L’istituzione della natura [1 ed.]

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L’istituzione della natura [1 ed.]

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Saggi

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Yan Thomas Jacques Chiffoleau

L’istituzione della natura A cura e con un saggio di Michele Spanò

Quodlibet

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Yan Thomas Imago naturae. Note sur l'institutionnalité de la nature a Rome Traduzione di Giuseppe Lucchesini

Jacques Chiffoleau Contra naturam. Pour une approche casuistique et procèdutale de la nature medievale Traduzione di Davide Pettinicchio

© 2020 Quodlibet srl Macerata, via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 23 www.quodlibet.it ISBN 978-88-229-O484-3

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Indice

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Avvertenza Yan Thomas Imago naturae Nota sull’istituzionalità della natura a Roma

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Jacques Chiffoleau Cantra naturam Per un approccio casuistico e procedurale alla natura medievale

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«Perché non rendi poi quel che prometti allor?» Tecniche e ideologie della giuridificazione della natura di Michele Spanò

Avvertenza

Questo libro allinea, trasformandoli in un’opera nuova, due saggi di Yan Thomas e Jacques Chiffoleau pubblicati separatamente ma concepiti congiuntamente. Il primo saggio, di Yan Thomas, Imago naturae. Note sur l’institutionnalité de la nature a Rome è stato pubblicato in Théologie et droit dans la Science politique de l’Etat moderne. Actes de la table ronde de Rome ( 12-14 novembre 1987), École Frammise de Rome, Roma 1991, pp. 201-227. Si tratta di una riproduzione, con variazioni e aggiunte nelle note, di un testo già apparso nel 1988, con il titolo Uinstitution juridique de la nature. Remarques sur la casuistique du droit naturel a Rome, pubblicato sulla Revue d’histoire des Facultés de droit et de la Science juridique, 6, 1988, pp. 27-48. La prima edizione del saggio era accompagna da un breve résumé, evidentemente di pugno di Yan Thomas, che offre una sintesi particolarmente chiara e implicitamente polemica del­ le intenzioni della ricerca: «Per farci un’idea esatta di ciò che i romani intendevano per “diritto naturale”, non bisogna esitare a confrontarsi con le operazioni concrete della casuistica giu­ risprudenziale. La “natura” appare allora come una finzione interna al diritto civile. Essa serve da strumento per razionaliz­ zare i modi di appropriazione collettiva o individuale qualificati come originari, per fondare lo statuto di ingenuità dello schiavo “ristabilito nei suoi diritti originari di nascita”, per distinguere l’ordine primario dei diritti della filiazione derivante dal matri-

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monio dal regime, derivato, della filiazione adottiva. Da questa casuistica può ricavarsi una riflessione che non deve nulla al rea­ lismo aristotelico. Si scopre un pensiero assolutamente originale dell’artificialità giuridica, la cui importanza per la storia della dogmatica politica dovrebbe essere rivalutata». Sono proprio la questione dell’aristotelismo, e della sua so­ pravvivenza medievale, e quella della dogmatica politica, che la modernità svolgerà sotto il segno della sovranità, a costituire i nessi più evidenti che collegano la ricerca di Thomas al sag­ gio di Jacques Chiffoleau: Contra naturam. Pour une approche casuistique et procédurale de la nature médiévale è stato pub­ blicato in «Micrologus. Nature, Sciences and Medieval Socie­ ties», 4, 1996, pp. 265-312, che raccoglieva gli atti del convegno The Theatre of Nature, tenutosi a Losanna nel 1994. Anch’esso però, come il saggio di Thomas, fu concepito tra la fine degli anni ’8o e l’inizio del decennio successivo. La conversazione tra i due aveva luogo, in quegli anni, durante lunghe estati romane. Sarà nel contesto dell’École Fran^aise de Rome, e degli scambi vivaci tra storici francesi e italiani, che Chiffoleau e Thomas ela­ boreranno il progetto, mai portato a termine, di scrivere insie­ me una storia giuridica e giudiziaria del concetto di «Maestà», di cui i due testi qui proposti offrono corpose evidenze. Molti altri fili potrebbero essere tirati: la qualità del rappor­ to, e quindi la misura delle discontinuità, tra diritto civile ro­ mano e diritto comune medievale; il ruolo chiave giocato dalla «natura» nella genealogia di un diritto pubblico in senso «mo­ derno»; il confronto critico con la lezione di Michel Villey, con cui queste ricerche cominciano a fare i conti in modo esigente e spregiudicato. Negli anni che ci separano dal primo apparire di queste indagini le analisi storico-giuridiche sulla «natura» si sono moltiplicate sotto l’influsso di nuovi paradigmi filosofici e an­ tropologici, oltre che per effetto dell’emergenza ecologica. Il dibattito filosofico, storico e giuridico sull’Antropocene e la crisi climatica, la questione giuridica dei cosiddetti «diritti del­ la natura», la penetrazione di paradigmi influenti come «l’an­ tropologia della natura» negli studi medievistici non potranno non «reagire» con una lettura contemporanea di questi saggi

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divenuti libro. Al lettore e alla lettrice non spetterà quindi sol­ tanto misurarne la coerenza e la consistenza, ma anche valutar­ ne tutta la tempestiva inattualità.

Desideriamo esprimere la nostra gratitudine a Jacques Chiffoleau per la generosità e l’entusiasmo con cui ha accolto questo progetto aiutandoci a condurlo in porto. MS

Yan Thomas Imago naturae Nota sull’istituzionalità della natura a Roma

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È ben nota l’immagine della natura volgarizzata dai giuristi dell’impero romano nelle loro opere didattiche. Il primo ca­ pitolo del Digesto ne raccoglie alcuni significativi frammenti, con l’aiuto dei quali è possibile delineare due dottrine com­ plementari, che si articolano senza particolari problemi. Le Institutiones di Ulpiano prendono in esame il diritto naturale nella sua accezione più ampia: esso governa l’insieme degli es­ seri animati, riunendo sotto il medesimo obbligo di riprodur­ si gli uomini e gli animali della terra, del mare e del cielo. A questo diritto «comune» obbediscono tutti i viventi, chiamati a procreare e ad allevare la loro progenie. Al pari di tutti gli altri, anche gli animali selvaggi non sfuggono alla «prudenza di questo diritto», vale a dire all’organizzazione di una sessualità finalizzata alla perpetuazione delle specie*. Un insieme più ristretto, inscritto nel precedente, com­ prende le istituzioni propriamente umane. Ma occorre allora distinguere, pare, fra due stadi successivi dell’umanità. Il pri­ mo dipende ancora dalla natura: in esso gli uomini sono liberi, eguali, non divisi per status^ godono in modo indiviso dei frutti della terra; non sono sottomessi ad alcun potere. Le Institutio-

' Ulpiano, Digesto (d’ora in poi, D.), i, i, 1,3.

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nes di Marciano, di Fiorentino, di Ulpiano, l’Epitome di Ermo­ geniano offrono indizi convergenti di un tale sistema2. Il quale si definisce, se così si può dire, negativamente: esso ignora le successive determinazioni per cui, col sorgere delle contrap­ posizioni tra una città e l’altra, una serie di divisioni a catena fa emergere status, proprietà, scambi. Negazione delle differenze e dei limiti, che riduce l’affermazione personale dello ius alla difesa del proprio corpo5. In uno stadio ulteriore compaiono le distinzioni che, in un secondo momento, costituiranno un re­ gime giuridico rispettato ovunque. I giureconsulti antoniniani e severiani lo definiscono ius gentium. Questo diritto umano universale, introdotto dopo la natura, ma non secondo natura, raggruppa un certo numero di istituzioni il cui inventario è de­ finitivamente fissato nel m secolo: guerre (dalle quali dipende la schiavitù e quindi, a sua volta, l’affrancamento degli schiavi), popoli, regni, proprietà private immobiliari, confini, limiti ter­ ritoriali, edifici, scambi, contratti consensuali, obbligazioni4. È importante notare come esse siano definite in rottura con il diritto naturale: dopo di esso, se non contro di esso. Gaio, è vero, fonda il diritto delle genti sulla naturalis ratio, e spesso questa istituzione dello ius gentium è posta in connes­ sione con la ragione naturale5. Tuttavia, fra la ragione naturale * Fiorentino, Institutiones, 9, D., 1, 5, 4; Marciano, Institutiones, 3, D., 1, 8, 2; Ulpien, Institutiones, 1, D., 1, 4; Ermogeniano, Epit., 1, D., 1,1, 5. Il temadell’indivisione naturale era stato già sviluppato da Cicerone nel De offtdis, 1, 7, 21. ’ Fiorentino, Institutiones, 1, D., 1, 1,3: ut vini atque iniuriam propulsemi è una proposizione di diritto naturale, come dimostra il seguito del passo, dove il divieto di omicidio è fondato su una parentela naturale fra gli umani. Cfr. Ulpiano, D., 43, 16, 1, 27: « Vim vi repellere licere Cassius scribit idque ius natura comparatur». * D., 1,1,5; Giustiniano, Institutiones, 2, 2. Questo ius gentium comprende quin­ di norme di diritto privato interno (per esempio, la stipulatio iuris gentium, Gaio, 3, 93), e anche di diritto internazionale pubblico (Pomponio, D., 50, 7, 18: immunità dei legati stranieri). Sulla progressiva dissociazione di questi due aspetti nella dottri­ na moderna, si veda Marie-France Renoux-Zagamé, La disparition du droit des gens classique, «Revue d’histoire des facultés de droit et de la Science juridique», 4, 1987, pp. 23-25. ’ Institutiones, 1, 1. Tutela: Gaio, 1, 189 (Giustiniano, Institutiones, 1, 20, 6). Traditio-. Gaio, 2, 66; D., 41, i, 9, 3. Restituzione del pagamento dell’indebito: Pompo­ nio, D., 12, 16, 14 (Paolo, D., 12, j6, 15 pr.). Regola sull’ingiustificato arricchimento: Pomponio, D., 50, 17, 206. Libera revocazione di ciò che è accordato a titolo precario: Ulpiano, D., 43, 26, 2, 2 ecc.

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umana, che ripartisce al meglio i diritti nelle società divise, e le norme dello ius naturale, fondate su una natura umana indivi­ sa, il confine è nettissimo. I giuristi interpretano chiaramente questi due diritti come due generi successivi e contraddittori: fra schiavitù e libertà, statuti ed eguaglianza, proprietà e godi­ mento comune, c’è tutta la distanza che separa la storia da ciò che storia ancora non è. Per i giuristi d’epoca imperiale, è senza dubbio la guerra a segnare la prima scissione produttrice di diritto. Nel medesimo movimento nascono le città: lo ius civile non rappresenta una terza e distinta tappa dello sviluppo giuridico. Esso non è che la proiezione interna di un diritto universale al quale, in ciascuna città, si aggiungono, o si sottraggono, determinate regole6. Se­ condo la rappresentazione più diffusa, ogni diritto civile è un diritto comune particolarizzato. Questo schema binario è re­ lativamente semplice. Da una parte, il diritto naturale, comune alle specie viventi, sussiste congiuntamente alla legge della loro riproduzione; dall’altra, il diritto naturale propriamente umano ha praticamente cessato di esistere, lasciando il posto a uno ius gentium di analoga ampiezza, ma di segno opposto. Il diritto civile ne è una versione singolare, inscritta entro i confini del­ la città. Non è dato ma istituito. È contemporaneo degli Stati, all’istituzione dei quali presiede, e all’interno dei quali si applica. Diritto naturale, diritto delle genti e diritto civile si inca­ strano come cerchi concentrici tracciati su un medesimo piano. Nessuna gerarchia interviene a subordinare questi tre territori gli uni agli altri. Il loro rapporto è pensato estensivamente. Il cerchio più lontano contiene le specie viventi; quello di mezzo, le nazioni; il più piccolo, la città. In ciascuna città, una rete di corrispondenze con altri diritti interni universalizza così il cam­ po delle sue norme, senza conferire a quelle che ha in comune con altre città alcuna superiorità su quelle che le sono proprie. I giuristi hanno chiaramente rimodellato il dispositivo che era stato loro trasmesso dalla tradizione stoica e ciceroniana. La natu­ ra vi occupava una posizione eminente, ispiratrice e legittimante:

Ulpiano, D., i, 1,9.

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un diritto prescrino contro la natura non aveva alcuna forza di di­ ritto7. Questo modello era certamente giunto loro attraverso la fi­ losofia morale e politica, come pure attraverso la retorica, che era parte della loro formazione. Essi ne estrassero però delle proposi­ zioni frammentarie, delle formule sparse. Così, la celebre sequen­ za ciceroniana - vera lex, retta ratio, naturae congruens, diffusa in omnes, constans, sempiterna* — si ritrova scomposta in temi isolati, sparsi, privati della loro coerenza organica. Alcuni testi raccolgo­ no il tema della permanenza (constans et perpetua voluntas, Ul­ piano, D., 1, 1, io; id quod semper aequum ac bonum est, Paolo, D., 1, 1, 11 pr.; divina quadam providentia constituta semper fir­ ma atque immutabiliapermanent, Giustiniano, Institutiones, 1,2, 11); altri evocano l’universalità della natura (natura omnia amma­ lia docuit, Ulpiano, D., i, i, i, 3), o l’universalità umana dello ius gentium (quod vero naturalis ratio inter omnes homines constituit, id apud omnes populos peraeque custoditur, Gaio, Institutiones, 1, 1; quae apud omnes gentes peraeque servantur, Giustiniano, Institutiones, 1, 2, 11); o, ancora, la verità della natura (naturae veritas, Papiniano, D., 28, 2, 23; Ulpiano, D., 50,1, 6). Permanenza, universalità, verità. Tuttavia, i giuristi non hanno fatto propria l’idea che il diritto trovi la sua fonte nella natura. Si cercherebbe invano nel Digesto una formula equi­ valente al ciceroniano ius a natura9. Né d’altronde è ammes­ sa la superiorità normativa della natura sul diritto. Lungi dal pensare che un’istituzione contraria alla natura fosse illegitti­ ma, o che la legge positiva dovesse conformarsi a una naturae norma10, la schiavitù, di cui nessuno metteva in dubbio la le­ gittimità, era stata istituita - si credeva - contra naturam", e la legge (alla quale, nel corso del 11 secolo, sono assimilate le

7 Cicerone, De legibus, i, 17-18.28.42-44. * Cicerone, De republica, in, 22, 33. * Cicerone, De legibus, 1, 3 5 (cfr. 1, 20: repetam stirpem iuris a natura-, I, 28: natura esse constitutum ius; 1, 34: ius in natura positum ecc.). La tematica del diritto naturale compare dapprima nelle partizioni del diritto presso i retori: Rhetorica ad Herennium, n, 13; Cicerone, De inventione, 11, 6j sg. ,e Cicerone, Leg., 1, 44.

" Fiorentino, D., 1, 5, 4; Ulpiano, D., 50, 17, 37; Giustiniano, Institutiones, 1, 2, 2 (seruitutes, quae sunt iure naturali contrariae).

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costituzioni imperiali) non incontrava alcun limite: nel dirit­ to pubblico imperiale, come nel diritto pubblico repubblica­ no, il legislatore non era vincolato che dalle leggi positive alle quali si era egli stesso legato12. Allorché la natura, nei testi '* Le leggi repubblicane recano spesso una clausola d’eccezione per la quale il dirit­ to anteriore sacrosanto (vale a dire i trattati e la costituzione tribunizia, fondata su un giuramento) è conservato: Valerio Probo, 3, 13; Cicerone, prò Balbo, 32; de domo, 106; Lex Calpumia Gabinia de Délos, 1. 37, in Claude Nicolet (ed.), Insula sacra: la loi Gabinia-Calpumia de Délos (58 av. J.-C.), École franose de Rome, Roma 1980, p. io. A quest’eccezione (termine che si deduce dall’uso di exàpio da parte di Cicerone, loc. dt.\ si oppone la sanctio, clausola di immunità mediante la quale la legge si protegge contro l’interdizione all’abrograzione di una legge anteriore (Cicerone, ad Atticum, ili, 23, 2; lex de imperio Vespasiani), o con la clausola di inabrogabilità, che, al contrario, la premunisce contro un’abrogazione successiva: ogni legge si erge dunque contro quelle che la prece­ dono e la seguono, salvo ove la si cancelli espressamente, mediante unexceptio, davanti allo ius sacrosanctnm. Su queste clausole, si vedano: Feliciano Serrao, Classi, partiti e legge nella Repubblica romana, Pacini, Pisa 1974, pp. 82 sg.; André Magdclain, La loi à Rome. FIistorie d'un concepì, Les Belles Lettres, Paris 1978, pp. 59 sg. Durante l’impero prevale, come è noto, il principio princeps legibus solutus, che, pur formulato da Ulpiano (D., 1, 3, 31), trova la sua prima espressione nella lex de imperio, ovvero nella carta costituzionale del principato, rinnovata da ciascun nuovo imperatore (lex de imperio Vespasiani, 1.25, FIRA, 1, p. 156: inique quibus legibus... sobitus sii). Tuttavia, Settimio Severo e Caracalla precisavano spesso nei loro rescritti: «pur essendo sciolti dall’osservanza delle legge, noi viviamo tuttavia conformemente ad esse» (Giustiniano, Institutiones, 2, 17, 8); cfr. Codice di Giustiniano (d’ora in poi, C.J.), 6, 23, 3 (a. 232): licei enim lex imperii sollemnibus iuris imperatorem solvcnt, nihil tamen tam proprium imperii est, ut legibus vivere. Principio di autolimitazione, riaffermato con enfasi in una costituzione del 429, Codice di Teodosio (d’ora in poi, C.T.), 1, 14, 4: «È una legge degna della maestà del principe regnante quella che proclama che il principe si riconosce legato alle leggi... Poiché, in verità, è conforme alla grandezza del potere, sottomettere alle leggi l’esercizio del principato». Non c’è altro limite alla legge che la legge stessa: nessuna gerarchia normativa — e in particolar modo nessuna che favorisca il diritto naturale — c riconosciuta. I giuristi del Medioevo inter­ pretarono diversamente questi testi. Infatti, da una parte, dire che il principe sia legibus solutus significa confessare ch’egli è tenuto al rispetto delle norme dello ius naturale', a questo titolo, egli non può recar danno, per rescritto, ai suoi soggetti (Azzone, Summ. Cod., 1,22, 2, si tamen laedatur in eo, quod ei competit de jure naturali, nullum est (rescrip­ tum]; cfr. Ugolino, Dissensiones dominorum, 52: valeant [rescripta] nisi sunt juri naturali contraria). D’altra parte, il principe, libero riguardo alle leggi, non lo è riguardo ai suoi contratti stipulati con i suoi vassalli; il contratto, infatti, obbliga in virtù dello ius gentium, cioè del diritto naturale. Bartolo, comm. in cod., 1, 14; Baldo, Opus aureum super feudis, Lugduni, de Portonariis, 1524, fol. 19: Deus subjedt ei leges, sed non subjedt ei contraaus ex quibus obligatus est, ut nota 1. digna vox; [Cino da Pistoia], Cyni Pistoriensis, ivrisconsvlti prestantissimi, In codicem, et aliquot titulos primi Pandeaorum tomi, id est, Digesti veteris, doctissima commentarla, Francoforti ad Moenvm, Impensis Sigismundi Feyerabendt, 1578, fol. 26r, 1,14,21: contraausprindpis est lex. Nulla esprime meglio l’originalità dell’erudizione medievale che il fatto di aver limitato il dispotismo della legge digna vox associandola al principio del rispetto dei contratti, fondato sul diritto naturale.

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giuridici, rappresenta un ostacolo, è sempre di un ostacolo fisico che si tratta. Così, ad esempio, essa non consente che più figli escano contemporaneamente dal ventre della madre, sicché, anche nel caso di parto gemellare e trigemellare, l’or­ dine delle nascite distingue fra primogeniti e cadetti*3. Allo stesso modo, essa esige che un padre abbia un’età sufficiente a generare suo figlio, sicché l’adozione, che «imita la natura», richiede uno scarto di diciotto anni fra adottante e adottato'4. La durata della vita impedisce di vedere la propria discenden­ za rinnovarsi al di là di tre generazioni, per cui, conseguen­ temente, nessuno può conoscere i suoi collaterali al di là del settimo grado, fintantoché l’avo a loro comune è in vita; di conseguenza, la nomenclatura dei collaterali è per forza di cose limitata ai primi sette gradi’5. Le istituzioni, dunque, ri­ spettano certe leggi della natura biologica (si vedrà più avanti per mezzo di quali finzioni se ne affranchino). Tuttavia, non è la natura morale o politica quella dalla quale si riconoscono vincolate. Quando i giuristi suppongono l’esistenza di impe­ dimenti di ordine etico, essi li riferiscono alla legalità. Ecco, secondo Paolo, tre cause di incapacità a svolgere l’incarico di giudice: /ege, quando si è radiati dal Senato (vale a dire in determinati casi di infamia); moribus, per le donne e gli schia­ vi; natura, giacché la natura esclude i sordi e i muti’6. Oppu­ re si veda questo passo del commentario ai libri iuris civilis di Sabino, in cui si confrontano due motivi per considerare nulla una promessa: o perché la prestazione convenuta non ,} Trifonino, D., 1,5,15 (cfr. D., 5,1, 28,2: la natura non consente di sapere quanti figli postumi nasceranno). ’4 Si veda infra, nel resto. ’’ Modestino, D., 38, 15, 4 pr. «Quando nel nostro diritto si tratta della parentela naturale, è difficile superare il settimo grado, poiché la natura non consente che la vita dei nostri parenti si prolunghi al di là di questo grado». Questo testo presuppone che i gradi siano contemporanei: la natura oppone un ostacolo alla longevità della vita. Ego può conoscere nello stesso tempo il suo cugino di settimo grado (figlio di suo cugino nato da germani) e il bisavolo da cui discendono entrambi: il che fa coesistere quattro generazioni. Questa norma generazionale c esposta da Cicerone nel De officili, 1, 17, 54; cfr. Sententiae Pauli, 4, 11, 8: «I gradi della successione sono stati fissati in numero di sette, poiché, al di là di questo limite, la natura non consente né di trovare dei nomi, né di prolungare la propria vita nei propri eredi». 16 D., 5,1,12, 2.

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dipende dalla volontà del debitore, il quale si è impegnato a fare «ciò che la natura non consente»: per esempio consegna­ re un centauro o qualsiasi altra cosa che non esiste in natura; o perché la promessa riguarda un divieto, «per esempio se si fa promettere a qualcuno di sposare la sorella»: all’opposto di ciò che la natura interdice, l’incesto è annoverato fra «ciò che le leggi proibiscono»*7. Nel diritto romano classico non si riscontrano tabù morali fondati sul diritto naturale. Nessun giurista dell’epoca avrebbe mai pensato di fare dell’incesto, ad esempio, un crimine contro natura. Se la natura viene evocata a questo proposito, è in una circostanza precisa: un liberto che si unisca a sua madre o a sua sorella schiave; un uomo libero che sposi la figlia che ha gene­ rato al di fuori del matrimonio. In queste ipotesi non è ricono­ sciuta alcuna parentela legittima. Per mantenere l’interdetto, bisogna allora fare appello a una parentela naturale; la natura non estende immediatamente le proibizioni matrimoniali al di fuori del proprio campo: essa istituisce un legame di parente­ la sostitutivo, per offrire un sostrato agli interdetti giuridici*8. A fondare la proibizione, in ultima istanza, sono la legge e i mores19'. non si risale al di là di una legalità civica e propria­ mente sociale. Lo stesso avviene per le trasgressioni della pietas '7 D., 45, i, 35, pr. i. Cfr. 18, i, 15 pr.; 45, 1, 97 pr; Institutiones 3, 19,1. '• D., 23, 2, 14, 2: serviles quoque cognationes in hoc iure observandae sunt... nec vulgo quaesitam filiam pater naturali; potest uxorem ducere, quoniam in contrahendis matrimoniis naturale ius et pudor inspiciendus est. '* Pomponio, 5 ad Sabini! m, D., 23, 2, 8: quia hoc ius moribus non legibus introductum (a proposito dell’incesto servile); per l’incesto dei cittadini, però, altri testi in­ vocano o il mos (Tito Livio, framm. Del libro xx, 4, p. 372), o le legcs (Tacito, Annales, 12, 8). È sempre in termini di legalità che una costituzione di Diocleziano presenta, nel 295, la tradizione romana sulle proibizioni matrimoniali {Mosaicarum et Romanarum legutn collatio, 6, 4, 1). Diocleziano considerava le proibizioni come stabilite dal di­ ritto {disciplina iuris veteris; nuptiae... Romano iure permissae\... sanctitas legutn...) e ignorate dai barbari (i matrimoni fra consanguinei erano tanto ferarum ritu quanto barbaricae immanitatis ritu). Si richiama anche il commentario di Paolo a Sabino, in D., 45, 1, 35: itetn quod leges fieri prohibent... cessai obligatio, velati si sororem nupturam sibi aliquis stipuletur... Certo, l’incesto viene talvolta dichiarato nefas’. ma quest’espressione, aggravata dall'interdetto, non significa che avesse una fonte consi­ derata dai Romani come religiosa {contra-. Ph. Moreau, Ciadiana religio: un procès politique en 61 av. J.-C., Les Belles Lettres, Paris 1982, p. 86). Nefas si usa molto spesso al di fuori del delitto religioso (così, D., 1, 1,3: hominem homini insidiaci nefas esse).

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verso i genitori. I doveri derivanti dalla pietà erano collocati dai retori repubblicani sotto la rubrica natura. Per il giurista Pomponio, essi appartengono invece solo allo ius gentium10. La natura, tuttavia, viene introdotta anche qui per imporre, fra figli e genitori schiavi, o tra figli illegittimi e genitori non spo­ sati, un legame che garantisca l’applicazione delle regole della pietà dovuta agli ascendenti legittimi. Fin dall’epoca augustea, il giurista Labeone vietava di citare in giudizio la madre che aveva fatto nascere un figlio schiavo o bastardo21. In epoca severiana, questo stesso legame di natura autorizzava a punire penalmente il figlio che maltrattava sua madre o alzava su di lei una mano empia. In un testo di Ulpiano, si vede il prefetto della città costringere al rispetto di questa pietas-, fra cittadini, essa è definita publica\ fra co-liberti, vale secundum naturami. Allo stesso modo, poi, uno schiavo può essere accusato di par­ ricidio, sebbene legalmente egli non abbia né parentes né co­ gnati: perché, scrive Venuleio Saturnino, anche se gli schiavi non sono toccati dalla lettera della legge, la legge li raggiunge, «poiché la natura è comune» — e quindi la natura concede agli schiavi quei genitori che la legge rifiuta loro23. Lungi dal fondare delle norme, la natura, secondo i giuristi del 11 e in secolo, prepara soltanto il terreno per estenderle al di fuori delle leggi. Lungi dal contribuire alla formulazione degli interdetti, essa è messa al servizio della loro estensione. Se si considera che, invece, il diritto di Giustiniano stigmatizWZ>., I, 1,2.

” D., 2, 4, 4, 3. Cfr. Paolo, D., 2, 4, 5-6. Sulla parentela naturale servile, Venulcio, D., 48, 2, 14, 2 (a proposito del parricidio); Ulpiano, D., yj, 15, 1, 1 (dovere di pietas)-, Paolo, D., 23, 2, 14, 2 (incesto). " Ulpiano, D., 35, 15, 1, 1-2. *’ £>., 48, 2,12.4. Si veda Lucia Fanizza, Giuristi, crimini, leggi nell’età degli Anto­ nini, Jovene, Napoli 1982, p. 63 e p. 77. È mediante un’estensione simile che, mi pare, Fiorentino tenti di pensare {'interdetto dell’omicidio (1 Institutiones, D., t, 1, 3: et cum inter nos cognationem quandam natura constituit, consequens est hominem homini insidiari nefas esse). Si osserverà come il fatto qualificato, «tendere insidie a un uomo», sia ripreso dalla lex Cornelia de sicariis: legge sul brigantaggio, più che sull’omicidio. Il concetto romano di omicidio è tardo: viene elaborato, tra il I c il ni secolo d.C., in base a un neologismo modellato suparricidium. Come si vede, mentre l’omicidio è pensato come concetto generico che unifica i casi specifici della lex de sicariis, il giurista postula un legame di parentela tra gli uomini: l’omicidio è un parricidio universalizzato.

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za i crimini «contro natura»24, e che i Padri della Chiesa, in generale, postulano un’equivalenza fra legge divina rivelata e il diritto naturale inscritto nel cuore degli uomini, secondo la formulazione paolina della legge morale universale25, diventa indispensabile prestare attenzione a questa originalità dell’eti­ ca romana del diritto, secondo la quale non c’è altra fonte del diritto che le leggi e i mores della città. L’introduzione del diritto naturale nella problematica giuri­ dica dell’impero presuppone la visione di un diritto universale, ma certamente non quella di un diritto che prescriva i fonda­ menti del diritto. La natura non è utilizzata come figura di una norma ultima e costituente. Essa non occupa più il ruolo di un principio che s’impone al legislatore umano. Fra diritto na­ turale e diritto civile, contrariamente al modello ciceroniano, non viene suggerita alcuna gerarchia. La scienza giuridica si appropria così di motivi il cui signi­ ficato è radicalmente cambiato. Non si presta sufficientemen-

M Nella legislazione giustinianea, l’incesto e l’omosessualità sono «contro natu­ ra». Si veda, sui fondamenti giusnaturalistici del diritto delle Novellae, il bel libro di Giuliana Lanata, Legislazione e natura nelle novelle giustinianee. Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1984 (specialmente pp. 165-187). •’ Cfr. Ambrogio, ep. 1: esse autem legem naturalem in cordibus nostris etiam apostolus docet, qui scripsit quia plerumque «et gentes naturaliter ea, quae Legis sunt, faciunt, et cum Legem non legcrint, opus tamen Legis scriptum habent in cordibus suis». Agostino, Con tra Faustum, 19, 1 oppone alla legge ebraica, legge «di peccato e di morte» secondo san Paolo (Rm 8, 2), «aliud vero Gentium, quod naturale vocat: Gentes enim, inquit», «naturaliter quae legis sunt faciunt; et ejusmodi legem non habentes, ipsi sibi sunt lex, qui ostendent opus legis scriptum in cordibus suis». La legge naturale, che nell’Ambrosiaster (Comm. in Ep. ad Rom., 3, 20) comprendeva i precetti trasmessi da Mose, fa ormai a meno di questa enunciazione formale (si veda anche Ilario di Poitiers, Tract. in Ps., 118). Questa concezione viene accolta nelle Institutiones di Giustiniano, 1,2, 11: naturalia quidem iura, quae apud omnes gentes peraeque servantur, divina quadam providentia constituta semper firma atque immutabilia permanent. L’attribuzione delle istituzioni delio ius gentium allo ius naturale è tardiva (cfr. anche Isidoro, Etymologiae, 5, 4). Non si è sufficientemente sottolineato che la “legge naturale” del cristianesimo tardo-antico trasferisce nella natura, essa stessa creata dal legislatore divino, gli interdetti che il diritto romano riconosceva alla sola legge umana. La posizione della natura è cambiata, poiché essa è creata da Dio allo stesso titolo con cui Egli ha istituito la Legge. Questa trasformazione radicale resta invisibile a quegli autori che continuano a credere alla prescrittività della natura nel diritto romano, vale a dire che, da bravi tomisti, applicano la retroattività della dog­ matica cristiana al diritto pagano.

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te attenzione a questo lavoro mediante il quale, integrando al loro corpus luoghi comuni filosofici, i giuristi producono un pensiero autonomo a partire da testi presi in prestito. Il trat­ tamento giuridico del diritto naturale dimostra che i giuristi romani non hanno inscritto le loro norme nella dimensione della trascendenzji. Eppure la natura fa parte di quei concetti monumentali che, si crede di solito, presuppongono un im­ pegno metafisico: sarebbe quasi disdicevole non riconoscere una cena elevatezza al pensiero dei giuristi che la evocano. Ricordiamo, infatti, le Institutiones di Ulpiano, che aprono il Digesto. La scena si apre sul culto reso alla giustizia dal giu­ reconsulto-sacerdote, sprofondato nella contemplazione del vero - della «vera filosofia, e non [della] sua falsa apparenza»26. È stato necessario rappresentare questa visione inaugurale per dispiegare tutto l’apparato delle grandi nozioni: il diritto pub­ blico e il diritto privato, poi la natura e la sua umanità dell’età dell’oro; i popoli aizzati gli uni contro gli altri, le guerre, le pri­ gionie e la lacerazione di quest’unità prima spezzata in regni, città, domìni, e poi restaurata grazie agli scambi, ai contratti che legano i cittadini di tutte le città; e infine ogni singola città, scena del mondo in miniatura. In questo vasto teatro, tutte le categorie trovano il loro posto. Ma, dietro questa illusione, il giurista ha già rovesciato l’ordine apparente delle cose. Poiché la natura è destituita; iso­ lata in un’inaccessibile anteriorità, certo, ma soprattutto pru­ dentemente assegnata alla sfera del diritto privato. Secondo il piano delle Institutiones, la tripartizione natura/gewtes/città è introdotta dopo la summa divisio dello ius in pubblico e priva­ to27. Lo Stato e i privati sono già definiti quando la natura entra in scena. I giuristi, tuttavia, allorché celebrano il diritto natura­ le nel suo spazio circoscritto, evocano questa natura universale u Su questo testo (D., i, i, i, i), si veda, recentemente, Antonio Mantello, Un illustre sconosciuto tra filosofia e prassi giuridica. Eufrate d’Epifania, in Sodalitas. Scritti in onore di Antonio Guanno, li, Jovene, Napoli 1984, pp. 978 sg., che storicizza esageratamente il riferimento alla «vera filosofia- poiché era già un tema ciceroniano (De oratore, 1, 195). ’7 Ulpiano, D., 1, j, 1, 2: privatum ius tripertitum est: collectum etenim est ex naturalibus aut gentium aut civilibus praeceptibus. Probabilmente, questo piano era già stato adottato nelle Institutiones di Fiorentino e di Marciano.

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e questa umanità senza status né frontiere. La contraddizione esplode fra l’universalità inerente a questa natura e la limitatezza dello spazio che le riserva la topica del diritto. Bisogna allora presumere che se ne conservi una qualche enclave nell’ordine giuridico interno? Più che un’utopia, più che un’età dell’oro richiamata a margine delle loro opere, i giuristi introducono subito la finzione secondo la quale la natura si inscrive nel di­ ritto. Lungi dall’alimentare una dottrina solo ornamentale, il diritto naturale viene collocato fra le divisioni del diritto pri­ vato. E c’è da scommettere che il suo uso sarà strettamente controllato. In realtà, è necessario a questo punto abbandonare le proposizioni troppo generali dei trattati didattici, dalle quali non possiamo ricavare null’altro. C’è molto più da scoprire nelle combinazioni giuridiche al servizio delle quali, nella ca­ sistica, la natura è mobilitata.

II

Durante l’età naturale, tutto era comune a tutti. Comincia­ mo da questa immagine dell’indivisione primitiva, che serve a pensare e a fondare taluni modi di appropriazione. Poiché, al di fuori delle divisioni normalmente applicate alle cose - patri­ moniali o non patrimoniali, di diritto divino o umano, pubbli­ che o private -, si distingue una categoria di beni «prodotti in primissimo luogo dalla natura, e che non sono ancora caduti in possesso di alcuno»28. Questi beni primitivi sussistono solo all’interno di un’area limitata, definita dai giuristi. Alcuni di essi sono «comuni a tutti secondo il diritto naturale» oppu­ re ancora d’«uso pubblico secondo il diritto delle genti»29. È questo il regime dell’aria, del mare e delle sue rive, disegnate dall’azione dell’alta marea invernale. Entro questo limite, la natura sfugge in linea di principio al diritto dei privati, senza per ciò appartenere alle città, che possono controllarne l’uso, “ Nerazio, D., i, i, 14. ” Marciano, bistitutiones, 3, D., 1, 8, 2; Giustiniano, Institutiones, 2, 1, pr.: I, 4, 5. Nerazio, toc. cit.; Gaio, D., 41, 1, 7, 4.

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ma non interdirlo o riservarlo a loro stesse. Dall’altro lato, la natura produce anche dei beni destinati all’occupazione priva­ ta: gli animali selvaggi che, fin dalla loro cattura, appartengono al soggetto che li addomestica30. Sotto l’insegna del diritto naturale, i giuristi sistemano dun­ que un doppio regime di proprietà. Al godimento indiviso delle cose comuni si contrappone il diritto esclusivo conferito dalla prima presa di possesso. Regimi contrastanti e purtuttavia solidali, in quanto entrambi contenuti enclave all’in­ terno della quale il diritto lascia sussistere una natura autono­ ma. In questo recinto pre-giuridico, coesistono quasi allo stato di fossile le due forme - collettiva e privata - rivestite dalla proprietà nello stato civile. In una parola, la natura prefigura le istituzioni pur essendone a sua volta definita. Le res communes, il mare e le sue sponde, costituiscono al di fuori di ogni città un modello per quelle cose che, nelle cit­ tà, sono qualificate come pubbliche e il cui uso è comune: fiu­ mi, strade, piazze, teatri, mercati, terme ecc. I giuristi infatti non considerano questi beni come proprietà dello Stato, ma piuttosto come co-proprietà dei cives: appropriazione collet­ tiva che vale loro talvolta l’appellativo di res universitatis31. Le res communes e le res publicae, certo, sono distinte; i cata­ loghi delle une e delle altre non si sovrappongono. Tuttavia, la loro associazione si impone di fatto nei testi dei giuristi, come se il godimento comune della natura costituisse un’an>g Infra, nel testo. »' Sulle res communes (a partire da Marciano, D., i, 8, 2 pr.), si veda Aldo Dell’O­ ro, Le -rei communes omnium- dell’elenco di Marciano e il problema del loro fonda­ mentogiuridico, «Studi Urbinati», 1962, pp. 255 sg. Sotto Augusto, Labeonc fornì una lista - non esaustiva - dei loca publica'. -ad areas et ad insulas et ad agro; et ad vias publicas itineraquepublica (pertinet)-, D., 43, 8, 2, 3; cfr. Ulpiano, eod. loc.,., 48, 3, 3 pr. (communes); 48, 8, 3, i (publica)', Ulpiano: D., 47, io, 3, 7 (communes)-, 39, 2, 24 pr. (publica). Su queste divergenze concettuali, si veda Nicole Charbonnel, Marcel Morabito, Les rivages de la mer: droit romain et glossa­ teli™, «Revue historique de droit fran^ais et étranger», 65, 1987, pp. 24 sg., nota p. 30. ” Questi interdetti proteggono esclusivamente il regime delle res publicae (D., 48, chap. 3 à 14). L’impedimento del libero accesso al mare dà luogo ad azioni civili per ingiuria (D., 48, 8, 2, 9), e le costruzioni abusive danno luogo a un interdetto «utile» (eod. loc., 8). ,6 D., 1, 8, 4; 39, i, t, 18; 40, 1, 30, 4; 40, 1, $0; Giustiniano, Institutiones, 2, 1, 1, 5. ’7 Papiniano, D., 41,3, 43: praescriptio longac possessionis ad optinenda loca iuris gentium publica concedi non solet.

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il suolo occupato ritrova la sua condizione primitiva: torna in pristinam causami. Marciano paragonava questo diritto della natura, che un diritto umano aveva momentaneamente sospe­ so, alla condizione del prigioniero di guerra, il quale, una volta varcata la frontiera, recupera la sua libertà d’origine: quasi iure postliminii revertitur locus in pristinam causami. Il godimento delle res communes si distingue infine da quello delpatrimonium populi, che pure su di esse si modella, per il fatto che questi beni originari non sono ancora caduti sotto il dominium di alcuno e, a questo titolo, possono essere - almeno per qualche tempo - occupati40. La loro qualità di res nullius è primaria: non è la conseguenza di un atto che le assegni agli dèi della città o ai suoi cittadini4'. Per natura, esse non appartengono a nessuno, pur appartenendo a tutti, il che le destina a una modalità di appropriazione alternativamente pubblica e privata. Ciò che un privato strappa al mare, scri­ veva Aristone nel 1 secolo, viene ripreso dal mare, che rende pubblico ciò che esso rioccupa42; allo stesso modo la parte del litorale in cui scompare il segno della sua occupazione si trova ristabilita nell’indivisione naturale. Il reinstaurarsi di

’* Nerazio, D., 41,1, 14. ” D., 1, 8, 6 pr. Si noti che il regime delle res sacrae è simmetricamente opposto: quando un locus viene pubblicamente consacrato agli dei, la demolizione del santuario non cancella lo statuto definitivamente sacer del suolo (Marciano, D., 1, 8, 6, 3); le posizioni conquistate dai privati a spese della natura sono provvisorie; ma ciò che la città inscrive pubblicamente sul suo suolo riceve uno statuto definitivo. 40 Nerazio, D., 40,1,14 pr.: nam litora publica non ita sunt, ut ea, quae in patrimo­ nio sunt populi, sed ut ea, quae primum a natura prodita sunt et in nullius adhuc dominium pervenerunt; nel seguito, il testo confronta l’occupazione di queste res nullius communes con quella degli animali selvaggi e dei pesci «che, una volta presi, diventano proprietà di colui sotto il cui dominio sono capitati». Cfr. Pomponio, D., 41, 1, 30, 4: «se ho costruito un’isola in mare, essa diviene subito mia proprietà, poiché ciò che non appartiene a nessuno appartiene al suo primo occupante», quoniam id, quod nullius sit, occupantis fit. *' Come abbiamo visto (supra, n. 40; cfr. infra, n. 43), le res nullius sono in primo luogo naturali. Esistono tuttavia, sul piano politico, delle «cose che non sono nel pa­ trimonio di nessuno», res nullius in bonis-, sono le res consacrate agli dèi (res sacrae), i bastioni delle città, colpiti da un divieto di violazione (res sanctae), c le res publicae o universitari, comproprietà dei cives; si vedano Gaio, 2,9 e 11; Marciano, D., 1, 8, 6, 2; Giustiniano, Institutiones, 2,1,7. 44 D.t 1, 8, io.

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questa natura comune non cancella ogni diritto, ma soltanto il diritto dei privati. Riguardo alle res communes, enclave di una proprietà col­ lettiva che si realizza nelle città sotto forma di demanio pub­ blico, i giuristi concepiscono un regime giuridico della natura completamente diverso, a cui corrisponde la sfera privata del diritto civile. Esso riguarda quelle res nullius originariamente autonome: gli animali selvaggi, assorbiti dal diritto al momen­ to della loro prima cattura43. Lungi dal prendere la sua parte delle ricchezze comuni, il cacciatore trasforma in oggetto di proprietà ciò che originariamente appartiene solo a sé stesso. Non esercita un diritto che gli garantisce già, virtualmente, di partecipare a una comunità di godimento. Facendo dell’ani­ male, prima sottratto a ogni diritto, una cosa sua, egli realizza il primo acquisto del diritto privato: l’atto con il quale, sen­ za alcun riconoscimento sociale, si costituisce unilateralmente come soggetto di diritto44. Nella teoria classica dei titoli di acquisto, si suppone che ogni bene sia già inserito nei circuiti della trasmissione e dello scambio: un possesso si giustifica in forza di cause necessaria­ mente secondarie. Sono i titoli che conferiscono la posizione di erede, i trasferimenti onerosi o gratuiti45. La primissima forma di dominio è inattingibile all’esperienza, se non addirittura al pensiero. Eccezionalmente, tuttavia, la cattura di un animale sembra lasciare una traccia, un vestigium a partire dal quale i giuristi risalgono nel tempo per concepire questo possesso iniziale: «Nerva figlio (i secolo) dice che la proprietà delle cose cominciò con il possesso naturale, di cui resta un vestigio nella cattura degli animali della terra e del cielo. Sono infatti nostre

45 Sulla definizione degli animali selvaggi come res nullius, si vedano Gaio, 2, 6, 6; Nerazio, D., 41, 1, 14; pscudo-Gaio, D., 41, 1, 3 pr.; Giustiniano, Institutiones, 2,1, 12. SoWoccupai io degli animali, si veda David Daube, Doves and Becs, in Droits de l’Antiquité et sociologie juridique. Mélanges Henri Lcvy-Bruhl, Sircy, Paris 1959, pp. 63 sg. 44 L’animale è naturalmente «libero» (si veda infra nel testo), ovvero sottratto a ogni diritto, prima della sua cattura. Sulla realizzazione del diritto soggettivo mediante la prima occupazione, si veda il testo di Nerazio citato sotto. *’ La teoria dei titoli di acquisto del possesso è esposta nel modo più chiaro in Pasquale Voci, Modi di acquisto della proprietà^ Giuffrc, Milano 1952, pp. 172 sg.

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per eccellenza le cose di cui noi per primi ci siamo impadroniti allo scopo di possederle...» (D., 41, 2, 1,1)46. È allora che, ultimi testimoni dell’atto mediante il quale il primo soggetto si impadronì di ciò che è suo, gli animali della terra, dell’aria e dell’acqua sembrano correre, volare e nuotare soltanto nell’attesa del loro «occupante» (occupans, capiens). A partire da questo caso così particolare, i giureconsulti defini­ scono un modo d’acquisto dal quale si inferisce ciò che dovette essere, ai suoi inizi, il «possesso naturale». La cattura degli ani­ mali selvaggi (e quella degli altri uomini durante una guerra) è trattata come una sopravvivenza grazie alla quale il diritto può pensare un atto giuridicamente impossibile, ma necessario per pensare sé stesso47. Prese nelle reti di una sapiente casuistica, le specie selvagge si offrono provvidenzialmente all’esperto che, con occhio acu­ to, isola l’istante prezioso del primo atto: capere, prendere. La determinazione di questo istante è più difficile di quanto non sembri. Bisogna forse dire che la bestia è appropriata fin dal primo sguardo del cacciatore, che la racchiude all’interno del suo campo visivo?48 Oppure bisogna attendere che venga feri­ ta? Ma cosa decidere allora se l’animale, ferito, prende la fuga? Alcuni, come Trebazio Testa (contemporaneo di Cesare), rite­ nevano che, posto che egli avesse dato seguito al suo tiro con un inseguimento prolungato, l’animale fosse di proprietà del primo «occupante», che poteva a questo titolo intentare un’a­ zione per furto contro un terzo che se ne fosse fraudolente♦* Esattamente ciò che dice lo pseudo-Gaio (D., 41, 1, 1) sull’anteriorità dei modi del diritto naturale, nati «con il genere umano stesso», in rapporto ai modi civili di acquisto, e, fra i primi, sull’originarietà assoluta dell’occupazione, trattata all’inizio; cfr. Giustiniano, Institutiones, 1,66. 47 Questa dimensione fondamentale sfugge all’analisi di Andrc-Jcan Arnaud, che contesta l’importanza deW’occupatio in diritto romano, in ragione della limitatezza del suo campo di applicazione (Réflexions sur l'occupation, du droit romain classique au droit moderne, «Revue historique de droit fran^ais et étranger», 46, 1968, pp. 183-210). L’uso giuridico della natura non è sfortunatamente oggetto dello studio di Heinz-Gerhard Weiss, Das Willensmoment bei der occupatio des romischen Rechts nebst einer vergleichenden Betrachtung des V/illensmomentes im Ancignungsrecht des RGB, Selbstverl, Marburg 1995. È in Kant e nei primi pandettisti che si trova l’analisi più pertinente di questa istituzione, la cui portata non è affatto pratica, ma dogmatica. 4* Gaio, Institutiones, 2, 67; D., 40, 1, 5 pr.

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mente impossessato; senza l’inseguimento, l’animale ferito re­ cupererebbe invece la sua libertà naturale, riguadagnerebbe il regime giuridico della natura e, tornato al suo statuto origina­ rio, potrebbe in seguito ricadere sotto il possesso di un nuovo «occupante»49. Più ortodossa era tuttavia l’opinione di quanti ritenevano necessaria una vera e propria cattura. Occorreva essersi impossessati del corpo della bestia, averla avuta nelle proprie mani, per ottenere un titolo. Quale titolo? Quello che i giuristi qualificavano specificamente prò suo: a titolo di ciò che è «proprio». Un breve richiamo tecnico si rende qui necessario. La teoria dei titoli di possesso è esposta a proposito della prescrizione acquisitiva, che governa tutta la dottrina romana della possessio. Per ipotesi, un acquirente in buona fede ha ricevuto il suo bene da un terzo che non ne era il padrone (a non domino), o per mezzo di un atto difettoso dal punto di vista formale. L’u­ sucapione viene allora a cancellare il vizio giuridico e, grazie all’opera riparatrice del termine legale, a costituire una situazio­ ne giuridica inespugnabile. Per convalidare il proprio possesso, occorre tuttavia avvalersi di uno dei titoli esposti nei capitoli 4-10 del libro xli del Digesto. Chiamato in causa nel corso di un processo, il possessore in buona fede risponde che ha acqui­ sito la cosa prò emptore, come compratore; prò herede, come erede (o perché se ne credeva l’erede, o perché riteneva che la cosa facesse parte della successione);pro donato, prò legato, prò dote: perché ha ricevuto in dono, in legato o in dote ciò che non apparteneva al disponente; prò derelitto, se ha occupato un bene (che credeva) abbandonato dal suo padrone. Notiamo incidentalmente che Voccupans non entra in questo caso nella stessa categoria giuridica che definisce il cacciatore di una preda animale. L’abbandono del bene da parte del suo padrone forni­ sce un titolo al possesso. In un certo senso, il terzo ha ricevuto il bene a seguito di un trasferimento i cui due momenti - l’abban­ dono e l’occupazione - si concatenano e si lasciano analizzare come un’operazione certo discontinua, ma unica.

♦’ D., 40, 1,5, 1.

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Tutte queste cause derivate del possesso presuppongono, quale che ne sia la figura, una cessione della cosa che il posses­ sore ha o crede di avere da altri. Il soggetto possiede ciò che ha ricevuto da un altro. Occorre che i ruoli assegnati dal diritto nelle relazioni reciproche tra soggetti siano stati assunti. Que­ sta regola mette in evidenza la singolarità del titolo prò suo. Il possessore che rivendica ciò che è suo non invoca alcun rap­ porto giuridico con altri, ma soltanto il suo rapporto primitivo con la cosa. Nel corso del processo, non sostiene di considerarla comprata, ereditata, data, legata, ricevuta in dote, abbandona­ ta, ma soltanto sua: senza altro fondamento che quello indicato dal possessivo riflessivo, senza giustificare il possesso con alcun altro titolo anteriore al possesso stesso. È la natura a essersi di­ rettamente offerta alla sua presa, o a essersi spontaneamente in­ corporata al suo patrimonio. Nei testi giurisprudenziali, il titolo prò suo comprende infatti esclusivamente la cattura degli animali selvaggi e l’accessione dei terreni alluvionali50. L’interpretazione civile vi aggiunge l’accrescimento naturale del bene ricevuto per consegna; ad esempio, il figlio della schiava comprata già incinta: la madre era posseduta prò emptore, mentre il neonato, dono della natura, prò suo, a solo titolo di ciò che è proprio. Il titolo prò suo, in cui l’uomo è immediatamente messo di fronte alla natura, appare come tale quando l’acquisizione è originaria, non derivata: come tale, nella misura in cui risponde a una qualificazione giuridica univoca. Secondo una teoria più tarda rispetto a quella che definisce nello specifico il titolo in questione, qualunque possesso finisce infatti per giustificarsi secondo una doppia considerazione: quella di un trasferimento particolare, che ci fa pensare di avere in mano un bene altrui, e quella dell’appartenenza in generale, che ce lo fa pensare come nostro51. Il possessivo riflessivo suus, quindi, riunisce tutti i singoli titoli all’interno di una sola nozione. Si tratta tuttavia

*° Paolo, D., 41, 2, 3, 21; 41, io, 2. *' Ulpiano, D., 41, io, 1; Paolo, D., 41, 2, 3, 4. Questo doppio titolo (generico e specifico) e indipendente dalla questione del «titolo putativo», checché ne dicano Voci, Modi di acquino della proprietà cit.» pp. 129 sg., c Max Kascr, Da$ Ròmische Privatrecht, Beck, Munchen 1971, p. 422.

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di una categoria solo didattica: non è una qualificazione che si possa produrre in giudizio. In diritto romano sono vali­ de soltanto le cause tipiche. Avvalersi di ciò che è «proprio» equivale necessariamente, come rileva Paolo, a invocare una species possessionis’. quella che si ottiene per occupazione o per alluvione52. Se seguiamo alla lettera le qualificazioni del diritto ro­ mano, a essere considerato davvero “proprio” è soltanto il primissimo uso di una natura che non è praticamente più di questo mondo. Quando i giuristi mettono in scena, nelle loro combinazioni casuistiche, questa natura selvaggia sog­ getta alla sola appropriazione che si riferisce esclusivamente al «proprio», è per formulare una libertà mediante la quale, finché essa non è addomesticata, viene messo in scacco l’eser­ cizio del diritto umano. Si pensi, ad esempio, nella collezione scolastica intitolata «Cose quotidiane o Libro d’oro», alla fa­ vola delle api, «la natura» delle quali «è selvaggia {fera). Così, quelle che fanno sciame in un albero che ci appartiene non sono considerate nostra proprietà - prima che siano state da noi rinchiuse in un alveare - più di quanto lo siano gli uccelli che fanno il nido in un albero che ci appartiene... I favi di miele che esse eventualmente producono, possono esser presi da chiunque, senza che ciò costituisca un furto... Lo sciame che si leva in volo dalla nostra arnia è considerato nostro fin­ ché rimane a portata di vista e finché non è difficile catturar­ lo; altrimenti, appartiene all’occupante». Oppure si pensi ai pavoni e alle colombe che, come le api, si levano in volo e in volo ritornano (avolare, revolare), lasciando il nostro diritto su di essi sospeso alla loro «intenzione» di tornare in nostra potestà (animus revertendi), intenzione manifestata da un’a­ bitudine in cui si legge indubitabilmente il loro desiderio di appartenerci55. La casuistica dell’occupazione perde così la relativa nettez­ za dei suoi contorni, dal momento che il diritto sull’animale ’* D., 41, io, 2. Sul concetto di genera possessioni!, si veda Q. Mucio Scevola, in D.,41, 2, 3, 21. ” Gaio, Inslimtiones, 2, 68; D., 41, 1,5, 5-7.

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provvisoriamente addomesticato viene a confondersi con la cattura dell’animale ferito. Una medesima categoria riunisce ciò che si prende e ciò che si dà; come se, per pensare il titolo originario prò suo, il diritto avesse dovuto tentare di conciliare le due autonomie contrapposte del soggetto e di una natura considerata anch’essa come soggetto, poiché, nel suo statuto primitivo, l’animale può sempre riguadagnare il possesso di sé, «sfuggire alla nostra custodia e recuperare la sua libertà natu­ rale»54. Donde la rappresentazione giuridica di una vendetta della natura, immaginata da Pomponio (li secolo d.C.) in una causa fittizia, secondo le regole analitiche del processo: «Ecco il caso di specie trattato da Pomponio. Alcuni lupi avevano strappato al mio pastore i maiali che questi custodiva. Il colono di una fattoria vicina, con i suoi cani robusti e valenti, di cui si serviva per portare al pascolo il suo gregge, li inseguì e li strap­ pò ai lupi - o, meglio, furono i cani a liberarli. Il mio pastore chiese che gli venissero resi i maiali. La questione che qui si pone è se fossero divenuti di proprietà di colui che li aveva ri­ presi o se continuassero invece ad appartenermi: poiché erano stati catturati nel corso di una sorta di caccia. Lui [Q. Mucio Scevola, giureconsulto della fine del il secolo a.C., al cui parere è probabile che qui Pomponio stia rinviando il lettore] pensava tuttavia che, come gli animali selvaggi catturati sulla terra o in mare, una volta che abbiano riguadagnato il loro ambiente naturale, cessano di appartenere a coloro che li hanno cattu­ rati, allo stesso modo, gli animali che fanno parte del nostro patrimonio, qualora vengano portati via da animali marini o terrestri, cessano di essere nostri dal momento in cui sfuggono al nostro inseguimento. Se pertanto, liberato da un’altra bestia selvaggia, l’animale cessa di essere nostro, apparterrà all’occu­ pante allo stesso modo in cui il pesce, il cinghiale, l’uccello che sfuggono alla nostra potestà, una volta catturati da un altro, sono suoi»55. Si potrebbero moltiplicare gli esempi, citare il caso della fiera che, caduta nella trappola tesa dall’uno, sia poi liberata da un M Gaio, Institutiones, a, 67. ” Ciuco da bipiano, D.t 41, I, 44.

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altro, il quale però perde a sua volta la preda: malgrado la sot­ trazione operata ai danni del primo bracconiere, il secondo non risponde dell’azione di furto, poiché la libertà recuperata dall’a­ nimale estingue il diritto da lui fraudolentemente acquisito. Da questa casuistica deriva l’idea che il titolo originario - poiché tale è la topica dell’occupazione - è il solo a non essere garantito. La natura opera delle restituzioni, annulla le situazioni giuridi­ che conquistate a sue spese, interrompe la continuità dei posses­ si che, secondo l’ordine del diritto, si perpetuano o si trasmetto­ no senza discontinuità, o quanto meno senza una giacenza la cui gestione temporanea non sia organizzata, controllata. È a proposito del solo titolo primario, originario - la cui intera qualificazione giuridica dipende dal possessivo riflessi­ vo, prò suo, che mostra il possessore come fonte autonoma del proprio diritto - che i giureconsulti latini postulano un’irru­ zione del caso nell’ordine, un’intrusione del discontinuo nel continuo. Come se il possesso nei confronti del quale il sog­ getto è in apparenza, stando alla formula impiegata, più auto­ nomo, si rivelasse anche quello in cui egli è meno padrone di ciò che gli è “proprio”. Al contempo, però, la categoria giuridica del «proprio», costituita nella sfera della natura, funge da punto di riferimento per pensare l’appropriazione privata in ciò che essa ha di irri­ ducibile. Così la natura, nonostante la visione utopica che ne offrono le opere didattiche, si articola con estrema precisione, nella casuistica, sulle divisioni essenziali del diritto. In essa si in­ scrivono già la forma pubblica e quella privata della proprietà. Essa unisce la comunità d’uso e l’esercizio autonomo del diritto soggettivo. Più che un vago riferimento all’idea secondo la quale le istituzioni devono conformarsi a un ordine che le trascende, essa offre ai giuristi, all’interno del diritto civile stesso, uno spec­ chio in cui rappresentare il doppio del loro diritto. La natura è un’immagine delle istituzioni, le quali però a loro volta, come vedremo, sono dette essere state forgiate a partire dalla natura.

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3* III

Se consideriamo adesso il tema della libertà naturale, in violazione della quale è istituita la schiavitù, si vedrà nuova­ mente che questa libertà primigenia corrisponde a meccani­ smi giuridici precisi. Ciò che i giuristi postulano come natura si inferisce da un’analisi delle procedure che la realizzano. Da un lato, numerosi testi attribuiscono all’artificio umano l’i­ stituzione della servitù. Fiorentino: «la schiavitù è un’istitu­ zione del diritto delle genti, mediante la quale una persona è sottomessa contro natura alla potestà di un padrone» (Z>., i, 5, 4); Ulpiano: «nel diritto naturale, tutti gli uomini nascono liberi; non si conosceva la manomissione visto che anche la schiavitù era sconosciuta. Ma dopo che, con il diritto delle genti, la schiavitù fece la sua comparsa, seguì presto anche il beneficio della manumissio» (D., 1, 1,4); «in diritto civile, gli schiavi non sono considerati persone (prò nullis habentur)’, ma questo non avviene in diritto naturale, poiché, in esso, tut­ ti gli uomini sono uguali»; Trifonino: «la libertà appartiene al diritto naturale, mentre il dominio sugli schiavi fu introdotto dal diritto delle genti» (D., 12, 6, 64, 1); Giustiniano: «in ori­ gine, tutti gli uomini nascono liberi secondo il diritto natura­ le ecc...» (Institutiones, 1, 2, 2). Si può aggiungere questo pas­ so di Paolo: non è per natura, natura, che agli schiavi, come pure alle donne, viene vietato di svolgere il ruolo di giudice, bensì in ragione dei costumi, moribus'. «non perché manchino di giudizio, ma per il fatto che si ammise per convenzione che essi non esercitassero funzioni politiche» (D., 5, 1, 12, 2). Come si vede, inoltre, nel momento in cui il diritto abolisce la libertà naturale, allo stesso tempo la ristabilisce parzialmen­ te in virtù della manomissione; il beneficium manumissionis interviene a correggere lo scarto che la schiavitù introduce nelle società divise: secutum est beneficium manumissionis, dice Ulpiano. E, allo stesso modo in cui l’animale che fugge recupera la sua naturalis libertas - o come, una volta distrutto l’edificio, il litorale ritorna in pristinam causam, alla stregua del prigioniero una volta rientrato in patria - così, «gli uo­ mini liberi ridotti in schiavitù per prigionia, se sfuggono alla

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potestà del nemico, recuperano la loro primitiva libertà», recipiunt in pristinam libertatem (Gaio, D., 41, 1, 7 pr.). Il prigioniero di guerra liberato riguadagna la libertà nella quale è nato. La libertà del liberto, al contrario, non è originaria, né è considerata tale. Esistono tuttavia delle procedure che, in modo più radicale, cancellano la schiavitù e conferiscono l’inge­ nuità o la sua apparenza. L’anello d’oro che il principe concede a taluni liberti garantisce già l’illusione di una nascita libera, dopo che una lex Visellia del 24, sotto Tiberio, accorda ai titolari dello ius anuli aurei l’accesso agli onori pubblici. Il libertus, quindi, somigliava all’ingenuo senza però esserlo: secondo una formu­ la di Papiniano, ripresa in una costituzione di Diocleziano, egli possedeva Vimago ingenuitatis'6. La natura era imitata, l’inge­ nuità simulata. Ma si poteva andare anche oltre. L’imperatore accordava l’ingenuità - e non soltanto il suo simulacro - quan­ do, con un favore eccezionale, reintegrava l’affrancato nei «di­ ritti della nascita» {restitutio in natalibus). Di un uomo nato in schiavitù, egli faceva così un ingenuo per titolo. Il meccanismo di questa procedura presuppone che venga ristabilita la nascita originaria - quella dello stato di natura; e che, posto che ognuno nasce due volte, originariamente in quanto uomo e poi, social­ mente, in quanto dotato di uno status, l’atto di liberare equivale a cancellare una nascita accidentale a beneficio della nascita es­ senziale: Marciano, libro 1 delle Institutiones, D., 40,11, 2: «Può talora accadere che coloro che sono nati in schiavitù divengano in seguito ingenui per intervento del diritto {ex post facto iuris interventu ingenui fiunt). Ad esempio, se un liberto riceve dai principe la grazia di essere ristabilito nei diritti della sua nasci­ ta {in natalibus suis restitutus); poiché viene ristabilito in quei diritti di nascita in cui furono originariamente tutti gli uomini {illis... natalibus restituitur, in quibus initio omnes homines fuerunt), e non in quelli della sua specifica nascita, in quanto egli è

’* Papiniano, Fragm. Vat., 226: ius anulorum ingcniiitatis imaginem praestat', cfr. Diocleziano, C.J., 9, 21, 1: qtioad vivunt imaginem, non statum ingenuitatis obtinent. Sulla lex Visellia, si veda Giovanni Rotondi, Leges publicae populi Romani. Elenco cronologico con una introduzione sull'attività legislativa dei comizi romani. Società Editrice Libraria, Milano 1912, p. 464.

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nato schiavo (non in quibus ipse nascitur, cum servus natus esset). Quindi, in tutte le situazioni giuridiche, il beneficiario è consi­ derato come se fosse nato ingenuo; il suo padrone non può più essere chiamato alla sua successione...»57. Il commentario di Marciano tenta di risolvere il paradosso legato alla restituzione a uno schiavo dell’integralità di quei diritti che egli non può aver avuto per status. In ogni restitu­ tio - pensiamo naturalmente ai diversi casi della restitutio in integrum pretoria -, occorre ammettere grazie a una finzio­ ne che l’atto giuridico concluso da parte dell’incapace sia non esistente: per cancellarne retroattivamente gli effetti, il magi­ strato restaura la situazione anteriore all’atto. Analogamente, la restitutio in natalibus, probabilmente ispirata alla procedura pretoria di annullamento retroattivo, lascia supporre che la na­ scita servile non abbia avuto luogo. L’ingenuità del soggetto è presunta perché necessaria all’azione riparatrice della proce­ dura. Non si tratta di una rappresentazione filosofica fine a sé stessa: il topos viene riutilizzato più volte. La libertà naturale è usata come artificio per produrre libertà istituzionale. Uno dei temi più importanti del diritto naturale è messo al servizio di una tecnica: tutto avviene come se il diritto forgiasse la natura. Si finge di credere che il diritto ristabilisca casualmente un re­ gime naturale che esso stesso ha fatto scomparire.

’7 Questo testo, a mia conoscenza, non viene sfruttato nei lavori sul diritto natura­ le: forse perché non vi compare il termine «natura»? Ad ogni modo, questo beneficium imperiale deve essere distinto dalla domanda di restituzione presentata dall'ingenuo che si è venduto come schiavo c poi è stato affrancato: se riesce a provare la sua inge­ nuità originaria, quest’ultima gli è riconosciuta in giudizio (D., 40, 14, 2). La restituito in natalibus non ha nulla a che vedere con uno sviluppo di questa procedura (come pensava Arnold Mackay Duff, Freedmen in thè Early Roman Empire, Clarendon, Oxford 1928, pp. 86 sg.), e il tentativo di Marciano di fondare la finzione d’ingenuità del liberto non è una maldestra giustificazione (Fergus Millar, The Emperor in thè Roman World, Duckworth, London 1977, p. 489): al contrario, il diritto naturale entra necessariamente nel montaggio della finzione.

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IV

È difficile comprendere questo lavorio concettuale sull’idea di natura prescindendo dai casi concreti in cui i giuristi si tro­ vano a dover determinare dei rapporti fra istituzioni, stabilire ciò che le distingue, colmarne le differenze riconducendole a un modello comune. La natura viene presentata sia come una sopravvivenza (lo si è visto nel caso dello statuto delle res communes o dell’acquisi­ zione delle res quae capiuntur), sia come uno stato ripristinato, una condizione restaurata. Ma essa può però anche servire all’e­ stensione del diritto. In nome della natura, i giuristi immaginano rapporti giuridici ricalcati su quelli creati dalla legge: si pensi alla filiazione attribuita agli schiavi, nella misura in cui fosse necessa­ rio sottoporli a certi divieti. In un analogo ordine di idee, i giu­ risti estendono la parentela civile a una parentela detta naturale, per giustificare il fatto che l’editto del pretore estende ai cognati, ovvero ai parenti in linea materna, i diritti di successione legal­ mente riservati agli agnati58. Quando il campo delle istituzioni legittime è più largamente dispiegato, il pensiero giuridico, in epoca imperiale, invoca la natura come sostrato di sostituzione. Il diritto naturale supplisce all’assenza del diritto legale. Ma si dice anche che il diritto imita la natura quando una istituzione è presentata come il suo doppio: i giuristi postulano che essa sia costruita conformemente a un’opera che non è la loro. È il caso dell’adozione, definita da questo celebre afo­ risma: adoptio enim naturam imitatur'9. Facciamo attenzione alla singolarità del procedimento. Non va confuso con quelli cui ho fatto allusione a proposito della preistoria naturale delle cose pubbliche, o dell’acquisizione della possessio privata: poi­ ché i prototipi dello ius naturale erano allora dei testimoni, ’* Gaio, i, 156; Modestino, D., 38, io, 4, 2; Paolo, D., 38, io, io, 4. Questa nozione di parentela naturale è già nota a Plinio il Giovane (Panegyricus, 39, 2), ma, quanto meno come categoria specifica, non ancora a Cicerone (in De legibus, 1, si tratta del legame di agnazione che, in natura, lega gli uomini agli dèi). ” Giustiniano, Institutiones, 1, 11, 4. Sul destino medievale di questa massima, si veda Ernst Hartwig Kantorowicz, The Sovcreignty of thè Artist: A Note on Legai Maxims and Renaissance Theorics of Art, in Essays in Honor of Erwin Panofsky, New York University Press, New York 1961, pp. 267 sg.

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delle vestigia che il diritto civile aveva sostituito, pur lascian­ dole sussistere sotto il suo stretto controllo. Fra il paradigma e i suoi derivati attuali, la distanza era quella fra l’origine fossilizzata e il tempo dominato dalle istituzioni civili. Il rapporto intercorrente fra l’adozione e la filiazione non adottiva è piut­ tosto quello che passa fra verosimile e vero. «L’adozione», scriveva Giavoleno, «non ha luogo che fra persone tra le quali la natura permette anche [la filiazione na­ turale]». Che cosa significa? Occorreva che l’adottante avesse un’età tale da non escludere la possibilità che egli avesse ge­ nerato il suo figlio adottivo. Secondo la formula della legge curiata di arrogazione, i comizi erano invitati a decidere se «L. Valerio fosse figlio di L. Tizio, altrettanto legalmente che se fosse nato da tale padre e dalla sua sposa». Il collegio pontifi­ cale, che presiedeva a questa procedura, verificava l’età dei par­ tner: l’arrogato doveva essere vesticeps - vale a dire pubere -, e l’arrogante doveva avere abbastanza anni da poterne sembrare genitore e padre60. A proposito di questa indagine, Ulpiano os­ serva che un uomo di meno di sessantanni, nella sua età fertile, era ammesso a questa procedura, se faceva valere delle buone ragioni6’. In ogni caso, il padre adottivo doveva essere alme­ no pubere e più vecchio di suo figlio61. Poiché, per tornare a Giustiniano, che raccoglierà questa dottrina, «il più giovane non può adottare il più vecchio: l’adozione imita la natura, e Aulo Gelilo, Noctes Atticae, v, 19, 6 e 9; Giavoleno, D., 1, 7, 16. Cfr. Cicerone, De domo, 14, 36, a proposito dell’adozione di Clodio, da parte di Fonteio, più giovane di lui di vent’anni: adozione nulla «perché l’adottante aveva l’età per essere il figlio dell’adottato». La regola nec maiorem minor è dunque ben più antica di quanto dica Ulpiano (£>., 1,7, 15, 3). Essa è ancora più antica del De domo, poiché figura nella rogatio della legge di arrogazione (ciò che trascura Carlo Castello, Sull’età dell’adottante e dell'adottato in diritto romano, «Annali della Facoltà di Giurisprudenza dcll’Università di Genova», 7,2,1968, pp. 342 sg.). ‘■D., 1,7, 15,2.

Modestino, D., 1, 7, 40, 1. La menzione id est decem et odo annis eum prece­ dere debet è generalmente considerata interpolata. Si veda Carmela Russo Roggeri, La datio in adoptionem, voi. I, Giuffrè, Milano 1990, pp. 291 sg. Nessun argomento decisivo è suro a mio avviso avanzato per provare questa interpolazione: l’esigenza di uno scarto di diciotto anni nelle Institationes di Giustiniano non prova in nessun modo l’origine giustinianea di questa regola. Nessuna soluzione di diritto privato può essere indotta dall’adozione di Alessandro Severo da parte di Eliogabalo.

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sarebbe un prodigio (prò monstro) se il figlio fosse nato prima di suo padre»63. Tuttavia, i giuristi erano attenti a suggerire che fra l’istitu­ zione e il suo modello lo scarto non fosse quello che separa il verosimile dal vero (questa irriducibile differenza tra la filia­ zione legittima fondata sul matrimonio - vale a dire sulla pre­ sunzione di paternità - e la filiazione che crea in modo fittizio un atto giuridico), quanto piuttosto quello fra la finzione e il vero, o ciò che è supposto tale (poiché il vero padre non è altri che colui che è designato come tale dal matrimonio). Finzione, in primo luogo, poiché viene precisato che l’adottante può non avere, o non aver mai avuto, moglie: et qui uxores non habent, filios adoptarepossunt (Paolo, D., 1, 7, 30); sicché nella clausola «come se fosse nato da un tale e dalla sua legittima sposa», for­ mulata dalla legge d’arrogazione, il personaggio della madre è puramente congetturale. Finzione, inoltre, allorché si dice che il cittadino incapace di generare - come l’eunuco - ha il diritto di adottare e di arrogare esattamente come l’uomo non sposato6-*: si capisce così fin dove siano stati spinti i limiti dell’appa­ renza richiesta dalla natura. La distanza è tale, fra l’istituzione vista come naturale e la sua immagine, che i giuristi non esi­ tano a prendere in esame l’adozione di un nipote nato da un figlio inesistente. Non è più soltanto la presenza della sposa a essere finta, ma lo è anche il discendente dal quale si imma­ gina che sia nato l’adottato. Quasi ex filio vel incerto natus siti «come se fosse nato da un figlio o da un incertus» - da un terzo sconosciuto, che occupa immaginariamente il posto genealo­ gico dell’assente65. Per comprendere questa costruzione dop­ piamente finzionale, leggiamo questo caso di specie, esposto 6) Institutiones, i, 11,4. Altre regole sono fondate su quest’ordine biologico della natura: così che i discendenti succedano agli ascendenti, piuttosto che il contrario (D., 38, 6, 7, 1); così che il figlio acquisisca, alla morte di suo padre, la potestà paterna sul proprio figlio (D., 28, 2, 28, 1). 64 Gaio, D., 1,7,2,1; bipiano, 7?eg., 8,6. Numerosi testi citati da Danilo Dalla, L'in­ capacità sessuale in diritto romano, Giuffrc, Milano 1978, pp. 163 sg. Si tratta di spadones, parola che designa allo stesso tempo gli impotenti e i castrati: non c’è nessuna ragione di riservare un trattamento particolare ai castrati, a cui non è in nessun modo impedita l’adozione (contrai Carmela Russo Ruggeri, La datio in adoptionem cit., pp. 293 sg.). 6’ Pomponio, D., 1,7, 43.

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dal giureconsulto Proculo (all’inizio del I secolo: Proculo, 8 epist., D., 1, 7, 44): «Un tale, che aveva già un nipote nato da suo figlio, adotta un bambino come nipote. Non penso che, alla morte del nonno, i due nipoti acquisiscano fra loro i diritti di fratelli consanguinei. Egli ha però potuto adottare questo nipote in condizioni tali da consentirgli di diventare in ogni caso suo erede, per il solo effetto della legge (cioè per diritto di discendenza legittima, senza ricorrere all’adozione): per esem­ pio, se l’ha adottato come nato da suo figlio Lucio e dalla di lui sposa. In quest’ipotesi, penso al contrario [che i due nipoti siano consanguinei tra loro]». La prima modalità dell’adozione non precisa la persona attraverso la quale passa il rapporto fra avus e nepos-, l’anel­ lo genealogico che li lega è passato sotto silenzio: il bambino potrebbe essere collegato, indifferentemente, tanto al figlio da cui l’adottante ha già un nipote che a ogni altro figlio immagi­ nato per la circostanza - un qualunque incertus -, e addirittura a una figlia, reale o fittizia. Insomma, nulla indica che i due nepotes siano fratelli rispetto al medesimo padre: non è possibile considerarli consanguinei. La seconda modalità, al contrario, precisa la filiazione decretata dall’adottante: è a Lucio, padre legittimo del primo nepos, che l’avo attribuisce d’autorità la paternità del secondo nepos per adozione. A

A Lucius

filius A

A (inccrtus)

nepos A

A nepos adottato

J

nepos i A

A nepos n. 2

Adoptio naturam imitatur. nei limiti della verosimiglianza genetica, ci si prende ogni libertà per forgiare una paternità quanto più possibile affrancata dalle condizioni minime di ogni filiazione legittima: il matrimonio e il rispetto dei gradi genealogici. Ora, il matrimonio è presupposto anche in assen­ za di sposa; la madre è sostituita dalla finzione che l’adottante

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sia sposato - fosse anche eunuco, il che dimostra fino a che punto la «natura» giustifichi l’apparenza di ciò che in nessun caso potrebbe essere vero. I gradi genealogici sono stabiliti li­ beramente, cancellando gli anelli intermedi che nella realtà non possono mai mancare. L’arte giuridica approfondisce quanto più possibile la distanza fra il modello e l’istituzione che lo imita: fra la verità e gli artifici del diritto. A quale natura si è tuttavia rinviati, quando si tratta di norme tanto elaborate come quelle che legano un bambino a suo padre? A quali ele­ menti della filiazione, in base alla quale è regolata l’adozione, i giuristi attribuiscono valore di esemplarità? Per proseguire questa analisi, occorre citare una seconda massima, evidentemente complementare alla precedente. «La verità della natura non è dissimulata dalla sua immagine», scrive Papiniano a proposito dell’adozione: nec imagine naturae veritas adumbratur. Il doppio non può far scomparire l’originale. Per comprendere questa formula di matrice neoplatonica, e per chiarire a quale grado di elaborazione giuridica si situi il mo­ dello istituzionale cui s’ispirano gli artigiani del diritto, la cosa più semplice è esaminare la difficoltà pratica che Papiniano tenta di risolvere contrapponendo la natura alla sua imago'. 12 quaest. D., 28, 2, 23: «Un padre, dopo aver emancipato suo figlio, l’ha reintegrato, arrogandolo, sotto la sua potestà. Ho risposto, a proposito di questo figlio, che la diseredazione avvenuta prima (che il figlio fosse stato arrogato) dovesse nuocergli. Poiché, in ogni diritto, ci si accorda per osservare la regola secondo cui il figlio non sia mai considerato come il figlio adottivo del suo vero padre, e che la verità della natura non sia mai dissimulata dalla sua immagine. Sicché, non si ritiene che questo figlio sia stato trasferito, ma piuttosto ristabilito (nella potestà di suo padre)». Un padre disereda suo figlio, poi lo emancipa, e infine lo adotta per arrogazione (procedimento necessario, poiché il fi­ glio era divenuto sui iuris). Domanda: che ne è dei diritti di successione di colui che è stato successivamente diseredato, emancipato, adottato? La risposta dipende dall’idea che il giu­ rista si fa del rapporto tra filiazione «vera» (vale a dire fondata sulla norma: pater is est quem nuptiae demonstrant) e filiazione adottiva: tra natura e finzione istituzionale. Si può dapprima

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pensare che l’adozione successiva, posteriore alla rottura del legame «naturale», faccia nascere una discendenza supplemen­ tare, interamente creata dall’atto giuridico. In quest’ipotesi, il figlio precedentemente diseredato recupera la sua vocazione ereditaria al solo titolo della filiazione adottiva; diviene un altro figlio, dotato di tutti i diritti di cui il suo nuovo padre non l’ha ancora privato. Insomma, tutto è ricominciato. Si può però anche decidere che, al contrario, quando fra le medesime persone si siano successivamente stretti due rapporti di filia­ zione, il primo attraverso la natura, il secondo per adozione, dopo l’intermezzo di una rottura, il legame originale continui a sussistere; o, piuttosto, venga rinnovato. Il ritorno al padre tramite l’adozione fa sì che i diritti del padre non risultino spezzati, e nemmeno sospesi; l’emancipazione e la vacanza giuridica che essa aveva determinato sono annullate a benefi­ cio di una restaurazione del legame primario. Grazie a questa manipolazione finzionale, il diritto di patria potestà non è mai stato sospeso: la diseredazione pregressa resta valida e conti­ nua a nuocere al figlio66. Tutto questo ragionamento giuridico si fonda sulla norma: nec imagine naturae veritas adumbratur. Ma che cos’è la na­ turae veritas? In primo luogo, la posizione che risulta da una filiazione legittima: vale a dire, da un rapporto istituzionale; in secondo luogo, il fascio dei diritti costruiti su questa posizio­ ne. Non c’è niente, in questa natura, che non sia istituzionale e giuridico. Riportando la soluzione casuistica elaborata da Papiniano, Ulpiano prende una scorciatoia per afferrare l’essenziale di questa natura: D., 38,4, 8,7: «Papiniano decide che i diritti del­ la natura prevalgono sul resto (iura naturalia in eo praevalere)'. perciò la diseredazione nuoce al figlio». Gli iura naturalia altro non sono che l’istituzione di una paternità che comporta, fra

M Operazioni simili sono molto spesso attestate nel Digesto: il padre, o l’avo, emancipa il figlio o il nipote, poi lo adotta, con l’obiettivo di procedere a soluzioni successorie spesso molto complesse (l’avo, per esempio, si collega al suo nepos attra­ verso uno dei suoi figli che non ne è il padre naturale). Così D., i, 7, 41; 1, 7, 15, 1; 3, 4,», 7; 4, 7, 3; 37,4, »3> 31 37» 8, », 9i »*, », 2; 38. 6, 1, 7-

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gli attributi della sua potestà, la facoltà di diseredare il figlio. In questo senso, «imitare la natura» si risolve nella reiterazione di un rapporto giuridico che il diritto aveva originariamente allacciato e poi sciolto. L’atto giuridico resuscita il legame in­ terrotto nell’intervallo; quest’atto si cancella nel suo effetto, in rapporto al diritto originario. Ciò che l’artificio produce è attribuito a una natura (che non è altro che un’istituzione) ri­ emergente: allo stesso modo, la «reintegrazione nei diritti di nascita», annullando l’abolizione giuridica della libertà, apriva la strada a questa libertà ritrovata (istituzione giuridica per ec­ cellenza, nelle città antiche). Queste brevi riflessioni sono state condotte a partire dalle sole operazioni della casuistica. Si tratta evidentemente di ope­ razioni concettuali. È possibile scoprirvi, a me pare, che per i giuristi non c’è altra natura che quella da essi stessi creata. La coerenza del discorso istituzionale vale alla natura il suo status - molto originale - di istituzione.

Jacques Chiffoleau

Contro, naturam Per un approccio casuistico e procedurale alla natura medievale

Cantra naturami nei testi antichi e medievali l’espressione non designa mai il contrario o il rovescio speculare della na­ tura. Nelle pagine che seguono non cercherò quindi di defi­ nire un’inafferrabile «contronatura» medievale. Abbozzando qualche analisi su questa locuzione, questo sintagma - contra naturam - sempre riferito a un’azione, a una posizione, a un’at­ titudine particolare, vorrei solamente aprire una o due linee di ricerca che incroceranno inevitabilmente i percorsi degli speciali­ sti del diritto, degli storici della scienza o della filosofia che hanno riflettuto sul ricchissimo concetto di natura nel Medioevo, e che incontreranno anche alcune delle piste battute dagli storici del­ la giustizia o della politica che, a partire dagli archivi giudiziari o dalla legislazione principesca, hanno lavorato sull’istituzione della sovranità statuale e sulla formazione del soggetto politico moderno. Sono del resto questi incontri, con i rischi di miscono­ scimento e incomprensione che sempre nascondono, a giustifi­ care oggi questi appunti, nello spirito dei lavori pluridisciplinari promossi da molti anni dalla rivista «Micrologus». È infatti certo che lo studio sistematico dei testi legislati­ vi, quello - necessariamente tecnico - della casuistica svilup­ pata dai glossatori, e più concretamente ancora l’analisi delle procedure giudiziarie che definiscono, aggiornano e puniscono gli atti contra naturam a partire dal xin secolo potrebbero chia­ rire in modo sorprendente ciò che allora si credeva leso, intac­ cato o minacciato da questi stessi atti (e che non si riduceva



JACQUES CHIFFOLEAU

necessariamente alla norma imposta dallo ius naturale o dalla lex naturae dei sapienti, giuristi o teologi). Il mio proposito è più circoscritto: a partire da qualche esempio, vorrei solamente ricordare che queste discussioni casuistiche e queste procedure che distinguono e identificano gli atti cantra naturam possono chiarire un aspetto particolare della storia della natura medie­ vale. Un aspetto che, non trattandosi del loro oggetto, difficil­ mente può essere abbordato dagli studi classici dei medievisti sul naturalismo letterario, filosofico o giuridico del xn secolo, o dalle analisi dello sviluppo scientifico tra il xn e il xv secolo, e nemmeno dalle sintesi storiche sul pensiero politico che si sforzano di misurare gli effetti dell’aristotelismo sull’ideologia del potere negli ultimi secoli del Medioevo’. Insomma, un versante poco conosciuto della storia della natura, considerata soltanto a partire da ciò che è sembrato mi­ nacciarla incessantemente e che si è perciò dovuto combattere. Un versante tetro perché, scegliendo di dedicarci all’incrimi­ nazione degli atti contro natura, siamo costretti ad affronta­ re questioni inquietanti: il più delle volte, chiamarli in causa comporta infatti un’indagine, inqiàsitio, vale a dire una ' Sul versante della filosofia e della teologia sto naturalmente pensando al lavoro di Marie-Dominique Chenu, La théologie au xir st’èc/e, Vrin, Paris 1957 (in particolare al primo capitolo, pp. 19-51), a quello di Tullio Gregory, Platonismo medievale. Studi e ricerche, Istituto storico italiano per il Medioevo, Roma 1958, e ai suoi articoli riuniti in Mundana sapientia. Forme di conoscenza nella cultura medievale. Edizioni di storia e letteratura, Roma 1992, specie alla sua comunicazione al convegno La filosofia della natura nel Medioevo (Passo della Mendola 1964) e al suo contributo a The Cultural Context of Medieval Leaming (Dordrecht-Boston 1975), riproposti alle pp. 77-114 e 115-143 del volume. Dal punto di vista letterario cfr. il classico libro di George Economou, The Goddess Natura in Medieval Lilerature, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1972. Si troveranno nuovi chiarimenti sullo sviluppo scientifico in Comprendre et maitriser la nature au Moyen Àge, Mélanges d’histoire des Sciences offerts à Guy Beaujouan, Droz, Paris-Genève 1994. Sul diritto naturale è centrale, all’interno di una bibliografia pletorica, Rudolf Weigand, Die Naturrechtslehre dcr Legisten und Dekretisten von Imerius bis Accursius und von Gratian bis Johannes Teutonicus, Max Hueber, Miinchen 1967. Sull’aristotelismo «politico» della fine del Medioevo, limitatamente al caso francese cfr. Thomas Renna, Aristotle and thè French Monarchy (1260-1303), «Viator», 9, 1978, pp. 309-324; Jacques Krynen, uNatureln. Essai sur l’argument de la nature dans la pensée politique fran^aise a la fin du Moyen Àge, «Journal des savants», aprile-giugno 1982, pp. 169-190; Id., Aristotélisme et réforme de l’État en France, au xtV siede, in Jurgen Micthkc (a cura di), Das Publikum Pohtischer Theorie im 14 Jahrhundert, Oldenbourg, Miinchen 1992, pp. 225-236.

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maniera molto particolare di ricercare e costruire la verità che certamente mette sempre in opera una ratio sottile, ma che, dal momento che la tortura e la confessione vi giocano un ruolo importante, oggi può a buon diritto metterci alla prova con la logica perversa in cui si avvolge. In virtù dei rapporti tra cantra naturam e veritas ottenuta attraverso l’inquisizione, si apre del resto un nuovo e ancor più ampio spazio di discussione con gli storici delle scienze e della filosofia, nel quale i problemi di logica occupano un posto centrale, ma in cui anche gli effetti concreti delle costruzioni istituzionali si fanno sentire in ma­ niera molto viva e talvolta crudele.

Fino al terzo secolo, nel diritto e nel sistema giudizia­ rio dell’antichità, gli atti cantra naturam non occupano mai un posto di rilievo, nonostante Cicerone o Seneca nelle loro opere filosofiche, e, sulla loro scia, tutti i giureconsulti romani nei preamboli molto ideologizzati dei loro compendi, richia­ mino in abbondanza la natura: si pensi alla definizione cele­ berrima di Cicerone, «Est quidem vera lex, vera ratio, naturae congruens»; o ancora all’adagio proposto dal maestro stoico, «omnia vicia contra naturam pugnant, omnia debitum ordinem deserunt»2. Ma se in questo modo, per Seneca, in un cer­ to senso tutti i vizi sono contro natura (giacché la morale im­ pone precisamente di vivere secundum naturam)y il semplice fatto di voler apparire giovani quando si è vecchi, di bere a stomaco vuoto, o ancora d’immergersi in una piscina riscalda­ ta - insomma, fare il contrario di ciò che, per natura, l’uomo è portato a fare -, lo è altrettanto. Ciò limita evidentemente la portata tecnica dell’espressione conferendole un valore assai generale. E se a quell’epoca, per la maggior parte dei filosofi e dei giuristi, la schiavitù si è in origine costituita contra naturam (benché, nel momento in cui essi scrivono, ciò non ne intacchi 1 Cicerone, De Republica, 3, 22, 33; Seneca, Epistulac morales ad Lucilium, xx, 122. Sulla natura romana vedi lo studio semantico c storico di André Pellicicr, Natura, Presses Univcrsitaires de France, Paris 1966.

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la legittimità)3, l’incesto, invece - occorre sottolinearlo -, non è mai pensato facendo ricorso a questa categoria: questo crimine eminentemente nefas, che viola un interdetto importantissimo in quella società di padri che è la società romana, è ai loro oc­ chi contrario in primo luogo alla legge e ai mores', non offende dunque una Natura che sarebbe anche, su questo punto crucia­ le, emanatrice di norme. Studiando le operazioni concrete della casuistica giurispru­ denziale, Yan Thomas ha mostrato come nel momento in cui la natura dei giuristi, a Roma, è invocata su un piano strettamente casuistico, essa è esclusivamente una finzione interna al diritto civile e non, come sostengono ancora troppo spesso gli storici delle idee politiche, quella realtà di tipo aristotelico su cui sarebbe fondato tutto lo ius civile*. Per il giurista degli inizi dell’impero, la Natura non è un referente esterno al diritto, ma piuttosto una sorta di istituzione modello su cui possono ap­ poggiarsi ed edificarsi altre costruzioni istituzionali. Una isti­ tuzione che permette, per esempio, di pensare il modo d’appro­ priazione delle res communes, oppure d’immaginare l’adozione come una imitatio naturae (ed è solo in quanto modello imita­ bile che la filiazione romana - che non deve nulla, come si sa, al diritto del sangue, ma resta una costruzione istituzionale - è detta «naturale»). È questa che permette inoltre di descrivere la liberazione completa di uno schiavo che, «ristabilito nei diritti primitivi della sua nascita», ritrova così una ingenuità «natu­ rale» (è ancora in quanto modello, istituzione primaria, che la libertà è detta qui «naturale», e di conseguenza si immagina che la schiavitù sia, in origine, cantra naturano). In questo periodo, la natura romana non è dunque affatto un riferimento esteriore allo ius civile, non fonda le norme, «prepara soltanto il terreno per estenderle al di fuori delle leggi. Lungi dal contribuire alla formulazione degli interdetti, essa è messa al servizio della loro

’ Fiorentino, D., i, 5, 4; Ulpiano, D., 50, 17, 37; Giustiniano, Institutiones, 1, 2, 2. 4 Yan Thomas, Imago naturae. Note sur l’institutionnalité de la nature à Rome, in Théologie et droit dans la science politique de l'Ètat moderne, atti della tavola rotonda di Roma (novembre 1987), École fran^aise de Rome, Rome 1991, pp. 201-227, vedi 15"45-

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estensione»5. Essa non è un limite allo sviluppo delle finzioni istituzionali, ma ne è piuttosto lo strumento. Gli attentati alla natura, o se si vuole i crimini cantra naturam non appaiono in piena luce che nei grandi compendi giuridici del Basso Impero, e in particolare nelle Novelle 77 («ut non luxurietur centra naturam») e 141 («de his qui luxiriatur centra naturam»), che riguardano entrambe le pratiche omosessuali e datano rispettivamente al 538 e al 5 44*. Ciò non può sorpren­ dere: bisogna infatti aspettare i testi normativi di quest’epoca perché la necessaria conformità degli uomini alla natura serva da criterio e da giustificazione alle decisioni imperiali. Non solo laddove si tratta di sessualità in senso stretto, di procreazione o di rapporti incestuosi, ma anche, per esempio, laddove sono in gioco i legami affettivi o sociali che uniscono gli uomini e le donne. Giuliana Lanata ha perfettamente dimostrato come tale nuova concezione, che non era certo quella dei romani del­ la Repubblica e degli inizi dell’impero, permei a poco a poco tutta la legislazione giustinianea7. Influenzata dallo stoicismo, dai lavori della scuola giudeo-platonica di Alessandria, dagli sviluppi più recenti della filosofia greca, essa deve soprattutto tener conto delle esigenze della Bibbia (anche se non si può appoggiare, per quanto riguarda gli atti che offendono la natu­ ra, che su tre brevi passi della Vulgata8). Essa deve integrare le lezioni dei Padri della Chiesa e farsi carico di questi due nuovi elementi, assai lontani dalle idee romane tradizionali: innanzi­ tutto, una concezione della filiazione che, invece di fondarsi su una paternità costruita a livello istituzionale, si fonda ades­ so sui legami di sangue, dunque su legami che si potrebbero dire «naturali» nella misura in cui rinviano a una realtà esterna al diritto; poi, una immagine diversa della natura stessa, che è altresì la Creazione, cioè in primo luogo - su questo occorre ’ Ivi, p. 22. 4 Su questa legislazione specificamente orientata alla repressione dell’omoses­ sualità cfr. Èva Cantarella, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico (198S), Feltrinelli, Milano 2016. 1 Vedi l’importante Legislazione e natura nelle novelle giustinianee. Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1984, in particolare pp. 189-204. * ludicum, 19, 24; Epistula ad Romanos, 1, 26 c 11, 24.

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insistere - Pedalante manifestazione della sovranità divina. Ne discende che, ancora con Yan Thomas, si può affermare che la legge naturale del cristianesimo tardoantico «trasferisce nella natura, essa stessa creata dal legislatore divino, gli interdetti che il diritto romano riconosceva alla sola legge umana. La po­ sizione della natura è cambiata, poiché essa è creata da Dio allo stesso titolo con cui Egli ha istituito la Legge»9. Certamente, in Agostino capita che l’espressione contra naturam designi ancora, come presso i romani della Repub­ blica, il prodigio, Fanormale, il contrario dell’innato (e que­ sto impiego si trova già in san Paolo laddove evoca l’«innesto» cristiano sulla tradizione ebraica10). John Boswell ha dunque forse ragione a notare che in certi passi delle Confessiones, che fungeranno poi da autorità durante tutto il Medioevo, gli atti contro natura dei sodomiti, per esempio, sembravano ledere meno la Natura in generale, la Creazione divina, che la natura individuale, particolare, di ciascun peccatore11. Ma ogni pecca­ tore non è poi in primo luogo, per Agostino, una parte della Creazione? E la «natura delle cose create» non ha forse a che fare con la «volontà del creatore» (De civitate Dei, XXI, 8)? Im­ porta allora piuttosto che la teologia della Natura sia legata assai strettamente non solo a quella della Creazione, ma anche alla riflessione sulla Onnipotenza e sulla Volontà divina, e che in quella prospettiva il Creatore non possa evidentemente far

» Yan Thomas, Imago naturae, vedi supra p. 23, nota 25. ,s Epistola ad Romanos, u, 24. ” Vedi il famoso passo di Confessione*, 3, 8 (P.L. 32, 689-690), poi ripreso da Ivo di Chartres (Decretum, P.L. 161,9, 105), Graziano (Decretum, 32.7.13), Pietro Lom­ bardo (Sententiarum libri quatuor, ex typographia Collegi! S. Bonaventurae, Quaracchi-Florentiae 1916, 3.16 [17]. 3.) ecc.: «Itaque flagitia, quae sunt contra naturam, ubique ac semper detestanda atque punienda sunt, qualia Sodomitarum fuerunt. Quae si omnes gentes facerent, eodem criminis reatu divina lego tcneretur, quae non sic fccit homines, ut se ilio uterentur modo. Violatur quippc ipsa societas, quae cum Deo nobis esse debet, cum eadem natura, cujus ilio auctor est, libidinis perversitate polluitur. Quae autem contra mores hominum sunt flagitia, prò morum diversitate vitanda sunt (...]». Cfr. John Boswell, Christianisme, tolérance sociale et homosexualité. Les homosexuels en Europe occidentale des debuti de Vere chrétienne au xiv' siede, Gallimard, Paris 1985, p. 198. Sulla concezione di Agostino cfr. le considerazioni di Fran^ois-Joseph Thonnard, La notion de nature chez Saint Augustin, «Revue d’Études Augustiniennes», 11, 1963, pp. 239-263.

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nulla contro natura (si veda il Contra Faustum^ 26, 3: «Deus autem creator et conditor omnium naturarum nihil centra na­ turarci facit»). Nel corso di tutto il Medioevo questo legame tra Natura e Onnipotenza resta fondamentale. Esso ha mol­ to spesso occupato gli storici della filosofia, mentre sono state meno sottolineate le fortissime connesioni che esso permetteva di stabilire tra la definizione e la ricerca, molto concreta ed efficace, degli atti contro natura e la difesa del potere sovrano. Per esempio, i passi della Città di Dio che rifiutano il carat­ tere contro natura dei prodigi - per esaltare l’onnipotenza e la volontà divina - permettono a Pier Damiani, molto più tardi, nella metà del secolo xi, di accrescere, di innalzare ancor di più la maestà di Dio, di collocarla al di là di ogni potenza e di ogni natura terrestre, umana. Agostino, nella Città di Dio (xxi, 8), dice in effetti che il Creatore omnipotens potrebbe fare cose che a noi apparirebbero contro natura, ma che non lo sono affatto («Poiché diciamo che ogni prodigio è contro natura; ma non è così. Come potrebbe essere contro natura quanto deriva dalla volontà di Dio, la volontà di un così grande Creatore essendo la natura stessa di ogni creatura?»12). A partire dallo stesso te­ sto, Pier Damiani, da parte sua, non esita a impugnare il para­ dosso e comincia con l’opporre la natura alla potenza: «A ben pensarci, è chiaramente evidente che, dall’origine del mondo, alla sua nascita, il Creatore ha cambiato come ha voluto le leggi della natura; o meglio: la natura stessa, per così dire, egli l’ha fatta in un certo senso contro natura. In effetti, non è contro natura che il mondo sia creato dal nulla?»'3. Ma lo fa evidente­ mente per meglio dimostrare di seguito che «la stessa natura ha “ De civitate Dei, XXI, 8: «Hoc certe Varrò tantus auctor ortentum non appellarci, nisi esse contra naturam vidcretur. Omnia quippe portenta contra naturarvi dicimus esse: sed non sunt. Quomodo est contra naturam, quod Dei fit voluntate, cum volutitas tanti utique Conditoris conditac rei cujusque natura sit? Portentum ergo fit, non contra naturam, sed contra quam est nota natura». ” De divina otnnipotentia, a cura di André Catin, Cerf («Sources chrétiennes», 192), Paris 1972, 612 A e B, p. 448: «Consideranti piane liquido patet quoniam ab ipso mundi nascentis exordio rerum Conditor in quod voluit naturac iura mutavit, ànimo ipsam naturam, ut ita dixerim, quodammodo contra naturam fecit. Numquid enim contra naturam non est mundum ex niellilo fieri, unde et a pliilosophis dicitur quia ex nichilo nichil fit?»

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la sua propria natura, ossia la volontà di Dio»14, e riconoscere così al Creatore una posizione superlativa assoluta. I commen­ tatori di Pier Damiani, e in particolare quelli che hanno ana­ lizzato con attenzione la sua Lettera sull'onnipotenza divina (redatta nel 1067), hanno colto bene tutti i germi dei dibattiti fondamentali in essa contenuti sui rapporti tra la potenza asso­ luta e la potenza ordinata, sui futuri contingenti e persino sulle semplici leggi della natura; è comunque possibile, d’altra parte, che non si sia ancora messo in rilievo fino a che punto la Lette­ ra spieghi e sostenga anche la concezione tipicamente latina di una maestà che sovrasta da molto in alto le potenze terrestri, e che costituisce il modello «naturale» delle maestà terrestri, e come essa prepari l’istituzione di vincoli di potere originali, le cui implicazioni politiche e giudiziarie avranno nuovamen­ te, a partire dal dodicesimo secolo, un’importanza decisiva’*. Perché questo riavvicinamento tra natura e voluntas Dei, che si delinea nella tarda Antichità e assume diverse forme fino al Natura id est Deus di Abelardo e dei glossatori, ha esso stesso nel campo del diritto delle estensioni, degli effetti istituzionali e pratici considerevoli, per la semplice ragione che fa uscire la Natura dalla stretta sfera dei meccanismi giuridici dove si tro­ vava dai tempi dei romani, e la eleva quasi a riferimento esterno alle stesse costruzioni istituzionali. Poiché si tratta del lascito della tarda antichità, un ultimo punto deve essere infine sottolineato: gli atti cantra naturam si trovano il più delle volte apparentati al nefas, al nefandum.

14 Ivi, 612 C, p. 450: «Quid ergo mirum si is que naturae legem dcdit et ordincm, super eamdem naturam sui nutus exerceat ditionem ut ei naturae necessitas non rebellis obsistat, sed eius substrata legibus velut ancilla deserviat? Ipsa quippc rerum naturam habet naturam suam, Dei scilicet voluntatem ut, sicut illius leges quaclibet creata conservane, sic illa cum iubetur, sui iuris oblila, divinae voluntati revercntcrer oboediat». ’’ È del resto significativo che il cruciale termine majestas non sia presente nell’in­ dice dell’eccellente edizione Cantin della lettera De divina omnipotentia, nonostante il concetto sia al centro di sette o otto passi decisivi. Su questi problemi cfr. la recente raccolta di testi e commentari La puissance et son ombre de Pierre Lombard à Luther, dir. Olivier Boulnois, Aubier («Bibliothèque philosophique»), Paris 1994. Cfr. anche Irven Michael Resnick, Divine Power and Poisibility in St. Peter Damian's De Divina Omnipotentia, Brill, Leiden 1992.

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Queste parole si ritrovano nell’interdizione giustinianea del 553 (diretta contro tutti coloro che «cum masculis nefandam libidinem exercere audent»: Institutiones, 4, 18, 14), nei testi che evocano lo stupro e in tutte le Novelle sull’incesto (Novel­ la 12), il rapimento (Novella 150), la sodomia (Novella 77), as­ sociata in quest’ultimo caso alla blasfemia. Questi crimini non sono mai disgiunti da una vera e propria violazione di ciò che la società romana ha di più prezioso: hanno sempre qualche rapporto con l’attentato all’integrità della famiglia, con un in­ terdetto importante. Qualificarli nefas significa precisamente sottolineare il carattere aggravato della trasgressione che de­ terminano16. Già nel ili secolo la nozione di stupro, di impu­ rità, era stata avvicinata a certe pratiche omosessuali passive, ma se la legislazione dell’impero cristiano colloca ormai tutti i crimini cui si è appena accennato sotto la rubrica del can­ tra naturam, ciò avviene senza dubbio sotto l’influenza della tradizione ebraica, per la quale sodomia e blasfemia sono en­ trambe abominevoli, vale a dire dal lato dell’impurità e dell’i­ dolatria17. Utilizzando la nozione molto romana di nefandum per tradurre ciò che il Levitico qualifica piuttosto come impu­ ro e abominevole («qui dormierit cum masculo coito femineo uterque operatus est nefas morte moriantur: sit sanguis eorum super eos», Levitico 20, 13), la Vulgata contribuisce dunque ad avvicinare, almeno nel mondo latino, gli atti contro natura a quelli che sono considerati nefas. Ora, l’impiego di questa categoria metagiuridica di nefan­ dum è molto rivelatore: certo, essa designa sempre, l’ho già sottolineato, atti contrari alla legge divina, che riguardano di

14 II verbo violare, dalle forti connotazioni giuridiche, è costantemente presente. Si veda ancora Yan Thomas, Sanctio. Les défenses de la Loi, «L’écrit du temps», 19 (Negations), Automne 1988, pp. 61-84, specialmente pp. 76-77. L’articolo è sviluppato in Id., De la usancìion" et de la usaint eté” des lois à Rome. Remarques sur l’institntion juridique de l’involabilité, «Droits», 18 (La qualifica don), 1994, pp. 135-151. 17 Si vedano su questo punto le analisi di Boswell, Cbristianisme, tolérance sociale et homosexualité cit., pp. 138 e seguenti. Sulla congiunzione tra la legislazione ebraica e quella romana cfr. naturalmente, al titolo v, la Mosaicarum et romanorum legnm collatio, in Fontes luris Romani antejnsliniani, 3 voli., Barbera, Firenze 1940-1943, voi. il, pp. 5 56-557-

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conseguenza la religione, il sacrilegio’8, ma indica soprattutto una trasgressione assoluta, uno sconfinamento straordinario dallo ius, una violazione degli interdetti più forti (ecco perché l’impiego di nefas non è, d’altro canto, riservato strettamente al crimine religioso). Essa designa quindi anche, sullo sfondo, questo grave interdetto, e pertanto quel riferimento eminente, quella posizione superlativa, sovrana, che l’interdetto protegge e che bisogna assolutamente difendere. Inoltre, se il carattere esorbitante di tali crimini è innanzitutto contraddistinto dal fatto che essi sono assai vicini alla blasfemia e sono «impossi­ bili da dire», va da sé che la loro persecuzione e la loro repres­ sione restano dunque legati in maniera stretta ai discorsi, alla parola... o al silenzio, e richiedono dunque logiche procedura­ li molto particolari’9.

Nella Vulgata e nella legislazione giustinianea, l’ho appena ricordato, gli atti contro natura, le blasfemie e i crimini contro la legge divina sono già appaiati. Ben presto le accuse lanciate dai romani contro i primi cristiani avevano d’altronde incluso alcuni elementi di questo trittico10. Non è quindi sorprenden'* Cfr. Émile Benveniste, Le vocabulaire des institntions indo-exropéennes, 2 voli., Les Éditions de Minine, Paris 1969, voi. n, pp. 133-142, che mostra come fas sia legato a fari e come si stabilisca il rapporto tra «parlare» e «diritto divino». Questo legame si deve cercare nell’espressione antica Fas est + infinito: «Si intenda per l’enunciazione della parola divina e gli imperativi: attraverso questa parola impersonale, la volontà degli dei si manifesta, gli dei dicono cosa sia permesso fare; è per il tramite di questa espressione fas est che si perviene all’idea di diritto divino», ivi, p. 139. Sui legami con il sacrilegio cfr. le mie considerazioni qui di seguito alle note 23 e 24. *’ Esse sono state oggetto di una prima analisi nel mio articolo Dire l'indicible. Remarqxes sur la catégorie du nefandum du x/f au XV siede, «Annalcs E.S.C.», mars-avril 1990, pp. 289-324. 10 Questi accostamenti si verificano assai presto. Per la polemica anticristiana, si veda VOctavius di Minucio Felice e la famosa Lettera delle chiese di Lione citata nella Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea: i pagani accusano i cristiani «[...] di dedicarsi ai festini di Tieste e a incesti come quello d’Edipo, e di fare quanto non ci è permesso di dire, e nemmeno d’immaginare, quanto non possiamo credere che gli uomini abbiano mai fatto» (Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica v, 1, coll. Sources chrétiennes, ed. Bardy, voi. il, p. io). Su questi punti cfr. da ultimo Peter Brown, The Body and Soci­ ety, Columbia University Press, New York 1988, trad. francese Le rcnoncement à la

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te che li si ritrovi qua e là nelle fonti annalistiche o polemiche dei secoli vni-x, chiaramente intrecciati con questioni di pote­ re. Ma dopo l’anno Mille, i crimini contro natura e il nefandum si avvicinano ancor di più a quella grave minaccia alla Cristia­ nità che diviene l’eresia. Quest’ultima è dapprima concepita come una sententia contraria alla Scrittura, vale a dire come una parola erronea, vicina alla blasfemia; essa consiste in paro­ le piene di falsità, che possono evidentemente nascondere cose indicibili, vicine al sacrilegio21. Di conseguenza, se il crimine contro natura è abominevole, nefas, e si avvicina sempre di più alla blasfemia o all’eresia, inversamente, ciò che appartie­ ne all’ordine del nefandum, dell’abominio, della blasfemia o dell’eresia sembra allora poter sempre nascondere atti cantra naturam... Durante l’alto Medioevo, in effetti, per quanto sia difficile seguire la storia di queste due nozioni attraverso la legislazione, la giurisprudenza o le scarse fonti giudiziarie di cui disponiamo, gli atti contro natura e il nefandum si ritrovano con grande re­ golarità negli annalisti e nei letterati quando evocano per com­ batterla - in forma polemica - la violenza del barbaro, dell’in­ vasore, del pagano, di colui che rompe la pace e viola le spose e

chaire. Virginité, célibat et continence dans le christianisme primitif, Gallimard, Paris 1995, pp. 91, 161 e 184. Sulla sopravvivenza e sullo sviluppo di queste accuse nel Me­ dioevo cfr. la classica analisi di Norman Cohn, Demonolatrie et sorcellerie an Moyen Àge, Payot, Paris 1982, pp. 17-51, nonché il breve articolo di Dominique Barthclemy, Jacques Chiffolcau, Les sources clericale: et la notion de clandestinité an Moyen Àge, in Histoire et clandestinité, atti del convegno di Privas (maggio 1977), numero speciale della «Revuedu Vivarais», 1979, pp. 19-39. ” Sull’eresia come sententia erronea cfr. la tarda definizione di Robert Grossetestc riferita da Matteo Paris, Chronica majora, nel 1253: «Haeresis est sententia humano sensu clecta scripturae sacrae contraria, palam edocta, pertinaciter defensa», citata in Maric-Dominiquc Chenu, Orthodoxie et bérésie: le point de vue du théologien, in Hérésies et sociétés dans 1*Europe preindustrielle, diretto da Jacques Le Goff, La Hayc-Mouton, Paris 1968, p. io. Essa riprende d’altronde in larga misura la definizio­ ne fornita un secolo prima da Graziano (Decretum, 2. 24. 3: Friedberg, I, pp. 997-998). È così molto presto, nel quadro della lotta all’«eresia simoniaca», che l’eresia e il sacri­ legio sono associati sistematicamente. Tutti i canonisti della fine del dodicesimo secolo c del tredicesimo fanno dell’eretico un ladro di sacra (cfr. per es. LJguccione da Pisa, Stimma, B.N. Paris, ms. lat. 3892, c. z68v: «dicitur fur qui furatur rem privati et iste similiter qui rem publicam, et si his magis punitur quam ille, quanto fortius sacrilegus dcbet dici fur, et est magis puniendus, cum res Ecclesiae ersi Dei furetu'r»).

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le figlie. Attraverso le spose e le figlie è sempre l’intero ordine sociale a essere attaccato nel suo nucleo più intimo e importante. Il nemico che si vuole squalificare diventa un mostro, quasi nel senso indicato dalla legislazione giustinianea: una istituzione che non imiterebbe la natura, un prodigio. È già il caso dei barbari che dilagano sugli antichi territori dell’impero, ma anche, molto più tardi, nei secoli xi e xn, quello di tutti i signori violenti che, agli occhi dei riformatori «gregoriani» o dei difensori dei dirit­ ti del re, passano sempre per esseri nefandissimi, sacrileghi, che minacciano senza tregua la pace, spogliano le chiese e sono ca­ paci di commettere atti contra naturam giacché praticano senza vergogna l’incesto con le loro cugine22. Nondimeno, alcuni episodi mostrano che le categorie di contra naturam e di nefandum continuano a intrattenere rap­ porti strettissimi con la politica e l’esercizio pratico del po­ tere, al più alto livello. Lo si constata per esempio negli anni 860-867 nel corso del caso del divorzio di Lotario il il quale, per sbarazzarsi più facilmente della moglie Teutberga, l’accusa di avere rapporti incestuosi (e sodomitici) con un cognato. È l’occasione per Incmaro, contrario al divorzio, non solo per precisare la sua teoria del matrimonio, ma anche per condurre una riflessione sui crimini contra naturam, dal momento che al centro del dibattito ci sono le supposte attività contro natura della regina23. Cento anni più tardi, nel 963, quando Giovanni ” Si guardino in Sugerio di Saint-Denis e in Guiberto di Nogent le descrizioni orrorifiche di Tommaso di Marie, per esempio di chi «et castrum et matrimonium incestu consanguiniutis fedatum divorilo amisit» (Sugerio, Vie de Louis vi le Gros, a cura di Henri Waquet, Champion, Paris 1964, p. 35). Il sacrilegio, nel loro caso, consiste assai classicamente tanto nel furto di cose sacre quanto negli atti contro natura, c il legame tra queste due tipologie di sacrilegio sarà costantemente richiamato da teologi e canonisti. Ancora nel tredicesimo secolo Tommaso d’Aquino dedica un articolo specifico al sacri­ legio nella quaestio sulla lussuria (Summa, 2, 2X, q. 154, a.io), ed evoca per esempio il sacrilegio per via di incesto e di adulterio, il sacrilegio consistente nello stupro o nel ra­ pimento di natura spirituale ecc. Nel suo articolo sul vizio contro natura (Summa, 2, 2X, q. 154, a.12) ritorna ancora su questa presenza del sacrilegio negli atti contra naturam. ” Si veda la «confessione» della regina in M.G.H. Capii. 11, n. 306, pp. 466-467, e il famoso De divorilo Lotharii di Incmaro di Rcims, che ho consultato nella P.L. col. 693 e seguenti, non potendo utilizzare la nuova edizione dei M.G.H. Incmaro offre una definizione assai ampia della sodomia e dei peccati contro natura, tutta centrata sull’assenza di generazione: «Nomo igitur dicat, non perpetuare eum pcccatum so­

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Xli è posto in stato d’accusa di fronte a Ottone I, si evocano ugualmente i suoi omicidi, i suoi spergiuri, i suoi sacrilegi e i suoi incesti. Ha bevuto, si dice, alla salute del Diavolo, ha in­ vocato Giove e Venere giocando ai dadi, ha fatto l’amore con dei parenti. Tutte cose, recita il testo riferito da Liutprando da Cremona, che non si potevano sentire senza provare orrore e che, è ovvio, sono assolutamente contra naturami. Un seco­ lo dopo ancora, nel 1098, Ivo di Chartres denuncia anch’egli gli atti «indicibili e vergognosi» {multa nefaria et turpissima) dell’arcivescovo di Tours; protetto dal re Filippo 1, che l’aveva incoronato nell’assemblea del Natale 1097, il prelato sarebbe stato un noto sodomita25. In questi tre casi, come in molti altri, c’è un chiaro legame tra le accuse e gli interessi politici di colo­ ro che le muovono. Poiché riguardano gli interdetti più forti, esse sono ritenute una difesa del cuore stesso del potere. Ma a partire dal secolo xi, come ho detto, il crimine contro natura, nefas per eccellenza, si lega sempre più strettamente all’eresia26. Norman Cohn e Robert Moore hanno descritto bene questa strana congiunzione che, pur fondandosi su tòpoi antichi, compare sempre più spesso nelle orazioni e nei trattati domitarum, qui contra naturam in masculu vel in feminam turpitudincm, et aurini, vel attractu, seu motu impudico, ex deliberatione et studio immundus cfficitur». Cfr. ancora i col. 692-693 a proposito delle lesbiche: «quae carnem ad carnem, non autem genitale carnis membrum intra carnem alterius, factura prohibente naturae, mittunt: sed naturalem hujusce partis corporae usum in eum usum qui est contra naturam commutant [...]» (corsivo mio). Sulla questione e il suo contesto cfr. Pierre Toubcrt, La théorie du mariage chez les moralistes carolingie™, in II matrimonio nella società altomedievale. Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 24 (22-28 aprile 1976), 2 voli., presso la sede del Centro, Spoleto 1977, voi. I, pp. 233-285. ’4 Liutprando di Cremona, Historia Ottonis, xtt, a cura di Joseph Becker, in M.G.H. Scriptores, Holmsche Buchhandlung, Hannovcr-Leipzig 1915’, pp. 167-169 (lo scrittore non impiega tuttavia l’espressione contra naturam). *’ Ivo di Chartres, Correspondance, a cura di Jean Leclercq, Les Belles Lettres, Paris 1949, lettere 65 e 66, citate da Boswell, Cbristianismc, tolérance sociale et homosexualité cit., p. 277. “ Cohn, Démonolàtrie et sorcellerie au Moyen Àge cit., passim. Robert I. Moore, The Formation of a Persecuting Society. Power and Deviance in Western Europe, 95012$0, Basii Blakwell, Oxford 1987. Cfr. anche Boswell, Christianisme, tolérance sociale et homosexualité cit. (e vedi qui la nota 19). Su questi problemi si può anche consultare Michael Goodich, The Unmentionable Vice. Uomosexuality in thè Later Medieval Period, ABC-Clio, Santa Barbara-Oxford 1979, ma, a dispetto del titolo, l'autore non accorda alcuna importanza al carattere «indicibile» del «vizio omosessuale».

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polemici. Già nel 1022 gli eretici di Orléans adorano il Dia­ volo, rinnegano il Cristo, si abbandonano nell’ombra a orrori senza nome, praticano l’incesto e l’antropofagia27. Cento anni più tardi, Guiberto di Nogent utilizza pressappoco le stesse parole per qualificare gli eretici di Soissons28. Sempre all’inizio del xii secolo, gli atti dei vescovi del Mans raccontano che En­ rico (di Losanna), il monaco eresiarca, non disdegna le donne, ma nemmeno i giovinetti29. Un secolo dopo ancora, Cesario di Heisterbach, evocando le riunioni segrete che si tengono a Verona quando Federico Barbarossa incontra il papa Lucio ni, nel 1184, riferisce a sua volta che gli eretici organizzano orge indicibili, e se non praticano la sodomia si abbandonano a incesti abominevoli; le sue parole sono molto vicine a quel­ le impiegate da Guiberto30. Centotrenta anni più tardi, infine, v Cfr. la notizia del Cartulaire de l’abbaye de Saint-Père de Chartres, a cura di Benjamin Edme Charles Guérard, 2 voli., De l’imprimerie de Crapelet, Paris 1840, voi. I, p. 119, e Adémar de Chabannes, Chroniques, a cura di Jules Chavanon, Alphonse Picard et fils, Paris 1897, pp. 184-185: dopo il racconto del sacrificio dei bambini ■cujus verbis obedientes, penitus Christum latenter rcspuerant, et abohminationes et rimina, quae dici etiam flagitium est, in occulto exercebant, et in aperto christianos eros se fallebant». 11 Guibert de Nogent, Autobiographie (De vita sua), a cura di Edmond-Renc Labande, Les Belles Lettres, Paris 1981, p. 430: «Et certe cum latinum conspersi sint orbem, videas viros mulieribus cohabitare sine mariti conjugisque nomine, ita ut vir cum femina, singulus cum singula, non moretur, sed viri cum viris, feminae cum feminis cubitare noscantur, nam viri apud eos in foeminam coitus nefas est. Edulai omnium quae ex coitu nascuntur eliminant. Conventicula faciunt in ypogeis aut penetralibus abditis, sexus simul indifferens [...]. Hisque mox extinctis, chaos undecunque conciamani et cum ea quae ad manum venerit persona quisque coit». Segue il racconto della morte dei bambini nati da questi coiti mostruosi. 0 Cfr. Actus pontificum Cenomannis in urbe degentium, a cura di Gustave Busson e André Ledru, «Archives historiques du Maine», 2, 1901, pp. 407-437, e Robert I. Moore, The Birth of Popular Heresy, E. Arnold, London 1975, p. 34. ,0 Caesarii Heisterbacensis monachi ordinis Cisterciensis Dialogus miraailorum, a cura di Joseph Strange, 2 voli., J.M. Heberl, Coloniae 1851, distinctio V, capitulum xxiv, pp. 307-308: «tempore Frederici Imperatoris cum Lucius Papa fecisset Veronae civitate Lombardie moram, multis tam ecclesiarum prelatis quam regni Principibus ibidem congregatis [...] in domum quamdam subterraneam, amplam satis in qua mul­ tis ex utroque sexu congregatis, quidam heresiarches sermones blasphemiis plenum cunctis tacentibus fecit per quem vitam et mores instituit. Deinde exstinta candela, uniusquisque sibi proximam invasit, nullam habentes differentiam inter legitimam et absolutam, interviduam et virginem, inter dominam et ancillam, et quod horribilius erat, inter sororem et filiam». Citato parzialmente in Henri Maisonneuvc, Études sur les origines de l’inquisition, Vrin, Paris i960', p. 147.

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Bernardo Gui, che si ispira a Davide d’Asburgo e a tutta la tra­ dizione eresiologica precedente, nel suo Manuale dell'inquìsitore attribuisce ai valdesi le stesse pratiche depravate... che si ritrovano in altre forme nei sabba che si moltiplicano a partire dal I44O3’. Dalla fine del xn secolo, l’apparentamento degli atti contro natura all’eresia è diventato dunque un luogo comune della letteratura polemica, soprattutto dal momento che i dua­ listi, per i chierici, mettono la generazione e la natura dal lato del male e si rifiutano di procreare. Enrico di Chiaravalle, verso il 1170, nell’awiare la lotta contro i catari, non esita infatti a scrivere: «Ma che dico, in segreto? Essi proclamano il loro peccato come Sodoma e isti­ gano al peccato i commensali come nei sobborghi di Gomor­ ra!». E un po’ oltre esclama: «è sorto dalle ceneri dei sodomiti il verme dell’antica lussuria; emergendo dal lago della danna­ zione dopo le piogge di fuoco e zolfo, ha infettato le regio­ ni occidentali con miasmi di fetore»32. I colpevoli di crimini contro natura, come gli eretici, provengono sempre da oriente e sono ispirati dagli infedeli o dagli ebrei! Fin dalla prima cro­ ciata, i musulmani sono sospettati degli stessi vizi (una pseudo lettera dell’imperatore d’Oriente al conte di Fiandra li accu­ sa per esempio di aver violato bambini, adolescenti, anziani e persino vescovi33); all’inizio del tredicesimo secolo, Giacomo di Vitry non esita ad affermare nella Historia Orientalis che

>' Bernard Gui, Manuel de l'inquisiteur, Guillaume Mollai (éd.), Les Bellcs Lettres, Paris 1964, voi. I, p. 48: «Sciendum quoque est quod predicta secta multos alios errores ab olim habuit et tenuit et adhuc in aliquibus partibus habere dicitur in secreto, sicut de celebratione misse in die Cene, sicut dictum est supra, et de mixto abhominabili in tenebris faciendo quiiibet cuma qualibet indistinte»; «item vaklenses continentiam laudani crcdentibuis suis; concedunt tamen ut u tento libidini satisfieri debeat quocumquc modo turpi, exponcntes illud apostoli eorum: melius est nubere quam uri» (Gui riprende qui alla lettera le analisi di Davide di Augusta, nel De inquisitione hereticorum; cfr. l’edizione Préger, p. 207). ’* Enrico di Chiaravalle, Lettre au pape, XI, in P.L. 24, col. 223. ” «et quod ab initio non dictum ncque auditum est, episcopos sodomitico peccato deludunt, et ctiam unum cpiscupum sub hoc nefario peccato jam crepuerunt», cit. in Boswell, Christianisme, tolérance sociale et homosexualité cit., p. 532 nota 3, che ri­ prende la versione degli Historiens grecs, publié par les soins de l’Academie royalc des inscriptions et belles-lettres (Recueil des historiens des croisadcs), 2 voli., Imprimerle nationale, Paris 1875-1881, voi. n, pp. $2-54.

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«Maometto, nemico della natura [hostis nature], ha introdotto nel suo popolo il vizio della sodomia»34. Progressivamente, le relazioni sessuali tra cristiani e musulmani sono dichiara­ te anch’esse contra naturam, come quelle che potevano unire ebrei e cristiani. Infine, nel momento in cui appaiono le prime accuse di omicidio rituale e si diffonde la storia dell’incesto di Giuda35, l’uso di nutrici ebree per bambini cristiani ottiene la medesima qualifica36. Infatti gli accostamenti che ho segnalato comportano evidentemente abbastanza presto effetti pratici, istituzionali, anche se all’inizio sembrano costituirsi in un re­ gistro quasi mitologico. Nel Concilio Laterano ni (1179) le misure riguardanti ebrei, musulmani, sodomiti ed eretici sono ancora solo giustapposte, ma nei decenni successivi la ribel­ lione in generale, l’eresia come aberratio in fide e il peccato contra naturam sono sempre più spesso collegati in maniera quasi organica. In un primo momento, queste accuse com­ paiono insieme nei polemisti o negli eresiologi, ma presto le procedure che permettono di scovare e reprimere i ribelli o gli

M Jacques de Vitry, Historia orientali!, Balthazar Bellerus, Douai 1597, cap. 5, p. 18: «Per hoc latenter viitium sodomiticum hostis nature in populo suo introduxit. unde ipsi ex maxima parte non solum in utroque sexus, sed etiam in brutis turpitudinem abusive operantes, facti sunti [...]». Corsivo mio. ” Le relazioni tra ebrei e cristiani sono assimilate ad atti bestiali (cfr. sempre Boswell, Christianisme, tolérance sociale et homosexualité cit., p. 368 nota 2). Non è poi poco significativo rimarcare che i primi resoconti di omicidio rituale d’un bambi­ no cristiano da parte di ebrei, dotato chiaramente dei tratti del nefandum, compaiano nella seconda metà del dodicesimo secolo (su ciò la bibliografia è molto ampia, cfr. le considerazioni di Boswell, ivi, p. 344). Sull’incesto di Giuda si veda il suggestivo articolo di Alain Boureau, L’inceste de Judas, essai sur la genèse de la baine antisémite, «L’amour de la haine. Nouvelle Revue de Psychanalyse», xxxin, 1986, pp. 25-41. }‘ Su questi problemi cfr. anche Solomon Graysel, The Church and thè Jews in thè Thirteenth Century, Dropse College Press, Philadelphia 1933 (2* ed. Sepher-Hermon Press, New York 1966), n. 18, p. 114; cfr. Enrico di Susa, Summa aurea, ex officina Thomae Guarini, Basileae 1573, col. 1204: «Nani sunt quidam qui, quod nephandum est dicere, nutrices christianos habentes non pcrmittunt lactare filios, cum Corpus Christi sumpserunt, nisi primo per triduum lac cffunderint in latrinam; quasi intelligunt quod Corpus Christi incorporetur et ad seccssum descendet, sed falsum est». Corsivo mio. Cfr. anche Noè! Coulct, Juifs intouchables et interdits alimentaires, «Sénéfiance», 5, 1978, pp. 209-221, Maurice Kricgel, Les juifs à la fin du Moyen Àge dans TEurope Méditerranéenne, Hachette, Paris 1979, pp. 40 e seguenti, c in generale Shlomo Simonsohn, The Apostolic See and thè Jews, 7 voli., Pontificai Institute of Mediaeval Studies, Toronto 1988-1991, voi. 1, Documents. 492-1494.

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eretici cercano anche di scoprire atti contro natura in alcuni sospettati. Nel suo suggestivo saggio sulla formazione di una società persecutrice nel Medioevo, Robert Moore ha descritto alla perfezione questa congiunzione di antisemitismo, repressione dell’eresia e lotta contro la sodomia alla fine del xn secolo. Lo studioso suggerisce che questi cambiamenti sono collegati, nel complesso, al passaggio da una società frammentata, feudale, a una società dove lo Stato gioca un ruolo essenziale. Non si può che condividere la sua analisi. Studiando le trasforma­ zioni del sistema dell’ordalia e la funzione dei letterati nello sviluppo delle nuove forme politiche, Moore ha riconosciuto, giustamente, il ruolo svolto in questa evoluzione dalla ratio scolastica. Ma se egli osserva a ragione che la sorveglianza e la messa al bando dei lebbrosi possono inscriversi in questo lento processo, e nota l’impiego costante delle metafore del contagio e della medicina per caratterizzare l’eresia, non prende forse sufficientemente in considerazione questo fatto semplice ma essenziale: lottare contro i nemici della Cristianità, rinforzare l’unità di questo insieme teologico-politico fondamentale vuol dire sempre, nello spirito di quanti conducono la lotta, proteg­ gere l’integrità e lo sviluppo naturale, quasi fisico, del corpo sociale nel suo complesso. In ultima analisi, si tratta dunque di proteggere una natura che appare costantemente minacciata. E in questa difesa, è facile immaginare che tutti i pericoli che la minacciano siano connessi. Sono i tratti, i caratteri particolari di questa natura che dobbiamo ora tentare di comprendere.

Senza dubbio nel xii secolo le scoperte e le riflessioni di poeti, teologi o filosofi nutrono e giustificano questo riferimento sem­ pre più frequente alla natura. Una natura in cui si trovano quindi tutti i valori da difendere. È nel contesto assai noto di questo nuovo naturalismo (tutto permeato delle lezioni degli antichi, del Timeo, del commentario di Calcidio ecc.) che bisogna com­ prendere il movimento che cerca di isolare e contemporanea­ mente reprimere, per la prima volta in maniera così sistematica,

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tutti gli ani contro, naturam. Ma per ragioni che si illustreranno oltre, la nuova concezione del mondo fisico elaborata abilmente dalla scuola di Chartes - dove la natura acquista una sorta di autonomia, assume una consistenza ontologica specifica — non mi pare comunque giocare in questa evoluzione un ruolo prima­ rio, essenziale, sebbene influenzi in un modo o nell’altro tutti gli intellettuali dell’epoca37. Certo, lo sviluppo scientifico e tecnico, l’esaltazione costante della creazione, della generazione, della moltiplicazione della specie - esaltazione così frequente duran­ te tutto il dodicesimo secolo, nella forma dell’allegoria che fa della Natura una padrona, una signora e persino una regina del mondo38 - sostengono gli argomenti impiegati nella ricerca e la repressione degli atti contro natura. Ma questa lotta, nutrita del­ le Scritture, si appoggia sempre di più all’esperienza giuridica o istituzionale dei romani rivista e corretta dai Padri. Se cerca sicuramente di reprimere tutti gli attacchi alla Natura creata da Dio o le violazioni delle leggi che la governano nell’aldiqua, essa resta in ampia misura dipendente dagli stretti legami tra Natura s Onnipotenza che Agostino e Pier Damiani avevano già saputo mettere in evidenza. Ed essa mira soprattutto, mi sembra, a di­ fendere l’onnipotenza divina. Nel suo Verbum abbreviatimi (i 191-1192), Pietro Cantore per esempio, alla fine del secolo, dedica molte pagine al vitio sodomitico”, facendone una sona di pericolo assoluto per il genere umano, poiché impedisce la procreazione e provoca le catastrofi. I suoi argomenti e la descrizione dei mali naturali che sconvolgono i paesi che lasciano prosperare questi crimini — già evocati all’inizio della Novella 7740 - saranno in seguito ripresi molto spesso, fino al xiv e al xv secolo, soprattutto nelle legislazioni urbane o principesche. Il teologo si basa su una

” Non si può che rimandare qui a Gregory, Studi sul platonismo medievale cit., p. 266 nota 1, e al suo fondamentale Anima Mundi. La filosofia di Guglielmo di Conche* e la scuola di Chartres, Sansoni, Firenze 1955. ’* Georges Economou, The Goddess Natura in Medieval Literature cit. w Pietro Cantore, Verbum abbreviatum, in P.L. 20$, col. 333-335. *° Nov. 77: «Propter talia enim delieta et fames et terrae motus et pestilentiae fiunt et propterea admonemus abstincre ab huiusmodi pracdictus illicitis, ut non suas pen­ dant animas».

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batteria molto solida di citazioni bibliche che evocano il ca­ stigo di Sodoma e Gomorra e i peccati contro natura (Genesi, Levitico, Epistola ai Romani); egli accorda un posto altrettanto importante ai testi che esaltano la creazione, l’ordine divino di crescere e moltiplicarsi, conformandosi così a tutti i teologi della sua epoca. Ma non esita nemmeno a servirsi, deforman­ dola, della legislazione del Basso Impero ripresa dalla Chiesa per stabilire più fermamente il carattere contro natura del vizio che denuncia: molti passi della sua dimostrazione rivelano per esempio che conosce, almeno in via indiretta, i testi dei giuristi romani sugli ermafroditi e fa riferimento infine a una curiosa legge del 342 che vietava le unioni omosessuali4’. Il vizio sodo­ mitico è certo un affronto alla creazione, ma per lui come per tutti i sapienti della sua epoca esso rimane ancora di più, mi sembra, un affronto al diritto naturale e perciò una messa in questione diretta della sovranità divina. È chiaro che la costruzione, da parte dei giuristi, esattamente nella stessa epoca, di uno ius naturale sconosciuto agli antichi ha avuto un impatto sulla definizione e la ricerca degli atti con­ tro natura42. Ma la «natura» dello ius naturale è sempre quella che gli atti contra naturam mettono a rischio? Nel xn e nel xv secolo, come si sa, le esitazioni e le discussioni sono anco­ ra numerose allorché si tratta di qualificare il diritto naturale e il termine stesso è contraddistinto da una certa polisemia:

41 Penso a Ulpiano, Commentario a Sabino, 1,3 in D. 28. 2. 6, oltre che a Paolo, in D., 22. 5. 15. 1. Sulla casuistica intorno al sesso degli ermafroditi cfr. Yan Thomas, La division des sexes en droit romain, in Histoire des femmcs en Occident, 2 voli., diretto da Georges Duby e Michelle Perrot, voi. 1, L’antiquitc, Plon, Paris 1991, pp. 104-105. La legge del 342 si trova nel Codice Teodosiano (9,7,3). Vi si ritrovano anche le parole ubi vir nubit in feminam (...], citate da Pietro Cantore, col. 335 § 304. Boswell mi sembrerebbe conferire a questi testi un’importanza che non hanno in Christianismc, tolérancc sociale et homosexualité cit., pp. 165-166, c in Sa me Sex Unions in Premodem Europe, Vintage Books, New York 1994, PP- 85-86. 4‘ Su ciò cfr. l’opera classica di Weigand, Die Naturrechtslehre cit., nonché le assai utili considerazioni di Ennio Cortese, La norma giuridica. Spunti teorici nel diritto co­ mune classico, 2 voli., Giuffrè, Milano 1962, voi. 1, pp. 35-96. Per i romanisti vedi Willy Onclin Le droit nature! selon les romanistes, in Miscellanea moralia in honorem eximii domini Arthur Jannsen, Universitatis Catholicae in oppido Lovaniensi professori, 2 voli., E. Nauwelaerts - J. Duculot, Leuven-Gembloux, 1949, voi. 11, pp. 329-337.

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Graziano lo assimila praticamente al diritto divino43, mentre i suoi successori cercano di conciliare la fonte divina dei comandamenti della natura e le formule utilizzate molto prima da Ulpiano e Isidoro di Siviglia, nelle quali Vinstinctu, la pro­ creazione, la riproduzione biologica e il matrimonio hanno una pane essenziale44. Sul fronte dei canonisti si insiste, come Rufino, sul carattere specificamente umano del diritto naturale («est itaque naturale ius vis quaedam humanae creaturae a na­ tura insita ad faciendum bonum cavendumque contrarium»45) o altrimenti, come Simone di Bisignano, sull’origine divina di questa lex («insufflavi! Deus in faciem eius [= hominis] eius spiraculum vitae, scilicet legem naturalem»46). Sul fronte dei ci­ vilisti, senza trascurare tali questioni essenziali, ci si può anche domandare, come Azzone o più tardi Jacques de Révigny, se il motus, Vinstinctu, la vis in cui consisterebbe il diritto naturale sia veramente uno ius dotato di potere normativo specifico47. 45 Graziano, Decretum, i, i: «Ius naturale est quod in lege et Evangelio continetun quo quisque jubetur aliis lacere, quod sibi vult fieri et prohibentur alii inferre quod nollet fieri». In realtà Graziano, più che offrire una vera e propria definizione del dirit­ to naturale, rinvia semplicemente alle leggi divine. Cfr. Michel Villey, Sources et portée du droit naturel chez Gratien, «Revue de droit canonique», iv, 1954, pp. 50 e seguenti. 44 Isidoro di Siviglia, Etymologiae, c. 5: «Ius naturale est comune omnium nationum, et quod ubique instinctu naturae, non constitutione aliqua habeatur, ut: viri et feminae conjunctio, liberorum usceptio et educatio, communis omnium possessi©, et omnium una libertas, acquisitio eorum quae coelo, terra marique capiuntur». Ulpiano, D., 1.1.1.3: «Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit; nam ius istud non humani generis proprium, sed omnium animalium quae in terra quae in mari nascuntur, avium quoque commune est [...]. Hinc descendit maris atquc foeminae coniunctio, quam nos matrimonium appellamus [...]». I glossatori sembrano allontanarsi dalla formula di Graziano e hanno qualche difficoltà a conciliarla con quella di Ulpiano. Su questo punto vedi Ugo Gualazzini, Natura id est Deus, «Studia Gratiana», IH, (1955), pp. 413-424. *’ Rufino, Summa Decretorum, a cura di Heinrich Singer, Schoningh, Padeborn 1902, p. 6 (sul dictum di Graziano che apre il Decretum). Cfr. su questo punto Wcigand, Die Naturrechtslehre cit., p. 144, Cortese, La norma giuridica cit., pp. 39 e 41, e Lefebvre in Gabriel Le Bras, Charles Lefebvre, Jacqueline Rambaud, L'àge classique (1140-1578). Sources et théories du droit, Sirey, Paris 1965 (Histoire du droit et des institutions de l’Église en Occident, voi. vili), p. 371. 46II passo è citato da Odon Lottin, Le droit naturel chez saint Thomas d’Aquin et ses prédecesseurs, C. Beyaert, Bruges 1931, appendice H, p. 107. 47 Azzone, Summa institutionum, 1, de iure nat. geni. Et civ. n. 1: -Ius autem naturale pluribus modus dicitur. Primus est ut dicatur a natura animati motus quodam instinctu naturae proveniens [...]. Et est àlluci notandum qui qua ratione iustitia est

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Ma per tutti questi giuristi la Natura diviene un riferimento esterno al diritto stesso che sostiene l’equità48, permette di fis­ sare dei vincoli al potere del principe e limita in una certa misu­ ra le loro stesse costruzioni finzionali. La Natura è quindi, da questo punto di vista, un elemento essenziale nell’elaborazione di istituzioni equilibrate, in cui \zpotentia absoluta terrena non può mai confondersi con un potere illimitato. A seguito di molti altri, Gaines Post e ancor più recente­ mente Kenneth Pennington hanno mostrato bene come il ri­ corso allo ius naturale, sempre più frequente a partire dalla fine del secolo xi, abbia contribuito a limitare la potenza dei sovrani laici sottomettendola alle regole dell’equità e alle esi­ genze della legge della Natura, una Natura sempre collegata alla potenza incommensurabile di Dio: è questo il senso dei numerosi commentari alla costituzione Digna vox, ai quali si dedica in quest’epoca la maggior parte dei glossatori49. Da parte sua, Brian Tierney ha suggerito che questo ricorso co­ stante alla Natura avrebbe permesso di abbozzare, molto pri­ ma delle teorie volontaristiche della fine del Medioevo, l’idea di diritti naturali immutabili, preannunciando per qualche verso i diritti dell’uomo contemporanei50. È in effetti lo ius naturale che permette ormai di definire non solo i semplici attentati alla procreazione, ma anche tutto ciò che minaccia il voluntas ctc., habito respectu ad rationalia tantum, eadem dicitur ius naturale modus, ut dùci, habito respectu ad omnem creaturam rationalem et irrationalem. Dicunt autem quidam, quod neque voluntas, ncque motus ius naturale vel gentium dici possunt, quia facti sunt. Voluntas tamen vel motus sunt instrumenta, per qua eius naturale vel iustitia aperiunt vel ostendunt suum effectum, in anima enim sunt virtutes et iura». Per Jacques de Rcvigny, cfr. il Commentaire sur Ics Institutiones, 1.2.2 de iure nat. gent. et civ. § ius autem, in passato attribuito a Bartolo e restituito al suo autore da Meijers (cit. in Cortese, La norma giuridica cit., p. 54). Cfr. ancora i richiami di Cortese, La norma giuridica cit., pp. 47-49. *’ Cod. 1.14.4. Cfr. Post, The Naturalness of Society and thè State cit., pp. 514 e seguenti; Cortese, La norma giuridica cit., voi. 1, pp. 156 c seguenti; Pennington, The Prince and thè Law cit., pp. 78 e seguenti, 1250 seguenti. ” Ma ancora assai distanti da essi, naturalmente: cfr. Brian Tierney, Villey, Ockham and thè Origin o] Individuai Rights, in The Wcightier Matters of thè Law. Essays on Law and Religion, a cura di Frank S. Alexander e John Wittc, Scholars press («Studies in religion / American Academy of Religion», 51), Atlanta 1988, e Id., Origins of Nat­ urai Rights Language. Tcxts and Contexts, njo-1250, «History of Politicai Thought», 10(1989), pp. 615-646.

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legame sociale (e gli autori medievali fanno allora riferimento a quella cognatio che già Fiorentino, nel Digesto, diceva esse­ re stabilita tra tutti gli uomini5*)- Se in effetti, come afferma la Stimma Coloniensis del 1160-1170, è davvero nefas rompere la societas degli uomini o infrangere contratti e obbligazio­ ni (proprio quelle obbligazioni «naturali» che nascono dai contratti), lo ius naturale giustifica perfettamente il diritto di difendersi da sé stessi, secondo il vecchio adagio vim vi re­ pellere". E permette anche, tra le altre cose, di ritagliare uno spazio specifico al diritto dell’accusato nelle procedure sem­ pre più sofisticate elaborate dal diritto colto53. Infine, come nota Yan Thomas confrontando la posizione dei glossatori dei secoli xn-xin con quella dei giuristi dell’antichità, questa Natura eretta a riferimento esteriore limita tutte le costruzio­ ni finzionali del diritto cristiano poiché su un piano strettamente giuridico un gran numero di cose è ormai «impossibile secundum naturam». È la natura inviolabile creata da Dio, ed essa sola, che conferisce per esempio un posto intangibile alle leggi biologiche nel sistema parentale e nella procreazione. È questa natura che, allo stesso modo, assicura «l’intangibilità di due ordini: la distinzione del corporeo e dell’incorporeo del fisico e dell’invisibile»54, e che dunque sostiene su un pia­ no giuridico la separazione - essenziale in questo momento del Medioevo - tra il mondo naturale e quello sovrannatura­ le. Con ciò, essa rinforza anche - lo si comprende facilmente ’* Fiorentino, D., i.i.y. «et curo inter nos cognationem quandam natura constituit, consequens est hominem homini insidi ari nefas esse-. Su questa formula, cfr. Thomas, Imago naturae, vedi supra p. 22, c le analisi delle glosse medievali di Post, The Natu­ ralness of Society and thè State cit, pp. 527-537. ” «Vim enim vi repellere omnes leges et omnia jura pcrmittunt. Quod quis oh tutelam corporis sui egerit, iure fecisse dicetur. Tantam enim inter homincs natura societatem pepigli, ut alterum insidiaris nefas sii» (Summa Coloniensis, ms. Bamberg. Can. 39 f. 13 [cfr. anche Paris, BN, ma. Lat. 14997f- 1 ]» cit. in Post, The Naturalness of Society and thè State cit., p. 530). ” Cfr. ancora Post, The Naturalness of Society and thè State cit., pp. 530 e 547, e Kenneth Pennington, // diritto dell’accusato. L’origine medievale del regolare pro­ cedimento legale, in La parola all’accusato, a cura di Jean-Claude Maire Vigueur e Agostino Paravicini Bagliani, Sellerio, Palermo 1991, pp. 33-41. 14 Yan Thomas, Fictio legis. La finzione romana e i suoi limiti medievali, a cura di Michele Spanò, Quodlibet, Macerata 2016, p. 75.

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- la posizione sovrana di Dio, al di là di ogni potere e di ogni natura umana. Perché se è vero che la natura impone la sua legge, non è il Creatore stesso la fonte di tutto il diritto? Cosa colpiscono dunque i crimini contra naturami Solo la Natura creata da Dio? O piuttosto Dio in persona attraverso la Natura? Tali questioni non sfuggono ai glossatori, sensibilizzati dai teologi e i filosofi alle nuove distinzioni tra natura naturam e natura naturata, tra la Natura creatrice, vale a dire il Creatore stesso, e la natura creata, vale a dire la creazione. Già alla fine del xii secolo s’interrogano, come sappiamo, sulla definizione di Ulpiano «ius naturale est quod natura docuit omnina anima­ lia», domandandosi se, in questa formula, natura sia all’ablati­ vo o al nominativo e se quod, conseguentemente, sia al nomi­ nativo o all’accusativo. A partire da questa via grammaticale, si domandano quindi in definitiva se la natura sia solamente il mezzo, il tramite con cui Dio insegna agli uomini il diritto, o se piuttosto essa sia la fonte dello ius naturale” in quanto tale. Le risposte divergono nei dettagli ma quasi tutti ricorrono infine all’adagio Natura, id est Deus, già presente in Graziano e citato sempre più spesso alla fine del XII secolo56. In effetti ” In Piacentino, come in Azzone e nella Glossa Ordinaria, si trova questa discus­ sione classica e grammaticale a proposito di Ulpiano: «Ius naturale est quod natura, etc. Et sic hoc nomen «quod» erit accusativi casus, et hoc nomen «naturam» erit nomi­ nativi casus. Voi die quod nomen hoc «quod» sit casus nominativi, ut sic dicat «quod docuit omnia animalia natura», id est per instinctum naturae. Natura id est Deus, qui facit omnia nasci», citato in Cortese, La norma giuridica cit., voi. 1, p. 56 nota jo. Su questo punto cfr. ancora Post, The Naturalness of Society and thè State cit., pp. 537-538. Già Isidoro (Etymologiae, x, 7) usa l’espressione secundam naturam, id est secundum Deum. Per Graziano, il testo glossato si trova in Institutiones 1, 2, 1, ma l’interpreta a partire dalla sua analisi personale dello ius naturale («secundum canones, ius naturale dicitur quod in lege Mosaica voi in Evangelio continetur», Decretum, 1, 1 pr.). Cfr. Gualazzini, Natura id est Deus cit., pp. 413-424. Tra i canonisti, la formula Natura, id est deus è già frequente all'epoca di Stefano di Toumai, cfr. Summa (sul De­ creto 1, 1) a cura di Johann Friedrich von Schulte, Roth, Giessen 1S92, p. 8. L’espres­ sione si trova anche, con un commento interessante, in Uguccione da Pisa: «Natura dicitur Deus, quia omnia creat et nasci facit, et natura dicitur quelibet creatura» (Liber derivationum, s. v. nascor, cit. in Cortese, La nonna giuridica cit., voi. I, p. 45 nota 19. Tra i civilisti, cfr. per es. Azzone, Summa institutionum, 1.2, ed. Lugduni 1557, c. 2Ó9r. «Ius autem naturale pluribus modus dicitur. Primus est ut dicatur a natura

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per tutti i giuristi quella natura legislatrice, che richiamano in­ cessantemente, è Dio stesso, in quanto Creatore omnipotens. Odofredo, alla metà del xm secolo, è uno dei più espliciti: «ius naturale est quod natura, id est Deus, quia Deus est contro naturans [corsivo mio] et docuit omnia ammalia»57. Come ha ricordato Brian Tierney, questo adagio non rivela affatto una sorta di «panteismo giuridico», ma solamente la scelta di eri­ gere la Natura a referente assoluto, in una posizione sovrana, alla stregua di Dio stesso. Giovanni da Faenza lo sottolinea già dagli anni Settanta del XII secolo: laddove è in questione que­ sta Summa Naturo referenziale, è sempre di Dio che si tratta. Come nel Decretum, lo ius naturale è ancora per lui «quasi quaedam pars divini iuris», ma è soprattutto «quod Summa Natura, scilicet Deus, nobis tradidit et per legem et prophetas et per evangelium suum nos docuit»58.

Ecco perché, malgrado il ritorno costante alla definizione di Ulpiano, il richiamo regolare delle leggi della riproduzione biologica, l’autonomia sempre più forte e la nuova consistenza ontologica acquisite dalla natura grazie allo sviluppo scientifico e alla riflessione filosofica, non è tanto l’qpHS naturae, per par­ lare come i maestri della Scuola di Chartres, quanto piuttosto Yopus Creatoris che sembrerebbe essere in causa nel momento animati motus, quiddam instinctu nature proveniens quo singula ammalia ad aliquid faciendum inducuntur. Unde dicitur ius naturale est quod natura, idest Deus, docuit omnia naturata» (cit. in Pennington, The Prince and thè Law cit., p. 122 nota 8. Sulla storia e il significato di questo adagio, cfr. Brian Tierney, Natura id est Deus: a Case ofJuristic Pantheism (1963), ora in Church, Law and Constitutional Thought in thè Middle Ages, Variorum reprint, London 1979. ’7 Odofredo, Comm. In Dig. 1.1.1.3 (de iust. et iure, L iuri operam, f ius naturale, n. 12 post pr.), cit. in Cortese, La norma giuridica cit., p. 58 nota 57. Non ho potuto verificare la citazione. »* Giovanni da Faenza, Summa Decreti (1171 circa), British Museum ms. Royal 9.E.VI1, f. 2, cit. in Post, The Naturalness of Society and thè State cit., p. 523 nota 63: lo ius naturale è «lex quedam humane creature a natura insita ad faciendum bonum, cavendum contrarium; et est quasi quaedam pars divini iuris, vcl ei coherens; quod etiam dicitur ius naturale, quod Summa Natura, scilicet Deus, nobis tradidit et per legem et prophetas et per evangelium suum nos docuit». Non ho potuto verificare la citazione.

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in cui ci si pone sulle tracce dei crimini contra naturam tra il xii e il xv secolo. Certo, la creazione, la natura naturata è pro­ fondamente intaccata da questi atti indicibili, Pietro Cantore e molti altri lo sottolineano, ma in ultima analisi è soprattutto Dio stesso, nella sua onnipotenza - o se si vuole, la Natura naturans-z essere minacciato. Nel campo che ci interessa, e in particolare sul versante della casuistica e delle procedure giudi­ ziarie, è sorprendente constatare la persistenza della tradizione agostiniana, che lega Natura e Onnipotenza, durante tutti gli ultimi secoli del Medioevo, nonostante le trasformazioni, tal­ volta radicali, del pensiero logico e filosofico59. Per comprendere questa persistenza, non è certo inutile ri­ tornare al contesto in cui, negli anni Cinquanta dell’undice­ simo secolo, Pier Damiani ha potuto ritrovarle e svilupparle. Tale contesto chiarisce perfettamente i legami molto stretti che si instaurarono allora, e per molti secoli, tra il sistema istitu­ zionale e la rappresentazione della natura. Non si devono di­ menticare infatti le concretissime battaglie condotte dall’auto­ re àeìVEpistola sull'onnipotenza divina. Campione della causa «gregoriana», vale a dire della costruzione della Chiesa come istituzione separata e separante, Pier Damiani combatte innan­ zitutto, e con tutte le sue forze, contro l’«eresia simoniaca» che permette ai laici di intervenire nella vita del clero. La sua campagna per il celibato dei preti lo induce anche a riflettere sui legami matrimoniali e a precisare la definizione dell’ince­ sto nelle sue epistole sugli ostacoli del matrimonio60. Infine, con il Liber Gomorrhianus muove guerra alla sodomia, vizio nefandum e ignominosum^ impiegando chiaramente le stesse metafore usate per l’eresia: «vitium igitur contra naturam velut

” Se ne potrebbero, del resto, trovare ancora tracce importanti alla fine del xvi secolo, in tutta l’opera di Jean Bodin per esempio, così nel Théàtre de Li nature universelle come nella Démonomanie. Sulle due opere cfr. da ultimo i contributi di Francois Bcrriot c Nicole Jacques-Chaquin nella raccolta Jean Bodin. Nature, bistoire, droìt et politiqiie, dir. Yves Charles Zarka, PUF, Paris 1995, pp. 3-22 e 43-70. 60 Die Briefe des Petrus Damiani, a cura di Kurt Reindcl, 4 voli.. Monumenta Germaniac Misterica, Munchen 1983-1993, voi. I, lettere nn. 19036, peraltro presentate e tradotte da Marc Smith in Pierre Legendre, Le dossier ocàdentale de Li parente (Lepori tv), Fayard, Paris 1988, pp. 125-175.

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cancer ita serpit»6'. Se diamo credito ad Anseimo, monaco di Saint-Remy di Reims, l’intervento di Pier Damiani al Concilio del 1049 accostava già molto opportunamente 1 eresia simo­ niaca e nicolaista (o l’eresia in generale) ai crimini contro na­ tura, che si trattasse di incesto o di vizio sodomita: «De multis videlicet illicitis quae contra canonum instituta in Gallicis fìnibus exercebantur, ide est, de simoniaca heresia de ministenis ecclesiasticis et altaribus quae a laicis tenebantur, de pravis consuerudinibus quae ab eis in atriis ecclesiarum accipiebantur, de incesti conugiis, et eis qui, legitimas uxores reliquentes, adulterinis iterum nuptiis implicabantur, de monachis et clericis, a sancto proposito et habito recedentibus, item de clericis mundiali militiae studentibus, de rapinis pauperum injustis captionibus, de sodomitico vitio et quibusdam haeresibus quae in eisdem pullulaverant partibus»62. Ciò che Pier Damiani di­ fende sono in primo luogo la sovranità e l’autonomia dell’isti­ tuzione ecclesiastica, della quale è uno dei più eminenti servi­ tori. Ma questa difesa pratica - la lotta contro il vizio sodomita associato alla repressione di simoniaci, nicolaiti ed eretici in generale — si fonda innanzitutto, come si può vedere, sull’e­ saltazione dell’onnipotenza divina. Ciò che difende, in ultima istanza, è sempre la Maestà divina in quanto tale, su cui si può sostenere solidamente la costruzione istituzionale dell’Ecclesia riformata. Gli stretti legami che stabilisce tra Natura e Onni­ potenza nei suoi scritti teorici trovano una notevole eco sul campo; essi sostengono molte delle sue decisioni concrete e restano sullo sfondo di molte altre battaglie «gregoriane» nei decenni successivi63. *' Pier Damiani, Liber Gomorrhianus, in P.L. 145, col. 159-161 e seguenti. Sull’opera cfr. Pierre J. Payer, Peter Damian. Book of Gomorrah. An Eleventh Gentury Treatise against Clerical Homosexual Praaices, Wilfrid Laurier University Press, Waterloo 1982. 6‘ Anseimo, monaco di Saint-Rémy di Reims, riporta nel 1056 questo intervento di Pier Damiani al Concilio di ottobre 1049 nella sua Histoire de la dédicace de SaintRemy de Reims, P.L. 142 col. 1431-1437.1 corsivi nel testo sono miei. “ Per esempio nel 1079, in una lettera al papa, il conte di Provenza non esita a unire queste due accuse contro Bermond, l’abate di Montmajour, vicino Arie-■s: cfr. Jean-Pierre Poly, La Provence et la société feudale (879-1166), Bordas, Paris 1976, pp. 257-258, che riporta il testo del B. N. ms. lat. J39i5,c. 109: il conte Bertrand scrive al

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Appena un po’ più tardi si nota del resto, presso quanti or­ mai servono i poteri principeschi (o, se si vuole, l’istituzione statale nascente), un utilizzo assolutamente simile di questo legame tra Natura e Onnipotenza, come se questa argomenta­ zione trascorresse già dall’istituzione ecclesiastica alle forma­ zioni politiche laiche. Per esempio, non è solo il naturalismo dilagante che fa dire a Sigeri, all’inizio del xn secolo, Verwm, quia necfas nec naturale est Francos Anglis, immo Anglos Fran­ cis subici... («perché non è né permesso [da Dio, dalla legge divina], né naturale [cioè autorizzato dalla legge naturale], che i Francesi siano sottomessi agli Inglesi, o ugualmente che gli Inglesi siano sottomessi ai Francesi...»64), e che gli fa dunque associare il diritto divino e la natura. È piuttosto il fatto che, per l’abate di Saint-Denis, Dio e la Natura - una Summa Natu­ ra id est Deus - assicurano ormai l’unione, la congiunzione dei francesi, e più ancora, credo, la posizione sovrana della Francia rispetto all’Inghilterra (e non solo la sua posizione di suzeraineté, come affermano gli specialisti della monarchia feudale65). Nello stesso momento, è curioso constatare in una sfera in­ tellettuale differente, ma molto vicina, la persistenza di questa attitudine a legare sistematicamente Natura e Onnipotenza. Per esempio, in Abelardo l’espressione Natura artifex, id est papa per chiedergli di deporre l’abate di Montmajour: «ille namque tanti erat flagitii et tantae impudicitiae quod pudet me alicui honesto viro dicere; sed unum ex pluribus nequeo tacere; sodomitica quippe libido ultra moduin in eum regnabat [...]». Beninte­ so, la simonia fa parte dell'atto di accusa. 64 La traduzione proposta da Henri Waquet (in Sugerio, Vie de Louis vi le Gros cit., p. io) mi sembra difettosa: «Poiché non è ne permesso [da Dio, dalla legge divi­ na], né naturale che i Francesi siano sottomessi agli Inglesi, c nemmeno gli Inglesi ai Francesi [...]». La correzione proposta da Gabrielle Spiegel nel suo articolo in Abbot Suggerand Saint-Denis, a cura di Paula Lieber Gerson, The Metropolitan Museum of Art, New York 1986, p. 157 nota 5, mi sembra ragionevole e l'ho ripresa qui. Sul testo cfr. Krynen, “Naturel” cit., p. 181. *’ Mi sembra che le costruzioni istituzionali di Sugerio dipendano dai modelli romani molto più di quanto si sia fino ad ora affermato. Questo argomento sarà og­ getto di uno studio ulteriore in cui si troverà un’analisi argomentata delle posizioni e delle pratiche dell’abate di Saint-Denis in questo campo. Sui rapporti tra ius naturale e patria cfr. ancora l’analisi di Post, Naturalness cit., pp. 532-533, 549 e seguenti, e ovviamente quella di Ernst Hartwig Kantorowicz, Mourir por la Patrie (prò patria mori) dans la pensee politique medievale, presentaz. di Pierre Legendre, PUF, Paris 1984, pp. 105-141.



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Deus66 non deve ingannare: malgrado l’impiego di artifex, il filosofo si trova qui molto più vicino a Pier Damiani e ai primi canonisti che ai sapienti della Scuola di Chartres, che esaltava­ no la natura naturata o Vopus naturae. Ai suoi occhi, la ratio che permette di conoscere Dio è ancora una rivelazione, un dono della divinità che si può certo assimilare alla lex naturalis, ma questa legge naturale è anzitutto una forza proveniente essenzialmente dalla Volontà divina67. Per Abelardo, come più tardi per tutti i giuristi che fanno dello ius naturale un motus, o meglio ancora una vis, anzi una voluntas, non riconoscere la vis Naturae è dunque, in primo luogo, rifiutarsi d’obbedire alla voluntas Dei. E si comprende così un po’ meglio che ogni attentato alla Natura sia stato progressivamente identificato dagli uomini del xn secolo - qualunque cosa pensino della re­ lativa autonomia della creazione - come una lesione possibile e sacrilega all’Onnipotenza divina68. Alla fine del secolo la difesa della natura è inoltre, come è noto, al centro di tutta l’opera di Alano di Lilla. Assai influen­ zata dal neoplatonismo, dalle scoperte della Scuola di Chartres o dalle posizioni di Gilberto Porretano, questa opera mantie­ ne comunque, mi sembra, una tonalità agostiniana quando si tratta di Onnipotenza o di Creazione, e ancor più laddove si deve prendere in considerazione la ricerca e la repressione M L’espressione natura artifex id est Deus proviene dalla Logica ingredientibus, a cura di Bernhard Geyer, Aschendorff, Munsrer 1919, p. 198. Cfr. p. 235: «puer ipse non hominis opus est, sed naturae id est Dei», citato in Jean Jolivet, Eléments du con­ cepì de nature chez Abélard, in La filosofia della natura nel medievo cit., pp. 297-304. Cfr. anche, sulla questione, David E. Luscombe, Nature in thè Thought of Pierre Abelard, ivi, pp. 314-319. Si vedano inoltre le analisi di John Marendon, Abelard’s Concept of Naturai Lavi, in Mensch und Natur im Mittelalter, a cura di Albert Zimmermann e Andreas Speer, Walter de Gruyter («Miscellanea Mediaevalia» 21/2), Berlin-NewYork 1992, p- 609-621. ‘7 Sulle divergenze tra Abelardo e la Scuola di Chartres cfr. le illuminanti conside­ razioni di Tullio Gregory, Considérations sur Ratio et Natura chez Abélard, in Pierre Abélard, Pierre le Vénérable, atti del congresso di Cluny (luglio 1972), CNRS, Paris 1975. PP»n panie, pp. 573 577Sull’ipotesi che lo ius naturae sia un motus, una vis o una voluntas, cfr. Cortese, La norma giuridica cit., pp. 53"55» che fa riferimento ad Azzone, Giovanni Bassiano e Jacques de Révigny. Gli uomini dei Medioevo conoscono a fondo le fonti antiche che permettono loro di andare in questa direzione, specie Cicerone: «Natura ius est, quod non opimo genuit, sed quaedam innata vis inseruit» (De inverinone 2, 53, 161) ’

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molto concreta degli atti contro naturam. Certo, nelle sue Distinctiones^ il doctor universali fornisce i molti significati possibili della natura e sviluppa a più riprese l’idea che essa non sia che una Dei auctoris vicaria69^ che si limiti a cooperare modestamente alla potenza divina (quando si segue, in paral­ lelo, la storia del concetto di vicarius Christi nell’ecclesiologia dei secoli xi-xm si vede cionondimeno come questo vicaria­ to possa essere associato strettamente all’Onnipotenza...)70. Si potrebbe quindi pensare, seguendo Maurice de Gandillac, che i peccati contro natura descritti da Gilberto «si presenta­ no meno (secondo la definizione di Abelardo) come «disprez­ zo di Dio» e ribellione contro di lui, che come una colpevole violazione delle leggi della natura [...e che] queste violazioni appaiono prima di tutto come degli errori logici e grammati­ cali»7’. Non credo si tratti solamente di questo. Quando evoca gli eretici, nella summa Quoniam homines (degli anni Settanta del xii secolo) come nella sua opera polemica De fide catholica (1190 circa), Alano di Lilla mette sempre in relazione diretta i loro crimini contro la natura e la loro ribellione contro Dio: rifiutando la generazione, i catari «si dedicano a un lussurioso spreco del loro liquido seminale» e si danno a orge innomina­ bili (come rammenta l’etimologia fantasiosa: «cathari dicunt a cato, quia ut dicitur, osculantur posteriora catti, in cujus spe-

** Distinctiones, in P.L. 210, col. 871, articolo Natura. Su Alano di Lilla c natura come Deiauctoris vicaria;, «vicario di Dio Creatore» cfr. anche Gianni Dotto, Uomo e natura in Alanus de Insulis, in L'homme et son univers au Moyen Àge, atti del settimo congresso internazionale di filosofia medievale, a cura di Christian Wenin, 2 voli., Editions de l’Institut Supérieur de Philolosophie, Louvain 1986, voi. !, pp. 234-240. Cfr. Michele Maccarrone, Vicarius Christi. Storia del titolo papale, Lateran Uni­ versity Press, Città del Vaticano 1952, e Agostino Paravicini Bagliani, Il corpo del papa, Einaudi, Torino 1994, PP- 82 c seguenti. n Figure et róle de “natura” chez Alain de Lille, dapprima pubblicato in Alain de Lille, Gautier de Chàtillon, Jakemart Giélée et leur tempi, atti del convegno di Lille (ottobre 1978), a cura di Henri Roussel e Francois Suard, Presse Universitaire de Lille, Lille 1980, pp. 61-71, c ripreso in Maurice de Gandillac, Genèses de la Moder­ nità,Cerf, Paris 1992, p. 204. Cfr. Johannes Kòhler, Mensch in der Schrift „de Pianeta Na 'turae“ des Alanus ab Insulti, in Mensch und Natur im Mittelaltcr cit., pp. 57-66, c Andreas Speer, Kostnisches Prinzip und Mafi menschlichcn Handelns. Natura bei Alanus ab Insulis, ivi, pp. 107-128.

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eie, ut dicunt, appare: eis Lucifer»72). Per lui il dualismo, vale a dire l’esaltazione di un Male sovrano, allo stesso livello del Bene, è quindi soprattutto la negazione colpevole dell’onnipotenza del Creatore, ed è con la confutazione di questo errore fonda­ mentale che dà avvio al suo trattato polemico73. Due decenni prima (e in ogni caso prima del 1171) nel De Planctu Naturai ricorrendo a una miriade di figure allegoriche alla moda, lo stesso Alano di Lilla aveva d’altra parte denun­ ciato il vizio contro natura per eccellenza, la sodomia, per le stesse ragioni74. Come Pier Damiani aveva fatto ai suoi tempi, e malgrado le trasformazioni profonde delle concezioni e della percezione della natura a partire dalla metà del secolo xi, la considera un attentato alla Creazione, e quindi all’Onnipotenza. Ma la novità rispetto ai riformatori «gregoriani» consiste ormai nel fatto che Alano di Lilla presenta esplicitamente que­ sto crimine come una insopportabile lesione alla maestà della Natura, la quale si lamenta lungamente degli innumerevoli e perniciosi attacchi subiti75. Celebrando così, mi sembra per la prima volta76, la majestas Naturae, a essere messa bene in evi­ denza (alla maniera dei canonisti e dei civilisti evocati sopra,

71 Quoniam homines, a cura di Palémon Glorieux, « Archives d’histoire dottrinale et litteraire du Moyen Age» 20, 1954, pp. 113-164. L’etimologia dei catari si trova nel De Fide catholica, P.L. 210, col. 366. 7i De fide Catholica, col. 311 e seguenti. In contrasto con le tesi «contagioniste» e «diffusioniste» della maggior parte degli odierni specialisti dell’eresia medievale, osses­ sionati dalle influenze bogomile, non sono del resto lontano dal credere che il dualismo, assoluto o mitigato, dei catari occidentali della fine del XII secolo e del XIII è soprattutto (se non esclusivamente) una costruzione... della stessa scolastica occidentale. 74 Sulle circostanze della redazione del De Planctu Naturae, cfr. da ultimo Fran^oise Hudry, Prologhi Alani de Planctu Nature, «Archives d’Histoire dottrinale et litéraire du Moyen Age», 1989, pp. 169-185, specialmente pp. 176-185. 75 Mi sono servito della nuova edizione di Nikolaus M. Hàring, Alan of Lille, “De Planctu naturae", «Studi Medievali», 2, 1978, pp. 797-879, in particolare pp. 830, 833. Cfr. l’edizione della Patrologia latina: P.L. 201 col. 448 e seguenti. 76 Occorre notare che anche Plinio, nella Naturalis historia (xxxvn, 1), evoca la Maestà della Natura quando descrive perle, gemme ecc. Si dovrebbe beninteso analiz­ zare questo accostamento e le sue implicazioni, ma la concezione che Plinio ha della natura è evidentemente molto diversa da quella di Alano di Lilla e, per quanto ne sappiamo, non stabilisce alcun legame esplicito tra crimine contro natura e crirnen Majestatis. Sul problema si troverà ancora qualche accenno in Boswell, Christianisme, tolérance sociale et homosexualité cit., pp. 389-391.

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anche se non arriva mai a citare l’adagio natura, id est Deus), è ancora una volta la posizione sovrana, onnipotente della Na­ tura stessa, e non è indifferente che Alano di Lilla lo faccia precisamente nel momento in cui i poteri ecclesiastici e laici, con il sostegno dei giuristi, vanno riscoprendo l’interesse e i molteplici usi del diritto romano per proteggere la maestà77. In effetti, dal momento in cui si evoca - in modalità allegorica o poetica, e non ancora giuridica o procedurale, è necessario sot­ tolinearlo - la maestà della natura, diventa più facile assimilare l’atto contro natura a un crimen majestatis', un’assimilazione 10 si vedrà, di portata considerevole. È ciò che fa, del resto, in maniera abbastanza divertente già Alexander Neckam nel suo De Naturis Rerum paragonando i sodomiti... alle lepri: «Lepores imitari dicunti qui jus naturae offendunt effoeminati Majestatis Summae Naturae Rei»78. Lungo tutto il xin secolo il legame tra la repressione degli atti contro natura e la protezione dell’onnipotenza divina si mantiene, nei teologi e nei canonisti, anche presso autori che sono molto lontani dalle posizioni agostiniane dell’alto Me­ dioevo. Il fatto che Innocenzo rv, nel suo Apparatus, difenda 11 suo potere de iure sui pagani o sugli infedeli mostrando che può reprimere i loro atti cantra naturam, poiché il papa come vicarius Christi può agire a loro riguardo come Dio fece con i sodomiti della Bibbia, è facilmente comprensibile da parte di un simile teocrate79. Ma trattandosi precisamente della re77 Cfr. in merito Jacques Chiffoleau, Sur le crime de majesté medieval, in Genèse de l'Etat moderne en Mediterranée, École fran^aise de Rome («Collection de l’École frani; ai se de Rome», 168), Roma 1993, p. 183-313. 7i Alexander Neckam, De Naturis rerum, a cura di Thomas Wright, Longman, Lon­ don 1863, p. 215: «gli uomini effeminati che offendono il Diritto della Natura, che sono colpevoli di ledere la Maestà suprema della Natura, hanno la fama di imitare le lepri». n Apparatus ad x, 3.34.8 (QuodSuper), edizione di Francoforte, 1370; ristampa ana­ statica Frankfurt am Main, 1968, c. 43or. «Papa super omnes habet iurisdictionem et potestatem de iure licet non de facto, unde per hanc potestatem quam habet Papa credo quod si gentilis qui non habet legem nisi naturae si contra legem naturae facit potest licite puniri per Papam arg. Gen. 19 ubi habes quod Sodomitae qui contra legem naturae peccant puniti sunt a Dco, cum autem Dei iudicia sint exemplaria non video quare Papa, qui est vicarius Christi, hoc non possit et ctiam dumodo facultas adsit, et idem dico si vo­ lani Idola. Naturale enim est unum et solum Deum creatorcm colere et non creaturas». Sul problema cfr. Alberto Melloni, Innocenzo iv, Marietti, Genova 1990, pp. 181-182.

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pressione degli atti contro natura, è invece più sorprendente ritrovare posizioni piuttosto simili in Tommaso d’Aquino, per esempio, il cui aristotelismo contribuisce tuttavia ad attribui­ re un ruolo totalmente nuovo alla legge naturale e alla natura stessa nel governo degli uomini. Per Boswell, laddove Tom­ maso d’Aquino parla di atti contro natura per designare la so­ domia «è diffìcile vedere come la sua posizione si possa accor­ dare ai suoi principi morali generali». In effetti, semplificando molto, la natura in questione dietro questi atti terribili non è mai, per lui, la «natura dell’uomo» (infatti in questo caso tut­ ti i peccati, essendo contrari alla ragione, sono evidentemente anche contrari alla natura), ma piuttosto la natura del Digesto e di Ulpiano, quella comune a uomini e bestie, che governa la morale sessuale80. La sodomia non sarebbe dunque contraria in primo luogo alla natura razionale dell’uomo, ma soprattutto una violazione della sua natura animale. Ma perché in questo caso metterla, come egli fa, al livello dei più grandi crimini, prima dell’incesto, in prossimità del sacrilegio?81 Perché con­ ferire a questo peccato il «singolare grado di enormità» che gli riserva nella Summaì*2 Boswell, che considera questa posizio­ ne abbastanza distante dai principi filosofici di Tommaso d’A­ quino, vede in essa l’impossibilità «di allontanarsi dalla con­ cezione dominante della moralità popolare e dell’intolleranza ufficiale». Questa spiegazione è un po’ troppo esile. In effetti, il teologo e filosofo precisa innanzitutto, seguendo il suo me­ todo usuale, che il peggio consiste sempre nella corruzione del principio stesso da cui dipende il resto (e qui questo principio è appunto, lo dice lui stesso, «ciò che è determinato [dalla na­ tura] per quanto riguarda gli atti sessuali»). Ma non può poi evitare di ricordare, citando naturalmente sant’Agostino, che un atto contro natura è anche un’offesa a Dio in quanto ordi­ natore della Natura: «ordo naturae violatur, fit injuria ipsi Deo *° Boswell, Christianisme, tolérance sociale et homosexualité cit., pp. 400 e seguen­ ti. Su ciò vedi anche Michael Bertram Crowe, Saint Thomas and L/lpians Naturai Law, in St. Thomas Aquinas (1274-1974). Commemoratives Studici, a cura di Éticnne Gilson, 2 voli., Pontificai Institute of Medieval Studies, Toronto 1974, voi. 1, pp. 261-282. ’* Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, 2, zx, quxstio 154, arti, io-12. *’ Boswell, Christianisme, tolérance sociale et homosexualité cit., p. 414.

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ordinatori naturae»8*. Ripropone dunque, in un certo modo, la posizione di tutti i suoi predecessori. Se è difficile dimostrare che il giudizio di Tommaso d’Aquino sulla sodomia derivi da una sorta di tradizione morale occidentale che si incarnerebbe, come dice Boswell, «nella legislazione e nella diatriba popola­ re», si vede bene per converso quanto esso sia ancora debitore delle costruzioni istituzionali dei secoli xi-xiii, nelle quali, lo ricordiamo, i legami fra l’Onnipotenza e la natura giocano un ruolo centrale.

D’altronde, a partire dal momento in cui i crimini contro natura sono tecnicamente accostati, da giuristi e giudici, agli attentati all’Onnipotenza divina - per esempio all’eresia -, al pari di questi obbediscono anch’essi all’inchiesta speciale. Tali crimini domandano una procedura giudiziaria in cui tutte le protezioni degli accusati possono essere fatte venir meno e la confessione gioca un ruolo centrale - anche quando è ottenuta con la forza - poiché si tratta precisamente, come nei libri 4$ e 49 del Digesto, di difendere ciò che è sovreminente, al di li di qualsiasi potere umano, intoccabile: la majestas, la sovranità assoluta. Alla fine del xn secolo, la celebre decretale di Innocenzo in Vergentis in senium accosta per la prima volta molto chiara­ mente l’eresia al crimen majestatis, trasformando il contenuto stesso di questo crimine, ma permettendo anche di impiegare contro gli eretici la procedura d’inchiesta più dura, che si dirà in seguito «straordinaria». È indubbio che questa decisione del papa segni una svolta nella repressione e che, promuovendo al contempo un nuovo sistema di prove - su cui tornerò tra poco -, i giuristi cerchino anche di stabilire in maniera incontestabile la verità dei crimini che combattono, inclusa la verità degli atti contro la natura; a tal proposito, non si è messo in rilievo a suf­ ficienza che la decretale inizia con un lungo preambolo sulla

’’ Tommaso d’Aquino, Surnma Theologica, 2, ix, quarstio 154, art. 12.

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degenerazione e la corruzione del mondo che, certo, prende in prestito molti vecchi tòpoi escatologici, ma che richiama anche per certi versi la riflessione di Alano di Lilla o di Pietro Can­ tore sugli attentati all’integrità della natura. Grazie ai lavori di Agostino Paravicini Bagliani sappiamo oggi come i papi, a partire appunto dal regno di Innocenzo ni, abbiano legato il loro interesse per la scienza della natura alla loro riflessione sul potere. Non è quindi privo d’importanza il fatto che la lotta all’eresia sia qui giustificata dall’evocazione della degenerazio­ ne naturale del mondo, del suo invecchiamento: ancora una volta è quindi la natura, e dietro di essa la Stimma Natura del Creatore Onnipotente, che sembra essere minacciata84. Non è questione di ritornare nel dettaglio sullo sviluppo della procedura inquisitoria, ma occorre almeno chiedersi se il sistema di prove che si sviluppa con precisione scientifica e se la volontà feroce, sempre riscontrabile, di ottenere attraverso la confessione una verità «intera», quasi assoluta, abbiano qualche legame con questo desiderio non meno fondamentale di proteg­ gere l’Onnipotenza divina e la Natura, che abbiamo visto così spesso espresso a partire dalla fine del xu secolo. Si può certo at­ tribuire al progresso generale della giurisprudenza e della cultu­ ra dei giudici il fatto che l’inchiesta proceda ormai, molto espli­ citamente, in maniera «razionale» e miri a ottenere una verità «completa», «piena», se possibile attraverso la confessione dei colpevoli che in qualche maniera garantisce l’autenticità dell’ac­ cusa. Ma non c’è dubbio, quando si cerca di reprimere un crimen majestatis o degli atti cantra naturam, che questi metodi, queste nuove esigenze, questo appello alla ratio sono legati a ciò che si potrebbe chiamare in maniera sbrigativa un programma politico nuovo, il cui fine è quello d’imporre una concezione particolare della sovranità, anche dovendo, per farlo, giungere a far confes­ sare tutti i crimini che la minacciano, anche i più indicibili...

*4 Si troverà un’analisi della decretale e una bibliografia completa in Chiffolcau, Sur le crime de majesté medieval cit., pp. 195 e seguenti. Sulle scienze della natura nella corte pontificale cfr. Paravicini Bagliani, Il corpo del papa cit., passim, e la sua raccolta di articoli Medicina e scienze della natura alla corte dei papi del Duecento, Centro italiano di Studi sull’alto Medioevo, Spoleto 1991.

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Se per esempio, a partire dalla fine del dodicesimo secolo, si cerca sempre più di abolire le vecchie ordalie, se le si ritiene incapaci di stabilire la verità, attentatrici della potenza divina, è precisamente perché le si pensa a loro volta «contrarie alla natura»85. Prima ancora della loro interdizione ufficiale da parte del Concilio Laterano iv, Uguccione le giudica contraria rationi e addirittura contra Deum*6. Ricorrervi, per Pietro Cantore, è ugualmente andare contro la Natura id est Deus, visto che si tratta di «sfidare Dio», vale a dire di esigere da lui un miracolo, e perciò affrontare direttamente la sua Onnipotenza di Crea­ tore, la sua libertà assoluta87 (per inciso, si vede d’altra parte come questa analisi dell’ordalia possa servire a precisare, tra naturale e sovrannaturale, i contorni e la stessa definizione del miracolo, che il clero si sforzava allora di controllare in ma­ niera più rigorosa88). Non ci si deve quindi stupire di vedere •» È così che gli stessi predicatori le qualificano: cfr. Cesario di Heisterbach, Dialogus miracaloram, textum ad quatuor codicum manuscriptorum editionisque principe fidem accurate recognovit Josephus Strangc, 4 voli, Hcberle, Coloniac-Bonnac-Bri xelles 1851, X, xxxv, voi. n, p. 243. 16 Uguccione da Pisa, Sumrna, B.N. Paris, ms. lat. 15396, c. 114: «Ex hoc capimi aperte colligitur quod monomachia est res illicita et prohibita. Mortaliter ergo peccai qui eam precipit, qui eam facit. Nec danda est eucharistia volentibus illam committere. De actore nullus dubitar, sed et reo non debet dari. Cum enim sit illicitum et contra deum, potius debet tollerare quelibet mala quam hoc facere. Nec potest quis defendi vel excusari consuetudine, cum sit contraria rationi [...]». Il passo è citato da John W. Baldwin nel suo fondamentale articolo The Intellectaal Preparation for thè Canon of 12 against Ordeals, •Specalam», 36, 4 (ottobre 1961), pp. 613-636, a p. 625. *7 Pietro Cantore, Verbarn abbreviatami P.L. 205, col. 226-228. Sulla posizione di Pietro Cantore cfr. ancora Baldwin, The Intellectaal Preparation for thè Canon of 121 f cit. Sull’abolizione delle ordalie cfr. il recente libro di Robert Bartlctt, Trial by Fire and Water. The Medieval Jadietal Ordeal, Clarendon Press, Oxford 1986, e le posizioni critiche di Pennington, The Princeand thè Law cit., pp. 132 e seguenti. Cfr. anche Peter Brown, La societé et le sumatureL Une transforma tion medievale, in Id., La société et le sacre dans PAntiquitc tardive, Seuil, Paris 1985; Dominique Barhélémy, Présence de Cavea dans le déroalement des ordalies (tx'-xttr siècles), in L'Avea, atti della Tavola Rotonda di Roma, Écolc Fran^aise de Rome («Publications de l’Écolc fran«;aisede Rome», 88), Rome 1986, pp. 191-214; Jacques Chiffoleau, Sur la pratique et la conjonctnre de l'aveu jadiciaire, ivi, pp. 343-352. “ Sulla nozione di miracolo nei secoli xm e xiv cfr. l’illuminante articolo di Alain Boureau, Miracle, volonté et imagination. La mutation scolastiqae (1270-1320), in Miracles, prodiges et merveilles aa Moyen Agc, atti del 250 congresso della Société des médiévistes fran^ais (Orléans, 1994), Publications de la Sorbonne, Paris 1995, pp. 159-172.

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Federico n, nel 1231, nelle Costituzioni del Regno di Sicilia, interdire con autorità regale questo antico tipo di prova, poi­ ché «nec rerum naturam respicium, nec veritatem attendunt», e dichiarare anche del tutto inaccettabile il duello giudiziario che «nature non consonat, a iure communi deviar, equitatis ra­ tionibus non consentir»89. Ma sviluppare una procedura razionale non vuol dire solo rigettare i metodi contra naturam, ma anche voler raggiungere con più sicurezza e in maniera più completa la verità grazie a un ordo rigoroso90. Ora, la registrazione della fama e il con­ fronto delle testimonianze non conducono mai, per questi sco­ lastici desiderosi di raggiungere delle certezze, che a una verità «semipiena», al probabile. La verità «intera», completa - così necessaria in caso di crimen majestatis, in quanto essa contri­ buisce ad assicurare, in un certo modo, la stessa completezza della maestà, il carattere pienamente sovrano, inviolabile, di quanto è leso - non può che giungere dalla confessione. Non è allora un caso che la confessio divenga la regina delle prove: nello stesso momento, come è noto, si sviluppano un’intera te­ ologia e una pastorale della parola e del sacramento di peniten­ za che promuovono una morale dell’intenzione e provocano

*’ Cfr. il testo in Historia Diplomatica Frederici secondi, a cura di Jean Louis Alphonse Huillard-Bréholles, 7 voli., Plon fratres, Parisiis 1852-1861, voi. 4/1, pp. 102-106: «leges [...] parabiles [è così che si designa l’ordalia unilaterale] [...] que nec rerum naturam respiciunt nec veritatem attendunt [...]. Eorum etenim sensum non tam corrigendum duxiumus quam delendum, qui naturalem candentis ferri calorem tepescere, immo, quod est stultius, frisgescere nulla iusta causa superveniente confi­ dimi, aut qui rerum criminis constitutum ob conscientiam lesam tantum asserunt ab aque frigide elemento non recepi, quam submergi poyius aeris competentis retentio non permittit». Ed oltre, a proposito del duello: «Monomachiam, que vulgariter duellum dicitur, paucis quibusdam casibus preexceptis, inter homines regni nostre dictioni subiectos in perpetuum locum volumus non habere: que non tam vera probatio quam quedam divinati© dici potest; que nature non consonai, a iure communi deviai, equitatis rationibus non consentii». Sul testo cfr. Hermann Conrad, Das Gottesurteil in den Konstitntionen von Melfi Friedrichs il. von Hohenstaufen (1231), in Aktuelle Fragen aus modemem Recht und Rechtsgeschichte. Gedachtnisschrift fiir R. Schmitt, a cura di Erwin Seidl, Duncker & Humblot, Berlin 1966, pp. 9-21. 50 Cfr. i lavori di Linda Fowler-Magerl, Ordo iudiciorum vel ardo iudiciaris, Klostermann, Frankfurt am Main 1984, e la sua presentazione generale Ordine* iudiciarii and Libelli de ordine iudiciorum, Brepols («Typologie des sources du Moycn Àge Occidental», 63), Turnhout 1994.

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una trasformazione della nozione di colpa e di peccato, nella quale sono coinvolti anche tutti i crimini repressi dai giudici91. Ma affinché la prova sia piena, affinché la verità emerga in ma­ niera completa e assoluta, occorre soprattutto che l’accusato riconosca che la fama, sia vera, occorre che dica il suo crimine, anche se ciò comporti una parte di indicibile, caso frequente negli atti contro natura. E sebbene questi crimini fossero stati fino a ora solamente evocati tremando dai polemisti e dai teo­ logi, occorre adesso che siano detti e confessati così che la loro verità sia perfettamente stabilita. La costruzione della confessione come probatio pienissima richiede beninteso un metodo razionale (la riduzione delle deposizioni in articoli scritti, il confronto ordinato degli ar­ gomenti e delle positiones), ma impone in qualche caso, al­ lorché il crimine è «enorme», nefas, l’uso della tortura affin­ ché l’accusato finisca per confermare quanto la ragione dei giudici fa loro solamente supporre, perché dica lui stesso i’ carattere esorbitante del suo crimine92. Come se fosse ancor necessario ricorrere a mezzi eccezionali, a una forza esterni allorché è l’essenziale - la natura, l’onnipotenza, la maestà - a essere in causa. La tortura s’installa quindi nell’insufficienza della prova, nell’assenza che nasconde sempre la verità «pro­ babile» al termine della disputatio, e della quale i giudici non possono accontentarsi, dal momento in cui un accusato na­ sconde delle attività indicibili, minaccia il cuore del potere. ’* Vedi per esempio il recente lavoro di Carla Casagrande, Silvana Vecchio, I peccati della lingua. Disciplina ed etica della parola nella cultura medievale, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 19S7. Sulle trasformazioni e, per dirlo sbrigativa­ mente, l’interiorizzazione della nozione di colpa e dei peccati, cfr. Robert Blomme, La doctrine du péché dans Ics écoles theologiques de la première moitié du xir siede, Publications universitaires de Louvain-J. Duculot, Louvain-Gembloux 1958; Marie-Dominique Chenu, L'éveil de la conscience dans la civilisation medievale, Inst. d’études médicvalcs-Vrin, Montrcal-Paris 1969; e la messa a punto di Jacques Le Goff in Naissance du Purgatoire, Gallimard, Paris 1981, pp. 288-295. ” Occorrerebbe riprendere lo studio delle trasformazioni della ratio medievale (specialmente nei rapporti tra retorica e dialettica) e l’evoluzione parallela del sistema delle prove, compreso l’impiego della tortura. Alessandro Giuliani, Il concetto di pro­ va. Contributo alla logica giuridica, Giuffrè, Milano 1971, in partic. pp. 115-205 evita il problema. Sulla tortura cfr. soprattutto l’opera classica di Piero Fiorelli, La tortura giudiziaria nel diritto comune, 2 voli., Giuffrè, Milano 1953.

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Per loro, è sempre rationaliter estorcere allora l’intera e com­ pleta veritas, poiché la tortura è regolata, metodica, graduale e non interviene se non quando si ha una contraddizione tra indizi e prove «semipiene»; accade persino che essi vi vedano il segno della loro modernità e del progresso stesso dei meto­ di procedurali. Ma, a questo punto, e malgrado le smentite dei giuristi del xiii secolo, come non accostare questi tormenti che conduco­ no alla confessione alle vecchie ordalie, nelle quali Dio ma­ nifestava una volta i suoi giudizi? Attraverso la confessione, attraverso la parola, la nuova procedura esige certo una parte­ cipazione specifica dell’accusato all’elaborazione della verità, ma come nell’ordalia - dove il corpo dell’accusato, se non la sua parola, giocava altresì un ruolo essenziale -, è sempre una potenza o una voluntas superiore a quella dell’uomo che in conclusione permette la manifestazione completa della verità. E questo esito favorevole è allo stesso tempo la prova per ec­ cellenza dell’onnipotenza divina. Come dice un po’ più tardi la Très ancienne coutume de Bretagne-. «Se riesce a superare la tortura senza confessare [...] si salverà, e sarà chiaro che Dio ha mostrato un miracolo attraverso di lui»93. Il razionale Fe­ derico 11, dopo aver detto tutto il male possibile della purgatio vulgaris, dell’ordalia, accetta comunque il duello giudiziario in tre casi: l’awelenamento/incantesimo, l’omicidio segreto e soprattutto la lesa maestà. È necessario, sostiene, «per terroriz­ zare più che per giudicare». Ma non si può evitare di pensare che questi tre crimini per il loro carattere occulto, innaturale, e in un certo senso perfino soprannaturale dal momento che toccano la majestas, forse sono anche quelli che possono an­ cora rivendicare il ricorso diretto, non meno soprannaturale,

” Charles A. Bourdot de Richcbourg, Noxveax coutumier général, 4 voli., Theodore Le Gras, Paris 1724, voi. jv, p. 225, cap. 191. Si veda anche quanto afferma, un secolo dopo, la Recollectio anonima che narra la Vauderie d’Arras del 1459: «in causa enim tali si prò vero reciperetur, pie creditur, quod Deus revelaret iudicibus aut per inspirationem darei eis agnoscerc veritatem, ne innoccns de secta punirctur de secta». Cfr. Joseph Hansen, Quellen und Untenuchungen zur geschichte des Hexenwahns nnd der Hexenverfolgxng im Mittelalter, Cari Georgi, Bonn 1901, pp. 149-183, passo citato alle pp. 172-173.

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all’Onnipotenza divina. E quando, nelle stesse Costituzioni, si legge che la tortura - ultima, ratio - è in primo luogo riservata ai sospetti di crimini commessi durante la notte o in segreto, e dunque in maniera occulta, sotto il dominio del Diavolo, è possibile misurare quanto piccolo sia lo scarto che separa que­ sta nuova maniera di estorcere le confessioni dalle antiche abi­ tudini ordaliche94. Kenneth Pennington ha ragione a difendere con simpatia la corporazione dei giudici e dei giuristi medievali: i progressi dell’on/o giudiziario, e persino quelli dei diritti dell’accusato, sono costanti a partire dalla fine del xn secolo. Del resto, ci sono giunte ben poche testimonianze che attestano l’uso della tortura e non si può quindi sostenere, come fanno certi sto­ rici, che fosse ordinario o sistematico95. Ma potrebbe esserci qualcosa d’incoerente nel cercare la traccia di pratiche «straor­ dinarie» in fonti che testimoniano, per definizione, delle sole procedure «ordinarie», oppure nel supporre che le confessioni trascritte dai notai e giunte fino a noi siano state esenti da pres­ sioni, con l’argomento che di esse non fanno menzione. All’i nizio del xm secolo, dopo la Vergentis in senium, non c’è dub bio che l’eresia, la lesa maestà, gli atti contra naturam, poiché s trovano al vertice della gerarchia dei crimini, poiché di norma comportano cose indicibili, possano richiedere questi metodi terribili che, lungi dall’offendere la razionalità scolastica, sono da questa ben accette. Per quanto statisticamente raro, l’impie­ go della tortura segna profondamente tutta la nuova procedu­ ra; anzi, se la tortura ne costituisce l’ultima ratio, è perché essa ’« Historia Diplomatica Frederici secondi cit., voi. 4/1: «[...] Crimen etiam lese majcsratis excipimus, in quo infrascriptis capitulis pugne iudicium reservamus. Nec mirum si lese majestatis rcos, homicidas furtivos alque veneficos pugne subicimus non tam iudicio quarti terrori; non quod in ipsis nostra sercnitas iustum extimet, quod iniustum in aliis reputavi!». Sui legami tra ordalia e tortura cfr. Bartlett, Trial by Fire and Water cit., e Chiffoleau, Sur la pratique et la conjonctiire de l'avcu judiciaire cit., in partic. p. 343-352. 5,1 Pennington, The Prince and thè l-aw cit., pp. 1320 seguenti (Naturai Law and thè Judicial Process). Cfr. anche l’interessantissimo aricolo di Ennio Cortese, Nicolaus de Ursone de Salerno. Un'opera ignota sulle lettere arbitrarie angioine nella tradizione dei trattati sulla tortura, in Per Francesco Calasso. Studi degli allievi, Bulzoni, Roma 1978, pp. 191-282.

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fa parte del sistema della verità che viene allora messo in opera, occorre ricordarlo leggendo le confessioni di cui abbiamo oggi traccia, anche quelle che sono apparentemente ottenute senza coercizione... Certo, fino alla fine del xm secolo gli eretici confessano i loro errori agli inquisitori senza mai ammettere atti contro natura. Se la legislazione repressiva sulla sodomia si sviluppa un pò* ovunque in Europa, le allusioni a questo crimine non appaiono che nella letteratura polemica, come nei secoli pre­ cedenti, congiuntamente all’eresia e alla lesa maestà96. A parti­ re dal 1230 la parola «bougre» [bastardo] inizia a designare al contempo i bulgari, i manichei occidentali e i sodomiti97. Tre anni dopo, papa Gregorio IX riprende, sistematizzandoli, tutti i luoghi comuni antichi sull’indicibile eretico nella bolla Vox in Roma, indirizzata ai vescovi tedeschi e, più o meno nello stesso periodo, invia i domenicani nelle stesse regioni per combatte­ re ciò che egli chiama la lebbra immonda del vizio inattirale, la sodomia98. Nei decenni che seguono, le accuse di sodomia, congiunte ad accuse di eresia, cominciano nuovamente a essere rivolte agli stessi sovrani (Federico II, Ezzelino da Romano, e

* Cfr. ancora Boswell, Christianisme, tolérance sociale et homosexualité cit., pp. 362-368. " Intorno agli anni Trenta del Duecento questa assimilazione diviene costante, perlomeno nella Francia del Nord: cfr. Monique Zerner, Du court moment où on ap­ pella les hérétiques des •bougres-. Et quelques déductions, «Cahicrs de Civilization medievale», xxxti, ottobre-dicembre 1989, pp. 305-324. ’’ -Quod si forte virilis sexus supersunt aliqui ultra numerum mulierum, traditi in passiones ignominie, in desideriis suis invicem excedentes, masculi in masculos turpitudinem operantur, similiter et femine immutant naturalem usum in eum, qui est cantra naturam, hoc ipsum inter se damnabiliter facientes. Completo vero tam ne­ fandissimo scelere et candelis iterum reaccensis singulisque in suo ordine constitutis, de obscuro scholarum angolo, quo non careni perditissimi hominum, quidam homo procedit a renibus sursum fulgens et sole clarior, sicut dicunt, deorsum hispidus sicut gattus, cuius fulgor illuminai totum locum», in M.G.H. Epistolae saeculi Xl/i e regestis pontificum Romanorum, a cura di Karl Rodenberg, 3 voli., Berlin, 1883, voi. I» n°537, P- 433- Corsivi miei. Su questa celebre bolla cfr. Cohn, Démonolàtrie cit., p. 55, e Boswell, Christianisme, tolérance sociale et homosexualité cit., p. 370. La bolla destinata ai domenicani, incaricati di lottare contro il vicium maturale, c cit. ibid. e si trova nel Bullarium ordinis fratrum praedicatorum, a cura di Thomas Ripoi], 8 voli., Mainardi, Romae voi. 1, pp. 39"4O> non ho potuto verificare questa menzione.

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perfino Filippo in l’Ardito"). Alla fine del secolo, infine, i pre­ dicatori diffondono la sorprendente leggenda secondo cui Dio, il giorno della nascita di Gesù (dunque, il giorno di un avveni­ mento sovrano) ha ucciso tutti i sodomiti presenti al mondo!100 Ma, fino a questa data, lo ripetiamo, praticamente nessuna con­ fessione davanti a un giudice menziona crimini contro natura...

Tuttavia, nel 1323, Jacques Fournier scova, tra i criptocatari di Montaillou e del Pays de Foix, il sodomita Arnaud de Verniolle, che non tarda a confessargli i suoi amori con gli scolari della regione101. Questo cattivo chierico non può affatto passare per un valdese, a dispetto di quanto sostenuto dall’inquisitore; ma agli occhi di quest’ultimo la presenza di un crimine contro natura tra gli eretici del posto prova tuttavia - se ce ne fosse stato bisogno - l’estensione del male e i legami sempre vivi tra l’errore nella fede e le pratiche indicibili. Non è privo di rilievo, in pri­ mo luogo, che questa abbondante confessione sia prodotta nel corso di un’inchiesta sull’eresia; è comunque ancora più signifi­ cativo che essa abbia avuto luogo in questo preciso momento. In effetti, solo un po’ prima, nel corso dell’epidemia dei grandi processi politico-religiosi che si svolsero in Francia, a Parigi o

” Per il caso di Federico il cfr. Ernst Hartwig Kantorowicz, Frédéric il, Gallimard, Paris 1987, che si appoggia in realtà su Niccolò da Calvi, Vita Innocentii iv, a cura di Francesco Pagnotti, «Archivio della Società romana di storia patria», xxi (1898), pp. 102-103 (nell’edizione di Alberto Melloni, Innocenzo iv, Marietti, Genova 1990, § 29, pp. 278-279). L’episodio riguardante Filippo l’Ardito nel 1273 è evocato in Charles Victor Langlois, Le r'egne de Philippe ni le Flardi, Hachette, Paris 1887, che si appog­ gia su un documento pubblicato da Jean de Gaulle nel «Bullcttin de la société pour l’histoirc de la France», 1844, pp. 87-100. Ritorneremo in seguito sull’episodio. ,