Lo scambio di figura. Tre studi sulla somiglianza e sulla differenza
 9788898694174, 9788898694655

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Rosaria Caldarone

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Lo scambio di figura

Tre studi sulla somiglianza e sulla differenza

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Au dedans, au dehors

Collana diretta da: Giuseppe Cantillo, Danielle Cohen-Levinas, Jean-François Courtine, Elio Matassi †

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Au dedans, au dehors 9

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Rosaria Caldarone Lo scambio di figura Tre studi sulla somiglianza e sulla differenza

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6 Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Palermo

© 2015, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via A. Fusco, 21 - 00136 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] ISBN – Edizione cartacea: 9788898694174 ISBN – E-book: 9788898694655 Collana Au dedans, au dehors Issn. 2281-5368 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Diana, Affresco proveniente da Stabiae e conservato presso il museo Archeologico di Napoli. Foto Marco Spina, elaborazione Antonella Capezzuto. Immagine utilizzata su concessione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo - Museo Archeologico di Napoli.

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«Die Welt ist fort, ich muß dich tragen». Paul Celan

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A mio padre e ai miei fratelli.

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Introduzione

I saggi che compongono questo libro tentano di articolare, da diverse angolazioni, un discorso sulla differenza a partire dalla somiglianza. È la regolazione della differenza sulla contrarietà che viene messa in questione, insieme allo schema oppositivo da cui essa sembra essere generata. Il modello alternativo di una differenza (ontologica, sessuale, di genere) che si radichi e si conservi nella somiglianza viene dall’eros e dal suo complesso legame con la philìa. Il primo saggio: Alcibiade I. La decisione comune e lo scambio di figura mostra come questo modello sia già connesso all’“amore platonico”, che oltre a risultare centrale per l’intero percorso del libro, appare anche sotto una luce nuova, su cui vale la pena di soffermarsi in via preliminare. “Amore platonico” – l’espressione, indicante un trasporto erotico che prende avvio dall’anima e che si svilupperebbe grazie al solo concorso dell’anima, appartiene ancora al nostro linguaggio e al nostro modo di comprendere e di classificare le manifestazioni dell’amore. Ma quanto resta di platonico, al di là del nome, in questa rappresentazione? Essa allude a una precisa teoria di Platone sull’amore? Se questa teoria esiste, dove è possibile reperirla con chiarezza? Se non ci si rassegna

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a vedervi solo il frutto di una convenzione, alla cui origine sarebbe solo un intreccio di interpretazioni e ricostruzioni certamente autorevoli e coinvolgenti, ma ispirate da una ben diversa temperie culturale e speculativa (a partire, ovviamente, dal neoplatonismo), come il nome di Platone peserebbe, e da quale specifica angolazione si poserebbe, sull’idea dell’“amore platonico”? Stupisce che quando si parla non genericamente del tema dell’amore in Platone non si faccia mai riferimento all’Alcibiade I che, come il Simposio, parallelamente al Simposio e ancor più di quest’ultimo, mostra con quale insistenza il discorso di Platone sull’amore si costruisca a partire da un discorso d’amore proferito da qualcuno che lo indirizza insostituibilmente a qualcun altro (l’amore dichiarato da Alcibiade a Socrate nel Simposio, l’amore dichiarato da Socrate ad Alcibiade nell’Alcibiade I). Così come la cosiddetta “seconda navigazione” è una svolta di pensiero cucita sulla pelle di Socrate – che sperimenta il potere della causa formale quando si tratta di comprendere e di spiegare agli altri il perché del suo accettare la prigionia e poi la morte1 – , allo stesso modo è sempre un’esperienza d’amore a dettare il discorso sull’amore in Platone. Questo statuto di trascendentale sensibile che l’eros platonico possiede, è più che mai evidente proprio nell’Alcibiade I. Il fatto che su questo dialogo gravi una forte ipoteca pedagogica e politica – Socrate insegna ad Alcibiade la cura di sé che gli servirà per il buon governo della città – copre a mio avviso il vero nucleo teorico del dialogo, che non esclude certamente né l’insegnamento pedagogico né quello politico, ma li comprende all’interno di un registro più ampio e tuttavia ben distinto a partire dal quale essi assumono il loro significato iniziale: questo registro è la storia d’amore fra Alci-

1. Cfr. Platone, Fedone, 99 a 1 – b 4.

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biade e Socrate. Che poi la pedagogia e la politica possano o debbano essere considerate autonome rispetto all’eros che le comprende e le rilancia all’inizio, questo è materia di un altro discorso, irrilevante ai fini della comprensione dell’intreccio in cui questi temi si presentano originariamente nel dialogo. Ma cosa accade di così particolare nell’Alcibiade I? Perché additarlo in vista della comprensione dell’amore secondo Platone, ed in vista della verifica della fedeltà al discorso platonico della nozione di “amore platonico”? La risposta a queste domande, che provo a dare nel Primo Capitolo, poggia sull’evidenza di un dato fortemente significativo e decisamente inosservato: il diventare pienamente, finalmente reciproco, dell’amore fra Alcibiade e Socrate. Questo ci spinge a dare torto a Lacan il quale, nel suo magnifico Seminario sull’amore in Platone2 contribuisce, di certo con un argomento molto fine, a sorreggere e ad accreditare un’intera tradizione per la quale il contrassegno dell’amore platonico è una certa irreciprocità, quasi una strutturale anaffettività. Secondo Lacan, che si basa prevalentemente sul Simposio, fra Socrate e Alcibiade non si produce affatto quella che egli chiama “la metafora dell’amore”, capace di generare “la significazione dell’amore”3, indicante l’evento di scoprire che colui o colei che amiamo, a sua volta ci ricambia4. Ora, posto che questa coppia ha di certo qualcosa

2. J. Lacan, Il Seminario, libro VIII. Il transfert (1960-1961), a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2008. 3. J. Lacan, ivi, p. 59. 4. “Nella mano che si tende verso il frutto, verso la rosa, verso il ceppo che all’improvviso si infiamma, ebbene, il gesto di tendersi, di attirare, di attizzare è strettamente solidale con la maturazione del frutto, con la bellezza del fiore, con la vampata del ceppo. Ma quando, nel movimento di tendersi, di attirare, di attizzare, la mano è ancora lontana dall’oggetto, se dal frutto, dal fiore o dal ceppo esce una mano che si tende incontro alla vostra, e se in quel momento la vostra mano si fissa nella pienezza chiusa del frutto o in quella aperta del fiore o nell’esplosione di una mano che brucia, ecco allora che si

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a che fare con Platone, quanto si dice su di essa non è irrilevante rispetto a quel che concerne l’amore secondo Platone. Cosa dice Lacan su Socrate e Alcibiade? Dice che fra di loro la “metafora” dell’amore per la quale l’amante diviene amato e l’amato amante, quel che Lacan chiama “miracolo”, non si può produrre, e la ragione di ciò sta nel fatto che Socrate rifiuta di vedersi nei panni dell’eròmenos in quanto rifiuta di ammettere che in lui vi sia qualcosa di amabile5. Per questa ragione Socrate resta “impassibile”. “Impassibilità”, scrive Lacan, “vuol dire che non può neppure tollerare di essere considerato al passivo: amato, eròmenos”6. L’“amore platonico”, nel senso dell’amore secondo Platone, sembra mantenere dunque l’irreciprocità dei ruoli fra erastès ed eròmenos ma associata ad una componente pedagogica di ammaestramento che tuttavia non va senza eros. La mia tesi è che una certa lettura di Platone – che lo stesso Lacan, sia pure con incomparabile finezza finisce per avallare quando interpreta l’eros che passa fra Socrate e Alcibiade nel Simposio – perde di vista un dato per l’acquisizione del quale l’Alcibiade I è estremamente significativo, e cioè il fatto che l’amore platonico in realtà sconvolge il senso di quella “irreciprocità” da cui sembra contraddistinto e cui sembra conferire però un valore aggiunto. Più che un amore non reciproco, e in questo

produce l’amore. Ma non è il caso di fermarsi qui, e di limitarsi a dire che ci troviamo di fronte all’amore. Ma non è il caso di fermarsi qui, e di limitarsi a dire che ci troviamo di fronte all’amore, voglio dire che si tratta del vostro amore, se prima eravate l’eromenos, l’oggetto amato, e che improvvisamente diventate l’erastes, colui che desidera […]. La struttura di cui si tratta non è di simmetria e di ritorno. Così qui non c’è simmetria, perché nella misura in cui la mano si tende, tende verso un oggetto. La mano che appare dall’altro lato è il miracolo”. J. Lacan, ivi, pp. 59-60. 5. Cfr. J. Lacan, ivi, p. 171. 6. Ivi, p. 174.

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conforme alla morale sessuale accreditata in caso di omosessualità7, l’amore platonico è in realtà un amore asimmetrico, perché mette in campo un terzo nella relazione duale, che si costituisce come il vero fine del rapporto, un fine aggiunto, se vogliamo, ma senza il quale l’amore, sia che comprenda sia che non comprenda la sessualità, non può dirsi compiutamente realizzato, quanto alla sua forma propria, nella relazione fra gli amanti. Questo terzo: il bene, il divino, ma anche, per altro verso, il dio dell’amore, il dio messaggero, il dio del passaggio, del guado e dell’infinita distanza fra amante e amato, rende “bilateralmente smisurata”8 l’asimmetria perché mette in gioco come imprescindibile, un rapporto di ciascuno dei due partner con esso. Ora, l’assimilazione dell’asimmetria all’irreciprocità ha comportato nel tempo il depotenziamento della componente propriamente erotica dell’eros platonico, quanto mai lontano, proprio in forza di questa presunta irreciprocità (che per lo stesso Lacan trova conferma nella dinamica della relazione fra Socrate e Alcibiade nel Simposio), dal senso radicalmente reciproco sotteso all’espressione “fare l’amore”. Ecco che l’“amore platonico” è diventato un amore asessuato anche a dispetto di un non escludibile coinvolgimento del corpo; asessuato nel senso, cioè, del voltare le spalle a quel godimento reciproco, a quell’abbandono dei ruoli, a quella ridefinizione ontica di ciascuno, sempre sottesi ad un rapporto d’amore autentico. E si badi bene che questa esigenza di reciprocità non è una forzatura “moderna” irrispettosa del paradigma antico, in quanto Platone riferisce nel Simposio che gli dei sono certamente “ammirati” dell’amore degli amanti per i loro amati, ma lo sono molto di più (hyperagastèntes), quan-

7. Per questo tema rinvio al testo di K. J. Dover, L’omosessualità nella Grecia antica, Einaudi, Torino 1985. 8. L’espressione è di Derrida che la usa in Chorégraphies. Cfr. Points de suspensions, Galilée, Paris 1992, p. 114.

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do sono gli amati ad amare come gli amanti, quando cioè gli amati, pur restando tali, rilanciano a loro volta l’amore. Questo giustifica, per esempio, il maggior gradimento degli dei nei confronti di Achille (che pur essendo l’amato di Patroclo alla sua morte lo ama e lo piange come un amante) piuttosto che nei confronti di Alcesti (che ama da amante)9. Agli dei, che prediligono l’amore nell’amato, risulterebbe gradita, dunque, non tanto la sovversione e quindi la perdita della differenza dei ruoli, quanto certamente lo scambio, l’avvicendamento nei ruoli ed è questo l’aspetto veramente sovversivo rispetto alla tradizione di cui anche Platone è figlio. La distinzione fra l’irreciprocità e l’asimmetria e la salvaguardia di quest’ultima comporta, dunque, anche la rivisitazione della ferrea demarcazione fra erastès ed eròmenos, che può essere assunta proprio come un modo di dar conto dell’asimmetria. Questa permane persino quando entra in gioco quella dinamica che nell’Alcibiade I, con un linguaggio inedito e con una potente effrazione concettuale della consueta fisionomia dell’amore, Platone chiama metabalèin to schema alludendo all’atto dello “scambio di figura” fra il maestro e il discepolo che, nella tradizione di cui egli è figlio e nel contesto specifico del dialogo, cifrano palesemente l’erastès e l’eròmenos: l’amante che diventa come l’amato e l’amato che diventa come l’amante (“Oltre a ciò io dico questo, che rischieremo di scambiarci la figura, o Socrate, io la tua e tu la mia; infatti a partire da questo giorno non è possibile che io non ti segua come un pedagogo segue un bambino, mentre tu sarai seguito da vicino da me come dal maestro”)10. Commetteremmo tuttavia un errore imperdonabile pensando che la reciprocità messa

9. Cfr. Platone, Simposio, 180 b 1-5. 10. Platone, Alcibiade I, trad. it. di U. Bultrighini, Newton, Roma 1997, p. 595 (135 d 7-10).

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in gioco nello “scambio di figura” tolga da mezzo l’asimmetria. Tenterò di mostrare infatti che l’“amore platonico” conosce una reciprocità che fiorisce nell’asimmetria senza contraddizione fra questi due concetti. Allo “scambio di figura” prospettato da Alcibiade a Socrate, questi vecchi amanti che sconvolgono la regola dell’amore platonico che essi stessi contribuiscono a dettare, si lega l’impianto complessivo di questo lavoro, che proprio in questa trasformazione (metabolè) – dei ruoli degli amanti ma anche della significazione accreditata dell’“amore platonico”- rintraccia il legame fra somiglianza e differenza. Lo “scambio di figura” apre così una scia di domande che sfora il discorso di Platone, fino a far da sponda a una certa esigenza di riscrittura avvertita da J. Derrida a proposito della cosiddetta “differenza sessuale”, per poi sboccare insidiosamente nel testo aristotelico. Le questioni affrontate nel Secondo e nel Terzo Capitolo, pur venendo fuori come oggetto di studi a sé stanti e dotati di una leggibilità autonoma rispetto all’intero, si legano fra loro come possibili tappe problematiche di un percorso che fa tesoro della correzione impressa emblematicamente da Platone alla dottrina dell’“amore platonico” nell’Alcibiade I. Si tratta di saggiare possibili sviluppi teorici e poste in gioco più o meno intrinseche di quella correzione. In questo senso i tre studi possono utilmente leggersi in serie e gli ultimi due sono stati effettivamente pensati per essere letti nell’ordine qui proposto, appunto come capitoli di libro*. Il primo ordine di questioni che lo “scambio di figura” libera, fa da sponda, come accennavo, a una certa resistenza avverti*Ringrazio la rivista Dialeghesthai per avere autorizzato la riedizione dell’unico saggio già edito del presente volume, pubblicato nel 2014 con il titolo: Alcibiade I. La possibilità comune e lo schema invertito. Il saggio costituisce ora il Primo Capitolo e compare, parzialmente modificato, con il nuovo titolo Alcibiade maggiore. La decisione comune e lo scambio di figura.

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ta da J. Derrida a proposito della “differenza sessuale”. Prendo spunto dalla formalizzazione di questa resistenza offerta in Chorégraphies11. Cosa dice Derrida? Che la differenza sessuale è atopica, che cambia i posti come in una danza e come in una danza i sessi cambiano e si confondono, quindi non sono pensabili come “posti” fissi secondo una certa declinazione binaria della differenza sessuale. La domanda che per me si impone e che intercetta lo “scambio di figura” è la seguente: posto che ciò che induce Derrida a respingere la differenza come dualità è l’opposizione cui lo schema binario dà luogo (perché “due” è di solito 1+1 o uno contro l’altro)12, l’asimmetria dell’“amore platonico” – che rilancia la reciprocità duale ma dentro una mimesis, una danza, se vogliamo, e pertanto una sostituzione del medesimo con l’altro, posture che lo “scambio di figura” può evocare senza forzature – non costituisce proprio un esempio di quella “dissimmetria bilateralmente smisurata”13 all’interno della dualità? Lo “scambio di figura”, insomma, con il suo convogliare la dualità nell’esserl’uno-come-l’altro e con il suo conferire alla mimesis una specificità erotica, non sospende quella riserva sul duale in cui è in agguato il rischio dell’uno-di contro-all’altro e della guerra fra i sessi? La differenza fra gli amanti – differenza cospicua trattandosi di Socrate e Alcibiade – nell’Alcibiade I emerge infatti all’interno della somiglianza prodotta dall’eros e senza contraddizione. Sono queste le domande, provenienti dal I Capitolo, che il Secondo solleva nella discussione attorno a Derrida, discussione dalla quale trae alimento l’impegno a ritornare, nel Terzo Capitolo, sui temi inaugurali della tradi-

11. Cfr. J. Derrida, Chorégraphies, in Points de suspension, Galilée, Paris, 1992. 12. Cfr. J. Derrida, Voice II (Correspondance avec Verena Andermatt Conley), in Points de suspension, cit., p. 169. 13. J. Derrida, Chorégraphies, cit., p. 114.

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zione metafisica a partire da un certo sospetto “esegetico” che la valorizzazione della “correzione” platonica non manca di innescare. In breve: se la strutturale passività del pais, l’atarassia dell’eròmenos, motore di un desiderio che non lascia traccia in chi lo suscita, viene decostruita alla luce della distinzione dell’asimmetria dall’irreciprocità che nell’Alcibiade I arriva a scuotere e a cambiare il senso della rigida ripartizione dei ruoli fra erastès ed eròmenos per approdare allo “scambio di figura”, come non risentire l’eco e il peso di questa effrazione fin nel testo aristotelico, là dove Aristotele nomina il dio hos eròmenon? Nella tradizione da cui anche Aristotele proviene, l’eròmenos non è una semplice postura di avvio del movimento, in quanto l’eròmenos è nella “regola” della morale sessuale al tempo di Platone un fanciullo che suscita e che subisce timidamente un’azione il cui senso comparirà e verrà messo a frutto forse più tardi, e per il quale il termine stesso di eros risulta improprio14. Non è certo agevole riconoscere il dio aristotelico, per quanto si voglia “metaforicamente”, in questa rappresentazione dell’amato dove l’eròmenos è il termine di un’esperienza che pur toccandolo non deve toccarlo, trattandosi per lui di un’iniziazione che non ammette la reciprocità. E viceversa: posto che lo “scambio di figura” nominato e richiesto peraltro da quell’eròmenos che Alcibiade fu lungamente e per molti, sconvolge la performance accreditata dell’“amore platonico” perché lo libera dalla fissità, dalla gerarchia dei ruoli, e dunque dalla relazione di dominio, facendo sì che questi si alternino consentendo a ciascuno di prendere il posto dell’altro, come non risentire una scossa di questo sovvertimento fin nella quiete apparente di un dio che prende a prestito la qualità del suo movimento proprio dalla postura dell’eròmenos? Ma occorre innanzitutto formalizzare la questione: cosa sovvertirebbe un tale sovvertimento se anche riuscisse nella sua im14. Cfr. Platone, Fedro, 255 e 1.

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presa? La risposta è: esso sovvertirebbe l’impassibilità del dio, ovvero l’idea di un dio che in alcun modo partecipa dell’amore che suscita. Il Terzo Capitolo si limita semplicemente ad ambientare questa poderosa questione – che resta dunque solo sfiorata – attraverso l’analisi della philìa aristotelica e del suo aporetico rapporto – ancora una volta di somiglianza nella differenza – con l’eros che dell’amicizia è definito “iperbole”. Ciò che sostengo è che questa iperbole (dell’amicizia) non è una possibilità eccessiva e dunque marginale rispetto a un presunto grado positivo dell’amicizia, ma dice qualcosa di essenziale sull’amicizia; in breve, questa iperbole è il cuore dell’amicizia. Ringrazio, come sempre, le stesse persone. Giuseppe Nicolaci e Leonardo Samonà che mi insegnano ogni giorno quanto “l’essere con” sia necessario al pensiero – è insieme a loro, infatti, che le mie idee prendono forma. Jean-Luc Nancy, il cui incontro e la cui amicizia hanno dato uno slancio produttivo, un’energia nuova al mio lavoro, e Jean-Luc Marion. Da lui proviene il tema di fondo della mia ricerca qui confermato: la centralità del “fenomeno erotico” che io ambiento in un campo diverso ma dischiuso dal suo. Rosaria Caldarone

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Alcibiade I La decisione comune e lo scambio di figura

I Pur essendo state in larga parte deposte le riserve che hanno indotto a non intestarlo a Platone1, l’Alcibiade I continua ad essere considerato un dialogo politico con un intreccio erotico-pedagogico funzionale alla scoperta della “cura di sé”, ac-

1. Nell’antichità l’autenticità del dialogo era indubbia. A lungo la critica si è poi attenuta all’indicazione di Schleiermacher che lo ha ritenuto non platonico. Fra i sostenitori della non autenticità spicca A. E. Taylor, che considera l’Alcibiade I un “manuale di etica non degno di Platone” e che fra le motivazioni addotte per giustificare l’inautenticità inserisce anche questa: “Appare incredibile che Platone, che ci ha dato nel Simposio e nel Protagora un così vivido ritratto di Alcibiade possa aver trattato il medesimo personaggio in questo dialogo in modo così incolore”. Cfr. Platone. L’uomo e l’opera, trad. it. di M. Corsi, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 801. La mia lettura si pone all’esatto opposto rispetto a questa tesi. Tenderò infatti a mostrare proprio il rapporto essenziale e la complementarietà fra l’Alcibiade del Simposio e quello dell’Alcibiade I. L’autenticità del dialogo è stata riconosciuta invece da L. Robin, V. Goldschmidt, R. Weil, che costituisce una fonte per l’analisi dell’Alcibiade I fatta da M. Foucault ne L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), trad. it. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2011, e di recente da J.-F. Pradeau nella sua edizione del dialogo (GarnierFlammarion, Paris 1999).

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quisizione indispensabile per chi voglia amministrare la vita della città. L’eros del dialogo è dunque sottoposto prima alla pedagogia, che ne governa l’origine, e poi alla politica, che ne rivela la finalità. Questa posizione subalterna implica due corollari: in primo luogo fa della philìa il vero sfondo concettuale dell’eros, perché pedagogia vuol dire essenzialmente amicizia del maestro verso l’allievo, affinché l’allievo diventi a sua volta amico del bene, e politica, d’altra parte, vuol dire amicizia dispiegata e messa in pratica nello spazio pubblico. Secondariamente, essa avvalora anche un certo equivoco a proposito dell’“amore platonico”, e cioè a proposito dell’idea che Platone aveva dell’amore, idea che giunge a noi tramite il racconto di alcune significative esperienze – una di queste è quella vissuta da Socrate e Alcibiade – che nutrono una teoria cui, ben al di là di Platone e dei suoi dialoghi, continuiamo a riferirci con la certezza di trovarvi indicato un tipo di amore particolare, riconoscibile. Quale vissuto corrisponde all’espressione “amore platonico”? Crediamo di andare sul sicuro affermando che l’eros rinvia, per Platone, all’azione di un erastès il cui gesto tipico consiste nel far volgere l’amato (da cui la sua azione si origina), non verso di sé, non verso l’amante, dunque, al fine di ottenere il godimento nell’ottenuta reciprocità, ma verso quel buono e quel bello che sono amabili in senso assoluto – e cioè separato dalle fattezze fisiche e dal volto di colui che ha deciso di amare per primo e che risulta il “vero amante” nella misura in cui si attiene a questo ruolo. Ma questo è un “ruolo”, appunto. L’“amore platonico” arriva a noi ingabbiato in una pesante armatura costituita dalla fissità dei ruoli erastès/eròmenos, attivo/passivo; ruoli già ben determinati nella concezione dell’erotica omosessuale propria della Grecia antica, cui la filosofia aggiunge vocazione e finalità che costituiscono valore

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aggiunto, libera creazione, euristica pura2. Ma a questa pur mirabile euristica sembrerebbe sfuggire, fino al rischio dello sconfinamento nell’ambiguità, che la passività può diventare una forma di attività e, viceversa, che l’attività può diventare passiva. Ciò che sembrerebbe sfuggire è appunto il viceversa. Ci sarebbe, insomma, nella rappresentazione greca dell’amore omosessuale che conosce, con Platone, la sua massima espressione ed il suo valore aggiunto, una sorta di “allergia” verso la reciprocità, che non è immune da una certa violenza. L’eros si manifesta infatti nel desiderio di un amante che decide di amare un ragazzo, dalla cui vista è scosso, con la “missione” di condurlo, per il tramite del suo amore, ad amare il bello amabile in senso assoluto, e a volgersi verso di esso. L’amante, l’erastès, è colui che quindi conosce la via del bene, è colui che gode di un primato nella relazione, a causa del suo sapere già che l’eros umano è un mezzo potente, ma pur sempre un mezzo, per consentire all’altro di farsi a sua volta amante di un eros diverso, più alto; il vero amante si rivela dunque un maestro capace, in quanto tale, di provocare nell’eròmenos una sorta di periagoghè, di metastrophè, verso il veramente amabile. Il fine, di conseguenza, non è l’amore reciproco fra l’erastès e l’eròmenos, ma l’amore del bello da destare e impiantare nell’eròmenos; ne segue che l’incrocio fra i due partners risulta in qualche modo interrotto da questo terzo elemento che non è né l’uno né l’altro. Questo scatena il pesante equivoco che incombe sull’amore platonico, rispetto al quale ci si chiede che ruolo abbia il corpo – dimensione in cui gli amanti sono l’uno per l’altro e questo stesso è un bene – e si tende allo stesso tempo a escludere, che esso entri pienamente in gioco.

2. Cfr. M. Erler, Platone. Un’introduzione, trad. it. di G. Ranocchia, Einaudi, Torino 2008, p. 116.

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Anche nell’ipotesi in cui si ammette che la sessualità ha effettivamente un ruolo all’interno di questo tipo di amore, come sembrano d’altra parte confermare diverse fonti3, lo scenario non cambia di molto: resta, anzi, ancora più eclatante, il dato dell’irreciprocità, a partire dal fatto che nel rapporto d’amore il pais è estromesso dal godimento che ricava da lui il suo erastès4. Ciò è in qualche modo “fisiologico” in quanto il pais viene accolto nel rapporto d’amore a partire da una inclinazione sessuale neutra, ancora indecisa e quindi al di là del maschile e del femminile: egli non ha ancora sviluppato una tendenza verso l’omosessualità (“ama ma non sa dire cosa…”5) e la stessa iniziazione sessuale impartitagli dall’erastès lascia oltretutto “libera” la sua orientazione sessuale futura. Egli potrà diventare l’erastès di un pais o legarsi a una donna e procreare, o vivere entrambe le esperienze6. Siamo così di fronte alla strana potenza di un amore che tocca sì il corpo, ma senza considerare data a priori la sua differenza sessuale; o, meglio, senza considerarla preliminarmente necessaria per l’amore. La “differenza sessuale” sembra così posteriore e non anteriore e funzionale all’amore in questo tipo di eros: l’eròmenos non esprime infatti né il maschile né 3. Cfr. E. Cantarella, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico, Editori Riuniti, Roma 1988, pp. 42-47; K. J. Dover, L’omosessualità nella Grecia antica, trad. it. di M. Menghi, Einaudi, Torino 1978, pp. 160-178; H. Kelsen, L’amor platonico, trad. it. di C. Tommasi, Il Mulino, Bologna 1985, p. 81. 4. Cfr. K. J. Dover, cit., pp. 55-56. A proposito dell’irreciprocità nella relazione fra amante e amato rinvio ad Aristotele, Etica Nicomachea, VIII, 5, 1157 a 6-8. 5. Cfr. Platone, Fedro, trad. it. di G. Reale, Rusconi, Milano 1994, p. 111 (255 D 3). 6. Per questo, a proposito della pederastia, H. Kelsen parla non tanto di “un’inversione” quanto di un “raddoppiamento e una manifestazione più ricca della sessualità individuale”. Cfr. L’amor platonico, cit., p. 81.

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il femminile, ma appare nella compresenza di tratti maschili che accolgono la femminilità7. Ciò che si profila è un amore al di là della sessuazione, là dove “al di là” vuol dire “prima” dell’impressione di una precisa marca sessuale. Ora, questa possibilità “fisiologica”, perché suggerita appunto, da una physis che diventa oggetto di godimento nello spazio esiguo – perché legato a una inesorabile, fatidica, temporalità: solo per un certo periodo della vita si era pais8 – in cui non vi si è ancora impressa una marca sessuale definita, sancisce in modo definitivo l’irreciprocità nel rapporto. In un certo senso, l’“amore platonico” resta “platonico” – e cioè non finalizzato a quella ricerca del godimento reciproco sotteso all’espressione “fare l’amore”, nonostante l’ingresso della sessualità. L’irreciprocità è tale che nel Fedro per il sentimento provato dall’eròmenos non viene usata la parola eros che è usata per l’erastès, ma antèros. L’antèros, ovvero, letteralmente, “l’amore di risposta” è definito un eidolon eròtos, e cioè un riflesso dell’amore, che non va considerato eros ma philìa9. L’imperscrutabilità dell’eròmenos, origine separata dell’amore dell’erastès, sembra trovare, alla fine, la sua trasfigurazione e gloriosa sistemazione teorica nella descrizione aristotelica del motore immobile, l’hos eròmenon – colui che senza ricambiare l’amore che suscita, si limita a farlo nascere rimanendo intatto ed integro, senza pena né turbamento alcuni verso il cielo e la natura che restano appesi (ertemai) a lui come a delle braccia avare.

7. Cfr. K. J. Dover, cit., p. 82 e E. Cantarella, cit., pp. 58-62. 8. Cfr. E. Cantarella, cit., p. 67. 9. Cfr. Platone, Fedro, 255 D.

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II L’assenza di reciprocità dimora incontrastata, malgrado tutto, anche nel Commentario di Proclo all’Alcibiade I, che benché introduca il concetto di “conversione” degli esseri superiori verso quelli inferiori (epistrophè pros to cheiron), indicante pur sempre un movimento simmetrico, fatto cioè insieme – Socrate si abbassa, kateisin, va giù, dice Proclo, verso Alcibiade, affinché a sua volta Alcibiade si elevi verso l’ottimo10 – installa al cuore della reciprocità una qualità essenzialmente irreciproca. Irreciproca perché dettata da una ferrea gerarchia, in cui permane la separazione ontica fra il superiore e l’inferiore, che resta sostanzialmente fedele alla diversità dei ruoli dell’erastès e dell’eròmenos e al fatto che ad essere divino è l’amante. Questa gerarchia superiore/inferiore, che conferma i due diversi livelli ontologici dell’erastès e dell’eròmenos produce, di conseguenza, una reciprocità senza libertà e senza “miracolo”, per dirla con Lacan. Nel corso della sua analisi del Simposio di Platone, Lacan scrive, infatti: “Nella mano che si tende verso il frutto, verso la rosa, verso il ceppo che all’improvviso si infiamma, ebbene, il gesto di tendersi, di attirare, di attizzare è strettamente solidale con la maturazione del frutto, con la bellezza del fiore, con la vampata del ceppo. Ma quando, nel movimento di tendersi, di attirare, di attizzare, la mano è ancora lontana dall’oggetto, se dal frutto, dal fiore o dal ceppo esce una mano che si tende incontro alla vostra, e se in quel momento la vostra mano si fissa nella pienezza chiusa del frutto o in quella aperta del fiore o nell’esplosione di una mano che brucia, ecco allora che si produce l’amore. Ma non è il

10. Commentario di Proclo all’Alcibiade Primo di Platone, in Francesca Filippi, L’immaginario e il simbolico nell’uomo, Vita e Pensiero, Milano 2012, p. 301 (133 6-10).

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caso di fermarsi qui, e di limitarsi a dire che ci troviamo di fronte all’amore, voglio dire che si tratta del vostro amore, se prima eravate l’eromenos, l’oggetto amato, e che improvvisamente diventate l’erastès, colui che desidera […] La struttura di cui si tratta non è di simmetria e di ritorno. Così qui non c’è simmetria, perché nella misura in cui la mano si tende, tende verso un oggetto. La mano che appare dall’altro lato è il miracolo [corsivo mio]”.11 Ora, paradossalmente, la comparsa della mano nel bel frutto o nel bel fiore, quella mano che con la sua protensione attesta miracolosamente anch’io, sembra lontanissima dalla configurazione dell’“amore platonico”, il cui recondito imperativo enuncerebbe invece: Ti amo non perché tu mi possa amare, di ritorno, ma perché, attraverso il mio amore, tu possa amare il Bene che devi amare, talmente lontana che per lo stesso Lacan anche l’eros che viaggia – che va e che viene – fra Alcibiade e Socrate, e di cui gli dà notizia il Simposio, resta un amore sostanzialmente irreciproco. Si tratta, è importante sottolinearlo, dello stesso Lacan che pure sottolinea con sorpresa, nell’encomio di eros fatto da Fedro nel Simposio, una nota significativa sul fronte dello scambio dei ruoli fra erastès ed eròmenos in cui a suo avviso si esprime proprio “la significazione dell’amore”12. Stando al discorso di Fedro che colpisce Lacan, infatti, gli dei darebbero un posto speciale ad Achille, ancora più speciale del premio conferito in vita ad Alcesti, perché Achille, pur avendo nella relazione con Patroclo il ruolo dell’eròmenos, alla morte di quest’ultimo si comporta invece come un erastès13, decidendo

11. J. Lacan, Il Seminario libro VIII, trad. it. di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2008, p. 59. 12. Ivi, p. 54. 13. Ivi, p. 55, p. 60.

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di andare incontro alla morte per lui. Morire deliberatamente per Patroclo diventa l’azione di Achille, l’azione che conferma il suo essere diventato da amato, amante. E questo meraviglia gli dei, definiti nel Simposio hyperagasthèntes (molto ammirati). Vale la pena di non accontentarsi di Lacan e di riaprire il testo platonico. Questa è la spiegazione offerta da Fedro: Resta il fatto che gli dei onorano sopra ogni virtù quella d’amore, e inoltre mostrano più stupore ed ammirazione (mallon thaumàzousin) e concedono maggiori benefici quando l’amato ama l’amante (hotan ho eròmenos ton erastèn agapà) che non quando l’amante dimostra affetto per l’amato (e hotan ho erastès ta paidikà). Infatti l’amante è più divino dell’amato, perché è pieno di dio. E per questa ragione gli dei onorano Achille anche più di Alcesti, inviandolo alle isole dei beati14.

Fra Socrate e Alcibiade non avverrebbe niente di tutto questo. Nessun miracolo stando a Lacan. Anche se resta il dubbio sul perché gli dei si mostrerebbero ammirati e commossi per qualcosa che il “buon senso” in fatto di sessualità e di “morale sessuale” greca tenderebbe invece ad escludere. L’ammirazione degli dei risulterebbe fuori legge15… La spiegazione data da Lacan a questa rigidità e fissità di Socrate nei panni dell’erastès nella parte finale del Simposio fa leva sul rifiuto socratico di porsi nei panni dell’amato, in quanto Socrate sarebbe l’uomo kenotico, il filo-sofo che sa di non possedere niente e, soprattutto, niente di amabile in sé, essendo ancorato al solo desiderio. Riconoscendo di non avere niente di amabile – riconoscendo di non avere – Socrate non

14. Platone, Simposio, trad. it. di F. Zanatta, Feltrinelli, Milano 1995, p. 49 (180 b 1-5). 15. Chiedo al lettore la pazienza di tenere in sospeso questo dubbio cui darò spazio alla fine.

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può accettare di diventare l’amato, secondo Lacan16. Egli resta, quindi, filosofo e amante di Alcibiade, a modo suo, là dove “a modo suo” vuol dire che la caratterizzazione sessuale di Socrate viene calibrata sulla sua essenza di filo-sofo – e stando ad essa il filo-sofo non può che essere l’amante, colui che non ha niente da perdere perché niente possiede e che quindi ama in pura perdita; ama come parla, senza che niente ritorni a lui. Tutto ciò conferisce un’ulteriore conferma alla struttura singolare dell’“amore platonico”, che mantiene il suo aspetto di amore senza reciprocità reale fra gli amanti17; reciprocità im16. J. Lacan, cit., p. 174. Su questa motivazione offerta da Lacan concorda anche B. Moroncini nel suo bel libro Sull’amore. Jacques Lacan e il Simposio di Platone, Cronopio, Napoli 2005, p. 167. 17. L’irreciprocità fra erastès ed eròmenos viene considerata da B. Moroncini, sulla scorta di Lacan, indicativa del fatto che “Non si è amanti insieme, ma l’uno è amante, l’altro amato: uno è parte attiva, l’altro passiva. […] La relazione erotica non è una relazione fra uguali in potenza. Insomma, il rapporto d’amore non è, checché ne pensi un certo umanesimo moderno, un rapporto da soggetto a soggetto, bensì da soggetto a oggetto, è, infine, una relazione impari” (op. cit., p. 27). Questa valorizzazione dell’“asimmetria” e della “disparità” (cfr. p. 26), che Moroncini ricava dal Simposio – ed estende all’amore tout court – e che gli fa sostenere che “Socrate e Alcibiade non si incontrano mai” (p. 27), non è tuttavia la verità ultima dell’Alcibiade I e quindi non possiamo considerarla la verità di Platone sull’amore. Questo non vuol dire né che per rintracciare la verità di Platone sull’amore occorre guardare necessariamente al discorso di Diotima e all’eros immortale, e cioè “all’individuazione di un oggetto che colmi la mancanza, che si presenti subito come l’unico non colpito dalla contingenza e dal divenire” (p. 141); né che l’asimmetria importata dal terzo nell’amore scompare per cui tutto si risolve, si aggiusta e si acquieta. In questi due casi, infatti, lo sfondo concettuale dell’eros resterebbe il discorso di Aristofane che punta sul recupero della pienezza originaria. Come tenterò di mostrare, il finale dell’Alcibiade I contiene un’inedita teoria dell’amore che pur restando legata alla “finitezza” mortale dell’eros approda a una reciprocità e ad una simmetria che portano alla trasformazione dell’amante in amato e dell’amato in amante. È dentro questa simmetria (ciò che Platone, per bocca di Alcibiade, chiama metabalèin to schema (135 d 8)) che si mantiene l’asimmetria strutturale

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pedita, nel caso della lettura di Socrate fatta da Lacan, dalla struttura della filo-sofia che in Socrate si incarna. Foucault stesso, che dedica una cospicua parte della sua analisi alla “cura di sé” nell’Alcibiade I18, non proferisce parola sulla natura della particolare relazione erotica fra Socrate e Alcibiade, limitandosi a sostenere che nell’Alcibiade I l’eros – ma l’eros in generale, non quello che viaggia fra Alcibiade e Socrate, non quello che a partire da loro prende la sua forma singolare di vissuto – è a servizio della cura di sé e dell’insegnamento, e che questo legame, costitutivo del modo di amare di quel maestro che è Socrate e del modo di concepire l’amore da parte di Platone, subisce nel tempo una progressiva dissociazione, fino a perdersi, perché l’eros si rivela una zavorra che rischia di complicare fino a rovinare la natura della relazione educativa, il transfert pegagogico19. Anche a partire da questi elementi, l’“amore platonico”, si conferma, come l’amicizia, un amore a tre termini, in cui il terzo: il divino, il bene, il bello in sé, cui deve mirare l’azione del vero amante, di fatto tende a far sbiadire, nella relazione fra i due partners, ciò che appunto determina quest’ultima come relazione: e cioè l’essere di fatto collegati dei due, là dove il “fatto” del collegamento dice innanzitutto il corpo in cui si iscrive la reciprocità. Proverò a mostrare che ritenere l’eros nell’Alcibiade I “funzionale” alla pedagogia e alla politica, occulta l’incubazione di una particolare teoria dell’amore il cui tratto saliente è invece la piena reciprocità e cioè lo scambio dei ruoli fra l’amante e l’amato; questa teoria, che spicca come fortemente inedita dell’eros, ovvero il suo essere costitutivamente aperto al divino che funge da specchio, da terzo. 18. M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto, op. cit. 19. Ivi, pp. 53-55.

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rispetto allo stesso Simposio o al Fedro, che restano tuttavia imprescindibili per isolarla, viene offerta e alleggerita evocativamente in forma di conclusione nelle battute finali del testo. Andando ben oltre il contesto in cui si sviluppa, inoltre, questa teoria, che stando all’espressione usata da Socrate chiamo teoria dello “scambio di figura”20, oltre a mettere in crisi una certa neutra fissità dei ruoli erastès/eròmenos, su cui la letteratura, da Dover a Lacan, conviene, sembra introdurre una terza via nel dilemma, oggi particolarmente acuto, fra affermazione e superamento della differenza di genere. Confesso che è a partire dalla questione della “differenza sessuale” che dirigo il mio sguardo sul testo platonico, ed è su questo fronte che vedo incidere la teoria dello “scambio di figura” in modo estremamente significativo perché propositivo, fecondo. Procederò ricostruendo e amplificando le fasi dell’intreccio erotico che vede protagonisti Socrate e Alcibiade e inserirò, secondariamente, all’interno della ricostituita centralità di questo intreccio che perviene al metabalèin tò schema, il tema della “cura di sé”.

III Socrate si presenta ad Alcibiade con risolutezza e coraggio, parlando di sé in prima persona ed esponendo la propria condizione di amante: Figlio di Clinia, penso che tu ti meravigli del fatto che io, che pure fui il tuo primo amante, mentre gli altri hanno smesso di frequentarti, sono il solo a non allontanarmi (ouk apallattomai), e poi mentre gli altri ti importunavano con i loro

20. Cfr. Alcibiade I, 135 d 8.

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34 discorsi, io invece in tanti anni non ti ho neppure rivolto la parola…21.

Si potrebbe pensare che l’aporeticità del comportamento che Socrate descrive a suo carico sia solo una presunta aporeticità, una tattica di avvicinamento ad Alcibiade. Le cose non stanno così questa volta, e le parole da lui poco dopo impiegate lo confermano: Dovrei parlare. Certo è difficile (chalepòn) per un amante presentarsi a un uomo che non cede agli amanti, tuttavia (homos) devo avere il coraggio (tolmetèon) di esprimere il mio pensiero22.

La situazione è veramente difficile e richiede coraggio. Di questo è segno il fatto che la ragione del “non allontanamento” (ouk apallattomai) con cui si apre il testo, viene interlocutoriamente riproposta. Ti chiederai, rincara Socrate, perché mai, dopo aver visto nel tempo come ti sei via via sviluppato, come sei diventato arrogante e pieno di te, appoggiandoti esageratamente sulle tue doti naturali: il bell’aspetto e i nobili natali… ebbene, ti chiederai come mai io non mi separo, non mi sbarazzo, del mio amore per te (ouk apallattomai tou erotos)23. La questione, posta in modo ricorsivo, accorato, è dunque la seguente: perché non si allontana chi avrebbe dalla sua parte tutte le ragioni per allontanarsi? La risposta sembra facile, invece è difficile24. Sembrerebbe facile poter rispondere che chi non se ne va resta perché ama, perché continua ad amare. Ma questa risposta non sarebbe perspicua, resterebbe generica, e il testo lo evidenzia. Cosa ama, infatti, chi non se ne va malgra21. Platone, Alcibiade I, trad. it. di U. Bultrighini, Newton § Compton, Roma 1997, p. 523 (103 a 1-4). 22. Ivi, 104 e 4-5. (Trad. it. p. 525). 23. Cfr. ivi, 104 c 5. 24. Cfr. ivi,104 e 4.

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do abbia sentito nel proprio cuore un amore contrariato, dal proprio demone interiore25? Chi non se ne va e tuttavia vede chiaramente, nell’“amato assoluto”, il non amabile in assoluto? Queste evidenti contraddizioni confermano la non facilità della risposta e rendono banale e incoerente esibire “l’amore” come ragione e risposta tout court. Alcibiade prepara la risposta di Socrate rincarando così quell’attesa creata poco prima da Socrate stesso: Ma forse tu non sai, Socrate, che mi hai preceduto di poco. Infatti avevo in mente di avvicinarmi io per primo per farti proprio queste domande, che cosa vuoi mai e mirando a quale aspettativa (eis tina elpida) mi importuni, sempre presente con la più tenace ostinazione (epimelestata paròn), ovunque io sia: e in realtà mi chiedo sbigottito che cosa sia mai questo tuo modo di agire e mi farebbe molto piacere saperlo26.

Nelle battute di un Alcibiade che si dice ignaro della strategia di Socrate, spicca la prima comparsa del termine epimèleia, tema fondamentale dell’intero dialogo (sia pur declinata come epimèleia heautoù). Qui l’epimèleia entra in scena al superlativo, come la disposizione eccessiva di un soggetto epimelèstatos; essa viene quindi legata a una dismisura, ma a ben guardare si tratta della dismisura da cui essa proviene: – Aristotele non definisce forse l’eros hyperbolè tes philìas, eccesso di amicizia?27. Se l’epimelès è colui che si prende cura, colui che ha attenzione, sollecitudine, l’epimelèstatos è colui per il quale la cura sconfina nella fissazione, nell’ossessione; qui è in gioco l’essere perseguitati, insomma, dal fantasma dell’altro. Socrate stesso ammetterà, nell’ambito della sua risposta ad Alcibiade, 25. Cfr. ivi, 103 a 5. 26. Ivi, 104 d 1- 4. (Trad. it. p. 525). 27. Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, 1171 a 11-12; 1158 a 12.

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di non aver mai cessato di avere la mente rivolta ad Alcibiade (“prosèchon ge soi ton voun diatetèleka”)28; ti sono stato addosso con la mente, dice, il che vuol dire, sei stato il mio chiodo fisso. È certo singolare che la prima accezione dell’epimèleia sia l’ossessione; questo sembra attestare la difficoltà che questa parola nasconde al suo interno, la sua provenienza dalla dismisura erotica che comporta la difficile conquista della giusta distanza, la fatica di un’adeguata manovra di avvicinamento all’altro di cui si ha cura, o, meglio, che si ha a cuore. L’epimèleia cela così, in nome della sua provenienza, un problema pratico: come aver cura dell’altro avendone già cura, in quanto lo si porta nel cuore? Ovvero, come avvicinarsi all’“oggetto” della propria cura? La “cura di sé”, l’epimèleia heautoù che Socrate insegnerà ad Alcibiade è dunque preceduta dalla cura iperbolica di Socrate nei confronti di Alcibiade, e solo all’interno di questa cura che coincide con il singolare eros di Socrate, l’altra cura, la “cura di sé”, può essere insegnata e seguita nel suo svilupparsi nell’altro. Èquanto tenterò di mostrare nella mia riproposizione dei passaggi centrali del testo29. 28. Platone, Alcibiade I, cit., 105 a 3. 29. L’intero dialogo attesta la provenienza dell’epimeleia eautoù dall’epimelestaton. Questa la sequenza che si produce nel testo, anche alla luce di passaggi su cui mi soffermerò a breve: io sono il solo, dice Socrate, che può aiutarti a realizzare i tuoi progetti / sono il solo perché sono altro e rispetto ai tuoi amanti e rispetto ai tuoi consanguinei/ sono il solo perché leggo dentro di te una cura invisibile / in forza del mio amarti – condizione della visibilità della cura – ti dico ciò che devi fare / Ma potrei dirtelo se non ti amassi? / E cioè se la cura di te che invoco per te e che ti raccomando non fosse dentro la mia cura nei tuoi confronti e, ancora, dentro la mia nei miei confronti? / La mia lettura tende quindi a mostrare la dipendenza strutturale dall’eros della cura di sé. L’eros non è dunque a mio avviso semplicemente funzionale alla cura di sé, una fra le tante vie intersoggettive possibili, ma fenomenologicamente indispensabile in primo luogo per la “visibilità” della cura e secondariamente per l’accesso ad essa. Mi ritrovo dunque, grosso

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Ma torniamo alla risposta, spiazzante, di Socrate, al perché dell’essere rimasto, al perché del non essersi separato dal suo amore, al perché del suo chiodo fisso: Dovrei parlare. Certo è difficile per un amante presentarsi a un uomo che non cede agli amanti, tuttavia devo avere il coraggio (tolmetèon) di esprimere il mio pensiero. Infatti se io, Alcibiade, ti avessi visto soddisfatto di quei privilegi che ho appunto esposto poco fa e convinto di dover trascorrere la vita nelle condizioni che questi comportavano, avrei già da tempo desistito dal mio amore (palai an apellàgmen tou erotos), per lo meno in cuor mio ne sono convinto; tuttavia ora rivelerò altri pensieri tuoi nei confronti di te stesso, per cui capirai anche che non ho mai cessato di rivolgere a te la mia mente (ho kaì gnose hoti prosèchon ghe soi ton noun diatetèleka). Penso che se un dio ti dicesse: “Alcibiade, preferisci vivere con ciò che hai adesso o morire subito se non hai la possibilità di ottenere cose più grandi?”, credo sceglieresti di morire; ma su quale speranza ora fondi la tua vita (epì tini de pote elpìdi zes) te lo dirò30.

Ciò che ha indotto Socrate a non desistere dall’amare Alcibiade non passa per una “proprietà” di Alcibiade, come verrà detto ancora più chiaramente alla fine del dialogo, ma tuttavia questa “cosa” che Alcibiade non ha, e che pertanto non può essere annoverata né fra le proprietà (le “cose” di Alcibiade), né fra le cose che Alcibiade crede di possedere, è ciò che tiene a sé Alcibiade e lo rende Alcibiade agli occhi di Socrate, e dunmodo, più vicina all’interpretazione di Proclo (cfr. op. cit.) che a quella di Olimpiodoro (Olympiodorus, Commentary on the First Alcibiades of Plato, Ed. di L. G. Westernink, North-Holland Publishing Company, Amsterdam 1956). Per questa accentuazione del ruolo dell’eros che mi condurrà alla fine del testo a sostituire la chiave di lettura dell’“intersoggettività” con quella dell’“interdonazione”, la mia lettura si distacca dalla linea di Foucault recentemente ripresa da C. Agnello in Cura di sé e filosofia. Interpretazioni fenomenologiche di Platone, Mimesis, Milano 2010. 30. Platone, Alcibiade I, 104 e 4- 105 b. (Trad. it. p. 525).

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que una volta procurato un accesso ad essa, Socrate giungerà al cospetto di Alcibiade in persona. Cos’è questa “non-cosa” che lega Alcibiade a se stesso e allo stesso tempo “rende ragione” della resistenza di Socrate nei suoi confronti? Nient’altro che un desiderio, una speranza, guardando alla quale Alcibiade vive la sua vita. Socrate intercetta questa speranza di “cose più grandi” che disaggiusta e contraddice, ma in modo fecondo, il vivere di Alcibiade e la trova amabile. Il fatto che la “cura di sé (epimèleia heautou)” consista, come si sostiene comunemente e giustamente, in un prendersi cura della “cura” dell’altro31, qui, nelle prime battute del testo, è imprescindibilmente connesso con il dato che Socrate dice di essere ancora amante di Alcibiade grazie al suo accesso a una proprietà non cosale e invisibile di Alcibiade: al suo desiderio appunto, alla sua cura; o, forse meglio, a ciò che ad Alcibiade sta a cuore, alla protensione stessa del suo cuore. È proprio la possibilità che si dia una cura, un desiderio, un avere a cuore, una tensione, in Alcibiade, a mantenere in Socrate la postura dell’amante, postura che Socrate assume prendendo a cuore in modo stabile le belle ma vaghe speranze di Alcibiade. Ma il dato che resta eclatante, in tutto questo, è che, all’origine, l’epimèleia coincide con l’accesso all’invisibile di un cuore, ecco perché “epimèleia” non va senza eros. Nessuno può prendersi cura della cura dell’altro se prima non l’ha vista, ma vedere la cura dell’altro significa vedere nell’invisibile di un cuore, e solo l’amore apre questo accesso all’inaccessibile stesso.

31. Cfr. M. Foucault, cit., p. 54.

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IV Quando Socrate si rivolge ad Alcibiade ed inizia ad interrogarlo, lo fa col presupposto che lui abbia in mente le cose che Socrate crede che lui abbia in mente32. Socrate, dunque, non ha avuto alcuna rivelazione da parte di Alcibiade, egli ha letto nell’invisibile, e questa possibilità, questa capacità, è chiaramente la prova del suo amare Alcibiade; questa “veggenza” è proprio il dono dell’eros cui la stessa epimèleia heautoù resta, come vedremo, interamente appesa. Socrate comprende da solo che è sicuramente difficile per Alcibiade cogliere l’attinenza fra il suo non andar via e la sua lettura della cura invisibile nel cuore dello stesso Alcibiade (Forse mi chiederai, ben sapendo che quel che dico è vero: ma che ha a che fare questo, Socrate, col tuo discorso? [quello che dicevi mi avresti fatto, sul motivo per cui non mi abbandoni? (ouk apallatte)])33, ed è per questo che dà spontaneamente la risposta. Prima di soffermarmi su questa risposta farò una piccola digressione che dovrebbe avere lo scopo di mostrare la relazione fra Socrate e Alcibiade all’interno di una tensione che, anticipandola, conduce verso quella reciprocità che viene fuori, quasi come una nuova teoria, alla fine dell’Alcibiade. Quando, nel finale del Simposio, Alcibiade irrompe e sconvolge l’assetto dei discorsi precedentemente fatti, non facendo l’encomio di una potenza d’amore generica ma del suo amore, e cioè di Socrate in persona, il perno della argomentazione risiede nel fatto che egli ha visto dentro Socrate, in un dentro in

32. Cfr. Platone, Alcibiade I, 106 b 11- 106 c 1. 33. Ivi, 105 d 1-3. (Trad. it. p. 525).

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cui nessun occhio umano può essere mai entrato, “immagini divine e d’oro, bellissime, meravigliose”34. Due piani del vedere si sovrappongono e immediatamente si distinguono nello sguardo di Alcibiade che fa il seguente ragionamento: nessuno di voi (oudeis hymòn) conosce veramente Socrate, perché ciò che voi vedete (oràte gar)35, cari compagni di bevute, è ciò che è sotto gli occhi di tutti, compresi i miei, e cioè voi vedete come “Socrate è sempre innamorato dei belli, e non fa nient’altro che star loro appresso, e ne è sconvolto, e come, d’altra parte, ignori tutto e non sappia nulla…”36. E tuttavia, “come un Sileno scolpito, si copre all’esterno (exothen) con questo atteggiamento (periblebetai), mentre dentro (endothen), se lo si apre, sapreste immaginare, cari compagni di bevute, di quanta temperanza (sophrosyne) sia pieno? […] Passa tutta la sua vita ironizzando e prendendosi gioco della gente. Ma quando fa sul serio e si apre, non so se qualcuno abbia visto le immagini che ha dentro (ta entòs agàlmata). Io [corsivo mio] una volta le ho viste (all’ego ede pot’eidon)”37. La cosa che più conta, in questo brano, sono le due soggettività contrapposte, contrapposte in forza di ciò che riescono a vedere: “voi”, il soggetto di oràte gar, seconda persona plurale, e “io, invece”, “ma io”, all’ego, prima persona singolare… Voi vedete quello che vedo pure io… ma voi non vedete quello che ho visto io, e cioè il divenir serio di Socrate, le sue immagini interiori; in breve, i suoi agàlmata. Ora, questi agàlmata, che sono il cuore del discorso di Alcibiade nel Simposio, e tali

34. Platone, Simposio, cit., 216 e 7-8. (Trad. it. p. 129). 35. Ivi, 216 d 2. (Trad. it. p. 129). 36. Ivi, 216 d 2 - 4. 37. Ivi, 216 d 5 – 216 e 6. (Trad. it. p. 129).

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sono riconosciuti da Lacan38, non sono altro che le immagini invisibili la cui visibilità è concessa solo all’amante39. Cosa ha visto Alcibiade? Ha visto innanzitutto che Socrate diventa serio (spoudasantos) – quasi che tutta la sua ironia, tutta la sua maieutica, tutta la sua ricerca filosofica, fossero solo apparenza, gioco, atteggiamento, divertissement – e si apre (anoichthèntos, anoignumi), cioè espone un sé che non coincide col sé del Socrate noto a tutti, forse anche a se stesso. Alcibiade, dunque, stando al Simposio, rivela Socrate (egò delòso)40, così come, nell’Alcibiade I, Socrate rivela Alcibiade. In entrambi i dialoghi, sia pure in un’inversione di ruoli, l’uno è il “rivelatore” dell’altro, nel senso che l’uno ha accesso all’invisibile che abita nell’altro, e posto che il rivelatore è sempre l’amante, cui l’amato si rivela divenendo, proprio in forza di questa rivelazione, amato, l’analogia suggerita dalla lettura sinottica dei testi suggerisce che Socrate e Alcibiade sono entrambi amanti. Nel senso che ciascuno di loro è un erastès; entrambi amanti in quanto entrambi vedono nei cuori invisibili dei loro amati: Socrate legge nella speranza di Alcibiade e lo ama per quella speranza, posto che tutto quello che di lui ha, come gli altri, sotto gli occhi, è desolante; Alcibiade fa leva sugli agàlmata e 38. J. Lacan, cit., pp. 150-164. All’inverso, Proclo lega l’agalma all’essenza dell’amore provato da Socrate verso Alcibiade nell’Alcibiade I. Questo il senso dell’utilizzo della nozione: se un “essere superiore” come Socrate può amare un “essere inferiore” come Alcibiade è perché egli scorge persino in quest’ultimo le immagini della bellezza. Si tratta della “vera bellezza”, quella interiore, che non coincide con la bellezza sensibile di Alcibiade. Cfr. Proclo, cit., 92, 10 (p. 257) e 190, 10 (p. 362). 39. Socrate è “in eccesso” su Socrate, agli occhi di Alcibiade, e questo eccesso di visibilità non può essere assorbito in alcun modo. Questo eccesso da sostenere come tale rivela l’amore di Alcibiade nel senso che è rivelato dall’amore di Alcibiade. Nel sostenere questa tesi mi avvalgo della nozione di “fenomeno saturo” di Jean-Luc Marion (Cfr. De surcroît, Puf, Paris 2001). 40. Platone, Simposio, cit., 216 d 1.

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non nasconde la sua vergogna, il suo disagio, la sua eterna esitazione nei confronti di un Socrate che frustra il suo desiderio (“non so come devo comportarmi con quest’uomo”41) e di cui vorrebbe augurarsi che sparisse, che si togliesse da mezzo, se non fosse che sa già che l’angoscia prodotta dalla sua assenza totale sarebbe ben peggiore di quella che la sua presenza parziale gli provoca già42. Ciò mostra che anche Alcibiade ha, verso Socrate, un amore contrariato… e che come, stando a Proclo che guarda da una parte sola, oggetto dell’amore di Socrate è il “vero Alcibiade” (alethinòn Alkibiàden)43, allo stesso modo, oggetto dell’amore di Alcibiade è il vero Socrate. Quello delle immagini meravigliose e invisibili, quello che a tratti si fa serio, quello che non interroga e non ammira i bei fanciulli, quello che lascia in pace la gente; quello che, in breve, è l’amato di Alcibiade. Dire che Socrate e Alcibiade sono entrambi amanti non vuol dire ancora affermare la reciprocità del loro amore, erastài al plurale indica infatti la condizione di chi condivide con altri l’azione dell’amare, ma non quella trasformazione miracolosa cui Lacan allude quando parla delle mani che spuntano dal frutto o dal fiore. Gli erastài, insomma, non sono l’amante e l’amato in quanto entrambi amanti, ma sono coloro che parimenti danno inizio all’azione di amare. Cogliere, tuttavia, nel confronto fra due testi come l’Alcibiade I e il Simposio, che pare plausibile ritenere contemporanei44, una dinamicità, una tensione, rispetto a quella fissità dei ruoli erastès/eròmenos incarnati da Socrate e Alcibiade, è tuttavia significativo, perché

41. Ivi, 216 c 1- 3. (Trad. it. p. 129). 42. Cfr. ibidem 43. Proclo, cit., 49, 14 (p. 217). 44. A proposito della datazione dell’Alcibiade I rinvio alla ricostruzione fatta da M. Foucault, cit., pp. 64-66.

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induce a interrogarsi sul significato di quella ferrea distinzione, sul valore di quella irreciprocità che è al cuore dell’“amore platonico”. Come fa Platone a ignorare il mimetismo che trascina l’amato a diventare amante e ad escluderlo dal particolare amore che descrive? E posto che non lo ignora affatto, come dimostra la descrizione di quegli amanti che sono, ad uno ad uno, Socrate e Alcibiade, fin qui entrambi amanti all’attivo, perché l’ostinazione a isolare i ruoli di amante e di amato al cuore dell’“amore platonico”? Che valore dare allora a questa irreciprocità? E, ancora, posto che di fatto essa viene contraddetta, proprio quando si tratta di Socrate in persona, dell’amore di cui è capace Socrate45, essa stessa non costituisce una sorta di “finzione erotica” tesa ad isolare un tratto dell’esperienza dell’amore che pur essendo presente in ogni amore di fatto scompare, non essendo visibile né isolabile come tale?

V Sospendiamo la risposta per ritrovare la spiegazione fornita da Socrate al legame fra il suo ritorno e le belle speranze di Alcibiade, da cui prende avvio il suo amore. Belle speranze che sono sogni di gloria esprimenti il desiderio che il nome di Alcibiade resti immortale presso i Greci al pari di quello di Ciro o di Serse46. Te lo dirò, caro figlio di Clinia e di Dinomache. Il fatto è che è impossibile (adynaton) per te realizzare senza di me (aneu 45. La contraddizione concerne anche il fatto che Alcibiade viene amato da Socrate in un tempo lungo anche quando anagraficamente non è più un pais. Cfr. Protagora, 309 a 1- 309 b 2. 46. Cfr. Platone, Alcibiade I, 105 a -105d.

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44 emoù) tutti questi progetti: tanto grande è il potere di cui credo di disporre sui tuoi interessi e sulla tua persona (tosauten egò dynamin oimai echein eis tà sa pragmata kaì eis sé); ed è per questo, ritengo, che il dio per tanto tempo mi ha impedito di parlarti, e io, per parte mia, ho atteso che me lo permettesse. Perché se tu (hosper gar sy) riponi le tue speranze (elpìdas) nella città, pensando di mostrare che hai grandissimo valore per essa e dopo averlo dimostrato speri di potere avere subito un grandissimo potere (dynèsesthai), così io spero, dal canto mio (outo kagò elpìzo) di avere moltissimo potere presso di te (meghiston dynèsesthai parà soi), una volta che ti avrò provato quanto io ti sia prezioso (axios), al punto che né il tuo tutore (oute epìtropos) né i tuoi parenti (oute sunghenès) né nessun altro (out’allos oudèis) sarà in grado di farti acquistare la potenza che desideri (ten dynamis hes epithymeis), nessuno eccetto me (plèn emou), naturalmente con l’aiuto di dio. Finché eri troppo giovane e prima che una speranza di tale ampiezza (tosaùtes eplpìdos) ti invadesse, come penso, il dio non mi autorizzava a parlarti, perché non lo facessi senza uno scopo. Adesso invece me ne dà agio, perché ora potresti darmi ascolto47.

Non solo Socrate legge nel cuore di Alcibiade, ma si sente chiamato in causa da ciò che ha luogo in quel cuore, a insaputa di Alcibiade è il caso di dire. Chiamato in causa in prima persona ed insostituibilmente. Questa “unicità” di Socrate risalta sia di contro alla figura di un maestro, un eventuale tutore, che sarebbe autorizzato da un ordine di motivazioni neutro, oggettivo, pedagogico, sia di contro a quella di un parente, uno con lo stesso sangue. Se Socrate decide di farsi avanti, dunque, è perché avverte che il gesto di sostenere le speranze di Alcibiade solo lui può intestarselo. La famiglia e la pedagogia sono estromesse da questo compito. Quale vincolo giustifica il compito di Socrate, allora? A che titolo parla Socrate?

47. Ivi, 105 d 2-106 a 1-2. (Trad. it. p. 527).

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Che ruolo ha nei confronti di Alcibiade? Evidentemente egli parla da amante, egli parla in quanto ama Alcibiade, e l’ordine dell’amore sorpassa, rispetto a ciò che deve essere detto – e fatto in quanto detto –, l’ordine del vincolo di sangue e del vincolo pedagogico. Tutto il discorso che da questo punto in poi si svilupperà, e cioè tutto l’insegnamento concernente l’epimèleia heautoù in cui Socrate esercita la sua parresìa – parla cioè in modo franco e risoluto affinché possa suscitare risolutezza e decisione in Alcibiade – risulta dunque ancorato a questa verità. La stessa parresìa acquista una connotazione strettamente erotica in quanto essa matura nel confronto fra il tipo di amante che è Socrate e gli altri amanti cui Alcibiade non ha ceduto e che sono stati sopraffatti dalla superiorità di Alcibiade, bello e altrettanto superbo48. La parresìa diventa così uno dei tratti peculiari che distinguono Socrate come il vero amante di contro ai semplici adulatori, amanti da strapazzo49. Come lo stesso Foucault ammette, la parresìa è il modello opposto all’adulazione, ma l’adulazione cui si riferisce Platone è quella degli amanti indegni. Di contro, Socrate dice la verità ad Alcibiade, pur sapendo che si tratta di una veritas redarguens per lui; se la dice è perché può dirla e può dirla solo in quanto egli ama veramente Alcibiade. Veritas redarguens dentro veritas lucens, ricordando Agostino. A proposito di questa schiacciante collocazione di Socrate nel ruolo dell’unico degno e del “vero amante” – unico, si badi bene, malgrado i molti –, Proclo fornisce un’interessante spiegazione. Nel suo Commentario scrive infatti: “A dire la piena verità, sin dalle prime sillabe Socrate si rivela come l’unico amante di Alcibiade. Se, infatti, egli ha iniziato prima degli 48. Cfr. ivi, 103 b 3- 104 c 4. 49. Cfr. Proclo, cit., pp. 98-99. (Trad. it. pp. 264-266).

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altri, è chiaro che allora era l’unico amante; se, ora che gli altri lo hanno abbandonato, egli ancora venera l’amato, anche in tal caso è l’unico amante; se, infine, quando pure gli altri erano presenti, il modo del suo amore era differente, dato che quelli nocevano al giovane, mentre lui come un guardiano, un dèmone o un dio, lo guidava dall’esterno, anche allora era chiaramente l’unico amante. La ragione di ciò risiede nel fatto che, in ciascuna classe degli esseri, ciò che è trascendente è unico, anche quando a esso segue una moltitudine”50. In poche righe, Proclo riassume la condizione di Socrate rispetto ad Alcibiade che troviamo abbozzata all’inizio del dialogo: il suo essere stato il primo amante, l’essere rimasto l’unico, l’avere espresso, con il suo modo di imporsi, con la sua parresìa, un differente tipo di amore, qualitativamente unico. L’unico resta tale, dunque, malgrado, accanto, in forza dei molti; la moltitudine degli amanti venuti dopo, infatti, non scalfisce quella separazione assoluta imposta dall’inizio con il suo accadere. Questa struttura della trascendenza che Proclo descrive a proposito della fenomenologia erotica che si dipana fra Socrate e Alcibiade contribuisce a rischiarare il mistero di quell’“amore platonico” sostanzialmente irreciproco da cui sono partita e a cui a breve tornerò alla luce del percorso guadagnato. Cosa si esprime infatti nel gesto dell’erastès nei confronti del pais se non la volontà di isolare un inizio, di separare l’archè, il punto di avvio dell’amore, dall’amarsi effettivo e cioè sempre reciproco, anche per Platone, indubbiamente? È come se Platone volesse rendere visibile e metterci sotto gli occhi, trascinandolo nella theorìa, il “principio” invisibile dell’amore, ciò da cui parte la trasformazione originaria, quasi una nascita

50. Ivi, 50, 1-10. (Trad. it. p. 220).

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(anche per questo vicina all’epoca della prima giovinezza in cui il ragazzo è pais), in base alla quale l’amato diventa a sua volta amante, ma amante in modo assoluto, amante di una trascendenza, amante del principio stesso dell’amore – del principio epèkeina tes ousìas, principio oltre ogni ousìa nel senso per cui è da essa separato. In poche parole, è come se Platone volesse isolare e salvare come neutro, come indifferente alla differenza, ciò che nell’esperienza è già da sempre “contaminato”, e cioè il momento in cui occorre imparare ad amare l’amare stesso, il fatto stesso di poter amare, riuscendo così a rivolgersi, direi onticamente, verso il principio da cui proviene la possibilità concreta di ogni amore a venire (la “moltitudine”, per usare l’espressione di Proclo). Ma questo gesto resta, come tale, un gesto inaudito, cui è possibile dare solo il significato della finzione, perché è impossibile insegnare all’altro a diventare amante (amante in assoluto, dell’assoluto) – e quindi amare veramente l’altro – senza produrre in lui, contemporaneamente, la trasformazione per cui questi, diventando amante del Bene, diviene anche, da amato, amante del suo amante, rendendo così, quest’ultimo, amato. La teoria dell’“amore platonico”, sembra così contenere la pretesa iperbolica di iscrivere e allo stesso tempo cancellare la traccia sempre sensibile dell’amore del primo amante, di affermarla per cancellarla. Il primo amante resta ragguardevole nella vita erotica del futuro amante perché è colui che non vuole restare per sé, ma per testimoniare altro, un bene più altro, totalmente altro e più alto. In breve, al primo amante compete l’iscrizione principiale nell’anima e/o nel corpo del pais (la differenza qui incide poco), dell’“amare l’amare”, iscrizione che deve precedere l’arrivo del volto dell’altro da amare. Iscrizione prima dell’iscrizione, archi-scrittura dunque: pur essendo contemporanea al gesto che la produce e da esso inscindibile, questa iscrizione ha infatti la pretesa di stac-

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carsi da sé, di staccarsi dal suo tempo e valere come l’origine separata dalla propria “occasione” concreta. E tuttavia non possiamo chiudere qui il discorso, perché questa pur necessaria lettura decostruttiva dell’“amore platonico” non può essere la ratifica finale. Il finale dell’Alcibiade I sconvolge, infatti, non tanto l’assetto di questo piano del discorso, ma il suo senso complessivo, mettendoci sotto gli occhi una potente auto-decostruzione.

VI Ritorniamo al passo precedente (105 d 2 - 106 a 1). È interessante notare il modo in cui si impongono diverse sfumature di potere/possibilità (dynamis) in relazione alla speranza (elpìs). Socrate non solo accede alla speranza che dimora nel cuore di Alcibiade e in nome di questa bella speranza si dichiara suo amante, ma spera a sua volta e mette a confronto le due speranze come se esse fossero destinate a incrociarsi. La sequenza del testo lo rivela: Come tu (hosper sy)”, dice ad Alcibiade, “riponi le tue speranze (elpìdas) nella città, pensando di mostrare che hai grandissimo valore per essa e dopo averlo dimostrato speri di potere avere subito un grandissimo potere (dynesesthai), così io spero (elpìzo), dal canto mio, di avere moltissimo potere (meghiston dynesesthai) presso di te (parà soi) una volta che ti avrò mostrato quanto io ti sia prezioso51.

Le due speranze sono entrambe in vista dell’acquisizione di un potere, una potenza, una dynamis. Alcibiade spera di ot51. Platone, Alcibiade I, cit., 105 e 1- 6. (Trad. it. p. 527). Questo passaggio del dialogo mostra in modo netto il mantenersi della reciprocità all’interno dell’asimmetria.

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tenere una potenza che somiglia alla gloria, Socrate spera di avere moltissimo potere presso Alcibiade. Mentre precedentemente era stato possibile guadagnare la comune condizione di Socrate e Alcibiade, il loro essere egualmente (anche se non ancora reciprocamente) erastài mettendo in relazione l’Alcibiade I con il Simposio, qui non compare ancora la reciprocità, ma compare, nell’incrocio delle speranze descritto da Socrate, il loro comune statuto di amanti. Amanti, insieme, nell’Alcibiade I. È importante soffermarsi sulla speranza di Socrate e sul tipo di potere cui essa aspira: il potere su un cuore. Mi è impossibile non pensare alla “tacita forza del potere amante”52 che per Heidegger descrive la possibilità autentica e che sembra provenire direttamente da questo preciso punto dell’Alcibiade I. Nel particolare potere ricercato da Socrate viene chiamato in causa un potere sull’essere dell’altro che non tocca, non depreda, non accumula e non si impossessa di niente, ma lasciando essere l’altro favorisce quell’essere l’uno per l’altro,

52. Vale la pena di ricordare il celebre passaggio della Lettera sull’umanismo. Heidegger scrive: «Prendersi a cuore una “cosa” o una “persona” nella sua essenza vuol dire amarla, volerle bene (Sich einer “Sache” “oder einer Person” in ihrem Wesen annehmen, das heisst: sie lieben: sie mögen). Pensato in modo più originario, questo bene significa donare l’essenza (das Wesen schenken). Questo voler bene (Mögen) è l’essenza autentica del potere (Vermögen) che può non solo fare questa o quella cosa, ma anche lasciar “essere presente” (wesen) qualcosa nella sua provenienza (Her-kunft), cioè far essere. È il potere del voler bene ciò “in forza di cui” qualcosa può essere. Questo potere è il “possibile” autentico (das eigentlich “Mögliche”), quello la cui essenza sta nel voler bene. A partire da questo voler bene l’esssere può (vermag) il pensiero. Quello rende possibile questo. L’essere come ciò che vuole bene e che può (das Vermögend-Mögend), è il “possibile” (das Mögliche). L’essere in quanto elemento è la “tacita forza” del potere che vuole bene, cioè del possibile». Lettera sull’“umanismo”, a.c. di F. Volpi, Milano, Adelphi 1976, pp. 35-36). (Gesamtausgabe Bd. 9, Wegmarken, Vittorio Klostermann, Frankfurt a. M. 1996, pp. 316-317).

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nel cui spazio può darsi ogni altra possibilità e ogni altra potenza. È in nome di questa particolare “potenza” senza esercizio possibile che Socrate potrà ambire ad insegnare ad Alcibiade l’epimèleia heautou. Come se il potere su se stessi dato dalla conoscenza di sé fosse un dono fatto, dono dato, dal cuore dell’altro. Questo rivela infatti l’ultima parte del testo su cui mi concentrerò in vista della conclusione. Non mi soffermo sulle pagine, per così dire, “didascaliche”, in cui emergono l’ignoranza e l’inadeguatezza di Alcibiade rispetto alle sue belle speranze che paiono, così, folli, e il timore di Socrate che si dice turbato per lui e per il proprio amore (Aganaktò hyper te sou kaì tou emautoù eròtos)53. Questa parte, che ha lo scopo di condurre al messaggio di Socrate: “conosci te stesso”54, concerne, come è noto, la necessità di identificare l’utile con il giusto, e la necessità di una “competenza” specifica per affrontare l’agone politico. Questa competenza ricercata coincide con un particolare “impegno” (epimèleia) ed una particolare “abilità (techne)”55. “Qual è questo impegno da mettere in atto (tina oun chre ten epimèleian, ho Socrates, poieisthai?)”56, chiede Alcibiade. Nella lunga risposta di Socrate emerge che questa particolare epimèleia è la cura di sé, al fine di diventare migliori, cura che è inevitabilmente connessa alla conoscenza di sé (“Conosci te stesso”). Ma insieme a questo emerge anche altro, e cioè viene fuori la “condizione di possibilità” di questo “diventare migliori”. Questa condizione di possibilità è la koinè boulè, la

53. Platone, Alcibiade I, 119 c 6. 54. Ivi, 124 b. 55. Ivi, 124 b 2-3. 56. Ivi, 124 b 6. (Trad. it. p. 567).

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decisione comune per diventare migliori57. La mia tesi è che questa esigenza di “comunità”, non solo interrompe il piano “pedagogico” per rilanciare quello propriamente erotico, ma iscrive in questo piano una reciprocità che comincia a preparare quella condizione dell’essere “amanti”, al cui interno avviene la trasformazione dell’amato in amante e dell’amante in amato e che rinvia all’apparizione improvvisa delle mani dal ramo fiorito attestante il miracoli, stando a Lacan. Sono consapevole, tuttavia, che si potrebbe ancora obiettare che non esiste modello educativo che non implichi una “crescita” reciproca, una modificazione, tanto nel maestro quanto nell’allievo. A questa obiezione tenterò di rispondere esibendo la metabolè tou schematos citata da Socrate alla fine del dialogo, che presenta un’iperbole di reciprocità, una sorta di deriva mimetica che va verso la sostituzione dell’uno rispetto all’altro: elemento che incrinerebbe qualunque sistema pedagogico. Il dialogo fra Socrate e Alcibiade conosce uno snodo e un rilancio significativo nel momento in cui viene accolto che il luogo di sé, e cioè il luogo in cui si è se stessi è l’anima (“non potremmo dire che alcun’altra cosa è padrona assoluta di noi stessi più dell’anima”58). Ma la centralità dell’anima, cuore dell’insegnamento platonico, è qui interamente funzionale al discrimine fra il vero amante e il cattivo amante. Fra Socrate e la moltitudine. È il caso di seguire il testo in quest’ultima sua parte decisiva. - Dunque, colui che ci ordina di conoscere se stesso ci ordina di conoscere l’anima.

57. Cfr. ivi, 124 b 6-11. Essa è detta anche “riflessione comune (skeptèon koinè)” alla linea 124 d 9. 58. Ivi, 130 d 3-6. (Trad. it. p. 583).

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- Così pare. - E colui che conosce qualcuna delle parti del suo corpo conosce le cose che sono sue (ta autou), ma non conosce se stesso (all’ouch hautòn)59.

Il discrimine fra le “cose proprie” e il “se stesso” viene spiegato tramite un esempio non neutro rispetto alla condizione dei dialoganti: - Se qualcuno è stato amante del corpo di Alcibiade, non amò Alcibiade, ma qualcosa di ciò che appartiene ad Alcibiade. - Dici il vero - E invece, ti ama colui che ama la tua anima? - Sembra inevitabile in base al tuo discorso. - E non è forse vero che colui che ama il tuo corpo, quando cessa il suo fiorire, se ne va? - Non è vero che colui che ama l’anima non la lascia finché prosegue per la via del miglioramento? - Dunque io sono colui che non se ne va (egò eimi ho apiòn), ma resta (allà paramènon) quando il corpo cessa il suo vigore, e tutti gli altri se ne sono andati. - E fai bene, o Socrate; e non andartene (medè apèlthois). - Allora cerca di essere il più bello possibile. - Certo, mi impegnerò60.

La ragione del non allontanamento di Socrate, con cui si apre il testo, ritorna alla fine e si approfondisce con la scoperta della cura dell’anima, che è un impegno che richiede l’intera vita e richiede, soprattutto, un amore a lungo termine; non il fuoco di un giorno di primavera, ma un tempo lungo in cui l’amore 59. Ivi, 130 e 6-10. 60. Ivi, 131 c 5- 131 d 8. (Trad. it. p. 585).

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si mantiene nella fiamma spenta divenuta cenere. Misurato rispetto a questa capacità, al cospetto di questa tenuta, Socrate risulta, così, il vero ed unico amante di Alcibiade: - Le cose dunque stanno così per te: non ci fu, a quel che sembra, innamorato (erastès) di Alcibiade figlio di Clinia, e non ce n’è se non uno solo, ed è uno desiderabile (agapetòs), Socrate figlio di Sofronisco e Fenarete. - Vero. - Non dicesti che ti avevo prevenuto di poco venendo da te, perché volevi venire tu da me per primo per sapere per quale ragione io solo non me ne andavo? - Era così - Questa sola era la ragione, perché io ero innamorato di te (monos erastès en sos), mentre gli altri lo erano delle tue cose (oi d’alloi ton son): e mentre le tue cose smettono il loro momento felice, tu invece cominci a fiorire. E d’ora in poi se non ti lasci guastare dal popolo ateniese e non diventi meno bello, non intendo abbandonarti: infatti questo io temo più di tutto: che tu diventato l’amante del popolo vada in rovina61.

La costruzione della sequenza argomentativa dell’ultimo passo (io ero innamorato di te, mentre gli altri delle tue cose...) si rivela identica a quella della scena del Simposio in cui Alcibiade si contrappone ai molti che vedono solo l’aspetto esteriore di Socrate, maieutica compresa; lui, di contro, vede gli agàlmata nascosti nella sua anima. C’è la soggettività dei molti e, di contro, la sintassi marca la soggettività dell’amante. La differenza fra l’uno e i molti è qui trasfigurata nella differenza fra il vero amante e i tanti amanti facenti parte della serie. Il vero amante impone in entrambi i casi la differenza.

61. Ivi, 131 e - 132 a 1-4. (Trad. it. pp. 585-587).

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VII Rivelatosi ad Alcibiade come vero amante e incalzato da quest’ultimo che chiede come, praticamente, ci si prende cura dell’anima, Socrate tira fuori la metafora dell’occhio. Ricostruisco in breve il suo ragionamento: se il monito “conosci te stesso” fosse stato rivolto al nostro occhio, a quella parte dell’uomo che è la vista, dunque, come se questa potesse esprimere il tutto dell’uomo, che senso avrebbe avuto l’esortazione? Non avrebbe forse spinto, dice Socrate, “a guardare quella cosa guardando alla quale l’occhio avrebbe visto se stesso?”62. Ora, l’oggetto guardando il quale guardiamo anche noi stessi, questo oggetto fatto come uno specchio, è proprio l’occhio, perché “quando guarda nell’occhio il volto si riflette nello sguardo di chi si trova di fronte come in uno specchio”. Questa funzione di specchio, dice Socrate la “chiamiamo anche pupilla (kore), dato che è come un’immagine di chi guarda (eidolon on ti toù emblèpontos)”63. Utilizzando una definizione di Jean-Luc Marion concernente lo statuto dell’icona, potremmo dire che la pupilla è lo “specchio visibile dell’invisibile (miroir visible de l’invisible)”64, è cioè il luogo in cui si raccoglie, diventa visibile, ciò che, senza questa esposizione in altro, resterebbe all’oscuro, senza visibilità per sé. Come l’occhio, “se ha intenzione di guardare se stesso (ei mellei idèin), deve guardare in un occhio (eis ophthalmòn autò bleptèon) e in quel punto dell’occhio nel quale si trova a risiedere la virtù propria dell’occhio”65, e cioè nella pupilla in cui si

62. Ivi, 132 d 1-9. (Trad. it. p. 587). 63. Ivi, 132 e 7- 133 a 3. 64. Cfr. J.-L. Marion, Dieu sans l’être, Puf, Paris 1982, p. 32. 65. Platone, Alcibiade I, 133 b 1-3. (Trad. it. p. 589).

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raccoglie la vista, allo stesso modo, l’anima, se vuole conoscere se stessa per poter prendersi cura di sé, deve guardare a un’altra anima. E precisamente a quella parte dell’altra anima in cui si raccoglie la saggezza66. L’anima esprime la vita del vivente, e una volta raggiuntala si apre l’accesso all’intero del vivente, ma questo cuore del vivente è un luogo non solo cavo ma anche inaccessibile; esso si riempie di forme e diventa così visibile solo quando l’anima si rispecchia in un’altra anima. Questo vuol dire che Platone decostruisce il platonismo, perché l’anima non è il luogo di sé se non nel rispecchiamento cui essa può dar luogo, cogliendosi in un’altra anima. Quel vedere solitario, a parte, nell’invisibile del cuore, che caratterizzava tanto l’amore di Socrate quanto quello di Alcibiade (fra Alcibiade I e Simposio), presi separatamente come amanti l’uno dell’altro ma non ancora uno per l’altro, conosce così un crescendo di intensità, fino a diventare la condizione dell’intellegibilità del sé di chi guarda. Come dire che vedendo gli agàlmata di Socrate, Alcibiade vede e conosce Alcibiade67. Una traccia di questo era già percepibile nel fatto che vedere le immagini meravigliose dentro Socrate costituiva per Alcibiade un modo per cogliersi nella differenza rispetto agli altri (oi men… ego de). Ma ora è al sé in persona, all’“in quanto tale”, al “come tale” del sé che mira il discorso, ed esso rivela che l’accesso al sé, alla propria anima, dunque, è un dono ricevuto di riflesso, dal rispecchiarsi di quest’anima nel luogo di sé di un altro, ovvero, nell’altrui anima. Se il sé disponesse già di sé, se l’anima dell’altro intervenisse solo per confermare, per notificare, a questo sé ciò che esso sa

66. Cfr. ivi, 133 b 6-9. 67. Amare, quindi, per Platone non è solo “uscire da se stessi”, come scrive L. Robin ne La teoria platonica dell’amore (trad. it. di D. G. Porta, Celuc, Padova 1973, p. 254), ma anche rientrarvi.

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già di essere, e viceversa, potremmo tranquillamente parlare, a proposito di questa relazione, di intersoggettività. Ma posto che in questo rispecchiamento si tratta di “dare ciò che non si ha a qualcuno che non sa di chiederlo”, parafrasando Lacan, la nozione di “intersoggettività” si rivela angusta e poco perspicua. Credo che più pertinente si riveli l’impiego di quella di “interdonazione”, proposta da Jean-luc Marion alla fine di Dato che68. Inter-donazione vuol dire che ciascuno consente all’altro di accedere a se stesso nel senso che ciascuno dona all’altro l’accesso a quel se stesso che l’altro non possiede perché non può essere “avuto” come una cosa fra le cose, come precisa la distinzione fatta da Socrate fra il “tu” di Alcibiade e le “sue cose”. L’impiego di questa nozione si rivela utile anche guardando al fatto che il rispecchiamento ammette dei gradi: se infatti la parte migliore dell’anima è uno specchio buono in quanto essa somiglia al dio, che sarà mai rispecchiarsi in quello specchio costituito dal dio stesso, che è “più puro (katharòtera) e più luminoso (lampròtera) della parte migliore che si trova nella nostra anima?”69. Che l’uomo possa ricevere la propria immagine dal dio, non può essere spiegato ricorrendo alla nozione di “intersoggettività”, in quanto per il Greco non c’è principio

68. Scrive Jean-Luc Marion: “Questa situazione, ancora inesplorata [l’interdonazione] non permette e non esige soltanto di riprendere la tematica dell’etica – del rispetto e del volto, dell’obbligazione e della sostituzione –, e di confermarne la piena legittimità fenomenologica. Forse essa autorizza anche ad abbordare ciò cui l’etica non può pervenire: l’individuazione d’altri. Perché io non voglio né devo soltanto considerarlo come il polo universale e astratto della contro-intenzionalità, in cui ciascuno può prendere il volto del volto, ma raggiungerlo nella sua insostituibile particolarità, in cui si mostra come nessun altro altri potrebbe fare. Questa individuazione ha un nome: l’amore”. Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione, trad. it. di R. Caldarone, SEI, Torino 2001, pp. 394-395. 69. Platone, Alcibiade I, 133 c 9-11. (Trad. it. p. 589).

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comune tra l’uomo e il dio, talmente abissale è la separazione. Ma la separazione può, tuttavia, essere intesa come rapporto. Ora, rispetto alla nozione di “intersoggettività” che suppone un piano di immanenza orizzontale in cui l’uomo e il dio non potrebbero platonicamente venire a trovarsi, la nozione di “interdonazione” consente di salvare tanto la separazione ontica quanto il rapporto con l’incommensurabile. Che l’uomo possa ricevere il suo sé guardando al dio, infatti, non implica che fra l’uomo e il dio venga abolita la differenza, questo radicalizza, semmai, il dato centrale dell’epimèleia heautoù per cui è solo aprendosi alla differenza che l’identità può pervenire a sé. Utilizzare il concetto di “interdonazione” per leggere l’epimèleia heautou vuol dire anche, infine, liberare definitivamente l’eros dell’Alcibiade I dalle due ipoteche: la pedagogia e la politica, alle quali è stato lungamente sottoposto e restituirlo a quello che sin dall’inizio appare essere: un frammento della storia d’amore fra Socrate e Alcibiade, e che alla fine si rivela essere: l’elaborazione di una precisa, radicale, teoria dell’amore. Ora, l’attribuzione al dio della funzione di specchio ha in relazione a questa teoria delle conseguenze rilevanti: la migliore qualità del rispecchiamento consentito dal dio corrisponde infatti a una più produttiva ricettività donatrice della forma del sé altrui. Se leggiamo, come propongo, a partire dall’eros la dinamica interna dell’epimèleia heautoù, tale per cui l’anima che fa da specchio è quella del vero amante, non possiamo escludere il dio, lo specchio più puro e nitido, dall’eros. Risulta inevitabile allora ammettere che il dio risulta anche il migliore amante e questa conseguenza logica produce una scheggia che non può non muovere, non innescare una tensione nelle presunte “braccia avare” del motore immobile, rimes-

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se in gioco dalla configurazione dell’eròmenos70. La struttura della passività amante di Socrate che diventa lo specchio di Alcibiade chiede infatti di essere riconnessa al dio che realizza al meglio la stessa azione di Socrate. Il fatto che questa azione sia in realtà l’esercizio di una passività, attenua forse il “paradosso” di un “dio amante” per un Greco, ma contribuisce a svelare una dinamica erotica in cui la fissità dei ruoli erastès/ eròmenos subisce una scossa che arriva all’hos eròmenon. Accade infatti che l’eròmenon risulti essere il miglior amante71… Quella reciprocità che cominciava a profilarsi nella koinè boulè invocata da Socrate, che disancorava Alcibiade dai panni dell’eterno allievo, apprendista, sottomesso, si afferma e si lega alla fine a un’iperbole mimetica, con il metabalèin to schema. Ripropongo i due passaggi insieme per mostrare l’accentuazione del secondo rispetto al primo: Socrate: Si ma la decisione sul modo in cui potremmo diventare migliori deve essere comune (koinè boulè). Io infatti non sto parlando del fatto che bisogna ricevere un’educazione, riferendomi a te (perì men sou), e a me invece no (perì emoù de ou); non c’è nulla infatti in cui io differisca da te (ou gar esth’hoto sou diaphero), se non in una cosa. Alcibiade: In cosa? Socrate: Il mio tutore è migliore e più saggio di Pericle, il tuo [124 b 8-14].

70. Cfr. p. 3. 71. Il coinvolgimento del divino nella visibilità del sé rende molto riduttivo parlare di “retorica della seduzione” a proposito della metafora dello specchio. Per questo non concordo con la tesi di F. Renaud. Cfr. La conoscenza di sé nell’Alcibiade I e nel commento di Olimpiodoro, in Interiorità e anima. La psyché in Platone, Vita e Pensiero, Milano 2007, p. 238.

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* Alcibiade: […] io dico questo, che rischieremo di scambiarci la figura (metabalèin tò schema), o Socrate, io la tua e tu la mia (to men son egò, sy dè toumòn); infatti a partire da questo giorno non è possibile che io non ti segua come un pedagogo segue un bambino, mentre tu sarai seguito da vicino da me come dal maestro (ou gar estin hopos ou paidagoghèso se apò tesde tès hemèras, sy d’hyp’emoù paidagoghèse). Socrate: Nobile Alcibiade72, il mio amore non differirà allora in nulla da quello della cicogna, se dopo aver allevato nel tuo animo un amore alato, sarà a sua volta (palin) oggetto delle cure di quest’ultimo [135 d 7 – 135 e 3. Trad. it. parz. mod.].

Alla fine del dialogo, è Alcibiade a trarre la conclusione radicale che come una calamita attirava già a sé l’intero. Socrate accetta questa conclusione ritrovandovisi e tirando fuori la storia della cicogna che rincara il senso di una reciprocità finalmente piena, riconosciuta73. La conclusione è che a partire da un giorno decisivo (tès hemèras), da un adesso che ricapitola il senso del loro amore, Alcibiade è come Socrate e Socrate è come Alcibiade74. Questa identica condizione, raggiunta parità, fa sì che essi possano “scambiarsi la figura”, invertire cioè lo “schema” maestro/allievo che ha, come sappiamo, una precisa connotazione erotica nell’idea comunemente accetta72. È interessante notare che alla fine del dialogo Socrate riconosce ad Alcibiade quella nobiltà inizialmente ritenuta un pretesto che non favorisce la sua crescita interiore (cfr. 104 a 6-8). Alcibiade ritorna, dunque, ciò che veramente è, dopo la koinè boulè. 73. Secondo un’antica credenza le giovani cicogne prestavano assistenza alle vecchie da cui erano state allevate in precedenza. 74. La teoria dello “scambio di figura” è affidata alle battute di Alcibiade. Ora, di Alcibiade Plutarco dice che per quanto egli fosse straordinariamente bello, forte, intelligente, ricco, altero, nobile, la sua dote veramente incomparabile consisteva nel fatto che “egli sapeva imitare tutto ugualmente bene”. Vite parallele, Vol. I, trad. it. di C. Carena, p. 535.

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ta di “amore platonico”. Ma scambiarsi la figura non vuol dire appiattire la differenza, vuol dire, piuttosto, riconoscere di somigliarsi, di essere entrambi amanti, là dove “amanti” questa volta significa entrambi amati ed entrambi amanti allo stesso tempo, erastài ed eròmenoi, attivi e passivi allo stesso tempo, maestri e allievi allo stesso tempo75. Oltre a disambiguare il mito dell’“amore platonico”, lo “scambio di figura” induce a riflettere sull’esser-come-l’altro dell’amore e sulle sfide che esso pone a un pensiero della “differenza di genere” e della “differenza sessuale”. L’esperienza di Alcibiade e Socrate mostra che l’amore è sempre amore dell’altro, e poco importa che in questo caso specifico si tratti di una coppia omosessuale – la differenza, con tutte le sue asperità e i suoi passaggi, è salva in questa storia che in ragione di questo si mantiene a pieno titolo nell’eterosessualità. Eterosessualità nell’omosessualità. Ma l’amore può fermarsi all’affermazione della differenza? Lo “scambio di figura” di cui parla Alcibiade include nella differenza la sostituzione dei ruoli, ma la sostituzione indebolisce la differenza facendo in modo che essa non valga più come un “assoluto” indecostruibile - è nell’eros, infatti, che la differenza si costruisce e si decostruisce. L’eros decostruisce la differenza sessuale perché la istituisce sempre da capo; ciò vuol dire che l’amore assegna a posteriori l’a-priori dei sessi a se stessi, e che quindi la differenza sessuale non gli è preliminare

75. L’“homme du désir” e il “Maître perfetto” destinati a non incontrarsi mai, per dirla con J. Lacan e B. Moroncini (Cfr. B. Moroncini, op. cit., p. 169), nell’Alcibiade I si incontrano realmente, godono, dunque, di un’altra chance, come accade realisticamente agli amanti.

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ma successiva76. Questo spiega forse la particolare ammirazione degli dèi nei confronti di Achille.

76. Questa tesi non somiglia affatto a quella prospettata in precedenza (cfr. p. 2), secondo cui il pais, l’eròmenos dell’“amore platonico” inizialmente configurato, entra nel rapporto con il suo erastès a partire da una sessualità ancora indecisa e neutra anteriore alla costituzione della “differenza sessuale”. A partire dalla reciprocità piena suggerita dal “cambio dello schema”, cambia radicalmente anche il modo di intendere la differenza fra i sessi ed il rapporto fra quest’ultima e la relazione erotica. Mi vengono incontro, più adeguate che mai, queste parole di Jean-Luc Nancy cui il mio pensiero si avvicina: «La differenza dei sessi non è la differenza tra due o più cose, di cui ciascuna sussisterebbe di per sé in quanto “una” (un sesso): non è né come una differenza di specie, né come una differenza di individui, né come una differenza di natura, né come una differenza di grado. È la differenza del sesso, in quanto questo differisce da sé. Il sesso è, per ogni vivente sessuato e sotto ogni aspetto, l’ente che differisce da sé [différent de soi]: differisce in quanto si differenzia secondo i gradienti molteplici e le fasi intricate denotate con “maschile/femminile, omo/etero, attivo/passivo ecc.”, e differisce in quanto la specie vi demoltiplica indefinitamente le singolarità dei suoi “rappresentanti”. Bisogna dire, dunque, che non c’è una differenza dei sessi, ma c’è innanzitutto e sempre il sesso che si differisce. E il sesso che si differisce deve essere pensato come rapporto, non perché consista in un rapporto con questo o quello (per esempio, un altro sesso), ma in quanto esso stesso è il rapporto, cioè il “rapportarsi”, o ancora il socchiudersi [l’entr’ouvrir] del tra, del “tra-noi” o dell’intimità: il sesso che si differisce è la spaziatura dell’intimità». Il «c’è» del rapporto sessuale, trad. it. di G. Berto, SE, Milano 2002, pp. 31-32. A partire dalla parità e dalla reciprocità instaurata dal “cambio dello schema”, ed utilizzando la riflessione di Nancy, si potrebbe forse dire che erastès/eròmemos entrano nel rapporto (che è differenza ma anche indifferenza) e al suo interno ri-sessuano le loro identità.

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Verso “un’altra differenza sessuale”

I Alla domanda di Christie V. Mc Donald che gli chiede di descrivere il “posto per la donna”1, Jacques Derrida risponde in modo spiazzante, ben consapevole di prestare il fianco a un’accusa prevedibile2, che non solo non c’è un posto per la donna (pas de place pour la femme), ma che bisognerebbe anche rifiutare un certo pensiero del luogo e del posto e “danzare altrimenti”3. La rinuncia al luogo, alla posizione, trova nella danza un riferimento preciso, in quanto la danza è “atopica”: “la danza cambia i posti. Dopo il suo passaggio i luoghi non si riconoscono più”4. Confesso di intravedere un legame forte fra i passi di danza invocati da Derrida, indicanti un’alternanza che resiste alla fis1. J. Derrida, Chorégraphies, in Points de suspension, Galilée, Paris 1992, p. 95. 2. Ivi, pp. 99-100. 3. Ibidem 4. Ivi, p. 100.

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sità delle formalizzazioni e che indirizza, in forza di ciò, verso un’“altra differenza sessuale” non determinata da “posizioni”, e lo “scambio di figura” proposto da Alcibiade. Innescando movenze simili a quelle introdotte dalla danza, esso sovverte infatti i ruoli di amante e amato nel senso che sopprime proprio “la formalizzazione stabile” nella coppia erastès/eròmenos, aprendola così al divenire, al passaggio, alla sostituzione dell’uno con l’altro (“Si ma la decisione sul modo in cui potremmo diventare migliori deve essere comune. Io infatti non sto parlando del fatto che bisogna ricevere un’educazione, riferendomi a te, e a me invece no; non c’è nulla infatti in cui io differisca (diaphero) da te […]”)5. L’auspicio di “inventare coreografie incalcolabili”6 che, ispirate all’atopia della danza e alla molteplicità dei suoi passi, potrebbero condurci verso “l’altra differenza sessuale”7, ha come bersaglio polemico “la determinazione della differenza in opposizione”8, ecco perché la dualità, in cui solitamente alberga questa particolare determinazione della differenza, dovrebbe perdere il suo primato e forse anche la sua ragion d’essere di cifra archetipica della relazione. Volendo neutralizzare “l’opposizione” per salvare la dissimmetria dentro la differenza sessuale, a Derrida appare congruo rilanciare, allora, un’altra differenza “che non sarebbe dualità sessuale, differenza come duale”9. Questo rilancio si sviluppa in un tempo lungo, e prende la forma di un viaggio ricchissimo all’interno delle opere di Mallarmé, Levinas, Genet, Hegel, Nietzsche,

5. Alcibiade I, 124 b10- 124 c 1-5. 6. Chorégraphies, cit., p. 115. 7. J. Derrida, Geschlecht, in Psyché. Invenzioni dell’altro, Vol. 2, trad. it. di R. Balzarotti, Jaca Book, Milano 2009, p. 37. 8. Chorégraphies, cit., p. 106. 9. Ibidem

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Heidegger, Barthes, Blanchot, che scandiscono anche le fasi dell’avanzamento della questione. Mi pare importante chiarire, tuttavia, perché affronto questo tema scegliendo come guida Derrida. La risposta a questa domanda contiene qualcosa di scontato: Derrida ha sempre ribadito la marcatura sessuale di ogni discorso sedicente neutro, qualunque fosse la sua provenienza. Ma questa spiegazione, che sembra semplice e giusta fino all’ovvietà, risponde solo in parte alla domanda e rimane sostanzialmente vaga nel fondo. La mia scelta punta piuttosto a mostrare un certo approccio sommerso alla questione della differenza sessuale, cui Derrida permette di riaffiorare. La messa in evidenza di questo approccio, che non solo potrebbe annoverare fra le sue condizioni di verificabilità lo “scambio di figura” descritto da Alcibiade, ma anche trovare in esso il suo avvio, mira a riconoscere e a valorizzare una certa ritrazione, la concessione fatta a una neutralità sessuale (né l’uno né l’altro sesso) che precede e accompagna lo scandirsi della differenza e che si pone dunque agli antipodi del cosiddetto “fallogocentrismo”. Dentro questo sfondo, la scelta di Derrida è la scelta per una particolare angolazione di apertura della questione: egli si pone nell’ottica di un superamento della “differenza sessuale” e traccia al contempo, ma senza un’esplicita intenzione di raccordo, una piccola contro-storia dell’“altra differenza”, in grado non solo di contenere ma anche di significare e di amplificare il “dato” per me centrale costituito dallo “scambio di figura”. Derrida, in breve, articola un discorso sulla “differenza sessuale” individuando in essa un problema che fa posto a quel tipo di “soluzione” offerta a mio avviso dal “scambio di figura”. Per questa spaziosità che il suo testo offre al mio tema, per il dono della domanda, il capitolo comincia con lui.

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Non va certo dimenticato che la necessità di ripensare la differenza sessuale “indebolendo” anche l’istanza identitaria del femminile, in vista di un diverso approccio alla questione del “genere”, raccorda fra loro molte filosofe femministe contemporanee fra le quali spicca il nome di Judith Butler. Per quest’ultima, la marcatura femminile che gli studi di genere hanno ad oggi non deve venire compresa, come nel passato, alla luce di un desiderio di riconoscimento funzionale all’affermazione identitaria del genere femminile ma, posto che, come sosteneva S. De Beauvoir come la Butler stessa accoglie e ripete, “donna non si nasce, lo si diventa”, il “divenire donna” deve poter diventare la traccia di un poter “divenire altro” accordabile ad ogni genere, al fine di disfare la pretesa di compiutezza e chiusura del “genere”10. Proprio il paradigma di regolazione del desiderio fornito dal riconoscimento subisce dunque una forte incrinatura perché suppone che l’identità di genere venga a sé, si eriga, per il tramite dell’opposizione a un altro genere già rigidamente costituito e dato come normativo. Ma posto che la normatività di genere è l’impossibile stesso, il riconoscimento viene svuotato del suo senso. In linea con questo tipo di critica dell’identità che non risparmia “il femminile”, nella misura in cui quest’espressione indica una posizione raggiunta per opposizione che insiste sulla demarcazione rigida dei generi, il mio lavoro mira alla ricerca delle somiglianze e cerca le differenze all’interno delle somiglianze (fra i generi). Questo ha delle ricadute ermeneutiche evidenti e radicali: la messa in discussione della portata definitoria del “genere” obbliga infatti a prendere in considerazione il fatto che non disponiamo più di un discorso filosofico unilateralmente sessuato; non c’è dunque un solo “fallogocentri-

10. Cfr. J. Butler, Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, trad. it. di S. Adamo, Laterza, Firenze 2013.

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smo”, quello maschile, non c’è un’esclusione nettamente marcata (e cioè da parte di un genere nei confronti di un altro), non ci sono figure “femminili” da recuperare contro e nonostante una tradizione. Ciò significa dover prendere atto della costante auto-decostruzione del discorso filosofico già a partire dalla sua origine metafisica. Ora, l’auto-decostruzione della metafisica contiene anch’essa una sua marcatura sessuale, che a me pare di rintracciare nello “scambio di figura” dell’Alcibiade I, ma va immediatamente osservato, in via preliminare, che questa particolare “marcatura” si presenta già come la decostruzione di una decostruzione. Come la decostruzione, cioè, di quella decostruzione della marca sessuale per la quale non occorre certo attendere l’Alcibiade I, perché essa è operante nel linguaggio, nella letteratura, nel costume che Platone eredita. In cosa consiste questa decostruzione preliminare che sta alla base della seconda e che da quest’ultima viene valorizzata al massimo e al tempo stesso decostruita? In una dislocazione della marca sessuale dal suo luogo naturale di apparizione nel corpo, alla relazione in cui effettivamente essa compare, relazione, questa, massimamente rappresentata dall’eros. Più chiaramente: l’identità dei partner prende la sua connotazione sessuale specifica non dal sesso cui essi sono legati in loro stessi per natura, ma dal “ruolo” e di conseguenza dal nome nuovo che essi assumono nella relazione erotica. Ora, questo nome nuovo che ridefinisce il senso d’essere di ciascuno, questo nome/ruolo che “porta” il genere, nel senso che lo regge e lo manifesta, è quello fornito dalla coppia oppositiva amante/ amato, erastès/eròmenos. Ciò vuol dire che la coppia amante/amato ha il potere di spiazzare la radicazione del rapporto erotico nella differenza sessuale naturale e di assorbire in sé e di significare nuovamente il senso delle opposizioni maschio/ maschio, maschio/femmina, femmina/femmina, sospendendo la loro caratterizzazione naturale e rigenerandone la forma. In forza di questa dislocazione, la “natura” si trova prima neu-

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tralizzata e poi ripresa all’interno di un ordine non naturale che le permette di vivere di vita (im)propria. Le conseguenze di questa operazione gravano, come vedremo, sia sul discorso platonico sia sulla questione contemporanea della “differenza sessuale”.

II La portata radicale di questa operazione di ri-scrittura e di ri-nominazione dell’identità naturale è accostabile a quel che viene descritto in modo efficace e parossistico da Jean Genet, e che Derrida cita in Glas, nello scambio delle voci che caratterizza questo testo senza genere stilistico proprio. Così leggiamo fra le colonne alternate di Derrida/Genet: Si può fare a meno del nome? Distaccato: come il più grande stelo/stile. La ferita, lo slegamento, certo, ma anche la delega(gazione) rappresentativa, l’invio di un distacco […] Con questo distacco, rielaborare, come problema della firma autografa, della firma e del nome della made, l’alternativa del formalismo o del biografismo, l’inenarrabile e così classico problema del soggetto in letteratura. «Così, agli occhi della stordita Notre-Dame, le piccole checche di Blanche a Pigalle perdevano il loro ornamento più bello: i loro nomi perdevano la corolla, come il fiore di carta che il ballerino tiene tra le dita e che, alla fine del balletto, è solo un gambo di ferro. qui il fil di ferro, tra le dita sostiene il fiore di carta: nella sua erezione e nella sua apparenza, il tempo di un balletto. Ma è anche ciò che rimane quando il fiore cade, ridotto – senza ornamento e senza colore naturale – al suo reale sostegno. E al suo «nome proprio». Le checche perdono il loro ornamento, i nomi la loro corolla, nel momento in cui il guardiano grida i «nomi propri» dello stato civile, chiama, classifica secondo la legge, ridistri

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69 buisce i generi [corsivo mio]: «…nome: “Berthollet Antoine”, e apparve Première Communion, nome “Marceau Eugène” e apparve Pomme d’Api. Così, agli occhi della stordita Notre Dame, le piccole checche di Blanche a Pigalle, perdevano il loro ornamento più bello». Ritorno alla nominazione naturale, vale a dire alla prima violenza classificatoria, inversione del sesso, reintroduzione del nome che viene come secondo, in pieno rigore tassonomico. Non restano altro che fili11.

Per Genet il nome aggiunto, il sopra-nome: “Première Communion”, “Pomme d’Api”, “Notre Dame”, appare come il vero nome, quello cioè in grado di manifestare, di enfatizzare, il lembo più vero dell’essenza incerta delle “checche di Blanche a Pigalle”. “Première Communion”, “Notre Dame”, “Pomme d’Api”, sono nomi che esprimono un desiderio d’essere che la natura ha infranto o mancato; ora, rispetto a questo desiderio, a questo sogno, che trova il suo unico spazio, la sua libera uscita nel nome scelto, il nome naturale, esprimente il sesso biologico, appare come un tradimento desolante che inchioda a un’espressione dell’essenza, quella naturale, che non viene di certo avvertita come la più vera. È il nome anagrafico, e di conseguenza il sesso naturale, che viene vissuto qui, paradossalmente, come un’inversione secondaria di un “primo” nome e sesso che risulta “primo” non in ordine alla sua apparizione nel corpo, ma in ordine alla sua apparizione nel desiderio. Ora, questo tempo del desiderio, ha bisogno di legarsi a un “artificio” per ricostruire la più vera natura – questo artificio è innanzitutto un nuovo nome – ed esso nomina così la natura rifatta, scelta e riappropriata, come per la prima volta. Stando alla metafora del fiore utilizzata in Glas, questo nome costituisce l’ornamento, la corolla, il bello del fiore; ciò che,

11. J. Derrida, Glas, testo italiano e francese, trad. it. di S. Facioni, Bompiani, Milano 2006, p. 475.

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in breve, rende fiore il fiore e permette di riconoscerlo “come tale” – anche se qui è evidente che “come tale” implica un disaggiustamento e una disfunzione dell’origine che fa sì che l’essenza debba fare un percorso più lungo per istallarsi, al modo della contingenza più accidentale. “Come tale” risuona qui corretto da un “se”: “come se fosse tale”. E tuttavia, la violenza che si consuma nel ritorno alla nominazione naturale insiste ancora nello spazio dell’opposizione binaria e anche la novità della corolla e del desiderio di cui è espressione è effimera: è destinata a sfiorire finché nomina la fissità di un’unica differenza – quella stessa che oppone la corolla al suo reale sostegno - il cui fronte può essere capovolto ma non valicato. È ancora nel suo ambito che il desiderio di Pomme d’Api continua a muovere anche se a passo di danza. La sottomissione del carattere sessuale alla dinamica dell’opposizione amante e amato fa ben altro: non capovolge la differenza dei sessi ma la sospende assolutamente per ricostituirla a partire da un altro ordine. In questo senso può dirsi dunque una re-iscrizione e un re-impianto del naturale nel campo dell’“artificio”, intendendo quest’ultimo come ciò che consegue a una scelta, dell’arte-fatto, nel senso di ciò che è voluto, del fatto ad arte, per l’ingresso di una finalità che si aggiunge a quella naturale12, ecco perché questa sottomissione acquista il senso di una “secondarizzazione” della sessualità naturale che riprende solo a posteriori il suo significato di corredo identitario. Il sé più vero, il sesso più appropriato, resta quello donato dall’altro e così guadagnato e non presupposto dalla differenza sessuale iscritta nella natura. Ciò vuol dire che la differenza sessuale non compare mai “come tale”, ma sempre all’interno della relazione che la suscita e che le toglie sia il significato di dato “naturale” sia quello di dato “culturale” o genericamente 12. Sul tema del rapporto fra natura e artificio rinvio al mio Impianti. Tecnica e scelta di vita, Mimesis, Milano 2011.

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“sociale”13. Questa stessa decostruzione che disloca la differenza sessuale (dal sesso all’eros) subisce, una volta approdati allo “scambio di figura” dell’Alcibiade I, un’ulteriore radicalizzazione che ha l’aspetto di una sovversione del contenuto di questa prima, fondamentale decostruzione, avente il suo perno nel passaggio dall’essere fornito dalla natura all’essere amante/amato. La “nuova creazione” dei generi che l’eros produce si apre, infatti, per utilizzare le parole di J. Derrida su cui mi soffermerò ancora, più tardi, “all’atopia e alla danza”14, e cioè a quella sostituzione dei ruoli che comporta la sospensione dell’idea stessa di “ruolo” e del nome ad esso legato. Non solo, dunque, l’altro, nella relazione erotica, riscrive il genere cui si appartiene (modificandolo o confermandolo), nel senso che sospende o riscrive la natura in un orizzonte più ampio e più congruo all’essenza, ma lo stesso genere ricevuto, così come il nuovo nome, perde anche ogni fissità, perde la “posizione” ed entra in una circolarità mimetica (metabalèin to schema). La posta in gioco diventa allora, per il genere come per il nome, proprio quella di perdere lo statuto di “codice”– che tuttavia in un primo momento aveva pur costituito un guadagno – e circolare liberamente da parte a parte. Più che un’inversione, lo “scambio di figura” implica allora una destituzione (dei generi). Alludendo a una medesima, libera circolazione, che non presuppone identità stabili, ma che risignifica sempre in modo nuovo e all’infinito l’iscrizione della differenza sessuale, Mallarmé enuncia così “l’assioma fondamentale sul balletto”:

13. Qui si misura a mio avviso l’inadeguatezza sia della “differenza sessuale” sia della “differenza di genere” che pretendono di cogliere il “luogo” della differenza. 14. Chorégraphies, cit., p. 100.

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72 La danzatrice non è una donna che danza, per i seguenti motivi giustapposti: Essa non è una donna, ma una metafora che riassume uno degli aspetti elementari della nostra forma, spada, coppa, fiore, ecc. E non danza; ma suggerisce per il prodigio di scorci o di slanci, con una struttura corporea, quel che ci vorrebbero paragrafi in prosa dialogata o descritta, per esprimerlo nella redazione: poema affrancato da ogni apparato di scriba…La danza è ali, è fatta d’uccelli e partenze nel per-sempre, di ritorni vibranti come freccia… Uno degli amanti li mostra all’altro, poi indica se stesso, linguaggio iniziale, paragone. A poco a poco, la coppia subisce talmente l’influsso colombino, che si vede quell’invasione d’aerea lascività scivolare su lei, assimilarsela perdutamente. Fanciulli, eccoli uccelli, od al contrario da uccelli fanciulli, secondo come si voglia vedere lo scambio di cui, per sempre da quell’istante, lui e lei dovrebbero esprimere il duplice gioco: forse tutta l’avventura della differenza sessuale!...con l’intermezzo di una festa cui tutto è destinato a volgere sotto l’uragano[…]15.

Lo “scambio di figura” prospettato da Alcibiade a Socrate implica un’analoga intercambiabilità dei ruoli e un analogo trasferimento delle identità: non solo ciascuno diventa il ciascuno che è dentro la relazione/danza e grazie ad essa, ma ciascuno testimonia e porta in sé anche l’altro. Ciò fa comprendere perché “la danzatrice non è una donna che danza” – ma lo slancio stesso verso altro e il ritorno a sé che si ripete; la venuta a sé nella provenienza dall’altro. Questa libera assunzione dell’eterogeneo che anche per Platone si apre all’accostamento con la vita dell’animale alato, tant’è che Socrate paragona a quel che avviene fra le cicogne lo scambio proposto da Alcibiade (“Nobile Alcibiade, il mio amore non differirà allora in nulla

15. S. Mallarmé, Opere, testi scelti, trad. it. di F. Piselli, Lerici Editore, Milano 1963, pp. 207-209, citato da Derrida in La disseminazione, Jaca Book, Milano 1989, pp. 260-261.

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da quello della cicogna, se dopo aver allevato nel tuo animo un amore alato (enneottèusas èrota), sarà a sua volta oggetto delle cure di quest’ultimo”)16, dà luogo a una mimesis che sovverte radicalmente il paradigma oppositivo da cui l’identità viene vista nascere, esponendo una genesi di quest’ultima dalla somiglianza. Ma questo pur suggestivo passaggio di Mallarmé citato dallo stesso Derrida, che fra l’altro dall’atopia della danza trae una risorsa per il proprio discorso, non ci dice nulla su cosa significa qui somiglianza. È nella pittura di R. Magritte che troviamo il suo concetto. Egli non pensa secondo il modello classico secondo cui homoia sono le cose che hanno affezioni identiche maggiori di quelle diverse, in quanto questo modello pone l’identità alla base della somiglianza. Nella sua pittura, invece, un atto del pensiero, tramite l’immagine, si fa somigliante al mondo, agli oggetti. Questa somiglianza non ha dunque niente di ontico ma esprime la ricerca dell’unità fra pensiero e essere tramite immagini poetiche17; essa non è neanche simbolica perché non fonde niente ma lascia piuttosto convenire ad uno, enti che restano nella distinzione. Sostenere che la somiglianza sia un atto del pensiero vuol dire allora spostare il legame fra le cose dal piano naturale a quello del pensiero e del desiderio, ciò significa che forme diverse possono essere riunite e apparentate nella mente e finire per somigliarsi a partire da un legame che non è nelle cose stesse ma in ciò che dall’esterno le lega fra di loro. La somiglianza è dunque la presa d’atto di un legame che porta l’ente a diventare come un altro ente senza essergli stato mai simile per natura, ecco perché al suo interno la differenza si trova non solo accolta ma anche lasciata essere per quel-

16. Platone, Alcibiade I, 135 e 1-4. (Trad. it. p. 595). 17. Cfr. R. Magritte, Scritti, Vol II, trad. it. di L. Sosio, Abscondita, Milano 2005, pp. 290-292.

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lo che è: né mediata (e dunque trasformata) né risolta nella forma dell’opposizione. Ciò che determina la somiglianza si nutre dunque della differenza e la mantiene, pena la fine della possibilità, per gli enti, di somigliarsi. Questa mimesis erotica in cui l’amato è come l’amante – a sua volta amante, nel senso che riproduce i tratti di chi lo sta amando – e l’amante come l’amato – a sua volta amato – recupera, d’altra parte, il senso più profondo e positivo di quella particolare mimesis in cui la filosofia consiste per Platone. Propongo infatti di leggere insieme questi passaggi tratti rispettivamente dall’Alcibiade I e dalla Repubblica, in cui la dissimmetria presente nella relazione fra gli amanti dà luogo alla stessa mimesis che in forza di una ancora più ardua dissimmetria si produce fra il filosofo (l’umano, dunque) e il dio: Alcibiade: Ma oltre a ciò io dico questo, che rischieremo di scambiarci la figura, o Socrate, io la tua e tu la mia, infatti a partire da questo giorno non è possibile che io non ti segua come un pedagogo segue un bambino, mentre tu sarai seguito da vicino da me come dal maestro”18. Socrate: Infatti Adimanto, chi è davvero rivolto all’essenza delle cose non ha neppure tempo di guardare giù verso le vicende umane, e di riempirsi di invidia e di malevolenza litigando con i propri simili. Egli vede e contempla oggetti ordinati e immutabili che non si danneggiano a vicenda anzi sono tutti ordine e ragione e perciò li imita e si conforma il più possibile ad essi. O tu credi possibile non imitare ciò a cui ci si avvicina con amore? “No, è impossibile” rispose.

18. Alcibiade I, 135 d 7-10. (Trad. it. parz. mod. p. 595).

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75 “Dunque il filosofo, vicino a ciò che è divino e ordinato, diventa, per quanto è possibile a un uomo, ordinato e divino”19.

Platone ci fa scorgere che all’interno della filosofia lavora una mimesis erotica che assorbe l’intera vista del filosofo al punto da distrarlo rispetto ad ogni altro vedere; questa potente distrazione accade perché il desiderio che contraddistingue la filosofia non si presenta come un semplice desiderio di sapere che lascia gli enti nell’indifferenza ontica, ma è un desiderio di conformarsi all’ente che riassume in sé il saputo: il dio; è un desiderio di prendere nuova forma e nuovo essere al cospetto di un altro essere. “Farsi ordinato e divino” corrisponde a “immortalizzarsi” (athanatìzein)”20, nel gergo di Aristotele, ma che cos’è questa immortalizzazione se non l’auspicio ad aprire il genere umano, a partire dal desiderio, fino a renderlo mimetico a un altro genere? E se il “genere umano” può avere un tale desiderio vuol dire che esso non riposa completamente sulla sua essenza. Non il semplice desiderio del dio, ma il desiderio di somigliare al dio, è dunque la prova di una dislocazione dell’essenza analoga a quella che trasferisce la marca sessuale dal corpo alla relazione; se in quest’ultima è l’idea di “genere sessuale” a venire secondarizzato, nella prima è l’intera idea di “genere umano” che mostra di risiedere in una plasticità inclusiva di molte somiglianze e molte trasformazioni.

III A proposito di questa inclusività nel genere, in Parages Derrida cita Blanchot, che scrive: 19. Platone, La Repubblica, a cura di G. Lozza, Mondadori, Milano 1990, trad. it. p. 503 (500 b 8-500 d 2). 20. Aristotele, Etica Nicomachea, 1177b 31-34.

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76 Ho incontrato degli esseri che non hanno mai detto alla vita, taci!, e mai, alla morte, vattene! Quasi sempre delle donne, belle creature […] Io ho provato vivendo un piacere infinito e morendo una soddisfazione senza limiti. In questa misura io sono donna e bella21.

Così come l’“io” maschile si trova affetto da una “deriva aleatoria” che fa sì che un uomo possa sentirsi “donna” e “bella”, allo stesso tempo, “donna” qui è un certo tratto che viaggia da parte a parte e come la danzatrice di Mallarmé attraversa sia il sesso maschile che il sesso femminile; “donna” è dunque l’incondizionatezza di un sì alla vita e alla morte che può essere proferito sia dalla donna naturale sia dall’uomo naturale. Questa operazione che disloca la differenza sessuale dal piano ontico permette di avvicinare, di “mescolare di generi”, come sostiene Derrida, ma permette anche di porre su basi non ontiche la questione della somiglianza. Chi avrebbe potuto scorgere, d’altra parte, una similitudine fra Alcibiade e Socrate? Nel suo particolarissimo encomio, alla fine del Simposio, Alcibiade vede Socrate talmente irraggiungibile e atopico che lo scarto da lui avvertito alla vista di costui ripropone la distanza uomo/dio; la letteratura conferma da parte sua questa distanza e ce li presenta come massimamente distanti per bellezza, carattere e statura, eppure Socrate si comporta nell’Alcibiade I proprio come Alcibiade nel Simposio. Vede in Alcibiade le immagini meravigliose e invisibili che si rivelano solo a lui, gli agàlmata che assumono ora la veste di “belle speranze” segrete, così come nel Simposio Alcibiade elogia il “suo” Socrate, quello che sa farsi serio e tacere rivelando solo a lui il suo vero profilo. La particolarità della visione che l’uno ha dell’altro sta nell’invisibilità: l’uno scorge nell’altro l’identica invisibilità, ciò che resta segreto allo

21. J. Derrida, Parages, Galilée, Paris 1986, pp. 279-280.

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sguardo dei più. Nel passaggio finale dell’Alcibiade I questo mimetismo acquista anche un tono iperbolico di sostituzione (dell’uno con l’altro): Alcibiade sembra dire che a partire dalla potenza di ricapitolazione dell’ora della promessa (“da questo giorno”) da cui prende avvio la temporalità erotica, l’uno prende il posto dell’altro e le identità si aprono e comunicano fino a confondersi (“Allora dico così. Ma oltre a ciò io dico questo, che rischieremo di scambiarci la figura, o Socrate, io la tua e tu la mia…”). Questa potente sostituzione illumina, certo da un’angolazione particolare, che è quella dell’eros, il senso difficile della massima: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. È Derrida a metterci su questa strada. Nell’ambito della sua incursione nel testo hegeliano, in Glas, egli scrive: “L’opposizione tra i contrari (universalità/particolarità, oggettività/soggettività, tutto/ parte), si risolve nell’amore. L’amore non possiede altro: ama il tuo prossimo come te stesso, il che non implica che tu debba amarlo quanto te. Amare se stessi è «una parola senza senso» (ein Wort ohne Sinn). Amalo piuttosto come qualcuno che (als einen) è te o «che sei tu (der du bist)». È difficile stabilire la differenza fra i due enunciati. Se amare se stessi non avesse alcun senso, cosa vorrebbe dire amare l’altro come qualcuno che sei tu? o che è te? Non si può amarlo che come altro, ma nell’amore non c’è più alterità, solamente Vereinigung. È il valore del prossimo (Nächsten) che, qui, spariglia l’opposizione dell’Io e del Tu come altro”22. La massima ed il commento estremamente sensibile di Derrida toccano indirettamente un nodo cruciale: quello della “divisione”, in seno all’amore, fra eros e agape. Levinas non avrebbe dubbi a leggere in questa massima un vertice dell’etica e, del resto, la “sostituzione”, è per lui la conseguenza di quella 22. Glas, pp. 318-322.

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custodia dell’alterità che pur mantenendo intatta l’eterogeneità dell’altro diventa assunzione di un’iperbolica responsabilità: essere l’uno per l’altro23. Jean-Luc Marion, al contrario, vi leggerebbe l’unica forma dell’amore, che sospende, mettendola fuori gioco, la differenza fra amore passionale ovvero eros ed amore caritatevole, ovvero agape, in quanto la logica dell’amore resta per lui la medesima e alberga, stabile, in tutte le sue svariate manifestazioni24. Sappiamo che Levinas ama la lacerazione ma non la contaminazione quella contaminazione che invece Il fenomeno erotico di Marion richiede come chiave di lettura. L’attenzione di Derrida, proveniente dalla concentrazione su Hegel, si sofferma sulla parte più aporetica dell’enunciato: amare il prossimo come se stessi. Posto che non avrebbe senso estendere ad altri il proprio narcisismo all’insegna di un’elargizione al prossimo dell’amore di sé, il come se stessi resta problematico nella misura in cui il “come” viene inteso come un “quanto”. In questo caso la massima sembrerebbe invitarci ad amare il prossimo con quella stessa “quantità” di amore che riversiamo già verso di noi; né più e né meno, essa rivelerebbe l’economia del tanto/quanto. Ma posto che amare se stessi è, come ricorda Derrida, “una parola senza senso”, ed è oltretutto impossibile, direbbe Pascal, perché il sé è odioso e ingiusto, che senso dare allora all’espressione “come se stessi”? Tenuto conto di questo corto-circuito, nel “come se stessi” dovremmo leggere, seguo il commento di Derrida, il “come qualcuno che è te”, “come qualcuno che sei tu”: tu come un altro, quindi; ovvero, tu che diventi un altro. Ma l’esser come l’altro, il sentire l’altro come sé, che l’amore richiede nel suo mirare alla Vereinigung (e vedremo in seguito

23. Cfr. E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, trad. it. di S. Petrosino e M. T. Aiello, Jaca Book, Milano 1983. 24. Cfr. J.-L. Marion, Il fenomeno erotico, trad. it. di L. Tasso, Cantagalli, Milano 2007.

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quanto Derrida sia legato a quest’analisi hegeliana che in Glas egli sembra percorrere invece con circospezione), sembra allo stesso tempo scalfire “l’opposizione dell’Io e del Tu come altro”; come se la prossimità, che scaturisce del resto dall’amore e che non è semplicemente l’oggetto che gli sta di fronte – quasi che lo schema di lettura dell’enunciato fosse: ama tu (soggetto)! chi? - il prossimo (oggetto) - potesse infine togliere da mezzo proprio quell’alterità dell’altro, che è il motivo da cui proprio l’amore si origina. Ecco che su questo versante aporetico in cui l’opposizione che consente il riconoscimento dell’altro viene inquietantemente “sparigliata” dalla prossimità, il riferimento all’Alcibiade I torna per me perspicuo. La sfida teorica che proviene dallo “scambio di figura” mette in fuga proprio il pericolo di una certa “fusione” liquidatrice delle differenze, in quanto l’esser-come-Socrate incarnato da Alcibiade nell’auspicio finale del testo resta l’esser-come di qualcuno che in ragione di questa somiglianza diventa più che mai se stesso. Alcibiade, quindi, facendosi come Socrate, facendo a Socrate quel che Socrate fa con lui, amando chi lo sta amando, quindi, diventa Alcibiade in carne e ossa; per questo, il suo amore non scolora in una dispersione dell’identità: se infatti si tratta di Alcibiade in carne e ossa, l’amore per Socrate da parte di Alcibiade è l’amore per qualcuno che resta un altro rispetto ad Alcibiade. Il mimetismo opera dunque nella Vereinigung dell’amore all’insegna di una sostituzione che resta non solo aperta alla differenza, ma che diviene anche dispensatrice di un’identità non solitaria e non egoista25. Ma c’è di più. Questa particolare mimesis rivela, ed è probabilmente questo il suo portato più significativo, che l’amore è sempre “amore dell’altro”; poco importa, a rigor di logica, che la coppia 25. Non a caso la “giustizia” è connessa nell’Alcibiade I al divenir giusti con se stessi. E il divenir giusti con se stessi implica il vedersi nell’altro.

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Socrate/Alcibiade, sia una coppia omosessuale, e cioè che i due si somiglino quanto al sesso naturale; se infatti diventare come l’altro può voler dire non perdere la propria identità, ma anzi vedere il proprio sé giungere a sé, questo come l’altro della mimesis erotica innesca allora, a partire dall’istanza della somiglianza, un processo di differenziazione che introduce la differenza più incisivamente di quanto non faccia la natura; di conseguenza, anche laddove la “differenza sessuale”, come nel caso dell’omosessualità, sembra abolita, proprio lì essa viene ricondotta e reimpiantata dall’eros che mantiene la differenza nella somiglianza. L’amato è un altro – questo esser altro presenta un’intensificazione dell’alterità molto più elevata in quanto egli è amato, rispetto a quella messa in conto dal suo essere altrimenti sessuato. La mimesis reistalla l’eterosessualità all’interno dell’omosessualità e poi rende, per usare la parole di Derrida, atopica la stessa eterosessualità, nel senso che sottopone alla “reciproca dismisura”26 le identità in gioco nella coppia. Queste infatti non sono poste nella relazione al modo in cui si presentano in natura – ciascuno con un sesso e un ruolo –, ma vengono a se stesse a partire dalla possibilità della sostituzione cui si aprono. Da queste considerazioni viene fuori un primo riassetto della questione, che mi pare così formalizzabile: l’eros si iscrive nel corpo e vi iscrive la differenza sessuale, ma non necessariamente alle stesse condizioni in cui si iscrive nel corpo la differenza sessuale. L’iscrizione dell’eros infatti sospende e risignifica la differenza naturale. Eròmenos ed erastès sono la scrittura dell’eros nel corpo che si offre come la riscrittura della “differenza sessuale”. Questa nuova scrittura implica una secondarizzazione del “genere” e del “sesso” in forza della mi-

26. Cfr. Chorégraphies, cit., p. 114.

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mesis che nell’eros alberga, ma questa secondarizzazione non è contraria alla differenza, piuttosto ne favorisce lo sviluppo a partire da un supporto non naturale. Sviluppare la traccia che viene dall’Alcibiade I vuol dire allora 1) familiarizzare con la tesi che la differenza sessuale non è mai disponibile “come tale” ma sempre decentrata rispetto alla sua origine, installata in una relazione e vuol dire inoltre 2) riflettere su una tipologia di formazione dell’identità di genere non modellata sulla contrapposizione fra i sessi, ma sulla loro mimesis. Mimesis che rilancia così le chances del “duale” (verso una “omoiosessualità”), nel senso che ne frena la caduta verso l’opposizione binaria e ripensa la differenza dentro la somiglianza.

IV Ciò che ho rappresentato trova riscontro nella ricerca di un’“altra differenza sessuale” che proviene da Derrida, ma in qualche modo ne nutre inaspettatamente il proposito, collocandosi, come una traccia inesplorata, a monte di quella stessa ricerca e innestando quest’ultima in un terreno ancora più esteso, fertile e insidioso, in una più lunga storia dagli esiti non scontati e indefiniti. Che Socrate e Platone siano del resto riusciti ad “assembrare tutta la terra” (“attrouper la terre entière”)27 è quanto Derrida afferma in seguito al ritrovamento della fatidica cartolina postale che raffigura i due filosofi in un significativo scambio di ruoli: Socrate maestoso scrive ciò che un Platone più piccolo di statura gli detta. Ora, questo che potremmo definire un eclatante “scambio di figura”, funge da trama sotterranea delle lettere d’amore de La carte postale, 27. J. Derrida, La carte postale, Flammarion, Paris 1980, p. 159.

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lettere che, pervase da questo motivo della metabolè suggerita dall’immagine in questione, pervengono a mio avviso a una riabilitazione di quella dualità che in altri testi viene invece messa in questione o respinta. Sembra dunque che ciò che in Chorégraphies viene prospettato come “destino che sigilla tutto alla perpetuità della cifra due” o come “tragedia” il cui motivo di fondo si esprimerebbe in un: “ci sarebbero sempre due sessi”28; ciò che in Geschlecht viene affidato a una concessione rilasciata a forza (“Il ritrarsi della diade conduce verso l’altra differenza sessuale [corsivo mio]. Può anche preparare ad altre domande. Per esempio, a questa: come si è deposta tra i due la differenza? O ancora, se si tenesse a consegnare la differenza nell’opposizione duale [corsivo mio] in che modo la moltiplicazione si fissa come differenza? E come differenza sessuale?”)29, né La carte postale venga infine non solo accettato ma, all’insegna di quel che accade fra Platone e Socrate, anche “rivissuto”, riscritto, ri-polarizzato e reinventato. Per il fatto di contenere una significativa ritrattazione della dualità, ritengo che La carte postale possa essere considerato il testo in cui Derrida infine risponde alla questione da lui stesso aperta in seno alla “differenza sessuale” e formalizzata come richiesta di “un’altra differenza sessuale”. Pur non chiudendosi mai, pur restando presente in diversi testi precedenti e a venire, credo sia legittimo ritenere che con La carte postale la questione per Derrida si chiuda. Chiedo al lettore la pazienza di non attendere adesso una spiegazione più approfondita del perché ritengo opportuno far terminare ne La carte postale la questione della “differen-

28. Chorégraphies cit., p. 115. 29. Geschlecht, cit., p. 37.

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za sessuale” che cronologicamente non termina di certo lì, e di non chiedersi, inoltre, perché ritengo opportuno farla cominciare dal dialogo con Heidegger, sapendo bene che non comincia con lui. Alla fine di Geschlecht I, quando la sua traversata nel testo heideggeriano raccoglie gli elementi utili per sostenere la non estraneità della questione della differenza sessuale nella riflessione del filosofo tedesco, Derrida utilizza, come si è già visto, l’espressione “l’altra differenza sessuale”30, riferendosi proprio alla forma inedita di questa differenza su cui proprio una certa lettura di Heidegger ci porterebbe a riflettere. La timida e rarefatta familiarità heideggeriana con questo tema viene sondata da Derrida in Geschlecht II e in Geschlecht III31, testi che contribuiscono a fornire lo sfondo teorico dentro il quale la traccia di quest’“altra differenza” – una differenza che perde la dimensione ontica della contrarietà – trova in Heidegger la sua genesi. Ora, se da una parte la lettura di Derrida ha bisogno di cura e fatica per riconoscere in Heidegger il “campo” in cui appare la questione della differenza sessuale tout court, d’altra parte è pur vero che non appena questo campo viene illuminato, il contributo di Heidegger in direzione de “l’altra differenza sessuale” emerge nitidamente. Come non scommettere del resto sul fatto che Heidegger, per il suo “credito accordato all’opposizione”, “all’avversità ontologica”, ma soprattutto “a ciò che mantiene assieme gli avversari e li raccoglie nel lo-

30. Ibidem 31. Devo la conoscenza e la possibilità della lettura di questo scritto inedito di J. Derrida che circola fra i partecipanti al suo Seminario a Jean-Luc Nancy.

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gos come polemos ontologico”32, avrebbe avuto l’accortezza di guardare all’opposizione in gioco in questa particolare differenza a partire da un’istanza “accomunante”? Se per un verso, allora, in Geschlecht si respira la fatica dovuta all’apertura di una questione, per altro verso in Geschlecht II e in Geschlecht III sembra che il tema ricercato da Derrida appartenga già a Heidegger, gli appartenga senza appartenergli di fatto, nel senso che pur non comparendo come un tema di Heidegger, intercetta in quest’ultimo uno sfondo problematico così “affine” all’ipotesi dell’“altra differenza sessuale” che viene il sospetto che le cose stiano al contrario: e cioè che Heidegger sia in qualche modo “in debito”, un debito fra l’altro non del tutto implicito, nei confronti della questione aperta da Derrida. Così, “l’altra differenza sessuale”, benché non ricercata, non posta, in Heidegger, grazie a Derrida risuona. Come è noto, Derrida lega l’apertura della questione in Heidegger alla scelta di chiamare Da-sein l’ente che costituisce il tema dell’analitica esistenziale. Il nome Dasein rispetto a Mensch garantisce infatti quella necessaria, “peculiare neutralità”, che in Principi metafisici della logica viene immediatamente legata da Heidegger alla non appartenenza a un genere sessuale: “La peculiare neutralità dell’espressione “l’esserci” è essenziale perché l’interpretazione di questo ente va attuata prima di ogni effettiva concrezione. Questa neutralità significa anche che l’esserci non appartiene a nessuno dei due sessi (“Diese Neutralität besagt auch, dass das Dasein keines von beiden Geschlechtern ist”)33. Il fatto sorprendente, da cui

32. È lo stesso Derrida a stilare questo profilo di Heidegger in Politiche dell’amicizia, trad. it. di G. Chiurazzi, Raffaello Cortina, Milano 1995, p. 292. 33. M. Heidegger, Principi metafisici della logica, a cura di G. Moretto, Il melangolo, Genova 2000, p. 162. (Metaphysische Anfangsgründe der Logik, Gesamtausgabe, bd. 26, Vittorio Klostermann, Frankfurt a. M., p 171).

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Derrida trae il suo spunto argomentativo, è che l’asessualità cui la neutralità rinvia non si assesta sulla negazione e sull’esclusione che sembra comportare (né/né), ma viene presto associata da Heidegger a una positività: “ma questa asessualità (Geschlechtlosigkeit) non è l’indifferenza del vuoto niente, la debole negatività di un indifferente nulla ontico. Nella sua neutralità l’esserci non è indifferentemente nessuno e ognuno, ma l’originaria positività e potenza dell’essenza (“die ursprüngliche Positivität und Mächtigkeit des Wesens”)34. La posta in gioco appare allora legata alla comprensione del fatto che se a un primo sguardo la neutralità opera come fattore di inibizione di ogni determinazione del Dasein, prima fra tutte la differenza sessuale, per altro verso questa astensione è indicativa di “positività”, di “potenza”: “l’originaria positività e potenza dell’essenza”, per l’appunto. Questa contraddizione riposa dunque sul concetto di “neutralità”. Come sempre, in Heidegger la negazione dona molto di più di quanto non tolga, ecco perché Derrida suggerisce di soffermarsi su ciò che effettivamente viene neutralizzato: dal momento che la neutralità si dice anche “positività” e “potenza dell’essenza”, la negazione al suo interno non può darsi come definitiva. Bisogna ritenere allora che a venire neutralizzata non sia la sessualità tout court (di cui rimane traccia in quella “positività” e “potenza dell’essenza” già menzionate, benché esse non siano riferibili immediatamente ad essa), ma l’appartenenza a ciascuno dei due sessi: la binarietà insomma, e la “differenza sessuale” in quanto binarietà. Malgrado il gran volteggiare prudente di domande e il ricorso alle strutture portanti di Essere e Tempo35, è questa la con-

34. Ibidem 35. Cfr. Geschlecht, cit., p. 37.

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segna principale che il testo di Heidegger offre a Derrida, questa la prima nota significativa da ascrivere all’avventura di Geschlecht, in breve: la possibilità di ipotizzare una sessualità non immediatamente segnata dalla binarietà. Una simile possibilità, che Derrida non solo vede ma vede anche crescere in Heidegger, si intreccia con la personale riflessione di Derrida – si pensi a Glas, alle interviste di Positions e Points de suspension, a La verità in pittura e a La carte postale – e permette anche di mantenere un filo di raccordo fra le molteplici voci che sotto la firma di Derrida partecipano in vario modo alla ricerca di un’altra differenza sessuale: Mallarmé ne La doppia seduta, Blanchot in La loi du genre, Hegel/Genet in Glas. Ora, circa trent’anni dopo il Corso di Marburgo ed Essere e Tempo, attraverso Georg Trakl, la questione del Geschlecht torna in Heidegger legata al tema della decomposizione dell’uomo e si tinge di un’importante sfumatura che contribuisce ad “appropriare” in modo ancora più incisivo (benché indiretto) al filosofo tedesco la questione della “differenza sessuale”. Questa “appropriazione” sembra giungerci costantemente mediata da un’esteriorità: sia essa l’ermeneutica radicale di Derrida che rende eloquente il testo di Heidegger, o la stessa ermeneutica di Heidegger al testo poetico di Trakl. Se in un primo tempo, stando all’interpretazione di Derrida, la neutralizzazione della sessualità concerneva la neutralizzazione della differenza sessuale come dualità, come binarietà, adesso, tramite una certa “adesione” alla poetica di Trakl, il rifiuto della binarietà sembra “accrescersi” di un ulteriore significato da respingere al suo interno, quello della opposizione: “due” che diventa “uno contro l’altro”. Ecco il passo che presenta e chiarisce la questione: La stirpe in cui l’uomo appare nella “figura della decomposizione” il poeta la chiama “la stirpe sfatta”[…] Da che è stata colpita questa stirpe? Quale maledizione l’ha colta? Fluch

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87 si dice in greco πληγή, che corrisponde per significato al tedesco Schlag (colpo). La maledizione che colpisce la stirpe in disfacimento consiste nel fatto che questa vecchia stirpe è nella dilacerante discordia dei sessi (in die Zwietracht der Geschlechtes). Per tale discordia ciascuno dei sessi tende all’erompere sfrenato dell’animalità pura ed egoistica della bestia. Non la duplicità per sé, ma la discordia è maledizione. Per la cieca animalità cui conduce, la discordia porta la stirpe alla dilacerazione e la getta così nella sfrenatezza della individualizzazione egoistica. Ridotta a tale dilacerazione e frantumazione, la “stirpe decaduta” non rinviene più in sé la capacità di ritrovare la giusta impronta. La giusta impronta (Den rechten Schlag) c’è solo per quella stirpe in cui la dualità (Zwiefaches) si stacca dalla discordia (aus der Zwietracht) e trapassa nella mitezza di una duplicità (Zwiefalt) che è insieme semplicità o unità; per quella stirpe, cioè, che è “cosa straniera” e segue perciò lo straniero36.

La “giusta impronta”, il colpo che non crea opposizione, il marchio che marca senza lacerare… in breve, la prima differenza sessuale, si presenta nel commento di Heidegger a Trakl come “la mitezza di una duplicità che è insieme semplicità o unità”; una duplicità, insomma, che neutralizza l’asprezza della differenza al suo interno, e cioè il volgere della differenza dalla diversità all’opposizione. Di questa duplicità mite resta una traccia nella particolare natura dello “straniero” di Trakl. Il suo essere “der Abgeschiedene” (il “dipartito”), condizione che non significa recisione netta del rapporto con il luogo precedente ma mantenimento del lontano nel distacco37, acquista il suo significato proprio guardando al tramonto; questo infatti non “precipita” 36. M. Heidegger, Il linguaggio nella poesia, in In cammino verso il linguaggio, a cura di A. Caracciolo, Mursia, Milano 1990, p. 55. (Unterwegs zur Sprache, Verlag Günther Neske, Stuttgart 2001 p. 50). 37. Cfr. ivi, p. 68.

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ma “scivola (gleitet)” nella sera, va “incontro alla sera (gegen den Abend)”38: “Dämmerung”(crepuscolo), scrive Heidegger “non è però il semplice tramontare del giorno, inteso come il precipitare della sua chiarità nella tenebra. Dämmerung non significa necessariamente tramonto (Dämmerung meint überhaupt nicht notwendig Untergang). C’è un crepuscolo anche del mattino (Auch der Morgen dämmert). Con esso sorge il giorno. Dämmerung è anche sorgere (Dämmerung ist zugleich Aufgehen)”39. Questa condizione in cui l’opposizione fra gli opposti cede – il che non vuol dire che scompare ma che si presenta cedendo – e i rispettivi termini scivolano l’uno nell’altro confondendo i rispettivi contorni, nella poesia di Trakl ha un posto speciale. Ad essa è legato il sogno di una perduta età dell’oro, il tempo di una fanciullezza felice in cui il fanciullo non si contrappone ancora alla fanciulla perché ciò che prevale è lo stesso: gli stessi giochi, le stesse passeggiate, gli stessi libri, la stessa casa, lo stesso cibo. La dualità fratello-sorella è dunque lieve (leise) per utilizzare un aggettivo spesso scelto da Trakl e annotato da Heidegger, essa è connaturata al genere umano e fa del Geschlecht un unico Geschlecht (ein Geschlecht) in cui il marchio della differenza arriva dolcemente senza separare.

V La stessa esigenza di “un solo sesso”, che passa anche dalla denaturalizzazione dell’incesto, in quanto coloro che sono legati dall’amore o dal matrimonio diventano come fratello e sorella, la ritroviamo immortalata da Derrida in Glas. Il protagonista 38. Ivi, pp. 55-56. (Ivi, p. 51). 39. Ivi, p. 49. (Ivi, p. 42).

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questa volta è Hegel, che in accordo con Genet, ma nello stridore provocato dall’avvicinamento di linguaggi estranei l’uno all’altro – al punto che l’accordo si presenta come un dis-accordo – sembra dire che la differenza sessuale è impossibile da mantenere. Impossibile sia guardando a quella tensione e a quell’inadeguatezza che si esprime nel “genere”, che fa sì che il rapporto sessuale rilevi, nell’animale, la differenza dei sessi all’interno del genere, affinché ciascuno ritrovi nell’altro il proprio sentimento di sé come totalità indivisa, pervenendo a un solo sesso (ein Geschlecht), sia considerando il matrimonio che apporta un nuovo significato al rilevamento della differenza sessuale cui la natura provvede di suo40. Scrive Derrida: “La filosofia dello spirito non enuncia mai alcunché riguardo alla differenza di sesso fra gli sposi. Niente di più logico: tutto deve avvenire come se gli sposi avessero lo stesso sesso, fossero entrambi bisessuati o asessuati. L’Aufhebung ha lavorato”41. Questo è lo Hegel della Filosofia della natura: Ma il genere è altrettanto essenzialmente relazione affermativa della singolarità a sé in esso, per cui la singolarità in quanto è un individuo contro un altro individuo, si continua in questo altro e sente se stesso in questo altro. Questo rapporto è un processo che inizia con il bisogno, in quanto l’individuo come singolo non è adeguato al genere immanente e al tempo stesso è la sua relazione identica a sé in una sola unità; ha quindi il sentimento di questa mancanza. Il genere in lui è perciò come tensione rispetto all’inadeguatezza della sua realtà effettiva singola, impulso a trovare nell’altro del suo genere, il suo sentimento di sé, a integrarsi mediante l’unificazione con esso e

40. È a questo proposito che Derrida dice che l’Aufhebung è proprio il rapporto della copulazione con la differenza sessuale. Cfr. Glas, cit., p. 526. 41. Glas, cit., p. 590.

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90 con questa mediazione portare il genere a concludersi con sé e all’esistenza – l’accoppiamento (Begattung)42. La separazione dei due sessi è una separazione in cui gli estremi sono totalità del sentimento di sé […] La loro unificazione è lo svanire dei sessi in cui il semplice genere si è sviluppato (Ihre Vereinigung ist das versschwindender Geschlechter, worin die einfache gattung geworden ist) […] Questo rapporto di un individuo a un altro della sua specie è il rapporto sostanziale del genere. La natura di ciascuno passa attraverso entrambi ed entrambi si trovano all’interno della sfera di questa universalità [corsivo mio]43.

E questa è la Filosofia del diritto: Quale punto di partenza soggettivo del matrimonio può apparire di più l’inclinazione particolare delle due persone, che entrano in tale rapporto, o la preveggenza e la disposizione dei genitori etc; ma il punto di vista oggettivo è il consenso libero delle persone a costituire, cioè, una sola persona, ad abbandonare la propria personalità naturale e singola in quell’unità, la quale, da questo aspetto, è un’autolimitazione; ma essa acquistando nell’autolimitazione la sua autocoscienza sostanziale, è appunto la sua liberazione44. L’ethos del matrimonio consiste nella coscienza di questa unità (dieser Einheit), in quanto fine sostanziale, e, quindi, nell’amore, nella fede e nella comunione di tutta l’esistenza individuale, - nel quale principio e nella quale realtà, l’istinto naturale è abbassato a modalità di momento naturale, che, appunto, è destinato a estinguersi nel suo appagamento (der natürliche Trieb zur Modalität eines Naturmoments, das eben in seiner Befriedigung zu erlöschen bestimmt ist); il vincolo 42. G. W. F. Hegel, Filosofia della natura, a cura di V. Verra, Utet, Torino 2002, § 369, pp. 521-522. 43. Ivi, Aggiunta, p. 522. Cfr. Glas, cit., p. 526. 44. G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto § 162, trad. it. di F. Messineo, Laterza, Bari 1965, pp. 152-153.

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91 spirituale si rileva indissolubile in sé, nel suo diritto, in quanto sostanziale, epperò in quanto elevato al di sopra dell’accidentalità delle passioni e del temporaneo libito particolare: qui il vincolo spirituale si afferma come ciò che è in sé indissolubile (das geistige Band in seinem Rechte als da Substantielle, hiermit als das über die Zu fälligkeit der Leidenschaften und des zeitlichen besonderen Beliebens erhabene, an sich unauflösliche [,] sich heraushebt)45.

Cosa vuol dire che nel matrimonio “il momento naturale è destinato ad estinguersi nel suo appagamento” e che in esso il vincolo spirituale si eleva “al di sopra dell’accidentalità delle passioni” e della temporanea libìdo particolare, se già quella libìdo particolare era, nella Filosofia della natura, molto di più di ciò che era, in quanto costituiva l’espressione naturale di un ri-levamento, come dice Derrida, già gravido del fisiologico passaggio dalla natura allo spirito? Cosa vuol dire “elevarsi” al di sopra dell’istinto sessuale che esprime già, di suo, un’“elevazione”, con la sua tendenza a togliere, proprio nell’accoppiamento, le opposizioni interne al genere? Questa seconda elevazione si presenta dunque come l’Aufhebung di una (precedente) Aufhebung, che mira a un’unità che però non ha più niente a che vedere con il sesso naturale e con l’accoppiamento naturale, perché considerando già tolta l’opposizione che quello rilevava, sperimenta un legame in cui la differenza sessuale che pure permane come fatto naturale, viene avvertita come sospesa. Eloquente è in tal senso una lettera a Marie citata da Derrida in Glas, in cui Hegel scrive: “[…] Il tuo amore per me, il mio amore per te; queste espressioni stabiliscono una distinzione (Unterscheidung) che ha separato in due il nostro amore; e l’amore è solo il nostro amore, è solo questa unità, solo il legame (Band). Desisti dalla riflessione

45. Ivi, § 163, pp. 153-154. (Hegel, Werke, bd. 08, Grundlinien der Philosophie des Rechts, Verlag Duncker, Berlin 1833, pp. 225-226).

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relativa a tale differenza (Unterschied) , manteniamoci saldamente a questo uno (diesem Einen) […]”46. Ora, il caso in cui la differenza sessuale permane solo come un fatto naturale che nella sostanza sembra sospeso, nel senso che non è come tale portatore né di opposizione, né di negatività, né di desiderio, ma solo di diversità, è quello che riguarda il fratello e la sorella. Il matrimonio per Hegel sembra così avere come telos l’essenza del legame fra fratello e sorella in cui la differenza sessuale resta, per utilizzare un termine di Trakl, leise, lieve, non intaccata da guerra, e il sogno di ein Geschlecht puro, non dipendente dall’Aufhebung. Ma che il non sessuale nel senso di ciò che è libero dall’impulso e dal desiderio (il legame fratello/sorella) possa divenire il fine di un legame (il matrimonio) in cui la sessualità è accolta (anche se accolta in quanto rilevata), implica una scossa nella parentela47. Quella stessa che risuona in Elis, il fanciullo straniero di Trakl che morendo entra in un mattino salvifico, e cioè in quell’altro tempo perduto nella storia, ma che nel sogno è il tempo da raggiungere per la salvezza, Heidegger nota acutamente che in lui: “la natura del fanciullo non è vista in contrapposizione a quella della fanciulla. Nella fanciullezza di Elis si manifesta la quiete di una puerizia più profonda. Questa custodisce

46. Cfr. Glas, cit., p. 734. 47. Cfr. ivi, p. 766. Non a caso Derrida scrive in tal senso che il rapporto fratello/sorella sia un limite per la famiglia hegeliana. Radicalizzando questa tesi, ne La rivendicazione di Antigone, J. Butler sostiene che Antigone “non rappresenta la parentela nella sua forma ideale, ma la sua deformazione e dislocazione, che mette in crisi i regimi di rappresentazione dominanti e solleva la domanda su quali avrebbero potuto essere le condizioni di intellegibilità che avrebbero reso possibile la sua vita, o meglio quale rete di rapporti renda possibile la nostra vita”. Trad. it. di I. Negri, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 42.

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e serba in sé la mite duplicità dei sessi (die sanfte Zwiefalt der Geschlechter): del fanciullo e dell’«dell’aurea figura della fanciulla»”48. Ora, questa fanciullezza più profonda, sottratta alla decomposizione che l’opposizione fra i sessi fa subire al Geschlecht - ma anche all’orrore del “giardino afoso” in cui sta la notte49 che nomina l’incesto non simbolico ma reale- continua, redenta, nella morte di Elis e fa sorgere il mattino nel tramonto. La redenzione opera quindi come redenzione dalla colpa, redenzione dall’orribile del fatto più che dal fatto, tant’è che questo fatto resta sugellato e trasfigurato nel perseguimento di un nuovo inizio della specie umana, di un nuovo Geschlecht, affidato proprio alla quiete della fanciullezza. Heidegger coglie bene questa richiesta e infatti aggiunge: “Lo scomparso guarda avanti nell’azzurro della notte spirituale. Le bianche palpebre, che proteggono il suo sguardo, risplendono nell’ornamento nuziale, che promette una più mite duplicità del sesso”50. Lo scomparso è quindi in viaggio verso un luogo mitico che ha già segnato la carne del poeta, ma che attende di poter essere detto e così sciolto dal silenzio. Questo luogo è in sé un luogo di raccolta in cui si rispecchiano tutti i temi della poesia di Trakl su cui Heidegger si sofferma puntualmente: il dolore 48. Il linguaggio nella poesia, cit., p. 59. (Ivi, p. 55). 49. “Einschwüler Garten stand die Nacht./Wir verschwiegen uns, wasunsgrauenderfasst. Davon sind unsre Herzener wacht und erlagenunterdes Schweigens Last. Es blühtekein Stern in jener Nacht/und niemand war, derfürunsbat./Ein Dämonnurhatim Dunkelgelacht./Seid alle verflucht! Da ward die Tat.” G. Trakl, La ballata dell’orrore. 50. Il linguaggio nella poesia, cit., p. 59. Questa promessa è una promessa di salvezza, nella misura in cui, stando a Heidegger : «“Salvare” non significa e non è soltanto sottrarre a un pericolo, ma affrancarsi, sin da principio, nella propria essenza. Questa intenzione infinita è la finitezza dell’uomo. A partire da essa egli può oltrepassare lo spirito di vendetta». Hannah Arendt, Martin Heidegger, Lettere 1925-1975, Einaudi, Torino 2007, p. 57.

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– che strappa via da sé e al tempo stesso trattiene in sé nell’intimità più viva51–; lo spirito – come composizione di mitezza e distruzione (“la fiamma è sorella di ciò che è più pallido”52) –; la dipartenza – che fa fiorire il mattino dal tramonto riportando l’umano alla lievità della fanciullezza che lo riconcilia con sé53. Un tale luogo di raccolta è anche, infine, il poema di Georg Trakl, come il sottotitolo del saggio di Heidegger lascia intendere, nel senso che il poema viene dal dolore del “dipartito”, ricomposto in versi, e dunque dal luogo stesso della riunione. In tal senso Heidegger scrive: “Poiché il linguaggio di questo poema attinge la sua parola dall’essere in cammino della dipartenza, per questo il suo dire viene sempre insieme e da ciò che nel distacco si lascia e da ciò cui il distacco destina”54. In questo poema, quindi, il dolore parla, esprime la sua natura contrastante che consiste proprio in uno strappare l’anima via da sé e al contempo, in questo stesso strappo, nel farla coincidere intimamente con sé55. Tutti questi temi in cui viene richiamato il senso della raccolta, provengono in Georg Trakl, come Heidegger sa bene, dall’esigenza di mitigare l’opposizione nella differenza sessuale, “secondo la promessa di un due senza guerra (Zwiefalt e non Zwietracht)”56. Esigenza verso cui Heidegger si pone in modo più che ricettivo, come abbiamo visto grazie al commento acutissimo che Derrida fa di alcuni passaggi del Corso di Marburgo del 1928. Il tentativo di pensare una sessualità libera dalla binarietà si presenta infatti rimessa in gioco e come

51. Il linguaggio nella poesia, cit., p. 66. 52. Ivi, p. 63. 53. Ivi, p. 68. 54. Ivi, p. 74. 55. Cfr. ivi, pp. 64-66. 56. Cfr. J. Derrida, Geschlecht III, cit., p. 27.

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dispiegata dalla tesi che tenta di correggere l’opposizione che guasta la differenza sessuale e di ripristinare una differenza sessuale senza discordia e opposizione. Ciò che è sorprendente è che questa sfida informa di sé tutta la “logica” heideggeriana che rifiuta “il «non» come mezzo di differenziazione e di opposizione”57, e arriva a spingersi fino a sostenere che: “Il Niente non dà solo il concetto opposto a quello di ente, ma appartiene originariamente all’essere essenziale stesso.”58. Ora, questa sfida che fa leva sullo specifico rifiuto dell’opposizione rigida a cui viene richiamata la differenza sessuale, e che tocca la differenza ontologica forse al di là delle precauzioni di Derrida59 e al di là dei campi del discorso di Heidegger da lui riconosciuti come “sessuati” – mi accingo a mostrarlo – secondo Heidegger viene felicemente intrapresa dalla poesia e dal momento che la poesia conferisce per Heidegger una forma archetipa all’arte in generale, questa azione trasmigra nell’opera d’arte.

VI Nel testo su Trakl, quindi a partire dalla ripresa del tema del Geschlecht che informa il poema, viene detto che la poesia toglie l’opposizione per il fatto di stare nel distacco (im Abschied), prossima sia a ciò che si lascia (wassieim Abschied verlässt) sia a ciò verso cui il distacco destina (wohin derAbschied sich bescheidet), lo abbiamo già visto. La neutraliz-

57. M. Heidegger, Che cos’è metafisica?, a cura di F Volpi, Adephi, Milano 2001, p. 57. 58. Ivi, p. 56. 59. Geschlecht, cit., p. 16.

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zazione dell’opposizione dai significati di uno stesso elemento, vale per esempio per il colore: “Verde” è il disfacimento e il fiorire; “bianco” il pallore e la purezza; “nero” la tenebra che occulta precludendo e l’oscurità che cela custodendo; “rosso” la corposità del vermiglio e la delicatezza del rosa; “argenteo” è il pallore della morte e lo scintillio delle stelle. “Oro” è lo splendore del vero e il “ripugnante riso dell’oro”. La pluralità di significati ora accennata è, in un primo momento, solo ambiguità. Ma quando si abbia presente quella pluralità nella sua interezza, tale ambiguità non ne rappresenta che un lato: l’altro promana dall’intimo stesso del luogo del poema60.

In Perché i poeti? tramite le Elegie e le Lettere di Rilke, Heidegger fa sua l’istanza di “assumere la parola “morte” senza negazione”61, all’insegna del fatto che “allo stesso modo della luna, anche la vita ha certamente una faccia che non possiamo vedere; essa non è però il suo opposto, ma il suo completamento per quanto concerne la perfezione, la completezza, la reale, sacra e piena sfera e palla dell’essere [corsivo mio]”62, cosicché: “la morte è la faccia della vita a noi opposta e per noi non illuminata”63. Malgrado le precauzioni di Heidegger, che nella sfera parmenidea – su cui ritorna a partire dal “più ampio Cerchio” di Rilke – coglie la tenuta di un “Centro disvelante che illuminandolo custodisce l’essere-presente”, più che “l’avvolgimento che abbracci”, è difficile non scorgere nella “sfericità dell’unire

60. Il linguaggio nella poesia, cit., p. 74. 61. M. Heidegger, Perché i poeti?, in Sentieri interrotti, trad. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 280. 62. Ivi, pp. 278-279 63. Ivi, p. 279.

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unente”64 in cui parla la luna conciliante di Rilke, il fantasma della sfera di Aristofane, che offre un’immagine mitica all’origine dell’eros. Si dà il caso che proprio l’androgino, il terzo genere scomparso, ha origine dalla luna in quanto la luna è costitutivamente ambigua per il fatto che partecipa del sole e della terra65. La sfera “ben arrotondata” che dice l’essere dell’ente, che lascia essere l’ente protetto nel raggio dell’essere, sembra ridestare proprio quella condizione di indifferenza ontologica da cui proviene il taglio e la partizione dei sessi: L’aspetto di ogni uomo era in tutto tondeggiante, con dorso e fianchi circolari, quattro mani e altrettante gambe e, su un collo rotondo, due volti in tutto simili; e con una sola testa per entrambi i volti rivolti in senso opposto, e quattro orecchi e due organi genitali; tutte le altre parti le si può immaginare come conseguenza di quello che ho detto. Camminavano dritti come ora, nella direzione preferita, e quando correvano, come i saltimbanchi volteggiano in cerchio facendo ruotare le gambe, allo stesso modo essi, appoggiandosi sulle otto estremità che avevano, si spostavano ruotando rapidamente66.

L’indifferenza sessuale che nel mito di Aristofane viene strutturalmente connessa alla nascita dell’eros sembra lasciarsi pensare come l’analogo di quell’“unire unente” in cui l’ente brilla custodito nella luce dell’essere; questo vuol dire che la “palla dell’essere”(che per Rilke diventa il “più ampio Cerchio” ovvero “l’Aperto”), nella cui illimitatezza tutto si tiene, tutto entra – perché niente è oggettivo, nel senso che niente sta di-contro, niente si oppone67, ma tutto è sentito insieme 64. Ivi, p. 278. 65. Platone, Simposio, 190 b 1-4. 66. Ivi, 189 e 5- 190 a 1-4. (Trad. it. di F. Zanatta, Feltrinelli, Milano 1995, p. 65). 67. “Il rivolgimento nell’Aperto” richiesto agli uomini, scrive Heidegger commentando Rilke “è la rinuncia ad assumere negativamente ciò che è”, Perché i poeti?, cit. p. 280.

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come uno- non avrebbe che rimbalzato e urtato, così, da sempre, contro un’altra palla, contro un’altra sfera, forse la stessa, che è quella costituita dal doppio uomo, dalla doppia donna, dall’androgino di Aristofane, esprimenti una analoga pienezza d’essere. Ciò vorrebbe dire che la questione dell’essere costeggia sin dall’origine la questione dell’amore, e non è un caso che per descrivere l’“Aperto”, nel cui orizzonte Heidegger ripensa l’essere dell’ente nel suo originario riferimento all’accerchiare68, Rilke si serva di un’immagine d’amore, ribattendo dunque l’illimitato che l’Aperto significa, non sulla spazialità (cielo, aria, spazio), ma sul sentimento interiore prodotto dall’amore: Col termine “Aperto” non si intende il cielo, l’aria e lo spazio; anch’essi sono, per chi li osserva e li considera, “oggetti” e quindi “opachi” e chiusi. L’animale, il fiore sono ciò che sono senza rendersene conto, e hanno innanzi a sé e sopra di sé quella libertà indescrivibilmente aperta che forse ha il suo equivalente in noi (in modo del tutto momentaneo) soltanto nei primi momenti d’amore, quando l’uomo vede nell’altro, nell’amato, la propria immensità; nonché nell’elevazione a Dio”69.

Dal momento che nel linguaggio della poesia accade quel rivolgimento dell’essenza umana che include la trasformazione del significato dell’opposizione e che fa spazio alla verità contrastante dell’essere, la poesia si offre come il modello assoluto dell’arte in generale. Nella parola poetica avviene infatti “il passaggio dal linguaggio proprio della visione delle cose dominata dalle esigenze, dall’opera dell’occhio all’«opera del cuore»”70, e posto che l’arte prende a suo carico proprio la manifestazione dell’ente nella verità dell’essere (alètheia), 68. Ivi, p 277. 69. Ivi, p. 263. 70. Ivi, p. 293.

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tutta l’arte si riconosce per Heidegger nella poesia. Il motivo per cui ribadisco il senso di questo legame (fra poesia e arte in generale), essendo connesso con ciò che nel discorso poetico non rifugge la sessuazione, ma anzi ne iscrive la significazione in una rinnovata logica dell’essere (Trakl, Rilke), è legato al fatto che la dinamica che porta la verità a installarsi nell’ente (che diviene così “opera d’arte”) chiama in causa una particolare modalità di installazione che sembra quella del primo Schlag di Trakl, in cui la “differenza sessuale” viene posta dolcemente. Ne Il ritrarsi della metafora71 Derrida si sofferma sull’operazione fondamentale in gioco nell’opera d’arte, che Heidegger affida al Riss, il tratto che dispone la verità “nel mezzo dell’ente”, in modo che questo stesso ente testimoni e lasci accesa la lotta in cui proprio la verità consiste72. Derrida insiste sull’operazione del tratto, che “non apre una fenditura ma attira l’ad-versità verso l’unità di un contorno (Um-riss)”73, per spiegare il modo in cui la differenza ontologica viene inaugurata, il modo in cui essa si iscrive senza permanere, senza essere una cosa, piuttosto cancellandosi, non lasciando traccia – in modo da rendere impossibile la metafora – e permettendo ad altro, proprio grazie al suo sparire, di apparire. Ciò che la dà non è: ecco intravista qui la nascita del sottile scarto dell’es gibt rispetto all’essere e l’esile preliminarietà della questione dono sulla questione dell’essere. Mi pare che Derrida non vada oltre questo genere di collegamenti, di cui troviamo una conferma esemplare all’inizio de La verità in pittura74. 71. Cfr. Derrida, Psyché, vol. 1, cit., p. 67. 72. M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, cit., p. 47. 73. Cfr. J. Derrida, Il ritrarsi della metafora, cit., p. 100. 74. “I discorsi sulla pittura sono destinati forse a riprodurre il limite che li costituisce, qualsiasi cosa facciano e qualsiasi cosa dicano: c’è per essi un

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Prima di dar luogo alle mie considerazioni, che vertono su una certa natura sessuata del discorso dell’arte, vorrei richiamare il passo de L’orgine dell’opera d’arte in cui Heidegger introduce il Riss: La verità si istituisce nell’opera. La verità è presente solo come lotta fra illuminazione e nascondimento, nel contrapporsi di Mondo e Terra. La verità deve essere disposta nell’opera come lotta fra Mondo e Terra. […] La lotta non è un tratto [Riss] che spalanchi un baratro, ma è l’intimità di un convenirsi reciproco dei lottanti. Un tal tratto at-trae i contendenti verso l’origine della loro unità, in base al comune fondamento. Esso è un disegno fondamentale [Grundriss]. Esso è il profilo [Auf-riss] che disegna i tratti fondamentali dell’illuminazione dell’ente. Questo tratto non permette che gli opposti

di-dentro e un di-fuori dell’opera, non appena c’è opera. Tutta una serie di opposizioni fa seguito a questa prima, che d’altra parte non è necessariamente la prima (fa parte di un sistema la cui delimitazione stessa ripropone il problema). E il tratto vi è sempre determinato come tratto d’opposizione. Ma che cosa succede prima o senza che la differenza ne diventi opposizione nel tratto? E se non ci fosse neppure qui un divenire? Perché il divenire ha sempre forse avuto per concetto quella determinazione della differenza in opposizione. Il problema non sarebbe più allora: “Che cos’è un tratto?” o “Cosa diventa un tratto”, o “Che cos’è che ha a che fare con un simile tratto?”. Ma “in che modo si tratta il tratto? E come si contrae nel suo ritrarsi?”. Un tratto non si manifesta mai, mai in se stesso, poiché marca la differenza tra le forme e i contenuti dell’apparire. Un tratto non si manifesta mai, mai in se stesso, e mai una prima volta. Incomincia con il ritrarsi. Io proseguo qui un discorso su ciò che molto tempo fa, prima di occuparmi della pittura, avevo chiamato l’intacco dell’origine: ciò che si apre, con una traccia, senza avere inizio. Resta ancora da intaccare uno spazio che possa dar luogo alla verità in pittura. Né interno né esterno, questo spazio si allarga senza lasciarsi mai incorniciare, ma non sta mai fuori quadro”. J. Derrida, La verità in pittura, trad. it. di G. e D. Pozzi, Newton Compton, Roma 1981, pp. 16-17.

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101 si dilacerino separandosi, ma inserisce la contrapposizione di misura e limite in un unico contorno [Umriss]75.

La domanda che pongo è questa: e se quell’“altra differenza sessuale” di cui, a loro modo, vanno in cerca sia Heidegger, con i suoi poeti che fanno da sentinella, sia Derrida, con le sue figure di riferimento, Heidegger compreso, trovasse proprio nel tipo di installazione della verità ad opera del tratto (Riss), il suo tratto specifico? E se quello Schlag di Trakl, quel primo colpo, la giusta impronta che assesta il Geschlecht senza rovinare la differenza, senza fare di essa opposizione e lacerazione, potesse essere chiamato allo stesso modo, e cioè come il Riss, in nome della medesima funzione svolta: attrarre i contendenti verso l’origine della loro unità? Proprio dello Schlag che colpisce il primo Geschlecht, e che viene così definito da Heidegger: “La giusta impronta c’è solo per quella stirpe in cui la dualità si stacca dalla discordia e trapassa nella mitezza di una duplicità che è insieme semplicità o unità”76, non si potrebbero usare le stesse parole utilizzate dallo stesso Heidegger per definire il Riss nell’arte? E cioè: “questo tratto (Riss) non permette che gli opposti si dilacerino separandosi…”. Così come, allora, lo Schlag del primo Geschlecht potrebbe chiamarsi Riss, reciprocamente questo stesso Riss, nel suo andar bene per il buon Geschlecht si sessualizza, facendo in modo che nell’arte, che è poesia, e quindi linguaggio incarnato, la differenza sessuale si installi sotto, dentro, come, la verità. In fondo e similmente alla verità. L’esser innanzitutto poesia da parte dell’arte, dunque, più che nel vicolo angusto e datato della gerarchia fra le arti (in cui il discorso di Heidegger rischia a tratti di precipitare), trascina l’arte nel luogo in cui la

75. L’origine dell’opera d’arte, cit., p. 48. (M. Heidegger, Holzwege, Gesamtausgabe Bd. 5, Vittorio Klostermann, Frankfurt a. M., pp. 50-51). 76. Il linguaggio nella poesia, cit., p. 55.

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differenza ontologica tocca da vicino, fino a non distinguersi più da essa, la differenza sessuale. Ecco che allora la voce di Heidegger, pur restando quella meno esplicita (non certo la meno eloquente) sul tema della differenza sessuale, libera invece una sonorità decisiva in relazione alla possibilità di formalizzare la questione dell’“altra differenza sessuale”, permettendoci anche di sentire tanto le voci cui Derrida presta il suo ascolto sollecitando il nostro, quanto la voce stessa di Derrida.

VII Ma dov’è che è possibile sentire la voce stessa di Derrida, posto che quando affronta il tema della differenza sessuale e dell’altra differenza egli parla sempre con altri, per altri, al posto di altri? Là dove lui parla in prima persona; questo luogo è La carte postale. Come dicevo, è possibile leggere questo testo come il luogo di una ritrattazione “del triste destino di essere sempre in due” (Chorégraphies). La dualità che emerge dalle lettere testimonia infatti una tale ricchezza di passi di danza che le “incalcolabili coreografie” suggerite come correttivo a una differenza sessuale centrata sui ruoli sembrano apparire più che possibili, reali – reali e precise in ordine all’evoluzione di una questione che ha inizio prima, anche a dispetto dell’ipotesi che non si tratti che di un sogno, di un viaggio della fantasia- al punto che la domanda che chiede all’altro chi egli sia, pare chiedere, nello stesso tempo: quanti/e sono (nel)l’altro? Ecco il passo che mi suggerisce questa ulteriorità della domanda: Chi sei tu, amore mio? Tu sei così numerosa, così spartita, tutta compartimentata, anche quando sei là, tutta presente e mentre io ti parlo. La tua sinistra “determinazione” ci ha

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103 divisi in due, il nostro corpo glorioso si è diviso, è ridiventato normale, ha preferito opporsi a se stesso e noi siamo caduti, ci siamo lasciati cadere da parte a parte. Il nostro antico corpo, il primo, io lo sapevo mostruoso, ma io non ne ho conosciuto di più belli, io lo attendo ancora77.

Quali e quante voci risuonano nel “corpo glorioso” degli amanti e nella sua divisione, e quante immagini lo precedono? Quella di Aristofane, senz’altro, e poi quella di Hegel, quella di Heidegger, amplificata da Trakl; sicuramente anche quella di Diodoro Siculo, che racconta di Ermafrodito come di una “mostruosità” che raramente viene al mondo, e forse anche la “palla dell’essere” di Rilke... Questi altri estratti, che ribadiscono tutti l’idea del “corpo glorioso” e che pertanto, alla luce di questo, riunificano con sé tanto il mittente quanto il destinatario degli envois anche qualora non si trattasse che di una finzione – lo ribadisco – attestano potentemente le presenze che ho ricordato: Ti allontani di nuovo, io non piango, solo divento sempre più grave, cammino più appesantito, più serio, mi amo sempre di meno. Tu non mi rinvii soltanto, me, tu mi rinvii a me, come si emette un veleno che raggiunge il cuore senza aspettare, un’“immagine” di me che a malincuore ti perdonerò. Provo a restare leggero, a somigliare a quello che tu hai creduto di amare, mi sforzo di ridere. Non ho più niente da dire a nome mio. Disegno solo il nostro simbolo, queste linee di vita intrecciate, e nel far questo ci metto tutta la lentezza e tutta l’applicazione del mondo78.

C’è dunque un “simbolo” in gioco nelle lettere, una simbolicità che si accresce a dismisura, come vedremo, e che è il motivo per cui le riprendo a conclusione di questo capitolo;

77. La carte postale, cit., pp. 207-208. 78. Ivi, p. 148.

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ma essa mi offre anche l’occasione di un chiarimento del ruolo che il mito di Aristofane, che è l’archetipo assoluto della simbolicità a partire dall’eros, può ancora ricoprire al cospetto dello “scambio di figura”, o forse in seno ad esso, una volta considerato quest’ultimo come la traccia più significativa dell’“amore platonico”. La domanda che mi pongo e che nasce nel punto in cui il percorso di Derrida, che parte da una domanda sulla differenza sessuale, ed il mio, che lo incrocia, ma che ha nel chiarimento dello “scambio di figura” il suo fuoco tematico, alla fine convergono, è la seguente: cosa resta dell’androgino e come intendere il suo mito, alla luce del percorso di differenziazione e di somiglianza che innesca il divenire sé nell’eros, abbordato tanto dall’Alcibiade I quanto testimoniato dal passo della lettera di Derrida ora citato (“tu non mi rinvii soltanto me, tu mi rinvii a me”; “non ho più niente da dire a nome mio”)? La questione è decisiva per l’unità della mia ermeneutica platonica, per il raccordo di questo lavoro dalle molte risonanze, e per comprendere l’aspetto che la differenza sessuale assume nelle lettere di Derrida. Nel momento magico del riconoscimento affrontato dall’eros, la memoria dell’androgino è qualcosa che si produce nella novità piena dell’incontro e dell’intesa, essa non si riferisce a una condizione perduta del passato, ma si ricostituisce al presente. Il mito dell’androgino nasce in quel momento, nel suo qui ed ora, e non significa quindi la nostalgia al futuro per un’impossibile cancellazione della distanza. Il riconoscimento della somiglianza è pertanto il riconoscimento pieno, nel desiderio, della reciprocità dentro l’assolutezza della distanza (“Si ricerca l’amore di un essere che ci somigli perfettamente, ma che sia altro da noi”, Musil). Dopo tutto, se il senso fosse quello dell’unità perduta del passato, il tema dell’incesto come metafora di una differenza lieve (che affiora in Hegel ed

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è enfatizzato in Derrida) non avrebbe alcun rilievo. Fratello/ sorella, padre/figlia, invece, ritornano, de-naturalizzati o rinaturalizzati dagli “sposi”79, riprodotti dall’amore che al cuore della differenza pone la somiglianza. In Hegel e Derrida l’incesto diventa un tema propriamente erotico, la cui scoperta è felice perché attesta che la distanza fra sé e l’altro, pur restando infinita, volge infinitamente in circolo: dove essa si impone là compare anche un luogo di riunificazione. Sotto il pretesto della “legge del genere” e de “la follia del giorno”, io parlerò di te, non lo saprà nessuno, e dell’io/noi della mia unica figlia, di questa folle alleata che è la mia legge e che il mio “si” spaventa80. Tu sei mia figlia e io non ho una figlia81. La nostra storia è anche una progenitura gemellare, una processione di Sosia/sosia, Atreo/Tieste, Shem/Shaum, S/p, p/p (penman/postman) e sempre di più io mi metempsicotizzo di te (je me metempsychose de toi), sono con gli altri come tu sei con me (per il meglio ma anche, lo vedo bene, per il peggio, assesto loro gli stessi colpi). Non ho mai imitato nessuno in modo così irresistibile [corsivo mio]. Provo a scrollarmi di dosso qualcosa: se è vero che ti amo infinitamente, non amo tuttavia tutto di te, voglio dire quei tuoi abitatori con i loro piccoli cappelli l’unicamente ogni volta che amo: al di là di tutto ciò che è, tu sei l’uno – e dunque l’altro82.

79. Sapendo bene che il matrimonio è ovunque si dia l’amore, per Hegel, tesi cui risponde la “philatelìa” di Derrida: “Phila-télie, c’est alors l’amour without, avec/sans mariage, et la collection de tous les timbres, l’amour du timbre avec ou sans l’amour timbré”. La carte postale, cit., p. 63. 80. Ivi, p. 216. 81. Ivi, p. 188. 82. Ivi, p. 155.

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Alla mimesis e alla metafora dell’incesto fanno da sponda l’ermafroditismo e il cambio del sesso di questi altri passaggi: Che cosa ti perseguita infine? Ecco le mie due ipotesi: 1. Noi siamo Ermafrodito stesso. […] Ermafrodito, non degli ermafroditi malgrado le nostre bisessualità adesso scatenate nel testa a testa assoluto, Ermafrodito in persona, nominato propriamente. Ermes + Afrodite (la posta, la cifra, il volo, l’astuzia, il viaggio e l’invio, il commercio + l’amore, tutti gli amori). Ho finito di interessarmi alla mia vecchia storia Thot-Hermes, etc. Ciò che mi affascina adesso, nel figlio di Hermes e Afrodite, è la ripetizione e il raddoppiamento della storia: una volta unito a Salmacide, egli forma con lei, di nuovo, un corpo dalla doppia natura. Poi ottiene che chiunque si bagni nel lago Salmace (di cui lei era la ninfa) possa perdervi la virilità83. Vorrei essere il tuo segretario. Mentre saresti fuori, io trascriverei i tuoi manoscritti della notte o le bande magnetiche sulle quali tu avresti improvvisato, farei qualche intervento discreto che saresti la sola a riconoscere, mi occuperei dei bambini che tu mi avresti dato (è anche il tuo sogno, non è così?), io li allatterei pure, e quasi stabilmente sentirei l’ultimo arrivato respirare nel mio ventre. Li terremmo tutti. Tu saresti sempre in me o dietro di me, io non sarei accessibile, nel fondo di me, che alla tua lingua, a lei soltanto84.

Al di là della loro potenza fiabesca ed evocativa e della loro dolcezza e malinconia, le lettere de La carte postale ci mettono inaspettatamente dinanzi al dato ricercato: l’altra differenza sessuale. Che dicono, infine, a suo carico? Esse dicono che la differenza sessuale non è niente di disponibile, non è mai un a priori da poter presupporre, perché essa è un risultato, è

83. Ivi, p. 158. 84. Ivi, p. 78.

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un fatto che si fa, di volta in volta, nella relazione erotica. Nel fare la differenza, l’eros disfa ogni presupposizione naturale e attribuisce il sesso di volta in volta. “Di volta in volta” vuol dire infatti che la volta, e cioè l’istante in cui si decide di amare e si comincia a farlo veramente (“a partire da questo giorno qui”, Alcibiade I), decide anche il sesso degli amanti. Di Eros, Esiodo dice nella Teogonia che non ha niente prima di sé, se non il Caos, la Terra e suoi recessi; la sua prerogativa è di essere lysimelès, scioglitore delle membra85. Questo vuol dire che l’amore che fa scambiare la figura disfa anche l’ordine delle parti di cui è composto il corpo (che gli è dunque sottoposto) e lo ricompone a partire da sé.

85. Cfr. Esiodo, Teogonia, 120.

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Iperbole dell’amicizia

I Come è noto, per Aristotele non c’è una questione dell’amore che possa essere ritenuta analoga alle questioni dell’etica, della politica, dell’arte o del linguaggio. Il fenomeno erotico è latitante nella sua filosofia; se appare lo fa in controluce, quando la messa a fuoco del pensiero mira a guadagnare l’evidenza di altri fenomeni, primo fra tutti il fenomeno dell’amicizia. Quella sorta di definizione dell’eros fornita nell’Etica Nicomachea: “hyperbolè tes philìas1”, non fa che ribadirne, del resto, la dipendenza teorica: il suo comparire a ridosso della philìa, in modo condizionato, dunque, perché all’interno di una comparazione dove l’amicizia fornisce di volta in volta la chiave e la misura per la valutazione. Ma che cosa vuol dire “hyperbolè tes philìas”, iperbole, eccesso, d’amicizia? A un primo sguardo questa espressione sembra confermarci nel pensiero rassicurante secondo cui ci sarebbe un grado positivo dell’amicizia di cui l’eros costituirebbe poi, secondariamente, l’iperbole, l’eccesso... Il grado “positivo” sarebbe suscettibile così di un 1. Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, trad. it. di M. Zanatta, Rizzoli, Milano 1986 (1071 a 11-12).

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accrescimento e forse anche di una potenziale deriva, e qui, in questo limite difettivo dell’amicizia, comparirebbe l’eros… Ma a ben vedere questo “grado positivo” non esiste, perché tutta la philìa è affetta da una deriva aleatoria, da una dismisura reale o potenziale, che coincide con la dismisura dell’altro con cui si entra, ogni volta, in relazione d’amicizia. Questo dato viaggia dall’Etica Eudemia alla Nicomachea senza eccezioni. Dopo un esordio che tende a mostrare una certa connaturalità della philìa (“L’amicizia pare essere ingenita per natura in chi procrea verso la creatura e nella creatura verso il genitore, non soltanto negli uomini ma anche negli uccelli e nella maggior parte degli animali…”2), nell’Etica Nicomachea Aristotele riassume rapidamente la questione della sua genesi, questione che aveva già occupato Platone nel Liside. Da cosa procede l’amicizia? Dalla somiglianza o dalla contrarietà? Aristotele sembra svoltare verso una diversa impostazione del problema avente il suo fulcro in ciò che – al di là della somiglianza e della contrarietà – si costituisce per ciascuno come “amabile” (philetòn). Anche se questo fosse solo un amabile apparente (philetòn phainòmenon), poco cambierebbe quanto alla struttura profonda di ciò che determina l’essere amico. Ma proprio quando, con la centralità dell’amabile, approdiamo allo schema triadico dell’amicizia, risulta evidente il peso che la somiglianza e la differenza tornano ad avere per il ritrovamento della forma archetipa dell’amicizia, così ricercata da Aristotele ma anche così mancante a se stessa, parafrasando il titolo di un celebre saggio di Jean-Luc Marion riguardante giusto la natura della metafisica aristotelica3. 2. Ivi, 1155 a 16-19. (Trad. it. p. 705). 3. Cfr. Jean-Luc Marion, La science toujours recherchée et toujours manquante, in La métaphysique, Son histoire, sa critique, ses enjeux, édité par Jean-Marc Narbonne et Luc Langlois, Librairie philosophique J. Vrin/ Les Presses de l’Université Laval. Laval, Paris 1999.

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Tre sono i tipi di amicizia, perché tre forme ha l’amabile: l’utile, il piacevole, il bene. La differenza fra chi diventa amico di un altro in ragione dell’utile e del piacevole (accomunati in fase introduttiva) e chi lo diventa a causa del bene, secondo Aristotele poggia sul fatto che i primi due restano indifferenti alla vera essenza dell’amico, “si amano non per se stessi (ou kath’autoùs philoùsin)”4; “non in quanto si tratta della persona amata (ouk e o philoùmenòs estin)”5; “non è infatti in quanto chi è amato è quello che è nella sua essenza che viene amato, ma in quanto apporta l’uno qualche bene l’altro un piacere” (ou gar e estin hosper estin o philoùmenos, taute phileitai, all’e porizoùsin oi mèn agathòn ti oi d’hedonèn)6. Questi amici si rivolgono dunque alle “proprietà” che ciascuno detiene, alle cose da scambiare, ma l’irripetibilità ontica (on e on) di ciascuno resta fuori gioco, non goduta. Aristotele non esita a servirsi del linguaggio della sua “ontologia” per questa presentazione dell’amicizia che manifesta il primato della sostanza a partire dalla perfezione contenuta nell’amicizia fondata sul bene: quella che vuole l’altro in quanto altro, quella che tiene il fine nella sua purezza, senza distorsioni, quella in cui basta l’intenzione (proairesis) – poiché questa è salda7 –, e che non a caso è definita nell’Etica Nicomachea, telèia philìa appunto. Amicizia perfetta perché aventesi nel suo fine (telos), e dunque finalizzata in se stessa, in cui il fine – volere lo stesso l’uno per l’altro – è tutto perché è voluto assolutamente e cioè senza condizioni: 4. Aristotele, Etica Nicomachea, 1156 a 11. 5. Ivi, 1156 a 16. 6. Ivi, 1156 a 16-19. (Trad. it. p. 711). 7. Cfr. ivi, 1163 a 21-23. (“Nelle amicizie secondo virtù non vi sono accuse, ma è l’intenzione di chi opera il beneficio che assomiglia alla misura. Infatti nell’intenzione risiede il fattore decisivo della virtù e del carattere”. (Trad. it. pp. 761-762)).

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112 L’amicizia dei buoni, vale a dire di coloro che sono simili in virtù, è perfetta. Questi, infatti, in quanto buoni, vogliono in ugual modo l’uno ciò che è bene per l’altro, e buoni essi sono di per se stessi. Ma coloro che vogliono ciò che è bene per gli amici per loro stessi, sono massimamente amici, giacché ciascuno lo è dell’altro per l’altro stesso e non per accidente quindi l’amicizia di costoro perdura finché sono buoni, e la virtù è cosa durevole (oi de boulòmenoi tagathà tois philois, ekeìnon heneka malista philoi di’autoùs gar outos hechousi, kai oukatà symbebekòs; diamènei oun he touton philìa heos an agathoi osin, e d’arète monimon)8.

Nell’Etica Eudemia, per ribadire lo stesso concetto, Aristotele si esprime così: Ora poiché essere amici in atto (kat’enèrgheian) è godere dell’oggetto dell’amicizia in quanto oggetto dell’amicizia (tò philoumenon estì chresthai e philoùmenon) e l’amico è oggetto dell’amicizia per l’amico in quanto amico (tò philo e philos), ma non in quanto musicista (me e mousikòs) o medico (e iatrikòs), allora il piacere (hedonè) che deriva da quello (ap’autoù) in quanto è proprio lui (he autòs), è esattamente il piacere dell’amicizia (aute philikè). Infatti si è amici di costui in quanto è proprio lui (autòn gar phileì) e non in quanto è un altro (ouk allos)9.

L’essere amato, l’essere amico, disvela dunque l’essere di un ente particolare (“è proprio lui e non in quanto è un altro”), gli dona cioè la possibilità di essere visto per quello che è, in carne e ossa. Ora, questo tipo di argomentazione, riproduce esattamente il discorso che Socrate fa ad Alcibiade e su cui Proclo insiste nel suo Commentario, quando gli mette sotto gli occhi la differenza fra il suo modo di essere amante (il mi8. Ivi, 1156 b 4-13. (Trad. it. pp. 713-715). 9. 9 Aristotele, Etica Eudemia, in Aristotele. Le tre etiche, a cura di A. Fermani, Bompiani, Milano 2008. VII, 1237 a 40 – 1237 b 1-4. (Trad. it parz. mod, p. 313).

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gliore amante dirà Proclo) e gli amanti occasionali avuti da Alcibiade (definiti da Proclo amanti da strapazzo)10. Questi ultimi amavano Alcibiade per le sue “cose”, mentre da vero amante Socrate ha sempre amato Alcibiade-in-persona, il “tu” insostituibile di Alcibiade, mostrando di saper svuotare questo “tu” da ogni proprietà ontica, fino a farlo risiedere nelle sue speranze, e ad amarlo in forza del loro impalpabile ed invisibile darsi. Socrate dice infatti che sono “le belle speranze” nel cuore di Alcibiade a tenere vivo l’amore che egli prova ancora, ma che si trova contrariato dal constatare che Alcibiade non agisce conformemente ad esse, anzi le allontana sempre di più, allontanandosi così da ciò cui pretenderebbe invece di tendere. Tipico errore di chi non ha ancora gli strumenti per prendersi cura del proprio desiderio e innesca un movimento contrario a questo stesso desiderio, rovinoso per la stessa vita. La questione della cura di sé (epimèleia heautoù) si riassume tutta qui.

II Alla luce di questo affondo platonico che anticipa la questione posta da Aristotele, credo sia lecito chiedersi se il paradigma ontologico dell’opposizione fra sostanza e accidente sia “prestato” all’amicizia e di conseguenza anche all’eros, che lo confermerebbero al pari di altri fenomeni, o se esso non nasca piuttosto dalle bruciature di senso dell’eros e della philìa. Questa è la nostra tesi, secondo la quale, appunto, la “metafisica” acquisisce la sua categorizzazione ontologica portante, e cioè la lettura dell’ente secondo la sostanza e l’accidente, dalla distinzione – che è già il punto di forza dell’Alcibiade I- fra

10. Rinvio al Capitolo I di questo lavoro.

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l’essere insostituibile dell’ente-in-quanto-amato, che appunto in-quanto-amato per se stesso risulta essere secondo se stesso (kath’autò) e l’essere duplicabile delle proprietà che gli competono e che esso condivide anche con altri enti. C’è di più. In riferimento alla philìa prote, equivalente della telèia philìa dell’Etica Nicomachea, l’Etica Eudemia dice anche qualcosa di essenziale sul senso dei molti modi in cui si predica l’essere e sul riferimento privilegiato alla sostanza come pros hen kaì mian tinà physin11, là dove però la sostanzialità è naturalmente requisita dal riferimento all’“essere amico” fornito dall’amicizia dei buoni – telèia o prote philìa. La premessa è che poiché il bene si dice in molti modi, i molti modi non possono che essere tutti buoni. Buoni in un senso pre-morale, “buoni” nel senso di benvenuti, approvati, aventi diritto a essere accolti, ammessi senza censura: Poiché, dunque, il bene si dice in molti modi (una cosa, infatti, è buona per il fatto di essere tale, un’altra perché è vantaggiosa e utile) e inoltre ciò che è piacevole o lo è assolutamente ed è assolutamente buono, o lo è per qualcuno ovvero lo è perché appare tale, e, come capita anche nel caso degli oggetti inanimati, in cui è possibile che ne scegliamo uno e questo lo amiamo per ciascuno di questi motivi, così vale anche per un essere umano. Infatti, una persona la amiamo per ciò che è a causa della virtù, un’altra perché è vantaggiosa e utile, un’altra ancora perché è piacevole e a causa del piacere […] Dunque è necessario (anànke) che ci siano tre specie di amicizia e che non siano tutte ricondotte ad un’unica definizione né ad un unico genere [corsivi nostri], ma neppure che [tra esse] ci sia una completa omonimia. Infatti esse sono denominate in relazione a una sola amicizia, che è la prima, come nel caso del termine “medico”. E, infatti, diciamo “medico” sia a proposito dell’anima sia del corpo, dello strumento e dell’opera, ma chiamiamo medico in senso proprio solo ciò che è primo.

11. Aristotele, Metafisica, Γ 2, 1103 a 33-34.

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115 “Primo” è quello di cui possediamo la nozione […] poiché però l’universale è il primo, intendono anche il primo come universale, ma questo è falso (dià de tò kathòlou einai [tò] proton lambanousin kai proton kathòlou, touto d’esti pseudos). Di conseguenza, anche nel caso dell’amicizia, essi non riescono a spiegare tutti i fenomeni. Infatti pensano che le altre forme non siano amicizia, dal momento che non si adattano ad un’unica definizione, mentre invece lo sono (einai), anche se non nello stesso modo (all’ouch homòios). Essi, al contrario, qualora la prima forma di amicizia che, in quanto prima, deve essere universale, non si adatti a quelle, affermano che le altre non sono neppure amicizie; al contrario esistono molte specie di amicizia (esti dè pollà eide philìas)12 […] Dunque, definire l’amico soltanto in quel modo significa fare violenza ai fenomeni (biazesthai tà phainòmena), ed è inevitabile dire cose paradossali; d’altro canto è impossibile che tutte le amicizie si riducano ad un’unica definizione (kath’hena de logon pasas adynaton). Resta dunque che, in un senso, solo quella prima forma si configuri come amicizia (hos mone he prote philìa) ma che, in un altro, lo siano tutte (esti dè hos pasai), né però come simili solo per nome e aventi tra di loro solo relazioni casuali (oute hos homònumoi kaì hos etychon echousai pros heautàs), né secondo una sola forma (oute kath’hen eidos), ma piuttosto in riferimento a una sola (allà mallon pros hen)13.

La philìa prote rivela qualcosa di decisivo rispetto al modo di darsi della “sostanza” e al senso del suo venir per “prima” che si esprime come pros hen. Essa lascia intendere molto chiaramente, senza richiedere un particolare sforzo interpretativo, di cui forse necessita ancora il testo di Metafisica Γ, 2, se non altro a causa del peso della tradizione che vi si è sedimentata, che non è vero che la sostanza presidia l’essere imponendogli

12. Etica Eudemia, 1236 a 8- 1236 a 30. (Trad. it. parz mod. pp. 303-305). 13. Ivi, 1236 b 22- 26. (Trad. it. parz. mod. p. 307).

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un “senso unico”, perché la sostanza resta compresa fra i molti modi di dirsi di ciò che è, allo stesso modo in cui l’amicizia dei buoni resta compresa fra i molti modi dell’amicizia, in cui sono inclusi a pieno diritto sia l’utile che il piacevole. Questa difesa sostenuta delle amicizie “imperfette” (“è impossibile che tutte le amicizie si riducano ad un unico logos”), che secondo Aristotele vengono declassate a torto dal rango di amicizie sulla base della loro difformità rispetto alle condizioni vigenti nell’amicizia dei buoni - il che costituisce una “violenza verso i fenomeni”–, non solo toglie ogni idea di requisizione violenta al pros hen – l’idea del forziere del senso in fin dei conti unico malgrado i molteplici significati – ma fa comprendere che la “sostanza” (di cui l’amicizia dei buoni è il paradigma) è solo uno dei molti modi dell’essere, il primo quanto alla struttura della predicazione, ma si tratta di un primato che lascia essere i molti modi nella loro indipendenza. Tutto ciò che è per accidente, come le amicizie fondate sull’utile e sul piacere, deve poter dirsi in riferimento a ciò che è per sé e primo, ma il senso d’essere di ciò che è per accidente non può risolversi in quello di ciò che è per sé e nel suo primato. Questa difesa della contingenza e questo lasciar essere la difformità sembrano scaturire dalla precisazione offerta nel testo, riguardante il fatto che se è vero che ciò che è primo (l’amicizia fra i buoni) è ciò di cui “possediamo la nozione” (proton d’ou logos en hemìn hypàrchei), non dobbiamo d’altra parte commettere l’errore di pensare che posto che l’universale è primo, anche il primo (proton), reciprocamente, debba essere universale (kathòlou). Una tale inferenza, che limiterebbe, censurandola, la ricchezza dell’esperienza degli amici e la stessa manifestazione dell’amicizia per gli uomini, riconducendo forzatamente le amicizie ad una sola definizione, è giudicata da Aristotele semplicemente falsa (touto d’esti pseudos)14. 14. Questa non reversibilità fra l’universale e il primo smentisce la tenuta perfetta di quella che sulla scia di R. Brague è stata chiamata katholou-pro-

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Va notato, inoltre, che l’idea aristotelica è che il primato ontologico dell’ousìa non si apprezza immediatamente in ordine a ciò che è semplicemente (to on to aplòs legòmenon, per usare l’espressione di Metafisica E, 2. 1026 a 33-34) bensì in ordine a ciò che è (o che si dice essere) per sé. È qui che viene in gioco il ruolo strategico della precedenza dell’ousìa: come nel caso delle diverse forme di amicizia, quel che i diversi modi della predicazione hanno in comune non è una qualche qualità isolabile in termini di contenuto, bensì il riferimento a ciò che è primo. Che l’ousìa sia il primo a essere detto per sé, katà autò, significa che, in ogni altro dei suoi modi di dirsi, ciò che è potrà dirsi katà autò sempre e soltanto in riferimento al sé di qualcos’altro che sia dapprima (che sia stato dapprima detto ente) al modo dell’ousìa. Nulla vieta che una qualità, una quantità, un dove, un quando, comunque presi quali determinazioni accidentali della cosa, si rendano per sé oggetto della

tologia: “un mouvement qui prend son départ dans quelque chose comme une généralité pour aboutir à une concentration sur une réalité suprême (première), mais telle qu’elle permette de recouvrer la généralité qui avait d’abord été quittée. La généralité n’est pourtant jamais récupérée au même niveau. En effet, au point de départ, c’est de la présence en tant que telle qu’il s’agit, alors qu’au terme, on se trouve en face de ce qui est présent au plus haut point et capte la totalité du présent. Ce qui est «premier» (protos) fonctionne de la sorte comme un pivot sur lequel on tourne d’un «general» (katholou) à un autre”. (Aristote et la question du monde, Paris, Puf 1988, p. 514). Nell’Etica Eudemia Aristotele dice espressamente che il “primo” rappresentato dalla prote philìa non requisisce né il senso né la varietà dei molti (le molte amicizie “accidentali”), ragion per cui esso non può dirsi “universale”. Ciò impedisce dunque di pensare a qualcosa di presente al massimo grado che “cattura la totalità del presente” per riferirci all’espressione usata da R. Brague. Dalla philìa (letta nella sua vicinanza all’eros) come paradigma originario dell’ousìa piuttosto che derivato da essa verrebbe fuori, dunque, un modo rigorosamente democratico di leggere il pros hen che proprio in forza della sua accoglienza della molteplicità limiterebbe la struttura katholou protologica che secondo Brague non soffrirebbe di suo dei limiti di applicazione dell’onto-teo-logia (cfr. op. cit., p. 513).

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nostra attenzione, che siano portati per sé alla parola, al logos, ambientati nello spazio dell’interrogazione sul loro che cos’è. Ma ciò accade solo a condizione che, e solo nel limite in cui, questo sé contenga in se stesso il riferimento al sé di ciò che è al modo dell’ousìa e il cui logos già ci appartiene (non per nulla, come si precisa nell’Etica Eudemia, “primo” è da intendere ciò il cui logos è già in noi). Non per questo il sé di una qualità, di una quantità, coinciderà con il sé della cosa che lo possiede (ciò equivarrebbe a ricondurre tutto sotto un unico aspetto); tuttavia questa divaricazione ha il carattere di un rinvio, di un differimento. Sulla scia dell’eros in cui si origina e della philìa che la raccoglie, la distinzione fra il “tu” e le “cose” che gli appartengono, getta una luce nuova sull’intera ontologia aristotelica, fornendone una potente e alternativa chiave d’accesso. Non solo essa sembra rivelare la radicazione pratica della questione ontologica nella proairesis tou biou, nella “scelta di vita” con l’altro – l’amicizia non sussisterebbe senza scelta15 – esponendoci così il fatto nudo e crudo della preferenza e dell’esclusione, potenzialmente portatrici di contesa e disordine in seno all’essere, nella misura in cui aprono lo spazio all’errore, al tradimento e alla sovrapposizione fra l’amabile reale e quello apparente. Ma, allo stesso tempo, questo tipo di origine bivalente dell’ontologia platonica e aristotelica proveniente dalla distinzione fra il “tu” e le “cose” che gli competono, spiega anche in modo nuovo la vera ampiezza della metafisica, la necessità, cioè, per cui essa non può che farsi e dirsi, sin dalla sua nascita, onto-teo-logica. Essa spiega, cioè, la ragione di una tale, essenziale, biforcazione dal punto di vista non neutro di una logica del desiderio che attraversa la metafisica in Platone

15. Cfr. Etica Nicomachea 1157 b 30, 1163 a 20-23; Etica Eudemia 1236 b 1-6.

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e Aristotele16. Fedelmente al “tu”, la teo-logia sarebbe il segno più forte dell’ancoramento del desiderio e del pensiero a ciò che è voluto in quanto è quel che è, indipendentemente da come è (per il puro ekeìnou heneca, fine costituito dall’altro in quanto altro, che ci ricorda l’Etica Nicomachea); essa continuerebbe a offrire la traccia (quand’anche non più suscettibile di generare preghiere e danze, quand’anche usurata e persa nei cieli dei filosofi) di un “tu” veramente amabile che porta la distinzione in seno all’essere, e che dell’essere sconfessa innanzitutto la neutralità, facendo nascere al suo interno, come un rifiuto del mero il y a, l’istanza della persona: non solo il dio è vivente – senza avere physis17 – nella misura in cui è pensante, ma egli è anche hos eròmenon. Un dio che si comporta come un amato e che in quanto tale, a partire da sé, dal suo modo d’essere, trascina l’essere amato in linea di continuità con la vita (zoè) e non con la physis18. L’onto-logia, di contro, si approprierebbe di quella varietà e disponibilità dell’essere leggibile nelle “cose”, fino a dimenticare e a disperdere la traccia della separazione originaria da cui questa stessa disponibilità proviene, separazione recante la traccia del “tu” abbordato e governato dall’amore – “Tu” di contro a “le cose”

16. Nel Fedone la “seconda navigazione” che è vista come l’atto di nascita della metafisica in Platone, nasce sullo sfondo di una conformazione del desiderio all’istanza del “meglio per l’ente” che perviene nel caso di Socrate all’accettazione della morte (cfr. Fedone, 98 e 99 b). Così nel libro XII della Metafisica l’oggetto primo del pensiero coincide con l’oggetto primo del desiderio e questa coincidenza spiega il movimento del motore immobile (cfr. Metafisica L, 7, 1072 a 26-30). 17. Essendo atto senza potenza il motore immobile non ha physis ma allo stesso tempo è definito zoon, vivente. Cfr. Metafisica XII, 7, 1072 b29. 18. La nostra tesi per cui la differenza sessuale resta l’attestazione di un tratto naturale dell’ente che tuttavia non dipende più dalla natura nella misura in cui è fatta dall’eros trova in questa separazione di zoè e physis, che per Aristotele concerne la vita di Dio, uno spunto fecondo.

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di questo Tu che spesso prendono il posto del “Tu”. Ma ecco che nell’automatismo di questa appropriazione divenuta irriflessa, che vira verso le cose e che ricostituisce in esse, per via di allontanamento, quello stabile, quel vero e quel costante (l’ente-in-quanto-ente, la sostanza anonima) che originariamente competono all’ente-in-quanto-amato, la teologia riporta e riaccende la traccia di un “Tu” personale. Quest’ordine di considerazioni spiegherebbe anche la necessità, da parte di Aristotele, di introdurre un sia pur minimale segno del linguaggio dell’amore nella sua teologia: hos eròmenon.

III Ma torniamo alla philìa, secondo la cui traiettoria saremo ricondotti, infine, proprio alla metafora di Dio come hos eròmenon. Quella che concerne i buoni è caratterizzata da una condizione di assolutezza: ciascuno è buono per se stesso e per l’amico, al punto che anche il piacevole e l’utile vengono ricompresi in questa perfezione che rasenta la rarità19 per il suo portare in sé una condizione di uguaglianza capace di rendere duratura, stabile, l’amicizia: “le amicizie sono massimamente durature quando identico è ciò che ad ogni parte viene dall’altra”20. Il ritrovamento di questa condizione paritaria elettiva sembra chiudere la partita dell’amicizia dalla parte della virtù, come se il seguito della trattazione non dovesse essere che un’apologia dell’amicizia virtuosa in cui da parte a parte circola la medesima virtù. Ma la posta in gioco presto si alza e rimette tutto in discussione. Vale la pena di sottolineare che proprio nello spazio dell’annuncio di questa condizione

19. Cfr. Etica Nicomachea, 1156 b 12-25. 20. Ivi, 1157 a 2-4. (Trad. it. p. 717).

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paritaria dell’amicizia perfetta, si prospetta anche il punto di massima lontananza da questa condizione. Questo punto è costituito dalla situazione dell’amante e dell’amato: le amicizie sono massimamente durature quando identico è ciò che ad ogni parte viene dall’altra – ad esempio piacere –; e non soltanto questo, ma viene anche dalla medesima fonte – come ad esempio fra persone facete –, e non come tra amante (erastè) e amato (eromèno). Costoro infatti non godono delle stesse cose (ou gar epì tois autois hedontai outoi), bensì l’uno del vedere l’amato (o mèn horòn ekèinon), l’altro dell’essere l’oggetto delle cure dell’amante (o dè therapeuòmenos hypò tou erastoù)21.

L’eros si costituisce immediatamente come il luogo di massima lontananza dalla condizione “esemplare” dell’amicizia, perché contrariamente ad essa non c’è uguaglianza né proporzione all’interno della relazione che esso prospetta. Gli amanti non godono delle stesse cose e quindi forse, stando ad Aristotele che sembra il precursore di Lacan, non godono affatto, se ciò che fa veramente godere è la condizione di reciprocità che proviene dall’essere pari, uguali; dallo scambiare la stessa moneta. In forza del suo dar luogo alla forma più violenta di irreciprocità nella relazione, l’eros manifesta allora il cuore irreciproco dell’amicizia; la specie che del genere manifesta, senza edulcorarla, la natura aporetica. Esso mostra senza veli ciò che la philìa scongiura, aggiusta e corregge indefessamente: il fatto che ciascuno chiede all’altro ciò che questi, proprio perché altro, non può esaudire; in questo modo l’eros non chiude ma anzi alza il sipario sulla differenza in atto: Gli amanti a volte appaiono ridicoli quando reputano d’essere giusto d’essere amati come essi amano (axiountes phileisthai hos philoùsin). Se fossero amabili allo stesso modo si dovrebbe senz’altro ritenerlo giusto (homoios dè philetoùs ontas isos 21. Ivi, 1157 a 3-8.

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122 axiotèon), ma poiché non hanno niente di siffatto è ridicolo (medèn dè toioùton echontas ghelòion)22.

L’Etica Eudemia conferma questa inquietante assenza di uguaglianza che implica la difficoltà di scorgere il giusto: Sono molte le lamentele che nascono nelle amicizie tra coloro che non si pongono esattamente sullo stesso piano (me kat’eutyorìan), e non è facile vedere ciò che è giusto (tò dikaion idèin ou radion). Infatti è difficile misurare con una sola unità (metresai henì) ciò che non si colloca sullo stesso piano, come accade nelle relazioni amorose23.

L’eros prospetta quindi, sin da subito, la condizione difettiva paradigmatica da cui la philìa deve essere salvata24, esso non espone una difettività qualunque, ma la difettività per eccellenza che l’amicizia deve scongiurare per tendere alla sua forma perfetta. Ancora di più, la tenuta di questo telos sembra dipendere dalla forza di un tale scongiuro. Benché siano molte le specie imperfette di amicizia, che tuttavia per analogia possono essere ricondotte all’amicizia esemplare attraverso l’introduzione di un correttivo proporzionale che permetta di mantenere la somiglianza con quella25, l’amicizia fra amante e amato resta la manifestazione più acuta e insidiosa dell’irreciprocità che minaccia l’amicizia, un’irreciprocità che però, come vedremo, insidia costantemente l’amicizia dall’interno, rendendo insicuro il suo nocciolo di reciprocità. L’imperfezione dell’amicizia fra amate e amato non espone, dunque, solo la sua parziale difettività di caso fra tanti altri di amicizia imperfetta, ma offre il contro-esempio di ciò che appunto paradigmaticamente scalfisce il telos stesso della perfe22. Ivi, 1158 b 15-19. (Trad. it. p. 737). 23. Etica Eudemia, 1243 b 15-18. (Trad. it. p. 355). 24. Cfr. Etica Nicomachea, 1163 b 11-12. 25. Cfr. ivi, 1158 b 11-28.

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zione cui l’amicizia tende (telèia philìa). Ciò che è paradossale è che questo contro-esempio non alberga lontano dall’amicizia, in una distanza di sicurezza, ma anzi costeggia la philìa da presso, entra in una mimesis con essa, presta ad essa alcune delle sue condizioni strutturali: come l’esiguità numerica dei veri amici che vira verso la rarefazione dell’uno (che è la condizione propria dell’eros) e la condizione di vita in comune, di mescolanza di vita (syzen), che è anche questa appannaggio precipuo dell’eros. Le analogie insomma non mancano, e la stessa definizione dell’eros come “iperbole dell’amicizia” viene fuori, è il caso di dire, nello spazio di un “come” che non espelle, ma che anzi trattiene, la somiglianza fra eros e philìa: Non è possibile essere amico di molti secondo l’amicizia perfetta, come non è neppure possibile essere innamorati di molte persone allo stesso tempo (l’amore infatti assomiglia a un eccesso [hyperbolè], e una determinazione di questo genere si rivolge naturalmente verso una sola persona)26.

Ancora nel libro IX questa analogia viene ripresa a partire dall’esigenza di ipotizzare il numero degli amici in relazione alla vita di intimità, al con-vivere (syzèn) che l’amicizia richiede come sua condizione peculiare: Non è forse che, come per gli amanti (hosper tois eròsi) il vedere l’amato è la cosa più cara ed essi scelgono questa sensazione più delle altre, nella convinzione che è soprattutto secondo questa che vi è e nasce l’amore, così (hos) anche per gli amici il vivere in intimità (syzèn) è la cosa più desiderabile?27

E ancora: Insomma, è senz’altro bene non cercare di avere il maggior numero possibile di amici, ma tanti quanti sono sufficienti a vivere in intimità, giacché tutti ammetteranno che non è

26. Ivi, 1158 a 10-13. (Trad. it. p. 725). 27. Ivi, 1171 b 29-32. (Trad. it. p. 823).

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124 neppure possibile essere intensamente amico di molti. Per questo motivo non è neppure possibile essere innamorato di molti: l’amore vuol essere infatti una sorta di eccesso d’amicizia (hyperbolè gar tis einai bouletai philìas), e questo è verso una sola persona. Pertanto anche l’essere intensamente amici sarà verso poche persone28.

L’eros, dunque, porta all’eccesso, con il suo volere per uno solo, lo stesso limite che la philìa riscontra nel non poter rivolgersi a molti secondo la sua forma perfetta e il suo ideale di vita in comune, ma i “pochi” dell’amicizia risentono di quella rarefazione che nel caso dell’eros riconduce all’“uno”. Come lo stesso Aristotele finirà per osservare, infatti, le grandi amicizie restano prevalentemente amicizie di “coppie” di amici; questo contribuisce a dare all’“eccesso” che caratterizza l’eros una sfumatura di senso più legata al genitivo soggettivo (hyperbolè tès philìas) che al genitivo oggettivo (hyperbolè tès philìas), una connotazione, cioè, indicante più il fatto che l’iperbolizzazione erotica appartiene all’amicizia, è propria dell’amicizia e di essa è rivelativa, che non il semplice fatto per cui all’estremo dell’amicizia si trova l’eros come eccesso liminare, impazzimento evitabile, isolabile. Ma se l’iperbole è connaturata alla struttura dell’amicizia come tendiamo a mostrare, se non esiste un grado positivo di amicizia, occorre allora ritornare concettualmente sulla definizione aristotelica dell’eros e intendere diversamente l’espressione “iperbole dell’amicizia”. Ciò che va innanzitutto compreso è che c’è una forma particolare di amicizia, quella costituita dall’eros, per cui Aristotele conia l’espressione “hyperbolè tes philìas”, che pur urtando contro la condizione sostanziale dell’amicizia perfetta in cui vige la proporzione e pur ponendosi in netto contrasto rispetto all’impianto generale dell’etica aristotelica, secondo il quale la hyperbolè è il vizio opposto alla elleipsis 28. Ivi, 1171 a 10-13. (Trad. it. p. 817).

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(questi estremi permettono infatti di comprendere cosa sia la virtù etica), dice la verità sull’amicizia nella sua forma generale. L’iperbole, allora, è dell’amicizia (genitivo soggettivo) in generale, ma posto che c’è un’amicizia particolare alla cui definizione Aristotele associa l’iperbole, l’amicizia particolare assurge a schema dell’intera amicizia. Da ciò consegue, ancora, che se in un primo tempo poteva andare da sé che l’amicizia erotica esprimesse una difettività in rapporto alla forma perfetta dell’amicizia, nel momento in cui questa particolare amicizia difettiva diventa lo schema dell’amicizia in generale, la natura di questa “difettività” inevitabilmente cambia, perché una “difettività” estesa a tutta l’amicizia diventa una “regola” per l’amicizia. Una “regola” scongiurata, temuta, a causa del suo portarsi dentro un’asimmetria problematica che tuttavia si rivela ineliminabile, malgrado gli sforzi di Aristotele. Ma andiamo con ordine, cercando di recensire le aporie più vistose dell’amicizia la cui presa in conto ci spinge a rivedere la forma del rapporto fra eros e philìa a partire dalla definizione in cui Aristotele le apparenta e le distingue. Questo è infatti il primo obiettivo di questo lavoro.

IV La prima tappa della sproporzione al fondamento di amicizie strutturali per la comunità, non ancora definibili eterogenee (come quella fra amante e amato) dunque, appare con il rapporto fra genitori e figli. Qui comincia a farsi strada quel “niente in comune” (oudèn koinòn)29 che minaccia l’amicizia dall’interno e che l’eros ha la forza di esporre in tutta la sua

29. Cfr. ivi, 1161 b 3.

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drammaticità sotto una condizione per così dire, trascendentale. “I genitori”, scrive Aristotele, sanno che i loro figli vengono da loro più di quanto coloro che sono stati generati sanno che derivano da quelli, ed il principio da cui procede un essere è unito come a cosa propria all’essere che è stato generato più di quanto l’essere che è derivato è unito all’essere che l’ha fatto. Ché, l’essere che deriva da un principio appartiene come cosa propria al principio dal quale deriva (ad esempio un dente, un capello o qualunque altra cosa appartegono come cosa propria a colui che li possiede), invece il principio dal quale un essere deriva non appartiene per nulla come cosa propria all’essere che ne è derivato, o vi appartiene di meno30.

Lo stesso principio lega in modo diverso i due lembi della generazione: il generante e il generato, il medesimo legame, dunque, e per di più quello in cui la forza della natura si esprime con più vigore, non lega allo stesso modo. Questo getta sulla “superiorità” (“l’amicizia verso i genitori è per i figli – e quella verso gli dei è per gli uomini – come un’amicizia verso un essere buono e superiore, giacché essi hanno fatto loro del bene in cose grandi”31) e sull’impossibilità di rendere il dono ricevuto che ne deriva, un’ombra di impotenza, come se una lacuna ontica impedisse una parità d’amore, a causa del suo acuire da una parte e allentare dall’altra, la dinamica della relazione. Questa condizione di sproporzione fra amicizie “secondo natura” permane anche nell’amicizia fra marito e moglie. La vita “di coppia” è prima della vita politica, e per l’uomo, diversamente dall’animale, essa va ben oltre l’ordine della procreazione, dice Aristotele32, arrivando a includere finalità intrinseche alla coniugalità in cui brilla “il comune” 30. Ivi, 1161 b 20-25. (Trad. it. p. 751). 31. Ivi, 1162 a 4-6. (Trad. it. p. 753). 32. Ivi, 1262 a 17- 23.

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tanto ricercato, e non di rado anche baciato dalla virtù. Ma tutta questa potenzialità di risorse impatta contro il dato che il vero collegamento (syndesmòs) che di fatto lega la coppia preservandone l’unione è quello costituito dai figli. Ora, i figli costituiscono un tipo di vincolo comune che riporta sul fronte dell’oggettività indipendente e altra dalla coppia, quella piacevolezza, utilità e virtù immateriali che sono invece ad essa immanenti, ma che hanno però il difetto di non durare: È opinione comune che i figli costituiscono un vincolo; per questo i coniugi che non hanno figli si dividono più rapidamente. I figli infatti sono un bene comune ad entrambi, e ciò che è comune tiene uniti33.

La superiorità naturale del genitore e quella “culturale” del marito, in questi tipi di amicizie, mette in gioco un “di più”, una sproporzione, che non può essere riassorbita dalla natura che la produce, come accade invece nel caso di situazioni di possibile eterogeneità nelle amicizie. Quando questa si riassorbe senza problemi (“chi è migliore ritiene sia conveniente a sé avere di più, giacché a chi è buono è conveniente che sia assegnato di più”34) accade che l’oggettività del merito “stabilisce l’uguaglianza e salva l’amicizia”35, ma si dà il caso che il merito stesso sia estromesso nel caso di eterogeneità strutturali, codificate dalla natura delle cose. Il caso più eclatante di questa messa fuori gioco del merito è costituito dalla relazione con gli dèi (“che eccellono di gran lunga per tutti gli altri beni”)36. Aristotele dice che benché non ci sia nulla che fissi il limite rispetto al quale si cessa di essere amici, tuttavia l’accrescimento eccessivo della distanza fa finire l’amicizia;

33. Ivi, 1162 a 27-29. (Trad. it. p. 755). 34. Ivi, 1163 a 25-27. (Trad. it. p. 763). 35. Ivi, 1163 b 11-12. (Trad. it. p. 765). 36. Ivi, 1158 b 35-36. (Trad. it. p. 731).

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ora questo accrescimento eccessivo della distanza è costituito proprio dall’“ingresso” del dio nella relazione degli amici. Aristotele non esita a definire aporetica questa situazione37 in cui si produce una contraddizione di non poco conto rispetto alla prescrizione contenuta nella telèia philìa, secondo la quale il vero amico non cessa di desiderare il meglio, i più grandi beni, per l’amico, quel meglio che, fra l’altro, egli desidera anche per sé, in nome di quella comunione d’intenti [“giacchè l’amico è un altro se stesso (esti gar ho philos allos autòs)”]38 che caratterizza l’amicizia dei buoni. Ora, se questo “meglio” fra tutti i beni (ta meghista tòn agathòn) per l’amico prende la forma della possibilità per lui di diventare un dio (theoùs einai), questo stesso fa cessare l’amicizia. Non potendo sostenere questa sproporzione assoluta, l’amicizia deve ammettere delle precise condizioni di possibilità e vincolarsi ad esse; Aristotele non tarda a dire, infatti, che l’amico vorrà per l’amico i beni più grandi, ma a condizione che resti un uomo (anthropo dè onti boulèsetai tà meghista agathà)39. Questa tesi è evidentemente aporetica non solo perché sembra contravvenire alla tesi del “volere il meglio per l’amico”, limitando le possibilità di espressione di questo stesso “meglio” con il rifiuto della sua “sommità” che proprio “l’essere dio” incarna, ma perché si scontra con quell’idea di “immortalizzazione” (athanathizein) che costituisce il cuore dell’etica aristotelica (“Non si deve dare ascolto a coloro che consigliano di porre mente, essendo uomini, a cose umane e, non essendo mortali, a cose immortali, ma, per quanto è possibile, si deve diventare immortale e compiere ogni cosa per vivere in modo conforme a quella che, tra le cose che sono nell’individuo, è la più alta”)40. Come 37. Cfr. ivi, 1159 a 6. 38. Ivi, 1166 a 31-32. (Trad. it. p. 785). 39. Ivi, 1159 a 10-11. 40. Ivi, 1177 b 31-34. (Trad. it. p. 867).

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scrive P. Aubenque: “L’amicizia tende a consumarsi nella stessa trascendenza cui essa aspira; al limite, l’amicizia perfetta si distrugge da sé41. Da qui l’attestarsi dell’amicizia nell’esclusivo campo del possibile (tò dynatòn)42, nel finito, nell’umano, nel limite, dunque. Ma non va dimenticato che, d’altra parte, da Aristotele viene anche un invito, di gusto kantiano, a volgere la finitezza a “prendersi cura” (therapèuein) della sproporzione che tuttavia non governa e non comprende. Questo in qualche modo riconcilia le cose: Pertanto è così che gli amici di condizione diseguale devono frequentarsi, e quello che riceve un vantaggio in denaro o in virtù deve dare in cambio onore, rimettendo ciò che può. Ché l’amicizia ricerca (epizetèi) soltanto ciò che si può (tò dynatòn), non ciò che è proporzionale al merito. Infatti [questo] non è neppure possibile in tutti i casi, come in quello degli onori verso gli dei ed i genitori: nessuno infatti potrebbe mai rendere loro ciò che meritano, ma chi se ne prende cura secondo la sua possibilità (eis dynamin ho therapèuon) è, a giudizio di tutti, persona virtuosa43.

V La ricerca della proporzione (tò anàlogon), che imponendo una misura comune (koinòn metron) salva l’amicizia, e che nel caso dell’amicizia politica contempla l’uso della moneta appunto per misurare e rapportare ogni cosa ad ogni altra, co-

41. P. Aubenque, Sur l’amitié chez Aristote, in La prudence chez Aristote, Puf, Paris 1963, p. 180. 42. Cfr. Etica Nicomachea, 1163 b 15. 43. Ivi, 1163 b 12-18. (Trad. it. p. 765).

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nosce il suo punto di massima incrinatura nell’amicizia degli amanti: Invece [invece rispetto alla proporzione, al merito, alla misura, al prezzo e alla moneta, di cui alcune amicizie si servono] nell’amicizia amorosa (en tè de erotikè) talvolta l’amante muove accuse di non essere corrisposto (ouk antiphilèitai) nell’amore, mentre egli ama ardentemente – anche nel caso che non abbia nulla di amabile (oudèn echon philetòn), se così gli è capitato (ei outos etuchen). Dal canto suo spesso l’amato rimprovera che, dopo aver avuto in passato tutte le promesse, ora non ne vede assolta nessuna (oudèn epitelèi)44.

L’eros sembra situarsi nel punto di massima lontananza da quel principio di proporzione, merito, misura, che l’amicizia o raramente espone, nel caso in cui la virtù degli amici si impone (sia pure in mezzo ad aporie quali l’ingresso del dio nell’amicizia), o cerca di ristabilire “politicamente”, cercando di dare a ciascuno il suo e ottemperando all’eterogeneità. Esso sembra addirittura forzare il principio stesso da cui si genera la possibilità dell’amicizia rispetto ad almeno tre “infrazioni”, tre negazioni, che contravvengono allo statuto della philìa e che si evincono in questo passaggio del testo appena proposto. 1) La prima è la percezione della non corrispondenza che nell’eros può venire acuita, la percezione, cioè, di una nonreciprocità (ouk antiphilèitai) che, ancora più insidiosamente che se fosse assoluta (chiudendo la partita), può essere vissuta all’interno di una relazione di cui la reciprocità è un tratto costitutivo anche se non fondamentale (anche l’inanimato e il morto possono essere oggetto d’amore). Di contro, sappiamo che proprio la reciprocità è condizione fondamentale dell’amicizia (“Ed è quando ricambia (antiphilè) l’amicizia che riceve che uno diventa amico, e quando questa reciprocità non rimanga, per una qualche ragione, nascosta (mè lanthàne) ai 44. Ivi, 1164 a 2-6. (Trad. it. parz mod. p. 767).

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due”)45. Uno dei volti dell’aporia nell’eros ha dunque la forma dell’avvertimento, in seno alla reciprocità, dell’irreciprocità più completa e a volte anche dolorosa. Ma, come vedremo a breve, non tutta l’irreciprocità che è in gioco nell’eros ha il carattere della promessa mancata qui rappresentata da Aristotele, ma una certa irreciprocità che viaggia fino all’hos eròmenon costituisce una risorsa di cui “prendersi cura” come Aristotele invita a fare in altro contesto, a proposito della sproporzione “intrattabile” costituita dall’impossibilità di rendere ai genitori e agli dei. 2). La seconda infrazione, ancora più insidiosa, apparentemente presenta la negazione, da parte dell’eros, del principio fondatore della concezione aristotelica dell’amicizia, secondo cui l’amicizia è la risposta all’atto che l’amabile, il philetòn, nella sua ampia gamma di manifestazioni, esercita sui viventi. Anche chi non ha nulla di amabile (oudèn echon philetòn), nella misura in cui ama, può essere amato (e chiedere di essere amato) in un tempo forse più breve, ma ad un tempo. Non è possibile spiegarsi questa contraddizione se non facendo leva su ciò che discende dalla distinzione fra il “tu” e “le tue cose” dell’Alcibiade I, e cioè sul fatto che l’amore eccede l’ordine della visibilità oggettiva e del valore, non perché cieco – Socrate mostra infatti di vedere chiaramente l’assenza di amabilità in Alcibiade (Alcibiade I), così come Alcibiade mostra di vedere chiaramente i guasti che l’io ipertrofico di Socrate procura al suo cuore (Simposio). Anche in questo secondo caso, pur con le dovute differenze, non c’è nulla di “oggettivamente”, neutramente, amabile, ma l’eros disloca il philetòn, in qualcosa di misterioso e invisibile la cui manifestazione è interamente affidata a chi di essa diventa, grazie alla sorte (ei outos etychen), il destinatario. Gli agàlmata che Socrate vede in Alcibiade nell’Alcibiade I e Alcibiade vede in Socrate nel Simposio, testi di cui abbiamo proposto nel Primo 45. Etica Eudemia, VII, 1236 a 14-15. (Trad. it. p. 303).

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Capitolo una lettura congiunta, sono visioni che non hanno nulla di oggettivo perché sono immagini prodotte dall’amore di qualcuno che ha il potere di rivelarle grazie alla sua capacità di accedere al “tu” inaccessibile dell’altro. Inaccessibile allo sguardo comune, cioè non amante, non vedente. Che chi non possiede nulla di amabile possa essere amato, conferma a contrario ciò che Aristotele intende negare e attribuire solo all’amicizia dei buoni: e cioè che l’eros possa accedere ad un amore dell’altro in quanto altro, in quanto “proprio lui” (kath’autò). Se non ha nulla di amabile, infatti, l’amante di cui Aristotele parla all’inizio del libro IX dell’Etica Nicomachea, in nome di cosa ha acquisito lo statuto di amante? Si potrebbe rispondere: in nome del semplice fatto di amare qualcuno (condizione che manterrebbe intatta la sua non amabilità, posto che fra l’altro ci è nota una certa rigidità nei ruoli dell’erastès e dell’eròmenos), ma posto che Aristotele parla di una corrispondenza difettiva che resta pur sempre una corrispondenza (“talvolta l’amante muove accuse di non essere corrisposto [ouk antiphilèitai] nell’amore, mentre egli ama ardentemente”) è legittimo chiedersi che cosa giustifica lo statuto di amante in qualcuno che non ha nulla di amabile. Se l’essere amante non dipende dall’amabile – che si dispiega per Aristotele nei regimi dell’utile, del piacevole, del bene46 – deve necessariamente derivare, sia pure a partire da una conferma paradossale, dallo stesso ordine da cui scaturisce l’amicizia dei buoni, e cioè dal regime di assolutezza del “tu”, altro rispetto alle “proprietà” che da esso si dipartono; deve derivare, cioè, da quella stessa inoggettivabilità che è in gioco nell’amicizia fra i buoni. 3) La terza infrazione del canone dell’amicizia sembra colpire pro-

46. Anche se, rispetto al piacevole e all’utile, che esibiscono ragioni oggettive per essere amici, il bene, come abbiamo in parte già mostrato, è il luogo in cui nasce l’amore del “Tu” indipendente dalle “proprietà” di questo “Tu”, e quindi esso costituisce il fondamento dell’amicizia meno oggettivante.

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prio la definizione dell’amicizia “sostanziale”, la telèia philìa; lo si evince dal fatto che Aristotele dice che l’amato lamenta, dal canto suo, una sfasatura temporale in cui si produce una lacerazione dell’intenzione erotica (“Fu molti anni fa/ ed al presente/ di lei non so più nulla/ di lei che un tempo mi era tutto/ ma tutto se ne va” B. Brecht): le promesse fatte in passato (proteron), ora (nun) giacciono incompiute, non portate a termine, spezzate nella finalità che dava loro rango di promesse. La rottura di questa finalità (oudèn epitelèi) in cui le promesse trovavano la forza di reggere l’avvenire, implica l’impossibilità di una unificazione del tempo nell’anima: il passato resta il tempo delle promesse, il presente mostra il loro sbiadire e questa spezzatura divide chi la vive. Di contro, l’amicizia virtuosa è quella in cui l’intenzione, la proairesis, (“è questa che fa l’amico e la virtù”)47 si mantiene salda, senza bisogno di motivazioni estrinseche valevoli come supporti. Ciò implica la lunga durata dell’amicizia e l’erezione del tempo presente a tempo unico perché riunificante in sé, senza alcuna frattura, il passato e il futuro. Proaìresis può essere considerato il nome di una promessa compiuta, e cioè mantenuta, nel suo stesso statuto di promessa; una promessa che non teme il tempo perché la sua mira intenzionale ha il potere di attraversarlo e di neutralizzarne l’alea.

VI Resta l’eros a margine di tutto questo, come Aristotele sembra rappresentare? Una certa assenza di “garanzie” – l’eros non ha fondamento nella natura; né nell’ente mosso né in quello immobile, ma nella scossa che sospinge questi ultimi l’uno

47. Etica Nicomachea, 1164 b 2. (Trad. it. p. 771).

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verso l’altro, come sostiene Platone nel Simposio, che lo pensa già senza terreno – sembra autorizzare la sfiducia nei suoi confronti, eppure niente più di una finalità non garantita da alcun fondamento oggettivo rende il fine perseguito ammirevole pur nella sua fallibilità. Ancora una volta nell’Alcibiade I, la cui traccia sostiene questo lavoro nel suo insieme, questa condizione si trova rappresentata. Si tratta del passaggio finale del testo, quello in cui, nelle parole di Alcibiade, viene fuori lo “scambio di figura” cui questo lavoro è appeso in tutte le sue parti, ma che presenta una sfumatura legata alla temporalità: Ma oltre a ciò io dico questo, che rischieremo di scambiarci la figura (metabalèin tò schèma), o Socrate, io il tuo e tu il mio; infatti a partire da questo giorno [corsivi nostri] (apò tesde tes hemèras) non è possibile che io non ti segua come un pedagogo segue un bambino, mentre tu sarai seguito da vicino da me come dal maestro48.

A partire da questo giorno qui, indica il sopraggiungere di un diverso rapporto al tempo, il tempo affrontato, attraversato, e dunque in qualche modo dominato, a partire, più che dalla semplice promessa, dalla “decisione comune” (koinè boulè) di diventare migliori insieme, espressione massima dell’eros di Socrate49 nel momento in cui sopraggiunge l’intesa relativa alla conoscenza di sé come requisito fondamentale per affrontare gli obiettivi che Alcibiade si appresta a perseguire. La decisione, per esprimersi ha bisogno di investire sul tempo, e rende gravido il suo ora (apò tesde hemèras) di eternità. Si tratta dello stesso ragionamento che Kant esprime magnificamente ne La religione entro i limiti della sola ragione, quando parla dell’“uomo nuovo”, colui che ha abbandonato “l’intenzione cattiva”, ovvero, calando il suo discorso nel nostro, colui che ha

48. Platone, Alcibiade I, 135 d 7-10. (Trad. it. parz. mod). 49. Cfr. ivi, 124 b 8.

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assunto stabilmente un’intenzione buona (diventare “migliori insieme”, come Socrate propone ad Alcibiade e come Alcibiade recepisce). L’“uomo nuovo”, dice Kant, empiricamente è sempre lo stesso uomo “meritevole di punizione”, e cioè cedevole, tuttavia, “nella sua nuova intenzione” egli è “moralmente un altro uomo davanti a un giudice divino, per il quale l’intenzione ha più valore dell’atto, e cioè avviene perché l’uomo nuovo ha accolto entro sé questa intenzione”50. Al di là del diverso contesto e dell’intervento del “giudice divino” che fa la differenza, Kant contempla il caso in cui l’intenzione viene svincolata dall’idea di una difettività bisognosa di “riempimento” o di “atto”, di “effettività”, il caso cioè in cui l’intenzione si affranca dalla verifica che il tempo, spesso massacratore delle intenzioni, può costituire. Qui l’intenzione basta a se stessa e requisisce il tempo, al punto che l’ora della sua introduzione nel cuore vale quanto il sempre. Allo stesso modo, lo “a partire da questo giorno qui” di Alcibiade, stabilizza la contingenza dell’eros. Se per un verso l’eros costituisce il punto di massima lontananza dalla philìa, per altro verso va preso atto che questa distanza cresce nello spazio di una somiglianza fortissima che fa pensare che fra Platone e Aristotele avvenga una vera e propria dislocazione di tutto ciò che era ritenuto appannaggio dell’eros nella philìa; questo dato è significativo non solo in negativo perché attesta che in qualche modo Aristotele cerca una riconversione dell’eros, ma anche “in positivo” perché ci fa comprendere che la philìa aristotelica, pur nel suo tentativo di affrancarsi dall’eros o forse proprio a causa di questo stesso affrancamento, rivela un nucleo erotico originario che sorregge la necessità, già rappresentata, di ritornare sull’espressione

50. I. Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, trad. it. di V. Cicero, Bompiani, Milano p. 189.

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“hyperbolè tes philìas”. L’occorrenza per verificare questa dipendenza è data dalla questione dell’amicizia verso se stessi, che appare sin da subito un concetto aporetico. Secondo l’Etica Nicomachea “tutti i sentimenti di amicizia nascono dal rapporto di sé con se stesso (ap’autoù) e in seguito si estendono verso gli altri (kaì pros tous allous dièkei)”51; l’Etica Eudemia, invece, introduce il dubbio su una tale provenienza Alcuni […] sono dell’avviso che ciascuno sia soprattutto amico di se stesso e, servendosi di questo criterio, giudicano l’amicizia verso gli altri amici; ma rispetto sia ai ragionamenti sia a ciò che si ritiene caratterizzi gli amici, alcuni elementi sembrano essere in opposizione, mentre altri sembrano essere simili. Infatti questa amicizia esiste in qualche modo per analogia (katà analoghìan), non in assoluto (haplòs d’ou)52.

Il problema è costituito dal fatto che l’essere amico e l’essere oggetto di amicizia presuppongono due soggetti distinti che bisogna riportare all’interno dell’amicizia verso se stessi, che è fatta da un soggetto unico. Aristotele risolve questo problema dicendo che l’anima è duplice e l’uomo virtuoso tendendo alla parte nobile e razionale, mostra appunto una “tensione amicale” verso il meglio che toglie ogni ombra di “egoismo” a questo andare verso se stessi53 e riconferma l’unità del soggetto (eis kaì autòs autò agathòs)54. Ma ciò che rende l’amicizia verso se stessi un tema interessante ai fini del nostro discorso è il fatto che Aristotele non solo dice che l’uomo virtuoso “nei rapporti con l’amico (pros dè ton philòn) sta come nei rapporti con se stesso (hosper pros autòn) (giacché l’amico è un altro se stesso

51. Etica Nicomachea 1168 b 5-6. (Trad. it. p. 801). 52. Etica Eudemia, 1240 a 9-14. (Trad. it. p. 331). 53. Cfr. ivi, 1240 b 14-20. 54. Cfr. ivi, 1240 b 19.

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[o philos allos autòs])”55, ma che “l’eccesso dell’amicizia assomiglia all’amicizia che si ha verso se stessi (he hyperbolè tès philìas tè pros autòn homoioùtai)”56. Ha forse dimenticato Aristotele di aver utilizzato l’espressione “eccesso dell’amicizia” a proposito dell’eros, e per più di una volta, in modo da non lasciare intendere che fosse casuale? Se “l’eccesso di amicizia” fosse di una sola specie, se il significato di questa espressione fosse, come ci sembra, interamente requisito da un solo fenomeno: l’eros, in riferimento al quale esso compare per la prima volta, che significato avrebbe sostenere che l’amore “assomiglia all’amicizia che si ha verso se stessi”? In altre parole, in che rapporto sta l’eros (inteso come relazione duale) con l’amore di sé? Malgrado l’assoluta laconicità del testo aristotelico, che non aggiunge alcuna riga di spiegazione a questo accostamento, il rapporto che esso designa è tutt’altro che peregrino. Il legame fra la dimensione dell’eros e la conoscenza di sé è già venuto fuori nell’Alcibiade I, dove è intestato al tema della “cura di sé”. Lì, come abbiamo già visto, la metafora dell’occhio sanciva la dipendenza dall’altro in relazione alla possibilità di approdare alla conoscenza di sé. Ora, nell’Etica Nicomachea, l’amicizia verso se stessi, pur mantenendo al suo interno la questione della conoscenza di sé – perché solo nel virtuoso che conosce la parte dell’anima verso cui è bene tendere (essere amico), questo tipo di amicizia può albergare – mette in gioco, accanto alla conoscenza, anche l’amore di sé. Se, infatti, il virtuoso, oltre o forse grazie alla conoscenza approda anche all’amore di sé, se conoscendosi si vuole anche bene (il virtuoso è infatti colui che è “oggetto di desiderio” per se stesso [autòs autò phìlos kaì orektòs]), e cioè approva felicemente il suo esistere, come viene detto nell’Eti-

55. Etica Nicomachea, 1166 a 29-32. (Trad. it. p. 785). 56. Ivi, 1166 b 1-2. (Trad. it. p. 785).

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ca Nicomachea57, bisogna capire in che modo questa amicizia verso se stesso non si traduce in una mossa liquidatrice dell’amicizia con altri, a causa della perfezione, dell’autosufficienza raggiunta dal virtuoso, la cui virtù costituisce un elemento di somiglianza e di elevazione al divino, la cui autàrkeia – di cui il pensiero che pensa se stesso è una traccia – è, d’altra parte, prevalentemente letta come rottura della relazionalità e come una forma di autoreferenzialità58. Il virtuoso presenta quindi la stessa aporia che concerne il dio che è “pensiero di pensiero”: L’individuo di questa natura vuole trascorrere il tempo con se stesso, giacché piacevolmente fa questo; infatti i ricordi delle cose che ha compiuto gli sono dolci e per ciò che riguarda le cose future le sue speranze sono quelle di un uomo dabbene, e le speranze di questo genere sono piacevoli e nel pensiero abbonda di oggetti da contemplare. Soprattutto con se stesso egli prova dolore e piacere, giacché è la medesima cosa che gli è sempre dolorosa e piacevole, e non una volta una cosa, un’altra volta un’altra. Infatti, per così dire, non sa che cosa sia il pentimento59.

VII Per il virtuoso come per Dio, si tratta, insomma, di fare i conti con il rischio del narcisismo. Ma questa ipotesi cade, perché, nel caso dell’uomo, persino là dove più fortemente il sé fa blocco con sé, e cioè nel caso dell’autàrkes, anche in quel caso

57. Questo legame inedito fra conoscenza di sé e amore di sé è un dono dell’amicizia. Cfr. Etica Eudemia 1240 b 19, Etica Nicomachea, 1166 a1166 b 2. 58. Cfr. T. De Koninck, La “Pensée de la pensée” chez Aristote, in La question de Dieu selon Aristote et Hegel, Paris, PUF 1991, pp. 69-151. 59. Etica Nicomachea, 1166 a 23-29. (Trad. it. p. 785).

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la conoscenza di sé resta legata all’opera dell’amicizia, quindi dell’altro, che aiuta il sé a pervenire a sé. Nella Grande Etica questa tesi conosce uno sviluppo particolare che ci riporta direttamente all’Alcibiade I rinsaldando, così, quel nesso fra eros e philìa che mostra di mantenersi malgrado la sua spezzatura. Aristotele utilizza, infatti, lo stesso schema di Platone che nel Primo Capitolo abbiamo descritto ricorrendo alla nozione di “interdonazione”60 per descrivere il sé che viene a sé: Poiché dunque, il conoscere se stessi (gnonai autòn), come hanno detto alcuni tra i sapienti, è la cosa più difficile, ma anche la più piacevole (infatti è piacevole conoscere se stessi), noi non siamo capaci di conoscerci a partire da noi stessi (autoi men oun autoùs ex autòn ou dynàmetha theàsasthai) (e che noi non siamo capaci di conoscere noi stessi risulta evidente dal fatto che rimproveriamo gli altri senza accorgerci che facciamo le stesse cose; questo, poi, avviene o per benevolenza o per passione; infatti a molti di noi capita di essere accecati e di non giudicare rettamente); come, dunque, quando vogliamo vedere la nostra faccia la vediamo guardandoci allo specchio (hosper oun hotan thelomen autòi autòn tò prosopon hidèin eis tò katoptron hemblèpsantes eidomen), allo stesso modo quando vogliamo conoscere noi stessi potremmo conoscerci guardandoci nell’amico (homoios kaì hotan autòi autoùs boulethòmen gnonai, eis tòn philon hidòntes gnorìsaimen an); infatti l’amico è, come abbiamo detto, un alter ego (ho philos heteros egò) Se, quindi, è piacevole conoscere se stessi, e non è possibile conoscerci senza un altro che ci sa amico, l’individuo autosufficiente avrà bisogno dell’amicizia per conoscere se stesso61.

Che l’autàrkes, e cioè colui che è massimamente raccolto in sé e padrone di sé, abbia bisogno dell’amico per conoscere se stesso, trascina anche l’amore di sé che dalla conoscenza di sé 60. Cfr. Capitolo I, p. 54. 61. Grande Etica, 1213 a 14-27. (Trad. it. p. 86).

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è inseparabile (questo legame è proprio l’opera della philìa) – e che di certo all’autàrkes non può mancare perché costui possiede tutte le perfezioni – in quella dipendenza dall’altro descritta dalla metafora dello specchio. Ma che cos’è un amore di sé proveniente dall’amore dell’altro, radicalizzando così, a partire dall’eros, la tesi che l’Etica Eudemia sembra inizialmente contrapporre all’Etica Nicomachea (“questa amicizia [l’amicizia verso se stessi] esiste in qualche modo per analogia [con quella verso gli altri], non in assoluto”)62? Nient’altro che l’ammissione di una riconciliazione con il narcisismo, forse il suo superamento. Se, “come ci si rapporta a se stessi (pros heautòn), così (outo) ci si rapporta anche all’amico (pros philon)”63, va da sé che è possibile rapportarsi a se stessi rapportandosi all’amico – tesi del resto espressa dalla metafora dello specchio della Grande etica. Ma ciò vuol dire allora, che, grazie all’amico, nel rapporto a “sé” si rompe quel circuito autoreferenziale che è alla base del narcisismo e il sé guadagna, grazie all’altro, la libertà di un ritorno a sé che non soffre più dei limiti descritti dalla Grande etica (“noi non siamo capaci di conoscerci a partire da noi stessi…”). Amare se stessi nell’altro (“egli vede se medesimo nell’innamorato come in uno specchio (hosper en katòptro) ma non lo sa”)64, amarsi grazie all’altro, all’amico, diventa così la conquista della philìa, ma questa conquista capitale si attua in uno spazio argomentativo che riporta la philìa nel circuito dell’eros. Alla fine del perì philìas Aristotele dice che gli amici virtuosi “diventano migliori (beltìous) esercitando l’amicizia e correggendosi a vicenda. Infatti si modellano (apomattontai)

62. Etica Eudemia, 1240 a 13-14. (Trad it. p. 331). 63. Etica Nicomachea, 1171 b 33-34. (Trad. it. p. 823). 64. Platone, Fedro, trad. it. di G. Reale, Rusconi, Milano 1993, p. 111 (255 D 6).

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gli uni sugli altri”65. Nell’Alcibiade I, quando Socrate comprende che Alcibiade ha recepito la necessità di un’educazione del proprio sé, comincia contestualmente ad abbandonare il ruolo del pedagogo e con esso lo “schema” maestro/discepolo, che nell’“amore platonico” ripete lo schema amante/amato. La decisione di “diventare migliori”, dice Socrate, “deve essere comune” (koinè boulè)66: Io infatti non sto parlando del fatto che bisogna ricevere un’educazione, riferendomi a te, e a me invece no; non c’è nulla infatti in cui io differisca da te67.

La necessità di diventare migliori insieme si accresce progressivamente, ammettendo anche l’ipotesi di un pensiero comune (“riflettere insieme” [skeptèon koinè])68, fino al punto che il progressivo saldarsi di questo “insieme” conduce allo “scambio di figura”, il cui accadere è prodotto dall’accrescimento di quella homoiosis che ritroviamo anche nell’idea di “modellellarsi” l’uno sull’altro, di cui parla Aristotele come culmine dell’amicizia (il perì philìas, fra l’altro, si conclude così).

VIII Apertura su una questione Ma cosa comporta accettare che l’eros offra la figura alla philìa? Sicuramente la riduzione di quello iato fra i due che si esaspera quando si arriva alla questione del motore immobile, che appare come il punto di massima lontananza fra eros e 65. Etica Nicomachea, 1172 a 11-13. (Trad. it. p. 825). 66. Cfr. Alcibiade I, 124 b 8. 67. Ivi, 124 c 1-2. 68. Ivi, 124 d 9.

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philìa69. Se la philìa è per Aristotele tutta protesa all’attivo, contrassegnata più dall’amare che dall’essere amati, e questo primato dell’attivo diventa per essa un vanto70, Dio, al contrario, sembra spezzare lo schema reciprocalista e mutualista operante nella philìa facendosi pensare a partire da un’azione assolutamente irreciproca che imprevedibilmente riabilita quella condizione secondarizzata e forse anche disprezzata nella philìa, cioè la condizione dell’amato, dell’eròmenos. L’inversione dello schema dell’amicizia che proponiamo, attraverso la nuova configurazione dell’iperbole dell’amicizia, in cui è paradossalmente affidata all’eros la forma propria della philìa, ha l’ambizione di fornire uno squarcio di intellegibilità alla questione del motore immobile in quanto hos eròmenon. Considerare l’iperbole costituita dall’eros non come un eccesso marginale ma come il cuore dell’amicizia, vuol dire spingere l’amicizia a fare i conti più sostanzialmente e meno accidentalmente con la dissimmetria che l’eros comporta: questa maggiore familiarità con il dissimile71 implica la possibilità di 69. A questo proposito J. Derrida scrive: “Eros e Philìa sono appunto movimenti; non abbiamo qui una gerarchia e una asimmetria inverse? Primo Motore e Atto Puro, Dio mette in movimento senza muoversi e senza essere mosso, è il desiderabile o il desiderato assoluto, analogicamente e formalmente al posto dell’amato, quindi dal lato del morto, di ciò che può essere inanimato senza smettere di essere amato o desiderato. Diversamente da ciò che accade nell’amicizia, nessuno contesterà che quest’oggetto assoluto del desiderio si trova anche al principio e al culmine della gerarchia naturale, pur non lasciandosi muovere o smuovere da nessuna attrazione”. Politiche dell’amicizia, trad. it. di G. Chiurazzi, Raffaello Cortina, Milano 1995, pp. 20-21. 70. Cfr. Etica Nicomachea, 1159 a 27. 71. Nel Liside Platone offre un interessante spunto a riguardo di questo tipo di “familiarità”. Egli sostiene infatti che se il simile (homoios) coincide con il proprio (oikeion) non è semplice disfarsi dell’aporia che attraversa l’amicizia, concernente il fatto che il simile è inutile al simile. Ma se il simile viene distinto dal proprio, se viene valorizzato questo scarto, questa risultante dif-

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dare un senso preciso, fruibile, non troppo urtante la fisionomia dell’ente mosso, all’irreciprocità che contrassegna il movimento del motore immobile in quanto eròmenon. L’eros, permette infatti di collocare all’interno di una trama che resta relazionale, l’irreciprocità, e di renderla significante all’interno della relazione. Va fatto osservare, a questo proposito, che l’amore reciproco nasce nella separatezza delle intenzioni; il principio dell’amore reciproco alberga nella solitudine che non cessa di fare i conti con la possibilità dell’irreciprocità che può riguardare tanto il principio dell’amore quanto la dinamica della relazione. Questa solitudine essenziale è a principio dell’eros e questo sostiene Lacan quando dice che la mano che spunta dal bel ramo è il “miracolo”, e cioè qualcosa che resta al di fuori da ogni attesa o previsione72. La stessa “solitudine” la vivono rispettivamente Alcibiade e Socrate quando l’uno scorge nell’altro le “immagini meravigliose” (agàlmata) o le “belle speranze” di cui ciascuno è depositario. Malgrado l’irreciprocità riveli una separazione che si installa proprio al cuore di ciò che riunifica, tale spezzatura resta comunque la spezzatura in/di una relazione; questo resta vero anche quando l’irreciprocità in questione indica non tanto la sproporzione positiva da cui nasce l’amore ma anche quella negativa in cui l’amore finisce. Alla luce di questo diventa legittimo chiedersi: 1) Come può la semantica dell’eros, che torna nel libro XII della Metafisica attraverso la metafora dell’hos eròmenon, essere completamente privata della sua qualità relazionale e pretendere di indicare, isolare e preservare, la separatezza dell’eròmenos fuori dal quel circuito relazionale che essa implica sempre e comunque nell’ambito umano, ambito che fra ferenza permette di comprendere cosa sia l’amico (Ei men ti tò oikèion tou homòiu diaphèrei, legoimen an ti, hos emòi dokèi, o Lysi te kai Menèxene, perì philon), Liside, 222 b 3-5. 72. Cfr. Capitolo I, p. 26.

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l’altro in Lamda è richiamato e connesso al modo d’essere di Dio73? 2) E, al contempo, come liberare l’irreciprocità che è in gioco nel Dio hos eròmenon dall’insidiosa metabolè che fa sì che l’amante possa diventare “un altro uomo” non più in grado di “mantenere i giuramenti e le promesse fatte”74? Raccogliendo gli elementi fornitici dal percorso fatto potrebbe essere tentata una simile risposta: in quanto eròmenos, il dio aristotelico amplifica quell’aspetto di irreciprocità che è contenuto e custodito nell’inizio di ogni eros umano e che si genera dalla/nella visione dell’amato nella separazione dall’amato (è dall’amato che parte il “flusso d’amore”75 [imeros] che fa dell’amante un amante, ma l’amato non lo sa). Ma mentre l’irreciprocità nel caso dell’eros umano conosce anche la possibilità che l’altro possa diventare “un altro” e spezzare di fatto il legame, possibilità sapientemente descritta da Platone nel Fedro, l’irreciprocità dalla parte di Dio qualifica l’incommensurabilità solo positiva di un amato che resta distante sotto il segno di una sproporzione (quella di un Tu divenuto segno assoluto) che arricchisce e riunisce piuttosto che separare. Questa distanza, pur restando a garanzia di una separatezza strutturale del principio dell’amore, che nel caso del Dio raddoppia in quanto Dio è anche l’origine separata del movimento, per quanto doppiamente incolmabile ed incommensurabile, resta una distanza nella prossimità e induce a pensare la stessa continuità onto-teo-logica in Aristotele a partire dalla spezzatura che la sostanza immobile comporta (medemìa arché koinè). Si tratta di comprendere che in quanto amato Dio non può che essere parte di una relazione. La contro-parte è qui, evidentemente, il mondo, che dal suo semplice darsi è mosso. 73. Cfr. Aristotele, Metafisica, L, 1075 a 6-10. 74. Platone, Fedro, 241 a 7-8. (Trad. it. p. 71). 75. Ivi, 255 c 1.

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Il mondo è quindi, aristotelicamente, l’ente-mosso-in quantoamante. Ma come ignorare, a questo punto - dopo aver compreso (per via analogica) ma anche salvato (assolutamente) l’irreciprocità positiva di Dio – che la logica dell’eros impone la trasformazione dell’amante in amato e dell’amato in amante? Come ignorare lo “scambio di figura” che altrove Aristotele ammette, sia pure affidandolo alla debole autorità di un “come sembra”76? Sembra, infatti, che il sapiente sia “il più gradito agli dei” (theophilèstatos) “per il fatto che come sua attività esercita l’intelletto ed ha cura (therapìa) di esso”; ora, se si ammette che gli dei possano esercitare la propria cura (epimèleia) verso le cose umane, allora è inevitabile che essi rivolgano i propri favori (chairein) alla parte migliore degli uomini, quella a loro più congenere (synghenestaton)77. È abbastanza significativo che Aristotele utilizzi il verbo chairein per indicare i benefici degli dei verso gli uomini, verbo che non è ignoto al vocabolario erotico greco. Ma ciò che in questo passaggio stupisce è il finale. Si sostiene, infatti, che gli dei benefichino coloro che non solo esercitano ma anche amano e onorano più di ogni cosa la parte migliore di essi, perché proprio questa parte è agli dei cara. Vale la pena di rimettere in sequenze l’intero passaggio che conosce un progressivo crescendo: 1) Colui che come sua attività esercita l’intelletto e ha cura di esso sembra sia versare nella condizione ottimale che essere il più gradito agli dei (theophilèstatos). 2) Se infatti da parte degli dei vi è qualche preoccupazione (tis hepimèleia ton anthropìnon) per le cose degli uomini, come comunemente si crede, sarà anche ben logico che essi rivolgano i loro favori (chairein) alla parte più eccellente dell’uomo, ovvero a quella che è congenere (synghenèstato) a loro e (questa sarà l’intel-

76. Cfr. Etica Nicomachea, 1179 a 25. 77. Cfr. ivi, 1179 a 22-32.

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letto), 3) e che benefichino (anteupoiein) in cambio coloro che la amano più di ogni cosa (agapòntas malista touto) e la onorano, giudicando che si prendono cura di ciò che a loro è caro ed agiscono in modo retto e bello. 4) Ora, che tutte queste caratteristiche siano presenti nel grado più alto nel sapiente, è evidente. Egli è dunque la persona più cara agli dei. Ed è naturale che questa persona sia anche la più felice. Di conseguenza anche in questo modo il sapiente sarà sommamente felice78.

L’azione amante degli dei sembra raccogliersi tutta in questa particolare riflessività dell’amore umano da loro concessa e a loro gradita 3): un poter amar(si) se stessi in ciò che di se stessi è amato anche dagli dei (la parte migliore, l’intelligenza); ciò non solo conferma la sconfitta del narcisismo, ma di questa sconfitta offre anche la ragione. Gli dei hanno a cuore coloro che amano e onorano ciò che, in loro stessi, fa spazio ad altro dal loro sé mortale, coloro che si amano là dove sono più di ciò che essi sono, quantitativamente e qualitativamente. Là dove, in breve, si è già dischiuso uno spazio di somiglianza (homoiosis) e di comunanza (koinonìa) che Aristotele spinge verso la synghèneia79, la congenericità. Gli dei concedono dunque agli uomini di amarsi. Nello spazio di questa riflessività elargita come un dono, che nella misura in cui è donata da altri rifugge ogni auto-referenzialità, compare il loro amore e, per gli uomini, la vita felice.

78. Etica Nicomachea, 1179 a 22-32. (Trad. it. p. 877). 79. Ivi, 1179 a 26.

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Indice

Introduzione

p. 13

Capitolo primo Alcibiade maggiore. La decisione comune e lo scambio di figura

p. 23

Capitolo secondo Verso “un’altra differenza sessuale”

p. 63

Capitolo terzo Iperbole dell’amicizia

p. 109

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Au dedans, au dehors

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Lo scambio di figura (metabalèin to schèma), che compare in un passo poco studiato dell’Alcibiade Maggiore, scioglie la fissità dello schema che regola la relazione fra maestro e allievo, fra amante e amato. Allude al diventare maestro e amante (erastès) da parte dell’allievo amato mentre l’amante si trasforma in allievo e amato (eròmenos). Questo mutamento profondo nella dinamica di una relazione erotica rigidamente legata ai ruoli, come appare quella platonica, libera secondo l’Autrice un modello di differenza non più regolato sulla contrarietà e sull’opposizione, in cui si annida la gerarchia e il dominio, ma sulla somiglianza. La differenza di coloro che si somigliano fino a scambiarsi la figura sembra venire incontro in modo dirimente alla richiesta di “un’altra differenza sessuale” lanciata da Derrida negli anni ’80 e oggi in parte condivisa all’interno del dibattito sul “genere”. Progettati in base a un disegno comune, i “tre studi”, che da Platone, attraverso Derrida, ritornano al pensiero greco e ad Aristotele, ripercorrono in filigrana l’eredità concettuale della teoria platonica dell’amore, mostrandocene un altro volto, più segretamente sovversivo e ricco di provocazioni teoriche.

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ISBN E-book 9788898694655

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