-

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ti seguiranno il merito, ma tutti si confronteranno con un metodo e una sensibilità e coglieranno lo spessore del docente, il suo “sapere tante cose”, la sua passione nel trasmetterle. Questo approfondimento può avvenire anche allontanandosi dai programmi o dalle vie abitualmente percorse con l’affanno di non arrivare alla meta, e lasciandosi guidare dalle proprie curiosità intellettuali: meglio ridurre la quantità e puntare sulla qualità. Un esempio. Immaginiamo una lezione sul barocco che valorizzi il rapporto con la pittura coeva; e immaginiamo che il nostro docente, invece di soffermarsi su Caravaggio, voglia prendere spunto da un seguace, Mattia Preti, oggetto di una mostra appena visitata. Lo spunto può essere il commento di un celebre quadro conservato nel museo napoletano di Capodimonte (la storia dell’arte dovrebbe sempre procedere per exempla, così come la storia della letteratura, del resto): Il convito di Baldassarre. L’insegnante dirà qualcosa, com’è giusto, sugli elementi caravaggeschi del Preti e, nella fattispecie, si soffermerà sugli effetti di luce e sulla descrizione delle vesti dei personaggi e delle suppellettili; verosimilmente, aggiungerà anche qualche notizia sul tema biblico, tratto dal libro di Daniele. Ma il nostro docente potrebbe spingersi oltre, magari riattivando sparse notizie apprese a suo tempo dagli alunni (la civiltà babilonese ha espresso, tra

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l’altro, il codice di Hammurabi) e ponendo agli alunni, e a sé stesso, qualche altra domanda: che rapporto c’è tra il racconto biblico e la storia, tra la “storia sacra” e la storia tout court? (a quanto pare il Baldassarre biblico dovrebbe essere stato il figlio dell’ultimo re di Babilonia, Nabonedo, ucciso nel 539 a.C. dai Persiani). Che cosa ha significato Babilonia nell’immaginario religioso occidentale? (ha rappresentato, fin dalla Bibbia, il simbolo dell’Oriente come terra degl’infedeli, con un’immagine che si è proiettata nel tempo; e può venire in mente anche Petrarca che con Babilonia allude alla corrotta curia papale di Avignone: «Da l’empia Babilonia ond’è fuggita Ogni vergogna...»). Quanto ha contato il mondo biblico come fattore d’ispirazione nella letteratura secentesca coeva? (ha contato molto, forse più che in altri secoli; Vincenzo da Filicaia per esempio vi attinge largamente, celebrando la resistenza cristiana ai Turchi nell’assedio di Vienna...). Se il docente d’italiano è uno specialista, né più né meno dei suoi colleghi di altre materie, non dovrebbe neanche rinunciare al necessario rigore nella valutazione. È noto, infatti, come la prassi di correzione delle prove scolastiche di italiano, in particolare di quelle scritte, sia più labile e tendenzialmente benevola di quel che avviene per discipline come matematica, latino, lingua straniera.

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Tornando alla lingua, e leggendo un elaborato assegnato qualche tempo fa nel primo anno di un istituto tecnico industriale napoletano, si tocca con mano che cosa voglia dire analfabetismo funzionale («i ragazzi hanno di fatto perduto la conoscenza della lingua italiana», denunciava Paola Mastrocola nelle pagine della «Stampa» del 19 febbraio 2010). Il titolo o la “traccia”, come si dice nel gergo scolastico, era «I miei compagni di classe». A parte l’esile svolgimento, che consiste nel mero elenco dei compagni, ciascuno esposto alla simpatia o all’antipatia dello scrivente, fa impressione il collasso linguistico pressoché generalizzato: errori di segmentazione («non lo mai apprezzato», con lo = “l’ho”); mancata accentazione di monosillabi («e come se ci fossero dei gruppi», «gia lo conoscevo»); sintassi del relativo («ci sono i compagni che ho un bellissimo rapporto»); popolarismi e regionalismi sintattici («loro mi rispettano come io lì rispetto a loro»; con tanto di accento sbagliato su lì); sintassi del verbo, oltre che del relativo («Io spero che non ci saranno più questi gruppi e che diventasse una classe come tutte le altre che non ci stesse odio e solamente che ci volessimo bene tranne XY che è un ragazzo che non voglio proprio avere nessun rapporto»). Il giudizio dell’insegnante è Molti errori d’ortografia, forma contorta e il voto è 4-- (dove il “meno meno”, come in altri casi il “più più”, rivela

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la scarsa abitudine dei nostri insegnanti a utilizzare le varie stecche del ventaglio valutativo – che andrebbe, sarà il caso di ricordarlo, da 0 a 10 – e ad appiattirsi in un ristretto segmento di voti effettivamente assegnabili). Se un tema del genere non merita meno di 4 (un voto pericolosamente vicino al 6, in sede di scrutini), ci si chiede a chi si possa assegnare 1, 2 o 3. Ma è una domanda retorica: a nessuno. Eppure questo non è un caso isolato: tutt’altro. È largamente diffusa nei docenti d’italiano l’idea che non si possa scendere mai sotto un certo livello, quale che sia l’imperizia linguisticotestuale manifestata dallo studente; con varie motivazioni: i deficit strutturali non possono essere sanati ed è inutile infierire; non si deve mortificare l’alunno, negandogli addirittura dignità espressiva nella sua lingua materna; in presenza di insuccessi gravi in altre materie, lasciamo che almeno l’italiano rappresenti il refugium peccatorum, specie in realtà socialmente deprivate in cui bocciare l’alunno significherebbe mandarlo nella strada, esposto al rischio di diventare un disadattato o addirittura un micro-delinquente. Ma non riesco a vedere perché proprio l’italiano debba farsi carico di questa funzione. Il fallimento clamoroso della competenza elementare della propria lingua materna è pregiudiziale per il successo in qualsiasi altra materia, tranne quelle puramente pratiche e applicative

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come il disegno o l’educazione fisica (le scienze motorie, come si chiamano ora). Si dice – e soprattutto si diceva negli anni Settanta – con un fortunato slogan: la scuola che boccia, boccia sé stessa. Ma sarà necessario distinguere tra scuola dell’obbligo e scuola superiore: nel primo segmento non è effettivamente pensabile che l’istituzione non conduca tutti gli alunni a certi obiettivi, senza abdicare all’inevitabile apparato sanzionatorio ma senza lasciare indietro nessuno. Per il resto, la scuola è davvero sconfitta non quando blocca chi non mostri l’attrezzatura e la disposizione necessarie per proseguire gli studi, bensì quando non discrimina il valore. Non ci sono solo ragazzi socialmente e culturalmente svantaggiati, per i quali la società (cioè tutti noi, ben prima che gli insegnanti) ha il dovere di intervenire, eliminando o riducendo le disuguaglianze di partenza, in adempimento del principio costituzionale sancito dall’articolo 34. Ci sono – e ci sono sempre stati: è davvero necessario ricordarlo? – i ragazzi non interessati allo studio, o semplicemente negligenti; rimuovere del tutto la responsabilità dei singoli come artefici del proprio destino, quantomeno a partire dall’adolescenza, è a mio parere un errore educativo, oltre che una (generosa) utopia.

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Scrivere, esprimersi, argomentare

Come è intuitivo, la didattica linguistica muta a seconda che i destinatari siano italofoni (cioè parlanti nativi di italiano, non importa se italiani come cittadinanza, stranieri nati in Italia o arrivati nei primi due-tre anni di vita) oppure non italofoni. In quest’ultimo caso il successo dell’integrazione linguistica dipende da molte variabili: tra queste l’età dei discenti (è molto più facile l’integrazione per un bambino delle elementari che per un ragazzo delle superiori) e la presenza del plurilinguismo (in una classe che comprenda alunni albanesi, cinesi, rumeni, marocchini e colombiani l’adozione dell’italiano come lingua veicolare per comunicare non solo con i compagni italofoni, ma anche tra un gruppo e l’altro, sarà più spontanea di quel che avverrebbe in presenza di una sola etnia minoritaria). Gli alunni italofoni possiedono già la lingua parlata nel momento in cui varcano la scuola elementare. Ciò vuol dire che ne padroneggiano due elementi costitutivi: a) la struttura gramma-

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ticale (solo un bimbo di due anni potrebbe dire *dillo a io o *io vieno, generalizzando per analogia rispettivamente io come forma costante di pronome personale di prima persona e il tema vien- nel presente indicativo di venire); b) il lessico fondamentale, cioè le circa 2.000 parole che coprono oltre il 90% di un testo, scritto o orale, prodotto e ricevuto da un adulto: sarebbe bizzarro spiegare a un alunno delle elementari che la parte prominente del volto posta tra occhi e bocca si chiama naso e che l’animale che fa le fusa e dice “miao” si chiama gatto. Il percorso che il bambino deve compiere nei cinque anni di scuola primaria comprende l’arricchimento delle strutture grammaticali (il passato remoto di bere e la costruzione di una proposizione concessiva non rientrano generalmente nella sua dotazione linguistica spontanea); l’incremento del lessico; la riflessione metalinguistica, a partire dalla distinzione tra le parti del discorso (non è così ovvio individuare il nome, come mostra una recente ricerca di due glottodidatte). L’acquisizione del lessico, specie per elementari e medie, può giovarsi anche di meccanismi ludici. Dobbiamo a una insegnante di scuola media, Ersilia Zamponi, un intelligente libretto apparso nel 1988, i Draghi locopei (anagramma di Giochi di parole), in cui – sulla scia di precedenti come Queneau e Rodari – si propongono

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giochi verbali, spesso di tipo enigmistico, per stimolare la scoperta delle parole attraverso la creatività (per esempio, trovare il maggior numero di coppie di parole di cui una derivi dall’altra per scarto di lettera iniziale: arido-rido, presto-resto...; scrivere delle frasi che contengano solo parole sdrucciole, a parte articoli e preposizioni: una lucciola mastica con metodo l’asola dell’abito del sindaco...). Un metodo del genere è stato teorizzato e applicato su larga scala nell’insegnamento a studenti stranieri dal linguista italo-americano Anthony Mollica (che parla di ludodidattica). Ancora la glottodidattica suggerisce l’uso dei cosiddetti test fattoriali o discreti, cioè di esercizi mirati a testare e affinare singole competenze; sono tipi di prove che dovrebbero trovare spazio anche per sviluppare la padronanza della lingua madre. Anni fa mi venne l’idea, per un esercizio in un corso di scrittura, di riprodurre un brano giornalistico (per la storia, la fonte era il «Corriere della Sera» del 1° febbraio 2004), dal quale avevo eliminato alcune parole grammaticali: [...]1 aver abbandonato l’acciaio per la barrique, e la barrique per le botti, Gravner s’è rimesso a fare il vino nelle anfore. [...]2 gli antichi: a girare nella sua cantina pare quasi di sentire Terenzio Varrone e Virgilio descrivere le tecniche enoiche dei Romani. «Nei miei terreni da 10 anni non c’è [...]3 concime

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chimico: uso il letame, e ora si rivedono i lombrichi», dice Josko.

I miei studenti, tutti dai 20 anni in su, non si offesero certo, pensando che li trattassi da scolaretti inesperti. Tanto meno si correrebbe questo rischio somministrando questa prova a ragazzi del biennio; e anche nel loro caso il profitto mi parrebbe assicurato: l’esercizio si fonda sulla deduzione dei dati offerti dal contesto e stimola competenze sintattiche, lessicali e semantiche. Occorre inferire che in [...]1 deve essere reintegrata una congiunzione che regga una temporale implicita (dopo; un per, grammaticalmente possibile, darebbe una causale, incoerente in questo contesto); che [...]2 introduce un paragone, confermato dalla successiva evocazione di Varrone e Virgilio, e quindi va integrato come; che [...]3 richiede più, anche tenendo conto dell’assunto ecologico del brano (e non, poniamo, ancora, pure astrattamente possibile). Lo stesso numero del quotidiano mi fornì lo spunto per un altro esercizio, volto a potenziare il lessico e le solidarietà lessicali (dette anche “collocazioni”; vale a dire le sequenze preferenziali, o addirittura fisse, tra le parole). Eccone l’inizio: Il visibile [...]1 dei motorini a Roma (ottocentomila) fa sì che ci si ponga la domanda su quanto que-

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sto mezzo di trasporto [...]2 sulle dinamiche di mobilità. [...]3 come possibilità di locomozione per i giovanissimi, i motorini sono esplosi negli anni ’80 e si sono via via trasformati conquistando una fetta sempre più [...]4 della popolazione. Il motorino/motorone, infatti, permette di circolare ovunque (anche nelle zone a [...]5 limitato) e sempre (anche durante le domeniche a targhe [...]6).

A differenza dell’altro esercizio, qui si possono avere più risposte accettabili. In [...]1 serve un sostantivo maschile che, dato il contesto, può essere aumento, incremento (la cifra successiva sta a indicare un numero elevato, e tutto il discorso verte sull’espansione d’uso di questo mezzo di trasporto), o anche successo (l’effetto per la causa); in [...]2 serve un verbo suscettibile di reggere la preposizione su, preferibilmente di modo congiuntivo (incida, influisca); in [...]3 un participio plurale, riferito al successivo motorini (nati, sorti, lanciati, pensati) o un avverbio come proprio; in [...]4 un aggettivo come grande, ampia, larga. Invece in [...]5 e [...]6 abbiamo tipiche collocazioni ristrette, ossia locuzioni cristallizzate: non possiamo dire altro che traffico limitato (non *movimento limitato, in questa accezione) e targhe alterne (non targhe alternate o alternative, che pure sarebbero equivalenti). Del riassunto ho già detto tutto il bene che ne penso. Qui aggiungo che questa eccellente pra-

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tica dovrebbe essere abituale per i ragazzi dai 12 ai 17 anni, diciamo dalla seconda classe della scuola media alla quarta della secondaria superiore. Sono fondamentali anche le verifiche della comprensione di un testo, che possono essere sgranate dal semplice al complesso. Ecco un esempio impegnativo, adatto all’ultimo anno di liceo, anche perché richiama nozioni storiche studiate proprio a questa altezza scolastica. Si parte da un brano di taglio saggistico, estratto da «Limes», una rivista rivolta a un pubblico cólto, ma non limitata agli addetti ai lavori: «Il concetto di sovranità, nella concezione classica vestfaliana, è tramontato da almeno due secoli, ma è nella prima guerra mondiale che esso vede il proprio esito supremo. Se da un lato questo evento rappresenta il punto più alto d’uno scontro fra potenze sovrane, dall’altro ne caratterizza il tramonto. Gli Stati escono vittoriosi contro gli imperi, ma al tempo stesso conservano dentro di sé una tale polemicità da degenerare in regimi di tipo nuovo (i totalitarismi di Italia e Germania) che a loro volta cercano di diventare nuovi imperi conservando un ambiguo rapporto con la forma Stato, venendo sconfitti da entità realmente imperiali, continentali o marittime, extraeuropee (Usa, Urss, Inghilterra). L’Italia attivò, ancora nel 1940, il proprio ius ad bellum tipico di uno Stato sovrano con velleità imperiali, ma quella guerra non era più una guerra fra Stati; e gli Stati che vi parteciparono ne uscirono sconfitti. La

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Francia, che era uno Stato, la perdette. Così la Polonia, la Norvegia, l’Olanda, il Belgio, e qualunque altro Stato nazione, che avesse ambizioni espansionistiche o meno». Le seguenti affermazioni possono essere corrette o sbagliate, ma solo una riflette il pensiero espresso dall’autore in questo brano: a. La prima guerra mondiale segna la sconfitta definitiva dello “Stato-nazione” b. La seconda guerra mondiale segna la sconfitta definitiva dello “Stato-nazione” c. Nel Novecento Italia e Germania hanno conosciuto regimi totalitari d. La Polonia e il Belgio uscirono vittoriose dal secondo conflitto mondiale.

La risposta esatta è b. La difficoltà nasce dal fatto che l’espressione Stato-nazione si trova usata solo alla fine del brano, ma il senso del discorso è chiaro, anche se lo studente ignora alcuni riferimenti (che cosa sia la concezione classica vestfaliana) o alcuni dati storici (gli imperi vinti dagli Stati nella prima guerra mondiale sono in primo luogo gli “imperi centrali”, la Germania e l’Austria-Ungheria, ma si pensa anche all’impero ottomano). Dei distrattori, è innocuo d. (se si barra questa risposta, bisogna non aver capito davvero niente di quello che s’è letto: il che è comunque raro); sono insidiosi c. – che contiene un’affermazione vera, ma irrilevante in questo contesto – e soprattutto a., che

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sfiora, ma non centra, la verità: lo scrivente vuol dire che dopo la prima guerra mondiale gli Stati sono in apparenza i vincitori rispetto agli imperi, ma sono destinati a degenerare, fino al punto di soccombere nel successivo conflitto. Ho lasciato da parte la prova scritta più tipica: il tema. La più tipica, e anche la più controversa, quasi il simbolo dell’artificiosità insita nelle cose che si studiano e si fanno a scuola, senza «corrispondenti nella realtà comunicativa extrascolastica (dove nessuno scrive temi, ma semmai lettere, relazioni, saggi, articoli, recensioni, verbali ecc.)» (Stefano Gensini). Come si sa, la tipologia è molto vasta e varia. Sono caratteristici delle prime classi e arrivano fino al biennio delle superiori i temi in cui il bambino o il ragazzo è lasciato libero di dare sfogo alla sua fantasia o alla proiezione del suo vissuto. Dai teneri pensierini delle elementari, che esistono ancora benché non si chiamino più così, ai vari temi gravitanti sull’io, così frequenti all’inizio di un nuovo ciclo di studi: «Mi presento», «Pregi e difetti del signor.../della signorina...», «Io e i miei compagni», «Vi presento la mia famiglia». Il sovrascopo dell’insegnante è evidentemente quello di mettere a proprio agio l’alunno, esorcizzando il timore da “pagina bianca” con la richiesta di parlare di argomenti familiari o addirittura di sollecitare quell’egocentrismo che – se è tipico di ogni età

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– è più immediato e irriflesso in bambini e adolescenti; ed è anche un modo per conoscerli, per saggiare il modo in cui essi stessi si vedono. Sta bene. Ma è importante che l’alunno impari presto un’altra cosa: il componimento è una realtà sottoposta a precisi vincoli testuali e pragmatici, quale che sia la “traccia” proposta; non è una specie di Hyde Park Corner e nemmeno una pagina di diario – di blog, bisognerebbe dire oggi – promossa a prova scolastica. Senza rinunciare, almeno nel biennio, al racconto fantastico («Immagina di essere nel 2030...»), che è un genere narrativo di piena dignità espressiva, sono preferibili – rispetto alle consegne che danno libero sfogo all’effusività incontrollata – quelle vincolate a precisi requisiti formali e narrativi: una disciplina del genere non tarpa la creatività dell’alunno, così come i poeti del passato non si sentivano mortificati dalla dura tirannia della rima e del computo sillabico. Ecco un ottimo esempio, proveniente da un liceo scientifico piemontese (primo anno): Scrivi un testo a carattere narrativo (due mezze facciate protocollo) attenendoti ai seguenti vincoli: i) questo sarà l’inizio: «Il boato fu tremendo»; ii) questa sarà la conclusione: «Su ogni cosa calò un silenzio irreale»; iii) il narratore sarà esterno al racconto; iv) nel testo, oltre a quelli di cui avrai bisogno, dovrai obbligatoriamente utilizzare i seguenti

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connettivi: sebbene, pertanto, infatti, poiché, per + infinito (potrai utilizzare i connettivi nell’ordine che vuoi e dovrai evidenziarli).

Nel triennio delle superiori, le attività consistenti nel “parlare di sé” e nel “narrare” recedono (la prima completamente, la seconda in gran parte) a favore del tema tipicamente argomentativo, in cui sviluppare una tesi in base a riflessioni personali o commentare opinioni altrui. Dal 1999 è stata introdotta nell’esame di Stato (il vecchio esame di maturità) una nuova prova, il “saggio breve”, che in qualche modo richiama il principio della consegna vincolata appena esemplificato. In realtà, è accaduto «che per contrastare il principale difetto del tema, la genericità, e per affrancare gli scritti scolastici dal rischio dello sproloquio, lo stesso studente sia stato sollevato dall’incombenza di ricercare gli spunti e le testimonianze più eloquenti per sviluppare adeguatamente le proprie idee» (Giuseppe Benedetti). Non è facile escogitare un’efficace consegna per il saggio breve. Occorrerebbe almeno evitare l’eccesso di documenti da commentare (quanto più sono i dati da leggere e da meditare, tanto più affrettato sarà il loro uso, tenendo conto anche dell’ovvia ansia per l’esame e dell’impulso a cominciare a scrivere qualcosa); scegliere spunti che effettivamente rientrano

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nell’orizzonte culturale degli scriventi (talvolta si ha l’impressione che le consegne nascano soprattutto dallo sfoggio di cultura degli esperti ministeriali che confezionano le prove); evitare l’ipocrisia di chiedere allo studente quale potrebbe essere la destinazione editoriale del suo parto letterario (tipicamente «rivista specialistica, fascicolo scolastico di ricerca e documentazione, rassegna di argomento culturale, altro»: ma l’unica destinazione plausibile è l’aula della scuola dove il componimento verrà letto e giudicato dai commissari). Il primo e il terzo di questi difetti emergono clamorosamente nella prova assegnata nel 2007 per l’«àmbito artistico-letterario». L’argomento era «I luoghi dell’anima nella tradizione artistico-letteraria»; una buona scelta, bisogna riconoscere: il richiamo a uno o più luoghi d’elezione è un supporto ineliminabile per le emozioni, i sentimenti, le ideologie che alimentano l’ispirazione di un poeta o di un artista, e non solo loro. Il fatto è che la richiesta di confrontare e interpretare i dati forniti, «anche con opportuni riferimenti alle tue conoscenze ed esperienze di studio», beninteso dando al saggio «un titolo coerente con la tua trattazione», poggia addirittura su 10 brani: Petrarca (Chiare, fresche e dolci acque...), Shakespeare (Romeo e Giulietta), Foscolo (I sepolcri), Leopardi (L’infinito), Manzoni (Addio monti...), Pascoli (Romagna), Verga

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(I Malavoglia), Morante (L’isola di Arturo), Pasolini (Ragazzi di vita), Masters (La collina); ad abundantiam, c’è anche un quadro, Il violinista sul tetto di Chagall. Che cosa fare di questa succulenta ricchezza di ingredienti? Un pasticcio (non nell’accezione gastronomica, però). Ed è proprio quel che ha fatto l’autore o autrice di un compito che m’è capitato di commentare in un corso sulla valutazione tenuto nella sede dell’INVALSI (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione) nel novembre 2009. Il titolo autoassegnatosi denuncia già la mancata comprensione della consegna: «L’anima: perfezionamento, sentimento e distacco» (insomma: parole in libertà, come si suol dire facendo torto all’ottimo Marinetti); la destinazione editoriale è grottesca («rivista specialistica»; al più, poteva andar bene: «diario personale», visto che ci si poteva aggrappare a un provvidenziale altro della consegna; ma il fatto è che ben pochi diciottenni, anche scolarizzati, possono avere l’idea di una rivista specialistica e quindi ne parlano a caso); lo svolgimento è in linea con queste poco incoraggianti premesse, a partire dall’incipit: Non è semplice dare un’interpretazione univoca dei luoghi in cui l’anima si manifesta infatti essa diventa specchio di diversi stati d’animo. È un concet-

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to astratto, e dunque assume più significati: può rappresentare il cammino di perfezionamento dell’uomo, “il prolungamento” del corpo di fronte ad un paesaggio, l’attesa e la condizione in cui permane l’anima dopo alcuni eventi. Inoltre può simboleggiare ciò che l’uomo “lascia” nel proprio luogo natio nel momento in cui ne è distante.

Ci sarebbe da eccepire sull’interpunzione (prima di infatti serve un segno di pausa medio-forte: punto e virgola o due punti) e sull’espediente – non sufficientemente represso a scuola! – di usare le virgolette metalinguistiche ogni volta che non si sa trovare la parola giusta (“lascia”) o non si sa proprio che cosa dire (“il prolungamento”), cioè spessissimo. Ma lasciamo perdere. Lo o la scrivente ha esordito, con ingenua furbizia studentesca, mettendo le mani avanti: non è semplice trattare questo argomento eccetera eccetera (certo, non si sbaglia mai a sottolineare la complessità del tema che di volta in volta ci tocca affrontare: ma bisognerebbe farlo con un po’ di sapienza retorica). Il guaio è che le frasi dicono cose assurde: non è che l’anima «si manifesti» in qualche luogo, come un ectoplasma; né che i concetti «astratti», in quanto tali, assumano più significati; né si vede come l’anima rappresenti il cammino di perfezionamento dell’uomo o ne prolunghi il corpo di fronte a un paesaggio. Consola (almeno fino a un certo punto) pensare che

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tutto ciò non dipende da deficit cognitivi, ma solo da imperizia di scrittura e, prima, da incapacità di organizzazione del pensiero. Lo conferma il resto del tema: piatto, acritico, irrelato rispetto alla consegna, sì, ma non incoerente. Si continua infatti tirando in ballo la «donna angelicata» di stilnovisti e Petrarca (spacciando informazioni comunque non pertinenti, ma tutto fa brodo: «A differenza degli stilnovisti, Petrarca evidenzia anche alcune caratteristiche fisiche della donna, come il seno»). Poi si passa a Leopardi («L’altro luogo dove l’anima si identifica», dopo le acque della Sorga, sarebbero gli «interminati spazi») e lo si collega audacemente alla Morante: «Nella stessa condizione, anche se con uno stacco temporale di più di un secolo, si trova l’anima del lettore che legge la Dedica di “L’isola di Arturo”». Il tema morantiano dell’infanzia come luogo di mitica felicità non è còlto, ma non pretendiamo troppo; piuttosto si noterà il condizionamento dell’impianto storiografico, in genere sacrosanto ma qui non pertinente: per il candidato quel che conta non sono le cose dette, ma l’epoca in cui sono vissuti i due scrittori. Quindi è la volta dei Malavoglia («L’anima può essere anche in una condizione d’attesa, d’inquietudine un esempio è nel personaggio di Mena»), mentre, si capisce, «D’altro taglio è la poesia di Masters del 1943». Finalmente si passa a un nucleo un po’ più compatto di considerazio-

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ni, quelle gravitanti sul rimpianto del luogo natio; qui è significativa la presenza di un riferimento, una volta tanto congruo, al Foscolo dei sonetti e alla sua Zante (i Sepolcri e il loro richiamo ai luoghi identitari per la coscienza nazionale sono caduti nel vuoto; ma forse i festeggiamenti per l’anniversario dell’Unità erano ancora troppo lontani per stingere sull’inventio). Non voglio dire ab uno disce omnes: si legge di meglio agli esami di Stato, lo so. Ma segnali come questo non sono da sottovalutare: chi ha scritto una prova tanto palesemente inadeguata rispetto alla consegna è nonostante tutto qualcuno che ha studiato la letteratura italiana, è in grado di fare riferimenti non banali (benché approssimativi: nel Petrarca il seno di Laura è castamente ‘la parte superiore del corpo’ non l’‘insieme delle due mammelle’) e anche pertinenti (Foscolo-Zante) e forse avrà avuto un buon giudizio d’ammissione. È evidente che qualcosa va cambiato: in superficie (consegne più specifiche e più realistiche), ma soprattutto in profondità (addestramento alla scrittura argomentativa in tutti gli anni della scuola superiore).

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La grammatica

Tra le molte cose che occupano le lezioni di italiano nella scuola media e nel biennio superiore c’è la grammatica, ossia ciò che nell’opinione comune dovrebbe migliorare le capacità di scrittura o almeno garantire un’adeguata riflessione metalinguistica. Ma è davvero così? I manuali scolastici degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso furono sottoposti a spietate requisitorie da parte di linguisti come Raffaele Simone, Giorgio Cardona, Pier Marco Bertinetto; con gli anni Ottanta il livello è migliorato, ma il libro di grammatica mantiene ancora oggi alcuni difetti strutturali, legati non solo alla forza d’inerzia, ma anche all’intento – espressamente raccomandato dai committenti editoriali – di non discostarsi dalla tradizione per non turbare l’orizzonte d’attesa di molti insegnanti, rischiando di compromettere le adozioni (e anch’io – lo confesso – quando scrissi, anni fa, una grammatica per le scuole, poi va-

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riamente ristampata e aggiornata, mi sono adagiato in troppi casi sulla consuetudine). Il limite più grave però è nei percorsi didattici, che sono, letteralmente, gli stessi nelle medie e nel biennio: si dà per scontato che quel che si studia o si dovrebbe studiare tra gli 11 e i 13 anni non arrivi agli sfortunati ragazzini (sono tutti intellettualmente tarati? tutti svogliati?), i quali dovranno ripetere puntualmente i medesimi argomenti e affrontare analoghi esercizi una volta giunti ai 14 e 15 anni. Le grammatiche per le medie hanno generalmente una grafica più vivace, giocata sull’effetto-rispecchiamento e quindi con immagini di simpatici adolescenti in situazioni tipiche (a scuola, alle prese con videogiochi ecc.), ma è notevole che, in contrasto con scelte editoriali del genere, non si rinunci a un certo specialismo terminologico: ecco le proclitiche e le enclitiche, gli iperonimi e gli iponimi, i paronimi, gli omonimi, la polisemia, la denotazione e la connotazione, la metonimia, l’aspetto perfettivo e imperfettivo. Il tutto definito, va riconosciuto, in modo generalmente chiaro, anche se alquanto sintetico. Magari nozioni del genere arrivassero effettivamente agli alunni! Ma è realistico pensarlo? E, prima ancora, è verosimile che l’insegnante, in ben altre faccende affaccendato (ortografia, uso dei modi verbali...), abbia tempo e voglia di presentarle e di spiegarle? E ancora: è il caso di of-

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frire uno specchietto dei segni dell’alfabeto fonetico? O di spendere spazio (e perder tempo) per illustrare – ripeto: qui, non nella scuola superiore – pronomi decisamente libreschi come alcunché, checché, chicchessia, o avverbi come donde? L’ottica sembra quella di chi compili un vocabolario che, pur se in uso a dodicenni, deve contenere anche parole che esulano dal loro orizzonte linguistico e culturale. Ma il vocabolario si consulta di tanto in tanto; la grammatica andrebbe studiata, almeno per blocchi, e andrebbe sottoposta continuamente a verifiche attraverso esercizi specifici. Nell’insegnamento, e in generale in qualsiasi processo comunicativo, il problema principe è gerarchizzare le informazioni in vista dell’obiettivo da raggiungere. Qual è l’utilità di mettere tutto sullo stesso piano, invece di insistere sui tradizionali punti deboli che emergono dagli scritti o anche dalla mediocre comprensione dei testi letti? Né si capisce perché le famiglie siano costrette, quando i figli passano dalla scuola media alle superiori, ad affrontare per la seconda volta la spesa per l’acquisto di testi sostanzialmente sovrapponibili (il dizionario, per restare in tema di sussidi linguistici, si compra una volta sola, serve per l’intero ciclo e si conserva anche quando la scuola è finita). Si potrebbe pensare: la differenza starà negli esercizi, strutturati in modo diverso e vòlti, nel-

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le grammatiche per la scuola media, alla progressiva acquisizione delle strutture linguistiche fondamentali. Ma i miei sondaggi non confermano questa ottimistica ipotesi. Guardiamo alla batteria d’esercizi offerta per due notori punti deboli degli alunni: l’uso della punteggiatura e quello dei modi e tempi verbali nelle completive. Quanto alla punteggiatura, l’offerta non è adeguata; talvolta nemmeno quantitativamente, quasi mai qualitativamente. In genere manca la consapevolezza delle funzioni del punto e virgola, che serve – oltre che per separare unità complesse – per segnalare, sempre in concorrenza col punto fermo o con i due punti ma con diverse implicazioni stilistiche o espressive, una differente tematizzazione o per marcare uno snodo argomentativo importante davanti a un connettivo “forte”. La conseguente omissione del necessario precetto a non sovraestendere l’uso della virgola (come avviene abitualmente negli scriventi inesperti ma non in quelli professionali, a partire dai giornalisti) si riflette nell’infelice formulazione di alcune verifiche. Un esercizio è efficace, gioverà ricordarlo, se la sua consegna è chiara e la sua somministrazione ha lo scopo di educare o di rafforzare una determinata competenza. In fatto di punteggiatura, e tenendo conto delle più comuni incertezze d’uso, si dovrebbe insistere sui seguenti punti: in qua-

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li casi la virgola è troppo poco e occorre usare un segno di rango pausale superiore? c’è una differenza, e qual è, all’interno dei segni di pausa medio-forte, ovvero tra i due punti e il punto e virgola? Può essere ozioso, invece, spiegare ad adolescenti in quali casi vadano usati il punto interrogativo ed esclamativo, segni già perfettamente dominati nella scrittura degli sms, abituale pascolo di qualsiasi dodicenne oggi in Italia (anche se il punto esclamativo è di solito abusato). Nella fattispecie, occorre evitare l’affermazione – grettamente semplicistica – secondo la quale la punteggiatura è il dominio della soggettività e, insomma, si può fare più o meno quel che si vuole. Intanto è importante distinguere tra interpunzione vincolata (la virgola in *sono, padovano è inaccettabile) e non vincolata, cioè suscettibile di alternative. In questo secondo caso, può essere utile suggerire quali sono le implicazioni espressive che comporta, per esempio, l’uso del punto fermo rispetto al punto e virgola o ai due punti: ma si tratta di una tappa successiva, che potrebbe essere anche rinviata al biennio. È poco utile didatticamente un esercizio che richiede di inserire «opportunamente nei quadratini il punto e virgola o i due punti» quando alcune frasi ammettono indifferentemente la doppia soluzione; e quando, soprattutto, la parte teorica è stata evasiva in proposito: Mi piace

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passeggiare in città sotto la pioggia □ guardo incantato i riflessi delle luci delle auto sull’asfalto bagnato (la risposta “giusta” sarebbe «punto e virgola», come si ricava dal confronto con le altre frasi; ma i due punti potrebbero essere legittimati dal rapporto causa-effetto: mi piace passeggiare sotto la pioggia perché guardo...). Diverse le competenze da acquisire nel caso della sintassi delle completive. Qui l’uso è più rigido, in particolare per la consecutio (inaccettabili *pensavo che ti piaccia ecc.); ma anche quanto ai modi verbali intervengono restrizioni semantiche (tipo di verbo reggente: *spero che tu stai bene è substandard se non francamente agrammaticale, così come, inversamente, *tu dici che tutto sia in ordine) e diafasiche («penso che hai ragione», colloquiale / «penso che tu abbia ragione», sorvegliato). Inoltre, la parte teorica dei manuali generalmente tace su un punto molto importante: tutti dicono che il costrutto implicito richiede identità di soggetti tra reggente e subordinata; non si aggiunge però che, in questo caso, il costrutto implicito è l’unica soluzione di fatto possibile: «Marco crede di essere spiritoso» non è trasformabile, se non nell’astratto discettare dei grammatici, in *Marco crede che è/sia spiritoso. I nostri manuali sembrano interessati soprattutto alla classificazione teorica delle varie com-

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pletive. I sette esercizi proposti da un testo per le proposizioni soggettive, ad esempio, vertono soprattutto sul riconoscimento teorico della subordinata (come avviene per quattro esercizi: «Confronta questi gruppi di frasi; nel primo sottolinea il soggetto; nel secondo la corrispondente subordinata soggettiva», «Riconosci e sottolinea le subordinate soggettive, usando il rosso per le soggettive esplicite e il blu per quelle implicite», e così via); due esercizi consistono nel completamento, a partire da una sequenza data («Completa sul quaderno le frasi principali con un’adeguata subordinata soggettiva», «Partendo dai seguenti predicati, costruisci dei periodi in cui siano contenute delle subordinate soggettive esplicite o implicite»); l’ultimo consiste nella trasformazione da frase nominale a frase verbale («Trasforma le seguenti frasi semplici in periodi che contengano una soggettiva, sostituendo il soggetto della frase semplice con una subordinata soggettiva»). Dei vari esercizi proposti (il discorso non vale solo per le soggettive) quelli che sondano la padronanza del corretto uso di modi e tempi sono soltanto quelli di completamento, almeno quanto al corretto uso dei modi (partendo da reggenti come È noto che, Sembra ecc. non si controlla il corretto uso dei tempi, visto che la consegna non richiede di stabilire un particolare rapporto – contemporaneità, anteriorità, posteriorità – tra le azioni di

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reggente e subordinata), e quelli di trasformazione. Ma questa tipologia è complessivamente sacrificata rispetto al semplice riconoscimento, che resta l’abilità principe che si vuole testare; eppure scriveva molti anni fa Bertinetto, proprio guardando alla scuola media: converrà «prendere le mosse dalla concreta e individuale attività di codificazione della parola: dopotutto si parla per frasi e non per formule astratte». Ci si lamenta, non sempre a proposito, della decadenza del congiuntivo; ma poi non si pensa di illustrare – con giovamento sia per la prassi linguistica sia per la riflessione sulla lingua – tipiche situazioni di dubbio. Vediamone una: perché si dice «vorrei che tu studiassi», con apparente violazione della correlazione dei tempi (vorrei è un presente e ci si aspetterebbe nella completiva il congiuntivo presente, come in «voglio che studi»). Perché il condizionale di volere e di altri verbi indicanti un desiderio o un’aspirazione richiede la reggenza tipica dei verbi al passato: se usa il condizionale, il parlante mostra di credere poco alla realizzabilità del proprio desiderio, lo dà quasi come se fosse già alle spalle (quindi: «vorrei che tu studiassi», ma non m’illudo che tu lo faccia; «voglio che tu studi», e sono convinto che la mia autorità ti costringerà a farlo). Invece, con verbi appartenenti ad altre aree semantiche, l’accordo è quello consueto, col presente in reggente e subordinata: «Direi che a quest’ora si

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possa (non *si potesse) anche incominciare» (è una semplice opinione, espressa al condizionale per ragioni di cortesia). La parte propriamente teorica, tanto nelle grammatiche per la scuola media quanto in quelle per il biennio (da cui, ora, traggo qualche esempio), è poco utile per far riflettere sulla lingua, perché veicola classificazioni di debole capacità esplicativa, o addirittura ricalcate sulla sintassi latina e costrette a forza sul letto di Procuste della grammatica di una lingua strutturalmente del tutto diversa, seppur derivata da quella. Passo in rassegna alcuni punti, esemplificando sobriamente. Definizioni e tassonomia. Persiste ancora la famigerata sfilata dei complementi, sia pure meno folta di una volta; ma occorrerebbe chiedersi, una volta per tutte, qual è l’utilità di distinzioni che hanno un senso in latino, non in italiano. È universale la distinzione tra complemento di specificazione e di denominazione: ora, si capisce l’utilità di distinguere tra urbs hostium e urbs Roma; ma come discriminare, in modo didatticamente funzionale anche per la massa di studenti che non affronterà mai il latino, tra la città dei nemici e la città di Roma? Se la cava bene un manuale che, alla luce di una definizione ragionevole («Il complemento di denominazione specifica con un nome, solitamente proprio, il nome comune di significato generico da cui è retto»),

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confronta i sintagmi nel mese di luglio e la temperatura di luglio, osservando che, a differenza del primo esempio, nel secondo «della parola temperatura non si precisa alcun nome (la temperatura, infatti, non si chiama luglio!)». Meno bene si muovono quei testi che fanno leva sul test di agrammaticalità: la soppressione della preposizione sarebbe tollerabile nel complemento di denominazione, non in quello di specificazione, «anche se, in molti casi l’eliminazione della preposizione dà luogo a un’espressione impropria, come in Ci vediamo il mese (di) luglio». Ora, il test di agrammaticalità non può funzionare in modo intermittente, pena la sua inutilizzabilità; non solo: sequenze come sala giochi, controllo passaporti – che pure si possono considerare formalmente composti, non sintagmi liberi – sono ben presenti nella competenza linguistica di un adolescente e si prestano a essere analizzate come complementi di specificazione in cui la soppressione della preposizione non ha nessuna conseguenza grammaticale. Il già debole discrimine tra i due complementi, così, viene meno. Altrettanto condivisa da tutti i manuali scolastici appare la distinzione degli aggettivi in qualificativi e determinativi: la distinzione è poco utile e meglio sarebbe parlare, accanto ai qualificativi o aggettivi tout court, di aggettivi pronominali e aggettivi numerali (dizioni trasparenti: la terminologia non va mai moltiplicata praeter

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necessitatem). Ma il guaio è quando la definizione è incongrua e rischia di confondere le idee. Gli aggettivi qualificativi – scrive un testo, peraltro di buona qualità – «indicano una qualità del nome»; quelli determinativi «aggiungono al nome una particolare determinazione che lo specifica e lo individua meglio»; ma anche vecchio in «una vecchia casetta», o roseo in «roseo tramonto» ecc. risponderebbero a questi requisiti: insomma anche tutti gli aggettivi anteposti, con valore epitetico, oltre a fortiori quelli posposti con valore distintivo (la casa vecchia ecc.). La labilità del confine in verità non sfugge agli autori – abbiamo appena detto che il testo è di buon livello – che precisano, ma sulla base di un gretto empirismo (come se l’obiettivo fosse quello di classificare materiali inerti entro una griglia immutabile, non la comprensione dei meccanismi linguistici soggiacenti): Niente paura, però, sul piano dell’analisi grammaticale. Gli aggettivi determinativi o indicativi sono una serie chiusa, e noi li indicheremo pressoché tutti. Se in questa serie non troverete quelli che, sul piano del significato, vi possono far sorgere dei dubbi, vuol dire che non si tratta di determinativi. Ciò non toglie che certe classificazioni, a volte, sono strumenti un po’ approssimativi.

Pronomi personali soggetto. Uno dei capitoli più studiati nella linguistica italiana contempo-

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ranea è il rapporto egli/lui, ella/lei, essi/loro, insieme con la dinamica omissione/esplicitazione, caratteristica di una lingua come l’italiano (a pro-drop totale, dicono i linguisti). In una descrizione, anche sommaria, dovrebbero emergere almeno tre punti: 1) il pronome (e il soggetto in genere) è facoltativo in italiano e va espresso solo in casi particolari (marcatezza: è stato lui!; cambio di soggetto in coordinata o subordinata: ho parlato con tua madre e lei mi ha detto ecc.); 2) egli, e forse ancor più esso, -a, -i, -e, ella sono caduti dal parlato e vanno adoperati con cautela anche nello scritto, e solo con funzione anaforica, cioè per richiamare qualcosa detto in precedenza; 3) l’uso di te in funzione di soggetto è esclusivo del parlato, da Roma in su (quindi *dillo a io è semplicemente agrammaticale; vacci te in luogo di vacci tu rappresenta invece una sequenza realmente esistente, ma fortemente marcata in diamesia, diafasia e diatopia). Niente di particolarmente complesso, come si vede. Eppure sono pochi i manuali a dare un quadro soddisfacente. Talvolta la concorrenza di più forme per la stessa funzione è semplicemente ignorata e ci si limita a registrare i vari tipi come se fossero intercambiabili. Talaltra si ha una percezione alquanto confusa del polo “formale”: a quali narratori contemporanei o traduttori italiani di autori stranieri penserà mai un manuale, osservando che ella è «piuttosto de-

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sueto, o impiegato solo in letteratura» (corsivo mio)? Una frase come ella disse potrebbe apparire in un romanzo di Ammaniti o in una traduzione di Hornby solo in contesti palesemente ironici. Di esso si continua a ripetere che vale per animali e cose e si propongono spesso esempi inverosimili: «Un cane ha abbaiato a lungo, esso si trovava in pericolo»; non giova aggiungere che esso ed essa «si usano prevalentemente nello scritto e nel parlato si omettono → Un cane ha abbaiato a lungo, si trovava in pericolo». Qui qualsiasi parlante e qualsiasi romanziere avrebbero tralasciato un pronome soggetto anaforico, più che superfluo dannoso (e avrebbero detto era invece di si trovava); e, aggiungiamo, qualsiasi scrivente consapevole non avrebbe usato la virgola ma i due punti (o il punto e virgola, o il punto fermo): un cane ha abbaiato a lungo: era in pericolo. Lo stesso vale per altri campioni di questo improbabile “italiano scolastico” come «Ho accarezzato il gattino di Laura, ed esso si è messo a fare le fusa», «Mentre cercavo il gatto, esso dormiva sotto il divano». Il riferimento ai due più diffusi animali domestici, cane e gatto, presupporrebbe uno spezzone di italiano colloquiale e rende ancora più implausibili gli esempi. Quanto all’uso di te in funzione di soggetto, i più lo ignorano; altri lo menzionano come forma erronea (solo due testi fanno riferimento rispettivamente alla «lin-

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gua parlata» e alla diffusione «in molte parlate regionali»). Personali atoni. Da grammatiche scolastiche ci si aspetterebbe qualcosa per i due tipici punti critici del sistema: gli/loro e gli/le. Ma in generale la trattazione è affrettata o elusiva. In un caso l’opzione a favore di loro è argomentata su base razionalistica, secondo un atteggiamento tipico della grammatica scolastica, legato all’idea della lingua come un monumento alla razionalità, per il quale non possono esistere registri d’uso, ma solo il rigido confine giusto (e ragionevole) / sbagliato (e irrazionale): data la frase «È il compleanno di Giuseppe e di Sandra e gli regalerò un libro», si argomenta che gli «può creare degli equivoci, perché non sempre permette di capire a chi ci si riferisce. Osserva: Io gli regalerò un libro. A chi? A Giuseppe, a Sandra oppure a entrambi?». La motivazione è pretestuosa: se il compleanno è di entrambi, è naturale che il regalo sia destinato a tutti e due; tutt’al più si resta incerti se il regalo consisterà in un libro solo o in due libri, uno a Giuseppe, uno a Sandra (ma il dubbio resta sia con gli sia con loro). Sintassi del gerundio. Chi abbia anche una mediocre esperienza di scritture acerbe sa che la corretta sintassi del gerundio, in particolare il vincolo di coreferenzialità col verbo della reggente (non si può dire *ho visto Anna piangen-

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do se chi piange è Anna, perché i soggetti sono diversi, io e Anna), è una delle più tipiche mende. È difficilmente spiegabile, dunque, il fatto che i nostri manuali o rinuncino addirittura a illustrare questo punto oppure ne trattino solo di passata, quasi sempre a proposito della causale implicita. Significativo di questa curiosa nonchalance il fatto che un testo si contenti di definire «preferibile» l’obbligato costrutto esplicito della frase Poiché la carta da parati costava troppo, non la comprai, visto che «possono sorgere equivoci» col costrutto implicito corrispondente (in realtà non accettabile in italiano) Costando troppo, non comprai la carta da parati.

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L’arricchimento lessicale

Il tempo non è dilatabile a volontà, a scuola e nella vita, e impone delle scelte: tanta insistenza sul logicismo astratto va a detrimento di attività più importanti, anche come occasione di riflessione metalinguistica. Una delle lagnanze più comuni sullo scarso profitto scolastico medio si riferisce alle limitate competenze lessicali dei ragazzi. Prescindendo dai triti stereotipi che corredano affermazioni del genere (la colpa è della televisione! no, è di Internet! ma anche degli sms, si usano sempre poche parole...), è difficile negare fondamento a una denuncia simile. In una ricerca recente, mi è capitato di constatare che una quota non trascurabile di alunni del primo anno di un liceo scientifico – ma temo che il discorso possa essere generalizzato – ignorava un verbo che avrei considerato acquisito, anche a 14 anni, come biasimare. Ecco alcune definizioni (gli exempla ficta creati dai ragazzi per illustrare la definizione, come avverrebbe in un

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dizionario, rendono ancora più esilarante – o allarmante – l’incomprensione): «consolare ricordare – es. Lo biasima sempre»; «rispettare – es. Io ti biasimo per quello che hai fatto»; «l’azione dell’essere incerto, insicuro di ciò che si andrà a fare successivamente – es. Dai, Marco, senza biasimare, prova a camminare sulle tue gambe!»; «invidiare, dare ragione a qualcuno – es. Ti biasimo, amico mio!»; «dubitare di qualcosa che non ci è certa – es. Ti conosco da un anno, perciò non biasimo della tua serietà». È essenziale dunque puntare sulla padronanza del lessico, specie di quello astratto, e muoversi per tempo; solo, occorrerà intendersi sugli obiettivi da perseguire nel quinquennio superiore e su alcuni possibili mezzi per conseguirli. Un obiettivo ragionevole – qualcuno potrebbe dire: minimo – potrebbe essere quello di mettere tutti i diciottenni scolarizzati nella condizione di capire pienamente l’editoriale di uno dei grandi quotidiani: leggere criticamente quel che scrivono Galli della Loggia, Scalfari, Gramellini significa prima di tutto essere al corrente dei grandi temi che si agitano sullo scenario nazionale e internazionale (pace e guerra nel Medio Oriente, rapporti tra islamismo e cristianesimo, debolezza dell’etica pubblica in Italia ecc.). Non si insisterà mai abbastanza nel ricordare che l’apprendimento è un processo armonico e la distinzione tra le varie materie è un’inevitabi-

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le necessità organizzativa; non esiste un bravo italianista che sia ignorante di storia o di geopolitica e viceversa, anche se le propensioni e l’impegno di ciascuno possono determinare prestazioni diverse. Ma torniamo al lessico: se assumiamo la piena comprensione di un articolo di fondo come un traguardo possibile e auspicabile, non è difficile elaborare i test che possano misurare questa competenza e soffermarsi su di essi per riflettere sulle famiglie lessicali e semantiche. Facciamo un esperimento prendendo in esame l’articolo di fondo apparso nel «Corriere della Sera» del 15 febbraio 2010 e scritto, in una prosa stilisticamente nitida ed efficace, da Tommaso Padoa Schioppa (il tema è la crisi finanziaria della Grecia e i connessi rischi per gli equilibri finanziari e politici dell’Unione europea; titolo: La sovranità in movimento, occhiello: La crisi di Atene ridisegna l’Unione). Immaginiamo di lavorare in una seconda superiore (non importa di quale indirizzo: tutti dovrebbero essere in grado di leggere il giornale!). Alcune parole hanno la stessa fisionomia di quelle che nell’edizione 2010 del Vocabolario Zingarelli sono precedute dal simbolo di un fiore: si tratta di parole «da salvare», cioè – come osserva Massimo Arcangeli in una premessa – di «quelle tante, preziose parole dell’italiano delle quali può sfuggire a molti il senso e di cui

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si deve tuttavia dire: “Eppur ci sono”. Profumate in molti casi d’antico, non saranno proprie dell’uso corrente o correntissimo ma sono pronte a prestare la loro opera per chiunque voglia ancora disporne». Non è questo il luogo per discutere del fondamento scientifico di questa categoria, che può comunque avere una sua utilità nelle applicazioni didattiche: basti dire che nell’articolo di Padoa Schioppa di parole «da salvare» ne troviamo ben cinque. Si tratta di lapidario e antinomia («La dichiarazione emessa l’11 febbraio dai Capi di Stato e di governo è un lapidario concentrato di antinomie»), conscio («A malincuore l’Unione ha accettato di essere il sovrano capace, ma è ben conscia che il sovrano legittimo risiede per convenzione ad Atene»), blandire («La democrazia obbliga Papandreu a fare accettare l’austerità a quello stesso popolo sovrano che solo pochi mesi fa aveva blandito con promesse impossibili»), anomalo («Anni fa parlai di “euro, una moneta senza Stato”, per segnalare l’anomala condizione in cui operava la Banca centrale europea e il pericolo di compiacersene»). Un buon sistema per far memorizzare vocaboli e significati è quello di valorizzarne i rapporti con altre parole corradicali (e naturalmente il suggerimento vale tanto di più per chi insegni in licei tra le cui materie figuri anche il latino). Vediamo.

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Lapidario si usa comunemente nel significato di ‘incisivo, sentenzioso’ e rimanda allo stile tipico delle iscrizioni su pietra (lapide), solenne e stringato. Oltre a lapide, va richiamato il derivato lapidare, tristemente noto in relazione a sentenze di morte eseguite, anche oggi, colpendo con pietre il condannato (corrente l’uso figurato iperbolico: Ho detto solo che era meglio aspettare un po’ e mi hanno lapidato!). Antinomia è sinonimo ricercato di ‘contraddizione’ (quindi, all’occorrenza, usabile come eufemismo: in un dibattito, «La sua è un’antinomia» suonerebbe meno aggressivo rispetto a «Lei è in contraddizione») e ha una nobile origine filosofica; trasparente la formazione: il prefisso anti- che indica avversione, contrasto (come in antifascista), e l’elemento -nomìa, anch’esso di origine greca, che rimanda al significato di ‘legge, governo’ e si ritrova in autonomia, economia. Conscio è il latino conscius ‘partecipe di una conoscenza’, quindi ‘consapevole’ (il sostantivo astratto corrispondente è coscienza: anch’esso è un latinismo – la i, inutile per la pronuncia, sopravvive appunto in omaggio alla lingua di Roma – ma è più conforme alla fonetica italiana, avendo perso la n); il contrario o antònimo di conscio è inconscio, che si usa però soprattutto come sostantivo in accezione psicanalitica. Blandire è raro nel senso proprio di ‘carezza-

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re’ e si usa in quello figurato di ‘vezzeggiare’, spesso con una sfumatura sfavorevole (‘lusingare qualcuno per ottenerne il favore’, come appunto in questo caso); dei corradicali è più comune blando, in senso generico (un blando rimprovero), che si usa anche in farmacologia (un blando lassativo), mentre il raro astratto blandizia può essere usato anche al singolare come blandizie, eco del latino blandities, uno dei pochi sostantivi di 5a declinazione («Nei begli occhi fermi / rideva una blandizie femminina», Gozzano). Anomalo, di uso più ricercato di anormale e di etimo diverso, nonostante la somiglianza fonetica, ha usi specifici in grammatica (verbi anomali ‘irregolari’; non si direbbe *verbi anormali) e in biomedicina (decorso anomalo di una patologia, posizione anomala di un organo). Ma l’articolo di Padoa Schioppa offre anche altre parole degne di riflessione: legittimo, di cui conviene anche fissare l’ortografia (l’errato *leggittimo è frequente non solo dove si pronuncia la ggente, ma anche altrove, per l’ovvio accostamento – etimologicamente indiscutibile, del resto – con legge; ma l’aggettivo risente del latino legitimus); il significato proprio è ‘conforme alla legge, secondo la legge’ ed è quello che si ritrova nel linguaggio giuridico, che distingue per esempio tra successione legittima, cioè regolata dalla legge, in assen-

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za di testamento, e testamentaria, disposta dal testatore (non avrebbe senso, invece, una *successione illegittima); convenzione, una parola carica di storia: il significato del latino conventio, strettamente collegato con convenire ‘accorrere in un luogo, trovarsi insieme’, continua in quello, arcaico, di ‘assemblea’ (la Convenzione francese, del 17921795) e in quello, qui presente, di ‘accordo’; il plurale convenzioni ha assunto un significato negativo, quello di ‘abitudini accettate supinamente, per semplice adeguamento all’opinione dominante’ (le convenzioni sociali, essere schiavo delle convenzioni); leviatano (qui scritto con la maiuscola: lo Stato non è un «Leviatano centralizzato dentro e arcigno fuori»): è il nome di un mostro biblico, scelto dal filosofo Thomas Hobbes come titolo di un trattato sull’assolutismo statale e si presta a indicare, figuratamente, un potere eccessivo, schiacciante; Benedetto Croce parlava del «leviatano della logica tradizionale intellettualistica e formalistica». È eccessivo sperare che tutte le parole commentate (e i loro corradicali) possano entrare nel patrimonio lessicale degli studenti? Forse no: a condizione, magari, che se ne faccia tenere un regesto, in modo da richiamare in séguito i singoli lemmi: proprio come si farebbe, sia pure in un’ottica didattica tradizionale, per imparare i

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vocaboli di una lingua straniera. In fondo non c’è niente di strano. Le parole che abbiamo messo in evidenza sono, quasi tutte, legittimamente straniere per l’orizzonte linguistico e culturale di un adolescente e non sarebbe facile assumerle da letture dirette, né spontanee (fumetti, libri di Moccia), né imposte o suggerite dal docente (per esempio, la grande narrativa straniera in traduzione italiana).

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La letteratura a scuola: alcuni spunti didattici

Per molto tempo, almeno nella scuola superiore, l’italiano si identificava con la letteratura; poi, negli «anni delle voghe strutturalistiche e semiotiche – come osserva Adriano Colombo – la prospettiva linguistica è sembrata prendere il sopravvento, con la riduzione del testo letterario a “oggetto linguistico”, da analizzare con strumenti linguistici; in realtà, l’attenzione alla lingua che veniva introdotta era tutta in funzione dell’analisi letteraria [...]; e questo fini[va] per ribadire il predominio del letterario dell’insegnamento». Successivamente, si è affermata, con il successo della linguistica testuale (nozioni come coesione e coerenza sono ormai entrate nell’orizzonte didattico, quale che sia la formazione universitaria degli insegnanti), l’attenzione alla lingua non letteraria. Ma se l’avvicendarsi delle varie stagioni didattiche dà l’impressione di un pendolo che inclini ora verso la lingua ora verso la letteratura, è necessario ribadire come il conflitto non abbia

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ragion d’essere: se è ovvio che la letteratura rappresenta il momento più alto dell’elaborazione linguistica di un singolo individuo, che da scrivente diventa scrittore, non è men vero che la lingua, in sé, condiziona tutte le attività comunicative dell’individuo, anche quelle lontanissime da ogni dignità artistica; e che, d’altra parte, la letteratura non si riduce alla lingua in cui i testi sono scritti. Parlare di letteratura comporta notevoli responsabilità per l’insegnante: si tratta, nientemeno, di scommettere sulla scoperta dell’universo letterario, del piacere di avventurarsi in mondi distanti, per temi o per epoche, eppure in grado di coinvolgere, di commuovere, di esaltare; di avviare al gusto della lettura disinteressata, fatta non perché se ne debba render conto a qualcuno ma solo perché ci va di farlo; di persuadere – ma con discrezione, direi quasi con pudore, senza moralismi – che la lettura affina le capacità di riflessione e naturalmente è la palestra più indicata per esprimersi meglio, a tutti i livelli, includendo anche una più nitida e articolata organizzazione delle idee. Non è un’impresa facile, lo sappiamo. Non solo occorre conciliarne i presupposti con la fisiologica concorrenza di altre attività di forte potere attrattivo per un adolescente, a partire dalla socializzazione amicale e sentimentale; è necessario anche, su un piano più strettamente didattico,

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che l’alunno arrivato alla scuola media sia in grado di leggere speditamente un testo scritto (se siamo ancora, più o meno, alla faticosa compitazione sillaba per sillaba propria dei bimbetti alle prime armi o degli illetterati, anche la lettura di una novella diventerebbe una fatica immane). La scuola, inoltre, deve farsi carico di testi per così dire fuori mercato: l’Odissea non sarebbe più letta da nessuno, se non resistesse tra le letture frequentemente proposte nell’àmbito dell’epica. E l’Odissea ha la capacità, se adeguatamente presentata, di appassionare ancora un tredicenne: pensiamo alle risonanze dei temi del viaggio, dell’avventura, della creazione fantastica, dell’astuzia, della fedeltà e dell’infedeltà; e ha tutti i titoli per figurare stabilmente nell’immaginario dell’Occidente, tali e tanti sono gli echi, letterari e iconografici, che lo studente avrà modo di ritrovare continuando gli studi. Ma non basta confidare nel fascino dei capolavori o anche semplicemente nell’attrattiva di una trama letteraria ben strutturata. Leggere consapevolmente un testo letterario significa, specie nel quinquennio delle superiori, entrare nell’officina dello scrittore: smontare i meccanismi narrativi del romanzo, riconoscere gli elementi costitutivi dell’apparato retorico, persino cogliere il divenire di un testo, soffermandosi su alcuni casi esemplari di varianti testuali (col soccorso, indispensabile, di diapositive digitali

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o di altri sistemi multimediali). L’importante è non esagerare. Se un romanzo serve solo per individuare l’antagonista, l’oppositore, l’aiutante forse non vale la pena di leggerlo; e lo stesso vale per una poesia, se funge solo da contenitore di figure retoriche. Esemplifichiamo quest’ultimo punto. È importante, certo, riconoscere gli elementi di figuralità di un testo e distinguere, al suo interno, tra metafora e similitudine; con l’avvertenza, però, che dare «una definizione sintetica della metafora è impresa illusoria: perché se sembra semplice capirla, non è affatto semplice l’azione dei dispositivi mentali che permettono di produrla e di interpretarla» (Bice Mortara Garavelli). L’essenziale è far cogliere la duttilità della metafora, che va dal livello più basso, lessicalizzato, in cui la scintilla figurale si è spenta e l’antica immagine – non più percepita spontaneamente dal parlante – è diventata la scelta obbligata per esprimere una certa nozione (il collo di una bottiglia, le gambe di un tavolo: due esempi di catacresi), al livello più alto, in cui l’ornatus si piega a significati ulteriori, che solo una lettura attenta, ed edotta del sistema ideologico dell’autore, può percepire. Due esempi, molto diversi tra loro, relativi il primo alla metafora il secondo alla similitudine. Nella prima parte del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa – un ottimo testo di lettura per l’ul-

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timo anno delle medie o per il biennio – si descrive un sontuoso pranzo in casa Salina: Alla fine del pranzo venne servita la gelatina al rhum. [...] Si presentava minacciosa, con quella sua forma di torrione appoggiato su bastioni e scarpate, dalle pareti lisce e scivolose impossibili da scalare, presidiata da una guarnigione rossa e verde di ciliegie e di pistacchi; era però trasparente e tremolante ed il cucchiaio vi si affondava con stupefacente agio. Quando la roccaforte ambrata giunse a Francesco Paolo, il ragazzo sedicenne ultimo servito, essa non consisteva più che di spalti cannoneggiati e di blocchi divelti. Esilarato dall’aroma del liquore e dal gusto delicato della guarnigione multicolore, il Principe se la era goduta assistendo allo smantellamento della fosca rocca sotto l’assalto degli appetiti. Uno dei suoi bicchieri era rimasto a metà pieno di Marsala; egli lo alzò, guardò in giro la famiglia fissandosi un attimo più a lungo sugli occhi azzurri di Concetta e «alla salute del nostro Tancredi» disse. Bevve il vino in un solo sorso. Le cifre F.D. che prima si erano distaccate ben nette sul colore dorato del bicchiere pieno non si videro più [corsivi miei].

L’esuberanza espressiva che sfaccetta l’ampia similitudine gastronomico-militare in una serie di immagini particolari ha una sottile implicazione metaforica. Il dolce via via consumato dai commensali si trasforma nello Stato borbonico smantellato o lasciato smantellare dagli stessi

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sudditi. Rivelatore è il brindisi rivolto a Tancredi – l’amato nipote del principe al quale risale il celebre apoftegma: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» – e soprattutto un particolare apparentemente marginale: le cifre F.D., cioè Ferdinandus dedit (“dono di Ferdinando”, «in ricordo di una munificenza regale»), non si leggono più una volta che il bicchiere è stato vuotato: il dolce e il vino stanno entrambi a rappresentare i simboli dell’antico regime ammainati con scettica disinvoltura dal principe. L’altro esempio, celebre, si legge nell’ultimo canto del Paradiso, là dove Dante si misura con l’impresa di dar voce all’indicibile, alla visione finale di Dio (Par. XXXIII, 58-66, ediz. Petrocchi): Qual è colüi che sognando vede, che dopo ’l sogno la passione impressa rimane, e l’altro a la mente non riede, cotal son io, ché quasi tutta cessa mia visïone, e ancor mi distilla nel core il dolce che nacque da essa. Così la neve al sol si disigilla; così al vento ne le foglie levi si perdea la sentenza di Sibilla.

L’insistenza figurale dipende in primo luogo dall’eccezionalità dello scenario; ma Dante, giunto al termine del poema, sembra voler rias-

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sumere tre delle grandi direttrici lungo le quali si sono articolate molte delle similitudini della Commedia. La prima è suggerita dal mondo onirico, il luogo privilegiato della soggettività: l’immagine della visione di Dio si è dissolta nella sua individualità, ma sopravvive l’alone emotivo che essa ha suscitato, «il dolce» che lascia tenui eppure percepibili tracce di sé; la seconda è attinta alla fisicità delle leggi di natura; la terza al grande repertorio classico, ancora una volta richiamato dal sincretismo dantesco entro l’orizzonte cristiano. Non si deve esagerare nemmeno con la storia della lingua, naturalmente. Ma un rischio siffatto non esiste: in genere l’insegnante di italiano e latino dedica più cure al commento linguistico del testo classico che non a quello scritto in un italiano che è ormai, temo, quasi altrettanto remoto dalla coscienza linguistica – non parliamo dall’orizzonte culturale – degli alunni. Un altro esperimento, ad apertura di pagina (non è un modo di dire), ancora da Dante, Inf., I, 76-87 (ediz. Inglese): «Ma tu, perché ritorni a tanta noia? Perché non sali il dilettoso monte ch’è principio e cagion di tutta gioia?» «Or sè tu quel Virgilio e quella fonte che spandi di parlar sì largo fiume? – rispuos’io lui, con vergognosa fronte –

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O degli altri poeti onore e lume, vagliami il lungo studio e ‘l grande amore che m’ha fatto cercar lo tuo volume».

In questi versi figurano alcune forme che andrebbero commentate solo in un corso universitario (a); altre che si prestano a essere illustrate – magari non tutte e non tutte in una volta – in licei in cui gli studenti abbiano una discreta cognizione di latino e quindi una maggiore disponibilità verso la riflessione metalinguistica in prospettiva storica (b); altre ancora che potrebbero essere proposte all’attenzione di tutti (c). In a) vanno in genere fenomeni fonetici (rispuosi, con dittongamento dipendente dalla base latina che aveva o˘, mentre la forma italiana con o chiusa... ma mi fermo sùbito; vagliami invece di valgami, esito regolare del latino valeat) e anche soluzioni grafiche dipendenti da una migliore conoscenza dell’italiano antico: il sè ‘tu sei’ invece di se’ come si stampava tradizionalmente si deve a una scoperta di Arrigo Castellani, che ha documentato l’inesistenza della forma con apocope vocalica nell’italiano antico (ma anche qui mi fermo). In b) quei fenomeni di morfosintassi che offrono un’utile occasione di confronto con l’italiano moderno: lui ‘a lui’; vagliami con pronome posposto; uso dell’articolo. L’italiano antico poteva usare sia cui sia lui in funzione di com-

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plemento di termine senza preposizione a; ma solo cui ha mantenuto questa possibilità nell’italiano moderno, in forza della persistente suggestione del latino cui, sulla quale non poteva contare lui, che muove da una base latino-volgare (il latino classico aveva illi, per i tre generi), cioè non da un modello operante nella coscienza linguistica dei dotti nel Medioevo. In vagliami si può notare la posposizione del pronome: l’italiano antico non ammetteva un pronome atono a inizio di frase (è utile saperlo anche per evitare superinterpretazioni impressionistiche: «Stavvi Minos orribilmente: che verso solenne! si sente la lapidaria sentenziosità che perderemmo se avessimo vi sta...»; per carità!); oggi un riflesso di questo vincolo è rappresentato dall’imperativo affermativo (dimmi! fallo! non *mi di’, *lo fa’), mentre l’imperativo negativo, in cui il verbo non è a inizio di frase perché è preceduto dall’avverbio non, può scegliere tra non mi dire, non lo fare e non dirmi, non farlo. L’uso di lo dopo cercar dipende da una diversa distribuzione dell’articolo maschile singolare rispetto all’italiano moderno, in cui è decisiva la parola che segue (il cane, ma lo anno > l’anno e lo straniero); anticamente, lo era sempre usato a inizio di frase (Lo giorno se n’andava e l’aere bruno è il verso d’avvio del secondo canto dell’Inferno) o dopo parola terminante per consonante; questo spiega la sopravvivenza di lo nel-

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le locuzioni cristallizzate per lo meno, per lo più (che si scrivono anche unite, essendo ormai percepite come una parola sola). Quanto a c), vi si possono collocare i fatti salienti di lessico e di semantica. Il nostro brano ce ne offre due esempi: noia ha un significato ben diverso da oggi, perché non indica ‘assenza di stimoli, gradevoli o spiacevoli che siano’ bensì ‘presenza di sensazioni dolorose, moleste’; insomma, lo studente può anche provar noia leggendo Dante, ma quando il poeta parla di noia allude al mondo infernale, in cui si soffre eternamente, però non si sbadiglia (anche oggi, del resto, questa accezione sopravvive al plurale: avere noie con la giustizia, noie al fegato). In vaglia per ‘valga’ si può far notare che la forma antica ha assunto il valore di ‘titolo di credito’ perché vaglia, cioè ‘valga una certa somma’, era la prima parola che si leggeva su certe cedole; anche il sostantivo pagherò ‘cambiale’, oggi poco usato, ha la stessa origine. La prospettiva storico-linguistica, sia pure in piccole dosi come quelle proposte, potrebbe sembrare a qualche insegnante troppo specialistica; ma i ragazzi hanno una naturale curiosità per la lingua, specie per l’origine delle parole, e in genere rispondono bene a stimoli di questo tipo. In ogni caso è irrinunciabile la salutare pratica della spiegazione letterale. È inutile, certo, parafrasare «Sempre caro mi fu quest’ermo colle» (e andrà

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solo dichiarato il significato di ermo; perché rinunciare a dire, allora, che la radice è la stessa di eremita?). Ma altri versi leopardiani, che pure sembrano scorrere così piani davanti ai nostri occhi, hanno un significato non sovrapponibile all’italiano di oggi: si leggano i vv. 50-54 del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: Altro ufficio più grato Non si fa da parenti alla lor prole. Ma perché dare al sole, Perché reggere in vita Chi poi di quella consolar convenga?

Nessun adulto scolarizzato penserebbe che l’ufficio è quello con le segretarie e che i parenti sono cugini e cognati, ma un ragazzo potrebbe crederlo o, meglio, potrebbe non porsi nemmeno il problema, contentandosi di una comprensione generica e intuitiva (che è proprio quello che un grande poeta non merita: non stiamo leggendo un messaggio pubblicitario!). E forse quasi tutti, adolescenti e adulti, non coglierebbero la particolare accezione di convenga, che non vuol dire come oggi ‘sia opportuno’ ma, come nell’italiano antico («ogne viltà convien che qui sia morta» ecc.), ‘sia giocoforza, sia ineluttabile’: il dovere primo, irrinunciabile, dei genitori secondo Leopardi è quello di consolare in qualche modo i figli per scusarsi di averli messi al mondo.

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Perché insegnare i classici (e come)

Si discute da molto tempo su che cosa sia un classico letterario e se, una volta d’accordo nel riconoscere questa qualifica alla Gerusalemme Liberata o ai Promessi Sposi, se ne debba proporre lo studio a scuola. In particolare, viene preso di mira il romanzo manzoniano: sono molti e autorevoli gli intellettuali che dichiarano di averlo odiato perché lo hanno subìto negli anni dell’adolescenza, costretti a rinunciare al libero pascolo nei grandi spazi della letteratura. Però non tutti sono destinati, crescendo, a diventare Umberto Eco, che è appunto uno di questi intellettuali. In alcuni casi la colpa del disamore dipenderà da una cattiva proposta didattica; in altri, dall’illusione che tutto quello che si studia in àmbito umanistico possa produrre immediatamente diletto e gioia. Ma il diletto in molti casi potrà essere solo un punto d’arrivo, non un punto di partenza: a quindici anni ci sono cose più divertenti da fare che non leggere I Promessi Sposi (e forse leggere

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tout court). Continuo a pensare che avesse ragione Gramsci quando, in pagine famose, asseriva che lo studio è «un mestiere molto faticoso, con un suo speciale tirocinio anche nervosomuscolare, oltre che intellettuale: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia»; e nella fattispecie mi chiedo, con Francesco Bruni: «Quanti prenderebbero in mano i Promessi Sposi, un romanzo del tutto estraneo alla ricerca di facili effetti romanzeschi, se la lettura fosse lasciata alla libera iniziativa extrascolastica?». Il classico assolve anche allo scopo di garantire la coscienza identitaria e ha quindi un peso diverso in contesti culturali diversi. Guido Armellini ricorda come la concezione del rapporto tra letteratura e scuola vigente in Italia sia di matrice desanctisiana e come «i capisaldi di questo modello oggi non reggano più». È vero, ma fino a che punto? Non so se, in termini di valori artistici assoluti, Tasso e Manzoni reggano davvero il confronto con Shakespeare o con Tolstoj; e penso che la tentazione di sostituire gli uni con gli altri possa attrarre molti, nella scuola e fuori, e con le migliori intenzioni: si tratta di autori che ci fanno sentire più europei, perché il loro messaggio ha respiro universale ed è meno condizionato dal contesto storico-culturale di appartenenza; quel che interessa è accostarci alla grande letteratura, non li-

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mitarci alla storia necessariamente angusta delle patrie lettere; inoltre, dal momento che le opere straniere si leggono in traduzione italiana moderna, i ragazzi non si sentirebbero straniati dalla distanza linguistica del testo e potrebbero accostarsi direttamente e liberamente ai massimi capolavori. Credo che ci sia un’unica possibile obiezione a posizioni del genere, ed è un’obiezione extraletteraria: la scuola deve svolgere la funzione, tra l’altro, di mantenere la memoria storica di una comunità; un ufficio, questo, tanto più forte in Italia, data la ben nota labilità della coesione nazionale e la preoccupante marginalità culturale dei valori non linguistici effettivamente condivisi (gastronomia e sport: che altro?). La letteratura, a cui si deve la percezione di una continuità attraverso la frammentazione geopolitica così caratteristica della storia italiana, dà senso per l’appunto al nostro stare insieme, nonostante tutto. Attraverso «la storia e le opere della nostra letteratura – ha scritto Giulio Ferroni – vediamo in atto il senso del nostro essere “divenuti”, la tradizione che ci ha costituito, la memoria delle esperienze di coloro che ci hanno preceduto, l’ambiente e il paesaggio che si sono andati definendo nel tempo, l’articolarsi della nostra lingua in una molteplicità di forme e di possibilità, che ancora agiscono sul suo stato presente».

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È doveroso, naturalmente, relativizzare il profilo storico ed evitare anacronismi. Per esempio, ricordando che patria ha indicato per molti secoli nient’altro che la città di provenienza (la «nobil patria» evocata da Farinata degli Uberti è, né avrebbe potuto essere diversamente, Firenze; e ancora Pascoli, a Risorgimento concluso, intitolerà Patria una delle Myricae in cui vagheggia le campagne di San Mauro); o che l’Italia a cui si rivolge Petrarca nella famosa canzone in cui deplora le discordie civili e l’uso delle milizie mercenarie non coincide con l’idea di uno Stato nazionale, com’era la vicina Francia; o che la commossa apostrofe conclusiva del Principe di Machiavelli prefiguri qualcosa di diverso da un potente ducato mediceo. Ma non è senza significato né il comune richiamarsi alla Roma antica, di cui si avverte l’eredità, né la lettura generosamente settaria che di pagine come queste è stata data in pieno Risorgimento, traendo legittimazione morale per l’azione unitaria proprio dall’interpretazione di quelle premesse. Manteniamo dunque la lettura dei classici italiani a scuola. Oltretutto, una volta accettato il principio, è molto facile accordarsi sul canone, almeno fino a metà Ottocento. Gli autori indicati da Romano Luperini qualche anno fa sono più o meno quelli che avrei scelto io: Dante, Boccaccio, Petrarca, Ariosto, Machiavelli, Tasso, Goldoni, Foscolo, Leopardi, Manzoni (magari,

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confermando l’imprescindibilità di Goldoni, avrei inserito in alternativa tra loro Parini e Alfieri). L’importante, proprio per privilegiare la lettura diretta e non il taglio manualistico, è che si abbia il coraggio di potare drasticamente le opere minori: che hanno la loro importanza, si capisce, ma a scuola bisogna scegliere e l’Orlando Furioso è più significativo delle Satire o della Cassaria. Rallegra il fatto che una monumentale letteratura per le scuole diretta da Ezio Raimondi e apparsa negli ultimi mesi del 2009, a dispetto della mole – dovuta alla fitta rete di riferimenti alle altre letterature, antiche e moderne, e a vari inserti di “approfondimento” –, si muova proprio in questa direzione: dei 18 brani scelti per rappresentare il Boccaccio, ad esempio, 17 sono attinti al Decameron e solo uno alla restante produzione (l’Elegia di madonna Fiammetta, un testo oltretutto che offre molti elementi di confronto, nella rappresentazione delle inquietudini femminili, con l’opera maggiore, scritta – come afferma Boccaccio nel Proemio – proprio per consolare e distrarre le donne, costrette a casa). Puntare sui classici non significa sacrificare il resto, ma solo lasciare del tutto libero il docente di scegliere, sulla base della sua formazione, dei suoi gusti, della sua idea di letteratura. Se fossi nei panni di un insegnante che voglia illustrare le novità della lirica barocca, per esempio,

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sceglierei uno dei sonetti esaltanti donne con singoli difetti (la bella zoppa del Sempronio, la bella pidocchiosa del Narducci, la bella balbuziente dell’Errico) e ne valorizzerei le novità, che sono almeno due: a) per la prima volta un modello letterario tipico e riconoscibile, il caratteristico sonetto barocco concluso da un’ardita pointe e dilatato ad abbracciare insolite e imprevedibili materie poetabili («omnia canenda sunt in poësi», affermava nel 1631 Alessandro Donati), attecchisce in aree fino ad allora marginali rispetto ai grandi centri culturali. Non è certo la Toscana la culla del barocco letterario e artistico: dobbiamo guardare alla Puglia di Gian Francesco Maia Materdona, Antonio Bruni, Giuseppe Battista, al Friuli di Ciro di Pers, alle Marche di Agostino Augustini e Marcello Giovannetti, oltre che naturalmente ad aree di preesistente larga circolazione letteraria come Emilia, Veneto, Napoli; b) per la prima volta in un sistema letterario come quello italiano, rigido e fortemente incardinato sui “generi”, si afferma un modello che non è facilmente riducibile né alla lirica amorosa di tradizione petrarchesca né al suo rovesciamento satirico-giocoso: né Bembo né Berni (Chiome d’argento fine...) spiegano insomma l’atteggiamento con il quale i lirici barocchi, quando ne parlano, parlano d’amore. Siamo proprio sicuri che la serie si spieghi solo col gu-

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sto di dissacrare un topos e mettere in scena uno scoppiettante ludismo verbale? Non bisognerebbe tener conto del fatto che la dilatazione dei poetabili comporta anche l’assunzione entro il tradizionale orizzonte della poesia amorosa di immagini di donne che, pure in presenza di singoli difetti, non perdono per questo il loro fascino e la loro potenza seduttiva? Più in generale converrà chiedersi: quanto pesa ancora, magari inconsciamente, il vecchio pregiudizio prima razionalistico e poi romantico sulla scarsa serietà dei poeti barocchi e quindi sul loro inevitabilmente modesto potenziale artistico? Non sarebbe ora di guardare a un fatto che nasce tutto interno alla letteratura secondo categorie di analisi per l’appunto letterarie? Mi sembrano domande importanti; ma per sollecitarle è più che sufficiente l’esemplificazione, ben mirata e ben commentata, di una piccolissima porzione dell’universo lirico barocco, oltretutto in gran parte ancora da dissodare criticamente. Da qualche anno si dibatte sull’opportunità di leggere i grandi classici del passato in “traduzione” moderna. Chi ha avuto la pazienza di leggere fino a questo punto può immaginare quale sia la mia opinione in proposito. Condivido ad litteram quel che ha scritto recentemente Michele Loporcaro, argomentando con la consueta lucidità sul fronte della storia e dell’analisi sociologica.

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Quanto alla storia. È certo arbitrario immaginare che l’italiano sia rimasto immobile dal Trecento toscano a oggi, ma è indubbia la stabilità delle strutture fonomorfologiche, che in massima parte rispecchiano quelle del fiorentino di Dante (Nel mezzo del cammin di nostra vita: l’unico elemento desueto – fatta salva l’apocope in cammin, del linguaggio poetico – è microsintattico, ed è l’assenza dell’articolo davanti all’aggettivo possessivo); d’altro canto occorre ricordare che il lessico, il luogo del massimo indice di innovatività, è in qualsiasi lingua la componente più superficiale, in senso letterale: proprio come l’epidermide, costituita da cellule soggette a continua desquamazione. Infine, bisogna guardare alle altre lingue moderne: in francese e in inglese, com’è notissimo, si è prodotto un vero iato tra fase medievale e fase moderna e nessun parlante di Parigi o Londra potrebbe oggi rispecchiarsi linguisticamente, nemmeno per piccole sezioni, in Chrétien de Troyes o in Chaucer. Il vero punto di svolta non è, insomma, un’improvvisa accelerazione del ritmo evolutivo della lingua, bensì un «mutamento culturale avente per teatro la scuola», che non deve rinunciare allo studio dei classici fondativi della cultura italiana, letti nell’originale. «Scegliere l’altra strada, – scrive polemicamente Loporcaro – buttar via Dante originale e legger solo la traduzione modernizzata è il primo passo verso

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il buttar via la letteratura per intero, e fare a scuola come uniche lettere le lettere... commerciali, perché direttamente utili». C’è anche un altro argomento contro la riscrittura dei classici. Nella grande maggioranza dei casi il grande scrittore del passato non diventa davvero più accessibile, o almeno più appetibile, in vesti contemporanee. Intanto, spesso non basta un maquillage linguistico (del tipo veggendo → vedendo, rimaso → rimasto, se gli → se li) per sistemare le cose; si prenda un brano di una famosa novella di Boccaccio (Decam., II 5 37): Era il caldo grande: per la qual cosa Andreuccio, veggendosi solo rimaso, subitamente si spogliò in farsetto e trassesi i panni di gamba e al capo del letto se gli pose.

Il farsetto era una specie di sottoveste, anche maschile; e i panni che coprivano le gambe erano non solo calze e pantaloni, ma anche mutande di lino (nonostante il caldo!). Possiamo contentarci di una traduzione come «Andreuccio si spogliò rimanendo in sottoveste (no, farebbe ridere; in maglietta allora?), si tolse le brache (lasciamo perdere il resto?) e le mise alla testa del letto»? Se siamo stranieri e abbiamo una conoscenza approssimativa dell’italiano, sì; se siamo parlanti madrelingua e andiamo a scuola, certa-

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mente no: il contatto con un testo del passato serve anche a farci prendere coscienza di diversità culturali, per esempio nell’abbigliamento, ed è inevitabile il ricorso alle note di commento, che ci diano informazioni su quello che, nel testo trecentesco, è irrimediabilmente e inevitabilmente lontano dal nostro orizzonte. Boccaccio è pur sempre un grande narratore e il tentativo di ammodernamento, comunque condotto, potrebbe anche riuscire a fare avvicinare lettori altrimenti irraggiungibili. Ma che dire invece di un testo storicamente capitale come il Cortegiano di Castiglione, una delle opere del Cinquecento italiano più tradotte nelle altre lingue moderne? La riscrittura si deve al massimo specialista del tema, Amedeo Quondam; ma davvero possiamo pensare che un qualsiasi lettore possa andare avanti dopo aver letto le prime battute del Proemio, per quanto rammodernato, col loro periodare pesantemente ipotattico e con gli stucchevoli convenevoli di rito? Facciamo la prova: Fra me stesso lungamente ho dubitato, messer Alfonso carissimo, quale di due cose più difficile mi fosse: o il negarvi quello che con tanta istanza più volte mi avete richiesto, o il farlo; perché da un canto mi pareva durissimo negare alcuna cosa, e massimamente lodevole, a persona che io amo sommamente e da cui sommamente mi sento essere amato;

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dall’altro ancora pigliare impresa la quale io non conoscessi poter condurre a fine parevami disconvenirsi a chi estimasse le giuste riprensioni quanto estimare si debbano.

Quondam ha mantenuto la patina d’epoca, nella struttura sintattica del periodo, nel lessico (istanza, oggi letterario per ‘insistenza’; ma anche amare ha assunto una pregnanza semantica diversa), intervenendo solo su microfenomeni come l’apocope (qual di due cose → quale di due cose), i nessi latineggianti (instanzia → istanza), l’ordine dei pronomi atoni e la desinenza dell’imperfetto (pareami → mi pareva), l’elisione (ch’io amo → che io amo). Ma credo che interventi del genere non bastino a evitare che un ipotetico “lettore cólto” (categoria di non facile identificazione, benché molto cara agli editori quando programmano una collana di testi), il quale nelle horae subsecivae prenda in mano il Cortegiano per sentirsi appunto lettore cólto, non faccia come l’Alfieri quando, imbattutosi nel Conciossiacosaché che apre il Galateo di monsignor Della Casa, scagliò il libro dalla finestra (il nostro lettore, sperabilmente, si limiterà a chiuderlo). Del resto, lo stesso Quondam è perfettamente consapevole che il nostro rapporto con gli autori antichi «è difficile, non solo e non tanto per l’handicap linguistico, ma soprattutto per la distanza e l’alterità semantica

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del loro lessico e della loro cultura: è un problema di comprensione e di interpretazione». Scommettere sui classici significa pensare che abbiano ancora qualcosa da dirci; e che ce lo dicano, finché è ancora possibile comprenderla, nella lingua in cui sono stati scritti, ossia con la loro voce.

Nota bibliografica

Premessa Il libro di Armellini si intitola La letteratura in classe. L’educazione letteraria e il mestiere dell’insegnante ed è stato pubblicato a Milano, Unicopli, 2008 (le citazioni dalle pp. 23-24 e 122-23). La citazione da Sanguineti è tratta dal volume Il testo fa scuola. Libri di testo, linguaggi ed educazione linguistica, a cura di Rosa Calò e Silvana Ferreri, Scandicci, La Nuova Italia, 1997, p. 39.

Capitolo I Il libro di Snow è stato ripubblicato qualche anno fa in traduzione italiana (Le due culture, a cura di Alessandro Lanni, con interventi di Giulio Giorello et al., Venezia, Marsilio, 2005). L’articolo di Odifreddi è apparso nella «Repubblica» del 3 agosto 2007, p. 41. La citazione da Maiocchi è tratta da un articolo apparso in «Vita e Pensiero», XL, 2007, 1, pp. 120-25 (125). I «valori clericali» enunciati da Benda si leggono in un’appendice all’edizione 1946, l’ultima curata dall’autore (edizione italiana: Julien Benda, Il

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tradimento dei chierici, Torino, Einaudi, 1976). La monografia del Pozzi (p. Giovanni [Pozzi] da Locarno, Saggio sullo stile dell’oratoria sacra nel Seicento esemplificata sul p. Emmanuele Orchi) è stata pubblicata a Roma, Institutum historicum ord. fr. min. cap., 1954. Il giudizio di Varvaro sul REW si legge nel suo Storia, problemi e metodi della linguistica romanza, Napoli, Liguori, 1968, p. 143.

Capitolo II Un ottimo e agile profilo di storia della scuola postelementare si deve ad Antonio Santoni Rugiu, La lunga storia della scuola secondaria, Roma, Carocci, 2007. La citazione di Pascoli si legge nei suoi Pensieri scolastici, in Id., Prose, I, Milano, Mondadori, 19714, p. 636; quella di Brioschi in Tina Tomasi et al., La scuola secondaria in Italia (1859-1977), Firenze, Vallecchi, 1978, pp. 6-7; quella di Baccelli nel volume L’istruzione secondaria superiore in Italia da Casati ai giorni nostri, a cura di Ernesto Bosna e Giovanni Genovesi, Bari, Cacucci, 1988, p. 102. Per le posizioni di De Mauro si veda Tullio De Mauro, La cultura degli italiani, a cura di Francesco Erbani, nuova ediz. ampliata, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 3-6. L’aneddoto su Vittorini si legge in Dossier Elio Vittorini, a cura di Walter Pedullà, in «Il Caffè illustrato», n. 51, novembre-dicembre 2009, p. 51. Sullo statuto del latino nella scuola e nella società attuale è utilissimo il volumetto dell’Associazione TreeLLLe, Latino perché? Latino per chi? Confronti internazionali per un dibattito, Genova, Associazione

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TreeLLLe, 2008 (in particolare, per la citazione di Drago: p. 102; per l’intervento di Bernardini: pp. 6370). La citazione di Zanetti in Ead., Modelli didattici nella prassi scolastica attuale, in Nuove chiavi per insegnare il classico, a cura di Ugo Cardinale, Torino, Utet, 2008, p. 453.

Capitolo III In questo capitolo rifondo alcune idee e citazioni contenute in una relazione presentata al Congresso Latinum est et loquitur (Cosenza, dicembre 2009; titolo: Il latino nella scuola e nella società, oggi. Riflessioni di uno storico della lingua italiana), che sarà pubblicata nei relativi Atti. La citazione di Gamberale è in Associazione TreeLLLe, Latino perché? cit., p. 112; il giudizio di Pasquali si legge in Coniunctivitis professoria [1927-1952], in Id., Pagine stravaganti, Firenze, Sansoni, 1968, pp. 147-50. Il manuale di latino chiamato in causa per i contenuti militari predominanti nei testi letti a scuola e per la legge di Reusch è quello di Nicola Flocchini, Piera Guidotti Bacci e Marco Moscio, Lingua latina. Teoria e esercizi, Milano, RCS Libri, 2008 (riferimenti nel vol. 1, p. 328 e vol. 2, p. 235). La traduzione di Ausonio si legge in Francesco Della Corte, Antologia degli scrittori latini minori, Torino, Loescher, 1962, p. 475.

Capitolo IV Il brano tratto da un tema ginnasiale si legge in Luca Serianni e Giuseppe Benedetti, Scritti sui banchi.

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L’italiano a scuola tra alunni e insegnanti, Roma, Carocci, 2009, p. 89.

Capitolo V La ricerca evocata si deve a Maria G. Lo Duca e Susanna Polato, Dalle elementari alle soglie dell’università. Indagine sul riconoscimento della categoria lessicale del nome, in Perché la grammatica?, a cura di Giuliana Fiorentino, Roma, Carocci, 2009, pp. 78-92. Il libro di Ersilia Zamponi è stato pubblicato a Torino, dalla Einaudi, nel 1988, con prefazione di Umberto Eco; gli esempi citati nel testo si leggono in un articolo della stessa Zamponi, Il gioco dei Draghi, in «Italiano e oltre», I, 1986, pp. 55-58. Il volume di Anthony Mollica, Ludolinguistica e glottodidattica, è apparso a Perugia, ed. Guerra, 2010. Il brano di «Limes» è scritto da Carlo Galli e si legge nel numero 2 del 2009, a p. 49. La citazione di Gensini, tratta da un intervento del 1999, è in Serianni e Benedetti, Scritti sui banchi cit., p. 21; quella di Benedetti, ivi, p. 24; della “traccia” assegnata in un liceo piemontese si parla ancora ivi, p. 83.

Capitolo VI Gli interventi sulle grammatiche del secondo Novecento si devono rispettivamente a Raffaele Simone e Giorgio Cardona, Strutture teoriche di alcune grammatiche scolastiche italiane, nel vol. della Società di linguistica italiana, L’insegnamento dell’italiano in Italia e all’estero, I, a cura di Mario Medici e Raffaele Simone, Roma, Bulzoni, 1971, pp. 365-93, e a

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Pier Marco Bertinetto, Scuola media: abolire la grammatica? Riflessioni su alcuni testi per la scuola dell’obbligo, in «Orientamenti pedagogici», XXI, 1974, pp. 505-40 (una citazione puntuale è attinta da p. 537). I materiali sulle grammatiche dei primi anni del XXI secolo sono estratti da un mio saggio in corso di stampa (Dal testo di grammatica alla grammatica in atto): ciò che mi esime dal fare, qui, nomi e cognomi. Sull’uso del punto e virgola cfr. Bice Mortara Garavelli, Prontuario di punteggiatura, Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. 67-74.

Capitolo VII L’esercizio su biasimare è attinto da Serianni e Benedetti, Scritti sui banchi cit., p. 152.

Capitolo VIII La citazione di Colombo si legge in Riparliamo di letteratura, in «Italiano e oltre», XV, 2000, pp. 7983; quella di Mortara Garavelli è tratta da Il parlar figurato, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 9. L’interpretazione delle metafore del Gattopardo è nel mio articolo Tomasi di Lampedusa. Note di lettura, in «Stilistica e metrica italiana», III, 2003, pp. 285-301. Per la storia di sè “tu sei” si veda Arrigo Castellani, Da sè a sei, in Id., Nuovi saggi di linguistica e filologia italiana e romanza (1976-2004), t. I, Roma, Salerno Editrice, 2009, pp. 581-93.

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Capitolo IX L’opinione di Eco a cui si allude in apertura si legge in Sei passeggiate nei boschi narrativi, Milano, Bompiani, 1994, p. 63; la citazione di Gramsci in Quaderni del carcere, a cura di Valentino Gerratana, Torino, Einaudi, 19722, I, p. 502, quella di Bruni in Imparare stanca (Elogio semiserio della noia), in «Sigma», XVIII, 1985, p. 21. Il riferimento ad Armellini è in La letteratura in classe cit., pp. 101-102. Per il canone proposto da Luperini si veda il suo intervento Insegnare letteratura oggi, in Ministero della Pubblica istruzione, Quaderni 19. Lingua e testo letterario, Liceo scientifico Filippo Buonarroti, Pisa 1999, p. 34. La citazione di Ferroni è tratta da Prima lezione di letteratura italiana, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 4. Della letteratura di Raimondi (Leggere come io l’intendo) cito solo il primo volume, Dalle origini all’età comunale, che si deve a Gian Mario Anselmi, Loredana Chines e Gabriella Fenocchio, Milano, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori, 2009. Le riflessioni sulla lirica barocca sono cavate da un mio intervento in «Bollettino di italianistica», VI, 2009, p. 133. Il saggio di Loporcaro è Tradurre i classici italiani? Ovvero Gramsci contro Rousseau, in «Belfagor», LXV, 2010, pp. 3-32; della bibliografia precedente si veda almeno Riccardo Tesi, «Da un italiano all’altro». Tradurre i classici nella lingua di oggi, in Id., Un’immensa molteplicità di lingue e di stili, Firenze, Cesati, 2009, pp. 213-57 [già apparso nel 2004]. Una brillante, anche se alquanto disinvolta, versione moderna del Decamerone era stata allestita prima da Aldo Busi (G. Boccaccio e A. Busi, Deca-

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merone: da un italiano all’altro, Milano, Rizzoli, 1993). L’edizione curata da Quondam è Baldassarre Castiglione, Il Cortigiano, Milano, Mondadori, 2002 (la citazione è tratta dalla Nota al testo, p. CX; riserve linguistiche sull’operazione sono state avanzate da Alfredo Stussi, in «Ecdotica», I, 2004, pp. 178-192 e nel volume Conversazioni per Alberto Gajano, a cura di Carlo Ginzburg ed Emanuela Scribano, Pisa, Ets, 2005, pp. 341-51).

Indice dei nomi e delle cose notevoli

Abriani, Paolo, 11-12. accentazione dei monosillabi, 43. Adami, Giuseppe, 15. aggettivi qualificativi e determinativi, 70-71. agrammaticalità, test di, 70. Alfieri, Vittorio, 99, 105. Alighieri, Dante, 10-11, 89-93, 98, 101. Alzheimer, Alois, 9. Ammaniti, Niccolò, 73. analfabetismo funzionale, 43. Anselmi, Gian Mario, 112. antonimi, 80. apocope, 105. applicata, ricerca, 8-9. Arcangeli, Massimo, 78. argomentativa, scrittura, 60. Ariosto, Ludovico, 98-99. Aristotele, 7.

Armellini, Guido, VIII, 96, 107, 112. articolo, uso dell’a. nell’italiano antico, 92-93. arti visive, 40-41. attualità, vedi tema. Augustini, Agostino, 100. Ausonio, Decimo Magno, 33, 109. Baccelli, Guido, 18, 108. Baldassarre di Babilonia, 42. barocca, novità della lirica b., 100. base, ricerca di, 8-9. Battista, Giuseppe, 100. Bellini, Giovanni, 7. Bembo, Pietro, 100. Benda, Julien, 9, 107. Benedetti, Giuseppe, 55, 109-111. Berlusconi, Silvio, 19. Bernardini, Carlo, 24, 109.

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Berni, Francesco, 100. Bertinetto, Pier Marco, 61, 68, 111. biasimare, significato di b. frainteso, 76-77. bibliografia, diversa tenuta nel tempo della b. per umanisti e scienziati, 78; – maggiore dispersione della b. umanistica, 11. Boccaccio, Giovanni, 9899, 103-104. Bongiorno, Mike, 15. Bosna, Ernesto, 108. Brioschi, Francesco, 18, 108. Bruni, Antonio, 100. Bruni, Francesco, 96, 112. Busi, Aldo, 112. Caravaggio, Michelangelo Merisi, detto, 41. Cardinale, Ugo, 109. Cardona, Giorgio, 61, 110. Carducci, Dante, 35. Carducci, Giosue, 5, 35. Carducci, Valfredo, 35. Casati, Gabrio, 18. Castellani, Arrigo, 91, 111. Castiglione, Baldesar (Baldassarre), 104-105, 113. catacresi, 87. Chagall, Marc, 57, 59.

Chaucer, Geoffrey, 102. Chines, Loredana, 112. Chrétien de Troyes, 102. classici: – canone dei c. italiani, 98-99; – definizione dei, 95; – funzione identitaria dei, 97; – traduzione in italiano moderno dei c., 101106. coesione nazionale, labilità della, 97. collocazioni, vedi lessicali, solidarietà. Colombo, Adriano, 84, 111. competenza attiva e passiva, 17. complementi, classificazione dei, 69-70. completive, sintassi delle, 66-69. comprensione del testo, esercizi sulla, 51-53. congiuntivo, uso del, 68. convenire «essere ineluttabile», 94. Coppino, Michele, 18. corradicali, parole, 79-80, 82. Credaro, Luigi, 19. Croce, Benedetto, 82.

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Daniele, profeta, 41. Dante, vedi Alighieri. Della Casa, Giovanni, 105. Della Corte, Francesco, 34, 109. De Mauro, Tullio, 19, 108. discreti, test, vedi fattoriali. Donati, Alessandro, 100. Drago, Rosario, 23, 109.

Ferdinando IV, 16. Ferroni, Giulio, 97, 112. Filicaia, Vincenzo da, 42. finanziamenti: – diversa importanza dei f. per umanisti e scienziati, 12-13; – f. «a pioggia», 14. Fiorentino, Giuliana, 110. Flocchini, Nicola, 109. Foscolo, Ugo, 56, 60, 98.

Eco, Umberto, 95, 112. editoriali, utilizzazione didattica degli, 77-83. egli/lui, vedi pronomi personali. elisione, 105. ella/lei, vedi pronomi personali. Erbani, Francesco, 108. Errico, Scipione, 100. esempi implausibili nei testi di grammatica, 73. esercizi grammaticali, 6366. essi/loro, vedi pronomi personali.

Galli, Carlo, 110. Galli della Loggia, Ernesto, 77. Gamberale, Leopoldo, 28, 109. Gelmini, Maria Stella, VII. generi letterari, superamento dei, 100-101. Genovesi, Giovanni, 108. Gensini, Stefano, 53, 110. Gentile, Giovanni, 19. Gerratana, Valentino, 112. gerundio, sintassi del, 7475. Ginzburg, Carlo, 113. Giorello, Giulio, 107. Giovannetti, Marcello, 100. Girolamo, san, 31. gli/le, vedi pronomi personali. gli/loro, vedi pronomi personali.

falsificabilità, criterio della f. nelle ricerche umanistiche, 6. Farinata degli Uberti, 98. fattoriali, test, 48. Fenocchio, Gabriella, 112.

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glottodidattica, X, 46-48. Gold, Didier, 15. Goldoni, Carlo, 98. Gozzano, Guido, 81. Gramellini, Massimo, 77. Gramsci, Antonio, 96, 112. greco, presenza del g. nella scuola postunitaria, 18. Guidotti Bacci, Piera, 109. Hammurabi, 42. Harvey, William, 7. Hobbes, Thomas, 82. Hornby, Nick, 73. impact factor, 9-10. imperativo affermativo e negativo, 92. impliciti/espliciti, costrutti, 66. inferenza, esercizi di, 49. i non diacritica (coscienza), 80. nterpunzione, 58, 64-66. italiano, ridotti «debiti formativi» dell’, 31. Lanni, Alessandro, 107. latineggianti, nessi, 105. latinismi, 80. latino: – canone dei testi di l. da

proporre ai liceali, 3234; – centralità della versione nella prassi scolastica, 29-30; – l. cristiano, 31; – presenza del l.: nella scuola postunitaria, 18; nella riforma Gelmini, 21; – pro e contro per lo studio del l., 25-28; – scarsa efficacia dell’insegnamento tradizionale, 29; – suo ridotto prestigio nella società attuale, 23-24; – valorizzazione didattica del rapporto genetico tra l. e lingue romanze, 35. legittimo/*leggittimo, 81. Leopardi, Giacomo, 56, 59, 94, 98. lessicali, solidarietà, 4950. lessico astratto, padronanza del, X. letterale, spiegazione, 93. lettura, piacere della, VIII, 37, 85. liberalizzazione degli accessi all’università, 19. libri di testo, XI, 63. liceo classico, crisi del, 2223.

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liceo italiano, buon potenziale formativo del, 2829. lingue straniere a scuola, 20-21. linguistica, competenza, IX, 17. Liuzzi, Mondino de’, 7. lo, vedi articolo. Lo Duca, Maria G., 110. logicismo grammaticale, 74, 76. Loporcaro, Michele, 101103, 112. ludodidattica, 48. lui «a lui», 91-92. Luperini, Romano, 98, 112.

Masters, Edgar Lee, 57. Mastrocola, Paola, 43. Medici, Mario, 110. metafora, 87-88. metalinguistica, riflessione, 46. Meyer Lübke, Wilhelm, 7. Moccia, Federico, 83. Mollica, Anthony, 48, 110. Morante, Elsa, 57, 59. Morsolin, Bernardo, 8. Mortara Garavelli, Bice, 87, 111. Moscio, Marco, 109. Mozart, Wolfgang Amadeus, 7. musica, 40.

Machiavelli, Niccolò, 98. Maia Materdona, Gian Francesco, 100. Maiocchi, Roberto, 6, 107. manuali di grammatica, 61-75. Manzoni, Alessandro, 4, 20, 56, 96, 98. marginali, importanza dei filoni m. nella ricerca umanistica, 10-11. Marinetti, Filippo Tommaso, 57. Marziale, Marco Valerio, 33.

Nabonedo, 42. Narducci, Anton Maria, 100. noia, semantica di n. nell’italiano antico, 93. Odifreddi, Piergiorgio, 6, 107. Odissea, lettura dell’O. a scuola, 86. Omero, 86. Orchi, Emmanuele, 10. ortografia, vedi accentazione; i non diacritica; legittimo/*leggittimo; segmentazione.

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Padoa Schioppa, Tommaso, 78-82. parenti ‘genitori’, 94. Parini, Giuseppe, 99. Parmenione, 33. Pascoli, Giovanni, 18, 56, 98, 108. Pasolini, Pier Paolo, 57. Pasquali, Giorgio, 29, 109. patria, semantica di, 98. Pedullà, Walter, 108. Pers, Ciro di, 100. Petrarca, Francesco, 32, 42, 56, 59-60, 98. Pfister, Max, 8. Pirandello, Luigi, 10. Polato, Susanna, 110. Pozzi, Giovanni, 10-11, 108. Preti, Mattia, 41. pronomi atoni, ordine dei, 105. pronomi personali, 72-74. Puccini, Giacomo, 15. punteggiatura, vedi interpunzione. punto e virgola, vedi interpunzione. Queneau, Raymond, 47. quiz televisivi, 15-16. Quondam, Amedeo, 104105, 113. Raimondi, Ezio, 99, 112.

regionalismi sintattici, 43. retoriche, figure, vedi catacresi; metafora; similitudine. Reusch, Albert Karl, 36, 109. riassunto, pratica del, 40, 50-51. rispuosi, 91. Rodari, Gianni, 47. Ruffo di Bagnara, Fabrizio, 16. saggio breve, 55-60. Sanguineti, Edoardo, XI, 107. Santoni Rugiu, Antonio, 108. Scalfari, Eugenio, 77. Schweickard, Wolfgang, 8. scientifica, cultura, rapporti della c.s. con la cultura umanistica, 3-14, 17-19. Scribano, Emanuela, 113. segmentazione, errori di, 43. Sempronio, Giovan Leone, 100. Shakespeare, William, 56, 96. similitudine, 87-90. Simone, Raffaele, 61, 110. sintassi verbale, 43.

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sms, scrittura degli, 65. Snow, Charles P., 3-6, 107. Steinbeck, John, 20. storia, centralità della s. in àmbito umanistico, 7, 40. storia della lingua, applicazioni didattiche della, 90-93. Stussi, Alfredo, 113. subordinate, classificazione delle, 67-68. superinterpretazioni, rischio delle, 92. Svevo, Italo, VIII. Tasso, Torquato, 96, 98. tassonomie grammaticali, 69-71. televisiva, cultura, 14-16. tema: – scelta degli argomenti e delle consegne nel t., 5355; – t. d’attualità 37-39. Tesi, Riccardo, 112. testuale, linguistica, 84. Tolstoj, Lev Nikolaevicˇ, 96. Tomasi, Tina, 108.

Tomasi di Lampedusa, Giuseppe, 87-89. Tommaso d’Aquino, san, 7. Trissino, Gian Giorgio, 8. ufficio «dovere», 94. umanistica, cultura, vedi scientifica, cultura. vaglia ‘valga’, 93. vagliami, 91-92. valutazione, problemi di, 42-45. Varrone, Marco Terenzio, 49. Varvaro, Alberto, 7, 108. Vecellio, Tiziano, 7. Verga, Giovanni, 56. Virgilio Marone, Publio, 49. virgola, vedi interpunzione. virgolette metalinguistiche, abuso delle, 58. Vittorini, Elio, 20, 108. Zamponi, Ersilia, 47, 110. Zanetti, Franca, 23, 109. Zingarelli, Nicola, 78.