L'occhio del mercante. Commercio e cultura nel Medioevo italiano
 9788893597432, 9788893597449

Table of contents :
Frontespizio
Copyright
Premessa
1. Scrivere dal Mediterraneo
Note
2. Sfruttare le occasioni
Note
3. Donne tra mare e mercato
Note
4. Un diverso modo di pensare il mondo
Note
5. Cristiani, ebrei e musulmani
Note
6. Elogio del mercante
Note
7. Scrivere di guerra
Note
8. Scrivere di amore e di politica
Note
9. Scrivere di storia
Note
10. Dante, Boccaccio, Petrarca
Note
11. L’uomo delle stelle e il padre dell’archeologia
Note
12. Ancora e sempre Gerusalemme
Note
13. Colombo sull’Oceano
Note
Bibliografia
Indice del volume
TR2_Airaldi_Mercante_pdf_p.138.pdf
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Premessa
1. Scrivere dal Mediterraneo
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2. Sfruttare le occasioni
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3. Donne tra mare e mercato
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4. Un diverso modo di pensare il mondo
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5. Cristiani, ebrei e musulmani
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6. Elogio del mercante
Note
7. Scrivere di guerra
Note
8. Scrivere di amore e di politica
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9. Scrivere di storia
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10. Dante, Boccaccio, Petrarca
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11. L’uomo delle stelle e il padre dell’archeologia
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12. Ancora e sempre Gerusalemme
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13. Colombo sull’Oceano
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Premessa
1. Scrivere dal Mediterraneo
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2. Sfruttare le occasioni
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3. Donne tra mare e mercato
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4. Un diverso modo di pensare il mondo
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5. Cristiani, ebrei e musulmani
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6. Elogio del mercante
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7. Scrivere di guerra
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8. Scrivere di amore e di politica
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9. Scrivere di storia
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10. Dante, Boccaccio, Petrarca
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11. L’uomo delle stelle e il padre dell’archeologia
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12. Ancora e sempre Gerusalemme
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13. Colombo sull’Oceano
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Il tempo ritrovato 2

Gabriella Airaldi

L’occhio del mercante Commercio e cultura nel Medioevo italiano

E DI Z ION I DI STOR I A E L ET T E R AT U R A

Prima edizione: marzo 2023 ISBN 978-88-9359-743-2 eISBN 978-88-9359-744-9

È vietata la copia, anche parziale e con qualsiasi mezzo effettuata Ogni riproduzione che eviti l’acquisto di un libro minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza

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Premessa

In una società che mette al centro il mercato è necessario saper scrivere, leggere e far di conto. Grazie a queste competenze gli uomini d’affari italiani, che percorrono le vie del mondo fin dal XII secolo, sono in grado di andare oltre ogni frontiera, compresi spesso i limiti che impongono loro le scritture commerciali. Chi appartiene al mondo degli affari, o è egli stesso mercante, scrive anche altro. Ripercorrere la storia dei commerci che caratterizzano la società internazionale sin dal Medioevo porta a riscoprire una precoce vocazione alla scrittura che si spinge oltre gli aspetti puramente professionali e anticipa gli sviluppi culturali del XV secolo. A riprova ulteriore del risveglio del XII secolo, età aurea della storia d’Europa, la cultura del mercante diviene protagonista del nascente capitalismo. È una storia di personaggi del mercato e della finanza, di individui di grande nome, di gruppi di uomini, di rami di famiglie. Si tratta di un potere materiale: Firenze, Venezia e Genova lo esprimono appieno. Quello di Genova è forse il più originale: uomini del predominio finanziario, i genovesi riescono, anche oltre il XVII secolo, a dettare legge all’Europa e al resto del mondo. E l’importanza crescente del denaro favorisce un progressivo diffondersi dei valori dello spirito: l’espansione mercantile si accompagna, ieri come oggi, a risonanze artistiche e culturali. Prima del Quattrocento gli uomini d’affari sono gli unici a lavorare molto dovunque. Ma in questo libro non interessa 5

davvero chi siano, fin dove si spingano per i loro affari. Quel che si vuol mettere in evidenza è che si tratta di persone colte e capaci di scrivere di qualsiasi argomento. All’alba della società di mercato non ci sono dunque capitalisti ignoranti, spregiudicati e affamatori, che hanno occhi solo per l’aureo metallo. Ci troviamo di fronte ad autori di trattati sui numeri, quegli stessi numeri alla base dei loro rapporti di scambio. Soprattutto, abbiamo dinanzi uomini che scrivono di letteratura e storia. L’occhio del mercante è stato essenziale per dar valore al sapere.

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1 Scrivere dal Mediterraneo

«Il mondo è un libro. Chi non viaggia ne conosce solo una pagina», scrive sant’Agostino. L’ età medievale è ricca di esperienze che vanno oltre la stabilitas contemplativa dei monaci, oltre i viaggi degli ambasciatori, dei pellegrini, dei missionari, oltre la dissennata vagatio dei vagabondi. Ci sono anche uomini come quelli che, nell’estate del 1100, partono per l’Oltremare. È l’alba del primo agosto e una brezza leggera gonfia le vele della squadra navale che sta per uscire dal porto di Genova. Un lungo viaggio attende le glauche galee dei guerrieri-­ mercanti che lasciano la città. Sventola la bandiera di San Giorgio sulle ventisei galee e sei navi agli ordini di Guglielmo Embriaco ‘Testadimaglio’. Orizzonti di gloria si aprono di fronte all’eroe di Gerusalemme. Un ramo della sua famiglia resterà nell’antica Byblos, la Jbeil da cui viene GibeletGibelletto, il nuovo cognome degli Embriaci oltremarini. Viaggia con lui Caffaro di Caschifellone che, come Guglielmo, sarà uno dei consoli dell’appena nato Comune1. Caffaro è un personaggio molto diverso dall’amico e sodale Guglielmo: non è solo un uomo d’affari capace di battersi nello spazio mediterraneo, cosa per lui abituale. È anche un uomo colto, un fine e disinvolto diplomatico avvezzo a trattare con imperatori e pontefici, con i poteri europei, Bisanzio e l’Islam. Figlio di una rivoluzione politica ed economica che ha fatto nascere la cittàstato, Caffaro è un uomo che medita su quel che sta accaden7

do, che sa cogliere i cambiamenti in atto. Una nuova Europa sta nascendo e sulle sue sponde il dominante modello cavalleresco ha preso nuove sfumature. Il Mediterraneo non è solo un palcoscenico di guerra, è un luogo privilegiato di incontri. Caffaro lo sa e decide di scriverne. Primo europeo a disegnare il sicuro e definitivo intreccio tra l’Europa e il Mediterraneo, la sua storia è anche un manifesto politico. Gli Annales Ianuenses, che legano la nascita del Comune alla presa di Gerusalemme, celebrano una rivoluzione politica, quella che colloca ormai la città-­stato italiana e le sue élite al livello delle monocrazie europee, e una rivoluzione economica, in cui il mercato ha un ruolo essenziale. Le battaglie combattute e i trattati siglati con le potenze europee, islamica, bizantina, devono essere letti per quel che veramente sono: patti stesi sulla base di accordi economici. Da questa prospettiva occorre esaminare la teoria di privilegi acquisiti, le questioni monetarie, il ruolo economico delle ‘spezie’, delle miniere argentifere sarde e i denari dati al pontefice per ottenere le diocesi della Corsica in funzione anti-pisana. E così pure la menzione della contabilità complessa innescata dalla formula di remunerazione dei prestiti di capitali, uomini e navi per la spedizione su Almeria e Tortosa del 114647, quando il Comune di Genova decide di ripagare gli interessi con la cessione di entrate derivanti dalle imposte indirette. Nascono allora le compere, forma di investimento per gente di tutti i ceti sociali e garanzia di sopravvivenza di una città in costante progetto di espansione. Nel 1407 il consolidamento delle compere segna il sorgere della Casa di San Giorgio, poi Banco di San Giorgio, istituzione destinata a sopravvivere ben oltre la nascita della Banca di Inghilterra nel 1694. Tratteggiare il passaggio dalla vecchia alla nuova Europa significa anche rimisurare il mondo e Caffaro stesso lo fa, ‘ca8

valcando e navigando’ sull’altra sponda del Mediterraneo. Seguire il suo racconto equivale a leggere una delle carte pro navigando che si trovano nei bauli dei marinai, oppure a ripercorrere la geografia di un manuale per mercanti2. «Dato che i nomi delle città e delle località che sono in prossimità del mare da Antiochia fino a Giaffa e Ascalona non sono scritti, così è necessario che i nomi e le miglia quante sono da una città all’altra e da chi sono state prese e in quale tempo siano resi noti dalla memoria di Caffaro. Perciò sia noto a tutti che da Antiochia a Laodicea si contano 60 miglia. Laodicea fu città grande (…)». Segue una descrizione della città e tra molti e interessanti episodi l’itinerario arriva fino a Tripoli del Libano, traguardo finale della lunga serie di successi genovesi nel Levante tra il 1097 e il 1110. Due secoli più tardi il veneziano Marin Sanudo Torsello ripete quel racconto accompagnando il suo testo con una carta realizzata dal genovese Pietro Vesconte. Caffaro è un narratore affascinante e tale resta anche se, per dare forza e certezza alla sua memoria, detta il suo racconto ad un notaio: Macrobio, che sa come restituire un senso alle parole di Caffaro perché vive in una città dove i notai sono una categoria intellettuale che altrove fiorirà un secolo più tardi. Sono gli anni di Giovanni Scriba (1154-1164), autore del più antico registro notarile del mondo. Insieme a diecimila atti notarili dove compaiono novità contrattuali legate al movimento del denaro e delle merci, ci si imbatte anche in carte sarracenice e in dizionari latino-­saraceni. L’introduzione dell’ora nella datazione degli atti indica una nuova capitalizzazione del tempo. Tra calcoli e numeri, si incontrano le più antiche carte contabili medievali e si conferma che l’abilità e il coraggio nell’investire aprono la via al benessere. 9

È suggestiva l’immagine di Caffaro che legge il suo testo ai consoli determinando la loro decisione: gli Annali entrino nell’Archivio del Comune. Così la prima storia di Genova – dall’anno 1100 al 1163 – diventa il manifesto ufficiale della nascita del Comune italiano. Ed è all’ombra della Crociata che Guglielmo Embriaco e i suoi compagni portano con sé i modelli comunali, come testimonia il parlamentum convocato sotto le mura di Cesarea. Tuttavia costruire una nuova età e farne un’epopea esige di più. Caffaro sa che anche in una storia di tono corale non può mancare l’eroe. E l’eroe fa la sua comparsa al centro dell’Historia civitatum Orientis e si chiama Guglielmo Embriaco. Caffaro inanella la serie di successi genovesi che precedono e seguono la presa della Città Santa. La storia prende avvio dal 1097 quando, per impulso della predicazione crociata, dodici galee e un sandalo partono da Genova per l’Oltremare. Giunto al 1099 Caffaro scrive: E assediata ch’ebbero per un mese la città ecco che Guglielmo Embriaco genovese e suo fratello Primo arrivarono a Giaffa con due galee ma per timore dei saraceni di Ascalona non poterono tenervi le galee; perciò le distrussero e fecero portare a Gerusalemme tutto il legname delle galee, che serviva alle macchine da guerra per conquistare la città. I cristiani, che si erano molto rallegrati per l’arrivo dei genovesi, li ricevettero con onore e si fecero consigliare da loro sui modi per assalire la città. E i genovesi costruirono le macchine e tutto il necessario.

È una rappresentazione sobria dove si traccia il chiaro profilo di mercanti che l’atto compiuto converte in milites christiani. Un gesto che sembra appartenere all’effimero, eppure l’immagine lo fissa o, in assenza dell’immagine, qualcuno lo descrive facendone l’asse sul quale costruire un simbolo. Allora tutto cambia. Non contano solo i gesti della liturgia o della 10

regalità, l’universo gestuale è più ricco di quanto non si pensi. Guglielmo e Caffaro sono guerrieri e mercanti. Quali sono i gesti che appartengono al cavaliere-mercante? Forse due anime albergano in un solo corpo? Caffaro non ha la sapienza del chierico né ha modelli ai quali rifarsi, ma è in grado di disegnare quel gesto che indica dei genovesi la ‘diversità’, una caratteristica che segnerà in ogni tempo la loro storia. «Ahi genovesi, uomini diversi / d’ogne costume e pien d’ogne magagna / perché non siete voi del mondo spersi?», scrive Dante Alighieri nel XXXIII canto dell’Inferno e molti secoli dopo Braudel insiste: «Trovando i genovesi dappertutto li riconosci per la loro diversità». La duplice fisionomia dell’autore, alter ego del suo eroe, si riflette nella capacità di vedere nel guerriero-mercante il miles christianus capace di fare delle sue galee, nate anch’esse come duplice strumento di mercato e di guerra, i simboli del suo mondo e del mondo che cambia. Il gesto dell’eroe che le distrugge per farne macchine da guerra racchiude in sé anche l’autobiografia di chi scrive e la biografia di una città che guarda al Mediterraneo. Mentre l’ombra di Roland, la sua spada, la foresta, il castello e l’epica cavalleresca dell’altra Europa riemergono nella comune aventure e nella chanson de geste in prosa che la celebra, Caffaro disegna una Camelot mediterranea, dove il Sacro Catino, unico compenso voluto da Guglielmo Embriaco per la conquista di Cesarea, richiama il Graal della tradizione colta. Un richiamo che può essere letto come una previsione di dove andrà il mondo. È questo il Mediterraneo che sul far del Millecento si apre ai guerrieri europei, pronti a intravvedere nelle terre oltremarine prospettive interessanti e già disponibili ad alleanze con le aristocrazie mercantili di alcune città italiane3. 11

Note di chiusura   G. Airaldi, Memoria e memorie di un cavaliere: Caffaro di Genova, in B. Kedar (ed.), Crusades, Aldershot, Ashgate, 2003, vol. II, pp. 25-40. Il racconto di Caffaro parte da una data precisa – il 1100 – che vede già compiuta la conquista di Gerusalemme (di cui Caffaro parla in un’altra opera) e si apre con le operazioni condotte sulla costa siro-palestinese, che avevano come obiettivo quello di conquistare punti strategici per il controllo del mercato, alternativi a quelli puntati su Alessandria, tradizionalmente legati all’Egitto. Un’operazione che provocò violenti scontri all’interno dell’élite del nascente Comune genovese e rappresaglie in zona oltremarina, come testimoniano le cronache arabe e la corrispondenza dei mercanti ebrei dalla Genizah del Vecchio Cairo. Guglielmo Embriaco e Caffaro appartengono alla parte vincente. Cfr. B. Z. Kedar, Mercanti genovesi in Alessandria d’Egitto negli anni Sessanta del secolo XI, in Miscellanea di studi storici II, Genova, Università di Genova, 1983, pp. 19-30; Id., Genoa’s Golden Inscription in the Church of the Holy Sepulcher. A Case for the Defence, in G. Airaldi – B. Z. Kedar (a cura di), I Comuni italiani nel Regno crociato di Gerusalemme, Genova, Università di Genova, 1986, pp. 317-335; Id., Again: Genoa’s Golden Inscription and King Baldwin I’s Privilege of 1104, in D. Coulon et alii (éd. par), Chemins d’outre-mer. Études d’histoire sur la Méditerranée médiévale offertes à Michel Balard, Paris, Publications de la Sorbonne, 2004, pp. 495-502. Tutti i contributi sono ora raccolti dall’autore nel volume From Genoa to Jerusalem and Beyond. Studies in Medieval and World History, Padova, libreriauniversitaria.it Edizioni, 2019, pp. 31-68. 2   G. Airaldi, I genovesi e la “quarta dimensione”, in La storia dei genovesi, Genova, Copy-Lito, 1983, vol. III, pp. 91-103; Ead., Caffaro, storia di Genova, storia economica, in Studi in onore di Gino Barbieri. Problemi e metodi di storia ed economia, Pisa, IPEM, 1983, pp. 53-74. 3   Cafari De liberatione civitatum Orientis liber, in L. T. Belgrano – C. Imperiale di Sant’Angelo (a cura di), Annali genovesi di Caffaro e de’ suoi continuatori, 5 voll., Roma, Tip. del Senato, 1890-1929, vol. V, pp. 3-176. La traduzione è dell’autrice. Inoltre cfr. Caffaro, La liberazione delle città d’Oriente, traduzione e note di M. Montanari, introduzione di G. Andenna, Genova, Marietti, 2001, pp. 65-66; G. Airaldi, Blu come il mare. Guglielmo e la saga degli Embriaci, Genova, Fratelli Frilli Editori, 2006, pp. 65-66.

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2 Sfruttare le occasioni

Oggi il binomio città-commercio è pura tautologia, ma non sempre è stato così. Dobbiamo andare indietro nel tempo, fermarci alla fine del Mille, all’età in cui questi due elementi si fondono in una formula fino ad allora inedita. Una grande inquietudine serpeggia nell’Occidente europeo, spingendo alla ventura i giovani cavalieri ansiosi di conquiste, e un impetuoso desiderio di libertà agita l’aristocrazia mercantile di alcune città italiane, che la disgregazione del feudalesimo invita all’espansione. «Non le case dai bei tetti, non le pietre di mura ben costruite, non i canali né le banchine fanno la città ma gli uomini capaci di sfruttare l’occasione», aveva scritto il poeta greco Alceo nel VI secolo a.C.1 Nella Penisola italiana sono incardinate le più forti tradizioni urbane e le più importanti città di quel tempo ed è lì che, tra XI e XII secolo, un nuovo sistema politico lancia un attacco decisivo all’aristocrazia terriera, che dall’età antica è alla guida delle sorti cittadine, e ne sconvolge il sistema di potere, l’economia, le strutture sociali. In quel momento, mentre il Mediterraneo si apre all’espansione europea, tra le Alpi e il Tevere fiorisce un modello di governo unico in Europa che, rifiutando la monocrazia (salvo una generica fedeltà all’Impero), affida agli uomini d’affari la guida della città-stato. In quest’area dove, diversamente dal resto del continente e dal mondo orientale, l’aristocrazia del latifondo non recupererà più il suo ascendente, 13

si afferma un sistema oligarchico che, attirando e coinvolgendo anche una parte della nobiltà, propone all’Europa, sette secoli prima delle Rivoluzioni americana e francese, una nuova realtà in grado di innescare, nella gestione societaria del potere economico e politico, una comunione di interessi destinata a modificare il profilo della società. Nasce la repubblica e nasce il modello borghese per il quale vale la definizione negocium quasi negans ocium propria della retorica classica e medievale. In Europa lo scontro è palese. Ottone di Frisinga, arcivescovo e cancelliere dell’Impero, zio dell’imperatore Federico Barbarossa contro il quale combattono i Comuni italiani, si stupisce di fronte al sistema di governo delle città-stato, nel quale anche i ‘meccanici’ possono aspirare alle più alte cariche. Nello stesso secolo il borgognone Wippo segnala però che gli italiani mandano a scuola i figli anche se non hanno intenzione di avviarli alla carriera ecclesiastica. Si sa che la gente del Comune gode di maggior benessere rispetto agli altri europei e possiede un livello culturale più alto e raffinato: anche i laici, non sempre appartenenti ai maiores, hanno più facile accesso alla cultura di base e a quella alta. Un laico dell’Italia comunale è culturalmente più avvantaggiato rispetto alle popolazioni sassone o delle Fiandre, peraltro aree in cui sorgono vivaci città. Nel sistema comunale la partecipazione dei laici alla vita pubblica è una scuola di formazione politica. Sempre secondo i modelli dell’epoca, ovvero come lotta di fazione basata su scontri tra clan e loro gruppi di riferimento, entra in gioco un sistema partitico che esprime una formula rudimentale ma vivace di dibattito. Si è lontani dal pieno godimento dei diritti, ma il denaro è un’arma potente, muove la società e nei vari momenti della vita comunale gli ‘uomini nuovi’ arrivano presto a intaccare il potere dell’antica aristocrazia. Anche se l’al14

largamento progressivo dell’accesso alla gestione politica suscita dibattiti e scontri, la città-stato, formata non da sudditi ma da cittadini e amministrata sul piano politico ed economico attraverso un sistema repubblicano, si presenta sulla scena europea come una realtà solida e coesa. Nemico dell’economia di consumo diffusa in un’Europa dove scarseggia denaro liquido e non si conia la moneta aurea, come invece accade nelle aree bizantine e islamiche, l’uomo d’affari avvia la costruzione di un sistema in cui denaro e investimento assumono un ruolo portante. Ben attento a non finire stritolato nelle spire di una communis opinio che potrebbe penalizzarlo, non dimentica che tra i vizi capitali la superbia è ormai seconda all’avarizia e l’avidità porta con sé la condanna del prestito e dell’usura. Né dimentica che la sua storia nasce in seno a una società dominata dal canone cavalleresco, fedele al trinomio che colloca bellatores e oratores in posizione egemonica sui laboratores, e in forza di questa convinzione preferisce descriversi ed esser descritto come un guerriero. Quando poi, in pieno Duecento, tutto il mondo conosciuto è avvolto nella rete degli italiani e giunge Tommaso d’Aquino ad equilibrare il giudizio sul concetto di proprietà e sul principio acquisitivo, è il Milione a celebrare la figura e l’azione dell’uomo d’affari. Prima del Mille circolano già uomini d’affari arabi, ebrei, bizantini, tedeschi, scandinavi, veneziani, amalfitani. Ma c’è qualcosa di nuovo e di indecifrabile nei comportamenti dei «violenti e pestilenziali» Comuni, come, sul far del Duecento, li definisce Jacques de Vitry, uno dei tanti detrattori delle repubbliche. In effetti, non è facile seguirne le vicende e i comportamenti, molto diversi tra loro per spazi d’azione. Alcune città-stato, come Genova, Venezia, in parte Pisa e, dal Duecento, Firenze, controllano l’economia internazionale. Le loro 15

élite hanno poco in comune con le ricche borghesie di altre città europee, che danno vita a gilde e hanse in sistemi dove però l’autogoverno cittadino dipende dal principe e dai suoi funzionari: succede, per esempio, a Marsiglia, Barcellona, Bruges, Colonia, «isole non feudali in un mare feudale». Le regole dell’economia sono lontane da quelle della politica. Dal Mille in avanti e per lungo tempo i ceti dirigenti di alcune città italiane tengono sotto scacco Bisanzio, l’Islam e l’Europa. Dal 1204, sotto l’egida veneziana e l’Impero latino, Bisanzio assiste impotente al capovolgimento che avviene nel 1261 a favore dei genovesi, forti in Pera di Costantinopoli e da allora in poi monopolisti del Mar Nero. Attivi in Estremo Oriente come i veneziani, sono però molto presenti anche nella Penisola iberica, plaque tournante verso l’Atlantico. I contatti con l’Islam sono fatti di scontri, ma soprattutto di scambi intensi e costanti. Nel 1291 la caduta di Acri segna un momento critico, controbilanciato però nello stesso mese dall’ambiziosa anche se sfortunata spedizione dei fratelli Vivaldi alla ricerca di una nuova via per raggiungere le Indie circumnavigando l’Africa. Già agli inizi del Millecento i genovesi vedono nel Mediterraneo occidentale la porta dell’Oceano e sono presenti a Santiago di Compostela e nella marocchina Safi. Nel 1277 sono i primi a toccare le Fiandre, seguiti nel 1314 dai veneziani. Molto incisivi nell’area islamica andalusa, al tempo stesso collaborano con la Corona di Castiglia alla conquista di Siviglia, Cordova e Cadice durante la metà Duecento, ma resteranno nei caposaldi di Malaga e Granada fino alla fine del Quattrocento, quando la presenza islamica viene infine confinata sulla sponda meridionale del Mediterraneo. Secondo questo tracciato di eventi la presenza e l’azione degli uomini d’affari italiani risultano evi16

denti nel cuore dell’Europa e sulle rive dell’Atlantico: da lì partirà la costruzione del nuovo Occidente. Nel VI secolo Isidoro di Siviglia scrive: «Il grande mare è quello che nasce dall’oceano, fluisce in occidente e volge verso sud e poi si dirige a settentrione. Di qui è chiamato grande perché gli altri mari al suo confronto sono più piccoli. Questo è il Mediterraneo perché per la media terra si effonde fino a oriente separando Europa, Africa e Asia». Sei secoli più tardi Giovanni Balbi conia per il Mediterraneo la definizione di «medium terre tenens», manifestando nel Catholicon una precisa volontà eurocentrica. Nel Mille l’attrazione degli Europei verso il Mediterraneo è irrefrenabile. Sul mare il tempo si fa più breve, i contatti più facili, i trasporti meno faticosi e meno cari. I pericoli sono molti, ma per i popoli mercanti di ogni tempo il Mediterraneo è sempre stato un’opportunità per andare oltre. Per chi vive sulle sue coste il Mediterraneo non è una frontiera, ma un mare aperto che lascia spazio alla fantasia e alla curiosità, è il regno della libertà. Nella prima metà del XII secolo il monaco sassone Ugo da San Vittore sottolinea il ruolo fondamentale della navigazione che «penetra nelle parti più segrete e remote del mondo e, raggiungendo le spiagge più lontane e toccando i più orribili deserti, favorisce gli scambi con le nazioni barbare e per mezzo di lingue sconosciute. Quest’attività concilia le genti, placa le guerre, rafforza la pace e scambia i beni necessari per tutti». Viaggiare per mare e per mercato apre alla conoscenza del mondo. Viaggiare significa giungere dove ci sono buone occasioni per ricavare profitti. Un numero sempre maggiore di transazioni viene concluso per corrispondenza. Intanto grazie alle fiere circolano uomini e informazioni. Il flusso migratorio è costante e sono molte le sedi estere di società o i rami di grandi famiglie che controllano punti strategici per il mercato. 17

Tra Mille e Milletrecento, quando l’espansione islamica e la fine della pace mongola chiudono le vie orientali, molte isole atlantiche sono ormai sotto il controllo europeo e si è a un passo dall’America. L’economia-mondo è in piena fioritura e una nuova cultura illumina quella che qualcuno ancor oggi definisce ‘età della paura’, mentre il Purgatorio giunge a rappresentare un’insperata via di salvezza per chi, tentando di salvarsi l’anima, riservi nel suo libro di conti uno spazio per «messer Domineddio». La fede spiega com’è fatto il mondo, miracoli e formule magiche compaiono qua e là nelle ‘pratiche di mercatura’ e negli atti dei notai, ma il capitalismo nascente propone i primi esempi di un sistema culturale che porterà all’Umanesimo. I nostri sensi formano un unico complesso con la coscienza di sé, che traduce tutto quel che vede o ascolta in pensiero e in parola. Questo accade anche all’uomo d’affari, un uomo fortunato in quei tempi lontani e non solo per i suoi eventuali successi. Per le élite di alcune città-stato come Genova e Venezia, avvezze fin dalla prima adolescenza a una formazione mista tra apprendistato di mare e di mercato in varie parti del mondo, buona parte dell’educazione si basa sull’esperienza diretta. Che però non basta. La loro attività esige, infatti, che essi sappiano scrivere, leggere e far di conto. Per loro e per i loro collaboratori la scrittura è un medium essenziale, necessario per controllare tutto ciò che ruota intorno alla mobilità e alla volatilità del denaro e ai rischi dell’investimento. Anche i prudenti genovesi, che continueranno fino all’ età moderna a servirsi della figura del notaio e del suo latino, devono comunque «mettere in latino con competenza e scrivere quello che riguarda i mercanti, leggere, scrivere i loro conti»; conoscere «la grammatica secondo quanto possono e compilare lettere». L’ Anonimo genovese ricorda nei suoi versi che: «Chi è pigro 18

faxeor e lento i so faiti scrive / senza danno e senza error no po longamente vive»2. Nel corso del XII secolo mercanti ed élite di governo passano da una malcerta padronanza del calamo a una maggiore confidenza. La scrittura personale diventa un esercizio abituale per gli uomini d’affari, una questione legata alla preparazione individuale per chi la adopera per usi tecnici e per stendere libri di conti personali o familiari, ma serve anche a chi vuole cimentarsi in altro, a meno che non ricorra a uno scriba o a un notaio. A fine Duecento – momento di grande apertura degli orizzonti mentali e sociali – fa la sua comparsa la littera merchantisca derivata dalla scrittura minuscola rotonda, usata però solo dalle Compagnie toscane e in vari atti pubblici di carattere finanziario tenuti da scribi e cancellieri. Così accade a Venezia, mentre a Genova la si usa soltanto per il Banco di San Giorgio, poiché l’attività di mercato e finanza è gestita da multinazionali familiari dove ciascun individuo opera e scrive per sé. L’uomo d’affari vede il mondo a modo suo e ne scrive. C’è chi stende ‘pratiche di mercatura’ o libri contabili; chi, insieme agli uomini di mare (di cui sovente è lui stesso un esponente), fornisce nuove preziose informazioni ai cartografi; chi promuove l’introduzione della numerazione araba in Europa; chi redige progetti di guerra marittima; chi descrive le molte realtà incontrate ogni giorno. Le lettere del mercante non trattano solo di merci e conti, ma fissano momenti di vita, raccontano storie di genti e di paesi lontani. Ma a qualcuno ciò non basta, e così lo si incontra tra coloro che stendono la cronaca dei loro tempi e della loro città, tra chi canta l’amore e la guerra, tra chi scrive novelle o discute di teologia. Il mondo moderno nasce anche da queste voci e da quelle delle loro donne, che offrono testimonianze importanti. 19

Note di chiusura   Molta la bibliografia su questi temi. Ancora essenziali R. S. Lopez, Intervista sulla città medievale, a cura di M. Berengo, Roma-Bari, Laterza, 1984 e Id., La rivoluzione commerciale del medioevo, Torino, Einaudi, 1975. 2  H. Pirenne, L’ instruction du marchand au Moyen Âge, «Speculum. A Journal of Medieval Studies», LII (January 1977), 1; G. Jehel, Le marchand génois un homme de culture, in Le marchand au Moyen Âge. Actes du XIX Congrès de la Société des historiens médiévistes de l’Enseignement supérieur public, Reims, 1988, «Actes des Congrès de la Société des historiens médiévistes de l’enseignement supérieur public», XIX (1988), pp. 189-194; A. Sapori, Il mercante italiano nel medioevo, Milano, Jaca Book, 1983; Catalogo della Mostra storica del notariato medievale ligure, «Atti della Società Ligure di Storia Patria», n.s., IV (1964); G. Airaldi, Sottoscrizioni autografe e scrittura personale a Genova nei secoli XII e XIII, in Miscellanea di storia italiana e mediterranea per Nino Lamboglia, Genova, Università degli Studi di Genova, 1978, pp. 43-92; Ead., Leggere, scrivere, far di conto a Genova nel medioevo, in La storia dei genovesi, vol. II, pp. 177-198; G. Orlandelli, Osservazioni sulla scrittura mercantesca nei secoli XIV e XV, in Id., Scritti, a cura di R. Ferrara – G. Feo, Bologna, Istituto per la storia dell’Università di Bologna, 1994, pp. 445-458. 1

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3 Donne tra mare e mercato

Il proemio del Decamerone di Giovanni Boccaccio è dedicato alle donne che leggono. Umberto Eco, ne Il nome della rosa, ci ha ricordato che a quell’epoca leggere poteva essere pericoloso e lo smarrimento d’amore della Francesca da Rimini dantesca è solo un esempio che emerge in una fase storica nella quale il risveglio delle donne è un fatto certo1, come sottolineano le parole stesse di Boccaccio. Nelle sue novelle sono molte le immagini femminili lontane dai modelli tradizionali che la storiografia continua a proporre. Lo testimoniano le donne che vivono accanto agli uomini d’affari e che, pur immerse in un sistema di vita patriarcale, diventano protagoniste di storie che aprono al futuro. Si ascolta molto ma si legge molto anche tra quel ‘sesso debole’ che le prediche di Umberto di Romans, Gilberto di Tournai e di altri uomini di Chiesa fissano in precostituiti cliché. Come fa nella sua Cronaca di Genova e nelle sue prediche anche il coltissimo Iacopo da Varagine. L’arcivescovo certo non ignora quale sia lo stile di vita delle donne che vivono a fianco di guerrierimercanti quasi sempre lontani da casa, che loro stesse seguono in diverse parti del mondo. Conosce i problemi che devono affrontare mogli costantemente immerse in questioni pratiche di ogni genere, disponibili ad accettare la volontà di chi sceglie il loro sposo e ad accogliere i figli che il marito ha avuto da una schiava o da una donna incontrata altrove e ad accettarne 21

la legittimazione. Tuttavia Iacopo da Varagine non si discosta dal canone che vuole la donna buona, saggia e sottomessa, esattamente come, un secolo più tardi, fa il Ménagier de Paris, imponendo alla giovane moglie regole destinate a vincolarla alla tradizione. Chi sono le donne che vedono i loro uomini avventurarsi sul mare e sulle vie del mondo per il mercato o per la guerra? Queste donne, avvezze all’incontro con lingue e culture diverse, aperte alle molte suggestioni offerte dal carattere internazionale della loro città, sono ombre fuggevoli o profili reali? I loro testamenti rivelano che sono donne consapevoli della loro condizione, che nelle loro ultime volontà ricordano sempre le altre donne – parenti, nutrici o schiave – legate alla famiglia. Non è necessario attendere una Diana degli Embriaci, che dalla più alta torre del palazzo di famiglia guarda l’amato Arrigo da Carmandino prendere il mare per la Crociata disegnata dalla penna di Anton Giulio Barrili2, per segnalare quali siano le qualità e le prerogative di quelle donne che Caffaro, declinando la storia al maschile, ha messo da parte. Al periodo più glorioso della storia pisana riconduce la storia di Bona, figlia del mercante Bernardo. Bona ha solo tre anni quando il padre lascia la città per andare in Palestina, dove lo aspetta un’altra famiglia. Una prova durissima per la bambina che, diventata una modesta filatrice, sa però come affrontare un percorso esistenziale unico: muovendo sulle vie di un intenso e continuo peregrinare fra Palestina, Santiago di Compostela, San Michele al Gargano e Roma, Bona propone un modello di santità che privilegia l’intreccio tra storie di mare e di mercato; in questo lei svolge un ruolo essenziale3. Donne forti e impegnate si incontrano durante tutti i secoli medievali. Duoda, Brunechilde, Fredegonda, Matilde, Ro22

svita, Eloisa, Eleonora, Ildegarda, Chiara d’Assisi, Caterina da Siena e altre ancora, sono esempi d’indipendenza e di capacità decisionale4. Al loro fianco si schierano altre protagoniste che nella nuova società legata al denaro e al mercato propongono una realtà complessa e diversa da quella delle corti e dei chiostri da cui provengono le voci spesso esaltate dagli accadimenti. Spetta sempre ad altri scegliere un marito per queste donne o decidere di confinarle in convento per evitare doti troppo onerose. Nonostante ciò le donne sanno come fare per ricavarsi uno spazio proprio, e spesso è proprio la combinazione mare-mercato a fornire l’occasione. A Genova l’ampia circolazione di denaro offre qualche possibilità d’investimento anche a chi non appartiene all’aristocrazia e sono frequenti i casi in cui un’artigiana investe modeste somme in accomandite oltremarine, in loca di compere, in proprietà o anche presta denaro senza troppo preoccuparsi dell’usura. In questa società il rapporto uomo-donna si risolve in un delicato gioco di equilibri, che solo la pazienza del notaio consente di cogliere, e non si tratta sempre di questioni dotali. Gli uomini vanno lontano, i viaggi sono lunghi e tante le tentazioni. Baldizzone ‘de Galiana’ sta per imbarcarsi e la moglie Anna, che gli ha affidato 50 genovini del suo patrimonio da investire, gli fa promettere davanti a un notaio il 4 agosto 1179 di non sperperare più di dieci soldi all’anno con le donne o nel gioco. Il 10 marzo 1191, il battifoglio Martino e la moglie Mabilia contraggono un’acomendacio di 16 lire di genovini con Idone ‘de Pallo’. Martino s’impegna, per il periodo in cui dispone della somma, a non bere, a non mangiare, a non giacere con alcuna donna fuori casa e a non giocare. A più alto livello sociale, il 2 ottobre 1195, Ottone Longo promette a sua madre di non perdere al gioco più di tre soldi al 23

giorno, di obbedire ai suoi ordini, di darle in custodia tutti i suoi beni per dieci anni. In caso di inosservanza dovrà sborsare ben 200 lire di genovini5. Collocata all’interno dei tanti progetti oltremarini fioriti tra Due e Trecento, la vicenda di alcune dame dell’aristocrazia genovese richiama l’esperienza crociata di Eleonora di Aquitania e delle sue compagne. Tra quelle nobili signore figurano nomi prestigiosi. Sollecitate dalle parole del francescano savonese Filippo Busserio – inviato dei pontefici Bonifacio VIII e di Clemente V in Terrasanta, in Armenia e a Cipro e autore di uno Speculum Terrae Sanctae dedicato a una possibile Crociata – alcune aristocratiche delle famiglie Grimaldi, Spinola, Doria, Ghisolfi, Carmandino e Cibo non soltanto decidono di raccogliere capitali per un’eventuale spedizione, ma sono pronte a ‘prendere la croce’ loro stesse, equipaggiandosi con armature adatte. Messo al corrente da Filippo Busserio, il 9 agosto 1301 papa Bonifacio VIII scrive ai futuri comandanti della flotta, Benedetto Zaccaria, Lanfranco Tartaro, Giacomo Lomellini e Giovanni Bianco, all’arcivescovo Porchetto Spinola e ai francescani genovesi per invitarli a sostenere questa «opera luminosa» e a darne pubblica notizia a Genova e dintorni, promettendo in cambio indulgenze. Il pontefice scrive anche alle dame: «riflettendo sul fatto che il Gran Khan imperatore dei Tartari, benché pagano, con tutto il suo esercito era entrato nel Regno di Gerusalemme per espellere dalla Terrasanta il sultano di Babilonia insieme a tutti i suoi, tenete a mente che gli uomini giudicandosi fragili nel corpo pensavano di soccorrere se stessi durante la navigazione con una distribuzione dei vostri beni». Ma alla fine, come per tutte le intenzione crociate del tempo, non se ne fece nulla6. 24

Più lontano conduce la storia di Caterina, protagonista di una delle tante vicende che testimoniano il ricco e complesso rapporto che i genovesi hanno con l’Estremo Oriente, dove sono presenti a Cambaluc o Dadu (Pechino), a Zaytoun, a Quanzhou e a Yangchow nel Kiangsu. Al di fuori della porta meridionale di Yangchow, centro commerciale di grande importanza sulle rive del Gran Canale Imperiale, ben noto a Marco Polo, sorge un quartiere riservato ai mercanti stranieri e alle loro famiglie. Qui il sincretismo religioso degli Yuan ha consentito che sorgessero un tempio buddista, una chiesa nestoriana e una chiesa cattolica (poi diventata cattedrale), costruita grazie alla generosità di una nobile armena. Altre chiese cattoliche sono presenti nel Catai. E proprio durante il suo viaggio verso il Catai, il francescano Giovanni da Montecorvino, attraversando la Persia degli Ilkhanidi, chiede informazioni e consigli ai mercanti genovesi incontrati alla corte mongola, dove sono considerati i più importanti consulenti per le questioni europee. Lo afferma Rashīd ad-Dīn, visir persiano di origine ebraica alla corte dell’ilkhan Ghazan (per il quale stende la prima storia eurasiatica), sostenendo che Genova è il punto di partenza dei mercanti ‘franchi’ che si dirigono verso l’Egitto, la Siria, il Maghreb, la Ròmania e Tabriz. Ripartito in compagnia di Pietro di Luca Longo, e incontrando nel corso del viaggio gli Onguti, popolazione turcomongola convertita al nestorianesimo e molto legata alla dinastia Yuan, Giovanni da Montecorvino battezza il loro re Giorgio, fondando a Koshang (Olon Sume) la prima chiesa cattolica. Nel 1307 a Cambaluc (Pechino) è Pietro di Luca Longo a donare della terra a Giovanni di Montecorvino, nuovo arcivescovo della città, perché possa erigervi una chiesa. 25

E chiese cattoliche ci sono anche a Quanzhou, dove nel 1326 il vescovo Andrea da Perugia affida a uomini d’affari genovesi tutta la contabilità relativa al sussidio che il Khan gli ha concesso. Sono anni di scambi diplomatici molto intensi tra l’Europa e i mongoli, che non riguardano solo gli affari ma anche eventuali alleanze contro i turchi. Nel 1274, legati mongoli intervengono al Concilio di Lione e risalgono al 1291 i conti dell’ambasciata del genovese Buscarello Ghisolfi al Khan di Persia. Tra il 1287 e il 1288 passa per Genova il nestoriano onguto Rabban Sauma, giunto in Occidente in compagnia del genovese Tommaso Anfossi. Partito da Cambaluc, nel corso del suo viaggio Rabban Sauma riceve dall’ilkhan di Persia l’incarico di incontrare il pontefice, Filippo il Bello di Francia e Edoardo d’Inghilterra. La missione è portata brillantemente a termine. Ne resta un racconto ricco di informazioni, una sorta di pendant del Milione del veneziano Marco Polo. Allo stesso modo nasce un romanzo dalle vicende di Andalò di Savignone, membro di un’antica famiglia genovese impegnata nelle aree mediorientali e orientali7. È lui, in qualità di esecutore testamentario, insieme con il mercante Leone Vegio, a portare da Cambaluc a Genova le ultime volontà di Antonio Sarmore di Chiavari, raccolte dal francescano Giacomo il primo ottobre del 1330 e sigillate «quolibet sigillo ianuensi et latinorum». Nel 1334 Andalò è ancora in Cina, dove nel luglio di due anni dopo incontra il Khan Toghan Timur, nipote di Kubilai. E il 31 maggio del 1338 partecipa all’ambasceria presso Benedetto XII ad Avignone (su 16 membri ben 14 sono genovesi), nel corso della quale si chiede, tra l’altro, l’invio di un nuovo arcivescovo a Pechino. Andalò torna nuovamente in Cina insieme al francescano Giovanni de’ Marignolli, e 26

porta con sé i cavalli e forse gli iocalia di cristallo desiderati dal Khan, ben felice di farsi ritrarre dal pittore Cheu Lang in sella, mentre i letterati di corte sono incaricati di tessere l’elogio dei destrieri. Giovanni de’ Marignolli incontra il Khan nel 1342, ma già nel 1345 riparte e con lui forse c’è anche Andalò. Nel lontano Oriente la storia sta cambiando, e la fine della pace mongola blocca l’accesso all’Oriente estremo8; negli anni successivi Andalò infatti è impegnato in ben diverse aree d’affari tra Genova e Bruges. Risalgono a quel periodo due lapidi sepolcrali, oggi scomparse, rinvenute nel secolo scorso presso la porta meridionale di Yangchow: vi figuravano i nomi di Caterina e di Antonio, figli di Domenico de Illione, scomparsi nel 1342 e nel 1344. E forse la figlia di Domenico è tra quelle donne che hanno seguito padri, fratelli, mariti sulle vie del mondo. Come scrive Francesco di Balduccio Pegolotti nel suo testo per mercanti a proposito del ‘Viaggio al Gattaio’: «E se il mercatante vuole menare dalla Tana niuna femmina con seco, sì puote, e se non la vuole menare non fa forza, ma pure se la menasse sarà tenuto di migliore condizione che se non la menasse, e però se la mena conviene che sappia la lingua cumanesca». Forse lo ha fatto o forse no, Domenico de Illione che, il 22 luglio 1342, raccoglie a Yangchow le ultime volontà del concittadino Iacopo di Oliverio. Su una parete esterna della cattedrale di San Lorenzo a Genova compare ancora una lapide relativa a un Illione de Illionis. Iacopo di Oliverio, membro di una famiglia impegnata nei traffici a Chio e a Tabriz, si era trasferito con il fratello Ansaldo ad partes Catagii prima del 1333, quando li aveva raggiunti il nipote Franceschino, figlio del fratello Giovanni, con il quale hanno lavorato «trafegando, negociando et mercando»9. 27

L’unica prova della presenza di una donna occidentale in Estremo Oriente è la scarna lapide che testimonia l’intreccio di culture in cui è vissuta Caterina, figlia di Domenico de Illione: «In nomine Domini amen. † Hic iacet Katerina filia quondam domini Dominici de Yllionis que obiit in anno Domini Milleximo cccxxxxii de Mense iunii †». Stesa nello stile gotico lapidario che riconduce alle forme proprie dell’Occidente, appare tuttavia indiscutibile il deciso intervento di una mano cinese che risulta evidente nella prospettiva multipla della rappresentazione, nella cornice ornamentale e nella stessa proposta iconografica: la Vergine, che compare con il Bambino in braccio seduta su un tipico panchetto tondo di matrice locale, ha gli occhi a mandorla. Al suo fianco i due angeli, che portano in cielo il corpo della martire Caterina d’Alessandria, hanno ali piumate di ispirazione occidentalizzante, ma richiamano gli spiriti volanti degli apsara e gandhara buddisti. Più in basso, nelle scene del martirio, Caterina appare inginocchiata a mani giunte secondo il canone occidentale, ma indossa il dhoti, la stoffa rettangolare bianca tipica dell’abbigliamento diffuso in India; in più, è adornata dalla corona a cinque punte propria delle figure buddiste. Sulla sinistra della lapide è raffigurato un fulmine che spezza la ruota gettando a terra i due carnefici, che risentono anch’essi di un’ispirazione buddhista, mentre il boia veste il tipico costume militare yuan e il copricapo mongolo. Segue la decollazione di Caterina e, più in alto, il suo transito verso la sepoltura sul monte Sinai, dov’è portata da due angeli. Nella scena, un monaco inginocchiato presenta l’anima della santa in forma d’infante e indossa la veste a larghe maniche dei monaci buddisti cinesi10. Testimonianza del tradizionale sincretismo mongolo degli Yuan, per i quali l’accoglienza dello straniero è 28

un principio saldo e costante, la lapide di Caterina ci racconta la storia di una donna dei tempi nuovi. Solo il figlio di un uomo d’affari, che guarda per necessità a sempre nuovi orizzonti, è in grado di conferire dignità letteraria al ruolo giocato dal mercato e dagli uomini d’affari. E infatti, tra i tanti pronti a condannare il mercato e il mercante, Giovanni Boccaccio fa storia a sé. Il padre Chellino, ‘fattore’ ossia agente commerciale e finanziario dei Bardi, con i quali lavora dal 1327 fino al 1338, prima di portare con sé a Napoli il recalcitrante quattordicenne ha tentato invano di farlo entrare nella sua attività. Giovanni abbandona presto il mondo di suo padre per amore dei libri e degli studi, ma certo nulla dimentica di quel che ha imparato nella prima età. Sa bene che cos’ è il mercato e ha fatto tesoro dell’ambiente di carattere internazionale in cui, nascendovi, ha trascorso l’infanzia. Uomo d’ordine e assiduo lettore di classici, Giovanni ha dimestichezza con portolani, carte mercantili e sistemi contabili; sa che i cartografi costruiscono le loro carte in base alle informazioni ricevute da mercanti e marinai. Per lui il mercato non presenta pericoli, il denaro non è lo sterco del demonio e il mercante-banchiere è una figura essenziale della società. Giovanni Boccaccio non viaggia, ma intende perfettamente che cosa rappresenti il Mediterraneo: un palcoscenico dove non esistono soltanto scontri ma pulsa un intenso fiorire di scambi. Sa dove e come si viaggia, sa quanti tipi di mercanti esistono. E sa anche che l’uomo d’affari va sempre alla ricerca di nuovi orizzonti. Non a caso il suo maestro prediletto è il celebre Andalò di Negro, membro di una grande consorteria di uomini d’affari che, proprio come lui, ha messo da parte le attività di famiglia per dedicarsi a studi di astrologia e astronomia. 29

In questo senso la geografia, strumento prezioso per chi è curioso del mondo, appassiona anche Giovanni che molto ne scrive. Mare, viaggi, storie internazionali, informazioni e conoscenza di paesi lontani e diversi, incontri più che scontri dimostrano quanto sia diffusa la tolleranza nel mondo degli affari, e quindi in quello politico. È questo il patrimonio di chi appartiene al mondo mercantile e conosce in profondità le storie di uomini e donne di quell’ambiente. L’intera opera di Boccaccio dimostra la conoscenza di una realtà che ha ormai plasmato il modo di presentare le esperienze di viaggio e degli scambi commerciali. Per lui il viaggio è una realtà prismatica, dove uomini e donne di provenienze e culture diverse sono protagonisti di uguale valenza, fatti per incontrarsi in quel mare che fa da sfondo, ad esempio, al dialogo tra un Saladino in veste di mercante e il gentiluomo lombardo Torello. Il mercato e i mercanti, il Mediterraneo, il mondo internazionale e una serie di individui realmente esistiti rappresentano lo scenario e i protagonisti del Decamerone dove, su cento novelle, molti racconti trattano direttamente o indirettamente di piccoli e grandi uomini d’affari. In questa prospettiva nel Decamerone domina l’immagine di Genova, porto di Firenze fino al 1410. Ben dieci novelle sono dedicate ai genovesi, fedelmente descritti anche come pirati rapaci e gentiluomini avari. È il caso di Erminio Grimaldi, esponente di una celebre famiglia. I genovesi sono gli unici ad avere confidenza e abitudine con le più diverse culture, tanto che Boccaccio li giudica «i maggiori esperti di cose cinesi». Lo segnala anche il suo contemporaneo Francesco di Balduccio Pegolotti. Come Giovanni Villani, anche Boccaccio pensa che i genovesi siano gli uomini d’affari più importanti del suo tempo e tratteggia fi30

nemente l’identità di questi uomini impegnati nel mercato e al tempo stesso in azioni piratesche, oltre a tracciare il profilo delle loro donne. Il Decamerone, infatti, è dedicato alle donne. Tocca a Pampinea dettare le regole del gruppo e sono sette le narratrici scelte per raccontare novelle che hanno come protagoniste donne che, in ogni caso, per saggezza, scaltrezza, coraggio, capacità d’amare appaiono superiori agli uomini. Autore del misogino Corbaccio, ma anche dell’Elegia di madonna Fiammetta e di centootto ritratti dedicati a donne famose di ogni tempo, Boccaccio disegna con facilità ed estrema competenza il profilo della genovese Ginevra Lomellini «costumatissima, savia e discreta molto», che meglio sapeva «cavalcare uno cavallo, tenere un uccello, leggere, scrivere e fare una ragione che se uno mercatante fosse». E racconta di donne di ogni parte del Mediterraneo che si muovono liberamente su quel mare andando incontro senza paura alle esperienze più dure. Nonostante i rischi e gli incontri spiacevoli, la moglie di Bernabò Lomellini si rivela bravissima nell’escogitare il travestimento maschile più adatto per poter attraversare tranquillamente il mare e raggiungere l’altra riva del Mediterraneo. Dove madonna Ginevra, muovendosi liberamente ad Alessandria d’Egitto e Acri, riesce a entrare alla corte del Soldano e con grande abilità risolve con successo la spinosa, ma falsa, accusa di adulterio; infine potrà riprendere i suoi abiti femminili. Per Boccaccio il Mediterraneo è il regno della libertà, dove accadono vicende come quella di Alatiel, la figlia del sultano di Babilonia: il padre la mette su una nave a Alessandria, inviandola al re del Garbo, ma «la quale per diversi accidenti in spazio di quattro anni alle mani di nove uomini perviene in diversi luoghi; ultimamente, restituita al padre per pulcel31

la [vergine] ne va al re del Garbo, come prima faceva, per moglie». In realtà Alatiel non è affatto dispiaciuta dell’incontro con uomini di diverse culture ed è consapevole di mentire al padre che la rimanda al re del Garbo: il quale «lietamente la ricevette. Ed essa che con otto uomini forse diecemilia volte giaciuta era, allato a lui si coricò per pulcella, e feceglielo credere che così fosse; e reina con lui lietamente poi più tempo visse. E perciò si disse: “Bocca basciata non perde ventura, anzi rinnuova come fa la luna”»11. Molti anni più tardi Lionardo Frescobaldi, in viaggio verso la Terrasanta, testimonia che «per la via d’Allessandria sui moltissimi navili di Saracini carichi di mercatanzie, ed eranovi in su ciascuno grandissima quantità di donne di bassa mano, grandissime mercatantesse, le quali andavano in Alessandria, e per l’isola di Roseto a fare loro mercatanzie». Note di chiusura   Tra le molte citazioni possibili si rinvia qui a J. E. Ruiz-Domènec, El despertar de las mujeres. La mirada femenina en la Edad Media, Barcelona, Ediciones Península, 1999. 2   A. G. Barrili, Diana degli Embriaci, Milano, Mondadori, 1933. 3   O. Banti, Santa Bona: un tipo di donna e uno stile di vita proposti come modello dalla agiografia pisana tra XII e XIII secolo, Pisa, Comune di Pisa, 1987; G. Zaccagnini, La tradizione agiografica medievale di santa Bona da Pisa, Pisa, GISEM-ETS, 2004. 4   Come dimostra il libro di Massimo Oldoni, Essere Marta nel Medioevo. La donna, le guerre, gli amori, Roma, Donzelli, 2022. 5   G. Pistarino, La donna d’affari a Genova nel secolo XIII, in Miscellanea di storia italiana e mediterranea, pp. 155-170; D. Owens, Ideali domestici e comportamento sociale. Testimonianze dalla Genova medievale, in C. E. Rosemberg (a cura di), La famiglia e la storia: comportamenti sociali e ideali domestici, Torino, Einaudi, 1979; J. Heers, Esclaves et domestiques au Moyen-Âge dans le monde méditerranéen, Paris, Fayard, 1981; G. Jehel, Remarques sur les esclaves à Gênes dans la seconde moitié du XIIe siècle, «Mélanges de l’École 1

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franÇaise de Rome», CXXX (1968). Per un quadro generale cfr. P. Guglielmotti (a cura di), Donne famiglie e patrimoni a Genova e in Liguria nei secoli XII e XIII, Genova, «Società Ligure di Storia Patria», 2020 e J. Heers, Il clan familiare nel Medioevo: studi sulle strutture politiche e sociali degli ambienti urbani, Napoli, Liguori, 1979. 6   R. S. Lopez, Genova marinara nel Duecento: Benedetto Zaccaria ammiraglio e mercante, Messina-Milano, Principato, 1933 (nuove ed. Milano, Camunia, 1986 e Genova, Fratelli Frilli, 2002), pp. 245-252. 7   G. Meriana, Andalò da Savignone. Un genovese alla corte del Gran Khan, Genova, De Ferrari, 2001; G. Airaldi – G. Meriana (a cura di), Andalò da Savignone. Un genovese del ’300 sulla via della seta, Genova, De Ferrari, 2008. 8   G. Airaldi – P. Mortari Vergara Caffarelli – L. E. Parodi (a cura di), I Mongoli dal Pacifico al Mediterraneo, Genova, ECIG, 2004. 9   G. Airaldi, Dall’Eurasia al Nuovo Mondo. Una storia italiana (secc. XIXVI), Genova, Fratelli Frilli Editori, 2007, pp. 47-58. 10  F. A. Rouleau S. J., The Yangchow Latin Tombstone as a Landmark of Medie­val Christianity in China, «Harvard Journal of Asiatic Studies», XVII (1954), pp. 346-364; R. S. Lopez, Nouveaux documents sur les marchands italiens en Chine à l’époque mongole, «Comptes rendus des séances de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres», 2 (avril-juin 1977), pp. 445-457; G. Pistarino, Genovesi d’Oriente, Genova, Civico Istituto Colombiano, 1990, pp. 145-236; P. Mortari Vergara Caffarelli, Le due lapidi degli Illioni di YangChou, testimonianza di un sincretismo figurativo tra la repubblica di Genova e l’Impero mongolo di Cina nel Trecento, Genova, Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Genova, 1994, pp. 363-393. 11   G. Boccaccio, Decameron, a cura di A. E. Quaglio, vol. I, Milano, Garzanti, 1974, pp. 197-210, seconda giornata, novella settima e novella nona. Cfr. anche G. Airaldi, Essere avari. Storia della febbre del possesso, Bologna, Marietti, 2021.

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4 Un diverso modo di pensare il mondo

Sostiene Iacopo da Varagine che Nomen est omen, il destino è nel nome: Francesco prima si chiamava Giovanni, ma in seguito cambiò nome e fu chiamato Francesco. Le cause di questo cambiamento sembra che sia­no state molteplici. Innanzitutto per segnalare un miracolo; è risaputo infatti che apprese miracolosamente da Dio la lingua francese: per questo nella sua leggenda si dice che sempre quando era ricolmo dell’ardore dello Spirito Santo proferiva parole di fuoco parlando in francese. In secondo luogo, per la sua missione di diffondere la fede: per questo nella leggenda si dice che fu la divina Provvidenza ad imporgli questo appellativo, in modo che, grazie al nome singolare e inconsueto che portava, la fama del suo ministero si diffondesse più rapidamente in tutto il mondo. In terzo luogo per il risultato che intendeva conseguire, ovvero far capire in questo modo che egli personalmente e tramite i suoi figli doveva affrancare e liberare molti servi del peccato e del diavolo. In quarto luogo per la grandezza del suo cuore; i Franchi, infatti, derivano il loro nome dalla fierezza; poiché a loro è naturalmente connaturata la fierezza e la grandezza d’animo. In quinto luogo per la potenza della sua parola, poiché la sua parola schiantava i vizi come una scure. In sesto luogo per il terrore che incuteva nei demoni, quando praticava gli esorcismi. In settimo luogo per la sicurezza derivante dalla sua virtù e dalla sua condotta irreprensibile; dicono, infatti, che ‘franciscae’ si chiamino alcune insegne a forma di scure, che a Roma venivano portate davanti ai consoli per incutere terrore e garantire la sicurezza1.

Il destino è nel nome. Francesco è stato chiamato così perché miracolosamente sapeva parlare francese; per la sua missione 35

di apostolo della fede: grazie alla rarità del nome, la fama della sua santità si è sparsa così velocemente nel mondo e ha consentito a lui e ai suoi figli di rendere ‘franchi’ cioè liberi molti dal peccato e dal diavolo; per la magnanimità del suo cuore. Qui è chiaro il rinvio a Isidoro di Siviglia: «Si ritiene che i Franchi derivino il proprio nome da quello di uno dei loro capi, mentre altri credono che essi siano stati così chiamati per la fierezza dei loro costumi; nei Franchi si sanno infatti costumi rozzi ed una naturale ferocia d’animo». E ancora: «Le scuri sono insegne che si portavano dinanzi ai consoli. Gli Ispani danno loro il nome di franciscae derivato da quello dei Franchi che ne fanno gran uso, per la forza della parola che tronca i vizi come una scure, per il terrore che mette in fuga i demoni, per la sicurezza che viene dalla sua vita perfetta e dalla sua retta condotta»2. Si chiude qui il breve excursus etimologico e comincia il racconto della vita di san Francesco d’Assisi, redatta da Iacopo da Varagine circa mezzo secolo dopo la scomparsa di lui, avvenuta nel 1226: «Francesco, servo e amico dell’Altissimo, nacque nella città di Assisi. Divenuto mercante, fino quasi a vent’anni di età sprecò il suo tempo conducendo una vita dissoluta. Ma il Signore lo colpì con il flagello della malattia, e lo trasformò improvvisamente in un altro uomo». Una sintesi che, nell’assenza di ogni riferimento preciso alla vita precedente la chiamata, mette in luce soltanto la persona di un giovane mercante vissuto fino ai vent’anni nella spensieratezza. Una sintesi perfetta che sottolinea la solitudine della sua scelta. Al tempo di Iacopo non è più necessario dilungarsi sui particolari di una vicenda maturata quando si manifestavano soltanto le avvisaglie di ciò che sarebbe stata la nuova storia. Francesco vive in un’età di passaggio, al tempo dei primi successi del mercato e del capitalismo nascente. Quando l’epopea di Marco Polo e il viaggio dei 36

Vivaldi segnalano gli esiti vittoriosi di quella storia tutto ciò che riguarda la vicenda di Francesco si è ormai mutato nel racconto della sua santità. Ora basterà pronunciare il suo nome, e non occorrerà dire di più. Infatti Iacopo ne compendia la vita in una lunga sequenza dei miracoli. Non era stato così per Tommaso da Celano, che aveva scritto di lui al tempo della canonizzazione, avvenuta due anni dopo la morte, quando era necessario costruire le ragioni della sua santità3. Occorreva semmai raccontare la vita di un giovane che fino ai 25 anni era stato «veramente molto ricco ma non avaro, anzi prodigo, non avido di denaro ma dissipatore, mercante avveduto ma munificentissimo per vanagloria, di più era molto cortese, accondiscendente e affabile sebbene a suo svantaggio». Un giovane che però, chiamato da Dio, rinnega immediatamente ogni mondano successo e «come un mercante avveduto, sottrae allo sguardo degli scettici la perla trovata e segretamente si adopra a comprarla con la vendita di tutto il resto». È cominciato così l’itinerario salvifico del figlio di Pietro Bernardone, ricco mercante di tessuti e della francese Pica. Un giovane che tutti considerano folle, vittima di un padre che, «come un lupo fa con una pecora», lo tiene prigioniero finché, liberato dalla madre, Francesco, nudo di fronte al mondo, ripudiati pubblicamente il padre e le sue ricchezze, può finalmente realizzare il suo sogno: tornare al Discorso della Montagna. In quel tempo Francesco non è l’unico a voler tornare al Vangelo. Nato e cresciuto in una società diversa da quella europea, dominata da sistemi monocratici e aristocrazie terriere, appare lontano dai monaci che con le loro ricchezze fondiarie sono ormai parte integrante di un’élite di proprietari terrieri e, come loro, amano una stabilitas loci che li trattiene dall’a37

zione missionaria erede della peregrinatio apostolica. Francesco, però, è diverso anche dal mercante Valdo che, come lui, ha scelto la povertà pur rifiutando di obbedire alla Chiesa di Roma, che Francesco al contrario onora. Francesco è nato in una società più complessa rispetto a quella di Valdo, una società che ha inventato il capitalismo: si tratta dell’Italia dei Comuni, delle libere città-stato guidate da uomini di affari protagonisti di una rivoluzione politica ed economica ben più significativa che nel resto d’Europa. Questa rivoluzione, nata tra le Alpi e il Tevere, ha fatto del denaro e del mercato strumenti innovativi, forieri di una nuova febbre del possesso e di nuove forme di prevaricazione4. Una rivoluzione del denaro a cui, senza colpo ferire, Francesco vuole contrapporre la sua scegliendo come sposa Madonna Povertà. Per questo «molti uomini nobili e plebei, chierici e laici, presero a seguirlo (…) e il santo padre insegnava loro il perfetto adempimento della dottrina evangelica, l’amore per la povertà e per la semplicità di spirito», scrive Tommaso da Celano. Francesco, «sommamente innamorato di Dio», sentiva grande disprezzo per tutte le cose terrene, ma soprattutto disprezzava il denaro. Aveva cominciato a disprezzarlo in modo tutto particolare fin dagli inizi della sua conversione e raccomandava ai suoi seguaci di fuggire il denaro quasi fosse il diavolo in persona. Aveva suggerito loro di dare i loro beni ai poveri, di limitarsi a chiedere l’elemosina, di considerare il denaro come lo sterco e quindi di non toccarlo. Così un frate, che aveva toccato la moneta di un’offerta e l’aveva gettata via, era stato da lui obbligato a prenderla con la bocca e a deporla sullo sterco d’un asino. A chi avanzava l’idea di tenere denaro per venire incontro alle esigenze dei lebbrosi o per servirsene per l’ospitalità dei molti frati stranieri, Francesco proponeva di spogliare 38

gli altari, e a chi gli aveva suggerito di raccogliere una borsa piena di denari per darne ai poveri era accaduto di trovare serpenti al posto delle monete. Tutto ciò era stato codificato nella Regola non bollata del 1221 e in quella bollata del 1223: là Francesco insisteva sul fatto che i suoi frati non avrebbero mai dovuto accettare pecunia o denaro, libri, vesti e compensi di lavoro, e avrebbero dovuto considerare il vil denaro come «polvere che si calpesta». Francesco vuole riformare cristianamente la società, e per questo si ostina a parlare con tutti. È perfettamente in grado di adeguare il suo linguaggio al pubblico che lo ascolta, ma quando predica preferisce usare il volgare evitando le riflessioni o le glosse teologiche tipiche della Scolastica: sulla base di tale atteggiamento ama definirsi illiteratus, e così sarà sempre giudicato. Tommaso da Celano racconta che Francesco «insegnava a cercare nei libri la testimonianza del Signore non il valore materiale, l’edificazione non la bellezza. In ogni caso voleva che i frati ne avessero pochi [di libri] e fossero sempre a disposizione di quelli che ne avessero bisogno». Un ministro gli chiese licenza di tenere alcuni libri lussuosi e molto costosi e si sentì rispondere: «Per i tuoi libri non voglio perdere il libro del Vangelo che ho promesso di osservare. Tu farai come vorrai, ma non voglio che tu stenda un tranello con il mio permesso». E continua: Quantunque quest’uomo beato non avesse ricevuta nessuna formazione di cultura umana, tuttavia istruito dalla sapienza che discende da Dio e irradiato dai fulgori della luce eterna aveva una comprensione altissima delle Scritture. La sua intelligenza, pura da ogni macchia, penetrava le oscurità dei misteri. E chi rimaneva inaccessibile alla scienza dei maestri era aperto all’affetto dell’amante. Ogni tanto leggeva nei Libri Sacri e scolpiva indelebilmente nel cuore ciò che an-

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che una volta sola aveva immesso nell’animo (…). Per lui la memoria teneva il posto dei libri perché il suo orecchio, anche una volta sola, afferrava con sicurezza ciò che l’affetto andava meditando con devozione. Affermava che questo modo di apprendere e di leggere è il solo fruttuoso, non quello di consultare migliaia e migliaia di trattati. Riteneva vero filosofo colui che non antepone nulla al desiderio della vita eterna. Affermava ancora che perviene facilmente dalla scienza umana alla scienza di Dio colui che, leggendo la Scrittura, la scruta più con l’umiltà che con la presunzione. Spesso scioglieva con una sola frase questioni dubbie e senza profusioni di parole dimostrava grande intelligenza e profonda penetrazione (…). Chiedeva anche agli uomini di cultura che volevano entrare nell’Ordine di rinunciare alla scienza per offrirsi nudi alle braccia del Crocifisso (…). La scienza – spiegava – rende numerose persone restie alla perfezione perché dona loro una certa rigidità che non si piega agli insegnamenti (…). I miei frati – diceva – che si lasciano attrarre dalla curiosità della scienza si troveranno le mani vuote nel giorno della retribuzione.

Francesco, però, è figlio di un mercante di tessuti, sempre in viaggio per affari. Come il fratello Angelo, anche lui esercita quasi fino a 25 anni l’attività del padre, quella che fa del mercante italiano il titolare di conoscenze non abituali. Suo padre è un uomo che sa leggere, scrivere e far di conto, aspetti non irrilevanti in una società dove pochissimi, tra laici e religiosi, possiedono queste competenze. Certamente Francesco si avvale delle esperienze dell’uomo d’affari abituato a viaggiare e ad avere contatti con culture e religioni diverse – l’Islam innanzitutto – e non ha alcun timore di viaggiare oltremare né di affrontare uomini con credi differenti. Tommaso da Celano ricorda che Francesco canta in francese le lodi di Dio: «A volte si comportava così. Quando la dolcissima melodia dello spirito gli ferveva nel petto, si manifestava all’esterno con parole francesi (…). La vena dell’ispirazione divina che il suo orecchio percepiva furtivamente 40

traboccava in giubilo alla maniera giullaresca. Talora – come ho visto con i miei occhi – raccoglieva un legno da terra e mentre lo teneva sul braccio sinistro, con la destra prendeva un archetto tenuto curvo da un filo e ve lo passava sopra accompagnandosi con movimenti adatti, come fosse una viella e cantava in francese le lodi del Signore». E si sa che talvolta anche quando chiede l’elemosina usa quella lingua. Può dunque il figlio di un mercante italiano, e mercante egli stesso, essere considerato un illiteratus? Tutto sembra dimostrare il contrario. La notevole quantità dei suoi scritti, dei quali restano anche tre autografi, è testimonianza della sua cultura. Un caso interessante, soprattutto se paragonato a quello del dottissimo Domenico che, pur scrivendo molto, non ha lasciato alcun autografo. Francesco scrive di sua mano una lettera e una benedizione a frate Leone, il suo più stretto collaboratore, con le lodi di Dio. In tutti gli altri casi lui detta, e certo qualcuno lo aiuta soprattutto quando si tratta di tradurre in latino. Il primo biografo di Francesco annota che nel settembre del 1224 mentre era sul monte della Verna, chiuso nella sua cella, un confratello desiderava ardentemente avere a sua consolazione uno scritto contenente parole del Signore con brevi note scritte di proprio pugno da san Francesco. Era infatti convinto che avrebbe potuto superare più facilmente la grave tentazione non della carne ma dello spirito, da cui si sentiva oppresso. Pur avendone un vivissimo desiderio non osava confidarsi con il Padre santissimo; ma ciò che non gli disse la creatura glielo rivelò lo Spirito. Un giorno Francesco lo chiama: «Portami – gli dice – carta e calamaio perché voglio scrivere le parole e le lodi del Signore come le ho meditate nel mio cuore». Subito gli portò quanto aveva chiesto ed egli, di sua mano, scrisse le Lodi di Dio e le parole che aveva in animo. Alla fine aggiunse la benedizione del frate e gli disse: «Prenditi questa piccola carta e custodiscila con cura fino

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al giorno della tua morte». Immediatamente fu libero da ogni tentazione e lo scritto, conservato, ha operato in seguito cose meravigliose.

Si tratta indubbiamente della carta scritta sulla Verna nel settembre del 1224, tuttora conservata ad Assisi. Non è certo difficile ammettere che la scrittura di Francesco è rozza e il suo latino imperfetto, ma la sua storia personale è quella di chi è nato e cresciuto nella casa di un uomo d’affari. Lo rivela anche l’episodio della Verna che esalta il valore rivestito dal documento scritto, al quale si aggiunge anche un effetto sacrale come sovente accade in quella lontana società. «Vuogli sapere perché a me che tutto il mondo mi viene dietro?», dice Francesco a frate Mazzeo nei Fioretti. «Questo ho io da quegli occhi dell’altissimo Iddio i quali (…) non hanno veduto tra’ peccatori, niuno più vile, né più insufficiente, né più grande peccatore che me; e però, a fare quell’operazione meravigliosa la quale egli intende di fare, non ha trovato più vile creatura sopra la terra; e però ha eletto me per confondere la nobiltà e la grandigia e la bellezza e la fortezza e la sapienza del mondo». Chi è dunque Francesco, il mercante che diventerà santo? Iacopo da Varagine sostiene che già al suo tempo bastava pronunciarne il nome per saperlo.

  Iacopo da Varazze, Legenda aurea, a cura di G. P. Maggioni – F. Stella, Firenze, Sismel-Edizioni del Galluzzo, 2007. 2   Isidoro di Siviglia, Etimologie o origini, a cura di A. Valastro Canale, Torino, UTET, 2004, IX, 2, 101; XVIII, 6, 9. 3  Vita prima di san Francesco d’Assisi di Tommaso da Celano, in Fonti francescane, Assisi, Movimento francescano, 1977, pp. 315-571 e Vita seconda di san Francesco d’Assisi di Tommaso da Celano, ibidem, pp. 578-820 per i rinvii e le citazioni. 4  Airaldi, Essere avari. 1

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5 Cristiani, ebrei e musulmani

«Dicci in nome di Dio: sei un frate minore o un predicatore o sei forse un chierico?». È questa la domanda che nasce nel corso di una disputa di altissimo tenore svoltasi a Maiorca nel 1286 e analoga a quella tenutasi a Ceuta nel 1179 tra il mercante genovese Guglielmo Alfachino e l’ebreo Mosé ben Abrayn. Cent’anni prima la controversia aveva avuto per oggetto il Messia, la Circoncisione, la Vergine e le interpretazioni allegoriche e letterali della Bibbia. Gli spunti di carattere teologico erano molti e la discussione si era protratta a lungo con toni sempre più accesi. Guglielmo aveva ribattuto punto per punto alle questioni poste da Mosè e alla fine tutto si era concluso con il battesimo dell’ebreo. Nel 1286 il dibattito si ripropone nella Loggia dei Mercanti di Maiorca. L’isola è centro di molti interessi commerciali e di intensi scambi tra gli esperti cartografi ebrei locali e i loro colleghi genovesi. I protagonisti della Discussione sul Messia fatta a Maiorca da un solo mercante genovese contro alcuni sapientissimi ebrei (Disputatio unius mercatoris ianuensis facta Maiorice contra quosdam sapientisimos iudeos de Messia) sono il rabbino Mosè ben David, con il suo seguito, e Inghetto Contardo, importante uomo d’affari genovese. Anche in questo caso la discussione, che inizia nella Loggia e poi si sposta nella casa piena di libri del rabbino Mosè, si concluderà con un battesimo. 43

Il dialogo che precede la Disputa è di grande interesse. Quando i mercanti genovesi chiedono a Mosè ben David di aspettare l’arrivo di Contardo, l’ebreo ribatte: «Per Dio, Inghetto ha l’intelligenza di un mercante ma assolutamente non può conoscere la Legge!». Poi, di fronte alla cultura teologica del genovese tutti stupiscono, anzi dubitano che egli sia veramente un mercante e in quel momento viene posta la domanda: «Dicci in nome di Dio: sei un frate minore o un predicatore, o sei forse un chierico?»1. A quel tempo la figura dell’uomo d’affari è ormai in piena affermazione. Il mercato trascende la politica e supera ogni frontiera; a fine Duecento, età degli orizzonti aperti, non ci sono limiti per l’aristocrazia mercantile che frequenta corti, ha sue logge e suoi quartieri dappertutto, batte la via della seta e le rotte atlantiche. E questo progressivo allargarsi del mondo offre all’uomo d’affari non solo l’opportunità di avviare un processo di acculturazione, ma un modo di arricchire anche la propria cultura e darne prova quando ne capiti l’occasione. Genovesi e pisani hanno strette relazioni con il mondo islamico ed ebraico. Lo sa bene e lo annota nel suo Itinerario il rabbino Beniamino di Tudela, proveniente dall’area ispanica. Passando per Genova scrive: Quattro giorni di nave separano Marsiglia da Genova, che sorge pure sulla riva del mare. A Genova risiedono due tintori ebrei originari di Ceuta: rabbi Senu’el ben Salim e il fratello di questi, entrambi uomini dabbene. La città è circondata da mura. Alla sua guida non vi è un re ma giudici, che gli abitanti nominano a loro piacimento. In tutte le case vi sono delle torri, dalla cui sommità i genovesi si combattono durante le lotte intestine. Hanno il dominio del mare e costruiscono navi, dette galee, con cui predano senza posa tanto i cristiani quanto i musulmani dalla Grecia alla Sicilia: nella città il bottino giunge dai luoghi più lontani. Sono perennemente in guerra con i pisani.

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Più avanti ricorda che genovesi e pisani sono presenti ad Alessandria d’Egitto. Registra inoltre che Geval (Jibeil) è governata da genovesi, a capo dei quali è Guglielmo Embriaco visconte2. Lo sa anche Ibn Jubayr Abu’l-Husayn Muhammad ibn Ahmad al-Kināni, che inizia la sua Rihla il 25 febbraio 1183 quando è «in mezzo al mare di fronte alla sierra Nevada. La mattina del mercoledì 28 del mese movemmo per Sabtah (Ceuta), dove trovammo una nave di Rūm genovesi pronta a salpare per Alessandria, per virtù di Dio possente e glorioso, e col favore di Lui ci imbarcammo senza difficoltà, e sul mezzogiorno del giovedì 29 del mese stesso, ossia il 24 febbraio, spiegammo le vele». Il viaggiatore ha ottimi rapporti con i genovesi, ne ammira la perizia sul mare e nei traffici e naviga volentieri con loro all’andata e al ritorno del suo pellegrinaggio alla Mecca. Anche Abū ‘Abd Allāh Muhammad  ibn Muhammad  ibn ‘Abd Allāh ibn Idrīs al-Hammudi  al-Hasani,  nato a Ceuta, ma attivo alla corte normanna di Palermo, nel suo Libro di Ruggero, steso nella prima metà del secolo XII, scrive: «Genova è città di antica costruzione, con bei dintorni e imponenti edifici e sta presso un piccolo fiume. La città pullula di ricchi mercanti che viaggiano per terra e per mare e si avventurano in imprese facili e difficili. I genovesi, dotati di un naviglio formidabile, sono esperti nelle insidie della guerra e nelle arti del governo e tra tutte le genti latine sono quelle che godono di maggior prestigio». E intorno alla metà del secolo lo spagnolo Abu Muhammad  ibn Bakr alZuhrī segnala: «Genova è una delle più grandi città dei Rūm e dei Franchi. I suoi abitanti sono i Quraysh dei Rūm. Si dice che discendano da arabi convertiti al Cristianesimo, discendenti di Jabala ibn al-Ayham al-Ghassani, che divenne cristiano in Siria. Questa gente non assomiglia ai Rūm in fisionomia. Mentre i Rūm sono in genere biondi, questi sono bruni con occhi neri e 45

nasi aquilini. È per questo che si dice che siano di origine araba. Sono mercanti (che viaggiano) per mare dalla Siria alla Spagna e sono potenti sul mare». Al-Zuhrī paragona dunque i genovesi addirittura alla tribù di Maometto e per di più li fa discendere dal principe arabo del VII secolo che, dopo essersi convertito all’Islam e al Cristianesimo, forse si era trasferito a Costantinopoli con migliaia dei suoi al seguito3. Scrive sempre Beniamino di Tudela: Pisa, posta a due giorni di viaggio, è una città di grandi dimensioni. Vi sorgono circa diecimila case munite di torri, che vengono usate in caso di scontri cittadini. I pisani sono uomini valorosi; non hanno re né signore che li governi, ma giudici che essi stessi eleggono. A Pisa risiedono una ventina di ebrei, con a capo rabbi Mos-eh, rabbi Hayym e rabbi Yosef. La città, che è priva di mura, sorge a circa sei miglia: vi si accede in nave grazie al fiume che l’attraversa.

E ancora al-Idrīsī precisa: Pisa è una delle città più importanti e più famose dei Rum. Il suo territorio è vasto, i suoi mercati prosperi e così le sue case, il suo territorio è molto ampio, i suoi giardini e i suoi orti sono numerosi e così le sue terre coltivate. Preminente è la sua posizione e la sua storia stupisce. Sono eccelsi i suoi fortilizi, le sue terre fertili, le sue acque abbondanti, i suoi monumenti molto notevoli. I pisani hanno vascelli e cavalli e quindi sono pronti a operazioni marittime contro altri luoghi. Questa città sorge sulle rive di un grosso fiume che proviene dalle montagne della Longobardia, e sulle sue rive si trovano mulini e giardini.

È pisano Leonardo, figlio di Guglielmo Fibonacci, autore del Liber abaci che vede la luce nel 1202. Così scrive: Quando mio padre, scrivano pubblico presso la dogana di Bugia per conto dei mercanti pisani, fu incaricato di dirigerla, essendo io ancora fanciullo mi fece andare presso di lui. Essendosi reso conto dell’utilità e dei vantaggi che me ne sarebbero venuti in seguito, volle che là per

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un certo tempo stessi a studiare l’abbaco e su esso venissi istruito. Ivi fui introdotto in tale arte da un mirabile insegnamento per mezzo delle nove figure degli indiani. La conoscenza di tale arte molto mi piacque rispetto alle altre. Successivamente con studio assiduo e impegnandomi in discussioni, giunsi a comprendere quanto di essa si studiava in Egitto, Siria, Bisanzio, Sicilia e Provenza, luoghi che ripetutamente visitai per i miei viaggi commerciali. Per questo considerai l’algoritmo e gli archi di Pitagora quasi un errore in confronto al procedimento degli indiani. Riassunto in breve tale procedimento degli indiani, studiandolo più attentamente e aggiungendovi qualcosa di mia iniziativa e altro ancora apponendovi delle sottigliezze dell’arte geometrica di Euclide, mi sono impegnato a comporre nel modo più chiaro possibile questo libro diviso in 15 capitoli, presentandovi con dimostrazioni quasi tutto quello che ho inserito. E questo perché coloro che sono attirati da questa scienza ne vengano istruiti in modo perfetto e i popoli latini non se ne trovino esclusi come è stato fino ad oggi.

Infatti nel mondo europeo, a quel tempo, il sistema usato per rappresentare i numeri è quello romano e i calcoli sono eseguiti con l’ausilio dell’abaco a tavoletta, mentre nel mondo arabo si procede con il sistema di numerazione posizionale, elaborato dagli indiani, con i relativi algoritmi per eseguire le operazioni aritmetiche. Più tardi aggiunge: «Quando Maestro Domenico a Pisa mi condusse ai piedi di Vostra Altezza, principe illustrissimo signore F., essendo presente Maestro Giovanni da Palermo, mi propose il problema scritto più sotto pertinente alla geometria non meno che all’aritmetica». Nel luglio del 1226, alla presenza di Federico II, in quel momento a Pisa, Leonardo discute con il filosofo di corte, il Maestro Giovanni da Palermo, dedicando poi all’amico la Practica geometriae: «Mi chiedesti di scrivere per te un libro di geometria pratica: quindi spinto dalla tua amicizia, per soddisfare le tue preghiere, ho pubblicato

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tale e quale per tuo piacere un’opera che avevo già iniziata». Da quell’incontro scaturisce un intenso dialogo di carattere scientifico anche con il Maestro Teodoro e con Michele Scoto. Il Maestro Teodoro è il destinatario dell’Epistula ad magistrum Theodorum, dove sono risolti alcuni problemi di analisi indeterminata ispirati nelle formulazioni più note a questioni che riguardano l’acquisto di uccelli. Leonardo stende nel 1228 la seconda redazione del Liber abaci per Michele Scoto4. Il testo è composto di 15 capitoli. I primi sette presentano il nuovo sistema di numeri e i relativi algoritmi per eseguire le quattro operazioni aritmetiche. Prima di arrivare alla corte di Federico II nel 1227, dove avrebbe compilato schemi di carattere astrologico e scientifico, Michele Scoto era stato a Toledo dove aveva tradotto dall’arabo in latino importanti opere scientifiche e filosofiche. Le nove figure degli indiani sono queste 9 8 7 6 5 4 3 2 1. Pertanto con queste nove figure, e con questo segno 0, che gli arabi chiamano zefiro, sarà scritto qualunque numero, come sarà mostrato più sotto. Infatti il numero è una raccolta o un aggregato di unità, che per i suoi gradi cresce all’infinito. Fra i quali il primo è formato dalle unità, che sono da uno fino a dieci. Il secondo dalle decine che sono da dieci fino a cento. Il terzo dalle centinaia che sono da cento fino a mille. Il quarto dalle migliaia che sono da mille diecimila, e così la sequenza dei gradi all’infinito, ciascuno consta del decuplo del suo antecedente. Nella scrittura dei numeri il primo grado comincia da destra. Il secondo invero, segue il primo verso a sinistra.

Fibonacci passa poi all’applicazione del sistema nelle più frequenti questioni relative al mercato. Compare la Regola del tre, strumento universale: «In tutte le operazioni commerciali si trovano sempre quattro numeri proporzionali, tre dei quali sono noti, il rimanente è ignoto». Seguono questioni relative

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al calcolo dei prezzi delle merci, dei guadagni, degli interessi e sconti, dei cambi monetari; al computo delle operazioni di scambio delle merci (baratti) e quello degli utili o perdite delle società; un vero e proprio manuale di ragioneria commerciale. I capitoli 12 e 13, che costituiscono la parte più ampia, affrontano questiones erratice. Negli ultimi due capitoli compare il primo trattato d’algebra steso in latino, dove l’autore segue il modello introdotto dal matematico arabo Muhammad  ibn Mūsā al-Khwārizmī nel suo trattato, il più antico dedicato all’algebra finora noto. Nella seconda parte del capitolo 15 sono proposti e risolti un centinaio di problemi che si riallacciano all’una o all’altra delle sei equazioni elencate e sono tratti dal testo di al-Khwārizmī, di Abū Kāmil Shujā‘ ibn Aslam e Abū Bakr ibn Muhammad  ibn al Husayn  al-Karajī. L’ultima opera di Leonardo è il Flos dedicato a Ranieri Capocci, cardinale diacono di Santa Maria in Cosmedin. Nel mondo mediterraneo il viaggio è una forma di vita, un elemento di struttura come il mercato che da secoli ne è la ragione. Nel VI secolo Cosma Indicopleuste, mercante, cosmografo e cosmologo di Alessandria, racconta il suo viaggio fino a Ceylon. Alla metà dell’800 l’introduzione del Libro dei due mao­mettani è dedicata alle relazioni degli arabi e dei persiani con l’India e con la Cina. Il mercante Solimano viaggia in India e nel Catai e ne completa il viaggio il più erudito Abu Zayd  ibn-Yazīd al-Sīrāfī con la sua scienza e con le informaHasan zioni raccolte tra i mercanti e i marinai di Syraf nel Golfo Persico. Si tratta di una guida per mercanti che indica strade, porti, numero dei giorni di ogni traversata, distanze tra città e città, informazioni sugli abitanti e sui costumi dei vari paesi, su mercati e prodotti, su monete e cambi, su salvacondotti e su tribu49

nali per stranieri e rapporti con le donne. Anche il damaschino Abu al-Fadl Ja’far ibn ‘Ali al-Dimashqi stende una Guida alle bellezze del commercio, dove non solo non si trattiene dal disapprovare ogni intervento statuale nell’economia ma, ragionando su domanda e offerta, elabora una sua teoria dei prezzi. Si deve, infine, al cinese Chu-fan-chi la Cronaca di molti paesi stranieri dedicata al commercio cinese e arabo tra XII e XIII secolo, che trova il suo estremo limite geografico nella Sicilia. Fa parte di questa tipologia la pisana Memoria di tucte le mercantie, redatta nel 1278, cui fa concorrenza per precocità un’analoga Memoria veneziana5. Giunta in un’incompleta copia seicentesca, la Memoria descrive con precisione gli spazi d’azione commerciale dei pisani. Punto essenziale dei traffici è Alessandria d’Egitto, seguita da Acri, Laiazzo in Armenia, Bugia. Più raramente sono nominati Costantinopoli, Romània e Mar Nero. In Europa compaiono Colonia e le fiere di Francia, Marsiglia e Montpellier. Domina l’Italia meridionale. La Memoria è composta di diverse parti, dove sono presentati i dati relativi a merci, pesi, monete e una serie di annotazioni riguardanti la storia di Pisa, decantata da gloriose imprese condotte negli anni 1006, 1016, 1100. Anche se di lì a poco la battaglia della Meloria del 1284 assesterà un fiero colpo alle ambizioni dei pisani, che dovranno lasciare mano libera ai tradizionali concorrenti genovesi e assistere alla definitiva affermazione di Firenze come centro di sviluppo commerciale. Infine, almeno un terzo del testo è dedicato a un elemento portante della cultura del tempo, l’astrologia, per la quale si propone un interessante prontuario: Aries si è intra segne di fuoco, è buono fare tucte cose là ove s’adoperi fuoco, ed è buono a chiedere gratia e donamento a Signore. E se la luna è in questo segno, no fare niuna medicina a testa d’uomo né di femina 50

che fosse ferito infino che fusse in questo segno, né tagliare né nulla fare. Ed è buono segnare di braccio e comperare e vendere. Con Libra è buono fare matrimonio e acquistare femina né non faccia nesuna medicina in natura d’uomo né a femina infino ch’è in questo segno. Buono è incominciare legno o barca di corso o di mercantia et è buono cominciare tucte altre cose e di viaggio di mare et di terra, comperare e vendere impercioché questo signo è d’aire (…) in Virgo non fare medicina nulla a fiancho d’uomo né di femena non fare matrimonio di pulcella se non è pulcella si faccia come si vuole (…) Mars ferro e fortuna, Saturno umbre, morte, Venus ramo de luxuria (…) Lira per le rena, Taurus per il collo.

Per l’uomo di quel tempo il destino di ciascun individuo è scritto nel cielo di astri governato da Dio. Scrive Dante nel Purgatorio (XVI, 73 sgg.) «lo cielo i vostri movimenti inizia, / (…) ma (…) / lume v’è dato a bene e a malizia, / e libero voler». Note di chiusura  O. Limor (hrsg. von), Die Disputationen zu Ceuta (1179) und Mallorca (1286). Zwei antijudische Schriften aus dem mittelalterlichen Genua, Monumenta Germaniae Historica, München, 15 (1994). 2   Binyamin da Tudela, Itinerario (Sefer massa’ot), a cura di G. Busi, Firenze, Giuntina, 2018, pp. 24, 41. 3  Ibn Ğubair, Viaggio in Ispagna, Sicilia, Siria e Palestina, Mesopotamia, Arabia, Egitto, a cura di C. Schiaparelli, Palermo, Sellerio, 1995; G. Airaldi, Storia della Liguria, vol. I, Dalle origini al 1492, Genova, Marietti, 2010, pp. 164-165; al-Idrīsī, La première géographie de l’Occident, présentation, notes, index, chronologie et bibliographie par H. Bresc – A. Nef, Paris, Flammarion, 1999, pp. 371-372. 4   Quindici capitoli compongono il Liber: 1. Le nove cifre indiane; come si calcola per mezzo di esse. Quali numeri ed in qual modo si possono rappresentare con le mani. Introduzione all’abaco. 2. Moltiplicazione dei numeri interi. 3. Addizione dei numeri interi. 4. Sottrazione di numeri da numeri maggiori. 5. Divisione di numeri interi per altri. 6. Moltiplicazione di numeri interi per frazioni. 7. Addizione, sottrazione e divisione di numeri interi e frazioni. Scomposizione di interi in parti. 8. Acquisto e vendita di cose 1

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venali e simili. 9. Baratti di cose venali, acquisto di bolsonalie e altre regole simili. 10. Società fatte fra consoci. 11. Miscuglio di monete e regole simili. 12. Soluzione di questioni dette erraticas. 13. Regola elcataym, come per essa si possono risolvere quasi tutte le erraticas questiones. 14. Determinazione delle radici quadratiche e cubiche mediante moltiplicazioni e divisioni, ossia estrazione di esse. Trattato dei binomi e dei recisi e delle loro radici. 15. Regole relative alle proporzioni geometriche. Questioni di algebra e almuchabala. Cfr. R. Franci, Il Liber Abaci di Leonardo Fibonacci 1202-2002, «Bollettino dell’Unione Matematica Italiana», s. VIII, V-A (La Matematica nella Società e nella Cultura), 2 (2002), pp. 293-339; http://www.bdim.eu/item?id=BUMI_ 2002_8_5A_2_293_0. 5   R. Lopez – G. Airaldi, Il più antico manuale italiano di pratica della mercatura, in Miscellanea di studi storici II, pp. 99-134; D. Jacoby, Mercanti genovesi e veneziani e le loro merci nel Levante crociato, in G. Ortalli – D. Puncuh (a cura di), Genova, Venezia, il Levante nei secoli XII-XIV, «Atti della Società Ligure di Storia Patria», n.s., XLI (2001), 1, pp. 229-256.

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6 Elogio del mercante

Per ubicunque mundi partes. È questa la formula usata dai notai genovesi nei contratti stipulati tra chi, andando alla ricerca di fruttuosi investimenti, decide di affidare le sorti del suo denaro a qualcuno che si accinge a percorrere le strade del mondo. Gli uomini di affari non hanno confini. Lo prova l’ esperienza del veneziano Marco Polo che, a fine Duecento, muove verso Oriente. Tra Due e Trecento, e per più di un secolo, la pace mongola apre agli occidentali le vie dell’ Estremo Oriente. In questo momento vede la luce il Devisement du monde di Marco Polo: Signori imperadori, re e duci e tutte le altre genti che volete sapere le diverse generazioni delle genti e le diversità delle regioni del mondo, leggete questo libro dove le troverete tutte le grandissime maraviglie e gran diversità delle genti d’Erminia, di Persia e di Tarteria, d’India e di molte altre province. E questo vi conterà il libro ordinatamente siccome messere Marco Polo, savio e nobile cittadino di Vinegia, le conta in questo libro ed egli medesimo le vide. Ma ancora v’a di quelle cose le quali elli non vide, ma udille da persone degne di fede, e però le cose vedute dirà di veduta l’altre per udita, acciò che ’l nostro libro sia veritieri e sanza niuna menzogna (…). E si vi dico che d’egli dimorò in que’ paesi ben trentasei anni; lo quale poi, stando nella prigione di Genova, fece mettere in iscritto tutte queste cose a messer Rustico da Pisa, lo quale era preso in quelle medesime carcere negli anni di Cristo 1298.

Soltanto Marco, figlio di Nicolò, ha potuto vedere e udire le meraviglie e le ‘diversità’ di tante genti e di tanti paesi del 53

mondo. Due secoli più tardi Cristoforo Colombo, intendendo raggiungere il Levante attraverso il Ponente («buscar el Levante por el Poniente») postilla con cura la sua copia del Milione, bestseller di tutti i tempi, copia tuttora conservata presso la Biblioteca Colombina di Siviglia1. Nel 1298 Lamba Doria e le galee genovesi arrivano a Curzola e tra i veneziani che le affrontano c’è anche Marco Polo. La disfatta veneziana, preceduta da quella patita dei pisani alla Meloria nel 1284, è motivo di gloriosa celebrazione per i solitamente taciturni genovesi. Tra i prigionieri della Meloria c’è il romanziere Rustichello; tra quelli veneziani di Curzola c’è Marco Polo. Genova è il luogo di quell’incontro, così peculiare e così strano, avvenuto tra un veneziano e un pisano in una prigione genovese. Un trinomio interessante, al quale rinvia anche la Prefatione ai Viaggi di Marco Polo di Giambattista Ramusio che accoglie il testo nella sua raccolta: Hor trovandosi in questo stato M. Marco & vedendo il gran desiderio ch’ognun have ad’intendere le cose del paese del Cataio, & del gran Cane, essendo astretto ogni giorno di tornar a riferire con molta fatica, fu consigliato che le dovesse mettere in scrittura, per il qual effetto tenuto modo che fusse scritto qui a Venetia a suo padre, che dovesse mandargli le scritture, & memoriali che havea portati seco; et quelli havuti, col mezzo d’un gentil huomo Genovese molto suo amico, che si dilettava grandemente di saper le cose del mondo, et ogni giorno andava a star seco in prigione per molte hore, scrisse per gratificarlo il presente Libro in lingua latina, si come accostumano li Genovesi in maggior parte fino hoggi di scrivere le loro faccende.

Forse il gentiluomo cui si riferisce il Ramusio è Andalò di Negro, famoso maestro di Boccaccio, membro di una grande e antica famiglia di uomini d’affari che ritroveremo più avanti. 54

Le due redazioni francese e toscana del Milione hanno suggerito letture oscillanti tra la ‘pratica di mercatura’ e il livre des merveilles, tra la letteratura didattica e la costruzione di un’opera sul potere e per il potere, esemplata sulla tipologia dello Speculum principis consueta nella cultura occidentale. Tuttavia l’alta percentuale di capitoli del Milione dedicati alla parte mercantile (109 su 234) segnala chiaramente quale possa essere stata l’origine di un testo che, come ogni ‘pratica di mercatura’, è costruito per offrire più particolari possibili sul mondo visitato, per radunare notizie derivate non solo da indagini dirette ma anche da fonti indirette, come accade negli analoghi testi arabi, cinesi, toscani e veneziani. Marco Polo comincia i suoi viaggi nel 1276. Prima si dirige nello Shanxi, a Sichuan e nello Yunnan, dove raccoglie molte informazioni sulle regioni prossime al Tibet, fino ad allora sconosciute, nonché sulla Birmania e sul Bengala. Successivamente visita l’area orientale della Cina, da Cambaluc a Zaitun. In realtà i suoi spostamenti sono molti, e il suo racconto segue esattamente l’andamento del tragitto. Non visita il Cipango né Bagdad e Mossul, né si spinge oltre le coste indiane; non vede Giava e non sono di prima mano le notizie relative all’Insulindia; invece è originale la descrizione dell’Indocina e del regno di Champa. Molti dati sulla Cina sono oscuri e imprecisi, ma per la prima volta ad una platea di lettori curiosa e interessata appare l’Estremo Oriente con le sue favolose città, con la sua imponente rete di canali e l’immagine unica e preziosa della cittàpalazzo di Shangdu. Per la prima volta si fa menzione del petrolio, dell’uso della moneta cartacea, si descrivono l’ambiente e le genti che lo abitano, la fauna e la flora, viene fornito anche un elenco dei centri di distribuzione delle ‘spezie’ che trovano 55

in Venezia il centro intermediario più importante. Marco Polo sa valutare cose e persone, guarda alla natura con l’occhio indagatore di chi possiede conoscenze e tecniche di misurazione del mondo utili a percepirne le reali valenze; il ‘meraviglioso’ è l’aggiunta dotta di Rustichello, capace di dar vita a un mondo fantastico eppure tangibile, una realtà che da allora in poi affascinerà l’Occidente, arricchendo la trama di leggende e ‘meraviglie’, come gli uomini dalla testa di cane, le coppe che si alzano da sé dal pavimento della Corte e storie come quelle sul Vecchio della Montagna, sulla Setta degli Assassini, sul Prete Gianni. Attraverso la penna di Rustichello si ripropone il canone cavalleresco destinato ora a nobilitare la figura del mercante. Ruiz Domènec ne ha dimostrato la funzione strutturale in ambito letterario dai tempi del ciclo arturiano2. Fin da giovanissimo Marco corre l’aventure che lo porterà ad inchinarsi di fronte al Gran Khan, ma sullo sfondo del suo cammino vede sempre l’immagine di Gerusalemme. Marco Polo è un eroe cristiano e, al pari di Guglielmo Embriaco, rivela che il mercante è come il cavaliere o meglio è il cavaliere protagonista di un’epopea che ormai parla senza timore alla testa e al cuore di tutto l’Occidente. Il romanziere pisano, amante dei temi arturiani, sa come raccogliere la sfida e comunicare quello che il veneziano vuole trasmettere al mondo, illustrando in forma romanzata il risultato di una storia iniziata duecento anni prima con la rivoluzione commerciale. Come Cristoforo Colombo, Marco Polo sa affidarsi alla comunicazione scritta, strumento naturale per i figli delle più importanti società urbane e mercantili di quei tempi. Da parte sua Rustichello, scrittore variamente legato a francesi e inglesi, è uomo in grado di mettere a punto un prodotto adatto a polivalenti letture. Il testo non dà adito a dubbi. Parli in prima 56

o in terza persona, vada con i suoi parenti o agisca per conto suo, l’eroe al centro di questa operazione è uno solo: Marco. Lo si dice esplicitamente all’inizio e alla fine di un’opera che non esisterebbe senza il ritratto del suo protagonista e di quello del coprotagonista, il Gran Khan Kubilai, che per primo ammette nella classe governativa i se-mu-jen, gli stranieri asiatici o occidentali ai quali viene attribuito un grado speciale. Così, in un testo pensato da un veneziano e steso da un pisano in una prigione genovese, si coglie il filo rosso della celebrazione del mercato e del mercante che, proprio mentre guarda a Oriente, si autocelebra nelle vesti di uomo dell’Occidente. E nell’opera si afferma che solo il mercante possiede le chiavi della conoscenza del mondo ed è in grado di penetrarne e conquistarne le meraviglie. Solo il mercante è l’uomo di ogni possibile incontro. L’Europa parla al signore orientale attraverso le parole del padre di Marco: «Egli è vostro uomo e mio figliolo». L’uomo che, come un fedele vassallo, si inchina a Kubilai Khan è figlio di una grande cultura urbana. Nella figura di Marco si legge l’elogio del mercante, forza vincente di una storia mondiale, e insieme l’autobiografia di un personaggio appartenente ad una élite. Un modo originale di fare storia. Ma come si arrivava così lontano? Lo racconta, unico a quel tempo, il fiorentino Francesco di Balduccio Pegolotti. Come Chellino, il padre di Giovanni Boccaccio, Francesco è un ‘fattore’, cioè un agente della fiorentina Compagnia dei Bardi, potentissima in ambito commerciale e bancario. Nel 1310 si occupa di questioni riguardanti la Curia romana e i Gerosolimitani. Nel 1315 è nelle Fiandre, nel 1317 in Inghilterra dove, in veste di procuratore generale, dal 1318 al 1321 è impegnato in importanti transazioni relative al mercato della lana e all’at57

tività di prestito. In quegli anni è spesso ad Avignone per incontrare il nunzio apostolico. A Cipro, tra il 1322 e il 1329, è merito suo aver ottenuto l’equiparazione dei fiorentini a pisani, provenzali e narbonesi. Nel 1331 torna a Firenze, dove diventa gonfaloniere di Compagnia. Nel 1336 i Bardi lo rimandano a Cipro. Al momento della loro bancarotta è tra i sindaci delegati alla liquidazione dei creditori. Passa poi agli Alberti. Nel 1340 è di nuovo a Firenze con incarichi tra i Buonuomini e come gonfaloniere di Compagnia nel sestiere di Oltrarno; nel 1346 diventa gonfaloniere di Giustizia per il quartiere di Santo Spirito. Muore nel 1349 forse a causa della pestilenza. Il suo Libro di pesi e misure di mercatantie e d’altre cose bissognevoli di sapere a mercatanti di diverse parti del mondo e di sapere che usano le mercatantie e cambi e come rispondono le mercatantie da uno paese a un altro e da una terra a un’altra e simile s’intenderà quale è migliore una mercantantia che un’altra e d’onde elle vengono e mostreremo il modo di conservarle più che si può viene steso tra il 1335 e il 1343. Il titolo dell’opera riassume un universo in movimento. I viaggi dell’uomo d’affari sembrano seguire o piuttosto inseguire le vie segnate sulle carte del tempo quando ancora si guarda verso Oriente, mentre in Occidente proprio in quegli anni già si effettuano viaggi sull’Atlantico e si prosegue la navigazione lungo le coste dell’Africa. Ma Pegolotti non menziona le isole atlantiche, che pure stanno entrando nel circuito commerciale europeo. D’altra parte quando Francesco stende il suo manuale per mercanti la pace mongola garantisce ancora la fluidità delle relazioni tra l’Occidente e l’Oriente estremo. In effetti il viaggio per il Catai, qualsiasi itinerario della Via della Seta si segua, dura meno di un anno, da 254 a 284 giorni3. In genere si passa dall’area del Mar Nero alle catene pontiche, a Sarai, e infine 58

si giunge a Tabriz in Persia. Poi si attraversa il deserto del Kirman, l’altopiano del Pamir, il bacino del Lopnor, il deserto di Gobi e si arriva alla Grande Muraglia e a Cambaluc (Pechino). Talvolta, partendo da Caffa e Tana, un altro itinerario tocca Astrakan, Sarai, Urgenç, Almaligh, il Gobi e infine Cambaluc. È possibile seguire anche una direzione più settentrionale toccando Kiev o altre località. Ma sono Mashed, Merv, Samarcanda, Kashgar i centri principali d’interesse anche se non si escludono tappe diverse, legate o meno ad eventuali interessi in Turkestan, in Persia o altrove. L’itinerario marittimo, più lungo ma comunque praticato per raggiungere l’India e utile per il trasporto di merci voluminose, dura almeno due anni; i punti di partenza sono vari, ma si deve passare dal Mar Rosso o dal Golfo Persico per raggiungere l’Oceano Indiano e, muovendo lungo le coste dell’India e dell’Indocina, arrivare in Cina. Si tratta di un tragitto usato fin da tempi lontani, da quando si è imparato a conoscere il ciclo monsonico, che costeggia zone ricche e popolose. L’Egitto, che detiene le chiavi dell’Oceano Indiano, tende a bloccare gli europei ad Alessandria, a Damietta e al Cairo, nonostante i loro insediamenti coloniali. Ma, da quando i mongoli controllano l’ampio spazio che si stende dal golfo di Alessandretta al Golfo Persico, è possibile usare la via di terra fino al Golfo Persico e poi prendere quella marittima da Bassora o da Ormuz. L’instabilità mediorientale e il pericolo turco rendono il Mar Nero, allora controllato dai genovesi, la via privilegiata per muovere sugli itinerari della Via della Seta. Molto opportuna è dunque la scelta di aprire il testo con il viaggio al «Gattaio» (Catai), durante il quale partendo da Tana, sul Mar d’Azov, si arriva in varie tappe alla «mastra città della Cina», cioè 59

Gamalecco ossia Cambaluc (Pechino), accompagnati dalla segnalazione delle Cose bisognevoli a mercatanti che vogliono fare il sopradetto viaggio del Gattaio: Primieramente conviene che si lasci crescere la barba grande e non si rada. E vuolsi fornire alla Tana di turcimanni, e non si vuole guardare a risparmio dal cattivo al buono, chè il buono non costa quello d’ingordo che l’uomo non s’ene migliori via più; e oltre a’ turcimanni si conviene menare per lo meno due fanti buoni che sappiano bene la lingua cumanesca. E se il mercatante vuole menare dalla Tana niuna femmina con seco, sì puote, e se non la vuole menare non fa forza, ma pure se la menasse sarà tenuto di migliore condizione che se non la menasse, e però se la mena conviene che sappia la lingua cumanesca come il fante (…). Il cammino d’andare dalla Tana al Gattaio è sicurissimo e di dì e di notte secondo che si conta per li mercatanti che l’anno usato, salvo se il mercatante che va o che viene morisse in cammino ogni cosa sarebbe del signore del paese ove morisse il mercatante e tuto prenderebbono gli uficiali del signore, e similmente se morisse al Gattaio (…). Il Gattaio si è una provincia dove à molte terre e molti casali. Infra l’altre si à una, cioè la mastra cittade, ove riparano mercatanti e ove si fa il forzo della mercatantia, la quale cittade si chiama Canbalecco; e la detta cittade gira cento miglia ed è tutta piena di gente e di magione e d’abitanti nella detta cittade (…). E ragionasi che ’l carro di cammelli mena 3 cammelli ed è il carro 30 cantara di Genova, e il carro de’ cavalli mena 1 cavallo ed è ’l carro cantara 6 1/2 genovesche di seta comunalmente da libbre 250 genovesche (…). Ragionasi che dalla Tana in Sarai sia meno sicuro il cammino che non è tutto l’altro cammino; ma s’egli fussono 60 uomini, quando il cammino è in piggiore conditione andrebbe bene sicuro come per casa sua (…). E possono i mercatanti cavalcare per lo cammino o cavallo o asino o quella cavalcatura che piace loro di cavalcare (…). Tutto l’argento che’ mercatanti portano e che va al Gattaio, il signore del Gattaio lo fa pigliare per sé e mettelo in suo tesoro, e’ mercatanti che ’l vi portano ne dà loro moneta di pappiero, cioè di carta gialla coniata della bolla del detto signore, la quale moneta s’appella balisci; della qual moneta puoi e truovi da comperare seta e ogn’altra

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mercatantia e cose che comperare volessi. E tutti quelli del paese sono tenuti di prenderla, e già però non si sopracompera la mercatantia perché sia moneta di pappiero; della detta moneta di pappiero ne sono di tre ragione, che l’una si mette per più che l’altra secondo che sono ordinate a valuta per lo signore (…). E ragionasi che al Gattaio arai da libbre 19 in 20 di seta cattaia recato a peso di Genova per uno sommo d’argento, che puote pesare da once 8 1/2 di Genova ed è di lega d’once 11 e denari 17 fine per libbra. E ragionasi che arai al Gattaio da 3 in 3  1/2 pezze di cammocca di seta per uno sommo e da 3 1/2 insino in 5 pezze di nacchetti di seta e d’oro per uno sommo d’argento.

Il testo si inoltra poi in più vicini e familiari contesti, segnalando con ricchezza di dati informativi una lunga serie di centri commerciali importanti. Si alternano i nomi di Siviglia, Londra, Bruges, Tunisi, Altoluogo di Turchia, Laiazzo d’Armenia, Acri, Alessandria, Famagosta, Antiochia, Rodi, Candia, Sicilia, Chiarenza, Sardegna, Maiorca, Arzilia, Tunisi, Tripoli di Barberia, Gerba, Venezia, Treviri, Trieste, Friuli, Ancona, Puglia, Salerno, Napoli, Gaeta, Firenze, Pisa, Genova, Nîmes, Avignone, Aigues Mortes, Ibiza, Borgogna, Parigi, Fiandra, Bruges, Brabante, Anversa, Londra, Roccella di Guascogna (La Rochelle), Safi, accompagnate da tutte le notizie utili a chi le deve frequentare. Molte sono le digressioni: ad esempio da dove arrivino lo stagno e la seta, quale sia la migliore «grana da tignere», l’«avisamento di convenenze di noleggiamenti», le fiere di Champagne di Francia, le lunghezze dei tessuti di Francia, Fiandra e Brabante, l’Ordine dei Mercanti di Firenze, le leghe di monete d’oro e di pezzi d’argento, di monete d’argento e monete piccole, il modo di raffinare l’oro. Si parla di pellicce, perle e pietre preziose, si declinano i nomi delle ‘spezie’ (più di trecento), si aggiungono tavole cronologiche e un’ampia terminologia legata al mondo degli affa-

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ri internazionali che in alcuni casi guarda ben oltre l’Oriente, come capita ai portoghesi e ai genovesi che mirano a una colonizzazione delle isole atlantiche e cercano una via per le Indie, da una parte costeggiando l’Africa e dall’altra esplorando le rotte trasversali dell’Atlantico. Il 1o febbraio 1317 il genovese Manuele Pessagno ottiene da Dinis, re del Portogallo, la carica prestigiosa di ammiraglio del Regno. Gli ammiragli genovesi portano con sé uomini e navi. Manuele Pessagno s’impegna a far arrivare ogni anno da Genova venti uomini sabedores de mar. Da quel momento in poi genovesi e portoghesi compiranno insieme una serie di viaggi verso le isole atlantiche. Non a caso Cristoforo Colombo completerà in Portogallo la sua formazione. D’altro canto il Mediterraneo orientale è troppo importante per non progettare un recupero delle perdute posizioni levantine, e questo fanno la Chiesa di Roma, la Corona francese e gli Angiò, i bizantini, i genovesi e soprattutto i veneziani. È venuto il momento di scrivere la guerra. Note di chiusura   Marco Polo, Milione, a cura di V. Bertolucci Pizzorusso, Milano, Adelphi, 1975; F. Borlandi, Alle origini del libro di Marco Polo, in Studi in onore di Amintore Fanfani, Milano, Giuffré, 1962, vol. I, pp. 73-226; Airaldi, Dall’Eurasia al Nuovo Mondo, pp. 31-46. 2   J. E. Ruiz-Domènec, La novela y el espíritu de la caballería, Barcelona, Grijalbo-Mondadori, 1993. 3   F. Balducci Pegolotti, La pratica della mercatura, edited by A. Evans, Cambridge (Massachusetts), The Medieval Academy of America, 1936. 1

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7 Scrivere di guerra

Quando nel 1299 l’ilkhan di Persia Ghazan e suo genero Hayton di Armenia entrano a Damasco gli occidentali sperano che, fermati i turchi, saranno i mongoli a mantenere aperta la via terrestre verso l’Oriente. Sconfitto quattro anni più tardi, nel 1304 Ghazan muore. Continuano dunque a fiorire progetti per una possibile Crociata contro l’Egitto, approdo finale delle preziose merci orientali. In una nota al pontefice Niccolò IV, Carlo II di Sicilia, figlio di Carlo d’Angiò, scrive che occorre poter disporre di cinquanta navi da trasporto, cinquanta galere e millecinquecento uomini forniti da Cipro, dai Templari, dagli Ospedalieri e dal Papato. Il piano illustrato dal francescano Fidenzio da Padova, vicario in Terrasanta, nel suo Liber recuperationis Terresancte, prevede l’intervento di ventimila o trentamila cavalieri, di altrettanti fanti e di trenta o cinquanta navi che, partiti da Genova o da Venezia, giunti ad Antiochia si uniscano ai mongoli e ai georgiani. Guarda soprattutto alla Francia e agli Angiò Pierre Dubois, che nel De recuperatione Terrae Sanctae, scritto tra il 1305 e il 1307, non si occupa di questioni militari e dedica invece la sua attenzione a ciò che accade in Europa, auspicando un riordino della situazione politica e della fin troppo corrotta Chiesa romana. Prevede uno sbarco a Cipro il Gran Maestro dei Templari Jacques de Molay, proponendo un magnum passagium composto di cinquantamila fanti e millecin63

quecento cavalieri. Però, arrestato il 13 ottobre 1307 insieme a tutti i Templari francesi, finisce sul rogo l’11 marzo 1314. Nel 1311 anche Guglielmo di Nogaret pensa a una base cipriota e su questa strada lo segue Hayton d’Armenia che, confidando nel forte sostegno mongolo, nel suo Flos Historiarum afferma di volere mettere assieme dieci galere, mille cavalieri e tremila fanti. Il medico genovese Galvano di Levanto, autore di una quindicina di trattati, dedica il suo Liber sancti passagii Christicolarum contra Sarracenos pro recuperatione Terre Sancte, steso tra il 1291 e il 1295, a Filippo IV il Bello re di Francia. Come Dubois, Galvano non si occupa di guerra, sostenendo che è indispensabile avviare un progetto di pace e di buon governo tra i principi cattolici e un riordinamento della Chiesa romana prima di promuovere qualsiasi azione di Crociata o di missione. Nato e cresciuto a Maiorca, figlio delle tre culture, ebraica, cristiana e islamica, della grande storia marittima e mercantile catalana, nel suo Liber de acquisitione Terresancte Raimondo Lullo propone a Genova, a Pisa, in sede conciliare e alla corte di Francia di partire dall’Andalusia e passare per Tunisi prima di arrivare in Egitto, per incontrarvi un esercito proveniente da Costantinopoli e dalla Siria. In realtà il mondo si muove su coordinate diverse, il mercato ha le sue ragioni e prospera la vendita all’Islam di materiale strategico, come pece, legno e ferro. Malgrado i ripetuti deveta pontifici (ma le deroghe concesse sono molte) gli uomini di affari non interrompono i loro traffici, come ben sa il domenicano Guglielmo Adam, vescovo di Sultaniyyah e metropolita di Antiochia. Pur lodando i genovesi che «più di ogni altra gente si dirigono verso tutte le direzioni e vedono le diverse parti del mondo», nel suo De modo Saracenos exstirpandi, Guglielmo condanna il comportamento di Sakran il 64

genovese (Segurano Salvago), che naviga sotto il vessillo islamico e nel 1310, oltre allo zucchero e ad altre merci, si fa consegnare dal Tesoro del sultano 60.000 dinari per il lucroso commercio di schiavi avviato con il fratello. Negli stessi anni il genovese Domenichino Doria incontra al Cairo Ah mad ibn Yah yá Ibn Fadl Allāh al-‘Umari e gli fornisce una fitta serie di informazioni sui sedici principati turchi di Anatolia, sull’Impero greco di Trebisonda e sull’Europa cattolica, informazioni che più tardi al-‘Umari raccoglie in una grande enciclopedia insieme ad altre notizie ricevute da mercanti e viaggiatori. Ovviamente Domenichino, che al-‘Umari chiama Belban, si sofferma a lungo sull’area italiana e mediterranea. Parla delle forme di governo, dell’organizzazione militare, delle attività economiche e delle monete, della decadenza di Pisa, della grandezza di Venezia, della Sicilia, dei toscani, del Monferrato e di Ferrara. Grande spazio è dedicato ai genovesi. Descrive il ruolo delle principali famiglie e l’originale sistema di espansione («il dominio dei genovesi è sparpagliato ma è grande … che se si unissero tutti i territori soggetti si girerebbe circa tre mesi»). Da parte sua al-‘Umari sottolinea che i genovesi «sono in pace con il nostro sultano e possono trafficare in Egitto e in Siria. Quando capita nelle loro mani qualche loro nemico cristiano lo spogliano di ogni cosa e l’uccidono, ma ai musulmani tolgono soltanto la roba e li vendono schiavi. Quindi non è il caso di chiudere la porta in faccia ai genovesi ma neanche da spalancarla come ad amici di casa». Oltre ai molti che si ingegnano a scrivere di Crociata ma, non avendo cognizioni precise sul piano militare e ancor meno su quello commerciale, si limitano ad affastellare numeri, c’è anche chi è in grado di proporre un progetto più convincente se non più efficace. Solo un uomo d’affari, che cono65

sca bene la complessità di un panorama internazionale dove mercato e guerra si intrecciano costantemente, può analizzare con precisione e profondità in quali modi e per quali vie si possa condurre a termine un’operazione destinata al successo. Fin da giovanissimo, favorito anche dal fatto che, dopo la Crociata del 1204, il trisavolo Marco è diventato duca di Nasso e di Andro, Marin Sanudo Torsello, appartenente al ramo di San Severo della grande famiglia veneziana, viaggia per i suoi commerci nel Mediterraneo. Intorno al 1286 è ad Acri, nel 1289 naviga verso Negroponte, nel 1293 è a Venezia per dirimere una questione tra i Sanudo veneziani e i Sanudo di Nasso, nel 1306 è a Roma alle dipendenze di Riccardo Petroni, cardinale diacono di Sant’Eustachio. Come i suoi conterranei, Marin Sanudo conosce bene il Mediterraneo orientale e l’area mediorientale e lo dimostra in una Storia di Romània pervenuta però solo in una traduzione italiana coeva. Tuttavia non ignora le rotte che conducono ai mari dell’area nordeuropea. Muove verso Bruges, le coste del Baltico, naviga lungo la costa tedesca da Amburgo a Stettino seguendo anche in questo caso l’itinerario tradizionalmente battuto dai veneziani, disinteressati a quell’Atlantico che tanto coinvolge i genovesi. Membro dell’aristocrazia mercantile, Sanudo conosce bene le questioni mediterranee. Per questo sa meglio di chiunque altro quali siano modi e tempi da seguire per assestare un colpo fatale all’Egitto1. Per bloccare l’import/export delle merci, che è voce primaria delle entrate doganali del sultano, occorre in primo luogo modificare il loro itinerario. Le merci non devono passare da Bagdad, da dove ora a dorso di cammello in nove giorni giungono al Nilo per poi essere trasportate al Cairo e ad Alessandria, ma, attraversando la Persia mongola, devono 66

raggiungere Antiochia, da dove poi si dirameranno in tutto il Mediterraneo. Sanudo conosce ed elenca minuziosamente le merci orientali, mettendo ovviamente in risalto le ‘spezie’ di cui i veneziani sono grandi importatori, il che li obbliga a prestare la massima attenzione ad ogni progetto di Crociata. Continueranno ostinatamente a battersi in questa direzione finché, due secoli più tardi, saranno definitivamente eclissati dai portoghesi. Giustamente Sanudo sostiene che è facile poter trovare anche altrove alcuni prodotti tipici dell’Egitto, come il cotone e lo zucchero. Inoltre, a suo parere, sono sufficienti poche navi offerte da dinasti delle isole, Zaccaria e Ghisi, dal patriarca di Costantinopoli, dagli Ospedalieri, dall’arcivescovo di Creta e da Cipro per far rispettare il divieto pontificio di fornire materiale strategico all’Islam. Ma, come si è detto, la realtà è ben diversa. Nel secondo libro, diviso in quattro parti, Sanudo affronta il grande tema della formazione dell’esercito che dovrà essere raccolto dopo due o tre anni dall’inizio delle operazioni, e cioè quando il devetum abbia ottenuto il suo effetto. Ovviamente la flotta, composta da mezzi di navigazione in grado di operare in mare e nei fiumi, sarà allestita nella sua città e sarà formata prevalentemente da veneziani e da gente del Baltico, dovrà inoltre essere comandata da un veneziano, mentre un alleato di Venezia sarà a capo di un esercito composto da quindicimila fanti e trecento cavalieri. Sanudo è molto preciso nell’indicare i termini con i quali ingaggiare gente scelta in zone marine, fluviali e lacustri, si sofferma sulla costruzione delle navi e delle macchine da guerra, sugli approvvigionamenti e sulle paghe. Calcola il costo del vitto necessario a dieci uomini per un giorno, un mese e un anno fino al numero di centomila uomini. Il preventivo, stimato sul triennio previsto, ammonta 67

a due milioni e centomila fiorini. Giunta sulla costa egiziana, la spedizione metterà in piedi un sistema difensivo di fortificazioni che, nel giro di tre anni, consentano a cinquantamila uomini e duemila cavalieri, sostenuti da nubiani e mongoli, di avviare la conquista dell’Egitto. L’appoggio dell’Armenia e il controllo effettuato da una decina di navi in zona costiera favorirà l’operazione. Infine, ispirandosi all’Historia hyerosolimitana di Jacques de Vitry, Sanudo illustra quali dovranno essere le future forme di governo in Egitto, Palestina e Siria, zone che descrive con precisione e che a suo giudizio devono essere ripopolate da cattolici. Confida molto nella conversione o nell’annientamento degli infedeli che «sbagliando totalmente a causa della loro nequizia o del loro scisma, si convertono, vogliano o non vogliano, perché incalzati dalla spada dei cristiani». Nel 1309 ad Avignone Marin Sanudo presenta il suo progetto a Clemente V, ampliato e riproposto il 24 settembre 1321 a Giovanni XXII con il titolo Opus Terrae Sanctae. Tra il 1321 e il 1323 ne stende infine una redazione definitiva dal titolo Liber secretorum fidelium Crucis composta di tre libri. In calce all’opera compaiono un indice e alcune carte di mano del cartografo genovese Pietro Vesconte: «Prima de mari Mediterraneo, secunda de mari et terra, tertia de Terra Sancta, quarta vero de terra Aegypti». Marin Sanudo Torsello vive a Venezia fino al 1332, poi si sposta a Napoli e a Costantinopoli. Scompare intorno al 13432. Tuttavia né i turchi né la fine della pax mongolica frenano l’espansione del mercato. E non lo frena nemmeno una situazione politica europea sempre più complessa, nella quale spesso gli uomini di affari sono obbligati a sfoderare le loro virtù 68

guerriere e le loro capacità strategiche. Così fa Benedetto Zaccaria, personaggio ignorato fino a quando, circa un secolo fa, le ricerche giovanili di Roberto Lopez hanno individuato nella sua figura il prototipo di quel modello genovese che, secondo Braudel è «il più curioso» di tutti3. Esempio principe dell’operatività economica e dell’eccellenza militare dei genovesi, gli unici disposti a fornir navi, uomini e capitali a chiunque – Europa, Bisanzio e turchi – Zaccaria mette a profitto il suo denaro in un’azione ben bilanciata tra Oriente e Occidente, usando, oltre alle vere, anche le tradizionali armi genovesi: alleanze matrimoniali e società di affari interne ai grandi clan familiari. Tra i suoi generi ci sono Andreol­o Cattaneo de Volta, al quale affida la gestione delle allumiere di Focea di cui ha il monopolio, e Pao­lino Doria, console di Caffa nel 1261, anno in cui l’aiuto prestato dai genovesi ai Paleologhi apre loro la gestione pressoché esclusiva del Mar Nero. Sono suoi parenti i fratelli Vivaldi, figli di Giovannina Zaccaria, Carlotto di Negro e il più noto fratello Andalò. Benedetto sa come usare le sue capacità strategiche in pace e in guerra. Padrone di una flotta potente, ripercorre sulla prediletta Divitia le rotte dei suoi antenati inserendovi opportune varianti a seconda delle occasioni. Gratificato dalla benevolenza del basileus bizantino, per il quale opera come corsaro nel mare greco, dal 1274 le sue fortune si identificano nella signoria di Focea e nel monopolio dell’allume, materiale essenziale in tintoria, usato da conciatori di cuoio e da pittori, mosaicisti e farmacisti, e che lui stesso adopera nell’industria del borgo di Santo Stefano, dove tinge i tessuti importati dalle Fiandre insieme al fratello Manuele. Se nel Levante è il Mar Nero il terminale dei suoi itinerari mercantili, nel 1277 sono sue le prime galee mediterranee che toccano le Fiandre. 69

Nelle molte turbolenze che agitano il panorama internazionale, Benedetto è a fianco degli Aragonesi nella Guerra del Vespro in Sicilia e si batte contro gli Angioini anche nel Levante. Nello scontro decisivo con Pisa, sconfitta nel 1284 alla Meloria da una flotta comandata da Oberto Doria, la sua strategia è determinante per la vittoria. Tre anni dopo tenta un’estrema ma fallimentare difesa di Tripoli di Siria, riuscendo però a concludere un trattato commerciale con l’Armenia, dove Laiazzo, l’ultimo porto accessibile all’incrocio di tre grandi vie del commercio mondiale, è area privilegiata per i genovesi, assai numerosi anche a Tarso e a Corico. Chiusa la vicenda tripolina, Zaccaria si sposta in Occidente. All’epoca Siviglia è affollata dai suoi conterranei, che fin dall’età islamica godono di condizioni privilegiate, rinnovate con la Monarchia castigliana, a disposizione della quale mettono capitali, navi e uomini. Deciso ad agire contro i marocchini che controllano le teste di ponte di Tarifa e di Algesiras, Sancho IV chiede a Benedetto di fornirgli galee, una delle quali esclusivamente in difesa di Cadice, già centro di presenze genovesi; in cambio gli offre 6000 doppie al mese e il feudo ereditario di Puerto Santa Maria. Subito il fratello Manuele arruola gli equipaggi nella Riviera di Ponente per le sette galee con le quali Benedetto parte, trovandone a Siviglia altre cinque con equipaggi locali. Nel 1291 accadono eventi importanti: in maggio i suoi parenti Vivaldi si mettono in viaggio per le ‘Indie’ e nello stesso mese Acri cade in mano islamica. Da parte sua il 6 agosto alla battaglia di Marzamosa, altrimenti nota come la Battaglia dello Stretto, Benedetto, abituato alla guerra di blocco appresa a Bisanzio e applicata alla Meloria ed anche esperto nella guerra di corsa, trionfa ed è nominato Almirante Mayor de la Mar. Il 70

13 ottobre 1292, in una battaglia che vede un grande dispiegamento di forze castigliane e catalane, anche Tarifa capitola. Tutto sembra funzionare finché, nel luglio 1294, il suo patto con la Corona decade. Ma la storia degli ammiragli genovesi continua. Nel 1344 una flotta comandata dal genovese Egidio Boccanegra, fratello del doge Simone, e da Lanzarotto Pessagno, ammiraglio della Corona portoghese, figlio del Manuele di cui si è detto, muove alla conquista di Algesiras. La fine dell’avventura castigliana non spaventa Benedetto Zaccaria. La Corona francese ha bisogno di qualcuno per la sua marineria che, nei rami atlantico e mediterraneo, propone solo «scuderie sotto vela», dove la forza combattente è formata da cavalieri e non da marinai né da «fanteria di marina». A Genova ci sono consorterie legate per tradizione alla Francia, disposte anche a favorire temporanee signorie francesi o angioine per ricavarne vantaggi privati. Uomini e navi genovesi sono a disposizione di Luigi IX e delle sue Crociate, nonostante le ambizioni del fratello Carlo d’Angiò che turbano il panorama internazionale. C’è un continuo andirivieni con la Provenza. La costruzione del porto fortificato di Aigues-Mortes è opera di Guglielmo Boccanegra, capitano del popolo in esilio e prozio del futuro doge Simone. Da tempo tra francesi e inglesi è in atto uno scontro nato dai due matrimoni di Eleonora di Aquitania, dalla presenza di feudi inglesi in territorio francese e dal controllo delle Fiandre. Nel 1293 di fronte al saccheggio di La Rochelle, avvenuto nel corso di una battaglia tra normanni e marinai di Bayonne, Filippo IV chiede aiuto a navarresi e aragonesi e arruola i genovesi Enrico Marchese, Ugo e Oberto Spinola, Lanfranco Tartaro e Nicola da Varazze, i quali arrivano a Rouen con le loro maestranze per allestire l’arsenale, il Clos des Galées. L’ amiraus 71

generaus che guiderà le operazioni di guerra è Benedetto Zaccaria, che non perde tempo e stende subito un piano d’attacco. Nasce così uno dei più originali testi di età medievale, una testimonianza unica di quel che significa possedere perizia marittima e guerresca, competenza tecnica e finanziaria, capacità di gestione di un equipaggio pronto al mare come alla guerra, dove accanto al protagonista si allineano i consigli offerti al re: Io Benedetto Zaccaria, ammiraglio generale dell’eccellentissimo re di Francia, e i consigli che intendiamo dare al suddetto re, per il suo onore e per sua altezza, e in particolare per consigliarlo su cosa a mio avviso debba ordinare per condurre al meglio la guerra sui mari per l’onore e la grandezza del suo regno e a maggior danno dei suoi nemici. Preghiamo dunque Dio potentissimo che ci aiuti a consigliare il detto re in modo che la santa Chiesa e l’altezza della sua corona siano perpetuamente protette4.

La strategia di Benedetto si fonda su tre linee guida. Questa guerra per mare deve essere combattuta non solo con la forza ma anche con bonne pourvoiance. Dunque è necessario armare una certa quantità di «uscieri» (navi porta-cavalli) e di galee, destinati a trasportare un certo numero di cavalieri e cavalli, fanti, balestrieri e lance. Galee e uscieri dovranno consentire di operare in quattro modi: in mare; nei porti nemici per incendiare le navi e impadronirsi delle galee per bloccare ogni possibile aiuto; inoltrandosi nel territorio fin dove si ritenga necessario per devastare e dare alle fiamme bestiame, borghi e ville. Quando ogni cosa sarà devastata e i nemici saranno pronti a rispondere all’attacco, non si dovrà accettare la battaglia ma, risaliti sugli uscieri, ci si dirigerà verso un altro punto della costa per operarvi come in precedenza. In questo modo i nemici non sapranno dove concentrare le forze. Conquistata una posizione, si lascerà credere che stanno per essere approntate strut72

ture di difesa e, quando il nemico si concentrerà lì per riprenderla, si darà fuoco alla città tornando poi sugli uscieri. L’enorme impegno militare e finanziario cui il nemico sarà costretto genererà malcontento e si diffonderà il timore che i ribelli del Galles e della Scozia vadano in aiuto degli assalitori. Per condurre a termine tutto ciò è necessario armare venti uscieri, quattro galee e ventiquattro batiaus di cui tredici regi. Sette sono a Rouen, cinque a La Rochelle e La Riolle e quattordici a Calais. Benedetto ne ha di sue e propone di comprare a La Rochelle un grande usciere mercantile non troppo caro. Si può anche decidere di alzare, allargare e aprire a poppa quattro delle galee regie più grandi per usarle come uscieri. In questi venti uscieri saranno imbarcati in totale quattrocento cavalieri e quattrocento cavalli. I cavalieri avranno quattrocento o più scudieri a piedi. Negli uscieri, nelle galee e nei batiaus complessivamente ci saranno quattromilaottocento fanti di marina. Due delle quattro galee saranno di scorta agli uscieri al momento degli sbarchi e le altre due faranno la spola avanti e indietro per rifornire uomini e cavalli in modo che l’armata sia libera di agire. Così gli sforzi andranno a buon fine senza pericolo. Però, precisa Benedetto al terzo punto, è necessario che chi comanderà i cavalieri sia uomo che porti «grande amore e grande fede al detto re, che abbia buona volontà, e che possa e voglia sopportare pene e fatiche». A loro volta i cavalieri devono essere avvezzi alle armi e alla fatica perché questo genere di guerra consiste essenzialmente nel sopportare travagli e operare come richiede il momento. Per quanto riguarda i marinai è necessario avere i migliori e non i meno bravi, perché solo nel primo caso il risultato sarà positivo. Nella seconda parte del testo Benedetto prende in esame la previsione di spesa per il periodo in cui tutti dovranno es73

sere pagati, precisando che la durata dell’ingaggio deve essere almeno di quattro mesi. Le ragioni sono quattro. Innanzitutto perché in questo modo si può disporre dei migliori uomini d’arme e di mare. Poi perché ciò consentirà loro di acquistare l’armamento senza che sia necessario occuparsene. Poi perché in questo modo si avrà a disposizione gente sicura. Infine perché se fosse necessario provvedere a nuovi arruolamenti si perderebbero tempo e denaro e si correrebbe il rischio di dover abbandonare a metà l’operazione. Il preventivo serve a dimostrare che le spese sono modeste. Esclusi i cavalieri, si deve procedere in cinque modi. Il primo è ingaggiare i marinai, che saranno quattromilaottocento o più distribuiti su ventiquattro uscieri e galee e su ventiquattro batiaus, e costeranno al mese uno per l’altro 40 soldi tornesi. Si potrebbero anche avere per 35 soldi tornesi ma è meglio pagarli di più per due ragioni: perché si avrà la gente migliore e perché s’intende fornire come vitto ai patroni, ai nocchieri e agli altri marinai solo pane, acqua, fave e piselli. Essi dovranno dunque comprare a loro spese vino, carne e le altre cose necessarie per vivere, e così non ci sarà spreco di denaro «e così eviteremo mormorii e mugugni». La spesa ammonta a novemilaseicento lire tornesi mensili, vale a dire trentottomilaquattrocento lire tornesi per quattro mesi. La seconda voce di spesa riguarda il vitto. Pane, fave e piselli costeranno mensilmente per un uomo quindici soldi tornesi, così la spesa totale sarà al mese di ventitremila lire tornesi, in totale quattordicimilaseicento lire tornesi. La terza voce riguarda la ristrutturazione dell’armamento navale, in quanto il naviglio di La Rochelle, la Riolle e Bordeaux è in pessime condizioni. Il costo previsto è di tremila lire tornesi. La quarta voce riguarda tutto ciò che è necessario per galee e uscieri, alberi, 74

antenne, vele, corde, remi e altre cose minori nonché carpentieri, calafati, ecc., il che richiede un impegno di spesa di circa cinquemila lire tornesi. La quinta voce riguarda lo spostamento a Rouen delle galee che sono nel Poitou e in Guascogna, che saranno così quattordici perché a Rouen ce ne sono solo dieci. Il costo si aggirerà attorno a quattromila tornesi e la spesa complessiva sarà di sessantatremila ottocento lire tornesi. Nella terza parte si affrontano cinque questioni pratiche. Prima di tutto è necessario scegliere con cautela e riservatezza l’uomo che comanderà i cavalieri. A lui, infatti, sarà demandato tutto quanto li riguarda in modo che al momento opportuno non manchi nulla. Poi occorre mettere subito in opera quanto detto in precedenza. Per far arrivare le galee a Rouen e cominciare a ingaggiare gli uomini occorreranno ventimila lire tornesi. Ce ne vorranno altre ventimila finché, con l’aiuto di Dio, in aprile l’armata sarà pronta. È fondamentale però che dal mese di marzo a tutto il mese di giugno sia vietato navigare. In questo modo per sfuggire alla disoccupazione gli uomini si arruoleranno più volentieri e si avrà a disposizione la quantità di gente che serve a prezzo più conveniente. La quinta cosa sarà quella che, con l’aiuto di Dio, dovrà condurre a termine egli stesso. Benedetto evita di parlare dei suoi compensi e insiste sul fatto che i finanziamenti non devono tardare; se il denaro tarderà anche l’armata dovrà ritardare. Per ogni altro chiarimento e per quanto lo riguarda invia il nipote Carlotto di Negro e Aubert Vonnart. Si muoverebbe volentieri «mes je ne puis en bonne guise par la grant fiblèce de mon cors, dont je li cri merci que il me veulle pardonner». Nell’estate del 1295 le galee costruite a Genova per Carlo d’Angiò, e consegnate a Gugliemo de la Mar (un de Mari genovese), castellano di Aigues Mortes, si uniscono nei porti di 75

Rouen e di Harfleur alla flotta di cinquantasette galee e galeot­ te e duecentoventitré navi (con un equipaggio di oltre settemila uomini). Si impiega anche naviglio anseatico, fiammingo e iberico. Tormentato dai suoi problemi di salute, Zaccaria non parte, affidando a Guglielmo de Mari e a Enrico Marchese il controllo della situazione, ma la lunga serie di scontri per terra e per mare lascia le condizioni invariate. Tuttavia Benedetto Zaccaria non desiste e l’anno successivo, precorrendo Napoleone Bonaparte, propone un blocco commerciale all’Inghilterra. A nulla servono le alleanze della Corona francese con le città mercantili dell’Hansa, con la Svezia, la Norvegia e l’Olanda, perché il conte di Fiandra, che vede in pericolo le sue industrie tessili, passa dalla parte inglese. Tutto il 1297 e metà del ’98 sono impiegati nel tentativo di stabilire il blocco, ma occorreranno un duplice matrimonio tra le due dinastie e la pace del 1298 per mettere temporaneamente fine a uno scontro che comunque sarà seguito dalla guerra dei Cent’anni. Nella primavera del 1299, mentre Filippo IV invade le Fiandre, Benedetto, aiutato da una galea comandata dal genero Andreolo Cattaneo de Volta, applica un’altra delle sue strategie sbarrando la foce dello Zwyn, attraverso il quale affluisce al mare il commercio di Bruges, Damm, Ypres, Lille. L’operazione sarà condotta a termine dal nuovo ammiraglio, il genovese Ranieri Grimaldi. Infatti nel 1300 Zaccaria decide di tornare in Oriente. Attento alle nuove opportunità legate a una possibile Crociata che, come si è detto, non si farà, Benedetto nel 1304 allinea al monopolio dell’allume di Focea quello del mastice di Chio, isola affidatagli da Bisanzio come feudo decennale. Scomparso lui nel 1307, nel 1329 l’isola torna ai bizantini fino al 1346 quando sarà riconquistata da una Maona genovese che ne manterrà il controllo fino al 1566. 76

Note di chiusura   Marin Sanudo Torsello, Liber secretorum fidelium Crucis, in J. Bongars, Gesta Dei per Francos, 2 voll., Hanoviae 1661 (rist. Jerusalem, Massada Press, 1972); B. Z. Kedar, Crociata e missione. L’ Europa incontro all’Islam, Roma, Jouvence, 1991; F. Cardini, In Terrasanta. Pellegrini italiani tra Medioevo e prima età moderna, Bologna, il Mulino, 2002. 2   A. Magnocavallo, Marin Sanudo il vecchio e il suo progetto di crociata, Bergamo, Istituto italiano d’arti grafiche, 1901. 3   Cfr. Lopez, Genova marinara nel Duecento. 4   Il testo compare in E. Boutaric, Notices et extraits de documents inédits relatifs à l’histoire de France sous Philippe le Bel, in Notices et extraits des manuscrits de la Bibliothèque Impériale et autres Bibliothèques, vol. XX/2, Paris, Institut Impérial de France, 1862, pp. 112-118, e in C. Imperiale di Sant’Angelo, Jacopo D’Oria e i suoi Annali. Storia di un’aristocrazia italiana nel Duecento, Venezia, Libreria Emiliana, 1930. Esaminato da Lopez nel libro dedicato a Benedetto Zaccaria, recentemente è stato riproposto da A. Musarra, Un progetto di razzia del suolo inglese redatto per Filippo IV il Bello (1294 ca.), «Francigena», II (2016), pp. 249-273. 1

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8 Scrivere di amore e di politica

Dante Alighieri, Guido Cavalcanti, Gianni Alfani, Dino Frescobaldi, Cecco Angiolieri, Rustico di Filippo, Franco Sacchetti e tanti altri appartengono a famiglie che hanno a che fare con il denaro, a famiglie di banchieri e di uomini d’affari. Stendere versi, novelle, cronache cittadine o precetti morali non è solo appannaggio di élite feudali, di chierici, giudici o notai. Fra i trovatori italiani quelli genovesi spesso appartengono a grandi consorterie di ruolo internazionale e di antica tradizione mercantile e marittima. I più noti sono Percivalle e Simone Doria, Luca Grimaldi, Giacomo Grillo, Lanfranco Cigala, Scotto, Calega Panzano, Luchetto Gattilusio, Bonifacio Calvo, cantori d’amore e di guerra nell’età dello scontro tra gli Angiò e gli Svevi, tra i Guelfi e i Ghibellini, e non solo. Periferica alla Penisola italiana ma prossima per relazioni e comuni interessi alla Provenza, all’area catalana e gallego-portoghese, al Monferrato e alla Savoia, l’area ligure è ben incardinata nell’estremo Occidente. Forse per questo motivo Genova e l’area ligure annoverano una notevole presenza di personaggi che si dedicano all’arte del trobar. Citando i versi di Folchetto di Romans «Tan m’abelis l’amoros pensamen» nel De vulgari eloquentia, a proposito della lingua d’oc Dante scrive che «i dicitori in volgare primieramente in essa poetarono» (I, X, 3) e nella Commedia affida a Folchetto una delle tante condanne dell’avarizia. 79

Folchetto di Marsiglia fu figlio di un mercante genovese che si chiamava messer Anfosso e, quando suo padre morì, Folchetto si trovò ricco di beni. E brillò per pregi e valore, si mise al servizio di nobili signori e a vivere familiarmente con essi, a frequentare le corti. E fu ben accolto e molto onorato dal re Riccardo Cuor di Leone e dal conte Raymond V di Tolosa e da sire Barral, suo signore di Marsiglia. Egli poetava molto bene e fu bell’uomo di persona. E s’innamorò della moglie del suo signore sire Barral; egli la corteggiava e componeva canzoni in sua lode, ma mai per preghiera o per canzone poté trovare mercé visto che ella si rifiutava di corrispondere al suo amore: per questo nelle canzoni si lagna sempre di Amore. E avvenne che la signora morì e così sire Barral, marito di lei e signore di lui, che gli aveva reso tanto onore, e il buon re Riccardo e il buon conte Raymond di Tolosa e il re Alfonso II di Aragona. Perciò egli, per rimpianto delle dame e dei principi che ho nominato, abbandonò il mondo e entrò nell’ordine dei monaci di Citeaux con la moglie e i due figli. E fu fatto abate di una ricca abbazia di Provenza che si chiama il Thoronet, e poi divenne vescovo di Tolosa e là morì1.

La figura di Folchetto aiuta a cogliere una nuova sfumatura della cultura dell’uomo d’affari, che lega a Genova e alla sua regione questo particolare aspetto dell’arte del trobar. Vengono d’Oltralpe i trovatori presenti nelle corti dei Savoia, dei Monferrato, degli Este, dei Del Carretto, dei Malaspina o, come Peire Vidal, vicini all’aristocratico genovese Enrico de Castro, conte di Malta e ammiraglio di Enrico VI e Federico II, che egli definisce ‘stella dei genovesi’. Con Sordello da Goito, celebrato da Dante nella Commedia, Lanfranco Cigala, di antica famiglia genovese, è il più noto trovatore italiano. «En Lanfranco si fo de la ciutat de Genoa, gentils hom e savis. E fo juties e cavaliers, mas vida de jutie menava. Et era granz amadors, et entendia se en trobar e fo bon trobador, e fes maints bonas chansons e trobava volontiers de Dieu», racconta un’anonima Vita provenzale. So80

no famose soprattutto le sue canzoni amorose, e su tutte il chant-plor per la morte di Berlenda, forse sposa di un marchese Malaspina: Io non canto punto per piacere di cantare; / se canto, non canto ma piango cantando. / Perciò un tal canto si deve chiamare ‘canto di pianto’ / ché il canto è unito al pianto. / E non si dica che ho mal fatto / a fondere, così, canto e pianto: / ciò che io dico piangendo nessuno potrebbe sopportare di udire senza canto, / tanto la perdita e la sventura sono mortali. / Morta è colei che era senza eguale / per fine pregio e alto valore, / per il cortese parlare e il nobile operare, / per il suo fine tratto, il gentile modo di accogliere e onorare: / donna Berlenda, signora di pregio, / per la quale devono piangere tutti, umili e potenti, / perché era di ogni nobile azione / cima e radice, fiore frutto e seme. / Morto è tutto ciò che nel mondo vi era di amabile, / ciò per cui valevano i migliori, / ciò per cui cantavano i poeti, / ciò per cui era un pregio il corteggiare, / ciò per cui l’uno gareggiava / a superare l’altro. / Pianga, dunque, ciascuno, ché sono ben passati mille anni / dacché la morte non commise così ignobile azione.

Ugualmente importanti sono i suoi Canti di Crociata. Nel 1245 scrive un pesante vilanatge contro Bonifacio II di Monferrato «figlio e fratello del vento», incerto tra Lega Lombarda, Papato e Impero. Contro la mia volontà mi fanno dire cose volgari / gli errori circondati di follia / di un vile marchese, e so che commetto una sciocchezza, / perché consapevolmente sbaglio per altrui follia; / ma una cosa mi giustifica, a mio parere: / se rimanessero nascoste le colpe, / non si avrebbe affatto paura di sbagliare / e chi fa del male deve ben sopportare che lo si dica. / Pertanto io parlerò di uno sciocco nega-nobiltà, / sotterra-pregio, distruggi-cortesia / di cui si dice che discenda dal casato di Monferrato, / ma dall’operato non sembra che sia così; / piuttosto credo che sia figlio o fratello del vento, / tanto facilmente cambia la sua volontà e la sua intenzione. / Signor Bonifacio è chiamato falsamente, / perché non ha mai fatto fare una buona azione in tutta la sua vita. 81

Anche il sirventese di Percivalle Doria in gloria di Manfredi è un vero manifesto politico. Percivalle, membro della più importante famiglia genovese, è podestà di Asti nel 1228, di Arles nel 1231, di Albenga nel 1231 e 1237 e nel 1243 di Parma. Fatto barone di Fasanella, nel Salernitano, da Manfredi nel 1254, nel 1258 è vicario generale di Spoleto, della Marca Anconitana e di Romagna. Vittorioso con Manfredi a Montaperti, nel 1264 affoga nel fiume Nera2. Scrive Doria: Ho il cuore inacerbito e fatto cattivo, / vedendo salire la frode e la virtù perdere ogni protezione, / sì che per poco non abbandono la gioia; / tuttavia per dare dolore e fastidio / a chi non piace vedermi contento, / canterò; oh, sì, è sciagurato chi non vuole guerra e ostacoli, per cui si conosce il vero amico. / Per questo ben mi aggrada / che la graziosa stagione faccia le rame degli alberi vermiglie e bianche; / amo la guerra che toglie ai deboli il loro avere, / e mi piace vedere sui banchi / oro e argento, come si trattasse di fango, / da dare ai prodi dai corpi vigorosi, / a cui piace ricevere colpi sui fianchi. / E mi piace quando vedo lo stendardo al suo posto / e i prodi cavalieri gagliardi / vigilano dì che non uno se ne parte / e i vili rinnegatori codardi / vanno cercando mezzi ed arti / per fuggire ed hanno paura / allorché volano lance e dardi / e la terra intorno arde. / Trombe e tamburi e clangori di battaglia, / quando si sale verso i castelli vicino alla cinta, / mi piacciono e per il terrapieno / vengono pietre e neppure uno dei gittatori sbaglia (…) / e son portati i magli ed i picconi, coi quali i prodi senza paura / rompono con fatica le porte: / Ma gli inglesi si vanno vantando di venire / e pretenderanno l’Impero. / Molte brighe ha la Spagna / perché i saraceni non le renderanno quest’anno, Granata, / ché i re non ne fanno domanda / e ne hanno svantaggio e danno, / della qual cosa essi sono forte biasimati. / Per questo il valore sarebbe perduto, / ma opere di virtù fa il nostro re che ancora risplende, / Manfredi, che è luce di fino pregio. / Egli non si è ancora distolto dal donare né ha sofferto / per guerra, anzi ha vinti ed abbattuti i suoi nemici / e ha innalzati i suoi amici. / Ed io mi raffermo con cuor leale nel mio 82

‘Meglio-d’amore’ / e non mi tolgo dall’amarla anzi insisto ognor più / e poiché ella non ha cuore volubile, ne ho maggiore gioia e minore affanno. / Donna, prego Dio che vi confermi il vostro fine pregio e vi confermi / la vostra beltà, e il cuore leale / che avete verso di me che non vi manchi mai, / O re Manfredi, il vostro valore vi tien fermo e / Dio ne ha dato conferma.

Da parte sua Bonifacio Calvo, membro della lobby genovese attiva alla Corte di Castiglia, stende molte composizioni politiche per Alfonso X, compreso un sirventese per esortarlo alla conquista della Navarra: «un nuovo sirventese senza tardare voglio fare per il re di Castiglia ché non penso né credo né mi pare ch’egli abbia cuore di guerreggiare col re d’Aragona e con i Navarrini». Tornato a Genova nel 1266, Bonifacio incrocia i suoi versi con quelli del veneziano Bartolomeo Zorzi, incarcerato dopo uno degli abituali scontri tra le due città. Tra tanti uomini compare anche una donna, la Compiuta Donzella, che nasce e vive a Firenze tra fine Duecento e primo Trecento. Una donna di cui si ignora il nome, ma alla quale un anonimo cantore (Folgore da San Gimignano?) dedica questi versi: «Gentil donzella somma ed insegnata, / poi c’ag[g]io inteso di voi tant’or[r]anza, che non credo che Morgana la fata / né la Donna de[l] Lago né Gostanza / né fosse alcuna come voi presc[i]ata; / e di trobare avete nominanza / (ond’eo mi faccio un po[ca] di mirata / c’avete di saver tant’abondanza): però, se no sdegnaste lo meo dire, / vor[r]ia venire a voi». Anche Guittone d’Arezzo ne scrive: «Soprapiacente donna, di tutto compiuto savere, di pregio coronata, degna mia Donna Compiuta, Guitton, vero devotissimo fedel vostro, de quanto el vale e po’, umilmente se medesmo raccomanda voi». La Compiuta Donzella è una dama dell’élite, nata all’interno di una famiglia che le ha consentito di imparare a leggere e 83

a scrivere, una dama che certamente conosce i temi dell’amor cortese. In altro ambiente e prima di lei Maria di Francia (se è esistita) ha posato il suo sguardo femminile sul mondo delle storie di amore e di cavalleria. Anche per Maria, come per la Compiuta Donzella, restano solo tre testi stesi in francese tra il 1165 e il 1215: Lais, Fabulas e un’opera dedicata al Purgatorio di san Patrizio. La Compiuta Donzella è una ‘divina Sibilla’ che ama scambiare versi con Chiaro Davanzati a cui rivolge uno dei tre sonetti pervenuti: Ornato di gran pregio e di valenza / risplendente di loda adornata, forte mi pregio più, poi v’è in plagenza d’avermi in vostro core rimembrata / ed invitate a mia poca possenza / per acontarvi, s’eo sono insegnata, / come voi dite c’a[g]io gran sapienza; / ma certo non ne son [tanto] amantata. / Amantata non son como vor[r]ia / di gran vertute né di placimento / ma, qual ch’i’ sia, ag[g]io buono volere / di sentire con buona cortesia a ciascun ch’ama sanza fallimento: ché d’Amor sono e vogliolo ubidire.

La Compiuta Donzella non scorda però di essere una donna capace di muovere precise denunce. È la sua stessa esperienza personale a testimoniare che cosa significa essere donna in una società che, pur vivace negli affari, mantiene intatta la sua struttura patriarcale. Due dei tre sonetti pervenuti denunciano infatti la durezza di un mondo in cui non è concesso a una donna decidere il proprio destino: A la stagion che ’l mondo foglia e fiora / acresce gioia a tut[t]i fin’ amanti: / vanno insieme a li giardini allora / che gli auscelletti fanno dolzi canti; / la franca gente tutta s’inamora, / e di servir ciascun trag[g]es’ inanti, / ed ogni damigella in gioia dimora; / e me, n’abondan mar[r]imenti e pianti. / Ca lo mio padre m’ha messa ’n er[r]ore, / e tenemi sovente in forte doglia: / donar mi vole a mia forza segnore

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/ ed io di ciò non ho disìo né voglia, / e ’n gran tormento vivo a tutte l’ore; / però non mi ralegra fior né foglia. Lasciar vor[r]ia lo mondo e Dio servire / e dipartirmi d’ogne vanitate, /però che veg[g]io crescere e salire / mat[t]ezza e villania e falsitate, / ed ancor senno e cortesia morire / e lo fin pregio e tutta la bontate: / ond’io marito non vor[r]ia né sire, / né stare al mondo, per mia volontate. / Membrandomi c’ogn’om di mal s’adorna, / di ciaschedun son forte disdegnosa, / e verso Dio la mia persona torna. / Lo padre mio mi fa stare pensosa, / ca di servire a Cristo mi distorna: / non saccio a cui mi vol dar per isposa.

La situazione non cambierà. Tra le donne ci sarà chi è in grado di scrivere e leggere come Alessandra Macinghi Strozzi, e chi, come Margherita Bandini, moglie di Marco Datini, dovrà imparare a farlo per amministrare gli affari di famiglia e per corrispondere con il marito sempre lontano. Ma nell’età nella quale trionfa l’immagine dell’homo faber fortunae suae e un grande numero di mercanti stende memorie e libri di famiglia, si alza infine la limpida voce di Christine de Pisan: «Ahimé, mio Dio, perché non mi hai fatto nascere maschio? Tutte le mie capacità sarebbero state al tuo servizio, non mi sbaglierei in nulla e sarei perfetta in tutto, come gli uomini dicono di essere». Figlia di Tommaso da Pizzano, celebre medico e astrologo che vive tra Bologna e Venezia, nel 1369 lo segue a Parigi, dove Tommaso diventa medico e astrologo di corte. Le tristi vicende della vita che, scomparso Carlo V, ne fanno la vedova venticinquenne del notaio del re con tre figli a carico, non la abbattono e ben presto Christine, mettendo a profitto la sua cultura, si trasforma in un’imprenditrice. Titolare di uno ‘scriptorium’ e autrice di moltissime opere (tra le quali spiccano una storia di Carlo V, un Livre de mutations de la fortune), è senza dubbio la prima scrittrice 85

professionista della storia europea e la prima donna portatrice di ‘idee femministe’. Ne scrive infatti nel celebre Livre de trois vertus o la cité des femmes (1405). Christine, come l’amica Novella, che spesso saliva in cattedra all’Università di Bologna per sostituire il padre docente di diritto, segna un passo in avanti nella storia delle donne3. Note di chiusura   S. Stronski (éd. par), Le troubadour Folquet de Marseille, Geneve, Slatkine Reprints, 1968. 2   G. Bertoni, I trovatori d’Italia. Biografie, testi, traduzioni, note, Roma, Società Multigrafica Editrice Somu, 1967; G. Airaldi, D’un sirvantes m’es granz voluntatz presa…, in D. Gandolfi – M. La Rosa (a cura di), Dall’antichità alle crociate. Archeologia, arte, storia ligure-provenzale, Bordighera, Istituto Internazionale di Studi Liguri-Archivio di Stato di Imperia, 1998, pp. 233-240. 3   Christine de Pisan, La città delle dame, a cura di P. Caraffi, Roma, Carocci, 2004; R. Pernoud, Christine de Pisan, Paris, Calmann-Levy, 1982. 1

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9 Scrivere di storia

Scrivere di storia è un grave impegno ma è necessario farlo perché «ciò che è consegnato solo alla memoria, con il passare del tempo viene facilmente dimenticato; perciò, i filosofi e i sapienti del tempo antico hanno messo per iscritto le cose che consideravano utili ai posteri». Lo afferma Iacopo Doria, membro di una grande famiglia di uomini di affari e di guerrieri, che sono anche storici e poeti1. Uomo d’arme che sa ugualmente impegnarsi in attività legate al commercio tra Tunisi e Laiazzo, erede della linea filo­ imperiale della sua famiglia, Iacopo ne vive disavventure e glorie. Quando scrive, a Genova la sua gente ha in mano il potere politico e condivide il Capitanato del Popolo con gli Spinola, l’altra importante consorteria ghibellina. Fratello di Oberto Doria, vincitore alla Meloria e Capitano del Popolo insieme ad Oberto Spinola, e di Lamba, destinato a trionfare a Curzola, dagli anni Settanta (con altri) e poi dal 1280 in solitudine, Iacopo si dedica alla storia, occupandosi della stesura degli Annali ufficiali, operazione resa più facile dal fatto che gli è stata affidata la cura dell’archivio del Comune. L’ annalista Doria, però, è più che un semplice raccoglitore di patrie vicende e di preziosi documenti; è soprattutto un appassionato e attento costruttore della memoria, in cui la storia del Comune genovese si identifica con quella delle grandi famiglie e in particolare della sua. Non c’è pagina dei suoi 87

Annali in cui non compaia il nome di un Doria. I Doria sono dappertutto, sulla terra e sul mare. Protagonisti di ogni decisione, ne affrontano in prima persona le conseguenze. C’è un Doria a governare la Genova ghibellina di fine secolo; ma c’è comunque un Doria a capo della seconda flotta crociata di Luigi IX. Innumerevoli sono i Doria presenti alla Meloria e a Curzola; molti quelli posti a controllo delle Riviere, della difficile Corsica, della lontana ma essenziale Caffa. Grande parte del traffico mercantile avviene sulle loro galee, pronte a trasformarsi in vascelli nella guerra contro i pirati o ad operare more piratico contro pisani, veneziani, catalani. Continuatore di Caffaro, Iacopo è con lui il più grande tra gli annalisti genovesi. Il primo storico di Genova ha costruito il mito delle origini sulla figura di Guglielmo Embriaco, patriarca di una grande famiglia e simbolo del sistema pubblicoprivato al di qua e al di là del mare. Ora la dinastia dominante è quella dei Doria e tocca a lui essere l’aedo di quest’altra famiglia-simbolo, che, mai attratta da tentazioni monocratiche, si conforma ai dettami della città-stato. La storia di Genova continua ad essere la storia dei genovesi; quella dei grandi gruppi familiari che hanno intrecciato i loro destini e le loro fortune a quelli del Comune. Sono anni in cui si consuma definitivamente il destino delle colonie oltremarine, anche se per i genovesi la perdita di Tripoli nel 1289 e di Acri nel 1291 è controbilanciata dal consolidamento della loro presenza a Cipro e sul Mar Nero. Ma ora i genovesi guardano a Occidente. Iacopo ha a disposizione una bella biblioteca; ha curiosità antiquarie; ama i documenti, li raccoglie con pazienza, li allinea esaminandone le coerenze, ricreando preziose genealogie che costellano i margini del Liber Iurium da lui curato. Ha mente lucida e cultura notevo88

le, non è uomo incline a nostalgie, soprattutto quando si tratta di esperienze concluse. Proviene da una famiglia di uomini d’affari e anche se è consapevole che buona parte dei successi dei più antichi ceppi familiari genovesi ha le sue radici in Oltremare, anche se dedica largo spazio alle ultime vicende oltremarine, non fa parte del gruppo che caldeggia una nuova Crociata. Esponente del ceto dirigente di una città governata da uomini d’affari, è naturalmente portato a guardare avanti. E ora i genovesi guardano a Occidente, come la stessa consorteria dei Doria ha fatto fin dalle origini della sua storia. Iacopo elogia Benedetto Zaccaria quando si tratta di celebrarne le vittorie alla Meloria o a Tarifa, ma il tono si fa gelido quando quest’ultimo insiste nel volersi contrapporre al destino dell’ormai perente Tripoli di Siria; e, pur segnalando il grande cruccio del papa e dei cardinali, dei re e dei baroni, Iacopo non si sofferma troppo sulla fine di Acri. Esponente illustre di una società rivolta al mondo, tra la gente del tempo Iacopo Doria è l’unico a registrare un fatto che, come molto opportunamente sottolinea, colpisce profondamente tutti, sia chi è presente all’avvenimento sia chi ne sente parlare. La sua è una testimonianza preziosa, da cui emerge in modo chiaro in quale direzione si muova chi va alla ricerca di nuovi orizzonti. Acri è caduta in mano islamica nel maggio 1291, ma nello stesso mese i fratelli Ugolino e Vadino Vivaldi, armate due galee con l’appoggio di Tedisio Doria, in compagnia di due Frati Minori, sono salpati da Genova avanzando verso Ceuta, e, passato lo stretto, si sono diretti ad partes Indie. Purtroppo, appena superata Gozora, all’altezza circa delle Canarie, se ne è persa notizia. Iacopo è uno storico abile che sa come giocare su una straordinaria coincidenza. Il viaggio dei Vivaldi diventa un autentico contrappeso alla perdita di Acri. 89

Sorvola sulla gravità delle questioni mediorientali, sorvola su possibili Crociate. Segnala invece la decisione di partire per un viaggio di esplorazione che ha per finalità esplicita il mercato. In altri scritti raccoglie invece le memorie relative a un grande passato, declinandolo sul fondamentale contributo genovese alla presa di Gerusalemme e alla costruzione del Regno gerosolimitano; ma per lui, che pure è uomo devoto, la storia è «il cammino dell’uomo nel mondo», come molti secoli più tardi avrebbe detto Marc Bloch. Lo scrupolo dello storico impegnato nella ricerca di testimonianze utili a celebrare la città non impedisce all’uomo d’affari di guardare al futuro. D’altronde, e non è questione irrilevante, riflessi dell’importanza del mercato si leggono nella Cronaca della città di Genova dalle origini al 1297, stesa dal suo alter ego, il domenicano Iacopo da Varagine, celebre per i suoi sermoni e soprattutto per la Legenda aurea. Arcivescovo della città dal 1292 al 1298, Iacopo conosce i problemi che travagliano il Mediterraneo orientale e guarda a un possibile recupero di Gerusalemme. E chi meglio dei genovesi può recuperare la Città Santa? I protagonisti della sua storia sono i guerrieri-mercanti che combattono nella prima crociata come ‘cavalieri di Dio’. Sono loro che consentono alla città di raggiungere lo status perfectionis. Una vicenda cominciata in tempi lontani, cresciuta con la conversione al Cristianesimo, celebrata nell’antico ma sempre viva nel ruolo antisaraceno, culminata, infine, nel 1133, nell’elevazione a sede arcivescovile della città. Per Iacopo ciò che ha scritto Caffaro è prezioso, è la prova di una perfetta identità tra il cristiano e il mercante-guerriero. Nelle dodici parti dell’opera di Iacopo, un vero manuale di teologia politica comunale, domina la celebrazione della città come sede privilegiata di realizzazione del bonum commune; dove mercanti-guerrieri 90

che sono perfetti cristiani sanno essere anche buoni cittadini. Splende l’astro di Guglielmo Embriaco, celebrato da Caffaro come conquistatore di Cesarea e, secondo la Lyberatio ritrovata da Iacopo Doria, come eroe durante la presa di Gerusalemme e poi nel recupero a Cesarea del Sacro Catino, presentato, sia pure tra molte prudenze, come un possibile Graal. Nell’opera di ricostruzione della memoria, l’arcivescovo propone anche la storia delle più importanti reliquie genovesi tra le quali spicca la vicenda delle ceneri di san Giovanni Battista, legate alle prime vicende oltremarine. Per lui il passato orientale non è solo aristocrazia delle origini, memoria di glorie perdute, nostalgia, è stimolo e sostegno a una guerra ‘giusta’2. Il ruolo del mercato e del mare, individuati ed evidenziati dagli storici genovesi laici e religiosi come asse della propria storia, non spiccano con la stessa forza negli Annales pisani del provisor (giudice del tribunale dell’uso relativo al diritto commerciale e consuetudinario) Bernardo Maragone, pure molto attento al panorama mediterraneo; né nell’Historia ducum Veneticorum, opere che comunque non hanno il carattere ufficiale degli Annali genovesi. D’altronde anche nei precedenti Chronicon Amalphitanum e Chronicon Salernitanum, di mano religiosa, emerge solo l’ombra d’una storia mercantile letta secondo un canone tradizionale e cioè alla luce dei trattati, delle istituzioni e delle battaglie. Per quanto riguarda Pisa, accanto alle più tecniche testimonianze di natura economica o giuridica – basti pensare ai preziosissimi Constitutum usus e Constitutum maris prodotti in un ambiente apertamente votato al mercato –, sono molte le testimonianze locali nelle quali si può cogliere l’intreccio tra mare e mercato. A parte il Carmen de victoria Pisanorum e il celebre Liber maiorichinus relativo alla spedizione alle Ba91

leari del 1113-1115, è d’obbligo rinviare al leggendario santorale che accosta al ricordo di Bona e della sua esperienza oltremarina il nome del mercante pisano Ranieri. Dopo molti viaggi d’affari, attorno al 1138 Ranieri si reca a Gerusalemme dove, scegliendo di vivere da eremita per sedici anni, decide di abbandonare il mondo e dedicarsi a Dio. Tornato a Pisa nel 1154, divenuto celebre per i suoi molti miracoli, muore nella sua città nel 1160. Il santo patrono scelto dai pisani è dunque un mercante e ciò capita ben prima che Francesco prenda madonna Povertà come sua guida3. L’identità imperiale sulla quale si vuole costruire il mito di Venezia, luogo in cui molti scrivono di storia, vieta che si illustri il mercato quale asse dello sviluppo di questa città-stato, proponendo un percorso molto diverso da quello di stampo comunale seguito da Genova e da Pisa. Promuovendo nel 1339 un dogato differente da quello veneziano, che deriva titolo e funzioni dal duca bizantino, i genovesi infatti usano questa formula solo al fine di innestare una nuova aristocrazia del denaro su quella più antica. Invece nel 1297 con la Serrata del Maggior Consiglio i veneziani vietano almeno formalmente l’accesso della gente ‘nuova’. Non è difficile capire perché, pur appartenendo ad un’élite nata dal mercato, l’istanza più conservatrice che li contraddistingue li induca a prenderne le distanze. Capita così al doge Andrea Dandolo (1306-1354) che, pur membro di una famiglia costantemente impegnata nei traffici con l’area bizantina e a sua volta molto attento agli investimenti, stende un discorso d’impianto tradizionale basato su fatti dai quali non emerge l’istanza mercantile che li genera. Forse Andrea Dandolo segue le linea della precedente Historia ducum Veneticorum, forse sono i suoi studi di diritto, 92

forse la consuetudine con Petrarca e la passione per le lettere, ma dalla Chronica brevis e dalla successiva Chronica per extensum descripta, considerate opere ufficiali solo per essere scritte da lui, spirano un tono aulico e un distacco che rivelano la volontà di allontanare da sé qualsiasi celebrazione dell’attività mercantile, evidentemente considerata poco nobile per una stirpe di dogi come la sua che ne annovera quattro. È certo però che la prima consacrazione del mercante medievale – il Milione – riguarda il veneziano Marco Polo e che il più famoso estensore di un progetto di crociata è il veneziano Marin Sanudo Torsello. Nelle sue Estoires de Venise Martin da Canal, forse scrivano presso la ‘Tavola da Mar’ (la Dogana marittima), dà molto spazio agli scontri con i genovesi (che definisce Aufriquans) e, quando racconta l’assedio di Costantinopoli, fa dire al doge Enrico Dandolo: «e con l’aiuto di Gesù Cristo, di messer Marco e la proezza dei vostri corpi, voi domani sarete i padroni della città e sarete tutti ricchi», sostenendo che al tempo del doge Marino Morosini «tutti a Venezia che fossero poveri o ricchi, accrescevano i loro beni (…). Il mare era sgombro dai predoni, e i veneziani trasportavano merci a Venezia, e i mercanti di tutti i paesi venivano a Venezia e vi portavano merci di ogni genere e le riportavano nei loro paesi»4. Si deve a Dino Compagni la Canzone morale del pregio che apre la ‘Pratica di mercatura’ di Francesco di Balduccio Pegolotti, dove si descrive: Quello che dee avere in sé il vero e diritto mercatante. Dirittura sempre usando gli conviene / Lunga provedenza gli sta bene / E ciò che promette non venga mancante / E sia se può di bella e onesta contenenza / Secondo che mestieri o ragione intenda, / E scarso comperare

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e largo venda / Fuori di rampogna con bella raccoglienza / La chiesa usare e per Dio donare / Crescier in pregio, e vendere a uno motto. / Usura e giuoco di zara vietare / E torre via al tutto / Scrivere bene la ragione e non errare / Amen.

I fiorentini sono figli del mercato e Dino Compagni ne è consapevole. Entrano più tardi dei genovesi nel grande gioco del denaro, ma con loro sono i primi a coniare nuovamente la moneta d’oro nel 1252, segno della grande fioritura economica del momento. Il mare figura nel loro mondo in modo trasversale dato che, privi di un porto fino al 1410, privilegiano perlopiù quello genovese. Dino Compagni non appartiene all’aristocrazia mercantile, ma in quanto membro dell’Arte della Seta di Porta Santa Maria è ben addentro al mondo degli affari. Lo testimonia l’esistenza della Compagnia di ‘Dino Compagni et sotii’ destinata però al fallimento. Console e gonfaloniere di Giustizia, legato ai Cerchi e vittima dello scontro tra Bianchi e Neri, all’arrivo di Carlo di Valois è obbligato a ritirarsi dall’attività politica. Poeta, e forse autore del poema allegorico Intelligenza, si deve a lui la Cronica delle cose occorrenti ai tempi suoi, relativa agli anni compresi tra il 1280 e il 1312. Una cronica che, come quella del concittadino Giovanni Villani e quelle veneziane, non ha il carattere ufficiale degli Annali genovesi, che sono invece inseriti nell’archivio del Comune. Nemmeno Giovanni Villani appartiene all’alta aristocrazia degli affari, ma è tra i soci della potente Compagnia dei Peruzzi dal 1300 fino al 1308, quando gli subentra il fratello Filippo. Nel 1324 entra nella Compagnia dei Buonaccorsi, di cui il fratello Matteo è già socio e che più tardi, insieme al nipote Filippo, continuerà la sua cronaca di Firenze. Giovanni quindi conosce molto bene il mondo degli affari. Nel 1301 è a Roma in veste di procuratore della Compagnia dei Peruzzi; dal 1302 94

al 1307 dirige la loro succursale di Bruges. Storico ambizioso, apre così la sua Cronaca: Questo libro si chiama la nuova cronica, nel quale si tratta di più cose passate, e spezialmente dell’origine e cominciamento della città di Firenze, poi di tutte le mutazioni ch’ha avute e avrà per gli tempi; cominciato a compilare negli anni dell’incarnazione di Gesù Cristo 1300. Con ciò sia cosa che per li nostri antichi fiorentini poche e non ordinate memorie si trovino di fatti passati della nostra città di Firenze o per difetto della loro negligenzia, o per cagione che al tempo che Totila Flagellum Dei la distrusse, si perdessono scritture: io Giovanni, cittadino di Firenze, considerando la nobiltà e grandezza della nostra città a’ nostri presenti tempi, mi pare che si convegna di raccontare e fare memoria dell’origine e cominciamento di così famosa città, e delle mutazioni avverse e felici, e fatti passati di quella; non perch’io mi senta sufficiente a tanta opera fare, ma per dare materia a’ nostri successori di non essere negligenti di fare memorie delle notevoli cose che avverranno per li tempi appresso a noi, e per dare essemplo a quelli che saranno delle mutazioni e delle cose passate, e le cagioni, e perché; acciocch’eglino si esercitino adoperando le virtudi e schifando i vizi e l’avversità si sostegnano con forte animo a bene e stato della nostra repubblica. E però io fedelmente narrerò per questo libro in piano volgare acciocché gli laici siccome gli alletterati ne possano ritrarre frutto e diletto: e se in nulla parte ci avesse difetto, lascio alla correzione de’ più savi.

Giovanni Villani parte dunque da lontano prima di arrivare al suo tempo, quando finalmente entra nel cuore di una realtà che conosce bene. Da quel momento emerge la cultura di un individuo che, fatto tesoro delle esperienze e delle suggestioni culturali con le quali è venuto in contatto, sa come metterle a frutto esaminando con occhio attento e critico la grande crescita economica della sua città, ormai protagonista della scena internazionale. Domina il mondo della politica, mai disgiunto però da osservazioni di natura economica che nascono dall’eccellente preparazione di un uomo che, 95

sapendo come avvalersi di dati e informazioni attentamente selezionate, è in grado di pronunciare giudizi netti e precisi. Ne è testimonianza preziosa l’esame condotto sul bilancio comunale fiorentino, accompagnato da molte notizie di carattere demografico e finanziario. Giovanni Villani scrive che i genovesi sono «i più ricchi e potenti non solo fra i cristiani ma anche fra i saraceni», che le loro galee sono le più veloci del Mediterraneo, ma affida a Bonifacio VIII il compito di affermare che i fiorentini sono le «colonne della cristianità». In quel periodo comincia a circolare molto denaro e lui ne conosce bene la forza e insieme l’estrema, rischiosa volatilità. Lo dimostra nella parte finale della Cronaca quando dà notizia del fallimento della Compagnia dei Bardi, penalizzati soprattutto dalla mancata restituzione dei prestiti da parte della Corona inglese. Scrive Giovanni: «Molta è la pecunia perduta per questi che erano stati i maggiori mercatanti di Italia. Una gloria di Firenze come Peruzzi, Acciaiuoli, Bonaccorsi, Cocchi, Antellesi e molti minori»5. Tre anni più tardi è la peste a portarselo via. Note di chiusura   Iacobi Aurie Annales Ianuenses, in Belgrano – Imperiale di Sant’Angelo (a cura di), Annali genovesi di Caffaro e de’ suoi continuatori, vol. V. 2   G. Airaldi, Abbandonare Gerusalemme? Dialogo di due intellettuali alla fine del Duecento, in Ead., Dall’Eurasia al Nuovo Mondo, pp. 19-30 e Ead., Gli orizzonti aperti del Medioevo. Jacopo da Varagine tra santi e mercanti, Genova, Marietti, 2017. 3   M. Tangheroni (a cura di), Pisa e il Mediterraneo. Uomini, merci, idee dagli Etruschi ai Medici, Milano, Skira, 2003; G. Zaccagnini, Il viaggio in Terrasanta nella Vitae di Ranieri e di Bona, in G. Garzella – E. Salvatori (a cura di), «Un filo rosso». Studi antichi e nuove ricerche sulle orme di Gabriella Rossetti in occasione dei suoi settanta anni, Pisa, GISEM-ETS, 2007, pp. 303-320; E. Salvatori, Il Mediterraneo di Ranieri. Alcune considerazioni 1

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su una fonte agiografica pisana del XII secolo, in C. Alzati – G. Rossetti (a cura di), Profili istituzionali della santità medioevale. Culti importati, culti esportati e culti autoctoni nella Toscana occidentale e nella circolazione mediterranea ed europea, Pisa, GISEM-ETS, 2010, pp. 317-343; M. L. Ceccarelli Lemut, Bernardo Maragone «provisor» e cronista di Pisa nel XII secolo, in Ead., Medioevo pisano. Chiesa, famiglie, territorio, Pisa, Pacini, 2005; B. Z. Kedar, Un santo venuto da Gerusalemme. Ranieri Scacceri, in M. S. Calò Mariani (a cura di), I santi venuti dal mare, Bari, Mario Adda, 2009, pp. 173-180, ora in Kedar, From Genoa to Jerusalem and Beyond, pp. 413-420. 4   B. Z. Kedar, Mercanti in crisi a Genova e Venezia nel ’300, Roma, Jouvence, 1981, pp. 115-118. 5   Giovanni Villani, Nuova Cronica, ed. critica a cura di G. Porta, Fondazione Pietro Bembo-Guanda, 1991, vol. II, p. 244, riferito agli anni 1320-21.

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10 Dante, Boccaccio, Petrarca

Dante nasce e cresce nel pieno della fioritura di Firenze, quando già è avvenuto il ritorno all’oro, le leve del potere passano per il mercato e la banca, e la società guarda al futuro. Ma Dante, che pure vive nel periodo della grande affermazione mercantile e bancaria della sua città, non dialoga con il futuro. Eppure è figlio di un piccolo proprietario terriero che sa far fruttare le rendite dedicandosi al prestito e al cambio, come capita a molti in quell’età. Anche se sono soprattutto i mercantibanchieri che, in collegamento con i loro commerci, accettano depositi a interesse, concedono prestiti a tassi elevati, sfruttano titoli di credito e lettere di cambio per esigere interessi anche onerosi senza cadere nella censura ecclesiastica. Il padre di Dante è un uomo che maneggia il denaro e lo concede in prestito, anche se non necessariamente a usura. Il figlio cresce dunque nel benessere, studia e, grazie all’attività paterna, frequenta i giovani dell’élite d’affari della sua città. È amico di molti di loro che, liberi dalla necessità, amano dedicarsi a leggere e scrivere versi e frequentano ambienti intellettuali. Anche lui vuole dedicarsi allo studio. Morto il padre è evidente però che le rendite non bastano e Dante deve chiedere prestiti ai fratelli e forse la sua entrata in politica è anche la ricerca di una possibile soluzione di vita. In questo senso segue il percorso dei suoi amici, non ricchi parvenus, ma membri di famiglie di antica aristocrazia e dunque orientati – co99

me tutte le famiglie della nobiltà locale, alle quali non piacciono le novità comunali – verso un recupero del passato che sia garanzia per le loro fortune. Ghibellini, dunque, piuttosto che Guelfi. Tuttavia la presenza di un Papato mestatore e l’aggressività francese e angioina rendono la situazione caotica; in queste circostanze le oscillazioni di Dante per conquistarsi un posto al sole sono comprensibili. Vittima di una condizione che lo colloca in un presente difficile per il continuo bisogno di denaro, Dante spera in un futuro migliore, anzi non vuole guardare a un futuro che non sia salvifico. Ma non è facile: la lotta per il potere, che come in ogni epoca ha connotazioni politiche, nasconde uno scontro per il dominio economico in atto tra vecchi e nuovi protagonisti con inevitabili oscillazioni anche all’interno delle famiglie. Quel denaro di cui lui difetta è la leva del potere e chi lo possiede ha in mano le sorti del mondo e certamente quelle di Firenze. Dannazione per chi rincorre quest’elemento corruttore. Dannazione per chi è vittima del vizio o del peccato che corrode dall’interno. Lui sa bene che cosa vuol dire. Non a caso è tra i critici più aspri di un sistema che mette al centro denaro, mercato e, soprattutto, ‘gente nova’. Non a caso il suo ondeggiare politico lo porta all’esilio1. La rivoluzione del denaro non gli piace. Uomo di giudizi assoluti e spietati, tre sono i temi che scatenano la sua ira e la sua implacabile condanna: il Comune italiano e per prima Firenze con il «maledetto fiore», poi il Papato e la Chiesa, e in ultimo la Corona di Francia. Tutti e tre hanno a che fare con i vizi capitali, e soprattutto con quello che Dante considera il più grave, l’avarizia, nell’accezione complessa che il termine racchiude: usura, frode in commercio, corruzione istituzionale, cupidigia e idolatria di beni e denaro, rapina, 100

ingiusta percezione di imposizioni, mancanza di generosità e perfino gola. Il denaro è direttamente o indirettamente protagonista di molti canti (forse la maggioranza) della Commedia, e la storia internazionale vi entra solo in relazione a uno schema precostituito di vizi mentre l’economia di mercato legata alla crescita e all’espansione non ha vita a sé. Ad Arrigo VII di Lussemburgo, sceso in Italia e da lui invocato per la salvezza della Penisola, i genovesi offrono la più alta somma di denaro, ma ciò non li salva dall’essere oggetto della celebre già ricordata invettiva. E nemmeno i Fieschi si salvano o, almeno, non si salva papa Adriano V Fieschi, ricchissimo e dissoluto. Le testimonianze confermano che in questo caso però il feroce giudizio va condiviso. È quindi inevitabile che dal suo punto di vista anche i progetti di espansione legati alla maledizione del denaro acquistino un significato negativo, come accade per il viaggio dei genovesi Vivaldi, che evidentemente non gli è ignoto e che trasforma in un motivo letterario ripreso al fine di condannare la colpevole curiositas di Ulisse. Occorre dunque costruire un’altra realtà, un’altra storia, un mondo poetico in cui tutto torni al proprio posto e il cammino dell’uomo sia un percorso salvifico come quello suo di pellegrino verso il Paradiso. In una simile scelta lo aiuta la teologia, per lui strumento essenziale. Si collocano in questa prodigiosa ricostruzione la profezia di Cacciaguida e l’elogio di Firenze antica, blasone di antichità e usbergo contro un mondo ‘nuovo’ che non gli piace. Tra gli intellettuali di punta di quell’età solo Giovanni Boccaccio sa che cos’ è il mercato e ne sottolinea deliberatamente l’importanza. La sua profonda conoscenza della questione e il suo 101

reale interesse per il presente e per il futuro sono alla base di una notevole operazione letteraria. Nasce nel 1342 il De Canaria et insulis reliquis ultra Hispaniam in Oceano noviter repertis, analisi dotta di una lettera analoga a quelle che gli uomini di affari inviano da ogni parte del mondo. È un’opera fondamentale, a tutt’oggi prima e unica testimonianza di un evento essenziale nel panorama della lenta ma decisa costruzione di una navigazione trasversale sull’Atlantico, quella che porterà Colombo in America. Si tratta di un’operazione intellettuale che in qualche misura richiama quanto osservato a proposito del Milione e della sua possibile fonte, un manuale per mercanti. Qui la fonte è invece una lettera-relazione che testimonia come a quel tempo, per trovare una nuova via alle Indie, ci si muova su due itinerari. Seguono il primo tracciato coloro che intendono circumnavigare l’Africa. La fallita esperienza dei fratelli Vivaldi nel 1291 non frena i portoghesi fedeli alla rotta del cabotaggio africano, la stessa che, a fine Quattrocento, porta Bartolomeo Dias a doppiare il Cabo Tormentoso (ribattezzato Capo di Buona Speranza) e Vasco da Gama a raggiungere l’India. Eppure sono ancora loro che, seguendo un itinerario favorito dagli alisei, tracciano sull’Atlantico un secondo itinerario, una rotta orizzontale che ha le isole come punti di riferimento essenziali. La presenza costante dal 1317 dei Pessagno alla testa della flotta portoghese e l’azione del genovese Lanzarotto Malocello alle Canarie – le isole Fortunate degli antichi –, risalente forse al 1336, testimoniata dalla presenza della bandiera genovese e dal nome dell’isola riportati da Angelino Dulcert nella carta del 1339, provano quanto funzioni l’ormai consolidata collaborazione tra principi e mercanti, che per altri versi esiste anche con la Corona di Castiglia. 102

«Nell’anno dell’incarnazione di Cristo 1341 da mercanti fiorentini che erano in Siviglia, città della Spagna ulteriore, fu inviata a Firenze una lettera qui suggellata il 15 novembre del suddetto anno dove era scritto ciò che tratteremo qui di seguito», scrive Giovanni Boccaccio, cedendo subito la parola a Nicoloso da Recco. La voce narrante, infatti, è quella di un mercante genovese di buon nome che, insieme ad Angiolino del Tegghia Corbizzi (cugino dei figli di Gherardino di Gianni, fattore e poi socio dei Bardi), ha guidato una spedizione portoghese alle Canarie. Il primo luglio 1341 due navi, con genovesi, fiorentini e spagnoli a bordo, accompagnate da un’altra imbarcazione più piccola equipaggiata con armi e cavalli, partono da Lisbona dirette alle isole chiamate correntemente repertas, e cioè ‘scoperte’, dove giungono dopo cinque giorni di navigazione. Tornano nel mese di novembre, portando con sé quattro uomini, pelli di montone e capra, sego, olio di pesce, spoglie di foche, legni rossi che tingono come il ‘verzino’, altre cortecce che colorano di rosso e terra rossa. Nicoloso, comandante di una delle due navi, racconta che le isole distano circa 900 miglia da Siviglia, ma sono meno lontane da Capo San Vincenzo. Da questo momento in poi il racconto ricalca perfettamente forma e contenuto delle lettere-relazioni prevedendo, nell’ordine, una minuziosa descrizione dell’ambiente naturale, delle genti che lo abitano, dei loro sistemi di vita, dei prodotti reperibili; rappresenta, inoltre, una testimonianza dell’intensa collaborazione che esiste tra genovesi e fiorentini, anch’essi ora molto attivi in area iberica. La prima isola incontrata ha una circonferenza di 150 miglia, è sassosa e selvosa, abbondante di capre e abitata da uomini e donne nudi e selvaggi. Qui avviene il primo incontro con una popolazione sconosciuta – i Guanci – sui quali si dan103

no maggiori particolari quando se ne incontrano altri nella seconda e più grande isola. Qui i nuovi arrivati vedono un capo, al quale tutti rendono omaggio, e una grande quantità di uomini e donne perlopiù nudi. Soltanto alcuni tra loro indossano pelli di capra e montone, gialle e rosse, morbidissime e cucite con budella. Nessuna comunicazione è possibile dato che gli isolani parlano in un idioma gentile e sciolto «come l’italico», ma incomprensibile. Alla fine, quando decidono di buttarsi in mare, se ne catturano alcuni. Un giro attorno all’isola consente di intravvedere nella sua parte settentrionale una zona con capanne, alberi di fico, palme senza frutto, ortaggi e legumi. I venticinque marinai sbarcati trovano in quelle capanne una trentina di persone che alla loro vista fuggono; visitano case costruite con pietre squadrate ricoperte di legni bellissimi. Ne fanno saltare i serramenti trovando ceste di palma colme di fichi secchi (ma, dicono, buoni come quelli di Cesena), frumento (assai più bello di quello che si conosce), orzo e simili, di cui gli isolani usano nutrirsi come uccelli. Mangiano anche frutta e bevono solo acqua. All’interno le case sono bianchissime; in un tempio disadorno compare la statua di un uomo coperto solo da un gonnellino di palma, che tiene in mano una palla che si decide di portare a Lisbona. La terza isola mostra solo alberi altissimi. Di fronte a un’altra isola completamente deserta, dove si trovano abbondanza d’acqua, legno e colombi più grandi di quelli conosciuti e anche migliori, falconi e altri uccelli simili, compare un’ulteriore isola, bellissima e probabilmente abitata ma piovosa, con montagne petrose e molto alte spesso coperte di nuvole anche con tempo sereno. Seguono altre otto isole, talvolta deserte, talvolta abitate. Più si avanza più se ne incontrano. Il mare appare più tranquillo del nostro, dice Nicoloso, con un fondale adat104

to alle ancore, anche se le isole appaiono poco portuose benché ricche d’acqua. Sei delle altre tredici isole sono abitate, ma gli abitanti usano idiomi differenti e non comunicano neppure tra loro. Non hanno imbarcazioni e per passare da un’isola all’altra si muovono a nuoto. In una successiva isola, dove non sbarcano, si distingue un monte alto forse più di trenta miglia, sulla vetta del quale appare qualcosa di bianco. La montagna è sassosa e forse sulla cima c’è un blocco di roccia molto appuntito dove svetta un albero grande come quello di una nave, al quale sembra appesa un’antenna con una grande vela latina che sventola e si piega continuamente. Pensando a qualcosa di magico nessuno osa muoversi. Si trovano molte altre cose, ma, da buon genovese fedele alla consegna del silenzio, Nicoloso non ne parla e così sembra che, alla fine della spedizione, i partecipanti riusciranno solo a pareggiare le spese. Intanto i quattro adolescenti catturati vanno in giro scalzi e nudi eccetto che per un gonnellino. Non sono circoncisi, sono belli, hanno capelli vividi (biondi?), lunghi fin quasi all’ombelico. Sono stati presi sull’isola chiamata Canaria, la più popolosa. Non conoscono nessuna lingua e così si può parlare con loro solo a cenni. Sono alti più o meno come noi, racconta ancora Nicoloso, robusti, audaci, forti e svegli. Rispettosi, ancor più lo sono con uno di loro che porta un gonnellino di palma giallo e rosso, mentre gli altri lo portano di giunco. Cantano dolcemente e ballano più o meno alla maniera francese. Sono sorridenti, attivi e domestici molto più di certi spagnoli. Sulla nave mangiano fichi e pane, che apprezzano molto anche se per loro è una novità. Bevono acqua e rifiutano il vino. Si nutrono di frumento e orzo, formaggio e carni di cui hanno abbondanza. Hanno capre, pecore e cinghiali, non buoi, cammelli e asini. Non conoscono le ‘spezie’, le monete d’oro e d’ar105

gento, i monili d’oro, i vasi intagliati o le spade. Sono tra loro molto leali, dividono il cibo in porzioni uguali prima di mangiarlo. Le donne si sposano e quelle «che hanno conosciuto uomini» portano gonnellini come i maschi; le vergini, invece, vanno in giro nude senza alcuna vergogna. Il De Canaria et insulis reliquis ultra Hispaniam in Oceano noviter repertis si ferma qui. Ma il tono del racconto già rinvia per molti versi a quello, assai più esteso, della Lettera di Colombo, pubblicata nel 1493, subito dopo il suo ritorno in Spagna. Dove compare una natura incontaminata, un’attitudine pacifica e amorevole di gente che sembra prefigurare il mito del ‘buon selvaggio’, mentre già incombono le ombre del colonialismo europeo. La riscoperta delle Canarie suscita anche l’interesse di Francesco Petrarca, che figlio di un notaio aretino non viene certo dal mondo degli affari, ma ha molti amici di alto livello in quell’ambiente. Grazie a loro e alle missioni diplomatiche che spesso lo coinvolgono, Petrarca conosce benissimo Genova e anche Venezia, l’essenza della loro storia passata e recente e le vicende del mercato, anche se vi allude con prudenza nella corrispondenza che stende al fine di una possibile pacificazione tra le due potenze. Così scrive nelle Rime (CXXXV, 76-90): Fuor tutti i nostri lidi / ne le isole famose di Fortuna, / due fonti à: chi de l’una / bee, mor ridendo, e chi de l’altra, scampa. / Simil fortuna stampa / mia vita, che morir poria ridendo / del gran piacer ch’io prendo, / se nol temprassen dolorosi stridi. / Amor, ch’anchor mi guidi / pur a l’ombra di fama occulta e bruna, / tacerem questa fonte, ch’ognor piena / ma con più larga vena / veggiam, quando col Tauro il sol s’aduna; / così gli occhi miei piangon d’ogni tempo, / ma più nel tempo che Madonna vidi.

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Petrarca riprende il tema anche nel De vita solitaria: Tralascio ancora le Isole Fortunate che, poste nell’estremo occidente, sono per noi abbastanza vicine e conosciute, ma distano moltissimo dall’India e dalle regioni settentrionali, terra decantata da molti poeti – ma soprattutto in una lirica di Flacco – e la cui fama è antichissima e recente. Fin là, infatti, a memoria dei nostri padri, penetrò una flotta armata dai genovesi, e recentemente Clemente VI diede a quella terra un principe che abbiamo visto, un nobile uomo, discendente di re spagnoli e galli. Come infatti ricordi, mentre egli in quel giorno attraversava la città adorno di corona e di scettro, improvvisamente piovve tanto, ed egli tornò a casa tanto bagnato che se ne trasse l’augurio che gli fosse toccato il dominio di una terra piovosa e ricca d’acque. Che cosa poi gli sia accaduto nel dominio posto fuori del mondo, io non lo so; so però che si tramandano e si scrivono molte cose, per cui la fortuna non sembra convenire pienamente con il nome di terre fortunate. In quanto al resto, tu diresti che quella gente gode della solitudine più di quasi tutti i mortali; ma è talmente rozza nei suoi costumi e tanto simile alle bestie che, lasciandosi guidare dall’istinto naturale più che dal suo arbitrio, non tanto vive sola, quanto erra in solitudine, o con le fiere o con i suoi greggi.

È questo un brano sul quale si è ragionato a lungo a proposito dell’espressione «a memoria dei nostri padri», che però non sembra costituire un problema. Inutile il rinvio ai Vivaldi, che partono da Genova e costeggiano l’Africa senza guardare alle isole. Basta ricordare ancora una volta le salde relazioni dei genovesi con la Corona di Portogallo e, dal 1317, la presenza e l’azione dell’ammiraglio Pessagno e dei suoi sabedores de mar. La spinta ad andare oltre i tradizionali confini europei non coinvolge tutti – lo si è visto per il fiorentino Pegolotti – e la questione delle Canarie di fatto è molto lontana dagli interessi di Petrarca che, pur viaggiando molto, non sembra troppo curioso del mondo. Per lui viaggi e terre poco conosciute sono solo lo spunto per operazioni di natura letteraria. Come ap107

pare nell’Itinerarium Syriacum, dedicato ad un mai realizzato pellegrinaggio a Gerusalemme, e nell’Africa, poema dedicato alla Seconda Guerra Punica, ma forse legato in qualche modo al progressivo recupero di conoscenze in quel continente. A quel tempo infatti nel planisfero di Giovanni Mauro da Carignano, rettore della chiesa genovese di San Marco al Molo, insieme ai paesi bagnati dal Mediterraneo, dal Baltico, dal Mar Nero e dal Mar d’Azov, compare un corretto disegno costiero dell’Africa per la parte nota ai suoi tempi. Vi figurano le scritte Gozola e regnum Gozole, dove sono state viste per l’ultima volta le navi dei Vivaldi. Compaiono i nomi di Ceuta, Saleh, Safi, Mogador e altri ancora; sulla strada che conduce a Tuat e Safi c’è Sigilmassa, dove nel 1291 è giunto un genovese che ha riportato notizie sui Tuareg. Secondo la Cronaca di Ibn-Al-Zeir, nel 1292 un altro genovese ha raggiunto Tazuta (a sud di Melilla), portando all’emiro molti doni, tra i quali un meraviglioso albero dorato con uccelli meccanici che cantavano. Più a sud appare l’Isola di Palola, alla foce di un lungo fiume, il cosiddetto Nilo dei Negri. Notizie simili si trovano anche nel planisfero del genovese Pietro Visconte e in quello del maiorchino Angelino Dulcert. Le carte catalane riportano i punti di sosta delle zone interne e le località essenziali per il mercato dell’oro, come Timbuctu. Vi si cita anche il re del Mali, che regna sul mercato dell’oro, e terre che sono sotto il dominio del Prete Gianni. Nel 1346 il catalano Jaume Ferrer, citato dall’Atlante catalano, attraversa quei luoghi. Il planisfero dei fratelli veneziani Pizzigani (1367) arriverà a tracciare le terre oltre il fiume Palolus. Negli anni centrali del Trecento le Canarie restano quindi il punto estremo dell’Occidente atlantico e tali sono anche per Fazio degli Uberti, che nel suo Dittamondo, viaggio d’ispirazione dantesca che mescola suggestioni colte e notizie storiche in una 108

dimensione geografica incentrata sull’Orbis tripartitus, fa riferimento alle Canarie come parte estrema dell’Occidente: «Ma perché ragionando mi rimembra, / L’isole Fortunate ti ricordo / Ben le vedrai se v’andremo insembra, / se di tanto cercare sarai ingordo» (I, IX), e «Poi son le Fortunate ove si perde / spesse fiate qualunque vi pratica / dico per tempo secco ovver per verde. / Qui troverai gente, che copre la natica / tessendo foglie di datteri insieme / ed una pelle ed altra ch’è selvatica» (IV, XXVII). È un fatto però che la posizione strategica di queste isole le rende oggetto di contesa tra Portogallo e Castiglia. Il 15 novembre 1344 papa Clemente IV nomina principe delle Isole Fortunate don Luís de la Cerda, cugino di Alfonso IV di Portogallo. Nel 1345 Alfonso scrive soddisfatto al pontefice che a memoria dei padri lui ha inviato in quelle isole navi ed esploratori che le hanno occupate con la forza e hanno riportato a corte molti uomini, animali e cose ricevute con grande gioia. Insomma, la gloria dei saccheggiatori. Le isole passeranno alla Castiglia quando già c’è stato il viaggio di Colombo. Altri ne seguiranno e altra gente del Mediterraneo, altri uomini di mercato e di mare italiani saranno protagonisti degli eventisimbolo con i quali Spagna, Inghilterra, Francia daranno inizio alle loro glorie oltremarine: Colombo, Caboto, Verrazzano e Vespucci. Curiosità e fantasia, scienza ed esperienza appartengono a chi si confronta con il mondo e vuole conoscerlo2. Note di chiusura   T. De Robertis – G. Milani – L. Regnicoli – S. Zamponi (a cura di), Codice diplomatico dantesco, Roma, Salerno Editrice, 2016, I, doc. 12, 17, 38, 35, 39. Cfr. anche Airaldi, Essere avari, pp. 132-136. 2   G. Padoan, Navigatori italiani nell’Oceano fra XIII e XV secolo, in Optima Hereditas. Sapienza giuridica romana e conoscenza dell’ecumene, Milano, Scheiwiller, 1992, pp. 527-588 e la bibliografia citata. 1

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11 L’uomo delle stelle e il padre dell’archeologia

Nel Filocolo Giovanni Boccaccio ritrae così il suo maestro Andalò di Negro: Ma a ciò che io più vero dica, tanta fu la paura, che, abbandonati i paternali campi, in questi boschi venni l’apparato ufficio ad operare: e qui dimorando, con Calmeta pastore solennissimo, a cui quasi la maggior parte delle cose era manifesta, pervenni a più alto disio. Egli un giorno riposandosi col nostro pecuglio, con una sampogna sonando, cominciò a dire i nuovi mutamenti e gl’inoppinabili corsi della inargentata luna, e qual fosse la cagione del perdere e dell’acquistare chiarezza, e perché tal volta nel suo epiciclo tarda e tal veloce si dimorasse1.

Andalò di Negro viene ricordato anche nelle Genealogie deorum gentilium: Dunque, tu sai, ottimo re, come io ho presentato spesso il generoso e venerabile anziano, il genovese Andalò di Negro, un tempo mio insegnante nei moti degli astri, del quale quanto grande fu la saggezza, come quanto grandi la serietà dei costumi e le nozioni sul cielo stellato; infatti, come diceva lui stesso, quando tu eri giovane ancora, lui ti fu molto vicino nel metodo di apprendimento degli studi e, come tu stesso potesti constatare, non soltanto lui conosceva i moti degli antichi astri dai movimenti, come per lo più facciamo anche noi ma, reso più sicuro grazie all’esperienza dei confronti, esaminando quasi l’intero universo, quale tipo di clima e quale orizzonte, imparò dalle osservazioni quello che noi impariamo dall’ascolto di lui (…) in quegli argomenti che sembrano concernere gli astri, io penso che possa essere da lui esibita un’affidabilità non differente da Cicerone per l’oratoria o da Virgilio per la 111

poetica. Questo mostrano le opere di lui che descrivono i moti degli astri e del cielo e che sono oltre 482. Di volta in volta invoco quest’uomo anziano prezioso e acutissimo come il poeta fiorentino Dante Alighieri2.

Tocca ad Andalò illustrare il passo Paupertas et fortune certamen nel Libro III del De casibus virorum illustrium: Quanto tempo fa da giovane, studiavo il moto dei cieli e delle stelle sotto l’insegnamento del genovese Andalo di Negro, un giorno, mentre leggevo, mi capitò la frase: «Non bisogna prendersela con le stelle, quando ci occorre un infortunio»: udendo questo, lui anziano e sempre pronto disse ridendo «Questo è certo stato provato da un’antica e divertente favoletta».

Per il suo allievo Andalò di Negro è un maestro di vita e non solo un’auctoritas. La cosmologia medievale, dominata dalla concezione tolemaica, pone la Terra immobile al centro dell’universo e attorno ad essa ruotano la Luna, Mercurio, Venere, il Sole, Marte, Giove, Saturno, le stelle fisse e il Cristallino. Al di sopra c’è l’Empireo. Nel XIV secolo il dato cosmologico, nutrito di creazionismo, deve misurarsi con il concetto di Natura, un’entità poco domabile e poco conosciuta nonostante le grandi scoperte dei secoli XI e XII, scoperte tuttavia frenate da un’opposizione di tipo religioso. Come si è detto, il destino di ciascun individuo è scritto negli astri, governati da Dio, e ciò rende necessario determinare la posizione di ogni corpo celeste grazie a tavole astrologiche, che consentano di calcolare i tempi di rivoluzione dei pianeti e delle stelle, e grazie a tutti gli strumenti utili a studiare il cielo: astrolabi, balestriglie, sfere armillari e altro. Andalò di Negro è un uomo molto fortunato. Infatti può avvalersi delle scoperte di chi prima di lui si è dedicato a quegli studi e al tempo stesso godere della situazione privilegiata

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di essere nato in uno dei luoghi più propizi a questo genere di conoscenze, in una città che dà grande valore ai saperi scientifici e alla sperimentazione. Andalò infatti nasce a Genova intorno al 1260 e appartiene ad una delle più prestigiose consorterie che governano la città, attiva nel mercato e nella finanza europea e oltremarina. I ricchissimi di Negro, suddivisi nei due rami di Banchi e di San Luca, sono legati a tutte le più importanti famiglie. Nipote di Benedetto Zaccaria, Andalò appartiene al ramo di Banchi, operativo in Spagna e presente anche alla corte di Roberto d’Angiò come altri illustri genovesi quando Genova, come ogni tanto capita, è in signoria straniera, un modo come un altro di frenare almeno temporanemente le lotte dei clan che se ne contendono il potere. Avviene dunque a Napoli l’incontro tra l’allievo e il maestro che, grazie alle sue origini familiari, ha già potuto conoscere diverse realtà culturali, compresa quella francese certamente per lui non una novità come abitualmente si afferma. Poco si sa della vita di Andalò3, familiarissimus di re Ugo IV di Lusignano, re di Cipro e Gerusalemme. Cipro, conquistata da Riccardo Cuor di Leone nel 1191 e affidata ai Lusignano, già monarchi di Gerusalemme, è una plaque tournante per il commercio e un’area in cui i genovesi, dal 1218, godono di privilegi commerciali e dove nel 1232 fondano insediamenti a Limisso, Nicosia, Paphos e soprattutto a Famagosta. La perdita di Acri nel 1291 e i patti con Cipro nel 1298 rafforzano ulteriormente la loro presenza, la più consistente tra quelle straniere, e i di Negro fanno parte del novero di famiglie importanti4. Nel 1314 Andalò è certo a Trebisonda, importantissimo centro commerciale del Mar Nero, dove i di Negro con i Doria sono stati tra i primi consoli. Dopo il trattato di Ninfeo, che nel 1261 ha sancito il monopolio genovese sul Mar Nero, 113

con Caffa come capitale, anche Trebisonda ha visto affermarsi la supremazia dei genovesi sui veneziani. Nel 1314 Andalò è promotore di un’importante azione diplomatica che porta alla stesura di alcuni patti che collocano i genovesi in posizione privilegiata. La sua vita si conclude a Napoli poco prima del giugno 1334, quando è già attivo il phisicus genovese maestro Nicolino di Santo Prospero. Saper scrivere, leggere e far di conto è una base di partenza eccezionale per quei tempi. Ma le conoscenze possono essere anche altre e viaggiare per il mondo offre svariate possibilità. Racconta Guillaume de Nangis che Luigi IX di Francia, partito per la Crociata sulla galea ‘Paradiso’ di Pietro Doria, nel corso della traversata da Marsiglia a Tunisi, dopo una furiosa tempesta, domandasse dove si trovassero. E Pietro, mostrandogli una carta, gli avesse risposto che in quel momento si trovavano in prossimità di Cagliari, cosa di cui si era verificata l’esattezza il mattino seguente. Era l’anno 1270. Risale a quell’epoca anche la Charta pisana, così chiamata perché rinvenuta a Pisa ma di produzione genovese, dove il Levante e il Mar Nero sono disegnati con precisione. Ed è di mano genovese pure la prima carta datata, stesa a Venezia nel 1311 dal cartografo genovese Pietro Vesconte, dove sono disegnate con esattezza la Manica, la Senna, gli estuari dello Zwin e della Gironda, la costa inglese fino a Berwick. Sul finire del Duecento il medico Simone Cordo o Simone Genovese, archiatra di Nicolò IV e cappellano di Bonifacio VIII, redige il primo e più importante glossario bassomedievale di termini medici, il Clavis sanationis o Synonima medicinae, dedicato al pontefice. Simone traduce molte opere dall’arabo in latino e viaggia nel Mediterraneo orientale per 114

conoscere l’origine delle ‘spezie’, confrontarle con quanto tramandato dalla tradizione antica, guardando alle auctoritates con l’obiettivo di aggiungere qualche segno all’alfabeto latino per rendere al meglio la trascrizione di vocaboli arabi e greci. Nasce a Genova, o in una colonia genovese, il Codex Cumanicus, dizionario latino-persiano-cumano utile a missionari e mercanti. Nella stessa epoca Rufino, penitenziere dell’arcivescovo di Genova, stende un Erbario. Nel 1303 il già citato prete Giovanni Mauro da Carignano ricava dagli etiopi e dagli armeni che passano per Genova notizie poi raccolte in un piccolo libro sui loro usi e le loro credenze. Galvano di Levanto, oltre a dedicare il suo tempo alla stesura di trattati sulla navigazione o sul possibile recupero della Terrasanta crociata, scrive di medicina. Medici e speziali sono attivissimi, e più tardi Giovanni Boerio di Taggia sarà archiatra di Enrico VII e Enrico VIII d’Inghilterra, Giovanni de Vigo di Rapallo di papa Giulio II come Ambrogio Oderico ambasciatore in Castiglia, che porterà a Genova una copia del libro dei Privilegi dell’amico Colombo e stenderà l’ambizioso trattato De regenda sanitate consilium. Al principio del Quattrocento sono attive due donne, una di Rapallo di cui è ignoto il nome, definita medica seu vaticinatrix, che viene invitata a curare un parente del doge Tommaso Fregoso; a fine Quattrocento è molto famosa Teo­dora Chighizola di Zoagli, che nel 1413 cura Battista, figlio del doge Leonardo Montaldo «que erga ipsum operata est», viene poi esentata dalle imposte come d’altronde tutti i medici dell’epoca. Nel 1475 a Milano Antonia de Genua de Campogrando è «fixica et ciroyca et doctorata per literas ducales»5. Abituati fin dalla più tenera età a girare il mondo per far pratica nel campo degli affari e della diplomazia, impegnati a Oriente e a Occidente insieme a uomini di mare, artieri o 115

mediatori di affari, i giovani dell’aristocrazia genovese hanno la grande fortuna di sperimentare direttamente, di conoscere persone e ambienti nuovi, di imparare lingue, costumi e usanze diversi, muovendosi dall’estremo Occidente all’Estremo Oriente. Hanno il privilegio di poter vivere o studiare in quella che molti di loro considerano una seconda patria, la Penisola iberica, dove le scienze araba ed ebraica hanno messo radici profonde. Andalò di Negro, erede di una delle più importanti dinastie genovesi di uomini d’affari, ama osservare la natura e ancor più il cielo. Si muove entro questi parametri e su questi parametri costruisce la sua storia. Tra le sue molte opere, edite, inedite e citate, le più importanti sono quelle di carattere matematico-astronomico. Tra le opere edite l’Opus preclarissimum astrolabii compositum a domino Andalo de Nigro genuensi foeliciter incipit raccoglie le regole per la costruzione di un astrolabio. E sempre all’astrolabio sono dedicati il testo Hic incipit practica astrolabii et primo de nominibus instrumenti e il De operationibus scale quadrantis in astrolabio scripte. Di cosmografia, astronomia e astrologia si occupano il Tractatus spere materialis e – se è suo – l’Alius tractatus de spera liber secundus. Sono inediti la Theorica planetarum, la Theorica distantiarum omnium sperarum et planetarum a terra et magnitudinem eorum, i Canones super Almanach Profatii, il De compositione astrolabii e il Tractatus quadrantis. Meno famose sono le sue opere di carattere medico o medico-astrologico come l’Introductorium ad iudicia astrologie, il De infusione spermatis e il De ratione partus, il Liber iudiciorum infirmitatum e i Canones modernorum astrologorum de infirmitatibus (forse due versioni leggermente diverse della stessa opera). Gli sono inoltre at116

tribuiti un commento alla cinquantunesima parola del Centiloquium di Tolomeo e (meno sicuro) il Centiloquium Andali Nigri genuensis, dove le nozioni astrologiche appaiono dispiegate in forma epistolare in cento aforismi. Va detto, tuttavia, che dopo Gerberto d’Aurillac, Ruggero Bacone, Alberto Magno e Arnaldo di Villanova questa produzione scientifica si allinea a materiali già ben noti. «Spinto da un forte desiderio di vedere il mondo, ho consacrato e votato tutto me stesso sia per completare l’investigazione di ciò che ormai da tempo è l’oggetto principale del mio interesse, cioè le vestigia dell’antichità sparse in tutta la Terra, sia per poter affidare alla scrittura quelle che di giorno in giorno cadono in rovina per la lunga opera di devastazione del tempo a causa dell’umana indifferenza», scrive Ciriaco d’Ancona al pontefice Eugenio IV. A quel tempo, Ciriaco è già conosciuto come «colui che fa resuscitare i morti dagli inferi». Una definizione che, al di là di una sua personale inclinazione verso il sincretismo religioso, rinvia all’immagine di un uomo che, spinto dalla sua naturale curiosità e della sua sete di conoscenza, ha deciso di leggere a modo suo il mondo. È nato ad Ancona nel 1391 da un’importante famiglia di uomini d’affari il ‘padre dell’archeologia’ Ciriaco de’ Pizzicolli, più noto come Ciriaco d’Ancona6. A nove anni naviga già con il nonno nelle zone adriatiche e del Mediterraneo orientale, imparando a commerciare spezie. In seguito continua a lavorare sulle navi dei parenti, sempre più incline a guardare con occhi attenti e pieni di interesse le vestigia del passato che, tra un viaggio e l’altro per terra e per mare, incontra nei luoghi dove restano ancora molti segni della civiltà greca e romana. Una ricerca che lo appassiona, diventando presto una neces117

sità, ma che gli impone di rendere più ricca la sua formazione culturale. Fin dalla più giovane età Ciriaco sa che non può bastargli saper leggere, scrivere e a far di conto: deve studiare il greco e il latino – come ormai fa assiduamente in qualsiasi luogo si trovi – se vuole trascrivere epigrafi e disegnare i monumenti che ama. In un componimento poetico di gioventù, rispondendo a un amico che lo sollecita a coltivare le sue passioni, scrive: «Non per seguir lo stil che all’alto colle / di Parnaso ce pingie –, il suo valore / sempre hai seguito et hor ti rende honore / sì come a quel che meritando il volle, – / Spargo l’inchiostro dalle nostre ampolle, / Ma per seguir il mercatal labore: / Scrivendo e canzellando el dibitore / Per poesia nei miei libri s’incolle». Membro autorevole delle istituzioni della sua città e impegnato in attività amministrative e commerciali anche per conto di grandi famiglie veneziane e genovesi, Ciriaco viaggia in Italia e nel Mediterraneo, racconta le sue scoperte nei diari e nell’intensa corrispondenza che scambia con le élite del tempo, trascrive un’enorme quantità di epigrafi – poi confluite nei suoi Commentaria – e raccoglie concreti frammenti di memorie del passato per offrirli ad un’Europa che, sensibile alle antiquitates, viene insistentemente richiamata al nodo ombelicale che la lega alla prima e alla seconda Roma vittima dell’insistente attacco ottomano. Homo faber fortunae suae in un’epoca in cui ‘scoprire’ conduce a nuove intuizioni e a nuove terre, Ciriaco sa riconoscere nel Mediterraneo, nelle sue isole maggiori e minori, a Costantinopoli e in Egitto, sulle sponde adriatiche e nella Penisola stessa, il filo rosso che lega quel mare all’Europa. Conosce il cardinale veneziano Gabriele Condulmer, poi papa Eugenio IV, gli imperatori occidentali e orientali – Sigismondo, Gio118

vanni V, Costantino IX, Maometto II – incontra i grandi nomi dell’aristocrazia d’affari internazionale, scambia lettere e intreccia discussioni con i principali umanisti del tempo – Filelfo, Bracciolini, Andreolo Giustiniani Banca e altri ancora – mentre avvia un lucroso mercato di antichità con uomini d’affari appassionati di collezionismo. «Nunquam quiescit Kyriacus» scrive Francesco Filelfo di quest’uomo «che non si ferma mai», capace di valorizzare il lascito culturale del mondo antico e di proporlo alle élite europee come testimonianza delle proprie radici. La storia di Ciriaco è la storia di una grande passione, della ricerca di un successo personale inscritto nel contesto prestigioso di fervide amicizie con importanti esponenti della cultura del suo tempo e di un’aristocrazia internazionale che, ormai pronta ad esotici collezionismi, è disposta ad accompagnarlo dappertutto per agevolarne le ricerche. Forse si tratta di una scoperta della tradizione ad uso politico e cioè di un fenomeno di acculturazione proprio di quell’età. O forse al fondo di questa passione personale c’è la coscienza dell’essenzialità, dell’inevitabilità del Mediterraneo, liquido amniotico di molte culture. Anche William Shakespeare vorrà recuperare le antiche storie mediterranee e farne la memoria dell’Europa. Come testimoniano le antichità che decorano palazzi e chiese la passione antiquaria era già viva durante l’intera età medievale, e Ciriaco non è il primo a farne una scienza. La grandissima tradizione dei Mirabilia Urbis Romae, Guglielmo di Malmesbury e Ildeberto di Lavardin ne sono i grandi protagonisti tra XII e XIV secolo. Nel 1453 cade in mano turca la Costantinopoli bizantina, ultima erede del mondo antico, ma Ciriaco non vede la fine del suo mondo. È scomparso l’anno prima l’uomo che Benoz119

zo Gozzoli nel Palazzo Medici Riccardi, a Firenze, ha ritratto nella Cavalcata dei Magi, dove Oriente e Occidente si incontrano nelle figure di importanti esponenti politici e di prestigiosi filosofi. Valgono anche per Ciriaco le parole di Fernand Braudel: «È gloria del denaro, gloria dello spirito (…). Questo irradiamento mercantile si accompagna a risonanze artistiche e culturali, proponendo una delle più brillanti serie di spettacoli d’intelligenza». Note di chiusura   G. Boccaccio, Filocolo, Libro V, cap. 8, 21.   G. Boccaccio, Genealogia deorum gentilium, Libro I, II, VIII, XV. 3   C. De Simoni, Intorno alla vita ed ai lavori di Andalò di Negro matematico ed astronomo genovese del secolo XIV e d’altri matematici e geografi genovesi, «Bullettino di bibliografia e di storia delle scienze matematiche e fisiche», VII (1874), pp. 319-339 (con bibliografia); L. Thorndike, A History of Magic and Experimental Science, New York, Columbia University Press, 1934, vol. III, pp. 190-204 e 463-475. 4  G. Hill, A History of Cyprus, Cambridge, Cambridge University Press, 1948, vol. II, pp. 85-86, 114-115, 183, 209; G. Caro, Genova e la supremazia nel Mediterraneo (1257-1311), «Atti della Società Ligure di Storia Patria», n.s., XIV (1975); M. Balard, Les marchands italiens à Chypre, Nicosie, Centre de Recherche Scientifique, 2007; Pistarino, Genovesi d’Oriente, pp. 421-476; S. P. Karpov, L’ impero di Trebisonda, Venezia, Genova e Roma 1204-1461. Rapporti politici, diplomatici e commerciali, Roma, Il Veltro Editrice, 1986. 5   L. Balletto, Medici e farmaci, scongiuri ed incantesimi, dieta e gastronomia nel Medioevo genovese, Genova, Università degli Studi. Istituto di Medievistica, 1986. 6   J. Colin, Cyriaque d’Ancone, le voyageur, le marchand, l’humaniste, Paris, Maloine, 1981; G. Paci – S. Sconocchia (a cura di), Ciriaco d’Ancona e la cultura antiquaria dell’Umanesimo, Reggio Emilia, Diabasis, 1998; Cyriac of Ancon, Life and Early Travels, edited and translated by C. Mitchell – E. W. Bodnar – C. Foss, Cambridge (Mass.)-London, Harvard University Press, 2015; G. Mangani, Antichità inventate. L’ archeologia geopolitica di Ciriaco d’Ancona, Sesto San Giovanni, Mimesis, 2017. 1 2

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12 Ancora e sempre Gerusalemme

Scrive il fiorentino Lionardo Frescobaldi, la nostra guida in questa storia: Quivi appresso faremo menzione dell’andata d’Oltramare cioè in Gerusalem e per tutta Terra di Promissione e Samaria e di Galilea e di tutta Giudea e del fiume Giordano e del mare Rosso e dell’Arabia e del monte Sinai e delle condizioni e maniere de’ paesi e delle indulgenze che vi sono un qualunque parte d’oltremare.

Il 9 agosto 1384 tre persone lasciano Firenze: Lionardo di messer Niccolò Frescobaldi, Giorgio di messer Guccio di Dino e Andrea di messer Francesco Rinuccini. Tra loro il personaggio di maggior rilievo è certamente il già maturo Frescobaldi (compie sessant’anni in novembre quando è in Oltremare), che appartiene alla grande famiglia di mercanti-banchieri, i campsores domini Papae presenti in Inghilterra, in Francia, nelle Fiandre e nell’Italia meridionale. Con gli inglesi per la verità molti anni prima le cose erano finite male, i prestiti non restituiti li avevano portati al fallimento. Una sorte analoga a quella dei Riccardi, dei Bardi e dei Peruzzi1. Non a caso suo fratello Giovanni consiglia prudenza: Vestir basso color, essere umile, / grosso in aspetto ed in fatto sottile; / male sia all’inglese se t’atterra; / fuggi le cure e pur chi ti fa guerra; / spendi con cuore e non ti mostrar vile; / pagare al giorno, a riscuo-

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tere gentile, mostrando che bisogno ti sotterra; / non far più inchiesta ch’abbi fondamento; / compera a tempo se ti mette bene; / né t’impacciar con uomini di corte; / osserva di chi può ’l comandamento; / con tua nazione unirti t’apartiene / e far per tempo ben serrar le porte.

Anche Giorgio Gucci e Andrea Rinuccini fanno parte dell’élite fiorentina. I tre amici sono diretti a Venezia, dove intendono imbarcarsi per la Terrasanta. Di là, su galee o cocche che trasportano anche merci, partono ogni anno dai 4000 ai 5000 pellegrini, un cespite altissimo di entrate per la Repubblica. A Venezia Frescobaldi, Gucci e Rinuccini incontrano altri quattro toscani, Paolo Mei, Simone Sigoli, Santi del Riccio e il prete Bartolomeo di Castelfocognano, che si uniscono a loro. È Lionardo stesso a raccontare le vere ragioni di quello che loro definiscono pellegrinaggio: «In quegli anni il re Carlo aveva in animo di fare il detto passaggio oltremare (…) e perciò portava per divisa egli e chi gli promettea l’andata una nave disarmata nel petto dal lato manco, e i cavalieri la portavano d’oro e gli altri d’ariento e quando facessono l’andata la dovevano portare armata». Esistevano già molte descrizioni di quei luoghi ma naturalmente occorreva un aggiornamento. Di questo Lionardo ha parlato con Onofrio dello Steccuto Visdomini, vescovo di Volterra, suo amico e confessore, pronto a partire per un’eventuale crociata. Il quale messer Nofrio comandommi per parte del detto re e per sua mi pregò, come che suoi prieghi mi sieno comandamenti, io procurassi i porti e i paesi di là sicchè alla mia tornata ne dessi notizia dove si potesse comodamente pigliare porto a gente d’arme, procurassi fiumane e luoghi e siti da campeggiare e quali terre fussino atte a vincere per battaglia, come che di ciò io sia poco sperto, come che per lo mio peccato mi sono ritrovato in sette battaglie di campo.

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Il pellegrinaggio era una via di mezzo tra la pietà e lo spionaggio. Gli uomini di affari, oltre a visitare e descrivere luoghi santi e fortezze, sapevano valutare meglio di altri le situazioni locali, come si vede negli scritti di Frescobaldi, Gucci e Sigoli. Arrivati a Venezia i pellegrini si occupano dell’organizzazione del viaggio, optando per una cocca e pagando 17 ducati a testa. Scrive Lionardo: Fatte tutte queste cose, come detto è, io infermai e ’l tempo del muovere s’appressava e i medici diniegavano il mio entrare in mare, di che Giorgio e Andrea ragunarono certi mercatanti fiorentini e più viniziani amici de’ fiorentini, e, praticato co’ medici, diliberarono che quella volta non si andassi più avanti e che noi ci tornassimo a Firenze; e tutti insieme se ne vennono in casa di Filippo di Jacopo Filippi nostro fiorentino, in casa del quale io ero tornato perché v’era la madre e la moglie per essere meglio curato perché in casa i Portinari non erano donne. Quivi propouse messere Romigi Soranzi dicendo: Voi fiorentini non siete usi alle tempeste di mare come siamo noi e gli altri di terre marine, e entrando più sani del mondo in tanto pileggio quanto è di qui in Allesandria si lacera ogni robusto corpo di qualunque marinaio. E per tanto tutti noi sanza niuno discordante diciamo e consigliamo che tu non ti metta in mare e non volere tentare Dio. Gli altri ratificarono il suo dire.

Alla fine si parte e, come dice Lionardo, «nel nome dell’onnipotente Iddio facemo vela»2. Si viaggia dunque sulla cocca Pola carica di panni lombardi, verghe d’argento, rame, olio, zafferano. Lionardo si preoccupa subito di nascondere i duecento ducati che porta con sé, insieme alle lettere di presentazione per i vari consolati ad Alessandria, Beirut, Damasco e per il turcimanno del sultano, che è un veneziano rinnegato, sposato con una fiorentina rinnegata. Tutti sono dotati di salvacondotti. La cassa comune è affidata a Giorgio, come testimoniano gli elenchi precisi delle spese affrontate (compresi i bakshisc, ossia le mance) e i dati numerici 123

relativi a pesi, misure, prezzi che compaiono in calce alla sua relazione. L’attenzione deve essere massima onde evitare truffe. Il 4 settembre approdano a Zante, Modone, Corone. Il 27 arrivano ad Alessandria, ne ripartono il 5 ottobre, navigano sul Nilo e arrivano al Cairo l’11. Qui si fermano per otto giorni. Il 19 ottobre partono per il Sinai, dove arrivano il 28. Il 12 novembre sono a Gaza. Il 19 partono per Gerusalemme, dove giungono il 21. Passano l’intera giornata del 24 in visita al Santo Sepolcro. Il 2 dicembre ripartono. Attraversano la Samaria, Nazareth e Tiberiade, arrivando a Damasco il 9 dicembre. Ne ripartono il 29 gennaio 1385. Il 15 febbraio sono a Beirut e vi restano fino ai primi di maggio quando si imbarcano per Venezia, dove arrivano il 21 dopo una burrascosa traversata. È un viaggio caratterizzato da incontri interessanti e sovente pericolosi, dato che si ha a che fare con re, cadì, consoli, ma più di una volta anche con briganti. Si visitano i luoghi santi e si segnalano castelli e fortezze, ma altrettanta e forse più attenzione viene dedicata alle merci e ai prodotti locali, agli itinerari del commercio, alle monete, alla flora e alla fauna, alle tecniche agricole, ai costumi. Non c’è nessuna polemica antislamica, così come dev’essere per l’uomo d’affari. Sono soprattutto le grandi città a interessare Lionardo e i suoi amici, che dedicano loro molto tempo e spazio nei loro testi. Lionardo segnala che Alessandria «è mercantantesca terra e massimamente di spezieria (…). Per la via di Alessandria insino al Cairo trovamo moltissimi navili di Saracini carichi di mercatanzie (…). La città imperiale del Cairo è doviziosa di ogni bene (…). In questa città del Cairo è più gente che non è in tutta Toscana, ed havvi via che v’è più gente che non è in Firenze». Il porto fluviale del Cairo è pieno di navi ed è più grande dei tre porti di Genova, Venezia e Ancona messi insieme. Dal Sinai 124

si vede il mar Rosso che pare ti sia presso a quindici miglia, pare sangue a vedere e non è peroché l’acqua sia bianca e chiara, ma è perché la rena è rossa come cinabro; vedemovi entro gran quantità di vele: erano navi che recavano spezierie dalle parti d’India e poi le carovane le portano al Cairo e per lo Nilo ne vanno in Allessandria e per altra via le levano e vanno in Damasco.

Ecco la via alternativa al golfo Persico3. Gucci, molto attento e informato sui tempi e le vie del commercio, rileva la notevole presenza di genovesi, veneziani, pisani, fiorentini, pisani, catalani. Per i dati economici forse è anche più ricco il testo di Sigoli, che stende una lunghissima descrizione di Damasco ripresa qui solo in parte: Ora vogliendo raccontare della nobiltà della città di Domasco, dico ch’ella è ben grande come Firenze, innanzi più che meno, contando i borghi di fuori. La detta città è ben posta, e le tre parti è in piano, l’altra parte ne va su per una piaggia più alta che non è la costa di San Miniato di Firenze: e sopra questa piaggia si ha montagne altissime che sempre d’ogni tempo vi sta suso una neve così di state come di verno: dicesi che per arte diabolica la vi fanno istare. Ancora si vede in su una di quelle montagne a capo a Domasco quasi a mezza piaggia la casa dove fu fatto il primo micidio, cioè quando Caino uccise Abele suo fratello. Le mura della città di Domasco son ben murate e di buone pietre, e sono alte bene trenta braccia con moltissime torri tonde (…). Di fuori di Domasco ha di bellissimi giardini ben pomati d’ogni ragione frutti che tu sai divisare, e quando sono fronzuti è tanta la quantità, che ’l sole non vi può; e per questo gli uomini e le donne vi pigliano grandissimi piaceri. Ancora ne’ detti giardini ha grandissima quantità di rose, per tale che vi si fa l’anno molte migliaia di cogna d’acqua rosa, ed è della buona del mondo (…). Ora vogliendo raccontare della nobiltà della mercatanzia di Domasco, questa cosa è incredibile a chi non l’avesse con l’occhio veduta, tanto è la grandissima quantità di mercatanti e d’artefici, che è per tutta la città, e dentro e di fuori, ne’ borghi non ha una ispanna di terreno che

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non vi sia la bottega. E quivi trovi tutte quelle generazioni di cose che tu sai adimandare e o divisare: delle più belle cose del mondo vi si trovano, e de’ più nobili e ricchi lavorii, per tale che andando veggendo, per la terra, sono tanti li ricchi e nobili e delicati lavorii d’ogni ragione, che se tu avessi i denari nell’osso della gamba, senza fallo te la romperesti per comprare quelle cose, perocché tu non sapresti immaginare colla mente quella ragione di cosa che quivi non si trovi, e sia fatta come si vuole. Quivi si fanno grande quantità di drappi di seta d’ogni ragione e colore, e più belli, e de’ migliori del mondo, per tale che chi vedesse di quelli più fini, ed è non fosse perfetto conoscitore, crederebbe che fossono di seta, tanto sono finissimi e lustranti e dilicati e belli. Ancora vi si fa grande quantità di bacini e mescirobi d’ottone, e propriamente paiono d’oro, e poi ne’ detti bacini e mescirobe vi si fanno figure e fogliami e altri lavorii sottili in ariento, ch’è una bellissima cosa da vedere.

Il viaggio di andata fino ad Alessandria dura ventitré giorni, quello di ritorno una cinquantina. La compagnia si è ridotta: Simone Sigoli e prete Tommaso sono morti nel corso del viaggio. Giorgio Gucci incontra una brutta fine nella notte tra il 19 e il 20 ottobre del 1392, quando il fratello Tommaso lo fa uccidere per questioni di eredità. Tornato a Firenze ai primi di luglio del 1385 dopo oltre 11 mesi di assenza, Lionardo si mette a lavorare a un primo testo che però non lo soddisfa e che continua ad arricchire con nuovi dettagli. Stenderà la redazione definitiva tra il 1387 e il 1400. Note di chiusura   A. Sapori, Le compagnie italiane in Inghilterra (secoli XIII-XV), in Id., Studi di storia economica. Secoli XIII-XIV-XV, vol. II, Firenze, Sansoni, 1982, pp. 1039-1070. 2   G. Bartolini – F. Cardini, Nel nome di Dio facemmo vela. Viaggio in Oriente di un pellegrino medievale, Roma-Bari, Laterza, 1991, da cui sono tratti i brani citati. 3   Cfr. L. Frescobaldi – S. Sigoli, Viaggi in Terrasanta, a cura di C. Angelini, Firenze, Le Monnier, 1944 (rist. anast.), pp. 224-226. 1

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13 Colombo sull’Oceano

Alle tre di notte di sabato il vento cominciò a soffiare da nordest. Finalmente era cessata la bonaccia. L’ Ammiraglio tracciò la sua rotta verso ovest. Il mare era faticoso, i marinai erano confusi. Dovette riprenderli più volte. Erano spaventati e incerti. Non era quello il ‘mare tenebroso’ che le carte riempivano ancora di isole fantastiche e di mostri? In quel momento decise di ingannarli, una piccola bugia per vincere la paura. L’Ammiraglio aveva navigato tanto e con diverse ciurme; diceva spesso che il buon «pilota» non abbandonava mai il timone e non si fidava di nessuno. Decise di misurare due volte lo spazio percorso: una per sé e una per loro. Due verità: qualche lega in più o in meno, nient’altro che un numero sul diario di bordo. Loro sarebbero stati più tranquilli e la rotta sarebbe stata solo sua e di nessun altro. L’Ammiraglio Cristoforo Colombo, che ora portava il nome di Cristóbal Colón, sapeva bene quello che doveva fare e, in più, aveva maturato un suo rapporto con la ‘verità’. Nei momenti di forzata tranquillità raccontava di aver cominciato a navigare a quattordici anni, un’esperienza abituale per uno come lui, di origini modeste. Diceva che per almeno ventitré anni non era quasi mai sceso a terra. Aveva lavorato come mediatore d’affari sulle navi di grandi famiglie genovesi, che battevano da secoli il Mediterraneo, dal Mar Nero alle coste atlantiche, oltrepassando senza paura le colonne d’Ercole. Ora il Medi127

terraneo era diventato piccolo e affollato e le vie tradizionali delle spezie erano chiuse. Nella sua memoria conservava i ricordi del passato. Già duecento anni prima, all’incirca all’epoca in cui le navi di Benedetto Zaccaria, cariche dell’allume di Focea prezioso per la lavorazione dei tessuti, avevano percorso il lungo tragitto dal Mediterraneo orientale verso le Fiandre, i fratelli Vivaldi si erano cimentati in quell’impresa avvolta nel segreto, che ora i portoghesi perseguivano senza sosta. Le Indie, il Catai e il Cipango, con tutti i loro tesori, erano il mito di un’Europa che aveva fatto dell’esperienza, della tecnica e della curiosità degli uomini del Mediterraneo una ricchezza senza fine. Le testimonianze dei mercanti e dei missionari raccontavano della presenza genovese nel lontano Oriente. E il libro di Marco Polo, che l’Ammiraglio teneva sempre con sé e annotava con cura, era la somma delle fantasie sfrenate di un Occidente che dell’Oriente vicino e lontano aveva nutrito la sua crescita culturale, la sua identità, il suo immaginario. L’Ammiraglio aveva fatto una grande fatica. Lo dicevano i suoi occhi malati, le gambe malferme e le mani che qualche volta tremavano; si curava con metodi tradizionali, sulla base di ricette che trascriveva di suo pugno sul margine dei testi che amava consultare per nutrire di tensione profetica ipotesi di nuove rotte disegnate insieme con il fratello Bartolomeo, le carte necessarie per vivere e per costruire i suoi sogni. Non era un sentimentale, e non aveva motivi particolari per esserlo. Aveva lasciato prestissimo e per sempre la sua casa e la sua famiglia anche se i fratelli, Bartolomeo soprattutto, ne avevano seguito i passi. Come tanta gente del Mediterraneo era diventato un emigrante. E come tanti genovesi e liguri più importanti di lui aveva cercato dove piantar radici per far fortuna. Si era costruito una famiglia e aveva cambiato nome. Anzi, a di128

re la verità le famiglie erano state due, una in Portogallo e una in Spagna, e tutte e due erano state una tappa del suo progetto. Nel suo cammino Cristoforo Colombo, o Cristóbal Colón, come ora si firmava, aveva seguito percorsi e modelli antichi, che da tempo avevano fatto della Penisola iberica il luogo prediletto d’insediamento per i rami delle più importanti famiglie genovesi, che avevano portato con sé capitali, navi e uomini. A Lisbona, Valenza, Siviglia, Cordova, Cadice e Granada e perfino a Barcellona, un tempo concorrente, i genovesi erano di casa. Come lo erano alle Canarie, alle Azzorre, a Madera, dove avevano importato da Cipro canna da zucchero e pregiati vitigni. Le scelte dell’Ammiraglio avevano sempre un sapore pragmatico. Le famiglie per le quali aveva navigato ne avevano guidato naturalmente i passi, prima in Portogallo, dove soprattutto fervevano gli studi e le occasioni legate alla politica e alla Corona, e poi in Castiglia. Ambedue le monarchie si erano servite di ammiragli genovesi. In Andalusia trionfava la presenza genovese. Di per sé Colombo era un uomo austero: le sue uniche debolezze erano una collana d’ambra, un anello d’argento e un mantello rosso. Però, come la gente per cui aveva lavorato, avrebbe voluto per sé oro, spezie, schiavi; tutte cose ricavate da un secolare controllo dell’area mediterranea. Ma ormai il Mediterraneo era alle sue spalle. Da tempo Colombo coltivava un sogno, un progetto ambizioso, che avrebbe risolto la sua vita e rappresentato il suo tentativo di rivalsa sul mondo. L’aveva inseguito per anni e nell’inseguimento non aveva badato a nulla. Quando era fuggito improvvisamente dal Portogallo, insieme con il figlio Diego si era rifugiato in Castiglia dove aveva raccomandazioni e appoggi. Si era dato da fare. Era uno straniero, un emigrante e doveva trovare navi e capitali. Qualcuno lo aveva ascoltato, la 129

regina soprattutto. E infatti egli la venerava, un’eccezione nella sua durezza. Per sua volontà, infatti, era diventato Ammiraglio del mare Oceano e sarebbe stato Viceré delle Indie. Ora finalmente la Santa Maria, la Pinta e la Niña scivolavano sulle onde dell’Oceano. La rotta era tutta da verificare, ma Colombo non aveva paura. Conosceva tutti i segreti del mare; sapeva leggerne i colori e gli odori. Aveva imparato a usare carte nautiche e stelle, strumenti e libri. Capace di tener testa a ciurme vinte dalla paura, nei momenti tranquilli si era circondato di amici laici e religiosi assai più colti di lui per farsi aiutare a rintracciare le ‘prove’ della sua idea del mondo nei testi di Marco Polo, Enea Silvio Piccolomini, Pierre d’Ailly e Plinio. Scrittore efficace, adoperava con disinvoltura una lingua che non era la sua, un castigliano intriso di riflessi genovesi e portoghesi, che riassumeva il profilo della sua vita. Come tutti i suoi conterranei, compresi quelli di alta estrazione sociale, in gioventù Colombo aveva parlato genovese. A Genova i discorsi in Consiglio si tenevano in quella lingua, non lontana dagli altri idiomi della più prossima area occidentale, e così sarebbero stati registrati, in mezzo al latino in uso per gli atti pubblici fino al Settecento. Data la sua formazione non aveva confidenza con il latino o con il volgare colto ed era normale per lui adoperare una lingua mista (d’altra parte in mare e nei mercati si usava una lingua ‘franca’), sia quando parlava di mercato, sia quando toccava questioni di mare o parlava dei suoi uomini, che sentiva e dipingeva nella maniera giusta per quel tempo, quando ancora formavano un corpo unico con la nave. O quando mandava lettere agli amici e alla famiglia. O quando descriveva la natura, di cui sapeva leggere ogni minimo segno. Scriverà nella relazione sul quarto viaggio, la cosiddetta Lettera rarissima: 130

Mai occhi videro un mare tanto alto, orribile e schiumoso. Il vento non permetteva di andare avanti né di cambiare direzione e mi teneva in quel mare fatto sangue e ribollente come una caldaia per gran fuoco. Mai il cielo apparve così spaventoso. Un giorno e una notte arse come una fornace, e con i fulmini lanciava tali fiamme che ogni volta guardavo se non avessero portato via alberi e vele. Cadevano con tanta furia e così spaventosi che pensavamo tutti che mi avrebbero affondato le navi. In tutto questo tempo mai cessò di cadere acqua dal cielo, né si poteva dire che piovesse ma che si fosse scatenato un altro diluvio. La gente era così estenuata che desiderava la morte per uscire da tante sofferenze1.

L’Ammiraglio aveva navigato su molte rotte, dall’Islanda alla Guinea all’isola di Chio; conosceva il valore delle merci, compreso quello degli schiavi che comprava e vendeva con facilità, come facevano i suoi conterranei. Conosceva le storie vichinghe di cui si parlava dappertutto. Colombo aveva conosciuto uomini di tutte le etnie e di tutte le religioni; ciò gli faceva affermare che lo Spirito Santo albergava in tutti. Ma poi sul mare il buon marinaio si trasformava rapidamente in un pirata e sulla terra avrebbe fatto di tutto per imporsi all’‘altro’, anche se inerme. E tuttavia era devoto ai santuari mariani e al Dio che domina le tempeste, di cui gli sembrava di udire la voce nei momenti di difficoltà, sul far della sera partecipava al Salve Regina intonato dai suoi marinai. Avrebbe battezzato con nomi di santi molte delle terre incontrate; e, come per tutti i genovesi, devoti affaristi, crociata e missione sarebbero rimaste un chiodo fisso nella sua testa e Gerusalemme un mito sempre vivo nella sua mente. Uomo di mercato e figlio di una cultura urbana, avrebbe tentato di fondare città simili a quella dov’era nato, che fossero insieme un centro politico ed economico secondo l’antico modello mediterraneo. Avrebbe voluto lasciare un segno potente nel mondo che aveva incontrato. Ma Santo Domingo, prima città eu131

ropea in America fondata da suo fratello Bartolomeo, alla fine avrebbe avuto un ben diverso volto, quello spagnolo. L’Ammiraglio avrebbe scritto molto e lo avrebbe fatto non solo per illustrare le ragioni dei suoi viaggi sull’Oceano, ma per chiarire quale fosse la cultura di uomini d’affari che – come lui – erano anche uomini di mare. Per spiegare a tutti che chiunque scelga di andare per mare non è un uomo qualunque. Navigare non è solo un’‘arte’, vale a dire un’attività pratica, è qualcosa di diverso e di più, è via di conoscenza, di possibile scoperta. Nelle parole di Colombo, uomo di mare e di mercato, il viaggio si trasforma e da semplice strumento di esplorazione torna ad essere struttura portante di una recherche esistenziale. Navigare vuol dire conoscere il mondo, descriverlo e, infine, conoscere sé stessi. La sfida del navigante non è solo quella del rischio, dei pericoli, della morte. La sfida è navigare per curiosità, per inseguire un’utopia, per ambizione di superare ogni barriera, reale e mentale. Nel 1501 lo avrebbe scritto ai Re Cattolici: Eccellentissimi Re, in giovanissima età cominciai a navigare e continuo ancor oggi. La stessa arte induce chi la segue a desiderare di conoscere i segreti del mondo. Sono già più di quarant’anni che la pratico. Ho percorso tutte le rotte conosciute. Ho avuto rapporti e conversazioni con gente dotta, ecclesiastici e laici, latini e greci, ebrei e saraceni e molti altri di altre razze. In questo mio desiderio trovai Nostro Signore assai propizio e per ciò ebbi da lui spirito d’intelligenza. Nella marineria mi fece provetto, in astrologia mi dotò quanto bastava e così nella geografia e nell’aritmetica; e mi diede ingegno nell’anima e mani per disegnare la sfera con le città, fiumi e monti, isole e porti, tutto al suo posto. In questo periodo ho visto e mi sono sforzato di vedere tutti i documenti di cosmografia, storia, cronache, filosofia e altre arti, alle quali Nostro Signore mi aprì l’intelletto per manifestarmi che era possibile navigare alle Indie e mi diede la volontà per l’esecuzione del progetto. E con questo fuoco venni alle Vostre Altezze.

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Ora, mentre viaggiava sulle onde dell’Oceano per andare oltre, a Colombo pareva che il Mediterraneo fosse alle sue spalle. Ma, più tardi, quando l’Ammiraglio dovette descrivere le ‘sue’ Indie, che tali non erano, si accorse che gli mancavano le parole per farlo. Ripescò nella sua memoria. Già sul mare gli era capitato di risentire la dolce brezza andalusa e di ricordare il canto dell’usignolo. Gli successe molte altre volte; rivide i verdi panorami andalusi, la quiete delle acque del fiume di Siviglia, gli orti di Valenza, i campi di grano di Cordova, le terre ben coltivate di Castiglia. Le cime di alcune catene montuose gli ricordarono la Sicilia e la sommità di un colle richiamò alla sua memoria una moschea. Una volta gli parve di riconoscere il profumo del lentisco di Chio, anzi gli sembrò di riconoscerne la pianta. Gli riuscì perfino di sentire il gusto delle castagne della sua infanzia. Di fronte al mondo ‘nuovo’, recuperò tutto ciò che poteva dal suo bagaglio di letture. Comparvero Amazzoni, cinocefali, l’‘aurea Chersoneso’ e il Paradiso Terrestre. I miti che gli uomini del Mediterraneo avevano forgiato nel tempo passavano con lui all’Oceano per acquistare una vita nuova e diversa. Poi fu la volta di Genova. Dopo tanti viaggi e tante battaglie vinte e perdute, l’Ammiraglio si ricordò della sua città; di Genova ‘potente e bellissima’, della Casa di San Giorgio e perfino dei suoi parenti. E lasciò che la sua penna stendesse una delle frasi più famose di tutti i tempi: «Benché il corpo sia qui, il cuore è lì di continuo». Alla fine l’uomo del Mediterraneo, mare dei mercanti e della conoscenza del mondo, aveva recuperato la sua identità. Note di chiusura   L’ultima edizione dei testi originali sta in Cristóbal Colón, Textos y documentos completos, edición de C. Varela. Nuevas Cartas, edición de J. Gil, Madrid, Alianza Editorial, 1992.

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Indice

Premessa 5 1. Scrivere dal Mediterraneo 7 Note 12 2. Sfruttare le occasioni 13 Note 20 3. Donne tra mare e mercato 21 Note 32 4. Un diverso modo di pensare il mondo 35 Note 42 5. Cristiani, ebrei e musulmani 43 Note 51 6. Elogio del mercante 53 Note 62 7. Scrivere di guerra 63 Note 77 8. Scrivere di amore e di politica 79 Note 86 9. Scrivere di storia 87 Note 96 10. Dante, Boccaccio, Petrarca 99 Note 109

11. L’uomo delle stelle e il padre dell’archeologia 111 Note 120 12. Ancora e sempre Gerusalemme 121 Note 126 13. Colombo sull’Oceano 127 Note 133 Bibliografia 135