L'invenzione della fiducia. Medici e pazienti dall’età classica a oggi 8833134482, 9788833134482

Questo libro ricostruisce in una prospettiva storica il percorso lungo il quale il rapporto tra il medico e il paziente

320 66 2MB

Italian Pages 228 [229] Year 2021

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

L'invenzione della fiducia. Medici e pazienti dall’età classica a oggi
 8833134482, 9788833134482

Table of contents :
Copertina
Occhiello
Frontespizio
Colophon
Indice
Dedica
Maria Malatesta, Fiducia, fiducie. Introduzione
Davide Festi, Costruire un medico degno di fiducia
L’invenzione della fiducia
Daniela Rigato, Medico divino e razionale, carnifex e amicus:a chi dare fiducia?
Tommaso Duranti, Confidentia tamen de medico debet precedere. La fiduciaverso i medici tra pieno medioevo e prima età moderna
Maria Conforti, Fiducia per lettera: medici e pazienti nei consulti italiani tra tardo Seicento e primo Settecento
Maria Luisa Betri, Dalla “sconfidenza” nel medico al ricorso al “cultore di una scienza di fiducia”
La fiducia nella scienza e nelle istituzioni sanitarie
Francesco Taroni, Fiducia e sanità pubblica: un’utopia dissipata
Emmanuel Betta, «L’ultima bufera antivaccinista». Il dibattito sulla vaccinazione in Italia tra XIX e XX secolo
Decifrare la fiducia per parole e per immagini
Maria Malatesta, Fiducia e sfiducia: romanzieri, medici, pazienti e parenti raccontano
Valentina Cappi, Senza trucco o con l’inganno: la travagliata conquista della fiducia nelle serie tv ospedaliere
Gli autori
Indice dei nomi

Citation preview

La storia. Temi

L’invenzione della fiducia

volumi pubblicati

77. Giuseppe Vacca In cammino con Gramsci. 2020 78. Antonella Romano Impressioni di Cina. Saperi europei e inglobamento del mondo (secoli XVI-XVII). 2020 79. Fulvio De Giorgi La rivoluzione transpolitica. Il ’68 e il post-’68 in Italia. 2020 80. Roberta Pergher Dalle Alpi all’Africa. La politica fascista per l’italianizzazione delle “nuove province” (1922-1943). 2020 81. Arnold Esch Roma dal Medioevo al Rinascimento. 1378-1484. 2020 82. John P. McCormick Democrazia machiavelliana. Machiavelli, il potere del popolo e il controllo delle élites. 2020 83. Amedeo Quondam Il Letterato e il Pittore. Per una storia dell’amicizia tra Castiglione e Raffaello. 2021 84. Isabella Lazzarini L’ordine delle scritture. Il linguaggio documentario del potere nell’Italia tardomedievale. 2021 85. L’invenzione della fiducia. Medici e pazienti dall’età classica a oggi. A cura di Maria Malatesta. 2021

Medici e pazienti dall’età classica a oggi a cura di Maria Malatesta Questo libro ricostruisce in una prospettiva storica il percorso lungo il quale il rapporto tra il medico e il paziente si è strutturato sulla base della fiducia, sentimento essenziale per il funzionamento della relazione e della cura. La fiducia non è un dato acquisito, ma una costruzione storica che nell’arco di due millenni è stata sottoposta a profondi mutamenti indotti dall’avanzamento della scienza e dalle trasformazioni della professione medica: il ruolo del paziente è passato da una posizione di forza, quando la medicina offriva poche possibilità di guarigione, a una posizione più subalterna, dovuta ai progressi scientifici e al conseguente rafforzarsi del potere medico, fino all’odierno riequilibrio con il riconoscimento del paziente come soggetto attivo della relazione. L’intento degli autori (storici, medici, antropologi) è di mostrare come la storia e le scienze sociali possano essere di ausilio a medici e pazienti, aiutandoli ad acquisire una maggiore consapevolezza del rapporto che li unisce anche nell’era della medicina tecnologica.

L’invenzione della fiducia Medici e pazienti dall’età classica a oggi a cura di Maria Malatesta

Contributi di M.L. Betri, E. Betta,V. Cappi, M. Conforti, T. Duranti, D. Festi, M. Malatesta, D. Rigato, F. Taroni. Maria Malatesta, già docente di Storia contemporanea all’Università di Bologna, è ora professore all’Alma Mater. Studiosa delle élites, i suoi interessi si concentrano sulla storia delle professioni e della nobiltà in Italia e in Europa. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Professionisti e gentiluomini. Storia delle professioni nell’Europa contemporanea (Einaudi, 2006).

www.viella.it

76. L’Italia come storia. Primato, decadenza, eccezione. A cura di Francesco Benigno e E. Igor Mineo. 2020

L’invenzione della fiducia

La storia. Temi

ISBN 9788833134482

€ 25,00

9 788833 134482

VIELLA

In copertina: Georges Chicotot (medico e artista), Le Tubage, 1904, Musée de l’Assistance Publique-Hopitaux de Paris.

La storia. Temi 85

L’invenzione della fiducia Medici e pazienti dall’età classica a oggi

a cura di Maria Malatesta

viella

Copyright © 2021 - Viella s.r.l. Tutti i diritti riservati Prima edizione: febbraio 2021 ISBN 978-88-3313-448-2 ISBN 978-88-3313-660-8 ebook

Questo volume è stato pubblicato con un contributo del Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università degli studi di Bologna.

L’INVENZIONE

della fiducia : medici e pazienti dall’età classica a oggi / a cura di Maria Malatesta. - Roma : Viella, 2021. - 227 p. ; 21 cm. - (La storia. Temi ; 85) Indice dei nomi: p. [219]-227 ISBN 978-88-3313-448-2 1. Medici - Rapporti con i malati - Storia 2. Medici - Professione - Storia I. Malatesta, Maria 610.69509 (DDC 22.ed)

viella

libreria editrice via delle Alpi, 32 I-00198 ROMA tel. 06 84 17 758 fax 06 85 35 39 60 www.viella.it

Scheda bibliografica: Biblioteca Fondazione Bruno Kessler

Indice

Maria Malatesta Fiducia, fiducie. Introduzione Davide Festi Costruire un medico degno di fiducia

9 17

L’invenzione della fiducia Daniela Rigato Medico divino e razionale, carnifex e amicus: a chi dare fiducia?

37

Tommaso Duranti Confidentia tamen de medico debet precedere. La fiducia verso i medici tra pieno medioevo e prima età moderna

59

Maria Conforti Fiducia per lettera: medici e pazienti nei consulti italiani tra tardo Seicento e primo Settecento

81

Maria Luisa Betri Dalla “sconfidenza” nel medico al ricorso al “cultore di una scienza di fiducia”

101

La fiducia nella scienza e nelle istituzioni sanitarie Francesco Taroni Fiducia e sanità pubblica: un’utopia dissipata

119

6

L’invenzione della fiducia

Emmanuel Betta «L’ultima bufera antivaccinista». Il dibattito sulla vaccinazione in Italia tra XIX e XX secolo

145

Decifrare la fiducia per parole e per immagini Maria Malatesta Fiducia e sfiducia: romanzieri, medici, pazienti e parenti raccontano

167

Valentina Cappi Senza trucco o con l’inganno: la travagliata conquista della fiducia nelle serie tv ospedaliere

191

Gli autori

217

Indice dei nomi

219

Dedicato a Elio, capitano coraggioso che ha lottato contro il cancro ed è stato sconfitto durante il lockdown

Maria Malatesta Fiducia, fiducie. Introduzione

La fiducia è il collante della vita sociale, la quale non potrebbe sopravvivere in un clima di totale sfiducia. Così si esprimeva nel 1968 Niklas Luhmann in un saggio seminale.1 L’attenzione che il sociologo tedesco rivolgeva nei confronti di questo concetto in un periodo di profonda messa in discussione delle istituzioni sociali “tradizionali” non ha avuto un seguito adeguato né da parte dei sociologi, né tanto meno degli storici. Questi ultimi sono sempre stati piuttosto tiepidi nei riguardi di questa tematica malgrado essa possa essere considerata un rivelatore fondamentale dei discorsi e delle pratiche delle società di tutti i tempi e di tutte le latitudini.2 Una simile disattenzione è probabilmente annoverabile al fatto che la fiducia fa parte di quei fenomeni della vita sociale che vengono dati per scontati.3 Infatti, nella vita di tutti i giorni, la fiducia è «una componente del suo orizzonte, un elemento essenziale del mondo, ma non costituisce il tema intenzionale (e perciò stesso variabile) dell’esperienza interiore».4 Dalla metà degli anni Ottanta del Novecento l’interesse nei confronti del tema della fiducia si è fatto strada all’interno del discorso pubblico. Scienziati politici e sociali vi hanno fatto ricorso per trovare una spiegazione a quella che appare come una progressiva erosione delle basi del1. Niklas Luhmann, Vertrauen-ein Mechanismus der Reduktion soziale Komplexität, Stuttgart, Enke, 1968 (trad. it. La fiducia, Bologna, il Mulino, 2002). 2. Geoffrey Hosking, Trust and Distrust: A Suitable Theme for Historians?, in «Transactions of the RHS», 16 (2006), p. 113. 3. Rod Watson, La confiance comme phénomène pour la sociologie, in Les moments de la confiance: connaissance, affects et engagements, a cura di Albert Ogien e Louis Quéré, Paris, Economica, 2006, p. 153. 4. Luhmann, La fiducia, p. 5.

10

Maria Malatesta

la cooperazione sociale, della solidarietà e del consenso;5 ma il terreno sul quale il dibattito pubblico si è maggiormente animato è stato quello medico-sanitario. Dalle malpractices e dai reati imputati a medici e alle strutture sanitarie al recente movimento anti-vaccinale, i professionisti della salute sono stati la cassa di risonanza e di amplificazione di un sentimento popolare che ha messo in discussione quella fiducia istituzionale che i progressi scientifici e i sistemi sanitari universalistici avevano accresciuto in proporzione all’ottimizzazione delle loro prestazioni. Malgrado ciò, la sociologia medica non ha tenuto il passo col dibattito pubblico mettendo in campo ricerche di ampio respiro. Eppure, anche in campo medico la fiducia non è un concetto scontato, soprattutto a causa della sua natura polisemica. Spesso, quando si parla di fiducia, si allude a una sorta di tacito accordo che lega il paziente al proprio medico in una direzione univoca; si parla poco del contrario, ossia del fatto che la fiducia deve essere accordata anche dal medico ai propri pazienti e che essa è il risultato di una relazione al cui interno sono compresi molti ingredienti emozionali, per nulla scontati, che risultano essere decisivi nell’orientare il rapporto di cura. Al tempo stesso, la fiducia è vissuta in modo differente dalle due componenti. Per il paziente è un concetto eterodiretto, che si esprime nella pratica dell’affidamento alle cure del medico. Per quest’ultimo, invece, la fiducia è un concetto autodiretto, rivolto prima di tutto nei confronti delle proprie capacità professionali. Per entrambi i soggetti la fiducia si esprime a vari livelli, poiché essa viene accordata dal medico e dal paziente, in maniera diversa, anche al funzionamento del sistema sanitario che fa da cornice al loro incontro e alla scienza che in esso vi si pratica. Non di fiducia, ma di fiducie è perciò più opportuno parlare. La fiducia che si instaura tra il medico e il paziente è infine un concetto storicamente asimmetrico, perché non vi è corrispondenza paritetica tra i significati che essa rappresenta per i due attori della relazione. Per il paziente, la pregnanza semantica insita nel concetto di fiducia ha semmai come corrispettivo da parte del medico quello di responsabilità. La responsabilità è l’interfaccia della fiducia, la sua vera integrazione, che riporta al 5. Barbara A. Misztal, Trust in Modern Societies. The Search for the Bases of Social Order, Cambridge, Polity Press, 1996; Le strategie della fiducia. Indagini sulla razionalità della cooperazione, a cura di Diego Gambetta, Torino, Einaudi, 1989; Robert D. Putnam, Bowling Alone: The Collapse and Revival of American Community, New York, Simon & Schuster, 2000.

Fiducia, fiducie. Introduzione

11

centro del discorso il fondamento paternalistico della relazione medicopaziente. La sua messa in discussione, in nome di una maggiore democratizzazione di questo rapporto, ha portato come risultato il riconoscimento giuridico dei diritti del paziente. La legge 219/2017 sul consenso informato e sulle dichiarazioni anticipate di trattamento è il punto di arrivo di un lungo processo iniziato nel 1948 con la Dichiarazione universale dei diritti umani. Non solo all’inizio del comma 2 della legge 219 si legge che «È promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico», ma lo stesso comma si conclude permettendo l’accesso, nella relazione di cura, a una persona di fiducia che il paziente può incaricare di ricevere o filtrare le informazioni sulla propria salute. La stessa legge, al comma 8, recita che «il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura», una frase che per ogni persona malata ha da sempre le caratteristiche dell’autoevidenza, ma che, scritta nero su bianco in tempi di robotizzazione della medicina e di “iPatient”6 suona lieve – nel bene e nel male – come una carezza. Che la parola,7 il tocco, lo sguardo del medico verso il paziente (e viceversa) fossero in grado di emanare un potere non è storia nuova. Già Robert James nel Settecento riconosceva alla fiducia il ruolo di «no small Moment towards a Cure».8 Le più recenti scoperte nell’ambito delle neuroscienze hanno suffragato quelle antiche intuizioni: «Le parole sono delle potenti frecce che colpiscono precisi bersagli nel cervello, e questi bersagli sono gli stessi dei farmaci che la medicina usa nella routine clinica».9 Questo libro si propone di ricostruire in una prospettiva storica il percorso lungo il quale il rapporto tra il medico e il paziente si è strutturato sulla base di un sentimento tanto inafferrabile quanto fondamentale per il funzionamento della relazione e della cura qual è la fiducia. Esso non è un dato acquisito, intrinseco alla relazione, ma una costruzione storica che ha attraversato varie fasi ed espresso differenti rapporti di forza determinati 6. Abraham Verghese, Culture Shock. Patient as Icon, Icon as Patient, in «New England Journal of Medicine», 359 (2008), pp. 2748-2751. 7. Si veda, a questo proposito, anche Sandro Spinsanti, La cura con parole oneste. Ascolto e trasparenza nella conversazione clinica, Roma, Il Pensiero Scientifico Editore, 2019. 8. Maria Conforti, Fiducia per lettera, infra, p. 82. 9. Fabrizio Benedetti, La speranza è un farmaco. Come le parole possono vincere la malattia, Milano, Mondadori, 2018, p. 11.

12

Maria Malatesta

dal livello di autorevolezza del medico e del suo possesso di strumenti clinici efficaci. La fiducia del paziente nel medico è un fattore storicamente determinato, un misuratore delle varie fasi della storia della medicina e della professione medica e, al contempo, delle trasformazioni globali della società occidentale. Geoffrey Hosking ha sottolineato, nel saggio seminale già citato, come la fiducia non sia un’entità immutabile ma sia soggetta a variazioni rilevanti nell’incidenza e nelle forme in cui si esprime.10 Questa asserzione è ancor più valida se riferita al campo medico. Il volume intende documentarla anche attraverso la declinazione delle forme che ha assunto in relazione alle trasformazioni sociali. Il caso più evidente, a tale riguardo, è l’importanza acquisita dalla fiducia nei sistemi sanitari, che è andata crescendo mano a mano che si faceva strada l’idea di sanità e di salute pubblica.11 Al tempo stesso, vi sono alcune invarianti nella relazione fiduciaria tra medico e paziente che hanno attraversato le epoche e che, singolarmente e nel loro complesso, danno risposta ad alcuni degli interrogativi che hanno ispirato la ricerca alla base di questo volume: «È necessario che il medico ispiri un sentimento di fiducia nel paziente?», «In che modo si instaura, nel corso del tempo, una fiducia nel “mestiere” del medico?», «Quali sono gli indicatori della fiducia fra medici e pazienti?». Oggi, come nell’antichità, la fiducia si dimostra essere dipendente dal contesto storico/sociale/culturale in cui si esplicita, in stretta relazione con il fattore tempo (dunque con l’attesa e l’aspettativa della guarigione o quantomeno di una cura), e ricercabile, nell’incontro ravvicinato di medico e paziente, sia attraverso la comunicazione verbale che attraverso quella non verbale. Inoltre, benché essa si rafforzi in seguito ad esperienze positive, la sua permanenza o messa in discussione spesso prescinde e precede i singoli attori coinvolti nella relazione di cura, dando prova di essere una forza ‒ o un’emozione12 ‒ squisitamente sociale, che si dispiega a vari livelli. Gli intenti sottesi alla realizzazione di questo volume non sono solo racchiusi nel desiderio di aprire un dialogo con gli storici per sensibilizzarli 10. Hosking, Trust and Distrust, p. 106. 11. Francesco Taroni, Fiducia e sanità pubblica, ed Emmanuel Betta, «L’ultima bufera antivaccinista», infra. 12. Jack Barbalet, Social Emotions: Confidence, Trust and Loyalty, in «International Journal of Sociology and Social Policy», 16 (1996), pp. 75-96.

Fiducia, fiducie. Introduzione

13

alla tematica della fiducia e alle molteplici possibilità di ricerca in essa contenute. Il proposito degli autori che hanno collaborato all’impresa è anche quello di interagire con altre comunità di lettori, mostrando loro come la storia e le scienze sociali possano servire alla costruzione di un buon dottore, capace di infondere fiducia ed empatia anche nell’era della medicina tecnologica, e di un paziente avveduto, di se stesso e della sua storia. Le finalità del volume traspaiono anche dalla composizione del gruppo degli autori. Formato in prevalenza da storici, esso comprende un’antropologa e due medici. La strutturazione interna del libro è ancora più eloquente. Pone in apertura la riflessione di un clinico sui limiti della formazione che si impartisce oggi ai medici e sulla necessità di riportarvi al centro la nozione di empatia; farla seguire dalla ricostruzione della storia plurimillenaria della fiducia ha significato proporre come “cura” alle carenze educative un percorso umanistico capace di migliorare la relazione tra medico e paziente rendendoli entrambi consapevoli della storia che li lega da millenni. Come dimostrano i capitoli di Davide Festi, Daniela Rigato e Valentina Cappi, molteplici sono i fattori che nelle diverse epoche concorrono alla reputazione di un medico degno di fiducia. Non solo l’abilità nella comunicazione terapeutica o la capacità di esprimere empatia, come suggerisce la letteratura medica contemporanea; l’abito, la laurea, l’età e il sesso del curante, come ci suggeriscono i medical drama; la fama, criterio preponderante in età medievale; ma anche «una speciale competenza che i libri non sono in grado di fornire» ‒ ovvero un’etica comportamentale che nell’antichità doveva condurre ad allontanare la cupidigia in favore di «lealtà, sincerità e riservatezza».13 Questi attributi, che testimoniano la buona volontà del curante, se non suonano superflui nella società romana del I secolo dopo Cristo, quando i medici sono ritenuti dal poeta Petronio solo in grado «di blandire, di consolare, non di curare davvero», dimostrano effetti rassicuranti ancora nel contesto sociale medievale, quando non guastava che il medico si dimostrasse sobrio, modesto, umile e casto. Egli doveva possedere, prima di tutto, «honestas e diligentia» ma anche preoccuparsi di «compiere approfonditamente e quasi con “ostentazione” i gesti diagnostici tipici»,14 a conferma del fatto che anche l’elemento performativo, se accuratamente messo in scena, è un fattore in grado di generare fiducia. 13. Daniela Rigato, Medico divino e razionale, infra, p. 48. 14. Tommaso Duranti, Confidentia tamen de medico debet precedere, infra, p. 64.

14

Maria Malatesta

Sembrano essere pienamente consapevoli di quest’ultimo dettaglio i medici di età moderna e pre-moderna, per i quali la conquista della fiducia del paziente appare come un’arte (strategica) nell’arte (medica), che va dall’accattivarsi i servi di casa al servirsi di «violazioni minori»,15 assecondando, se possibile, «simpatie e antipatie dei malati in rapporto ai singoli medicamenti […] o altrimenti raggirandole».16 È infine possibile mettere a fuoco due fenomeni di lungo periodo che appaiono in stretto rapporto con la fiducia. Il primo, come spiegano Daniela Rigato, Tommaso Duranti, Maria Luisa Betri e Maria Conforti, riguarda la compresenza, nel medical marketplace, di una varietà di “saperi” medici e soggetti curanti in competizione tra loro (chirurghi, speziali, ciarlatani, ai quali in età antica si sommavano anche le divinità), che lascia spazio a un consumerismo ante litteram dei pazienti. In questo contesto, la conquista della fiducia si configura come una battaglia quotidiana. A fronte di un mondo medico che si trovava a fronteggiare con pochi strumenti e ripetuti fallimenti, il “multiforme esercito del ciarlatanismo” aveva infatti, alla base del suo consenso, la «capacità di immediata comprensione delle sofferenze del malato, un’empatia creata tramite il linguaggio “popolare e non sottoposto ad alcuna regola” assai più comprensibile di quello astruso dei medici».17 Il secondo fenomeno riguarda l’alterno ricorso ora all’esclusiva fiducia in se stessi da parte dei curanti come “calamita” per attrarre la fiducia del paziente (come avviene in età antica e moderna), ora alla fiducia del paziente come viatico indispensabile alla guarigione. In un’opera del medico trecentesco Niccolò Falcucci, tra gli impedimenti alla buona riuscita della cura è indicata «la mancanza di fiducia del malato verso se stesso o verso il medico e le medicine o verso quanto lo circonda». Inizia a intravedersi il riconoscimento della ineludibile e fondamentale partecipazione del paziente al processo di cura. Ma la strada è ancora lunga e man mano che la medicina si istituzionalizza, e che crescono le aspettative dei sofferenti, la cautela invita medici e pazienti a “moderare” la fiducia: «non aver fiducia nella medicina sarebbe da sciocchi, così come averne troppa»,18 argomenta Vallisneri all’inizio del Settecento. Molesti e maniaci (oltre che ipocondriaci) vengono definiti coloro che ripongono troppa fiducia nell’ar15. Conforti, Fiducia per lettera, infra, p. 83. 16. Betri, Dalla “sconfidenza” nel medico, infra, p. 109. 17. Ivi, p. 107. 18. Conforti, Fiducia per lettera, infra, p. 91.

Fiducia, fiducie. Introduzione

15

te della cura ancora a metà Ottocento. La seconda metà del XIX secolo segna l’inizio del sempre più rapido progresso della scienza medica, al quale si accompagnano grandi speranze ma anche ragionevoli timori. Il dibattito italiano, ricostruito in questo volume da Francesco Taroni ed Emmanuel Betta attorno ai temi dello sviluppo degli interventi di igiene pubblica e delle prime campagne vaccinali, permette di osservare, nel suo farsi, la faticosa costruzione della fiducia nelle istituzioni dello Stato preposte alla salute della collettività. Un terreno in cui ragioni private e collettive, autorevolezza individuale e istituzionale si confrontano e si scontrano in nome della nascente sanità pubblica. Sul finire dell’Ottocento cambiano anche i metodi e i luoghi della formazione dei professionisti e si afferma un nuovo modello di medico scienziato, come racconta il romanzo di George Eliot Middlemarch, una figura isolata dalla società perché sempre più lontana dalla morale tradizionale. I romanzi esaminati nel capitolo di Malatesta tracciano l’ascesa del ruolo sociale del medico in età contemporanea e la sua progressiva de-costruzione nella letteratura del XX e XXI secolo, con l’irrompere di una molteplicità di soggettività e voci sempre più legittimate a calcare la scena della cura. Non è più il medico a detenere il monopolio della narrazione della malattia, come suggerisce, in tempi più recenti, la diffusione di opere uscite dalla penna di pazienti e caregivers. Il paziente tutto sintomi e niente corpo che terrorizzava il dottor Galvan nel romanzo di Pennac riprende, nel giro di pochi anni, la propria voce in capitolo. La molteplicità di soggetti e contesti che interessano gli aspetti fiduciari della relazione fra medici e pazienti in età contemporanea viene analizzata, attraverso il filtro delle serie televisive di ambientazione ospedaliera, anche nel capitolo di Cappi. La fiducia appare qui come un’intricata messa in scena in cui ruoli, simboli, oggetti e rituali concorrono al funzionamento di un universo complesso, quello della cura, in cui le incertezze – dalla parte dei medici – e le angosce – dalla parte dei pazienti – non sembrano diminuire nonostante il progresso tecnologico. I numerosi esempi offerti da Cappi dimostrano che la fiducia riveste ancora, o sempre più, un ruolo cruciale nelle relazioni di cura e che essa, lungi dal venire soppiantata o sostituita dall’acquisizione formale del consenso informato, rimane un aspetto fondamentale e fondante del rapporto fra medici e pazienti. Bologna, 13 febbraio 2020

Davide Festi Costruire un medico degno di fiducia*

1. La relazione medico-paziente (nella letteratura medica) Il «New England Journal of Medicine», probabilmente la più autorevole rivista medica (almeno a giudicare dalla sua costante prima posizione nel rating degli indicatori bibliometrici), è da sempre molto attento al tema della formazione medica, della sua evoluzione e della sua valutazione. In un articolo dedicato alla valutazione dell’educazione in medicina, Ronald Epstein definiva la competenza medica come «l’uso abituale e corretto di conoscenze, capacità comunicative, abilità tecniche, ragionamento clinico, emozioni e valori da ripensare continuamente nella pratica quotidiana per il beneficio dell’individuo e della comunità di cui ci si sta occupando».1 Venivano pertanto identificati i valori ai quali il corpo docente di una qualsiasi Università dovrebbe formare i propri studenti, in primis quelli del corso di laurea in Medicina e Chirurgia, ma probabilmente di tutti i corsi delle professioni sanitarie. Il come realizzare quel percorso formativo in grado di garantire l’acquisizione e il mantenimento nel tempo di questi valori costituisce l’oggetto di un intenso dibattito all’interno della comunità dei docenti, dal momento che l’obiettivo finale di questo percorso formativo dovrebbe essere rappresentato da un medico consapevole della centralità della relazione medicopaziente, in grado di realizzarla e di mantenerla efficace nell’arco della sua vita professionale. Il contesto attuale vede però in atto un intenso confronto, * Ringrazio la prof.ssa Antonella Lotti e il prof. Dino Giovannini dell’Università di Modena-Reggio per i preziosi suggerimenti. 1.  Ronald Epstein, Assessment in medical education, in «New England Journal of Medicine», 356 (2007), pp. 387-396, cit. p. 387.

18

Davide Festi

all’interno della classe medica, relativamente alla necessità e alle modalità utili per costruire/ricostituire le basi della relazione di cura. Il dibattito si colloca in uno scenario caratterizzato da una parte da una medicina sempre più dipendente dal progresso tecnologico e dall’altra dalla difficoltà di conciliare per il medico, nell’ambito dell’incontro con il singolo paziente, una metodologia di intervento clinico-assistenziale basata sulle evidenze scientifiche (medicina basata sulle prove di efficacia, EBM) con quella basata su di una specifica competenza comunicativa (medicina basata sulla narrazione). Quindi si confrontano da una parte la medicina meccanicistica che privilegia il progresso tecnico, la EBM, i target e l’efficienza, rischiando di portare a una visione del paziente solamente come un oggetto di interesse intellettuale, e dall’altra la documentata necessità di un visione olistica, che potrebbe non conciliarsi con i tempi e le modalità della prestazione medica definiti, ma più spesso anche imposti, per esempio, dai protocolli diagnostico-terapeutici, dalle linee guida, dalle raccomandazioni. Appare comunque evidente come il rapporto duale tra medico e paziente non possa più essere improntato alla unilateralità con il professionista che impartisce indicazioni diagnostico-terapeutiche e il paziente che si limita a eseguirle in maniera acritica e passiva. Il processo comunicativo che sta alla base di tale relazione deve essere invece improntato allo scambio e alla co-produzione delle informazioni e, per questa ragione, appare evidente l’importanza di investire in un tipo di relazione intersoggettiva che ruota intorno alla persona nella sua integrità psico-fisica. Medici e pazienti, dunque, devono diventare soggetti interagenti all’interno di un processo collaborativo e di co-produzione, animati da un comune obiettivo: la salvaguardia e il recupero della salute individuale e collettiva. Tutto ciò trova conferma in una serie di articoli che un’altra autorevole rivista dell’associazione dei medici americani («JAMA Internal Medicine») ha pubblicato su quella che viene definita la medicina condivisa (sharing medicine) cioè quella medicina che vede all’interno del processo di cura la condivisione di conoscenze, dati, capacità ed esperienze tra il medico e il paziente, la comunità professionale e la società. La conclusione di uno di questi articoli dal titolo, tradotto in italiano, Condivisione come futuro della medicina2 è che il futuro della medicina non può semplicemente essere 2. Richard Lehman, Sharing as the future of medicine, in «JAMA Internal Medicine», 177 (2017), pp. 1237-1238.

Costruire un medico degno di fiducia

19

rappresentato dalla processazione di innumerevoli dati da parte di macchine sempre più potenti, con un ruolo passivo di osservatore da parte del medico. È necessario vedere il medico protagonista nell’utilizzare queste metodologie e nel condividerne i risultati con gli altri professionisti e con i pazienti. Nell’editoriale di accompagnamento, l’autore, oltre a ribadire la necessità di una medicina incentrata sul paziente, afferma che i giorni del paternalismo e della posizione che gli esperti da soli sono detentori della conoscenza sono definitivamente superati.3 Affinché tutto ciò si realizzi è quindi indispensabile che il medico sia formato a questi valori e che questa formazione lo accompagni durante tutta la sua carriera professionale. Pertanto è necessario che il percorso pianificato dai corsi di laurea in Medicina e Chirurgia comprenda obiettivi formativi inclusivi di valori quali la fiducia, l’empatia, la comunicazione e che anche la formazione permanente post-laurea affronti e verifichi l’acquisizione di questi valori. Ad esempio, l’associazione dei Colleges americani (Association of American Medical Colleges. Medical School Objectives Project, www.aamc.org) identifica, tra gli obiettivi formativi, le abilità interpersonali e l’empatia e l’American Board of Internal Medicine raccomanda che i valori umanistici e l’empatia siano trasmessi e valutati quali attività formative essenziali nella formazione permanente.4 Queste raccomandazioni sono presenti anche in Italia nei documenti della Conferenza permanente dei coordinatori dei corsi di studio in Medicina e Chirurgia, in particolare nella proposta del core-curriculum che comprende l’insegnamento degli aspetti relazionali della comunicazione medico-paziente.5 La relazione medico-paziente costituisce però un rapporto complesso, che coinvolge differenti valori e abilità che vanno dalla fiducia all’empatia, sui quali la letteratura medica è ampia, ma non sempre univoca, sia per quanto riguarda le definizioni, dal momento che queste possono variare in funzione del contesto in cui vengono utilizzate, sia per ciò che riguarda quesiti che attengono agli aspetti formativi connessi a questi valori, primo fra tutti quello relativo alla possibilità di insegnare la fiducia o l’empatia. 3. Ibidem. 4. American Board of Internal Medicine, Evaluation of humanistic qualities in the internist, in «Annals of Internal Medicine», 99 (1983), pp. 720-724. 5.  Carlo Della Rocca, Stefania Basili, Maria Filomena Caiaffa, Calogero Caruso, Giovanni Murialdo, Riccardo Zucchi, Andrea Lenzi, Core curriculum dei Corsi di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia. Editing, razionalizzazione, semplificazione e proposte di evoluzione, in «Medicina e Chirurgia», 73 (2017), pp. 3315-3321.

20

Davide Festi

Nella letteratura medica frequentemente i termini fiducia ed empatia vengono utilizzati se non come sinonimi, almeno come portatori di concetti molto simili, anche se in realtà la fiducia esprime un concetto più ampio, coinvolgendo non solo gli attori della relazione, cioè il medico e il paziente, ma anche il contesto (strutture sanitarie, sistemi sanitari, ecc.) in cui questa relazione si realizza. Nel presente capitolo fiducia ed empatia verranno trattati separatamente, ma con una maggiore enfasi sull’empatia, dal momento che sono significative le evidenze che indicano come questa abilità, fondamentale come la fiducia nella costruzione di un processo di cura, possa ridursi non solo durante l’arco della vita professionale del medico, ma già durante il corso di studi. Queste evidenze suggeriscono quindi la necessità di un ripensamento del percorso formativo del medico che deve iniziare durante il corso di laurea in Medicina e Chirurgia e continuare nel tempo. 2. La fiducia Vi è unanime accordo nella letteratura medica nel ritenere che la fiducia rappresenti una componente centrale della relazione medico-paziente e della sua costruzione, coinvolgendo entrambe le figure. Costituisce, infatti, per il paziente, il risultato della sua percezione della competenza umana e professionale del medico, ma anche delle sue impressioni su come l’organizzazione sanitaria lavora, compresi aspetti quali ad esempio la reputazione dell’istituzione al cui interno opera il medico. Per il medico rappresenta il risultato della fiducia nel paziente, in se stesso e negli altri professionisti con cui collabora, nella struttura in cui opera e più in generale nel sistema sanitario. La fiducia costituisce quindi un concetto complesso che, per quanto riguarda il medico, può coinvolgerlo sia come attore comprimario nel contesto del percorso di cura ma anche, nel caso svolgesse anche questa attività, come ricercatore, per le ricadute cliniche e anche il valore sociale dei risultati delle sue ricerche. In quest’ultimo contesto, il significato del termine fiducia può anche assumere differenti accezioni per i protagonisti della relazione di cura in funzione del contesto culturale in cui viene applicato. Ad esempio, è stato suggerito come la fiducia nei risultati di una ricerca scientifica possa essere differente nelle popolazioni di paesi in via

Costruire un medico degno di fiducia

21

di sviluppo rispetto a quelli sviluppati, in funzione delle diverse necessità e aspettative sulle ricadute pratiche dei risultati degli studi stessi.6 Anche per quanto riguarda il paziente, la fiducia costituisce un concetto complesso, essendo questi influenzato dalle sue credenze e dai suoi pregiudizi, dalle regole della società in cui vive; inoltre, un ruolo importante viene svolto dal contesto clinico in cui si colloca la relazione, dal momento che in una situazione di acuzie può avere un peso maggiore la fiducia che il paziente ripone nella struttura sanitaria (in tutte le sue articolazioni: organizzazione, accoglienza, ecc.) rispetto a quella nei confronti del singolo sanitario, mentre invece in una condizione di cronicità, e quindi di un rapporto che si prolunga nel tempo, può accadere il contrario, con una maggiore rilevanza assunta dalla relazione interpersonale tra il medico e il paziente. Anche se numerosi sono i fattori ritenuti in grado di influenzare la costruzione della fiducia tra paziente e medico, tra cui variabili socio-demografiche come l’età del paziente, il sesso, il livello di educazione, come pure le attitudini del paziente, il suo comportamento e il livello di delega, evidenze sempre più forti suggeriscono come durante il colloquio clinico la comunicazione abbia un ruolo fondamentale per la costruzione di un rapporto fiduciario capace di rimanere efficace nel tempo.7 Per raggiungere questo obiettivo, cioè la costruzione di un rapporto basato sulla fiducia, la comunicazione deve però possedere caratteristiche quali il favorire la partecipazione del paziente alle decisioni relative al percorso di cura; il riconoscere le sue credenze, preoccupazioni e aspettative; la conoscenza delle sue idee, dei suoi valori, dei suoi sentimenti e delle sue priorità. Ulteriori elementi utili sono rappresentati dall’utilizzo da parte del medico di termini semplici, ma precisi, per spiegare procedure mediche complesse; il chiarire e riassumere le informazioni; il verificare se il paziente ha compreso ciò di cui si parla; l’incoraggiarlo a porre domande e, aspetto molto importante, il mantenere un atteggiamento di ascolto partecipe durante il colloquio, utilizzando tecniche di rispecchiamento empatico.8 Tutte que6. Bert Gordijn, Trust in healthcare and science, in «Medicine, Health Care and Philosophy», 21 (2018), pp. 157-158. 7.  Lynne Robins, Saskia Witteborn, Lanae Miner, Larry Mauksch, Kelly Edwards, Douglas Brock, Identifying transparency in physician communication, in «Patient Education and Counseling», 83 (2011), pp. 73-79. 8. Larry B. Mauksch, David C. Dugdale, Sherry Dodson, Ronald Epstein, Relationship, communication, and efficiency in the medical encounter: creating a clinical model from a literature review, in «Archives of Internal Medicine», 168 (2008), pp. 1387-1395;

22

Davide Festi

ste caratteristiche appartengono a quello che viene definito il linguaggio verbale. Nella costruzione della relazione di fiducia ha però una grande importanza anche il linguaggio non verbale.9 Ci sono dimostrazioni che confermano come la costruzione di un rapporto che si basa sulla fiducia del paziente verso il medico influenzi positivamente l’esito complessivo del processo di cura: aumenta l’aderenza ai trattamenti, la soddisfazione per il trattamento stesso, il coinvolgimento del paziente nelle scelte terapeutiche.10 È stato ad esempio dimostrato come un paziente particolarmente fragile come quello affetto da HIV nel corso della prima visita sperimenti ansietà e vulnerabilità principalmente non nei confronti della malattia, ma nell’inizio della relazione di cura con il medico, situazione questa che richiede pertanto la costruzione di un rapporto basato sulla fiducia. Tale aspetto rappresenta il requisito fondamentale affinché il paziente ritorni dal medico e segua le indicazioni terapeutiche, condizioni essenziali nella gestione di patologie croniche.11 3. L’empatia Differentemente da altri campi, quali ad esempio la psicologia, non esiste nella letteratura medica una univocità per quanto riguarda la definizione di empatia. A conferma di ciò, una recente revisione sistematica sulla concettualizzazione dell’empatia nella ricerca educazionale in medicina documenta come il 20% degli articoli disponibili sul tema non fornisca alcuna definizione di empatia.12 Tra le numerose definizioni propoJaya R. Mallidi, Earning trust through empathy as a young interventionalist, in «Journal of American College of Cardiology», 70 (2017), pp. 2942-2944. 9.  Silvia Riva, Marco Monti, Paola Iannello, Gabriella Pravettoni, Peter J. Shulz, Alessandro Antonietti, A preliminary mixed-method investigation of trust and hidden signals in medical consultations, in «PLOS One», 9 (2014), e90941. 10. Heather L. Shepherd, Martin H.N. Tattersal, Phyllis N. Butow, Physician-identified factors affecting patient participation in reaching treatment decision, in «Journal of Clinical Oncology», 26 (2008), pp. 1724-1731. 11. Bich N. Dang, Robert A. Westbrook, Sarah M. Njue, Thomas P. Giordano, Building trust and rapport early in the new doctor-patient relationship: a longitudinal qualitative study, in «BMC Medical Education», 17 (2017), p. 32. 12. Sandra Sulzer, Noah W. Feinstein, Claire Wendland, Assessing empathy development in medical education: a systematic review, in «Medical Education», 50 (2016), pp. 300-310.

Costruire un medico degno di fiducia

23

ste: un attributo cognitivo che coinvolge un’abilità a capire l’esperienza e la prospettiva profonda del paziente e la capacità di comunicare questa comprensione,13 oppure: l’abilità di comprendere la situazione del paziente, il suo punto di vista e i suoi sentimenti, e quindi le loro ricadute, di comunicare l’avvenuta comprensione e valutarne l’accuratezza e di agire con queste conoscenze in una maniera terapeuticamente utile per il paziente.14 Da queste definizioni appare evidente come nella relazione di cura il processo di costruzione dell’empatia sia un processo attivo per entrambi gli attori e che quindi non possa essere semplificato in un’espressione come “mettersi nei panni del paziente”.15 Alcuni autori16 suggeriscono come, nella costruzione della empatia, siano presenti quattro componenti che interagiscono e si sovrappongono con differente intensità a seconda dei differenti contesti e delle situazioni cliniche: una componente emotiva, che riguarda l’abilità a immaginare le emozioni e le prospettive dei pazienti; una componente morale, che riguarda la motivazione interna del medico a esprimere empatia; una componente cognitiva, cioè l’abilità intellettuale di identificare e comprendere le emozioni e le prospettive dei pazienti e infine una componente comportamentale, cioè la capacità di trasmettere la propria comprensione delle emozioni e prospettive del paziente. Un’ulteriore analisi delle evidenze presenti in letteratura suggerisce l’esistenza di una suddivisione tra coloro che propongono una visione allargata del concetto di empatia e coloro che ne propongono invece una visione più ristretta. Per questi ultimi l’empatia, che in questo caso viene definita di natura cognitiva, rappresenta la capacità di comprendere il punto di vista dell’altro e di capirne le esperienze 13.  Mohammadreza Hojat, Joseph S. Gonnella, Thomas J. Nasca, Salvatore Mangione, Michael Vergare, Michael Magee, Physician empathy: definition, components, measurement, and relationship to gender and specialty, in «American Journal of Psychiatry», 159 (2002), pp. 1563-1569. 14.  Stewart W. Mercer, William J. Reynolds, Empathy, and the quality of care, in «British Journal of General Practice», 52, suppl. (2002), S9-S13. 15. John Spencer, Decline in empathy in medical education: how can we stop the rot?, in «Medical Education», 38 (2004), pp. 916-918. 16.  Janice M. Morse, Gwen Anderson, Joan L. Bottorff, Olive Yonge, Beverley O’Brien, Shirley M. Solberg, Kathleen Hunter McIlveen, Exploring empathy: a conceptual fit for nursing practice?, in «Image Journal of Nursing Scholarship», 24 (1992), pp. 273280; Mercer, Reynolds, Empathy and the quality of care, S9-S12; David Jeffrey, Clarifying empathy: the first step to more human clinical care, in «British Journal of General Practice», 66 (2016), e143-e145.

24

Davide Festi

senza invocare una risposta emotiva personale; per i primi, invece, l’empatia, definita di natura affettiva, identifica la partecipazione/condivisione delle emozioni vissute dall’altro, con una risposta emozionale passiva di un individuo alle emozioni di un altro. Un possibile elemento unificante delle differenti definizioni vede nell’empatia la comprensione degli stati d’animo degli altri e la manifestazione di questa comprensione agli altri. In linea generale, quindi, si potrebbe affermare che l’empatia rispecchi un concetto multiforme, descritto come il sentire quello che un’altra persona sta provando, l’immaginare noi stessi in un’altra situazione o l’immaginare di essere un’altra persona nella sua situazione, e anche come la capacità di comprendere il contenuto del pensiero di un altro. In questo senso l’empatia costituisce il fondamento morale della cura, e cioè la presa in carico del paziente. L’empatia è necessaria non solo per comprendere la malattia del paziente o le sue emozioni, ma per capirne il contesto, le aspettative, le preoccupazioni e quindi diventa indispensabile per fare diagnosi e identificare il trattamento in maniera appropriata.17 Un ulteriore dibattito presente in letteratura18 riguarda il concetto di empatia rispetto a quelli di simpatia e compassione, dal momento che tutti questi termini si riferiscono a emozioni che le persone, e quindi anche il medico, hanno in presenza delle sofferenze altrui. Volendo riassumere questo ampio dibattito, si può ritenere che l’empatia, pur avendo caratteristiche proprie, contenga anche elementi della simpatia (definibile come un’emozione provocata dalla consapevolezza che qualche cosa di negativo sia accaduto a un’altra persona)19 e della compassione (definibile come una profonda consapevolezza della sofferenza altrui associata al desiderio di risolverla).20 In particolare, simpatia e compassione non necessariamente implicano un comportamento attivo per aiutare l’altro, mentre l’empatia prevede sempre una fase attiva. In altre parole, l’empatia rappresenta una risposta qualificata, che quindi richiede abilità e impegno, 17.  Sulzer, Feinstein, Wendland, Assessing empathy in medical education, pp. 300-310. 18. David Jeffrey, Empathy, sympathy, and compassion in healthcare: is there a problem? Is there a difference? Does it matter?, in «Journal of the Royal Society of Medicine», 109 (2016), pp. 446-452. 19. Anna Gladkova, Sympathy, compassion, and empathy in English and Russian: a linguistic and cultural analysis, in «Culture and Psychology», 16 (2010), pp. 267-285. 20. Harvey M. Chochinov, Dignity and the essence of medicine: The A, B, C and D of dignity conserving care, in «British Medical Journal», 335 (2007), pp. 184-187.

Costruire un medico degno di fiducia

25

mentre la simpatia e la compassione sono risposte reattive; per questo motivo secondo alcuni autori nella formazione del medico diventa più importante favorire lo sviluppo dell’empatia, rispetto a quello della simpatia e della compassione.21 Se non vi è uniformità nella definizione di empatia e di conseguenza anche sugli strumenti per misurarla, vi è invece un ampio accordo in letteratura nel riconoscere, nell’ambito della relazione medico-paziente, gli effetti positivi di un rapporto empatico. Infatti è stato dimostrato come un medico empatico migliori la soddisfazione del paziente, favorisca una maggiore adesione ai trattamenti e la condivisione dei consigli medici, riduca l’ansia e lo stress; tutti questi elementi possono concorrere alla formulazione da parte del medico di una diagnosi corretta e quindi influenzare positivamente l’esito clinico. Il comportamento empatico del medico, inoltre, non solo aumenta la soddisfazione del paziente, ma, ottimizzando il processo diagnostico e l’esito dei trattamenti, può ridurre il rischio di malpratica.22 Un’ulteriore conferma dell’importanza dell’empatia nella relazione medico-paziente deriva da un’indagine effettuata in Inghilterra su quali fossero le più significative qualità del medico secondo il paziente: nel 92% dei casi venivano indicate le caratteristiche umane e relazionali e solo nell’8% quelle tecniche; l’analisi dei dati suggeriva inoltre come la maggiore incertezza del paziente fosse nei confronti del possesso da parte del medico delle capacità comunicative e relazionali, pur senza mettere in discussione quelle tecniche.23 Questo dato trova conferma in una recente revisione sistematica della letteratura che ha valutato per studenti, medici, pazienti e infermieri la gerarchia dei valori che fanno un buon medico: per il paziente il “buon dottore” è quello che possiede principalmente buone capacità comunicative, mentre per il medico è quello che possiede buone capacità professionali, cioè di diagnosi e cura. La costruzione di un rapporto empatico non ha solo ricadute positive sul paziente, ma anche sullo stesso medico; è stato, infatti, dimostrato 21. Bruce Maxwell, Professional Ethics Education Studies in Compassionate Empathy, New York, Springer, 2008. 22. Samantha A. Batt-Rawden, Margaret S. Chisolm, Blair Anton, Tabor Flickinger, Teaching empathy to medical students: An updated, systematic review, in «Academic Medicine», 88 (2013), pp. 1171-1177. 23. Sally Walsh, Benjamin Arnold, Benjamin Pickwell-Smith, Bruce Summers, What kind of doctor would you like me to be?, in «The Clinical Teacher», 13 (2016), pp. 98-101.

26

Davide Festi

come l’empatia riduca il burnout,24 migliori il suo benessere,25 i livelli di competenza26 e riduca i rischi di contenziosi medico-legali.27 4. Calo dell’empatia Nonostante la considerevole mole di evidenze relative agli effetti positivi dell’empatia nella costruzione della relazione di cura, altrettante evidenze suggeriscono come il livello di empatia sia frequentemente inferiore a quanto necessario. I dati disponibili sul calo dell’empatia documentano come questo fenomeno possa iniziare molto presto nella vita del medico, dal momento che può presentarsi non solo durante la sua vita professionale, ma anche durante la formazione, sia pre-laurea che post-laurea. Per quanto riguarda l’attività professionale, vi sono evidenze che indicano come il medico frequentemente trascuri, o perda, occasioni di essere empatico durante il colloquio con il paziente.28 Differenti e complesse sono le motivazioni ritenute alla base di questo fenomeno: il medico non riconosce 24. Matthew R. Thomas, Liselotte N. Dyrbye, Jefrey L. Huntington, Karen L. Lawson, Paul J. Novotny, Jeff A. Sloan, Tait D. Shanafelt, How do distress and well-being relate to medical student empathy? A multicenter study, in «Journal of General Internal Medicine», 22 (2007), pp. 177-183. 25. Lisabeth F. DiLalla, Sharon K. Hull, J. Kevin Dorsey, Effect of gender, age, and relevant course work on attitudes toward empathy, patient spirituality, and physician wellness, in «Teaching and Learning in Medicine», 16 (2004), pp. 165-170; Tait D. Shanafelt, Colin West, Xinghua Zhao, Paul Novotny, Joseph Kolars, Thomas Habermann, Jeff Sloan, Relationship between increased personal well-being and enhanced empathy among internal medicine residents, in «Journal of General Internal Medicine», 20 (2005), pp. 559-564. 26. Mohammadreza Hojat, Joseph S. Gonnella, Salvatore Mangione, Thomas J. Nasca, J. Jon Veloski, James B. Erdmann, Clara A. Callahan, M. Thomas Magee, Empathy in medical students as related to academic performance, clinical competence and gender, in «Medical Education», 36 (2002), pp. 522-527. 27. Ronald M. Epstein, Peter Franks, Cleveland G. Shields, Sean C. Meldrum, Katherine N. Miller, Thomas L. Campbel, Kevin Fiscella, Patient-centered communication and diagnostic testing, in «Annals of Family Medicine», 3 (2005), pp. 415-421. 28. Diane S. Morse, Elizabeth A. Edwardsen, Howard S. Gordon, Missed opportunities for interval empathy in lung cancer communication, in «Archives of Internal Medicine», 168 (2008), pp. 1853-1858; Hilde Eide, Richard Frankel, Anne Christine Bull Haaversen, Kerstin Anine Vaupel, Peter K. Graugaard, Arnstein Finset, Listening for feelings: identifying and coding empathic and potential empathic opportunities in medical dialogues, in «Patient Education and Counseling», 54 (2004), pp. 291-297.

Costruire un medico degno di fiducia

27

queste opportunità perché troppo preso dall’analisi della documentazione clinica che gli serve per formulare una diagnosi, dalla difficoltà di dover tradurre in un linguaggio non medico, quindi comprensibile per il paziente, dati medici a volte anche complessi; dalla sensazione di impotenza in casi di patologie terminali in cui non vi è uno spazio terapeutico, fino ad arrivare al burnout e a una condizione di stress. Un ulteriore e importante fattore che può avere un ruolo nel calo dell’empatia è relativo al tempo, ritenuto insufficiente, che, nell’ambito dell’organizzazione del lavoro, viene concesso al medico per il colloquio con il paziente. Una revisione della letteratura dal 1946 al 201629 ha documentato infatti come il tempo dedicato a un singolo colloquio da parte del medico di medicina generale sia molto variabile a livello internazionale, andando dai 48 secondi nel Bangladesh ai 22,5 minuti in Svezia, e come in 18 paesi che rappresentano il 50% della popolazione mondiale il tempo sia di 5 minuti, o meno. La non adeguatezza del tempo concesso al medico per la realizzazione di un colloquio utile può avere più ampie e negative ripercussioni. Molti studi hanno infatti attribuito alla brevità della visita medica un eccesso prescrittivo, in particolare di antibiotici, e quindi una ricaduta negativa sui costi sanitari diretti e indiretti, nonché uno scarso livello di comunicazione con il paziente, con conseguente insoddisfazione di entrambi gli attori della relazione. Un’indagine effettuata su di un campione di medici di famiglia olandesi sull’empatia nella pratica quotidiana ha infatti documentato come per il medico i fattori che favoriscono il mantenimento dell’empatia stessa siano rappresentati dal sentirsi bene fisicamente e mentalmente, dal non subire pressioni relativamente al tempo da dedicare al colloquio e dall’avere alle spalle un’organizzazione che consenta di raggiungere questi obiettivi, mentre fattori limitanti, e quindi favorenti il declino dell’empatia, sono considerati il dover attenersi strettamente a linee guida e protocolli, che non sempre consentono di creare e mantenere una relazione efficace con il paziente.30 Più significativi per le implicazioni che possono comportare sul futuro professionale del medico sono i dati relativi al calo dell’empatia durante il 29. Greg Irving, Ana Luisa Neves, Hajira Dambha-Miller, Ai Oishi, Hiroko Tagashira, Anistasiya Verho, John Holden, International variations in primary care physician consultation time: a systematic review of 67 countries, in «BMJ Open», 7 (2017), e017902. 30. Frans Derksen, Jozien Bensing, Sascha Kuiper, Milou van Meerendonk, Antoine Lagro-Janssen, Empathy: what does it mean for GPs? A qualitative study, in «Family Practice», 32 (2015), pp. 94-100.

28

Davide Festi

percorso di formazione pre-laurea e post-laurea. Anche in questo caso le evidenze in letteratura non sono univoche per la complessità e variabilità della definizione di empatia e l’impiego da parte dei ricercatori di questionari, in particolare di quelli che utilizzano misure soggettive e non osservazionali, che producono spesso risultati contrastanti e non sempre tra di loro confrontabili.31 La maggior parte degli studi che utilizzano questionari autosomministrati documenta comunque un calo dell’empatia durante il corso di laurea, calo che si realizza più frequentemente tra il secondo e il terzo anno di corso.32 Questi dati rappresentano una sorta di paradosso, coincidendo tali anni del corso con l’inizio del tirocinio pratico in ospedale, momento che dovrebbe rappresentare per lo studente il concretizzarsi di quelle aspettative sulla vita professionale che hanno guidato la sua scelta di iscriversi a Medicina. Ulteriore elemento di riflessione è rappresentato dall’osservazione che questo calo è documentabile anche in quegli studenti che scelgono di effettuare il tirocinio pratico in discipline “lontane” dal paziente, cioè in quelle nelle quali il contatto con il paziente è parziale, come ad esempio la radiologia. Numerosi studi hanno cercato di identificare le motivazioni alla base del calo dell’empatia nello studente. Una revisione sistematica33 identifica il fattore più significativo nell’angoscia (distress), cioè in quella condizione caratterizzata da sensazioni che vanno dal burnout al malessere, alla percezione di una ridotta qualità della vita e alla depressione. Alla base di questa condizione vengono invocati la difficoltà di un rapporto con i tutors e con i docenti, il calo di valori quali l’idealismo, l’entusiasmo e l’apertura nei confronti del paziente che possono essere anche fortemente presenti all’inizio del percorso formativo, ma che si riducono all’impatto con l’esperienza clinica, cioè con la malattia, la sofferenza, la morte, la delu31. Karen E. Smith, Greg J. Norman, Jean Decety, The complexity of empathy during medical school training: evidence for positive changes, in «Medical Education», 51 (2017), pp. 1146-1159. 32. Mohammadreza Hojat, Michael J. Vergare, Kaye Maxwell, George C. Brainard, Steven K. Herrine, Gerald A. Isenberg, J. Jon Veloski, Joseph S. Gonnella, The Devil is in the third year. A longitudinal study of erosion of empathy in medical school, in «Academic Medicine», 84 (2009), pp. 1182-1191. 33.  Melanie Neuman, Friedrich Edelhauser, Diethard Tauschel, Martin R. Fisher, Marcus Wirtz, Christiane Woopen, Aviad Haramati, Christian Scheffer, Empathy decline and its reasons: a systematic review of studies with medical students and residents, in «Academic Medicine», 86 (2011), pp. 996-1009.

Costruire un medico degno di fiducia

29

sione che nasce dalla consapevolezza della non infallibilità della medicina; ulteriori elementi sono rappresentati dall’eccessivo carico di studio, dalla mancanza di supporti pratici e ambientali che possano favorire l’apprendimento. Questo fenomeno può avere importanti ricadute non solo sulla qualità della vita dello studente, ma anche sullo sviluppo del suo percorso formativo e sulla strutturazione della sua identità professionale. Infatti, vi sono evidenze in letteratura che indicano il possibile realizzarsi nello studente che affronta il tirocinio pratico di un atteggiamento reattivo che lo porta a concentrarsi, o forse anche rifugiarsi, maggiormente, se non esclusivamente, sugli aspetti tecnologici e professionalizzanti della medicina, a scapito di quelli relazionali. Un esempio è fornito dall’indagine sulla conoscenza e sull’insegnamento della professione medica durante la formazione pre-laurea effettuata presso l’Università di Padova a studenti del I, IV e V anno, a cui venivano poste domande sui valori della professione medica. I risultati dello studio hanno documentato come per la maggioranza degli studenti siano imprescindibili valori quali il rispetto, la responsabilità e le abilità professionali, in particolare la competenza, mentre abilità quali la gestione dei conflitti di interessi, la capacità di realizzare un buon rapporto, l’empatia e la consapevolezza di sé e la fiducia in se stessi siano ritenuti meno rilevanti.34 Un ulteriore e importante elemento utile nell’interpretare il calo dell’empatia è rappresentato dal ruolo del curriculum nascosto/informale in rapporto al curriculum formale. A gruppi di studenti del III anno della Scuola di Medicina dell’Università statale di Milano partecipanti a corsi sulla comunicazione e la relazione in medicina è stato richiesto di riflettere sui valori, attitudini, ruoli e, di conseguenza, sulle regole implicite (cioè sul curriculum nascosto) che avevano osservato/vissuto durante il loro tirocinio.35 I risultati più importanti emersi dallo studio hanno riguardato la percezione da parte degli studenti di una medicina basata sulla malattia, e non sul paziente, di un approccio al paziente da parte del medico esperto 34. Domenico Montemurro, Michele Negrello, Edgardo Picardi, Caterina Chiminazzo, Dania El Mazloum, Tommaso Cirillo, Anna Chiara Frigo, Paolo Arslan, Maurizio Benato, Giorgio Palù, Raffaele De Caro, Indagine sulla conoscenza e sull’insegnamento dei valori della professione medica nel CdL in Medicina e Chirurgia dell’Università di Padova, in «Medicina e Chirurgia», 52 (2011), pp. 2289-2291. 35. Giulia Lamiani, Daniela Leone, Elaine C. Meyer, Egidio A. Moja, How Italian students learn to become physicians: a qualitative study of the hidden curriculum, in «Medical Teacher», 33 (2011), pp. 989-996.

30

Davide Festi

di tipo paternalistico, cioè di protezione, di mascheramento della verità e dell’importanza di essere vissuto come una figura autoritaria. La considerazione che gli autori traggono da questo studio è che, per insegnare a creare un’efficace relazione di cura, non è sufficiente la semplice riforma formale dei curricula attraverso l’inserimento nel percorso formativo di corsi sulla comunicazione, sull’etica e sul professionismo, se i contenuti e i valori che vengono insegnati non trovano poi conferma e condivisione nella pratica clinica quotidiana. Queste esperienze italiane relative al percorso formativo sono confermate da studi di altri autori che, alla domanda posta agli studenti su quali fossero i fattori che influenzassero maggiormente l’empatia durante il corso di laurea, identificavano prioritariamente le esperienze che promuovono la crescita personale e professionale.36 Anche i fattori che influenzano lo sviluppo dell’empatia, e che quindi ne potrebbero contrastare il calo, sono stati oggetto di studio.37 Tra questi, l’età, con evidenze di una relazione diretta; il genere, con quello femminile che documenta punteggi più elevati nei questionari auto-somministrati; il benessere psicologico (un aspetto questo importante dal momento che un malessere psicologico è più frequentemente presente tra gli studenti di Medicina rispetto alla popolazione generale e agli studenti non medici) come pure la struttura del corso di laurea e l’organizzazione dei tirocini pratici, per il possibile ruolo negativo del curriculum nascosto. 5. Migliorare l’empatia La documentata e condivisa centralità dell’empatia nella relazione di cura da una parte e l’osservazione del calo dell’empatia durante e dopo il corso di laurea dall’altra pone l’interrogativo sull’efficacia del percorso formativo dello studente di Medicina circa il valore e il ruolo dell’empatia, dal momento che probabilmente è difficile insegnare l’empatia, mentre potrebbe essere più facile e realistico educare lo studente all’empatia. Vi 36. Jeffrey Winseman, Abid Malik, Julie Morison, Victoria Balkoski, Students’ views on factor affecting empathy in medical education, in «Academic Psychiatry», 33 (2009), pp. 484-491. 37. Thelma Quince, Pia Thiemann, John Benson, Sarah Hyde, Undergraduate medical students ‘empathy: current perspectives, in «Advances in Medical Education and Practice», 7 (2016), pp. 443-455.

Costruire un medico degno di fiducia

31

è infatti un ampio dibattito in letteratura sulla possibilità e fattibilità di insegnare l’empatia durante la formazione pre e post-laurea o se invece lo sforzo debba essere fatto nei confronti di specifiche componenti dell’empatia.38 Dal momento che una componente fondamentale nella costruzione di un rapporto empatico è l’acquisizione di capacità comunicative, molti core curricula, specialmente in Inghilterra, prevedono l’insegnamento di questa abilità39 e la necessità di una collaborazione fattiva tra i docenti della parte pre-clinica del corso di laurea con quelli della parte clinica, per evitare la possibile discrepanza tra ciò che viene insegnato in termini di comunicazione e ciò che viene applicato nella pratica clinica. In molte Università sia europee che americane è inoltre ampiamente diffuso l’insegnamento, e la conseguente valutazione dell’avvenuto apprendimento, dell’explanation and planning durante la visita, cioè di quel processo per cui le informazioni derivanti dalla storia clinica, dalle aspettative del paziente, dalla valutazione fisica e strumentale vengono comunicate dal medico in forma accessibile e partecipe per il paziente; questo percorso costituisce la base sulla quale concordare e condividere il successivo percorso diagnostico-terapeutico.40 Numerosi autori hanno affrontato il tema relativo alla possibilità e alla modalità di migliorare l’empatia durante la formazione medica, concludendo, come emerso in una recente revisione sistematica,41 che questo obiettivo può essere raggiunto utilizzando differenti interventi formativi nei confronti dello studente pre-laurea, dello specializzando, del professionista e come questo miglioramento possa mantenersi nel tempo. Tuttavia, l’osservazione che, nonostante gli sforzi fatti per identificare le cause e proporre correttivi, l’obiettivo di migliorare l’empatia nello studente possa non sempre venire raggiunto ha condotto alcuni autori, partendo dall’assunto che l’empatia rappresenta un tratto personale e quindi relativamente immutabile, a ritenere che il problema sia la selezione, e non la forma38. David Jeffrey, Robert Downie, Empathy - can it be thought?, in «Journal of the Royal College of Physicians of Edinburgh», 46 (2016), pp. 107-112. 39. Jo Brown, How clinical communication has become a core part of medical education in the UK, in «Medical Education», 42 (2008), pp. 271-278. 40.  Susan Gillard, John Benson, Jonathan Silverman, Teaching and assessment of explanation and planning schools in the United Kingdom: cross sectional questionnaire survey, in «Medical Teacher», 31 (2009), pp. 328-331. 41. Zak Kelm, James Womer, Jennifer K. Walter, Chris Feudtner, Interventions to cultivate physician empathy: a systematic review, in «BMC Medical Education», 14 (2014), pp. 219-230.

32

Davide Festi

zione, e quindi a suggerire che le Scuole mediche dovrebbero selezionare gli studenti più empatici o migliori comunicatori e costruire su di loro il percorso formativo.42 Numerose e articolate sono le soluzioni proposte per migliorare l’empatia, realizzabili attraverso la costruzione di specifici percorsi formativi: percorsi finalizzati al miglioramento delle relazioni interpersonali, l’analisi di incontri videoregistrati con pazienti, giochi di ruolo e modeling, l’utilizzo della letteratura e dell’arte, il favorire il miglioramento delle capacità narrative, il vedere performances teatrali, il realizzare il lavoro a piccoli gruppi,43 l’utilizzo di tirocini prolungati con lo stesso supervisore e la possibilità di seguire il paziente per un tempo congruo,44 l’impiego durante il tirocinio di figure quali pazienti esperti, cioè di pazienti reali che discutono con gli studenti della loro esperienza,45 la narrativa del paziente e l’arte creativa, interventi di scrittura, training specifici per il miglioramento della comunicazione, l’apprendimento basato sulla soluzione di problemi, il training interpersonale, l’uso della medicina narrativa, la scrittura riflessiva. Le proposte, e le conseguenti verifiche della loro efficacia, per la realizzazione pratica di questi percorsi formativi sono numerose. Wundrich e colleghi46 hanno valutato l’effetto di un training dedicato al miglioramento dell’empatia: gli studenti che hanno effettuato il percorso utilizzando pazienti simulati e situazioni cliniche simulate dimostrano un miglioramento di alcune delle capacità empatiche, in particolare di quelle relative al comportamento valutato con una prova a stazioni. Stesse conclusioni sono state raggiunte da altri autori utilizzando come tutors pazienti esperti.47 Un 42. Sulzer, Feinstein, Wendland, Assessing empathy in medical education, pp. 300-310. 43.  Mohammadreza Hojat, Ten approaches for enhancing empathy in health and human service cultures, in «Journal of Health and Human Services Administration», 31 (2009), pp. 412-450. 44.  Edward Krupat, Stephen Pelletier, Erik Alexander, David Hirsh, Barbara Ogu, Richard Schwartzstein, Can changes in the principal clinical year prevent the erosion of student’s patient-centered beliefs?, in «Academic Medicine», 84 (2009), pp. 582-586. 45.  Sian Narie Davies, Jonathan Maurice Durbin, Ahmed Elhussein, Raphael Paul Rifkin-Zybutz, Improving empathy in medical students: the role of patient tutors, in «Medical Teacher», 40 (2017), p. 321. 46. Martina Sabine Wundrich, Caroline Schwartz, Bernd Feige, Dan Lemper, Christoph Nissen, Ulrich Voderholzer, Empathy training in medical students-a randomized controlled trial, in «Medical Teacher», 39 (2017), pp. 1096-1098. 47.  Davies, Durbin, Elhussein, Rifkin-Zybutz, Improving empathy in medical students, p. 321.

Costruire un medico degno di fiducia

33

diverso approccio è stato impiegato da Ruiz-Moral et al.:48 sono stati valutati studenti del III anno di Medicina; il training si focalizzava sulle abilità comunicative e sulla medicina centrata sul paziente e veniva effettuato prima dell’inizio del tirocinio pratico. Al termine del percorso veniva eseguita una valutazione da parte di un osservatore esterno e di un paziente esperto. I risultati ottenuti documentavano un significativo miglioramento delle capacità dello studente a realizzare un rapporto empatico. Una significativa esperienza è da tempo in atto presso l’Università di Maastricht,49 ove gli studenti svolgono un laboratorio della durata di due settimane dal I al VI anno, acquisendo competenze comunicazionali di difficoltà crescente, che partono dalla formulazione di una breve intervista al paziente, quindi alla gestione di un paziente simulato per giungere al paziente reale, con valutazioni in itinere del percorso educazionale. Se le evidenze in letteratura confermano, sulla base di una documentata efficacia, la necessità di percorsi formativi mirati a un miglioramento dell’empatia e delle abilità comunicative, sono però ancora scarse quelle relative all’effetto a lungo termine di questi interventi.50 Pertanto diventa indispensabile che questi interventi formativi siano disponibili non solo per gli studenti durante il corso di laurea, ma anche per gli specializzandi e i medici più giovani. Questo investimento formativo è l’unico in grado di garantire al paziente e al medico stesso la capacità di realizzare una relazione di cura basata sulla fiducia e sull’empatia. 6. Conclusioni Costruire un medico degno della fiducia del paziente, del sistema sanitario nel suo complesso e della società, e in grado di caratterizzare attraverso il dialogo e l’ascolto una relazione empatica con i pazienti dovrebbe 48. Roger Ruiz-Moral, Luis Pérula de Torres, Diana Monge, Cristina Garcia Leonardo, Fernando Caballero, Teaching medical students to express empathy by exploring patient emotions and experiences in standardized medical encounters, in «Patient Education and Counseling», 100 (2017), pp. 1694-1700. 49.  Jan van Dalen, Jacqueline Zuidweg, Jean-François Collet, The curriculum of communication skills teaching at Maastricht Medical School, in «Medical Education», 23 (1989), pp. 55-61. 50. Kelm, Womer, Walter, Feudtner, Interventions to cultivate physician empathy, pp. 219-230.

34

Davide Festi

rappresentare uno degli obiettivi formativi prioritari da parte dei corsi di laurea in Medicina. Per raggiungere questo obiettivo le scuole mediche dovrebbero creare un ambiente di apprendimento che rispetti l’integrità e l’autenticità dei loro studenti e che li cresca come professionisti e come cittadini. L’acquisizione di abilità empatiche presuppone l’utilizzo di sempre nuovi strumenti e modalità didattiche, che si devono adeguare alle esigenze di una realtà socio-sanitaria in continua evoluzione e che quindi richiede un medico preparato ad affrontare questi cambiamenti. Ad esempio, l’aumento costante delle patologie cronico-degenerative richiede l’apertura al territorio, ove queste patologie maggiormente insistono, dei tirocini pratici durante il corso di laurea, tirocini che oggi hanno luogo quasi esclusivamente all’interno di strutture ospedaliere. Un punto nodale di questo percorso formativo potrebbe essere rappresentato dalla necessità di rivedere, nell’ambito della definizione del core curriculum, l’equilibrio tra la parte scientifica biomedica del curriculum e gli elementi psicosociali.51 Infatti, i risultati degli studi che documentano il calo dell’empatia al momento dell’impatto dello studente con la malattia e di quelli che confermano come i valori più importanti per lo studente riguardano principalmente le capacità tecniche/professionali confermano l’esistenza di questo squilibrio. Questi dati dovrebbero indurre a riflettere sul fatto che i nostri studenti probabilmente giungono impreparati all’incontro/impatto con il paziente, dopo anni di studi sostanzialmente teorici, e sul fatto che il corso di laurea fornisce competenze e conoscenze che probabilmente orientano maggiormente verso il tecnicismo anziché favorire l’apprendimento di quelle abilità e competenze comunicative e relazionali che sono necessarie per connotare la relazione con il paziente in termini di empatia, dialogo e ascolto. Questa riflessione, se vera e condivisa, dovrebbe portare i corsi di laurea a rivedere la parte pre-clinica del corso per armonizzarla con quella clinica, anche attraverso una rimodulazione nei tempi e nei modi dei tirocini. Interventi a questo livello consentirebbero di preparare lo studente fin dai primi anni all’incontro con il paziente, attraverso la realizzazione di un ambiente e di un percorso formativo in grado di caratterizzare le abilità e competenze professionali sia in termini “tecnici” che relazionali. 51. Reidar Pedersen, Empathy development in medical education - a critical review, in «Medical Teacher», 32 (2010), pp. 593-600.

L’invenzione della fiducia

Daniela Rigato Medico divino e razionale, carnifex e amicus: a chi dare fiducia?

Indagare la relazione di fiducia tra medico e paziente nella società greca e romana non può prescindere dalla consapevolezza dei limiti oggettivi di tale ricerca, basata su un dossier di informazioni parziali, caratterizzate da difformità distributiva e natura eterogenea. Ad essa si somma la compresenza di molteplici “saperi” medici e soggetti curanti: il medico razionale nato con Ippocrate, fondatore del pensiero medico “naturalista” nel V sec. a.C.; il mago-ciarlatano esponente della medicina magico-teurgica, legata al concetto ontologico di malattia; il medico “divino”, incarnato da entità numinose caratterizzate da poteri iatrici e icone della medicina templare; l’ampio ventaglio di figure dotate di una profonda conoscenza delle proprietà curative di erbe e piante medicinali, frutto dell’esperienza personale e patrimonio della medicina “popolare”. Nella composizione di questo variegato medical market place un ruolo decisivo ebbe anche l’assenza di istituzioni ufficiali preposte a certificare la corretta formazione professionale.1 Se tali sono dunque le limitazioni che la ricerca moderna deve affrontare, è tuttavia evidente che la complessa problematica del rapporto medico-paziente è stata oggetto di dibattito già in antico come si evince, limitandoci ad alcuni esempi, dalle riflessioni contenute nei trattati ippocratici e nei testi di Platone, negli scritti di Cicerone e in quelli di Seneca. Anzi, è possibile affermare che la comunicazione terapeutica fu avvertita come un problema già nell’antica Grecia, in conseguenza del fatto che la medicina era una téchne autonoma e dotata di uno specifico codice linguistico.2 1. Per un recente quadro generale sullo sviluppo della scienza medica nell’antichità si veda Valentina Gazzaniga, La medicina antica, Roma, Carocci, 2014, pp. 159-172, con ampia bibliografia. 2. Alberto Jori, Il dialogo ippocratico. La comunicazione medica nell’antica Grecia, con alcune proposte per migliorare il linguaggio sanitario attuale, Palermo, Nuova Ipsa Editore, 2018, pp. 6-7.

38

Daniela Rigato

Con tali premesse, rispetto alle molteplici declinazioni del concetto di fiducia indagabili per le epoche storiche successive, l’unica parzialmente ricostruibile per l’età antica è quella della fiducia interpersonale fra medico e paziente. La mancanza di un sistema ospedaliero istituzionalizzato, che nacque con la creazione dei primi nosocomi, per influsso della religione cristiana, quasi al limitare del mondo classico, impedisce, infatti, di affrontare gli altri aspetti del rapporto fiduciario fra le due parti, frutto della rivoluzione scientifica che ha cambiato il volto della medicina.3 1. Gli elementi costitutivi della fiducia fra medico e paziente nella documentazione letteraria La società greca Nel mondo greco il concetto di fiducia nell’ambito della medicina potrebbe considerarsi già esistente ancor prima di informare – o meno – il rapporto fra medico e paziente, in quel particolare legame che univa il medico-maestro e i suoi allievi, caratterizzato da profondo rispetto e da condivisione, in caso di necessità, anche delle proprie sostanze. Tale norma comportamentale è contenuta nel Giuramento di Ippocrate (V-IV sec. a.C.), assieme a numerose altre indicazioni sulla deontologia e l’etica dei medici, il cui agire doveva essere improntato al rispetto e all’interesse del paziente.4 Chiari accenni ai doveri del medico e a una sua etica comporta3.  Cfr., fra altri, Vivian Nutton, Medicine in Late Antiquity and the Early Middle Ages, in The Western Medical Tradition. 800 BC to AD 1800, Cambridge, Cambridge University Press, 1995, pp. 71-91 e Silvia Marinozzi, Per una storia dei luoghi dell’esercizio medico nell’antichità: dagli Asclepieia ai monasteri, in «Medicina nei secoli», 14, 1 (2002), pp. 21-37. 4.  Sebbene rappresenti il più famoso documento della medicina occidentale, molti sono ancora gli interrogativi che il Giuramento suscita. La critica ritiene, inoltre, che esso non sia rappresentativo del pensiero medico greco ma solo di una minoranza di medici; lo proverebbe anche la constatazione che, sebbene largamente diffuso e ammirato, non fu mai imposto per legge né in Grecia né a Roma. La sua composizione è correlata all’apertura della disciplina medica a membri esterni alla famiglia di Ippocrate, al fine di tutelarne il buon nome, imponendo ai nuovi discepoli comportamenti corretti e coerenza di scelte. Cfr. Vivian Nutton, Il giuramento di Ippocrate, in «Medicina e Chirurgia. Quaderni delle conferenze permanenti delle Facoltà di Medicina e Chirurgia», giugno 2013, http://www. quaderni-conferenze-medicina.it/il-giuramento-di-ippocrate/.

Medico divino e razionale, carnifex e amicus: a chi dare fiducia?

39

mentale inclusiva di aspetti che sottintendono un rapporto di fiducia sono rintracciabili anche nella celeberrima affermazione del trattato Epidemie I: primum non nocere.5 L’interesse del malato è dunque il fulcro6 della scienza ippocratica, che vuole medico e paziente uniti contro la malattia. Per gli scritti che compongono il nucleo più antico del Corpus Hippocraticum, questa unione è il frutto di un rapporto “positivo” fra le due parti, basato su un dialogo, che consente al medico «l’acquisizione di una speciale competenza che i libri non sono in grado di fornire».7 Sempre dai trattati ippocratici di matrice deontologica (De medico; De decenti ornatu; Praecepta) giungono precisi suggerimenti allo scopo di definire la figura ideale del buon medico, con le sue caratteristiche fisiche e morali e il comportamento da tenersi al cospetto del paziente.8 L’insistenza su tali aspetti ha alla base una necessità primaria: far sì che i medici si creino un habitus ben definito, che li contraddistingua e li differenzi dalle molteplici figure di ciarlatani presenti sulla scena delle poleis greche.9 E proprio questi tratti, significativamente ripresi e sottolineati alcuni secoli dopo da Galeno,10 consentono al paziente di avere fiducia nel medico e nella guarigione, una fiducia che si nutre delle capacità professionali del curante, della sua riser5. Epidemiae I,2, 5; così anche in Aphorismi, I,1. 6. Jacques Jouanna, Il medico e il pubblico, in Id., Ippocrate, Torino, Società editrice internazionale, 1994, pp. 75-111, in particolare p. 130. Si veda anche l’articolata e più recente disamina di Valeria Andò, La relazione medico-paziente nella riflessione scientifica e filosofica della Grecia classica, in «I Quaderni del ramo d’oro», 4 (2001), pp. 55-88. 7. Luciana Rita Angeletti, Valentina Gazzaniga, Storia, filosofia ed etica generale della medicina, a cura di Marisa Cantarelli e Luigi Frati, Milano, Elsevier Masson, 2008, p. 1; Marcello La Matina, Il posto del malato tra ethos e logos. Luoghi di cura e saperi nel mondo antico e tardoantico, in «Medic. Metodologia didattica e innovazione clinica», 15, 2 (2007), pp. 17-31; Andò, La relazione medico-paziente, pp. 61-68, con interessanti accenni anche al particolare rapporto fra medico e paziente donna. 8. Cfr. Daniela Rigato, Medicines, doctors and patients in Greek and Roman society, in Doctors and Patients. History, Representation, Communication from Antiquity to the Present, a cura di Maria Malatesta, San Francisco, University of California Medical Humanities Press, 2015, pp. 30-37. 9.  Illuminante a tale proposito è lo studio di Gabriele Marasco, Terapia e difesa dell’arte medica in alcuni scritti del Corpus Hippocraticum, in Aspetti della terapia nel Corpus Hippocraticum, a cura di Ivan Garofalo, Alessandro Lami, Daniela Manetti e Amneris Roselli, Firenze, L.S. Olschki, 1999, pp. 163-175. 10. Su Galeno cfr. Véronique Boudon-Millot, Galien de Pergame: un médecin grec à Rome, Paris, Les Belles Lettres, 2012; Susan P. Mattern, Prince of Medicine: Galen in the Roman World, Oxford-New York, Oxford University Press, 2013.

40

Daniela Rigato

vatezza, della dedizione al lavoro, della sua moralità e onestà nell’esigere il giusto compenso. Ma il rapporto fiduciario implica anche un flusso in senso inverso: il medico deve fidarsi del malato, al quale si chiede di dire la verità, di seguire le terapie concordate e di comprendere ciò che gli è stato comunicato. In sostanza, «il rapporto tra curante e curato si costruisce in termini di reciprocità, di necessità l’uno della conoscenza dell’altro […] attorno al nemico da sconfiggere, la malattia».11 A quest’ottica dialogica, cui si rifà anche un passo di Antica medicina 2, nel quale si insiste affinché il medico dica cose comprensibili ai profani,12 e posta alla base del cosiddetto triangolo ippocratico composto da malattia, paziente e medico, con l’auspicio di un’unione di medico e malato,13 se ne contrappone un’altra rintracciabile in alcuni trattati più tardi del Corpus Hippocraticum, ad esempio il De arte (XI, 4): essa è caratterizzata da un rapporto autoritario del medico nei confronti dell’ammalato, ritenuto incapace di fornire alcun tipo di indicazione utile, causa le lacune, l’insufficienza o l’erroneità dei discorsi.14 Questa duplicità comportamentale è rintracciabile anche in Platone,15 come si evince da alcuni passi delle Leggi.16 Allo scopo di 11. Angeletti, Gazzaniga, Storia, filosofia ed etica generale, p. 1. Si ricorda, inoltre, che Galeno aveva una rete di pazienti coi quali comunicava per corrispondenza: è chiaro che in questo caso dovevano essere persone istruite, capaci di diagnosticare i propri sintomi e di utilizzare correttamente le indicazioni del medico; cfr. Laurent Galopin, Le médecin romain au quotidien, in «Clystère», 65 (2018), pp. 35-44, in particolare p. 37. 12. Antica Medicina 2, 12, 3-14. 13. Danielle Gourevitch, Le triangle hippocratique dans le monde grèco-romain: le malade, sa maladie et son médecin, Paris-Roma, École française de Rome, 1984. 14. Un’analisi sistematica delle due diverse concezioni del rapporto medico-malato è in Alberto Jori, Il medico e il suo rapporto con il paziente nella Grecia dei secoli V e IV a.C., in «Medicina nei secoli. Arte e scienza», 9, 2 (1997), pp. 189-222; si rimanda a questo studio anche per l’individuazione dei passi letterari a sostegno delle due diverse teorie; cfr. anche Giuseppe Cambiano, Funzioni del dialogo medico-paziente nella medicina antica, in Medicina e società nel mondo antico, Atti del convegno di Udine, 4-5 ottobre 2005, a cura di Arnaldo Marcone, Firenze, Le Monnier università, 2006, pp. 7-8. 15. Egli considerava la medicina un modello di sapere compiuto, dotato di regole e procedure razionali e riteneva che il potere esercitato dal medico sul paziente fosse motivato «non dall’interesse ma dal sapere, dalla dedizione terapeutica, dalla persuasione finalizzata al servizio della salute», identificando nel medico il modello di riferimento del buon governante; cfr. Mario Vegetti, La medicina in Platone, Venezia, Il cardo, 1995, in particolare pp. IX-X. 16. Plat. Leggi, IV, 720 c-e.

Medico divino e razionale, carnifex e amicus: a chi dare fiducia?

41

precisare le differenze fra due modi di legiferare, egli ricorre al paragone con la téchne medica, individuando due diverse modalità di praticare l’arte: una è quella dei medici liberi, che curano per lo più uomini liberi e che basano il loro agire sulla natura del malato, indagando le malattie dalle loro origini e instaurando con i pazienti e i loro familiari una comunicazione e una condivisione dei dati allo scopo di renderli edotti e persuaderli ad accettare la terapia. L’altra, è quella tipica dei cosiddetti aiutanti dei medici, liberi o schiavi che siano, che curano principalmente gli schiavi e che si basano solo sull’empeiría, un’esperienza grossolana, senza fare ricorso al logos: paragonati nel loro agire a un tiranno, essi impongono la terapia senza un confronto coll’ammalato e senza fornire spiegazione alcuna,17 rinunciando così allo specifico ruolo che nella medicina ippocratica riveste la comunicazione verbale.18 Tale atteggiamento di controllo sui pazienti per contrapporsi alla loro indisciplinatezza raggiunse l’apice con Galeno, che esercitò a Roma nel II sec. d.C., e che ricorse a figure di assistenti per sorvegliare il comportamento degli ammalati.19 Del resto, egli stesso aveva potuto esperire presso il grande santuario di Pergamo le differenze comportamentali dei pazienti ricorsi alla medicina templare, ovvero alle prescrizioni di Asclepio,20 divinità iatromantica onorata in tutto il bacino del Mediterraneo: massimo era l’impegno dei fedeli nel seguire i suoi consigli, all’opposto di quanto accadeva per le indicazioni dei medici, spesso non così scrupolosamente osservate.21 Un altro elemento fondamentale per ottenere la fiducia del 17. Cambiano, Funzioni del dialogo medico-paziente, pp. 1-3; Angeletti, Gazzaniga, Storia, filosofia ed etica generale, p. 2. 18. Giova ricordare che nelle poleis greche la selezione del medico pubblico, sulla scorta di quanto si legge in Platone (Gorgia, 514, d-e) e Senofonte (Memorabilia, IV, 2, 5), veniva operata dall’assemblea popolare e il candidato doveva superare una prova che ad Atene prendeva il nome di dokimasía, consistente nella dimostrazione di capacità dialettiche in un confronto pubblico. Inoltre, il candidato doveva esibire le prove del suo agire e della sua esperienza, vale a dire, i pazienti guariti. 19. Cfr. Angeletti, Gazzaniga, Storia, filosofia ed etica generale, p. 165, ove si rimanda all’ippocratico De decenti ornatu, 5, trattato volto a suggerire prescrizioni comportamentali nel momento del confronto diretto fra paziente e medico. 20. Per una panoramica sulle divinità guaritrici e in particolare su Asclepio si veda Daniela Rigato, Gli dei che guariscono: Asclepio e gli altri, Bologna, Pàtron Editore, 2013. 21. Galeno, In Hippocratis Epidemiarum librum VI commentaria, ed. a cura di K.G. Kühn, Leipzig, 1821-1833, IV, 8. Sul rapporto medici-medicina templare vedi infra.

42

Daniela Rigato

paziente e persuaderlo22 a seguire le indicazioni terapeutiche è rappresentato dalla prognosi. A tale proposito, è d’uopo ricordare il passo tratto dal capitolo iniziale del Prognosticon ippocratico,23 interpretato dalla critica come prova di un rapporto fiduciario fra le due parti: Per il medico – mi sembra – è cosa ottima praticare la previsione: prevedendo infatti e predicendo, al fianco del malato, la sua condizione presente e passata e futura, e descrivendo analiticamente quanto i sofferenti hanno tralasciato, egli conquisterà maggior fiducia di poter conoscere la situazione dei malati, sicché essi oseranno affidarglisi.24

Sulla scorta di una più attenta analisi del passo citato, chi scrive ritiene necessario evidenziare in esso la presenza di due differenti tipologie di fiducia: da un lato, quella che il medico stesso acquisirà nelle sue capacità grazie alla pratica della prognosi e alla collaborazione col malato; dall’altro, l’atto di affidamento dei pazienti al suo operato in conseguenza delle doti predittive. Del resto, poche righe dopo, compare un’altra affermazione significativa: una corretta prognosi porterà a una giusta ammirazione nei confronti del vero sapere del medico, consentendogli così di distinguersi dai profani e dalle azioni spettacolari dei ciarlatani destinate a impressionare gli ammalati, ma non basate su un corretto esame dei sintomi.25 Il medico “prognostico”, secondo la definizione di La Matina,26 interpreta, infatti, i segni (seméia) della malattia e formula inferenze prognostiche27 in presen22. Al tema della persuasione (πειθώ) del malato è dedicata l’analisi di Sabrina Grimaudo, Obbedienza e persuasione. Due modelli della relazione medico-paziente nella Grecia antica, in «ὅρμος - Ricerche di Storia antica», n.s., 6 (2014), pp. 35-47; cfr. anche Andò, La relazione medico-paziente, pp. 67-68. 23. Ippocrate, Prognosticon, I,1, ed. a cura di Jacques Jouanna, Paris, Les Belles Lettres, 2013, t. III, 1, pp. 1-2. 24. Si propone qui la traduzione del passo presente in Jori, Il medico e il suo rapporto con il paziente, in particolare p. 198. Il passo è ripreso anche da Galeno, In Hippocratis prognosticum commentaria, ed. a cura di K.G. Kühn, Leipzig, 1821-1833, vol. 18b, p. 3, ll. 8-10. 25. Ippocrate, Prognosticon, I,3; cfr. Jouanna, Il medico e il pubblico, pp. 75-111, in particolare pp. 105-108; Daniela Fausti, Il segno e la prognosi nel Corpus Hippocraticum (Prognostico e Prorretico I e II), in «I Quaderni del ramo d’oro on-line», 1 (2008), pp. 258278, in particolare pp. 262-263. 26. La Matina, Il posto del malato tra ethos e logos, p. 19. 27. Non si può omettere di sottolineare che la prognosi è conoscenza di ciò che sta per accadere, in sostanza del futuro, e che compito del medico antico è riconoscere e dire prima al malato cosa gli succederà. Questo aspetto della predizione medica, seppur basato

Medico divino e razionale, carnifex e amicus: a chi dare fiducia?

43

za del paziente stesso, non più considerato un “peccatore” (hybristés)28 punito dagli dei con l’invio della malattia.29 Una corretta diagnosi e prognosi30 rappresentano, dunque, l’atto decisivo e risolutivo del primo incontro fra curante e paziente, durante il quale è necessario che il medico abbia fin da subito, grazie alle sue capacità intuitive, il controllo dei fatti, evitando di cadere vittima delle bugie dei pazienti, che potrebbero anche sviare la prognosi e imputare al medico il fallimento della terapia.31 A questo specifico frangente segue un altro momento cruciale nella creazione di un legame di fiducia col malato e la cerchia di parenti: la scelta di cosa dire loro dopo la visita. Rispetto all’esperienza odierna, la situazione appare esattamente rovesciata: nell’etica medica antica non ci si poneva il problema di nuocere al paziente con responsi negativi, perché prevaleva la preoccupazione di non danneggiare il medico. Se la prognosi era infausta, conveniva rivelarla immediatamente, in modo da evitare accuse di incompetenza o di decesso provocato intenzionalmente, come afferma anche Celso nel trattato De medicina, suggerendo di procedere con molta cautela nel curare chi non poteva essere salvato.32 Un altro espediente per ottenere la collaborazione e la docilità del paziente poteva essere, secondo sull’osservazione di segni e sulla considerazione di svariati fattori, risente della pesante eredità della pratica della profezia e della concorrenza degli indovini. La prognosi, infatti, coinvolge passato, presente e futuro. Cfr. Jouanna, Il medico e il pubblico, pp. 99-100. 28.  La malattia era spesso ritenuta una punizione per un atto di hybris, ovvero di «tracotanza sacrilega», secondo la definizione di La Matina, Il posto del malato tra ethos e logos, p. 18. 29. Fra molti, si ricorda lo studio di Innocenzo Mazzini, La malattia conseguenza e metafora del peccato nel mondo antico, pagano e cristiano, in Cultura e promozione umana. La cura del corpo e dello spirito nell’antichità classica e nei primi secoli cristiani. Un magistero ancora attuale?, a cura di Enrico Dal Covolo e Isidoro Giannetto, Troina (EN), Oasi, 1998, pp. 159-172. 30. Come affermato in Fausti, Il segno e la prognosi nel Corpus Hippocraticum, p. 258, nei trattati ippocratici la registrazione dei segni, seguita dalla prognosi e talvolta dalla terapia, ha un grandissimo spazio e si sovrappone alla diagnosi, ovvero è una diagnosi camuffata, generando confusione fra le due azioni. 31. È quanto si legge in De decenti ornatu, 11 e 14; cfr. Angeletti, Gazzaniga, Storia, filosofia ed etica generale, p. 111. 32. Mario Vegetti, Il malato e il suo medico nella medicina antica, in Medici e pazienti nell’antica Roma, Atti del Convegno internazionale, Rimini, 12 giugno 2008, a cura di Stefano De Carolis e Valeria Pesaresi, «Il Bollettino dell’ordine dei Medici Chirurgi e degli Odontoiatri della Provincia di Rimini», IX, 1-2 (2008), pp. 105-118, in particolare pp. 110-111; Cels.,V,26.

44

Daniela Rigato

Galeno,33 l’atteggiamento compiacente del medico nel concedere ciò che gli era piacevole e gradito. Si tratta, dunque, di un’attenzione a rendere lo stato della malattia il più gradevole possibile, su cui insistono già alcuni trattati ippocratici,34 e significativamente interpretata come tentativo di raggiungere uno stato psichico positivo, nella consapevolezza di un’unità psicofisica costitutiva dell’uomo, che andava sempre tenuta presente dal medico.35 Una breve precisazione merita anche la realtà dei medici di corte di età ellenistica, gli archiatri, cui è riconosciuta una posizione elevata, tanto da divenire, in alcuni casi, intimi del re e dei suoi ministri più potenti ed essere utilizzati anche per compiti altri rispetto alla loro professionalità. È ovvio che in tali casi non si potesse prescindere da un profondo rapporto di fiducia, anche in considerazione del fatto che il medico disponeva di “armi” utilizzabili a danno del sovrano. Significativo, a tale proposito, è un passo tratto dalla Historia Alexandri Magni,36 ove compare un’esortazione al grande re a non avere fiducia nel suo medico Filippo, in quanto animato da volontà di farlo morire con alcune erbe. La società romana Enucleati alcuni temi salienti del rapporto fiduciario fra medico ippocratico e paziente sullo sfondo delle poleis greche,37 si può ora rivolgere l’attenzione alla società romana. Innanzitutto corre l’obbligo di evidenziare le sostanziali differenze che contraddistinguono la figura del medico di provenienza – almeno nella fase iniziale – e di formazione greca operante a Roma,38 rispetto alla considerazione sostanzialmente buona, talora anche 33. Gal., Hippocratis Epidemiarum librum VI commentaria, ed. a cura di K.G. Kühn, VI, IV,7. 34. Epidemiae VI, 4,7 e Affectiones 44. 35. Andò, La relazione medico-paziente, pp. 68-72. 36.  Passo 106, 8 della recensio φ a cura di Giorgos Veloudis, Ἡ φυλλάδα τοῦ Μεγαλέξαντρου. Διήγησις Ἀλεξάνδρου τοῦ Μακεδόνος, Athens, 1977. In generale sui medici di corte si veda Giorgio Marasco, Les médecins de cour à l’époque hellénistique, in «Revue des Études Grecques», 109 (1996), pp. 435-466 e Natacha Massar, Soigner et servir. Histoire sociale et culturelle de la médecine grecque à l’époque hellénistique, Paris, De Boccard, 2005, in particolare pp. 51-63 e 103-122. 37. Luigi Calò, Cultura medica e urbanizzazione in Grecia tra età classica ed ellenismo, in «La parola del passato», 376 (2009), pp. 161-204. 38. Sulla formazione dei medici a Roma alcune indicazioni in Laurent Galopin, La formation médicale à Rome au Haut-Empire, in «Clystère», 64 (2018), pp. 5-10.

Medico divino e razionale, carnifex e amicus: a chi dare fiducia?

45

molto positiva, di cui godeva nella società greca.39 Precisi riscontri della negatività che caratterizza a lungo lo iatrós greco sono rintracciabili negli sprezzanti giudizi di Catone il Censore e di Plinio il Vecchio permeati da un profondo antiellenismo.40 Il conservatore Catone (III-II sec. a.C.), fautore di una medicina composta di rimedi popolari e pratiche magiche,41 secondo quanto narra Plinio (Naturalis Historia 29,6-8), impedì al figlio di avere contatti con i medici greci, ritenuti persone inique, esercitanti la medicina solo a scopo di lucro e inviate sul territorio romano per sterminare i barbari.42 Egli rimproverava alla greca téchne iatriké soprattutto l’insensatezza delle prescrizioni e la violenza di alcuni trattamenti, come il salasso e il cauterio, oltre a non accettare l’immoralità delle persone, dato che praticavano l’arte dietro compenso. La diffidenza di una certa élite romana sopravvive ancora tra I e inizi II sec. d.C., basandosi sui sospetti d’improvvisazione e superficialità che caratterizzavano questa professione senza regole certe, come dimostra la satira contra medicos di Giovenale (Satyrae, 3,74-78).43 Un simile atteggiamento di totale sfiducia potrebbe trovare una parziale motivazione nel fatto che a lungo i medici continuarono a essere di tradizione greca, a parlare e scrivere in greco.44 Ma non era uno snobismo: si trattava di utilizzare un linguaggio tecnico per indicare concetti, nozioni, malattie, rimedi, strumenti che non avevano un nome specifico in latino. Solo la crescente ellenizzazione e l’espansione dell’impero portarono al miglioramento dell’immagine di 39. Vedi infra i dati forniti dalla documentazione epigrafica, anche se la figura del medico nella società greca è oggetto della parodia sferzante della commedia attica. Cfr., ad esempio, Bernhard Zimmermann, Hippokratisches in den Komödien des Aristophanes, in Tratados hipocráticos. Estudios acerca de su contenido, forma y influencia, Actas del 7 Colloque international hippocratique, Madrid, 24-29 settembre 1990, a cura di Juan Antonio López Férez, Madrid, Universidad nacional de educación a distancia, 1992, pp. 513-525. 40.  Innocenzo Mazzini, Le accuse contro i medici nella letteratura latina e il loro fondamento, in «Quaderni linguistici e filologici», 2 (1982-1984), pp. 75-90. Carnifex è l’aggettivo usato da Plinio (XXIX, 12) per definire Arcagato, il primo medico greco giunto a Roma nel 219 a.C. 41. Chiara De Filippis Cappai, Medici e medicina in Roma antica, Torino, Tirrenia Stampatori, 1993. 42. Il quadro delle reazioni nella società romana all’arrivo dei medici greci è in Danielle Gourevitch, Le triangle hippocratique dans le monde gréco-romain, Roma, École française de Rome, 1984, pp. 289-321. 43. Un’ampia analisi sul rapporto fra medicina e letteratura è in Innocenzo Mazzini, Letteratura e medicina nel mondo antico, Roma, Università La Sapienza, 2011. 44. Herman Gummerus, Der Ärztestand im römischen Reiche, Helsingfors, O. Harrasowitz, 1932, pp. 41-47.

46

Daniela Rigato

questa figura spesso legata, a Roma, direttamente alle vicende biografiche degli imperatori o di ricchi possidenti terrieri. Nel corso della prima età imperiale i medici godettero, di fatto – parimente a filosofi, retori e filologi –, di particolari esenzioni, immunità e privilegi giuridici, che poterono rappresentare una forte spinta a intraprendere questa carriera.45 Già per Cicerone (De officiis I,151) la medicina era una carriera onorabile, come l’architettura, ma limitatamente alla categoria di persone alla quale si conveniva, formulazione che sottintendeva schiavi e liberti; sarebbe stata dunque inhonesta per un uomo libero e non adatta, secondo Plinio (XXIX, 17-18), alla gravitas romana. Dal canto suo, la documentazione epigrafica conferma la rarità di tale scelta da parte di liberi cittadini, che la intrapresero più frequentemente in età imperiale.46 Il ritratto negativo di questi professionisti, che parrebbe, fin qui, escludere qualsiasi tipo di fiducia nei loro confronti, è rafforzato dalle accuse di “avvelenatori”, registrate nell’oratoria giudiziaria e nelle pagine del solito Plinio (XXIX, 21-26), ove si rimprovera la mancanza di scrupoli, l’applicazione di terapie senza basi scientifiche e l’avidità.47 Anche l’eccessiva specializzazione della medicina romana, assente nel mondo greco, fu spesso oggetto di critiche: Marziale (X,56,3-8) deride gli specialisti e al contempo si lamenta di non trovare qualcuno che sappia curare le persone sfinite dalla fatica, mentre Galeno denuncia l’eccessiva e ridicola parcellizzazione della pratica medica, confermata dalla documentazione epigrafica di Roma.48 Interpretabile in senso nettamente contrario e foriera di elementi utili alla definizione della problematica in oggetto è, invece, una caratteristica precipua della medicina romana, l’esaltazione della farmacopea, la cui sola corretta gestione può aiutare il medico a soccorrere gli ammalati: secondo il pensiero di Scribonio Largo, medico dell’imperatore Claudio e autore del trattato Compositiones,49 dato che la medicina è una scientia sanandi, 45. Jacques André, Être médecin à Rome, Paris, Les Belles Lettres, 1987, pp. 140-142. 46. Cfr., ad esempio, CIL IX, 3895. 47. Isabella Andorlini, Arnaldo Marcone, Medicina, medico e società nel mondo antico, Firenze, Le Monnier università, 2004, pp. 139-140. 48. Alessandro Cristofori, Medici «stranieri» e medici «integrati» » nella documentazione epigrafica del mondo romano, in Medicina, medico e società nel mondo antico, pp. 137-141. 49. L’opera raccoglie 271 ricette mediche; cfr. Loredana Mantovanelli, Scribonio Largo. Ricette mediche. Traduzione e commento, Padova, SARGON Editrice e Libreria, 2012 e Margherita Cassia, I liberti nell’epoca di Claudio: il medico Scribonio Largo alla corte imperiale, in «ὅρμος - Ricerche di Storia Antica», n.s., 4 (2012), pp. 44-68.

Medico divino e razionale, carnifex e amicus: a chi dare fiducia?

47

non nocendi,50 i suoi rappresentanti devono essere consapevoli del ruolo fondamentale che i farmaci hanno nella terapia. Il professionista ha l’obbligo di utilizzarli nelle cure e, qualora si astenga volontariamente dal somministrarli, può essere accusato di negligenza o persino di criminalità.51 Inoltre, nell’ambito di una corretta etica medica, il buon professionista ha il dovere morale di offrire a tutti, amici e nemici, la sua competenza terapeutica su base farmacologica. Questa affermazione, tratta dalla prefazione alle Compositiones, ci pone di fronte alla nuova formulazione ippocratica del codice deontologico del medico, arricchito dai concetti derivanti dalla dottrina stoica di misericordia e humanitas,52 con la comparsa della nuova figura del medicus amicus. E a questa rinnovata deontologia aderisce anche Celso, autore di otto libri sulla medicina che documentano la situazione sanitaria a Roma nel I sec. d.C. Nel Proemium (I,73) del suo trattato Medicina afferma esplicitamente: cum par scientia sit, utiliorem tamen medicum esse amicum quam extraneum («a parità di competenze, è più efficace un medico che sia amico, piuttosto che estraneo»). Tale asserzione è il risultato di una peculiare evoluzione nella societas romana, a partire dalla prima età imperiale, che connota le relazioni da instaurarsi tra medico e paziente: in esse acquista sempre maggior coscienza e valore il principio di compassione verso chi soffre. Ciò significa ripulsa per ogni forma di crudeltà e acquisizione dei limiti che la ricerca scientifica deve porsi per evitare di nuocere: ora è l’atteggiamento di umanità verso l’ammalato che ha valore prioritario.53 Ancora Celso54 precisa che prima della teoria e della regola viene l’ammalato e dunque al medico si impone di conoscere il paziente e la storia della sua malattia, stabilendo un rapporto di natura personale. Altri indizi sulla figura ideale del medicus amicus si possono trovare anche in Seneca55 e in particolare nel De beneficiis (6.16,2), ove si auspica un ca50. Scrib. Larg., praef. 5. 51. Andorlini, Marcone, Medicina, medico e società nel mondo antico, p. 139. 52. Scrib. Larg., praefactio 3; cfr. Jacques Pigeaud, Les fondements philosophiques de l’éthique médicale: le cas de Rome, in Médecine et morale dans l’antiquité, a cura di Hellmut Flashar e Jacques Jouanna, Herente, Fondation Hardt, 1997, pp. 255-296; Philippe Mudry, Éthique et médecine à Rome: la préface de Scribonius Largus ou l’affirmation d’une singularité, ivi, pp. 297-336. 53.  Ci si può riallacciare al concetto di philantrophia già presente nella medicina greca; cfr. Elisa Romano, Medici e filosofi. Letteratura medica e società altoimperiale, Palermo, Il grifo, 1991. 54. Medicina, prooemium I, 66. 55. Cfr. Mudry, Éthique et médecine à Rome, p. 80.

48

Daniela Rigato

rattere elitario dell’assistenza, con un medico dedito a pochi pazienti: non più dunque un rapporto professionale a pagamento, sine ullo adfectu, ma un vero legame di amicizia fra persone, come auspicava ancor prima Cicerone, col ricordo nel suo epistolario di medici suoi amici e rattristato per la morte del proprio liberto medico Alexion.56 Anzi, per l’Arpinate, l’optimus medicus era colui che sapeva unire alle conoscenze scientifiche la capacità di parlare elegantemente e alla competenza l’humanitas.57 Questo nuovo orientamento è foriero anche di mutamenti di ordine sociale e sottende un tipo di professionalità che non pone più il guadagno al primo posto, con schiere di ammalati da curare contemporaneamente, e che richiama un principio etico già presente nel trattato ippocratico Precetti (69), che raccomandava al medico di limitare la propria avidità di guadagno e di curare gratuitamente i poveri e gli stranieri. Alquanto significativo, perché specchio del sentire comune, è un verso di Orazio in cui il poeta definisce le prerogative richieste al medico: medicus multum celer atque fidelis.58 Gli aggettivi utilizzati sintetizzano appieno le aspettative dei cittadini comuni nei confronti di una categoria di professionisti il cui riconoscimento sociale stava lentamente migliorando e ai quali si richiedeva celerità di intervento, ma soprattutto, lealtà, sincerità e riservatezza, quei tratti comportamentali che informano il legame di fiducia. In questa nuova “filosofia” rientra anche la concezione del dolore ormai avvertito come un problema rispetto al quale il medico non può rimanere indifferente, sebbene egli debba commisurare il suo “compatire” al rispetto della prassi terapeutica e arginare l’opposizione scorretta del paziente nei confronti di prescrizioni, seppur dolorose, necessarie alla sua guarigione. La preoccupazione di Scribonio59 è, dunque, quella di delineare, come secoli prima nelle poleis greche, un’etica della professione medica ben consapevole del fatto che questo ruolo, privo di controlli statali, poteva cadere facilmente in discredito, sia per il rischio di imbrogli o di manipolazioni da parte dei ciarlatani, sia per gli effetti negativi di prescrizioni affrettate o interventi chirurgici non necessari, fino a giungere all’accanimento terapeutico.60 Appare dunque evidente come nella società romana si assista alla riproposizione di alcune tematiche già 56. Cic. Ad Atticum 15, 1, 1. 57. Cic., De oratore 1, 62. 58. Horat. Satyrarum libri, 2, 3, 147. 59. Medicina V, 26,1. 60. Andorlini, Marcone, Medicina, medico e società nel mondo antico, pp. 138-141.

Medico divino e razionale, carnifex e amicus: a chi dare fiducia?

49

affrontate per quella greca e che giocano un ruolo decisivo nella creazione di un rapporto di fiducia fra medico e malato, che, oltre ad essere auspicato, pare fosse effettivamente in essere almeno in seno alle classi sociali più elevate.61 Diverge, invece, il comportamento del professionista di fronte alle malattie incurabili: il medico greco, in caso di morte del paziente, poteva essere esposto ai rischi della perdita di prestigio, di clientela e al biasimo sociale; nel mondo romano, sul piano giuridico, la situazione era notevolmente diversa e imponeva una ben maggiore cautela. Infatti, in caso di decesso di un paziente, le responsabilità del curante erano sancite sin dalla legislazione di età repubblicana con la lex Aquilia, che puniva il damnum iniuria datum. In particolare si colpiva chiunque avesse somministrato una medicina dannosa con la forza o con la convinzione, si punivano gli errori negli interventi chirurgici e i casi di abbandono della terapia dopo l’intervento.62 Tuttavia, come evidenziato da Gabriele Marasco: l’atteggiamento dei medici romani appare ben lontano da quella generalizzazione del rifiuto di curare i casi disperati che si tende ad attribuir loro. Esistevano, al contrario, notevoli dissensi nella stessa categoria medica circa la condotta da adottare e parecchi medici erano disposti a tentare il tutto per tutto, nonostante i pericoli per la propria reputazione e le possibili gravi conseguenze legali.63

Nei casi incurabili si può comunque supporre che il medico fosse attivamente vicino al paziente per alleviare i dolori e le conseguenze psicologiche della malattia. È questa una condotta che richiama l’ideale del medicus amicus,64 e che non si discosta molto dall’umanitarismo di Seneca con l’incitamento a prendersi cura di tutti coloro che lo richiedono senza considerare fortuna e rango sociale, sulla scia di quanto ci si aspetta, ad esempio, dalla clemenza dell’imperatore o di chiunque detenga una posizione di superiorità nelle relazioni sociali: controllo di sé, moderazione, generosità e compassione. Rispetto al modello della triade 61. André, Être médecin à Rome, p. 92. 62. Gabriele Marasco, Il medico e le malattie inguaribili nell’impero romano, in Cultura e promozione umana, pp. 145-158. 63. Ivi, p. 156. 64. Fabio Stock, Medicus amicus: la filosofia al servizio della medicina, in «Humana Mente», 9 (2009), pp. 77-85, www.humana-mente.eu/PDF/paper_Medicus amicus_issue 9.pdf, con bibliografia precedente.

50

Daniela Rigato

malattia-malato-medico, l’etica medica65 di età imperiale propone dunque una trasformazione: non più il triangolo ippocratico ma il binomio medico-malato con l’interesse che si sposta dalla malattia intesa come realtà a sé stante, oggettiva, al soccorso da prestare al malato nella sua individualità. Tale considerazione del paziente come individuo motiva anche la crescita pressoché concomitante di una sorta di ideologia della salute: una preoccupazione diffusa nell’ambito delle classi agiate diviene la cura di se stessi e il mantenersi sani, cui contribuisce il recupero dei principi dell’antica medicina romana e che stigmatizza la tendenza alla crescente specializzazione medica.66 La nuova concezione del rapporto medico-paziente trova la sua completezza in Galeno e i suoi scritti, ove si ribadisce l’importanza estrema del comportamento e dei rapporti che il medico deve avere nei confronti del malato, allo scopo di guadagnarsene la fiducia: non solo atti di gentilezza ma anche scelte valide sul piano terapeutico e finalizzate a una strategia che punta a ottenere la collaborazione del paziente. In sostanza, il tipo di medico ideale che Galeno ha in mente richiede non solo disinteresse e mancanza di cupidigia ma anche una vita sobria e severa e un certo grado di istruzione con competenze nei tre grandi rami della filosofia: logica, fisica, etica.67 2. I dati della documentazione epigrafica La testimonianza di un eventuale rapporto di fiducia fra medico e paziente enucleabile dall’analisi delle iscrizioni, prodotto immediato del processo storico,68 scaturisce esclusivamente da una sua lettura in filigrana. Sono, infatti, le espressioni elogiative e di riconoscimento per l’attività svolta e per le doti “umane”, che possono far intravvedere un rapporto di 65. Lo sviluppo di una concezione etica della medicina è ripercorso in Sergio Sconocchia, La concezione etica nella professio medici dall’antichità classica alla medicina monastica, in Cultura e promozione umana, pp. 173-225. 66. Andorlini, Marcone, Medicina, medico e società nel mondo antico, p. 142. 67. Ivi, pp. 143-144. Vedi anche Romano, Medici e filosofi. 68. Un’altra interessante tipologia di documenti è rappresentata dai papiri: su questi ultimi, fra i vari studi, si rimanda a quelli di Isabella Andorlini, ora raccolti in πολλà ἰατρῶν ἐστι συγγράματα. Sui papiri e la medicina antica, a cura di Nicola Reggiani, Milano, Le Monnier università-Mondadori education, 2017.

Medico divino e razionale, carnifex e amicus: a chi dare fiducia?

51

tale natura sia nei confronti del singolo paziente sia della comunità civica in cui operava. Il consistente patrimonio di iscrizioni menzionanti medici e, in misura nettamente inferiore, rappresentanti femminili di questa categoria, comprensiva anche delle ostetriche,69 impone di limitarci ad alcuni esempi particolarmente significativi. Per quanto concerne la realtà greca,70 la considerazione sociale positiva del medico ippocratico è ampiamente riflessa nelle iscrizioni funerarie e nei numerosi decreti onorari votati dalle poleis.71 Il buon medico doveva essere una persona rispettabile, oltre che colta, e la deontologia di tale professione andava al di là delle semplici prescrizioni tecniche. Rari sono gli epitaffi, talora metrici, che non comportano almeno un aggettivo elogiativo, anche se generale, come esthlós (generoso, nobile, onesto, leale), e la qualità dell’onestà o di uomo per bene è molto diffusa tra i medici spesso definiti agathós, oppure kalós e kalós kagathós, espressione, quest’ultima, di una profonda compenetrazione fra qualità professionali e umane.72 Non nuocere fu uno dei principi ispiratori di Phanostratè, ostetrica e medico di Atene nel IV sec. a.C., dato che il suo epitaffio precisa che a nessuno causò dolore e che tutti alla sua morte l’hanno rimpianta.73 Inoltre, sulla lapide sepolcrale di Charòn, medico nel V sec. a.C., si afferma che nessuno ha parlato male di lui, nemmeno dopo la morte, lui che ha liberato tante persone dalla sofferenza.74 Numerose iscrizioni insistono sulla pietà dei medici e la maggior parte dei decreti concordano nell’elogiare il loro comportamento di cittadino modello e che non crea disturbi all’ordine pubblico, tanto che, a partire dall’epoca ellenistica e soprattutto durante il periodo romano, taluni medici godettero della menzione dei meriti personali durante elogi ufficiali pronunciati davanti 69. Fra tutte le professioni, quella medica è la più attestata nelle iscrizioni, superata solo dagli appartenenti all’ambito militare. Sulle donne legate alla professione medicosanitaria si rimanda a Véronique Dasen, L’ars medica au féminin, in «Eugesta [Journal on Gender Studies in Antiquity]», 6 (2016), pp.1-40, con bibliografia precedente. 70. L’arco cronologico coperto dalle iscrizioni greche si estende dal VI sec. a.C. al VI sec. d.C. Una panoramica del ricchissimo e variegato patrimonio epigrafico è in Évelyne Samama, Les médecins dans le monde grec. Sources épigraphiques sur la naissance d’un corps médical, Genève, Libraire Droz, 2003, con bibliografia precedente. 71. In Samama, Les médecins dans le monde grec, p. 3, nota 11 si precisa che nel corpus raccolto ben sessantacinque sono i decreti onorifici a favore dei medici; cfr. ivi, pp. 56-58. 72. Ivi, pp. 76-78. 73. IG II 2, 6873. 74. Samama, Les médecins dans le monde grec, p. 153, nota 52.

52

Daniela Rigato

all’assemblea popolare, in occasione delle manifestazioni cittadine o delle Asklepieia, le grandi feste panelleniche in onore di Asclepio.75 Nella società romana, pur dovendo confrontarsi con un’ottica sostanzialmente a lungo non benevola nei confronti di tale professione, la documentazione epigrafica, molto cospicua, annovera medici per il cui operato si sono spese parole di sincero elogio: è il caso di un medico di Benevento, che nel II secolo d.C. i figli ricordano come homo benignissimus, medicus peritissimus e che visse cum summa laude.76 Il disinteresse assoluto nei confronti del denaro è invece testimoniato da un epitaffio rinvenuto nei dintorni di Roma dedicato al medico greco Dionisio, che evidentemente nulla ha a che spartire con gli onorari, talora astronomici, richiesti da suoi colleghi.77 E ancora l’insistenza sulle virtù morali e sulla perizia nella propria arte appare in un’iscrizione, che, ai nostri fini, assume un significato particolare: a Gubbio è, infatti, ricordato Lucius Sabinus Primigenius esaltato per la sua perizia ma contraddistintosi anche per la sua nobiliore fide, espressione che sicuramente sottende quegli atteggiamenti di onestà e lealtà nei confronti dei pazienti che sono alla base di un rapporto di fiducia.78 Ma è un’iscrizione funeraria cristiana del II sec. d.C., che riassume in modo didascalico la summa delle qualità richieste a un buon medico, come dovette essere l’anonimo professionista il cui epitaffio, conservato nelle catacombe di San Sebastiano a Roma, così lo ritrae: amico e caro a tutti, ingegnoso, non invidioso di nessuno e i cui benefici furono abbondanti nei confronti di tutti.79 La documentazione epigrafica conserva, d’altro canto, testimonianze di lamentele e di accuse nei confronti dell’operato dei medici, espressione di un rapporto di fiducia, se esistito, certamente interrotto. Alla responsabilità di un medico chirurgo è attribuito il decesso di un ragazzino, come si precisa nel suo epitaffio proveniente da Bisanzio,80 così come a Roma il liberto imperiale P. Aelius Peculiaris non esita a denunciare le colpe dei medici per la scomparsa improvvisa – mors subita – a poco più di 27 anni, dell’amato alumnus Euhelpistus, quem medici secarunt et occiderunt.81 E 75. Ivi, pp. 56-58. 76. AE 1969/70, 170. 77. AE 1991, 297. 78. CIL XI, 5836 = CLE 1252. 79. CIL VI, 3785a = ICUR 5, 13800. 80. Samama Les médecins dans le monde grec, p. 412, nota 309. 81. CIL VI, 37337.

Medico divino e razionale, carnifex e amicus: a chi dare fiducia?

53

l’accusa si ripete nel ricordo di Ephesia Rufria per esser deceduta a causa dell’ignoranza dei medici: morì per una febbre maligna che le provocarono i medici e che oltrepassò le loro previsioni.82 Del resto, secondo il poeta satirico Petronio, i medici sono in grado di blandire, di consolare, non di curare davvero: offrono solamen e animi consolatio, non medicine efficaci.83 Una sfiducia forse diffusa ma che risulta sicuramente mitigata nelle parole fatte incidere sulla tomba del giovane auriga di Tarragona Eutyches: il defunto riflette serenamente sulla propria sorte, che lo ha rapito alla vita a ventidue anni, quando le sue viscere sono state bruciate da un morbo nascosto, contro il quale nulla hanno potuto i medici di buona volontà.84 3. La fiducia nei “medici” divini Per comprendere appieno la necessità di rivolgersi a medici “divini” conviene richiamarsi allo statuto ontologico della malattia:85 per l’uomo antico essa esiste al di fuori del corpo umano, è dotata di una specifica forma materiale e può essere utilizzata dagli dei come strumento per sanzionare le colpe e i peccati di empietà commessi dagli uomini. Confermano questa linea di pensiero varie testimonianze, a partire dal noto passo dell’Iliade, I,43-67, in cui un loimós, un morbo diffuso e inarrestabile, una mortalità collettiva,86 colpisce l’accampamento dei Greci che assediano Troia: Apollo, offeso a causa del trattamento ignominioso riservato al suo sacerdote, si vendica mediante l’invio di una pestilenza. Muta l’ambito geografico e cronologico (II-III sec. d.C.) ma, in una serie di epigrafi provenienti dalla Caria, regione dell’Asia Minore, ricompare il medesimo binomio colpa-malattia: la divinità in collera è Men, dio della luna di origini indo-persiane. Men è il responsabile della malattia ma, al contempo, colui che solo può guarire, a condizione che il fedele riconosca il suo errore, lo espii e renda grazie al dio con la scrittura di una stele, mezzo 82. CIL VI, 25580. 83. Satyricon, 42. 84. CIL II, 4314. 85. Mirko D. Grmek, Il concetto di malattia, in Storia del pensiero medico occidentale, 1, Antichità e medioevo, Bari, Laterza, 1993, pp. 323-347; Jacqueline Vons, Mythologie et médecine, Paris, Ellipses, 2000, pp. 60-69. 86. Gazzaniga, La medicina antica, p. 35.

54

Daniela Rigato

rituale per liberarsi dal peccato e atto conclusivo del processo.87 Sulla preferenza dell’ammalato per la medicina sacra è, tuttavia, molto probabile che abbiano influito una serie di elementi tra i quali l’assenza in alcune zone di medici praticanti competenti, la bassa percentuale di successi della medicina razionale, le convinzioni personali e, non da ultimo, l’impatto economico. Sebbene l’intervento divino comportasse comunque un costo – spese di viaggio per recarsi al santuario e soggiorno in loco, acquisto di un animale da sacrificare ed eventuale dedica di un ex voto – a “mitigare” l’incidenza dell’onorario divino, a differenza dei medici che esigevano il pagamento per il consulto prima di aver provato l’efficacia delle loro cure, il dio reclamava ciò che gli spettava88 solo in caso di successo della cura, conformemente al “contratto” pattuito col fedele. Non è inoltre da escludere il ruolo svolto dalla convinzione che, in caso di risultato negativo di una delle due opzioni, si aveva pur sempre a disposizione la seconda chance. Un’interessante testimonianza in questo senso proviene dalla provincia romana di Siria89 ove, su un modesto altare, eretto in un santuario tra II e III sec. d.C. per ringraziare della guarigione ottenuta, sono esplicitate le ragioni del ricorso all’aiuto divino: l’ammalato è caduto nelle mani di trentasei medici e non è guarito; allora ha invocato il dio, che gli ha prescritto l’utilizzo di una pianta. La lacunosità del testo non permette di ricostruire il teonimo, probabilmente una divinità di origine locale, e dubbia risulta anche la tipologia del medicamento vegetale suggerito: forse il ricino.90 Sebbene il numero dei medici paia simbolico, dall’epigrafe emerge nettamente il loro coinvolgimento prima di interpellare un dio, al quale l’ammalato è giunto in un secondo momento, causa l’incapacità umana di curarlo, al pari della vicenda di Eschine, l’oratore ateniese vissuto nel IV sec. a.C., che afferma in un suo epigramma, riportato nell’Antologia Palatina (VI,330), come Asclepio l’abbia guarito in tre mesi da un’ulcera alla testa che i medici avevano provato a curare per un anno. Non poca incidenza sulla maggiore fiducia nei medici divini doveva avere anche 87. Rigato, Gli dei che guariscono, pp. 87-91. 88. Sul salario dei medici cfr. Gabriele Marasco, Les salaires des médecins en Grèce et à Rome, in Le normal et le pathologique dans la Collection hippocratique, vol. II, a cura di Antoine Thivel e Arnaud Zucker, Nice-Sophia Antipolis, Publications de la Faculté des Lettres, Arts et Sciences Humaines, 2002, pp. 769-786. 89. SEG XLVII, 1932. 90. Jean-Paul Rey-Coquais, Note sur deux sanctuaires de la Syrie romaine, in «Topoi», 7, 2 (1997), pp. 929-944.

Medico divino e razionale, carnifex e amicus: a chi dare fiducia?

55

il timore di terapie dolorose, composte dalla triade pharmakon, kausis e tome, cioè farmaci depurativi, cauterizzazioni e incisioni chirurgiche, elencate nel Protagora di Platone (354 A). Tuttavia, il rappresentante per antonomasia del legame fiduciario nei confronti delle divinità con capacità terapeutiche e in particolare di Asclepio, figlio di Apollo e detentore di numerosi santuari nei quali si praticava la iatromanzia, è il retore Elio Aristide, autore di vari scritti fra cui sei Discorsi sacri. Le sue memorie coprono il periodo 143-171 d.C., se pur con una lacuna per gli anni 155-165, il cui resoconto non è pervenuto. Dall’estate del 145 a quella del 147, tranne alcuni periodi trascorsi lontano per compiere viaggi voluti dal dio, egli soggiorna presso il grande asklepieion di Pergamo. L’inizio del suo particolare rapporto si lega al rientro da un viaggio in Italia: a causa delle gravi condizioni fisiche, è condotto a fare le cure termali a Efeso e qui avviene il primo incontro con colui che egli definisce sotér, il salvatore. «Personalità complessa, fondamentalmente egocentrica con nette vene di megalomania e decise tendenze ipocondriache» – questo l’incisivo ritratto che ne dà in un suo studio Giulia Sfameni Gasparro91 –, Elio Aristide è l’eterno malato che si trasforma in un osservatorio privilegiato per l’analisi del rapporto con alcune divinità oracolari e guaritrici. Oltre ad Asclepio figurano, quali importanti referenti, Zeus, Dioniso, Poseidone, Atena, Serapide e Iside, tutti in grado di aiutare nel momento di crisi prodotto dalla malattia e ai quali egli si affida, riconoscendo, tuttavia, in Asclepio il divino iatrós. Nella sua esperienza, peculiare appare la valenza del fenomeno onirico,92 che pervade l’intera vicenda esistenziale: egli vive i suoi sogni come parte integrante della vita, dialogando costantemente per il loro tramite con il livello del sovrumano, senza bisogno di intermediari. Talvolta i 91. Giulia Sfameni Gasparro, Elio Aristide e Asclepio, un retore e il suo dio: salute del corpo e direzione spirituale, in Oracoli profeti sibille: rivelazione e salvezza nel mondo antico, Roma, LAS, 2002, pp. 203-253, in particolare p. 204. 92. Il procedimento risanatore attuato negli asklepieia prevedeva il ricorso alla iatromanzia, una particolare forma divinatoria a sfondo religioso-terapeutico praticata dai sacerdoti presenti nei templi. Ce ne sono giunte le tracce attraverso la documentazione epigrafica rinvenuta in alcuni tra i più importanti santuari del dio e i Discorsi sacri di Elio Aristide. Cfr., ad esempio, Pierre Sineux, Dormir, rêver, montrer. Les représentations figurées du rite de l’incubation dans les sanctuaires grecs, in «Kentron», 23 (2007), pp. 11-29 e Gil H. Renberg, Where Dreams May Come: Incubation Sanctuaries in the Greco-Roman World, 2 voll. (Religions in the Graeco-Roman World, 184), Leiden-Boston, Brill, 2017.

56

Daniela Rigato

consigli paiono inadatti, specie ai medici, ma siccome il dio non sbaglia mai, egli elogia sistematicamente la sua saggezza e superiorità, affrontando con estremo coraggio e piena convinzione ciò che gli viene imposto.93 Ciò non significa, tuttavia, che, in taluni casi, come documenta un passo dei suoi Discorsi sacri (I,57), non possa riscontrarsi una evidente collaborazione tra dio e specialista. Del resto, la consonanza fra gli esponenti delle due tipologie di medicina non deve stupire: da lungo tempo, oramai, la medicina templare e i suoi attori, per conservare la fiducia dei loro pazienti, si erano adeguati ai progressi scientifici della medicina razionale,94 mentre la realtà sociale dei grandi santuari rappresentava un bacino d’utenza formidabile anche per i medici, fornendo loro occasioni per farsi conoscere, dimostrare la loro abilità e conquistare la fiducia degli ammalati. A ulteriore riprova di questa dialettica, si possono addurre sia la constatazione che Asclepio era onorato dai medici come loro antenato, precursore e iniziatore della pratica medica, sia il cospicuo numero di medici designati suoi sacerdoti o addetti al culto menzionati dalla documentazione epigrafica. Fra questi ne compaiono anche taluni di indiscussa fama come Caius Stertinius Xenophon, medico degli imperatori Claudio e Nerone, insignito del titolo di sacerdote perpetuo di Asclepio nella sua città natale di Cos, sede di una tra le più importanti scuole mediche,95 e Galeno, la cui “apertura” alla medicina sacra si giustifica, tra il resto, sulla base di alcune vicende personali: il soccorso fornitogli dal dio in giovane età96 e l’importanza di alcuni sogni, inviati al padre Nicon, e rivelatisi decisivi nella scelta della sua vocazione di medico.97 Piuttosto che condannare la medicina divina, Galeno preferiva presentare Asclepio come un modello per la fiducia che sapeva ispirare nei suoi 93. Cfr., ad esempio, Discorsi sacri, II, 74-76. Su quest’opera di Elio Aristide si rimanda all’edizione di Salvatore Nicosia, Discorsi sacri. Elio Aristide, Milano, Adelphi, 1984. 94. Luigi Perilli, «Il dio ha evidentemente studiato medicina». Libri di medicina nelle biblioteche antiche: il caso dei santuari di Asclepio, in Stranieri e non cittadini nei santuari greci, a cura di Alessandro Naso, Firenze, Le Monnier, 2006, pp. 472-510. 95. Rigato, Gli dei che guariscono, pp. 48-52. 96.  Emma Jeannette Levy Edelstein, Ludwig Edelstein, Asclepius. Collection and interpretation of the testimonies, Baltimore-London, John Hopkins University Press, 1998, I ed. 1945, T. 458. 97. Ivi, T. 805; Cécile Nissen, Asclépios et les médecins d’après les inscriptions grecques: des relations cultuelle, in «Medicina nei secoli. Arte e Scienza», 19, 3 (2007), pp. 721-744, in particolare p. 735 e note 54 e 55.

Medico divino e razionale, carnifex e amicus: a chi dare fiducia?

57

devoti, tra i quali, per l’appunto, come documentano alcune iscrizioni, anche medici ricorsi, nei casi clinici più difficili, alle sue capacità iatriche.98 Si tratta, dunque, di una figura divina cui si rivolgevano persone di tutte le estrazioni sociali, attratte dalle sue qualità di divinità guaritrice, mantica, soccorrevole per qualsiasi tipo di bisogno e soprattutto disponibile a instaurare un legame diretto con ogni singolo fedele, ovvero quella prassi comportamentale che dovrebbe essere alla base di un rapporto di fiducia fra medico e paziente; un rapporto che troviamo già delineato, anzi, inciso sulla pietra, nel poema di Sarapion,99 ove si precisa quale doveva essere lo stato d’animo del medico durante la visita e il tipo di atteggiamento da tenere nei confronti dei pazienti, seppure appartenenti ad ambiti sociali estremamente diversi: «in questo stato d’animo, come un dio sapiente, abbia il medesimo atteggiamento cogli schiavi, coi poveri, coi ricchi e coi re e prodighi le sue cure a tutti come un fratello…».

98. Ne è esempio CIL XIII, 6621, un’iscrizione rinvenuta a Obernburg, sede di un forte costruito lungo il limes, nella provincia romana della Germania superior, incisa su un altare consacrato ad Asclepio e altre divinità da parte di un medico militare, originario di Ostia, per ringraziare dell’intervento divino rivelatosi decisivo nella guarigione del prefetto della coorte, sopperendo all’impotenza umana. 99. Samama, Les médecins dans le monde grec, p. 182, nota 22. Sarapion fu un medico e filosofo stoico vissuto tra I e II sec. d.C.

Tommaso Duranti Confidentia tamen de medico debet precedere. La fiducia verso i medici tra pieno medioevo e prima età moderna

1. Premessa: il medico medievale La figura del medico medievale viene spesso letta attraverso due stereotipi, entrambi veridici, ma che non ne esauriscono l’orizzonte: quello dell’empirico/ciarlatano, un curatore privo di formazione teorica, che basandosi, nella migliore delle ipotesi, sulla sola esperienza e su nozioni tradizionali, era frequentemente portatore di un sapere pratico non fondato sulla conoscenza delle cause; e quello del medico colto, la cui identità culturale vira soprattutto verso il filosofo naturale, isolato nelle aule universitarie, impegnato a elucubrare sui testi antichi e privo di rapporto terapeutico con i malati. Sono ritratti, si diceva, che hanno un fondamento, ma che non includono tutte le sfumature professionali e culturali di coloro che, per il periodo medievale, possono essere compresi nella categoria dei medici. Tra i due “estremi”, più agevole è indagare il mondo dei medici colti e, dal XIII secolo, universitari, naturalmente poiché a essi si devono opere scritte che permettono allo studioso di entrare in contatto con le tematiche affrontate nella riflessione teorica e nella pratica terapeutica. Gli studi degli ultimi decenni hanno ormai assodato che il medico medievale, compreso il docente universitario, aveva in molti casi un ruolo anche attivo al capezzale del malato e, soprattutto, che nella riflessione medica era preso in considerazione il tema della visita medica e di tutte le ricadute, anche concettuali, a essa collegate: in sostanza, il rapporto medico-paziente era presente anche nel medioevo ed era presente anche ai medici medievali, che dagli autori dell’antichità recuperarono la necessità di meditare sull’incontro – personale, professionale e terapeutico – col malato.

60

Tommaso Duranti

Aspetto fondamentale del rapporto tra medico e paziente, come la letteratura scientifica odierna ribadisce con forza, è la questione della fiducia, che si lega inscindibilmente a concetti quali speranza e obbedienza. Anche nel medioevo alcuni medici presero coscienza, nei loro scritti, del problema di sapersi rapportare al paziente in un modo che fosse non solo tecnico, ma che – a cavallo tra sentimento di umanità, carità cristiana, etica professionale e necessità terapeutica – “soggettivasse” il paziente, ritrasformandolo in malato e in individuo e instaurando con lui quello che, per brevità, possiamo definire un rapporto psicologico ed emotivo. Nel considerare l’“invenzione della fiducia” nel medioevo, va sottolineato che il punto di svolta tra una medicina prevalentemente empirica e una medicina “scientifica” – secondo i criteri dell’epoca, naturalmente –, che dunque si interrogasse anche sul rapporto terapeutico, risale sostanzialmente al XII secolo, quando l’esperienza della scuola medica salernitana e l’inizio delle traduzioni di opere classiche e arabe permisero all’Occidente latino – il nostro campo di indagine – una riflessione sul ruolo di medico e paziente nel momento della cura. L’instaurarsi in Europa, a partire dal XIII secolo, dell’insegnamento universitario di medicina,1 portò da un lato all’aumento della produzione di testi, dall’altro alla formazione di medici istruiti e, per questo, forse, più capaci di agire sulla società – un processo di lunga durata e che “sfora” ampiamente nella prima età moderna. Due sono le declinazioni principali di fiducia attraverso cui condurre questa riflessione: la prima è di tipo “individuale”, ossia se, come e perché il medico dovesse ispirare un sentimento di fiducia nel paziente. La seconda, che rientra nella sfera della fiducia sistemica, dunque impersonale, è definibile anche come professionale: le strategie di professionalizzazione dei mestieri della sanità, nel tentativo di instaurare un monopolio – imperfetto è stato chiamato2 – di esperti formati e selezionati riuscirono a conseguire una qualche forma ante litteram di fiducia sistemica? Prenderemo, dunque, in considerazione dapprima il tema della fiducia all’interno della riflessione sul rapporto medico-paziente, poi quello della professionalizzazione dei medici. 1. Per una sintesi sulla nascita degli insegnamenti universitari di medicina, si rimanda a Tommaso Duranti, The Origins of the Studium of Medicine of Bologna: a Status Quaestionis, in «CIAN. Revista de Historia de las Universidades», 21 (2018), pp. 121-149. 2. Un monopolio imperfetto. Titoli di studio, professioni, università (secc. XIV-XXI), a cura di Maria Teresa Guerrini, Regina Lupi e Maria Malatesta, Bologna, CLUEB, 2016.

Confidentia tamen de medico debet precedere

61

2. La fiducia secondo i medici medievali I moderni dizionari di lingua italiana definiscono la fiducia un «sentimento di sicurezza, tranquillità, speranza e simili che deriva dal confidare in qualcosa o qualcuno, nelle possibilità proprie e altrui» o «atteggiamento, verso altri o verso se stessi, che risulta da una valutazione positiva di fatti, circostanze, relazioni, per cui si confida nelle altrui o proprie possibilità, e che generalmente produce un sentimento di sicurezza e tranquillità».3 La corrispondente voce dell’Enciclopedia Treccani permette di mettere in luce altri aspetti: «aspettativa, formulata in condizioni di incertezza, di un comportamento favorevole messo in atto da individui, gruppi, istituzioni sociali».4 Connotazioni simili sono riscontrabili nel primo lessico latino medievale, a opera di Papias, attivo a metà XI secolo: egli definisce la confidentia5 come la fiducia che si prova trovandosi in una situazione negativa; confidere, a sua volta, è definito come il costante sperare. Rispetto al lemma fides (fede) – ripreso dalle Etimologie di Isidoro di Siviglia e connotato dall’astrattezza («non possiamo credere in ciò che vediamo») – confidentia si denota per l’ambito negativo («in malis»), mentre fiducia per quello positivo («in bonis»),6 secondo la definizione giunta al medioevo attraverso il grammatico Servio.7 La definizione di fiducia, dunque, tra il medioevo e i giorni nostri, si intreccia con l’affidarsi a qualcuno, altro da sé, con l’aspettativa e con la speranza: un sentimento che emerge in condizioni di disagio o di difficoltà. Non sembra inutile, infine, sottolineare che nel lessico giuridico medievale il concetto di fiducia rimanda a un legame e vincolo.8 3. Sono, rispettivamente, le definizioni del Nuovo De Mauro online: https://dizionario. internazionale.it/parola/fiducia, e del Vocabolario Treccani online: http://www.treccani.it/ vocabolario/fiducia/ (ultima consultazione 5 ottobre 2020). 4. Enciclopedia Treccani online: http://www.treccani.it/enciclopedia/fiducia/ (ultima consultazione 5 ottobre 2020). 5. Confidentia è il termine latino più frequente nei testi medici per indicare il corrispondente italiano “fiducia”, mentre fiducia è più caratteristico del contesto giuridico. 6. Papias, Elementarium doctrinae erudimentum, Venezia, F. Pincio, 1496, ad voces. 7.  La stessa connotazione si ritrova nei principali lessici medievali, ad esempio in Uguccione da Pisa, Derivationes, a cura di Enzo Cecchini, Guido Arbizzoni et al., Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 2004, vol. II, p. 435 (Fido, -is). Anche Uguccione comprende la fede nell’ambito semantico della fiducia, pur ritenendone più verosimile l’etimologia da Fio, -is (p. 443); e in Giovanni Balbi, Catholicon seu Summa prosodiae, 1506, ff. 273 e 367. 8.  Cfr. Giovanni Diurni, Fiducia: tecniche e principi negoziali nell’alto medioevo, Torino, G. Giappichelli, 1992, p. 10.

62

Tommaso Duranti

Oggi le neuroscienze hanno ampiamente mostrato – e la ricerca apporta sempre nuovi dati – che fiducia e speranza possono indurre nel paziente, oltre a una tranquillità che di per sé è un valore aggiunto in un momento di dolore e sofferenza, anche oggettivi benefìci derivanti dalla sollecitazione di particolari aree del cervello e, di conseguenza, dall’attivazione delle «stesse vie biochimiche di farmaci» che inducono effetti sull’organismo, arrivando persino a migliorare le prestazioni della terapia. Anche l’antropologia medica insiste, da tempo, sul ruolo fondamentale dell’aspettativa e delle emozioni del malato nel processo di guarigione. Le nuove scoperte sembrano permettere uno slittamento concettuale credenza-affidamentofiducia, sfumando in parte le problematicità messe in luce da Byron Good a proposito della credenza.9 I medici del medioevo, naturalmente, non avevano a disposizione gli strumenti, tecnici e gnoseologici, per immaginare tali meccanismi: ma, forse, l’assenza tecnologica e di conoscenza biochimica contribuirono a indirizzare la riflessione anche su fattori esterni al corpo, in un’ottica che è possibile in un certo senso allargare a tutte le medicine di tipo olistico. Se l’effetto benefico di un atteggiamento fiducioso da parte del paziente poteva essere frutto dell’osservazione empirica nella propria esperienza di terapeuti, il suo meccanismo venne progressivamente indagato per tentare di darne spiegazione secondo criteri razionali, e dunque scientifici – sempre, naturalmente, in relazione all’orizzonte conoscitivo dell’epoca. Il ruolo della fiducia del paziente nel suo curatore, dunque, portò a interrogarsi – si è detto – sul rapporto medico-paziente. La fiducia, in tal caso, è di tipo personale: il medico è l’uomo, e non solo il tecnico, che sta davanti al malato; è dunque soprattutto nell’incontro della visita medica che si gioca la possibilità di instaurare un sentimento di fiducia. I primi testi che si soffermarono sul rapporto medico-paziente avevano elencato le virtù del perfetto medico, componendo ritratti ideali e tradizionali, poi a lungo ripetuti, che mettevano al centro il terapeuta, più che il paziente. Privilegiando un assetto morale innato nel medico, più che le virtù “costruite” durante la sua formazione e attività, questi testi includono talvolta indicazioni di etichetta, ossia sul comportamento che il medico 9. Fabrizio Benedetti, La speranza è un farmaco. Come le parole possono vincere la malattia, Milano, Mondadori, 2018, p. 11; Byron J. Good, Narrare la malattia. Lo sguardo antropologico sul rapporto medico-paziente, Torino, Einaudi, 2006 (ed. or. Cambridge, Cambridge University Press, 1994); per il tema della “credenza”, pp. 23-33.

Confidentia tamen de medico debet precedere

63

doveva tenere, sia durante l’esercizio della sua arte, sia in generale nella sua vita quotidiana. È stato giustamente sottolineato che il fine principale di questo genere di indicazioni fosse soprattutto creare e tutelare la dignità del medico, spesso in connessione con il tema del compenso: in effetti, molti indizi le fanno ritenere strategie per evitare il costume, evidentemente diffuso, di non pagare le prestazioni. Al contempo, iniziò a delinearsi una nobilitazione della figura del medico, che soprattutto nei secoli più risalenti risentiva del giudizio negativo derivante dal tipo di attività praticata, considerata alla stregua di un mestiere manuale, privo delle caratteristiche tipiche delle arti liberali, e inoltre “macchiato” dalla contiguità col corpo malato, col sangue, con la materia impura. Certo, in questo ritratto negativo aveva rilievo anche la scarsa affidabilità di tecniche terapeutiche che possiamo definire come poco incisive: ma se la valenza della medicina scientifica non sta solo nel suo risultato,10 bensì innanzitutto nel suo procedimento (e quella accademica medievale nella conoscenza delle cause), a maggior ragione va tenuto a mente che la fiducia in una terapia non necessariamente è proporzionale alla sua efficacia provata. Il ritratto del medico ideale, dunque, è un concentrato di virtù morali ed etiche, il cui significato sociale è, però, ampio: per semplificare, se un medico sobrio e modesto, amabile, umile e addirittura casto non è per nulla un medico per questo più capace, il suo profilo assume valore in quanto corrispondente a un ideale più o meno condiviso socialmente.11 In tal senso, queste virtù delineano un’immagine rassicurante, che dunque nel rituale terapeutico ha un ruolo importante, non per il suo aspetto tecnico, bensì per quello interpersonale: gli effetti di questa personalità che si fa anche atteggiamento sono stati paragonati a quelli che, al giorno d’oggi, scaturiscono in un malato alla vista del camice bianco o delle strumentazioni mediche o del solo ambiente ospedaliero. Così va interpretata anche la sollecitazione a compiere approfonditamente e quasi con “ostentazione” i gesti diagnostici tipici – e quasi simbolici, come attesta l’iconografia prevalente del medico medievale12 – della medicina del tempo (ossia l’ascol10. Cfr. Isabelle Stengers, Il medico e il ciarlatano, in Tobie Nathan, Isabelle Stengers, Medici e stregoni, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, pp. 103-144, p. 110 (ed. or. Paris, 1995). 11. Cfr. Chiara Crisciani, La formazione del medico nel Medioevo: dottrina ed etica, in Formare alle professioni. Figure della sanità, a cura di Monica Ferrari e Paolo Mazzarello, Milano, Franco Angeli, 2010, pp. 36-57, p. 55. 12. Cfr. Laurence Moulinier-Brogi, L’Uroscopie au Moyen Âge. Lire dans un verre la nature de l’homme, Paris, Honoré Champion, 2012, pp. 77-88.

64

Tommaso Duranti

to del polso e l’uroscopia), che permetteva di calare automaticamente il paziente nel tempo ritualizzato della visita medica.13 Va da sé che – nel passato, come oggi – il malato deve avere una fiducia, un’aspettativa, più o meno consapevole, nel terapeuta e nella medicina che esprimono quei simboli, per sentirsene rassicurato. L’irrompere delle nuove traduzioni e dell’insegnamento universitario provocò, nel corso del XIII secolo, un grande cambio di paradigma: soprattutto dal cosiddetto “nuovo Galeno” i medici medievali ricevettero la conferma che la fiducia del malato era importante anche a fini terapeutici. Nel commentare il Prognostico di Ippocrate, Galeno aveva infatti affermato: «La fiducia dei pazienti nell’affidarsi [al medico] è essenziale, e colui al quale i pazienti si affidano cura la maggior parte delle malattie».14 I medici colti, impegnati a “creare” il valore scientifico della loro disciplina, iniziarono ad aggiungere al tradizionale ritratto morale del perfetto medico le caratteristiche che – un po’ anacronisticamente – possiamo definire professionali. Dunque, se non scomparvero mai le indicazioni sul perfetto carattere del buon medico, sempre più valore assunsero le qualità che egli dapprima apprende e poi esercita durante le sue funzioni: Arnaldo da Villanova, ad esempio, raccomanda che il medico debba possedere innanzitutto honestas e diligentia, ossia la responsabile applicazione nello studio e nella pratica, la competenza, la professionalità appunto.15 Cambiò anche la finalità principale di queste indicazioni: se dapprima era la necessità di rispetto e obbedienza (e, si è detto, pagamento), dal XIII secolo emersero anche motivazioni che posero al centro non solo il medico, ma pure il paziente.16 13. Michael R. McVaugh, Bedside Manners in the Middle Ages, in «Bulletin of the History of Medicine», 71, 2 (1997), pp. 201-223, pp. 203 e 212. 14. Citato ivi, p. 210. 15. Michael R. McVaugh, Medical Values and Behavior. A View from 1380s Montpellier, in Medical Ethics. Premodern Negotiations between Medicine and Philosophy, a cura di Mariacarla Gadebusch Bondio, Stuttgart, Franz Steiner Verlag, 2014, pp. 73-89; cfr. Luis García-Ballester, Medical Ethics in Transition in the Latin Medicine of the Thirteenth and Fourteenth Centuries: New Perspectives on the Physician-Patient Relationship and the Doctor’s Fee, in Doctors and Ethics: the Earlier Historical Setting of Professional Ethics, a cura di Andrew Wear, Johanna Geyer-Kordesh e Roger French, Amsterdam-Atlanta, Rodopi, 1993, pp. 38-71, pp. 42-43. 16.  Non mancano posizioni che continuavano a privilegiare gli interessi del medico: in tal senso sembra declinarsi il De cautelis medicorum habendis di Alberto Zancari, medico bolognese del primo Trecento (su cui Manuel Morris, Die Schrift des Albertus de

Confidentia tamen de medico debet precedere

65

In realtà, ciò non era del tutto assente nei primi ritratti moraleggianti: l’esigenza, da parte del medico, di dover ottenere obbedienza dal paziente sembra sottendere un rapporto generalmente conflittuale, di sfiducia nei confronti del medico e della medicina. L’obbedienza richiesta al paziente, però, ha una connotazione non soltanto inerente al rapporto di potere che, immancabilmente, può imporsi tra chi sa (o dice di sapere) e chi non sa (e al contempo soffre ed è preoccupato); essa ha infatti una conseguenza piuttosto intuitiva: il paziente obbediente è colui che segue le indicazioni terapeutiche del medico; mancando ciò, almeno teoricamente nessuna terapia può funzionare (questo anche se le medicine prescritte non hanno, dal punto di vista biochimico, alcun effetto). Lo scarto tra la medicina medievale che possiamo per comodità chiamare pre-universitaria e quella universitaria è che, nella seconda, l’obbedienza del paziente si legò a doppia mandata alla fiducia che il paziente doveva avere, e che il medico doveva sapere ottenere, facendo emergere il paziente come coprotagonista della relazione terapeutica, mentre precedentemente l’obbedienza sembrava scaturire soprattutto dal senso di inferiorità o di rispetto verso una figura atteggiantesi come intellettualmente e moralmente superiore, presupponendo un paziente che, nel rapporto col medico, “subiva” passivamente, quasi assente. Nel commentare il primo aforisma di Ippocrate, sul cui significato si era basata la riflessione sull’obbedienza del paziente, un anonimo commentatore del XIII secolo mette in relazione obbedienza e fiducia concludendo che «tuttavia deve venire prima la fiducia nel medico».17 Il nuovo approccio al tema della fiducia appare grossomodo contemporaneamente negli scritti di alcuni medici dei principali contesti universitari. A Montpellier, dapprima, il commento di magister Cardinalis agli Aforismi di Ippocrate introdusse il concetto che l’obbedienza è una qualità intrinseca che ci si aspetta dal paziente, così come dal medico ci si aspetta il sapere tecnico. Concetti analoghi venivano elaborati presso l’Università Zancariis aus Bologna ‘De cautelis medicorum habendis’, Diss., Leipzig, 1914; cfr. anche Mc Vaugh, Medical Values, p. 83). Gli sbilanciamenti in un senso o nell’altro potrebbero però dipendere anche dalla tipologia testuale: il commento a Ippocrate composto da Arnaldo è innanzitutto un’opera destinata alla formazione dei futuri medici, mentre lo scritto di Zancari si connota maggiormente come “vademecum” cautelativo per i professionisti. 17. Citato in Fernando Salmón, The Physician as Cure in Medical Scholasticism, in Ritual Healing. Magic, Ritual and Medical Therapy from Antiquity until the Early Modern Period, a cura di Idiko Csepregi e Charles Burnett, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 2012, pp. 193-215, p. 201.

66

Tommaso Duranti

di Bologna, da parte di Taddeo Alderotti, negli anni Ottanta del Duecento, e poi di alcuni suoi successori. Anche Arnaldo da Villanova sottolineava che l’obbedienza del paziente è in sostanza l’atteggiamento che permette a quest’ultimo di delegare il controllo sul proprio corpo, comprendendo che l’azione del medico è «finalizzata al suo bene».18 Mi pare che il concetto di obbedienza delineato dai testi medici a partire dal XIII secolo, dunque, sia più vicino a quello odierno di “aderenza”19 del paziente, più che al solo esito di un rapporto di potere. Come poteva, il medico, ottenere fiducia dal paziente? Secondo i medici medievali era innanzitutto il suo comportamento, lo si è accennato, a poter far scaturire un sentimento di fiducia che divenne, dal XIII secolo, necessario preludio all’azione terapeutica: il principale mezzo fu individuato nella parola. L’odierna ricerca neurologica sta dimostrando che le parole attivano aree del cervello analoghe a quelle attivate da alcune sostanze farmacologiche: la parola, dunque, agisce sul corpo, ha delle conseguenze psicologiche e fisiche e come tale non deve essere sottovalutata, anzi deve divenire strumento, seppur complementare, del medico nella relazione terapeutica. Quando Arnaldo da Villanova metteva in guardia sostenendo che la malattia è sconfitta dalle opere, e non dalle parole, si riferiva agli eccessi retorici del medico, alle formule ridondanti e alla necessità di una terapia farmacologica ritenuta insostituibile:20 ciò non toglieva valore all’uso della parola nella relazione terapeutica. Già dal momento dell’anamnesi, l’agire del medico doveva essere rivolto a conoscere la persona malata, informandosi non solo su sintomi e decorso della malattia, ma anche sullo stile di vita, sulla sua disponibilità alla cura e sulle sue convinzioni radicate e più o meno inconsce. Tutto ciò permetteva al medico di farsi un quadro il più possibile completo del paziente/ individuo, naturalmente a fini diagnostici; ma al contempo metteva a proprio agio il paziente, che si sentiva preso in cura, oggetto di interesse e valorizzato come persona: si instaurava dunque un rapporto di confidenza/confidentia. La tranquillità che ne scaturiva sarebbe stata funzionale anche alle tecniche diagnostiche: secondo alcuni autori, infatti, il dialogo col paziente andava iniziato prima di sentire il polso – uno dei fondamentali atti di diagnosi – affinché il malato eventualmente agitato non 18. Citato ivi, pp. 196-201. 19. Cfr. Benedetti, La speranza, pp. 61-62. 20. Crisciani, La formazione, p. 55.

Confidentia tamen de medico debet precedere

67

compromettesse la buona riuscita dell’operazione.21 Nel comunicare col paziente, il medico doveva mostrare dolcezza, delicatezza, saper parlare con formule cautelative e vaghe ispirate alla prudenza, ma al contempo doveva anche saper rendere comprensibile il proprio discorso tecnico al paziente e saperlo ascoltare.22 Oltre al dialogo e all’atteggiamento empatico, i medici medievali sottolinearono che anche l’elemento della prognosi – centrale nella riflessione sull’attività del medico – avesse importanti conseguenze nel creare le condizioni affinché il paziente si affidasse.23 Tra i motivi fondamentali della necessità di sapere pronosticare, Alderotti esplicita che uno «è la fiducia che il malato ha nel medico, poiché quando il malato vede il medico pronosticare con competenza (scientem), confida in esso e si rimette alla cura con sicurezza».24 Fernando Salmón ha sottolineato un aspetto fondamentale: i brani inerenti alla fiducia si trovano, in genere, in opere di commento, dunque in testi connessi all’attività didattica; ciò fa ritenere che il messaggio fosse finalizzato in modo particolare alla formazione dei futuri medici, dando un significato “performativo” alla riflessione sulla fiducia. La permanenza del tema negli autori successivi permette di concludere che l’argomento fosse considerato importante e da tramandare. Un esempio evidente, mi pare, viene dall’opera del medico trecentesco Niccolò Falcucci: i suoi Sermones medicinales sono una summa del sapere medico fino ad allora elaborato, finalizzata a mettere ordine nel sapere acquisito e a renderlo maggiormente fruibile. L’opera è organizzata seguendo il modello del Canon medicinae di Avicenna, che nel corso del XIV secolo era ormai assurto ad auctoritas “didattica”. Se nel primo Sermo, trattando del ritratto del medico, Falcucci connette l’ottenimento della fiducia alle tradizionali virtù personali ed etiche,25 nel secondo, incentrato sulla terapia, dedica un capitolo agli impedimenti della buona riuscita della cura, di cui indica undici cause.26 Le prime due, l’imperizia 21. Cfr. ad esempio De adventu medici ad aegrotum, in Collectio Salernitana, a cura di Salvatore De Renzi, Napoli, Sebezio, 1853, vol. II, pp. 72-80, p. 74. 22. Crisciani, La formazione, p. 55. 23. Non a caso il tema della fiducia fu introdotto dal commento di Galeno al Prognostico ippocratico (v. supra, nota 14). 24. Citato in Salmón, The Physician, p. 203. 25. Niccolò Falcucci, Sermonum liber scientie medicine, Venezia, Lucantonio Giunta, 1515: Sermo I, tract. I, dist. II, cap. XI, cc. VIIva-VIIvb. 26. Ivi, Sermo II, tract. I, summa I, cap. VI, cc. VIvb-VIIrb.

68

Tommaso Duranti

del medico e la disobbedienza del malato, rimandano alle qualità principali dei due attori della relazione, elaborate, lo si è detto, tra XII e XIII secolo. La terza e la quarta si riferiscono a fattori esterni: la mancanza di persone idonee che si prendano cura del malato e la carenza di medicine e di tutti gli strumenti necessari, direttamente o indirettamente, alla terapia; la quinta a fattori di turbamento o di tristezza per il malato. La sesta, la settima e l’ottava sono intrinseche al tipo di malattia. La decima è l’influenza del tempo atmosferico e della temperatura. Infine, l’undicesima è «la mancanza di fiducia del malato verso se stesso o verso il medico e le medicine o verso quanto lo circonda».27 La posizione finale nell’elenco non deve trarre in inganno: Falcucci lascia la fiducia per ultima perché è il tema più affrontato, a cui non dedica poche parole come agli altri dieci, ma un’ampia spiegazione che sintetizza le posizioni assunte dai suoi predecessori nello spiegare perché e come la fiducia ha rilevanza nell’esito della terapia. L’ultima posizione si fa, dunque, la principale, in linea con un citatissimo passo di Avicenna, secondo cui la speranza nutrita dalla fiducia cura molto più delle tecniche terapeutiche.28 Si è detto che la prima motivazione era di carattere pragmatico: il paziente fiducioso è obbediente, e segue con maggior “aderenza” le indicazioni terapeutiche, favorendo dunque la cura; tale lettura era già presente nei commenti salernitani al Prognostico e fu continuamente ribadita anche dagli autori successivi, ad esempio da Taddeo Alderotti.29 Ma nella medicina universitaria si fece urgente la necessità di comprendere come le emozioni (rendiamo così il termine passiones, o, come preferito dal contesto medico, accidentes dell’animo) agissero direttamente sul corpo. Il tema si collegava alla secolare questione del rapporto tra corpo e anima, ma i medici, sulla scorta delle loro auctoritates, tesero a “incarnare” la spiegazione degli effetti delle emozioni. Ad esempio, riferisce Falcucci, alcuni sostengono che immaginare la riduzione del dolore fa sì che lo spirito animale (possiamo dire: la sensibilità) che provoca il dolore sia richiamato al cervello, riducendo, appunto, la sensibilità al dolore nel membro che ne è afflitto; oggi sappiamo che l’ansia può scatenare reazioni 27. Ivi, c. VIvb. 28. Avicenna Latinus, Liber de anima seu sextus de naturalibus, IV-V, a cura di Simone Van Riet, Louvain-Leiden, E.J. Brill, 1968, IV 4, p. 64. 29. Cfr. Salmón, The Physician, p. 205.

Confidentia tamen de medico debet precedere

69

biochimiche simili a quelle provocate dal dolore, e che dunque ridurre uno stato ansioso può far diminuire la sensazione di dolore.30 Chiamando in causa soprattutto Galeno e Avicenna, il potere della fiducia/speranza viene ricondotto alla virtù immaginativa, che “proietta” nella mente il risultato sperato. Prima di Falcucci, Urso di Salerno, l’ultimo grande medico salernitano, aveva dipinto un ritratto del medico che si incentrava sul carisma.31 Urso affida alla parola una spiegazione di tipo fisico, che mette in moto un processo esterno rispetto alla parola stessa (non è dunque la parola in sé che guarisce, altrimenti ognuno potrebbe, pronunciando determinate parole, operare una guarigione): parlando, il medico in buone condizioni fisiche (il che rimanda anche alla necessità di un suo certo stile di vita, e dunque alle qualità “morali”), emette uno spirito puro che agisce sull’aria presente tra lui e il malato; quando quest’ultimo inspira quest’aria purificata, favorisce a sua volta la purificazione e il corroboramento dei propri spiriti.32 Nello Speculum medicine, un compendio a uso prevalentemente didattico composto attorno al 1300, Arnaldo da Villanova, pur sottolineando che, in fondo, al medico potesse interessare relativamente come le emozioni influissero sul corpo, accontentandosi di averne esperito gli effetti, aveva comunque offerto una sintesi di tipo fisico incentrata sui movimenti fisiologici innescati dalle passioni dell’animo: le emozioni provocano dilatazioni o contrazioni degli organi, riscaldamento o raffreddamento, e così via.33 Così, la gioia e la speranza permettono al cuore del malato, contratto dalla paura e dal dolore, di espandersi, favorendo il fluire nell’organismo degli spiriti, creando favorevoli condizioni psicologiche, ma anche agendo terapeuticamente. Falcucci ricorda che l’esperienza ha provato diverse volte ai medici che un paziente poteva essere aiutato nella convalescenza dall’essere finalmente visitato da un illustre medico che stava aspettando, o consolato da una preghiera, dall’applicazione di uno scritto, e anche dall’ingerire sostanze non medicamentose in cui era riposta un’aspettativa.34 Come nei suoi predecessori, infatti, il tema degli effetti delle emozioni sul corpo si 30. Benedetti, La speranza, p. 188. 31.  Maaike Van Der Lugt, The Learned Physician as a Charismatic Healer: Urso of Salerno (Flourished End of Twelfth Century) on Incantations in Medicine, Magic, and Religion, in «Bulletin of the History of Medicine», 87 (2013), pp. 307-346. 32. Ivi, pp. 314-323. 33. Salmón, The Physician, pp. 207-208. 34. Falcucci, Sermonum, Sermo II, tract. I, summa I, cap. VI, c. VIvb.

70

Tommaso Duranti

legava a una questione spinosa, analoga nel funzionamento: il potere di incantesimi, formule e amuleti.35 La riflessione era scaturita dalla circolazione di un trattato intitolato – nella traduzione latina probabilmente effettuata da Costantino Africano – De physicis ligaturis, opera di un medico cristiano melchita conosciuto in Occidente come Costa Ben Luca, attivo nella seconda metà del IX secolo.36 Rifacendosi al pensiero greco (soprattutto di Ippocrate e di Platone) e a quello indiano, Costa Ben Luca vi spiegò gli effetti di oggetti (amuleti, pietre) e formule (incantesimi e preghiere). Nei medici medievali, la sua interpretazione fu ampliata a comprendere il comportamento del medico e le sostanze non medicamentose, come si è visto con Falcucci. L’effetto preconizzato da Costa Ben Luca, e poi passato nella medicina occidentale, è stato paragonato a qualcosa di analogo a quello che oggi è definito effetto placebo.37 Tutti questi fattori potevano, si riteneva, provocare un effetto positivo a livello psicologico con conseguenze anche fisiche, anche se non sempre era agevole darne motivazione: a collegare incantesimi, preghiere, pietre, erbe, impiastri, è l’aspettativa, la fiducia che si ha nel loro potere curativo. Un potere che si allarga anche alle persone: il medico empatico, attento, compassionevole, si fa egli stesso cura, grazie alla fiducia che ispira nel paziente. Lo stesso si può dire del ciarlatano, o dell’empirico, dunque del curatore, spesso privo di formazione “scientifica”, che agiva con mezzi tradizionali, a volte volutamente oscuri, poiché anche il “segreto” può ispirare fiducia (o, meglio in questo caso, fede).38 Così, il domenicano (e istruito) Nicholas, 35.  I due aspetti si ritrovano insieme, ad esempio, nelle differentiae 135 e 156 del Conciliator di Pietro d’Abano. 36. Judith Wilcox, John M. Riddle, Qusta Ibn Luqa’s Physical ligatures and the Recognition of the Placebo Effect. Whit an Edition and Translation, in «Medieval Encounters. Jewish, Christian and Muslim Culture in Confluence and Dialogue», 1 (1995), pp. 1-50. 37. Su cui si rimanda a Fabrizio Benedetti, L’effetto placebo. Breve storia tra mente e corpo, Roma, Carocci, 2012, che però, nella sua ricostruzione storica, “salta” dall’antichità classica al XVII secolo (pp. 11-12); egli ribadisce che la scienza moderna non guarda più al solo placebo farmaceutico (“la pillola finta”), ma al «complesso contesto psicosociale che induce aspettative di miglioramento» (p. 32), ricordando che sarebbe più corretto parlare di effetti placebo, al plurale, e anche di effetto dell’aspettativa (pp. 33-47). 38.  Cfr. Danielle Jacquart, Du genre des «secrets» dans la médecine médiévale, in Ead., Recherches médiévales sur la nature humaine. Essais sur la réflexion médicale (XIIeXVe s.), Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 2014, pp. 181-194, pp. 182-183 (ed. or. in «Micrologus», XIV (2006), pp. 345-357).

Confidentia tamen de medico debet precedere

71

autore dell’Antipocras, un testo violentemente critico delle procedure terapeutiche della medicina universitaria, curava con miscugli di sostanze – in questo non diversamente dai suoi colleghi accademici, va ricordato – e con amuleti di cui non erano state “provate” le virtù. Fondamentale nel rituale terapeutico instaurato da Nicholas era che l’amuleto venisse indossato o utilizzato «nel nome di Nicholas» (scartando “addirittura” l’ipotesi di «nel nome di Cristo»):39 la fiducia/fede nel curatore era esplicitamente il solo mezzo di azione. In un noto processo intentato nel 1322 dalla Facoltà di Medicina di Parigi contro la “ciarlatana” Jacqueline Felicié, i pazienti testimoniarono che l’avevano creduta una medica autorizzata poiché compiva tutti i gesti tipici della professione, ma soprattutto che ella confortava i malati dicendo: «se crederai in me…», considerando la fiducia/fede nella sua persona quasi come un prerequisito per essere accettati in cura.40 Si ribadisce che, nei due ultimi esempi portati, esattamente come nelle procedure della medicina universitaria, non è da mettere in discussione l’efficacia farmacologica delle sostanze usate (ottimisticamente da ritenersi rara), ma gli effetti che essi avevano proprio in virtù dell’aspettativa che il paziente riponeva in essi e, soprattutto, in chi li somministrava. Ecco perché la riflessione sulla fiducia provocò anche una più attenta, seppur in nuce, riflessione di tipo deontologico: il comportamento che il medico doveva tenere nella visita al malato superò, lo si è detto, la questione della dignità, per entrare nel campo della terapia. Oltre alle questioni di decoro e di aspetto, questi testi in genere inserirono anche notazioni su come comportarsi nei confronti del paziente. Michele Scoto, ad esempio, raccomandava di visitare frequentemente il malato, abitudine utile anche per alleviarne la tristezza,41 un’attenzione che sembra preludere alle mi39. William Eamon, Gundolf Keil, “Plebs amat empirica”: Nicholas of Poland and His Critique of the Mediaeval Medical Establishment, in «Sudhoffs Archiv», 71, 2 (1987), pp. 180-196, p. 180. 40. Salmón, The Physician, p. 193. Gli atti del processo sono editi in Chartularium Universitatis Parisiensis, a cura di Heinrich Denifle e Emile Chatelain, Paris, Delalain, 1891, vol. II, pp. 255-267. 41. Piero Morpurgo, Il capitolo ‘De informacione medicorum’ nel Liber introductorius di Michele Scoto, in «Clio. Rivista trimestrale di studi storici», 4 (1984), pp. 651-659, p. 657. Non va dimenticato che, nelle norme di interesse medico comprese nel Liber Augustalis, Federico II rendeva obbligatoria la visita almeno due volte al giorno e, su richiesta, anche una volta durante la notte (Giovanni Rossi, La “scientia medicinalis” nella legislazione e nella dottrina giuridica del tempo di Federico II, in «Studi medievali», s. 3, XLIVII (2003), pp. 179-218, p. 184).

72

Tommaso Duranti

gliori performance di una visita medica di durata non breve, sottolineate dalla ricerca contemporanea.42 Ma tra le strategie rientrano anche modalità specificamente comunicative: un esempio evidente è il consilium (una sorta di “consulenza a distanza”) inviato dal medico Ugolino da Montecatini, vissuto a cavallo tra i secoli XIV e XV, ad Averardo de’ Medici. Il testo è composto secondo tutti i crismi di questa tipologia testuale,43 ma Ugolino scelse di scrivere in volgare – una soluzione piuttosto rara – affinché il destinatario/paziente potesse meglio comprendere i termini tecnici e il quadro clinico che egli stava descrivendo. La comprensione da parte del paziente, che aveva spinto il medico anche a soprassedere dall’esaminare con completezza eziologia e sintomatologia della malattia, era considerata funzionale alla sua partecipazione alla cura e fece propendere Ugolino per l’uso del volgare e di un lessico comprensibile – anche se questo comportava, da parte sua, una maggior difficoltà – e, al contempo, comprensivo.44 Un atteggiamento analogo è riscontrabile, nel XVI secolo, nel trattato sulla sifilide di Gaspar Torrella: egli allegò alla sezione teorica alcuni suoi consilia connessi alla riflessione elaborata (e ripresa quasi letteralmente da Falcucci) sulla confidentia. Essi servivano ad aumentare la fiducia nel lettore, mostrando che le sue scelte terapeutiche avevano effetto, ma rivelano anche un medico attento a confortare i propri pazienti, se in preda alla disperazione/mancanza di speranza, consolandoli con parole gentili e ragionamenti alla loro portata. In uno dei casi allegati, Torrella aveva esortato il proprio paziente a un atteggiamento gioioso, a rifuggire collera e ira, tristezza e solitudine. Dopo un mese, il malato gli confidò che i problemi di insonnia – che lo avevano attanagliato dal momento in cui si era reso conto di avere contratto il morbo – erano passati grazie «alla sola ferma immaginazione e alla speranza di salute».45 42.  Cfr. Gilberto Corbellini, Com’è umano quel dottore, in «Domenica-Il Sole 24 ore», 151 (3 giugno 2018), p. 25. 43. Su cui si rimanda a Jole Agrimi, Chiara Crisciani, Les consilia médicaux, Turnhout, Brepols, 1994. 44. Marilyn Nicoud, Alla ricerca degli autori cosiddetti «minori»: un percorso nella tradizione manoscritta del consilium, in Summa doctrina et certa experientia. Studi su medicina e filosofia per Chiara Crisciani, a cura di Gabriella Zuccolin, Firenze, SismelEdizioni del Galluzzo, 2017, pp. 195-220, pp. 216-219. 45. Cfr. Concetta Pennuto, Confiance et espoir de guérison: Gaspar Torcella, médecin de la pudendagra, in «Histoire, médecine et santé. Revue d’histoire sociale et culturelle de la médecine, de la santé et du corps», 9 (2016), pp. 91-108; la citazione è alla nota 44.

Confidentia tamen de medico debet precedere

73

La compartecipazione del paziente, che lo rende soggetto nell’atto terapeutico, si collega alla fiducia/obbedienza; ecco perché, talvolta, i medici medievali si sono soffermati su come ottenere uno stato psicologico positivo attraverso altri escamotages: fare concessioni al piacere del paziente, in conformità ai suoi gusti, ad esempio alimentari; sorvolare su certe omissioni; prescrivere qualcosa che non facesse altrettanto bene quanto ciò che al malato non piaceva, ma che essendogli gradito avrebbe avuto un migliore effetto; soprattutto nella fase convalescenziale, far sì che il malato fosse circondato da persone affini per età e per interessi, affinché potesse piacevolmente conversare e svagarsi.46 Per queste ragioni, anche nei trattati sulla peste, una delle indicazioni più ricorrenti per prevenire il contagio o per favorire l’eventuale guarigione è quella di creare un clima allegro attraverso musica, danze e giochi:47 e immediato il pensiero corre alla cornice del Decameron di Giovanni Boccaccio. 3. La società e la fiducia nei medici L’attestarsi della medicina universitaria, e delle sue riflessioni teoriche, coincise con un processo che è stato definito di “medicalizzazione” della società europea occidentale: con tale concetto si intende, al contempo, sia l’aumento dell’offerta di prestazioni mediche, sia una progressiva introduzione di forme di controllo e selezione che preludono a forme di professionalizzazione. Se è indubbio che per l’età medievale si debba usare estrema prudenza nell’impiego della categoria “professionalizzazione”, è al contempo possibile tracciare anche per gli ultimi secoli di quell’epoca un processo che introdusse le caratteristiche tipiche della definizione di profes46. Vedi ad esempio De instructione medici secundum Archimathaeum, in Collectio Salernitana, vol. V, pp. 333-349, p. 348; cfr. Loren C. MacKinney, Medical Ethics and Etiquette in the Early Meddle Ages: the Persistence of Hippocratic Ideals, in «Bulletin of the History of Medicine», XXVI, 1 (1952), pp. 1-31, p. 26; Danielle Jacquart, Marilyn Nicoud, L’office du médecin entre intercession et médiation, in L’intercession du Moyen Age à l’époque moderne. Autour d’une pratique sociale, a cura di Jean-Marie Moeglin, Genève, Droz, 2004, pp. 195-214, pp. 201-202. 47. Ad esempio Baverio Bonetti, Reggimento nel tempo della peste, Bologna, 1478, f. a5 e Marsilio Ficino, Consilio contro la pestilenza, a cura di Enrico Musacchio, Bologna, Cappelli, 1983, p. 113, riportano prescrizioni di questo tipo. Cfr. anche la spiegazione offerta da Girolamo Manfredi, Liber de Homine. Il Perché, a cura di Anna Laura Trombetti Budriesi e Fabio Foresti, Bologna, Luigi Parma, 1988, pp. 175-176 (I,vii,23).

74

Tommaso Duranti

sione: un sistema auto-normativo, una coscienza comunitaria, un percorso formativo preventivo e una qualche forma di selezione.48 In quest’ottica, pur tentando di non cadere in anacronismi, va valutata la possibilità che anche per il basso medioevo la figura di professionista che si andava tratteggiando potesse in parte rispondere, almeno a livello teorico e progettuale, alle connotazioni che il professionista ha assunto nella contemporaneità, poiché «dal momento che il professionista “professa”» – cioè dichiara di essere il più competente nel proprio campo, in virtù del fatto che ha superato una formazione superiore e una selezione professionale – «pretende di essere creduto, che si abbia fiducia in lui»:49 una definizione non lontana da quella duecentesca di Giovanni Balbi, secondo cui professio è innanzitutto la scientia «in cui qualcuno è ritenuto eccellere, sia da se stesso sia dagli altri».50 Se tra i fattori che ispirano fiducia c’è la competenza, la selezione da parte di esperti supplisce all’ignoranza del fruitore, che si sente così garantito nell’affidarsi a qualcuno giudicato, appunto, competente. Si entra, insomma, nel dominio di quella fiducia sistemica o professionale, alla quale si è accennato in apertura. Nel lento delinearsi di caratteristiche analoghe a quelle delle professioni modernamente intese, vanno sottolineati alcuni aspetti fondamentali: innanzitutto, si è detto, a partire dal Duecento, la comparsa di insegnamenti medici nelle università europee, dunque di una formazione di tipo teorico; contestualmente, l’attestazione di prime forme di “selezione”: esse, a differenza di quanto succede oggi, non richiedevano obbligatoriamente l’ottenimento di una laurea, ma iniziarono col privilegiare un progressivo riconoscimento alla frequenza di corsi di studio. Il vero attestato che permetteva di esercitare legalmente il mestiere di medico era la licentia practicandi, che progressivamente poteri sovrani e locali iniziarono a considerare vincolante per l’esercizio della professione. Va ribadito che si tratta di un orizzonte progettuale: non vi era alcuna forma di monopolio professionale da parte dei medici con formazione universitaria, né un controllo totalizzante sull’accesso alla pratica; pesano, su 48. Cfr. Tommaso Duranti, Doctores e dottori: laurea in medicina e professioni mediche nel Medioevo europeo, in Un monopolio imperfetto, pp. 1-13. Sulle connotazioni della categoria di “professione”, si rimanda, tra gli altri, a Giovanni Cosi, La responsabilità del giurista: etica e professione legale, Torino, G. Giappichelli, 1998, pp. 99-109, le cui riflessioni sulla professione giuridica sono riferibili anche a quella medica. 49. Cosi, La responsabilità del giurista, p. 109. 50. Balbi, Catholicon, f. 620.

Confidentia tamen de medico debet precedere

75

ciò, anche elementi geografici (maggior incidenza nei paesi mediterranei rispetto al Nord Europa) e di contesto sociale (il mondo urbano, più di quello rurale). Ma si trattò di una fondamentale novità rispetto all’età romana e altomedievale.51 Le prime norme nell’Occidente latino52 risalgono a una disposizione di Ruggero II per il Regno di Sicilia del 1141, poi ripresa in forme analoghe da Federico II nel Liber Augustalis del 1231: il sovrano vi stabilisce i requisiti necessari per praticare l’arte medica nel regno, ossia un iter di studi presso la Scuola salernitana e il sostenimento di un esame davanti a una commissione formata da maestri salernitani e funzionari del regno. Se questo esame era superato, il sovrano conferiva la licentia professionale.53 Analoghe norme furono emanate dal legato pontificio Gui de Sora per la regione di Montpellier nel 1239, poi integrate da re Giacomo I nel 1272;54 nella Corona d’Aragona a partire dai fuers di Monzon del 1289 emanati da Alfonso III, a Valenza nel 1329-30, in Portogallo dal 1338.55 A Parigi, sin dal Duecento era la Facoltà di Medicina a essersi avocata il diritto di giudicare i candidati alla pratica professionale,56 una situazione che si ripropose in forme simili anche in altri contesti universitari, come ad esem51. Rossi, La “scientia medicinalis”, p. 184. 52. Piers D. Mitchell, Medicine in the Crusades. Warfare, Wounds and the Medieval Surgeon, Cambridge, Cambridge University Press, 2004, pp. 220-231, ha ipotizzato che una preesistente forma analoga nei territori islamici, passata poi ai regni cristiani in Terrasanta, possa essere stata precedente (e forse di ispirazione) alle norme di Ruggero II; ma, come lo stesso studioso sottolinea, si tratta di suggestioni difficilmente dimostrabili. 53. Rossi, La “scientia medicinalis”; Ortensio Zecchino, Le arti sanitarie nelle Costituzioni di Federico II, in Terapie e guarigioni, Atti del Convegno internazionale, Ariano Irpino, 5-7 ottobre 2008, a cura di Agostino Paravicini Bagliani, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 2010, pp. 249-259. 54. Cartulaire de l’Université de Montpellier, I, Montpellier, s.n., 1890, n. 4, pp. 185-186. 55. Luis García-Ballester, Michael R. McVaugh, Augustín Rubio, Medical Licensing and Learning in Fourteenth-century Valencia, in «Transactions of the American Philosophical Society», 79, 6 (1989), p. 3; McVaugh, Medicine, pp. 70-71 e 95-96; Iona McCleery, Medical Licensing in Late Medieval Portugal, in Medicine and the Law in the Middle Ages, a cura di Wendy J. Turner e Sara M. Butler, Leiden-Boston, Brill, 2014, pp. 169-219, pp. 196-197 e 202. 56.  Pearl Kibre, The Faculty of Medicine at Paris. Charlatanism, and Unlicensed Medical Practice in the Later Middle Ages, in «Bulletin of the History of Medicine», 27, 1 (1953), pp. 1-20, pp. 12-13 e Danielle Jacquart, La médecine médiévale dans le cadre parisien, XIVe-XVe siècles, Paris, Fayard, 1998, pp. 303-310.

76

Tommaso Duranti

pio a Bologna, ove la selezione e il controllo di coloro che praticavano le professioni sanitarie erano prerogativa del Collegio dei dottori di arti e di medicina, che almeno dalla prima metà del XIV secolo era l’organismo ufficiale che conferiva anche le lauree nelle due discipline nello Studium cittadino.57 Nel contesto dell’Italia centro-settentrionale, laddove mancava un’università ben radicata, erano le corporazione professionali a effettuare le selezioni e le concessioni di licenze di mestiere, come nel caso ben studiato di Firenze.58 In ogni caso, era la selezione degli operatori “legittimati” il campo in cui la medicina accademica svolgeva una forma di controllo della professione, esercitata da organismi collegiali che, in un certo senso, anticipano la formazione dei moderni ordini professionali, e che dalla prima età moderna assunsero anche funzioni giurisdizionali.59 Gli studi sulle professioni, non solo medievali, hanno spesso messo in luce la connotazione corporativa, di frequente sottolineandone la declinazione negativa di difesa del privilegio, di chiusura in casta: sono aspetti presenti anche oggi nel dibattito e che hanno un fondamento anche per i secoli medievali. Ma questo dato di fatto non esclude un’altra caratteristica: che, almeno teoricamente, le forme di professionalizzazione tentassero – al di là dei risultati ottenuti – di operare strategie volte anche alla selezione di professionisti qualificati e in grado di offrire un miglior servizio all’utente. Le prime regole medievali di comportamento del medico rispetto al paziente, lo si è visto, erano state fortemente caratterizzate da un sentimento di sfiducia e sospetto reciproco. Va sottolineato che la tendenziale sfiducia del malato nei confronti del terapeuta ha anche una connotazione 57. Tommaso Duranti, Il collegio dei dottori di medicina di Bologna: università, professioni e ruolo sociale in un organismo oligarchico della fine del medioevo, in «Annali di storia delle università italiane», XXI (2017), pp. 151-177 (con bibliografia sugli altri collegi medici dell’Italia settentrionale: p. 151). 58. Katharine Park, Doctors and Medicine in Early Renaissance Florence, Princeton, Princeton University Press, 1985 e Lucia Sandri, Il Collegio medico fiorentino e la riforma di Cosimo I: origini e funzioni (secc. XIV-XVI), in Umanesimo e università in Toscana (1300-1600), Atti del Convegno internazionale, Fiesole-Firenze, 25-26 maggio 2011, a cura di Stefano U. Baldassarri, Fabrizio Rucciardelli e Enrico Spagnesi, Firenze, Le Lettere, 2012, pp. 183-211, pp. 189-199. 59. Gianna Pomata, La promessa di guarigione. Malati e curatori in antico regime, Roma-Bari, Laterza, 1994, cap. I, e David Gentilcore, «All that pertains to medicine»: «protomedici» and «protomedicati» in early modern Italy, in «Medical History», 38 (1994), pp. 121-142.

Confidentia tamen de medico debet precedere

77

topica, nel ritratto letterario del medico avaro, incompetente, ingannatore, addirittura “omicida impunito”, che costella i testi di ogni periodo e di ogni genere; minor pregnanza sembrerebbe derivare dagli effettivi risultati delle pratiche terapeutiche. Ma è soprattutto un aspetto socioculturale a darle forza: in quello che è stato definito un relativo equilibrio di potere tra medico e malato, nelle società antiche era il malato a giudicare il terapeuta e le sue pratiche, secondo un principio di autodiagnosi e di autocura, peraltro non del tutto scalzato dalla medicina odierna.60 Le preoccupazioni dei medici per i loro compensi hanno fatto parlare di cinismo nei confronti dei malati. Le cose, naturalmente, erano più complesse: ancora nel XIV secolo, Henri de Mondeville sosteneva che il pagamento fosse il simbolo materializzato della fiducia che il malato riponeva nel terapeuta; esso, secondo il noto chirurgo, significava che il paziente si stava affidando al medico.61 Il tema era legato anche a questioni giuridiche, secondo cui le professioni liberali erano remunerate di fatto attraverso un onorario, non un salario vero e proprio, e dunque solo a prestazione conclusa.62 Dal Duecento comparvero in diversi contesti particolari forme contrattuali, che Gianna Pomata, dedicandosi al caso bolognese di prima età moderna, ha ribattezzato «promesse di guarigione»: in sintesi, si tratta di contratti in cui terapeuta e paziente si accordavano sul compenso e sulla modalità di pagamento, che doveva avvenire a conclusione della terapia e solo in caso di successo della stessa. Questi patti, che potrebbero essere interpretati come esplicito segno di sfiducia, rimandano in realtà soprattutto a questioni legate allo scambio serviziodenaro; essi inoltre confermano il ricorso a terapeuti “ufficiali”, in un panorama culturale in cui spesso “autoterapia” e ciarlatani erano privilegiati, e rappresentavano anche una forma di garanzia per il medico, che dunque aveva un contratto in mano, da impugnare in caso di mancato pagamento. Inoltre, va ribadito, promettere la guarigione rientrava tra le strategie da mettere in atto per conquistare la fiducia del paziente, seppur «con l’aiuto di Dio» secondo le parole del De instructione medici e come anche la citata Jacqueline Felicié assicurava ai propri pazienti: una specificazione certo retorica e prudenziale, che però sembra segnare il 60. Pomata, La promessa, p. 7. 61. McVaugh, Medicine, pp. 172-173. 62. Pomata, La promessa, pp. 11-12 e cap. II; Enrico Sandrini, La professione medica nella dottrina del diritto comune. Secoli XIII-XVI, Parte II, Padova, CEDAM, 2009, cap. II.

78

Tommaso Duranti

confine tra “dare speranza” e “promettere con sicurezza”, uno dei criteri che ancora oggi differenzierebbero medico e ciarlatano.63 Si può, dunque, parlare di fiducia – o di sfiducia – sistemica? La documentazione disponibile sembrerebbe indicare un progresso, almeno relativo, di fiducia nella medicina colta e nella categoria professionale da parte soprattutto delle autorità pubbliche. Come Michael McVaugh ha lucidamente sottolineato, proprio il carattere pubblico di molte delle fonti a cui possiamo accedere rischia di fare sovrastimare la fiducia verso la medicina e i medici a partire dal basso medioevo.64 È inoltre sempre necessario tenere conto dell’orizzonte “autoterapeutico” del malato medievale e di prima età moderna: lo stesso ricorso al medico non sembra essere, secondo alcuni studi, preponderante. Allo stesso modo, il crescente interesse – negli scritti dei medici – per il tema della fiducia non aveva necessariamente un automatico riscontro nella realtà terapeutica e sociale. È piuttosto arduo tentare di comprendere quanto iter formativo e coronamento della licentia practicandi fossero percepiti, a livello sociale, come discriminanti; e va tenuto conto che in massima parte le pratiche dei “ciarlatani” erano analoghe a quelle della medicina ufficiale, tanto che la loro condanna non verteva sugli esiti terapeutici, e solo in minima parte sulle procedure, focalizzandosi soprattutto sugli aspetti legali (ossia, la mancanza della licentia). Nel giudizio sull’individuo, e dunque anche sul professionista (in senso lato), fondamentale era il criterio della fama, che difficilmente nei contesti quotidiani dipendeva da curriculum e licenze. La svolta colta della medicina, inoltre, potrebbe averne aumentato la caratura elitaria, favorendo un senso di soggezione da parte della più larga parte della società; né va escluso che il processo di controllo da parte dei poteri pubblici, oltre a essere finalizzato alla selezione di medici preparati, rendesse questi ultimi «strumenti della repressione», ad esempio per l’obbligo che avevano di denunciare i casi di contagio in tempo di epidemia.65 Va però sottolineato che molti dei testimoni chiamati a deporre nel processo a Jacqueline Felicié riferirono di essersi affidati a 63.  De instructione medici, p. 333; cfr. Pomata, La promessa, p. 68; Benedetti, La speranza, pp. 147-154; Osvaldo Cavallar, La «benefundata sapientia» dei periti: feritori, feriti e medici nei commentari e consulti di Baldo degli Ubaldi, in «Ius commune», XXVII (2000), pp. 215-281, p. 216. 64. McVaugh, Medicine, p. 187. 65. Cfr. Irma Naso, Medici e strutture sanitarie nella società tardo-medievale: il Piemonte dei secoli XIV e XV, Milano, Franco Angeli, 1982, pp. 125-127.

Confidentia tamen de medico debet precedere

79

lei solo dopo che i medici “ufficiali” che li avevano presi in cura avevano dichiarato di non poterli guarire: dunque, almeno in quel caso, sembra di poter affermare che, in un contesto urbano, i malati sapessero di “doversi” rivolgere a medici di professione, e che il ricorso a una outsider come Jacqueline fosse percepito come ultima ratio: un atteggiamento che, come si sa, non si limita ai secoli medievali. Resta comunque indubbio che, a partire dal Duecento, aumentò considerevolmente il numero di terapeuti sul medical marketplace (anche se si deve tener conto della diversa situazione documentaria) e che la crescita della medicina colta da un lato e le forme di controllo della professione dall’altro testimoniano anche la progettualità, non necessariamente concretizzatasi, di garantire cure affidabili: secondo l’ottica del tempo, esse erano quelle che derivavano da conoscenza teorica ed esperienza pratica e che si basavano su una lunga tradizione autoritativa. Il “canone” medico che fu in tal modo stabilito era il metro di giudizio nel valutare l’operato dei medici da parte dei tribunali (civili o professionali) e dunque della dicotomia tra “veri” medici e ciarlatani, ed era la discriminante che i giuristi individuavano per riconoscere gli esperti di medicina, nell’articolato processo di valorizzazione del sapiente di scienza medica da parte del diritto.66 Anche in ambito ecclesiastico alcune posizioni testimoniano una crescente fiducia verso i medici: questi ultimi sono addirittura presi, in una predica trecentesca, come pietra di paragone nella scelta del confessore «per garantirsi riservatezza, saggezza e conoscenza». Umberto di Romans raccomandava ai confratelli domenicani di obbedire a quanto prescritto dai medici: se qui l’accento sembra posto più sul concetto dell’obbedienza – la cui pregnanza è evidente per un religioso – e si rifà a un noto passo biblico,67 Angela Montford ha dimostrato che in prediche ed exempla soprattutto domenicani emerge frequentemente il tema della fiducia nei confronti del medico:68 l’eventuale elemento esemplare non inficia, anzi rafforza il ri66. Cfr. ad esempio Cavallar, La «benefundata sapientia»; Tommaso Duranti, «Ius civile credit Hypocrati»: medicina e diritto in dialogo, oltre le dispute universitarie, in La medicina nel basso medioevo. Tradizioni e conflitti, Atti del LV Convegno storico internazionale, Todi, 14-16 ottobre 2018, Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 2019, pp. 313-347. 67. Sir. 38, 1-15, che inizia: «Onora il medico per le sue prestazioni, perché il Signore ha creato anche lui». 68. Angela Montford, Health, Sickness, Medicine and the Friars in the Thirteenth and Fourteenth Centuries, Aldershot, Ashgate, 2004, pp. 135-138.

80

Tommaso Duranti

ferimento a un atteggiamento chiaramente identificabile da parte di chi ascoltava o leggeva. Pur con tutta la prudenza del caso, dunque, si può tratteggiare, per gli ultimi secoli del medioevo, uno sguardo più fiducioso nei confronti dell’attività dei medici almeno nei contesti alti (e urbani) della società, anche se non disgiunto da interessi corporativi e da processi di accentramento del controllo politico.

Maria Conforti Fiducia per lettera: medici e pazienti nei consulti italiani tra tardo Seicento e primo Settecento

1. Trust: una lunga storia Ove non giunge la fiducia d’un malato pel suo medico? Vedete quell’infelice, con occhio estinto, depresse le forze, assiderato e macilento il corpo: un medico insinuante ed abile s’impossessa della costui fiducia: all’istante la speranza rinasce nell’animo di quello, il sangue circola con maggiore rapidità, risvegliasi il perduto coraggio, e la natura e l’arte riconducono la salute. […] L’arte di persuadere è il principale mezzo di ottenere la fiducia degli ammalati: questo è un dono che manca talvolta al genio.1

Oggi la nozione di fiducia (in inglese trust), intesa soprattutto come fiducia del paziente nel medico o nell’operatore sanitario, domina la discussione nel campo delle medical humanities e della stessa medicina. In che senso, invece, si può leggere la nozione di fiducia in età moderna? È possibile ritrovare, andando indietro nel tempo, la concezione corrente di trust? Di fatto, l’idea contemporanea di fiducia, più o meno analoga a quella qui presentata attraverso una citazione di metà Ottocento, non è esplicitata, se non in maniera asistematica, nei testi medici di età moderna. Anche in quelli appartenenti al genere “de optimo medico”, che godette di ampia fortuna e diffusione, manca una precisa tematizzazione della questione, che rimane sullo sfondo di un rapporto tra paziente e curante (medico, chirurgo, o altro professionista della cura) regolato dal paternalismo e dunque da un implicito e passivo affidamento del primo alle capacità e 1. Roberto Sava, Sui pregi e doveri del medico, Milano, Martinelli, 1845, cap. XVII, Dell’Arte di ottenere la Fiducia degli ammalati, pp. 123-129; 125-126.

82

Maria Conforti

alla coscienza del secondo. In questi testi, tuttavia, si insiste sempre anche sulle capacità di persuasione del medico e sulla necessità di saper parlare bene per convincere il paziente della correttezza di diagnosi e prognosi, dell’opportunità delle cure scelte, e per sostenerlo psicologicamente.2 Il termine manca nei lessici e dizionari medici che a partire dalla fine del Cinquecento fornirono un orientamento, sotto forma di definizioni facilmente consultabili, per chi si interessava di questioni mediche. Uno dei primi dizionari a contemplare una voce specifica fu quello, molto diffuso, di Robert James, di metà Settecento.3 James adopera il termine latino fiducia, traducendolo in inglese come Confidence, «the firm Trust or Reliance of the Patient on the Physician; which, according to Hippocrates, prognos. In Proem., and others since him, is of no small Moment towards a Cure».4 Come si vede, per James questo è un elemento molto antico del rapporto di cura, ed è importante perché può determinarne l’efficacia. Il termine tuttavia scompare di nuovo del tutto nei dizionari di primo Ottocento – si pensi a quello, molto diffuso in Italia, compilato dal medico veneziano Mosè Giuseppe Levi a partire da una traduzione di uno dei molti dizionari medici dell’editore francese Panckoucke5 –, quando invece si diffonde il genere dei galatei medici. È come se in questo periodo si affermasse la netta differenziazione tra lo stile della medicina scientifica e le “istruzioni per l’uso”, più colloquiali e generali, rivolte ai professionisti e implicitamente ai pazienti. 2. Si veda ad esempio Giovanni Maria Lancisi, Dissertatio de recta medicorum ratione instituenda, Romae, Salvioni, 1715, pp. 11-12. 3. Massimo Rinaldi, Divulgazione e formazione nella cultura medica del Settecento: il Dizionario di Robert James, in Locating Subjects/Soggetti e saperi in formazione. Identità e differenza tra premoderno e tarda modernità, Atti del Convegno internazionale di studi, Rende, 7-8 ottobre 2005, a cura di Marilena Parlati, Eleonora Federici e Manuela Coppola, Roma, Aracne, 2009, pp. 41-59. In genere sulla lessicografia medica e in particolare sul primo Ottocento si veda Luca Serianni, Lingua medica e lessicografia specializzata nel primo Ottocento, in La Crusca nella tradizione letteraria e linguistica italiana, Firenze, Accademia della Crusca, 1985, pp. 255-287. 4. Robert James, A medicinal dictionary, 3 voll., London, J. Roberts, 1743-1745, vol. II, ad vocem. 5. Dizionario classico di Medicina interna ed esterna (o di Chirurgia e d’Igiene pubblica e privata) composto da Adelon, Andral, Beclard [et al.]. Prima traduzione italiana di M.G. Levi dottore in Medicina e Filosofia; membro del Veneto Ateneo, ec. con parecchie giunte spettanti alla medicina teorica e pratica, in ispezieltà italiana, Venezia, Giuseppe Antonelli editore, 1835-1846.

Fiducia per lettera

83

Un testo particolarmente interessante in questo senso, anche perché contiene una descrizione molto vivace e realistica, ai limiti del letterario, delle relazioni tra pazienti e curanti, è scritto a metà Ottocento dal milanese Giuseppe De Filippi, autore di diversi lavori medici rivolti ai non specialisti.6 De Filippi parla, per i medici, di amicizia da parte del corpo sociale (e di fiducia solo nel caso dei pazienti anziani), e utilizza il termine di origine francese confidenza, lo stesso di James, per illustrare al giovane medico l’arte di conquistare la fiducia dei pazienti. Ciò può avvenire sostanzialmente in due modi: o accattivandosi i servi di casa, dunque risalendo dal basso la scala sociale,7 o affidandosi alle donne che si stringono «con molta fiducia» ai medici più giovani.8 In questo caso, il termine assume, come si può ben comprendere, una caratterizzazione tra il negativo e l’ironico. La parola amicizia sembra più adatta a tradurre l’espressione contemporanea trust.9 De Filippi comunque dà una serie di precetti e consigli, sia di tipo sociale che prossemico, per venire «a componimento», a compromesso, con il malato (s’intende, quello di buon livello sociale),10 e descrive con attenzione i segni e i sintomi dell’avvenuta accettazione del medico, quindi appunto dello stabilirsi di quello che noi chiameremmo un rapporto di fiducia, da parte del paziente e della sua famiglia. I consigli di De Filippi sono volti a costruire una strategia efficace di conquista del paziente: una strategia che può anche prevedere violazioni minori, atti contrari al principio per lui fondamentale della pubblicità delle attività mediche, ma non attentati gravi alla morale e alla deontologia professionale del suo tempo. Raccomanda ad esempio al medico di prestarsi, se necessario, all’espediente di visite segrete, qualora queste possano aiutare a mantenere il decoro della famiglia e del paziente.11 Il medico, a suo parere, non può permettersi di ingannare i pazienti, a meno che questi non siano «fanciulli, ipocondriaci, isteriche, vecchi rimbambiti, pazzi».12 6. Giuseppe De Filippi, Galateo medico, ossia intorno al modo di esercitare la medicina, Consigli ad un giovane medico […] opera in cui si svolgono i vicendevoli rapporti tra il medico e la civile società, Milano, Molina, 1841 (I ed. Firenze, Pagni, 1839). 7. Ivi, pp. 17-19. 8. Ivi, p. 21. 9. Ivi, p. 101, sull’amicizia provocata nel malato dall’attenzione che il medico presta ai dettagli della sua malattia. 10. Ivi, p. 31. 11. Ivi, p. 45. 12. Ivi, p. 50.

84

Maria Conforti

L’esempio che sceglie a questo proposito è però di altro tipo, e riguarda una dama che ha l’abitudine segreta di bere in modo eccessivo, e che il medico smaschera senza smascherarla, ottenendo con un espediente che la donna smetta di bere. In altri termini, sembra di capire, le donne possono essere ingannate dal medico, e per loro, tendenzialmente irrazionali, più che la conquista della fiducia (che nella descrizione sconfina ambiguamente nella conquista sessuale), vale l’inganno a fin di bene. Il Galateo di De Filippi è un ottimo esempio della difficoltà incontrata dai medici nell’esercizio di un paternalismo che non può non tener conto delle differenze sociali, di genere e di cultura. De Filippi scrive alle soglie della medicina scientifica ottocentesca. Per tutta l’età moderna, che è il periodo scelto per questo contributo, l’attenzione del medico nei confronti della vita quotidiana di coloro che si affidavano alle sue cure era costante e perfino, per i nostri standard, invadente, e basata sull’idea, di lontana ascendenza galenica, che il medico fosse un professionista cui chiedere e da cui ottenere un regime di vita che regolasse le res non naturales – sonno e veglia, cibo e bevande, arie, esercizio fisico e mentale, passioni dell’anima – più ancora e prima che una cura efficace di patologie specifiche.13 Peraltro, il rapporto stretto con il medico si accompagnava spesso a un atteggiamento, leggibile in filigrana nelle fonti, di indipendenza o almeno “im-pazienza” dei pazienti. Spesso i medici erano socialmente considerati di rango inferiore rispetto ai loro pazienti, e anche questo poteva essere un elemento in grado di determinare tensioni e difficoltà. Inoltre, come dimostrato da Margaret Pelling, il medico era spesso in ansia rispetto al proprio sapere e alle proprie prestazioni: la fiducia del paziente nelle sue capacità professionali era erosa sul piano sociale non tanto e non solo dai suoi possibili fallimenti, quanto da un mercato della cura in cui agivano attori diversi e in aspra competizione tra loro. Si trattava di altri medici, ma soprattutto di chirurghi e di una varietà di curanti “alternativi”, tra i quali speziali, ciarlatani (professionisti con licenza), levatrici e altre donne, per non parlare delle molte figure di curanti riconducibili a un contesto religioso.14 13. Sulle res non naturales, Peter H. Niebyl, The non-naturals, in «Bulletin of the History of Medicine», 45 (1971), pp. 486-492. 14.  Margaret Pelling, Charles Webster, Medical Practitioners, in Health, Medicine and Mortality on the Sixteenth Century, a cura di Charles Webster, Cambridge, Cambridge University Press, 1979, pp. 165-235.

Fiducia per lettera

85

Qui mi occupo del caso italiano, che presenta in età moderna alcune caratteristiche specifiche: una forte coesione tra curanti, derivante dalla partecipazione a istituzioni come gli ospedali, nonostante gli inevitabili conflitti derivanti dal potere dei physici, i medici di livello universitario (ad esempio nel caso dei rapporti tra medici e chirurghi, altrove assai più tesi); la presenza di molte e antiche università nella penisola, che in certo modo “garantivano” un sapere tradizionale e consolidato; la presenza di un pulviscolo di corti e households nobiliari o aspiranti tali, che servivano anch’esse a garantire implicitamente lo status e quindi la dottrina dei medici e degli altri curanti. Per esaminare in dettaglio alcune di queste questioni utilizzerò una fonte molto particolare, i consulti. I consulti medici sono un genere molto diffuso tra medioevo ed età moderna, soprattutto in area italiana: si tratta di epistole scritte secondo regole precise, scambiate tra il medico curante – più raramente, lo stesso paziente – e un luminare che si impegna in un parere o anche in una vera e propria cura a distanza.15 Nonostante siano redatti quasi sempre dai medici, più raramente dai chirurghi, e quindi non riportino la voce diretta dei pazienti, le epistole con cui si richiedono e si danno i consulti sono una fonte ricchissima e sottoutilizzata di informazioni sullo scambio tra medici e pazienti, sia dal punto di vista clinico, in senso lato, che da quello delle emozioni e questioni in gioco in questo difficile rapporto.16 Come è stato di recente dimostrato, il crearsi di una relazione di fiducia tra curante e paziente è parte integrante, forse 15.  Sulla “preistoria” del genere, Jole Agrimi, Chiara Crisciani, Les ‘Consilia’ médicaux, Turnhout, Brepols, 1994. Resta essenziale, per comprendere la fortuna di lungo periodo delle raccolte di consulti, Francesco Puccinotti, Sul valore dei consulti medici italiani dei secoli xvii e xviii in proposito di due consulti medici l’uno del Baglivi, l’altro del Redi, in Opere, Napoli, A. Pellerano, 1858, vol. II, pp. 644-654. Tra i contributi recenti, Medical Correspondence in Early Modern Europe, a cura di Hubert Steinke e Martin Stuber, in «Gesnerus», 61 (2004), pp. 139-160; Micheline Louis-Courvoisier, Séverine Pilloud, Consulting by Letter in the Eighteenth Century: Mediating the Patient’s View?, in Cultural Approaches to the History of Medicine: Mediating Medicine in Early Modern and Modern Europe, a cura di Willem de Blécourt e Cornelie Usborne, London, Palgrave Macmillan, 2004, pp. 71-88; Robert Weston, Medical Consulting by Letter in France, 1665-1789, Aldershot, Ashgate, 2013. Sui consulti italiani, Marco Bresadola, A Physician and a Man of Science: Patients, Physicians, and Diseases in Marcello Malpighi’s Medical Practice, in «Bulletin of the History of Medicine», 85, 2 (2011), pp. 193-221. Il miglior lavoro complessivo recente, con un’eccellente introduzione, è l’edizione di Antonio Vallisneri, Consulti medici, a cura di Benedino Gemelli, 2 voll., Firenze, Olschki, 2006 e 2011. 16. Si veda ancora De Filippi, Galateo, cap. V, Il consulto.

86

Maria Conforti

preponderante, del processo di cura; se ne può dedurre che la fiducia del paziente nel medico e in genere nel curante fosse tanto più necessaria in assenza di terapie efficaci nel senso nostro contemporaneo.17 Il consulto implicava una forte dose di coesione della comunità medica e di fiducia tra i suoi membri. Affidarsi a un medico di status e dottrina superiore, anche se distante, rafforzava, non distruggeva, il patto tra curante e paziente, come dimostrato da una serie di dettagli e tra l’altro dall’uso di dire «il nostro paziente» quando si parlava di colei o colui sul cui caso si stava scrivendo, come se il secondo medico cooperasse con il primo e prendesse in carico il suo paziente, nonché lui stesso. Naturalmente non si trattava sempre di un rapporto idilliaco: nei consulti emerge che la fiducia tra i due – in questo caso tre – partecipanti alla relazione di cura (medico curante, medico che redige il consulto, paziente) era un patto implicito, ma inevitabilmente sottoposto a tensioni: entravano in gioco questioni di genere, di status sociale, di carattere. Il medico che redige il consulto, pur nell’uso di formule stereotipate, è costretto a ricorrere a strategie retoriche sottili per convincere non solo il suo collega, di solito meno esperto o celebre, ma anche, se non soprattutto, il paziente, della bontà della terapia proposta. In questo senso, la questione del “dire la verità” al paziente non si poneva affatto nei termini in cui noi la concettualizziamo, e riguardava piuttosto un patto implicito fra i curanti, e a volte i familiari, del paziente. Utilizzo consulti di area toscana, veneta e fiorentino-romana, in un breve arco cronologico tra la metà del Seicento e i primi del Settecento, per mostrare come il rapporto medico-paziente si sia venuto trasformando in questo periodo di mutamento profondo e innovazione dei paradigmi della medicina scientifica, accogliendo istanze provenienti in particolare dalla iatrochimica e dal neo-ippocratismo, ma anche da una nuova attenzione a temi diversi, quali il riconoscimento dell’importanza dell’influenza dello stato mentale del paziente sul decorso della malattia, la natura del corpo femminile, l’infanzia e i suoi mali. Inevitabilmente, l’informazione che i consulti ci offrono è determinata dal fatto che chi scrive è sempre un medico: la voce del paziente, come spesso in età moderna, emerge con estrema difficoltà. Ho scelto alcuni casi che mi servono per mettere in luce punti di conflitto e di tensione nella creazione di un rapporto fiduciario con il paziente. 17.  Fabrizio Benedetti, The Patient’s Brain. The Neuroscience behind the DoctorPatient Relationship, Oxford, Oxford University Press, 2010.

Fiducia per lettera

87

2. Le parole per dirlo: la gentildonna e il “morbo gallico” I consulti mettono raramente in scena con crudezza uno dei momenti centrali della relazione di cura: l’annuncio della diagnosi di una malattia considerata fatale, o accompagnata da uno stigma sociale difficile da superare. Annunciarla poteva implicare il rischio della violazione della regola della confidenzialità, imposta ai medici da tempo immemorabile. Un consulto di Francesco Redi (1626-1697) ci porta, anche se indirettamente, al cuore del problema, che abbiamo già visto affrontato da De Filippi, dell’ottenere, e mantenere nel tempo, la fiducia del paziente su problemi di salute complessi, che non toccavano solo i corpi, ma anche e soprattutto la reputazione, lo status sociale, l’onore. Il caso è reso più interessante dal fatto che la paziente è una donna giovane, di alto livello sociale, che va accompagnata con delicatezza alla scoperta del proprio stato: un tipico tour de force del medico paternalista. In questo caso, un tour de force fatto anche di abilità nell’uso delle parole e di capacità di persuadere. Francesco Redi era uno dei più noti medici del XVII secolo, in Toscana e in generale in Italia, un filosofo naturale innovatore e uno sperimentatore; era anche un letterato e un uomo di spirito e di corte. I suoi consulti, molto noti e citati, sono importanti, oltre che per l’immagine molto viva che ci restituiscono dei rapporti fra pazienti e curanti, anche perché illustrano la difficoltà di non deludere le aspettative di pazienti e colleghi, pur utilizzando il linguaggio e spesso le teorie di una medicina per nulla tradizionale.18 I colleghi, ma specialmente i pazienti, avrebbero potuto non apprezzare l’adozione di una terminologia nuova o non consolidata: al contrario di oggi, “nuovo” aveva una connotazione decisamente negativa. Per non fare che un esempio: nel 1679, in una lettera al cardinale Cesare Facchinetti, Redi utilizza il termine particella nella descrizione della fisiologia della circolazione del sangue e di altri fluidi corporei, ma adatta con abilità la spiegazione al suo paziente, adottando un tono leggero e accattivante. Spiega, infatti, rivolgendosi direttamente al paziente, che il suo scopo è di «operare in modo che quei diversi fluidi che corrono e ricorrono per i canali del corpo se ne stiano in quel naturale ordine di particelle componenti, che è loro stato destinato dalla natura», 18. Si veda Francesco Redi, Consulti medici, a cura di Carla Doni, Firenze, Olschki, 1985. Questa edizione, molto accurata, contiene solo una parte dei consulti che fanno parte di un numero consistente di edizioni precedenti.

88

Maria Conforti

e che questo è fatto allo scopo di ottenere che le particelle stesse «non si metteranno in bollore».19 Anche se Redi prescriveva trattamenti non troppo diversi da quelli dei medici del suo tempo – volti ad addolcire e “mollificare”, cioè ad aiutare la circolazione dei fluidi, prevenendo o curando le ostruzioni nei vasi e nelle ghiandole –, li giustificava in termini “moderni”, utilizzando le nozioni e le parole del corpuscolarismo e della medicina chimica, come particelle e fermentazioni.20 Questo non gli impediva di prescrivere rimedi piuttosto tradizionali. Paradossalmente, infatti, i medici innovativi o “moderni” erano in genere favorevoli a una medicina neoippocratica e poco interventista, che si affidava piuttosto alla vis medicatrix naturae che a trattamenti pesanti, chimici o chirurgici che fossero. Non andrebbe comunque mai dimenticato che l’abitudine di distinguere tra una “buona pratica” scientifica (perché innovativa) e una “cattiva pratica” medica (perché più vicina ai quadri di riferimento tradizionali) ha ostacolato in molti casi la comprensione “a parte intera” di figure che non solo ricavavano dalla pratica medica di che vivere, e vantaggi essenziali in termine di reputazione e status, ma che vedevano nell’attività di cura il senso profondo e ultimo della loro attività. In questo senso, i consulti vanno letti con un occhio attento alla capacità di adottare il tono adeguato, che è quasi sempre il migliore per il paziente, prima ancora che per i colleghi. Il consulto che esaminiamo è notevole perché Redi affronta un problema davvero difficile, sia dal punto di vista della diagnosi e del trattamento che da quello dell’etichetta, della retorica e del rapporto con la sua paziente, che in qualche maniera rimane sempre sullo sfondo e la cui posizione è anch’essa di grande difficoltà. Il titolo del consulto ha un’apparenza innocua: Per alcuni Tubercoli nelle Palpebre degli Occhi.21 Redi inizia il suo parere con una descrizione dei sintomi che gli sono già stati illustrati, e che riassume accettando, in apparenza, le spiegazioni offerte dai colleghi. È solo alla fine della lettera che adotta un tono completamente diverso: nel sottolineare la resistenza opposta a ogni trattamento dal male all’occhio di 19. Francesco Redi, Consulto al Card. Facchinetti, datato Firenze, 2 ottobre 1679, citato da Puccinotti, Sul valore dei consulti medici italiani, pp. 653-654. 20. Sulla nozione di fermentazione, Antonio Clericuzio, La Chimica della vita: fermenti e fermentazione nella iatrochimica del Seicento, in «Medicina nei Secoli», 15 (2003), pp. 227-245. 21. Francesco Redi, Per alcuni Tubercoli nelle Palpebre degli Occhi, in Id., Opere, vol. IX, Milano, Società Tipografica dei Classici Italiani, 1811, pp. 4-14.

Fiducia per lettera

89

cui soffre la sua paziente, una giovane gentildonna da poco sposata, utilizza una lunga perifrasi, ricca di echi letterari, per suggerire che i medici che la stanno curando potrebbero forse prendere in considerazione l’ipotesi che la donna soffra di morbo gallico, cioè di sifilide (il primo termine era, all’epoca, più in uso del secondo). La prudenza dell’espressione, in un messaggio che probabilmente sarebbe stato letto alla paziente e alla sua famiglia, è massima: non fia fuor di proposito, che quei prudentissimi Medici, che assistono alla cura, facciano riflessione, se la pertinace ostinatissima ostinazione di questo male, che non ha voluto cedere a tanti medicamenti […] se possa esser cagionata da quel malore, detto Sifilide.22

Avendo nominato la malattia con il suo nome letterario, Redi immediatamente ammorbidisce la sua ipotesi con una citazione appunto letteraria, accennando al «gentilissimo poema» di Fracastoro.23 Conclude poi con una curiosa notazione, riferita a una propria apparente sventatezza: «io non so quello, che io mi dica»,24 che gli serve per fingere di scartare l’ipotesi che ha appena espresso; e aggiunge che sta solo elencando tutte le possibili spiegazioni della malattia, nell’intento di non trascurare nulla, come è giusto per rispetto di chi ha chiesto il suo parere. Questa della sifilide, conclude, non è che una sua idea, perché «nella relazione mandatami io non ne veggo contrassegno veruno».25 La delicatezza linguistica e concettuale con cui Redi gira intorno alla propria diagnosi, fingendo quasi di negarla nel momento stesso in cui la esprime, indica la considerazione in cui tiene sia i propri colleghi, cui non sarebbe stato possibile imputare un errore così grossolano nella diagnosi, sia la paziente, la «nobilissima giovinetta maritata», che si sta ipotizzando possa aver contratto una malattia terribile, a trasmissione sessuale, socialmente rifiutata e da tenere nascosta. La descrizione estremamente accurata dei tubercoli e della secrezione liquida che ne promana, e che irrita gli occhi della paziente, non esaurisce i suoi sintomi: la donna soffre anche di amenorrea. Redi qui cita Ippocrate e Galeno per confermare che la sua 22. Ivi, p. 17. 23.  Ibidem; il riferimento è a Girolamo Fracastoro, Syphilis sive morbus gallicus, Veronæ, 1530. 24. Ibidem. 25. Ibidem.

90

Maria Conforti

situazione potrebbe migliorare con un «flusso di corpo»,26 cioè con una violenta espulsione di umori. Prescrive quindi una gran quantità di liquidi, dalle acque medicate al latte, agli sciroppi, da bere a più riprese durante il giorno; proibisce le acque minerali, che potrebbero accrescere il potere irritante delle secrezioni. Di fatto, Redi sta qui prescrivendo una terapia, o meglio un regime, che può curare la malattia che sta solo suggerendo indirettamente che la donna possa avere, e che però non apporta danni agli occhi. In questo modo obliquo, senza affermare apertamente e fino in fondo di quale male stia soffrendo la paziente, può sperare di evitare che la donna faccia ricorso ai trattamenti violenti e molto pericolosi che di solito venivano prescritti per il “mal francese”, ma può anche ottenere che la cura non si limiti ai rimedi applicati localmente, e che si sono rivelati inefficaci. In questo caso, una terapia corretta deve interessare l’intero corpo. L’accortezza con cui Redi naviga tra l’esigenza di non venir meno al suo compito di curante e la necessità di non sembrare troppo esplicito può essere misurata se la si confronta con altri consulti scritti per la stessa malattia, e che invece utilizzano un linguaggio assai crudo, senza sconti per il paziente, e in cui non c’è normalmente esitazione nel nominare le cose e descrivere le conseguenze di una malattia a lungo decorso ma con sintomi che provocavano orrore e disgusto.27 Il tono utilizzato da Redi era anche dovuto al riguardo da tenere nei confronti di una donna di una posizione sociale elevata, che aveva contratto, probabilmente dal marito, una malattia che si considerava propria delle prostitute. 3. La medicina come “onesta impostura” e i suoi riflessi nella relazione di cura Il secondo consulto che esamino riguarda un caso nel quale il curante è il celebre medico e filosofo naturale, attivo a Padova, Antonio Vallisneri (1661-1730). I consulti redatti da Vallisneri, così come, entro certi limiti, quelli di Redi, illustrano bene la dicotomia, che ai primi del Settecento diventa ancor più stridente, affrontata da coloro che erano allo stesso 26. Ivi, p. 5. 27. Si veda ad esempio la descrizione della sifilide nell’impressionante Consultatio De Gallicis Pustulis di Francesco Di Roma, Consultationes medico-chirurgicae, Neapoli, apud Nouellum de Bonis, 1669, pp. 19-23.

Fiducia per lettera

91

tempo medici dotati di una notevole reputazione e filosofi naturali attivi nel campo della sperimentazione e dell’innovazione.28 Come nel caso di altri illustri sperimentatori, che erano anche attivi nella pratica medica, tra i quali Marcello Malpighi e Giovanni Maria Lancisi, quella che a noi sembra una contraddizione tra una medicina e una scienza “innovativa” e uno stile terapeutico, di approccio al paziente e alla cura, di tipo tradizionale, è ancor più forte che nel caso di Redi, e risulta spiazzante per il lettore moderno. In questo caso il paziente è egli stesso un medico: il rapporto di fiducia interpersonale si gioca qui tra colleghi, e ottenere la fiducia del paziente, che è la prima forma di cura, pone problemi particolari. Uno dei consulti più affascinanti redatto da Vallisneri riguarda un suo collega e amico, che, come si comprende dalla lettura, ha cercato di curarsi da solo, e ha richiesto di persona il parere.29 Il compito di Vallisneri, che deve contraddire e correggere un certo numero di conclusioni avanzate da un medico esperto anziché da un paziente privo di cognizioni specifiche, è particolarmente delicato, e risulta in un tour de force che è insieme retorico e terapeutico, volto a rassicurare il paziente e ad ottenere che segua la diagnosi e la terapia che gli sono proposte. La lettera assume da subito un tono inaspettato: Vallisneri afferma infatti che «la nostra arte è una specie di onorata impostura» e che, come accade agli aruspici di un celebre passo ciceroniano, «temo sempre, che un medico dotto rida dell’altro, quando lo vede, e vieppiù, quando a un altro medico vuole rimedi prescrivere».30 Nonostante questa sfiducia condivisibile, e condivisa, argomenta Vallisneri, non aver fiducia nella medicina sarebbe da sciocchi, così come averne troppa: «Voglio, che tenghiamo una via di mezzo, ch’è la via degli uomini discreti, e prudenti più sicura, non credendo troppo, né troppo poco».31 La prudenza, in questo come in altri consulti, è la virtù del medico, ma anche quella del paziente. Come si vede, Vallisneri adotta una strategia retorica volta a spiazzare e convincere l’amico-collega-paziente, 28. Su Antonio Vallisneri, cfr. i saggi riuniti in Antonio Vallisneri: la figura, il contesto, le immagini storiografiche, a cura di Dario Generali, Firenze, Olschki, 2008. L’edizione nazionale delle opere di Vallisneri è in corso da alcuni anni sotto la direzione di Dario Generali. Si rimanda a Vallisneri, Consulti medici, a cura di Gemelli, vol. 1, per un’eccellente introduzione alla situazione editoriale dei consulti di Vallisneri. 29. Vallisneri, Consulti medici, vol. II, pp. 8-21. Il consulto è posteriore al 1715. 30. Ivi, p. 8; cfr. Cicerone, De nat. deor., 1. 26. 71. 31. Vallisneri, Consulti medici, vol. II, p. 8.

92

Maria Conforti

a catturarne la fiducia stabilendosi da subito su un terreno comune, quello di chi sa che la medicina ha possibilità limitate, ma che pure non giustificano uno scetticismo totale: si potrebbe quasi dire che si sforzi di mimare la sfiducia del medico nella propria arte, per convincerlo a seguirlo sul terreno delle prescrizioni di buonsenso. Si avverte qui l’eco delle numerose teorie sull’incertezza della medicina che avevano costituito per diversi secoli uno degli elementi portanti degli attacchi contro l’arte e i suoi cultori, ed erano diventate, specialmente in Italia tra fine Sei e Settecento, aperto scetticismo. Esisteva il pericolo reale che prese di posizione di questo tipo minassero la fiducia dei pazienti nelle cure e nei medici; entro certi limiti, la loro diffusione potrebbe spiegare a contrario sia la fortuna delle terapie chimiche, molto più violente di quelle tradizionali, che la tendenza a rivolgersi ai chirurghi, prima che ai medici, alla ricerca di terapie efficaci.32 Il medico e paziente che ha richiesto questo consulto soffre di ipocondria.33 Il termine, che oggi è riferito esclusivamente alla sfera psichica, ha avuto in passato un correlato fisico e organico, anche se piuttosto vago: gli ipocondri sono, dalla medicina greca in poi, l’area superiore dell’addome e i suoi “visceri”. Una serie di vaghi sintomi, riferibili genericamente a tensione e dolori in questa regione, caratterizzava, secondo una tradizione risalente a Ippocrate, un disordine difficile da definire ma che, data la sua sede nel corpo, si riteneva avesse un diretto effetto sul sistema dei nervi.34 32. Il riferimento classico per lo scetticismo di età moderna è Richard Popkin, The History of Scepticism from Savonarola to Bayle, Third enlarged edition, Oxford, Oxford University Press, 2003; vedi anche Scepticism from Renaissance to the Enlightenment, a cura di Richard Popkin e Charles B. Schmitt, Wiesbaden, Harrassowitz, 1987; Simone Mammola, La ragione e l’incertezza. Filosofia e medicina nella prima età moderna, Milano, Franco Angeli, 2012. 33. L’accostamento e lo scambio tra ipocondriaco e medico è uno stereotipo che continua ad avere fortuna: ancora De Filippi, Galateo Medico, p. 8: «Se questi non è uno di quegli ipocondriaci […] tieni per sicuro che egli è medico, e medico che sente tutta l’importanza della sua missione […] in ogni incontro ha i suoi malati davanti agli occhi colla fisionomia del pericolo e della morte, ha il timore e la speranza che l’agitano». 34. Cfr. per esempio la definizione del diffuso Robert James, A medicinal dictionary, London, J. Roberts, 1745, vol. II, ad vocem: «no Part or Function of the Body escapes the Influence of this tedious and long protacted Disease, whose Symptoms are so violent and numerous, that it is no easy Task either to enumerate or to account for them […]. Those are, farther, in a peculiar manner, subject to this Disorder, who lead a sedentary Life, and indulge themselves too much in Study, continual Meditations, and Lucubrations. Hence the Disorder is very common among the Literati».

Fiducia per lettera

93

L’ipocondria si confondeva quindi con la “melancholia”, una delle più antiche e resistenti entità nosologiche e classificatorie della medicina e della filosofia occidentali.35 Il consulto è reso più difficile dal fatto che, come Vallisneri ha ben compreso, il suo amico, che presenta una sintomatologia di estrema vaghezza, ha in sostanza paura di morire. È con gran cura, quindi, che esclude tutte le possibili implicazioni estreme dei sintomi di cui soffre, a partire dall’«intermittenza di polso». Di fatto, gli dice, questa non deriva da un male «essenziale» (ad esempio un aneurisma o una malattia ai polmoni), ma da un movimento «accidentale» dei nervi. Ciò è reso evidente dal fatto che il sintomo si presenta in maniera intermittente: come tale, indica con chiarezza che questo è un caso di ipocondria.36 L’ipocondria è per molti versi un male analogo all’isteria femminile – in sostanza, un “affetto nervoso”. I sintomi lamentati dal paziente sono causati dalla “mordacità” dei “sughi”, gli umori, ipocondriaci e biliosi; non sono quindi letali, ma abbastanza facilmente curabili con terapie semplici e sostanzialmente volte, come già si è visto in altri casi, ad addolcire i liquidi del corpo. Il paziente deve evitare tutte le preparazioni farmaceutiche costose, che devono essere lasciate, come meritano, «ne’ dorati vasi degli speziali».37 Vallisneri qui costruisce con eleganza una serie di variazioni sul tema dell’inganno – degli speziali nei confronti dei loro clienti, ma anche e soprattutto dei pazienti nei confronti di se stessi. Questi rimedi, inutili ma «splendidi», hanno una sola funzione: quella di illudere coloro che «al dispetto della nostra sincerità vogliono essere ingannati […] medicando sovente più l’opinione che il male».38 Vallisneri non esclude che la medicina funzioni secondo lo stesso principio: è la fiducia stessa che il paziente ripone nel suo medico (anche in quello consultato a distanza) a fare la cura. La differenza è nel fatto che il medico è più onesto (e la sua impostura è più onesta) di quella dei commercianti – qui la polemica è apertamente professionale, – che oltre che una fiducia mal riposta estorcono al paziente anche denaro. Il rimedio 35. La bibliografia sulla melancholia è sterminata, a partire dal classico Raymond Klibansky, Erwin Panofsky, Saturno e la melanconia. Studi di storia della filosofia naturale, religione e arte, trad. it. Torino, Einaudi, 1983. Per una lettura medica, Stanley W. Jackson, Melancholia and Depression: From Hippocratic Times to Modern Times, New Haven, Yale University Press, 1986. 36. Vallisneri, Consulti medici, vol. II, p. 10. 37. Ivi, p. 14. 38. Ivi, pp. 14-15.

94

Maria Conforti

che Vallisneri propone al suo amico e paziente è semplicissimo: acqua, da bere calda al modo dei Cinesi, ogni mattina, con un’infusione di sostanze vegetali o di ferro. Così semplice, che teme che l’amico si arrabbi: «Ma la vedo subito mezzo in collera, e strabiliare dubitando che l’acqua possa indebolirle lo stomaco, fare gran male, ed essere questo un errore peggior del primo».39 Di fatto, afferma, bere acqua può aumentare l’appetito, e quindi favorire un completo rinnovamento della vita corporea del paziente, e il superamento delle sue preoccupazioni. Bere acqua – fredda per le febbri, o calda – era divenuto un mezzo terapeutico diffuso, insieme all’adozione di bevande come tè e infusioni, e al loro uso anche in occasioni sociali. Ma è evidente che Vallisneri spera di convincere il paziente a cambiare abitudini di vita e a ritrovare appetito, vigore e voglia di vivere. 4. I consulti di Del Papa per Innocenzo XII: professione e politica Il terzo caso che esamino verte su una questione più ampia: sulla necessità, per il medico, di ottenere la fiducia della comunità dei suoi colleghi, e più in generale sulla questione del rapporto tra medicina e potere politico (e simbolico). I consulti di Giuseppe Del Papa (1648-1735) per l’ultima malattia di Innocenzo XII mostrano quanto potesse essere difficile, se non rischioso, impegnarsi in una diagnosi e in una prognosi (in questo, che era un caso terminale, la terapia era fuori di questione) per la malattia di un personaggio pubblico: specialmente nel caso del papa, le cui malattie e morte erano da tempo immemorabile oggetto di interesse, ansia e previsioni da parte della cristianità tutta, e non solo.40 In questo caso la delicatezza delle questioni sollevate si riverbera anche sulla vicenda della pubblicazione dei consulti, mettendo al centro il difficile problema del dovere di confidenzialità. Del Papa era un filosofo naturale e un medico di scuola galileiana.41 Durante il suo periodo di formazione allo Studio di Pisa era stato allievo di Lorenzo Bellini ma anche di Antonio Marchetti, il traduttore di Lucrezio, 39. Ivi, p. 17. 40. Cfr. Maria Antonietta Visceglia, Morte e elezione del papa, Norme, riti e conflitti. L’Età moderna, Roma, Viella, 2013. 41. Su Del Papa, Giovanni Gaetano Bottari, Elogio, in Giuseppe Del Papa, Consulti medici, Roma, Salvioni, 1743-1744, pp. IX-LIX; Ugo Baldini, ad vocem, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XXXVIII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1990.

Fiducia per lettera

95

e di una figura assai più controversa, Donato Rossetti, autore di una teoria apertamente atomista.42 Nonostante la sua educazione, e probabilmente le sue convinzioni profonde, come l’amico Francesco Redi ebbe a corte una posizione di prudente e rispettato successo, diventando archiatra dei granduchi medicei alla morte appunto di Redi. I quattro consulti per il papa Innocenzo XII, il nobile napoletano Antonio Pignatelli, furono scritti nell’estate del 1700.43 Come è chiaro, i consulti mobilitavano questioni delicatissime sia sul piano politico che su quello professionale; la difficoltà era accresciuta dal fatto che il papa era di fatto sul letto di morte – sarebbe spirato appena una settimana dopo l’ultima epistola di Del Papa, firmata 21 settembre. Non è sorprendente che in questa atmosfera carica di tensione il medico sottolinei a più riprese l’importanza della virtù della prudenza, uno strumento di sopravvivenza per chi si trovasse ad avere a che fare con le malattie e la morte dei pontefici. Più o meno quindici anni dopo, Giovanni Maria Lancisi, il futuro archiatra del successore di Innocenzo XII, Clemente XI, nonché uno dei medici incaricati di curare Innocenzo nella sua ultima malattia (quindi uno dei medici che avevano richiesto il parere di Del Papa), avrebbe lodato appunto la prudenza come una delle principali virtù del medico, soprattutto quando, come nel caso di una cura a distanza, si sia incamminato sul difficile terreno delle congetture, «praesertim cum per obscuros conjecturarum anfractus gradiendum fit».44 Il linguaggio di Del Papa, normalmente sicuro, diviene estremamente cauto nel caso di Innocenzo; ammette di avere seri dubbi sulla natura della sua malattia, così come dei rimedi da prescrivere; e conclude con una considerazione generale sul modo in cui l’arte medica deve affrontare le difficoltà. La migliore strada da seguire è quella del «campare» – un termine che nella sua colloquialità stride con la solennità della situazione: ci sia lecito il confessare colla stessa ingenuità, che l’animo nostro è dubbioso, e sospeso non solo nel determinare la vera essenza di questo male, ma molto più nel dare altrui consiglio circa ai particolar rimedi da usarsi […] fa 42. Su Rossetti, Susana Gomez Lopez, Le passioni degli atomi: Montanari e Rossetti, una polemica tra galileiani Firenze, Olschki, 1997. 43. Del Papa, Consulti medici, vol. II, pp. 1-14, sotto il titolo Veemente diarrea; la copia di una lettera di Del Papa, indirizzata a Innocenzo XII e datata inizio di settembre 1700 è conservata nelle carte Lancisi della Biblioteca Lancisiana: Biblioteca Lancisiana, Roma, MS 302, cc. 165-167v. 44. Lancisi, Dissertatio, Roma, Salvioni, 1715, p. 12.

96

Maria Conforti

di mestieri, che l’arte nostra pensi prima al campare, e poi al sanare, accadendo bene spesso, che il procurare con troppa diligenza la guarigione dei mali, in qualche caso, sia di pregiudizio notabile al vivere.45

Questo ovviamente significa che, in caso di malattie estremamente pericolose, il medico può solo cercare di fare del suo meglio per evitare la morte del paziente; ma la frase potrebbe anche essere letta come un riferimento alla posizione difficile del medico stesso. In ogni caso, Del Papa accoglie solo in parte nel suo parere la diagnosi proposta dai suoi colleghi romani, tra i quali Lancisi; e ha cura di estendere il network dei colleghi a consulto, chiamando alla discussione del caso anche i fiorentini Lorenzo Bellini e Filippo Bordoni.46 Il pontefice ha sofferto di una diarrea violenta e in apparenza incontrollabile; Del Papa azzarda una diagnosi, attribuendo il sintomo a un tumore intestinale. Il linguaggio della congettura e della prudenza domina il testo, anche se gli sembra che solo questa diagnosi possa rendere conto di tutti i sintomi esposti. Del Papa sa bene che qualunque sia l’ipotesi avanzata, il rischio di una perdita di reputazione è concreto almeno quanto la possibilità di un post mortem in cui si saggi al tavolo dissettorio la consistenza delle ipotesi fatte al letto del malato; a maggior ragione in un consulto a distanza. Quindi propone con grande cautela un’ipotesi su quelle che, molto prima di Morgagni, erano correntemente definite cause e sedi dei morbi: «Quel che pare a me di poter comprendere col mio debole intendimento intorno al detto tumore, si è, che quando questo ci sia, dovrebbe esser piccolo; […] quando ci sia, dovrebbe essere negli intestini ultimi, e grossi».47 Il paziente resta qui sullo sfondo, oggetto solo di un excursus immaginativo e descrittivo: «Basta solo concepir colla mente un vecchio di grave età, ma veramente robusto di maravigliosa robustezza […] molto esinanito di sostanza»,48 che apre a una minima speranza di guarigione per il papa. L’eco di questi avvenimenti era ancora vivo più di trenta anni dopo, quando Giovanni Gaetano Bottari (1689-1775) portò a termine un’edizione molto accurata dei consulti di Del Papa. Bottari era uno dei brillanti letterati che partecipava della vivace vita intellettuale della Roma di metà Set45. Consulto II, in Del Papa, Consulti medici, vol. II, pp. 8-9. 46. Ivi, p. 6. 47. Ivi, pp. 2-3. 48. Ivi, p. 3.

Fiducia per lettera

97

tecento.49 Un erudito, con una cultura religiosa abbastanza poco ortodossa, in odore di Giansenismo, all’inizio della sua carriera era stato amico di Del Papa a Firenze. Le lettere che i due si scambiarono quando Bottari gli propose di editare e pubblicare i consulti sono di estremo interesse, perché illustrano come le epistole venissero scelte, copiate, talvolta tradotte, e riunite per la stampa.50 Bottari affronta apertamente la questione delicata del rendere pubblici i dettagli della malattia del papa, rassicurando Del Papa sul fatto che non vi saranno problemi: «circa ai Consulti sopra le infermità de’ due consaputi Pontefici non vi può essere, né vi sarà difficoltà veruna a stamparli anche co’ i proprj nomi».51 I consulti venivano organizzati sotto il titolo della malattia, per facilitarne la lettura esperta e l’uso didattico, ma non si faceva mistero delle persone per cui erano stati scritti. Oltre a quelli già menzionati, Del Papa ne aveva redatti dopo essere stato consultato per le malattie di Clemente XI52 e Benedetto XIV; in quest’ultimo caso, ancora una volta, il medico invocava la virtù della prudenza di monsignor Antonio Leprotti, archiatra pontificio.53 Nell’introduzione all’edizione Bottari scrive che non sono stati molti i medici che hanno comunicato con i loro pazienti senza abbandonare le loro teorie scientifiche: «[consulti] divisati secondo la moderna, e vera, e accertata dottrina fisico-meccanica, e anatomica, e ne’ quali abbiano esplorate, ed additate altrui le vere essenze de’ mali propositi».54 Nonostante questo, e nonostante il tono sicuro di molte delle sue epistole, Del Papa è perfettamente consapevole della difficoltà della sua medicina, e quasi sempre con49. Giuseppe Pignatelli, Armando Petrucci, ad vocem, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XIII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1971; su Roma, Vincenzo Ferrone, Scienza natura religione. Mondo newtoniano e cultura italiana nel primo Settecento, Napoli, Jovene, 1982. 50. Biblioteca Corsiniana e dell’Accademia dei Lincei, Roma, MS 44 E 18. Le lettere che riguardano l’edizione dei Consulti cominciano nel dicembre 1732 (fol. 34r ss.) e si concludono nell’ottobre 1733 (fol. 53v). Bottari aveva proposto di tradurre in italiano consulti redatti in latino, ma Del Papa non aveva accettato. 51. Biblioteca Corsiniana e dell’Accademia dei Lincei, Roma, MS 44 E 18, Roma, 6 giugno 1733, fol. 49v. 52. Consulto V-VI, in Del Papa, Consulti medici, vol. II, pp. 14-27; il primo è datato «Pisa, 25 di febraro 1702». 53. Consulto LXXXIX, ivi, pp. 332-335. 54. Epistola al Lettore, ivi, vol. I, p. lx. L’epistola è firmata da Salvioni ma fu scritta da Bottari: Biblioteca Corsiniana e dell’Accademia dei Lincei, Roma, MS 44 E 18, da Bottari a Del Papa, Roma, 7 gennaio 1733, c. 36.

98

Maria Conforti

clude con un accenno al suo «debole intendimento». Nelle epistole stesse, il modo verbale più utilizzato è il condizionale, quello della cortesia e della civile conversazione, ma anche dell’incertezza e della prudenza. 5. Conclusioni: fiducia per lettera Un esame delle fonti che riguardano la pratica medica (oltre ai consulti, i “casi” clinici, le note dei medici e i loro taccuini, i documenti biografici e autobiografici dei pazienti) consente di chiarire meglio quale sia il contesto del rapporto di cura e delle emozioni che suscita in coloro che vi partecipano.55 Dai consulti, anche in questa scelta necessariamente limitata, emerge un’immagine dell’atteggiamento di curanti e pazienti, e in generale della relazione di cura, molto lontana dallo stereotipo storiografico che descrive la medicina di età moderna come caratterizzata da un sostanziale paternalismo e disattenzione nei confronti dei pazienti, da un’estrema distanza fisica e mentale fra i due partecipanti a questa relazione. Questa immagine risente fortemente di un foucaultismo di maniera, della costruzione storiografica dello “sguardo clinico” come oggettivante e distante, e, seppure sia accettabile, con molti limiti, per il primo Ottocento, non ha luogo in età moderna. Un altro stereotipo che non ha luogo nella realtà è quello che immagina una regolamentazione stretta del rapporto di cura, quale emerge ad esempio dalla ricca letteratura sull’«ottimo medico» o, più tardi, dei galatei medici: leggerli in questo modo è al più un esercizio di wishful thinking (le molte raccomandazioni sulla riservatezza, ad esempio, fanno intuire una situazione reale del tutto diversa). Vale forse la pena, in conclusione, di sottolineare anche qualche rischio di anacronismo nella lettura della medicina e della cura. Non è vero, come ci sembra oggi, nell’età della crisi dell’autorità professionale del medico e della sua scienza, che la fiducia nel medico o nel curante fosse nel passato generalizzata e assoluta.56 Al contrario, i curanti dovevano conquistarsela in un contesto estremamente complicato, e per molti versi ansiogeno; in una 55. Sul rapporto tra medico e curante in età moderna è fondamentale Michael Stolberg, Experiencing Illness and the Sick Body in Early Modern Europe, Houndmills, Palgrave Macmillan, 2011. 56. Jonathan B. Imber, How Navigating Uncertainty Motivates Trust in Medicine, in «AMA Journal of Ethics», 19, 4 (2017), pp. 391-398.

Fiducia per lettera

99

situazione che anche per i medici, al vertice della gerarchia dei curanti, in età moderna e almeno fino ai primi decenni dell’Ottocento è stata di grande incertezza e di relativamente scarso potere professionale e sociale. Si veda, per non fare che un esempio, l’annotazione di Girolamo Bardi (1603-post 1677) che, citando un passo dei Salmi, sostiene che il medico non deve visitare gli infermi per accertarsi personalmente, come noi potremmo pensare, del loro stato, ma appunto per conquistarsi la loro fiducia: Dicit lb. 7.36 non te pigeat visitare infirmum […] quod praeceptum cum morale, politicumque sit; tamen etiam ad Medicum spectat, quia sic ei ab aegroto maior fides habetur, ipse vero etiam erga aegrotum magis afficitur, quo fit, ut illi in omnibus compatiatur.57

Il patient consumerism non è, infatti, nato di recente: al contrario. I consulti, come molti altri documenti e testimonianze, mostrano quanto e come fosse diffuso anche in passato, e come la conquista della fiducia del paziente in un marketplace estremamente competitivo fosse un momento cruciale, un’arte nell’arte, della professione medica. È invece di lungo periodo un altro elemento: in passato come oggi, la fiducia non era basata su un immaginario “disinteresse” dei curanti nei confronti della retribuzione e dello scambio di favori.58 In linea di massima, e per possibili ricerche future, occorre comunque tener conto della necessità di tracciare una geografia e una cronologia accurate, che prendano nella dovuta considerazione elementi quali la cultura religiosa e politica, e in genere la mentalità, di pazienti e curanti. Un caveat che ci viene dalla nostra contemporaneità, ma che può essere utilizzato anche per illuminare aspetti del passato, è la prevalenza odierna di opinioni ricavate da situazioni ed esempi, e in generale dati, di provenienza anglosassone, e al suo interno dalla minoranza bianca, protestante e spesso maschile: un bias che è una spia interessante di analoghi pregiudizi e generalizzazioni anche per ricerche su periodi storici diversi dal nostro.

57. Girolamo Bardi, Medicus politico catholicus seu Medicinae sacrae tum cognoscendae, tum faciundae idea, Genuae, typis Ferroni, 1643, p. 102. 58. Per molti di questi aspetti Gianna Pomata, La promessa di guarigione: malati e curatori in antico regime, Roma-Bari, Laterza, 1994.

Maria Luisa Betri Dalla “sconfidenza” nel medico al ricorso al “cultore di una scienza di fiducia”

Fu il terzo decennio dell’Ottocento il periodo in cui raggiunse l’apice la sfiducia nei medici e nella medicina, definita “arte congetturale”, “di sorte e di raggiro”, “solenne impostura e gioco d’azzardo”, con locuzioni che declinavano variamente la diffidenza e il sospetto nei confronti dell’“arte salutare” e dei suoi screditati esercenti. E ancora alle soglie dell’Unità, nel pieno della battaglia condotta principalmente sulle pagine delle più autorevoli riviste scientifiche per il riconoscimento della professione medica come l’unica abilitata a curare, di contro all’agguerrita concorrenza dei ciarlatani, la si diceva «scienza esitante, ipotetica, bambina».1 La prima regola per vivere a lungo, «fuggire i medici e le loro ricette»,2 enunciata da un anonimo autore napoletano in un opuscolo a buon mercato, mentre imperversava la prima epidemia di colera, era la sintesi efficace di un comune sentire, dal momento che la casa del medico aveva la sinistra fama di essere un’«officina di passaporto per l’altro mondo»,3 e ancor più l’ospedale, ricovero dei miserabili allo stremo, ove per il malato era «lo stesso che esser tratto alla tomba».4 «Una volgare opinione», quest’ultima, che il grande clinico Giacomo Tommasini, fondatore di una «nuova 1. Gaetano Strambio, Intorno alle condizioni ed agli onorarj dei medici, in «Gazzetta medica italiana. Lombardia», 4 gennaio 1858. 2. F.D.A., Il medico fedele, ossia regole per vivere lungamente con novelle aggiunte e aneddoti sul cholera asiatico, Napoli, [s.n.], 1836, p. 7. 3. «Giornale di scienze, lettere e arti per la Sicilia», 56 (gennaio-marzo 1837), p. 5. 4. Recensione a Giacomo Tommasini, Prospetto de’ risultamenti ottenuti nella clinica medica della pontificia Università di Bologna nel corso di un triennio scolastico. Discorso premesso alle lezioni medico pratiche dell’anno scolastico 1819-1820, Bologna, 1820, in «Giornale arcadico di scienze, lettere ed arti», VIII (luglio-settembre 1820).

102

Maria Luisa Betri

dottrina medica italiana» proposta come sintesi teorica delle varie scuole di medicina presenti, e confliggenti, nella Penisola, aveva vigorosamente confutato nella prolusione alle lezioni dell’anno accademico 1819-1820 nell’Università di Bologna. La «vana logomachia che alimenta[va] il furor de’partiti»,5 insabbiando la clinica in una persistente e quasi impotente stagnazione, si era riflessa nell’«incerto e vago operare» del medico, così da suscitare un crescente scetticismo e da svilire il suo profilo professionale sino a reputarlo simile a quello della «classe industriale e commerciale».6 Chiamata frequentemente in causa per spiegare la decadenza della professione era anche la volgarizzazione della medicina, fatta popolare nel corso di un processo caratterizzato da una duplice dinamica. La rivoluzione legale giunta anche in Italia con le armate francesi, infatti, aboliti la nobiltà e il sistema dei collegi ecclesiastici e professionali, con il connesso monopolio degli studi e del conferimento dei titoli di abilitazione, aveva radicalmente mutato i criteri di selezione, basandoli non più sulla nascita, bensì sul merito e su un curriculum formativo universitario, liberalizzando in tal modo gli accessi alle facoltà e ampliando gli sbocchi professionali.7 Ne era conseguito un rapido e massiccio aumento degli iscritti alle Università, quasi una “calca di popolo” che aveva dato l’assalto anche ai “medici studii” e finito col creare un sovrannumero di laureati tale da sminuire il prestigio della nobile arte. Per altro verso, il decoro professionale, a parere di molti, era stato irrimediabilmente compromesso dall’indebita intrusione dei profani, ovvero dal cedimento dei medici ad «abbassare la scienza all’uso dell’ignoranza», esaudendo le petulanti richieste di spiegazioni sulla natura della malattia, sul suo decorso, sull’azione dei farmaci, e così via, avanzate dai malati e 5. Giacomandrea Giacomini, Riflessioni intorno al linguaggio dei medici, in «Memoriale della medicina contemporanea», III (gennaio 1840), p. 50. 6. Antigone Zappoli, Il medico di tutti i secoli o storia individuale del medico, Bologna, presso i tipi di Lodovico Bortolotti al Sole, 1853, vol. II, p. 670. 7. Cfr. Elena Brambilla, La medicina del Settecento: dal monopolio dogmatico alla professione scientifica, in Storia d’Italia, Annali 7, Malattia e medicina, a cura di Franco Della Peruta, Torino, Einaudi, 1984, pp. 5-147; Elena Brambilla, Università, scuole e professioni in Italia dal primo ’700 alla Restaurazione. Dalla “costituzione per ordini” alle borghesie ottocentesche, in «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», XXIII (1997), pp. 153-207; Giorgio Cosmacini, Teorie e prassi mediche tra Rivoluzione e Restaurazione: dall’ideologia giacobina all’ideologia del primato, in Storia d’Italia, Annali 7, pp. 153-205.

Dalla “sconfidenza” nel medico al ricorso al “cultore di una scienza di fiducia” 103

dai loro famigliari.8 Dal momento che – si osservava rilevando una diversità di comportamenti nei confronti del curante – «il cavaliere, la dama, il letterato chiedono e vogliono ragione di tutto», mentre «il povero, l’artigiano ascolta ed obbedisce»,9 ammesso che costoro avessero rimosso l’inveterata avversione nei suoi confronti e accettato di sottoporsi alla sua visita. Accadeva di rado, comunque, che al capezzale di un ammalato di condizione nobile o borghese accorresse un solo medico, poiché si riteneva più sicuro affidarne le sorti a una pluralità di curanti, non esitando a ricorrere anche all’intervento di ciarlatani. I rimedi di costoro, imboniti con consumate tecniche di persuasione, una “pestifera zizzania” combattuta in verità più a parole che nei fatti, non si differenziavano talvolta dai farmaci prescritti dai medici, di cui i malati diffidavano o che addirittura rifiutavano, manifestando in modo più o meno esplicito la loro sfiducia. Serpeggiava nei pazienti il timore che fosse loro propinato un veleno, soprattutto durante le ondate epidemiche del colera, quando si riaccese il sospetto di una sua diffusione per mano di “untori”: così un medico delle carceri di Brescia si vide costretto ad assumere «davanti agli infermi angosciati nel sospetto» piccole dosi di un preparato, per dimostrare che non era una sostanza tossica.10 L’apprensione non conosceva distinzioni di ceto, come si deduce dal tono solo apparentemente scherzoso di una nobildonna parmense nel richiedere a un illustre cattedratico un parere sulla terapia consigliatale da un suo collega: «se mai fosse veleno, od una dose troppo forte – scriveva – lo adatta lei come crede meglio», soggiungendo con malcelata inquietudine, nel timore di un peggioramento della sua patologia, presumibilmente una micosi, che «in verità i funghi detti boleti mi piacciono, ma carnosi non amerei di assaggiarne le conseguenze».11 Quanto più i pazienti erano influenti, tanto più sembravano nutrire dubbi sull’efficacia delle cure. L’i.r. delegato provinciale di Brescia Gaudenzio De Pagave, ad esempio, nel decorso della malattia che nel 1833 gli fu fatale, mostrò una tale «costante ritrosia e sfiducia nei confronti del 8. Strambio, Intorno alle condizioni ed agli onorarj dei medici. 9. Luigi Angeli, Il medico giovane al letto dell’ammalato instruito nei doveri di medico politico, di uomo morale e fornito di una compendiosa ed economica farmacopea, Imola, Stamperia Giovanni dal Monte, 1832. 10. Luigi Fornasini, Intorno al colera di Brescia, in «Annali universali di medicina», maggio 1850, pp. 232-233. 11. Biblioteca Statale di Cremona, Manoscritti civici, Lettere al D.r Speranza, vol. IV, Chiara Magawly Cerati a Carlo Speranza, Viadana, 3 settembre 1833.

104

Maria Luisa Betri

proprio medico», il pur stimato Willelmo Menis, da rifiutare ripetutamente le terapie, pretendendo, anzi, di stabilire da sé quali fossero le più adatte, sino a rintuzzare «con modi aspri e disdicevoli» i tentativi di farlo ricredere messi in atto dal suo curante, costretto in seguito a difendersi, in una sorta di memoriale, dalle accuse di imperizia.12 Ugualmente molesti erano coloro che riponevano un’eccessiva fiducia nell’arte salutare, gli «entusiasti, ipocondriaci, valetudinarj, e spesso anche monomaniaci, i quali […] si getta[va]no sui medici e la medicina con esagerata pretensione, gridando senza posa all’ajuto ed esigendo senza restrizione la loro salvezza».13 Con gli ipocondriaci, in particolare, il medico doveva armarsi di «un’illimitata pazienza» – uno di loro, si soleva dire, «affanna più agevolmente dieci medici, che dieci malati un medico»14 – in quanto pronti a mutare «il loro amore volubile […] in odio e in sprezzo» e a volgere la loro fiducia in sospetto, ricorrendo immantinente alle cure di altri. «Lasciali cianciare a lor posta, a tuo modo prescrivi […] di loro scioccherie ridendoti», ammoniva al riguardo uno dei celebri Aforismi medico-politici centum nei quali Alessandro Knips Macoppe, professore nell’Università di Padova, aveva riassunto nel Settecento i precetti per formare il giovane medico, munito delle «istruzioni di medicina e di politica saggia, e sempre dentro i confini della più austera morale, […] necessarie per acquistarsi fama di pratico felice», non a caso tradotti e più volte riediti tra gli anni Dieci e i Cinquanta dell’Ottocento.15 Disorientata dalle dispute dottrinarie, in grado di alleviare le sofferenze e di consolare, più che di guarire, assediata dalla concorrenza dei ciarlatani, la “medica famiglia” sembrava dunque destinata a percorrere un cammino irto di “triboli e spine”, mentre stentava a definirsi il suo statuto professionale, nonostante la diversità delle sue componenti. La condizione 12. Willelmo Menis, Storia della malattia e causa della morte dell’I.R. Delegato De Pagave, in «Commentari dell’Ateneo di Brescia», 1833, pp. 137 sgg. 13. Giuseppe De Filippi, Nuovo galateo medico ossia intorno al modo di esercitare la medicina. Consigli ad un giovane medico, Milano, Tip. Bianchi, 1836, p. 190. 14. Ferdinando Coletti, Galateo de’ medici e de’ malati, Padova-Verona, F.lli Drucker, 1898 (riedizione), p. 34. 15. Cento aforismi medico politici di Alessandro Knips Macoppe tradotti e comentati da Giovanni Luigi Zaccarelli, Pavia, Cappelli, 1813, pp. 50-51, 71. La prima edizione, postuma, degli Aphorismi medico-politici centum di Knips Macoppe (1662-1744), risaliva al 1795. Cfr. il recente Alessandro Knips Macoppe, Centum aphorismi medico-politici, volgarizzati da T. Berti, Patavii, Casamassima, 1991.

Dalla “sconfidenza” nel medico al ricorso al “cultore di una scienza di fiducia” 105

del cattedratico e del libero esercente dell’arte nelle città, dalla clientela abbiente, infatti, era ben diversa da quella del condotto, soggetto all’alea del rinnovo dell’incarico e costretto a esercitare in un ambiente rurale non di rado ostile, oppure del medico ospedaliero e delle istituzioni di beneficenza, a contatto con un’umanità derelitta. Il processo di affrancamento da un ruolo subordinato e dipendente era lungi dall’essere compiuto, se i ceti elevati tendevano ancora a considerare la prestazione del medico un “servigio” da ricompensare a loro discrezione, anziché da remunerare con un onorario adeguato, senza peritarsi, per fare sfoggio del rango di «chiamare il medico per grandezza come chiama[va]no il prete per farsi dire la messa».16 Sembrava ignorata la norma perentoria di un Galateo pegli ammalati che rivendicava «ciò che l’ammalato tributa al medico pel datogli consiglio, o pel resogli servizio è propriamente il pagamento di un debito, e non un dono».17 Nei primi anni Trenta, ad esempio, una dama bergamasca, dicendosi obbligatissima per le molte attenzioni ricevute, pregava un medico che godeva di grande reputazione «di accettare [una] piccola moneta per bere un caffè».18 Mentre un più modesto condotto del Bresciano, al cadere del 1837, nel sollecitare una contessa al pagamento delle sue visite «che non debbono essere protratte all’anno successivo», si protestava tuttavia nel congedo «pieno di stima e rispetto, in aspettazione dei suoi favori»,19 lasciando così trasparire l’ancora diffuso atteggiamento di deferenza dei medici nei confronti dei loro ricchi e blasonati pazienti. Ben diverso, spesso all’insegna della negligenza e dell’insofferenza, era invece il comportamento dei medici incaricati di curare “i soliti pietosi”, i malati indigenti dei circondari parrocchiali o ricoverati in istituzioni di assistenza. Ne costituiscono un caso emblematico, ma per nulla eccezionale, i «mali trattamenti» di un medico comasco, Giuseppe Pedraglio, la cui condotta, tra gli anni Quaranta e Sessanta, fu oggetto di continue rimostranze, accuse e denunce da parte di pazienti, di colleghi e di parroci.20 16. Raffaele Maturi, Galateo del medico, Napoli, Stab. Tip. Androsio, 1873, p. 3. 17.  Salvatore Mandruzzato, Galateo pegli ammalati, Bergamo, Tip. Mazzoleni, 1821, p. 39. 18. Biblioteca Angelo Mai, Bergamo, Lettere a Francesco Cima, Marietta Calderarj Fogaccia a Francesco Cima, Bergamo, 25 settembre 1832. 19.  Biblioteca Angelo Mai, Bergamo, Epistolario di Giacomo Facheris, Lettera di Francesco Facheris a «pregiatissima signora contessa», Chiari, 2 dicembre 1837. 20. Archivio di Stato di Como, Ospedale Sant’Anna, Personale sanitario, fascc. 134 e 135.

106

Maria Luisa Betri

Più che eloquenti le testimonianze sui suoi modi ruvidi e sbrigativi: «Se si rappresenta un ricoverato della Casa d’industria […], lo arroganta con delle parole dicendogli che sono seccature», sino a essere giunto a schiaffeggiare malcapitate pazienti, in lacrime perché trattate brutalmente, come se «avesse nelle mani una bestia, e non un cristiano», e per di più insultate con i più volgari epiteti. Non ne sortì tuttavia alcun provvedimento disciplinare nei suoi confronti, a riprova dei «complici rapporti» spesso esistenti tra medici e direzione ospedaliera, nonostante fossero intercorse in quelle circostanze frequenti, ma evidentemente solo formali, consultazioni con l’i.r. Delegazione provinciale sulle misure da adottare. Più volte diffamato, tacciato di essere «ignorante e poltrone» e incolpato di condotta irresponsabile, inadempiente anche ai suoi obblighi ospedalieri, Pedraglio infatti riuscì sempre a scagionarsi, accusando a sua volta i suoi detrattori di essere insolenti e irrispettosi. Non mancavano tuttavia comportamenti di tutt’altro segno, come in un caso di cui diede conto Romolo Griffini, medico aggiunto nella sezione deliranti dell’Ospedale Maggiore di Milano. Prese a cuore le sorti di una «persona del popolo, priva di […] affetti, d’altri conforti di natura intellettuale», un giovane calzolaio che aveva tentato di suicidarsi perché abbandonato dalla fidanzata alle soglie delle nozze, egli lo consolò «esort[andolo] ad obliare un amore così mal collocato», fino a curarlo, superata questa crisi, durante un successivo ricovero per «epatite con itterizia», giungendo a concludere che «dispiaceri di questa fatta, non si dimenticano così di leggieri», tanto da condurre «di bel nuovo all’avvilimento, alla prostrazione».21 Poteva infine accadere che si instaurasse un rapporto di piena fiducia tra una comunità e un medico, anche in realtà generalmente poco inclini a riporre fiducia nei curanti, come avvenne in un borgo delle Prealpi bresciane, mobilitatosi per richiamare un chirurgo licenziatosi dopo pochi mesi di servizio a causa della modestia dello stipendio. La sua mancanza – si precisò nella petizione indirizzata dai notabili alle autorità – sarebbe stata 21. Romolo Griffini, Osservazioni di tentato suicidio raccolte all’Ospedale Maggiore di Milano nella divisione del medico primario dott. Fr. Viglezzi, in «Annali universali di medicina», 28 (1858), p. 217. Romolo Griffini (1825-1888), medico e patriota, partecipò al ’48, fu poi nella cerchia di Carlo Tenca e del «Crepuscolo». Ricoprì incarichi di rilievo nelle istituzioni sanitarie e assistenziali milanesi e fu tra i fondatori nel 1862 dell’Associazione medica italiana.

Dalla “sconfidenza” nel medico al ricorso al “cultore di una scienza di fiducia” 107

un fatto «mal sentito» dall’intera popolazione, la quale, avendone sperimentata l’abilità, gli chiese di svolgere anche mansioni mediche.22 Il principale nemico da sconfiggere, con cui il mondo medico, alla conquista di credibilità, ingaggiò nell’Ottocento una battaglia senza risparmio di colpi e con toni di accesa polemica fu il rivale, multiforme esercito del ciarlatanismo, formato da una pletora di guaritori, “acconciaossa”, “segretisti”, spagirici, barbieri, comari. Alla base del consenso che essi riscuotevano era la loro capacità di immediata comprensione delle sofferenze del malato, un’empatia creata tramite il linguaggio «popolare e non sottoposto ad alcuna regola», assai più comprensibile di quello astruso dei medici. Come dovettero riconoscere gli «Annali universali di medicina», «il ciarlatano […] ha […] un parlare ardito, l’occhio sicuro, fa voltare qua e là l’ammalato, gli batte sulle spalle, gli afferra per così dire l’immaginazione».23 La sua abilità di penetrazione psicologica era infatti in grado di far leva sulle capacità individuali di reazione alla malattia che, assecondando la vis medicatrix naturae, potevano talora condurre a guarigione. Oltre che sulle piazze, in occasione di fiere e mercati, i più temerari furono abili promotori dei loro rimedi vantandone l’efficacia su manifesti e in opuscoli: tra i più famosi, quello del sedicente professore Girolamo Pagliano che magnificò nel 1850 le proprietà di un suo «sciroppo depurativo e rinfrescativo del sangue e degli umori», dagli effetti polivalenti.24 Ma quella pozione fu al centro di un caso clamoroso, perché la «Gazzetta medica toscana», gridando allo scandalo, la ritenne causa della morte avvenuta a Firenze della figlioletta di un alto ufficiale russo, alla quale era stata lungamente somministrata, in spregio dei divieti di legge. In realtà le sanzioni previste dagli Stati preunitari per l’esercizio abusivo della medicina e della farmacia rimasero nella grande maggioranza inapplicate, e l’attività dei “ciurmadori” fu tollerata, più che perseguita, tanto che i primi provvedimenti sistematici 22. Nel 1837 i notabili e il parroco di Bovegno si rivolsero alla Delegazione provinciale di Brescia perché fosse richiamato in servizio, con un adeguamento di stipendio, il chirurgo Gattamelata. Archivio di Stato di Brescia, Imperial regia Delegazione Provinciale, b. 3532. 23. Giuseppe Amadeo, Sull’utilità della opinione, massime pregiudicata del popolo, in medicina. Memoria, in «Annali universali di medicina», ottobre-dicembre 1839, p. 423. 24. Girolamo Pagliano, La medicina per i padri di famiglia, o il medico di se stesso e de’ bambini, ossia modo di preservarsi, evitare, curare e guarire le malattie a dati certi nel breve spazio di cinque giorni mediante la cura dello sciroppo Pagliano, depurativo e rinfrescativo del sangue e degli umori, Firenze, per la Soc. Tip. sopra le Logge del grano, 1850.

108

Maria Luisa Betri

inerenti alla pratica illegale comparvero soltanto nel codice sanitario del 1888. Era anche successo che fosse scambiato per ciarlatano chi non lo era affatto, come era accaduto in età napoleonica a Luigi Sacco, durante le sue pionieristiche campagne di vaccinazione: guardato con sospetto dalla popolazione, soprattutto delle campagne, timorosa e incredula riguardo agli effetti di quel «salutare antidoto», «salito su una panca o su una rozza scranna» per convincere della sua utilità, era stato più volte «preso a sassate dal basso popolo» e si era dovuto appellare al «pastoral zelo» dei parroci perché svolgessero un’opera di persuasione.25 Nella realtà, le invettive contro l’esercizio abusivo della medicina, particolarmente mordaci nei confronti della «insolentissima impudenza» di «donnicciuole», schernite con una irridente gamma di appellativi – «filosofesse illetterate», «saputelle», «rimbabboccite», «protomedichesse baffute»,26 forse perché vissute come rivali davvero temibili27 – sfumarono spesso in una sorta di conciliante compromesso. Al di là di una contrapposizione netta soltanto in apparenza, infatti, la fluidità della linea di demarcazione si prestò a sconfinamenti e a opportunistiche mutuazioni. Taluni medici invidiavano ai ciarlatani la disinvolta destrezza e si studiavano di imitarla, dal momento che «un fondo di ciarlatanismo», unito a «un carattere ameno insinuante e pieghevole alle diverse circostanze» poteva, più del talento, assicurare il successo di una carriera.28 E la tolleranza dei medici condotti verso l’esercizio abusivo, stigmatizzata come colpevole arrendevolezza, non fu altro che un espediente dilatorio per tentare di sradicarlo, procedendo con cautela nell’opera di diffusione dei precetti basilari dell’igiene. Senza avversare la terapeutica popolare, fondata su inveterate credenze e consuetudini, purché fosse innocua e conforme alla morale – si finiva per suggerire con duttile pragmatismo – il medico dove25.  Giuseppe Ferrario, Vita ed opere del grande vaccinatore italiano dottore Luigi Sacco e sunto storico dell’innesto del vajuolo umano del vaccino e della rivaccinazione, Milano, Libreria di Francesco Sanvito, 1858, p. 40. 26. Gioacchino Luigi Tridenti, Sulla turba di donne medichesse a danno dell’umanità e della vera medicina. Memoria, [s.n.t., ma intorno al 1845], p. 6. 27. L’esercizio illegale dell’ostetricia, della medicina o della farmacia è apparso talvolta una sorta di rivincita femminile e rurale contro la prepotenza maschile e borghese dei diplomati. Jacques Léonard, Les guérisseurs en France au XIXe siècle, in «Revue d’histoire moderne et contemporaine», 27, 3 (1980), pp. 501-516. 28. Domenico Minichini, La scuola del giovane medico, Napoli, dalla Tipografia di Pasquale Tizzano, 1832, p. 32.

Dalla “sconfidenza” nel medico al ricorso al “cultore di una scienza di fiducia” 109

va darsi «sommo pensiero di cattivarsi la stima universale del paese in cui è chiamato», tenendo conto «delle simpatie e antipatie dei malati in rapporto ai singoli medicamenti», assecondandole, se possibile, o altrimenti raggirandole.29 Superata la fase più acuta della crisi, negli anni Quaranta, vero e proprio decennio di preparazione alla modernità, il ruolo del medico parve comunque risalire la china della considerazione sociale, e principalmente in conseguenza di due avvenimenti, tra loro assai diversi per natura e portata. Accadde, paradossalmente, durante una delle congiunture in cui si palesò nel modo più drammatico l’impotenza della medicina, quando il colera, imperversando nel 1836-37 lungo la Penisola, mise ancora una volta impietosamente a nudo l’incapacità di arginare la diffusione di un male dalla eziologia ancora ignota, che evocava nelle popolazioni il terrore della peste. Mentre la comunità scientifica era divisa tra “contagionisti” e “anticontagionisti” e ai malati si prescrivevano terapie defedanti come le purghe e i salassi, i medici «sì disperatamente e sì infelicemente curatori della malattia» furono oggetto di scherno e aggressioni, accusati di essere avvelenatori, conniventi con i governi e complici dei ricchi desiderosi di sbarazzarsi della povera gente. Tuttavia, l’intera organizzazione sanitaria d’emergenza predisposta dalle municipalità, dai lazzaretti alle “case di contumacia” ove si tenevano in isolamento i sospetti, fu saldamente nelle loro mani, e la popolazione sperimentò che, pur disarmati di fronte al male, essi riuscivano comunque ad apportare qualche sollievo. Avvalendosi dunque della fiducia istituzionale loro accordata per tentare di far breccia nella tenace ostilità popolare – «il contadino […] ha più fede in una Madonna dipinta sul muro che nel camerino dei suffumigi»,30 si dovette ammettere – i medici si candidarono a svolgere una funzione di primo piano nel governo politico della salute. Funsero da supporto al raggiungimento di questo obiettivo anche numerosi trattati di topografia medico-statistica pubblicati dopo la remissione dell’epidemia da coloro che si erano maggiormente impegnati a combatterla: da quegli ampi quadri dei processi morbosi più dif29. Giuseppe Amadeo, Sull’utilità della opinione, massime pregiudicata del popolo, in medicina. Memorie, in «Annali universali di medicina», ottobre-dicembre 1839, p. 423. 30. Gilberto Scotti, Sul cholera che l’anno 1867 invase la città e la Provincia di Como. Relazione del segretario del Consiglio generale di sanità, Como, Ostinelli editore, 1868, p. 42.

110

Maria Luisa Betri

fusi fra le popolazioni di città e campagne, redatti secondo l’impostazione romagnosiana di una statistica civile concepita come uno studio descrittivo di uomini e condizioni sociali, emerse con tutta evidenza la necessità di avviare un’opera di prevenzione e di risanamento. Era un segno inequivocabile del progressivo dissolversi della medicina sistematica, arenatasi nelle dispute sui principi generali delle malattie, in quella più distesamente fondata sulle indagini dei fatti clinici ed epidemiologici, in cui il medico era destinato a svolgere anche un’importante funzione sociale, a tutela della salute collettiva. Lo aveva lucidamente previsto Emanuele Basevi, amico di Giovan Pietro Vieusseux e collaboratore dell’«Antologia» «per le cose mediche»:31 «Il vero medico […] giova alla società […] pei precetti di profilassi che propaga fra il popolo, e pei lumi che sulla polizia medica e sulla medicina legale somministra al governo ed ai magistrati, facendosi così partecipe nell’opera del benessere e della sicurezza nello Stato».32 Un’asserzione ancora più autorevolmente argomentata, quando non si erano ancora spenti del tutto i focolai del colera, da Francesco Puccinotti, professore di medicina legale nell’ateneo di Pisa, in una memoria letta all’Accademia dei Georgofili e in una prolusione alle lezioni universitarie sulle ormai evidenti relazioni della medicina «colle principali tendenze del secolo»: Oggi la medicina vede assai più d’appresso le corrispondenze dell’umana vita con gli agenti morali e fisici che la circondano: […] mentre con una mano esplora la vita dell’individuo, distende l’altra sul cuore della società e ne misura la forza e i salutevoli fondamenti, e col pensiero all’uno e all’altra va meditando i soccorsi.33

La medicina pertanto – ammoniva – avrebbe condiviso la sorte infausta delle scienze prive di «relazione con la cosa pubblica», se non si fosse trovata «quale un pianeta di primo ordine nel firmamento sociale».34 31. Cfr. Liana Elda Funaro, “Medicina positiva”. La corrispondenza fra Giovan Pietro Vieusseux ed Emanuele Basevi per l’“Antologia”, in «Antologia Vieusseux», n.s., XXI, 63 (2015), pp. 15-16. 32. Emanuele Basevi, Degli ufficj del medico, in «Giornale critico di medicina analitica», II (1826), p. 314. 33.  Francesco Puccinotti, Delle relazioni della medicina con l’economia politica (1837), in Id., Opere mediche, 2 voll., Milano, Borroni e Scotti, 1856, vol. II, p. 21. 34. Id., Del carattere civile della medicina e delle sue relazioni colle principali tendenze del secolo (1838), ivi, p. 13.

Dalla “sconfidenza” nel medico al ricorso al “cultore di una scienza di fiducia” 111

Di lì a poco, nell’ottobre 1839 si inaugurò proprio a Pisa il primo dei nove congressi degli scienziati italiani,35 che costituirono per i medici, presenti in forza sino a raggiungere il 30% – la percentuale più elevata – degli oltre 8.000 partecipanti, l’altra importante occasione per riconoscersi come portatori di una ragione scientifica, amalgama di una rinnovata coesione professionale, e per riannodare i fili di una medicina preventiva, razionale e sperimentale, volta al bene sia individuale che sociale, nel solco di quella “polizia medica”, parte integrante dei compiti spettanti allo Stato moderno, teorizzata nella Lombardia austriaca del secondo Settecento da Johann Peter Frank. Così, Giuseppe Ferrario, già nella prima delle riunioni congressuali, aveva caldeggiato la compilazione di una «statistica clinica nazionale» come base conoscitiva su cui fondare la pratica e, più ampiamente, impostare gli interventi di politica sanitaria.36 L’impresa della riconquista di una dignità scientifica e professionale, che consentì ai medici di riguadagnare, sia pure gradualmente, consenso e fiducia ancor prima di essere in grado di prestare cure efficaci,37 fu sostenuta da una pubblicistica periodica, edita sia nelle maggiori città e sedi universitarie che in centri minori, non solo canale di circolazione di notizie e aggiornamenti scientifici, ma anche tribuna per rivendicare alla «casta medico-chirurgica» una «congrua posizione nella società», da raggiungere con un’«armonica aggregazione» delle sue componenti mediante l’associazionismo.38 Su quelle pagine, negli anni Cinquanta, ebbe ampio risalto la campagna per il riscatto della componente più debole della professione, quella del medico “comunitativo”, che, al di là della differente configurazione dell’istituto della condotta per la cura dei malati poveri nelle diverse realtà degli Stati preunitari, subordinato al notabilato locale nella riconferma dell’incarico e spesso confinato in località sperdute, viveva indub35. Cfr. Maria Pia Casalena, Per lo Stato, per la nazione: i congressi degli scienziati in Francia e in Italia, 1830-1914, Roma, Carocci, 2007. 36. Atti della prima riunione degli scienziati italiani tenuta in Pisa nell’ottobre 1839, Pisa, Tip. Nistri, 1840, pp. 227 sgg. 37.  Per il caso francese, ha osservato Christophe Charle, a proposito degli studi di Jacques Léonard sui medici del XIX secolo: «La considération sociale a précédé l’efficacité thérapeutique, celle-ci confortant a posteriori les privilèges acquis»; Cristophe Charle, Histoire professionnelle, histoire sociale? Les médecins de l’Ouest au XIXe siècle, in «Annales E.S.C.», 4 (1979), p. 788. 38. Lettera di un medico condotto in provincia di Pavia a Gaetano Strambio, a proposito delle condizioni della condotta, in «Gazzetta medica italiana. Lombardia», 29 settembre 1856.

112

Maria Luisa Betri

biamente la condizione più meschina. Si sfoggiò un repertorio di metafore che toccava tutte le corde della commiserazione e dipingeva il condotto, ma non solo, come coraggioso soldato su un campo di battaglia, oppure come dedito a un “santo e amaro ministero”. L’apparentamento dell’esercizio della professione a un ministero sacerdotale, a una “civile religione”, era l’indizio di una mutuazione di ruolo, che avrebbe assunto un particolare significato soprattutto fra le popolazioni delle campagne, ove il parroco era sempre stato «il primo cercato, il primo consultato; e spesso il solo» in caso di malattia, tanto da farne il destinatario di numerosi opuscoli divulgativi dei basilari precetti «nell’igiene e nella patologia», onde potesse, «unico rappresentante del sapere e della civiltà», fare le veci del medico.39 Illuminante sull’assunzione da parte del medico di funzioni usualmente svolte dal parroco al capezzale dell’infermo, a contraddire la radicata opinione della conflittualità di un rapporto, quanto scriveva un amico sacerdote a Bartolomeo Sella, della famiglia dei manifatturieri della lana, che esercitava nel circondario di Biella: «Io l’osservai, e voi l’avrete osservato più di me – gli faceva notare – che l’amalato, tutto ché dopo molte volte abbia provato che per la complicazione del male o per mancanza de’ principi suscettibili di riordinazione, l’arte medica non lo può sollevare, con importune istanze domanda ad ogni momento il medico». E ne attribuiva la ragione «al sollievo» che l’infermo traeva dalla «medicale presenza», per l’«intima persuasione» che essa fosse l’unica in grado di «umanamente soccorrerlo».40 Non a caso la copiosa trattatistica deontologica di “galatei medici”, un genere che arrivò a contare alcune decine di esemplari nella veste di 39. Giacomo Barzellotti, Il paroco istruito nella medicina per utilità spirituale e temporale dei suoi popolani. Dialoghi, Milano, Stella e figli, 1826, p. V. Nello stesso anno un “sacerdote napolitano”, Angelo Antonio Scotti, pubblicava a Venezia un Catechismo medico ossia sviluppo delle dottrine che conciliano la religione colla medicina. Nell’ultimo dei Congressi italiani, svoltosi a Venezia nel 1847, fu letta una memoria di Giacomo Zambelli, Economia pubblica. Della necessità di istruire i chierici negli elementi dell’igiene e della patologia. Discorso letto nell’Adunanza degli Agronomi e Tecnologi nel IX Congresso italiano in Venezia, in «L’amico del contadino», VI, 46 (12 febbraio 1848), pp. 361-366. 40. Lettera di Pietro Domenico Calvino a Bartolomeo Sella, cit. in Silvano Montaldo, Medici e società. Bartolomeo Sella nel Piemonte dell’Ottocento, Torino-Roma, Comitato di Torino dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano-Carocci, 1998, p. 225. In una sorta di taccuino personale nel corso di un esercizio professionale svolto nei primi decenni dell’Ottocento, Sella annotò scrupolosamente notizie sul decorso delle malattie dei pazienti, sull’ambiente, sulla circolazione delle idee scientifiche e sull’alterno andamento del processo di medicalizzazione in quella periferia rurale.

Dalla “sconfidenza” nel medico al ricorso al “cultore di una scienza di fiducia” 113

“consigli”, di “ricordi al giovane medico”, di “avviso alla studiosa gioventù”, di istruzioni “al medico giovane al letto dell’ammalato”, e che fu l’asse normativo del processo di consolidamento professionale tra Sette e Ottocento, delineò le coordinate di una prassi da fondarsi in primo luogo sulla comprensione e sulla attitudine consolatoria. Nell’esercizio della professione, l’«arte della prudenza», requisito indispensabile per svolgere un «ministero più delicato di quello dell’avvocato e del confessore», avrebbe dovuto avanti di attendere all’infermità del corpo […] curare quella dello spirito, che agisce sull’altra potentemente – si raccomandava in un giornale scientificoletterario napoletano degli anni Venti –. Ma il rimedio dell’anima non si prende dalle ampolle dell’apoticario: egli sta tutto nel balsamo della parola [che] scende dolcissima sul core dell’ammalato.41

La parola, dunque, di cui sapevano così abilmente servirsi i ciarlatani, diventava una risorsa essenziale anche per il medico, un mezzo per confortare e persuadere, dal momento che «l’arte di leggere e perscrutare nel cuore degli uomini» era spesso l’unica alla quale poteva far ricorso per supplire ai limiti di una clinica ancora largamente priva di efficacia: «Ben di frequente penetrando negli intimi segreti delle famiglie [il medico] ne deterge le piaghe morali, e conoscendo la via di raddolcire il calice amaro, perviene anche a sanarle, coltivando il sentimento riparatore».42 Nel processo di «emozionalizzazione dei rapporti umani»43 e nella medicalizzazione della vita e della morte che dall’età dei Lumi aveva attenuato la stoicità nei confronti della sofferenza,44 il medico che faceva il suo ingresso nella famiglia sentimentalizzata dei ceti alti divenne un amico e un confidente, un personaggio partecipe dei momenti cruciali dell’esistenza, ancor prima di essere un curante. La presenza del «bon medecin de la campagne [qui] s’etablit chez nous pour ne point quitter ni le jour ni la nuit» era stata di conforto alla famiglia Manzoni, immersa in un’atmosfera di desolazione durante la lunga agonia di Enrichetta Blondel, di cui scriveva a un’amica francese, venerandone la morte edifi41. Una parola ai medici, in «L’Ape sebezia», 4 (30 gennaio 1827). 42. De Filippi, Nuovo galateo medico, p. 7. 43. Edward Shorter, La tormentata storia del rapporto medico paziente, Milano, Feltrinelli, 1985, pp. 85-86. 44. Michel Vovelle, La morte e l’Occidente. Dal 1300 ai nostri giorni, Roma-Bari, Laterza, 1986, pp. 349 sgg.

114

Maria Luisa Betri

cante, la suocera Giulia Beccaria.45 L’uso frequente del termine “amico” e il riferimento a «un’amicizia carissima», talora definita «vecchia di casa», nelle formule allocutive delle lettere indirizzate ai medici dai loro pazienti testimoniavano l’instaurarsi di un rapporto di famigliarità e di fiducia crescente che li induceva a metterli a parte non solo dei mali fisici e dei “patemi afflittivi dell’animo”, in particolare dopo eventi luttuosi, ma anche di ogni sorta di apprensioni. Furono molte le mani femminili ad abbandonarsi in lunghe missive, vergate con grafia sicura e in uno stile scorrevole o con tratti di penna più incerti e in una forma ingenua, a più sciolti e confidenziali sfoghi sul loro vissuto, fiduciose che l’attenzione del medico le ripagasse dell’indifferenza e delle incomprensioni da cui erano circondate tra le mura di casa. Il loro linguaggio è spesso sorprendentemente puntuale e disinibito nel descrivere i particolari più delicati di alcuni quadri patologici, come se l’analiticità del racconto volesse rendere oggettiva una condizione di sofferenza, fisica e psicologica al tempo stesso. Nei compendi deontologici della prima metà del secolo ebbero un rilievo indubbiamente maggiore i precetti della “scuola politico morale”, che privilegiavano il versante relazionale, con il malato, la sua famiglia, la società, rispetto a quelli della “scuola clinica”, in cui si dettavano le norme per accostarsi al paziente, raccoglierne accuratamente l’anamnesi, studiarne il decorso morboso e infine formulare i responsi della diagnosi e prognosi. Il paradigma etico proposto disegnava il profilo di un curante ponderato e cauto, dallo sguardo attento, ma non severo, dall’eloquio sicuro, ma non saccente, dal contegno compassato, ma non altero, tale da indurre il malato a rimettersi fiducioso alle sue cure. «Il malato deve scegliere avvedutamente il proprio medico, ma poi affidarsi interamente a lui, obbedire e non discutere»46 recitava la norma imperativa di un galateo degli anni Cinquanta: una massima riecheggiata in numerose “dissertazioni inaugurali” per conseguire la laurea in medicina da giovani che si accingevano a intraprendere la professione: nel «medico esercizio» si riteneva indispensabile «al buono andamento delle intraprese cure la fiducia illimitata 45. Lettera di Giulia Beccaria a Euphrosine Falquet-Planta, Milano, 7 marzo 1834, in Giulia Beccaria, “Col core sulla penna”. Lettere 1791-1841, a cura di Grazia Maria Griffini Rosnati, Milano, Centro nazionale studi manzoniani, 2001, pp. 158-159. L’autografo è conservato presso le Bibliothèques municipales di Grenoble. 46. Ferdinando Coletti, Galateo de’ medici e de’ malati, Padova, coi tipi di A. Bianchi, 1853, p. 25.

Dalla “sconfidenza” nel medico al ricorso al “cultore di una scienza di fiducia” 115

dell’ammalato nel medico», ma, reciprocamente, questi era «obbligato a procurarsela».47 I codici di comportamento dei galatei della seconda metà del secolo riflettevano invece un ruolo professionale ormai rinfrancatosi negli anni di ascesa dello scientismo positivista, quando i grandi, ripetuti successi in campo batteriologico parvero dischiudere alla medicina un avvenire di trionfi. Inoltre, poiché il rapporto tra medicina e cosa pubblica si era intensificato di fronte alla gravità e all’urgenza della “questione sanitaria” nello Stato unitario, il profilo moraleggiante cedeva il passo a una figura professionale impegnata a fondo in un’opera di alfabetizzazione igienica, in una temperie pervasa di materialismo, ispirata da un umanitarismo laico che spesso si colorava di socialismo. Negli anni Settanta, alla domanda “deve il medico occuparsi di politica?” un medico napoletano di idee democratiche rispondeva con convinzione che «il medico si aggira e vive in mezzo al popolo, e pensa come il popolo», e che «tutti i cittadini sono uguali innanzi alla legge, e tutti gl’infermi sono eguali innanzi al medico».48 Negli anni Ottanta dell’Ottocento l’ostinata avversione, lo scetticismo, la “sconfidenza”, insomma, nei confronti dei medici sembravano ormai stemperarsi in un atteggiamento di fiduciosa, seppur tiepida, considerazione. La rivoluzione batteriologica e il perfezionamento di nuovi strumenti di tecnologia diagnostica tuttavia creavano i presupposti di un profondo mutamento nell’esplorazione del corpo del malato, che avrebbero progressivamente rarefatto il rapporto di reciproco coinvolgimento tra medico e paziente. Ne era stato antesignano lo stetoscopio, messo a punto nel 1816 da Laënnec all’Hôpital Necker di Parigi, ma introdotto in Italia nella pratica clinica con notevole ritardo, tanto che si auspicò soltanto negli anni Quaranta l’introduzione di quell’“importantissimo clinico insegnamento”. Si trattò della prima anticipazione di un diverso modo di “ascoltare” il malato, privilegiando via via l’obiettività dei segni della malattia, e inducendo a trascurare la soggettività dei sintomi riferiti dal paziente. Fino a quando, nel Novecento avanzato, l’antropologia medica del malato è stata sopraffatta da una tecnologia medica sempre più perfezionata, tendente tuttavia a esaminare e a misurare la malattia spesso settorialmente, mirando a questo o a quell’organo di un corpo diviso. 47. Crisanto Garbini, Della fiducia nel medico. Dissertazione inaugurale in occasione della sua laurea in medicina nell’I.R. Università di Padova, Padova, Tip. Sicca, 1852, p. 6. 48. Maturi, Galateo del medico, pp. 14 e 99.

La fiducia nella scienza e nelle istituzioni sanitarie

Francesco Taroni Fiducia e sanità pubblica: un’utopia dissipata

Le relazioni di cura fra una persona e il suo medico investono gli aspetti più intimi della vita privata e sono improntate a relazioni di fiducia interpersonale a carattere squisitamente individuale. Accanto alla clinica, tuttavia, la medicina comprende anche interventi collettivi indirizzati verso comunità in vista di un bene comune non appropriabile dal singolo, definiti oggi di Sanità pubblica e variamente denominati nel tempo Igiene pubblica, Igiene sociale, Medicina politica, Medicina sociale, Medicina di Stato, ecc.1 La natura collettiva di questi interventi basati su relazioni di collaborazione, cooperazione e solidarietà si riferisce sia ai destinatari, costituiti da intere popolazioni, piccole comunità o aggregati sovranazionali, sia agli attori dell’intervento, rappresentati da organizzazioni complesse, spesso parte delle istituzioni dello Stato o poste sotto il suo controllo.2 È quindi utile distinguere fra la fiducia interpersonale propria delle relazioni del paziente con il suo medico e una forma di fiducia “istituzionale”, contigua ma alternativa al potere e analoga alla fiducia politica o sociale, che connota le relazioni reciproche fra i medici, la medicina, lo Stato e la popolazione destinataria dell’intervento.3 Fiducia interpersonale e fiducia istituzionale sono concettualmente distinte ma materialmente embricate: la fiducia (o, viceversa, la sfiducia) che il paziente ripone in un singolo medico e nei 1. Sui linguaggi dell’igiene e il loro significato si veda Lion Murard, Patrick Zylberman, L’hygiène dans la République. La santé publique en France ou l’utopie contrariée 1870-1918, Paris, Fayard, 1996, cap. 2. 2.  Christopher Hamlin, The history and development of public health in developed countries, in The Oxford Handbook of the History of Medicine, a cura di Marck Jackson, Oxford, Oxford University Press, 2000, pp. 411-428. 3. Niklas Luhmann, Trust and power, London, Wiley, 1979.

120

Francesco Taroni

suoi interventi è condizionata dalla disposizione nei confronti della professione medica, della scienza e della tecnica e delle loro istituzioni, così come verso l’industria, l’organizzazione dell’assistenza sanitaria e la sua amministrazione. Il capitolo ha per oggetto il ruolo svolto dai medici in Parlamento nell’elaborazione delle prime leggi fondamentali di organizzazione sanitaria nel periodo compreso fra l’approvazione della legislazione crispina e la modernizzazione giolittiana. L’analisi della legislazione sanitaria in Italia attraverso i dibattiti parlamentari e le pubblicazioni scientifiche e culturali italiane e straniere viene utilizzata come lo specchio che riflette il credito e l’investimento da parte dei governi dell’Italia liberale sui medici e sulla medicina e, al contrario, l’influenza degli interessi professionali sulle scelte di politica sanitaria, di ricerca scientifica e di regolazione della professione. L’impatto dell’epidemia di colera del 1910-1911, i provvedimenti adottati per il suo contrasto a livello locale, nazionale e internazionale e le reazioni della popolazione permettono invece di verificare la fiducia effettivamente riposta dalla popolazione e dallo Stato nell’efficacia dei rimedi offerti dalla scienza medica e nella competenza e affidabilità dei medici. 1. Il riformismo crispino: igiene, politica e amministrazione I medici si sono proposti come classe dirigente per la costruzione del nuovo Stato unitario fin dai congressi pre-unitari degli scienziati, ponendo la questione sanitaria come un grande problema nazionale e rivendicando per sé la funzione di «coscienza sanitaria della Nazione» legittimata dal loro contributo ai moti risorgimentali e dai continui progressi della scienza medica.4 Invece, la prima legislazione sanitaria dell’Italia unita fu una semplice appendice (l’Allegato C) della legge 20 marzo 1865, n. 2248 per l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia, ricalcata sulla legge Rattazzi, entrata in vigore negli Stati sabaudi e nell’annessa Lombardia nel 1859, e ritenuta di così scarso interesse da non essere neppure sottoposta a un dibattito parlamentare. L’Allegato C riservava alla componente tecnica un ruolo subordinato alla burocrazia amministrativa a livello municipale e centrale. L’articolo 1 stabiliva infatti che «La tutela della sanità pubblica è affidata al Ministro dell’Interno e, sotto la sua dipendenza ai Prefetti, ai 4. Maria Malatesta, Professionisti e gentiluomini, Torino, Einaudi, 2006.

Fiducia e sanità pubblica: un’utopia dissipata

121

sotto-Prefetti e ai Sindaci» (al tempo di nomina regia), mentre a livello centrale l’amministrazione sanitaria era parte della Direzione dell’amministrazione civile.5 La “piemontesizzazione” della sanità fu aspramente criticata dai medici lombardi per il peggioramento delle condizioni dei medici condotti rispetto allo Statuto appena conquistato dopo anni di scontri con l’amministrazione asburgica che assicurava stabilità (dopo sei anni di prova), il diritto alla pensione e uno stipendio minimo.6 Richieste simili avanzavano le petizioni inviate al primo Parlamento italiano da numerose province annesse che combinavano la richiesta di sviluppare l’assistenza pubblica a favore dei poveri attraverso l’espansione delle condotte con la domanda di stabilità di impiego e di autogoverno della professione, rispetto sia alla competizione di ciarlatani e flebotomi, sia all’interferenza della burocrazia comunale e provinciale. L’elaborazione di un Codice sanitario organico, esaustivo e “definitivo” fu il fulcro attorno a cui si coagularono le aspettative dei medici per riparare ai limiti della vituperata legge del 1865 e superare le delusioni dei suoi due Regolamenti applicativi. L’epidemia di colera del 1884, assieme ai risultati dell’«Indagine sulle condizioni igieniche e sanitarie dei comuni del Regno» pubblicata l’anno successivo, fu l’occasione per prendere coscienza dell’impotenza dell’organizzazione esistente e dell’arretratezza delle competenze. Durante il concitato dibattito per l’approvazione in tempi rapidissimi della legge speciale per il risanamento della città di Napoli, il relatore Rocco De Zerbi sollecitò l’intervento dei medici parlamentari nella veste di esperti per vincere l’opposizione ai provvedimenti, segno di disinformazione sulle nuove conoscenze scientifiche.7 Nell’indirizzo di saluto al 12° Congresso dell’AMI, Giulio Bizzozero contrappose la strategia 5. Marco Soresina, Sanità pubblica (all. C), in «Storia, Amministrazione, Costituzione», 23 (2015), pp. 179-224. 6. Gaetano Strambio, Sull’organizzazione sanitaria in Italia. Rapporto letto in nome di una Commissione al Regio Istituto Lombardo di scienze, lettere ed arti, in «Il Politecnico», 14 (1862), pp. 245-307; G. Ognibeni, Legislazione e organizzazione sanitaria nella seconda metà dell’Ottocento, in Salute e classi lavoratrici in Italia dall’Unità al Fascismo, a cura di Maria Luisa Betri e Ada Gigli Marchetti, Milano, Franco Angeli, 1982, pp. 586-662. Vedi anche Roberto Cea, Il governo della salute nell’Italia liberale, Milano, Franco Angeli, 2019. 7. Atti Parlamentari (da ora AP), Camera dei deputati, legislatura XV, Discussioni, tornata del 20 dicembre 1884, intervento dell’on. Rocco De Zerbi, storia.camera.it/regno/ lavori/leg15/sed352.

122

Francesco Taroni

«illuminata» con cui veniva gestita l’epidemia di colera rispetto alle «futili e illusorie misure» precedenti, basate su «teorie scientifiche obsolete ed ancora più antiquati pregiudizi che interferivano col commercio, annichilivano la libertà individuale e davano libero corso alla peggiore delle anarchie, l’anarchia della paura›». “L’impavido coraggio” di Bizzozero riscosse il plauso dell’anonimo corrispondente del «British Medical Journal» per aver «condannato i feticci sanitari in cui i suoi concittadini hanno così a lungo riposto la loro fiducia», di buon auspicio per la «rinascita dell’Igiene» che la nuova legge in discussione avrebbe realizzato.8 La spinta a interventi di risanamento e la necessità di una riforma, già sottolineata da Paolo Mantegazza («un male che fa anche bene»), fu sollevata da numerosi interventi nel dibattito per l’approvazione della legge Crispi, fra cui, ad esempio, quello del deputato socialista e medico condotto Nicola Badaloni secondo cui «non ci voleva, o signori, meno del colera del 1884 con le sue successive invasioni per dimostrare quanto tristi fossero le nostre condizioni igieniche e quanto grande il bisogno di un nuovo ordinamento sanitario».9 L’approvazione della legge Crispi è stato il passaggio cruciale con cui lo Stato ha riconosciuto l’importanza del ruolo dei medici e del loro sapere per elaborare una legislazione che riconosceva loro un ruolo centrale nell’assistenza e nella vigilanza igienica. I successi della rivoluzione batteriologica avevano promosso l’immagine pubblica della medicina come strumento di progresso e del medico igienista come scienziato, alimentando l’ideologia del nuovo igienismo fondata su due elementi nuovi sul piano degli strumenti e della legittimità degli interventi. L’affermazione delle teorie contagioniste aveva imposto la chimica e la batteriologia, le basi scientifiche del “metodo” di Pasteur e di Koch, come tecniche indispensabili per il controllo della diffusione delle malattie infettive. Queste avevano indotto cambiamenti nella pratica medica, modifiche dell’organizzazione sanitaria attraverso la diffusione di laboratori, divenuti simbolo della nuova scienza positiva, e accelerato la specializzazione e la professionalizzazione dell’igiene, in via di separazione dalla medicina legale e di diventare sperimentale ed empirica rispetto alla tradizione «orale» o «chiacchieroide» come era stata qualificata da Guido Baccelli. La vigi8. The Hygienic Renascence in Italy, in «British Medical Journal», II (1887), pp. 728-789. 9. AP, Camera dei deputati, legislatura XVI, Discussioni, tornata del 12 dicembre 1888, intervento dell’on. Nicola Badaloni, storia.camera.it/regno/lavori/leg16/sed350.

Fiducia e sanità pubblica: un’utopia dissipata

123

lanza igienica doveva essere esercitata da “specialisti” («l’igienista deve avere delle cognizioni tutte speciali») in quanto «un medico […] il quale senza studi speciali non si perita di dare giudizi su questioni di molta importanza igienica, è altrettanto colpevole come quello che compia delicate operazioni chirurgiche senza la conveniente preparazione, con questa differenza aggravante che questi mette in pericolo un individuo, quegli giuoca colla vita di migliaia».10 In secondo luogo, l’imperativo ricorrente Salus publica suprema lex poneva la questione sanitaria come condizione generale di progresso della Nazione, legittimando interventi collettivi anche coercitivi dei diritti di libertà e proprietà individuali. Era per «il bene che dall’igiene pubblica tecnicamente applicata, un popolo si deve aspettare» che Bizzozero già nel 1882 aveva proposto di istituire «un Ufficio centrale di Sanità presso il Ministero dell’interno» in quanto «ci vuole un’azione collettiva, che eserciti la sua influenza su tutto il paese» attraverso «un corpo eminentemente tecnico, munito di estesi poteri, il cui capo dovrebbe rispondere verso il Ministro e verso il paese della salute delle provincie del Regno». Contro le timidezze liberiste di Carlo Burci, relatore del primo Codice Lanza, preoccupato di limitare l’«inframmettenza» dello Stato nelle «questioni private», lo schema di codice elaborato da Bertani proclamava che «l’igiene pubblica deve essere comandata», in quanto l’azione collettiva doveva obbedire al «supremo principio che lo Stato deve vigilare e tutelare la pubblica salute», anche contro le libertà individuali e i diritti di proprietà, dall’isolamento in caso di malattie infettive all’igiene delle abitazioni e dell’ambiente urbano e rurale.11 Il disegno di legge ispirato ai principi di Bizzozero e Bertani e fondato sulle nuove esigenze della scienza e della tecnica fu elaborato da Luigi Pagliani, accademico e igienista torinese chiamato a Roma da Crispi. Il progetto di riforma fu oggetto dei “voti” di congressi, accademie mediche e 10. Giulio Bizzozero, La Difesa della società dalle malattie infettive, citato in Luigi Pagliani, Commemorazione fatta alla Società Piemontese d’Igiene, Torino, F.lli Pozzo, 1901, p. 10 (anche per le citazioni successive). 11. Agostino Bertani, Relazione all’onorevole ministro dell’Interno, che accompagna il Codice per la pubblica igiene, compilato e proposto dal deputato dottore Agostino Bertani, 1885, in Id., Scritti e discorsi scelti e curati da Jessie White Mario, Firenze, Barbera, 1890, pp. 349-370; 355. Sui rapporti fra le nuove conoscenze sulla diffusione delle malattie infettive, diritti individuali e ordine sociale in Inghilterra, cfr. Graham Mooney, Intrusive interventions. Public health, domestic space and infectious disease, Rochester, University of Rochester Press, 2015.

124

Francesco Taroni

tema di concorsi, fra cui il premio del prestigioso Reale Istituto Lombardo di Scienza e Lettere. Il dibattito fu intensamente partecipato da scienziati, clinici illustri e medici condotti dentro e fuori il Parlamento.12 Al Senato diedero il loro sostegno personalità del calibro di Stanislao Cannizzaro, presentatore della relazione senatoriale, Paolo Mantegazza, Giacinto Pacchiotti, Jacopo Molenschott, Giulio Bizzozero e Angelo Mosso. Relatore alla Camera fu il deputato dell’estrema sinistra Mario Panizza, igienista e medico condotto, che avrebbe curato la pubblicazione dei risultati dell’indagine Bertani sulle condizioni di vita dei lavoratori della terra realizzata in collaborazione con i medici condotti. Alla Camera si espressero in favore della legge personalità di spicco del mondo sanitario di tutti gli schieramenti, da Corrado Tommasi Crudeli e Guido Baccelli, i più influenti esponenti della scuola romana, al deputato socialista e medico condotto Nicola Badaloni. Il dibattito fu attentamente seguito anche fuori dalle aule parlamentari, soprattutto dagli igienisti di Torino che nelle loro adunanze, poi pubblicate sul «Giornale della Società Italiana di Igiene», commentavano puntualmente i singoli articoli nelle loro diverse formulazioni in una sorta di vigile contrappunto. Il risultato fu un nuovo ordinamento nazionale della sanità fondato su «un corpo tecnico organizzato per la difesa sanitaria» supportato da laboratori chimici e batteriologici per il controllo delle acque, degli alimenti, delle abitazioni e delle industrie. La condivisione della legge con la comunità scientifica e la rottura della continuità con la tradizione amministrativa furono rivendicati esplicitamente da Crispi («noi ci troviamo con gli uomini della scienza, i quali hanno lodato la legge che si discute, e ne hanno chiesto l’approvazione […] e questo mi pare un pegno sicuro della opportunità della legge medesima») e dal relatore Mario Panizza secondo cui «tutta la legge si fonda su questo concetto: che la parte esecutiva del servizio amministrativo sanitario sia affidata a personale tecnico; in ciò sta 12. Un sommario è in Il dibattito parlamentare sulla legge Crispi del 1888. Centenario della prima legge di sanità pubblica (1888-1988), Milano, Nuova CEI, 1988. Di seguito il riferimento sarà comunque alle trascrizioni originali dal Portale storico della Camera, Lavori parlamentari (www.storia.camera.it). Sul contributo della sede piemontese della Società Italiana d’Igiene, cfr. Carlo Zucchi, Il quinto e sesto progetto di legge sanitaria, in «Giornale della Società Italiana di Igiene», 10 (1888), pp. 5-23 e la Relazione delle discussioni tenute alla Regia Società d’Igiene (sede piemontese) sul progetto di legge per la tutela dell’igiene e sanità pubblica presentato in Senato nella tornata del 26 novembre 1887, in «Giornale della Società Italiana di Igiene», 10 (1888), pp. 24-30.

Fiducia e sanità pubblica: un’utopia dissipata

125

l’innovazione».13 La preminenza del ruolo dei medici nella nuova organizzazione raccolse consensi anche dall’Inghilterra dove venne segnalata dal «British Medical Journal» come «un modello per gli statisti inglesi» che ritenevano invece che «imparzialità, efficienza ed economicità siano meglio garantite affidando il controllo e l’amministrazione a uomini che non ne sanno assolutamente nulla e mettendo quelli che ne sanno qualcosa totalmente nelle loro mani».14 Sul piano professionale, tuttavia, la nuova legge continuava a negare ai medici un ruolo diretto nell’amministrazione della sanità, che a livello comunale e provinciale restava saldamente nelle mani di prefetti e sindaci come stabiliva il suo primo articolo che riproduceva integralmente l’articolo 1 dell’Allegato C della antica legge comunale e provinciale del 1865. Una continuità che la relazione illustrativa avrebbe dovuto far presagire poiché indicava come compito della legge di disciplinare «più seriamente» la sanità pubblica attraverso «l’azione delle autorità amministrative coadiuvate da persone fornite di tecnica competenza», prefigurando la tradizionale funzione consultiva. Una delusione per i medici che insistevano nel subordinare alla loro autonomia i futuri benefici della nazione e continuavano a chiedere l’allargamento degli spazi di autogoverno professionale nei confronti dei comuni e delle Opere pie ospedaliere. La commistione di ruoli e di attività risultante dalla scelta di reclutare gli ufficiali sanitari fra i medici condotti fu criticata perché, a dispetto della specializzazione e professionalizzazione dell’igiene, «invece di avere nei comuni degli ufficiali sanitari autentici, genuini, vi saranno degli igienisti a corso forzoso, nelle persone dei medici condotti». In difesa della legge, Panizza attribuì l’idea originaria ad Agostino Bertani, evidenziò la necessità di non gravare troppo sulle finanze comunali e la mancanza di un numero adeguato di igienisti e ribadì l’opportunità di integrare in un’unica persona «l’ufficio di curare gli infermi da quello di vegliare alla pubblica salute» anche contro l’opinione degli igienisti. I medici condotti raccolsero solo alte lodi sia da Crispi che da Panizza («il medico condotto è il solo rappresentante della scienza, nel suo genio più moderno, presso le popolazioni numerose delle campagne. 13. AP, Camera dei deputati, legislatura XVI, Discussioni, tornata del 13 dicembre 1888, intervento dell’on. Mario Panizza, storia.camera.it/regno/lavori/leg16/sed351; ivi, tornata del 14 dicembre, intervento del presidente del Consiglio e ministro dell’Interno, on. Francesco Crispi, storia.camera.it/regno/lavori/leg16/sed352. 14. Public health legislation in Italy, pp. 790-791.

126

Francesco Taroni

Lo Stato, pensando ad esso, gli rammenterà sempre più che esso è un apostolo di civiltà e quanto il paese possa aspettarsi dal suo patriottismo»).15 La patente di «scienziati», «apostoli» e «patrioti» costituiva un riconoscimento significativo sul piano simbolico che non compensava tuttavia la delusione delle aspettative su quello professionale. Venivano infatti negate ai medici condotti la stabilità del posto che li avrebbe difesi dalle eccessive pretese dei consigli comunali e dai loro capitolati giugulatori, la pensione e, soprattutto, la possibilità di integrare la remunerazione fissa del comune per l’assistenza ai cittadini iscritti nella lista dei poveri con i proventi della libera professione sui più abbienti che sarebbe derivata dall’abolizione delle condotte “piene”, la chiave di volta dell’equilibrio fra ristrettezze del mercato e costrizioni della amministrazione pubblica. La continuità nella subordinazione dei medici alla burocrazia amministrativa a livello locale contrastava con la rivoluzione nel governo centrale della sanità realizzata fra il 1887 ed il 1889 da una serie di decreti che permettevano di aggirare un incerto passaggio parlamentare. Il Regio decreto del 1887 aveva istituito una Direzione di sanità autonoma e dotata di un Ufficio di ingegneri sanitari, con compiti di ispezione dei “comuni malsani” identificati dall’indagine del 1885 e di revisione dei progetti di risanamento urbano elaborati dai comuni in attuazione della legge per il risanamento di Napoli estesa anche ai principali comuni italiani. Nel novembre dello stesso anno furono aperti, in spazi dell’Istituto di igiene dell’Università di Roma, due laboratori di chimica e di batteriologia e micrografia applicate all’igiene col compito di «compiere indagini» per la Direzione e «per il perfezionamento di medici, ingegneri, veterinari e farmacisti». Ai laboratori fu annessa una Scuola di perfezionamento in Igiene per formare il nuovo personale tecnico richiesto dalla riforma, che dopo un corso di cinque mesi rilasciava il diploma per medico provinciale, ufficiale sanitario, veterinario provinciale e comunale e di ingegnere sanitario. Da ultimo, nel gennaio del 1889 entrò in attività l’Istituto vaccinogeno di Stato col compito di produrre vaccini contro il vaiolo e il carbonchio e poi anche sieri per la nuova sieroterapia antidifterica. La legge e l’apparato centrale costruito per la sua attuazione erano strettamente complementari ma ebbero fortune molto diverse. La legge fu 15. AP, Camera dei deputati, legislatura XVI, Discussioni, tornata del 13 dicembre 1888, interventi degli on. Mario Panizza e Francesco Crispi, storia.camera.it/regno/lavori/ leg16/sed351.

Fiducia e sanità pubblica: un’utopia dissipata

127

subito accolta positivamente dalle classi dirigenti e dai medici di tutti gli orientamenti politici. Le critiche rimasero isolate, in campo medico e oltre. In una serie di articoli sul liberista «Giornale degli Economisti» Ugo Imperatori lamentava «l’insensibilità degli igienisti di Stato a qualsiasi grandezza di spesa o disagio economico» e criticava l’eccessiva «ingerenza dello Stato», definendo la legge un esempio di «Socialismo di Stato» applicato nel settore meno appropriato, in quanto sperare di «desumere i rimedi ai problemi sociali dall’Igiene» costituiva «una delle meno lucide illusioni del Socialismo di Stato».16 Il favore delle classi dirigenti, colorato spesso di forti tinte patriottiche, divenne rapidamente un luogo comune delle celebrazioni dei successi dell’Italia unita e fu cementato nel tempo dal lusinghiero giudizio espresso da Benedetto Croce nella sua Storia d’Italia secondo cui «grazie alla legge del 1888 la vigilanza igienica fece molti passi innanzi, concorrendo alla sparizione o attenuazione delle epidemie e degli altri morbi, e all’abbassamento della mortalità».17 Non mancarono tuttavia anche riflessioni critiche. Bizzozero evidenziò che, sebbene la mortalità generale e quella specifica per malattie infettive si fossero effettivamente ridotte nel decennio successivo all’approvazione della legge, entrambe si erano poi stabilizzate su livelli molto superiori a quelli osservati in Germania, Francia e Inghilterra, i paesi con cui l’Italia amava confrontarsi.18 Bizzozero imputava l’esaurirsi degli effetti positivi della legge alla scarsa considerazione in cui la classe dirigente teneva la scienza medica moderna, la vera causa degli ostacoli frapposti alla sua 16. Ugo Imperatori, La nuova politica sanitaria in Italia, in «Il Giornale degli Economisti», 2 (1891), pp. 246-290; Id., La nuova politica sanitaria III. Le finanze comunali e la esecuzione della legge, ivi, pp. 371-410; Id., La nuova politica sanitaria IV. L’ingerenza dello Stato, ivi, pp. 579-615. 17. Benedetto Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari, Laterza, 1928 (ed. 1967, p. 172). 18. Il riferimento è alla serie di articoli pubblicati da Bizzozero su «Nuova Antologia» poco prima della morte. Giulio Bizzozero, Il cittadino e l’Igiene pubblica, in «Nuova Antologia», 158 (1898), pp. 615-635; Id., Lo Stato e l’Igiene pubblica, ivi, 79 (1899), pp. 385-408; Id., L’Igiene pubblica in Italia, ivi, 86 (1900), pp. 20-33; 220-237; 599-612. Argomenti analoghi furono sollevati anni dopo da Celli a Giolitti: AP, Camera dei deputati, legislatura XXIII, Discussioni, tornata del 26 maggio 1909, intervento dell’on. Angelo Celli, storia.camera.it/regno/lavori/leg23/sed031; ivi, tornata del 28 maggio 1909, intervento del presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, https://storia.camera.it/regno/lavori/ leg23/sed034.

128

Francesco Taroni

piena attuazione. La sua analisi sottolineava, infatti, che gli ostacoli derivavano sì «dalle spese che l’igiene richiede e l’impatto sui bilanci comunali», ma che questo derivava dal fatto che «la scienza è ancora di pochi, così è di pochi la convinzione che a tanto possa arrivare la scienza». Le classi dirigenti, gli imprenditori e l’opinione pubblica “colta” non avrebbero compreso le potenzialità delle nuove conoscenze scientifiche che la medicina andava accumulando per cui «un paese che fermamente il volesse, seguendo rigorosamente i precetti forniti dalla scienza potrebbe radicalmente liberarsi dalle malattie». Dalla scarsa considerazione della scienza e dei medici suoi principali interpreti Bizzozero faceva discendere la subordinazione delle conoscenze tecniche dei medici alle esigenze dell’amministrazione e della politica, tanto che «gli impiegati sanitari» creati dalla legge Crispi erano vissuti come i «nuovi parassiti della burocrazia» e «al nuovo Ufficio centrale di sanità» erano stati riservati «i sospetti e le malevolenze che sogliono riscontrare gli intrusi».19 La tesi di Bizzozero supporta l’analisi di Paola Govoni che ha dimostrato la scarsa diffusione della popolarizzazione della scienza nell’Italia di fine Ottocento e il suo uso retorico da parte della classe dirigente come strumento di lotta politica anticlericale e per promuovere un’immagine moderna dell’Italia unita.20 2. La “guerra” dell’Accademia e lo smantellamento dell’apparato centrale L’immagine di un ampio processo di riforma, sostenuto dalla comunità scientifica italiana e imperniato su «un corpo tecnico organizzato per la difesa sanitaria» promossa da Crispi e codificata dalla storia, entrò subito in crisi per la sollevazione dell’alta burocrazia ministeriale contro l’istituzione della Direzione della Sanità e, soprattutto, per la ripulsa unanime della Scuola di perfezionamento da parte degli accademici romani. Anche se non è possibile darne qui conto, è tuttavia importante indicare i principali temi in discussione che riflettono le relazioni effettive fra Stato, scien19. Bizzozero, La Difesa della società dalle malattie infettive. 20.  Sui temi della “popolarizzazione” della scienza nell’Ottocento italiano e sulla insularità della frammentata comunità scientifica italiana, cfr. Paola Govoni, Un pubblico per la scienza. La divulgazione scientifica nell’Italia in formazione, Roma, Carocci, 2002 e Ead., The power of weak competitors. Women scholars, “popular science” and the building of a scientific community in Italy, 1860s-1930s, in «Science in Context», 26 (2013), pp. 405-436.

Fiducia e sanità pubblica: un’utopia dissipata

129

za e organizzazione sanitaria in termini di politica accademica e, più in generale, di politica dello sviluppo scientifico in un momento cruciale per l’Italia rispetto ai paesi all’avanguardia della rivoluzione della medicina come Francia e Germania. La grave condizione di arretratezza delle università italiane che faceva dubitare della loro capacità di formare le nuove figure professionali previste dalla legge è descritta in termini molto crudi nella relazione sul primo anno di attività della Scuola che Pagliani presentò il 18 gennaio 1890 al Consiglio superiore di Sanità, di cui era presidente uno dei suoi principali antagonisti, Guido Baccelli: Difetta completamente nelle nostre Università un insegnamento speciale di demografia ed assistenza pubblica; solo in qualcuna la bacteriologia comincia ora a prendere un qualche sviluppo; in rarissime la chimica applicata all’igiene ha pure un insegnamento libero; in ben poche la epidemiologia, l’ingegneria sanitaria, la bromatologia, la fisica tecnica, si disputano colle materie summentovate l’intelletto e il sapere dell’insegnante l’igiene sperimentale, i quali non possono essere senza limite, e soprattutto il tempo a sua disposizione sempre limitatissimo.

Pertanto, concludeva Pagliani, se in questo momento, così importante per la riforma sanitaria italiana, si fosse ricorso alle sole risorse dell’insegnamento universitario, anche migliorandolo, datone la possibilità, si sarebbe stati certi d’insediare nei posti più difficili dell’amministrazione sanitaria italiana, degli uomini che, per quanto abilissimi medici e chirurghi e specialisti nelle varie branche della medicina, avrebbero difettato delle più necessarie cognizioni riflettenti il loro compito.21

La dura requisitoria di Pagliani sullo stato dell’Igiene nelle università italiane fu la risposta all’aspro dibattito che si era svolto pochi mesi prima sia alla Camera che al Senato in occasione della presentazione del bilancio della pubblica istruzione. Sul piano formale la Scuola era stata bollata da Corrado Tommasi Crudeli come da Stanislao Cannizzaro, autorevole senatore e grande scienziato, come «un ibridismo scientifico amministrativo […] un’invasione nel campo universitario […] un abuso». Venivano denunciate l’irregolarità della costituzione, su cui avrebbe dovuto esprimersi 21.  Luigi Pagliani, Relazione intorno all’ordinamento della direzione della sanità pubblica ed agli atti da essa compiuti dal 1 luglio 1887 dal 31 dicembre 1889, in «Giornale della Società Italiana d’Igiene», 12 (1890), pp. 73-115.

130

Francesco Taroni

il Consiglio superiore della pubblica istruzione, l’illegittimità dei diplomi rilasciati e lo spreco di denaro, che meglio sarebbe stato speso per potenziare gli istituti universitari. Provocò particolare scandalo la qualificazione di “superiore”, ovvero di “perfezionamento”, attribuita alla Scuola, che Crispi dichiarò essere stata scelta «senza annettervi alcuna pretesa» e che invece Baccelli considerò «un monopolio offensivo dei diritti e dell’amor proprio degli insegnanti d’igiene»22 e che Buonomo il giorno successivo stigmatizzò in quanto «si sarebbe detto che si sia voluto mettere un professore igienista superiore a quello universitario! Sicché il vero professore universitario della igiene si deve sentire umiliato e diminuito, quasi ridotto a maestro di scuola inferiore». Gli interventi concilianti di Crispi e di Coppino, ministro dell’Istruzione, che si appellavano al carattere «eccezionale, pratico, sperimentale» dei laboratori e della annessa Scuola e invitavano a considerare lo scopo perseguito piuttosto che la procedure seguite vennero ignorati, e venne respinta l’analogia con l’Istituto imperiale di Berlino diretto da Koch «simile nel metodo se non nei mezzi assai più modesti» in quanto «in Germania Koch era a capo di un istituto amministrativo. Non erano quindi turbate le leggi e le guarentigie dell’istruzione superiore. La burocrazia non invadeva la scienza». In ogni caso «in Germania è riconosciuto oramai che tutti quanti gli istituti speciali che sono aggiunti alle Università, non prosperano bene, finiscono per non avere nessun valore scientifico».23 Duri attacchi vennero rivolti contro Pagliani e i suoi collaboratori posti alla direzione dei laboratori. Da un lato si denunciava il rischio di «un papato igienico», lamentando che «tutta quanta la direzione di sanità, anzi tutta la amministrazione sanitaria in Italia, si concentra e si impersona in un unico individuo» che cumulava le relative prebende. Dall’altro, Tommasi Crudeli stigmatizzava «insegnanti nomadi calati a Roma da altre Università a fini affaristici» privi per di più, ribadiva Baccelli, di adeguata qualificazione accademica, denunciando l’affarismo igienico («in pochi anni si è creato in tutta Europa, e specialmente in Italia, una nuova forma di affarismo a base igienica») da cui ci si poteva difendere solo «isolando questi istituti universitari d’igiene da tutta la ressa degli interessi professio22. AP, Camera dei deputati, legislatura XVI, Discussioni, tornata del 4 giugno 1889, interventi degli on. Guido Baccelli, Francesco Crispi, Michele Coppino, Corrado Tommasi Crudeli, storia.camera.it/regno/lavori/leg16/sed432.pdf. 23. Ivi, tornata del 6 giugno 1889, intervento dell’on. Giorgio Arcoleo (relatore), storia.camera.it/regno/lavori/leg16/sed435.pdf.

Fiducia e sanità pubblica: un’utopia dissipata

131

nali e industriali». In nome di questa difesa veniva chiesta la soppressione anche dell’Istituto vaccinogeno, in competizione con la nascente industria privata. Una soluzione molto parziale ai conflitti di interesse che affliggevano effettivamente i più grandi scienziati di tutti i paesi inclusi Pasteur e Koch, ma che poneva piuttosto la questione delle relazioni fra lo Stato e l’università nella duplice funzione di ricerca e di didattica a fronte delle crescenti necessità finanziarie della ricerca e del rapidissimo sviluppo della moderna industria farmaceutica che veniva affrontata in Germania in quegli anni.24 Sia la Direzione di Sanità che i suoi laboratori e la Scuola di perfezionamento vennero infine soppressi nel 1896 dal governo Di Rudinì durante il travagliato periodo della crisi di fine secolo. La “restituzione” della Scuola all’università fu disposta per decreto con una formulazione tanto secca («L’insegnamento dell’Igiene sperimentale, anche quando abbia per iscopo il perfezionamento dei laureati che aspirino alla carriera sanitaria, è dato nelle Regie Università») da lasciare tracce profonde e durature nel sistema sanitario italiano, che non ha mai più avuto scuole specifiche di formazione del personale. Di Rudinì comunicò alla Camera di avere così sanato uno dei «due vizi» dell’ordinamento della sanità e di voler affrontare il secondo, «quella perfetta ed assoluta autonomia in cui fu tenuta fino a questo momento» la Direzione di Sanità, riconducendo «nel corpo burocratico una particella resasi indipendente, per potare le esuberanze di un ramo troppo cresciuto» che aveva reso la funzione amministrativa vittima dello «arbitrio sanitario». Dal momento che «le prescrizioni sanitarie toccano interessi sociali d’altra natura, che solo gli amministratori possono apprezzare nel loro insieme», le conseguenze delle scelte dell’igiene devono essere considerate «da una mente la quale sappia scrutarle nel loro insieme, e guardar tutte le relazioni che passano tra un provvedimento igienico e tutti gli interessi giuridici, amministrativi e politici di un paese». Pertanto, «l’Ufficio sanitario del Regno deve essere consulente di tutti ma non deci24. Ivi, tornata del 4 giugno 1889. I riferimenti fondamentali sono in Gerald L. Geison, The private science of Louis Pasteur, Princeton, Princeton University Press, 1995; Christoph Gradmann, Money and microbes: Robert Koch, Tuberculin and the Foundation of the Institute for Infectious Diseases in Berlin in 1891, in «History and Philosophy of the Life Sciences», 22 (2000), pp. 59-79. L’analisi più profonda dell’intreccio finanziario, scientifico e professionale fra lo Stato e lo sviluppo dell’industria chimica e degli Istituti autonomi dall’Università in Germania alla fine dell’Ottocento è ancora in Timothy Lenoir, Instituting science, Stanford, Stanford University Press, 1997.

132

Francesco Taroni

dere nulla» e assumere il ruolo di «una mente direttiva che consiglia, che suggerisce, che impone coll’autorità incontrastata e incontrastabile della scienza e della verità, ma che non possa e non debba amministrare».25 La soppressione della Scuola e della Direzione di Sanità rispondeva quindi a interessi e a logiche di attori diversi. La vicenda della Scuola è riconducibile alla politica universitaria di “accentramento” iniziata dal ministro Bonghi in occasione del trasferimento della capitale da Firenze a Roma, e continuata da Baccelli, volta a fare dell’Università di Roma e della rinnovata Accademia dei Lincei il vertice scientifico della nazione a stretto contatto con l’autorità politica. Grazie a queste iniziative, gli accademici della capitale diventarono i referenti privilegiati dell’élite politica, istituendo reti di conoscenza e potere che escludevano i centri periferici.26 L’accentramento della scienza in Italia con l’obiettivo di «portare a Roma tutti i marescialli della scienza» sul modello dell’«Olimpo scientifico di Parigi» era stato vigorosamente denunciato nel 1878 da Mantegazza, esponente di punta dell’Università di Pavia, come «il sogno del gran cervello da piantarsi nella Capitale» destinato a un fallimento analogo.27 La lunga e aspra vertenza sulla Scuola di perfezionamento in igiene può quindi essere inserita nel contesto della contesa per il controllo di un momento cruciale del processo di trasformazione dell’Igiene come disciplina accademica e come pratica durante il quale l’Università di Roma vedeva insidiata la sua posizione di preminenza da parte degli «insegnanti nomadi calati a Roma» dall’Università di Torino. Giovanni Favero ha evidenziato le analogie fra le vicende della Direzione di Sanità e quelle cui andò incontro negli stessi anni la Direzione di Statistica che portarono alle dimissioni del suo direttore Luigi Bodio. Secondo questa interpretazione, nel quadro del riformismo autoritario crispino, Pagliani, come Bodio per la statistica, aveva affidato a un rapporto privilegiato con l’esecutivo l’attuazione della parte più innovativa del 25.  AP, Camera dei deputati, legislatura XIX, Discussioni, tornata del 28 maggio 1896, intervento del presidente del Consiglio Antonio di Rudinì, storia.camera.it/regno/lavori/leg19/sed135; Senato del Regno, tornata del 16 giugno 1896, intervento del presidente del Consiglio Antonio di Rudinì, resoconto sommario in «Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia», 142 (1896), pp. 3147-3148. 26. Silvano Montaldo, Scienziati e potere politico. Scienza e cultura nell’Italia unita, in Storia d’Italia, Annali 26, Scienze e cultura nell’Italia unita, a cura di Francesco Cassata e Claudio Pogliano, Torino, Einaudi, 2011 pp. 37-63. 27. Paolo Mantegazza, L’accentramento della scienza in Italia, in «Nuova Antologia», 37 (1878), pp. 367-370.

Fiducia e sanità pubblica: un’utopia dissipata

133

programma di modernizzazione tecnocratica che aveva incontrato a lungo tante difficoltà in Parlamento. In entrambi i casi, il crollo del regime crispino avrebbe segnato anche la fine di un progetto amministrativo e di governo che assegnava un ruolo di primo piano alla cultura tecnica.28 Non si può tuttavia disconoscere l’emergere di un nuovo modello di relazione fra conoscenze tecnico-scientifiche e scelte politiche, e quindi anche fra i medici e l’amministrazione dello Stato, che riservava ai corpi tecnici una funzione ancillare rispetto all’amministrazione e alla politica in virtù della loro superiore funzione “di sintesi”, perfettamente speculare alle tradizionali rivendicazioni di autonomia della classe medica. 3. La seconda modernizzazione: oltre i “medici legislatori” Un elemento caratteristico delle politiche sanitarie in epoca giolittiana è il contrasto fra la legislazione generale di organizzazione, che si limitava ad adattare e stabilizzare il sistema ereditato dalle leggi crispine, e la nutrita serie di leggi speciali contro il “triplice flagello” di pellagra, malaria e tubercolosi, che trasferivano sul piano normativo i risultati della ricerca scientifica sussunti come obiettivi immediatamente politici: «Il tempo è venuto per legiferare quei principi scientifici» in quanto «dopo gli ultimi studi scientifici, e le recenti scoperte, quello che prima appariva una cosa utile, di beneficenza, è divenuto ormai un imperioso dovere dello Stato».29 Per la malaria in particolare furono sviluppati programmi “verticali” orientati a specifiche categorie di persone esposte in particolari aree accuratamente definite (il cd. “catasto” della malaria) soggetti a frequenti revisioni al progredire delle conoscenze che «mobilitarono la Nazione».30 All’elaborazione della legislazione e all’attuazione dei programmi concorrevano esperti e scienziati di profilo internazionale presenti in Parlamento, accanto alle nuove burocrazie tecniche mi28. Giovanni Favero, Le misure del Regno. Direzione di statistica e municipi nell’Italia liberale, Padova, Il Poligrafo, 2001. 29. AP, Camera dei deputati, legislatura XXI, Discussioni, tornata del 30 novembre 1900, interventi dei deputati Sidney Sonnino e Leone Wollemborg, storia.camera.it/regno/ lavori/leg21/sed029. La citazione è dalla discussione delle proposte di legge di Wollemborg e di Sonnino con l’obiettivo comune di «fornire alla popolazione di acquistare il chinino facilmente e dovunque, di averlo purissimo e ad un prezzo bassissimo». 30. Frank M. Snowden The Conquest of Malaria. Italy, 1900-1962, New Haven, Yale University Press, 2006, cap. 3.

134

Francesco Taroni

nisteriali e delle “amministrazioni parallele” assieme a organizzazioni della società civile, come la Società per gli studi della malaria, fondata nel 1898 da Angelo Celli, Giustino Fortunato e Leopoldo Franchetti e l’antagonista Lega nazionale contro la malaria, cui aderivano Badaloni, Golgi e Baccelli, contraria alla chininizzazione dei sani. La legge 23 dicembre 1900, n. 505 sulla produzione e il consumo del chinino di Stato, definita «una vera legge sociale», ebbe come relatori Celli alla Camera e Bizzozero al Senato, mentre i relatori della più ampia legge sulla malaria dell’anno successivo (qualificata da Celli «una tipica legge di classe in senso socialista» in quanto la “tassa sul chinino” non gravava su tutti i contribuenti del Comune ma solo sui proprietari delle terre malariche) furono ancora Celli alla Camera e Camillo Golgi al Senato. La gestione del programma di “chininizzazione” a scopo preventivo fu affidata a uno degli uffici speciali tipici del nuovo modello di amministrazione, la Commissione di vigilanza per il chinino di Stato, mentre la produzione era affidata alla Farmacia militare centrale di Torino, che rimpiazzava l’Istituto vaccinogeno inopinatamente chiuso dal governo di Rudinì nel 1896.31 Anche i medici legislatori tuttavia furono divisi da controversie scientifiche, politiche e di interessi di cui sono esempi famosi la polemica di Celli contro la “legge di Grassi” che considerava irrilevante tutto ciò che non riguardava il contatto fra la persona infetta e l’anofele32 e lo “scandalo” dell’Esanofele, prodotto commerciale della “mistura Baccelli” introdotto sul mercato da parte della Bisleri, in competizione col chinino di Stato.33 Le significative innovazioni delle leggi speciali e dei programmi verticali contrastavano con la continuità nell’assetto istituzionale e organizzativo ereditato dalla legge Crispi, che ha fatto dubitare anche per la sanità dell’esistenza di un vero riformismo giolittiano.34 Né la revisione giolittiana della legge sulle Opere pie del 1890 né quella sulla tutela della salute intervennero sull’organizzazione degli ospedali e della vigilanza igienica. 31. Angelo Celli, La legislazione contro la malaria, in «Critica sociale», 13 (1903), pp. 1-14; Angelo Celli, Organizzazione della guerra alla malaria, in «Nuova Antologia», 121 (1906), pp.707-717. 32. Bernardino Fantini, Unum facere et alterum non omittere: antimalarial strategies in Italy, 1880-1930, in «Parassitologia», 40 (1998), pp. 91-101. 33. AP, Camera dei deputati, legislatura XXI, Discussioni, tornata del 12 marzo 1903, interrogazione dell’on. Felice Santini al sottosegretario di Stato del Ministero delle Finanze Matteo Mazziotti, storia.camera.it/regno/lavori/leg21/sed357. 34.  Silvio Lanaro, Nazione e lavoro. Saggio sulla cultura borghese in Italia 18701925, Venezia, Marsilio, 1979, p. 16.

Fiducia e sanità pubblica: un’utopia dissipata

135

La legge 25 febbraio 1904, n. 57, prodotto di una commissione presieduta da Celli, recava il significativo titolo di Modificazioni e aggiunte alle disposizioni vigenti intorno all’assistenza sanitaria, alla vigilanza igienica ed alla igiene degli abitanti dei Comuni del Regno e aveva il dichiarato obiettivo di «non provvedere se non alle cose più urgenti e di urgenza più immediata»,35 limitate ai tradizionali problemi professionali dei medici, cui dedicava 10 dei suoi 17 articoli. Le uniche disposizioni cautamente orientate ad allargare le provvidenze alla popolazione riguardavano la provvista di medicine per i poveri e l’igiene delle abitazioni rurali, due temi già dibattuti nella legge Crispi. Le misure con le maggiori implicazioni future delineavano ruolo e funzioni specifiche dell’ufficiale sanitario che, con la consueta prudenza giolittiana, cominciavano a differenziarsi da quelli del medico condotto. La normazione specifica della figura dell’ufficiale sanitario, cui la legge riconosceva il doppio ruolo di dipendente del comune e di “ufficiale governativo” col compito di concorrere alla difesa dalle malattie diffusive, preannunciava anche in Italia l’inizio del “Grande Scisma”, la progressiva divaricazione fra le attività di prevenzione e di cura, prima congiunte nell’indistinta funzione del medico condotto.36 Le differenze fra i due ambiti delle politiche sanitarie in epoca giolittiana erano un portato della nuova forma di governo ma avevano anche origini endogene allo sviluppo dell’igiene che ne mutarono ruolo e funzioni nei rapporti con lo Stato e con la popolazione. La specificità delle competenze tecniche e i nuovi strumenti di intervento selettivo portati dalla rivoluzione batteriologica qualificavano la funzione degli igienisti e ne rafforzavano l’identità professionale ma, contemporaneamente, circoscrivevano il loro ambito di intervento e ne delimitavano il ruolo sociale, trasformando l’igienista dal riformatore sociale e “naturale avvocato del popolo” preconizzato da Rudolf Virchow al tecnico sanitario di Behring, distaccato da inutili e dannose distrazioni politiche.37 Sul piano politico, l’assicura35.  AP, Camera dei deputati, legislatura XXI, Discussioni, tornata dell’8 maggio 1903, intervento del ministro dell’Interno Giovanni Giolitti, storia.camera.it/regno/lavori/ leg21/sed382.pdf. 36. John G. Freyman, Medicine’s great schism: prevention vs. cure. An historical interpretation, in «Medical Care», 13 (1975), pp. 525-536. 37. Sulla funzione del medico come riformatore sociale e sulla furibonda polemica innescata da Behring in favore di interventi farmacologici selettivi, cfr. George A. Silver, Virchow, the heroic model in medicine: health policy by accolade, in «American Journal of Public Health», 77 (1987), pp. 82-88.

136

Francesco Taroni

zione malattie non era parte della “questione sociale”, che si concentrava sull’assicurazione contro gli infortuni e la vecchiaia,38 mentre la salute della nazione veniva affrontata con programmi mirati contro le tre malattie “esemplari” con peculiari implicazioni economiche e sociali. Il fenomeno dei “medici legislatori” realizzava quindi l’obiettivo della “medicina politica” preconizzato da Guido Baccelli come «dottrina della missione sociale e nazionale della medicina» in cui la scienza sembrava finalmente guidare «legislatori e governanti», ma al prezzo di una severa restrizione di campo e della tendenza al riduzionismo sul piano sociale.39 4. Un’igiene “glocale” La maggiore specificità di azione realizzata dallo sviluppo delle conoscenze e dai nuovi strumenti prodotti dalla rivoluzione batteriologica incontrò un allargamento del campo di formulazione e di espressione delle politiche sanitarie sia a livello municipale che transnazionale. È a questi due livelli che si verificarono i principali cambiamenti che hanno connotato le moderne relazioni fra i medici e lo Stato in Italia a partire dai primi anni del Novecento. Nelle principali città italiane sviluppo industriale, aumento della popolazione e urbanizzazione avevano determinato l’emergere di «speciali bisogni che si riconnettono con la vita pubblica municipale» relativi ai nuovi servizi pubblici collettivi come acqua, gas, elettricità e trasporti, che determinarono «una complicazione di rapporti economici e sociali» e conferirono nuove responsabilità ai municipi.40 La legge sulla municipalizzazione dei servizi pubblici locali del 1903 rese le nuove infrastrutture municipali, il luogo centrale della vita politica ed economica, la via di accesso alla politica nazionale e alle risorse che questa metteva a disposizione 38. Meuccio Ruini, Le riforme che costano, in «Critica sociale», 16 giugno 1908. 39. Sulla medicina politica cfr. Guido Baccelli, Discorso introduttivo al XII Congresso di Medicina Interna, Roma, 1902. Per la medicina sociale vedi la raccolta postuma di scritti di Giuseppe Tropeano, Primi fondamenti di Medicina Sociale, a cura di Domenico Tropeano, Roma, Istituto di Medicina Sociale, 1952. Per una contestualizzazione vedi Claudia Mantovani, Rigenerare la società, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004, specie pp. 90 sgg. 40. Giuseppe Mortara, Le popolazioni delle grandi città italiane. Studio demografico, Torino, Utet, 1908, p. 403.

Fiducia e sanità pubblica: un’utopia dissipata

137

con il nuovo strumento delle leggi speciali e lo strumento di aggregazione locale del consenso.41 La progettazione dei nuovi e più complessi sistemi di approvvigionamento e di trattamento delle acque e il passaggio dal “risanamento” di aree degradate alla “reinvenzione” della città sul modello hausmanniano di Parigi comportavano significative conseguenze sul piano professionale, finanziario e sociale. Ridisegnare le città e programmare le loro direttrici di sviluppo da un lato presupponevano la capacità tecnica e finanziaria delle amministrazioni municipali di passare dalla costruzione di fogne e acquedotti all’edilizia abitativa fino all’urbanistica e dall’altro realizzavano una capitalizzazione del suolo a favore di costruttori e industriali che favoriva l’emergere di forti interessi finanziari speculativi.42 L’elaborazione dei progetti per le nuove infrastrutture urbane e la programmazione dello sviluppo delle città diventarono il campo di espressione di una nuova comunità tecnica composta da ingegneri e architetti che costituivano la moderna burocrazia tecnica municipale, in dialogo con i corpi specializzati che si andavano organizzando a livello centrale per la verifica preventiva e l’approvazione dei progetti come condizione del finanziamento governativo. I nuovi saperi specialistici e le professioni emergenti non potevano che entrare in competizione con gli igienisti che avevano inizialmente egemonizzato la disciplina dell’ingegneria sanitaria.43 Contemporaneamente, lo sviluppo industriale e l’intensificazione dei commerci assieme ai fenomeni migratori avevano realizzato quell’“unificazione microbica” del mondo da parte delle malattie, contro cui si organizzavano conferenze sanitarie internazionali, un esempio dell’unificazione del globo contro le malattie, di cui Bizzozero aveva colto l’importanza già nel 1890 come la nuova forma di internazionalizzazione della medicina («se gli Stati Uniti d’Europa, politicamente parlando, sono ancora un’uto41.  Giovanni Montemartini, Municipalizzazione dei pubblici servigi, Milano, Soc. Editrice Libraria, 1902; Id., Un decennio di vita nei corpi consultivi della legislazione sociale in Italia (1903-1912), in «Nuova Antologia», 998 (1913), pp. 292-302. 42. Simone Neri Serneri, The construction of the modern city and the management of water resources in Italy, 1880-1920, in «Journal of Urban History», 33 (2007), pp. 813-827; David Harvey, Paris, Capital of Modernity, New York, Routledge, 2003. 43. Carla Giovannini, Risanare le città. L’utopia igienista di fine Ottocento, Milano, Franco Angeli, 1996; Giovanni Zucconi, La città contesa. Dagli ingegneri sanitari agli urbanisti (1855-1942), Milano, Jaca Book, 1999. Per l’allargamento dei soggetti interessati ai nuovi compiti si consideri ad esempio il significativo titolo di uno dei manuali più diffusi del tempo: Antonio Pedrini, La Città Moderna. Ad uso degli ingegneri, dei sanitari, degli uffici tecnici di Pubbliche Amministrazioni, Milano, Hoepli, 1905.

138

Francesco Taroni

pia, sono una realtà, almeno, per quanto riguarda gli interessi sanitari»).44 La serie di conferenze sanitarie internazionali iniziata a Parigi nel 1851 aveva lentamente prodotto standard condivisi per disciplinare la circolazione di merci e di persone e per la notifica e il controllo di peste, colera e febbre gialla, che venivano negoziati fra diplomatici e scienziati designati come delegati di un numero crescente di paesi in una nuova forma di diplomazia sanitaria multilaterale. La Conferenza di Parigi del 1903 (di cui era stato vicepresidente il direttore generale della Sanità pubblica italiana Rocco Santoliquido) aveva infine consolidato la normativa, prevedendo l’obbligo di notificare i casi di peste, febbre gialla e colera e di sottoporre le navi “infette” o “sospette” a una forma di quarantena attenuata – definita “sorveglianza medica” – sia nel porto di partenza che in quello di arrivo, ostacolando i fenomeni migratori e quindi anche la loro complessa economia, locale e nazionale.45 L’epidemia di colera che colpì il Meridione d’Italia e Napoli fra il 1910 ed il 1911 mostra come il nuovo ordine sanitario mondiale fosse intrecciato col livello locale in misura anche maggiore che con quello nazionale.46 L’epidemia di Napoli fu infatti un problema di salute e di politica tanto globale quanto locale e nazionale sia nelle cause che negli effetti che, come quella del 1884, rivelò i limiti dell’organizzazione esistente. A livello sovranazionale, essa mise per la prima volta alla prova la fiducia reciproca fra i paesi aderenti alla Convenzione che si dimostrò gravemente carente esponendoli al rischio di comportamenti opportunistici. A livello nazionale, l’epidemia di colera del 1910-1911 fu un evento epidemiologicamente contenuto ma estremamente significativo sul piano politico, istituzionale ed economico. L’epidemia era anacronistica, in quanto fra tutte le grandi nazioni europee colpì solo l’Italia, in un momento in cui, dopo le scoperte 44. Bizzozero, Lo Stato e l’Igiene pubblica, p. 402. Il riferimento implicito è naturalmente a Emmanuel Le Roy Ladurie, Un concept: l’unification microbienne du monde (XIVXVII siècles), in «Revue Suisse d’histoire», 23 (1973), pp. 627-696 e, più modernamente, il fondamentale Mark Harrison, Contagion, New Haven, Yale University Press, 2013. Per le Conferenze sanitarie internazionali dedicate al colera vedi Valeska Huber, The unification of the globe by disease? The international sanitary conferences on cholera,1851-1894, in «The Historical Journal», 49 (2006), pp. 453-476. 45. Norman Howard-Jones, The scientific background of the International Sanitary Conferences 1851-1938, Geneva, WHO, 1975, p. 61. 46. Frank M. Snowden, Naples in the Time of Cholera 1884-1911, Cambridge, Cambridge University Press, 1995. Frank M. Snowden, Cholera in Barletta, in «Past & Present», 132 (1991), pp. 67-103.

Fiducia e sanità pubblica: un’utopia dissipata

139

di Koch, «il colera è di chi lo vuole» come aveva sentenziato Tommaso Rossi Doria.47 L’epidemia fu antipatriottica perché si verificò nell’anno giubilare, all’acme di un decennio di crescita economica ininterrotta e nel clima di eccitazione per i preparativi della guerra di Libia, producendo un brusco risveglio dai sogni di grandezza e dall’illusione di aver riconquistato il posto che le spettava fra i grandi del mondo, in cui l’Italia continuava a rappresentare l’ultima delle grandi potenze. Fu scandalosa sul piano economico perché i provvedimenti previsti dalla Convenzione internazionale di Parigi rischiavano di mettere in ginocchio la città di Napoli e il suo porto, le grandi compagnie di navigazione e l’intera economia nazionale dell’emigrazione verso l’America del Sud e, soprattutto, gli Stati Uniti di cui Napoli, assieme a Palermo, rappresentava il principale canale per tutto il Meridione. A livello internazionale, il governo italiano adottò una strategia differenziata a seconda della sua percezione della forza dell’interlocutore. Alla richiesta dell’Argentina di avere un proprio medico sui piroscafi in partenza da Napoli il governo oppose un altero e offeso rifiuto, sostenuto dalla principale stampa nazionale.48 Con gli Stati Uniti invece, le autorità italiane ingaggiarono una sorta di gioco a rimpiattino adottando una strategia elusiva che negava la presenza del colera e imputava i casi a condizioni clinicamente simili, come meningite o gastroenterite, di cui i medici furono strumenti fondamentali. La strategia governativa si basava infatti su due strumenti: la centralizzazione della gestione, con un “dittatore sanitario” inviato dalla Direzione generale di Sanità con poteri prefettizi a gestire l’Ufficio comunale di Igiene, che pure si era ben distinto durante la grave epidemia del 1884; l’istruzione da parte dell’Ufficio centrale di Statistica di notificare solo i casi batteriologicamente accertati, corrispondenti grossolanamente a meno della metà dei casi clinicamente diagnosticati.49 La strategia del silenzio aggirava gli obblighi della Convenzione di Parigi e nascondeva il fallimento della convenzione fra il Comune e la Società pel Risanamento in attuazione della legge speciale per Napoli, ma si dimostrò inefficace sia a livello nazionale che nei rapporti con gli Stati Uniti. A Napoli, Pasquale Villari riferì di aver 47.  Tommaso Rossi Doria, Il colera ai nostri giorni, in «Nuova Antologia», 234 (1910), pp. 151-157. 48.  L’Incidente italo-argentino. La vittoria italiana assicurata, in «La Stampa», 5 agosto 1911. 49. Snowden, Naples in the Time of Cholera, pp. 297 sgg.

140

Francesco Taroni

sentito reclamare «Meglio il colera che il Risanamento!».50 In Italia, «Il Giornale della Società Italiana di Igiene» alludeva a «la malattia di cui non possiamo parlare», mentre ancora nel 1912 durante il dibattito alla Camera sul bilancio del Ministero dell’Interno si faceva riferimento a «la malattia di cui è meglio tacere, ma che tutti sanno quale sia» per illustrarne i costi. Gli Stati Uniti sottoposero a uno stretto controllo l’emigrazione italiana anche se il porto di Napoli fu dichiarato infetto solo per un brevissimo periodo, fra le proteste degli interessi locali e la “serrata” della Camera di commercio sostenuta dal quotidiano «Il Mattino».51 Ben diversa fu la condotta del governo verso i disordini provocati dall’epidemia nelle isolate e arretrate comunità rurali delle Puglie e della Calabria, che riproducevano le esperienze delle prime epidemie osservate all’inizio del secolo. L’arrivo dell’epidemia mostrò la persistenza di antiche relazioni di avversione estrema nei confronti del notabilato, cui i medici venivano accomunati esponendoli alle “selvaggerie” delle comunità locali, come nel sanguinoso episodio di Verbicaro, un piccolo centro della Calabria teatro di un’insurrezione popolare contro tutte le autorità accusate di avvelenare la popolazione risultata eccessivamente numerosa al recente censimento. «Un episodio di follia collettiva; piuttosto un caso di malattia cerebrale anziché di malattia intestinale» secondo l’intervista di Giolitti a «La Stampa», da trattare «con energia e con beninteso vigore» come raccomandava il suo telegramma al prefetto.52 «Siamo in pieno medio-evo. E questa è l’Italia al giubileo del suo Risorgimento» commentò invece Luigi Barzini nelle sue corrispondenze per il «Corriere della Sera», sottolineando la distanza fra le due Italie e riscontrando il medioevo «nella ferocia, nella teoria del complotto e del veneficio, nelle condizioni in cui versa la popolazione» nei cui confronti era necessario indirizzare gli sforzi di “redenzione” del paese.53 50. Pasquale Villari, La questione di Napoli e le case popolari, in «Nuova Antologia», 145 (1910), pp. 557-600. Cfr. AP, Camera dei deputati, legislatura XXIII, Discussioni, tornata dell’8 marzo 1912, intervento del’on. Pasqualino Vassallo, storia.camera.it/regno/ lavori/leg23/sed397.tornata 8 marzo 1912. 51.  Francesco Barbagallo, Napoli, Belle Époque 1885-1915, Roma-Bari, Laterza, 2015, pp. 57 sgg. 52. «La Stampa» del 29 agosto 1911 titolò su nove colonne in prima pagina La selvaggia sommossa del popolo di Verbicaro, riportando di spalla un riquadro su due colonne Intervista coll’On. Giolitti. 53. Luigi Barzini, Verbicaro in pieno medio-evo, in «Corriere della Sera», 31 agosto 1911; Id., Una terra italiana da redimere, ivi, 4 settembre 1911.

Fiducia e sanità pubblica: un’utopia dissipata

141

L’unica voce della medicina organizzata da Verbicaro fu quella dei medici condotti, che si rivolsero tuttavia non allo Stato ma al presidente della loro associazione, denunciando «preti fuggiti, impiegati comunali e governativi scappati tutti – non ne possiamo più››.54 Pur mantenendo l’attenzione alla situazione sociale (Le insurrezioni della fame titolava «La Propaganda») i giornali socialisti «La Propaganda» e «l’Avanti» condussero un’isolata campagna a favore dei medici, della medicina e della scienza con la parola d’ordine per «la grandezza della Scienza e la bontà del Socialismo». Riprendendo dall’«Avanti» il comunicato della Camera del lavoro di Bari, che raccomandava di non opporsi alle procedure di disinfezione e di isolamento, il “giornale sindacalista di Napoli”, «La Propaganda», il 24-25 settembre 1910 pubblicò un «Appello ai lavoratori» che invitava fra l’altro a «Schierarsi a fianco dei medici. Nessuna paura della classe sanitaria. Essa salva, non uccide!». La diversità delle reazioni della popolazione all’epidemia e ai provvedimenti adottati dalle autorità per il suo controllo dai governi Luzzati prima e Giolitti poi evidenziano le differenze nella collocazione sociale dei medici e la percezione del loro ruolo nel rapporto con la popolazione e con le istituzioni dello Stato a livello locale e nazionale, che riflettevano la profonda divisione della Nazione non solo fra Nord e Sud, ma anche all’interno dello stesso Mezzogiorno. A Napoli il colera non provocò disordini o sommosse popolari, salvo sporadiche sassaiole contro le disinfezioni. Le incertezze nella gestione della strategia del silenzio, che opponeva il rispetto degli obblighi sanitari sovranazionali agli interessi locali e nazionali, provocarono invece tensioni con la Direzione di Sanità, un’aspra battaglia politica fra élite locali e nazionali ripetutamente approdata nelle aule della Camera55 e incidenti diplomatici con Argentina e Stati Uniti. La modernità dell’epidemia di Napoli costrinse i medici, stretti fra interessi in competizione, professioni emergenti e controllo governativo, in un ruolo essenziale ma del tutto strumentale, distante dal protagonismo dimostrato dall’ufficiale sanitario di Napoli Orazio Caro nell’epidemia del 1884. Nella medioevale Verbicaro invece, i medici, accusati di diffondere il contagio 54. Un terribile documento, in «La Propaganda», 2-3 settembre 1911. 55. AP, Camera dei deputati, legislatura XXIII, Discussioni, tornata del 7 marzo 1911, intervento dell’on. Filippo Turati, storia.camera.it/regno/lavori/leg23/sed289; ivi, tornata del 9 marzo 1911, intervento dell’on. Francesco Saverio Nitti, storia.camera.it/regno/lavori/ leg23/sed291.

142

Francesco Taroni

come ai tempi della peste, lasciarono all’associazione dei condotti e alla stampa socialista la difesa della scienza, e di loro stessi. 5. Considerazioni conclusive L’analisi delle relazioni di fiducia istituzionale intesa come «credito e investimento da parte dei governi nel ruolo e nell’efficacia dell’intervento medico»,56 attraverso la lente della produzione legislativa nel lungo arco fra il riformismo autoritario crispino e l’età giolittiana, ci consegna un’immagine diversa dalle rappresentazioni basate principalmente sull’opera di medici impegnati prevalentemente nell’assistenza individuale, territoriale e ospedaliera.57 Dopo l’isolamento dei primi anni post-unitari, i medici e il nuovo Stato unitario in fase di costruzione cominciarono ad avvicinarsi attraverso la lunga e tormentata vicenda del Codice sanitario. L’avvicinamento creava frizioni e tensioni che determinarono l’andamento altalenante delle reciproche relazioni di fiducia in rapporto allo sviluppo scientifico dell’igiene e al modello dell’intervento pubblico e dell’amministrazione dello Stato in cui si compendiavano gli elementi fondamentali della fiducia, competenza, affidabilità e indipendenza.58 Sia nel periodo crispino che in età giolittiana i medici erano relativamente numerosi alla Camera e parteciparono attivamente e in posizioni di rilievo all’elaborazione dei principali atti di organizzazione sanitaria e di vigilanza igienica senza tuttavia esercitare un’influenza politica decisiva se non, eventualmente, a livello individuale e per rapporti personali. I medici parlamentari portarono un significativo contributo al disegno organizzativo del sistema senza tuttavia mai intaccare il ruolo subordinato della professione alla componente politico-amministrativa, specie a livello municipale, in ossequio alla priorità politica di protezione del bilancio dello Stato centrale dalle spese per la sanità quasi interamente devolute a comuni e province. 56. Comunicazione personale di Maria Luisa Betri, 21 ottobre 2018. 57.  Fra i tanti vedi Paolo Frascani, Il medico dell’Ottocento, in «Studi storici», 23 (1982), pp. 617-637; Tommaso Detti, Medicina, democrazia e socialismo in Italia fra ’800 e ’900, in «Movimento operaio e socialista», 2 (1979), pp. 3-49, oltre naturalmente a Malatesta, Professionisti e gentiluomini. 58.  Steven Shapin, A Social History of Truth, Chicago, Chicago University Press, 1995; Bernard Barber, Trust in science, in «Minerva», 25 (1987), pp. 123-134.

Fiducia e sanità pubblica: un’utopia dissipata

143

D’altro canto, la frammentazione e l’insularità della comunità scientifica italiana e la contrapposizione fra scuole ripetutamente condizionarono gli orientamenti di politica sanitaria, come nel caso della gestione dell’epidemia di colera del 1884-1887 e della soppressione della Direzione di Sanità, della Scuola di perfezionamento, dell’Istituto vaccinogeno e degli stessi Laboratori che hanno avuto conseguenze di lungo periodo sulla sanità italiana.59 La puntigliosa e certo non neutrale descrizione di Pagliani dello stato dell’insegnamento dell’igiene nelle università dimostra il loro stato di grave arretratezza nel momento e nel settore di più intenso sviluppo scientifico della medicina. Tuttavia, la tenace opposizione alla Scuola e ai laboratori della Direzione, assieme al disinteresse per il nuovo modello di relazioni fra lo Stato, l’università, gli istituti autonomi di ricerca e l’industria che si andava elaborando in Germania e in Francia rivelano una visione ristretta dello sviluppo della disciplina da parte dei più autorevoli accademici d’Italia. Il breve periodo dei “medici legislatori” potrebbe sembrare un’eccezione all’uso strumentale e retorico della scienza e una sorta di rivincita della professione sulla politica. Questa interpretazione contrasta con la duplicità della legislazione sanitaria nel periodo giolittiano, la cui normazione generale si presenta in perfetta continuità con gli assetti crispini: né la legge generale del 1904 e neppure l’istituzionalizzazione dell’Ordine dei sanitari nel 1910 aumentarono significativamente lo spazio negoziale dei medici nei confronti dei municipi e delle opere pie. Il fenomeno dei medici legislatori può quindi essere interpretato nel contesto del modello giolittiano del governo attraverso corpi tecnici separati e come conseguenza del restringersi del campo di intervento dell’igiene, che trasformava il ruolo sociale del medico igienista in un nuovo tipo di intellettuale scientifico definito da Antonio Gramsci nella sua Questione meridionale «l’organizzatore tecnico.60 Lo specialista della scienza applicata». Più che un’utopia contestata e contrastata, come nella famosa definizione di Murard e Zylberman per la Francia, un’utopia dissipata.61 59. Daniele Cozzoli, Mauro Capocci, Making biomedicine in twentieth century Italy. Domenico Marotta (1886-1974) and the Italian Higher Institute of Health, in «The British Journal for the History of Science», 24 (2011), pp. 549-574. 60. Antonio Gramsci, Alcuni temi della questione meridionale [s.n.t. 1935?], p. 16, bd.fondazione gramsci.org/bookreader/libri/questionemeridionale.124749.html. 61. Murard, Zylberman, L’hygiène dans la République, p. 67.

Emmanuel Betta «L’ultima bufera antivaccinista». Il dibattito sulla vaccinazione in Italia tra XIX e XX secolo

In ogni consorzio umano vive sempre un certo numero di individui, che non s’adattano a procedere a seconda del movimento dominante, ma con ogni loro possa si sforzano di muovere contro corrente, combattendo con maggiore o minor fortuna le opinioni, le consuetudini, le aspirazioni dei loro contemporanei. È a taluni di questi spiriti singolari o bizzarri che si devono grandi e benefiche riforme; ma è altresì in essi che grandi e benefiche riforme hanno spesso trovato la più viva ed ostinata opposizione.1

Con queste parole, nel 1897, sulle pagine della «Rivista d’igiene e sanità pubblica», «il più diffuso e influente organo del movimento igienista italiano»,2 fondato da Luigi Pagliani nel 1890, iniziava un lungo articolo dedicato alla vaccinazione e ai suoi oppositori. Lo firmava Giulio Bizzozero, uno dei protagonisti della scena medica italiana di fine Ottocento e una figura di primo piano della cosiddetta “utopia igienista”, che era già intervenuto a più riprese per promuovere la vaccinazione jenneriana, con diversi articoli sulla «Nuova Antologia», nonché nei discorsi inaugurali tenuti ai Congressi d’igiene di Torino nel 1898 e di Como nel 1899.3 Nel 1898, a Perugia, un altro personaggio di rilievo della medicina italiana di fine Ottocento, Carlo Ruata, dava alle stampe una monografia che fin dal titolo assumeva come bersaglio il saggio di Bizzozero – La monografia del 1. Giulio Bizzozero, La vaccinazione e i suoi oppositori, in «Rivista d’igiene e sanità pubblica», VIII, 1 (1897), pp. 1-7, p. 1. 2. Roberto Cea, Il governo della salute nell’Italia liberale. Stato, igiene e politiche sanitarie, Milano, Franco Angeli, 2019, p. 144. 3. Claudio Pogliano, L’utopia igienista (1870-1920), in Storia d’Italia, Annali 7, Malattia e medicina, a cura di Franco Della Peruta, Torino, Einaudi, 1984, 587-631.

146

Emmanuel Betta

prof. G. Bizzozero sulla “vaccinazione e i suoi oppositori” –, proponendo un’esplicita critica della vaccinazione di matrice jenneriana. Anche Ruata era impegnato nel dibattito igienista sul ruolo dello Stato nel promuovere e costruire la salute pubblica. Dalle pagine di «Sanità Pubblica», voce della corrente minoritaria ma molto agguerrita dell’associazionismo medico, aveva rilanciato la proposta di una «medicina di Stato», a partire da una sostanziale riforma della legge Crispi del 1888, che affidasse a un ministero appositamente costituito la sorveglianza e l’intervento nella sanità pubblica, tramite ufficiali sanitari nominati con Regio decreto e dipendenti da un Consiglio sanitario provinciale responsabile del proprio operato.4 Il testo di Bizzozero e quello di Ruata suscitarono quella che anni dopo sarebbe stata chiamata «l’ultima bufera antivaccinista»,5 una discussione accesa che vide nel giro di un paio di anni la pubblicazione di diversi testi dedicati allo scontro tra vaccinisti e antivaccinisti, che da un lato discutevano del rapporto tra individuo e collettività e del ruolo dello Stato, dall’altro investivano i criteri interni del discorso medico. La discussione sulla vaccinazione si collocava in un più ampio confronto che attraversava la medicina italiana di questi ultimi anni dell’Ottocento attorno al ruolo dello Stato nella tutela della salute pubblica e alle forme del suo intervento per promuoverla e garantirla. In questi termini, nella legge di riforma sanitaria del 1888, il governo Crispi aveva parlato anche di vaccinazione arrivando poi a precisarne l’obbligatorietà, proprio nell’ottica della promozione della salute pubblica. Così, il confronto sulla vaccinazione assumeva anche il significato di un dibattito sulla fiducia nelle istituzioni dello Stato e nelle sue soluzioni per costruire la salute pubblica e dei cittadini, questione tanto più rilevante in quanto in discussione c’era la valutazione di una misura profilattica finalizzata a garantire la salute della collettività agendo sul singolo a prescindere dalla sua scelta. Discutendo dell’obbligo di vaccinazione, questi testi medici presentavano una riflessione sulla fiducia nella sua forma “istituzionale”, vale a dire quella nelle istituzioni dello Stato in quanto promotrici di un interesse generale della collettività nel quale si iscriveva, restandone però subordinato, anche l’interesse del singolo. 4. Su Ruata e le sue posizioni vedi Marco Soresina, I medici tra stato e società. Studi su professione medica e sanità pubblica nell’Italia contemporanea, Milano, Franco Angeli, 1998, pp. 78-79. 5. Francesco Abba, Sulla necessità della vaccinazione: conferenza tenuta in Torino il 23 marzo 1912, Biella, Stabilimento Tipografico G. Testa, 1912, p. 17.

«L’ultima bufera antivaccinista»

147

L’interpretazione della fiducia in ambito medico sottolinea quanto essa parta dal riconoscimento di un’asimmetria, quella per la quale alla persona o all’istituzione è riconosciuta un’autorità epistemica superiore in materia di salute e, in secondo luogo, una presunzione di benevolenza, per la quale si ritiene che essa faccia uso di quella conoscenza superiore nell’interesse dell’individuo. Da questo punto di vista il dibattito tra vaccinisti e antivaccinisti nell’Italia di fine Ottocento offre l’occasione di esaminare uno scontro sulla validità della vaccinazione interno allo stesso discorso medico e alla prospettiva politico-scientifica che, con declinazioni differenti, promuoveva un ruolo attivo e deciso dello Stato nella costruzione della salute della collettività e dei singoli cittadini. Le posizioni contrarie ai vaccini sono spesso ricondotte a carenze culturali, che portano gli individui a ignorare le caratteristiche della vaccinazione e il suo modo di agire sull’organismo per contrastare l’infezione. Su questa ignoranza si innesta un processo di sfiducia nella scienza considerata come un sapere piegato a interessi parziali e privati, soprattutto quelli economici dell’industria farmaceutica. Il dibattito italiano di fine Ottocento presenta la possibilità di interrogare la costruzione di quella che può essere considerata una sfiducia istituzionale, prodotta dalla medicina e indirizzata verso la medicina stessa e verso le istituzioni dello Stato che promuovevano le istanze della salute.6 Il dibattito sulla vaccinazione si svolse nel contesto della mobilitazione igienista dell’Italia di fine Ottocento. L’igienismo promuoveva in forme diverse un’azione medico-sanitaria dello Stato più diretta e pervasiva, a partire dalla considerazione che il miglioramento delle condizioni di salute e di vita degli individui e della comunità fosse un elemento di primaria rilevanza anche dal punto di vista politico. In questi termini, l’intervento dello Stato nella promozione della salute pubblica sollecitava la riconsiderazione del rapporto tra collettività e individualità, tra interesse generale e interesse individuale, a partire dall’idea che, in un’accezione che non mancava di tratti organicistici, l’azione statuale dovesse volgersi all’interesse collettivo generale, subordinandovi la libertà e l’autonomia 6. Vedi a questo proposito Alessandro Demichelis, Understanding vaccine hesitancy: cognitive biases and the role of trust, in «Mefisto. Rivista di medicina, filosofia, storia», 2, 2 (2018), pp. 17-42. Sulla fiducia vedi Niklas Luhmann, Fiducia, Bologna, il Mulino, 2002 (ed. or. London, Wiley, 1979) e Anthony Giddens, Le conseguenze della modernità. Fiducia e rischio, sicurezza e pericolo, Bologna, il Mulino, 1994 (ed. or. Cambridge, Polity Press, 1990).

148

Emmanuel Betta

dell’individuo. Questa prospettiva trovava una certa corrispondenza anche nella logica costituzionale di questa stagione, alla quale era sostanzialmente estranea l’idea che esistesse un nucleo di diritti individuali inviolabili.7 La stessa vaccinazione era uno degli aspetti emblematici del progetto igienista, come era stato sottolineato in Parlamento da Paolo Mantegazza, uno dei protagonisti di quella stagione: la società crede di dire al padre, voi non avete il diritto di lasciare i vostri figli nell’ignoranza, noi vogliamo educarli ed istruirli nell’interesse loro proprio ed in quello della società, perché non gli diremo egualmente voi non avete il diritto di impedire che i vostri figli siano vaccinati, perché restano esposti al pericolo di perdere la vita, e riescono altresì una continua minaccia alla pubblica salute.8

La vaccinazione quindi esprimeva la proposta igienista, laddove l’azione dello Stato doveva volgersi a irrobustire il corpo della collettività, perché, come aveva scritto tempo prima lo stesso Bizzozero, i malati «non solo non producono per la società durante tutto il tempo della loro malattia, ma sono a carico di essa, senza considerare che in molti casi continuano, fin che sono vivi, a diffondervi germi morbosi».9 D’altra parte, proprio nella prospettiva igienista, Bizzozero era intervenuto ripetutamente sulla vaccinazione.10 In seguito alla grave epidemia di colera propagatasi tra il 1884 e 1887, insieme a Luigi Pagliani aveva spinto la Società d’Igiene di Torino a denunciare l’inefficienza del sistema di profilassi e di disinfezione, che era basato sulle sole quarantene e sui cordoni sanitari. Da quelle osservazioni Crispi avrebbe poi tratto indicazioni per l’istituzione della direzione sanitaria alle dirette dipendenze del ministero dell’Interno e per la successiva riforma del 1888. Poi, nel novembre del 1892, Bizzozero aveva inaugurato l’anno accademico dell’Università di Torino con un discorso dedicato alla questione delle infezioni – «La difesa della società dalle malattie infettive» – dove aveva sostenuto la necessità di riorganizzare la pratica di contrasto 7. Maurizio Fioravanti, Le dottrine dello Stato e della Costituzione, in Storia dello Stato italiano dall’Unità a oggi, a cura di Raffaele Romanelli, Roma, Donzelli, 1995, pp. 407-457, p. 422. 8. Commissione per la riforma della legislazione sanitaria, Processi verbali delle adunanze [s.n.t]., p. 165, citato in Cea, il governo della salute nell’Italia liberale, p. 233. 9. Giulio Bizzozero, L’igiene pubblica in Italia, in «Nuova Antologia», 680 (1900), p. 230, citato ivi, p. 233. 10. Vedi Vincenzo Cappelletti, Bizzozero, Giulio, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 10, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1968.

«L’ultima bufera antivaccinista»

149

anti-epidemico e contro il contagio sulla base delle esperienze di Pasteur.11 E aveva proposto l’istituzione di un Ufficio centrale di sanità presso il ministero dell’Interno, che sarebbe dovuto essere «un corpo eminentemente tecnico, munito di estesi poteri», nel solco della legislazione italiana della cosiddetta riforma Crispi-Pagliani del 1888, con la quale, tra l’altro, era stato istituito l’Istituto vaccinogeno dello Stato, che avrebbe avuto un ruolo di rilievo nello sviluppo della vaccinazione e che fu fuso con altri laboratori nel 1897 dal governo Di Rudinì.12 La costruzione dell’azione dello Stato sul terreno della salute era, d’altra parte, strettamente intrecciata con la stessa storia della vaccinazione e del contrasto alle epidemie. Il vaiolo, come le altre malattie infettive – colera, sifilide, peste – erano stati elementi decisivi nel processo che aveva portato lo Stato ad avocare il controllo della malattia e il contrasto delle epidemie e a dotarsi di istituzioni specificamente votate alla tutela della salute pubblica. Nel Cinquecento le prime notizie provenienti dall’Estremo e dal Vicino Oriente parlavano di pratiche per acquisire l’immunità che passavano attraverso il contatto con parti e residui delle pustole vaiolose, o per contatto su ferite o per inalazione, o, ancora, per mezzo di oggetti, soprattutto giocattoli, di persone malate. Ne derivava un processo morboso lieve, che determinava l’immunizzazione.13 Con la fine del XVI secolo, da quelle pratiche segnate da un’impronta marcatamente empirica, si passò alla vera e propria inoculazione di materiale vaioloso in bambini sani, con la quale si otteneva la cosiddetta variolizzazione. Anche in questo caso un retaggio orientale, proveniente dalla Turchia, che si diffuse in Inghilterra per poi espandersi lentamente in tutto il continente europeo, compresa l’Italia. L’ulteriore passaggio nella variolizzazione si era poi avuto con l’inglese Edward Jenner, il quale osservò come le donne che mungevano non fossero colpite dal vaiolo bovino (cow pox) e, soprattutto, fossero rese immuni al vaiolo umano (smallpox), che si manifestava con una reazione localizzata e un’insorgenza della malattia piuttosto modesta. 11. Sulla vaccinazione pasteuriana vedi Antonio Cadeddu, Pasteur et la vaccination contre le charbon: une analyse historique et critique, in «History and Philolosophy of Life Sciences», 9 (1987), pp. 255-275. 12.  Cfr. Gianfranco Donelli, Valeria Di Carlo, I laboratori della sanità pubblica. L’amministrazione sanitaria italiana tra il 1887 e il 1912, Roma-Bari, Laterza 2020. 13. Vedi Baroukh M. Assael, Il favoloso innesto. Storia sociale della vaccinazione, Roma-Bari, Laterza 1995.

150

Emmanuel Betta

La stagione più contemporanea della storia della vaccinazione iniziò con la diffusione del modello jenneriano – arrivato in Italia nel 1799 con Luigi Sacco14 – che non mancò di scatenare proteste e resistenze. L’inoculazione suscitò fin da subito un conflitto piuttosto diffuso, che vedeva contrapporsi gli inoculisti, iscritti in una prospettiva intellettuale e scientifica radicata nell’Illuminismo, e gli antinoculisti più legati a concezioni metafisiche e teologiche.15 In diversi paesi lo scontro fu aspro, in particolare in Inghilterra, dove la classe medica si divise, attraversata anche da un’interpretazione che considerava la malattia come un’occasione fornita dalla provvidenza per emendarsi dai peccati.16 Diversi paesi – Svezia, Francia, Svizzera, Inghilterra – intrapresero la strada della legislazione in materia, con interventi normativi per la vaccinazione obbligatoria. A Stoccolma nel 1872, circa il 40% delle persone rifiutò di vaccinarsi, quando nel resto della Svezia la percentuale superava il 90%.17 In Inghilterra si erano già succedute tre leggi – 1840, 1853 e 186718 –, le polemiche si scatenarono in particolare per quella del 1853, che aveva introdotto l’obbligatorietà della 14. Cfr. Maria Luisa Betri, Sacco, Luigi, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 89, 2017; sull’introduzione della vaccinazione jenneriana cfr. Antonio Borrelli, Dall’innesto del vaiolo alla vaccinazione jenneriana: il dibattito scientifico napoletano, in «Nuncius», 1 (1997), pp. 67-85 e per un caso concreto: Raffaele Flaminio Dondi, Vaiolo e vaccinazione jenneriana nel circondario di Cesena nell’anno 1871, in «Rivista di storia della medicina», 21, 1 (1977), pp. 23-26. Vedi anche Vaccini e paure. Salute pubblica, resistenze popolari, a cura di Elena Iorio e Cristina Munno, n. monografico di «Venetica», XXXII, 54, 8 (2018). 15. Sul rapporto della Chiesa con la vaccinazione cfr. Yves-Marie Bercé, Le clergé et la diffusion de la vaccination, in «Revue d’Histoire de l’Église de France», 79 (1983), pp. 87-106. 16. Per una storia della vaccinazione e delle polemiche intorno ad essa cfr. Dorothy Porter, Roy Porter, The politics of prevention: anti-vaccinationism and publich health in Nineteenth century England, in «Medical History», 32 (1988), 231-252; Nadja Durbach, Bodily Matters: The Anti-Vaccination Movement in England, 1853-1907, Durham-London, Duke University, 2005; Michael Kinch, Between Hope and Fear. A History of Vaccines and Human Immunity, New York-London, Pegasus Book, 2018. Vedi anche Simone Giardina, Dilemmi etici nella storia della medicina: il caso emblematico della vaccinazione antivaiolosa. Diritti individuali e sanità pubblica, in «Tendenze nuove», 2 (2007), pp. 209-225; Eula Biss, On Immunity. An Inoculation, Minneapolis, Graywolf, 2014 (trad. it. Milano, Ponte alle grazie 2015). 17. Sul caso svedese cfr. Marie Clark Nelson, John Rogers, The right to die? Antivaccination activity and the 1874 smallpox epidemic in Stockholm, in «Social History of Medicine», 5, 3 (1992), pp. 369-388. 18.  Il British Vaccination Act del 1840 aveva stabilito la vaccinazione gratuita per poveri.

«L’ultima bufera antivaccinista»

151

vaccinazione per i minori nei primi tre mesi di vita, pena una sanzione di 20 scellini o il carcere per i genitori inadempienti. La legge del 1867, poi, aveva irrigidito ulteriormente la normativa, estendendo il limite di età a 14 anni, con l’introduzione della carcerazione. Nella prospettiva della salute pubblica, questa legge segnò una decisa estensione dell’azione dello Stato nella sfera dei diritti individuali.19 L’opposizione all’intervento normativo era stata attivata fin dalla legge del 1853, con proteste violente in diverse città e con la fondazione della Anti-Vaccination League a Londra nello stesso anno, cui seguì poi nel 1867 la Anti-Compulsory Vaccination League.20 In una prospettiva che contestava l’estensione del potere politico considerandola una riduzione delle libertà civili, il movimento promosse azioni di contrasto dell’obbligatorietà che ebbero particolare successo nelle città di Leicester e Gloucester. La prima era il centro dell’azione antivaccinista, dove il tasso di bambini vaccinati arrivò al 2% e dove nel 1883 vi furono più di 134 bambini morti di vaiolo. Mentre a Gloucester su una popolazione di 41.000 abitanti risultavano vaccinati 34 bambini; anche in questo caso un’epidemia nel 1895 portò la morte di 2.000 persone e una mortalità dei minori di 10 anni che raggiunse il 41%. Nel 1898 il Parlamento britannico attenuò la legislazione in materia di vaccinazione, permettendo ai genitori di non far vaccinare i figli e introducendo l’obiezione di coscienza mediante un certificato per l’esonero da presentare al magistrato. L’idea che la vaccinazione fosse una responsabilità dello Stato era presente e organizzata anche in Prussia, anche prima dell’unificazione, al punto che le stesse amministrazioni sanitarie avevano lungamente ritenuto superflua una legislazione per prevederne l’obbligatorietà, che giunse solo con la legge del 1874, che stabilì che ogni bambino dell’Impero avrebbe dovuto 19. Nadja Durbach, ‘They might as well brand us’: working-class resistance to compulsory vaccination in Victorian England, in «Social History of Medicine», 13, 1 (2000), pp. 45-62. 20. I primi obiettivi della League erano: «I. It is the bounden duty of parliament to protect all the rights of man. II. By the vaccination acts, which trample upon the right of parents to protect their children from disease, parliament has reversed its function. III. As parliament, instead of guarding the liberty of the subject, has invaded this liberty by rendering good health a crime, punishable by fine or imprisonment, inflicted on dutiful parents, parliament is deserving of public condemnation», citato in Robert M.N. Wolfe, Anti-vaccinationist past and present, in «British Medical Journal», 325, 7361 (2002), pp. 430-432. Sul caso inglese in comparazione con quello tedesco vedi E.P. Hennock, Vaccination policy against smallpox, 1835-1914: a comparison of England with Prussia and imperial Germany, in «Social History of Medicine», 11, 1 (1998), pp. 49-71.

152

Emmanuel Betta

essere vaccinato entro l’anno successivo alla nascita e rivaccinato entro l’età di 12 anni. L’obbligo della rivaccinazione faceva seguito a variazioni nei tassi di mortalità che erano dovute alle forti e diffuse resistenze verso la rivaccinazione.21 D’altra parte, le discussioni proseguirono a lungo, trovando in una sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti del 1905 un passaggio importante. Nel caso Jacobson vs Massachusetts i giudici costituzionali stabilirono che la libertà del singolo potesse essere limitabile a vantaggio della sanità pubblica. Di lì a pochi anni, nel 1910, una discussione pubblica sancì ulteriormente una vittoria del fronte vaccinista, quando il presidente del Boston Board of Health sfidò i contrari a esporsi al vaiolo senza vaccinazione, per dimostrare la loro tesi. L’anno successivo la morte di uno di loro, che aveva visitato un ospedale senza vaccinarsi, e il fatto che tra i medici vaccinati che avevano visitato l’ospedale nessuno avesse contratto il vaiolo rappresentò un passaggio decisivo nella legittimazione pubblica della vaccinazione. L’Italia aveva approvato una disciplina della vaccinazione nell’articolo 51 della legge 22 dicembre 1888, n. 5849 in materia di tutela dell’igiene della sanità pubblica, la quale stabiliva che «la vaccinazione è obbligatoria e sarà regolata da apposito regolamento approvato dal ministro dell’Interno, sentito il parere del Consiglio superiore di sanità».22 Si trattava della definizione di qualcosa che era già presente in diversi regolamenti dell’istruzione pubblica elementare e secondaria e nella normativa che disciplinava il lavoro dei bambini, laddove la legge del 1902, concernente il lavoro delle donne minorenni e dei fanciulli, avrebbe stabilito la vaccinazione come condizione per l’ammissione al lavoro nelle officine. La normativa imponeva in termini espliciti la vaccinazione dei minori, ma la formulazione lasciava intendere una pari obbligatorietà anche della rivaccinazione, o, almeno, in questi termini sembrava andare la giurisprudenza della Corte suprema. In seguito il regolamento del 1892 sancì che la vaccinazione dovesse essere applicata a tutti i bambini entro il semestre solare successivo alla loro nascita, esclusi coloro che avevano già avuto il vaiolo o che per motivi sanitari non erano in 21. Sul caso tedesco vedi Claudia Huerkamp, The History of Smallpox Vaccination in Germany: A First Step in the Medicalization of the General Public, in «Journal of Contemporary History», 20 (1985), pp. 617-635. 22. Alessandro Serafini, Sull’obbligo della vaccinazione e rivaccinazione secondo la legge italiana, Città di Castello, Tipografia S. Lapi, 1903, p. 3.

«L’ultima bufera antivaccinista»

153

grado di sostenere l’innesto senza pericolo; questi bambini però avrebbero dovuto subire l’innesto l’anno successivo. In questi termini: Stabilì che nessun bambino poteva essere ammesso alle scuole pubbliche o private, o agli esami ufficiali, o in istituti di educazione o di beneficienza, qualunque carattere essi abbiano, pubblico o privato, o in fabbriche, officine od opifici industriali di qualunque natura, se avendo oltrepassato l’anno undicesimo d’età, non presenti un certificato autentico dell’Autorità comunale di aver subito una vaccinazione in data anteriore all’ottavo anno di età.

Ogni medico era esplicitamente tenuto a dare comunicazione ufficiale all’Ufficio sanitario comunale dell’avvenuta vaccinazione e il dispositivo di legge era molto chiaro nel determinare vincoli e responsabilità dei controlli: I direttori di scuole, di istituti, di fabbriche, di officine o di opifici industriali, o chiunque sia a capo di una collettività di persone di cui siano accolti fanciulli al disopra di 11 anni sono tenuti all’osservanza di questa disposizione, come pure all’osservanza dell’obbligo della nuova vaccinazione fra il 10° e il 11° anno, dei fanciulli che devono restare sotto la loro direzione. Essi dovranno ad ogni richiesta dell’autorità rendere estensibili i certificati della rinnovata vaccinazione dei fanciulli loro affidati.23

Si configurava quindi un reticolo normativo e istituzionale che investiva l’azione del medico vincolandola a prescrizioni e indicazioni esplicite che ne circoscrivevano l’autonomia discrezionale. In questi termini, la discussione sulla vaccinazione si caricava anche di una tensione relativa al rapporto tra autonomia dell’agire medico e prescrizioni normative. Questa tensione si concentrò soprattutto sul tema della rivaccinazione, e in particolare riguardo all’obbligatorietà. Ma la questione restava largamente discussa, per l’ambiguità della disposizione di legge e per le varie opinioni che si confrontavano e che trovarono spazio anche in Parlamento, che discusse sull’opportunità e validità di questa indicazione. Lo segnalò in aula il senatore Giacinto Pacchiotti, fondatore della Società italiana d’Igiene e docente di Clinica e patologia speciale chirurgica a Torino, per il quale sulla rivaccinazione «fra gli scienziati vi hanno dissensi intorno a questo punto».24 L’articolo di Bizzozero fu pubblicato tra il 1° gennaio e il 16 febbraio del 1897, con il titolo La vaccinazione e i suoi oppositori, inquadrando fin da subito il dibattito italiano in un contesto più ampio, che si riferiva 23. Ibidem (corsivi nel testo). 24. Ivi, p. 7.

154

Emmanuel Betta

da una parte alla fondazione della Lega contro la vaccinazione e dall’altra ai diversi paesi europei che avevano approvato leggi per la vaccinazione obbligatoria. Bizzozero considerava l’argomentazione antivaccinista fondata su tre cardini: la critica degli alti tassi di mortalità per vaiolo anche in contesti ad alta diffusione di profilassi vaccinale; la contestazione dell’impurità dei vaccini in quanto prodotti con materiali d’origine animale; e infine «il nodo centrale della quistione», vale a dire l’accusa di inefficacia del vaccino. In questa prospettiva riteneva che le parole degli antivaccinisti avessero due obiettivi: Il primo, di dimostrare che l’innesto, anziché essere una operazione innocente, può talora produrre gravi danni, od anche costare la vita all’innestato; il secondo, di dimostrare che la vaccinazione non ha quegli effetti utili che vengono affermati dai suoi sostenitori.25

Bizzozero riconosceva che il primo argomento aveva un fondamento, ma attribuiva la persistente alta mortalità alla scarsa qualità della profilassi della vaccinazione, in particolare all’uso ripetuto degli stessi aghi, che fungevano da vettore principale per il passaggio del virus da un soggetto a un altro. In termini analoghi sosteneva la raggiunta sicurezza dei vaccini derivanti dagli animali, che innanzitutto erano refrattari alle malattie veneree e in secondo luogo era stato accertato con l’autopsia che non presentassero tracce di tubercolosi. Sulla critica dell’efficacia dei vaccini, Bizzozero riteneva che gli antivaccinisti attribuissero il calo della mortalità per vaiolo a due fattori: l’uso di strumenti e procedure per la separazione e l’isolamento dei malati e la maggiore consapevolezza e cultura, che portava un numero crescente di persone ad adottare queste procedure. A sostegno di queste tesi, gli antivaccinisti portavano i dati dell’esperienza inglese e di quella prussiana, laddove in entrambi i casi a cifre che testimoniavano un’alta diffusione della vaccinazione non facevano corrispondere cifre altrettanto chiare di una diminuzione della mortalità, al punto che all’indomani della legge del 1875, con la quale la Prussia aveva introdotto l’obbligo vaccinale, si era verificato un aumento dei tassi di mortalità. Bizzozero criticò questa analisi, sostenendo che i dati di alta mortalità effettivamente esistenti anche in condizioni di vaccinazione diffusa fossero causati dal modo con il quale la vaccinazione era gestita e dalle condizioni nelle quali era praticata. Segnalò quindi due esigenze da soddisfare: la necessità che «il virus abbia sufficien25. Bizzozero, La vaccinazione e i suoi oppositori, p. 2.

«L’ultima bufera antivaccinista»

155

temente attecchito. Il che viene reso palese dallo svilupparsi non di una ma di parecchie pustole», e in secondo luogo quella della rivaccinazione: chi vuol vivere sicuro deve ripetere la vaccinazione ad intervalli di pochi anni, e se la rivaccinazione non ha esito positivo, deve premunirsi con nuove vaccinazioni ogni volta che minaccia un’epidemia di vaiuolo. […] In una popolazione vaccinata noi non abbiamo un complesso di individui immuni, ma un complesso di individui a diverso grado di immunità. Nell’insieme l’immunità della popolazione è tanto più forte, quanto più estesa fu la prima vaccinazione, e più frequentemente vi sono ripetute le vaccinazioni.26

Da questo punto di vista un intervento deciso dello Stato era necessario, perché Non più infezioni, non più epidemie, ecco il primo scopo che deve servire di guida per la formazione di un buon ordinamento sanitario […]. Le buone disposizioni legislative ci possono garantire la vita contro Questi occulti nemici e ne abbiamo il diritto, come lo abbiamo di essere protetti dai ladri e dagli assassini […]. Non più avvelenamenti, adunque.27

La Prussia figurava come l’esempio cui riferirsi, per la concreta efficacia dell’azione diretta dello Stato in materia di tutela della salute, poiché individui a immunità incompleta costituiscono parte rilevante della popolazione, per cui è quindi non piccolo interesse dello stato il difenderli dalla malattia. A ciò si arriva diminuendo il più possibile il numero dei vaiuolosi con cui possono trovarsi in contatto, cioè praticando rigorosamente l’isolamento e la disinfezione, e rendendo obbligatoria una buona vaccinazione per tutti i cittadini dello stato.28

Il carattere obbligatorio della vaccinazione si configurava in questi termini come scelta legittima, anche e soprattutto perché strettamente legata alla determinazione dell’efficacia della vaccinazione stessa: È per questa ragione che l’obbligatorietà della vaccinazione in parecchi stati è stata sancita per legge; essa è diretta non tanto a giovare all’individuo, perché ciò uscirebbe dai limiti dell’azione dello stato come è concepita ora, quanto a proteggere il complesso della popolazione.29 26. Ivi, p. 43. 27. Pogliano, L’utopia igienista, p. 601. 28. Bizzozero, La vaccinazione e i suoi oppositori, p. 43 (corsivo nel testo). 29. Ibidem.

156

Emmanuel Betta

Il caso italiano si presentava come elemento dirimente dell’argomentazione. Per gli antivaccinisti, provava l’inefficacia della vaccinazione, data la combinazione di alti indici di vaccinazione e di altrettanto alti indici di mortalità per vaiolo. Per Bizzozero, invece, l’Italia era un paese vaccinato male. Riconosceva che la mortalità restava alta – tra il 1887 e il 1889 si contavano 47.000 morti e in seguito tra i 1.500 e i 3.000 l’anno – ma riconduceva questi tassi alla scarsa diffusione e qualità della vaccinazione. Un’ampia parte della popolazione non era vaccinata, mentre coloro che lo erano si erano sottoposti all’innesto durante l’infanzia: meno di un terzo erano vaccinati entro l’anno di nascita, mentre più di due terzi erano invece vaccinati in anni successivi o addirittura non erano mai stati vaccinati: «quindi al gruppo dei non vaccinati si deve aggiungere un gruppo assai maggiore di persone in cui, per la data remota dell’innesto, l’immunità era incompleta, od era del tutto perduta».30 Inoltre i dati della rivaccinazione restavano bassi: circa 6,5 per mille abitanti. La scarsa qualità della vaccinazione in Italia secondo Bizzozero trovava la dimostrazione nella mortalità infantile «relativamente enorme» nel periodo 1887-1888: Non è certo che il vaiuolo faccia maggior strage nei bambini ad onta che in essi la immunità, secondo i fautori della vaccinazione debba essere più forte; esso vi fa maggior strage perché alla più parte dei bambini si è trascurato di conferire l’immunità colla vaccinazione.31

Sottolineò che era necessaria un’azione combinata di più fattori, incentrata sulla vaccinazione, e da questo punto di vista ribadì che chi promuoveva la vaccinazione obbligatoria non osteggiava l’applicazione di altre misure utili a combattere la malattia, anzi le promuoveva. In questi termini la proposta di affidarsi alle sole misure di isolamento era inutile e inefficace, come dimostrato dal caso tedesco, in cui il vaiolo era scomparso ma non la scarlattina o il morbillo: malattie ad alta infettività, che potevano essere contrastate solo con isolamento e disinfezione, ma non con vaccini. Accanto alla verifica dell’effettivo attecchimento del vaccino, la rivaccinazione appariva come il punto nevralgico dell’azione proposta da Bizzozero, tanto più urgente perché era da considerarsi la sola risposta efficace alla consapevolezza della transitorietà dell’immunità, che non durava tutta 30. Ivi, p. 28. 31. Ivi, p. 50.

«L’ultima bufera antivaccinista»

157

la vita. Proprio l’esistenza di diversi gradi di immunità era considerata da Bizzozero come il motivo sostanziale che legittimava la vaccinazione. Come detto, all’articolo di Bizzozero rispose nel 1898 Carlo Ruata, con La monografia del prof. G. Bizzozero “Sulla vaccinazione e i suoi oppositori”, pubblicata a Perugia nel 1898. Docente di materia medica e farmacologia sperimentale all’Università di Perugia e Igiene rurale nel Regio Istituto agrario sperimentale, Ruata impostava la questione rivendicando la necessità di un riconoscimento reciproco tra le diverse posizioni: «rispettiamoci a vicenda; ammettiamo francamente e lealmente le osservazioni di tutti, quando queste osservazioni hanno solamente lo scopo di scoprire la verità».32 L’asse dell’argomentazione di Ruata era che «il vaiuolo si diffonderà tanto più quanto più numerose saranno le vie di diffusione, e cioè quanto minori saranno gli ostacoli alla moltiplicazione del contagio».33 In questi termini attribuiva la riduzione della mortalità in Inghilterra all’uso di strumenti di isolamento, questione che attraverso il prisma della cultura riconduceva a differenze sociali: Se ai nostri giorni si vede che il vaiuolo ben di rado si estende alle famiglie più istruite, mentre tanta strage produce ancora nella classe di popolazione più ignorante, dobbiamo conchiudere che l’unica ragione esiste nel fatto che le persone più istruite conoscendo come si prenda il vaiuolo, cercano con cura di evitarlo, il che non fanno le persone più ignoranti.34

Questa linea lo portava a contestare esplicitamente l’ex direttore della sanità Luigi Pagliani, acceso sostenitore della vaccinazione: Un altro caldo vaccinatore che ha fatto sentire fortemente l’influenza del suo modo di pensare sopra tutta l’Italia, l’ex direttore della sanità prof. Luigi Pagliani, ha ripetuto parecchie volte in documenti ufficiali che l’unica misura profilattica veramente efficace è la vaccinazione; ed è andato tant’oltre in tal via da giungere persino a far proibire gli isolamenti nelle minaccie [sic] di epidemie di vaiuolo.35 32. Carlo Ruata, La monografia del prof. G. Bizzozero “Sulla vaccinazione e i suoi oppositori”. Appunti del dott. Carlo Ruata, Perugia, Unione tipografica cooperativa, 1898, p. 7. Su Ruata vedi Francesco Bistoni, L’igiene a Perugia, da Carlo Ruata ad Alessandro Seppilli, in «Sistema salute», 56, 1 (2012), pp. 26-34. 33. Ruata, La monografia del prof. G. Bizzozero, p. 8. 34. Ivi, p. 21. 35. Ivi, p. 37.

158

Emmanuel Betta

Insieme a Pagliani attaccava anche Bizzozero e la sua monografia, le cui tesi considerava «trascendentalismo»; in particolare le teorie sull’impatto della vaccinazione sui bambini erano «pure o semplici fantasie che non avrebbero dovuto uscire da una penna così valente».36 Altra cosa se Pagliani invece del regolamento del 1892 avesse approvato un buon regolamento «sull’isolamento del male», che gli avrebbe permesso di veder «scomparire completamente il vaiuolo dall’Italia e con esso quelle altre infezioni che come il vaiuolo si propagano».37 In questi termini, Ruata aderiva in toto alla lettura ormai superata che guardava alla profilassi antivaiolosa soltanto attraverso le pratiche di isolamento e distanziamento dei malati e dei contagiati: Questo è il vero indice che si fa conoscer che razza di protezione sia quella fornitaci dalla vaccinazione, e se gli scienziati che l’anno scorso hanno voluto festeggiare il centenario della vaccinazione, invece di stare a speculare nei loro gabinetti, avessero voluto osservare i fatti quali avvengono nel vero campo di azione, forse avrebbero compreso la grave responsabilità che essi si assumevano in nome di una falsa scienza, alla quale solamente sono imputabili le stragi enormi che ancora fa il vaiuolo in Europa; giacché senza l’invenzione della vaccinazione, da molto tempo sarebbero state generalmente adottate le misure d’isolamento, epperciò da molti anni non vi sarebbe più vaiuolo.38

Ruata, tuttavia, si spingeva oltre nella critica a quella che chiamava la «dea funesta della vaccinazione», basata su una «falsa scienza, sulle superstizioni dei secoli passati e sull’ignoranza delle popolazioni»39 contestandone la specifica efficacia dal punto di vista profilattico e medico: Quale enorme differenza fra la vaccinazione così patentemente inutile, così contraria alle leggi dell’igiene, così assurda nel suo principio, proponendosi essa di modificare un organismo sano e robusto per adattarlo all’ambiente malsano, coll’eterna efficacia colla grande semplicità e col vero principio scientifico su cui si basa l’isolamento del male.40

Si rifaceva al giornale londinese «Vaccination inquirer», organo principale del movimento antivaccinista inglese, che nel dicembre del 1912 36. Ivi, p. 10. 37. Ivi, p. 54 (corsivo nel testo). 38. Ivi, p. 51. 39. Ivi, p. 55. 40. Ivi, p. 51.

«L’ultima bufera antivaccinista»

159

lo avrebbe menzionato come medico che subiva «prosecution by medical profession of Italy, for the free and public expression of his views against vaccination and laws […]. Time will come when his speech will be regarded as a masterpiece in favour of sanitation and hygiene as opposed to vaccination».41 Soltanto il giornale inglese parlava dei tanti casi di bambini colti da febbri e convulsioni dopo la vaccinazione e condotti alla morte. Ruata concludeva le proprie argomentazioni enumerando sinteticamente le varie accuse mosse alla vaccinazione: 1 concetto che poteva ritenersi giusto un secolo fa ma che è ora riconosciuto completamente sbagliato; 2 ignoranza completa della natura del liquido che viene iniettato nel nostro organismo; 3 ignoranza completa degli effetti che questo liquido produce appena è entrato nel nostro corpo; 4 sicurezza matematica che esso produce per lo più febbri ed in alcuni casi morte; 5 potere preservativo non accertato, giacché esistono due scuole che dicono in proposito l’una precisamente il contrario dell’altra, i vaccinatori più dogmatici non vorranno certamente asserire che il potere preservativo della vaccinazione sia un fatto stabilito, in modo da basare su esso una disposizione di legge. Unica conoscenza certa, non messa in dubbio da nessuno, quella che talora vaccinazione talora produce la morte.42

Ruata affrontò la vaccinazione anche in altre pubblicazioni. Nel 1898 intervenne su «La Salute pubblica» con l’articolo Il vaiuolo e la vaccinazione nel R. esercito in relazione colla popolazione civile della stessa età, cui pochi mesi dopo replicò dalle pagine del «Giornale medico del Regio Esercito» Rodolfo Livi, capitano medico e addetto all’Ufficio statistica dell’Ispettorato di Sanità militare, con un contributo dal titolo La vaccinazione nell’esercito e l’antivaccinismo. Questo intervento a sua volta suscitò l’ulteriore replica di Ruata, con un testo dallo stesso titolo pubblicato sulle pagine dello stesso giornale. La direzione del «Giornale medico del Regio Esercito» per evitare di occupare l’intera annata con il tema della vaccinazione e per lasciar spazio ad altre questioni, decise di chiudere la discussione con la pubblicazione di tutti gli interventi, chiedendo solo a Livi delle brevi chiose all’ultima replica di Ruata. Le critiche di Ruata riprendevano lo schema dei precedenti articoli, ancorandolo alle statistiche militari, in particolare, per sostenere, nuovamente, il tema del contrasto tra una presunta ottima diffusione della 41. Citato in Bistoni, L’igiene a Perugia da Carlo Ruata ad Alessandro Seppilli, p. 26. 42. Ruata, La monografia del prof. G. Bizzozero, p. 58.

160

Emmanuel Betta

vaccinazione e la persistenza di una alta mortalità. La critica di Livi, che poi fu pubblicata in una monografia che raccoglieva tutti i testi, formulò l’argomento esattamente opposto, per dimostrare che «negli anni in cui la vaccinazione era meno diffusa era più diffuso pure il vaiolo».43 Contestò a Ruata errori statistici e di metodo, come l’aver comparato dati di anni e periodi diversi per sostenere l’ampiezza della diffusione della vaccinazione e l’errata equiparazione della mortalità tra vaccinati e non vaccinati. Livi riconduceva gli esiti negativi della vaccinazione al materiale adoperato e alla costituzione individuale, che poteva presentare maggiore resistenza al virus vaccinico come alla infezione vaiolosa o una durata variabile dell’immunità, subita nell’infanzia. La conclusione era che comunque il vaiolo colpiva maggiormente i non vaccinati dei vaccinati e quando colpiva questi ultimi lo faceva con una «gravezza immensamente minore». Ruata tornò a occuparsi di vaccinazione nel 1899, con un breve testo che riproduceva sostanzialmente il ricorso che egli stesso aveva presentato al ministero dell’Interno per contestare un’ordinanza inviata dal sindaco di Perugia ai direttori degli istituti d’educazione cittadini con la quale, nel solco della legge del 1888, si ingiungeva la rivaccinazione degli studenti, tra i quali i due figli di Ruata.44 Il contributo si muoveva con lo scopo di distinguere la vaccinazione dalla rivaccinazione, affermando che la legge non prevedeva in alcun modo la rivaccinazione. Il centro della contestazione di Ruata era ora la legittimità della rivaccinazione e la sua utilità. Il testo del ricorso riprendeva largamente gli argomenti dell’anno precedente, con le contestazioni che l’avevano contraddistinto – critica della purezza del vaccino animale, critica dell’efficacia della vaccinazione, argomenti statistici – e chiudeva ribadendo il rifiuto della vaccinazione, contestando la legge che: si basa sopra una sequela di strani errori, sopra un empirismo spinto fin al ridicolo, e che pur e obbliga l’individuo a lasciarsi iniettare nel proprio sangue un liquido infettante, che certamente non produce alcun vantaggio, che certamente produce dei danni, e che, in alcuni casi, certamente produce la morte.45 43. Rodolfo Livi, La vaccinazione nell’esercito e l’“antivaccinismo”, Roma, Enrico Voghera, 1899, p. 9. 44. Su questo cfr. il recente Eugenia Tognotti, Vaccinare i bambini tra obbligo e persuasione: tre secoli di controversie. Il caso dell’Italia, Milano, Franco Angeli, 2020, pp. 126-127. 45. Carlo Ruata, Contro la rivaccinazione obbligatoria. Ricorso presentato al Ministero dell’Interno, Città di Castello, Tipografia dello Stab. S. Lapi, p. 7.

«L’ultima bufera antivaccinista»

161

In una monografia successiva – La vaccinazione. Sua storia e suoi effetti – pubblicata a Perugia nel 1912 Ruata figurava come presidente della Lega internazionale contro la vaccinazione. Il testo riprendeva largamente gli argomenti del volume del 1898, privilegiando la ricostruzione della storia della vaccinazione. In particolare, riprendeva l’argomento della diffusione del vaccino di origine animale e degli effetti dannosi derivanti dalle impurità che esso conteneva. A sostegno di questa notazione critica menzionava il fatto che l’Accademia medica di Perugia aveva votato all’unanimità, con due astensioni, la richiesta di una legge a favore dell’isolamento come profilassi per il vaiolo e di abolire l’obbligo vaccinale lasciando libertà di scelta. Inoltre riferì di lettere di medici che da varie parti d’Italia si erano rivolti a lui per segnalare i problemi dell’impurità dei vaccini e del loro carattere dannoso. In aggiunta elencava una serie di casi, di provenienza indiretta, che testimoniavano che «la vaccinazione non protegge neppure per un giorno».46 Contestando la validità del vaccino conchiudeva il suo intervento contestando la società: mentre da un lato s’interessa, si agita, si allarma per un assassinio a sensazione, dall’altro non solo non pensa ma non sa neppure che in Italia 200 mila individui all’anno vengono uccisi avvelenati quando con tutta facilità si potrebbero prevenire.47

Il tema della varietà di esperienze di vaccinazione nel territorio italiano, differenziate in qualità ed efficacia a seconda dell’investimento e dell’attenzione delle diverse municipalità, emerse anche nel 1901 in un intervento sulle pagine del giornale «L’arte medica», firmato da Eugenio Fazio, che era stato assessore all’Igiene del Comune di Napoli per 18 mesi tra il 1892 e il 1893. Si trattava di una conferenza tenuta all’Università popolare di Napoli, nella quale Fazio aveva presentato i dati statistici sulla mortalità per sostenere una netta riduzione di 1/8 e poi 1/10 con l’introduzione del vaccino: «Dovunque la vaccinazione precoce è obbligatoria, la mortalità è ridotta al minimo: dove è facoltativa, incompletamente o tardivamente praticata, la mortalità vaiolosa resta elevata.48 Fazio sottolineava 46. Carlo Ruata, La vaccinazione. Sua storia e suoi difetti, Perugia, Tipografia Guerriero Guerra, 1912, p. 20. 47. Ivi, p. 30. 48. Eugenio Fazio, Il vaiuolo, la vaccinazione e gli antivaccinisti, in «L’arte medica», III, 27 (7 luglio 1901), p. 521. I corsivi sono nel testo.

162

Emmanuel Betta

il caso peculiare di Napoli, città ad alta densità abitativa, che avrebbe avuto dei tassi di mortalità molto superiori se non vi fosse stata una vaccinazione adeguata. In questo senso, l’autore sottolineava il problema politico delle responsabilità delle istituzioni municipali e della negligenza delle scuole, degli istituti, delle officine, che non assumevano tutte le misure previste per la vaccinazione. Una non minore colpa era altresì da attribuire agli apostoli che con zelo degno di miglior causa spiegano una vera crociata contro la profilassi ienneriana; consideriamo reato di lesa umanità la frode che a luce meridiana si compie da certi pseudo-istituti vaccinogeni bene spesso fattisi spacci non di linfa vaccinica ma di glicerina torbida e sudicia.49

In questi termini, la rilevanza degli indici di mortalità per vaiolo che continuava a persistere in Italia era attribuita in prima battuta da Fazio alla varietà di applicazione del dettato della legge nelle diverse aree e municipalità del paese. Nel 1912 il tema dell’antivaccinismo tornò alla ribalta con una nuova pubblicazione, promossa dalla Società piemontese di Igiene, che aveva chiesto a Francesco Abba, medico e ufficiale sanitario del Comune di Torino, di tenere una conferenza sul tema. L’intervento di Abba si poneva in continuità con quello di Bizzozero del 1898, richiamando tutti i temi classici dell’argomentazione sui vaccini. Il saggio ricapitolava gli argomenti degli antivaccinisti, cui rispondeva appoggiandosi alle statistiche, con una ricognizione di quelle concernenti i casi nazionali più rilevanti – Inghilterra e Prussia, soprattutto – e arrivando all’esame di diversi casi italiani, nei quali si dimostrava nel dettaglio dell’esperienza locale la validità della vaccinazione nel ridurre i tassi di mortalità, sulla base della documentazione apparsa nei primi anni del secolo sulla stampa medica. Abba sottolineava la varietà delle esperienze e tornava a ribadire il punto nevralgico dell’impegno delle istituzioni locali nell’applicare le misure previste per la vaccinazione: «perché il Paese sia salvo definitivamente dal vaiolo è necessario che tutti facciamo il nostro dovere».50 In questa prospettiva, il tema politico prevaleva, e Abba riassumeva gli obblighi previsti dalla legge per tutti i medici, ufficiali sanitari, sindaci e istituzioni provinciali e nazionali nel definire le concrete misure di profilassi. Richiamava altresì 49. Eugenio Fazio, Il vaiuolo, la vaccinazione e gli antivaccinisti, in «L’arte medica», III, 28 (14 luglio 1901), p. 542. 50. Francesco Abba, Sulla necessità della vaccinazione, Torino, Stabilimento tipografico G. Testa, 1912, p. 45.

«L’ultima bufera antivaccinista»

163

una votazione promossa dalla città di Torino nel 1898, che chiedeva la riapertura dell’Istituto vaccinogeno di Stato e la promozione dell’attuazione delle misure previste per la vaccinazione. La Società piemontese di Igiene nel 1912 aveva fatto proprie nuovamente quelle istanze espresse nel 1898, e in una lettera al ministero dell’Interno chiedeva al governo: richiamando le Autorità sanitarie e i funzionari tutti all’osservanza dei propri doveri, provveda, coi mezzi che la legge gli accordano, all’energica repressione del minacciante vaiuolo; e perché senza ulteriori indugi rimetta in funzione l’Istituto vaccinogeno dello stato, affinché gli Enti locali possano in ogni circostanza, disporre di vaccino di ineccepibile qualità, non solo, ma in quantità sempre sufficiente.51

51. Ivi, p. 50.

Decifrare la fiducia per parole e per immagini

Maria Malatesta Fiducia e sfiducia: romanzieri, medici, pazienti e parenti raccontano

1. Sguardi incrociati Medicina e letteratura: un binomio inscindibile, un pozzo inesauribile di narrazioni e rappresentazioni che ha origini plurisecolari ma che raggiunse l’apice nell’Ottocento dando vita a una sorta di osmosi letteraria destinata a non ripetersi più. La rivoluzione scientifica che diede inizio alla medicina moderna, la nascita della clinica e l’avvio del processo di professionalizzazione del medico accaddero nello stesso periodo in cui il romanzo si affermava come forma narrativa dominante. Fu allora che lo sguardo del medico, che si posava con un nuovo spirito di osservazione empirica sul corpo del paziente, incontrò quello dei letterati romantici intenti a scrivere storie realistiche costruite sull’attenta osservazione dell’ambiente circostante. A rivelare quel sistema di sguardi incrociati fu Michel Foucault. Nella conclusione a La nascita della clinica il filosofo francese sottolineava la sorprendente complementarità creatasi nell’epoca romantica tra il linguaggio medico e quello lirico, uniti nell’idea della finitudine dell’uomo e di un suo rapporto laico con la morte, che aveva da un lato consentito lo sviluppo della scienza medica, mentre liberava dall’altro un linguaggio «che si dispiega indefinitamente nel vuoto lasciato dalla caduta degli dei».1 Gli studiosi britannici, che da tempo analizzano il rapporto tra letteratura e medicina, ritengono la teoria di Foucault poco adatta al contesto inglese, sia per lo scarto cronologico con cui rispetto alla Francia si diffuse il 1. Michel Foucault, La nascita della clinica. Un’archeologia dello sguardo medico (1963), III ed., Torino, Einaudi, 1998, pp. 210-211.

168

Maria Malatesta

metodo di osservazione clinico, sia per il perdurare di una religiosità diffusa tra i medici britannici che nessun gesto rivoluzionario aveva cancellato. La critica ai fondamenti della “nascita della clinica” non ha però impedito loro di coglierne gli spunti fecondi concernenti il rapporto tra medicina e letteratura e di applicarli al contesto inglese. Essi sono così giunti a sostenere che l’influenza tra la medicina e il romanzo ottocentesco britannico fu tanto forte da produrre effetti in entrambi i campi. I medici entrarono come protagonisti nella narrativa inglese mano a mano che cresceva la loro importanza all’interno della società; i romanzieri dal canto loro crearono sul loro modello personaggi che, se forgiarono la rappresentazione della professione presso l’opinione pubblica inglese, ebbero contemporaneamente il potere di modificare la struttura stessa del romanzo. Dobbiamo a Charles Dickens una delle più efficaci descrizioni del medico di metà Ottocento. Il personaggio del romanzo Little Dorrit del 1857 non ha un nome, è semplicemente Il Dottore. La maiuscola sottolinea la sua identità sociale in ascesa, il prestigio e la distinzione che ne derivano, il possesso di una formazione qualificata che gli assicura una clientela di rango. Il Dottore non ha attribuiti che non siano quelli professionali, è portatore di una verità quasi assoluta che lo pone in una posizione separata rispetto agli altri personaggi. Simili caratteristiche sono tali da esercitare un effetto performativo sulla vicenda: è infatti grazie al Dottore se gli inganni e i sotterfugi di cui è pieno l’intreccio vengono superati.2 I romanzi della seconda metà dell’Ottocento furono invece influenzati dal positivismo e affidarono al personaggio del medico non solo il compito di rappresentare l’ascesa sociale della professione, quanto le moderne conquiste della scienza. Middlemarch, il romanzo più famoso di George Eliot, nacque così. Nel 1866 il filosofo Frederick Harris chiese alla scrittrice di ideare un racconto capace di esaltare la superiorità della cultura positivistica e le suggerì di incentrarlo sulla figura di un medico locale. La sua competenza scientifica lo poneva al disopra degli abitanti del villaggio, fossero i lavoratori o i padroni, e gli dava un controllo sugli individui tale da permettergli di risolvere i conflitti che li dividevano. Con questa richiesta il filosofo Harris attribuiva al romanzo non solo una semplice funzione di propaganda, ma la capacità di trasformare la realtà plasmando l’immaginario sociale. Ambientato negli anni Trenta dell’Ottocento ma scritto nel 1874, Middlemarch è molto più di quanto avesse immaginato Harris. Il 2. Charles Dickens, La piccola Dorrit (1857), Torino, Einaudi, 2019.

Fiducia e sfiducia: romanzieri, medici, pazienti e parenti raccontano

169

romanzo è infatti un caso esemplare di integrazione consapevole tra la narrativa e i metodi della conoscenza scientifica.3 Esso testimonia il passaggio dalla diagnosi “narrativa” a quella basata sull’evidenza clinica che in Gran Bretagna si realizzò nella seconda metà del XIX secolo e l’emergere della nuova figura di medico. Il rispecchiamento tra la medicina e il romanzo ottocentesco non si è limitato alla rappresentazione dei progressi della scienza e del ruolo sociale del medico. I romanzieri presero a modello i metodi di indagine della medicina, fecero proprio il distacco nell’osservazione insito nello sguardo medico e l’attenzione ai dettagli poco attraenti delle vite della gente comune.4 Ma in modo ancor più significativo, il personaggio del medico esercitò un ruolo centrale nella struttura narrativa modificandone il tradizionale impianto ottocentesco. Secondo Tabitha Sparks, i medici che popolano il romanzo vittoriano ne sfidarono l’intreccio fondato sul matrimonio e per questo motivo vanno considerati una metonimia dell’evoluzione e disgregazione di quel genere letterario. Portatore di un sapere scientifico positivistico, il personaggio del medico minaccia la struttura del romanzo ottocentesco costruita sull’intreccio amoroso perché rappresenta un modo di pensare la società che va oltre la dimensione intimista. In Middlemarch l’equilibrio tra la sfera pubblica e la sfera privata, caratteristico del romanzo del primo Ottocento, si spezza perché l’esercizio della medicina diventa un fattore disgregante degli equilibri familiari. Il matrimonio tra il dottor Lydgate e la bella e superficiale Rosemund è fatto di incomunicabilità e incomprensioni; alla fine egli deciderà di salvarlo, non si sa se per vero amore o perché i sogni di diventare uno scienziato si sono infranti davanti alla sua incapacità di gestire in modo razionale tanto l’economia familiare quanto quella dei sentimenti. L’importanza che la Eliot attribuisce alla vita professionale di Lydgate e alla sua passione per la medicina spezza la struttura del romanzo vittoriano, basato sul matrimonio, aprendola a nuove prospettive narrative.5 3. Janis McLarren Caldwell, Literature and Medicine in Nineteenth Century Britain. From Mary Shelley to George Eliot, New York, Cambridge University Press, 2004, pp. 155-156. 4. Lawrence Rothfield, Vital Signs. Medical Realism in Nineteenth Century Fiction, Princeton, Princeton University Press, 1992. 5. Tabitha Sparks, The Doctor in Victorian Novel. Family Practices, Farnham-Surrey, Ashgate, 2009, pp. 159-164.

170

Maria Malatesta

2. Middlemarch, ovvero il canone della fiducia La ragione per la quale il dottor Tertius Lydgate protagonista di Middlemarch è una figura isolata nella comunità dove esercita la professione sta nel fatto che egli incarna il nuovo modello del medico scienziato. La sua diversità rispetto al microcosmo locale nel quale tenta di inserirsi è uno degli aspetti del personaggio che la critica letteraria ha sottolineato. Lydgate rappresenta, secondo Tabitha Sparks, la conquista dell’autorevolezza del medico pagata al prezzo della separazione dalla società e dalla morale tradizionale a cui lo conduce la sua mentalità di scienziato.6 Se tuttavia ci si distacca dalle interpretazioni che vedono in Middlemarch un prodotto dell’empirismo del tardo XIX secolo, il romanzo appare come la storia di un colossale fallimento professionale provocato da una crisi della fiducia nella quale il dottor Lydgate rimane impantanato senza alcuna possibilità di uscirne. In Middlemarch viene delineato con precisione scientifica il canone della fiducia medica. Con un secolo di anticipo rispetto alla ricerca sociologica, George Eliot descrive la fiducia come il risultato di un processo composto da più elementi e animato da vari attori. La fiducia è quel sentimento che il medico suscita tra le persone che cura in base alla sua capacità di guarirle, essa riguarda parimenti la relazione tra un medico e i suoi colleghi i quali possono condividere o meno i suoi metodi di cura; la somma di questi due primi aspetti dà come risultato la fiducia che il medico gode all’interno dell’intera comunità, dalla quale scaturiscono sia la rispettabilità che il livello di accettazione sociale. Infine vi è la fiducia che il medico ha in se stesso, nelle sue capacità e nel ruolo sociale che ricopre. Nei romanzi inglesi di metà Ottocento questi aspetti, più o meno nettamente descritti, convergono nella rappresentazione a tutto tondo del medico esponente della classe media, ricco di virtù pubbliche e private come il personaggio di Allan Woodcourt, il dottore dal cuore d’oro che Charles Dickens inserì nel suo stralunato romanzo Bleak House, pubblicato a puntate tra il 1852 e il 1853.7 Il dottor Lydgate al contrario li manca tutti, dando così inizio a quella serie di personaggi medici dai tratti distruttivi che animeranno la letteratura del XX e XXI secolo. Più che il trionfo della cultura positivistica, Middlemarch racconta le difficoltà pressoché insormontabili che ostacolano l’introduzione dei nuo6. Ivi, cap. III. 7. Charles Dickens, Casa desolata (1853), Torino, Einaudi, 1995.

Fiducia e sfiducia: romanzieri, medici, pazienti e parenti raccontano

171

vi metodi scientifici in una comunità e in un ambiente medico degli anni Trenta tenacemente attaccati ai sistemi di cura tradizionali. Intervenendo nella vicenda con lo sguardo dell’autore onnisciente, caratteristico del romanzo ottocentesco, George Eliot avverte il lettore che il dottor Lydgate rappresenta «qualcosa di più rispetto a qualsiasi medico generico di Middlemarch» perché è un «innovatore».8 Diversamente dall’élite medica inglese, non ha studiato a Oxford, né ha acquisito il titolo rilasciato dal Royal College of Physicians, la corporazione medica londinese che negli anni Trenta vantava ancora un prestigio e un potere che di lì a poco sarebbero stati messi in discussione dal nuovo associazionismo medico.9 Ha frequentato un’università periferica e ha completato la sua istruzione a Parigi, all’epoca la capitale del metodo sperimentale fondato sull’osservazione anatomica che veniva praticato nei grandi ospedali della città.10 Amante appassionato della medicina e forte della formazione acquisita in Francia, Lydgate è consapevole dei limiti di quella inglese e desidera “uscire dalla norma” rispetto ai sistemi usati dai medici suoi conterranei che si limitavano a somministrare al paziente una quantità di intrugli al pari dei ciarlatani. Da giovane ambizioso qual è, ambisce a cambiare la pratica medica e contribuire allo sviluppo della scienza compiendo delle ricerche. Secondo i suoi piani, fare il medico in una piccola comunità gli avrebbe consentito di realizzare entrambi gli obiettivi. La prima riforma che Lydgate intende applicare è la separazione tra la professione medica e quella di farmacista, sancita per legge ma ancora disattesa a livello locale, dove i medici prescrivevano ai pazienti medicamenti confezionati da loro stessi o prendevano la percentuale su quelli preparati dai farmacisti.11 Il suo rigore nei confronti della somministrazione dei farmaci suscita tra i pazienti molti sospetti, aggravati dall’ostilità manifestata dagli altri medici nei confronti del giovane collega. A dargli fiducia è il ricco banchiere Bulstrode, uomo dall’oscuro passato e arrivato da poco a Middlemarch. Tra i due si instaura un’alleanza non priva di ambiguità. Bulstrode tenta di costruirsi un’immagine di rispettabilità con la filantropia e coinvolge Lydgate nel progetto di costruzione di un ospedale per malattie infettive improntato a quei principi moderni che il medico ha appreso a 8. George Eliot, Middlemarch (1874), Milano, Mondadori, 1983, p. 151. 9. Maria Malatesta, Professionisti e gentiluomini, Torino, Einaudi, 2006, pp. 113-120. 10. Ivi, pp. 143-145. 11. Eliot, Middlemarch, pp. 189, 455.

172

Maria Malatesta

Parigi e gliene affida la direzione. Lydgate accetta con entusiasmo e coltiva il sogno di creare nell’ospedale una scuola di medicina, non tenendo però nella giusta considerazione i vincoli che lo legano al banchiere. Sposatosi di recente con Rosamund, egli ha uno stile di vita consono allo status di medico ma non alle sue entrate effettive. Si indebita e deve fronteggiare, oltre al pignoramento dei mobili, anche la crisi del suo matrimonio. Disperato, chiede a Bulstrode un prestito. Su di lui graverà di lì a poco il sospetto che il banchiere abbia comperato il suo silenzio sulla morte sospetta di un individuo che lo stava ricattando. Il giudizio della comunità si abbatte su entrambi, trascinando Lydgate nel fango malgrado la sua innocenza. Sarà riabilitato grazie alla fiducia che la ricca vedova Dorothea ha in lui. Costei vorrebbe subentrare a Bulstrode come finanziatrice dell’ospedale per consentire a Lydgate di conservarne la direzione, ma il medico rifiuta e decide di lasciare Middlemarch per salvare il barcollante matrimonio. Diventerà un professionista ricco e di successo dividendosi tra Londra e la Francia, ma si riterrà sempre un fallito poiché «non aveva compiuto l’opera che un tempo si era proposta».12 La fiducia che riponevano in lui i pazienti dell’alta società inglese e francese non è stata sufficiente per colmare il vuoto provocato dalla distruzione delle sue ambizioni giovanili. George Eliot apre le porte alla modernità novecentesca grazie a questa rappresentazione negativa del personaggio medico che pone fine alla sua identificazione con la società borghese e mette al centro della narrazione il conflitto tra la fiducia del medico nelle sue capacità e quella acquisita accondiscendendo ai desideri della clientela, tra l’etica individuale e la ricerca del consenso per ottenere il successo professionale. 3. Una polifonia di soggettività e di voci Nell’Ottocento la letteratura accompagnò i progressi della medicina, diede un contributo importante alla professionalizzazione del medico e ne seguì le trasformazioni di fronte alla rivoluzione scientifica e all’affermazione dell’ospedale come luogo di cura e di ricerca. Nel XX e XXI secolo la rappresentazione letteraria della medicina ha assunto una dimensione ancor più rilevante. I testi che raccontano storie di medicina sono in continua crescita e testimoniano il fascino perenne dell’ambientazione medica e 12. Ivi, p. 856.

Fiducia e sfiducia: romanzieri, medici, pazienti e parenti raccontano

173

il suo successo presso il pubblico dei lettori; ciò che è cambiato rispetto al passato è la forma delle rappresentazioni e delle narrazioni oltre che degli obiettivi che esse si prefiggono. Non disponiamo di teorie paragonabili a quelle applicate alla narrativa ottocentesca, che ci aiutino a comprendere quale ricaduta abbia avuto il personaggio del medico sulla struttura del romanzo contemporaneo. I numerosi testi pubblicati dalla seconda metà del Novecento a oggi mostrano tuttavia che lo sguardo incrociato tra letteratura e medicina non si è interrotto, e che le narrazioni di malattia e di medicina sono diventate un genere letterario che riflette le trasformazioni della medicina e della narrativa contemporanee. La prima analogia che si intravvede tra il romanzo contemporaneo e il racconto di medicina è la frammentazione delle temporalità e dei punti di vista. Alla rottura del modello lineare proprio del romanzo ottocentesco, nel quale l’autore dominava la scena col suo sguardo onnisciente entrando in prima persona nella vicenda, è subentrata la decostruzione dei tempi del racconto e l’autonomizzazione dei personaggi che l’autore ha dotato di vita propria mentre si ritirava dietro le quinte. Allo stesso modo il racconto di medicina si è emancipato dal dominio del personaggio medico, lasciando spazio a voci e soggettività molteplici. Secondo il sociologo medico Arthur W. Frank, nell’età moderna la medicina aveva una dimensione “coloniale”: il corpo del malato costituiva un territorio di proprietà del medico per tutto il periodo del trattamento ed era costui a detenere il monopolio della narrazione della malattia.13 Nell’epoca post-moderna i pazienti si sono emancipati dalla condizione di colonizzati rivendicando l’importanza delle loro storie e mutando in tal modo la percezione stessa della malattia. Essa non viene più subita passivamente ma trasformata in «un’esperienza, una riflessione sul corpo, sul sé e sulla destinazione a cui conduce la mappa della vita».14 Le narrazioni post-moderne formano un campo discorsivo assai composito, nel quale trovano posto tanto i romanzi quanto le testimonianze e le storie di medicina scritte dai vari attori che animano il set della cura. Nella letteratura, la rappresentazione del medico onnipotente persiste, ma è assediata da storie che testimoniano la crisi del medico etico e la sua incapacità di intessere rapporti di fiducia ed empatia con i pazienti, come dimostrano 13. Arthur W. Frank, The Wounded Storyteller. Body, Illness & Ethic (1995), II ed. Chicago-London, The University of Chicago Press, 2013, p. 11. 14. Ivi, p. 7.

174

Maria Malatesta

i molti personaggi di medici assassini, ignoranti e traditori. La vera novità intervenuta nel campo letterario del tardo Novecento è costituita dalle storie che documentano la presa della parola di pazienti e parenti e che sono state pubblicate sotto forma di racconto autobiografico o di diario. L’effetto è stato dirompente. Esse non si sono limitate a sfidare le narrazioni dei medici erodendone il monopolio ma, rivendicando il diritto di raccontare la propria storia, lo hanno conteso anche ai romanzieri di professione. Le narrazioni di malattia post-moderne prodotte da coloro il cui destino, stando a quanto affermava nel 1950 Talcott Parsons, era quello di soggiacere alle cure del medico,15 eliminano ogni forma di mediazione e mirano a formare, attraverso il racconto in presa diretta, nuove comunità di lettori e nuove modalità di relazione col mondo. Esse riequilibrano, nella realtà come nella letteratura, la storica asimmetria del rapporto con il medico e con il romanziere. Un fiume di parole che cresce ogni giorno, nel quale il tema della fiducia è spesso trattato implicitamente, mentre altre volte assurge a elemento strategico della narrazione. 4. La peste, o l’apoteosi del medico onnisciente La peste è un testo letterario dotato di una struttura prismatica. Per i critici è uno degli esempi più alti della svolta soggettivista della narrativa novecentesca; ma è anche una storia di malattia la cui collocazione si pone al confine tra la medicina moderna e quella post-coloniale, tra il monopolio della narrazione detenuto dal medico e la rivendicazione dell’esperienza di malattia da parte del paziente. Anche dal punto di vista temporale La peste conferma la sua posizione liminare: il romanzo fu pubblicato nel 1947, due anni dopo che l’Algeria, ancora soggetta al dominio francese, aveva dato il primo segno di rivolta contro l’occupazione coloniale. Le interpretazioni dei critici letterari divergono sul fatto di rinvenire nel romanzo tracce delle tensioni indipendentistiche, allo stesso modo in cui reputano riduttiva la lettura de La peste come simbolo della catastrofe bellica16 che pure contribuì a farne un successo di pubblico duraturo, preferendo soffermarsi sulle stratificazioni letterarie e le implicazioni filosofiche di cui il romanzo è ricchissimo. 15. Talcott Parsons, Il sistema sociale (1951), Torino, Einaudi, 1995. 16. Jaqueline Lévi-Valensi, Temps et récit dans La Peste, in «Roman 20-50. Revue d’étude du XXe siècle», 2 (1986), p. 44.

Fiducia e sfiducia: romanzieri, medici, pazienti e parenti raccontano

175

Totalmente trascurato dalla critica è invece l’aspetto periodizzante del romanzo, il quale conclude il ciclo della rappresentazione letteraria del medico etico, apostolo della cura e depositario di tutte le virtù pubbliche e private iniziato nel primo Ottocento; da questo punto di vista ne La peste è racchiusa l’ultima apoteosi dell’onniscienza del medico e del monopolio da esso detenuto della narrazione. Al di là degli approcci strutturalisti che prescindono dall’autore concentrando l’attenzione solo sul testo, è difficile ignorare le componenti autobiografiche che spinsero Camus a scegliere come personaggio principale del romanzo un medico. Lo scrittore, un francese d’Algeria, era tubercoloso; ammalatosi a diciassette anni, ebbe una ricaduta importante nel 1942. A curarlo fu Henri Cohen, un medico ebreo colpito dalla “peste antisemita”, che continuò a visitare i pazienti di nascosto.17 La scrittura de La peste fu iniziata durante la convalescenza. In sintonia con gli indirizzi del romanzo contemporaneo, Camus narrò la storia della pestilenza scoppiata nella città di Orano adottando il punto di vista soggettivo di un personaggio, cui diede le sembianze di un medico; ad esso attribuì quelle virtù che concorrevano a crearne l’aura in una fase in cui la tecnologizzazione e la burocratizzazione della medicina erano ancora lontane. Camus attribuisce al dottor Rieux una pluralità di ruoli: egli è l’attore principale sulla scena del flagello, è il testimone, il custode della memoria e, cosa più importante di tutti, il narratore. Dire, testimoniare, significare un punto di vista sul mondo: i tre elementi principali attorno ai quali ruota la creazione letteraria di Camus sono espressi ne La peste attraverso il personaggio del medico. Esso è il tramite che consente all’autore di realizzare l’obiettivo che più gli sta a cuore e che consiste nel narrare una storia restando saldamente attaccato al reale.18 Rieux è un modesto medico generico che non teme di ammettere la propria ignoranza e impotenza di fronte alla malattia; è tuttavia profondamente onesto e la sua definizione di onestà è racchiusa nel proposito di far bene il proprio mestiere, curare la sofferenza, guarire se possibile. Diventato medico quasi per caso, Rieux ha trasformato la professione in ascesi. La sua idea di medicina coincide con un’esigenza morale che lo spinge a contrastare, per quel che può, lo 17.  Herbert R. Lottman, Albert Camus, Paris, Éditions du Cherche Midi, 2013, p. 425. 18.  Jacquelie Lévi-Valensi, Albert Camus ou la naissance d’un romancier (19301942), Paris, Gallimard, 2006, pp. 522-523.

176

Maria Malatesta

scandalo della morte, della malattia e del dolore, tutto ciò che impedisce il libero e sereno esercizio del “mestiere di uomo”.19 Queste doti fanno di Rieux un medico onnipotente. Egli detiene il primato della moralità, dell’etica e della fiducia; come se non bastasse, a lui Camus affida il potere della parola e il compito di raccontare la peste. La morale di Rieux è l’azione. Pur essendo un medico non si è mai abituato allo spettacolo della morte, all’ingiustizia che rappresenta; ed è per questo che decide di non passare sotto silenzio il dolore dei suoi concittadini e di stilare una cronaca della pestilenza.20 La sua narrazione è priva di riferimenti cronologici e la sua testimonianza trascende la storia: Rieux diventa così il rappresentante di una moralità universale che Camus identifica nella professione del medico. Pur non essendo un clinico illustre, è il primo a capire che è scoppiata un’epidemia di peste; è lui a organizzare l’assistenza nella città assediata dal flagello e a tenere in piedi una rete di sociabilità amicale che gli consente di rafforzare l’organizzazione sanitaria nella città isolata dal resto del mondo. Rieux è agli occhi di tutti un esempio di dedizione tale da assurgere a rivelatore della coscienza umana, della necessità di scacciare pigrizia e ritrosia, di uscire dalla trappola dell’egoismo per devolversi a una causa universale. Rieux è un medico empatico. Non si limita a curare, ma sta accanto ai malati, li veglia, li accoglie nella sua casa, come farà con Tarrou. Testimone del dolore, lo assume dentro di sé senza erigere alcuna barriera nei confronti dei malati e della malattia. Non gli interessa diventare un santo, come dichiara in uno dei dialoghi cruciali con Tarrou: «non ho inclinazione, credo, per l’eroismo e per la santità. Essere un uomo, questo mi interessa».21 Portavoce dell’umanesimo integrale di Camus, Rieux sceglie di stare dalla parte dei vinti, ossia dei malati e dei sofferenti. Nella sua limitatezza, nella stanchezza che lo ottunde alla fine della giornata passata a combattere l’epidemia, nel dolore che lo sovrasta, Rieux assurge a ideal typus del medico perfetto. È onnisciente non perché sia in grado di salvare tutti, ma perché sa vedere e capire. Nella celebre conclusione del romanzo Rieux rivela ai lettori di essere l’io narrante nonché il detentore della verità: 19.  Jacqueline Lévi-Valensi, La Peste d’Albert Camus, Paris, Gallimard, 1991, pp. 100-102. 20. Lévi-Valensi, Albert Camus, p. 195. 21. Albert Camus, La peste, in Id., Opere. Romanzi, racconti, saggi, a cura e con introduzione di Roger Grenier, Milano, Bompiani, 1988, p. 573.

Fiducia e sfiducia: romanzieri, medici, pazienti e parenti raccontano

177

il dottor Rieux decise allora di redigere il racconto che qui finisce, per non essere di quelli che tacciono, per testimoniare a favore degli appestati, per lasciare almeno un ricordo dell’ingiustizia e della violenza che gli erano state fatte, e per dire semplicemente quello che s’impara in mezzo ai flagelli: che ci sono negli uomini più cose da ammirare che non da disprezzare. Ma egli sapeva tuttavia che questa cronaca non poteva essere la cronaca della vittoria definitiva, non poteva essere che la testimonianza di quello che si era dovuto compiere e che, certamente, avrebbero dovuto ancora compiere, contro il terrore e la sua instancabile arma, nonostante i loro strazi personali, tutti gli uomini che non potendo essere santi e rifiutandosi di ammettere i flagelli, si sforzano di essere dei medici. Ascoltando infatti le grida d’allegria che salivano dalla città, Rieux ricordava che quell’allegria era sempre minacciata: lui sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai.22

5. Decostruire il ruolo medico L’Olocausto ha giocato un ruolo di primo piano nel processo di decostruzione del ruolo medico caratteristico della letteratura post-moderna. L’idea del medico criminale è penetrata, seppure con un certo ritardo, nella narrativa segnando il tramonto delle rappresentazioni eroiche che ebbero in Camus l’ultimo cantore e azzerando l’immagine della fiducia nel suo operato. Il processo di decostruzione del medico nei romanzi post-moderni si è snodato lungo alcune piste che si sovrappongono di frequente tra loro. La prima consiste nello svuotamento del personaggio dei suoi tratti peculiari: anche se il medico entra nella trama nelle vesti di professionista, la sua vera funzione è quella di essere un dispositivo narrativo usato dall’autore per raccontare alcuni snodi della contemporaneità. Il medico viene calato in un contesto di crisi esterno all’universo sanitario e le sue reazioni di fronte a una situazione minacciosa subita o provocata lo portano più spesso alla perdita, ma a volte anche al rafforzamento della sua identità professionale. Il filo rosso che unisce il pediatra Robert Gould, creato da James Ballard in Millennium People, il dottor Perowne di Ian McEwan e il chirurgo arabo Amin de L’attentato di Yasmina Khadra è il terrorismo. Il giovane 22. Ivi, p. 615.

178

Maria Malatesta

medico madrileno, protagonista del recente romanzo di Almudena Grandes, I pazienti del dottor García, viene salvato durante la guerra civile dalla fiducia in lui riposta come medico da un capo dei repubblicani; ma quell’incontro sarà fatale per il suo destino di medico: diventerà un militante coinvolto in mirabolanti imprese che si prolungheranno durante la guerra e la nuova identità politica prenderà il sopravvento su quella professionale.23 Il dottor Frank Eloff creato da Damon Galgut rappresenta il Sudafrica postapartheid, le difficoltà dei bianchi di adattarsi al nuovo regime e di fare i conti con le atrocità commesse in passato contro la popolazione nera. Il destino che li accomuna sta nella loro capacità di innescare comportamenti distruttivi o autodistruttivi che, ad eccezione del dottor Perowne in Sabato, finiscono per annientarli. In scenari di violenza prende corpo la rappresentazione del medico assassino. Il dottor Gould, personaggio chiave della post-fantascienza di Ballard, è un terrorista urbano intenzionato a combattere il capitalismo e la società dei consumi facendo saltare in aria i loro simboli come i supermercati e gli aeroporti. Egli è doppiamente pericoloso perché esercita un potere di fascinazione su chi gli sta vicino, trascinandolo nel suo delirio di onnipotenza e di follia: «Lui ha bisogno di pensare alla violenza e più è insensata, meglio è. Ho cercato di aiutarlo».24 Il personaggio Gould ribalta totalmente la figura del medico ottocentesco perché è doppiamente criminale. Non si limita infatti a mettere delle bombe ma viola ogni principio dell’etica professionale, perché abusa di bambini ritardati affidati alle sue cure adducendo come giustificazione il fatto di dar loro piacere. Nel suo agire paranoide si esprime quella componente surrealista che alcuni studiosi di Ballard hanno messo in evidenza25 e che culminerà nella morte cruenta dell’inquietante personaggio. Anche il sudafricano Eloff è il rovesciamento di tutti i principi etici della medicina. Egli lavora in un ospedale fantasma, dove i medici trascorrono le giornate senza fare nulla; più che un’istituzione di cura quell’ospedale è un non luogo, la cui funzione narrativa consiste nel simboleggiare la negazione della professione che Eloff ha compiuto ai tempi dell’apartheid. Egli è stato infatti uno dei medici che durante il regime Afrikaner erano te23. Almudena Grandes, I pazienti del dottor García (2017), Milano, Guanda, 2018. 24. James Ballard, Millennium People (2003), Milano, Feltrinelli, 2004 (III ed. 2007), p. 245. 25. Jeannette Baxter, J.G. Ballard’s Surrealist Imagination. Spectacular Authorship, Farnham-Surrey, Ashgate, 2009, in particolare cap. 5.

Fiducia e sfiducia: romanzieri, medici, pazienti e parenti raccontano

179

nuti ad assistere agli atti di tortura a cui era sottoposta la popolazione nera e se ne rese complice coprendoli con un silenzio altrettanto colpevole.26 A fianco dei medici assassini ci sono i suicidi. Amin è un chirurgo arabo naturalizzato israeliano che lavora in un ospedale a Tel Aviv circondato dalla stima dei colleghi. A infrangere in modo traumatico un’esistenza apparentemente felice è la scoperta sconvolgente che sua moglie si è fatta esplodere in un attentato terroristico. Amin inizia allora un viaggio all’interno della comunità palestinese alla ricerca della verità. Tentare di penetrare le logiche che governano quel mondo che aveva lasciato per intraprendere la carriera medica lo condurrà alla morte. A ucciderlo è la pretesa di ristabilire un contatto con la sua gente e con la sua cultura originaria dopo averla tradita per integrarsi con gli israeliani.27 Anche il racconto dei contesti di cura non sfugge al ribaltamento dei canoni tradizionali. Molti romanzieri contemporanei filtrano nei loro racconti le insoddisfazioni dei pazienti di oggi e la conquista di un nuovo potere nella relazione col medico gettando uno sguardo irriverente sull’universo sanitario e costruendo personaggi micidiali che sfidano con coraggio l’intero sistema. La giovane Alice, terribile paziente americana uscita dalla penna di Cathleen Shine, è afflitta da un misterioso male alle gambe che le impedisce di camminare; immobilizzata in un letto di ospedale, è vittima di una catena di diagnosi e cure sbagliate che ne peggiorano di giorno in giorno le condizioni generali. Ma Alice si vendica della classe medica, della sua incompetenza e approssimazione usando l’unico potere in suo possesso, la seduzione. I medici che non sanno resisterle sono rappresentati come fantocci lascivi e immorali che alimentano il suo gioco. A salvarla sarà l’unico atto di fiducia di tutto il romanzo, quando accetterà la proposta di affrontare un intervento ad alto rischio. L’ortopedico che la opererà le restituirà l’uso delle gambe e con questo la vita e l’affettività di una ragazza di vent’anni.28 Veronika, personaggio creato da Paulo Coelho e ispirato a esperienze vissute dall’autore, è un’aspirante suicida, caduta in mano a psichiatri ambigui che la tengono reclusa con la menzogna facendole credere di essere affetta da una gravissima malattia cardiaca che dovrebbe condurla di lì a 26. Damon Galgut, Il buon dottore (2003), Parma, Guanda, 2005. 27.  Yasmina Khadra, L’attentato (2005), II ed. Palermo, Sellerio, 2016 (I ed. it. 2006). 28. Cathleen Shine, Il letto di Alice (1983), Milano, Mondadori, 1999-2012.

180

Maria Malatesta

poco alla morte. Anche nella clinica dove è ricoverata Veronika non vi sono regole etiche: la fiducia che Veronika ripone nel medico curante è violata da costui in nome di un oscuro disegno di cura. Saranno l’amore che sboccia tra Veronika e un altro giovane paziente a smascherare l’inganno dei medici e a far trionfare il loro desiderio di vivere.29 La decostruzione letteraria post-moderna mette in luce la fragilità dei medici contemporanei e la loro incapacità di contenere i rapporti con i pazienti entro i limiti della professionalità e dell’etica. Ai medici assassini si affiancano quelli deboli, che escono da perdenti nella relazione con i pazienti, come il dottor Galvan, creazione dell’ironia sferzante di Daniel Pennac. Il dottor Galvan è figlio d’arte: «La medicina – come egli dichiara all’inizio del racconto – è la prima delle malattie ereditarie». Neanche a dirlo, sposa la figlia di un medico e il suo destino sembra segnato: una brillante carriera di clinico, una vita alto borghese. Ma una notte al pronto soccorso cambia la sua sorte. Galvan è perseguitato da un paziente immaginario, la cui unica occupazione consiste nel farsi visitare da tutti gli specialisti. I ruoli si sono invertiti: è il paziente a tenere in scacco il medico simulando una quantità impressionante di sintomi. Ma quando il paziente gli mostra il suo biglietto da visita nel quale è scritto il suo sogno, qualificarsi cioè come «ancien malade des hôpitaux de Paris», la frase che dà il titolo alla versione originale del libro, Galvan perde il controllo e lo colpisce con un pugno. Alla fine del monologo il lettore verrà a sapere che il dottore ha gettato alle ortiche il camice e si è messo a fare il garagista.30 Siamo debitori a Maylis de Kangal, autrice di Riparare i viventi, il più bel romanzo di medicina degli ultimi anni, di una visione più ottimistica della medicina post-moderna. La scrittrice non sceglie di concentrarsi sul rapporto individuale tra il medico e il paziente, ma opta per una rappresentazione corale, un affresco nel quale la fiducia viene espressa nei confronti dell’intero sistema sanitario.31 Riparare i viventi narra la storia di un espianto di organi dal corpo di un ventenne in coma irreversibile dopo un incidente d’auto. Pierre Révol, il medico della rianimazione che lavora all’ospedale di Le Havre dove è stato portato il ragazzo, è palesemente incapace di convincere i genitori a dare il loro consenso; ci riuscirà invece un giovane 29. Paulo Coelho, Veronika decide di morire (1998), Milano, Rizzoli, 1999-2016. 30.  Daniel Pennac, La lunga notte del dottor Galvan (2012), Milano, Feltrinelli, 2013. 31. Maylis de Kerangal, Riparare i viventi (2014), Milano, Feltrinelli, 2015.

Fiducia e sfiducia: romanzieri, medici, pazienti e parenti raccontano

181

infermiere, Thomas Rémige, la cui umanità e delicatezza fanno di lui il vero eroe del romanzo. Egli sa scegliere le parole e il tono con cui pronunciarle. Non è solo tecnica oratoria, è empatia ed è solo grazie ad essa i genitori acconsentiranno all’espianto. Gli organi di Simon verranno distribuiti tra gli ospedali di Francia, là dove ci sono pazienti in attesa di trapianto. Da Parigi parte l’elicottero con l’équipe dei medici che estrarrà il cuore di Simon coadiuvata da Thomas Rémige. Sarà Claire Méjan, che aspetta da un anno, a riceverlo. La sua fiducia nel sistema sanitario è stata ben riposta. 6. Sabato: tradimento ed espiazione A un secolo e mezzo di distanza da Middlemarch, Ian McEwan scrive un romanzo nel quale il trionfo della medicina tecnologica è rappresentato attraverso gli effetti da essa prodotti sulla mentalità dei medici. Un filo sottile unisce Sabato al romanzo vittoriano. Il suo personaggio principale, il neurochirurgo Henry Perowne è, al pari del dottor Lydgate, un ideal typus della cultura empirica e razionalista; egli riassume in sé l’intero canone della fiducia aggiornato al XXI secolo: nella scienza medica, nel sistema sanitario pubblico, nella sua équipe e soprattutto in se stesso. Operare non lo stanca mai: mentre si trova nel mondo a parte della sua equipe, della sala e delle ordinate procedure, una volta assorbito dal vivido scorcio offerto dal microscopio chirurgico, in cammino su un percorso che lo guiderà alla meta desiderata, Henry si sente addosso una capacità sovrumana, quasi una smania, di lavorare.32

Perowne gode anche della fiducia dei pazienti, nei confronti dei quali si mostra sollecito e non privo di una certa dose di empatia capace di trasformarsi in una vera relazione, come nel caso del professore Taleb, che influenza le sue posizioni nei confronti di Saddam Hussein stimolandolo ad approfondire le sue conoscenze sull’Iraq. Nella sua vita, pubblico e privato sono uniti in modo armonioso, come simboleggia il matrimonio con una paziente, la bella Rosalind, incontrata quando era un giovane tirocinante nel reparto di neurochirurgia dove era stata ricoverata per un’improvvisa perdita della vista. Negli anni a venire Perowne distribuirà in modo equanime le sue virtù tra il lavoro e la fami32. Ian McEwan, Sabato (2005), Torino, Einaudi, 2005 e 2006, p. 16.

182

Maria Malatesta

glia rappresentando nel XXI secolo un modello di equilibrio tra sfera pubblica e domestica pari a quello del dottor Allan Woodcourt, il personaggio di Bleak House. Tanta perfezione è il frutto di un temperamento razionale che si nutre della fede nella scienza. La contrapposizione tra il valore sociale della scienza e l’inutilità della letteratura33 è uno dei fili conduttori di Sabato che McEwan risolve a favore della scienza fino al colpo di scena finale, quando una poesia di Matthew Arnold, letta da Daisy, la figlia poetessa costretta a denudarsi dall’aggressore che ha fatto irruzione nella loro casa, rovescerà la situazione a favore dei Perowne. Il racconto si svolge nella giornata di sabato 15 febbraio 2003, in una Londra invasa dalla manifestazione oceanica contro la guerra in Iraq. Il tempo storico e quello individuale di Perowne si intersecano per caso. Se non ci fosse stata la manifestazione e se il medico non avesse dovuto cambiare strada per raggiungere la palestra, forse il tamponamento tra la sua argentea Mercedes 500 S, lusso che il sobrio neurochirurgo si è concesso con qualche senso di colpa, e l’auto rossa con tre piccoli delinquenti a bordo non sarebbe avvenuto. L’interpretazione di Sabato in chiave storica ha prevalso tra gli studiosi che hanno letto il romanzo con l’ottica dei post-colonial studies riconducendo l’intera vicenda alla guerra tra la Gran Bretagna e l’Iraq34 e ritenendo il romanzo un’allegoria dell’insicurezza globale nell’epoca del terrorismo. La famiglia Perowne, un baluardo di affetto, sicurezza, cultura e benessere, è minacciata dall’azione violenta di Baxter, che fin dalle prime pagine sappiamo essere affetto da una malattia degenerativa che gli offusca la mente. Secondo Dominic Head, con il personaggio di Baxter McEwan ha voluto rappresentare Saddam Hussein, anche lui affetto da attacchi paranoidi.35 Al di là di questi aspetti che ne fanno una rappresentazione del mondo post-11 settembre, Sabato è innanzi tutto un romanzo medico, al centro del quale vi è il tema della fiducia e gli aspetti etici ad essa connessi. Per autodifesa Perowne viola i fondamenti della deontologia e dell’etica medica e continua a farlo anche quando decide di espiare le colpe commesse. Il suo peccato consiste nell’aver usato la scienza medica come un’arma, di aver 33.  Dominic Head, Ian McEwan, Manchester, Manchester University Press, 2013, pp. 178-187. 34. Graham McPhee, Post British Literature and Post-Colonial Studies, Edinburgh, Edinburg University Press, 2011, pp. 158-163. 35. Head, Ian McEwan, pp. 181-184.

Fiducia e sfiducia: romanzieri, medici, pazienti e parenti raccontano

183

umiliato l’aggressore violando il segreto della sua malattia, di aver indotto in lui false speranze per poi tradirlo. Siamo nel pieno delle tematiche macewaniane che conducono all’espiazione finale del chirurgo. Il dubbio che Perowne possa rientrare nella categoria dei personaggi medici assassini sopra descritti è fugato dalla conclusione buonista del romanzo. Perowne vince due volte su Baxter perché gli è culturalmente, socialmente e geneticamente superiore. Dopo il tamponamento, ha la meglio sui delinquenti che lo hanno immobilizzato e picchiato grazie al suo occhio clinico che individua in Baxter i segni di una grave malattia: Osservandolo di nascosto per alcuni secondi Perowne d’improvviso capisce: Baxter non è in grado di eseguire movimenti saccadici, quei rapidi spostamenti oculari detti di inseguimento.36

La diagnosi, una malattia degenerativa a base genetica, scaturisce da un interrogatorio incalzante e crudele sulla famiglia di Baxter e sulla sua storia, che lo mette a nudo davanti ai due compari. Lo squallore della vita condotta dall’aggressore, segnata alla nascita da una malattia ereditaria, è tale da mettere in discussione – come fa acutamente Roberta Ferrari – le interpretazioni che hanno visto nel personaggio l’allegoria della violenza contemporanea. Al contrario, in entrambi gli scontri avviene tra i due «una sorta di ribaltamento del rapporto vittima/carnefice».37 Rivelando davanti a tutti che Baxter soffre del morbo di Huntington, il medico mina la leadership che costui esercita sul gruppo senza rendersi conto delle dinamiche che ha messo in atto violando il segreto professionale. Sarà il figlio Theo, valente musicista, a metterlo in guardia: «lo hai umiliato. Dovresti fare attenzione».38 Perowne non prova alcuna pietà nell’affondare la lama del sapere medico nel piccolo delinquente; ogni scrupolo etico è spazzato via dalla cinica considerazione che Baxter è perduto. Il senso di superiorità genetica che avverte nei suoi confronti e che lo fa sentire il più forte sarà tuttavia incrinato dal timore velato di dover un giorno soffrire della stessa demenza che ha colpito sua madre. Quando Baxter irrompe nella sua casa e prende la moglie in ostaggio, la tecnica usata dal chirurgo per distoglierlo dal suo proposito criminale è l’arma della fiducia. È sempre Roberta Ferrari a ipotizzare che Baxter 36. MacEwan, Sabato, p. 98. 37. Roberta Ferrari, Ian McEwan, Firenze, Le Lettere, 2012, p. 207. 38. MacEwan, Sabato, p. 159.

184

Maria Malatesta

non torni da Perowne solo per vendicarsi ma anche con la speranza che la cura che il medico gli ha fatto balenare esista per davvero. Perowne gioca d’astuzia, confonde Baxter con termini clinici oscuri, lo illude paventandone l’inserimento in un programma sperimentale americano. Catturata la sua attenzione, Theo e il padre riescono a immobilizzarlo, ma egli perde l’equilibrio, cade all’indietro e sbatte la testa sul pavimento. In quell’attimo dai suoi occhi trapela l’accusa di tradimento rivolta al medico che ha tutto ma che «non ha mosso un dito, non ha concesso nulla a Baxter».39 Nell’istante in cui perde conoscenza, Baxter si trasforma da aggressore in paziente. Perowne lo fa ricoverare, dà istruzioni per telefono; poco dopo è chiamato dall’ospedale perché compia lui l’intervento che si presenta molto difficile. La moglie, che è un magistrato, lo rassicura sul fatto che non vi è stato da parte sua alcun abuso di potere, ma solo legittima difesa; al tempo stesso solleva il dubbio sull’opportunità di operare un individuo che lo ha gravemente offeso. Perowne non ha però incertezze al riguardo: salvare il suo aggressore è l’unico modo per espiare le colpe che egli sente di aver commesso in quanto medico. È la misera sorte di Baxter, il suo destino geneticamente segnato e la consapevolezza dello scarto abissale tra la sua condizione e quella del piccolo delinquente a indurlo a non sporgere denuncia. La fine del romanzo è racchiusa nel proposito di Perowne di prendersi cura di Baxter per perdonare e farsi perdonare, giacché il peccato più grave è consistito nel tradire la fiducia in lui riposta e che solo una relazione empatica col paziente può espiare. A sessant’anni dalla Peste le ultime pagine di Sabato riportano al centro di una storia il personaggio del medico onnisciente che si distingue dalla massa per la sua capacità di comprensione dei fenomeni. Ma le differenze rispetto al capolavoro di Camus sono notevoli. Diversamente dal dottor Rieux, la cui fragilità è data dall’impotenza di fronte all’epidemia e al male, Perowne incarna il potere di cura della medicina moderna che però non è in grado di difenderlo dagli attacchi provenienti dall’esterno dell’universo sanitario. Ma la maggiore differenza tra i due personaggi sta nel loro significato metaforico. Mentre il dottor Rieux rappresenta la coscienza collettiva del male e la resistenza morale nei suoi confronti, Perowne incarna la coscienza individuale post-moderna che non assurge a simbolo dell’umanità ma resta confinata nel perimetro ristretto della sua professione. 39. Ivi, p. 237.

Fiducia e sfiducia: romanzieri, medici, pazienti e parenti raccontano

185

7. I medici si raccontano I medici romanzieri sono una presenza autorevole e consolidata nella letteratura contemporanea. Ai casi di abbandono della professione medica per quella di scrittore – di cui il massimo rappresentante è Anton Čechov – si affiancano gli esempi di coabitazione dei due mestieri, come quella praticata da Mario Tobino, la cui passione letteraria non gli fece mai abdicare all’impegno profuso come psichiatra. Nella seconda metà del Novecento ha preso piede un diverso modello di medico scrittore, non il romanziere capace di narrare storie dalla portata universale, ma quello dotato di vena letteraria che trae ispirazione dall’esperienza professionale. Il nuovo medico scrittore racconta casi clinici o storie di vita dei malati nei quali svolge un ruolo da protagonista e che – a giudizio del medico antropologo Byron Good – non differiscono nella sostanza dai racconti di malattia scritti dai pazienti.40 Le narrazioni mediche svolgono, secondo Howard Brody, un ruolo fondamentale nei confronti dell’etica medica perché aiutano ad accrescere la consapevolezza nella dimensione narrativa della medicina.41 Non si può tuttavia negare il fatto che attraverso il racconto delle sue esperienze il medico scrittore svolga anche un’opera di celebrazione della professione e soprattutto di se stesso. Né va trascurata la cronologia che sottende la nascita e lo sviluppo di questo genere letterario, che coincide grosso modo con l’incrinatura del potere medico nella relazione con il paziente. L’irruzione della soggettività medica nel campo letterario è così avvenuta attraverso il racconto delle gesta del medico che tende ad assumere una valenza epica, qualunque sia il registro narrativo scelto. Mash è il capostipite del filone nel quale l’esperienza professionale viene raccontata con una vena ironica che sconfina a volte nel grottesco. Scritto da Richard Hornberger, chirurgo dell’esercito statunitense durante la guerra di Corea, in collaborazione col giornalista W.C. Heinz, il libro fu pubblicato nel 1968 con lo pseudonimo di Richard Hooker. Frutto di una sapiente mescolanza di realtà e di fantasia, esso divenne negli anni Settanta il manifesto dell’antimilitarismo e la sua fama fu accresciuta dalla versione cinematografica diretta da Robert Altman che fu un successo planetario. 40. Byron J. Good, Narrare la malattia. Lo sguardo antropologico sul rapporto medico-paziente (1994), Torino, Einaudi, 2006, p. 284. 41. Howard Brody, Stories of Sickness, New Haven, Yale University Press, 1987.

186

Maria Malatesta

Il racconto ruota attorno a una rappresentazione irriverente della sanità militare durante la guerra di Corea gestita da medici incompetenti e totalmente priva di organizzazione. In questo scenario disperante svettano le doti demiurgiche dei tre chirurghi protagonisti del romanzo. Di loro conosciamo solo i soprannomi. Sono dotati di un umorismo feroce e si comportano come goliardi facendo scherzi tremendi alle gerarchie militari nei confronti delle quali nutrono un profondo e sincero disprezzo. Hanno modi sgangherati e un linguaggio osceno, bevono, scommettono. Sono in una parola politicamente scorrettissimi, ma sono dei maghi del bisturi, capaci di operare in situazioni di emergenza per giorni interi, senza fermarsi mai e sono anche medici pieni di umanità. La filosofia a cui si attengono è la “bassa macelleria”, che consiste nel tirare il ragazzo fuori di qui abbastanza vivo perché qualcun altro lo ricostruisca […] certe volte sacrifichiamo deliberatamente una gamba per salvare una vita, se le altre ferite sono più rilevanti. Anzi, di tanto in tanto perdiamo una gamba perché, se passassimo un’altra ora a cercare di salvarla un altro tizio nella corsia preparatoria potrebbe morire perché è stato operato troppo tardi.42

In questo manifesto della chirurgia d’urgenza è racchiusa l’altra cifra del romanzo, ossia l’esaltazione del potere detenuto dal medico e della fiducia illimitata che egli ha nelle sue capacità professionali. Agli antipodi dei surreali chirurghi usciti dalla penna di Hornberger sta il dottor Sachs, umilissimo medico di base della provincia francese creato dal dottor Martin Winckler che ha trasfigurato la sua esperienza professionale creando un personaggio i cui aspetti comici non smorzano l’angoscia sottile che pervade il lettore nel seguire la cronaca delle gesta quotidiane di questo antieroe. Il dottor Sachs è un medico che ha una fiducia bassissima in se stesso e un legame patologico coi pazienti, dai quali è tenuto pressoché in ostaggio. Il rapporto di potere si è totalmente rovesciato. Il malinconico e autoironico dottor Sachs si dissolve nei propri pazienti fino a nutrire una vera dipendenza nei loro confronti e la ragione di un simile comportamento sta nella malattia mortale che lo affligge: la passione per la cura.43 Il racconto dei casi trattati nel corso della carriera è diventato in buona sostanza, nella fase di esaltazione della soggettività medica, un mezzo per 42. Richard Hooker, M*A*S*H (1968), Roma, Sur, 2017, pp. 224-225. 43. Martin Winckler, La Maladie de Sachs, Paris, Gallimard, 1998.

Fiducia e sfiducia: romanzieri, medici, pazienti e parenti raccontano

187

scrivere la propria autobiografia professionale. Le recenti storie di medicina sembrano rispondere all’imperativo di riaffermare il ruolo del medico nelle società post-moderne. Al centro del caso clinico c’è il medico che racconta generalmente la sua empatia nei confronti del paziente esaltando in tal modo l’umanità di entrambi. L’esempio più noto e amato dal pubblico internazionale è il neuropsichiatra Oliver Sacks il quale, in tutta la sua vasta produzione letteraria, ha sperimentato la fusione tra storie cliniche e autobiografia medica. Nell’ultimo libro, composto quando sapeva di avere i giorni contati, Sacks rivela la sua vita privata intrecciandola al racconto di altre storie cliniche. Pubblico e privato sono uniti in un’unica narrazione, a ribadire il nesso inscindibile tra il medico e l’uomo.44 Prive del pathos e dell’affettuosa ironia che improntano le storie cliniche di Sacks, quelle del celebre medico scrittore statunitense Atul Gawande mescolano le esperienze personali a quelle di altri colleghi allo scopo di mettere in luce le enormi difficoltà che i medici e il personale sanitario affrontano ogni giorno. Con cura è una sorta di decalogo della professione e una guida affinché i medici custodiscano la fiducia che la società ha riposto in loro e che nell’applicazione quotidiana delle loro competenze essi mettono a repentaglio «rischiando di tradirla».45 Fiducia, empatia e pietà sono il filo conduttore di Essere mortale, nel quale Gawande prende partito contro l’accanimento terapeutico e si fa paladino del compito che ogni medico deve svolgere per aiutare i pazienti ad affrontare una morte umana.46 Soprattutto interessato alla costruzione della propria immagine eroica, il chirurgo canadese James Maskalik racconta le sue esperienze di medico giramondo al seguito delle Ong. Il racconto si snoda attraverso il confronto tra l’esercizio della professione nella realtà di un pronto soccorso di Toronto e in Africa. In Canada i turni sono così massacranti da stravolgere i medici fino a farli odiare i pazienti: a forza di toccare gente senza essere toccati, ci chiudiamo come fiori che non vedono più il sole. È come se ci togliessero qualcosa di cui abbiamo bisogno […]. Ci sono troppe cose da fare, troppi pazienti in coda da visitare, e se nessuno ti dice mai quanto è importante lavorare sulla rabbia e sulla paura, tu 44. Oliver Sacks, Ogni cosa al suo posto (2019), Milano, Adelphi, 2019. 45. Atul Gawande, Con cura. Diario di un medico deciso a far meglio (2007), Torino, Einaudi, 2008, p. 138. 46.  Atul Gawande, Essere mortale. Come scegliere la propria vita fino in fondo (2014), Torino, Einaudi, 2016.

188

Maria Malatesta

rimandi e la frustrazione filtra in ogni aspetto del tuo essere, finché diventa impossibile rintracciarne l’origine.47

Al contrario le situazioni estreme che egli ha incontrato in Etiopia e in Sudan, la scarsità dei mezzi a disposizione per curare hanno avuto il potere di riumanizzarlo, riaccendendo in lui quello spirito filantropico andato totalmente perduto nella medicina occidentale post-moderna. Dal racconto di Maskalik trapela il medesimo fenomeno che abbiamo riscontrato nel dottor Sachs, ossia la dipendenza psicologica del medico dall’atto della cura. Le loro storie svelano una dimensione poco conosciuta dal pubblico, il fatto cioè che la professione medica possa trasformarsi in una vera e propria addiction, sia che si presenti nella forma estrema e adrenalinica tipica del chirurgo, che in quella più modesta e quotidiana svolta dal medico di medicina generale. 8. La parola dei pazienti e dei parenti L’irruzione dei pazienti e dei loro parenti è la vera rivoluzione che ha scosso il campo letterario nel XXI secolo. La loro presa della parola, frequentemente diretta, filtrata altre volte attraverso la scrittura professionale di letterari coinvolti nel set della malattia, costituisce la più significativa rottura epistemologica avvenuta all’interno delle narrazioni di medicina. Stimolato dagli operatori sanitari più aperti e culturalmente avvertiti, il racconto di malattia è da tempo considerato una forma di cura; ma il fiume di parole che esprimono il dolore, la paura, il disagio, le speranze di un malato e dei congiunti che lo seguono nel percorso di cura è anche il segno del mutamento antropologico avvenuto nei confronti della malattia e dei soggetti responsabili della cura e del riequilibrio del rapporto di potere all’interno della relazione medico/paziente. L’aumento della scolarità, la facilità dell’accesso alle informazioni, l’accresciuta consapevolezza dei diritti del malato, uniti alla diffusione dei sistemi sanitari universalistici, hanno dato ai pazienti la possibilità di negoziare con i medici e di raccontare la loro malattia, azioni impensabili ai tempi della medicina coloniale. Le voci dei pazienti e dei parenti, al pari di quelle dei medici, incontrano molto successo tra il pubblico, tanto che i libri che raccontano le 47. James Maskalik, Salvare una vita. La voce di un medico in prima linea (2017), Torino, Einaudi 2018, p. 81.

Fiducia e sfiducia: romanzieri, medici, pazienti e parenti raccontano

189

loro storie di malattia sono stati pubblicati, in Italia e all’estero, da editori prestigiosi. Un successo ancor maggiore lo hanno le storie messe in rete, con l’intento di costruire attorno a un’esperienza soggettiva, come l’essere affetti da una malattia, una comunità di condivisione. Oltre agli effetti terapeutici racchiusi nell’atto di costruire una storia e di raccontarla, i testi documentano il fatto che la malattia e il set della cura sono oggi vissute dai pazienti in una dimensione collettiva che le nuove forme di comunicazione contribuiscono a far emergere. Il punto di svolta di questa narrativa autobiografica e di testimonianza è stato L’anno del pensiero magico, il best-seller di Joan Didion, nel quale la scrittrice statunitense racconta il suo annus horribilis nel duplice ruolo di moglie che vede morire davanti ai suoi occhi il marito mentre l’unica figlia giace in coma in ospedale.48 Il racconto alterna flashback e riferimenti al presente, mescola bollettini medici alla cronaca dello sperdimento di una donna, intellettualmente super attrezzata, di fronte alla morte e alla malattia; la sua impotenza davanti al malfunzionamento del sistema sanitario statunitense, a causa del quale sottopone la figlia a un angosciante tour sanitario da un ospedale all’altro di Los Angeles, ma anche la volontà caparbia di contrastarlo. Acclamato anche dalla comunità medica, L’anno del pensiero magico è un documento eccezionale degli stati d’animo e delle alterazioni nella percezione del tempo a cui sono soggetti i congiunti dei malati. Pubblicato nel 2005, il libro ha ufficialmente sdoganato la voce di quelli che sono dall’altra parte della barricata. Anche l’autore di Con molta cura è un intellettuale. Severino Cesari fu l’inventore della collana «Stile libero» presso l’editore Einaudi che diresse per vent’anni con una grande capacità di talent-scout di autori italiani e stranieri. Le consonanze con Joan Didion finiscono però qui. Quella di Cesari è infatti la voce di un paziente terminale che si esprime negli ultimi due anni della sua malattia attraverso un diario affidato a un blog e che fu poi trasformato in volume poco prima della morte con l’eloquente sottotitolo, La vita, l’amore e la chemioterapia a km zero. Un diario 2015-2017.49 Nel blog Cesari travasò gli ultimi momenti di una malattia di antica data, alla quale resistette in modo eroico combattendo fino all’ultimo momento in difesa della vita. Il dialogo coi suoi molti lettori gli tenne compagnia e la scrittura fu un’altra forma di consolazione e di sostegno. Il diario della 48. Joan Didion, L’anno del pensiero magico (2005), Milano, Il Saggiatore, 2008. 49. Severino Cesari, Con molta cura, Milano, Rizzoli, 2017.

190

Maria Malatesta

malattia e dei tentativi di arginarla si alterna al diario letterario: ricordi di vecchie letture, osservazioni, recensioni sono il modo per mantenere viva l’identità di intellettuale preservandola intatta di fronte al vortice della malattia. Cesari mantiene fino all’ultimo istante una fiducia tanto incondizionata nei medici da rasentare l’ingenuità. Il libro è attraversato da continui apprezzamenti nei confronti delle strutture ospedaliere e del personale sanitario che lo hanno in cura, descritto a volte con tratti deamicisiani: qualche giorno dopo il trapianto, in degenza al Policlinico Adelphi, il mio Angelo salvatore venne nella mia stanza ancora col camice verde di un’altra operazione, si sedette sulla sponda del lettino e osservando le sue stesse esili, lunghe mani nervose abituate ai miracoli, ma lui non lo penserebbe mai, che trattasi di miracoli, mi raccontò una storia.50

I medici sono sempre disponibili, comunicativi e dialoganti, le infermiere degli angeli; anche il farmacista Salvatore, a cui Cesari chiede informazioni e consigli sulle medicine dai micidiali effetti collaterali che deve assumere, è pronto in ogni momento a sostenerlo nel calvario della cura.51 È come se da tanta dedizione e obbedienza alle prescrizioni, dalla gratitudine che il malato profonde nei confronti dei sanitari che si prendono cura di lui dovesse scaturire il premio della guarigione. Ovviamente così non è stato, ma la voce di Cesari, pubblicata post mortem, racchiude, al di là della commozione che suscita, un grande valore documentale e testimoniale. La presa della parola da parte dei medici, dei pazienti e dei parenti ha in conclusione anche un profondo significato letterario. Essa esprime infatti il superamento di quella funzione di mediazione nel processo della narrazione che storicamente è stata svolta dal romanziere e che oggi è scavalcata dal desiderio degli attori che animano il set sanitario di essere tutti ugualmente protagonisti dentro e fuori il processo di cura.

50. Ivi, p. 59. 51. Ivi, pp. 140-141.

Valentina Cappi Senza trucco o con l’inganno: la travagliata conquista della fiducia nelle serie tv ospedaliere

1. Introduzione Considerata una delle forze di sintesi più importanti in seno alla società,1 senza la quale non potremmo agire né interagire, precondizione di ogni comunicazione, scambio o transazione sociale, cemento invisibile delle relazioni sociali, la fiducia risulta essere, prima di tutto, «una costruzione fragilissima».2 Che la si definisca un’«anticipazione che orienta l’agire e l’esperire»3 o uno «stato intermedio tra conoscenza e ignoranza»,4 la fiducia si manifesta, nell’esperienza concreta di tutti noi, come un abbandono alla rappresentazione che abbiamo dell’altro.5 Provando a individuare le componenti cognitive, emotive e sociali che la compongono, in maniera trasversale alle teorie sociologiche che ne hanno tentato una definizione, potremmo concepirla come un’aspettativa (positiva) che, in mancanza di informazioni complete e nell’impossibilità di controllare le azioni altrui, ciascuno di noi si trova a dovere o volere riporre in una persona, in un’istituzione/organizzazione, in un sistema. Non un valore moralmente preferibile in assoluto, dunque, ma un meccanismo di assorbimento dell’incertezza, la cui preferibilità (rispetto alla 1. Georg Simmel, Sociologia, Torino, Edizioni di Comunità, 1998. 2.  Raffaele De Giorgi, Presentazione all’edizione italiana, in Niklas Luhmann, La fiducia, Bologna, il Mulino, 2002, p. XIX. 3. Ivi, p. XVIII. 4. Simmel, Sociologia, p. 299. 5. Louis Quéré, Confiance et engagement, in Les moments de la confiance: connaissance, affects et engagements, a cura di Albert Ogien e Louis Quéré, Paris, Economica, 2006, p. 118.

192

Valentina Cappi

sfiducia) si dispiega nella situazione6 e il cui riscontro può essere dato solo dal futuro. Non si vuole qui approdare a una ricostruzione delle dinamiche sociali che orientano la fiducia fra medici e pazienti in età contemporanea, quanto piuttosto rispondere all’invito di Ogien e Quéré7 a moltiplicare le descrizioni delle situazioni alla base del meccanismo fiduciario, nella speranza che da questa molteplicità possano emergere degli elementi utili a focalizzare quella che i due autori definiscono la struttura cognitiva della fiducia e che qui si preferisce intendere come la struttura intersoggettiva della stessa. Le interazioni fra medici e pazienti, in rapporto alla relazione di fiducia, saranno individuate in situazioni “virtuali”, ovvero nella rappresentazione mediale offerta negli ultimi tre decenni dai medical drama, le serie tv di ambientazione ospedaliera. Questi prodotti dell’intrattenimento televisivo ricostruiscono, infatti, un prezioso repertorio plastico di situazioni di fiducia, pose e posture del rapporto fiduciario tra medici e pazienti che, al pari dell’universo di comportamenti, valori e norme sociali che il genere di fiction mette in scena, possono essere intesi come «una rappresentazione verosimile – non vera e non falsa – della realtà: una rappresentazione con la quale sia possibile confrontare la propria esperienza individuale e sociale per scoprire, di volta in volta, quanto se ne discosta».8 2. Metodologia Per la selezione dei testi mediali da sottoporre ad analisi, all’interno del perimetro dettato dal genere del medical drama,9 si è fatto ricorso a 6. Si fa qui riferimento al concetto di “situazione”, per come esso è stato inteso da Harold Garfinkel, ovvero alla scena, assemblata localmente, dell’interazione tra una molteplicità di attori indipendenti. 7. Albert Ogien, Louis Quéré, Introduction, in Les moments de la confiance, p. 5. 8.  Gianni Losito, Il potere del pubblico: la fruizione di comunicazione di massa, Roma, Carocci, 2002, p. 108. 9. La scelta del medical drama come tipologia di fonte particolarmente significativa in relazione all’oggetto di questo capitolo è stata dettata da alcune considerazioni, ormai ampiamente accreditate nell’ambito di media e cultural studies, per le quali si rimanda a Valentina Cappi, Pazienti e medici oltre lo schermo. Elementi per un’etnografia dei medical dramas, Bologna, Bononia University Press, 2015.

Senza trucco o con l’inganno

193

un criterio di emblematicità.10 Il numero di medical drama prodotti e distribuiti in tutto il mondo dagli anni Novanta ad oggi, e la loro longevità (ovvero il numero di stagioni realizzate per ciascuna serie), ha imposto una selezione a più livelli. Dapprima, la selezione di alcuni medical rispetto ad altri nel panorama internazionale; in secondo luogo, la selezione di episodi specifici all’interno delle serie individuate. Si è scelto perciò di concentrare l’attenzione sull’episodio pilota (è così denominato il primo episodio in assoluto di una serie televisiva) dei seguenti medical drama: E.R. (NBC, 1994-2009), House M.D. (FOX, 2004-2012), Grey’s Anatomy (ABC, 2005-in corso), The Good Doctor (ABC, 2017-in corso), New Amsterdam (NBC, 2018-in corso), The Resident (FOX, 2018-in corso), La dottoressa Giò (Mediaset, 1997-1998 e 2019), Medicina generale (RAI, 2007-2010), La linea verticale (RAI, 2018). Il criterio di emblematicità che ha orientato la scelta di questo campione è dunque da rintracciare nella popolarità dei primi tre titoli, nel tentativo di innovazione del genere medical rappresentato delle tre produzioni americane più recenti e, infine, in tre produzioni italiane, sufficientemente diverse tra loro da restituire le molteplici facce della nostra serialità ospedaliera (rispettivamente, la serie tendente alla soap opera, la serie “ecumenica”, la serie d’autore). La scelta di focalizzare l’analisi sugli episodi pilota deriva, infine, da ragioni insieme pratiche e teoriche. La maggior parte dei medical drama selezionati è costituita da un numero elevatissimo di episodi. Sono serie che durano decenni, basti pensare a E.R., composta da 15 stagioni, o a Grey’s Anatomy, alla sua sedicesima stagione e ancora in produzione, o ancora a House M.D., costituita da 177 episodi. Ci troviamo di fronte a «oggetti abnormi, che sconfinano nel tempo e nello spazio», che si costituiscono «non più come testi “unici”, autoconclusi e finiti» e che vengono progettati come un «universo complesso, policentrico eppure coerente, capace di accogliere narrazioni virtualmente infinite».11 Di fronte a tali oggetti, sarebbe un’opera titanica (e probabilmente ridondante) interrogare, per ciascun episodio, le micro-interazioni tra medici e pazienti rappresentati, nel tentativo di ricostruire un catalogo quanto più esausti10. Francesco Casetti, Federico di Chio, Analisi della televisione, Milano, Bompiani, 1998, p. 200. 11. Claudio Bisoni, Veronica Innocenti, Guglielmo Pescatore, Il concetto di ecosistema e i media studies: un’introduzione, in Media Mutations, gli ecosistemi narrativi nello scenario mediale contemporaneo. Spazi, modelli, usi sociali, a cura di Claudio Bisoni e Veronica Innocenti, Modena, Mucchi Editore, 2013, p. 16.

194

Valentina Cappi

vo possibile delle rappresentazioni della fiducia. Se, per alcuni studiosi, queste estensioni del modello serializzato «inevitabilmente influenzano le pratiche discorsive attorno ai singoli episodi»,12 l’unità testuale costituita dall’episodio pilota di ciascuna serie, per le caratteristiche che elencheremo a breve, risponde efficacemente agli scopi dell’analisi che ci si prefigge in questo capitolo. In maniera apparentemente contradditoria, infatti, il pilot dimostra di essere l’episodio più “atipico” della serie ma anche quello che condensa ed estremizza i tratti salienti dell’intera narrazione: esso «non si limita ad anticiparne il sapore, ma ne potenzia decisamente i tratti».13 Ogni episodio successivo al pilota sarà quindi «un’estensione “genetica”, una graduale esplorazione delle circostanze, dei personaggi e dei temi in esso stabiliti […], allo stesso tempo uguale alla sua matrice ma – nel complesso – diverso».14 La puntata pilota ha infine lo scopo di insegnare allo spettatore come guardare una determinata serie, “appaesandolo” alle regole, alle strategie narrative e allo stile del racconto che sarà adottato in seguito.15 Poiché – come si è detto – l’interesse di questo studio è rivolto a identificare le “incarnazioni plastiche” della fiducia fra medici e pazienti a un livello “micro”, nelle interazioni verbali e non verbali tra personaggi, e nel loro rapporto con l’ambiente circostante, le unità di classificazione in cui gli episodi pilota sono stati scomposti sono scene e sequenze.16 La prospettiva utilizzata per l’analisi è di tipo fenomenologico: personaggi, azioni e trasformazioni vengono visti nelle loro manifestazioni concrete ed evidenti. In questo senso, il personaggio viene considerato una persona, cioè un individuo tendenzialmente reale, dotato di un profilo intellettivo ed emotivo, e di una gamma di comportamenti, reazioni e gesti. 12. Chiara Checcaglini, Ripensare l’episodio. Recap e recensioni nell’era del bingewatching, in «Mediascapes Journal», 6 (2016), p. 67. 13.  Daniela Cardini, Long Tv. Le serie televisive viste da vicino, Napoli, Edizioni Unicopli, 2017, p. 80. 14. Emiliano Chirchiano, Pilot, l’importanza della prima impressione, in «Mediascapes Journal», 6 (2016), pp. 80. 15. Jason Mittell, Complex Tv. Teoria e tecnica dello storytelling delle serie tv, Roma, Minimum Fax, 2017. 16. Per una definizione, si vedano le voci “Sequenza” e “Scena”, compilate da Michel Marie, in Enciclopedia del Cinema Treccani: https://www.treccani.it/enciclopedia/sequenza_(Enciclopedia-del-Cinema)/ e https://www.treccani.it/enciclopedia/scena_(Enciclopedia-del-Cinema)/ (ultima consultazione 10 ottobre 2020).

Senza trucco o con l’inganno

195

L’azione viene considerata un comportamento, cioè come un gesto attribuibile a una fonte concreta, precisa e circostanziabile.17

Tutto ciò, nella consapevolezza che, nella realtà come nella sua rappresentazione, le relazioni di fiducia tra medico e paziente vengono, molto spesso, negoziate implicitamente,18 e che, in generale, «fra attore e destinatario si stabiliscono vari tipi di relazioni a nessuna delle quali, di solito, può essere assegnato un unico ed esclusivo valore caratterizzante della condotta cerimoniale».19 3. Rischi, ruoli, relazioni: il contesto della fiducia fra medici e pazienti in età contemporanea Scrive Robert Wuthnow che ogni indagine attorno alla fiducia dovrebbe «prestare attenzione non solo al comportamento individuale degli attori ma anche alle norme e alle aspettative incorporate nel contesto sociale in cui questi attori agiscono».20 La fiducia, infatti, secondo Wuthnow, non concerne solo le relazioni diadiche tra individui e perciò non dipende esclusivamente dalle valutazioni che una persona formula rispetto a un’altra; dipende anche dalle supposizioni che emergono dal contesto in cui la relazione ha luogo, dalle aspettative derivanti dagli incontri precedenti che la persona ha avuto e dai criteri che si utilizzano per formulare giudizi, che sono culturalmente e storicamente determinati. Se allora, in generale, è abbastanza intuitivo che alcune condotte, come la sincerità, l’empatia, l’altruismo, la disponibilità, la competenza, l’onestà, l’affidabilità possano rappresentare, più che i loro opposti, delle “garanzie” per accordare fiducia a qualcuno,21 è pur vero che, nel caso specifico della fiducia che intercorre fra pazienti e medici, subentrano delle 17. Casetti, di Chio, Analisi della televisione, p. 227. 18. Helge Skirbekk, Anne-Lise Middelthon, Per Hjortdahl, Arnstein Finset, Mandates of Trust in the Doctor-Patient Relationship, in «Qualitative Health Research», 21 (2001), pp. 1182-1190. 19. Erwing Goffman, Il rituale dell’interazione, Bologna, il Mulino, 1971, p. 67. 20.  Robert Wuthnow, Trust as an Aspect of Social Structure. Explorations in Sociology, in Self, Social Structure and Beliefs, a cura di Jeffrey C. Alexander, Gary T. Marx e Christine L. Williams, Berkeley-Los Angeles, University of California Press, 2004, p. 146 (trad. nostra). 21. Ivi, p. 154.

196

Valentina Cappi

mediazioni, che rendono la fiducia nei professionisti dipendente anche, o soprattutto, dal modo in cui il ruolo di questi professionisti è strutturato nella società. È insomma molto probabile che la fiducia che accordiamo a un medico che incontriamo per la prima volta dipenda, in primo luogo, dal fatto che lo riconosciamo come l’“agente materiale” di una scienza – quella medica – e di un’istituzione – quella sanitaria – alla quale in questo momento storico, nella nostra società, generalmente attribuiamo fiducia (nel primo caso, la chiameremo fiducia sistemica; nel secondo, fiducia organizzativa o istituzionale), che legittimano socialmente ai nostri occhi il singolo professionista a metterci letteralmente le mani addosso. Accordiamo quindi fiducia a questo medico poiché è iscritto a un Ordine, dunque è un professionista ufficialmente riconosciuto, è assunto in una struttura che lo ha selezionato sulla base di certi prerequisiti, ha superato degli esami alla facoltà di Medicina che ne hanno verificato le competenze e via dicendo. Non ultimo, per il fatto che egli ci accoglie con un camice bianco, solitamente in un ambiente ordinato, pulito, che riconosciamo come il luogo adatto a una visita medica, che riporta degli attestati circa i suoi titoli professionali, e che è attorniato da collaboratori che, fino a prova contraria, a loro volta gli accordano quotidianamente fiducia. Se, come profani, siamo abituati a riconoscere il legame tra l’attore e l’istituzione per la quale egli opera prima di tutto attraverso l’abito, ovvero attraverso quell’uniforme che nel caso dei medici è rappresentata dal camice, nelle serie analizzate questo elemento distintivo viene spesso a cadere quando i medici si trovano a essere sorpresi, fuori dall’orario o luogo di lavoro, da un incidente che richiede la loro attenzione, quasi a testimoniare l’affidamento cieco (il confidare, direbbe Luhmann) che, in una situazione di emergenza, le persone sono disposte ad accordare a questo ruolo sociale. Sembra sufficiente la presenza di uno stetoscopio nella borsa, della tipica borsa da dottore, o nemmeno di questa, per far sì che un individuo qualunque, dicendo «sono un medico» e mostrando22 di sapere dove mettere le mani, possa intervenire sul corpo di un estraneo senza che nessuno gli chieda di identificarsi con un documento. Accade così nei primissimi minuti di La dottoressa Giò,23 quando la protagonista si ferma, 22. Sia Luhmann che Garfinkel attribuiscono un ruolo fondamentale, nel trasmettere una sensazione di fiducia, alla “disciplina espressiva” adottata dai professionisti sulla scena dell’interazione medico-paziente. 23. L’accusa, episodio 1, stagione 1 (1997) di La dottoressa Giò.

Senza trucco o con l’inganno

197

in borghese, con la propria auto, a tarda notte, su una strada periferica per prestare soccorso intorno a una vettura che ha appena avuto un incidente, o all’inizio di The Good Doctor,24 quando, in un aeroporto californiano, prima un medico di passaggio e poi il protagonista della serie, entrambi in abiti borghesi, accorrono per prestare primo soccorso a uno sfortunato viaggiatore. I singoli professionisti, dunque, sembrano godere di un capitale (o credito) di fiducia che si distribuisce su di loro a partire dal livello sistemico e organizzativo: «la nostra “fede” non riposa tanto in loro (pur dovendo fidarci della loro competenza) quanto nella validità del sapere esperto che essi applicano».25 Si capisce, dunque, che un’adeguata concettualizzazione della fiducia dovrebbe connettere il livello interpersonale di analisi con quello sistemico, considerando la fiducia come un meccanismo sociale che «non può essere pienamente compreso se studiato solo al livello psicologico o istituzionale, perché esso li permea entrambi».26 Solo così, secondo Misztal, è possibile capire come la costruzione di fiducia a un livello micro contribuisca a generare fiducia a un livello macro (ogni contatto soddisfacente con il nostro medico di famiglia, per esempio, può gradualmente accrescere la nostra fiducia nel sistema medico) e viceversa.27 Nell’attribuzione di fiducia, la “mediazione” costituita dal ruolo sociale del medico permette di introdurre un discorso fondamentale, che distingue la fiducia accordata al medico in età contemporanea da quella accordatagli in passato. Se, nelle culture premoderne, i “contesti localizzati di fiducia” che tendono a predominare, secondo Giddens, sono il sistema della parentela, la comunità locale, la cosmologia religiosa e la tradizione, nelle culture moderne, la fiducia – ora a pieno titolo descrivibile come “investimento a rischio” – si indirizza sempre più in princìpi impersonali,28 anonimi, astratti, in «sistemi di realizzazione tecnica o di competenza professionale che organizzano ampie aree negli ambienti materiali e sociali 24. Burnt Food, episodio 1, stagione 1 (2017) di The Good Doctor. 25. Anthony Giddens, Le conseguenze della modernità, Bologna, il Mulino, 1994, p. 37. 26. J. David Lewis, Andrew Weigert, Trust as a Social Reality, in «Social Forces», 63 (1985), p. 974. 27. Barbara A. Misztal, Trust in Modern Societies. The Search for the Bases of Social Order, Cambridge, Polity Press, 1996, p. 15. 28. Secondo Misztal, sarebbe proprio la complessa divisione del lavoro, tipica della modernità, a suscitare la necessità di economizzare sulla fiducia nelle persone, accordandola invece alle istituzioni e al loro sapere astratto.

198

Valentina Cappi

nei quali viviamo oggi».29 Ciò avviene a causa dell’intrecciarsi di alcuni fenomeni, propri della contemporaneità, evidenziati da Stzompka,30 che vanno dal passaggio da società basate sul fato o la fortuna a società basate sull’iniziativa umana (human agency), all’estrema interdipendenza e complessità raggiunta dalle istituzioni e dalla nostra organizzazione sociale. I professionisti della salute, al pari di altri professionisti, costituiscono, secondo Giddens, i “nodi di accesso” attraverso cui veniamo in contatto con questi sistemi astratti. Le relazioni di fiducia fra medici e pazienti rappresentano, in qualche modo, un sottoinsieme specifico all’interno delle più generalizzate relazioni di fiducia, non solo per le mediazioni già citate, che subentrano nella scelta di concedere fiducia a un rappresentante dell’istituzione sanitaria, ma perché questa relazione, più di altre, coinvolge tipicamente, per uno dei due attori implicati, un alto livello di vulnerabilità e di dipendenza, contraddistinto da sentimenti di ambivalenza, incertezza, ansia e senso di rischio.31 Lo metteva già bene in evidenza Parsons quando osservava che «la combinazione di incapacità di difesa, mancanza di competenza tecnica e disturbi emotivi fa del malato un oggetto particolarmente esposto allo sfruttamento».32 Se, da un lato, Parsons spiega perché il malato abbia buone ragioni per affidarsi al medico senza credere che questi si approfitterà del suo stato (essenzialmente per via del codice morale inscritto nel ruolo sociale), dall’altro, egli riconosce un pregiudizio ottimistico da parte del paziente, poiché «le risorse che il medico ha a disposizione per fare il proprio lavoro non sono certo completamente adeguate. Egli compie inevitabilmente degli errori, e questi possono avere talvolta conseguenze molto gravi».33 Si capiscono allora due elementi fondamentali della fiducia. Il fatto che essa si incentri sempre, in accordo con Luhmann, su un’alternativa critica «nella quale il danno risultante dal venir meno della fiducia può essere maggiore del beneficio ottenuto da una fiducia ben riposta»34 (diver29. Giddens, Le conseguenze della modernità, p. 37. 30. Piotr Sztompka, Trust. A Sociological Theory, Cambridge, Cambridge University Press, 2003. 31.  Deborah Lupton, Your Life in their Hands: Trust in the Medical Encounter, in Health and the Sociology of Emotions, a cura di Veronica James e Jonathan Gabe, Oxford, Blackwell, 1996, pp. 157-172. 32. Talcott Parsons, Il sistema sociale, Milano, Edizioni di Comunità, 1981, p. 454. 33. Ivi, p. 479. 34. Niklas Luhmann, La fiducia, Bologna, il Mulino, 2002, pp. 35-36.

Senza trucco o con l’inganno

199

samente ci troviamo di fronte a una semplice speranza). E il fatto che le basi della fiducia non possano essere la conoscenza o il calcolo razionale, poiché essa «non è controllo delle circostanze ma include un’accettazione emotiva e affettiva della dipendenza dagli altri».35 Sebbene, come abbiamo provato a sottolineare, la fiducia operi a diversi livelli, sostenuta da differenti meccanismi a livello interpersonale e sistemico, c’è anche chi considera, in una prospettiva più “immanente”, che la differenza tra fiducia interpersonale e fiducia sistemica non sia così stringente poiché, in fin dei conti, risalendo vari gradienti, la forma primordiale di fiducia sarebbe quella nelle persone e nelle loro azioni.36 Avendo rivolto la nostra analisi al livello “micro” delle interazioni interpersonali, per lo più diadiche, adotteremo anche noi questa prospettiva, pur consapevoli delle semplificazioni che essa comporta. 4. Ragioni per affidarsi, ragioni per dubitare Sono tre i fattori in base ai quali, secondo Sztompka,37 determiniamo l’affidabilità di una persona: reputazione, performance e apparenza. Tutti e tre questi fattori, a ben vedere, vengono tematizzati, all’interno delle serie considerate, come elementi della situazione che contribuiscono a orientare la fiducia che i pazienti accordano ai propri curanti. Sia per lo spettatore che per le persone che accedono per la prima volta, come pazienti, agli ospedali delle serie considerate, la reputazione di questo o quel medico si basa su informazioni di seconda mano, testimonianze, valutazioni o esperienze riportate da altri colleghi o saltuariamente affidate alla sfera pubblica. È così che in The Resident, la reputazione del dott. Conrad Hawkins viene affidata alle parole dell’infermiera Nevin, che, invitando gli specializzandi a non fidarsi delle apparenze, lo disegna come «un meccanico rozzo, maleducato e arrogante, che però stringe solo un bullone e con 5 dollari ti risolve il problema».38 Conosciamo il dottor Randolph Bell, primario di chirurgia del Chastain Park Hospital, nello stesso 35. Jack Barbalet, Social Emotions: Confidence, Trust and Loyalty, in «International Journal of Sociology and Social Policy», 16 (1996), p. 78 (trad. nostra). 36. Sztompka, Trust, p. 46. 37. Ivi, p. 71. 38. Pilot, episodio 1, stagione 1 (2018) di The Resident.

200

Valentina Cappi

episodio, attraverso una sua gigantografia, che campeggia su manifesti affissi a ogni angolo della città di Atlanta, appena sotto alla scritta “Committed to Excellence”. La reputazione dei medici del County Generale Hospital di Chicago, in E.R., è invece meno rassicurante: il dottor Ross viene presentato dalle infermiere come «uno che si riduce così», alticcio, «solo nelle sere libere»,39 e il dottor Greene come un marito inaffidabile che sfugge alle proprie responsabilità famigliari senza neanche rendersene conto. È la dottoressa Boschi, ne La linea verticale, ad anticipare le doti del professor Zamagna, il primario di chirurgia, come «diverso da tutti gli altri chirurghi», uno che «fa questo da sempre, da quando stava all’università e gli altri ragazzi andavano in vacanza e lui seguiva i chirurghi in sala operatoria».40 Più “umano” è il ritratto che il dottor Pogliani fa dell’infermiera Anna Morelli, caposala in Medicina generale, descrivendola come una che «arriva in ritardo il primo giorno, se ne sta a chiacchierare nell’atrio in orario di lavoro, soffre di una chiarissima sindrome extra-piramidale in fase di parcheggio, però in cinque minuti rimedia un defibrillatore».41 Un secondo elemento riconducibile agli aspetti reputazionali legati alla fiducia è il frequente riferimento all’aver conseguito la laurea in Medicina in prestigiose università. Se il titolo di studio è spesso chiamato in causa, in queste serie, come un indicatore necessario ma non sufficiente alla buona pratica della professione – che è più spesso ricondotta all’esperienza –, esso tuttavia viene utilizzato come evidenza dell’affidabilità del professionista agli occhi dei suoi clienti: «È tutto sotto controllo, siete in buone mani» dice Hawkins (ironicamente) a una paziente spaventata, che si affida per la prima volta allo specializzando Pradesh: «Lo sapete dove si è laureato? Se non sbaglio, a Harvard!».42 Anche in House M.D., quando la paziente, ormai sfiduciata, mette in discussione la competenza del dottor House, questi si difende dicendole: «Quando starà meglio le farò vedere le mie lauree».43 Non tutti però, si lasciano convincere dal foglio di carta: «Ma non c’è la dottoressa Basile oggi?», chiede allarmata alle infermiere la madre di una giovane paziente ne La dottoressa Giò. «Ci sono io oggi, 39. 24 Hours, episodio 1, stagione 1 (1994) di E.R. 40. Episodio 1, stagione 1 (2018) di La linea verticale. 41. La scelta di Anna, episodio 1, stagione 1 (2007) di Medicina generale. 42. Pilot, episodio 1, stagione 1 (2018) di The Resident. 43. Pilot, episodio 1, stagione 1 (2004) di House M.D.

Senza trucco o con l’inganno

201

ma non si preoccupi, anche io ho la laurea» risponde il dottor Nicotera. «Che sia chiaro, io assisto alla visita»,44 conclude la madre. Tra i primi suggerimenti che i medical drama sembrano avanzare in ordine all’affidabilità dei professionisti troviamo dunque quelli di non anticipare troppo la formulazione di un giudizio, basandolo sulla sola reputazione o su una laurea ottenuta in un’università di grande fama, e di distinguere il comportamento professionale da quello adottato nel privato. Gli esempi di affidabilità professionale che i medici rappresentati offrono attraverso la loro performance sono molteplici. In The Resident, dopo soli tre sintomi riportati da un collega, il dottor Hawkins riesce a fare una diagnosi che aveva messo in difficoltà molti suoi colleghi, e con una rapida occhiata ad alcune macchie sul polso di una paziente ne individua la causa. Shawn Murphy, lo specializzando protagonista di The Good Doctor, si presenta agli astanti fornendo a un suo superiore una lezione di anatomia: «sarebbe il punto giusto se fosse adulto», obietta al collega che sta cercando di prestare soccorso a un ragazzo vittima di incidente, «ma non è un adulto, è un bambino, quindi lei esercita pressione anche sulla trachea e al momento non sta respirando. Deve esercitare pressione un po’ più in alto».45 Ovviamente, seguendo il suo consiglio, il ragazzo ricomincerà a respirare. È, del resto, un tratto caratteristico di questi medical drama quello di presentare allo spettatore performance di alto livello da parte dei professionisti rappresentati, mostrandoli invece spesso inaffidabili nelle loro vite private. Un trend che inizia con E.R. e che viene emblematicamente riassunto nel dialogo che il dottor Wilson, nella serie House M.D., ha con una paziente che gli chiede se il dottor House è una brava persona. «Diciamo che è un bravo dottore», risponde Wilson. «Si possono scindere le due cose? Non dovresti avere a cuore la gente?», chiede la paziente. «Quella è un’ottima motivazione. Lui ne ha trovate altre»,46 conclude Wilson. Un terzo elemento che teniamo in considerazione per stimare l’affidabilità dei nostri simili è la loro apparenza. Come minuziosamente dettagliato da Sztompka,47 essa dipende da moltissimi fattori, alcuni dei quali hanno basi biologiche, come la fisionomia, l’età, il sesso, il colore della pelle, 44. L’accusa, episodio 1, stagione 1 (1997) di La dottoressa Giò. 45. Burnt Food, episodio 1, stagione 1 (2017) di The Good Doctor. 46. Pilot, episodio 1, stagione 1 (2004) di House M.D. 47. Sztompka, Trust, p. 79.

202

Valentina Cappi

altri hanno a che fare con la disciplina del corpo, ovvero la regolazione dell’intonazione, la postura, il peso, l’igiene personale, altri ancora inerenti al vestito e agli ornamenti, infine fattori che riguardano il rispetto delle buone maniere. Sono dettagli particolarmente indicativi per la nostra analisi quelli appena elencati, in particolare gli elementi ricollegabili all’età e all’appartenenza etnica, sulla quale pesano stereotipi e pregiudizi. In The Resident, lo spettatore impara a conoscere, in sequenza, Devon Pradesh, specializzando che ha tutta l’intenzione di fare una buona impressione al suo primo giorno di lavoro e perciò, oltre al camice e al badge di riconoscimento, indossa un completo, una cravatta e un costoso orologio che, nelle parole della fidanzata, fa parte della “divisa ufficiale”; il dottor Randolph Bell, primario di chirurgia, anch’egli in giacca e cravatta; e il dottor Conrad Hawkins, felpa con cappuccio e tatuaggi, al punto che lo specializzando, non ritenendo possibile che un medico possa apparire in quel modo, si rivolge a lui domandando: «Mi scusi, sa dove posso trovare il dott. Conrad Hawkins?».48 Hawkins, supervisore di Pradesh, inizia subito con le lezioni: «Togliti quella cravatta, non sei più a Harvard!»,49 rinfacciandogli che un bel camice bianco, lo stetoscopio e la penna luminosa fanno di lui solo uno sprovveduto che gioca al dottore, non un vero medico. L’impressione di sfiducia, riconducibile alla dimensione dell’apparenza, appare tematizzata, in queste serie, in relazione a due fattori predominanti: l’età e l’appartenenza etnica. In The Resident, una sequenza rivelatrice è quella in cui il dottor Bell va a fare visita a un paziente che ha fatto una grossa donazione in denaro all’ospedale. In maniera strategica, poiché vuole accaparrarsi l’operazione soffiandola alla più giovane e più affidabile collega, il dottor Bell suscita curiosità attorno al chirurgo che guiderà il robot nell’operazione di rimozione di un tumore alla prostata: «Hai visto il chirurgo, la dottoressa Okafor? È nigeriana». Vediamo il paziente annuire con una malcelata tensione in volto. «Ha un visto di studio, è una specializzanda di talento», continua il dottor Bell. «Come una specializzanda?», chiede preoccupato il paziente. «Sì, secondo anno, penso», precisa Bell. «Randolph, ho parlato con l’AD e ho fatto il tuo nome, ma ha detto che la dottoressa era il medico più indicato a rimuovere la prostata con il Tiziano. Io voglio te, sei tu 48. Pilot, episodio 1, stagione 1 (2018) di The Resident. 49. Ibidem.

Senza trucco o con l’inganno

203

il primario di chirurgia, non credi che io meriti il meglio?»50 conclude il paziente. Lo spettatore sa che il suo essere il primario di chirurgia non fa di Bell il medico di cui è opportuno fidarsi nella situazione contingente, per le ragioni che esamineremo più avanti; tuttavia, per il paziente, nonostante la buona reputazione della dottoressa Okafor, il fatto che sia una giovane nigeriana sembra costituire un problema. A rincarare la dose sul colore della pelle come catalizzatore di (s)fiducia è anche The Good Doctor: alla riunione del consiglio dell’ospedale, per arrivare a una decisione riguardo all’assunzione di un chirurgo affetto da sindrome di Asperger, il dottor Glassman invita i presenti a considerare solo le performance del candidato: «dovremmo assumerlo perché è qualificato e perché è diverso dagli altri. Quanto è passato da quando non volevamo assumere medici di colore? Quanto è passato da quando non volevamo medici donne in questo ospedale?».51 Anche il dottor Foreman, nel primo episodio di House M.D., fa un accenno alla stessa questione, riconoscendo che il colore della propria pelle non faciliterà la rischiosa missione che House gli ha assegnato. Egli chiede allora alla dottoressa Cameron di affiancarlo, poiché «quando forzi la porta di qualcuno, è meglio avere una donna bianca vicino».52 La giovane età dei curanti, tanto più se legata a una performance (o a una facciata) ancora goffa, va di pari passo con la percezione di sfiducia da parte dei pazienti anche nelle serie italiane. «Lei è molto giovane» osserva il protagonista de La linea verticale con visibile apprensione, una volta sedutosi alla scrivania del medico che lo ha preso in carico. «Ah sì, sono specializzato da meno di un mese», dichiara lui. «Complimenti, sarà alle sue prime visite», continua Luigi, sempre più preoccupato. «Pensi, questa è la mia prima visita», dichiara con un po’ di agitazione il medico. «Auguri, come si dice in questi casi»,53 esclama allora Luigi, prima di tutto a se stesso. La postura goffa tradisce comunque anche chi pratica la professione da più di 25 anni, come il dottor Kapoor in New Amsterdam, che, nel richiedere ulteriori esami per una paziente, è alla ricerca dei propri occhiali che, sotto gli occhi di tutti, stanno ben fermi sulla sua fronte. Il marito della paziente guarda allora preoccupato l’assistente del dottor Kapoor, che non sa come giustificare la goffaggine del proprio superiore, né ne condivide le 50. Ibidem. 51. Burnt Food, episodio 1, stagione 1 (2017) di The Good Doctor. 52. Pilot, episodio 1, stagione 1 (2004) di House M.D. 53. Episodio 1, stagione 1 (2018) di La linea verticale.

204

Valentina Cappi

decisioni e dunque di lì a breve andrà a riferire al primario che crede che Kapoor stia uccidendo la sua paziente.54 5. Quella complicata messa in scena della fiducia All’estremo opposto, rispetto alle manifestazioni di sfiducia, sono le situazioni in cui alcuni pazienti concedono fiducia cieca ai propri curanti. Troviamo una di queste in The Resident: il paziente di turno è croato, non parla e non capisce la lingua dei suoi curanti, che si affidano a un’app per riferirgli le azioni che ritengono di dover fare sul suo corpo. Il paziente sta per ricevere un’esplorazione rettale e, dalla posizione di spalle, nel letto in cui è ricoverato, non solo non chiede spiegazioni, ma non si volta nemmeno a guardare in faccia chi sta per mettergli le mani addosso. Non senza una certa ironia, aggiungerà persino «lui è il mio dottore preferito».55 Ancora, nonostante la goffaggine con cui l’apprendista dottor Carter, in E.R., sta cercando di inserire una flebo nel braccio di un paziente, all’esortazione «Non si muova, stia immobile, l’ago è in vena, cerchi di restare immobile»,56 assistiamo alla scena in cui il paziente, un omone sanguigno e fino a quel momento esagitato, si immobilizza con un braccio alzato in una posizione del tutto innaturale, come stregato dagli ordini del suo curante. Appare, d’altro canto, decisamente condizionata la fiducia che i medici dimostrano di accordare ai propri pazienti. Ne è un esempio la situazione in cui il dottor Chase, in House M.D., sta facendo una risonanza magnetica alla paziente, che gli riferisce di non sentirsi bene. Credendola solo suggestionabile, lui reagisce con un «abbia pazienza, cerchi di rilassarsi» e, pensandola addormentata, commenta: «sarà stata esausta»;57 invece la povera sventurata stava male davvero ed era nel frattempo collassata. Anche in Medicina generale un uomo, che da lì a poco avrà un infarto, arriva in reparto implorando: «non può essere solo una gastrite, sono sicuro, io non mi sono mai sentito così!», sentendosi però rispondere: «per le lamentele si rivolga al tribunale del malato, la accoglieranno a braccia aperte».58 In54. Pilot, episodio 1, stagione 1 (2018) di New Amsterdam. 55. Pilot, episodio 1, stagione 1 (2018) di The Resident. 56. 24 Hours, episodio 1, stagione 1 (1994) di E.R. 57. Pilot, episodio 1, stagione 1 (2004) di House M.D. 58. La scelta di Anna, episodio 1, stagione 1 (2007) di Medicina generale.

Senza trucco o con l’inganno

205

terverrà poi la tecnologia a certificare (con un elettrocardiogramma) che il malessere del paziente era reale e a rendere pericolosa la fiducia non accordata. Poche sono le aperte dichiarazioni di sfiducia nei confronti di pazienti, come quelle che possiamo rintracciare in House M.D. Il dottor House chiarisce subito la sua posizione: «La paziente è un medico? Non ho voglia di ascoltare bugie». Non credendo che la paziente racconti la verità sulla propria malattia, egli chiede al dottor Foreman di perquisirne la casa alla ricerca di muffa, osservando che «potrebbe avere una raffineria di oppio in cantina». «Ma è una maestra di scuola materna!», controbatte Foreman. «E se fossi un suo alunno mi fiderei ciecamente di lei!»,59 ribatte prontamente House. House solleva la questione della fiducia che alcuni ruoli sociali intrinsecamente portano con sé, dimostrando a Foreman, in un solo colpo, che è meglio non fidarsi non solo delle persone, ma anche del loro ruolo sociale e delle procedure che le istituzioni mettono in moto per controllare quei ruoli. Osservando un’inserviente del servizio mensa che si sfrega il naso che cola con i guanti che usa per servire il pasto ai suoi clienti, House chiarisce a Foreman il suo ragionamento: «L’ospedale dice che devi stare a casa se non ti senti bene e nel bagno trovi scritto di lavarti le mani dopo aver usato la toilette. Ma una persona che si pulisce il moccio del naso col guanto non deve avere tanto a cuore le condizioni igienico-sanitarie. Quindi, che dici, dovrei fidarmi di lei?».60 È molto raro, nelle serie analizzate, che i medici non facciano ricorso alla tecnologia per aiutarsi nella diagnosi e nella cura. Quella di “tecnologia”, del resto, è una categoria molto ampia, che nel suo senso più generale riguarda tutta la “cultura materiale” a disposizione degli ospedali, dalle flebo agli ecografi, dai fonendoscopi ai più innovativi robot per la microchirurgia. Nella routine, questa tecnologia viene utilizzata dai medici senza che essi si pongano il problema dell’affidabilità di questo o quello strumento, cui anzi si rivolgono alla ricerca di un’attendibilità superiore a quella che attribuiscono al racconto del paziente. È però interessante notare come alcune serie, in particolare House M.D. e The Resident, pongano l’attenzione sul fatto che, dietro al più raffinato e innovativo strumento tecnologico, ci sia sempre una mano umana, e questo non garantisca quindi totale infallibilità. Emblematico è, al riguardo, il primo episodio di The Resident, 59. Pilot, episodio 1, stagione 1 (2004) di House M.D. 60. Ibidem.

206

Valentina Cappi

in cui il dottor Bell organizza una dimostrazione pubblica degli utilizzi chirurgici resi possibili dal Tiziano, «la mano di Dio», presentandolo come un macchinario che può eseguire movimenti estremamente regolari e precisi, che le mani umane non possono compiere, «di fatto eliminando l’errore umano».61 Scopriremo ben presto che, a differenza di quanto credono i pazienti, il Tiziano non opera da solo, ma necessita di un pilota in carne e ossa estremamente esperto per funzionare. Diverso è il discorso per la serie House M.D., in cui il nostro protagonista sembra riporre fiducia quasi esclusivamente in se stesso, arrivando a mettere in dubbio persino i risultati di laboratorio. Alle prime battute del pilot, il dottor Wilson fa presente che «i tre markers per i tumori al cervello più frequenti sono negativi», ma House introduce subito il dubbio: «non mi fido di quel laboratorio, era meglio mandarlo a un liceale col kit del piccolo chimico»,62 convincendo anche i suoi allievi che «il laboratorio di Trenton può aver sbagliato l’analisi. Perché escluderlo? Se la gente mente, può anche sbagliare». Ancora, in The Good Doctor, assistiamo a una scena in cui la lettura che il dottor Murphy dà dell’elettrocardiogramma non è condivisa, poiché egli riesce a cogliere delle variazioni quasi impercettibili agli occhi dei suoi colleghi. Per mettere in discussione la lettura del giovane specializzando, viene introdotto un dubbio sulle condizioni in grado di alterare sia il funzionamento dello strumento che il suo corretto utilizzo, circoscrivendo così l’affidabilità della stessa tecnologia: «sta cercando di leggere un apparecchio di 20 anni fa mentre viaggiamo a 40 miglia all’ora».63 Un’altra tipologia di fiducia interpersonale rintracciabile in queste serie è quella rivolta ai colleghi, più spesso declinata in senso inter-professionale che intra-professionale e strettamente collegata alla fiducia che i professionisti ripongono in se stessi. Non sono poche, ad esempio, le manifestazioni di fiducia condizionata da parte degli infermieri nell’operato dei medici specializzandi, sui quali in qualche modo essi svolgono un ruolo di controllo, del tutto informale, in assenza di un medico strutturato. In Grey’s Anatomy, il dottor Karev si rivolge così all’infermiera di turno: «La 4B si è presa una polmonite post-operatoria, le dia degli antibiotici». «È sicuro che la diagnosi sia giusta?», chiede lei. «Non lo so, sono uno specializzando. 61. Pilot, episodio 1, stagione 1 (2018) di The Resident. 62. Pilot, episodio 1, stagione 1 (2004) di House M.D. 63. Burnt Food, episodio 1, stagione 1 (2017) di The Good Doctor.

Senza trucco o con l’inganno

207

Le do un’idea: faccia quattro anni di medicina e poi mi faccia sapere se la diagnosi è giusta. Respira male, ha la febbre, ha subìto un intervento: le dia degli antibiotici!».64 Come argomentato da Luhmann e Giddens, la fiducia negli altri, e più in generale nella continuità del mondo conosciuto (quella che il primo chiama “confidenza” e il secondo “sicurezza ontologica”) trova nella fiducia in se stessi un vero e proprio elemento precursore. «Io non mi sento per niente tranquilla ad avere a che fare con una persona che il primo giorno di lavoro arriva con mezz’ora di ritardo», commenta la dottoressa Boschi riguardo alla condotta dell’infermiera Morelli, in Medicina generale. «Tu non saresti stata tranquilla nemmeno se fosse arrivata con un anticipo di 6 ore»,65 le fa notare il dottor Bergamini, mettendo in evidenza la sua più diffusa insicurezza. È lo stesso Bergamini, con un colpo di teatro, a tentare di convincere il padre di un paziente, anch’egli medico, a fidarsi dell’équipe del suo reparto più che di se stesso: «Io sono esattamente come te: quando le mie figlie stanno male mi dimentico di essere un medico e per questo le faccio curare agli altri. È molto meglio per me e anche per loro. Stai tranquillo, abbi fiducia e torna da lui con affetto». «Belle le tue parole, quello che hai detto sulle tue figlie, che non le curi tu…», commenterà poco dopo la dottoressa Boschi. «Gabriella, sono balle, le mie figlie le ho sempre curate io. E sai perché? Perché non mi fido di nessuno, soprattutto di certi medici»,66 ammette Bergamini. In Grey’s Anatomy assistiamo continuamente a una concessione di fiducia “vigilata” da parte dei medici strutturati agli specializzandi, che si configura come una vera e propria scommessa. O’Malley viene scelto come lo specializzando che per primo affiancherà un chirurgo strutturato in sala operatoria. I suoi colleghi non gli accordano la stessa fiducia che gli ha concesso il suo mentore: «Quello sviene, è uno che sviene, cola sudore freddo!», «10 dollari che sbaglia l’intervento», «Ne scommetto 15 che piange», «Ne scommetto 20 sul crollo di nervi»,67 rilanciano i suoi pari. In The Resident, Pradesh chiede due volte il bisturi all’infermiera, per svolgere una procedura urgente che però lo specializzando non ha mai tentato prima. Lei lo guarda preoccupata ed esita a darglielo, finché arriva il suo 64. A Hard Day’s Night, episodio 1, stagione 1 (2005) di Grey’s Anatomy. 65. La scelta di Anna, episodio 1, stagione 1 (2007) di Medicina generale. 66. Ibidem. 67. A Hard Day’s Night, episodio 1, stagione 1 (2005) di Grey’s Anatomy.

208

Valentina Cappi

superiore che le dice di procedere. A quel punto Pradesh ha un’esitazione e suggerisce a Hawkins che sarebbe meglio se lo facesse lui: «E allora perché sei qui? La missione, l’università, la scuola di medicina… era uno scherzo? Avanti, fai il medico oppure cambia mestiere!»,68 risponde il dottore. Iniziamo a intravedere come la caratteristica fondamentale che contraddistingue l’identità professionale del medico sia l’assunzione di un rischio. Vi è un movimento oscillatorio tra le serie in cui la fiducia in se stessi conduce a ottimi risultati (House M.D., The Good Doctor, che non a caso mettono in scena due professionisti con capacità diagnostiche fuori dal normale), serie in cui conduce a risultati devastanti (The Resident, quando la fiducia in se stessi si trasforma in hybris e sfugge di mano) e serie in cui essa, da sola, non è un valore (E.R., che non a caso fa della dimensione corale del team di professionisti il suo punto di forza). Un elemento cruciale nella costruzione e nel mantenimento di una rappresentazione69 che trasmetta fiducia è quella che Goffman chiama “facciata”,70 costituita, a livello di facciata personale, dall’intreccio di apparenza e maniera. A determinati ruoli sociali, come nel caso dei professionisti della salute, generalmente è già assegnata una particolare facciata. Inoltre, nei “nodi di accesso”, viene quasi sempre preservata una netta divisione tra prestazioni “in scena” e prestazioni “di retroscena”, al punto che «il fatto di padroneggiare il labile confine tra scena e retroscena fa parte dell’essenza stessa della professionalità».71 D’altra parte, come ben evidenzia Giddens, i pazienti non nutrirebbero la stessa incondizionata fiducia nel personale medico se conoscessero bene gli errori che vengono commessi negli ambulatori e nelle sale chirurgiche. […] Non vi è abilità tanto esercitata né forma di sapere esperto tanto vasta da escludere ogni possibile elemento di rischio o di fortuna.72 68. Pilot, episodio 1, stagione 1 (2018) di The Resident. 69. Ci si riferisce qui a “rappresentazione” per indicare «tutta quell’attività di un individuo che si svolge durante un periodo caratterizzato dalla sua continua presenza dinanzi a un particolare gruppo di osservatori e tale da avere una certa influenza su di essi» (Erwing Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Bologna, il Mulino, 2002, p. 33). 70. Goffman classifica come “facciata” quella «parte della rappresentazione dell’individuo che di regola funziona in maniera fissa e generalizzata allo scopo di definire la situazione per quanti la stanno osservando» (ibidem). 71. Giddens, Le conseguenze della modernità, p. 91. 72. Ibidem.

Senza trucco o con l’inganno

209

L’inizio del pilot di The Resident si configura come un trattato di sociologia, svelando scena e retroscena non solo della rappresentazione che vede come parte di un’équipe il personale sanitario e come spettatore il paziente, ma anche della rappresentazione che vede i medici più alti in grado prendere parte a un’équipe più “esclusiva” di quella a cui partecipano specializzandi e infermieri. In una sala operatoria iper-accessoriata e tecnologica, durante un intervento chirurgico di routine, gli assistenti del dottor Bell vogliono farsi una fotografia, approfittando del fatto che il paziente sta dormendo e dunque «non lo saprà mai». «Questa condotta è inappropriata, tornate in postazione», intima il primario. Passano pochi secondi, Bell ha un tremore alla mano con cui regge il bisturi, gli assistenti sono fuori postazione e il paziente inizia a risvegliarsi dall’anestesia. In meno di un minuto lo ritroviamo morto con un’arteria recisa per errore. Dopo un momento di choc, il dottor Bell dice ai colleghi: «Credo che siamo tutti d’accordo, un’overdose di sevoflurano ha determinato questo sfortunato incidente». «Come sarebbe? Sta scherzando vero?», controbatte il dottor Chu. «Il paziente si è svegliato e mi ha colpito un braccio», «No è stato lei con il bisturi a recidere l’arteria, l’abbiamo visto tutti». Iniziano una serie di recriminazioni e ricatti reciproci, finché Bell tuona a tutti i presenti: «Sono il primario di chirurgia e lui [riferendosi a Chu] sta lavorando da trenta ore: che cosa avete visto?». Con voce tremante, l’infermiera di turno tenta di riprendere il controllo della scena: «In fondo siamo tutti parte di un’equipe, giusto? Potrebbe avere avuto un infarto…»,73 ricostruendo una definizione della situazione assolutamente falsa ma, tutto sommato, conveniente a tutti i presenti. Ignari dei suoi errori e in mancanza di un’informazione completa, i pazienti continueranno ad affidarsi al dottor Bell, nonostante, come ribadirà più avanti nel corso dell’episodio l’infermiera Nevin, tutti i colleghi siano a conoscenza del fatto che egli «ha seri problemi in sala operatoria».74 Notiamo in questa scena un esempio perfetto di quella che Goffman chiama “équipe di rappresentazione”, ovvero un complesso di individui che collaborano per mantenere una certa definizione della situazione e che «sono obbligati a definirsi gli uni gli altri come persone messe a parte del “segreto”, cioè davanti alle quali non si può mantenere quella particolare 73. Pilot, episodio 1, stagione 1 (2018) di The Resident. 74. Ibidem.

210

Valentina Cappi

facciata».75 Assistiamo, nel momento dell’errore, a un parapiglia in cui coloro che fino a un momento prima erano parte della “scena”, tentano strategicamente di rappresentarsi come spettatori del retroscena. È allora che, infranto in maniera irrecuperabile il vincolo della fiducia, il dottor Bell, col ricatto, impone ai colleghi una ricostruzione menzognera della rappresentazione d’équipe appena avvenuta. 6. Un’insicurezza (in)sostenibile Alla luce di quanto evidenziato sull’apparenza, la reputazione e la facciata dei medici rappresentati, il criterio più solido, sul quale basare la fiducia in essi, sembra essere la dimensione della performance, una performance che nei suoi singoli atti non è in grado di essere valutata dai profani, ma che viene verificata, come in qualsiasi circostanza di malattia, ex post. Infatti, come scrive De Giorgi, la conferma della validità dell’orientamento alla fiducia può essere reperita solo nella dimensione temporale, l’accertamento dell’opportunità può essere dato solo dal futuro. La funzione della fiducia, infatti, si dispiega nella tensione fra presente e futuro. In questa tensione si proietta nel presente il dramma dell’incertezza e il rischio del non sapere. Il sapere, infatti, esclude il rischio e rende inutile la fiducia. Il non sapere, invece, impone al singolo, al sistema personale o sociale, la necessità di reperire un dispositivo di assorbimento dell’incertezza che rischia di paralizzare l’agire.76

La dimensione del non sapere non riguarda però solo il profano; essa investe anche il professionista. Quando il medico, nelle serie considerate, dichiara il proprio non sapere, la propria – anche solo temporanea – incapacità a comprendere la malattia, produce un effetto istantaneo sul paziente, che si ritrova sfiduciato o in preda all’angoscia. «Aveva detto che si trattava di un attacco epilettico, ora dice che non è così?» chiedono i genitori di una paziente al dottor Shepherd in Grey’s Anatomy. «Sto dicendo che non lo so», precisa lui. «Cosa crede che sia?», incalza la donna. «Non lo so», ribadisce il dottor Shepherd. «E quando lo saprà?», vogliono sapere i genitori. «Non so darvi una risposta…». «Aspetti un attimo dottore: siamo 75. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, p. 101. 76. De Giorgi, Presentazione all’edizione italiana, p. XVII.

Senza trucco o con l’inganno

211

venuti qui perché questo dovrebbe essere il migliore ospedale dello stato di Washington, lì dentro c’è mia figlia, mia figlia, e lei ha il coraggio di stare lì e dirmi non lo so?», chiede incredula e angosciata la madre della paziente, «Voglio qualcun altro, un medico che sappia quello che fa, mi trovi qualcun altro, qualcuno che sia più bravo di lei».77 L’attesa di una diagnosi, che tarda ad arrivare, o che si è mostrata inesatta e va rettificata, è una delle questioni che forse più vanno al cuore del meccanismo fiduciario, poiché richiedono sia al medico che al paziente di confrontarsi con gli elementi del rischio e della temporalità, costitutivi della fiducia. Quando la richiesta del paziente di un’indicazione o di un’informazione certa si scontra con l’impossibilità, da parte del medico, di fornire risposte definitive, il paradosso dell’informazione, proprio del meccanismo fiduciario, si manifesta in tutta la sua potenza, poiché la fiducia «necessita di una mancanza di informazione (allorché una condotta futura è certa, è inutile parlare di fiducia)».78 Così, in E.R., la dottoressa Susan Lewis, alle prese con un paziente che crede gli si stia nascondendo una diagnosi infausta, viene incalzata: «È così difficile dirmi come stanno le cose?». «Signor Parker, una cosa si impara facendo il mio mestiere: che non c’è mai niente di sicuro. Per quanto brutto possa sembrare, per quanto bello possa sembrare, non c’è mai niente di sicuro, niente»,79 risponde lei. La stessa richiesta di certezze è mostrata nelle serie italiane: «un passo alla volta, prima vediamo come va l’intervento», dice il dottor Policari in La linea verticale. «Ma perché non mi dice niente?» chiede la moglie del paziente. «Perché io non so niente»,80 conclude il medico. Ancora, ne La dottoressa Giò, è il primario dell’ospedale a rivolgersi così alla madre di una paziente: «Non le posso dire altro. Il coma? Chi lo può dire? Se lei è una credente, preghi; se non è credente, speri o bestemmi. Non ci resta altro che aspettare».81 La questione del rischio e dell’impossibilità di offrire certezze ai pazienti non è solo sintetizzata dal dottor House quando afferma che «i pazienti pretendono sempre delle prove ma questa non è una fabbrica di au77. A Hard Day’s Night, episodio 1, stagione 1 (2005) di Grey’s Anatomy. 78. Bart Nooteboom, Apprendre à faire confiance, in Les moments de la confiance, p. 63 (trad. nostra). 79. 24 Hours, episodio 1, stagione 1 (1994) di E.R. 80. Episodio 1, stagione 1 (2018) di La linea verticale. 81. L’accusa, episodio 1, stagione 1 (1997) di La dottoressa Giò.

212

Valentina Cappi

tomobili che rilascia garanzie»;82 essa è ben esemplificata anche nel pilot di Grey’s Anatomy, allorché il dott. Burke spiega al paziente l’intervento che deve compiere: «La attacco a una macchina che pompa il sangue al posto del suo cuore, glielo aggiusto, la stacco dalla macchina ed è fatta, intervento semplice». «Quindi non mi devo preoccupare?», domanda tra l’ironico e il preoccupato il paziente. «Sono molto bravo nel mio lavoro. Ma è sempre un intervento: ci sono dei rischi»,83 puntualizza Burke, ricordando che, in fin dei conti, la fiducia si fonda su un’illusione, poiché «nella realtà dei fatti noi abbiamo a disposizione una quantità di informazioni minore di quelle che sarebbero necessarie per avere la garanzia di portare a compimento un’azione con successo».84 7. Un rischio troppo grosso: dalla tutela della fiducia alla tutela della sfiducia Emerge in maniera marcata, nei medical drama considerati, il fatto che praticare la professione medica significhi assumersi costantemente dei rischi. La disponibilità all’assunzione di questi rischi non ha solo a che fare con la fiducia o la sicurezza in se stessi, ma anche con la fiducia nell’arte/ scienza che si pratica e nel fatto che l’organizzazione nella quale si opera funzionerà come deve. Osservando in prospettiva storica le serie considerate, si può intravedere come l’assunzione del rischio, da parte dei professionisti, appaia via via più regolamentata attraverso accordi legali. In E.R., sull’onda delle emergenze che si presentano in pronto soccorso, assistiamo costantemente alla disponibilità quasi irriflessa ad assumersi rischi di ogni genere, per esempio infrangendo il rispetto dei confini della propria specializzazione o del proprio ruolo, allo scopo di prestare tempestivo soccorso alle persone bisognose. È così che il dottor Ross, che è pediatra, si prodiga a visitare un’anziana che vomita sangue riferendo all’infermiera di turno «provveda alla trasfusione di quattro unità di zero negativo immediatamente e dica al dottor Benton di venire subito qui, sono pur sempre un povero pediatra»;85 il dottor Carter, dopo aver dichiarato di non saper ancora 82. Pilot, episodio 1, stagione 1 (2004) di House M.D. 83. A Hard Day’s Night, episodio 1, stagione 1 (2005) di Grey’s Anatomy. 84. Luhmann, La fiducia, p. 49. 85. 24 Hours, episodio 1, stagione 1 (1994) di E.R.

Senza trucco o con l’inganno

213

fare suture, si ritrova nella sua prima giornata di lavoro a farne a bizzeffe, per permettere che la macchina ospedaliera non si inceppi; infine il dottor Benton rischia la carriera per operare, senza l’assenso di un suo superiore, un aneurisma addominale, perché il tempo è tiranno e i chirurghi strutturati sono in quel momento impossibilitati a intervenire. In Grey’s Anatomy, almeno nel pilot, gli specializzandi sono già più timidi nell’assumersi dei rischi, e con essi, le responsabilità: assistiamo infatti alla dottoressa Grey, che di fronte alle domande dei genitori della sua paziente, alle quali non sa dare risposta, indietreggia, letteralmente, prima affermando di non essere un medico (quindi dichiarandosi legittimamente sollevata dall’assumersi il rischio) e poi precisando di non essere “il suo medico”, esternalizzando in ogni caso l’assunzione di responsabilità. Quando non è possibile riversarla su un proprio collega, l’assunzione del rischio viene delegata a un accordo legale. In The Good Doctor, la dottoressa Browne tenta di conquistare, con pazienza, ascolto e parole di conforto, la fiducia di un paziente che vorrebbe chiedere un secondo parere. Non serve a nulla che Browne ricordi al suo superiore quei «diciassette studi che dimostrano una correlazione tra approccio [del medico] ed esito nei pazienti chirurgici», ribadendo la necessità di ottenere, prima del consenso, la fiducia del paziente. Per Melendez, primario di chirurgia, il consenso va strappato a forza e intima perciò a un altro specializzando di ottenere il modulo firmato dal paziente con ogni mezzo disponibile. Questi lo convince «indicando il modulo che menziona i rischi di morte e di invalidità permanente per le dimissioni contro il parere medico».86 Si intuisce come, da un lato, l’indisponibilità del medico ad assumere su di sé il rischio dell’operazione e, dall’altro, l’indecisione impaurita del paziente ad affidarsi al professionista, conducano entrambi a delegare a un accordo legale il nulla osta a procedere, rendendo superflua la concessione di fiducia. Dopotutto, «la fiducia può essere promessa e può essere guadagnata, ma non può essere imposta».87 Avviene insomma una sostituzione della fiducia col diritto, cosicché, di fronte al rischio di una fiducia mal riposta, si decide di bypassare il problema ricorrendo alla via contrattuale: Con l’istituzione legale del contratto basato sulle dichiarazioni di volontà delle due parti il principio della fiducia viene riformulato in termini giuridici, il che lo rende talmente autonomo che diventa impossibile che la fiducia 86. Burnt Food, episodio 1, stagione 1 (2017) di The Good Doctor. 87. Jethro K. Liberman, The Litigious Society, New York, Basic Books, 1981, p. 34.

214

Valentina Cappi

svolga un ruolo come condizione di fatto o come fondamento della validità di un contratto.88

Attraverso questo meccanismo, si arriva gradualmente a una tutela della sfiducia: «Saremo persone migliori se spenderemo di più per l’assicurazione professionale», commenta con superiorità il dottor Andrews in The Good Doctor. «Beh io vorrei tanto farla felice, assumere qualcuno che non commetterà mai un errore, ma sfortunatamente Dio è già impegnato»,89 gli fa presente il dottor Glassman. Sulla stessa questione, House M.D. ci fornisce una riflessione ancora più elaborata. La dottoressa Cuddy non vuole che House somministri degli steroidi a una paziente basandosi solamente su “supposizioni”. L’assunzione di questo rischio, per la direttrice dell’ospedale, equivale in qualche modo a una sperimentazione troppo ardita sulla pelle della paziente ed è la paziente stessa che, dopo vari tentativi di diagnosi dimostratisi inesatti, «rifiuta ulteriori cure e non vuole fare esperimenti. Vuole solo andare a casa sua a morire». House, col tipico cinismo che lo contraddistingue, la provoca: «non voglio fare esperimenti, spero di guarirla, ma capisco che davanti al dubbio è meglio morire».90 È lo stesso medico, in questo caso, a mettere la paziente di fronte al fatto che la sfiducia talvolta comporta rischi ben maggiori della fiducia. E se il dottor House è disposto ad assumersi persino il rischio di far morire la paziente pur di dimostrare che ha trovato una cura, spostando la questione della fiducia a una vera e propria scommessa con se stesso, ancora una volta, di fronte alla difficile conquista della fiducia della paziente, il dottor Foreman propone di affidarsi a un soggetto terzo per dirimere la questione: «potremmo rivolgerci al tribunale del malato perché la dichiari incapace di decidere per se stessa».91 New Amsterdam mette in scena una situazione omologa, quella di un paziente che vuole essere dimesso contro il parere del suo medico curante. Si rivolge quindi al dottor Goodwin, primario del reparto, che finge di controllare la sua cartella clinica prendendo in prestito dal banco dell’accettazione il menu di un ristorante e promette di dimetterlo, a patto che egli tenga sotto controllo «ogni singolo sintomo di letargia, infarto, collasso, nonché naturalmente di emorragia rettale». «Forse resterò»,92 ribatte a quel punto il 88. Luhmann, La fiducia, p. 52. 89. Burnt Food, episodio 1, stagione 1 (2017) di The Good Doctor. 90. Pilot, episodio 1, stagione 1 (2004) di House M.D. 91. Ibidem. 92. Pilot, episodio 1, stagione 1 (2018) di New Amsterdam.

Senza trucco o con l’inganno

215

paziente. Messo con un escamotage di fronte ai rischi che comporterebbe la sua sfiducia, egli decide, senza ulteriori resistenze, di rientrare diligentemente nella sua stanza. Anche in Italia la questione non passa in secondo piano. Lo spiega così il dottor Policari al protagonista de La linea verticale: allora, questo è il consenso informato, ossia un foglio con tutti i pericoli che corri subendo un intervento, la cui responsabilità ti assumi interamente. In modo che i medici lavorino con la fantasia che credono. […] Si lasci dare un consiglio, che magari le sembrerà un po’ paradossale: non lo legga il consenso informato, se lo lasci leggere da qualcuno vicino, poi lo firma e me lo fa avere.93

Il dottor Policari, nella sua naïveté, riconosce il peso troppo grosso che il malato dovrebbe assumersi se davvero la sua firma sul consenso informato fosse l’equivalente di una concessione di fiducia. 8. Conclusioni Come sosteneva Luhmann, si può considerare la decisione di recarsi dal medico come il confidare inevitabile nel sistema sanitario o come una scelta rischiosa. Queste condizioni non sono date a priori ma mutano nel corso dell’evoluzione sociale.94 I medical drama mettono in scena l’uno e l’altro atteggiamento, restituendo però una generale disposizione delle persone a confidare nel sistema sanitario e dunque a non prendere in considerazione alternative di fronte alla necessità/scelta di curarsi. In E.R., serie degli anni Novanta, la fiducia dei pazienti sembra alimentata dal confidare dei medici nel sistema in cui essi operano, nonostante tutti i suoi limiti, e dalla fiducia che essi hanno in se stessi e nei propri colleghi. Il primo decennio degli anni Duemila segna un momento di transizione per la rappresentazione della fiducia: di fronte all’incalzante burocratizzazione del sistema della cura, si assiste da una parte a un ripiegamento sulla fiducia in se stessi da parte dei medici (è il caso di House M.D.), dall’altra a una frammentazione della presa in carico del paziente e 93. Episodio 1, stagione 1 (2018) di La linea verticale. 94. Niklas Luhmann, Familiarità, confidare e fiducia: problemi e alternative, in Le strategie della fiducia: indagini sulla razionalità della cooperazione, a cura di Diego Gambetta, Torino, Einaudi, 1997, pp. 123-137.

216

Valentina Cappi

a una dispersione delle responsabilità (come in Grey’s Anatomy). In questa fase, più di un medico utilizza, a fin di bene, “il trucco e l’inganno” per conquistare la fiducia dei propri pazienti. I fantasiosi stratagemmi che i professionisti delle serie appena citate mostravano di riservare alla “cattura” della fiducia del paziente iniziano a sbiadire all’alba del secondo decennio dei Duemila: tempi sempre più frenetici di gestione dei ricoveri e l’iper-specializzazione della medicina producono incomunicabilità a vari livelli. Ne sono un esempio The Good Doctor e La linea verticale. La fiducia è ora messa in discussione dai professionisti stessi, che si sentono attori di un “sistema malato”, in cui i direttori di reparto vengono presentati come «una manica di corrotti e lavativi» (New Amsterdam) e gli errori medici «sono la terza causa di morte negli Stati Uniti, dopo il cancro e le patologie cardiache, ma nessuno affronta l’argomento»,95 come dichiara il dottor Hawkins in The Resident.96 Accade così che la fiducia dei pazienti nei propri curanti (e viceversa) arrivi a essere rappresentata come superflua e diventi invece prioritaria la conquista del consenso (non necessariamente informato), su basi puramente giuridiche e non più relazionali. In questa organizzazione della cura sempre più complessa, in cui è impossibile governare personalmente i processi, confidare risulta necessario, mentre concedere o guadagnarsi fiducia non lo è più.97 Le serie più recenti (New Amsterdam e The Resident), tuttavia, sembrano voler riabilitare l’importanza della fiducia interpersonale tra medici e pazienti, con la disillusa consapevolezza che l’elemento umano sia l’unica salvezza, e insieme la fragilità, di tutto il sistema.

95. Pilot, episodio 1, stagione 1 (2018) di The Resident. 96. Per un approfondimento sulla rappresentazione degli errori medici nella serie The Resident, si veda Irene Cambra Badii, Josep-Eladi Baños, A walk on the wild side of medicine: a review of The Resident, in «Educational Reflective Practices», 2 (2018), pp. 52-65. 97. Luhmann, Familiarità, confidare e fiducia, p. 133.

Gli autori

Maria Luisa Betri ha insegnato Storia del Risorgimento e Storia delle donne e dell’identità di genere nell’Università degli studi di Milano. Ha studiato aspetti e problemi di storia della società italiana fra Ottocento e Novecento, e, più recentemente, modalità delle forme primarie di scrittura (lettere, epistolari, carteggi, memorie), in particolare femminili. È membro del comitato scientifico di alcuni periodici e di istituti di ricerca storica. Emmanuel Betta insegna Storia contemporanea al Dipartimento di Storia Antropologia Religioni Arte Spettacolo de La Sapienza - Università di Roma. È condirettore di «Contemporanea» e membro della direzione di «Quaderni storici». Si è occupato di storia della biopolitica, di medicina e religione, di violenza politica e del rapporto tra digitale e ricerca storica. Tra le sue pubblicazioni: Animare la vita. Disciplina della nascita tra medicina e morale, Bologna, il Mulino, 2006; L’altra genesi. Storia della fecondazione artificiale, Roma, Carocci, 2012. Valentina Cappi, già assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, è attualmente assegnista preso il Dipartimento di Sociologia e Diritto dell’Economia della stessa università. Si occupa di ricerca sociale sui temi della salute, della medicina e dell’organizzazione della cura. Attualmente studia le dinamiche che in età contemporanea hanno prodotto cambiamenti nella pratica quotidiana della professione medica, con particolare riguardo all’impatto dei media in campo sanitario. Ha pubblicato il volume Pazienti e medici oltre lo schermo. Elementi per un’etnografia dei medical dramas, Bologna, Bononia University Press, 2015. Maria Conforti insegna Storia della medicina presso l’Unità di Storia della medicina e bioetica del Dipartimento di Medicina molecolare della Sapienza - Università di Roma, ove dirige il Museo di Storia della medicina. È Editor in Chief di «Nuncius». Ha lavorato sulla storia intellettuale e sulla storia della scienza e

218

L’invenzione della fiducia

della medicina in Italia in età moderna, con particolare riguardo alla storia della comunicazione scientifica e alla medicina pratica. Si è inoltre occupata di storiografia della medicina tra il Seicento e il Novecento.  Tommaso Duranti insegna Storia medievale presso il Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Alma Mater Studiorum - Università di Bologna. I suoi studi riguardano le istituzioni politiche bassomedievali e la storia della medicina universitaria e della professione medica; in questo ambito, in particolare, si è occupato del medico quattrocentesco Girolamo Manfredi e del suo trattato sulla peste, dello Studium medico bolognese, del delinearsi nel basso medioevo della figura dell’esperto di medicina, del rapporto medico-paziente nel medioevo. Davide Festi, già docente di Gastroenterologia nell’Ateneo di Bologna, è ora professore Alma Mater e professore a contratto nel corso di laurea in Medicina e Chirurgia della stessa università. È stato coordinatore della Scuola di specializzazione in malattie dell’apparato digerente e del corso di laurea in Medicina e Chirurgia dell’Università di Bologna. Da tempo collabora con il Centro di ricerche sulla storia delle professioni, diretto da Maria Malatesta, occupandosi di formazione medica, con particolare riguardo alla tematica del rapporto medico-paziente. Maria Malatesta, già docente di Storia contemporanea nell’Ateneo di Bologna, è ora professore Alma Mater. Studiosa delle élites, i suoi interessi si concentrano sulla storia delle professioni e della nobiltà in Italia e in Europa. Coordina un gruppo di ricerca interdisciplinare sul rapporto medico/paziente, i cui risultati più recenti sono stati pubblicati nel volume, a sua cura, Doctors and Patients. History, Representation, Communication from Antiquity to the Present, San Francisco, University of California Medical Humanities Press, 2015. Daniela Rigato è ricercatrice presso l’Alma Mater Studiorum - Università di Bologna. Si occupa di tematiche pertinenti all’ambito antico e in particolare a quello romano, con studi di storia sociale, epigrafia e religione. La figura del medico antico e il concomitante novero di divinità guaritrici sono stati oggetto di studi specifici e della monografia Le divinità che guariscono: Asclepio e gli altri, Bologna, Pàtron Editore, 2013. Francesco Taroni insegna Medicina legale e sociale alla Scuola di Medicina e di Economia dell’Università di Bologna. È autore di due volumi sulla storia della sanità italiana dal secondo dopoguerra: Politiche sanitarie in Italia, Roma, Il Pensiero Scientifico Editore, 2011 e Il volo del calabrone, Roma, Il Pensiero Scientifico Editore, 2019, e di un contributo al volume dell’Enciclopedia Treccani L’Italia e le sue Regioni (2015), Salute, sanità e Regioni in un Servizio sanitario nazionale.

Indice dei nomi

Abba, Francesco, 146n, 162 e n Aelius, Publius Peculiaris, 52 Agrimi, Jole, 72n, 85n Alderotti, Taddeo, 66, 67, 68 Alexander, Erik, 32n Alexander, Jeffrey C., 195n Alexion, medico di Cicerone, 48 Alfonso III, re d’Aragona, 75 Amadeo, Giuseppe, 107n, 109n Anderson, Gwen, 23n Andò, Valeria, 39n, 42n, 44n Andorlini, Isabella, 46n, 47n, 48n, 50n André, Jacques, 46n, 49n Angeletti, Luciana Rita, 39n, 40n, 41n, 43n Angeli, Luigi, 103n Anton, Blair, 25n Antonietti, Alessandro, 22n Apollo, 53, 55 Arbizzoni, Guido, 61n Arcagato, medico greco, 45n Arcoleo, Giorgio, 130n Arnaldo da Villanova, 64, 65n, 66, 69 Arnold, Benjamin, 25n Arnold, Matthew, 182 Arslan, Paolo, 29n Asclepio, 41 e n, 52, 54, 55, 56, 57n Assael, Baroukh, 149n Atena, 55 Avicenna, 67, 68 e n, 69 Baccelli, Luigi, 122, 124, 129, 130 e n, 132, 134, 135n, 136

Badaloni, Nicola, 122 e n, 124, 134 Balbi, Giovanni, 61n, 74 e n Baldassarri, Stefano U., 76n Baldini, Ugo, 94n Balkoski, Victoria, 30n Ballard, James, 177, 178 Baños, Josep-Eladi, 216n Barbagallo, Francesco, 139n Barbalet, Jack, 12, 199n Barber, Bernard, 142n Bardi, Girolamo, 99 e n Barzellotti, Giacomo, 112n Barzini, Luigi, 140 e n Basevi, Emanuele, 110 e n Basili, Stefania, 19n Batt-Rawden, Samantha A., 25n Baxter, Jeannette, 178 n Beccaria, Giulia, 114 e n Behring, Emil Adolf, 135 Bellini, Lorenzo, 94, 96 Benato, Maurizio, 29n Benedetti, Fabrizio, 11n, 62n, 66n, 69n, 70n, 78n, 86n Benedetto XIV, papa, 97 Bensing, Jozien, 27n Benson, John, 30n, 31n Bercé, Yvers-Marie, 150n Bert, Gordijn, 21n Bertani, Agostino, 123 e n, 124, 125 Berti, Tito, 104n Betri, Maria Luisa, 14 e n, 121n, 141n, 150n Betta, Emmanuel, 12n, 15

220

L’invenzione della fiducia

Bisoni, Claudio, 193n Biss, Eula, 150n Bistoni, Francesco, 157n, 159n Bizzozero, Giulio, 121, 122, 123 e n, 127 e n, 128, 134, 137 e n, 145 e n, 146, 148 e n, 153, 154 e n, 155n, 156, 157, 158, 162 Blécourt, Willem de, 85n Blondel, Enrichetta, 113 Boccaccio, Giovanni, 73 Bodio, Luigi, 132 Bonetti, Baverio Maghinardo de, 73n Bonghi, Ruggiero, 132 Bordoni, Filippo, 96 Borrelli, Antonio, 150n Bottari, Giovanni Gaetano, 94n, 96, 97 e n Bottorff, Joan L., 23n Boudon-Millot, Véronique, 39n Brainard, George C., 28n Brambilla, Elena, 102n Bresadola, Marco, 85n Brock, Douglas, 21n Brody, Howard, 185 e n Brown, Jo, 31n Bull Haaversen, Anne Christine, 26n Burci, Carlo, 123 Burnett, Charles, 65n Butler, Sara M., 75n Butow, Phyllis N., 22n Caballero, Fernando, 33n Cadeddu, Antonio, 149n Caiaffa, Maria Filomena, 19n Calderarj Fogaccia, Marietta, 105n Callahan, Clara A., 26n Calò, Luigi, 44n Calvino, Pietro Domenico, 112n Cambiano, Giuseppe, 40n, 41n Cambra Badii, Irene, 216n Campbel, Thomas L., 26n Camus, Albert, 175 e n, 176 e n, 177n, 184 Cannizzaro, Stanislao, 124, 129 Cantarelli, Marisa, 39n Capocci, Mauro, 142n Cappelletti, Vincenzo, 148n

Cappi, Valentina, 13, 15, 191, 192n Cardinalis, magister, professore a Montpellier, 65 Cardini, Daniela, 194n Caro, Orazio, 141 Caruso, Calogero, 19n Casalena, Maria Pia, 111n Casetti, Francesco, 193n, 195n Cassata, Francesco, 132n Cassia, Margherita, 46n Catone, Marco Porcio, il Censore, 45 Cavallar, Osvaldo, 78n, 79n Cea, Roberto, 121n, 145n, 148n Cecchini, Enzo, 61n Čechov, Anton, 185 Celli, Angelo, 127n, 134 e n Celso, Aulo Cornelio, 43, 47 Cesari, Severino, 189, 190 e n Charle, Christophe, 111n Charòn, medico greco, 51 Chatelain, Emile, 71n Checcaglini, Chiara, 194n Chiminazzo, Caterina, 29n Chirchiano, Emiliano, 194n Chisolm, Margaret S., 25n Chochinov, Harvey M., 24n Cicerone, Marco Tullio, 37, 46, 48, 91n Cima, Francesco, 105n Cirillo, Tommaso, 29n Clark Nelson, Marie, 150n Claudio, imperatore, 46, 56 Clemente XI, papa, 95, 97 Clericuzio, Antonio, 88n Coelho, Paulo, 179, 180n Cohen, Henry, 175 Coletti, Ferdinando, 104n, 114n Collet, Jean-Francois, 33n Conforti, Maria, 11n, 14 e n Coppino, Michele, 130 e n Coppola, Manuela, 82n Corbellini, Gilberto, 72n Cosi, Giovanni, 74n Cosmacini, Giorgio, 102n Costa Ben Luca, 70 Costantino Africano, 70

Indice dei nomi Cozzoli, Daniele, 142n Crisciani, Chiara, 63n, 66n, 67n, 72n, 85 n Crispi, Francesco, 124, 125, 126n, 128, 130 e n, 146, 148, 149 Cristofori, Alessandro, 46n Croce, Benedetto, 127 e n Csepregi, Idiko, 65n Dal Covolo, Enrico, 43n Dambha-Miller, Hajira, 27n Dang, Bich N., 22n Dasen, Véronique, 51n Davies, Sian Narie, 32n De Caro, Raffaele, 29n De Carolis, Stefano, 43n De Filippi, Giuseppe, 83 e n, 87, 92n, 104n, 113n De Filippis Cappai, Chiara, 45n De Giorgi, Raffaele, 191n, 210 e n De Pagave, Gaudenzio, 103 De Renzi, Salvatore, 67n de Torres, Luis Pérula, 33n De Zerbi, Rocco, 121 e n Decety, Jean, 28n Del Papa, Giuseppe 94 e n, 95 e n, 96 e n, 97 e n Della Peruta, Franco, 102n Della Rocca, Carlo, 19n Demichelis, Alessandro, 147n Denifle, Heinrich, 71n Derksen, Frans, 27n Detti, Tommaso, 141n Di Carlo, Valeria, 149n di Chio, Federico, 193n, 195n Di Roma, Francesco, 90n Dickens, Charles, 168 e n, 170 e n Didion, Joan, 189 e n DiLalla, Lisabeth F, 26n Dioniso, 55 Dionisio, medico greco, 52 Diurni, Giovanni, 61n Dodson, Sherry, 21n Dondi, Raffaele Flaminio, 150n Donelli, Gianfranco, 149n Doni, Carla, 87n

221

Dorsey, Kevin J., 26n Downie, Robert, 31n Dugdale, David C., 21n Duranti, Tommaso, 13 e n, 14, 60n, 74n, 76n, 79n Durbach, Nadja, 150n, 151n Durbin, Jonathan Maurice, 32n Dyrbye, Liselotte N., 26n Eamon, William, 71n Edelhauser, Friedrich, 28n Edelstein, Ludwig, 56n Edwards, Kelly, 21n Edwardsen, Elizabeth A., 26n Eide, Hilde, 26n El Mazloum, Dania, 29n Elhussein, Ahmed, 32n Elio Aristide, 55, 56n Eliot, George, 15, 168, 169, 170, 171 e n, 172 e n Ephesia Rufria, 53 Epstein, Ronald, 17 e n, 21n, 26n Erdmann, James B., 26n Eschine, 54 Euhelpistus, 52 Eutyches, 53 Facchinetti, Cesare, cardinale, 87 Facheris, Francesco, 105n Falcucci, Niccolò, 14, 67 e n, 68, 69 e n, 70, 72 Falquet-Planta, Euphrosine, 114n Fantini, Bernardino, 134n Fausti, Daniela, 42n, 43n Favero, Giovanni, 132 e n Fazio, Eugenio, 161 e n, 162 e n Federici, Eleonora, 82n Federico II di Svevia, imperatore e re di Sicilia, 71n, 75 Feige, Bernd, 32n Feinstein, Noah W., 22n, 24n, 32n Felicié, Jacqueline, 71, 77, 78, 79 Ferrari, Monica, 63n Ferrari, Roberta, 183 e n Ferrario, Giuseppe, 108n, 111

222

L’invenzione della fiducia

Ferrone, Vincenzo, 97 Festi, Davide, 13 Feudtner, Chris, 31n Feudtner, Walter, 33n Ficino, Marsilio, 73n Filippo, medico di Alessandro Magno, 44 Finset, Arnstein, 26n, 195n Fioravanti, Maurizio, 148n Fiscella, Kevin, 26n Fisher, Martin R., 28n Flashar, Hellmut, 47n Flickinger, Tabor, 25n Foresti, Fabio, 73n Fornasini, Luigi, 103n Fortunato, Giustino, 134 Foucault, Michael, 167 e n Fracastoro, Girolamo, 89 e n Franchetti, Leopoldo, 134 Frank, Arthur W., 173 e n Frank, Johann Peter, 111 Frankel, Richard, 26n Franks, Peter, 26n Frascani, Paolo, 141n Frati, Luigi, 39n French, Roger, 64n Freyman, John, 135n Frigo, Anna Chiara, 29n Funaro, Liana Elda, 110n Gabe, Jonathan, 198n Gadebusch Bondio, Mariacarla, 64n Galeno, 39 e n, 40n, 41 e n, 42n, 44, 46, 50, 56, 64, 67n, 69, 89 Galgut, Damon, 178, 179 n Galopin, Laurent, 40n, 44n Gambetta, Diego, 10n, 215n Garbini, Crisanto, 115n García-Ballester, Luis, 64n, 75n Garfinkel, Harold, 192n, 196n Garofalo, Ivan, 39n Gattamelata, Domenico, 107n Gawande, Atul, 187 e n Gazzaniga, Valentina, 37n, 40n, 41n, 43n, 53n Geison, Gerald, 131n Gemelli, Benedino, 85n

Generali, Dario, 91n Gentilcore, David, 76n Geyer-Kordesh, Johanna, 64n Giacomini, Giacomandrea, 102n Giacomo I, re di Aragona e di Maiorca, 75 Gianneto, Isidoro, 43n Giardina, Simone, 150n Giddens, Anthony, 147n, 197 e n, 198 e n, 207, 208 e n Gigli Marchetti, Ada, 121n Gillard, Susan, 31n Giolitti, Giovanni, 127n, 134n, 140 Giordano, Thomas P., 22n Giovannini, Carla, 137n Giovannini, Dino, 17n Giovenale, Decimo Giunio, 45 Gladkova, Anna, 24n Goffman, Erwing, 195n, 208 e n, 209, 210n Golgi, Camillo, 134 Gomez Lopez, Susana, 95n Gonnella, Joseph S., 23n, 26n, 28n Good, Byron J., 62 e n, 185 e n Gordon, Howard S., 26n Gourevitch, Danielle, 40n, 45n Govoni, Paola, 128 e n Gradman, Cristoph, 131n Gramsci, Antonio, 143 e n Grandes, Almudena, 178 e n Graugaard, Peter K, 26n Grenier, Roger, 176n Griffini, Romolo, 106 e n Griffini Rosnati, Grazia Maria, 114n Grimaudo, Sabrina, 42n Grmek, Mirko D., 53n Guerrini, Maria Teresa, 60n Gui de Sora, 75 Gummerus, Hermann, 45n Habermann, Thomas, 26n Hamlin, Christopher, 119n Haramati, Aviad, 28n Harris, Frederick, 168 Harrison, Mark, 137n Head, Dominic, 182 e n Heinz, Wilfred Charles, 185

Indice dei nomi Hennock, Ernest Peter, 151n Henri de Mondeville, 77 Herrine, Steven K., 28n Hirsh, David, 32n Hjortdahl, Per, 195n Hojat, Mohammadreza, 23n, 26n, 28n, 32n Holden, John, 27n Hooker, Richard (Richard Hornberger), 185, 186 e n Hornberger, Richard, vedi Hooker, Richard Hosking, Geoffrey, 9n, 12 e n Howard-Jones, Norman, 138n Huber, Valeska, 137n Huerkamp, Claudia, 152n Hull, Sharon K., 26n Huntington, Jeffrey L., 26n Hyde, Sarah, 30n Iannello, Paola, 22n Imperatori, Ugo, 127 e n Innocenti, Veronica, 193n Innocenzo XII, papa, 94, 95 Iorio, Elena, 150n Ippocrate, 37, 38 e n, 64, 65 e n, 70, 89 Irving, Greg, 27n Isenberg, Gerald A, 28n Iside, 55 Isidoro di Siviglia, 61 Jackson, Stanley W., 93n Jacquart, Danielle, 70n, 73n, 75n James, Robert, 11, 82 e n, 92n James, Veronica, 198n Jeffrey, David, 23n, 24n, 31n Jenner, Edward, 149 Jori, Alberto, 37n, 40n, 42n Jouanna, Jacques, 39n, 42n, 43n, 47n Kelm, Womer, 33n Kelm, Zak, 31n Kerangal, Maylis de, 180 e n Khadra, Yasmina (Mohamed Moulessehoul), 177, 179n Kibre, Pearl, 75n Kinch, Michael, 150n

223

Knips Macoppe, Alessandro, 104 e n Koch, Robert, 122, 130, 131 Kolars, Joseph, 26n Kreil, Gundolf, 71n Krupat, Edward, 32n Kühn, Karl Gottlob, 41n, 42n, 44n Kuiper, Sascha, 27n La Matina, Marcello, 39n, 42n, 43n Laënnec, René, 115 Lagro-Janssen, Antoine, 27n Lami, Alessandro, 39n Lamiani, Giulia, 29n Lanaro, Silvio, 134n Lancisi, Giovanni Maria, 82n, 91, 95 e n Lawson, Karen L., 26n Le Roy Ladurie, Emmanuel, 137n Lehman, Richard, 18n Lemper, Dan, 32n Lenoir, Timothy, 131n Lenzi, Andrea, 19n Léonard, Jacques, 108n, 111n Leonardo, Cristina Garcia, 33n Leone, Daniela, 29n Leprotti, Antonio, 97 Levi, Giuseppe Mosé, 82 Lévi-Valensi, Jaqueline, 175 n, 176n Levy Edelstein, Emma Jeannette, 56n Lewis, J. David, 197n Liberman, Jethro K., 213n Livi, Rodolfo, 159, 160 e n López Férez, Juan Antonio, 45n Losito, Gianni, 192n Lotti, Antonella, 17n Lottmann, Herbert R., 175 Louis-Courvoisier, Micheline, 85n Lucrezio Caro, Tito, 94 Luhmann, Niklas, 9n, 119n, 147n, 191n, 196 e n, 198 e n, 207, 212n, 214n, 215 e n, 216n Lupi, Regina, 60n Lupton, Deborah, 198n MacKinney, Loren C., 73n Magawly Cerati, Chiara, 103n

224

L’invenzione della fiducia

Magee, Michael, 23n Magee, Thomas M., 26n Malatesta, Maria, 15, 39n, 60n, 118n, 141n, 171n Malik, Abid, 30n Mallidi, Jaya R., 22 n Malpighi, Marcello, 91 Mammola, Simone, 92n Mandruzzato, Salvatore, 105n Manetti, Daniela, 39n Manfredi, Girolamo, 73n Mangione, Salvatore, 23n, 26n Mantegazza, Paolo, 122, 132 e n, 148 Mantovanelli, Loredana, 46n Mantovani, Claudia, 135n Manzoni, famiglia, 113 Marasco, Gabriele, 39n, 44n, 49n, 54n Marchetti, Antonio, 94 Marcone, Arnaldo, 40n, 46n, 47n, 48n Marie, Michel, 194n Marinozzi, Silvia, 38n Marx, Gary T., 195n Marziale, Marco Valerio, 46 Maskalik, James, 187, 188n Massar, Natacha, 44n Mattern, Susan P., 39n Maturi, Raffaele, 105n, 115n Mauksch, Larry, 21n Maxwell, Bruce, 25n Maxwell, Kaye, 28n Mazzarello, Paolo, 63n Mazzini, Innocenzo, 43n, 45n Mazziotti, Pietro, 134n McCleery, Iona, 75n McEwan, Ian, 177, 181 e n, 180, 181 e n, 182, 183n, 184n McIlveen Hunter, Kathleen, 23n McLarren Caldwell, Janis, 169n McPhee, Graham, 182 McVaugh, Michael R, 64n, 65n 75n, 77n, 78 e n Medici, Averardo de’, 72 Meldrum, Sean C., 26n Men, 53 Menis, Willelmo, 104 e n

Mercer Reynolds, 23n Mercer, Stewart W., 23n Meyer, Elaine C., 29n Michele Scoto, 71 Middelthon, Anne-Lise, 195n Miller, Katherine N., 26n Miner, Lanae, 21n Minichini, Domenico, 108n Misztal, Barbara A., 10n, 197 e n Mitchell, Piers D., 75n Mittell, Jason, 194n Moeglin, Jean-Marie, 73n Moja, Egidio A., 29n Molenshott, Jacopo, 124 Monge, Diana, 33n Montaldo, Silvano, 112n, 132n Montemartini, Giovanni, 136n Montemurro, Domenico, 29n Montford, Angela, 79 e n Monti, Marco, 22n Mooney, Graham, 123n Morison, Julie, 30n Morpurgo, Piero, 71n Morris, Manuel, 64n Morse, Diane S., 26n Morse, Janice M., 23n Mortara, Giuseppe, 136n Mosso, Angelo, 124 Moulessehoul, Mohamed, vedi Khadra, Yasmina Moulinier-Brogi, Laurence, 63n Mudry, Philippe, 47n Munno, Cristina, 150n Murard, Lion, 119, 143 e n Murialdo, Giovanni, 19n Musacchio, Enrico, 73n Nasca, Thomas J., 23n, 26n Naso, Alessandro, 56n Naso, Irma, 78n Nathan, Tobie, 63n Necker, Jacques, 115 Negrello, Michele, 29n Neri Serneri, Simone, 136n Nerone, imperatore, 56

Indice dei nomi Neuman, Melanie, 28n Neves, Ana Luisa, 27n Nicholas di Polonia, 70, 71 Nicon, padre di Galeno, 56 Nicosia, Salvatore, 56n Nicoud, Marilyn, 72n, 73n Niebyl, Peter H., 84n Nissen, Cécile, 56n Nissen, Christoph, 32n Njue, Sarah M., 22n Nooteboom, Bart, 211n Norman, Greg J., 28n Novotny, Paul J., 26n Nutton, Vivian, 38n O’Brien, Beverley, 23n Ogien, Albert, 9n, 191n, 192 e n Ognibeni, Giovanna, 121n Ogu, Barbara, 32n Oishi, Ai, 27n Omber, Jonathan M, 98n Orazio Flacco, Quinto, 48 Pacchiotti, Giacinto, 124, 153 Pagliani, Luigi, 123, 129 e n, 132, 143, 145, 148, 149, 157, 158 Pagliano, Girolamo, 107 e n Palù, Giorgio, 29n Panizza, Mario, 124, 125 e n, 126n Panofsky, Erwin, 93n Papias, 61 e n Paravicini Bagliani, Agostino, 75n Park, Katharine, 76n Parlati, Marinella, 82n Parsons, Talcott, 174 e n, 198 e n Pasteur, Louis, 122, 131, 149 Pedersen, Reidar, 34n Pedraglio, Giuseppe, 105, 106 Pedrini, Antonio, 137n Pelletier, Stephen, 32n Pelling, Maragret, 84 e n Pennac, Daniel, 180 e n Pennuto, Concetta, 72n Perilli, Luigi, 56n Pesaresi, Valeria, 43n

225

Pescatore, Guglielmo, 193n Petronio Arbitro, Gaio, 53 Phanostratè, ostetrica e medico, 51 Picardi, Edgardo, 29n Pickwell-Smith, Benjamin, 25n Pietro d’Abano, 70n Pigeaud, Jacques, 47n Pignatelli, Antonio, vedi Innocenzo XII, papa Pignatelli, Giuseppe, 97n Pilloud, Séverine, 85n Platone, 37, 40, 41n, 55, 70 Plinio il Vecchio, 45 e n, 46 Pogliano, Claudio, 132n, 145n, 156n Pomata, Gianna, 76n, 77 e n, 78n, 99n Popkin, Richard, 92n Porter, Dorothy, 150n Porter, Roy, 150n Poseidone, 55 Pravettoni, Gabriella, 22n Puccinotti, Francesco, 88n, 85n, 110 e n Putnam, Robert D., 10n Quéré, Louis, 9n, 191n, 192 e n Quince, Thelma, 30n Redi, Francesco, 88 e n, 90, 91, 87 e n, 95 Reggiani, Nicola, 50n Renberg, Gil H., 55n Rey-Coquais, Jean-Paul, 54n Reynolds, William J., 23n Riddle, John M., 70n Rifkin-Zybutz, Raphael Paul, 32n Rigato, Daniela, 13 e n, 14, 39n, 41n, 54n, 56n Rinaldi, Massimo, 82n Riva, Silvia, 22n Robert, James, 10 Robins, Lynne, 21n Rogers, John, 150n Romano, Elisa, 47n, 50n Roselli, Amneris, 39n Rossetti, Donato, 95 Rossi, Giovanni, 71n, 75n Rossi Doria, Tommaso, 138 e n Rothfield, Lawrence, 169n

226

L’invenzione della fiducia

Ruata, Carlo, 145, 146 e n, 157 e n, 158, 159 e n, 160 e n, 161 e n Rubio, Augustin, 75n Rucciardelli, Fabrizio, 76n Rudinì, Antonio Starabba, marchese di, 131, 132n, 134, 149 Ruggero II, re di Sicilia, 75 e n Ruini, Meuccio, 135n Ruiz-Moral, Roger, 32 e n Sabinus, Lucius Primigenius, 52 Sacco, Luigi, 108, 150 Sacks, Oliver, 187 e n Salmón, Fernando, 65n, 67 e n, 68n, 69n, 71n Salvioni, Giovanni Maria, 97 Samama, Éveline, 51n, 52n, 57n Sandri, Lucia, 76n Sandrini, Enrico, 77n Santini, Felice, 134n Santoliquido, Rocco, 138 Sarapion, medico e filosofo, 57 e n Sava, Roberto, 81n Scheffer, Christian, 28n Schmitt, Charles B., 92n Schwartz, Caroline, 32n Schwartzstein, Richard, 32n Sconocchia, Sergio, 50n Scotti, Angelo Antonio, 112n Scotti, Gilberto, 109n Scribonio Largo, 46, 48 Sella, Bartolomeo, 112 e n Seneca, Lucio Anneo, 37, 47, 49 Senofonte, 41n Serafini, Alessandro, 152n Serapide, 55 Serianni, Luca, 82n Servio Mario Onorato, 61 Sfameni Gasparro, Giulia, 55n Shanafelt, Tait D., 26n Shapin, Steven, 142n Shepherd, Heather L., 22n Shields, Cleveland G., 26n Shine, Cathleen, 179 e n Shorter, Edward, 113n

Shulz, Peter J., 22n Silver, George, 135n Silverman, Jonathan, 31n Simmel, Georg, 191n Sineux, Pierre, 55n Skirbekk, Helge, 195n Sloan, Jeff A., 26n Smith, Karen E., 28n Snowden, Frank, 133n, 138n, 139n Solberg, Shirley M., 23n Sonnino, Sidney, 133n Soresina, Marco, 146n Soresina, Mario, 121n Spagnesi, Enrico, 76n Sparks, Tabitha, 169 e n, 170 e n Spencer, John, 23n Speranza, Carlo, 103n Spinsanti, Sandro, 11n Steinke, Hubert, 85n Stengers, Isabelle, 63n Stertinius, Caius Xenophon, 56 Stock, Fabio, 49n Stolberg, Michael, 98n Strambio, Gaetano, 101n, 103n, 121n Stuber, Martin, 85n Sulzer, Sandra, 22n, 24n, 32n Summers, Bruce, 25n Sztompka, Piotr, 198 e n, 199 e n, 201 e n Tagashira, Hiroko, 27n Taroni, Francesco, 12n, 15 Tattersal, Martin H.N., 22n Tauschel, Diethard, 28n Tenca, Carlo, 106n Thiemann, Pia, 30n Thivel, Antoine, 54n Thomas, Matthew R., 26n Tobino, Mario, 185 Tognotti, Eugenia, 160n Tommasi Crudeli, Corrado, 129, 130 e n Tommasini, Giacomo, 101 e n Torrella, Gaspar, 72 Tridenti, Gioacchino Luigi, 108n Trombetti Budriesi, Anna Laura, 73n Tropeano, Giuseppe, 135n

Indice dei nomi Turati, Filippo, 141n Turner, Wendy J., 75n Ugolino da Montecatini, 72 Uguccione da Pisa, 61n Umberto di Romans, 79 Urso di Salerno, 69 Usborne, Cornelie, 85n Vallisneri, Antonio, 14, 85n, 90, 91 e n, 93 e n, 94 van Dalen, Jan, 33n Van Der Lugt, Maaike, 69n van Meerendonk, Milou, 27n Van Riet, Simone, 68n Vaupel, Kerstin Anine, 26n Vegetti, Mario, 40n, 43n Veloski, Jon J., 26n, 28n Veloudis, Giorgio, 44n Vergare, Michael J., 23n, 28n Verghese, Abraham, 11n Verho, Anistasiya, 27n Vieusseux, Giovan Pietro, 110 Villari, Pasquale, 139 e n Virchow, Rudolph, 135 Visceglia, Maria Antonietta, 94n Voderholzer, Ulrich, 32 Vons, Jacqueline, 53n Vovelle, Michel, 113n Walsh, Sally, 25n Walter, Jennifer K., 31n Watson, Rod, 9n Wear, Andrew, 64n Webster, Charles, 84n

Weigert, Andrew, 197n Wendland, Claire, 22n, 24n, 32n West, Colin, 26n Westbrook, Robert A., 22n Weston, Robert, 85n White Mario, Jessie, 123n Wilcox, Judith, 70n Williams, Christine L., 195n Winckler, Martin, 186 e n Winseman, Jeffrey, 30n Wirtz, Marcus, 28n Witteborn, Saskia, 21n Wolfe, Robert M.N., 151n Wollemborg, Leo, 133n Womer, James, 31n Woopen, Christiane, 28n Wundrich, Martine Sabine, 32 e n Wuthnow, Robert, 195 e n Yonge, Olive, 23n Zambelli, Giacomo, 112n Zancari, Alberto, 64n, 65n Zappoli, Antigone, 102n Zecchino, Ortensio, 75n Zeus, 55 Zhao, Xinghua, 26n Zimmermann, Bernhard, 45n Zucchi, Carlo, 124n Zucchi, Riccardo, 19n Zuccolin, Gabriella, 72n Zucconi, Giovanni, 137n Zucker, Arnaud, 54n Zuidweg, Jaqueline, 33n Zylberman, Patrick, 119n, 143 e n

227

Finito di stampare nel mese di febbraio 2021 da The Factory s.r.l. Roma